In The Still Of The Night

di Deruchette
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. ***
Capitolo 7: *** 7. ***
Capitolo 8: *** 8. ***
Capitolo 9: *** 9. ***
Capitolo 10: *** 10. ***
Capitolo 11: *** 11. ***
Capitolo 12: *** 12. ***
Capitolo 13: *** 13. ***
Capitolo 14: *** 14. ***
Capitolo 15: *** 15. ***
Capitolo 16: *** 16. ***
Capitolo 17: *** 17. ***
Capitolo 18: *** 18. ***
Capitolo 19: *** 19. ***
Capitolo 20: *** 20. ***
Capitolo 21: *** 21. ***
Capitolo 22: *** 22. ***
Capitolo 23: *** 23. ***
Capitolo 24: *** 24. ***
Capitolo 25: *** 25. ***
Capitolo 26: *** 26. ***
Capitolo 27: *** 27. ***
Capitolo 28: *** 28. ***
Capitolo 29: *** 29. ***
Capitolo 30: *** 30. ***
Capitolo 31: *** 31. ***
Capitolo 32: *** 32. ***
Capitolo 33: *** 33. ***
Capitolo 34: *** 34. ***
Capitolo 35: *** 35. ***
Capitolo 36: *** 36. ***
Capitolo 37: *** 37. ***
Capitolo 38: *** 38. ***
Capitolo 39: *** 39. ***
Capitolo 40: *** 40. ***
Capitolo 41: *** 41. ***
Capitolo 42: *** 42. ***
Capitolo 43: *** 43. ***
Capitolo 44: *** 44. ***
Capitolo 45: *** 45. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


In The Still Of The Night - 1

È passato davvero molto tempo dall’ultima volta che ho scritto e pubblicato una fan fiction. Sono molto arrugginita e voglio scusarmi sin da subito con voi se quello che leggerete di seguito non è proprio il massimo, ma come si dice di solito, siamo qui per divertirci, no?
Per lo stesso motivo di cui sopra, cercherò di essere il più costante possibile nel portare avanti la storia e spero anche che l’entusiasmo che mi ha travolta negli ultimi giorni, lo stesso che mi ha portata ad iniziare questa nuova avventura, rimanga con me il più possibile per aiutarmi nella scrittura.
A presto!

 

 

 

 

 

 

In the still of the night

 

1.

 

- È stato tutto per le telecamere – dice Peeta. – Il tuo modo di comportarti.
- Non tutto – preciso, restando saldamente aggrappata ai miei fiori.
- Allora quanto? No, lascia perdere. Immagino che la vera domanda sia: cosa resterà quando torneremo a casa, vero? – chiede.
- Non lo so. Più ci avviciniamo al Distretto 12, più sono confusa – rispondo. Lui aspetta, aspetta altre spiegazioni, ma non ne ho.
- Be’, fammi sapere quando l’avrai capito – dice, e il dolore nella sua voce è palpabile.*

 

Il treno continua la sua corsa, va ad una velocità così elevata che tutto quello che riesco a vedere dai finestrini è un’unica ed indistinta macchia verde. Non riesco a capire dove ci troviamo di preciso, ma so che tra qualche ora al massimo, nel primo pomeriggio, arriveremo al Distretto 12.
A casa.
Non speravo che ci sarei tornata di nuovo.
Non ho sperato in un sacco di cose nelle ultime settimane, ma contro tutte le mie aspettative sono qui, sono viva. Sono sopravvissuta agli Hunger Games.
E sto tornando a casa.
Sembra assurdo, ma è così.
Ho la testa poggiata sullo schienale del divanetto e continuo ad osservare il panorama indistinto. Lo stomaco inizia a brontolare per la fame, ma non voglio andare nel vagone ristorante per la colazione. Anche nel caso in cui stessi letteralmente morendo di fame, non voglio che gli altri vedano il mio viso, e soprattutto non voglio che lo faccia Haymitch: troverebbe subito qualche commento sarcastico da affibbiarmi.
Prima mi sono guardata allo specchio e ho visto che le mie occhiaie, di un orrendo color viola, facevano bella mostra di sé; non sono di certo un gran bello spettacolo da condividere anche con gli altri.
Stanotte non sono riuscita a dormire. Ci ho rinunciato dopo il primo incubo. Per alcuni interminabili secondi ho creduto di trovarmi ancora nell’arena, circondata dalle orrende creature che qualche giorno fa hanno ucciso Cato, e ho tirato un sospiro di sollievo quando ho sentito la morbidezza del materasso e il fruscio delle lenzuola pulite, capendo di essere al sicuro. Al mio cuore, però, ci è voluto molto più tempo per calmarsi.
Sono rimasta distesa nel letto senza riuscire a trovare il coraggio per provare a riaddormentarmi. Che codarda, mi sono detta. Sapevo che avrei dovuto quantomeno provarci, in vista anche di quello che mi sarebbe aspettato l’indomani: il ritorno al Distretto, le telecamere, la folla di gente che ci avrebbe accolto per festeggiare la vittoria.
Come se fosse giusto definire “vittoria” l’avere ucciso dei ragazzi, alcuni dei quali miei coetanei. Come se fosse giusto aver preso e strappato via delle vite per poter riuscire a salvare la mia e quella di Peeta. 

Ma essere sopravvissuta dovrebbe avere anche dei risvolti positivi, ho pensato. Non sei morta, puoi tornare alla tua vita prima dei giochi… come se fosse possibile cancellare queste ultime settimane e riprendere tutto come era prima.
Perché è vero, da una parte: tornare a casa significa poter rivedere e riabbracciare mia madre e Prim. Significa poter rivedere Gale. Posso tornare alle mie vecchie abitudini, alla caccia.
Ma allo stesso tempo è tutto cambiato, e so che alcune cose non saranno più le stesse. Come vincitrice, non dovrò più tornare a vivere al Giacimento. Ogni vincitore degli Hunger Games ha diritto a un premio in denaro che durerà per tutta la sua vita e, in più, ha diritto ad una casa nel Villaggio dei Vincitori.
Una casa nuova. Una casa calda, pulita, una casa in cui poter vivere dignitosamente… non solo per me, ma anche per mia madre e Prim. Finalmente smetteremo di soffrire la fame.
Io e Peeta saremo vicini di casa. Saremo i vicini di casa di Haymitch.
Cavolo, questa è l’unica nota stonata della situazione.
No, non l’unica. Questa lista di pro e contro ne ha anche un’altra.
Significa anche dover continuare ad inscenare la storia degli innamorati sventurati. Ne avrei volentieri fatto a meno, perché io non sono brava a recitare né tantomeno a mentire. Sembra che tutto quello a cui stia pensando mi si legga in faccia. Sono un libro aperto. Haymitch, la bocca della verità, continua a ripetermelo ogni volta che ne ha l’occasione.
Ma ormai non si può più tornare indietro: per tutta la popolazione di Capitol City, per tutta la popolazione di Panem, io e Peeta siamo due ragazzi innamorati. Innamorati che avrebbero preferito morire insieme piuttosto che scegliere di uccidersi l’un l’altro.
Ammetto di essere stata egoista e di aver agito per puro istinto di sopravvivenza: se mostrarmi innamorata di Peeta mi avrebbe aiutato ad uscire viva dall’arena, beh poteva anche andarmi bene. Ed è andata come speravo, anzi, meglio di quanto mi aspettassi: siamo usciti vincitori entrambi, quando solitamente è solo un tributo a trionfare su tutti gli altri.
E la trovata delle bacche velenose… no, al presidente Snow non è proprio andata giù.
Ed è questo il motivo principale per cui dovrò continuare a fingere. Peeta non fingerà, perché lui non lo ha mai fatto e non ha certo bisogno di iniziare a farlo adesso. Non ha mai mentito nell’arena e non lo ha fatto nemmeno durante l’intervista con Caesar.
Peeta è davvero innamorato di me.
E questa proprio non ci voleva.
Sono rimasta sopraffatta dalle sue parole e dalla sua reazione di ieri, quando ha capito che la mia è stata tutta una messinscena, una recita per le telecamere.
Non se lo aspettava, ha creduto che anche io provassi qualcosa e, ad essere sincera, se fosse stato così sarebbe tutto decisamente più semplice.
Sarebbe molto più semplice proseguire la recita se fossi veramente una ragazza innamorata, ma credo di non esserlo.
Voglio dire… so di non essere innamorata di lui, e so anche che un sentimento come l’amore non può nascere a comando, grazie ad uno schiocco di dita. I giorni trascorsi insieme nell’arena ci hanno dato la possibilità di aprirci un po' l’una con l’altro, ma non è stato sufficiente. E come poteva esserlo, visto il posto in cui ci trovavamo? Con la falce della Morte sempre posizionata sopra le nostre teste, pronta a colpirci da un momento all’altro?
In fondo non lo conosco, non so quasi nulla di lui. Prima dell’arena non c’era mai stata una vera e propria occasione in cui avremmo potuto conoscerci o frequentarci. Se non ci fossero stati gli Hunger Games di mezzo, forse non gli avrei neanche mai rivolto la parola.
Se il nome di mia sorella non fosse stato estratto durante la mietitura, se io non mi fossi offerta volontaria al suo posto… non sarebbe successo tutto questo.
Forse a quest’ora sarebbe morto.
Ed io avrei continuato a non sapere quasi nulla di lui.
È ingiusto da parte sua darmi la colpa per un sentimento che non riesco a capire fino in fondo, che non ho mai provato fino ad ora ed in cui non ho mai creduto davvero.
Ho sempre pensato che non mi sarei mai innamorata. L’amore, il colpo di fulmine, per me sono solo delle storie, come quelle che si raccontano ai bambini prima di dare loro la buonanotte e per dimostrare loro che, dopotutto, il mondo è un bel posto dove vivere.
Ma i bambini crescono, e un giorno capiscono che tutte quelle storie non sono vere, che il mondo non è bello. Che il Distretto non è bello, anzi, è un luogo triste e doloroso in cui vivere, dove ogni giorno significa intraprendere una scalata per sopravvivere e che non sempre, una volta che hai raggiunto la cima, troverai la sicurezza e il benessere di cui hai così tanto bisogno.
Ed io l’ho capito presto, troppo presto.
È per questo che non riesco a comprendere l’amore, quel sentimento e quel motivo che ti spinge a dare fiducia a qualcuno, un qualcuno con cui poter condividere la vita e costruire una famiglia. Dare la vita.
Come potrei dare la vita in un mondo come quello in cui viviamo? Perché dovrei mettere al mondo dei figli, dei bambini, da crescere e da amare fino al giorno in cui verranno sorteggiati per andare a morire lontano da casa?
E per cosa? Per fornire un divertimento agli annoiati abitanti di Capitol?
Non è questo quello che voglio.
- Katniss?
Mi volto, sorpresa. Non ho sentito il rumore della porta che si apriva. Peeta è sulla soglia e mi osserva, incerto. Le sue sopracciglia sono inarcate.
- Hey – è tutto ciò che riesco a dire. Non mi aspettavo una sua visita ad essere sincera; dopo quello che è accaduto ieri, ho cercato di evitarlo il più possibile. È anche per questo che ho saltato la colazione.
- Non c’eri prima a colazione. Stai bene? – mi chiede, infatti.
Non posso fare a meno di sorridere; nonostante tutto, si è preoccupato per me. È anche per questo che non riesco a capirlo: è una persona così buona, ed io sono… io. Che cosa ci ha trovato in me tanto da innamorarsi?
- Sì, sto bene. Sono solo… stanca. Non sono riuscita a dormire stanotte – in fondo è la verità, non è del tutto una bugia.
- Incubi? – azzarda.
- Come fai a saperlo?
- Li ho avuti anche io - Peeta mi raggiunge dopo aver chiuso la porta alle sue spalle. Prende posto sulla sedia più vicina a me e incrocia le dita. Lo strano sorriso che compare sul suo viso sembra voler spiegare ogni cosa. – Dalla prima notte dopo gli Hunger Games, a dire la verità.
- E non mi hai mai detto nulla?
- Non pensavo che fosse qualcosa che volessi sapere – ammette scrollando le spalle.
E qui si sbaglia di grosso, vorrei dirglielo ma non ci riesco. Le sue parole fanno di nuovo male, e come se questo non bastasse, vedere il suo viso amareggiato mi fa sentire ancora di più in colpa.
Improvvisamente, come se avessi finalmente aperto gli occhi, capisco di non essere la sola che si ritrova ad affrontare il ritorno a casa e tutto quello che ne consegue. Capisco che anche Peeta si trova nella mia stessa situazione, che anche lui deve avere la testa piena di pensieri e che anche lui, come me, ha paura di dire o fare la cosa sbagliata.
E proprio come me, anche lui si trova ancora con un piede all’interno dell’arena.
Ci sarei dovuta arrivare prima. Se solo non fossi stata così vigliacca… sì, vigliacca.
Perché dall’ultima volta che ci siamo parlati non ho fatto altro che evitare Peeta e la questione che, irrisolta, si pone tra noi due come un macigno. Stamattina non ho forse saltato la colazione proprio per evitare di tornare sull’argomento?
Devo smetterla di pensare solo a me stessa e cercare di sforzarmi affinché le cose tra di noi vadano bene, o per lo meno si pongano in una posizione accettabile per entrambi. Ho cominciato a volergli bene, dopo tutto… anche se non lo amo, e di questo me ne dispiaccio.
Non sono pronta a lasciarlo andare.
- Peeta… - lui alza lo sguardo e le sue iridi azzurre, così intense, si fermano sul mio viso. – Per quello che è successo ieri… mi dispiace davvero – continuo, speranzosa che le mie parole possano servire a qualcosa.
Lui annuisce senza distogliere gli occhi dai miei. – Lo so, Katniss. Ma grazie per avermelo detto – accenna un sorriso e, di riflesso, sorrido anche io.
- Non sono brava in queste cose. È per questo che… insomma… - mi blocco, non sapendo come proseguire. – Non ho mai avuto una relazione prima di…
- Ma la nostra non è una relazione.
- Sai benissimo che cosa intendo! – esclamo, facendolo ridere.
- Capisco cosa vuoi dire. Eppure, sei stata brava fino ad ora… io ci ho creduto – sto per dire qualcosa ma lui mi interrompe – non ti sto incolpando di nulla, Katniss, tranquilla. La mia è solo una considerazione, tutto qui.
- Quindi mi stai dicendo che, dopotutto, sono brava a mentire – abbasso lo sguardo, puntandolo sulle mie mani. - È una cosa che non voglio fare…
- Ma non abbiamo scelta. Ascolta – Peeta mi prende una mano ed io torno a guardarlo, adesso è molto più vicino rispetto a prima. – L’importante è che ci comportiamo come abbiamo fatto fino ad ora e vedrai che andrà tutto bene. Se non se ne sono accorti prima che era tutta una finta, non se ne accorgeranno più.
- Sarà solo per qualche giorno… - aggiunge, vedendo che non ho ancora spiccicato parola.
- Ma tu non vuoi che sia solo per qualche giorno – è tutto ciò che riesco a dire, e mi rendo conto di quanto sono stata indelicata con le mie parole solo quando lo vedo alzare gli occhi al cielo e sospirare.
- Non è che possa farci qualcosa ormai – ammette.
Torno a guardare fuori dal finestrino, con la testa piena di parole che vorticano e che mi rendono più confusa di prima. La mia mano e quella di Peeta sono ancora strette tra di loro, e questa è l’unica cosa che mi impedisce di estraniarmi del tutto.
Peeta ha ragione, ormai non possiamo più cambiare le cose e questo vuol dire che dobbiamo continuare a fingere una volta tornati nel Distretto. Solo per qualche giorno… vorrei davvero sperare con tutta me stessa che sia la verità, ma non sarà realmente così.
Probabilmente, dopo i primi giorni le telecamere di Capitol City smetteranno di seguirci per concentrarsi su qualcos’altro, segnando così la fine della 74esima edizione dei giochi, come è giusto che sia. Ma tra qualche mese torneranno.
Il Tour della Vittoria.
Tutto questo non finirà mai.
Non ci lasceranno mai in pace.
Dovremmo fingere per tutta la nostra vita?
La prospettiva non è delle migliori e la sola idea che ogni pretesto sia buono per ficcare il naso nelle nostre vite mi fa salire il sangue al cervello. Non basta già il dover convivere per sempre con il rimorso, con il peso delle morti degli altri tributi sulla coscienza e con il piccolo, minuscolo dubbio che avremmo potuto fare qualcosa per cambiare le cose.
Ma cosa?
Se c’è qualcosa che Panem ha cercato di insegnare bene ai Distretti durante tutti questi anni è il fatto che nulla di tutto questo si possa cambiare. Il Distretto 13 è stato distrutto dopo i Giorni Bui, e loro non fanno altro che ricordarcelo. Gli Hunger Games esistono proprio per questo, per ricordare ai Distretti qual è il loro posto.
È un mondo sbagliato e orribile in cui vivere.
- Possiamo… possiamo rimanere amici? Dopo tutto questo? – gli chiedo, tornando a guardarlo.
Peeta annuisce e mi sorride. Ha davvero un bel sorriso, dolce e gentile. – Siamo già amici – le sue parole sono in grado di rassicurarmi come davvero poche cose al mondo.
Sorrido, felice, abbassando lo sguardo. Siamo amici.
È una certezza a cui posso aggrapparmi.

 

-

 

Sono passate diverse ore da quando io e Peeta abbiamo parlato ed abbiamo raggiunto quella specie di compromesso chiamata amicizia.
Subito dopo, Effie è venuta a chiamarmi per mostrarmi l’abito che Cinna ha scelto da farmi indossare per il ritorno a casa ed ha urlato quando ha visto la mia faccia. Io me ne ero completamente dimenticata, e Peeta, che si trovava ancora in camera con me, ha detto di non essersi accorto di nulla. Stava sicuramente mentendo, ma dicendo così ha anche dimostrato di avere molto più tatto di qualsiasi altro ragazzo, e di me, per certe questioni.
Effie ha quindi cacciato quasi di peso Peeta per “occuparsi di me”, lamentandosi per tutto il tempo che dovevo avere molta più cura del mio aspetto e che ci sarebbe voluto un miracolo per sistemare quel “disastro” delle mie occhiaie.
Alla fine di tutto mi ha lasciata andare e devo ammettere che, dopo il suo passaggio, il mio viso ha di nuovo assunto un aspetto decente, anche se non riuscirò mai a comprendere tutto questo bisogno di abbellirsi da parte degli abitanti di Capitol City, tanto da renderli più inguardabili che apprezzabili.
Il vestito che Cinna ha scelto per me è arancione, lungo fino alle ginocchia e sembra svolazzare per via delle balze che compongono la gonna. Fa uno strano rumore mentre cammino, ma tutto sommato mi piace e, in confronto ai vestiti che Effie indossa di solito, risulta essere anche piuttosto sobrio.
Il treno comincia a rallentare mentre si avvicina alla stazione, ormai dovrebbero mancare solo una manciata di minuti alla fine del viaggio. Ancora pochi minuti prima di tornare nel grosso circo mediatico che sono gli Hunger Games.
Raggiungo le porte del treno, dove si trovano già in attesa Haymitch e Peeta. Lui indossa un completo blu scuro, simile a quello che aveva durante l’intervista finale con Caesar.
Mi sorride mentre mi avvicino e sembra davvero felice di vedermi. – Che bel vestito! L’arancione è il mio colore preferito – ammette, guardando la mia gonna svolazzante.
Sento le mie guance arrossarsi, colta alla sprovvista dalle sue parole. Non ne avevo la più pallida idea… è ovvio che deve esserci lo zampino di Cinna dietro a tutto questo.
- Bene, piccioncini. Pronti ad entrare in scena? – ci chiede Haymitch quando il treno entra nella piccola stazione del nostro Distretto, già piena di telecamere e di persone venute ad accoglierci trionfanti.
Peeta allunga la mano verso di me senza dire nulla, facendomi capire solo con il suo gesto che devo afferrarla per poter dare ancora una volta il via alla nostra recita.

Voglio che tutto questo finisca presto, penso mentre il treno si ferma.

Gli prendo la mano stringendola forte, preparandomi per le telecamere, e già temo il momento in cui dovrò lasciarla.*

 

 

 

*Hunger Games, S. Collins

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Capitolo 2
*** 2. ***


In The Still Of The Night - 2

In the still of the night

 

 

 

 

2.

 

Le settimane che hanno seguito il nostro ritorno al Distretto sono state le più strane della mia vita. Ancora più strane di quelle che hanno anticipato gli Hunger Games, e questo può significare tutto o niente, visto sotto una certa ottica.
Al nostro arrivo alla stazione, io e Peeta siamo stati letteralmente accolti dalle grida entusiastiche e felici della folla che ci attendeva sulla banchina, insieme alle ormai onnipresenti telecamere che ci avrebbero seguito ancora per un po'. All’inizio rimasi impietrita e sconcertata nel vedere tutte quelle persone, ma riuscii a riprendermi abbastanza dalla specie di torpore che mi aveva avvolta, agitai la mano in aria in segno di saluto e sfoggiai il mio miglior sorriso – o almeno, sperai che lo fosse.
Non riuscivamo a fare un solo passo, talmente tanta era la calca che ci circondava, ma non mi importò molto quando riconobbi i volti felici e commossi della mia famiglia, di Prim che si lanciò subito tra le mie braccia e di mia madre che ci circondò entrambe con le sue. Iniziai a piangere anche io.
Erano lì, erano vive e stavano bene. Non erano state punite per le mie decisioni impulsive nell’arena. Tutto il resto poteva aspettare.
Mi accorsi che anche la famiglia di Peeta si trovava lì accanto e stava festeggiando, felice di rivederlo tutto intero… beh, quasi intero. Il papà di Peeta stava ridendo, il sorriso che andava da un orecchio all’altro e che faceva brillare i suoi occhi azzurri, così come ridevano i suoi altri due figli. L’unica che sembrava poco felice era la madre, gli occhi seri fermi sulle nostre mani intrecciate.
Da quando eravamo scesi dal treno, le nostre mani non si erano mai separate e sperai che non accadesse ancora per un bel po', almeno per il tempo necessario affinché l’euforia per il nostro ritorno non fosse scemata. Quel contatto era l’unica cosa che avrebbe potuto aiutarmi a superare quella giornata.
Ma agli occhi di chi ci guardava dall’esterno, quel contatto dimostrava e confermava per l’ennesima volta il legame sentimentale che ci univa. Ed improvvisamente ricordai le parole di Peeta nell’arena: io non piacevo a sua madre. Ecco spiegati gli occhi truci.
Ho scoperto di avere un cugino. O almeno questa è la versione che hanno usato gli abitanti del Distretto per giustificare la presenza di Gale nella mia vita, oltre a quella di Peeta. La somiglianza tra noi due è talmente grande che è stato facile farlo passare per un mio parente, e così ho dovuto aggiungere un’altra bugia alla mia lista.
Sta diventando veramente troppo lunga.
Il resto di quella giornata può essere descritto come una vera e propria baraonda.
I festeggiamenti per la nostra vittoria si sono spostati nella piazza del Distretto, la stessa che pochissime settimane fa aveva ospitato la mietitura. Da allora sono cambiate così tante cose, in primis l’aver potuto aggiungere il nome di altri due vincitori all’elenco, già scarno di suo.
È questo il motivo che giustifica l’enorme euforia che circonda me e il mio compagno: dopo quasi venticinque anni di oblio, di sconfitte e di barzellette, il Distretto 12 è tornato ad essere ricoperto di gloria. È dalla vittoria di Haymitch, avvenuta per l’appunto quasi venticinque anni fa, che il nostro Distretto non trionfava su tutti gli altri.
Ma a quale prezzo?
Il sindaco ci ha invitati a salire sul palco e si è congratulato con noi per il coraggio che abbiamo dimostrato all’interno dell’arena, coraggio che ci ha portato alla vittoria e che ci ha permesso di tornare a casa. Questo ha scatenato l’ennesima ovazione di gioia dal pubblico che ci osserva sulla piazza, che di solito a quest’ora, alla fine di ogni edizione dei giochi, si stringe in silenzio attorno alle famiglie dei tributi che sono stati uccisi.
Per una volta hanno un motivo buono per festeggiare, ed io per una volta non trovo un vero motivo per oppormi e glielo lascio fare.
Sul palco, insieme a noi, è presente anche la famiglia del sindaco. Madge si è avvicinata a me e a Peeta e ci ha abbracciati, felice di rivederci sani e salvi. Madge è amica di entrambi ed è anche la persona che mi ha regalato il portafortuna da portare nell’arena: la piccola spilla dorata con la ghiandaia imitatrice, che in quel momento faceva ancora bella mostra di sé sul mio vestito.
L’ho sfilata facendo molta attenzione e gliel’ho restituita, ringraziandola per il pensiero che ha avuto per me e sollevata, da una parte, di potergliela consegnare io stessa con le mie mani. Sarebbe potuta tornare a lei in modo diverso se fossi rimasta uccisa durante i giochi, e questa prospettiva ha scatenato in me una sensazione tale da farmi rabbrividire, nonostante la calura della stagione estiva.
Ma Madge non ha rivoluto indietro la spilla. – Ora è tua – mi ha detto felice. - È il tuo portafortuna, rimarrà sempre con te.
Non ho potuto fare altro che balbettare un ringraziamento e abbracciarla ancora una volta, sentendomi debitrice per il suo gesto e per tutto quello che ha rappresentato per me. Dopotutto, quel piccolo pezzo di metallo ha segnato uno spartiacque importante: potevo morire o vivere, non c’era una via di mezzo.
Le sarò eternamente grata per questo.
Dopo la cerimonia, il sindaco ci ha lasciato andare e questo, come ci ha confermato anche Effie, significava che per ora i festeggiamenti per il nostro ritorno sono terminati. Ci lasceranno tornare a casa con le nostre famiglie, fornendoci così una serata tranquilla da trascorrere con i nostri cari senza avere costantemente l’occhio dei riflettori puntati addosso. Un lusso e una privacy che sarebbe durato solo per poco, purtroppo, perché l’indomani mattina sarebbero stati di nuovo ad aspettarci fuori dalla porta di casa.
Tornare al Giacimento mi ha fatto capire che per qualche ora potevo essere al sicuro da tutto questo: dalle telecamere, da Capitol e da tutti coloro che ci hanno seguito spasmodicamente fino a questo punto. Potevo tornare, almeno fino all’indomani, ad essere la sedicenne di sempre, e non la fidanzatina che tutti hanno avuto la possibilità di conoscere nelle ultime settimane.
E anche per Peeta sarebbe stata la stessa cosa.
Così, prima di lasciarci, facciamo quello che abbiamo imparato a fare così bene negli ultimi tempi: ci abbracciamo, ci baciamo e ci stringiamo l’una contro l’altro, come se le ore che ci apprestiamo a trascorrere da soli fossero le più lunghe e insopportabili della nostra vita. Quando anche l’ultimo bacio finisce e allontaniamo i nostri visi, Peeta mi fa l’occhiolino e sorride. È il suo modo di farmi capire che sta andando tutto bene, che sono stata brava.
Io mi sono limitata ad alzare un sopracciglio, sentendo le guance che si scaldavano. A differenza sua, non dovevo fargli capire in alcun modo come si stava comportando: Peeta non doveva impegnarsi, tutto quello che faceva era per lui automatico e naturale.

Tutto questo non sarebbe molto più semplice se anche io ti amassi?, mi sono chiesta.
La risposta era ovvia, scritta a caratteri cubitali nel mio cervello, ma feci finta di non vederla. Anche se solo per una sera, per una notte, volevo tenerla lontana da me.
Così, dopo essere state a contatto per ore, minuti, secondi, le nostre mani si sono divise.
Ma sapevo che presto si sarebbero ritrovate.

 

Ci è voluto ancora molto tempo prima che l’attenzione su di noi da parte di Capitol City smettesse di essere così presente.
Le telecamere hanno continuato a seguirci quando siamo andati al Villaggio dei Vincitori a vedere le nostre nuove case; ci hanno seguito mentre abbiamo preso parte allo sfavillante banchetto dedicato ai vincitori e alla festa cittadina che, per una giornata intera, ha intrattenuto tutti gli abitanti del Distretto.
Ci hanno seguito persino durante il primo Giorno dei Doni, che forse è stato l’evento che ho preferito di più tra i tanti a cui ho dovuto presiedere: una volta al mese, per dodici mesi, tutti gli abitanti del Distretto avrebbero ricevuto in dono un pacco di cibo, cibo che sarebbe andato ad aiutare anche le famiglie più povere e bisognose.
Il Giorno dei Doni è solo uno dei pochi motivi che mi hanno resa davvero felice di aver vinto gli Hunger Games. Ho potuto aiutare così tante persone…
Naturalmente, quando gli eventi pubblici terminarono, i giornalisti ed i cameramen rimasero per osservare e riprendere me e Peeta durante il nostro ritorno alla normalità… per quanto assurda questa potesse essere considerata normalità.
I giornalisti di Capitol volevano sapere tutto del nostro futuro al Distretto, del modo in cui avremmo potuto occupare le nostre giornate mentre aspettavamo l’inizio del Tour della Vittoria. Alcuni ci hanno anche chiesto se eravamo eccitati all’idea di formare i tributi della prossima edizione.
Senza parole, non riuscii a fare altro che annuire. La sola idea di quello che mi aspettava mi terrorizzava e inchiodava al pavimento.
Ma la maggior parte di loro era frivola e curiosa, quindi si limitava a fare domande frivole e a voler vedere la nostra quotidianità. Peeta, ovviamente, è stato più che felice di mostrare il suo lavoro alla panetteria, facendosi riprendere addirittura un pomeriggio intero mentre decorava una torta a più piani, di tutte le sfumature dell’arcobaleno e arricchita da fiori di zucchero colorati.
Mostrare la mia quotidianità invece era difficile: non potevo di certo farmi riprendere mentre andavo a caccia di frodo. Anche se tutti attraverso gli Hunger Games hanno capito che in un modo o nell’altro ho imparato a cacciare, non potevo sbandierarlo così ai quattro venti. Ho dovuto ingegnarmi e trovare qualcosa di interessante da mostrare al pubblico, e così ho ripiegato sulle erbe officinali, quelle che si trovano al Prato e che, tecnicamente, raccoglierle non costituisce reato.
Tutto sommato non è stata una brutta mossa farmi riprendere mentre raccoglievo e spiegavo le proprietà terapeutiche di ogni pianta, ma provavo una fitta di nostalgia ogni volta che il mio sguardo si soffermava sui boschi che circondano il Distretto, che dal Prato si vedono benissimo.
Ed il pensiero andava subito a Gale, e alle innumerevoli giornate di caccia che abbiamo trascorso in compagnia.
Non siamo stati molto tempo insieme, da quando sono tornata. A parte la sera del mio arrivo, ci siamo incrociati di sfuggita pochissime volte, e ogni volta abbiamo potuto scambiarci solamente un saluto veloce. Inoltre, ha cominciato a lavorare nelle miniere ed il suo tempo da dedicare alla caccia è diminuito notevolmente. Così, anche se avessi avuto tutto il tempo del mondo, non avrei potuto stare con lui come prima.
Gale mi manca. So che sopportare tutto questo sarebbe molto più semplice con lui vicino, che odia così tanto Capitol e gli Hunger Games e che di sicuro troverebbe un modo per far sembrare tutta la situazione ridicola e insignificante. Più di com’è in realtà.
Ma c’è Peeta per fortuna, ed è accanto a me quasi in ogni momento della giornata: la “recita” va avanti a gonfie vele, tanto che nemmeno Haymitch ha trovato qualcosa da ridire al riguardo. A parte la signora Mellark, l’unica altra persona a cui non sembra andare a genio la nostra relazione è mia madre… ma non perché trova Peeta sbagliato per me.
È perché sono troppo giovane.
Ci facciamo riprendere molto spesso insieme, siamo dovuti a farlo. Facciamo passeggiate, mangiamo i biscotti e le focaccine che lui ha cucinato nella panetteria, trascorriamo pomeriggi interi al Prato, stesi al sole mentre ridiamo, e ci baciamo.
Ogni volta che le nostre labbra si incontrano il senso di colpa mi avvolge. È una sensazione a cui ancora non riesco ad abituarmi, anche se trascorrere questi momenti con Peeta sono piacevoli e, in qualche modo, mi aiutano a scacciare i brutti pensieri.
Ho gli incubi quasi tutte le notti ormai. Mi sveglio urlando nel bel mezzo della notte e dopo non riesco più a trovare il coraggio per tornare a dormire. Ad un certo punto Prim, che si sveglia sempre quando sente le mie urla, mi raggiunge nel letto e cerca di tranquillizzarmi. Resta a dormire con me, ed il suo corpicino caldo stretto al mio mi fornisce il coraggio necessario per chiudere gli occhi e tornare ad affrontare il buio.
In momenti come questi ripenso all’arena, a Rue che dorme insieme a me nel sacco a pelo.
Il suo è il volto che mi sveglia ogni notte.
Gli incubi sono l’elemento che accomuna me e Peeta. Quando siamo da soli, fuori dalla portata dei microfoni, riusciamo a dirci tutto quello che proviamo e che nessun altro, a parte noi, può capire. Ci rassicuriamo a vicenda, sappiamo che quello che abbiamo affrontato, in fondo, non è completamente colpa nostra.
Dobbiamo solo imparare ad accettarlo.
Ed ogni volta che abbiamo bisogno di conforto, di rassicurazione, le nostre mani sono lì. Sempre intrecciate, sempre a contatto.
Le nostre mani sono un’ancora solida nel mare impetuoso.

 

E poi, finalmente, quel giorno arriva.
Giornalisti e cameramen ci salutano e, recuperate armi e bagagli, si avviano alla stazione, dove prenderanno il treno che li riporterà a Capitol City.
È lo stesso treno su cui sale Effie, la nostra accompagnatrice. È rimasta con noi per tutte queste settimane e ci ha aiutati affinché tutte le interviste, le riprese e gli eventi andassero a buon fine. Il suo perfezionismo alcune volte è diventato così irritante da risultare difficile da sopportare, ma è un asso nel suo lavoro e, conscia del fatto che ci sarebbe potuto capitare qualcuno peggiore di lei, mi limito a stringere le labbra ogni volta che un suo commento frivolo giunge alle mie orecchie.
Io, Peeta e Haymitch formiamo il piccolo corteo che accompagna Effie al treno, l’unica macchia color salmone, e facilmente riconoscibile, in mezzo al grigiore totale della stazione. Quattro persone all’inizio, quattro persone alla fine: la “Squadra del Distretto 12”, come lei ha ormai cominciato a definirci.
- Oh, mi mancherete così tanto ragazzi! – esclama abbracciandoci a turno, lasciandosi sfuggire qualche verso dalle labbra che posso interpretare come i segni della sua commozione. – Ma tra qualche mese saremo di nuovo insieme! Mi raccomando, fate i bravi mentre io non ci sono! – aggiunge.
- Non vedo l’ora di cacciarmi nei guai! – dico, e lei scoppia a ridere dandomi uno schiaffetto leggero sulla guancia.
- Sempre la solita… - ridacchia mentre sale sulla carrozza.
Restiamo ancora qualche minuto sulla banchina, finché il treno non inizia a muoversi e ad acquistare velocità. Agito una mano in segno di saluto, e dopo pochi secondi il treno esce dalla mia vista.
- Bene, anche questa è fatta – Haymitch dà una pacca sulla spalla di Peeta e comincia ad allontanarsi. – Prendo la macchina, voi tornate a piedi.
- Che significa questo? – gli urlo dietro.
- Che voi tornate a casa a piedi.
- Haymitch! – faccio per muovere qualche passo ma Peeta mi afferra un braccio, fermandomi.
- Lascialo stare – mi dice tranquillo. – Non mi dispiace camminare un po'.

Nemmeno a me, penso, ma non riesco a capire il motivo per cui ha voluto lasciarci qui.
Lentamente ci incamminiamo fuori dalla stazione e prendiamo la strada che ci porterà di nuovo all’interno del Distretto. Non è un tragitto molto lungo, l’ho già fatto altre volte in cerca di erbe e radici commestibili, ma il sole cocente sopra le nostre teste e l’assenza totale di vento rende la nostra passeggiata poco piacevole. Fortunatamente, gli alberi ci forniscono un po' di ombra.
Mi rendo conto di essere da sola con Peeta per la prima volta. Per settimane siamo stati costantemente circondati da persone e adesso il silenzio che ci circonda sembra strano. Oltre a quello dei nostri passi, l’unico suono che si sente è il canto degli uccelli.
- Sei sicuro di voler fare tutta la strada a piedi? – gli domando, un po' preoccupata. Per me camminare non ha mai rappresentato un problema, ma per lui… non so se sia giusto.
Peeta mi ha raccontato e mostrato quello che i medici hanno fatto alla sua gamba, quella che nell’arena era stata ferita dagli ibridi e che hanno dovuto sostituire con una protesi dal ginocchio in giù. Anche se dice che non fa più male e che si è abituato alla novità, so che non deve essere stato facile per lui risvegliarsi e ritrovarsi una struttura in plastica e metallo invece della sua gamba.
- Certo. Mi hanno detto che camminare aiuta – mi rassicura. Siccome non mi fido delle sue parole, lo prendo per mano.
Potrei anche lasciar perdere ed evitare per una volta, ma sentire la sua stretta sulla mia mi è stata di aiuto e di conforto durante queste pazze settimane, l’unica cosa normale in mezzo a tutto il caos. Questo contatto tra di noi è diventato così familiare che, quando sono da sola, mi scopro a cercarlo.
Camminiamo in silenzio per un po', ognuno con la mente persa nei propri pensieri. – Chissà perché Haymitch ha voluto che tornassimo per conto nostro – sono la prima a spezzare il silenzio, mi rendo conto che sta diventando insopportabile. Anche parlare del nostro mentore mi va bene, l’importante è provocare qualche rumore che possa interromperlo.
- Credo che anche lui non vedesse l’ora di restare finalmente da solo. Probabilmente è a casa a bere.
- Beh, avremmo potuto farlo insieme! – la mia vuole essere una battuta, ma quando guardo Peeta, i suoi occhi mi dicono che è stata solo un’uscita infelice.
- Non deve essere facile per lui. Affrontare tutto questo, intendo… siamo stati i primi a vincere dopo di lui. Ci pensi? – mi domanda con la voce piena di tristezza.

Sì, ci penso. E non è solo la prima volta che affronto la questione… solo che l’ho fatto dal lato sbagliato.
Ho sempre pensato alla nostra vittoria come il momento di gloria che il Distretto 12 ha avuto da qui a venticinque anni, ma non ho provato a vederla con gli occhi di Haymitch. Si è ritrovato a preparare e portare a Capitol due tributi per ogni anno da quando ha vinto, e questi sono morti uno dietro l’altro, anno dopo anno. Deve essere stato terribile per lui vederli morire tutti quanti, nell’arena, senza poter fare nulla per salvarli.
Credo che i suoi incubi debbano essere peggiori dei miei… non c’è da stupirsi se beve così tanto.
- Non dovrebbe stare da solo – ammetto sconsolata.
- Non lo sarà – mi rassicura Peeta, e so che sta dicendo la verità.
Ormai siamo vicini alla piazza, così affrontiamo la poca strada che ancora ci resta da fare e decidiamo di andare alla panetteria dei genitori di Peeta. Prendiamo un po' di biscotti da portare a casa, sicura che a Prim piaceranno da morire. Per una volta sono felice di possedere del denaro: posso finalmente permettermi di comprare tutto quello che voglio per mia sorella. Ma il signor Mellark non accetta i miei soldi.
È perché sono la fidanzata di suo figlio? Finta fidanzata, in realtà, ma credo che nessuno a parte noi debba saperlo.
Ci lasciamo la piazza alle spalle e, mentre sgranocchiamo dei biscottini glassati, andiamo verso le nostre case, nel Villaggio dei Vincitori. Non mi sono ancora abituata a considerare questo posto casa mia, ma il fumo che esce dal comignolo è la prova inequivocabile di quello che è accaduto.
Passiamo davanti alla casa di Haymitch, dove la porta e le imposte sono serrate. Se è lì dentro, non vuole farlo capire.
- Dovremmo andare a vedere se sta bene – dico, incerta su cosa fare.
- Forse più tardi. Diamogli un po' di tempo.
Tempo per sbronzarsi a morte? Ricordo ancora il giorno della mietitura e Haymitch che vomita sul treno, davanti a noi e a Effie. L’idea di lui nelle stesse condizioni di allora mi riempie di tristezza.
Alla fine, raggiungiamo casa mia. Peeta mi tiene ancora per mano, il suo pollice accarezza dolcemente il dorso della mia.
- Grazie per i biscottini. Prim ne sarà felice.
- Non mi devi ringraziare – mi guarda, l’azzurro delle sue iridi sembra ancora più acceso con questa luce. – E tu, sei felice?
Sono felice? È una domanda che mi spiazza, perché la risposta può assumere una moltitudine di significati ed io non so quale sia quello giusto. Ma se mi limito a questo momento, allora sì.
Sono felice.
Sono felice di essere qui con Peeta.
Lui si avvicina a me e poggia la fronte sulla mia, chiudendo gli occhi. È sbagliato, dovrei mandarlo via, ma non ho il coraggio di farlo. È difficile essere razionali in questa situazione, quando sai che le tue azioni possono far star male una persona anche se non vorresti farlo. Ed è ancora più difficile cercare di non essere egoisti e desiderare, allo stesso tempo, di trascorrere altre giornate come questa. È difficile stare accanto a Peeta e considerarlo un semplice amico quando il nostro comportamento suggerisce tutt’altra cosa.
Due amici non si tengono per mano, non si abbracciano. Non si baciano.

Ma allora cosa siamo?
Non ho la risposta a questa domanda, so solo che sto imparando a volergli bene e che non voglio perderlo, per nessuna ragione al mondo.
Poso la mano sul suo collo e chiudo gli occhi, sentendo le nostre bocche che si toccano.
Il bacio che ci scambiamo è lento, dolce. Le sue labbra sanno di cannella.

Anche le mie hanno lo stesso sapore?

 

 

 

 

 

-
Buon pomeriggio a tutti!
Se state leggendo vuol dire che siete arrivati fino in fondo alla pagina, e per questo voglio ringraziarvi; ringrazio anche tutti voi che avete letto, salvato e recensito il primo capitolo. Cercherò di non farvene pentire :)
Come avrete sicuramente notato, questo è stato un capitolo di transizione: ho cercato di approfondire quello che la Collins aveva riassunto in poche righe e, ovviamente, ci ho messo del mio per cominciare già a delineare la storia nel modo in cui ha preso forma nella mia mente.
Vedremo se sarà sempre così facile metterla per iscritto!
Per il momento ho deciso che gli aggiornamenti avverranno una volta a settimana, di lunedì. Se dovessero esserci ritardi non preoccupatevi perché arriveranno lo stesso ;)
Un bacione e a presto!

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Capitolo 3
*** 3. ***


In The Still Of The Night - 3

In the still of the night

 

 

 

 

 

 

 

3.

 

Ho ricominciato a cacciare.
Il desiderio di tornare ad immergermi nei boschi che circondano il Distretto era forte, ma ho cercato ogni volta di resistere alla tentazione ed alla nostalgia. La vita lentamente è tornata alla normalità, ma è anche diventata diversa allo stesso tempo.
Da quando mi alzo al mattino fino al momento in cui mi infilo sotto le coperte la sera, mi sono resa sempre più conto delle ore che rimangono vuote, in cui non c’è davvero qualcosa per cui valga la pena darsi da fare.
Ho cercato di instaurare una routine che potesse mantenermi occupata sia con il corpo che con la mente, ma non sempre è stato facile. All’inizio ho trascorso molto tempo con mia madre, l’ho osservata mentre organizzava gli spazi nella nostra nuova casa e stilava un elenco di tutto quello che poteva servirci. Erano pochissime cose in effetti, perché avere un vincitore dei giochi in famiglia ti assicurava una scorta di beni che poteva bastare per una vita intera, anche due se si voleva abbondare.
La lista, quindi, venne riempita più che altro con tutto ciò che l’avrebbe aiutata nel suo lavoro di guaritrice: bende, garze, sciroppi e tutta una serie di medicinali che fino a quel momento non aveva quasi mai potuto permettersi di acquistare dal farmacista, merce troppo costosa per noi poveri abitanti del Giacimento. La mamma è in grado di fare miracoli con le erbe officinali, ma anche lei conosce i suoi limiti e, alcune volte, ha dovuto cedere alle medicine.
Oltre a sbrigare le piccole commissioni quotidiane per la mamma, ho mantenuto la promessa fatta a me stessa e ho cercato di essere il più presente possibile per Haymitch. Dal giorno in cui andammo insieme alla stazione è uscito pochissimo di casa, giusto il tempo necessario per andare a procurarsi del liquore bianco al Forno, poi tornava a rintanarsi dentro quelle mura, ad anestetizzare la mente con l’alcol.
Io e Peeta facciamo quel che possiamo, ma non è facile. La sua casa è un vero e proprio disastro. Abbiamo scoperto che non dorme mai la notte, ha paura del buio. E quando si addormenta, di solito durante il giorno, ha sempre un coltello stretto nelle mani. La prima volta che lo svegliai con il semplice intento di fargli mangiare del brodo, che la mamma aveva preparato in abbondanza, ha rischiato di piantarmelo nel braccio, ma fortunatamente non c’è riuscito.
I pomeriggi di solito li trascorro insieme a Peeta, a casa sua. La sua famiglia continua a vivere nel piccolo appartamento sopra la panetteria, quindi è stato l’unico a trasferirsi al Villaggio dei Vincitori e adesso si ritrova a vivere da solo nella nuova casa, che è decisamente troppo grande per lui. Anche la mia lo è: si sta larghi in una casa che conta cinque camere da letto, ma noi almeno siamo in tre.
Di solito non abbiamo gran che da fare, ed anche se restiamo in silenzio le ore sembrano trascorrere lo stesso in maniera piacevole. Effie ad un certo punto, come se volesse salvarci dalla noia in qualche modo, ci ordina di affinare un talento da mostrare al pubblico di Capitol City durante il Tour; i mesi che mancano all’evento ci saranno utili per capire cosa ci piace fare.
Peeta non ha avuto problemi a trovare il suo: è bravissimo a disegnare. Da quando si è trasferito ha adibito una stanza del piano terra a studio, in cui poter creare i suoi disegni e le sue tele. Io non ho la più pallida idea di cosa mostrare loro. E mi rifiuto categoricamente di prendere in considerazione il canto, quando Peeta me lo propone.
So che, secondo lui, il mio canto è la ragione che lo ha fatto innamorare di me alla tenera età di cinque anni. Dimenticare le sue parole nell’arena mi è impossibile. Ma io non sono più riuscita a cantare niente da quando Rue mi ha chiesto di farlo, mentre moriva.
Non sopporto che siano riusciti a togliermi qualcosa di così innocente. Di conseguenza, la sola idea di condividere qualcos’altro che amo con gli abitanti di Capitol mi fa ribrezzo.
Ma ho ancora diversi mesi per inventarmi qualcosa.
La notte continua ad essere il momento peggiore della giornata, anche se va un pochino meglio rispetto all’inizio. La maggior parte delle volte riesco a dormire tutta la notte senza svegliarmi urlando, ma questo non significa che i brutti sogni siano spariti. Anche se non ricordo del tutto quel che ho sognato, la mattina mi sveglio intontita e stranita; ho sempre l’impressione di non aver riposato affatto.
Lascio una lucina accesa sul comodino tutte le sere, così le volte in cui un incubo mi porta via dal sonno la vedo e riesco a capire subito dove mi trovo. In qualche modo, capisco di aver smesso di urlare per gli incubi perché Prim non mi raggiunge più nel letto. Mi basta fare qualche passo lungo il corridoio per raggiungere la sua camera, e vederla dormire tranquilla nel suo letto calma tutte le mie paure.
È durante una di queste notti che accade: sono scesa in cucina per prepararmi una tazza di latte con il miele e, seduta al tavolo della cucina, ho guardato il sole sorgere. Un’alba limpida, chiara, bellissima. Nessuna nuvola in cielo. Il canto del gallo, lontano, che annuncia l’arrivo del nuovo giorno.

È la mattina perfetta per la caccia, ho pensato.
E così l’ho fatto.
Sono uscita senza far rumore e ho raggiunto la nostra casa al Giacimento, disabitata ma ancora intera. I pochi mobili che possediamo li abbiamo lasciati qui perché non c’era nessun reale motivo di portarli con noi: le case dei Vincitori sono tutte già lussuosamente arredate. Abbiamo preso i nostri pochi averi, svuotato l’armadio… ma io ho lasciato qualcosa.
Gli abiti che uso solitamente per cacciare e gli scarponi sono ancora qui, così li indosso velocemente e altrettanto velocemente esco, raggiungo il solito punto debole della recinzione ed entro nei boschi.
In tanti disapproverebbero quello che sto facendo, ma non mi importa.
I miei piedi ritrovano subito il tragitto familiare che mi porta all’albero cavo e alle mie armi, l’arco e le frecce che ho usato così tante volte. In confronto all’arma che Capitol ha preparato per gli Hunger Games il mio sembra quasi rudimentale, un reperto da museo, ma a me piace proprio per questo.
Con l’arco e la faretra in spalla intraprendo il solito percorso che mi porterà al laghetto dove pesco con Gale; vedo i lacci e le trappole piazzate lungo la strada, alcune sono piene ma gli animali sembrano morti da giorni. Capisco che, da quando lavora nelle miniere, non sempre riesce a controllarle con regolarità.
Un senso di malessere mi opprime a quella vista, così prendo una decisione all’istante. Risistemo le trappole e comincio il mio giro di perlustrazione.

 

Da diverse settimane, la mia routine prevede anche la caccia e il recupero delle prede cadute nelle trappole. Sgattaiolo fuori casa sempre alla stessa ora, prima che la mamma e Prim si sveglino, mi cambio nella casa al Giacimento e fuggo nei boschi. Ho sempre con me una bisaccia piena di cibo e il thermos col tè, anche se la bevanda che ci metto dentro è fredda e non bollente. Siamo ancora in estate.
Stanotte ha piovuto ed il terreno è molle sotto gli scarponi. L’odore di bagnato mi riempie le narici e l’umidità dell’aria fa sì che la camicia mi si appiccichi subito alla pelle. Una zanzara ronza accanto al mio orecchio ed io la scaccio via con la mano.
Oggi è domenica. È il giorno della settimana che aspetto di più da quando ho ricominciato a frequentare i boschi, perché è l’unico giorno libero della settimana per Gale.
Non sono ancora riuscita a incontrarlo. Sebbene non sia la prima domenica che vengo qui, lui non si è mai fatto vedere. La domenica cerco sempre di rimanere più tempo nel bosco, e lo faccio proprio nella speranza di imbattermi in lui. So che controlla le trappole perché durante il tragitto di ritorno le trovo sempre vuote e posizionate in modo diverso. So anche che sa che sono qui fuori: chi altri porterebbe la selvaggina a sua madre mentre lui è in miniera?
Sembra quasi voler farmi capire che non vuole avere nulla a che fare con me.
Stamattina scelgo di usare una tattica diversa. Raggiungo il luogo dove ci incontriamo di solito e preparo tutto: lascio la bisaccia ed un thermos sul solito sasso ed accanto vi posiziono dei rametti a forma di freccia per indicargli la strada che ho preso. Carica di arco, faretra, un altro thermos ed un paio delle focaccine di Peeta, mi dirigo verso il laghetto. Ogni tanto lascio altri rametti per fargli capire che deve seguirli: deve capire che stavolta non ho nessuna intenzione di essere ignorata.
Stavolta non aspetto molto. Gale, bisaccia in spalla, arriva mentre io sto sistemando i bastoni che usiamo spesso come canne da pesca. Resto immobile, e lo stesso fa lui. Osservo la sua figura alta e robusta, i capelli scuri che la luce del mattino illumina appena. Ho cercato e atteso così tante volte il nostro incontro, e adesso non so cosa fare. Non so cosa dire.
Come le altre volte, Gale viene in mio soccorso.
- Hey, Catnip – il suo saluto spezza il silenzio e, quasi contemporaneamente, la mia immobilità.
Corro verso di lui e gli getto le braccia al collo mentre le sue mi circondano la schiena. Calde lacrime mi rigano le guance mentre ripenso al nostro ultimo abbraccio, al giorno della mietitura e a tutto quello che esso aveva rappresentato per lunghe settimane. Un addio. Ma non è stato così.
Vorrei dirgli che sono riuscita a mantenere la promessa che gli avevo fatto quel giorno, che sono sopravvissuta contro tutte le probabilità più avverse e che sono tornata per rendergli la vita impossibile, ma uno strano singhiozzo mi rende impossibile spiccicare anche solo una parola.
- Dai, Catnip, va tutto bene – mormora, la sua mano mi accarezza la schiena nel tentativo di farmi calmare. – Cosa penserà il tuo fidanzato se ti vede tornare in queste condizioni?
Invece di farmi ridere, la sua battuta mi fa rabbuiare. Sciolgo l’abbraccio e mi asciugo le guance sulle maniche della camicia, evitando il suo sguardo.
- Non è davvero il mio fidanzato – mugugno. Il singhiozzo è scomparso così com’è venuto. – E non voglio parlare di questo.
In realtà dovrei dargli delle spiegazioni a causa di tutto quello a cui ha assistito, sia in televisione che qui al Distretto, ma non è questo il reale motivo per cui ho voluto incontrarlo. Non c’è davvero un motivo, ad essere sincera. Ma una domanda, che preme da giorni sulla punta della lingua, esce dalle mie labbra.
- Perché mi eviti?
- Non ti sto evitando – risponde Gale. – Ho solo pensato che non fosse una buona idea farci vedere insieme, adesso che…
- Sì, come no – lo fermo, non credendo neanche a una delle sue parole. – Pensano tutti che siamo cugini. Che male c’è ad incontrarsi tra cugini?
- Non voglio parlare di questo – mi zittisce. Solleva la bisaccia, inarcando un sopracciglio. – Che ci hai messo qui dentro? Pesa una tonnellata!
Ha cambiato discorso. Faccio finta di non averci fatto caso e cerco di assecondarlo, come ho imparato a fare così bene negli ultimi tempi con tutto quello che mi circonda. – La nostra colazione.
Ci sediamo sulla sponda del lago, proprio dietro alle canne da pesca. Gale fa un fischio mentre rivelo il contenuto della bisaccia: panini ripieni di pollo freddo, focaccine, biscotti, arance e frutta secca. E i due thermos pieni di tè che ci siamo trascinati dietro.
Forse mi sono lasciata prendere la mano ed ho preso troppo cibo per solo due persone, ma quello che non mangiamo adesso possiamo tenerlo per più tardi. Il sole mi suggerisce che devono essere passate da poco le sette del mattino; abbiamo tutta la giornata davanti.
Io e Gale mangiamo e beviamo il tè mentre il sole, che comincia ad essere già molto caldo nonostante l’ora, illumina la piatta superficie del lago. Quando i pesci abboccano, facciamo a turno per tirarli fuori dall’acqua e per mettere delle nuove esche negli ami.
Complice il cibo che siamo impegnati a mangiare, nessuno di noi due dice più una parola. Ma anche adesso che abbiamo finito e abbiamo la pancia piena non facciamo alcun tentativo di iniziare un discorso. Restiamo in silenzio.
Ho la testa posata sulle ginocchia mentre guardo Gale: è steso sulla schiena e si sorregge con i gomiti mentre tiene gli occhi chiusi, la pelle del viso baciata dal sole. Come la mia, anche lui ha quel tipo di pelle che si scurisce subito non appena il sole ci si posa sopra. Mi chiedo se sia un problema essere così abbronzati quando, in teoria, la maggior parte del tempo la si trascorre sottoterra, nelle miniere di carbone. Dove il sole non arriverebbe per sbaglio nemmeno tra cinquecento anni.
Se il Distretto avesse dei Pacificatori diversi da quelli che ci ritroviamo sarebbe già in guai seri: è vietato cacciare, per di più quando per farlo sei costretto a spingerti oltre il limite segnato dalla recinzione. Da noi però tengono la bocca chiusa e fanno finta di niente: come la maggior parte dei cittadini, bramano anche loro un po' di carne fresca.
Anche io potrei essere nei guai se sapessero che mi trovo nel bel mezzo della foresta. La mamma mi ha fatto capire benissimo che non sono più costretta a procacciare cibo per me e per loro, ed anche se faccio di tutto per non fargli capire dov’è che vado tutte le mattine, ho il sospetto che lo sappia. Mi conosce come le sue tasche, ed immagino che certi comportamenti siano difficili da mascherare.
Come se intuisse i miei pensieri, Gale inizia a parlare della mia famiglia.
- Qualche volta ho guardato gli Hunger Games insieme a loro, per non farle stare da sole. Un paio di volte è venuto anche Rory con me.
Rory è uno dei fratellini di Gale ed ha più o meno l’età di Prim. Sapere che non erano da sole ad affrontare quel supplizio mi conforta. – Non deve essere stato facile per loro – mormoro.
- Non è stato facile per nessuno – Gale si mette seduto con uno scatto e afferra un’arancia. Se la rigira tra le mani. – Sai che al Forno avevano organizzato una colletta per gli sponsor?
Scuoto la testa. Non ne avevo idea. Da quando sono tornata non sono ancora stata al Forno, ed in teoria non dovrei più avere un vero motivo per andarci. Quasi tutta la selvaggina che prendo nei boschi la porto ad Hazelle, la mamma di Gale, e quello che avanza lo do a Peeta, che è davvero un asso in cucina. Non ho più bisogno di venderla o barattarla con chi frequenta il Forno.
- Sae la Zozza e gli altri hanno avanzato l’idea, e poi il passaparola ha fatto il resto. Hanno partecipato in tantissimi, anche quelli che si sono tenuti alla larga da quel posto per tutta la loro vita. Sae mi ha detto che se ti azzardi a ringraziarli ti bandiranno per sempre.
Sorrido. Mi sembra quasi di vederli: i bizzarri venditori e frequentatori del Forno riuniti tutti quanti insieme, mentre offrono i loro pochi averi per aiutarmi a sopravvivere nell’arena.
- Deve essergli costato molto… sacrificare quel poco che avevano per sopravvivere, per darlo a me.
- Beh, a te e a Peeta. La colletta era destinata ad entrambi.
Il tono freddo con cui sputa fuori quest’ultima frase mi mette in allarme. Continuo ad osservarlo mentre si alza e si avvicina alle canne, mentre prende i pesci appena pescati e cambia gli ami.
Non riesco a riconoscere in questo Gale scontroso e sfuggente il mio migliore amico, quello che conosco da quattro anni e con cui ho trascorso innumerevoli giornate come questa. Da quando ci conosciamo non ci siamo mai rivolti una parola brusca, un commento pensato apposta per ferirci. Neanche nei primi giorni della nostra amicizia, quando pensava che gli stessi rubando le prede dalle trappole. Posso solo sospettare che è stato il vedermi negli Hunger Games a trasformarlo nella persona che ho ora davanti.
- Gale, devo parlarti di me e di Peeta – inizio, ma vengo bloccata ancora.
- Non voglio sapere nulla di voi due.
Taccio, stringendo le labbra tra i denti. Intreccio le dita delle mie mani e mi circondo le ginocchia con le braccia, poggiandoci sopra il mento. Adesso non mi va più di stare con lui. Voglio tornare a casa, mettere più distanza possibile tra me e la sottospecie di uomo ombroso in cui si è trasformato il mio migliore amico. Persino la prospettiva di andare a dare fastidio a Haymitch sembra migliore di questa.
Sento Gale prendere posto accanto a me, ma non lo guardo più. Ho lo sguardo fisso davanti a me e faccio finta che non esista. Faccio finta di essere qui da sola come tutte le altre volte. Sono brava ad ignorare le persone, e lui lo sa bene. Sbuffa quando non riesce a catturare la mia attenzione.
- Katniss… Katniss, guardami – mi prende il viso tra le mani e mi fa voltare verso di lui. Mi scruta con i suoi occhi grigi, gli occhi del Giacimento. Sono identici ai miei, identici alla metà della popolazione del Distretto 12.
Mi osserva senza dire nulla ed io mi astengo dal chiedergli cosa stia cercando, che cosa voglia. Il suo comportamento ed il suo umore ballerino mi fanno girare la testa. Se vuole farmi capire qualcosa, beh, dovrebbe sforzarsi un po' di più e provarci, perché così di certo non andiamo da nessuna parte.
E lo fa, abbassando il viso verso il mio per catturare le mie labbra tra le sue.
Ed improvvisamente capisco. Capisco il suo umore, il suo comportamento. La sua avversione ogni volta che il nome di Peeta si è intromesso nei nostri discorsi.
È geloso.
Gale trasforma subito il contatto in un bacio esigente, un bacio in cui sembra voglia riuscire a trasmettere tutto quello che sta provando. Poggio una mano sulla sua, ancora sul mio viso, e rispondo al bacio.
Sento il sapore dell’arancia sulle sue labbra, nella sua bocca. È così diverso dal sapore di Peeta. Le labbra di Gale non sono morbide come le sue. Non sanno di cannella.

Non sono le labbra di Peeta.
Mi irrigidisco di colpo, sorpresa, e mi ritraggo da Gale. Sono a corto di fiato. La consapevolezza di ciò che ho appena scoperto, che ho ammesso a me stessa, agisce con la stessa potenza di uno schiaffo in pieno viso. Non ho il coraggio di aprire gli occhi e di incrociare quelli di Gale. Sento ancora la sua mano sul volto, ma dopo pochi istanti il contatto svanisce.
Qualcosa si posa sulla mia fronte. Un piccolo bacio.
- Dovevo farlo. Almeno una volta – è un sussurro così flebile che riesce ad arrivare alle mie orecchie solo perché si trova così vicino a me. Sento il rumore di erba calpestata, i suoi passi che diventano sempre più rapidi, poi più nulla.
Quando trovo finalmente il coraggio di aprire gli occhi, di Gale non vi è più nessuna traccia.

 

Ci metto un po' a riprendermi.
Appena ho l’impressione di avere la mente più sgombra rispetto a prima inizio a raccogliere i resti della nostra colazione. Rimetto nella bisaccia quello che è avanzato e i due thermos, lasciando sul terreno tutto il resto. Tolgo le canne da pesca dall’acqua e noto i pesci, il bottino della mattinata. Gale non ne ha preso neanche uno. Metto anche quelli nella bisaccia e comincio a camminare.
Il mio passo è lento ma non voglio velocizzare l’andatura. Potrei approfittarne per provare a prendere qualcosa con le mie frecce, ma scopro di non averne alcuna voglia. L’euforia che avevo appena scesa dal letto è completamente svanita.
Non voglio pensare a quello che è accaduto ma mi costringo a farlo: è inutile cercare di far finta che nulla di tutto questo sia accaduto. Il bacio di Gale mi ha aperto gli occhi, occhi che fino a mezz’ora fa erano, a quanto pare, avvolti da una patina che mi impediva di vedere le cose per quello che sono. Passo le dita sulle mie labbra, come se sentissi ancora su di esse l’impronta di quelle di Gale.
Le labbra di Gale… le labbra di Gale sono state il colpo di grazia. Il suo bacio è stato così inaspettato, ma se ci penso, è stato anche altrettanto necessario. Se non fosse stato per lui ci avrei messo il doppio del tempo per capire quello che mi sta succedendo.
Non so come gestire questa nuova consapevolezza.
Decido di non passare a controllare le trappole perché so che Gale lo ha fatto durante il suo passaggio. Mi affretto quindi a posare le mie armi ed a percorrere l’ultimo tratto che mi separa dalla recinzione.
Non passo alla vecchia casa per cambiarmi gli abiti, non è necessario a questo punto. Ho così tanti completi nuovi nell’armadio che posso anche permettermi di perderne uno al Giacimento. Perdere, poi, è una parola grossa. Domani lo troverò ancora sulla sedia dove l’ho lasciato stamattina.
Attraverso il Distretto a passo svelto e a testa bassa, ma per fortuna e per una volta nessuno sembra far caso a me. Così ci metto poco a raggiungere il Villaggio dei Vincitori. Forse la fortuna continuerà ad assistermi e mi farà raggiungere casa non vista.
Capisco che i miei piani vanno a farsi benedire quando vedo Peeta seduto sui gradini d’ingresso della sua casa, intento a tracciare qualcosa su un blocco da disegno. Le mie guance vanno a fuoco e me ne vergogno, perché questa reazione alla sua sola vista non fa altro che confermare la mia teoria.

Sto cominciando a provare qualcosa per il ragazzo del pane.
Rallento il passo mentre mi avvicino alla sua abitazione, che si trova proprio accanto a quella di Haymitch. La mia è la successiva. Siamo vicini di casa in tutti i sensi: dalla finestra della mia camera riesco a vedere il suo soggiorno.
Ma davvero, Katniss?
Metto male un piede ed inciampo, riuscendo per un pelo a ritrovare l’equilibrio che mi evita una caduta sulla ghiaia. Il mio spettacolino ha attirato l’attenzione di Peeta, che ha sollevato gli occhi dal blocco e ride della mia goffaggine.
- Inciampare non dovrebbe essere una mia esclusiva? – mi domanda divertito.
- Forse non mi hanno aggiustato bene l’orecchio – borbotto. Mi avvicino a lui e poggio le braccia sulla ringhiera delle scale.
È questo che facciamo ultimamente: ci prendiamo in giro a vicenda. Sembriamo dei bambini dispettosi, sempre pronti a punzecchiarsi.
Poteva essere un segnale capace di spiegare il fatto che qualcosa stia mutando tra di noi?

Oh, cervello, dammi tregua!
- Sei già di ritorno… mattinata fiacca? – mi chiede Peeta. Nel giro di un secondo il suo sguardo si incupisce. – Che succede?
Haymitch deve avere proprio ragione: il mio viso è un libro aperto, dove chiunque è in grado di leggere tutto quel che mi passa per la mente. Anche Peeta sembra capace di farlo. Che senso ha cercare di tenere tutto nascosto se, prima o poi, uscirà comunque fuori?
- Gale mi ha… noi ci siamo baciati – la frase, che ha appena preso forma nella mia mente, viene subito sputata fuori dalle mie labbra. Detta in questo modo sembra brusca e ancora più sgraziata del previsto, e questo lo devo solo alla mia indelicatezza.
Il viso di Peeta si indurisce subito ed io vorrei solo potermi prendere a pesci in faccia. È turbato e ferito, e sono stata io a farlo stare male. – Perché me lo stai dicendo?

Già, perché? Eppure, la risposta la conosco.
- Perché non lo volevo. Non è… quello che voglio – ammetto, sia a lui che a me stessa. Dirlo, però, mi fa sentire un po' più leggera.
I lineamenti del suo viso, da tesi com’erano, diventano più rilassati. Forse non si aspettava questa risposta, forse ne aveva immaginata un’altra. O forse ancora si aspettava questo genere di risposta da parte mia, ma con parole diverse. Più immediate e comprensibili, non criptiche come quelle che ho usato io. Qualunque sia il ragionamento che sta facendo nella sua mente, non me lo dirà mai.
Mi tende la mano e capisco che non è arrabbiato, anzi, sembra sollevato. La stringo e, titubante, lo raggiungo sui gradini per sedermi al suo fianco. La mia testa va subito a poggiarsi sulla sua spalla mentre mi cinge la schiena con un braccio, la mano ferma sulla mia vita.

 

 

 

 

 

 

 

-

Ed ecco che le acque iniziano a smuoversi.
Se siete arrivati fino a qui: bentornati! Spero che il capitolo vi sia piaciuto.
La ragione più importante che mi ha spinta a scrivere questa storia – e questo capitolo – è stata il voler sapere cosa sarebbe successo se la Collins non avesse lasciato raffreddare l’amicizia tra Peeta e Katniss fino al fatidico Tour della Vittoria. Ma forse lo avevate già capito, arrivati a questo punto! Non serve che lo ripeta *che scema che sono*
Al di là delle ovvietà, ho immaginato come sviluppare il tutto e una delle prime cose è stata riprendere la famosa scena del bacio tra Katniss e Gale, rendendo la nostra tonta eroina abbastanza sveglia consapevole di ciò che prova, e per chi. Molto probabilmente non sarà la Katniss che abbiamo conosciuto nei libri, è impossibile caratterizzarla nello stesso modo e con lo stesso intento della sua creatrice. Non mi permetterei mai una tale presunzione! E poi, immagino che trascorrere più tempo con Peeta possa renderla meno scorbutica e meno sulle sue, come se avesse un palo in culo fosse in guerra contro il mondo e con se stessa in particolare. Staremo a vedere!
Vi ringrazio ancora per tutto e… al prossimo capitolo!
Ciao!

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Capitolo 4
*** 4. ***


In The Still Of The Night - 4

In the still of the night

 

 

 

 

 

 

4.

 

- Che tipo di pianta è questa?
- È achillea – strappo una manciata di foglie dalla pianta e le porgo a Peeta. – Mia madre la usa per i suoi infusi. Questi invece sono i fiori. – Gli indico uno stelo pieno di fiorellini bianchi, a pochi passi da noi.
- A cosa serve? – mi chiede ancora Peeta, osservando le foglie che ha in mano.
Siamo nel bosco, non molto distanti dal Distretto. Nell’ultimo periodo abbiamo preso l’abitudine di venirci insieme; in realtà è stato Peeta il primo a chiedermi se potesse accompagnarmi qualche volta nelle mie scorribande nella foresta. Non ero gran che entusiasta all’idea di noi due insieme a caccia: il ricordo degli Hunger Games era ancora così vivido che mi sembrava di essere ancora lì. E ricordo che Peeta era piuttosto rumoroso mentre vagavamo in cerca di cibo. Con una gamba finta la situazione non doveva essere migliorata.
Ma era davvero curioso e si vedeva che moriva dalla voglia di venire con me, così non gli ho detto di no. Anche se cacciare sembrava impossibile – troppo rumorosi – abbiamo trovato lo stesso qualcosa da fare: rintracciare e raccogliere le erbe officinali per rifornire la scorta di mia madre. Peeta ha fin da subito portato con sé un blocco da disegno e delle matite colorate, così quando ci fermavamo per mangiare qualcosa faceva qualche schizzo sulle pagine bianche. Rimango sempre senza parole per la facilità con cui riusciva a riportare tutto quello che vedeva grazie a pochi tratti di matita.
Mi è venuto spontaneo proporgli di aiutarmi ad aggiornare l’album delle piante che io e la mamma conserviamo in casa. Lo aveva portato con sé quando lei e mio padre si sposarono ed insieme avevano aggiornato le pagine, aggiungendo anche quelle piante spontanee che erano commestibili e che, in tempi non molto lontani, ci avevano permesso di sopravvivere. Adesso avevo altre nozioni da aggiungere, comprese quelle apprese al centro di addestramento a Capitol City, ma avevo anche bisogno di una mano. Io non so disegnare, per niente.
Peeta è stato più che felice di aiutarmi, e così, eccoci qui. A vagare nel bosco, raccogliendo e catalogando piante e bacche. Sono felice di non essere da sola qui fuori, e poi mi piace davvero stare in compagnia di Peeta. Mi piace mostrargli tutto quello che ho imparato qui fuori, tutto quello che la foresta offre sia in termini di libertà che di cibo. Soprattutto di cibo. Mentre lui è intento a disegnare, riesco a fare un piccolo giro di perlustrazione e ad uccidere qualche scoiattolo, ma il più delle volte torniamo a casa quasi a mani vuote, se non contiamo le prede che recuperiamo nelle trappole.
Non ho smesso di aiutare Gale, anche se non ci vediamo da parecchi giorni. All’inizio ho pensato che Peeta volesse venire perché non si fidava di me o di Gale, ma è stato un pensiero che ho fin da subito scacciato via. È sempre così tranquillo, e non ha detto niente riguardo il mio voler aiutare il mio amico e la sua famiglia, anzi, si è offerto anche lui di dare una mano. Dopo il nostro giro nel bosco portiamo le prede da Hazelle e torniamo insieme a casa. Una volta siamo anche stati al Forno insieme; ho raccontato a Peeta dell’aiuto che ci era stato dato da tutti, ma che nessuno di loro voleva essere ringraziato. Ci siamo limitati a comprare qualche ciotola di zuppa da Sae la Zozza, anche se quella roba più che placare la fame ti fa star male.
Oggi ho preso tre scoiattoli, più della metà di quelli che riesco a cacciare da quando Peeta viene con me. Ho deciso di tenerli da parte per suo padre, così almeno per una volta non mi sentirò in colpa per tutti i pacchetti pieni di pane, torte e biscotti che ci manda a casa. Siamo sommerse di cibo, senza contare quello che Peeta prepara durante la giornata e che divide sempre tra noi e Haymitch.
- Ha proprietà cicatrizzanti, ma la mamma la sua più che altro per curare il mal di stomaco. Può essere utile anche per i dolori mestruali e per le infiammazioni.
- Capito – prende un appunto sul suo blocco e poi torna a guardare lo stelo pieno di fiori che ha raccolto. – Sei sicura di non voler continuare con questo talento? Sei davvero brava – mi dice per l’ennesima volta.
Questa storia di trovare un “talento nascosto” a tutti i costi comincia ad essere insopportabile.
- Sicurissima – rispondo per l’ennesima volta. – E poi non potrei farlo nemmeno volendo. Effie dice che devo fare qualcosa di nuovo.
- Ah, se lo ha detto Effie, allora…
Ridacchio. Effie sa essere davvero petulante quando si impegna, e di solito non ce ne mette mai troppo. Peeta, poi, è fortunato perché ha già il suo talento da mostrare, e quindi deve solo sorbirsi le domande di Effie su come sta procedendo il suo lavoro. Io, invece, devo fare tutto dall’inizio.
- Mi ha mandato una lista con una serie di attività che potrei imparare a fare – ammetto. Raccolgo un altro fiore e me lo passo tra le dita. Tolgo qualche petalo.
- Che tipo di attività?
- Cucinare, suonare il flauto, sistemare fiori… - Peeta ride e indica le mie mani, che hanno strappato tutti i petali al fiore. Direi che posso già depennare quella parte dalla lista. – Potrei darmi al giardinaggio.
- Oh sì, hai un talento eccellente per queste cose! – esclama, sistemandosi a sedere a terra accanto a me. – Se invece vuoi davvero dedicarti alla cucina, posso darti una mano. Cucineremo insieme.
- Come una coppia di sposi? – chiedo ridendo, ma serro subito le labbra quando mi rendo conto di ciò che è appena uscito fuori da esse.
Non che ci sia qualcosa di male, è una semplice battuta buttata nel discorso come tante altre… ma con tutto quello che sta succedendo tra di noi non so se può essere considerata come tale.
Ho finalmente smesso di lottare con me stessa ed ho accettato i sentimenti che, quasi senza accorgermene, hanno preso posto dentro di me. Ho finalmente capito che Peeta non mi è affatto indifferente e la cosa, da quanto ho potuto osservare, gli ha fatto un sacco piacere.
Dalla mia confessione – avvenuta il giorno in cui c’è stato il bacio tra me e Gale – non siamo più tornati sul discorso; è abbastanza discreto in questo e, forse, lo ha fatto perché sa che io con i sentimenti, ma anche con le parole in generale, non sono brava quanto lui. Quel poco che sono riuscita a cavare fuori sembra essergli stato sufficiente.
Ma per quanto ancora lo sarà?
Ecco perché mi spavento ogni volta che aleggia attorno a noi lo spettro di un nostro possibile coinvolgimento ad un “passo successivo”.
- Sì, come una coppia di sposi – risponde Peeta. Il suo tono di voce è normale, e questo in qualche modo mi tranquillizza. – Ci pensi mai al matrimonio?
Come volevasi dimostrare.
- Perché me lo chiedi? – domando, cercando di mostrarmi indifferente all’argomento.
Lui scrolla le spalle. – Non c’è un motivo preciso. Semplice curiosità, immagino.
Curiosità. Raccolgo diversi fiori di achillea e comincio ad intrecciarli tra di loro, sovrappensiero. Non c’è nulla di male ad essere curiosi, in fondo.
- Vorresti sposarti? Un giorno, intendo – la mia è una domanda troppo scontata, perché so già a grandi linee l’opinione che Peeta ha del matrimonio.
Annuisce, infatti. – Ho sempre pensato che un giorno lo avrei fatto. Sì, insomma, che avrei avuto una moglie e dei figli. Le solite scemenze che escono fuori quando si pensa al futuro.

No, Peeta, non sono scemenze, penso. È il massimo che la vita può offrire ad una persona. Se non fossi così risoluta sulle mie certezze, probabilmente le penserei anche io. Nello stesso e identico modo.
- Io non ho mai pensato di sposarmi – ammetto. I fiori tra le mie mani hanno assunto la forma di una coroncina di fiori, simile a quella che le spose del Distretto indossano alle loro nozze. La disfo in fretta.
- Mai? – scuoto la testa. – E di avere figli?
- Neanche. E non credo di cambiare idea su questo – lo guardo in viso. – Non dopo quello che ho… che abbiamo affrontato. Non dopo quello che abbiamo visto.
Gli Hunger Games. I giochi sono il motivo principale per cui non metterò mai al mondo dei bambini innocenti, la cui unica colpa è quella di essere nati in un Distretto e non nella capitale.
- Non vuoi avere bambini?
- Essere un vincitore non ti esclude, Peeta. I miei figli potrebbero essere sorteggiati alla mietitura… non lo sopporterei.
Ci sono già stati casi in cui i vincitori delle edizioni passate hanno dovuto vedere i loro figli subire la stessa sorte toccata a loro in precedenza, e la maggior parte delle volte li hanno visti morire. La stragrande maggioranza dei genitori ha visto i propri figli morire in diretta televisiva senza poter fare nulla per loro. Sono rimasti inermi davanti ad uno schermo con davanti solamente la prospettiva di dar loro l’ultimo addio una volta tornati a casa, chiusi dentro bare di legno.
Con che coraggio e con quale ostinazione costringono un genitore a sopravvivere al proprio figlio?
- Non è una decisione da prendere alla leggera – ammette Peeta dopo un lungo momento di silenzio.
- Per niente – mormoro, le dita che percorrono le venature di una foglia. Lo guardo ancora una volta. – Ma tu li vorresti lo stesso, vero?
- Immagino di sì. Probabilmente farei una lista dei pro e dei contro e finirei con l’ignorare quest’ultima.
Ridacchio, scuotendo la testa. – Alcune convinzioni sono dure da abbandonare.
- Eh già, lo sono eccome – Peeta alza lo sguardo, osservando la coltre di rami e foglie che nasconde il cielo. – Che ore sono?
- Dovrebbe essere quasi ora di pranzo.
- Allora cominciamo ad andare. Ieri sera ho preparato una torta salata che devi assolutamente assaggiare.
Già, certe abitudini sono dure a morire.
Mi alzo in piedi e tolgo con le mani le poche tracce di terra ed erba rimaste sui miei pantaloni. Peeta invece è ancora seduto e sembra avere qualche problema a rialzarsi. – Hai bisogno di una mano?
- Credo di sì. La gamba non sembra voler collaborare.
- Non è l’ultimo modello all’avanguardia? Fossi in te li chiamerei per protes-
Non riesco a finire la frase perché Peeta ha afferrato la mano che gli ho offerto e, opponendo resistenza, mi ha tirata verso il suo corpo. Nel giro di un secondo mi ritrovo sdraiata su di lui, che ride sguaiatamente… come farebbe una persona il cui intento è andato a buon fine.
- Lo hai fatto apposta! – esclamo, picchiandolo sulle spalle.
- Ehi, vacci piano! – continua a ridere ed io lo seguo a ruota, contagiata dal suo buonumore. Almeno questa caduta ha un lato positivo: ha scacciato del tutto l’amarezza che il nostro discorso di poco fa aveva scatenato.
Peeta raccoglie una ciocca che è sfuggita dalla mia treccia e la fa passare dietro al mio orecchio; lo fa lentamente, il suo è un gesto naturale che io faccio praticamente tutti i giorni e che è vecchio come il mondo. Le due dita percorrono il tragitto dall’orecchio alla guancia, fermandosi sulle mie labbra con uno sfioramento che percepisco appena.
Per una volta sono io a prendere l’iniziativa e faccio incontrare le nostre labbra. Questo è diverso dagli altri: non è un bacio di cortesia, non è un bacio di circostanza, non è un bacio finto. Non è un bacio per le telecamere. È quel genere di bacio che te ne fa desiderare subito degli altri, che non ti fa respirare, che ti tiene sulle spine.
È quel genere di sensazione che ho provato solo una volta prima d’ora, e risale a quel giorno nella grotta, durante gli Hunger Games.
Peeta ha risposto al mio bacio con talmente tanta foga che mi fa rotolare sul terreno, ribaltando le nostre posizioni. Adesso sono sdraiata sulla schiena e lui è sopra di me, con una delle sue gambe stretta tra le mie.
- N-non dovevamo tornare a casa? – balbetto a corto di fiato.
- Possiamo restare un altro po' – mi risponde, tornando a baciarmi.
Ed eccola di nuovo, la stessa sensazione. Mordo piano il suo labbro inferiore mentre afferro le sue spalle, desiderosa di approfondire questo bacio. Ho le farfalle nello stomaco.

È questo che si prova?

 

La prima cosa che notiamo non appena varchiamo il viale di accesso al Villaggio dei Vincitori è la figura di Haymitch, posizionata davanti al portone di casa sua. È trasandato come al solito, ma già il fatto che riesca a mettere il naso fuori casa è una gran cosa. Probabilmente si è appena svegliato.
- Ecco i piccioncini! – esclama quando siamo a portata d’orecchio. Da vicino il suo aspetto non migliora, anzi peggiora. Le occhiaie scure e il colorito pallido suggeriscono un dopo-sbornia coi fiocchi. – Fatto una bella passeggiata?
- Hai fame Haymitch? – gli chiede invece Peeta, eludendo le sue prese in giro. – Ho un po' di torta salata se la vuoi, te la vado a prendere. Aspettami qui – aggiunge, riservando a me le ultime parole prima di avviarsi verso casa sua.
- Ma guardatevi, non vi riconosco quasi più. Che cosa combinate tutto il giorno insieme? Non me la raccontate giusta, voi due.
- Non sono affari tuoi – lo guardo in cagnesco, e questo non impedisce alle mie guance di arrossire a causa delle sue allusioni. Quello che “combiniamo” io e Peeta non è di certo affar suo… e poi non facciamo niente di male!
La mia faccia deve divertirlo molto, perché non smette più di ridere. – Dolcezza, rilassati! E chi l’avrebbe mai detto? Un pezzo di ghiaccio come te che si scandalizza per un nonnulla. Neanche avessi detto che tu e il ragazzo scop-
- Haymitch! – urlo. Questo è troppo.
- Vedi? Non mi hai nemmeno fatto finire. A proposito: hai qualcosa sul collo, proprio… - Haymitch mi si avvicina e punta il dito sul lato destro del mio collo -…qui. Cos’è, un succhiotto per caso?
Sgrano gli occhi e la mia mano scatta subito a coprire la pelle scoperta. La mia reazione fa ridere Haymitch ancora più di prima, tanto che crolla a sedere sui gradini e comincia ad asciugare le lacrime che gli escono dagli occhi.
- Perché sta ridendo? – Peeta ci ha appena raggiunto e osserva la scena, non riuscendo a capire il motivo di tanta ilarità.
Glielo faccio capire io: è tutta colpa sua. – Che mi hai fatto al collo?
- Io? niente! Il tuo collo non ha niente! – esclama.
Haymitch mi sta ancora prendendo in giro.

 

 

 

 

 

 

 

__________________________

Ciao a tutti!
Breve capitolo di passaggio in cui i piccioncini… fanno i piccioncini. Nulla di che, in effetti, ma ogni tanto ci sta bene qualcosa di leggero :)
Al momento in cui scrivo le note sono in piena fase di elaborazione del capitolo 14: sono un bel pezzo avanti con la stesura e non pensavo assolutamente che sarei stata così veloce nella scrittura. E, dato il numero di capitoli che ho già pronti – sono solo da rivedere -, spero di riuscire a postare il prossimo in settimana. Incrociate le dita! Se non dovessi riuscirci, ci vediamo come al solito lunedì prossimo…
Grazie ancora per essere arrivati fin qui, e alla prossima!
D.

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Capitolo 5
*** 5. ***


In The Still Of The Night - 5

In the still of the night

 

 

 

 

 

 

5.

 

Il tempo passa.
L’autunno arriva e se ne va come ogni anno, dopo aver lasciato sul terreno un manto di foglie arancioni ed alberi sempre più spogli come segni del suo passaggio. Lascia spazio al freddo dell’inverno. Le giornate si fanno più grigie e buie.
La bevanda che verso nel thermos tutte le mattine adesso è calda: contribuisce a mantenere le mie mani calde, insieme ai guanti di pelle, mentre cammino nel bosco.
Ho ceduto alle vecchie abitudini e ho cominciato ad indossare l’equipaggiamento invernale che Cinna ha creato per me: pantaloni e maglie che mantengono il calore corporeo, senza contare la quantità di giacche antivento e di cappotti di lana che riempiono il mio armadio. Tutta un’altra cosa rispetto ai vestiti che usavo di solito durante l’inverno.
Non sono più costretta a muovermi di continuo per evitare di congelare, anche quando cade la prima neve dell’inverno e le temperature crollano sotto lo zero. Spesso resto seduta su un tronco, a bere il mio tè caldo, e guardo il nuovo giorno nascere. Il sole è quasi sempre coperto dalle nubi, ma un pallido raggio riesce sempre ad oltrepassarle.
Stamattina c’è Gale con me, ad accogliere il nuovo giorno.
Il nostro rapporto sembra essere tornato quello di sempre, quello che avevamo prima che quel bacio si mettesse tra di noi. Nessuno di noi due ha più accennato all’argomento e, da una parte, preferisco così. È già tutto troppo complicato e, da brava egoista quale sono, non voglio che ad aggravare ulteriormente la situazione si vadano ad aggiungere i sentimenti di Gale per me.
Perché è così: anche un cieco riuscirebbe a capire che Gale non prova per me quello che io provo per lui. Lui è il mio migliore amico, ma io, per lui, sono qualcos’altro.
Tutti al Giacimento hanno sempre guardato me e Gale come ad una coppia, quel genere di amici che sarebbero finiti col mettersi insieme, prima o poi. Eravamo, e siamo tuttora, spiriti affini… anche se le nostre teste pensavano, e pensano ancora, molto diversamente.
Non posso fare a meno di continuare ad osservare che le persone la penserebbero ancora così se non fosse stato per gli Hunger Games, e a tutto quello che questi hanno comportato. Nessuno avrebbe mai pensato di vedermi insieme al figlio del fornaio, prima di tutto.
Il rapporto con Peeta è cresciuto pian piano fino a diventare quello che è adesso: sincero, dolce, sorprendente. Sorprendente perché, nonostante sia partito come una relazione di facciata e ci ritenessimo dei semplici amici, si è trasformato in qualcosa di più forte. Non avrei mai pensato di potermi legare così tanto ad una persona dopo così pochi mesi di conoscenza. Dopo tutti questi anni, invece, con Gale non è mai successo.
E se lui non accenna mai al bacio, forse è perché sente costantemente le voci che circolano nel Distretto. “Voci da pettegoli”, le definisco io.
Gran parte di queste dicerie sono uscite fuori dalla bocca di Haymitch; ovviamente la maggior parte sono false, e lo sa benissimo perché è stato proprio lui a inventarsele. Sa che odio quando si prova a mettere bocca nella mia vita privata – mia e di Peeta, in realtà, perché volente o nolente anche lui ne rimane coinvolto –, ma lui lo fa lo stesso e si diverte un mondo.
Dice che è tutto un esercizio per la mia… nostra vita futura.
- La tua vita privata non sarà mai davvero privata. Rassegnati all’evidenza, dolcezza – mi ha detto una volta in risposta alle mie proteste.
Da un lato ha ragione, ne ho già avuto un assaggio nei mesi precedenti e tra poche settimane, con l’inizio del Tour, ne avrò di nuovo la conferma. Haymitch sopporta tutto questo da venticinque anni…
Non c’è da stupirsi se è continuamente sbronzo.
L’aria è gelida ed il terreno scricchiola sotto le suole dei miei scarponi, proprio come un pezzo di ghiaccio. È uno degli inverni più rigidi da che ne ho memoria. Dicembre sta volgendo al termine… l’anno sta volgendo al termine.
Domani sarà il primo giorno dell’anno nuovo.
È un anno a cui cerco di non pensare, ma invano. Segnerà il mio ingresso ufficiale come mentore agli Hunger Games; è un chiodo fisso che mi spaventa, scatena la mia paranoia. Non faccio altro che pensare ai visi dei ragazzini che dovrò accompagnare nell’arena a morire, e le mie paure sono aggravate dal fatto che conosco alcuni di quei ragazzini.
Uno di questi potrebbe essere il fratellino di Gale, o Prim. Essere la sorella di una vincitrice/mentore non la salverà dalla mietitura quest’anno.
Quante probabilità ci sono che il suo nome possa venire estratto in due anni consecutivi? È mai successo?
Non nel 12. E negli altri?
- Katniss?
Sobbalzo nel sentire la voce di Gale. Lo guardo, stupita di trovarmelo davanti, a sovrastarmi con la sua statura. Siamo qui da stamattina, quindi non dovrei stupirmi ogni volta che mi si avvicina. Ma per un momento, un secondo, ho avuto la sensazione che fosse appena arrivato.
- S-scusami, Gale, io… pensavo… - balbetto.
- Ultimamente pensi troppo, posso dirtelo? – Gale inarca un sopracciglio e indica qualcosa verso i miei piedi. – Quello lo prendi tu?
Seguo il suo dito, puntato verso un tacchino morto le cui zampe sono strette nelle mie mani. Quando ho preso questo tacchino?
Non va bene, stamattina. Non va.
- S-sì. Lo prendo io – mi riprendo abbastanza da riuscire a ricordare quello che devo fare. – La mamma vuole cucinarlo per la cena di stasera.
Rassegnatasi all’idea di me di nuovo nei boschi, mia madre ha almeno cercato di fare in modo che non mi mettessi nei guai e che le portassi qualcosa, senza dover lasciare o barattare qualcosa al Forno. Per stasera mi ha chiesto un tacchino, con la scusante di voler preparare una cena speciale in vista dell’anno nuovo.
Non abbiamo mai avuto un buon motivo per festeggiare finora, soprattutto dopo la morte di nostro padre, e poi non potevamo mai permetterci grandi cose. Di solito consumavamo la nostra cena e, con lo stomaco che desiderava altro cibo, ci sdraiavamo sotto le coperte in attesa che il vecchio orologio sopra al camino battesse la mezzanotte. Al Giacimento, nessuno festeggiava o poteva permettersi di festeggiare il Capodanno.
Quello di mia madre sembra più il tentativo di voler trovare a tutti i costi una scusante per poterlo fare. Ma finché si tratta di una cena succulenta in famiglia posso accontentare le sue richieste. E poi, il fatto che mi chieda di cacciare la dice lunga: possiamo permetterci di comprare la carne dal macellaio, ma da un po' evita di farlo.
Evidentemente, preferisce la selvaggina fresca.
- Katniss?
Di nuovo.
Chiudo gli occhi, uno sbuffo fuoriesce dalle mie labbra. – Scusa, stavo…
- Pensando, lo so – Gale non sembra troppo convinto. – A cosa sono dovuti tutti questi pensieri?
A troppe cose, e tutte quante insieme: questa è la risposta giusta che dovrei dare a Gale. Sono poche parole che a prima vista possono sembrare vuote, quasi inutili, ma in realtà racchiudono un mondo di significati. Ma resto in silenzio, concentrando tutta la mia attenzione sul tacchino. Mi inginocchio e comincio a spennarlo, anche se il resto del lavoro andrà fatto a casa.
Gale mi si inginocchia di fianco e mi accarezza una spalla, un gesto che ha già fatto milioni di volte. – Sai che puoi dirmi tutto, vero? Tutto quello che ti passa per la testa. Non devi preoccuparti – mi rassicura.
Certo che lo so.
Lo guardo, e dentro di me sono sicura di non poterlo accontentare. – Non so se posso farcela.

 

Il tacchino che porto a casa si trasforma, con il trascorrere della giornata, in un succulento arrosto arricchito di salsa all’arancia; non si avvicina minimamente ai piatti elaborati che ho avuto modo di assaggiare durante la mia spedizione a Capitol City, ma tutto sommato lo preferisco. Con contorno di patate e cipolline, è senza dubbio il cibo più suntuoso che abbiamo mai avuto alla nostra tavola.
Peccato che io sia l’unica rimasta a goderselo.
Esattamente pochi minuti prima che ci sedessimo a tavola hanno bussato alla porta di casa: una donna del Giacimento stamattina è entrata in travaglio e temevano l’insorgenza di complicazioni perché, nonostante il trascorrere delle ore, sembrava che non ci fossero progressi.
Mia madre non è stata mai capace di negare il suo aiuto a chicchessia, e sono sicura che anche il suo più acerrimo nemico scatenerebbe la sua sensibilità se si trovasse in un bisogno estremo di cure; così ha preso il cappotto e una borsa piena di tutto quello che le sarebbe potuto servire ed è andata al Giacimento. Anche Prim è andata con lei: in questo è più forte di me e molto simile alla mamma, e immagino che un giorno la affiancherà nel suo lavoro, più di come fa oggi.
Ovviamente non hanno idea del tempo che ci vorrà, se solo qualche ora o tutta la notte. Così eccomi qui, da sola, davanti ad un tacchino che potrebbe sostentarmi per almeno una settimana.
Nonostante l’ottimo sapore che mi invade la bocca, riesco a mangiare solo una piccola parte della porzione di cui mi sono servita. Non ho appetito, quindi sparecchio la tavola e porto tutto il cibo in cucina, sistemandolo in modo che si conservi per domani.
Cercando di tenermi impegnata come posso, riordino la tavola della sala da pranzo e il grande tavolo della cucina. Lavo le stoviglie che si trovano nell’acquaio, spazzo il pavimento, recupero dalla legnaia sul retro altri ciocchi per mantenere il fuoco acceso. Alla fine, mi lascio cadere sulla sedia a dondolo davanti al camino. Il vecchio orologio mi dice che sono da poco passate le otto di sera.
Non sono abituata alla visione della cucina vuota. Da quando ci siamo trasferite qui è sempre stata piena di rumori e odori: l’odore del cibo che cuoce sul fuoco e quello delle spezie, delle erbe e degli infusi che la mamma non ha mai smesso di preparare. La cucina è sempre stata la mia stanza preferita della casa, non solo di questa ma di tutte in generale: non la definiscono forse “focolare domestico”? È il luogo in cui tutte le famiglie, anche le più disastrate, si riuniscono tutti i giorni per i tre pasti giornalieri, quello in cui vengono svolte la maggior parte delle attività quotidiane.
Mi agito sulla sedia, inquieta, sistemandomi in una posizione più comoda. Cerco di farmi venire in mente qualcosa da fare.
Di solito, quando davanti a me si prospettano ore vuote, vado da Peeta, che sembra sempre felice di avermi tra i piedi. Non mi ha mai fatto capire in alcun modo se la mia presenza gli sia di peso ed io, di conseguenza, ho sempre paura di disturbare. Ma stasera non posso andare da lui, così come tutte le sere in generale.
Sebbene non veda con grande felicità il nostro rapporto, la mamma ci lascia trascorrere insieme la maggior parte delle giornate, a patto che la sera rimanessimo ognuno nella propria abitazione. Poteva contare inoltre sul fatto che Peeta si rechi a cena dalla sua famiglia tutte le sere.
È per questo che non posso andare da lui: la sua casa è buia, segno che non è ancora rientrato. E vista anche la ricorrenza che cade in questa giornata, non so quanto farà tardi.
Alla fine, decido di lasciare la sedia a dondolo per andare a fare un bagno caldo, non prima però di aver gettato un pezzo di legno sul fuoco. Per ingannare il tempo, aggiungo all’acqua fiori secchi e uno strano olio viola che Effie ha mandato qualche giorno fa dalla capitale.
Il bagno lascia la mia pelle profumata di non so che tipo di fiore – non l’ho mai sentito prima d’ora – e morbida all’inverosimile. Ho trascorso molto tempo dentro l’acqua, tanto che le mie dita adesso somigliano a prugne secche, ma allo stesso tempo mi sembra di esserci stata solo per cinque minuti.
Metto il pigiama e scivolo sotto le coperte, anche se so che non riuscirò a prendere sonno ancora per un bel pezzo. E poi sono troppo inquieta. Mi rannicchio in un bozzolo al centro del letto e guardo il cielo buio fuori dalla finestra, ma dopo pochi secondi sono di nuovo in piedi, trascino lo sgabello della toeletta fino alla finestra e mi siedo, osservando le stelle.
Se hai la sfortuna di nascere in un Distretto povero come il nostro, col tempo impari ad apprezzare le poche cose belle che la natura ha da offrirti. Io ho imparato ad apprezzare il tappeto di stelle che prende vita la notte, sovrastando le nostre teste con la loro bellezza. Vivere quasi totalmente senza elettricità ti permette di osservarle al meglio, con la luna come unica fonte di luce. Stanotte, il cielo è totalmente sgombro dalle nuvole.
A Capitol City non si vedono le stelle: troppe luci artificiali. Alcune volte penso che la vita dei suoi abitanti sia triste, in fondo; hanno tutto, eppure perdono qualcosa di così meraviglioso.
Nell’arena invece le stelle si vedevano benissimo, anche se non erano stelle vere ma solo una loro proiezione.
Completamente assorta nella contemplazione del cielo notturno, non mi accorgo subito del bagliore che proviene dalla casa di Peeta. Le tende nella finestra del suo soggiorno non sono state tirate, così riesco a vedere quello che succede al suo interno. Non riesco a vedere Peeta, ma la luce accesa può significare solo una cosa.
È tornato a casa.
Cerco con tutta me stessa di provare a non comportarmi come una bambina impaziente e di resistere alla tentazione di precipitarmi da lui. Penso che forse sia stanco, che vuole andare a dormire senza essere disturbato. Penso che per una volta non avermi tra i piedi sia un sollievo per lui.
Come previsto, tutto questo non serve a nulla. Senza neanche provare a mettere addosso qualcosa di più decente del pigiama azzurro che indosso, scendo le scale a rotta di collo, infilo gli scarponi e il cappotto ed esco di casa.

Sto infrangendo le regole, penso mentre percorro i pochi metri che separano le nostre case. La mamma non sarà felice di saperlo.
In fondo, non sono mai stata brava a rispettarle.
Busso alla porta e dopo un secondo mi pento di averlo fatto. Sono nervosa e uno strano senso di frustrazione mi pervade il corpo, anche se non riesco a capire il motivo per cui provo queste sensazioni. Scendo un gradino con l’intenzione di andare via, nella speranza che Peeta non abbia sentito il mio bussare, ma la porta si apre rivelando la sua figura.
Un’espressione di sorpresa gli attraversa il viso, ma dura solo un istante prima che venga sostituita dal più bello dei suoi sorrisi. – Ciao!
- Hey – sussurro, infilando le mani nelle tasche del cappotto. Non so cosa dire. Mi ritrovo spesso nella condizione di non saper cosa dire quando sono con Peeta.
Ma lui mi salva sempre, e lo fa anche stavolta. – Vuoi entrare?

 

Peeta mi fa togliere il cappotto e mi guida in cucina, una cucina che, come quella di casa mia, è piena di odori. Vive da solo in questa casa enorme, eppure si sente lo stesso calore e lo stesso conforto di una casa piena di gente.
Mi offre una camomilla – la beve sempre prima di andare a letto, lo aiuta quando non riesce ad addormentarsi – e mi chiede se mia madre non sia contrariata all’idea di noi due insieme, in una così tarda serata. Gli rispondo che lei e Prim sono al Giacimento ad assistere una partoriente – la verità – e che io non riuscivo a prendere sonno, stando da sola in casa – una mezza bugia, ma il pigiama che ho addosso la rende più credibile.
- Sei sicuro che non disturbo? Posso anche andare via se vuoi stare da solo – provo a dire, ma la sua mano che stringe la mia blocca ogni mia ulteriore proposta.
- Non disturbi mai – mi rassicura.
Gli regalo un piccolo sorriso. Di certo non è bello come i suoi, ma è il meglio che posso fare. – Pensavo che fossi dalla tua famiglia…
- Sono stato con loro fino a poco fa, ma ho preferito andare via prima che si facesse troppo tardi. A loro ho detto che ero stanco, ma in realtà voglio lavorare un po' al quadro che sto finendo…
- Allora vado, vedi che-
- Tu non vai da nessuna parte, mi servi! – esclama divertito. – Ti avrei comunque chiesto di passare domani, ho bisogno del tuo aiuto per quello che sto dipingendo.
Un aiuto, io? – Che genere di aiuto?
- Un consulto. Vieni, ti faccio vedere – Peeta mi prende per mano e mi fa alzare dal tavolo. Abbandoniamo le nostre tazze semi vuote per andare nel suo studio.

 

 

 

 

 

 

 

________________________

In origine, questa avrebbe dovuto essere la prima parte di un capitolo ricco, ricchissimo anzi!, che ho però preferito tagliare a metà. In parte per la sua lunghezza, ed in parte perché è ricco, appunto. Ma ricco di cosa? Sono così perfida che ho deciso di non rivelarvelo prima della prossima settimana!
Sono riuscita a rispettare la promessa che vi avevo fatto qualche giorno fa e a regalarvi un doppio aggiornamento, questa settimana :) il prossimo non sarà di lunedì, e a dire la verità non ho ancora deciso quando lo farò… questo perché voglio tenervi sulle spine *ridacchia*
Grazie a tutti, soprattutto a chi è arrivato in fondo alla pagina! Ci sentiamo presto!

D.

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Capitolo 6
*** 6. ***


In The Still Of The Night - 6

In the still of the night

 

 

 

 

 

 

 

6.

 

Le tele terminate sono ammucchiate un po' dappertutto e, dall’ultima volta che sono stata qui, sono decisamente aumentate. Un forte odore di pittura riempie l’aria, ma non è sgradevole. Il mio sguardo percorre, curiosa, le numerose tele fino a che una, posta sulla parete opposta a quella in cui sta armeggiando Peeta, attira la mia attenzione.
In mezzo a tramonti dalle mille sfumature di arancione ci sono io. Peeta mi ha ritratta sdraiata sulla schiena, in quella che riconosco essere la grotta dei nostri Hunger Games. Ho gli occhi chiusi e un taglio sulla fronte. Sotto di me, una pozza di sangue.
Sembro morta.
- …sto cercando di venirne a capo. Il problema è che non mi hai spiegato con precisione il tipo di fiori che hai trovato nell’arena e vorrei saperlo, perché vorrei che l’immagine sia il più possibile simile alla realtà…
Vorrei chiedergli il motivo che l’ha portato a ritrarmi riversa nel mio stesso sangue, ma la domanda mi muore in gola. Quando mi volto verso la sua voce, anche il respiro va a fargli compagnia.
Peeta ha tra le braccia una grossa tela rettangolare dipinta solo in parte, tanto che i bordi sono ancora bianchi, spruzzati da sporadiche macchie verdi. Ma è il soggetto del quadro che catalizza l’intera attenzione di chi lo osserva, compresa la mia. Gli occhi bruciano per le lacrime che cercano di uscire. È impossibile non riconoscere Rue, ritratta nella stessa identica posizione in cui l’ho sistemata dopo che era morta.
- Peeta – la parola mi esce come un sibilo, talmente è bassa la mia voce. Le mie dita toccano, tremolanti, le palpebre di Rue. – Come…
- Sto cercando di ritrarla coperta di fiori, ma a quanto pare non esistono nastri o immagini che possano darmi un’idea – mi spiega. – Per questo ho bisogno del tuo aiuto.
Capisco cosa sta cercando di fare Peeta: sta cercando di affrontare l’inaffrontabile. Sta cercando di esorcizzare l’esperienza degli Hunger Games tramite la pittura, così come io cerco di farlo andando a zonzo nei boschi durante il giorno.
- Cosa vuoi sapere?
Le ore successive le trascorriamo seduti sul pavimento, entrambi concentrati sulla tela che, grazie al tocco di Peeta, acquista sempre più colore. Devo descrivergli più e più volte il colore dei fiori ed il modo in cui li ho sistemati per adornare Rue prima che il suo corpo venisse recuperato dall’Hovercraft.
Ho scoperto che neanche un secondo di questo momento è stato mandato in onda, né in città, né tantomeno nei Distretti. Ne avevo già avuto il sentore durante il programma che mostrava il riepilogo dei Giochi, ed Haymitch mi ha poi confermato che, durante la diretta, hanno staccato l’attenzione da me appena prima che posassi il primo fiore.
Rivedere Rue, nei miei ricordi e sulla tela, fa male, ma allo stesso tempo fa bene; è come se il dolore scivolasse via dal cuore per andare a posarsi sulle sfumature di giallo, bianco e viola che Peeta usa per ricreare i petali dei fiori. Usa la punta fine di un pennello per una sfumatura delicatissima di lilla, le sopracciglia bionde arcuate per la concentrazione.
- Aiuta? – chiedo ad un tratto. La mia è una domanda criptica e me ne rendo conto: cosa aiuta? A cosa mi sto rivolgendo? Dovrei aggiungere dell’altro, ed invece prendo un pennello intinto nel verde e comincio a farlo roteare all’interno della pittura.
Peeta smette di dipingere e solleva lo sguardo sul mio, poi prende dell’altro colore col pennello, mescolando bianco e viola insieme. – A volte penso di sì, ma quando vado a dormire capisco che non è vero. Loro sono sempre lì – disegna qualche altro fiore prima di riprendere a parlare. – Forse non vogliono essere dimenticati.
Io invece vorrei dimenticare. Vorrei poter avere di nuovo la mente libera da tutto l’orrore che abbiamo vissuto. Sarebbe molto più bello svegliarsi la mattina e avere come unica preoccupazione quella di capire cosa mettere a tavola per pranzo. Non dovrei svegliarmi e pensare a quale ragazzino del 12 toccherà la mia stessa sorte. Non dovrei pensare al mio primo tributo da mentore.

Sai che puoi dirmi tutto, vero? Le parole di Gale fanno capolino nella mia mente. Come stamattina, ho di nuovo la testa piena di paure che non riesco ad affrontare. È crudele: sono situazioni che anche una persona adulta riuscirebbe a stento a sopportare, figuriamoci se ci riescono due ragazzini di sedici anni che hanno paura di dormire la notte!
Perché è questo che siamo, alla fine di tutto: due sedicenni, due adolescenti. Non serve a nulla chiamarci Vincitori, come se questo bastasse a mostrarci più forti di quello che sembra in realtà. Non lo siamo davvero.
Come posso anche solo sperare che qualcuno come Gale possa voler ascoltare le mie paure? Non lo sopporterebbe.
- Non voglio affrontare il futuro – mormoro. Futuro: solamente il suono di questa parola mi fa accapponare la pelle. – Il futuro non ha niente di buono per noi.
- È perché hai una pessima visione delle prospettive, Katniss. Vedi nero ovunque, anche davanti a un arcobaleno.
- Tu invece vedi tutto rosa! – esclamo, punta sul vivo.
- Non è male vedere tutto rosa. Certo, all’inizio ti lascia sempre l’impressione di avere Effie accanto, ma poi ci si fa l’abitudine. Spezza la tensione.
- Ugh, Effie! – trattengo una risata e nascondo la faccia tra le mani. Effie è la regina del rosa, ma almeno è una visione divertente.
In un secondo Peeta è al mio fianco e mi circonda le spalle con un braccio, mentre percorre con le dita la mia fronte. – Ascolta, so che hai una marea di pensieri qui dentro – picchietta le dita sulla mia tempia mentre parla – ma ti prometto che posso aiutarti a farli andare via, se me lo permetti.
Abbasso le mie mani e alzo gli occhi, incontrando il suo viso. È dannatamente serio. – Mi aiuterai a vedere tutto rosa?
- Rosa, grigio, bianco. Tutti i colori che vuoi – promette a bassa voce. Mi bacia la punta del naso.
La pendola che suona la mezzanotte – il nuovo anno è arrivato – ci coglie stretti in questo strano abbraccio.

 

Stelle.
Stelle che cadono dal cielo.
Stelle che colpiscono il terreno con la forza di un’esplosione.
Due ragazzini corrono nel disperato tentativo di salvarsi dalla catastrofe che li avvolge. Una di quelle stelle si schianta a un metro da loro. L’onda d’urto li fa volare via. Cadono a terra, e non si rialzano più.
Una di loro è Prim.
Dalle mie labbra non esce alcun suono, le urla sono intrappolate in fondo alla gola. Corro verso di lei ma qualcosa mi blocca, mi impedisce di avanzare. Picchio i pugni contro lo spesso vetro che mi separa da mia sorella.

Il vetro di uno schermo televisivo.
- Katniss! KATNISS! Apri gli occhi! Katniss!
Delle mani mi scuotono, cercano di portarmi via da Prim. Apro gli occhi e mi ritrovo in una stanza semi buia, che non riconosco. Ma riconosco gli occhi della persona che mi sta osservando e che sembra spaventata a morte.
- Peeta – dico con voce strozzata – Peeta, è Prim! Dobbiamo aiutare Prim, è nell’arena! – urlo.
- No, Kat, no. Prim sta bene – mi dice con voce calma. Posa la mano sulla mia guancia, sembra un pezzetto di ghiaccio in confronto al calore che emana la mia pelle. – Prim è qui, nel Distretto. Era solo un brutto sogno.

Un brutto sogno. Prim sta bene. È stato solo un incubo. Ripeto le parole all’infinito e cerco di imprimerle nel cervello. Il mio cuore batte all’impazzata contro la cassa toracica ed ho il fiato corto, come se avessi corso per chilometri. È solo un incubo, penso ancora.
- Sembrava così reale – mormoro, quasi in un sospiro. Ho paura che Peeta non mi abbia sentito.
- Alcune volte ce lo lasciano credere, ma noi siamo più forti di loro – mi rassicura lui, concentrato sul mio viso. Il suo pollice asciuga una lacrima che è appena sfuggita al mio controllo. Si sdraia al mio fianco senza abbandonare il mio sguardo.
Lentamente riprendo il controllo del mio cuore e del mio respiro, riprendo il contatto con la realtà. Mi trovo nella stanza di Peeta, sdraiata nel suo letto. Mi ha proposto di fermarmi a dormire qui mentre aspettavo che mia madre e mia sorella tornassero a casa. Non so se siano già rincasate, ma non ho la voglia né la forza di alzarmi per scoprirlo.
La sola presenza di Peeta mi rende più tranquilla e il suo tocco, la sua mano che percorre con linee leggere il profilo del mio viso, calma i miei nervi scossi. Mi beo del suo viso, che la luce della luna e delle stelle rende visibile in una strana sfumatura di blu.
- Ti ho svegliato. Mi dispiace… - mormoro, ripensando al brusco risveglio che gli ho regalato poco fa.
- Non dormivo, in realtà. Il tuo profumo non mi fa dormire – confessa, sollevando un angolo delle labbra a formare uno strano sorriso.
Inarco le sopracciglia. – Che ha il mio profumo?
- È forte. Non sto dicendo che puzzi, ma è un odore davvero strano.
Annuso il mio braccio e sento subito l’odore a cui si riferisce. - È l’olio che Effie mi ha mandato da Capitol City. Neanch’io so cos’è di preciso.
- Così utilizzi diavolerie di cui non sai nulla?
- Mi annoiavo e l’ho aggiunto all’acqua del bagno. Per provare – mi giustifico, anche se non ce n’è bisogno.
Prendo un piccolo appunto mentale: non usare più la roba che Effie mi consiglia.
Peeta ride, a quanto pare divertito dalla mia reazione. È davvero bello quando ride, il suo viso si illumina completamente. Anche stando al buio si capisce che è davvero felice.
- A me invece piace il tuo profumo – ammetto.
Adesso ho attirato totalmente la sua attenzione. – Qual è il mio profumo?
- Cibo – detto così sembra che io sia in realtà attratta dal sapore della sua carne, così mi affretto a spiegarmi meglio. – Odori sempre di qualcosa che ha a che fare col cibo. Di solito odori di spezie, di pane. Di cannella – aggiungo, ricordando il sapore dei suoi baci.
- Mi piace usare la cannella, è vero – attorciglia sul dito una ciocca dei miei capelli.
- Anche a me – mormoro mentre osservo il groviglio di dita e capelli che ha creato.
- Piace tanto anche a me.
Entrambi sdraiati uno di fronte all’altro, non diciamo più nulla per un bel pezzo. Tra i nostri corpi ci sono le nostre mani intrecciate. Le mani di Peeta mi infondono sicurezza e calore. I suoi occhi, invece, sono carichi dei sentimenti che prova per me e che evita di dire ad alta voce.
Ogni giorno che passa sono sempre più consapevole di questo. È evidente, chiaro come il sole, che è tutto cambiato. Che il ragazzo che all’inizio di questa avventura consideravo un semplice amico, un alleato, adesso è diventato qualcos’altro. Per settimane mi sono chiesta se non fosse sbagliato nei suoi confronti recitare la parte della brava fidanzatina conoscendo la reale portata dei suoi sentimenti, sapendo che io non provavo la stessa cosa. Non sarebbe tutto più semplice se ti amassi?, la domanda che ronzava costantemente nella mia testa.
Ora lo so. Non solo è più semplice, più normale. È diventato anche necessario. Necessario come l’aria che respiro. Anche se non so se il mio amore è intenso come quello di Peeta, anche se non so se lo amo come lui ama me.
C’è davvero bisogno di calcolare l’esatta entità di un amore?
Non basta semplicemente saperlo? Sentirlo? Provare amore…
Azzero la pochissima distanza che divide i nostri corpi e strofino il naso contro il suo. Lo osservo, cerco di capire quello che fa, poi mi lascio andare. Chiudo gli occhi e intrappolo le sue labbra tra le mie. Saggio la loro consistenza, il loro calore. Catturo un suo sospiro. Nel giro di pochi attimi il nostro bacio assume tutt’altra forma.
Peeta mi avvolge con le braccia e mi stringe a sé, io ho le mani strette attorno ai suoi capelli. Abbiamo entrambi bisogno di respirare ma non ci fermiamo, rubiamo ognuno il respiro dell’altro.
Ci sono stati altri baci come questo: baci che ci hanno fatto desiderare, baci che hanno scaldato i nostri corpi, baci infiniti che hanno risvegliato i nostri istinti più famelici. Non siamo mai andati oltre i baci, vuoi per la situazione, vuoi per il momento non proprio perfetto. Ci siamo sempre fermati prima di varcare quella precisa soglia che avrebbe fatto cambiare irrimediabilmente le cose tra di noi. Più di adesso.
Non ho paura della soglia.
Le mie mani scendono sul suo petto, sul suo addome, fino ad arrivare all’orlo della maglia che indossa. La sollevo e tocco la sua pelle bollente. Peeta sobbalza e interrompe il bacio per un momento, ma io mi impossesso di nuovo della sua bocca.
- Katniss – ansima, fermando il mio assalto. – No… dobbiamo fermarci…
- No, invece – mormoro, prendendo il suo viso tra le mani. – Non dobbiamo. Non voglio fermarmi – poso leggeri baci sul suo viso: la fronte, le guance, gli zigomi. Il mento, leggermente ispido per via della barba. Di nuovo le labbra.
Stavolta, quando provo a sollevare di nuovo la sua maglia, mi lascia fare. Si allontana da me giusto il tempo di aiutarmi a sfilarla dalla testa. Percorro con gli occhi la sua pelle, le spalle forti e robuste a cui mi aggrappo sempre, la leggera peluria sul petto. Poso una mano all’altezza del suo cuore. – Batte fortissimo.
Lui fa la stessa identica cosa sul mio. – Anche il tuo.
Ci guardiamo negli occhi. Se possibile, i suoi sono diventati più scuri. Capisco che ogni barriera è caduta.
Con uno scatto mi fa voltare sulla schiena e mi intrappola col suo corpo contro il materasso, ma il suo peso non grava in nessun modo sul mio. Peeta torna a far incontrare le nostre labbra in un bacio, bacio che accolgo come se fosse la mia unica ragione di sopravvivenza. Le sue mani slacciano i bottoni del mio pigiama ed io lo aiuto, bramosa di sentire finalmente la mia pelle a contatto con la sua.
Lentamente riusciamo a liberarci di quel che ancora abbiamo addosso e restiamo nudi, l’aria fredda della notte che si infrange sulla nostra pelle surriscaldata. Anche le lenzuola sono un lontano ricordo. Non provo nessun tipo di vergogna a farmi vedere nuda da Peeta, anzi, tutt’altro: mi sembra la cosa più naturale di questo mondo. Adoro il modo in cui scopre punti del mio corpo che credevo di non conoscere. Adoro i brividi che riesco a provocargli con il solo tocco delle labbra.
Adoro il modo in cui tutto, di questo momento, suggerisce che siamo stati creati per completarci a vicenda.
Un unico, strano suono mi esce dalle labbra nell’esatto istante in cui diventiamo una cosa sola. Sento un po' di bruciore ma dura solo un momento, poi va via. Tutto quello che provo va al di là di ogni mia aspettativa. Ogni spinta, ogni bacio, ogni brivido.
Non siamo Vincitori adesso.
Siamo solo due ragazzi che si amano.

 

Il cuore di Peeta è tornato ad avere un ritmo normale, lo sento battere contro la guancia. Osservo il suo petto sollevarsi e abbassarsi nel regolare respiro del sonno. Vorrei raccogliere con le dita la gocciolina di sudore che si è formata proprio al centro del suo petto, ma ho paura di svegliarlo.
Non c’è nessuna traccia delle ferite che ha riportato nell’arena: come le mie, sono state totalmente eliminate dai dottori dopo la nostra vittoria. Hanno cancellato anche le tracce più vecchie, anche le cicatrici più insignificanti. Le bruciature che Peeta si era beccato in anni di lavoro alla panetteria, i vari tagli e graffi che avevo sviluppato dopo anni di caccia nei boschi.
Tutto svanito.
Ma alcune di queste sono già tornate. Sembra quasi una piccola vittoria nei confronti della tecnologia medica a cui siamo stati sottoposti.
La notte comincia ad essere meno buia mentre cede il posto all’avanzare del nuovo giorno. Tra non molto il sole sorgerà. Dovrei andare a casa a controllare se la mia famiglia è rincasata, ravvivare il fuoco nel camino e, perché no, fingere di essere rimasta a casa per tutto questo tempo.
Inutile dirlo: non riesco a farlo. Come abbandonare il ragazzo che dorme al mio fianco? Come posso anche solo pensare di lasciare il rifugio sicuro rappresentato dal suo letto? Letto che è diventato testimone muto della nostra unione?
Mi mordo le labbra e sento le guance andare in fiamme. Inspiegabilmente, adesso provo imbarazzo nel ricordare quello che abbiamo vissuto io e Peeta. Non sono pentita, non potrei mai esserlo; eppure, pensare a noi due in una simile circostanza…
Copro gli occhi con la mano, vergognandomi davanti alle immagini che la mia mente sta rievocando.
- Questo profumo è veramente insopportabile! – dice Peeta, muovendosi tra le lenzuola.
Adesso che è sveglio posso raccogliere quella gocciolina che poco fa mi aveva letteralmente ipnotizzata. – Non sembrava che ti dispiacesse poco fa – mugugno, fingendomi offesa.
- Ero concentrato su altro, piuttosto che prestare attenzione al tuo profumo! – sogghigna.
- Peeta! – seppellisco la faccia sul suo petto, coprendomi anche con le braccia per mascherare l’ennesima ondata di imbarazzo.
- Che ho detto di male? Dai, vieni qui…
- Ti schiaccerò - protesto, capendo le sue intenzioni. Mi ignora bellamente e lo sento borbottare qualcosa di simile alla parola “scoiattolo”. Mi fa sdraiare di pancia sul suo corpo, circondandomi con le braccia; non smetto di arrossire, complice anche la nudità dei nostri corpi. Eppure, nonostante la vergogna – perché mi vergogno così tanto? – mi sento bene tra le sue braccia.
- Ehy, perché questa faccia? Ripensamenti dell’ultimo minuto? – mi chiede Peeta, sfiorando le mie guance accaldate.
Sbuffo, posando il mento sul suo sterno. – Dovresti averli tu, i ripensamenti. Io ti sono praticamente saltata addosso…
- Sai che puoi saltarmi addosso tutte le volte che vuoi – l’espressione maliziosa che ha preso forma sul suo viso dà enfasi e conferma a ciò che mi sta dicendo.
- Peeta!
- Non ci credo! – esclama in preda ad un attacco di riso, stringendomi forte. – Ti scandalizzi per così poco? Eppure, prima eri così-
- Così come?
- Vediamo… - Peeta prende tempo, soppesando quello che vuole dire. Penso che abbia deciso di non dirmi più nulla quando solleva il viso per baciarmi il naso, ma poi inizia. – Eri bella – un bacio tra le sopracciglia – Decisa – un bacio sugli occhi – Coinvolta – un bacio sullo zigomo – Radiosa – un bacio all’angolo delle labbra.
Trattengo una risata: non sono tutte queste cose. – Stai mentendo – prendo il suo mento tra le mani e gli do un bacio.
- Focosa – aggiunge.
- Sei solo uno sbruffone! – strillo, ma mi zittisce con un altro bacio.
E tutto comincia di nuovo.
L’alba è passata da un pezzo quando lascio un bacio leggero sulle sue labbra addormentate. Vorrei trascorrere tutto il resto della mattina e della giornata qui, insieme a lui, ma devo lasciarlo andare per almeno qualche ora. Lo osservo un’ultima volta dalla soglia della camera prima di avviarmi verso le scale. Recuperato il cappotto, esco di casa.
La luce che viene dalla cucina mi dice che la mia casa è di nuovo abitata. Con le mani nelle tasche del cappotto, penso ad una scusa che possa giustificare la mia assenza.

Ho fatto una passeggiata. Ho fatto un piccolo sopralluogo nei boschi. La solita roba, insomma.
Devo solo trovare il modo per spiegare alla mamma il perché io ci sia andata in pigiama.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

_____________________________

Eccoci di nuovo! Vi ho fatto attendere troppo? Se la risposta è sì… allora ho realizzato il mio scopo *gongola*
Battute a parte… grazie per essere arrivati fino a qui.
Questa parte è davvero importante per me, ma anche per ciò che accadrà da ora in avanti. Esplorare la nascita e l’evolversi dell’amore tra Peeta e Katniss: nella mia testa è sempre stato così, più o meno. Qualcosa di necessario e da cui non si può scappare, in un certo senso: perché già dalle pagine della serie originale si intuisce che i due erano predestinati a questo. Solo che la Collins ha voluto farci sudare sette camicie prima di farceli vedere insieme! Ma passiamoci sopra, per ora…
Naturalmente sono all’inizio, sono ancora “acerbi” come coppia – “acerba” è anche il modo in cui Katniss definisce la loro relazione, e questo è uno spoiler per il futuro ;) – e, badate, nessuno dei due parla ancora di amore. Ci sono quasi, ma è ancora presto per loro… secondo voi quando avverrà? Io lo so già! *muahhaahahh*
Spero di essere riuscita a far trasparire ciò che era nelle mie intenzioni sin da quando questa storia ha preso il via.
Grazie ancora per tutto!

D.

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Capitolo 7
*** 7. ***


In The Still Of The Night - 7

In the still of the night

 

 

 

 

 

 

 

7.

 

Devo avvertire Peeta ed Haymitch. Devo avvertire Peeta ed Haymitch.
Con la scusa di aver dimenticato di svegliare Haymitch prima dell’arrivo delle telecamere, lascio mia madre alle prese con l’acqua per il mio bagno e sgattaiolo fuori di casa. Cerco di mantenere un’andatura normale, ma alla fine comincio a correre. Sono pochi metri, ci arriverei lo stesso in fretta anche senza correre, ma sono terrorizzata, e devo assolutamente parlare agli altri.
Il presidente Snow è appena stato a casa mia. Non è per nulla contento di me e di quello che ho inconsapevolmente scatenato con il mio gesto delle bacche velenose nell’arena. Ha parlato di rivolte e agitazioni negli altri Distretti, teme il possibile inizio di una guerra. E tutto questo a causa mia.
Io non ho mai voluto causare una rivolta: ho soltanto agito d’istinto, nel disperato tentativo di salvare la mia vita e quella di Peeta. Non ho mai voluto che qualcuno mi prendesse ad esempio per i suoi scopi.
Spalanco la porta d’ingresso, mi precipito nella cucina di Haymitch e li trovo ancora lì dove li ho lasciati meno di un quarto d’ora fa: Peeta che mescola qualcosa in un tegame, Haymitch che beve da una delle bottiglie di liquore che gli ho portato dal Forno.
- Bentornata, dolcezza. Sei venuta a chiedermi scusa? – Haymitch si riferisce al bagno gelato che gli ho riservato per svegliarlo. No, non sono venuta per questo.
Magari fosse così.
- Il presidente… Snow era a casa mia – dico, ansimando.
- Che diavolo vai blaterando? – Haymitch non sembra troppo convinto; Peeta, invece, lascia perdere quello che sta facendo e mi viene incontro. – Che stai dicendo?
Riprendo fiato e, dopo essermi lasciata cadere su una sedia libera, racconto loro tutto. Delle rivolte, di me che nei Distretti sono stata presa come simbolo della ribellione; della mia storia con Peeta, che a Capitol City va ancora a gonfie vele ma che nel resto di Panem non ha mai convinto del tutto nessuno. Delle minacce e della punizione che il presidente ha intenzione di rivolgere alla mia famiglia, se non riesco a convincere l’intera popolazione che le mie azioni sono state guidate solamente dall’amore, e non dalla semplice attrazione per la ribellione, come tutti invece pensano.
Haymitch ha posato la bottiglia. Questo la dice lunga sul mare di merda in cui mi trovo. In cui tutti ci troviamo a causa mia.
- Non mi sorprende, te l’avevo detto che non era felice di quel che avevi combinato – commenta Haymitch.
- Alla fine dei giochi, Haymitch! Lui ha parlato di sommosse che stanno accadendo adesso, in questo preciso momento! – esclamo. – I giochi adesso non c’entrano un accidente!
- Oh, sì che c’entrano invece! Non lo hai ancora capito, ragazza? Siamo sempre all’interno di un gioco! Non finiranno mai davvero.
- Ha minacciato la mia famiglia! – sbraito, battendo i pugni sul tavolo. – Ha minacciato Gale. Sa del nostro bacio.
- Bacio? Quale bacio? – dalla sua reazione, capisco di aver detto troppo. – Ti sembra il caso di andare a baciare altri ragazzi? Devo essere proprio io quello che deve ricordarti che hai già un fidanzato?
- No Haymitch, quella del bacio è una storia vecchia – Peeta, che è sempre stato in piedi dietro di me, prende le mie difese. - È accaduto mesi fa.
- E tu ne eri al corrente?
- Me lo ha detto lei – sento le sue mani posarsi sulle mie spalle e stringerle lievemente. Non so se lo fa per rassicurarmi o perché è semplicemente geloso al ricordo di quel bacio. Gli afferro una mano.
Haymitch sbuffa e si alza, prendendo la bottiglia di liquore bianco dal tavolo. Ne beve un lungo sorso.
- Devi aiutarmi, Haymitch. Devi dirmi se c’è qualcosa che possiamo fare per calmare le acque – mormoro, seguendo la sua figura che ha cominciato a camminare nervosamente per la stanza.
- Sai già quello che devi fare, dolcezza. Sei una ragazza innamorata, fai la ragazza innamorata. Comportati come se fossi la donna più felice della nazione. Dimostra al presidente e al resto del mondo che il tuo amore per il ragazzo è vero e sincero! – si interrompe per prendere un altro sorso di liquore, ma prima di farlo aggiunge – Per fortuna avete fatto pratica in questi mesi.
Arrossisco alla sua allusione, ma scuoto la testa. – Non voglio fare niente per le telecamere. La mia vita privata deve rimanere un fatto privato.
- Quante volte devo dirtelo? Non esiste più una vita privata! Devi imparare ad accettarlo – dice. - Ma se non vuoi farlo, accomodati pure. Comportati come tuo solito. Aspetteremo che Snow ci uccida tutti per la tua ostinazione.
Tutti?

Tutti.
Non sono più da sola, ormai. Le mie azioni non metteranno a repentaglio solo la mia famiglia, ma anche quelle di chi mi circonda. Peeta e i suoi familiari, quelli di Gale, Haymitch stesso…
- Katniss – Peeta si sposta lentamente fino ad inginocchiarsi davanti a me, per poter essere alla mia stessa altezza. Mi stringe le mani e mi guarda negli occhi. – So che hai paura, ma Haymitch ha ragione. Dobbiamo solo fare quello che abbiamo fatto fino ad ora. Nulla di più, nulla di meno. Ci siamo già passati, no? – mi sorride. – Insieme sarà tutto più facile, te lo prometto.
Annuisco, abbassando gli occhi sulle nostre mani intrecciate. Non posso più fare a meno di queste mani. Ci poso un bacio e me le porto al viso. Voglio credere con tutta me stessa alla sua promessa, ma il mio cervello si rifiuta di farlo. Le minacce di Snow vi si sono impresse come un marchio incandescente e non riesco a cancellarle via. Rifiutano di andarsene.
- Ecco, questo è un buon inizio. Se ci aggiungete anche uno di quei baci strappa mutande che ho visto l’altro giorno siamo a cavallo!
Non trovo il coraggio di ribattere.

 

Resta calma. Resta calma. Sei sopravvissuta alla frivolezza di Effie e all’assalto del tuo staff di preparatori. Sei sopravvissuta alla ceretta. Puoi affrontare le telecamere. Sei pronta e controllata. Resta calma.
Sono in piedi davanti allo specchio ed osservo il mio riflesso. Mentre faccio mente locale – Resta calma – seguo con scarsa attenzione gli ultimi ritocchi che Cinna sta applicando al mio look prima della diretta televisiva. Il mio stilista è, forse, l’unica persona della capitale con cui riesco a parlare senza diventare un fascio di nervi. Mi è piaciuto subito, sin dal nostro primo incontro alla sfilata dei tributi dell’anno scorso. Certo, non è stata la più felice delle circostanze: rendermi carina per il pubblico e farmi piacere da loro prima di essere spedita al macello in un’arena! Ma Cinna capiva cosa provassi, mi ha capita da subito e mi ha fatta sentire a mio agio. Con lui posso essere me stessa – ostinata e scorbutica – senza il peso e la paura di poterlo costantemente offendere.
Con lui posso parlare di tutto, ma non delle minacce di Snow. Non stavolta. Non voglio coinvolgerlo così tanto. Per adesso è meglio che la cosa rimanga circoscritta a tre persone, e basta.
Tre persone sono anche troppe.
- Nervosa? – la sua voce pacata raggiunge le mie orecchie. Guardo in basso, dove lui sta armeggiando con l’orlo dei pantaloni per renderli un tutt’uno con gli stivaletti di pelle.
- Cerco di restare calma – ammetto.
I suoi occhi, contornati dalla semplice e onnipresente linea di eyeliner dorato, mi guardano tramite il riflesso dello specchio. – Andrà tutto bene. Sii te stessa e vedrai che in un lampo sarà tutto finito. Ricordi l’intervista?
Annuisco, senza aggiungere una parola.
Come dimenticarla? L’intervista che ha preceduto l’inizio dei giochi. Quella in cui tutta Panem è venuta a conoscenza dei sentimenti che Peeta, che all’epoca consideravo ancora semplicemente come “il ragazzo del pane”, provava da anni nei miei confronti. Provo ancora colpa e rimorso per il modo in cui ho reagito una volta tornati ai nostri alloggi, soprattutto se ripenso alle ferite delle sue mani. Alla vigilia degli Hunger Games.
Peeta avrebbe potuto lasciarmi perdere in qualsiasi momento ed invece è ancora qui, al mio fianco. Se fossi stata al suo posto, avrei gettato la spugna già da tempo. Cosa ci trova in me? Haymitch non fa che ricordarmi costantemente che non piaccio a nessuno… piaccio solo a Peeta.
La vita è strana, alle volte.
- Ecco, sei perfetta. Andiamo a mostrare il tuo talento! – dopo essersi rimesso in piedi, Cinna spazza via con le mani la polvere – quale polvere? – dalle maniche della camicetta che indosso.
Sghignazzo. – Adoro il mio talento! Vero che sono molto promettente?
- Essere spregevole – mi riprende allegramente. Insieme usciamo dalla mia camera.
Alla fine, dopo aver cercato di venirne a capo in tutti i modi, Cinna mi ha contattata per telefono ed ha proposto come possibile talento per me il disegno di moda. Io e la moda siamo agli antipodi: se non avessi lui come stilista fisso, che mi ricopre di tessuti meravigliosi ed ha riempito i miei armadi di abiti spettacolari, andrei perennemente in giro in giacca di pelle e scarponi da caccia. Visto che è qualcosa di estremamente lontano da me, ho accettato il salvagente che mi ha fornito. Inutile dire che il grosso del lavoro lo ha fatto Cinna: il massimo del mio talento nel disegnare è un omino fatto di stecchi con un triangolo per vestito.
I bozzetti di Cinna sono stupendi, ma non troppo: in qualche modo deve pur trapelare il mio tocco da negata/alle prime armi. I cameramen sono elettrizzati da me che spiego – o provo a spiegare – quello che avevo per la testa mentre creavo quel bozzetto in particolare, per un’occasione in particolare. Tutti pendono dalle mie labbra, anche se alle mie orecchie sembrano solo cavolate.
In un angolo della stanza c’è Effie, che in occasione del Tour della Vittoria sfoggia una nuova parrucca color zucca; mi mordo le labbra nel tentativo di rimanere seria e concentrata, non devo ridere della parrucca della mia accompagnatrice. Però, è difficile cercare di non pensare che il colore preferito di Peeta è in bella mostra sulla sua testa.
Mi chiedo come stiano procedendo le riprese a casa sua: starà mostrando i suoi dipinti al pubblico a casa? Anche quelli riguardanti gli Hunger Games? Immagino le facce scioccate degli spettatori mentre notano i soggetti dei dipinti del mio compagno; dovrebbero essere abituati alla violenza, dato il programma di punta che attendono con ansia ogni anno. Immagino la faccia del presidente Snow mentre vede il dipinto di Rue circondata dai fiori.
No. Sto correndo troppo. Peeta è più razionale di me e ci pensa sempre due volte prima di agire: sono sicura che sta evitando di mostrare le tele che potrebbero metterci nei guai. Sono sicura che sta già cercando il modo giusto per sistemare la situazione.
Finite le riprese, Cinna mi fa indossare un cappotto di pelliccia, la sciarpa e un paio di paraorecchie. Non ho nemmeno il tempo di protestare per questa sua scelta che Effie, quasi spintonandomi, mi butta fuori di casa. Stiamo passando alla fase due dell’evento prima di dirigerci alla stazione per la partenza.
- Ricorda, Katniss, mento in alto e un bel sorriso! – sussurra Effie in modo stridulo, dandomi una leggera spinta per farmi capire che devo iniziare a muovermi. Scendo le scale quasi barcollando, e vedo Peeta fare la stessa cosa fuori dalla sua abitazione. Ha un sorriso enorme stampato in faccia. Solo per me.
Sulla mia sento nascere lo stesso identico sorriso. Non ho bisogno che Effie mi ricordi di sorridere se c’è Peeta nei paraggi. Nell’ultimo periodo le mie labbra lo fanno in automatico ogni volta che incontro il suo viso. È impossibile, d’altronde, non lasciarsi contagiare dal suo sorriso.
Inizio a correre verso di lui, che mi prende al volo tra le braccia e mi fa volteggiare, e nel giro di un secondo ci ritroviamo immersi nella neve. Sto già cominciando a preoccuparmi per lui, cercando di capire se si sia fatto male o meno, ma non ce n’è bisogno: ride e mi fa l’occhiolino.

L’ha fatto apposta! Proprio come l’altra volta, nel bosco, quando fingeva di non riuscire a rialzarsi e con uno strattone mi ha fatta cadere su di lui. Reggendogli il gioco, mi esibisco in una risata e mi chino sul suo viso: le nostre labbra si trovano subito, felici di ricongiungersi. Almeno una cosa positiva di questa situazione c’è: posso baciare Peeta tutto il tempo che voglio con la scusa dell’idillio amoroso. Che poi, non era quello che voleva il presidente? Non devo, per caso, dimostrargli che sono una ragazza innamorata?
La posizione non è delle migliori, credo di avere un gomito che preme sullo stomaco di Peeta, ma nessuno dei due interrompe il bacio. Se non fosse per una serie di colpi di tosse e un fischio che, ne sono certa, ha emesso Haymitch, continueremmo a baciarci e a rotolarci tra la neve, estraniandoci da tutto quello che ci circonda.
I cameramen annunciano la fine delle riprese mentre io e Peeta ci rimettiamo in piedi e ci togliamo a vicenda la neve dai vestiti. Effie ci raggiunge subito, indignata che i suoi due pupilli si siano comportati davanti a tutta Panem come adolescenti alle prese con i primi pruriti sessuali.
- Lasciali fare, zuccherino, stanno andando alla grande! Il pubblico li adora – la sbeffeggia Haymitch.
- Devi smetterla di dar loro corda, non devi incoraggiarli! Non ho perso tutto questo tempo nell’insegnare loro le buone maniere solo per vederli impegnati in atteggiamenti sconvenienti!
- Quanto la fai lunga, ragazza! Sei stata un’adolescente anche tu, no? Non dirmi che non hai mai fatto le cosacce!
Io e Peeta, in silenzio, osserviamo la nostra accompagnatrice e il nostro mentore battibeccare durante tutto il tragitto che ci porta alla stazione. Loro sì, che sembrano una vecchia coppia di sposi! Parlano di noi due come se non fossimo nella stessa automobile insieme a loro. Sollevata di avere finalmente davanti un po' di pace, abbandono la testa sulla spalla di Peeta. Lo sento posare un bacio sui miei capelli.

 

Sul treno, il resto della serata trascorre normalmente. Dopo esserci lasciati alle spalle il Distretto 12 ed il piccolo corteo di accompagnatori venuto a salutarci, ci riuniamo nella carrozza ristorante e ceniamo tutti quanti insieme: io e Peeta, Effie e Haymitch, Cinna e Portia, la stilista di Peeta. La cena è piacevole, e potrebbe esserlo ancora di più se non fosse troppo simile a quelle che abbiamo trascorso nel nostro alloggio al centro di addestramento, nelle giornate precedenti all’arena. Pensare all’arena fa tornare a galla tutta la preoccupazione per il Tour della Vittoria, insieme a quella più recente che il presidente Snow ha instillato in me. Di conseguenza, non riesco a mangiare quasi nulla dei cibi prelibati di cui è piena la tavola.
Dopo cena, ci spostiamo davanti al televisore ad osservare il riepilogo del programma che annuncia l’inizio del nostro viaggio. I conduttori commentano entusiasticamente le scene di me e Peeta nella neve. Effie sbuffa, sconvolta che qualcuno possa gradire simili scene; Haymitch le fa il verso e mostra il suo pollice rivolto verso l’alto, in segno di approvazione. Si diverte sempre un mondo a punzecchiarla.
Alla fine, veniamo mandati tutti nelle nostre camere a riposare per la notte, visto che quella che ci aspetta l’indomani sarà un’altra “grande, grande, grande giornata”, come tanto adora chiamarle Effie.
Domani il treno si fermerà al Distretto 11, che rappresenta la prima tappa del nostro tour. Agricoltura. Era il Distretto di Rue e Thresh. Sono terrorizzata alla sola idea di ritrovarmi, tra pochissime ore, davanti alle loro famiglie: famiglie che stanno ancora piangendo i figli che hanno così ingiustamente perduto, mentre io sono riuscita ad uscirne viva e sono lì con il solo scopo di ricordarglielo, per mettere del sale su una ferita esposta e sanguinante.
Davanti allo specchio, sciolgo l’acconciatura che la mamma ha fatto per me – la stessa della mia mietitura. Ciocche ondulate mi ricadono davanti al viso. Quando anche l’ultima forcina è tolta, resto seduta davanti alla toeletta senza trovare il coraggio di spostarmi per andare sotto le coperte.
L’ultima volta che ho dormito su un treno, ho avuto il primo incubo. Non lo ricordo più con esattezza: nel corso dei mesi ne ho avuti talmente tanti che ricordarli tutti sarebbe una vera impresa. Prima degli Hunger Games non facevo quasi mai caso a quello che sognavo, e invece adesso mi ritrovo spesso a desiderare di tornare indietro nel tempo, solamente per poter sentire cosa si prova a trascorrere una notte senza sogni.
La stanchezza ha la meglio su tutto; per quanto io cerchi di essere forte, non riesco a vincerla. Mi siedo sul letto, accarezzando il morbido copriletto dorato simile ad una pelliccia. Disegno linee astratte sul tessuto con la punta delle dita.
La porta del mio scompartimento privato si apre di colpo: Peeta entra velocemente ed altrettanto velocemente se la richiude alle spalle.
- Hey! Che succede? – sembra quasi che stia cercando di seminare qualcuno che lo insegue.
- Evito Effie – mi spiega. – Prima è passata in camera a dirmi che non devo cercare di importunarti quando siamo da soli – i miei sospetti erano, in qualche modo, fondati. Ma il fatto che Peeta si trovi nella mia stanza e l’espressione da furbetto che ha stampato sul viso mi suggeriscono che Effie non è riuscita ad ottenere il risultato che sperava.
Faccio una smorfia. – Davvero? Da me è passata solo per darmi la buonanotte…
- Ah sì? Beh, forse pensa che, da brava signorina quale sei, non ti verrebbe mai in mente di importunarmi.
- Oppure, voleva semplicemente controllare che tu non mi avessi già importunata in qualche modo! – ridacchio.
- Questa spiegazione mi sembra più sensata, in effetti. – nel frattempo, Peeta ha azzerato la distanza che ci divideva e si è seduto accanto a me, sul letto. Mi lascia un piccolo bacio sulle labbra. – E poi volevo darti il bacio della buonanotte.
Sorrido, scostando una ciocca di capelli, ancora umida a causa della doccia che deve aver fatto poco fa, dalla sua fronte. – Mi piacciono i baci della buonanotte…
- Allora devo rimediare.
Questo bacio non ha nulla che lo accomuni ad un classico bacio della buonanotte; è quel genere di bacio compromettente e sconveniente che Effie cercherebbe in tutti i modi di cancellare. È, per usare l’espressione coniata da Haymitch, un bacio strappa mutande.
Peeta cade di schiena sul materasso e mi trascina con sé senza nemmeno provare ad interrompere il bacio. Le sue mani vagano sulla mia schiena, le mie invece sono incollate ai suoi capelli e li stringo tra le dita, incurante del fastidio che potrei provocargli. Ma sembra che gli provochi piacere, più che fastidio…
Interrompo il bacio in cerca d’aria, ma lo faccio anche per evitare di spingerci troppo in là; l’ultima cosa che voglio è farmi beccare nel bel mezzo di un rapporto sessuale con Peeta… non solo da Effie, ma da chiunque. I pochi treni che ho preso non mi hanno mai dato l’impressione di fornire il massimo della privacy. Così mi lascio scivolare al suo fianco, con una mano sul suo petto ed il braccio di Peeta che mi circonda le spalle, facendomi da cuscino.
I suoi occhi mi scrutano attentamente. – Sei stata molto silenziosa durante la cena.
- Non è difficile capirne il motivo… - mormoro.
- No, hai ragione. Non lo è – ammette Peeta. Con il pollice cerca di distendere le rughe che si sono formate tra le mie sopracciglia. – E se restassi a dormire qui?
So che il suo è un tentativo per farmi stare tranquilla, ma l’idea è allettante. Non abbiamo più dormito insieme dalla notte di Capodanno ed il suo ricordo mi ha fatto molta compagnia nelle notti seguenti, soprattutto quelle più difficili. E poi, se devo essere sincera, l’unica cosa che mi ha aiutata ad affrontare la prospettiva del Tour della Vittoria era la possibilità che potesse ripetersi. Non per fare chissà che cosa, solo per dormire insieme.
- E se vengono a controllarci? – tra tutte le domande sensate che potevo fargli, ho scelto proprio la più stupida. Brava, Katniss.
- Possiamo chiudere a chiave la porta – propone Peeta.
- Anche la tua?
- Non serve. Ho fatto un fantoccio con le coperte e l’ho messo a letto: se Effie non accende la luce, penserà che stia dormendo… - fa una smorfia quando vede che le sue parole hanno scatenato in me una scarica di risate. – Che c’è?
- Tu sei pazzo! – esclamo tra una risata e l’altra. Copro la bocca con le mani per cercare di smettere, ma è tutto inutile. È peggio di una barzelletta.
- Se ci casca, la pazza è lei! – Peeta si unisce alle mie risate, poi mi bacia e mi rimprovera per via di tutto il baccano che sto facendo. Se ci beccano non sarà a causa del suo fantoccio, ma delle mie risate.
Resta a dormire insieme a me per tutto il resto della notte. Quando la luce del mattino colpisce i nostri visi, svegliandoci, ci rendiamo conto di una cosa.
È stata una notte senza incubi.

 

 

 

 

 

 

 

 

______________________________

Salve a tutti!
Oggi aggiorno di martedì, così dal prossimo capitolo possiamo tornare al consueto appuntamento del lunedì.
L’altra volta ho dimenticato di avvertirvi che la storia, da questo capitolo in avanti, avrebbe cominciato a seguire le vicende di Catching Fire; ma poco male, alla fine. Una piccola nota di precisazione devo inserirla comunque: cercherò di seguire il tutto così com’è accaduto nel libro, ma ho voluto metterci del mio – ovvio! – e mischiare alcune cose che sono state mostrate nel film.
Catching Fire (libro e film) è la mia parte preferita della serie! La vostra, invece?
A lunedì prossimo!

D.

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Capitolo 8
*** 8. ***


In The Still Of The Night - 8

In the still of the night

 

 

 

 

 

 

 8.

 

- Cosa diavolo è successo, là fuori? – sbraita Haymitch.
Siamo all’interno della cupola del Palazzo di Giustizia, nel Distretto 11; Haymitch ci ha trascinati qui subito dopo la fine del nostro intervento.
È stato un disastro.
Consapevoli dei doveri a cui dobbiamo sottostare come vincitori, io e Peeta abbiamo preso parte al corteo di benvenuto che si è tenuto di fronte al Palazzo di Giustizia. Il sindaco dell’11 ci ha accolti e presentati alla folla che, riunitasi di fronte a noi, aveva riempito tutta la piazza. Già sul treno, e poi durante il tragitto dalla stazione alla piazza, ci eravamo resi conto di quanto vasto fosse questo Distretto rispetto al nostro, che al confronto sembrava solo una macchia sulla cartina geografica. Anche la popolazione doveva essere molto più numerosa rispetto a quella che ci osservava da sotto il palco.
I nostri interventi non sono stati molto lunghi e sono stati riuniti in una serie di cartoncini blu che Effie, scrupolosamente, aveva preparato per noi. Per una volta il suo perfezionismo maniacale ci era davvero di grande aiuto: a casa ho cercato di preparare qualcosa da dire per gli abitanti dell’11, che hanno perso Thresh e Rue, ma non sono mai riuscita a tirare fuori nulla di decente. Sebbene mi sforzassi con tutta me stessa, il foglio che avrei dovuto e voluto riempire di parole è sempre rimasto bianco. Sono in enorme debito con loro, mi hanno mandato la pagnottina ricoperta di cereali che era destinata alla bambina, se non fosse stata uccisa prima dalla lancia che il ragazzo dell’1 le ha piantato nella pancia. Inoltre, dopo l’avvertimento da parte del presidente, sono sollevata di avere una sorta di copione già pronto da recitare. È impossibile sbagliare grazie ad Effie e al suo perfezionismo maniacale.
Sul palco, il mio sguardo è stato subito attratto dai piccoli palchi che ospitavano le famiglie dei tributi morti. Per Thresh, alla mia sinistra, c’erano una donna anziana e una giovane ragazza; a destra, invece, i genitori di Rue e, tutti stretti attorno alle loro gambe, cinque bambini piccoli. I suoi fratellini. Un qualcosa che stringe il mio cuore come in una morsa mi fa provare dolore. Gli occhi bruciavano per le lacrime che ho cercato disperatamente di non versare.
Quella che doveva essere la mia parte di discorso è stata completata da Peeta, perché io non sono stata in grado di dire nulla. Mi sono limitata a stringere forte la sua mano e a guardare la famiglia della ragazzina che è stata mia alleata, anche se solo per pochi giorni. Avrei voluto conoscerla meglio. Avrei voluto salvarla dalla morte.
La cerimonia si stava avviando alla conclusione e il sindaco ci stava invitando a seguirlo all’interno del Palazzo di Giustizia quando ho deciso di prendere la parola. Non sono le parole di Effie, ma le parole che escono dal mio cuore, quelle che ho rivolto alla nonna e alla sorella di Thresh, che ha risparmiato la mia vita durante il festino alla cornucopia quando avrebbe potuto benissimo finirmi con quel sasso insieme a Clove. Sono le parole che escono dal mio cuore quelle che ho rivolto ai genitori di Rue e ai loro bambini, che le somigliano così tanto: dico loro che le volevo bene, che era straordinaria, che la sua perdita è la più insopportabile da affrontare. Che la rivedo sempre nei fiori gialli vicino casa e nel canto della ghiandaia imitatrice, come mi aveva mostrato nell’arena.
Ed è allora che succede.
Un motivetto, lo stesso che Rue mi ha insegnato durante i giochi, ha preso vita tra il pubblico; l’ho individuato nella figura di un uomo anziano, che ha portato le tre dita centrali della mano sinistra alle labbra prima di sollevarle in alto. È lo stesso gesto che ho fatto a Rue quando è morta, il gesto che da noi, a casa, significa rispetto e affetto per la persona che ci ha lasciato. È l’ultimo saluto che riserviamo ai nostri cari.
Dopo il vecchio, tutti gli spettatori hanno compiuto lo stesso gesto. Non è un gesto fatto per caso, si vede che è stato orchestrato per essere eseguito in un preciso momento. È un gesto che mi ha pietrificata, letteralmente, sul palco, mentre la mia mente rievocava le parole del presidente.
Che cosa ho fatto?
È accaduto tutto velocemente: i Pacificatori hanno scortato me e Peeta verso il Palazzo di Giustizia mentre altri si sono diretti, minacciosi, verso la folla. Due di questi hanno preso in custodia l’uomo anziano e l’hanno scortato di peso sul palco che noi avevamo appena lasciato libero.
A nulla sono serviti i miei tentativi di liberarmi, le mie urla, le me suppliche. A nulla sono servite le parole e le braccia di Peeta che cercavano di rassicurarmi. A nulla è servita la sua figura, posizionata di fronte alla mia, che cercava di coprirmi la visuale. Non sono servite a nulla contro il colpo di pistola che ha fatto cessare la vita di quell’uomo innocente.
Che cosa ho fatto?
Sono seduta su un vecchio divano scassato e impolverato, con le mani premute sul viso per cercare di arginare le lacrime che escono dai miei occhi. I singhiozzi mi squassano il petto. Un basso lamento riempie l’aria ed impiego diverso tempo a capire che sono io ad emetterlo. Una mano, quella di Peeta, accarezza la mia schiena con movimenti circolari nel tentativo di farmi calmare.
Peeta prova a spiegare ad Haymitch quello che è accaduto poco fa. – Non è per quello che ha detto alle loro famiglie. Anzi, Effie ci aveva consigliato di aggiungere qualche buona parola per loro se volevamo…
- È… stato il gesto – sospiro, riuscendo a riprendermi abbastanza da parlare. Mostro ad Haymitch le tre dita sollevate. - È il gesto che ho rivolto a Rue prima che l’hovercraft la portasse via. Un vecchio… lo ha fatto prima, e tutti gli altri… lo hanno imitato…
E adesso quel vecchio è morto. I suoi ultimi istanti di vita tornano ad affacciarsi prepotentemente davanti ai miei occhi.
- Cazzo! – l’urlo di Haymitch mi fa sobbalzare. – Non dovevi evitare di scatenare sommosse, ragazzina? E guarda un po': una sommossa è proprio quello che ci ritroviamo adesso in mezzo ai piedi!
- Non volevo che accadesse! – urlo, alzandomi in piedi. Le lacrime continuano a rigarmi le guance. – Non volevo nulla di tutto questo! Come potevo… - mi blocco, colta da un’altra crisi di pianto. Mi circondo la vita con le braccia, tentando allo stesso tempo di placare il pianto e la sensazione di freddo che mi ha avvolta da quando è partito quel colpo di pistola.
Haymitch mi abbraccia, posando il mento sulla mia testa. – Hai ragione, dolcezza. Non potevi prevederlo – ammette.
Seppellisco il viso nella sua camicia e continuo a piangere, fregandomene del fatto che potrei lasciare tracce di muco e trucco sciolto sulla sua camicia immacolata. Al piano di sotto c’è un’intera stanza piena di abiti che è stata adibita a nostro camerino temporaneo. Troverà sicuramente qualcosa di pulito con cui sostituirla.
- Cosa possiamo fare? – mormora Peeta alle mie spalle.
Haymitch gli risponde da sopra la mia testa. – Per recuperare questo macello? Non potete fare più nulla, per questo. Per i prossimi incontri, invece, attenetevi al programma: siate gentili, comportatevi da bravi ragazzi innamorati, non dite nulla che possa scatenare altri episodi come quello di oggi… e seguite passo passo i cartoncini che vi da Effie. Cristo santo, ragazza! Guarda cosa hai fatto alla mia camicia!
Non me ne importa un accidente della sua maledetta camicia.

