Vode An

di _Lightning_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Episodio 1: Il Cacciatore di Taglie - Parte I ***
Capitolo 3: *** Episodio 1: Il Cacciatore di Taglie - Parte II ***
Capitolo 4: *** Episodio 1: Il Cacciatore di Taglie - Parte III ***
Capitolo 5: *** Episodio 1: Il Cacciatore di Taglie - Parte IV ***
Capitolo 6: *** Episodio 2: Tracce - Parte I ***
Capitolo 7: *** Episodio 2: Tracce - Parte II ***
Capitolo 8: *** Episodio 2: Tracce - Parte III ***
Capitolo 9: *** Episodio 2: Tracce - Parte IV ***
Capitolo 10: *** Episodio 3: La Spia - Parte I ***
Capitolo 11: *** Episodio 3: La Spia - Parte II ***
Capitolo 12: *** Episodio 3: La Spia - Parte III ***
Capitolo 13: *** Episodio 4: La Trappola – Parte I ***
Capitolo 14: *** Episodio 4: La Trappola – Parte II ***
Capitolo 15: *** Episodio 4: La Trappola – Parte III ***
Capitolo 16: *** Episodio 4: La Trappola – Parte IV ***
Capitolo 17: *** Episodio 4: La Trappola – Parte V ***
Capitolo 18: *** Episodio 4: La Trappola – Parte VI ***
Capitolo 19: *** Episodio 4: La Trappola – Parte VII ***
Capitolo 20: *** Episodio 5: La Via – Parte I ***
Capitolo 21: *** Episodio 5: La Via – Parte II ***
Capitolo 22: *** Episodio 5: La Via – Parte III ***
Capitolo 23: *** Episodio 5: La Via – Parte IV ***
Capitolo 24: *** Episodio 6: La caccia – Parte I ***
Capitolo 25: *** Episodio 6: La caccia – Parte II ***
Capitolo 26: *** Episodio 6: La caccia – Parte III ***
Capitolo 27: *** Epilogo ***
Capitolo 28: *** Joha'miit – Glossario ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Disclaimer: In questa storia sono presenti headcanon, rielaborazioni del materiale originario e integrazioni con l’EU di Star Wars (ex-universo espanso canonico, ora Legends), oltre a riferimenti a opere esterne ed easter eggsTradotto: non copiate né ispiratevi in nessun modo. La storia è presente anche su Wattpad e AO3 sotto l’account Lightning070/_Lightning_ col medesimo titolo; ogni altra versione esistente non è autorizzata da me, e vi prego quindi di segnalarmela. Le citazioni che introducono i capitoli e chi le pronuncia sono spesso inventate da me sulla base di informazioni più o meno note nel canon/EU. Tenetene conto prima di prenderle come fonti ufficiali – nel dubbio, chiedete, sono sempre disponibile. I personaggi canonici non mi appartengono; quelli originali sì, e vi prego quindi di non riutilizzarli o trarne ispirazione. Questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro e ogni diritto appartiene ai legittimi creatori.


 
 
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PROLOGO


 
“Nu kyr’adyc, shi taab’echaaj’la: non sono morti, stanno solo marciando via.”
— Detto Mandaloriano

 
 

 

Accampamento della Ronda della Morte, Concord Dawn, 22BBY

«Come si chiamavano, ad'ika?»

Din la fissa con occhi velati: il profilo dell'elmo è annacquato, confuso con il cielo nuvoloso e pregno di fumo su cui sono appuntate due lune perlacee. Riassesta il capo sulla mano che gli fa da cuscino, deglutendo un groppo salato. Non sa come l'abbia chiamato la guerriera, ma quella parola ha un sottotono rassicurante, quasi familiare.

«Etriar e Amee» risponde lentamente, passandosi la base del palmo ad asciugarsi gli occhi.

Gli bruciano e lacrimano per la fuliggine. E non solo, ma continua a convincersi che sia solo quello. Tira piano su col naso in un gesto ormai involontario. Si sente sfinito, ma non ha sonno. Non vuole sognare i suoi genitori.

«Dobbiamo onorarli» dice la guerriera, rimboccandogli un lembo della coperta di bantha sotto al mento.

È un gesto tanto inaspettato quanto naturale, quasi vi fosse abituata. Fa una pausa, interrotta solo dal crepitio del fuoco.

«Bisogna sempre onorare chi è marciato via.»

Din corruga le sopracciglia, trasformando quel concetto nella visione di due figure che, invece di volatilizzarsi in un rombo metallico, camminano lontane, verso l'orizzonte. Indistinguibili, ma vive. L'esplosione gli rimbomba nei timpani, senza sfiorare sua madre e suo padre.

Marciare via. Non sa cosa voglia dire e lo sa al contempo. Gli piace, a un livello così profondo da non riuscire a capirlo, ma che accoglie le radici di quelle parole.

Sanno di ritorno, e si ritorna sempre a casa.

La guerriera lo fissa come in attesa di una sua reazione. Il visore a T del suo elmo blu è puntato su di lui. Sta placidamente seduta con un blaster di traverso sulle gambe incrociate, un dito sulla guardia del grilletto.

Dietro di lei, figure in blu e nero si spostano nella semioscurità delle tende con un fruscio di mantelli e un tintinnio d'acciaio, parlando in una lingua fluida e a tratti secca, sconosciuta, resa metallica dai caschi. Qualcuno inizia un canto in lontananza, con quella nota solitaria che diventa un coro soffuso:

Sa kyr'am nau tracyn kad, Vode an.

Non capisce nulla di ciò che sente, ma sembra una ninnananna e le sue palpebre si fanno pesanti.

«Come si fa a onorarli?» le chiede infine, pianissimo.

Vede i propri occhi che si riflettono nella T lucida del suo visore, su cui guizzano le fiamme dei fuochi da bivacco. Non sa come, ma ha la netta impressione che la guerriera stia sorridendo, sotto quello strato di metallo impenetrabile. Lo intuisce dal modo in cui inclina di poco l'elmo in avanti, come se volesse guardarlo più da vicino.

Gli tende una mano guantata e lui la afferra d'istinto, con più prontezza di quando l'ha afferrata solo poche ore prima, lasciandosi issare fuori dal buio di uno scantinato. Nell'altro palmo gli preme un ciondolo di metallo. Din sente i contorni spigolosi di un profilo sconosciuto e lo stringe con più forza.

La guerriera ingloba quasi del tutto la sua mano nel guanto, ma non lo stritola. Lo aggancia a sé, solida. Sicura.

«Ripeti con me, ad'ika...»

Desolazione dello Jundland, Tatooine, trent'anni dopo

«... ni su'cuyi, gar kyr'adyc. Ni partayli, gar darasuum, Amee. Etriar. Ruusaan. Kuiil» recitò Din, contro lo schermo dell'elmo.

Era insonorizzato, ma la sua voce non varcò comunque la soglia di un sibilo appena percettibile, come se temesse che qualcuno potesse comunque udirlo. Si riassestò sulla coperta di bantha che gli faceva da giaciglio e aggiustò in automatico la presa sul calcio del blaster, serrato nella mano che usava a mo' di cuscino.

Esitò e deglutì, facendo per continuare la lista di nomi, ma serrò gli occhi e troncò poi la propria voce contro i denti. Non poteva pensarli come morti, gli sarebbe sembrato di condannarli. Anche se aveva visto i loro elmi vuoti, almeno una parte, e sapeva perfettamente a quali membri della Tribù appartenessero. Loro non stavano ancora marciando via. Non ancora. Non tutti.

Non era solo, in quella Galassia. Se lo ripeté e, a distanza di così tanti anni, avrebbe voluto di nuovo avere la scusa della fuliggine, anche adesso che aveva il beskar a nascondergli il volto. Strizzò gli occhi, con un'ondata d'oppressione asfissiante che gli investì il petto sotto alla corazza.

Un flebile gorgoglio infantile si levò dalla culla del Bambino sospesa lì accanto, e lui tornò al presente. Allungò in automatico una mano, a risistemare il lembo della coperta che era scivolato fuori. I vagiti si placarono all'istante, quietati da quel semplice gesto. Anche Din accolse un respiro più profondo e stabile, riprendendo un assetto da riposo.

La notte del deserto scorreva attorno a lui con mormorii sommessi e un basso crepitio di focolari. Nel cielo brillavano tre lune bianche, già avviate nella loro discesa verso l'orizzonte. Lì accanto, udì il fruscio di vesti della guardia e il suono meccanico del fucile cycler riposizionato; percepì brevemente uno sguardo che gli si appuntava addosso, per poi scivolare via, di nuovo intento a sorvegliare il Mare delle Dune.

Din rimase in silenzio, lasciando quel rito antico appeso nel buio.



Note:

Le frasi e parole in Mando’a non tradotte e troveranno spiegazione in seguito.



Note dell’Autrice:

Cari Lettori, grazie innanzitutto per essere arrivati fin qui <3
È la prima volta che pubblico in questo fandom, e ammetto di essere un po’ emozionata, visto anche che questo progetto mi sta particolarmente a cuore. Qualche premessa credo sia d’obbligo, sperando che questo primo assaggio della storia vi abbia almeno incuriosito.

Diciamo che era moltissimo tempo che aspettavo qualcosa di specifico sui Mandaloriani, e quando finalmente sono riuscita a vedere The Mandalorian me ne sono innamorata. Però. C’è sempre un però, no? Ovvero, che con mio grande dispiacere hanno lasciato da parte gran parte della lore dell’EU/Legends. Quindi... perché non colmare i "vuoti"? Ho fatto quindi una commistione tra canon, fanon e idee originali per raccontare la storia di Din Djarin, sia nel passato che nel futuro. Troverete sempre tutto nelle note, e in un mini-glossario che allegherò per comodità con l’avanzare della pubblicazione.
Il materiale su Mandalore e i Mandaloriani è sterminato (e contraddittorio) e anch’io ne conosco una parte esigua rispetto al totale, quindi non mi professo esperta. In generale mi rifaccio alla serie omonima, a Clone Wars, a una parte di Rebels e soprattutto alla saga Republic Commando, oltre a vari ed eventuali fumetti e Star Wars: Insider. Il tutto sarà ovviamente comprensibile e leggibile anche per chi abbia seguito solo la serie e le trilogie principali :)

Chiudo il papiro, e rimando ulteriori sproloqui al primo capitolo vero e proprio :’) Spero comunque che l’andazzo della storia si evinca da queste premesse e soprattutto dal logo... altrimenti, meglio, vi sorprenderò <3
Grazie di nuovo a chi ha letto fin qui e un grazie gigantesco a Miryel, che spupazzo per la grafica stupenda, e shilyss e _Atlas_, che spupazzo per aver fatto da test-reader. E per aver sopportato i miei deliri di fangirl/nerd su Star Wars, The Mandarancio Mannarino Mandalorian e Pedrito Pajata Pedro Pascal <3

Alla prossima, spero presto,

-Light-

 
MEDAGLIERE:

Primo posto al Wor(l)ds in a Book | Edizione 2021 indetto da Gatto delle Nevi su Wattpad
Primo posto al The Girls Contest 2020 indetto da EditorialTheGirls su Wattpad.
Primo posto al Concorso 2021//WATTPAD indetto da PotterHead_Always34
Primo posto al Daily Contest 2020 indetto da Gibbi127 su Wattpad.
Secondo posto al Concorso Autunnale indetto da bordins_ su Wattpad.
Terzo posto agli Stars Awards 2021 indetto da TheStarsTeam su Wattpad

 


 
 
Disclaimer:
Non concedo, in nessuna circostanza, né l’autorizzazione a ripubblicare le mie storie altrove, anche se creditate e anche con link all’originale su EFP, né quella a rielaborarne passaggi, concetti o trarne ispirazione in qualsivoglia modo senza mio consenso esplicito.
Questa storia è scritta senza scopo di lucro.


©_Lightning_

©LucasFilm

 

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Capitolo 2
*** Episodio 1: Il Cacciatore di Taglie - Parte I ***


 
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Episodio 1
IL CACCIATORE DI TAGLIE

Parte I

 

“Cattura se riesci, uccidi se necessario.”
— Dal Codice della Gilda dei Cacciatori di Taglie



 

Città di Agruss, Pianeta Zygerria, 9ABY

Vivo o morto. Era il suo tipo di contratto preferito. Libertà d’azione, spazio di manovra e uscita d’emergenza incluse nel pacchetto.

Tutti lussi da non sottovalutare, nel claustrofobico labirinto di stradine che si intersecavano ai piedi delle ziqqurat della capitale zygerriana. Il sole picchiava con vivida forza sul beskar cromato ogni volta che superava le nette linee d’ombra dei gradoni che incombevano sui quartieri bassi.

Ringraziò l’isolamento termico della calotta e aspirò più a fondo nell’atmosfera temperata del casco, captando un refolo di odori esotici sull’onda del vento caldo. Spezia, principalmente, e il tanfo bruciato dei suoi scarti, ma anche un profumo dolciastro di fiori che si propagava dai giardini pensili sovrastanti. La miscela risultante gli si appiccicò sgradevolmente al palato.


Rallentò di poco il passo quando si trovò del tutto nella penombra megalitica, rasentando il muro scrostato di una delle tante palazzine di mattoni in duraclast compresse tra loro fino a stritolarsi. Lo raggiunse un secco grugnito da parte della Wookiee alle sue spalle, e seguì la sua direttiva inchiodando prontamente all’angolo successivo, il palmo già adagiato sul calcio del blaster. Qui.

Gettò un’occhiata alla visione periferica del casco, individuando dietro di lui la non troppo discreta montagna di pelo rossiccio che cercava invano di non rendersi troppo visibile, a scapito dei due metri e mezzo d’altezza e del letale fucile bowcaster che imbracciava. La vide bloccarsi di colpo e ruotare l’enorme capo incorniciato dalla criniera, col naso arricciato e rivolto verso l’alto come se avesse colto una scia degna di nota.

Din si concesse un sussurro interrogativo che non trapelò oltre l’elmo, trasmesso direttamente dal suo vocoder al comlink auricolare della Wookiee:

«Ikko? Cosa c’è?»

Ikkothnayyrl, che, fortunatamente e dopo varie storpiature, aveva accettato il nomignolo affibbiatole senza alterarsi, scosse la testa e brontolò in modo poco comprensibile mentre lo superava con una singola falcata. Lui accolse l’invito implicito a sbrigarsi, segno che il loro bersaglio era in imprevisto avvicinamento.

Imboccò il vicolo a piè sospinto, il calcio del fucile Amban che gli batteva ritmico contro la schiena, avendo cura di mascherare le proprie impronte tra le molte altre, umanoidi e non, impresse nel terreno polveroso. L’aria era ferma, deserta: la maggior parte degli abitanti si era già rifugiata nelle proprie abitazioni per trovare riparo dal sole cocente di mezzogiorno.

Si accostò all’ingresso prescelto, niente più di una porta automatica in falso legno incassata nel muro, a malapena visibile se non cercandola – e l’avevano cercata eccome, per un’intera mattinata di appostamenti sui tetti sbiancati dal sole. A giudicare dall’agitazione della Wookiee, che gli copriva le spalle continuando a fiutare l’aria in un implicito sprone a darsi una mossa, era decisamente quella giusta.

Divelse la centralina di comando nello stipite facendo leva con la vibrolama, e bastarono poche mosse per riarrangiare i cavi e udire il sibilo d’apertura della porta. Fece cenno col capo a Ikko di entrare per prima, e la seguì dopo aver riassemblato alla meglio il pannello. La porta si richiuse dietro di lui, sprofondandoli nella densa penombra di una casa-negozio priva di finestre.

La visione notturna del casco si attivò in automatico, dipingendo il mondo di un verde adimensionale. Un unico ambiente dalla metratura esigua si apriva dopo un breve disimpegno, su cui si affacciavano altri due vani ancor più angusti, che creavano angoli favorevoli. C’era una sola via di fuga, quella da cui erano appena entrati. L’ideale per un’imboscata.

Avanzò e colse il lucore degli occhi della Wookiee, sospesi sopra quello che, innegabilmente, era un laboratorio di spezia: il bancone, un tempo destinato alle vendite e ora invaso di alambicchi, provette e bilance di precisione; le fiochissime lampade da lavoro rossastre rimaste accese, e il sentore stordente di esalazioni chimiche non lasciavano adito a dubbi.


Quindi, Amon Baath si era davvero dato alla manifattura vera a propria. Un cambio di carriera non molto più etico e legale della fornitura di forza lavoro per estrarre la materia prima della spezia nelle miniere, ma altrettanto redditizio. A nessuna toga del Senato, imperiale o neorepubblicano che fosse, dispiaceva un tocco di spezia per rallegrare i propri comizi galattici, né faceva troppe domande sulla provenienza.

Nel fuggevole lampo di quei pensieri, aveva già controllato a blaster spianato che la sala centrale, la latrina e lo stanzino che fungeva da dormitorio per almeno mezza dozzina di trafficanti fossero liberi. Bene: la loro soffiata era arrivata alle orecchie giuste, evitando quelle del bersaglio principale.

Ikko armeggiò con la bandoliera che le attraversava il petto, sganciandone quella che riconobbe come una bomba fumogena. Approvò con una lieve inclinazione del capo: meglio stordire il bersaglio evitando di attivare la spezia fotosensibile con esplosivi o granate accecanti. Si accosciò poi dietro un mobiletto che gli dava visuale sull’ingresso, il blaster puntato, in una posizione che avrebbe potuto eventualmente mantenere per ore. Tolse la sicura al blaster. Anche la Wookiee cercò di rendersi meno vistosa, chinandosi su un ginocchio nella penombra.

Attesero.

Avvertiva il cuore rimbalzare nel petto con quel gradevole ritmo un poco accelerato che precedeva l’azione, pronto a pompare sangue e adrenalina a cervello e muscoli. Era una sensazione che finiva sempre per mancargli. Lo ammise di sfuggita, un pensiero che si avvitò tra le righe rettilinee degli istinti primari di attacco e fuga, in quel momento acuiti.

Allentò la presa sul calcio del blaster, un dito alla volta partendo dal mignolo, per poi serrarla di nuovo in un’onda minuta che seguì un suo respiro rallentato. Un gesto calmante, di raccoglimento prima dello scontro; un gesto che era stato assorbito da anni nei rituali meccanici di ogni incarico e che adesso compì coscientemente.

Eppure, era una taglia facile. Aveva abbattuto e catturato obbiettivi più ostici e pericolosi di un trafficante ed ex-schiavista zygerriano. Di certo, ne aveva avuti di più insoliti. Il più insolito di tutti lo attendeva ora nella stiva della Razor Crest, ed era il motivo per cui non poteva permettersi di morire in modo stupido in un sudicio laboratorio di spezia su un pianeta in rovina.

Ruotò il capo verso Ikko: lei gli rivolse un sorriso tutto zanne che baluginò nella penombra asfissiante. Non volle immaginare come pensava di
accogliere Baath, ma pensò ancora una volta ai vantaggi della clausola vivo o morto su una taglia. Intero non era specificato. E dopo anni di schiavitù nelle miniere di spezia, non sarebbe certo stato lui a negare a Ikko il gusto di strappare le braccia a uno Zygerriano in fuga, se si fosse arrivato a tanto. Il pelo attorno al collo della Wookiee era più rado e scolorito, a testimonianza dello stretto collare-shock che aveva indossato costantemente durante la prigionia.

No, concluse, vivo non era una priorità, per nessuno di loro due.

Fu in quell’istante che la Wookiee emise un basso e lungo mugolio vibrante, aggiungendovi un cenno del bowcaster già incoccato in direzione della porta. Sta arrivando, lo fiuto.

Din annuì secco, sbuffando brevemente dal naso: il sentore acre di spezia che ristagnava nel negozio iniziava a trapelare attraverso il filtro, misto agli umori pungenti tipici dei felidi. Si tenne pronto a dare il segnale per lo schermo fumogeno.

Il sibilo della porta che si apriva innescò il fiotto d’adrenalina – distinse Baath, una sagoma agile dalle orecchie aguzze in controluce sulla soglia, avvolta in vesti stracciate – e raggiunse la nuca con un pizzicore bruciante nel momento in cui si richiuse, in sincrono con il primo colpo di blaster e col suo segnale:

«Ora

La granata atterrò con precisione tra le zampe dello Zygerriano, il laser colpì il comando d’apertura della porta e un fiotto di fumo nerastro scaturì dall’ordigno. Din attivò la visione termica.

«Skug!» imprecò tra le zanne Baath, ruotando sui talloni agili per slanciarsi verso l’uscita, solo per trovarla bloccata e far stridere inutilmente gli artigli contro il legno sintetico.

Din scattò in piedi dal suo riparo, pronto a piantare la canna del blaster tra le scapole aguzze del felide e intimargli la resa, quando questi si voltò di scatto, menando un fendente alla cieca che stridette innocuo contro il beskar dell’elmo. Din incassò il colpo e trattenne a malapena l’istinto di premere il grilletto.

Vivo o morto, certo... ma la differenza era di ben trecento crediti.

Scartò quindi di lato, caricando poi il gomito contro costole di Baath e riuscendo a sbalzarlo contro il muro. Invece di rimanere stordito, lui schizzò di nuovo via verso l’interno del laboratorio, sfoderando un blaster-derringer celato e mancando di un soffio la sua spalla col getto d’energia. Il laccio che aveva appena scagliato dal polso fu deviato e schioccò nel vuoto, mancando le sue caviglie, e Din imprecò tra sé: aveva dimenticato quanto potessero essere sfuggenti ed energici i felidi.

Non tentò comunque di fermarlo: la foschia torbida e l’olfatto stordito dal coacervo di spezia, muffa e polvere fumogena impedirono al trafficante di realizzare il suo errore, e si ritrovò con un bowcaster premuto sul muso. Ikko, sbucata dalla nebbia come un’apparizione, ringhiò dal profondo della gola intimandogli l’alt, senza però aprire il fuoco.

Baath emise un verso terrorizzato a mezza via tra un soffio ferino e un guaito, ma non mollò comunque la presa sul blaster e roteò su se stesso nel futile tentativo di tenere entrambi sotto tiro.

Din si avvicinò di un singolo passo, rilassando le spalle. Rinfoderò pacato la propria arma, aggiudicandosi l’attenzione di quella nemica. Fece un cenno impercettibile verso Ikko, quel tanto che bastava per far scattare lo sguardo di Baath in quella direzione e farglielo distogliere altrettanto rapidamente alla vista della sua mole, sempre più evidente man mano che il fumo si diradava.

«Puoi arrenderti. O posso dire alla Wookiee di portarti i suoi saluti dalle miniere di Kessel.»

Ikko liberò un ruggito da far tremare le pareti, manifestando la chiara impazienza di mettere in pratica le usanze sanguinarie di Kashyyyk. Il suono del blaster di Baath che rimbalzava per terra lo seguì subito dopo, e i ltrafficante si inginocchiò saggiamente con le zampe intrecciate dietro la nuca, gli occhi da felide ridotti a irose fessure con la pupilla verticale appena visibile.

«Feccia mandaloriana,» sibilò quando Din lo afferrò per la collottola, issandolo in piedi di peso per assicurargli le manette ai polsi.

Din lo trascinò verso l’uscita con la medesima rudezza che gli avrebbe riservato se non avesse aperto bocca, lasciandosi scivolare addosso l’insulto. Ikko sfondò la porta bloccata con una spallata, lasciando che l’intensa luce del primo pomeriggio fendesse la penombra. Una piccola folla di abitanti curiosi e allarmati si era radunata oltre la soglia a causa del tumulto, ma bastò la vista della Wookiee e del suo spallaccio d’ordinanza neorepubblicano per disperderla rapidamente.

Din guidò Baath con un guanto in una morsa sulla sua spalla. Lui si dimenò, torcendo il collo per guardarlo in faccia, o meglio, piantare gli occhi gialli nei suoi oltre il visore. Li mancò di qualche centimetro buono, fissando il metallo inerte del buy’ce.

«Ultimamente ne ho vendute un paio, di voi teste di beskar,» ringhiò poi, snudando le zanne. «L’affare peggiore della mia vita: ho dovuto rimborsare il cliente per la vostra “scarsa docilità


Din serrò la mascella, ma non perse un passo e si limitò a sospingere la taglia dinanzi a sé, con dei fantasmi incatenati che sfilarono fugaci nella sua mente in una pantomima di marcia. Li scacciò, dolorosi e al contempo proiezioni di false speranze. Forse, era meglio immaginarli morti, che fatti schiavi.

«Lo prendo come un complimento.»

Era una fortuna che avesse davvero bisogno di quei trecento crediti in più.

 


 


Note&Glossario

-Il pianeta Zygerria appare nella serie Clone Wars. Era il centro dell’Impero Zygerriano, noto per il traffico di schiavi, e strettamente legato all’Impero Galattico, a cui forniva forza lavoro. È qui implicato che, con l’ascesa della Nuova Repubblica, sia stato smantellato e gli ex-schiavisti siano diventati fuorilegge. La capitale non è mai menzionata, per cui Agruss è un nome di mia invenzione derivato da quello di alcuni personaggi zygerriani presenti nella serie.
-skug: insulto zygerriano.
-buy’ce (pronunciato bu-shey): è l’elmo mandaloriano con visore a T; la beskar’gam, che citerò più avanti, è invece l’armatura.
NB. Tutte le parole in Mando’a (sempre in corsivo) sono derivate dai libri di Karen Traviss, dal suo dizionario ufficiale e dal poco parlato che si sente in Clone WarsRebels. Le inserirò in modo che siano sempre deducibili dal contesto (un po’ come nei film quando si parlano lingue aliene), ma trovate sempre il glossario a piè di pagina per fugare ogni dubbio.


Note dell’Autrice:

Cari Lettori, grazie a chiunque sia arrivato sin qui <3
Questo primo capitolo è un po’ una "prova del nove": ho voluto ispirarmi all’apertura del primo episodio, introducendo una situazione quotidiana per Din Djarin, ovvero una taglia non troppo problematica, inserita però nel contesto post-serie. Spero di essere riuscita nell’intento, che era quello di farvi partire la sigla di The Mandalorian in testa nel leggere il titolo :’)

In linea di massima la storia segue anche la macrostruttura della serie, costruendo però una sottotrama più sviluppata. In soldoni: ci saranno altre taglie singole che porteranno avanti le vicende e il tutto è strutturato in otto episodi suddivisi in varie parti piuttosto brevi. Idealmente, ciascuna delle parti corrisponde a un PoV (sì, ce ne saranno diversi) e a quella che sarebbe una scena singola o comunque continuativa in un materiale filmato. Vedremo se riuscirò a mantenere questo proposito... per ora, vi posso dire che il teschio di Mudhorn identifica i capitoli PoV Mando, lo stemma dei Ribelli quelli di Cara Dune... e poi ce ne sono altri due, ma sono spoiler :D

E dopo avervi tediato con le note (ma spero non col capitolo) ringrazio tantissimo la mia Guascosa
Miryel per la pazienza infinita nel sopportarmi e supportarmi durante la stesura di questa storia, e che non paga di ciò mi recensisce anche, e Old Fashioned per aver lasciato un commento al prologo. E grazie anche a tutti coloro che hanno aggiunto la storia alle loro liste, o hanno semplicemente letto <3
Alla prossima (e oya Manda!),

-Light-


 

 

 

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Capitolo 3
*** Episodio 1: Il Cacciatore di Taglie - Parte II ***


 
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Episodio 1
IL CACCIATORE DI TAGLIE

Parte II



 

“Certo, che ho dichiarato ‘pulito’ il settore zygerriano. Hai idea di quanti Hutt paghino ancora per la tratta di schiavi?
Non riusciremo comunque mai a smantellarla del tutto, quindi perché non godercene i frutti?
Come se la Nuova Repubblica guardasse mai così lontano dal Nucleo, poi.”

— Magistrato Kal-Atee in privato a un collega,
due mesi dopo la liberazione di Zygerria dall’Impero


L’Ufficio Riscossione Tributi della Nuova Repubblica rispecchiava il proprio nome nel suo essere ridicolmente tedioso, oltre che fuori posto in ogni angolo della Galassia, non importa quanto civilizzato o meno. Din poteva solo definire "paradossale" il fatto di dover sottostare a una trafila burocratica districandosi tra pile di flimsi obsoleto scritto in caratteri microscopici dopo aver appena rischiato la pelle nei bassifondi di Agruss.

Per fortuna, era Ikko a doversi occupare di quello sporco compito, in quanto operativa neorepubblicana autorizzata. Lui, ufficialmente, non esisteva, né aveva mai preso parte alla taglia. Questioni di forma che non stentava a immaginare: nessun governo neonato avrebbe mai voluto avvalersi a viso aperto dell’aiuto di mercenari, né tantomeno affiliarsi alla Gilda dei Cacciatori di Taglie. 


Né il contrario, come Greef Karga aveva avuto premura di ricordargli con stizzita veemenza più di una volta, dopo un bicchiere di grog nevarriano di troppo. Non correva buon sangue, tra le Gilde e il governo. Dal canto proprio, non poteva chiedere di meglio che contratti irrintracciabili e non riconducibili a lui, senza per questo doversi addentrare nella completa illegalità smuovendo le acque sbagliate.

Si piazzò lateralmente allingresso, con visuale sulla strada e le spalle coperte dal muro delledificio, oltre che dalla sua gradita ombra. Era un palazzone squadrato, imponente e troppo pulito, che spiccava con i suoi colori artificialmente brillanti in mezzo alle altre costruzioni temprate dal caldo feroce e imbrattate da gas di scarico e graffiti. 

Lo stemma della Nuova Repubblica era impresso in rosso vivo sopra lingresso. Catalizzava allistante lo sguardo con la sua raggiera di stelle e le ali stilizzate della Fenice, simili a una mezzaluna.

Din incrociò le caviglie e si poggiò indolente al muro, tendendo le gambe e facendo scivolare lAmban sul davanti. Prese poi a fissare il cielo giallognolo, offuscato più dalla calura che dal rado via vai di astromezzi. Il traffico si era sensibilmente ridotto, da quando Zygerria aveva perso la sua fonte di sostentamento primaria. Il degrado della capitale era evidente dallo stato dincuria delle ziqqurat regali, ormai abbandonate da anni allinfestazione di giardini un tempo curati e adesso simili a giungle. 

Ma ricordava la Agruss imperiale: fastosa, opulenta, lussureggiante, e non poteva dire che gli mancasse vedere processioni di schiavi di ogni specie scortati da carcerieri che non lesinavano sulluso delle elettrofruste. I miasmi di quei fuochi estinti si levavano ancora qua e là sottoforma di sporadici sbuffi tossici come Baath, che tentavano di cambiare mestiere senza però cambiare pelle.

Ripensò alle parole di questultimo, e si chiese quanti Mandaloriani avessero effettivamente calcato quelle strade ammanettati e soggiogati da collari-shock. Non molti nel corso della storia, immaginava, ma in seguito alla Grande Purga e al massacro di Nevarro... ma quelli erano quesiti sterili su cui avrebbe fatto meglio a non soffermarsi. Doveva concentrarsi sui fantasmi del presente, non su quelli del passato; fantasmi che forse avrebbe ancora potuto raggiungere e non erano ancora marciati via.

Al momento, era solo quietamente rallegrato dalla prospettiva che Baath sarebbe finito a minare spezia medica su Kessel per conto della Repubblica. Trovò specchio del suo umore quando Ikko gli venne incontro con fare baldanzoso e un sorriso innegabilmente compiaciuto ad attraversarle il muso.

Bel colpo, latrò, piazzandogli nel guanto il chip della taglia, che Din accettò con un breve cenno del capo, esaminando poi con criticità il sottile quadratino di plastoid. Nuovo governo, nuova valuta; avrebbe dovuto abituarsi.

«Grazie, Ikko,» disse, prendendo a frugare nella scarsella legata alla cintura. «Sei stata molto utile. Ecco la tua quota,» concluse, premendo nellampio e calloso palmo della Wookiee un quarto esatto della taglia – trecento crediti. Lei era già pagata dalla Repubblica per il suo lavoro di vigilanza, e non era tenuto a spartire nulla. Ma voleva farlo: se lera meritato.

Lei spalancò con sorpresa gli occhi scuri alla vista dei piccoli lingotti argentati, poi lanciò un alto verso dapprovazione e rispose calandogli entrambe le zampe sulle spalle, in una pacca così energica da mandarlo quasi a gambe allaria. Ikko sorrise, con un grugnito amichevole che parve smussarle le zanne. Alla prossima.

Lui rispose con un mezzo inchino del capo, suggellando quellaugurio. Infine, Ikko si avviò per la sua strada, mescolandosi ben presto alla fiumana variopinta delle strade di Agruss. Rimase in vista a lungo, bowcaster in spalla, svettando di un metro buono sopra al resto degli abitanti indaffarati che le lasciavano il passo, finché non scomparve dietro al primo angolo.

Din si sciolse le spalle con una rotazione contratta e fu grato allo strato di solido beskar e cuoio di bantha contro la decisa esuberanza degli Wookiee. Scansionò il chip dei crediti, più per riflesso condizionato che per assicurarsi che fossero davvero tutti, e calcolò che sarebbero bastati a coprire carburante e provviste per almeno qualche giorno. 

Avrebbe dovuto rinunciare alla pulizia dei filtri di scarico, ma poteva sempre cercare qualche taglia o incarico minore per raggranellare dei crediti in più ed evitare di appestare la cabina di pilotaggio ad ogni decollo. O, magari, poteva far leva sul buon cuore di Motto, la sua meccanica di fiducia...

Lasciò scivolare il chip assieme ai suoi tradizionali compagni metallici, incamminandosi verso il parcheggio in cui aveva lasciato lo speeder, da dove avrebbe raggiunto lo spazioporto, e si scrollò di testa quel pensiero pericoloso. 

Pericoloso per lui e per Motto, ma soprattutto per il Bambino. Tornare su Tatooine era meno rischioso rispetto a tornare su Nevarro, ma a Mos Eisley cera una cospicua quantità di approfittatori e opportunisti che non avrebbero tardato a riconoscere allistante un certo Mandaloriano con una beskar’gam fresca di forgia.

La sua fama spesso lo precedeva, vi aveva fatto labitudine, ma adesso cominciava a diventare molesta e inopportuna. A volte gli sembrava che avere tutto quel beskar addosso fosse un catalizzatore di guai, non una protezione.

Accelerò il passo, sollevando nuvolette di polvere con gli stivali mentre zigzagava tra la folla che, col lento calare del sole, era tornata a riempire le strade. Voleva lasciare il pianeta il prima possibile. 

Il solo pensiero di avere il Bambino nei pressi dei mercati, un tempo brulicanti di creature di ogni specie messe allasta ed annientate dalle sevizie, bastava a renderlo impaziente di arrivare al punto di salto più vicino. La possibilità irrealistica di quellesserino inerme – almeno di solito – confinato in una gabbia alla stregua di una scimmia-lucertola da compagnia gli strizzava lo stomaco.

La Razor Crest era blindata, protetta da un hangar privato con porte in durasteel, e limpero schiavista zygerriano era ormai precipitato assieme agli incrociatori stellari su Jakku, ma lui non aveva la minima intenzione di prolungare la loro permanenza in quel luogo in rovina dove si aggiravano fin troppi spettri.

«Hai qualche idea?»

Il Bambino batté lentamente le palpebre, fissandolo dalla culla con quegli occhi liquidi e privi di sclera che gli davano un’aria di profonda saggezza a dispetto del suo essere un neonato. Un neonato di cinquant’anni. Din teneva sempre in sordina quel dettaglio destabilizzante, ma ogni tanto faceva capolino con più prepotenza. 

Non era raro incontrare specie molto più longeve degli umani, e aveva trattato con abbastanza Hutt per esserne ben cosciente della propria limitata aspettativa di vita, ma ogni volta che si trovava a fissare quell’esserino verde finiva a chiedersi se, per caso, non fosse davvero più adulto, intelligente e capace di lui. Era di sicuro più potente: lo stemma lucido del mudhorn sul suo spallaccio parlava chiaro. Così come il fatto stesso di essere vivo, e non un cadavere carbonizzato in una Cantina devastata.

Il Bambino lo fissò ancora per qualche secondo, inclinando il capo come se stesse scrutando dentro di lui. Era perfettamente plausibile. Poi puntò un’unghia aguzza sulla mappa stellare, con una sicurezza e una precisione disturbanti: Nevarro. Din scosse appena la testa, trattenendo un sospiro e tradendo un pensiero fugace a Cara e Greef.

«No. Non possiamo tornare là.»

A casa, si lasciò quasi sfuggire.

Il Bambino afflosciò mogio le orecchie, mettendo su quello che somigliava molto a un broncio infantile – un qualcosa che non avrebbe stonato su un umano di tre o quattro anni, ma che sul suo volto alieno e verde di neonato impossibilmente anziano era fuori posto. La delusione che emanava era però nitida, quasi tangibile – una vibrazione a pelo d
acqua. La conosceva bene.


«Ruu… perché non possiamo?»
«Perché non c’è più nessuno ad aspettarti. Non è casa. Non potrà esserlo mai più, per te. Ke’taab, ad’ikaKe’taab


Continua a marciare. Din serrò il palmo sul pomello dell’iperguida, gettando via quei ricordi assieme a un respiro amaro. Dove, però?

Il Bambino tolse il dito dalla mappa e andò a stringere con entrambe le mani il teschio di mitosauro in beskar che portava al collo, forse in cerca di rassicurazione – come aveva fatto lui stesso da bambino così tanti anni prima, quando ascoltava ad occhi sgranati i racconti di Ruu su quelle creature colossali. Di rimando, sentì un velo di calma scendergli sulle spalle come un secondo mantello. Si chiese se scaturisse da lui, dal Bambino o da chissà quale altra energia mistica che serpeggiava per la Galassia.

Iniziava a intuire, con qualcosa di molto simile ad angoscia, di conoscere il proprio mondo molto meno di quanto egli stesso o la Tribù avessero mai creduto. Ultimamente gli veniva spontaneo mettere in dubbio anche tutto ciò che aveva sempre dato per scontato, materiale o meno che fosse. Persino il manda, quella collettività di persone marciate via che rimanevano però inesorabilmente presenti, assumeva sfumature ignote e a tratti oscure, quando osservava i poteri del Bambino all’opera.

Sospirò via quei pensieri, scorrendo la mappa stellare in cerca del successivo approdo sicuro, nonostante persino le sue certezze a quel riguardo si fossero fatte molto più fragili. Anche Nevarro, casa, era stato sicuro. Ma di certo non potevano rimanere nei dintorni di Zygerria: li aspettava un altro viaggio transgalattico nell’Orlo Esterno per confondere le loro tracce – come aveva fatto lui anni prima, da solo o meno. All’epoca, almeno, gli Imperiali non erano specificamente sulle sue tracce, al contrario di ora. Doveva essere ancor più cauto.

Il Bambino lo osservava, intento a mordicchiare con dedizione un corno del mitosauro. Din prese il pendente lucido tra due dita, passandovi con delicatezza il pollice, e il Bambino spostò la presa dal metallo al suo guanto, emettendo un verso quasi muto mentre schiudeva le labbra in un sorriso. Din non si sottrasse, lasciando che prendesse a mordere il cuoio temprato coi suoi dentini affilati.

«Dantooine? Sullust?» iniziò poi ad elencare ad alta voce i pianeti, senza suscitare alcuna reazione, con la mano libera che sfogliava i quadranti. «Altora… no, non di nuovo a caccia di altagaks.»

Scosse sovrappensiero la testa e il Bambino lo imitò, più lentamente, forse ricordando le ferite che si era rimediato in quell’occasione per colpa di quelle bestiacce – e che lui stesso aveva aiutato a rimarginare. La mappa prese a inquadrare i settori più lontani della Galassia, fino a soffermarsi su uno dei tanti pianeti trascurabili e inospitali alle propaggini estreme della Rotta di Hydian. Se ne sentì attratto, non seppe dire perché, come se qualcuno gli avesse dato una piccola, amichevole spinta sulla schiena.

«Awath?» chiese quindi, scoccando un
occhiata al Bambino, che smise di mettere alla prova la tenuta del suo guanto per fissarlo. «Lava, vulcani… e oceani. Quasi casa.»

Vide le enormi orecchie verdi inclinarsi un poco, in segno d’interesse, e sentì la presa sul suo pollice farsi più salda. Fu abbastanza per spingerlo a fissare la rotta dell’iperguida e preparare la Crest al decollo.
 
 
 
 
 
Note&Glossario:
flimsi: l’equivalente della carta sintetica.
manda: questo concetto, simile ma non uguale alla Forza, è la base fondante dell’intera cultura mandaloriana, e verrà approfondito nel corso della storia... quindi non temete, ci ritorneremo ;)
Awath: è un pianeta di mia invenzione. Volevo evitare qualunque coincidenza con canon/fanon.
NB. I brani in corsivo sono sempre dei flashback più o meno brevi di Mando (o altri personaggi).

Note dell’Autrice:

Cari Lettori, rieccoci qui, con questo capitolo un po’ più introspettivo che mi auguro sia stato gradito.
Come spero avrete notato, oltre ai personaggi cerco di trattare anche il contesto in cui si muovono per renderlo verosimile: aspettatevi altri ex cursus sulla situazione della Galassia e sull’operato del nuovo governo, come appunto l’accenno allo sfruttare sottobanco i cacciatori di taglie per eliminare ex-Imperiali e affiliati all’Impero.

Grazie infinite a Miryel, che ho coattamente obbligato a recuperare tutto The Dad-alorian The Mandalorian attirandomi il suo amore-odio, e a Old Fashioned e LadyOfMischief per aver commentato lo scorso capitolo!
E grazie a tutti coloro che hanno semplicemente letto e/o aggiunto la storia alle loro liste :)
Alla prossima, spero presto,

-Light-

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Capitolo 4
*** Episodio 1: Il Cacciatore di Taglie - Parte III ***


 
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Episodio 1
IL CACCIATORE DI TAGLIE

Parte III

 

 



 
“Nevarro, 4 ABY. Terzo giorno d’assedio a Gyra. I cannoni blaster decimano le nostre truppe.
Il Comandante Atur Koos è stato giustiziato dai dissidenti imperiali. Sono subentrato al comando.
Gyra è imprendibile, ma abbiamo ordine di perseverare. 
Stanotte caleremo uno squadrone di truppe d’assalto sulla città.
Che la Forza sia con noi.”

— Comandante della Nuova Repubblica Roota Koos,
poche ore prima della fallimentare missione suicida per la Liberazione di Nevarro
 


 
Città di Gyra, Pianeta Nevarro, 9ABY
 

Piccole nuvole di cenere si sollevavano a ogni impatto degli stivali contro il terreno nerastro, imprimendo i rilievi delle suole sul sottile strato che ricopriva il basalto.

Cara mantenne un passo spedito, anche quando prese a inerpicarsi su una delle alture livellate dalla lava che circondavano la città. La pendenza non era eccessiva, ma avvertì una protesta acuta da parte del ginocchio sinistro. Sbuffò, scaricando il peso in modo differente, così da non sollecitare la contusione, e rivolse un pensiero irritato ai contrabbandieri Rodiani e alla loro pessima abitudine di sparare prima di parlare.

Era rientrata ormai da un paio di giorni da un’estenuante caccia all’uomo su Bespin, ma ancora accusava il cambiamento d’atmosfera, con l’aria ricca d’ossigeno di Nevarro che le causava qualche giramento di testa occasionale. A quel fastidio si aggiungevano gli innumerevoli acciacchi di un inseguimento attraverso gli angusti gasdotti di tibanna, coronati da un colpo di blaster che le aveva messo fuori uso il ginocchio, a dispetto della protezione in duraplast.

Perlomeno, aveva ricambiato il favore, e il Rodiano in questione era finito a marcire in una cella sospesa per il disturbo. Non era stata la cattura più brillante della sua brevissima carriera di cacciatrice di taglie, ma i crediti sarebbero bastati a coprire il periodo di recupero dall’infortunio. E Greef Karga avrebbe volentieri sopperito al resto.


Oltrepassò il torrentello di lava che costeggiava il crinale e si apprestò a discendere la scarpata, piuttosto ripida. Rimpianse in parte la decisione di non rimandare quella sua sorta di pellegrinaggio quasi giornaliero. Ma non dopo Bespin e labbondanza di lavoratori e tecnici Ugnaught che aveva incontrato. In ciascuno di loro, non avvezza a distinguere le sottili differenze tra un individuo e laltro, aveva creduto di riconoscere un Kuiil nel fiore degli anni, intento a mostrarle come si viveva onestamente col lavoro delle proprie mani. No, non avrebbe mai potuto rimandare la visita alla sua tomba proprio quel giorno, ed era lieta di avervi lasciato un paio di rose-magma.

Arrivò in vista dellarco pericolante che segnava laccesso alla città di Gyra. In seguito allo scontro con le truppe di Gideon, mozziconi di mura e altri detriti punteggiavano ancora la strada maestra striata dai segni del cannone blaster, come dita carbonizzate che avessero artigliato con forza il terreno. Le richiamavano sempre alla memoria le foreste scempiate di Endor.

Appena oltre larco, faceva bella mostra di sé il nuovo monumento tipico di molte città liberatesi dal giogo dellImpero: una schiera di elmi bianchi, anneriti e fracassati, posti a monito su degli alti pali infissi nel terreno. Cara aveva contribuito personalmente allallestimento. La feccia imperiale che ancora sopravviveva nella Galassia avrebbe capito di non essere la benvenuta, qui.

Karga la accolse nello spiazzo datterraggio appena antistante la città. Non le fu chiaro se fosse in sua attesa o se, semplicemente, stesse ammazzando il tempo scrutando il terso cielo nevarriano in attesa di novità.

«Solita passeggiata?» le chiese, col suo modo di parlare roboante, attenuato da una stilla di mestizia.

Cara annuì e basta, tirando un mezzo sorriso nel fermarsi di fronte a lui.

«È un po lontano, no?»

«Riesco a godermi il panorama, senza Imperiali che tentano di ammazzarmi. E comunque, devo tenermi attiva: il lavoro di cacciatrice di taglie è più sedentario di quel che pensassi.»

Karga sorrise sotto i baffi, piantando i pugni sui fianchi e ammiccando al suo ginocchio malmesso.

«Non ti è bastato? Allora aspetta qualche settimana, e cambierai idea!»

«Anche tu stai oziando, mi sembra.»

Lui fece un plateale gesto con la mano, come scansando bruscamente da parte quel rimbrotto.

«Aspetto la mia “risorsa d’emergenza”. Poi non avrai un attimo di tregua.»


Cara alzò giocosa gli occhi al cielo.

«Parli di Mando?»

Karga si lasciò scappare una secca risata e si diede una pacca sul petto, dove si scorgeva ancora il foro bruciacchiato dal colpo di blaster allaltezza del cuore. Cara sapeva che, da quellincidente, non aveva più rimosso il salvifico blocchetto di beskar dal taschino.