 

Seguite i cartoncini di Effie. Comportatevi da innamorati. Non dite nulla che possa agitare la folla.
Ci trasformiamo in una coppia di automi, io e Peeta. Iniziamo a seguire scrupolosamente tutte le indicazioni che ci danno senza fiatare, a partire dalla cena che ha seguito lo scempio avvenuto sulla piazza dell’11. Non so come il mio staff di preparatori sia riuscito a recuperare il mio viso, visto lo stato in cui si trovava quando sono riuscita a riacquistare un minimo di autocontrollo.
Ben presto la nostra vita acquista una routine fatta di viaggi in treno, riunioni in piazza, eventi e cene con i sindaci dei Distretti che ci ospitano, dove sembrano essere presenti anche tutte le persone che contano qualcosa. Cinna e Portia hanno creato per me e Peeta un guardaroba fornitissimo e, la maggior parte delle volte, abbinato, così abbiamo quasi sempre un dettaglio che richiama l’abito dell’altro: la camicia di Peeta abbinata al colore delle foglie che decorano il corpetto del mio abito, i gemelli dorati che fanno coppia con la mia spilla portafortuna.
Gli eventi che si svolgono al chiuso sono sempre i più tranquilli, mentre il vero problema sono sempre quelli che si svolgono davanti alla popolazione. Ci spostiamo di Distretto in Distretto, di folla in folla, tutte le volte con lo stesso terrore che ti pietrifica sul posto e che non ti fa respirare in maniera normale. In queste occasioni sono sempre incollata al braccio di Peeta, ho paura di lasciarlo andare anche solo per un istante. Stare così vicini contribuisce alla nostra recita, che recita non lo è più da un bel pezzo ormai: sembriamo complici e saldi, proprio come una vera coppia dovrebbe essere. E anche se non sempre riusciamo a farlo, ci scambiamo qualche bacio per rafforzare la nostra immagine di coppia innamorata.
Gli abitanti dei Distretti ci accolgono sempre con calore, ma c’è sempre qualcosa che trapela sotto le loro urla: rabbia. Rabbia che è stata repressa per anni, per generazioni, e che adesso lotta per manifestarsi con tutte le sue forze.

Quando il pubblico scandisce il mio nome, sembra più un grido di vendetta che un’acclamazione. Quando i Pacificatori intervengono per calmare le folle turbolente, quelle premono contro di loro anziché arretrare. E so che non c’è nulla che io possa fare per cambiare le cose. Nessuna dimostrazione d’amore, per quanto credibile, potrà invertire il corso degli eventi.
10, 9, 8, 7… i numeri dei Distretti che ci lasciamo alle spalle somigliano terribilmente ad un conto alla rovescia, un conto alla rovescia che ci avvicina inesorabilmente alla tappa finale. Quando mancano ormai una manciata di giorni al nostro arrivo a Capitol City, ho profonde occhiaie scure che i miei preparatori devono coprire costantemente col correttore e gli splendidi abiti di Cinna, che mi sono sempre stati a pennello, devono essere stretti in vita.
La notte prima del nostro arrivo al Distretto 2, quello di Cato e Clove, vado nella camera di Peeta prima che lui possa venire da me. Fino a questo momento è sempre stato il contrario, è sempre stato lui a spostarsi non appena la minaccia di Effie, che aveva assunto con testardaggine anche il ruolo di nostra guardiana, spariva dal corridoio che divide i nostri scompartimenti. Qualcuno, però, sembra averci visto lo stesso, perché alcune voci su di me e Peeta che dormiamo insieme hanno cominciato a circolare sul treno. Alla fine, scopro che non me ne importa più di tanto.
Se queste voci giungono fino alle orecchie del presidente, è tanto di guadagnato.
Dormire separati, durante queste notti, è praticamente impossibile. Lo stress e l’ansia non mi aiutano a prendere sonno, e quando ci riesco guadagno solo un paio d’ore di riposo disturbato prima di ritrovarmi di nuovo sveglia, in un bagno di sudore. Bere camomilla e intrugli vari non è più di nessun aiuto, neanche per Peeta, che fino ad ora sembrava sopportare incubi e stress molto meglio di come riesco a fare io.
Quando mi risveglio da un brutto sogno lui è già lì, sveglio e pronto a tranquillizzarmi; mi stringe a sé, mi bacia la testa, mi sussurra parole dolci, di conforto, finché non mi calmo e provo a dormire di nuovo. Mi lamento ogni volta perché lo sveglio sempre con le mie urla, ma da lui ricevo tutte le volte la solita risposta.
- Ero già sveglio – dice sempre. Penso che lui, a differenza mia, riesca ad uscire dal buio senza urlare ogni volta come un pazzo. Non si agita mai. È per questo che non riesco mai a capire quand’è che ha un incubo.
Tra me e lui non è che dormiamo poi molto. Alcune volte penso di essere una persona schifosamente egoista, costringendolo a dormire con me anche se so che così gli toglierei ore di sonno preziose. Ma la paura e la debolezza vincono sulle buone intenzioni, anche le più piccole, e lascio che entri ogni notte nel mio letto.
Stanotte, però, sono io ad entrare nel suo.
Sistemo le coperte attorno al mio corpo mentre Peeta, che non ha fatto caso a me che entravo, sistema su una sedia gli abiti che ha indossato durante la cena. I capelli dorati sono più scuri a causa dell’acqua della doccia. Fa parte del suo rituale prima di andare a dormire: doccia, denti, tisana. Sulla scrivania ci sono una teiera fumante e due tazze ad accompagnare il resto del servizio. È questo che intendo quando dico che le voci su di noi hanno cominciato a circolare: gli inservienti portano sempre due cose di tutto, perché ormai hanno imparato che dovunque si trova Peeta c’è anche Katniss, e viceversa. Anche nella mia camera ci sono delle tazze e una tisana pronta da bere, ma rimarrà sulla toeletta a raffreddarsi per tutta la notte. Stasera resterò nella stanza di Peeta.
Il ragazzo in questione mi raggiunge nel letto portando le tazze bollenti colme di tisana. Lo ringrazio, bevendone un piccolo sorso: valeriana e menta. È deliziosa, ma abbiamo già scoperto che questo tipo di miscela non ci aiuterà ad affrontare la notte. La sorbiamo comunque, seduti l’uno accanto all’altra, fino a quando le tazze non sono vuote.
- Preoccupata per domani? – mormora Peeta.
Mi conosce troppo bene: ovvio che sono preoccupata per domani. E anche per il giorno successivo. I primi due Distretti rappresentano quasi sempre le ultime tappe del Tour, in parte perché sono i più vicini alla capitale, ma anche perché la maggior parte dei vincitori dei giochi proviene da lì, proprio dai Distretti favoriti. E stavolta i vincitori non saranno i soliti Favoriti, ma le ultime ruote del carro. Quelli che di solito muoiono durante il bagno di sangue alla cornucopia.
Meno male che sono voltata di spalle, con la scusa di posare la tazza sul comodino. Mi si leggerebbe tutto in faccia. – Un pochino – mento.
- Sei pessima a dire le bugie – mi riprende, anche se nella sua voce c’è una nota di divertimento. Si diverte a prendermi in giro, e a me piace quando lo fa: la maggior parte delle volte accade quando tenta di allentare la tensione, e anche se di poco, riesce nel suo intento.
La Katniss musona di un tempo gli avrebbe già chiuso la bocca con uno scappellotto.
- Non dico le bugie – mi giustifico, facendolo ridacchiare. Mi sporgo su di lui per lasciargli un leggero bacio sullo zigomo, poi gli mostro le spalle e mi sistemo davanti a lui. Le sue dita iniziano ad armeggiare tra i miei capelli.
Durante una di queste notti, quando entrambi eravamo svegli e non riuscivamo più ad addormentarci, Peeta ha cominciato a disfare la treccia in cui lego di solito i capelli. Dice che è un gesto che lo rilassa, infilare le dita nella chioma scura che gli intrugli di Flavius hanno reso morbida e lucente. Da quel momento ho richiesto sempre più spesso che mi vengano raccolti i capelli, perché adoro sentire Peeta che li scioglie a fine serata.
Oggi Flavius ha creato un’acconciatura elaborata piena di trecce e treccine, che fissate insieme sono andate a creare una sorta di corona attorno alla mia testa. Realizzarle ha richiesto molto tempo, molto più di quello che Peeta impiega nel disfarle, una dopo l’altra. Quando ha finito, mi abbraccia da dietro e mi fa stendere sul materasso. Mi da un bacio sulle labbra, mi augura la buonanotte.
Anche se restiamo svegli per quelle che sembrano ore, prima di cadere nel sonno.
Apro gli occhi di scatto, all’improvviso. Resto immobile, cercando di fare mente locale. Mi rendo conto di non ricordare nulla di quel che stavo sognando, neanche un secondo o un’immagine. So di non aver urlato e di non essermi agitata perché Peeta dorme ancora: ha la testa posata contro la mia spalla ed il respiro pesante e regolare di chi dorme della grossa.
Questo è davvero un miglioramento. È la prima volta che mi sveglio senza dover dare la colpa agli incubi; in più, è la prima volta che mi sveglio e trovo Peeta addormentato. La situazione si è ribaltata. Non mi muovo per paura di svegliarlo: per una volta che riposa come si deve, voglio lasciarlo stare tranquillo il più possibile.
A sfatare i miei buoni propositi ci pensa qualsiasi cosa abbia preso vita nella sua testa, che si alza di scatto dal cuscino. È stato un movimento così brusco che mi ha fatta sobbalzare sul materasso. Quindi è questo che fa quando ha gli incubi? Un rapido movimento della testa ed è tutto finito? Ecco perché non capisco mai quando li ha: è silenzioso da far paura. È quasi peggio delle urla.
Peeta volta il viso verso il mio ed è insieme sollevato e sorpreso nel vedermi sveglia. Ha gli occhi che brillano, anche al buio. – Ti ho svegliata? Mi dispiace – mormora.
- Ero già sveglia – lo ripago con le stesse parole che rivolge sempre a me. Mi accoccolo contro il suo corpo e le sue braccia sono pronte nel circondare il mio. È agitato, il suo cuore batte come un forsennato, e trema come se provasse i brividi del freddo. Vorrei chiedergli cosa lo ha spaventato, ma i suoi occhi pieni di lacrime parlano da soli. Qualunque cosa fosse, lo ha terrorizzato da morire. Raccolgo con il dito la goccia salata che è scesa accanto al suo naso.
- Va tutto bene, Peeta. Va tutto bene – mormoro. Mi si stringe il cuore a vederlo in queste condizioni, ed il fatto che non spiccichi una parola rende il tutto ancora più complicato e preoccupante. – Hey…
- Non riesco a togliermela dalla mente… - ha la voce rotta del pianto mentre parla.
- Cosa?
- Te. Il tuo corpo… dentro una bara. Porgo le condoglianze a tua madre mentre tu giaci dentro la bara davanti a me.
Rabbrividisco davanti alla sua confessione.
– Non è reale, Peeta. Nulla di tutto questo è reale. Io sto bene, sono qui insieme a te…
Adesso le sue lacrime scorrono veloci sul viso. – C’è qualcosa di sbagliato in me…
- No! – dico, risoluta. Afferro il suo volto tra le mani e lo costringo a guardarmi. Una lacrima cade dritta sulla sua guancia e capisco di aver cominciato a piangere anche io, senza rendermene conto. – Non sei tu, tesoro, è questo mondo che è sbagliato. Sei così buono, Peeta, sei la persona migliore che conosca. Non c’è nulla che non va in te. Capito? – accarezzo le sue guance per cancellare le tracce delle lacrime.
Annuisce senza troppa convinzione, ma sembra un po' più tranquillo. Si solleva leggermente per poggiare la testa contro la testiera imbottita, chiudendo gli occhi. È come se mi stesse tagliando fuori. Non voglio che mi tagli fuori, non dopo avermi rivelato cos’è che lo perseguita.
Peeta ha ancora gli occhi chiusi quando mi siedo a cavalcioni sulle sue gambe; appena sente il mio peso li apre e, non appena vede cosa sto facendo, cerca di protestare, ma lo blocco. Prendo una delle sue mani e me la porto sul seno, coperto solo dalla leggera camicia da notte. La premo forte e la blocco con le mie, di mani, in modo che possa sentire bene il battito del mio cuore.

- Cosa senti? – domando.

- Lo sai cosa sento. Katniss, che stai-
- Rispondimi! Che cosa senti?
Dopo qualche secondo, arriva la risposta che aspettavo. – Il tuo cuore.
- E cosa può voler dire? – chiedo ancora.
- Che sei viva…

Annuisco, allentando leggermente la presa. – Sono viva. L’arena non mi ha uccisa, Peeta. Sto bene, sono viva…
- Sei viva – mormora, abbracciandomi. Poggia la fronte nell’incavo dei miei seni, sospirando. Gli bacio ed accarezzo i capelli con tutta la forza che ho.
- Peeta – lo chiamo ancora. Lui alza la testa per guardarmi. – Fammi sentire viva…
Non è la mossa più leale che potessi giocare, contando sul fatto che si sente ancora così scosso e fragile per via dell’incubo. Non sembra esserci rispetto nella mia richiesta, eppure… eppure, quando mi bacia, capisco che anche lui prova lo stesso bisogno che provo io.
Il bisogno di sentirci vivi.
Non c’è urgenza nei nostri baci, non c’è la brama che abbiamo provato le altre volte in cui abbiamo fatto l’amore. Le sue mani si muovono lente sul mio corpo, sulla mia schiena, mentre mi sfila la vestaglia. La sua bocca percorre un breve tragitto umido che va dal mio collo al seno, che stringe delicatamente tra le mani prima di tornare a far incontrare le nostre labbra. Il bacio diventa più esigente, gli graffio il petto che nel frattempo ho liberato dalla maglia. Lascia che rimanga seduta su di lui, non mi fa spostare nemmeno per togliere le mie mutandine ed i suoi pantaloni. I nostri movimenti sono impacciati, ma ci riusciamo lo stesso. Non c’è più nulla a dividerci, adesso.
Sospiro contro la sua bocca quando lo accolgo in me, le mani incollate alla sua schiena per paura di perdere il contatto con la realtà che questo momento rende così amplificata. Lascio che siano le sue mani a guidarmi, a dettare il ritmo delle spinte. Lascio che prenda totalmente il controllo sul mio corpo. Voglio che senta che sono totalmente alla sua mercé. Che sono calda, bollente, palpitante, reattiva sotto le sue mani.
Che sono viva.

Resta con me
, penso, dandogli un bacio che non sembra nemmeno un bacio.
- Resta con me – mormoro sulle sue labbra, le dita strette sui ciuffi di capelli alla base della sua nuca.
- Per sempre – è la sua risposta, e la ripete all’infinito, come una litania. – Per sempre.

 

- Mi dispiace per prima – dice Peeta.
Sono così concentrata sulle sue carezze, sulle dita che leggere percorrono la mia schiena, che non afferro subito quel che mi sta dicendo. Apro gli occhi, osservandolo. Abbiamo i visi talmente vicini da riuscire a sentire i nostri respiri colpire la nostra pelle. Le sue scuse non sono affatto necessarie: non deve dispiacersi per nessuna ragione al mondo. Provare emozioni, sentimenti, non è mai sbagliato. Anche l’essere più duro e forte del mondo è capace di provare quelle sensazioni che sono capaci di sgretolarlo come polvere.
- Sei un essere umano, Peeta. Non sei invincibile. È normale… - essere deboli, mi verrebbe da dire. Ma Peeta non è debole, non è fragile. È umano. Proprio come me, come Haymitch, come tutti gli altri.
Provare dolore fa parte dell’essere umano.
- Credo che sia il mio punto debole – continua, senza smettere di muovere le dita sulla mia pelle. – Provare tutto quello che provo per te.
- Sono il tuo punto debole?
Annuisce. – Nei miei incubi di solito ho paura di perdere te. E sto bene quando mi accorgo che ci sei.
Lo osservo in silenzio, sentendo un groppo che si va formando nella mia gola. Lo avevo capito, ormai, che l’incubo intenso di stanotte non doveva essere stato il primo. E di certo non sarà neanche l’ultimo, per lui. Ma sentirlo… ammettere una cosa del genere dimostra che Peeta non è per niente una persona debole. È soltanto una persona buona a cui sono accadute cose cattive1. È una persona piena di coraggio, onesta, leale. È la persona migliore che potesse imbattersi lungo il mio cammino.
Lo bacio, salendo a cavalcioni sul suo corpo. Siamo ancora nudi, nessuno di noi ha provato a rivestirsi dopo aver fatto l’amore. E meno male!, penso, perché questo mi facilita le cose.
- Che fai? – domanda, sorpreso.
- Sfrutto il tuo punto debole – sorrido contro la sua bocca, che non si ritrae e prende subito a giocare con la mia. Peeta morde le mie labbra, le lambisce piano con la punta della lingua. La lascio entrare affinché possa incontrare la mia.
Sento già l’effetto che le nostre coccole mattutine scatenano sul suo corpo…
- Va bene piccioncini, la donna è già sul piede di guerra. Uscite da lì e… ma che diav-
Mi lancio sul materasso e subito vengo ricoperta da una pioggia di lenzuola fruscianti. Sento urla ed esclamazioni, la porta che si chiude, poi torna il silenzio. Scopro di poco il viso per osservare l’aria che tira.
- Se n’è andato? – biascico.
- Sì – risponde Peeta.
- E ci ha visti?
- Tu che dici? – la sua voce è tutta un programma.
Ci guardiamo, allibiti, per diversi secondi, poi iniziamo a ridere. La faccia di Haymitch… avrei proprio voluto vederla.

 

 

 

_________________________________________________________

1 “Tu non sei una persona cattiva. Tu sei una persona buonissima, a cui sono capitate cose cattive. Mi capisci?”: questa è la citazione originale a cui mi sono ispirata. Avete riconosciuto le parole di Sirius Black? È il mio personaggio preferito di HP! Questa frase in particolare è presa dal quinto film della saga.

 

Nuova settimana, nuovo lunedì, nuovo aggiornamento.
Voi non potete capire quanto ho desiderato, leggendo Catching Fire, una svolta per i personaggi degna di questo nome! Un minimo di avvicinamento almeno, e quella tardona pessima ragazza non è stata in grado di accontentarci nemmeno un poco.
Meno male che esistono le fanfiction! *sospira di sollievo*
Il prossimo capitolo sarà importantissimo! Ci vediamo lunedì prossimo per la lettura ;)

D.

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Capitolo 9
*** 9. ***


In The Still Of The Night - 9

In the still of the night

 

 

 

 

 

 

 

 

9.

 

Non so come, ma finalmente il giro dei Distretti finisce. Ci lasciamo alle spalle i cancelli e le recinzioni dei Distretti 1 e 2 ed attendiamo che il treno ci conduca, con la sua solita velocità forsennata, verso la capitale di Panem.
L’ultima tappa è anche la più lunga di tutto il viaggio: resteremo per tre giorni, tre giorni infiniti pieni di incontri ed interviste, che avverranno tutte sotto l’occhio attento delle telecamere. Ne ho abbastanza di telecamere. In onore dei vincitori, come ogni anno d’altronde, è prevista la suntuosa festa organizzata dal presidente Snow nella sua enorme ed elegante residenza presidenziale: ricca di musica, danze e cibo, vi prenderà parte tutta l’élite di Capitol City. È l’evento dell’anno che nessuno vorrebbe perdere e a cui tutti vorrebbero partecipare. Io ne farei volentieri a meno… ma immagino di non essere nella posizione più adatta per poter rifiutare.
Ancora pochi giorni prima di tornare a casa. Ce la posso fare. Ancora pochi giorni prima della festa del raccolto del Distretto 12. Di solito, il nostro è il primo luogo che i vincitori visitano durante il Tour – il fatto di perdere sempre agli Hunger Games e di essere il Distretto più misero e povero di Panem, oltre al fatto che le nostre feste sono sempre le più noiose, ha portato gli organizzatori ad inserirlo come scoglio iniziale. Come si dice sempre: via il dente, via il dolore. Ma quest’anno i vincitori siamo io e Peeta, e questo fa sì che il 12 sia l’ultimo Distretto ad “ospitarci” per il Tour, ed in più la festa quest’anno viene interamente pagata da Capitol City.
Grandi festeggiamenti, stavolta!
Per il momento, lo scoglio da affrontare è la festa nella tenuta del presidente. Immagino che saprò durante l’evento se gli sforzi miei e di Peeta di placare gli animi, ed evitare di conseguenza la possibile insorgenza di una rivolta, siano andati a buon fine. Ma abbiamo ancora tre giorni a disposizione per migliorare, o peggiorare, il risultato.
Dimostrare il nostro amore al pubblico di Capitol non è per nulla difficile: loro ci adorano da pazzi. Affollano le strade e urlano i nostri nomi, saltano sul posto e si sbracciano nel tentativo di attirare la nostra attenzione, lanciano e regalano fiori. Simili scene si ripetono lungo tutto il percorso della parata che, lentamente, ci guida fino al centro di addestramento, dove riprendiamo possesso dei nostri vecchi alloggi, all’ultimo piano.
Dopo cena, suntuosa e sostanziosa come al solito, pensavo che avremmo avuto la serata libera, ma a quanto pare c’è stato un cambio di programma improvviso e sono, quindi, costretta a seguire Cinna in camera mia per delle modifiche che deve fare al mio abito, quello che devo indossare per l’intervista di domani con Caesar; Peeta fa la stessa cosa con Portia nella sua, di camera.
Mi chiedo a cosa sia dovuto questo cambiamento: ad un’attenta occhiata il vestito, di un morbido e brillante velluto rosso, non sembra avere chissà che problemi. Evito di fare domande, anche perché se dietro a tutto questo si nascondesse un problema ben più grave di un vestito che mi va largo, Cinna mi avrebbe già informata.
Quando arriva l’ora di andare a dormire, Peeta mi raggiunge nella mia stanza. Dormiamo e basta, nessuno dei due vuole rischiare di nuovo com’è successo l’altra mattina. Haymitch in qualche modo deve averci coperto, perché Effie non sembrava gran che scocciata dal nostro voler continuare a trascorrere la notte insieme. Ne ho avuto la conferma a colazione, quando ho raggiunto tutti gli altri – Peeta mi aveva anticipato di diversi minuti: lo sguardo silenzioso di Haymitch mi ha seguita per tutto il tempo che ho impiegato nel sedermi a tavola, mentre Effie cominciava ad illustrarci tranquillamente il programma della giornata. Se non fosse stato per il suo sguardo arcigno, che mi aveva fatta sentire molto a disagio, sarebbe potuta sembrare a tutti gli effetti una normale colazione in compagnia, ma così non era. La silenziosa lezione a suon di occhiatacce che il nostro mentore stava rivolgendo non solo a me, ma anche a Peeta, poteva voler dire solo una cosa.

State attenti, disgraziati.
Così adesso lasciamo sempre socchiusa la porta, e non abbiamo più provato a fare, o a scambiarci, nulla di più spinto di un bacio.
La mattina dell’intervista il mio staff di preparatori mi sveglia alle sette: devono di nuovo sottopormi a un sacco di trattamenti inutili, come fanno quasi ogni giorno da quasi due settimane. Stavolta dicono che è per le telecamere: tutto deve essere impeccabile, Katniss deve risplendere dalla testa ai piedi, niente deve andare storto. Vorrei lamentarmi, ma ho troppo sonno anche solo all’idea di provarci. Mi addormento, a causa delle mani di Flavius che massaggia i miei capelli con una crema che odora di mandarino.
Dopo qualche ora, sono finalmente sveglia, pronta e libera di andare, con una cascata di boccoli luminosi a circondare il mio viso leggermente truccato e che ricadono, morbidi, sulla mia schiena scoperta: è stata questa la modifica che Cinna ha dato al vestito. Ha le maniche lunghe fino ai polsi e fascia il mio corpo come una seconda pelle fino ai polpacci, ma ha una scollatura che prosegue fino a metà schiena. Per fortuna che ci sono i riscaldamenti accesi al massimo, qui al centro di addestramento: non sarebbe stato facile stare al freddo con questo vestito, anche perché piccoli fiocchi di neve hanno iniziato a cadere dal cielo.
Effie mi fa i complimenti per le scarpe, che sono dello stesso tessuto e colore del vestito, e mi guida fino al luogo dell’intervista, lo stesso che ci aveva ospitati pochi mesi prima, alla fine dei giochi. Peeta è già arrivato e sembra leggermente nervoso nel suo completo nero; oggi, noto, non siamo abbinati.
Il mio cervello registra questo in una piccola parte; il resto dello spazio, invece, viene catturato dalla stanza, che a parte una poltrona e un divanetto è decorata con centinaia e centinaia di rose bianche, rosa e rosse, che riempiono ed impregnano l’aria con il loro intenso profumo. Non devo chiedere per sapere che queste rose sono state una richiesta esclusiva del presidente, per noi. Per me. Affinché non dimentichi il mio compito.
Come dimenticarlo?
- Eccoli, i miei vincitori preferiti! – Caesar, con i capelli e le sopracciglia ancora tinti di azzurro polvere, ci raggiunge nella stanza entusiasta come al solito. Ci saluta con un sacco di baci e un sacco di strette di mano. – Pronti ad iniziare?
Mentre io e Peeta prendiamo posto sul divanetto e seguiamo le indicazioni dei cameramen, Caesar siede sulla poltrona di fronte a noi e ci illustra il modo in cui procederà l’intervista, che non è poi così dissimile dall’ultima che abbiamo affrontato con lui, inframmezzata tra le altre cose dalle riprese che sono state effettuate durante il nostro Tour negli undici Distretti.
Nel giro di pochi minuti, siamo in onda in tutta Panem.
Tutto sommato, l’intervista procede bene: cerco di mostrarmi solare e di rispondere sinceramente alle domande che Caesar mi pone. Peeta è, come al solito, più bravo di me con le parole e catalizza spesso l’attenzione del presentatore, con cui riesce a scherzare in maniera piacevole. Tiro un sospiro di sollievo ogni volta che termina uno spezzone su noi due nei Distretti. Quando l’argomento si sposta sulla nostra relazione, mi ritrovo a nascondere spesso il viso per l’imbarazzo. In questo, nel mostrarmi imbarazzata, sono molto più brava di Peeta. Mi nascondo dietro la sua schiena quando lo sento descrivere le cose che più gli piacciono di me: il mio sorriso, i miei occhi, le mie battute… ma quando mai? Ovviamente se lo sta inventando! Non sono per niente simpatica, lo sanno tutti…
- Ma allora, diteci di più! – ci incalza Caesar, bramoso di pettegolezzi. – Raccontateci di più! Cosa sperate che vi riservi il futuro?
Non poteva rivolgerci una domanda peggiore di questa. Sorrido, quando invece vorrei soltanto urlare. – Non ho mai pensato con attenzione al futuro, Caesar. Spero in qualcosa di felice – rispondo, alla fine.
- E invece tu, Peeta? Pensi mai al futuro?
- Costantemente. In effetti, c’è qualcosa… – interrompendosi a metà della frase, Peeta mi stringe forte la mano e mi guarda intensamente prima di alzarsi. Senza aggiungere altro, senza preoccuparsi di rivolgere le spalle a Caesar, si inginocchia ai miei piedi e apre una scatolina nera che contiene un fiore luccicante. Sono paralizzata, seduta sul divanetto, e osservo il ragazzo inginocchiato che ho di fronte. Ci metto un po' a capire che il fiore luccicante, in realtà, non è un vero fiore.
Sono diamanti su un anello d’oro.1
Peeta mi sta facendo una proposta di matrimonio.

Perché lo stai facendo?, vorrei chiedergli. Perché proprio adesso?, vorrei aggiungere. Vedo Caesar che, alle spalle di Peeta, si sbraccia verso le telecamere mimando una serie di “Oh mio Dio!” al pubblico a casa.
- Katniss, tesoro, non prendermi per pazzo per quello che sto per dire. So che siamo giovani e che stiamo insieme solo da pochi mesi, ma non ho bisogno di altro tempo per capire che sei la donna che vorrei al mio fianco per il resto dei miei giorni. Non sei solo la mia ragazza, la mia amante… – alla parola “amante” mi viene voglia di ucciderlo seduta stante - …la mia confidente, la mia amica più cara. Sei il raggio di sole che scaccia il buio della notte ed illumina il mio mondo con il suo sorriso. Ed io, davvero, mi sentirei l’uomo più fortunato e privilegiato della terra con quel raggio di sole al mio fianco, ogni giorno della mia vita.
Mi sorride e, posando le dita sulla mia guancia, asciuga quelle lacrime che non mi sono resa conto di aver versato. Osservo i suoi occhi mentre conclude il discorso nel più classico dei modi, usando quelle parole che milioni di persone prima di lui hanno detto e ripetuto. Quelle parole che sono insieme meravigliose e terrificanti, che sono in grado di stravolgere lo scorrere di una vita intera.
- Vuoi sposarmi?
È sbagliato, non posso sposarlo.

No, è questa la risposta giusta da dare. “No” è la parola che rimbomba nella mia testa. “No” è la parola che la mia coscienza vorrebbe che io dica.
Ma è un “Sì” tremolante che le mie labbra pronunciano, mettendo a tacere il buon senso. È un “Sì” quello che Peeta, Caesar e praticamente tutta Panem mi sentono dire.
- – ripeto più e più volte.
Raggiante, Peeta infila l’anello al mio anulare sinistro e mi abbraccia, seppellendo il viso tra i miei capelli. Io nascondo il mio nella sua giacca. Siamo ancora abbracciati quando la voce entusiasta di Caesar ci annuncia come i “futuri sposi del Distretto 12”.

 

In camera, nel buio quasi totale, osservo e traccio con le dita i contorni dell’anello: le pietre preziose formano un elaborato fiore dai petali luminosi, in grado di scintillare anche adesso che non c’è della luce a produrne i riflessi. L’oro che mi circonda l’anulare va a creare un delicato intreccio di quelli che sembrerebbero rampicanti. Non è un anello piccolo, è quasi massiccio, ma è leggero come una nuvola. Il peso che sento proviene dal significato che esso trascina con sé.
Io e Peeta ci siamo appena fidanzati ufficialmente.
Questa svolta non ci voleva. In sala, a pochi metri di distanza, sento un vociare di persone: Cinna, Portia, i nostri preparatori… stanno tutti aspettando il nostro arrivo per festeggiare l’evento. Effie già non vede l’ora di avviare i preparativi per le nozze. Io, invece, vorrei fuggire. Voglio solo fuggire lontano.
Finita l’intervista, siamo risaliti al nostro piano ed ho finto di voler stare da sola prima di cena per elaborare meglio la novità. In realtà non sto elaborando un bel niente, sto solo cercando di capire come siamo arrivati a questo punto. Cerco di ricordare il momento preciso, un possibile indizio che possa aiutarmi a chiarire la situazione, ma invano.

Deve esserci stato qualcosa che ha scatenato in Peeta il desiderio di volermi in moglie!, penso. Deve esserci, eppure non capisco cosa possa essere stato. Ricordo i nostri discorsi sulla famiglia, sul volere o meno bambini, sul matrimonio, ma sono discorsi avvenuti mesi fa. Il nostro rapporto non era neanche così intimo come lo è adesso, eravamo poco più che amici… e poi, ricordo benissimo di avergli spiegato le mie intenzioni riguardo al matrimonio e ai figli. Intenzioni che, nel frattempo, non sono cambiate di una virgola.
Non voglio sposarmi.

Allora perché hai detto di sì?
Non lo so.

Sospiro, tirandomi i capelli. Non ne verrò mai a capo da sola. Ho bisogno di parlargli: solo lui può aiutarmi a comprendere.
Afferro il primo cappotto che mi capita sottomano e lo infilo, uscendo dalla stanza. Busso alla sua porta e Peeta la apre dopo neanche un secondo, come se fosse sempre stato lì dietro e stesse aspettando solo il mio segnale per poterla aprire. Come me, non si è ancora cambiato: ha solo tolto la giaccia.
- Possiamo parlare? – chiedo. Annuisce con un cenno della testa e si sposta per farmi entrare, ma lo fermo subito. – Non qui, non voglio che ci sentano. Andiamo di sopra – non aspetto che prenda il cappotto anche lui, ma mi allontano in fretta e vado dritta alle scale che portano al tetto.
Il tetto del centro di addestramento, dove possiamo godere della migliore visuale possibile per osservare la meravigliosa ed accecante Capitol City dall’alto: a quanto pare, essere del Distretto 12 ti dà questo vantaggio. Fuori, all’aria gelida, raggiungo l’angolo più lontano, accanto ad una ventola che fa un baccano infernale e che, in teoria, dovrebbe riuscire a coprire le nostre parole da orecchie indiscrete.
Ricordo di essere salita qui la sera prima di entrare nell’arena: non riuscivo a dormire ed il letto aveva cominciato ad assomigliare ad una prigione insopportabile, così ho pensato di salire quassù per una boccata d’aria. C’era già Peeta sul tetto, seduto ad osservare le luci e gli abitanti in festa che attendevano l’inizio della carneficina. Mi ha mostrato il campo di forza invisibile che circondava tutto il tetto, come un recinto invisibile.
Allungo la mano oltre il cornicione ed eccolo lì, il campo di forza: respinge la mia mano, simile ad una morbida superficie che fa rimbalzare qualsiasi cosa gli si scagli contro. Continuano ad aver paura di eventuali suicidi?
Il rumore dei passi di Peeta, alle mie spalle, mi avverte del suo arrivo; mi volto, osservandolo mentre si sistema meglio il cappotto addosso e mi si ferma davanti. – Che succede?
Alzo la mano sinistra, quella su cui l’anello fa bella mostra di sé. – Quand’è che hai deciso di volermi sposare? – domando: il mio tono di voce è più duro di quanto volessi, o mi aspettassi.
Sul viso di Peeta appare un sorriso mesto. – Non ti ho convinto? Eppure, pensavo di esserci riuscito…
- Che vuoi dire?
Il mio fidanzato sospira, infila le mani nelle tasche dei pantaloni e comincia a strisciare un piede sulle mattonelle, evitando il mio sguardo. - È stata un’idea di Haymitch, quella di farti la proposta. Per placare gli animi degli insorti. Ha detto che prima o poi sarebbe comunque dovuto accadere, quindi… perché aspettare?

Già: perché aspettare?
Pensavo che scoprire la verità mi avrebbe fatta stare meglio, e invece non è così. È peggio. Rispetto a un minuto fa, sento altra rabbia riempire le mie vene. Sto rivivendo le stesse sensazioni dell’anno scorso, quando ho saputo dell’esistenza dei sentimenti di Peeta nei miei confronti. Mi sento vulnerabile come allora. Mi sento sciocca.
- Voi due… voi due dovete smetterla di nascondermi le cose! – urlo. Sono sul punto di gettarmi su di lui per spingerlo via, ma mi fermo in tempo: non voglio fargli del male. Se è stata davvero un’idea di Haymitch, Peeta non ha nessuna vera colpa: è solo una vittima degli eventi, esattamente come me. – Perché non mi avete detto niente?
- Perché la tua reazione doveva sembrare vera. Avresti rovinato tutto, sapendo che faceva parte di un piano – mi spiega Peeta. Stavolta, però, mi sta guardando. – Mi dispiace, Katniss.
Sospiro. - Lo so, Peeta.
- No, non lo sai – dice, accorato. - So che non vuoi sentir parlare neanche per scherzo di matrimonio ed ho provato a spiegarlo anche ad Haymitch, ma non ha voluto saperne. Per lui, volersi o non volersi sposare sono solo scuse dietro cui nascondersi, da usare per non affrontare l’inevitabile. Io non sono come lui: non ti avrei mai spinto a fare qualcosa contro la tua volontà.
Annuisco, amareggiata. La rabbia è andata via: ora dentro di me c’è solo frustrazione. Tanta, tanta frustrazione. Incurante del freddo e della poca neve che si è depositata a terra, mi siedo sulle mattonelle gelate e incrocio le braccia contro il petto. Inizio ad avere i primi sentori di quello che accadrà nei prossimi giorni, nelle prossime settimane, nei prossimi mesi. Per quanto tempo andranno avanti i preparativi per le nozze? E quando si terranno, prima di tutto? In estate? In inverno?
Avremo mai un po' di pace?
Peeta si siede di fronte a me e, presa la mia mano sinistra, inizia ad accarezzare l’anello con il pollice. Adesso che siamo fidanzati ufficialmente, immagino che nessuno possa più richiamarci per quello che facciamo: siamo prossimi alle nozze… e poi, arriva il senso di colpa. Accade sempre, ogni volta che i miei pensieri vagano su quello che devo o non devo fare, su quello che posso o non posso fare. Ogni volta che penso a me stessa, solo a me stessa, e metto da parte Peeta.
Non gli ho chiesto se è felice per tutto questo.
- Mi vuoi davvero sposare? – bisbiglio.
- Immagino di sì, ma avrei preferito diversamente. Volevo che fosse vero – dice. – Un giorno, forse, io e te saremo andati insieme al Palazzo di Giustizia e, una volta tornati a casa, avremo tostato il pane insieme. Magari, con il tempo, sarei persino riuscito a convincerti che il matrimonio non è così brutto come pensi – conclude.
Riesco quasi ad immaginare la scena che mi ha appena descritto nella mia mente… e sembra bellissima. Sembra normale. La normale vita di due persone innamorate che scelgono di condividere insieme il futuro. Due persone che non vogliono aspettare per trascorrere insieme il resto delle loro vite.
Mi getto su di lui, stringendolo forte. I nostri abbracci sono diventati automatici, le nostre braccia sanno subito dove posarsi, dove premere. Conoscono ogni minima parte del corpo dell’altro. – Mi dispiace – mormoro.
- Almeno l’anello l’hanno lasciato scegliere a me! – commenta con una risatina.
Sorrido, baciando la pelle delicata dietro il suo orecchio. - È bellissimo, Peeta.

 

È stato tutto inutile. I baci, gli abbracci, il nostro legame, nato da una semplice amicizia, che col tempo si è rafforzato e trasformato in un sentimento puro, sincero, reale. Persino la proposta di matrimonio in diretta nazionale non è servita a dare man forte ai nostri sforzi.
Non ci siamo riusciti.
Durante la festa nella tenuta presidenziale, il nostro arrivo non è di certo passato inosservato: come non riconoscere tra la folla i vincitori dei settantaquattresimi Hunger Games?
Katniss Everdeen, la Ragazza di Fuoco, fasciata in un abito nero di Cinna, la cui firma è visibile su ogni centimetro di stoffa ricamata: le cuciture argentate, le trasparenze, le spalline che ricordano le piume di un uccello. Peeta Mellark, il Ragazzo Innamorato, affascinante nel completo nero e argento che fa pendant con l’abito della sua compagna.
Per gli ospiti della serata noi non siamo altro che questo. I nostri abiti vengono sfiorati, la nostra attenzione è costantemente richiamata dalle migliaia di voci che riempiono la sala padronale. Centinaia di congratulazioni raggiungono le nostre orecchie. Persino Plutarch Heavensbee, il nuovo Capo degli Strateghi, viene a presentarsi e a farci le sue felicitazioni più sincere. Tutti vogliono parlare con noi, tutti vogliono toccarci, tutti vogliono disturbarci: siamo dei fenomeni da baraccone in questa festa che sembra un enorme circo mediatico. Dei burattini, delle marionette.
Non riusciamo a stare da soli neanche per un secondo, per quanto ci proviamo. Le chiacchiere inutili e la musica a tutto volume mi danno alla testa. Riusciamo a stare tranquilli per un po' solo mentre mangiamo, ma c’è talmente tanto cibo, e noi abbiamo solo uno stomaco ciascuno. Penso a tutto il cibo che a fine serata andrà a finire nei rifiuti. Penso a tutto il cibo che ogni giorno viene sprecato, mentre nei Distretti più poveri ogni giorno la gente muore di fame. Chiedo a Peeta di ballare, orripilata, quando Octavia mi porge un cocktail trasparente che mi farà vomitare e che mi consentirà di continuare a rimpinzarmi.
Mi lascio condurre da Peeta durante le danze: non sono molto brava, e non lo è neanche lui. Abbiamo avuto così poco tempo per imparare i tanti balli che in questo periodo vanno di moda in città. Effie ci ha dato una mano, ovviamente, ma il risultato non è dei migliori. Durante un lento, in cui non facciamo altro che dondolare sul posto, poso il mento contro la sua spalla e la fronte contro il suo mento. Sento le sue labbra, delicate e dolci, che mi sfiorano la pelle. Ho gli occhi aperti e riesco a vedere i visi ammaliati di chi ci circonda, mi sembra quasi di riuscire a percepire i sospiri sognanti che escono dalle loro labbra. Se li chiudo, invece, riesco ad escludere tutto quanto. Riesco quasi a dimenticare il luogo in cui mi trovo. Sento il calore del mio compagno, sento le forti braccia che mi sorreggono. Sento il suo profumo.
Sento Peeta, sento il mio fidanzato, e tutto quanto svanisce.
Ma l’idillio dura pochissimo.
Intorno a mezzanotte, poco prima del nostro ritorno al treno, il presidente irrompe, elegantissimo ed impeccabile, nella sala tra gli applausi dei presenti. Ci viene incontro, si congratula con noi per il nostro fidanzamento, ci augura una lunga e felice vita insieme. Propone un brindisi in nostro onore.
Mentre sono tutti concentrati a bere, succede. I nostri occhi si incrociano, si scrutano. I miei gli porgono la domanda silenziosa che temo da settimane. I suoi rispondono con l’esito che speravo di non ricevere. Snow scuote in modo quasi impercettibile la testa, in segno di diniego.
Capisco che è finita.

Non ci siamo riusciti.
Sul treno, in viaggio verso casa, è notte fonda. Non dormo io, non dorme Peeta. Siamo nel salottino adiacente alla carrozza ristorante, ancora bardati con gli abiti della festa. Guardiamo il buio che scorre veloce oltre i finestrini.
- Cosa succede adesso? – è la domanda di Peeta.
- Non lo so – è la mia risposta.

 

 

 

 

 

 

_____________________________

1You say you want/diamonds on a ring of gold… l’avete riconosciuta? È l’inizio della splendida All I want is you degli U2. Lo so, in italiano non è la stessa cosa. Perdonami, Bono, per averla dovuta tradurre.

 

Buon lunedì!
La scorsa settimana vi avevo promesso un capitolo importante, ed eccolo qui: l’annuncio del fidanzamento. È una mia libera interpretazione, naturalmente: nel libro Katniss ce la spiega in maniera molto sbrigativa e ci fa capire che è stata una sua idea, che Peeta accetta a malincuore. Anche qui non è felice dell’idea, ma perché sa che non è ciò che vorrebbe Katniss e decide comunque di procedere, spinto da Haymitch, con la speranza di pararsi il culo mettere a tacere i sollevamenti nei Distretti. Cosa che non funziona, come sappiamo ormai bene.
Avrete sicuramente notato le note *ahem! l’originalità* che vi sto lasciando ogni tanto prima dei saluti e delle spiegazioni di rito: mentre scrivo mi distraggo, ascolto musica, penso ad altro… faccio un macello, insomma. E nel macello trovo anche alcune cosine che mi ispirano e che inserisco nel discorso. Ce ne saranno altre, ve lo assicuro, quindi preparatevi! Siete stati avvisati ;)
Oggi ho la diarrea verbale. Me ne vado prima di far danni!
Vi saluto, vi ringrazio per aver sopportato la mia diarrea fino a qui e vi do appuntamento a lunedì prossimo col nuovo capitolo!

D
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Capitolo 10
*** 10. ***


In The Still Of The Night - 10

In the still of the night

 

 

 

 

 

 

10.

 

Verrebbe da pensare che due giovani fidanzati, due giovani innamorati in procinto di sposarsi, siano felici di prendere parte a tutto quello che concerne l’organizzazione di un matrimonio, soprattutto se si tratta del proprio matrimonio. Verrebbe da pensare che due giovani innamorati, due giovani futuri sposi, non vedano l’ora di scegliere i dettagli più frivoli ed insignificanti che possano rendere il loro grande giorno davvero indimenticabile. La mente di una giovane, futura sposa dovrebbe essere totalmente concentrata sull’abito che desidera indossare per le sue nozze. Abito lungo o corto? Con o senza velo? Gonna ampia o stretta? Pizzo o raso?
Quella che ho appena descritto, però, non è il genere di situazione che vogliamo vivere io e Peeta. Nessuno di noi due vuole un matrimonio in grande stile a Capitol City, come ci ha proposto il presidente Snow. Nessuno di noi due vuole sposarsi perché obbligato dalle circostanze. Nessuno di noi due è abbastanza grande da sposarsi. Siamo decisamente troppo giovani per sposarci, punto. Peeta ha compiuto diciassette anni il 16 gennaio1, io li compirò l’8 maggio.
Come possono permettere a due diciassettenni di sposarsi?
Abbiamo protestato una volta giunti a casa: abbiamo entrambi provato a spiegare ad Haymitch che il nostro matrimonio non avrebbe risolto un bel niente, ormai, visto il modo in cui si sono conclusi i nostri tentativi di controllare le proteste nei Distretti.
- Ormai è fatta, non potete rimangiarvi la parola. Sposatevi e basta: prima è, meglio è – è stata la sua saggia risposta.

Prima è, meglio è. Alla fine dell’anno al massimo, io e Peeta saremo già sposati. Forse addirittura entro la fine dell’estate… ma escludo fortemente questa ipotesi. L’estate è da sempre riservata agli Hunger Games e non credo che, di punto in bianco, decidano di farli passare in secondo piano solo perché ci sono due ragazzini che si devono sposare. Non possono, semplicemente perché non possono farci dimenticare la ricorrenza che questi giochi si trascinano dietro, e che ricade proprio quest’anno.
È la settantacinquesima edizione. È l’Edizione della Memoria, la terza.
Ogni quarto di secolo, Capitol City organizza un’edizione speciale per ricordare e commemorare i Giorni Bui, le rivolte dei Distretti e la vittoria che il governo ha avuto su di essi. Ogni venticinque anni, gli Hunger Games si tingono di nuovi orrori, come se le edizioni classiche che si organizzano ogni anno siano una passeggiata al confronto.
Di nuovo, la paura si impadronisce del mio corpo; sono più che mai consapevole del fatto che non ho mai smesso di provare paura da quasi un anno a questa parte, da quando il nome di Prim è uscito alla mietitura ed io mi sono offerta volontaria per salvarla da morte certa.
Ho avuto paura per lei, ho avuto paura per gli Hunger Games. Ho avuto paura di non sopravvivere. Ho temuto il ritorno a casa, la nuova vita nel Distretto, il logorarsi della mia amicizia con Gale e l’evolversi della mia relazione con Peeta. Ho temuto il Tour della Vittoria, ho temuto le minacce del presidente… è una lista infinita, ed ogni giorno ci sono sempre nuove paure da annotare. Adesso, temo l’avvicinarsi dell’Edizione della Memoria. Temo il mio debutto come mentore. Temo il mio matrimonio.
Temo, ancora una volta, di non poter sopravvivere.
Scappare: questa è stata una delle prime scappatoie a venirmi in mente. Fuggire nei boschi, darsi alla macchia, cercare di sopravvivere al di fuori della recinzione. Questo è stato anche il consiglio che Gale mi diede la mattina della mietitura, ma all’epoca la esclusi completamente. Portare mia madre e Prim nei boschi? La madre di Gale, Hazelle, ed i suoi tre figli più piccoli? Come avremmo fatto a restare vivi? All’epoca non sapevo che di lì a poche ore la mia vita sarebbe cambiata per sempre… non sapevo che avrei firmato con le mie stesse mani la mia condanna a morte.
Adesso, però, sembra l’unica cosa plausibile da fare. Io e Gale sappiamo cacciare, Peeta se la cava e può solo che migliorare. Convincere gli altri sarà difficile: la mia famiglia, quella di Gale, Haymitch. La famiglia di Peeta… sta diventando un gruppo molto numeroso e, di certo, non passerebbe inosservato, contando che tre di essi sono vincitori degli Hunger Games.
A nessuno sfuggirebbe mai un gruppo di vincitori in fuga.
- Dovremo scappare – ho detto una volta a Peeta. Stavamo andando verso la piazza per una passeggiata, noi due da soli e basta. Dopo interi giorni trascorsi tra la gente, il silenzio quasi totale del Distretto era tutto sommato piacevole.
Alle mie parole si è fermato di colpo, e visto che ci stavamo tenendo per mano, ha fatto fermare anche me. – Perché dici così?
- Lo sai il motivo – ho risposto; non mi sono azzardata a dire altro, anche se ci trovavamo per strada. Dal ritorno a casa, ho cominciato a temere che le mie parole, ma anche quelle degli altri, venissero controllate. Non mi sono più sentita al sicuro, nemmeno dentro il rifugio sicuro di casa mia.
- Per andare dove? Nel bosco? – ha aggiunto Peeta; e poi, alla mia muta risposta: - Sai che non è più una buona idea andare nei boschi.
Sì, lo sapevo bene. Ma i boschi rappresentavano ancora il luogo incontaminato in cui poter trascorrere qualche ora senza pensieri, senza avere costantemente la mente ottenebrata dalla paura e dall’ombra della Morte che sembrava non volerci più abbandonare, ostinata com’era.

 

La prima domenica dopo la festa del raccolto, finalmente, incontro Gale proprio nel bosco. Lui ha già ucciso un tacchino quando mi imbatto nella sua persona. Mi ha sicuramente sentita arrivare, ma mi ignora. Conosco fin troppo bene il motivo per cui lo fa: è a causa del mio fidanzamento. Non se lo aspettava lui come non me lo aspettavo io. Almeno, ed è una magra consolazione a pensarci, stamattina non ho con me l’anello: ho paura di perderlo, quindi ogni volta che vengo qui, o faccio qualcosa che prevede l’uso delle mani, lo tolgo e lo lascio sulla mia toeletta in camera, al sicuro.
Gale continua ad ignorarmi mentre comincia a spostarsi nel folto della vegetazione, ma io lo seguo lo stesso. Comincio a fargli un resoconto del Tour partendo dalla visita che ho ricevuto a casa da parte del presidente Snow: gli racconto delle minacce, dei rivoltosi, degli episodi a cui ho assistito personalmente. I suoi passi ad un tratto si arrestano, il suo corpo si volta nella mia direzione, mi sta ad ascoltare. Gli spiego che il fidanzamento faceva parte di un piano per fermare il tutto, ma che non è servito allo scopo. E che, purtroppo, non si può annullare. Tutto quello che accadrà da qui in avanti sarà percorribile solamente su una strada senza ritorno.
La sua voce rompe il silenzio che si è creato dopo essere arrivata alla fine del mio racconto. - Sta succedendo, alla fine – mormora. Sembra speranzoso, e questo non mi piace.
- Dobbiamo andarcene prima che possa succedere l’irreparabile – gli dico. – Dobbiamo fuggire come mi hai detto mesi fa, ricordi? Nei boschi, prima che ci uccidano tutti quanti.
- Ucciderci? Katniss, non ti uccideranno mai. Hanno un matrimonio da organizzarti… non ucciderebbero mai la loro sposa preferita – la sua voce è carica di risentimento, si sta facendo beffe di me.
Gli di un pugno sulla spalla. – Dico sul serio, ce ne dobbiamo andare! A causa mia, il presidente si vendicherà su tutte le persone che amo. Se mi fossi limitata a uccidermi con quelle bacche, non sarebbe successo niente del genere. Peeta avrebbe potuto tornare a casa e vivere la sua vita, e…
- E invece stai per sposarlo. Non mi sembra che ci perda molto.
Trattengo un urlo per la frustrazione. Batto i piedi sul suolo gelato. – Perché non vuoi capire? Dobbiamo andare via da qui! Gale, se scoppia una rivoluzione moriremo tutti quanti!
- Ma è proprio per questo che dobbiamo restare! Non capisci, Catnip? Tu non hai fatto nulla di sbagliato, anzi. Hai dato a questa gente un’occasione, una speranza. E adesso stanno sfruttando questa speranza per provare ad uscire dall’oppressione! Se ne è già parlato, nelle miniere. C’è chi vuole combattere.
- Non sai quello che dici.
- Perché, tu invece sì?
- Io so solo che ce ne dobbiamo andare! – urlo, di nuovo. – Prima che muoia un sacco di gente! Prima che le nostre famiglie…
- E le altre famiglie, Katniss? Quelle che non possono scappare? Non capisci?
- No, sei tu quello che non vuole capire! – sto quasi per mettermi a piangere per la rabbia, ormai. Appoggio le spalle contro un albero, esausta. Inizio a sentire freddo e mi stringo le braccia contro il petto nel tentativo di provare un minimo di calore, ma invano.
Sta cominciando a nevicare. Gale mi osserva con una strana espressione impressa sul viso, un tipo di espressione che non gli avevo mai visto addosso prima d’oggi. È come se provasse disgusto nei miei confronti. – E dire che potresti fare così tanto – dice, poi se ne va.
- Gale – provo a chiamare il suo nome, ma tutto quello che riesco a fare è emettere uno strano respiro. Sconsolata, scivolo contro il tronco dell’albero e mi accascio al suolo. Batto la testa sulla corteccia, e mi abbandono alle lacrime.
Non sono riuscita nemmeno a convincere Gale. Che altro posso fare?

 

Sta facendo buio quando riprendo la strada di casa. Sono così intirizzita che fatico a camminare. Ho saltato il pranzo, quindi oltre ad essere mezza morta di freddo, sto anche morendo di fame. Muovendomi lentamente, spero di arrivare a casa oltre l’ora prevista per la cena. Sono così demoralizzata che non ho voglia di parlare di alcunché con nessuno. Non posso parlare del litigio tra me e Gale con la mia famiglia, e non voglio farlo con Peeta. Spero che si trovi già a casa della sua famiglia per la cena… so già cosa direbbe se mi vedesse in questo stato. E non ho bisogno di una ramanzina al momento.
Quando sono vicina alla piazza, una strana sensazione si impadronisce di me. Sento dei rumori, delle voci concitate, dei sospiri. C’è anche un gran via vai di persone che se la danno a gambe, spaventati, ed altre che si dirigono verso la direzione opposta. Non c’è mai tutta questa gente in giro la domenica sera, d’inverno, soprattutto con questo freddo che ti penetra nelle ossa dopo pochi minuti all’aria aperta.
Che sta succedendo?
Ignorando i miei piani iniziali, vado verso la piazza. Devo farmi largo tra la calca di persone che si è riunita ad assistere a qualcosa – perché sta effettivamente accadendo qualcosa – prima che alcune di queste mi riconoscano e comincino a bisbigliare, a sospingermi, a dirmi di andare via. Oppongo resistenza, non le ascolto, faccio ancora una volta di testa mia. Non seguo nessun consiglio e, a forza, raggiungo la parte sgombra della piazza.
Smetto di respirare quando vedo cosa sta accadendo davanti ai miei occhi.
È Gale, ed è legato per i polsi ad un palo di legno. La sua schiena, o quella che dovrebbe essere la sua schiena, è un ammasso di sangue e pelle a brandelli. Credo che sia svenuto, perché non si muove e non emette un fiato quando la frusta di un Pacificatore lo colpisce di nuovo sulla pelle martoriata. Il tacchino che ha preso stamattina nel bosco è inchiodato al palo sopra la sua testa.
- NO! – urlo.
Quello che accade negli istanti successivi me lo ricordo a malapena. Devo essere corsa verso il corpo del mio migliore amico, devo essermi fermata in modo da proteggerlo col mio, di corpo. Ma non ricordo come io sia finita a terra, distesa, con un dolore accecante interamente concentrato sul lato sinistro del viso. Non ricordo il colpo, o i colpi, che devono avermi fatto perdere conoscenza, anche se solo per pochissimi, brevi istanti. Registro solo il dolore, ed il terreno freddo sotto la mia schiena.
La prima persona che riesco a vedere, in maniera molto confusa, è Haymitch che parla al Pacificatore. Lui non riesco a riconoscerlo, invece: non fa parte della squadra che è incaricata di pattugliare il Distretto 12. Ha la faccia cattiva, orribile, sporca del sangue di Gale. Sposta lo sguardo tra me, che riesco a mettermi seduta con non poca fatica, e l’uomo che ha davanti.
- La prossima settimana deve fare un servizio fotografico di abiti da sposa. Cosa dovrei raccontare al suo stilista? – esclama Haymitch, indicando me. Poi capisco che sta indicando il mio viso. Fa un male cane, ed ho paura di sollevare la mano per toccarlo. Non ho bisogno di farlo, però, per capire che è già gonfio, pulsante, e che è a causa del gonfiore che vedo poco dall’occhio sinistro.
- Ha interrotto la punizione di un criminale reo confesso – dice il Pacificatore. Persino la sua voce è orribile da ascoltare.
- È suo cugino! E poi non mi interessa!
- Gale… - mormoro. Cerco di avvicinarmi a lui, cerco di chiamarlo, ma non si muove. Non mi sente. Se non ci fossero le corde che ha legate ai polsi a sorreggerlo, sarebbe già con la faccia sepolta nella neve. – Gale…
Delle mani mi prendono per le braccia, mi fanno rialzare. Colgo di sfuggita le voci adirate di Haymitch e del Pacificatore che si inveiscono contro mentre Peeta, che mi ha raggiunta da non so dove, rimane senza parole davanti al mio viso. – Che ti ha fatto? – dice in un soffio.
- Non quello che ha fatto a me. Guarda Gale – dico, sconsolata. Sto piangendo di nuovo, e la prima lacrima che inizia a scorrere sulla guancia lesa mi fa vedere le stelle per il dolore.
Il resto della squadra dei Pacificatori si è avvicinato ad Haymitch e all’uomo e si sono inseriti nella discussione; credo che abbiano convinto Thread – il loro nuovo capo, che sembra abbia preso il posto del vecchio Cray - che ha somministrato a Gale il numero di frustate necessarie per un primo reato. L’uomo non è per nulla convinto di ciò che gli dicono i suoi sottoposti, ma dà comunque ad Haymitch l’ordine di portare via Gale. Con uno scatto, pulisce la frusta dal sangue e minaccia alla folla di disperdersi.
Aiuto Peeta a liberare Gale dalle corde mentre qualcuno riesce a recuperare un asse di legno su cui farlo stendere. A portarlo ci sono solo Haymitch, Peeta, Bristel e Thom, due uomini che fanno parte della sua squadra di lavoro in miniera; tutti quelli che si erano riuniti nella piazza a vedere la sua fustigazione si sono completamente volatilizzati per la paura. Leevy, una ragazza del Giacimento, va a chiamare Hazelle su mia richiesta; le dico che lo stiamo portando a casa da mia madre per curarlo.
Afferro una manciata di neve da terra e la premo sul viso, cercando di placare il dolore sordo che mi investe ad ondate. Con l’occhio così chiuso fatico a vedere bene, ma le voci di chi mi precede, in qualche modo, mi mostrano la strada da seguire per raggiungere casa mia.
Sono l’ultima a entrare nella cucina, che si trasforma in infermeria ogni volta che vi compare un malato. Solo che stavolta il malato lo conosco troppo bene per poterlo ignorare come faccio di solito. Non posso scappare via adesso che c’è Gale al posto di tutti gli altri che lo hanno preceduto. Resto sulla porta ad osservare mia madre che impartisce ordini a Prim, che prepara acqua e bende sterili e recupera tutto il necessario. Mi avvicino tremando, osservando la carne sanguinolenta che solamente poche ore fa era una schiena forte e muscolosa.
Mia madre mi osserva l’occhio, mi ordina di metterci sopra della neve per evitare che si gonfi ulteriormente, ma non riesco a muovermi. I miei occhi sono fissi sulla schiena di Gale, incapaci di staccarsi da quell’orrore. È Peeta quello che mi fa spostare su una sedia lì accanto e mi preme con estrema delicatezza un sacchetto gelato sul viso.
- Va un po' meglio? – mi chiede, preoccupato.
- Se la caverà? – chiedo a mia volta. – Puoi aiutarlo? – aggiungo, rivolta a mia madre.

- Non preoccuparti – dice Haymitch. – C’erano un sacco di fustigazioni una volta, prima di Cray. E i condannati li portavamo da lei. Ha guarito di peggio, te lo garantisco.
Mi viene difficile pensare ad un periodo come quello che mi sta descrivendo Haymitch, così come non riesco ad immaginare qualcosa di peggio di quello che sto vedendo ora. Eppure, ho già visto di peggio.
Resto a guardare mia madre che lava via il sangue dalle ferite di Gale in silenzio. Resto a guardare Hazelle che entra di corsa e si avvicina al figlio privo di sensi, prendendogli la mano. Resto a guardare il mio amico che pian piano riprende conoscenza e inizia ad agitarsi per il dolore insopportabile che sta provando. Ma non resto a guardare la sua sofferenza: imploro mia madre di dargli qualcosa per il dolore, qualcosa di più forte delle solite erbe o dello sciroppo per dormire. Urlo quando le mie richieste non vengono accolte, urlo talmente forte che devono trascinarmi fuori dalla cucina.
Peeta ed Haymitch mi sollevano di peso e mi portano in camera, mi fanno sdraiare sul letto e mi immobilizzano sul materasso. Continuo ad urlare, ad agitarmi, ignorando il peso che mi schiaccia contro le coperte e il dolore alla guancia. Alla fine, però, mi arrendo al pianto; mi blocco, singhiozzando, e allora mi lasciano andare. Rimane Peeta al mio fianco, che cerca di tranquillizzarmi con le sue parole e con le sue mani, che mi accarezza i capelli nel tentativo di placare le mie lacrime.
Tutto quello che poteva andare storto, in questa giornata, è accaduto. Ho cercato di convincere Gale a scappare invece di prendere parte alla rivolta, e adesso è di sotto con la schiena a pezzi. Ho cercato di fare del bene, e invece quello che ho ottenuto è stato altro dolore. Dolore, solo dolore: sono buona solo a questo.
Prim è rimasta con Gale e Hazelle quando mia madre sale da me per dare un’occhiata più attenta alla frustata che ho preso sulla faccia. Niente tagli, per fortuna: c’è solo il dolore, ed il gonfiore. L’unica cosa che può fare è rimediare a quest’ultimo con impacchi freddi. Peeta si assume il compito di sorvegliarmi affinché questo accada, ed è talmente risoluto nelle sue intenzioni che la mamma lo lascia fare. Tiene il sacchetto pieno di neve contro la mia guancia.
Seduta contro la testiera del letto, lo lascio fare. L’occhio sinistro si è chiuso completamente, e sono sicura che entro domani mattina avrà assunto una bella sfumatura viola. Ma il destro è aperto e attento, e lo scruta nel semibuio della stanza. Abbiamo lasciato accesa solo la lampada del comodino; sia Haymitch che la mamma sono scesi al piano di sotto dopo che hanno suonato alla porta, lasciandoci da soli. Non corriamo rischi – c’è la porta aperta! – ma anche volendo, cos’altro potremmo fare? Ho il morale sotto i piedi, la testa che mi scoppia per il troppo piangere ed il dolore al viso, lo stomaco vuoto da stamattina e serrato dalla nausea. Mi è persino passata la fame. Non ho la voglia né la possibilità di fare alcunché, all’infuori che sentire la presenza di Peeta accanto a me.
- Non dovevi andare a cena dalla tua famiglia? – gli chiedo. Lo fa tutte le sere, e adesso per colpa mia non è con loro.
Scuote la testa. – Tu sei più importante adesso – mormora, scostando il sacchetto per osservare il lato ferito del mio viso. – Sei un disastro.
Soffoco una risata, pentendomene subito dopo. – Non farmi ridere – mi lamento, spingendolo piano per la spalla.
- Dico sul serio, la tua faccia è orribile. Ma è il mio disastro – mormora ancora, sfiorando appena la mia guancia con le labbra. È talmente flebile, il bacio, che appena lo percepisco.
- Ho parlato con lui stamattina – odio dover vertere i nostri discorsi su Gale, ma devo metterlo al corrente. – Gli ho spiegato tutto, anche dei miei piani, ma lui non ha voluto saperne. Non… vuole – sussurro.
- Non possiamo farlo, Kat. Non possiamo sparire all’improvviso, è troppo pericoloso. Tutto sta diventando troppo pericoloso. Non solo per noi, ma anche per tutti quelli che conosciamo – sussurra Peeta di rimando. – Possiamo solo aspettare che tutto passi. Dobbiamo aspettare che si calmino le acque, e sperare che avvenga il più pacificamente possibile.
- Ho paura che accadrà il contrario, invece.
- Dobbiamo solo avere fiducia.

Fiducia. Speranza. Quante volte ancora dovrò ascoltare queste parole?
- Se vuoi andare a casa, puoi farlo. Non sarò da sola – è una bugia, in realtà, anche se lo è solo in parte. La verità è che non voglio che vada via: sono la ragazza più egoista del mondo, perché ho paura di affrontare il momento in cui dovrà lasciarmi per tornare a casa sua.
La notte è tornata ad essere di nuovo troppo difficile e spaventosa da affrontare, senza di lui.
- No, rimango. Non ti lascio sola – mi rassicura. Si sistema meglio sul letto, mi accarezza il ginocchio. – Katniss?
Mugugno, ad occhi chiusi, segno che sto ascoltando.
- Non andare più a caccia. – apro l’occhio buono, incrociando i suoi. – Sono in pensiero ogni volta che ci vai e, dopo oggi, non riuscirei a stare tranquillo sapendoti là fuori. Non voglio… che… - si blocca.
Alle volte anche Peeta, che è così bravo con i discorsi ed a convincere le persone, non sa come esprimersi su certe questioni. Non voglio vederti al palo come Gale: ecco cosa non riesce a dirmi. La sola idea lo terrorizza. Non posso fargli questo.
Poggio la mano sulla sua, ancora ferma sul mio ginocchio, e la stringo forte. – Va bene. Non ci andrò più. Te lo prometto.

 

 

 

 

 

_________________________

1Katniss e Peeta hanno la stessa età, ma la Collins ci ha fornito solo la data di nascita di Katniss, l’8 maggio; quindi per Peeta ne ho scelta una a caso: il 16 gennaio. È un po' più grande di lei, ed ha come giorno di nascita un multiplo di 8. Perfetto, no?

 

Eccoci qui, di nuovo di lunedì e con il decimo capitolo. Decimo! Come passa il tempo!
Avrete sicuramente fatto caso ad un paio di cose: nella mia versione Katniss non ha idea dei disordini che si sono svolti nel Distretto 8 e, cosa ancora più importante, ha scelto di non andare più a caccia su consiglio di Peeta. Ergo: niente incontro con Bonnie e Twill che le parlano dell’esistenza del Distretto 13. Non è qualcosa che stravolge lo svolgimento degli eventi futuri: anche nel film non erano presenti, e si è comunque giunti allo scopo, no?
No?
Non fateci caso, sto perdendo tempo come al solito!
Carissimi, vi voglio tanto bene! Vi abbraccio, e vi do appuntamento a lunedì prossimo!

D.

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Capitolo 11
*** 11. ***


In The Still Of The Night - 11

In the still of the night

 

 

 

 

 

11.

 

Ho mantenuto la promessa fatta a Peeta: non sono più uscita a caccia nei boschi. Non è stato poi così difficile, complici anche una serie di fattori non di poco conto.
Il giorno dopo la fustigazione di Gale, sul Distretto 12 si è scatenata una vera e propria tempesta di neve che ha completamente tagliato fuori il Villaggio dei Vincitori dal resto delle abitazioni, e del Distretto, per diversi giorni. Neanche volendo avrei messo il naso fuori di casa.
Appena la neve si è placata, sono venuti a casa due Pacificatori, mandati dal capo Thread, per informarmi che da quel momento in avanti sarebbe stata riattivata la corrente lungo tutto il perimetro della recinzione. Ho finto indifferenza sulla questione e li ho ringraziati per l’informazione, anche se credo di non essere stata molto convincente; non so mentire, ma spero che non lo abbiano capito. Inoltre, dovevo trasmettere la notizia anche a Gale, mio “cugino”, affinché smettesse di cacciare di frodo nei boschi; ma dubito seriamente che Gale voglia riprovarci dopo quello che ha passato. Che sta ancora passando, perché ci vorrà ancora un po' di tempo prima che si riprenda del tutto e possa tornare in miniera.
Il mio viso migliora piano piano, ma migliora. Il gonfiore sta svanendo, lasciando posto al livido intorno all’occhio e al segno dell’unica frustata che ho ricevuto. Mia madre dice che sbiadirà fino a non vedersi più; questo, almeno, mi ha dato del tempo in più. Tempo per riprendermi, e per ritardare il tanto temuto servizio fotografico in abito da sposa che tutta Capitol attende di vedere.
Il matrimonio prosegue, ed ormai è ufficiale: è un evento che non si può più rimandare. Io e Peeta diventeremo marito e moglie sul finire di agosto. Dopo le eclatanti emozioni degli Hunger Games, saremo io e Peeta a crearne delle altre per i cittadini capitolini; non potremo mai lasciarli a secco di divertimento! Haymitch, in uno dei rari momenti in cui non è stato sbronzo durante la tormenta, ha ricevuto ordini e notizie da parte di Effie riguardo l’argomento.
- Mi ha chiesto se mi piacerebbe condurti all’altare – ha detto, ridendo.

È mio padre l’unica persona che ha il diritto di condurmi all’altare, penso, ma taccio. Semmai mi fossi sposata per mia libera scelta, e se non fosse rimasto ucciso in quell’incidente in miniera, ci sarebbe lui a tenermi sottobraccio, a sostenermi mentre mi accingo a cominciare un nuovo capitolo della mia vita con l’uomo che amo. E invece, nulla di tutto questo sta per accadere.
Quando la neve smette di cadere ed il viottolo che separa il Villaggio dei Vincitori dalla piazza viene pulito, io e Peeta facciamo tappa alla panetteria della sua famiglia. Nel farlo, ci ritroviamo davanti uno spettacolo piuttosto inquietante: la piazza si è trasformata.

Succederà ben poco durante la tormenta: questo abbiamo pensato, ingenuamente. Ed invece, il palo delle fustigazioni è sempre lì, e recinti di detenzione, una forca e una gogna si sono aggiunti a fargli compagnia. Il Forno è stato incendiato, e dense nuvole nere si levano verso il cielo. Penso a tutte le persone che si sono guadagnati da vivere tutti i giorni lì dentro: Sae la Zozza, Ripper, e tutti gli altri. Come faranno ad andare avanti, da adesso in poi?
Anche al 12 stanno applicando le stesse rigide misure restrittive che io e Peeta abbiamo visto negli altri Distretti durante il nostro Tour: questi sono gli effetti che quelle rivolte, quei deboli tentativi di ribellione hanno portato. E Gale voleva scatenarle qui? Come poteva riuscirci? Agli abitanti del 12 è bastato vederlo cadere sotto i colpi della frusta di Thread per mollare la presa. La recinzione elettrificata, gli strumenti esposti nella piazza, il Forno che brucia… serve altro per sedare una rivoluzione?
- Dov’è che volevi andare? – Peeta si riferisce al mio tentativo di fuga nei boschi.
Da nessuna parte, voglio andare.

 

I giorni e le settimane successive trascorrono inesorabili. Lenti, grigi, costellati dalla paura e dall’oppressione che il regime del terrore di Thread ha imposto su tutto il nostro Distretto.
Il commercio di contrabbando e le attività vietate che fino ad ora gli abitanti erano riusciti a tenere su sono stati aboliti completamente, e tutti coloro che violano i nuovi ordinamenti, che vengono beccati a vendere o a comprare illegalmente, sono puniti sul posto del reato. Ci sono state altre fustigazioni, altre giornate di dolore… ma fino ad ora, non c’è stata nessuna esecuzione. Temo il giorno in cui avverrà la prima.
La borsa di mia madre è sempre pronta, ormai. Vengono a chiamarla quasi tutti i giorni per aiutare chi è stato beccato nel momento sbagliato a fare la cosa sbagliata. Quando non è possibile portare da lei il malato, allora è lei ad andare dal malato. Va da sola il più delle volte, non porta quasi mai con sé Prim: è molto più sicuro per lei restare al Villaggio dei Vincitori, e la mamma si sente più tranquilla sapendo che ci sono io insieme a lei. Anche io sono tranquilla sapendola al sicuro; vederla nello studio mentre fa i compiti è una piccola consolazione, che però non scaccia del tutto la preoccupazione per la mamma. E quando torna a casa, sempre molte ore dopo averla lasciata, sento un macigno che abbandona il mio cuore e mi abbandono al sollievo.
A risentire delle punizioni sono soprattutto coloro che sbrigavano i loro affari al Forno; pochi giorni fa Ripper, la donna senza un braccio che contrabbanda l’alcol, era alla gogna. Le scorte che Haymitch teneva in casa terminano presto, e la mia, che tenevo in caso di emergenza, non dura neanche due giorni. Lo stesso vale per quella di Peeta. L’uomo risente moltissimo della mancanza del liquore che per anni gli ha ottenebrato la mente, e adesso è scivolato in una sorta di astinenza nervosa. È difficile stare con lui in casa, è difficile osservarlo senza poterlo aiutare in nessun modo.
I Giorni dei Doni sono stati sospesi. Le miniere sono state chiuse per diverse settimane, costringendo le famiglie dei minatori e gli stessi a subire anche quelle privazioni che quel misero lavoro aveva risparmiato loro fino a questo momento. Distribuire cibo, come mi era già capitato di fare altre volte, non è sufficiente ad aiutarli. E quando, finalmente, le miniere riaprono, aumentano le ore di lavoro.
Gale, ripresosi dalle ferite, si ritrova a vivere costantemente al buio: entra nelle miniere che il sole non è ancora sorto e ne esce quando è già calata la sera. La sua famiglia stenta ad andare avanti. Hazelle, che dalla morte del marito era riuscita a racimolare il suo giro di bucato da lavare, adesso non ha più clientela. Rory ha fatto richiesta per le tessere, e Gale non l’ha presa per niente bene: né io, né tantomeno lui, volevamo che Prim e i suoi fratellini le prendessero. Perché prendere le tessere significa che il tuo nome può essere inserito più volte nella boccia della mietitura, ogni anno per sette anni, finché non diventi maggiorenne. L’anno scorso il nome di Gale, al suo ultimo anno obbligatorio alla mietitura, era scritto su quarantadue striscioline di carta. Il mio, a soli sedici anni, su venti. Non è più tornato a parlare di ribellione, e anche se da un lato ne sono sollevata, dall’altro rimango terrorizzata: perché il non parlarne non vuol dire che ha gettato la spugna. E tutto quello che vede ogni giorno al Distretto non può fare altro che fomentare le sue intenzioni.
Almeno per la sua famiglia abbiamo potuto fare qualcosa di concreto. Dato che l’abitazione di Haymitch verte da anni in uno stato pietoso, abbiamo pensato ad Hazelle come possibile governante. È stato un po' difficile convincere quel cocciuto ad assumerla, ma sa anche lui che è stata la cosa più giusta da fare. Adesso la sua è totalmente un’altra casa: pulita e arieggiata, sembra quasi accogliente, e Hazelle gli lascia sempre qualcosa di buono in cucina. Ma Haymitch, scorbutico e iroso a causa della mancanza di liquore, se ne accorge a malapena.
Sono talmente concentrata sulla miseria e il terrore che aleggiano fino a casa mia che quasi dimentico la questione “matrimonio”. È l’arrivo di una cassa piena di abiti da sposa a farmelo tornare in mente con prepotenza. Soltanto sollevare il coperchio mi fa venire un attacco di panico: pizzo, seta, raso, perle, brillantini, tulle… tutto questo mare di tessuti mi fa girare la testa. La cassa è accompagnata da un bigliettino rosa profumato – inconfondibile – da parte di Effie, che mi informa che tutti gli abiti che mi sono stati recapitati hanno avuto l’approvazione del presidente in persona.
Perché? Improvvisamente, è diventato un compito del presidente scegliere l’abito con cui andrò all’altare?
- Sono meravigliosi, Katniss! – Prim ha gli occhi che brillano dalla gioia, davanti a tutto quel lusso. Estasiata, non ha quasi il coraggio di toccare il tubino cosparso di cristalli che le sta davanti.
Io non riesco ad essere coinvolta come lei.
Il giorno dopo, quando ne parlo a Peeta, lui ride per il terrore che provo per quegli abiti. – Mica ti mordono! – esclama.
- Lo so che non mordono! – ribatto, piccata. Si becca un pizzicotto sul braccio per questo, ma lui subisce senza fiatare. È tremendamente divertito dalla cosa.
- Riesci ad andare a caccia senza porti problemi, e adesso hai paura di due pezzetti di stoffa?
- Peeta!
- Scusa – ridacchia, dandomi un bacio leggero sulle labbra per fare la pace. – Secondo me starai benissimo con ogni vestito.
- Senti chi parla! Non sei mica tu, quello che dovrà indossarli per ore – borbotto.
– Puoi sempre trovare il lato divertente della situazione, no?

 

La neve non si è ancora sciolta del tutto quando arriva il grande giorno: quello del servizio fotografico. Haymitch è riuscito a rimandarlo di settimane rispetto alla data che era stata prefissata all’inizio, dando così al mio viso tutto il tempo necessario che gli serviva per guarire. Grazie anche alle cure della mamma, l’unica traccia rimasta del passaggio della frusta di Thread è una piccola, e quasi impercettibile, linea rosa sullo zigomo.
Nonostante ciò, il mio staff di preparatori si lamenta per il danno che saranno costretti a riparare con del trucco extra.
- Puoi sempre trovare il lato divertente della situazione, no? – aveva detto Peeta. E dove sarebbe, di preciso, il lato divertente? Ore prima che cominci il servizio fotografico vero e proprio, sono costretta a fare bagni di bellezza e sottoposta a trattamenti esfolianti, a cui si aggiungono maschere facciali e trattamenti per capelli. Tutto questo solo per delle stupide foto.
Cosa faranno quando arriverà il vero giorno delle nozze?
Rabbrividisco.
Il lato positivo c’è, effettivamente: è rivedere Cinna. La mia persona capitolina preferita. Entra nella mia stanza, dove Octavia, Flavius e Venia stanno ultimando gli ultimi ritocchi a trucco e parrucco prima di lasciarmi scendere al piano inferiore, dove è stato allestito il set vero e proprio. Cinna, silenzioso e pacato come sempre, osserva la mia faccia.
- Immagino che sia stata una brutta caduta, dato il tempo che ti ci è voluto per riprenderti – dice. Non c’è nessun tipo di rimprovero nella sua voce mentre, tenendo il mio mento tra le dita, lo muove da destra verso sinistra per osservarlo in ogni sua più piccola angolazione. So che non crede ad una sola parola su ciò che gli hanno raccontato.
Haymitch ha usato la scusa di una mia brutta caduta sul ghiaccio per giustificare il rinvio del servizio, quindi con tutti gli altri devo continuare a recitare usando questa versione della storia. A Cinna potrei dire la verità, ma preferisco – Haymitch preferisce – che certe cose è meglio che non le vengano a sapere in molti.
- Sono stata meglio – dico, alla fine.
Cinna annuisce, e non aggiunge altro. Prende un pennello per la cipria, lo passa un po' sui miei zigomi, poi mi porta in salotto.
- Cara, sei una meraviglia! – Effie è felice come una pasqua e sprizza energia da tutti i pori quando mi viene incontro per darmi due rumorosi baci sulle guance, poi mi lascia nelle mani di Cinna e torna a dettare ordini a destra e a manca.

Trova il lato divertente, mi ripeto. Trova il lato divertente. È piuttosto difficile, e per le successive ore non riesco proprio a trovarlo. Il servizio prevede set e combinazioni diverse a seconda del vestito che devo indossare, quindi è tutto un via vai tra abiti da sfilare, scarpe da infilare, acconciature da cambiare e fiori da sostituire. I vestiti sono, come tutte le creazioni di Cinna, da mozzare il fiato: ognuno è ricco di particolari e di dettagli capaci di renderli dei veri pezzi unici da collezione. Ce n’è uno pazzesco: di un rosa pallido, dal corpino ricamato a motivi floreali e leggero come la neve, nonostante l’ampia gonna di tulle che culmina in un lungo strascico e che, al solo vederlo, avrei detto pesasse almeno dieci chili. Quello in seta e perle, invece, sì che è pesante, e le lunghe maniche che ricadono fino a toccare il pavimento, unite al velo, mi fanno sembrare una di quelle principesse delle fiabe che tanto adorano i bambini.
Se riuscissi a distaccare la mente in qualche modo, potrei anche divertirmi nel fare la modella ed eccitarmi per la bellezza degli abiti… ma è proprio la loro bellezza, oltre al significato a cui sono legati così a doppio filo, a rendermi così seria e a tratti spaventata.
- È così emozionata! Guardatele il viso! – sospira Effie ad un certo punto.
No, Effie, non è emozione. È terrore.
Dopo che anche l’ultimo abito – dalla linea semplice, di un morbido tessuto bianco totalmente ricamato a fili d’oro e, al posto del velo, dotato di una mantella leggera e tutta pizzi a coprire la schiena, che resterebbe nuda se non fosse per il sottile intreccio di fili di perle dorate a formare una delicata ragnatela – è stato indossato e fotografato, il servizio fotografico finisce. I piedi mi fanno malissimo per tutte le ore in cui sono rimasta sui tacchi alti, ed in più sono affamata, perché non sono riuscita a mangiare granché tra un cambio e l’altro. Mentre provo a fermare un po' lo stomaco con un pezzo di focaccina, ascolto Effie che dà indicazioni per il ritorno di tutta l’equipe a Capitol City. Mi dice che ci rivedremo presto per discutere meglio i preparativi per il matrimonio.
- Che bello! – provo a mostrarmi entusiasta, ma il tentativo mi riesce male. Cinna, al mio fianco, trattiene a fatica una risata.
Quando tutti, anche l’ultimo tecnico delle luci, se ne sono andati, torno al piano di sopra e faccio un bagno, totalmente diverso da quello che stamattina mi ha rifilato Venia. Un bagno rilassante, pieno di bolle e di schiuma profumata, con cui tolgo ogni traccia di trucco dal viso e la lacca dai capelli. Resto a mollo anche quando l’acqua diventa fredda, ed osservo il soffitto stando con la testa poggiata contro il bordo della vasca.

 

Il servizio fotografico esce dopo pochi giorni e, da quel che vedo attraverso la televisione, è un vero e proprio trionfo. Caesar è con Cinna e lo intervista mentre le foto di me avvolta nei vari abiti da sposa scorrono alle loro spalle: gli chiede i vari dettagli, la stoffa utilizzata, l’ispirazione che lo ha portato a creare proprio quel modello in particolare. Dato che i modelli a disposizione sono sei, è stato deciso che saranno proprio gli abitanti di Capitol City a scegliere il loro abito preferito attraverso un sistema di voto e di scommesse, simile a quello che si usa per gli Hunger Games – che ironia!
Il vestito che vincerà, sarà quello che indosserò per il mio matrimonio.
- Portiamo Katniss Everdeen al suo matrimonio in grande stile! – grida Caesar al pubblico.

Beh, penso: almeno avrò un bel vestito.

 

L’inverno, lentamente, lascia alla primavera i primi spiragli di luce. L’aria diventa un po' più calda, la neve se ne è andata completamente e al suo posto cominciano a sbocciare i primi timidi fiori. Marzo va via, ed arriva aprile.
È il quattro di aprile1 quando riceviamo l’ordine di seguire un programma obbligatorio alla televisione, previsto per la sera stessa.
Seduta sul divano tra mia madre e Prim, assisto all’inno e al presidente Snow che appare sullo schermo, solenne ed elegante come al solito; è seguito da un ragazzino vestito di bianco che sorregge una grossa scatola tra le braccia.
- Dev’essere la lettura della busta – mormora mia madre, la fronte aggrottata. – Per l’Edizione della Memoria. Anche per la scorsa volta è stato così.
La osservo, poi guardo Prim. Spesso dimentico che anche la mamma è stata una ragazzina e che è stata anche lei costretta a prendere parte alla mietitura fino alla maggiore età. Fatico sempre ad immaginare la mamma da giovane, quando ancora non era madre, né tantomeno sposata.
- Non manca ancora molto prima degli Hunger Games? – chiede Prim.
- Tre mesi, Prim – le rispondo. – Immagino che vogliano ficcarceli bene in testa prima di allora…
- Sssh! – mi zittisce la mamma, perché Snow ha iniziato a parlare appena è terminato l’inno. Per una volta, seguo il consiglio: se lei non vuole perdersi una parola di ciò che dirà Snow, anche io dovrei fare altrettanto. Come futuro mentore, più che altro.
Il presidente ricorda, come al solito, i Giorni Bui e la sconfitta dei Distretti. Ricorda le leggi che stabiliscono che ogni venticinque anni questa venisse commemorata, per l’appunto, con un’Edizione della Memoria, che prevede delle regole speciali oltre alle solite che, purtroppo, tutti noi conosciamo già così bene.
Ricorda le due Edizioni della Memoria passate.
Nella prima, la venticinquesima, i tributi di ogni Distretto da mandare al macello furono scelti tramite un sistema di voto dagli stessi abitanti. Stringo le labbra, pensando a quanto dev’essere stato orribile votare per qualcuno che conosci, che forse è stato il tuo vicino di casa. Penso al modo in cui hanno dovuto scegliere, il modo in cui hanno sorteggiato il più sacrificabile tra i tanti, sapendo che, forse, non avrà mai la possibilità di tornare a casa vivo.
Il presidente ci ricorda che nella seconda edizione, la cinquantesima, il numero dei tributi da mandare al macello venne raddoppiato in ogni Distretto. Due maschi e due femmine, quattro ragazzi per Distretto, quarantotto tributi in totale. Il doppio della concorrenza, il doppio dei ragazzi da uccidere. Minori probabilità di sopravvivenza. E, come sempre, un solo vincitore.
La cinquantesima è l’edizione che ha vinto Haymitch…
Penso che anche lui sta guardando il programma. Sta sicuramente ricordando, come non ha mai smetto di fare nel corso di tutti questi anni. Non voglio pensare allo stato d’animo in cui si trova. Non voglio pensare al fatto che deve affrontare una seconda Edizione della Memoria, anche se, fortunatamente, solo da spettatore. Meno male che quest’anno io e Peeta ci siamo “offerti” di sostituirlo come mentori. È un peso in meno da affrontare, per lui… ed è un peso che io e Peeta possiamo sopportare in due. Non sarà facile.
Il presidente si appresta ad estrarre la busta dalla scatola, quella contrassegnata col sigillo di Panem e un grosso “75” stampato in un angolo. La afferra, si volta di nuovo verso la telecamera e la apre, accingendosi a leggere il foglietto che in essa vi era contenuto. Su quel piccolo, misero foglietto di carta è scritta la sorte che toccherà ai tributi di quest’anno, come una sorta di sentenza. Mi siedo sull’orlo del cuscino, presa da un grande senso d’ansia e di attesa. Anche Peeta sarà concentrato come me? Anche lui vuole capire cosa dovranno aspettarsi, quest’anno, i nostri giovani tributi?
No, non i giovani tributi…
Il presidente ha appena finito di leggere la busta.
Cosa aspetta a noi vincitori come tributi.
Ancora una volta.

 

 

 

 

_____________________________

1Il quattro di aprile come data per la lettura della busta non è scelta a caso: nella saga sappiamo che la mietitura e gli Hunger Games si svolgono durante i mesi estivi, ma è grazie alla Ballata dell’usignolo e del serpente che conosciamo il giorno esatto. Infatti, un giovanissimo presidente Snow – che non è ancora presidente! - ci dice che la mietitura si svolge il quattro di luglio. La lettura della busta si tiene qualche mese prima – tre mesi prima, come mia ipotesi – ed ho ipotizzato che potesse cadere sempre il giorno quattro. Ah, in tutto questo spero di non aver fatto uno spoiler per chi non ha ancora letto il prequel (perché non lo avete ancora fatto? Che cosa aspettate? Su, andate a leggerlo!)

 

Capitolo di passaggio, questa volta. Necessario ed inevitabile… spero che non vi abbia annoiato!
Non mi dilungo troppo perché ho già sparlato a sufficienza sopra – mi risparmio le chiacchiere per la settimana prossima. Grazie ancora per essere arrivati qui :)

D.

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Capitolo 12
*** 12. ***


In The Still Of The Night - 12

Nda: in questo capitolo è presente uno spoiler riguardo il libro prequel Ballata dell’usignolo e del serpente. Sono stata combattuta fino alla fine sul mantenerlo od eliminarlo, ma alla fine ho lasciato perdere ed ho tenuto la bozza originale, così com’è uscita fuori. Mi scuso sin da ora per essere una così insopportabile spoileratrice seriale.

 

 

 

 

 

In the still of the night

 

 

 

 

12.

 

- Nel settantacinquesimo anniversario, affinché i ribelli ricordino che anche il più forte tra loro non può prevalere sulla potenza di Capitol City, i tributi maschio e femmina saranno scelti tra i vincitori ancora in vita.
Questo è il contenuto della busta. Questo è ciò che ha detto il presidente. Le sue parole mi rimbombano nel cervello come se avessi la sua voce fissa nelle orecchie mentre fuggo, mentre corro.
Corro, senza sapere dove andare di preciso. Senza alcuna meta.
La sola cosa di cui sono pienamente consapevole è che, di qui a tre mesi, sarò di nuovo nell’arena.
Sono scappata via sotto lo sguardo confuso di Prim e quello scioccato di mia madre, che si premeva una mano sulla bocca nel tentativo di trattenersi dall’urlare. Sono scappata via per non vedere l’orrore che certamente si rifletterà nei loro occhi e che ha già invaso i miei. Sono scappata via per non vederle soffrire. Non voglio vederle soffrire ancora, e ancora una volta a causa mia.
Quanto dolore può sopportare un essere umano? Quanto dolore può sopportare prima di scoppiare? Prima di cedere?
Cado in mezzo alla ghiaia, ma mi rialzo in fretta e furia e riprendo la mia folle corsa. Dove posso andare? La prima risposta che mi viene in mente è il bosco, ma con la recinzione elettrificata attiva è fuori discussione. Anche se gettarsi contro quella recinzione metterebbe fine a un sacco di questioni, allo stato attuale delle cose…
Rallento la mia corsa quando sono giunta alle ultime e spettrali case che, ancora vuote, delimitano il Villaggio dei Vincitori. Scelgo proprio l’ultima come riparo provvisorio. Sto già scendendo le scale che portano al seminterrato quando sento le prime voci che urlano il mio nome, che mi cercano.
Crollo a terra, sulla dura e fredda pietra, e do libero sfogo alle mie lacrime. Piango, urlo, mi lamento con la fronte posata sulle pietre gelate che costituiscono il pavimento del seminterrato. Copro le orecchie con le mani per non sentire le voci e le mie stesse urla. Fa freddo, qui, senza nient’altro che la camicia e il cardigan leggero che ho addosso. Ben presto mi trasformo in un blocco di pietra, come il pavimento che sento premere contro il corpo, ma non mi muovo, non faccio nulla per cercare di scaldarmi.
Scuoto piano la testa, tossendo per i singhiozzi che non mi lasciano respirare bene come desidero fare.

Le Edizioni della Memoria fanno schifo.
È orribile scoprire che esistono, è orribile conoscere il modo in cui si sono svolte le precedenti. Ma niente, niente batte quella che sta per prendere vita. È orribile sapere che hai affrontato e sfidato la morte per tornare a casa vivo, solo per poter offrire a Capitol City la possibilità di riportarti nel luogo che diventerà la tua tomba. In maniera definitiva, stavolta.
Perché stavolta sarà così: morirò nell’arena. Morirò nel tentativo di salvarmi la vita. Nessuno mi farà uscire viva da lì, quest’anno. Morirò. È quello che vogliono fare: uccidermi. Non c’è via di scampo.
È impossibile che l’Edizione della Memoria estratta stasera sia la stessa che è stata decisa con largo anticipo decine di anni fa. È impossibile: sarebbe una coincidenza innaturale, altrimenti, e perfetta. No, quella di quest’anno è stata costruita a tavolino con il solo scopo di punire me, e tutti i Distretti che hanno osato provare a ribellarsi. È una lezione che Panem vuole dare a tutti noi, insorti e non insorti. Perché cosa c’è di peggio nel vedere le persone che si amano da anni, alcuni dei quali che sono diventati dei veri e propri beniamini per il pubblico, ammazzarsi a vicenda? Non è come vedere degli adolescenti sconosciuti: non hai un vero e proprio interesse per loro, dopotutto, non sai chi sono veramente. È dopo che li conosci veramente. È dopo che li hai amati per anni, è dopo esserti affezionato che capisci la reale portata di quest’orrore.
Dovrò uccidere le persone che ho visto sempre in televisione per salvarmi la vita? Ho un conato di vomito alla sola idea. È orribile anche solo pensarci.
Immagino che il matrimonio dovrà essere annullato. Ovvio che sarà annullato. Come posso sposarmi alla fine dell’estate, se per la fine dell’estate mi troverò già sottoterra da un bel pezzo? Oh, che stupida che sono stata! Perdere il sonno, la fame, la ragione, ed essere in preda al terrore, per un matrimonio che non si farà mai… a cosa è servito tutto questo? Preoccuparsi per un matrimonio che lo stesso presidente Snow voleva organizzare e che, adesso capisco, sapeva già che non ci sarebbe mai stato! Al suo posto, mi stava preparando un regalo di nozze che mi avrebbe fatta impazzire!
E non è proprio questo quello che ha ottenuto? Sto impazzendo, se non lo sono già diventata.
Una risata isterica mi esce dalle labbra. In confronto all’arena, affrontare un matrimonio è una bazzecola. È davvero una sciocchezza. Mi sposerei una, dieci, cento volte, se questo servisse a salvare la mia vita e quella di mio marito! Marito…
Peeta.
Lui è costretto a venire nell’arena con me. No, le cose non stanno realmente così… io sono l’unica che è costretta ad andarci, perché sono l’unica vincitrice donna ancora in vita. Anni fa, più di cinquant’anni fa, c’è stata un’altra vincitrice, ma non si è più saputo nulla di lei da quando ha vinto. È come scomparsa nel nulla.1 Io sono l’unica ragazza vincitrice che il Distretto 12 ha da offrire come tributo. Sono l’unica che non ha possibilità di scelta. Il mio viaggio per Capitol City è già prenotato, e so già che sarà un viaggio senza soste, e senza ritorno. L’unico ritorno che otterrò avverrà all’interno di una cassa di legno.
Per i maschi è diverso. Ce ne sono due tra cui scegliere: Peeta e Haymitch. Chi dei due verrà estratto come mio compagno per questi giochi? Immagino che lo saprò il giorno della mietitura. No, mi sto sbagliando ancora: immagino che lo saprò prima. Molto prima. Sono sicura che decideranno insieme chi dei due andrà nell’arena. Insieme…
- No – la mia voce esce in un lamento. Perché ho appena capito quello che accadrà se non faccio nulla per fermarli. Perché se il nome che uscirà nella mietitura sarà quello di Haymitch, Peeta si offrirà volontario al suo posto. Lo farà per seguire la mia stessa sorte. Lo farà per seguire me.
Lo farà per morire con me nell’arena.
- No… - ansimo, alzandomi in piedi. Non posso permettergli di compiere una simile sciocchezza. Non posso permettergli di morire per me. Non può farlo.
Rifaccio il percorso a ritroso, ma è più difficile con le membra intorpidite che mi ritrovo. Salgo le scale, esco dalla casa, torno all’aria fredda e buia della notte. – Peeta – bisbiglio il suo nome, che viene scandito dagli intervalli del mio respiro. – Peeta…
Quando sono a metà della piazzetta del Villaggio, lo vedo. Chi altri può essere se non lui? Cammina, si guarda intorno, capisco che sta cercando me. Comincio a correre per raggiungerlo, lo chiamo con la poca voce che mi ritrovo, anche se non mi sente. Le lacrime continuano a scendere, non si sono mai fermate da quando sono uscita di casa.
- Katniss! – urla nel venirmi incontro. Mi afferra al volo, posa le mani sul mio viso. – Ascoltami, ho parlato con Haymitch. Sarò io a venire nell’arena con te…
- NO! – stavolta, nell’urlare, riesco a far uscire tutta la voce che mi rimane. – Non puoi farlo! Tu devi vivere, Peeta!
- No, verrò con te. Lo abbiamo fatto l’anno scorso e lo rifacciamo anche quest’anno, insieme…
- NO! – i miei pugni lo colpiscono al petto, sulle spalle, su ogni punto del suo corpo che riesco a raggiungere. Lo colpisco anche al viso, e lui si lascia picchiare, si lascia graffiare, e non cerca in alcun modo di fermare il mio sfogo. – Morirai se vieni con me! Morirai… moriremo entrambi…
Non ho la forza di oppormi, di convincerlo ad ascoltarmi. Non ho più forze, ormai. Mi accascio su me stessa, piangendo. Piango per me, per la mia morte imminente, piango per Peeta che ha scelto di suicidarsi per me, piango per questo mondo infame che non ci permette di vivere una vita normale. Nella nebbia che mi avvolge, trovo il corpo di Peeta e mi ci aggrappo con la poca forza che ancora ho a disposizione. Piango, sapendo che questi sono gli ultimi mesi che mi rimangono per stare insieme a lui.
- La porto da me, starà con me finché non si calma – dice Peeta a qualcuno. Le sue braccia mi stringono mentre una terza mi accarezza i capelli. La riconoscerei tra milioni di altre: la sua mano, le sue mani, e quelle di Peeta. Le mani delle persone che amo, e che sto per lasciare per sempre.
- Va bene – mormora mia madre, concedendo a Peeta il permesso di farmi stare da lui.
Quasi di peso, mi fa alzare da terra e, con un braccio a circondarmi le spalle, mi porta a casa sua. Non vedo nulla tra le lacrime che mi accecano gli occhi e la luce improvvisa che mi destabilizza, dopo tutto quel buio. Un calore improvviso mi fa rabbrividire di riflesso. Capisco di essere nel salone, davanti al caminetto acceso. Un leggero peso e altro calore mi dicono che Peeta ha posato una coperta sulle mie spalle rigide.
- Dove sei stata? Sei gelata! Ti ho cercata dappertutto – dice, e per la prima volta nella sua voce sento della rabbia, del nervosismo. Me lo merito. Sono felice che si stia arrabbiando per me.
Lo osservo in silenzio, senza dire nulla del mio breve nascondiglio e del perché ci sono andata. Può arrivarci benissimo da solo, dopotutto: quello che provo io lo sta provando anche lui. Anche Haymitch sarà arrabbiato e sconvolto dalla notizia… ma se Peeta ha già preso accordi riguardo l’offrirsi volontario al suo posto, dovrebbe stare più tranquillo. È in una botte di ferro.
- Perché sei andato da Haymitch? – bisbiglio, stringendomi nella coperta. – Perché l’hai fatto, Peeta?
- Perché così, in due, possiamo provare a salvarti la vita – esclama, e comincia a strofinare energicamente le mani sulle mie braccia nel tentativo di infondermi più calore. – Sei un pezzo di ghiaccio. Ti preparo qualcosa di caldo…
- No! – gli afferro un braccio prima che possa andare via. – Non voglio qualcosa di caldo.
- Che cosa vuoi?
Alzo gli occhi, e finalmente osservo i suoi. Sono rossi, e lucidi. Come quella notte sul treno, quando si è svegliato a causa dell’incubo e mi ha rivelato cos’è che lo terrorizza tutte le notti. Il pensiero di me nella tomba: è questo a terrorizzarlo. È per evitare di vedermi morta che vuole tentare così disperatamente di salvarmi? Vuole provarci nonostante questa Edizione della Memoria sia programmata per fare l’esatto opposto? Spezzarmi, distruggermi… uccidermi. Vuole tentare l’impossibile, e per raggiungere l’obiettivo impossibile finirà col farsi ammazzare inutilmente.
Si farà ammazzare, ed io morirò lo stesso.
E allora sarà stato tutto vano.
- Cosa c’è, Kat? Cosa c’è? – mormora, asciugando le mie lacrime. Ne vedo una che sfugge al suo controllo e scivola dal suo occhio lungo la sua guancia.
È il pensiero di me nella tomba che lo terrorizza. A me terrorizza la stessa identica cosa. Una tomba su cui piangere, su cui sfogare il mio dolore. Se lui muore ed io sopravvivo, che altro motivo ho di andare avanti? Cosa mi darà la spinta per affrontare le ore, i giorni, gli anni vuoti che mi ritroverò davanti?
Che gusto c’è a vivere una vita vuota, se lui non è con me a condividerla?
- Voglio te – ansimo, e un singhiozzo rompe le mie parole. – Voglio te, Peeta. Voglio solo te…
Il suo viso si avvicina al mio, le nostre fronti si incontrano. I nostri respiri si confondono tra di loro. – Anche io voglio solo te.
Dopo, non c’è altro da dire.
Dopo ci sono solo i baci, le carezze, l’urgenza del sentirsi vivi ancora una volta. Sentirsi vivi, prima di andare ad affrontare di nuovo la morte.
Dopo, ci siamo solo noi che facciamo l’amore davanti al fuoco.

 

Ci sono due cose di cui sono consapevole, al momento. La prima è il corpo di Peeta che preme contro la mia schiena: un braccio mi tiene stretta a sé, circondandomi il seno, la mano posata all’altezza del mio cuore. L’altro è steso sul pavimento e mi fa da cuscino. La seconda cosa invece è il fuoco che arde nel camino. Il fuoco e Peeta; non mi importa di nient’altro.
Non ci siamo più mossi da quando abbiamo finito di fare l’amore… o meglio, io non mi sono mossa. Quando le legna nel camino hanno cominciato a consumarsi, Peeta si è alzato e ne ha aggiunte delle altre, poi ha fatto il giro della casa: ha spento le luci, ha chiuso a chiave la porta d’ingresso, ha controllato che tutto fosse in ordine. Non ha tralasciato nulla prima di tornare da me. Si è sdraiato alle mie spalle, ha steso la coperta sopra i nostri corpi nudi, e non ci siamo più spostati da allora.
Perché dovremmo farlo? Non verrà nessuno a cercarci. Non stanotte, almeno.
Non sono mai stata così consapevole del corpo di Peeta come ora. Mi sembra di sentirlo davvero per la prima volta. Il suo calore mi brucia la schiena, e le sue gambe sono intrecciate alle mie, a rimarcare il fatto che nessuno dei due ha intenzione di muoversi da lì. Persino la protesi è calda; è fatta di un materiale studiato apposta per assorbire il calore corporeo. Se non fosse così innaturalmente rigida, penserei che sia la sua gamba reale: una gamba fatta di carne, sangue e ossa.
Peeta è senza alcun dubbio quello uscito più ammaccato dagli Hunger Games; al confronto, il mio orecchio sordo era stata una barzelletta. E adesso vogliono rimandarlo nell’arena, per colpa mia. Devo assolutamente parlare con Haymitch, dobbiamo trovare il modo di salvarlo. Me lo deve, in fondo. L’anno scorso non ha deciso che era lui il più debole da sacrificare? Non ha puntato tutto su di me? E Peeta, agendo nel modo in cui ha agito, non ha dato il suo contributo per salvare la mia vita? Quest’anno dobbiamo fare l’esatto contrario: dobbiamo sacrificarci per il suo bene, per il bene di Peeta. Lo dobbiamo tenere fuori da quell’inferno.
- Domani chiederò ad Effie di inviarmi i vecchi nastri degli Hunger Games – dice Peeta, rompendo il silenzio.
A quanto pare, entrambi stiamo pensando a quello che accadrà tra pochi mesi. – Perché?
- Dobbiamo conoscere quelli che diventeranno i nostri rivali.
Chiudo gli occhi. Ogni volta che rimarca le sue intenzioni è come ricevere una pugnalata al cuore. Volto la testa verso di lui e lo guardo. – Peeta…
Invece di aggiungere qualcosa, mi bacia. Mi tiene la testa ferma contro la sua ed intensifica il bacio, saggia la mia bocca. – Ti amo – mormora sulle mie labbra. – Dovevo dirtelo, prima che fosse troppo tardi.

Mi ama. Sapevo che mi amava, e sentirlo dalla sua bocca è solo la conferma di quel che sospettavo già da mesi. Peeta non ha mai tenuto segreti i suoi sentimenti per me, è solo che non li ha mai confessati. Non ha mai provato, nemmeno una volta, ad esporsi come ha fatto adesso. Non l’ha fatto neanche durante la proposta di matrimonio: non ha mai accennato all’amore, non ha mai detto “ti amo”.
Questa è la prima volta che lo fa.
Ed io, lo amo?
Si aspetta una risposta da parte mia?
- Peeta- inizio, ma lui non mi fa continuare la frase. Mi zittisce con un sussurro e preme un dito contro le mie labbra.
- Non serve che lo dici anche tu, Kat. Va bene così. Volevo farlo per me, adesso che ne ho ancora la possibilità.
- Avrai tutte le possibilità che vuoi, Peeta, perché non andrai da nessuna parte – mormoro.
- È già deciso, Katniss. Verrò nell’arena insieme a te.
- No, invece! Dirò ad Haymitch di offrirsi volontario se esce il tuo nome alla mietitura. Non lascerò che tu muoia per me.
- E lascerai che sia Haymitch a morire?
- No, sarò io la sola a morire. Voi vivete, io muoio. Punto.
Il suo viso si rabbuia. - Sai che non te lo lascerò mai fare.
- Dovrai, invece, altrimenti ti ucciderò io stessa prima della mietitura! – esclamo.
- Mi ucciderai, davvero? – sussurra, e nel giro di un secondo ribalta le nostre posizioni.
Mi ritrovo schiacciata sul parquet, con tutto il suo peso a gravare sul mio corpo. Peeta afferra le mie mani e mi fa alzare le braccia verso l’alto, mette a tacere la mia bocca con un bacio rude, premendo e mordendo il mio labbro superiore. Quando le nostre intimità entrano in contatto, un brivido percorre il mio corpo. Gemo contro le sue labbra. Odio il potere che ha su di me, odio la reazione che riesce a scatenare grazie ad un solo, flebile contatto. Smette di baciarmi ed approfondisce il contatto dei nostri bacini, e una nuova ondata di piacere mi fa inarcare la schiena e sospirare ad alta voce.
- Come puoi uccidermi quando mi basta farti questo per farti sciogliere? – mi rimbecca, alitando sulle mie labbra socchiuse. – Sei creta nelle mie mani, Kat, guardati…
Rispondo alla sua provocazione nello stesso modo: mordendogli le labbra. Preso alla sprovvista, riesco a liberarmi quel tanto che mi basta per girare su me stessa. Adesso lui è sdraiato sulla schiena ed io gli sono seduta sulla pancia, e gli riservo la stessa medicina che lui stava dando a me. Poso le mani sulle sue spalle e cerco di tenerlo fermo mentre ondeggio con il mio bacino contro il suo. Sento il suo membro reagire alla stimolazione, sento il suo corpo irrigidirsi. Vedo i suoi occhi chiudersi per il piacere che gli sto dando.
- Anche tu sei creta, Peeta. Non vedi l’ora di rifare l’amore con me – lo sfido, scendendo sul suo viso. Gli lecco le labbra.
Lui, senza pudore, afferra il mio sedere e lo stringe tra le mani. – Fare l’amore con te sarebbe un bel modo in cui morire – ammette.
- Non ti permetterò di morire in nessun modo, mai.
- Allora abbiamo un bel problema, non ti pare?
Già, lo abbiamo eccome. Lui farà di tutto per lasciarmi vivere, ed io farò di tutto per lasciarlo vivere. È una situazione di stallo, la nostra: le nostre mosse andranno a scontrarsi per raggiungere l’obiettivo finale, ma senza ottenerlo veramente. Andremo ad ottenere l’esatto opposto. Ci uccideremo a vicenda.
Mi abbandono sul suo petto, demoralizzata. Non lo guardo, volto il viso in modo da fissare il legno del parquet e i piedi del divano, a poca distanza da noi. Peeta mi abbraccia, mi bacia i capelli, e non dice nulla.
Comincio a mordermi le unghie, e l’occhio mi cade sul fiore che, da mesi, porto al dito. L’anello che mi ha regalato Peeta. Avevo completamente dimenticato la sua presenza. Adesso che non vale più nulla, che il matrimonio non si farà più, ha smesso di pesare. Resto ad osservare le gemme che brillano davanti ai miei occhi grazie alla soffusa luce del fuoco.
Non è vero che non vale più nulla: per me avrà sempre un significato importante. È l’anello che mi ha regalato Peeta, è l’anello con cui ha chiesto la mia mano. È l’anello con cui vorrei essere sepolta nella tomba. Non voglio più separarmi da quest’oggetto. È il segno del suo amore, la prova tangibile del legame che ci tiene insieme. Voglio che anche nell’oltretomba sappiano che ho avuto la fortuna di essere stata amata così tanto da un uomo al punto da volermi sposare. Quest’uomo mi ha amata, e mi ama, così tanto da volermi come compagna per la vita.
Voglio…
- Katniss?
Mi sono rimessa in piedi, ho iniziato a correre. Non sento davvero la voce di Peeta che chiama il mio nome. Corro dritta in cucina, incurante di essere nuda come il giorno in cui sono venuta al mondo. Al buio, comincio a frugare nei cassetti, negli stipiti e nelle mensole, alla ricerca dell’unica cosa che, so, non mancherebbe mai nella casa di un fornaio.
Quando torno, Peeta è seduto davanti al fuoco. – Non che non mi piaccia vederti correre nuda per casa, ma… - osserva quello che la mia mano stringe. – Pane alle noci? Ti preparo qualcos’altro, se hai fame.
È pane alle noci? Al buio non ho fatto caso a quel che ho preso. Andrà bene lo stesso. – Non ho fame – dico, sedendomi accanto a lui. Gli porgo la fetta di pane. – Aiutami a tostarla.
Peeta fa per prenderla, e si ferma quando intuisce le mie intenzioni. Punta gli occhi azzurri nei miei, la bocca socchiusa in un’espressione di sorpresa. – Ne sei sicura?
- Non voglio che ci tolgano anche questo.
Lo osservo mentre prepara la brace, mentre sistema il pane sui carboni. Nel giro di un paio di minuti, la fetta è tostata su entrambi i lati. Sono le semplici mosse che abbiamo sempre fatto per preparare da mangiare, ma che non abbiamo mai fatto se le consideriamo nell’ottica che qui, nel Distretto 12, chiamiamo “cerimonia della tostatura”. È la prima cosa che gli sposi novelli compiono quando arrivano nella loro nuova casa: accendono il fuoco, tostano il pane, condividono una fetta tra di loro e i pochi ospiti che hanno assistito al rito.
Noi siamo da soli, così condivideremo il pane solo con noi stessi. Non è un vero matrimonio, il nostro, e non sostituirà mai i documenti legali e la sfarzosa cerimonia che ci avrebbe visti protagonisti a fine agosto. Ma, come dicono tutti quanti, qui al 12 non ci si sente realmente sposati fino a che il pane non è tostato. Sono i piccoli gesti, non le grandi mosse, a fare davvero la differenza.
Ed io, irrazionale quale sono, non sopporto l’idea di non avere la possibilità di diventare sua moglie. Due ore fa non volevo il matrimonio in grande, e adesso voglio legarmi a Peeta per la vita. Irrazionale.
- Ricordi la sera in cui mi hai fatto la proposta? – chiedo a Peeta nell’esatto istante in cui prende il pane tostato. – Mi hai detto che un giorno avresti tostato il pane insieme a me.
Annuisce. – Lo ricordo, sì – ridacchia. Mi guarda, e mi porge il pane.
Ho assistito alla cerimonia della tostatura diverse volte, e tutte le volte si sono compiuti gli stessi, identici gesti. Lo sposo porge il pane alla sposa, che afferra la fetta dal lato opposto a quello del suo innamorato. Insieme, fanno forza verso il basso fino a che il pane non si spezza in due metà.
È quello che facciamo noi adesso. Il pane si rompe con uno sonoro ‘crac’, ed in un istante siamo sposati.
Senza testimoni, senza abiti da cerimonia, senza rinfreschi, decorazioni, invitati… ci siamo soltanto noi due, davanti al fuoco. E dentro di me sento che è così, che sarebbe dovuto andare sin dal principio. A che servono nozze sfarzose e favolose se quello che conta davvero, alla fine, è condividere insieme una fetta di pane?
Io e Peeta ci guardiamo in preda all’ilarità per quel che abbiamo appena fatto. Ci siamo sposati da soli, illegalmente, e per giunta senza niente addosso! Effie potrebbe svenire al solo pensiero di assistere ad un matrimonio fuori dagli schemi come il nostro.
Ma non è il momento di pensare ad Effie.
Prendo un pezzetto di mollica dalla parte di Peeta e lo mastico, assaporando le scaglie di noci e nocciole che vi sono mischiate. Peeta fa lo stesso, e poi mi tira verso di lui. Caccio un urlo indignato e divertito mentre mi siedo sulle sue cosce.
- Posso baciare la sposa? – chiede speranzoso.
È a me che si sta rivolgendo: sono la sua sposa.
Circondo il suo collo con le braccia, sfioro appena il mio naso contro il suo, poi soddisfo la sua richiesta. Lo bacio.
Bacio mio marito.

 

 

 

 

 

 

__________________________
1Questo è lo spoiler a cui mi riferivo sopra. Anche nella trilogia Katniss accenna all’esistenza di un altro vincitore del 12 oltre ad Haymitch, ma io ho senza alcun dubbio fatto di peggio. Credo di avervi spoilerato l’intero libro. Sono imperdonabile. Sono tremenda con gli spoiler. Una volta ho spoilerato la morte di Jon Snow a una ragazza che era ancora ferma alla seconda stagione di GOT. Ecco… altro spoiler.


Bene, bene, bene.
Non potevo ripercorrere Catching Fire senza metterci in mezzo il what if? per eccellenza: le nozze di Peeta e Katniss. Ma quanto sono carini?
Per farmi perdonare dall’orrenda dose di spoiler di cui sparlavo sopra, vi lascio di seguito una piccolissima anticipazione del prossimo capitolo. Come al solito vi ringrazio e vi do appuntamento a lunedì prossimo :*

 

La corda mi cade dalle mani. Trattengo il respiro. Un macigno sembra essersi appena posato sul mio cuore. È come ricevere un pugno in pieno viso. Tutto nel giro di un istante. Meno male che sono rimasta da sola nello studio: come giustificare questa mia reazione? Devo, inoltre, avere una faccia orribile.
La mia mente corre veloce, a ritroso, cerca di riportare a galla gli eventi passati.

 

Cosa pensate che sia accaduto?

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Capitolo 13
*** 13. ***


In The Still Of The Night - 13

In the still of the night

 

 

 

 

 

 

13.

 

Ci alleniamo.
Il nuovo regime di allenamento che abbiamo deciso di seguire ci aiuta a non pensare. Ha assunto un significato duplice: distrazione, e preparazione all’arena. Anche se ogni volta questi significati si vanno ad intrecciare, inevitabilmente. È impossibile non pensare agli Hunger Games imminenti quando ti alleni al tuo meglio per poterli affrontare. È impossibile non pensare a cosa lascerai indietro quando, ogni giorno, osservi la realtà che hai davanti agli occhi.
Il piano di preparazione è scattato la mattina dopo l’annuncio dell’Edizione della Memoria. Peeta, come promesso, ha chiesto ad Effie i nastri dei vecchi Hunger Games; io, mentre lui era ancora impegnato al telefono con la nostra accompagnatrice, sono sgattaiolata via. Sono andata da Haymitch per metterlo al corrente delle mie intenzioni. Ho dovuto svegliarlo a forza, come accade spesso, e anche se non era nelle condizioni migliori per ascoltarmi gli ho detto tutto. Gli ho chiesto di salvare Peeta. Gli ho chiesto di ignorare la richiesta che gli aveva fatto la sera prima. Lui, ancora sbronzo, mi ha rivolto uno sguardo pieno di dolore.
- Vuoi che muoia al posto del ragazzo?
- No, Haymitch, no. Sarò io l’unica a morire stavolta. Peeta vive, io muoio. E l’altro tornerà a casa da vincitore, con l’altro come mentore.
Haymitch ha sospirato, si è passato una mano sui capelli luridi, ha afferrato una bottiglia ed ha cominciato a bere. Ha ripreso a bere, mi correggo. Ripper deve essere di nuovo in affari. – Non posso garantirti nulla, dolcezza, ma posso provarci – ha detto alla fine. – Se uscirà il suo nome, mi offrirò volontario per sostituirlo. Ma non posso fare nulla se esce il mio nome. Non potrò fare nulla per salvarlo, in quel caso.
Ho deglutito, annuendo. Ho mormorato un “Grazie” in risposta nello stesso momento in cui Peeta è comparso nella cucina. Mi ha guardata storto, ma non ha detto nulla. Forse ha intuito cos’è che stavo provando a fare, ma non ha indagato ulteriormente. Ha cominciato, invece, a fare una cosa che ha fatto uscire letteralmente dai gangheri Haymitch: ha preso tutte le bottiglie di liquore che è riuscito a radunare in casa e le ha svuotate nel gabinetto.
- Dobbiamo iniziare ad allenarci e a comportarci da Favoriti – ha annunciato, senza dar peso alla serie di insulti e parolacce che gli ha lanciato l’uomo mezzo ubriaco. – Non possiamo permetterci di sottovalutare nulla, stavolta.
E così facciamo, anche Haymitch. Corriamo, solleviamo pesi, ci alleniamo a lanciare coltelli. La domenica si aggiunge anche Gale e ci mostra come fare i lacci delle trappole. A me non è che serva poi molto, ma per gli altri è un’arte che può tornare utile.
Io e Peeta non abbiamo detto a nessuno della tostatura. Non che ci vergogniamo a rivelarlo, ma inconsapevolmente entrambi abbiamo deciso di tenere per noi questo matrimonio: è una cosa nostra, e solo nostra deve rimanere. Siamo sposati solo per noi, non per chi ci circonda. Non per Panem, non per il presidente.
È per questo che non dico nulla a Gale, né a mia madre e a Prim. È per questo che Peeta non lo dice ai suoi familiari. È per questo che non lo diciamo nemmeno ad Haymitch. Lui, poi, è talmente preso a sopportare la fatica, il fisico che dopo decenni di abusi non riesce ad affrontare neanche la corsa, da non far caso a noi. Quasi nessuno fa più caso a noi, in realtà.
A nessuno interessano più due ragazzi che di lì a pochi mesi non ci saranno più. Quelle poche volte che andiamo in piazza, che giriamo per il Distretto, non ci guardano neanche. Siamo come fantasmi, persone evanescenti ed invisibili la cui presenza è divenuta terribilmente semplice da ignorare. Ma tutto ciò che non sia doloroso è facile da ignorare. Dopo l’annuncio dell’Edizione della Memoria sono arrivati altri Pacificatori, raddoppiando il numero di quelli che erano già presenti e raddoppiando, di conseguenza, il numero dei soprusi e delle angherie sugli abitanti, sui cittadini indifesi.
Non c’è più nessun rischio di rivolta. Non c’è mai stato davvero. Spero che anche Gale lo abbia capito finalmente. Non parliamo molto, ad essere sincera, quindi non so a cosa pensa tutte le volte che rimane in silenzio. L’ultima, vera discussione che abbiamo avuto insieme risale alla prima domenica dopo l’annuncio degli Hunger Games, quando è venuto ad offrirci il suo aiuto: in quell’occasione mi ha abbracciata stretta ed ha mormorato un “Mi dispiace” al mio orecchio.
- Non fa niente – ho detto io, ricambiando il suo abbraccio.
- Avevi ragione, Catnip. Dovevamo andare via settimane fa, quando potevamo – ha aggiunto.
Scuoto la testa quando mi allontano da lui. – Non avremo mai potuto davvero farlo.
Cosa mi era passato per la mente? Scappare? Dovevo essere impazzita, non c’è altra spiegazione. La paura non mi faceva ragionare, ero troppo presa dalla paura per guardare lucidamente a ciò che stava accadendo. Avevo troppa paura per coloro a cui voglio bene per sapere che, agendo come avrei voluto agire, li avrei messi solo in pericolo. Avrei solamente rischiato di peggiorare la situazione, situazione che già stava crollando a picco, e ad una velocità vertiginosa.
Adesso non ho più tutta questa paura. Perché dovrei averne? I miei timori più accecanti si sono avverati la sera del quattro aprile, ed è impossibile correre ai ripari. Ora come ora, so solo che alla fine di tutto ci sarà la pace. Pace per la mia famiglia, che avrà un peso in meno da sopportare: staranno meglio senza di me, che ho causato loro così tanta pena e dolore nell’ultimo anno. Cosa se ne fanno di una figlia e sorella capace solo di rovinare la vita a chi la circonda? Sono solo un peso per loro, e Capitol City sta facendo loro un favore a rimandarmi nell’arena per la seconda volta.
Non ho paura di morire. Sogno spesso di morire, ultimamente. I sogni nei quali sto morendo sono i migliori che abbia mai avuto1. Quando mi sveglio, sono allo stesso tempo sollevata e irritata: sollevata perché nel sogno io morivo e Peeta viveva, ed irritata perché scopro che quel momento non è ancora arrivato.
C’è un giorno che arriva, un giorno che avevo totalmente cancellato dalla memoria e dal calendario, ed è il giorno del mio compleanno. È l’8 maggio, compio diciassette anni. La giornata trascorre come al solito, e nessuno accenna alla ricorrenza. Nessuno sembra essersene ricordato, forse nemmeno io. Cinque anni fa avevo atteso questo giorno con trepidazione, perché avevo finalmente raggiunto l’età adatta per avere le tessere e il cibo che avrebbe permesso alla mia famiglia di sopravvivere. Erano passati pochi mesi dalla morte di mio padre. Era il giorno in cui avevo cominciato a ricoprire, in qualche modo, il ruolo di capofamiglia. Adesso, invece, nessuno presta caso al mio compleanno. È l’ultimo della mia vita, l’ultimo che compirò, e non c’è davvero nulla da festeggiare.
Ed invece, quella sera, trovo una sorta di rinfresco allestito nella mia cucina. Quando torno al piano di sotto, dopo aver fatto il mio bagno serale, trovo una piccola folla riunita ad aspettarmi: la mamma, Prim, Haymitch – come hanno fatto a convincerlo?! -, Gale, che in qualche modo è riuscito a non farsi beccare, ancora sporco dopo il lavoro alle miniere, e Peeta, naturalmente. Peeta è sempre presente. Sul tavolo, in bella vista, c’è una torta di compleanno candida ricoperta di fiori di lillà. Quei fiori li riconoscerei ovunque.
È l’ultimo compleanno della mia vita. È l’ultimo che compirò. È l’ultimo compleanno di cui avrò memoria. Ma è il primo compleanno che sembra davvero un compleanno. E vorrei che non fosse così difficile da ammettere.
Peeta mi viene incontro, mi abbraccia e mi augura buon compleanno. Lo trattengo a me per tanto, tanto tempo, nascondendo il mio viso in modo che non lo possa vedere. Non voglio che mi veda piangere. Perché è un compleanno che non vale la pena di essere festeggiato. Perché è triste, festeggiare una ragazza che compie diciassette anni appena e che ha già una data di morte prefissata.
Come un prodotto, ho una data di scadenza. È così vicina. È sempre più vicina. Mi aggrappo a Peeta ogni volta che posso, e cerco di scacciarla via.
Spesso, la sera, vado a dormire da lui. Non cerco di nascondermi quando esco di casa, non tento in alcun modo di nascondere le mie intenzioni: lo faccio e basta. E, quasi lo speravo, nessuno dice nulla. Alcune volte accade perché abbiamo terminato di vedere i nastri, altre volte invece lo faccio di proposito. E ogni volta, finiamo col fare l’amore. Sembriamo dei disperati ogni volta. Ed in effetti lo siamo: disperati. Prendiamo e regaliamo a vicenda l’amore ed il piacere che proviamo, ogni volta. Immagazziniamo quei ricordi e quegli istanti che ci fanno andare avanti. Io lo faccio per avere qualcosa di bello da ricordare nel momento in cui la morte mi porterà via con sé. Non conosco il motivo per cui lo fa Peeta, e spero con tutta me stessa che non sia lo stesso. Io ho ancora intenzione di salvarlo. Mi aggrappo a quel cinquanta per cento di probabilità in cui Peeta vive, ed io muoio. Non voglio pensare a lui con me nell’arena, non voglio e basta.
Siamo tornati su questa discussione varie volte, e tutte le volte si è risolta in un buco nell’acqua: sempre la stessa situazione di stallo. Io non cambio idea, lui non cambia idea. Per metterci a tacere l’un l’altro, allora, facciamo l’amore. Siamo sempre così arrabbiati quando accade, e i graffi e i lividi che ci ritroviamo addosso ne sono la dimostrazione.
Ormai non serve più inventarsi scuse per stare insieme nel modo in cui desideriamo, non serve. Anche un cieco capirebbe. Nessuno tenta di separarci.
Ma, sapendo ciò che so adesso, forse avrei dovuto provarci io stessa.

 

Sono passati pochi giorni dal mio compleanno. Mi trovo nello studio di casa mia: seduta alla scrivania, c’è Prim impegnata coi suoi compiti di scuola. Accanto a lei c’è la mamma intenta a fare il lavoro a maglia. È strano vederla impegnata in un’attività così tranquilla e per niente pericolosa, totalmente diversa da quelle che si ritrova a fare da una manciata di mesi a questa parte. Io, leggermente in disparte, cerco di ricordare il modo in cui ottenere la serie di nodi che ho imparato l’anno scorso al Centro di Addestramento. Ho diversi pezzi di corda accanto a me, sul divanetto, con cui provare tutto il pomeriggio.
Per oggi, l’allenamento si è svolto solo durante la mattinata. Peeta aveva in programma, nel pomeriggio, di andare alla panetteria per decorare alcune torte da mettere in esposizione nella vetrina. È il più bravo con le decorazioni, quindi è ovvio che i suoi si siano rivolti a lui per realizzarle. Non ci vuole un genio, però, per capire che è un modo per trascorrere alcune ore tranquille con la sua famiglia. Ore in cui non pensare al futuro, ai giochi, alla possibilità di tornare nell’arena. E, inevitabilmente, alla morte che potrebbe sopraggiungere. Anche io sto trascorrendo delle ore piacevoli con la mia, di famiglia, anche se faccio nodi di corda e non foglie in pasta di mandorle. Neanche volendo riuscirei a fare qualcosa di più delicato.
La giornata è calda e piacevole, una classica giornata primaverile in cui si possono già assaporare i primi sentori dell’estate. Abbiamo aperto la finestra per far entrare un po' di brezza; accanto alla tenda, che si muove smossa dall’aria, ronza un’ape. Un raggio di sole illumina la superficie in mogano della scrivania, ad una spanna dal braccio di Prim.
È esattamente come una giornata di quasi metà maggio dovrebbe essere: tranquilla. Così come stanno le cose, nessuno penserebbe che ci sia qualcosa che non va. All’esterno, sembriamo una normale famiglia felice, che gode della reciproca compagnia. Ma non è così.
Stringo la corda, ed il nodo che stavo provando a fare si scioglie del tutto. Un verso di disappunto mi sale in gola: non dovrebbe sciogliersi. Dov’è che ho sbagliato? Cerco di rivedere i vari passaggi nella mente, eppure sembrano tutti giusti. Ricomincio daccapo. Almeno questo nodo entro sera vorrei riuscire ad ottenerlo. Alle brutte, penso, farò una capatina alla sezione dei nodi una volta che sarò al Centro di Addestramento.
Bella prospettiva.
Quando sono così impegnata in qualcosa, mi distraggo facilmente e non presto caso a ciò che mi circonda. Anche adesso, non do molto peso alle chiacchiere di Prim. Un discorso, però, attira la mia attenzione. Mia sorella sta raccontando alla mamma che una sua compagna di classe, Daisy Miller, sta per avere un altro fratellino. Sua madre è incinta.
- Ma Daisy non ha già quattro fratelli più piccoli? – chiedo, senza distogliere gli occhi dalla corda.
- Sì, ed è per questo che è molto preoccupata. L’ultima gravidanza della signora Miller è stata difficile, e lei non è più così giovane. Ha paura per lei – mi spiega. Le sue parole, però, sono rivolte più a nostra madre che a me. È lei il medico di casa.
- Potrei andare a visitarla se ce ne sarà bisogno – dice lei, infatti. Sta ancora parlando quando si alza per andare a preparale la cena, e Prim la segue.
Scuoto la testa, demoralizzata. Riprendo il mio nodo. La famiglia di Daisy vive nel Giacimento e non se la passa molto bene. Con solo il padre che lavora nelle miniere, e cinque figli da sfamare. E con un sesto in arrivo. Non riuscirò mai a capire cosa porta un genitore a mettere al mondo un figlio proprio nel mondo in cui viviamo, e soltanto per vederlo, lentamente, morire di fame. Specialmente adesso, in cui la situazione e la vita nel Distretto è peggiorata drasticamente…
La corda mi cade dalle mani. Trattengo il respiro. Un macigno sembra essersi appena posato sul mio cuore. È come ricevere un pugno in pieno viso. Tutto nel giro di un istante. Meno male che sono rimasta da sola nello studio: come giustificare questa mia reazione? Devo, inoltre, avere una faccia orribile.
La mia mente corre veloce, a ritroso, cerca di riportare a galla gli eventi passati. Cerca di ricordare l’ultima volta in cui ho avuto il ciclo mestruale. Due mesi. Sono due mesi che non ho le mestruazioni.
La mia faccia deve essere tutta un programma. Parlo tanto degli altri, parlo tanto di chi mette al mondo i bambini quando non può garantirgli con nessuna sicurezza un futuro felice… ed io, che parlo a fare?
Sono incinta, e sono condannata a morire negli Hunger Games!

No. Non posso essere incinta, penso. Ci sono una miriade di motivi per cui il ciclo non arriva. Io stessa, li ho subiti sulla mia pelle per anni questi motivi.
A causa della malnutrizione, della fiacchezza, della preoccupazione: ci sono davvero delle spiegazioni accurate per cui non avere il ciclo. Ed il mio è stato incostante sin dalla prima volta che l’ho avuto. Non c’è mai stato un vero motivo per cui preoccuparsi, quindi quando accadeva, dovevo solo aspettare che arrivasse il mese giusto per vederlo di nuovo. Il poco cibo e la preoccupazione costante hanno sempre fatto sì che il mio ciclo tardasse o sparisse, a cadenze irregolari.
Nell’ultimo anno la condizione non è cambiata, sebbene il mio stile di vita sia migliorato considerevolmente. A causa di tutto il resto, ho continuato a vedere le mestruazioni un mese sì e tre no. Ricordo benissimo di averle avute a inizio marzo. Ma sono solo due mesi, e lo stress che ho provato da allora, e che sto ancora provando, può aver inciso sulla loro assenza. Può benissimo essere un falso allarme. Non vuol dire che sono incinta.
Mi aggrappo a questa speranza. È solo stress, mi dico, solo stress. Prendo di nuovo in mano la corda e cerco di ricordare il nodo che stavo facendo. Le mie mani tremano. Non sono incinta, mi dico. Non posso esserlo, perché non ho nulla, a parte l’assenza delle mestruazioni, che mi faccia pensare ad un possibile bimbo in arrivo. Non ho la nausea. Non ho il vomito. Non ho nessun’altra serie di sintomi legati alla gravidanza. Non sto male.

Però hai fatto l’amore con Peeta. E non una volta sola.
La corda cade di nuovo a terra.
Mi copro il viso con le mani.

 

Decido di tenere per me ciò che provo. Decido di tenere nascosto per una notte il mio segreto. Sto sbagliando e ne sono più che consapevole, perché vivo con una donna che sarebbe in grado di dare una risposta negativa o positiva alle mie domande e ai miei dubbi nel giro di pochi minuti, ma non voglio farlo. Spero che nel giro di una notte possa cambiare tutto quanto. E invece non cambia nulla. Il mattino dopo, delle mestruazioni non ce n’è ancora traccia. Se è stress, sta andando davvero alla grande: a quello per gli Hunger Games si è andato ad aggiungere quello per il bambino. Ecco perché non arrivano.
No, non arrivano perché aspetti proprio un bambino. Metto a tacere la voce.
Anche oggi niente allenamento: Peeta è ancora in panetteria a fare dolci. Non che mi dispiaccia, in fondo. Ho del tempo in più a disposizione per capire come devo comportarmi, come devo muovermi. Posso ragionare senza pressioni… no, quelle ci sono lo stesso.
Mentre mi vesto, presto più attenzione del solito al mio corpo. Solo con la biancheria addosso, mi osservo allo specchio e non mi sembra di essere così diversa: non sembra esserci nulla che non vada. Sono sempre magra, ma un po' più muscolosa a causa degli allenamenti. Non sembra esserci nulla di strano, o di sospetto. Le ossa del bacino non sono così sporgenti come un tempo, questo perché ho più cibo da consumare. Con timore, sollevo l’orlo della canotta ed osservo le mie mani che vanno a posarsi sulla pancia, nel punto in cui, in teoria, dovrebbe esserci il bambino. Non sento nulla, a parte un leggero gonfiore. Gonfiore che, se lo osservo di profilo, si nota appena. Eccola, l’unica nota stonata.
Potrebbe essere gonfiore intestinale.

Le pensi a tutte pur di non guardare in faccia la realtà.
Già, perché la realtà fa soltanto male. Metto di nuovo a tacere la voce, e comincio a soppesare le opzioni.
Che fare? Parlarne alla mamma? Lei potrebbe aiutarmi… ma come faccio a confessarle che potrei essere incinta del bambino di Peeta? Come faccio a dirglielo? Come posso anche solo guardarla negli occhi mentre glielo chiedo? No, è fuori discussione.
C’è la moglie del farmacista, Lana. Potrei rivolgermi a lei, dato che in quanto a competenza è quasi allo stesso livello di mia madre, ma anche questa soluzione sembra sbagliata. Voglio che la cosa rimanga il più segreta possibile, per questo andare da una persona estranea mi sembra errato. Così come è errato non dire nulla alla mamma per paura della sua reazione. Grugnisco, e infilo il primo paio di pantaloni pulito che mi capita sottomano. Non posso continuare a pesare i pro e i contro all’infinito. Devo darmi una mossa e alla svelta, perché se quel che ho toccato non è semplice gonfiore, può essere solamente un bambino in fase di sviluppo. E non di due mesi soltanto.
Alla fine, scelgo di andare da Lana. Non impazzisco all’idea, ma non ho molte opzioni tra cui scegliere. E poi, devo sapere. Se lasciassi passare altro tempo, potrei avere la certezza sui miei dubbi solo quando la pancia comincerà a crescere – se crescerà - e al momento non è il massimo delle prospettive. Non posso permettermi il lusso di aspettare.
Entro nella piccola bottega con la scusa di prendere le bende e le tinture per medicare le ferite, anche se devo ammettere che può passare tranquillamente per realtà, e non solo come scusa, vista la situazione in cui verte il Distretto. In qualche modo credo di dovermi ritenere fortunata, perché sono l’unica cliente ed a servirmi è proprio la persona di cui ho un così disperato bisogno.
- Jon è dovuto uscire per delle commissioni – mi riferisce quando le chiedo dove si trovi suo marito. È una donna molto gentile, ho avuto modo di conoscerla già da diverso tempo, quando ancora per racimolare qualcosa vendevo e barattavo la selvaggina che cacciavo. Adesso, anche per via dello stato delle cose, i nostri rapporti si sono stabilizzati nel classico commerciante/cliente. – Hai bisogno di altro, cara?
Deglutisco, sento la bocca improvvisamente secca. – Potrebbe darmi una mano?
Al sicuro nel retrobottega, le spiego con molto timore i miei dubbi e lei, dopo avermi ascoltata, mi fornisce il suo aiuto. Mi rassicura sul fatto che non dirà nulla a nessuno, sa essere una persona molto discreta. Non mi fa sentire a disagio, mi fa alcune domande un po' più approfondite, mi visita.
Ma soprattutto, mi dà le risposte che cercavo.

 

 

 

 

 

 

________________________

1  And I find it kind of funny/I find it kind of sad/The dreams in which I’m dying are the best I’ve ever had…
Mentre scrivevo questo capitolo ho rivisto Donnie Darko (lo avete visto, sì?) e, come succede ogni volta che lo guardo, non ci ho capito un cazzo mi sono persa nella struggente sequenza finale accompagnata dalle note di Mad World. Questa frase è tratta dal ritornello: ma quanto può essere azzeccata per la situazione? Ne sono rimasta stupita.

 

Well, well, well.
È ignobile da parte mia lasciarvi così in sospeso: inizialmente questo capitolo aveva un’altra pagina a concluderlo, ma l’ho spostata all’inizio del 14 perché… beh. Capitemi: conteneva le risposte che Katniss sta cercando, e so che avete già capito qual è la risposta – non è un mistero! Avrei potuto benissimo lasciarvele in questo, ma un po' di suspence non fa mai male. E sì, sono perfida. Voglio farvi aspettare.
Quindi: si sta per realizzare l’altro what if? per eccellenza? Lo saprete lunedì prossimo.
Un abbraccio e un bacione a tutti voi!

D.

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Capitolo 14
*** 14. ***


In The Still Of The Night - 14

In the still of the night

 

 

 

 

 

14.

 

Sono seduta sul pavimento davanti al camino quando Peeta torna a casa. Entra dalla porta di servizio, quindi non riesco a vederlo. Non so se avrò il coraggio di farlo, quando verrà qui.
Il fuoco è acceso, anche se ormai le giornate sono diventate abbastanza calde per avere costantemente il camino acceso. Non è più necessario. Guardare le fiamme, però, mi tranquillizza. E mentre aspettavo il suo ritorno, avevo il disperato bisogno di tenermi impegnata in qualche modo, così l’ho acceso. Il comignolo fumante era anche un segnale per lui, per fargli capire che in casa c’era qualcuno.
Mi ci sono intrufolata senza dirglielo. Dopo essere uscita dalla bottega del farmacista sarei voluta passare in panetteria per dirgli che lo aspettavo a casa, ma all’ultimo momento non me la sono sentita e sono fuggita via. Credo di aver intravisto uno dei fratelli maggiori di Peeta che mi salutava, ma non sono rimasta abbastanza per capire se fosse effettivamente lui.
Deve aver pensato che sono davvero strana. La fidanzata strana del suo fratellino.
Pensavo che avrei provato qualcosa nel sapere di essere incinta, ma quando Lana me l’ha detto, non ho sentito niente. Non sentire niente è quasi peggio del provare rabbia, angoscia o dolore. Non sentire niente significa che sei arrivato quasi al limite della sopportazione.
- Sei di tre mesi, quasi quattro – mi ha detto. – Sei proprio sicura di non aver avuto malesseri, o altro? Sei molto avanti per non essertene resa conto prima – ha aggiunto, ed il suo tono di voce aveva le stesse sfumature preoccupate che aveva assunto il suo viso. Sembrava, in qualche modo, provare pena per me.
Ho scosso la testa, e basta. No, non ho avuto niente. Perché non ho sentito niente? – Ma allora, il ciclo? Ho solo due mesi di ritardo.
Mi ha spiegato che è normale, alle volte, avere delle perdite durante le prime settimane. “Perdite da impianto”, le chiamano. Non ho voluto indagare ulteriormente, ma mi è bastato capire quel poco che serve: quelle perdite possono benissimo essere scambiate per mestruazioni. In realtà, queste mancano da molto prima. Dal Tour della Vittoria, almeno.
Con le ginocchia strette al petto, osservo il fuoco. Sento Peeta che sistema cose e chiacchiera tranquillamente. Sa che riesco a sentirlo.
- …ho dei biscotti da farti assaggiare. Non li ho preparati io, ma mio fratello. A proposito, ha detto di averti vista in piazza oggi, ma che non ne era sicuro. Eri davvero tu? Potevi entrare! Sai che non disturbi mai quando passi… ehi, che fai qui davanti?
Mi ha raggiunta, nel frattempo. Con la coda dell’occhio, lo vedo inginocchiarsi accanto a me. Mi sta osservando. Io ho paura di voltare il viso dalla sua parte. Devo dirglielo, ma non so come fare, che parole usare. Come devo dirglielo? Come reagirà? Non bene, conoscendolo.
- Che succede, Kat? Perché sei così silenziosa? – una mano mi tocca i capelli, scorre verso il basso a seguire la trama della solita treccia in cui li ho legati.
Chiudo gli occhi, prendo un respiro profondo. – Non siamo stati attenti – mormoro. Non è proprio quello che mi aspettavo.
- Che? In che senso, non siamo stati attenti?

Diglielo e basta. Stavolta, invece di zittirla, do ragione alla mia coscienza.
Giro la testa e, finalmente, incrocio lo sguardo azzurro di Peeta. Non sopporto di dovergli dare altro dolore, altra pena.
- Peeta… aspetto un bambino.
- Che cosa? – esclama, urla quasi. Cade a sedere di peso sul pavimento. – Sei impazzita! Che significa?
- Che sono incinta – uso l’altra parola che, forse, può fargli capire meglio la situazione in cui mi trovo. In cui ci troviamo, in effetti. Se questo bambino è qui, dopotutto, è a causa di entrambi. È perché non siamo stati attenti. Su questo non avevo tutti i torti.
- Non è possibile – dice.

Oh sì, che lo è! Gli lancio un’occhiataccia. – Non devo essere io a spiegarti com’è che si fanno i bambini, eh Peeta? No, perché mi sembra che tu lo sappia già!
- No no, quello lo so! Cazzo, Katniss! – è frustrato. – Com’è possibile? Voglio dire… quando?
- Quasi quattro mesi fa.
- Quattro – mormora. Osserva me, poi le fiamme che ardono nel camino, poi di nuovo me. – Andrai nell’arena incinta.
- Lo so...
- No, non lo sai! Altrimenti avresti già fatto qualcosa! – urla, rimettendosi in piedi.
- E che cosa dovrei fare? – mi alzo anche io, scocciata. Di cosa mi sta accusando, esattamente?
- Reagire! Chiamare qualcuno! Devono sapere… lo stato in cui ti trovi, no? Dovranno pur fare qualcosa! – agita le braccia in maniera sconclusionata prima di passarsi le mani tra i capelli. Resta in questa posizione per qualche istante. – Lo dico ad Haymitch… no, chiamo Effie. Lei è a Capitol City, mi saprà sicuramente dire ciò che si deve fare…
- Cosa dovrebbe dirti Effie?
- Se possono annullare gli Hunger Games. Non andrai là dentro nelle tue condizioni.
Gli fermo le mani, che hanno già sollevato la cornetta del telefono. – Sei impazzito? Non annulleranno mai gli Hunger Games, non l’hanno mai fatto! Perché dovrebbero farlo stavolta?
- Perché sei incinta, Katniss! Ma non ci arrivi? O non vuoi arrivarci? – questo è un colpo basso.
- Non li annulleranno mai, perché a loro non interessa nulla! È solo uno spettacolo per loro, niente di più. Siamo solo pedine in una scacchiera…
- Importa a me, però! – sbraita. Mi afferra per le spalle. – A me importa di te! Sei incinta di mio figlio, cazzo! Come può non interessarmi… - la furia sta cedendo il passo alla paura, alla disperazione. Me lo stanno dicendo i suoi occhi, che si stanno riempiendo di lacrime ad ogni secondo che passa.
- Lo so, Peeta – mormoro. Cerco di farlo stare tranquillo nell’unico modo che conosco: abbracciandolo. Faccio scontrare le nostre fronti e lo stringo a me. – Andrà tutto bene…
- Dobbiamo dirlo a qualcuno – continua.
- Non stasera. Ascolta – gli circondo il viso con le mani. – Stanotte resto qui con te. E domani mattina, appena svegli, andiamo a parlare con Haymitch. Cominciamo col dirlo a lui, e vediamo cosa ci consiglia di fare. Va bene?
Annuisce senza troppa convinzione. Lo vedo, il modo in cui reagisce: sta già combattendo una lotta contro sé stesso. Contro ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Cercherà a tutti i costi di trovare una scappatoia per ciò che nessuno di noi due è in grado di affrontare. Per qualcosa a cui nessuno di noi due è pronto ad affrontare.
– Come stai?
Sorrido, piano. – Sto bene.
Sospira, stringendomi più forte. Posa il viso nell’incavo del mio collo e subito lo sento singhiozzare contro di esso. – Mi dispiace – dice.
Circondo le sue spalle e, con la guancia premuta contro i suoi capelli, alzo gli occhi al cielo nel tentativo, disperato, di non scoppiare in lacrime a mia volta.

 

- Annullare gli Hunger Games? Non si annullano gli Hunger Games. Non hanno mai annullato gli Hunger Games in settantacinque anni! Che storia è questa? – sbraita Haymitch al solo sentire la proposta di Peeta.
- Che ti dicevo? – la mia è una frecciatina nella sua direzione, anche se non voleva davvero esserlo.
- Tu sta zitta.
- Oh, piccioncini, problemi in paradiso? Che avete stamattina? – adesso ridacchia, Haymitch, bevendo del succo d’arancia. Sembra troppo annacquato per essere solamente succo d’arancia, ma non è per indagare sulle bevande di Haymitch che siamo qui.
- È possibile rivolgersi a qualcuno per sapere se si possono annullare? – tenta di nuovo Peeta, ignorandoci.
- Certo, ma dubito altamente che li annullino, ragazzo. E dimmi, quale sarebbe la scusante per cui dovrebbero farlo?
- Sono incinta – lo informo. Non lo guardo, ma rimango seduta con le braccia incrociate e fisso il tavolo.
Haymitch resta in silenzio. E poi riprende a parlare. - No, dico sul serio. Sono io l’ubriacone qui, dovrebbero venire a me certe idee strampalate-
- No, Haymitch, non sta scherzando – ribatte Peeta. - È vero, è incinta.
- Ah! – dice, poi comincia a ridere. Risate incontrollate. – E bravi, bravi. Avete combinato un bel pasticcio! Un gran bel pasticcio davvero.
- Puoi aiutarci? – chiedo, prima che il suo borbottare si trasformi in un turpiloquio.
- Non faccio mica miracoli, io. Ma posso chiamare Effie e metterla al corrente. Non ho la più pallida idea di come funzioni il tutto. Da quel che ne so, non è mai successo prima che un tributo sia entrato nell’arena in stato interessante. Malato, sì, ma gravido, no. È un bel casino. Non potevate pensarci prima di mettere una pagnotta nel forno?
- Non era previsto…
- Non prevedi un sacco di cose, signorina, perché non ragioni. Sei solo una ragazzina. Siete due ragazzini. E cosa ci si potrà mai aspettare da due stupidi ragazzini? Macelli, ecco cosa! E poi correte da Haymitch a chiedere aiuto!
- Evitiamo, per piacere! Quando chiamerai Effie?
- Oggi stesso, non mi lasciate molta scelta. E non ho nemmeno la certezza che sia una cosa fattibile, ve lo stavo dicendo anche prima. Prima di oggi, gli Hunger Games non sono mai stati neanche rinviati… si sono svolti e basta, al di là di tutto il resto. Dovrete prepararvi al peggio.
Il peggio. Una donna incinta nell’arena. Sarò morta entro la fine del primo giorno. Spero solo che sia una cosa veloce.
- Se non si possono annullare – dice Peeta – allora il nostro patto resta valido. Entrerò nell’arena al tuo posto se verrai estratto alla mietitura, e tu – punta il dito contro Haymitch – non cercherai di fare la stessa cosa per evitarlo.
- Scordatelo, Peeta! – esclamo. – Non farai niente del genere-
- Non sei nella posizione corretta per dirmi cos’è che posso o non posso fare! – mi urla contro. – Non più, ormai. È mio figlio, quello che hai nella pancia, quindi ho tutto il diritto di sacrificarmi per voi. Entrerò nell’arena, non si discute – rivolge un ultimo sguardo risoluto in direzione di Haymitch, poi esce di casa.
Lo seguo con gli occhi, con la voglia di corrergli dietro solo per potergli stringere le mani intorno al collo. Solo per soffocarlo. Forse, così, riuscirei a salvarlo. È l’unico modo che ho per assicurarmi che non torni nell’arena.
- Potresti vivere cento vite e ancora non lo meriteresti, lo sai?osserva Haymitch.
Mi volto di nuovo, e stavolta lo guardo. – Anche il nostro patto è ancora valido.
- Lo immaginavo – Haymitch guarda il poco liquido arancione che è rimasto nel suo bicchiere. – Vuoi proprio che sia io a seguirti in quell’inferno?
Voglio che nessuno mi segua in quell’inferno, ma non è possibile. – Sì.
- Allora la sciocca sei tu – dice, finendo di bere.
Da fuori, sento la voce di Peeta che chiama il mio nome. Dice che dobbiamo andare. Mi alzo, controvoglia.
- Non andrete mica a fare dei gemelli, eh?

Che battuta del cazzo. – Peeta vuole che lo diciamo alle nostre famiglie.
- Uh, erano molto meglio i gemelli! Non voglio essere nei tuoi panni.
No, nemmeno io vorrei essere nei miei panni.