«Ah, no, solo un mio vecchio contatto nella Gilda. Più o meno. Anche se spero sempre di veder atterrare quel rottame della Crest... ma ha “faccende più urgenti”. Lo capisco» aggiunse subito, più serio, a moderare quella che poteva sembrare un’accusa, ma che alle orecchie di Cara suonò come semplice rammarico per la mancanza di un collega fidato, nonostante i turbolenti trascorsi.

«Mai dire mai» alzò le spalle lei, con finta neutralità.

Karga le puntò contro un indice, agitandolo a scandire le successive parole:

«Se lo senti, convincilo: digli che mi fa buona pubblicità ed è sempre il benvenuto!» le intimò. «Lui e quel suo... topo magico» aggiunse, scrollando le dita della mano in un confuso, ma al contempo eloquente gesto a mezzaria che le strappò un sorriso.

«Lo farò, ma non prometto nulla» gli strizzò locchiolino lei, in un ultimo cenno di saluto, prima di incamminarsi verso la Cantina.

 



 

L’ologramma azzurrino traballava in un ritmo ormai quasi prevedibile, subendo le interferenze dei milioni di anni luce che li separavano e distorcendo la silhouette comunque inconfondibile di Mando.

«Come hai detto? Il collegamento è pessimo» chiese Cara, girando di pochi gradi la manopola dellololink nel tentativo di stabilizzare la frequenza.

Mando sparì brevemente a mezzaria in una manciata di coriandoli olografici, per poi ricondensarsi in una figura più nitida e solida.

«Awath» ripeté quindi, scandendo meglio le sillabe in quella voce ruvida che non aveva mai capito se fosse naturale o filtrata dallelmo.

Cara compresse le labbra, cercando di collocare fisicamente quel pianeta nella propria mappa stellare. Riuscì solo a ricordare che si trovasse praticamente agli antipodi di Zygerria. E prima ancora, laveva chiamata da Altoria.

Un altro viaggio estenuante, lennesimo di una lunga trafila. Mando sembrava intenzionato a visitare tutti i pianeti più remoti dellOrlo Esterno, in un pattern il quanto più possibile disagevole e privo di logica. Si aspettava da un giorno allaltro di sentirlo trasmettere da Corellia, Hosnian Prime o chissà quale altro pianeta del Nucleo. Il pensiero la turbò, a un livello irrazionale che le era fin troppo noto. Non amava pensare ai pianeti del Nucleo: le ricordava lassenza di Alderaan, cancellato ormai dalle mappe e ridotto a pulviscolo spaziale.

«Pensavo vi sareste fermati più a lungo nel quadrante zygerriano» commentò, scacciando il ricordo del suo pianeta natale.

Si sistemò meglio sulla brandina, ripiegando una gamba e distendendo quella offesa. Mantenne lavambraccio a livello dello sguardo, per non turbare la proiezione che scaturiva dallololink da polso.

«Era una taglia semplice» fu la laconica e prevedibile risposta, preceduta dallistante di silenzio sospeso a cui aveva ormai fatto labitudine.

«Vorrei poter dire la stessa della mia» commentò ironica, inarcando le sopracciglia con unocchiataccia alla tumefazione che rosseggiava sulla sua gamba.

«Problemi?»

«Un po diperossia residua e un ginocchio malandato. Niente dincurabile.»

Mando le rivolse un rapido sguardo daccertamento di sottecchi, annuendo poi tra sé – e lasciando subito cadere il discorso sulla sua insolita destinazione.

Cara aguzzò la vista, cercando inutilmente di cogliere qualche indizio nei suoi gesti – un cenno, un tic, una postura – ma, per quanto sapesse leggere qualche sua emozione superficiale, non aveva avuto abbastanza tempo per metabolizzare tutti quei micromovimenti rivelatori che lavrebbero messa sulla giusta pista. Percepirli attraverso un ologramma era pressoché impensabile.

Mando stringeva la cloche in modo perfettamente simmetrico, con la T del visore rivolta alla guida e gli occhi, forse, puntati su di lei – o meglio, sulla sua controparte azzurrina e sfarfallante sospesa sul quadro comandi della Crest.

«Awath non è esattamente il centro delluniverso» osservò quindi, cautamente. «Poco traffico, grossa esportazione di sale, pochi abitanti stabili. Credevo che volessi cercare informazioni» concluse, evitando accuratamente di essere specifica.

Non si poteva mai dire chi fosse in ascolto, e non aveva alcuna intenzione di mettere in pericolo lui o il Bambino. Mando, dal canto suo, non mosse un muscolo, non sembrando affatto incline a rispondere alla sua domanda inespressa.

«O vuoi cambiare aria o cè una logica che mi sfugge» insistette allora, con una punta di durezza in più.

La consueta pausa si protrasse per più tempo, stavolta, qual tanto che bastava per tradire un briciolo dincertezza da parte sua.

«È solo una tappa.»

Di quale viaggio? le venne spontaneo chiedersi. Cara, però, tacque, notando il modo in cui lelmo ruotò impercettibilmente verso di lei, prima di tornare a rivolgersi altrove.

Intuì cosa volesse chiederle, così come aveva voluto chiederglielo lultima volta e quella prima ancora. Considerò se lasciar sfumare di nuovo la risposta alla domanda inespressa del Mandaloriano, ma finì per condensarla in parole istintive, forse rischiose:

«Non credo che qualcuno sia sulle v- sulle tue tracce. Tantomeno Gideon.»

Il sospiro scettico dellaltro fu ben udibile, amplificato fastidiosamente da uninterferenza.

«Io direi soprattutto Gideon.»

«Potrebbe esserlo, se avesse i mezzi per farlo» si corresse quindi, facendo slittare brevemente lo sguardo verso la finestra-feritoia affacciata sui campi lavici.

Quando si trovava a fissarli o ad attraversarli, le veniva da chiedersi quanti Ribelli vi fossero caduti sotto il fuoco degli assaltatori imperiali.

«Neanche lImpero li aveva, dopo Jakku. Eppure...» lasciò in sospeso Mando, come leggendole nel pensiero.

«Abbiamo spazzato via la sua guarnigione ed è un miracolo che sia sopravvissuto, sempre che lo sia davvero...»

«Non abbiamo rinvenuto il corpo» puntalizzò seccamente lui.

«Perché è probabilmente diventato cibo per lishek. E anche se fosse sopravvissuto, adesso è solo.»

«Lo credi davvero?»

Quella domanda retorica la punse sul vivo, acuendo timori fondati. Fece per ribattere per poi cedergli il punto, scrollando a malincuore la testa.

«Vorrei sperarlo. Ma il solo fatto che non sia morto sul colpo, e quei segni, sul caccia TIE...» sospirò, ripensando agli inspiegabili resti semifusi che aveva rinvenuto sul luogo dello schianto e arrivò contrariata alla stessa conclusione del Mandaloriano: non sarebbe stato saggio abbassare la guardia. «So che sono speranze infondate. Vorrei solo pensare che voi non sarete in pericolo, se mai decideste di fare una pausa dalla vostra ricerca.»

Si scostò la frangia scura dagli occhi, fissando il tremolio ipnotico dellologramma nella penombra della sua stanzetta spoglia e poco familiare, animata solo dal pulviscolo cinereo infiammato dal sole della sera.

A volte – spesso – le mancavano Sorgan, gli sfiancanti incontri di lotta giornalieri che le guadagnavano da vivere, i saltuari incarichi da mercenaria e la spotchka acidula e corroborante della locanda. Era stata una vita semplice, quella, lunico assaggio che le era stato concesso assieme a un surrogato di casa.

Si concesse un breve sorriso laterale nel concludere che, dopotutto, non rimpiangeva di essersi presa un impegno che andasse oltre il successivo round sul ring di terra battuta, e di aver stretto a un’alleanza dettata dalla fiducia e non da ordini e catene di comando. La “pensione” non le si addiceva, e quel Mandaloriano l’aveva capito al primo sguardo.

In quel momento, lo vide puntellarsi contro lo schienale del sedile di guida, con la nuca reclinata all
indietro e le mani che allentarono un poco la presa dalla cloche.

«Non posso tornare su Nevarro» proruppe dun tratto, rispondendo inaspettatamente alla sua, di domanda inespressa da giorni.

Parlò a voce lievemente più alta del normale, quasi quella frase gli fosse sfuggita di bocca, tinta di quello che poteva benissimo essere malinconia. Non le servivano i sensori di un droide per percepire londa di tristezza che la increspò.

«È per quello che ti ha detto la tua...» Cara sinterruppe, incerta su come definire lenigmatica armaiola della Tribù, se non come un qualcuno con una schiacciante autorevolezza e che, probabilmente, deteneva anche una certa autorità. «... la vostra guida?» si decise infine, scrutando la reazione di Mando, che fu assente, se non per un lieve riassestamento delle dita sulla cloche, come se trovasse quella definizione scorretta, ma non offensiva.

«No» disse poi, indugiando su quel monosillabo in modo sofferto.

Cara si pentì di aver menzionato indirettamente la Tribù: per quanto evitasse di esternarlo troppo, era chiaro che Mando stesse ancora venendo a patti con le sue perdite. Lo capiva, suo malgrado.

«L’avrei fatto comunque: il Bambino deve tornare dalla sua gente.» Fece una breve, solenne pausa che preannunciò il continuo: «Questa è la Via.»

Cara si umettò le labbra, riassestandosi sul posto. Dai loro ultimi contatti, non aveva avuto l’impressione che Mando stesse attivamente cercando il popolo del Bambino. Sembrava più che stesse cercando il proprio. I sopravvissuti, forse, o forse altri Mandaloriani al di fuori della sua Tribù. Non poteva certo biasimarlo, ma nemmeno ignorare del tutto quel fatto. Percepiva fin troppo bene l’angoscia repressa che si irradiava oltre il beskar.

«Ma è anche la sua Via?» si arrischiò a ribattere, con un cenno del mento verso il punto generico in cui immaginava fosse il Bambino.

Mando lo seguì impercettibilmente la direzione, senza però voltarsi. Sembrò cogliere il vero senso della domanda, ma fu chiaro dalla risposta che sclese di ignorarlo:

«Siamo un clan, adesso» disse infatti, raddrizzandosi sul sedile e riprendendo una postura composta, nell’evidente convinzione, o speranza, che quel fatto rispondesse a ogni domanda e costituisse una certezza incrollabile.

Cara si limitò ad annuire, astenendosi dall’approfondire una questione fin troppo delicata, per il momento, e optò per dirottare il discorso. Se Mando avesse voluto confidarle qualcosa, l’avrebbe fatto coi suoi tempi e modi. Era chiaro che stesse ancora venendo a patti con quanto accaduto lì su Nevarro ⎯ con tutto quanto. Lei era l’ultima persona a potergli rimproverare un eccesso di riservatezza.

«A proposito, come sta quel womprat verde?»

Mando, stavolta, si lanciò un’occhiata da sopra la spalla e mosse l’oloproiettore, inquadrando l’esserino in questione intento a spiarli da oltre il bordo della culla, rischiando fra l’altro di ribaltarla dal sedile. Mando si sporse all’indietro per spingerla e riportarla in equilibrio, strappando un versetto contrariato al piccolo.

«Pensavo dormisse. Il nuovo passatempo è cercare di cadere mentre non guardo» sospirò rassegnato, spostando l’attenzione su di lei, che non trattenne un mezzo sorriso.

«Ci stai prendendo la mano.»

Lui alzò le spalle, in un gesto esplicito per lui raro.

«Sono stato anch’io un Trovatello.»

Cara finse una smorfia esterrefatta, sforzandosi di trattenere un risolino.

«Quindi, sei stato anche tu una piccola peste vagamente adorabile? Chissà perché, ho qualche difficoltà a immaginarti.»

Il lieve sbuffo di Mando suonò divertito.

«Ho avuto i miei momenti» concluse, enigmatico, ma in tono inaspettatamente vivace.

Cara provò un picco di curiosità, ma evitò di insistere, semplicemente lieta che la linea del discorso si fosse rasserenata, sebbene con dei non detti dolorosi a tenderla.

Rimasero in silenzio, come era successo altre volte in quei mesi, tenendosi quietamente compagnia come se fossero stati nella stessa cabina di pilotaggio.

Dopo poco, lo osservò sporgersi per far scattare degli interruttori sopra di lui, inclinandosi poi verso i quadri di comando per tirare una leva. Vi fu un sussulto nell’ologramma, e intuì che fossero usciti dall’iperspazio.

«Awath in vista» le annunciò Mando, con un cenno oltre il parabrezza a lei invisibile, e le arrivò anche un gridolino esaltato da parte del Bambino.

«Bene, allora vi lascio alle procedure d’atterraggio» si congedò, portando al contempo le gambe oltre la sponda del letto. «Buona caccia. E se mai ti servisse qualche taglia più... gratificante, ricordati di Nevarro.»

«Lo dice Karga?» la stanò subito lui, senza astio, rivolgendosi brevemente verso l’ologramma.

Lei non negò, limitandosi a un’alzata di spalle e a un sorriso incolpevole non molto convincente.

«In ogni caso, sai dove tornare.»

Mando replicò annuendo una sola volta, in quel suo modo un po’ solenne.

«Grazie.»

Esitò un istante, poi la comunicazione si chiuse con uno sfrigolio, lasciando Cara nella penombra del crepuscolo.





 

 
 

Note:
– Il tibanna è un gas di raffreddamento estratto su Bespin.

 Lishek è un nome (ispirato a The Witcher III) per le feroci creature simili a draghi che compaiono nell’Episodio 7 della serie.
NB. Ricordo che la nozione di cosa sia una spada laser non è scontata, e che sia Cara che Din sembrano ignari dell’esistenza dei Jedi quando l’Armaiola li nomina.

Note dell’Autrice:

Cari Lettori, ormai ho capito che è inutile porsi un giorno fisso d’aggiornamento: riuscirò comunque a venire meno ai miei buoni propositi che lastricano la strada per la procrastinazione :’)
Avevo annunciato un ritorno di Mando e del Bambino... ed è stato così, in un certo senso, ma ho voluto tacere sull’entrata di Cara Dune in scena. La adoro con tutto il cuore, quindi siate brutali nel commentare nel caso trovaste qualcosa fuori posto per quanto la riguarda <3

Detto questo, ringrazio tutti coloro che hanno recensito finora, ovvero
Old Fashioned, LadyOfMischief, AMYpond88 e quella Guascosa di Miryel che mi supporta e asseconda in ogni progetto, questo in particolare <3 (se a breve dovessero saltar fuori one-shot demenziali a tema Star Wars, sappiate che dovrete prendervela con lei). 
E grazie anche a tutti voi che avete aggiunto la storia alle liste, o che leggete solamente <3
Un (delicato) bacio di Keldabe a tutti voi, e alla prossima settimana!

-Light-

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Capitolo 5
*** Episodio 1: Il Cacciatore di Taglie - Parte IV ***


 
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Episodio 1
IL CACCIATORE DI TAGLIE

Parte IV


 

“Sale, sale, sale! Sale e salgemma e lava!
Non c’è altro, su questa dannata roccia?”

Bator, mercante Altoriano, durante uno scalo forzato su Awath

 


 

Spazioporto di Kaha, Pianeta Awath, 9ABY

Din era solito giudicare ogni nuovo pianeta su cui metteva piede dalla qualità delle Cantine che ospitava – in termini di frequentazione, taglie, contratti offerti, e disponibilità di cibo e bevande d’asporto che non lo costringessero a sfruttare le razioni a lunga conservazione della Crest per non mostrarsi a volto scoperto.

Kaha non gli piacque sin dal primo momento. Ovvero, quando mise piede sul permacrete lavico dello spazioporto coperto, quando fu intercettato da un addetto Sullustiano su di giri perché, a quanto pareva, non trovava il modello della Razor Crest su nessun registro navi neorepubblicano. 

Din trattenne l’urgenza di ignorarlo e tirar dritto: nessuno con più cervello di un bantha gli avrebbe mai sbarrato la strada. Ma doveva riprendere a comportarsi come durante l’Impero e mantenere un basso profilo. Di certo, trovava sempre nuovi motivi per ricordarsi quanto odiasse atterrare su pianeti regolamentati, che non permettevano di parcheggiare un’astronave semplicemente dove c’era posto.

I luoghi dove venivano offerti hangar a prova di scasso erano però preferibili, così da non doversi preoccupare del piccolo e di eventuali effrazioni – non troppo, almeno. Pagava volentieri il surplus, visto che la Crest gli faceva comunque da base e non avrebbe lasciato tracce in alcuno spaziotel.

Il Sullustiano si stava infervorando nella sua lingua liquida e ingarbugliata, con cui faticava a tenere il passo anche tramite il traduttore.

«Non abbiamo questo modello di mercantile nei registri

«È una nave della Repubblica.»

«Non di questa Repubblica

«È un crimine avere una nave antiquata?»

«No, ma c’è una tassa sui veicoli d’epoca

Din fissò l’addetto negli occhi neri per quasi un intero minuto, senza riscontrare il minimo cedimento da parte sua. Infine, gli piazzò bruscamente i crediti extra nella mano paffuta, deciso a non avere guai. Quello fece vibrare con soddisfazione le doppie guance cadenti, permettendogli poi di sbarcare. 

Din doveva ammirare il suo fegato per aver tenuto il punto con un Mandaloriano in beskar’gam completa, ma era il tipo di tenace solerzia che si sarebbe aspettato da un Sullustiano.

Per un breve, doloroso istante, gli ricordò Kuiil. Forse fu la postura composta, o il copricapo in cuoio simile a quello che indossava il meccanico, o il volto dalla forma simile. Solo che Kuiil non aveva mai avuto il lusso di un lavoro retribuito di cui poter andare del tutto fiero senza rimorsi. 

Per lo sprazzo di un pensiero, fu rincuorato dal fatto che Cara fosse andata a fargli visita, per poi rammentarsi che le tombe non erano importanti: non erano quelle, a tener viva la memoria di qualcuno. Iniziava solo ora a crederci e a capirlo ora più che mai.

Si scrollò quelle riflessioni di dosso e si allontanò a rapide falcate lungo la pista esterna, sferzata da una pioggerellina insistente. La Crest venne inghiottita dalla bocca dell’hangar e gli parve di avvertire una sorta di pizzico in mezzo alle scapole, come un filo annodato sottopelle che si tendeva ad ogni passo. 

Si spezzò di colpo dopo poco, turbando il suo equilibrio, e si trovò a dover compiere una falcata più rapida per riassestare l’andatura, come se fosse fisicamente inciampato. Batté le palpebre, trattenendo l’impulso di guardarsi alle spalle. 

Si stava abituando a quelle stranezze, ma riuscivano sempre a disorientarlo. Iniziava a denotare una differenza tra quando vi era una vera e propria manipolazione fisica e quando, invece, quella forza agiva a un livello più profondo e incorporeo, ma egualmente tangibile, come adesso.

Quella sensazione, di qualcuno che lo tirava per la cappa, aveva un significato univoco: il Bambino era risentito per essere stato lasciato – abbandonato – indietro, e premeva per farlo tornare sui propri passi, o per venire con lui. Ma un Mandaloriano attirava già fin troppa attenzione da solo, senza bisogno di un microscopico seguito verde tutto orecchie con poteri telecinetici. 

Era comunque questione di un paio d’ore: giro delle cantine, sopralluogo dell’area, ricerca di u nregistro taglie e ritorno alla base con, sperava, qualcosa di appetibile da mettere sotto ai denti.

Kaha, la capitale, si ergeva dinanzi a lui, spiraleggiando attorno ai coni di vulcani estinti o dormienti, sul cui versante marino si abbattevano con fragore le onde oceaniche. Nonostante i lapilli e i getti di lava che fiammeggiavano nel buio fossero familiari, aveva un fascino più caotico e belligerante delle brulle e immote praterie laviche di Nevarro, scosse solo da sporadiche eruzioni. Si trovò a considerarla troppo chiassosa.

Si incamminò lungo le paratie a strapiombo sulla burrasca. Percepiva di tanto in tanto una spruzzata di spuma gelida insinuarsi sotto l’elmo, portandogli il sapore poco noto del sale sulle labbra. Le arricciò al contatto e attivò la tenuta stagna con un battito di ciglia, prendendo a respirare aria del tutto filtrata e priva dell’umidità salmastra che stava iniziando a mordergli le ossa. 

Accelerò il passo sul lungomare di basalto reso viscido dall’acqua, col mantello che si avvitava alle sue spalle seguendo la direzione tesa del vento. Superò un pigro rivolo di magma sfrigolante, che andava a gettarsi a cascata tra i gorghi biancastri della battigia, decine di metri più sotto. Nugoli di vapore sibilante si levavano fin lassù.

Si addentrò infine nella città vera e propria, più riparata dalla furia degli elementi. I bizzarri tetti spioventi in ossidiana seghettavano il cielo crepuscolare, arrampicandosi sul pendio del maggiore dei tre vulcani spenti. Si ritrovò ben presto a camminare in salita, scrutando i dintorni alla ricerca della Cantina che, secondo la mappa, doveva trovarsi in quel settore periferico.

Gli Awathi – perlopiù umani, Abednedi e Sullustiani – impiegati nelle saline costiere e nelle miniere di salgemma nell’entroterra, non gli davano l’idea di un popolo festaiolo e dedito alla vita notturna, ma con la mareggiata in corso la maggior parte di loro aveva sospeso del tutto ogni attività e si era rintanata nelle proprie case, lasciando deserte le lucide strade nere.

Nonostante ciò, la lieve pressione fantasma sulla nuca gli diceva di non essere solo. Non si voltò, incerto se attribuirlo a qualche creatura notturna a lui ignota, alla semplice presenza di un passante nei dintorni, o a un vero e proprio pedinamento. 

Evitò di accelerare il passo, ma slacciò la fondina del blaster passando in rassegna le possibilità. Imperiali, o nel peggiore dei casi, cacciatori di taglie. Era plausibile che avessero posto una taglia illegale anche sulla sua testa, oltre che su quella del Bambino.

Dopo aver adocchiato la festosa insegna lampeggiante della Cantina – il “Sale Fiorito – aperta al piano superiore di una costruzione, deviò dalla strada principale per raggiungerla dalla scala sul retro, tendendo l’orecchio per eventuali passi sovrapposti ai suoi. Udì solo la cadenza singola e acquosa dei propri stivali sul basalto lucido.

Quel presentimento spiacevole scemò, allentando la stretta sulla sua nuca. Dopo aver sostato per qualche istante sul ballatoio esterno, col visore termico attivato e animato unicamente dalle luminarie e dalle eruzioni lontane, decise che fosse sicuro entrare nel locale. Rilasciò lentamente l’orma umida del proprio respiro nell’aria fredda e piovosa, gettò un ultimo sguardo all’oscurità brontolante di nubi e riallacciò la fondina.

A volte, anche l’istinto guerriero perdeva qualche colpo e si trasformava in semplice, inconcludente paranoia.

 
 

Il Mandaloriano scomparve oltre la soglia della Cantina, venendo inghiottito dalla luce calda all’interno.

Il Sale Fiorito: un nome scontato per un locale scontato. Di quelli in cui si serviva birra oceanica – un intruglio salmastro da bere una volta e mai più nella vita – si vendevano fialette di "pregiato" sale multicolore e si decantava la vista sulla scogliera, comune alla stragrande maggioranza delle finestre di Kaha. E, cosa più importante, con ampie vetrate e due ingressi, entrambi ben in vista attraverso il mirino notturno del DC-17.

Riassestò il calcio contro la spalla. Mantenne la posizione coperta dall’angolo all’altro lato della strada e aumentò l’ingrandimento, riuscendo a cogliere per un istante la sagoma del buy’ce lucente nella sala affollata, prima di vederla sparire di nuovo. Doveva aver scelto un tavolo riparato. Astuto, o magari solo prudente.

Fu colto da un’esitazione, che lo spinse a picchiettare l’indice sulla guardia del grilletto con un sommesso suono metallico. Il buonsenso e le innumerevoli ore di addestramento gli suggerivano di aspettare lì – pazientare, monitorare, valutare – e approcciare in seguito l’obbiettivo. L’incoscienza tutta tipica di uno scafato artificiere lo spingeva invece a mandare letteralmente all’aria la cautela e tentare un confronto diretto.

Non si era certo aspettato di trovare un Mandaloriano lì, su quella roccia lavica e decrepita, ma la cosa poteva giocare a suo favore. Iniziava ad avere una certa età... determinate missioni iniziavano ad essere un po’ troppo rischiose, per i suoi gusti, soprattutto se non lo riguardavano direttamente. Sbolognarle a un alleato più giovane e possibilmente ignaro non era un’opportunità da sottovalutare.

Valeva la pena tentare un approccio. In fin dei conti, erano due Mando’ade: avrebbero di certo trovato terreno comune, tra loro. A meno di non venire freddato sul posto per qualche malinteso dovuto alle sue apparenze. Non sarebbe stato il primo per cui rischiava la pelle... ma a certe cose non poteva rinunciare, e la fidata corazza Katarn era una di quelle.

Sospirò dal naso, col flusso d’aria che si rifranse nello spazio ristretto del casco integrale, prima di abbassare il fucile, assicurarlo alla tracolla e uscire allo scoperto in strada, diretto alla Cantina più insulsa e turistica della città con l’intenzione di mettere una buona dose d’alcol in corpo e nessuna idea su come sarebbe andata a finire quella serata – come prima di ogni missione, in un passato lontano. Forse, sarebbe stato persino troppo ubriaco per rendersi conto del risultato.

«Buy’ce gal, buy’ce tal...» canticchiò sottovoce, seguendo un ricordo lontano e riaffiorato senza preavviso. 

Sorrise amaro, salendo le scale con passi pesanti e corazzati. Magari, all’ennesima pinta bevuta in compagnia, la birra avrebbe anche perso quel retrogusto odioso di acqua di mare.

 

 
 

FINE EPISODIO I


 
 
 
 
Note&Glossario:
Le architetture descritte sono ispirate alle case Batak [qui], tipiche dell’Indonesia e delle Hawaii, visto che ho tratto ispirazione da questi luoghi per l’immagine dei vulcani in prossimità dell’oceano. Anche il nome della città è ispirato a una divinità marina hawaiiana, Nā-maka-o-Kahaʻi.
– Quella citata alla fine è una canzone da bevute mandaloriana, tratta da Republic Commando: Triple Zero.
NB. Quando ci sono intere frasi in corsivo, sta a significare che esse non sono in Basico, bensì nella lingua del parlante – nello scambio presente in questo capitolo, sullustiano.


Note dell’Autrice:

Cari Lettori, rieccoci al nostro appuntamento stellare settimanale... con spero un colpo di scena, nonostante il capitolo sia praticamente di passaggio ;)
Non temete, questo è l’ultimo nuovo PoV della storia: d’ora in poi si alterneranno capitoli dal punto di vista di Din e Cara (preponderanti), Ruu (più rarefatti ma comunque presenti) e il signorino appena comparso (che avrà comparsate sporadiche)
il cui "simbolo" dovrebbe dirvi qualcosa. Spero di avervi incuriosito, perché dal prossimo capitolo si entra nel vivo della storia e della trama. Non vedevo l’ora <3 Ah, e spero anche che abbiate apprezzato il nuovo pianeta, che verrà approfondito meglio nei successivi capitoli :)

Ringrazio di cuore Old Fashioned, LadyOfMischief, AMYpond88 e la mia Guascosa Miryel per aver letto, commentato e/ aggiunto la storia alle loro liste, e tutti coloro che leggono in silenzio <3 Siete la benzina della mia scrittura, davvero, e ogni commento è uno sprone in più a curare la storia e metterci il massimo impegno. Grazie, davvero <3

Oya manda, e alla prossima settimana!

-Light-

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Capitolo 6
*** Episodio 2: Tracce - Parte I ***


 
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Episodio 2
TRACCE

Parte I




 

“Andate e colpite! I jetiise saranno i primi ad assaggiare la lama di Mandalore!
Poi toccherà ai nostri fratelli traditori, e a tutti coloro che hanno deviato dalla Via.”

Lorka Gedyc, Luogotenente della Ronda della Morte,
ai Mandaloriani in partenza per l’Assedio di Coruscant, 19 BBY



 

Livello 3147 di New Republic City, Coruscant, 9ABY
 

C’era sentore di pioggia nell’aria.

Ruusaan lo riconobbe dalle note acide che attecchivano in fondo alla gola con ogni respiro, a dispetto del casco. Trattenne un colpo di tosse.

«Dovremmo ripararci.»

Parlò in tono neutrale, ma una fibra dimpazienza andò a inspessirle la voce mentre si fermava al limitare di un porticato metallico, affacciato su una piazzetta squadrata e mal tenuta. I rifiuti più leggeri venivano sballottati da un lato allaltro seguendo le incostanti e imprevedibili folate di vento che si insinuavano nei bassifondi, frutto delle correnti ascensionali.

«Paura di un po di pioggia?»

I passi pesanti di Skull risuonarono alle sue spalle, coprirono la distanza che avevano cautamente mantenuto sinora e si arrestarono accanto a lei. La sua beskar’gam massiccia, color cobalto, lo faceva apparire ancor più alto di quanto non fosse: la superava di un intero casco. Si piantò le mani sui fianchi, osservando lo squallore di fronte a loro.

«Sì, se è pioggia acida» rispose infine lei, senza curarsi di emettere più di un borbottio vagamente irritato.

Aveva limpressione che non fosse quella, la domanda del suo compagno. Ignorò lennesima frecciatina mirata, ne era certa, alla sua effettiva volontà di essere lì, su Coruscant. Il fatto che i suoi dubbi fossero fondati non faceva che renderla più suscettibile. Lo udì sbuffare a mezza voce, schiarendosela rumorosamente per poi uscire dal riparo del portico con falcate militaresche.

«Allora sbrighiamoci, o rischi di rovinarti la verniciatura nuova» proferì con malcelato sarcasmo.

Ruusaan considerò di rispondergli per le rime, ma quella ventata belligerante si estinse sul nascere, quietata dal buonsenso. Incassò anche quel colpo e lo seguì dappresso, distinguendo a malapena le sue spalle larghe e corazzate nella semioscurità cavernosa dei vicoli. 

Nuvole di gas e smog brontolavano in modo innaturale sopra di loro, foriere del rovescio caustico in arrivo. Le luci artificiali punteggiavano lo spazio nero sovrastante arrampicandosi sulle mura dei Pozzi e dei grattacieli, non dissimili da stelle. 

Lì il cielo era una leggenda: non faceva fatica a immaginare che gli abitanti dei livelli inferiori considerassero quello sciame di luci tremolanti stelle a tutti gli effetti, con costellazioni, rivoluzioni e ritmi ben identificabili utili a navigare nel mondo cupo e in perenne penombra delle viscere di Coruscant.

Masse di derelitti si aprivano al loro passaggio, per poi richiudersi come sabbie mobili. Avevano abbandonato la discrezione nel momento in cui avevano messo piede nei sottolivelli: laggiù, persino due Mandaloriani perdevano qualunque attrattiva e peculiarità, messi a confronto con le migliaia di specie e fazioni ben più bizzarre e temute che li frequentavano abitualmente. 

Le voci sarebbero comunque circolate, era inevitabile, ma difficilmente avrebbero raggiunto la superficie. Ruusaan se lo augurava. In caso contrario, avrebbe avuto un motivo in più a fomentare il suo astio per Coruscant. Accelerò il passo, incalzando Skull. Questi le gettò una rapida occhiata da sopra la spalla, senza per questo opporsi.

Arrivarono a destinazione in pochi minuti: la cantina era pubblicizzata da uninsegna al neon morente, di un rosa stinto.

«La Perla del Krayt?» commentò Ruusaan, accennando incredula ai caratteri in Aurebesh e Huttese che lampeggiavano fuori sincrono accanto alla sagoma mezzo fulminata di un dragone delle sabbie.

«Nex ha buon gusto, come sempre...» scrollò le spalle laltro, fermandosi in cima alle scalette rugginose che conducevano allingresso interrato, per poi imprecare: «Osik, è ancora peggio di come me lha descritta.»

I suoi stivali corazzati scandirono con un clangore i sette gradini e atterrarono con uno sciacquio nei liquami che ristagnavano sotto al livello della strada. Ruusaan scrollò tra sé la testa quando lui si voltò a guardarla, impaziente. Le prime gocce di pioggia corrosiva sfrigolarono innocue sulla beskar’gam, intaccandone la vernice e portando alla luce il metallo plumbeo sottostante.

Si risolse a seguirlo, in quella che le sembrava a tutti gli effetti una trappola per womprat.

«Questo è ciò che succede quando ti fidi di un Ubese» lo rimproverò, una volta entrati nel locale che faceva onore alla propria facciata dimessa, rivelando un interno ancor più trascurato.

«Non abbiamo esattamente limbarazzo della scelta» bofonchiò infine Skull, facendosi largo tra il capannello di Weequay ubriachi assembrati allingresso e intenti a sgolarsi su una qualche canzonaccia di cui Ruusaan fu lieta di capire meno della metà delle parole sbiascicate.

Percepiva la collosità del pavimento sotto le suole e i fumi di alcol scadente si mischiavano a quelli di troppi corpi stipati in uno spazio ristretto. Luci stroboscopiche agonizzanti gettavano fantasie intermittenti di colori, a ritmo con della musica glimmik assordante, e si rifrangevano sulle traslucide perle di Krayt incastonate lungo il bordo del bancone in fondo – Ruusaan sperò che fossero finte. 

Un paio di pali da pole dance, ospitanti delle ballerine Twilek che intrattenevano la clientela con aria annoiata, completavano latmosfera. Non si era aspettata nulla di diverso, dai sotterranei di Coruscant e, anzi, poteva dire di aver visto di molto peggio, persino nellinsospettabile centro di Keldabe.

Trovarono rapidamente posto a un separé. O meglio, se ne appropriarono dopo aver scacciato due Ithoriani alticci con un solo, freddo sguardo mascherato dal visore e le mani che andarono a sfiorare con noncuranza il calcio dei rispettivi blaster. 

Si accomodarono sulla panca non imbottita, rimanendo luno di fronte allaltra; lui coi palmi posati parallelamente sopra al piano in plastoid, lei con le mani intrecciate dinanzi a sé. Qualche credito posato al margine del tavolo e subito raccattato dallinserviente di turno pagò la loro occupazione anche senza dover ordinare qualcosa – e comunque, vista la situazione igienica, Ruusaan avrebbe bevuto più volentieri lacqua del Kelita.

«Potevi dirlo, che avevi un problema a venire a Galactic City» interloquì Skull dopo qualche minuto di bassi riverberanti, fortunatamente attutiti dalla riduzione rumore del casco.

«New Republic» lo corresse lei, senza raccogliere la provocazione.

Il verso stizzito di Skull le risuonò direttamente nelle orecchie, facendo sfrigolare il comlink integrato del casco.

«Imperial City, Republic City... il nome giusto dovrebbe essere Taung City, ma rimane comunque una fogna ingioiellata» terminò quasi in un ringhio, in uno di quegli scoppi di revanscismo contraddittori, per qualcuno sempre pronto a criticare il passato di chiunque avesse indossato il blu della Ronda.

Ruusaan non rispose subito e ringraziò i loro buy’cese. Come Mandaloriani, davano la costante idea di guerrieri taciturni e ombrosi anche quando radunati in gruppo attorno a un tavolo, nonostante vi fossero spesso accese e a volte esilaranti discussioni in corso sul canale di comunicazione privato dei caschi, tradite solo da questo o quel gesto non trattenuto. 

In quel caso, lei e Skull non avevano né unaria amichevole, seduti in quel cubicolo sul fondo della cantina, apparentemente muti e intenti a fissarsi nelle T dei caschi, né la conversazione in atto era poi così briosa.

«A prescindere dal nome, voglio uscire da questo pozzo il prima possibile. Il perché non ti riguarda. Quindi, prega che il tuo amico sia puntuale.»

Skull fece una pausa infinitesimale: una frazione distante appena sufficiente a lasciar intendere che, a parer suo, quel "perché" lo riguardava eccome. Ma quando parlò, il suo tono fu basso e raschiante come sempre.

«Lo prego anchio, e prego anche che si degni di parlare in Basico. Lultima volta mi è venuta unemicrania.»

Ruusaan soffiò dal naso, ironica.

«Allora prepara una bactaspirina.»

Skull ruotò il capo, prendendo a osservare il sommovimento nel locale senza ribattere a tono e troncando di fatto il discorso. A Ruusaan parve perso nelle proprie riflessioni, cosa di per sé piuttosto insolita; ancor di più se si considerava il caos in cui erano immersi, che le permetteva appena di sentire i propri pensieri.

«Stai tergiversando» la punzecchiò dopo poco, tamburellando con le dita guantate sul tavolo in un lieve moto dimpazienza.

Ruusaan si mise sulla difensiva prima di poterselo impedire, in un riflesso condizionato:

«Lo faresti anche tu, se ti trovassi nella mia beskar’gam» ribatté lei, usando senza pensare quel modo di dire.

«Non mi ci ritroverei mai, figuriamoci» fu limmediata e sprezzante replica. «E mi devi delle spiegazioni. Ricorda la gerarchia.»

«Gerarchia?» ripeté lei, assicurandosi che il suo sbuffo derisorio fosse ben udibile. «Parli ancora come un Imperiale.»

«E tu come una Separatista.»

Ruusaan si concesse uno scatto allindietro del capo, ad accentuare lombra di risata sardonica che le sporcò la voce.

«Oh, questo era un insulto che non sentivo da tempo» commentò, stringendo tra loro le dita intrecciate e flettendosi appena verso Skull, a incalzare una replica.

«Sto ancora aspettando» la accontentò lui, freddo. «Cosa cè, su Coruscant, che ti turba tanto?»

Tornò a fissarla ruotando lentamente il capo, con le luci violente che si riflettevano sullelmo lucido ora in modo vivace, virando sul rosa, ora minaccioso quando sprofondavano in rossi cupi, assorbiti dal blu della corazza. 

Lei tacque, negandogli una risposta per il momento e negandogliela definitivamente quando vide palesarsi il loro contatto, inconfondibile nel suo casco squadrato, dal visore orizzontale. Si avvicinava a loro circospetto e al contempo minaccioso, una mano a stringere la cinghia del fucile Verpin a tracolla.

Ruusaan stava per accoglierlo allo stesso modo, preparandosi a flettere la mano per impugnare la vibrolama nascosta nellavambraccio, ma si irrigidì quando sentì la mano di Skull bloccare il gesto, serrandosi appena sopra il parapolso. 

In circostanze diverse, non avrebbe esitato a sfruttare la morsa e strattonarlo per rifilargli un bel "bacio di Keldabe" dritto sullelmo... ma non potevano permettersi di allontanare un informatore suscettibile dopo mesi di bonaccia, azzuffandosi come due Mando’ade adolescenti. Così, si limitò a irrigidire i muscoli e a riservare la testata a un momento più opportuno.

«Non basta dare una mano di vernice alla beskar’gam per cambiare fazione e ideali» sibilò lui, con un secco cenno allo strato dargento lucido della sua corazza, in particolare quello sopra allo spallaccio. «La discussione è solo in pausa, Motir, e io non sono tollerante come mia moglie.»

Lei si liberò con una torsione del polso e uno sbuffo stizzito, lasciando cadere nel vuoto la minaccia e piantando poi il pugno sul tavolo a ritrovare stabilità. Ignorò il compagno e si rivolse al nuovo arrivato come se nulla fosse accaduto, attivando laltoparlante esterno:

«Sei in ritardo.»

Nex li squadrò singolarmente, uno dopo laltro, studiando la situazione. Poi, proferì un brusco saluto nella sua lingua farfugliata e resa robotica dal casco, suscitando il mezzo sospiro infastidito di Skull. Avrebbero avuto entrambi bisogno di una bactaspirina, dopo quellincontro.

Ruusaan serrò il pugno, con limprovvisa e molesta percezione delle milioni di tonnellate di durasteel, oscurità e fondamenta che gravavano sopra di loro. Di nuovo, dovette ripetersi che non cerano più degli incrociatori intenti a bombardare la città, né una missione sanguinosa ad incombere dietro langolo, né lombra aguzza della Ronda appuntata sulle spalle. Né qualcuno che la aspettava a casa, col rischio di non rivederla più.

Voleva solo uscire da lì, da quel pozzo di ricordi senza fondo.

 
 




 


 
Note:
“Il cielo qui è una leggenda” è una citazione riadattata dal fumetto Obi-Wan&Anakin.
– Le “perle” di Krayt… beh, diciamo che torneranno, e che capirete perché Ruu è così poco entusiasta dal nome scelto per il locale e del perché spera che quelle nel locale non siano vere. Altrimenti, sbirciate nel Glossario ;)

– Il fiume Kelita scorre nell’ex-capitale di Mandalore, Keldabe.
– Bignami di Storia Galattica, Parte I: i Taung abitavano Coruscant, prima di abbandonarla e trasferirsi su Mandalore, e sono di fatto considerati i progenitori dei Mandaloriani (sempre in senso culturale e non biologico). Il blu è un riferimento alla Ronda della Morte.
NB. Per chi dovesse aver letto la saga di Republic/Imperial Commando: la Ruusaan (Skirata) che appare nei libri non è la stessa che compare qui, ma è un semplice caso di omonimia accidentale, giustificato dal fatto che sia un nome femminile molto diffuso tra i Mandaloriani.
 
Glossario Mando’a:
-beskar’gam: armatura/corazza
-buy’ce: elmo/casco (pl. buy’cese)
-Mando’ade: Mandaloriani (lett. figli di Mandalore)
 -osik: merda


Note dell’Autrice:

Cari Lettori, rieccoci nella nostra Galassia preferita!
Questo capitolo mi ha preso un po’ più di tempo, ma la buona notizia è che la seconda parte è già pronta e vedrà quindi la luce tra una settimana esatta, senza ulteriori ritardi :’)

Ci tenevo particolarmente a scrivere tutto come si deve, poiché qui entra definitivamente in scena Ruusaan Motir, che possiamo considerare un mio OC... anche se effettivamente compare in The Mandalorian, in un ruolo che credo si sia intuito da questi primi capitoli, ma che comunque non rivelerò esplicitamente sino a tempo debito ;) Skull invece è una vecchia conoscenza di chi ha seguito una certa serie di Star Wars... semplicemente ha subito un cambio di nome che verrà poi giustificato. Chi ha visto solo le Trilogie può tranquillamente prendere anche lui come un OC. Ripeto che l’intera storia è comunque strutturata in modo da poter essere letta senza conoscenze pregresse. Semplicemente, chi mastica un po’ di Legends/ex-EU potrebbe cogliere dei riferimenti o dettagli e intuire qualcosina in più con un po’ d’anticipo; in caso contrario, lasciatevi sorprendere <3

Spero abbiate apprezzato questo cambio di prospettiva forse un po’ azzardato, visto che gli OC, anche se sui generis, non sono sempre graditi :’) L’episodio rimarrà incentrato su Ruusaan (i suoi PoV sono indicati dal teschio di mitosauro) e poi si tornerà di gran carriera al duo Mando&Yodito.
Grazie di cuore alla mia Guascosa Miryel, che si becca i miei brainstorming e i miei Super Quark: Star Wars Edition, e a Old Fashioned e LadyOfMischief per aver commentato gli scorsi capitoli, oltre a tutti coloro che hanno aggiunto la storia alle loro liste e/o che leggono soltanto <3
Un saluto galattico, e alla prossima settimana,

-Light-

P.S. Sto partecipando al contest "Drabbleggiamo", indetto da AleDic sul forum di EFP: se vi va, andate a dare un’occhiata alla storia partecipante, Radici, sempre a tema The Mandalorian :) <3

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Capitolo 7
*** Episodio 2: Tracce - Parte II ***


 
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Episodio 2
TRACCE

Parte II

 

 
“Figli, devozione
Tribù e armatura
Mando’a e Mand’alor
Sono la nostra cultura”

— Filastrocca delle Resol’nare, Le Sei Azioni,
insegnata ai bambini Mandaloriani

 
 
 
Livello 3147 di New Republic City, Coruscant, 9ABY

Esattamente come molti cacciatori di perle di Krayt, Ruusaan e Skull uscirono dall’omonima cantina stringendo in mano nient’altro che un pugno di sabbia di Tatooine, ma con fortunatamente tutte le viscere ancora al loro posto – cosa che, anche dopo aver incontrato un Ubese, non era del tutto scontata.

Skull sobbolliva di rabbia repressa, come un barile di rhydonium sotto pressione. Ruusaan si aspettava di veder spuntare volute di fumo incandescente dalle bocchette del casco e dalle giunture della corazza. Nel salire, pestò i piedi sui gradini con tanta forza che temette di vederli cedere di schianto, e un paio di creature non meglio definite zampettarono vie impaurite. 

Lo raggiunse con più pacatezza al livello della strada, sotto la pozza di luce tremolante dell’unico lampione sospeso. Il resto del vicolo sfumava dopo pochi metri nell’oscurità verdastra e umida del sottosuolo.

«Magra caccia» commentò affiancandolo.

Ottenne in risposta un mugugno indistinto di imprecazioni in Mando’a. Sembrava che avesse deciso di rimandare il loro confronto personale, almeno per il momento. Non poteva che concordare, anche se l’impellenza di quella testata in sospeso le pungolò la fronte. 

«Ci facevi davvero così tanto affidamento? Su Nex?»

«Tu che dici?» scattò lui, senza voltarsi a guardarla. «Ha lavorato con Boushh, aveva un contratto con gli Hutt, frequentava Tatooine e diceva di esserci in buoni rapporti, anche dopo Carkoon. Un mucchio di osik... si era venduto troppo bene, avrei dovuto capire che stava bluffando.»

Ruusaan inclinò appena il capo, scrutandolo inquisitivamente dal basso nell’udire quell’ammissione atipica. Lo vide alzare il mento appuntito dall’elmo in un moto sprezzante, colto in fallo, prima di incamminarsi a passo di carica verso l’uscita del vicolo.

«Almeno, sappiamo per certo che non è nello stomaco di un sarlacc» concluse lei, raggiungendolo senza alcuna fretta e obbligandolo a rallentare di conseguenza. 

Stava tentando le redini della sua pazienza, ma non le importava più di tanto, almeno non finché non avrebbe rivisto il cielo. Non era l’unco a potersi permettere un atteggiamento caustico.

«Non avevamo bisogno di quel di’kut Ubese per immaginarlo» contestò Skull, con un sospiro ringhiato. «Figuriamoci se un Fett si lascia far fuori così.»