 

- Complimenti! Alla fine sei riuscito a metterla nei guai!
Metterla nei guai, la pagnotta nel forno: oggi sto scoprendo un sacco di sinonimi per definire la mia gravidanza.
Dire che la signora Mellark è arrabbiata è dire poco: è proprio inferocita, e sembra che dai suoi occhi possano spuntare saette da un momento all’altro. Il signor Mellark, invece, è taciturno, ed osserva mesto me e suo figlio. Gli altri ragazzi Mellark, i fratelli di Peeta, sono rimasti nella panetteria per servire gli eventuali clienti, mentre noi siamo saliti al piano superiore, nel loro piccolo appartamento.
- La colpa è di entrambi, signora Mellark, non è solo di Peeta… - dico, nel tentativo di non far ricadere tutti i rimproveri su di lui. Gli stringo la mano, che non ho lasciato un secondo da quando siamo arrivati.
- Non rivolgerti a me con quel tono, signorina! Hai una gran faccia tosta, sai? Non mi sei mai piaciuta.
- Non ti sembra di esagerare? – il signor Mellark si rivolge alla moglie, come per calmarla. Ovviamente, non ci riesce.
- Esagerare? Stanno esagerando dal giorno in cui sono tornati a casa! Ho sbagliato ad essere stata zitta fino ad oggi… sapevo che avreste combinato qualcosa! Lo sapevo, ne ero sicura!
- Mamma, per favore – la voce di Peeta non è ferma, ma è arrabbiata.
- Sarete felici, immagino. Vi siete appena rovinati la vita!
- Rovinati la vita? La nostra vita si è rovinata con l’annuncio dell’Edizione della Memoria!
Questo riesce a metterla a tacere. La signora stringe le labbra ed afferra lo schienale della sedia con decisione. Sembra voglia sbriciolare il legno grazie soltanto alla forza delle sue dita.
- Sei soddisfatta? – le domanda il marito.
Le scappa un verso stizzito. – Non vedo perché non dovrei esserlo. A quanto pare, tra un paio di mesi ci saremo liberati di questo problema…
La mano di Peeta scivola via dalla mia. Ho appena realizzato il senso delle parole che sono uscite dalla bocca di sua madre quando sento la porta sbattere violentemente sui cardini. Inebetita, ed anche infuriata con la donna che mi sta davanti, seguo il ragazzo che si è appena dileguato.
- Peeta – lo chiamo mentre scendo le scale. – Peeta! – lui si è già allontanato di parecchio dalla panetteria e non si guarda indietro, neanche per aspettarmi. Inizio a correre per raggiungerlo, e lo trattengo a forza appena gli sono vicina. – Peeta! Fermati un secondo…
- Non voglio stare a meno di cento chilometri da quella donna – sbotta, tenendo lo sguardo fisso a terra. Ha i pugni serrati dalla rabbia.
- Non credo che casa nostra sia così lontana – mormoro. La mia battuta, però, non lo aiuta a rilassarsi. Cerco di sciogliere uno dei suoi pugni per intrufolarci la mia mano. – Non pensava davvero quelle cose.
- Sì, invece. Tu non la conosci, Katniss. Lei dice esattamente quello che pensa, lo ha sempre fatto. Pensa davvero che tra due mesi sarà tutto… finito.
- Non ti vuole morto. È tua madre.
Peeta mi guarda, ed ha gli occhi carichi di dolore mentre dice: - Non vuole morto me, ma te. E il bambino.
Avevo già capito tutto prima, quando eravamo ancora in casa dei suoi, ma sentirlo confermare da lui mi fa stare ancora più male. Avrei anche potuto sbagliarmi, ma non può essere un errore quando due persone interpretano il senso di alcune parle nello stesso, identico modo. È orribile sentire tali pensieri prendere vita dalla persona che ti ha messo al mondo…
- Mi dispiace – dico. Quante volte ho detto “mi dispiace” negli ultimi mesi? Tante, troppe. Come espressione verbale sta diventando sfiancante.
- No, non a te. È a lei che deve dispiacere – ribatte, baciandomi la fronte. Circonda la mia vita con un braccio e mi invita a riprendere la strada per tornare al Villaggio dei Vincitori. – Andiamo a casa tua.
A casa mia, da mia madre. Adesso è arrivato il suo turno di sapere.
Se pensavo di aver toccato il fondo davanti alla reazione della signora Mellark, davanti a quella della mamma continuo a sprofondare nell’abisso. Non ha urlato, non ha detto nulla di cattivo, non ha rimproverato né me, né Peeta. Come rassegnata davanti all’evidenza dei fatti, ha solo accettato la cosa. Davanti alla sua reazione così pacata, davanti alla sua non reazione, mi sento davvero una merda.
Prim, che oggi non è andata a scuola, mi dà soddisfazione invece. Reagisce nell’esatto modo che mi aspettavo: scoppia a piangere ed esce via dalla cucina. Peeta le corre dietro dopo avermi stretto la spalla. Dovrei essere io a correrle dietro, ma non posso lasciare da sola la donna che, in silenzio, osserva le patate che deve pulire come se queste ultime le avessero fatto un terribile affronto.
- Di quanto sei? – mi chiede quando restiamo da sole.
Deglutisco. – Lana ha detto tre mesi. Quasi quattro…
Annuisce, posando il coltello sul tavolo. – Sei andata da Lana? È una brava donna.
- Non potevo chiederti di controllare – le confesso in un sussurro. Gli occhi iniziano a bruciare: ecco perché non volevo parlargliene. Davanti a lei mi sento improvvisamente vulnerabile. Il senso di colpa mi investe con la forza di un uragano. – Non potevo farti sopportare anche questo, mamma.
- Per te posso sopportare questo e molto altro, tesoro. Sono più forte di quanto pensi, sai? – mi sorride, cercando di rassicurarmi, e allunga una mano fino a posarla sulla mia pancia. – Tra non molto comincerà a vedersi.
- Lo so.
Seduta sul gradino della porta sul retro, all’ombra, osservo Ranuncolo che prova a cacciare qualunque cosa si nasconda tra l’erba incolta. È terribilmente negato, anche per gli standard di un gatto. Da quando sono qui non ha preso nulla, nemmeno una lucertola. Ne ho viste correre via alcune, e lui niente. Credo che abbia qualche ritardo mentale.
Non sento Peeta arrivare, e di questo me ne sorprendo perché lui non è mai stato così silenzioso. Da Peeta mi aspetto sempre del rumore, non del silenzio.
- Devo andare a parlare a Prim – gli dico mentre si siede. – Le devo dire quello che è successo.
- Sa già cos’è successo. Ha molta paura per te, ma l’ho rassicurata.
So già in che modo può averla rassicurata. – Devi smetterla con questa storia, Peeta. Non sarai tu quello obbligato ad andare nell’arena, c’è Haymitch che può sostituirti.
- Nessuno può sostituirmi. Non posso restare a guardare voi due che andate a morire là dentro – si tocca freneticamente le mani, come se fosse in preda all’agitazione. – Ho bisogno di sapere che starai bene, e per questo devo essere lì con te.
- No, invece.
Sbuffa in modo tale da farla passare per una risata. – Per quanto andremo avanti?
- Fino a che non ci sarà la mietitura, credo. Fino ad allora, non credo che riusciremo ad accordarci su qualcosa.
Annuisce. – Potrebbe non esserci una mietitura se annullano gli Hunger Games.
- Credi davvero che li annulleranno?
Non risponde. In fondo, non ci crede molto neanche lui. È ovvio che non andrà come spera dentro di sé. È ovvio che non faranno nulla: non impediranno ad una ragazza incinta di partecipare ai giochi della morte. Immagino che sarà la punta di diamante del programma. Una parte integrante dello show. È un’immagine troppo succulenta per poterla ignorare, per lasciarsela sfuggire senza prima sfruttarla al meglio.
È orribile vedere il modo in cui, ormai, riesco a vedere e a comprendere bene l’ottica di Capitol City.
La mano di Peeta si posa sulla pancia, nell’esatto punto in cui prima si era posata quella di mia madre. È la prima volta, da quando gliel’ho detto, che lo fa. È un gesto strano, ma allo stesso tempo è rassicurante. Non credo che riesca a sentire qualcosa; non riesco ancora a sentire nulla io, che l’ho dentro…
Sto bruciando tutte le tappe. Non volevo saperne nulla di matrimoni, ed il mese scorso ho scelto di legarmi a Peeta con la cerimonia della tostatura. Non volevo mettere al mondo dei figli, e adesso mi ritrovo incinta. Non volevo vedere i miei figli morire negli Hunger Games, e adesso l’incubo si sta realizzando. Anche se in una versione di gran lunga peggiore.
Sarò io stessa a portare il mio bambino negli Hunger Games.
- È incredibile – sussurra Peeta.
Mi gratto l’angolo dell’occhio. La sua mano è ancora lì, ferma sulla pancia. – Cos’è incredibile?
- Questo – muove la mano in piccoli cerchi. – Questo, è incredibile.
Già. È impossibile da credere.

 

Nell’attesa che arrivi il responso sull’annullamento o meno dei giochi, continuiamo il nostro regime di allenamento. È inutile fermarsi per aspettare, anche perché non sappiamo quanto ci vorrà. Haymitch continua a tenersi informato tramite Effie, e mette al corrente me e Peeta su ciò che accade in quel della capitale.
- Non ne parlano – dice; sono passati pochi giorni da quando gli abbiamo parlato della gravidanza. – Nessuno ne parla, sembra che vogliano tenere la cosa segreta. Hanno uno scoop fenomenale tra le mani e non lo lasciano circolare. È una notizia dieci volte più esaltante delle vostre nozze, se ci pensate, e la stanno ignorando come se fosse un banale raffreddore.
- Non ne parlano perché andranno avanti con l’annullamento? – chiede Peeta, un po' speranzoso.
- Oppure perché vogliono riservarsi l’effetto sorpresa per la mietitura – propongo. Mi guadagno un’occhiataccia da parte di Peeta, grazie a questa battuta. Me la merito, dopotutto.
- Ipotesi, ragazzi. Sono solo ipotesi. Effie è incazzata con voi, comunque. “Come hanno potuto comportarsi da irresponsabili! Le mie perle!” – squittisce, imitando la sua voce ed il suo accento.
Nonostante i tentativi di Peeta di farmi smettere, proseguo la preparazione esattamente come facevo prima di sapere di essere incinta. Perché fermarsi, in fondo? Non sento stanchezza o particolari segni di malessere, anzi, sto abbastanza bene. C’è solo una cosa che, arrivata ormai quasi al quarto mese, non aspettavo di riscontrare.
La nausea.
Più o meno una settimana dopo aver saputo la novità, ho cominciato a svegliarmi al mattino con un costante e fastidioso bruciore allo stomaco. Fastidioso, sì, ma sopportabile. Solo che peggiora se inizio a mangiare qualcosa. Ma la mamma dice che è abbastanza normale, anzi, è il sintomo della gravidanza che si presenta con più frequenza nelle donne in stato interessante. Ho dovuto eliminare il pane imburrato e i cereali dalla colazione perché mi rimangono pesanti nello stomaco, e dopo la prima mattina evito di ripetere l’esperienza.
Mentre facevamo il nostro giro di corsa, mi sono dovuta fermare più volte perché sentivo la nausea aumentare vertiginosamente, ed alla fine mi sono ritrovata a vomitare la colazione dietro ad un cespuglio incolto, accanto ad una delle tante case disabitate del Villaggio.
- Oh, sì. Ci divertiremo un mondo quest’anno – ha commentato Haymitch, mentre mi osservava rimettere anche l’anima.
- Stronzo – ho farfugliato, sputando sull’erba nel tentativo di togliere il saporaccio dalla bocca.
Cerchiamo di essere il più normali possibile e di comportarci come al solito, anche se non è facile. A parte noi, e coloro che dovevano esserne messi a conoscenza, a nessun altro abbiamo parlato del bambino. Non l’ho detto neanche a Gale, e mi sembra di fargli un torto agendo in questo modo. So che è meglio per lui se ne rimane all’oscuro, ma prima o poi capirà. Prima o poi la pancia si noterà, e non ci vorrà molto a fare due più due e capire il motivo per cui è cresciuta. Ho paura che quel ‘prima o poi’ arriverà troppo presto.
Troppo presto. Così come arriva il giorno del responso.
È sera, e siamo tutti e tre in casa di Haymitch per guardare i vecchi nastri; Peeta sta soppesando quale scegliere tra quelli che mancano all’appello, ed ha un blocco per gli appunti accanto a sé su cui annota ogni cosa utile. Io sono seduta sul divano, e sobbalzo quando sento il trillo del telefono. Ovviamente, a rispondere ci va Haymitch. È casa sua.
Quando torna, ha una faccia funerea.
- Bene, non c’è un modo carino per dirlo – e questo non è un modo carino per iniziare un discorso. – Agiranno con l’effetto sorpresa.

Effetto sorpresa: sono le parole che ho usato io.
Gli Hunger Games andranno avanti.
Peeta afferra il blocco degli appunti e lo scaraventa lontano: urta qualcosa, che cade a terra e si frantuma in mille pezzi. A terra, a gambe incrociate, si preme le mani sulla fronte ed emette dei respiri forti e rumorosi dal naso. Lo raggiungo e, in ginocchio, lo abbraccio. Anche se gli sto accanto, anche se lo stringo con tutte le mie forze, non si muove e non fa nulla per farmi capire che si è accorto di me.
È come se mi avesse esclusa dal suo dolore.
Quella sera non guardiamo nessun video.

 

 

 

 

 

 

__________________________

Cosa succede se uno dei tributi degli Hunger Games è in stato interessante? È una delle domande che mi sono posta di continuo, mentre seguivo la stesura di questi particolari capitoli. La risposta, però, è ovvia: non succede niente. Si procede lo stesso con l’edizione, senza sostituire il tributo o altro, e probabilmente si punterà sulla gravidanza del tributo per attirare spettatori, sponsor e quant’altro. Tutto questo al di là delle complicanze che una ragazza incinta nell’arena può riscontrare: aborto, parto prematuro, svenimenti ecc. In rete e sul tubo ho trovano teorie e informazioni utili riguardo l’argomento.
Cosa sarebbe successo, invece, se Katniss avesse scoperto la gravidanza mesi prima della mietitura? Come si procede in questi casi? Ho provato ad immaginarlo ed il risultato è ciò che avete letto qui sopra: sono per lo più speculazioni, perché ovviamente non sappiamo se si possono contattare gli alti vertici per chiedere di modificare le regole, interrompere o posticipare un’edizione degli Hunger Games… specialmente se quell’edizione è un’Edizione della Memoria. Ma il risultato, a mio parere, non cambia: se un tributo “canonico” può entrare nell’arena anche in stato di gravidanza, allora può farlo anche una vincitrice-tributo. Lo abbiamo visto anche in Catching Fire, con l’annuncio fasullo di Peeta: senza neanche prendersi la briga di controllare se la notizia sia vera o falsa, l’Edizione della Memoria si è tenuta lo stesso. E anche qui sarà così.

 

Note lunghe, lunghissime, uno sproloquio! Ma ci tenevo tantissimo a spiegarvi la linea che ho deciso di seguire per questa parte di storia.
Sono sempre stata curiosa di approfondire questo tipo di storyline e non potevo assolutamente perdere l’occasione di inserirla qui, già che c’ero. Fatemi sapere cosa ne pensate, e se siete anche voi curiosi di conoscere l’evolversi degli eventi :)
A lunedì!

D.

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Capitolo 15
*** 15. ***


In The Still Of The Night - 15

In the still of the night

 

 

 

 

15.

 

La vita prosegue come se a viverla fosse un’altra persona. Preferisco guardare il tutto come se non fossi io la protagonista della mia stessa vita. Per la maggior parte del tempo sono distaccata, agisco e mi muovo solo perché devo farlo, e non perché voglio.
Da quel poco che Haymitch è riuscito a dirci, gli Strateghi hanno deciso di rischiare seguendo questo tipo di teoria: sono incinta, ma potrei benissimo non esserlo. Potrei fingere per cercare di salvarmi la vita. Ma per confutare ogni dubbio avrebbero potuto benissimo mandare qualcuno, qualche medico incaricato di verificare se il mio stato corrisponde alla verità o se sto solo fingendo, come pensano, ma non hanno alcuna intenzione di farlo. O non accade nulla perché la gravidanza è tutta una menzogna… oppure, come io stessa avevo pensato, una ragazza incinta nell’arena diventerà l’attrazione principale di questa edizione. Tutti avranno gli occhi puntati sulla televisione, nessuno vorrà perderseli.
Ed ormai ne sono totalmente certa: è questo ciò che vogliono, è questo ciò a cui puntano. A loro non interessa se ci sarà una vita innocente in più da sacrificare. Per loro, forse, un bimbo non ancora nato non è nemmeno considerabile come vita. 
Avere questa consapevolezza nel cuore è un supplizio senza fine. Sapere che non potrò fare nulla per salvare lui, e neanche me stessa. Non posso neanche provare a farlo nascere prima per salvarlo. In questa fase della gravidanza, se nasce, può soltanto morire. Morirà in ogni caso, sia se aspetto, sia se agisco in anticipo. È un discorso che ho già affrontato con Peeta, anche se a malincuore. Lui sembra stare molto più male di me all’idea di ciò che ci attende nell’immediato futuro.
- C’è l’aborto – ho mormorato. – Per risparmiargli ogni sofferenza.
Quando gliene ho parlato, ci trovavamo entrambi nel suo letto. Era sera, e stavamo per metterci a dormire. Da poche ore avevamo saputo che gli Hunger Games sarebbero proseguiti lo stesso, al di là della mia gravidanza. Stesa sulla schiena, guardavo il soffitto ed il lampadario elaborato che pendeva proprio al suo centro. Guardare qualcosa di inanimato, e non Peeta, mi aiutava ad affrontare l’opzione dell’aborto senza correre il rischio di mangiarmi le parole, o di esitare. Guardare qualcosa che non era in grado di provare sentimenti era meglio che guardare una persona in balia dei propri.
- È pericoloso – ha detto lui.
Ho annuito. – Sarebbe pericoloso anche non fare niente.
È rimasto in silenzio per un po'. – Non riusciresti ad ucciderlo.
- Entrambi abbiamo già ucciso per salvarci la vita, Peeta. Sai benissimo che sarei in grado di farlo.
- Ma non hai ucciso parte della tua famiglia. Non hai ucciso parte di te.

Una parte di me è morta nell’arena, avrei voluto dirgli, ma ho deciso di non farlo. Non l’ho fatto perché, semplicemente, aveva ragione: ho ucciso quei ragazzi per poter sopravvivere, ma non lo avrei mai fatto se fossero stati i miei familiari, o anche solo dei conoscenti. Non sono nemmeno riuscita ad uccidere Peeta, quando mi sono trovata nelle condizioni di doverlo fare. Ho preferito salvarlo con quello stratagemma delle bacche… ed ecco dove questo ci ha portato.
Ha ragione perché non potrei uccidere un innocente non ancora nato, anche se non è ancora in grado di sentire nulla. In realtà, non so se sia in grado di provare o meno dolore. Sarebbe molto, molto più facile se mi togliessi la vita: in questo modo, morirebbe anche lui. Ma sono una vigliacca, ancora una volta. Non posso essere io a decidere di interrompere o meno una vita, specialmente se a creare quella vita sono stata proprio io.
È la vita che abbiamo creato insieme io e Peeta, è l’unione di entrambi. È il frutto del nostro amore.
È strano, il modo in cui si prende atto delle cose anche quando non vorresti. Anche se vi opponi resistenza con tutta te stessa. Io non potrei mai uccidere il bambino di Peeta, così come non potrei mai uccidere lui.
- Ne riparliamo domani – ho detto alla fine. Mi sono girata sul fianco ed ho cercato di ignorarlo, dandogli la schiena.
- Ne riparliamo domani – mi ha fatto eco.
Eppure, non ne abbiamo mai più riparlato. Il domani è arrivato, è passato, ed è stato dimenticato. Anche adesso che mancano poco più di dieci giorni alla mietitura, la questione è rimasta in sospeso. Sarebbe meglio dire che si è chiusa del tutto, perché entrambi sappiamo che non sarei in grado di procedere fino in fondo. È troppo tardi, ormai, per poter anche solo provarci. Ciò che ho dentro al ventre è vivo, riesco a sentirlo. E mi spaventa, sentirlo… ma mi spaventa ancora di più pensare di fargli del male, anche solo per sbaglio.
Si muove. La prima volta che l’ho sentito muoversi sono, letteralmente, rimasta pietrificata davanti alla ciotola di zuppa del pranzo. Ho premuto le mani sul tavolo, ho fatto forza su di esso finché quel battito, quella leggera serie di colpi che provenivano dall’interno del mio corpo non sono cessati. Mia madre ha dovuto convincermi a riprendere a respirare, perché non mi ero accorta di aver smesso di farlo. Ho provato una vera e propria ondata di terrore. Panico, puro panico. Non bastava vedere la pancia crescere, settimana dopo settimana, per avere la conferma di questa nuova presenza nella mia vita. Doveva anche farmelo capire muovendosi. È una cosa positiva se si muove, vuol dire che sta bene. Dovrei sentirmi sollevata, ma ho solo paura. Penso che se non sentissi nulla sarebbe tutto più facile. Ma potrebbe anche essere il contrario: nessun movimento, nessuna vita. Sarebbe ancora più spaventoso.
Finché ho potuto ho nascosto i segni della gravidanza con camicie e maglie larghe, ma ora è impossibile anche solo tentare di provarci. Il tessuto si tende sulla pelle, la rotondità è inconfondibile ed è facile capirne il motivo. Smetto di andare in centro, non voglio dare adito alle chiacchiere della gente. Chi doveva saperlo ormai lo sa, gli altri devono semplicemente restarne fuori.
Gale lo ha scoperto nel peggiore dei modi: per sbaglio. Ha urtato il mio corpo mentre si rialzava dopo aver sistemato il laccio di una trappola. Il suo gomito è andato dritto sul mio ombelico. Non mi ha fatto male, ma le mie mani di riflesso sono andate a proteggere il rigonfiamento sul mio ventre ed ho, di conseguenza, rivelato cos’è che la mia maglia larga nascondeva ai suoi occhi.
Non ha detto nulla, non ha urlato: ha fissato la mia pancia ed ha posato una mano sulla bocca. È rimasto zitto, muto, e mi ha guardata per un po' ad occhi sgranati. E poi, senza commenti, ha proposto di fare un altro laccio. Delusione, amarezza e sconforto: le uniche cose che mi trasmettevano i suoi occhi.
Delusione, amarezza e sconforto sono tutto ciò che leggo negli occhi della mia famiglia.
Vorrei quasi essere già morta per non vederli più riflessi nei miei.

 

Il giorno della mietitura arriva, caldo e afoso. Ad un anno esatto di distanza dal giorno in cui il nome di Prim venne estratto dalla boccia di vetro, mi preparo per affrontare di nuovo il mio destino. L’anno scorso non ne avevo idea, oggi invece ne sono fin troppo consapevole. Ci sarà solo il mio nome lì dentro: scritto in una sola, piccola striscia di carta all’interno di un grande vaso vuoto. Ecco, quanto vale la mia vita. Ecco quanto vale la vita di mio figlio.
Indosso una delle tante tute, molto simile ad una divisa da lavoro, che riempiono i miei armadi: abbastanza larga da cadere morbida sul mio corpo, ma non sufficiente da celare il ventre gonfio. Si nota, e non posso farci niente. La tuta ha anche una cintura in cuoio da poter stringere in vita, ma decido di non indossarla. Indosso, invece, i miei soliti scarponi da caccia. Non li indosso da così tanto tempo… È piacevole sentire di nuovo qualcosa di così familiare addosso. È qualcosa che mi farà compagnia nel mio ultimo giorno al Distretto. Dopo oggi, non lo rivedrò più.
Capelli sciolti, oggi, niente treccia. Vorrei farla, in realtà, perché fa davvero molto caldo per tenere i capelli sciolti, che ricadono sulle spalle e sulla schiena, ma lascio perdere. L’ho tenuta su tutta la notte ed ora ho una serie di onde disordinate che ricadono sulle spalle. Mi coprono anche il viso. Se dovessi piangere, almeno, nasconderanno le mie lacrime. Non è una così cattiva idea.
Sulla tuta fisso la spilla con la ghiandaia imitatrice: il portafortuna da portare nell’arena. Stavolta, penso, tornerà a Madge. Sarà il mio ultimo saluto per lei. Non sarò io a riportarla indietro, come l’anno scorso.
Un battito. Non sobbalzo più, ormai, a questi colpetti che provengono dall’interno del mio corpo: ci sto facendo l’abitudine. Guardo in basso e poso delicatamente la mano sul tessuto ruvido della tuta. Premo piano sul punto che una manina, o un piedino, ha urtato pochi istanti fa. Dovrei sorridere. Di solito le donne incinte lo fanno, quando il loro bambino scalcia, ma non fa per me sorridere ad una pancia gonfia. Lo sto portando a morire, e non dovrei sorridere per questo. Il riflesso nello specchio mi mostra una ragazza dalla faccia funerea e dall’aria tenebrosa, una vittima degli eventi. Tanti, troppi eventi per una ragazza di appena diciassette anni, che è anche incinta del suo primo e, molto probabilmente, unico figlio. Scosto la mano, ancora ferma sulla pancia, e do le spalle al mio riflesso per non vederlo più. Lascio che i miei occhi percorrano per un lungo momento quella che, nell’ultimo anno, è stata la mia camera da letto, e volto le spalle anche a lei. Mi lascio alle spalle tutto ciò che incontro mentre cammino, mentre scendo le scale.
Fuori casa mia, ad attendermi, ci sono Haymitch e Peeta; mamma e Prim sono già andate in piazza. Questa mietitura sarà stranissima: non ci saranno le registrazioni per tutti i ragazzi, non ci saranno le folle di genitori preoccupati per i propri figli, non ci saranno i momenti tesi tipici di questi giorni. Ci sarà solo una popolazione riunita per dare l’addio a due dei tre vincitori del loro Distretto di appartenenza.
Poco lontano da noi si sono riuniti un gruppo di Pacificatori, coloro che ci scorteranno fino alla piazza. Hanno paura che tentiamo la fuga? E dove potremmo andare?, mi chiedo. Tanto, da qui ci faranno uscire comunque. È solo questione di tempo, ore al massimo, prima di caricarci su un treno per spedirci al macello.
Peeta mi offre la sua mano, che afferro prontamente. – Andrà tutto bene – mormora.
Annuisco. Non andrà tutto bene. È solo uno sciocco se continua a pensarla così. Ma è il suo modo di superare questo momento.
La processione di Pacificatori ci scorta fin dentro la piazza: arriviamo davanti al Palazzo di Giustizia, davanti al palco sul quale si trova già Effie, vestita di un arancione sgargiante e con una parrucca gialla. Al contrario di ciò che indossa, la nostra accompagnatrice non sembra molto allegra, oggi. È un po' ansiosa anche lei per quello che dovrà fare.
Devo lasciar andare la mano di Peeta perché ci separano. Mi fanno entrare in una sorta di recinto delimitato da corde, alla sinistra del palco, e fanno entrare Peeta ed Haymitch in un altro recinto posto alla mia destra. Non ci sono sedie. Resto in piedi, con le mani posizionate dietro la schiena. Entrando, ho visto subito i visi di Prim e della mamma tra la folla. Accanto a loro c’è Gale. Adesso sono dietro di me. Sono così vicini, eppure così lontani. Non oso allungare il braccio per sfiorarli, ho paura che sia vietato. Decido di risparmiarmi i tocchi e gli abbracci per l’ora dedicata ai saluti, quella che precede la partenza dei tributi per Capitol City.
- Felici Hunger Games! – esclama Effie senza la sua solita voce briosa. – E possa la fortuna essere sempre a vostro favore!
Chiacchiera un po', parla dell’Edizione della Memoria e delle regole che questa edizione in particolare prevede. Il suo è un tipico discorso alla Effie, preparato a tavolino e senza errori di sorta, solo che lei non ha bisogno di cartoncini per ricordarlo. Parla come una macchinetta, senza incepparsi, anche se si vede che è un po' a disagio. Quando guarda il pubblico, lancia alcune rapide occhiate verso di noi e distoglie subito lo sguardo. Non è per niente a suo agio, non vuole fare quello che è costretta a fare. Ma deve: come noi, non può tirarsi indietro.
- Come sempre, prima le signore! – dice infine. Titubante, si sposta in direzione della boccia di vetro riservata alle ragazze. Una boccia vuota. Fa impressione vedere una boccia vuota, ma tutti noi sappiamo che non lo è davvero. Le dita di Effie afferrano l’unico pezzetto di carta che vi è posato sul fondo.
Impiega dieci secondi abbondanti per leggere e pronunciare il mio nome, e nel farlo le trema la voce. – Splendido! – conclude, storcendo le labbra in una smorfia.
Un Pacificatore mi fa passare dopo aver slegato la corda del recinto. Lentamente, prendendo tempo, cammino fino ai gradini del palco. Li salgo misurando ogni passo, tenendo una mano sotto la pancia come se volessi sorreggerla, come se volessi difendere la vita che mi cresce dentro. So di avere ogni telecamera puntata addosso e che ogni mio movimento verrà registrato e studiato da tutti, che tutti mi stanno vedendo e capendo che sono incinta, ma non mi interessa. Non dovrebbe interessare neanche a loro, in teoria, perché hanno lasciato che l’Edizione della Memoria proseguisse nonostante i nostri tentativi di fermarla. Se sono rimasti sorpresi, o scossi, di sapere che porterò mio figlio all’interno di un’arena… beh, capiranno da soli con chi devono prendersela.
Passo accanto ad Effie, che mi sfiora un braccio delicatamente, e prendo posto alla sua sinistra; non tolgo la mano dalla pancia, ma lascio che anche l’altra la raggiunga e si posi in basso, quasi avvolgendola, con le dita delle mani che appena si sfiorano. Guardo la folla. Guardo tutti i visi che sono puntati su di me. Guardo tutti coloro che l’anno scorso hanno festeggiato il mio ritorno a casa. Guardo la mia famiglia. Guardo Haymitch. Guardo Peeta.
Nel mentre, Effie è passata alla boccia riservata ai maschi. Ci sono due foglietti, al suo interno, e ci sta mettendo più tempo del necessario per afferrarne uno. La sua mano entra nella sfera, ne tocca uno.
Cinquanta e cinquanta, penso. C’è il cinquanta per cento di probabilità che ad uscire dalla boccia sia il nome di Peeta: allora, Haymitch può offrirsi volontario al suo posto. Può salvargli la vita, può renderlo nostro mentore. Il nostro patto è ancora valido, e so che Haymitch non si tirerà indietro. Effie sta iniziando, con tutta la lentezza di cui è capace, ad aprire il foglietto, e spero che sia Peeta. Mi aggrappo con tutta me stessa a questa probabilità. Mi aggrappo alla probabilità che Effie abbia scelto il foglio giusto. Il nome giusto.
Ma non è il nome di Peeta ad essere estratto.
Abbasso il viso per non far vedere al mondo intero la mia delusione, la mia tristezza. I capelli mi ricadono davanti agli occhi, come previsto. Sono comunque costretta a sollevare le mani per asciugare le gocce salate che hanno cominciato a rigarmi le guance. Non ho sentito Peeta offrirsi volontario, ma i passi rumorosi che raggiungono me ed Effie sul palco non possono essere che i suoi.

Idiota, penso. Sei solo un’idiota. Hai rovinato tutto.
Effie ci chiede di stringerci la mano. Si ripete lo stesso rituale dell’anno scorso. Sono costretta a guardare Peeta attraverso il velo di lacrime che mi offusca la vista. Non riesco a capire se anche lui stia piangendo oppure no, ma il suo viso risoluto non mostra nessuna emozione. Sta celando completamente le sue emozioni. L’unica a mostrare i sentimenti qui sono io, e solo perché non sono più in grado di controllarli come vorrei.
Ormoni della gravidanza.
Le nostre mani, che nell’ultimo anno hanno imparato a conoscersi così bene, mani che conoscono a memoria ogni parte dei nostri corpi, mani che hanno stretto, toccato, afferrato, accarezzato ogni parte delle nostre anime, si stringono ancora una volta. Si stringono, e le nostre dita si intrecciano in una presa salda, solida. Si stringono e non si sciolgono più.
Restiamo a tenerci per mano, come coppia, come marito e moglie, come futuri genitori costretti a seguire il triste e tragico destino che è stato a loro riservato. Come tributi.
Ancora una volta, come tributi.

 

Non ci lasciano salutare le nostre famiglie.
Una volta all’interno del Palazzo di Giustizia, il capo Thread ed i suoi Pacificatori ci hanno scortati fino alla porta posteriore; giunti all’esterno, hanno fatto salire me e Peeta su un’auto che ci ha portati dritti in stazione. Siamo saliti sul treno, già in attesa, in fretta e furia, e abbiamo aspettato in silenzio l’arrivo di Haymitch ed Effie, scortati da altri Pacificatori. Dopo pochi, intensi ed interminabili minuti, il treno ha cominciato a muoversi. Ha lasciato la stazione e, acquisendo sempre più velocità, si è lasciato alle spalle il Distretto 12.
Io e Peeta restiamo per un pezzo a guardare davanti al finestrino il paesaggio familiare che, pian piano, lascia il posto alla fitta boscaglia. Nel giro di pochi istanti non vediamo più il nostro Distretto. Ci allontaniamo, lasciamo il nostro luogo natio. Penso a ciò che lascio indietro, alle persone che non rivedrò più. Alle persone a cui non ho potuto dire addio.
- Scriveremo delle lettere, Katniss – dice Peeta, dietro di me. – Per lasciare loro una parte di noi cui aggrapparsi. Haymitch gliele consegnerà per noi, se… se ci sarà bisogno di consegnarle.

Se ci sarà bisogno di consegnarle, dice lui… farebbe meglio a togliere il “se” dalla frase. È ovvio che ci sarà bisogno di farlo.
Mi volto, rigirandomi nel suo abbraccio. – Non avresti dovuto farlo – gli dico. Non c’è stato il tempo di dire alcunché dal momento in cui siamo stati scortati via dalla piazza. Questa è la prima occasione che ho per rimproverarlo, per odiare il suo gesto. – Non dovevi offrirti volontario.
- Ho fatto ciò che è giusto. E poi sapevi che lo avrei fatto, non te l’ho mai tenuto nascosto. Niente e nessuno me lo avrebbe impedito.
- Haymitch ti avrebbe salvato la vita…
- La mia vita è con voi due, Katniss – fa scivolare una mano sul mio ventre. – Il mio compito è proteggervi – aggiunge. Posa la fronte contro la mia, mi guarda negli occhi. – E Haymitch lo sa. Sa che avrei fatto, e farei, di tutto per proteggervi.

Oh, lo so anche io questo! Ecco perché non voglio che lo faccia e non voglio che continui a farlo. Mi lascio avvolgere ancora una volta dalle sue braccia mentre il treno scivola via veloce. Lascio che, per un attimo, il futuro ed il destino vengano messi da parte per fare posto al presente, ed a questo momento. Il momento in cui smettiamo di essere due tributi per tornare nei panni di due ragazzi che non vogliono esserlo. Che vorrebbero essere da tutt’altra parte, meno che qui.
Quando ci riuniamo a cena, nessuno di noi è dell’umore giusto per intavolare una conversazione. Haymitch ha la faccia di uno che vorrebbe ubriacarsi seduta stante, ma che si trattiene dal farlo; Effie è ancora taciturna, e mangia in silenzio. Se non avesse addosso il vestito arancione fatto di farfalle, sembrerebbe pronta per andare ad un funerale. Peeta, al mio fianco, non dice nulla con le parole ma tramite sguardi mi suggerisce di mangiare qualcosa. Io ci provo, ma nonostante gli sforzi riesco a mandare giù solo pochi bocconi del prelibato cibo con cui hanno riempito la tavola. Ho anche un po' di nausea.
Effie, ad un tratto, propone di rafforzare la “Squadra del Distretto 12” attraverso degli oggetti dorati, che possano sposarsi bene con la mia spilla.
- Mi sono fatta fare una parrucca dorata apposta per questo! Potrei trovare qualcosa anche per voi ragazzi: un bracciale per Haymitch e magari una cavigliera per te, Peeta… - tentenna.
- Mi sembra un’ottima idea – risponde Peeta, sovrappensiero.
Il resto della cena trascorre in questo orribile alternarsi di chiacchiere e mutismo. Quando ci alziamo per andare a vedere il riepilogo delle altre mietiture, la nausea si intensifica e mi sembra di avere un mattone posato sullo stomaco. Non sono pronta a vedere i miei sfidanti. Non voglio scoprire chi, tra i cinquantanove vincitori ancora in vita, sarà costretto ad entrare con noi nell’arena.
Non è uno spettacolo bello da vedere per nessuno di noi quattro. Effie commenta ogni tanto i nomi che vengono estratti, ed Haymitch osserva in cagnesco lo schermo. Alcune delle persone che salgono sui palchi dei Distretti sono suoi amici da anni, ci ha parlato di loro mentre guardavamo insieme i nastri delle loro vittorie. Peeta, che ha recuperato da qualche parte il suo blocco degli appunti, prende nota di chi è stato estratto e chi, invece, è stato risparmiato dalla cattiva sorte.
Cashmere e Gloss, i giovani fratelli del Distretto 1 che vinsero in due anni consecutivi. Brutus ed Enobaria, dall’aria selvaggia e competitiva, per il Distretto 2. Finnick Odair, il bellone del Distretto 4; una donna anziana si offre volontaria per sostituire una ragazza in lacrime ed in preda ad una crisi nervosa, sempre del Distretto 4. Johanna Mason, Distretto 7, che ha vinto qualche anno fa fingendosi una mollacciona. Degli altri tributi non riesco a ricordare molto, e alcuni di loro sono anziani e provati dagli abusi o dalle malattie. La donna del Distretto 8 deve letteralmente cercare di staccarsi da tre bambini che non vogliono saperne di lasciarla andare. Effie la chiama Cecelia. Ecco una madre che con molta probabilità non rivedrà più i suoi figli…
Riesco a raggiungere il bagno in tempo prima di rimettere il poco cibo che ho ingerito. Mi aggrappo con forza al water mentre il mio corpo è scosso dai conati. Sento le mani di qualcuno che mi accarezzano la schiena e mi tengono i capelli lontani dalla faccia. Peeta, ovviamente. Non può mai perdersi i momenti in cui do il meglio di me. Vedermi vomitare deve essere gratificante per lui.
- Va meglio? – mormora quando riesco a riprendermi un poco. Mi porge un asciugamano bagnato da passare sul viso.
- Può solo andare peggio – rispondo. Poggio la schiena sulla parete fredda del bagno, e questo mi fa sospirare di sollievo. – Se queste sono le premesse, nell’arena la mia arma migliore sarà vomitare addosso agli altri.
- Ecco, magari gli farà talmente schifo che moriranno da soli guardandoti.
Sorrido, stancamente. Ma chi prendiamo in giro? Altro che arma. Questa sarà la mia più grande debolezza. Ed io sarò la più grande debolezza di Peeta. Sin dal primo minuto dei giochi saremo i tributi più vulnerabili. Le prede facili. Sarà molto facile, per gli altri, sbarazzarsi di noi.
- Dobbiamo parlare di una cosa, Kat – dice dopo qualche attimo di silenzio.
- Di cosa?
- Del bambino. Secondo Haymitch, potrebbe essere un punto a nostro favore – mi rivela.
Aggrotto le sopracciglia. - È un altro dei vostri discorsetti di cui non mi mettete mai al corrente?
Alza gli occhi al cielo. – Se lo facciamo, è perché tu non li approveresti mai.
- Infatti non approvo – dico in fretta. Già è brutto dover portare un bambino – un feto, per la precisione – nell’arena, figuriamoci doverlo usare come asso nella manica per le nostre strategie di sopravvivenza. Sarò anche più insensibile della maggior parte delle persone per certe questioni, ma su questa non posso passarci sopra. Non posso giocare sporco sfruttando una vita innocente. Non voglio essere come gli altri.
- Neanch’io approverei, se non fosse che potrebbe salvarci la vita là dentro. Ora, non so di preciso come quelli di Capitol City abbiano preso la notizia, ma di sicuro non bene. Dovremmo attendere di arrivare a destinazione per capirlo. Per ora so solo che farci compatire un po' da loro potrebbe essere una buona mossa. Haymitch la pensa allo stesso modo…
- Quindi avete già deciso. Io devo solo accettare e basta.
Peeta sta per ribattere quando bussano alla porta, e la voce di Effie ci raggiunge attraverso di essa. – Katniss, cara, va tutto bene?
- Vado a parlarle – dice Peeta. Mi da un bacio sulla fronte prima di rimettersi in piedi. – Datti una rinfrescata, nel frattempo.
Già, mi sa che ne ho bisogno.
Dopo aver fatto una doccia veloce, mi sento già meglio. Indosso una camicia da notte leggera e, sopra di essa, una specie di camicione lungo fino alle caviglie. Esco dalla camera in punta di piedi, come se temessi di far rumore, ma in giro non c’è nessuno che potrei disturbare con i miei passi. Torno nella stanza del televisore e ci trovo soltanto Peeta, seduto a rivedere i suoi soliti appunti. Davanti, poggiata sul tavolino, ha la scatola con i nastri.
- Hey – sussurra quando mi vede arrivare. Mi fa posto per permettermi di sedermi al suo fianco. – Ti ho fatto portare qualcosa per sistemare lo stomaco.
- Grazie – dico, e ci aggiungo anche un bacetto. – Hai intenzione di rivederli tutti? – mi riferisco ai nastri.
- Volevo dare un’occhiata alle loro tecniche di combattimento – ammette.

Che masochista che sei, Peeta. Io avrei lasciato perdere.
- A chi tocca adesso?
- Non lo so.
Iniziamo a frugare nella scatola e, quasi nello stesso momento, ci imbattiamo in quello dell’Edizione della Memoria numero due. La cinquantesima edizione: è quella di Haymitch. Peeta si rigira la scatola del nastro tra le mani, titubante. – Non credo che dovremo guardarlo. Haymitch si è sempre mostrato contrario.
- Potrebbe esserci di aiuto per vedere come funzionano queste edizioni in particolare – penso ad alta voce. – Ma possiamo vedere comunque la venticinquesima, come alternativa.
- Non c’è la venticinquesima. Effie non me l’ha mandata.
- Ah – non aggiungo altro. – Quindi… che facciamo?
- Non ne ho idea. Anche se… ammetto di essere un po' curioso. Haymitch non ci ha mai parlato dei suoi giochi.
- Anche io sono un po' curiosa – confesso.
Peeta mi guarda, poi torna a guardare la scatola. Alla fine, in silenzio, inserisce il nastro nel lettore e lo fa partire. Torna a sedersi accanto a me mentre io mi servo della bevanda calda che un inserviente ha lasciato per me. Riconosco il sapore dello zenzero dal primo sorso.
Nelle ore successive riviviamo l’edizione che ha vinto il nostro mentore, anche se non con i suoi occhi. È bizzarro vederlo giovane e forte, ed è anche piuttosto simpatico durante l’intervista con un giovane Caesar Flickerman. Noi, purtroppo, lo abbiamo conosciuto dopo che l’esperienza vissuta gli ha stravolto la vita in negativo. Osserviamo l’arena, un paradiso terrestre che nasconde un inferno fatto di veleno, in cui ha dovuto affrontare i suoi quarantasette rivali, il suo modo di agire, di uccidere. Osserviamo la breve alleanza con Maysilee Donner, l’amica di mia madre e la zia di Madge, nonché la vecchia proprietaria della mia spilla portafortuna. Osserviamo lo scioglimento dell’alleanza, ed in me si fa strada il dubbio che sia stato proprio lui ad uccidere la ragazza… ma per fortuna mi sbaglio. Maysilee rimane uccisa dal becco lungo ed affilato di uno strano uccello rosa, un ibrido, che l’ha attaccata. Haymitch non la lascia da sola e rimane con lei mentre muore. Mi sembra quasi di rivedere me al suo posto, e Rue al posto di Maysilee. Un altro déjà-vu.
Assistiamo allo scontro finale con una ragazza dell’1: Haymitch ferito, con una mano a tenere gli intestini nella pancia, e lei che cerca di ucciderlo, con un’orbita vuota e sanguinante. La osserviamo mentre lancia l’ascia contro Haymitch, che lo manca e precipita contro il vuoto del burrone, e vediamo questa che torna indietro a causa del campo di forza che circonda l’arena e che Haymitch aveva capito che poteva essere usato come arma. L’ascia le si conficca nel cranio, il cannone spara, ed Haymitch è proclamato vincitore.
Quando il nastro termina, Peeta spegne lo schermo. Nessuno dei due dice una parola, troppo sconvolti da ciò che abbiamo appena visto. Io ho ancora la tazza tra le mani, anche se è vuota.
- Dovremo andare a dormire un po' – dice Peeta ad un certo punto. – Specialmente tu. Devi riposare.
Non riesco ad apprezzare le premure di Peeta fino in fondo: in qualche modo, mi suonano sempre come degli ordini. E a me non piace che mi si dica cosa devo fare. – Non credo che ci riuscirei, e non ho neanche sonno.
- Almeno stenditi. È sempre meglio di niente – tenta di nuovo.
Il bambino sceglie proprio questo momento per manifestare di nuovo la sua presenza. Lo fa con un colpo ben assestato, più forte degli altri. Mi fa storcere la bocca e addirittura mugolare un – Ahi! -, il che la dice lunga. Tocco la pancia.
- Si muove? – chiede Peeta, eccitato. Si eccita sempre, quando si accorge che il bambino si muove. Posa una mano accanto alla mia per sentirlo anche lui.
In risposta, arriva un altro colpetto, meno forte del precedente ma ben percepibile. Il sorriso di Peeta va da un orecchio all’altro per la felicità che prova.
Con la testa contro il morbido rivestimento del divano, lo osservo. A differenza mia, è molto più coinvolto e preso, catturato dalla piccola vita che cresce sotto la mia pelle. Alle volte penso di essere fortunata che sia proprio Peeta il papà del mio bambino, un ragazzo dal cuore grande che sa amare con ogni fibra del suo essere. È la persona adatta a fare il padre proprio perché so che non farebbe mai mancare nulla ai suoi figli. Farebbe di tutto per loro.
Me lo ha dimostrato oggi. Si è offerto volontario per seguire me e il suo piccolo non ancora nato nell’ignoto, per proteggerlo. Per proteggere lui, suo figlio, e la sua mamma. Questa è la più grande dimostrazione d’amore che un uomo è in grado di mostrare.

 

 

 

 

 

_____________________

Ammetto di essermi sfogata moltissimo con questo capitolo. Mi ha permesso di concentrare al massimo l’attenzione sui pensieri e sulle sensazioni che sta provando Katniss: ecco perché è una rompicoglioni palla al piede, che non pensa ad altro che alla morte, alle sofferenze future ecc. Ma al suo posto chi è che la penserebbe diversamente?
E Peeta… è un cuoricino, Peeta. È il mio personaggio preferito. Il vostro, invece?
Voglio ringraziarvi per le recensioni che avete lasciato nello scorso cap – è stata una settimana infernale e non sono riuscita a rispondervi, perdonatemi!
Alla prossima!

D.

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Capitolo 16
*** 16. ***


In The Still Of The Night - 16

In the still of the night

 

 

 

 

 

16.

 

Quando mi sveglio, sono da sola nel letto. Peeta deve essersi già alzato da un pezzo. La luce che entra dai finestrini mi dice che è mattina inoltrata. Era molto tardi quando abbiamo deciso di sdraiarci sotto le coperte, ed ancora più tardi quando siamo finalmente riusciti ad addormentarci. Deve essere per questo che ho dormito fino a quest’ora, ma nonostante le ore di sonno mi sento comunque strana, intontita, come se non avessi riposato per niente. Rimbambita: sì, è proprio il termine giusto per definire come mi sento.
Tra non molto arriveremo a Capitol City. Questo potrebbe essere un valido motivo per restare a letto fino a che non sarò costretta a lasciarlo, obbligata da qualcuno. Ma devo comunque convincermi ad alzarmi perché ho fame, davvero molta fame.
Raggiungo la carrozza ristorante dopo aver fatto una breve tappa in bagno per cambiarmi e darmi una sciacquata al viso. Sono già tutti lì, riuniti davanti al tavolo del pranzo. È già ora di pranzo? È più tardi di quanto immaginassi.
- Oh, Katniss cara! Eccoti qui! Hai fatto un buon sonnellino? – esclama Effie. Sfoggia la sua nuova parrucca dorata e sembra molto più felice rispetto a ieri. Chissà a cosa è dovuto il suo cambiamento d’umore… forse, ha solo dormito bene. Sicuramente meglio di me.
- Metti qualcosa sotto i denti, bella addormentata. Devi recuperare quello che hai perso ieri sera – dice Haymitch, scrutandomi mentre prendo posto a tavola.
- Scommetto che sei un esperto nell’arte del recupero – borbotto.
- Vedo che l’acidità di stomaco non ti è ancora passata. Ed io che volevo essere gentile! – dice. Non è arrabbiato: sa che sono una causa persa?
- Non ha dormito bene – lo informa Peeta.
- Questo si capisce dalla sua faccia. Guarda che roba.
Li ignoro entrambi ed inizio a riempire di cibo il mio piatto. Tra le pietanze servite c’è anche lo stufato di agnello con le prugne secche ed il contorno di riso selvatico. Opto per questo, e mi metto a mangiare in silenzio mentre Effie chiacchiera sulla sfilata dei tributi, lo show di apertura di ogni edizione dei giochi, che è prevista per stasera. Giusto. La sfilata: ecco perché è così di buon’umore. Mentre ascolto le sue chiacchiere, mi rimpinzo di cibo finché non mi sento sazia, e per una volta senza avere la sensazione di star per vomitare. Per oggi, a quanto pare, avrò un po' di tregua.
Sto giocherellando con un pezzetto di mollica abbandonata sulla tovaglia quando Haymitch mi rivolge di nuovo la parola. – Cosa c’è lì dentro, secondo te? Maschio o femmina?
Guardo in basso, nella direzione che mi ha indicato. Ovviamente si riferisce al contenuto del mio ventre, ventre su cui ora è posata la mia mano. Cosa c’è lì dentro, effettivamente? Non ho mai pensato al mio bambino in questo senso. Cosa vorrei che ci fosse? – Non lo voglio sapere – rispondo in fretta e senza pensarci più di tanto.
- Dovresti volerlo, invece – ribatte. – Cosa racconterai durante l’intervista? Lì fuori è pieno di gente che muore dalla voglia di saperlo. Devi accontentarli in qualche modo.
- Se lo possono scordare.
- Parlano del bambino?
Io e Peeta abbiamo parlato nello stesso momento, ed ovviamente Haymitch decide di riprendere il discorso voltandosi verso di lui, che lo ha in qualche modo incoraggiato, e non verso di me. Deve decisamente aver capito, in ritardo di un anno, che sono una causa persa. – Se ne parlano? Non credo che abbiano un altro argomento di cui parlare! Ieri sera vi siete persi il riepilogo della vostra mietitura, quindi non avete visto la conduttrice sciogliersi in lacrime quando ha visto Katniss che si toccava la pancia sul palco…
- Non l’ho fatto apposta – mi intrometto nel discorso.
- Non m’importa se l’hai fatto apposta oppure no, dolcezza – mi rimbrotta. - M’importa più il fatto che, per una volta, ti sei mossa nel modo giusto. Oggi, appena arrivati in città, cercherò di informarmi meglio sugli animi della gente, su ciò che provano. Penso proprio che sia questa la mossa su cui dovrete focalizzarvi quest’anno.
- Pietà? – chiedo io, alzando un sopracciglio.
- Pietà, compassione, chiamala come ti pare.
- Scordatelo.
- Te l’ho detto che non ne era convinta – dice Peeta.
- Beh, se vuole sopravvivere dovrà farlo – sentenzia Haymitch.
- Mi rifiuto di condividere qualcosa con quella gente!
- Ecco perché non piaci a nessuno! Sei orribile. Ma le donne in stato interessante non dovrebbero essere sempre felici e camminare a due metri da terra?
- Io non di certo.
- Non avevo dubbi.
- Possibile che non riusciate a parlare come due persone adulte? Siete veramente insopportabili! – Effie ci rimprovera, interrompendo il nostro botta e risposta. – Peeta riesce sempre a comportarsi da bravo ragazzo educato, mentre voi invece… - scuote la testa, demoralizzata. - Cosa devo fare con voi due?
La domanda di Effie resta senza risposta, perché nell’esatto istante in cui tace entriamo nel tunnel che divide Capitol City dal resto di Panem. Tempo dieci secondi, e siamo giunti a destinazione.
Come nella stazione del Distretto 12, anche qui non sono presenti telecamere, giornalisti o persone ad accoglierci. Niente di niente. È meglio così, in fondo, che essere circondati da un branco di idioti che ti indicano e osservano come se davanti avessero degli animali da mettere in mostra allo zoo, e non dei semplici ragazzi che vorrebbero essere solo lasciati in pace. Rispetto a pochi mesi fa, rispetto a ciò che abbiamo visto sul finire del nostro Tour della Vittoria, è un gran cambiamento. Hanno scelto di sacrificare un sacco di cose quest’anno, penso. Niente pubblico, niente calca, niente attesa… sembra quasi che vogliano ignorarci. Mi chiedo se anche agli altri ventidue tributi abbiano riservato lo stesso nostro trattamento.
Il treno rallenta la sua corsa una volta che è entrato in stazione e poi si ferma. Effie scatta subito in piedi.
- Su, forza, scendete! Non rallentiamo la tabella di marcia! – trilla, afferrandomi per un braccio. – Ci sono un sacco di cose di cui occuparsi e tutto deve essere perfetto per stasera! Sarà una-
- Grande, grande, grande giornata – termino io per lei.

 

Ad accoglierci davanti alle sale destinate alla preparazione dei tributi del Centro Immagine, che io e Peeta raggiungiamo insieme, non ci sono solo i nostri preparatori, ma anche Cinna e Portia. Di solito gli stilisti intervengono solo alla fine delle sessioni preparatorie, dopo che lo staff ha già torturato e reso il tributo bello, appetibile e pronto da servire per lo spettacolo, quindi trovarli qui davanti è una sorta di sorpresa inaspettata per entrambi.
- Guardateli, guardateli! – strilla Octavia, indicando me e Peeta. Si copre la bocca con le mani.
- Basta così – dice Cinna, il primo ad avvicinarsi a noi. Portia lo segue di pari passo. Dalle loro facce, capisco che sanno e di certo non è una sorpresa. Credo che sappiano tutto già da mesi, e non solo da ieri, quando la mia gravidanza è stata rivelata a tutta Capitol. Credo che sappiano dal nostro tentativo di annullare gli Hunger Games. Deve essere stata Effie a metterli al corrente degli ultimi sviluppi: sono anche loro parte della nostra squadra, in quanto nostri stilisti ufficiali. No, non stilisti: amici. Sono nostri amici.
– Vi siete proprio impegnati per rendere questa Edizione indimenticabile – aggiunge Cinna quando ci è di fronte.
- O si fa per bene, o non si fa per niente – scherza Peeta. Portia lo rimbecca dandogli un pizzicotto sulla guancia.
Abbraccio Cinna; lui ricambia la mia stretta e non sussulta quando la mia pancia si frappone tra i nostri corpi. Il nostro abbraccio non dura molto: Cinna prende le mie mani e si allontana di poco, facendo scorrere gli occhi lungo tutta la mia figura. Portia, invece, comincia a girarmi intorno, attenta.
- Che ne pensi? – chiede alla sua collega.
- Il tessuto dovrebbe essere abbastanza elastico. Non credo ci sarà bisogno di allargarlo molto.
- Cosa dovete allargare? – chiedo stupidamente.
- Il costume per la sfilata di stasera – mi informa. – Quello di Peeta è perfetto, il tuo, invece, no. Non sapevo quanto il tuo corpo fosse cambiato, Katniss – aggiunge davanti al mio sguardo confuso. - Portia mi darà una mano mentre i ragazzi ti preparano.
- Mi dispiace – dico in fretta. Ci mancava anche questa. – Non ho pensato ai vestiti, Cinna.
- Non devi mica pensarci tu, ai vestiti – sorride, per nulla irritato o sconvolto per l’inconveniente. – Andate, adesso, o farete tardi.
Le ore successive sono, al solito, insopportabili. Tutto ciò che riguarda i trattamenti di bellezza è insopportabile, per me: odio dover essere rivoltata ogni volta come un calzino solo per poter risultare più carina per il pubblico. Dovrei essere diventata un’esperta in tutto questo, essendoci passata diverse volte nell’arco di un solo anno, eppure risulto comunque impreparata davanti alle reazioni del mio staff. Sono sempre così allegri, di solito, e si divertono un mondo a torturarmi con le loro cere, cremine e impacchi puzzolenti! Oggi, invece, le persone che ho davanti agli occhi sono come trasformate. Non ridono, non urlano eccitati per gli Hunger Games che incombono, non chiacchierano di cosa organizzeranno per godersi al meglio le emozioni del reality. Sono tristi, e piangono. Piangono un sacco. Flavius deve continuamente soffiarsi il naso per evitare che goccioli sulla mia messa in piega – che schifo, aggiungo io. Octavia lima le mie unghie e sospira, asciugandosi gli occhi di tanto in tanto. Venia sembra controllarsi un po' di più rispetto agli altri due, ma cerca di non guardarmi in viso e ha quasi paura di toccare il mio corpo. Le sue mani tremano quasi di continuo, e le cade più volte la spatolina con cui mescola e applica le sue creme. È palesemente terrorizzata mentre spalma un leggero strato di crema lilla sulla mia pancia gonfia, come se potesse esplodere da un momento all’altro solo toccandola.
Si sono davvero affezionati a me, e di certo non si aspettavano un retroscena simile per quest’anno. Non si aspettavano di vedermi tornare là dentro, e di certo non in questo stato. Forse, Haymitch non aveva tutti i torti sullo scatenare compassione verso il pubblico che ci guarderà in televisione. È ovvio che come espediente funziona alla grande. Ma loro mi conoscono, penso, stanno male per me perché mi conoscono. Mi vogliono bene, anche se nello strano modo in cui mi vogliono bene loro. È ovvio che siano tristi e spaventati per me. Devo consolarli di continuo per non vederli singhiozzare e piangere calde lacrime sul mio corpo, come se stessero contemplando una martire.
Tutto questo mi lascia parecchio innervosita, così quando finiscono i loro trattamenti e mi lasciano andare via sono un vero e proprio fascio di nervi. In accappatoio e pantofoline, vengo raggiunta da Cinna che mi accompagna nella sorta di camerino preparatorio in cui sono già stata l’anno scorso. C’è un piccolo tavolo con del cibo pronto da mangiare, ma non ho fame per via del pranzo abbondante che ho consumato sul treno. E poi, sono troppo nervosa ed infastidita dai miei preparatori per riuscire a mandar giù qualcosa. Prendo solo un po' d’acqua.
- Cosa hanno fatto per renderti così rigida? – mi chiede. Mi fa sedere su una poltroncina imbottita e, con tocchi decisi, comincia a massaggiare le mie spalle contratte. È bellissimo.
- Hanno pianto – lo informo, tenendo gli occhi chiusi per godere meglio della magia che sta regalando al mio corpo. – Non ne posso più della gente che piange per me.
- Io non piangerò per te – mi rassicura. – Gli parlerò, non ti preoccupare.
Apro gli occhi e, attraverso lo specchio che ho davanti, gli regalo un accenno di sorriso. – Grazie.
- E dimmi… – Cinna mi si posiziona davanti e comincia a preparare un sacco di cosmetici per truccare il mio viso - …tu e Peeta. Siete giovani per avere già un figlio.
- Se è per questo, stiamo anche per morire. E non era previsto un bambino, Cinna. Io non ne ho mai voluti – gli dico. Posso essere sincera con lui, così come lui è sempre sincero con me. Ed il tono di voce calmo con cui è solito parlare è più efficace di qualsiasi urlo od esclamazione di rimprovero.
- Qualcosa ti ha fatto cambiare idea?
Scuoto la testa, ma mi ferma perché altrimenti rovinerei il suo lavoro. – Nulla mi avrebbe mai fatto cambiare idea. Ma…
- Non avete fatto attenzione – conclude lui per me.
Annuisco. Non siamo stati attenti. Chissà perché, questo è ancora oggi l’unico modo che ho per giustificare la presenza di questo bambino nella mia vita. Sono sicura che esistono al mondo decine e decine di diavolerie al solo scopo di non riuscire a concepire e prevenire una gravidanza indesiderata, ed io e Peeta non abbiamo mai, neanche per una volta, pensato a queste diavolerie. Mai. Se solo fossimo stati più attenti… cosa? Forse, se li avessimo usati, questo bambino non esisterebbe neanche. Non sarebbe qui, non lo sentirei. E non sono più così sicura di non volerlo. Di non volerlo sentire scalciare. In me, sono presenti un mare di sensazioni contrastanti.
- Errare è umano, Katniss – dice. Mi chiede di chiudere gli occhi per poter truccare meglio le mie palpebre. – Nessuno dà la colpa a te e Peeta per questo. Non potevate sapere che sareste tornati di nuovo qui, ai giochi.
Le parole di Cinna riportano a galla l’esatto motivo per cui è sbagliato avere questo bambino.
- No – mormoro. – Ma avremmo potuto evitare tutto questo – indico la pancia. Il nervosismo va unendosi al senso di colpa e all’umore scombussolato che, da settimane, invade tutto il mio essere, e di riflesso inizio a piangere. – Avremmo potuto, Cinna. Lo sto portando a morire insieme a me, ed una madre non lo farebbe mai. Che razza di madre…
- Ehi, non rovinare il mio capolavoro! – la sua esclamazione, nonostante tutto, mi fa sorridere. Con un fazzolettino tampona le lacrime e mi fissa intensamente, costringendomi ad incrociare il suo sguardo. – Non morirai, mia cara. Nessuno di voi due morirà.
- Come fai ad esserne così certo? Non ci credo neanche io…
- Perché io scommetto ancora su di te, Ragazza di Fuoco – mormora. Bacia, anzi, sfiora, la mia fronte. – Ora, lasciami finire ed evita di piangere sulla mia opera d’arte.
Nel resto del tempo che occorre a Cinna per prepararmi, rimango in silenzio a vedere il mio viso che si trasforma grazie alle sue mani. Gli occhi sfumati di nero e oro fanno paura, le guance sono di un rosa acceso, come di chi ha caldo o ha corso troppo velocemente per troppo tempo, e le mie labbra vengono dipinte di rosso cremisi, un rosso talmente intenso da sembrare sangue. Questo trucco mi fa assomigliare ad una dea della guerra. I capelli sciolti, che Flavius ha domato in onde morbide e definite, vengono lasciati liberi di ricadermi sulle spalle e sulla schiena; il tocco di Cinna per completare l’acconciatura è una sorta di diadema nero ed intrecciato a motivo di viticci, che copre tutta la parte superiore della mia testa.
Mi toglie l’accappatoio e dimostra una delicatezza estrema mentre mi aiuta ad entrare nel costume per la sfilata: è un abito aderente, color del bronzo, di un tessuto elasticizzato la cui gonna copre le mie gambe fino a sopra il ginocchio, per poi proseguire fino a terra sulla parte posteriore. Ai piedi mi fa indossare dei saldali con un tacco alto ma portabile, la cui allacciatura risale per tutto il polpaccio.
- Come lo senti addosso? – chiede Cinna. Controlla cuciture, allacciature, cerniere. Si assicura che tutto sia al suo posto.
- È come non indossare nulla – dico, osservando il mio riflesso. Cinna si è superato, stavolta. Adoro questo completo. Fascia ogni mia curva e non ne tralascia nessuna. E, purtroppo, non tralascia neanche il mio ventre rotondo. Sembro più incinta del solito. A nessuno, nessuno, lì fuori, sfuggirà questo dettaglio e credo che Cinna abbia cercato di fare in modo che non restasse nascosto. Tra il trucco, il costume di Cinna e il mio essere una ragazza incinta, non passerò di certo inosservata.
- Allora puoi andare – dice, passando un’ultima volta le mani sul tessuto. – Vado a vedere a che punto è Portia con il tuo compagno.
Libera di poter già scendere, raggiungo il piano terra, dove c’è l’ampio piazzale in cui si riuniscono i carri con i cavalli prima dell’inizio della sfilata. C’è già molta gente in giro, tributi e mentori che si conoscono da anni e che chiacchierano tra di loro, riuniti in gruppetti allegri. Getto occhiate nervose in giro per cercare Haymitch, ma sembra che non sia ancora arrivato. Non voglio essere beccata qui da sola, così, cercando di non cadere camminando su questi tacchi, raggiungo velocemente il carro su cui campeggia il numero 12. Una coppia di stupendi purosangue neri lo trainerà durante il tragitto fino all’anfiteatro cittadino. Allungo il braccio ed accarezzo il collo della bestia più vicina a me. Sono di spalle, quindi non posso vedere la persona che mi sta raggiungendo, ma sento i suoi passi decisi. È certamente qualcuno che non vuole essere ignorato.
Volto appena la testa e riconosco l’inconfondibile e spettinata chioma color bronzo di Finnick Odair, il latin lover di Capitol City. Mi osserva, stando a meno di un metro da me, e sgranocchia quelle che sembrano zollette di zucchero. Cerco di mantenere gli occhi fissi sulla sua faccia perché il resto del suo corpo atletico, coperto solo di quella che sembrerebbe, a prima vista, una rete da pesca dorata, mi mette a disagio. Fortuna che Cinna ha messo già abbastanza colore sul mio viso, da mascherare così il rossore che mi scalda le guance a causa del suo essere così sfacciatamente seminudo. Ha un sorriso sornione sul viso.
- Vuoi una zolletta? – chiede, porgendomi la mano piena di cubetti bianchi.
- No, grazie – dico. Mi giro, tenendomi la pancia con una mano, come se la stessi proteggendo. – Lo zucchero fa male al bambino – aggiungo. Non ho la più pallida idea se ciò che ho detto sia una bugia o meno.
- Allora le voci sono vere – dice, squadrandomi. – Congratulazioni, Katniss. Dov’è Peeta? Devo farle anche a lui.
- Sta arrivando – lo informo.
- Che gran peccato, però! Prima il matrimonio che salta, e adesso questo. Direi che la fortuna non è dalla vostra parte.
- Lo è mai stata?
Sorride, mettendosi una zolletta in bocca. – Bella domanda! Immagino che abbia saltato qualche giro.
- Tu, invece, sei fortunatissimo.
- Se sono qui, insieme a te, vorrà pur dire qualcosa, no? Nessuno di noi è stato abbastanza fortunato – mangia un altro zuccherino. Alle sue spalle, scorgo Peeta che esce dall’ascensore insieme a Cinna e a Portia, in un costume dello stesso colore del mio. Finnick non si accorge del loro arrivo finché non gli passano accanto.
- Ah, Peeta! Eccoti qui! Sarà meglio che raggiunga il mio carro – esclama. Fa un cenno di saluto con la mano e va via. Il retro del suo costume è praticamente inesistente. Ha le chiappe al vento. Che visione bizzarra.
- Cosa voleva Finnick Odair? – chiede Peeta.
- Terrorizzarmi, immagino.
- Vestito in quel modo?
Ridacchio. – Ah, ci ha fatto gli auguri per la gravidanza - Peeta mi guarda aggrottando le sopracciglia. – Lo so, non è stato il massimo…
- Il costume va davvero bene, Katniss – dice Portia. Riportare l’attenzione sui nostri costumi scaccia via il pensiero di Finnick.
- Tenete questi – dice Cinna, porgendoci due piccoli telecomandi neri dotati di un solo tasto. – Quando siete pronti, premete il pulsante. Stavolta, però, non voglio da voi sorrisi. Niente saluti, niente sorrisi, niente di niente. Guardate fisso davanti a voi, come se non vi importasse nulla di dove siete e di chi vi circonda.
- Finalmente una cosa in cui sono brava! – esclamo.
Peeta e Cinna mi aiutano a salire sul carro. Gli inservienti stanno già iniziando ad allineare i carri per la partenza della sfilata, e Cinna e Portia sono costretti ad allontanarsi da noi. Restiamo solo io e Peeta, di nuovo bardati come dei fenomeni e di nuovo in piedi su un carro. Come l’anno scorso. Tutto si ripete come se il tempo per noi non fosse trascorso… ma allo stesso modo, sappiamo che è inesatto perché tutto, tra di noi, è cambiato. Ed è bastato meno di un anno per trasformare il nostro rapporto, per evolverlo dalla semplice amicizia all’amore.  
- Sei bellissima, sai? – mormora Peeta. Afferra una ciocca dei miei capelli e se la rigira tra le dita. – Ma sei anche spaventosa.
- Ti faccio paura? – lo punzecchio, assumendo un’aria da seduttrice che non deve riuscirmi molto bene perché comincia a ridermi in faccia.
- Molta paura – sussurra. Si avvicina per baciare le mie labbra, ed io ricambio, felice di sentirle di nuovo contro le mie. Non c’è stato molto tempo per i baci, negli ultimi giorni. Questo è il primo vero bacio che ci scambiamo da giorni interi. Ma per quanto piacevole dura poco, purtroppo. Pulisco la macchia di rossetto che gli è rimasta sulla pelle, sorridendogli.
- Ci teniamo per mano anche quest’anno? – chiedo.
- Sì, sicuramente se lo aspettano da noi. Io, però, pensavo ad altro – ammette. Mentre il nostro carro inizia a muoversi verso l’uscita, dove risuonano già la musica dell’inno e le urla della folla, mi avvicina ancora di più a sé e circonda la mia vita con un braccio.
Per un momento smetto di essere me stessa ed immagino di vedermi dal di fuori: immagino di essere una semplice spettatrice e di assistere all’entrata in scena di due innamorati che, su un carro in corsa, mostrano a tutti coloro che hanno davanti la portata del legame che li tiene insieme, e lo dimostrano abbracciandosi. Vedo il ragazzo che, grazie a quel semplice gesto, mostra l’intenzione di proteggere la sua compagna contro ogni genere di avversità che gli si paleserà davanti. Questa spettatrice smania, eccitata, nel vederli solidi come rocce.
Ricambio il gesto di Peeta e mi aggrappo alla sua schiena, stringo il tessuto del suo costume tra le dita come se potessi trovare in lui la forza che mi manca per affrontare la sfilata. Quando stiamo per uscire dalle porte, puntiamo lo sguardo fisso davanti a noi e premiamo i pulsanti dei telecomandi. I nostri costumi si illuminano immediatamente, si trasformano producendo degli accecanti giochi di luce dorati, rossi, arancioni… sembriamo incandescenti come carboni. Tizzoni ardenti. Cinna e Portia hanno di nuovo realizzato la loro magia trasformandoci in magnifici elementi di fuoco.
Quando passiamo, le urla della folla sembrano diminuire di intensità per poi riprendere vigore, e solo per rimbombarci forte nelle orecchie. Ogni tanto si percepiscono delle urla e dei fischi di disappunto. Diminuiscono ed aumentano di continuo, in un altalenante saliscendi che dimostra ancora una volta l’effetto che abbiamo su chi produce quei suoni. È la combinazione di tutto ciò che provochiamo: con i nostri sguardi fissi su un punto ignoto, sulla nostra solidità e serietà che si rifiuta di dare attenzione e di salutare anche la più piccola persona presente. Così abbracciati, così stretti, riusciamo in qualche modo a dimostrare la nostra superiorità su tutti loro.
Per un anno intero, per chiunque qui siamo stati gli innamorati sventurati del Distretto 12. Capitol City ci ha visto crescere, ci ha visto evolvere in una coppia ancora acerba che, se non fosse stata costretta dalle circostanze, sarebbe convolata a nozze davanti alle telecamere e davanti alla nazione intera solo per il loro piacere. Quel matrimonio non si farà più, ormai. Al posto dell’evento, dovrà accontentarsi di vederli affrontare di nuovo la morte, di sfidare altre persone all’interno di un’arena nel tentativo di salvarsi la vita. C’è qualcosa che va a stonare, in tutto questo, ed è la causa dei fischi che aumentano a mano a mano che la sfilata avanza, a mano a mano che percorriamo il tragitto che ci porta all’interno dell’anfiteatro.
La nota stonata è la presenza silenziosa, innocente, che custodisco all’interno del mio ventre da più di cinque mesi.
Il bambino mio e di Peeta è la causa del malcontento che aleggia sull’intera parata. È una dimostrazione inaspettata, sorprendente, e potente. La stessa Capitol City si sta ribellando, al solo guardarci, verso tutto ciò che ha sempre visto, amato e voluto. È qualcosa che nessuno, forse neanche gli stessi Strateghi, aveva previsto potesse accadere.
Devo combattere con tutta la mia forza di volontà per cercare di non sorridere.

 

 

 

 

 

_________________________

Felici Hunger Games! Scusate l’uscita, ma già che siamo in tema… *gongola*
Ed ecco anche la mia versione della sfilata dei tributi. Ho scelto di rievocare i costumi che sono apparsi nel film perché sono fantastici! Adoro l’outfit di Katniss, adoro in generale tutto l’effetto che è uscito fuori con quelle fiamme ecc… e non so voi, ma io ho sempre desiderato vedere per intero il costume (quale costume?) di Finnick. Cioè… così tanta pelle esposta e loro decidono di tagliarla così? Al cinema si è visto anche di peggio.
Avete notato il dissapore della folla? Per forza di cose, non potevo ritagliarlo solo al momento dell’intervista finale ma dovevo collocarlo molto prima. Perché sì, gli Strateghi – e Snow – avranno anche deciso di andare avanti scegliendo di ignorare un pupo nell’arena, ma il resto di Panem non la pensa allo stesso modo. Saranno anche loro ignoranti e indifferenti, ma non lo sono ai massimi livelli. Ho voluto dargli un po' di fiducia :)
Per il prossimo cap ho deciso di fare una scommessa: se vedo che questo cap riceve un certo numero di letture entro il fine settimana, anticipo l’aggiornamento :) vediamo cosa siete capaci di combinare!
Un bacione, un abbraccio… e possa la fortuna essere sempre a vostro favore!

D.

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Capitolo 17
*** 17. ***


In The Still Of The Night - 17

Salve a tutti!
Devo dire che mi avete fregata alla grande: nel giro di due giorni, lo scorso cap ha raggiunto le stesse letture del precedente e adesso mi tocca pagare pegno! Ricordatemi che non devo più fare scommesse con voi XD
Stavolta lascio le note all’inizio perché… perché se dovessi metterle alla fine non saprei cosa scrivere. Capirete perché :) è un capitolo più corto degli altri, ma ogni tanto capita. Ce ne saranno di più lunghi in arrivo, promesso :)
Buon week-end e… alla prossima!

D.

 

 

In the still of the night

 

 

 

 

17.

 

Una volta al sicuro all’interno del Centro di Addestramento, torniamo ad essere noi stessi. Peeta mi afferra per la vita e mi aiuta a scendere dal carro con un piccolo balzo. Abbiamo ancora i costumi accesi, e un sacco di occhi puntati addosso: quelli degli altri tributi.
- Cosa guardano? – chiedo, un po' scocciata.
- Noi – dice Peeta. – Siamo molto più belli di loro.
Lo guardo storto, ma poi rido. È difficile non lasciarsi contagiare dal suo buonumore, adesso che la tensione è diventata un po' più sopportabile.
Haymitch ci raggiunge accanto al nostro carro, presentandoci i tributi del Distretto 11 che lo accompagnano. La donna, Seeder, ci saluta con un gentile cenno del capo e resta ad osservarci con i suoi occhi dorati. L’altro, invece, lo conosco di vista grazie alla televisione ed alle innumerevoli volte in cui l’ho visto incollato alla bottiglia insieme ad Haymitch. È Chaff, uno dei suoi migliori amici: ha perso una mano durante la sua edizione degli Hunger Games. Senza preavviso, mi circonda le spalle con un braccio e mi dà un sonoro bacio sulle labbra.
- Hey, vacci piano! – esclama Peeta mentre io mi ritraggo dall’uomo, scioccata. Ma Peeta, a differenza mia, sta ridacchiando. Capisce che è solo un gioco. Anche Chaff, Seeder ed Haymitch stanno ridendo.
- Qui sono tutti pazzi! – sibilo, quando gli inservienti ci obbligano senza troppe cerimonie a procedere in direzione degli ascensori.
- Te ne accorgi solo ora? – domanda Peeta, allegro.
Non riesco a ribattere perché qualcuno mi taglia la strada, vestito da albero. Quando la figura che ho davanti toglie l’ingombrante copricapo di rami e lo lancia lontano, riconosco Johanna Mason, il tributo donna del Distretto 7. È ferma davanti all’ascensore su cui dobbiamo salire anche io e Peeta.
- Il mio stilista è un idiota! – esclama, mettendo le mani sui fianchi. – Voi, invece, siete fantastici. Quella pancia un po' meno – osserva, inarcando un sopracciglio nella mia direzione.
Prima Finnick, adesso Johanna: dev’essere davvero l’argomento più discusso delle ultime ore. – Non ti riguarda.
- E meno male! Odio i poppanti – Johanna entra per prima nell’ascensore e noi la seguiamo subito dopo. Le porte si chiudono alle nostre spalle. Con grande disinvoltura, e senza sembrare avere la minima idea di cosa sia il senso della privacy, comincia a spogliarsi. Sgrano gli occhi.
- Come ci si sente adesso che tutti vogliono venire a letto con te? – chiede, mentre si libera con calma della tuta che ha addosso. Prima le braccia, poi il busto, infine le gambe: il suo è un lento spogliarello, e sembra si stia divertendo un mondo nel dedicarlo interamente a noi, gli unici spettatori del suo spettacolino.
- Eh… io-
- Mi riferivo a Peeta, non a te – ribatte, acida. Guarda Peeta e gli fa l’occhiolino.
Il ‘plin’ che risuona nella cabina e l’ascensore che si ferma ci annunciano l’arrivo al settimo piano. Johanna scappa via agitando leziosamente una mano in direzione di Peeta, nuda come mamma l’ha fatta.
Lui ride. – Ma cos’hai da ridere!? – strillo.
- Sei tu, Katniss, non lo vedi? – dice.
- Eh?
- Ti prendono in giro perché sei così… stanno giocando con il tuo senso del pudore.
- Senso del pudore? – non capisco proprio il suo discorso. – Quale… che senso del pudore?
- Non ti sto giudicando, Kat. Davvero! Ti sto solo spiegando come ti vede Capitol City ed il resto del mondo – dice. Mi tira a sé, approfittando delle nostre mani ancora intrecciate. – Io ti amo così come sei, pudore o non pudore. Sei fantastica – mormora, baciandomi lievemente. – E poi, sai… quando siamo da soli… ti trasformi completamente.
- Peeta! – urlo.
- Katniss! – mi fa il verso.
- Non ti ci mettere anche tu! – lo spingo via, arrabbiata perché si è unito alle presunte prese in giro degli altri.
- È divertente sconvolgerti – ammette.
Lo pianto in asso all’interno dell’ascensore quando le porte si aprono al nostro piano.
Mi cambio, sciacquo via il trucco dalla faccia, raggiungo il resto del gruppo a cena, guardo il riepilogo della sfilata: faccio tutto quanto tenendomi a debita distanza da Peeta. Sono ancora arrabbiata con lui. Sono ancora arrabbiata per le sue prese in giro, ma anche per quelle degli altri, di Chaff e di Johanna. Forse, anche se non sembrava una presa in giro la sua, anche per quella di Finnick. È come se mi avessero trasformata in un bersaglio ancora prima dell’inizio dei giochi. Giocano sul mio senso della vergogna. Ho un senso della vergogna? Ma sono davvero così ai loro occhi?
Non presto attenzione alle chiacchiere, al vociare di Effie, ai commenti sui costumi degli altri stilisti. Resto sola con me stessa fino a che non arriva il momento di ritirarci per la notte. Effie ci ricorda di presentarci a colazione di buon’ora, per parlare del nostro piano di addestramento prima di scendere in palestra per i tre giorni di allenamento che spettano ai tributi prima delle sedute private.
Ventitré persone, riunite tutte insieme all’interno di una stanza pronte a bersagliarmi, penso. Chissà perché, ho incluso anche Peeta nell’elenco.
Sono seduta a gambe incrociate sul mio letto quando Peeta mi raggiunge in camera. Si è già cambiato per la notte e, silenziosamente, si arrampica sul materasso mettendosi di fronte a me, nella mia stessa identica posizione. Inclina la testa da un lato.
- Mi tieni ancora il muso? – domanda.
- Te lo meriti – borbotto. Evito di guardarlo in faccia.
- Ma non ti ho fatto niente!
- Mi hai presa in giro!
- E con questo? Ti prendo sempre in giro! Perché te la prendi solo ora con me?
Già, perché? – Non lo so.
- Andiamo bene…
- Peeta!
- Katniss – dice, rassegnato. Poi, sembra avere una specie di illuminazione, perché aggiunge: – Non è che sei gelosa?
- Gelosa io? – esclamo. – E di chi dovrei essere gelosa?
- Di Johanna, no? Mi si è spogliata davanti, dopotutto – un sorriso malizioso prende forma sulle sue labbra.
Avvampo, ricordandomi di quel dettaglio. Perché me lo ha voluto far ricordare? - Non essere ridicolo! Non sono gelosa…
- Perché se tu fossi gelosa di lei, io potrei essere geloso di te e Finnick. Anche lui non era poi così vestito, mentre parlavate.
- Ma a me non piace Finnick! – ribatto.
- Già, a te piaccio io – il sorriso malizioso si intensifica.
- Smettila! – strillo. In preda alle risate, Peeta si avvicina ed io mi ritrovo stretta nel suo abbraccio.
- Cosa devo fare con te? Me lo dici? – mormora contro i miei capelli.
Nulla, ecco cosa. Può solo sopportarmi. Mi accoccolo contro di lui, e come per magia ogni cosa sparisce. Le braccia di Peeta hanno sempre il potere di tranquillizzarmi, di scacciare via i brutti pensieri… e le reazioni immotivate.

 

Il mattino dopo, raggiungiamo Haymitch nella sala da pranzo. Ha l’aria di uno che non ha chiuso occhio tutta la notte, ubriacandosi per ammazzare il tempo. Giocherella con il bracciale d’oro a motivi fiammeggianti che gli avvolge il polso che deve avergli dato Effie: è il segno della nostra squadra.
- Sedetevi – ci ordina bruscamente. Non aspetta che iniziamo a mangiare per spiegarci ciò che deve spiegare. – Avete solo un compito, oggi, e mi aspetto che lo eseguiate per bene.
- Essere innamorati? – chiedo, prendendo un muffin.
- Quello non è più necessario ormai, dico bene? – ribatte, lanciando un’occhiata eloquente alla mia pancia, ben visibile al di sotto del completo che abbiamo a disposizione per gli allenamenti. – No, quello che dovete fare oggi è farvi degli amici.
- Non sarà un problema – dice Peeta.
- Per te, forse. Non sei tu il vero problema – Haymitch lancia un’altra occhiata nella mia direzione.
- No – poso il muffin che avevo cominciato a mangiucchiare. – Non mi fido di nessuno di loro.
- Cara mia, togliti dalla testa il concetto di fiducia per una volta. Dovete avere degli alleati, stavolta, altrimenti non ce la potrete mai fare da soli.
- Perché?
- Hai la risposta sotto gli occhi – dice. Un’altra eloquente occhiata alla mia pancia. – E non siete svantaggiati solo perché c’è il marmocchio in mezzo a voi, ma anche perché siete i tributi più giovani e perché nessuno vi conosce. Il resto dei vincitori si conosce da anni. È ovvio che vi prenderanno di mira per sbarazzarsi di voi alla prima occasione.
- Quindi dobbiamo allearci con i Favoriti? – domanda Peeta.
- Non per forza con i Favoriti, con chi volete. Parlate tra di voi, conoscetevi, capite chi vi può piacere oppure no. Io vi suggerirei Chaff e Seeder, per quanto anche Finnick non sia da ignorare.
- Perché non aggiungere anche Johanna? – propongo, irritata.
- Se ti piace la Mason…
- Non mi piace.
- Katniss è gelosa di lei – ammette Peeta.
- Non sono gelosa! – strillo.
- Mi fai scoppiare la testa, dolcezza. Piantala! Scegli chi ti pare, basta che non urli – dice serafico Haymitch, massaggiandosi le tempie con la punta delle dita. Ah, il mal di testa da sbronza. – Per tornare invece sul discorso del marmocchio… ieri sera avete fatto proprio un gran bello spettacolo. Il pubblico era incazzato nero!
- Ah, sì? Mi sembrava di averlo intuito…
- Non sono entusiasti all’idea di veder morire nessuno dei loro paladini, figuriamoci ora che sanno che una di loro è anche incinta. Sono infuriati, e chiedono la sospensione del programma.
- Ma se non l’hanno fatto mesi fa… - avanza Peeta.
- …non lo faranno nemmeno ora, esatto – conclude Haymitch. – Ma un po' di bufera non fa mai male. Finite di mangiare e scendete, prima che facciate tardi. Effie non ve lo perdonerà mai.
In palestra, oltre a me e Peeta, ci sono solo Brutus ed Enobaria del 2. Effie non doveva preoccuparsi sull’arrivare in ritardo: il resto dei tributi sembra stia puntando proprio sul ritardo per provocare una protesta. Arrivano le dieci, l’orario designato per l’inizio degli addestramenti, e solo la metà dei partecipanti si presenta all’appello. Ci spiegano velocemente in cosa consistono gli allenamenti, e nel giro di pochi minuti ci lasciano andare a svolgere le attività che più ci interessano.
- Da dove vuoi cominciare? – chiedo a Peeta. Sono più tranquilla rispetto a poco fa: con la metà delle persone presenti, non devo preoccuparmi di fare molte amicizie.
- E se ci dividiamo? Potremmo svolgere più allenamenti in questo modo – mi propone.
Non è un’idea malvagia, così annuisco. Mi stringe velocemente la mano prima di dirigersi verso la postazione di tiro, dove Chaff e Brutus sono già riuniti davanti ad una serie di lance. Chaff è bizzarro, ma sembra un tipo a posto tutto sommato, e poi è amico di Haymitch. Brutus, invece, mi incute molto timore, e solo al primo sguardo. Non vorrei ritrovarmi mai da sola accanto a lui.
Decido di recarmi alla postazione di tecnica dei nodi. Ricordo il nodo su cui mi stavo scervellando da due ore buone quando capii che avrei potuto essere incinta del bambino di Peeta. Quel giorno sembra essere accaduto una vita fa, ed invece non sono passati nemmeno due mesi da allora. Sembra qualcosa proveniente dall’altro mondo. Cerco di non focalizzarmi su quel ricordo in particolare e, insieme all’addestratore, ripasso un po' di nodi. Ho finalmente scoperto l’arcano in quel nodo che mi stava facendo impazzire quando arriva Finnick a ripassare nodi insieme a me. No, non a ripassare nodi: a darmi fastidio. Di nodi ne sa più lui dell’addestratore. Scappo via, con la chiara intenzione di evitarlo per tutto il giorno. E per gli altri a venire.
Vado ad accendere fuochi. All’inizio sono da sola, ma poi arrivano a farmi compagnia i due vincitori del Distretto 3, Wiress e Beetee: sono due inventori e sono anche molto tranquilli, non sembrano essere i tipi da mettersi a provocare o da spogliarsi in pubblico. Decido di conoscerli meglio, anche se questo fa sfigurare le mie doti e i miei talenti in confronto ai loro. Mi parlano delle loro invenzioni e dei progetti lavorativi che hanno lasciato in sospeso a casa. Tutto sommato, la loro compagnia è piacevole.
Ad un certo punto Wiress, che stava osservando gli spalti su cui sono soliti riunirsi gli Strateghi durante gli allenamenti, nota qualcosa: un campo di forza, che divide il resto della palestra dagli spalti. Beetee si chiede il motivo per cui è stato necessario alzarne uno, quest’anno.
- L’anno scorso ho tirato una freccia contro di loro. Forse è per questo che l’hanno fatto – ammetto. Beetee mi guarda impressionato.
Annunciano il pranzo, così siamo costretti ad abbandonare la nostra postazione per riunirci nella saletta attigua alla palestra. Gli altri tributi sembrano aver avuto la buona idea di unire i tavoli, così invece di pranzare in gruppetti separati, come era accaduto l’anno scorso, ci riuniamo tutti intorno ad un’unica tavolata. Vengo raggiunta da Peeta mentre studio i vari carrelli pieni di cibo, indecisa su cosa prendere. Dal nostro arrivo in città non ho più avuto attacchi di nausea, il che è una cosa positiva. Sembra assurdo da dire, ma l’aria di Capitol City fa bene sia al mio stomaco che al mio appetito. 
- Hai fame? – è la prima cosa che mi dice appena arriva accanto a me, con un vassoio tra le mani.
- Abbastanza – ammetto. Lo guardo e faccio un piccolo cenno con la testa in direzione degli altri. – Come ti sono sembrati?
- Non male. Alcuni di loro sono anche simpatici, persino Chaff.
- Ci avrei scommesso.
Ride. – Passaci un po' di tempo insieme e vedrai che ho ragione io. Andiamo a mangiare con lui. Ti prometto che non lascerò che ti baci un’altra volta.

 

Tutto sommato, il pranzo trascorre in un lampo ed in maniera piacevole. Chaff spara davvero un sacco di battutine di pessimo gusto, e la maggior parte di queste gli si ritorcono contro. Capisco perché lui ed Haymitch siano così amiconi… ma, per il momento, non se ne parla di averlo come alleato. Tengo in considerazione Wiress e Beetee, e basta.
Il pomeriggio trascorre tra amache intrecciate con i fratelli dell’1, Cashmere e Gloss, ma il risultato non è dei migliori: la mia amaca fa schifo, e non si può dire che sia riuscita a stringere amicizia con i due ragazzi. Passo poi alla sezione riservata alla pesca, anche se è già occupata da Finnick e dalla donna anziana, che mi presenta come Mags. Lei è una vecchietta adorabile che riesce a ricavare un amo da pesca quasi dal nulla, e con qualsiasi tipo di oggetto. Scopro di volerla come alleata.
Due inventori un po' strampalati e una vecchietta: Haymitch può solo che essere fiero di me.
Alla fine, lascio perdere le tecniche manuali per dedicarmi al tiro con l’arco. L’anno scorso non ho avuto la possibilità di farlo per risparmiare le mie capacità migliori alle sessioni private, ma ora come ora non ha alcun senso nascondere agli altri che so tirare, e anche bene. Tutti sanno chi sono, e hanno visto gli scorsi Hunger Games. Sono mesi, però, che non mi esercito seriamente, da quando andare nei boschi è diventato proibito per noi cacciatori di frodo del Distretto 12. E non so se il mio nuovo stato renderà più o meno impacciati i miei movimenti. Potrebbe essere un totale fiasco come un successo inaspettato, ma devo tentare. O la va, o la spacca.
Scopro di essere un po' più lenta di quanto vorrei, ma riesco a cavarmela comunque bene. Sarebbe stato peggio se in questi mesi non mi fossi allenata costantemente insieme a Peeta e a Haymitch; sono più lenta perché ho un peso in più addosso – letteralmente un peso un più! -, ma le mie braccia sono forti, e riesco a tendere e a ricaricare l’arco con velocità. Non perdo un bersaglio. Quando mi volto, alla fine della sessione, scopro di esserlo diventata io stessa un bersaglio: un mare di occhi mi sta fissando.
Peeta mi viene incontro dopo che ho posato arco e faretra. – Mi sa che li hai stesi tutti – mormora.
- Pensavo di non essere più capace! – gli dico, a bassa voce.
- Ma sei pazza? Quello è non essere capaci per te? Sono rimasti impressionati, te lo dico io – mi rassicura.
- Sei formidabile, Katniss – Finnick si avvicina a noi e fa un fischio, annuendo con la testa. – Potrei fare un pensierino su di te.
- È già occupata – lo informa Peeta.
- Non è un problema per me, Peeta. Dove c’è posto per uno, c’è posto anche per due.
- Che proposte indecenti vai farne- mi blocco a metà della frase, e non per mia volontà. Qualcosa di veloce e bruciante mi colpisce di striscio, all’altezza del fianco sinistro. Quel qualcosa atterra a diversi metri di distanza, striato di rosso. Quel qualcosa striato di rosso, rosso che non può essere nient’altro che il mio sangue, è un coltello.
Qualcuno mi ha lanciato contro un coltello.

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Capitolo 18
*** 18. ***


In The Still Of The Night - 18

In the still of the night

 

 

 

 

18.

 

- Le hai tirato un coltello addosso? – è Peeta, ad urlare.
- Non l’ho fatto apposta! Si è intromessa nella mia linea di tiro – riconosco la voce di Gloss.
Mi isolo, abbassando lo sguardo sul punto del mio corpo che è stato appena ferito. La maglia della divisa è strappata e sporca di sangue, il mio sangue. La sollevo, rivelando il lungo taglio che mi percorre il fianco. Col cavolo che non l’ha fatto apposta: quello di Gloss è stato un lancio calcolato alla perfezione. Se mi fossi spostata anche solo di mezzo centimetro, mi avrebbe squarciato il fianco. Gemendo, premo la mano sulla ferita, che è poco più che un taglio superficiale, ma non smette di sanguinare.
Perché Gloss mi ha lanciato un coltello addosso? Neanche un’ora fa stavamo intrecciando amache insieme a Cashmere e adesso… osservo il coltello che giace poco lontano da me, che nessuno ha ancora osato toccare. Perché ha lanciato un coltello contro il mio bambino?

Il bambino: ecco perché.
Alle voci concitate di Peeta e Gloss si sono aggiunte quelle di Finnick e Chaff, e anche quelle di qualche addestratore che stanno tentando, insieme, di placare l’eventuale zuffa che potrebbe scaturire da un momento all’altro. Ho della gente attorno, ma non riesco a capire di chi si tratta e non tento di capirlo. Sono paralizzata, non posso fare altro che guardare le mie mani macchiate di sangue strette sulla pancia. Scopro di non avere paura per me: ho paura per lui. È la prima volta che ne sono davvero totalmente consapevole. Non è più solo un’ipotesi, o una teoria: è reale. È tutto troppo tremendamente reale. La paura di potergli fare del male, di causargli dolore, o che qualcun altro oltre a me possa provocargli dolore… si sta concretizzando tutto alla velocità della luce, ed io non posso impedirlo in alcun modo. Non potrò fare nulla per impedirlo…
- Vieni, cara, vieni con me. Sta tranquilla, andrà tutto bene – una voce delicata e dolce mi avvolge. Le mani di una donna mi sorreggono ed insieme mi sospingono da qualche parte. Ci vuole un po', ma riemergo dal torpore appena in tempo per rendermi conto di essere stata portata in una piccola stanza adibita ad infermeria. Oltre ad una donna in camice bianco, già munita di guanti e garze pulite, c’è Cecelia, la donna del Distretto 8. È sua la voce tranquillizzante, e sue sono le mani che mi hanno accompagnata fino a qui e che stringono ancora le mie per infondermi sicurezza.
- Dov’è Peeta? – riesco a chiedere con voce tremante. Vorrei raggiungerlo, ma la dottoressa mi impedisce di muovermi. Sta pulendo la ferita con qualcosa che brucia, e devo trattenere un gemito per il fastidio.
- Tra poco lo raggiungerai, tranquilla. È qui accanto – dice Cecelia. – Ci vogliono solo pochi minuti, vero?
- Esattamente. Per fortuna non servono punti – dice la dottoressa. Sorride anche lei, quindi in qualche modo posso fidarmi di ciò che dicono entrambe.
- Il bambino sta bene? – esprimo a parole ciò che ho sempre e solo pensato nella mia mente fino ad ora.
- Certo. Sono forti, questi piccoletti, sai? – Cecelia mi sorride, rassicurante.
La guardo. In questo istante, capisco che lei è l’unica persona in questo posto che è realmente in grado di capire il subbuglio di sentimenti e di sensazioni che sto provando. Lei ha lasciato tre bambini a casa, tre bambini che ha visto crescere davanti agli occhi e che per nove mesi le sono cresciuti dentro la pancia. Può capire le mie paure ed il mio senso di inadeguatezza.
- Possiamo controllare – dice la dottoressa. – Hai mai fatto un’ecografia prima d’ora?
Dieci minuti dopo, Cecelia stringe una delle mie mani ed ha l’altro braccio sulla mia schiena mentre mi riaccompagna verso la palestra. Sono un po' più tranquilla: il peggio, per ora, è passato. Adesso ho una grossa benda sul fianco e una casacca pulita con cui ho potuto sostituire quella della divisa, ormai sporca ed inutilizzabile. La mano libera è sulla pancia e non riesco proprio a metterla giù. È come se volessi sincerarmi che sia davvero tutto a posto, che sto bene. Che stiamo bene. È questo l’importante.
Appena mettiamo piede in palestra, ho giusto il tempo di notare che non ci sono segni di lotta o altro che qualcuno mi abbraccia. Mi stringe forte, mormora il mio nome. Peeta.
- Ti lascio col tuo innamorato – mi saluta Cecelia. Sento Peeta che la ringrazia mentre si allontana. Io chiudo gli occhi e gli stringo la vita, posando la guancia contro il suo petto. Peeta rafforza la presa sul mio corpo, sospira contro la mia pelle. – Stai bene? – mormora.
- Stiamo bene – lo rassicuro.

 

Haymitch è già davanti alle porte dell’ascensore, pronto ad accoglierci, quando risaliamo dalla palestra. Ha l’aria arcigna. Sembra uno sul piede di guerra. – Ti hanno davvero lanciato addosso un coltello?
- Tranquillo, Haymitch. Mi hanno rattoppata per benino – dico, cercando di non mostrargli quanto la cosa mi abbia in realtà scossa, e non poco. – Come girano in fretta, le voci…
- Smettila – mi rimprovera Peeta, severo.
- Fammi vedere – ordina Haymitch.
Controvoglia, sono costretta a sollevare la casacca e a mostrare il bendaggio che mi copre il fianco. Non contento, Haymitch lo solleva piano per vedere la ferita, nonostante le mie proteste.
- Chi è stato? Gloss?
- Se lo sai perché lo chiedi?
- Me lo stai appena confermando, dolcezza – dice. Scuote piano la testa come se stesse soppesando ciò che ha in mente. – Questo non fa altro che rimarcare ciò che vi ho detto stamattina: vi hanno preso di mira e lo faranno ancora. Per questo dovete avere degli alleati nell’arena. E da adesso in poi, state lontani dai fratelli del Distretto 1.
Sbuffo. – Peccato. Volevo che fossero miei amici…
- Smettila! – ripete seccato Peeta.
Il nostro mentore mi osserva stranito. - A parte l’incidente… a che punto siete? So che parecchi ti vogliono in squadra, nonostante tutto.
- L’hanno vista tirare con l’arco – il tono di Peeta si è un po' addolcito, adesso.
- Voglio Wiress, Beetee e Mags – dico in fretta.
- Ah! Bene – Haymitch ride. Anche lui sembra improvvisamente più tranquillo. – Dirò che ci state ancora pensando. Andate a cambiarvi, su.
Ho giusto il tempo di fare una rapida doccia e di iniziare a vestirmi che mi ritrovo Peeta in camera, con i capelli fradici e la camicia abbottonata per metà. – Non mi serve un babysitter – dico, ignorandolo.
- Sì, invece, se qualcuno vuole farti fuori prima del tempo – mi riprende. Si siede sul letto e mi osserva.
Ho solo la biancheria addosso, quindi ha una visuale completa del mio corpo. Gli do le spalle e continuo a cercare nell’armadio qualcosa da mettere. Afferro un abito morbido e dall’aria comoda e lo infilo rapidamente. A corto di roba da fare per occupare il tempo, decido di raggiungerlo. Gli accarezzo i capelli, più scuri a causa dell’acqua che ancora li inzuppa, e lui posa la fronte contro il mio ventre.
- Non farmi più scherzi del genere – dice piano.
- Non sono mica stata io a volerlo.
- Lo so… ma non mi sarei sentito tranquillo se non te lo avessi detto.
- Va bene. Niente scherzi.
- Bene – mormora, abbracciandomi.
I due ragazzi sicuri di sé che solo ieri sera sfilavano davanti a migliaia di persone, mostrando a tutti la loro forza e superiorità, si sono volatilizzati nel giro di pochi istanti. Ed è bastata un’arma, un coltello scagliato contro di me. È bastato per renderci piccoli ed indifesi, messi alle strette davanti alle nostre più grandi paure. Non dovevamo mostrare in alcun modo le nostre debolezze agli altri, ma ci hanno costretti a farlo. Adesso sanno che non siamo altro che due ragazzini spaventati, nonostante l’immagine da invincibili che i media ci hanno costruito addosso nell’ultimo anno. Adesso sanno come colpirci, come farci male. Come ucciderci. E forse lo hanno sempre saputo. Forse, quel coltello non sarebbe comunque servito allo scopo.
- C’è una cosa che devo dirti – dico a Peeta. Magari, questo può alleggerire un po' la tensione.
- Mh? – mugugna.

Come posso dirglielo?, penso. Qual è il modo migliore di confessargli cosa ho scoperto poco fa?
Cecelia ha promesso che non avrebbe aperto bocca con nessuno, e di lei mi fido. È una così brava donna, e penso che potrei chiedere ad Haymitch di aggiungerla alla possibile lista degli alleati. Mi ha aiutata, mi è stata accanto in un momento in cui non ero in me per il terrore. Era con me quando ho scoperto cosa c’è nella mia pancia.
- Sai… è una lei – dico. Mi scappa un sorriso nel farlo.
- Cosa è una “lei”? – domanda lui, alzando gli occhi verso di me.
- Non ci arrivi?
Ci mette un po', ma alla fine ci arriva. Eccome, se ci arriva! Mi godo la sua reazione: sopracciglia inarcate, bocca imbronciata, poi occhi sgranati e bocca spalancata in una muta esclamazione. Guarda la pancia, poi di nuovo me. E le sue labbra si tendono nel più bello dei suoi sorrisi. Il mio sorriso preferito.
- Ma… non stai scherzando? – ansima, alzandosi in piedi.
- No… ah! – Peeta mi ha presa tra le braccia ed ha iniziato a farmi girare per la stanza, ridendo. È felice! Felice di sapere che sarà una bimba, che c’è una bimba dentro di me. L’ho reso felice, finalmente. Mi lascio contagiare dalla sua felicità e scoppio a ridere a mia volta.
- Oh, mio Dio! – esclama quando mi rimette giù, senza però smettere di abbracciarmi. – Katniss! Una bambina! – dice, incredulo. Prende il mio viso tra le mani e mi bacia, all’inizio piano, e poi con trasporto. Le nostre labbra non cercano, o non hanno alcuna voglia, di separarsi.
Eh, sì. L’ho proprio reso felice.

 

Mi ronzano tutti intorno. Non sono mai davvero da sola.
Nei restanti due giorni di allenamento, i tributi degli altri distretti sembrano aver stretto uno strano patto tra di loro, un patto che riguarda me ed in cui anche Peeta sembra esserne coinvolto in qualche modo. Mi parlano, si accertano del mio stato di salute, mi coinvolgono nelle loro attività. Gli unici momenti in cui mi permettono di stare da sola sono quelli in cui mi reco al gabinetto, e per fortuna devo andarci più di qualche volta durante la giornata. Uno degli inconvenienti della gravidanza è il bambino che preme sulla vescica. Ho un continuo bisogno di fare pipì.
Gloss viene a scusarsi con me il mattino dopo l’accaduto, appena io e Peeta, mano nella mano, entriamo in palestra. Si dice sinceramente dispiaciuto per ciò che è accaduto e che non aveva nessuna intenzione di ferirmi, che aveva già lanciato il coltello per colpire un manichino quando io mi sono messa in mezzo per sbaglio. In definitiva, era colpa sua così come era colpa mia. Ho accettato le sue scuse, tagliando corto. Inutile dire che con Gloss non ho più voluto avere a che fare, anche se più di qualche volta mi sono ritrovata a fare esercitazioni nello stesso gruppo in cui era presente anche lui.
- Cazzate – dice Haymitch appena gli riferisco l’avvenimento. – Non credere ad una sola parola, l’ha fatto apposta. Pensava che avessi un cuscino, o un qualcosa, a simulare la pancia. Voleva scoprire se fosse davvero una montatura.
- E tu che ne sai? – chiedo, scioccata.
- Le voci girano in fretta – ribatte, bevendo il vino che ha nel bicchiere.
Non avvengono altri incidenti, per fortuna. In realtà, queste giornate insieme si rivelano molto piacevoli, più di quanto mi aspettassi. Imparo a conoscere meglio gli altri tributi, imparo di più sulle persone che tra meno di una settimana diventeranno i miei avversari. Imparo ad apprezzarli, il che è un problema. Come si fa ad uccidere una persona che conosci e che apprezzi? Alcuni di loro non sarebbero mai diventati miei amici neanche tra un milione di anni, ma sono comunque esseri umani. Forse, sto semplicemente diventando troppo sensibile. Troppo suscettibile alla vulnerabilità dell’essere umano.
Il fatto di avere una sempre costante massa di gente attorno rende Peeta abbastanza tranquillo, tanto che alla fine cede alla tentazione di volermi avere sempre sotto gli occhi e si mette a gironzolare da solo tra le varie attività da apprendere. Ma, essendo un essere umano anche lui, torna sui suoi passi quasi sempre, e non mi molla un istante.
- Sei paranoico – gli dico ad un certo punto.
- No, sono solo protettivo – mi corregge. – Hai mai usato le tecniche di mimetizzazione?
Ovviamente no, ma ho ancora ben chiaro nella mente l’eccellente prova di mimetismo che ha creato su sé stesso nell’arena l’anno scorso. Così lo assecondo, e trascorriamo diverse ore piacevoli ad usare i colori. Con noi ci sono sempre i tributi del 6, i ragazzi morfaminomani. Sono così assuefatti dalla sostanza, ed i loro fisici così provati dagli anni di abusi continui, da essere totalmente innocui. Vederli ti stringe il cuore, ma sono anche così appassionati in quel che fanno e che gli piace fare che il loro stato di salute passa in secondo piano. Dipingono le mie braccia e la mia faccia di fiori, spronati da Peeta che sembra divertirsi un mondo nel vedermi così colorata. I disegni sulla mia pelle sembrano tatuaggi: potrei benissimo passare per la sorella minore di Venia.

 

Arriva il giorno dedicato alle sessioni private. Siamo tutti riuniti nella saletta del pranzo ed attendiamo, uno ad uno, che chiamino i nostri nomi per essere esaminati. Mi chiedo che talento posso mostrare loro stavolta, dato che sanno già che me la so cavare benissimo con arco e frecce. Mags dice che ne approfitterà per schiacciare un pisolino. Potrei imitarla, perché la sua idea non è per niente male. Altrimenti, se i morfaminomani mi lasciano a disposizione un po' dei loro colori, posso mettermi a disegnare qualche fiore.
Pian piano se ne vanno via tutti. Chiamano Seeder, del Distretto 11, e nella saletta restiamo solo io e Peeta. Ci teniamo per mano, ma non è una semplice stretta: abbiamo le dita intrecciate. Costantemente, continuamente, le nostre dita sono intrecciate. Le mie sono piccole, con le unghie molto corte e rosicchiate – non c’è più traccia del lavoro di Venia su di esse -, quelle di Peeta invece sono lunghe e hanno delle unghie normali, pulite, tagliate regolarmente.
Non potremmo avere delle mani più diverse.
Osservo la piccola macchia marrone che ha nell’incavo tra il pollice e l’indice della mano destra. Una voglia. Io non ne ho neanche una, di voglia. Ho molti nei, ma nessuna voglia. È una di quelle macchie con cui ci si nasce, non compaiono col tempo. Ci si nasce e basta. Anche la piccola avrà una voglia come questa?
Non mi accorgo che chiamano il nome di Peeta, è lui a farmelo notare. Deve andare.
- Ci vediamo tra poco – mi dice. Dovrebbe muoversi, ed invece si prende del tempo per salutarmi come si deve, con un bacio. Quando lo chiamano di nuovo si decide a lasciarmi andare, e così mi ritrovo ad aspettare da sola il mio turno. Ho un quarto d’ora davanti a me per capire cosa mostrare agli Strateghi. Pisolino, decisamente.
Ne sono parecchio convinta quando entro in palestra, una volta convocata, ma la mia risolutezza vacilla dopo neanche un minuto dal mio arrivo. Peeta non c’è: dopo aver finito, i tributi escono da una porta secondaria e non incrociano più quelli che attendono il loro turno. Lo fanno per non lasciarsi sfuggire ciò che hanno mostrato, come se nascondessero un segreto. Ed in effetti è un segreto: non devi mai, mai mostrare il tuo talento nascosto, quello che potrebbe proclamarti vincitore degli Hunger Games, al tuo futuro nemico. Mi chiedo se sia ancora necessario nascondere i nostri talenti dato che siamo tutti dei vincitori, stavolta. Sappiamo già cosa siamo in grado di fare, no?
E Peeta non vuole che il suo talento rimanga un segreto: ha lasciato in bella mostra ciò che ha mostrato agli Strateghi. Ciò che ha voluto mostrare. Ciò che io stessa, la notte di Capodanno, gli ho raccontato. Le mie parole lo hanno aiutato a realizzare il dipinto di Rue ricoperta di fiori nell’arena.
E Rue, ricoperta di fiori nell’arena, è ciò che trovo dipinto sul pavimento della palestra.
Mi inginocchio ed osservo il disegno da vicino. Non riesco a trattenere le lacrime ed alcune cadono sui colori ancora freschi. Osservo Rue addormentata, avvolta da una cornice di fiori bianchi, e piango come se la vedessi per la prima volta. È un’immagine che non smetterà mai di far male, mai.
Plutarch Heavensbee, il Capo Stratega, mi ricorda che il tempo a mia disposizione si va esaurendo in fretta. Ma non ho bisogno di molto tempo per fare ciò che devo. Non voglio più schiacciare un pisolino, adesso. Adesso, mi serve solo una corda.
Devono essere trascorsi poco più di cinque minuti dal mio arrivo, che già vado via. Mi inchino agli Strateghi, mi volto, mi incammino dignitosamente verso l’uscita senza essere congedata.
E lascio alle mie spalle un manichino impiccato.
Un manichino con il nome di Seneca Crane scritto col sangue.

 

- Hai impiccato un manichino e hai scritto il nome di Seneca Crane col sangue? – urla Effie durante la cena.
- Beh, non con il sangue. Era succo di ribes – tento di giustificarmi, e ricevo l’effetto opposto a quello che desideravo: invece di calmarsi, Effie si arrabbia ancora di più.
- Ma cosa ti è passato per la testa? – urla ancora.
- Quindi il mio dipinto di Rue non rappresenta alcun problema – aggiunge Peeta, lanciandomi un’occhiata d’intesa.
- Hai dipinto… - Effie chiude gli occhi e se li copre con una mano, gemendo. Sembra che sia in procinto di svenire. Meno male che si trova già seduta, penso. Avrebbero dovuto raccoglierla dal pavimento, altrimenti.
- Cosa volevate dimostrare? – chiede Haymitch, rassegnato. Sì, rassegnato è la parola esatta per descriverlo in questo momento. Non sembra neanche avere più la forza di rimproverarci, ormai.
- Non lo so bene. Volevo solo che si sentissero responsabili, anche solo per un momento – spiega Peeta. – Di aver fatto morire quella ragazzina.
- Questo genere di pensieri può solo attirare guai su di voi. Non sono pensieri da esprimere ad alta voce – mormora Portia.
- A che serve evitare altri guai, ormai? Ci vogliono già morti. Dobbiamo solo aspettare tre giorni prima che possano farlo liberamente – dico. Infilzo con più forza del solito un pezzetto di carne nel mio piatto, e questo vola via, dritto sulla tovaglia.
- Non pensi alla ragazzina che hai dentro la pancia? Non pensi che dovresti salvaguardarti per lei? Almeno per lei, Cristo Santo! – esclama Haymitch.
Già, dovrei. Ma a che serve? Lo sanno tutti che è un’impresa disperata, anzi, persa in partenza. Ancora prima di partire. – La uccideranno comunque.
Non è la prima volta che il mio pessimismo cronico e le mie non celate intenzioni irritino Peeta, ma è sicuramente la prima volta che lo costringo ad abbandonare la tavola in preda alla rabbia. Getta con stizza il tovagliolo sul piatto mezzo pieno e se ne va in camera. Sbatte la porta con forza dietro di sé.
- Quel ragazzo ha la pazienza di un santo, ma anche la pazienza ha un limite. E tu non gli stai rendendo le cose facili – conclude Haymitch.
Resto zitta.
Peeta non ci raggiunge in salotto per vedere i punteggi che abbiamo ottenuto nelle prove. Stavolta so di averla fatta grossa, ma non faccio nulla per migliorare le cose. Resto seduta sul divano tra Cinna e Portia, mi mangio le unghie ed osservo i voti degli altri tributi. I Favoriti, ovviamente, prendono punteggi alti. Anche Johanna ottiene un ottimo punteggio, mentre il resto prende voti medio-bassi.
Io e Peeta otteniamo entrambi dodici punti, il massimo. Haymitch sospira rumorosamente.
- Perché l’hanno fatto? – chiedo.
- Così gli altri non potranno fare altro che prendervi di mira – dice Haymitch senza scomporsi. – Va via, ragazza, non sopporto la tua vista. Va a chiedere scusa a quel poveretto.

No che non ci vado, penso, ma la faccia omicida di Haymitch mi fa passare interamente la voglia di provare a ribellarmi. Saluto in silenzio gli altri e percorro il corridoio a passo funereo, diretta verso la camera di Peeta, come se stessi andando al patibolo. Non busso, apro direttamente la porta, che scopro non essere chiusa a chiave. Non abbiamo le chiavi, effettivamente.
Peeta è steso sul letto e guarda il soffitto, con le braccia incrociate dietro la testa. Non muove un muscolo e non fa il minimo cenno, come se non mi avesse sentita entrare nella stanza. Mi ignora, così come tante volte l’ho ignorato io. Vado verso il letto e mi sdraio accanto a lui, sul fianco. Anche se mi ignora.
- Mi dispiace per prima – sussurro. La mia bocca è quasi a tiro del suo orecchio.
- Sai che odio quando parli in quel modo – mi dice con voce dura dopo lunghi istanti di mutismo.
- Lo so.
Riconosco, a malincuore, che moltissimi dei nostri discorsi dell’ultimo periodo si sono svolti in un altalenante andirivieni di “Lo so” e “Mi dispiace”. Un copione scritto, riscritto, recitato e strarecitato.
- E allora perché lo fai? – chiede. Stavolta, però, volta il viso.
Mi prendo qualche secondo prima di rispondergli. – Perché potrebbe essere vero.
I suoi occhi azzurri vacillano, perdono un po' della loro luminosità. Non può ignorare le mie parole, è intelligente dopotutto. Ed è realista, e vede benissimo come stanno andando le cose: stanno andando a scatafascio. È un disastro annunciato a cui manca solo l’ordine risoluto degli Strateghi per poter prendere il via. Lo sa meglio di me che non sopravviverò all’arena. Forse, se siamo totalmente sfortunati, non sopravviverà neanche lui. Ma io conto ancora sull’aiuto di Haymitch: in due, lui fuori ed io nell’arena, forse riusciremo a riportarlo a casa.
- Non riesci ad avere una visione positiva del futuro? – chiede ancora.
- Una visione positiva in cui noi due sopravviviamo, il presidente Snow ci lascerà vivere in pace e potremo giocare alla famigliola felice? – chiedo. - Sei un illuso se continui a pensarla così, Peeta.
- Sono un illuso se voglio riuscire a salvare la mia famiglia? Se è così, allora continuerò ad essere un illuso fino alla fine.
Continuerà ad illudersi perché non può fare altrimenti: non vuole pensare al peggio. Non vuole pensare alla mia morte, alla morte di nostra figlia. Il suo incubo ricorrente non è cambiato di una virgola in questi mesi: ci sono sempre io che muoio davanti ai suoi occhi. Ed io, sempre io, sono e sarò l’unica cosa che lo rallenterà nell’arena, l’unica cosa che potrà concretizzare la realizzazione di quell’incubo. E non riesce a vedere al di là di questo.
Non riesce a lasciarmi andare.
- Potrebbero essere i miei ultimi giorni di vita, Peeta. I nostri ultimi giorni – mormoro. Non può ignorarlo, non deve ignorarlo. E devo farglielo capire con tutte le mie forze. Sollevo il viso per posizionarlo sul suo, gli sfioro delicatamente l’angolo della bocca con la mia. – Cosa pensi che dovremmo fare nei nostri ultimi giorni di vita?
I suoi occhi sono lucidi quando mi risponde: - Io voglio soltanto passare ogni minuto che mi resta da vivere insieme a te.
- Facciamolo, allora – propongo, accarezzandogli il mento con la punta dell’indice. Non si tira indietro quando poso le labbra sulle sue, non mi scaccia via. Ricambia, e mi stringe.
Mi mostra il modo in cui vuole trascorrere i nostri ultimi giorni di vita sulla terra.

 

Il mattino dopo, quando ci svegliamo, troviamo una sorpresa: le prove per l’intervista di domani sera sono state annullate.
- Come mai? – chiedo a Peeta, che si è alzato dal letto per prendere il bigliettino che uno degli inservienti senza voce ha dovuto consegnare. Non voglio davvero sapere la risposta, però. Avere la giornata libera, senza doversi preoccupare di imparare a camminare sui tacchi e a parlare in pubblico, è già una risposta soddisfacente per me.
- Effie dice che non ne abbiamo bisogno. Il Tour della Vittoria è stato sufficiente – mi informa lui, tornando a sedersi in mezzo alle lenzuola spiegazzate.
- Forse sono ancora arrabbiati per ieri… - la butto lì.
- Oppure è davvero come dice Effie – Peeta agita il cartoncino, poi lo getta sul pavimento. – Quindi… cosa vuoi fare?
- Tu che cosa vuoi fare? – chiedo a mia volta. Non mi aspettavo un intero giorno di libertà e non ho idea di come potremmo occuparlo. Mi ero quasi rassegnata alle ore in cui Effie mi avrebbe torturata per benino…
- Che ne dici di fare colazione, per cominciare?
- Mi sembra perfetto – rispondo, sporgendomi in avanti per dargli un bacio.
Peeta ordina la colazione e la consumiamo stando a letto, cosa che non avevamo mai fatto prima d’oggi. Non insieme e da soli, almeno. Cenare, pranzare, fare colazione… c’è quasi sempre stato qualcuno insieme a noi. Questa è la prima volta che mangiamo da soli dal giorno della mietitura. Sembra, di nuovo, la vita di qualcun altro.
Peeta sembra felice e soddisfatto di vedermi divorare la maggior parte del cibo che ci hanno portato. Mangio le frittelle, la frutta, il pane con burro e marmellata, bevo succo d’arancia e cioccolata come se fosse il mio ultimo pasto su questa terra. Non scherzavo, quando dicevo che il mio stomaco è migliorato molto da quando ci troviamo a Capitol City. È decisamente uno scherzo di cattivo gusto. È meglio vomitare tutti i giorni che essere qui ad ingozzarmi, mentre aspetto l’inizio della fine.
Dopo aver mangiato restiamo ancora un po' a crogiolarci tra le lenzuola: chiacchieriamo, e ogni tanto ci scappa anche una risata. Nessuno viene a disturbarci.
- Potrei restare qui tutto il giorno – farfuglio, in preda ad uno sbadiglio.
- No, non te lo permetto – scherza Peeta. Scende dal letto e mi afferra una mano, tirandola affinché lo segua. – Ti porto a fare un pic-nic.
- Ma dove? Non possiamo andare da nessuna parte – mi lamento.
- Un posto c’è – dice, indicando verso l’alto.
Alzo il viso verso il soffitto, come se quest’ultimo dovesse rivelarmi la destinazione che mi sta indicando Peeta, ma poi ci arrivo. Il tetto del Centro di Addestramento: ecco dove. La fortuna di avere l’attico come appartamento.
Faccio una capatina nella mia stanza per cambiarmi d’abito, recuperando un abitino leggero dal guardaroba; perdo qualche altro minuto per lavare i denti e pettinare i capelli nella solita, vecchia treccia. Quando esco, Peeta mi sta già aspettando con alcune coperte sottobraccio e un cesto da pic-nic nella mano libera.
La giornata è davvero calda, e meno male che ho deciso di indossare qualcosa di leggero! Le coperte, data la temperatura, non servono per ripararci dal freddo inesistente ma per stenderle per terra, proprio come in un classico pic-nic sul prato. Il sole bacia la nostra pelle, così ci sdraiamo per godere il più possibile dei suoi raggi. Mangiucchiamo qualcosa, ed io intreccio fiori mentre Peeta fa pratica di nodi con alcuni viticci; quando la mia ghirlanda è pronta, gliela metto sulla testa, divertita. Lui si vendica facendomi il solletico ai fianchi. E mi bacia, anche. Baciare Peeta rimane il mio passatempo preferito.
Il resto della giornata va via così, una giornata che resterà per sempre impressa nella mia memoria. Scopro che vorrei averne all’infinito, di giornate come questa.
Quando il pomeriggio si inoltra verso la sera, accarezzo pigramente i capelli di Peeta, trattenendoli leggermente tra le dita prima di ricominciare daccapo. Lui riposa con la testa sulle mie gambe, ha gli zigomi arrossati per tutto il sole che abbiamo preso durante queste ore. Io ho la schiena premuta contro il muro, ed osservo il cielo che inizia a tingersi di arancione. L’arancione preferito di Peeta, quello dei tramonti. Potrei stare ore ed ore a vedere un tramonto, solo per godere della pace che mi regala. Pace che non durerà ancora a lungo.
La pace, per ora, viene disturbata solo dall’esserino che mi cresce nella pancia. Guardo in basso, toccandola. Non riesco a trattenere un sorriso di meraviglia; fino ad ora ho cercato di non cadere dalle nuvole, come invece fanno tutte le donne che si trovano nella mia stessa situazione, ma diventa sempre più difficile ogni giorno che passa. È impossibile ignorarla e restare indifferenti davanti allo spettacolo della vita che prende forma, cresce, e si manifesta attraverso qualcosa di così semplice come un tocco. Premo sul punto che la bambina ha colpito e dopo neanche due secondi, lei mi risponde. Soffoco una risata. È così reattiva… e non è ancora nata.
Come ho fatto ad ignorare tutto questo fino ad ora? Quanto sono stata cieca? Istinto di sopravvivenza, immagino. L’istinto di sopravvivenza ti fa ignorare le cose belle, sapendo che prima o poi potresti perderle. La paura di perderla mi fa serrare lo stomaco. Ma sono realista, proprio come ho detto a Peeta ieri sera: è qualcosa che può accadere, e non siamo preparati. Per niente. Nemmeno io lo sono, nonostante il mio pessimismo possa dimostrare l’esatto contrario.
Ignoro il pessimismo per una volta, dato che questa è una giornata così bella, e sarebbe un vero peccato rovinarla con pensieri pessimisti. È la vita di qualcun altro, in fondo, e decido di viverla come se fossi un’altra persona: una persona che non ha la falce della morte in attesa sulla testa, pronta a colpire al primo passo falso. Una persona felice di avere accanto un marito, un compagno, e una figlia in arrivo. Una figlia che amiamo, nonostante tutte le avversità che la vita ci ha inflitto durante il cammino. Immagino di essere in un mondo senza sofferenza, senza Hunger Games, dove vivere non fa paura: è un mondo dove la bambina di Peeta può vivere felice e al sicuro…
Osservando i movimenti che la bambina provoca, ben visibili attraverso il tessuto dell’abitino, decido di provare a fare una cosa. Ho sentito varie volte dire che i bambini nella pancia sono in grado di ascoltare, anche se sono immersi in uno strano liquido che li protegge e fornisce loro il necessario per crescere e svilupparsi, e che parlargli non è sbagliato, anzi: loro imparano a riconoscere la voce di chi gli sta parlando, soprattutto quella dei loro genitori. Io non le ho mai parlato prima d’ora.
Non saprei nemmeno cosa dire, ad un esserino immerso nell’acqua…
Canto. È quasi un anno che non canto una canzone. E decido di farlo per lei, per la mia bambina.
Solo per lei.

 

Deep in the meadow, under the willow
A bed of grass, a soft green pillow
Lay down your head, and close your sleepy eyes
And when again they open, the sun will rise…

 

Questa ninna nanna mi riporta indietro di un anno, a me che la canto a Rue in punto di morte. È la prima canzone che mi è venuta in mente, e questo è forse dovuto al fatto che è una canzone per i bambini che non riescono a prendere sonno, o che fanno i capricci per non dormire. È buffo, il parallelismo che si va a creare adesso: la sto cantando ad una vita non ancora nata, e l’ho cantata in passato per una vita che si andava spegnendo… no, non è buffo. È amaro. È un’amara realtà.
Riprendo a cantare, cercando di non pensare a Rue.

 

Here it’s safe, here it’s warm
Here the daisies guard you from every harm
Here your dreams are sweet and tomorrow brings them true
Here is the place where I love you…

 

- Fallo ancora.
Peeta è sveglio e mi osserva da basso, ancora con la testa sulle mie gambe. Alza una mano e la posa sul mio ventre. – Canta ancora.
Lo faccio, assecondando la sua richiesta. Riprendo la canzone dal punto in cui mi sono interrotta e guardo Peeta mentre lo faccio, ma poi guardo di nuovo la pancia perché la bambina riprende a muoversi. Le voci sono vere, devo riconoscerlo: negli istanti in cui calco con la voce, lei scalcia un po' più forte. Un piedino – perché quello deve essere per forza un piede! – preme con decisione sulla parte bassa della pancia, esattamente dove si trova la mano di Peeta. A dividerli, solo diversi strati di carne, pelle e tessuto. Così vicini, eppure allo stesso tempo così lontani.
Lui sorride, estasiato. È totalmente preso dalla piccola magia che abbiamo davanti agli occhi. È innamorato.
- Vorrei poter fermare il tempo e vivere così per sempre – dice.
- Anch’io – mormoro. Gli accarezzo di nuovo i capelli.
Anch’io lo vorrei. Ma non abbiamo il potere di fermare il tempo.

 

 

 

_____________________

Tranquilli, non mi sono dimenticata dell’aggiornamento ;)
Mi sono fatta perdonare per aver terminato bruscamente lo scorso capitolo? Spero di sì ^^’
Ma quindi i nostri piccioncini aspettano una bambina! E Katniss inizia a sbilanciarsi sulla gravidanza: non riesce più a viverla da “estranea”, e capisce di non essere immune ai sentimenti. Capisce, o almeno sta cominciando a capire, di amare sua figlia. Sono felice di aver scelto di rendere questa Katniss più vulnerabile ai sentimenti, più “umana” in questo senso di quanto non lo fosse la Katniss creata dalla Collins. La adoro lo stesso, sia chiaro, ma almeno mostrami di non essere la sorella di Lord Voldemort.
Ci vediamo la prossima settimana col nuovo capitolo! L’intervista: a parte questo, non aggiungo altro ^^

D.

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Capitolo 19
*** 19. ***


In The Still Of The Night - 19

In the still of the night

 

 

 

 

19.

 

In the still of the night
I heald you
Heald you tight

 

Restiamo sulla terrazza fino all’ora di andare a letto e poi sgattaioliamo in silenzio in camera mia senza incontrare nessuno. Cerchiamo di godere della compagnia reciproca per tutta la notte, anche se dormiamo soltanto. Restiamo insieme fino al mattino, fino a che non vengono a svegliarci per i preparativi dell’intervista.
L’intervista: oggi non sarà una giornata di riposo.
Peeta mi saluta con un bacio frettoloso prima di lasciarmi, ancora assonnata e rintronata, per andare dal suo staff. Io resto col mio, che sembra avere tutte le intenzioni di sciogliersi in lacrime come il giorno della sfilata. So che Cinna ha parlato loro, ma non deve essere stato molto convincente se questo è il solo risultato che è riuscito ad ottenere.
Mentre la mattina avanza, tra un trattamento ed un singhiozzo, scopro che hanno in effetti delle regole da seguire. Lo scopro quando Octavia scoppia in lacrime, incapace di trattenersi ulteriormente, ed è costretta a fuggire dalla mia camera. Quindi, chi piange deve abbandonare il lavoro che sta facendo su di me: un po' troppo drastico, per i miei gusti, ma almeno risulta efficace.
Flavius riesce a resistere un altro paio d’ore prima di defilarsi, lasciando il suo lavoro a metà. Rimane solo Venia, che risoluta porta a termine anche il lavoro dei suoi colleghi. Trucco, unghie e capelli: quando ha finito, le mie guance sono tinte di un tenue rosa, il rosa di chi gode di una buona salute, ho gli occhi truccati leggermente e le palpebre che brillano, grazie alla polvere piena di glitter che ha utilizzato, e le labbra fucsia, ma non è il fucsia acceso che vedo sempre addosso a Effie. È un fucsia freddo, simile alla tinta che rimane sulle labbra quando mangi troppe bacche. È un fucsia che, a suo dire, enfatizza il colore dei miei occhi e dei miei capelli.
Venia mi lascia, anche lei ridotta in lacrime, quando Cinna arriva a controllare il punto della situazione. È già pomeriggio inoltrato.
- Devi scusarli, Katniss. Sono davvero tristi per ciò che accadrà domani – dice Cinna, pacato come al solito.
- Non fa niente – sussurro, stringendomi nell’accappatoio bianco. Sono triste anch’io per ciò che accadrà domani. Ma finché tengo gli Hunger Games reclusi in un remoto angolino del mio cervello va tutto bene, e posso continuare ad affrontare il resto delle ore che mancano all’inizio della serata. – Quello è il mio vestito? – chiedo, indicando la grande borsa che ha in mano.
Cinna annuisce. – Prima, però, finiamo di sistemare i capelli.
Mi fa di nuovo sedere ed inizia ad intrecciare i capelli, ricreando l’acconciatura a corona che avevo sfoggiato mesi fa durante il Tour della Vittoria. Tante trecce, e tutte che ruotano attorno alla testa. Peeta sarà felice, all’idea di poterle scioglierle tutte quante. Deve solo attendere qualche ora.
Quando è soddisfatto della sua opera, Cinna apre il borsone e mi rivela il suo contenuto. Riconosco dalla stoffa bianca ricamata a motivi dorati uno degli abiti da sposa che indossai durante il mio servizio fotografico, quello con abbinata la mantella… ed infatti, dopo aver steso per bene l’abito sul materasso, il mio stilista preferito recupera anche quella dai meandri della borsa. La stende, eliminando ogni grinza dal tessuto.
- È l’abito che hanno scelto per me? – domando, avvicinandomi al letto. Sfioro i motivi delicati di cui è interamente fatta la mantella: è fatta di un tessuto così leggero e trasparente che ho quasi paura di strapparla.
- Veramente no, hanno scelto l’abito di perle – mi spiega. – Ma è un abito molto aderente, e ho pensato che questo sarebbe stato più appropriato per la tua nuova figura – ecco un altro modo carino per indicare una gravidanza! – Il presidente Snow ha approvato senza problemi il cambio d’abito.
- Addirittura? Il presidente?
- Lui vuole che indossi un abito nuziale per l’intervista. È stata una sua richiesta inderogabile, a cui ci siamo opposti naturalmente, ma non abbiamo ottenuto grandi risultati.
- Ah – fiato.
Osservo il vestito, pensierosa. Chissà cosa è passato nella testa di quell’uomo per volere che indossassi quest’abito, o un abito da sposa in generale, per la mia ultima intervista. Chissà cosa vuole ottenere, nel vedermi in abito bianco. Chissà cosa penseranno tutti quanti, vedendomi in abito bianco. Pensavo che non mi sarei mai vista nemmeno io, in abito bianco. Mi sono sposata nuda, d’altronde… Questo ricordo mi fa sorridere.
- Beh – dico a Cinna, ricordando anche ciò che ho pensato la sera in cui mostrarono il mio servizio fotografico alla televisione, - almeno avrò un bel vestito.
- Indossiamolo, allora – mi invita lui.
Come la sera della sfilata, mi sfila l’accappatoio con gentilezza ed estrema delicatezza, e con altrettanta delicatezza mi fa scivolare il vestito sul corpo. Non conosco il nome di questo tessuto, ma è fresco e leggero sulla mia pelle nuda. Lascia le braccia e la schiena scoperte, se non fosse per i fili di perle dorati che si intrecciano in una rete. La gonna è così morbida che si posa come un velo sul mio corpo, e ne accentua la curva del ventre. Capisco cosa voleva dire Cinna: questo è un abito fatto apposta per esaltare la figura di una donna incinta.
Infilo i sandali, anch’essi dorati. Cinna sistema la mantella sulle mie spalle e me la lega intorno al collo grazie ad un nastro di raso bianco e brillante. Il leggerissimo pizzo mi avvolge completamente, come una protezione aggiuntiva. Preserva ciò che c’è sotto. È bellissimo.
Devo averlo detto ad alta voce perché Cinna mi risponde con un: - È proprio fatto apposta per te. Risplendi, grazie a quest’abito.
Il tocco finale è un cerchietto di fiori bianchi, veri, impreziositi da piccoli cristalli anch’essi bianchi. Lo sistema sui miei capelli nascondendo il filo di metallo che tiene insieme fiori e cristalli, e sfila alcune ciocche dall’acconciatura affinché ricadano morbide ai lati del mio viso. Quando mi fa voltare verso lo specchio, sono sorpresa da ciò che vedo.
Se la sera della sfilata ero una dea della guerra, stasera assomiglio ad una fata dei boschi, una di quelle che da piccola sentivo raccontare nelle favole. Tutto, dai fiori del cerchietto a quelli ricamati sulla mantella, me la ricordano. Sembro una creatura che non esiste, eccetto che nei sogni dei bambini.
- Alcune leggende parlano di una figura che è la madre di ogni cosa, sulla terra. La chiamano “Madre Natura” – mi dice Cinna, prendendo nella sua una delle mie mani; l’altra, in una carezza delicata, sfiora la mia pancia. – Stasera ti ho trasformato nella mia versione personale di Madre Natura.
Ho gli occhi gonfi di lacrime quando mi volto per guardarlo. Sorrido.
Cinna mi tampona gli occhi con un fazzolettino per salvare il trucco. – Sei pronta ad andare?
Ad attenderci fuori, accanto agli ascensori, ci sono già riuniti Haymitch, Effie, Portia e Peeta. Effie sgrana gli occhi e porta le mani alla bocca quando mi vede arrivare, con Cinna che tiene sollevata la mantella per evitare che si sporchi subito. Haymitch annuisce, osservandomi. Portia sorride.
Peeta, invece, è senza parole. Anche lui è vestito di bianco, ma il suo è uno smoking, il classico abito degli sposi di Capitol City, ed è sicuramente più comodo di qualsiasi altro abito da sposa esistente. I gemelli e gli orli della giaccia hanno dei dettagli dorati, e la camicia ha gli stessi ricami del mio abito.
Abbinati, di nuovo. Il tocco distintivo che Cinna e Portia hanno donato a noi come coppia.
- Wow – è tutto ciò che dice Peeta, avvicinandosi. Mi prende le mani e le stringe forte, mentre bacia dolcemente la mia guancia. – Sei bellissima.
- Anche tu – mormoro. Arrossisco, aggiungendo altro rosa sulle guance già colorite dal trucco.
- Bene, sposini. Andiamo a prendere parte allo show – Haymitch rovina l’atmosfera che si è creata attorno a noi.
Alzo gli occhi al cielo e Peeta ride, guidandomi fin dentro l’ascensore.

 

‘Cause I love
Love you so
Promise I’ll never
Let you go
In the still of the night

 

Haymitch ci redarguisce sull’aria che tira tra i vincitori durante il breve tragitto in ascensore.
- Sono arrabbiati, perciò faranno di tutto per provocare una reazione scomoda. Anche loro vogliono che gli Hunger Games vengano annullati. Se avete già qualche carta da giocare, vi suggerisco di farlo. Non mi importa se sarà sconveniente oppure no: agite per scatenare rabbia e furia. E se non sapete cosa dire, pensateci in fretta. Vi assicuro che gli altri hanno già qualcosa in mente.
- D’accordo – diciamo insieme io e Peeta, ed in quel momento l’ascensore si ferma e le porte si aprono davanti a noi.
Raggiungiamo gli altri tributi, già riuniti dietro le quinte del palco, in attesa che comincino le interviste. Si procede nel seguente modo: dall’1 al 12, prima la donna e poi l’uomo. Io e Peeta, come l’anno scorso, saremo gli ultimi e andremo a chiudere lo show. Non ho dubbi su Peeta: se gioca una carta degna di quella che ha usato un anno fa, penderanno interamente dalle sue labbra. Io credo che andrò a braccio: non sono mai stata un granché con le parole. Mi verrà qualcosa in mente.
I tributi ci osservano in modo strano, e penso che sia perché io e Peeta ci stiamo tenendo per mano, ma non è poi così strano: in fondo, ci hanno visto farlo già tante volte. Poi, capisco che è per i vestiti che abbiamo addosso. Sembriamo in procinto di unirci in matrimonio: è ovvio che siano attratti ed incuriositi dalla cosa.
- Avete intenzione di sposarvi su quel palco o cosa? – esclama infatti Enobaria, squadrandoci.
- Qualcosa del genere – ribatte Peeta.
- Perché Cinna ha proposto un abito del genere per te? – chiede invece Finnick.
- È stato il presidente Snow ad imporlo – dico, allontanando subito Cinna dalla questione “abito da sposa”.
- Snow? – Johanna si è unita alla chiacchiera. Corre a stirare una piega invisibile sul mio vestito. – Allora devi fargliela pagare! Promettimi che lo farai.
Annuisco, e so che anche lei farà lo stesso dal modo in cui sorride… o meglio, sogghigna. Haymitch aveva ragione, di nuovo. Odio doverlo ammettere così spesso.
- Ehi – sussurra Peeta al mio orecchio; la voce di Caesar Flickerman, nel frattempo, sta cominciando a scaldare il pubblico presente nello studio. – Cosa dirai?
- Non lo so ancora – sussurro di rimando. – Tu?
- Qualcosa ho in mente. In base a ciò che dirai, mi comporterò di conseguenza – mi riferisce, intensificando la stretta delle nostre mani.
Le interviste cominciano e non abbiamo più occasione di parlare tra di noi; ci limitiamo ad osservare le persone che si alternano sul palco e lanciano continue allusioni di tristezza nei tre minuti che sono loro concessi. Cashmere piange, Gloss parla dell’affetto che lui e sua sorella hanno ricevuto dal pubblico di Capitol in questi anni, Johanna urla insulti. Finnick recita una poesia d’amore.
Tra fischi, urla e varie richieste di annullamento dell’Edizione della Memoria, arriviamo all’intervista di Chaff. La prossima sono io. Peeta richiama la mia attenzione quando mancano ormai pochi secondi alla mia entrata in scena.
- Falli secchi – dice soltanto.
- Anche tu – gli regalo un bel sorriso e, al cenno di un inserviente, inizio a salire le scale che mi porteranno sul palco.
Haymitch voleva qualcosa che fosse in grado di scatenare rabbia e furia: quel qualcosa, scopro, sono io. Basta la mia sola presenza per scatenare una vera e propria ondata di insulti. Insulti al presidente, insulti verso gli Hunger Games e, persino, insulti verso Caesar Flickerman. Insulti verso chi non ha nessuna intenzione di cambiare le regole del gioco. Raggiungo Caesar mentre lui cerca, invano, di calmare i presenti. “Il bambino!” sento urlare da molte voci, e “Non potete lasciarglielo fare!” da molte altre. La bimba comincia ad agitarsi, come se le voci sconosciute che mi circondano la stessero disturbando.
In qualche modo, Caesar riesce a placare il suo pubblico.
- Katniss Everdeen, ma guardati! Sei una meraviglia! – dice, attirando l’attenzione sul mio abito da sposa. – E non sei da sola!
Altre urla seguono le sue parole. Stringo le mani tra di loro, cercando di non sorridere. Non c’è davvero alcun bisogno che io dica qualcosa di sconveniente, e Caesar si è appena dato la zappa sui piedi, parlando dell’unica cosa che sembra stare a cuore a tutti i presenti.

Ecco, questa è la mia carta da giocare.
- Non sono più da sola da così tanto tempo – esclamo, attirando su di me l’attenzione di Caesar. Attiro anche quella degli spettatori, nessuno mi ignora. Nessuno vuole perdersi ciò che sto per dire. – Questo piccolino mi fa compagnia ogni giorno – aggiungo, posando le mani sulla pancia. La circondo, avvolgendola in una sorta di abbraccio.
Qualcuno sospira, e qualcuno fischia. Capisco che sto andando bene.
- Siamo rimasti tutti così sorpresi quando abbiamo saputo che aspetti un bambino… ma perché non dircelo prima? – chiede Caesar con tono scocciato. – Perché tenerlo nascosto?
- Veramente… - menti. Inventati qualche balla. – Io e Peeta… volevamo che fosse una sorpresa.
- Una sorpresa?
Annuisco. – Volevamo rivelarlo il giorno delle nostre nozze. Volevamo rendervi tutti partecipi della nostra gioia, e di quella che sarebbe arrivata insieme alla nascita del bambino.
Stavolta, i fischi sono più alti. Gli strilli sono assordanti. Caesar riesce a tenerli a bada per un pelo.
- Il tempo a tua disposizione sta per scadere, cara Katniss. Vuoi aggiungere qualcosa, per dare il tuo contributo in questa serata così emozionante?
Ho un’illuminazione improvvisa, e sorrido a Caesar. - Sì, Caesar. Vorrei… farti sentire una cosa, in realtà.
Non pensavo che lo avrei mai fatto, non in televisione almeno. Non per questa gente. Lo sento quasi come un affronto, come qualcosa di sporco che va ad insudiciare il pulito. È qualcosa che ho fatto solo con Peeta, e per Peeta. Ma è ciò che serve per chiudere questa serata. È ciò che serve per assestare un bel pugno in faccia a chi mi vuole morta. A chi vuole morti tutti i tributi riuniti alle mie spalle.
Afferro la mano di Caesar e la poso accanto alla mia, sulla pancia, e comincio a cantare. Canto di nuovo per Capitol City, sapendo, in cuor mio, che sarà l’ultima volta che sentiranno la mia voce cantare qualcosa.
La canzone della valle risuona nello studio che è diventato improvvisamente muto, paralizzato davanti a ciò che sto facendo. Canto, e la bambina scalcia. Proprio come ieri.
- Oh! OH! – urla Caesar, colpito. – Si è mosso! L’ho sentito! L’ho…
E accade esattamente ciò che speravo.
Il gong annuncia il termine del tempo a mia disposizione, ma viene coperto dal frastuono provocato da tutte le voci che si ribellano. Non accettano ciò che hanno visto. Non accettano ciò che hanno sentito – ciò che Caesar ha sentito. Un bambino vivo, che scalcia nella pancia di sua madre.
È la goccia che fa traboccare il vaso.
Caesar tenta di nuovo di placare l’ira del pubblico e, in un sussurro, mi invita a raggiungere il resto dei tributi. Raccolgo le gonne del vestito e salgo il più rapidamente possibile i gradini, accompagnata dai fischi della gente. Nell’ultimo tratto, Chaff si alza per porgermi l’unica mano che ha, e mi guida fino al mio posto. Johanna, a qualche sedia di distanza da me, mi lancia uno sguardo di intesa. Lo ricambio, prima di sedermi a mia volta.
È il turno di Peeta adesso, che entra in scena guidato dai borbottii arrabbiati degli spettatori. Riesco a stento a sentire i saluti che gli rivolge Caesar, ma quelli di Peeta mi arrivano alle orecchie forti e chiari. Come è accaduto poco fa, il pubblico si zittisce per ascoltare ciò che ha da dire.
- Peeta, cosa dire? Sono senza parole. Siamo tutti senza parole – comincia Caesar, mentendo; il pubblico sì, che ne ha di parole da dire.
- È stato uno shock – ammette Peeta. – Lo abbiamo scoperto il giorno prima dell’annuncio dell’Edizione della Memoria. Non pensavamo che… sarebbe accaduto tutto questo.
- Non potevate, Peeta. Non potevate immaginare – continua Caesar. – Il matrimonio, l’annuncio… tu e Katniss avete dovuto rinunciare a davvero tante cose.
- Ma il nostro matrimonio c’è stato, Caesar – esclama Peeta. Respiri trattenuti, quelli della gente davanti a noi.
- Vi siete sposati? E come?
Peeta perde un po' di tempo per descrivere la tostatura, la tradizione del Distretto 12, e alcuni dettagli della serata in cui l’abbiamo messa in atto. Pendo dalle sue labbra mentre lo ascolto. Così, ha rivelato anche questo nostro, piccolo segreto. Lo abbiamo tenuto nascosto per mesi interi, e adesso tutti quanti ne sono stati informati. Ma va bene, se serve a gettare altra carne al fuoco.
- Avremmo voluto fare le cose per bene, ma il bambino è arrivato così presto… e senza più le nozze, volevamo lo stesso qualcosa che potesse dimostrare la nostra unione. Non vale quanto un pezzo di carta o una cerimonia in grande stile, ma ci sentiamo molto più sposati così che in qualsiasi altro modo – dice, e la sua voce comincia a perdere la sicurezza che aveva all’inizio. È emozionato, molto emozionato. Sta puntando sulla compassione, proprio come Haymitch ci aveva consigliato di fare. Ed è davvero efficace come strategia: nello studio, stanno sospirando tutti.
- Sono sicuro che è così, Peeta – mormora Caesar, commosso anche lui. – È per questo che ti sei offerto volontario alla mietitura, vero? Non volevi lasciare sola tua moglie…
- Lo avrei fatto comunque – le lacrime adesso rigano le sue guance. – Non potevo lasciare Katniss ad affrontare tutto questo da sola, non nelle sue condizioni. Sono un marito e un padre, ed il mio compito è quello di proteggere le persone più importanti della mia vita. E lo farò fino alla fine – dice, risoluto. Si mette a nudo, e confessa a tutti ciò che io so già da tempo. Ciò che ho, inutilmente, cercato di ignorare.
Piango insieme a lui: non riesco più a vedere nulla, e non ho neanche un fazzolettino con cui tamponare le lacrime. Seeder si alza e mi porge il suo. La ringrazio. Devo essermi persa un pezzo del discorso, perché sento altre esclamazioni di sorpresa e la voce di Caesar che chiede chiarimenti.
- Ho capito bene? Hai appena detto che…
- Sì. Io e Katniss aspettiamo una bambina.
Eccolo. Il colpo di grazia. Peeta l’ha fatto di nuovo. Ha giocato la mossa decisiva per concludere la partita, quella a cui tutti i tributi hanno partecipato egregiamente per mettere in difficoltà i piani alti. I loro tentativi sono stati efficaci, ed io ho alzato l’asticella giocando sulla presenza silenziosa che custodisco, ma che non passa di certo inosservata. E Peeta ha calcato ancora su di essa, rivelandone la particolarità più importante.
Perché è più semplice ignorare un bambino in fase di sviluppo quando non si conoscono ancora bene le sue generalità, sembra quasi una cosa astratta. Ma quando sai che si muove, che è abbastanza formato da conoscerne addirittura il sesso, e che ha qualcuno che farà di tutto per proteggerlo, diventa impossibile. Non puoi più farlo. Non puoi più ignorarlo.

Adesso Capitol City conosce tutti i nostri segreti.
Caesar congeda Peeta e torna a cercare di calmare il pubblico, ma quest’ultimo non ha nessuna intenzione di farlo. Gli spettatori sono inferociti e hanno raggiunto anche loro la soglia di non ritorno. Non si zittiranno più, non si placheranno più. Protesteranno finché i giochi non saranno annullati. Ma non lo faranno, ovviamente. Non lo faranno mai. Domani mattina ci vedranno entrare comunque nell’arena.
Peeta è accanto a me mentre comincia a risuonare l’inno: la trasmissione sta volgendo al termine. Mi aggrappo a lui e nascondo il viso contro la sua spalla, tremando, e lui fa la stessa cosa. Mi stringe forte, respirando velocemente; prende poi il mio viso tra le mani e mi bacia sulla bocca, tra le lacrime mie e le sue. Sento altre urla, urla che riescono addirittura a sovrastare l’inno, sparato a tutto volume. Guardo Peeta negli occhi quando ci stacchiamo. Lui intreccia la sua mano alla mia e ne bacia il dorso.
Gli altri vincitori sono in piedi e guardano dritti in avanti, verso il pubblico in delirio. Osservo Chaff, al mio fianco, e tutto il resto della mia fila. Allungo la mano e stringo il moncherino dell’uomo. Un gesto istintivo, di pace. Sorpresa, vedo che lo fanno anche tutti gli altri: si prendono per mano, creano una enorme catena umana. Ventiquattro persone, non tributi, non vincitori, dimostrano di essere superiori di chi sta loro davanti. Dimostrano di non aver paura delle conseguenze, di non aver paura di mostrarsi uniti. È il gesto di sfida più grande che potessimo ottenere stasera: i dodici Distretti di Panem uniti in un’unica catena, complici, per la prima volta dopo settantacinque anni di tirannia e dolore. Alziamo le braccia verso l’alto, uniti.
Uniti contro il sistema che ci vuole uccidere.

 

I remember
That night in may
The stars are bright above
I’ll hope and I’ll pray
To keep your precious love
Well before the light
Hold me again
With all of your might
In the still of the night

 

Siamo costretti a raggiungere gli ascensori al buio, a tentoni; Peeta mi guida, stringendomi la mano. La catena umana si è sciolta subito dopo che le luci si sono spente, ma la diretta televisiva ha registrato tutto quanto. Non ci hanno censurato in tempo: tutta Panem ci ha visto tenerci per mano.
Al sicuro dentro l’ascensore, mi azzardo a rilasciare un sospiro di sollievo. Le lacrime si sono asciugate sul mio viso, e adesso la pelle delle guance tira come se ci fosse qualcosa ad irritarla. Io e Peeta ci guardiamo, ma non diciamo una parola mentre saliamo. C’è tanto, tanto da dire, ma non lo facciamo. Mettiamo di nuovo tutto a tacere.
Quando raggiungiamo il nostro appartamento, aspettiamo che le porte dell’ascensore si aprano di nuovo per l’arrivo degli altri. Ma trascorre almeno un’ora prima che questo accada, rivelando la sola comparsa di Haymitch: Effie, Cinna e Portia non sono riusciti a salire.
- Gli è stato vietato – ci spiega lui. – Hanno cancellato tutto il resto delle trasmissioni per stasera. Siete stati formidabili, non solo voi. Tutti i vincitori hanno ottenuto quel che volevano, stasera: il caos.
- Ma non è servito a nulla, vero? – chiedo io.
Haymitch scuote la testa. – Non annulleranno i giochi, se è questo che intendi.
Annuisco: è proprio questo che intendevo.
- Siete davvero sposati, allora? Però, che bravi. A chi è venuta l’idea di procedere? – domanda, tanto per cambiare discorso.
- A me.
Il suo viso si riempie di sorpresa. – Ogni tanto riesci a sorprendermi, dolcezza.
- Ho imparato dal migliore – sussurro. Mi avvicino ad Haymitch e lo abbraccio di slancio, posando il viso contro la sua spalla. Lui ricambia e non dice nulla, mi lascia fare senza protestare. Io sono di nuovo una fontana umana, sciolta in lacrime di commozione per l’uomo che ho tra le braccia. Un uomo burbero, a tratti insopportabile, che ho imparato a conoscere e ad apprezzare, nonostante tutto. Il mio mentore. Non potevo averne uno migliore.
- Grazie di tutto, Haymitch – gli dico, trattenendo a stento un singhiozzo.
- Dolcezza – mormora, lasciandomi un leggero bacio sulla fronte prima di lasciarmi andare. Si sposta per salutare Peeta e per consegnargli una scatola nera, da parte di Effie: deve essere il segno di riconoscimento da portare nell’arena.
- Abbi cura di te, Haymitch - gli dice Peeta.
- Qualche consiglio finale? – chiedo.
- Restate vivi – dice lui, con il viso trasformato in una maschera di dolore. – E ricorda chi è il vero nemico. Andate a riposare, adesso – aggiunge, allontanandosi. Ci lascia davanti all’ascensore.
Questo sarebbe il momento giusto per dire qualcosa, ma chi ne ha il coraggio? Meglio non aprire bocca, meglio lasciare che sia il silenzio a fare ancora il lavoro sporco al posto nostro. È meglio godere della silenziosa presenza l’uno dell’altro, senza dover aggiungere alcunché a gravare con tutto il suo peso. Afferro le mani di Peeta e lo tiro verso di me. Lo guido, camminando all’indietro, fino a che non siamo al sicuro nella mia camera.
Non voglio che mi lasci da sola nemmeno per un istante, stanotte.
Peeta sembra volere la stessa cosa, perché appena la porta si chiude, lui mi attira a sé. Mi accarezza le mani per poi risalire, lentamente, sulle braccia, sulle spalle. Passa le dita sul mio collo e sul mio mento, sfiora le mie labbra con le dita. Gliele bacio, piano, prima di sollevarmi sulle punte delle scarpe per incollare la mia bocca alla sua. Un bacio leggero, a cui ne seguono molti altri. In mezzo a questi baci, le sue dita tornano a scendere sul collo, e sciolgono il fiocco che tiene ferma la mantella. Questa cade a terra in un fruscio quasi impercettibile.
- Era tutto ciò che mi mancava: vederti vestita da sposa – mormora, incollando i suoi occhi nei miei.
- Appena in tempo – soffio sulle sue labbra.
Dopo la mantella, è il turno della sua giacca di cadere a terra, a cui seguono poi la sua camicia ed il mio vestito. Non mi resta più nulla da togliere, a parte le mutandine e le scarpe, quindi sono in netto svantaggio. Lo bacio con più trasporto mentre armeggio con l’allacciatura dei suoi pantaloni, e Peeta mi lascia fare. Le sue mani vagano sulla mia schiena e sul mio seno quando riesco a spogliarlo del tutto. Peeta mi fa indietreggiare fino a che non raggiungo il materasso, toccandolo con il retro delle ginocchia; mi siedo, scivolo all’indietro, tocco le lenzuola fresche con la schiena.
Peeta è su di me e mi bacia, lentamente. Ho come l’impressione che le sue mani siano dappertutto, sul mio corpo, eppure le vedo, poggiate ai lati della mia testa per non gravarmi addosso col peso del suo corpo. È tutto così forte, amplificato, da mandarmi in confusione.
Peeta scende con le labbra, lasciando una scia di baci sul collo, sul seno, lungo tutto il suo cammino. Bacia la pancia rigonfia, i fianchi morbidi, si sofferma maggiormente su quello ferito dal coltello di Gloss, che ora ha solo una cicatrice rosa come ricordo del suo passaggio. Si sofferma a baciare l’orlo delle mie mutandine. Le fa scivolare via lentamente, e lo fa guardandomi negli occhi.
Mi sta facendo penare, e lo sa bene. Mi stuzzica, in una tortura che è insieme dolce ed insopportabile.
Lo attiro nuovamente verso di me quando quegli inutili pezzi di stoffa, i miei e i suoi, sono ormai fuori dalla nostra portata. Lo bacio, gli avvolgo le gambe intorno alla schiena e i nostri bacini entrano in contatto. Dopo un secondo, sento che comincia a farsi strada in me.
Sono mesi che non abbiamo un contatto così intimo: non stiamo più insieme in questo modo da quando abbiamo saputo della bambina. È meraviglioso, sentirlo di nuovo; è meraviglioso sentirsi di nuovo.

Amarsi, nel modo in cui ci amiamo, è meraviglioso.
Peeta resta immobile, rigido, con la fronte contro la mia e le braccia posizionate accanto alla mia testa. Si sta trattenendo, ma non voglio che lo faccia. Non può fare nulla di male, oltre che amarmi. Voglio che lo sappia.
- Non mi farai del male – gli dico, labbra contro labbra. – Non potrai mai farmi del male – dico ancora, muovendo il bacino incontro al suo.
Questo gli fa chiudere gli occhi, gli fa perdere anche l’ultima briciola di autocontrollo che ha in corpo. Inizia a muovere il bacino, andando incontro ai miei movimenti, e torna ad amarmi ancora una volta.
Stavolta è diverso, è un tipo di amore che non abbiamo mai provato prima. Neanche la nostra prima volta insieme è stata così. È un amore lento ed intenso, intense come le spinte del suo bacino, intense come le fitte di piacere che invadono il mio ventre. È un piacere che sembra durare all’infinito. Vorrei che questa notte possa durare all’infinito.
Affondo i denti nella carne della sua spalla, sopraffatta dalle troppe sensazioni. Sono così amplificate… è tutto troppo forte da sopportare. Il mio corpo non riesce a contenere tutto questo. Arriccio le dita dei piedi quando una spinta più forte delle precedenti arriva. Un urletto esce dalle mie labbra e quelle di Peeta sono già lì, pronte a coprire gli altri, quelli che potrebbero arrivare.
- Che succede? – domanda, fermandosi all’improvviso. Asciuga il mio viso. Non mi ero accorta di star piangendo. Piango per tutto ciò che sto provando? Piango per il piacere che mi sta donando?
- Non fermarti – metto a tacere ogni sua eventuale intenzione di mettere fine al nostro amore. Non deve assolutamente provare a farlo. – Ti prego, non ti fermare…
E non lo fa. Sempre con quella solita, esasperante lentezza con cui ha iniziato, Peeta torna ad amarmi, sollevandosi appena sulle mani per infondere più decisione alle sue spinte. Morde il mio mento e la pelle delicata che vi è sotto, provocandomi una nuova scossa lungo la schiena. La inarco, rabbrividendo.
- Ti amo – ansimo, quando tutto diventa troppo. Avvolgo le sue spalle e lo tiro di nuovo a me, e stavolta sono io che lo costringo a fermarsi. Ci guardiamo negli occhi, e vedo che i suoi sono lucidi: lucidi di eccitazione, lucidi dell’amore che prova per me… lucidi per ciò che gli ho appena confessato.
Peeta sa già che lo amo, ma questa è la prima volta che lo sente dire da me, dalle mie labbra, ad alta voce. Non gliel’ho mai detto ad alta voce. Perché ho aspettato così tanto per dirglielo? Perché ho voluto attendere proprio la notte prima della nostra possibile morte per confessarglielo?
- Ti amo – ripeto ancora, piangendo. Piango perché ho atteso tutto questo tempo come una stupida, prima di dirglielo. – Ti amo – ripeto, e stavolta non ho più intenzione di trattenermi: glielo dirò sempre, finché la vita mi permetterà di farlo. – Ti amo – ripeto, asciugando le gocce salate che stanno cadendo dai suoi occhi.
Anche Peeta mi ama, ma non me lo dice.
Peeta mi ama, ma non me lo dice a parole: me lo dimostra con un bacio.
Peeta mi ama, e me lo dimostra riprendendo ad amarmi.

 

So before the light
Hold me again
With all of your might
In the still of the night
In the still of the night

 

Non dormiamo, non ne abbiamo la forza. Siamo stretti sul letto, nudi, senza muoverci. Senza neanche tentare di coprirci, senza neanche tentare di muovere un muscolo, senza neanche tentare di parlare. Senza neanche tentare di ignorare i secondi, i minuti e le ore che passano, scandendo il tempo che ci separa dall’ora fatidica, quella in cui dovremo lasciarci. La prossima volta che ci vedremo sarà all’interno dell’arena.
La mia testa è poggiata sulla sua spalla e la mia mano è sul suo cuore, come se volessi accertarmi che sia ancora vivo. Ho paura di sentire il suo petto vuoto, di non sentire più il battito, di non sentire più la vita scorrere in lui. Il respiro di Peeta si infrange contro i miei capelli. Ha le labbra premute contro la mia fronte, in un bacio eterno: non si sono mosse da lì, da quando abbiamo smesso di fare l’amore.
Nel silenzio della notte1, i nostri cuori ed i nostri respiri sono le uniche cose che percepiamo, che contano davvero in questo strano limbo fatto di ore contate. Oltre a loro, iniziano a farsi strada l’angoscia e la paura. Il timore avanza con lo scadere del tempo a nostra disposizione. La notte avanza, si fa meno buia, le stelle scompaiono. Il cielo si rischiara, si colora di un rosa pallido sfumato di viola. Dalla finestra, attraverso le tende, appare la prima, debole luce del mattino.
Bussano alla porta.
Non possiamo ignorarlo: è il segnale. È il momento. Sono qui per separarci.
Peeta bacia la mia fronte e, senza guardarmi, scivola via dalla mia presa, scivola via dal letto. Raccoglie da terra i pantaloni. Lo guardo mentre li indossa stando seduta sul letto, incapace di imitarlo. Incapace di muovere le gambe, incapace di mettere i piedi per terra.
Stringo le braccia attorno al petto, sentendomi improvvisamente vulnerabile. Mi sento troppo piccola, troppo nuda, troppo scoperta. Troppo conscia di ciò che ci attende al di fuori di quella porta.
Non voglio morire.
- Non voglio morire – lo dico ad alta voce, tra le lacrime che hanno ripreso a scorrere. Il mio petto è scosso da singhiozzi rumorosi e dolorosi. – Non voglio morire…
- Non morirai – dice Peeta, afferrando la mia testa. – Non morirà nessuno oggi, Katniss. Amore mio, nessuno di noi morirà oggi…
Smette di parlare, e cerca di consolarmi con le sue labbra. A che serve conoscere tutte le parole del mondo se esistono i baci? A che servono le parole, se possiamo usare i baci?
Questo è il bacio dei disperati: è carico della disperazione più totale. Abbiamo entrambi smesso di respirare per dedicarci con tutti noi stessi a questo contatto, a questo bacio disperato. È l’ultimo contatto che avremo per ore, prima di ritrovarci nell’arena.
Un’arena pronta ad ucciderci.

 

 

 

 

__________________________

1 “Nel silenzio della notte” è la traduzione letterale della frase che da il titolo alla storia, e che è anche il titolo della canzone che avete trovato a tratti lungo il capitolo. Sono innamorata di questa canzone dai tempi di Dirty Dancing (), quindi immaginate la mia gioia quando l’autunno scorso l’ho ritrovata nella colonna sonora di The Irishman di Scorsese (). La stavo ascoltando quando cercavo un titolo adatto e alla fine ha vinto proprio lui. Questo capitolo si sposa benissimo col testo, non trovate?

 

Dovete assolutamente scusarmi se stavolta vi lascio delle note più lunghe del normale, ma ho davvero tante cose da dire. Dovrete sopportarmi ancora per un po' XD
Una Katniss visibilmente incinta, in abito da sposa, accanto a Caesar Flickerman: è stata la prima immagine che mi è passata per la mente, mesi fa. Una Katniss visibilmente incinta che partecipa all’Edizione della Memoria è una situazione che mi sarebbe sempre piaciuto esplorare nel mondo delle fan fiction, ma non sono mai riuscita a trovare qualcosa che le si avvicini davvero. E dato che ero annoiata – nel bel mezzo del lockdown e dopo aver discusso la tesi di laurea online – ho deciso di buttarmi e di provarci io, a scrivere questa particolare versione. Sono partita da quell’immagine andando a ritroso, e da questo momento in avanti scopriremo come proseguirà.
Credo che sia il capitolo a cui tengo di più in assoluto, proprio perché è grazie a ciò che contiene se esiste questa ff. Vi ringrazio per avermi supportato e per essere arrivati fin qui

Siete pronti per tornare nell’arena? Io no!
D.

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Capitolo 20
*** 20. ***


In The Still Of The Night - 20

In the still of the night

 

 

 

 

20.

 

…il vetro si sta ritraendo e io sono in piedi nell’arena. È come se ci fosse qualcosa che non va nei miei occhi. Il terreno è troppo luminoso e scintillante e continua a muoversi. Mi guardo i piedi con gli occhi semichiusi e vedo che la piastra di metallo è circondata da onde blu che mi sfiorano gli scarponi. Alzo lentamente lo sguardo e osservo l’acqua che si estende in ogni direzione.
Riesco a formulare un unico pensiero coerente.

Questo non è il posto giusto per una ragazza di fuoco.

 

Raggiungo la striscia di sabbia e riesco, non senza un certo sforzo, ad issarmi su di essa. Comincio a correre più veloce che posso, sgocciolando acqua dappertutto, e cerco di raggiungere la cornucopia. Devo riuscire a recuperare almeno un’arma, e poi devo andare a cercare Peeta. Devo farlo prima che qualcuno possa provare ad ucciderci.
Ma quel qualcuno sembra essere già alle mie spalle.
Ansimo, cercando di velocizzare la mia corsa; i passi di chi mi sta dietro sono forti e veloci. Mi prenderà, se non arrivo in tempo alla cornucopia. Mancano pochi metri, solo pochi metri…
C’è già Finnick, davanti all’imboccatura del corno dorato. Ovvio che sia stato il primo di tutti noi a raggiungere le armi: quest’arena sembra essere fatta apposta per lui. Acqua e sabbia. Finnick è nel suo elemento, essendo nato e cresciuto in un posto che è pieno di acqua e sabbia. Questo non è il mio elemento, invece. Vedo il tridente che stringe nella mano, quello che solleva sopra la testa e che si prepara a lanciare nella mia direzione…
Non provo nemmeno a fermarmi davanti al suo gesto. Che senso ha? Sono più che spacciata, messa alle strette da Finnick e dal tributo che mi sta ancora inseguendo. Sono spacciata… e lo sono prima ancora che cominci il bagno di sangue vero e proprio.
- Sta giù! – mi urla Finnick. Sembra un ordine, il suo, e faccio l’unica cosa che non mi sarei mai aspettata di fare: obbedisco.
Seguo il consiglio di Finnick e mi abbasso, mi appiattisco come posso sulla sabbia, creando una specie di solco mentre scivolo su di essa. Il tridente passa sopra la mia testa con un sibilo, si va a conficcare contro qualcosa. Quel qualcosa, scopro risollevando la testa, è il petto del tributo del Distretto 5: era lui, l’uomo che mi stava inseguendo. Il tridente lo ha colpito dritto al cuore. Il cannone spara quando il sangue non ha ancora cominciato a sgorgare dalla ferita.
Finnick si avvicina per riprendere l’arma, che lascia il corpo dell’uomo con un suono viscido e disgustoso, e mi aiuta a rimettermi in piedi. Posa con gentilezza le sue mani sulle mie braccia. – Stai bene? – mi chiede.
Annuisco, ansimando. Finnick mi ha appena salvato la vita. – Perché l’hai fatto? – gli chiedo.
Sorride, sornione come al suo solito. - Proteggo sempre i miei alleati.
- Alleati? – la mia deve sembrare una strana domanda, alle sue orecchie. Siamo alleati? E da quando? Con Haymitch non abbiamo più intavolato il discorso delle alleanze dalla sera delle sessioni private.
Finnick alza la mano che impugna il tridente, mostrando il braccialetto d’oro che è stretto al suo polso. Lo riconosco: è il bracciale di Haymitch, quello a motivi fiammeggianti che gli ha rimediato Effie e che sembrava odiare così tanto. Gliel’ha dato lui, per forza; Finnick non può averlo ricevuto da nessun altro, se non da Haymitch in persona. È un messaggio per me: devo fidarmi. Devo fidarmi del suo giudizio, e di Finnick.

Mi ha trovato un alleato.
- Prendi un arco, Katniss, svelta! Io sorveglio questo lato – esclama, allontanandosi rapidamente. – Non fidarti di quelli dell’1 e del 2 – aggiunge.
- Come se volessi farlo davvero! – urlo.
Faccio come mi ha detto e raggiungo la bocca del corno. Metto una faretra in spalla e libero un arco, e nel mentre getto attorno a me occhiate frenetiche. Cerco qualcosa che possa tornarci utile per l’arena: cibo, acqua, almeno uno degli zaini che lasciano sempre sparpagliati in giro, ma non c’è nulla di tutto questo. Ci sono solo armi, armi all’infinito. Sembra che gli Strateghi abbiano deciso che le armi siano la sola cosa di cui avremo bisogno, qui dentro. Niente cibo, niente acqua, ma armi a volontà. Armi per una carneficina. Decido di prendere altre frecce e un altro arco, dei coltelli, un punteruolo…
Dei passi che si avvicinano veloci mi inducono a fermarmi. Quando mi volto, vedo Gloss ed Enobaria che cercano di raggiungere la cornucopia. Lancio una freccia verso la donna, ma lei la schiva agilmente e si rituffa in acqua; Gloss, invece, è meno rapido di lei e ne riceve una sul tallone prima di raggiungerla in acqua. Avrei voluto prendere altro, di lui, ma è comunque una piccola rivincita per ciò che mi ha fatto. Per ciò che voleva fare a chi amo.
- Dobbiamo cercare Peeta – dico in fretta quando raggiungo Finnick. Poco lontano da noi, vedo Brutus correre. Gli lancio una freccia ma lui la schiva usando la cintura come scudo, che tiene tesa tra le mani, prima di rituffarsi.
- Da questa parte! – esclama Finnick. Ci spostiamo in fretta, salendo su uno dei raggi di sabbia che partono dalla cornucopia. A parte i Favoriti, che si sono ormai riuniti insieme attorno alle armi, gli altri tributi sono ancora sulle loro postazioni di metallo, o sono in acqua e cercano di raggiungere a fatica la terraferma. Vedo Peeta, a due raggi di distanza, che corre per raggiungerci.
- Ecco anche Mags! – dice Finnick sollevato. Seguo il suo sguardo e vedo l’anziana signora, compagna di Finnick nell’arena, che nuota lentamente verso di noi. Mags, il tributo che avrei voluto come alleato sin dall’inizio… possibile che Haymitch abbia fatto in modo di farglielo sapere? È più che evidente, a questo punto.
Riusciamo a riunirci, tutti e quattro, prima ancora che il resto dei tributi possa puntarci contro le proprie armi. Finnick aiuta Mags a salire sulla striscia di sabbia, e Peeta mi stringe forte in un abbraccio. Quasi gli salto in braccio, nel tentativo di baciarlo. È vivo, è qui con me. Il mio cuore è diventato improvvisamente più leggero, adesso che siamo riuniti. Siamo ancora vivi… ma non è ancora detta l’ultima parola.
- Abbiamo degli alleati? – mi chiede quando smette di baciarmi.
Faccio in tempo solo ad annuire, che Finnick ci richiama. – Dobbiamo andare, presto! Vi coccolerete più tardi.
Lancio uno sguardo seccato verso Peeta, che ridacchia a labbra strette, e poi lo seguo. Finnick si è caricato Mags sulla schiena e percorre la striscia di sabbia a rotta di collo, in direzione opposta rispetto alla cornucopia. Mentre corriamo, lancio un’occhiata alle mie spalle e osservo ciò che ci stiamo lasciando indietro: i Favoriti che cominciano a sfidare gli altri tributi. L’unica cosa a cui riesco a pensare, sollevata, è che sembrano averci dimenticati. Nessuno ci insegue, nessuno prova a fermarci. Nessuno presta attenzione alle quattro persone che stanno abbandonando il bagno di sangue. Abbiamo appena raggiunto una sorta di spiaggia quando il cannone spara di nuovo.
Ci inoltriamo nel folto della vegetazione.

 

Corriamo cercando di farci strada attraverso le strane piante che popolano questo strano bosco. Anche se, a dirla tutta, “bosco” non è proprio la parola adatta che userei per descrivere ciò che ci circonda. Non riconosco gli alberi, le foglie, i fiori che i miei occhi incontrano lungo la corsa. E fa caldo, fa caldissimo. Gli alberi alti nascondono i raggi del sole, ma l’aria è talmente umida da darci l’impressione di averli puntati costantemente addosso. Per quanto tempo corriamo? Minuti, ore? Non ne ho idea, ma quando ci fermiamo siamo tutti zuppi di sudore. La mia faccia gronda, e fatico a respirare. Ho la bocca asciutta e un disperato bisogno di acqua.
Ma di acqua non ne abbiamo intravista neanche una goccia mentre correvamo.
- Riposiamoci un attimo – propone Finnick. Depone Mags a terra delicatamente, come se fosse l’oggetto più fragile esistente al mondo. Ed in effetti lo è, in un certo senso.
Chiudo gli occhi, appoggiandomi con la schiena ad un albero. Cerco di regolarizzare il respiro, ma non è facile. Più in basso, nella pancia, la bimba sembra essersi agitata almeno la metà di quanto lo abbia fatto io. È un sollievo sentirla: finché si muove, vuol dire che sta bene. Ma non starà bene ancora per molto, se non riusciamo a trovare un po' d’acqua. Ricordo i giorni in cui la disidratazione, l’anno scorso, mi ha quasi portata alla morte. È un supplizio tremendo e non voglio essere costretta a passarci anche quest’anno.
- Stai bene? – mi chiede Peeta, togliendomi con la mano lo strato di sudore che mi ricopre la fronte. Ma è inutile: altre gocce rimpiazzano subito quelle che ha tolto, le sento scorrere fin sulle sopracciglia.
- Ho sete – dico, deglutendo a vuoto.
- Lo so. Ci serve dell’acqua.
- Dobbiamo continuare a spostarci finché non la troviamo – propone Finnick.
Guardo in alto, verso il cielo coperto da una moltitudine di foglie e rami. Guardo l’albero su cui sono appoggiata e presto più attenzione alla sua corteccia, ai rami che ci sono più in alto. Sembrano abbastanza robusti da potercisi arrampicare. Magari, se sono ancora capace di farlo…
- Katniss! Che cazzo fai? – esclama Peeta, cercando di bloccarmi.
- Zitto! O ci troveranno – lo rimprovero. Scaccio via le sue mani e torno ad issarmi sul ramo.
- Katniss! – ci riprova, ma non lo ascolto più. Sono già fuori dalla sua portata quando una serie di risate allegre, quelle di Finnick, raggiunge le mie orecchie.
- Mai mettersi contro una donna incinta, Peeta. Non ti invidio per niente – dice.
- Katniss, torna giù! – dice Peeta, cercando di non urlare, e riesco a distinguere benissimo l’irritazione nella sua voce. Ma non lo ascolto, non per ora almeno. Devo riuscire a raggiungere un punto abbastanza alto da poter vedere se ci sono tracce di acqua.
Arrampicarsi è difficile e scomodo, ma facendo attenzione, e soprattutto usando tutta la cautela di cui dispongo, riesco a farcela. Ho il fiatone quando arrivo in cima. Una piccola biforcazione libera dalle foglie mi consente di mettermi seduta e di guardarmi un po' intorno. E vedo solo altri alberi, ed altre foglie. Le uniche tracce di acqua sono quelle che ci siamo lasciati alle spalle: quella della cornucopia, ovviamente, imbevibile perché salata proprio come l’acqua dell’oceano che bagna il Distretto 4. Deglutisco, a fatica, quando vedo che l’acqua attorno alla cornucopia è diventata rossa. Guardo il cielo sopra di me, libero dalle nuvole, quando il cannone torna a sparare. Una, due, tre volte… e continua.
Decido di tornare giù, dagli altri. Scendere è ancora più difficile, e devo fare ancora più attenzione di prima. Se facessi un passo falso potrei fare un bel volo fino a terra ed è un rischio che non ho nessuna intenzione di correre. Siamo già in una posizione rischiosa, e non serve che mi ci metta anche io con le mie cadute…
A poco meno di due metri da terra, Peeta mi aiuta a terminare la discesa; mi prende per la vita e mi fa atterrare accanto a lui con un balzo. – Non farlo più! – è la prima cosa che dice.
- Ma non è successo niente! Non mi sono fatta male – protesto.
- Non mi importa! È pericoloso-
- Hai visto qualcosa? Un lago, un fiume… - Finnick, ridendo sotto i baffi, cerca di metter fine al nostro battibecco.
Scuoto la testa. – Niente, solo l’acqua salata alla cornucopia.
- Lo immaginavo. Non ci renderanno le cose facili – mormora tra sé, voltandosi verso Mags che è stata a guardarci in silenzio. Le fa cenno di tornare ad arrampicarsi sulla sua schiena. – Te la senti di camminare ancora?
- Certo – dico subito. Meglio muoversi, piuttosto che restare in attesa di qualsiasi cosa che possa sopraggiungere. O qualcuno. Le altre prospettive in programma non sono comunque le più rosee.
Peeta è in testa alla fila, io mi sono posizionata al centro di essa, e Finnick e Mags la chiudono. Avrei voluto esserci io al suo posto, dato che trasportare Mags lo rende un bersaglio facile per un eventuale assalto improvviso, ma non ha voluto sentire nessuna delle mie proposte. Si è intestardito dicendo che la mia sicurezza è più importante della loro. La mia sicurezza? Ma poi ci arrivo. Lo fa per la bambina. Alcune volte, mi sembra di ragionare come se lei non esistesse.
Ma in realtà, è la mancanza di acqua che mi impedisce di ragionare come si deve. Ho la gola secca ed il respiro affrettato, così come ce l’hanno i miei compagni di fila. Siamo tutti provati, e nelle ore successive continuiamo ad avanzare sperando di incappare in qualche pozza, in un qualche rivolo che possa dissetarci abbastanza da proseguire la risalita, ma non siamo per nulla fortunati. Troviamo solo caldo, afa, umidità e tanta, tanta vegetazione.
Con una mano a sorreggere la pancia, che sembra essere diventata più pesante del solito, guardo davanti a me. Guardo dove mettere i piedi, innanzitutto. Anche loro, come tutto il resto, sembrano essere diventati pesanti. Vorrei poterli togliere per diventare più leggera. Per un piccolo, infinitesimo istante invidio la gamba artificiale di Peeta.
Capisco di non poter più proseguire quando gli occhi non riescono più a mettere bene a fuoco ciò che ho davanti. So che c’è Peeta, e che sta cercando di farsi largo tra le piante con il coltello dal rumore che produce. Devo stringere forte gli occhi tra di loro per provare a vedere meglio e per un po' funziona. Funziona quel tanto che basta per farmi notare uno sfarfallio, una sorta di vetro, verso cui si sta dirigendo Peeta. Per un momento penso di avere le allucinazioni, ma quello sfarfallio simile al vetro l’ho già visto prima d’ora, e so che è reale. So anche che non è un vetro: è un campo di forza. Come quello che mi ha mostrato Beetee al centro di addestramento, quello che separava gli Strateghi dal resto di noi altri. Come lo vedo, però, sparisce. Non riesco a vedere più nulla, ma devo avvertire lo stesso Peeta del pericolo in cui sta per incappare.
- Peeta – mormoro, invece di urlare come vorrei fare.
- Katniss!
L’urlo di Finnick lo sento bene, invece, mentre cado.

 

- Ehi, tesoro, svegliati. Katniss, svegliati!
- Eccola, sta tornando. Katniss? Mi senti?
Voci e mani diverse mi riscuotono dal torpore in cui sono scivolata. Una mano bollente sul lato della fronte, una mano bollente che stringe la mia, una mano bollente sulla mia coscia. Aprire gli occhi è impossibile, fanno troppo male, e c’è troppa luce per i miei gusti. Muovo la testa, piano. Fa un male cane. La sento pesante come se fosse stata riempita di sassi.
- Lo sapevo – balbetto.
- Cosa sapevi, tesoro? – chiede Peeta, nervoso.
- Che… li avrei fatti divertire un casino… - continuo. Stavolta ci riprovo, ad aprire gli occhi, e ci riesco. Riesco appena a socchiuderli, ma per ora è sufficiente per capire cos’ho intorno.
Vedo tre volti preoccupati che mi osservano dall’alto: quelli di Peeta, Finnick e Mags. I miei alleati sorridono appena si accorgono che ho aperto gli occhi; Peeta, invece, non lo fa. Peeta è il più preoccupato di tutti, ovviamente. Lo sto facendo penare, mi sa; lui sì, che non si sta divertendo nel vedermi mezza morta a terra, distesa su un tappeto di piante umide e scivolose.
- Come riesci a scherzare così? – domanda, infatti. – Sei caduta come un peso morto, Katniss. Mi hai messo una paura tremenda! Ho pensato-
- Sto bene – provo a tranquillizzarlo. Afferro la sua mano, quella che tiene ferma sulla mia fronte, ma scopro troppo tardi di aver fatto una gaffe e di aver stretto quella di Finnick.
Lui sembra non averci fatto caso, però. - Non stai bene, Katniss. Non provare a negarlo – interviene. – Sei disidratata, e questo non fa bene né a te, né alla piccola – si volta verso Peeta. - Ci serve assolutamente dell’acqua.
- Forse sull’altro lato della collina riusciremo a trovarla – propone. Abbandona per un attimo il mio viso per guardare Finnick. – Là, oltre quelle piante.
L’altro lato. Quale altro lato? I miei occhi si spalancano del tutto, mentre ricordo.
- Non lì! – squittisco, cercando di mettermi, inutilmente, a sedere. – C’è un campo di forza, lì! Non ci andate!
- Un campo di forza? – Finnick.
- Come fai a saperlo? – Peeta.
Già, come faccio a saperlo? Mi fa male la testa, e mettersi a pensare ad una buona scusa per giustificare com’è che so riconoscere i campi di forza non è la cosa migliore da fare per farmelo passare. Non posso rivelare a loro, e a tutta Panem, che sono stati Wiress e Beetee ad insegnarmelo… devo inventarmi qualcosa.
- Li sento – mormoro.

Brava, ottimo tentativo.
- Come, li senti? – giustamente, Finnick cerca altre informazioni. Sto tornando a scervellarmi quando aggiunge: - È per via della gravidanza? Hai i sensi alterati per via della gravidanza?
Sono felice di averlo come alleato! Mi sta servendo le risposte di cui ho bisogno su un piatto d’argento. Ho già una mano sulla pancia, e la sposto un po' più in basso per enfatizzare le parole di Finnick. – Credo… credo di sì… non so come sia possibile, altrimenti.
- È normale questo? – chiede Peeta. Ha la fronte così aggrottata, che temo che quelle rughe rimarranno impresse sulla sua pelle per sempre.
- Non ne ho idea. Non ho mai sentito una cosa simile prima d’ora.
Non l’hai mai sentita perché è un’enorme cavolata, Finnick. Non è vero, ma non posso dirvi la verità. È meglio far credere che la gravidanza mi ha fatto acquisire dei sensi più attenti verso ciò che ho attorno. Provo a rimettermi a sedere e stavolta lo faccio più lentamente, rispetto a poco fa. Sollevo i gomiti e la testa, aiutata dalle mani di Peeta che mi sorreggono la schiena. Le mie braccia tremano, e se non fosse per lui non riuscirei a stare seduta come vorrei.
- Dovresti riposare – sussurra, osservandomi.
- Non possiamo restare qui – dico, prendendo un gran respiro. – Lo avete detto anche voi, prima: ci serve l’acqua.
- Possiamo aspettare…
- No – protesto ancora. – Posso camminare, davvero.
- Andremo piano – Finnick mi dà corda, e per un istante penso che lo faccia perché vuole il mio male, e non il mio bene, come invece fa Peeta, ma poi aggiunge: - Ha ragione lei, Peeta. Non possiamo restare qui.
Lo sta dicendo perché sa anche lui che è troppo rischioso fermarsi. Non sappiamo dove sono gli altri tributi, se sono lontani o abbastanza vicini da sentirci, o vederci. Non sappiamo se ci stanno dando la caccia oppure no. Restio ad assecondare le nostre richieste, Peeta annuisce comunque, e mi aiuta a rimettermi in piedi. Ho le gambe di gelatina, e devo sforzarmi affinché sostengano il mio peso. Per fortuna andiamo piano e riesco a gestire la camminata. Anche Mags si unisce a noi, camminando grazie ad un bastone che Finnick ha recuperato per lei. Il mio bastone, invece, è il braccio di Peeta, a cui mi aggrappo con forza mentre avanziamo. Lui ha recuperato delle noci e le lancia contro il campo di forza, alla nostra sinistra, man mano che andiamo avanti. Mags le raccoglie e le mangia con gusto, offrendomene alcune da mettere sotto i denti. Il guscio è annerito e rotto a causa dell’impatto, ma la noce all’interno è dolce e succosa, e purtroppo amplifica il senso di sete. Va sempre peggio, ma posso sopportarlo.
Finché non svengo di nuovo.
No, non svengo veramente, ma le gambe non mi sorreggono più, e non serve a nulla tenermi a Peeta. Cado carponi, evitando per un soffio di battere la pancia a terra.
- Non puoi proseguire ancora così – mi rimprovera Peeta, e stavolta sono costretta ad ascoltarlo. Ha ragione: non ne ho la forza.
Lascio che mi guidi a sedere contro un albero e mi libera dalle armi, dai due archi e dalle faretre che ancora mi trascino dietro. Strappa quello che sembra essere muschio da una roccia ed inizia a passarmelo sul viso, e a quel contatto chiudo gli occhi: stranamente, in mezzo a tutto questo caldo afoso, il muschio umido sembra fresco sulla mia pelle. Qualcosa di morbido, le sue labbra, sfiorano la punta del mio naso. Vorrei non darti tutte queste preoccupazioni, penso. Vorrei essere più forte per te, Peeta.
Mags mi si avvicina e si siede accanto a me. Mi accarezza una spalla e mi sorride, porgendomi altre noci da mangiare. Non ho voglia di noci, ma la sua gentilezza è una delle poche cose buone che mi sono accadute oggi, così le accetto e basta. Avere delle noci nello stomaco di certo non mi aiuteranno a combattere la sete e la spossatezza che provo, ma è pur sempre meglio di uno stomaco vuoto.
Finnick ci lascia nelle mani di Peeta mentre va in avanscoperta, cercando acqua e qualcosa di più sostanzioso delle noci da mettere nello stomaco. Mentre attendiamo il suo ritorno, cerchiamo di sistemarci in vista della notte: Mags usa l’erba e le foglie per intrecciare delle ciotole e qualcosa di grande e piatto, e Peeta continua ad arrostire le noci contro il campo di forza. A me non fanno fare nulla, a parte stare seduta contro l’albero. Mi sento inutile, ad essere sincera. Imito Mags ed inizio ad intrecciare anche io, anche se non me la so cavare bene come lei: il ricordo dell’amaca storta e informe che ho fatto al centro di addestramento è ancora ben chiaro nella mia mente. Impiega meno tempo lei a creare una sorta di tetto per capanna che io a fare una striscia d’erba intrecciata.
Quando Finnick torna dal suo giro, con uno strano animale morto in mano, il sole ha cominciato a tramontare e Peeta ha aiutato Mags a fissare il tetto a delle pareti di foglie. Adesso abbiamo davvero una sorta di capanna con cui ripararci.
Lancio via il mio scarso tentativo di intreccio. - Cos’è quell’affare? – chiedo, osservando la pelliccia grigia che ricopre l’animale.
- Una specie di roditore – dice, tenendolo per la coda. – Ha il pelo fradicio d’acqua, ma non sono riuscito a capire dov’è che l’ha recuperata. Non c’è niente qui intorno.
Niente acqua, ma topi enormi e fradici. Gli Strateghi vogliono farci impazzire a furia di ragionamenti, penso, mentre scuoio e sventro l’animale. La carne sembra commestibile, non molto diversa da quella di un comune scoiattolo. Dovremo accendere un fuoco per poterla cuocere, ma non vedo legna adatta per riuscire a farne uno, e se pure la trovassimo sarebbe comunque troppo umida da accendersi. Peeta risolve la questione infilzando la carne in un bastoncino e scagliandola contro il campo di forza, arrostendola.
- Il tuo fidanzato è più intelligente di te – dice Finnick, prendendomi in giro.
Gli ho appena regalato un’occhiataccia degna di questo nome che un odore forte e penetrante raggiunge le mie narici. Arriccio il naso, gemendo. Non è solo forte, è orribile: è la carne cotta che mi sta porgendo Peeta. Lo scanso via in malo modo, e riesco ad allontanarmi abbastanza da non vomitargli addosso.
Le giornate buone di Capitol City sono finite. Decisamente finite.
- Non ti avvicinare – dico a Peeta, ad occhi chiusi. – Non osare avvicinarti con quella roba.
- Sta tranquilla. La terrò lontana – promette. È vicino a me, ovviamente, e mi osserva mentre cerco di capire se nel mio stomaco ci sia rimasto ancora qualcosa da vomitare, ma no. Non c’è più nulla.
Rimango in disparte finché quella carne schifosa non viene consumata del tutto; qualsiasi cosa è meglio di rimettersi a vomitare il nulla. Persino avere lo stomaco vuoto è accettabile come opzione. – Cosa ti dicevo, Peeta? – mormoro. – Li sto facendo divertire un sacco con i miei malanni.
- Non c’è nulla di divertente nello stare male. Smettila di ripeterlo – sussurra di rimando.
Peeta ha appena finito di parlare che la sua voce viene sostituita da una serie di note leggere, ad annunciare l’arrivo di un paracadute che atterra accanto ai miei piedi. Mi sporgo per prenderlo e lo apro velocemente: all’interno della scatola c’è una sorta di cilindro metallico, accompagnato da un brevissimo messaggio di Haymitch: “Bevi”.
- Mi prende in giro o cosa? – esclamo, osservando ciò che dovrei bere.

 

 

 

 

_____________________

Perdonatemi il leggero ritardo: ho avuto un imprevisto nel pomeriggio e ho dovuto rimandare l’aggiornamento, anche se di poco. Giuro che non volevo farvi soffrire XD
La terza Edizione della Memoria è appena cominciata! Come vi è sembrato questo primo giorno nell’arena? Anche voi, come Katniss, pensate che il pubblico si stia divertendo?
Ho deciso di eliminare l’incidente di Peeta col campo di forza perché non mi è sembrato necessario, allo stato delle cose. Una Katniss incinta alle prese coi malanni della gravidanza è più divertente da vedere, no? Sì, sono sadica: lo so che lo state pensando, vi vedo benissimo. È stato più forte di me e non potevo non giocarci un po' sopra.  
Bene, credo di non avere altro da dire… a parte ringraziarvi per le visite e per le recensioni, come al solito :) anche perché se siamo arrivati al capitolo numero 20 lo devo a voi! Grazie mille

D.

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Capitolo 21
*** 21. ***


In The Still Of The Night - 21

In the still of the night

 

 

 

 

21.

 

Sulla spiaggia, davanti all’alba più bella e rosea che i miei occhi abbiano mai visto prima d’ora, osservo il corpo della donna che ha salvato la vita di Peeta galleggiare sull’acqua. È morta a causa delle profonde ferite riportate durante lo scontro con le scimmie-ibrido. Un hovercraft appare dal nulla e, calato un artiglio, recupera il cadavere, poi sparisce così com’è arrivato.
Accanto a me, in silenzio, c’è Peeta. Mi stringe contro il suo fianco, tenendo l’altra mano sul mio ventre. L’evento a cui abbiamo appena assistito è stato solo l’ultimo di una lunga, infinita notte.
Il regalo di Haymitch si è rivelato essere una spillatrice, una di quelle che si usano per prelevare la linfa dagli alberi; grazie ad essa siamo riusciti a recuperare l’acqua di cui avevamo un così disperato bisogno. È in quel momento che è risuonato l’inno e, nel cielo, sono apparsi i volti dei tributi caduti durante il bagno di sangue: otto in tutto. Tra di essi, Cecelia e Seeder. È stato impossibile non piangere pensando a quei poveri bambini, nel Distretto 8, che non avrebbero potuto più rivedere e riabbracciare la propria madre. Avrei voluto non essere così sensibile; avrei voluto poter mostrare meno le mie emozioni, avrei voluto essere più brava nel nasconderle e camuffarle, ma sembravo non esserne più capace e questo mi ha fatta apparire debole, più debole del normale.
Peeta e Finnick hanno deciso di dividersi i turni di guardia per la notte e non hanno voluto che mi unissi anche io, dicendo che dovevo riposare: ne avevo bisogno più di loro due messi insieme, a detta di Finnick. Ho continuato ad inveire contro di loro, ma mi sono stesa accanto a Mags per farle compagnia e, nel giro di pochi minuti, sono crollata come un sasso. A ridestarmi, qualche ora dopo, una serie di rintocchi decisi, simili a quelli di una campana. Dodici rintocchi, e a seguire un fulmine, ad annunciare la pioggia. Pioggia che avrebbe potuto alleviare il calore continuo dell’aria, ma che non è mai arrivata.
Al suo posto, invece, è arrivata la nebbia. Nebbia velenosa.
Abbiamo cominciato a correre, a scappare dalla nebbia, come se al suo posto ci fosse stato un animale feroce. Siamo scappati ed ho avuto, chiaro e forte, un déjà-vu di me e Peeta che scappavamo, nell’arena dell’anno scorso: al posto di Finnick e Mags però c’era soltanto Cato, e al posto della nebbia a braccarci c’erano degli ibridi. I mostruosi ibridi con le sembianze degli altri tributi caduti.
La nebbia ci ha raggiunti più volte e ad ogni contatto con essa urlavamo di dolore, riempiendoci di vesciche a vista d’occhio. Non era una normale nebbia ma una studiata e creata apposta in laboratorio, fatta con sostanze che ci avrebbero corroso la pelle e debilitato l’organismo, a lungo andare. Quella nebbia ha cominciato ad attaccare i nostri nervi, impedendo i nostri movimenti e rendendoci lenti e deboli, delle prede facili da raggiungere e da uccidere. Correre era diventata un’impresa folle, e persino camminare a ritmo sostenuto sembrava impossibile. Ad un certo punto mi sono ritrovata al centro del gruppo, con Finnick alla mia destra e Peeta alla mia sinistra, e abbiamo continuato a scappare finché la nebbia non si è fermata da sola, restando indietro rispetto a noi. Non mi sono accorta dell’assenza di Mags fino a quando non ho visto le lacrime rigare il volto di Finnick, rovinato dall’acido. Non ho nemmeno sentito il colpo di cannone che annunciava la sua morte.
Mags è rimasta indietro per consentirci di correre via dalla nebbia corrosiva.
Si è sacrificata per salvarci.
Per sopportare tutto questo dolore serviva altro dolore: l’ho imparato a mie spese, anni fa, e ancora di più nel periodo recente. Ci trovavamo sulla spiaggia, davanti al mare che circondava la cornucopia, quel mare da cui eravamo scappati ore prima. Lentamente, cercando di tenere testa alle mie membra doloranti e ancora provate dalla sostanza, sono andata verso l’acqua. Ho cercato di immergermi, ma il primo contatto con l’acqua salata mi ha fatta ritrarre con un urlo di dolore a stento trattenuto. Era un dolore cocente e penetrante, come quello che si prova nel toccare qualcosa di incandescente. Ma sentivo di aver bisogno di quel dolore, per affrontare la morte di Mags. Per affrontare la morte di Cecelia. Per anestetizzare il male che sentivo nel cuore… loro erano morte, ed io ero ancora viva. Perché ero ancora viva? Come avevo fatto a sopravvivere?
I gemiti di dolore sono usciti forti e chiari, quando ho toccato l’acqua, ed è stato un bene che non li abbia trattenuti: mi hanno aiutata ad affrontare la realtà, una realtà così crudele e oscura che avrei voluto fosse finta, e che fosse presente solo nei miei incubi. Ma ho imparato così bene che la realtà supera ogni incubo da non badarci più. Tra le lacrime e le stelle che il dolore ha provocato, ho sentito anche del sollievo. Possibile che funzioni davvero? Ma poi ho capito che era l’acqua: l’acqua salata stava, in qualche modo, guarendo le ferite causate dalla nebbia. L’ho detto agli altri, ma loro erano già accanto a me e stavano imitando i miei movimenti prima che me ne potessi accorgere.
Pian piano, digrignando i denti, mi sono immersa del tutto; sono avanzata nell’acqua fredda e sono rimasta lì per un bel pezzo, beandomi di quella frescura dopo ore e ore di calura e umidità. Il dolore delle ferite mi ha abbandonata, ma non quello del cuore: quello, forse, non se ne sarebbe andato mai. Ho aperto la cerniera della tuta e l’ho sfilata, liberando le braccia e arrotolandola fino all’orlo delle mutandine, restando scoperta fino alla vita. C’era ancora la canottiera a coprire la mia pelle, ma così bagnata era diventata totalmente trasparente ed inutile. Normalmente me ne sarei vergognata, ma non stavolta: mi sono sentita stranamente bene, a mollo, ed in pace. È stato facile ignorare le centinaia di telecamere che avevo sicuramente puntate addosso, pronte a registrare ogni mio minimo movimento. È stato facile immaginare di essere da sola, sola con me stessa, sola senza la preoccupazione di star mostrando qualcosa di proibito. Non c’era più nulla di proibito, ormai: tutti sapevano tutto di me. Dovevo essere l’unica a non conoscere ancora molte cose su di me, su me stessa, che invece agli occhi degli altri dovevano apparire chiare e concise.
Avrei potuto addormentarmi nell’acqua, se non fosse stato per le scimmie. Si nascondevano nel folto degli alberi, innocue ad una prima occhiata, e molto silenziose; sono rimaste ferme per un bel pezzo, ad osservarci, come studiandoci. Peeta si era allontanato da me e Finnick per andare a recuperare dell’acqua con la spillatrice, lasciando noi altri ancora dentro l’acqua. È stato Finnick a richiamare la mia attenzione, destandomi, quando ha notato che le scimmie avevano cambiato il loro comportamento e si erano avvicinate, raggiungendo e quasi circondando l’albero su cui Peeta, armato di coltello, lavorava per poterci fissare la spillatrice. Lui non si era accorto di nulla…
Ho detto a Peeta di tornare da noi il più lentamente possibile, mentre incoccavo una freccia e Finnick cercava di avanzare senza far rumore sulla sabbia… ma sono scattate all’improvviso, con tutta la violenza e la furia di cui erano capaci. È stato fin troppo facile capire che non erano solamente delle scimmie, ma degli ibridi di Capitol City. Quale scimmia, in natura, poteva avere dei denti affilati come rasoi?
Ne abbiamo fatte fuori parecchie in poco tempo ma queste sembravano moltiplicarsi, attaccandoci senza sosta. Sono stata costretta ad usare l’arco come arma ed il coltello che portavo alla cintura quando sono rimasta senza più frecce, senza rendermi conto della velocità con cui si andavano svuotando le faretre. Ho colpito alla testa la scimmia che aveva affondato i denti nella carne del mio polpaccio quando mi sono resa conto di ciò che stava per accadere: Peeta cercava di salvare la vita di Finnick, uccidendo una delle bestie che puntava alla sua schiena, ma lui a sua volta stava dando le spalle ad un altro animale, libero di attaccare. E lo stava per fare.
Mi sono lanciata su di esso, nel disperato tentativo di salvargli la vita. Era quello che avevo deciso insieme ad Haymitch, dopotutto: io morivo, e Peeta viveva. E fino ad ora non avevo svolto per niente questo compito, anzi, era stato l’esatto contrario. Mi stavo già preparando ad attaccare quando la donna è sbucata fuori dal nulla, mettendosi tra Peeta e la scimmia e lasciando che quest’ultima le trafiggesse la gola con i denti.
- No! – ho urlato, colpendo l’animale. Le ho tolto di dosso il corpo senza vita della bestia, ma sapevo che non avrei potuto fare nulla per la morfaminomane dal sangue che zampillava copioso dai due buchi che aveva al collo, e dal respiro roco e affannoso che sentivo. Stava morendo davanti ai miei occhi.
Peeta mi ha raggiunta ed insieme l’abbiamo spostata, portandola via da quel massacro. Non avevamo nessuna intenzione di lasciare Finnick da solo ad occuparsi di quelle creature, ma avevano smesso di attaccarci. Come se avessero ricevuto un ordine da qualcuno di superiore a loro, avevano cominciato a ritirarsi velocemente nel folto della giungla. Come se sapessero che, dopo aver mietuto una vittima, avrebbero potuto smettere di attaccare.
I minuti seguenti, appena una manciata, sono stati orribili. Non conoscevo la donna che stava morendo davanti a me, non sapevo nemmeno il suo nome, e non sapevo cosa fare per alleviare le sue pene. Peeta, invece, sembrava saperlo bene.
- Una volta ho passato tre giorni a mescolare i colori per trovare la tonalità giusta per dipingere la luce del sole su una pelliccia bianca. Continuavo a pensare che la luce fosse gialla, e invece era molto di più. Era fatta di strati di colore tutti diversi.
Usando i colori, quei colori che lei ed il suo compagno di distretto avevano amato così tanto in vita, Peeta ha compiuto ancora una volta la sua magia. L’ho ascoltato come rapita, anche se le sue parole erano indirizzate alla donna che stava, lentamente, morendo tra le nostre braccia.
- Non ho ancora capito come fare gli arcobaleni. Arrivano e se ne vanno così in fretta. Non ho mai avuto il tempo di dipingerne uno dal vivo…
Parlandole, dosando il tono della sua voce, mostrandole lo spettacolare cielo rosato che si diramava sopra le nostre teste… è morta così, guardando il cielo rosa.
Quando non sento più il rumore del motore dell’hovercraft, lascio la presa di Peeta e torno a scivolare dentro l’acqua, dove mi trovavo prima dell’attacco delle scimmie. Lavo via dalle mani il sangue degli animali e della morfaminomane, lavo via anche quello che impregna la mia tuta. Dopo, mi rinfresco il viso ed il collo, sospirando del poco sollievo che riesco a ricavarne. Peeta fa lo stesso, lavando il sangue dalle mani e anche dalla faccia; lava via il fiore fatto di sangue che la morfaminomane gli ha tracciato sulla guancia pochi secondi prima di spirare.
- Voglio andarmene da qui – pigolo, mantenendo basso il tono di voce. Un sussurro a malapena percettibile che arriva solo alle orecchie di Peeta, e questo solo perché è vicinissimo a me. Nessun altro deve sentirmi. Non voglio che mi senta nessun altro, a parte Peeta.
- Ce ne andremo – mormora. – Te lo prometto.
- Non fare promesse che non potrai mantenere – lo rimprovero, guardandolo. I miei discorsi sono inconcludenti e incomprensibili, come la maggior parte dei discorsi dell’ultimo periodo. Questo perché desidero troppe cose: desidero vivere, ma so che non accadrà mai. Desidero che nostra figlia viva, anche se è difficile che possa accadere, se io muoio. E desidero che Peeta viva, vincendo gli Hunger Games, sapendo che ciò può accadere solo a discapito della mia morte.
So anche che lui vuole sacrificarsi per salvare me e sua figlia, ma non può farlo: non se io e Haymitch continuiamo a giocare bene le nostre carte.
- Non è affar tuo, amore – dice.
È la prima volta che mi chiama così davanti a tutti, senza nessuna remora. È strano, sentirlo parlare di amore in un luogo di morte… in confronto a lui, io sono un cubetto di ghiaccio: non dimostro il mio affetto per lui, ma solo perché detesto farlo davanti a degli estranei. E qui sono tutti estranei, in un certo senso: non i tributi, ma chi ci guarda.
Peeta protende il viso verso il mio e poggia le labbra all’angolo delle mie, sfiorando piano la pelle prima di scivolare e spostarsi per regalarmi un bacio vero, un bacio che posso ricambiare come si deve. Finalmente, dopo quasi una giornata intera. Schiudo le labbra ed immergo la mano nei corti capelli sulla sua nuca, stringendo la sua mano con l’altra. Il suo corpo si incurva verso il mio ma non mi fa cadere all’indietro, sulla sabbia, come so che gli piace fare quando ci ritroviamo a tiro di qualsiasi cosa possa farci da materasso: non lo fa perché tiene un braccio fermo dietro di me, per sorreggermi. E poi non è il caso di dare spettacolo, non qui. Il bacio è già più infuocato del previsto, e la dimostrazione di ciò che abbiamo già fatto e che ci risparmiamo di fare è presente, e ben visibile, tra i nostri corpi.
- Va meglio? – fiata, sorridendo sulle mie labbra.
Annuisco, sorridendo di rimando. Gli accarezzo il retro del collo e l’occhio cade sulle mie dita, quelle della mia mano sinistra. Sono vuote, ovviamente. L’anello di fidanzamento non c’è più. Il pegno d’amore di Peeta non ha passato l’approvazione dei controllori, e di conseguenza non ho potuto indossarlo per entrare nell’arena. Possiamo portare solo una cosa con noi come portafortuna, e la spilla con la ghiandaia imitatrice è tornata con me. Un gesto scaramantico a cui non credo molto, stavolta. Avrei preferito avere l’anello, piuttosto.
Peeta ha attorno al collo un cordino con un pendente dorato, che riporta anch’esso l’effigie della ghiandaia in bassorilievo.
- Dovresti dormire un po'. Approfittane adesso che è tutto tranquillo – mi consiglia, portando una ciocca sfuggita alla treccia dietro al mio orecchio. – Anche lei è tranquilla? – aggiunge, grattando piano la mia pancia sopra al mio ombelico. Immagino i sospiri di chi ci guarda da casa, nel vedere Peeta che presta attenzione alla sua futura figlia.
- Non la sento da un po' – è vero, non sto mentendo: è da quando siamo scappati dalla nebbia che non sento provenire nessun movimento da parte sua. Ripenso alla nebbia, al dolore e agli spasmi che aveva provocato ai nostri corpi, ed un senso di disagio mi assale. – Peeta… la nebbia… potrebbe averle… - non riesco a proseguire, scossa.

Potrebbe aver raggiunto anche lei?
Il suo sguardo si irrigidisce. Gli occhi di Peeta, in qualche modo, riflettono quella che è la mia stessa paura, ma lui scuote in fretta la testa. – No. Non devi pensarci, Kat. Non devi farti contagiare dalla paura. Forse sta soltanto dormendo…
- E se non lo sta facendo?
- Non… non possiamo saperlo – ammette, sconsolato. – Ascolta, non possiamo lasciarci prendere dal panico per ogni cosa che ci succede qui dentro. Dobbiamo essere razionali ed aspettare, solo aspettare. Te l’ho detto, magari sta dormendo ed è per questo che non la senti. Io farò tutto ciò che è in mio potere per salvaguardarvi, ma tesoro… devi farlo anche tu. Devi aiutarmi. Non devi cedere alla paura – sfiora le mie labbra in un piccolo bacio. – Promettimi che non cederai alla paura.
Sospiro, stringendo i suoi avambracci. La fa facile, lui, nel dire che non devo spaventarmi al minimo intoppo. Che ne può sapere, Peeta, di quello che potrei provare se scoprissi che la bambina non è più in grado di muoversi? Cosa potrei sentire se fosse… e mi blocco, prima di pensare al peggio. Eppure, allo stesso tempo mi rendo conto che le parole sono l’unico mezzo che ha per tranquillizzarmi, per mettere a tacere il terrore che pian piano potrebbe invadere la mia mente. Le sue parole, i suoi gesti, il suo amore. E ha ragione: è importante che io lo ascolti, e che non ceda alla paura. Devo cominciare a vedere positivo, a vedere il mondo con colori diversi dal nero, o dal grigio.
Annuisco. Chino la testa e subito sento le sue labbra contro i capelli.
- Andiamo a dormire un po' – Peeta prende le mie mani e mi aiuta a rimettermi in piedi, sostenendomi per i fianchi mentre andiamo verso il punto, poco prima dell’inizio della vegetazione, in cui si trova Finnick. Ha raccolto parecchie delle mie frecce e le ha ammucchiate da una parte, e adesso ha iniziato ad intrecciare delle ciotole, come quelle che aveva fatto Mags qualche ora fa.
Ci guarda di sottecchi, esibendosi nel suo solito sorriso sornione e accattivante, da seduttore. – Siete davvero carini, lo sapete? Tutti presi dalle vostre effusioni… ew! – si lamenta quando si becca una bella quantità di sabbia in faccia, sabbia che gli ho calciato apposta addosso mentre passavo.
- Stenditi, ignorante! – Peeta ride.
- A chi hai dato dell’ignorante?
- A te. Sei la mia ignorante – mi bacia di nuovo, dopo avermi fatta sdraiare accanto a lui sulla sabbia, all’ombra di alcune enormi foglie. – Dormi un po'.
- Chiamatemi, se succede qualcosa – li informo mentre chiudo gli occhi.
Non deve essere successo nulla di rilevante, mentre dormivo, perché nessuno dei due si degna di svegliarmi. Lo faccio da sola, dopo quelle che capisco essere state diverse ore di sonno pesante. Pesante, ma non riposante: ho male alla schiena. Le mie ossa protestano mentre mi rimetto a sedere, osservando i miei compagni di avventura impegnati ad aprire degli strani sassi grigi. I sassi grigi si rivelano essere ostriche e altri tipi di frutti di mare. Devono essercene in quantità, nell’acqua, pronti da pescare.
- Ehi, bella addormentata! Vieni a fare colazione con noi – mi invita Finnick, allegramente.
- Sei orribile. Che hai fatto alla faccia? – gli chiedo, adesso che sono più vicina a lui e noto meglio le strane macchie e croste che gli riempiono la pelle. Ha il viso ed il collo cosparso di questa roba marrone. Anche Peeta ne è pieno. Prima non aveva nulla, però.
- Ricordo della nebbia – dice. – Anche tu non sei esattamente uno splendore, sai?
Mi tocco la faccia e scopro che non mi sta prendendo in giro: sotto i polpastrelli, posso sentire i segni e i contorni di alcune croste. Parecchie croste, in realtà. Come le tocco, iniziano a prudere terribilmente. – Che schifo.
- Come ci si sente a non essere più carini? – mi chiede, sfottendomi.
- Dovresti dirmelo te. Eri il più carino di tutti, qui dentro.
- Ah! Lo sono ancora, se è per questo – Finnick si mette in bocca un mollusco e mi osserva mentre lo mastica con gusto.
Faccio una smorfia, e mi avvicino a Peeta per sedermi al suo fianco. Lui mi porge una piccola ciotola piena di cibo. – Li puoi mangiare questi? – mi chiede.
Dopo una prima annusata capisco che posso correre il rischio: niente nausea. Basta il primo boccone a farmi capire il livello di fame a cui sono arrivata. Non mangio nulla da ieri sera. I frutti di mare sono un po' viscidi e scivolosi, ma mangio tutto senza lamentarmi. È già tanto avere del cibo… e poi, ho mangiato di peggio. La bizzarra cucina di Sae la Zozza batte qualsiasi altra cosa.
Stiamo ancora mangiando quando accadono alcune cose, tutte in successione: un nuovo paracadute ci consegna un tubetto di crema verdastra, che allevia il prurito delle nostre croste ma fa assumere alla nostra pelle un aspetto macabro e disgustoso, quello di carne decomposta. Il cannone spara, annunciando la morte di un altro tributo, e dal folto della foresta si sprigiona un’onda altissima che va ad infrangersi contro la cornucopia; la forza dell’impatto è così elevata che l’acqua arriva a bagnare anche i nostri piedi e trascina via i nostri pochi averi, costringendoci a recuperarli in fretta e furia. Un hovercraft appare, recupera il cadavere sconosciuto e vola via di nuovo. Sto per chiedere ai ragazzi chi possa essere il caduto, ma l’arrivo di tre persone sulla spiaggia mi blocca. Sono a diverse decine di metri di distanza e sono tutte sporche, ricoperte di una sostanza scura simile ad una vernice. Uno di loro, una donna, urla agitando un’ascia nell’aria davanti a lei.
- È Johanna! – esclama Finnick, sorpreso; si alza e inizia a correre verso di lei. – Johanna!
- Possiamo fidarci? – chiedo a Peeta, sospettosa. Il pensiero di dovermi unire in squadra con Johanna Mason non è proprio il mio preferito.
- Scopriamolo – mi invita, seguendo Finnick. Prende la mia mano, quella che non stringe l’arco, e mi trascina con sé.

 

Johanna Mason è arrivata insieme a Wiress e Beetee, i due inventori del Distretto 3. Ci racconta della pioggia di sangue in cui sono incappati durante la notte e della morte di Blight, il suo compagno di distretto, che ha urtato per sbaglio il campo di forza mentre fuggivano dal sangue. Beetee ieri si è beccato una coltellata sulla spalla per recuperare un rocchetto di filo durante il bagno di sangue, e Wiress… Wiress ha perso il senno. Non ho altro modo per definire ciò che fa: gira su sé stessa, spaesata, mormorando “Tic-Tac” ad intervalli di pochi secondi. Johanna la spinge sulla sabbia, irritata, quando le si avvicina. Per difenderla mi becco un ceffone in piena faccia da parte sua, e Finnick è costretto ad issarsela sulle spalle per allontanarla da me. La sommerge nell’acqua bassa, ma questo non le impedisce di lanciare imprecazioni e parolacce nella mia direzione.
Ecco perché Johanna non è la mia alleata preferita. Ma tra una parolaccia e l’altra mi dice, anzi, urla, che ha salvato la vita a Wiress e Beetee per me, che li volevo in squadra sin dal primo giorno. Se sono qui lo devono a lei, e di conseguenza glielo devo anche io. Avrei preferito non essere debitrice di niente con quella donna, ma ormai il danno è fatto.
Le ore successive le passiamo ad aiutare Wiress e Beetee a lavarsi dal sangue di cui sono ricoperti, e a medicare come possiamo la ferita di quest’ultimo. Li rifocilliamo coi frutti di mare pescati da Finnick e con l’acqua che Peeta continua a spillare dagli alberi. Dopo aver mangiato si stendono un po' all’ombra delle foglie mentre io mi offro di stare in guardia. Non ho sonno, e la schiena mi fa male da morire se provo a sdraiarmi, anche se da seduta la situazione migliora un pochino. Mi siedo con Wiress accanto, che sembra non avere nessuna intenzione di riposare, ma alla fine si addormenta anche lei.
Dormono tutti da un bel po' quando il fulmine colpisce di nuovo l’albero, proprio come a mezzanotte. La tempesta di fulmini, accompagnata da dense nuvole nere, si concentra solo su di esso, lasciando quasi completamente libero il resto del cielo. Il sole è arrivato al suo zenit: è mezzogiorno.
Sgrano gli occhi. La mente si affolla di nozioni apprese pian piano, durante questa prima ed intensa giornata nell’arena: il fulmine, i rintocchi, i dodici raggi della ruota che partono dalla cornucopia… ed i diversi pericoli che, pare, infestano ogni raggio. Uno ogni ora che passiamo qui dentro: fulmini, nebbia, pioggia di sangue, onda, scimmie.
Il “Tic-Tac” di Wiress.

Siamo dentro un orologio.
- È un orologio! – urlo, rimettendomi in piedi a fatica a causa della sabbia e del mal di schiena. Torno dagli altri, li scuoto per svegliarli. - È un orologio! L’arena è un orologio!
Riesco a spiegare loro velocemente ciò che ho capito, anche se come spiegazione lascia un po' a desiderare: mi mangio le parole, in sostanza. Ma Beetee mi capisce, per fortuna, ed è grazie a lui se il discorso alla fine riesce ad acquisire un senso. Johanna non ne è particolarmente convinta, ma tutti gli altri sì.
- Dobbiamo spostarci da qui – dico in fretta. – Se la nostra teoria è vera, la pioggia di sangue dovrebbe cominciare all’una, e alle due c’è la nebbia velenosa. Non so se possa arrivare fino alla spiaggia…
- Andiamo alla cornucopia – propone Finnick. – Da lì avremo una visuale migliore di tutta l’arena… ci potrebbe tornare utile per capire come muoverci. E possiamo prendere altre armi.
Nessuno di noi mette in discussione le parole di Finnick, così accettiamo. Svegliamo Wiress, disfiamo il nostro accampamento di fortuna, e raggiungiamo la cornucopia percorrendo il raggio di sabbia più vicino a noi. La camminata sembra aver risvegliato la bambina: la sento muoversi, dopo diverse ore in cui non sentivo altro che calma piatta, e la mia mano si posa accanto al punto su cui preme con insistenza. Stai bene, penso sollevata. Non riesco a trattenermi dal sorridere come un ebete, e soltanto perché la piccola si sta muovendo. Fino a tre giorni fa avrei criticato questo tipo di comportamento, mentre adesso… adesso è tutto diverso. Non pensavo di essere diventata così suscettibile ai suoi movimenti, per quanto sporadici essi siano.
Finnick comincia a guardarsi intorno quando raggiungiamo la cornucopia, ma dei Favoriti non vi è nessuna traccia, per fortuna. Ci siamo solo noi: noi, e una montagna di armi. Sono così tante che basterebbero per altri venti tributi, esattamente come nei giochi che ha dovuto affrontare Haymitch venticinque anni fa. Mentre cerco le frecce, Johanna osserva una serie di coltelli affilatissimi da aggiungere alle sue asce e Finnick prende un altro tridente. Peeta e Beetee iniziano a disegnare una sorta di mappa dell’arena, contrassegnando le varie sezioni con i pericoli di cui siamo già a conoscenza. Wiress, invece, se ne sta in disparte ed ha cominciato a cantare, seduta accanto all’acqua.
- Guarda com’è posizionata la cornucopia – mi dice Peeta quando lo raggiungo, con in mano una spada da consegnargli.

Esamino la cornucopia e capisco cosa vuole dire. – La coda punta verso le dodici – dico.
- Giusto. Quindi questa è la parte più alta del nostro orologio…

Siamo tutti riuniti, e presi, attorno alla mappa improvvisata da non accorgerci subito del canto di Wiress, che si interrompe di colpo. Quando alzo lo sguardo, vedo Gloss che scansa il suo corpo in malo modo dopo averle squarciato la gola da parte a parte. Il cannone spara nello stesso istante in cui io scaglio la mia freccia. Colpisco l’uomo dritto al cuore, e vedo il suo sorriso irrigidirsi in una maschera di morte mentre cade all’indietro, dritto in acqua. Il cannone spara di nuovo.
Siamo circondati dai Favoriti: silenziosi e letali, si sono avvicinati senza farci percepire la loro presenza e le loro intenzioni. Intenzioni che, come ha dimostrato Gloss, non sono per nulla amichevoli. Sono mortali. Cashmere spunta dall’altro lato della cornucopia e punta nella mia direzione, brandendo una spada per vendicare il fratello caduto, ma Johanna la intercetta e le pianta la sua ascia in pieno petto. Sento di nuovo il cannone e lancio le mie frecce in direzione di Brutus, che le schiva tutte. È velocissimo. Inizio a correre, seguita da Johanna; sento le urla di battaglia di Enobaria, che sta sicuramente lottando contro Finnick o Peeta. Peeta… arresto la mia corsa per tornare indietro, nel tentativo di raggiungerlo e proteggerlo, ma barcollo. Tutti barcolliamo, perché la base su cui è posata la cornucopia ha cominciato a ruotare, ed acquista sempre più velocità.
Perdo l’equilibrio, cadendo all’indietro. Batto la testa e la schiena sulla sabbia, boccheggiando in cerca d’aria e di un appiglio a cui aggrapparmi disperatamente.
- Katniss! – Johanna è la persona più vicina a me a cui possa chiedere aiuto. Vedo che mi tende una mano, ma non riesco a raggiungerla. Cerco di tendere il braccio, di aggrapparmi alla sua mano, ma qualcosa mi urta con forza sul fianco e mi sbalza via.
Cado in acqua.

 

 

 

 

___________________________

Siamo arrivati alla fine. Dato che la nostra protagonista/narratrice ha tirato le cuoia, non ha più senso continuare la storia. Mi sa che è arrivato il momento di salutarci.

 

 

 

 

Scherzetto! So che non ci avevate creduto XD
Non potrei mai chiudere la storia in questo modo! Il capitolo, invece, sì. Mi dispiace lasciarvi con una settimana intera di attesa per sapere come andrà avanti… ma ve l’ho già detto la settimana scorsa: sono sadica. ADORO mettervi le pulci nelle orecchie e farvi attendere :)

D.

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Capitolo 22
*** 22. ***


In The Still Of The Night - 22

In the still of the night

 

 

 

 

22.

 

Nell’istante in cui respiro e l’aria riempie i miei polmoni, vomito un fiotto d’acqua. Qualcuno mi fa girare su un fianco per evitare che soffochi. L’acqua salata mi esce dal naso e dalla bocca contemporaneamente, e brucia nel farlo. Gemo, strizzando gli occhi per il fastidio. Stringo i pugni, e sento la sabbia contro le mie dita, intrappolata nei palmi.
- Sei qui, ce l’hai fatta – questa è la voce sollevata di Johanna, e sua deve essere anche la mano che mi accarezza la schiena.
Tossisco, strizzando gli occhi. – Jo… Johanna? – balbetto in direzione della sua voce.
- Razza di idiota! Ho dovuto recuperarti in acqua e farti persino la rianimazione! Avevi tutte le intenzioni di morire, eh? E a quel poveraccio del tuo fidanzato non pensi? – adesso non c’è più alcuna traccia di sollievo nella sua voce, anche se non smette di accarezzarmi schiena e spalle.

Mi ha salvato la vita?
- Proprio tu… - dico, voltandomi verso di lei.
Johanna inarca un sopracciglio. – Già, proprio io – ribatte. Ha capito cosa le volevo dire: tra tutti, a salvarmi la vita è stata lei. Proprio lei, che sembra volermi vedere morta con tutte le sue forze.
Le sono di nuovo debitrice, e non mi piace per niente.
- Riesci a metterti seduta? – chiede, cercando di sostenermi mentre mi muovo. – Come va la botta?
Botta? Quale botta? Non faccio in tempo a dirlo ad alta voce che le sue mani sono già sulla parte lesa, all’altezza delle costole. Fa male, ma non così tanto. Glielo dico, sperando che questo possa bastare per far sì che smetta di torturarmi con le sue dita, ma lei continua, inarrestabile. Forse si diverte.
- Te la caverai, non sembrano rotte – dice.
Nel giro di poco più di ventiquattr’ore ho già collezionato tutta una serie di infortuni: sono svenuta, ho vomitato, mi sono beccata le ustioni da acido grazie alla nebbia, un morso di scimmia, un trauma alle costole e un annegamento… e sono ancora viva per poterlo raccontare. Quest’arena sta dimostrando con tutta sé stessa le sue intenzioni di farmi fuori, ma io resisto ancora. Cos’altro mi attende?
- Katniss! – Peeta urla il mio nome mentre corre verso me e Johanna, seguito dal resto del gruppo che comprende anche Beetee e Finnick. Wiress è morta, ricordo con amara rassegnazione. L’ha uccisa Gloss… ma Gloss è morto a sua volta per mano mia.
Questo risolleva un po' il mio morale.
- Katniss! – ripete Peeta, gettandosi sulla sabbia accanto a me. Mi prende per le spalle e mi osserva, scuotendomi leggermente. – Stai bene?
- Ehi, non la scuotere! L’ho appena resuscitata, vacci piano – esclama Johanna.
- Che cosa? – urla, allarmato.
- Sta scherzando, Peeta! Sto bene – dico, prendendo una delle sue mani e portandomela alle labbra. Ci deposito sopra un bacio. – Sto bene, davvero.
Johanna emette un verso che è una via di mezzo tra lo scocciato ed il disgustato. – Mi fate venire il voltastomaco, voi due.
- Perché non li hai visti prima! – esclama Finnick, sogghignando. – Ci mancava poco che scopassero sulla spiaggia…
- Ew! Ma insomma!
- La volete piantare? – urlo. La nostra vita privata è affare nostro, non loro. Nostro, e di nessun altro. – A voi che importa?
- Se ci costringete a diventare dei guardoni diventa una questione di tutti – dice Johanna, piccata. – Non ci tengo a vedere il piccolo Peeta.
- O la piccola Katniss – aggiunge Finnick. – Anche se non dovrebbe essere così male. Pensaci, Johanna-
- Basta! – urlo di nuovo. – Perché tu non dici niente? – abbaio contro Peeta.
- Perché ti stanno solo prendendo in giro. Non dicono sul serio! – si giustifica, baciandomi la fronte. Si stacca subito, però, a causa di ciò che continuano a dire i nostri compagni e delle mie occhiatacce, tutte indirizzate a lui. Da come mi comporto capisce che gli ho detto la verità, che sto effettivamente bene, perché aggiunge: – Vieni, alziamoci…
Barcollo un poco, e le costole ammaccate si fanno sentire, ma tutto il resto sembra essere a posto. Anche respirare non fa più male, adesso che non ho più acqua da sputare. Beetee, che è rimasto in silenzio fino ad ora, allunga le braccia per porgermi l’arco e una faretra straripante di frecce. Non sono le mie armi, noto: quelle devo averle perse quando sono caduta in acqua. Lo ringrazio lo stesso, sentendomi un po' più al sicuro grazie alle armi.
- Dov’è che andiamo adesso? Qual è la zona più sicura della spiaggia? – chiede Finnick.
- Non lo sappiamo più, grazie a quel giochetto della cornucopia rotante! – sbraita Johanna. – Ci hanno fatto perdere l’orientamento.

- Non avrei mai dovuto parlare ad alta voce dell’orologio – dico amareggiata. – Adesso ci hanno portato via anche quel vantaggio.
- Solo per il momento – ribatte Beetee. – Alle dieci vedremo ancora l’onda e ci potremo orientare di nuovo.
- Sì, non possono cambiare tutta l’arena – dice Peeta.
- Non ha importanza – interviene impaziente Johanna. – Ce lo dovevi dire per forza, razza di idiota, altrimenti non avremmo mai spostato l’accampamento. – Curiosamente la sua risposta logica, per quanto condita da un insulto, è l’unica che mi conforta. Sì, dovevo dirglielo, per farli spostare.

- Raggiungiamo la spiaggia e una volta lì vediamo dove andare – propone Finnick, alla fine. – Magari riusciremo anche a capire in che direzione sono fuggiti quelli del 2.
- Che saggio che sei, Finnick! – lo sfotte Johanna. Lui la spintona via.
Procediamo in fila indiana, con Finnick ad aprire la fila e Johanna a chiuderla; io sono ancora una volta nel mezzo, proprio come ieri, solo che stavolta ho accanto Peeta, protettivo, con un braccio a cingermi la schiena. Sembra quasi che gli altri abbiano stretto un patto tra di loro, un patto per cercare di proteggere il più possibile la ragazza incinta nell’arena. Ce la stanno mettendo tutta, a quanto pare… ma io non glielo sto rendendo un compito facile. Sono molto propensa agli infortuni, come hanno potuto notare anche da soli.
Fossi in loro avrei gettato la spugna ore fa.
Sulla spiaggia non ci sono tracce del passaggio di Brutus ed Enobaria: niente orme. Il vento, o l’acqua, le hanno spazzate via prima che potessimo arrivare per vederle. Oltre al problema Favoriti, c’è anche quello del nostro orientamento a complicare la situazione. La spiaggia e la giungla sembrano identiche, da qualsiasi posizione le si voglia guardare: stessa sabbia bianca, stesse piante verdi… persino gli stessi alberi alti. Il fatto che uno di quelli venga colpito dal fulmine a mezzanotte e a mezzogiorno potrebbe tornarci utile, ma ce ne sono dodici, tutti uguali, posizionati nello stesso punto per ogni sezione dell’orologio. Finché non arriva il fulmine non sapremo mai qual è quello giusto. Beetee ha ragione sull’onda: alle dieci, sapremo di nuovo in che punto dell’arena ci troviamo.
Decidiamo temporaneamente di fermarci in una zona della spiaggia riparata dal sole, che in questo momento picchia forte sopra alle nostre teste; l’ultima cosa di cui ognuno di noi ha bisogno, ora, è un colpo di sole. Ma se sono fortunata me lo becco di sicuro, in barba ad ogni statistica. Morirò di insolazione, me lo sento. Fa di nuovo molto caldo.
- Hai ancora tu la spillatrice, vero, Katniss? – mi chiede Finnick. Al mio cenno affermativo, mi fa un cenno con la testa di seguirlo. – Andiamo a prendere dell’acqua.
- Posso venire io al posto suo – propone Peeta.
- No, vado con lui – dico, rialzandomi. Devo tenermi all’albero con una mano e con l’altra sostenere la pancia. – Non riesco a stare seduta, mi fa male la schiena. Camminare un po' mi farà bene.
- Tranquillo, Peeta, te la tratto bene. Non è il mio tipo, ora come ora.
- Cosa vorresti dire?
- Che sei la persona meno sexy dell’intero pianeta, mammina! – risponde Johanna al posto suo.
- Piantatela!

 

Ci allontaniamo dal resto del gruppo, e dalla spiaggia, per inoltrarci nella vegetazione alla ricerca di un albero che faccia al caso nostro. Mentre ci allontaniamo, sento Johanna che chiede a Peeta di disegnare un’altra mappa dell’arena.
È la prima volta che resto da sola con Finnick da quando è iniziato tutto questo teatrino; la prima volta dal giorno in cui ci siamo incontrati, poco prima dell’inizio della sfilata dei tributi. Quanti giorni sono passati da allora, cinque? Sei? Tenere il conto del tempo che scorre sembra quasi inutile, arrivati a questo punto. Ci può essere utile solo per capire le minacce che ci riserva l’arena, per ogni sezione che dovremo attraversare.
Come adesso: non sappiamo di preciso quali insidie sono nascoste dietro a quella foglia, se c’è uno scorpione velenoso o un bruco innocuo, ma per ora nulla disturba il cammino mio e del mio compagno ed è una piccola, magra consolazione. Finché non lo sappiamo, siamo al sicuro.
Ci fermiamo quando Finnick sembra aver individuato l’albero adatto; si inginocchia davanti ad esso e comincia a scavare un buco nella corteccia col suo coltello. Io gli resto vicina, quel che basta per osservarlo e per guardarmi intorno, in attesa di qualsiasi eventuale minaccia decisa ad attaccarci. Ho l’arco carico, pronto per qualsiasi evenienza, e Finnick ha il suo tridente.
- Quando hai scoperto di essere incinta? – domanda ad un tratto Finnick; ha gli occhi fissi sul suo lavoro, ma ha tutta la sua attenzione puntata su di me. – Prima dell’annuncio?

No. Dopo, molto dopo, vorrei rispondergli, ma la realtà non corrisponde in alcun modo con la versione che Peeta ha dato all’intera Panem durante l’intervista. Devo mentire un altro po'. – Più o meno. Il matrimonio non era ancora stato annullato.
- Ma l’avete fatto lo stesso. Sposarvi, intendo – si volta, osservandomi.
Annuisco.
– Perché?
Rido, a bocca chiusa. Non poteva fare una domanda più privata di questa. – Non volevo dar loro la soddisfazione di toglierci anche l’opportunità di poter morire come marito e moglie.

Loro. Chi sono “loro”? I più non credo che afferreranno alla svelta ciò che voglio dire… ma Finnick sembra capire al volo.
- Wow – mormora. – Non avrei saputo dirlo meglio. Mi passi la spillatrice? – lo faccio, e mentre Finnick finisce di armeggiare aggiunge: - Mi dispiace che la vostra vita insieme sia stata bella per così poco.
È un tipo a posto, Finnick, tutto sommato. Quando smette di sfoggiare l’aria da furbone e di lanciare battutine a destra e a manca, sembra quasi quel tipo di persona che ti piacerebbe avere come amico. Qui, purtroppo, non ho l’opportunità di considerarlo tale fino in fondo. Adesso siamo alleati e abbiamo uno scopo comune, ma quando arriverà il momento, quando saremo rimasti in pochi, sono sicura che non esiterà un secondo nell’uccidermi col suo tridente. Così come io non esiterò nel lanciargli una freccia dritta al cuore.

Non saremo alleati per sempre.
L’acqua inizia a sgorgare grazie alla spillatrice, così aiuto Finnick a riempire le ciotole che ci siamo portati dietro. Sono a metà della mia quando l’urlo raggiunge le mie orecchie, facendomi perdere il controllo della presa. Acqua e ciotola cadono a terra.
- Cosa è stato? – chiede Finnick. – Stava… chiamando il tuo nome?
Alzo la testa, spaventata. No, non solo spaventata: terrorizzata. Le mie orecchie mi stanno giocando un brutto scherzo? Non solo le mie, ma anche quelle di Finnick?
- KATNISS! – l’urlo torna ancora una volta, e si ripete. Non sono le mie orecchie: è lei. È proprio lei.
- Prim! – soffio, muovendomi a rallentatore. – PRIM! – urlo, cominciando a correre in direzione del punto da cui proviene la voce di mia sorella. – Prim! – urlo di nuovo. In risposta, ricevo un nuovo grido.
- Aiutami! Katniss, aiutami!
- Katniss! FERMATI! – mi richiama Finnick, ma io sono già lontana.

Come hanno fatto a portarla qui?, penso. Perché l’hanno portata qui?, mi domando, mentre corro all’impazzata in mezzo alla vegetazione. Un ramo, un viticcio, qualcosa mi sferza il viso con forza quando passo, ma io continuo a correre, incurante di dove metto i piedi e di ciò che potrebbe farmi male se continuo ad urlare il suo nome nel modo in cui lo sto urlando. Non mi importa se qualcuno può aggredirmi: mi importa che qualcuno possa aggredire lei. Prim. La mia sorellina… non devono farle del male. Morirei, se le facessero del male.
- Prim! – la chiamo, ancora e ancora, ma più avanzo nella giungla e più non trovo tracce di lei. Non trovo niente, assolutamente niente. Mi fermo, ascoltando la sua voce sofferente. – Prim – mormoro, angosciata, guardandomi attorno. Sento un altro urlo, e stavolta è vicinissimo, più intenso. È sopra di me.

Sopra di me?
Alzo la testa, guardando verso il punto in cui dovrebbe esserci Prim, ma lei non c’è. Al suo posto, appollaiato su un ramo, c’è un uccellino nero col becco spalancato. Non l’ho mai visto prima d’ora ma lo riconosco all’istante. Quale altro animale è capace di riprodurre nel più minimo dettaglio la voce di qualcun altro? La voce di un essere umano, soprattutto.
Solo una ghiandaia chiacchierona ne è capace.
Lancio una freccia e l’uccellino tace, cadendo a terra. La voce di Prim tace. Ho i brividi, nonostante il caldo. Mi allontano dalla piccola carcassa, stringendo le braccia contro il corpo per la paura che provo. Mi allontano come se la chiacchierona potesse rialzarsi, spiegare di nuovo le ali e rimettersi ad urlare come Prim.
Voglio andarmene da questo posto.
- Katniss! – Finnick sbuca fuori all’improvviso dalle foglie, fermandosi accanto a me bruscamente. – Sei velocissima, per essere una che è quasi annegata! Che succede?
- Non era… non era niente – singhiozzo. Sono così scossa da aver iniziato a singhiozzare. – Era una ghiandaia chiacchierona. Non era mia sorella. Finnick-
- Finnick!
Un altro urlo, diverso da quello che mi ha portata fino a qui, riempie l’aria. Ci circonda. Il corpo di Finnick scatta, irrigidendosi, e il suo volto muta davanti ai miei occhi. – Annie! – grida, mentre l’urlo della donna risuona sopra le nostre teste.
- No! Finnick, non è Annie! È una ghiandaia chiacchierona! – afferro il suo braccio prima che possa mettersi a rincorrere quegli stupidi uccelli come ho fatto io. – Annie non è qui!
Ma non mi ascolta. Finnick si libera della mia presa con uno spintone che quasi mi fa perdere l’equilibrio e parte, correndo dietro all’uccellino che si spaccia per Annie. Sono costretta a corrergli dietro, anche se tutto ciò che vorrei è tornare dagli altri sulla spiaggia. Ma non posso lasciarlo solo, a rincorrere urla fasulle. Lui non l’ha fatto con me, è venuto a cercarmi. Devo aiutarlo a superare questa nuova ed orribile prova.
Trovo Finnick che gira su sé stesso, urlando il nome di Annie a tutto spiano, in mezzo a una radura. Non sembra capire che la fonte delle urla è un piccolo e odioso ammasso di piume. Mi guardo intorno, in fretta, come ho fatto poco fa e come ho fatto innumerevoli volte nel corso degli anni. Come faccio sempre quando caccio, quando cerco la mia preda. Vedo una chiacchierona appollaiata a non molta distanza da dove si trova Finnick e la abbatto con una freccia. L’animale cade, morto, e con le sue urla cessano anche quelle di Finnick. Osserva il corpicino piumato come se non credesse ai suoi occhi.
- Finnick, ce ne dobbiamo andare da qui – mormoro, avvicinandomi a lui. Gli prendo la mano libera dal tridente e lui sobbalza, ma non mi manda via come ha fatto prima. Lo tiro verso di me per incitarlo a muoversi. – Potrebbero essercene delle altre. Dobbiamo tornare alla spiaggia-
- Katniss! – questo è Gale.
- No! – premo le mani sulle orecchie, stringendo le palpebre. Non Gale.
- Andiamo! – Finnick sembra essersi ripreso abbastanza da circondarmi i fianchi con un braccio per incitarmi a correre via.
Le urla adesso sono più insistenti, e più forti. Risuonano nei miei timpani come i rintocchi che si sentono quando arrivano le dodici, qui nell’arena. Sono urla strazianti, sono le urla che uno produce quando viene torturato. Quando sta per essere ucciso. Gale, la mamma, Prim. Perché li stanno torturando? Perché? La colpa è mia se gli stanno facendo del male! Perché non colpiscono direttamente me, invece che loro? Sono io la fonte delle loro sofferenze?
Sono la sola ed unica fonte delle loro sofferenze?
- Katniss!
Cado in ginocchio quando nella mia testa iniziano a risuonare anche le urla di Peeta. Peeta! Non anche lui…
- Katniss! Alzati! – Finnick lo sento a stento, che mi rimette in piedi e mi fa correre di nuovo. In quel momento, un’ondata nera sorvola le nostre teste, seguite da un’ondata di voci diverse, e tutte sofferenti. Non riesco a distinguerle, ma mi fanno soffrire lo stesso. Hanno lo stesso, identico effetto. Potrebbero essere le urla di chiunque, anche di uno sconosciuto, ma mi farebbero male lo stesso. Il mio cuore scoppia di dolore. Singhiozzo, a corto di fiato, mentre cerco di fuggire da tutte queste urla.
Seguo Finnick che con uno scatto finale cerca di raggiungere il limitare degli alberi, dove si sono riuniti Beetee, Johanna e Peeta ad osservarci arrivare. Ci osservano e basta, non avanzano. Hanno paura delle urla? Finnick impatta di faccia contro qualcosa e cade a terra come un peso morto. Corro verso Peeta, che ha le mani sollevate, e le mie braccia, tese per aggrapparmi alle sue spalle, urtano contro un vetro. Le mani mi fanno male mentre lo colpisco, mentre cerco di toccare le sue mani che sono oltre il vetro, e grido per sovrastare le urla delle chiacchierone che, adesso, stanno usando proprio la voce di Peeta per farmi del male.
La sua bocca si muove, ma non riesco a sentire nulla di ciò che dice. Sta bene, riesco a vedere con i miei stessi occhi che sta bene, ma è come se non lo fosse, perché l’urlo che sento nelle orecchie sembra provenire proprio dalle sue labbra.
- Ti prego, Katniss! – strilla la chiacchierona che si spaccia per Peeta.
- Peeta! PEETA! – urlo io, graffiando il vetro. Ma non succede nulla.
Il vetro non si sposta. E capisco che non si sposterà finché l’ora dedicata alle ghiandaie chiacchierone non sarà passata. Finché le urla che circondano me e Finnick non ci avranno fatto perdere del tutto il senno.
Scivolo contro il vetro, in preda al pianto. Riesco appena a vedere Peeta, al di là del vetro, che si accascia come ho appena fatto io. Urlo, cerco di sfogare il terrore in qualche modo e a nulla serve, perché ciò che elimino urlando lo recupero con l’udito.
Smetto di urlare, mi rannicchio in posizione fetale, e mi sforzo di non sentire.

 

Sono ancora in posizione fetale quando l’ora finisce. Le urla non ci sono più, ma potrebbe essere comunque una trappola: le urla potrebbero essere cessate solo perché sono riuscita a distruggermi i timpani con le mie stesse mani. E invece è davvero tutto finito, e lo capisco perché stavolta la voce di Peeta non sta urlando. Non sta soffrendo. È dolce, è delicata, è la sua voce di sempre. E la sento distintamente, nonostante le mie mani siano ancora ferme sulle orecchie, a coprirle. Sono sicura che sia lui anche se non lo vedo, perché ho gli occhi chiusi, strizzati per evitare le orribili immagini che potrebbero coprire il mio campo visivo se li aprissi.
- È finita, tesoro. È tutto finito – lo sento dire. Sento le sue mani che provano a prendere le mie, ma la mia stretta è troppo forte e non ci riesce. – Non c’è più nulla, Kat.
Già, non c’è più nulla. Non ci sono più nemmeno io.
Le sue braccia scivolano sotto il mio corpo e con tutta la delicatezza di cui è capace mi solleva, mi prende in braccio. Mi fa posare la testa sul suo torace e le sue labbra sono subito sulla mia fronte per confortarmi. Nonostante senta il suo calore e riconosca il suo tocco, non riesco, non voglio abbandonare la sorta di rifugio sicuro che mi sono costruita in quest’ultima ora. Non voglio abbandonare il rifugio sicuro, non voglio aprire gli occhi per scoprire che è tutto parte di una bugia.
Non sento più nulla sotto il corpo, a parte un braccio di Peeta sulla schiena e l’altro sotto le gambe. Mi sostiene mentre cammina, mentre si allontana dal punto in cui sono stata rannicchiata per un’ora intera. Grazie all’acqua fredda in cui mi ritrovo immersa, capisco il luogo in cui mi ha portata. Sono sulla spiaggia, sulla riva del mare che circonda la cornucopia. Peeta ha immerso me dopo essersi immerso a sua volta. Mi tiene ancora stretta e non sembra volermi lasciare, a meno che non sia prima trascorso parecchio tempo.
Socchiudo gli occhi e la prima cosa che vedo è il suo torace, coperto dalla tuta blu. Il suo torace è una cosa buona, è una visione che mi tranquillizza. È il torace di Peeta, non è quello di un’orrenda creatura pronta a farmi fuori. Vedere il corpo di Peeta è ciò che mi serviva per lasciare il mio guscio. Tolgo le mani dalle orecchie e mi stringo a lui, passando un braccio attorno al suo collo e l’altro davanti a me, in modo da riuscire a posare la mano sul suo cuore. Ecco, lo sento di nuovo. Batte forte contro la mia mano.
Peeta raccoglie un po' d’acqua con la mano e me la passa delicatamente sul viso. Ripete il gesto più di una volta, rinfrescando le mie guance surriscaldate. Alcune gocce finiscono sulle mie labbra, che cominciano a bruciare a causa del sale. Devo essermele morse a sangue. Non ricordo di averlo fatto. Non ricordo di aver fatto nient’altro che tremare, lì dentro. Tremare, strillare, cercare di isolarmi dalle ghiandaie chiacchierone che cercavano di rubarmi anche l’ultima briciola di ragione che avevo in corpo. Mi rendo conto di aver ricominciato a tremare anche ora, perché Peeta sta cercando di scaldarmi sfregando i palmi delle mani su di me.
- Non è reale. Non c’era nulla di reale – sussurra.
- Non li hai sentiti, Peeta. Gli stavano facendo del male. Li hanno uccisi – la voce mi muore in gola.
- No, tesoro, no. Non lo possono fare. Non possono ucciderli. Non hanno alcun motivo di farlo – mi consola.

Sì che ce l’hanno, invece.
- Ti ho sentito, lì dentro… stavi male… - biascico, coprendomi gli occhi con le mani. Le stringo a pugno e quasi graffio le palpebre, e se non lo faccio è solo perché ho le unghie troppo corte per ferirmi davvero.
- Ma io sto bene! Sono qui, lo puoi vedere tu stessa che sto bene. Non mi hanno fatto del male.
- Ti stavano uccidendo ed io non ho potuto fare nulla per salvarti… - singhiozzo, chinandomi su me stessa. Peeta mi impedisce di farlo, però.
- Guardami. Amore, guardami – mi costringe a togliere le mani da davanti al viso e, afferratolo in una presa salda, lo tiene fermo. Nell’aprire gli occhi trovo i suoi a pochissimi centimetri di distanza dai miei, intenti a fissarmi. – Non mi hanno fatto del male. Non mi hanno ucciso.
- Ma-
- No. Ascolta – porta una mia mano sul petto, all’altezza del cuore, dove io stessa l’avevo poggiata nemmeno due minuti fa. Quante volte abbiamo ripetuto a vicenda questo gesto? – Cosa senti?
- Il tuo cuore… - mormoro.
È la stessa medicina che diedi a lui, mesi fa, quando mi raccontò la reale portata dei suoi incubi. Era talmente pietrificato dal dolore che non riuscii a fare altro che questo: fargli sentire il battito del mio cuore. Il mio cuore vivo che discordava con le immagini di morte partorite dalla sua mente, dai suoi sogni. Un cuore vivo per scongiurare la paura della morte. E adesso Peeta lo sta facendo per me. Il suo battito è così forte che non può essere, in alcun modo, messo in discussione.
- E cosa può voler dire? – aggiunge.
- Che sei vivo.
- Sono vivo, esatto. Ogni volta che hai paura per me, ascolta il mio cuore. Lui ti dirà che non devi averne affatto.

E se non dovessi sentirlo più? Cosa accadrebbe, nel caso contrario?
Poso la testa nell’incavo del suo collo, schermando la mia mente da questa eventualità. Non accadrà, se posso impedirlo. Sono ancora in tempo per impedire la morte di Peeta. Le mie labbra sfiorano la sua pelle, salata a causa dell’acqua o del sudore che non ha mai smesso di ricoprirci da quando ci troviamo qui dentro. Premo la punta delle dita sul suo petto, come se volessi imprimere il mio segno sulla sua pelle. Sul suo cuore.
- Ti amo – è appena un soffio, il mio, ma lui può sentirlo.
- Ti amo – ripete Peeta.
Tutto il resto viene messo a tacere.

 

 

 

 

________________________

Non so voi, ma io ho sempre trovato orribile questo settore dell’arena. Quale mente perversa può voler vedere una persona che si riduce in pezzi a causa delle urla emesse dalle ghiandaie chiacchierone? (no, la mente perversa in questione non è la mia! Vi vedo che mi puntate le dita contro u_u) trovo questo tipo di violenza psicologica peggiore di quella fisica.
Ed anche questo capitolo è andato! Vi prometto che il prossimo sarà più tranquillo, così facciamo riposare questa povera disgraziata ragazza che si è già chiesta cos’altro la attende :D

D.

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Capitolo 23
*** 23. ***


In The Still Of The Night - 23

In the still of the night

 

 

 

 

23.

 

Non vengono a disturbarci, o a chiamarci. Restiamo per un tempo indefinito sulla riva, cullati dalla risacca e dalla lieve brezza tiepida. Stare in questo modo tra le braccia di Peeta mi riporta indietro, a giorni più tranquilli e spensierati di questo: giorni in cui la nostra sola e unica preoccupazione era ritagliarci minuti preziosi da trascorrere insieme, senza farsi beccare dagli occhi indiscreti dei ficcanaso. Sebbene in quei giorni l’ansia per ciò che accadeva negli altri distretti rovinasse l’atmosfera, non era pesante e gravosa come ora. All’epoca era ancora possibile vedere una piccola, flebile luce in fondo al tunnel. All’epoca… come se stessi parlando di qualcosa accaduto anni fa, ed invece si tratta solo di pochi mesi o poche settimane. Come cambiano velocemente le prospettive.
Come cambia velocemente la vita.
In qualche modo mi addormento. Lo stress causato dalla voce delle ghiandaie chiacchierone e la caduta in acqua, sommate all’enorme potere che ha Peeta di infondermi calma, sono una combo micidiale per il mio fisico, e anche per il mio subconscio. Non ho incubi, e quando Finnick viene a svegliarmi per avvertirmi della cena, scopro di essere sdraiata sulla spiaggia e riesco, con sorpresa, a vedere che mi sento bene. Unica nota stonata: il mal di schiena. Non ho mai sofferto così tanto il mal di schiena come in questi ultimi due giorni. Rimpiango amaramente la morbidezza dei materassi e di qualsiasi altra superficie confortevole che non siano sabbia o muschio.
Per cena mangiamo altri frutti di mare, pesci e il pane che il Distretto 3 ha mandato a Beetee con l’ultimo paracadute. Ha ricevuto ventiquattro piccoli panini: tantissimi, se consideriamo che è l’unico tributo del 3 rimasto vivo, ma necessari se pensiamo che ha voluto dividerli con il resto di noi. Prendiamo tre panini a testa, tenendo gli altri come premio per chi di noi cinque sopravvivrà fino alla colazione, come propone Johanna. La sua è un’affermazione così sincera e veritiera che mi fa ridere. Lei, in tutta risposta, strizza un occhio nella mia direzione.
Il cielo si è tinto ormai di un’arancione tendente al viola quando risuona l’inno e le immagini dei caduti coprono la luna, appena sorta. I volti di Wiress e Mags, tra gli altri, riempiono il cielo. Otto morti, come ieri. Sedici morti in nemmeno due giorni completi dall’inizio dei giochi. Dev’essere una specie di record.
Siamo rimasti in otto, di conseguenza: noi cinque, Brutus ed Enobaria del 2, e Chaff dell’11. Se continuiamo di questo passo l’Edizione della Memoria terminerà in neanche una settimana. No, una settimana sarebbe troppo, andrebbe oltre ogni aspettativa. Terminerà prima: tra due, o al massimo tre giorni.
Chi sarà il vincitore?
Fa male pensare ai miei compagni di avventura, a parte Peeta, come a dei nemici. E da una parte desidero che nessuno di loro muoia. Neanche Johanna, che sotto la scorza da dura sembra essere una ragazza normale; un po' pazza, ma normale. E poi, chi non è un pazzo nel mondo in cui viviamo? Bisogna essere dei pazzi per riuscire a sopravviverci.
Se devo mettere le mani avanti, però, preferisco che sia Peeta a tornare a casa nelle vesti di campione. Anche se non lo potrò vedere più, perché significa che sarò morta molto prima che questo possa accadere.
Le tenebre avanzano, inesorabili, e c’è solo la luna ad illuminare i nostri volti ed il paesaggio che ci circonda. Persino le stelle sembrano diverse, stasera. Le stelle, però, sono sempre diverse nell’arena: non sono reali ma si tratta solo di una loro proiezione. È un’illusione, quasi. Arriva l’onda delle dieci e, come è accaduto stamattina, si abbatte sulla cornucopia prima che l’acqua vada a disperdersi nel mare e sulla spiaggia. Appena possiamo ci spostiamo per accamparci in quella sezione, sicuri che prima di altre dodici ore non ci saranno nuovi pericoli ad attenderci. Avere di nuovo il senso dell’orientamento è gratificante: se sai dove andare, non corri alcun pericolo. A parte gli eventuali attacchi dei due Favoriti.
Per evitarli, ci organizziamo con altri turni di guardia. Mi offro come volontaria per coprire il primo di questi, dato che ho dormito più degli altri. Peeta è contrario per via della prospettiva che mi ritroverei da sola, a proteggerli, e si tranquillizza solo quando acconsento a stargli accanto mentre dorme. Seduta a gambe incrociate, li vedo sprofondare uno ad uno nel sonno. Un sonno tranquillo per alcuni, come Johanna, e un sonno disturbato per altri, come Finnick, che gira la testa più e più volte, come se non trovasse pace neanche nel riposo.
Peeta è voltato verso di me, la faccia premuta contro il braccio e la bocca socchiusa. Non si muove quando gli scosto alcune ciocche di capelli dalla fronte sudata. Fa caldo, davvero troppo caldo. Per fortuna abbiamo la spillatrice per prendere l’acqua, per quanto calda, ma è pur sempre meglio di niente. Come hanno fatto gli altri a sopravvivere senza acqua fino ad ora? C’è solo la pioggia nel settore dalle dodici all’una che poteva contribuire a fornirla, ma grazie ai nostri alleati abbiamo scoperto che è imbevibile. Chi vorrebbe bere del sangue? Non ci sono vampiri, qui dentro… forse solo i pipistrelli potrebbero azzardarsi a farlo.
I pipistrelli bevono anche quel tipo di sangue?
È mezzanotte. È l’ora dei fulmini. Il primo si abbatte con uno schianto sull’albero alto, che adesso posso di nuovo distinguere rispetto a tutti gli altri, e illumina il cielo di un bianco accecante e spettrale. Un tuono rimbomba nell’aria, e Finnick si sveglia con un grido.
- È solo il fulmine – dico, a bassa voce. La voce che userei se parlassi ad un bambino spaventato. – Torna a dormire, Finnick.
- No, non ho più sonno – dice, sedendosi. La sua faccia dice tutto il contrario rispetto alle sue parole: è ovvio che sta mentendo. Non riesce più a dormire. Chissà quali incubi hanno infestato il suo cervello.
- Ti do il cambio – aggiunge.
- Non serve, sto bene. Vado un attimo a rifrescarmi – mi trascino per un momento nella sabbia prima di mettermi in piedi, piantando l’arco per terra. Questa schiena mi ucciderà.
Katniss Everdeen, morta per il troppo mal di schiena. Altro che colpo di sole.
L’acqua fredda è una goduria sulla mia pelle accaldata. Rinfresco il viso ed il collo, prima di cedere come ho fatto anche ieri. Mi sfilo di nuovo la tuta, abbassandola fino alla vita, e rimango a sentire l’effetto che l’acqua del mare infonde sul mio corpo. È piacevole, maledettamente piacevole. Non sono una creatura del mare, quello è Finnick: la personificazione del sirenetto, quello narrato nelle leggende, fatto uomo. Ma se la sensazione che si prova è questa, potrei anche farci un pensierino e desiderare di vivere per sempre dentro l’acqua.
Sto quasi per spogliarmi del tutto quando i passi ovattati di Finnick mi annunciano il suo arrivo. Resisto, anche se la tentazione di ignorarlo è forte. Ma non vorrei che si montasse la testa, e pensasse che sto facendo uno spogliarello in suo onore…
Voglio dire, stiamo pur sempre parlando di Finnick Odair. Il pavone di Capitol City.
- Fossi in te non ci penserei più di tanto e mi butterei – dice, sedendosi sulla sabbia.
- Lo stavo per fare – ribatto in fretta. Ecco, ora non mi posso più tirare indietro. Meno male che è buio, e non può vedere la mia faccia bruciare dalla vergogna.
È una strana sensazione spogliarsi davanti ad un uomo che non sia Peeta, o Cinna. Cinna conosce ogni centimetro del mio corpo a menadito per via dei vestiti che ha creato per me in questo ultimo anno, e Peeta… beh, per altre ragioni. Ovvie ragioni. Peeta è anche l’unica persona che ha visto il mio corpo cambiare. Ha visto la pancia gonfiarsi, settimana dopo settimana, ha visto i miei fianchi modificarsi per dare a questa nuova vita lo spazio che le serviva per crescere, per svilupparsi a dovere. Ha visto il modo in cui la bambina manifesta la sua presenza, tirando calci e creando piccoli avvallamenti sulla pelle.
Sembra quasi un affronto mostrare ad un altro uomo ciò che solo lui ha visto fino ad ora, ma Finnick non è davvero interessato al mio corpo: non mi guarda. Ha gli occhi puntati sulla giungla, quella che i nostri compagni addormentati hanno alle spalle. Mi ignora completamente.
In canottiera e mutandine, scivolo nell’acqua e faccio una piccola nuotata, ma resto il più vicina possibile alla riva, non vado lontano. Tocco con le dita il fondale, quindi non posso proprio definire “nuotare” ciò che sto facendo: sto solamente camminando sulle mani.
Raggiungo il mio silenzioso compagno di guardia dopo qualche minuto, sedendomi sulla mia tuta e sgocciolandoci sopra. Sciolgo la treccia e pettino i capelli bagnati con le mani mentre lo guardo. Non ha parlato molto stasera, non sembra nemmeno il vero Finnick. Non ha fatto battutine da quando… dalle chiacchierone.
Non posso saperlo con certezza perché sono stata sempre con Peeta, fino a quando non ho preso sonno, ma molto probabilmente deve essere così. Finnick è uscito scosso quanto me dal settore della giungla infestata da quegli orribili uccellini. Ha sentito ciò che ho sentito io, ha provato la mia stessa paura e la mia stessa impotenza. Ha sentito Annie urlare, e chissà chi altri. Stiamo soffrendo entrambi, qui dentro, a causa di quelle urla.
- Chi è Annie? – gli chiedo.
Finnick si volta, abbandonando la giungla. Gli occhi verde mare sembrano due fari nella notte. – Annie? È la ragazza per cui Mags si è offerta volontaria alla mietitura.
Un’immagine invade in un lampo il mio campo visivo: una ragazza giovanissima dai capelli castani, in preda al panico, che urla in preda all’isteria quando viene estratto il suo nome. Annie Cresta. Deve essere per forza lei. Deve aver vinto pochissimi anni fa.
- È la tua…
- Fidanzata – conclude Finnick per me.

Come gioca sporco la sorte, penso. Se non fosse stato per Mags, che ha preso il suo posto, adesso nell’arena ci sarebbe Annie. Ci sarebbero due coppie di innamorati che tentano disperatamente di proteggersi a vicenda: io e Peeta, Finnick e Annie. I nostri pensieri sarebbero stati identici, delle copie fatte con la carta carbone, che differiscono di poco in base a chi ha formulato il messaggio: la ragazza vive, il ragazzo muore. Il ragazzo vive, la ragazza muore.
Sono quasi invidiosa di Annie, però. Lei almeno ha avuto qualcuno che l’ha salvata dallo sfidare la sorte per la seconda volta. Io non ho avuto nessuno. Sono stata costretta ad entrare nell’arena, e ho dovuto portare con me la mia bambina non ancora venuta al mondo.
- Mi dispiace, Finnick – dico.
- Perché ti dispiace? – è sincero, nel chiedermelo.
- Lo sai il perché.
Potrebbe morire senza avere l’occasione di rincontrarla. Potrebbe morire senza avere l’opportunità di baciarla, di dirle “Ti amo” un’ultima volta. Io potrò farlo, quando arriverà quel momento, ma Finnick non può. È… ingiusto.
- Non devi essere dispiaciuta, Katniss. Annie vivrà, è questo l’importante. A me dispiace più per voi.
Il mio silenzio lo sprona a proseguire il discorso.
- Sono sicuro che se oltre a te ci fosse stata un’altra vincitrice, non avrebbe lasciato che ti trascinassero qui nelle tue condizioni. Si sarebbe offerta volontaria, come Mags ha fatto per Annie – dice, con un sorriso mesto sulle labbra. – Se ci fosse stato il modo, un unico modo, per salvarti alla mietitura, sono sicuro che tu non saresti qui a parlare con me in questo momento. Saresti a casa tua, a guardare me che mi dispero per Annie. E Peeta avrebbe fatto carte false per salvare la tua vita.
- Lo ha fatto – dico in fretta. E al diavolo i segreti, i sotterfugi. Da questo momento in avanti dirò tutto ciò che mi va di dire. Che mi uccidano, se non vogliono che gli altarini vengano svelati. – Ci abbiamo provato entrambi, ma non è servito a niente. E Peeta sta ancora provando a salvare la mia vita.
- E tu stai provando a salvare la sua.
- È così ovvio?
Inarca un sopracciglio. Sì, è abbastanza ovvio. – Se al tuo posto ci fosse Annie, incinta del mio bambino, non mi tirerei indietro per nulla al mondo. Farei di tutto per riportarli a casa sani e salvi.
- A costo della tua stessa vita?
Finnick annuisce.
Morire per lasciar vivere chi si ama di più al mondo. Morire, senza avere la possibilità di sapere fino in fondo se il tuo sacrificio sia servito allo scopo, o se è stato vano. Morire, senza avere nessuna certezza su cui contare. Senza poter vedere tua figlia nascere, venire al mondo, vivere. Lasciando lei orfana, e tua moglie vedova. Lasciandole sole, perché senza di te sono incomplete.
È così che mi sentirei se Peeta morisse. E che vita sarebbe senza di lui? Una non vita, una sopravvivenza forzata.
Tiro su col naso, asciugando una lacrima. Altre la seguono, rapide ed inarrestabili. Finnick osserva il manifestarsi del mio dolore senza dire una parola. Mi fa sentire la sua vicinanza prendendo una delle mie mani, stringendola, posandoci sopra un bacio che è appena una carezza di labbra.
Un sospiro mi sfugge dalle labbra non appena sento la bambina muoversi: non è forte come i calci che mi ha già dato in precedenza, ma è abbastanza da farmi capire che si è svegliata. Sorrido, posando la mano sopra all’ombelico. Stai bene, penso. Muoviti ancora, fammi sentire che stai bene. E come se avesse sentito i miei pensieri, la bimba lo fa. Stavolta rido. – Ciao…
- Si sta muovendo? – chiede Finnick, avvicinandosi di più. Annuisco solo con la testa, senza aggiungere altro. – Posso? – chiede ancora, sollevando una mano.
Annuisco di nuovo. La sua mano, leggera, tocca la pancia coperta solo dalla canottiera, ancora umida dal bagno di mezzanotte che mi sono concessa. Nessuno, prima di lui, mi ha mai chiesto il permesso di toccarla. Non è qualcosa che si fa normalmente, e se non fosse per Finnick non permetterei a nessun’altro di farlo. Non conto Caesar nella lista, perché ciò che è accaduto durante l’intervista faceva solamente parte di un piano per scatenare la bufera. Questo no. Finnick è mio alleato, mi ha salvato la vita prima del bagno di sangue. Si è confidato con me, mi ha aperto il suo cuore ed io l’ho fatto a mia volta… e toccare il mio pancione sembra piacergli. È affascinato. Con una carezza sposta la mano verso il basso, seguendo il movimento che proviene dalla mia pancia. Riesco appena a cogliere ciò che dice in un sussurro: qualcosa che suona come un “Che meraviglia”.
- Che strano giochetto erotico andate facendo, voi due? – una Johanna abbastanza stranita ci si avvicina, brandendo la sua ascia.
- Vieni, Jo. Vieni a sentire.
- Quella cosa? No, grazie.
- E dai, Johanna! Ti do il permesso – scherzo, facendole cenno di avvicinarsi con la mano.
Per niente convinta dalle mie parole, Johanna getta l’ascia sulla sabbia dopo averci raggiunto e posa la mano accanto a quella di Finnick. – Io non sento niente.
- Aspetta un attimo… eccola! – Finnick ride quando Johanna ritrae la mano, come scottata da ciò che ha appena sentito.
- Ma non ti fa male?
- No. È solo un po’ strano – dico, facendo ridere di nuovo Finnick.
- Tu sei strana, fattelo dire. E vai dal tuo fidanzatino, ti do il cambio. Così io e il bello di casa possiamo sparlare alle tue spalle.
- Gentile da parte tua – ribatto, calciandole un po' di sabbia addosso.
Finnick mi augura la buonanotte e, mentre mi allontano, lo sento mentre comincia a punzecchiare Johanna. Un rumore di acqua smossa e un verso strozzato raggiunge le mie orecchie mentre indosso di nuovo la tuta. Johanna deve aver mandato Finnick in acqua, evidentemente.
Raggiungo Peeta, ancora addormentato, e mi raggomitolo contro di lui sdraiandomi sul fianco. Peeta apre gli occhi quando lo faccio; il suo braccio mi circonda subito le spalle mentre stende l’altro e lo infila sotto la mia testa, a mo’ di cuscino. Le sue labbra si posano sui miei capelli bagnati, al di sopra della fronte.
- Hai fatto il bagno? – mugugna.
- Avevo caldo – mormoro, accarezzando la sua mano. La prendo e la sposto più in basso, dove la bimba si muove ancora. Adesso è di nuovo arrivato il turno di Peeta di godere della magia di questo momento. Infatti, come se improvvisamente non avesse più sonno, comincia a premere appena sulla pancia per sentirla meglio.
- Sta bene, a quanto pare – c’è una sfumatura di allegria e contentezza, nella sua voce. E anche sul suo viso, dove è spuntato un piccolo sorriso.
Sì, sta bene. Sembra stare più bene di me. Spero solo che possa continuare un altro po'… chiudo gli occhi, e mentre cerco di prendere sonno rimango a sentire i movimenti provocati da lei, e quelli di Peeta che mi carezza la pancia.
Sta bene.

Stiamo bene tutti e tre.

 

Il mattino dopo, al risveglio, troviamo altre due dozzine di panini da parte del Distretto 3. Altri ventiquattro panini che si aggiungono a quelli avanzati dalla sera prima. Li dividiamo tra di noi, in silenzio, e facciamo colazione.
Mentre mangiamo, Beetee ci informa su un piano che ha pensato durante la notte: un piano che riguarda il fulmine delle dodici ed il suo filo metallico. Vuole creare una sorta di trappola elettrica per Brutus ed Enobaria.
- Quel che vi propongo è di agire stanotte, tra l’onda delle dieci ed il fulmine di mezzanotte. Colleghiamo il filo all’albero dei fulmini e lo srotoliamo fino alla spiaggia, fin dentro l’acqua; e quando il fulmine colpisce l’albero, il filo farà da conduttore e trasporterà l’energia per tutta la spiaggia. Diventerà una trappola mortale per chiunque si trovi lì, o nelle immediate vicinanze – ci spiega Beetee, soffermandosi a turno sui nostri visi. Non smette un attimo di accarezzare l’estremità del filo dorato con la punta delle dita, mentre parla.
- Come facciamo ad essere sicuri che i Favoriti ci caschino? Li adeschiamo? – chiedo io.
- Non è un problema, Katniss. Quelli ci tengono d’occhio – dice Finnick.
- Non hanno nient’altro da fare che aspettare il momento giusto per attaccare – aggiunge Peeta. – O noi o Chaff: siamo le loro uniche preoccupazioni.
- Ma siamo sicuri che il piano funzionerà? – chiede Johanna, inarcando le sopracciglia. – Senza offesa, Lampadina, ma quel filo non sembra molto resistente…
- Funzionerà, Johanna, te lo assicuro. L’ho creato io questo filo – ammicca Beetee nella sua direzione. – E ti assicuro che non cederà.
Per un po' restiamo a considerare i pro e i contro del piano. Cosa può andar bene e cosa, invece, può andare storto? Per prima cosa alcuni di noi, se non tutti, potrebbero morire fulminati se non riusciamo a metterci al riparo prima che inizi la tempesta di fulmini, ma Beetee ci ha assicurato che per quel momento saremo già lontani. È molto sicuro del suo piano. Potremo persino incappare in una trappola, se non stiamo attenti… ma i pro sono molto più allettanti dei contro. Se il piano ideato da Beetee funziona, i due Favoriti raggiungeranno il resto dei caduti e rimarremo solo noi cinque, e Chaff, a sfidarci per la vittoria. Sarà una carneficina, una vera e propria lotta all’ultimo sangue se si giunge a questo punto, ma abbiamo davanti una giornata intera prima di poterci preoccupare di questo. Non possiamo preoccuparci delle conseguenze se prima non mettiamo in atto la trappola elettrica.
- Io sono per il piano – dice Peeta.
- Anche io – aggiungo, e il resto della truppa si unisce.
Il resto della giornata trascorre lentamente, tra noi che ci prepariamo affinché il piano di Beetee riesca e che procacciamo cibo e acqua. Mentre Beetee osserva l’albero dei fulmini, immerso negli incomprensibili calcoli che popolano la sua mente, noi ci guardiamo intorno, in attesa di possibili attacchi, e cacciamo un po'. Nonostante il mal di schiena sia diventato più forte, ed il fianco ferito a causa dell’incidente alla cornucopia cominci a farsi sentire, riesco ad abbattere alcuni di quei disgustosi roditori che Finnick aveva preso il primo giorno nell’arena e che al solo vederli mi fanno star male. Peeta raccoglie noci e si prende l’incarico di abbrustolirle contro il campo di forza insieme alla carne dei roditori. Mi tengo a debita distanza mentre lo fa: non voglio replicare la stessa scena di due giorni fa.
Di ritorno alla spiaggia, mangiamo e riposiamo, nell’attesa immobile a cui siamo obbligati prima che arrivino le dieci di sera. Nuotiamo e peschiamo quando anche riposare diventa una tortura insopportabile. In acqua scopro che il mio mal di schiena migliora un poco e trascorro parecchio tempo a mollo, in biancheria intima, per beneficiare di questo sollievo; non posso dire altrettanto per il fianco, che oltre a continuare a far male è corredato anche da un grosso ematoma nero. La canottiera non riesce a coprirlo del tutto e catalizza su di sé lo sguardo preoccupato di Peeta, sebbene io cerchi senza grandi risultati di minimizzare la cosa. Stando così tanto tempo in acqua, le orribili croste che segnano la nostra pelle, regalo della nebbia, cominciano a staccarsi. Io, Peeta e Finnick ce ne liberiamo volentieri, notando come la pelle nuova al di sotto di esse sia rosea e delicata.
- Com’è essere di nuovo carini? – Peeta sfotte Finnick.
- La pace dei sensi – gli risponde, ammiccando con le sopracciglia.
Ad aggiungersi alle nostre scorte di cibo giungono altri ventiquattro panini e una pentola di sugo, a cui aggiungiamo il pesce ed i frutti di mare appena pescati. Come banchetto, in vista del gran piano che ci apprestiamo a mettere in atto, non è per niente male. È un’ottima ultima cena, ad essere pessimisti, ma a Peeta questo non lo dico.
Peeta mi regala una perla che ha trovato nelle ostriche mentre le stava pulendo: è bianca, grande come un pisello, ed il suo peso è appena percepibile quando la posa sul mio palmo teso.
- Per te – dice con un sorriso.
- Grazie – mormoro, baciando il suo sorriso.
Non ho potuto avere con me il mio anello di fidanzamento, qui nell’arena, ma questa perla può rappresentare un buon compromesso. È comunque un suo regalo, un altro dei suoi pegni d’amore.

Potrò stringerla mentre muoio, penso, anche se non è gran che come pensiero. È rassicurante, però, nel pieno del suo pessimismo. Potrò ancora avere con me qualcosa di Peeta che mi accompagnerà nell’oltretomba.

 

 

 

 

_______________________

La settimana scorsa vi avevo promesso un capitolo tranquillo e leggero. Visto? Ho mantenuto la promessa! È così tranquillo e leggero che non accade quasi nulla :)
Ci tenevo davvero tanto, invece, ad inserire un momento di confidenze tra Finnick e Katniss prima di quelli che appaiono più avanti in Mockingjay: questo perché entrambi possono capire ciò che prova l’altro. Finnick nell’arena ha sentito le urla di Annie, Katniss invece quelle di Peeta: hanno condiviso qualcosa insieme che li ha in qualche modo legati, nonostante l’orribile espediente con cui è stato messo in atto.
Poi arriva Johanna e rovina tutto.
E vabbè.
Come sproloquio del lunedì direi che può anche bastare :p ultima nota, giusto per mettere un po’ di pepe: il prossimo capitolo sarà l’ultimo (non della storia!) in cui ci troveremo dentro l’arena. Cosa accadrà? Andrà tutto bene (in pieno stile Conte) o andrà tutto male?
Sono aperte le scommesse.
Vi abbraccio e vi bacio tutti! (ah non si può fare? Eh almeno ci ho provato dai ^^’)

D.

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Capitolo 24
*** 24. ***


In The Still Of The Night - 24

Siamo arrivati esattamente a metà percorso; questo capitolo ed il prossimo faranno da spartiacque tra la prima e la seconda parte della fanfiction :)
Ci leggiamo nelle note di fine capitolo – non saltatele, mi raccomando ;)

 

 

 

In the still of the night

 
 

 

 

 

24.

 

Ho la testa in fiamme. Tutto il mio corpo è in fiamme. Il braccio mi fa male nel punto in cui Johanna ha conficcato il suo coltello. Perdo l’equilibrio e cado in ginocchio, sulle mani. Cerco di rialzarmi, ma un conato di vomito mi assale e sono costretta a fermarmi mentre rigetto la mia ultima cena.
È chiaro, ormai: non sopravviverò oltre questa notte.
Il piano è andato a puttane, letteralmente a puttane. Forse non c’è mai stato un vero piano: è di nuovo tutto chiaro, e avrei dovuto arrivarci prima. Ma ero così cieca, così fiduciosa sulla sincerità di chi mi circondava, da non avergli dato il peso e l’importanza che necessitava davvero. Mi sono fidata di Haymitch e del braccialetto che lui ha consegnato a Finnick: se si era fidato così tanto di lui da convincerlo a diventare mio alleato, allora avrei dovuto farlo anche io.
Ma Finnick non ha mai avuto la seria intenzione di essermi amico.
Tutto procedeva secondo i piani, fino a che Beetee non ha proposto a me e a Johanna di srotolare il filo lungo tutto il settore dell’arena, fino ad arrivare alla spiaggia. Aveva appena finito di preparare l’albero, e l’onda delle dieci si era già abbattuta sull’arena con tutta la sua forza. Mancava sempre meno all’ora decisiva.
- Siete le più agili, a muovervi nella giungla – ha detto.
Peeta si è opposto alla sua decisione, naturalmente. – No, vado io con Johanna. Katniss potrebbe non essere abbastanza veloce.
- Nemmeno tu lo sei, Peeta. E tu mi servi qui per fare la guardia.
- Basta! Il piano è di Beetee, quindi dobbiamo seguire le sue indicazioni senza discutere – la voce seccata di Johanna ha messo a tacere ogni altra lamentela, e ha preso la spoletta di filo dalle mani di Beetee per enfatizzare il messaggio.
Peeta mi ha guardata come se non credesse a ciò che stava succedendo. Neanche io ero felice della nuova svolta: allontanarmi da Peeta significava perderlo di vista. Avrebbe potuto voler dire perderlo, se qualcosa fosse andata storta. Non averlo sotto gli occhi ogni secondo mi rendeva ansiosa. E per lui era la stessa identica cosa. L’ultima volta che ci siamo divisi ho subito l’attacco delle ghiandaie chiacchierone; il settore delle quattro è ancora lontano, però potremmo incappare in qualcosa di altrettanto spiacevole, se non pericoloso.
Ho voluto fidarmi lo stesso, stupidamente aggiungerei. Mi sono fidata del piano. Mi sono fidata dei miei alleati.
- Va bene così, Peeta – ho detto. Mi sono avvicinata a lui e gli ho dato un bacio sulle labbra. Ho sorriso contro di esse, cercando di mostrarmi tranquilla e fiduciosa. Peeta mi ha stretta forte a sé e ha baciato il mio sorriso. Non lo ha ricambiato, però.
- Fa attenzione – ha detto, la voce carica di tensione.
Ci vediamo a mezzanotte – gli ho sussurrato prima di allontanarmi insieme a Johanna.
Lei era agile davvero, mentre procedeva nel buio della giungla srotolando il filo passo dopo passo. Io la seguivo, a passo incerto, e mi guardavo intorno con una freccia già incoccata nell’arco e pronta all’uso. Ero più ansiosa per ciò che lasciavamo all’albero… per chi lasciavamo all’albero. Ma siamo avanzate comunque, guadagnando terreno, mentre i minuti scorrevano. Il tempo scorreva, anche se non sapevamo se in modo lento o veloce.
- Meglio che ci sbrighiamo – ha detto Johanna. – Voglio mettere un bel po' di strada tra me e l’acqua prima che cada il fulmine. Nel caso Lampadina abbia sbagliato qualche calcolo
Ed è stato allora che qualcosa è cambiato. Il filo metallico, che avevo appena preso per dare il cambio a Johanna, è diventato più lento. Non c’era più nulla, dall’altro capo, ad opporre resistenza, e quello che avevamo srotolato fino a quel momento ha cominciato ad ammucchiarsi attorno ai nostri piedi. Non poteva essersi spezzato accidentalmente. Era stato tranciato di netto.
Insieme al filo, giunsero i rumori dei passi che si avvicinavano a noi.
Ho fatto cadere a terra la spoletta e mi sono voltata, la freccia già incoccata e pronta a colpire.
- Scusa – ha detto Johanna alle mie spalle.
La spoletta mi ha colpito alla testa. Sono caduta di peso, colpendo il terreno sotto di me con forza. Ho iniziato a perdere la vista e, forse, anche conoscenza. Deve essere stata una questione di secondi, o istanti, perché Johanna era ancora accanto a me quando ha iniziato ad armeggiare col mio braccio. Un dolore lancinante è andato a sommarsi con quello che già provavo alla testa. Ho provato ad urlare, ma mi sembrava di aver perso anche la voce. Non è uscito nulla dalle mie labbra, a parte un rantolo.
- Zitta! E sta giù! – mi ha sibilato lei, premendo una mano viscida sulla mia bocca.
Si è rialzata e due secondi dopo è già sparita, lasciandomi stesa a terra in mezzo alle piante. Nonostante la confusione in cui mi ha fatta sprofondare – perché è stata lei, a colpirmi con la spoletta -, sono riuscita a percepire il sangue che lasciava il mio corpo dalla ferita al braccio. Sentivo il sangue che ha cosparso sul mio viso, bagnato e caldo. Riuscivo a sentire i passi di chi mi si stava avvicinando. Nemici? Alleati?

Ma ci sono ancora delle persone, qui dentro, che posso definire alleati?, la domanda che vorticava veloce nella mia testa.
Non mi sono mossa quando le gambe di due persone mi sono corse davanti. Si sono soffermate per poco su di me e sullo stato in cui, apparentemente, vertevano le mie condizioni.
- È praticamente morta – ha detto Brutus alla sua compagna. Hanno ripreso a correre, seguendo la scia disordinata che si è lasciata dietro Johanna scappando.
Sto morendo? Davvero? L’ho desiderato così tanto, ultimamente, che non mi sembra vero. Sta succedendo davvero. Sto morendo. Peeta non me lo perdonerà mai
Peeta.
Il suo nome è l’unica cosa che mi fa rimettere in piedi. O almeno ci provo. La vista ondeggia, la testa pulsa, il braccio brucia. E quando mi sollevo, facendo forza sulle mani, una morsa di dolore invade il mio ventre. Boccheggio, cercando di respirare dal naso. Ho i denti contratti per impedire a me stessa di urlare. Non devo urlare, non posso farlo. Se urlo, i Favoriti capiranno che non sono ancora morta e torneranno indietro per finirmi. Ma non posso morire prima di aver raggiunto Peeta. Prima di avergli dato l’addio. Glielo devo, almeno questo…
Riesco ad alzarmi e a fare pochi passi prima di vomitare. Cado carponi, e resto così per un po', aspettando che passino sia la nausea che la fitta alla testa. Inizio a risalire la collina, quasi strisciando sul terreno. Mi devo fermare appena mi accorgo dei passi che si avvicinano. Altri passi. Sono davanti a me, e sono velocissimi. Non possono essere i Favoriti, loro sono scesi più in basso… no, può essere eccome uno di loro. Solo che non l’ho mai considerato tale fino a cinque minuti fa.
Può essere una persona sola.
Ed è Finnick, infatti. Mi appiattisco contro il terreno, lieta di avere davanti una sorta di siepe a coprirmi ulteriormente. Strizzo gli occhi mentre cerco di metterlo a fuoco, e mi mordo una mano quando un’altra fitta, forse anche più forte della prima, trafigge la mia pancia. Ancora una volta, non devo urlare. Finnick non deve sapere che sono qui, non ora che l’alleanza è finita. Non vedendomi, non mi ucciderà.
- Katniss! Johanna! – sussurra, guardandosi intorno. Quando capisce che non siamo lì, torna a discendere la collina a rotta di collo.
Ansimo, tornando a guardare il folto della giungla che si dirama ondeggiando davanti ai miei occhi. Ricomincio la salita, ma stavolta riesco a farlo come si deve: riesco ad alzarmi, e avanzo usando e prendendo qualsiasi cosa come appiglio. Alberi, foglie, il mio stesso arco… devo fermarmi più e più volte perché le fitte alla pancia non mi danno tregua, e arrivano ad intermittenza. Più vicine, per di più: sono sempre più vicine.
- No – grugnisco, graffiando il terreno, quando capisco cosa sta succedendo. Non puoi farlo proprio ora, penso. Non posso perderti proprio ora. – Perché… – mormoro.
L’ho pensato così tante volte. L’ho detto così tante volte da esserne ormai pienamente convinta. Ero sicura di questo, ormai. Ero più che sicura che non avrei mai, mai avuto l’opportunità di portare a termine la gravidanza, che non avrei mai avuto la possibilità di metterla al mondo come invece merita. Sapevo che non sarei mai riuscita a salvare la mia bambina dall’orrore di questo mondo. Pensavo che se fosse dovuto accadere sarebbe stato molto prima di adesso: il bagno di sangue, la nebbia velenosa, le scimmie. La mia caduta in acqua… ci sono state così tante occasioni in cui avrei potuto perderla e mi sono illusa, in qualche modo, che se non era ancora accaduto avrebbe potuto essere un buon segno.
Buon segno di cosa?
Ma adesso che sta succedendo, mi sento persa. Ho paura. Ho paura, e non voglio che succeda. Non voglio sentire la sua vita che scivola via, che mi abbandona. Non voglio perderla.

Non succederà, mi autoconvinco. Non sta succedendo. La mia bambina non sta morendo.
Continuo ad avanzare con questo mantra impresso nella mente, tra le fitte che continuano ad invadere il mio corpo e i capogiri che annebbiano la mia vista. Quando raggiungo l’albero dei fulmini, penso che sia una sorta di miracolo. O di miraggio. Entrambe le risposte sono accettabili, arrivati a questo punto.
Non c’è nessuno attorno al tronco ricoperto di filo dorato. Non ci sono né Beetee né Peeta. Finnick è da qualche parte più in basso, impegnato a cercare me e Johanna.
Il colpo di cannone mi fa sobbalzare ed urlare allo stesso tempo. Non so chi è morto. Non saprò mai chi è morto. Forse, tra non molto, lo incontrerò io stessa, e allora capirò di chi si tratta.
Un mugolio, proveniente da un punto non molto distante dall’albero, mi trascina fino a lui. – Peeta – mormoro, ma scopro che è Beetee. È incosciente ed irrigidito in una strana posa, ad occhi chiusi. Se non fosse per i mugolii sommessi che si fa scappare ogni tanto, penserei che il cannone ha sparato per la sua morte. Ma Beetee è vivo, è ancora vivo. A morire è stato qualcun altro.
Stavolta non trattengo le urla quando il dolore arriva. Mi accascio su me stessa, impotente, e premo con le mani sulla parte inferiore del mio corpo come se, in questo modo, potessi riuscire a fermare il tutto, ma sembra anche peggio. Il dolore della contrazione è peggiore.
È inutile ignorarne il nome quando sai alla perfezione di cosa si tratta. È inutile provarci, come se evitare di pronunciare quel nome, o non vederle per quello che sono in realtà, le rendano meno spaventose. Sono contrazioni, quelle che annunciano l’inizio di un parto prematuro. O di un aborto. Entrambe le opzioni sono terrificanti.
Qualcosa di bagnato mi cola tra le gambe.
- No – mi lamento, mettendo le mani in quella roba liquida che viene assorbita dal terreno. È troppo buio per constatare se si tratti di sangue o altro. In entrambi i casi, può portare con sé un solo significato.
La mia bambina sta morendo.
Ed io non ho nessuna speranza di salvarla.
Sto ancora piangendo, raspando il terreno con le dita, quando le mie mani incontrano la lama di un coltello. Un coltello legato al filo metallico di Beetee. Perché il filo è legato ad un coltello? Cosa stava cercando di fare Beetee? È per colpa di questo coltello che si è ferito?
Mille domande mi attraversano la mente, ma non so dare loro una sola, misera risposta. Non riesco a pensare a null’altro che non sia la vita che sta abbandonando il corpicino di mia figlia. Ma devo smettere di pensare anche a questo, nel momento in cui sento troppe cose avvenire contemporaneamente. La voce di Peeta che urla il mio nome, il cannone che spara di nuovo, e il fruscio della vegetazione che viene spostata da dei corpi in movimento.
- Peeta! – lo chiamo a mia volta. – Peeta!
Come se stessero aspettando solamente il mio segnale per rivelare la loro presenza, Finnick ed Enobaria appaiono a pochi metri di distanza, l’uno che insegue l’altra. Non mi notano, nascosta come sono dal tronco dell’albero. E questo vantaggio che ho su di loro mi permette di puntare una freccia proprio nella loro direzione, pronta a scoccarla al primo momento buono. Posso ucciderli entrambi senza che nessuno di loro abbia la minima idea di chi sia stato a mandarli al Creatore, così Peeta avrà due tributi in meno a cui pensare. Sarà più vicino alla vittoria, con due nemici in meno.
Nemici.

Ricorda chi è il vero nemico.
Abbasso la freccia. Smetto di provare ad uccidere Finnick ed Enobaria. Le parole di Haymitch sembrano così vere, come se lui fosse qui accanto a me, a pronunciarle dritte nel mio orecchio. Lo rivedo, davanti all’ascensore, mentre ci saluta prima di ritirarsi per la notte. La notte prima dell’inizio dell’Edizione della Memoria.
Nemico. Ricorda chi è il vero nemico.
Guardo il coltello, guardo il filo dorato che ne avvolge il manico. Col respiro pesante, guardo la fitta vegetazione alla mia sinistra. A pochi metri da dove ci troviamo io e Beetee c’è il campo di forza. Nel punto più alto riesco a vedere lo sfarfallio, il pannello scoperto, il punto debole, come lui mi ha insegnato a riconoscerlo al centro di addestramento. Un tuono annuncia l’arrivo della tempesta di fulmini. Guardo le nubi scure riunitesi sopra alla mia testa, oltre le fronde degli alberi, e capisco cosa ha cercato di fare Beetee. Capisco cosa devo fare io adesso.
Tutto, improvvisamente, acquista un senso.
Sciolgo il filo e inizio ad avvolgerlo attorno all’estremità della mia freccia, trattenendo a stento un urlo per l’arrivo di un'altra contrazione. Riesco a cogliere il momento in cui Finnick capisce che mi trovo lì, a diversi metri di distanza da dove si trova lui.
- Katniss! Vattene via da lì! – urla, sovrastando il ringhio di Enobaria che approfitta proprio del suo attimo di distrazione per riprendere ad attaccarlo. – Allontanati da quell’albero!

No che non mi allontano.
Col volto rigato dalle lacrime, in preda al dolore e alla paura, mi sollevo sulle ginocchia e tendo l’arco, puntando la freccia contro il campo di forza, contro il pannello rivelatore. Aspetto, conto i secondi che mancano al prossimo tuono, certa che porterà con sé anche il primo fulmine della mezzanotte. Certa di poter portare a termine ciò in cui non è riuscito Beetee.
- Katniss, allontanati!
Avviene tutto in fretta.
Lancio la freccia nell’esatto istante in cui il cielo si illumina di pura luce bianca, nell’esatto istante in cui sento la contrazione invadermi le viscere e che mi fa urlare dalla disperazione. Nell’esatto istante in cui il fulmine colpisce l’albero, la freccia svanisce attraverso il campo di forza. Per un secondo non accade niente. E poi…
La potenza dell’impatto è tale da sbalzarmi via dal punto in cui ero accasciata. Sbalza via tutto ciò che ha intorno, compresi Finnick ed Enobaria. Il mio corpo urta il suolo, sento qualcosa che si rompe. Ma non mi interessa scoprire cosa si è rotto. Nulla ha più importanza.
Ho gli occhi pieni di luce mentre muoio.

 

Morire è strano.
Non ci sono rumori, non c’è luce. Non c’è assolutamente niente, quando muori. Non c’è più nemmeno il senso del tempo o dello spazio. La sensazione che si ha è quella di vagare nel buio, e non hai la possibilità di toccare nulla, o di camminare. I miei piedi non toccano il suolo, le mie mani non incontrano nulla da sfiorare. Mi muovo, ma se non lo facessi sarebbe la stessa, identica cosa. Non sento il mio corpo muoversi, non sento i miei occhi aprirsi, la mia bocca parlare. Non vedo nulla, e dalle mie labbra non esce nessun tipo di suono.
È questa, allora, la morte?
Come si fa a trascorrere l’eternità in un posto del genere?
Come posso anche solo cercare di cavarmela in questo vuoto aldilà?
Mi sposto come se stessi nuotando in un mare nero, un mare che non ha calore né gelo, un mare che non bagna la pelle. Esiste ancora, la mia pelle? O il mio intero corpo è andato perduto per sempre? Forse i corpi non sono ammessi, qui nell’aldilà. Forse, quando muori, nient’altro può seguirti se non la tua anima, la tua coscienza. È per questo che non lo percepisco più. Niente corpo, niente peso. Forse il mio corpo era troppo compromesso per seguirmi nella morte.
Mi dispiace. Se non ho un corpo, non posso toccare la perla di Peeta. Non posso avere con me il suo ultimo regalo. Mi avrebbe rassicurata, sentire quella piccola sfera stretta tra le dita.
La perla prende improvvisamente forma davanti ai miei occhi. Mi sorprendo. Riesco a vedere! Ma il resto cambia poco: non sento altro. La sorpresa svanisce così com’è arrivata. Mi lancio in avanti e nuoto, cerco di avvicinarmi alla perla per afferrarla, ma è tutto inutile. Quella rimane a debita distanza da me. Non mi sono mossa affatto. Sono impotente, esterrefatta da questa consapevolezza.

Perché non riesco a muovermi?
Deve essere un brutto scherzo, per forza. Non può essere davvero l’aldilà, questo posto. Non posso passare l’eternità a guardare una perla che non riuscirò mai ad afferrare.
Guardo in alto, in basso, in ogni direzione in cui mi è possibile voltare la testa, e tutto ciò che vedono i miei occhi è il buio. L’unica punta di colore è rappresentata dalla perla. Quella dannata perla, che adesso si sta muovendo.
Si sta allontanando da me.
- No! – urlo, o provo ad urlare. Non lo so. La mia voce non esiste, qui.
Corro, nuoto, salto in avanti. Compio tutti i movimenti possibili ed immaginabili per provare a starle dietro, ma la perla è più veloce di me e scivola via ad una velocità impressionante. Non la vedo più, ad un certo punto. È di nuovo tutto buio.
- Aiuto! – urlo. Le mie orecchie non sentono niente. – C’è qualcuno? Aiutatemi!
Non posso essere l’unica persona presente, qui. Ci deve essere per forza qualcun altro! Dove sono finiti gli altri tributi morti nell’Edizione della Memoria? Dov’è Mags? Dov’è Wiress? Dove sono… dove sono andati tutti quanti?
Li chiamo a gran voce, ma nessuno giunge in mio aiuto. Chiamo Rue, chiamo Mags, chiamo mio padre. Chiamo tutte le persone che ho conosciuto e che hanno lasciato il mondo tempo prima di me, ma invano. Sono sola, qui. Completamente da sola. Ma non voglio arrendermi. Mi intestardisco, come al solito quando qualcosa non va come dico io.
- Papà! – esclamo. – Rue! Mags!
Questo non è un luogo adatto per riposare. Questo deve essere il mio inferno personale.
- Peeta! – urlo il suo nome, ben sapendo che lui non può essere qui con me.
Peeta è vivo, è sicuramente vivo. Sono morta io al suo posto, come avevo deciso sin dal principio. Lui non aveva nessuna colpa per essere di nuovo condannato agli Hunger Games: se si è ritrovato di nuovo nell’arena lo dovevo solo a me, e a me soltanto. Peeta vive, io muoio: il patto che ho stretto con Haymitch.
Anche Haymitch deve essere vivo. Effie e Cinna: anche loro sono vivi? La mamma, Prim, Gale, tutti quelli del Distretto 12… sono tutti vivi?
- Prim! – quello di mia sorella è il primo della lunga lista di nomi che comincio ad urlare senza sapere se li sto pronunciando nel modo giusto. Qui è impossibile capire alcunché.
Ma nel farlo, qualcosa muta.
Ho di nuovo la sensibilità. È concentrata solo sulla punta delle dita, ma è un cambiamento, un grande cambiamento rispetto al nulla totale di poco fa. Anche la mia voce inizia a sentirsi. O forse lei c’è sempre stata, e sono semplicemente le mie orecchie che, come una radio, hanno raggiunto la giusta frequenza per captarla. Continuo a chiamare i nomi dei vivi.
La sensibilità aumenta, si propaga alle mani, alle braccia… lentamente, avviene la stessa cosa sulle dita dei piedi, e poi alle gambe. Sembra un’eternità, ma alla fine ho di nuovo un corpo: un corpo pesante, un corpo che fa male ad ogni movimento che compio. L’ultima cosa che riacquisto è il senso della vista. All’inizio è offuscata, ma diventa più chiara ad ogni battito di ciglia. Ci vedo di nuovo. Forse, la perla di prima non era una vera immagine captata dai miei occhi.
Sono nuda, in questo buio uniforme. Ma oltre a me non c’è nessun’altro, quindi la nudità è proprio l’ultimo dei miei problemi. Le mie braccia sono piene di graffi e lividi, le mie mani sono sporche di sangue. Di chi è questo sangue? Chi ho ucciso?
L’ultima cosa che ricordo è la freccia che ho scagliato contro il campo di forza. Non posso aver ucciso un campo di forza, è impossibile: non hanno sangue, non sono vivi. Continuo a guardare le mie mani, confusa e orripilata allo stesso tempo. Smetto di respirare mentre penso a come ho rimediato questo sangue. Solo che non respiro. Ci provo, ma i miei polmoni non inglobano aria. Il mio petto non si gonfia e non si abbassa, perché i polmoni hanno smesso di compiere il lavoro che era stato loro affidato. Non ho più bisogno di respirare, qui. Poso una mano sul petto e ciò che mi aspettavo di sentire contro il palmo, un cuore pulsante, non arriva. Non c’è nessun battito. Il mio cuore è fermo.

Sono davvero morta.
Guardo in basso, scoprendo altre ferite e altro sangue. Tagli, segni di ustioni, lividi… e tanto, tanto sangue sulla parte inferiore del mio corpo. C’è un morso sul mio polpaccio, e delle macchie rosse tra le cosce. C’è del sangue che circonda le mie parti intime.
E capisco a chi appartiene questo sangue.
Perché dove fino a poco fa c’era una persona, custodita all’interno del mio corpo, adesso c’è soltanto un addome vuoto e piatto.
- No! – è il mio urlo disperato. Inizio a piangere, ma non ci sono lacrime a lasciare i miei occhi. In questo posto non esistono le lacrime.

È davvero il mio inferno personale.
Il mio inferno personale mi sta ricordando che ho condannato a morte la mia figlia non ancora nata.
- Peeta! – chiamo l’unico nome che potrebbe aiutarmi in questo momento, l’unico che vorrei davvero qui con me. L’unico a cui potrei aggrapparmi, adesso che so che è accaduto l’inevitabile, l’impensabile. Adesso che la nostra bambina non c’è più. Ho bisogno di lui, anche se è vivo.
Anche se volerlo qui con me significa vederlo morire.
- PEETA!
Una luce accecante ed un calore improvviso invade i miei occhi e sono costretta ad usare le mani per schermarla almeno un poco. La luce proviene da un piccolo, insignificante puntino che si staglia nell’orizzonte buio. Come può un puntino del genere scatenare una tale luce?
La luce mi attira a sé. Cerco di puntare i piedi, di aggrapparmi a qualcosa, adesso che ho di nuovo un corpo da usare, ma qui non c’è nulla a cui aggrapparsi. Scivolo, anzi, vengo trascinata via da questa forza inspiegabile e sovrannaturale. Urlo, vedendo la luce aumentare ed il puntino ingrandirsi. Diventa sempre più grande. È un sole, non è più un puntino di luce innocua.
Sto andando verso il sole.
Urlo, coprendomi la faccia con le braccia.
Penso a Peeta durante l’impatto.

 

Fa male. Tutto fa male, persino respirare. Uno strano odore mi riempie le narici. Una forte luce mi acceca gli occhi che tengo ancora chiusi. Provo a girare la testa per evitarla, ma la testa è pesante, ed il collo non sembra voler collaborare. Provo allora ad alzare una mano per coprire gli occhi, perché questa luce è davvero troppo fastidiosa e amplifica il mio mal di testa, ma c’è qualcosa che fa opposizione ed impedisce il mio movimento.
- Non muoverti, tesoro – mormora una voce.

Questa voce. La riconoscerei sempre, anche in mezzo ad altre migliaia di voci. Pensavo che non l’avrei più sentita in vita mia, questa voce…
- Mamma? – è un pigolio sommesso, il mio.
- Sono qui – risponde mia madre.
Mia madre è qui? Com’è possibile? Se si trova insieme a me, allora…
- Sei… morta…
- Non è morta – dice un’altra delle mie voci preferite. – E non sei morta neanche tu, Katniss.
- Prim?
La risposta arriva sotto forma di carezza sul dorso della mia mano. Entrambe le donne della mia vita sono qui, poste ai due lati del mio corpo, e mi stanno stringendo le mani. Com’è potuta accadere una cosa del genere? Combatto contro la luce e sollevo appena le palpebre, creando un piccolo spiraglio, ma è abbastanza per vedere i loro volti. Mia madre sta sorridendo, il sorriso lacrimoso di chi non ha più lacrime da versare. Forse posso prestargliene un po' delle mie… ma qui non posso piangere. Me lo stavo dimenticando. In questo posto non ci sono lacrime.

Non sei morta neanche tu, Katniss, ha detto Prim. Quindi vuol dire che sono viva? Ma sono stata all’inferno, l’ho visto! Come posso essere ancora viva?
- Cosa… è successo? – farfuglio, strizzando gli occhi.
- Non ora, tesoro. Devi riposare, è tutto ciò di cui hai bisogno adesso – mi zittisce la mamma, posando una mano sulla mia testa. La sento, leggera, sfiorare appena la pelle della mia fronte. – C’è tempo per le domande.
Gli occhi si stanno abituando alla luce e non sentono più il fastidio di poco fa. Riesco a tenerli aperti quasi del tutto, adesso, fissi su un soffitto alto e grigio. È un soffitto di cemento? Alla mia destra, proprio dietro la testa di Prim, c’è una tenda tirata, anch’essa di colore grigio. Ci sono un sacco di macchinari, attorno a me, che ronzano ed emettono tanti “bip”.
In quale strano posto sono capitata?
Guardo davanti a me e vedo che sono sdraiata su un letto; di fronte al mio ce n’è un altro, ma è vuoto. Le lenzuola con cui mi hanno coperta – grigie – emettono uno strano fruscio quando provo a muovere i piedi e le gambe. È bello scoprire che rispondono ai miei comandi, anche se fanno male. Non è come all’inferno, all’inizio, quando non riuscivo a sentire nulla e pensavo di non avere più un corpo da comandare. Quell’inferno non era reale… o almeno, gran parte di esso non lo era.
C’è solo una cosa vera, sia all’inferno che qui, nella realtà.
La pancia vuota.
Mugolo, tentando di mettere abbastanza forza nelle mie braccia da eludere la presa di mia madre, o quella di Prim, ma nessuna delle due me lo lascia fare. I singhiozzi arrivano, forti, a squassare il mio petto. Il dolore si intensifica e lo accolgo con piacere, perché ho bisogno di sentire il dolore. Mi merito tutto il dolore che sto provando. Merito di morire per quello che le ho fatto. Perché non mi hanno lasciata morire insieme a lei?
- Katniss – Prim cerca di calmarmi mettendo le sue mani sulle mie spalle. – Non fare così, ti prego.
- Dov’è… - biascico, mentre un singhiozzo più forte mi mozza il fiato nei polmoni. – Dov’è lei? Dov’è la mia bambina…
- Tesoro mio, mi dispiace tanto – bisbiglia mia madre. Inizia a stringere con ancora più forza la mia mano.
Punto gli occhi nei suoi e cerco di trovare, attraverso di essi, una risposta diversa da ciò che ho davanti. Cerco, ma non trovo altro che dolore. I suoi occhi, che credevo non avessero più lacrime da versare, adesso ne sono di nuovo pieni. Alcune scivolano giù, lungo le guance.
- Ti prego… – è una supplica, la mia, una supplica che si spezza insieme alla mia voce. Ti prego, dimmi che non è vero. Dimmi che non è morta.
La mia supplica non riceve la risposta sperata. Ne riceve un’altra. E fa male, sentirla, fa male come se qualcuno stesse affondando, lentamente, un coltello fin dentro al mio cuore. Il lamento che esce dalle mie labbra accompagna le sue parole.
- Mi dispiace così tanto – mormora, baciandomi la testa. – Lei non c’è più.

Lei.
La bambina di Peeta.

Non sono riuscita a proteggere la bambina di Peeta.

_______________________

So che non è ciò che vi aspettavate. So anche che non è facile da digerire. Non è stato facile neanche per me, credetemi.
Sento, però, di dovervi una spiegazione per ciò che avete appena finito di leggere.
All’inizio, quando questa storia ha cominciato a prendere forma, nella mia testa si sono delineate anche alcune linee da seguire: tante, a dire la verità, e purtroppo non potevo utilizzarle tutte. Però volevo, al di sopra di tutto, proseguire prendendo spunto dalle ipotesi che la stessa Collins ha inserito nei suoi libri: il matrimonio, la gravidanza… e la perdita del bambino.
“- Spargeremo la voce che ha perso il bambino per la scossa elettrica subita nell’arena – replica Plutarch. – Molto triste. Molto deplorevole.” – capitolo 6 de Il canto della rivolta.
La scelta di far perdere la bambina a Katniss nasce anche per via di un altro motivo: è una mia riflessione personale che ho maturato mentre facevo ricerche online sugli eventuali tributi in stato interessante che partecipavano agli Hunger Games. L’arena è già di per sé un luogo inospitale e pericoloso per una persona forte ed in salute, e la maggior parte di chi sopravvive ne esce traumatizzata; per una ragazza incinta tutto questo si moltiplica di non si sa quante volte. E come può una ragazza incinta sopravvivere, o cavarsela senza riportare traumi, conseguenze o ferite gravi, o anche solo sperare che il suo bambino ne esca incolume? Semplicemente, non può.
Lo so, è una visione molto pessimistica ma abbastanza logica.
È stato un passo difficile da seguire e spero di non essere sembrata indelicata nell’affrontare una tematica così importante – l’esperienza onirica di Katniss in questo mi è stata di grande aiuto. Ci ho messo tutta me stessa.
Grazie per essere arrivati fin qui

D.

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Capitolo 25
*** 25. ***


In The Still Of The Night - 25

Bene, eccoci qui! Dopo le emozioni (e le tragedie) dello scorso capitolo, siete pronti per scoprirne il seguito?
Ci leggiamo in basso :D

 

 

 

In the still of the night

 

 

 

 

 

25.