La stilla di rancore nella sua voce era ben percettibile, fusa a un qualcosa che assomigliava molto al suo compagno più cedevole: il rammarico. Per un attimo, le parve di vedere il vecchio Skull, Protettore di Concord Dawn, quando ancora utilizzava il suo vero nome. L’esagono oblungo e dorato sulla fronte del suo buy’ce sembrò farsi più evidente, seppur sbiadito.

Nonostante le loro divergenze, non poteva biasimarlo: anche lei provava per Boba Fett lo stesso, acido miscuglio di emozioni di chi ha visto un alleato sul campo di battaglia marciare verso la parte sbagliata della guerra. Un frammento di entrambi, lo sapeva, l’avrebbe preferito liquefatto dai succhi gastrici del sarlacc. L’altro, perfettamente combaciante, avrebbe voluto vedere e appellarsi allo sbiadito riflesso del padre Jango in lui.

Dopo le Guerre dei Cloni, avevano iniziato a chiedersi se quel riflesso fosse mai esistito; se lo spirito del loro 
Mand’alor vivesse davvero nel figlio. Boba era un Mandaloriano problematico... se poteva davvero essere definito tale, stando alle voci e ai sussurri che viaggiavano per la Galassia. Ma avevano imparato a non fidarsi delle voci. 

Avevano dovuto scoprire loro stessi dove il leggendario cacciatore di taglie avesse riposto la sua lealtà – e le vaghe risposte che avevano trovato erano bastate a soffocare le loro speranze.

«Lo sa mezza Galassia, che il bastardo è vivo, vegeto, e in affari come prima» continuò Skull, sullonda cocente della propria acredine.

«Resta da vedere che genere di affari.»

Skull inspirò seccamente dal naso, senza rispondere subito. Ruusaan apprezzò il fatto che stesse riuscendo a mantenere un volume di voce moderato mentre indossava il casco evitando di assordarla, anche se limpulso di sbraitare era fin troppo chiaro dalle contrazioni che avvertiva nelle sue parole.

«Davvero non lo immagini?» sputò fuori, prima di continuare, senza attendere risposta: «Comunque, era quello che in teoria avrebbe dovuto dirmi per certo Nex.»

«Figurarsi. E lhai anche pagato.»

«Abbiamo stretto un accordo, e almeno la soffiata su Gideon sembra lecita. Spero» soffiò via, con chiaro disappunto. 

«Speri?» quasi ringhiò Ruusaan, voltando di scatto lelmo.

Skull puntò il visore verso lalto, a sottolineare il fatto che gli occhi stessero seguendo la stessa direzione.

«La parte in cui è morto, non quella in cui ha sterminato una Tribù» precisò monocorde, inviandole una stilla di gelo nella spina dorsale. «Togliamoci di torno, prima che quel chakaar di Nex decida di venderci a qualche trafficante di beskar: odierei dover lasciare altre tracce in questo putridume.»

Proseguirono in silenzio, fino a fermarsi su una piattaforma isolata a strapiombo sul Pozzo, in attesa di un repulsorcraft che li avrebbe portati verso i livelli superiori. La pensilina era deserta, come la maggior parte delle altre che si intravedevano lungo la circonferenza, di cui distingueva solo le fievoli luci intermittenti sospese nel buio. 

Nessuno si avvicinò. Un paio di sagome seminascoste nellombra scivolarono via al loro arrivo. Non erano in molti ad utilizzare i trasporti pubblici là sotto, con tutte le migliori ragioni, ma persino un disperato in astinenza da spaccacervello ci avrebbe pensato due volte prima di aggredire dei Mandaloriani, ed era di fatto il mezzo di spostamento più sicuro per loro.

Ruusaan reclinò il collo allindietro, seguendo le pareti a strapiombo del Pozzo che sembravano convergere in un unico tetto di buio solido. Da qualche parte, dovevano lasciare spazio a ununica, impercettibile capocchia di spillo grigiastra, ma erano troppo in basso perché i loro occhi potessero percepirla, anche tramite il visore notturno. 

Ma sapeva che era lì e che presto l’avrebbe rivista. Si era ripetuta lo stesso mantra troppi anni prima. Le venne la nausea a ritrovarselo in testa adesso. Avvertì una nausea profonda, nel ripensare a quei momenti, divisa tra ciò che le era stato ordinato di fare e ciò che aveva fatto. L’ennesima chiazza di sangue che sporcava il suo “campo bianco era lì, da qualche parte, sul fondo di uno dei Pozzi di Coruscant.

«Ho perso dei compagni, qui» proferì di getto, senza muoversi, in faccia al buio. Udì Skull che trattenere un principio di esclamazione sommessa, colto alla sprovvista. «Guerrieri della Ronda che ho dovuto... lasciare indietro, durante la Battaglia di Coruscant. Ecco la tua spiegazione,» concluse, sbrigativa.

Skull tacque, in unesitazione che poteva nascondere sorpresa, o un semplice tentativo di sopprimere vecchi rancori verso la Ronda che avrebbero dettato aspramente le sue successive parole.

«Eri qui, quel giorno» ripeté poi, lentamente, e la sua voce parve perdere unottava, tradendo tutti i suoi anni. «Non su Mandayaim. Non allAssedio.»

Lei annuì appena, in silenzio. DellAssedio di Mandalore conservava solo i racconti dei pochi che erano sopravvissuti. Lei, in quel momento, era là sotto, a Coruscant, in attesa di un Ordine al retrogusto di vendetta. 

A volte, era lieta di non avere memorie proprie della Notte delle Mille Lacrime, un massacro che era stato solo il preambolo alla loro disfatta. Altre, le avrebbe scambiate volentieri col rimorso di aver disertato e lasciato i suoi fratelli in balìa dellImpero – allora ancora la Repubblica – dopo essere stati sfruttati come fathier da corsa zoppi e spediti al macello.

«Ho fatto una scelta, esattamente come te. Ho scelto di giurare lealtà a Mandalore e di abbandonare la Ronda della Morte. Ed è il motivo per cui dovresti fidarti.»

Skull, a quelle parole, simpettì, giungendo le mani dietro la schiena con lo sguardo fisso sul repulsorlift in arrivo.

«Non posso farlo» dichiarò, facendole voltare di scatto il capo. «Quel simbolo che portavi non si può cancellare.» 

Accennò col mento allo spallaccio destro, dove un tempo spiccava la sagoma bianca di uno jai’galaar in picchiata. Solo un sottile strato di vernice argentea e gialla lo celava, adesso. 

«Ma Kat’ika si fida. E io mi fido di lei» concluse, salendo sulla piattaforma sospesa senza ulteriori commenti.

Ruusaan lo seguì con un istante di ritardo. Rimase ad assorbire le parole del compagno, mentre iniziavano la loro lenta ascesa verso i livelli più alti. Avrebbero dovuto compiere almeno una decina di scambi, per arrivare a rivedere la luce: accolse di buon grado quella parentesi di riflessione, col vento stantio delle profondità che frusciava oltre il casco.

Skull non le aveva offerto un vero e proprio campo bianco, come quello che l’aveva accolta decenni prima quando aveva tolto l’elmo della Ronda, ricominciando da zero la propria vita. La sua era più una concessione e un impegno a non soffermarsi troppo sul passato.

Ruusaan, che quel gesto a malapena riusciva a concederlo a stessa, dopo molti anni trovò sollievo nellaccettarlo da qualcun altro.
 

 
 

La Cornucopia, nel suo essere poco più che qualche lastra di metallo tenuta assieme da ruggine, affetto e buona volontà, riusciva egregiamente nell’intento di camuffarsi tra le centinaia di altri mercantili e aeronavi da trasporto parcheggiate nell’hangar sub-superficiale. 

Ruusaan non si sarebbe mai schiodata dalla propria convinzione, comprovata più e più volte: le navi della precedente Repubblica erano la carta vincente per passare inosservati, tuttal più guadagnandosi la curiosità di qualche pilota nostalgico, ma di certo non lattenzione delle autorità. Al massimo, si rischiava di pagare una tassa sui veicoli depoca, se si incappava in qualche addetto particolarmente zelante.

Lei e Skull si rilassarono in sincrono nel momento in cui la rampa daccesso si chiuse con uno scatto, sigillandosi. La corazza poteva essere una protezione fidata, ma aggiungervi uno scafo a prova di blaster non poteva che accentuare il senso di istintiva sicurezza che infondeva loro. 

Skull si tolse lelmo con uno sbuffo, incastrandolo contro il fianco e passandosi una mano tra i capelli ramati, che iniziavano a ricrescere sui lati, sfumando in unombra rossiccia e ingrigita. 

Ruusaan lo imitò, scrollando il capo e liberando la massa di treccine scure, compresse finora dalla calotta. Si massaggiò la nuca, lieta di respirare aria relativamente più pulita rispetto a quella dei sottolivelli. Se ne riempì i polmoni prima di parlare:

«Credi che dovremmo... selezionare le informazioni?» chiese senza girarci intorno, serrando le mani sul beskar argenteo e seguendo con la punta delle dita la sottile V gialla che ne decorava la fronte.

«Non ne vedo il motivo. Anche se dicessimo che Fett è una poltiglia informe e semidigerita su Tatooine, finiremo comunque per ritrovarcelo tra i piedi, prima o poi. Quando deciderà di tornare, lo farà in pompa magna... e a quel punto, Kat’ika ci mangerà vivi per averle mentito» ribatté pragmatico lui, piazzando bruscamente lelmo sul portaoggetti e prendendo posto sul sedile del pilota.

Ruusaan lo affiancò in quello del copilota, stendendo una gamba e poggiando il tallone dello stivale sul piano comandi. Si rimediò unocchiataccia, ma non un rimprovero diretto. La linea corrucciata incisa tra le sopracciglia di Skull non sembrava indirizzata a lei.

«Boba non piace nemmeno a me» proferì senza mezzi termini, dando inizio alle procedure per il decollo, con la consumata meccanicità di chi ha passato più tempo in una cabina di pilotaggio che a terra.

Lo vide schiudere le labbra, come per parlare, per poi serrarle di nuovo in un gesto involontario di solito nascosto dalla visiera. Era facile tradirsi, fuori dal beskar. Il suo sguardo insistente lo indusse a dar voce al suo pensiero mentre avviava i motori con un coro di levette e pulsanti ad accompagnare la manovra.

«Non piace a nessuno. E credo ancora che sia unidea idiota. Quello shabuir non è degno di diventare...»

«Credevo ci fosse una gerarchia» lo troncò pronta Ruusaan, stavolta con un mezzo sorrisetto a smorzare il rimbrotto. «E delle regole. Dovresti sconoscere le Sei Azioni a memoria da quando avevi... quanto, cinque anni?»

Lui alzò brevemente gli occhi al cielo, in un gesto che lo fece sembrare molto più giovane dei suoi anni, retaggio residuo di un temperamento ben poco accomodante e facile allira, solo in parte smorzato dalletà.

«Qual era la Sesta?»

«Segui il Mand’alor, lo so!» puntualizzò acidamente lui, tirando con un po’ troppa forza una leva. «Beh, ho facoltà di seguire fedelmente il mio Mand’alor e ritenere comunque una sciocchezza le sue decisioni.»

Ruusaan gli concesse un cenno laterale del capo, a indicare che non aveva nulla da obiettare al riguardo. Daltronde, tra moglie e marito...

«Kat’ika sarà stata contenta di sapere che la pensi così» commentò comunque, e il sorriso le premette più vivace sulle labbra strette.

«Wayii, eccome. È finita a coltelli... ma abbiamo litigato in modo peggiore, e senza corazza» sospirò lui, pacatamente divertito.

Afferrò la barra di comando e mosse con agilità lattempata Cornucopia tra gli altri mezzi, verso la rampa di decollo coperta. Poi, fece un mezzo sospiro più simile a un lieve colpo di tosse. 

«Non condivido ciò che pensa... ma cerco di capirla, Motir. Dare una chance a Boba è come darla a Jango, in un certo senso.»

«Kat’ika non ha alcun motivo di sentirsi in colpa. Jango ha scelto la sua strada, e lei non era nemmeno nata, ai tempi di Galidraan.»

«E neanche Boba... ma è così, che funziona» alzò le spalle lui.

Ruusaan trattenne una replica di sterile frustrazione. Era esattamente così, che funzionava. Il passato gettava ombre troppo lunghe per sfuggirvi, anche per chi non aveva mai visto né conosciuto chi le proiettava. Ma era preferibile allessere del tutto inconsapevoli di vivere allombra delle gesta e degli errori di qualcun altro. Di questo, era assolutamente certa.

«Tu, piuttosto,» la fece trasalire Skull, mentre percorrevano il cunicolo duscita lampeggiante di luci di traiettoria, «devi selezionare qualche informazione?»

Ruusaan si irrigidì, serrando le mani sulle braccia, e provò limpulso di calcarsi in testa il buy’ce, gesto equivalente a una confessione. Sapeva di essersi tradita, durante lincontro con Nex, dopo aver appreso del massacro di Nevarro. Aveva passato la metà del tempo in un cupo silenzio, suscitato da fin troppi pensieri e congetture che le avevano inondato la testa. La annacquavano anche ora.

«Ovvero?» non si sbottonò, mentre acceleravano nel buio striato di rosso e blu, fino a schizzar fuori nel cielo grigio e congestionato dal traffico di Coruscant. 

Si accodarono a una delle corsie automatiche dirette verso il punto di salto più vicino, dietro a un cargo Mon Calamari che occupava da solo metà della visuale. Skull tacque finché non staccò le mani dai comandi, tenendo però lo sguardo fisso oltre il parabrezza in permaglass.

«Ovvero, questo Mandaloriano di Nevarro» ammiccò lui, in tono così falsamente neutrale da suonare ridicolo. «Ovvero, l’ennesimo problema.»

«Ci ha fatto un favore.»

Ci mancò poco che Skull strabuzzasse gli occhi.

«Un favore?»

«Ha ucciso Gideon.»

«Ha troncato la pista, e ha solo aumentato i nostri problemi. Magari adesso ce lha quel chakaar, la Darksaber. Conoscendo i cacciatori di taglie...»

«Conoscendo la Tribù, se è davvero uno di loro, non saprebbe nemmeno cosha tra le mani» tagliò corto lei, adombrandosi di riflesso al sol pensiero e ancor di più nel captare il verso di scherno del compagno. «Nel peggiore dei casi, la venderà al miglior offerente.»

«Kandosii! Nessun problema, allora!» sbottò lui, grondando sarcasmo. «Dimenticavo che ti piace affiliarti a gruppi di pseudo-Mandaloriani fanatici» la canzonò, innegabilmente accusatorio, ma con una tinta di veleno in meno rispetto al solito. 

Ruusaan non si risparmiò comunque unocchiataccia. Skull gettò in aria le mani, esasperato:

«Senti, sono strani, ma erano comunque nostri vode. Non erano davvero la Ronda, questo lo so anchio.»

Rusaan non disse nulla, ma quelle parole suonarono come delle scuse, seppur goffe. O delle condoglianze. Chiuse brevemente gli occhi. Udì il sospiro di Skull.

«Kat’ika mi ha detto che la tua divisione frequentava Nevarro. So che ci considerano praticamente degli eretici e che evitano qualunque contatto... quindi, se tu conosci davvero il Mandaloriano che ha fatto fuori Gideon, o la Tribù, o un qualunque modo per metterci in contatto con loro...» sinterruppe, inghiottendo a vuoto. «So che non vuoi parlarne, ma sarebbe un grosso aiuto.»

Ruusaan colse, nella visione periferica, lo sguardo chiaro di Skull farsi dun tratto meno spigoloso. Le informazioni sulla sorte della Tribù non erano state esaustive, ma comunque sufficienti a gelarle il sangue. Decine di caduti, il Rifugio saccheggiato, Bes sparita nel nulla, voci su Gideon.

Adesso, portava negli occhi scoperti il marchio di quellangoscia strisciante, di chi non sa ancora con totale chiarezza cosa si è perso.

«Può darsi. Tutte le Tribù vivono in clandestinità e non amano esporsi, ma avevo dei... contatti, lì» si costrinse a dire Ruusaan, con la gola improvvisamente secca.

«Famiglia?» chiese semplicemente lui, a voce bassa e quasi delicata.

«Non esattamente» mormorò lei, mentre sorvolavano il labirinto di grattacieli di Galactic City – per lei sarebbe sempre rimasta Galactic City – con troppi ricordi che le bussavano alla porta.


«Torni, giusto?»
Glielo chiede rigirando tra le dita il bossolo di un sibilante, seduto a gambe incrociate sul pavimento della forgia con gli occhi scuri e grandi intenti sul suo compito. Ha le sopracciglia lievemente aggrottate mentre li assembla, uno dopo l’altro, rapido grazie alle sue mani ancora piccole. Impara in fretta, è metodico. La concentrazione gli disegna una fossetta all’angolo della bocca.
Ruusaan deve imporre al proprio respiro di non condensarsi in gola. Assomiglia così tanto a loro da spaccarle in due i polmoni. Li ha perduti così tanto tempo fa da sembrare parte di un’altra vita, ormai.
«Torno, adika, come sempre. È solo unaltra missione. Tu aspettami qui e obbedisci a Bes, capito?»
Il sottofondo di martellate e ritmici clangori metallici si interrompe per un istante. Bes, a malapena visibile oltre il blu delle fiamme, rivolge a entrambi un rapido sguardo – una conferma, una rassicurazione, un rimprovero, con lei non è mai certo – per poi tornare al lavoro sull’incudine, l’elmo spinato che proietta ombre aguzze.

«Capito. Ti aspetto» dice lui, calmo, guardandola quasi sull’attenti.
Solleva appena un angolo delle labbra in un sorriso da adulto.
«Ketaab» aggiunge, con un briciolo d’incertezza nella voce, scacciato dagli occhi intensi, ed è la prima volta che è lui, a rivolgerle quelle parole: continua a marciare.
Sono un saluto, ma anche un augurio, una speranza, una paura mai non del tutto sopita.
Ruusaan sente su di sé lo sguardo di Bes. La seconda frazione di silenzio, stavolta accusatorio, le pesa addosso tra i colpi di martello. Ma risponde comunque, pizzicando con affetto il mento del suo bambino tra due dita guantate, in quella che forse non è l’ultima volta.
«Ketaab, adika



Ruusaan gettò fuori un respiro lento, perso nel cielo nebuloso di Coruscant.

«Diciamo solo che i legami complicano sempre le cose.»



 
 


Note:
– 
Gli Ubesi sono noti per essere estremamente prevenuti nei confronti delle altre specie, rasentando la xenofobia. Per un riferimento visivo, oltre che pratico: Leia si spaccia per Boushh, un cacciatore di taglie Ubese, quando si infiltra nel palazzo di Jabba.
– Da quanto si vede in Clone Wars, l’Assedio di Mandalore e la Battaglia di Coruscant (scatenata dal "rapimento" di Palpatine) avvengono praticamente in contemporanea; e così la Notte delle Mille Lacrime, ovvero la strage di guerrieri Mandaloriani citata da Gideon. Gli altri fatti relativi alla Ronda della Morte sono miei headcanon.
– Galidraan è un fatto volutamente lasciato in sospeso. In breve, fu uno scontro tra Jedi e Mandaloriani indotto con l’inganno dalla Ronda della Morte, al quale sopravvisse solo Jango. Per questo, Jango prova profondo rancore per i Jedi e la Ronda. Tutto questo sarà esplicitato più avanti nella storia, ma almeno pongo le basi :)
NB.  Ho inserito Boba in questa storia prima che apparisse nella seconda stagione della serie. Il suo ruolo è di conseguenza molto diverso, così come la caratterizzazione e la sua backstory. Non avrebbe senso fare la copia carbone di quanto abbiamo già visto, quindi godetevi gli sviluppi ;)

Glossario:
-chakaar: canaglia
-di’kut: idiota
-jai’galaar: Falco Urlatore, simbolo della Ronda della Morte e del Clan Vizsla
-Mand’alor: leader dei Mandaloriani
-shabuir: bastardo
-tutti i nomi terminanti in ’ika e in corsivo sono vezzeggiativi e/o soprannomi affettuosi. I Mandaloriani ne fanno larghissimo uso, in modo molto simile al russo (cosa ironica, visto che lo studio e mi perseguita).
-le frasi non tradotte troveranno spiegazione in seguito!


Note Dell’Autrice:

Cari Lettori, arrivo quasi puntuale con l’aggiornamento, purtroppo ci si è messa di mezzo la vita :’)
Allora, questo è un capitolo molto denso, me ne rendo conto, ma ribadisco ancora che tutti i nodi verranno al pettine. La trama deve ancora ingranare nel vero senso della parola, e la lunghezza dei capitoli si manterrà più o meno simile, con qualche eccezione. Spero che abbiate colto qualche indizio da questo capitolo, soprattutto dalla breve descrizione che do di Skull, che forse avrà fatto scattare qualcosa nella memoria visiva di qualcuno di voi. Spero davvero che la lettura vi sia piaciuta, e non abbiate remore a farmi sapere cosa ne pensate: ogni commento è gradito e sarò più che felice di fornire delucidazioni, se necessario :)

Grazie infinite alla mia Guascosa Miryel, sempre in prima linea manco fosse nella 501ª e a Old Fashioned e LadyOfMischief per aver commentato gli scorsi capitoli!
Alla prossima settimana,

-Light-

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Capitolo 8
*** Episodio 2: Tracce - Parte III ***


 
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Episodio 2
TRACCE

Parte III

 


 
“L’Impero, ormai, non è che un manipolo di dissidenti che ancora prova a fare la voce grossa nell’Orlo Esterno.
Lasciate fare a loro, Altezza, agli abitanti: sono sopravvissuti fino ad ora e continueranno a farlo, con o senza di noi.”

— Generale dell’Alleanza Glas Fassett a Leia Organa,
sei mesi dopo la disfatta dell’Impero su Jakku

 


 
Concord Dawn, Roccaforte dei Nite Owls, 9ABY

Lorizzonte dimezzato di Concord Dawn aggrediva il cielo col suo profilo aguzzo, punteggiandolo di detriti fluttuanti eternamente in orbita.

Dopo quasi ventanni in cui non aveva messo piede su quel pianeta, Ruusaan si era quasi aspettata di ritrovarlo intatto, come se le guerre continue avessero davvero potuto risanare il profondo morso che aveva scalfito via un quarto di emisfero, invece di rendere la sua superficie sempre più brulla e butterata dalle battaglie. 

Un grappolo di asteroidi si scontrò in lontananza, dividendosi a raggiera ognuno per la sua nuova traiettoria, e si formò una piccola pioggia di frammenti abbastanza grandi da poter devastare unabitazione. Il costante picchiettio contro le spesse vetrate in trasparacciaio era un sottofondo logorante per i suoi nervi già tesi.

Skull sembrava condividere il suo stato danimo, a giudicare dal modo in cui continuava a rivolgere il visore verso lalto soffitto della piazza darmi coperta e a stringere ritmicamente i pugni guantati lungo i fianchi, come se gli mancasse avere la presa sul manico di una vibrolama o sul calcio di un blaster. 

Avanzarono marciando in sincrono lungo lampia vetrata screziata dalle piogge di meteore, che affacciava su aride distese rossicce spaccate da profondi canyon. Due lune violette iniziavano a sorgere oltre il campo di asteroidi, creando un alone spettrale nel cielo indaco della sera, mentre la terza luna, la più brillante, rimase nascosta dagli alti picchi a nord-ovest. Ruusaan provò un tocco di nostalgia, nel rivederle.

Altri Mandaloriani in beskar’gam completa attraversavano di tanto in tanto lampio spazio col loro stesso passo marziale, da soli, in coppie o a gruppetti, seguendo quasi inconsciamente le linee dellesagono allungato che decorava il pavimento in metallo, dai riflessi freddi e grigio-azzurri. 

Ruusaan represse la tentazione di tirare le labbra con disappunto, come ogni volta che faceva tappa lì: il retaggio della futuristica Sundari, la più recente e male accettata capitale mandaloriana, era evidente in quella costruzione asettica e poligonale, priva dellapparenza dimessa, caotica, eppure solida dellantica città di Keldabe.

In fondo alla piazza darmi, una mezza dozzina di giovani guerrieri si esercitava nel Dha Werda Verda, sotto la guida di un alor più anziano. Il suono secco e ritmato delle placche metalliche delle armature che si scontravano tra loro arrivava fin laggiù, ad accompagnare quella feroce danza di battaglia che, anche adesso che era a riposo, le faceva ribollire il sangue nelle vene come fosse in prima linea, con un jetpack fiammeggiante sulle spalle e il corno da guerra mandaloriano che muggiva in sottofondo. 

Vide Skull rallentare e rivolgere brevemente uno sguardo verso i compagni, e seppe che aveva su di lui lo stesso, galvanizzante effetto.

«Ti serve un round di riscaldamento?» buttò lì, mentre raggiungevano i piedi di una delle due scale che, su ciascun lato della sala, portavano al ballatoio superiore a forma di U.

Udì il lieve clic del canale di comunicazione privata che veniva aperto, e la voce del compagno le risuonò direttamente nellorecchio:

«Magari dopo, se saremo ancora vivi.»

Ruusaan sbuffò divertita, ma non replicò, conscia che la loro Mand’alor non sarebbe stata molto più entusiasta di quando le avevano parlato qualche giorno prima via ololink, durante il rientro da Coruscant. 

Skull si era talmente alterato, subito dopo, che si era lanciato in un acceso monologo su quanto avere la Mand’alor per moglie fosse "una spina negli shebs", e che a quel punto avrebbe davvero accettato più volentieri "quel lacché Imperiale di Boba" a dettare ordini. Solo in un secondo momento sembrava aver realizzato chi fosse la sua interlocutrice, e aveva troncato linvettiva rivolgendole uno sguardo a metà tra lostile e limpacciato. 

Ruusaan si era limitata a sorridere con un pizzico di compiacimento, giurando poi sul proprio buy’ce di non riferire il tutto a Kat’ika – "per non compromettere il lavoro di squadra", ovviamente.

Skull aveva aperto uno spiraglio della sua armatura alla fiducia, in quei giorni di viaggio: era una di quelle persone che odiava e amava senza mezzi termini, ma in grado di passare rapidamente da un estremo allaltro se gli si fornivano motivazioni convincenti. Nel suo caso, gli era costato farlo: era evidente dal modo in cui le sue risposte continuavano ad essere brusche, in un riflesso automatico e non controllabile. ù

Ma, dal loro confronto a Galactic City, sembrava almeno cercare di moderarsi, al contrario dellaperto disprezzo con cui la trattava di solito, quelle poche volte in cui erano stati costretti a interagire prima dallora. E aveva la netta impressione che quella missione congiunta fosse un tentativo teleguidato di Kat’ika per far loro appianare i dissapori: nulla porta risultati – o omicidi – come svariati giorni di viaggio nella ristretta metratura di unastronave.

In verità, Ruusaan non poteva biasimare il compagno. Anche lei, a volte, vedeva in controluce i segni che la Ronda le aveva lasciato addosso. La puntata a Coruscant aveva solo contribuito ad accentuarli. In seguito, durante le lunghe ore di viaggio nelliperspazio, le era venuto naturale descriverli anche a lui, un graffio e una cicatrice alla volta, sottolineando quanto fossero simili a quelli che lui stesso portava incisi nel beskar. 

Skull si era limitato ad assentire, con gli occhi tormentati di chi si sente ancora lo spettro dellImpero addosso. La biasimava almeno quanto biasimava se stesso.

Il problema principale del suo vod era proprio quello: non voleva ammettere quanto in realtà fossero simili, loro due. Solo che lui poteva ancora portare a testa alta il simbolo dorato dei Protettori di Concord Dawn, mai soppiantato dallemblema Imperiale, mentre lei aveva grattato via a forza e coperto il jai’galaar della Ronda dallo spallaccio dellarmatura. 

A volte, ne sentiva comunque gli artigli nella carne. Era vero: non bastava una mano di vernice a cancellarlo. Ma forse, adesso, Skull avrebbe rispettato di più la scelta di coprirlo con largento, e dellobbiettivo e impegno che simboleggiava quel colore: redenzione.

Attraversarono il ballatoio, oltrepassarono la doppia porta blindata posta al suo centro, recante leffige di un Mitosauro, e avanzarono nella sala di comando. Era semideserta, se non per due inconfondibili figure in beskar’gam intente a parlottare silenziosamente nella privacy dei loro caschi, di fronte alle strumentazioni di rilevamento. 

Ordo, il secondo luogotenente dei Nite Owls, si voltò per primo verso di loro, con la malmessa e imponente armatura sanguigna che mandava riflessi cupi al lampeggiare dei radar accanto a lui. 

Guardò di nuovo la loro Mand’alor e si congedò subito dopo con un cenno del capo. Ne rivolse un altro a loro nel superarli, taciturno come sempre, e lasciò di gran carriera la stanza col suo incedere reso più ampio e imperioso dalla kama che gli scendeva in vita.

La porta si chiuse dietro di lui con un sibilo. Laltra figura in blu, più minuta, si tolse lelmo.

«Vi aspettavo giorni fa.»

Bo-Katan si voltò verso di loro, con un lampo di malcontento negli occhi verdi e lelmo incastrato tra braccio e fianco. Si allontanò dalla console, piantandosi di fronte a loro con la megalitica imponenza delle rupi di Keldabe, nonostante fosse più bassa sia di lei che Skull.

«La Cornucopia non è più in forma come un tempo» sospirò Ruusaan, controvoglia. «Abbiamo dovuto fare tappa su Ithor per rimetterla in sesto.»

Laltra inarcò impercettibilmente un sopracciglio, chiaro segno che la sua propensione a rottamare quella nave aumentava ogni giorno di più, ma non commentò. 

Si voltò invece verso Skull. Il suo sguardo si ammorbidì, poi alzò rapida sulle punte per colmare la differenza daltezza e poggiò brevemente la fronte scoperta contro quella del suo elmo.

Ruusaan distolse lo sguardo, non volendo turbare lintimità del momento, finché la Mand’alor tornò alla sua abituale compostezza. Skull emise un verso che suonò divertito, per poi rimuovere a sua volta lelmo; Ruusaan lo imitò, scrollando il capo per liberare la criniera di treccine come sempre fastidiosamente pressate tra loro.

«Credevamo di trovarti di cattivo umore» sorrise luomo, portando una rara luce ad ammansire gli occhi cerulei.

Bo-Katan represse a sua volta un sorriso, che tentò di emergere spontaneo nel rivedere il volto di suo marito, e sprofondò nellespressione più cupa con cui li aveva accolti.

«Lo sono. E non solo per gli scarsi risultati su Coruscant» aggiunse, la voce di nuovo affilata e netta, pronta a tagliare a suon di parole.

«Non li definirei "scarsi"» obiettò Skull, perdendo ogni stilla di brio. «Ordo ha portato cattive notizie?» chiese poi, con un cenno nella direzione in cui era sparito laltro Mandaloriano.

«Ha portato notizie

Bo-Katan eluse la domand e compì un mezzo passo indietro, verso la vetrata su cui si proiettava una mappa di quel settore. Dei lumicini blu lampeggianti indicavano il solito squadrone di caccia Kom’rk di pattuglia attorno a Concord Dawn e le sue lune... solo che questi sembravano diretti verso il punto di salto. 

Skull li seguì con lo sguardo, accigliandosi, ma non disse nulla: di solito, in quanto primo luogotenente, era lui a capitanare le ricognizioni dei Nite Owls fuori dal settore di Mandalore. Bo-Katan intercettò la sua occhiata, non abbastanza discreta.

«Una cosa alla volta, Fenn» lo ammansì, pronunciando il suo nome con quella particolare intonazione che oscillava tra il tono di comando della sua Mand’alor e quello non molto più conciliante di sua moglie.

Ruusaan, come sempre quando lo sentiva apostrofare in quel modo, non riuscì a scrollarsi di dosso un senso di spaesamento. Laveva conosciuto come Skull, un nomignolo retaggio della sua squadriglia ai tempi della Vecchia Repubblica. Per quando fosse ormai da tempo a conoscenza del suo vero nome, Fenn Rau, per lei era e rimaneva Skull, come un imprinting impossibile da rimuovere. 

E a lui stava più che bene così. Daltronde, Bo-Katan era lunica persona che potesse chiamarlo altrimenti senza rischiare un bacio di Keldabe in faccia. 

In quel momento, lex-Protettore compresse le labbra e le sue rughe sinspessirono. Non ribatté, ma i suoi occhi duri comunicarono chiaramente la sua poca propensione a lasciar correre.

«Ora, mi interessa sapere perché, in quasi sei mesi di ricerca, non siete riusciti a reperire nemmeno uno straccio di pista su Boba Fett» continuò la Mand’alor, rivolgendosi stavolta verso di lei.

Ruusaan strinse appena le dita sullorlo sul proprio buy’ce, capendo che i convenevoli da affiatati compagni darme erano terminati. Raddrizzò il mento, fissando quegli occhi di un verde brillante offuscato da battaglie e troppi anni passati a combatterle.

«Quella che ti abbiamo portato mi sembra una traccia più che valida.»

«Quale? Che "Boba Fett non è morto"?» scandì la donna, sopprimendo un sorriso sardonico. «Che gran novità. Avrei potuto chiedere al primo Hutt di passaggio e ricevere la stessa risposta.»

«In verità, ha tagliato ogni ponte con Tatooine. Prevedibilmente» aggiunse Ruusaan, a smorzare lironia quando si scontrò con locchiata pungente della sua Mand’alor. «Rimane il fatto che sappiamo con assoluta certezza che è vivo, adesso.»

«Nex è un di’kut, ma conosce lambiente delle taglie» intervenne con fermezza Skull, inaspettatamente in suo appoggio. «Pare che stavolta sia tornato sul serio, e che non sia solo lennesimo idiota con una beskar’gam verde addosso... meglio una sola certezza che mille voci e chiacchiere da Cantina.»

«Vero» concesse Bo-Katan, assottigliando le labbra in una linea pallida. «Nessuna idea sulle sue affiliazioni? O di dove si trovi, magari?»

Ruusaan si limitò a un piccolo scatto laterale del capo, a segnalare un chissà evasivo, lo stesso che avrebbe fatto con indosso lelmo.

«Probabilmente gente del sottosuolo. Nex ha accennato a qualche contatto su Nar Shaddaaa... se non sono gli Hutt, forse ha riesumato qualche superstite del Sole Nero o dei Pyke» buttò lì Skull, schiarendosi la voce arrochita.

Bo-Katan arricciò le sopracciglia in modo inquieto: le rughe sulla sua fronte si fecero più intense, delineando in altorilievo la sottile cicatrice rosea che la attraversava, assieme a decenni di preoccupazione e responsabilità, gli stessi che striavano di grigio il suo corto caschetto rosso. Inspirò forte dal naso e posò lelmo sulla console, le mani che andarono a incrociarsi dietro la schiena.

«Avete chiaramente un sospetto» li stanò, senza nemmeno battere ciglio. «Volete condividerlo?»

Il marchio netto e recente che le sfregiava uno zigomo sembrò accentuarsi e rosseggiare. Ruusaan trattenne locchiata di sottecchi che avrebbe voluto rivolgere a Skull – che, con ogni minuto che passava su Concord Dawn, era sempre meno Skull e sempre più Fenn Rau, e che aveva adesso assunto una postura quasi spavalda, reminiscente dei tempi in cui pattugliava costantemente quei cieli punteggiati da asteroidi. 

Adesso, teneva lo sguardo fisso su quegli stessi asteroidi oltre la vetrata, evitando gli occhi di sua moglie, come se potesse leggergli in volto la risposta.

Certo, che avevano un sospetto. Era emerso facilmente quando avevano messo da parte i dissapori personali per parlare di cosa, di preciso, avessero appena scoperto su Boba Fett. Avevano passato metà della notte costretta su Ithor a rivangare passati sepolti ed eventi che nessuno dei due aveva piacere a ricordare. 

La Battaglia di Coruscant e lAssedio di Mandalore. La Notte delle Mille Lacrime. La Grande Purga. Galidraan. Tutto sangue Mandaloriano che, goccia dopo goccia, aveva formato un impetuoso fiume vermiglio. Il massacro di Nevarro – che le toglieva il sonno ormai da giorni – ne era solo lennesimo affluente. E la mano che vi era dietro era sempre la stessa, anche se calzava guanti diversi, sempre neri come la pece.

Per chi lavorava Boba Fett? 

Una volta espresso ad alta voce, quel sospetto era sembrato solidificarsi a mezzaria tra loro, in una nube cristallizzata impossibile da ignorare. Nessuno dei due voleva lonere di riferirlo a Bo-Katan, consci che avrebbe distrutto qualunque idea di fosse fatta riguardo allintegrità morale cacciatore di taglie più leggendario in circolazione – al momento, a detta sua, unica speranza di Mandalore. 

Ruusaan inghiottì bile, prima di parlare:

«Cè la concreta possibilità che Fett abbia ripreso a lavorare per lImpero.»

Impero, disse a bruciapelo. Non "oppositori", né "superstiti", né "ex-Imperiali". Gettò sul tavolo della discussione quella parola attorno alla quale tutti avevano continuato ad aggirarsi in punta di piedi sin da Jakku. A quel punto, non aveva alcun senso ignorare il bantha nella stanza come stava tentando di fare la Nuova Repubblica.

Bo-Katan ebbe un lieve sussulto del capo, prevedibilmente, ma nulla di più. Le sfuggì però uno sguardo verso la porta. Ruusaan percepì un nodo allo stomaco, una stretta mortalmente familiare che non la agguantava dai tempi della Ronda. Quelle di Ordo, capì con un picco dallarme, non erano semplici "notizie".

«È quindi possibile che stia lavorando per Gideon?» chiese ancora la Mand’alor, a denti stretti, come se ne stesse azzannando il nome anche solo pronunciandolo.

Sintravide una sottile vibrazione della guancia sfregiata, ora più tesa, come se avvertisse ancora la spada laser che laveva intaccata.

«Pare che quello shabuir sia morto. Su Nevarro» disse Skull, altrettanto teso e col tono ammantato da un velo di rabbia scottante.

Stava visibilmente trattenendo limpulso di accostarsi a sua moglie, in una situazione in cui non erano coniugi, bensì Mando’ade vincolati da una gerarchia. Bo-Katan, però, sbottò in una risatina priva di gioia, metallica.

«Sembra che le informazioni viaggino a rilento, nel Nucleo... Gideon è vivo e vegeto» proferì quindi gravemente, rivolgendosi del tutto verso la vetrata col movimento macchinoso di un droide protocollare. «E, a quanto pare, è deciso a completare il lavoro iniziato su Mandalore.»

«Cosha scoperto Ordo?» la incalzò a quel punto Skull, anticipando Ruusaan.

Il loro secondo luogotenente era un informatore prezioso, uno dei pochi Cloni ancora in vita che aveva visto ogni guerra dai tempi della Repubblica coi propri occhi. Aveva fatto in modo che la rete di Cloni disertori e Fulcrum dellepoca imperiale mantenesse tuttora maglie molto solide: se cera qualcuno in grado di reperire informazioni scottanti sullImpero, era Ordo Skirata.

Bo-Katan respirò a fondo, e gli spallacci metallici della beskar’gam assecondarono il movimento – uno nero antracite, uno blu come il resto della corazza, dove spiccava la V bianca e scrostata dei Nite Owls.

«Sembra che Onderon sia in subbuglio. Un "signore della guerra" ha preso il controllo della capitale Iziz qualche mese fa... ci sono stati scontri violenti e gli ex-fedelissimi di Saw Gerrera hanno approntato una resistenza in tempo record. È accaduto tutto in sordina, tanto che la Repubblica non ha nemmeno registrato laccaduto sui suoi radar. O almeno, non lha reso pubblico per non seminare il panico.»

Fece una pausa, squadrando entrambi negli occhi, quasi a sottolineare il peso di ciascuna parola che stava pronunciando.

«I contatti di Ordo sul posto hanno riportato avvistamenti di caccia TIE ed emblemi simili a quelli imperiali. E di Gideon» terminò, seccamente. «In un primo momento, sembrava che si fosse solo rifugiato lì per leccarsi le ferite... ma, evidentemente, ha deciso di fare le cose in grande dopo lo smacco di Nevarro.»

«Osik» riuscì soltanto a imprecare Skull con metà della voce, che suonò meno profonda del solito.

Ruusaan avvertì un malsano senso doppressione al petto e spostò lo sguardo oltre la vetrata, verso gli spazi aperti e devastati dei campi un tempo fertili di Concord Dawn. Le sembrarono uno specchio fin troppo realistico di ciò che sarebbe potuto accadere su Onderon. O Mandalore. O Nevarro. Non volle pensare alla distruzione totale di Alderaan: si rifiutò di lasciar prendere forma a quel pensiero.

Perdere Onderon, da sempre roccaforte dei più feroci oppositori dellImpero e di chiunque si credesse abbastanza potente da poter spadroneggiare nella Galassia, voleva dire sottrarre un organo vitale alla Nuova Repubblica. E a loro stessi, a quei Figli di Mandalore allo sbando che avevano perso casa, famiglia e onore alle mani dellImpero, e che ancora faticavano a fare fronte unito.

«Preparatevi, vode an» mormorò Bo-Katan, con un velo di solennità forzata che rimandava ad antichi canti di guerra mai del tutto dimenticati. «Sappiamo tutti cosa significa.»

Ruusaan deglutì a secco. Improvvisamente le pareti in durasteel della base non le sembrarono più così solide, al pensiero dei blaster da assalto di uno Star Destroyer imperiale.

Fenn Rau concluse la frase, con uno schiocco che risuonò più chiaro delle fauci di un sarlacc:

«Si stanno riorganizzando.»
 


 


 

Note:
– Concord Dawn è un pianeta del settore Mandaloriano, alleato storico di Mandalore. È stato devastato dalle guerre e ha perduto una parte di emisfero.
– Tecnicamente, i Nite Owls sono la divisione d’élite della Ronda della Morte, dalla quale si è poi scissa in modo violento. In questa storia è andata ad accogliere/inglobare tutti i Mandaloriani sopravvissuti alla Grande Purga.
NB.1 Alcuni riferimenti/coincidenze con le puntate della seconda stagione sono puramente casuali. L’unica aggiunta a posteriori, che non potevo non mettere, è "l’idiota in armatura verde", riferimento a Cobb Vanth (ovviamente la cronologia non segue quella della serie).
NB.2 Sì, quella è Bo-Katan Kryze, canonicamente Mand’alor in Rebels. Sì, quello è Fenn Rau, ex-membro dello squadrone Skull (ah!) durante le Guerre dei Cloni e poi Protettore di Concord Dawn in alleanza con l’Impero. No, i due non sono canonicamente sposati, ma io li shippo come se non ci fosse un domani, quindi stateci ♥ 
NB.3 Ho finalmente citato il titolo, non siete contenti? È un canto di guerra Mandaloriano. A voi le conclusioni :D


Note dell’Autrice:

Cari Lettori...
ammettetelo, le note vi erano mancate :’D (Trovate anche il Glossario a piè di pagina, che Fenn è un birbante e parla un sacco in Mando’a!) I nodi stanno venendo al pettine, come vi avevo promesso! Questo capitolo è in realtà solo la prima parte di una scena molto più ampia, ma visto che stavo già rasentando l’infodump ho preferito dividerlo in due e concludere così anche il terzo episodio.

Per quanto riguarda i nostri Mandaloriani... io vi avevo avvertito, che la loro politica interna è un delirio. E vi assicuro che ho semplificato molto. Spero che sia risultato tutto chiaro, ma il riassuntazzo brutto [cit.] è questo: al momento sono allo sbando e nessuna fazione va d’accordo con le altre, ma la Ronda della Morte e l’Impero sono detestati all’unanimità da tutti. Boba è una carta matta e la/le Tribù fa parte a sé. Ma a quello ci arriveremo, e arriveranno anche i perché e i percome siano così "particolari" e abbiano usanze diverse (sempre secondo miei headcanon, perché ufficialmente non è stato detto ancora nulla in proposito). EDIT: l’hanno detto e avevo ragione!
Vi preannuncio che nel prossimo capitolo si scoprono MOLTI altri altarini, quindi brace yourselves!

Grazie di cuore a Miryel, AMYpond88, OldFashioned e leila91 per aver recensito lo scorso capitolo ♥
A presto,

-Light-



Glossario:
-’ika: suffisso vezzeggiativo (Bo-Katan-> Kat’ika)
alor: capo/comandante
beskar’gam: armatura
buy’ce: elmo/casco
Dha Werda Verda: lett. Ira dei Guerrieri-Ombra. Avete presente la danza haka Maori? Ecco, è una cosa simile, ma con l’armatura addosso e molti lividi in più.
di’kut: idiota
Mand’alor: leader dei Mandaloriani
Mando’ad(e): Figlio/i di Mandalore, Mandaloriano/i
osik: merda
sen’tra: jetpack
shabuir: canaglia, bastardo
shebs: chiappe
vod(e): fratello/sorella (in Mando’a le parole non hanno genere)

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Capitolo 9
*** Episodio 2: Tracce - Parte IV ***


 
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Episodio 2
TRACCE

Parte IV

 


 
“Come vostro Mand’alor, vi convoco su Kamino.
Partite subito, in segreto, e non rivelate a nessuno la vostra destinazione, nemmeno ai vostri clan.
Da questo momento, siete 
Cuy’val Dar – non esistete più. Il futuro di Mandalore pesa sulle nostre spalle.
Oya manda.
— Jango Fett in un messaggio criptato ai suoi guerrieri più fidati,
dopo aver accettato il contratto dei Cloni su Kamino, ca. 30 BBY

 

 

«Si stanno riorganizzando.»

Il silenzio che seguì le parole di Fenn fu assordante, interrotto solo dal lieve picchiettare dei detriti sulle vetrate. Ruusaan fu la prima a romperlo, nonostante la gola ostruita:

«Quella pattuglia di Komrk...»

«Sì» la anticipò subito Bo-Katan. «Sono diretti a Onderon; altri si stanno preparando a partire per Mandalore.»

«Mandalore?» ripeté Ruusaan, perplessa.

Il loro pianeta era pressoché disabitato sin dai tempi della Grande Purga, se non per qualche sparuto clan di irriducibili e una piccola comunità a Keldabe. Sundari, poi, era una fortezza della Nuova Repubblica più simbolica che funzionale, ma comunque ferocemente protetta alla stregua di un trofeo. 

Dubitava che, con Onderon come nuovo fulcro operativo, lImpero avesse qualche interesse in quelle lande desolate punteggiate da fitte foreste, soprattutto dopo aver spogliato la superficie del pianeta e della sua luna di ogni vena e pagliuzza di beskar.

«Non voglio lasciare niente al caso. Lultima volta che abbiamo sottovalutato il pericolo "interno", abbiamo quasi perso tutto» sottolineò Bo-Katan, con un velo di mestizia ad ovattare la sua voce.