 

Ho gli occhi aperti e la mente annebbiata. Mi sono svegliata con la mente annebbiata. È una sensazione spiacevole, la mente annebbiata. Non mi permette di ragionare e di pensare come vorrei.
Sono in questo stato confusionale da ieri sera, almeno: dal momento in cui ho aperto gli occhi sulla terribile realtà che mi ritrovo a vivere. Nel posto in cui mi trovo devono esserci dei medici, perché mia madre ne ha dovuto chiamare uno quando ho cominciato ad urlare e ad agitarmi, in preda al dolore. Non era il dolore fisico a tormentarmi, ma quello che sentivo dentro al cuore. Era un tipo di dolore che avevo provato solo una volta prima d’ora, ovvero cinque anni fa, alla morte di mio padre. Ero ancora piccola, e quel dolore mi colpì con un’intensità tale da mandarmi in confusione. Le settimane e i mesi successivi non furono per niente facili, tra la malattia della mamma e la mancanza di cibo che rischiava di farci raggiungere il papà nell’oltretomba, ma ne siamo uscite fuori. Con difficoltà, ma ne siamo uscite fuori.
Questo dolore sembra addirittura più forte, è lancinante. Non mi fa respirare, non mi fa sperare di uscirne fuori. Mi fa solo desiderare di farla finita. Perché io sono inutile, adesso, e capace soltanto di far del male a chi amo. Scopro di aver amato questa piccola bambina così tanto da desiderare di poterla raggiungere nella morte il prima possibile. Magari questo dolore mi sarà utile allo scopo.
Prim non è riuscita a tranquillizzarmi, a fare in modo che non mi facessi del male a causa degli aghi e dei fili che ho su tutto il corpo. È stato allora che la mamma è corsa a cercare aiuto. L’aiuto che, loro due da sole, non erano in grado di fornirmi. Pochi minuti, e sono sprofondata nella nebbia.
La nebbia è orribile.
Continuano ad iniettarmi questo farmaco annebbiante da ieri sera, credo che sia una sorta di tranquillante. Rallenta i miei movimenti, ma tanto sono stesa su un letto e non devo andare da nessun’altra parte. Non so neanche dov’è che potrei andare, dal momento che nessuno mi ha ancora svelato il luogo in cui mi hanno portata. Posso dormire e svegliarmi liberamente, almeno questo me lo consentono. Non provano a farmi mangiare, per quello ci pensano i vari tubicini che ho collegati tutt’intorno a me. Mi iniettano questa roba per mantenermi in vita e per non farmi agitare, quando tutto ciò che voglio è morire. Soltanto morire.

Raggiungerla.
Una squadra di medici viene a fare un controllo, anche loro vestiti di grigio, ma è come se non li vedessi. Non presto attenzione a ciò che fanno, a ciò che leggono sui monitor. Mi isolo. Mia madre e Prim non sono con me quando arrivano: sono andate via stamattina presto. Torneranno più tardi, hanno detto, e hanno aggiunto che mi lasciavano in buone mani.
Lascio fare alle “buone mani” il loro lavoro su di me, e poi sono di nuovo sola in questo posto tutto grigio. Ho quasi paura che la mia vista si sia danneggiata, perché non può esistere un luogo così totalmente grigio. La mia pelle però è rosa, e i tagli che la solcano sono di un rosso vivo. I lividi, invece, sono un po' blu e un po' verdi. No, la mia vista è a posto.
Persa in questa nebbia, resto distesa su di un fianco e mi limito a respirare e a battere lentamente le palpebre. Vorrei tornare a dormire, ma la mia mente è così tanto obnubilata da impedirmi persino di tornare a farlo. Ogni tanto sento un “bip”, ma non so da dove provenga. Non sono i miei macchinari che fanno “bip”. Qui dev’esserci qualcun altro, a letti e letti di distanza. Qualcuno che conosco? Peeta, forse?
Uno di questi “qualcuno” raggiunge il mio letto lentamente, e prende posto sulla sedia che la mamma ha lasciato libera, credo, ore fa. Sembra un’altra di quelle apparizioni che avvengono dal nulla: non ho sentito porte aprirsi, i suoi passi che si avvicinavano… ma lui, in fondo, ha il passo felpato come il mio. Ha imparato a muoversi come un fantasma nella foresta, per evitare di far scappare le sue prede. Sa come fare per arrivare senza che nessuno se ne possa accorgere.

Gale.
Anche lui ha addosso una tuta grigia, in tinta con i suoi occhi. Tutto questo posto è in tinta con i nostri occhi grigi, gli occhi del Giacimento. Occhi che i nostri padri hanno trasmesso a noi figli.
Di che colore erano gli occhi di lei? Grigi o azzurri?
- Ciao, Catnip – sussurra Gale.
La sua faccia è un miscuglio di tagli e lividi. È la faccia di chi ha avuto uno scontro con qualcuno. Perché si è ridotto in questo stato?
- Che ci fai qui? – sono le prime parole che pronuncio da ieri sera, e sono tutte per lui. Lui, il mio migliore amico.
- Sono venuto a trovarti – risponde. Tocca una mia mano e, quando vede che non lo respingo, la stringe.
- Dove siamo?
- Nel Distretto 13.
Lo guardo, confusa. Grazie alla sua risposta, il mio cervello diventa ancora più annebbiato. Forse ho capito male proprio perché ho la mente annebbiata dai farmaci. Gale si sta sbagliando: non esiste il Distretto 13. Non esiste più da settantacinque anni, dalla fine della guerra e dei Giorni Bui. È a causa della sua distruzione e della ribellione dei distretti se gli Hunger Games sono stati istituiti.
Stringo gli occhi più volte, prima di rispondergli. - Non è possibile.
- È così, Katniss. È una lunga storia, ma te lo spiegheranno con calma…
Ne ho abbastanza delle lunghe storie. Le lunghe storie, ho scoperto, non portano mai a niente di buono.
- Perché non siamo al 12? – chiedo.
Gale esita; deglutisce, scosta gli occhi dal mio viso, colpisce ripetutamente, ma piano, la mia mano con la sua.
- Gale? – lo chiamo, e per un attimo lo strato di nebbia sparisce, consentendomi di concentrarmi interamente su di lui. – Che è successo? – chiedo, spaventata. Deve essere accaduto per forza qualcosa, altrimenti non impiegherebbe tutto questo tempo per rispondermi. Deve essere accaduto qualcosa perché, altrimenti, come si potrebbe spiegare la nostra presenza al 13?
La sua voce è piatta e priva di qualsiasi inflessione quando mi dice: - Katniss, il Distretto 12 non esiste più.
Devo analizzare ogni singola parola, ogni singola lettera, per capire cosa mi sta dicendo, e cerco di dare un altro tipo di significato alla sua frase quando il primo che la mia mente riesce a registrare non mi piace. Non possono davvero averlo fatto.
- No, Gale…
- Quando hai lanciato quella freccia hanno interrotto tutte le trasmissioni – comincia a spiegarmi, tenendo sempre la mia mano. Questo contatto mi tiene legata alla realtà, mi dice che non è un sogno o un viaggio fatto sotto farmaci. – I Pacificatori hanno dato l’ordine a tutta la popolazione di tornare nelle proprie case, anche chi era nelle miniere per il turno di notte. E per l’ora successiva non si è più sentito volare una mosca.
Pendo dalle sue labbra.
- Poi abbiamo sentito arrivare i furgoni. Quando sono uscito ho visto che però andavano via, non erano arrivati per restare. E con loro sono andati via anche i Pacificatori: tutti quanti. Non ne è rimasto neanche uno in tutto il distretto…
Gale ha capito che stava per succedere qualcosa. Un ordine doveva essere stato emesso da qualche parte, forse da Capitol City stessa, e riguardava il nostro distretto. È corso nella notte, avvertendo più persone che poteva, ordinando di fuggire e di lanciare il messaggio tramite il passaparola. Tutti dovevano sapere che non era più sicuro restare all’interno delle proprie abitazioni. E neanche al di fuori. L’intero Distretto 12 non era più un luogo sicuro dove poter restare.
- Sono andato ad avvertire la tua famiglia e poi le ho portate alla recinzione, vicino al Prato. Lì si era riunita già molta gente e insieme l’abbiamo buttata giù per poter fuggire nei boschi, ma intanto altre persone si stavano unendo al nostro gruppo. Ne arrivava in continuazione, anche se non sapeva il perché della fuga improvvisa.
A questo punto Gale si ferma, indeciso se continuare o fermarsi. Sono io a spronarlo.
- Cos’è successo?
Non mi guarda.
- Eravamo già nascosti dagli alberi quando li abbiamo sentiti arrivare, sopra di noi.
Gli hovercraft.
- Ci hanno superato e sono andati dritti al distretto. Hanno iniziato a sganciare bombe incendiarie e… e abbiamo visto bruciare le nostre case. Abbiamo visto bruciare tutto il Distretto 12.
Ho un ricordo del giorno in cui, sul finire dell’inverno, appiccarono il fuoco al Forno, la sede del mercato nero del 12. Ricordo le volute di fumo che si levavano dal baraccone, e le persone che dovevano essere fuggite da esso in preda al panico. Immagino la stessa cosa, ma moltiplicata all’inverosimile. Immagino che sia ciò che ha visto Gale, e che hanno visto anche mia madre e mia sorella.
- Siamo rimasti a vedere il fuoco che distruggeva tutto quanto, e il fumo che copriva il cielo. Non si vedeva più niente, neanche una nuvola, o la luna.
Al mattino non vi era più nulla da bombardare, e gli hovercraft se ne andarono. Gale guidò il gruppo di superstiti verso il lago e lì restarono, cacciando e cercando di sopravvivere nei boschi, fino a che non arrivarono i soccorsi del 13, che li portarono in salvo al loro Distretto. Più o meno, arrivarono lo stesso giorno in cui arrivai io.
- Perché lo hanno fatto? – mormoro. – Per colpa mia?
- No, Catnip, no. Non è stata colpa tua – dice Gale, raccogliendo col pollice una delle mie lacrime. – Katniss, mi… mi dispiace tanto per-
Scuoto la testa e chiudo gli occhi nel tentativo di farlo tacere. Non voglio, non voglio che il discorso verta su di lei. Non voglio essere costretta a rivivere di nuovo tutto quanto. Provo, con voce rotta, a riportare il discorso dove Gale lo ha interrotto poco fa. - Si sono salvati tutti quanti?
Scuote la testa. – Poco più di ottocento persone.
Ottocento persone sulle quasi diecimila che abitavano il distretto. Perché ho dovuto chiederglielo?
- E la famiglia di Peeta?
Di nuovo: perché ho dovuto chiederglielo? Gale non mi risponderà stavolta. È evidente dall’espressione del suo viso che non ho davvero bisogno di una risposta per sapere cosa è accaduto alla famiglia di Peeta.
Sono morti nelle esplosioni. Sono morti insieme ad altre novemila persone.
Peeta non ha avuto più un buon rapporto con la sua famiglia da quella orribile mattina, quando andammo insieme dai suoi genitori per parlargli della mia gravidanza. Non ha mai, mai digerito i commenti che uscirono dalla bocca di sua madre, e le orrende parole con cui definì l’arrivo di nostra figlia. Un problema: era solamente un problema, per lei, che si sarebbe risolto entro l’estate.
E ha avuto ragione.
Si è risolto.
Ma nonostante l’amarezza e l’astio che si è andato a creare all’interno della loro situazione familiare, non è facile venire a sapere della scomparsa di entrambi i suoi genitori e dei suoi fratelli maggiori. Peeta lo sa già? Quando gliel’hanno comunicato? Perché non ero con lui quando gliel’hanno detto?
- Peeta lo sa? – chiedo ancora a Gale.
- Non gliel’hanno ancora detto – dice, sbrigativo.
- Ma sta bene?
Annuisce. – Non si trova in questo settore dell’ospedale, ma sta bene. Lo stanno tenendo sotto osservazione per via della sua gamba, sai…

Gale evita totalmente i miei occhi.

 

Quando mi sveglio, due giorni dopo, scopro di avere un nuovo compagno di letto.
Finnick.
Un Finnick in camice di ospedale grigio, seduto sul suo letto dalle lenzuola grigie, mentre intreccia una corda grigia. Ha profonde occhiaie che gli scavano il viso, ma queste almeno non sono grigie. È nervoso, lo si capisce dal modo in cui si muove il suo piede, a scatti. Contrae anche le dita, velocemente. Al braccio destro ha una fasciatura identica alla mia. È il braccio in cui ci avevano impiantato il localizzatore per l’arena. Non sembra più il Finnick che ho conosciuto nell’arena, il Finnick spiritoso e un po' sbruffone che tutta Capitol ama e che ha amato in questi anni. Non è nemmeno il Finnick che mi ha raccontato del suo amore per Annie. Questo Finnick assomiglia moltissimo al ragazzo che soffriva insieme a me a causa delle grida provocate dalle ghiandaie chiacchierone. È un ragazzo scosso e traumatizzato. Non è un vincitore: è solo un ragazzo.
Dov’è finito l’alleato? E il nemico? Lo è mai stato davvero, un nemico?
- Finnick – lo chiamo, sdraiata sul fianco. Sono due giorni che non mi muovo da questa posizione.
Lui si volta nel sentire la mia voce ed il suo viso si rischiara, anche se di pochissimo. Scende dal suo letto per avvicinarsi al mio. – Non pensavo che ti avrei sentito parlare di nuovo.
- Perché dici così?
- Katniss – inizia, ma si interrompe, come se non sapesse come poter proseguire. Il suo viso si adombra. – Ti ho visto dopo che l’arena è esplosa, ti ho raccolto io stesso da quel terreno quando l’hovercraft è venuto a salvarci. E non eri… non sembravi più tu.
Mi specchio negli occhi verde mare così puri di Finnick. Gli occhi di un giovane che ha già sofferto così tanto, così come ho sofferto io. Provo ad immaginare a come dovevo apparire ai suoi occhi, subito dopo l’esplosione dell’arena. E non ci riesco.
- Che è successo quella notte? – domando.
Finnick inarca le sopracciglia. – Non te lo hanno detto?
- Nessuno mi dice niente. Solo Gale è venuto a dirmi del 12.
- Non so se posso raccontarti proprio tutto quanto, Katniss. Plutarch si è assunto il compito di farlo…
- Plutarch Heavensbee? – il Capo Stratega dei giochi di quest’anno? Che c’entra lui in tutta questa storia?
- Sì, esatto. E se lui non ti ha ancora informata di nulla non so se posso farlo io al suo posto.
- Devo sapere, Finnick. Devono smetterla di non informarmi di niente – mi agito, cercando di sistemarmi meglio nel letto, ma i giorni di quasi totale immobilità, sommati al dolore del mio corpo ancora ferito, si fanno sentire. Ho le membra irrigidite che protestano al minimo accenno di movimento.
- No, fermati – protesta Finnick, posando piano le mani sulle mie braccia. – Forse posso accennarti qualcosa.
E fa molto più che accennarmi qualcosa.
Finnick mi spiega che l’Edizione della Memoria a cui abbiamo preso parte era stata ideata su ordine del presidente Snow, al solo scopo di ricondurmi nell’arena per uccidermi dopo le proteste e rivolte avvenute nei diversi distretti. Questa parte, però, la sapevo già: ci ero già arrivata da sola. Tutto il resto, invece, mi è rimasto celato. Plutarch Heavensbee ha lavorato sotto le strette direttive del presidente, ma ne seguiva altre e ne dava, a sua volta. Plutarch Heavensbee da anni è un membro della resistenza, e ha colto la palla al balzo per procedere con la sua alternativa alla dittatura di Snow.
- Alternativa? – domando.
- La rivoluzione – risponde Finnick.
Molti dei tributi mietuti per partecipare ai giochi erano a conoscenza del piano di Plutarch e collaboravano affinché tutto procedesse secondo i piani. Lui, Mags, Beetee e Wiress, i morfaminomani, Johanna e Blight, Seeder e Chaff: tutti loro nell’arena avevano un compito, ossia diventare alleati miei e di Peeta ed assicurarsi la nostra incolumità.
- Ma Johanna mi ha attaccata – ribatto, poco convinta.
- No, Katniss. Johanna ti ha liberata dal localizzatore e ti ha salvata dai Favoriti – dice lui, spiegandomi ciò col tono che si userebbe per una bambina tarda di comprendonio. – Non era parte integrante del piano, diciamo, ma ha comunque provato a salvarti la vita.
Dovevano farci uscire vivi dall’arena, e per farlo dovevamo realizzare il piano di Beetee. Quello che è quasi andato storto a causa dell’arrivo dei Favoriti del 2.
- Sapevamo che doveva accadere il terzo giorno a mezzanotte per il numero di panini che ci venivano inviati nell’arena – mi spiega Finnick. – Distretto 3: terzo giorno. Ventiquattro panini…
- Mezzanotte.
Finnick mi sorride. – Mezzanotte.
Io non ci trovo un bel niente per cui sorridere. Mi sono ritrovata ad essere, in qualche modo, una pedina nelle loro mani, una pedina per gli sporchi giochetti di Plutarch. Le persone con cui ho interagito nell’arena si sono servite di me per aiutare quell’uomo a realizzare i suoi scopi, e senza neanche provare a farmelo sapere. Mi hanno lasciata all’oscuro per tutto questo tempo, proprio come le mosse strategiche che architettava Haymitch insieme a Peeta…

Haymitch.
- Haymitch ne era al corrente?
- Sì. Haymitch era nell’hovercraft quando ci hanno recuperati. Sapeva tutto sin dall’inizio. Era l’unica soluzione che aveva per farvi uscire dall’arena sani e salvi, Katniss. E non ti ha detto nulla perché sapeva che eri una persona controllata. Se ti avessero catturata, quella notte, avresti dovuto sapere il meno possibile sulla ribellione – dice ancora, fornendomi anche la risposta alla mia prossima domanda. La sento spegnersi sulla punta della lingua. Ma ne ho già pronta un’altra.
- Dov’è adesso?
- A disintossicarsi. Non è ammesso l’alcol, qui al Distretto 13.
Quindi non dovrò aspettarmi una sua visita per i prossimi giorni, forse anche per le prossime settimane. Ho dei brutti ricordi di Haymitch in astinenza dal liquore, e non ci tengo ad affrontarlo nel modo rabbioso in cui può trasformarsi quando non ha dell’alcol in circolo nelle vene. Scopro di non volerlo incontrare lo stesso, liquore o non liquore.
Dovrò attendere solo la visita di Plutarch Heavensbee, a quanto sembra.
- Perché Plutarch mi ha messa in mezzo?
- Deve dirtelo lui, questo.

 

- Dovevamo salvarti perché tu sei la Ghiandaia Imitatrice, Katniss – dice Plutarch. – Finché sei viva, vive anche la rivoluzione.
Me lo dice, Plutarch, il motivo per cui mi ha fatto passare l’inferno.
Viene a trovarmi il giorno dopo la mia chiacchierata con Finnick. Si siede sulla solita sedia accanto al mio letto e mi osserva placidamente, le mani giunte sulla pancia, un lieve sorriso ad increspargli le labbra. Nonostante lo zigomo tumefatto, che scatena nella mia mente migliaia di ipotesi su chi, o cosa, possa averglielo causato1, è il ritratto sputato della persona soddisfatta i cui piani sono andati a buon fine.
Beh, non proprio a buon fine.
Hanno salvato me, Peeta, Finnick e Beetee, ma non sono riusciti a fare altrettanto per Johanna. Anche Enobaria fa parte del gruppo dei catturati, ma non mi interessa un fico secco di lei. Finnick non è qui, fortunatamente, quando Plutarch mi informa che anche Annie Cresta, la sua Annie, è stata presa dalle forze di Capitol per vendicarsi di lui. Abbasso lo sguardo, deglutendo. Annie non è utile ai loro scopi, è troppo fragile per esserlo davvero… ma per Finnick sarà un’agonia insostenibile, sapendola nelle grinfie del nemico.

Occhio per occhio.
Finnick soffrirà tantissimo. Mi sento egoista, sbagliata, nel pensare che almeno io non devo preoccuparmi di Peeta, che almeno lui è stato messo in salvo ed è da qualche parte, qui nel Distretto 13. Non mi dicono dove, però, e non vogliono che mi alzi da questo letto per andare a cercarlo perché sono ancora debole per il trauma alla testa e per… lei.
Mi chiedo cosa costringa Peeta a stare così lontano da me. Lo conosco, Peeta, so come ragiona: non esiterebbe un istante a starmi accanto se sapesse che sto poco bene. Gamba o non gamba. Correrebbe da me anche su una gamba sola. Non esistono i telefoni in questo posto, che da quel poco che ho capito è ipertecnologico? Non posso telefonargli?
- Dov’è Peeta? – chiedo a Plutarch.
- Ah, il tuo innamorato! Sta bene, Katniss – dice. – Anche lui è tenuto sotto controllo, sai, come te. Avete riportato entrambi delle ferite a cui dovete stare attenti…
- Che genere di ferite?
- Ha delle ustioni derivate dall’esplosione del campo di forza. Per il resto sta abbastanza bene.

Ustioni? Non le ho riportate io, le ustioni, e avrei dovuto averne in abbondanza, dato che sono stata io a far saltare quel maledetto campo di forza. Ero la più vicina al punto di impatto. Ma allora…
- E la gamba?
- Gamba?
- Gale mi ha detto che la sua gamba…
Dura un solo attimo, ma lo vedo ed è più che sufficiente: l’attimo in cui Plutarch Heavensbee tentenna, non sapendo che pesci pigliare. Per un attimo appare spaesato, e poi torna ad essere la persona ottimista con cui ho parlato per tutti questi minuti. – No, la sua gamba è a posto! Gale non ha voluto che ti preoccupassi ulteriormente per lui.
Plutarch resta per altri dieci minuti prima di andare via per una riunione. Deve riunirsi con gli altri membri delle forze del Distretto 13, con a capo la presidente Coin, per discutere dei prossimi passi da compiere.
- La conoscerai, appena ti sarai rimessa in piedi – dice, prima di andare.
Non lo saluto. Se la mia mancanza di buone maniere lo ha lasciato turbato, non lo dà a vedere.

Non posso salutare un uomo che mi sta mentendo davanti agli occhi.

 

- Vorrei che fosse morta. Vorrei che fossero tutti morti, noi compresi. Sarebbe meglio.
Finnick è distrutto. Ha saputo di Annie ieri, dopo la visita di Plutarch, e si è chiuso in sé stesso. Si è raggomitolato nel letto, sotto le coperte, e sembra fissare il vuoto. Dal mio letto vedo il suo viso e i suoi occhi che sembrano puntati nei miei, anche se so che non è così. Finnick ha occhi solo per Annie. I suoi occhi non vedono altro che non sia lei. E lei ora è a Capitol City.
Probabilmente sta pensando a tutte le torture che potrebbero infliggerle, o che le stanno già infliggendo.
Vorrei poter fare qualcosa per lui, ma al momento non posso far nulla nemmeno per me stessa. Sono qui, sul mio letto, e lo guardo soffrire mentre aspetto di soffrire a mia volta.
Perché soffrirò, appena avrò la certezza di ciò che mi stanno nascondendo da giorni. Gale e Plutarch mi hanno mentito sulle condizioni di salute di Peeta; se Plutarch è riuscito a farlo apertamente, faccia a faccia, Gale non è riuscito nel suo intento. Ha dovuto evitare il mio sguardo per poterlo fare, e Gale non evita mai gli sguardi. È ovvio che mi nascondono l’orrenda realtà.
Peeta non è qui al Distretto 13.
Peeta è morto.

Morto nell’arena.
E non vogliono dirmelo solo perché la notizia della sua morte acuirebbe ulteriormente il mio dolore. Venire a conoscenza della morte di Peeta dopo aver saputo di lei renderebbe tutto insostenibile. Se avevo desiderato di morire dopo aver saputo di lei, con la morte di Peeta vorrei poterlo fare subito. Dovrei riuscire a farcela, in qualche modo. Potrei usare il pezzo di corda che Finnick usa per fare i suoi nodi. Non è molta, ma credo che sia sufficiente per consentirmi di legarla stretta intorno al collo. Non ho bisogno di un vero nodo scorsoio. Il problema è sfilargliela dalle dita.
Ma prima ancora di prendergli la corda, devo averne la certezza. Devo sapere.
- Voglio parlare con Gale – ho detto a Prim stamattina, durante la colazione. Prim viene sempre a trovarmi prima di andare a sbrigare le sue mansioni per la giornata, e anche quando ha un momento buono da dedicarmi: a quanto pare, qui al 13 hanno tutti una tabella di marcia da rispettare, e anche Prim e la mamma ne hanno una. Anche Gale.
- Glielo dirò appena lo incontro – mi promette.
Così attendo il suo arrivo. È quasi pomeriggio inoltrato e non si è ancora fatto vedere. Cattivo segno. Se sospetta almeno un poco quale sia il motivo per cui voglio parlargli, allora sta facendo di tutto per rimandare il momento in cui dovrà accadere. Seduta sulla sponda del letto, smetto di osservare Finnick e concentro la mia attenzione sulle mie mani. Sono pulite e quasi totalmente libere dai graffi. Non c’è la minima traccia di sangue. Le mie mani sporche di sangue tornano ad invadere i miei sogni ogni notte, da quando sono qui. Svegliarsi è difficile, perché mi danno sempre qualcosa per aiutarmi a prendere sonno e gli incubi non svaniscono mai del tutto. Non riuscendo a svegliarmi, mi ritrovo ad agitarmi nel letto ed a subire gli orrori fino alla fine, fino a che l’effetto dei farmaci non svanisce.
Penso che se i miei sospetti sono veri, che Peeta è realmente morto, potrò finalmente dire addio agli incubi. Nella morte, la vera morte, non quella parvenza di morte che ho vissuto io, non dovrebbero esserci incubi. Il problema è che non so come poterla raggiungere, la morte. Finnick non molla di un centimetro quella maledetta corda…
Gale arriva. Avanza verso il mio letto con calma, e con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni grigi. Comincio ad averne abbastanza di tutto questo grigio.
- Mi cercavi? – dice, allegro, quando è ormai di fronte a me.
Io non sono allegra quando parlo. Stringo il lenzuolo sotto di me. – Mi hai mentito, Gale?
- Mentito? – domanda, preoccupato. – Quand’è che ti avrei mentito?
- Plutarch non aveva idea che la gamba di Peeta avesse qualche problema, Gale. Ha parlato di ustioni – dico, cercando di mantenere la calma. – Mi hai mentito, Gale? O è Plutarch che sta mentendo?
- Katniss…
- Peeta è morto? È questo che state facendo? State evitando di dirmelo?
- Non lo fare.
Ci voltiamo entrambi verso il corpo disteso a pochi metri da noi. Finnick si è ripreso abbastanza da intervenire nella discussione, ma non guarda me. Guarda Gale.
- Non lo fare – ripete. – Non lo sopporterà, Gale. Non può reggere anche questo.
- Cos’è che non posso reggere? – esclamo. – Ditemi la verità! Gale, dimmelo!
Me lo sento. Il mio cuore sta diventando pesante, ed il viso di Gale amplifica il senso di pesantezza quando torna a guardare il mio.
- Ti prego, Gale, lo devo sapere – bisbiglio, raddrizzandomi con la schiena. Mi fa male, e non ho nulla contro cui appoggiarmi. I cuscini sono lontani. – Devo sapere se Peeta è vivo o morto…
- No! – urla Finnick.
Ma Gale non presta ascolto al mio amico. È interamente concentrato su di me, e so che non vuole fare ciò che lo sto obbligando a fare. Non vuole dirmi ciò che sta per dire. Non vuole dirmi che, oltre a lei, ho perso anche lui.
- Katniss…
- Non glielo dire! – urla di nuovo Finnick.
- Peeta non è morto – mormora Gale, smettendo di parlare.
Peeta non è morto…
- È a Capitol City.
È peggio che morto.
- Lui e Johanna sono stati catturati la notte in cui ti hanno tratta in salvo.
- Gale!
Sono come Finnick. Sono intrappolata in questo posto, lontana da ciò che amo. Sono lontana, e non posso fare nulla per aiutare chi amo. Non posso salvare Peeta, non posso evitare che lo torturino nel tentativo di estorcergli nozioni e informazioni di cui non è a conoscenza. Non posso evitare che lo uccidano, mentre lui tenta ancora una volta di salvare la mia vita al posto della sua.
Inizio a piangere e sento di nuovo quel dolore sordo al petto, al centro esatto del mio cuore. È lo stesso dolore che sento da giorni, il dolore che non mi dà pace, solo che adesso sembra amplificato per dieci, cento, mille volte. È mille volte più intenso. Persino i singhiozzi fanno male. Persino i gemiti che mi risalgono lungo la gola.
- Me lo aveva promesso – biascico, piegandomi sul materasso. – Haymitch me lo aveva promesso…

Haymitch.
- Katniss! – urla Gale quando cado di peso sul pavimento grigio.
Le mie intenzioni non erano queste, non volevo cadere. Mi sono alzata per poter andare da Haymitch, per raggiungerlo in qualsiasi posto del 13 si sia rintanato per disintossicarsi, ma le mie gambe hanno ceduto. Il mio intero corpo sembra non voler collaborare, fa male e protesta per qualsiasi movimento io faccia.
Il mio corpo sembra essere il riflesso della mia intera disperazione.
- Me lo aveva promesso! – urlo, mentre le braccia di Gale cercano di rimettermi in piedi. – Mi aveva promesso che lo avrebbe salvato! Io dovevo morire, lui doveva salvarsi…
- Chiama qualcuno!
Urlo, agitandomi sul pavimento freddo. Mi ritrovo stesa sulla schiena e Gale è su di me, cerca di tranquillizzarmi come può. C’è anche Finnick, lo vedo mentre muove la bocca e mi parla, ma non sento cosa dice. L’unica cosa che sento sono le mie urla. Urlo e piango mentre cerco di divincolarmi dalla loro presa, e vedo delle figure grigie che si avvicinano a loro. Queste figure grigie mi circondano, e dopo alcuni secondi smetto di urlare. Smetto di divincolarmi. Di nuovo la nebbia.
Chiudo gli occhi.

 

Una settimana fa mi hanno fatta fuggire dall’arena.
Una settimana fa la mia bambina è morta.
Una settimana fa Peeta è stato fatto prigioniero.
Una settimana fa più di novemila persone, al Distretto 12, hanno perso la vita.
Oggi, a una settimana esatta da questi eventi, smetto di parlare.

 

 

 

_______________________

1 È stato Haymitch. No, non scherzo: è stato proprio lui! Ho pensato che, dopo il disastroso salvataggio, sull’hovercraft possa essere nata una discussione tra i due, e che Haymitch abbia avuto la meglio su Plutarch.
Da Finnick abbiamo saputo che, diversamente dai libri, Haymitch ha aderito al progetto dei Ribelli principalmente per un motivo: per salvare la vita di Peeta e Katniss. Ero pronta a farvi uno spiegone intero su questa parte, ma ho deciso di rimandarlo a più avanti e parte di questo spiegone verrà affidato ad Haymitch. Torneremo sull’argomento tra due o tre capitoli :)

 

Veniamo invece alla questione primaria: che fine hanno fatto gli altri? Sono a Capitol City. Questa parte non cambia, sostanzialmente. Quattro vincitori in salvo al Distretto 13 e quattro prigionieri nella capitale. Lo avevate capito subito, leggendo, oppure come Katniss vi eravate illusi un pochettino? Ci ho giocato parecchio sopra, ma dovevo usare un po’ di suspence. Non fa mai male, la suspence: se vi do tutte le risposte subito non c’è gusto no? u_u
Dopo lo shock causato dalla perdita della bambina, Katniss adesso si trova ad affrontare anche il dolore per la cattura di Peeta. Lo so, è terribile. Ma vi prometto che ci sarà un giorno in cui smetterò di propinarvi dei capitoli infausti.
Solo che non è ancora arrivato questo giorno. (Sì, ho rubato le battute di Aragorn. Non me ne pento.)
Con questo capitolo termina ufficialmente la prima parte della fanfiction. Ci vediamo lunedì prossimo per addentrarci all’interno di Mockingjay – e immagino sappiate già cosa ci aspetta come prima tappa ;)

D.

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Capitolo 26
*** 26. ***


In The Still Of The Night - 26

In the still of the night

 

 

 

 

26.

 

Dio ma quanto è ingiusto il mondo
Zero a noi e tanto a loro
Se la nostra razza è immonda
Di che razza è il loro cuore?
Sono nati nei merletti
Per far l’amore e la guerra
Ma anche a noi stracci della terra
La vita piacerebbe bella…

- Dio ma quanto è ingiusto il mondo, Notre-Dame de Paris

 

Mi chiamo Katniss Everdeen. Ho diciassette anni. Sono sopravvissuta agli Hunger Games. Ho perso la mia bambina per colpa degli Hunger Games. Peeta è prigioniero di Capitol City. Potrebbe essere morto anche lui…
Ogni mattina, da quando ho lasciato l’ospedale, mi sveglio ripetendo questo mantra nella testa. Fa parte del mio processo di recupero: ordini inderogabili del dottor Eliot, un luminare che dovrebbe aiutarmi ad affrontare la confusione in cui è immersa la mia mente. Il mantra cambia a seconda delle giornate e dello stato in cui mi ritrovo, ma nella maggior parte delle volte percorro sempre gli stessi step.
Non posso in alcun modo evitare le sedute di terapia col dottor Eliot. Per un’ora al giorno, tre giorni alla settimana, mi siedo di fronte a quest’uomo dall’aria bonaria e rassicurante con cui dovrei parlare, a cui dovrei confidare ed affidare il mio dolore. La terapia funziona così, ma dopo il suo saluto iniziale il resto dell’ora è costellato dai nostri silenzi. Non parlo mai, non dico mai nulla. Ripetere il mantra non è un problema, se questo viene fatto senza pronunciarlo ad alta voce. Ovviamente non otterrò nessun miglioramento se non parlo, se non mi apro. La terapia potrebbe durare all’infinito, se non cerco di spronare me stessa a reagire in qualche modo. Ma reagire non è ciò che voglio.
E finché non reagirò, la piastrina di metallo con incise le parole “Mentalmente confusa” non abbandonerà mai il mio polso sinistro.

Mentalmente confusa. Ecco cosa sono diventata. Ecco a cosa mi ha portato l’Edizione della Memoria.
Essere mentalmente confusa non ha però impedito a quelli del Distretto 13 di darmi degli incarichi, come a chiunque altro in questo strano posto di colore grigio. Nel 13, le ragazze ed i ragazzi che hanno compiuto quindici anni possono acquisire tranquillamente i gradi di base per entrare nell’esercito; di conseguenza, io che ne ho diciassette ed ho anche alle spalle due partecipazioni agli Hunger Games, sono un soldato. Anche Gale lo è. C’era forse da dubitarne?
Ma le più alte autorità del 13 non vogliono avermi solo come un soldato. Me lo aveva già detto, Plutarch, che per loro sono una risorsa ancora più importante. Per loro sono il simbolo della rivoluzione che ha preso il via la notte in cui ho fatto esplodere l’arena.
Loro vogliono farmi diventare la Ghiandaia Imitatrice. Quella che è sopravvissuta nonostante i piani di Capitol City.
Sono la ragazza che ha sfidato Capitol City, a detta loro. Sono la ragazza che ha sfidato il sistema.
Ma il sistema si è già vendicato di me. Mi ha portato via tutto ciò che amo. Mi ha portato via la mia casa, mi ha portato via Peeta… il sistema ha ucciso la mia bambina.

Ed io non ho nessuna intenzione di realizzare i sogni dei Ribelli.
Per questo evito gli avvisi delle riunioni, per questo evito gli addestramenti, per questo evito di farmi vedere in giro. Il Distretto 13 è enorme, e dalla fine dei Giorni Bui i suoi abitanti si sono insediati in una base sotterranea che si estende per chilometri e chilometri nelle profondità della terra e che doveva essere stata costruita secoli fa, da qualcuno che doveva aver avuto idee lungimiranti e, forse, previsioni sul futuro disastroso che attendeva le nuove generazioni. I bunker hanno livelli su livelli, e da quando ho lasciato quello dedicato all’ospedale non li ho ancora visti e percorsi tutti. Alcuni sono inaccessibili per chi non ha le competenze necessarie, altri invece sono aperti e frequentabili da tutti, come la mensa. Ma i bunker sono anche pieni di cunicoli, come quelli per il riscaldamento e per l’areazione. Alcune volte mi ci nascondo, e passano ore prima che ne esca fuori.
Il mio nascondiglio preferito è l’armadio della cancelleria. Nessuno sembra interessato alla cancelleria, al 13, quindi è maledettamente semplice intrufolarsi qui e dormire ore ed ore quando la realtà torna ad essere di nuovo troppo intensa da affrontare ad occhi aperti.
In questi momenti, anche il mantra del dottor Eliot diventa inutile.
Finnick è il mio compagno di terapia. Anche lui ha una piastrina come la mia, con le stesse parole incise nel metallo. Siamo entrambi mentalmente instabili: siamo compagni anche in questo. Non siamo solo compagni perché proviamo lo stesso, identico dolore. Il dolore per le persone che amiamo, e che ci è impossibile raggiungere.
Finnick non riesce ad elaborare il trauma per la cattura di Annie, ma almeno, da quel che ogni tanto si lascia scappare il dottor Eliot durante le sedute, lui parla. Io non ci provo neanche. Credo che stia più bene di me, Finnick, se riesce ad aprirsi col dottore. Forse lo trova davvero un buon aiuto, ma il suo viso continua ad essere per la maggior parte del giorno triste e privo di attenzione. Non è poi così diverso da quello che ha mostrato alla notizia della cattura della sua fidanzata.
Nel Distretto 13 condivido un piccolo alloggio insieme alla mia famiglia: una stanza con due letti, un piccolo tavolo con delle sedie, e un mobile a cassettoni in cui riporre le divise pulite. Le mie sono diversissime da quelle della mamma e di Prim. Lo sono perché io sono un soldato, mentre loro lavorano all’ospedale e nei settori con gli ambulatori. Non potevamo essere così diverse anche qui, lontane da casa.
La prima notte trascorsa nell’alloggio è stata orribile. Senza più i farmaci ad obnubilarmi la mente, gli incubi hanno ricominciato a svegliarmi e a farmi urlare come una pazza. Urlavo, piangevo, tremavo e stringevo tra le dita la camicia da notte all’altezza della pancia, alla ricerca di ciò che mi ero così abituata a sentire, anche mentre dormivo, e che non c’era più. Non c’era più, proprio come nei miei incubi. Mamma e Prim ci hanno messo un bel po' a calmarmi. Hanno pianto insieme a me. Hanno pianto per quella piccola vita che, come me, non sono riuscite a conoscere.
Prim è rimasta a dormire nel mio letto, esattamente come era accaduto dopo il mio ritorno dall’arena l’anno scorso. Lei si è addormentata di nuovo, io invece no. Non ci riuscivo. La mamma voleva darmi qualcosa per farmi dormire, ma io gliel’ho impedito: non li volevo, i farmaci, e non li voglio prendere mai più. Dormire sotto farmaci è peggio di non dormire affatto. Rivivere gli incubi sotto farmaci è peggio, quando non puoi svegliarti ed allontanarli. Ero sempre terrorizzata quando mi svegliavo, all’ospedale… e lo sono ancora, terrorizzata. Sarò sempre terrorizzata. Lo sarò per il resto della mia vita.
Con il cuore impazzito ed il respiro veloce, sono scesa dal letto e ho raggiunto, cercando di non fare rumore, il cassettone, aprendo quello destinato ai miei vestiti. Poche ore prima Prim mi aveva mostrato ciò che per giorni e settimane intere mi aveva tenuto celato. Credeva che non fossi abbastanza forte per sopportare la loro vista. E forse non aveva tutti i torti: non ci sarei riuscita, prima. Neanche ora lo sono, se è per questo, ma il fatto che non urli davanti a questi oggetti vuol dire già molto.
Avvolti all’interno di un paracadute di seta, quello che portavo legato alla cintura nell’arena, c’erano una spillatrice argentata e la mia spilla dorata. E accanto, piccola e bianca, la perla.
La perla che mi aveva donato Peeta.
L’ho presa tra due dita e, dopo averla osservata al buio, ho rimetto a posto il resto degli oggetti prima di tornare nel mio giaciglio cercando di non svegliare Prim, stringendo la sfera nel palmo della mano. È talmente piccola che non mi sembrava quasi di percepirla contro la pelle, tenendo la mano serrata nel modo in cui lo stavo facendo. Se avessi stretto un po' più forte, avrebbe potuto oltrepassare lo strato di pelle e scavare un solco nella carne.

Questa perla è tutto ciò che mi rimane di Peeta. Un altro dei suoi pegni d’amore. È stato il suo ultimo regalo per me… e lui, di me, non ha nulla.
Ho portato il pugno chiuso sulla bocca, in un bacio muto che racchiudeva dentro di sé un urlo. Ho serrato gli occhi per non vedere le terribili immagini che avevano preso di nuovo vita davanti a me.
Quella è stata la prima notte di tante, di tutte le successive. Dopo ogni incubo prendo la perla, la stringo nella mano e mi aggrappo ad essa per superare le ore buie. Mi aggrappo al ricordo di Peeta che era sempre presente per me dopo un incubo, pronto a consolarmi e a tranquillizzarmi, scacciando il male di quelle immagini. Mi aggrappo all’immagine di Peeta, il primo viso che riempiva i miei occhi ogni volta che mi svegliavo, mentre adesso la prima cosa che vedo al mattino è una parete grigia. Mi aggrappo all’ultimo ricordo che ho di Peeta per poter andare avanti. Mi aggrappo alle ultime parole che ci siamo scambiati, quell’ultima notte nell’arena, prima che tutto ci sfuggisse dalle mani.

Fa attenzione.
Ci vediamo a mezzanotte.

 

Mi chiamo Katniss Everdeen. Ho diciassette anni. Sono nata nel Distretto 12. Il Distretto 12 non esiste più. La famiglia di Peeta non esiste più. Peeta è stato fatto prigioniero e non sa nulla della sua famiglia. Peeta non sa nulla della nostra bambina.
Il mantra di oggi è questo. Lo ripeto mentalmente, ancora e ancora, mentre il mio programma per la giornata viene tatuato temporaneamente sul mio braccio destro. Lo ripeto mentre vado in mensa per la colazione e, col vassoio tra le mani, raggiungo il tavolo in cui si è già riunita la mia famiglia insieme a quella di Gale. Lo ripeto ancora mentre mangio, mentre ascolto distrattamente le chiacchiere tra Hazelle e la mamma e il vociare allegro della piccola Posy. E lo ripeto ancora quando lascio la mensa insieme a Gale, diretti ai nostri doveri.
Alle otto, leggo sul programma che ho al polso, c’è una riunione a cui devo presenziare; anche Gale è stato invitato a partecipare, così ci andiamo insieme. Non voglio presenziare a nessuna riunione e, se non fosse per la presenza del mio amico, cercherei di svignarmela in uno dei miei soliti nascondigli e cercherei di trascorrerci l’intera giornata, se posso. Ma Gale mi guida attraverso corridoi, ascensori, piani e livelli, e lo fa tenendo sempre una mano fissa sul mio gomito. Mi riacciufferebbe nel giro di un secondo, se solo tentassi di scappare.
Arriviamo al Centro di Comando ed entriamo nella Sala Riunioni. È la prima volta che mi ci reco, quindi rimango abbastanza spiazzata dall’enorme tavolo di metallo circondato da una vasta quantità di sedie, anch’esse in metallo. La sala potrebbe ritenersi vuota se non fosse per la presenza di Plutarch e per quella di una donna dai lunghi capelli grigi, che parlottano seduti al centro del tavolo, e per noi che siamo appena arrivati. La donna è la presidente Coin.
Capisco che il loro non è altro che l’ennesimo tentativo di convinzione per prendere parte alla ribellione troppo tardi. Quando mi volto di scatto per raggiungere la porta, il corpo di Gale si mette in mezzo e mi impedisce di proseguire. È troppo tardi per scappare.
- Non se ne parla, Catnip – dice serafico.
Lo fulmino con lo sguardo e vorrei tanto che questa non fosse solamente un’espressione verbale; se solo ne avessi la possibilità, lo fulminerei davvero seduta stante. Gale, però, mi ignora, mi fa di nuovo voltare verso le altre due persone presenti e mi sospinge in avanti per poterli raggiungere.
- Signor Hawthorne! Vedo che non è riuscito a farla scappare… molto bene – dice Plutarch, annuendo mentre sorride. – Signorina Everdeen – mi saluta, mentre mi osserva prendere posto di fronte a lui.
Annuisco, ricambiando il saluto di malavoglia. Gale si siede accanto a me.
- Non è molto loquace – osserva la Coin. Ha gli occhi gialli fissi su di me, e sembra mi stia studiando.
- Eliot ci sta lavorando – dice Plutarch.
- Da settimane, da quel che so. Non mi sembra che la terapia stia andando molto bene… mi dica se sbaglio, signorina Everdeen – aggiunge lei, stirando le labbra in un sorriso di scherno.
La osservo, non dandole nessun tipo di risposta. Non ne aspettava, naturalmente.
- D’accordo, Katniss… posso chiamarti Katniss, vero? Ormai siamo amici – scherza Plutarch. Il suo debole tentativo di battuta mi costringe a spostare lo sguardo dalla Coin a lui. – Sicuramente sai perché sei stata richiamata qui. Ti abbiamo lasciato del tempo per poter pensare alla proposta che ti abbiamo fatto, ma adesso il tempo stringe, e abbiamo bisogno della tua collaborazione. Devi ancora darci una risposta.
- Sarai la nostra Ghiandaia Imitatrice? – domanda la Coin.
Non fanno altro che ripetermelo, chiedermelo. Per loro rappresento l’arma più potente che possano usare contro il potere di Capitol City, contro il potere del presidente Snow, e odiano il fatto che io non voglia collaborare. Odiano il fatto che io non gli abbia ancora dato la risposta che desiderano tanto.
All’inizio sostengo i loro sguardi, sempre senza emettere una sola parola, poi abbasso il mio. Osservo le mie dita che, sotto al tavolo, non hanno mai smesso di muoversi, cercando di far rotolare qualcosa che non c’è, in realtà. Non ho la perla qui con me. Le mie dita stanno soltanto facendo finta che ci sia. Vorrei tanto non averla rimessa nel cassetto, stamattina, come faccio ogni volta che sopravvivo ad un'altra notte senza Peeta.
- Non puoi convincerla a parlare? – chiede Plutarch a Gale.
- Non parla neanche con me – risponde lui. – Ha bisogno del suo tempo.
- Non lo abbiamo più, il tempo – dice la Coin. La sua voce è diventata tagliente, adesso. – Capisco che sta soffrendo per ciò che ha subito, ma abbiamo perso e stiamo continuando a perdere giorni preziosi per attenderla. L’attesa è un lusso che non possiamo più concederci.
- Forse mandarla a casa potrebbe spronarla – commenta Plutarch.
Alzo lo sguardo, colpita da ciò che ha detto. A casa?
- Intendi al Distretto 12? – domanda la Coin. - È un azzardo, Heavensbee. E uno spreco di risorse. Non c’è più nulla, al 12.
- Non sarà uno spreco se la aiuterà a schiarirsi le idee. Meglio sprecare un giorno piuttosto che un mese. Forse un piccolo tour al Distretto 12 è quello che le serve per convincersi che siamo dalla stessa parte.
- Potrebbe essere pericoloso.
- Non c’è più nulla al 12, signora presidente. L’ha detto lei stessa…
Seguo il loro scambio di battute come se fosse una strana partita a uno strano gioco, muovendo la testa in direzioni diverse a seconda di chi parla. L’intenzione di Plutarch di mandarmi al Distretto 12, a casa, si concretizza anche nella mente della presidente Coin, che alla fine accetta di mandarmici.
- Mi offro come volontario per accompagnarla – dice subito Gale, senza esitazione.
- Se Katniss se la sente, darò l’ordine di preparare un hovercraft per questo stesso pomeriggio – dice Plutarch.
- Cosa ne pensi, Katniss? – chiede Gale, sfiorando il mio gomito. Volto la testa verso di lui. – Te la senti di tornare al 12?

Me la sento? No, a dire la verità: non me la sento proprio. Mi sono bastate le parole che ha usato nel suo resoconto per farmi capire che a casa, ormai, non c’è rimasto più nulla e nessuno da vedere, da incontrare. Non è più un posto da chiamare casa. Mi sono bastate le sue parole per capire che al Distretto 12 non c’è più nient’altro al di fuori della morte.
Sto quasi per scuotere la testa per esprimere la mia intenzione di non andare, ma alla fine ci ripenso ed annuisco.
Sto per tornare a casa.

 

Ci vogliono quarantacinque minuti esatti per raggiungere in volo il Distretto 12. Quarantacinque minuti che trascorro nel quasi più totale silenzio, inframmezzato solo dalle voci di Gale e da quelle degli altri soldati che mi stanno accompagnando in questo viaggio. Mi dicono che resteranno in volo e non smetteranno di seguirmi nemmeno per un istante, tenendomi sempre sotto controllo per tutto il tempo in cui vorrò restare al mio vecchio distretto. Gale si è proposto come mio accompagnatore non solo per il volo, ma anche per scortarmi una volta che sarò scesa dall’hovercraft. Ho scosso la testa, però, negando la sua offerta.
Scopro di non volerlo al mio fianco quando sarò a terra, preferendo come unica compagnia solamente quella di me stessa. Dentro di me, sento che questa visita devo riuscire ad affrontarla da sola. Non voglio che ci sia qualcuno con me, quando scoprirò con i miei stessi occhi cosa hanno fatto al luogo in cui sono nata.
Quando siamo sul posto, l’hovercraft si abbassa fino quasi a toccare il suolo, permettendomi di scendere dal mezzo attraverso l’enorme portellone prima che questo si richiuda alle mie spalle. Una folata di vento, provocata dall’hovercraft che ritorna in volo, mi investe scompigliandomi i capelli e coprendomi la visuale, lasciandomi in mezzo alla polvere che ha smosso col suo passaggio. Mi pulisco frettolosamente gli occhi e la faccia con le mani e vedo che queste si sporcano completamente di grigio. Non è il colore della polvere, questa…

È il colore della cenere.
Alzo lo sguardo, scioccata, osservando ciò che rimane del Palazzo di Giustizia. I piloti del 13 mi hanno lasciata proprio al centro della piazza cittadina, piazza che non riconoscerei più se non fosse per gli enormi cumuli di macerie su cui campeggiano ancora le iscrizioni del palazzo. Non c’è nient’altro, intorno a me, al di fuori delle macerie. Respiro con la bocca, ansimando, e giro su me stessa mentre osservo la devastazione che mi circonda. Le macerie fumano ancora, a distanza di giorni e settimane dagli avvenimenti.
L’ultima volta che sono stata qui la piazza era gremita degli abitanti del Distretto 12, venuti a prendere parte alla mietitura che avrebbe riportato due dei suoi tre vincitori di nuovo all’interno di un’arena. Ricordo i volti di chi ci ha osservato procedere, in una muta processione scortata, fino ai piedi del palco, così come ci aveva osservato tornare a casa trionfanti meno di un anno prima. Ricordo il muto addio che hanno riservato a me e a Peeta quando, una volta saliti sul palco, ci siamo stretti la mano per darci forza a vicenda.
La maggior parte di quei volti non c’è più, adesso. Non c’è più nemmeno Peeta. E, forse, non ci sono più nemmeno io.
Cammino con passi malfermi fino al punto in cui, poche settimane fa, sorgeva la panetteria della famiglia di Peeta. Non rimane nulla del negozio e del piccolo appartamento in cui vivevano, a parte il forno, ridotto ormai ad un enorme grumo di metallo fuso. L’insegna, le vetrine… è tutto distrutto. Come un’eco, le mie orecchie captano la campanella che accompagnava l’aprirsi della porta e che annunciava l’arrivo di un cliente. Nessuno aprirà più quella porta. Nessuno verrà più a comprare il pane.
Tutti gli edifici dei negozi sono ridotti nello stesso, identico modo. La farmacia, l’emporio, la bottega del calzolaio. Sono tutti ridotti ad ammassi fumanti di pietra e vetri. Fisso un punto lontano verso il limitare della piazza, dove una volta sorgeva la casa del sindaco e dove adesso c’è solo un rudere fumante. La casa del sindaco, la casa di Madge. Madge, ho scoperto, non era nel gruppo dei rifugiati che è arrivato al Distretto 13: il suo nome e quello dei membri della sua famiglia rientrano tra quelli che riempiono la lunga lista dei dispersi. Gli Undersee, Lana e suo marito Jon e molti altri commercianti compaiono nella lista dei dispersi. Forse sono morti. Forse sono sepolti sotto le macerie. Sotto le macerie potrebbe esserci sepolta l’intera famiglia di Peeta…
La morte che circonda la piazza aleggia fino ad arrivare a me, penetrandomi nella pelle e nelle vene, arrivando dritta al mio cuore. Fa male, di nuovo, come se lo avessero preso a coltellate. Mi accascio fino a sedermi scompostamente per terra, tra la cenere e le macerie, stringendo le braccia attorno al torace per scongiurare i brividi di freddo che invadono il mio corpo, nonostante l’opprimente calura ed il sole cocente che ho puntato dritto sulla testa. Singhiozzo, stringendo gli occhi e la bocca per cercare di trattenere una crisi di pianto. L’ennesima, da quando sono stata tratta in salvo. C’è talmente tanto dolore, dentro di me, da riuscire a venir fuori solo attraverso il pianto.
Mi rialzo a fatica e procedo lentamente, serrando la presa dell’abbraccio che sto ricevendo da me stessa. Respirare fa male, piangere fa male, tutto in questo posto mi fa male, ma mi costringo a muovermi, a camminare, per allontanarmi dalla piazza. Non mi sto allontanando dal dolore e dalla morte, è impossibile evitarle quando tutto il Distretto 12 pullula di morte e dolore.
Il viottolo che conduce al Giacimento non esiste più, sostituito dagli strati di cenere, ma per me che l’ho percorso un’infinità di volte nell’arco della mia vita non serve. I miei piedi sanno riconoscere la strada, sanno dove andare per raggiungere la mia vecchia casa. Il terreno non è più regolare come lo ricordavo, ma è costellato da buche e avvallamenti. I punti in cui sono cadute le bombe? Quante ne sono cadute? Decine, se non centinaia. Ci sono volute centinaia di bombe per ridurre il 12 ad una distesa di cenere?
Inciampo su un sasso e perdo l’equilibrio, cadendo a terra. Un gemito di dolore mi esce dalle labbra quando impatto il terreno perché non faccio nulla per ammortizzare la caduta. Quando guardo il sasso urlo, perché non è realmente un sasso. Un sasso non ha due orbite vuote. Un sasso non ha i denti.
Sono inciampata su un teschio umano.
Mi allontano dal teschio strisciando e urlando, cercando di rimettermi in piedi il più in fretta possibile. Inizio a correre sul terreno irregolare per scappare il più lontano possibile da quelle orbite, che sento puntate sulla schiena come se potessero davvero vedermi, seguirmi. Mi fermo quando incontro altre orbite, altri teschi. Un’infinità di teschi mi osservano. Teschi collegati a scheletri.
Quello che una volta era il Giacimento è adesso una distesa di corpi umani, anneriti e mezzo inceneriti dall’incendio e dalle esplosioni che li hanno colti impreparati nella notte. Sono ammucchiati, sono irrigiditi in pose contorte e irreali. Le vite a cui erano appartenuti questi corpi si sono bloccate in queste pose durante il loro ultimo istante di vita sulla terra. Ci sono così tanti corpi, e alcuni sono così piccoli. Uomini, donne, bambini…
Copro la bocca con le mani, arginando le grida che sento nascere nella gola. Tremo, lasciando che le lacrime scorrano libere sulle guance fino a cadermi sulle mani, fino a terra, dove si mischiano con la terra e la cenere.
Un guaito, non molto distante da me, mi coglie impreparata e mi fa sussultare per la paura, ma quando volto la testa vedo che si tratta di un cane. È uno di quei cani selvatici che riempiono i boschi attorno al distretto, quelli che si scagliavano contro me o Gale ogniqualvolta ci imbattevamo in uno di loro durante la caccia. Qualche volta, uno di quei cani selvatici è finito dentro la zuppa di Sae la Zozza. Questo cane non è per nulla aggressivo, però, conoscendo i loro standard. E non sembra nemmeno interessato o spaventato dalla mia presenza.
Il cane smette di osservarmi e si dirige, annusando il terreno, verso i cumuli di corpi carbonizzati. Inizia ad annusarli, e poi a mangiarli.
Un conato di vomito mi risale fino in gola e non lo trattengo, incapace di affrontare persino il mio stomaco che si rivolta davanti alla scena a cui ho appena assistito. Tutto ciò a cui ho assistito fino ad ora non farà altro che alimentare i miei incubi, già spaventosi per conto loro.
Che razza di brutto tiro ha giocato Plutarch nei miei confronti? Come ha potuto pensare che vedere tutto questo avrebbe spronato le mie decisioni? Ed io perché ho accettato di venire qui? Sapevo cosa mi attendeva, ma ho accettato comunque.

Perché dovevi vedere con i tuoi occhi, Katniss.
Respiro velocemente, stringendo le mani sulle tempie. Chiudo gli occhi, isolandomi ancora una volta.

 

Mi chiamo Katniss Everdeen. Ho diciassette anni. Il Distretto 12 era la mia casa. Il Distretto 12 ora non esiste più. Il Distretto 12 è una valle di cenere, macerie, e corpi carbonizzati. Il Distretto 12 è una valle di morte.
L’unico posto al 12 in cui le bombe non sono cadute è il Villaggio dei Vincitori. Il terreno che calpesto è normale, regolare, non ci sono gli avvallamenti o le deformazioni che ho visto in piazza, o al Giacimento. È sporco di cenere anche qui, ma solo perché il vento l’ha portata fino a qui, dove non c’era nessuno destinato a morire. Gale ha salvato la mia famiglia, e il resto di noi era a Capitol City, o stava fuggendo. Le inferriate e il cancello d’accesso al Villaggio segnano lo spartiacque del massacro. Da un lato la normalità, dall’altro la morte.
È un messaggio, questo. Ovvio che lo è. Il Villaggio dei Vincitori è stato voluto e costruito per dimostrare la supremazia di Panem, obbligando anno dopo anno i vincitori dei giochi a viverci come segno ulteriore di questa sua supremazia. E la supremazia di Panem ha mantenuto in piedi ciò che ha costruito solidamente sulle sue fondamenta, cancellando dalla storia tutto il resto. Tutto ciò che non merita considerazione, tutto ciò che non è degno di riconoscimento.

Gli stracci della terra1.
Novemila persone non meritano alcun tipo di riconoscimento, secondo la logica di Panem.
La logica del presidente Snow.
Cammino lentamente, superando le case disabitate fino a raggiungere le solite, quelle più familiari: la casa di Haymitch, l’unica in venticinque anni ad essere stata occupata fino all’arrivo mio e di Peeta, che abbiamo scelto le due successive. La casa di Peeta ha ancora le tende scostate, come le lasciava sempre lui. Mi soffermo a guardarla. Quante volte ci sono passata davanti? Quante volte mi sono seduta su questi gradini? Quante volte ho oltrepassato la porta per raggiungere il mio fidanzato? Mio marito?
Quante volte ho fatto l’amore con lui in questa casa?
Il male al cuore diventa troppo intenso e sono costretta ad allontanarmi verso quella che, fino a un mese fa, è stata la mia abitazione. Non posso restare davanti ad uno dei pochi posti in cui mi sono sentita davvero felice. La casa di Peeta è uno dei pochi posti in cui la ragazza che ero un tempo si trasformava non appena vi entrava, dimenticando quasi sempre i problemi e le ansie che la attraversavano per accogliere con gioia l’amore e la serenità con cui il suo ragazzo la ricopriva.
Quella ragazza non esiste più, ormai.
Anche la mia casa sembra essere rimasta ferma al momento in cui i suoi occupanti l’hanno lasciata vuota. Accanto all’acquaio ci sono le stoviglie lavate e messe ad asciugare, e sul tavolo della cucina c’è uno strofinaccio abbandonato, forse lanciato dalla mamma quando Gale è venuto ad avvertirla di fuggire. Accanto al camino spento, sulla sedia a dondolo, il suo solito lavoro a maglia rimasto incompleto. Nessuno tornerà ad ultimarlo.
Vado verso lo stipetto riservato ai medicinali e comincio a frugarci dentro. È quasi pieno, così recupero la mia vecchia sacca di tela e la riempio con le boccette. Non sono certamente i migliori e i più forti medicinali del mondo, ma possono comunque tornare utili. E la mamma sarà felice di averli. Almeno sono in grado di fare anche qualcosa di buono, anche se si tratta soltanto di portare qualche oggetto da casa.
Rischio di far cadere tutto il contenuto della sacca quando sento un sibilo. Mi volto, di nuovo spaventata, perché penso che quel dannato cane selvatico mi abbia seguita fino a casa, ma è qualcosa di altrettanto selvatico ad aver fatto la sua comparsa.

È Ranuncolo. Mi guarda e mi soffia contro, come fa dal giorno in cui Prim lo trovò anni fa, piccolo e ricoperto di pulci, e lo portò a casa.
Migliaia di persone sono morte, ma lui è sopravvissuto. Ci avrei scommesso la lingua.
- Non posso crederci – mormoro. Sono le prime parole che pronuncio dopo settimane intere, e a farmele pronunciare è stato proprio lui. Lo stupido gatto di mia sorella. Ci voleva l’intervento di Ranuncolo per farmi parlare di nuovo?
Senza esitare, attraverso la stanza e lo prendo in braccio, ignorando le sue proteste ed il suo divincolarsi. Lo faccio entrare senza tante cerimonie nella sacca di tela, sopra alle boccette dei medicinali. In un colpo solo farò felici mia madre e mia sorella. Ranuncolo si scatena e miagola, dentro la sacca, ma io lo ignoro, continuando a muovermi per la casa vuota.
Aggiungo ai bagagli anche la foto di mio padre ed il libro delle piante su cui abbiamo lavorato tutti, in questa casa: prima la mamma, poi papà, e poi io e Peeta insieme. In questo libro ci sono i suoi disegni e i suoi colori. Lo stringo al petto. È un’altra cosa a cui posso aggrapparmi.
Con il libro ancora tra le braccia salgo fino al piano di sopra, andando nella mia vecchia camera. Dall’armadio prendo la giacca da caccia che era stata di mio padre e che ho poi cominciato ad indossare io, dopo la sua morte. Poso il libro sul letto giusto il tempo che mi occorre ad indossarla. Fa caldo, e la pelle di cui è fatta la giacca non fa altro che aumentarlo, ma avere di nuovo qualcosa di familiare addosso vale la sopportazione di qualsiasi tipo di calore.
Riprendo il libro e sto per uscire per cercare qualcosa nella camera della mamma quando un forte odore mi blocca. Conosco già questo odore, l’ho sentito altre volte. L’ho già sentito addosso ad una persona in particolare.
Percorro con lo sguardo, e col naso, la camera in cerca della fonte dell’odore. Trovo la fonte sul tavolo della mia toeletta, dove è stata poggiata da qualcuno. Qualcuno che voleva farmi un regalo.

È una rosa bianca.

 

Tornare sull’hovercraft è quasi un sollievo. Non sono entusiasta all’idea di tornare al Distretto 13, dove ad attendermi ci sono Plutarch e la Coin che attendono di sapere se il mio viaggio ha fornito il risultato da loro così tanto sperato, ma è pur sempre meglio della desolazione che mi lascio dietro. È pur sempre meglio della rosa fresca che qualcuno ha lasciato in camera mia, non molto tempo prima che arrivassi io.
- Stai bene? – mi chiede Gale quando mi siedo accanto a lui.
Annuisco, poggiando la sacca sulle mie gambe con poco garbo. Subito, un lamento sommesso e arrabbiato proviene dal suo interno. Gale inarca un sopracciglio e mi osserva, in cerca di risposte. Scrollo le spalle. Sa già chi c’è dentro la borsa, non serve che glielo dica io.
- È stato tanto brutto laggiù? – chiede ancora.
“Brutto” non è la parola che userei per definire ciò che ho visto.
- Dovevo vederlo. Dovevo capire – mormoro.
Gale non sembra colpito dal sentire la mia voce. Pizzica leggermente la mia guancia e non aggiunge altro sull’argomento. È meglio così.
- Cosa farai adesso?
A questa domanda invece non rispondo. La risposta la tengo per me, e per il momento in cui la dovrò riferire a chi di dovere. La risposta ha preso vita in me nel momento in cui ho visto quella rosa sulla toeletta della mia camera. Credo di aver sempre saputo che alla fine avrei scelto questa precisa risposta.
Chiudo gli occhi, poggio la testa contro il metallo dell’hovercraft, e penso alla risposta mentre torniamo al Distretto 13. Adesso, la risposta è entrata a far parte del mio mantra.

Mi chiamo Katniss Everdeen. Ho diciassette anni. Sono sopravvissuta agli Hunger Games. Gli Hunger Games hanno rovinato la mia vita. Il presidente Snow ha rovinato la mia vita. Ma mi vendicherò di lui.
Sarò la Ghiandaia Imitatrice.

 

 

 

_______________________

1 Da grande appassionata di Victor Hugo, delle sue opere cartacee e dei musical che ne hanno tratto, non potevo non inserire almeno una citazione dal Notre-Dame de Paris, contenuta in quella che è forse la mia canzone preferita di tutto il musical. “Gli stracci della terra”: nel contesto dell’opera originale si riferisce a tutto quell’universo composto dai poveri, dai deformi, da tutti quei miserabili che popolano i bassifondi della Parigi medievale e che vengono invocati nella canzone tramite Quasimodo (il miserabile per eccellenza). Nel contesto di quest’altra storia, invece, “Gli stracci della terra” diventano tutti coloro che si sono ritrovati a vivere nei distretti. I miserabili, appunto, che non meritano alcun tipo di considerazione dai piani alti. Sono quelli che possono permettersi di uccidere. I sacrificabili. Ovviamente non è così: nessuno è sacrificabile.

 

Fateci caso: le note stanno diventando più lunghe dei capitoli XD non so se è un bene o un male…
Quello di oggi è un capitolo lungo, ed è importante e di transizione allo stesso tempo: è passato un mese dall’Edizione della Memoria, Katniss non se la passa molto bene (ma mi sembra anche normale, poverina) e adesso ha visto con i suoi occhi ciò che le parole di Gale avevano evocato nello scorso capitolo. E, come c’era da aspettarsi, sceglie di diventare la Ghiandaia Imitatrice per vendicarsi.
Approfondiremo questa decisione anche nel prossimo :)
Vi mando un grosso abbraccio virtuale – questi nessuno ce li può togliere :P

D.

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Capitolo 27
*** 27. ***


In The Still Of The Night - 27

In the still of the night

 

 

 

 

27.

 

A questo punto immagino di dover andare a chiedere di essere ricevuta dalla Coin per poterle comunicare la mia decisione, ma appena torniamo al Distretto 13 scopro che l’unica cosa che voglio fare è raggiungere l’alloggio che condivido con la mia famiglia per portare loro ciò che ho recuperato nella vecchia casa. E poi, diciamolo pure: non posso portare Ranuncolo alla Coin. E non posso neanche tenerlo dentro la sacca per sempre. Dovrò chiedere il permesso affinché mia sorella possa tenerlo.
Gale mi accompagna fino alla porta dell’alloggio, la 307, e lo fa tenendo sempre una mano contro la mia schiena. Abbiamo ripreso a trascorrere molto tempo insieme, quando lui non è troppo impegnato a rispettare la tabella di marcia tatuata sul suo braccio e quando io non cerco di nascondermi da qualche parte. Nelle ultime settimane ha sopportato i miei silenzi, ha confortato le mie crisi di pianto e gestito i miei attacchi isterici. Ce ne sono stati troppi, ammetto a malincuore. E Gale li ha affrontati senza battere ciglio. Si è quasi trasformato in una balia, e lo ha fatto per me. Sa che la mia non è semplice sofferenza fisica, ma sofferenza dell’anima, e cerca di aiutarmi come può. E la sua sola presenza mi è di aiuto, in qualche modo. L’ho perdonato per avermi confessato ciò per cui non ero ancora pronta ad ascoltare, anche se sono stata io a costringerlo a farlo. L’ho perdonato per avermi detto di Peeta… ma se non lui, lo avrebbe fatto qualcun altro.
- Ci rivediamo tra una mezz’oretta per la cena – dice, accarezzandomi una spalla.
Gale ha ragione: sono le 18. È il momento dedicato alla riflessione, qui al 13: mezz’ora, quella che precede per l’appunto l’ora di cena.
- Aspetta un attimo, Gale – gli dico prima che possa allontanarsi. Infilo una mano nella tasca della mia tuta e afferro la catenina d’argento che ho recuperato dalla camera della mamma. Gliela porgo. – Sai se sia possibile aggiungerci un pendente?
Gale prende la catenina e la osserva. – Certo che è possibile, Catnip. Puoi metterci ciò che vuoi. Lo hai già?
- Voglio metterci la perla.
- Hai una perla? – chiede, come se cadesse dalle nuvole, ma poi il suo viso si adombra, e ricorda. La perla. Ovvio che sa della perla. Tutti sanno della perla che Peeta mi ha regalato nell’arena. Ma non tutti sanno che questa è riuscita ad uscire insieme a me dall’arena. Neanche Gale sapeva, e lo capisco dalla sua reazione. Ma sembra sinceramente curioso quando aggiunge: - Posso vederla?
- Perché?
Sbuffa, trattenendo una risata. – Non voglio mica rubartela, è tua. Mi serve per vedere come fare per metterla qui – dice, agitando la catenina davanti ai miei occhi.
- Te la farò vedere durante la cena – dico, contenta. Questa è la prima volta da settimane in cui mi sento contenta per qualcosa. La mia contentezza viene, però, interrotta dall’ennesimo soffio che quella bestia di Ranuncolo emette dall’interno della borsa.
- Dai, entra in casa. Ci vediamo tra poco – mi sprona Gale, pizzicandomi la guancia prima di andare via.
Poso la mano sulla maniglia ma non la abbasso, e resto a guardare la sua schiena che si allontana lungo il corridoio per un minuto. Avere di nuovo Gale nella mia vita sembra dare di nuovo un senso alla mia normalità. Una normalità che non lo è veramente, e che da un lato vorrei andasse diversamente. Sono accadute troppe cose per illudersi che questo tipo di normalità possa andarmi davvero bene.
Alla fine entro in casa, e la mezz’ora successiva trascorre felice. Prim è estasiata nel rivedere il suo orrendo gatto dal pelo giallo, e la mamma sembra soddisfatta e rassicurata dalla presenza della foto di papà e del libro sulle piante. I medicinali dice che li porterà all’ospedale, dove potranno tornare utili in qualche modo. Immersa tra le loro chiacchiere, sistemo la giacca di pelle sullo schienale di una sedia e vado al cassettone, dove recupero il paracadute e la perla che vi nascondo all’interno ogni volta, per tenerla al sicuro.
La guardo, e da un lato non vorrei portarla con me a cena per paura di perderla, ma l’ho promesso a Gale. Ha detto che mi aiuterà a metterla nella catenina, e di lui posso fidarmi. Posso affidarla a Gale, sicura che non la perderà.
Quando siamo di nuovo insieme in mensa, riuniti attorno ad un tavolo con i nostri vassoi di cibo poco invitante, osservo il mio amico che osserva a sua volta la piccola sfera bianca. Se nelle mie mani sembra piccola, nelle sue diventa microscopica.
- Credo di conoscere qualcuno che è in grado di aiutarmi – dice, tenendo la perla tra pollice e indice.
- Chi? – domando.
Lui sta per rispondermi quando un “bip bip” lo interrompe. A fare quel suono è stato il bracciale comunicatore che indossa al polso. Un privilegio speciale riservato a chi è considerato essenziale per la causa, posizione che Gale ha raggiunto con il salvataggio degli abitanti del Distretto 12. – Ci vogliono al Comando – dice.

Ci. Lo ha detto al plurale. Quindi sono coinvolta anche io, nell’ordine che ha appena ricevuto. Guardo la mia cena, quasi intatta, e a malincuore scanso il vassoio insieme a quello di Gale mentre ci alziamo. Una riunione straordinaria al Comando all’ora di cena: dev’essere accaduto qualcosa di eclatante. Oppure hanno urgenza di sapere se ho scelto o meno di collaborare.
È un bene che ci abbiano richiamati, penso. Almeno posso farglielo sapere, e non serve più che sia io a richiedere un incontro con la Coin o con Plutarch, se lo hanno già fatto loro per me.
La Sala Riunioni è già piena di gente, ma tutta questa gente non è seduta attorno al tavolo. È tutta ammucchiata davanti allo schermo gigante che ricopre la parete finale della stanza. Quasi nessuno sembra accorgersi dell’arrivo mio e di Gale… quasi nessuno tranne Plutarch, che dopo aver sentito la porta aprirsi si è voltato dalla nostra parte e ci ha fatto cenno di avvicinarci.
- Cosa succede? – sento chiedere dalla voce di Gale, ma prima che Plutarch possa rispondergli lo vedo con i miei occhi.
Peeta.
Ecco cosa succede.

Peeta è in televisione.
In diretta nazionale.

 

- Peeta!
Nelle mie intenzioni, il suo nome sarebbe dovuto uscire in una forte esclamazione; invece, tutto quello che ottengo mentre mi faccio spazio tra i corpi accalcati davanti allo schermo è un singulto, misto a un sussurro mezzo biasciato. Solo io ho capito cos’è che volevo dire.
Ma Peeta non può sentirmi chiamare il suo nome. Non può, perché non siamo solo divisi da uno schermo televisivo. A dividerci ci sono anche centinaia e migliaia di chilometri, giorni di viaggio, e gli eserciti dei Ribelli e di Capitol City.
- Peeta – mormoro di nuovo, quando sono davanti allo schermo illuminato a pochi centimetri dal suo viso. Viso che pensavo di poter rivedere solo nei miei sogni, nei miei incubi.
Lo credevo morto, ed invece è vivo.
E sta bene!

Stai bene, penso, portando entrambe le mani sullo schermo. La sua pelle non ha un graffio, non ci sono segni che mi facciano pensare alla violenza o alla tortura. Ci sono solo delle occhiaie, a contornare le iridi azzurre e a stonare sulla sua figura elegante e tirata a lucido. Occhiaie che neanche il trucco per le telecamere è riuscito a celare.
Qualcuno cerca di scansarmi, ma lo caccio via. Non voglio che mi portino via da Peeta.
- Dai Catnip, vieni – mormora Gale al mio orecchio. Prende le mie mani tra le sue e lentamente le fa scivolare via. Fa scivolare via anche me, ma non del tutto. Non ci allontaniamo di molto, giusto quel che basta per far vedere anche agli altri cosa sta facendo Peeta. Cosa sta dicendo Peeta.
Perché effettivamente sta dicendo qualcosa, solo che io ero troppo presa dal suo viso per potermene accorgere.
- …la sera prima dell’Edizione della Memoria… beh, chi avrebbe mai pensato che ti avremmo rivisto? – domanda la voce di Caesar.
Peeta non è da solo, nello studio televisivo. C’è Caesar Flickerman insieme a lui, con i capelli e le sopracciglia ancora tinti di rosa e con un completo nero scintillante, in puro stile capitolino. Caesar gli sta facendo un’intervista.
- Non faceva parte del mio piano, questo è sicuro – dice Peeta, accigliandosi.
Non guarda il suo interlocutore, mentre gli risponde. Seduto sulla poltrona rossa imbottita, con le gambe accavallate, osserva qualcosa che si trova sulla sua mano sinistra mentre l’accarezza con la destra. Ma non riesco a capire bene di cosa si possa trattare.
- Conoscevamo tutti il tuo piano, Peeta. Volevi sacrificarti per salvare la vita di Katniss Everdeen, e quella della vostra bambina – dice Caesar.
- E non ci sono riuscito – mormora mesto.
Le sue dita si fermano di colpo, e la sua mano sinistra si irrigidisce, stringendosi in un pugno. Copro la bocca con una mano per la sorpresa, perché adesso riesco a vedere benissimo cos’ha Peeta. C’è un anello, infilato nel mignolo della sua mano sinistra. È un anello scintillante.
È il mio anello di fidanzamento.
- Qualcun altro sembra di sì, invece – con le sue parole, Caesar sembra che gli stia lanciando una frecciatina. E quando Peeta non abbocca all’amo, continua. – I Ribelli sono riusciti a farla uscire dall’arena.
Peeta sbuffa, scuotendo la testa. – In questo sono stati senz’altro più bravi di me.
- Cos’è che vuoi dirci, Peeta? – lo incalza Caesar.
Lui sospira. – Nulla, Caesar, solo… è che stavo perdendo le speranze. Per entrambe. L’ho vista soffrire, e tanto, e dentro di me sentivo che forse non sarei mai stato in grado di fare ciò che era necessario per farle sopravvivere entrambe.
Peeta rievoca a voce gli eventi che hanno costellato quell’ultima, orribile notte nell’arena. La rivivo insieme a lui, guidata dalle sue parole, solo che i miei occhi rivivono il tutto con le immagini che si sono impresse nella mia memoria. Noi due che ci separiamo all’albero dei fulmini per dare vita al piano, il filo metallico che veniva tranciato, il tentativo di Johanna di salvarmi dai Favoriti, il mio ritorno all’albero. Le contrazioni che annunciavano il mio imminente aborto. Peeta, invece, ha cominciato a cercarmi, e nel farlo si è imbattuto in Brutus e Chaff: ha assistito alla morte del tributo del Distretto 11, e poi ha dovuto affrontare il Favorito. Ha lottato, si è difeso e ne è uscito vincitore. Brutus è morto, ucciso dalle sue stesse mani, ed è stato allora che è tornato a cercarmi.
Qui i nostri racconti iniziano a coincidere: la mia voce che risponde alla sua, e mentre lui correva nella giungla nel disperato tentativo di raggiungermi, io lottavo contro il dolore e la consapevolezza di ciò che stava accadendo a me, e intorno a me. Scoprivo le intenzioni di Beetee, preparavo la freccia, e la scagliavo contro il campo di forza.
- È stata Katniss a farlo esplodere, Peeta – dice Caesar. – Hai visto il filmato.
- Ma non sapeva davvero cosa stesse facendo, Caesar! – esclama. – L’hai visto anche tu, quel filmato! Non capiva cosa fare con quel filo, e… - la voce gli trema e deve smettere di parlare per riprendersi un poco. Prende dei respiri profondi prima di ricominciare. – La stava perdendo, Caesar. Stava soffrendo, e stava perdendo la nostra bambina.
- Peeta – pigolo. Le lacrime scorrono sulle mie guance adesso, inarrestabili.

Allora sai cosa le è accaduto, penso. Sai che non sono stata abbastanza forte da riuscire a proteggerla.
- Peeta – lo chiama Caesar.
- Non avrei mai dovuto permettere che ci separassero! – esclama Peeta. - È stato allora che l’ho perduta. L’ho perduta…
- Calmati, Peeta – sussurra Caesar. – Mi dispiace molto per quello che è accaduto a vostra figlia, ma non riusciamo a non pensare che Katniss sia… stata a conoscenza del piano dei Ribelli sin dall’inizio.
- Non poteva saperlo – dice Peeta, abbassando le spalle. – Lei non sapeva nulla. Nessuno dei due era a conoscenza di un piano. L’unico nostro piano era quello di salvarci la vita a vicenda, ed era un piano che abbiamo tenuto in piedi noi stessi senza dire niente l’uno all’altra.
- E di Haymitch Abernathy, invece? Lui ne era a conoscenza?
Scuote la testa. – Non so nulla al riguardo. Non ha mai detto nulla a me o a Katniss. Se sapeva qualcosa, di sicuro se lo è tenuto per sé. Non mi sarei mai fidato di lui e non gli avrei affidato la vita di mia moglie e di mia figlia se avessi saputo… che era in combutta coi Ribelli.
Sul concludersi dell’intervista, Peeta fa qualcosa che Caesar non si aspettava, e che neanche coloro che sono presenti nella stanza insieme a me si aspettavano.
Peeta chiede il cessate il fuoco.

 

Sono di nuovo all’interno dell’armadio della cancelleria. Sono fuggita subito dopo la fine dell’intervista, quando la figura di Peeta è svanita dal maxischermo e tutto intorno a me sono iniziate a risuonare parole di accusa e protesta nei suoi confronti. Per loro, la sua richiesta di mettere via le armi e di mettere fine agli scontri bastava per considerarlo un codardo, e un collaboratore delle forze di Panem.
Un traditore.
Loro non la pensano come me. Peeta non è un traditore e non sta collaborando con il nemico. È un bravo attore ed un bravo interlocutore, e le interviste sono il suo punto forte. Durante la sua prima intervista ha svelato all’intera Panem di essere innamorato della sottoscritta. Sei mesi dopo, ha chiesto la mia mano in matrimonio durante un’altra intervista. Poco più di un mese fa ha rivelato che era una bambina, la vita che portavo in grembo. Ha sempre retto il gioco in suo favore, durante le interviste, e lo ha fatto anche adesso. Non stava dicendo la verità: stava mentendo.
Mentiva quando ha chiesto il cessate il fuoco. Mentiva, perché chi gli ha dato l’ordine di farlo è il suo nemico, non il suo alleato. Peeta non potrà mai essere alleato di chi gli ha portato via ciò che ama.
Mentiva mentre guardava la telecamera, mentre parlava. Mentiva, e stringeva le dita attorno al mio anello di fidanzamento. Quello era il modo che aveva, l’unico, per far capire le sue intenzioni a chi di dovere. Lo conosco troppo bene, Peeta, e non sbaglio quando penso che il cessate il fuoco è l’ultimo dei suoi desideri.

Lo sta facendo ancora. Sta ancora cercando di salvarmi la vita. E stavolta lo fa mentendo, a suo rischio e pericolo. Appena sapranno che le sue intenzioni non rispecchiano quelle che gli sono state ordinate, ne subirà le conseguenze.
Pensare alle conseguenze che potrebbero arrivare a lui mi fa provare altro dolore. Stringo le braccia attorno alle ginocchia e seppellisco la faccia tra di esse, dondolando sul posto. Non devo pensare alle conseguenze, adesso. Adesso, devo solo pensare a lui. A Peeta che è vivo, dopo più di un mese in cui non ho fatto altro che crederlo morto.
- Sei vivo – mormoro, e lo ripeto più e più volte, tanto che alla fine i miei sussurri assumono le sembianze di una cantilena. – Sei vivo, sei vivo, sei vivo…
Peeta è vivo. E tutti quanti lo considerano un traditore. Ma ci sarà tempo per convincerli che non lo è davvero. Peeta non lo farebbe mai. Peeta non mi farebbe mai questo. Peeta sta semplicemente facendo il necessario, ciò che può per riuscire a salvarsi la pelle.

E se ti sbagli?
Non posso sbagliarmi.

Non puoi escludere l’eventualità del tradimento.
Già, non posso.

 

Sono costretta a lasciare il mio nascondiglio quando si avvicina l’ora del coprifuoco. Alle dieci devo essere all’interno del mio alloggio per poter fare il bagno. È l’unico momento in cui, dopo una giornata intera, tutti noi possiamo procedere a strofinare via lo strato di inchiostro che ha tatuato la pelle dei nostri avambracci. Ed è anche il momento che anticipa l’ora di andare a dormire. La notte, di nuovo la notte.
La notte continua ad essere il momento peggiore della giornata, per me.
Quando arrivo all’alloggio, scopro che il bagno è stato già occupato da Prim e che la mamma non c’è. L’unico posto in cui può essere andata a quest’ora della sera è l’ospedale, naturalmente. Come accadeva nel Distretto 12, se c’erano dei malati a cui prestare assistenza lei era sempre la prima a farsi avanti. Qui al 13 hanno team di medici e operatori di ogni genere e grado, ma non disdegnano gli aiuti se questi arrivano. Così, grazie anche alle loro competenze, la mamma e Prim hanno iniziato a lavorare nell’ospedale. Mia madre fa dei veri e propri turni, Prim invece aiuta di tanto in tanto, dato che segue anche le lezioni di scuola.
Aspetto che Prim finisca la sua doccia e mi siedo sul letto col libro delle piante. A gambe incrociate sul materasso, appoggio il libro su di esse e resto a guardare la copertina marrone, seguendone i bordi e le parole dorate con la punta dell’indice. Non voglio aprirlo per paura di vedere i disegni con cui Peeta ha contribuito alla sua realizzazione. Non voglio vedere i fiori gialli, bianchi e viola che straripano del suo talento con i colori. Sono i fiori che aveva realizzato mesi fa anche sulla mia torta di compleanno. Fiori di lillà.
Una lacrima cade sulla copertina e mi affretto ad asciugarla. Non voglio che il libro si rovini.
Bussano alla porta dell’alloggio, e visto che Prim non è ancora uscita dal bagno devo andare per forza io ad aprire. È tardi, e una visita in un orario così inconsueto non può rappresentare mai nulla di buono. Come la riunione straordinaria di poco fa, all’ora di cena. È senz’altro una brutta notizia. Un’altra.
Invece è Gale.
- Ti ho cercata dappertutto – dice, inarcando le sopracciglia.
- Che è successo? – domando. Esco in corridoio e accosto la porta per evitare di rimanere chiusa fuori. E poi, se si tratta di una brutta notizia, non voglio che Prim esca dal bagno e la senta anche solo per sbaglio.
- Ti ho riportato questa – Gale allunga il braccio destro e mi mostra il palmo della sua mano, su cui è posata la catenina d’argento. Ed infilata nella catenina, come ciondolo, c’è la perla. La perla di Peeta, che adesso ha un piccolo gancio come supporto. La tocco col dito, facendola rotolare sul palmo della sua mano.
- Ho pensato che avresti voluto riaverla il prima possibile – aggiunge mentre osserva la mia reazione.
- Grazie, Gale – mormoro, sollevando la testa per vederlo meglio in viso.
Lui sorride. – Aspetta…
Prende la catenina e, dopo aver sganciato il piccolo fermaglio, me la fa indossare. Armeggia per un po' con i miei capelli per evitare che si impiglino al metallo, e poi mi lascia andare. La catenina è abbastanza lunga da ricadere quasi fino all’incavo dei miei seni, così quando abbasso lo sguardo posso vedere benissimo la perla. La prendo e la stringo nel mio pugno. È questo ciò che volevo: avere la possibilità di sentirla sempre, in ogni momento della giornata, e di stringerla al momento opportuno. Adesso ne sento il bisogno ancora più di prima, da quando ho visto il volto di Peeta in televisione.
- Non sono felici di ciò che ha detto Peeta. Il cessate il fuoco… – dice a bassa voce Gale. – Qualcuno al Comando l’ha chiamato Ghiandaia Chiacchierona.

Chiacchierona: la specie ibrida che è riuscita a riprodursi contro tutte le peggiori aspettative degli scienziati di Capitol City e ha dato poi vita alla Ghiandaia Imitatrice. L’uccellino che c’è sulla mia spilla portafortuna, e l’immagine della Ribellione in cui vogliono trasformarmi. Immagino perché abbiano scelto proprio quell’orribile uccellino per descrivere Peeta: perché ripete. Ripete perfettamente le voci e le parole che le stanno attorno, ignorando deliberatamente lo scopo e le conseguenze delle sue azioni. Io ne so qualcosa, perché nell’ultima arena quelle bestiacce hanno quasi fatto impazzire me e Finnick riproducendo le urla di chi ci è più caro a questo mondo. È un brutto nome per identificare Peeta, perché con lui non c’entra proprio nulla.
O forse sì. C’entra eccome.
Peeta non stava forse ripetendo le parole che sicuramente qualcun altro aveva già preparato per lui? Non stava forse mimando le mosse di una Ghiandaia Chiacchierona? Mimando, non altro… perché sono sicurissima che quelle non erano le sue parole, né tantomeno le sue intenzioni. Non sta aiutando Capitol City, non sta aiutando il presidente. E qui al 13 devono saperlo. Gale deve capirlo.
Scuoto la testa. – Non lo stava dicendo sul serio, Gale. Non lo farebbe mai – guardo in faccia il mio amico e continuo a stringere la perla nella mia mano. – Peeta non è un traditore. Non sta collaborando con loro.
- Io potrò anche crederti, Katniss, ma gli altri non lo faranno mai. Per loro, il tuo… fidanzato, non è altro che un collaboratore del governo che stanno combattendo. È un nemico.
Il modo in cui ha tentennato per definire il modo in cui Peeta è legato a me, mi fa capire che Gale non è ancora riuscito a passare sopra alla nostra storia. Credevo, ingenuamente, che lo avesse già fatto. Dopo tutto ciò che abbiamo vissuto prima dell’Edizione della Memoria, e dopo che aveva saputo dell’esistenza di nostra figlia… e invece, a Gale non va ancora giù.
Ma non è un mio problema. Non più. Non lo è più da tempo. Non posso smettere di amare Peeta per lui. Non posso preoccuparmi anche dei sentimenti del mio migliore amico.
- Non è un nemico! Sta mentendo, Gale! Non lo capisci? Sta giocando sporco contro il governo! Non può essere il loro alleato.
- Te l’ho detto, Katniss, io ti credo se pensi che sia così, però… - Gale tentenna di nuovo.
- Però?
Esita. – Come possiamo sapere che sia la verità? Come facciamo ad esserne certi?
Mi mordo le labbra. – Immagino che lo sapremo più avanti. Quando…
Quando cosa?
Quando lo libereranno? Se, lo libereranno? Quando la guerra sarà finita? E quando finirà? Potrebbero volerci mesi, forse anni… passeranno anni prima che possa rivedere di nuovo Peeta? Quando potrò abbracciarlo di nuovo, vedere di nuovo i suoi occhi, o sentire di nuovo il suo profumo? Dovranno passare anni prima di avere di nuovo la possibilità di dirgli “ti amo”?
Finché Peeta rimane essenziale per i giochi di Capitol City, non dovrebbero esserci grandi pericoli per la sua incolumità. Stasera ho avuto una buona panoramica delle sue condizioni e sembra stare piuttosto bene. Non è ancora stato torturato, anche se non posso dirlo con estrema certezza. Ci sono metodi particolari e precisi di tortura, metodi che non prevedono per forza l’inflizione di ferite fisiche. Ci sono metodi atroci che non lasciano segni visibili sulla pelle, metodi che ho già provato sulla mia pelle nell’arena. Gli aghi inseguitori. Le ghiandaie chiacchierone. Ci sono metodi abbastanza efficaci per torturare il cervello, senza lasciare tracce visibili.
Il problema verrà fuori quando Capitol City non avrà più bisogno di lui. Non lo lasceranno andare senza aver lasciato prima dei segni del loro passaggio.
Potrebbero ucciderlo, quando non avranno più bisogno di lui.
Potrebbero averlo ucciso dopo l’intervista.
Forse, lo stanno uccidendo in questo preciso momento. Mentre parlo con Gale…
- No, Katniss, ehi – mormora Gale, prendendo il mio viso tra le mani.
Ho ricominciato di nuovo a piangere, come accade ogni volta che penso al corpo di Peeta senza vita. – Non voglio che muoia… - ansimo prima che un singhiozzo interrompa le mie parole.
Gale mi abbraccia, mi stringe, e posa una mano sulla mia testa. La preme contro il suo torace, imprime un bacio tra i miei capelli, e mi culla mentre le mie lacrime gli inzuppano la divisa. Non dice nulla di confortante, però. Non può promettermi che Peeta non morirà dopo la guerra, o durante.
Non può farlo.
Non posso farlo nemmeno io.
Perché nessuno dei due ha la possibilità di promettere nulla. Nessuno dei due può prevedere cosa ci riserverà il futuro.

 

- Ho delle condizioni – dico, sentendo un po' di nervosismo mentre parlo. – Sarò la Ghiandaia Imitatrice, a patto che voi accettiate le mie condizioni.
Al Centro di Comando, il mattino successivo all’intervista di Peeta, sono presenti solo Plutarch e la Coin. Sul mio programma avevo visto che per le sette e trenta del mattino era prevista un’altra riunione e mi ero immaginata la presenza di altre persone, oltre a quelle che ho di fronte, ma a quanto pare mi sbagliavo. Durante la colazione avevo scoperto che Gale non aveva ricevuto il mio stesso ordine, e dovevo in qualche modo prenderlo come un segnale per il tipo di riunione a cui sarei andata incontro.
Vogliono, ovviamente, sapere la mia risposta. Ed io sono pronta a fornirgliela… ma, come ho già detto, alle mie condizioni.
- Ah, ma allora sai parlare! – dice la Coin, incrociando le dita sul tavolo davanti a sé. – Avanti, dicci pure.
Plutarch mi invita, con un gesto della mano, a fare la stessa cosa.
Mi schiarisco la gola, e recupero il mio foglio con gli appunti dalla tasca della tuta. È tutto spiegazzato, e devo lisciarlo con le mani per dargli una parvenza di normalità, ma la carta rimane tutta grinze. Non importa, alla fine. L’importante è che si legga ancora ciò che ci ho scritto sopra.
Ci ho pensato tutta la notte, non riuscendo a prendere sonno in alcun modo: come posso fare in modo che Peeta arrivi sano e salvo alla fine della guerra? Non posso e non potrò fare alcunché per garantire la sua sopravvivenza a Capitol City, ma se riesce a sopravvivere alle torture e a tutto ciò che dovrà affrontare laggiù, posso garantirgli un’eventuale scialuppa di salvataggio.
E Prim, stamattina, ha detto una cosa che mi ha fatto riflettere. Le stavo parlando del mio inevitabile coinvolgimento nella rivolta, e lei se n’è uscita con una frase ad effetto che mi ha aperto la mente.
- Credo che tu potresti chiedere praticamente tutto e che loro sarebbero costretti ad accettare.
Qualunque cosa.
Ecco il motivo dei miei appunti.
Mi tengo la faccenda “Peeta” per il prossimo punto di discussione, ed inizio dicendo: - Vorrei poter uscire a caccia, nei boschi qui intorno – alzo gli occhi dal mio foglio per vedere le loro reazioni.
- Tutto qui? Caccia nei boschi? Non sarà un problema – risponde la Coin. – Possiamo detrarre le ore di caccia da quelle dell’addestramento… che non hai mai fatto, da quando sei qui – aggiunge, sbeffeggiandomi.
- Ma non andrai da sola – interviene Plutarch. – Immagino che Gale sarà felice di poterti accompagnare.
- Sì, Hawthorne non esiterà ad acconsentire se si tratta di trascorrere qualche ora da solo con te – so cos’è che vuole insinuare, con le sue frecciatine poco velate, ma sta prendendo una grossa cantonata. - Cos’altro hai scritto su quel foglio? – chiede, poi, la Coin.
Stavolta non mi occorre leggere. – Voglio l’immunità per Peeta, appena verrà liberato. Per lui, e per gli altri vincitori che sono stati fatti prigionieri: Johanna, Annie, ed Enobaria.
Enobaria avrei voluto lasciarla fuori dall’elenco, ma chiedere di graziare tutti i vincitori tranne lei mi sembrava una mossa sbagliata.
- No – dice serafica la Coin. – Non graziamo i traditori.
- Peeta non è un traditore! – esclamo, battendo le mani sul tavolo. – E non lo sono neanche gli altri! Non è colpa loro se li avete abbandonati nell’arena.
- Era meglio quando non parlavi. Dio, che razza di assurdità mi tocca sentire!
- Alma-
- Loro riceveranno l’immunità! – urlo, alzandomi dalla sedia. – Lei si impegnerà personalmente a concederla davanti all’intera popolazione del Distretto 13 e ai superstiti del 12. Oggi stesso. La sua dichiarazione sarà registrata a futura memoria. Lei e il suo governo sarete responsabili della loro incolumità, altrimenti potete anche trovarvi un’altra Ghiandaia Imitatrice!
- Eccola! – esclama Plutarch, sgranando gli occhi. Quasi cade dalla sedia per la sorpresa. – Ecco! È ciò che le avevo promesso! Non vede il fuoco che le scorre nelle vene?
La Coin non ha smesso un secondo di osservarmi dal momento in cui ho cominciato ad urlarle in faccia. Mi guarda tenendo le labbra strette, immersa nei suoi pensieri. Mantengo il contatto visivo tra i nostri occhi, cercando di decifrare il suo sguardo.
Plutarch continua a parlarle, nel frattempo. – Concedi il perdono al ragazzo, Alma. Lo faccia per lei… è il ragazzo di cui è innamorata. Le darà un po' di pace, dopo tutto ciò che ha sofferto.
No, Plutarch. Niente mi darà più la pace. Forse, neanche riavere di nuovo Peeta al mio fianco mi farà sentire meglio. Nulla potrà mettere fine al supplizio che sento fino in fondo al cuore.
La Coin accetta di graziare Peeta e gli altri vincitori. - È tutto? – domanda la donna a labbra strette.
- Ah… - balbetto, guardando l’ultimo appunto sul foglio. – Mia sorella potrà tenere il suo gatto.

 

 

 

______________________

Eccoci qua, cari e care! È di nuovo lunedì…
Oggi vi ho lasciato un capitolo di passaggio che è anche il naturale proseguimento del precedente: il ritorno al Distretto 13 (che, ammetto, non mi è mai piaciuto più di tanto come posto in cui vivere), l’ufficialità di Katniss nel ruolo di Ghiandaia Imitatrice… e l’intervista di Peeta.
Ammettetelo che era ciò che più volevate leggere!
Grazie all’intervista sappiamo che è vivo e che sta bene… ma è solo una piccola consolazione. Sappiamo bene che dietro ad un’immagine ben artefatta può nascondersi molto altro – e mi sembra che Katniss ne sia ben consapevole, visti gli sproloqui che ci ha regalato in questo capitolo. È probabilmente la forma di rassicurazione peggiore da usare: vedere e sapere senza avere, però, una sicurezza totale su ciò che si è visto.
In tutto questo abbiamo visto anche che il rapporto di amicizia tra Katniss e Gale sembra essere tornato quello di un tempo… più o meno. È un rapporto molto teso, ma deve esserlo. Non dimentichiamo tutto quello che è successo fino ad ora, e non solo tra loro due.
Per finire queste note – che sono di nuovo infinite, scusatemi! -, un piccolo appunto per i personaggi di Plutarch e della Coin. Sono antipatici. Per la Coin miravo proprio al sentimento dell’antipatia; per Plutarch invece miravo ad altro: volevo renderlo simpatico e socievole, ma poi ho visto che anche le battute con lui suonano brutte e forzate. Alla fine ho gettato la spugna, e adesso è solo un finto simpatico.
Con lui ho proprio fallito XD
Come sempre: grazie per essere arrivati fin qui!
D.

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Capitolo 28
*** 28. ***


In The Still Of The Night - 28

In the still of the night

 

 

 

 

28.

 

Scopro che essere la Ghiandaia Imitatrice non è proprio ciò che mi aspettavo.
Non sono costretta a scendere sul campo di battaglia, non devo prendere parte a nessuno scontro a fuoco, non devo spostarmi in nessun altro luogo che non siano i livelli sotterranei del Distretto 13. Tutto ciò che devo fare è posizionarmi davanti ad una telecamera e recitare una parte.
Niente di più facile, direbbe qualcuno.
Quel qualcuno però non sono io.
La Coin ha rispettato la sua parte del piano e, la sera stessa del mio consenso, ha tenuto un discorso davanti a tutti gli abitanti del 13 ed ai suoi rifugiati: ha parlato di me, del ruolo che ho scelto di ricoprire per lo sforzo bellico, e ha parlato dell’immunità che lei ha “scelto”, “personalmente”, di concedere ai vincitori tenuti prigionieri a Capitol City una volta che la guerra sarà finita. Ero insieme a Finnick, in mezzo alla folla, quando abbiamo sentito le sue parole. Il ragazzo taciturno al mio fianco mi ha stretto forte la mano quando ha sentito il nome della sua fidanzata venire fuori dalle labbra della signora presidente. Ho ricambiato la sua stretta, forte.
Siamo nella stessa situazione, io e Finnick. Siamo entrambi in pena per le persone che amiamo e che non siamo in grado di mettere in salvo. Quest’immunità, per quanto flebile e lontana, ci è un po' di conforto.
Vorrei poter fare altro per farlo stare meglio… per far stare meglio chiunque, in verità, ma è troppo al di là delle mie capacità.
Le mie capacità, adesso, sono tutte sotto l’attenzione di Plutarch e della sua assistente, Fulvia, che dirigono insieme il grosso carrozzone che definiscono allegramente “Passaggi Propagandistici” o, per abbreviare, “Pass-Pro”: dei messaggi di propaganda, per l’appunto, per alimentare il diffondersi della rivolta e dei combattimenti contro il potere di Capitol City. Beetee, che si sta riprendendo lentamente dalle ferite riportate nell’arena, li userà per diffonderli in tutta la nazione e per colpire il potere che ancora regge in alcuni distretti e nella capitale. In teoria avrebbero potuto realizzare i Pass-Pro con qualsiasi persona a loro disposizione: Finnick, se fosse stato in grado di concentrarsi per più di due minuti su un determinato argomento che non sia Annie, o lo stesso Beetee. Avrebbero potuto usare anche i profughi ed i rifugiati che hanno trovato al 13 una nuova casa dove stare… ma perché usare loro, quando hanno a disposizione il vero simbolo della rivolta? Perché usare dei rimpiazzi, quando hanno a disposizione me? Katniss Everdeen, la Ragazza di Fuoco? Una Ragazza di Fuoco che si è evoluta, come per magia, in una Ghiandaia Imitatrice.
Ecco perché premevano così tanto affinché scegliessi di collaborare con loro: la mia immagine è più forte di qualsiasi altro vincitore degli Hunger Games, o di qualsiasi rifugiato qui presente. Gli stessi distretti mi hanno eletta a loro simbolo: per loro, sono una paladina della giustizia.
Non sanno quanto si sbagliano, in realtà. Non sanno che, se sono arrivata dove sono ora, è perché ho sempre ricevuto una mano da qualcuno. Io, da sola, non avrei mai combinato niente di buono. Sarei morta nell’arena grazie a quelle maledette bacche, se fosse stato per me.
E la dimostrazione di quanto io non sia capace di far nulla da sola ce l’ho davanti ai miei occhi proprio adesso. Ho bisogno di un’intera squadra per fare in modo che tutto venga rispettato e che tutto riesca secondo i piani. Plutarch e Fulvia, da bravi Strateghi quali sono, mi danno indicazioni e mi mostrano ciò che dovrò fare per le telecamere. Ho ancora un paio di giorni davanti prima di affrontare il set, e nel frattempo mi illustrano tutto ciò che mi sono persa nell’ultimo mese e mezzo.
- La maggior parte dei Distretti si è ribellata ed è sfuggita al controllo di Panem – dice Plutarch, pacato come sempre. – Alcuni sono ancora assoggettati alla dittatura, soprattutto i Distretti più vicini alla capitale. Ovviamente l’unico distretto che non si ribellerà da solo sarà il Distretto 2, visto il tipo di rapporti che i suoi abitanti ha sempre tenuto con Capitol City…
- Ovviamente – mormoro a mezza bocca.
- …e per quelli si dovrà procedere per forza di cose con degli scontri diretti. Alcuni sono già in corso e non demordiamo. Per i Distretti che ancora mancano all’appello, invece, contiamo soprattutto sull’efficacia dei Pass-Pro e sulla tua presenza scenica.

Presenza scenica. Strano modo per definirmi.
- La sua deve essere una figura a effetto! – esclama Fulvia, prendendo il mio viso tra le mani. – E la tua bellezza naturale, cara Katniss, per quanto sia già buona in partenza, non è purtroppo sufficiente ai nostri scopi. Ma abbiamo chi ci può aiutare in questo… l’abbiamo mandata a chiamare? – domanda a Plutarch.
- Dovrebbe essere già qui fuori.
- Chi è già qui fuori? – chiedo, girando il busto e lo sguardo per seguire la figura di Fulvia che si dirige verso la porta della Sala Riunioni.
- Una sorpresa per te – Plutarch dice solo questo.
Ed effettivamente, è una vera sorpresa.
Fulvia apre la porta e dà libero accesso all’ultima persona che mi sarei aspettata di vedere qui, al Distretto 13. Senza i suoi soliti vestiti ad effetto, senza i suoi soliti accessori bizzarri, senza i suoi soliti capelli colorati, non sembra per niente lei. Nei vestiti grigi che indossiamo tutti quanti qui al 13, sembra una normale popolana di un Distretto.
Ma quale popolana, a parte forse Effie Trinket, porterebbe una bandana legata sulla testa in così grande stile?
- Effie! – esclamo, alzandomi in piedi per poterla raggiungere.
- Oh! – dice soltanto, allargando le braccia per accogliermi nella sua stretta, che non mi è mai sembrata così familiare e confortante come la sento ora. – La mia bambina, la mia vincitrice – sussurra, stringendomi a sé.
- Come sei arrivata qui? – chiedo. Ancora non riesco a credere di avere Effie davanti a me.
- È stata fatta uscire da Capitol City su richiesta di Haymitch – dice Plutarch, rispondendo al posto suo. – Come prigioniera politica…
- Come una criminale qualsiasi – sbuffa Effie, ma si riprende subito. – Ma non importa, mia cara. L’importante è essere qui. Per aiutarti, e per renderti perfetta affinché tutti possano vederti – mi sorride, accarezzando i miei capelli.
- Il che ci ricorda che abbiamo poco tempo a nostra disposizione – Fulvia si inserisce a forza nel discorso di Effie. – Ha i bozzetti con sé, signorina Trinket?
- Non li abbandonerei mai e poi mai! – dice, sollevando una grande cartellina nera. Come ho fatto a non notarla prima?
Effie si avvicina al tavolo e, dopo averci posato sopra la cartella, la apre. Da dietro le sue spalle, riesco a vedere che è piena di quelli che sembrano i bozzetti di lavoro per dei vestiti. Effie ne sfila qualcuno, e i dubbi scompaiono così come sono apparsi. Sono proprio i bozzetti di uno stilista. E non di uno stilista qualsiasi, perché il suo è un tocco che non passa di certo inosservato: sono quelli del mio stilista preferito.

Cinna.
- Guarda, cara, questa è la tua nuova uniforme! – esclama Effie.
La mia ex accompagnatrice comincia a chiacchierare di dettagli e cose varie, ma le mie orecchie non registrano nulla di ciò che dice. Sono come immerse nell’acqua. I miei occhi, invece, sono tutti presi dai tratti di matita decisi e dalla mano che li ha tracciati sulla carta. Tratti decisi che hanno riprodotto la mia figura, avvolta da un uniforme nera simile ad una tuta aderente, ma su cui sono ben visibili gli accessori e gli strati protettivi, necessari per una combattente. Tutto, in quest’immagine, mi mostra il lavoro e la devozione che Cinna ha dimostrato nel realizzarlo. Per me.
Cinna… ancora una volta è riuscito a lasciarmi senza parole.
- Dov’è Cinna adesso? – riesco a chiedere con un filo di voce.
Effie interrompe i suoi monologhi e torna a guardarmi. Il suo viso ha assunto un’espressione così grave che potrei non aver bisogno di nessuna risposta.
- Non lo sappiamo, Katniss. Sarebbe dovuto venire qui al 13, ma…
- I nostri informatori pensano che sia stato fatto prigioniero a Capitol City. Insieme alla stilista di Peeta e alla vostra squadra di preparatori – aggiunge Plutarch.
Altre persone fatte prigioniere. Altre persone che hanno sofferto, che stanno soffrendo e che soffriranno ancora. A causa della guerra, a causa dei giochi sporchi e sanguinari della capitale.
A causa mia.
- Non fare così, tesoro! Cinna non vorrebbe che piangessi per lui – mi consola Effie, asciugando le mie lacrime. – Vieni, sediamoci qui…
- Vi lasciamo un po' da sole – dice Plutarch, facendo segno alla sua assistente di seguirlo fuori dalla sala. Tempo dieci secondi, e rimaniamo solo noi due.
- Ecco, togliamo questi lacrimoni dalla faccia – Effie ha recuperato un fazzolettino dal suo vestito pieno di tasche e me lo passa sul viso, delicatamente. – Piangere così tanto non fa per niente bene alla pelle, sai? E in questo posto non c’è nulla di buono per aiutare la pelle stressata. Meno male che sono riuscita a portare qualcosa con me prima di fuggire…
Le chiacchiere frivole di Effie mi fanno sorridere almeno un pochino. – Allora l’ho rovinata per sempre, Effie. Piangere è la cosa che so fare meglio, da quando sono qui. – le dico, asciugandomi il naso sulla manica della tuta.
- È perché stai soffrendo così tanto, piccola mia. Mi dispiace… mi piange il cuore… - si ferma, non sapendo come proseguire. – Non avrei mai voluto che ti accadesse questo, Katniss. Così giovane, e la tua piccola bamb-
- No, Effie – la interrompo, stringendo gli occhi per frenare il dolore insieme alla nuova ondata di lacrime che sento già pronta per manifestarsi. – Non… non voglio parlare di lei. Non ce la faccio…
Effie prende le mie mani tra le sue e le stringe, carezzandole come per infondere del calore. – Tenere tutto dentro non ti fa bene, Katniss. Puoi parlare con me, lo sai. Sono tua amica.
- Effie, no… – deglutisco, e un gemito mi esce dalle labbra.
- Ssssh – mormora, e lascio che mi abbracci di nuovo, che mi culli, mentre il pianto si impadronisce di nuovo di me. Lascio che Effie mi consoli, per quanto poco possa riuscirci. Lascio che sia lei, stavolta, ad osservare il modo in cui Capitol City è riuscita a scavare profondamente all’ interno del mio corpo, e all’interno della mia anima.

 

Prima di cominciare le riprese, mi fanno scendere insieme a Gale ad uno dei livelli più bassi del Distretto 13, quello destinato alla Difesa Speciale. È un livello immenso, e ampi spazi aperti straripanti di alberi e di colibrì danno l’illusione di trovarsi all’aria aperta, a diretto contatto con la natura. Non sembra di stare sottoterra. Gli spazi sono intervallati da alcune zone di tiro, dove poter provare le armi che vengono create quaggiù.
Il livello dedicato alla Difesa Speciale è quello in cui al momento lavora Beetee.
Non vedo l’inventore del Distretto 3 dall’arena, e l’ultimo ricordo che ho di lui lo vede sempre disteso tra le piante tropicali della giungla, immobilizzato in quella posa strana e con gli occhi chiusi a causa dello shock che aveva subito per il suo gesto. Aveva provato ad infrangere il campo di forza senza troppi risultati… ma poi l’ho fatto io, al posto suo.
Sapevo che doveva essersi ripreso abbastanza da poter rimettersi al lavoro, ma non sono mai stata informata sulle mansioni che occupava o sulle sue condizioni di salute attuali. E non ho nemmeno provato ad informarmi. Diciamo che ho avuto un tutt’altro tipo di pensieri a vagare nella mia mente, nell’ultimo periodo, e li ho tutt’ora. Ma la visita al 12 ha rimesso in ordine ed in moto qualcosa. Ed anche l’intervista di Peeta lo ha fatto.
Mi sembra di poter pensare un po' più lucidamente, anche se rimango incline ai crolli emotivi. Quello avuto con Effie ne è stata la prova lampante. Ma non sono trascorsi nemmeno due giorni. Non sono un medico, ma credo che sia normale.
Beetee sembra essersi ripreso alla grande dalle ferite, ma è seduto su una sedia a rotelle e la sua immagine nell’insieme sembra contraddire ciò che ho appena pensato. Dice che la sedia è una soluzione momentanea, però: con il tempo e la riabilitazione, tornerà di nuovo in piedi sulle sue gambe.
Mostra a me e a Gale le armi a cui ha lavorato per entrambi: un arco nero per me, in tinta con la mia nuova uniforme, e una balestra per Gale. Come me, ha bisogno di un’arma dato che prenderà parte ai Pass-Pro, e lo farà ancora una volta nelle vesti di mio cugino. Dobbiamo ancora salvare le apparenze, a quanto pare, anche se non è necessario.
Non ho mai usato una balestra e sembra pesantissima solamente a guardarla, ma Gale la maneggia con agilità. È fatta per le sue mani. Così come l’arco che Beetee ha realizzato è fatto apposta per le mie: è leggero e di aspetto non molto dissimile da quelli che mio padre fabbricò da sé per cacciare nei nostri boschi del 12, diversissimi da quelli elaborati e iper-dinamici di cui ci rifornivano nell’arena. Oltre alle armi, Beetee ha anche delle frecce speciali per noi: esplosive ed incendiarie, in alternativa a quelle classiche.
- Le riconosci dal colore: gialle per le incendiarie e rosse per le esplosive – mi spiega, compiaciuto. – Ma non usarle qui dentro! È pericoloso.
Mi lascia fare qualche tiro con le frecce normali per vedere se l’arco è efficace. E lo è, naturalmente. È un’arma perfetta.
- Come sta Finnick? – chiede, poi.
Tentenno un po'. – Ha… problemi di concentrazione – rispondo.
Beetee annuisce con la testa, storcendo appena la bocca. – Beh, fagli sapere che sto continuando a lavorare su un tridente per lui. Magari lo distrarrà un po'.
Già, magari.
Non ho però il tempo materiale per andare a comunicare a Finnick il messaggio di Beetee, perché la mia presenza è attesa e desiderata al teatro di posa dove verranno realizzati i Pass-Pro. Qui, Effie come prima cosa si dedica con attenzione scrupolosa a sistemare la mia immagine: i capelli raccolti nella solita treccia laterale, il trucco che va a segnare le ombre sul mio viso e a delineare la forma dei miei occhi. Dopodiché mi fa indossare la mia uniforme nuova di zecca.
- Ti sta a pennello! – cinguetta, tutta felice per ciò che sta vedendo.
A mia volta, osservo il mio corpo avvolto nel tessuto e nell’armatura che Cinna ha realizzato apposta per me e penso al momento in cui deve averci iniziato a lavorare. Quando ha avuto l’idea, di preciso? Da quanto tempo sapeva che, prima o poi, avrei avuto il bisogno di indossarla? E soprattutto… sapeva che avrei accettato di diventare la Ghiandaia Imitatrice per i Ribelli? Ne era così sicuro? Ho un così disperato bisogno di rivolgergli queste e un sacco di altre domande! E ho un così disperato bisogno di ascoltare le sue risposte, ma nessuno sa dove sia Cinna. Nessuno sa se è ancora vivo.
Il timore per la sorte del mio stilista viene scacciato via quando mi danno l’okay per cominciare le riprese. Ci sono solo io, al centro esatto del teatro, ferma su una sorta di piedistallo di metallo, ed Effie si trova sul fondo, accanto a un Finnick che ci ha raggiunto per assistere alle riprese e che osserva il nulla. In effetti non c’è nulla da guardare, perché attorno a me non c’è nulla. Ci sono solo le pareti spoglie e grigie del locale, che vengono illuminate da dei forti faretti di luce bianca. Anche io sono illuminata.
Non devo fare altro che stare ferma per consentire ai tecnici di lavorare sulla mia immagine al computer. C’è un piccolo schermo accanto ai pannelli di vetro dietro cui si sono riuniti i tecnici insieme a Plutarch e a Fulvia, e da lì riesco a vedere come prende vita un Pass-Pro: aggiungono un’ambientazione di guerra al posto delle pareti di metallo, fumo in abbondanza, ed è come se non fossi più al Distretto 13. Per chi guarderà il Pass-Pro, io sarò in un punto imprecisato di Panem, a dare il mio contributo in battaglia.
Ad un certo punto, dopo quelle che mi sono sembrate ore infinite, Fulvia ci raggiunge ed è tutta elettrizzata. – Magnifico! È tutto magnifico! – squittisce, anche se in sostanza non è stato fatto ancora niente di magnifico. – Abbiamo bisogno di te ancora per un po', poi ti lasciamo andare per la cena.
Dall’altra parte del vetro stanno realizzando un Pass-Pro di prova da mostrare alla presidente Coin e Fulvia mi dà le indicazioni su come procedere. Mi fa mettere in ginocchio e, una volta che ho ricevuto il segnale per poter andare avanti, mi sollevo in piedi e alzo l’arco verso il cielo, e recito la mia battuta.
- Popolo di Panem, combattiamo, osiamo, poniamo fine alla nostra sete di giustizia! – esclamo, guardando fisso davanti a me.
Capisco di aver fatto fiasco dall’espressione di Effie, che ha sollevato le mani ed ha cercato di dire qualcosa in più di un momento, ma si è sempre trattenuta all’ultimo istante. Finnick, dietro di lei, ha un braccio incrociato sul petto e l’altro sollevato per tenere la mano davanti alla bocca. Mi guarda storto.
- Proviamo di nuovo – dice Fulvia. La sua faccia è tutta un programma, ma cerca di rimediare alla mia cattiva recitazione.
Al nuovo segnale, svolgo gli stessi movimenti di prima e recito di nuovo lo slogan.
Stavolta, Finnick mette entrambe le mani sugli occhi. Sarà anche in stato confusionale, ma mi sta facendo capire benissimo che sono negata nel recitare.
Un applauso, in fondo alla sala, mi fa trasalire. L’uomo che lo ha provocato si avvicina, dopo essere stato nella penombra per molto tempo. È stato bravissimo a non far notare la sua presenza fino ad ora. Pensavo che fosse ancora rinchiuso da qualche parte del 13 a disintossicarsi.
Haymitch continua a battere le mani in maniera sarcastica, avvicinandosi a Finnick. - Ecco, amici miei, come muore una rivoluzione.

 

Seduta al centro del mio piedistallo, osservo Haymitch che ha preso posto poco distante da me. Ci stiamo squadrando, in completo silenzio, da diversi minuti. Siamo rimasti solo noi due all’interno del teatro di posa: Fulvia ha deciso che per oggi hanno raccolto abbastanza materiale con cui lavorare, e ha congedato tutti per andare a cena. Haymitch, però, mi ha chiesto di tardare alcuni minuti per poter scambiare qualche parola con me.
Ma da quando siamo rimasti soli, nessuno dei due ha ancora detto mezza sillaba.
Lo osservo, battendo ritmicamente l’arco sul ginocchio coperto da una placca di metallo nero. Questo provoca una serie di colpi secchi, l’unico rumore nella stanza silenziosa. Mi chiedo il perché non sia lui il primo a dire qualcosa, dato che la richiesta di parlare è nata da lui e non da me. Io non ho grandi cose da dirgli. È dalla sera prima degli Hunger Games che non ho avuto occasione di incontrarlo, o di parlargli.
La sera prima degli Hunger Games Haymitch sapeva già cosa sarebbe accaduto nell’arena: sapeva che alcuni tributi ci sarebbero entrati al solo scopo di salvare la mia vita e quella di Peeta, al costo di sacrificare la propria. Ricordo le parole che ha usato Finnick quando, in ospedale, mi ha spiegato a grandi linee come andarono le cose.
Una parte del piano, però, non è riuscita. Sono riusciti a salvare me, ma non Peeta. E nemmeno Johanna… alcuni di noi sono rimasti indietro. Sono stati imprigionati.
Scopro, effettivamente, di essere un po' arrabbiata col mio ex mentore.
- Perché non avete portato in salvo anche Peeta? – domando, decidendo di interrompere il silenzio prima che lo faccia lui.
Haymitch ride, scuotendo la testa. – Cominci proprio con la peggiore, eh? – domanda a sua volta, grattandosi il mento. – Non hai tutti i torti, però. Me lo merito.
- Perché? – ripeto.
- Avevano visto il nostro hovercraft che cercava di tirarvi fuori di lì, dolcezza – dice. E almeno ha la decenza di non guardarmi negli occhi, mentre lo fa. – Dovevamo agire in fretta, altrimenti il piano sarebbe stato vano. Non solo voi sareste stati tutti catturati, ma anche noi avremmo fatto la stessa fine. Tu, Finnick e Beetee eravate i più vicini al punto dell’esplosione ed è stato più facile farvi salire a bordo. Ma Peeta e Johanna…
- Erano troppo lontani? – mormoro.
Haymitch annuisce. – Erano troppo lontani.
Ho un flash di quella notte, un flash che ricorre anche troppo spesso per i miei gusti. Vedo le mie braccia che tendono l’arco e scagliano la freccia contro il campo di forza, e vedo l’esplosione che sbalza via ogni cosa. Alberi, piante, Finnick ed Enobaria. E sento me stessa volare via.
Ma non c’è mai Peeta, in questo flash. Non c’è nemmeno la sua voce.
- Anche se quella notte fossi stato in grado di costringere Plutarch a restare per salvarlo – e credimi, dolcezza, ci ho provato -, l’hovercraft sarebbe caduto. Siamo riusciti a stento a scappare così com’era – aggiunge. – E tu non eri nelle condizioni migliori per poter tentare qualsiasi altro salvataggio. Non potevamo aspettare altro tempo.
- Finnick me lo ha detto – dico, deglutendo.
- Ti ha detto che hai rischiato di morire dissanguata? Non per la ferita al braccio, ma per… - si blocca. Haymitch non sa come continuare il discorso. E non voglio che lo faccia, perché non ce n’è alcun bisogno. Non voglio sentire nulla di ciò che è accaduto quella dannata, maledetta notte. Dopo il campo di forza, non voglio sentire altro.
Vorrei che non ci fosse stato nient’altro dopo l’esplosione dell’arena.
- Volevo farvi uscire entrambi di lì sani e salvi, Katniss. È l’unico motivo per cui ho accettato di prendere parte al progetto di Plutarch – ammette. – E le cose non sono cambiate quando sei venuta insieme a Peeta a dirmi dell’arrivo della vostra ragazzina. In realtà Plutarch era deciso a posticipare l’Edizione della Memoria, ma Snow si è opposto. Sai com’è fatto, quel vecchio pazzo…
Non dico niente. Al contrario, comincio a tremare.
Haymitch mi sta dicendo che è colpa di Snow se l’ho persa? È colpa sua, è stata sempre colpa sua? C’è sempre stato lui dietro a tutto quanto…
- Però mi sono incazzato di brutto con Plutarch per come è stata gestita l’intera operazione di salvataggio. Peeta e Johanna catturati, e tu mezza morta… e senza la tua ragazzina – dice. - Gli ho detto che era colpa dei suoi piani del cazzo se era successo. E lui ha detto che era anche colpa mia, perché avevo deciso di prendere parte ai suoi piani del cazzo e avrei dovuto tenere conto delle probabili conseguenze. E allora gli ho mollato un pugno in faccia e l’ho messo al tappeto. Se non ci fosse stato Finnick a fermarmi, forse l’avrei ammazzato di botte su quell’hovercraft-
L’arco mi cade dalle mani e provoca uno schiocco secco sul pavimento mentre porto le braccia attorno al petto, come accade quasi ogni volta che qualcuno prova a parlarmi di lei. Abbasso lo sguardo per non far vedere la mia faccia ad Haymitch. Vorrei scappare, in realtà, ma sento le gambe strane. Ho paura che non riescano a sorreggermi. L’unica cosa che posso fare è cercare di controllarmi per non mostrare all’uomo che mi sta davanti, il mio ex mentore, la reale entità del mio dolore.
Ma Haymitch si alza, si avvicina. La sua figura si inginocchia davanti alla mia e prende le mie mani mostrando una dolcezza che doveva tenere nascosta da qualche parte, dietro a tutto il malumore che manifesta sempre davanti agli altri.
- Perché mi stai dicendo queste cose? – gli chiedo, lamentandomi.
- Perché forse Plutarch ha ragione. Perché se adesso sei qui, davanti a me, a tremare e a piangere per la morte di tua figlia, forse è anche per causa mia – Haymitch mi afferra per le spalle. – Ho già le vite di quarantasei ragazzini sulla coscienza, dolcezza. Che sarà mai una vita in più? Puoi darmi la colpa per ciò che le è successo. Per me va bene. Puoi urlarmi contro tutto ciò che vuoi.
- Smettila, ti prego. Smettila…
Chiudo gli occhi. Le lacrime iniziano di nuovo a scorrere sul mio viso perché sono ancora una volta incapace di trattenerle, ogni volta che qualcuno accenna a ciò che ho perso. A ciò che ho amato così immensamente, nonostante non sapessi neanche che aspetto avesse, o la forma del suo viso. Il colore dei suoi occhi.
Mia figlia.
Una vita che non sono stata in grado di proteggere.

Io, non Haymitch. Io. Sono stata io a non averla protetta.
I singhiozzi diventano più forti.
- Urla pure, dolcezza. Urla, bestemmia, fa come ti pare, ma non chiuderti nel tuo dolore. Non fare come ho fatto io: lascialo libero di uscire. Starai molto meglio se lo tiri fuori tutto quanto.
Haymitch non asciuga le mie lacrime, come aveva fatto invece Effie due giorni fa. Mi abbraccia, però. Accarezza la mia schiena e accompagna i miei singhiozzi a stento trattenuti, appoggiando il mento sulla mia testa.
- Anche piangere sulla mia divisa va bene, dolcezza. È un buon compromesso. Puoi anche pulirtici il naso sopra, per quel che vale. Non mi importa… tanto, queste tute fanno schifo.

 

 

 

________________________

Lo so, lo so. Sono in ritardo.
Ma il capitolo alla fine è arrivato lo stesso :D
Proprio perché stavolta sono in ritardo, non mi soffermerò molto nelle note – e meno male, direte voi: ormai vi conosco bene XD
Mi prendo giusto qualche momento per parlarvi dell’incontro tra Katniss e Haymitch. Qualche capitolo fa vi avevo promesso che saremmo tornati sul discorso, ed infatti è stato così: a grandi linee, adesso sappiamo come stanno veramente le cose. Diversamente dai libri, lui ha mosso i fili dietro alle spalle di Katniss e Peeta per metterli in salvo nonostante i possibili pericoli per loro due, ed è sinceramente dispiaciuto per ciò che ne è conseguito. Questo confronto tra i due è molto importante. Ce ne saranno altri in futuro ;)
Spero di non farvi aspettare troppo per il prossimo aggiornamento ^^’

D.

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Capitolo 29
*** 29. ***


In The Still Of The Night - 29

In the still of the night

 

 

 

 

29.

 

Il giorno dopo, una riunione straordinaria – l’ennesima – viene indetta da Haymitch al solo scopo di mostrare le falle dei Pass-Pro. Preme un tasto sul telecomando che ha in mano e lo schermo di fronte al tavolo della Sala Riunioni si riempie delle mie immagini, o meglio, di quelle che i tecnici e i montatori hanno modificato per farmi sembrare come appena uscita da una battaglia sanguinaria. Mi vedo mentre mi rimetto in piedi e sollevo l’arco verso il cielo. E sento la mia voce scandire, male, lo slogan.
È davvero pessimo, come Pass-Pro. Ed è, ovviamente, tutto il contrario di ciò che vogliono realizzare Plutarch e Fulvia.
Haymitch propone a tutti i presenti di ricordare il momento preciso in cui li ho impressionati, in cui sono riuscita a lasciare il segno nella loro memoria. Non quello in cui il contributo di Peeta riusciva a dipingermi come la migliore fidanzata del mondo, ma quello in cui prevaleva la mia spontaneità al di sopra di tutto il resto. Il mio essere semplicemente me stessa, per usare le parole che Cinna mi ripeteva sempre.
- Quando ha cantato per Rue, mentre moriva – dice Boggs, il braccio destro della Coin.
- Quando si è offerta volontaria alla mietitura per sua sorella! – esclama Effie. Lei era lì quando è successo, l’anno scorso. Ovvio che l’abbia impressionata: prima di me, non c’era mai stato un tributo volontario nel Distretto 12. Già da allora dovevano aver capito che ero un bel casino di tributo.
Si susseguono altri suggerimenti di esempi, alcuni meno eclatanti degli altri, ma ce n’è uno che mi scuote le viscere e mi fa portare le mani alle orecchie per non sentire. È quello in cui mi ricordano mentre canto alla mia bambina, sul palco durante l’ultima intervista con Caesar prima dell’inizio dei giochi.
- Cosa vi fanno capire tutte queste azioni? – taglia corto Haymitch. Lo fa perché sa che non sopporterei di sentire oltre.
- Sono tutte azioni improvvisate. Nessuno ha detto a Katniss cosa fare – risponde Gale, al mio fianco. È sempre al mio fianco.
- Esatto. Quindi, ecco la mia proposta: facciamo scendere in campo la Ghiandaia Imitatrice. Niente set, niente fumo finto e niente copioni: solo lei e la sua improvvisazione.
Ovviamente, l’idea di me su un vero campo di battaglia, con vere armi e con veri scontri a fuoco, non piace a nessuno. Non piace a Plutarch e a Fulvia, che così non possono mettere bocca su nessuna delle cose che faccio e che non possono intervenire se sbaglio qualche mossa. Non piace a Boggs, che pensa a quanto sarà difficile gestire la mia incolumità in mezzo alla vera guerra. E non piace alla Coin, che ha paura di perdere la sua pedina migliore se rimanessi uccisa durante un’imboscata.
- Fate in modo di ottenere un filmato. Si può comunque usare quello – le dico. Così, almeno, la mia morte avrà uno scopo. Forse.
Alla fine, decidono di acconsentire alla proposta di Haymitch e di mandarmi sul campo. Iniziano i preparativi e, dopo poche ore, sono già su un hovercraft, tirata a lucido nella mia uniforme nuova e pronta a recarmi al Distretto 8, dove appena stamattina c’è stato un bombardamento. È stata la Coin a scegliere il luogo, quindi immagino che adesso quel distretto rappresenti uno spazio sicuro e privo di pericoli per quando arriveremo.
Sull’hovercraft, insieme a me, ci sono Gale – ovviamente! -, Boggs, un paio di altri soldati, Haymitch e Plutarch che dirigeranno i nostri movimenti dall’alto e una troupe che effettuerà le riprese del Pass-Pro. Cressida, la regista dalla testa rasata e tatuata a rampicanti verdi, è accompagnata da Messalla, il suo assistente, e da due alti ragazzi, Castor e Pollux, che indossano delle strane apparecchiature per riprendere le immagini.
Appena arriviamo, l’hovercraft si abbassa quel tanto da consentirci di scendere velocemente prima di riprendere quota e tornare ad immergersi tra le nuvole. Resterà nei dintorni, a monitorare sia la nostra sicurezza che i nostri movimenti mentre siamo quaggiù, in mezzo a palazzi mezzo distrutti e baracconi.
Il nostro gruppo così assortito si dirige verso il centro del Distretto, sul luogo del bombardamento avvenuto stamattina. Stanno ancora recuperando i feriti ed i corpi delle vittime, trasportandoli all’interno di un magazzino adibito ad ospedale di fortuna, e davanti a questa scena vengo presa da un senso di vertigine che rende malferme le mie gambe. Improvvisamente, provo di nuovo l’impulso di fuggire via dal dolore e dalla sofferenza, quello che mi invadeva sempre quando a casa entrava un malato bisognoso delle cure di mia madre. Solo che qui, di malati, ce ne sono a centinaia, forse migliaia, e tutte radunate nello stesso punto.
Non posso scappare, tutt’al più quando una donna, che Boggs mi presenta come la comandante Paylor, si avvicina per capire le nostre intenzioni. Mi riconosce, sa chi sono, e sembra sorpresa di vedermi in piedi sulle mie gambe. Scruta la mia figura soffermandosi più del dovuto sulla mia pancia che, appena un mese e mezzo fa, era piuttosto evidente. Di quella pancia, oggi, non è rimasto più niente.
Si schiarisce la voce quando nota l’espressione sulla mia faccia. - Sei viva, allora. Non ne eravamo sicuri – dice.
- Non ne sono ancora sicura nemmeno io – le rispondo, con voce tremante.
Non possiamo fare molto, qui fuori, così la comandante Paylor ci accompagna fino al magazzino/ospedale e ci fa cenno di entrare. Ci fa prima oltrepassare una zona adibita alla disposizione dei cadaveri, nell’attesa che vengano scavate le fosse comuni, e poi scosta una enorme tenda che rivela l’ingresso all’ospedale vero e proprio. Un ospedale straripante di feriti, di sofferenti, di lamenti e di voci imploranti. Ci sono centinaia di persone distese su brande e barelle di fortuna, e medici – troppo pochi – che si aggirano tra le file ed i corridoi che queste brande hanno creato e che cercano di alleviare il dolore di queste povere persone come possono. Alcune persone, gli stessi feriti ricoverati, danno una mano a loro volta per aiutare chi è stato meno fortunato di loro.
Arriccio il naso a causa dell’odore nauseabondo che impregna l’aria. È l’odore della malattia, mischiato a quello della sporcizia e del sudore. Vorrei uscire dall’ospedale e tapparmi il naso con una mano mentre lo faccio, correndo, ma non sono qui per scappare. Non sono qui per mostrare la persona debole e spaventata che la mia facciata ben artefatta cerca di nascondere. Non sono qui per fare la codarda. Sono qui per aiutare queste persone. Sono qui per dimostrare, a chi mi credeva morta, che sono viva. Avanzo tra le file, tra i malati, osservando il dolore che Capitol City ha lanciato alla popolazione dell’8.
Queste persone mi vedono, mi riconoscono, e mi chiamano. Chiamano il mio nome, nonostante le terribili sofferenze che stanno provando, ma la mia sola vista sembra risollevare il loro morale ed il loro spirito offeso. Mi avvicino ad una donna che ha una gamba ferita e le accarezzo una mano, la saluto. Lei me la stringe forte. Poco lontano, un ragazzo con la testa fasciata si alza in piedi sul suo letto e si sbraccia per indicarmi la direzione da prendere. Tantissime persone mi accarezzano e mi toccano le mani mentre cammino in mezzo a loro. L’ultima volta che qualcuno ha compiuto un gesto simile su di me, mi trovavo nella residenza presidenziale per la festa che concludeva il Tour della Vittoria e tutti volevano accarezzare i meravigliosi vestiti della Ragazza di Fuoco, la vincitrice degli Hunger Games. Adesso, invece, tutti vogliono accarezzare l’uniforme della Ghiandaia Imitatrice, il simbolo della rivolta.
Quando cominciano a chiedermi della bambina, sono costretta a confessare loro la verità e non limitarmi solo a fuggire, o ad evitare l’argomento, come ho fatto finora. Per la prima volta da quando è successo, sono io stessa a dire ad alta voce quelle parole spaventose ed è sconvolgente l’ondata di fuoco che mi travolge. È sconvolgente la voracità con cui questo dolore mi investe le membra, ma è in qualche modo anche un sollievo, perché parte di questo fuoco, una piccola ed infinitesima parte del fuoco, sembra scivolare via. Sembra abbandonarmi e forse è solo una mera illusione; la gran parte di esso rimane dentro di me, a gravare sul mio cuore, e non credo che se ne andrà mai del tutto.
- L’ho persa – dico in un mormorio quasi indistinguibile, quando una donna anziana me lo chiede di nuovo. Questa donna anziana raccoglie con le sue mani le lacrime che sono cadute dai miei occhi e circonda poi le mie guance in segno di conforto, annuendo piano. È davvero dispiaciuta per ciò che mi è accaduto.
Tutti sono dispiaciuti per ciò che è accaduto a me e alla mia bimba. Tutti mormorano parole di consolazione e di conforto, e la metà di queste parole sono rivolte anche a Peeta. Perché la perdita è stata anche sua, così come è stata mia. L’abbiamo persa entrambi. Io non sono riuscita a diventare una mamma, e lui non è riuscito ad essere un papà. Dei genitori senza una figlia… è questo ciò che siamo.
Parlano molto di Peeta, parlano dell’intervista straordinaria con Caesar e tutti pensano che stesse mentendo, che non credeva davvero a ciò che diceva. La pensano come me: Peeta è stato obbligato a chiedere il cessate il fuoco. Tutti sperano in lui, così come sperano in me. La solidarietà che dimostrano nei nostri confronti è molto più forte ora di quando venimmo come ospiti durante il Tour della Vittoria, ma allora le circostanze erano molto diverse. Se mesi fa parlavamo a nome di Capitol, a nome del presidente Snow, ed eravamo il simbolo vero e proprio della supremazia della capitale su tutto il resto della nazione, adesso i ruoli si sono invertiti. Adesso parlo a nome dei Ribelli, sono qui per dimostrare la mia lealtà alla rivolta, e a quanto pare sanno che anche Peeta sta facendo lo stesso, nonostante le menzogne.
I ruoli si sono invertiti.
Quando esco dall’ospedale, sono costretta ad accasciarmi lungo la parete ed a prendere dei forti respiri per calmare i miei nervi, che sono rimasti profondamente scossi dalla visita e da tutto ciò che questa ha comportato. Non mi aspettavo nulla del genere. E non mi aspettavo, in nessun modo, che con la mia sola presenza avrei potuto far scaturire un vero fiume di speranza. Capisco che Plutarch e Fulvia, con i loro discorsi strategici, non mi hanno mai mentito. Loro sapevano. Conoscono appieno la forza dell’onda che mi trascino dietro ad ogni passo che compio.

Lei non ha idea dell’effetto che può avere. Le parole di Peeta riecheggiano nella mia mente. Quante volte le ha ripetute in questi mesi? Aveva ragione anche lui. Peeta ha sempre avuto ragione su questo, ed io l’ho sempre rimproverato per ciò che diceva…
Boggs mi si avvicina e mi porge una borraccia, che accetto più che volentieri. – Sei andata alla grande – mi dice mentre prendo un sorso d’acqua.
- Non mi sono sentita male. Questo è già qualcosa – biascico, asciugandomi la bocca col dorso della mano.
- È molto più di “qualcosa”, Katniss! - esclama Cressida, la regista. Lei e Messalla mi informano che hanno raccolto moltissimo materiale con cui poter lavorare una volta tornati alla base, e sembrano entrambi molto soddisfatti.
Anche Gale è rimasto colpito dalla mia performance: a sentire lui, per essere me stessa non avrei dovuto fare ciò che ho fatto, ma scappare via dall’ospedale senza voltarmi indietro. Mi conosce talmente bene da sapere ciò che provoca in me la sofferenza altrui, ed ha visto un sacco di volte com’è che mi comporto appena vedo un malato.
- Volevo farlo, ma ho messo a tacere l’istinto – gli confesso a mezza voce.
- Non lo hai messo a tacere, Catnip. Molto probabilmente ne hai sviluppato un altro – dice.
Soppeso le sue parole, e sto cercando di scovare in me il nuovo istinto che avrei sviluppato in un imprecisato momento della mia vita quando tutti concentriamo l’attenzione su Boggs, che ha alzato un dito ad indicare il suo auricolare e ci intima di fare silenzio. Ascolta attentamente ciò che gli stanno comunicando, e poi ci ordina di andare via.
- Bombardieri in arrivo – esclama.
I minuti successivi sono frenetici.
Sotto indicazione di Plutarch, cerchiamo di raggiungere di corsa un edificio già danneggiato, ma ancora in piedi, prima che gli aerei di Capitol City inizino a bombardare di nuovo questo posto. Secondo lui, questo nuovo attacco non è improvvisato ma semplicemente programmato in precedenza, al solo scopo di terminare il lavoro che avevano iniziato stamattina. Non sono qui perché hanno saputo del mio arrivo. La mia incolumità è ancora protetta, per ora.
Siamo quasi all’interno dell’edificio quando le prime, forti esplosioni giungono alle nostre orecchie. La terra trema sotto i nostri piedi per l’impatto delle bombe. Ci siamo allontanati abbastanza dal luogo dell’esplosione e capisco che Plutarch ha ragione, di nuovo: non sono qui per me. Stanno colpendo ciò che resta ancora da colpire al Distretto 8. Ma quando sbircio fuori, una volta terminata l’ondata, vedo che gli edifici diroccati sono ancora in piedi. C’è solo un edificio che fuma: l’edificio che neanche dieci minuti fa stavamo visitando.
L’ospedale.
- Katniss! – urla Gale quando mi precipito fuori.
- Soldato Everdeen! – inveisce invece Boggs.
Sono cosciente di star violando le regole che mi sono state imposte: sto procedendo, senza alcun tipo di protezione a parte l’uniforme che ho addosso, su un territorio nemico in cui potrei restare uccisa da un momento all’altro. La prossima ondata di bombardamenti potrebbe essermi fatale, ma non mi importa. Non posso restare al sicuro e osservare, in silenzio, mentre colpiscono un luogo pieno di persone innocenti, e già gravemente ferite.
Non posso e basta.
Gli aerei si sono allontanati dopo aver lanciato gli esplosivi, ma li vedo mentre virano per tornare indietro. Per colpire ancora. Afferro una freccia dalla faretra, felice di avere a disposizione le nuove armi che Beetee ha fabbricato e che mi consentono di infliggere seri danni alle forze aeree di Capitol City.
Prendo la mira e la scaglio. Sull’ala dell’ultimo aereo che chiude la formazione prendono vita due esplosioni, anche se io ho scagliato una sola freccia nella sua direzione. Poi sento la presenza di qualcuno al mio fianco. Gale, naturalmente. L’altra freccia era la sua. E abbiamo colpito lo stesso bersaglio.
- Non posso lasciarti infrangere le regole da sola! – esclama, ricaricando la balestra.
Spari e colpi di artiglieria riempiono l’aria, oltre alle nostre frecce: io e Gale ci uniamo alle forze armate dei Ribelli del Distretto 8 per respingere l’attacco del nemico, il nostro nemico comune. Uno dopo l’altro, gli aerei di Capitol City crollano a terra od esplodono in aria dopo aver ricevuto i nostri colpi. Gale mi afferra e mi scaglia a terra, proteggendomi col suo corpo, quando un pezzo di lamiera fumante viene scagliato verso di noi. Mi faccio male ad un braccio, cadendo, ma non è nulla in confronto a ciò che avrei potuto subire se Gale non mi avesse scansata via.
- Stai bene? – mi chiede, mentre mi aiuta a rialzarmi.
Annuisco. – Sì – esclamo, e faccio scorrere rapidamente gli occhi lungo il mio corpo per accertarmene ulteriormente. Sì, sto bene.
Ma non posso dire altrettanto per chi si trovava all’interno dell’ospedale. Quando corro per arrivarci davanti, lo trovo completamente in fiamme. Sono talmente alte da superare il punto in cui, poco fa, si trovava il tetto. Capisco che non c’è più nulla da fare per i feriti perché anche tutti gli altri, i soldati ed i pochi medici che sono miracolosamente scampati alla morte, guardano la scena esterrefatti ed impotenti.
- No – ansimo. Mi slancio in avanti, ma Gale mi blocca. Mi impedisce di avvicinarmi ulteriormente alle fiamme anche quando provo ad opporre resistenza. – No! – urlo, incapace di distogliere gli occhi dall’incendio.
- Katniss – Cressida chiama il mio nome, si posiziona davanti al mio sguardo e mi fa cenno di guardarla. Mi fa cenno di ruotare su me stessa, in modo da trovarmi davanti all’ospedale in fiamme, e capisco di avere le telecamere dei suoi assistenti puntate addosso. Mi stanno riprendendo. – Il presidente Snow ha fatto trasmettere il bombardamento in diretta tv. Dice che è un messaggio per i Ribelli. C’è qualcosa che vorresti dire?

.
Scopro, effettivamente, di avere qualcosa da dire.

 

Il Pass-Pro è stato montato in fretta e furia ed è stato già trasmesso numerose volte via etere. Da un paio di giorni non parlano di altro, solo del Pass-Pro e di ciò che ho detto, parlando a tutti i Ribelli di Panem e al presidente Snow, che so che è riuscito ad avere in qualche modo il video ed ha sentito le mie parole. A quest’ora saprà che sono ancora viva e che il suo piano di uccidermi nell’arena dell’Edizione della Memoria è stato un autentico flop.
Trasmettono il video su tutti gli schermi del 13 in continuazione, quasi senza fermarsi. All’inizio l’ho trovato elettrizzante e rivedermi sullo schermo, circondata da del vero fumo e non da quello finto che avevo visto nel video di prova, è stato strabiliante. Ma dopo la decima replica è diventato solo stancante. La mia stessa voce ha cominciato a darmi sui nervi.
- Devo uscire da qui – ho confessato a Gale dopo colazione. Stamattina abbiamo avuto latte caldo con barbabietole, e già il pasto mi sarebbe bastato per capire che sarebbe stata una giornata orribile, ma ci si è aggiunta l’ennesima replica del Pass-Pro a rimarcare l’ovvio.
- Andiamo a caccia – ha proposto lui.

La caccia. Fa parte del mio accordo con la presidente Coin: me ne ero quasi dimenticata.
Recuperiamo le nostre armi dalla Sezione Armamenti e usciamo all’aria aperta, oltre la recinzione controllata da alcuni soldati. Ci lasciano passare senza problemi, cosa totalmente diversa da come siamo sempre stati abituati noi al 12. È strano, ma è anche bello poter uscire liberamente nei boschi, anche se devi comunque chiedere il permesso per poterlo fare.
Camminiamo per un po' in silenzio, guardandoci intorno. Prendo di nuovo familiarità con il bosco, con la natura che mi circonda. Sono mesi che non esco più a caccia. Sia io che Gale non andiamo più a caccia da mesi, dal giorno in cui le regole e la sicurezza cambiarono anche da noi. Fu il giorno in cui provai a convincerlo a scappare via, per l’enorme paura che provavo al pensiero dello scoppiare della rivolta. Alla fine siamo riusciti a fuggire entrambi, e la rivolta c’è stata eccome. È ancora in corso, ed entrambi ne facciamo parte.
Ma fu anche il giorno in cui Gale venne frustato a sangue dal nuovo Capo dei Pacificatori, Thread. Fu il giorno in cui Peeta mi chiese, mi implorò quasi, di smettere di andare a caccia per la paura di ciò che mi sarebbe potuto accadere se mi avessero beccata lì fuori. Fu il giorno in cui capii davvero quanto forte fosse il suo amore per me, e me lo dimostrò restando al mio fianco per la maggior parte della notte, mentre mi teneva un sacchetto di neve premuto sulla faccia.
Stringo la perla nella mano, e cerco di recuperare un po' di conforto da questo contatto.
Continuiamo ad allontanarci ed il ronzio che proviene dagli auricolari che ci hanno dato ci fa capire che siamo ancora nel raggio di azione che ci è concesso percorrere. Tolgo il mio e lo lascio penzolare sulla spalla, beandomi dei rumori a cui sono così abituata e che non credevo mi fossero mancati così tanto. Il fruscio delle foglie smosse dalla brezza, il lieve rumore della terra smossa sotto le suole delle nostre scarpe, e l’acqua che scorre non molto lontano da noi. Deve esserci una sorta di torrente.
Ci muoviamo silenziosi, talmente silenziosi che il rumore dei nostri passi quasi non si sente. Sono degli altri passi, quindi, ad annunciarci l’arrivo di qualcuno. Una preda. Gale la vede prima di me e mi indica col dito la giusta direzione in cui puntare le armi, alla mia sinistra. Vedo che si tratta di un cervo maschio, maestoso e magnifico. Ci avviciniamo a lui e continuiamo a farlo anche quando non c’è più la vegetazione a coprire le nostre figure. Sono pronta a vederlo scappare via da un momento all’altro, ma il cervo non si muove. Ci ha visti, ci ha sentiti, ma non scappa. Continua a brucare il terreno, incurante del pericolo in cui è incappato.
- Non ha paura di noi – mormoro. Non ho neanche il coraggio di puntargli contro la mia freccia.
- Non si è mai sentito minacciato dall’uomo – dice Gale.
Guardo Gale, poi guardo di nuovo l’animale. Prendo la freccia e la rinfilo nella faretra che porto sulla schiena, e decido di allontanarmi. Decido di lasciarlo vivere. Seguo il rumore provocato dall’acqua e dopo un centinaio di metri mi trovo davanti ad un torrente. Mi avvicino al corso d’acqua, ne raccolgo un po' nelle mani a coppa per berla, e poi mi siedo sulla riva ad osservare i giochi di luce che il sole produce sulla superficie. Gale mi raggiunge dopo qualche minuto.
- Non è poi così diverso da casa – osserva.
- No, non è così diverso – ammetto.
Anche se ci sono così tanti dettagli, a rendere questi boschi così diversi da quelli di casa. Illudersi del contrario è solo un modo per affrontare la realtà. È solo un altro modo che il nostro istinto di sopravvivenza mette in atto per aiutarci ad affrontarla.
Sto ancora guardando il riflesso dell’acqua quando Gale mi riporta alla realtà. Ed il mio istinto di sopravvivenza mi ricorda, bruscamente, che la realtà non è un bel posto dove poter vivere in santa pace.
- Katniss, ti devo parlare – inizia, ed io capisco già di cos’è che mi vuole parlare.
- No – ribatto. Chiudo gli occhi. Deglutisco. – Non dire niente, per favore. Gale-
- Non posso più tenermi questo peso sulla coscienza – continua lui, ignorando la mia richiesta di lasciar perdere. – Ti amo, Katniss. Mi dispiace, ma dovevi saperlo.
- Perché me lo stai dicendo proprio adesso? – chiedo. La mia voce si sta di nuovo rompendo, e scivolo sul terreno cercando di allontanarmi dal suo corpo. – Io non ti posso amare. Io non… non posso più amare nessuno-
- Sì che puoi, Katniss. Tu sei capace di amare, e stai ancora amando… solo, non stai amando me.
- Perché dirmelo, allora? Se lo sapevi già, perché lo hai fatto? - apro gli occhi e mi costringo a guardarlo in faccia. Glielo devo, almeno questo. E mi dispiace, mi dispiace essere la fonte del suo dolore, del suo tormento. Mi dispiace non poter ricambiare il suo sentimento come invece desidera che io faccia. Mi dispiace di non poter essere nient’altro che un’amica, per lui.
Gale mi accarezza il viso con la punta dell’indice mentre un sorriso mesto prende forma sulle sue labbra. – Non ha senso continuare a lottare contro un mulino a vento.
- Mi dispiace tanto – circondo il suo braccio con le mie e poggio il capo sulla sua spalla. È sbagliato, agire nel modo in cui sto agendo, quando so che Gale mi ama. Mi sembra quasi di alimentare una falsa speranza, una possibilità che per noi due non ci sarà mai veramente. Ma ho bisogno di sentirlo vicino, di sentire che questo macigno che c’è tra di noi non rappresenti un ostacolo per la nostra amicizia. Ho bisogno di sapere che potrò sempre contare su di lui.
Non riuscirò mai ad essere meno egoista di così.
- Mi passerà – mormora, rafforzando la presa sulle mie mani.

 

Al nostro ritorno, io e Gale facciamo come prima cosa tappa al piano riservato alle cucine. Non abbiamo cacciato il cervo, ma mentre tornavamo indietro ci siamo imbattuti in uno stormo di fagiani e siamo riusciti a farne fuori tre prima che il resto della truppa spiccasse il volo. Non è molto, considerando il numero degli abitanti per cui si cucina giornalmente al 13, ma è pur sempre meglio di niente. I fagiani vengono consegnati direttamente nelle mani di Sae la Zozza, che da quando è qui lavora nelle cucine. Chissà se il resto dei cuochi, qui, è venuto a conoscenza del suo piatto forte, quello che propinava agli abituali frequentatori del Forno. Ma se fosse così l’avrebbero già buttata fuori a calci… credo.
Mentre usciamo, il bracciale comunicatore di Gale emette un sonoro “bip bip”.
- Ci vogliono vedere urgentemente al Comando – dice dopo aver letto il messaggio.
- Vogliono farci vedere di nuovo il Pass-Pro? – chiedo, sarcastica.
- Non lo so – mi risponde, e sembra sincero.
Non abbiamo il tempo per posare le nostre armi, così ce le portiamo dietro fino al Comando. Ho un déjà-vu quando entro nella stanza e mi sembra di essere tornata indietro nel tempo, anche se solo di pochi giorni. La sala è gremita di gente, come l’altra volta, e sono tutti di nuovo riuniti davanti allo schermo. Penso che si tratti effettivamente del Pass-Pro, o del video di me che parlo con i feriti del Distretto 8 di cui Cressida parlava tanto mentre tornavamo a casa, ma sullo schermo televisivo c’è di nuovo Peeta. Proprio come pochi giorni fa.

Ma non è più lo stesso.
- Peeta! – urlo. Mi sbraccio fino ad arrivare davanti allo schermo, ed inizio a piangere.
Non sembra essere rimasto più nulla del ragazzo di cui mi sono innamorata. I suoi occhi sembrano spenti e la sua pelle è pallidissima nonostante il trucco che gli hanno applicato, trucco che non riesce a nascondere le occhiaie violacee ed i segni scuri sul mento e sulla fronte. Le sue braccia tremano. Non riesco a vedere le sue mani, ma molto probabilmente tremano anch’esse. È dimagrito tantissimo… è l’ombra di sé stesso.
- Cosa gli hanno fatto? – balbetto. – Come… pochi giorni fa…
- Quel video era vecchio, molto probabilmente – mormora Haymitch, che nel mentre mi si è avvicinato ed io non sono neanche riuscita a rendermene conto. – Sarà in questo stato da settimane, ormai.
- Peeta – mormoro di nuovo, come se lui potesse sentirmi. Ma non può, proprio come l’altra volta.
C’è di nuovo Caesar insieme a lui, pronto per un’altra intervista al Ragazzo Innamorato. Il Ragazzo Innamorato, a cui hanno prosciugato tutta la voglia di vivere e di amare.
- Girano delle strane voci su Katniss Everdeen, Peeta. Pare che stia girando dei Pass-Pro per motivare i Distretti ed incitarli alla rivolta. Cos’hai da dirci al riguardo? – gli domanda Caesar, teso.
Peeta non solleva gli occhi mentre risponde. – Qualunque cosa stia facendo, Caesar, non è in sé – dice, mantenendo un tono di voce basso, ma ben udibile grazie ai microfoni. – Non sa cosa sta facendo. Qualcuno l’ha costretta a dire, o a fare quelle cose. Qualsiasi cosa stia facendo, non lo fa per sua scelta.
Qualcuno dietro di me si fa sfuggire un verso di stizza; la Coin, forse? Non mi volto per accertarmene. I miei occhi non riescono a staccarsi dal volto sofferente di Peeta. La mia mano va subito all’incavo dei seni, dove sento la perla a contatto diretto con la mia pelle. La stringo forte.
- Pensi che possa essere stata raggirata in qualche modo? Pensi che le abbiano fatto il lavaggio del cervello?
- L’hanno fatto a te, il lavaggio del cervello! – esclama qualcuno. Di nuovo, non mi volto per scoprire chi sia stato.
- È quello che penso.
- Cosa vorresti dire a Katniss, Peeta? C’è qualcosa che vorresti comunicarle?
Peeta annuisce, e finalmente solleva lo sguardo. Una telecamera viene puntata direttamente sul suo viso e adesso i segni della sua sofferenza sono più evidenti. È un volto segnato, il suo, e magro. È così magro da far sembrare i suoi occhi azzurri ancora più grandi. E piange, quando comincia a parlarmi.
- Non essere sciocca, Katniss. Pensa con la tua testa. Ti hanno trasformata in un’arma che potrebbe contribuire in modo decisivo alla distruzione dell’umanità. Se hai una vera influenza, usala per mettere un freno a tutto questo…
- Peeta…
- Non può dire sul serio – mormora Gale.
- Non è serio, infatti – mormora Haymitch a sua volta. – Sta mentendo. Lo fa per salvare la vita di questa pazza qui, perché la ama. E continuerà a farlo finché potrà.
- E se lo scoprono?
Haymitch non risponde a Gale. Serve, dopotutto?
Se lo scoprono, Peeta morirà.

E sarà solo a causa mia.

 

 

 

 

___________________________

Sì, sono in ritardo anche stavolta. Però è soltanto un giorno, dai. Che sarà mai un giorno di ritardo! *si arrampica sugli specchi*
Voglio aprire queste note ringraziandovi per come avete accolto il capitolo precedente, in particolare per la parte finale: avevo davvero paura di aver reso poco convincente il “faccia a faccia” tra Katniss e Haymitch, ma mi avete davvero tranquillizzata :) grazie ancora!
Non sono, invece, altrettanto sicura per il “faccia a faccia” che è accaduto in questo capitolo: Gale che confessa a Katniss i suoi sentimenti. Doveva arrivare, certo, ma temo di non averlo reso al meglio. Ho smesso di lavorarci sopra perché altrimenti avrei pubblicato nel duemilamai, ma non mi soddisfa. Ditemi voi cosa ne pensate :)
Ci sentiamo al prossimo capitolo :*

D.

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Capitolo 30
*** 30. ***


In The Still Of The Night - 30

In the still of the night

 

 

 

 

30.

 

- Perché non fanno nulla per salvarlo? – chiedo per l’ennesima volta ad Haymitch. – Perché lo lasciano lì a soffrire? Lo stanno facendo morire!
- Perché per loro è poco più di un doppiogiochista, e loro non li salvano, i doppiogiochisti – Haymitch è arrabbiato quanto me, o forse anche di più. – Cosa credi, che non ci abbia già provato a convincerli? Non vogliono nemmeno prendere in considerazione l’idea.
- Finché è stato utile ai loro scopi però lo hanno tenuto in considerazione, eh? – me ne esco. – Finché cercavano di ammazzarci all’interno dell’arena, andava tutto bene! E andava bene anche a te, visto che eri in combutta con loro!
- Frena la lingua, ragazzina…
- Perché? Ha ragione lei – dice Gale.
- Lo so che ha ragione, lo so benissimo! – urla, frustrato. – So che è anche per colpa mia se il ragazzo si ritrova in quell’inferno di posto, e rimpiangerò per tutto il resto della mia vita di non averlo salvato in tempo.
- Non per tutta la vita – dico, risoluta, avvicinandomi a lui. – Se Peeta muore prima che facciate davvero qualcosa per salvarlo, ci penserò io stessa ad ucciderti.
- Katniss… - mi ammonisce Gale.
- No, ragazzo, lasciala parlare. Mi sta bene – Haymitch ricambia il mio sguardo. – Ma non riuscirai a farlo, se ci arrivo prima io al suicidio.
- Non provarci, Haymitch. Me lo devi. Hai infranto un patto, ricordatelo – Peeta vive, io muoio. – E adesso devi correre ai ripari.

 

Ma nessuno è ancora corso ai ripari.
Il diverbio tra me ed Haymitch è vecchio di giorni, ormai, e da allora non è ancora accaduto nulla. Non ci sono stati altri Pass-Pro in onda per tutta Panem e non ci sono state altre comparsate di Peeta in diretta televisiva. Non so se sta bene, se è peggiorato. Non so se è ancora vivo. Ma immagino che me lo avrebbero fatto sapere, se fosse morto. Il presidente Snow non mi lascerebbe mai con questo dubbio, nell’eventualità.
In questi giorni di stasi non faccio niente, assolutamente niente. Sul mio programma non ci sono accenni alle riprese o quant’altro, quindi mi viene naturale abbandonare i miei doveri e tornare a rintanarmi nei miei soliti nascondigli per evitare gente. Evito Haymitch, evito Plutarch e la sua assistente, evito Effie. Evito persino Cressida, che trovo simpatica e che non ha mai fatto nulla di male nei miei confronti. So che sta realizzando alcuni interventi video insieme a Finnick, una sorta di ricordo per tutti i vincitori che sono caduti durante l’Edizione della Memoria e durante i primi giorni della rivolta, quando il presidente Snow espresse l’ordine di ucciderli tutti quanti. Ci sono pochi superstiti: i quattro che si trovano al 13, i quattro che si trovano a Capitol City… e, forse, nessun altro. Per Finnick deve essere difficile raccontare ciò che ricorda degli altri vincitori perché li ha conosciuti quasi tutti. Anche per Haymitch deve essere difficile, ma lui non vuole prendere parte a nessuna registrazione. E non mi importa molto di Haymitch, ora come ora. Potrebbe anche tornare ad ubriacarsi, per quel che mi riguarda.
In questi giorni evito anche Gale. Non voglio vedere nessuno, e se non fosse per l’alloggio che condivido con la mia famiglia, non vorrei vedere neanche loro. Gli unici momenti in cui incontro gente sono quelli destinati ai pasti, e capita solo perché non posso restare a digiuno per sempre; dopo aver mangiato in fretta e furia la mia razione di cibo, scappo di nuovo via.
Dopo il lieve miglioramento, sono di nuovo ricaduta nel mio oblio fatto di solitudine autoinflitta. E mi sta bene. La sopporto più che volentieri, la solitudine. Non posso ferire nessuno se sono da sola.
La solitudine però termina quando, una mattina, incontro Boggs in un corridoio. E lui mi rincorre e mi ferma prima che possa andare a rifugiarmi da qualche parte.
- Sei desiderata, soldato Everdeen – dice, stringendo la presa sul mio avambraccio.
Cerco di divincolarmi, ma smetto praticamente subito. Prima o poi doveva accadere.
Boggs mi accompagna fino alla mia destinazione e non molla un istante la presa su di me. È come se mi tenesse al guinzaglio, come se fossi un cane sfuggente e male addomesticato e lui fosse il mio padrone con la pazienza di un santo. Non mi porta al Comando, però, ma al Rinnovamento. Il quartier generale di Cressida.
- Perché sono qui? – chiedo bruscamente.
- Hai del lavoro da fare – si limita a dire. Apre la porta e mi fa segno di entrare.
Cressida ha bisogno di me e di Gale, oggi, per tornare al Distretto 12 e realizzare delle riprese. Vuole che il pubblico ci veda sui luoghi in cui siamo cresciuti e che abbiamo perso quella fatidica notte, durante i bombardamenti. Ovviamente, ci chiede se ce la sentiamo di tornare a casa.
- Va bene – dico, senza attendere la risposta del mio amico.
Qualsiasi cosa mi va bene, a patto che non sia restare qui senza poter fare nulla di concreto, col pensiero fisso su Peeta torturato. O morto.
Dopo il breve volo in hovercraft siamo di nuovo sulla piazza, davanti al Palazzo di Giustizia distrutto. Non è cambiato molto da quando sono stata qui, poco più di dieci giorni fa. Come potrebbe cambiare qualcosa, dopotutto? L’unica cosa diversa è che non sono da sola, a guardare lo scempio in cui è stato ridotto il mio vecchio distretto. Ci sono Cressida e la sua troupe, e Gale naturalmente. Nessuna scorta, solo noi. Io e Gale abbiamo le nostre armi, ma non dovrebbero servirci. Sono solo per scena.
A nessuno verrebbe in mente di attaccarci qui. A chi verrebbe in mente di attaccare un distretto completamente raso al suolo e privo di vita?
Dovrei essere ormai abituata all’orrore che mi circonda. Ci ho trascorso un pomeriggio intero, dopotutto, ma allo stesso tempo è come se lo vedessi per la prima volta. È come se fossi caduta dalle nuvole, è come se la devastazione fosse accaduta soltanto pochi giorni fa. Per Gale deve essere lo stesso: lo vedo nel modo in cui si guarda intorno, nel modo in cui cerca di distinguere le strane forme che ci circondano. Lui ha visto le bombe cadere e le fiamme, ma lo ha visto dai boschi, lo ha visto da lontano. Non ha mai visto davvero ciò che accadeva qui.
Cressida ci riprende mentre percorriamo la strada per il Giacimento. Ho paura di tornarci, perché so cosa ci aspetta una volta lì. Dentro di me, temo e spero allo stesso tempo di non essere costretta di nuovo a vedere i cani selvatici che si nutrono di ciò che rimane della popolazione del 12. Ma non ci sono cani selvatici, stavolta. I morti sì, però. Quelli non se ne possono andare. Gale mi aiuta ad attraversare la valle della morte perché io tengo gli occhi chiusi, incapace di sopportare oltre quella vista.
Facciamo visita alle nostre vecchie case. Cressida ci chiede di dire qualcosa mentre veniamo ripresi in mezzo a ciò che resta dei nostri oggetti personali. Della mia vecchia casa, quella in cui vivevo prima di trasferirmi al Villaggio dei Vincitori, è rimasto solo il caminetto, quasi intatto. La maggior parte delle nostre cose sono salve perché non si trovavano qui, al momento dei bombardamenti. Non dico nulla, mi limito a guardare il cielo attraverso l’enorme buco che si trova al posto del tetto. Gale fa lo stesso quando visita quella che è stata casa sua fino ad un mese e mezzo fa. Non riusciamo a dire nulla, perché tutto questo non ha bisogno di parole. Il silenzio è più che sufficiente.
Cressida passa allo step successivo e, dopo esserci allontanati dal Giacimento, chiede a Gale di ripercorrere quella lunga notte: una sorta di viale dei ricordi. Lo seguiamo mentre racconta ciò che ha fatto, come è riuscito a far fuggire ottocento persone attraverso la recinzione abbattuta fino ai boschi. Percorriamo lo stesso tragitto di quella notte, tra la calura e la vegetazione, fino al lago, dove i superstiti hanno trovato un rifugio temporaneo ed il modo di sopravvivere fino all’arrivo dei soccorsi, che li ha condotti poi al Distretto 13.
A questo punto ci fermiamo, decidiamo di concederci un po' di riposo dopo la camminata che ci ha condotti al lago e ci dedichiamo al pranzo a sacco che ci siamo portati dietro. All’ombra degli alberi, tra la quiete che circonda il lago, consumiamo il nostro pasto.
Ho sempre provato conforto nel tornare qui, ricordando i giorni spensierati che vi ho trascorso insieme a mio padre. Mi ci ha sempre portato, da quel che posso ricordare. Quando avevo cinque anni mi insegnò a nuotare, ed una volta che avevo imparato divenne veramente difficile convincermi ad uscire fuori dall’acqua per tornare a casa. Me lo diceva sempre, il mio papà, che ero nata nel posto sbagliato. E l’ho pensato anche io, nell’arena dell’Edizione della Memoria, quando sono riuscita a trovare conforto solo all’interno del mare della cornucopia.
Non sono tornata qui molte volte subito dopo la morte di papà; cominciai a tornarci regolarmente solo dopo aver preso a frequentare i boschi giornalmente, per via della caccia. E ci portai anche Gale, quando diventammo amici. L’anno scorso, questo posto è stato testimone silenzioso del nostro bacio. Il bacio rivelatore, come l’ho definito nella mia testa. Perché è stato grazie a quel bacio che capii che non avrei mai, mai potuto ricambiare i suoi sentimenti come avrebbe voluto che facessi. Perché un ragazzo gentile, dai capelli dorati e con gli occhi azzurri come il cielo, era arrivato prima di lui.
Ci ho portato anche Peeta, un paio di volte, sul finire dell’estate. L’ho praticamente costretto a buttarsi in acqua per insegnargli i rudimenti del nuoto e lui mi ha accontentata, divertito. E appena è stato in grado di starmi dietro dentro l’acqua ha cominciato ad affogarmi. Sono stati i giorni più belli, quelli. Senza problemi, senza paure, senza avere la sensazione di star facendo qualcosa di sbagliato, o di proibito… senza sapere che il destino ci stava per riservare una brutta sorpresa.
Se penso che è stato grazie a me che ha imparato a nuotare, e che saper nuotare gli ha in qualche modo consentito di raggiungermi nell’ultima arena… sarebbe potuta andare molto peggio di così.
Perché non c’è mai limite al peggio.
Pollux, l’operatore di camera senza voce, ad un certo punto mi indica un uccellino nero che si è posato su una pietra poco distante da noi. Ho un brivido, ripensando alle ghiandaie chiacchierone che avevano assalito me e Finnick nell’arena, ma poi vedo le macchie bianche sotto le sue ali e capisco che non si tratta di quella specie in particolare. È la sua progenie.
- È una ghiandaia imitatrice – dico, sorridendo. È il mio alter ego, ma in carne ed ossa. E piume.
Mostro a Pollux il modo in cui le imitatrici riproducono i suoni che ascoltano, trasformandole in melodie affascinanti: fischio, variando di poco il motivetto di tanto in tanto, e loro lo rifanno quasi istantaneamente. Anche Pollux si unisce al mio gioco, fischiettando. In breve, non è più solo la nostra piccola ghiandaia a seguire le nostre note, ma anche le altre che ci stanno intorno, nascoste nel fogliame degli alberi, o che si librano nell’aria.
- E chi le azzitta più – se ne esce Gale ad un certo punto.
Pollux sorride, divertito. Mima una serie di indicazioni per me: più che indicazioni, una richiesta.
Mi chiede di cantare.

Cantare. Di nuovo. Avevo giurato a me stessa che non avrei cantato mai, mai più. Ma ho infranto la promessa la sera prima di entrare nell’arena. Ci sono così tante canzoni che conosco tra cui scegliere… e la scelta, alla fine, ricade su un motivetto semplice, che si ripete per quattro volte con poche ed infinitesimali varianti, che sentii anni fa dalla bocca di mio padre. È una canzone proibita, al Distretto 12, una canzone che nessuno vuol sentire per il macabro e cupo significato che si trascina dietro. È una canzone vecchia di anni, di decenni, forse. Non so chi l’abbia scritta, e per quale motivo l’abbia fatto. Ma ormai non esiste più, il Distretto 12, e nessuno verrà a lamentarsi se la canto di nuovo. Nessun vecchio abitante del 12, a parte Gale che è qui insieme a me, ascolterà più questa canzone.

 

Are you, are you,
coming to the tree
they strung up a man
they say who murdered three?...

 

Pollux mi fissa mentre canto, mentre le ghiandaie imitatrici e tutti gli altri uccellini si zittiscono nel sentire il suono della mia voce. Come facevano per mio padre. Dicevano tutti che aveva una voce bellissima, ed io me la ricordo a malapena. Il tempo la sta cancellando piano piano. Sento un ronzio alle mie spalle e lo riconosco per quello che è: il ronzio di una telecamera in azione. Mi stanno riprendendo. Cerco di ignorare il ronzio e continuo a cantare, guardando un punto imprecisato davanti a me.

 

if we met at midnight
In the hanging tree…

 

Quando termino la mia canzoncina, un improvviso silenzio ci circonda tutti quanti, ma viene velocemente rimpiazzato dai suoni riprodotti dalle gole delle imitatrici. L’Albero degli Impiccati, riprodotta dalle loro voci, è ancora più struggente. È bellissima.
Pollux, accanto a me, ha cominciato a piangere.

 

- Ma dove le tiri fuori certe cose? – mi chiede Plutarch, ammirato. – Se ce le inventassimo noi, non ci crederebbe nessuno!
Subito dopo cena, la sera stessa della nostra tappa al Distretto 12, un messaggio urgente è stato inviato al bracciale comunicatore di Gale con l’ordine di scostarmi velocemente al Rinnovamento. Cressida doveva aver già montato e preparato qualche nuovo pezzo da trasmettere via etere, ci siamo detti io e Gale mentre ci avviavamo per l’incontro, ma una volta lì abbiamo scoperto che aveva fatto qualcosa di più, del semplice montare.
Cressida ha preso i filmati singoli di me e Gale che camminiamo, spaesati e scossi, lungo tutto ciò che rimaneva del 12, e ha usato la canzone dell’Albero degli Impiccati come colonna sonora. Nel video le mie labbra sono serrate e rigide, non si muovono, ma la mia voce risuona comunque alta e forte, ed inconfondibile.
La regista lo ha mostrato a Plutarch per avere la sua approvazione e lui è rimasto così tanto sorpreso ed entusiasta del risultato da chiamarci per mostrarcelo subito, prima ancora che venga messo in onda.
- È fantastico – dice Gale, colpito. – Katniss è stata fantastica.
- Non l’ho fatto per le telecamere – dico, quasi giustificandomi, appena termina il filmato.
- Non saresti così sensazionale se lo facessi per le telecamere – esclama Plutarch, stringendomi una spalla soddisfatto. – Sei spontanea, Katniss, semplicemente spontanea. Continua così!
- Da domani andrà in onda su tutti i canali dei distretti – ci informa Cressida, compiaciuta. – Anche nel 2. E appena Beetee riuscirà a superare la sicurezza informatica di Capitol City, lo vedranno anche in città.
- Non ci è ancora riuscito?
- Non ancora, ma è sulla buona strada per farcela. È questione di pochi giorni, al massimo.
Così, come è accaduto anche pochi giorni fa, il nuovo Pass-Pro viene trasmesso regolarmente e replicato per la maggior parte della giornata e lo sarà anche per i giorni successivi. Stavolta, però, è inframmezzato da alcuni spezzoni di Finnick che racconta alla popolazione di Panem i suoi ricordi dei vincitori e dei tributi uccisi in anni e anni di Hunger Games. Ricorda persino i tributi che sono stati uccisi durante la sua edizione, alcuni dei quali è stato costretto ad ucciderli lui stesso. E ricorda quelli a cui ha fatto da mentore. Non accenna minimamente ad Annie, ma lo sguardo perso nel vuoto che assume durante le brevi pause è dovuto a lei. Ogni momento della giornata in cui non è impegnato in qualcosa è buono per pensare ad Annie.
Lo stesso discorso può essere rivolto anche alla sottoscritta. E da ieri la mia preoccupazione si è intensificata ulteriormente, dal momento esatto in cui Cressida ha detto che presto anche gli abitanti di Capitol City potranno vedere i Pass-Pro che stiamo registrando qui al 13. Non è il fatto che possano vederli a preoccuparmi, ma più quello che potrebbero fare a Peeta. Lo stato pietoso in cui vertono ora le sue condizioni è dovuto tutto al fatto che sta cercando di proteggermi, mentendo alla nazione e a colui che la governa… ma cosa potrebbero fargli, appena avranno l’effettiva certezza dell’esistenza dei Pass-Pro? Cosa impedirà loro di procedere con altri tipi di tortura e di brutalità? Nulla, a dire la verità.
Procederanno comunque, anche se non è colpa di Peeta. Procederanno al solo scopo di vendicarsi della Ghiandaia Imitatrice, accanendosi sull’unica persona che hanno a disposizione e che lei ama con tutta sé stessa.
Vorrei tornare indietro nel tempo e non aver accettato il ruolo di portavoce della rivolta, se questo significa garantire un minimo di sollievo alle sofferenze di Peeta. Ma non posso farlo, e non posso nemmeno cedere il mio posto a qualcun altro, a causa del patto che ho stretto con la presidente Coin. Essere la Ghiandaia Imitatrice in cambio dell’immunità per Peeta e per il resto dei vincitori prigionieri.

Ma cosa mi è saltato in mente?
- Non aggrottare così la fronte, Katniss! Ricorda: pensare troppo fa venire le rughe1 – mi ammonisce Effie, brandendo il pennello della cipria in modo minaccioso verso di me.
- Morirò rugosa, allora – sbotto.
- Non la penserai più così, tra trent’anni. Fidati, so di cosa parlo.

Perché, tra trent’anni sarò ancora viva? Sarebbe un miracolo insperato. Invidio l’ottimismo di Effie, che nonostante tutto non l’ha mai abbandonata e che continua a pensare ancora in pieno stile Capitol City. A chi importa se mi vengono le rughe? A nessuno importa, solo a lei.
È tutta presa e concentrata nel suo compito di cancellare quelle che mi sono già fatta uscire prematuramente, prima di spedirmi di nuovo davanti alle telecamere di Cressida. Non è prevista nessuna trasferta per oggi, nessun Pass-Pro degno di nota adesso che c’è ancora in circolo quello sul Distretto 12. Oggi, dovrò solo sedermi e parlare dei tributi che ho avuto l’opportunità di conoscere nelle mie due trasferte nell’arena. Ricoprirò lo stesso compito che ha svolto Finnick prima di me. Non sarà per niente facile ripercorrere quelle giornate e ripensare a chi non c’è più, soprattutto se penso che molti di loro non ho nemmeno avuto l’opportunità di conoscerli sul serio. C’è giusto Rue di cui vorrei parlare, e Mags. Loro sono le persone che ho conosciuto davvero, senza contare i pochi di noi ancora vivi.
Effie mi lascia andare, soddisfatta per la sua opera, ed io mi incammino fino ad arrivare al centro del teatro di posa, che ormai conosco così bene. Sul piedistallo c’è uno sgabello di metallo, su cui prendo posto. Cressida si trova di fronte a me e legge degli appunti che Messalla le sta mostrando su un bloc notes. Castor e Pollux sono invece posizionati rispettivamente alla mia destra e alla mia sinistra, pronti a riprendermi da ogni angolazione.
- Sei pronta, Katniss? – mi chiede Cressida, sorridendo.
Annuisco, stringendo le mani tra le ginocchia. Sono tesa, più che pronta.
Come se sapessero che sto preparandomi a fare qualcosa controvoglia e per cui non sono per niente a mio agio, delle persone spalancano la porta ed entrano nel teatro di posa in fretta, facendo un casino abnorme. Queste persone sono Gale ed Haymitch.
- Che succede? – chiede Cressida.
- Sta per iniziare un programma in diretta, da Capitol City. Parlerà Snow – dice Haymitch, col fiatone. – Beetee crede di riuscire a manipolare la loro trasmissione su scala nazionale.
Non era solamente questione di giorni, allora, ma di ore. Beetee è riuscito a superare persino sé stesso.
Scendo dallo sgabello e mi precipito fuori dal teatro, correndo dietro ai due uomini che sono venuti ad avvisarmi.

 

Siamo di nuovo al Comando, gremito di persone, in attesa che cominci il programma. Noto che c’è anche Finnick stavolta, quando normalmente a lui non è permesso di prendere parte a questo tipo di incontri. Potrebbe, forse, se non fosse per il suo piccolo problema di “confusione”, ma fino ad ora non era mai successo. Vado verso di lui ed annuncio la mia presenza mettendogli una mano sulla spalla. Finnick distoglie gli occhi dalla corda mezzo annodata che ha in mano. Non ha mai smesso di annodare quella corda da quando siamo arrivati al 13.
- Ehi, Katniss – mi saluta.
- Ciao, Finnick – ricambio.
- Pronta per lo show?
- Ovviamente – dico, ma non ci credo sul serio.
Lo schermo, che era nero fino ad un secondo fa, si illumina mostrando il sigillo di Capitol City, accompagnato dal solito inno. Ci azzittiamo di colpo, presi dalle immagini che seguiranno e di cui non abbiamo la minima idea di quali potrebbero essere. L’unica cosa che sappiamo è che parlerà il presidente Snow.
Ma di Snow, scopriamo, non vi è nessuna traccia.
C’è solamente Peeta, al centro dello studio televisivo. Una telecamera avanza lentamente su di lui, ritagliando la sua immagine fino a che non è inquadrata dal busto in su. Il movimento compiuto dalla telecamera ci ha permesso di vedere i piccoli cartoncini che stringe tra le mani, mani che adesso non si vedono più. Deve essere quello, il messaggio del presidente. Ma sarà Peeta a leggerlo. Sarà il messaggero per tutta Panem.
- Sta peggio – mormoro, guardando il suo viso. Le ombre ci sono ancora, e se possibile sembrano ancora più marcate. E stavolta non hanno fatto nessun vero sforzo per coprire i suoi lividi: ne ha uno bello grosso sotto l’occhio destro, che sta diventando verde.
Finnick mi stringe forte la mano.
Peeta prende un respiro prima di cominciare a leggere i cartoncini, e questo gli provoca una smorfia di dolore. Sta decisamente peggio, penso, raggelata. Fatica a respirare, e questo vuol dire solo una cosa: che sotto i bei vestiti con cui lo hanno ricoperto, c’è un corpo ferito.
- Cittadini di Panem, non c’è mai stato come oggi un così disperato bisogno di un cessate il fuoco. A nome del presidente Snow, mi rivolgo principalmente ai gruppi di Ribelli che stanno ignorando da settimane questa richiesta – dice Peeta, leggendo i cartoncini. - Ciò che fate, ciò che causate, non gioverà a vostro favore. La maggior parte dei distretti sta soffrendo per le azioni che commettete ogni giorno-
L’immagine di Peeta sparisce all’improvviso, lasciando il posto all’inquadratura della piazza distrutta del Distretto 12 e alla mia voce che canta la canzone.

 

Are you, are you,
coming to the tree
where I told you to run
so we’d both be free…

 

- Ce l’ha fatta! Beetee si è inserito! – urla Plutarch.
Le persone intorno a me applaudono ed esultano, mentre Beetee, che si trova a diversi livelli di distanza rispetto a dove siamo noi adesso, lascia di nuovo il campo libero a Peeta. Mi si stringe il cuore quando rivedo il suo viso: ha le lacrime agli occhi, la bocca aperta in un’esclamazione muta ed il respiro affrettato. Capisco che non è stata solo Panem a sentire la mia voce, ma che l’ha sentita anche lui. Ha sentito la canzone.
- Katniss – lo vedo mimare con le labbra. Gira la testa a destra e a sinistra, velocemente, e poi la abbassa. Riprende a leggere, ma la sua voce non è più ferma come pochi secondi fa. – Ci sono… ci sono state perdite ingenti di beni necessari alla sopravvivenza. La diga che fornisce l’energia elettrica a Capitol City è stata distrutta due giorni fa-
Beetee compie di nuovo la sua magia: sono sullo schermo, di nuovo al posto di Peeta. Cammino davanti a quella che una volta era la panettiera della sua famiglia.

 

Where dead man called out
For his love to flee…

 

Era la peggiore ripresa che avrebbero potuto scegliere di mandare in onda, e per giunta nel momento sbagliato. Peeta non sa cosa è accaduto alla sua famiglia, non sa nemmeno che il Distretto 12 è stato bombardato… e Beetee glielo sta sbattendo in faccia nel peggior modo possibile. È il modo peggiore per conoscere la sorte dei propri familiari e della città in cui è vissuto per diciassette anni.
Quando torna in onda, i suoi occhi sono spenti. Mi ha vista, ne sono sicura, ma non sono sicura sul fatto che abbia riconosciuto o meno il luogo in cui mi hanno ripresa. Se l’ha capito, però, non potrà portare a nulla di buono.
Peeta sta man mano perdendo il controllo di sé stesso: le lacrime che hanno invaso i suoi occhi adesso gli rigano le guance, scendono fino al mento, e cadono sui cartoncini che continuano a non voler inquadrare. Sembra che stia andando in iperventilazione, da com’è rapido il suo respiro.
- Katniss – dice con voce rotta. – Katniss, come finirà tutto questo? Nessuno è al sicuro-
Il messaggio di Peeta viene interrotto di nuovo dalla stessa ripresa di prima.

 

Where dead man called out
For his love to flee…

 

- Basta! - urlo, incapace di trattenermi. – Basta! Sta male! Smettetela!
- Controllati, dolcezza – sussurra Haymitch al mio orecchio, stringendomi con un braccio. – Controllati.
- Devono smetterla! – urlo ancora.
- Mandatela in onda – dice una voce.
- Che cosa?
È stata la Coin a parlare. Scossa, seguo lo sguardo di Haymitch e osservo la presidente che indica lo schermo. – Peeta Mellark riesce a sentire e vedere le registrazioni. Beetee potrebbe essere in grado di collegare la signorina Everdeen in diretta? Potrebbe essere in grado di farli parlare direttamente tra di loro?
- No – scuoto la testa e le lacrime iniziano a rigarmi le guance. – No, vi prego, no. Gli faranno del male, lo uccideranno… non fatelo, vi prego…
Le mie proteste però non vengono ascoltate. La proposta della Coin viene subito messa in atto e nel giro di nemmeno un minuto ho un microfono appuntato sulla camicia, e adesso mi dicono che devo soltanto attendere il segnale di Beetee per poter parlare. Cerco, piangendo, di togliere il microfono ma le mani di Haymitch me lo impediscono. Perché fa così?
- Non posso farlo – singhiozzo. – Non me lo fate fare, per favore… no…
- Fallo per Peeta, Katniss – mormora Finnick al mio orecchio. Non ha mai smesso di tenere la mia mano e adesso ha le braccia attorno alle mie spalle per farmi capire che non sono da sola. Mi bacia una tempia. – Fallo per lui.
- No…
La lunga interferenza con cui hanno coperto gli ultimi preparativi finisce, ed il volto di Peeta torna di nuovo sullo schermo. Il suo volto sembra il riflesso dei miei pensieri: anche lui sembra voler suggerire di mettere fine a tutto. Ma continua a pronunciare il messaggio che l’ultimo attacco di Beetee gli ha impedito di concludere come si deve.
- Nessuno è al sicuro, Katniss. Nessuno. – deglutisce, ed un’ultima lacrima gli solca il viso. – Non a Capitol City. Non nei Distretti. Nessuno è al sicuro…
- Vai, Katniss. Puoi parlargli adesso – mormora Haymitch.
- P-Peeta – balbetto, tirando su col naso. – Peeta? Riesci a sentirmi? Peeta…
La figura di Peeta si irrigidisce, seduto sulla poltrona; alza il viso, lo punta su qualcosa che ha davanti come se si aspettasse di vedermi… ma non può vedermi. Mi ha sentita, però. Ha sentito la mia voce.
- K-Katniss? Katniss, sei tu? Sei lì?
- Peeta! – dico con voce strozzata, cercando di reprimere i singhiozzi nella gola. – Perdonami, Peeta! Perdonami, non sono riuscita a… a salvarti…
- Katniss, no – dice lui, scuotendo la testa. – No, tesoro, non eri tu che mi dovevi salvare-
- Non volevo che accadesse niente di tutto questo, Peeta! Mi dispiace, io… io non volevo…
- Ti prego, Katniss, smettila. Ascoltami, ti prego – Peeta guarda davanti a sé, guarda la telecamera che gli hanno puntato addosso ed io osservo lo schermo che ho davanti. In qualche modo, è come se ci stessimo parlando guardandoci negli occhi. Tremo, guardando le nuove lacrime che gli scorrono sul viso. La presa di Finnick su di me si rafforza, e ad essa si aggiunge quella di Haymitch. - Ascoltami attentamente. Io ti amo, Katniss, ti amo tanto…
- Anche io ti amo, Peeta… - soffio, portandomi le mani sulla bocca.
- …ti amo come non ho mai amato nessun altro al mondo. Devi essere forte, e devi promettermi che… che ti salverai.

Salverai?
- Stanno arrivando al 13. Scappa!
L’ultima parola la urla dritta alla telecamera.
- Peeta! No! Peeta! – strillo, lanciandomi verso lo schermo, ma lui viene portato via.
E le parole della canzone, quell’ultima strofa che continua a risuonare nella mia mente, sembra prendere forma davanti ai miei occhi.

Dove il morto gridò al suo amore di fuggire.
Tra le mie urla e le sue, che cerca di resistere e contrastare i due Pacificatori che lo vogliono allontanare a forza dallo studio televisivo, l’uomo morto della canzone si reincarna nella figura di Peeta, che urla alla sua ragazza di fuggire via. Io sono quella ragazza.
Piango, ignorando il caos in cui è sprofondata la sala di Comando, concentrata su ciò che stanno ancora trasmettendo da Capitol City. La mano di Finnick stringe ancora la mia, ed il braccio di Haymitch è ancora sul mio corpo.
Loro sono con me quando vediamo un Pacificatore colpire Peeta in pieno viso.

E il suo sangue che schizza le mattonelle.

 

Peeta ci ha salvato la vita.
Grazie al suo disperato tentativo, Peeta ci ha avvisati dell’arrivo delle forze aeree che miravano a distruggere il Distretto 13. Grazie a lui, ha impedito che il 13 potesse diventare l’esatta copia del Distretto 12. Grazie a Peeta, abbiamo avuto il tempo necessario per raggiungere il livello più basso previsto dal distretto, un’enorme caverna adibita a rifugio temporaneo contro attacchi aerei e di altra natura, mentre la Coin e chi di competenza gestivano l’esercitazione antiaereo: la scusa con cui ci avevano condotti fin lì. Ma non è mai stata una vera scusa, perché l’informazione di Peeta era vera. Capitol City ci ha attaccato veramente, e a parte i livelli più superficiali, il Distretto 13 non ha subito un danno consistente. Non è morto nessuno durante l’attacco.
Grazie a Peeta, migliaia di persone sono riuscite a sopravvivere.

Chi è il traditore, adesso?

 

 

 

 

__________________________

1 I Simpson, 5x14, “Lisa contro Malibu Stacy”. Credo che questa sia una delle più belle puntate dei Simpson che siano mai state prodotte. Muoio dal ridere ogni volta che la vedo, ha dei dialoghi brillanti che il doppiaggio italiano ha reso iconici, e poi ha Leo Gullotta. Geniale. “Il fatto è che mandavo dinaro ai vietconghe”.

 

Credo che sia chiaro ormai a tutti che ho scelto di deviare dal percorso già segnato dalla Collins e deciso che Peeta, in questa storia, non è stato depistato. Il suo non è il comportamento di un ragazzo depistato. E poi la penso come molti di voi: il depistaggio è stata la mossa più crudele che zia Suzanne poteva regalarci. L’ho odiato con tutta me stessa. Ho dovuto mantenerlo segreto più che ho potuto altrimenti avreste capito subito dove sarei andata a parare ^^’ pardon.
L’ultima parte che avete letto è stato, invece, una sorta di esperimento: in Mockingjay part 1, durante la missione di salvataggio, mettono Katniss in collegamento diretto col presidente Snow per dare alla squadra del tempo in più per recuperare i prigionieri e metterli in salvo. Come aggiunta visiva mi è piaciuta molto, tanto che a un certo punto ho pensato di stravolgerla per consentire a Katniss e a Peeta di parlare prima del colpo di scena finale. Non so se su carta funziona altrettanto bene, ma ci tenevo almeno nel provare ad inserirla… fatemi sapere cosa ne pensate :)
E adesso?

 

Intanto che cercate di immaginarvi il proseguimento, vi lascio i miei auguri di buon Natale: spero che possa essere un Natale sereno e felice, nonostante la stranezza del periodo che lo accompagna :*
D.

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Capitolo 31
*** 31. ***


In The Still Of The Night - 31

In the still of the night

 

 

 

31.

 

Trascorriamo tre giorni interi all’interno del rifugio/caverna, nell’attesa che l’attacco cessi definitivamente. Non è stato intenso, o costante: in tutto non avranno lanciato più di cinque missili, ma erano potenti. Potentissimi. Erano missili fabbricati apposta per raggiungere e danneggiare sotterranei e unità abitative come quelle del 13. Ecco perché i livelli superiori sono rimasti danneggiati… ma tutto il resto no. Il Distretto 13 è vastissimo. Per distruggere tutto, Capitol City avrebbe dovuto continuare l’attacco fino a terminare gli armamenti. Ma non lo ha fatto.
Ho trascorso questi tre giorni stando quasi tutto il tempo insieme a Prim e a Finnick. Sono stati tre giorni lunghi, carichi di attesa e di tensione. Tre giorni in cui il mio pensiero è stato fisso su Peeta e sulle parole che mi ha rivolto per dare l’allarme, che hanno iniziato ad assumere sempre di più la forma di un messaggio di addio. Avevo davanti agli occhi il suo volto ferito, e l’immagine dei Pacificatori che lo picchiavano per portarlo via dallo studio. Lo hanno picchiato ancora, dopo? Lo hanno torturato per ciò che ha detto? Lo hanno…
Nessuno ha saputo darmi nessuna certezza. Nessuno sapeva niente. I tre giorni nel rifugio sono stati pieni di attesa, e di domande senza risposta.
Il terzo giorno siamo di nuovo fuori.
La prima cosa che mi chiedono di fare, appena ho l’opportunità di uscire da quella sorta di stanzone claustrofobico, è raggiungere la Difesa Speciale, che si trova a livelli di profondità maggiori rispetto al Comando, dove andiamo di solito. Boggs scorta me, Finnick e Gale fino ad una stanza identica al Comando, già piena delle solite facce, alcune a me già note, altre invece sconosciute. Non mi sono mai presa realmente la briga di chiedere di chi si tratti.
- Abbiamo un enorme debito nei confronti di Peeta Mellark – dice la Coin, appena la porta si chiude dietro l’ultimo arrivato. – Ha corso un grosso rischio, avvertendoci, ed è qualcosa che non dimenticherò molto presto.
La Coin guarda verso di me, mentre fa il suo discorso, e annuisce appena col capo. Non ricambio, limitandomi a fissarla dritta negli occhi gialli.
- Adesso, però, dobbiamo rispondere. Vi voglio pronti per girare un nuovo Pass-Pro, in cui farete sapere all’intera Panem che Capitol City non è riuscita a scalfirci neanche questa volta. Siamo ancora vivi, operativi, e la Ghiandaia Imitatrice è qui con noi per dimostrarlo. Chiaro e forte!
- Più chiaro di così, si muore – commenta Gale, un sussurro solo per le mie orecchie.
- Seguite le indicazioni che vi dà Cressida, lei sa già tutto – continua la Coin.
- Gireremo in superficie – dice quest’ultima. – Faremo una bella panoramica dei danni che sono stati inflitti al 13 e sarete proprio voi a mostrarli al pubblico – indica me, Finnick e Gale.
- Anche loro saranno nel Pass-Pro? – chiedo, rimarcando l’ovvio.
- Panem conosce bene le vostre facce. Dovete esserci tutti e tre.
Dopo essere stati riforniti delle nostre armi, e dopo che Effie ha terminato di donare al mio viso un aspetto ed un colorito più sano grazie ai suoi cosmetici, siamo liberi di procedere. Risaliamo i tanti livelli che ancora ci separano dalla superficie attraverso scale ed ascensori, e passiamo attraverso una botola che Boggs ha aperto, spingendo con forza. Dobbiamo farci largo tra i cumuli di macerie e i ferri di sostegno che le bombe hanno fatto crollare, prima di vedere di nuovo la luce del sole e sentire il vento contro il viso.
È uno spettacolo desolante, quello che ci si pone davanti, ma non il peggiore che abbia mai visto fino ad ora. Temo di aver già visto fin troppi orrori nel corso della mia breve vita, ma finché questa guerra andrà avanti, anche gli orrori continueranno ad arrivare. Percorro lentamente, a piccoli passi, il bordo dell’enorme cratere che ho davanti, il massimo del danno che Capitol City è riuscita ad infliggerci durante questo round.
- Katniss, puoi anche restare qui. Gale, Finnick, voi spostatevi più in basso – dice Cressida, invitando i due ragazzi a scendere un po' all’interno del cratere. – Questo ci aiuterà a far capire l’entità del danno.
- Devo dire qualcosa?
- Quello che vuoi. Hai solo una battuta già scritta per te: “Il 13 è vivo e vegeto, come me”. Puoi inserirla nel discorso a tuo piacimento.
Stringo le labbra: non si sprecano di certo, ad inventare le battute. Se soltanto non sembrassero così forzate…
- C’è qualcosa, quaggiù! – urla Gale.
Scendiamo tutti fino al centro della fossa, dove si trova già lui; osserva un mucchietto di oggetti colorati, in netto contrasto col grigiore delle macerie. Verde, bianco, rosa e rosso si mischiano insieme, a formare uno strano cuscino. Quando sono abbastanza vicina da vedere meglio, mi rendo conto che ciò che ho scambiato per oggetti non sono altro che foglie, steli, e petali. Petali colorati.
Insieme alle bombe, sono arrivate anche le rose.
Come congelata, osservo il mazzo di rose che mi è stato consegnato – a chi altri potrebbero mandarle, qui? – ed il loro profumo dolciastro, artificiale, mi giunge alle narici. Questo profumo… l’ho già sentito. È lo stesso profumo che ho sentito in camera mia, l’ultima volta che ci sono stata. È lo stesso profumo delle rose che circondavano me e Peeta durante l’intervista del Tour della Vittoria insieme a Caesar.
È lo stesso profumo che ha addosso il presidente Snow.

Me le ha mandate lui, queste rose.
Deglutisco, mentre mi chino per prenderne una. Lo stelo è lungo, senza spine, ed il bocciolo socchiuso che vi è in cima è bianco. Bianco, come la rosa che Snow ha sempre all’occhiello della sua giaccia.
- Perché le rose? – chiede Gale.

Oh, Gale, non puoi saperlo. Come può? Non ho mai detto a nessuno della rosa in camera mia. Non ho mai detto a nessuno dello strano modo che ha il presidente di comunicare con me tramite le sue rose.
- Sono… sono per me – dico, deglutendo di nuovo.
Stringo il bocciolo nel pugno chiuso, e non mi importa se in questo modo non faccio altro che rovinarlo. Devo rovinarlo, così come il presidente Snow ha rovinato la mia vita. Mi ha portato via ciò che ho di più caro a questo mondo: la mia casa, la mia città, lei, Peeta…
Il fiato mi si mozza nei polmoni, pensando a Peeta. Riesco, finalmente, a scovare il messaggio che è nascosto tra le rose, messaggio che le lega a doppio filo con il mio fidanzato.
E capisco che non posso fare niente, niente, per lasciarlo vivere. Le mie azioni lo porteranno alla morte, se non è già successo. Può essere già successo, in questi tre giorni di bombardamenti e di isolamento.
- Ricorda, Katniss: “Il 13 è vivo e vegeto, come me” – ripete Cressida. Stanno per cominciare a girare. Non posso lasciarglielo fare.
- No – ansimo, scuotendo la testa. I petali della rosa che ho ancora tra le mani cominciano a cadere a terra, strappati dalle mie dita. – Non posso farlo.
- Certo che puoi. Sei brava, Katniss. Dai, è una sola battuta, poi ti lascio andare via.
- Non posso farlo – dico, un po' più forte ed in tono lamentoso. Lascio cadere la rosa ormai distrutta e porto le mani sulle orecchie, sulle tempie. Sento una voce, un suono, che mi rimbomba nella testa e non riesco a collegarlo a nulla che abbia già ascoltato in precedenza. – Non posso farlo, non posso farlo…
- Katniss? – mi chiama Gale.
- Katniss – questo, invece, deve essere Finnick. Non riesco a capirlo. Non riesco più a riconoscere le voci.
Mi accascio davanti al mazzo di rose e le fisso, con gli occhi sbarrati. Ho le guance bagnate. – Non posso farlo, lo ucciderà. Lo ucciderà – pigolo. Inizio a tremare.
- Ehi, Katniss – dice un’altra voce, più vicina rispetto alle altre. Le mani della persona a cui appartiene la voce mi accarezzano le spalle e la schiena, che sono diventate rigide. – Ehi, respira, dolcezza. Respira.
- Lo ucciderà. Lo ucciderà – continuo a ripetere.
- Che le succede?
- Ha un attacco di panico. Portate via quelle rose, subito!
- Ha paura di due stupide rose?
Le voci cominciano a mescolarsi tra di loro e diventano troppo veloci, troppo confuse da poterle seguire con chiarezza. Non riuscirei lo stesso a seguire nulla. Tutto ciò che sento, e tutto ciò che conta, è il messaggio che Snow ha voluto imprimere con chiarezza nella mia mente. Inviandomi quelle rose, ha voluto farmi capire le sue intenzioni. Ha voluto farmi sapere cosa accadrà se continuerò ad essere la Ghiandaia Imitatrice per i Ribelli del Distretto 13.

Continua così, e vedrai morire l’uomo che ami.

 

Haymitch mi ha fatta alzare e mi ha accompagnata tra le braccia calde e sicure di Effie, affinché mi scortasse di nuovo all’interno del Distretto 13. Non sarei stata in grado di effettuare alcuna ripresa, figurarsi di recitare qualche battuta, nello stato confusionale in cui mi aveva fatta scivolare l’attacco di panico. Non sarei stata di nessun aiuto per nessuno.
Sono sfuggita al suo abbraccio appena ho potuto. Sono corsa via, cercando rifugio in uno dei miei posti sicuri in cui isolarmi in pace. In cui poter soffrire in pace. Sono strisciata all’interno di un vecchio condotto dell’aria pieno di ragnatele e, una volta raggiunta la fine, mi ci sono rannicchiata, seppellendo il viso tra le ginocchia. Credo di esserci rimasta per ore, consumandomi gli occhi a forza di piangere e la voce, a causa dei singhiozzi troppo alti che la mia gola produceva. Ho ignorato i morsi della fame e la sete, che il pianto ha reso più intensa. Ho ignorato tutto, concentrandomi solo sulle rose. Quelle rose che erano state recise dalla pianta che le aveva prodotte, così come la vita di Peeta avrebbe potuto essere recisa dal suo corpo.
È buio, nel condotto, quindi non si riesce a distinguere bene lo scorrere del tempo qui dentro; da nessuna parte al 13 si riesce a distinguere lo scorrere del tempo, perché i livelli sono situati troppo in profondità per riuscire a vedere i raggi del sole. Sono gli orologi a darti le informazioni necessarie, ed io non ne ho uno qui con me. Quando una luce mi si avvicina, ho come l’impressione di vedere il sole sorgere, ma non è il sole, naturalmente. È solo Haymitch che mi si avvicina, col fiatone e con una torcia tra le mani.
- Davvero un bel posticino, dolcezza. Comodo – mi prende in giro, appena è abbastanza vicino da essere sicuro che possa sentirlo. – Cristo santo, sono troppo vecchio per mettermi a strisciare come un verme!
Dovrei ridere, vedendolo così conciato, ma sembra che io non sia più capace di riuscirci. Così rimango in silenzio e lo osservo mentre si siede sbuffando.
- Dovresti venire fuori da qui, Katniss. È quasi ora di cena, e mettere qualcosa sotto i denti non può farti altro che bene – tenta di convincermi.
- Non posso più farlo, Haymitch – dico, invece. – Non posso più essere la Ghiandaia Imitatrice.
Haymitch mi guarda, annuendo piano. – Lo so.
- Lo uccideranno se non smetto. Peeta potrebbe essere già… - non riesco a terminare la frase. Le mie labbra tremano, e sono costretta ad usare le mani per asciugare di nuovo le mie guance.
- Non è ancora morto, Katniss. Lo avremmo già saputo, altrimenti – sussurra, afferrandomi una mano. La stringe forte. – Stanno per liberarlo.
L’ultima frase che ha aggiunto mi fa sobbalzare e mi costringe ad incrociare i suoi occhi.
Annuisce. – Hai sentito bene. Hanno organizzato una squadra di recupero per lui e per gli altri vincitori. Cercheranno di salvare anche Annie e Johanna.
- Ma come-
- Le difese di Capitol City sono deboli, grazie al crollo della diga di pochi giorni fa, e la Coin ha deciso di approfittarne adesso che abbiamo un vantaggio da poter sfruttare. Sappiamo dove si trovano – il Centro di Addestramento – grazie ad alcuni infiltrati che Plutarch ha ancora all’interno, e li aiuteranno come possono cercando di non farsi scoprire. Le loro coperture potrebbero saltare, ma non abbiamo una chance più ottimale di questa. È l’occasione migliore per agire.
- Quando…
- Quando accadrà? Tra diverse ore, credo – continua Haymitch. – Bisogna contare il viaggio in hovercraft, e Capitol City non è poi così vicina. Dovranno agire in fretta e molte cose potrebbero andare storte, ma lo faranno lo stesso, Katniss. Proveranno a tirarli fuori di lì.
Ciò che Haymitch mi sta dicendo porta di nuovo un briciolo di speranza nel mio cuore pieno di amarezza.
- Voglio andare anche io! Voglio andare a Capitol City.
- No, dolcezza, tu non vai da nessuna parte – mi ammonisce. – Sei vulnerabile e troppo coinvolta per poter essere lucida. Ed è pericoloso. La Coin non vuole rischiare la tua incolumità per una missione di salvataggio. Ti troveremo qualcosa da fare mentre Boggs e gli altri agiranno.
- Chi sono gli altri?
Haymitch stira le labbra in un sorriso piatto.

 

Molto probabilmente, Haymitch è ancora impegnato a strisciare all’interno del condotto nel tentativo di uscirne fuori mentre io sono già all’Hangar, dove si sta riunendo la squadra di volontari che andrà nella capitale. Poco prima dell’alba: è l’orario che è stato stabilito per la partenza. Sarebbe facile, nascondersi da una parte ed attendere solo il momento giusto per sgattaiolare dentro l’hovercraft, ma sicuramente si aspettano qualcosa del genere da parte mia. Non mi lasceranno partire, e cercheranno di evitare qualsiasi mio sotterfugio.
Gale mi impedirà di partire.
Haymitch ha detto che è stato il primo a farsi avanti come volontario. Non posso credere a ciò che sta per fare. Non posso credere che stia cercando di mettere a repentaglio la sua vita per salvare quella di Peeta. Cercherà di salvare la vita del fidanzato della ragazza di cui è innamorato… e lo sta facendo per me. Per me, perché sa che morirei anche io, se Peeta perde la vita.
L’Hangar è enorme e non riesco ad orientarmi come si deve in mezzo ai velivoli, alle armi e ai soldati che vi girano intorno. C’era sempre qualcuno insieme a me quando dovevo prendere un hovercraft, e non mi sono mai dovuta preoccupare dell’orientamento in quelle occasioni. Adesso, invece, mi sto perdendo all’interno di un enorme labirinto. Quando vedo Boggs, però, sospiro di sollievo.
- Dov’è Gale? – gli chiedo appena lo raggiungo.
- Non dovresti essere qui, soldato – mi ammonisce in risposta.
- Dov’è? – ripeto.
Boggs alza gli occhi al cielo; anche lui ha finalmente imparato che sono una causa persa? Fa un cenno con la testa e mi indica la direzione da seguire, capendo che non mi toglierò di torno finché non avrò parlato con Gale. Lui lo trovo seduto su una cassa di metallo nero, intento a studiare il fucile di precisione di cui lo hanno rifornito. Alza la testa quando sente i miei passi, e sospira. Si alza in piedi.
- Non verrai con noi – dice subito, ma smette di protestare quando mi getto su di lui per abbracciarlo. Mi cinge la schiena con le braccia e seppellisce la faccia nei miei capelli.
Rischio di rimettermi a piangere, ma lotto con me stessa e con la mia forza di volontà che si è indebolita drasticamente nelle ultime settimane. Non voglio mostrare a Gale quanto tutto questo mi spaventi: nelle prossime ventiquattr’ore, o poco più, potrei ritrovarmi senza Peeta e senza Gale. Tutto potrebbe andare storto, ed io mi ritroverei a non avere più niente per cui vivere. Ho paura che possa accadere il peggio, come è successo fino ad oggi.
- Ti prego, non morire laggiù – dico in maniera stridula. La mia voce è l’unico punto in cui si riflette la mia paura.
- Te lo prometto, Catnip – mormora. Mi scocca un sonoro bacio tra i capelli. – Torneremo entrambi, sani e salvi.

 

Le parole di Gale sono come un’ancora per me, nel corso delle ore successive.
Cercare di dormire, di mangiare, di ignorare l’ansia e la paura è una vera e propria agonia. Mi sento elettrica e piena di stimoli, ma allo stesso tempo provo la sensazione di non voler fare nulla, di sedermi in un angolo ed aspettare nell’apatia che il resto del giorno passi in fretta. Vorrei che fosse già domani. Sarebbe bello avere il potere di far scorrere il tempo a proprio piacimento, in modo da gestirlo per evitare questi momenti morti.
Ed invece, i momenti morti li subisco tutti quanti, dal primo all’ultimo.
La mattina, almeno, è stata impegnata grazie a Finnick, che ha accettato di farsi riprendere mentre parla dei suoi trascorsi a Capitol City; Beetee userà poi le sue immagini come diversivo per quando giungerà il momento, per la squadra, di procedere.
Finnick ha vinto gli Hunger Games quando aveva soltanto 14 anni: è stato il campione più giovane in assoluto. Il più piccolo, in un mondo di pazzi. Pazzi che osannano la morte, che adorano vedere ragazzini della sua età, e anche più piccoli, massacrarsi a vicenda. La sua giovane età lo ha tenuto al sicuro per qualche anno, gli ha permesso di restare lontano dalle grinfie di coloro che bramano i vincitori come se fossero tesori preziosi, meri oggetti da sfoggiare… ma ha cominciato a crescere, a diventare più grande. Non puoi evitare di crescere, non puoi sperare che non succeda e restare, per sempre, piccolo come quello strano ragazzino delle favole1. E quando cresci, Capitol City ti costringe a fare ciò che vuole. Devi sottostare ai suoi ordini, se non vuoi veder morire chi ami.
Finnick è stato costretto a prostituirsi. Essere un giovane vincitore lo ha sottoposto alle mire di persone influenti e vuote, pericolose, che avrebbero pagato a peso d’oro trascorrere una notte intera, o anche solo un’ora, insieme a lui. E come se essere giovane e vincitore non bastasse già, c’era anche un altro fattore a pesare su di lui: la bellezza. Finnick è bello. A nessuno, in una città che vive di apparenze come Capitol City, poteva sfuggire la sua bellezza.
Finnick era costretto a farlo: non cercava i soldi, o la sussistenza. Non hai bisogno di sussistenza quando hai vinto gli Hunger Games, ne avrai più che a sufficienza per una vita intera. Forse anche due. Ha così cominciato ad usare un diverso tipo di pagamento per chi cercava la sua compagnia: un pagamento che non lascia tracce, come monete o ricevute, un pagamento che potresti solo dimenticare, alla più brutta delle ipotesi. Ma chi ti paga in segreti, non si aspetta di certo che tu li dimentichi dopo poche ore.
Finnick ha raccontato alle telecamere di Cressida tutti i segreti che ha accumulato negli ultimi otto anni. Segreti che farebbero cadere molte teste, che farebbero passare per criminale anche la persona più rispettabile di questo mondo. Molti di questi segreti riguardano persone che Plutarch conosce molto bene, stando a quanto ci ha mormorato a mezza bocca durante le riprese. E Finnick ha un sacco di roba da raccontare anche per quanto riguarda una persona in particolare. La persona che nell’ultimo anno, e negli ultimi mesi, ha infestato di continuo i miei incubi.
Il presidente Snow.
Un presidente che si è ritagliato una strada, lungo l’ascesa per il potere, uccidendo i suoi collaboratori più fidati e chi meritava più considerazioni e prestigio di lui. Li ha avvelenati tutti, strada facendo, ma si è avvelenato lui stesso per non destare sospetti. Le piaghe sanguinolente che ha in bocca, che non si rimargineranno mai, sono la conseguenza dell’abuso di questi veleni. Snow camuffa l’odore del sangue grazie alle rose dal profumo penetrante che hanno modificato geneticamente allo scopo e che porta sempre all’occhiello. Sono le stesse rose che ha inviato a me.
Beetee ci assicura che questi Pass-Pro distoglieranno completamente l’attenzione dalla missione di salvataggio: nessuno si perderebbe mai un vincitore che sparla di chi ha avuto l’opportunità di conoscere a Capitol City. Nessuno… neanche il presidente Snow.
Io e Finnick restiamo insieme a Beetee, alla Difesa Speciale, mentre si avvicina l’orario prefissato per l’azione e lo vediamo mentre interrompe a più riprese la normale programmazione televisiva. È un botta e risposta, una lotta all’ultimo spot. Va avanti così per ore, credo, anche se so che non è davvero trascorso tutto questo tempo per procedere al salvataggio. Gale e gli altri non avrebbero mai avuto ore a disposizione. Minuti, al massimo.
- Come facciamo a sapere se… - non riesco a completare la domanda che sto facendo a Beetee.
Lui, però, mi risponde ugualmente. – Lo sapremo solo quando torneranno. Non possiamo inviare messaggi per evitare che vengano scoperti.
Mancano ore, al loro ritorno. Altre ore di attesa. Attesa piatta, perché adesso non c’è altro da fare per ingannare il tempo.
Mi siedo insieme a Finnick sotto ad un albero, qui nella Difesa Speciale, e aspettiamo. Lui ha sempre la corda con sé, e continua ad annodare e ad annodare fino a che le sue mani non diventano rosse, e le dita non sono scorticate in più punti. Alla fine gli stringo una mano e lo obbligo a smettere.
Restiamo per il resto del pomeriggio e della sera all’interno della Difesa Speciale. Saltiamo la cena. Ogni tanto qualcuno viene a vedere se siamo ancora qui e ci informa sull’andamento della situazione: una volta è Haymitch, l’altra è Effie, oppure torna Beetee. Ma la risposta è sempre quella, identica ogni volta: nessuna novità.
Quando la sera avanza nella notte, Finnick si stende sotto all’albero ed inizia a sonnecchiare. Io gli resto seduta accanto, ma non lo imito. Non provo a dormire, anche se sono sveglia da molto più di ventiquattr’ore ed inizio a sentire i risultati dello stare ore intere senza riposo, senza dormire. Non voglio dormire. Voglio essere vigile e pronta per quando verranno ad avvertirci del loro ritorno.

Se, faranno ritorno.
L’alternativa è orribile e mi sforzo di scacciarla via dalla mente, ma sembra essere stata scritta sulla mia fronte con un inchiostro indelebile, perché non va via. Prendo la perla nella mano e la stringo, chiudendo gli occhi. Cerco di non pensare all’eventualità di un insuccesso. Cerco di pensare positivo. Cerco, come mi disse Peeta una volta, di provare a vedere il mondo con occhi e colori diversi. Provo a vedere rosa, per una volta… il rosa, quel rosa che ho visto addosso ad Effie centinaia di volte e che rappresenta il ritorno a casa di tutti quanti.
Sobbalzo quando la porta si apre. Entra Haymitch, e stavolta porta con sé notizie diverse. La risposta alla mia domanda muta è cambiata, finalmente.
- Sono tornati – dice. – Sono all’ospedale.
Ed il mio mondo si colora di un rosa pallido.

 

Haymitch si avvia verso l’ospedale, precedendoci, mentre io sveglio Finnick e cerco di convincerlo a seguirmi. Il suo sonnellino, sommato alla notizia del ritorno alla base della squadra, lo ha trasformato in una statua di sale. Non si muove, e non reagisce neanche quando gli dico che dobbiamo andare di sopra da Annie e Peeta.
- Andiamo, dai, Finnick – sussurro, scuotendolo piano. Gli prendo le mani e provo a tirarlo verso l’alto. – C’è Annie, di sopra. Annie ti sta aspettando.
Questo lo scuote un poco. Finnick si rimette in piedi in modo incerto ed inizia a camminare a passi lenti, il che è più che sufficiente rispetto all’immobilità di poco fa. Gli stringo forte una mano e adatto il mio passo al suo.
Impieghiamo un sacco di tempo per raggiungere l’ospedale a questo ritmo, il che rende più snervante l’attesa e l’ansia di conoscere l’esito di tutta l’operazione. Vorrei correre per raggiungere Haymitch, che ormai saprà già tutto di tutti, ma non posso abbandonare Finnick nello strano stato in cui si trova ora. Cerco, quindi, di non pensare ai minuti in più che mi separano dal rivedere Peeta e Gale. Il mio mondo di color rosa pallido deve restare rosa pallido. Non voglio che diventi di nuovo nero.
Le porte si spalancano, e noi entriamo nel caos più totale.
L’atrio principale dell’ospedale è stato trasformato in una sorta di sala per i soccorsi urgenti: ci sono medici che corrono in tutte le direzioni ed alcuni che, invece, sono fermi davanti a dei letti. Quando io e Finnick passiamo davanti al primo di questi, scopriamo che è occupato dal corpo magro e mortalmente pallido di una giovane donna. Sembra svenuta, ed ha la testa calva. Ma il viso, anche se scavato, ha un’aria estremamente familiare.
È Johanna.
- FINNICK! – urla una donna.
Il tempo di voltarmi e di vedere una ragazza dai lunghi capelli castani correre verso di noi, che la mano di Finnick non è più stretta nella mia. Lui corre incontro ad Annie e la prende al volo, letteralmente, quando lei gli salta addosso, circondandogli la vita con le gambe magre. Si stringono, si abbracciano, si guardano negli occhi. Si baciano. Tutto l’ospedale, tutto il Distretto 13 e tutto il mondo, all’infuori di loro due, non sembrano esistere più. Ci sono solo loro due: Annie e Finnick. Riuniti. Di nuovo insieme.
Rimango a guardarli come inebetita, sentendo una lacrima scendere sulla guancia. Sono felice per Finnick. Annie è viva, sembra stare bene, ed è di nuovo insieme a lui. Le settimane buie ed i giorni orribili che entrambi hanno trascorso non contano più niente, ormai. Nulla conta più.
La risata argentina di Annie mi fa riscuotere dalla mia immobilità e riprendo ad avanzare nella sala cercando di capire dove si trovi Peeta, in questo caotico viavai. Passo oltre il letto vuoto che Annie doveva aver occupato fino a un minuto fa e ne raggiungo un altro, sperando che sia quello che hanno assegnato a Peeta, ma c’è Gale steso su di esso. Un medico sta osservando la ferita sanguinante che ha sulla schiena; lui ha gli occhi stretti per il dolore e digrigna i denti.
- Gale – dico, avvicinandomi.
Gale apre gli occhi, anzi, li spalanca, appena sente la mia voce. – Katniss! Non dovresti essere qui – dice, alzando la propria. – Dovete farla allontanare da qui! – esclama a qualcuno dietro di me.
- Non vado via! – esclamo. – Dov’è Peeta?
- Fatela uscire!
- Gale! – urlo. Faccio per muovere un passo verso di lui ma un’infermiera mi scaccia via in malo modo, e nello stesso momento delle mani mi afferrano per le braccia e mi tirano all’indietro. – Ehi! Che fate? Lasciatemi!
- Andiamo, dolcezza, andiamo fuori di qui – mormora Haymitch. È lui che mi sta trascinando via.
- No! Devo andare da Peeta! Dov’è Peeta? – mi giro per guardare Haymitch e vedo che c’è mia madre, insieme a lui. Mia madre indossa un grembiule sporco di sangue. Il sangue mi fa rabbrividire. – Dov’è Peeta?
- È laggiù, Katniss – mi risponde lei. – Mi dispiace, tesoro, ma non puoi vederlo adesso…
- No! Devo andare da lui! Peeta! – urlo. Cerco di aggirare la presa di Haymitch ma lui mi riacchiappa subito, impedendomi qualsiasi altro tentativo di raggiungere la fine del corridoio. Sono solo pochi metri… perché non mi fanno fare quei maledetti pochi metri? Perché Finnick ha potuto vedere Annie subito, ed io invece non posso raggiungere Peeta? – Peeta!
- Katniss, guardami! – mi ordina Haymitch. E lo faccio. Ma quello che leggo nei suoi occhi non mi piace per niente. Haymitch ha assunto lo sguardo con cui si annunciano le brutte notizie.

 

 

 

 

_________________________

1 Lo strano ragazzino delle favole a cui si riferisce Katniss, come avrete sicuramente capito, è Peter Pan. A voi piace Peter Pan? Io lo trovo insopportabile – per non dire che mi sta sul cazzo sulle scatole.

 

Secondo voi quali sono queste brutte notizie?
Lo so, terminare un capitolo in questo modo è da infami, soprattutto se non si ha la possibilità di andare avanti subito per scoprire cosa è successo… però è divertente! Lasciarvi in sospeso è la cosa che adoro di più :D
Purtroppo devo comunicarvi che non so con esattezza quando arriverà il prossimo capitolo: siamo a gennaio – a proposito, buon anno! Me ne stavo dimenticando ^^’ -, e gennaio per noi poveri studenti sfigati significa che gli esami si avvicinano :( quindi potrebbe arrivare più tardi del solito… ma vi prometto che arriverà ;)

D.

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Capitolo 32
*** 32. ***


In The Still Of The Night - 32

In ritardo, come al solito, ma eccomi qui.
Ho approfittato della piccola pausa tra un esame e l’altro – la sessione è tutt’altro che finita ç__ç – per terminare e rivedere questo capitolo. E poi non volevo farvi aspettare ancora: so che siete rimasti sulle spine. Ma quanto è divertente? XD

 

In the still of the night

 

 

 

32.

 

- È morto? – ansimo. Il mio mondo sta tornando ad essere nero. Sento la mia faccia accartocciarsi su sé stessa. – No… ti prego…
- Non è morto, Katniss. È vivo – mi rassicura Haymitch. – Ma è messo male.
- Ha bisogno di un intervento chirurgico, tesoro – mi spiega mia madre, mettendo una mano sul mio viso. – Potrai vederlo più tardi, appena possibile, ma adesso devi lasciare ai medici la possibilità di farlo stare meglio.
- Che… che gli hanno fatto? – balbetto.
- Non vuoi saperlo sul serio. Credimi, non vuoi saperlo sul serio. Vieni, andiamo fuori. Verranno ad avvisarci appena potremo vederlo.
Haymitch mi porta in sala mensa, che è deserta e a malapena illuminata a quest’ora della notte. Ci siamo solo noi due, e non ci sediamo nemmeno attorno ad un tavolo a caso, ma ci mettiamo per terra. Sediamo lungo una delle pareti fredde, l’una al fianco dell’altro. Ho i gomiti posati sulle ginocchia e le mani strette dietro il collo, e mi guardo i piedi. Comincio a sentire freddo, ma cerco di non pensarci.
- Tu l’hai visto, Haymitch? – gli chiedo, piano. – Hai visto cosa gli hanno fatto?
Sospira. - L’ho visto, sì – ammette, a malincuore. – Non è stato bello da vedere. Spero solo che lo rattoppino un pochino, prima che tocchi anche a te vederlo.
Tiro su col naso, e lo asciugo con la manica della divisa; non mi interessa se è una cosa schifosa da fare.
- È stata tutta colpa mia…
- Non è colpa di nessuno di noi, Katniss.
- Tu me lo avevi detto, che non sarei mai stata in grado di meritarmi Peeta. Neanche tra cento vite.
- Da quando tieni in considerazione ciò che ti dico? – esclama.
- Da quando ho capito che faccio del male a tutto ciò che amo.
Haymitch sospira di nuovo. - Ascoltami bene, ragazzina – mormora, picchiettando il dito sulla mia testa. – Non sei tu che porti sfortuna o roba simile, ma chi ha inventato questo sistema. È a loro che dovresti rivolgere la tua rabbia. Ed è a loro a cui dovresti dare la colpa, non a te stessa.
Lo ignoro. - Gli hanno fatto male a causa mia.
- Perché è questo ciò che fanno, dolcezza. Infieriscono su di te prendendo di mira i tuoi punti deboli; per te è stato Peeta, per Finnick Annie… e per centinaia di altre persone, è stato qualcun altro – Haymitch sospira, stancamente. – Hanno punito anche me, per ciò che ho fatto col campo di forza.
Volto la testa nella sua direzione. Haymitch non ha mai, mai fatto cenno, da quando lo conosco, sul modo in cui è stato proclamato vincitore degli Hunger Games. Io e Peeta sappiamo perché abbiamo visto il nastro, quella notte, sul treno che ci stava riportando a Capitol City, ma lui non ci ha mai accennato nulla. Non ha mai voluto parlarne. E non voleva che ripercorressimo insieme a lui il viale dei ricordi… ma si sta rivolgendo a me come se lo stesse dando per scontato, come se sapessi già a cosa si sta riferendo. E non sbaglia, naturalmente.
- Sai che abbiamo visto il nastro – dico. Non è una domanda, è una constatazione.
- Non potevo impedirvi di farlo, dopotutto. Siete curiosi, ed essere curiosi non è quasi mai sbagliato.
Sbatto un paio di volte le palpebre, osservandolo. – Che cosa è successo, Haymitch?
- A loro non è piaciuto il modo in cui ho trasformato il campo di forza come arma. Non gli è piaciuto per niente: hai presente il tuo giochetto con le bacche? – annuisco. - La stessa cosa… solo, non hanno aspettato molto tempo prima di mostrarmi il modo in cui si sarebbero vendicati su di me – Haymitch si zittisce, guarda fisso davanti a sé, ed il suo tentennare mi fa capire che si sono accaniti su di lui nel modo peggiore. – Non c’era più nessuno ad attendermi, quando feci il mio trionfante ritorno a casa da vincitore. Mia madre, il mio fratellino. E la mia fidanzata… li avevano già uccisi prima della mia partenza da Capitol City.
Ecco come hanno distrutto irrimediabilmente la vita di un ragazzo di soli sedici anni. Ecco perché Haymitch ha trascorso il resto della sua vita a cercare di dimenticare gli orrori vissuti grazie all’alcol. Ecco il motivo per cui non parla mai del suo passato, e perché non ha mai avuto un familiare al suo fianco. Prima di me e Peeta, Haymitch non ha avuto nessuno…
Ecco come Capitol City è capace di annientarti.
- A me hanno tolto tutto, Katniss. Con te ci hanno provato, ma non sono riusciti a completare il lavoro. Ti hanno fatta soffrire, ti hanno strappato via una vita prima ancora che potesse nascere… ma hai ancora Peeta. Hai ancora il ragazzo accanto a te. Hai ancora la possibilità di essere felice.
Singhiozzo. – Haymitch…
- Ehi, sono per me questi lacrimoni? – scherza, asciugandomi le guance con i pollici. Mi lascia un bacio sulla fronte ed io chiudo gli occhi. Mi lascio cullare dalle sue braccia, che non avrei mai creduto potessero essere così gentili ed accoglienti. - È passato tanto tempo, Katniss. Non fa più così male.

 

Sonnecchio contro la spalla di Haymitch quando Prim viene a dirci che possiamo di nuovo tornare in ospedale. Mi scuote piano e mi sorride, tendendomi la sua mano. Non aspetta che sia io a prenderla, lo fa da sola: mi rimetto in piedi, temendo ciò che potrebbe dirmi, ma il suo sorriso mi rassicura in qualche modo, mi dà conforto e speranza. Non può essere andata così male, se Prim sorride nel modo in cui è solita fare solo con me. Porgo la mia mano ad Haymitch prima di uscire dalla mensa, e lui la prende subito. Tra Prim e Haymitch, mi sento al sicuro. Sento di poter essere abbastanza forte da affrontare i minuti successivi.
Mentre camminiamo, Prim mi dice che Peeta ha superato l’intervento e che i medici sono riusciti a fermare l’emorragia interna. Ha altre ferite, alcune un po' più serie rispetto alle altre: un trauma toracico, una commozione cerebrale, e tante, tante contusioni. Ha numerose ferite causate dalle percosse. Se dovessero usare un termine solo per spiegare lo stato in cui verte, quel termine sarebbe proprio “contuso”.
Nella camera in cui hanno sistemato Peeta c’è già la mamma ad attenderci, seduta su una sedia posizionata accanto al letto, ma la degno a malapena di uno sguardo perché i miei occhi sono subito calamitati dal volto di Peeta, e non riescono a vedere nient’altro che questo. Mi avvicino al letto su cui è sdraiato, appoggio le mani sul materasso, e quasi cado in ginocchio. Non riesco a capacitarmi che ciò che sto vedendo sia il suo vero viso… perché non ha l’aspetto che un viso dovrebbe avere.
Uno spesso strato di bende gli copre l’occhio sinistro e metà del volto, e la metà libera è livida e gonfia, di un intenso color viola. Tre giorni fa i lividi erano verdi, in via di guarigione… questi sono nuovi. Hanno avuto il tempo di fargliene di nuovi. L’occhio libero è chiuso e cerchiato di nero, ed ho paura a pensare a cosa quelle bende possono nascondere al mio sguardo. Una mascherina per l’ossigeno gli copre bocca e naso, e lo aiuta a respirare.
- Gli hanno dato la morfamina per il dolore, e lo tengono sedato. Dormirà per qualche giorno – mi dice la mamma, al mio fianco.
Non riesco nemmeno a rispondere, o ad annuire. Sono confusa, scioccata, inorridita. Addolorata. Non riesco a riconoscere Peeta nel ragazzo che giace addormentato di fronte a me. Ma quei capelli biondi sembrano proprio i suoi. Tendo la mano e li accarezzo, piano. Ho paura di svegliarlo, o di fargli altro male, ma non accade nulla: Peeta non si muove, seguita a dormire. Non sembra aver sentito le mie carezze. Abbasso gli occhi e li faccio scorrere lungo il suo braccio, coperto di lividi e tagli e pieno di tubicini, quelli delle flebo, fino a raggiungere la sua mano. Il mignolo e l’anulare non hanno più le unghie. Stringo le labbra, cercando di soffocare il singhiozzo e il grido che, insistenti, cercano di uscirmi dalla gola, e la prendo nella mia. Accarezzo il piccolo punto tra pollice e indice in cui Peeta ha la voglia, e vederla lì, di quel marrone inconfondibile, scaccia ogni dubbio dalla mia mente.

È davvero Peeta. Peeta è qui davanti a me.
E hanno cercato di portarmelo via.
- Che ti hanno fatto… - ansimo. Le lacrime riprendono a scorrere, ed è strano perché credevo di averle esaurite tutte ormai. Credevo di non averne più, ed invece eccole qui, pronte a smentirmi. – Peeta…
Non risponde, naturalmente. Gli unici rumori, oltre ai miei singhiozzi, sono quelli prodotti dai macchinari che stanno monitorando i suoi segni vitali: tanti ronzii, e tanti “bip” riempiono l’aria. Quel “bip” è il suo cuore che batte.
- Ogni volta che hai paura per me
Sembrano parole vecchie di anni, ma invece le ha pronunciate nemmeno due mesi fa. Allungo la mano e la poso delicatamente sul suo petto, coperto dal leggero camice grigio dell’ospedale. Il battito arriva, chiaro ed inconfondibile. Il suo cuore che batte.
- …ascolta il mio cuore. Lui ti dirà che non devi averne affatto.
Il cuore di Peeta non placa le mie paure, ma mi sta dicendo che è vivo.
E per ora mi basta.

 

I giorni successivi si trascinano lenti e sempre uguali. Li trascorro praticamente sempre all’interno dell’ospedale. Mi siedo accanto al letto di Peeta ed aspetto il momento in cui riaprirà gli occhi; da quando è uscito dalla sala operatoria non l’ho mai lasciato da solo, e mi sono fermamente rifiutata di seguire chiunque mi volesse portare fuori dalla sua stanza. E ci sono riuscita… almeno, per quanto riguarda il primo giorno e mezzo.
- Dovresti andare a stenderti un pochino, Katniss – ha tentato la mamma.
- Dovresti andare a mangiare qualcosa – ha provato invece Prim.
Loro non sono riuscite a schiodarmi da quella sedia, ma Haymitch invece ha colto nel segno grazie ai suoi soliti modi, che erano diventati improvvisamente troppo gentili per poter avere una durata a lungo termine.
- Dovresti fare un bagno, dolcezza – ha detto. Solo questo. E non si riferiva di certo a un bagno di piacere, ma ad un bagno di pulizia. Non mi lavavo da almeno tre giorni e, forse, la cosa cominciava a notarsi.
Ho lasciato Peeta giusto il tempo necessario per raggiungere il mio alloggio e lavarmi, non sentendomi per nulla tranquilla, nonostante ci fosse rimasto Haymitch insieme a lui e nonostante l’equipe di medici che passava più volte al giorno a controllare il suo stato di salute. Non avrò impiegato più di mezz’ora ad andare e tornare, e l’ho fatto senza neanche asciugarmi i capelli, che ben presto hanno inzuppato i miei vestiti sulle spalle e sulla schiena.
Tornando verso la sua camera, però, sono passata davanti alla stanza in cui si trovava Gale e mi sono sentita stupida, ingrata ed egoista per non essermi informata, neanche un poco, sulle sue condizioni. Anche Gale era rimasto ferito quella notte, ed avevo visto il sangue che usciva dalla sua schiena. Sono entrata senza bussare grazie al fatto che c’era la porta aperta, e vederlo seduto sul letto, con il vassoio della cena sulle gambe, fu molto meglio di quanto mi aspettassi.
- Ehi – mi ha salutata, posando il cucchiaio nella ciotola.
- Come stai, Gale?
- Domani mi dimettono – mi ha informata, sorridendo. Poi ha smesso di farlo. – Come sta Peeta?
Mi sono seduta sul suo materasso e ho cominciato a lisciare la coperta con le dita. – Sta – ho risposto.
Gale ha annuito, senza aggiungere altro.
- È per questo che mi hai urlato di andare via? – gli ho chiesto. Questa domanda aveva continuato a frullarmi nella testa in continuazione, senza darmi pace. – Non volevi… che lo vedessi.
Gale ha sospirato, grattandosi il mento. – Pensavamo che fosse morto, Katniss, quando siamo entrati nella sua cella. Non reagiva, non si muoveva, e non sembrava nemmeno in grado di respirare. E durante il viaggio di ritorno si è aggravato. La Mason ci ha detto che non le parlava più da almeno un giorno… come potevo lasciartelo vedere in quelle condizioni?
Ho deglutito a vuoto. – Gale…
- Lo so, Katniss – ha posato una mano sulla mia e me l’ha stretta forte, come per infondermi coraggio. – Te lo avrei riportato indietro lo stesso, anche se fosse morto. Non meritava di restare laggiù. Nessuno di loro lo meritava.
Da Peeta, quando ho lasciato Gale a continuare la sua cena, ho trovato un gruppetto di persone: Haymitch ovviamente, e con lui c’erano anche Boggs, Fulvia, Effie e Plutarch. Stavano chiacchierando a bassa voce, ma si sono zittiti quando mi hanno sentita entrare.
- Eccola di ritorno – ha detto Haymitch. – Non lo lascia da solo nemmeno per un istante.
Effie lo ha rimproverato mentre prendevo di nuovo posto sulla sedia, accanto al letto. - È più che comprensibile! Smettila di parlare come uno sciocco.
- Cos’avrò mai detto di sbagliato?
Haymitch ed Effie non smetteranno mai di sembrare, ai miei occhi, una vecchia coppia di sposi: sono sempre pronti a riprendersi a vicenda, e a punzecchiarsi. Ma anche questo sembra passare in secondo piano. Tutto ciò che non riguarda Peeta, adesso, passa in secondo piano.
- Hanno usato i vecchi metodi per farlo parlare, ma il ragazzo non sapeva nulla. Era la pedina sbagliata. Mi dispiace che abbiano infierito su di lui con metodi così medioevali – ha commentato stancamente Plutarch.
Le sue parole mi hanno irritata, e non poco. – Medio… che? – mi è uscito fuori, invece di una rispostaccia.
- Medioevali, Katniss. Il Medioevo era un’epoca antica in cui la tortura veniva praticata ogni giorno per far confessare il malcapitato di turno.

Non doveva essere proprio così antica, se si sono ricordati i metodi giusti per usarli contro Peeta… e dopo così tanti secoli, ho pensato. Fortunatamente, Plutarch e gli altri sono usciti subito dopo, probabilmente per parlare di metodi di tortura in un luogo lontano, a distanza di sicurezza dalle mie orecchie. Sono rimasta di nuovo da sola, e ho preso la mano di Peeta per stringergliela. Forse non era in grado di percepire la mia presenza, di sentire la mia voce, ma forse riusciva a sentire il contatto della mia mano sulla sua pelle. Poteva essergli di conforto… per quanto ne potessi sapere io. Una ragazza senza alcun tipo di competenza medica, che fino a poco fa sarebbe scappata via davanti ad uno scempio simile per non essere costretta a vederlo.
Nei giorni successivi i medici hanno continuato a somministrargli la morfamina, ma hanno diminuito le dosi dei sedativi per agevolare il suo risveglio; tutti i suoi parametri mostravano dei piccoli miglioramenti. Anche il suo viso migliorava: il gonfiore diminuiva, il viola intenso dei lividi stava lasciando spazio al blu, decisamente più spettrale ma era il segno evidente della guarigione che avanzava. La mascherina dell’ossigeno viene sostituita da dei tubicini posizionati sotto al naso. Ed il dettaglio che mi fece sorridere per la prima volta, dopo giorni di tristezza, fu vedere le sue guance ed il suo mento ricoprirsi di un velo di barba. Non mi capitava quasi mai di vederlo con la barba.
Quattro giorni dopo l’intervento, sono riuscita a restare accanto a lui mentre medicavano e cambiavano le bende alle ferite che aveva sul corpo; ho potuto farlo solo perché quel giorno se ne stavano incaricando la mamma e Prim. Se ci fossero stati altri medici al loro posto, sarei dovuta uscire ed aspettare in corridoio fino a che non avevano terminato. Una volta li ho travolti, per la velocità con cui sono sgusciata all’interno della stanza.
La ferita in via di guarigione sull’addome non mi ha colpita più di tanto; ricordavo abbastanza bene il lungo taglio che Cato gli inflisse sulla coscia, e quella cicatrice c’era ancora a ricordare l’accaduto; quel taglio era stato di gran lunga peggiore, e nemmeno i grandi luminari di Capitol City erano riusciti a cancellarla del tutto. Mi preoccupava maggiormente ciò che celava la benda che aveva al viso.
Mia madre ha tolto i cerotti e lo strato di garza, e ciò che mi sarei aspettata – un’orbita vuota – non apparve. C’era una palpebra chiusa, arrossata, e un lungo sfregio che gli percorreva la guancia dalla tempia ed arrivava quasi all’osso della mandibola. Anche questa cicatrice, forse, non si sarebbe mai cancellata del tutto.
- È un miracolo che non gli abbiano preso l’occhio – ha mormorato Prim. La mia sorellina stava cominciando a parlare come la mamma, ormai. E aveva poco più di tredici anni. Era cresciuta e stava crescendo troppo in fretta.
- Sta guarendo bene. Tra non molto potremo togliere i punti – ha detto mia madre. – Possiamo anche non rimettere le bende, stavolta.
Con la testa poggiata sulle braccia incrociate, sopra il materasso, ho continuato e continuato ad osservarlo dormire. Cercavo di carpire dal suo viso il dettaglio, anche il più piccolo, il più impercettibile dei tanti, che mi avrebbe svelato quand’è che avrebbe riaperto gli occhi. Una volta ho creduto che stesse succedendo perché aveva inclinato di poco la testa, ma dopo quel piccolo movimento non è più accaduto nulla; Peeta ha seguitato a dormire, e basta.
Non volevo perdermi quel momento: volevo essere io la prima persona a vederlo sveglio, e volevo che il mio viso fosse la prima cosa che Peeta avrebbe visto. Per questo ho lottato, e continuavo ancora a lottare, contro il sonno. Non mi concedevo una nottata intera di riposo dal giorno in cui organizzarono la squadra di salvataggio. Ho sonnecchiato un po' durante questi giorni, qualche ora al massimo, ma mai tutte di fila. Ed i miei occhi avevano cominciato a pesare come macigni.
Alla fine, credo di aver ceduto. Non me ne sono nemmeno resa conto, e mi sono addormentata con la testa accanto al suo cuscino. Sono stata vinta dalla debolezza e dal sonno che avevo cercato di respingere con così tanta risolutezza per tutte quelle ore. Forse non ho passato troppo tempo a dormire, ho pensato, quando sono tornata ad essere un po' più vigile. Avevo gli occhi chiusi, ma non dormivo più. Forse erano passati solo pochi minuti: avevo chiuso gli occhi solo per pochi minuti…
Ma evidentemente quei pochi minuti erano stati sufficienti. Erano bastati per fare la differenza.
Ho capito che c’era stato un cambiamento dal modo in cui i miei capelli, accanto alle mie mani, mi solleticavano la pelle. Non potevano muoversi a causa del vento, o dell’aria, perché nel Distretto 13 non c’è vento. C’era qualcuno che li stava muovendo di proposito.
Ho aperto gli occhi, e due iridi azzurre hanno ricambiato il mio sguardo.

 

Non mi sono mossa, non ho detto nulla.
Come se il mio cervello non fosse più stato in grado di impartire alcun tipo di ordine, immobile, rimango ad osservare gli occhi di Peeta, finalmente aperti. Dopo intere settimane, posso bearmi di nuovo di quell’azzurro che ho imparato ad amare così tanto e che ho bramato così tanto di rivedere. Peeta mi osserva, chiude e apre gli occhi un paio di volte, ma smette di giocare con i miei capelli. Anche lui, come me, sembra incapace di dire qualcosa. Forse non ci riesce.
Rabbrividisco, davanti al pensiero che la mia mente ha appena formulato.
Mi sollevo dal materasso quel tanto che basta per portare una mano alla sua fronte, per scacciare via quel ciuffo di capelli che ci ricade sempre sopra. Al mio tocco, come scottato, Peeta chiude gli occhi. Forse gli ho fatto male.
- Scusa. Non volevo farti male – mormoro piano.
Peeta deglutisce e, lentamente, riapre le palpebre. Fa uno strano verso che gli nasce dalla gola. – Non… potrai mai… farmi del male – sussurra, con voce roca.
Sorrido. Gli occhi cominciano a pizzicare, ma li ignoro. Non voglio piangere adesso: ho pianto anche troppo in questi giorni, e Peeta non deve assolutamente vedermi piangere. Comincio ad accarezzargli la fronte usando solo il pollice, piano, rassicurata dal fatto che sia uno dei pochi punti a non avere ferite o lividi evidenti. Poso l’altra mano accanto alla sua spalla, sulla clavicola, e lì faccio attenzione, perché è un punto ancora ammaccato.
Dovrei chiamare qualche medico, avvertire chi di dovere che Peeta ha finalmente ripreso conoscenza, così da venire a controllare che sia effettivamente tutto a posto… ma non riesco ad alzarmi. Non riesco a pensare a qualcosa di più importante che non sia lui, sveglio, accanto a me. Anche se avvertire i medici è, effettivamente, importante. Ma spero che possano aspettare ancora qualche minuto.
I suoi occhi mi scrutano attentamente mentre continuo le mie carezze. – A cosa pensi?
La sua risposta mi spiazza. – Penso di essere morto, e che questo deve essere per forza il paradiso.

Anche io, quando mi sono risvegliata al 13, ho pensato di esserlo… ma non è così.
- Non sei morto, Peeta – sussurro. Mi chino su di lui e gli bacio delicatamente lo spazio tra le sopracciglia.
- Katniss… - deglutisce, strizzando gli occhi. Quando li riapre, sono dello stesso colore del mare, e carichi di lacrime. Il petto gli si solleva rapidamente, a scatti, e questo mi fa allarmare.
- Ssssh… sta tranquillo, tesoro. Sta tranquillo.
Peeta alza la mano e la posa sulla mia guancia. – Pensavo… di avervi perso entrambe.
Stavolta deglutisco io. Poso la mia mano sulla sua, incapace di aggiungere alcunché, di dirgli ciò che forse sa già e che non si aspetta comunque di sentire. Come faccio a rivelargli che lei non c’è più?
È una realtà che non sono ancora riuscita ad accettare io stessa.
- Cosa le è successo? – bisbiglia. – Katniss? Ho visto il video… di te, e non avevi…
Scuoto la testa, e le lacrime riprendono a scorrere anche sulle mie guance. A cosa serve tentare di trattenerle? A cosa serve tentare di mostrarmi forte davanti a lui, quando non lo sono mai stata davvero? A cosa serve tentare di nascondere e soffocare il dolore?
Uscirebbe fuori lo stesso.
- Non sono stata in grado di proteggerla, Peeta – bisbiglio a mia volta. – Perdonami, Peeta, io… io non ci sono riuscita.

 

 

 

_________________________

Peeta è vivo – avevate dubbi per caso? U_u – e, come vi avevo già confermato negli scorsi capitoli, non è stato depistato. Però sentivo di dover trovare un’alternativa al depistaggio, e a parte le percosse non è che mi siano venute in mente grandi idee. Rileggendo il tutto mi sono resa conto che forse – forse? – ho persino esagerato ^^’ povero Peeta… è capitato nelle mani sbagliate.
Le mie.
Ma mettiamo da parte questo discorso.
Non so di preciso quando riuscirò a farvi avere il prossimo aggiornamento, voi però sappiate che anche se in ritardo vi farò avere mie notizie :) e speriamo che questo ritardo non diventi mostruoso, nel frattempo.
Al solito: grazie per essere arrivati fin qui

D.

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Capitolo 33
*** 33. ***


In The Still Of The Night - 33

Alla fine dello scorso capitolo vi avevo promesso che non vi avrei fatto aspettare troppo.
Ecco, avrete sicuramente notato che ho miseramente fallito.
Sono una frana con le promesse.
Ma sono di nuovo qui, e ho portato con me un nuovo capitolo.
Spero che sia un buon compromesso :)

 

 

 

In the still of the night

 

 

33.

 

- Ne sei sicuro?
- Non ho cambiato idea negli ultimi dieci secondi, Katniss – dice Peeta, quasi sbuffando. – Fammi vedere.
Ho quasi voglia di non seguire il suo ordine, ma alla fine faccio come mi ha chiesto e sollevo lo specchio davanti a me, in modo che Peeta possa vedere il suo volto riflesso. Lo specchio, quadrato e dorato, è abbastanza pesante; me lo ha prestato Effie.
Sì, Effie è riuscita a trascinarsi dietro uno specchio prima di lasciare Capitol City.
Osservo attentamente le espressioni che Peeta, seduto sul suo letto d’ospedale con la schiena premuta contro i cuscini, assume a mano a mano che prende consapevolezza di ciò che ha ancora sul viso: i lividi bluastri, i tubicini dell’ossigeno, ed ovviamente la lunga e spettrale cicatrice piena di punti che gli attraversa il lato sinistro della faccia. Volta il viso verso destra, poi verso sinistra, si passa le dita più volte sui segni evidenti. È molto silenzioso, mentre lo fa. Sulla sua fronte sembrano prendere forma mille pensieri.
- Non rimarrà più niente quando guariranno – dico in fretta per tranquillizzarlo. Ho paura che il suo silenzio sia dovuto a questo.
Peeta si passa una mano sul resto del viso e comincia ad accarezzare la barba biondiccia che, nel frattempo, gli ha ricoperto mento e guance. Sorride, smette di guardare nello specchio e comincia ad osservare me. – Chissà com’è conciato l’altro – commenta.
Abbasso lo specchio di botto, inarcando le sopracciglia. – Scherzi?
Ridacchia, scuotendo piano la testa. – Mi stavo dimenticando quanto fosse divertente prenderti in giro.
- Se sapevo che volevi fare solo questo, avrei chiesto agli altri di lasciarti a Capitol City – esclamo, punta sul vivo, ma alla fine rido anche io.
È assurdo, completamente assurdo, ritrovarsi a scherzare e a sprecare tempo in chiacchiere futili dopo una circostanza come quella che ha attraversato Peeta. È quasi morto, ha rischiato di non raggiungere il Distretto 13 in tempo per poter ricevere le cure di cui aveva un così disperato bisogno… e adesso, invece, è davanti a me, e ride come se nulla fosse. Ma forse, a dettare questo tipo di reazione è l’istinto di sopravvivenza. È lui, ancora una volta.
L’istinto di sopravvivenza fa accantonare tutto ciò che può farci del male, e ci fa concentrare sulle futilità della vita. Le risate, ad esempio. Ma può agire anche nel senso inverso: può farti vedere solo il nero della situazione, l’orrore, per non mostrare il rosa, la gioia. Può agire in tanti modi, ed aiutarti in tanti modi. L’istinto di sopravvivenza ti dà coraggio nel momento del bisogno… ma non sempre si ottiene il risultato sperato.
Ho scoperto che Peeta ha contato davvero molto sul suo istinto di sopravvivenza.
Qualche ora fa, quando mi ha mandata alla ricerca di uno specchio, lo ha fatto con uno scopo ben preciso: voleva, sì, che ne trovassi uno, ma contava anche sul fatto che ci impiegassi un po' di tempo nel farlo. Non voleva che tornassi subito perché non voleva assolutamente che sentissi ciò che aveva da dire.
Sin dalla fine della missione di recupero, Plutarch, la Coin e gli altri membri del Comando hanno sottoposto i vincitori ad una sorta di interrogatorio per sapere ciò che era accaduto loro durante la prigionia. Tutto ciò che ricordavano, tutto ciò che avevano subito, tutto ciò che avevano detto loro: usando una parola soltanto, tutto poteva essere utile alla causa dei Ribelli. Johanna ed Annie avevano già svolto il loro dovere, ma non Peeta. Le sue condizioni, i primi giorni dopo il suo arrivo al 13, non glielo avevano permesso… ma adesso che era sveglio, e che stava un po' meglio, aveva chiesto di fornire il proprio contributo. Era stato proprio lui, di sua spontanea volontà, a chiedere l’incontro.
Non sono riuscita a scoprire quand’è che questo avrebbe avuto luogo fino a che non sono tornata in ospedale, non più di due ore fa, con il pesante specchio di Effie sotto un braccio; ho percorso il corridoio fino alla camera di Peeta ed ho allungato il braccio libero per spingere la porta, che era socchiusa, ma mi sono bloccata quando ho sentito la voce di Plutarch.
- …la prima intervista a cui hai preso parte, Peeta, quando è stata registrata?
- Una settimana dopo l’esplosione dell’arena – risponde Peeta. – Non più tardi di una settimana. Ne sono sicuro perché dopo avermi fatto uscire dall’arena, mi hanno riportato nella mia stanza al Centro di Addestramento. Sono rimasto lì per sette giorni precisi, senza sapere nulla, finché non è arrivata Portia a dirmi che dovevo essere preparato per un’intervista.
- Portia è la tua stilista? – ha chiesto Plutarch prima di continuare. – Ti ha spiegato perché dovevi essere intervistato?
- Non sapeva molto nemmeno lei. Sapeva solo che dovevo essere pronto e che dovevo essere presente nello studio entro due ore, al massimo. Le era stato incaricato di mostrarmi il filmato della nostra ultima ora nell’arena. Quello… – aggiunge Peeta, interrompendosi sull’ultima parola.
- Prenditi qualche minuto se ne hai bisogno, ragazzo – dice Haymitch.
Ma Peeta riprende a parlare quasi immediatamente.
- Quando il filmato è terminato è entrato Antonius.
- Il Ministro della Difesa?
- Mi ha spiegato a grandi linee ciò che era accaduto a Panem nella settimana in cui mi hanno tenuto al Centro di Addestramento: mi ha parlato del Distretto 13, dei Ribelli e della rivoluzione che hanno messo in atto. Mi ha detto che Katniss era stata catturata dai Ribelli, e che loro l’avrebbero costretta con la forza a diventare la portavoce della Rivolta.

No, Peeta, no. Non mi hanno costretta. Sono stata io ad accettare, nessuno mi ha costretta. L’ho fatto per te, per salvarti
- Mi ha detto che dovevo essere dalla loro parte per vendicarmi di ciò che le avevano fatto. Secondo Antonius, la colpa per ciò che è accaduto a nostra figlia era da attribuire ai Ribelli, e alla presidente Coin. E a te, Plutarch.
Sento Plutarch ridere. - È proprio tipico di Antonius scaricare la colpa sugli altri. Tu non ci hai creduto, vero, Peeta?
- Forse su di te non aveva tutti i torti.
Stavolta Plutarch ha la decenza di non ribattere.
- Quando mi hanno portato nello studio televisivo, mi hanno dato una sorta di copione da seguire. Dovevo solamente parlare di ciò che è accaduto nell’arena e di aggiungerci la richiesta del cessate il fuoco sul finire dell’intervista.
- Quindi il cessate il fuoco non è stata una tua idea?
- Prima che me lo dicessero loro, non sapevo nemmeno che fosse iniziata una guerra.
- Capitol City ha trasmesso la tua richiesta poco più di tre settimane fa. Ci sono diverse settimane di scarto dalla registrazione in avanti… te la senti di raccontarci cos’è accaduto dopo?
Sono rimasta seduta fuori dalla sua stanza ad ascoltare, in silenzio, andando contro il desiderio di Peeta di volermi tenere all’oscuro di tutto. Sono rimasta seduta su quel pavimento freddo per parecchio. Sono rimasta lì, ed ho sentito raccontare dalla sua stessa voce il modo in cui hanno tentato di farlo sentire piccolo, di schiacciarlo, di annientarlo. I modi in cui hanno cercato di distruggere la sua anima, ed il suo corpo.
Prima ci sono state le sedute di elettroshock, accompagnate da lunghi giorni in cui hanno cercato di estorcergli con la forza anche la più piccola parola che potesse condurli ai Ribelli; giorni in cui non lo hanno lasciato dormire, giorni in cui non gli hanno dato cibo ed acqua, giorni in cui la minaccia e l’attesa del sopraggiungere dei torturatori era essa stessa una tortura. A sentire Peeta, anche Johanna ha subito più o meno lo stesso trattamento; l’unica differenza, tra i due, è che Johanna aveva le preziose informazioni di cui Capitol aveva bisogno, ma non le ha rivelate. Johanna non ha rivelato neanche mezza parola. Peeta, invece, non sapeva nulla. Ed il suo silenzio, non forzato ma obbligato, non faceva altro che far infuriare i suoi carnefici.
Con il vociferare sempre più insistente dell’esistenza dei Pass-Pro, e del mio ruolo come Ghiandaia Imitatrice per i Ribelli, sono cominciate anche le percosse. E qui si va ad inserire la seconda intervista, stavolta non registrata ma in tempo reale, e con un copione intero da recitare alla perfezione.
- Dopo quell’intervista hanno scelto un altro modo per cercare di farmi parlare – mormora Peeta. Si prende qualche momento di silenzio, e poi ricomincia. – Hanno scelto di farmi assistere ad alcuni interrogatori. La prima persona non era stata scelta a caso: dovevano aver sentito parlare del costume che Katniss indossava nei Pass-Pro…
- Cinna – dice Haymitch, bloccando le parole di Peeta.
- Cinna – ripete lui.
- Cinna… - mormoro io.
L’ultimo ricordo che ho del mio stilista risale alla mattina dell’inizio degli Hunger Games. Come l’anno precedente, mi ha accompagnata durante il volo in hovercraft fino all’arena in cui si sarebbe svolta l’azione; mi ha portata nella stanzetta, giù nelle catacombe, dove mi sono fatta una doccia rapida ed ho indossato, aiutata dalle sue mani delicate, la tuta leggera che costituiva l’uniforme per i tributi di quest’anno. Mi ha intrecciato i capelli al solito modo, mi ha chiesto se volessi provare a mangiare qualcosa, e poi ci siamo seduti vicini, in silenzio ed in attesa della chiamata. Mi ha stretto la mano per tutto il tempo. E quando è arrivato il momento di entrare nel tubo di lancio, sessanta secondi prima di essere spedita nell’arena, mi ha abbracciata forte. Mi ha baciato la fronte, ha accarezzato le mie guance e la mia pancia. Ero ancora incinta della mia bambina.
- Buona fortuna, Ragazza di Fuoco – ha mormorato, e mi ha fatta entrare nel tubo.
Ho seguito i suoi occhi per tutto il tempo mentre la pedana mi faceva salire in superficie, fino a che non sono spariti dalla mia visuale, e non li ho visti più.
Gli occhi scuri e gentili di Cinna…
- Cinna era a conoscenza dell’intero piano – ammette Plutarch.
- Ma non ha mai rivelato nulla. Neanche alla fine – sussurra Peeta. – Hanno provato a farlo parlare in tutti i modi, con ogni mezzo a loro disposizione, ma lui non ha mai confessato niente. Nemmeno quando… - si interrompe. – Neanche quando gli hanno amputato le dita.
Chiudo gli occhi e porto le mani sulla bocca per non far sentire il gemito che mi è uscito dalle labbra. Le dita: gli hanno amputato le dita. Le dita per uno stilista sono tutto. Ma Cinna non era solamente uno stilista, il miglior stilista degli Hunger Games e di tutta Panem: era mio amico.

Era.
Parlo di lui al passato. Non ci vuole molto a capire perché… sono un’illusa, se penso che lo abbiano lasciato vivere.
- Le sue ultime parole le ha rivolte a me. “Scommetto ancora sulla Ghiandaia Imitatrice”… poi gli hanno sparato una pallottola in testa.
Oh, Cinna.
Peeta viene messo al corrente di ciò che è accaduto a Portia e ai preparatori, miei e suoi: sono morti. Tutti morti. Dopo il salvataggio dei vincitori, sono stati giustiziati in diretta nazionale come monito per tutti coloro che hanno osato, e osano ancora, ribellarsi contro Capitol City.
Non presto molta attenzione al resto del suo racconto: è troppo, troppo doloroso. Peeta aveva ragione nel pensare che dovevo rimanerne all’oscuro, ma allo stesso tempo sento che è qualcosa che dovevo sapere. Conoscere anche questa parte di storia è fondamentale, per me, è essenziale. È un modo come un altro per concentrare la mia rabbia, per indirizzarla su colui che da mesi è diventato il mio obiettivo primario.
Su colui che è stata la causa del mio dolore, del dolore di chi amo, e che mi ha portato via ciò che ho di più caro.
Focalizzare la rabbia sul presidente Snow mi schiarisce la mente, e mi rende più chiaro il compito che dovrò fare nell’immediato futuro.

Ucciderlo.

 

Io e Peeta stiamo ancora ridendo quando Gale bussa piano alla porta e fa per entrare.
- Posso? – chiede, quasi timoroso di disturbare.
- Certo che puoi – dico subito.
- Sì, Gale, entra pure.
- Sono passato a vedere come sta Peeta, e per salutarvi entrambi.
- Stai andando via? – gli chiede Peeta.
- Ci mandano al Distretto 2 – risponde.
- A fare cosa?
- È l’ultimo distretto che ancora resiste. La Coin vuole farlo cedere il prima possibile, così da avere campo libero per entrare nella capitale.
L’occhio mi cade sugli abiti che Gale indossa: non sono i soliti abiti grigi che, qui al 13, indossiamo tutti i giorni, ma è l’uniforme che indossa durante i Pass-Pro. Ed è, probabilmente, la stessa uniforme che indossava quando è stato a Capitol City per salvare i vincitori.
Qualcosa mi suggerisce che non faranno cedere il Distretto 2 con le buone maniere: si recano lì per combattere.
- Perché non me ne hanno parlato? – domando, inarcando un sopracciglio.
- Dicono che ti coinvolgeranno più avanti, appena avranno la vittoria tra le mani. Hanno ancora bisogno dei Pass-Pro.
- Ti avrei fatto chiamare, Gale. Volevo parlarti – dice Peeta. – E ringraziarti.
Gale lo osserva. – Non devi farlo, Peeta, non ce n’è bisogno. Tu avresti fatto lo stesso per me… lo hai già fatto, in un certo senso.
Il ricordo della fustigazione di Gale mi invade la mente, scorre davanti ai miei occhi come se fosse un evento recentissimo, e non vecchio di mesi com’è in realtà. Non posso dire che le parole del mio amico sono sbagliate, o false: ha ragione. Quel giorno, Peeta mi ha aiutato a liberarlo dalle corde ed a trasportarlo insieme agli altri fino a casa mia, per fare in modo che mia madre potesse curarlo. E nei giorni successivi si è reso utile come poteva.
Se al suo posto ci fosse stato Gale, torturato e lontano centinaia di migliaia di chilometri, non ci avrebbe pensato due volte ad offrirsi volontario per andare a salvarlo.
- Non è solo perché mi hai fatto uscire da quel posto, Gale, ma anche per tutto il resto. Per Katniss – aggiunge, lanciandomi una veloce occhiata. – Le sei stato vicino quando io non… ti sarò debitore per tutta la vita.
Gale scuote la testa. – Non voglio avere debiti con i miei amici – esclama, sorridendo. Tende una mano verso Peeta, e lui la accetta. Se le stringono a vicenda in segno di amicizia e di intesa, lasciandomi senza parole.
Osservo i due uomini più importanti della mia vita stringersi la mano come se stessero stipulando un patto silenzioso tra di loro, un patto che coinvolge anche me, in qualche modo. Li osservo, e mi sembra di non scorgere nulla nei loro sguardi: nessun rancore, nessun segno di rabbia, o di tensione per i trascorsi dei mesi passati. Sembrano davvero due ragazzi normali. Due amici.
È molto più di quello che mi potessi aspettare.

 

Finnick entra in camera mentre Peeta dorme e non si ferma per molto tempo; dice che è passato giusto per lasciarmi qualcosa da sgranocchiare.
- Sono sceso in cucina a rubarle per Annie – dice, soddisfatto.
Le sue parole mi fanno, ancora una volta, sentire in colpa. Mi ricordano di quanto sia forte e prepotente il mio egoismo, perché in questi giorni non ho fatto altro che pensare a Peeta e all’infuori di lui non c’è stato altro.
- Mi dispiace, Finnick – dico in fretta, sconfortata. – Non ti ho chiesto come sta Annie – o come sta Johanna, aggiungo mentalmente.
- Non fa niente, Katniss. Non te ne fare una colpa, è più che comprensibile – sorride, accarezzandomi dolcemente la schiena. Poi fa scivolare un pacchetto marrone sulle mie gambe. – Ho pensato che avessi bisogno anche tu di un po’ di dolce – aggiunge.
- Che cos’è?
- Zollette di zucchero.

 

- Piano… con calma, Peeta, prenditi il tuo tempo – mormoro. Rafforzo la presa sul suo fianco, ma senza esagerare.
- Più piano di così – scherza, guardandomi.
Da diversi giorni, i medici hanno ritenuto che le ferite di Peeta fossero guarite abbastanza da consentirgli di scendere dal letto e fare qualche passo per la stanza; si è stancato subito, all’inizio, ma col passare dei tentativi è andata sempre meglio. Dai pochi passi del primo giorno, siamo passati ai brevi tratti lungo il corridoio fuori dalla sua camera… ed ogni giorno allunghiamo, di poco, la distanza. Gli faccio fare delle piccole pause quando mi accorgo che si sta stancando, anche se si lamenta perché dice di non averne bisogno. Gli hanno tolto l’ossigeno, così non abbiamo più l’impedimento di quei tubicini a cui pensare; il trauma toracico non è ancora guarito del tutto, però, e lo spesso strato di bende che gli circonda le costole me lo ricorda ogni giorno. I medici gli stanno riducendo le dosi di antidolorifico. So che prova del fastidio, ma non me lo dice mai.
Se c’è una cosa che non evita mai di dimostrarmi, invece, è il suo buonumore. Fa un sacco di battute.
- Stai andando benissimo… ma non devi sforzarti. Se vuoi riposare-
- Ti amo, Katniss, e amo il modo in cui ti preoccupi per me… ma stai esagerando – Peeta si ferma, poggiando il braccio destro contro la parete e tenendo l’altro contro la mia spalla. – Riposerò non appena avremo raggiunto la fine del corridoio.
- Ho paura che ti stanchi troppo – ammetto.
Dopo settimane intere in cui non ho fatto altro che pensare alla morte, a Peeta, al dolore e alle torture, preoccuparsi per qualcosa di futile come la stanchezza è molto strano. Bizzarro, quasi. Ma preferisco pensare di gran lunga alla fatica, e a tutto ciò che essa comporta, piuttosto che a tutto il resto.
Pensare alla fatica mi fa quasi somigliare ad una ragazza normale. Vorrei tanto essere una ragazza normale
- Non succederà – mi rassicura, abbassandosi di poco per sfiorare i miei capelli con le labbra. – Alla fine del corridoio, promesso.
Stiamo quasi per arrivarci, alla fine del corridoio, quando qualcuno decide che per quel giorno abbiamo percorso fin troppa strada; Boggs, infatti, ci viene incontro e capisco che sta cercando noi dal modo in cui ci fissa. Insieme a lui, a seguirlo, c’è una biondissima Delly Cartwright. Decisamente, l’ultima persona che mi aspetterei mai facesse coppia con uno come Boggs.
- Ciao, Katniss! – mi saluta subito la ragazza, coi suoi soliti modi gentili ed entusiasti. – Come stai, Peeta?
- Non c’è male, Delly. Grazie – le risponde Peeta.
- Mi dispiace interrompervi, ragazzi, ma al Comando richiedono la tua presenza, soldato Everdeen – si inserisce Boggs.
- Riguardo a cosa? – chiedo.
- Non è questo il luogo in cui poterne discutere – dice subito.
Sbuffo. – Riaccompagno Peeta nella sua camera ed arrivo, Boggs. Grazie.
- Ho l’ordine preciso di scortarti fino al Comando. La signorina Cartwright è venuta qui appositamente per sostituirti.
“Sostituirmi”: ha usato questa parola. Anche se so che l’ha detto in buona fede, e che di Delly mi posso fidare, non ho nessuna voglia di staccarmi da Peeta. Devo ripetere più volte a me stessa che sta bene, e che qui dentro non può accadergli più nulla di male, per convincermi a lasciarlo andare per pochi minuti.
- Vai pure, Kat – Peeta sembra aver capito al volo ciò che sta passando nella mia testa. – Delly mi farà compagnia… ci faremo una bella chiacchierata!
- Sì, Katniss, gli terrò compagnia fino a che non tornerai! – esclama Delly, sorridendo a trentadue denti. Ha un viso così dolce e sincero a cui non si può mai dire di no.
Sospiro, vinta. – Torno presto – sussurro a Peeta, issandomi sulle punte delle scarpe per lasciare un leggero bacio sul suo mento. Tante cose sono cambiate, ma lui rimane sempre alto, ed io sempre bassa. Questo vecchio e ripetitivo gesto sa di familiare, di casa. È qualcosa che non sono riusciti a portarci via.
Peeta mi fa l’occhiolino mentre lo lascio alle cure di Delly e seguo Boggs fuori dall’ospedale, dentro un ascensore e, ai livelli inferiori, lungo i corridoi che sono diventati così noti ai miei occhi e che mi porteranno nella solita sala destinata alle riunioni.
- Come mai mi hanno fatta chiamare? – provo di nuovo a chiedere a Boggs, ma lui ha le labbra cucite.
- Lo saprai tra qualche minuto, soldato – risponde. Di qualsiasi cosa si tratti, non me lo dirà.
Una volta nella Sala Riunioni, dove come al solito ci trovo la presidente Coin insieme a Plutarch e a Fulvia, non mi ci vuole molto per capire il motivo. Tutti e tre sembrano abbastanza scontenti da ciò che sta accadendo al Distretto 2… o, per meglio dire, di ciò che non sta accadendo. Il Distretto 2 resiste ancora.
- Non si sono ancora arresi? – chiedo.
- Lo faranno a breve. Le nostre forze stanno cercando di mettere a punto un piano per buttare giù le difese dell’Osso…
L’“Osso” è il soprannome che hanno affibbiato all’enorme montagna che sovrasta il Distretto, montagna che fa da spartiacque, in qualche modo, tra la capitale e tutto il resto della nazione. È anche il luogo in cui sono custoditi gli armamenti, le forze militari di Capitol City, e tutto ciò che può accompagnarli. Da quel che ho capito, la montagna è piena zeppa di cunicoli scavati nella roccia, proprio come abbiamo fatto noi nel Distretto 12, nelle nostre miniere, ed è fremente di attività. È lì che si sono radunati coloro che ancora resistono, mentre i Ribelli hanno conquistato, giorno dopo giorno, e presidiato il resto del distretto.
- …e procederanno non appena li avrai raggiunti.
Devo aver perso una parte del discorso. – Come?
- Andrai al Distretto 2 ad assistere alla nostra vittoria – dice la Coin. – Devi essere lì quando accadrà, e girerai dei Pass-Pro informativi per tutti quanti i distretti. Partirai stasera stessa.

Stasera. Non ho, praticamente, nemmeno il tempo per fare i bagagli. Bagagli, poi, è una parola grossa… da quel che ho capito, l’unica cosa di cui avrò bisogno sarà la mia uniforme da Ghiandaia Imitatrice. Uno zaino sarà più che sufficiente. Eppure, non mando giù di buon grado l’ordine di partire che ho appena ricevuto.
- Come faccio con Peeta? – mi esce dalle labbra.
- Peeta starà benissimo, Katniss. Non dovrai assolutamente preoccuparti della sua salute. È in buone mani – mi tranquillizza Plutarch. – Scommetto che quando tornerai sarà persino stato dimesso dall’ospedale.
Lo guardo, non del tutto convinta. Fatico a credere a quasi tutto ciò che dire Plutarch, ormai…
- Concordo con ciò che ha detto Plutarch: il tuo fidanzato è in buone mani. Ricordo bene le condizioni con cui hai accettato di essere la Ghiandaia per il Distretto 13 – aggiunge la Coin. – Ed io mantengo sempre le mie promesse.
Osservo i suoi occhi, il suo sorriso appena accennato: certo che ricorda. Ricordo anche io, ed è qualcosa che non si più dimenticare facilmente. Inoltre, la Coin ha un forte debito nei confronti di Peeta, colui che fino a due settimane fa riteneva essere un traditore e che ci ha avvertiti di un attacco aereo che avrebbe potuto seppellirci tutti nel sottosuolo. Non può ignorare questo debito… e sono sicura che non lo farà. Non se vuole che io continui a fare ciò che faccio.
Ho giusto il tempo di radunare le mie cose, incluse le mie armi alla Difesa Speciale, prima di tornare in ospedale per salutare Peeta. Tra poco più di mezz’ora mi aspetta un viaggio in hovercraft: Boggs sarà il mio accompagnatore, ed una volta arrivati nel Distretto 2 ci ricongiungeremo col resto della truppa, inclusi Cressida ed il suo team di riprese. Gale è già sul posto da più di una settimana; che ci sia lui ad attendermi, forse l’unico vero amico nel raggio di chilometri, è un piccolo spiraglio a cui posso aggrapparmi.
Quando raggiungo il mio fidanzato scopro che si trova da solo, seduto sul letto; Delly deve essere già andata via. Non so da quanto, effettivamente, perché anche io ho impiegato più tempo del dovuto per fare armi e bagagli. Non voglio assolutamente lasciare il Distretto 13… non voglio lasciare Peeta. Ma devo farlo, ed il fatto di avere degli obblighi che mi impediscono di scegliere liberamente cosa posso o non posso fare rende il tutto ancora più frustrante da mandare giù. Sono proprio dei bocconi amari, questi.
- Ciao – lo saluto, posando i miei bagagli accanto alla porta.
- Ehi – Peeta soppesa con lo sguardo l’ingombro di cui mi sono appena liberata, poi soppesa il mio viso. – Cosa succede?
Mi siedo di fronte a lui, sul materasso. - Devo andare al Distretto 2: stanno per farlo cedere, e mi vogliono laggiù per quando accadrà – gli spiego, facendola breve.
Annuisce, prendendo la mia mano. – Gale te lo aveva già accennato, in effetti. Quando tornerai?
Trattengo una risata. – Sinceramente? Non ne ho la più pallida idea…
- Magari sarà una cosa veloce!
- Già, magari…
Qualcosa mi dice che non sarà così.
Mi distraggo, adesso che posso ancora permettermi di farlo, abbassando gli occhi sulle nostre mani intrecciate. Perdo, quindi, l’attimo in cui Peeta si sporge sul suo comodino per prendere qualcosa, anche se colgo appena i suoi movimenti. – Ho qualcosa per te – sussurra, costringendomi a distogliere lo sguardo dalle nostre dita per puntarlo su di lui, e su ciò che ha posato sul palmo della mano.
E non riesco a credere a ciò che vedo.
- Ma come- balbetto, mentre faccio scorrere gli occhi dal viso di Peeta all’anello, e viceversa. Come ha fatto a tenersi stretto il mio anello di fidanzamento?
- Portia – dice soltanto, ed un sorriso mesto gli compare sulle labbra. Deglutisce, schiarendosi poi la voce. – Ma non è importante il “come”, Kat. L’importante, ora, è che posso restituirlo alla sua legittima proprietaria – aggiunge. Prende la mia mano sinistra nella sua e c’è tanta soddisfazione sul suo viso mentre fa scivolare l’anello al mio anulare, così come fece quando mi chiese di sposarlo. Lo rimette nel posto in cui deve stare. Le pietre preziose scintillano, proprio come le ricordavo. – Così avrai qualcosa di mio, laggiù.
- Oh, Peeta… - incurante delle sue condizioni, del dolore che potrei provocargli, e di chiunque possa passare davanti a quella porta, mi sporgo con poca delicatezza verso di lui e premo le mie labbra sulle sue.
Non deve provare chissà che gran fastidio, Peeta, se mi abbraccia come mi sta abbracciando e se ricambia il mio bacio nel modo in cui lo sta ricambiando. Spronata da questi segnali, intensifico ancora di più il bacio, mordendogli piano il labbro inferiore per poi passarci sopra la lingua, come per scusarmi di aver provato a fargli del male. Peeta mi stringe la schiena, e tiene una mano sul mio collo per tenere ferma la mia testa. Come vorrei poter restare così per il resto dei miei giorni… ma finisce troppo presto. Come tutto, qui, finisce troppo presto.
Peeta lascia un bacio leggero sulle mie labbra, socchiuse e umide, e strofina il naso contro il mio. Mi osserva attraverso le palpebre socchiuse. – Non dimenticarti di me mentre sei via – mormora.

Non potrei mai dimenticarti, penso.
Senza pensarci, e senza neanche rifletterci in un certo senso, mi stacco da lui per recuperare e sfilare dal collo la catenina d’argento da cui non mi sono mai più separata da un mese a questa parte. La catenina con la perla. Vorrei avere qualcosa di meglio da lasciargli, qualcosa che non mi abbia regalato lui e che si vede restituire in questo modo, ma al momento è tutto ciò che posso permettermi. Ci sarà tempo, più avanti, per rimediare.
Per ora, la perla va benissimo allo scopo.
Faccio scivolare la catenina attorno al suo collo e afferro il piccolo pendente, premendolo contro il suo petto. Adesso anche Peeta ha qualcosa che lo farà pensare a me, ogni volta che osserverà la perla bianca.
- Non farlo nemmeno tu – sussurro, baciandogli ancora le labbra.

 

 

 

 

_______________________

Ben ritrovati :)
Sì, lo so: vi è toccato uno spiegone. Necessario, sotto alcuni aspetti: col tempo – e grazie a non pochi manuali di scrittura e consigli vari – ho imparato che alcune volte va bene tagliare il superfluo e riassumere ciò che risulterebbe troppo pesante leggere per pagine e pagine. Lo dice anche Stephen King – adoroH! E quindi ho cercato di riassumere, di tagliare e di rendere accettabile qualcosa che altrimenti sarebbe risultato sgradito. Spero di esserci riuscita :) in caso contrario… perdonatemi ^^’
Grazie per essere arrivati fin qui.

D.

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Capitolo 34
*** 34. ***


In The Still Of The Night - 34

All’inizio pensavo di arrivare alla fine della storia con 27 capitoli, esattamente come nei libri della zia Collins.
Mentre scrivo questa nota, il mio foglio Word mi fa notare che sono a pagina 353 e al capitolo 34. E non so ancora quanti capitoli manchino alla fine.
Direi che il tutto si commenta da solo ^^’
Adesso però smetto di ammorbarvi e vi lascio leggere in santa pace :D

 

 

 

In the still of the night

 

 

 

 

34.

 

Sono al Distretto 2 già da una settimana e non è ancora accaduto nulla di eclatante. Da come ne parlavano Plutarch e la Coin, sembrava che fossero ormai giunti a un buon punto e che, nel giro di pochi giorni, si sarebbe arrivati finalmente alla svolta della situazione… ed invece, non è affatto così. L’Osso è ancora integro e solido, proprio come la roccia di cui è composto. La montagna sovrasta l’intero Distretto e sembra farsi beffe dei Ribelli e di chiunque altro provi a minacciarla. Sembra farsi beffe anche di me, mentre la fisso da lontano.
Il team di esperti incaricato di far cedere l’Osso continua a ragionare sulle infinite ipotesi da attuare, e da una settimana ad essi si sono uniti i nuovi membri venuti dal Distretto 13. I “cervelloni”, come li ha chiamati Plutarch, hanno viaggiato insieme a me e tra loro c’è anche Beetee, ovviamente. Per realizzare piani geniali si ha bisogno di menti geniali.
Si riuniscono ogni giorno per ore ed ore, dalla mattina alla sera, senza soste. Diversamente da ciò che accade al 13, dove il comando operativo evita di far partecipare alle riunioni chi non è di competenza, qui al 2 chiunque può prendere parte alle discussioni. Tutti noi, cervelloni o meno, possiamo dare una mano e fornire il proprio contributo. Ogni idea, anche la più sciocca ed insignificante, potrebbe essere di aiuto per strappare finalmente la vittoria tanto desiderata.
Stare al Distretto 2 non è male, tutto sommato: non ci sono programmi tatuati sulle braccia, non ci sono doveri obbligatori a cui sottostare e, cosa forse più importante di tutte, si ha la possibilità di uscire e stare all’aria aperta per la maggior parte della giornata. Non mi sono mai sentita così bisognosa di libertà come adesso; forse anche quando mi trovavo al 13 provavo lo stesso desiderio, ma doveva essere stato soffocato da tutto il resto perché non l’ho mai sentito così forte e vivo. Per salvaguardare la mia incolumità mi fanno spostare di continuo, cercano di non farmi restare sempre in uno stesso punto per più di un giorno, ma è un genere di spostamento piacevole, per nulla pesante, e non forzato. Ho persino la possibilità di andare a caccia, a patto che le mie prede vengano portate alla cucina del campo per rifornire di cibo le truppe. Lo faccio, ovviamente, anche perché non riuscirei mai a pensare di sprecare della buona carne. Come mi disse una volta Beetee, io non sono quel tipo di persona che caccia soltanto per sport.
Spesso mi isolo, quando non ho Pass-Pro da registrare o visite ai feriti da compiere, ed in questo scopro di non essere cambiata molto; mi piace stare da sola, mi piace il silenzio. La maggior parte dei combattimenti è cessata, qui, ed è tutto abbastanza tranquillo. Non corro il rischio di incappare in qualche attacco, ma c’è sempre qualcuno insieme a me pronto a difendermi, in caso di bisogno. Persino quando mi siedo su un tronco caduto ad osservare il tramonto sono circondata da una squadra silenziosa incaricata di sorvegliarmi.
I tramonti autunnali sono meravigliosi. Quando giunge l’avvicinarsi della sera rimango a contemplare il cielo che si tinge di un forte rosso aranciato, e penso che sarebbe il tipo di tramonto che a Peeta piacerebbe vedere. I giorni in cui ce ne stavamo insieme, spensierati, a guardare l’alba o i tramonti sembrano finiti: l’ultimo, appena due giorni prima di tornare nell’arena. Invidio quei ragazzi che, nonostante l’orrore incipiente, erano riusciti a ritagliarsi uno spiraglio di serenità tutto per loro. Mi mancano quei ragazzi.

Mi manca Peeta.
E chiamiamolo pure sentimentalismo.
Non sono preoccupata per lui; ho persino smentito me stessa ed il mio stato d’animo al momento di partire. Ho smentito la me stessa che lo salutava. So che sta bene, al Distretto 13, sorvegliato da Haymitch – che mi aggiorna ogni volta che ne ha l’occasione – e dalla mia famiglia. Grazie a loro, so che le sue dimissioni dall’ospedale sono imminenti.
- Non ha più bisogno di cure intensive – mi ha detto proprio ieri pomeriggio. – Gli assegneranno un’unità abitativa accanto alla tua. Doppia. Forse sanno anche loro che tenervi lontani non serve a niente.
Solitamente le battutine a doppio senso di Haymitch mi danno sui nervi, ma questa, ho notato con estrema sorpresa, mi ha fatta sorridere. Il pensiero è andato subito a quelle notti sul treno, durante il Tour della Vittoria; i ricordi di quelle notti dolci, trascorse nello stesso letto, abbracciati, addormentati... e poi, in un lampo, il ricordo della mattina in cui Haymitch ci ha scoperti in atteggiamenti intimi, e forse troppo spinti.

Dovremo ricordarci di chiudere le porte a chiave anche al Distretto 13, penso.
La prospettiva di riacquistare una parte del nostro passato, dei nostri momenti privati, dovrebbe rendermi una persona sollevata, una ragazza felice, per quanto possibile… ma c’è qualcosa che stona. Come l’anno scorso, quando cercavo di riacquistare una parvenza di vita normale dopo aver affrontato ventidue ragazzi che volevano uccidermi, e dentro di me sapevo che una vita normale dopo gli Hunger Games non poteva proprio avere luogo. Dentro di me, proprio come allora, so che la mia vita insieme a Peeta non sarà mai più quella di prima.
Gale viene a cercarmi mentre sono impegnata nella contemplazione dell’ennesimo tramonto; ai miei piedi c’è una montagna di piume. Le proprietarie delle piume giacciono, morte, accanto a me, sul masso su cui ho preso posto. Uno stormo di anatre è passato di qui, qualche ora fa, e prima che potessero disperdersi del tutto sono riuscita ad abbatterne una mezza dozzina. L’ora è tarda, ormai, affinché siano pronte per la cena di stasera, ma la loro carne domani sarà ancora buona. Non andrà sprecata.
- Non è poi così difficile trovarti – esclama Gale appena mi è vicino, ghignando. È rivolto, ovviamente, all’inconfondibile squadrone di sorveglianti che mi trascino dietro.
- Potrà tornare utile per chi mi vuole morta – ammetto. – Sarà più facile per loro individuarmi.
- Sempre ottimista, eh?
Lo guardo, scettica, ma mi rilasso quando noto che non è arrabbiato, o irritato per ciò che ho detto. È divertito, allegro, e di ottimo umore. Gale fa parte della squadra dei “cervelloni” sin da quando è arrivato qui, la settimana prima della sottoscritta, e non poteva essere altrimenti dato che anche nel 13 aveva preso spesso parte alle discussioni al Comando. Ha trascorso, poi, ore intere a discutere con Beetee: di trappole, di armi… di qualsiasi cosa. Immagino che il suo buonumore sia dovuto a qualcosa del genere. Forse…
- Avete un piano – dico. La mia è un’affermazione più che un’ipotesi.
- Domani si procede – mi informa. – C’è un incontro per discuterne anche con la Coin in mattinata, dopodiché… - batte le mani, come per mimare uno scoppio o qualcosa di simile. – Ma non pensiamoci adesso. Sono venuto ad avvertirti che è quasi ora di andare a cena.
Il mio campo base, provvisorio, è un villaggio semi abbandonato, posizionato a nord dell’Osso; non è molto lontano dal centro dell’azione e dal Palazzo di Giustizia, semidistrutto, dove si tengono le riunioni strategiche. Al momento il villaggio è popolato dagli abitanti del Distretto 2 che si sono ribellati a Capitol City e che costituiscono la parte attiva della rivolta; chi resiste, invece, si è da tempo spostato nei cunicoli dell’Osso. Gale mi aiuta a trasportare e a consegnare nelle cucine il bottino della mia caccia prima di andare a mangiare la nostra razione di zuppa serale.
Siamo nel bel mezzo del mese di settembre e la stagione autunnale avanza, senza contare il clima della regione montuosa in cui è situato il Distretto 2: fa molto più freddo, qui, rispetto a come siamo sempre stati abituati a casa, ma durante la sera si sta ancora bene, abbastanza da consentirci di cenare fuori, riuniti attorno a dei fuochi strategici. Le conversazioni non si fanno mai troppo interessanti, ma dopotutto le persone che sono qui hanno tutt’altro a cui pensare che alla conversazione. Alcuni di loro si dividono i turni di guardia, altri invece sono coloro che mi sorvegliano; tra un paio d’ore al massimo mi ritirerò per la notte, e allora potranno allontanarsi e fare ciò che vogliono. Per qualche ora non dovranno avermi tra i piedi. Devo sembrare una palla enorme ai loro occhi.
Gale, che mi è seduto accanto, all’improvviso scatta in avanti e rischia di rovesciare a terra la sua ciotola di zuppa. Mi volto insieme a lui per cercare di capire cosa sia successo, e scopriamo subito la fonte del problema: ad urtarlo è stata una figurina minuscola, avvolta in un cappottino scuro. È troppo buio per capire bene di che colore sia, ma la luce del fuoco lo fa sembrare blu.
- Papà! – urla la figurina allargando le braccia, ma le abbassa subito e l’enorme sorriso che le era comparso sul visino scompare, non appena capisce di essersi sbagliata.
- Ehi, piccolina – dice Gale. Mi passa la ciotola e si gira completamente verso la nuova arrivata, che lo osserva spaesata. – Da dove sbuchi fuori?
- Marianne! – il nome della bambina viene urlato dalla voce di una donna, quasi come se stesse rispondendo alla domanda del mio amico. La donna ci si avvicina in fretta e la riconosco subito, perché è la stessa donna a cui io e Gale abbiamo consegnato le anatre prima di cena. Si posa una mano sul petto e si inginocchia per mettersi alla stessa altezza della piccina. – Quante volte te l’ho detto? Non devi scappare via dalla nonna all’improvviso! – esclama, riprendendo fiato. – Scusatemi se vi ha disturbato… è una bambina vivace.
- Nessun disturbo – Gale sorride. – Credo che mi abbia scambiato per il suo papà – muove le dita rapidamente e le avvicina al corpo di Marianne, che inizia a ridere sguaiatamente.
- Il tuo papà arriverà più tardi, tesoro. Questo ragazzo è troppo giovane per essere il tuo papà! – la riprende bonariamente la donna.
Sono catturata dalle espressioni che attraversano velocemente il viso paffuto di questa bambina, che non deve avere più di tre anni. Ha lo sguardo attento e curioso, ride degli scherzi e delle smorfie che gli regala Gale, e nel mentre i codini scuri in cui le hanno raccolto i capelli sobbalzano, incontrollabili. È davvero adorabile. Mi scappa un sorriso nel vedere come sia tutta presa dalle moine che il mio amico le rivolge. A Gale piacciono da morire i bambini… e poi, con tre fratelli più piccoli, ha un sacco di esperienza sulle spalle. Marianne sembra essere appena più piccola di Posy, la sua sorellina, e deve ricordargliela un sacco. Hanno gli stessi capelli scuri, e gli stessi occhi grigi… no, Posy ha gli occhi grigi. Marianne li ha più scuri.
Marianne ha gli occhi azzurri.
Sono già lontana dal fuoco prima di rendermi conto di averlo fatto. Ho sicuramente posato le ciotole da qualche parte, perché non le ho più tra le mani. Le mie mani, adesso, si trovano all’altezza del ventre, e le dita stringono forsennatamente il tessuto della giaccia. Sento un peso sullo stomaco, come se stessi per vomitare, ma non ho conati o altro. Non sto male in questo senso. È una sensazione completamente diversa.
Sono stati gli occhi di quella bambina. Quegli occhi… avrebbero potuto essere i suoi occhi. Gli occhi della mia bambina. Occhi che si sono spenti prima ancora che potesse aprirli alla vita. Occhi di cui non conoscerò mai il colore. I suoi occhi…
Mi perseguiteranno per il resto della vita.
Sobbalzo quando sento delle mani contro le spalle, e scatto via, lontana. Ma è solo Gale. Mi guarda, incerto e preoccupato, e solleva le mani in segno di rassicurazione. Va tutto bene, mi stanno dicendo le sue mani.
- Va tutto bene, Catnip – mi dice la sua voce in una carezza.
Ma io so che dentro di me non va tutto bene.
È questo che intendevo poco fa, riguardo la mia vita insieme a Peeta: non sarà mai più la stessa. Non lo sarà più, perché abbiamo subito delle perdite troppo grandi da affrontare tutte insieme. Lui sta ancora piangendo la sua famiglia, spazzata via in un lampo dalle bombe incendiarie, ed insieme stiamo piangendo la scomparsa di nostra figlia. Stiamo piangendo la perdita più grande, il lutto più grave che un genitore si ritrova ad affrontare nel corso della sua vita.
Ed è inutile ciò che dicono sull’aborto, sulle perdite premature dei bambini mai nati. È inutile tutto ciò che dicono per aiutarti ad affrontare il dolore e lo shock del momento. Non serve a nulla sentirsi dire che non hai nessuna colpa se è accaduto il peggio, se la vita di tua figlia ti è scivolata tra le mani senza poter fare nulla per trattenerla, per salvarla dal buio della morte. Non serve a nulla il modo incoraggiante in cui alcuni ti dicono che “la prossima volta andrà meglio”.

Come potrebbe andare meglio?
Io non voglio che vada meglio, o peggio. Io non voglio che accada più. Io non voglio riprovarci mai più. Se è questo ciò che mi attende… allora, non voglio provarlo più. Non voglio più sentire un corpicino muoversi, e crescere dentro di me, solo per sentirlo morire di nuovo.
L’unica cosa che voglio davvero è lei, ma non posso averla. Non potrò averla mai più.

 

Il mattino dopo, di buon’ora, si svolge la riunione strategica di cui mi aveva accennato Gale ieri sera. Si tiene all’interno del Palazzo di Giustizia, stravolto totalmente rispetto a mesi fa, quando ci entrai con Peeta durante il Tour. Non ci sono più gli arredamenti lussuosi ed è stato trasformato in una sorta di spazio unico, con un solo tavolo al centro. Un tavolo enorme, molto simile a quello del Comando, e ingombro di carte e modellini.
La comandante del Distretto 2, Lyme, è un donnone alto e robusto, dai corti capelli biondi e dallo sguardo serio, quasi arcigno; è il tipo di persona che non vorresti mai contraddire, neanche per sbaglio. In qualche modo mi ricorda Cato… forse è stata la sua mentore. Dopotutto, la comandante Lyme è una vincitrice degli Hunger Games. Sono passati moltissimi anni dalla sua vittoria. Ed è una dei pochi vincitori che sono ancora vivi per poterli raccontare…
Alla riunione partecipano, oltre alla Coin e agli alti gradi del 13 via collegamento, anche molti gruppi che non sono ancora stati informati sul piano, come me; la Lyme inizia quindi col fare un rapido aggiornamento sull’Osso, sulle forze che lo difendono, e sui precedenti tentativi di conquistarlo, tutti andati falliti. Ci mostra un ologramma della montagna completo di sezioni e cunicoli, indicando i punti di accesso, i vari ingressi e la ferrovia che, attraverso un tunnel, conduce i convogli dalla montagna dritti alla piazza. E sono tutti punti presidiati dalla resistenza di Capitol City: fino ad ora è stato impossibile procedere, figurarsi conquistarli.
- Abbiamo perso molti uomini nel cercare di assaltare i punti di accesso e tante varianti del piano sono già state messe in atto – dice la comandante, spegnendo l’ologramma. – Non possiamo continuare ad agire in questa prospettiva. Stavolta agiremo non per stanare il nemico, ma per sfinirlo.
Inarco le sopracciglia: cosa intende con “sfinirlo”?
Cede la parola a Beetee e a Gale, coloro che, a quanto pare, hanno capito qual è la mossa giusta da giocare contro la montagna. Stando al loro piano, l’unico modo possibile per far cedere le forze nemiche all’interno dell’Osso non è prendendo di mira gli accessi, od intrufolarsi attraverso di essi… ma bloccandoli. E per farlo useranno proprio la montagna. La pietra viva.
- Su tutto il versante della montagna ci sono segni evidenti di frane e valanghe – dice Beetee. – Tutti noi sappiamo benissimo che è pressoché impossibile fermare una valanga in movimento, a meno che non sia essa stessa a fermare la sua corsa. Bombardando strategicamente i punti più alti dell’Osso, genereremo una serie di valanghe che andranno ad ostruire tutti i punti di accesso. In questo modo sarà comunque impossibile per noi entrarci, e per il nemico sarà impossibile uscirne. È ciò a cui puntiamo.
- Saranno tagliati fuori – aggiunge Gale. – Lo scopo è questo: intrappolare il nemico all’interno e isolarlo dai rifornimenti. Metterlo nell’impossibilità di far uscire gli hovercraft.
Gale si astiene dal dire quali sono le altre, ed inevitabili, conseguenze di un piano di tale portata: la mancanza di aria, i cunicoli che si riempiranno di terra e pietre, le persone che rimarranno intrappolate in quei cunicoli. Quei cunicoli potrebbero essere l’ultima cosa che vedranno prima di morire. Per molti, parecchi di loro, potrebbero diventare la loro ultima dimora. La loro tomba.
Non è poi così diverso dalla morte in miniera ed immagino che sia quello che Gale ha focalizzato nella mente quando ha messo sotto ipotesi questa trappola… perché è una trappola, effettivamente, solo pensata in grande. Una trappola costruita per seppellire, e per uccidere, migliaia di persone. Costruita proprio per questo scopo, non per altro. Le esplosioni che accadono nelle profondità delle miniere sono, nella stragrande maggioranza dei casi, dovute a fughe di gas; sono accidentali, non volute, e causano decine di morti e feriti ogni volta. Le esplosioni che vogliono scatenare stavolta sono volute, ma mireranno ad ottenere lo stesso, identico risultato.
Non dovrei sentirmi così scossa, eppure non posso evitare di andare col pensiero a ciò che attende i residenti dell’Osso; all’asfissia che potrebbe ucciderli, se non lo faranno le esplosioni o i detriti della montagna. Restare sepolti vivi, senza avere scampo… è un modo orrendo di andarsene all’altro mondo. Sei consapevole di ciò che accade intorno a te, ed allo stesso tempo sei impotente, incapace di fuggire per raggiungere la salvezza.
Penso che sia stato questo ciò che ha vissuto mio padre, quel lontano giorno di sei anni fa in cui perse la vita. Di lui non è rimasto nulla da seppellire, ma se non fosse stato così vicino alla fonte dell’esplosione non avrebbe comunque avuto scampo. Forse sarebbe morto nell’attesa dei soccorsi, nell’attesa della liberazione… nell’attesa, sepolto vivo.
Il padre di Gale è rimasto ucciso nello stesso incidente che si è portato via il mio. È ironico, quasi, pensare che un piano del genere sia uscito fuori proprio dalla mente del figlio di un minatore. No, non dal figlio di un minatore… ma da un minatore. Anche Gale lo è, e lo stavo quasi dimenticando. Sa cosa significa sprofondare nel sottosuolo, sa cosa si prova a restare per ore lì sotto a lavorare su un filone di carbone, eppure… eppure, è pronto a far subire ad altri la stessa sorte.
Ho perso gli interventi degli altri, ma il consenso della Coin di procedere lo sento forte e chiaro. Suona come una sentenza di esecuzione alle mie orecchie.
- Come puoi condannare a morte tutte quelle persone? – chiedo a Gale, sconcertata, non appena ho l’opportunità di rivolgergli la parola. – Tutte quelle persone, Gale… non sappiamo nemmeno se sono tutte lì per loro volontà, o se sono state costrette. Devono esserci anche le nostre spie, nell’Osso!
- Se io fossi una di quelle spie, non esiterei un istante a chiedere di mandare giù le valanghe – dice, accorato.
- Quindi è questo che fai quando parli con Beetee? Prepari trappole mortali per le persone? – lo attacco. So che non porterà a niente, ma non posso farne a meno. Le esplosioni sono previste per stasera e non saranno i miei litigi con Gale a cambiare le cose. O ad interromperle. – Decidi qual è il modo più orribile per ucciderle?
- Si può sapere cosa vuoi, Katniss? – urla, afferrandomi per le spalle. – Si meritano di morire! Non sono così diversi da quelli che hanno bombardato il 12! Né da chi ti ha spedito per due volte in un’arena! – smette di scuotermi, e mi fissa dritto negli occhi. - Si può sapere da che parte stai?

 

Da quale parte sto?
Di sicuro non per quella dei nemici; non sono così sciocca. Ma non sto nemmeno totalmente dalla parte dei Ribelli. I miei stessi pensieri sono in disaccordo tra di loro, e vado contro tutto ciò che ho fatto fino ad ora… ma è così. Alla fine dei conti, è così. Parecchie cose non mi sono andate a genio fino a questo punto, ma ho stretto i denti, ho sopportato, ho fatto ciò che mi è stato detto. Non l’ho fatto perché volevo, ma perché dovevo. Dovevo farlo per Peeta, prigioniero a Capitol City; dovevo farlo per la mia famiglia, perché volevo che fosse protetta ed al sicuro. Essere la Ghiandaia Imitatrice mi ha permesso di proteggere la mamma e Prim, ed ha permesso alle squadre del 13 di salvare Peeta non appena se n’è presentata l’occasione. Ma non ho mai voluto essere davvero la Ghiandaia Imitatrice. Il volto simbolo della ribellione… non ho mai voluto nulla di tutto questo. Non ho desiderato la morte di migliaia di persone, i bombardamenti, le sofferenze che ho visto negli ospedali… e tutte quelle che seguiranno. Non voglio neanche la morte dei residenti dell’Osso, che accadrà a breve.
Gale ha ragione: da che parte sto?

Non lo so.
Se esistesse una parte neutrale, quella sarebbe la mia scelta a scatola chiusa: un punto dove fermarmi, riprendere fiato, ed osservare le due parti rivali che si fronteggiano e si scannano standomene in disparte. Non dovrei prendere le parti di nessuna delle due, non dovrei intervenire. Osserverei e basta.
Ma non esiste. Non esiste

 

Seduta sui gradini del Palazzo di Giustizia, ascolto ciò che accade piuttosto che vedere, o prendere parte attiva.
L’Osso è caduto. È stato bombardato, le valanghe si sono scatenate e hanno sbarrato tutti gli accessi alla montagna. Migliaia di persone potrebbero essere già morte. Boggs mi ha rassicurata, però, accennando alla ferrovia: quella non è stata toccata in nessun modo. L’hanno lasciata intatta.
- Se ci sono dei sopravvissuti, potranno usare i treni per scappare e raggiungere la piazza.
- Ma sulla piazza ci siamo noi – ho detto, rimarcando l’ovvio. – Gli sparerete contro non appena scenderanno?
- Solo se necessario. Se si arrendono li lasceremo in vita. Prigionieri, ma vivi.

Prigionieri, ma vivi: un compromesso. Mi aggrappo con tutta me stessa a questo compromesso, così come mi aggrappo ai bordi della coperta che Boggs mi ha poggiato sulle spalle quando ha visto che avevo freddo. Ma più passa il tempo, e più questa prospettiva sparisce. Scivola via. Scivola via come le migliaia di vite rimaste intrappolate all’interno della montagna.
Sono passate ore dalle esplosioni e nessun treno è ancora arrivato sulla piazza. Nessun sopravvissuto è ancora uscito dalla montagna. L’attesa è orribile, perché più diventa lunga e più diventi consapevole delle speranze che si affievoliscono, delle probabilità che si fanno più remote. È proprio come la notte che trascorsi, insieme alla mamma e a Prim, davanti all’entrata delle miniere. Una lunga ed incessante attesa, trascorsa nella morsa del freddo, aspettando il ritorno di papà. Aspettando il momento in cui sarebbe risalito in superficie vivo; anche ferito ed ammaccato mi sarebbe andato bene, purché fosse stato vivo. Vivo, non morto. Ed invece non è stato così.
Ho scoperto che non succede mai ciò che desidero.
Sulla piazza ci siamo solo noi, i Ribelli. L’esercito, diviso in squadre, presiede la stazione nell’attesa dei treni, se mai giungeranno, e respinge l’attacco dei Pacificatori che cercano, invano, di raggiungere i loro compagni nel tentativo di salvarli. Non c’è nient’altro, a parte questo, e forse per stanotte non ci sarà nient’altro.
Cercano comunque di smuovere le acque: la mia troupe è qui nel 2 insieme a me e mi raggiunge su ordine della Coin per preparare me stessa, e loro stessi, per riprendermi davanti al Palazzo di Giustizia. Ho un discorso già pronto da recitare, ma non saranno Cressida o gli altri a fornirmelo; l’unica cosa che fa Cressida, prima di allontanarsi rapidamente con Messalla, è consegnarmi un auricolare nero. Lo infilo, e dall’altra parte trovo la voce di Haymitch.
- Ti guiderò io – mi dice. – Tu devi solo ripetere le mie parole e sembrare convincente.
Storco la bocca. Quando mai sono sembrata convincente con un copione già pronto? Mai, per l’appunto. Forse non ci crede più nemmeno Haymitch.
- Peeta è qui con me – aggiunge. – Ti osserverà per tutto il tempo.
- Potete vedermi?
- Sarai in diretta audio e video per chiunque in tutta Panem, dolcezza.
Ecco, questo forse non doveva dirmelo.
Ho già addosso la mia uniforme da Ghiandaia Imitatrice ed ho con me le mie armi, quindi Cressida e gli altri non devono attendere che mi cambi per le telecamere: sono più che pronta per procedere. È stranissimo parlare ad una folla invisibile, più strano di quella volta in cui tentarono di registrare un Pass-Pro di me sul campo di battaglia, ma senza il campo di battaglia. Deglutisco, cerco di concentrarmi, e spero che finisca presto. Il pensiero di Peeta che mi osserva da lontano, in qualche modo, mi aiuta a schiarirmi le idee. Osservo Castor e Pollux, bardati nelle loro attrezzature simili ad insetti. Osservo Messalla, col suo solito taccuino tra le mani; osservo Gale e Boggs, che imbracciano i fucili e si guardano attorno, e osservo Cressida che mima con le dita i secondi che mancano alla diretta. Tre dita. Due dita. Un dito… e sono in onda.
- Popolo del Distretto 2, sono Katniss Everdeen e vi parlo dai gradini del vostro Palazzo di Giustizia, dove…
Haymitch mi ha appena suggerito le battute iniziali quando i primi due treni arrivano, sferragliando, sulla piazza. Mi blocco, osservando la scena, e subito le luci che mi illuminavano si spengono. Un ordine dall’alto, sicuramente: devo essere protetta, sempre e comunque. Il buio della notte, sceso improvvisamente ad avvolgermi, li aiuta in questo.
Le porte dei treni si spalancano e una moltitudine di persone, sporche e ferite, si riversa all’interno della stazione. Alcune si gettano a terra, spaventate, altre imbracciano i fucili e tentano di resistere, nonostante tutto. Cercando di farsi largo finché possono, finché non sono ostacolati dall’esercito dei Ribelli. Ci sono scontri, ci sono colpi di arma da fuoco che vengono sparati. Ci sono altre vittime.
- Fermatevi! – urlo, uscendo dal mio nascondiglio buio e scendendo i gradini del Palazzo di Giustizia. – Fermatevi! – ripeto, mentre cerco di raggiungere correndo i feriti che barcollano e cadono a causa delle ustioni riportate, o dai colpi di fucile. Ignoro le urla di Haymitch che provengono dall’auricolare. – Fermatevi! – dico ancora, ignorando anche le urla di chi mi segue – Boggs? Gale? – e cerco di raggiungere un uomo che si preme sulla faccia uno straccio sporco ed insanguinato.
Mi fermo prima che possa farlo veramente, però.
Perché l’uomo verso cui sto correndo mi spara.