«Temi un ritorno della Kyr’tsad?» chiese Fenn, sillabando con enfasi sprezzante quella parola spigolosa.

Ruusaan irrigidì le spalle. Era ormai raro sentir pronunciare il nome della Ronda della Morte in Mandoa, come se si volesse gettare quella parte di storia nel dimenticatoio, negandole qualunque connessione con la loro cultura. Personalmente, provava un senso di disagio ogni volta che accadeva. 

Anche Bo-Katan sembrò abbastanza turbata – dopotutto, era anche il suo passato, ed era anche la sua ombra – ma replicò senza la minima inflessione:

«Ironicamente, Gideon potrebbe davvero averci fatto un favore e averli sterminati tutti. In pratica, sappiamo come funziona la tattica del bas’an shev’la. La Ronda lha messa impeccabilmente in atto più di una volta, sparendo e poi risorgendo dalle ceneri nel momento meno indicato.»

«Stavolta dobbiamo soffocarli sul nascere» intervenne Ruusaan, con molta più veemenza di quanto avrebbe voluto.

Si attirò lo sguardo di entrambi. Poté giurare che in quello di Fenn brillasse una scintilla di approvazione, mentre Bo-Katan si limitò a incupirsi, tentennando per una frazione di secondo.

«Lintento è quello. Sto inviando una squadriglia a Kyrimorut: se cè qualcuno che può aver notato irrequietezza su Mandalore, è il clan Skirata. Ordo sta preparando giusto ora il suo caccia.» Si rivolse quindi al marito: «Fenn, ho dato lordine di decollare per Onderon appena pochi minuti prima che tu e Ruusaan arrivaste. Potresti riuscire colmare il distacco, se partissi adesso...»

Luomo esitò, facendo sfrecciare lo sguardo prima allesterno, verso il cielo, e poi di nuovo su lei con fare guardingo. Anche Ruusaan aveva percepito quella sottile tensione nella voce di Bo-Katan, che faceva presagire un continuo della frase lasciato in sospeso.

«Ci hai di certo visti arrivare da prima» osservò infine lui, riassestando lelmo contro il fianco. Le sue sopracciglia rossicce si incresparono, gettando in ombra gli occhi chiari. «Eppure, hai comunque lasciato il comando della pattuglia a qualcun altro.»

La Mand’alor serrò le labbra e parve colta in fallo, anche se la sua postura rimase diritta come un fuso, con le spalle ben stagliate contro il cielo violetto di Concord Dawn. Tenne lo sguardo fisso oltre la vetrata, per poi puntarlo su di lui di scatto, con un guizzo delle ciocche ramate.

«È troppo personale. Non ti vorrei dovè Gideon. Io stessa ho rinunciato a recarmi su Onderon di persona, anche se avrei ottimi motivi per farlo» concluse, inclinando il capo dal lato della cicatrice, col gelo che si annidava in ogni parola a nascondere il rancore bruciante. «Ma sei il mio primo luogotenente, e non posso privare a priori la flotta della tua guida.»

Ruusaan preferì tacere, percependo lelettricità statica che andava ad accumularsi tra i due Mandaloriani, creando nubi di tempesta opprimenti, come quelle che si erano lasciati alle spalle nel sottosuolo di Coruscant.

Skull – Fenn sembrò meditare su quanto appena sentito: il rimescolare dei suoi pensieri era quasi udibile nel modo in cui la sua mascella di serrava e allentava ritmicamente. Le sue pupille divennero mobili e irrequiete, prendendo a scrutare il volto della moglie fino a fissarsi nei suoi occhi. Era una battaglia dorgoglio e testardaggine allultimo sangue.

«Non andrò su Onderon» dichiarò infine lui, con un secco, forzato cenno dassenso. «Non sono certo di poter evitare uno scontro diretto, ritrovandomi Gideon davanti... lo ucciderei con le mie mani. Ma so che non possiamo permetterci errori.»

«Vale anche per me. E no, non possiamo» concordò Bo-Katan, tetra, ma visibilmente sollevata dallarrendevolezza dellaltro, di certo non scontata. «I redivivi seguaci di Gerrera sono già degli alleati abbastanza difficili. Dobbiamo procedere con cautela, o rischieremmo di perdere la poca stabilità che siamo riusciti a costruire finora. Non siamo in grado di sostenere lennesima guerra civile.»

Stavolta anche Ruusaan annuì assieme a Fenn, rassicurata a sua volta dal buonsenso di entrambi. Stava stringendo con tanta forza lelmo che iniziavano a dolerle le dita. Da quando aveva scelto, soffertamente, di seguire Bo-Katan, cercando di scrollarsi di dosso il proprio passato di sangue, era sempre stata conscia dellenorme posta in gioco: Mandalore, e il futuro di tutti i suoi figli. 

Ma non avrebbe mai immaginato che avrebbe assunto le dimensioni dellintera Galassia. Perché era di questo, che stavano parlando: un ritorno dellImpero, seppur scheletrico e putrescente, avrebbe messo a rischio molto più della sola Mandalore. Le sue grinfie ossute stavano già strangolando i pianeti più dimenticati dellOrlo Esterno: Nevarro ne era una prova insanguinata. E Onderon era un segnale di pericolo che andava colto immediatamente.

«Parto per Mandalore» disse in quel mentre Fenn, in tono stavolta perentorio.

Poteva anche essere disposto a cedere un poco, con sua moglie e Mand’alor, ma non del tutto e non sempre. La sua espressione tirata esprimeva chiaramente la sua inamovibilità in merito. Bo-Katan si accigliò, per poi sciogliersi sorprendentemente in un mezzo sorrisetto che nascondeva una punta di compiacimento.

«Non ti trattengo. Ordo ha già direttive di aspettarti nellhangar.»

A quel punto, Fenn si rimangiò un mezzo sospiro, realizzando che, come sempre, Bo-Katan si dimostrava un passo avanti a tutti.

«Farò comunque finta che sia stata una mia decisione» sottolineò, indicandola a mo di rimprovero, in un azzardo di confidenza. «Motir? Tu sei dei nostri?» aggiunse poi, voltando a malapena il capo, come se fosse scontato.

Ruusaan scoccò unocchiata alla Mand’alor, frenando il "sì" spontaneo che era stata sul punto di pronunciare: erano anni che non metteva piede su Mandalore. La sola idea portava con sé ricordi dolorosi, certo, ma anche dolci. Dopo essersi lasciata Eriadu alle spalle, era diventata quanto di più simile a una casa e, in cuor suo, non vedeva lora di tornarvi e di perdersi nelle viuzze malmesse ma accoglienti di Keldabe. 

Bo-Katan, però, scosse la testa, assumendo unespressione che non sembrava quella di un comandante, ma di una commilitone costretta a dire qualcosa di spiacevole.

«La vostra missione congiunta termina qui. Ruusaan, tu rimani assegnata alla ricerca della Darksaber e di Boba Fett.»

Ruusaan fece appena in tempo a battere le palpebre, tentando di assimilare ciò che aveva appena sentito, quando venne assordata:

«Me’ven?!» proruppe Fenn, a voce decisamente troppo alta.

Bo-Katan gli rivolse uno sguardo che parve sfrigolare sulla sua armatura, senza però frenare di un millimetro il suo impeto. In quel preciso istante, Ruusaan fu certa che avrebbe assistito al degenerare della discussione in uno scontro vero e proprio. 

Era raro vedere la loro Mand’alor infuriata, tanto meno in modo plateale; Fenn Rau era una delle poche persone in grado di farle perdere le staffe, crepando la patina di compita imperturbabilità che la ammantava.

Sapere di essere esattamente nel mezzo tra due suoi superiori, nonché consorti, le faceva desiderare di essere finita a far compagnia a Boba nella gola del sarlacc, con buona pace alla salvezza di Mandalore e della Galassia.

«Quel figlio di bantha?» riattaccò Fenn, con un gesto imperioso del braccio. «Spero tu stia scherzando! Abbiamo passato mesi inutili dietro a–»

«Comandante Rau, ricomponiti» lo avvisò lei, stavolta tagliente come una lastra di ghiaccio.

«“Comandante Rau
” un corno, Kat’ika! Stai sprecando tempo e risorse per un dar’manda!»

Gli zigomi di Bo-Katan sinfiammarono, tingendo di scarlatto il suo volto pallido.

«Sarò io a decidere se Fett è ancora un Mandaloriano, quando finalmente me lo ritroverò davanti e potrò interrogarlo e giudicarlo personalmente!» si alterò a sua volta, con la voce alle soglie del grido.

Si scostò di un passo dalla vetrata, fronteggiandolo. Fenn imitò il movimento, specularmente, dando lidea di due akk da combattimento che si giravano cauti attorno nella loro fossa, attendendo unapertura nella guardia dellaltro per azzannarlo.

«Mandaloriano o meno, lo riconoscerò come mio Mand’alor quando Tatooine ghiaccerà!»

«Allora puoi anche tornartene a svolazzare sotto la protezione dellImpero come facevi prima, per quanto mi riguarda!»

Fenn a quelle parole illividì, con un tremito dira che gli attraversò il labbro e ridusse a fessure i suoi occhi.

«Bene» sibilò, e si calcò quindi lelmo in testa in segno di sfida, senza aspettare che la Mand’alor lo autorizzasse facendolo per prima. «Continua pure a preoccuparti per un traditore: io vado a fare qualcosa di realmente utile per il nostro popolo.»

E, prima che Bo-Katan potesse richiamarlo allordine, marciò fuori dalla sala di comando a passo di carica, pestando così forte gli stivali da far tintinnare cupamente la beskar’gam. La quiete che si lasciò dietro fu quasi opprimente, e Ruusaan si sentì quasi fischiare le orecchie.

Bo-Katan sospirò, così a fondo da potersi far scoppiare il petto nonostante il beskar. Ruusaan, in tutta risposta, portò un braccio a cingersi il busto, vi puntellò un gomito e si sfregò la fronte col palmo, accogliendo a sua volta un respiro in attesa che la Mand’alor riprendesse la calma e il discorso.

«Laveva presa fin troppo bene» esalò infine questultima, ancora furente, ma in tono decisamente più controllato.

Si risistemò la fascia metallica che le cingeva la fronte, dalla quale era sfuggito qualche capello nella foga del diverbio.

«Sta andando su Onderon, vero?» si azzardò a commentare Ruusaan, più che chiedere.

«Non sarebbe mio marito, altrimenti» sbuffò lei, piantandosi i palmi sui fianchi. «Grande Mandalore... se continua così, mi costringerà a destituirlo.»

Ruusaan pensò tra sé che gli estremi cerano tutti, matrimonio o meno. Non le nascose uno sguardo interrogativo: Bo-Katan non era solita sorvolare su certe ruvidezze di Fenn, tantomeno in situazioni delicate come quella. Il loro equilibrio funzionava solo grazie alla reciproca inflessibilità, che veniva meno nelle piccole cose, ma mai in faccende che riguardassero tutti.

«Non lo faccio solo perché, stavolta, non ha tutti i torti» si pronunciò infine, cogliendo la sua occhiata e tirando le labbra in una smorfia riluttante ad ammettere quel fatto.

«Ho anchio le mie perplessità su Boba» le confermò Ruusaan, conscia di camminare sul sottile filo della sua pazienza residua, ma laltra non sembrò risentirsi. «Anche se cercarlo adesso ha sicuramente più senso di prima. Se davvero ha collaborato con lImpero, avrà visto la Grande Purga dallaltro lato della barricata. Oltre, forse, al crollo dellImpero stesso. E tutto ciò che ne è conseguito» concluse, inclinando un poco il capo e scrutando la propria leader di sottecchi.

Bo-Katan le riservò un lieve sorriso che portò un brillio nelle sue iridi penetranti.

«Almeno tu mi segui. Rintracciarlo, ormai, esula dal suo possibile ruolo: potrebbe avere informazioni vitali sia su Gideon che sullImpero, senza contare la Darksaber... con Onderon in tumulto, è di vitale importanza capire se sia ancora in mano sua o se sia rimasta su Nevarro.»

Fece una breve pausa, e Ruusaan presagì il continuo. 

«Per questo mi rivolgo a te. Conosci il terreno.»

Ruusaan deglutì il più discretamente possibile, tornando a percepire il costante peso in mezzo alle spalle ogni volta che sentiva nominare quel pianeta a cui era indissolubilmente legata.

«Lo immaginavo.»

Bo-Katan recuperò lelmo, calcandoselo in testa e facendole poi un cenno del capo verso la porta.

«Facciamo due passi. Ci sono un paio di cose di cui ti devo parlare.»


 
 

Uscirono sul camminamento di guardia esterno e vennero accolte dal vento battente che sollevava la polvere in nuvole rossastre, spazzando la distesa inospitale alle propaggini della superficie ancora intatta.

Il pulviscolo e i frammenti rocciosi tintinnavano contro i loro visori, confondendosi col suono metallico dei guerrieri ancora intenti nel Dha Werda Verda alle loro spalle. Quel suono ritmato scemò del tutto non appena la porta si richiuse dietro di loro.

Bo-Katan si avviò lungo il percorso che si snodava attorno allintero edificio. Era un vecchio granaio industriale, abbandonato sin dai tempi della catastrofe di Concord Dawn e riadattato nel corso dei decenni a base operativa dei Nite Owls – e di chiunque volesse seguirli.

Ruusaan le si accodò, afferrando un lembo della cappa quando prese a schioccare e dimenarsi seguendo le violente folate. Si fermarono sul tratto di camminamento sovrastante lingresso principale: nellarea antistante sostavano diversi Kom’rk, sia caccia che da trasporto, con la tipica forma a tre punte della chiglia che ricordava vividamente il simbolo della Ronda.

Bo-Katan non si era fatta problemi a riutilizzare tutte le risorse e le attrezzature di quei tempi bui: gli emblemi del falco urlatore in picchiata erano stati grattati via dagli scafi, il beskar e il durasteel delle armature riverniciato – lei aveva però mantenuto il blu della propria, asserendo che il suo significato era più che adatto alla propria missione: affidabilità.

La Ronda aveva distorto quel concetto, tradendo la fiducia di tutti e ponendosi come unica, violenta speranza di salvezza per Mandalore; ma Bo-Katan era più che decisa a far sì che quel blu tornasse a trasmettere il suo messaggio originario agli occhi di tutti.

Ruusaan la ammirava per quella scelta caparbia: lei, invece, dopo la Battaglia di Coruscant non era stata in grado di sopportare la vista della propria beskar’gam... né aveva potuto correre il rischio di essere riconosciuta come membro della Ronda dopo ciò che aveva fatto. Il fatto che condividessero quel passato era il principale motivo per cui lavrebbe seguita fino a Malachor o in un buco nero, se necessario.

La Mand’alor rivolse uno sguardo al cielo ormai tinto del rosso purpureo del tramonto concordiano, per poi soffermarlo oltre lampia vetrata che affacciava allinterno della piazza darmi.

Inconsapevolmente, presero entrambe a osservare la piccola formazione di guerrieri che eseguiva con foga le ultime mosse della danza di battaglia. In testa, in automatico, le risuonarono le parole corrispondenti a ogni passo, e si sorprese a sillabarle in silenzio.

Infine, i loro compagni ruppero le righe come un sol uomo, sfiatati per lo sforzo, e presero a parlottare tra loro, chi nella quiete dei propri caschi, chi faccia a faccia, anche con una fiaschetta di tihaar corroborante alla mano.

«Possa non arrivare mai il giorno in cui torneremo a danzarla sul campo di battaglia» mormorò Bo-Katan, la voce resa più profonda dal vocoder del casco.

Ruusaan si voltò verso di lei, interrogativa. Bo-Katan Kryze non era una guerrafondaia, soprattutto non dopo i trascorsi nella Ronda, ma non poteva nemmeno essere definita una pacifista. Lei si accorse del suo sguardo e inclinò la testa in un modo che suggeriva un sorriso nostalgico.

«È quello che diceva spesso mia sorella, allinizio del suo mandato» spiegò allora. «E lo condivido... ma non si vincono le guerre facendosi da parte e lasciando che siano altri a combatterle.»

«Onderon?» capì al volo Ruusaan, con linquietudine che riprendeva a tormentarle lo stomaco.

Un ritorno dellImpero era inconcepibile. Avvertiva risalire il terrore degli anni più torbidi della sua egemonia come degli aghi ghiacciati sulla nuca: tutto quel tempo passato in fuga, braccata dalla Ronda e dagli Imperiali, costretta a recidere ogni legame che avrebbero potuto tranciare loro per primi solo per il gusto di vederla soffrire.

Non era stato nemmeno un "addio silenzioso", il suo: non aveva avuto nessuno a cui ricongiungersi, se non chi avrebbe messo inesorabilmente in pericolo. Non metteva piede su Nevarro da quel giorno lontano.

«Non verranno abbandonati» la riscosse Bo-Katan, con fiera determinazione. «E noi non ci lasceremo sfuggire loccasione per annientare Gideon. Prima, però, dobbiamo capire la sua forza, e quanto è davvero pericoloso.»

«Prendere Iziz non è un fatto da poco, considerando il retaggio di Gerrera. Sono spietati. Gideon deve aver raccattato ogni singolo superstite di Jakku in giro per la Galassia.»

«Oppure, ha reclutato nuove leve.» Bo-Katan congiunse le mani dietro la schiena, serrando un polso nel pugno. «Non è una novità che vi sia malcontento per la gestione lacunosa della Nuova Repubblica. LOrlo Esterno è abbandonato a se stesso e alle Gilde. Quanto può essere brutto arruolarsi, quando si muore di fame?»

Ruusaan sospirò a quella verità amara. Prima che potesse aggiungere altro, due caccia Kom’rk decollarono alle loro spalle, squarciando il cielo col fischio acuto dei loro motori.

Si divisero dopo poche centinaia di metri, diretti a diversi punti di salto. Bo-Katan concentrò lo sguardo verso uno dei due, segnato da striature dorate, e continuò a seguirlo finché non diventò un puntino confuso a quello degli asteroidi fluttuanti nellorbita.

Scosse appena la testa, rilasciando un respiro costretto che causò unonda statica fuori dallelmo. La sua apprensione per il marito era palpabile, nonostante Fenn fosse un guerriero esperto e uno stratega più che competente.

Ma stavano pur sempre parlando di Gideon e, per quanto i Mandaloriani nascondessero dietro al beskar emozioni e debolezze, rimanevano dindole vendicativa. Avere legami e trascorsi personali nel contesto di un incarico aumentava la percentuale di rischio ed errori.

Fenn serbava più di un rancore verso Gideon: era cristallino dal modo in cui i suoi occhi si infiammavano ogni volta che sfioravano la cicatrice della moglie.

«Onderon ha ora dalla sua parte uno dei nostri combattenti più validi» dichiarò infine Bo-Katan, fermamente, ma con una stilla di melanconia a inquinarle la voce. «Oya manda

«Oya manda.»

Ruusaan si unì a sua volta allaugurio, fissando il cielo nella direzione in cui era sparito il caccia. Fenn Rau avrebbe avuto bisogno di tutto il supporto e la fortuna possibili.

La Mand’alor si voltò quindi verso di lei, rivolgendole le fessure strette e oblunghe del suo elmo decorato. Ruusaan aveva sempre limpressione che gli occhi di gufo dipinti sulla calotta la scrutassero come un qualcosa di vivo e senziente. Non accennò a togliersi il casco e passò al comlink privato, sottolineando la riservatezza dellargomento.

«Tornando a Boba Fett. I miei ordini sono semplici: lo voglio il prima possibile, e lo voglio vivo,» scandì, tornando al suo compassato tono di comando. «So che non condividi il mio pensiero. Nemmeno io sono entusiasta allidea di cedergli, eventualmente, il comando... ma la situazione sta precipitando e noi siamo a corto di risorse.»

Ruusaan trattenne un moto di stupore a quella confessione, serrando le labbra sotto al beskar. Bo-Katan sapeva essere una leader comprensiva, ma non era quel tipo di leader che condivideva la logica dietro ai suoi processi decisionali, né tanto meno propenso ad ammettere la precarietà di una situazione.

«Trovo difficile credere che Boba sia tornato con lImpero, una volta decaduta la sua diatriba con Solo... non sarebbe nemmeno il primo Mandaloriano che non guarda la mano che gli porge i crediti» si pronunciò infine, pesando ogni parola con la stessa cautela che avrebbe usato con una bilancia da coaxium. «Ma adesso? Cosa ci guadagna? È letteralmente morto per loro.»

Bo-Katan scrollò le spalle, senza rispondere.

«E ti stupiresti davvero se non volesse avere nulla a che fare con noi? La Ronda ha massacrato il suo clan, allepoca.»

Laltra tacque ancora per pochi, lunghi istanti, interrotti dalla cadenza lieve del suo respiro teso che risuonava nellelmo.

«No. Ma abbiamo bisogno di lui. Non siamo più i Mandaloriani di un tempo... e,in effetti, hai appena individuato il problema: la maggior parte dei Nite Owls proviene dalla Ronda o da affiliazioni Imperiali. Per quanto possiamo lottare e invocare la regola del campo bianco, non tutti i clan sono disposti a concedercela.» Serrò le mani sulla balaustra, scrutando la distesa inospitale che scivolava sempre più nelle ombre della sera. «Se possibile, siamo ancora più divisi rispetto alle Guerre dei Cloni: almeno, allepoca ognuno sapeva per cosa stesse combattendo. Adesso molti di noi nemmeno hanno più una battaglia... si limitano a sopravvivere.»

«È ciò che facciamo sempre» ribatté pronta Ruusaan, impettendosi. «Aspettiamo tempi migliori, pronti a riunirci. È stato così per millenni.»

Quelle parole strapparono un sorriso teso a Bo-Katan.

«Vero. Ma a cosa serve, se non riusciamo a riunirci davvero? Io non ho più lautorità per farlo... ho perso ogni rispetto assieme alla Darksaber, se non per quello di voi pochi.»

«Kat’ika» la riprese Ruusaan, abbandonando per un momento le formalità e rivolgendosi a lei come se fossero ancora giovani commilitoni in una causa sbagliata. «Non è la Darksaber a fare di te la Mand’alor. Non la impugnavi, quando ti sei scissa dalla Ronda, né quando ti sei schierata contro lImpero e per la riconquista di Mandalore.»

«No, ma la impugnavo quando ho deciso di fidarmi dellAlleanza per riavere Manda’yaim, condannando di nuovo il nostro popolo a sottostare a leggi e decisioni altrui» sbottò lei, gettando fuori un sospiro frustrato. «Ci hanno abbandonato, come è sempre successo. Gideon non ci avrebbe mai sopraffatto, se noi non avessimo abbassato la guardia. E se fossimo stati uniti

A quel punto, portò le mani allelmo, rimuovendolo. Ruusaan la imitò con un istante desitazione. Pieghe rigide andarono a incresparle la fronte.

«Credi davvero che gli altri Mandaloriani seguirebbero la mia guida, adesso?» continuò poi, con gli occhi accesi in egual modo da sconforto ed energia. «I Wren e i Saxon? I Vizsla e i Kryze? Le Tribù e i Protettori e i Cloni? Seguire una sconosciuta, sconfitta da uno scarto Imperiale, che indossa una beskar’gam in durasteel?»

Diede una schicchera alla corazza, che risuonò sorda, contro il tintinnio argentino del beskar, e scosse seccamente la testa facendo ondeggiare i corti capelli in riflessi di fiamma.

«Devo offrire unalternativa.»

«E sarebbe Boba?»

«È un Fett. Il suo clan è leggendario, sin dai tempi della Battaglia di Galidraan. Adesso che la verità sullOrdine 66 è venuta alla luce, i pregiudizi verso Jango sono cambiati. Non si è mai venduto alla Repubblica... anzi, il suo unico obbiettivo era quello di liberarcene. Per quanto la sua visione dei Jedi fosse distorta, ha compiuto il suo dovere di Mand’alor fino alla fine. Boba, in quanto suo figlio ed estraneo a qualunque evento della guerra civile, è lunico che potrebbe riunirci, a prescindere dal clan e dalla fazione. È neutrale.»

Ruusaan si ritrasse un poco allindietro e compresse le labbra a quellultima affermazione, con vecchi, ancestrali rancori che le tornarono alle labbra in una bolla di rimprovero:

«Così vorremmo credere. Ma se dovessimo scoprire che ha servito lImpero durante la Grande Purga?»

Bo-Katan simulò un sorriso mesto:

«La regola del campo bianco vale per tutti, ner vod.» La fissò severamente, con uno sguardo al suo spallaccio destro, dove un tempo volava il Falco. «Ma non in ogni caso. Voglio un perché alle sue azioni. Voglio informazioni su Gideon e sulla Darksaber. E voglio ucciderlo guardandolo negli occhi, se sarà necessario.»

Ruusaan annuì lentamente, in un modo solenne che sancì quella decisione: era un buon compromesso. Un ordine che avrebbe potuto seguire senza doversi ingannare troppo.

«Bene» concluse, senza più esitare. «Allora mi metterò sulle sue tracce. Nex ci ha fornito qualche contatto su Nar Shaddaa che potrebbe aver collaborato con lui nellultimo anno. Poi seguirò la traccia di Nevarro» aggiunse, cercando di pronunciare quel nome senza la minima inflessione.

Bo-Katan assentì, ma sembrò farsi distante per un attimo, con gli occhi rivolti alle piane brulle di Concord Dawn. Ruusaan aggrottò la fronte, avvertendo un non detto aleggiare tra loro.

«Cè altro?»

«Sì» rispose lesta la Mand’alor, rilasciando la parola come un colpo di blaster. «Qualche giorno fa, abbiamo trovato un altro paio di Mandaloriani sfollati di Nevarro.»

Ruusaan percepì con chiarezza il proprio cuore staccarsi dalle arterie e precipitare nello stomaco. Chi? le venne da chiedere allistante, ma si rimangiò la domanda.

«Dove?» chiese invece, lottando per mantenere un tono piatto.

«Nel quadrante zygerriano» sospirò la Mand’alor, tamburellando coi guanti cromati sulla balaustra. «Fuggiti da uno degli ultimi circuiti di schiavisti ancora attivi dopo aver ammazzato un compratore.»

«A quanto pare, la Nuova Repubblica non è così attenta da notare che il mercato è ancora attivo.»

«Magari alle alte toghe fa comodo la forza lavoro a basso costo per i cantieri di Kuat e Bracca, mh?» Bo-Katan arricciò il naso diritto in risposta, evitando di esprimersi. «Comunque, li abbiamo accolti, nel caso tu voglia...»

«Come stanno?» la interruppe lei, sfuggendo alla proposta.

Si rimediò uno sguardo pungente da parte sua.

«Li abbiamo trovati in condizioni pietose. Feriti, con ancora i collari-shock addosso. Pare che li abbiano torturati... umiliati, soprattutto.» Ruusaan si sforzò di non tradire alcun tremito sul volto. «Avevano loro sottratto i buy’cese... per un Mandaloriano è già uno smacco di per sé, ma per loro? Ho visto sopravvissuti allAssedio meno abbattuti.»

Ruusaan si appoggiò alla ringhiera, traendo un grosso respiro nellaria ormai frizzante della sera.

«Ti sorprende? Secondo il loro Credo, non sono più Mandaloriani.»

«Ma per noi sì. Devono solo capire che esistono altre Vie, oltre la loro.»

«Buona fortuna, allora» sbuffò sottovoce lei, forzando un sorriso spento. «E come sta andando lintegrazione?»

Bo-Katan sorrise a sua volta, tristemente. Gli ultimi Mandaloriani della Tribù con cui avevano avuto a che fare avevano voltato loro le spalle sdegnati, bollandoli come eretici.

«Quello più vecchio ha quasi avuto un infarto quando Ordo si è tolto lelmo.»

«Immagino... quandè lultima volta che hai visto Ordo di buon umore?»

Bo-Katan si concesse una risatina trattenuta, subito stemperata da una smorfia di disappunto.

«È assurdo quanto quegli invasati abbiano traviato le nostre tradizioni. Se non fosse per te, a vedere come vivono e come parlano, penserei che siano una cellula sopita della Ronda della Morte.»

Ruusaan avvertì un brivido al pensiero. La Tribù che conosceva lei era solo molto tradizionalista e chiusa al mondo esterno, ma scevra di qualunque velleità suprematista. Poteva però dire lo stesso delle altre?

«Possiamo anche chiamarli i “Figli della Ronda
”, ma ti assicuro che sono innocui. Hanno tagliato ogni ponte con loro proprio perché troppo estremisti. Volevano evitare che arruolassero i Trovatelli. Credimi, l’ultima cosa che vogliono è la supremazia di Mandalore...» Poi sospirò, quasi con tenerezza, annebbiata dai ricordi: «Certo, si sentono bravi Mando’ade, ma sanno a malapena dove sia Mandalore.»

Omise il fatto che fosse principalmente per decisione di Bes, l’Armaiola, che la nuova generazione di Mandaloriani della Tribù fosse così ignorante sulla propria storia. Aveva portato il concetto di “campo bianco” a un estremo che non poteva condividere, sotto qualunque punto di vista cercasse di guardarlo. Era crudele, a parer suo, anche se non si sentiva in diritto di giudicarla.


«Non stento a crederlo» commentò Bo-Katan, sempre con quellombra sardonica nella voce. «Sai come si chiama, quello più giovane?»

Ruusaan ignorò i battiti persi del proprio cuore e fece spallucce, invitando la risposta che, lo intuiva, voleva essere il fulcro dellintera discussione.

«Paz. Paz Vizsla» aggiunse, facendosi scivolare quel nome sulla lingua come fosse fiele.

Ruusaan si paralizzò, stringendo la balaustra tra le mani con più forza del necessario. Qual era la reazione giusta? Fingere di non conoscerlo? Fingere orrore? E per cosa?

Ricordava bene Paz.

Nei suoi ricordi, era un ragazzino tarchiato e troppo irruento, con una spruzzata di lentiggini a incorniciare un sorriso da discolo. Pre Vizsla, il loro brutale ex-comandante della Ronda, era solo unombra sbiadita e ben nascosta nei suoi capelli biondo cenere, nel mento appuntito, nella linea stretta delle sopracciglia. Ma non aveva mai toccato i suoi occhi, rimasti di un azzurro limpido anche quando era arrivato il beskar a schermarli.

Ricordava bene anche laccesa rivalità tra lui e Din, così tanto tempo prima. Ma, nonostante i nasi rotti, i contrasti e le scaramucce, Paz non aveva mai alzato un dito di troppo sul più piccolo detà e di stazza, trattandolo come un fratello minore. 

Si chiese fuggevolmente se la loro amicizia burrascosa fosse sopravvissuta o se, invece, le cose fossero cambiate dopo che se nera andata – un pensiero futile, da madre, che le sorse spontaneo.

«Un Vizsla» si risolse a ripetere, scuotendo la testa per strapparsi dal turbinio dei ricordi. «Ignaro di tutto, immagino.»

«Ovviamente. Ordo lha quasi freddato sul posto quando ha notato la somiglianza con Pre e lha costretto a rivelare il suo nome. Non posso biasimarlo.»

«Ordo vorrebbe freddare sul posto anche me. E anche Sk– Fenn non vede lora. Temo stiano solo aspettando il momento giusto per farlo» sbuffò via Ruusaan, con unalzata di sopracciglia.

«Fen’ika ti ha finalmente preso in simpatia, credimi. Non può essere troppo duro con te senza esserlo anche con me e con se stesso.»

Ruusaan annuì distratta, cercando di allontanarsi dalla Tribù, dai ricordi di Nevarro, dal bambino col cappuccio rosso che le correva incontro quando tornava da...

«Ruusaan» la chiamò Bo-Katan, per intero e a voce più alta del solito, e lei si rese conto di non averle risposto subito.

«N’e’takisir,» si scusò, «pensavo allassurdità di essere Mandaloriani e non sapere chi siano i Vizsla, o che non esista una sola Via, come se...»

«No, non pensavi a quello, e lo sappiamo entrambe.» Bo-Katan sospirò, stavolta in modo quasi materno, nonostante fosse più giovane di lei. «Fenn mi ha detto che sapere dellattacco alla Tribù da parte di Gideon ti ha scossa. E non venirmi a dire, come al solito, che Nevarro era solo un "rifugio sicuro" dalla Ronda,» la anticipò, «perché mi ha detto anche che avevi dei "contatti". Pensavo che ti avrebbe fatto piacere ritrovare qualcuno di loro qui da noi.»

Ruusaan strinse i denti, sentendosi messa allangolo come un womprat braccato da un massiff.

«Sono contenta di saperlo, infatti,» si sforzò di dire, sapendo di suonare evasiva, «ma non siamo in contatto da molto tempo. La Ronda mi ha dato la caccia a lungo, lo sai... non torno a Nevarro da almeno quindici anni.»

Bo-Katan la fissò in silenzio e seppe di aver parlato in modo affatto convincente. Ma come poteva dirle che lei, dalla Tribù, era stata bandita?

«An’ika, conosco abbastanza del tuo passato e ho scelto comunque di fidarmi di te. Qualunque cosa tu abbia fatto o sia successa con la Tribù, non cambierà la mia opinione. Cin vhetin, ricordi?»

Campo bianco.

A Ruusaan quasi venne da ridere. Aveva davvero pensato di aver reso immacolato il campo su cui aveva versato tanto sangue, ma la verità è che continuava a vedere il rosso coagulato appena sotto al primo strato di neve.

Togliere lelmo della Ronda della Morte e mettere quello di una semplice Mandaloriana non aveva cancellato quelle macchie. Le aveva solo nascoste.

Inghiottì bile. Confessarle tutto voleva dire perdere la sua stima, oltre che qualunque credibilità come Mandaloriana. Voleva dire macchiarsi indelebilmente, aggiungere nero al rosso del suo campo. Ammettere di essere stata una codarda.

Serrò le labbra, sentendole amare come le lacrime che premevano invisibili dietro gli occhi, nella sua mente. Poteva dipingere dargento la sua beskar’gam altre mille volte: la sua redenzione rimaneva sempre sul fondo di uno scantinato scosso dalle esplosioni su Concord Dawn, ed emergeva assieme alla sua mano tesa ad afferrarla.

E poi ricadeva inesorabile nel buio, nel momento in cui aveva lasciato la presa.


Bes la fissa, con quello che innegabilmente è disgusto: il metallo dorato cela la sua espressione, ma emerge in ogni stizzoso movimento del capo e delle spalle. Ruusaan inghiotte aria sotto l’elmo prima di parlare.
«La priorità è proteggere lui. So che qui sarà al sicuro dalla Ronda e da chiunque vorrà fargli del male. Non lo cercheranno mai qui.»
Bes annuisce un’unica volta. «Proteggeremo lui e tutti gli altri, a costo della nostra vita. I Trovatelli sono il futuro.»
Ruusaan esita, prima di portare le mani all’elmo, togliendoselo con un sibilo. Bes si irrigidisce, senza però proferir parola, trasudando tacito biasimo.
«È l’unico pezzo in puro beskar.» Tace, soffermando il palmo sulla calotta incisa da graffi e annerita dai blaster. «Lo dono a lui, per la sua beskargam. Il Mandaab è domani, vero?»
Bes si limita ad annuire, rigida. Le toglie di mano il casco come se stesse strappando una reliquia dalle mani di un profano: con brusca fermezza, ma maneggiandolo con reverenza.
Lo posa di fianco alla forgia spenta con un tintinnio e ne prende un altro, nuovo di zecca, in semplice durasteel. Il beskar scarseggia anche nella Tribù, ormai, e non va certo sprecato per un’eretica. Dalle fessure degli occhi allungate, deve essere destinato a una donna; lo accetta, nonostante preferisca la solida anonimità di quello più massiccio e squadrato della Ronda, uguale per tutti.
Bes la fissa, in attesa, e infine Ruusaan se lo calca sul capo, inalando il sentore di brace del metallo appena forgiato.
«Questa è la Via» le ricorda Bes, stentorea.
Per la prima volta, Ruusaan reprime l’istintivo, vitale oya manda che le sale alle labbra direttamente dal cuore, lo stesso che ha insegnato a Din e che, probabilmente, lui ha già dimenticato. Quella speranza guerriera, anelito alla vita, le si sfalda sotto la lingua.
«Questa è la Via» risponde invece, le parole plumbee e pesanti come l’elmo e il figlio che ha appena abbandonato.


«Voglio parlare con Paz» formulò infine, a stento, col petto che sembrò alleggerirsi e chiudersi al contempo in una pressa di beskar. «Nar Shaddaa dovrà aspettare. Cè qualcuno che conosco su Nevarro, e forse può aiutarci a trovare la Darksaber.»





 


FINE EPISODIO II


 


Note:
– I colori della beskar’gam, come avrete intuito da questi ultimi capitoli, hanno dei significati precisi e rappresentano l’obiettivo, impegno o ragione di vita del guerriero che li indossa. Colori apparsi finora: -> Blu = affidabilità // Argento = redenzione // Rosso = omaggio a un genitore // Giallo = omaggio a un defunto // Verde = dovere. Le combinazioni di colori sono ovviamente possibili e l’armatura di Din è "neutra"... per ora :P



Note dell’Autrice:

Cari Lettori,
non uccidetemi per la lunghezza del capitolo: è l’ultimo prima della "fase-adrenalina-non-stop", credetemi ♥
E avevo bisogno di inquadrare meglio Ruu, di cui spero stiate apprezzando il background. Se tutto i lcontorno di ritorni/partenze/visite a Nevarro non vi è chiaro, è assolutamente normale: per capire quella parte serve il PoV Din!


Grazie a tutti coloro che hanno letto, commentato e aggiunto alle loro liste questa storia. Scriverla mi dà una soddisfazione enorme, oltre che divertirmi da matti in un periodo un po’ stressante, e il vostro supporto è importantissimo ♥ Un grazie in particolare alla mia Guascosa, per aver letto in anteprima il capitolo, e a Benni, per avermi fatto notare una discrepanza all’interno di quello precedente ♥
Alla prossima, si spera di nuovo prima del nuovo episodio (perché tanto ormai lo so che mi anticipano le idee),

-Light-

P.S. Con l’eccezione dell’aggiunta dell’espressione "Figli della Ronda", citata nello scorso episodio della seconda stagione, tutti gli altri concetti sono farina del mio sacco, non influenzata dalla visione della serie. Forse apporterò qualche modifica qua e là nel corso della revisione, per amor di coerenza, ma non andrò a intaccare gli snodi centrali della storia. I "prestiti" dalla serie saranno sempre segnalati, come in questo caso. Per il resto: se non c’è una nota, è roba mia

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Capitolo 10
*** Episodio 3: La Spia - Parte I ***


 
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Episodio 3
LA SPIA

Parte I


 

Bas’an shev’la: l’addio silenzioso. 
È così che siamo sopravvissuti, guerra dopo guerra, disfatta dopo disfatta.
Non importa quante volte ci divideranno: i Figli di Mandalore torneranno sempre a marciare sulla loro Via.”

— Bes, Armaiola della Tribù di Nevarro,
ai sopravvissuti alla Notte delle Mille Lacrime


 

 

La discrezione è la chiave per la sopravvivenza... quasi la sentiva, la voce compassata di Bes nelle orecchie, di solito accompagnata dall’immediato sbuffo ironico di Ruu in risposta. Nonostante il timore reverenziale che provava per l’Armaiola, nel corso degli anni aveva imparato ben presto a unirsi a Ruu, almeno mentalmente: essere discreti era facile a dirsi, nelle catacombe di Nevarro, ma diventava mera utopia quando faceva il suo ingresso in una qualsiasi cantina in qualsiasi angolo sperduto della Galassia con una beskar’gam completa addosso. 

La reazione standard era quasi sempre la stessa: il chiacchiericcio scemava e dozzine di teste di varia forma, colore e dimensione si voltavano verso di lui, accompagnate da occhi altrettanto diversificati che coprivano uno spettro emotivo che andava dalla sorpresa, alla diffidenza, al disgusto, all’ammirazione, creando una tremolante bolla di stasi ad accompagnare la sua comparsa. Nel peggiore dei casi, agli sguardi si aggiungeva l’occasionale colpo di blaster, se aveva la sfortuna di capitare in un locale con qualcuno a caccia di beskar “facile” e abbastanza incosciente da sfidare un Mandaloriano per appropriarsene. L’Orlo Esterno era sempre pieno di disperati.

Il Sale Fiorito non sembrava affatto quel tipo di locale, a giudicare dalle decorazioni dozzinali, ninnoli e suppellettili sgargianti che lo ravvivavano, gridando il benvenuto a chi entrava: miriadi di fili di perline variopinte pendevano dalle travi del soffitto, conchiglie marine e fossili tappezzavano i muri, fialette di sale multicolore disposte in ordine cromatico rallegravano le mensole dietro al bancone, inframezzando le bottiglie di alcolici. L’aria era persino respirabile, priva di qualsivoglia sentore di spezia. Era intaccata solo dalla perenne nota salmastra che permeava la città e dall’odore stuzzicante di quello che sembrava pesce fritto. 

Ad attutire l’atmosfera briosa e distesa, su una delle colonne portanti in legno troneggiava il teschio oblungo e munito di rostro di una creatura che non riconobbe, decorato con complessi e intricati motivi geometrici intarsiati nell’osso. Le enormi orbite vuote e ovoidali scrutavano i clienti del locale, per lo più lavoratori delle saline con un giorno libero per via della mareggiata, riconoscibili dagli aloni bianchi di sale sulle tute impermeabili, o minatori di salgemma infagottati in robuste tenute da lavoro. Tutti erano impegnati in fitte ma pacate conversazioni davanti a un bicchiere d’alcol.

A prescindere dalle apparenze tendenzialmente accoglienti, Din registrò con qualche istante di ritardo un particolare che mise subito in allarme il suo sesto senso, ancora reattivo dopo il presunto pedinamento di poco prima: la mancata reazione che si aspettava. Poche, sparute teste si voltarono verso di lui, quasi nessuno lo fissò per più di un battito di ciglia, e l’emozione collettiva sembrò virare su un’incuriosita sorpresa, invece di assumere tinte più diffidenti. Stentava a ricordare l’ultima volta che aveva suscitato così poco scalpore. Vi riusciva persino quando metteva piede nella cantina di Gyra, dove gli avventori erano ormai abituati alla sua presenza o a quella di altri membri della Tribù – e sentì il cuore arricciarsi attorno a un battito.

Quella della corazza e dell’elmo in beskar era una vista familiare, realizzò, sentendo quell’increspatura accentuarsi fino ad accartocciargli le arterie. Dovevano aver visto altri Mandaloriani, e abitualmente. La possibilità, la remota, eppure auspicabile possibilità che qualche sopravvissuto della Tribù fosse capitato e rimasto proprio su Awath gli si parò davanti, imponendogli di essere presa in considerazione a dispetto di tutte le incognite e incertezze che implicava. 

Dopo più di un mese, si concesse di guardare fuggevolmente nella direzione in cui erano scomparsi i suoi compagni, dissipando il muro d’ombra che aveva interposto tra se stesso e loro. Si era impedito persino di pensarne i nomi, o di ricordarli nelle sue parole serali nel timore di condannarli. Era stato più semplice pensare che fossero semplicemente marciati via, piuttosto che immaginarli uccisi dagli Imperiali su Nevarro, o caduti vittima di qualche cacciatore di taglie, contrabbandiere di beskar o schiavista zygerriano. Non si era mai permesso di considerarli vivi. Ma, in fin dei conti, erano anche loro Mandaloriani. Dei guerrieri attaccati alla vita quanto lo era lui, e altrettanto in grado di ricostruirla da capo, pezzo per pezzo, ovunque fossero.

Ba’slan shev’la, gli sovvenne alla mente. Il tacito addio. Un’espressione mormorata, dal timbro conosciuto e rassicurante. Ruu ne parlava spesso, di quella tattica: sparpagliarsi dopo una sconfitta, per poi essere pronti a riunirsi come un sol uomo al momento opportuno. Era già successo alle Tribù dopo la Battaglia di Mandalore, gli aveva raccontato, e non servivano pianificazione né grandi preparativi; solo la naturale inclinazione di ogni Mandaloriano a riunirsi col proprio gruppo o clan, a cercarsi da un capo della Galassia all’altro come magneti per ricomporre ranghi e famiglie.

Per la frazione di secondo in cui quei pensieri presero forma oltre il beskar della visiera, facendogli tirare le labbra a trattenere la speranza, divenne semplice credere che fossero vivi e a pochi passi da lui, intenti a seguire delle linee guida millenarie che avevano permesso al loro popolo di sopravvivere fino ad allora. Le stesse che aveva diligentemente seguito lui finora, girovagando di sistema in sistema e di pianeta in pianeta per depistare i nemici e trovare al contempo tracce amiche. E continuò a fare lo stesso anche ora, solo con più determinazione, sin dal successivo passo che compì nella Cantina: le priorità slittarono repentinamente di posizione, pungolandolo per indagare e ritrovare qualunque labile scia che potesse ricongiungerlo ai suoi compagni. Alla sua casa e famiglia, che aveva perso fin troppe volte – e che però aveva sempre ritrovato.

Fu costretto ad ammettere di non essere del tutto lucido, e di non esserlo basandosi su quello che era poco più di un sospetto corroborato da indizi fin troppo labili – e non si agiva a testa bassa sull’orma di un sospetto infondato, si rammentò a fatica. Soprattutto, non poteva allontanarsi incautamente dalla sicura zona d’ombra che aveva creato attorno a sé e al Bambino, neanche per seguire la Via. 

D’un tratto, le parole di Cara al riguardo gli sembrarono ancor più sensate, messo di fronte alla prospettiva di dover tracciare quella Via per qualcun altro, oltre che per se stesso. Non poteva più affermare che fosse una sola, adesso, anche se avrebbe già dovuto capirlo e impararlo anni prima, quando si era diramata inaspettatamente dinanzi a lui, lasciandolo indietro. Il pensiero dava adito a confronti su cui non era certo di volersi soffermare, né ora, né mai, e che riaprivano un vuoto fin troppo pesante e colmo di rimpianti, annidato nel metallo stesso della sua beskar’gam. Respirò a fondo, chiudendo in fondo alla corazza quei pensieri, e tornò al presente.

Si avvicinò al barman, un umano stempiato che gli restituì uno sguardo a occhi stretti, come cercando di scrutare oltre la T del visore. Lo accolse in modo neutrale e Din trattenne qualunque domanda o commento, limitandosi a ordinare del cibo a portar via e a chiedere dove fosse l’oloschermo con le taglie disponibili. Gli fu consegnato invece un olopad leggermente incrinato: ringraziò sollevandolo appena e lasciò qualche credito extra di mancia sul bancone, selezionando poi a colpo d’occhio un tavolino all’angolo della sala, da dove avrebbe avuto una buona visuale su entrambi gli ingressi, oltre che su una discreta porzione di vetrata. Forza dell’abitudine, in parte, ora incrementata dal suo particolare interesse per chiunque avrebbe varcato la soglia della Cantina.