 

So di non essere morta. Lo so per certo, perché stavolta non c’è l’inferno ad attendermi. Non vengo catapultata in quella sorta di universo buio ed immateriale che mi aveva davvero fatto credere di averci lasciato le penne, frutto sicuramente dei medicinali con cui mi avevano imbottita.
Stavolta, so di essere viva e vegeta perché percepisco i rumori che mi circondano, i “bip” dei macchinari a cui sono senza dubbio collegata, e percepisco qualcosa di morbido e caldo su cui sono distesa. Un materasso, un letto. Sotto le dita, percepisco la ruvidezza di una coperta.
E le dita, calde, di qualcuno che mi tiene la mano.
Non bisogna essere dei geni per intuire di chi si tratti.
Resto con gli occhi chiusi, cercando di non far capire a Peeta che mi sono svegliata. Fingo di dormire e provo a rimandare il momento in cui sarò costretta ad aprire le palpebre, e ad affrontare il suo sguardo severo. So che sarà così. So che ha già una ramanzina pronta per me. Come potrebbe essere altrimenti?
Mi sono esposta al fuoco nemico, sono praticamente corsa incontro ai feriti armati appena arrivati dall’Osso ed ho ignorato chi ha tentato di fermarmi, chi ha tentato di salvaguardare la mia persona. Ho agito d’impulso, spronata solo da ciò che mi ordinava la mia testa, e cosa ho ottenuto in cambio? Una pallottola in pieno petto. Forse di più… non lo so. Devo aver perso subito conoscenza, perché non ricordo nient’altro dopo il primo sparo.
Mi stavano riprendendo? Non so nemmeno questo… ma le urla di Haymitch nell’auricolare le ricordo benissimo, prima di crollare a terra, quindi presumo che mi stesse osservando da uno schermo.
Me lo immagino, Haymitch, mentre inveisce contro di me e non può sfogare la sua rabbia con una bottiglia di vino.
- So che sei sveglia – la voce di Peeta mi distoglie dall’immagine del mio mentore incazzato nero.
Apro l’occhio sinistro di malavoglia, arrendendomi. Peeta è seduto sul materasso e mi osserva, con un sopracciglio inarcato. Sono sconcertata dal modo in cui il suo aspetto sia cambiato così tanto in poco più di una settimana: non ha più i punti sul viso ed ora la sua cicatrice non sembra più così brutta, sebbene sia ancora rossa e gonfia. Non ci sono più i lividi, gli zigomi sembrano meno marcati. E non ha più la barba.
- Perché hai tagliato la barba? – gli chiedo. La mia voce assomiglia a quella di una fumatrice accanita.
- Per quale motivo hai voluto quasi ammazzarti? – mi chiede lui.
- Non si risponde ad una domanda con un’altra domanda – ribatto, punta sul vivo. Cerco di sollevarmi, ma non ci riesco. Una fitta lancinante mi attraversa le costole e ricado sui cuscini con una smorfia ed un gemito di dolore.
- Non sforzarti. Vuoi un po' d’acqua?
Scuoto la testa, chiudendo gli occhi. No, non ho sete. – Hai visto tutto?
- Tutti hanno visto tutto, Katniss. Credevo di averti persa – ammette, carezzando col pollice il dorso della mia mano. – Ma avevo sottovalutato le abilità di Cinna. Non è solo un bel costume, il tuo.
- Lo so – mormoro, pensando alla corazza antiproiettile di cui è fornita la mia uniforme. Cinna aveva pensato proprio a tutto… aveva. Fa male parlare di lui al passato. È un'altra persona cara a cui ho dovuto dire addio troppo presto. Cerco di non pensarci. – Cosa mi sono fatta?
- Trauma toracico – mi informa Peeta. – Eri così invidiosa delle mie costole distrutte da volerle anche tu?
- Sta zitto.
- Sei una copiona.
- Smettila! – esclamo. Alzare la voce mi provoca una nuova fitta al petto. Ci poso una mano sopra, sentendo lo spesso strato di bende che mi fascia il costato da sotto il leggero tessuto della vestaglia da ospedale. Butto via l’aria dai polmoni con un grugnito.
Peeta biascica qualcosa sul dorso della mia mano, qualcosa di molto simile a “stronza incosciente”, prima di poggiarci le labbra sopra. - Ti riprenderai presto, tesoro. Giusto in tempo per il matrimonio.
- Che matrimonio?
- Annie e Finnick – il suo viso si apre in un largo sorriso. – Mi hanno chiesto di preparare la loro torta di nozze.

 

 

 

______________________

Che capitolo movimentato!
Mi sono divertita un sacco a scriverlo, lo ammetto.
La storyline che si va dipanando adesso è interessante: abbiamo Peeta vivo e quasi totalmente guarito, Katniss che invece cerca di fare del bene ma risolve facendosi quasi ammazzare – il solito, insomma… e l’elefante nella stanza.
Ci avete fatto caso che dal loro ricongiungimento Katniss e Peeta non hanno più toccato l’argomento bimba? È stata una cosa voluta. C’è una sorta di ostacolo fatto di dolore e sensi di colpa che è stata Katniss stessa a creare e che si tiene dentro, invece di parlare come fanno le persone normali… ma sappiamo che Katniss non è una persona normale.
È una cogliona tardona.
Spero di essere riuscita a trasmettere questa sorta di suo blocco nella scrittura. Non è facile trattare questo argomento, ma nel mio piccolo cerco di fare del mio meglio :) e ovviamente non è finita qui! Ci torneremo.
Ci leggiamo alla prossima! E grazie ancora per essere qui insieme a me, dopo ben 353 pagine di sproloqui – anzi, 366.
Andiamo sempre peggio ^^’

D.

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Capitolo 35
*** 35. ***


In The Still Of The Night - 35

In the still of the night

 

 

 

35.

 

Yes it’s a hard life
In a world that’s filled with sorrow
There are people searching for love in every way
It’s a long hard fight
But I’ll always live for tomorrow
I’ll look back at myself and say I did it for love…

- It’s a Hard Life, Queen

 

I preparativi per il matrimonio impazzano, nel Distretto 13. O almeno è quel che mi racconta Peeta quando viene a trovarmi in ospedale. I ruoli si sono invertiti: adesso sono io quella ricoverata. Lui ha già preso possesso della sua unità abitativa, anche se deve comunque recarsi qui per i controlli… e per la terapia. Dovrei seguirla anche io, in teoria; ma in pratica non ho seguito molte cose, infischiandomene delle conseguenze, da quando sono qui. Non sono stata molto ligia alle regole.
C’è un'altra persona, qui in ospedale, a cui è stato prescritto il supporto psicologico dopo la prigionia a Capitol City: quella persona, ovviamente, è Johanna Mason.
Viene a trovarmi il pomeriggio successivo al mio risveglio; Peeta è andato via da poco, così la mia visitatrice mi trova da sola nella stanzetta in cui mi hanno sistemata. Peeta ha iniziato a dare una mano nelle cucine, aiutando come può: fa il pane, tra le altre cose, e come potrebbe essere altrimenti? Le vecchie abitudini non muoiono mai. Sta anche facendo mente locale su ciò che può servirgli per realizzare la torta nuziale di Annie e Finnick. Ha preso molto sul serio questo compito… come prende sul serio tutto ciò che fa, del resto.
Compreso cercare di farsi quasi ammazzare per poter salvare la mia vita.
Ma questo è un altro discorso.
Johanna entra di soppiatto, sulle punte dei piedi scalzi, silenziosa e letale come ho imparato a conoscerla durante l’addestramento e durante gli Hunger Games a cui abbiamo partecipato insieme. Sonnecchio, dato che non ho molto altro da fare, a parte stare semisdraiata nel mio letto ad ammazzare il tempo, quindi non mi accorgo subito del suo arrivo; lo faccio solo quando si siede di slancio sul materasso, ed a maggior ragione perché mi fa sobbalzare per lo spavento, provocandomi fitte dolorose alle costole ed un principio di tachicardia.
- Ciao, idiota – mi saluta, sorridendo beffarda. – Carino da parte tua venire a farmi compagnia.
- Johanna – ansimo. La osservo mentre cerco di regolarizzare il respiro, o meglio, la studio. Studio la giovane donna che mi sta seduta davanti e, rispetto all’immagine che ho della notte del suo salvataggio, noto che sta piuttosto bene. Non ha più il volto segnato e scavato, è meno pallida, e una peluria scura le ricopre il cranio. Gli occhi sono sempre gli stessi: attenti, e carichi di disprezzo e di ironia. Proprio come li ricordavo.
- Che c’è, ti piaccio per caso? – domanda, allargando il suo ghigno.
- Non mi piacerai mai – le dico, puntando le mani sul materasso. Mi sollevo di poco, quello che le mie ferite mi consentono prima dell’arrivo del dolore. – Ti trovo bene – aggiungo.
Johanna sbuffa. – Se lo sento ripetere un’altra volta… devo incontrare uno strizzacervelli almeno una volta al giorno, e solo per sentirmi dire che qui sono al sicuro. Come se ripeterlo bastasse a sistemare le cose - mi afferra un braccio con la sua solita delicatezza e mi sfila il tubicino della morfamina per inserirlo nell’ago che ha ancora nel suo, di braccio. – Non ti dispiace, vero? Mi stanno diminuendo le dosi da qualche giorno. Hanno paura che possa diventarne dipendente, come gli strambi del 6. Te li ricordi?
Come dimenticarli? Una di loro, la donna, ha salvato la vita a Peeta, sacrificandosi durante lo scontro con le scimmie ibride nell’arena. Ed ancora non conosco il suo nome. Ma a Johanna dico solo: - Serviti pure.
- Peccato che il tuo fidanzatino sia stato dimesso prima del tuo arrivo; avrei potuto farmi dare un prestito anche da lui – ammette. Non appena la morfamina le entra in circolo sospira di sollievo… o di piacere. Forse un po' dipendente lo è diventata. Ma sarebbe davvero un problema? Dopo tutto ciò che ha passato è un miracolo se ragiona ancora con lucidità. Come Peeta: è un miracolo se le ombre del terrore non lo hanno inglobato nelle loro spire.
- È stato qui fino a poco fa – le dico.
- Oh, lo so. È per questo che ho aspettato che se ne andasse prima di venire a scroccarti la morfamina: ieri mi ha beccata a farlo e mi ha cacciata via.
Ridacchio. – Hai paura di Peeta?
- Lo rispetto, il che è diverso dall’averne paura – Johanna osserva il sacchetto della flebo. – Non può che essere così. Ci siamo dati forza a vicenda mentre eravamo laggiù. Io conosco a memoria le sue urla, e lui conosce a memoria le mie – mi guarda. – Cosa ti ha raccontato?
Deglutisco. – Lui? Nulla. Ho dovuto origliare per sapere – ammetto. - Lui personalmente non vuole che sappia niente.
- Tipico. Non ho mai conosciuto una persona più cocciuta di Peeta Mellark.
- Già. È una sua brutta abitudine.
- E tutto questo perché è innamorato di un idiota! Cosa ci troverà mai in te…
Dovrei sentirmi in qualche modo offesa da questa sua sorta di insulto, ma non lo sono. Per niente. Gli insulti di Johanna non mi danno più così fastidio.
Segue un momento di silenzio, in cui restiamo ad osservarci a vicenda, soppesando lo sguardo l’una dell’altra. Non è quel tipo di silenzio pesante, o imbarazzante: è come se si fosse instaurata della complicità tra di noi. Strano a dirsi, per due persone come noi che non sopportano la compagnia reciproca. I ricordi dell’ultima spedizione nell’arena sono ancora molto vividi nella mia mente, compresi gli schiaffi e gli insulti che mi ha rivolto contro. Ma sopra a tutto il resto, ci sono due momenti che non potrò mai cancellare: quando mi ha tirata fuori dall’acqua dopo il volo dalla cornucopia, e quando mi ha messa ko per togliermi il localizzatore dal braccio. Lo ha fatto per salvarmi la vita in entrambe le occasioni. Le sono in debito. E non ho ancora fatto nulla per ricambiare questo debito.
- Mi dispiace per ciò che ti hanno fatto, Johanna – mormoro. Sono sicura che odierà ogni parola che è uscita dalla mia bocca; saranno simili a quelle dello strizzacervelli che le fa visita.
- Non è a te che deve dispiacere, idiota. È agli imbecilli che guidano questo posto che dovrebbe importare qualcosa – esclama, irosa, ma poi si calma. – Al Mellark non l’ho detto, ma a me dispiace per ciò che ti ho fatto quella notte.
Inarco le sopracciglia: Johanna mi sta chiedendo scusa? Deve essere davvero arrivata la fine del mondo. – Che dici? Sono in debito con te, Johanna. Mi stavi salvando la vita.
Lei mi fissa come se fossi un’ottusa. – Sì, ma non è questo il punto. Non volevo mica ammazzarti la mocciosa – brutale, ma onesta. Ancora una volta, è uno schiaffo in pieno viso. - È vero che li odio, i mocciosi, ma non li ucciderei mai. Penso solo che, forse…
- Non sei stata tu – mi affretto a dire per farla tacere. L’ultima cosa che vorrei fare, ora, è crollare davanti a lei. Un conto è crollare davanti a Gale, che ne sa già abbastanza dei miei momenti storti, ma Johanna è un tutt’altro paio di maniche. – Hai fatto quello che dovevi. Non era tuo compito… pensare a lei.
- Già, quello era il tuo compito – dice. Non c’è nessun tono di accusa, stavolta, nella sua voce. Sembra quasi dolce. Una Johanna dolce, in qualche modo, è più preoccupante di una Johanna arrabbiata. – Ma non è nemmeno colpa tua se l’hai persa.
- E di chi altri? – chiedo con voce rotta.
- Del sistema. Tu non c’entri nulla in tutto questo – mi stringe una mano.
Farsi confortare da Johanna Mason è l’avvenimento meno probabile che mi sarebbe potuto capitare nella vita… eppure sta accadendo proprio adesso. Molto ironico, da un lato. Non saremo mai davvero amiche, ma forse riusciremo a tollerarci a vicenda.
Mi schiarisco la voce. - Ci hanno ridotto proprio male, eh? – scherzo.
- Parla per te. Io sto benissimo! – ribatte, staccando la flebo della morfamina per rimetterla nel mio braccio. – Tornerò domani per un altro giro di sballo.
Oh, sì, sta decisamente bene.

 

Nel giro di tre giorni sono di nuovo in piedi, con il petto ed il costato fasciato ed imbottita di antidolorifici, ma in piedi. Il trauma che ho riportato non è grave come quello che Peeta si è trascinato dietro da Capitol City, il che rende i medici parecchio ottimisti sulle mie velocità di guarigione e di ripresa. Mi fanno fare delle passeggiate all’aria aperta a cui prende parte anche Peeta; i dottori concordano che camminare fuori, nello spiazzo in cui giornalmente si tengono gli addestramenti delle giovani reclute, non possa fare altro che bene anche a lui. Sembriamo una coppietta felice, mentre camminiamo mano nella mano… una coppietta felice ed anziana. No, solo io sembro una signora anziana. Peeta cammina abbastanza diritto nonostante anche lui abbia ancora delle bende sulle costole, ma adatta il suo passo al mio, mentre cammino un po' curva e con il braccio libero stretto contro il petto.
Non sono stata dimessa del tutto, perciò l’ospedale continua ad essere il luogo in cui trascorrere le ore di riposo notturne, sebbene possa uscire durante il giorno. Mi danno ancora la morfamina e, di conseguenza, Johanna torna di tanto in tanto a farsi viva per rubare dalle mie scorte. La lascio fare senza fiatare, in parte perché ho capito da tempo che odia essere contrariata, ed in parte perché capisco che sta avendo dei momenti poco buoni: temo che sotto la sua scorza da dura, quella che è abituata a mostrare a chiunque conosca il suo nome, si nasconda un animo fragile. E se lo strato di annebbiamento che provoca la morfamina la aiuta ad affrontare i momenti bui, ben venga. Chi sono io per opporle resistenza?
L’atmosfera che si respira al 13 è più festosa che mai. Qui devono aver avuto davvero pochissime occasioni per festeggiare, dato il modo in cui gli abitanti di grigio vestiti reagiscono alle varie proposte o alle indicazioni che vengono loro assegnate. Anche nel Distretto 12 non festeggiavamo molto, ma nelle ricorrenze speciali come i matrimoni o la festa del raccolto, gli abitanti riuscivano a dare il meglio di sé, riuscendo a dare persino una lezione contro quell’ombra funerea e negativa che ci avvolgeva di continuo.
Mi lascio coinvolgere più del necessario nei preparativi delle nozze, più di quanto farei se si trattassero delle mie, di nozze: è bizzarro, se pensiamo che quando si stavano tenendo, tentavo di scaricare il peso delle incombenze su chiunque altro, eccetto che su di me. Non essere il centro dell’attenzione di chiunque è sicuramente di aiuto: è per questo che, nei giorni immediatamente precedenti il matrimonio, osservo con piacere le decorazioni con cui intendono abbellire il refettorio prendere forma, ed ascolto i battibecchi sempre più accesi di Plutarch e della Coin, che si scornano sulle modalità in cui deve svolgersi la cerimonia ed il successivo ricevimento.
Plutarch ha, per forza di cose, una mentalità da Stratega e secondo il suo ragionamento queste nozze non devono passare inosservate: devono essere memorabili, uno spettacolo indimenticabile. Verranno registrate per essere poi trasmesse sotto forma di Pass-Pro in tutta Panem, come dimostrazione dell’amore e della gioia che sopravvivono al di sopra della guerra e della sofferenza. La Coin, la cui mente lavora con la praticità e l’esperienza acquisita in anni di privazioni e minimalismo, ritiene invece che la firma dei documenti e l’acquisizione di un’unità abitativa per gli sposi novelli sia più che sufficiente.
- Allora a cosa serve il Pass-Pro se nessuno si diverte? – inveisce Plutarch.
L’esagerazione e la sete di mondanità tipica di Capitol City hanno la meglio sulla semplicità e la praticità del 13; per questo, due giorni prima delle nozze, propongo a Plutarch di accompagnare Annie a casa mia, al Distretto 12, dove al piano terra sono conservati in un enorme armadio gli abiti che Cinna fece per me, quelli che ho indossato durante il Tour della Vittoria; io e Annie sembriamo avere la stessa corporatura, quindi penso che quegli abiti le possano stare bene quanto a me. Lui accetta senza neanche pensarci su due volte: sa meglio di me che gli abiti di Cinna possono garantirgli l’effetto che desidera così tanto ottenere da questo matrimonio, e dai Pass-Pro.
Effie accompagna me, Annie e Finnick in questo viaggio alla ricerca dell’abito perfetto. Non capisco il motivo per cui Finnick si è unito a noi fino a che non ci arrivo da sola: a casa di Peeta c’è un armadio identico al mio, in cui ha riposto tutti i completi che Portia ha realizzato per lui e su cui ha lavorato insieme a Cinna. Quei completi sono stati pensati e realizzati allo scopo di accompagnarsi ai miei abiti da sera, in modo che sembrassimo sempre abbinati con lo stile dei colori o dei tessuti l’uno dell’altra. Avevo completamente rimosso questo dettaglio, ma Effie doveva averlo ben chiaro nel suo cervello ed ha pensato di chiamare anche Finnick per fare le cose come si deve. Lo sposo e la sposa avranno dei vestiti complementari: Plutarch ne sarà felicissimo, penso mentre atterriamo sullo spiazzo davanti al Villaggio dei Vincitori.
Anche Peeta avrebbe dovuto essere dei nostri, ma era letteralmente con le mani in pasta nelle cucine del Distretto 13, preso dal suo lavoro e dalle sue incombenze per le nozze. Ha detto che ce la saremo cavata anche senza di lui, anche perché io conosco casa sua a menadito, ed Effie non ha di certo bisogno di una guida nel campo della moda: semmai, è il contrario. Dietro alle sue parole, però, sembrava ci fosse nascosto qualcos’altro: la paura di vedere con i propri occhi come hanno realmente ridotto il Distretto 12. Nei Pass-Pro si è visto qualcosa, ma non è nulla in confronto a ciò che ho ora davanti. Rifugiarsi nel lavoro doveva essere un modo per non pensare a questo luogo… forse, Peeta non è ancora pronto per affrontare davvero il lutto delle sue perdite. Per vedere ciò che è diventata la tomba della sua famiglia.
Quando apro l’armadio, insieme ad Annie, la prima cosa che sento è la nostalgia: non perché questi vestiti mi riportino dei bei ricordi – tutt’altro! -, ma perché ogni centimetro di stoffa su cui Cinna ha impresso la sua magia me lo ricordano. Ho nostalgia di Cinna, del suo carattere pacato e della sua gentilezza. Mi manca Cinna, la mia persona capitolina preferita. L’unica persona, la prima volta che arrivai come tributo a Capitol City, che mi trattò come un essere umano e non come una merce da esibire per il divertimento del pubblico. Un groppo in gola grosso quanto questo armadio mi impedisce di parlare, mentre faccio scorrere le mani sulle centinaia di colori che ho davanti agli occhi, e scopro di essere contenta della mia scelta. Sono felice di dare ad Annie l’abito perfetto per le sue nozze, e sono ancora più felice che a creare l’abito sia stato proprio Cinna. Indossarlo sarà la maniera perfetta per ricordarlo.
Effie, che sta aiutando Finnick a casa di Peeta, continua a fare avanti e indietro per vedere se siamo già giunte ad una conclusione e ogni tanto ci dà dei consigli, mostrando la sua competenza in materia. Sospira mentre osserva l’abito blu notte che Annie ha tra le mani.
- È passato così tanto da quando ho visto qualcosa di carino! – dice, scuotendo piano la testa.
La scelta di Annie ricade su un abito argentato lungo fino alle caviglie, col corpetto ricamato e adornato da foglie verdi, motivi che sono presenti anche lungo il bordo della gonna. È l’abito che ho indossato durante la tappa al Distretto 7. Il distretto di Johanna.
Che ironia.

 

Il gran giorno arriva, carico di attesa e aspettativa. Quando io e Peeta entriamo nel vasto refettorio scopriamo che è stato stravolto completamente, e solo nel giro di una notte: fino a ieri sera era ancora spoglio e grigio, e adesso dalle alte pareti pendono ghirlande e luci soffuse, e tutto intorno sono state adornate dal fogliame autunnale, unito in modo così magistrale da assomigliare ad un sottobosco nel bel mezzo dell’autunno. Facciamo parte del piccolo gruppo di amici che si riunisce nei primi posti, ma nella sala entrano anche i rifugiati del 12, quei pochi che sono riusciti a scappare dagli altri distretti, e trecento fortunati abitanti del 13 che la Coin ha acconsentito a far partecipare alla cerimonia. Effie spicca sopra a tutti noi, grazie all’abito rosa shocking e alla parrucca dorata che indossa e che teneva sicuramente nascosti da qualche parte, qui al 13. Ma stiamo parlando di Effie, in fondo: a che serve sorprendersi se c’è di mezzo lei?
Gli sposi sono bellissimi, fasciati nei loro abiti verde e argento. La cerimonia è per la maggior parte simile alla nostra, almeno per quel che riguarda la parte legale; dopo, assistiamo ad una serie di riti tipici del Distretto 4, quello di appartenenza degli sposi, che nessuno di noi altri ha mai avuto l’opportunità di vedere prima d’ora. Annie e Finnick si stringono le mani a vicenda mentre recitano le promesse nuziali, e si osservano negli occhi senza battere ciglio quando, attorno a loro, i bambini cantano la tipica canzone nuziale del loro distretto e una rete d’erba intrecciata cala sulle loro teste. Le loro labbra vengono bagnate con acqua di mare, e gli sposi si scambiano il primo bacio da marito e moglie.
Plutarch, poco prima dell’inizio della cerimonia, ha preteso che tutti i presenti nella sala sorridessero per via delle riprese: tutti dobbiamo avere l’aria di persone felici. Ma come si fa a non essere felici per due ragazzi che si amano, e che hanno rischiato di non poter vivere per vedere realizzato il loro sogno d’amore? Alcune volte le pretese di Plutarch sono davvero stupide.
Accanto a me, Peeta mi stringe la mano e se la porta alle labbra per depositarci un bacio leggero. Gli sorrido, accoccolandomi contro il suo fianco mentre intorno a noi risuonano gli applausi degli invitati. Si congratulano con gli sposi e per gli sposi, i cui occhi osservano solo il viso della persona che sta loro di fronte: il viso di Finnick, il viso di Annie, e nient’altro. All’infuori di loro stessi non c’è nient’altro di importante.
Il ricevimento che segue è tutto all’insegna della musica prodotta dall’unico violinista del 12 che è scampato alle bombe. È una musica allegra e trascinante e sin dalle prime note lo spazio al centro del refettorio, che è stato lasciato libero, si riempie di persone danzanti. Sae la Zozza, la persona più seria che conosco, quando sente la musica si trasforma completamente, quindi non è una sorpresa quando afferra Gale per un braccio e lo trascina in mezzo alla pista per ballare.
Io e Peeta ce ne stiamo in disparte, osservando i gruppetti che danzano e ruotano attorno agli sposi felici, e battiamo le mani a tempo di musica. Ce ne stiamo per i fatti nostri, per una volta, ma Johanna ci raggiunge di soppiatto e ci abbraccia da dietro, rovinando l’atmosfera e suggerendoci di raggiungere gli altri sulla pista da ballo.
- Vuoi perderti l’occasione di far vedere a Snow che balli? – mi sbeffeggia.
- Cavolo, ha ragione! – ribatte Peeta. Mi prende una mano e mi tira verso di sé. – Dai, andiamo a divertirci!
- Ma- tento di protestare, ma Johanna molla uno spintone sulla mia schiena e mi manda dritta tra le braccia di Peeta, che mi prende al volo ridendo.
Non ho granché voglia di ballare, e le costole mi danno ancora fastidio se mi muovo troppo in fretta; ma non riesco a dire di no a Peeta, ai suoi occhi imploranti e al sorriso dolce che mi rivolge, quindi rinuncio quasi subito a tornare nel nostro angolino sicuro. Acquisto sicurezza dopo i primi passi, e mi scopro desiderosa di continuare ancora. Questi non sono i balli che vanno tanto di moda a Capitol City e che Effie tentò disastrosamente di insegnarci, un giorno di tanti mesi fa: questi sono i balli del Giacimento, i balli del Distretto 12, sono i balli con i quali sono cresciuta e che puoi dimenticare solo quando muori. Se i balli di Capitol City ci riuscivano male, questi ci vengono naturali come respirare. Ho il petto in fiamme ma resisto fino alla fine della danza, fino a che un applauso più fragoroso degli altri va a sostituire la musica.
Rido, mettendo una mano sul fianco per riprendere fiato, ma Peeta scaccia via le mie intenzioni e mi solleva da terra, sostenendomi con forza. Posa le labbra sulle mie e mi trascina in un bacio infuocato come la danza che si è appena conclusa, causando un’ovazione di grida e applausi attorno a noi. Mi stacco da lui, imbarazzata, e nascondo il viso nel suo collo. Le telecamere di Plutarch ci avranno sicuramente ripresi… beh, che diavolo!
- Stiamo distogliendo l’attenzione dagli sposi – soffio contro la sua pelle.
- Andiamocene, allora – propone, rimettendomi giù.
- Andarcene? Ma… la torta…
- Vuoi aspettare? – chiede.
Voglio aspettare? No, a dire la verità. Conosco a memoria il sapore delle sue torte, ed anche se sono curiosa di vedere il capolavoro di arte pasticcera che ha tirato fuori dopo interi giorni di lavoro, non voglio aspettare che arrivi.
Voglio solo Peeta.
- Andiamo – dico, prendendogli la mano.

 

Dove andiamo? Non molto lontano, ad essere sinceri. Percorriamo forse cento metri lungo il corridoio fuori dal refettorio, prima di scivolare all’interno di una stanza quasi buia e ingombra dei tavoli e delle sedie che sono stati spostati per far posto agli invitati. Non credo di essere mai stata qui dentro prima d’ora, ma poco importa. Poco importa, se l’unica cosa che conta è la persona che hai al tuo fianco.
Peeta mi fa sedere su uno di questi tavoli e si intrufola tra le mie gambe, riprendendo il bacio da dove io lo avevo interrotto pochi minuti prima. Circondo le sue cosce con le mie gambe e lo porto più vicino, desiderosa del contatto tra i nostri corpi. Quanto tempo è passato dall’ultima volta? Troppo. Ne è passata di acqua sotto i ponti, acqua sporca ed infida che ha minacciato entrambe le nostre vite. E sentirlo di nuovo, sentirci di nuovo, è un altro piccolo ritorno alla normalità. È una boccata d’aria fresca.
Aria che devo prendere, se non voglio andare in apnea. Mi costringo a mettere fine al nostro bacio, anche perché ho le costole in fiamme. Mi ricordano che non posso ancora fare del tutto ciò che voglio. Mi ricordano che deve ancora passare un sacco di acqua sotto i ponti, prima di guarire.
- Pensi che verranno a cercarci? – mormora Peeta, lasciando una quantità esagerata di baci sul mio viso.
Sbuffo, a metà tra il riso e il respiro. – Spero proprio di no! Annie e Finnick bastano e avanzano per attirare la loro attenzione…
- Mh – mugugna, scendendo sul mio collo. Così non mi aiuta, però. – Bel matrimonio, il loro. Ma…
- Ma? – ansimo, chiudendo gli occhi.
- Il nostro è stato di gran lunga più bello.
Stavolta scoppio a ridere, allontanando il suo viso per poterlo vedere. – Ma dai, Peeta! Non so neanche se lo considerano un matrimonio…
- E perché non dovrebbero? – ride anche lui. – Ti sei vantata con Finnick delle nostre nozze senza veli?
- No? – rispondo.
- Quindi lui non sa che ci siamo sposati nudi? Allora siamo ancora in tempo per sorprenderlo! Siamo stati così audaci…
- Ma che dici! – strillo, nascondendomi nella sua camicia. – Non siamo stati audaci…
- Come no? Altroché se lo siamo stati!
- Peeta! – smetto di nascondermi e gli mollo un pizzicotto sul fianco, ma non sono davvero arrabbiata. La mia è tutta scena, e lui lo sa bene.
Premo le mani sulle sue guance, lisce e rosee, e seguo con il pollice la sottile e lunga linea rossa che gli percorre il lato sinistro del viso. Avrebbero potuto fare danni maggiori, fargli perdere un occhio o deturparlo in maniera irrecuperabile, eppure si sono limitati a questo enorme taglio regolare, che tutto sommato è guarito in fretta. Limitati… me lo hanno quasi ammazzato. Questo non è limitarsi…
Peeta chiude gli occhi quando inizio a percorrere con le labbra la cicatrice. Scendo piano, fino alle sue labbra. Le sfioro appena in una carezza.
- Lo rifarei altre dieci volte – dice, socchiudendo le palpebre.
Cosa? Sposarmi? O farsi torturare? Quale di queste due ipotesi rifarebbe per dieci volte?
- Io altre cento – replico. Così non saprò mai cos’è che voleva dire veramente. – Ho una cosa per te – aggiungo.
- Per me?
Armeggio con il cordino che ho attorno al collo e lo sfilo, nascondendo nella mano la sorpresa che ho in serbo per Peeta. Dopo averla liberata, e dopo essermi assicurata che la perla non scivoli via dal cordino, me lo rimetto intorno al collo. Afferro la sua mano, la sinistra. È quella di cui ho bisogno.
- L’altra volta mi sono resa conto che non ti ho mai regalato qualcosa che potesse farti pensare a me – dico, sentendomi improvvisamente nervosa.
- Non devi regalarmi nulla, tesoro…
- Ma voglio farlo! Non è molto, e di certo non è prezioso come l’anello che tu hai regalato a me – apro la mano e rivelo il sottile cerchietto d’argento che è posato sul mio palmo. – Ma per iniziare può andare bene, no?
Qualche giorno fa, mentre Peeta era completamente immerso nella pasticceria, sono andata un po' in giro per il Distretto 13 in cerca di qualcuno che fosse in grado di realizzare un piccolo anello. Una fede. L’unico metallo prezioso che avevo a disposizione era la catenina d’argento che avevo al collo, ma non mi è importato se avessi dovuto sostituirla con un semplice pezzo di spago. Mi importava solo raggiungere il mio scopo. E ci sono riuscita.
- Katniss – sussurra Peeta, sorpreso. Mi guarda. – Non-
- Prova a ripeterlo e ti faccio vedere io! – esclamo, scatenando in lui una risatina nervosa. Faccio scivolare l’anellino al suo anulare e sospiro, sollevata, non appena vedo che gli sta a pennello.
- È perfetto – Peeta guarda il suo dito e poi di nuovo me. – Tu sei perfetta, Katniss – fa combaciare ancora una volta le nostre labbra, e lo fa ancora e ancora, fino a che non siamo entrambi a corto di fiato. – Hai la minima idea di quanto ti amo?
- Io ti amo da impazzire – gli dico sulle sue labbra, rubandogli un altro bacio. – Ho paura di non dimostrartelo mai abbastanza…
- Me lo dimostri ogni giorno, amore, ogni giorno – solleva la mano sinistra affinché io possa vederla. – E questo ne è la prova.
Le nostre fronti premono l’una contro l’altra mentre, con lo sguardo rivolto verso il basso, ci stringiamo le mani. Le sinistre, i cui anulari sono fasciati da due diversi tipi di anello: un anello d’oro e brillanti, e un anello d’argento. Oro e argento. Uno più prezioso dell’altro. Se dovessimo valutare il prestigio di un amore attraverso i materiali, l’amore che Peeta prova per me vincerebbe a mani basse sul mio.
Ma ho imparato che comparare l’amore a dei beni materiali è inutile. È un’assurdità. È come paragonare la notte con il giorno, o il freddo con il caldo. L’estate e l’inverno. È impossibile.
Ed è altrettanto impossibile capire l’entità e l’intensità dell’amore che ci lega. Perché siamo umani, siamo fatti di carne ed ossa e sentimenti, ed i sentimenti non sono mai tutti uguali. Forse, domani mattina mi sveglierò e capirò che non ho mai amato il ragazzo biondo che mi sta di fronte. Per Peeta potrebbe succedere la stessa cosa, domani mattina. E se non accadrà domani, accadrà in un giorno imprecisato del mio futuro. O forse non accadrà mai, ed il mio amore rimarrà tale e quale a com’è ora.
Un amore sincero, ma forte. Talmente forte da trafiggermi come una coltellata, al solo pensiero di poterlo perdere.

 

 

 

_____________________

Eccoci qui.
Comincio le note col farvi gli auguri di Pasqua, anche se in ritardo ^^’ spero che siano state serene, nonostante tutto :)
Possiamo aggiungere il matrimonio di Annie e Finnick alla lista degli avvenimenti! E’ molto simile all’originale, e ammetto che avrei potuto dilungarmi per approfondirlo… ma come avete letto, le brutte intenzioni e la maleducazione idee mi hanno spinta oltre, e così vediamo Katniss e Peeta che celebrano questa sorta di secondo matrimonio scambiandosi gli anelli.
Continuo a vederla una cosa un po’ sdolcinata, soprattutto perché questo gesto viene da Katniss: lei non è quel genere di persona che si mette a regalare anelli al primo che passa, questo è un gesto più da Peeta ^^’ però a maggior ragione la trovo una scena giusta che va a chiudere, in qualche modo, il cerchio che si è aperto la sera della tostatura. Ed è il modo più classico che esiste per dichiararsi amore eterno, no?
Lo so, il cioccolato mi ha resa più dolce.
Ma vi avverto che non durerà a lungo come effetto :P

D.

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Capitolo 36
*** 36. ***


In The Still Of The Night - 36


So di aver accumulato un ritardo mostruoso, infatti stavolta non cercherò nemmeno di giustificarmi ^^’ vi chiedo solamente perdono.
Ci leggiamo nelle note di fine capitolo :)

 

 

In the still of the night

 

 

36.

 

Nell’ultimo mese, da quando i medici mi hanno dato il via libera, ho preso finalmente parte a quell’addestramento che ho ignorato così tante volte. Ogni giorno, tutti i giorni, mi sono costretta ad alzarmi dal letto all’alba e ho trascinato con me anche Johanna. L’ho costretta anche dopo che le crisi per l’assenza della morfamina nel suo organismo sono diventate più forti. Hanno smesso di dargliela così come hanno smesso di darla a me: al 13 non possono permettersi di avere dei soldati drogati. Ma Johanna è riuscita a sopportare i tremori alle mani e a riversare l’enorme strato di rabbia che ha in corpo nella corsa, negli esercizi per aumentare la resistenza fisica e nei tiri al poligono. Dopo due settimane, la morfamina cominciava ad essere un lontano ricordo, per lei.
Le mie costole fanno ancora male, ma è un male sopportabile anche senza gli antidolorifici. Lo sforzo fisico si fa sentire ed in questo purtroppo non posso farci molto, devo solo venirne a patti. Miglioro di gran lunga se l’addestramento si sposta sul versante riservato alle armi. Ci insegnano ad assemblare i fucili d’assalto nel minor tempo possibile e ad usarli, a mirare ad un bersaglio mobile e lontano centinaia di metri. Non è come tirare con l’arco, dato che il fucile in dotazione è venti volte più pesante, ma ho solo bisogno di pratica. La pratica è ciò che mi serve, ed i risultati si vedono in poco tempo. Avrò ancora problemi con le costole, col respiro e col sollevamento pesi, ma al poligono non mi batte nessuno: la mia è una mira perfetta, e totalizzo il punteggio migliore del mio corso.
Ci alleniamo tutti, persino Peeta, ma lo facciamo seguendo corsi ed esercitazioni diverse; durante il giorno, in pratica, non siamo mai insieme, e riusciamo a vederci e a parlare solo durante i pasti. La situazione cambia quando arriva la sera, quando arriva il momento di ritirarci nelle nostre unità abitative per la doccia di rito e per il coprifuoco. L’unità abitativa di Peeta è proprio di fronte a quella che divido con la mia famiglia… che dividevo, mi correggo.
Haymitch ci aveva visto giusto, con quella battutina. Non appena mi hanno dimessa del tutto dall’ospedale, ho fatto i bagagli e mi sono trasferita da Peeta. La mamma ha storto il naso ma ha lasciato correre, così come aveva lasciato correre un mucchio delle cose che facevo quando vivevamo ancora al Distretto 12. Quando avevano annunciato l’Edizione della Memoria, e sapeva che avrebbe dovuto lasciarmi andare per sempre. Allora, le conseguenze delle nostre azioni avevano portato ad una gravidanza imprevista. Stavolta, anche se ci tiene d’occhio, non accadrà nulla del genere. Non ho nessuna intenzione di rimanere di nuovo incinta.
Il pensiero dei bambini non sembra essere presente nemmeno nella mente di Peeta. Siamo entrambi talmente stanchi dall’addestramento quando ci sdraiamo insieme sotto le coperte che riusciamo a dire giusto poche parole prima di crollare come sassi. La mamma può solo che essere fiera di noi: sembriamo aver messo giudizio. O forse no. Chi lo sa.
L’unica cosa che so è che le nostre notti non sono cambiate solo perché evitiamo di tornare sull’argomento che tanto ci ha fatto e ci fa ancora soffrire, o perché evitiamo di cercare un contatto più intimo tra i nostri corpi. Non sono cambiate perché scegliamo di recuperare le energie smaltite con l’addestramento dormendo. In realtà, non sono cambiate per niente.
Gli incubi ci svegliano ogni notte. Siamo ancora i ragazzini spaventati di un tempo, e forse lo saremo per tutto il resto della nostra vita. La mia mente urla di terrore ogni notte, ma dalla mia gola non esce nessun suono. Mi agito nel sonno, mi sveglio di soprassalto, ma non urlo più. È Peeta quello che ha cominciato ad urlare, e piange di disperazione ogni singola volta che si risveglia. Ogni volta che un incubo finisce, ogni volta che capisce di non essere in reale pericolo, ed ogni volta che si rende conto di non essere da solo, nel letto in cui riposa. Ogni volta che mi abbraccia, ogni volta che mi bacia. Piange, e singhiozza.
Le ferite del corpo sono quasi guarite, ma quelle della mente… quelle non lo sono affatto. Quelle persistono, e non sbiadiscono. Non penso che lo lasceranno andare mai del tutto.
L’angoscia con cui Peeta si risveglia ogni notte contagia anche me. A volte sono già sveglia e pronta a prendermi cura di lui quando succede, altre volte invece mi desta all’improvviso, e devo cercare di capire cos’è che sta accadendo prima di ricordare e di muovermi verso di lui. Stringerlo a me, parlargli, fargli capire che non potrà mai, mai più accadergli nulla che possa fargli del male non serve a niente, quando l’incubo che lo ha risvegliato è più brutto dei precedenti. Io stessa scopro di essere impotente, di non essere in grado di fare nulla per placare la sua disperazione. Posso solo abbracciarlo, stringerlo forte contro il mio petto, e sperare che tutto passi. Che passi il prima possibile.
Quando riesce di nuovo ad addormentarsi, non lo lascio andare. Lo lascio dormire contro di me, con la testa poggiata contro il mio sterno. Il suo peso mi schiaccia e dà fastidio alle mie costole in via di guarigione, ma non ne me importa niente. Respiro contro la sua fronte e mi beo del calore del suo corpo, dell’odore dei suoi capelli. Ed è questo, di solito, il momento in cui comincio a piangere io. È questo il momento in cui capisco che mi è rimasta solo una cosa da fare, per poter mettere fine a tutto questo. Per scrivere davvero la parola “fine” alla sofferenza che hanno causato a me, alla mia famiglia, a tutti coloro a cui voglio bene. A mio marito.
È questo il momento in cui acquisto sempre più consapevolezza delle mie intenzioni, intenzioni che cercherò di attuare il prima possibile. Le mie intenzioni mi spronano a dare sempre di più durante l’addestramento, perché è tramite esso che posso acquisire il punteggio e la garanzia che i miei piani possano giungere alla loro realizzazione. I buoni risultati che riuscirò ad avere nell’addestramento mi porteranno dritta a Capitol City: mi porteranno, finalmente, sul vero campo di battaglia.

 

A Peeta non l’ho detto, naturalmente. Non può mettere bocca su ciò che non conosce. Non protesta sulla questione addestramento perché è obbligatorio per entrambi, in un certo senso: siamo entrambi soldati, abbiamo la stessa età e gli stessi diritti di essere nominati tali, secondo le normative che circolano nel Distretto 13. Spero solo di tenerlo nascosto ancora per un po'… fino a che non sarà arrivato il momento di partire.
Allora potrà protestare quanto vorrà, ma non potrà impedirmi di andare ad uccidere colui che è la causa di tutto questo. Non potrà impedirmi di andare a Capitol City per uccidere il presidente Snow. Per vendicarmi.
Gli altri lo sanno. Oh, è ovvio che lo sanno! Lo sa Finnick, lo sa Gale… lo sa Johanna, che sta lavorando sodo insieme a me per raggiungere il mio stesso, identico obiettivo. Anche lei vuole tornare a Capitol City per avere la sua parte di vendetta. Siamo entrambe determinate e risolute, e desiderose di avere il nulla osta per partire. Capiamo di essere sulla buona strada quando veniamo entrambe aggiunte ad un corso aggiuntivo, un corso di simulazione.
Qui, lo chiamano semplicemente l’Isolato.
È una fedele riproduzione delle strade di Capitol City in cui qualunque cosa può andare storta: puoi ritrovarti con la tua squadra nel bel mezzo di un’imboscata, puoi far innescare accidentalmente una mina antiuomo, puoi essere colpito a morte da dei cecchini appostati strategicamente sui tetti. E allora, se ti colpiscono, devi ricominciare tutto daccapo. Affinché vada tutto liscio, bisogna assicurarsi un lavoro ottimale da parte del soldato che affronta l’Isolato: obbedienza, gioco di squadra, riflessione. In poche parole, l’esatto contrario di come sono fatta io. Sono il ritratto esatto della disubbidienza, dell’impulsività, e non sono per niente brava nel lavorare con una squadra. Affrontare l’Isolato sarà una causa persa. Sarà a causa dell’Isolato se non mi spediranno a Capitol City.
Sto soppesando le varie opzioni che potrebbero fare al caso mio se fallisco, mentre attorno a me, in tutto il Distretto, le prime squadre di soldati ricevono l’ordine di raggiungere la capitale. Ed ecco che uomini e donne si trasformano sotto i miei occhi, dopo essere stati sottoposti all’obbligatorio taglio militare. Se anch’io riceverò l’ordine, dovrò tagliare completamente i miei capelli. Ci penso su, facendo scorrere le mani lungo la treccia che è diventata il mio marchio riconoscitivo, un po' come la spilla della Ghiandaia Imitatrice. Scopro, però, che sono solo capelli. Ricresceranno. Non mi interessa diventare calva.
Io e Johanna siamo al poligono quando l’addestratrice della nostra squadra, il soldato York, ci informa che ci ha raccomandate per la prova finale e che siamo state convocate subito. Non abbiamo, letteralmente, il tempo per prepararci che ci ritroviamo alle prese con una serie di test scritti. Li passiamo entrambe, e poi possiamo accedere alla prova finale, quella pratica. È l’Isolato, come volevasi dimostrare. Lo affronteremo singolarmente e verremo messe alla prova per capire se siamo in grado di affrontare i nostri punti deboli. Non conosco il punto debole di Johanna, ma lei viene convocata tre persone prima di me e non posso tentare di chiederglielo, come se lei fosse il tipo di persona che ti confida i suoi segreti o i suoi fatti più personali. Io non so quale dovrò affrontare, perché ho scoperto di averne troppi.
Lo capisco in tempo, per fortuna, quando sono già nel bel mezzo del mio turno. Sono dentro l’Isolato, avanzo nei vicoli e mi sbarazzo dei Pacificatori che intralciano il mio cammino, ma dopo nemmeno un minuto un’altra carica di Pacificatori svolta l’angolo e si fa strada nella mia direzione. Mi colpiranno, se non lo faccio prima io, ma sono troppi da affrontare ed io sono da sola. C’è un bidone di benzina abbandonato esattamente a metà strada e capisco che quella è l’unica possibilità che ho per liberarmi delle truppe in avvicinamento. Cerco di avvicinarmi per poter mirare meglio al mio bersaglio, ed in quel momento il mio comandante mi ordina, attraverso l’auricolare, di gettarmi a terra. Lo sto per ignorare e sto già prendendo la mira quando capisco che non è far esplodere il bidone la mia missione, ma ubbidire al mio comandante. Lo è, perché io non ubbidisco mai agli ordini e se voglio essere spedita a Capitol City dovrò farlo senza alcuna remora. Non potrò più agire secondo la mia testa.
Ubbidisco. Mi getto a terra, il bidone viene fatto esplodere da qualcun altro, ed i Pacificatori vengono uccisi.
Ed io passo la prova.
Mi stampano un grande 451 sulla mano e mi dicono di raggiungere in fretta il Comando per unirmi alla mia squadra. Lo faccio, ancora incredula per ciò che sono riuscita a fare. Non è tanto l’aver raggiunto il mio obiettivo, quanto il modo in cui l’ho fatto: ubbidendo. Non lamentandomi, non facendo di testa mia, non disubbidendo e non intestardendomi. È una vittoria, scopro mentre raggiungo il Comando. E chissà per quanto durerà, questa vittoria.
Al Comando vengo accolta da Boggs, che si sorprende e sorride nel vedermi arrivare; nota il numero che mi hanno stampato sulla mano e mi informa che sarò una sua sottoposta, e che posso già unirmi per conoscere la mia squadra. Ci sono cinque persone che non conosco, ma le altre due sì, e noto che sono già state sottoposte al taglio di capelli militare: Finnick e Gale. Non è solamente una vittoria, questa: è una conquista. Ho passato la prova, faccio parte di una squadra che avrà l’ordine di raggiungere Capitol City tra pochi giorni, avrò Boggs che mi darà ordini e sarò in compagnia dei miei amici. Mi è andata di lusso, in un certo senso. Manca solo Johanna all’appello, e allora saremo al completo.
La porta del Comando si apre ed io mi volto, sicura di vederla varcare la soglia con la sua solita aria strafottente ed anche lei col numero 451 stampato sulla mano.
Il numero è quello giusto, scopro, ma non è giusta la mano, non è giusta la persona che entra nella sala del Comando. È un uomo, non una donna, con gli occhi azzurri ed i capelli biondi già tagliati. Pronto a partire.
Peeta.

 

Tradita.
Ecco come mi sento quando Boggs mi comunica che Peeta farà parte della mia stessa squadra diretta a Capitol City.
- Vuole tornare laggiù? Dopo tutto quello che avete fatto per portarlo via? – urlo.
- È un suo diritto, soldato Everdeen – mi risponde lui. – Non farmi pentire di averti nella mia squadra.
Apro la bocca per dire altro ma l’occhiata che mi rivolge mi mette a tacere subito. Sono sotto i suoi ordini, ricordo; sono una sua sottoposta. Ed i suoi sottoposti devono ubbidire ai suoi ordini. Non posso tirarmi indietro adesso che sono così vicina alla mia meta: devo fare ciò che mi consiglia Boggs, ciò che ho dimostrato di saper fare all’interno dell’Isolato. Perciò non replico, non me ne vado, non inveisco contro Peeta. Prendo posto tra Gale e Finnick e resto ad ascoltare le direttive per l’invasione. Ascolto in silenzio, ed ogni tanto getto un’occhiata nella direzione di Peeta. Un paio di volte, i nostri sguardi si incontrano.
Il suo addestramento deve essere andato bene almeno quanto il mio, se è riuscito ad essere convocato qui. E deve aver superato l’esame. Mi sento una stupida, perché non ho mai pensato a questo scenario: non ho mai pensato all’eventualità che Peeta prendesse parte all’addestramento non perché in obbligo, ma perché gli sarebbe servito per essere spedito in guerra. Proprio come la sottoscritta. Non riesco a capacitarmene. Perché? Stava filando tutto liscio come l’olio! Non doveva andare così. In qualche modo, Peeta deve sempre mettersi in mezzo per rovinare i miei piani: si offre volontario per sostituire Haymitch alla mietitura, si fa quasi ammazzare a Capitol City… non che questo facesse parte di un mio piano. E adesso questo.
Di nuovo: perché?
Voglio urlarglielo in faccia per avere una risposta decente da parte sua, ma mi costringo a stare zitta fino a che dura la spiegazione, che non ascolto molto. Potrei star perdendo delle nozioni importantissime e fondamentali su come sopravvivere una volta giunti in città, ma chi se ne frega. L’unica cosa che afferro è che sono dispensata dal taglio di capelli: la Ghiandaia Imitatrice deve essere ben riconoscibile tra le truppe dei Ribelli. Sarà comodo, per gli altri, individuarmi e farmi fuori in questo modo. Non ho voglia di indagare su questa scelta. E quando ci congedano, scopro che non ho nemmeno più voglia di urlare. Non ho più voglia di conoscere i motivi che hanno spinto Peeta a volersi unire ad una squadra di assalto per prendere Capitol City. Non ho neanche più voglia di guardarlo in faccia. Sfreccio via dal Comando, senza salutare nessuno e senza guardarmi indietro. Senza provare ad attendere per sentire se Peeta mi sta seguendo, perché non voglio che mi segua.
Nel corridoio, poco prima degli ascensori, mi imbatto in Haymitch. Mi sembra di accorgermene solo ora che non era presente alla riunione, e che dalla faccia che ha assunto deve essere accaduto qualcosa di imprevisto. – Johanna è in ospedale – dice non appena sono a tiro d’orecchio.
- Perché? Cosa le è accaduto? – chiedo, preoccupata.
Mi domando se non abbia avuto una sorta di incidente durante il suo esame, se si sia fatta male cadendo o qualcosa di simile. Forse è questo il motivo per cui non era alla riunione, se non aveva potuto unirsi alla sua squadra. Ma in fin dei conti, non so nemmeno se la squadra alla quale è stata assegnata sia la stessa in cui ci sono io. Non so praticamente nulla.
- Hanno inondato la strada, nell’Isolato, per scovare i suoi punti deboli. È il modo in cui agivano su di lei a Capitol City: acqua ed elettroshock – mi spiega Haymitch. – Ha avuto dei flashback ed è andata nel panico…
Chiudo gli occhi, demoralizzata. Incrocio le braccia al petto e chino lo sguardo mentre, alle mie spalle, sopraggiungono i passi rumorosi di Peeta. Non lo guardo, mentre prende posto accanto a me e posa una mano sulla mia spalla. Vorrei scostarla via, ma rimango immobile, ed ascolto Haymitch che ripete per lui ciò che è accaduto a Johanna. Se non è facile per me, sentirlo, per lui deve essere mille volte peggio, se è vero ciò che mi aveva detto Johanna, sulle loro urla. Sul fatto che sapessero quando uno di loro veniva torturato o meno.
- Voi due dovreste andare da lei. Siete la cosa più vicina a degli amici, per lei – ci consiglia di fare Haymitch. Ci lascia nel corridoio per andare da Plutarch a comunicargli la brutta notizia, e sono certa che cercherà anche Finnick per informarlo. Conoscendolo, Finnick andrà da lei non appena saprà: lui è davvero suo amico, non io. E anche Peeta è tenuto con più considerazione da Johanna, rispetto a me. Non so se Johanna mi considera davvero sua amica.
- Scendiamo in ospedale – mi dice Peeta.
- Devo prima fare una cosa – ribatto freddamente, piantandolo in asso davanti agli ascensori. So che non è giusto nei suoi confronti, ma voglio che sappia che sono arrabbiata con lui.
Chiedo ed ottengo da Boggs il permesso di fare una scappata nei boschi, oltre la recinzione, per raccogliere un po' di aghi di pino da chiudere in un fagotto di garza per Johanna. Mi scappa un verso di disappunto quando il permesso viene esteso anche a Peeta, che mi ha seguita come un’ombra, ma potrebbe essere la scelta più giusta, da un lato. Nei boschi potrò urlare quanto mi pare e piace. Potrò dire tutto ciò che voglio, tutto ciò che mi passa per la testa. Tutto ciò che potrà essermi utile per sfogare la mia ira contro Peeta.
Ma non dico niente, all’inizio. Concentro la mia attenzione sulle mie mani, sugli aghi di pino che raccolgo dal terreno e che avvolgo con cura all’interno di una garza bianca. Non è granché come regalo, ma è il meglio che riesco a fare. È tutto ciò che posso fare per portare un po' del Distretto 7 a Johanna. Il profumo inebriante del pino mi aveva riempito i polmoni, ricordo, quando arrivammo lì per il Tour della Vittoria. Era un profumo magnifico. È il tipo di profumo che potrebbe farle compagnia. È il profumo di casa che può aiutarla ad affrontare le ore buie, le ore di dolore.
Peeta è alle mie spalle e sento i suoi occhi fissi sulla mia schiena mentre preparo il fagottino.
- So che sei arrabbiata – dice.
Stizzita, stringo con troppa forza ed il rampicante che sto usando come laccio si spezza tra le mie dita. Ne devo cercare un altro. – Bella scoperta.
- Non so cos’è che ti aspettassi da me, Katniss – aggiunge.
Poso per terra la garza e mi volto, lentamente, fino ad incontrare i suoi occhi. Peeta è nervoso ed aspetta, a braccia incrociate, la mia reazione. Aspetta che mi sfoghi.
- Non mi aspetto nulla, da te – dico, cercando di mostrarmi calma. – Nulla, niente. Perché non dovevi fare niente. Dovevi restare in disparte. E invece sei andato a chiedere di mandarti di nuovo a Capitol City! E questo non è niente!
Alla fine mi sono messa ad urlare. Non era quello che volevo sin dall’inizio?
- Come sei egoista, Katniss – mi sbeffeggia. – Secondo i tuoi ragionamenti, io dovrei fare il bravo e lasciarti partire senza lamentarmi, ma se anche io faccio richiesta per seguirti in guerra mi becco una scenata. – mi si avvicina. – Lo vedi, come sei egoista? Come sei stronza? Non pensi mai agli altri: pensi solo a te stessa!
- Sei tu l’egoista qui, non io! Io cerco in ogni modo di tenerti al sicuro e tu mi metti i bastoni tra le ruote! Mi rendi tutto-
- Com’è che vorresti tenermi al sicuro? – chiede, sarcastico. – No, sono curioso. Dai, dimmelo. Vuoi rinchiudermi in una stanza e portarti dietro la chiave finché la guerra non sarà finita? Vuoi legarmi al letto?
Non è un’idea malvagia.
- Che scelta ho? Non posso scendere in guerra col pensiero fisso di doverti proteggere, Peeta! Non posso… - dico. Dimezzo la distanza che ci separa e gli do uno spintone, così, senza un motivo preciso, ma lui non perde nemmeno l’equilibrio. E questo mi fa incazzare più di prima. – Sarà come nell’arena, laggiù. E mi sono stancata di tenere la guardia sollevata per-
- Per me? So badare a me stesso. – sì, come no. E guarda come sono andate le cose. – Non sono un cucciolo da difendere, o qualsiasi altra cosa tu pensi che io sia.
Il problema in realtà sta proprio qui: è esattamente ciò che penso. Penso che Peeta sia quello da proteggere, ed io quella da sacrificare. Non mi importa se sarò io a sfidare la sorte, ad essere ferita o addirittura colei che perderà la vita una volta arrivata in città. L’importante, per me, è che Peeta rimanga al sicuro, qui, vivo e vegeto. Ed il problema si complica perché lui sembra avere la mia stessa opinione, ma al contrario.
Siamo ancora in una situazione di stallo, temo. Quella situazione in cui non riusciremo a concludere un bel niente, se non farci del male a vicenda. Agire nel tentativo di salvaguardare e proteggere chi amiamo, solamente per vedere le nostre azioni ritorcercisi contro.
- Perché tra noi deve essere sempre così? – domando. Mi sento improvvisamente sconfitta. Sconfitta, e prosciugata.
- Perché è questo che facciamo, noi due. Non ne possiamo fare a meno – mi risponde. Ha un sorriso amaro impresso sul volto mentre si china per raccogliere il fagottino di garza e pino che ho abbandonato in mezzo all’erba.

 

Johanna è di nuovo sotto sedativi. È di nuovo immersa nella nebbia. Stesa nel suo letto d’ospedale, con le palpebre spalancate e le pupille che vagano veloci dal mio viso a quello di Peeta, sembra una bambina spaventata. Solo questo. Non c’è più traccia della donna dura e spavalda che ho conosciuto una volta. Quella donna se la sono presa con la forza, l’hanno presa e spazzata via. Trema appena quando le passo una mano sui corti capelli ancora umidi, e gliene scosto qualche ciocca dalla fronte.
Johanna.
- Katniss ti ha fatto questo – le bisbiglia Peeta. Le mette in mano il fagotto profumato e, gentilmente, glielo avvicina al naso.
I suoi occhi si chiudono per un momento quando inspira, e li riapre carichi di lacrime. Un debole accenno di sorriso fa capolino sulla sua bocca. – Sa di casa – mormora.
- Così puoi avere casa sempre con te – le dico.
- Non ce l’ho più una casa – si lamenta improvvisamente, e si raggomitola su sé stessa. Nello stato obnubilante in cui i farmaci l’hanno fatta sprofondare, non può fare altro che questo… ma Johanna sembra avere ancora abbastanza forza da aggrapparsi al braccio di Peeta, da stringerlo come se fosse la sua ancora di salvezza. – Devi ucciderlo – fiata, piantando gli occhi nei suoi. - Promettimi che lo ucciderai.
- Lo farò – dice prontamente Peeta. Le sue mani stringono e avvolgono quella di Johanna. – Lo faremo entrambi.
Guardo Peeta, guardo il modo in cui concentra la sua attenzione sulla ragazza distrutta stesa sul letto, e capisco perché ha deciso di partire. Capisco perché non riuscirò mai a farlo desistere dalle sue scelte. Lo capisco, perché le sue ragioni sono identiche alle mie. Vuole vendicarsi anche lui di Snow. Lo vuole uccidere. Vuole farlo per Johanna, per la sua famiglia, per me e per sé stesso. Per la nostra bambina…
Forse sono davvero stronza ed egoista. Forse lo sono davvero. Lo sono e lo sarò per sempre. Perché penso solo a me stessa, perché non penso mai a lui.
Perché non cerco mai di comprenderlo veramente.

 

Salutare la mia famiglia è difficile, stavolta. È ancora più difficile di quando partii per gli Hunger Games, anche se le esperienze possono essere messe in parallelo senza grossi problemi. In entrambi gli scenari, gli Hunger Games e la guerra, c’è la possibilità che chi vi partecipa non possa farvi ritorno. Sono riuscita a scampare per un pelo alla morte, nell’ultima spedizione all’arena. Sono riuscita a vivere contro ogni probabilità. Non so se stavolta sarà possibile.
È difficile stringere Prim tra le mie braccia e dirle che andrà tutto bene quando nemmeno io ne sono convinta al cento per cento. È difficile abbracciare la mamma, ed asciugarle quelle lacrime che non ha versato nemmeno quando è stata costretta a spedirmi per due volte in un’arena. È difficile, ma non impossibile. Mi impongo di mostrarmi serena e positiva mentre la mia mente vaga in una miriade di scenari disturbanti e negativi. Me lo impongo e riesco a superare questa prova, anche perché so che le sto lasciando in buone mani. Le lascio al Distretto 13, dove staranno al sicuro e non ci sarà nulla che potrà far loro del male. Snow non può arrivare qui. Non le può toccare. È la sola cosa che mi rende sicura della mia scelta di andare in guerra.
A questo punto ci sarebbe solo una persona che vorrei salutare prima di partire, ma quella persona verrà con me. Vorrei che non fosse così, ma è l’amara realtà e sono costretta ad accettarla. All’Hangar, quando mi ci reco dopo aver lasciato le mie donne al loro lavoro in ospedale, ci trovo già il resto della squadra, compreso Peeta. Ci sono anche Cressida ed il suo team di riprese, perché la nostra non sarà una vera e propria squadra d’attacco. Staremo per la maggior parte del tempo nelle retrovie e percorreremo, venendo ripresi, le strade che altri soldati hanno percorso prima di noi. La nostra squadra sarà incaricata, per la maggior parte del tempo, di mostrare l’invasione che avviene all’interno di Capitol City. Plutarch ci ha soprannominati la “Squadra di Stelle”.
Non è la guerra che immaginavo: significa che non possiamo correre a rotta di collo in mezzo alle battaglie per andare ad uccidere Snow, ma allo stesso tempo vuol dire che non saremo troppo esposti. Sarà pericoloso lo stesso, ma in misura minore. Ed una volta giunto il momento opportuno, potremo giungere alla parte del piano che più preferisco. Devo solo sopportare i Pass-Pro, fino ad allora. Ed anche se non affronteremo la vera guerra, veniamo comunque dotati di piccole pillole viola, piccole come la perla che ho al collo. Le chiamano “Morsi della Notte” in onore delle bacche che ho usato nella prima arena.
- In caso ci catturino – dice Boggs. – Non sarà una morte dolorosa – aggiunge, come se volesse confortare qualcuno con le sue parole.

Una morte veloce e non dolorosa, penso. Nascondo la mia nella piccola tasca, posta sulla spalla sinistra, che Cinna ha creato nella mia uniforme da Ghiandaia Imitatrice. Da questa posizione potrei prenderla usando solamente i denti. Potrebbe tornare utile, in effetti.
Saliamo tutti sull’hovercraft ed attendiamo il momento di partire. Mi metto in disparte, seduta sul freddo pavimento di metallo con la schiena premuta contro un’altra fredda parete di metallo, ma vengo quasi subito raggiunta da Peeta. Resta in silenzio mentre mi si siede accanto e mi guarda. Ricambio il suo sguardo, senza aggiungere alcunché.
Il nostro rapporto si è fatto più teso a mano a mano che si avvicinava il giorno della partenza. Ed è teso anche adesso che stiamo per partire. Nessuno di noi due può più tirarsi indietro, ora, ma se non lo abbiamo fatto prima di oggi, vuol dire che non ne avevamo proprio l’intenzione. Eravamo, e siamo, entrambi risoluti. Siamo decisi. Dobbiamo solo accettarlo. Dobbiamo solo venire a patti con noi stessi. E per venire a patti con noi stessi, dobbiamo mettere da parte le nostre divergenze. Perché l’ultima cosa di cui avremo bisogno, una volta laggiù, sarà litigare per ogni più piccola cosa. Non possiamo permetterci di rivangare le nostre decisioni, giuste o sbagliate che siano. Non possiamo cullare e nutrire il livore che teniamo racchiuso prima di farlo esplodere come una bomba. Ce ne sono già troppe di bombe pronte ad esplodere. Lo dobbiamo smorzare, farlo tacere finché non giungerà il momento opportuno per affrontarlo. E allora, solo allora, potremo gettarci addosso tutto il fango che vogliamo.
Ma fino ad allora, dovremo svolgere il nostro ruolo. Soldati, compagni di squadra, alleati. Di nuovo, alleati. Non possiamo permetterci nient’altro.
Gli prendo la mano e gliela stringo, nell’esatto istante in cui il motore dell’hovercraft si accende con un rombo.

 

 

 

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Eccoci di nuovo :)
Nuovo capitolo di passaggio, stavolta: è un capitolo che va a gettare le basi per la fase finale. Capitol City si avvicina sempre di più, ormai, così come si avvicina la fine della storia. Non so quanti capitoli mancano ancora… ma non ci voglio pensare adesso ^^’
Oggi è il 25 maggio! Esattamente un anno fa pubblicavo il primo capitolo… è stranissimo, sapete? Ho sempre pensato che nel giro di un anno avrei terminato di scrivere e pubblicare tutti i capitoli, e invece… eh.
Mi dovete sopportare ancora XD

D.

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Capitolo 37
*** 37. ***


In The Still Of The Night - 37

In the still of the night

 

 

37.

 

La Squadra di Stelle è noiosa.
La Squadra di Stelle non fa nulla di eclatante.

Alla Squadra di Stelle non lasciano fare nulla di eclatante.
Dopo più di una settimana che ci troviamo a Capitol City, accampati in un piccolo spazio che ci hanno predisposto in mezzo a tutto il resto delle truppe dei Ribelli, sono giunta a questa sconsolata conclusione. Ci sono giunti anche gli altri: Gale, Finnick, Peeta.
La resistenza si è da tempo dileguata e rintanata in città, ma all’interno, nel suo centro, lasciando all’esercito rivale la possibilità di presidiare le strade e di assaltarle, lasciandoci in questo senso campo libero per raggiungere l’ultimo presidio del potere che ancora regge. Ma non è un’impresa facile, visto il modo in cui sono protette queste strade. Non sono protette dai Pacificatori, ma dai baccelli.
I baccelli sono una sorta di trappole nascoste, trappole che possono essere innescate al minimo movimento ed in qualunque momento, cogliendoti alla sprovvista e massacrandoti. È questo il loro scopo. Ma i baccelli possono essere disattivati e possono essere resi innocui, se si sa dove cercarli e se si agisce con molta cautela. Il nostro esercito, compreso Boggs ed il suo secondo, la Jackson, è fornito di piccoli ologrammi tascabili, che chiamiamo tutti Olo e che sono in grado di mostrare, in una mappa virtuale di Capitol City, i baccelli ancora attivi per le strade. Non è, purtroppo, l’ultima versione aggiornata: Plutarch ci ha confidato che è riuscito a portare con sé una copia dell’Olo prima dell’esplosione dell’ultima arena, e che da allora avrebbero potuto aver inserito nuovi baccelli di cui noi non siamo a conoscenza. Alcuni dei baccelli già noti li ha creati lui stesso.
Che bravo Stratega.
Comunque, la conquista della capitale di Panem procede a rilento proprio a causa dei baccelli. Sono le altre squadre ad occuparsene direttamente, visto che la nostra non è una squadra di assalto ma una di ripresa, ma non è che eccelliamo anche in questo. Cressida ci ordina di muoverci, di mirare e di sparare a bersagli e a finestre dai vetri colorati, ma il più delle volte il nostro compito si limita a questo. Non veniamo mai, mai ripresi in mezzo alla guerra vera. E quando si ha l’occasione di disattivare un baccello, non lo lasciano mai fare a noi, i volti noti dei tanti Pass-Pro o i volti dei vincitori degli Hunger Games che hanno il coraggio di sfidare il potere del presidente Snow. Anche se alziamo la mano, anche se ci offriamo tra i volontari come tutti gli altri nostri compagni di squadra, i veri soldati. Non ci scelgono mai. Ci lasciano in disparte.
Penso che sia tutto tempo sprecato. Penso che sia inutile riprenderci quando non accade mai nulla che possa essere degno di nota. Penso che queste riprese siano controproducenti, quando potremmo benissimo prendere l’Olo e provare a farci strada fino al centro della capitale, fino alla fantasmagorica villa del presidente Snow, dove sicuramente si trova ancora, ben protetto nel suo covo. Proprio come un vero cattivo delle favole.
Ci ho pensato, a rubare un Olo: con quello, potrei abbandonare il resto della squadra e cercare di attraversare la città fino al raggiungimento della mia meta. Sarebbe diserzione, a ben pensarci, ma forse mi ringrazieranno invece di punirmi. Mi ringrazieranno, se riuscirò nella mia impresa di uccidere il presidente. Solo che rubare un Olo non è per niente facile. Funziona a comando vocale, quello di un comandante, ma può farlo anche con altre voci, come le nostre; così, se un preciso comandante rimane ucciso sul campo, qualcun altro può prenderne le veci e continuare ad utilizzarlo. E se si dice “tic-tac” per tre volte, viene attivato il comando di autodistruzione, che provoca un’esplosione. Ogni prova verrebbe cancellata, in questo modo.
Il nostro Olo risponde ai comandi di Boggs, quindi dovrei riuscire a rubarlo a lui prima di svignarmela. Credo che sarebbe più facile rubargli i denti.
Ho una cartina di Capitol City con me, come ogni altro soldato che l’ha ricevuta in dotazione col resto del suo equipaggiamento, ma la cartina non è un Olo: la cartina non ti mostra i baccelli. Ti mostra solo le grandi sezioni in cui è divisa la città. Non ti dice e non ti mostra il pericolo che potresti correre se percorri una certa via, ad una certa altezza. Devo per forza di cose recuperare quell’Olo. E poi potrò andarmene.
Agire di nascosto, scopro, mi riesce bene: ho lo zaino sempre pronto per un eventuale fuga, ed ho anche la mia divisa da Ghiandaia Imitatrice, anche se non l’ho mai messa fino ad ora e Cressida mi ha sempre ripresa con l’uniforme, identica a quella di tutti gli altri. È un bagaglio scarso e leggero, facile da trasportare, che non mi ingombrerà una volta acciuffato l’Olo. Penso di aver finalmente imparato qualcosa, una sorta di qualche tecnica recitativa, perché sembro essere in grado di camuffare i miei pensieri e le mie emozioni. Peeta diceva che ero un libro aperto, e lui non sembra aver notato nulla di strano in me. Forse, la mia prossima fuga riuscirà a passare inosservata quel tanto che basta a darmi un vantaggio su Boggs e gli altri.
Ma qualcuno ha capito ciò che voglio fare. Anni di pratica? Anni di caccia a stretto contatto l’una con l’altro? Non lo so. Fatto sta che Gale ha capito tutto.
- Non starai progettando di lasciarmi qui, vero? – mi chiede un pomeriggio, sul tardi. È quasi ora di cena, ed io me ne sto seduta buona buona mentre pulisco il mio fucile. Ma a che serve pulirlo, se tanto non me lo lasciano usare come si deve?
- Lasciarti dove? – chiedo di rimando, fingendo di non capire cos’è a cui sta alludendo.
- Finiscila. So cos’è che vuoi fare, Katniss.
- Io non voglio fare un bel niente – voglio andare ad uccidere Snow da sola, ma non te lo confesserò mai. – Vorrei solo che la situazione si sbloccasse un po', tutto qui – mento ancora. Vorrei che tu e Peeta ne rimaniate fuori, per quanto possibile allo stato delle cose.
- Lo sai che sarò costretto a dirlo a Peeta, se vuoi davvero fuggire? – lo guardo storto, e lui si acciglia. – Sì, farò la spia se necessario.
- Non azzardarti a dirlo a Peeta!
- Dirmi cosa?
Il diretto interessato, sentendosi messo in mezzo, ci si avvicina. Io e Gale non abbiamo parlato così ad alta voce, quindi presumo che Peeta si stesse già avvicinando per conto suo prima di sentire il suo nome uscire dalle mie labbra. Sgrano gli occhi, e spero che non abbia sentito altro. E spero che Gale non gli confessi ciò che ha capito. Che voglio fuggire di nascosto, lasciandoli entrambi indietro: non permetterò loro di seguirmi in questa spedizione suicida.
Invece, sorprendendomi, Gale mi regge il gioco. Mormora uno sbrigativo e bassissimo “Dovrai portarmi con te” prima di rivolgersi a Peeta. – Katniss adora la tua cicatrice.

Io la odio, quella cicatrice. – Ma che dici? – esclamo.
- Me lo hai appena detto e già lo hai dimenticato? Diglielo che lo trovi molto più affascinante adesso con quel segno sul viso…
- Gale! – stavolta strillo.
La maturità di un soldato.
Peeta comincia a ridere e si inginocchia accanto a me, mettendosi esattamente alla mia altezza. La mia guancia è a tiro delle sue labbra, su cui si posano per lasciarci un bacio sonoro, con tanto di schiocco. – Ma guardala, è tutta rossa!
- Smettila! – lo scaccio via. – E anche tu, smettila! – dico rivolta a Gale, che si sta sganasciando. Le mie lamentele, però, non possono nulla contro le loro risate. Continuano a prendersi gioco di me. E non li sopporto.
Era meglio quando c’era tensione, tra di loro.

 

Vengono istituiti i turni di guardia, ceniamo, ci rintaniamo nelle nostre tende. Le temperature autunnali si stanno abbassando, tanto che ben presto lasceranno il posto a quelle invernali. Il fiato comincia a fuoriuscire dalla bocca sotto forma di nuvolette. C’è una stufa accesa, qui nel nostro settore, che possiamo avere a nostra disposizione, ma la maggior parte di noi preferisce rintanarsi nei sacchi a pelo e nelle tende. Anche se restiamo in gruppo, quel sottile strato di tela è in grado di offrirci almeno un minimo di privacy.
Infagottata nel mio sacco a pelo, cerco di scaldarmi mentre aspetto che arrivi l’ora per dare il cambio alla Jackson e a Finnick, che stanno coprendo il loro turno. Il mio sarà da mezzanotte alle quattro del mattino. Potrei approfittarne per dormicchiare, ma non ho sonno e anche se mi costringo a chiudere gli occhi, questi si riaprono dopo pochi secondi. Ci svegliamo sempre col sopraggiungere dell’alba, quindi se non dormirò adesso, non avrò la possibilità di farlo alla fine del mio turno. Dovrò attendere quasi un giorno intero prima che possa dormire di nuovo. Ma non dormo lo stesso. Peeta, steso nel suo sacco a pelo, è riuscito a prendere sonno. Condividiamo la stessa tenda, ma nient’altro a parte questa. Non possiamo permetterci niente di più di questo. Non è proprio il caso di dare spettacolo.
A mezzanotte, sgattaiolo fuori dal sacco a pelo e preparo l’arco e le frecce. Il fucile sarebbe la scelta più ovvia, ma io sono troppo affezionata e troppo legata alle vecchie abitudini. Mi sento molto più sicura di me, con le armi che so usare meglio in mano. Saluto con un cenno Finnick e la Jackson e prendo posto sullo sgabello accanto alla stufa; il tepore è piacevole, ed un piccolo brivido mi percorre la schiena di riflesso. Tendo le mani verso il calore, che nonostante i guanti sono diventate lo stesso fredde.
Peeta sguscia fuori dalla tenda e viene a sedersi sull’altro lato della stufa quando le mie mani hanno smesso di assomigliare a dei cubetti di ghiaccio.
- Non è il turno di Mitchell? – domando, incerta. Forse ho capito male.
- Ho fatto a cambio con lui – dice. Posa il fucile sulle cosce e prende un sorso d’acqua. – Mi sono accorto che da quando siamo qui non abbiamo mai fatto un turno di guardia insieme, e…
- E?
- Mi andava – mi sorride. – Per ricordare i vecchi tempi.
I vecchi tempi: l’arena.
Le ore trascorse in silenzio, nell’attesa quasi spasmodica di un movimento, di ogni minimo rumore. L’attesa del sopraggiungere del nemico che avrebbe potuto farci fuori col favore delle tenebre. In un certo senso, siamo ancora nell’arena. Peeta ha ragione: è come ricordare i vecchi tempi. Siamo in un’arena, Capitol City, piena di trappole nascoste, i baccelli. E noi siamo i tributi sacrificabili che devono affrontarle.
In qualche modo, torniamo sempre ad essere dei tributi. Sembra che non siamo in grado di essere qualcosa di diverso dal tributo.
Scuoto la testa, ed un incerto sorriso fa capolino sulle mie labbra. – Hai uno strano ricordo di ciò che sono i vecchi tempi.
Ridacchia.
Per un bel pezzo nessuno di noi due aggiunge altro. Alimentiamo la stufa, beviamo la sorta di caffè che ci aiuta a restare vigili, anche se ha un sapore terribile. Restiamo vicini. Ad un certo punto ci spostiamo, mettiamo gli sgabelli in modo da poterci sedere stando affiancati, ma coi corpi ed i visi rivolti in direzioni diverse: io osservo la strada, Peeta le tende del nostro accampamento. I pochi lampioni accesi mandano un bagliore dorato. È tutto così tranquillo, stanotte, che sono sicura che non accadrà nulla fino alla fine del nostro turno. Mi rilasso così tanto che lascio cadere la testa contro la sua spalla. Peeta solleva una mano per accarezzarmi una guancia con la punta dell’indice. Prendo il suo braccio e lo stringo tra le mie, chiudendo gli occhi per un istante.
È la sua mano a farmeli aprire di nuovo. La sua mano che, con una leggera carezza, va a toccare il mio ventre. Il mio ventre vuoto. Il ventre che custodiva la nostra gioia più grande, quella gioia che non abbiamo mai avuto la possibilità di conoscere.
- Sarebbe dovuta nascere in questi giorni, vero? – sussurra al mio orecchio. Lo posso sentire solo io.
Annuisco e basta, incapace di esprimere qualcosa a parole.
Sul finire dell’autunno: era questo il periodo in cui sarebbe dovuto scadere il termine. Se non ci fossero stati gli Hunger Games, se non fossi dovuta tornare nell’arena, a quest’ora sarei ancora a casa mia, o a casa di Peeta, ad attendere l’inizio del travaglio. Ad attendere il suo arrivo. O forse a quest’ora sarebbe stato già tutto finito, ed il dolore sarebbe stato solo un lontano ricordo, sostituito dall’amore e dalla felicità di averla finalmente tra le braccia, stretta contro il mio petto. Il mio piccolo fiore di lillà…
Tremo, stretta contro il suo braccio. Lo stringo come se potesse rappresentare il suo surrogato, ma non c’è nulla a questo mondo che possa sostituire il corpicino di un bambino appena nato. Peeta si sposta e mi avvolge col suo corpo, preme con forza una mano sulla mia testa e mi spinge contro il suo petto quando una serie di strani lamenti, simili a singhiozzi, inizia ad uscirmi dalle labbra.
- Mi dispiace – mormora. Ha la voce rotta. – Non volevo, scusami… non volevo farti questo…
Non voleva farmi piangere? Non voleva mettermi incinta? Non voleva che la sentissi crescere dentro la pancia? Ci sono così tanti percorsi con cui proseguire il discorso, ma qual è quello giusto?
Forse non ce n’è uno giusto.
- Penso continuamente a lei – ammetto, tirando su col naso. – Non c’è giorno in cui non lo faccio. Non pensavo che… avrei potuto provare così tanto amore per lei.
Peeta muove appena la testa, poggiando la sua guancia contro la mia. Sento il suo respiro contro l’orecchio, caldo e confortante rispetto al freddo della notte che ci avvolge. – Credevi di non volerle bene?
- Mi ha colta alla sprovvista – rafforzo la presa sul suo braccio. – Ricordi che ti dissi che non avrei mai voluto avere dei figli?
- Certo che lo ricordo.
- Non mi piacciono granché, i bambini. Gli unici bambini che mi stanno simpatici sono i fratellini di Gale – non riesco a trattenere una risatina, arrivata a questo punto. – E Prim, naturalmente: Prim è la mia preferita. Ma oltre a loro non doveva esserci posto per nessun altro. Non avrei mai messo al mondo dei figli miei, per via degli Hunger Games.
- Poi sono arrivato io a metterti nei casini – ride, Peeta, anche se è una risata carica di tensione. Ed il tono della sua voce è aspro, quasi.
Sposto il viso all’indietro, incrociando i suoi occhi che con la quasi totale assenza di luce sembrano blu scuro. I nostri nasi sono quasi a contatto. – Non potrei mai definire nostra figlia un casino, Peeta. O, se proprio devo, lo definirei il più bel casino della mia vita.
- Ma non c’è più, adesso – scuote appena la testa. – Penso che, forse, avrebbe potuto essere un casino evitabile. Se solo avessi fatto un po' più di attenzione…
- Non puoi assumerti colpe che non hai, Peeta. A che serve rivangare le nostre azioni adesso? – gli faccio notare. – Non è colpa tua se è accaduto.
Mi rendo conto che questa è la discussione più lunga sulla bambina a cui ho preso parte, da quando l’ho persa. È la prima volta che riesco a parlare di lei senza quasi scoppiare in un pianto a dirotto, senza sentire quel dolore sordo al cuore che mi mozza il respiro, e senza avere l’impellente desiderio di abbandonare i miei interlocutori ed il luogo in cui mi trovo. Non posso fare a meno di pensare che, se ci riesco, è solo perché lo sto facendo insieme a Peeta. L’altra metà del mio dolore, l’altra metà che ha permesso a quella piccola vita di prendere forma. È la metà che mi mancava per affrontare, finalmente, questo discorso. È la metà che sarebbe diventata genitore insieme a me, una volta giunto il momento della sua nascita.
- Non è nemmeno colpa tua, Katniss – dice, sfiorando il mio naso col suo. – So che lo pensi, me lo ha detto Johanna, ma non è così. Non è colpa tua se nostra figlia è morta.
- Come può non essere colpa mia? – chiedo subito, e mi rabbuio. – Johanna dovrebbe cominciare a farsi gli affari suoi.
- No, ha fatto bene. So che tu non mi avresti mai confessato nulla – ed in effetti è ciò che ho fatto fino ad ora – e non posso lasciare che continui a colpevolizzarti per ciò che le è accaduto.
- Cosa dovrei fare? Fingere come se non ci fosse mai stata?
- Non fingere, Katniss, no. Devi solo… capire.
Rimango in silenzio, non replico. Questo mio mutismo sprona Peeta a proseguire.
- Devi venire a patti con te stessa, ed ammettere che ciò che è accaduto quella notte nell’arena non è stato per causa tua. Come avrebbe potuto esserlo? Pensaci: tu hai fatto di tutto per lei, anche quando mi dicevi che non sarebbe servito a niente.
- Ho detto un mucchio di sciocchezze – chino lo sguardo, vergognandomi dei suoi occhi che mi scrutano. Ricordare tutti i pensieri, e tutte le frasi che gli ho urlato in faccia, mi fa sentire indegna. Indegna di lui, indegna del suo amore per me. Indegna...
- Ti stavi proteggendo, amore mio – sento il suo bisbiglio infrangersi contro la mia fronte. – So che non hai mai creduto a ciò che dicevi. Perché il modo in cui i tuoi occhi si illuminavano quando la sentivi muoversi, il modo in cui le hai cantato quel giorno sul tetto… quelli non erano i gesti di una donna che odiava sua figlia – la sua bocca scivola sul mio viso, posandosi lievemente all’angolo del mio naso. Le sue labbra si sono bagnate delle mie lacrime. – Saresti stata una madre meravigliosa per lei.
- Non sapremo mai se sarà così – chiudo gli occhi, respirando l’odore della sua pelle.
- Un giorno, forse.
- No, Peeta: mai – riapro le palpebre e torno a guardarlo negli occhi. – Non voglio provarci mai più.

 

Ho visto il modo in cui la luce si è spenta nelle iridi di Peeta. Ho visto l’effetto che le mie parole hanno avuto sulle sue aspettative, sulle sue speranze per il futuro. Ho visto quel flebile barlume di speranza prendere vita e smorzarsi nel giro di due secondi: il tempo che ho impiegato a formulare la mia frase, ed il tempo che ha impiegato lui per assimilarla.
Peeta l’ha presa malissimo, e dentro di me ho sempre saputo che questa sarebbe stata la sua reazione. Peeta è un ragazzo meraviglioso, ed ha così tanto amore dentro di sé: il suo amore è in grado di rendere felice una famiglia intera. Quella famiglia che io non posso più dargli.
- Potresti cambiare idea – ha detto, cercando di negare l’evidenza dei fatti. Ma io ho scosso la testa, e non ho aggiunto nient’altro. Mi sono limitata a stringergli il braccio ancora più forte, ho posato la fronte contro la sua spalla, e sono rimasta così, in silenzio, fino alla fine del turno di guardia.
Egoisticamente, ho fatto ciò che mi riesce meglio: mi sono chiusa in me stessa ed ho cercato il calore del suo corpo, ho cercato di chiudere tutto fuori ed in qualche modo, ho chiuso fuori anche Peeta. Non posso andare avanti senza di lui, anche se so che l’ho fatto soffrire con le mie parole. Lo farò soffrire per anni, se questa guerra non ci ucciderà prima. Cosa se ne fa di me, a questo punto della nostra storia? Cosa se ne fa di una moglie che gli nega la gioia della paternità? Quella gioia che abbiamo appena sfiorato, e che ci è stata negata nel modo più ingiusto e doloroso?
Sono sempre stata sicura del suo desiderio di paternità e non l’ho mai messo in dubbio. Solo nelle ultime settimane ho creduto che si fosse affievolito, a causa proprio di ciò che ci è accaduto… ma è stata un’illusione a cui ho voluto credere, aggrapparmi, per non affrontare la reale portata di ciò che questa nascondeva. La realtà che ho appena distrutto con le mie parole.
Siamo tornati all’interno della nostra tenda e ci siamo stesi nei nostri sacchi a pelo senza che nessuno dei due aprisse bocca. Mancavano almeno un paio d’ore all’alba, ore in cui avremmo potuto ignorarci a vicenda dormendo, ma dormire, come prima, sembrava del tutto fuori questione. Le mie palpebre hanno rifiutato di chiudersi e la mia mente lavorava troppo velocemente per permettermi di rilassarmi nel sonno. Mi sono rigirata nel sacco a pelo, ed ho notato gli occhi aperti di Peeta, fissi in un punto al di sopra delle nostre teste, sulla tela della tenda. Non dormiva neanche lui.
Si volta ad un certo punto, forse perché sentiva il peso del mio sguardo fisso sul suo viso, e resta a guardarmi. Con le braccia incrociate dietro la testa, in silenzio, mi riporta all’interno di un ricordo lontano, un ricordo in cui era accaduto qualcosa di molto simile: Peeta si era offeso per ciò che avevo detto, ed io l’avevo raggiunto in camera per porgergli le mie scuse. Mancavano pochi giorni al nostro ingresso nell’arena.
E sta accadendo esattamente la stessa cosa. Capitol City si è trasformata in una sorta di arena attorno a noi, e noi siamo di nuovo i tributi che dovranno affrontarla. Ed io ho di nuovo fatto un torto a Peeta.
- Mi dispiace – mimo con le labbra.
Ma stavolta le scuse non sono più sufficienti.
Peeta batte le palpebre, e poi fa una cosa che non mi aspettavo.
Si volta dall’altra parte e mi ignora.

 

Dovrei arrabbiarmi, o magari offendermi per essere stata trattata nel modo in cui Peeta mi ha trattata. Anche la disperazione sembra un buon compromesso, a ben pensarci… ma tutto questo a cosa porterebbe? A ben pensarci, a niente.
Peeta ha tutto il diritto di essere arrabbiato con me. Ha il diritto di avercela con me, per aver scelto di seguire una decisione che in una coppia, di norma, si prende in due e non da soli. Gli ho confessato che non voglio più provare ad avere dei figli, e questa confessione ostacola i suoi desideri. Va contro tutte le sue intenzioni. Di nuovo, cosa se ne fa di me? Ha fatto bene ad ignorarmi, ha fatto bene a rifiutare le mie scuse. E forse fa bene a lasciarmi, se mi vuole lasciare. Non siamo neanche davvero sposati. Non sono la ragazza giusta per lui.
La ragazza giusta per lui non gli negherebbe mai dei figli.
Io sono la ragazza sbagliata.

 

Ho giusto il tempo di realizzare questo pensiero che la squadra comincia a risvegliarsi, a prepararsi per una nuova giornata di… di cosa? Di riprese, presumo, dato che le riprese sono il nostro compito principale.
Invece, dopo aver bevuto una tazza della brodaglia che qui spacciano per caffè, Boggs ci dice che ha avuto direttamente dalla Coin l’ordine di farci smuovere. I Pass-Pro sono noiosi e statici, hanno bisogno di più azione. Plutarch è delusissimo dalla loro qualità, decisamente inferiore rispetto a quella dei vecchi. Il motivo per cui le riprese non vanno bene è uno soltanto: non ci lasciano fare niente, a parte riprenderci mentre camminiamo con i fucili tra le mani. È la mancanza di azione a renderli così insipidi, e credo che anche al Comando se ne siano finalmente resi conto.
Abbiamo così la possibilità di spostarci, di dirigerci verso un quartiere residenziale che è stato evacuato diverse settimane fa e che sulla mappa ha poca importanza strategica, ma che è perfetto per gli scopi della nostra troupe. Ci riprenderanno mentre cerchiamo di superarlo come se fosse un avamposto importante, contando anche sulla presenza di due baccelli che vengono segnalati sull’Olo di Boggs. Ed ecco che il Pass-Pro di oggi assume una marcia in più, diventando d’un tratto avvincente. È proprio ciò di cui ho bisogno, finalmente: è qualcosa in cui posso concentrare tutta me stessa, mettendo da parte i miei problemi privati con Peeta. L’azione ci permetterà di evitarci a vicenda, o almeno lui eviterà me, dato che è questa la linea che sembra aver deciso di seguire.
Quando siamo sul posto, Cressida ci mostra le linee guida a cui dobbiamo sottostare e lancia alcune bombe fumogene per dare l’illusione della guerra in corso; Gale è stato scelto per azionare il primo baccello, che dovrebbe contenere una raffica di proiettili indirizzati agli invasori, cioè a noi. Arriva il segnale di inizio riprese e noi cominciano a muoverci, accorti, armi in mano, fino a quando non siamo in prossimità del baccello. Cerchiamo un riparo per schivare i proiettili che arriveranno e attendiamo il colpo di fucile di Gale che lo aziona. Dopo diversi minuti, dopo che migliaia di pallottole sono passate al di sopra delle nostre teste, Boggs ci fa segno di uscire dai nostri nascondigli e di proseguire il tragitto. Controlla l’Olo per seguire la via più sicura che ci condurrà al secondo baccello.
Solo che quella che sta percorrendo non è per niente una via sicura.
Sta percorrendo le mattonelle colorate del quartiere residenziale, con noi alle calcagna, quando aziona inavvertitamente un nuovo baccello, uno di quelli non segnalati sull’Olo.
Il baccello causa una forte esplosione.

Facendogli saltare le gambe.

 

 

 

 

_________________________________

Ed eccoci qui, fanciulli e fanciulle.
Vi è piaciuto il drama?
Perdonatemi, non ho saputo resistere ^^’
Però ‘drama’ ci sta bene per quanto riguarda il discorso avvenuto tra Peeta e Katniss: hanno finalmente intrapreso quel discorso che rimandavano da mesi e che, purtroppo, sembra aver portato a un punto di rottura. Forse irrimediabile.
E questo non è forse un drama?
(Forse sto eccedendo con l’uso della parola ‘drama’. Che drama. Sono proprio una Drama Queen.)
Grazie mille per aver letto anche queste note draMatiche :) ci sentiamo presto per il seguito!

D.

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Capitolo 38
*** 38. ***


In The Still Of The Night - 38

In the still of the night

 

38.

 

Boggs è morto.
È morto davanti ai miei occhi, in un lago di sangue. Homes ha provato a fissare dei lacci emostatici, ma il flusso di sangue che usciva dai moncherini delle sue gambe non si è arrestato, rendendo vani tutti i suoi tentativi. Boggs ha avuto giusto il tempo di trafficare con l’Olo e di trasferire il nulla osta di massima sicurezza prima di consegnarlo nelle mie mani, col viso che diventava sempre più cinereo e che faceva presagire il sopraggiungere della morte. Ha mormorato qualcosa con una voce così fievole che se non mi fossi trovata così vicina a lui, a pochi centimetri di distanza dal suo viso, non sarei mai stata in grado di sentirlo.
- Non fidarti di loro. Non tornare indietro. Fa quello che sei venuta a fare.
Sono state le sue ultime parole. I suoi occhi hanno continuato a fissarmi, immobili, anche se la luce che li illuminava si è spenta, e non potevano più vedere nulla di concreto. I suoi occhi hanno continuato a fissare me, la ragazza a cui ha affidato l’Olo. Lo stesso Olo che bramavo da giorni, e che cercavo di capire come sottrarre al suo controllo.
Boggs mi ha, letteralmente, lasciato campo libero per agire come voglio agire. Abbandonare il gruppo, raggiungere la villa presidenziale… uccidere Snow.
- Katniss? Katniss! Dobbiamo andarcene da qui!
Distolgo a forza gli occhi dal volto senza vita di Boggs e seguo la voce che mi sta urlando di fuggire, di allontanarmi dal corpo esanime del mio comandante. È Finnick, che continua ad implorarmi di muovermi mentre mi afferra per un braccio. Ha ragione: presto, questo posto pullulerà di Pacificatori. Mi rimetto in piedi, stringendo l’Olo e l’arco contro il corpo, mentre mi rendo finalmente conto di ciò che sta accadendo attorno a noi.
Proprio come le simulazioni all’interno dell’Isolato nel Distretto 13, il quartiere residenziale sta per inglobarci nelle sue trappole nascoste. L’esplosione che ha ucciso Boggs ha colpito anche Leeg 2, che è stesa a terra e stringe i denti per il dolore che le provoca la gamba ferita. La sua gemella, Leeg 1, le si avvicina di corsa ma una delle piastrelle scompare sotto il suo piede, azionando un altro baccello. Delle alte mura si vanno ad ergere intorno a noi, circondando il quartiere residenziale e chiudendoci ogni possibile via di fuga. Le pareti si sono appena sigillate con uno schianto quando un’onda nera, alta una decina di metri, comincia ad invadere le strade e avanza, incontrollabile, col solo scopo di travolgere e seppellire tutto ciò che incontra sul suo cammino. Compresi noi.
- Correte! – è l’urlo che la Jackson ci rivolge.
Io e Finnick seguiamo la sua voce, cercando di toglierci dalla strada alla ricerca di un riparo. Mitchell è proprio davanti a noi quando inciampa e cade al suolo, facendo scattare un altro baccello che lo solleva in aria nel giro di un istante, ghermito da lunghi cavi. Il sangue gronda dal suo corpo e non capisco come sia possibile, finché non vedo dei lunghi uncini che si sono conficcati nella sua carne. Mi blocco, con gli occhi per aria fissi sugli uncini, incapace di proseguire.
- Katniss!
È la voce di Peeta, così come quella di Finnick poco fa, a farmi distogliere lo sguardo da questo scempio per focalizzarmi su altro. Lui sta avanzando a fatica mentre, aiutato da Leeg 1, sorregge Leeg 2. Dietro di loro, l’onda nera che avanza.
- Correte! – strillo, ed invece di proseguire torno sui miei passi, cercando di raggiungerli per aiutarli.
- Vai avanti! Vai avanti! – mi urla lui, infuriato.

Infuriati pure, penso. Non presto ascolto al suo consiglio e li raggiungo, liberandoli dal peso delle armi per agevolare la loro fuga. Correndo, superiamo il corpo di Boggs, quello di Mitchell che pende sopra le nostre teste, seguiamo il resto della squadra che si sta facendo strada all’interno di un edificio e poi ancora percorriamo una rampa di scale, due rampe di scale, fino ad un appartamento sgombro in cui restiamo, in attesa che l’ondata si abbatta sulla struttura.
La sostanza melmosa, simile a petrolio, di cui è costituita si abbatte contro i vetri delle finestre e riesce a penetrare dentro l’edificio; deve aver sommerso completamente le scale, perché alcuni rivoli si fanno strada nello spiraglio inferiore della porta. La osservo, orripilata, ma non riesce a raggiungerci, anzi, sembra aver finalmente rallentato la sua furia distruttrice. Solo una trentina di centimetri del candido pavimento vengono sporcati da quella robaccia nera.
- Si sta ritirando – mormora Cressida. Osserva la situazione al di fuori della finestra attraverso uno spiraglio della tendina arancione.
- Non possiamo restare qui – annuncia Finnick. – Abbiamo appena innescato un’intera via piena di baccelli. Ci hanno beccato di sicuro con i nastri di sorveglianza.
- Ci puoi contare – dice Castor. – Ogni strada è tappezzata di telecamere di sicurezza…
Poso a terra i fucili ed il resto delle mie armi, ma tengo stretto contro il petto l’Olo come se volessi difenderlo. Da cosa, non lo so neanche io stessa. So solo che Boggs mi ha ritenuta abbastanza affidabile da lasciarlo nelle mie mani. Lo osservo e penso, adesso, di avere ciò che mi serve per procedere al mio piano solitario… non proprio solitario, perché Gale mi ha fatto capire che mi seguirà ovunque io vada, e le mie proteste di tagliarlo fuori non serviranno a nulla. Non posso, però, fare a meno di chiedermi se anche Boggs avesse intuito le mie intenzioni: le sue ultime parole sono molto criptiche, e non le capisco appieno.

Non fidarti di loro. Non tornare indietro. Fa quello che sei venuta a fare.
Fa quello che sei venuta a fare: ovviamente, questa è l’unica frase a cui sono capace di fornire una risposta. Sono venuta a Capitol City per tentare di uccidere Snow. Ma il resto? Di chi non posso fidarmi? Della Jackson? Del resto dei soldati? Della mia stessa troupe?
Di Gale e Peeta?
Ho la testa così piena di dubbi che a stento faccio caso alle voci degli altri che cercano di trovare una scappatoia. Le strade presto saranno invase dai Pacificatori e loro sanno dov’è che ci siamo nascosti grazie ai video di sorveglianza. Questi, però, ora potrebbero essere stati danneggiati dall’ondata nera, quindi se scappiamo adesso potremmo avere una possibilità di confonderli e distanziarli. Potremmo crearci una via di fuga e tornare indietro. Ma anche i nostri trasmettitori sembrano essere fuori uso: la Jackson non riesce a contattare il campo base.
- Dammi l’Olo, soldato Everdeen. Posso ricondurvi tutti al sicuro se ci diamo una mossa – esclama lei, tendendo un braccio.
Di riflesso, stringo ulteriormente le braccia contro l’oggetto ed osservo la donna, che adesso è il mio comandante, con sospetto. Ed ecco che le parole di Boggs iniziano ad avere un significato: non mi fido della Jackson. Ma mi sono mai fidata davvero di lei?
- Boggs l’ha affidato a me – dico.
- Non essere ridicola – sbotta.
- Ma è vero – dice Homes. – Boggs ha trasferito a lei il nulla osta di massima sicurezza mentre moriva. L’ho visto.
- E perché mai l’avrebbe fatto?
Già: perché? Boggs non mi ha detto nient’altro! Non ho nessuna carta da giocare per spiegare il perché, adesso, l’Olo risponda ai miei comandi… e la cosa più buffa di tutta questa situazione è che io l’Olo non so neanche come si usa. Ero prontissima a rubarlo, nella peggiore delle ipotesi, ma non avrei mai potuto usarlo perché nessuno si è mai preso la briga di spiegarmelo. Con sconforto, e anche irritazione, mi rendo conto che se voglio andare avanti devo farlo con la squadra completa al seguito. Per usare l’Olo, e per percorrere le strade della città fino al suo centro. È da stupidi ignorare il campo minato che ci aspetta fuori da questo edificio, è impossibile. Ed io da sola non sarei mai in grado di farcela, neanche Gale potrebbe darmi una mano. Ho bisogno di tutti loro, non posso abbandonarli.

Maledizione.
Per questo devo metterli al corrente del mio piano, ma devo farlo passare per un ordine, e non per una mia iniziativa strampalata.
- Devo assassinare il presidente Snow. È un ordine che ho ricevuto direttamente dalla presidente Coin.

 

La Jackson non ci ha creduto nemmeno per un secondo. Ovviamente. Una miriade di domande è scaturita fuori dalle sue labbra dopo la mia affermazione: Perché non ne siamo stati messi al corrente? e Boggs lo sapeva? sono state le più gettonate, alle quali ho risposto con uno spirito di immaginazione che non credevo di avere. Alla fine, la donna ha concluso il tutto con un “Non ti credo” secco, ripetendo l’ordine di trasferire a lei il nulla osta di massima sicurezza.
Come se sapessi farlo!, avrei voluto urlarle in faccia, ma non l’ho fatto e mi sono rifiutata di ubbidire al suo ordine. Questo ha provocato una sorta di mio ammutinamento nei suoi confronti, tanto da ritenere necessario puntarmi contro una pistola. Gale, Finnick e Peeta hanno puntato le loro armi contro la Jackson per difendermi. La situazione stava degenerando a rotta di collo… ma poi, un attimo prima della catastrofe, è intervenuta Cressida.
- È vero. Noi siamo qui per questo – ha indicato sé stessa e la sua troupe. – Plutarch vuole che venga trasmesso in tv. Pensa che se riusciamo a filmare la Ghiandaia Imitatrice che assassina Snow, la guerra finirà.
Cressida non ha ricevuto nessun ordine del genere da Plutarch: era chiaro come il sole. Ha mentito al solo scopo di proteggermi. Ma in qualche modo le sue bugie hanno calmato la Jackson. Ha abbassato la pistola e anche quelle degli altri, lentamente, hanno seguito lo stesso percorso. Ho tirato un piccolo, flebile sospiro di sollievo a causa di tutta la tensione che si era andata a creare, ma che non se ne era andata del tutto. Sepolta in questo modo, sarebbe bastata anche la caduta di uno spillo per riportarla in superficie.
- Conosco la residenza del presidente – ha detto Peeta, spiazzandomi. L’ho guardato, ma lui aveva tutta l’attenzione rivolta sulla Jackson e solo su di lei, ignorando il resto di noi. – Posso farvi da guida in un posto che voi non conoscete.
- Peeta ha ragione – ha aggiunto Cressida.
Mentono, stanno mentendo tutti quanti. Mentono spudoratamente e a nessuno, a parte me e Gale, che era a conoscenza dei miei piani di fuga, sembra importare qualcosa. Mentono sapendo che è l’unica cosa che tiene la Jackson a bada dal piantarmi una pallottola in testa. E mi fa infuriare, il fatto che mentano. Soprattutto Peeta, che stanotte sembrava non volere più avere nulla a che fare con me, e adesso sta di nuovo tentando di proteggermi. Ancora una volta.
- Basta chiacchiere. Ce ne dobbiamo andare – Finnick ha chiuso la questione. Per il momento.
Abbiamo dovuto lasciare indietro Leeg 2 perché la ferita che aveva alla gamba era troppo grave e non riusciva a camminare; salire le due rampe di scale, per lei, era stato un vero e proprio miracolo. Sua sorella ha voluto restarle accanto in attesa dei soccorsi che sarebbero sopraggiunti non appena avremmo potuto riprendere le comunicazioni col campo base. Lo strato di petrolio asciutto che ci ha atteso fuori dalla porta dell’appartamento, con sollievo, ha celato le nostre impronte. Una volta fuggiti e lontani dai Pacificatori, questi non sarebbero stati in grado di capire la direzione che abbiamo preso.
Dato l’evolversi degli eventi, sono diventata in qualche modo il capo squadra e tutti hanno atteso che dalla mia bocca uscissero delle direttive. Controvoglia, ho dovuto chiedere aiuto alla Jackson per attivare l’Olo; lei ha risposto con ancora meno voglia, ma ha premuto diversi pulsanti per consentirmi di vedere la mappa olografica della città contrassegnata dai baccelli. Tantissimi… e sono solo quelli di cui siamo a conoscenza. Come abbiamo scoperto a nostre spese, molti altri se ne celano ai nostri occhi.
Una volta in strada, percorriamo i cortili e i viottoli devastati dall’ondata nera ed io cerco con tutta me stessa di non incrociare il corpo di Mitchell ancora sospeso per i cavi. Osservo l’Olo e cerco di capire quale strada sia la più sicura da seguire, ma scopro che lo sono un po' tutte: l’onda ha attivato altri baccelli, rendendoli così del tutto innocui. A terra, in un mucchietto dorato a pochi metri di distanza, ci sono degli aghi inseguitori. Ne calpesto un paio mentre cammino ed i loro corpi scricchiolano sotto la suola dello scarpone. Dall’altezza del petrolio che macchia gli edifici si riesce a capire l’intensità e la forza dell’onda che perdeva potenza; a mano a mano che avanziamo, questo lascia il posto alle strade pulite e alle case immacolate degli isolati successivi. Questo vuol dire una cosa sola: che il rischio di venire scoperti è di nuovo alto. Le telecamere di sorveglianza da questo punto in poi potrebbero essere perfettamente funzionanti. Proseguire oltre sarebbe rischioso e noi abbiamo urgente bisogno di un riparo, non riusciremo a raggiungere il nostro campo prima che si faccia buio.
- Torniamo indietro – dico.
- Indietro? Sei impazzita? – chiede la Jackson, interdetta.
Ma io ho già percorso a ritroso metà dell’isolato ancora sporco di petrolio ed evito di risponderle; osservo le abitazioni vuote, soppesandole, cercando di capire quale delle tante possa fare al caso nostro, ma non ho molto tempo a disposizione per decidere. Mi avvicino ad una porta che sembra più robusta delle altre e cerco di aprirla, ma sembra essere chiusa a chiave. Cerco di aprirla con una spallata, ma fallisco. È decisamente robusta.
- Faccio io – Homes si avvicina e mi scansa gentilmente, iniziando a trafficare con alcuni bastoncini di metallo per forzare la serratura. – Entrate! – dice non appena la porta si spalanca.
Resto per alcuni secondi sulla soglia, osservando la strada da entrambe le direzioni, mentre il resto del gruppo entra in casa. Lancio uno sguardo al cielo, aspettandomi quasi di vederlo pieno di hovercraft venuti a portarci via, e poi entro, chiudendomi la porta dietro le spalle.
Non ho ancora raggiunto gli altri quando il pavimento trema sotto i miei piedi ed il boato di una forte esplosione risuona nelle mie orecchie. Al buio, osservo la porta chiusa, ma è ancora lì, in piedi ed intatta. Alcuni passi risuonano dietro di me, mi raggiungono.
- Non proveniva da qui fuori – mormora Homes. – Forse a qualche isolato di distanza.
- È dove abbiamo lasciato le ragazze? – chiede Peeta.

Le ragazze, le gemelle Leeg. Se hanno ragione, quell’esplosione può significare solamente una cosa. Mi rifiuto di pensarci e, scansando di malo modo gli uomini riuniti in corridoio, mi allontano.
La casa è quasi totalmente al buio, illuminata solo dalla poca luce che penetra dalle persiane e dai punti delle finestre non macchiate di petrolio. Seguo il vocio delle persone che si sono riunite al piano superiore, in quello che sembra un open space pieno di divani, poltrone e sedie imbottite. Al centro della stanza, c’è un grande schermo televisivo debolmente illuminato. Questa sorta di salotto sembra un luogo di incontro per i grandi appassionati dei programmi di Capitol. Odio questo posto.
Non l’ho detto ad alta voce, l’ho soltanto pensato, ma è come se il televisore avesse percepito il mio pensiero. So che non è possibile, eppure lo sospetto lo stesso, mentre questo emette alcuni “bip” sommessi e si illumina di colpo.
- È una trasmissione straordinaria! – esclama Cressida, rialzandosi dalla poltrona su cui si era poggiata.
La trasmissione straordinaria, scopriamo, è una ripresa di noi che attraversiamo il colorato quartiere residenziale: inizia dalla fine della registrazione del Pass-Pro e prosegue, mostrando l’esplosione che ha ucciso Boggs e ferito Leeg 2, mostrando l’innesco dell’ondata nera, la morte di Mitchell e noi che cerchiamo di metterci al riparo all’interno del condominio. Ogni tanto focalizzano l’attenzione sui nostri volti, in particolare sui vincitori degli Hunger Games che sono passati dalla parte del nemico. Un brusco taglio di montaggio divide il servizio, trasmettendo la piazza devastata dal petrolio e brulicante di Pacificatori che circondano l’edificio in cui, in teoria, pensano che siamo ancora nascosti. Alcune granate vengono lanciate contro le finestre e, quando esplodono, le possiamo ricollegare al boato che abbiamo sentito poco fa. Il condominio è in fiamme, e adesso posso vedere ciò a cui non ho voluto pensare prima.
Le sorelle Leeg sono morte.
Ma quando la linea viene restituita allo studio televisivo, dove appare il faccione familiare e serio di Caesar Flickerman, non è l’annuncio della morte delle due gemelle a risuonare dagli altoparlanti. È la morte di tutta la squadra: dei soldati, di Cressida e del suo team, di Gale, di Finnick, di Peeta…
Ed anche la mia.

 

Sono morta. O almeno così pensano tutti. Lo pensano qui, a Capitol City, lo pensano in tutti i distretti e, sicuramente, lo pensano anche al Distretto 13. Mia madre e mia sorella sanno che sono morta e non c’è nulla che io possa fare per smentire la notizia. Non abbiamo i mezzi per comunicare con il resto dell’esercito e con gli ufficiali… siamo totalmente tagliati fuori dal mondo. Qualcuno ha commentato la cosa come un buon colpo di fortuna ed in parte è vero: è meglio, molto meglio che qui a Capitol pensano che siamo morti, almeno non li avremo costantemente intorno come se volessero braccarci. Ma per il resto non va bene. Per niente. Non va, perché non posso fare altro che pensare al dolore che l’annuncio della mia presunta morte ha scatenato all’interno della mia famiglia. Sarà mille volte più forte di quando furono costrette a mandarmi due volte nell’arena.
Resto seduta sul divano, con i gomiti premuti sulle ginocchia e le mani a coprire il collo, mentre cerco di scrollarmi di dosso questa brutta sensazione. Vorrei essere più brava di così ed essere in grado di celare agli altri il modo in cui tutto questo mi ha scossa, ma non sono brava, per l’appunto. Sono così piena di sconforto per tutto ciò che è accaduto nell’ultima ora che non seguo i movimenti degli altri, e faccio poca attenzione a ciò che si dicono.
Passo una mano sul viso, sospirando, e fisso lo schermo che si è spento dopo l’annuncio di Caesar. Tra non molto si illuminerà di nuovo per l’intervento del presidente Snow. Sì, farà un intervento per commentare la mia morte: la morte di Katniss Everdeen, la Ghiandaia Imitatrice, il simbolo della ribellione. Se possibile, questo intervento non ancora avvenuto mi getta ancora più nello sconforto e non farà altro che acuire il dolore dei miei cari, e di tutti coloro che sono morti con me, in teoria. Al 13, un gruppo di persone ci sta piangendo: mia madre, Prim, Annie, Effie, Hazelle ed i fratellini di Gale… chissà se anche Haymitch e Johanna sono dispiaciuti per la nostra morte.
Una mano si posa sulla mia spalla ed io sobbalzo sul posto senza un motivo preciso, ma è solo Finnick che sta cercando di prendere posto accanto a me. Ha le braccia occupate da una marea di scatolette e pacchi di biscotti.
- Dove hai trovato tutta questa roba? – domando, sorpresa.
- Era nascosta nelle intercapedini e negli armadi – mi spiega, posando il tutto su un tavolinetto. – A Capitol City si fa scorta di cibo in caso di tempi bui.
- Tempi bui… - mormoro tra me e me. Afferro una lattina e la soppeso tra le mani. L’etichetta mi informa che contiene una zuppa di pesce. – Tempi bui come questi?
- O qualsiasi cosa possano interpretarli come tali – dice Finnick. Si sporge anche lui per afferrarne una. – Questa è per te. Peeta dice che adori questa roba.
La “roba” in questione è una scatoletta di stufato di agnello: il piatto che, durante i miei primi Hunger Games, rivelai essere il mio cibo preferito e che gli sponsor inviarono a me e a Peeta. Alzo lo sguardo e lo cerco, trovandolo seduto a diversi metri di distanza da me, insieme a Gale e al gruppo di Cressida, mentre soppesano anche loro una parte del cibo che hanno trovato in casa. Sta pensando anche lui ai giorni nella grotta? Quei giorni che non sembrano aver fatto parte di un programma televisivo, ma di un mondo lontano? Ancora non conoscevo Peeta come lo conosco ora, ma per lui era già diverso; per Peeta è sempre stato diverso. Mi amava già allora…
- Cosa è successo tra di voi? – sussurra Finnick al mio orecchio.
Mordo le labbra, smettendo di osservare l’oggetto delle mie attenzioni e dei miei pensieri. – Abbiamo… discusso. – gli dico.
Discussione, poi… è stata più una confessione da parte mia che non è stata presa bene dall’altro interlocutore.
- Voi discutete? Davvero? Katniss e Peeta che litigano?
- Ti sembra così strano?
Ride. – No, è rassicurante – inarco le sopracciglia. – Almeno so che non siete degli anormali che vanno sempre d’amore e d’accordo.
- Non siamo degli anormali – lo rassicuro.
- Immagino che tu non voglia raccontarmi il perché non state insieme da stanotte… sì, vi ho visti – sorride sghembo, ma il suo sorriso dura solo un istante.
Finnick ed io siamo stati l’uno il confidente dell’altro durante l’incerto periodo che abbiamo trascorso al Distretto 13. A dire il vero, era Finnick quello che parlava più dei due quando non veniva colpito dai suoi momenti di confusione. Ci siamo dati forza a vicenda quando nessuno di noi, e nessun altro, sapeva cosa stava accadendo alle persone che amavamo. Stare vicini, anche se in silenzio e in confusione, era un modo per andare avanti. Abbiamo imparato a conoscerci meglio, anche se la parte che abbiamo manifestato di più era la peggiore di noi stessi: la più debole, la più indifesa. Entrambi, siamo stati le facce opache e opposte delle brillanti medaglie che abbiamo mostrato nelle arene dei nostri Hunger Games. Parlo delle prime arene, e non della seconda in cui siamo stati catapultati insieme: quella aveva mostrato già parte dei nostri punti deboli.
- Peeta vorrebbe avere altri figli – bisbiglio. In una sola, breve frase, ho riassunto tutto ciò di cui Finnick deve essere messo a conoscenza.
- E tu non ne vorresti? – chiede, con una nota incerta nella voce.
- Non posso averne più. Non dopo… - mi blocco, schiarendomi la voce. – Non voglio passarci di nuovo – ammetto.
Finnick resta in silenzio per un po', forse sta metabolizzando il senso delle mie parole. Per non sentire il peso di tutto questo silenzio tra noi due, apro la scatoletta dello stufato e comincio a mangiucchiarlo usando il coperchio di latta come cucchiaio improvvisato. Scuoto la testa quando mi accorgo che, oltre alla carne, ci sono anche le prugne secche ed il riso. È proprio come ricordavo. A Capitol City non si precludono nulla, neanche dallo scatolame.
- Probabilmente sono l’ultima persona che potrebbe consigliarti qualcosa, Katniss, perché sono un uomo e perché non ho mai perso un figlio… ma secondo me sbagli, a precluderti qualcosa già da adesso. Non puoi pensare, e sapere, che possa accadere di nuovo – dice Finnick.
- È proprio perché non ci sei passato che non puoi dirmi così, Finnick – ribatto senza distogliere gli occhi dall’agnello.
- Ma potrei passarci. Magari ci sto passando proprio ora e nessuno può venire a dirmelo…
Mi fermo con la mano a mezz’aria e la latta piena di cibo davanti alla bocca. Lo guardo, stralunata. – Finnick, ma cosa-
- Annie è incinta – mormora, poco più di un mimare di labbra. - È dal suo arrivo al 13 che stiamo provando ad avere un bambino. Lo abbiamo saputo la mattina della nostra partenza.
- Finnick – sono senza parole, e si vede. Non riesco a dire nulla al di fuori del suo nome.
- Guarda che conosco già il mio nome, Katniss! – esclama, sfottendomi.
- Non sapevo neanche che…
- Che volevamo un figlio? Abbiamo voluto tenerlo per noi. Lo sanno in pochissimi.

Finnick padre. Non ho mai pensato a lui in questa veste, ma a parte Peeta non mi è mai capitato prima d’ora di pensare con precisione a qualcuno che potesse andare a ricoprire questo ruolo. Men che meno, non ho mai pensato che il desiderio di paternità fosse così forte e presente anche dentro di lui.
- Non sei felice per me? – domanda.
- Felice? Finnick, è ovvio che sono felice! È… è una bella notizia – balbetto. – Sono davvero contenta per te ed Annie.
- La tua faccia dice il contrario – inarca le sopracciglia.
- Non è vero-
- Sì che è vero! Ma non te ne faccio una colpa. So che per te non è facile ed ero insicuro sul parlarti o meno del bambino… ma penso che te lo avrei confessato lo stesso. Anche se pensi che io ed Annie siamo due sciocchi, a volere un figlio nel bel mezzo della guerra.
Stringo le labbra ed abbasso gli occhi, causando in lui una risata a bocca chiusa, perché da una parte è esattamente ciò che penso. È un pensiero abbastanza simile a quello che mi ha accompagnata per anni, dal momento in cui capii che una famiglia e dei figli, in un mondo in cui esistevano gli Hunger Games, non sarebbe mai stata una mia priorità. Ed è il pensiero che mi porta, adesso, a negare una nuova gravidanza, una nuova vita. Restare incinta solo per rischiare di perdere di nuovo il mio bambino…
- Fino a due mesi fa avrei continuato a pensarla come te, ma ci sono stati dei cambiamenti significativi da allora, Katniss. Ci sono dei segni che dimostrano che tra un mese, o un anno, sarà tutto diverso. Quello che stiamo facendo, la guerra e la rivolta, lo facciamo per il futuro di tutti noi. Lo facciamo per il futuro dei nostri figli. Lo facciamo per garantire loro la speranza di un mondo migliore, un mondo senza sofferenze e senza Hunger Games. È un mondo che nessuno di noi ha ancora conosciuto… - ride. - Ci pensi? L’anno prossimo, quando vedrò nascere il mio bambino, sarò sicuro di aver fatto tutto ciò che era in mio potere per rendere questo mondo un posto migliore per lui. Per lui e per tutti gli altri bambini che nasceranno. Anche per il tuo bambino, se lo vorrai.

 

 

 

_______________________

Che gran bel personaggio che è Finnick! Ho sempre gli occhi a cuoricino quando c’è lui in scena *-*
E sta per diventare papà!
Ho pensato di aggiungere questa parte con un super anticipo rispetto a ciò che ci viene fatto sapere nei libri: non so voi, ma a me ha sempre messo tristezza l’annuncio della paternità di Finnick alla fine della guerra, soprattutto dopo aver saputo della sua morte. È stata una mossa crudele!
Ma forse sarebbe ancora più crudele sapere del baby Finnick prima della sua morte…
*urlo interiore*
Per il prossimo aggiornamento non dovrete attendere troppo perché è già a un buon punto ;) forse prima di Ferragosto ce la faccio XD
Un bacione a tutti voi!

D.

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Capitolo 39
*** 39. ***


In The Still Of The Night - 39

Ta-dan! Vi avevo promesso un aggiornamento prima di Ferragosto e così è stato ^^ visto come sono stata brava?
In realtà sarebbe arrivato anche prima di oggi, ma non sono stata propriamente al top dopo la seconda dose di vaccino… in compenso ho sviluppato un 5G da paura! Ne è proprio valsa la pena :D
Ma visto che so che delle mie disavventure sanitarie e tecnologiche non vi importa un accidente, vi lascio direttamente alla lettura del capitolo e vi do già appuntamento per il prossimo! Stavolta ho deciso di risparmiarvi lo sproloquio finale… sono doppiamente brava, vero? ;)

D.

 

 


 

 

 

In the still of the night

 

39.

 

- Non ne sono capace, Gale – mormoro, angosciata. – Non l’ho mai fatto prima, ho solo visto mia madre che-
- Fallo e basta, Katniss – mi zittisce lui.
- Sei comunque la persona più competente tra di noi – mi incoraggia Peeta.

Non sono competente, penso. Stringo tra pollice e indice l’ago ricurvo e, in qualche modo, nella mia testa si tramuta in un’arma molto più pericolosa. Gli sguardi di Pollux e Cressida sembrano trasmettermi le stesse sensazioni. Non uno strumento curativo, ma una bomba a mano.
- Muoviti – dice Gale digrignando i denti.
Li digrigna ancora e trattiene il respiro quando inizio a praticare la sutura sulla ferita che ha lungo il collo.
- Mi dispiace – bisbiglio.
Cerco con tutta me stessa di concentrarmi sui punti da applicare e di resistere alla tentazione, molto forte, di mollare tutto e di scappare via, fuori da questa cantina in cui abbiamo trovato rifugio.
Del numeroso gruppo di cui facevamo parte fino a due ore fa, solo in cinque siamo riusciti a sopravvivere. Cinque, su quattordici. La Squadra di Stelle si è trasformata in una Squadra di Morte. La fortuna non è stata esattamente dalla nostra parte… ma quando mai lo è stata?
Lasciare quell’appartamento per tentare di farci strada nelle fogne, sottoterra, ha funzionato all’inizio: mentre in superficie i Pacificatori e le squadre di intervento cercavano di rinvenire i nostri cadaveri, che pensavano essere carbonizzati e sepolti al di sotto delle macerie del condominio che avevano dato alle fiamme, noi ci facevamo strada al di sotto dei loro piedi per arrivare il più possibile vicini all’abitazione del presidente Snow. Tentavamo di arrivare alla nostra meta, alla meta che ho finto essere lo scopo della missione che la stessa Coin mi aveva fintamente incaricata di portare a termine. Così come avevamo appreso dalla tv di stato, fino all’indomani mattina dovevamo essere in una botte di ferro e nessuno, prima di allora, avrebbe capito che, in realtà, eravamo vivi e vegeti. Siamo anche riusciti a riposare per qualche ora, al riparo di una sorta di sgabuzzino pieno di macchinari di qualche altra sorta.
Eravamo certi, grazie anche alla guida di Pollux che, essendo un senza voce, per anni era stato costretto a lavorare al servizio di Panem in questi corridoi sotterranei, di avere ormai un certo vantaggio sui nostri eventuali inseguitori e di poter trovare, prima dell’inizio delle ricerche vere e proprie, un rifugio sicuro. Un posto per riposare, per riprendere le forze e per capire e studiare come andare avanti coi nostri piani.
Ed invece…
Capitol City ci ha sguinzagliato dietro gli ibridi. Degli orribili, disgustosi e terrificanti ibridi metà uomini e metà lucertola che puzzavano di rose. Persino nelle fogne, in mezzo al puzzo dell’immondizia, dei liquami e delle scorie chimiche, il loro odore riusciva a prevalere. Il mio olfatto ne è stato vittima prima ancora che questi ci fossero abbastanza vicini da vederci e da attaccarci. Mi sono bloccata, a causa di quell’odore. È lo stesso odore delle rose di cui si circonda sempre il presidente Snow, l’odore che cerca di camuffare quello del sangue che proviene dalle piaghe nella sua bocca. L’odore delle rose che usa per comunicare esclusivamente con me, per comunicare gli eventi che accadranno di lì a poco. L’odore che usa per colpirmi, per spaventarmi.
So dove ti trovi.
So come raggiungerti.

So come fare per uccidere te e tutti gli altri.
La Jackson è stata la prima vittima di quelle creature spietate ed orribili, perché il suo ultimo gesto è stato spintonarmi verso gli altri, verso Pollux che, davanti a tutti, tentava di mostrarci la via più sicura per la salvezza. Homes, Messalla, Finnick… anche loro sono caduti a causa degli ibridi.
Sono rimasti indietro per consentirci di risalire dalle fogne attraverso un cunicolo, accessibile solo grazie ad una scala traballante. Sono stata l’ultima a vedere Finnick vivo, vivo e ferito, circondato da tre di quelle creature che lo dilaniavano con i loro artigli e le loro fauci. Urlava il mio nome, mi implorava di ucciderlo. Non di salvarlo, ma di risparmiargli altre sofferenze. Di uccidere lui, non gli ibridi. Ho innescato il sistema di autodistruzione dell’Olo e l’ho lasciato cadere lungo il cunicolo; mi sono scostata e riparata come potevo mentre l’esplosione provocata dall’Olo uccideva tutti quanti, più in profondità. Ibridi, mostri… e Finnick.
Come avrei potuto confessare ad Annie di essere stata proprio io ad aver causato la morte di suo marito? Suo marito, ed il padre del suo bambino. Un bambino rimasto orfano del padre mesi prima di venire al mondo.
Il cunicolo ci ha portati dritti al Transito, l’area costruita subito sotto le strade di Capitol City adibita allo scarico e alla consegna delle merci. È una zona perennemente buia anche durante le ore del giorno, e frequentata per la maggior parte dai senza voce come Pollux. Lui ha iniziato a correre, ci ha fatto segno di seguirlo ma abbiamo scoperto di essere circondati da parecchie figure vestite di bianco. Ho temuto che fossero altri ibridi, ma invece erano i Pacificatori incaricati di far fuori noi superstiti sbucati dalle fogne. Hanno cominciato a spararci addosso, hanno colpito Castor che è caduto a terra e non è più riuscito a rialzarsi, gli occhi improvvisamente ciechi come quelli che ho visto sul volto di Boggs. Abbiamo risposto al fuoco con i fucili, riversando interi caricatori sulle truppe, ed io e Gale gli abbiamo lanciato contro anche le nostre frecce incendiarie, ma non quelle esplosive: rischiavamo di far saltare in aria tutto quanto, compresi noi. Le frecce hanno attivato alcuni baccelli e li hanno neutralizzati sul nascere, prima che potessero colpirci… ma non potevamo fare nulla contro quelli che ci colpivano dall’alto.
Con il Transito sgombero dai Pacificatori, abbiamo ripreso la nostra folle corsa verso le vie superficiali e superato una serie di raggi gialli ed abbaglianti che si attivavano al nostro passaggio, simili ad innocue colonne decorative ma mortali, decisamente più mortali. Il corpo di un Pacificatore morto è svanito all’improvviso, si è dissolto nel nulla al contatto col raggio. Abbiamo corso a zig-zag per evitarli, incitandoci a vicenda, e quando è svanita la zona delimitata dai raggi il pavimento dietro di noi ha cominciato a sbriciolarsi, trasformandosi in un enorme baccello che invece di fermarsi sembrava inseguirci, col solo intento di raggiungerci ed inghiottirci nel sottosuolo. Le scale per l’accesso alla strada distavano meno di cento metri e le abbiamo raggiunte nel più insperato dei miracoli. L’ultimo a saltare prima che il pavimento si disintegrasse del tutto è stato Gale, con la balestra stretta in una mano e l’altra a coprire uno squarcio sanguinante sul lato sinistro del collo.
Fuori, per le strade deserte, è ancora buio, anche se non manca poi molto all’arrivo dell’alba. La neve ha cominciato a cadere, lenta, e a ricoprire l’asfalto sotto i nostri piedi. Faceva freddo, ci muovevamo rapidi e ci guardavamo attorno circospetti, tesi e pronti a colpire al minimo accenno di allarme. Eravamo rimasti in pochi, eravamo debilitati, scossi e feriti, come Gale, e facilmente riconoscibili, come me e Peeta. I nostri manifesti da ricercati sembravano seguirci ad ogni angolo, ad ogni incrocio. I loro occhi sembravano scrutarci come se nascondessero gli obiettivi delle telecamere. Ho provato l’impulso di scagliare una freccia contro la mia stessa foto da ricercata, ma ho evitato: una freccia sarebbe stato un dettaglio difficile da non notare qui in mezzo. Chiunque, qui, sa chi è che ha la passione per le frecce, e non avrebbero impiegato che pochi secondi a capire chi l’aveva scagliata.
- So dove siamo! – ha soffiato Cressida ad un certo punto. – Riconosco queste strade.
Ci ha fatto segno di seguirla e, dopo aver attraversato un incrocio deserto, si è fatta strada lungo una via dall’aria cupa, semi abbandonata e poco raccomandabile. Non assomigliava per niente al resto delle vie della città; a smentire il tutto, le pazze vetrine dei negozi che abbiamo superato di corsa e su cui il nostro sguardo scivolava veloce. Cressida si è fermata davanti alla porta di un negozio che vendeva indumenti di pelliccia, ha bussato sul vetro smerigliato ed è rimasta in attesa, e noi dietro di lei.
La figura alta e slanciata che ha aperto aveva le sembianze di una donna gatto: non ho trovato altre parole per descrivere il suo volto magro, pesantemente ritoccato dalla chirurgia, ed i tatuaggi neri e arancioni che simulavano il manto di una tigre. Aveva persino i baffi. Si stringeva in una pelliccia tigrata arancione e, nonostante l’insieme disturbante, ne sono comunque rimasta affascinata.
Cressida l’ha chiamata Tigris, e questo nome ha richiamato qualcosa in me. Ma certo: gli Hunger Games. Ancora, di nuovo e sempre gli Hunger Games. Tigris era una stilista dei giochi, una delle più famose e iconiche; sono anni che si è ritirata dalla carriera stilistica, ma non avevo mai pensato che… cosa? A cos’è che non avevo pensato? A parte Cinna e Portia, gli unici stilisti che abbia mai conosciuto, non ho mai pensato nulla riguardo a questa professione in particolare. Non ho mai avuto attrazione ed interesse per cucito, tessuti e via dicendo. E di certo, la donna gatto che avevo davanti era l’ultima delle persone che avrei mai pensato di incontrare nel corso della mia assurda vita.
- Abbiamo bisogno del tuo aiuto, Tigris – l’ha implorata Cressida.
La donna ci ha fatto entrare e, dopo aver chiuso di nuovo a chiave l’ingresso del negozio, ci ha condotti verso il retro; ha spostato un sacco di espositori straripanti di pellicce, ha sollevato un falso pannello del pavimento ed ha rivelato la botola che vi si celava sotto. Ha sollevato anche quella, mostrandoci il passaggio buio da seguire.
- Seguite la scala – ci ha detto con voce graffiante e roca; esattamente la voce che potrebbe avere un gatto se avesse la possibilità di parlare.
La scala ci ha portato in questa cantina semi buia ed umida, piena anch’essa di vecchie pellicce forse troppo fuori moda per essere esposte e vendute, ma per quanto buia e umida, almeno era sicura. Cressida ci ha detto che era un luogo sicuro approvato da Plutarch. Per quanto scomodo, era un posto in cui poter curare le ferite e riposare senza sentire la minaccia continua delle autorità, e senza avere una pattuglia di Pacificatori contro il collo.

Continuo a praticare la sutura sulla ferita finché anche l’ultimo punto non è stato applicato; taglio il filo, osservo la linea di punti frastagliata che è uscita fuori e penso che avrei potuto fare di meglio. Qualcun altro avrebbe saputo sicuramente fare di meglio, qualcuno con le nozioni necessarie e la competenza necessaria per ricucire la ferita di Gale. Stringo le labbra, demoralizzata.
- Non deve essere bella, Catnip, deve reggere – dice Gale, forse intuendo la linea dei miei pensieri. – Se regge, allora hai fatto un lavoro meraviglioso. Non mi lamenterò della cicatrice.
- Le cicatrici sono affascinanti – si intromette Peeta.
- Smettetela – dico in fretta.
Rimetto il kit di sutura all’interno della cassetta del pronto soccorso e recupero una garza pulita con cui coprire la ferita di Gale. Osservo con la coda dell’occhio Cressida e Pollux che, poco lontani, sistemano un mucchio di pellicce per trasformarle in letti provvisori. La cantina è davvero troppo umida ed il freddo, qui, riesce a penetrare senza alcun problema, quindi usare le pellicce come coperte non è per niente una brutta idea. Cressida aveva accennato ad istituire dei turni di guardia, ma non credo che li faremo: abbiamo tutti, chi più chi meno, bisogno di riposare come si deve. Inoltre, non penso che qualcuno verrà a cercarci proprio qui, sotto il pavimento di un dimenticato ed altrettanto fuori mano negozio di pelletteria. Pollux sembra essere della mia stessa idea: afferra una pelliccia, se la avvolge sul corpo e si sistema in un angolo, con la faccia rivolta verso la parete grigia. L’ho già visto fare altre volte, ma da altre persone: è il momento in cui ci si prepara ad accogliere il dolore per la perdita di un caro.
- Ho trovato un po' di antidolorifici – dico a Gale dopo avergli messo la benda. – Dovresti prenderli.
- Oppure no. Non sento dolore. Dormire sarà più che sufficiente.
Cinque minuti dopo, il suo russare riempie tutto lo spazio. È l’unico rumore che sento, a parte quello delle pellicce con cui Peeta sta trafficando e quello, lieve, che proviene da Pollux; ogni tanto tira su col naso ed io faccio di tutto per ignorarlo, per non fargli capire che so che sta piangendo il fratello morto. Faccio di tutto, compreso trafficare per l’ennesima volta all’interno della cassetta del pronto soccorso e, quando il suo contenuto resta impresso nella mia memoria, traffico con la scorta di cibo che siamo riusciti a salvare dalla fuga nel sottosuolo.
La mano di Peeta si posa sulla mia spalla. - Non vieni a dormire? – bisbiglia per non disturbare gli altri. Anche se, grazie al russare di Gale, il suo bisbiglio è di certo l’ultima cosa di cui si deve preoccupare.
- Solo un secondo – bisbiglio di rimando. Sollevo lo sguardo verso di lui ed è così che mi rendo conto che è ferito. – Peeta! Il tuo mento…
- Cosa? – si passa una mano sul lato destro del mento e sussulta appena. – Ah! Devo essermi fatto male prima… sono scivolato.
- Abbassati, per favore. Così lo pulisco.
- Non è niente, Katniss-
- Fallo decidere a me se non è niente! – esclamo. Lo afferro per un braccio e lo tiro giù, così è costretto ad assecondare i miei gesti.
- Va bene, va bene! Basta che non urli – si siede davanti a me e solleva la testa per mostrarmi la parte lesa.
È un’escoriazione che deve aver smesso di sanguinare da un bel pezzo, ormai, e come ha già detto Peeta non è nulla di che. Ma per oggi ho già visto troppo sangue e troppe morti per lasciar correre, così comincio a pulirla e a disinfettarla con la tintura e con la garza; non starei tranquilla, sapendo di non aver fatto nulla per evitargli un’infezione o peggio. Forse è una reazione esagerata, e sono sicura che lui la pensi allo stesso modo ma non dice nulla. Mi lascia fare, lascia che le mie mani si occupino di lui. Dopo un minuto, l’innocua escoriazione diventa ancora più innocua.
- Devi mantenerla pulita per evitare che si crei l’infezione – dico, sovrappensiero.
- So cos’è l’avvelenamento del sangue, Katniss – mi risponde lui, abbassando il viso. – Anche se mia madre non è una guaritrice.
In un istante svanisce tutto quanto: la cantina, Gale, Cressida e Pollux, la guerra e le persone che sono morte meno di un giorno fa. In un istante, grazie alla sua frase, veniamo di nuovo catapultati nella grotta dei nostri primi Hunger Games. C’è Peeta, mezzo morto e febbricitante a causa della ferita che Cato gli ha inflitto alla gamba, e ci sono io che cerco di pulirla e di disinfettarla con i pochi mezzi a mia disposizione: acqua, e foglie. Erano i giorni prima del festino, prima dell’attacco di altri ibridi, prima della nostra vittoria. Erano i giorni in cui l’idillio amoroso era solo una tattica di sopravvivenza. Erano i giorni in cui ho temuto di perderlo, di vederlo morire davanti ai miei occhi.

Temo ancora di vederlo morire davanti ai miei occhi.
Torno alla realtà e mi sforzo di distogliere gli occhi dal suo viso per posare la tintura disinfettante e chiudere la cassetta. Impiego tanto tempo per farlo, lo faccio per non fargli vedere il modo in cui le parole che mi ha rivolto mi hanno scossa. Ma forse lo ha capito già: rimango un libro aperto, io, un libro pronto per essere decifrato. E lui sa fin troppo bene come decifrarmi. No, forse non così troppo…
- Lo capirò se… se non vorrai più stare con me – gli confesso.
Mantengo lo sguardo basso, ma Peeta posa due dita sotto al mio mento per portarlo di nuovo in alto, davanti al suo. I suoi occhi mi stanno interrogando, silenziosi. – Per quale motivo non vorrei più stare con te?
- Per… - scuoto le spalle. – Per ciò che ti ho detto l’altra notte.
- Per ciò che- si interrompe, capendo anche lui. Inarca le sopracciglia e raddrizza la schiena. – Perché non vuoi avere altri figli?
Annuisco.
- Non è un buon motivo per lasciarti andare via.
- Ma tu ne vuoi, Peeta! – esclamo. Non mi interessa se stanno dormendo tutti. – L’ho capito, non sono stupida! E so che con me non portai mai averli. Io… non posso darti ciò che desideri. È un buon motivo per liberarti finalmente di me.
- Lascialo decidere a me questo.
- Peeta-
- Katniss, lasciami parlare – dice, alzando una mano. – Capisco il perché hai scelto di non avere altri bambini. Non è facile. Hai sofferto, stai ancora soffrendo. Stiamo soffrendo entrambi… ma devi capire che questa è una decisione che non puoi prendere da sola, e a cuor leggero.
- Non l’ho presa a cuor leggero-
- Quello che sto cercando di dirti è che avresti dovuto parlarmene prima, Katniss. Dovevi dirmelo. È questo che si fa tra marito e moglie: si parla. E tu hai sbagliato a non rendermi partecipe dei tuoi pensieri e delle tue decisioni. Ti sei sempre lamentata quando io e Haymitch avevamo dei punti di discussione di cui non eri subito messa al corrente… e per una volta, non stupirti quando qualcuno reagisce nello stesso modo alle tue notizie.
Ho continuato a mantenere il contatto visivo con i suoi occhi anche se, a mano a mano che proseguiva, il mio coraggio veniva meno. E mi vergogno di essere stata, ancora una volta, tanto egoista da pensare solo a me stessa, ai miei desideri e a tenere lontani da questi i desideri di Peeta, anche se sono tanto diversi. Anche se desideriamo cose diverse che non si realizzeranno mai. E vorrei tornare indietro, a ieri, prima di metterlo al corrente della mia decisione. Vorrei almeno avere la possibilità di diglielo con parole diverse… ma ormai è tutto inutile. So di averlo ferito e non basterà un semplice “mi dispiace” a sistemare le cose.
- Scusami – so che anche questo non servirà a molto.
- Non scusarti, Katniss. Ti ho perdonata ore fa. E questa – solleva la mano sinistra per mostrarmi l’anello che ha all’anulare, – ha ancora un significato per me. Finché la vedrai, saprai che non ho alcuna intenzione di lasciarti.
- Peeta… ma come-
- Non è questo il momento migliore per affrontare l’argomento, no? – dice stancamente. – Per quel che mi riguarda, domani potremmo essere belli che morti. E da morti, non dovremmo più preoccuparci di mettere al mondo dei bambini.
- I bambini nasceranno lo stesso, Peeta. Anche se moriremo. Non sarà la nostra morte ad impedire ai bambini di nascere. Stanno già nascendo…
- Non… non ti seguo. Che vuoi dire?
- Annie – il suo nome mi esce in un sussurro roco, a causa del magone che ha preso posto nella mia gola e che non riesco a mandare via. – Annie aspetta un bambino…
Una frase che genera sempre gioia adesso genera dolore, tristezza, pena. La tristezza prende posto anche sul viso di Peeta. – Oh, Katniss…
- Il suo bambino sta arrivando, ed io ho ucciso il suo papà…
- No! – esclama tra i denti, afferrando con slancio il mio viso. – Non è così, Katniss. Non. È. Così. Non sei stata tu a uccidere Finnick.
- Sono stata io! – pigolo, cercando di svicolare dalla sua presa. – Sono stata io, avevo l’Olo e l’ho azionato! L’ho ucciso, anche se sapevo che stava per avere un bambino…
- No, no… non è stata colpa tua. Non è stata colpa tua
Peeta mi abbraccia, mi stringe contro il suo corpo e preme la guancia contro i miei capelli. A parte questo, a parte stringermi, a parte circondarmi col suo calore, non fa altro per calmare il mio pianto ed i miei singhiozzi. Ed io non faccio nulla per calmarmi, anzi, faccio l’esatto contrario: questo pianto sembra essere alimentato proprio dalle sue rassicurazioni, dal suo conforto. E allora sfrutto il suo conforto, lo uso come valvola di sfogo per tutto ciò che è andato storto in questi giorni. Tutta la sofferenza e lo stress che si sono accumulati, tutto il dolore che sento per le persone che abbiamo perso… è tutto qui. Piango per Boggs, per Castor, per le sorelle Leeg e per Messalla. Piango per Finnick.
Piango per il figlio che non avrà mai la possibilità di conoscere.
Piango per il mondo in cui viviamo, che lascia morire tanti padri e costringe i loro figli a crescere come orfani.

 

I miei incubi pullulano di bambini, stavolta. Bambini che nascono, bambini che crescono, bambini che esplodono. Bambini che assistono alla morte dei loro genitori. Bambini che si assumono troppo presto responsabilità troppo grandi per la loro età. Bambini piccoli con le responsabilità di una persona adulta. Bambini che vengono sorteggiati alla mietitura. Bambini che sono costretti ad uccidere altri bambini.
Apro gli occhi, spossata e frastornata come se non avessi chiuso occhio, per ritrovarmi davanti il volto addormentato di Peeta. E guardarlo addormentato, così perso nella pace del sonno, mi riporta la sensazione di essere ancora all’interno del mio incubo. Nonostante i segni delle ferite, Peeta ha in tutto e per tutto l’aria e l’aspetto di un bambino addormentato. Un bambino troppo cresciuto che sta affrontando, a sua volta, i suoi incubi.
Scosto la pelliccia e cerco di mettermi a sedere senza movimenti bruschi, mi muovo il più lentamente possibile per evitare di svegliarlo. Il russare di Gale, anche se è diventato più leggero rispetto a prima, mi avverte che sta ancora dormendo. Due sagome informi poco distanti, immobili, mi dicono che anche Pollux e Cressida dormono della grossa. Non devono essere trascorse molte ore da quando siamo entrati in questa cantina; non c’è nessuna finestra per osservare il mondo che c’è al di fuori, e se anche ci fosse, l’unica cosa che potremmo vedere sarebbe il buio che circonda la zona di Transito. Lancio un’occhiata all’orologio che ho al polso, quello che hanno dato ad ognuno di noi insieme al resto della dotazione destinata ai soldati, e scopro di avere ragione. Non è ancora arrivato mezzogiorno: ho dormito meno di tre ore.
Strofino le palpebre chiuse con la punta delle dita, convinta come molte altre volte di non voler tornare a dormire per paura di sprofondare di nuovo nell’incubo pieno di bambini. Mi alzo, e ringrazio di aver tolto gli scarponi prima di coricarmi: il pavimento è gelido, il freddo penetra attraverso le calze, ma riesco a camminare senza fare rumore. Raggiungo silenziosamente il rubinetto e mi maledico subito dopo averlo aperto: l’acqua esce sputacchiando dai tubi, rischiando di svegliare tutti quanti. Riempio in fretta la borraccia che mi sono portata dietro e torno al mio posto dopo aver bevuto.
Camminare scalza non è stata una buona idea e adesso ho i piedi gelati. Prendo la pelliccia che ho usato come coperta fino ad ora e me la avvolgo intorno al corpo, seppellendo i piedi in un'altra pelliccia che ho davanti, una tra le tante che non abbiamo utilizzato.
Resto seduta per quelle che mi sembrano ore nella stessa e identica posizione, ascoltando i respiri regolari dei miei compagni che seguitano a dormire. Resto seduta nonostante stia scomoda, immersa nel ripercorrere le ore passate, le perdite subite, i baccelli che abbiamo azionato. Resto seduta, e penso che se è accaduto tutto questo lo devo solo a me stessa. A me stessa, e alle mie decisioni stupide e improvvise. È colpa mia se nove di noi sono morti, è colpa mia se ho scelto di seguire la mia testa e non gli ordini della Jackson, di sicuro una mente migliore della mia e una persona molto più capace nel gestire una situazione di emergenza come quella in cui ci trovavamo. Dirigerci verso la residenza presidenziale… ma cosa mi è saltato in mente?
Avrei dovuto agire come volevo all’inizio: cercare di rubare l’Olo a Boggs e poi fuggire da sola, senza nessuno che potesse seguire le mie tracce, e cercare di raggiungere il mio obiettivo con le mie sole forze. Non doveva seguirmi nessuno, all’inizio… poi Boggs è morto, e prima di morire ha trasferito il nulla osta di sicurezza dell’Olo a me. A me, non alla Jackson. Capisco che se ho inventato una balla del genere l’ho fatto solo perché, se avessi dato alla Jackson ciò che voleva, poi non avrei più avuto nessuna possibilità di andare via per uccidere Snow. Non ci sarei riuscita con l’Olo nelle sue mani. E non mi capacito di Cressida, di Peeta e degli altri che hanno retto la mia bugia aggiungendocene sopra delle altre.
A cosa ci porterà tutto questo?
Ho questa domanda impressa nella mente quando Cressida si sveglia, quando si alza e va a bere anche lei dal rubinetto sputacchiante. Ce l’ho ancora in testa quando, uno dopo l’altro, si svegliano anche Gale e Pollux. Ed è con il bacio con cui Peeta mi annuncia il suo risveglio, premuto contro il mio collo scoperto, che decido di dare voce ai miei dubbi e alle mie paure.
- Sapevamo che mentivi, Katniss – dice Cressida quando ho spiegato loro tutta la questione. – E lo sapeva anche la Jackson. Lo sapevano tutti.
- Ma allora…
- Perché ti abbiamo seguito nonostante sapessimo dell’inesistenza di questo piano? – Cressida sorride. – Katniss, chiunque di noi avrebbe fatto qualsiasi cosa tu ci avessi ordinato di fare. E senza battere ciglio.
- Non ha ancora capito l’effetto che è capace di scatenare – commenta Gale. Mi osserva stando a braccia incrociate, e solleva le sopracciglia, divertito.
- Non l’ha mai capito davvero. E glielo dico da più di un anno – aggiunge Peeta.
Sospiro, porto le mani sulla fronte e scuoto la testa. Non mi sono di nessun aiuto con i loro commenti ammiccanti. Katniss di qua, Katniss di là, Katniss che è la meraviglia di Panem, Katniss che è capace di smuovere una popolazione intera… io non sono così, io non sono nulla di tutto ciò. Io sono capace solo di portare dolore, disperazione e morte a chi mi circonda.
- Dove pensate che ci porterà tutto questo? – esprimo, finalmente, la domanda che si è fissata come un tatuaggio all’interno della mia memoria. – Cosa dovremmo fare adesso?
- Continueremo il tuo piano, Katniss – è la risposta, ovvia, di Cressida. – Ci troviamo a meno di tre chilometri dalla villa del presidente.

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Capitolo 40
*** 40. ***


In The Still Of The Night - 40

In the still of the night

 

 

40.

 

You ask me if there’ll come a time
When I grow tired of you
Never my love
Never my love
You wonder if this heart of mine
Will lose its desire for you
Never my love
Never my love

 

Tigris ci invita ad uscire dalla cantina una volta giunta la sera, quando l’orario di chiusura del suo negozio è passato da un pezzo e di gente nelle strade non ce n’è più traccia. Noto che è già buio, quando mi arrischio a scostare appena la tenda della vetrina, e che la via deserta al di fuori del negozio ha assunto un aspetto spettrale. La neve, bianca, ha ricoperto totalmente l’asfalto, a parte qualche impronta qua e là. Come stamattina, ho l’impressione che quella in cui abbiamo trovato rifugio non sia una delle vie più frequentate di Capitol City.
Il piccolo televisore sul bancone è acceso, già sintonizzato sul canale del notiziario che aggiorna, per ventiquattr’ore al giorno tutti i giorni, la capitale sugli avvenimenti più importanti. Gale e Pollux sono in piedi ed osservano le immagini che passano veloci. I loro visi sono accesi di blu grazie al riflesso. Mi avvicino a loro e non ho bisogno di ascoltare la voce della telecronista per comprendere le ultime notizie: i volti di Finnick, di Messalla, di Boggs e degli altri caduti sono più che sufficienti.
- Hanno identificato i loro corpi – mormora Gale. – Sanno che siamo sopravvissuti.
Le mani di Pollux si muovono in fretta, indicando prima lo schermo, poi noi stessi, e poi la strada. Aggiunge qualche altro segno, ed anche se non sono in grado di capire la lingua dei senza voce so cos’è che vuole dirci. È chiaro a tutti, ormai: siamo molto più che dei semplici ricercati. Siamo diventati le più grandi minacce per la nazione intera.
- Non saremo più in grado di passare inosservati – constato.
E più tempo rimango davanti al televisore, più ne divento consapevole, e le poche, deboli certezze che ancora reggevano dentro di me, crollano frusciando come un castello di carte. Se c’è una cosa che l’intera giornata di ieri e la notte appena trascorsa mi hanno insegnato, è che noi non saremmo mai stati in grado di passare inosservati. La Squadra di Stelle partiva già svantaggiata per avere all’interno dei suoi membri tre giovani vincitori degli Hunger Games, vincitori che per forza di cose erano già di loro fin troppo riconoscibili. Ad essi, vanno aggiunte le centinaia di telecamere di sorveglianza che registrano ogni secondo di ciò che accade in strada. È così che ci hanno trovato e sarà così che ci troveranno ancora se non stiamo attenti. Siamo stati fortunati se, per giungere fino al negozio di Tigris, non siamo stati segnalati o seguiti da chicchessia. Uscire allo scoperto adesso, quando tutti sono sull’attenti ed in attesa di scoprirci, non è la migliore delle mosse.
- Dobbiamo escogitare un piano.
- L’unica cosa che dovete fare, ora, è mangiare – annuncia la voce carezzevole di Tigris alle nostre spalle. – Vi ho preparato qualcosa in cucina.
Il cibo che ci offre Tigris non è molto: giusto un po' di pane ed un pezzo di formaggio, ma davanti alla gentilezza di questa donna gatto rifiutare il suo cibo è l’ultima cosa che potremmo fare. Ci sta aiutando nascondendoci nella cantina del suo negozio, sta correndo un rischio incredibile per salvarci la vita, così mangiucchiamo senza parlare molto. Abbiamo tutti la mente piena di dubbi, di domande e, almeno la mia, infinite ipotesi su come poter procedere nei prossimi giorni.
Quando scendiamo di nuovo nella cantina umida, la prima cosa che faccio è indossare una pelliccia per scacciare il senso di freddo improvviso: anche dentro il negozio di Tigris fa freddo, ma non così tanto. Infagottata come un orso, tiro fuori la cartina dal mio zaino e chiedo a Cressida di indicarmi lì sopra il punto in cui ci troviamo.
- Siamo qui – dice, puntando l’indice sulla carta. – E qui – sposta di poco il suo dito per posarlo in un altro punto – si trova la villa di Snow.
- Aspetta, dove?
Mi indica di nuovo la nostra posizione e, usando come matita la punta di una freccia, traccio la distanza che ci separa da Snow. Tre chilometri, approssimativamente, se ciò che ha detto prima Cressida è giusto. E quando mi alzo per osservare in un’immagine d’insieme la cartina, e la distanza che ci separa, noto che l’abitazione del presidente è posizionata proprio al centro. Al centro della cartina, al centro della città. Francamente, non mi stupisco. Avrei dovuto intuirlo anche senza guardare la cartina.
- È vero ciò che hai detto alla Jackson, Peeta? – gli chiedo voltandomi nella sua direzione. È dietro di me, ma si avvicina ancora di più quando sente che lo chiamo. – Sei stato all’interno della villa di Snow?
- Ci sei stata anche tu, Katniss. Non ero mica da solo durante il Tour della Vittoria – constata lui.
Scuoto la testa, ricordando improvvisamente il luogo in cui si è tenuta la festa organizzata dal presidente per onorare la fine del nostro Tour. Che sciocca. Ovvio che ci sono stata anche io.
- Ma non abbiamo visto granché durante la festa. Solo la biblioteca, il parco e-
- E la sala dei ricevimenti – continua Peeta.
- Giusto. E quando sei stato catturato dopo la seconda arena… cosa hai visto?
- Niente. Non mi hanno mai portato da Snow, né tantomeno nei suoi appartamenti privati.
- Ma allora perché…
Cressida mi interrompe. – Ha mentito. Come ho fatto anche io, Katniss. Per cercare di convincere la Jackson che la tua missione fosse vera.

Questo non ci è di nessun aiuto. – Quindi tutto ciò che conosciamo della villa presidenziale… è ciò che abbiamo visto l’anno scorso?
- Credo di sì.
Peeta si offre di tracciare una sorta di bozza dell’edificio, riportando le stanze che conosciamo ed il modo in cui ci siamo arrivati. Il tutto, purtroppo, si limita al pianterreno: l’entrata, l’ampia entrata in cui si snodano almeno cinque corridoi e che, a parte quello che ci ha condotti fino alla sala riservata ai ricevimenti, non sappiamo dove portano. La sala ricevimenti ha, tutt’intorno, alcune porte nascoste che conducono in altrettante stanze, e noi abbiamo visto solo la biblioteca, dato che Effie ci teneva moltissimo a mostrarci le migliaia di volumi con cui era stata riempita. E accanto alla biblioteca due enormi bagni.
Ecco tutto ciò che sappiamo del luogo in cui vogliamo provare ad intrufolarci.
- Non è molto – osserva Gale.
- Ma non è nemmeno poco – lo rimbrotta Cressida.

Molto, poco: vorrei che tra queste due parole ci fosse una via di mezzo, un qualcosa che possa esserci di aiuto, ma purtroppo non esiste. Dobbiamo accontentarci delle poche nozioni che abbiamo. Abbandono la punta della freccia sulla cartina e decido che per stasera può bastare. Forse domani, a mente riposata, riusciremo a cavare fuori un ragno dal buco.
Lasciamo la luce accesa, l’unica lampadina dalla luce gialla che pende dal soffitto, e torniamo a sdraiarci sui nostri giacigli improvvisati. Non mi tolgo di dosso la pelliccia bianca e ne aggiungo un’altra a mo’ di coperta, dato che il freddo non sembra volermi abbandonare. Porto le gambe contro il petto, rannicchiandomi come ho fatto così tante volte nel corso della mia vita, quando avevo freddo, ma anche quando avevo paura, quando sentivo qualcosa che minacciava me stessa e gli altri. Sento il rubinetto che torna a sputacchiare ed immagino che qualcuno stia facendo scorta d’acqua prima di mettersi a dormire.
Quel qualcuno, scopro, è Peeta. Posa la sua borraccia accanto al suo zaino e si sdraia dopo aver sistemato la pelliccia che ha usato come materasso anche oggi. Si gira verso di me. – Senti tanto freddo? – mi chiede.
- Va meglio, adesso – mormoro.
Lui annuisce, mettendo il braccio sinistro dietro la testa come cuscino; l’altro è fermo sulla pancia. Osserva la lampadina sul soffitto mentre io osservo lui, osservo i suoi occhi fissi sulla luce gialla. Sono sicura che avverte il mio sguardo fisso, ma non credo che gli dia fastidio, e non dice nulla a riguardo. Peeta non dice mai nulla riguardo a queste cose. Fa sempre finta di niente al contrario di ciò che faccio io, che quando mi accorgo di qualcosa che non va come dico lo faccio notare con le mie occhiate truci.
Siamo così diversi, ed il pensiero torna inevitabilmente alla sorta di discussione che abbiamo avuto oggi, stamattina. Nonostante il nostro essere così diversi, nonostante lui desideri altri figli mentre io non ne voglio più, non ha nessuna intenzione di lasciarmi: resterà insieme a me anche se questa sua decisione potrebbe renderlo l’uomo più infelice del pianeta. Non mi capacito di essere proprio io la fonte della sua infelicità, la fonte dei suoi patimenti.

Potresti vivere cento vite e ancora non lo meriteresti, lo sai?
E mai le parole di Haymitch mi sono sembrate più vere di così. So di non meritarlo, so che potrebbero esserci altre persone, altre ragazze migliori di me al di fuori di questa cantina che potrebbero renderlo altrettanto felice. Molto più felice…
Ma lui ti ama. Ti ama, e vuole te. Le altre ragazze non gli interessano.
Scivolo lentamente verso il suo corpo e poso la testa nell’incavo della sua spalla. Poso delicatamente le labbra sul suo collo, lo sfioro nel più innocente dei baci; non c’è malizia nel mio gesto, non voglio provocarlo o altro. Il mio è più un gesto di conforto: per me, per la mia coscienza, per il mio cuore che vuole troppe cose tutte insieme. Il mio cuore vorrebbe lasciarlo andare, ma allo stesso tempo sa che non ci riuscirebbe. E non è solo il mio cuore che non ne sarebbe in grado, ma tutto il mio essere: così come ho capito di amarlo, capisco che senza di lui non riuscirei ad andare avanti. Peeta è necessario alla mia sopravvivenza, e ne ho già avuto la prova quando è stato fatto prigioniero qui a Capitol City. Non potrei passarci di nuovo… ne morirei.
Peeta mi abbraccia, circonda le mie spalle e mi trascina quasi sopra di sé. Mi abbandono contro di lui, inspiro l’odore della sua pelle e chiudo gli occhi. Cerco di abbandonarmi al sonno.
E quasi non mi rendo conto di non sentire più freddo.

 

What makes you think love will end
When you know that my whole life depends
On you (on you)
Never my love
Never my love

 

Arriva l’alba, e risaliamo di nuovo nel negozio per la colazione e per un aggiornamento delle notizie. Il televisore è già acceso sul canale del notiziario, o forse lo è stato per tutta la notte. Credo che questo negozio sia anche la casa di Tigris, oppure lei vive al piano di sopra, dove ha un piccolo appartamento. Non conosco le abitudini dei commercianti di città, ma forse sono identiche a quelle che avevano anche i nostri commercianti del Distretto 12.
Mentre mangiamo, scopriamo che alcuni comandanti delle truppe dei Ribelli hanno intrapreso delle tattiche che vanno ad emulare ciò che l’onda nera aveva fatto l’altro giorno nel tentativo di imprigionarci. Lasciano percorrere a dei mezzi pesanti lunghi tratti di strada allo scopo di far attivare i baccelli in agguato, in modo poi di avere campo libero per avanzare all’interno della città. Se per i primi tentativi i risultati sono eccellenti, non lo sono i successivi: i baccelli vengono disattivati dagli Strateghi e riattivati quando i Ribelli percorrono le strade. Non è un bello spettacolo ciò a cui assistiamo subito dopo.
Nel mentre, le immagini del telegiornale vengono intervallate di tanto in tanto con quelle dei Pass-Pro, soprattutto degli ultimi che abbiamo realizzato in città. Sorrido, riconoscendo il tocco di Beetee dietro a questa manovra di depistaggio.
- C’è movimento, qui fuori – annuncia Cressida, distogliendo totalmente la nostra attenzione dal piccolo schermo.
La raggiungo, stando attenta a non scostare troppo la tenda, e vedo che “movimento” non è il termine giusto per definire il mare di persone, vestite in modo assurdo persino per gli standard di Capitol City, che invade la strada su cui affaccia il negozio. Centinaia, forse migliaia di corpi, che marciano, stringendosi addosso cappotti, vestaglie e sciarpe per affrontare il gelo di fine autunno e che si trascinano dietro gli oggetti più disparati, anche i più inutili.
- Sono profughi – mormoro, senza che ce ne sia l’effettivo bisogno.
- Stanno evacuando le zone della città più a rischio. Lo hanno detto appena un minuto fa – è ciò che ci dice Gale.
- Dove stanno andando? – domanda Peeta.
Già: dove?
Tigris ci promette che cercherà, durante la giornata, di uscire dal negozio per raccogliere informazioni utili ai nostri scopi mentre noi ce ne staremo in cantina, a cercare di ideare un modo per uscire di qui senza farci scoprire dopo due secondi. Non andiamo molto avanti, però: è come se ci fossimo impantanati, bloccati davanti a ciò che non sappiamo. Pensiamo, ci scervelliamo, e non arriviamo a nulla. L’unica cosa che riusciamo a fare è mangiare, e forse sbagliamo perché in questo modo rischiamo di terminare le nostre provviste. Non sappiamo per quanto tempo ancora dovremmo stare chiusi qui.
Le ore passano, il giorno avanza, e non arriviamo a nulla. Osservo in cagnesco la cartina mentre assemblo le frecce extra di cui Beetee ha rifornito me e Gale. Dopo le prime tre, il meccanismo diventa talmente automatico da poterlo fare ad occhi chiusi: prima la punta, poi l’asta, divisa in più parti, infine l’impennaggio dotato di cocca… sento che potrei continuare all’infinito.
Ho finito di montarle da un bel pezzo quando Tigris apre la botola e ci consente di tornare a farle compagnia per la cena. Cena che ha cucinato lei stessa, e che a confronto del pane e formaggio di ieri sera assomiglia ad un vero e proprio banchetto di festa: ci ha preparato uno stufato di carne. E non è solo la cena sostanziosa l’unica novità che porta con sé.
In strada ci sono moltissime persone che cercano un riparo e che, se non saranno abbastanza fortunate, rischiano di trascorrere la notte fuori, in balia del gelo. La donna gatto ha barattato un bel po' di indumenti di pelliccia con loro per assicurarci questa cena, ed ha scoperto anche che non molto lontano da qui molte famiglie hanno avuto l’ordine di ospitare alcune di queste persone. Capiamo immediatamente che l’ordine potrebbe estendersi per chiunque abiti in città, e che Tigris non ne è esonerata. Rischiamo di restare imprigionati in cantina mentre cinque, dieci o quindici persone prendono possesso come ospiti del suo negozio. Non è la migliore delle prospettive.
Ma in aiuto arrivano le parole che escono dagli altoparlanti del televisore.
L’annunciatrice del telegiornale ci informa che nemmeno cinque minuti fa è stato emesso un decreto dal presidente Snow in persona, in cui ha dato direttive immediate per consentire l’ingresso nella sua abitazione alle migliaia di profughi che affollano le strade della città.

Snow apre le porte della sua casa? 
- Snow apre le porte della sua casa?
Io l’ho solo pensato, Gale invece l’ha urlato.
Questo è il tipo di notizia che potrebbe davvero aiutarci. Se Snow consente l’ingresso ai cittadini, ai profughi, non c’è nulla che vieti anche il nostro ingresso… nulla, a parte le nostre facce fin troppo note. Siamo ancora fin troppo riconoscibili.
E la notizia successiva a quella di Snow ne è la prova. Un ragazzo biondo è stato aggredito dalla folla ed è morto per le ferite riportate perché somigliava a Peeta. La sua foto appare sullo schermo e, a parte il colore dei capelli, non gli somiglia per niente.
- È il mio gemello! – esclama Peeta per sdrammatizzare.
L’espressione che gli regalo è tutta un programma.
- Domani potrebbe essere l’occasione giusta per agire – si intromette Gale.
- Agire?
Annuisce. – Possiamo mescolarci con i cittadini in fuga e penetrare nella residenza. Non dovrebbe essere difficile.
- Tigris può aiutarci a camuffare il nostro aspetto – si intromette Cressida. – Vero, Tigris?
La donna gatto le sorride, complice.
Non so perché, ma l’idea di agire domani, con così poca preparazione e senza avere un vero piano da seguire non mi piace per nulla. Nulla ci assicura che la notizia appresa poco fa dalla televisione sia vera, nulla ci dice che possa essere una tattica studiata apposta per farci uscire allo scoperto. Eppure, allo stesso tempo, risulta essere proprio l’occasione che stavamo aspettando. La scelta è tra agire subito od attendere altri giorni.
- Non siamo preparati – dico, esternando i miei dubbi. – Potremmo essere scoperti una volta giunti tra la folla…
- Per questo serve un elemento di disturbo – dice Peeta. – Posso creare un diversivo, attirare l’attenzione su di me per consentirvi di avvicinarvi il più possibile a Snow.
- Ma sei impazzito? – esclamo, alzandomi in piedi. – Diversivo? Ma che cazzo dici?
- Hai visto ciò che hanno fatto a quel ragazzo, e solo perché pensavano che fossi io – tenta di spiegarsi, mantenendo la voce calma. – Immagina cosa faranno quando mi vedranno arrivare-
- Ti ammazzeranno! Sei un deficiente che si farà ammazzare, ecco cosa sei!
- Nessuno si farà ammazzare! E Katniss, smettila di strillare – dice Cressida. – Potrebbero sentirti.
- Non me ne importa un cazzo-
- Smettila! A noi importa – mi rimbrotta Gale. – Ognuno di noi dovrà avere una parte in questo piano, e se Peeta vuole offrirsi volontario per creare un diversivo, tu non sei nessuno per impedirglielo.
Sono livida, sorda alle sue parole e mi sento tradita per ciò che sta accadendo davanti ai miei occhi. Il mio compagno vuole andare a farsi ammazzare dalla folla inferocita, ed il mio migliore amico non fa nulla per distoglierlo dalle sue intenzioni, anzi, lo sprona a proseguire. Li guardo inferocita, impossibilitata a sfogare la mia rabbia urlando, e mentre nelle ore successive il piano prende sempre più forma rimango chiusa in un silenzio ostinato, annuendo di tanto in tanto per far capire loro che sono in ascolto, che sono attenta, ma che non sono per niente d’accordo. Il piano comincerà alle cinque del mattino, l’ora in cui Tigris aprirà la botola della cantina per consentirci di salire e camuffarci da capitolini.
In cantina, preparo in silenzio il mio zaino e vi sistemo accanto l’arco e la faretra con le frecce nuove, ed altrettanto in silenzio mi preparo a mettermi a dormire in vista della giornata che ci aspetta l’indomani. Faccio capire a chiunque la mia intenzione di non voler comunicare con nessuno quando raccolgo a fatica le pellicce che costituiscono il mio letto e le sposto dietro ad una rastrelliera appendiabiti, altrettanto straripante di pellicce. La uso come separé, come muro divisorio, e sono felice di vedere che mi nasconde totalmente al loro sguardo.
Li sento andare a letto uno dopo l’altro, si mormorano la buonanotte a vicenda e poi, dopo alcuni rumori, cala il silenzio. Il silenzio viene ben presto rimpiazzato dal solito russare di Gale.
Mi rigiro tra le pellicce, troppo nervosa per riuscire a prendere sonno come hanno fatto gli altri. Do la schiena alla rastrelliera e torno a raggomitolarmi su me stessa. Seppellisco il viso nel pelo morbido e caldo, chiudendo gli occhi. Non mi muovo da questa posizione quando sento Peeta che mi raggiunge, e non apro gli occhi quando lo sento sdraiarsi accanto a me.
Ha aspettato che gli altri si addormentassero per venire qui, da me. Se fossi stata nei suoi panni non ci avrei nemmeno provato.
- Sono ancora arrabbiata con te – dico in un soffio.
- Sono arrabbiato anch’io, sai? – fiata accanto al mio orecchio.
La sua risposta mi porta ad aprire gli occhi. – Perché?
- Per lo stesso motivo per cui lo sei tu, Kat. Perché cercherai di farti ammazzare mentre tenti di raggiungere la villa di Snow – risponde. – Solo che io non vado in escandescenze come te.
- Dovresti farlo, sai? – lo provoco. – Sfogarti un po' potrebbe aiutarti.
- Sarebbe inutile, invece.
- Perché?
Peeta, stavolta, tiene gli occhi fissi nei miei mentre risponde. – Perché tutto questo è inevitabile. E perché so che sei l’unica che può farlo. Devi farlo, Katniss, anche se ti amo e anche se so che lasciarti andare potrebbe costarti la vita.
La rabbia che covo dentro svanisce di colpo davanti alla sua confessione. Svanisce di colpo davanti all’ennesima sua dimostrazione d’amore, e di ciò che la mia morte potrebbe rappresentare per lui se dovesse accadere.
Peeta ha paura della mia morte, così come io ho paura della sua. Abbiamo entrambi paura di ciò che la nostra, ipotetica morte potrebbe significare. Lo siamo da sempre, spaventati dalla morte che incombe su di noi. E tutto questo non cambierà, nonostante i nostri tentativi di essere più forti.
Non cambia mai.
- Potrebbe costare la vita anche a te… lasciarmi andare - lo dico talmente piano da temere che non mi abbia sentito.
- Che scelta ho? – e sorride, nel dirlo, quasi fosse una battuta la sua. – E tu, che scelta hai? In un modo o nell’altro, domani sarà tutto finito.
Domani sarà tutto finito…
Finiremo anche noi?
Peeta mi si avvicina e mi avvolge con le sue braccia. Un gesto automatico, un gesto che ha già compiuto così tante volte nell’ultimo anno. Centinaia, o addirittura migliaia di volte. Il mio corpo risponde in modo altrettanto automatico e si stringe al suo, le mie mani si aggrappano al tessuto della sua camicia ed il mio viso si posa proprio lì, nell’incavo della sua spalla, dove sa che sarà sempre al sicuro. Anche se quel “sempre” durerà solo una notte…
- Non importa cosa accadrà domani, Katniss. Non m’importa se domani finirà il mondo… tu, per me, non finirai mai. Questa è l’unica cosa di cui sono sicuro al cento per cento.

Neanche tu finirai mai, Peeta. Eppure, non riesco a dirlo ad alta voce… le mie labbra si muovono, ma non esce nulla fuori a parte il mio respiro. Mi sollevo per poterlo guardare negli occhi, occhi che nel frattempo si sono riempiti di lacrime che minacciano di cadere giù. Poso una mano sulla sua guancia, balbettando il suo nome anche se la mia voce al momento non esiste.
Ed il pensiero va ad un ricordo di noi due non molto lontano, un ricordo che risale ad appena quattro mesi fa. Un ricordo di noi due che ci baciamo, in preda all’angoscia, illuminati dalla luce dell’alba che annunciava il nostro ritorno imminente nell’arena. I baci, allora, erano l’unica cosa che ci aveva dato la forza di andare avanti. Non le parole, ma i baci.
Ed un bacio è proprio ciò che uso adesso al posto delle parole. Premo con forza le labbra contro le sue, cercando di trasmettere con questo bacio migliaia di frasi non dette, e che forse sono persino superflue in un momento come questo.

Mi dispiace.
Ti amo.
Non lasciarmi.
Resta con me.
Ti amo.

Poso le mani sulle spalle di Peeta e ricambio lo slancio con cui risponde al mio bacio, all’ardore che sento fuoriuscire attraverso il suo respiro. Inarco la schiena e mi faccio più vicina, desiderosa del suo tocco, del suo abbraccio, del suo profumo. Desiderosa di tutto ciò che Peeta rappresenta per me.
Mi dispiace.
La sua mano scivola al di sotto del mio maglione, sulla pancia, ed io mi ritraggo come se avessi preso la scossa. Tremo, interrompendo il bacio. – Non farlo.
- Perché?
- Non farlo, ti prego – mi lamento. E non è perché temo che gli altri possano sentirci, o scoprirci. Non è perché temo di ricongiungermi con lui. Non temo di amarlo: questo mai. – Sarà più difficile dopo… allontanarci…

Lasciarci
- Sarà difficile anche senza questo – alita sulle mie labbra, scendendo sul mento. Il suo respiro è diventato più pesante. – E senza questo – alita sul mio collo.
- Peeta – non riesco a trattenere il singhiozzo che sale lungo la mia gola.
- Fa l’amore con me, Katniss – mi implora Peeta, entrambe le mani che si fanno strada al di sotto del maglione. – Sii mia per questa notte.
- Sono già tua – dico, arrendendomi, sollevando le braccia sulla testa. La mia resa è la sua vittoria. – Sono sempre stata tua, Peeta.
- Sei mia…
Peeta mi libera del maglione e le sue mani, insieme alla sua bocca, mi accarezzano la pancia, le costole, il seno, lo sterno, la gola. Scende su di me e torna a baciarmi, invadendo la mia bocca con la sua lingua. Gemo, incapace di trattenermi, intrecciando le gambe sulla sua schiena e le dita tra i suoi capelli, capelli che sono troppo corti in verità per poterlo fare come si deve. Non sento freddo, nonostante sia seminuda e la cantina continui ad essere fredda e umida; il fuoco che sento crescere dentro e quello che sembra aver preso vita anche nel corpo di Peeta non mi fanno sentire freddo. Ho caldo, invece, tanto caldo. Sento caldo quando tolgo il maglione di Peeta e percorro con le dita le cicatrici che ha sull’addome.

Ti amo.
Intrufolo le mani nei suoi pantaloni, accarezzo il suo sedere e spingo il tessuto pesante verso il basso. Cerco di liberarlo dall’impiccio che questo inutile strato di stoffa rappresenta. Uso entrambe le mani, e con uno strattone i pantaloni cedono, scivolando oltre le sue cosce. Continuo a tirarli giù usando i piedi.
Il sorriso malizioso di Peeta che sento contro la pelle alimenta la mia eccitazione, ed è grazie ad essa se non mi allontano per l’imbarazzo ma, anzi, procedo a togliere anche i miei, di pantaloni.

Non lasciarmi.
Inarco ancora di più la schiena, pronta ad accoglierlo di nuovo in me quando i nostri bacini si incontrano. Petto contro petto, labbra contro labbra, respiro contro respiro: è così che torniamo ad amarci nel modo in cui sappiamo fare meglio. Fremo di piacere, di attesa, e non sono pronta al dolore che invece ricevo quando Peeta si fa strada nel mio corpo. Non ho mai sentito un dolore del genere, neanche durante la nostra prima volta. È un dolore bruciante, fastidioso.
- Aspetta! – ansimo, premendo i pugni contro il suo petto, ma non lo allontano. Non voglio che si allontani.
È un dolore che mi ricorda tutto ciò che è accaduto negli ultimi mesi: mi dice che è passato molto, molto tempo dall’ultima volta che abbiamo fatto l’amore. Mi dice che necessito di qualche momento per potermi di nuovo abituare alla nostra unione… e mi ricorda che il mio corpo è rimasto ferito dall’ultima volta che ci siamo uniti.
Ed è questo il ricordo che fa più male, anche più del semplice dolore fisico. È il suo ricordo che fa male.

Resta con me.
- Perdonami – mi sussurra Peeta, sfiorando il mio viso con le labbra.
Respiro profondamente, poggiando la fronte contro la sua spalla. Torno ad inarcare la schiena quando il momento passa. Va meglio, adesso, va meglio. Sollevo il viso verso il suo, baciandolo. – Amami, ti prego. Amami…
- Ti amo – risponde, riprendendo a muoversi.
La sua mano scivola al di sotto della mia schiena, scivola su una natica e mi costringe ad inarcarmi ancora di più verso di lui, verso il suo bacino, per poter dare maggiore enfasi alle sue spinte. Non so come faccio a non urlare, a causa di ciò che sento. Non so come faccio a trattenere i singulti di piacere per ciò che Peeta mi sta donando, per ciò che Peeta mi fa provare. Getto la testa all’indietro, persa, ad occhi chiusi, e la bocca di Peeta è subito su di me. Mi morde il collo, lo bacia, si tende per far congiungere di nuovo le nostre labbra. Mi aggrappo a questo bacio come se fosse la mia ancora di salvezza, ed in parte lo è: la mia ancora. Il mio tutto…
- Amami – ripeto, ansimando contro la sua bocca. Amami, amami, amami
- Ti amo, tesoro mio. Ti amo – mi bacia, Peeta, mi bacia e mi attira contro di sé, girando su sé stesso.
Tenendomi a cavalcioni su di lui, mi mostra il modo in cui mi vuole amare. Ed io, cingendogli la vita con le gambe, gli mostro il modo in cui lo voglio amare. Lo bacio, ci baciamo, e catturiamo l’uno i gemiti ed i sospiri dell’altro mentre ci amiamo.

Ti amo.

 

You say you fear I’ll change my mind
And I won’t require you
Never my love
Never my love
How can you think love will end
When I’ve asked you to spend your whole life
With me (with me, with me)
Never my love
Never my love

 

Le cinque del mattino arrivano davvero troppo in fretta. Tutto arriva troppo in fretta, quando si tratta di qualcosa che non hai la forza di affrontare. Ho gli occhi fissi sul viso di Peeta quando sento, sopra le nostre teste, i movimenti di Tigris che cerca di aprire la botola. Peeta bacia la punta del mio naso, ed io chiudo gli occhi.
Di sopra, facciamo a turno per indossare gli abiti stravaganti tipici dei capitolini e per sottoporci alla sessione di trucco. Grazie alle sapienti ed esperte mani di Tigris, reduce da decine di anni di Hunger Games, ci trasformiamo completamente. Dal di fuori, nessuno riuscirebbe a distinguere in noi le persone i cui manifesti da ricercati campeggiano in lungo e in largo su ogni cartello, su ogni muro e su ogni vetrina di Capitol. Abbiamo tutti delle parrucche dai colori sgargianti, del trucco sul viso che altera i nostri lineamenti, diversi strati di vestiti al di sopra delle nostre uniformi e degli strani copri scarpe a camuffare gli scarponi. Pellicce, sciarpe e cappotti nascondono le nostre armi, e le borse di cui Tigris ci dota ci rendono ancora più simili agli sfollati presenti in strada.
Ognuno di noi ha un cappotto di colore diverso per aiutarci a distinguerci quando saremo in strada: il mio, quasi a burlarsi di chi non riuscirà a riconoscermi, è rosso. Il rosso della Ragazza di Fuoco.
Tigris osserva le persone che invadono la via fuori dal negozio e, quando considera che la situazione sia sicura, toglie il catenaccio dalla porta per consentirci di uscire. I primi ad andare saranno Cressida e Pollux, in verde e giallo, che ci faranno da guida mettendosi a distanza di sicurezza rispetto a noi altri, che li seguiremo da lontano.
- State attenti – ci dice Cressida prima di sparire dalla porta.
Pollux ci fa un segno di saluto con la mano e la segue nel giro di due secondi.
Il tempo che abbiamo a disposizione io e Gale, in rosso e blu elettrico, prima di imitarli è meno di un minuto. Lo uso dedicando un momento di ringraziamento per Tigris, che ha davvero rischiato grosso aiutandoci, lo uso controllando un’ultima volta il mio equipaggiamento, e lo uso dedicando gli ultimi istanti che mi rimangono a Peeta, vestito di arancione. Lui sarà l’ultimo ad uscire in strada, stando a debita distanza da noi altri e mettendo in atto il suo diversivo se ce ne sarà l’effettivo bisogno.
Poso i palmi delle mani sul suo sterno, stringendo il cappotto tra le dita. Sollevo il viso e lascio di nuovo incontrare i nostri sguardi.
- Stammi a sentire – dico. – Non fare niente di stupido.
Peeta abbassa il viso e fa scontrare le nostre fronti. – No. Quella roba è l’ultima risorsa. Assolutamente – replica.
Annuisco. Nessuno dei due aggiunge altro. Il tempo per le parole, il tempo per i saluti, il tempo per le dichiarazioni d’amore… non c’è più tempo per nulla di queste cose. Mi sollevo sulle punte e lo bacio sulle labbra, nonostante non ci sia più tempo nemmeno per i baci. Sono scossa da un brivido, al pensiero che questo potrebbe essere il nostro ultimo bacio.

Ti amo.
- Katniss… è ora. Dobbiamo andare – il richiamo di Gale mi riporta alla realtà, nel mondo reale.
Costringo me stessa ad allontanarmi da Peeta così come fui costretta a farlo quella dannata notte nell’arena. Lo osservo, impaurita, e forse Peeta lo capisce, perché mi sorride come se volesse tranquillizzarmi e mima qualcosa con le labbra.
Un altro “Ti amo”.
Una lacrima mi riga la guancia. Mi volto perché non voglio che mi veda piangere. Non voglio che l’ultima immagine che possa ricordare di me sia quella in cui piango.

Chiudo il mio mantello rosso col cappuccio, mi tiro la sciarpa sul naso e seguo Gale all’esterno, nell’aria glaciale.

 

 

 

____________________________

Lo so, lo so. Che disgraziata. Imperdonabile come sempre.
Ma non facciamoci troppo caso.

*tossicchia*
Dunque!
Questo capitolo è stato una vera e propria sfida, ve lo devo confessare… ho fatto più aggiunte che tagli, e forse lo si può notare dalla lunghezza! X’D E poi ho cercato in tutti i modi di renderlo una sorta di parallelismo/specchio con il capitolo 19, quello che precedeva l’entrata nell’arena: non è anche questa un’entrata nell’arena, dopotutto?
Ho voluto accompagnare il capitolo da una canzone proprio per accentuare questa somiglianza – chissà se ci sarò mai riuscita ^^’ -: la canzone è Never My Love degli Association e sono sicura che se avete già visto l’ultima stagione di Sex Education non vi sarà sfuggita! Io però me ne sono innamorata dopo aver visto il finale della stagione cinque di Outlander (ma che bella che è Outlander? *-*). Ho un debole per le vecchie canzoni, che posso farci? Rimpiango ogni volta di essere nata con almeno 30 anni di ritardo.
Ma vabbè.
Alla prossima! Senza ritardi mostruosi, si spera *incrocia le dita*

D.

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Capitolo 41
*** 41. ***


In The Still Of The Night - 41

In the still of the night

 

41.

 

…intravvedo Cressida e Pollux che ci precedono a una trentina di metri, arrancando insieme alla massa. Allungo il collo e mi guardo intorno per vedere se riesco a localizzare Peeta. Non ce la faccio, ma ho colto lo sguardo di una bambina dall’aria curiosa che indossa un cappotto giallo limone. Do una gomitata a Gale e rallento appena il passo, perché tra noi e lei si formi un muro di folla…
…quello che riesco a vedere, tra stivali di pelle color lavanda alternati ad altri verde menta, è una via piena di cadaveri. La bimba che prima mi fissava, inginocchiata accanto a una donna immobile, grida e cerca di scuoterla. Un'altra raffica di pallottole attraversa il suo cappotto giallo, macchiandolo di rosso e facendo cadere lei riversa sulla schiena. […] sono ipnotizzata da quel cappotto giallo limone…
…un baccello, attivato proprio davanti a noi, rilascia un getto di vapore che ustiona chiunque si trovi sul suo cammino e lascia cadaveri rosa come intestini scoperti. Poco dopo, svanisce anche quel po' di senso logico che ancora resisteva…
…mentre arriviamo all’angolo seguente, l’intero isolato davanti a noi si accende di un bagliore viola intenso. Facciamo marcia indietro, ci accucciamo nel vano di una scala e strizziamo gli occhi per guardare nella luce. Sta succedendo qualcosa a quelli che ne sono illuminati. Vengono assaliti da… cosa? Un suono? Un’onda? Un laser? Si lasciano cadere le armi di mano, si afferrano il volto con le dita, mentre il loro sangue sprizza da ogni apertura visibile: occhi, naso, bocca, orecchie…
…lungo il centro dell’isolato si è aperta una fenditura. I due lati della strada piastrellata si stanno ripiegando all’ingiù come ribaltine di un mobile, facendo precipitare lentamente chiunque ci si trovi sopra verso l’interno di ciò che sta sotto, qualunque cosa sia…
…Gale si dà una spinta e varca la soglia, atterrando con un balzo sul pavimento. Per un attimo provo l’esultanza del suo salvataggio. Poi mani guantate di bianco calano su di lui…
…mi giro e mi allontano di corsa dal baccello. Completamente sola, ormai. Gale prigioniero. Cressida e Pollux potrebbero essere morti già dieci volte. E Peeta? Non lo vedo da quando abbiamo lasciato il negozio di Tigris. Mi aggrappo all’idea che possa essere tornato indietro…
…penetro subito tra la folla. Comincio a zigzagare da una parte all’altra in direzione della villa, inciampando su tesori abbandonati e membra ricoperte di neve. Più o meno a metà strada, mi accorgo del recinto di cemento. […] Dentro il recinto, sono tutti bambini. Compresi tra i primi passi e l’adolescenza. Impauriti e congelati. Che si stringono l’uno all’altro o si dondolano per terra con espressione confusa. […] Tutto questo serve a difendere Snow. I bambini sono il suo scudo umano…
…su di loro piovono moltissimi paracadute argentati. Persino in mezzo a questo caos, i bambini sanno cosa contengono quei paracadute. Cibo. Medicine. Doni. Li raccolgono, entusiasti, lottando per districare i fili con le dita gelate. L’hovercraft scompare, trascorrono cinque secondi, e a quel punto circa venti paracadute esplodono nello stesso istante. Un gemito si leva dalla folla. La neve è rossa e cosparsa di brandelli umani troppo piccoli. Molti bambini muoiono subito, altri giacciono agonizzanti al suolo…
…prima intravedo la treccia bionda che le scende lungo la schiena. Poi, quando si strappa di dosso il cappotto per coprire un bimbo che si lamenta, noto la coda da paperella formata dal lembo di camicetta che le è uscito dalla cintura. […] Cerco di gridare il suo nome sopra il frastuono. Sono quasi arrivata lì, ho quasi raggiunto il recinto, quando credo che mi senta. Perché per un attimo mi scorge, le sue labbra formano il mio nome.
Ed è allora che i paracadute rimasti esplodono…

 

Il velo creato dalla morfamina svanisce, e poi ritorna. Sprazzi di luce invadono i miei occhi solo per pochi istanti, ed è così diverso dagli interi giorni di buio in cui sono costretta a sprofondare ogni volta. Nel buio, l’incubo ritorna. Torna con immagini sgranate, altre volte ancora con immagini più nitide, più chiare. L’incubo non mi lascia in pace, non mi lascia morire in pace. Mi costringe a rivivere gli ultimi istanti di vita di mia sorella, accompagnati dal resto delle atrocità a cui ho assistito. Prim che si trasforma in una vera ragazza di fuoco, il risultato di tutto ciò che non sono riusciti a fare su di me. Prim che brucia, Prim che tentava solamente di salvare delle vite innocenti. Bambini che esplodono, bambini che muoiono. Bambini che raccolgono paracadute. Una bambina crivellata di colpi, avvolta in un cappotto giallo limone…
Quando il velo creato dalla morfamina svanisce, la mia mente torna più chiara. Divento vigile, ed improvvisamente conscia di ciò che mi circonda, ma insieme ad essa torna anche il dolore. Il dolore delle ustioni, quello della carne bruciata, il dolore che ho già sentito nella prima arena, ma amplificato per dieci, cento, mille volte. Il dolore che mi fa urlare, che mi fa implorare la morte. Vorrei morire ogni volta che sento questo dolore, ed ogni volta che ricordo di aver perso anche Prim.
A cosa è servito tutto questo dolore? Offrirsi volontaria per salvare la vita ad una sorella, la mia sola e unica ragione di vita, per salvarla dalla morte e permetterle così di vivere una vita intensa, e degna di essere realmente vissuta? A cos’è servito vincere gli Hunger Games, affrontare il ritorno a casa, le sommosse dei Distretti, tornare di nuovo in un’arena, perdere un figlio? A cos’è servita la guerra, la rivoluzione, l’assedio di una città, la morte di amici e compagni, la perdita di vite innocenti? A cos’è servito affrontare tutto il male presente al mondo se poi la sorella che hai tentato così disperatamente di salvare all’inizio di tutto muore comunque davanti ai tuoi occhi? A cos’è servito allungare la sua vita di un anno, un solo anno, per poi vederla bruciare davanti alla casa del tuo nemico?
- Prim – non ho voce mentre chiamo il suo nome. Non ho più voce, non ho più aria, e forse non ho più nemmeno un corpo. Non lo sento più, il mio corpo. Cerco di alzare le braccia, le mani, le dita. Ci provo, ma non si muove niente. – Prim – provo ancora. Stavolta sento del male.
È un altro di quegli istanti di lucidità prima dei giorni di oblio. È un altro istante in cui sono consapevole della morte di mia sorella. La mia paperella. La mia paperella non c’è più. Qualcosa che si muove, qualcosa di rumoroso, accanto al mio letto. Vorrei sorridere dal sollievo perché sono sicura che sia Prim. Prim ha sentito che la stavo cercando ed è arrivata. Non è morta, è viva! È viva, ed è accanto a me. È qui.
- Prim – dico di nuovo.
- Katniss – sono delusa: questa non è la voce di Prim.
Ed è come se il mio corpo lo percepisse: questo strano corpo che hanno spacciato per mio si ribella davanti alla voce che mi sta parlando. Esplode in ondate di rabbia, di dolore graffiante che arriva sin dentro ai miei polmoni. Apro gli occhi, lottando contro le palpebre che non rispondono al mio volere. Lotto contro la luce che invade le mie iridi, lotto contro il dolore che mi invade il cervello.
L’uomo che ho di fronte non lo riconosco. Solo gli occhi sembrano familiari: occhi chiari, occhi azzurri. Un mare di azzurro in cui potrei immergermi, nuotare, affogare. Affogare per non tornare più.
- Katniss, tranquilla. L’infermiera sta arrivando e tornerai a stare bene. Non sentirai più male, te lo prometto – dice l’uomo dagli occhi azzurri in cui potrei affogare.
- Prim – è tutto ciò che dico all’uomo.
- Sono Peeta, amore mio. Prim… Prim non c’è. Non è qui.
L’uomo che dice di chiamarsi Peeta mi chiama amore. Perché mi chiama amore? E perché dice che Prim non c’è? Oh, allora deve essere vero: Prim è morta. Prim è davvero morta. L’ho persa per sempre, così come ho perso per sempre mia figlia, il mio piccolo fiore di lillà. Prim deve essere con lei, adesso: sono insieme nell’aldilà? Si prenderà cura di lei? Non starà più da sola! Ho sempre avuto paura che fosse da sola, in quel posto misterioso e lontano in cui non posso raggiungerla… ma adesso non lo è più. C’è Primrose con lei. Per sempre insieme a lei…
- Prim – ripeto, quasi ringhiando, agitando ancora le braccia. Le mie braccia bruciano, protestano, fanno male. – Prim… Lilac…
- Chi è Lilac, Katniss? – chiede l’uomo che dice di chiamarsi Peeta.
- Prenditi… cura di Lilac…. – provo ad urlare. Le braccia ricadono accanto ai miei fianchi.
Il buio. Sta tornando di nuovo il buio. Le palpebre si chiudono, l’uomo che si chiama Peeta svanisce dal mio campo visivo.
Prim e Lilac svaniscono di nuovo.

 

Le ustioni guariscono, la morfamina viene sospesa, altre medicine rimpiazzano l’oppiaceo. Lascio l’ospedale rivoluzionario di Capitol City in cui hanno rimesso a posto la parvenza di carne bruciata in cui si era trasformata la mia pelle. È quasi nuova, adesso: le braccia, la parte inferiore della schiena ed il fianco destro, i punti maggiormente coinvolti, hanno assunto il colore chiaro e la delicatezza della pelle dei neonati. Lascio che mi conducano in una stanza che condivido insieme a Peeta, l’uomo dagli occhi azzurri che non ho riconosciuto neanche una volta, nello stato confusionale e illusorio in cui ero sprofondata. Le cure che hanno somministrato a Peeta non sono state come le mie: lui non è rimasto settimane confinato a letto, sedato con la morfamina per evitare di sentire il dolore della carne che guariva. È rimasto ustionato anche lui, ma la sua coscia è guarita meglio e più in fretta in confronto alle mie ferite.
Seduta sul letto della camera che condivido con Peeta, osservo un punto imprecisato della parete che ho di fronte, elaborata, decorata, piena di quadri e dipinti. Non riconosco questa camera, non ci sono mai stata prima di adesso. Il cielo bianco, freddo, che vedo fuori dalla finestra, mi suggerisce che è inverno inoltrato. L’inverno stava arrivando quando è morta Prim, e non è ancora finito. L’inverno durerà ancora per un po'. Come la sofferenza che sento, come il dolore che la sua morte ha provocato in me… durerà ancora un po'. Forse durerà per sempre.
Davanti a me, inginocchiato, c’è Peeta. Sta sfilando le scarpe dai miei piedi per consentirmi di sdraiarmi sul copriletto dorato. Le mie mani sono ferme sul materasso soffice, affondano e quasi sprofondano per quanto è morbida la superficie su cui sono seduta. Al polso destro, rigido, campeggia un bracciale argentato: una fascetta. “Mentalmente confusa” è ciò che vi è inciso. Sono di nuovo mentalmente confusa, come dopo l’arena. Come dopo la morte di mia figlia.
L’ho chiamata, l’ho invocata, tra la nebbia e le allucinazioni. L’ho chiamata Lilac, me l’ha raccontato Peeta: mi ha chiesto chi fosse la Lilac di cui Prim doveva prendersi cura. Ed io ho dovuto rivelargli il motivo per cui, nella mia mente, la nostra bambina mai nata aveva ricevuto quel nome.
- I fiori di lillà sulla mia torta di compleanno – ho risposto, atona.
- Katniss – ha detto Peeta. Ha detto solo il mio nome, ed ha posato una mano sulla mia guancia. Solo questo.
Osservo i capelli biondi dell’uomo che si chiama Peeta, l’uomo che mi ha chiamata amore, l’uomo che mi ama. L’uomo che ho sposato nello strano modo in cui ci sposiamo noi abitanti del Distretto 12. L’uomo con cui ho deciso di condividere la mia intera vita. L’uomo che presto diventerà vedovo, se riesco a portare avanti la mia vendetta. Accarezzo i suoi capelli, immergo le dita nel biondo dorato che tanto amo. Peeta alza il viso, mi sorride, smette di litigare con le mie scarpe e posa la fronte contro le mie ginocchia. Mormora qualcosa che non riesco ad afferrare.
- Dove siamo? – domando con la strana voce che mi ritrovo.
- Nella residenza presidenziale – risponde.

 

Mentre morivo, mentre guarivo, il regime del presidente Snow è caduto. È caduto con l’esplosione dei paracadute, con la morte dei bambini innocenti. È caduto con la morte di Prim. Snow è stato fatto prigioniero, la Coin si è autoproclamata la presidente di Nuova Panem, e adesso sono tutti in attesa di conoscere l’esito del processo per poter procedere all’esecuzione dell’ormai ex presidente. La presidente Coin è venuta a trovarmi una mattina, poco prima che potessi fuggire dalle attenzioni continue di Peeta per andare a nascondermi da qualche parte, in questo posto immenso da cui Snow ha guidato la nazione per decine di anni. È venuta a trovarmi, promettendomi che sarò io la persona che scoccherà la freccia che lo ucciderà. Sarò io l’esecutrice dell’esecuzione.
- Te lo sei meritato, in fondo – ha commentato, sorridendo orgogliosa. Orgogliosa non di me, della Ghiandaia Imitatrice che ha infiammato la nazione, ma del potere tanto agognato, tanto voluto e bramato, che è riuscita a conquistare grazie a me. Grazie alla mia immagine usata, abusata e sfruttata fino alle fiamme, letteralmente fino alle fiamme. E odio, adesso, il modo in cui mi osserva con i suoi occhi gialli. Odio il modo in cui mi studia, in cui osserva lo stato in cui la guerra e la morte mi ha ridotta. Mi osserva dall’alto in basso, dall’alto del suo essere la signora presidente verso il basso del mio essere soltanto una ragazza bruciata, usata, debole, e sofferente.
Mi osserva come se mi stesse dando un contentino.
Un contentino che però mi consentirà di raggiungere la mia vendetta.

 

Trascorro ore in assoluto silenzio, ore intere, giornate intere, cercando di sfruttare gli angoli nascosti di questa enorme villa per nascondere me stessa. Mi nascondo dagli occhi degli altri, dagli occhi di Peeta che ha quasi assunto il ruolo di mio guardiano. Non è più mio marito, il mio fidanzato: è diventato il mio baby-sitter. E penso che starà meglio una volta che sarò morta, così non dovrà più prendersi cura della moglie mentalmente confusa. Starà meglio con una ragazza normale, con qualcuno che può garantirgli una vita normale.
Alle volte riprendo conoscenza nella stanza che occupo con Peeta senza sapere come io ci sia tornata, e ho sempre il dubbio che a riportarmici sia stato proprio Peeta. Me lo immagino, il modo in cui trascorre le ore del giorno: insegue me mentre io provo a fuggire da lui, e mi cerca dopo che io mi sono nascosta. Come i giochi dei bambini, e non quelli destinati a due persone che possono essere considerate ormai adulte. Mi rincorre come se stessimo giocando ad una partita di acchiapparello e mi cerca come durante una sessione di nascondino. Ed io, alla fine, perdo sempre.
Lui mi acchiappa sempre.
Lui mi trova sempre.
Ed io non voglio essere ritrovata.

Voglio solo essere dimenticata.

 

L’esito del processo giunge dopo altri giorni di fughe, di nascondigli, di silenzio. L’ormai ex presidente Snow è stato dichiarato colpevole di crimini contro l’umanità. Tra meno di dieci giorni verrà giustiziato. Nella stanza che divido con Peeta, il giorno della sentenza, arriva una scatola di legno contenente la mia divisa da Ghiandaia Imitatrice, rimessa a nuovo come se Cinna l’avesse appena finita di realizzare, e l’arco sottile e nero che Beetee ha costruito per me nel Distretto 13. Non ci sono frecce, né faretra. È chiaro cosa significa tutto questo: non sono autorizzata ad avere armi nello stato confusionale in cui sono sprofondata. L’arco, senza le sue frecce, non può essere considerata un’arma. È un oggetto inutile, un semplice accessorio. Avrò le armi solo quando arriverà il momento di uccidere Snow. Ma un’arma in realtà c’è: è nascosta nella piccola tasca sulla spalla sinistra, dove l’ho messa per non perderla. E non l’ho persa, e per la prima volta da quando Prim è morta sorrido perché nessuno sembra essersi preso la briga di controllare le tasche dell’uniforme. La pillola di Morso della Notte è ancora qui, ed è adesso nel palmo della mia mano. Potrei prenderla ora e morire in meno di un minuto. Non sarà una morte dolorosa, ha detto Boggs quando me l’ha consegnata, ma non è un dettaglio su cui voglio soffermarmi. Potrei morire adesso, morire e dimenticare tutto. Morire, raggiungere Prim e Lilac, venire dimenticata così come tanto desidero. Ma non la prendo: per quanto allettante, per quanto io sia attratta dal desiderio di morte, decido di attendere. Sono solo dieci giorni, penso. Dopo averla osservata e rigirata tra le dita, rimetto la pillola nella tasca e decido di aspettare dieci giorni ancora.
Dieci giorni.
Allora, dopo aver ucciso Snow, potrò morire anche io.

 

Durante il mio vagare, un giorno, dopo essere fuggita dalla stanza in cui il dottor Aurelius, lo strizzacervelli che mi ha in cura, segue le mie sedute di terapia, mi imbatto in un’ala della residenza in cui non sono ancora stata. Un’ala curata, come tutte le altre stanze e corridoi e aree che ho già esplorato. È un’ala protetta, a giudicare dai due soldati Ribelli che la sorvegliano. Mi avvicino ai soldati mentre cerco di capire cosa nasconde quest’ala quando vengo fermata. I soldati mi sbarrano la strada con i loro fucili.
- Non può passare, signorina – dice minaccioso l’uomo alla mia destra.
- Non puoi passare, soldato Everdeen. Ordine della presidente – dice quello alla mia sinistra.
Li guardo senza dire nulla, senza neanche provare a chiedere se non possano fare un’eccezione per me. Ci tengo parecchio a scoprire cosa nasconde questa parte della casa, anche se è solo per trascorrere altre ore di solitudine lontana da tutti coloro che vogliono controllarmi. Vorrei quasi implorarli, adesso, ma continuo a restare chiusa nel mio silenzio. I soldati si lanciano occhiate confuse e di chiaro disagio, dato che non sanno cosa fare con me. Chiamare Haymitch? Buona fortuna, penso. È più ubriaco di quando era un alcolizzato.
- Lasciatela entrare – esclama una voce alle mie spalle. Mi volto e scorgo la figura autoritaria della comandante Paylor, la donna che ho conosciuto mesi fa al Distretto 8. – La autorizzo io.
Davanti all’ordine della loro comandante, i soldati allontanano i loro fucili e mi permettono di avanzare, di percorrere il corridoio che si dipana dinanzi a me. Cammino e dopo pochi metri azzardo un’occhiata verso le persone che lascio indietro. I due soldati della Paylor sembrano avermi già dimenticata, la comandante invece mi osserva e sorride. Perché sorride? Cosa c’è in questa parte della casa da portarla a sorridere? Qualcosa di bello?
Giunta alla fine del corridoio, trovo una porta a vetri. Attraverso i vetri riesco a vedere l’interno della stanza, che in realtà è una serra. Nella serra crescono delle rose. Rose bianche, rose rosa, rose rosse, rose arancioni. Rose gialle. Decine di colori meravigliosi immersi nel mare verde. Questo è il posto in cui crescono le rose che l’ormai ex presidente Snow ama così tanto.
Ed in mezzo alle rose, seduto di spalle, c’è proprio lui.
Snow.

 

Entro nella serra, adagio, usando tutta la lentezza e la cautela di cui sono capace. L’interno della serra è così caldo e umido da ricordarmi il clima asfissiante in cui sono stata catapultata durante la seconda arena. Questo è l’habitat ideale per far crescere le rose. Le foglie sfiorano le mie braccia mentre cammino, mentre mi inoltro nel bel mezzo delle piante per raggiungere l’uomo seduto di spalle tra le rose bianche.
Ed è qui, in questo posto straripante del profumo di rose, che mi ritrovo faccia a faccia con l’uomo che per un anno intero ha infestato i miei incubi. L’uomo che per decine di anni ci ha costretto ad assistere alla morte e all’assassinio di centinata di ragazzini. L’uomo che mi ha costretta ad offrirmi volontaria per salvare la vita di Primrose. L’uomo che ha causato un anno intero della mia sofferenza, l’uomo che ha rovinato la mia vita. L’uomo che ha causato la morte di mia sorella.
È la quarta volta che mi ritrovo faccia a faccia con l’ormai ex presidente di Panem. La prima volta è stato più di un anno fa, il giorno in cui io e Peeta fummo incoronati vincitori dei settantaquattresimi Hunger Games. La seconda volta è stato meno di un anno fa, il giorno in cui venne a trovarmi a casa, poche ore prima dell’inizio del Tour della Vittoria, per informarmi e minacciarmi di ciò che accadeva nei Distretti. La terza volta è avvenuta due settimane dopo, alla fine del Tour: io e Peeta ci eravamo appena fidanzati e lui venne a farci le sue congratulazioni più sincere. Oggi so che le sue erano solo parole vuote: i Distretti continuavano a ribellarsi all’autorità, e lui già progettava il modo più efficace per vendicarsi della scomoda ragazza che non era riuscita a convincere il suo popolo.
La terza volta eravamo proprio qui, a casa sua, quando è avvenuto l’incontro. Ed è di nuovo a casa sua che lo incontro, la casa in cui è tenuto prigioniero mentre attende il giorno in cui la sua vita cesserà per sempre.
Faccia a faccia con l’uomo che ha rovinato la mia vita, scopro che non assomiglia per niente all’incubo che ha infestato per così tanto tempo la mia mente. Nonostante il viso alterato dalla chirurgia, nonostante le manette, nonostante i ceppi e nonostante i dispositivi di localizzazione, tutto ciò che la sua immagine mi rimanda è quella di un vecchio. Un vecchio ben vestito, pettinato, curato, con una rosa all’occhiello ed inebriato dal profumo che i suoi fiori preferiti spandono per la serra, ma pur sempre un vecchio. Ed il fazzoletto macchiato di sangue che tiene tra le mani me lo dimostra. È solo un vecchio, un vecchio malato.
Un vecchio che soffre.
- Speravo che avrebbe trovato la strada per i miei appartamenti – dice, un sorriso stampato sulle labbra gonfie. – Abbiamo molto di cui parlare, signorina Everdeen, ma prima di tutto voglio che lei sappia che non ho mai desiderato la morte di tutte quelle creature. Neanche la morte della sua Primrose.
Il vecchio si dimostra davvero dispiaciuto per la recente perdita che ho subito, per la perdita della mia sorellina. E non è una perdita facile da affrontare, lo capisce. Sa cosa si prova. Io non voglio crederci, non voglio credere ad una sola parola di ciò che esce da quelle orrende labbra. Lui non può sapere cosa sto provando, non può sapere cosa sta provando mia madre, che si è immersa totalmente nel lavoro per affogare il suo dolore e non ha nessuna intenzione di occuparsi della figlia uscita di testa che le è rimasta. Per questo è Peeta a prendersi cura di me. Lui e Haymitch, ma lui non l’ho ancora visto da quando sono qui. È troppo ubriaco per mettere anche solo il naso fuori dalla sua camera.
Il vecchio è dispiaciuto per la morte di Primrose. E per Lilac, invece? Non si è pentito di aver permesso che l’Edizione della Memoria andasse avanti nonostante la presenza di Lilac? Non ha rimorsi per aver lasciato che la sentissi morire dentro di me?
- Uno spreco del tutto inutile. Chiunque poteva capire che a quel punto la partita era chiusa. In effetti, stavo proprio per dichiarare ufficialmente la resa quando loro hanno sganciato quei paracadute – aggiunge subito dopo.
La sua frase mi confonde, ma lui seguita a parlare e non mi dà il tempo di assimilare ciò che ha detto. Mi spiega, invece, cos’è che voleva dire: l’ordine dei paracadute, l’attacco esplosivo, non veniva da lui. Non veniva da Capitol City. L’hovercraft che li ha sganciati aveva l’effigie di Panem, ma chi lo pilotava non faceva parte delle loro forze. A Capitol City non c’erano più hovercraft da settimane. Gli unici ad averli, ed io lo sapevo bene, erano le forze dei Ribelli, le forze del Distretto 13. Le forze dell’attuale presidente Coin. Ho visto decine di hovercraft identici nell’Hangar del 13 quando ero lì…
Possibile che quest’uomo, questo vecchio, mi stia rivelando la verità?
Snow continua. Tossisce, sputa altro sangue rosso sul suo fazzoletto bianco che non è più bianco, ma continua. Mi dice che l’attacco dei paracadute è stato trasmesso in diretta televisiva, che in qualche modo dietro a tutto doveva esserci la mano di Plutarch, la mano di uno Stratega, e che da quel momento in avanti anche i bruscolini di lealtà che gli erano rimasti sono caduti, sparsi nel vento della tempesta. Dice che la Coin doveva aver avuto da sempre come obiettivo non quello di liberare il popolo di Panem dall’oppressione di un presidente opprimente, ma quello di essere lei stessa l’artefice di quella oppressione. Dal 13, ha mosso le sue carte per arrivare esattamente a questo punto. Non aveva, però, messo in conto la mia gravidanza, la morte della mia Lilac, la morte di Primrose e la morte di tantissimi altri bambini. Non li aveva messi in conto e, da un lato, non le è importato. Gli abitanti del Distretto 12, quelli del Distretto 8, la morte della maggior parte dei vincitori. La morte di Finnick… pochi ed insignificanti bruscolini, in confronto alle altre migliaia di vite che sono sopravvissute, ma in realtà non lo sono affatto.
Vittime sacrificabili, vittime impreviste. Vittime che non contano nulla, se l’obiettivo finale è il potere.
- …dopotutto, fu il 13 a dare inizio alla ribellione che portò ai Giorni Bui. E in seguito abbandonò gli altri distretti quando le cose gli si rivoltarono contro. Ma io non prestavo attenzione alla Coin. Tenevo d’occhio lei, Ghiandaia Imitatrice. E lei teneva d’occhio me. Temo che siamo stati presi in giro entrambi.
- Non le credo – queste sono le prime parole che gli rivolgo da quando sono qui. Le prime parole, e le uso per negare tutto ciò che ho ascoltato finora. Sono troppe informazioni da assimilare, da comprendere. È assurdo pensare che questo vecchio malato possa davvero avere ragione.
- Ah, mia cara signorina Everdeen. Pensavo che fossimo d’accordo di non mentirci l’un l’altro – aggiunge, scuotendo la testa. È deluso da me. – Tenga, per lei. Ne raccolgo una al giorno proprio per potergliela regalare. Sono felice che mi abbia raggiunta oggi: questo bocciolo è il più grazioso di tutti.
Con timore, con lentezza, prendo con la punta delle dita il lungo stelo della graziosa rosa che, a suo dire, ha raccolto per me. Non ha spine, lo stelo della rosa rossa che l’ormai ex presidente Snow mi sta donando. Il rosso scuro dei petali appena schiusi emana un profumo meraviglioso: il vero odore che dovrebbe avere una rosa. Non è quello artificioso, chimico, stomachevole che si sente sempre addosso al vecchio.
E capisco, grazie a questo odore, che è tutto vero. Non mi ha mentito, non ha mai avuto l’intenzione di farlo. Snow ha questo strano modo di comunicare con me attraverso le sue rose, e la sua rosa mi sta suggerendo di credergli.
Snow non ha ucciso mia sorella.

La Coin ha ucciso mia sorella.

 

- Dove hai preso quella rosa? – chiede Peeta quando torno nella camera che divido con lui.
- Me l’ha donata Snow – rispondo.

 

La rosa è rimasta sul mio comodino per giorni, immersa in un bicchiere d’acqua. La osservo aprirsi, sbocciare, diventare un fiore splendido, e la vedo appassire. Un petalo è già caduto sul legno quando Gale bussa alla porta.
L’ho chiamato io. Ho chiesto io di vederlo, di distoglierlo dai compiti in cui è immerso per venire qui a parlare con me. Ho bisogno di sapere se ciò che mi ha rivelato Snow sia vero, che non mi ha giocato un brutto tiro per approfittare del debole stato in cui si trova la mia mente, e non saprei a chi altri rivolgermi oltre a lui. Gale è mio amico, Gale continua a far parte dell’esercito dei Ribelli vincitori, ed anche se era stato catturato quando i paracadute sono esplosi, in seguito può aver appreso le nozioni che a me mancano. Le ho in realtà, le nozioni, ma non so se siano giuste.
Ed oltre a quelli che Snow ha instillato nella mia mente, c’è un altro tarlo che mi affligge e che non riesco a scacciare. È un tarlo che potrebbe rivelarsi vero. È un tarlo che potrebbe avere già una risposta. È un tarlo contenuto nelle domande che feci a Gale in preda all’ira.

Quindi è questo che fai quando parli con Beetee? Prepari trappole mortali per le persone? Decidi qual è il modo più orribile per ucciderle?
Ho bisogno di sapere se le risposte giuste sono quelle che mi ha già dato Snow.
Gale entra, si chiude la porta alle spalle, ci si appoggia contro con la schiena. Non si avvicina, resta a guardarmi dalla porta mentre io sono dall’altra parte della stanza, seduta su una poltrona dall’imbottitura dorata in tema con tutto il resto. Ho la rosa vicino: la rosa che potrebbe rappresentare la verità o la menzogna, contro la verità e la menzogna che potrebbero venir fuori dalla bocca di Gale.
- Cosa succede, Catnip? – domanda Gale. Il grigio dei suoi occhi è scuro, tenebroso. Sono gli occhi di un uomo tormentato?
Glielo dico, cosa succede.
- Ho paura che le bombe che hanno ucciso Prim siano quelle che hai progettato insieme a Beetee.
Gli occhi tormentati di Gale mi forniscono la risposta che, forse, non volevo davvero conoscere. Ma la risposta non è formulata nel modo in cui mi aspetto che lo sia.
- Non lo sappiamo – dice. – Voglio dire, il sistema di innesco è quello che abbiamo ideato insieme… ma quelle bombe noi non le abbiamo mai costruite.
- Ma qualcun altro lo ha fatto al vostro posto – dico.
- Non lo so, Katniss, non lo so – scuote la testa. – L’unica cosa che so, è che avrei dovuto prendermi cura della tua famiglia – le lacrime scendono dai suoi occhi grigi e tormentati.
Osservo il volto di Gale e capisco cos’è accaduto. Capisco cos’è che sarebbe dovuto accadere. Ai miei occhi, Gale si sarebbe dovuto trasformare nel carnefice che non merita di diventare. Ai miei occhi, Gale si sarebbe dovuto trasformare nel capro espiatorio sostitutivo su cui far ricadere la colpa per la morte di Prim. Ai miei occhi, Gale non potrà mai diventare nulla di tutto questo: avrà anche progettato l’innesco, ma se dice che la bomba non l’ha mai costruita, allora gli credo. Perché Gale mi guarda sempre negli occhi quando parla, e non distoglie mai lo sguardo da quello del suo interlocutore. Lo fa solo quando mente.
E ora non sta mentendo.
- Hanno usato anche te – mormoro.
- Chi mi ha usato, Katniss?
La rosa perde un altro petalo.

 

 

 

__________________________

Buonasera ragazzi! Anzi, vista l’ora forse è meglio dire buonanotte ^^’
Sono passati quasi due mesi dall’ultima volta che ho aggiornato… spero che non abbiate già dimenticato tutto XD a parte gli scherzi, mi dispiace davvero molto per questa mia dimenticanza. Devo riuscire a migliorare per i pochi aggiornamenti che rimangono ancora… già. Siamo quasi agli sgoccioli.
Ma non vi dirò ancora quanto manca alla fine :P
In questo capitolo credo di essere riuscita a racchiudere un po’ tutte le intenzioni che mi ero ripromessa: abbiamo una Katniss di nuovo confusa e depressa, ferita sia nel corpo che nell’anima dopo la morte di Prim; abbiamo la “confessione” del presidente Snow, e il tarlo del dubbio che è riuscito ad instillare nella mente della nostra eroina riguardo le vere intenzioni della Coin… e soprattutto abbiamo Katniss che non se la prende con Gale per le bombe incendiarie. *plot twist*
Ci ho pensato moltissimo al riguardo, anche per quanto riguarda questa parte nella saga originaria: in fondo io non ritengo Gale il vero responsabile per ciò che è accaduto a Prim. Voglio dire, va bene aver creato le bombe – il fatto che poi queste avessero come unico obiettivo quello di fare una carneficina possiamo momentaneamente metterlo da parte -, ma lui non poteva immaginare che quelle bombe avrebbero coinvolto anche Prim. Prim, da quel che mi sembra ricordare, non doveva neanche trovarsi lì davanti casa di Snow. E quindi chi altri, se non la Coin, aveva il potere di inviarla da quelle parti?
Sono molto curiosa di sapere cosa ne pensate al riguardo :)
Prima di lasciarvi voglio ringraziarvi per aver letto la storia fino a qui e per aver recensito lo scorso capitolo! Grazie mille, davvero :*
A presto!

D.

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Capitolo 42
*** 42. ***


In The Still Of The Night - 42

Scusate, scusate, scusate. Chiedo venia. Giuro che non sparirò più.
Dove eravamo rimasti?

 

 

 

In the still of the night

 

 

42.

 

La sera prima dell’esecuzione, la presidente Coin convoca me e Peeta nei suoi nuovi appartamenti per prendere parte ad una riunione straordinaria. Mi lascio guidare da Peeta, dalla sua mano che stringe la mia e dai suoi passi rumorosi che risuonano lungo i corridoi deserti e altrimenti silenziosi. Sono assorta, non capisco perché ci abbia chiamati. Altri passi rumorosi risuonano dietro di noi. Mi volto, e scopro che sono i passi pesanti di Haymitch. Il nostro vecchio mentore ha un colorito verdognolo e profonde occhiaie sotto agli occhi, ma sorride.
- Bella serata per una riunione, eh? Accogliamo il nuovo anno insieme?
Il nuovo anno.
È la sera di Capodanno. Un anno intero sta per chiudere i battenti. Un anno da dimenticare, un anno su cui mettere una croce sopra. Vorrei quasi tornare indietro nel tempo, alla sera di un anno fa in cui raggiunsi Peeta a casa sua per non restare da sola nella mia. La sera in cui mi mostrò il dipinto di Rue, la sera in cui mi promise di aiutarmi ad affrontare il futuro che ci attendeva. La sera in cui ci amammo per la prima volta…
È passato un altro anno. E sono più che sicura che non ce ne sarà un altro da vivere, dopo stasera. Domani ucciderò Snow, e poi ucciderò me stessa grazie alla pillola di Morso della Notte. I miei prossimi anni li trascorrerò nell’oscuro nulla rappresentato dalla morte.
E non vedo l’ora che succeda.
La stanza in cui entriamo è già piena di gente. Poca gente, in realtà; c’è la Coin, ovviamente, e gli altri vincitori sopravvissuti: Annie, Johanna, Beetee. Enobaria.
- Che ci fa lei qui? – domanda Peeta.
- Lei è qui sotto la protezione del “Patto della Ghiandaia Imitatrice” – gli spiega la Coin. – Patto nel quale Katniss Everdeen accettava di sostenere i Ribelli in cambio dell’immunità per i vincitori catturati. È presente anche lei in questo Patto, signor Mellark, non dimentichiamolo.
Il patto. Lo stupido patto che ho stretto con la Coin per essere la loro Ghiandaia Imitatrice.
Devo smetterla di stringere patti con la gente.
Seduti attorno ad un enorme tavolo, la Coin ci spiega il motivo per cui ci ha riuniti. Ci spiega che Snow non è stato l’unico ad aver ricevuto una condanna a morte: insieme a lui ci sono funzionari, dirigenti, e altri complici dell’oppressione che ha colpito Panem per così tanti anni. Ci spiega che per i cittadini liberi della nazione queste morti non sono ritenute sufficienti, e che per loro uccidere ogni singolo cittadino di Capitol City sarebbe una soluzione migliore. Ma dato che uccidere ogni singolo cittadino di Capitol City sarebbe uno spreco di tempo, e rappresenterebbe anche un certo numero di esecuzioni da trasmettere in televisione, la Coin ci dice che si è cercato di raggiungere un compromesso. Ci spiega che, subito dopo l’esecuzione di Snow, ha intenzione di annunciare una straordinaria e memorabile edizione degli Hunger Games. Un’edizione simbolica, conclusiva, per ricordare le innumerevoli ed irrecuperabili perdite che abbiamo subito per raggiungere la pace.
Ed i tributi, per questa particolare edizione, verranno sorteggiati tra i bambini di Capitol City.
Ma allora che pace è?
- Sta scherzando? – urla Peeta.
- No.
- L’ha avuta Plutarch, quest’idea? – chiede Haymitch.
- L’ho avuta io – risponde la Coin.
Altri Hunger Games, altri bambini nell’arena, altri bambini morti. Osservo la mano di Peeta che stringe la mia in maniera ossessiva, forte. Sta riversando su di essa la sua rabbia, dopo averla urlata in faccia alla Coin. Io non riesco a dire nulla.
- Il programma verrà attuato se raggiungerà una maggioranza di almeno quattro voti – prosegue la Coin. – E se i giochi si terranno davvero, verrà reso noto che si è andati avanti grazie anche alla vostra approvazione. I voti, invece, non saranno rivelati per garantire la vostra sicurezza.
Quale sicurezza? Non saremo mai davvero al sicuro.
- Io voto no! Non ci saranno altri Hunger Games – dice Peeta.
- Anche io voto no, come Peeta – mormora Annie.
- Al diavolo, sì! – questa è Johanna. – Snow ha anche una nipote! Facciamolo!
- No – dice invece Beetee.
- Io voto sì – dice Enobaria. Ha una voce insolitamente dolce e delicata, per una donna che si è fatta limare i denti come zanne.
- Rimangono Katniss ed Haymitch – annuncia la Coin.
Gli altri restano in attesa degli ultimi due voti. Ho lo sguardo basso, sento i loro sguardi puntati addosso e, più di tutti gli altri, sento lo sguardo di Peeta puntato sulla mia testa. La stretta sulla mia mano si allenta, diventa più dolce, confortante. Va tutto bene, sta dicendo la stretta, ma non sta andando tutto bene. Non sta andando bene e non andrà bene, se ci mettono davanti ad una scelta del genere. Non andrà tutto bene, se alla fine di una guerra con migliaia di morti ci costringono a votare per mandare a morte ventiquattro ragazzini. Alzo gli occhi, incrocio quelli gialli della mia nuova presidente, e capisco che non posso farlo.
- – dico. – Io voto sì.
La mano di Peeta scaccia via la mia come se gli avessi appena dato fuoco.
- Eccellente – trilla la Coin. – Haymitch?
Adesso guardo Haymitch, incrocio il suo sguardo grigio così simile al mio, identico a quello di tutti gli altri che sono nati e vissuti nel Giacimento del Distretto 12. Haymitch soppesa i miei occhi per dei lunghi, intensi secondi, e alla fine annuisce.
- Io sto con la Ghiandaia Imitatrice – dichiara.
Un sorriso trionfante nasce sulle labbra della Coin. È il sorriso di chi ha raggiunto, ancora una volta, il suo obiettivo. È il sorriso di chi ha la vittoria in pugno. È il sorriso di chi non teme che qualcosa possa andare storto.

 

Il primo gennaio, il primo dell’anno. Mi sveglio nella fredda e buia alba che annuncia il primo giorno del nuovo anno. Il primo gennaio è il giorno in cui è stato deciso che morirà Snow. Ho dormito poco e male, ma ho sempre avuto Peeta accanto: mi ha tenuta stretta a sé per tutta la notte. Mi ha abbracciata nonostante fosse arrabbiato con me, e nonostante avessi scelto di assecondare la Coin per indire la nuova edizione degli Hunger Games. Abbiamo ancora dei desideri diversi, eppure non riesce a lasciarmi andare via. Mi resta accanto, forse perché teme che possa fare qualche pazzia. Come suicidarmi, per esempio.
Peeta non sa ancora che è proprio una pazzia ciò che ho in mente di fare oggi. Non lo sa, e non glielo posso dire. Mi impedirebbe di farlo, altrimenti. Mi impedirebbe di fare tutto ciò che desidero fare oggi. Stamattina. Manca davvero poco, ormai.
Effie trascorre l’intera mattina a rimettere a nuovo la mia immagine: fa la solita treccia ai miei capelli, trucca i miei occhi, le mie guance, mi consente di indossare l’uniforme da Ghiandaia Imitatrice solo quando non ha più nulla da truccare. Canticchia a mezza voce, vestita e agghindata in maniera stravagante come se la sua temporanea permanenza al Distretto 13 non fosse mai avvenuta. La parrucca color oro è la stessa che si fece fare in vista dell’Edizione della Memoria. Mentre riordina i suoi trucchi e mi consiglia di guardarmi allo specchio per ammirare il risultato del suo duro lavoro, controllo di nuovo la tasca sulla spalla. La pillola è ancora al suo posto: bene. Andrà tutto come previsto.
Accanto alla porta, quando esco, ci sono il mio arco e la mia faretra: questa contiene una sola, singola freccia nera. È quella che userò per uccidere l’ormai ex presidente Snow. Hanno davvero molta fiducia sulle mie capacità per rifornirmi di una sola freccia. Dovrò guardarmi bene dal non deluderli.
- Andiamo, Katniss! Non rallentiamo la tabella di marcia – trilla Effie.
Effie ed alcuni soldati mi conducono fuori dalla villa e mi scortano fino all’Anfiteatro cittadino, il luogo scelto per l’esecuzione. È già colmo e straripante di persone venute ad assistere alla morte del carnefice. Snow, al centro della scena, è in piedi ed è legato ad un palo, ed è impeccabile come sempre: i capelli bianchi pettinati all’indietro, il cappotto blu che avvolge elegantemente la sua figura, i guanti neri sulle mani, la solita rosa bianca all’occhiello. Il sangue che gli cola dalle labbra è la sola cosa che rovina la sua immagine da perfetto gentiluomo.

È solo un vecchio malato, penso di nuovo. È solo un vecchio.
La Coin osserva tutto dall’alto, dalla postazione sopraelevata dove per anni Snow ha ammirato e accolto i tributi venuti a morire agli Hunger Games. La osservo a mia volta mentre, con calma, raggiungo il punto in cui dovrò fermarmi per lanciare il colpo mortale destinato al nostro nemico comune. Sono a poco meno di venti metri di distanza da Snow; dietro di me, in piedi, ci sono gli altri vincitori che attendono di assistere alla sua morte. Dietro ancora, in attesa spasmodica, un mare di cittadini in vestiti variopinti.
Quando la Coin fa un cenno con la testa, capisco che è arrivato il momento di procedere. Alzo il mio arco, recupero la freccia dalla faretra e la incocco in un semplice, automatico ed abile gesto. Prendo la mira, concedendomi diversi secondi in più del necessario per capire dove scagliarla. Mi concentro, d’altronde ho solo una freccia a disposizione e non posso sbagliare il colpo. Non posso deludere tutti coloro che si sono riuniti nell’Anfiteatro cittadino. Mi concentro, anche se il mio nemico non è molto lontano ed io ho colpito bersagli ad una distanza più elevata di questa. Mi concentro, distogliendo gli occhi dal viso impassibile di Snow per puntarli su quello della Coin, che attende. Attende, e non resterà delusa.
Sono sicura che non lo sarà.
Sollevo l’arco un istante prima di lasciare andare la freccia. Ho dovuto farlo, perché il mio nemico si trova più in alto, ed è più lontano. Più lontano di Snow.
Il mio nemico riceve la freccia proprio sul cuore. Cade in avanti, precipita dalla postazione sopraelevata dove per anni Snow ha ammirato e accolto i tributi venuti a morire agli Hunger Games. E adesso il mio nemico è caduto, è morto, e non vedrà mai arrivare i tributi così come ha fatto Snow per anni. La Coin non indirà mai gli Hunger Games straordinari. La Coin non manderà mai più a morire ventiquattro ragazzini che non hanno alcuna colpa, se non quella di essere vivi.
Il pubblico, i vincitori, Snow: sono tutti attoniti quando abbasso l’arco e mi preparo a prendere la pillola dalla tasca. La stringo tra le dita e la porto alla bocca, l’ho appena sfiorata con le labbra quando Peeta mi placca a sorpresa, scagliandomi a terra. Colpisco il terreno con violenza, la forza dell’impatto mi mozza il respiro. Il Morso della Notte vola via chissà dove, in mezzo al marasma in cui si sta trasformando l’Anfiteatro cittadino.
Ho perso la mia occasione.
- Che cazzo fai? Lasciami, lasciami andare! – urlo rivolta a Peeta. Scalcio, cerco di togliermi il suo corpo di dosso ma lui è troppo forte. È più forte di me e mi tiene ancorata a terra.
- No! – urla a sua volta, ringhiando.
- Lasciami andare!
- Non posso…
- Peeta! – urlo quando mani sconosciute, molte mani che non conosco mi strattonano, e strattonano lui per fare in modo che possano portarmi via. – Peeta! – urlo ancora.
Lui rimane immobile, quasi impassibile, mentre mi allontanano da lui. Soldati e semplici spettatori corrono dappertutto, corrono attorno a noi e davanti a noi, fino a che non coprono la mia visuale. Finché non lo vedo più.
- Peeta! – sto ancora urlando il suo nome quando mi trascinano via dall’Anfiteatro.

 

Dopo essere stata portata via di peso dall’Anfiteatro, i soldati mi fanno entrare in un posto enorme e fatto interamente di marmo; alcuni di loro sono usciti, mentre altri due hanno chiuso le pesanti porte di legno e si sono posizionati ai due lati per impedirmi una qualsiasi fuga. Anche con le porte chiuse si riesce ancora a sentire il vociare e le urla delle persone, urla che ho scatenato con il mio folle gesto. Ho ucciso la Coin
Stringo le braccia al petto e inizio a camminare, osservando il luogo in cui mi trovo e non riuscendo a capire con precisione di che posto si tratti: somiglia moltissimo a uno qualsiasi dei Palazzi di Giustizia in cui sono entrata l’anno scorso, durante il Tour della Vittoria, ma allo stesso tempo ha qualcosa di diverso. Ha un’aura di imponenza, di importanza. È un qualcosa che non avevo mai visto prima d’ora…
Ci sono tante statue di marmo bianco, poste ai lati della costruzione, che raffigurano delle persone con delle tuniche lunghe fino ai piedi; quasi tutte hanno una strana corona a forma di cerchio sulla testa e uno sguardo benevolo e dolce. Le donne, con le mani giunte contro il petto, hanno anche un velo a coprire loro la testa, oltre alla corona. Al centro, disposte su due lunghe file, ci sono delle panche di legno.
Prendo posto su una delle panche poste nelle prime file, pentendomene subito dopo. Anche se so che non è una cosa possibile, sento gli occhi di tutte quelle statue fissi su di me come se mi stessero osservando e giudicando in silenzio. Scopro che la statua di un uomo con i capelli lunghi e la barba, dal volto gentile, è quella ai miei occhi più insopportabile.
Smetto di osservare la statua non appena le porte si aprono con un gran fracasso, quando i soldati fanno entrare Plutarch nel mausoleo – o in qualsiasi altro modo si chiami questo posto. I suoi passi riecheggiano per tutto il tempo che impiega per raggiungermi, sedendosi nella panca accanto alla mia. Mette le mani nelle tasche del cappotto e si schiarisce la voce.
- Katniss, Katniss – inizia Plutarch scuotendo la testa. Mi guarda e scuote la testa, un sorrisino complice a deformargli le labbra. Ho già visto altre volte quel sorriso. – Da te non mi sarei aspettato nient’altro che questo. E non ho nemmeno dovuto suggerirtelo! – aggiunge.
Soppeso per qualche secondo il suo sguardo e poi lo abbasso sul pavimento a scacchi. Inizio a fissare gli scarponi della mia divisa. In qualche modo, sono una visione migliore della sua faccia.
Plutarch continua a parlare quando capisce che non sono proprio propensa a scambiare quattro chiacchiere con lui. – Ti sei messa in un gran bel pasticcio, Katniss. Anche se le tue erano buone intenzioni, non avresti dovuto farlo. Ce ne saremmo occupati noi dopo l’esecuzione di Snow.
- Voleva organizzare dei nuovi Hunger Games – mormoro.
- Ne eravamo al corrente, e non avremmo mai permesso alla presidente Coin di metterli in atto. Sapevamo già come intervenire in questo caso… ma ci hai anticipato. Sei stata di nuovo avventata. – lo osservo con la coda dell’occhio e noto che non ha smesso di sorridere. – Continuo a sottovalutarti, ragazza mia.
Plutarch fa un gesto con la mano e i soldati che erano fermi alle porte iniziano ad avanzare verso di noi. Mi volto per osservarli, e poi torno ad osservare Plutarch, che invece guarda me. Stavolta ha smesso di sorridere.
- Cosa ne dobbiamo fare di te, signorina Everdeen? – domanda.
- Che… che cosa vuoi dire?  
- Mi dispiace molto – è l’unica risposta che ottengo da lui.
Non ho nemmeno il tempo di provare ad alzarmi da quella panca che i soldati mi stanno già spingendo via, fuori dal mausoleo.

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Capitolo 43
*** 43. ***


In The Still Of The Night - 43

In the still of the night

 

 

43.

 

La stanza in cui ho trascorso i giorni precedenti i miei due Hunger Games, quella al Centro di Addestramento, diventa il luogo in cui trascorro la mia prigionia. È una prigionia, non saprei in che altro modo descriverla altrimenti. Potrei chiedere a Peeta se anche lui, all’inizio, era stato trattato nello stesso modo in cui vengo trattata io, ma Peeta non è qui. Non so dov’è. Non so nulla. Da quando sono qui, non mi hanno più messa al corrente di nulla.
Mi hanno condotta qui, mi hanno fatta entrare nella stanza spoglia e semibuia e se ne sono andati, chiudendo a chiave la porta alle loro spalle. Mi hanno lasciata qui senza dirmi cosa dovevo fare, se avessi dovuto aspettare qualcuno, senza sapere se qualcuno sarebbe giunto per somministrarmi la stessa medicina che io ho riservato alla Coin. Seduta sul letto, avvolta ancora nella mia uniforme da Ghiandaia Imitatrice, ho atteso un movimento. Ho atteso un rumore, ho atteso un segnale, ho atteso un qualsiasi cambiamento che potesse avvertirmi di ciò che i minuti seguenti, le ore seguenti, o i giorni seguenti mi avrebbero riservato. Ma non è arrivato nulla. Sono rimasta ore ad aspettare, ma non è giunto nessuno. Sono stata ignorata. Ignorata come ho desiderato così ardentemente nelle ultime settimane. E adesso che lo stanno facendo, vorrei che accadesse il contrario. Vorrei che qualcuno venisse a parlarmi.
Ho trascorso giorni interi vestita solamente di un accappatoio di carta, dopo che ho tolto l’uniforme per fare la doccia. L’uniforme è sparita, raccolta e portata via da qualcuno che non sono riuscita a vedere e neanche a sentire. Non ho altri vestiti all’infuori di questo accappatoio, e là fuori sicuramente pensano che non abbia bisogno di altro. Cosa se ne fa una ragazza imprigionata di un guardaroba pieno di abiti? Non posso uscire, comunque, la porta è chiusa a chiave. Le finestre sono sbarrate e siamo troppo in alto per poterle usare come via di fuga. L’unica fuga che potrei trovare da quest’altezza sarebbe tramite suicidio.
Non che non ci abbia già pensato… ma come avrei potuto suicidarmi qui dentro? Non ho niente con cui suicidarmi. Niente armi, niente vestiti, niente cinture. L’unica cintura che ho è quella dell’accappatoio, e si è strappata subito appena ho provato a realizzare un cappio, così adesso ho un accappatoio che resta sempre aperto e che mostra a chiunque mi spii la mia nudità, ma non mi interessa. Che guardino pure. Le medicine che mi mandano ogni giorno insieme al cibo sono inutili, e non mi garantiscono una dose letale con cui morire. Neanche se le accumulassi potrei trovare la morte. E lì fuori, chiunque mi stia sorvegliando si guarda bene dal mandarmi medicinali pericolosi. Vorrei un bel veleno, adesso. Un veleno farebbe proprio al caso mio.
Quando le medicine, i veleni e gli altri metodi di suicidio scarseggiano, metto in atto un'altra soluzione: inizio una specie di sciopero della fame. Assaggio appena la porzione di cibo che mi mandano, fino al giorno in cui smetto di fare anche questo. Bevo sempre meno acqua. Mi lascio, a poco a poco, morire di fame. Gli effetti cominciano a vedersi notevolmente quando sono trascorse almeno due settimane: le ho contate. Conto i giorni che trascorrono da quando ho iniziato. Le costole sono evidentissime, le ossa del bacino sporgono dai fianchi e sento di essere più magra dei giorni trascorsi nell’arena, ancora più magra dei giorni e dei mesi che affrontai quando morì papà, quando la mia famiglia rischiò di morire di fame. E forse, stavolta, ci riesco davvero. Morirò di fame.
Sono così debole da non riuscire più ad alzarmi dal materasso. Striscio lungo il pavimento quando devo andare in bagno, e quando faccio la doccia mi limito a stare seduta sulle piastrelle, e lascio che l’acqua scorra lungo il mio corpo magro. Non ho altra compagnia all’infuori di me stessa. Questa compagnia potrebbe terminare presto, forse è questione di pochi giorni prima che sopraggiunga la morte. Sento che, morendo, potrei trovare quella felicità che non sono riuscita a trovare da nessun’altra parte. Solo con Peeta ci stavo riuscendo, ma poi è tornato Snow. Sono tornati gli Hunger Games, ed è arrivata la guerra. Ed io ho perso tutto. L’illusione di felicità è svanita con Prim, con Lilac…
Ho le labbra secche, la bocca asciutta. Le palpebre si aprono e chiudono con gesti automatici mentre fisso, senza guardarla veramente, la finestra bianca da cui vedo cadere i fiocchi di neve. I graffi sulla parete, i graffi che ho smesso di fare giorni fa, sono trentatré. Sono in questa stanza da almeno trentatré giorni. Non so per quanti altri giorni dovrò restarci, ma spero che terminino molto prima che possa scoprirlo da sola.
Realizzo tardi, troppo tardi che, se sono trascorsi trentatré giorni e più da quando sono qui, gennaio è finito da un pezzo. Siamo già a febbraio, febbraio inoltrato. Il sedici gennaio è passato da tempo. Il sedici gennaio… è il giorno del compleanno di Peeta.
Peeta ha compiuto diciotto anni.
Diciotto anni: è un’età importante. L’età in cui diventi maggiorenne e smetti di essere un ragazzo costretto a presenziare alla mietitura. Peeta è salvo, ora, non dovrà più partecipare alla mietitura. Ma era già salvo in precedenza, essendo un vincitore. Ma essere un vincitore non gli ha risparmiato l’Edizione della Memoria. Essere un vincitore non ha risparmiato nessuno dei due. E non ha risparmiato me, non mi ha esonerato dal portare mia figlia non ancora nata dritta nelle fauci della morte. Sono stata io a consegnare mia figlia alla morte.
Non riesco neanche a ruotare sul materasso. Resto immobile, un braccio steso sulla pancia nuda, quella pancia che si era gonfiata per ospitare una vita innocente, una vita che non desideravo ma che è arrivata come un fulmine a ciel sereno a rischiarare la mia, di vita, che stava per giungere al termine. E scopro di avere ancora acqua nel mio corpo, acqua necessaria alla mia sopravvivenza, quando inizio a piangere per quella vita che mi è stata strappata troppo presto, quella vita che non sono riuscita a proteggere. Quella vita che ho amato anche se mi costringevo a non amare, perché sapevo che sarebbe stato difficile e doloroso lasciarla andare quando sarebbe arrivato il momento di farlo. Ho scoperto che avevo ragione: è stato difficile ed è stato doloroso, è stato straziante sapere di averla perduta. Lei era così pura e così bella… sì, bella. Anche se non ho mai visto il suo viso, so che era bella. Era bella come il fiore di lillà.
Era come un raggio di sole.
- You are my sunshine, my only sunshine… - mi esce dalle labbra.
È un soffio così flebile, così debole, che quasi non lo sento. È una canzone così vecchia, quella che mi è tornata in mente, da non riuscire a ricordare dove io l’abbia sentita la prima volta. Ma la canto, e la canto nonostante la mia voce sia debole ed il mio fiato sia corto nei miei polmoni, perché scopro che cantare mi fa sentire meglio. Cantare mi aiuterà ad affrontare le mie ultime ore di vita sulla terra. Voglio che i miei ultimi giorni di vita sulla terra siano all’insegna della musica. Perché come mi disse una volta Rue, in un tempo lontano che quasi non ricordo di aver vissuto, la musica è la cosa più bella che esista al mondo.
- You make me happy when skies are gray

You’ll never know dear, how much I love you
Please don’t take my sunshine away…

 

Ho cantato per alleviare le mie ultime ore di vita sulla terra, ma a quanto pare la terra non ha alcuna intenzione di lasciarmi morire. Le persone che sono qui fuori non hanno alcuna intenzione di lasciarmi morire. Lo capisco quando, dopo almeno trentatré giorni di prigionia, la porta della stanza in cui sono rinchiusa si spalanca. La luce invade la soglia della porta, una sagoma scura entra e si avvicina fino ad arrivare davanti a me, che sono stesa e seminuda sul letto. Una mano, calda e grande, si posa sulla mia, che tengo ancora premuta sulla mia pancia vuota.
- Ciao, dolcezza – dice la voce che appartiene alla sagoma scura. – Forza. Io e te torniamo a casa.

 

 

 

 

_________________________

Saaalve dolcezze!
Vi chiedo scusa per l’ennesimo ritardo con cui aggiorno la storia. Sono, al solito, ingiustificabile. Se siete arrivati a leggere fino a qui vi ringrazio molto, soprattutto dopo tutto questo tempo
♥ 
Vi ho lasciato un capitolo molto corto, è vero, ma per quanto ci provassi non sono riuscita ad andare oltre queste poche pagine. Non succede poi molto, e in qualche modo riflettono le stesse cose che avevamo già letto ne Il canto della rivolta. Il prossimo capitolo sarà più lungo, e dovrebbe arrivare anche presto perché è già scritto ;)
Ecco, a tal riguardo: non manca molto, ormai. Ci stiamo avviando alla conclusione e da una parte non voglio che finisca ç_____ç sarà per questo che aggiorno con così tanto ritardo? Chi lo sa!
A presto, prestissimo! Vi voglio bene

D.

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Capitolo 44
*** 44. ***


In The Still Of The Night - 44

In the still of the night

 

44.

 

Non riesco a capire cosa tutto questo significhi finché non sento le mani di persone sconosciute guidarmi verso il bagno, dove mi lavano e mi vestono, e poi di nuovo in camera, dove mi fanno bere e mangiare. Mi danno poco da bere e poco da mangiare, perché nello stato in cui mi trovo non potrei sopportare di digerire un intero pasto. Ma quel poco che mi danno mi basta per farmi sentire meglio: sono un po' più vigile, la mia vista diventa più nitida, riesco a muovermi meglio anche se ho le membra irrigidite e deboli, magre come sono. Sto talmente meglio rispetto a prima che riesco a riconoscere la persona, in piedi accanto alla porta, che inizialmente ho scambiato per una sagoma scura: è Haymitch. Haymitch, che mi osserva come se stesse osservando una creatura dell’orrore.
Tutto ciò che è accaduto nell’ultimo mese e mezzo me lo racconta durante il viaggio in hovercraft che ci porterà a casa, qualunque sia la casa a cui si sta riferendo Haymitch. Dopo la morte della Coin e dopo avermi fatta uscire dall’Anfiteatro, e dopo aver riportato la calma in mezzo al marasma che avevo causato con quella freccia, hanno trovato il cadavere di Snow ancora legato al palo. Non hanno indagato molto sulla natura della sua morte, da quanto mi dice Haymitch. Ciò che più premeva loro, al momento, era capire cosa fare con me. La Ghiandaia Imitatrice, il simbolo della Rivoluzione, che aveva appena ucciso la presidente di Nuova Panem.
Si è cominciato ad organizzare il mio processo e nel frattempo sono state indette delle elezioni straordinarie. A vincere le elezioni è stata la Paylor, e con la sua elezione è giunta anche l’istituzione della repubblica. Non ci sarà più un regime in questa nazione, ma una repubblica, come quelle che esistevano già secoli fa e che sono state narrate nei libri di storia.
Il mio processo è iniziato e si è cominciato ad indagare sui motivi che mi hanno spinta a compiere l’insano gesto mentre io, all’oscuro di tutto, vegetavo nella stanza che era diventata la mia prigione. Molte persone hanno testimoniato in mia difesa, compresi Haymitch e Plutarch, ma la testimonianza chiave del processo è stata quella fornita dal dottor Aurelius, il mio strizzacervelli, che ha visto in me una ragazza fragile, indebolita dalle sofferenze e dai traumi subiti ed in un profondo stato di shock per ciò che aveva visto il giorno del bombardamento. Sono stata riconosciuta incapace di intendere e di volere, e per questo ho avuto il permesso di essere rilasciata e di tornare a casa. Dovrò continuare la terapia psichiatrica, unica clausola che devo rispettare per avere la mia libertà, anche se come libertà non è granché, dato che da quel che mi dice Haymitch è considerabile più come un esilio che come un vero lasciapassare. 
- Dov’è casa? – chiedo, la voce arrochita.
- Al 12, dolcezza. Peeta ti sta aspettando – risponde, le labbra che si stirano in una sorta di sorriso.

Peeta. Peeta è al Distretto 12 e mi sta aspettando. Questo è un risvolto della storia che non mi aspettavo di sentire.
- Dov’è mia madre? – questo gioco di domande mi fa sembrare una bambina in cerca di certezze, e forse un po' lo sono, perché di certezze io non ne ho più.
- Lei è al Distretto 4. Sta aiutando a costruire un ospedale – dice. Si muove e cerca qualcosa nelle tasche del suo cappotto. Tossicchia come per schiarirsi la voce. – Mi ha chiesto di darti questa, appena ne avrei avuto la possibilità.
Haymitch mi porge una busta bianca, una lettera. Riconosco mia madre nella grafia svolazzante con cui è stato scritto il mio nome. Guardo la busta, ma non la apro. La aprirò più tardi… forse. Dipende. Non lo so.
- Non tornerà – ammetto. Non ho bisogno di una risposta.
- Tu sai perché non può tornare – aggiunge Haymitch.       
Lo so, purtroppo. Papà morto, Prim morta, e almeno novemila persone morte. Il 12 non è un posto in cui vivere, è un cimitero a cielo aperto. È un luogo di morte ed io l’ho visto bene, quel luogo di morte. So cosa mi aspetta al mio arrivo e, da una parte, riesco a comprendere la mamma, riesco a comprendere il dolore che la frena dal tornare a casa. Lei ha perso una figlia, io ho perso una figlia. Abbiamo provato e stiamo provando lo stesso tipo di dolore. È un dolore che non ti fa vivere, che non ti fa desiderare di vivere, e non esiste neanche una parola per indicarlo. Quando perdi un compagno diventi vedova, e quando perdi un genitore diventi orfana… ma quando perdi un figlio, che cosa diventi? Il termine esatto non esiste. È una perdita così grave, così impensabile, e nessuno si è assunto il compito di trovare il termine giusto da inserire nel vocabolario. Nessuno è stato capace di descriverlo.
- Perché tu e Peeta siete tornati?
- Perché non abbiamo un altro posto dove andare – dice, e sembra sincero.
Io, Peeta, e Haymitch. Manca solo Effie all’appello per completare il team delle meraviglie, la Squadra del Distretto 12. Ma il team delle meraviglie non esiste più. Quei giorni sono terminati.
Il viaggio dura ore, ore in cui Haymitch prova a farmi mangiare e bere qualcosa. Non lo faccio, e non mi interessa se lo deludo agendo in questo modo. Mi sdraio sui sedili e fingo di dormire, e lascio che lui faccia finta che non sappia che sto facendo finta di dormire. A farci i dispetti siamo ancora parecchio bravi, noto compiaciuta.
È sera inoltrata quando l’hovercraft atterra nel piccolo spiazzo del Villaggio dei Vincitori e ci consente di scendere. Haymitch mi sostiene per la vita e si mette un borsone in spalla, aiutandomi a camminare tra la neve. La prima cosa che noto, anche se potrei sbagliarmi, sono le luci accese nelle case che sono sempre state vuote, qui, a parte quelle in cui abbiamo vissuto noi. La casa di Haymitch ha luci accese e fumo che esce dal comignolo, e le ha anche la casa di Peeta. La mia, invece, no. La mia casa è buia. La mia casa è senza vita.
E non è a casa mia che Haymitch mi conduce lentamente, adeguando i suoi passi ai miei. Mi conduce a casa di Peeta. Andiamo verso la porta di servizio, quella che affaccia sulla cucina, e la porta è già aperta per accoglierci. La porta è già aperta, rischiarata dalla luce gialla che proviene dai lampadari, e c’è Peeta sulla soglia.
C’è Peeta con un sorriso enorme sulle labbra.
- Bentornati – dice. – Bentornata a casa, Katniss.
- Ti ho riportato la mogliettina, ragazzo! – esclama Haymitch.
Smetto di ascoltare la serie di battute che si scambiano, perché non ho occhi né interesse per nient’altro al di fuori del ragazzo che ho davanti. Il ragazzo che ho imparato a conoscere davvero dopo i nostri primi Hunger Games, il ragazzo di cui mi sono innamorata quasi senza accorgermene, il ragazzo che ho sposato e con cui ho quasi messo al mondo una figlia. Il ragazzo che credevo di non rivedere più.
Peeta parla ancora, ma non lo ascolto. Torno a percepire qualcosa solo quando sento il calore emanato dalle sue braccia che mi avvolge, ed il calore aumenta quando inspiro anche il suo profumo. Il profumo di pane, di cannella, di casa.

 

- Sei così infreddolita, tesoro. Ti preparo un bel bagno caldo, vuoi? Facciamo un bel bagno caldo prima di cena – dice Peeta quando restiamo da soli in casa. Haymitch è andato a casa sua, e Peeta mi deposita sulla sedia accanto al caminetto.
- Ho già fatto il bagno – protesto.
- Ne fai un altro, che male c’è? Giusto per scaldarti un po'.
Vorrei dirgli che mi scalderò lo stesso anche senza fare il bagno, semplicemente stando accanto al caminetto acceso, ma sembra non volermi ascoltare e sparisce dalla cucina per salire al piano di sopra. Mi lascia da sola, anche se solo per cinque minuti. Torna di sotto dopo esattamente cinque minuti, come mi rivela l’orologio sulla parete, e mi prende per mano. Mi sorride, mi accarezza le guance. Mi invita a salire al piano di sopra.
In bagno, davanti alla vasca, rimango ferma mentre Peeta mi spoglia degli strati di abiti che mi hanno fatto indossare a Capitol City. Cappotto, camicia, pantaloni, scarpe, intimo: Peeta toglie tutto e non fa commenti quando si trova di fronte il mio corpo nudo, mezzo bruciato e magro, troppo magro. Non fa commenti nel vedere il modo in cui mi sono ridotta. Non fa commenti nel vedere l’ombra in cui mi sono trasformata durante la prigionia. Non fa commenti di alcun genere, e guidandomi mi fa immergere nell’acqua calda.
Rimango rigida, all’inizio, con le mani posate sul bordo della vasca pronte a scattare se dovesse succedere qualcosa di improvviso, qualcosa che possa mettermi in pericolo, ma il calore delle mani di Peeta, insieme al calore dell’acqua, mi fanno rilassare. Mi tranquillizzo, e smetto di restare all’erta come un animale ferito. C’è Peeta qui con me, Peeta non lascerà che qualcuno mi faccia del male. Peeta ha detto che andrà tutto bene. Mi fido di Peeta, del ragazzo d’oro che si prende cura di me, che mi lava, che non ha nessuna intenzione di lasciarmi andare via nonostante io abbia fatto di tutto per realizzare questo desiderio.
Peeta inizia a chiacchierare del giorno in cui è tornato al 12, una decina di giorni fa, mentre usa la spugna per insaponarmi. Dice che è stato Haymitch a convincerlo a tornare a casa prima che finisse il mio processo: non c’era bisogno di tante persone ferme a Capitol City senza fare nulla, e dato che l’infermità mentale stava funzionando alla grande come scappatoia, nel giro di pochi giorni si sarebbe risolto tutto per il meglio. Peeta a casa, Haymitch ad aspettare il mio rilascio, e Sae la Zozza che dava una mano a Peeta a sistemare la casa per il mio ritorno.
- Ho portato un po' di abiti da casa tua e li ho sistemati nell’armadio, in camera – chiacchiera Peeta. La spugna, adesso, percorre la mia schiena. – Non sono molti, e se serve posso aiutarti a prenderne degli altri. Potremmo andare a vivere a casa tua, se vuoi…
- No – lo blocco, posando di nuovo le mani sul bordo della vasca. – No. Voglio stare qui. Voglio stare qui con te.
- Va bene, Katniss.
E così, Sae la Zozza è tornata al Distretto 12. Immagino che anche lei non sapesse dove altro andare, adesso che la guerra è finita e tutti, in qualche modo, stanno respirando questa nuova aria di pace. Oppure, semplicemente, Sae la Zozza è stata costretta a tornare al 12. È stata obbligata per aiutare Peeta a prendersi cura di me, e forse è stato Haymitch stesso a chiederle di farlo. Così, in questo esilio che sono costretta a vivere nel luogo in cui sono nata, nel luogo che si è trasformato in un cimitero, avrò ben tre baby-sitter ad osservarmi. Tre guardiani.
- Non eravate costretti a tornare per me – la mia voce, bassa e arrochita da interi giorni di quasi silenzio, cede sull’ultima parola quando esprimo a voce ciò che mi passa per la testa.
- Katniss, ma cosa stai dicendo? – Peeta lascia la spugna ed io la vedo galleggiare sul pelo dell’acqua per non osservare i suoi occhi, fissi sul mio viso lacrimoso. Posa le mani calde sulle mie spalle, e con i pollici sfiora le clavicole evidenti. – Questa è casa nostra! È ovvio che saremmo tutti tornati a casa…
- Non tutti sono tornati – non so se sa che la mamma ha scelto di andare al Distretto 4 per non vedere il luogo in cui si è trasformato il 12. Ha preferito ricominciare in un luogo completamente estraneo a lei, pur di non ricordare le atrocità che si sono consumate qui. Credo che Peeta lo sappia già, ma non glielo domando. E lui non me lo dice.
- Torneranno presto, te lo prometto.

 

Alzarsi al mattino è difficile. E diventa più difficile giorno dopo giorno. Non è vero che, col passare dei giorni, si torna ad avere le vecchie abitudini. No, non è assolutamente vero.
Le notti sono orrende. Trascorro ore cercando di addormentarmi, e quando finalmente accade gli incubi mi svegliano, e per riprendere sonno devo aspettare le prime luci del mattino. Allora, con la confortante luce del giorno che penetra dalle tende, la possibilità di tornare a sprofondare nel sonno diventa molto più allettante, molto più rassicurante. Per la prima volta, riesco a capire il motivo per cui Haymitch preferisce dormire durante il giorno. Peeta, però, non vuole che io trascorra l’intera giornata a non fare nulla sotto le coperte. Peeta non vuole che io dorma tutto il giorno.
Peeta è, in definitiva, il motivo per cui mi alzo dal letto la mattina. Le sue braccia mi stringono quando mi sveglio in preda agli incubi, e le sue braccia sono lì ad afferrare le mie quando, soprattutto nelle mattine di pioggia, vorrei dimenticare di essere viva. Le sue braccia, le sue mani, la sua voce ed il suo sorriso sono sempre lì, pronti ad accogliermi e a mostrarmi che dopotutto, quella che stiamo cercando di affrontare insieme è una vita bella, e degna di essere vissuta.
Ci sono intere giornate in cui non ci credo veramente. Quelle giornate in cui il ricordo delle perdite e degli eventi a cui ho assistito è abbastanza forte da irrigidire tutto il mio corpo. E quando quelle giornate arrivano, neanche Peeta riesce a compiere la sua magia. Neanche le sue parole, il suo amore, le sue buone intenzioni riescono a farmi uscire dal bozzolo di coperte in cui si trasforma il letto. L’unica cosa che può fare, in giornate come queste, è sdraiarsi e farmi sentire che non sono da sola, ad affrontare il dolore. C’è anche lui insieme a me, e ci sarà sempre. Me lo promette di continuo, ogni volta, e so che sarà così. Peeta non mi mentirebbe mai.
Al contrario, sono io che gli mento. Sono io quella che si comporta male con lui. Sono io quella troppo impegnata ad autocommiserarmi per capire che non sono l’unica al mondo ad aver sofferto, a soffrire, e che soffrirà ancora. Sono egoista, in questo non sono cambiata. Sarò anche andata fuori di testa, ma l’egoismo è rimasto ben radicato in me.
Me ne accorgo quando è ormai marzo inoltrato, a parecchie settimane di distanza dal mio ritorno al 12. In queste settimane Peeta si è occupato di me, mi ha mostrato la routine che svolge ogni giorno per non restare mai con le mani in mano e cerca di coinvolgermi come può: fa il pane, prepara dolci e biscotti, cucina a pranzo e a cena. Alcune volte esce per condividere il cibo che ha preparato con le persone che hanno reso vivo il Villaggio dei Vincitori e che sono diventati i nostri vicini di casa. Un paio di volte l’ho aiutato a consegnare i cesti con il pane, ma per tutte le altre ho preferito restare in casa. C’è sempre Sae la Zozza quando Peeta esce, e lei non è come Peeta: mi urla contro quando vede che, a parte stare seduta in cucina, non ho intenzione di fare altro.
- Dovresti andare a caccia – mi suggerisce il pomeriggio di metà marzo in cui capisco di star sbagliando tutto con Peeta. – Avere un po' di carne fresca non può che farci bene. E a te farà bene prendere un po' d’aria.
- Non ho le mie armi – dico. Allungo una mano per afferrare un biscotto.
L’unica cosa positiva è che sto riprendendo il peso perso durante il processo. Peeta cucina sempre i dolci perché ha notato che mi piacciono un sacco, ed anche se mangio solo questi ne è felice. Almeno non morirò di fame… e i dolci che prepara lui sono pieni di calorie. No, non morirò di fame. Diventerò grassa grazie a lui.
- Che fine hanno fatto quelle che usavi qui?
- Non lo so… 

Lo so, invece. Sono nel bosco. Sono sparse per i boschi, nei luoghi dove le nascondeva sempre mio padre e dove, poi, abbiamo cominciato a nasconderle io e Gale. E dovrebbero essere ancora lì, se non erro. Chi altri potrebbe essere andato a zonzo per i boschi in cerca di armi che non sa neanche dove si celino?
- Secondo me lo sai: è che non vuoi andare a prenderle – sentenzia Sae, scuotendo la testa. – Sto andando, ragazza. Vuoi che ti mandi qualcuno che ti faccia compagnia mentre aspetti il tuo innamorato?
Oggi, Peeta è uscito prima del solito e non mi ha detto dov’è che sarebbe andato: ha detto solo che sarebbe tornato in tempo per la cena, e che Sae sarebbe rimasta insieme a me durante il giorno mentre faceva le pulizie. Ma adesso lei le pulizie le ha terminate, e Peeta non è ancora tornato.
Scuoto la testa. – Posso restare da sola.
- Sì, come no – perché dice così? Non ho bisogno di assistenza continua! - Chiama se hai bisogno.
Non lo faccio, ovviamente. Sae è andata via da almeno un paio d’ore e di Peeta non ce n’è neanche l’ombra. Sono un po' nervosa, e non capisco il motivo del suo ritardo: se si fosse trattato di qualcosa di grave me lo avrebbe detto, e non mi avrebbe mai lasciata così tanto sulle spine. Ma allo stesso tempo capisco che se non mi ha detto nulla, vuol dire che non c’è proprio nulla di cui doversi preoccupare. Ed in caso contrario, qualcuno sarebbe venuto a bussare alla porta di casa per avvertirmi.
Non totalmente convinta, prendo posto sull’ampio davanzale della finestra che si trova in salotto, quello pieno di cuscini imbottiti. È l’angolo della casa che adoro di più, perché posso vedere ciò che accade al di fuori anche senza scostare le tende, e senza che nessuno riesca a capire che dietro ci sono io a spiare l’esterno. Da qui posso osservare l’arrivo di Peeta, quando arriverà.
Ma mentre aspetto mi addormento, e non mi accorgo del suo ritorno. Me ne accorgo solo quando la porta sul retro sbatte sui propri cardini, ed è il momento in cui sobbalzo e mi desto dal mio riposino pomeridiano. Il pomeriggio sta diventando sera, ed il cielo ha assunto l’indefinita sfumatura dell’arancione che degrada verso il blu. È la fine del tramonto.
- Peeta? – lo chiamo con voce roca. Schiarisco la voce prima di riprovarci. – Peeta?
Silenzio. Non mi risponde. Scendo dal davanzale ed esco dal salotto per andare a cercarlo. – Peeta? – dico di nuovo, arrivando all’ingresso, e getto una rapida occhiata alle scale che portano al piano superiore. Che sia salito? Ho già messo il piede sul primo gradino quando sento un singhiozzo provenire dalla cucina. Peeta è ancora in cucina.
Scatto velocemente per raggiungerlo, e la scena che mi ritrovo davanti agli occhi mi fa bloccare sulla soglia. È qualcosa per cui non ero preparata, e per cui lui stesso non mi aveva preparata, dato che non mi aveva accennato nulla. Peeta è seduto davanti al grande tavolo di cucina ed ha i vestiti sporchi di terra, di carbone e di cenere. Persino i suoi capelli biondi ne sono sporchi. È seduto davanti al tavolo, e piange con le mani posate sul ripiano.
- Peeta – lo chiamo di nuovo, avvicinandomi. Ho paura a toccarlo, ho paura di chiedergli il motivo per cui è ricoperto di sporcizia, ed ho ancora più paura di chiedergli il motivo per cui sta piangendo e singhiozzando. Sfioro lo stesso la sua mano, perché nonostante la paura non posso farne a meno.
Lui la stringe e sembra tranquillizzarsi un poco, almeno quanto basta per balbettare poche parole colme di dolore.
- Erano ancora lì. Tutti e quattro. Erano ancora dentro… accanto al punto in cui si trovava il bancone…
Non ci vuole un genio per capire a chi si riferisce, per capire chi sono le quattro persone che si trovavano ancora accanto al bancone del loro negozio. Non ci vuole un genio per capirlo, e adesso tutto ciò che ho davanti agli occhi assume un significato. Una marea di significati.
Peeta ha trascorso tutta la giornata ad osservare e a dare una mano nel recuperare i resti carbonizzati della propria famiglia. Ha visto ciò che è rimasto di loro, ha visto il modo in cui la loro vecchia panetteria si è trasformata nella loro tomba. Ha assistito a qualcosa per cui nessun figlio, e nessun fratello, dovrebbe assistere. Ha aiutato a trasportare i resti della sua famiglia al Prato, l’ampio terreno che si sta trasformando in un’enorme fossa comune per coloro che non sono più in mezzo a noi. Ha preso parte ed ha assistito a tutto ciò senza dirmi nulla, senza farmi preoccupare… e lo ha fatto perché vede, e sa, che sto soffrendo.

Ma anche lui sta soffrendo. Anche lui soffre come me, con la mia stessa intensità. E vorrei esserci arrivata prima, vorrei non essere stata così cieca ed ottusa da non capirlo.
Avvolgo Peeta tra le braccia incurante dello sporco, incurante della cenere che potrebbe ricoprire anche me. Lo avvolgo tra le braccia incurante di tutto, tranne del dolore che torna ad essere più intenso e lo porta a piangere più forte. Avvolgo Peeta tra le mie braccia e lo stringo forte, desiderando di poter prendere parte del suo dolore per trasferirlo dentro di me. Gli bacio i capelli, chiudendo gli occhi. Piango insieme a lui, e prometto a me stessa di non essere più così egoista.
Prometto a me stessa di sforzarmi, di fare di più.
Prometto a me stessa di amare Peeta come merita di essere amato.

 

Il giorno dopo mi offro di accompagnarlo a consegnare i cestini pieni di pane e dolcetti. È il primo gesto che compio dopo ciò che è accaduto ieri, e so, sento di aver fatto bene perché lui mi ringrazia con un sorriso enorme. È felice, ed io sono felice se lui è felice. Non cancellerò mai più quel sorriso dalle sue labbra.
Dopo questo primo gesto ne compio altri, tanti altri. Superato l’ostacolo rappresentato dalla piazza e dal Giacimento in cui continuano le operazioni di recupero dei cadaveri, mi inoltro sotto il punto della recinzione che conosco così bene, dopo averlo superato tante volte in anni e anni di caccia, e vado di nuovo nei boschi. Arco e frecce sono ancora lì, nel punto esatto in cui li lasciai più di un anno fa, e provo a riprendere a cacciare. E scopro che mi è mancato cacciare, ma ancora di più mi è mancato camminare in mezzo alla foresta, in mezzo alla natura. E sono felice quando riesco a prendere uno scoiattolo, anche se è solo uno scoiattolo e so che potrei fare di meglio. E sono ancora più felice quando capisco che questo scoiattolo potrò portarlo a casa senza doverlo nascondere dagli occhi indiscreti dei Pacificatori, perché loro non ci sono più. Cacciare non è più vietato, fuggire dalla recinzione non è più vietato. Niente è più vietato.
E capisco che la pace è davvero arrivata. La pace è arrivata per tutti, ed è arrivata anche per me.
Apro finalmente la busta che la mamma ha consegnato per me tramite Haymitch, quella che non sono mai riuscita ad aprire prima d’ora. Leggo le brevi righe con cui ha riempito il foglio, vado al telefono e compongo il numero che mi ha lasciato. Risponde quasi subito, e piangiamo insieme. Sentire la sua voce è quasi un balsamo per il mio cuore ferito. Sentire la sua voce mi fa capire che lei, anche se è lontana, non mi ha abbandonata del tutto. Vorrei che fosse qui, vicino a me, vorrei raggiungerla anche se non posso lasciare il Distretto 12, ma lei mi promette che lo farà: viaggiare e tenere i contatti tra i diversi distretti non è più vietato, e la mamma mi promette che non appena potrà, non appena si sentirà abbastanza forte per farlo, verrà a trovarmi. Tornerà al 12.
Tantissime altre persone tornano al 12 con l’avanzare della primavera. Riconosco nei tanti visi che incrocio per la strada Thom, uno dei ragazzi che lavorava con Gale in miniera, Delly, suo fratello, e tanti altri ancora. Sono tornati perché in fondo questa è casa loro, è il loro luogo natio, ed è difficile abbandonare il luogo in cui si è nati e cresciuti. Sono tornati per ricominciare e per aiutare a ricostruire. Il Distretto 12 non sarà più un posto in cui si muore di fame, ma un posto diverso. Un posto migliore.
Anche Peeta vuole ricostruire.
- Davvero?
- Davvero. Vorrei ricostruire la panetteria nello stesso punto, ed esattamente com’era prima.
Vuole farlo per ricordare la sua famiglia, e per non dimenticare. È importante per lui non dimenticare, e non so come faccia a non avere paura di tutti i ricordi orribili di cui sono piene le nostre menti. Io vorrei dimenticare, se fossi capace di dimenticare, ma Peeta ha ragione: è importante ricordare, è importante perché ricordando possiamo imparare a non ripetere i nostri errori, ed in particolare gli errori che altri hanno commesso e che ci hanno fatto soffrire così tanto.
È importante ricordare anche se non vogliamo farlo: me lo fa capire persino Ranuncolo, quando torna a casa durante una mattina di inizio aprile. Fa il suo trionfale ritorno miagolando, lamentandosi per la zampa ferita che tiene sollevata e, soprattutto, irritato nel trovarsi davanti me, l’orribile ragazza che non sopporta, invece di Prim, la sua adorata padroncina. Vede me, la persona che quando lo vide per la prima tentò di affogarlo, e non la paperella che invece pianse e si disperò per curarlo e tenerlo come animale domestico. Siamo sempre state agli antipodi, io e Prim, persino in fatto di animali domestici.
Lo prendo in braccio e non reagisco quando mi soffia contro, non reagisco rispondendogli male come ho sempre fatto in tutti questi anni di convivenza forzata. Guardo l’orrendo gatto di mia sorella e vorrei urlare perché me la ricorda tanto, ma evito di farlo. Mi costringo a non urlare, ma non costringo me stessa a non piangere. Piango ancora una volta per lei, per la ragazzina di appena quattordici anni che è cresciuta troppo in fretta e che se ne è andata troppo presto. Piango per lei, e piango perché adesso dovrò prendermi cura del suo stupido gatto. Devo farlo per lei, perché so che ci tiene a questo vecchio gatto spelacchiato, ed anche perché so che altrimenti non me lo avrebbe mai perdonato.
- Dovrai accontentarti di me – dico allo stupido gatto, tirando su col naso.
Lo lavo, curo le sue ferite, lo nutro. E dopo un paio di giorni, Ranuncolo sembra accettare questa sorta di compromesso: entrambi accettiamo di sopportare la persona, e l’animale, che ci ricorda la persona che abbiamo amato così tanto e che vorremmo fosse ancora qui con noi.

 

L’acqua della vasca in cui sono immersa inizia a diventare fredda, e questo mi fa capire che è passato parecchio tempo da quando ho iniziato a fare il bagno. Non è solo la temperatura dell’acqua a suggerirmelo: lo fanno anche le mie dita. I polpastrelli si sono raggrinziti e adesso somigliano tremendamente a delle prugne secche. Immergo di nuovo le mani e faccio smuovere la schiuma rosa che ancora galleggia sul pelo dell’acqua.
Insieme alla routine, insieme ai vecchi gesti automatici e insieme alle nuove attività in cui mi coinvolge Peeta, sono tornati anche i miei bagni serali. Ne faccio sempre uno prima di cena, proprio come ai vecchi tempi. Vecchi tempi… non mi piace come espressione. La parola “vecchio” rimanda inevitabilmente al passato e a tutto ciò che è accaduto in seguito. Cerco di non pensare troppo al passato, anche se capisco l’importanza di non doverlo dimenticare. Me lo dicono di continuo, tutti quanti: Peeta, Haymitch – quando non è troppo ubriaco, naturalmente -, Aurelius durante le sedute di terapia.
Aurelius mi dice sempre che non bisogna mai avere paura dei nostri ricordi, non importa quanto dolorosi o brutti essi siano. Nel sentirglielo dire ho pensato che il consulto psichiatrico servisse più a lui che a me, perché doveva essere decisamente pazzo per pensare qualcosa del genere. Io cerco di seguire i suoi consigli e di ricordare nonostante i brividi di terrore, che alcune volte sono decisamente troppo forti da controllare… e non riesco a controllarli sempre. Quindi finisco sempre con lo smettere di pensare, di estraniarmi per quanto posso. È anche per questo che ho ripreso a fare il bagno la sera: mi rilassa. Al contrario degli altri, che pensano quando si rilassano, io svuoto la mente.
È un altro modo per andare avanti.
Piego le ginocchia e porto le gambe contro il petto, seguendo con le mani la linea dei polpacci. Sotto i polpastrelli riesco a sentire le grinze che la pelle ha creato rimarginandosi dalle ustioni. Sono tante, queste grinze. Sono anche molto visibili: alcune di meno, altre di più. La mia pelle ha assunto un aspetto bizzarro, simile a quello di una coperta patchwork. Non sono mai stata una ragazza interessata alle apparenze, all’aspetto fisico o ai trattamenti estetici: qui al 12 nessuno si è mai potuto permettere un trattamento estetico, e prima degli Hunger Games non avevo neanche mai fatto una ceretta alle gambe. Non mi è mai importato di essere o meno presentabile per qualcuno, ma improvvisamente queste cicatrici così chiare mi fanno sentire inadeguata ed insicura. Non è qualcosa che vorrei mostrare a qualcuno di mia spontanea volontà.
Riporto le gambe in acqua quando bussano alla porta del bagno; tempo due secondi e la testa di Peeta fa capolino dallo spiraglio che avevo lasciato. Chi altri poteva essere se non lui? Mi stavo dimenticando della sua presenza in casa.
- Non volevo disturbarti – dice, facendomi l’occhiolino. – Volevo solo dirti che la cena è quasi pronta.
- Ho quasi fatto. Non ci metto molto… - ribatto in fretta. Mi metto a sedere e cerco di sciacquare dai capelli la schiuma in eccesso.
Sono concentrata sui capelli e lo sciabordio dell’acqua mi riempie le orecchie, quindi non noto subito ciò che sta accadendo all’interno del bagno. Non noto subito i vestiti di Peeta che, uno ad uno, raggiungono il pavimento insieme alle scarpe. È il tonfo prodotto da una di queste che mi fa voltare la testa e mi fa capire che c’è stato un cambio di programma.
- Ma la cena non è quasi pronta? – faccio, sconcertata; anche divertita, in realtà. Questa proprio non me l’aspettavo.
- La riscalderemo, non andrà a male. Fammi un po' di posto – esclama con un sorriso.
Si lamenta, invece, quando nota che l’acqua è fredda. Perdiamo del tempo, ridendo insieme, nel riportare l’acqua ad una temperatura accettabile; ci verso dell’altro sapone e nel giro di poco siamo circondati da altra schiuma rosa e profumata. Una delle poche cose buone di cui non mi pento, quando mi rendo conto di vivere in una casa concepita e costruita interamente dagli architetti di Capitol City, è la grandezza spropositata delle vasche che ci hanno installato. Sono abbastanza grandi da contenere tre persone, ed io e Peeta insieme ci stiamo più che comodamente. Lui ha la schiena premuta contro il bordo, così io posso prendere tranquillamente posto tra le sue gambe ed accoccolarmi contro di lui, contro il suo petto.
- Hai dei capelli lunghissimi – mormora mentre li pettina lentamente con le dita. – Non me ne sono mai accorto prima.
- È perché li tengo sempre legati – sembra stupido ribadirlo, anche se è la pura e semplice verità.
- È anche vero che bagnati sembrano più lunghi. Non hai neanche un ricciolo, quando sono bagnati – Peeta continua a districare le ciocche, perso nei suoi ragionamenti. – Sei più bella quando hai i capelli sciolti – se ne esce infine.
Sbuffo. – E questa da dove viene fuori?
- Non te lo avevo mai detto prima? Non ti sto dicendo una bugia: lo penso davvero.
- Va bene – mi giro per poterlo guardare in viso. – A me invece piaci di più quando hai la barba: perché non te la fai mai crescere?
- Non la sopporto – confessa, ridendo. – Vogliamo continuare con questo gioco?
- Quale gioco?
- Il gioco delle verità. Dai, è divertente! – mi incita non appena nota la faccia poco convinta che ho fatto. Mi abbraccia. – Inizio io! Vediamo…
- Sembri un bambino! – lo prendo in giro.
- Tu invece una vecchia di cent’anni – ribatte. Blocca le mie braccia nelle sue per evitare che possa ribellarmi contro di lui. – Vediamo…
- Peeta…
- Vuoi bene a Ranuncolo. Vero o falso?
- Falso! Non vorrò mai bene a quella bestiaccia.
- Gli vuoi bene, ammettilo. Lo riempi di così tanto cibo che presto rotolerà per casa invece di camminare.
- Ho detto che è falso! – stavolta riesco a dargli uno scappellotto sulla spalla. Mi ci accoccolo subito contro, decisa a continuare questa sfida. – Tocca a me adesso. Ti è piaciuto un sacco fare la doccia a Haymitch, quella notte sul treno. Vero o falso?
- Falso.
- Però non vedi l’ora di ripetere l’esperienza.
- Lo farò fare a te la prossima volta – mi dà un buffetto sulla guancia. - È passato un anno dalla nostra tostatura. Vero o falso?

La tostatura. Davvero è già trascorso un anno da quella notte? È già trascorso un anno dall’annuncio dell’Edizione della Memoria. Un anno, dal giorno in cui le nostre vite sono cambiate per sempre. Siamo in pieno aprile, dopotutto. Peeta ha ragione: il nostro primo anno come marito e moglie è scaduto. Ne è iniziato un altro. Continuo a pensare che forse il nostro matrimonio non è del tutto valido, ma non sembra importare a nessuno… nemmeno a noi interessa.
- È vero. – mi zittisco, posando il mento sulla sua spalla.
Peeta sfiora la mia tempia con un bacio. – Prossima domanda.
- Mi ami. Vero o falso?
Adesso è lui quello che sbuffa. – Pensi che sia necessario chiedermelo? È ovvio che ti amo, tesoro. Vero.
Sorrido. Gli mordo la spalla. – Prossima domanda.
- Tu mi ami, invece? Vero o falso?
- Lo sai che ti amo. – la domanda successiva la dico in fretta, non credo di averla neanche pensata. Forse dipende dal fatto che ci stavo riflettendo su prima che Peeta venisse a chiamarmi per la cena. Forse dipende dalla mia insicurezza. – Le mie cicatrici sono orribili. Vero o falso?
- Falso. – lui risponde prima ancora che abbia finito di porgergli la domanda. – Non le guardo neanche quelle cicatrici, Katniss. Per me non significano nulla. Per me, tu vali più di qualsiasi segno sulla pelle. – nel dirlo, segue con le dita quella che percorre il mio avambraccio, steso sul suo petto.
Non mi sento rassicurata dalle sue parole. Mi sento più sconfortata, e questo perché non ho pensato prima di chiederglielo. Non sono l’unica, in questa stanza, ad avere dei segni permanenti impressi sulla pelle: anche Peeta ne è pieno. Il suo viso ed il suo corpo sono costellati dei segni che gli hanno lasciato le ferite da lui subite durante la prigionia a Capitol City; la sua gamba sinistra, quella che ha perduto nei nostri primi giochi, senza la protesi termina in un moncone al di sotto del ginocchio. Peeta è pieno di segni, ma non chiede a nessuno se siano orribili o meno. Non me lo ha mai chiesto. A lui non sembra importare. E non importa neanche a me.
Ha cominciato a canticchiare qualcosa a bocca chiusa, qualcosa che non riesco a riconoscere ma che accompagna i miei pensieri poco lineari. Poi, di colpo, arrivano le parole.
- You are so beautiful…
Alzo il viso, incrociando il suo sguardo azzurro che adesso è carico di emozione. Sorride, avvicinandosi fino a far sfiorare le nostre labbra.
- You are so beautiful for me…
Non ho mai sentito cantare Peeta prima d’ora. Non ha mai cantato davanti a me, non ci ha mai nemmeno provato, ed ora mi domando il perché. La sua voce è leggermente roca ma è al contempo aggraziata, e si mantiene sulle note basse per tutto il tempo che impiega a terminare questa sua canzoncina. Anche questa è la prima volta che la sento. Chissà dove l’ha sentita, o chi gliel’ha insegnata…
- È la prima volta che ti sento cantare – soffio, ammaliata dalla sua voce. Ha una voce bellissima.
- Non sono bravo come te – dice come per giustificarsi.
Facendo leva sulle braccia mi siedo a cavalcioni su di lui, posando i gomiti sulle sue spalle ed intrecciando le dita sulla sua nuca. Lo bacio, allontanandomi di tanto in tanto dalle sue labbra solo per ripetere i versi della canzone. È così semplice da restare subito impressa nella mente, quindi non è difficile ricordarla. E le parole, mi rendo conto, possono valere allo stesso modo per entrambi.
- You are so beautiful for me… - canto, sorridendo.
Il suo sorriso fa eco al mio.
- Così bella…
- Ti sei innamorato di me quando mi hai sentito cantare a scuola. Vero o falso?
- Vero. È sempre vero – il bacio che segue questa sua risposta è più lungo, più approfondito. Mi invita ad approfondirlo ancora di più e lo faccio, assecondando la smania che sta pian piano prendendo il sopravvento dentro di me.
Poso le mani sul bordo della vasca, dietro la testa di Peeta, e mi inarco contro di lui che scivola appena dentro l’acqua, mentre percorre e stringe tra le dita i miei fianchi, per poi scendere sempre più in basso…
- Che ne sarà della cena? – mugola ad un tratto contro la mia mandibola.
- Vuoi davvero pensare alla cena adesso?

 

 

____________________________

Eccoci qui, miei cari. Anche se con un ritardo di cui farei bene a vergognarmi da qui fino ai prossimi vent’anni.
Quello che avete appena finito di leggere è una versione ampliata e aggiornata del ritorno a casa di Katniss e compagnia bella. Ho sempre trovato un po’ sbrigativa la versione originale contenuta nei libri, e anche molto dolorosa per quel che riguarda il personaggio di Katniss: dopotutto, lì lei era da sola ad affrontare il tutto. Penso che se non fosse stata lasciata da sola le cose per lei sarebbero potute andare molto meglio.
Spero che questa mia versione vi sia piaciuta :) ne avremo qualche altro assaggio nei prossimi due capitoli.
Colgo l’occasione per annunciarvi già da adesso che i prossimi sono i capitoli finali: ebbene sì, siamo davvero alla conclusione. Ci sarà anche un epilogo – bello sostanzioso tra l’altro! -, e poi basta. Fine.
Posso dire che non sono davvero pronta a scrivere la parola “fine”? ç___ç
Con queste lacrimucce vi saluto! Ci sentiamo presto

D.

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Capitolo 45
*** 45. ***


In The Still Of The Night - 45

In the still of the night

 

45.

 

Vedere il mondo con occhi diversi.
Vedere il mondo con colori diversi
.
Ci sono giorni interi in cui non faccio che pensare a questo, al suggerimento che Peeta mi diede durante una serata invernale che sembra appartenere ad una vita fa, una vita vissuta da una persona completamente diversa dalla me stessa di oggi. La vecchia me pensava che questo suggerimento non dovesse essere poi così sbagliato, e che avrebbe potuto provarci, a vedere il mondo con occhi e colori diversi. Avrebbe potuto provarci, aiutata dal ragazzo che glielo aveva suggerito con così tanto calore: il ragazzo che aveva basato la sua intera vita sui colori, quelli sgargianti che usava per dipingere sulle tele e quelli più tenui con cui glassava torte e biscotti. Il ragazzo il cui cruccio più grande era quello di non riuscire mai ad immortalare dal vivo i colori dell’arcobaleno. Svanisce troppo in fretta, l’arcobaleno: rimane nel cielo solo per pochi minuti, e quei minuti diventano preziosi per un pittore. Basta un attimo per perdere la magia.
La me stessa di oggi ha cercato di fidarsi nuovamente. Ci sono stati dei giorni, durante la mia rinascita, in cui ho basato e memorizzato interi momenti sulla filosofia che mi ha suggerito Peeta. Ci sono ricordi interi basati sui colori. I colori mi hanno aiutata ad andare avanti, ad affrontare quei giorni in particolare in cui i ricordi tristi tornavano prepotentemente a soffocare il mio respiro. I colori mi hanno aiutata ad accantonare il filtro in bianco e nero con cui ho visto il mondo e la vita fino ad ora.
Il filtro in bianco e nero mi impediva di vedere i veri colori della vita.

 

Il mattino ha l’oro in bocca: questa massima si fissa nella mia mente quando apro gli occhi, tirata via dal sonno dai movimenti di Peeta che cerca di alzarsi senza disturbarmi, ma senza davvero riuscirci. Con un occhio chiuso e uno aperto getto una rapida occhiata alla sveglia che ho sul comodino, accanto ad un Ranuncolo addormentato. Sono da poco passate le sei. Deve avere proprio fretta e voglia di cominciare la giornata, penso. Cos’ha da fare alle sei del mattino?
- Dove stai andando? – borbotto, richiudendo l’occhio.
- Non volevo svegliarti – dice.
- Non mi hai svegliato – sbadiglio.
Lo sento ridere. Mi abbraccia, il suo petto che si appoggia con dolcezza alla mia schiena, e posa le labbra sulla mia spalla nuda. La maglia del pigiama deve essere scivolata un po' durante il sonno… o forse è stato Peeta ad abbassarla. Non sarebbe poi così strano.
- Continua a dormire. È ancora presto – sussurra sulla mia pelle.
- E tu perché ti stai alzando se è ancora presto? – mi lamento.
- Devo cuocere il pane! Altrimenti oggi non avremo nulla da mangiare.
- Sì, come no – mugugno, sistemandomi meglio nel letto.
I tempi del non avere nulla da mettere a tavola sono finiti da un pezzo, ormai. Io e Peeta, essendo due vincitori degli Hunger Games e due dei pochi vincitori che sono sopravvissuti alla guerra, abbiamo accumulato e continueremo ad accumulare una fortuna in denaro di cui non sapremo mai che cosa farcene davvero. Abbiamo le tasche piene di denaro, la dispensa piena di cibo, e doni che continuano e continueranno ad arrivare ogni mese da Capitol City. Decisamente, siamo le ultime persone che potrebbero preoccuparsi del cibo che scarseggia in casa.
Strano che Peeta se ne esca con frasi del genere.
- Dormi – dice, chiudendo la questione. Una carezza accennata sulla guancia, e scivola via.
Apro gli occhi quando va via, lanciando un’occhiata alla finestra aperta; la lasciamo sempre aperta da quando le giornate e le serate iniziano ad essere più calde, e poi Peeta ama dormire con la finestra aperta. La luce filtra appena, rafforzando il fatto che è appena spuntato il mattino. Sbadiglio di nuovo, passo una mano sul viso, mi giro e mi sdraio sulla schiena. Un miagolio sommesso annuncia anche il risveglio di Ranuncolo. Lo osservo mentre si stira e sbadiglia come per imitarmi, e poi balza sul materasso. Ha cominciato ad avere questa strana abitudine di salire nella nostra camera, la sera, per poi addormentarsi sul mio comodino. E ogni mattina, quando mi sveglio, lui balza sul letto. Secondo Peeta lo fa per rimarcare una sorta di protezione nei miei confronti. Io penso soltanto che sia un gatto strano e stupido, così come l’ho pensato per anni e anni. Mi diverto, però, nel notare come abbia scelto senza protestare più di tanto di affidarsi, totalmente e senza remore, alle mie cure. Non sono la sua persona preferita, quella resta Prim. Io sono solo quella che gli dà da mangiare, quella che non vorrebbe averlo sempre tra i piedi, miagolante e bisognoso di attenzioni. Questo modo che ha di cercare attenzioni, di strusciarsi attorno alle mie gambe in cerca di premi e di carezze alle volte è fastidioso, ma rido quando mi accorgo che fa le fusa.
Il vecchio gatto di Prim che inizia ad apprezzarmi.
- Non mi piacerai mai – gli confesso. Gratto la sua testa e lui chiude gli occhi; il borbottio delle sue fusa arriva subito alle mie orecchie.
Mi addormento di nuovo, cullata dalle fusa di Ranuncolo che non accenna ad allontanarsi dalle mie braccia. Se ne va solo quando Peeta torna in camera, accompagnando il suo ritorno con una scia di gradevole odore di cibo. L’odore mi fa aprire gli occhi completamente, ed anche lo stomaco si risveglia davanti alla prospettiva di una buona colazione.
- Quel gatto ti adora – commenta Peeta divertito.
- No, per niente! Fa il ruffiano per avere il suo cibo – ribatto, mettendomi a sedere sul letto.
- Ti adora, ammettilo – ride. Peeta prende il vassoio che ha portato dalla cucina e me lo posa sulle ginocchia: frittelle, biscotti, pane tostato, uova e pancetta, tè, latte e succo di frutta lo riempiono, insieme al burro e alla marmellata da spalmare sul pane.
- Non avrai esagerato? – chiedo, afferrando un biscotto.
- Per niente! Questa roba è anche per me – si affretta a dire mentre si alza. – Manca ancora una cosa… aspetta qui.
- Ma dove vai?
Non ricevo risposta, talmente è rapido nel lasciare la camera.
Prendo una strisciolina di pancetta e la porgo al supplicante Ranuncolo seduto in attesa sul pavimento. Miagola, un po' stizzito, ma appena prende la carne si azzitta. Scuoto la testa.
Sto ancora osservando il gatto soddisfatto per ciò che ha ottenuto quando Peeta torna a sedersi sul letto. – Visto? Non mi adora, vuole solo mangiare – dico, girandomi.
E sono sorpresa nel ritrovarmi davanti un Peeta sorridente, sorridente e divertito per la sorpresa che è riuscito a scatenare in me. Divertito nel porgermi la tortina glassata, decorata da fiori viola, su cui campeggia una candelina accesa, viola anch’essa.
- Buon diciottesimo compleanno! – esclama, la voce piena di emozione.
- Peeta – ansimo. Scuoto piano la testa, incredula.
È di nuovo l’otto maggio. È di nuovo il giorno del mio compleanno. Ed io l’ho dimenticato di nuovo. Compio diciotto anni, oggi. Non avrei mai pensato che, un giorno, avrei veramente compiuto diciotto anni.
L’età è stata, sempre, l’ultima delle mie certezze: a sedici anni ho creduto che non avrei più avuto l’opportunità di continuare a vivere, e lo stesso è accaduto l’anno scorso. E anche all’inizio di quest’anno. Adesso, invece, mentre prendo con mani tremanti la tortina con cui Peeta vuole festeggiare il mio diciottesimo compleanno, capisco che l’età comincia ad essere effettivamente una certezza. È un’altra delle certezze a cui posso aggrapparmi, su cui posso contare. Posso iniziare a vedere i compleanni, l’età che avanza, come un bel traguardo da raggiungere e non come la fine di qualcosa. Non sarà più una brutta data di circostanza.
Sorrido, spegnendo la candela. La tolgo per posarla su un tovagliolo e raccolgo col dito la glassa bianca con cui Peeta ha decorato il tortino. La assaggio, sentendo il formaggio dolce invadere le mie papille gustative.
- Ti piace?
- È fantastico – dico. Do un morso al dolcetto e scopro che è anche meglio: cioccolato, arancia e formaggio si fondono insieme. Un verso estasiato esce dalle mie labbra.
Labbra che vengono coperte da quelle di Peeta in un istante. Mi blocco con la bocca piena di dolce e rido, non aspettandomi questo agguato da parte sua. Socchiude le labbra, raccoglie ciò che probabilmente è rimasto sulle mie, lecca via la glassa. Scopro di volerne ancora.
- Hai ragione, è fantastico – ammette quando si allontana.
Sorrido, incantata. Lo guardo e vorrei non smettere mai di guardarlo. Vorrei trascorrere altre mattine come questa, tante altre mattine piene di dolci, di baci, e di candeline da spegnere insieme.
- Fallo di nuovo.
- Ancora?
- Ancora.
Non se lo fa ripetere due volte. Avvolgo le sue guance con le mani mentre le nostre labbra tornano ad unirsi, ad accarezzarsi, a scoprirsi. Lascio che la sua barba appena accennata mi graffi la pelle, lascio che le sue mani scivolino sotto la maglia del pigiama, lascio che mi morda il mento e che mi inviti a scivolare sotto di lui. La colazione viene dimenticata, il tortino finisce chissà dove insieme al mio pigiama e al suo. La voglia che abbiamo di noi supera qualsiasi altro tipo di fame.
Questa fame, questa voglia, la sensazione di amore e di completezza che riesco a provare grazie a Peeta: questa è un'altra certezza su cui posso contare.
Questa certezza mi suggerisce che sono ancora in grado di provare qualcosa.

Sono ancora capace di amare.

 

Azzurro, blu, celeste. Scopro che la mia vita è piena di sfumature che posso associare alle cose che più amo. L’azzurro del cielo sgombro dalle nuvole come quello che sto osservando adesso, quello estivo, quello che il sole cocente del pomeriggio rende quasi verde. Il sole si riflette sulle acque blu del lago, quello in cui imparai a nuotare quando ero solo una bambina, aiutata e spronata dalla voce e dalle mani del mio papà. È lo stesso lago in cui portai Gale a pescare, ed è lo stesso lago in cui insegnai a Peeta a nuotare.  
Il celeste dei suoi occhi riflette il sole nel cielo e lo scintillio dell’acqua.
Adesso, però, i suoi occhi sono chiusi.
Sta dormendo con la testa poggiata sulla mia pancia. Gli zigomi, la maggior parte del viso ed il resto della sua pelle chiara sono leggermente arrossati per via del sole che abbiamo preso oggi. La mia pelle, al contrario, non è rossa: o meglio, lo è un po' solo nelle zone che mesi fa avevano riportato le ustioni e che, adesso, sono diventati i punti più sensibili. Tutto il resto della pelle ha assunto una sfumatura dorata, abbronzata. Io e Peeta non potremmo essere più diversi anche in questo: lui che diventa un pomodoro, al sole, ed io che mi abbronzo.
Immagino la faccia di Effie se ci vedesse adesso, lei che ha sempre avuto una predilezione per la cura della pelle e per tutto ciò che è lontano dai raggi del sole.
Venire fino al lago è stata un’idea di Peeta: me l’ha proposto stamattina e, in apparenza, l’ha fatta passare come una proposta nata all’ultimo momento, ma a me non la dà a bere. Sono sicura che quella di scendere qui fosse un’idea che gli frullava per la testa già da un po', e a rafforzare i miei sospetti ci si sono aggiunti il grande paniere pieno di cibo che ha tirato fuori da chissà dove e quello più piccolo in cui aveva sistemato alcune coperte. Organizzare un pic-nic al lago nel giro di appena un’ora? No, assolutamente no. Molto più probabile la seconda ipotesi.
Sono contenta di aver assecondato la sua proposta e di essere venuta qui con Peeta: mi è mancato questo posto ed è trascorso quasi un anno dall’ultima volta che ci avevo messo piede. Tutto ciò che abbiamo fatto da quando siamo arrivati è stato mangiare – mi rendo conto che non faccio altro che mangiare, ed è in parte colpa di ciò che cucina sempre Peeta -, nuotare, prendere il sole, godere della compagnia l’uno dell’altra ed ascoltare il silenzio che ci circonda, interrotto ogni tanto dal canto degli uccelli, dal frinire dei grilli, dal soffio del vento leggero tra le foglie. Solo i suoni della natura ci fanno compagnia, qui. Non c’è nient’altro a disturbarci. Ho portato con me arco e frecce, ma da quando sono qui non li ho ancora usati: li ho poggiati contro il tronco di un albero e penso che resteranno lì fino a quando non arriverà l’ora di tornare a casa. Avevo intenzione di cacciare, ma arrivata a questo punto credo di voler rinunciare. I pesci nel lago dovrebbero essere tornati tranquilli, visto che sono diverse ore che abbiamo smesso di nuotare… forse potrei iniziare a pescare. Stasera avremo pesce per cena, penso. Per iniziare a pescare dovrei prima far spostare Peeta, in modo da potermi alzare, ma scopro di non volerlo fare. Dorme così bene… anche se dovrà svegliarsi lo stesso per poter riprendere la strada verso il distretto.
È una giornata così bella, quella che sta per scivolare nel tardo pomeriggio. È una bella, calda e spensierata giornata estiva. È una giornata estiva come di quelle che mai ti saresti aspettato di vedere. Non in questo periodo dell’anno, almeno. Non durante la giornata del quattro luglio.
Oggi è il quattro di luglio. Il primo quattro luglio senza la mietitura, senza i tributi estratti. Questo è il primo anno che viviamo senza l’opprimente scenario della nuova edizione degli Hunger Games che prende il via. Questo è il primo anno in cui prendiamo davvero coscienza di ciò che è accaduto nei mesi passati e che accadrà nei mesi futuri. 
Un mondo privo di Hunger Games.
Credo che sia anche per questo motivo che Peeta abbia insistito così tanto a venire quaggiù, oggi. Forse lo ha fatto per evitare che la mia mente si riempisse di ricordi, data la circostanza. Forse voleva che fossimo lontani abbastanza dal primo televisore che potesse trasmettere le immagini della cerimonia prevista per oggi: una cerimonia fortemente voluta dalla presidente Paylor, fissata nel primo pomeriggio a Capitol City, per commemorare le giovani vite che in settantacinque anni sono state estratte alla mietitura. E sono tante, tantissime. Questa cerimonia si ripeterà il quattro luglio di ogni anno, per non dimenticare ciò che è accaduto e ciò che si è affrontato affinché a tutto venisse finalmente scritta la parola fine.
So che Peeta ha voluto portarmi qui per non farmi ricordare, ma io non posso smettere di ricordare. Non posso smettere, e lo sto facendo anche adesso mentre gli accarezzo i capelli e la fronte, mentre percorro con le dita la linea del suo naso. Non posso smettere di ricordare, anche se fa male ricordare. Oggi, però, vuoi per la giornata estiva, vuoi perché siamo da soli, e vuoi perché questo posto riporta a galla centinaia di minuti felici trascorsi spensieratamente, sto bene. Sto bene, e sto bene anche mentre penso a Prim. Penso a Finnick, a Mags, a Rue, penso a papà e a tutti coloro che ho conosciuti e che sono morti, e sto bene.
Per la prima volta, ricordare non fa più così male.
Smetto di ricordare quando un uccellino si posa a poca distanza da dove ci troviamo io e Peeta. Appollaiato su un masso, si guarda attorno e cinguetta piano, in attesa di una melodia qualsiasi da ripetere. Da brava ghiandaia imitatrice, non può fare altro che questo.
Sorrido, osservando l’uccellino bianco e nero. Mi domando se non sia lo stesso uccellino che iniziò a ripetere il motivetto che gli fece sentire Pollux, quel giorno che tornammo al 12 per girare i Pass Pro. È improbabile che sia lo stesso… ma potrebbe anche esserlo. Le ghiandaie imitatrici sembrano tutte uguali. Sembrano fatte con lo stampino.
Prima ancora che me ne possa rendere conto sto fischiando, cercando di ricordare la breve serie di note di Pollux. Quando la ritrovo, la piccola ghiandaia ha già imparato la nuova melodia e ha iniziato a ripeterla, al punto che smetto di ripeterla io per sentire quella prodotta dalle sue corde vocali. È di gran lunga più carina della mia.
- Nostalgia delle vecchie abitudini?
Sorrido, incrociando il celeste degli occhi di Peeta. – Vecchie abitudini?
- Quando venivi qui a cantare con le ghiandaie invece di cacciare… sai di cosa parlo, no?
Rido. - È la cosa più stupida che abbia mai sentito, Peeta!
- Vuoi dire che non è per questo che ti chiamano Ghiandaia Imitatrice?
- Temo di no…
Sbuffa. – Sono stato preso in giro per tutto questo tempo… - si lamenta, scuotendo la testa contro la mia pancia. I suoi capelli mi solleticano la pelle e mi fanno ridere, tanto che Peeta solleva di nuovo la testa per guardarmi in malo modo. – Stai ridendo di me?
- No! – faccio, ma la sua espressione è talmente buffa da farmi ridere di nuovo.
- Sbruffona – mi rimprovera, girandosi ed arpionando i miei fianchi con le mani. Sono calde, e sento dell’altro solletico quando li accarezza con i polpastrelli. – Non ti conviene prendermi in giro.
Alzo un sopracciglio. – Ah no?
- No. Non sei nella posizione migliore per farlo – mi spiega. Il senso di solletico aumenta, ma aumenta anche qualcos’altro: le sue carezze cominciano a non sembrare più tanto innocenti. Presto potrebbero diventare qualcos’altro. I suoi polpastrelli, adesso, seguono la sorta di linea di confine che è rappresentata dal bordo dei miei calzoncini.
Un paio di calzoncini e una fascia senza spalline che mi copre il seno: è tutto ciò che indosso, al momento. Ed un paio di calzoncini, leggermente più lunghi dei miei, è tutto ciò che indossa Peeta. Il resto dei nostri vestiti giace in un mucchio disordinato accanto al paniere del pranzo; li abbiamo tolti per fare il bagno e ancora non li abbiamo rimessi. Fa caldo, e stare senza quasi nulla addosso è stata una tentazione troppo forte per poterle resistere. Per Peeta avremmo anche potuto restare nudi, dato che siamo le uniche persone presenti qui, in riva al lago… ma mi sono opposta.
Sta per caso cercando di raggiungere il risultato sperato?
Dal modo in cui l’indice si è infilato sotto all’elastico dei calzoncini, direi di sì.
- Che stai facendo?
- Non sto facendo niente! – risponde con tono innocente. Non me la dà a bere. Bacia la punta del mio naso mentre aggiunge un altro dito.
- Peeta…
- Cosa? – la sua bocca si sposta, lentamente, sullo zigomo.
Sto quasi per cedere al suo invito… ma non cederò. – Ho una richiesta da farti.
- Tutto quello che vuoi, amore. Tutto quello che vuoi…
Sfioro le sue labbra con fare seducente, azzardando quel tipo di comportamento che non mi è mai riuscito bene. Non sono un’esperta nell’arte della seduzione: Peeta è l’unico ragazzo con cui sono stata e con cui starò mai, e per conquistarlo non è servito sedurlo. Era già innamorato di me quando ho capito di ricambiare i suoi sentimenti. Ma posso giocare ad essere seducente per una volta… posso scherzare a fare la femme fatale con mio marito.
- Ti va di…
- Di?
Bacio il suo mento e scendo lungo il collo. - …pescare?
- Che? 
Il modo in cui reagisce mi fa sbellicare dalle risate. Peeta, facendo forza sulle braccia per restare sollevato, mi osserva ridere e sul momento capisce di essere stato preso di nuovo in giro… e poi sorride. Non sorride, però, nel modo in cui sorriderebbe una persona che ha accolto lo scherzo e sta al gioco: sorride come sorriderebbe una persona che sta per mettere in atto uno scherzo per vendicarsi della beffa.
- Va bene, andiamo a pescare!
- Peeta! – strillo, aggrappandomi alle sue spalle, ma nel giro di un secondo mi ritrovo a testa in giù.
Lo sento ridere mentre stringe le mani intorno ai miei fianchi ed inizia ad andare verso il lago, reggendomi come se fossi un sacco di farina e non pesassi più di venti chili. Ho i capelli davanti agli occhi ed il pranzo che minaccia di fare schifosamente la sua comparsa. Picchio la parte inferiore della sua schiena nello stesso istante in cui lui entra in acqua, avanzando fino ad arrivare nella parte più alta.
- Peeta! Non osare – lo minaccio.
- Perché? Eri tu quella che voleva pescare – esclama, lanciandomi in acqua.
Due ore dopo almeno, siamo di ritorno al Distretto 12 con i vestiti un po' umidi e le provviste dimezzate. Torniamo a casa senza aver cacciato e senza aver pescato nulla, ma di umore dieci volte migliore rispetto a quando siamo usciti stamattina.
- Ripetiamo? – chiedo a Peeta mentre attraversiamo la vecchia zona del distretto in cui sorgeva la piazza. Dove prima sorgevano le botteghe, dove fino a tre mesi fa c’erano le rovine causate dai bombardamenti, adesso campeggiano gli scheletri delle nuove costruzioni. La maggior parte del Distretto 12 è caratterizzata dalle nuove costruzioni, ed io non vedo l’ora di vederle ultimate.
- Anche domani – Peeta accetta, gli occhi azzurri che la luce calante del sole rende più scuri, quasi viola, accesi di entusiasmo. Passa un braccio attorno alle mie spalle, urtando l’arco e la faretra che tengo sulla schiena.
Il Villaggio dei Vincitori pullula di persone nonostante sia quasi arrivata l’ora di cena: persone riunite in gruppetti, persone che chiacchierano allegramente e, mi sembra, persone che alzano in aria dei bicchieri per poi bere.
Stanno facendo dei brindisi?
Naturalmente, tra le persone che brindano alla salute di chissà chi c’è Haymitch, che non appena ci nota arrivare si avvicina tutto allegrotto, l’umore estatico ed il sorriso di chi non si è concesso solo un bicchiere.
- Eccoli che ritornano dopo aver fatto le cosacce! – se ne esce, allargando le braccia. – Venite, c’è da bere per tutti! Stiamo festeggiando la lieta novella!
- Festeggiate il primo anniversario senza mietitura? – avanza Peeta, osservando Haymitch con sguardi divertiti.
- Ma quale mietitura, ragazzo. Chi se ne frega della mietitura! Ma non avete saputo? No, giusto, siete appena tornati…
- Haymitch? – lo chiamo, non capendo il senso del suo discorso.
- Oggi è una giornata meravigliosa! Al Distretto 4 è arrivato un nuovo abitante, sapete? Si deve festeggiare la nascita di un nuovo abitante!
- Nascita? – il viso di Peeta si accende di entusiasmo, riflesso dei suoi occhi, e non trattiene una sorta di sospiro misto ad una risata davanti all’annuncio del nostro ex mentore.
Ed è così che prendiamo coscienza di ciò che è avvenuto a centinaia di chilometri di distanza, in un posto che io e Peeta abbiamo visto solo una volta e che ricordo essere un posto meraviglioso, circondato da una distesa di mare blu e azzurro. Azzurro come il cielo, come l’acqua, come gli occhi dell’uomo che amo.
Come l’azzurro degli occhi del bambino di Annie e Finnick.

 

 

 

 

 

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Alla fine della storia mancano appena due capitoli.
Non so se è questo il vero motivo che mi ha portata ad accumulare così tanta distanza dall’ultimo aggiornamento, o se è stata la mancanza di voglia, o qualcos’altro… ma l’importante è essere qui, giusto?
Grazie per essere arrivati fin qui, e per avermi aspettata

D.

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