Si accomodò in attesa sul sedile in legno, accogliendo di buon grado il tepore dell’ambiente dopo il gelo umido della città costiera, e puntellò l’Amban contro lo schienale della panca, pronto ad essere imbracciato alla prima avvisaglia di pericolo, così come il blaster. Rifiutò con un cenno la birra bluastra offertagli dal cameriere, ignorando la gola secca, e prese a scorrere a capo chino le schermate del registro taglie awathiano. Si concentrò solo marginalmente sui contratti che si susseguivano sullo schermo e tenne sotto stretto controllo la visuale periferica dell’elmo. Trasferì un paio di incarichi interessanti sul proprio datapad da polso, ma la sua mente era altrove, febbricitante di ipotesi e tenue fiducia retta da un filo sottile quanto quello di un ragno da spezia.

Era scivolato in quello stato di soffusa allerta che lo avvolgeva durante gli appostamenti, all’interno del quale tutti i suoi sensi si affinavano, pronti a scattare come vibrolame e a impartire al suo corpo le istruzioni per reagire a qualunque turbamento nell’ambiente che lo circondava. Ma quella condizione familiare era inframezzata da interferenze moleste, che lo distraevano a colpi di pensieri. 

Vivi, gli si rimescolava in testa, dietro ai caratteri sfocati in Aurebesh e oltre il brusio alticcio dei presenti, forse sono vivi; ed era pericoloso pensare, lasciarsi andare – credere, illudendosi, di poter percepire i propri compagni attraverso l’impercettibile fremito che propagavano nel manda con la loro essenza – e forse quello era in realtà il Bambino che tentava di raggiungerlo, per chiamarlo e avvertirlo...

Il senso di pericolo imminente lo soverchiò con un rombo improvviso, come non accadeva ormai da anni – da quel giorno su Alzoc III – e si trovò ad avvinghiare il palmo sul calcio del blaster nell’istante stesso in cui udì lo scampanellio della porta d’ingresso che si apriva.

Alzò il capo ed ebbe un sussulto interno quando si trovò a fissare la sagoma inconfondibile e familiare di un buy’ce con un visore a T. Il vuoto di sollievo che lo avvolse si frantumò nell’istante successivo, liquefacendogli lo stomaco nel mettere a fuoco per intero la massiccia sagoma che aveva appena varcato la soglia: non una beskar’gam, ma una corazza in katarn bianco opaco, e la T che restituiva il suo sguardo era anomala, deforme, di un freddo azzurrino che gli perforò i polmoni con una stilla acuminata di gelo. Mille spie e sirene d’allarme presero a lampeggiare e gridare nella sua testa, come il quadro comandi della Crest in avaria.

Un Imperiale.

La reazione si innescò in automatico, incontrollabile, frutto di anni di fughe, terrore e scontri: sfoderò il blaster, mirò alla testa e fece fuoco.

 
 


 

Note: 
– Ba’slan shev’la (lett. "silent departure" in originale, io l’ho resa un po’ più liberamente): la tattica in questione viene citata sia nella serie Republic Commando, sia in fumetti/opere dell’ex-EU. La dinamica esatta di come e perché la Tribù l’abbia adottata verrà adeguatamente spiegato in seguito.
– Alzoc III viene citato nell’Episodio 6 della serie; sembra che Din sia stato lì coinvolto in qualche fattaccio di cui non si conoscono i dettagli (se non che lui "ha fatto ciò che doveva fare"), e ho quindi rielaborato una mia versione personale. Sono comunque abbastanza convinta che c’entrino degli Imperiali, di qui i pensieri di Din nel capitolo.

 

Note dell'Autrice:

Carissimi Lettori, rieccomi!
Perdonati i mancati aggiornamenti, ma questa era la mia settimana di stacco e relax e quindi ho lasciato tutte le storie a cuocere nel loro brodo (e l'assenza d'internet tra i monti non ha aiutato) :')
Quindi eccoci qua, con un altro finale cliffhanger perché... perché no? In realtà avrei potuto scrivere un unico capitolo un po' più lungo, lo ammetto... ma ciò che avverrà subito dopo è cruciale e volevo mantenere l'attenzione sui dettagli giusti ;) Per ora, godetevi un po' di PoV Mando.

Si accettano scommesse su chi sia il solito "signorino", ma vi avverto che ho fatto un bel mash-up tra canon, fanon e headcanon altri ne abbiamo?, quindi spero si riveli una sorpresa. Qualcuno, nelle recensioni allo scorso capitolo, mi ha detto che vedere apparire il simbolo dell'Impero come separatore dei PoV è stato inaspettato, e di questo sono contenta... ma occhio, che quello non è lo stemma dell'Impero ;) (lo sottolineo qui nel caso abbia tratto in inganno altri). La pianto di dilungarmi e vi lascio in attesa del prossimo capitolo, che spero possa arrivare con più puntualità <3

Grazie di cuore alla mia Guascosa
Miryel per supportare la storia e per la grafica bellissima che trovate qui, a Old Fashioned, LadyOfMischief e AMYpond88 per aver letto e commentato assiduamente gli scorsi capitoli e un grazie particolare a leila91
 per averli recuperati tutti in un sol fiato o quasi <3
A prestissimo,

-Light-


 

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Capitolo 11
*** Episodio 3: La Spia - Parte II ***


 
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Episodio 3
LA SPIA

Parte II

 



 
“Non tutti i vostri fratelli hanno scelto di essere fedeli all’Impero... ci occuperemo presto anche di loro.
Voi siete stati scelti perché, a quanto sembra, siete i migliori. Siatelo, e non deludetemi.”

— Darth Vader ai Cloni superstiti della Legione 501, 19 BBY

 
 


Città di Kaha, Pianeta Awath, 9ABY

 
L’impatto del blaster contro il casco fu l’equivalente di un montante sferrato a piena forza da un Trandoshiano inferocito. Si ritrovò bocconi per terra senza nemmeno capire come, con un fischio acuto a lacerargli un timpano, il sapore del sangue a imbrattargli le labbra e una cornice nerastra e pulsante a oscurargli la vista. Il dolore tardò ad arrivare, suggerendo una commozione cerebrale, ma sapeva che non ne avrebbe rimpianto l’assenza. Aveva comunque avuto giornate peggiori.

L’ultima volta che un blaster l’aveva colpito in piena testa a distanza così ravvicinata, era stato durante la battaglia su Kashyyyk, ed era abbastanza sicuro di preferirla. All’epoca, era rimasto semplicemente rintronato per qualche manciata di secondi – comunque troppi, durante uno scontro a fuoco – coi suoi compagni di squadra che gli parlavano via comlink alternando rimproveri bonari, ordini concitati e parole di supporto nel bel mezzo della mischia, mentre gli somministravano una più che gradita dose di bacta. Non che ne avesse davvero bisogno: il suo casco aveva assorbito la maggior parte del danno, ma non si rifiutava mai il bacta. Il tutto si era concluso nel giro di un minuto scarso e con un mal di testa devastante che l’aveva perseguitato per giorni. Non era stata certo la ferita peggiore di quel giorno.

Adesso, quasi trent’anni dopo, ebbe piena consapevolezza di quanto l’Impero fosse andato al risparmio sulle loro corazze, rispetto alla Repubblica. Rimpianse irrazionalmente i “bei vecchi tempi”, più del solito, e prese piena coscienza anche di quanto fosse diventato vecchio lui stesso.

Non così vecchio da non sentire la spinta degli automatismi da battaglia, però: appena ripresa la percezione del proprio corpo rotolò di lato, imbracciò il DC e riprese un assetto verticale sollevandosi su un ginocchio. La Cantina non aveva contorni precisi, distorta da sfarfallamenti e interferenze nel visore causate dal colpo – fierfek, che razza di katarn e circuiti di quarta mano avevano usato, quei caschi vuoti? – e dal sommovimento della folla nel panico, ma era comunque in grado di determinare l’origine dell’attacco e di rivolgere la bocca dell’arma in quella direzione. Un riflesso, un puro riflesso che, si rese conto, non deponeva in favore delle sue intenzioni pacifiche. Ebbe giusto il tempo per realizzare che il Mandaloriano non era più seduto al suo posto, ma in piedi e in pieno assetto da guerra a un passo da lui, e sembrava avere tutte le intenzioni di infilzarlo con la baionetta di un fucile Amban – o di disintegrarlo con esso.

Per la sabbia di Geonosis, non era quello il benvenuto che si era aspettato! Dimenticava sempre quanto potessero rivelarsi imprevedibili i Mandaloriani solitari, e ammetteva che avere addosso le insegne imperiali non era un aiuto. Senza lasciare la presa dal calcio del proprio DC, che impostò con uno scatto del dito su “stordimento”, compì la mossa che gli riusciva meglio e al contempo peggio, almeno secondo chiunque l’avesse conosciuto: parlò.

«Wayii, ner vod!» esclamò, optando subito per il Mando’a, la sua unica carta sicura in quella situazione.

Forse chiamarlo “fratello” era un tantino azzardato, considerate le circostanze, ma ogni dubbio riguardo alla formalità evaporò nel momento in cui si rese conto di aver pronunciato solo una sequenza sconnessa e gracchiante di statico, simile all’ultimo lamento di un droide morente. L’interfaccia lampeggiò, vermiglia e del tutto oscurata da un lato. Fierfek: l’altoparlante esterno si era fritto. Il Mandaloriano non sembrava comunque avere molta voglia di parlare… quindi, aveva un problema. E un solo modo per risolverlo.

Scattò in piedi, mollando il DC dopo aver sparato un colpo andato a vuoto. Deviò la canna dell
’Amban, afferrandola con entrambe le mani per poi torcerla e assestare un secco spintone all’avversario. Lo sbilanciò, ma non abbastanza da mandarlo al tappeto: o era molto più massiccio di quanto desse a vedere, complice il beskar, o era lui ad aver perso qualche colpo nell’ultimo decennio. Preferì pensare che fosse l’altro, ad essere un falso magro. Nell’arco di quel pensiero futile, subì un colpo alla tempia sferrato col calcio del fucile, sfuggito alla sua presa. Scartò di lato, tentando di aggirare l’avversario, e riuscì ad afferrarne la cinghia e a strapparglielo dalle mani – per poi rendersi conto che lui gli aveva permesso di farlo. L’arma schizzò via come una scheggia, infrangendo la finestra e svanendo nel buio tra le urla e il caos generale.

Concentrati, concentrati! si rimproverò, con la voce minacciosa del suo sergente che gli abbaiò a sua volta l’ordine nelle orecchie. Sei in battaglia. Da quanto non era in battaglia? Da troppo, a quanto pareva.

Fece appena in tempo ad alzare i polsi incrociati per intercettare quello del Mandaloriano, ed evitare che una vibrolama gli si conficcasse dal basso nella fessura tra spalla e ascella, andando a recidere l’arteria. Senti la lama d’energia sfrigolare feroce contro il metallo, e intravide il riflesso distorto del proprio visore blu in quello nerastro dell’avversario, a pochi centimetri da lui. Non era il tipo di chiacchierata faccia a faccia che si era aspettato, ma non poteva negare che fosse in pieno stile Mandaloriano.


Così come la furiosa testata che riuscì ad assestargli subito dopo, in un cozzare sonante di elmo contro elmo; udì con soddisfazione un lamento soffocato da parte dell’altro, che cedette di un passo all’indietro, tramortito. Ne approfittò per disarmarlo della vibrolama con un colpo secco del palmo sul nervo del gomito. Lo spinse poi verso la parete del locale, in un serrato corpo a corpo che coinvolse un tavolo e un paio di sedie mandati all’aria e una breve vampata di fuoco scaturita dal lanciafiamme del Mandaloriano, inoffensiva contro la sua corazza. 

Incassò anche un paio di ganci, ma la propria mole iniziava a soverchiare quella più agile dell’avversario, sempre più vicino ad essere messo con le spalle al muro: colse la sua mano correre a più riprese verso il blaster al fianco, ma non gli permise mai di raggiungerlo, deviandola ogni volta all’ultimo momento. 

E poi notò gli alloggi per sibilanti nel parapolso. Avvertì il senso di pericolo farsi strada tra adrenalina e fatica: poteva essere sopravvissuto a un colpo alla testa a breve distanza, ma non aveva speranze contro un nugolo di sibilanti a bruciapelo, corazza o meno. Doveva risolvere, e alla svelta, prima che l’altro si sentisse abbastanza minacciato da usarli.

Svicolò da una presa particolarmente molesta, che quasi gli aveva quasi lussato una spalla, e raccolse tutto il proprio corpo all’indietro, pronto a riversare a piena potenza i suoi cento chili buoni di massa corporea e katarn contro il Mandaloriano, mettendo fine a quella rissa da Cantina fuori misura.

Fu in quel momento che si rese conto di quanto i propri riflessi fossero ormai rallentati dall’età: vide chiaramente l’altro cambiare postura: scansò appena il piede più arretrato e abbassò le braccia, modificandone l’angolazione e abbandonando la posizione di parata per assumere quella di leva. Lo vide, e la sua mente marziale interpretò correttamente la mossa successiva. Il suo corpo, però, non reagì per tempo.

Si scagliò comunque in avanti a testa bassa come un Rancor da combattimento; il Mandaloriano, in un’unica mossa fluida, fece perno sulla gamba, ruotò lateralmente, agganciò la presa sulla sua corazza e si lasciò cadere all’indietro, caricando il suo intero peso e sfruttando il suo stesso slancio per scaraventarlo via con un colpo di talloni in pieno ventre.

Il fragore di vetro infranto lo assordò, seguito da uno schianto secco e legnoso. Non seppe se il tintinnio che sentiva fosse quello dei propri timpani rintronati o quello delle miriadi di schegge che si abbattevano sulla strada. Strada.

Tastò con una mano resa insensibile dal guanto il basalto umido di pioggia, e si rese conto di aver sfondato la finestra e poi la balaustra di legno esterna per precipitare dritto al suolo. Un volo di quasi quattro metri, che il vecchio sé – in teoria – venticinquenne avrebbe attutito agilmente, pronto a rialzarsi. Il suo sé attuale sembrava molto più propenso a fare una stima dei danni complessivi appena subìti, elencati quasi a sbeffeggiarlo nelle schermate traballanti dell’interfaccia interna. Kandosii, aveva appena battuto il record di Mygeeto per costole incrinate.

Riuscì a far leva sugli avambracci con un grugnito sofferto, rotolando sulla schiena e staccandosi di appena qualche centimetro da terra prima di paralizzarsi. Oh, quello schiocco era una vertebra, poco ma sicuro.

Non ebbe tempo di constatare altre lesioni, perché nel suo campo visivo entrarono due stivali di cuoio scuriti dalla pioggia, in rapido avvicinamento. Il successivo elemento a entrare nell’inquadratura fu la canna di un blaster puntata verso terra. Non per molto. Stavolta fu il corpo a reagire prima della mente: si trovò a portare le mani al casco, forzando invano la chiusura inceppata e semidistrutta dal colpo. Colse di sfuggita il movimento del blaster che si alzava arrestandosi orizzontalmente, in linea con la sua testa.

Osik-osik-osik, non poteva crepare così come un di’kut, non dopo essere sopravvissuto a Kamino e Geonosis e Kashyyyk e Coruscant... sentiva già Sev che se la rideva dall’oltretomba, pronto a prenderlo per i fondelli in eterno – e il Sergente Vau imbestialito che gli sbraitava contro – cattivo soldato, cattivo Cl

Pop.

La pioggia gli sferzò il volto, salata e amara assieme, accecandolo e facendogli bruciare il taglio che non si era reso conto di avere sulla guancia. Tra gli scrosci d’acqua simili a un sipario scorse la sagoma del Mandaloriano stagliarsi dinanzi a lui, dietro la bocca del blaster pronto a far fuoco. Inalò una boccata d’aria pungente, rilasciandola assieme a tutta la voce che gli rimaneva nei polmoni:

«Dar’akaniir, ner vod! Cuy’ni Mando!»

Non ricordava di essersi mai arreso a nessuno, né sotto la Repubblica, né sotto l’Impero: era la prima volta che quelle parole gli sfuggivano con intento di bocca. 

Sarebbe stato davvero ironico, se fossero state anche le sue ultime.

 

 


 
«Dar’akaniir, ner vod! Cuy’ni Mando!»

Din arrestò il blaster a mezz’aria con la stessa immediatezza di un caccia appena uscito dall’iperspazio, e boccheggiò dietro lo strato di beskar inalando un respiro al retrogusto di ferro. Era il suo udito scombussolato dalla testata che lo tradiva, associando parole di una lingua incomprensibile a quella a lui più familiare, o l’Imperiale aveva davvero dichiarato la resa in Mando’a? Dicendo di essere… Mandaloriano?

Qualunque cosa avesse detto, adesso aveva i palmi alzati in un gesto inequivocabile, e a volto scoperto sembrava decisamente più inoffensivo: era piuttosto avanti con gli anni, coi capelli scuri incollati alla fronte dalla pioggia e un brutto ematoma sanguinante sullo zigomo, nel punto in cui il blaster aveva colpito il casco. Si chiese, fuggevolmente, se anche lui sarebbe apparso così, privato dell’elmo. Il solo pensiero gli fece stringere la presa sul calcio dell
arma ricordandogli chi aveva davanti: un Imperiale. Forse addirittura un responsabile della Grande Purga.

Osservando però meglio la corazza constatò che, pur assomigliando molto a quella di un assaltatore pesante, recava delle anomale bande di un giallo brillante su parabraccia e gambali. A dire il vero, anche l’elmo dell’uomo era molto più simile a un buy’ce mandaloriano di quanto avesse realizzato inizialmente: la T, sebbene azzurrina e biforcuta alla base, era ben distinguibile.
Adesso capiva la perplessità suscitata nella Cantina: ad occhi inesperti degli aruetiise, vedere la sua beskar’gam nuova di forgia poteva passare per un semplice cambio d’armatura.

Comunque fosse, quell’uomo non era decisamente un Imperiale, anche se atipico.  E, aguzzando ancora la vista, l’emblema della raggiera imperiale sul giustacuore era stato grattato via a forza. Anzi, modificato, anche se nel buio rilucente d’acqua e pioggia non gli riuscì di capire in che modo. Dettagli che gli erano sfuggiti, spazzati via dalla sagoma agghiacciante di una massiccia corazza bianca e dal visore minaccioso e distorto che aveva spesso fatto capolino nei suoi incubi più lontani, quando Imperiali e droidi da battaglia facevano a turno la ronda nelle sue notti agitate. Ultimamente, avevano ripreso ad aggirarsi tra il sonno e la veglia, più lontani, ma non per questo meno ostili.

 Fissò l’elmo in katarn abbandonato per terra. Un disertore? Forse. O forse solo un cacciatore di taglie sotto copertura. O entrambe le cose.

In ogni caso, aveva un blaster puntato su un uomo al momento inerme. Per quanto una parte di sé gridasse di premere il grilletto, messa in guardia dalla serie di eventi anomali, quella più ragionevole e umana si distolse dall’elmo freddo riverso a terra, piantandosi in occhi grandi e sbarrati, più confusi che atterriti. Abbassò lentamente la mano armata, pur tenendo serrata la mascella.

«Mar’e!» sospirò l’uomo – vecchio, ora che lo vedeva meglio in volto – esalando uno sbuffo sollevato. Mando’a, di nuovo. Finalmente, aveva detto; e poi continuò in Basico: «Promemoria: identificarsi sempre, sempre prima di avvicinare qualcuno. Soprattutto se in uniforme, soprattutto se quel qualcuno è un Mando’ad sconosciuto,» continuò, chinando un poco il capo e lasciando ricadere gli avambracci sulle ginocchia, con rivoli di pioggia che gli scorrevano sul volto.

Din era ancora paralizzato, con la tentazione latente di afferrare anche l’Amban che, si rammentò mentre la mano libera incontrava il vuoto all’altezza della fondina, giaceva a qualche passo da lui.

«Tion'gar?» esalò, senza pensare, per poi correggersi e tornare a rotta di collo al Basico, quasi mordendosi la lingua nella fretta: «Chi sei?»

L’uomo sbuffò un sospiro e poi tossì, roco.

«Ti avevo capito,» lo rimbeccò, assurdamente calmo per qualcuno che era stato quasi freddato sul posto. Si portò una mano al petto per poi continuare: «Scorch. Molto piacere, a parte tutto… beh, quello che è successo,» si presentò, scrollando le spalle e schiarendosi la voce mentre si scioglieva le spalle chiaramente dolenti per la caduta.

Din si limitò a recuperare l’Amban lì vicino senza perderlo d’occhio un istante, cercando di capire perché vederlo gli desse uno spiacevole senso di familiarità. La scarsa illuminazione e la pioggia torrenziale non aiutavano, ma qualcosa gli diceva che avrebbe dovuto riconoscerlo. Scorch emise un lamento quando tentò di spostare il peso per alzarsi, inutilmente, per poi scoccare a lui uno sguardo seccato.

«Allora? Aiuti un povero vecchio o preferisci abbattermi sul posto?»

Din si trovò ad agire senza ordine del cervello, probabilmente ancora abbastanza scombussolato dall’urto per tendere la mano a un Imperiale. Sospetto Imperiale. Probabilmente un disertore, e probabilmente sulle sue tracce. Ma al momento innocuo, o almeno amichevole. Negli ultimi mesi si era abituato ad avere a che fare con situazioni bizzarre, ma questa stava minacciando di fondergli il cervello, e non c
erano nemmeno fenomeni inspiegabili di mezzo.

«Scorch?» ripeté quindi, aggrappandosi a quel dettaglio insolito del tutto irrilevante, nell’insieme più che insolito.

Le sopracciglia dell’altro si aggrottarono all’istante, adombrandogli le iridi, e portò fiaccamente due dita alla fronte in una pantomima di saluto militare.

«Delta-uno-sei-sei-due suonerebbe male, non credi? Non dirmi che sei uno di quelli attaccati fino agli shebs all’etichetta.»

La realizzazione folgorò Din nell’incontrare gli occhi scuri del vecchio – non così vecchio, in effetti. Forse una sessantina d’anni portati male in viso, ma non nel fisico, come spesso accadeva ai veterani di guerra. E un volto familiare, sì, per i più svariati motivi, pur non avendolo mai conosciuto davvero: zigomi pronunciati, carnagione ramata, capelli color carbone screziati di grigio, e un soprannome più adatto a un akk da compagnia che a una persona, a sostituire un numero… certo, che l’aveva già incontrato. Non proprio lui, in verità, ma faceva davvero differenza? Aveva davanti un Clone.

Esattamente il tipo di problema da cui girare alla larga, gli ricordò Ruu, in sordina da qualche parte tra cervelletto e spina dorsale, dove si annidavano gli istinti primari. Imbracciare l’Amban fu un riflesso condizionato.

«Oh, oh, non di nuovo, su! Metti via quell’affare!» sbottò l’altro, alzando comunque le mani. «Se avessi voluto farti fuori, l’avrei già fatto!»

«Sei con l’Impero?» lo ignorò Din, avvicinando la bocca del fucile allo spazio tra le sue sopracciglia, segnato da profonde rughe preoccupate e dall’alone di una vecchia bruciatura. Impostò la modalità disintegrazione con uno scatto minaccioso. «Ti manda Gideon?»

«Chi?» strabuzzò gli occhi quello, facendo fremere le mani a mezz’aria. «Senti, qui c’è un grosso malinteso, ner vod, perché non…»

«Chiamami di nuovo “fratello” e potrebbe sfuggirmi il grilletto,» ringhiò Din, sfiorandogli la pelle con la punta biforcuta della baionetta.

«Ok, sei stato chiarissimo, ne– Mando? Bene, e Mando sia… ora, che ne dici di parlare civilmente? Ho chiesto una tregua, no?»

«Dipende. Non parlo con gli Imperiali.»

«Perfetto, allora, perché io non lo sono. Odio l’Impero quanto te e probabilmente da più tempo di te, da quando era ancora una Repubblica che ci ha mandati tutti al macello. Odio pure la Repubblica, se è per questo,» continuò serratamente, dandogli a malapena il tempo per assorbire le singole parole. «E anche qui sono in buona compagnia, giusto?» aggiunse, con un cauto ma deciso cenno del mento nella sua direzione

Din riassestò le dita sull’arma, senza vacillare, ma si umettò le labbra secche.

«Perché dovrei odiarle la Repubblica?»

Scorch si arrischiò a puntargli un indice contro, a dispetto di essere ancora sotto tiro.

«Il tuo accento,» rispose quindi, in tono così ovvio da suonare quasi irritato. «In Basico, intendo…» un lieve movimento in avanti dell’Amban convinse Scorch a tagliar corto: «Sei di Concord Dawn, vero? L
’hanno devastato tutti, quel pianeta, noi inclusi. anche se io non ero tra quei noi, parola di Clone.»

Din sentì il cuore incepparsi a metà battito e irrigidì la presa sul calcio del fucile, senza riuscire a camuffare la tensione. Non sentiva nominare il suo pianeta natìo da almeno un decennio. Né si sarebbe mai aspettato di vedersi riconoscere come Concordiano da un perfetto sconosciuto, balzato fuori da chissà dove sotto le vesti di Imperiale-ex-Repubblicano. Gli fece un effetto che non seppe definire: un misto di estrema lontananza e vicinanza, strettamente intrecciati a formare i confini di quella che un tempo era stata casa – e poi non più.

La canna dell’Amban si abbassò lentamente, mentre mandava giù un groppo spigoloso in gola. Non rispose, sentendosi tradito da una caratteristica dimenticata da lui stesso e che quasi nessuno sarebbe stato in grado di notare. Se non un altro Mandaloriano. Un vero Mandaloriano, in grado di captare la particolare cadenza di un pianeta alleato da così poche frasi. E poco importava che fosse un Clone, o che non seguisse la Via e no nfosse quindi davvero mandaloriano. Non poteva considerarlo un compagno, né scartarlo ancora come nemico, ma ai suoi occhi si era perlomeno guadagnato la tregua che aveva chiesto.

La baionetta dell’Amban sfiorò la strada attraversata da rivoletti d’acqua. Di rimando, Scorch abbassò piano le braccia, lasciandole ricadere sollevato, e si schiarì nuovamente la voce in quello che sembrava un riflesso nervoso. Din rilasciò un respiro, con l’adrenalina dello scontro che defluiva pian piano, sembrando scorrere via assieme alle gocce di pioggia. Riagganciò l’arma alla fondina da schiena e rinfoderò il blaster, suggellando l’armistizio.

Scorch esitò per qualche istante, prima di chinarsi cautamente sulle ginocchia per recuperare il casco, esaminandolo con premura – la stessa con la quale lui maneggiava il proprio buy’ce. Din evitò di soffermarsi sull’alone carbonizzato che lo segnava da un lato, ben visibile sulla vernice bianca e gialla. Se fosse stato comune katarn, quello fragile dei soldati semplici, il colpo l’avrebbe perforato e ucciso sul posto. Gli tremò la mano sul calcio del blaster per un istante, e scacciò quel tentennamento con una scrollata di dita poi serrate con forza. Aveva sparato senza nemmeno pensare. Dopo Alzoc III gli era successo solo coi droidi… e dopo IG avrebbe avuto qualche remora a farlo persino con loro.

Sospirò, avvertendo solo allora una fitta acuta risalirgli il naso, che pulsava a intervalli regolari spillando sangue. Strinse i denti, inclinando il capo in avanti e trattenendo il disgusto per il retrogusto metallico che gli permeava la bocca. Non poteva fare a meno di pensare, con distaccata ironia, che quel “bacio di Keldabe” ben assestato fosse un ulteriore elemento in favore di Scorch e del suo dichiararsi Mandaloriano, almeno in parte.

Il pensiero della stiva sicura della Crest si fece molto allettante, promessa di un lavello in cui ripulirsi la faccia e di un kit medico con cui rimetterla in sesto. Sperava anche in un aiuto da parte del Bambino, perché aveva tutta l’impressione che il setto nasale fosse rotto – di nuovo. Gli sembrava di sentire i rimproveri di Ruu. Non era però un’opzione contemplabile, non finché non avesse fatto chiarezza su tutta quella faccenda. Inghiottì sangue e dolore, raddrizzando il capo.

Mentre faceva il conto delle ferite, il soldato si era rimesso in piedi, barcollando sulle gambe e ritrovando però subito l’equilibrio sulle pietre viscide. 
Della cenere iniziò a mischiarsi alla pioggia, creando un nevischio grigiastro che andava a formare una fanghiglia infida ai loro piedi e attecchiva a chiazze alle loro armature.

Din rivolse lo sguardo verso la Cantina, appena distinguibile oltre il muro d’acqua che si rovesciava ancora dal cielo. Dal lato intatto del camminamento esterno era affacciata una sparuta folla, probabilmente avida spettatrice del loro confronto. Sospirò, incamminandosi verso l’ingresso sul retro e ripercorrendo flemmatico i passi di appena mezz’ora prima.

«Lì dentro?» lo richiamò Scorch, allarmato. «Non credo saranno felici di rivederci, sai?»

«Saranno ancor meno felici se non ripago i danni.»

Imboccò le scale senza attendere risposta e, dopo un breve silenzio, sentì i passi dell’altro seguirlo.


 


 
Note:
– Concord Dawn si trova nel Settore Mandaloriano. Il Basico parlato dai Concordiani è chiaramente riconoscibile per via dell’accento, e in alcune zone si parla un particolare dialetto di Mando’a, comprensibile ma comunque radicalmente diverso dalla lingua standard (presente sardo e italiano? Ecco). Essendo stato cresciuto dalla Ronda della Morte/Tribù, Din mantiene l’inflessione natale concordiana in Basico, ma parla Mando’a standard. Ovviamente il fatto che Din sia Concordiano è un mio headcanon. Quando ho scritto la storia non c'erano fonti sul suo pianeta natale; adesso è stato rivelato che il suo luogo d'origine sia Aq Vetina, che io ho convenientemente trasformato in una città su Concord Dawn, visto che non viene specificato sia un pianeta.
Info-dump aggiuntivo: 1. Jango Fett era Concordiano, per questo Scorch ha familiarità con l’accento (pur non essendo stato sotto il suo diretto comando su Kamino). 2. Il sergente Vau, nominato di sfuggita, è uno dei Mandaloriani convocati da Jango su Kamino.


Glossario:

aruetiise: estranei/traditori; per esteso, non Mandaloriani.
dar’akaniir: arrendersi/tregua [mio neologismo: serviranno pur a qualcosa gli studi di linguistica!)
fierfek: imprecazione in Huttese, largamente usata dai Cloni.
kandosii: grandioso, fantastico.
(ner) vod: fratello (mio).

shebs: chiappe
wayii: esclamazione generica (gioia, sorpresa o allarme).



Note dell’Autrice:

Cari Lettori,
vi presento Scorch, la linea com– NON È LA LINEA COMICA! (i fan di Boris capiranno <3) Scherzi a parte, spero di avervi colto di sorpresa! Diverse persone avevano ipotizzato che l’ "uomo del mistero" fosse Boba Fett, e tecnicamente, considerando che i Cloni sono appunto clonati da suo padre Jango, non avevano tutti i torti... ma ci sarà tempo anche per Boba-vero, promesso. Seguo sempre il principio della pistola di
Čechov ;)

Piccola panoramica del personaggio, che presumo sia sconosciuto a molti di voi (i suoi retroscena avranno comunque spazio nella storia): Scorch è un Clone Commando della Repubblica (e poi dell’Impero) che appare nel videogioco Republic Commando e nell’omonima serie di libri. Per lui valgono le conoscenze di base comuni a tutti i Cloni, con la peculiarità che lui fa parte di un corpo d’élite. Secondo l’universo espanso, i Cloni, oltre ad essere copie di Jango Fett, vengono anche addestrati perlopiù da guerrieri mandaloriani, di qui il riconoscersi (spesso) come tali. Il tutto verrà spiegato meglio prossimamente. Sappiate solo che era importante introdurre adesso questo personaggio :) Unica precisazione: sì, i Cloni invecchiano a circa il doppio della velocità rispetto agli umani. Non l’ho dimenticato e c’è un motivo canonico per cui Scorch è ancora vivo, sebbene attempato.
Per qualsiasi chiarimento, sono disponibile <3

Ringrazio di cuore
Miryel, Old Fashioned, LadyOfMischief, AMYpond88 e leila91 per aver letto e commentato gli scorsi capitoli, e tutti coloro che hanno letto la storia in silenzio e/o l’hanno aggiunta alle loro liste <3
Alla prossima settimana,

-Light-

P.S. Ogni riferimento ai nasi rotti riconducibile a Pedro Pascal è assolutamente voluti e intenzionali. E se non sapete di cosa parlo, recuperatevi l’intervista agli attori nella Gallery di The Mandalorian

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Capitolo 12
*** Episodio 3: La Spia - Parte III ***


 
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Episodio 3
LA SPIA

Parte III

 




 
“Erano solo un souvenir, parola mia! Che kriff dovrei farmene di un mucchio di cristalli colorati?
Riprendeteveli pure: vorrà dire che avrò più posto nella stiva!”

— Bator, mercante Altoriano, durante un’ispezione Imperiale su Eriadu
poco prima di essere deportato nelle miniere di Kessel per contrabbando

 
 


 
Spazioporto di Kaha, Pianeta Awath, 9ABY
 
«E gli hai sparato?»

«Sì.»

Un battito di silenzio accompagnò quella conferma, e Cara si mosse appena sul sedile del copilota, ripiegando una gamba sotto di sé. Si chiese blandamente perché non si sentisse scioccata, ma la risposta non era celata abbastanza bene da poterla ignorare. Così come era difficile ignorare l’aura elettrica emanata dal Mandaloriano. Nella loro breve conoscenza, non poteva dire di averlo mai visto nervoso, ma adesso la tensione dei suoi muscoli contratti pareva increspare l’aria come fosse acqua.

«Avrei fatto lo stesso, probabilmente,» soffiò via quindi, fissando la striscia di stelle che s’intravedeva dalla bocca semichiusa dell’hangar.

Era strano vederle oltre il vetro, da fermi. Sembravano pronte a balzare in avanti per trasformarsi in scie luminose da un momento all’altro, nonostante la Crest fosse ben ancorata al suolo basaltico di Awath.

«Sì,» concordò di nuovo Mando, leggermente più roco del solito e col visore fisso sulla plancia di comando.

«Ma?» lo incalzò quindi, rivolgendosi verso di lui.

Non riusciva a dire se la stesse guardando di sottecchi o meno. Aveva le spalle incurvate, e il collo inclinato in una linea rigida.

«Ma non…» si interruppe, cogliendola di sorpresa con quell’esitazione non camuffata, poi sfruttò lo slancio di un sospiro profondo per gettare fuori il resto della frase: «… non è questa, la Via.»

Cara ebbe l’impressione che Mando stesse seguendo le linee di un discorso molto più ampio e a lei ignoto. Strinse le braccia al petto, incassando il mento contro il bordo della corazza mentre rifletteva su quell’ultima affermazione ben conosciuta, uno scudo di circostanza che il Mandaloriano sembrava porre tra sé stesso e tutto il resto per proteggere il suo mondo.

E in quel momento il suo mondo, già decimato da nemici che potevano annidarsi ovunque nella Galassia, si riduceva a lui e il Bambino, ed era racchiuso nello scafo della Razor Crest. L’esserino verde emise un lamento basso che attirò l’attenzione di Mando per un breve istante, per poi essere classificato come non allarmante. Cara indicò la culla con un cenno del mento oltre la spalla.

«Se fosse stato davvero un Imperiale che vi dava la caccia, a quest’ora ti staresti pentendo di non aver sparato.»

Mando sembrò trattenere l
’impulso di scuotere la testa, limitandosi a un impercettibile scatto laterale.

«Mi è stato insegnato a pensare e chiedere, prima di sparare. A fare il contrario solo se in pericolo.»

Cara gli rivolse un’occhiata interdetta. Quello che aveva appena sentito non suonava come un dettame logico, almeno non per un Mandaloriano.

«È quello che hai fatto.»

«Non ero in pericolo. E ho quasi ammazzato un...» s
’interruppe, stringendo i braccioli del sedile con nervosismo crescente. «... un potenziale alleato.»

Cara aumentò la stretta delle braccia incrociate. La sua spiegazione su chi fosse esattamente questo Scorch era stata a dir poco confusa. Un Clone, aveva detto, e un ex-Imperiale dalla fedeltà dubbia, ma, come adesso, sembrava girare costantemente attorno a una parola ben specifica per definirlo, rifiutandosi di pronunciarla: Mandaloriano.

T
irò la bocca in una smorfia incerta: lei, del popolo di Mandalore e dei suoi trascorsi, sapeva meno di niente, e ricordava solo vagamente i Cloni. Erano ricordi sbiaditi degli ultimi mesi di guerra e dei primi anni d’Impero, quando era troppo piccola per capire cosa fosse un’occupazione militare. Aveva comunque intuito che quel conflitto avesse colpito direttamente Mando, e che lui fosse stato abbastanza grande, all’epoca, da ricordarlo meglio di lei – il suo astio verso i droidi era un indizio lampante – ma non aveva idea di cosa ne pensasse dell’altra fazione in campo, degli uomini che, da quel poco che sapeva lei, erano stati spediti al macello.

«E adesso ci stai pensando,» constatò infine, evitando di approfondire la questione, di certo dolorosa per entrambi.

Il silenzio dell
altro suonò assenso. Cara reclinò la nuca contro il poggiatesta, schioccando sommessamente le labbra prima di parlare.

«A me, invece, hanno insegnato che quando si spara, si spara. Non si parla. Sinceramente, sono più contenta che tu abbia agito così, per il bene di tutti.»

Mando in tutta risposta tacque ancora, per poi alzarsi in un solo, determinato movimento accompagnato dal fruscio del mantello e delle giunture in cuoio dell’armatura che si piegavano. Le rivolse un cenno del casco indecifrabile, che lei volle vedere come un segno che stesse cercando di accogliere le sue parole – ma anche che la discussione, per il momento, era chiusa.

«Dovremmo muoverci,» annunciò infatti, di nuovo imperturbabile, avvicinandosi quindi alla culla del Bambino e accovacciandosi là davanti.

Rimase per qualche istante così, come se i due stessero intrattenendo una conversazione silenziosa – e per quanto ne sapeva lei, poteva anche essere così. Mando non le aveva ancora riferito alcun progresso sulla ricerca del luogo d’origine del Bambino, e giudicò inopportuno chiederglielo ora, prima di un lavoro e in un frangente così teso. Ma lo stato di turbamento in cui l’aveva trovato non lasciava presagire buone nuove, e sapeva che gliel
’avrebbe detto immediatamente. Si alzò a sua volta, sgranchendosi le spalle e rivolgendo un mezzo sorriso al piccolo quando ruotò il capo verso di lei.

«Dove ci aspetta il tuo contatto?»

«Nelle miniere di Kaha.»

«Un po’ vago. C’è un ologramma di taglia?»

«No, niente ologrammi. Non funziona così, in questo giro. Il localizzatore ci porterà dal richiedente,» affermò Mando, mettendo in vista il dispositivo lampeggiante. «Da lì in poi ci daranno istruzioni loro per la vera taglia.»

Cara annuì, ma serrò appena le labbra in un moto inquieto, a dispetto della pacatezza dell’altro. Non le era mai piaciuto entrare in territorio inesplorato, e doveva ancora venire del tutto a patti con l
’idea di essere ora una cacciatrice di taglie. Mando aveva individuato una taglia illegale lì su Awath, ed era sembrato inspiegabilmente incline ad accettarla rispetto a lavori più puliti, ma anche meno redditizi.

«Non è la prima volta, per me. So come muovermi,» le disse Mando, come leggendole nel pensiero, mentre si avviava alla scaletta che sprofondava sottocoperta.

Lo sguardo di Cara corse d’istinto al Bambino, subito seguito da quello di Mando. L’eco flebile di un versetto infantile risuonò nella cabina di pilotaggio.

«Non è nemmeno la seconda volta,» si limitò a dire Mando con, le sembrò, l’ombra di una reticenza mal camuffata.

Immaginava che non rivangasse volentieri il momento in cui era stato lui, a dare la caccia al Bambino. Il casco sparì oltre il boccaporto con un baluginio di beskar, seguito dal tonfo degli stivali corazzati contro il pavimento metallico della nave quando saltò gli ultimi gradini; Cara lo seguì a ruota, trovando il compagno già di fronte all’armadio pressurizzato delle armi.

«Gideon, o chi per lui, non assolderebbe cacciatori registrati nella Gilda, per trovarvi… così entri nel suo territorio,» si decise a commentare infine, dando voce ai suoi dubbi, ma non ottenne reazione. «Forse faresti meglio ad attenerti alle taglie legali, come su Zygerria e Altora.»

Mando tolse dal supporto il suo fidato fucile Amban, lo imbracciò verificandone l’allineamento e lo agganciò quindi alla fondina da schiena. Sembrò prendersi più tempo del solito per rispondere, mantenendosi nella zona più in ombra della stiva male illuminata.

«Non se dobbiamo lavorare insieme.»

Cara spostò impaziente il peso da un piede all’altro: si era aspettata una risposta simile.

«Karga mi ha inserito nel registro sotto falso nome. È improbabile che la Repubblica sia così interessata a me da mettersi a indagare. Non sono un pezzo grosso.»

«Preferisco non correre rischi,» replicò lui, in modo insolitamente sbrigativo, quasi brusco.

«Il fatto stesso di avermi contattata è un rischio, se credi davvero che vi stiano cercando.»

«Lo credo davvero,» sottolineò lui, voltandosi a guardarla quasi di scatto. «E so che è stato un rischio coinvolgerti.»

Cara attese il “ma” in arrivo, con la netta impressione che Mando fosse molto riluttante a pronunciarlo, per motivi che non riusciva a figurarsi. Se già normalmente era difficile leggerlo, adesso la sua cripticità le dava l’impressione di relazionarsi con una specie che si muoveva su uno spettro comunicativo molto diverso da quello umano. Era abbastanza sicura che Mando fosse un essere umano, ma non ne aveva la certezza assoluta: per quanto ne sapeva, sotto quel casco poteva esserci un Trandoshano insolitamente garbato e versato nel Basico.

Mando sistemò il blaster appeso alla cintura, indugiando sul calcio e serrando le dita su di esso in un’onda ritmica e cadenzata, poi rialzò il visore verso di lei.

«Ma ho bisogno di qualcuno che mi guardi le spalle.»

Cara abbassò per una frazione di secondo gli occhi, quasi percependo quelli di Mando che la fissavano direttamente da dietro il beskar. Non era tipo da sprecare parole per girare attorno ai fatti, né si era fatto problemi in passato nel chiedere aiuto a lei e a Kuiil, ma non si sarebbe mai aspettata un’ammissione di quel tipo. Le diede solo un’idea più chiara di quanto, davvero, fosse sul chi vive dopo l’incontro-scontro con quell’ex-Imperiale. Addirittura, spaventato. Iniziava a provare un’inquieta curiosità: da parte di qualcuno che aveva affrontato un mudhorn a mani nude, quell’atteggiamento non era rassicurante.

Ma decise comunque che il momento delle chiacchiere era finito: si piantò con decisione le mani sui fianchi, annuendo nel riportare lo sguardo fermo sul compagno.

«Tanto la mia “pensione” è finita da un pezzo,» asserì, gettando tra loro un mezzo sorriso mentre si avvicinava con una singola falcata allo schieramento di blaster di fronte a lei.

Socchiuse gli occhi, studiando uno ad uno i vari pezzi meticolosamente mantenuti. Mando le diede un colpetto sul gomito, in un goffo invito.

«Scegli quello che vuoi. Vado a sistemare il Bambino.»

«Starà bene, qui?»

L’esitazione da parte del Mandaloriano la indusse a voltarsi verso di lui, fermo con un piede puntato su un piolo della scaletta.

«Verrà con noi.»

Il fatto di schiudere la bocca al colmo della sorpresa sfuggì totalmente al controllo di Cara.

«Come, scusa?»

«Dove vado io, va lui,» concluse stoicamente Mando, sparendo nella cabina di pilotaggio senza un ulteriore commento.

Ma, nell’occhiata invisibile che le indirizzò poco prima di sparire oltre il boccaporto, Cara poté quasi cogliere un irremovibile “ho parlato”.
 
 
 
 
 
Miniere di Kaha, Pianeta Awath
 
Gli speeder sfrecciavano a rotta di collo nell’oscurità. Mando, di fronte a lei, veniva inghiottito ad ogni battito di ciglia dal buio, un’impressione frutto dell’alternanza tra luce e ombra creata dalle potenti lampade incassate a intervalli regolari nelle pareti del tunnel. Quell’intermittenza le ricordò in modo imprevisto le strade chiassose di Crevasse City, annidata nel canyon che le dava il nome e irrorata comunque dalle luci vivaci di locali, veicoli e lampioni. Strinse la presa sul manubrio e ruotò un polso, divorando il distacco tra lei e il Mandaloriano come se la velocità potesse sfilarle di testa quelle immagini.

Si affiancò all’altro speeder e colse uno scorcio del Bambino che, saldamente ancorato alla sua culla sul portapacchi, si godeva il vento sotterraneo con un sorriso estatico a far da raccordo tra le orecchie svolazzanti. Bastò a distrarla, come se qualcuno avesse passato una mano sul vetro appannato dei ricordi restituendole una visione limpida.

«Destra al prossimo bivio,» gracchiò Mando attraverso il comlink, e Cara s’inclinò di conseguenza sul sellino, assecondando la curva del tunnel in leggera pendenza.

Erano partiti da poco meno di una decina di minuti, e iniziava a prendere coscienza delle tonnellate e tonnellate di roccia, terra e salgemma compresse sopra la sua testa. I massicci puntellamenti in durasteel che costellavano l’arco del tunnel davano una relativa impressione di stabilità, ma non poteva dire di sentirsi a suo agio, soprattutto non dopo il claustrofobico incarico su Bespin. Almeno il ginocchio, dopo generosi impacchi di bacta, aveva smesso di dolerle... aveva l’impressione che la taglia corrente le avrebbe richiesto ogni briciolo d’energia.

«Cosa diceva il chit?» chiese, attraverso il comlink.

Un repulsorcraft da trasporto carico di sale grezzo comparve sulla loro traiettoria, e si divisero in sincrono per evitarlo, riaffiancandosi in un’onda controllata.

«Ricerca e recupero.»

A Cara scappò uno sbuffo sarcastico.

«È un vostro codice?»

«Di solito, in questo ambiente vuol dire “caccia e terminazione”
.»

«Almeno è un lavoro familiare,» commentò lei, un attimo prima che un lieve dosso del terreno facesse sobbalzare entrambi gli speeder; ripresero la traiettoria senza scarti, assecondando il dislivello. «Quasi spero che siano Imperiali in fuga

Mando si schiarì la voce in modo udibile, forse camuffando il suo cinico divertimento a quell’improbabile possibilità, senza esprimersi. Ma Cara sapeva che, su quel fronte, erano sulla stessa lunghezza d’onda. Dopo Nevarro, l’idea di piantare un colpo di blaster in un casco Imp si era fatta molto più allettante – ma dopo ciò che il compagno le aveva raccontato su quello Scorch, era ancor più convinta che il Mandaloriano avesse non poca tensione da scaricare. Meglio su delle vere teste di secchio che su potenziali malcapitati e alleati.

Proseguirono lungo l’ampio tunnel per ancora un paio di chilometri, e sulle pareti levigate iniziarono a far capolino delle spigolose formazioni di salgemma dalle tinte più bizzarre: dal verde smeraldo al turchese, dal giallo paglierino al violetto. I colori sfrecciavano in striature variopinte accanto a loro, sfumati dalla velocità: era come attraversare un arcobaleno solido e cangiante. Un’insegna lampeggiante in Aurebesh con due elettropicconi incrociati li avvisò di essere entrati nella zona mineraria attiva, ed entrambi ridussero la velocità per schivare i mezzi da trasporto e i minatori che sbucavano dai montacarichi, o in in cammino tra un sito d’estrazione e l’altro.

Mando chiuse svelto la culla e Cara s’incolonnò dietro di lui, lasciandogli la guida nello zigzagare tra i vari ostacoli, viventi e non, che si paravano dinanzi a loro. Il luccichio del salgemma rifrangeva i fari degli speeder, gettando brillii sulle pareti tempestate di cristalli salini. Il loro passaggio non destò troppa curiosità, ma la maggior parte degli sguardi si appuntò prevedibilmente sul Mandaloriano.

Dopo un paio di deviazioni dal percorso principale e altrettante svolte in tunnel secondari progressivamente più stretti e meno illuminati, si trovarono a percorrere a passo d’uomo un condotto quasi tubolare, con il soffitto sin troppo vicino alle loro teste; Cara si appiattì più che poté sul manubrio, invidiando per una volta l’elmo in beskar di Mando.

Sbucarono in quella che sembrava un’area di manutenzione o smistamento in disuso: due montacarichi mastodontici si aprivano su una parete altrimenti cieca, e dei macchinari di lavorazione erano stipati in un angolo, coperti da teloni in ceraplast macchiati di ruggine e verderame. Lampade sfarfallanti gettavano una luce asfittica, ingigantendo le asperità della roccia. Mando arrestò lo speeder nel mezzo dello spiazzo, scrutando con un palmo già sul blaster il localizzatore che lampeggiava rapido.

«Dovrebbe essere...» cominciò piano, continuando a sfruttare il comlink, ma un rumore ben conosciuto fece balzare entrambi giù dagli speeder ad armi spianate e puntate nella penombra, verso il clic di una sicura rimossa alle loro spalle.

Le bocche di una buona dozzina di blaster li fissarono di rimando, impugnati da altrettante sagome umanoidi – per lo più Verpine, a giudicare dalle loro silhouette contorte. Cara avvertì in Mando la stessa sorpresa che colse lei nel modo in cui fece scattare rapido la testa da un capo all’altro dell’ambiente, in cerca del punto d’origine dei nuovi arrivati. L’ombra appena accennata di una miriade di piccoli cunicoli che punteggiavano la parete a varie altezze diede loro risposta.

Mando, la canna del blaster ben allineata con la testa di un Rodiano più avanzato, sollevò lentamente il localizzatore, che adesso lampeggiava frenetico.

«Siamo la ditta di “ricerca e recupero
,» proruppe Cara, a sua volta senza abbassare l’arma.

Il Rodiano sotto tiro si fece più avanti, rivelando la pelle squamosa dai riflessi violacei e gli immensi occhi in cui nuotavano brillii simili a galassie. Si appuntarono fissamente sull’elmo del Mandaloriano e sembrarono scrutare a fondo il suo visore e la sua armatura, finché non si decise ad abbassare il blaster e rinfoderarlo, intimando lo stesso al resto dei suoi sgherri.

«C’è stato un malinteso,» disse poi, con voce nasale e lievemente stridula, riservando a lei e al suo tatuaggio da shock-trooper un’occhiata penetrante.

A loro volta rinfoderarono con circospezione le armi, anche se nessuno dei due schiodò il palmo dalla fondina. Non sapeva che tipo di “malinteso” intendesse, ma era un motivo in più per non abbassare la guardia.

«Zetz,» disse il Rodiano con una scrollata delle tozze antenne, e solo dopo qualche istante Cara realizzò che quello non era un qualche verso di derisione, ma il suo nome.

«Syn,» replicò pronta lei, mettendo a frutto l’identità fittizia e poco originale fornitale da Karga. Tanto valeva iniziare a farsi un nome. «E non siamo qui per i convenevoli,» aggiunse, quando Mando non accennò a intervenire né a voce né via comlink, intuendo che le stesse lasciando il volante nella trattativa.

«Bene. Anche noi abbiamo una certa urgenza,» concordò Zetz, storcendo la bocca a ventosa in quella che poteva essere una smorfia di disappunto.

Altre figure erano intanto emerse dall’ombra: i contorni filiformi dei Verpine si contorcevano appena nella luce fioca, dando la spiacevole impressione di un brulicare d’insetti. Gli occhi rossastri e inespressivi di un Duros li scrutavano cupi poco più dietro. Non si era aspettata di trovare un gruppo di trafficanti così nutrito là sotto: il contrabbando di sale cromatico di Kaha doveva essere redditizio.

«Accogliete sempre così gli ospiti?» commentò, mentre Zetz si avvicinava a uno dei montacarichi apparentemente fuori uso. 

Lei badò a non voltare mai le spalle né a lui né al resto della banda e Mando fece lo stesso, con la premura aggiuntiva di mantenersi nei pressi della culla sigillata.

«Solo alcuni,» le arrivò in risposta da uno dei Verpine, poco più di uno squittio minaccioso nell’ombra.

Non fu chiaro a chi dei due sistesse riferendo, ma Cara udì nel comlink il mezzo sospiro trattenuto di Mando, più rassegnato che irritato. Non diede comunque cenno di volersi attaccare a quella provocazione.

«I nostri affari richiedono prudenza,» disse invece Zetz in modo sorprendentemente conciliante, rivolgendosi a lei. «C’è un fuggitivo a piede libero, motivo per cui voi siete qui. E non è escluso che sia riuscito a chiamare rinforzi. Mi auguro che sia acqua passata,» aggiunse quindi dopo una breve pausa, indicando perentorio il tatuaggio dell’Alleanza sul suo volto.

Cara frenò l’istinto di portarsi una mano allo zigomo, in un gesto che sarebbe sembrato colpevole. Annotò come problematica l’acutezza del loro cliente: quel simbolo era così piccolo da essere scambiato solitamente per un neo.

«Più che passata. Ho dato da tempo le dimissioni,» scrollò le spalle lei con un brivido di fastidio, lieta di aver celato i marchi da shock-trooper sul braccio.

Zetz premette quindi il tasto di apertura porte, scatenando un mugghiare di ferro e ingranaggi inceppati in risposta; infilò le dita a ventosa nello spiraglio e fece seccamente forza, sbloccando del tutto la porta.

«Di qua,» li invitò con un cenno, salendo per primo; guardò poi il Duros. «Kobal, con me. Gli altri di guardia,» aggiunse, con un cenno ai cunicoli da cui erano apparsi, e il resto del gruppo si disperse come uno zampettante sciame d
insetti nei loro nidi.

Cara indirizzò un’occhiata discreta a Mando, fiutando quella che aveva tutta l’aria di essere una trappola, ma lui si stava già incamminando deciso verso il Rodiano, non lasciandole altra scelta se non imitarlo. D’altronde, era lui ad avere più esperienza in quel mondo di sotterfugi: se il tutto non sembrava losco ai suoi occhi, non aveva motivo di dubitarne.

«E là dentro cosa c’è?»

La voce di Kobal fu un raschiante brontolio di ghiaia, mentre accennava alla culla sospesa che aveva seguito silenziosa i passi di Mando. Quest’ultimo si voltò appena col busto, inquadrandolo nel visore.

«Un droide da ricognizione,» proferì piatto, guadagnandosi un grugnito incerto da Kobal e uno sguardo acuto da Zetz
.

Cara non poté evitare un repentino sguardo al Mandaloriano nel sentire quell’assurdità lasciare la sua bocca, e poco ci mancò che le scappasse un verso incredulo. Un droide. Di tutte le scuse plausibili...

«Niente droidi, ma reggimi il gioco,» le arrivò tramite il comlink, in un sussurro appena udibile e tinto da un’ironia fuori luogo.

«Sa essere irritante, lo teniamo disattivato finché non serve,» buttò lì lei gesticolando verso la culla, senza la minima incertezza a farle vibrare la voce.

Gli altri due
 non sembrarono interessati ad approfondire la cosa. Lei e Mando salirono a loro volta sul mezzo e Zets digitò il livello di destinazione sul tastierino, innescando il gemito di giunture e argani troppo vecchi per essere sicuri. Doveva essere una parte della miniera in parziale abbandono. Gli ingressi ai vari livelli iniziarono a scorrere come bocche spalancate dinanzi a loro man mano che s’immergevano nel sottosuolo. Le sovvenne che dovevano sentirsi molto sicuri di sé, se si arrischiavano a scendere con loro in numero pari, senza avvalersi del resto della banda. Inspirò a fondo.

«Ricerca e recupero di qualcuno, quindi,» proferì, dopo un paio di minuti di agonizzante discesa.

Zetz si riscosse senza un fremito.

«Esatto. Uno dei nostri. Almeno, finché non abbiamo capito che era un infiltrato nei nostri ranghi. Una spia

Quell’ultima parola scaturì come un sibilo dalle sue labbra tubolari.

«Per conto di chi?» chiese Cara, immaginando già una disputa tra bande rivali mentre il montacarichi sferragliava nelle viscere della miniera.

«Sospettiamo che fosse un agente della Repubblica,» rispose invece l’altro, rassettandosi il colletto dello smanicato in pelle chiara, come se il solo nominarla potesse averlo impolverato.

«Un agente della Repubblica per del semplice contrabbando di sale?» indagò Cara, con un’alzata insospettita di sopracciglia.

«Siete ingaggiati per risolvere il problema, non per fare domande,» scattò di colpo Kobal, affiancandosi al Rodiano; Mando lo imitò specularmente, già pronto allo scontro.

Si piazzò direttamente di fronte al Duros, più basso di lui di mezza testa a dispetto dell’elmo e della statura imponente. Cara serrò le labbra, in tensione, pronta a impugnare il blaster. La sensazione di essere womprat in trappola non stava aiutando i suoi nervi – e nemmeno quelli di Mando, a quanto pareva.

Zetz estese lateralmente un braccio, a trattenere il compagno più irruento. Bastò quel gesto a farlo indietreggiare, con una smorfia che gli disegnò rughe sul volto bluastro e privo di naso. Mando non mosse un muscolo. Si limitò a spostare l’attenzione verso quello che, ora senz’ombra di dubbio, era il capo. Il Rodiano ricambiò con uno sguardo sbieco che rese cupi i suoi occhi liquidi, in cui galleggiavano le fioche luci del montacarichi.

«La situazione è leggermente più complessa di una semplice operazione anti-traffico,» spiegò placido, abbassando il braccio e continuando a parlare in modo troppo forbito e pacato, per un criminale di basso rango. «Ma non vi servono i dettagli, per risolverla.»

Stavolta un ago gelido s’insinuò nella sua voce altrimenti gracidante, rendendola salda e dando a Cara conferma che fosse qualcuno avvezzo al comando. Non solo all’interno della sua piccola gang, ma anche, forse, durante la Guerra Galattica. Adesso le venne più facile riconoscere una diritta postura militare, oltre l
’abbigliamento tipico da contrabbandiere. Impossibile dire da che parte della barricata avesse servito, ma l’astio verso l’Alleanza la mise in guardia. Poteva avere radici molto più velenose del proprio.

«Il vantaggio del nostro lavoro è che non serve conoscere i perché,» lo ammansì, approntando un mezzo sorriso di circostanza.

Zetz annuì, sembrando soddisfatto.

Il montacarichi si arrestò in quel mentre con un sobbalzo cigolante, seguito dallo stridio delle porte che si schiudevano di nuovo a fatica, ostacolate dalla ruggine. Uscirono nell’aria stantia di un’anticamera simile a quella da cui erano partiti. Stavolta era illuminata alla meno peggio da faretti bluastri e fosforescenti che, riflettendosi sui pochi cristalli di sale delle pareti, le diedero l’inquietante impressione di essere sott’acqua. L’imbocco di tre tunnel si apriva sulla parete più lunga.

«Questo è un livello ancora in fase di perizia, perlopiù deserto,» annunciò Zetz, con un ampio gesto attorno a sé. «Pensiamo che la nostra talpa si sia rifugiata qua sotto, e che avesse qui il suo campo base per trasmettere informazioni all’esterno. I tunnel pericolanti sono segnati,» aggiunse, come notando il suo sguardo per nulla entusiasta, e indicò una grande X rossa a segnare la parete di uno dei tre ingressi.

Cara sbatté le palpebre, cercando di acclimatare gli occhi alla poca luce. Di bene in meglio, si ritrovò a pensare. Adocchiò un bancone con dell’attrezzatura da minatore, probabilmente lasciata a disposizione dei tecnici incaricati di ispezionare la miniera. Vi si accostò, identificando degli stick fluorescenti, un elettropiccone spento e dei congegni di rilevamento a infrarossi. Nessun comlink.

«C’è segnale per comunicare con l’esterno, così in basso?» chiese cautamente, ritenendo quella un’informazione lecita da esigere.

«In alcuni punti. Non pensavamo fosse possibile, così in basso,» rispose Zetz, fin troppo prontamente e vago al contempo.

«Si prospetta una caccia interessante,» commentò lei sarcastica, per poi voltarsi e tendere con decisione un palmo verso il Rodiano. 

Udì il lieve click di attivazione del comlink nell’orecchio, ma le arrivò solo una scarica di statico. A quanto pareva, quello non era uno dei punti in cui la ricezione era ottimale, anche a corto raggio. Scoccò un
’occhiata laterale a Mando, senza ovviamente riuscire a interpretare cosa avesse voluto dirle.

«Metà adesso, metà a lavoro concluso,» proseguì quindi nell’intento iniziale, notando l’occhiata che si scambiarono i due. «Problemi? Non possiamo esattamente squagliarcela coi crediti, quaggiù.»

«Opinabile,» replicò Zetz, lasciandole intendere che, forse, vi eravo più accessi a quel determinato livello, «ma improbabile. Cinquecento ora, cinquecento dopo.»

«Mille crediti,» sbottò Cara, trattenendo a malapena una risatina incredula. «Mille crediti per una caccia a un agente della Repubblica ottocento metri sottoterra? Per quella somma non prenderemmo neanche un ladro di nerf,» concluse, incrociando le braccia risoluta e pentendosi di non aver trattato immediatamente. 

Era abituata a dettare lei i prezzi: era il cliente a doversi adeguare, con al massimo uno sconto o un sovrapprezzo a seconda dell’incarico. Ma nel mondo delle taglie, sembrava non funzionare allo stesso modo, almeno al di fuori della Gilda. Quella presa di posizione sembrò scalfire l’imperturbabilità di Zetz, che aggrottò la fronte liscia, iridescente di violetti sotto le luci soffuse attorno a loro.

«Mille crediti sono più che sufficienti per stanare un porg in trappola,» sentenziò glaciale.

«O un rancor inferocito, per quanto ne sappiamo, visto che nessuno di voi vuole prendersi la briga di abbatterlo.»

La mano tozza di Kobal scivolò verso la fondina, spingendola a fare lo stesso.

Era pronta a risolvere la diatriba con metodi più diretti, ma non ne ebbe modo:

«Mille crediti e quello,» la anticipò infatti a sorpresa Mando, parlando per la prima volta e richiamando su di sé l’attenzione di tutti.

Una mano era allungata con noncuranza dietro la schiena, verso l’Amban, mentre l’indice libero era puntato verso il blaster a frammentazione Verpine che Kobal portava alla cintura. Zetz e il Duros si scambiarono uno sguardo, forse sorpresi dalla richiesta, o dal fatto che, a quanto pareva, fosse autorizzato a trattare il prezzo al pari di lei. O non propensi a sfidare la modalità disintegrazione di un Amban per una questione futile.

«Signore...» cominciò Kobal inclinando titubante la testa verso il Rodiano, ma questi troncò le sue proteste con un singolo sguardo e annuì secco in direzione di Mando:

«Accordato.»

Bastò un altro brusco cenno del capo, e Kobal, digrignando i denti, porse il pregiato blaster al Mandaloriano, che lo soppesò con gesti esperti prima di riporlo in una fondina da gamba libera.

«A patto che sia un lavoro rapido,» aggiunse Zetz, scrutando entrambi acutamente in volto – per quanto possibile.

«Lo sarà,» gli assicurò Cara, attivando uno degli stick luminescenti. Lo agganciò al fianco e ne lanciò un altro a Mando. «Non vedo l’ora di respirare aria pulita.»

Zetz non rispose, limitandosi a un’occhiata appuntita. Intimò a Kobal di rimanere là sotto, di guardia all’uscita, mentre lui risaliva ai livelli superiori. Sotto gli occhi rossastri e inquisitori del Duros, Mando scrutò l’ingresso di ciascuno dei tre tunnel, probabilmente aiutato dai filtri del visore per rilevare eventuali tracce, e finì col fermarsi dinanzi a quello pericolante. Le rivolse uno sguardo che, ne era certa, sotto al beskar doveva essere rassegnato.

«Ovviamente,» alzò le spalle lei, facendo strada e cercando di non pensare a quante probabilità ci fossero che uno dei sostegni cedesse.

Seguiti dalla culla imboccarono a passi guardinghi il cunicolo, accompagnati dallo sferragliare del montacarico che tornava verso la superficie. Dopo qualche decina di metri, quando furono lontani dalle orecchie e dagli occhi di Kobal, Mando scoperchiò la culla, permettendo al Bambino di prendere una boccata d’aria, non molto più fresca di quella che aveva respirato finora.

L’esserino sgranò ancor di più gli enormi occhi nel vedere un altro strato di buio oltre quello della culla, e si raggomitolò nella sua veste abbassando le orecchie con fare inquieto. Cara non poteva dargli torto. Mando rallentò appena il passo, dandogli di sfuggita un buffetto sul mento col dito, gesto che sembrò rassicurarlo un poco.

Il passaggio curvò a gomito, restringendosi e costringendoli a procedere a capo chino. Dopo qualche metro
 Mando ruppe il silenzio, mandando echi a infrangersi sulle pareti:

«Non te la stavi cavando male, prima.» 

Cara liberò un sospiro incredulo, realizzando solo allora il gioco del Mandaloriano... e trovando conferma di non aver contrattato così brillantemente.

«Infatti. Stavo per concludere la trattativa.»

«Certo,» si limitò a dire lui, loquace per i suoi standard e con un timbro di voce indefinibile.

Cara scosse la testa, per poi bloccarsi folgorata e rifilargli un’occhiata divertita.

«Te la stavi ridendo, vero?» sbottò, vedendo che non aggiungeva altro.

«No.»

La sua voce suonò leggermente più acuta e contratta del solito, tradendolo. Cara ridacchiò al posto suo, scuotendo rassegnata la testa, e trovò inaspettata conferma dei suoi sospetti nel sorriso improvviso del Bambino, come se fosse sintonizzato sull’umore del Mandaloriano.

Continuarono a sprofondare nell’oscurità della miniera, dissipata solo dal fievole lucore fluorescente degli stick, nient’altro che una fragile bolla azzurrina attorno a loro.

 
 
 

Note:
– Le miniere di sale descritte prendono ispirazione da un complesso minerario che ho avuto occasione di visitare in Germania (Salzbergwerk Merkers, in Turingia). Lì vi sono effettivamente dei giganteschi cristalli di sale, che vengono illuminati da giochi di luci colorate per creare effetti ottici e intrattenere i visitatori. Nella storia, i cristalli sono naturalmente colorati per aumentare l’effetto surreale dell’ambientazione. Per un input visivo made by me, cliccate qui.
– Crevasse City era una città su Alderaan, costruita sul fondo e lungo le pareti di un canyon.
Un Verpine-> qui. I Verpine sono noti per la fabbricazione delle omonime armi a frammentazione, silenziose e letali.
P.S. Punti bonus per chi individua la citazione a Il Buono, il Brutto e il Cattivo e quella a The Last of Us!

Note dell’Autrice:

Cari Lett– POSATE I FORCONI!
Sì, lo so che non aggiorno dall’alba dei tempi... sì, me ne dolgo e me ne pento, e avevo pure avuto la faccia tosta di chiudere lo scorso capitolo con un frizzantissimo "alla prossima settimana", seh. Se può consolarvi, almeno ho finito gli esami! Ora ci penserà la tesi a rubarmi il tempo...

Dunque, so che vi aspettavate dei lumi su Scorch, però c’è tempo e luogo per ogni cosa, ma non ora, come si suol dire, e ho strategicamente evitato il PoV Mando proprio per questo. Come ripeto ormai dall’inizio della storia, tutti i nodi verranno al pettine e... indovinate un po’, c’è una bella matassa proprio nel prossimo capitolo ;)

Per ora, godetevi un bel (?) PoV Cara, che mi era mancato scriverla ♥ Vi lascio dunque a chiedervi cosa caspiterina ci sia di così interessante nelle miniere di Kaha ;)

Grazie infinite alla mia Guascosa Miryel, a leila91, AMYpond88, Old Fashioned e LadyOfMischief per aver commentato assiduamente la storia qui su EFP, e a Black Flower per seguirla e commentarla su Wattpad ♥

-Light-


 

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Capitolo 13
*** Episodio 4: La Trappola – Parte I ***


 
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Episodio 4
LA TRAPPOLA

Parte I


 

 “Nessuna taglia vale così tanto da rimetterci la vita.”
— Dal Codice della Gilda dei Cacciatori di Taglie

 
Livello -93, Miniere di Kaha, Pianeta Awath

L’esplosione si propagò nell’ossatura stessa della miniera, riverberando attraverso le pareti del tunnel in un’ondata scricchiolante. Din e Cara si arrestarono brevemente, scrutando lo spazio ristretto con la tensione di chi è fin troppo consapevole della propria impotenza nel prevenire un ipotetico disastro.

Din serrò la mascella in un riflesso involontario, buttando fuori aria dal naso nel sentire le sottili vibrazioni sotto le suole degli stivali e l’inquietante sbriciolarsi roccioso attorno a loro. Gli parve di udire un contraccolpo metallico di porte arrugginite, da qualche parte nei recessi della sua memoria, ma l’unico suono fu quello argentino di sparuti frammenti di soffitto che andarono a picchiettare sul suo spallaccio. Il rombo si attenuò pian piano, divenendo impercettibile se non per il fremito sordo che scuoteva ancora loro i timpani.

Din avvertì un tintinnio acuto risuonargli nel casco, prodotto dal beskar, e strizzò gli occhi in un moto di fastidio – intravide il Bambino fare lo stesso, con le piccole mani premute sulle orecchie ad accartocciarle. Provò l’ennesima, subdola fitta di rimorso per averlo portato con sé. Sapeva che anche Cara, pur nella sua inesperienza nella Gilda, aveva iniziato a pensare che quella non fosse una situazione tipica, nemmeno nel mondo sordido di taglie illegali. Non l’aveva ancora esternato ad alta voce, ma le si leggeva in volto quanto fosse poco convinta dalla situazione. Non poteva darle torto. 

«Questa era più vicina, o sbaglio?» chiese in quel momento lei, con gli occhi acuti che perlustravano il buio azzurrino attorno a loro, in sincrono con la canna del blaster.

Din annuì, pur sapendo di essere a malapena visibile. Aveva evitato di accendere anche la torcia incorporata nell’elmo, così da essere meno individuabili nel buio denso e convoluto dei tunnel, e apriva la strada a entrambi affidandosi alla visione notturna. La culla col Bambino avanzava in mezzo a loro, protetta.

«Dobbiamo essere proprio sotto la zona d’estrazione,» osservò, inclinando d’istinto la testa verso l’alto.

«Finiranno per dover estrarre anche noi.»

Lui annuì di nuovo, distratto, assecondando quell’umorismo tetro a cui, normalmente, avrebbe contribuito. Sapeva di essere nel bel mezzo di un incarico, e di dover quindi convogliare tutta la sua attenzione al momento presente, ma la verità era che la sua mente si ostinava a divagare, seguendo le linee intersecate di più discorsi e ricordi che gli si accavallavano sotto l’elmo, dandogli l’impressione di non avere più spazio per respirare, là sotto.

La discussione con Scorch gli si avvitava in testa da due giorni. Pezzi di informazioni sconclusionati, per lo più. Racconti stracciati della guerra che aveva devastato e dato indirettamente nuova forma alla sua vita, e che Scorch aveva combattuto in prima persona, uscendone altrettanto a pezzi. Geonosis, Mygeeto, Kashyyyk, Coruscant: battaglie che Din conosceva di nome, per fama di sangue e caduti, su pianeti su cui non aveva mai messo piede. Frammenti di rivelazioni che gli si erano conficcati in testa, pungenti, il più acuminato dei quali gli inviava delle fitte acute dietro gli occhi, come un’emicrania insistente.

C’erano altri Mandaloriani, oltre alle Tribù. Quel pensiero si contorceva attorno al suo cervello con le spire di un verme delle sabbie, stritolandolo. Aspirò aria stantia dentro l’elmo, focalizzandosi sui propri passi in mancanza di altri appigli nell’oscurità.
Non adesso, si ripeté stentoreo, pur incapace di tenere strettamente in mano tutti i capi sfuggenti dei propri pensieri. Altri Mandaloriani, gli bussò comunque in testa, con un rintocco di beskar grezzo. 

Non erano le Tribù, gli ultimi Mando’ade sopravvissuti, gli ultimi rimasti a seguire e tracciare la Via. Esistevano dei superstiti, là fuori, che non erano stati completamente annichiliti nella Grande Purga come gli era sempre stato raccontato, nelle sere fredde passate ad ascoltare miti e leggende attorno alla forgia languente. Sfiatò dal naso, liberando una lieve scarica statica dal vocoder. Spaesamento, ma anche frustrazione. Ne avvertiva la stretta sulle costole.

Perché non ne sapeva nulla? E perché, poi, non sapeva nulla nemmeno dei Jedi? Mandalore il Grande, aveva detto l’Armaiola... millenni fa, un Ordine di stregoni estinti, perso nelle nebbie del tempo, loro acerrimi nemici. Eppure, un soldato Clone – e a quanto pareva mezzo Mandaloriano, qualunque significato avesse quell’espressione assurda – pareva saperne molto più di lui.

Certo che li conosco! Siamo stati la loro carne da macello per anni e adesso a quanto pare hanno pure salvato la Galassia. Dov’è che hai vissuto finora, ner vod? Sotto una roccia? 

Iniziava a crederlo realmente, a quel punto. L’eco di un’altra esplosione, più cupa, gli ricordò che quella sua condizione non fosse del tutto metaforica. Torse nervosamente il collo verso il soffitto: dubitava che ai piani superiori della miniera tenessero conto della stabilità di sottolivelli in teoria vuoti, se non per due cacciatori di taglie, un infante e una presunta “spia della Repubblica”. 

Se quella taglia non fosse stata una dritta di Scorch, avrebbe già piantato un colpo di blaster nella testa iridescente di Zetz – di cui aveva fiutato la divisa da ex-Imperiale a tre klick di distanza – per poi tornarsene di gran carriera all’aria aperta. Ma la curiosità aveva preso il sopravvento, come raramente era accaduto nel corso della sua carriera, e come sempre più spesso accadeva da quando aveva il Bambino con sé.

Quel Clone non era un Mandaloriano, a dispetto di ciò che lui sosteneva con veemenza – e anche a considerarlo tale, non seguiva comunque la Via. Ma Din aveva imparato già da tempo a seguire le prime impressioni. Nonostante il loro primo incontro burrascoso, l’istinto gli aveva detto di potersi parzialmente fidare. E l’istinto, subito dopo, l’aveva convinto a indirizzare Scorch su Nevarro e Cara lì su Awath.

Si lanciò un’occhiata sopra la spalla, verso il Bambino: si ritrovò i suoi occhi vigili già puntati addosso, come se avesse anticipato il suo sguardo. Din non riusciva a smettere di pensare che, in quel gioco di incastri e spostamenti, fosse stato proprio il piccolo a indirizzare lui su quell’esatto pianeta. Avvertiva ancora la lieve spinta che aveva mosso il suo sguardo sulla mappa, verso Awath. Era quella, la “forza” di cui tutti parlavano? Non avrebbe saputo dirlo. In quel momento, si sentiva nel bel mezzo del Canale di Kessel, in balia delle correnti e con masse di gas e ghiaccio in continuo movimento a circondarlo minacciose, capaci di ostacolare la sua rotta in modo imprevedibile nonostante avesse le mani ben piantate sulla cloche di volo.

Si riscosse, riportando lo sguardo davanti a sé, per poi spostarlo di nuovo verso Cara, che si lanciava occhiate nervose alle spalle mentre riassestava la presa sul blaster. L’istinto gli suggeriva anche di mettere lei al corrente dell’intera situazione, e alla svelta, prima che precipitasse. O che lei scoprisse per conto proprio i doppifondi di quella che non era esattamente una semplice taglia. Un’omissione del genere, specie se protratta più del dovuto, sarebbe andata a minare una fiducia importante, che non aveva nemmeno avuto bisogno di essere costruita: si era dipanata tra loro con la stessa naturalezza di un respiro.

Il claustrofobico tunnel in cui stavano avanzando si allargò un poco d’un tratto, permettendo loro di proseguire affiancati, sempre con la culla a galleggiare di mezzo – le orecchie del Bambino sporgevano curiose dal bordo, recettive a ogni minimo rumore. Di tanto in tanto, la luminescenza degli stick si rifrangeva su qualche sparuto cristallo di sale colorato che sporgeva dal soffitto e dalle pareti. Non sembrava una zona particolarmente ricca di giacimenti.

«A te sembra normale una segretezza simile per del semplice contrabbando di sale?» chiese Cara, adocchiando uno dei prismi variopinti e semitrasparenti con fare dubbioso.

Din non rispose immediatamente, sollevato di non dover introdurre lui quell’argomento più spinoso di un nexu.

«Non lo è, infatti,» rispose nel modo più naturale che gli riuscì. «Zetz ti sembra un trafficante?»

«A me puzza di Imperiale.»

Din si limitò ad annuire in conferma, affatto sorpreso dalla sua perspicacia. Rallentò poi un poco l’andatura nello scorgere delle chiazze rossastre sul visore, a segnalare del pietrisco smosso. Difficile dire se fossero stati dei passi, un mezzo di trasporto o qualche animale: i segni erano appena percettibili. Si fermò del tutto, analizzando la zona e lasciando momentaneamente cadere il discorso.

«Te n’eri accorto,» ruppe il silenzio Cara, in tono blandamente accusatorio.

«Lo sapevo già,» colse al volo l’occasione lui. «Questa taglia è... particolare.»

«L’avevo intuito,» lo rimbeccò Cara, fermandosi del tutto e rivolgendo lo sguardo allo stesso punto nel terreno che lui stava esaminando. «Tracce?»

«Forse. È stato attento a non lasciarne.»

«La nostra “spia”, dici.» Cara incrociò le braccia, fissando il suolo, e riportò poi lo sguardo da terra a lui. «Vuoi spiegarmi?»

Din scosse la testa, liberando un mezzo sospiro.

«La “ricerca e recupero” è per conto di Scorch. L’obiettivo è un suo informatore che è finito nei guai con la banda di Zetz... è un ex-Imperiale, ha messo lui la taglia come esca. A quanto pare, sono solo capitato nel posto giusto al momento giusto,» scrollò le spalle, con un moto inquieto e uno sguardo invisibile al Bambino, che nel mentre trafficava tranquillamente col suo ciondolo in beskar.

Gli occhi di Cara si assottigliarono, sospettosi.

«Un “informatore”. Che finisce nei guai proprio con un Imperiale,» ripeté, scandendo le singole parole. Poi chiuse brevemente gli occhi, con un fremito. «Per chi stiamo lavorando?»

Din si distolse dalla sua perlustrazione, ritenendo giusto fronteggiarla del tutto, nel rispondere.

«Non l’ha detto esplicitamente. Ma è plausibile che sia la Nuova Repubblica,» rispose, senza riuscire a trattenere una sfumatura colpevole nella voce.

Prevedibilmente, Cara distolse di scatto lo sguardo, voltando la testa di lato a fissare l’oscurità attorno a loro. Una linea rigida le segnò la mandibola.

«Sul serio, Mando?» sbottò poi in un soffio irritato, gesticolando col blaster e tornando a guardarlo con un lampo nelle iridi un palmo che andò a piantarsi sul fianco. «Sai benissimo che non voglio affiliarmi a loro. Né tantomeno fare i loro lavori sporchi.»

«Lo so,» replicò lui, senza negare, né giustificarsi.

Inclinò senza volerlo il capo verso il piccolo, che adesso li stava osservando a turno, con una scintilla preoccupata negli occhi e il volto seminascosto dal bordo della culla, a cui si aggrappava con insolita forza. Non stavano esattamente litigando, ma forse riusciva a percepire la stilla di tensione tra loro, in quel suo modo che non comprendeva appieno.

«C’entra lui?» chiese secca Cara, notando il suo gesto.

«Spero di sì,» rispose Din, senza riflettere. Intercettò lo sguardo affilato di Cara, che lo spronò a elaborare: «Non mi interessano le beghe della Repubblica. Ma Scorch ha delle informazioni rilevanti, sull’Impero, sui Jedi...» esitò, cogliendo la repentina sorpresa sul viso dell’altra, che aumentò col continuo: «... e su altri Mandaloriani.»

A quell’ultima parte non poté fare a meno di scuotere appena l’elmo, ancora restio ad accettare quell’ipotesi assurda, che incrinava tutte le convinzioni che aveva sempre avuto. E ne rinsaldava altre a cui non pensava da anni, da quando aveva giurato e indossato il beskar. Altri Mandaloriani, sopravvissuti. Di cui era stato attivamente tenuto all’oscuro. Gli si seccò la bocca come se vi fosse passata una folata di vento di Tatooine, a fomentare di nuovo speranze vane e amare sopite da tempo.

Cara a quel punto annuì appena, tirando le labbra. Qualche nodo contratto si sciolse sul suo volto, anche se i suoi occhi rimasero duri, ridotti a schegge sottili.

«Una taglia ricca.»

«Ne ho accettate di peggiori, per molto meno.»

Vi fu un battito silenzioso ad echeggiare tra loro. Din sentiva addosso, nel beskar, quell’ombra grigia dell’incarico che non aveva portato a termine e che, a volte, ancora gli corrodeva la coscienza quando posava lo sguardo sul Bambino. Cara distolse brevemente gli occhi dal suo visore, fissando proprio il Bambino. Allungò una mano delicata a sfiorargli la guancia, suscitando da parte sua un versetto entusiasta.

«Pensi davvero che questo Scorch possa aiutarti?» chiese poi Cara, in tono più morbido, ancora senza guardarlo.

Din si accostò a sua volta alla culla, avvertendo l’aria tra loro che si distendeva appena, anche se l’irritazione della guerriera era ancora palpabile.

«Potrebbe dirci di più su Gideon. E sa qualcosa sui Jedi. Più di qualcosa. Da quanto ho capito li ha incontrati di persona. Erano... militari, nelle Guerre dei Cloni,» aggiunse, senza nascondere il proprio sconcerto nel ripetere quei fatti privi di qualunque contesto o appiglio.

Di quel conflitto ricordava solo droidi ed esplosioni. La fame, i rombi dei caccia in picchiata, i volti sempre più preoccupati dei suoi genitori, ormai annacquati dal tempo. Nessun guerriero armato di spade luminose, come quelli descritti da Scorch. Cara inarcò le sopracciglia, ma sembrò perplessa, più che sorpresa.

«Allora non erano leggende.»

«Tu almeno le hai sentite,» replicò lui, in uno scatto d’acredine che non riuscì a reprimere, rivolto a tutti e nessuno.

Cara gli scoccò un’occhiata interdetta, e Din si rese conto di aver alzato la voce, almeno per i suoi standard. Rivolse lo sguardo altrove, traendo un respiro lento, a calmare parole e pensieri. Lei passò una mano a scostarsi la frangia dal volto, in un gesto nervoso.

«Senti, capisco perché tu abbia accettato, ma io ho un conto aperto con l’Alleanza. Non mi piace ritrovarmi a lavorare per loro senza poter decidere.»

Din annuì piano, serrando una mano sul bordo della culla – il Bambino vi posò subito entrambi i palmi. Poi annuì di nuovo, con più intento, a segnalare che aveva capito davvero. Non si era sentito a posto sin dal principio, con la decisione di omettere quel particolare, e trovarne conferma da parte sua gli causò una sensazione viscida nello stomaco, visto che stava iniziando a capire come ci si sentisse, ad essere all’oscuro di qualcosa.

«Scusa,» disse soltanto, senza agghindare quella semplice parola di aggiunte superflue. 

Bastava a se stessa, dopotutto. E se così non fosse stato, Cara avrebbe avuto tutte le ragioni della Galassia per risentirsi e mantenere il punto. Lei, però, gli indirizzò un sorrisetto inaspettato.

«Ti avrei aiutato lo stesso,» specificò poi, con disarmante semplicità, prima di rimettersi in marcia come se non si fossero mai nemmeno fermati.

 
La loro “spia” si era data da fare nel celare ogni più piccolo segno della sua presenza. In due decenni abbondanti di carriera, Din aveva raramente avuto a che fare con una scarsezza tale di tracce, e la sua tariffa lo annoverava chiaramente tra i professionisti del settore. Da un lato, ciò tramutava la caccia in una sfida che non poteva definire del tutto spiacevole; dall’altro, col rischio tangibile di una minaccia Imperiale tra capo e collo, avrebbe preferito ritrovarsi tra le mani l’ennesimo Weequay sbrigativo e superficiale che segnava la sua rotta a forza di bottiglie di spotchka abbandonate. Stavolta, iniziò a ritenersi fortunato nel cogliere qualche sassolino smosso, o una mezza impronta semi cancellata su una parete, invisibile se non tramite il rilevatore organico.

Quella parte della miniera sembrava scavata in modo più grossolano, a rozzi colpi di piccone e senza nessuna levigatura finale, al contrario dei livelli superiori. Già da qualche minuto, procedevano in tunnel ramificati, invasi da pietrisco residuo e costellati di piccoli smottamenti affatto rassicuranti, soprattutto vista la progressiva rarità dei puntelli di sostegno. Molti spazi sembravano invece naturali: ampie cavità tondeggianti in cui si scorgevano stalattiti e stalagmiti, oltre a cristalli di sale più imponenti.

Il lato positivo era che, su un terreno così dissessato, riusciva a cogliere con più facilità strascichi di eventuali passaggi, per quanto minimi. Notò che il Bambino iniziava a dare qualche cenno di irrequietezza, emettendo di tanto in tanto qualche vagito o trillo scontento, placato da lui o Cara a seconda di chi si trovasse più vicino alla culla. Non lo considerò di buon auspicio, e anche gli occhi di Cara si erano fatti via via più mobili, suscettibili al minimo scricchiolio o lieve eco che si propagava nei tunnel bui. Le esplosioni sopra di loro si erano rarefatte, a malapena udibili se non per le vibrazioni più gravi, che avvertivano direttamente nelle ossa.

Proprio quando Din stava per suggerire di tornare indietro, frustrato dalla totale assenza di tracce negli ultimi trecento e passa metri, fu distolto da un fugace sfarfallio rossastro del visore. Si arrestò di colpo, con la culla che andò a urtargli contro le reni.

«Mando?» gli arrivò subito la voce di Cara, seguita dal rumore meccanico del blaster impugnato più saldamente.

Non rispose subito, all’erta ma non ancora in allarme, e portò una mano ai comandi esterni del visore, mettendo a fuoco le vivide macchie che costellavano il suo campo visivo. Segni di una lotta, apparentemente: solchi profondi sul brecciolino indicavano una specie dotata di artigli, possibilmente massiccia, e comunque dotata di una forza considerevole. Vide con la coda dell’occhio Cara che si accostava a una parete, sulla quale, ben distinguibile, spiccava il segno biancastro di due paia d’unghie che avevano scalfito nettamente la superficie.

«Ho una mezza idea di che fine abbia fatto la nostra spia,» asserì tetra, inginocchiandosi a raccogliere qualcosa.

Sollevò tra due dita un brandello di stoffa di un arancione vivo, mostrandoglielo nella luce fioca.

«E del perché non siano andati loro stessi a stanarla,» completò Din, afferrandolo e prendendo nota dell’assenza di sangue sul tessuto. «Dei krykna?» suppose poi, scandagliando il buio con un fremito sulla nuca al solo pensiero.

«Non vedo ragnatele,» scosse la testa lei. «E avremmo sentito già da tempo dei fyrnock. Ci avrebbero braccati.»

Strinse le labbra in una linea tesa, rivolgendogli uno sguardo significativo, a indicare l’unica altra creatura feroce e indesiderabile che avrebbero potuto trovare in una miniera, nel buio assoluto e a quelle profondità. Din gettò la testa all’indietro, ruotando sul posto a guardarsi le spalle d’istinto, rilasciando al contempo un’imprecazione soffocata.

«Dank farrik

«La taglia non prevedeva di strappare le orecchie a un gundark.»

«A saperlo, avrei chiesto molto più di un Verpine.»

«Le tracce ti sembrano recenti?»

«No. Almeno non credo. E non c’è sangue.»

«Possiamo prenderlo per un buon segno, almeno.»

Si fissarono in silenzio per qualche secondo, scambiandosi sguardi inquieti col Bambino nel mezzo che, al contrario, ora sonnecchiava beato e ignaro del loro turbamento. Anche quello, almeno, era un buon segno.

«Quanto vuoi quelle informazioni?» proruppe infine Cara, rialzandosi in piedi.

Din sospirò a fondo, con l'impressione di intercettare ombre inesistenti nell
oscurità. Un esemplare adulto avrebbe potuto farli a pezzi senza difficoltà, soprattutto in un ambiente così angusto, e non volle pensare alla possibilità di un branco intero. Rinfoderò il blaster e imbracciò l’Amban, impostando la modalità shock – meglio un gundark stordito che inferocito da una ferita non letale.

«Sono le uniche che ho trovato finora,» replicò quindi, facendo un gesto deciso verso la continuazione del tunnel con la baionetta biforcuta.

Gundark o meno, avevano un incarico da portare a termine. E non era certo che tornare indietro a fronteggiare un branco di Imperiali sotto mentite spoglie sarebbe stato poi così pacifico, soprattutto se, come sospettava, avevano intuito che non erano ordinari cacciatori di taglie. Avanzò di qualche passo, e notò qualcos’altro di insolito: a qualche decina di passi da loro, un chiarore sfumato tingeva l’oscurità.

«C’è una luce, più avanti,» annunciò sommessamente, sollevando in automatico la canna del fucile.

«Non so se sperare che sia un’uscita,» commentò altrettanto piano lei, imitando il gesto difensivo.

«Non credo. Non è luce solare,» confermò lui, osservando l’insolita lunghezza d’onda riportata in sovrimpressione al visore. «E nemmeno artificiale.»

Cara gli rivolse uno sguardo interrogativo, ma lui si limitò a un’alzata di spalle, a nascondere la perplessità. Vivevano in una Galassia troppo vasta e ricca di stranezze, per interrogarsi troppo a lungo su quel dettaglio. Riprese ad avanzare con più cautela, distribuendo accuratamente il peso sulla suola degli stivali per ridurre il rumore. Cara gli tenne dietro allo stesso modo.

Il cambiamento di luce divenne man mano percettibile a occhio nudo, e Din scorse quello che sembrava uno spazio più vasto, nel quale sbucava il tunnel. Sembrava punteggiato da fievoli lumicini, a stento distinguibili. Pochi istanti dopo, fecero il loro ingresso in quella che era a tutti gli effetti una caverna naturale, dal soffitto che s’impennava sopra di loro con un’altezza inaspettata. Nella sua vastità, avrebbe potuto accogliere senza problemi l’intera cittadina di Gyra.

Un’infinità di cristalli di sale punteggiava ogni centimetro di roccia, dalle pareti, al soffitto, alle formazioni rocciose e stalagmiti che la occupavano. Erano molto più piccoli di quelli che avevano visto finora, grandi al massimo come il bossolo di un proiettile, ma sembravano in qualche modo più puri, quasi fossero gemme preziose. Cara si lasciò sfuggire una sommessa esclamazione di meraviglia, e anche Din trattenne a stento lo sconcerto nel trovarsi in un luogo simile. Ruotò sul posto, scorgendone a malapena i confini e sentendosi d’un tratto microscopico, inghiottito nelle viscere stesse della terra, inaspettatamente belle.

Anche il Bambino sembrò ridestarsi, d
’un tratto incuriosito da ciò che lo circondava, e prese ad osservare con rapita curiosità quei piccoli lumicini cangianti attorno a lui. Fu allora che Din notò l’ennesima stranezza: i cristalli non si limitavano a rifrangere semplicemente la luce. Sembravano brillare: una fioca ma tenace luminescenza che diffondeva un tenue chiarore ben distinguibile. Din si accostò a un’escrescenza rocciosa, fermandosi a debita distanza da essa.

«È... sale?» chiese ad alta voce, esprimendo il suo dubbio e osservando uno dei piccoli prismi più vicini, che sembrò ammiccare in risposta con uno scintillio.

«Non mi sembra,» rispose Cara, incerta, fermandosi a sua volta a qualche passo da quelle bizzarre pietre che, almeno finora, sembravano innocue.

Din osservò meglio la sua compagna, notando un suo movimento insolitamente brusco: sembrava turbata, quasi agitata.

«Tutto bene?»

«Non lo senti?» replicò lei, in tono confuso, mentre si guardava intorno.

«Cosa?»

«Non... non lo so. Una specie di pressione

Din fece cenno di no, arricciando le sopracciglia sotto l’elmo in un riflesso automatico, e scoccando un
’occhiata diffidente ai cristalli. Gli parvero vivi, e arretrò di mezzo passo, serrando la stretta sull’Amban.

«Che intendi con– ad’ika! no!» sbottò allarmato, nel vedere il Bambino sporgersi dalla culla e tendere la piccola mano verso uno dei cristalli lì vicino.

Si slanciò verso di lui per tentare di fermarlo, mosso dal puro istinto protettivo nei confronti di qualcosa di sconosciuto, ma non fu abbastanza rapido: il piccolo toccò con intento una delle pagliuzze colorate, di un verde brillante e rigoglioso come le foreste di Sorgan dopo la pioggia.

Vi fu un istante di stasi elettrica. Din inchiodò nei propri passi, quasi perdendo il fiato per la tensione.

Poi, il cristallo si accese, brillando di luce propria. E così quello accanto, di un blu pallido, e quello accanto ancora, di un verde più intenso, smeraldino, in un’onda luminosa che andò a investire ogni singola gemma incastonata nella caverna. Blu, verde, viola, arancio, bianco: l’intero spettro dei colori si rifranse da ogni angolo in brillii ritmici, pulsando lievemente di un chiarore soffuso.

Din ruotò sul posto, dimentico del presunto pericolo, rimanendo a fissare quello spettacolo di luci a bocca aperta. Il suo beskar catturava i riflessi, dipingendosi delle più varie sfumature che ne accarezzavano la superficie. Mosse un passo trasognato, la testa inclinata verso l’alto, verso il soffitto che si era animato di migliaia di stelle multicolori, come un secondo cielo. Si accostò piano alla culla, dove il Bambino continuava a tenere un palmo premuto contro quel cristallo, gli occhi semichiusi per la concentrazione.

Un gruppo di cristalli lì vicino brillò con più intensità: raggi oro, turchese e indaco intaccarono la penombra, per poi affievolirsi e brillare di nuovo, uno ad uno, ritmicamente, in una danza imprevedibile. Un’altra manciata di cristalli pulsò in rapida successione, disegnando una scia intermittente che terminò in un fulgore di luce a qualche metro di distanza, dove altri ancora si rianimarono in una corolla verde e arancione, screziata di rosa. Cara gli si affiancò, con la stessa espressione di estasiata meraviglia dipinta in volto.

Seguirono muti quel susseguirsi di coreografie luminose, finché Din non riportò lo sguardo al piccolo, che sfoggiava, tra le minute rughe di concentrazione, un’espressione beata e indiscutibilmente felice che gli inclinava la bocca verso l
’alto. Stava... giocando, realizzò Din. Sentì un piccolo sorriso affiorargli alle labba nel guardarlo e, immediatamente, il Bambino alzò la testa verso di lui, aprendo gli occhi e illuminandosi a sua volta come i cristalli attorno a loro. Din avvertì una lieve pressione sullo sterno, come se una mano minuscola vi si fosse posata, incorporea, eppure reale. Portò una mano alla corazza, sull’esagono che la decorava. Trovò solo beskar, ma anche l’orma di un tepore invisibile. E per un attimo, nel suo petto in tumulto vi furono solo quiete, silenzio, e il sussurro di pensieri sereni, di voci amate, di ricordi tiepidi, vicini e lontani.

Din
’ika – un mormorio lontano, insabbiato nella memoria, accompagnato da una carezza sul mento – Din – un richiamo più vicino, infantile, sconosciuto e noto al contempo, accostato al cuore con un peso lieve. Trattenne il respiro, quasi a trattenere nel petto anche quelle sensazioni impalpabili.

Quel momento s’incrinò, con un suono udibile, assieme al cristallo scelto dal Bambino: la superficie si crepò di netto. Il lucore si spense, e la pietra divenne di un grigio smorto. Il piccolo riportò l’attenzione su di esso, imbronciandosi e lasciando scivolare i frammenti tra le dita tozze. Una ad una, la miriade di luci che li aveva avvolti in una Galassia si spense quietamente, come se fosse arrivata l’alba a dissiparla.

Din batté le palpebre, scoprendole umide e sentendosi come se si fosse risvegliato da un sonno particolarmente profondo. Cara rilasciò un respiro brusco, altrettanto disorientata.

«Cosa... cos’era?»

«Non ne ho idea,» mormorò, la voce incastrata in gola, per poi accennare col mento al Bambino, che gli rivolse uno sguardo quasi colpevole. «Ma sei stato tu. Vero?» aggiunse, con dolcezza che gli sovvenne spontanea, inclinando appena il capo di lato nel guardarlo.

Il piccolo tubò sommessamente, sporgendo il labbro e allungando subito la mano verso di lui. Din fece lo stesso, lasciando che si aggrappasse alle sue dita e vi si abbracciasse del tutto, quasi avesse
 bisogno di conforto. Sembrava improvvisamente stanco e, se non fossero stati lì, in quel momento, l’avrebbe preso in braccio per farlo addormentare sulla sua spalla, come tante altre volte sulla Crest.

«L’ho sentita. Quella… sensazione che dicevi,» proruppe, senza guardare direttamente Cara, sentendosi insensatamente elettrizzato nel parlare. «Ma... credo dipendesse da lui. Non mi è mai capitato, prima.»

Scosse la testa, confuso, con ancora l’ombra di quel contatto sullo sterno e l
’eco di una voce spenta da tempo nella mente.

«A me sì. Una volta, su Endor.» Cara fece una pausa, corrucciandosi. «Ma è stato diverso. Era più... rumoroso. Più cupo. Non saprei come altro spiegarlo, ma non era una sensazione neutra, come questa.»

Il Bambino, in quel momento, aumentò la stretta sul suo guanto, emettendo uno squittio. Din voltò subito il capo verso di lui, incontrando i suoi occhi sgranati. Chiuse appena il pugno, inglobando le sue mani, non capendo il motivo del suo turbamento e sentendosi ancora estraniato dalla realtà.

«Non era neutra. Era...» si interruppe, per poi proseguire senza curarsi di quanto ridicolo potesse suonare, fissando il Bambino e desiderando, per la prima volta con una nitidezza accecante, che potesse vederlo in volto, «... rassicurante.»

Aveva appena finito di parlare, quasi inciampando in quelle parole, che un ruggito riecheggiò nella caverna, facendo tintinnare i cristalli. Din ebbe appena il tempo di chiudere la culla e imbracciare l
’Amban, prima che un’ombra massiccia si scagliasse dal buio verso di loro.

 
 
 

Note dell’Autrice:

Cari Lettori: MANDO IS BACK!
Scusate la lunghissima assenza... rimedio con un capitolo di lunghezza biblica, però!
Penso ormai la maggior parte di chi mi segue sappia che sono stata impegnata coi mostri chiamati tesi&laurea (altro che gundark...), quindi il tempo e la concentrazione sono stati abbastanza rarefatti. Ora, però, sono libera di dedicarmi nuovamente a questa storia con regolarità ♥ 


Come annunciato nella descrizione, Vode An è stata sottoposta  a revisione completa, con svariate aggiunte e modifiche – nulla, però, che vada a intaccare la trama in sé, quindi procedete tranquilli nella lettura. Semplicemente, ho ampliato un paio di dialoghi e sistemato il layout, oltre ad aggiungere le citazioni (fittizie o meno) in stile Dune che trovate in apertura. 
La scena dei cristalli era in fabbricazione dalla bellezza di sei mesi, quindi spero davvero che vi sia piaciuta (e che si sia capita la natura degli stessi *wink*). Il prossimo capitolo porterà con sé l'ennesima ventata di rilevazioni, quindi... tenetevi pronti B). 

La smetto di dilungarmi e... è bello essere tornati in questa Galassia. Un grazie gigantesco a tutti coloro che hanno votato, letto e commentato questa storia, in particolare a AMYpond88CossiopeaHelmwige, leila91OldFashioned, che hanno letto e commentato assiduamente la storia. E a quella Guascosa di miryel che mi sopporta in ogni dove e ancora non s’è stufata, la possino ♥ 

Grazie ancora, e alla prossima!

-Light-

Glossario (o forse bestiario, in questo caso):
– nexu: creatura feroce dotata di due paio d'occhi e aculei.
– krykna: i simpatici ragnetti che appaiono nella S2 (non confermati ufficialmente) e in Rebels.
– fyrnock: creature simili a cani-pipistrello, timorosi della luce del sole. Molto aggressivi e rumorosi, cacciano in branco.
– gundark: grandi creature rosse dotate di artigli, zanne e quattro zampe, più due braccia prensili sul ventre. Per niente amichevoli, esiste il detto "così forte da strappare le orecchie a un gundark" [cit. Han Solo – Episodio V, per inciso], di qui il commento di Cara.

 

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Capitolo 14
*** Episodio 4: La Trappola – Parte II ***


 
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Episodio 4
LA TRAPPOLA

Parte II




“Non ti vedevo così teso da... da quando siamo caduti in quel covo di gundark
Ci sei caduto tu, Maestro, e io ti ho salvato. Ricordi?
Ah... giusto.
— Obi-Wan Kenobi e Anakin Skywalker,
durante le Guerre dei Cloni



Artigli affilati stridettero contro il beskar in un coro dissonante, sprizzando scintille nella sua visuale. L’urto fu così violento che fu scagliato all’indietro a impattare di schiena contro la sporgenza, il braccio rivestito dall’armatura ancora alzato a parare il fendente. L’elmo sbatté con un rintocco contro le punte aguzze dei cristalli, e ondate statiche e tremolanti si abbatterono sul visore.

Il gundark, un concentrato di famelicità e istinto predatorio, si fece un poco indietro e raccolse il corpo sulle quattro zampe, i muscoli di nuovo tesi al balzo sotto la pelle spessa e sanguigna. Din, spalle al muro, il fiato mozzo, si preparò ad attivare il lanciafiamme, ma la bestia fu prontamente scacciata da una raffica del blaster di Cara che lo colpì in pieno muso. Din si affrettò a togliersi dalla posizione sfavorevole e sganciò l’Amban dalla spalla, imbracciandolo e chinandosi su un ginocchio in un sol movimento, seguendo nel mirino le falcate imprevedibili dell’enorme bestia che galoppava nel buio.

I suoi passi facevano tremare la terra, accompagnati da un cupo vibrare di cristalli e da pietrisco che schizzava via. Prese a girare loro attorno con più cautela, accompagnata da un costante ringhio gutturale, così basso che Din si sentì vibrare le vertebre e le radici dei denti. La penombra falsava in parte la stazza della creatura, ma la massiccia silhouette dalle orecchie a pennacchio era comunque ben distinguibile, e si intravedeva la folta criniera irsuta scossa da fremiti nervosi. Il gundark raspò a terra con uno stridio di pietra sbriciolata, preannunciando la carica, mentre il ringhio s’impennava di colpo in un ruggito.

Din premette il grilletto una frazione di secondo prima che si scagliasse di nuovo verso di loro, rilasciando un secco respiro a tempo con l’otturatore che scalzò via il bossolo vuoto. Il proiettile stordente affondò con precisione nel torace della bestia, poco sopra il cuore. Un fulmine in miniatura illuminò il buio, rifrangendosi brevemente sui cristalli; lingue d’elettricità attraversarono il corpo del gundark e quello sobbalzò con un guaito roco, arrestando il proprio impeto.

Si alzò sulle zampe posteriorie e reclinò stolidamente la tozza testa sul petto a constatare il danno, premendo quasi con curiosità il punto offeso con uno dei due esili bracci prensili che spuntavano dal ventre. Invece di crollare a terra tramortito, però, riportò con uno scatto ferino lo sguardo su di loro – due fari gialli che baluginarono letali nell’oscurità, e spiccò il balzo interrotto senza un ulteriore istante di preavviso.

«Dank farrik!»  masticò Din tra i denti, quasi all’unisono con il fierfek! di Cara, poco dietro lui.

Attivò appena in tempo il jetpack e schivò la carica cieca con un guizzo maldestro che lo sollevò a qualche metro da terra. Riuscì a invertire a mezz
’aria la traiettoria con un colpo di talloni, e mirò in volo scagliando un altro pallettone elettrico a piantarsi inoffensivo nella schiena del gundark. Riuscì comunque a distrarlo da Cara che, dopo aver scagliato un’inutile scarica di colpi contro la bestia, batté in ritirata.

Din atterrò pochi metri più in là perdendo quasi l’appoggio sui piedi, gli occhi ancora allineati con la canna del fucile a inquadrare la testa del gundark. Abbracciò con uno sguardo la situazione, il cervello investito da fiotti bollenti di adrenalina che gli diedero l’impressione di visualizzare ogni dettaglio come se fosse sospeso nel vuoto dello spazio profondo. Cara si era agilmente rifugiata dietro lo sperone roccioso, frapponendolo tra lei e il nemico; la culla, ancora chiusa, si era arenata sufficientemente lontana dal cuore dello scontro, in una pozza di buio brulicante di lumicini quasi estinti.

Il gundark, nel frattempo, concentrò la sua attenzione su Cara e si accanì con ferocia sul suo riparo roccioso, mandando all’aria frammenti e cristalli in raggiere graffianti. Din inspirò a fondo, le dita che si riassestarono sul fucile in un’ondata rapida e controllata. Poi espirò, pronto allo scontro.

«Mando! Un aiuto?» gli arrivò la voce di Cara mentre, con un’impennata del jetpack, si era già scagliato dall’alto contro il gundark, per poi lasciarsi cadere e affondargli la baionetta elettrificata nella nuca.

Per un istante, sul visore balenarono flutti di energia, che corsero seghettati lungo gli arti della bestia; il suo corpo nerboruto fu scosso dagli spasmi, senza però accasciarsi. Si rigirò invece con violenza inaspettata, colpendolo in pieno ventre col dorso di una zampa. Il jetpack sputacchiò, destabilizzato, Din perse il controllo dei comandi sul parabraccio e andò a impattare quasi a peso morto contro un’alta stalagmite. Attutì la caduta con un breve getto stentato, ma il contraccolpo lo costrinse di nuovo a terra, con l’addome indolenzito e il fucile ancora miracolosamente stretto in mano. Lasciò da parte il dolore sordo delle prime contusioni e si sollevò pronto su un ginocchio, udendo l’eco di altri spari nella caverna, uniti a un grido allarmato che distinse solo in ritardo come un frenetico via da lì! 

Focalizzò con un istante di gelo l’immensa sagoma del gundark che si avventava a tutta forza su di lui con un ruggito spaccatimpani. Il tempo si incrinò come una lastra di ghiaccio. Per un attimo, si aspettò di vedere quel colosso galleggiare a mezz’aria. Come il mudhorn, quel giorno di una vita prima. Ma l’impeto di quella tonnellata di pelliccia, muscoli e furia non rallentò minimamente – vide con nitidezza la chiostra di denti grondanti bava pronta al morso, i lunghi artigli neri protesi verso di lui, le larghe nari scosse da fiato bollente e caustico. L’istinto di fuga gli attanagliò le viscere, paralizzandolo incoerentemente sul posto.

Dietro quell’incubo fatto animale, scorse come in trance la culla chiusa, inerte, un puntino d’ombra nell’ombra. Gli parve di sentire di nuovo quella pressione tiepida sul petto, tra pelle e corazza – un contatto lieve, che lo sospinse appena. Poi il suo corpo agì, seguendo la pura memoria meccanica: all’ultimo momento utile scivolò all’indietro, piantò fermamente il calcio dell’Amban a terra e indirizzò la baionetta biforcuta verso l’animale, ormai balzato verso di lui per sbranarlo.

Un lampo consapevole sembrò passare nei fari luminescenti che erano i suoi occhi, ma era ormai troppo tardi: il mostro si abbatté su di lui, impalandosi sull’aguzza doppia punta metallica, che affondò con precisione tra le costole sporgenti. Din si ritrovò il visore imbrattato di sangue nero e viscoso. Cercò di scansarsi, mentre un latrato lancinante scuoteva l’aria, ma il gundark gli collassò addosso, a malapena sostenuto dall’esile canna del fucile ormai conficcata fin quasi al grilletto – si spezzò un istante dopo con uno schiocco stridulo di legno e metallo. Per una frazione di secondo, Din avvertì l’intero, mastodontico peso della bestia comprimerlo dentro la corazza, schiacciandogli i polmoni e le giunture, ma riuscì a strisciare via a fatica, scalciando via con forza pelo e muscoli ormai molli. 

Si trascinò sui gomiti e una fitta al petto gli disse di essersi come minimo incrinato due costole – non poté trattenere un gemito soffocato nel rialzarsi in piedi. Sfiatò, facendo gracchiare il vocoder: due costole incrinate e un ottimo, fidato fucile Amban in frantumi. Forse un polso slogato. Lo considerò un prezzo equo, per aver appena abbattuto un gundark quasi da solo.

Aveva appena formulato quel pensiero, che il corpo inerte della bestia fu scosso da un fremito scomposto, riportandolo sul chi vive, una mano avvinghiata di nuovo al blaster. L’animale reclinò la testa all’indietro per lanciare un lungo, raggelante ululato, con frequenze tremolanti che gli ferirono i timpani anche attraverso l’elmo. Poi crollò di nuovo, di schianto, seppur scosso da piccoli ansiti boccheggianti. Din rilassò le spalle, con la testa che pulsava per la tensione e gli scossoni. Scorse la bolla azzurrina di Cara che si fondeva con la propria, mentre lei si avvicinava a passo deciso, seppur lievemente zoppicante, il blaster puntato a sua volta verso il mostro esanime.

«Sei ferito?»

Din scosse la testa, portando due dita sotto la piastra frontale a sondare il costato, e riscontrando solo un dolore sordo e persistente al tatto. Inviò un ringraziamento silenzioso al beskar e all’Armaiola che l’aveva forgiato.

«Niente di grave. Tu?»

«Qualche graffio, e il ginocchio fa i capricci. E un mal di gola,» constatò, sfregandosi il collo a indicare che non si era immaginato il grido di prima. «Bella pensata,» aggiunse poi, con un cenno al punto in cui si era accasciato il gundark, sotto il quale si scorgeva una pozza liquida dai riflessi cupi e vermigli, oltre ai resti fracassati del fucile.

Din annuì assente, rendendosi conto solo allora di essere imbrattato a sua volta da capo a piedi, e prese nota dell’odore ferrigno e stranamente fumoso del sangue di gundark che gli impregnava i vestiti sotto l’armatura. Represse un conato, assieme all’istintiva urgenza di sollevare l’elmo per prendere una boccata d’aria fresca, e si limitò a respirare piano dalla bocca, cercando di attenuare il tanfo. Dank farrik, dopo quella giornata avrebbe fatto bene ad accettare l’invito in sospeso di Greef alle terme Twi’lek.

«Non la più pulita,» commentò con voce un po’ strascicata, suscitando una sua divertita alzata di spalle. Lui continuò con rammarico malcelato: «E quello era un buon fucile.»

Con un sussulto improvviso che gli pizzicò il cervello, i suoi pensieri corsero al Bambino. Trafficò frenetico coi comandi sul parabraccio per richiamare a sé la culla, e il sibilo rassicurante dei repulsori si propagò nella caverna: scorse la sagoma ovoidale del congegno emergere dalla penombra. La copertura si schiuse, rivelando il muso tutto orecchie del Bambino e i suoi occhi comprensibilmente inquieti, ma, prima che Din potesse tirare un sospiro di sollievo o allungare una mano verso di lui, un tramestio lo riportò in allerta.

Si voltò in un sol movimento verso il gundark esanime – non più tale, a giudicare dai fremiti che lo scuotevano e dalle zampe che raspavano il suolo in cerca di appoggio. A dispetto della ferita profonda, che doveva però aver evitato gli organi vitali, si rimise sulle quattro zampe, usando le braccia prensili sul ventre come sostegno aggiuntivo. Ignorò del tutto la scarica di blaster che lui e Cara gli scagliarono addosso, respinta dalla pelle coriacea e dal pelo fitto, e balzò via con la baionetta ancora infissa nel torso, cercando riparo nell’oscurità circostante.

Din cercò di scatto lo sguardo di Cara, a stabilire che, no, le informazioni di Scorch non valevano un altro scontro diretto con un gundark inferocito – tanto più che la “spia” che li aveva trascinati là sotto era probabilmente nel suo stomaco. Dall’espressione contrariata che scorse sul suo volto, anche lei sembrava dello stesso, saggio avviso.

Prima che potesse formulare a parole quel pensiero, un ululato si propagò fino a loro, acuto e raschiante. Fu subito seguito da un secondo, più grave, simile al brontolio di un vulcano attivo pronto a eruttare. Din non ebbe nemmeno il tempo di realizzare cosa stesse succedendo, e la sua mano agì per lui: si chiuse su una granata shock, la attivò, e la scagliò verso le due ombre appaiate in corsa verso di loro, tradite da due paia d’occhi fluorescenti che irradiavano lampi. Il reticolo d’elettricità le rallentò, ma non si arrestarono. Una era decisamente più grande dell’altra.

Una coppia di gundark. Prima avevano affrontato il maschio, decisamente più minuto, che non sembrava comunque fare più caso alla punta dell’Amban conficcata nel torace. Ma la sua compagna sembrava comunque furibonda e decisa a vendicarsi per l’affronto arrecato da quelle che, per loro, non erano altro che prede commestibili nel loro territorio di caccia.

Col cuore che riprendeva a pompare a raffica sangue e adrenalina, Din attivò a tutta forza il jetpack, sfrecciando lateralmente per schivare la traiettoria dell’assalto. Trascinò con sé anche Cara, afferrandola strada facendo e mandando entrambi a ruzzolare qualche metro più in là, ammaccati, ma evitando di essere dilaniati. La culla aperta fu sballottata di lato dall’urto e Din si affrettò a richiuderla, scoprendo con orrore che il quadro comandi sull’avambraccio si era inceppato. Riuscì solo a far socchiudere di poco le ante scorrevoli. Mosso da un fiotto di panico, si rimise in piedi a fatica, issando con sé di peso Cara, improvvisamente piegata sul ginocchio malmesso e con una smorfia dolorante in volto.

Non fece in tempo a richiamare a sé la culla: vide il gundark femmina sferrarle una zampata che sembrò intenzionale, e quella fu scaraventata via, ancora semiaperta. Din vide, con una morsa aguzza di spine nel cuore, il Bambino che veniva sbalzato fuori impattando malamente a terra.

«Ad’ika!» chiamò, in quello che, da grido allarmato, si tramutò in un ruggito furioso.

Quando fece per muoversi in suo soccorso, cieco al mondo e dimentico di essere nel bel mezzo di uno scontro, Cara lo agguantò per il mantello, un istante prima che la strada gli venisse sbarrata dal gundark maschio. A terra, il fagottino inerme si mosse debolmente, per poi immobilizzarsi con un gemito appena udibile nella cacofonia di ringhi e ruggiti. La femmina ruotò il capo verso il piccolo, arricciando il naso con famelica curiosità. Din sentì il respiro seccarsi in gola, come se vi fosse passata una tempesta di sabbia di Tatooine, e una massa gelida e densa gli invase la testa. No.

Decidere fu questione di un istante.

«Prendilo tu!» ordinò secco a Cara, con una mano che correva alla fondina da gamba del Verpine e l’altra che si chiudeva attorno all’ultima granata elettrica, attivando il detonatore con uno scatto deciso del pollice.

Non attese la sua prevedibile protesta: la spintonò in direzione del piccolo, per poi farsi direttamente sotto al maschio e lanciare la granata verso la femmina, in pieno muso. Come previsto, la accecò per qualche istante, attirando al contempo l’attenzione del suo compagno. Attivò il lanciafiamme, riuscendo nell’intento di tenerlo a distanza mentre Cara si precipitava a recuperare il piccolo. Nel giro di pochi secondi, però, le fiamme si estinsero con un sibilo asfittico, e Din si ritrovò con poco meno di mezza tonnellata di gundark assetato di sangue a balzargli addosso – riuscì a non cadere di schianto a terra, ma il peso era mostruoso, asfissiante, e gli tremarono le gambe. Il beskar resse almeno la furia dei suoi denti e artigli, che cigolarono inutilmente nel tentativo di addentargli il braccio e stridettero innocui contro il giustacuore temprato, sfregando pericolosamente contro la porzione di ventre lasciato indifeso dal metallo.

Colse nella visuale periferica la sagoma di Cara che fronteggiava blaster in mano il secondo gundark, frapposto tra lei e il piccolo, e si impegnò a mantenere almeno l’attenzione del maschio su di sé. Quello era ancora intento a masticare inutilmente il parabraccio, facendogli scricchiolare le ossa. Piantò la canna del Verpine sotto il suo mento e premette il grilletto una, due, tre volte, coi proiettili a frammentazione che scalfirono a malapena la pelle temprata anche a bruciapelo – in risposta, un violento scossone della testa, di un predatore che sbatacchia la preda, quasi gli divelse il braccio e gli strappò di mano l’arma, che rimbalzò lontana.

Fu scagliato del tutto a terra, il braccio insensibile per la pressione che gli aveva probabilmente fratturato un gomito. Il gundark gli fu di nuovo addosso, piantandogli stavolta l’enorme zampa in pieno petto. Din sentì il respiro rifugiarsi nel profondo dei polmoni, stroncato sul nascere. Puntini verdi e neri danzarono come stelle confuse davanti ai suoi occhi.

A tentoni, sguainò la vibrolama. Un gesto istintivo, futile, esattamente come quella volta col mudhorn. Per morire con un’arma in mano, almeno, come guerriero e Mandaloriano con ancora l’elmo in testa. Per marciare via con un briciolo d’onore sotto al beskar. Nel vortice viscoso della sua visuale arrossata da sangue e pressione, scorse il Bambino a terra, stordito, che veniva recuperato finalmente da Cara. La vide con la sua Verpine in mano, il fagotto del Bambino stretto a sé mentre mirava nel buio, verso il secondo avversario, abbattendo un proiettile dopo l’altro nei suoi occhi luminosi senza alcun risultato evidente. 

Din sentì ogni atomo d’aria lasciare i suoi polmoni sotto la pressa della zampa, e un sentore ferrigno nelle narici. I puntini luminosi divennero un nugolo pulsante, quasi nero.
 
Ke’taab, ad’ika. Ke’taab.
 
Con un grido che sfociò in un rantolo acuto, piantò la lama sfrigolante d’energia tra le dita rossastre e rattrappite del gundark; la pressione diminuì quel tanto che bastava per permettergli di sferrare un secondo colpo, più potente, all’articolazione del polso. Abbatté un’altra pugnalata nel braccio, poi un’altra, e un’altra, recidendo alla cieca tendini e muscoli con la sensazione di lacerare del tessuto particolarmente spesso. Un ruggito scosse l’aria, la morsa si allentò e un fiotto d’ossigeno gli irrorò salvifico il cervello. 

Il gundark, accecato dall’ira, schioccò un morso sull’elmo che per un pelo non lo decapitò, coi denti che sgusciarono sul metallo liscio – e in quell’istante il suo braccio scattò di nuovo, addentrandosi nelle fauci calde e sbavanti. Conficcò fino all’elsa la vibrolama nel palato del mostro, avvertendone lo spasimo incontrollato e sentendo, finalmente, il peso che si faceva flaccido e scivolava via, colto dalla morte repentina. Torse con uno scatto secco l'arma nelle carni nemiche prima di estrarla, 
e altro sangue gli inzuppò la manica.

Rotolò rapido di lato e attivò il jetpack, schizzando via tra ghiaia e pietrisco, lontano dalla pressa letale che si abbatté di schianto al suolo. Si rimise in piedi senza nemmeno sapere dove fossero, la vista oscurata e pulsante, il volto accaldato e indolenzito come se fosse rimasto troppo tempo a testa in giù, e volò con un solo getto di fuoco oltre il gundark appena abbattuto, verso lo scontro impari poco più in là.

Atterrò di fronte alla femmina di gundark, che ondeggiava cieca a pochi centimetri da Cara e il Bambino con gli occhi sanguinolenti e menomati, ma ancora pronta e decisa a sbranarli. Din impugnò il blaster, l’unica arma da fuoco che gli rimaneva, e ne assestò il calcio sopra l’altra mano, ancora stretta sulla vibrolama. Cara lo affiancò, con un brutto graffio sul braccio e il volto escoriato, altrettanto pronta a farsi strada con lui verso l’uscita sbarrata – o a morire lì, centinaia di metri sottoterra, in un modo che non figurava certo tra le dipartite più onorevoli che si era immaginato.

Scoccò uno sguardo di sottecchi al Bambino, troppo rapido per registrarne le condizioni, ma sufficiente a ricordargli che, no, non sarebbe morto lì. Né lui, né loro.

In quel momento la gundark ringhiò scompostamente, annusando l’aria in direzione del compagno caduto, con la lingua violacea che corse a pulirsi il muso imbrattato come pregustando la preda e la vendetta. Mosse un passo verso di loro, le orecchie appiattite all’indietro sul cranio spigoloso. Din si preparò all
assalto. 

E poi la bestia si arrestò, come trattenuta, con quello che sembrò un ringhio sorpreso. Un refolo di speranza sfiorò il petto di Din, per quanto flebile, e riassestò la presa viscida di sangue sulla vibrolama. Si voltò, aspettandosi di vedere il Bambino con una mano tesa e gli occhi chiusi, concentrato su quel flusso indefinibile che riusciva a controllare. Per salvarli, ancora una volta. Ma il piccolo era rannicchiato contro la spalla di Cara, e si limitava a sbirciare impaurito verso di lui, le manine avvinghiate al suo ciondolo. Din si ritrovò ad aggrottare le sopracciglia, confuso e inquietato.

Un suono improvviso e acuto, indefinibile, li fece trasalire. Non riuscì a capirne la fonte, né la natura. Sembrava sorta di sibilo elettrico, ridondante d’energia – un miscuglio tra il motore di una piccola astronave e lo sfregare argentino del beskar sul beskar. Din contrasse i muscoli indolenziti e strappati, ruotando il capo a destra e a manca con respiri di nuovo spezzati.

Un altro gundark? Zetz e i suoi sgherri? Cos
’altro si nascondeva in quelle grotte?

Qualunque cosa fosse, distrasse il gundark per il tempo sufficiente a concedere loro un’occasione di fuga... ma, prima di poterla cogliere, entrambi si paralizzarono ad occhi sgranati.

Un chiarore azzurro, molto più intenso di quello dei cristalli e dei loro flebili stick, irrorò la caverna, disegnando silhouette marcate e spigolose a seconda dell’angolazione con cui si muoveva. Din e Cara indietreggiarono rapidi via dal gundark, ma mantennero lo sguardo puntato dinanzi a loro, come ipnotizzati.

Un’ombra umanoide avanzava nel buio, accompagnata da un fruscio di vesti e da un ronzio rintronante. In mano, impugnava quello che sembrava un bastone d’energia pura, fonte del ronzio. Din riuscì a distinguere la sua mano tesa verso il  gundark, le dita leggermente contratte come a mantenere la presa su qualcosa. La bestia, sollevata a pochi centimetri dal suolo, scalpitava frenetica, lanciando versi gutturali e frustrati. A quel punto, la figura abbassò di colpo il braccio e spiccò un balzo impossibilmente alto, roteando a mezz’aria e calando direttamente sul gundark. Con un singolo fendente controllato mozzò uno degli arti, per poi compiere un singolo passo indietro; l’arma che impugnava emise un altro sibilo raschiante, e una seconda asta luminosa scaturì dall’elsa.

Il guerriero si mosse di nuovo in avanti, roteando le lame come un lungo bastone da combattimento, parò una zampata con un’estremità e, con un passo che sembrava quello di una danza, scartò di lato e usò l’altra per trafiggere il gundark in pieno petto, quasi da parte a parte. Nel buio squarciato da un ultimo ruggito morente, il brillio azzurrino si spense con un doppio sibilo sfrigolante e attutito, mescolato al tonfo del corpo che crollava a terra. Nella caverna si diffuse un sentore di pelo e carne bruciati, e sottili volute di fumo si sprigionarono dal corpo ancora tremante dell’animale.

Din provò la tentazione di imitarlo, sentendo la gravità afferrarlo all’ombelico e un atroce indolenzimento in tutto il corpo che gli dava l’impressione di essere compresso sotto tonnellate di roccia – o gundark. Si sentiva il petto in frantumi, le costole sbriciolate. Ma si mantenne in piedi, limitandosi a barcollare appena. Puntò il blaster verso il nuovo arrivato, che sembrava intento a contemplare e... omaggiare il cadavere della bestia, con una mano che andò a posarsi cauta tra l’irta pelliccia. Poi la ritrasse, voltandosi verso di loro. Era alto, e la sua sagoma era avvolta da un corto mantello. Il viso rimase in ombra, troppo lontano dalle fonti di luce, anche se qualche cristallo aveva ripreso a emanare un chiarore più intenso.

«Ehi!» chiamò una voce maschile, piuttosto squillante e con un sottotono in apparenza amichevole. 

Passi felpati si avvicinarono, e Din avvertì una scossa lungo gli arti indolenziti, più debole della tempesta d’adrenalina che andava ormai scemando, ma sufficiente a non fargli abbassare la guardia. Li aveva appena salvati, certo, ma non era ancora un motivo sufficiente fidarsi, non in una situazione del genere e non dopo quello che gli avevano visto fare. Soppresse ogni pensiero in merito.

«Non un altro passo,» intimò Cara con un cenno imperioso del blaster, condividendo la sua circospezione.

L’altro non sembrò nemmeno sentirla e continuò ad avanzare serenamente, portando un poco di luce sul suo volto ancora indistinguibile, se non per la corta barba che lo ricopriva e per un riflesso rossiccio dei capelli.

«Tutto bene? Ve la siete vista brutta.»

Un’improvvisa ed energica successione di acuti trilli robotici accompagnò quelle parole, assieme a un cigolio di giunture meccaniche, e il blaster di Din scattò in automatico in quella direzione, frutto di un astio fin troppo radicato. Il movimento brusco gli fece perdere l’equilibrio, e si ritrovò a piegarsi senza volerlo su un ginocchio. Si impose di rimettersi in piedi, infastidito da quel cedimento, ma si bloccò a metà del gesto, non appena sollevò il volto.

Davanti a lui, appena distinguibile sul fioco sfondo dei cristalli e della tenue luminescenza azzurrina, c’era una mano tesa.



 



 

Glossario&Note:
-Ke'taab, ad'ika: continua a marciare, bambino/figlio mio.
-Come al solito, caccia ai riferimenti ed easter egg: in questo capitolo abbiamo il Momento-Revenant e il Momento-Attack on Titan. Spero abbiate apprezzato :')

Note dell'Autrice:
Cari Lettori, finalmente rieccoci qui!
Questo capitolo mi ha ricordato perché rimando sempre la scrittura delle scene d'azione :D È la prima volta che ne scrivo una così lunga: ogni riscontro è gradito, positivo o negativo, perché mi rendo conto che vi siano delle spigolosità, e vorrei smussarle quanto più possibile :)
E adesso, vi lascio ad arrovellarvi su chi sia il nuovo arrivato... ma sono certa che l'abbiate intuito, anche se ho tentato di depistarvi un pochino ♥
A prestissimo, spero, e un baciotto (?) di Keldabe a tutti voi che continuate a supportarmi, sopportarmi e leggere questa storia ♥

-Light-


Piccola-grande post-nota fastidiosa ma necessaria 
(se volete commentare nel dettaglio, fatelo per favore scrivendomi in privato senza intasare la storia di commenti slegati da essa: odierei far partire qui una shitstorm che non desidero assolutamente vedere in questa sede. Detto questo, ogni opinione in merito alla storia è assolutamente bene accetta, altrimenti non farei questa nota ♥).

Dunque, qualcuno di voi avrà letto del mio sfogo su Wattpad riguardo all'attrice di Cara Dune, o è comunque a conoscenza della bufera mediatica che si è scatenata in tal senso. Bene... non prendetelo come un vero e proprio spoiler, ma ho deciso di rimuovere con discrezione il PoV Cara dalla trama e di ridurre drasticamente il suo ruolo. Ho avuto difficoltà enormi a scrivere di lei dopo il fattaccio, essendo il personaggio una "manifestazione fisica" dell'attrice. Scontrandomi aspramente col pensiero/ideologia/quel-che-è di quest'ultima, mi troverei molto a disagio a metterla in una luce iper-positiva come ho fatto finora solo perché mi piace il personaggio da lei interpretato. E mi piace ancora di per sé, per carità, ma per quanto sia giusto separare interprete e personaggio, in questo caso non mi sento di farlo. Ci sono troppe variabili controverse in gioco e infastidisce me in primis, quindi non vedo perché costringermi.

Detto questo, vi prego di capire la mia scelta, soprattutto perché so che molti di voi si erano affezionati al modo in cui scrivevo il personaggio. Non modificherò alcun capitolo pregresso e la storia,  continuerà a trattarla neutralmente e in modo IC (si spera) come l'avrei trattata prima dello scandalo, fino al punto in cui si dileguerà senza scalpore dietro le quinte. No, vi dico subito che non la farò morire per sfizio: lo troverei davvero di cattivo gusto. So che la morte off-screen è la strada intrapresa dalla Disney, ma non la condivido. Ho ridisegnato la trama che, con mia sorpresa, funziona addirittura meglio per i miei scopi narrativi, quindi ciò non danneggerà nessuno degli eventi che mi ero prefissata. E ci sarà un nuovo (più o meno) personaggio a "coprire il vuoto" di PoV, aggiunta che spero potrà rendere ancor più dinamica e completa la narrazione ♥
Giuro che ho finito. Scusate, ma una premessa in questo senso mi sembrava d'obbligo.





 

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Capitolo 15
*** Episodio 4: La Trappola – Parte III ***


 

 
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Episodio 4
LA TRAPPOLA

Parte III


Da soli, noi Mandaloriani non siamo nulla. Senza un legame che ci unisca, non siamo nulla.
Viviamo perché altri vivono, sono vissuti e vivranno.
Ed è
 il manda a guidarci.
Ci permette di non perderci mai, di vivere e morire, di ricordare ed essere ricordati.
Chi segue la Via non sarà mai solo.

Bes, Armaiola della Tribù, ai nuovi Trovatelli

 

 

Concord Dawn, dintorni di Aq Vetina [1], 20 BBY

La guerriera tende la mano verso di lui. Din a malapena riesce a scorgerne il contorno, nel buio pesto della foresta. La afferra alla cieca, lasciandosi issare su dal terreno muschioso e ricoperto di rugiada notturna che gli ha appena infradiciato i pantaloni dopo essere inciampato in un ramo nascosto.


Si spazzola il terriccio di dosso, mentre il visore a T di Ruusaan si sofferma su di lui, muovendosi dall’alto verso il basso per poi tornare sul suo volto. Din sente il calore dell’imbarazzo accendergli le guance, ma lei non dice una parola. Gli intima solo di rimettersi in cammino con un impercettibile cenno dell’elmo, per poi avviarsi a sua volta sulle orme degli altri Mandaloriani che li precedono.

Sono una ventina, forse più: sagome aguzze e tintinnanti che si stagliano di tanto in tanto tra il nero dei tronchi. Sono sorprendentemente silenziosi, per avere tutto quel metallo addosso – beskar, si chiama, così ha detto Ruu. Din ha l’impressione di essere l’unico a fare tutto quel rumore smuovendo il sottobosco e pestando rametti secchi coi piedi stanchi.

Non ha mai camminato così tanto in vita sua, né ha mai visto così tanti alberi tutti assieme. Aq Vetina è polverosa e arida, e le uniche piante davvero rigogliose sono gli sterminati campi ocra di kisiwa tutt’intorno, punteggiati da qualche raro albero o arbusto.

È la prima volta che vede coi suoi occhi le foreste di Concord Dawn, anche se suo zio, che ci era nato, gliene ha parlato spesso. Si intristisce al ricordo, che porta con sé echi di esplosioni ancora non del tutto svaniti.

Dirotta quei pensieri, concentrandosi sulla foresta. Gli sembra di essere circondato da esseri altissimi che cercano di rimanere immobili, ma che non possono fare a meno di muoversi di tanto in tanto, emettendo scricchiolii e gemiti legnosi, o sussurrando parole incomprensibili quando il vento scuote i rami. 

Non sa ben dire se gli facciano paura o meno. Forse, se fosse da solo avrebbe paura, ma finché riesce a vedere l’ombra di Ruu e dei suoi compagni davanti a sé sa di non dover temere nulla. Se non di inciampare, come gli è già capitato più volte.

Quella mattina si sono inerpicati sulla montagna che per anni ha solo guardato dal basso, e da un momento all’altro Aq Vetina era scomparsa oltre il crinale, come se non fosse mai esistita. Di tanto in tanto, Din si getta ancora inutili occhiate alle spalle, ma vede solo il versante brullo e scosceso che hanno appena valicato. Anche se da un’altra prospettiva, riconosce ancora lo sperone roccioso vicino alla cima che sembra il muso di un blurrg. 

Non ha paura di quegli alberi enormi, né del buio, né di non sapere dove stiamo andando, ma di vedere sparire del tutto quella forma conosciuta. Poi, non saprebbe più dove appuntare lo sguardo, se non sulla schiena di Ruu. È per questo che continua a voltare il capo, cercando il blurrg di pietra sempre più piccolo – e a incespicare perché non guarda dove va.

Si è già sbucciato le mani e un ginocchio, ma non ha voglia di dirlo a Ruu, né lei l’ha mai rimproverato. È diventata taciturna, dopo quella prima notte in cui gli ha dato il ciondolo di beskar e raccontato dei mitosauri e insegnato quelle strane parole impronunciabili per ricordare chi è marciato via

Din si incupisce, chinando il capo a fissare i propri passi incerti, e il cappuccio gli scivola quasi davanti agli occhi. A marciare via sono loro, adesso, e la cosa non gli piace. Ma cerca di non pensarci. Cerca di non pensare a niente, se non a dove cammina, al verso bubolante di un qualche animale che non riconosce e alla pressione fredda del ciondolo contro il petto.

Accelera il passo. Nel buio, mette di nuovo il piede in fallo su una radice bitorzoluta. Incespica goffamente, e stavolta sente una decisa schicchera di dolore risalirgli la caviglia in un lampo. Mantiene comunque l’equilibrio, ma si lascia scappare un lamento sommesso quando poggia di nuovo il piede dolente; Ruu si volta più bruscamente, stavolta, quasi avesse avvertito fisicamente la sua fitta.

«Ti sei fatto male?» chiede, ed è la prima cosa che le sente dire da quando è calato il sole.

Fa cenno di no con la testa: è solo una slogatura, come tutte quelle che si è rimediato correndo per i tetti di Aq Vetina, senza per questo fermarsi o lamentarsi. Può camminare. Ruu fa comunque per avvicinarsi a lui, ma Din sussulta nel sentire passi molto più pesanti coprire i suoi.

Ruu si volta prontamente, un palmo sul calcio del blaster. La sagoma slanciata di un Mandaloriano avanza verso di loro con falcate ampie; Din vede Ruu irrigidirsi e raddrizzare il mento, spostandosi un poco di lato in un modo che gli impedisce di vedere chiaramente il nuovo arrivato. Non può dire che gli dispiaccia.

Sa chi è. Durante la marcia Ruu, quelle poche volte che ha parlato, gli ha indicato questo o quel Mandaloriano – tutti uguali ai suoi occhi se non per i segni di blaster sull’armatura – rivelandogli pian piano i loro nomi. Ne ricorda pochi, sa pronunciarne alcuni e sa abbinarne ancor meno al legittimo proprietario. Azi Sten’ka è l’unico che gli sia rimasto impresso a fuoco sin dal primo istante. Il solo vederlo fa scattare la sua mano verso quella della guerriera, in un impulso che non gli riesce di sopprimere. La stringe, ma lei non ricambia la stretta se non per un breve istante, lasciando poi le dita molli.

Azi è l’alor, gli ha detto semplicemente. Il capo. E l’ha detto in un tono che, non sa dire come o perché, gli ha fatto sentire freddo nelle vene, nello stomaco. Azi non è più grande o massiccio degli altri guerrieri, ma è l’unico ad avere sullo spallaccio dell’armatura un simbolo rosso sangue e non bianco come tutti gli altri. 

Adesso si pianta davanti a Ruu, più alto di lei, e fa un brusco cenno col capo. Ruu scuote la testa, così piano che Din a malapena la vede; Azi reagisce con una scrollata dell’elmo, che inclina poi di lato. Parlano senza parlare, come hanno già fatto più volte durante la marcia, quando sono abbastanza vicini tra loro.

Din odia quel silenzio finto, che lo esclude e fa sentire insignificante. Vorrebbe avere un elmo anche lui. Punta gli occhi su Azi, scrutandolo da sotto l’orlo del cappuccio in quello che forse è un gesto di sfida, o una semplice richiesta di essere considerato – non saprebbe dirlo nemmeno lui, sa solo che è sciocco – ma il guerriero non lo degna di uno sguardo.

Lui e Ruu proseguono quella che sembra una discussione sempre più accesa, racchiusa a stento nei caschi e nelle armature a giudicare dai gesti. Azi, a un certo punto, volta il capo verso l’alto in un modo che sembra suggerire una risatina. Il flebile riverbero lunare che filtra tra i rami e le nuvole riluce sul beskar blu notte, accentuando ogni movimento.

A quel punto, Ruu avanza di mezzo passo verso di lui, il busto che si protende in avanti. Per un istante, Din crede che stia per lanciarsi all’attacco e trattiene il respiro. Ma lei si arresta, Azi si limita ad alzare le spalle – e Din sobbalza sul posto, rilasciando troppo rumorosamente il fiato, quando si vede indicare da lui con un gesto quasi distratto della mano. Non lo guarda. Poi dà loro le spalle e si avvia di nuovo verso i suoi compagni, il cui tramestio di passi è quasi sfumato del tutto.

Ha già compiuto qualche passo quando Ruu parla di nuovo, stavolta davvero, le parole che si levano nel cuore della notte attutite dal bosco e dal buio:

«Kaysh ven’cuyir verd.»

Azi non si ferma, né si volta. Din deglutisce, sentendo di nuovo freddo e caldo assieme, come se avesse la febbre. Stringe la presa sul guanto di Ruu, ancora inerte.

«Ni bajur kaysh sa verd!» parla ancora lei, stavolta con la voce che si gonfia, stentorea, rimbalzando da un tronco all’altro.

Azi arresta infine la sua marcia, un piede rialzato a issarsi sopra una formazione rocciosa assediata da arbusti e radici. Guarda Ruu – e poi guarda lui, per la prima volta. Din prova la tentazione di celarsi dietro le gambe della guerriera, ma rimane paralizzato dov’è, inchiodato dal brillio freddo e ostile del visore a T. Quando parla di nuovo, Azi lo fa in Basico, cogliendolo alla sprovvista. La sua voce è gutturale e densa, come se provenisse da un pozzo e ci fosse dentro qualcosa di marcio ad appesantirla.

«Allora trattalo da guerriero

Din si sente scorrere addosso quell’affermazione priva di senso, con l’impressione di aver appena aspirato una boccata d’acqua. Alza lo sguardo su Ruu quando la sagoma di Azi sparisce oltre la linea d’ombra del sottobosco, ma lei non abbassa il capo a guardarlo.

Gli lascia d’un tratto la mano – la scansa via – e Din è convinto di essere caduto di nuovo, prima di realizzare che le vertigini che gli avvitano lo stomaco non hanno nulla a che fare con la gravità.

«Ke’taab,» lo incita Ruu, facendo già un passo avanti e incitandolo con una spinta secca tra le scapole.

A Din ronza la testa, bombardata da quella lingua estranea e aguzza, ma annuisce comunque e si rimette in marcia, cogliendo lo stesso quel semplice comando e l’urgenza nella voce della guerriera.

Quella seconda notte, solo la terza luna di Concord Dawn fa bella mostra di sé nel cielo sgombro da nubi. Din ricorda ancora bene le leggende sui tre fratelli che si rincorrono tra le stelle senza mai incontrarsi se non in poche, pochissime occasioni – giorni di festa di cui ha ancora le risate impresse nella mente, anche se non in volto.

Gliele raccontava sua madre, quelle storie, sdraiati sul tetto piatto della loro casa quando la calura estiva diventava insopportabile. Din ringrazia tra sé il Terzo Fratello, quello più piccolo ma più luminoso, bianco e accecante rispetto ai suoi compagni violetti e un po’ invidiosi del suo bagliore. Grazie a lui, stanotte riesce a scorgere dove mettere i piedi e a non scivolare sul muschio viscido che ricopre il terreno accidentato su cui stanno ancora arrancando.

La foresta si è fatta ancora più folta, e la montagna è solo una scheggia di roccia che fa capolino oltre le cime degli alberi di tanto in tanto, col blurrg ormai invisibile – non sa quando è scomparso perché ha smesso di voltarsi a controllarlo. 

Ruu ha detto che stanno perlustrando quella zona e che si stanno dirigendo al rendez-vous coi Protettori, anche se non è sicuro di cosa voglia dire tutto ciò. Sa solo che, lì dove stanno andando, ci saranno altri Mandaloriani e delle navi dal nome strano in loro attesa. 

E sa solo che è stanchissimo e ha i piedi pieni di vesciche e le gambe assediate dai crampi e la caviglia gonfia, ma dopo quello che è successo con Azi non osa fiatare al riguardo. Sta attentissimo a dove mette i piedi per non cadere e ringrazia ancora il Terzo Fratello, perché con quella luce è riuscito a non inciampare nemmeno una volta da quando è calato il crepuscolo, tenendo il passo con Ruu.

Anche se non sa se sia davvero una cosa buona, quella. Più vanno veloci, più camminano. Più tempo passa, meno ha senso chiederlo a Ruu – quella domanda che gli preme sulla lingua da ieri o forse da ancor prima. Più si allontanano, meno probabilità ci sono che Ruu gli dica di sì.

Din si arrischia a reclinare il collo all’indietro, rallentando l’andatura. Lancia lo sguardo verso le stelle. Suo padre gli ha insegnato a leggerle per orientarsi e sua madre a vedervi le costellazioni. Cerca la cima della Rupe e ne segue il versante fino a intersecare l’Occhio del Narglatch. Di fianco a lui trova ciò che cerca: il Guerriero, col braccio teso a indicare l’orizzonte. Quella figura rassicurante assume d’un tratto tinte più scure. 

Rimane con l’indice puntato su di essa, il naso all’insù, dimenticandosi per un attimo cosa stesse cercando nelle stelle. Quasi inciampa su un sasso – sente il cuore sobbalzare a tempo col sussulto, piombando nel vuoto – ma riesce a non perdere l’equilibrio e recupera frenetico i passi persi – veloce, prima che Ruu si giri o Azi se ne accorga o–

Adocchia di nuovo il Guerriero, che gli dice che stanno proseguendo verso sud, verso l’ignoto, e quella sagoma non gli sembra sempre meno rassicurante. C’è un che di sinistro, nel brillio delle stelle, nel modo in cui il Terzo Fratello sembra fuggire lontano, lontano dai suoi fratelli più grandi e verso il Guerriero che gli indica la strada.

Din si ferma, col respiro accelerato, come se il prossimo passo fosse quello definitivo che lo separerà per sempre da tutto. Come se compiendolo i suoi genitori diverranno del tutto polvere. Strizza gli occhi: non vuole davvero pensare a come siano adesso – a cosa siano. A cosa diventeranno. Non sa nemmeno se potranno "marciare via", così, se– se non–

«Ruu?»

Non sa se è riuscito a farsi uscire la voce dalla bocca, per quanto piano ha sussurrato, premendo a forza contro il groppo che gli ostruisce la gola. La Mandaloriana, però, si arresta come a comando. Ruota subito l’elmo verso di lui, ormai rimasto indietro di qualche passo.

«Lo so che sei stanco,» sospira lei, dura come lo è stata da ieri. «Ma ormai manca poco ai Kom’rk. Poi potremo–»

«Dobbiamo tornare indietro.»

Non è quello che voleva dire, ma è la prima frase che gli riesce di pronunciare. Si lancia un’occhiata istintiva alle spalle, verso la montagna che ormai quasi non c’è più ed è ammantata dall’oscurità degli alberi. Vede Ruu esitare e sa di averla presa alla sprovvista, anche se non può a vederla in volto.

«Ruusaan, k’olar!» arriva subito una voce, attutita dal fogliame ma troppo rumorosa, tanto che un uccello notturno interrompe il suo bubolare, creando un improvviso, denso silenzio.

«K’uur! Olaror!» sibila secca lei, girandosi brusca e tornando altrettanto rapidamente a fissare lui. «Ad’ika, non possiamo.»

«Perché non possiamo?» ripete Din, con un picco d’ansia che trapela dalla voce nel realizzare che, se davvero non possono, i suoi genitori rimarranno lì, nella polvere, per strada, e non potranno–

Le successive parole di Ruu disintegrano quei pensieri come i blaster di quei droidi enormi hanno disintegrato casa sua:

«Perché non c’è più nessuno ad aspettarti. Non è casa. Non potrà esserlo mai più, per te.»

Il suo tono è improvvisamente aguzzo, privo d’inflessione. Din, sgomento, si sente schiacciare dall’alto, come se d’un tratto il Terzo Fratello avesse deciso di precipitare proprio su di lui. Ruu si avvicina di un passo e, per la prima volta da quando la conosce, la sua armatura la rende minacciosa quasi quanto Azi – quasi quanto il droide. Reprime un passo indietro.

«Ke’taab, ad’ika. Ke’taab,» ripete con più veemenza, con un cenno perentorio del braccio in avanti, verso il resto dei Mandaloriani già scomparsi nella boscaglia.

Din sa che anche lei ha paura. Lo sente nel modo in cui la sua voce è più acuta, più stridente. Ha paura di Azi Sten’ka e quella paura tenta di inghiottire anche lui, ma non è comunque più grande di quella che lo sta divorando adesso – anche se forse è la stessa paura, in realtà. Perché non vuole essere solo, né qui, né altrove.

Così non si muove di un passo, anche se si ritrova improvvisamente la vista annacquata, che rifrange l’intensa luce lunare e rende la sagoma di Ruu labile e sfocata.

«Se non li seppelliamo, non potranno... marciare via,» riesce a dire, con la voce che gli trema nel dire quell’ultima parte così estranea, ma al contempo così vicina al cuore che ha preso a battergli impazzito, in scariche ravvicinate.

Ruu, a quel punto, inclina l’elmo di lato, fissandolo in un modo che, assurdamente, gli ricorda Tobo quando gli mostrava qualcosa di nuovo, che suscitava la sua curiosità. Inclinava di lato la testa esattamente così. E non è qualcosa che vuole ricordare, al momento

Tobo, il loro vecchio massiff, era morto qualche anno fa. L’avevano sepolto in profondità nel loro orto, piantandovi sopra un veshek. Così, gli aveva spiegato suo padre, Tobo avrebbe continuato a vivere: il suo corpo si sarebbe trasformato in albero e in nuova vita. Gli aveva spiegato anche come. E adesso non vuole pensare a come i suoi genitori potranno donare nuova vita. Non nel dettaglio. 

Sa solo che non potranno farlo, se non sono sottoterra. Se sono ancora su quella strada polverosa ad Aq Vetina. Se sopra di loro non potrà crescere alcun albero – non se lui non ve lo pianterà. Tobo non è marciato via: è rimasto lì, con loro.

Fissa Ruu, cercando di dirle con lo sguardo tutto questo, perché non ha idea di come dirlo, né di quanto stupido possa sembrare una volta detto ad alta voce, anche se nella sua testa ha perfettamente senso. Gliel’ha detto suo padre e anche sua madre. E Ruu lo fissa di rimando, in silenzio.

I passi degli altri Mandaloriani divengono sempre più attutiti. Din crede di udire solo il battito del proprio cuore, così rapido che quasi non batte affatto. Si porta le mani al petto, come se così potesse riuscire a placarlo – fa troppo rumore e c’è così tanto silenzio, lì – e sente sotto la stoffa la sagoma del ciondolo che gli ha dato Ruu. Lo stringe con tanta forza che il metallo duro gli fa dolere le dita e gli intacca la pelle vicino alle clavicole.

Ruu è inginocchiata di fronte a lui, adesso.

Non sa se non l’ha vista avvicinarsi per via delle lacrime che gli offuscano gli occhi, o se semplicemente stesse vedendo altro – il loro orto, l’alberello di veshek che iniziava a inverdire, a far sbocciare piccoli fiorellini rossi in primavera che sua madre amava mettere tra i capelli.

«Ad’ika

Ruu pronuncia quella parola a cui non ha ancora dato un significato, ma che gli infonde quel senso di calma, come se fosse sempre aggrappato a una mano forte che lo tira verso l’alto, lontano dal buio ammuffito. In quel momento, le mani di Ruu si stringono sulle sue e allentano con delicatezza la morsa delle dita. 

Din la asseconda e inclina il viso verso l’alto per non far traboccare gli occhi; Ruu, però, glielo porta di nuovo verso il basso premendogli con una nocca sul mento. Din sente le scie bollenti che gli solcano le guance e batte le ciglia umide. Ignora le lacrime, fissando la linea orizzontale del visore a T. Fissandola negli occhi. Aspettando un . Anche se è sempre più lontano.

Ruu, però, non parla. Invece, porta le mani ai lati dell’elmo e stringe la presa. Din sobbalza e sgrana gli occhi come se avesse appena preso la scossa toccando il metallo quando la vede sollevare l’elmo verso l’alto, scoprendosi il volto. 

E Din continua a fissarla, stavolta davvero negli occhi. Uno sguardo nocciola e dai contorni sottili ricambia il suo, intento a osservarla come mai gli sembra di aver mai osservato un volto in vita sua.

È giovane, molto più giovane di quanto si sarebbe aspettato nel sentire la sua voce resa metallica dal casco. La pallida luce notturna ricalca lineamenti decisi e aguzzi, in altorilievo, col naso alto e lungo incurvato da una lieve gobba. Un piccolo neo le segna lo zigomo, mentre macchioline più chiare le screziano la pelle ambrata sotto il mento, proseguono lungo la linea decisa della mandibola e scompaiono sotto il colletto alto della tuta di volo. 

Ma ciò che più di ogni altro dettaglio cattura la sua attenzione sono le sottili treccine in cui sono raccolti i suoi capelli scuri, che le ricadono esattamente all’altezza del bordo dell’elmo. Senza pensare, Din tende una mano esitante a sfiorarne una, prendendola tra due dita e facendole scorrere su quei rilievi morbidi.

Vede Ruu irrigidirsi e fa per lasciarla, temendo di aver fatto qualcosa di male, per poi vedere le sue labbra piccole piegarsi in un sorriso morbido, anche se le pupille sono intente a seguire ogni più piccolo movimento della mano che le stringe la treccia.

«Ascoltami,» dice poi, piano, riportando lo sguardo su di lui. La sua voce è bassa, vellutata, gli richiama le vibrazioni basse di un flauto nel modo in cui modula ogni sillaba che pronuncia. «I tuoi genitori sono già marciati via.»

Din scuote appena la testa, senza capire, ma negando quel fatto impossibile. Lascia andare la treccina. No. Se non possono tornare a dare vita, non possono nemmeno marciare via. Non cambia niente. Ripiega le labbra su se stesse, combattendo contro un’altra ondata liquida che gli risale agli occhi e che di nuovo rimane in bilico sugli argini, pronta a farsi cascata.

«Ascoltami,» ripete Ruu, e stavolta il suo sguardo si fa duro, con le iridi che si fanno più scure, della sfumatura del miele cristallizzato sul bordo di un barattolo. «Tu diventerai un Mandaloriano. Lo sei già, in parte.» Gli sfila il ciondolo da sotto la tunica, adagiando il teschio del mitosauro al centro del suo petto. «E noi Mandaloriani non abbiamo bisogno di seppellire nessuno. Non serve una tomba: tutti trovano la loro Via, una volta che iniziano a marciare.»

«Ma dove marciano?» insiste Din, per nulla convinto.

Ruu a quel punto sorride di nuovo, mestamente.

«Verso di noi,» risponde, senza esitare. «A volte ci raggiungono, e riusciamo a sentirli. Altre volte sono troppo distanti e ci sembrano lontani, ma finiscono sempre per tornare da noi, alla fine, o noi da loro.»

Din tace. Tocca con la punta delle dita il teschio del mitosauro, liscio e ancora tiepido, scaldato dal suo corpo. Tira silenziosamente su col naso. Lui non sente proprio niente, ma non lo dice.

«E come fai a capire quando sono vicini?»

Stavolta è Ruu a scuotere la testa.

«Lo capirai e basta. Te ne accorgerai nei momenti più impensati. Non saprai spiegarti perché quel suono o quell’immagine o quell’odore ti abbia riportato da loro, ma lo sentirai.»

Fa una pausa, unita a un piccolo sospiro che si condensa nel buio. Din la guarda, aspettando ancora un  nascosto dietro a tutte quelle parole, un desiderio che si fa sempre più minuscolo fino a rifugiarsi in un anfratto nascosto del suo cuore. Una spina piccola, ma dolorosa, di quelle invisibili che rimangono sottopelle e sembrano non andare mai via.

«Però io adesso non li sento,» confessa infine, sviando per un secondo lo sguardo, come aspettandosi di vedere qualcosa che gli ricordi sua madre e suo padre. 

Di vederli, magari. Trova solo il nero bluastro della foresta e il brillio delle stelle. Ruu gli inclina di nuovo il viso verso di lei con una spinta gentile sul mento. Din sente la ruvidezza delle lacrime prosciugate sulle ciglia, ma non porta la mano a sfregarsi gli occhi.

«Lo so. Anche a me manca chi ho perso,» pronuncia, con una stilla di tristezza che quasi punge anche lui. «Ma siamo tutti parte del mandaadi’ika. Parte dell’anima di coloro che sono marciati via, ma che continuano a guidarci. Non ci perdiamo mai e non perdiamo mai nessuno, non per davvero. Li ritroveremo sempre, basta seguire la Via.»

A quell’ultima affermazione Din la guarda, serio. Con i pensieri che, per un attimo, si staccano dal presente e vanno indietro, anche se solo di poche ore: vanno a Azi Sten’ka, alla sua armatura massiccia e alla sua voce ringhiante. Vanno a ciò che lui ha detto a Ruu – che non ha capito, ma forse può intuire. Vanno a quella parola che gli ha rivolto, guerriero. Una parola che, per lui, esiste solo nelle costellazioni... esiste solo per ritrovare la strada di casa. 

La Via.

E tutto ha improvvisamente senso – in quell’attimo di fronte a Ruu, sotto lo sguardo feroce ma benigno del Guerriero, lontano da casa ma vicino, da qualche parte che ancora non conosce, ai suoi genitori. Ha senso, in un mondo che ha cessato di averne da quando quell’esplosione gli è rimbombata nelle orecchie spazzando via sua madre e suo padre e la sua vita.

«Solo i Mandaloriani seguono la Via.» 

Voleva che fosse una domanda, ma l’intonazione gli sfugge all’ultimo, ricadendo verso il basso.

«Sì,» risponde Ruu senza guardarlo. Gli ripone il ciondolo sotto alla casacca. «Anche se non ce n’è solo una,» mormora, a voce così bassa che stenta a sentirla.

Ciò che ha appena detto rischia di non avere di nuovo senso, così sceglie semplicemente di ignorarlo. Prende un grosso respiro, inalando l’aria umida e screziata di caprifoglio che ristagna nel bosco notturno.

«Devo diventare un Mandaloriano.»

Ruu esita, a quella affermazione che racchiude anche una domanda. Per un istante i suoi occhi schizzano via per poi tornare fermi e incrollabili.

«Sì,» ripete, ancora più piano.

Din abbassa lo sguardo e si chiede se i Mandaloriani dicano le bugie. Si chiede se sia vero, che i suoi genitori stanno già marciando verso di lui – e se è vero quello, è vero anche che lui deve trovare la Via per raggiungerli. E ha bisogno che sia vero.

«Come si fa?» chiede infine, rialzando il viso.

Così come pochi giorni fa le ha chiesto, confusamente, come si onorasse qualcuno che è marciato via.

Ruu non risponde. Sorride e basta, anche se ha gli occhi tristi, per poi farsi scivolare di nuovo in testa l’elmo. Din la fissa in volto finché questo non viene del tutto coperto dal visore, e scopre di riuscire comunque a vederlo, come in trasparenza. Quel pensiero lo fa sorridere senza un vero motivo, come se adesso condividessero un segreto. Ruu gli dà un buffetto sul mento, riscuotendolo, e fa un cenno deciso del capo verso la direzione in cui sono spariti i suoi compagni.

«Ke’taab, ad’ika,» gli ripete soltanto, stavolta dolcemente, prima di incamminarsi davanti a lui.

Din guarda verso l’alto, verso il Guerriero stagliato nella volta celeste. Per la prima volta, nella sua figura angolare scorge la sagoma di un visore a T. Inspira a fondo, prima di muovere quel primo passo.

Poi, riprende a marciare sulle orme sicure di Ruu.


 


 



Note&Glossario:

[1] Aq Vetina è il pianeta su cui è nato Din. Quando ho scelto Concord Dawn come suo luogo di nascita, questa informazione non era ancora stata rilasciata... quindi, mi sono attaccata a un cavillo per far quadrare le cose: nella guida ufficiale, la formulazione è "his home Aq Vetina". Non vi è alcun riferimento diretto al fatto che sia un pianeta (on Aq Vetina)... quindi, in questa storia, è diventata una cittadina su Concord Dawn :D
– Il mito delle tre lune è blandamente ispirato a quello norreno di Hati e Sköll + tropo dei tre fratelli presente in molte fiabe/favole.
– I tooka, i blurrg, i massiff e i narglatch sono esseri esistenti nell’universo di Star Wars, così come l’albero di veshek. La pianta di kisiwa, invece, è di mia invenzione.
NB. Il massiff è l’animale da guardia dei Tusken che Din accarezza dell’episodio 2x01.


 Kaysh ven’cuyir verd-> Lui diventerà un guerriero.
– Ni kaysh bajur sa verd!-> lett. Io lo educherò/crescerò come un guerriero. Nel voto matrimoniale mandaloriano figura la frase "ba’juri verde", ovvero "cresceremo guerrieri". Di qui la crucialità di questa frase, che contiene la volontà implicita di un’adozione.
– Ruusaan, k’olar!-> Ruusaan, muoviti!
– K’uur! Olaror!-> Zitto! Arrivo!
– Ke’taab-> Continua a marciare aka il leitmotiv della storia

 

Note dell’Autrice:

Cari Lettori... credevate di esservi liberati di me? E invece!

Ho patito molto per scrivere questo capitolo... o meglio, ho patito a scrivere il prossimo, che è la diretta continuazione degli eventi nella miniera. Questo, a dir la verità, è uscito fuori di cuore.
Era dagli inizi della storia che avevo in mente questa scena, ovvero Ruu che si mostra in volto a Din e la successiva spiegazione sul manda (che aspettavate da un po’, lo so, e anche se non è ancora completa spero che il concetto generale vi sia piaciuto). Insomma, ho capito che dovevo scrivere questo momento, prima di far proseguire la trama principale: avevo bisogno di esplicitare alcuni concetti e dinamiche finora rimaste in sordina.

Se vi sembra che ci siano delle incongruenze... vi assicuro che non ci sono. Se vi sembra che Ruu si comporti in modo strano, è così. Se il nome Azi Sten’ka non vi suona familiare, vuol dire che avete avuto la fortuna di non studiare storia russa. Se vi state chiedendo da dove escano quelle leggende&costellazioni, la risposta è: "dalla mia testa" (con un input prezioso da parte di Helmwige ♥). Se non vi tornano i flashback di Ruu e il ruolo della Tribù, don’t panic, ci stiamo arrivando.

Dopo queste note esose, posso solo dire che spero di aggiornare presto e di tornare dai nostri "tizi in miniera"... che adesso posso far accadere cose :D
Alla prossima, e grazie a tutti voi che seguite, commentate e supportate questa storia ♥

-Light-

 

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Capitolo 16
*** Episodio 4: La Trappola – Parte IV ***


 

 
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Episodio 4
LA TRAPPOLA

Parte IV




 

“Non avevo né una madre, né un padre, ma uno sconosciuto mi ha scelto come figlio.
Voi avevate una madre e un padre, e hanno lasciato che uno sconosciuto vi portasse via.
No, Generale, non mi compatisca: è andata peggio a voi.”
– Kal Skirata, guerriero Mandaloriano, al Generale Jedi Tur-Mukan,
durante le Guerre dei Cloni


 




Caverna dei Cristalli, Miniere di Kaha, 9 ABY

La mano del guerriero sconosciuto si stagliava appena nella luminescenza della caverna.

Se non fosse stato per il visore ancora scosso da interferenze che rischiarava il buio, Din non l’avrebbe affatto vista. 

Riportò il cervello al qui e ora – lontano dalle foreste di Concord Dawn e dall’ombra delle stelle che ancora punteggiavano le sue retine. Scacciò con un battito di ciglia quel forte senso di déjà-vu che l’aveva colpito, insinuatosi tra lo spossamento e il dolore diffuso che assediavano le sue membra, e tornò sotto il rassicurante peso della sua armatura, con l’odore ferrigno della battaglia ancora impresso sul palato.

Udì ovattata la voce interrogativa di Cara, seguita da un lamento flebile del Bambino, non allarmante, forse dettato da semplice curiosità. Stava bene. Din rilasciò un muto sospiro di sollievo. 

Il guerriero sconosciuto ruotò appena la testa verso i due, senza per questo ritrarre la mano.

«Se avessi voluto attaccarvi l’avrei già fatto, non credete?» replicò l’uomo.

Din colse un inaspettato accenno di sorriso nella sua voce giovane, affatto minacciosa.

Una serie di trilli robotici seguì quell’affermazione – dei trilli fin troppo vicini. Il visore di Din scattò in basso, verso le proprie ginocchia piantate nel terreno roccioso. Incrociò le orbite tondeggianti di un piccolo droide bipede bianco, che inclinò la testolina squadrata verso di lui, come se fosse intento a studiarlo curiosamente sotto l’elmo. Il che, realizzò nel notare la lucina blu intermittente sul fondo di uno dei suoi occhi artificiali, era perfettamente possibile.

«Ehi!» Din scattò in piedi barcollando con una fitta al costato malmesso, ritraendosi di un passo dal fascio di luce azzurrina che scaturiva dal droide e lo investiva in pieno. «Che kriff stai facendo?»

Il droide sobbalzò sul posto e fece un saltello indietro, emettendo un fischio acuto. A Din ricordò una lucertola lavica, di quelle che inseguiva da bambino su Nevarro; solo che le lucertole laviche si limitavano a scappare e a fissare con sufficienza lui e gli altri ragazzini Mandaloriani dalla cima di alture irraggiungibili. Di certo non assumevano un’aria offesa.

«Ah, scusatelo. Insomma, BD-1!» esclamò poi il giovane rivolgendosi al compagno, in un tono severo non molto diverso da quello che usava lui col Bambino quando toccava qualche comando della Crest. «Non è educato scansionare la gente, te l’ho già detto, no?»

Din approfittò del battibecco per scambiare un’occhiata con Cara. A parte il blaster ancora impugnato, ma non più puntato, sembrava più rilassata, anche se interdetta quanto lui dai nuovi arrivati. Dall’intensità con cui lo squadrò da capo a piedi, intuì che il suo aspetto non fosse migliorato rispetto a poco prima. Gli sembrava quasi di sentire il peso del sangue addosso e ogni respiro era una stilettata al polmone.

Il Bambino, accoccolato sulla spalla della guerriera, gli rivolse uno sguardo stanco, ma indubbiamente lucido e privo di sofferenza, accompagnato da una manina tesa verso di lui. Din stava per avvicinarsi, gettando fuori l’ultimo respiro teso ancora accartocciato nei polmoni, quando realizzò con un sussulto ciò che aveva appena sentito.

«Scansionare?» ripeté voltando di scatto l’elmo, con un picco acuto nella voce che non poté impedirsi, né fu camuffato del tutto dal vocoder.

Il giovane si portò una mano alla nuca, sfregandola in un gesto imbarazzato.


«Sì, è un suo vizio: passa ai raggi X tutto quello che–»

«Elimina quella scansione!» lo interruppe Din, col cuore che fece una capriola avvitata di panico. «Ora, prima che la elimini io,» aggiunse, puntando senza esitazioni il blaster contro la testa del droide, che rispose con una rapida sequenza di suoni terrorizzati.

«Ehi, ehi, calma, non c’è bisogno di–»

«Digli di eliminarla!»

«Fa’ come dice,» intervenne Cara, puntando un secondo blaster contro il droide, che batté in ritirata dietro le gambe del padrone, intento a sbracciarsi nel tentativo di placarli.

«Si può sapere cosa–»


«Ora!»

«Va bene, per Dathomir!» sbottò il guerriero, scoccando un’occhiataccia a loro e poi al droide. «BD, li hai sentiti, no? Eliminala,» intimò infine, incrociando le braccia e assumendo un cipiglio truce.

Lui emise una rapida successione di trilli e borbottii elettronici, seguita da un rumore simile a un fusibile sul punto di friggersi. Infine, saltellò sul posto e fischiò una singola volta, in una sorta di annuncio, arrischiandosi a sporgersi da dietro le ginocchia del giovane.

«Fatto,» concluse il guerriero, annuendo e riportando lo sguardo su di loro. «Contenti?»

Din squadrò sospettoso il piccolo ammasso di ferraglia e, se davvero poteva vederlo in volto con quei suoi occhi a raggi X, sperò vedesse anche quanto fosse minacciosa la sua espressione. E che badasse bene a non ripetere l’errore di scansionarlo oltre il beskar, se voleva rimanere tutto d’un pezzo. 

Abbassò il blaster con lentezza calcolata, imitato da Cara, per poi soffocare un mezzo sospiro che si infranse contro le costole incrinate: perché sempre droidi? BD doveva ringraziare con ogni fibra ottica e ingranaggio Kuiil, perché fino a pochi mesi prima avrebbe premuto il grilletto senza nemmeno pensarci né pentirsi.

Riprese infine a respirare normalmente. Lasciò spaziare lo sguardo dal guerriero – che non aveva abbandonato nemmeno per un istante quella sua postura di pacata fermezza – al resto della caverna punteggiata da cristalli occhieggianti, alla sagoma massiccia dei due gundark abbattuti. 

Era accaduto tutto nel giro di pochi minuti. Al contrario di qualunque altro scontro a cui fosse sopravvissuto, però, avvertiva un senso di stordimento, solo in parte dovuto al momento d’ipossia e alle fitte che gli pulsavano sorde nel costato come i denti di un akk molesto. Non ripensava a Concord Dawn da... da anni. Decenni. E quel giorno aveva trascinato la sua vecchia casa fuori dalla nebbia dei ricordi per ben due volte – prima con Scorch, a parole, e ora direttamente nella propria testa. Era come se il velo tra passato e presente si fosse squarciato, riportandogli a galla nel cuore un senso di malinconia e perdita. E quelle voci, poco prima... quella sensazione di casa che gli era sbocciata nel petto...

Si chiese di nuovo, guardingo anche nei suoi stessi pensieri, se essere capitato lì fosse davvero stato un caso. Se, dopo così tanti anni passati a seguire la Via e cercare il manda, non l’avesse infine trovato, proprio quando aveva smesso di cercarlo e i suoi passi avevano deviato dal percorso. Se Ruu, dopotutto, non avesse avuto ragione, quel giorno.

Guerrieri armati di spade luminose, gli rimbombò in testa, nella voce leggermente nasale di Scorch. Il suo cuore gli risalì in gola e mandò un paio di battiti ravvicinati, di speranza e paura mescolate nelle vene assieme agli strascichi dell’adrenalina. Un unico pensiero si fece nitido, a quel punto, tra tutte le miriadi che gli si rimestavano sotto l’elmo come gli asteroidi alla deriva sull’orizzonte dilaniato di Concord Dawn: no, non era lì per caso.

Una risatina gorgogliante ruppe la limpida ma inquietante lastra di certezza su cui si era appena adagiato, catturando l’attenzione collettiva: il Bambino fissava BD e i suoi movimenti molleggianti con innegabile ilarità, gli occhi enormi puntati sulla sua sagoma squadrata. Il droide agitò le corte antenne, fissando la creaturina con fare trepidante – ma stavolta, complice l’occhiata eloquente del suo padrone, evitò di avviare qualsiasi scansione.

Anche il guerriero fissava il piccolo con altrettanto interesse. La sua, più che semplice e comprensibile curiosità di fronte a qualcosa di nuovo, sembrava un interesse concentrato, come se stesse ispezionando il Bambino in cerca di un dettaglio familiare.

Il giovane scrutò poi loro brevemente, con un’ombra di sospetto che per la prima volta gli sporcò gli occhi chiari. Adesso il suo volto era illuminato dagli stick luminescenti: barba e capelli erano folti, di un rossodeciso, e incorniciavano lineamenti squadrati e zigomi larghi; sottili cicatrici parallele gli solcavano il naso tozzo e una guancia, simili a graffi biancastri sul volto pallido. Indossava quella che sembrava una robusta tenuta da meccanico sotto una corta veste scura senza maniche, con toppe arancioni sulle spalle – un brandello di tessuto era strappato in quel punto. 

Non sembrava portare altre armi oltre allo strano e letale bastone luminoso che aveva utilizzato poco prima, la cui elsa argentata pendeva adesso innocua dalla sua cintura. Non che gli servissero, valutò rapidamente Din, con le dita che annasparono per un istante in cerca del calcio dell’Amban, trovando solo aria.

«Ora che abbiamo chiarito il disguido... non ti sembra il caso di dirci chi sei? E perché ci hai salvati?» intervenne Cara, con un pizzico d’oscillante ironia pronto a tramutarsi in ostilità.

Neanche lei aveva ancora rinfoderato il blaster, ma Din scelse di dare il buon esempio facendolo per primo. Non vedeva la necessità di mostrarsi aggressivi nei confronti di qualcuno che, chiaramente, non avrebbe avuto alcuna difficoltà a farli fuori alla stregua dei due gundark – blaster o non blaster. Cara lo imitò con calcolata lentezza, a sottolineare che non apprezzava quella linea d’azione.

Il giovane raddrizzò le spalle, giungendo le mani di fronte a sé in una posa formale.

«Sono Cal Kestis,» si presentò poi, con una sfumatura più grave nella voce. Alzò un sopracciglio rossiccio. «E dovrei farvi la stessa domanda.»

«Cacciatori di taglie,» rispose laconico Din.

«Tu, invece, devi essere la spia,» osservò Cara, senza girarci intorno.

Cal inclinò il capo all’indietro a quelle due informazioni, in quello che sembrò un gesto seccato.

«Ah. Non vi manda Zetz, presumo, o non staremmo parlando amichevolmente.»

«Scorch era piuttosto ansioso di sapere dove ti fossi cacciato,» si limitò a rivelare Din.

«Lo immagino,» tagliò corto Cal, per poi emettere un sospiro. «Mi stupisce che non sia con voi, quel pazzoide di un Clone. Dov’è, ora?»

«Diretto in un luogo sicuro,» replicò vago Din scrutando la reazione dell’altro, che fu pressoché nulla. «Ha detto che probabilmente Zetz voleva attirare lui allo scoperto. Per questo ha ingaggiato noi.»

«Sensato,» annuì Cal, il gesto accompagnato da un lieve fischiettio del droide.

Cara fece per parlare, ma Cal alzò un palmo, in un gesto gentile ma deciso, gli occhi che corsero all’improvviso alle sue spalle.

«Sono certo che abbiate delle domande, e molte, ma dovremo rimandare le spiegazioni. Stiamo per avere compagnia.»

Din, la presa già sul calcio del blaster, ruotò il busto verso l’ingresso della caverna – forse solo uno dei tanti. Non vide né sentì nulla, né i sensori del casco gli riportarono dettagli allarmanti. Con la coda dell’occhio, vide Cara agitarsi perplessa, le orecchie tese quanto le sue. 

Il Bambino, però, strinse i pugni e abbassò le orecchie, facendo guizzare gli occhi nel buio. Cal si stava già avviando verso l’altra estremità della caverna con BD alle calcagna, come dando per scontato che loro l’avrebbero seguito. Din non si mosse, tantomeno Cara, il cui cipiglio guardingo si inspessì ulteriormente.

«Come fai a dirlo?» indagò Din.

Si mosse verso i resti del fucile Amban sparpagliati a terra, così da prendere tempo e mascherare la sua reticenza a fidarsi con così tanta facilità. 
Cal si voltò appena e per un istante, non seppe spiegarsi perché, parve confuso. Scoccò un’occhiata laterale al Bambino, un’occhiata quasi complice, poi rivelò un sorriso appena accennato.

«Ho i miei metodi.» Li incalzò con un colpo di dita a mezz’aria. «Ora andiamo, prima che Zetz si unisca alla festa.»

Din si inginocchiò a raccogliere la baionetta del fucile, leggermente deviata, ma comunque intatta al contrario del resto, e la assicurò alla cintura. Cercò lo sguardo di Cara, che si era avvicinata per restituirgli la pistola Verpine. La accettò con un cenno, udendo un mormorio distorto nel comlink dell’elmo, direttamente nell’orecchio.

«Possiamo fidarci?»

Din temporeggiò, assicurando la pistola alla fondina da gamba e rimestandosi in testa le poche, lacunose informazioni che avevano su Cal. Li aveva salvati, certo, e quello deponeva in suo favore. Forse lavorava per la Repubblica – il che lo rendeva inviso a Cara, ma comunque preferibile a un agente Imperiale. Collaborava con Scorch, che si era dimostrato ben più che amichevole nei suoi confronti nonostante la baruffa scaturita dal loro incontro, e simpatizzava comunque per i Mandaloriani – anche quelli con la fissa per l’elmo”.

E, nell’irrazionalità di quel pensiero, Cal non aveva fatto scattare alcun campanello d’allarme nella sua testa. Non poteva dire di saper leggere sempre al volo le persone – quel voltagabbana di Calican ne era un chiaro esempio – ma aveva sempre contato sulla sua abilità nel trarsi fuori da situazioni scomode, piuttosto che sul prevenirle. Ma nemmeno il Bambino aveva mostrato alcun cenno di diffidenza nei confronti del giovane. Anzi, ne sembrava attratto e affascinato. Non poteva non considerarlo, come fattore di valutazione.

Guerrieri armati di spade luminose. Ripensò alla danza di battaglia del guerriero, accompagnata da quell’arma prodigiosa dal brillio azzurro. RIvide il gundark che ondeggiava a mezz’aria, sovrapposto al ricordo del mudhorn in quella esatta situazione, con la differenza che all’epoca lui era inzaccherato di fango e adesso di sangue, ma comunque a un passo da una fine affatto gloriosa. Non era difficile trarre il collegamento. Ma tenne per dopo quella domanda che gli premeva contro le corde vocali.

Fiducia o meno, non aveva altra scelta, se non seguire Cal.


«Lo scopriremmo in ogni caso,» rispose quindi in un soffio tramite il comlink, facendo leva sulle ginocchia per rialzarsi.

Cara non sembrò affatto convinta, ma non contestò, limitandosi a scuotere la testa.

Nel frattempo, Cal si era fermato ad attenderli pochi metri più in là, gli occhi socchiusi e il naso all’insù come se stesse fiutando una traccia, una mano leggermente estesa a mezz’aria. Non sembrava volerli incalzare ulteriormente, quasi fosse conscio dei loro dubbi.

Din si prese qualche altro istante per fare un controllo generale dell’equipaggiamento, mentre Cara recuperava la culla ammaccata e vi accomodava il Bambino. Il dispositivo era malmesso per gli urti, ma ancora in grado di tenere un passo sostenuto.

Din si affacciò oltre il bordo. Il blocco metallico all’altezza dello stomaco si fuse in mille rivoli tiepidi non appena si ritrovò a piantare gli occhi in quelli enormi e interrogativi del piccolo. Lo scrutarono a fondo, affatto impauriti nonostante dovesse apparire spaventoso, in quelle condizioni, ma registrò solo una tenue preoccupazione a incresparne le profondità liquide e nere. 

Era però soffocata da una cieca fiducia che emerse in un lieve sorriso e in un versetto gioioso. La stessa con la quale lui, fin troppi anni prima, aveva guardato Ruu di ritorno da una missione, credendola immortale – finché, un giorno, non era più tornata. 

Din espirò piano nell’adagiare una mano sulla sua tunica sgualcita, a stringere il ciondolo di beskar che gli pendeva dal collo, e le mani del Bambino si adagiarono sulla sua. Fu l’unico tocco che percepì: quello che gli aveva sfiorato il petto poco prima era svanito, perso nei meandri tortuosi del manda e di una Via che si faceva sempre più oscura con ogni passo, ma che forse prometteva un’uscita vicina. Un pizzicore di paura gli solleticò il cuore.

Guardò la schiena dritta di Cal che aspettava di guidarli attraverso la caverna, poi il buio fluorescente dietro di loro che inghiottiva le sagome dei gundark esanimi, infine il soffitto adornato di false stelle. Strinse la mano minuscola del piccolo. Non sapeva dire cosa riservasse loro il futuro, nemmeno di lì a pochi minuti. Sapeva soltanto di aver mantenuto la tacita promessa di tornare. E quella, per ora, era l’unica cosa che contava.

 

 

Cal raramente sbagliava nel leggere le tracce impresse nella Forza, ma a volte avrebbe davvero preferito prendere un abbaglio e scambiare un boggdo per un bogling. Questa era una di quelle volte. Riusciva quasi a sentirsi sul collo il fiato di Zetz e dei suoi sgherri. Inspirò a fondo e mantenne la calma, senza accelerare il passo, anche se le sue dita sfiorarono l’elsa della spada laser.

I suoi stivali morbidi avanzavano silenziosi sul pavimento dissestato della miniera, ormai divenuta in tutto e per tutto una labirintica caverna naturale. Riusciva quasi a udire lo sfrigolare della lava che aveva scavato quella galleria e, in seguito, delle impetuose acque marine che l’avevano levigata prima che i livelli inferiori venissero prosciugati per far posto al sito d’estrazione.

Dietro di lui, ben più reali e vicini nel tempo e nello spazio, echeggiavano i passi cauti del Mandaloriano e della guerriera, accompagnati dal tintinnio di metallo e armi e dal ronzio flebile della culla; aggrappato alla sua schiena, BD emetteva di tanto in tanto qualche cigolio nel girare qua e là la testa.

Cal non si era sentito imprudente a dare le spalle ai suoi nuovi, improvvisati compagni: nonostante l’aspetto letale, la loro impressione nella Forza era neutra, a tratti anche positiva, e non erano certo individui in grado di sottrarsi al suo scrutinio invisibile – il Mandaloriano, poi, era del tutto insensibile al flusso. La guerriera recava una tenue traccia di sensibilità, ma non ne era probabilmente nemmeno consapevole. 

Il piccolo, d’altro canto... non si stupì nel constatare di aver percepito quell’enorme possanza solo nei pressi di un unico altro essere vivente, così simile a quell’esserino verde in apparenza del tutto inerme. L’onda d’energia era stata immane, tanto da guidarlo senza dubbi verso il gruppo sotto attacco; eppure, adesso, non riusciva più a distinguere la sua impronta nella Forza, nonostante fosse ad appena un paio di metri da lui. 

Sembrava aver troncato di netto il proprio legame col flusso non appena era apparso lui: il suo canale di comunicazione era ostruito da una diga inamovibile. Cal, a quel pensiero, s’incupì di un dolore antico. Cadde come un sasso cadde al centro del suo petto, increspandolo di lievi onde concentriche destinate ad acquietarsi presto assieme ai ricordi.

Allontanò da sé i molti interrogativi che si affollavano attorno a quello strano trio: per ora, la prerogativa era raggiungere un posto sicuro nel dedalo di cunicoli inesplorati che si dipanava dinanzi loro. 
Avvertiva chiaramente il nervosismo dei suoi due compagni e non poteva dare loro torto: per quanto ne sapevano, stavano sfuggendo a un nemico invisibile o forse inesistente, seguendo le orme di un completo sconosciuto armato di spada laser e in grado di abbattere due gundark da solo, seppur indeboliti.

Cal trattenne un sospiro mesto. Avrebbe preferito non dover uccidere le due creature, per quanto pericolose. Non dover avvertire la loro vita che defluiva dai rispettivi corpi per disperdersi nell’etere, nutrendo la Forza, ma era conscio di aver compiuto una scelta sensata, anche se non l’unica. Era passato del tempo, dall’ultima volta che aveva stroncato una vita, seppur di un essere non senziente, e gli era rimasto addosso un denso velo d’inquietudine.

BD interruppe i suoi pensieri con un borbottio robotico, protendendo la testa oltre la sua spalla.

«Lì, dici?» chiese conferma sottovoce Cal, adocchiando la fenditura nella parete, fiocamente illuminata dagli stick luminescenti e dalla torcia del droide.

BD assentì con un trillo deciso. Cal non obiettò, fece un cenno della mano sopra la sua testa e attraversò lo stretto passaggio nella roccia. Dopo un passo, si allargava appena formando una nicchia irregolare di dimensioni modeste, sufficiente a far entrare comodamente una decina di persone e più che ampia per il loro piccolo gruppo. 

I suoi compagni lo seguirono in pochi secondi, con un raschiare di metallo e duraplast contro le pareti calcaree ravvicinate, tra cui la culla passò a fatica, dovendosi inclinare un poco.

«Qui dovremmo essere al sicuro,» parlò Cal, spazzandosi via i residui di polvere dal poncho.

«Credi che basti a nasconderci?» commentò la guerriera, con un’occhiata sbieca alla stretta apertura della nicchia, comunque sufficiente a lasciar trapelare una lama di luce azzurrina al di fuori.

«BD?» Cal schioccò le dita e il piccolo droide balzò giù dalle sue spalle.

Lui raggiunse l’apertura, vi puntò gli occhi e proiettò un ologramma che coprì interamente la spaccatura nella roccia, riproducendone le asperità e aggiungendovi un paio di cristalli blu luminescenti a giustificare il chiarore che proveniva dall’interno. Le sopracciglia della guerriera si inarcarono e la testa del Mandaloriano ricadde di lato, in un mutuo cenno d’approvazione.

«Non è molto, ma avremo un po’ di tregua. Il tempo per permettervi di riprendere fiato e sistemare gli acciacchi,» continuò Cal, con un’occhiata eloquente al Mandaloriano inzaccherato di sangue, il visore a malapena distinguibile sul beskar.

Aveva zoppicato per tutto il tragitto e anche ora la sua postura era sbilenca; aveva tutta l’aria di avere mezza cassa toracica incrinata.

Lui sospirò piano, ma annuì riluttante. Il peculiare odore del sangue di gundark, simile a fumo o legna bruciata, permeava lo spazio angusto. Si sedette con cautela su una sporgenza rocciosa, prendendo a frugare nelle sacche appese alla cintura, presumibilmente alla ricerca di bacta. Il piccolo seguiva ogni suo movimento Mandaloriano, pur mantenendo le orecchie tese verso di lui, di fatto l’estraneo. Nonostante il timbro di Forza fosse ben camuffato, Cal registrava comunque con chiarezza una vibrazione confusa in lui, impercettibile se non sapendo dove e come cercare. Il piccolo sarebbe risultato invisibile a qualunque ricerca ad ampio raggio tramite la Forza.

«E abbiamo anche il tempo di porti qualche domanda?» indagò a quel punto la guerriera, con un lampo negli occhi neri.

Rimase di posta accanto a BD, le mani piantate sui fianchi, come se non si fidasse comunque a lasciare sguarnita l’entrata. Il Mandaloriano interruppe i suoi armeggi con un iniettore di bacta e ruotò appena l’elmo, ma Cal non capì se stesse guardando lei o il piccolo, né la natura del gesto.

I due si erano scambiati a malapena una decina di parole e, nonostante lui non potesse nemmeno contare sulla mimica per esprimersi, sembravano comunque intendersi al volo. Se avessero deciso di attaccarlo, per quanto avventata sarebbe stata una mossa simile, l’avrebbe capito unicamente dalle oscillazioni negative che quegli intenti avrebbero generato nella Forza, non certo osservandoli dall’esterno. Per ora, si limitavano a rimanere diffidentemente sul chi vive.

«Suppongo di sì,» concesse infine, corroborando il tono amichevole con un abbozzo di sorriso. «Posso almeno sapere con chi sto parlando, prima?»

I due si scambiarono uno sguardo rapido, coordinato, per poi rispondere quasi in coro:

«Syn.»

«Mando.»

Cal strinse gli occhi a quelle risposte che, chiaramente, non erano una verità assoluta, ma nemmeno una completa bugia. Sarebbero bastate, decise... o quasi.

«E lui?»

Il suo indice puntato fece girare entrambi verso il piccolo, che lanciò un tenue lamento di disagio. Syn schiuse la bocca per rispondere, ma Mando la anticipò, precipitosamente:

«Ad’ika.»

Cal corrugò le sopracciglia, e non per la peculiarità del nome – di certo ne aveva sentiti di più bizzarri. Quella era una bugia... ma anche una verità, almeno secondo chi la pronunciava. Il cozzare di quei due estremi causò un tenue tremolio, ben distinguibile, ma Cal scelse di ignorarlo, per ora.

«Allora? Chi sei davvero?» interloquì a quel punto Syn, incrociando strettamente le braccia senza schiodargli lo sguardo di dosso.

Prima di rispondere, Cal si addossò a una parete, contro un rilievo di roccia che fungeva da sedile di fortuna.

«Qualcuno molto interessato ai traffici dell’Impero. E qui su Awath sono piuttosto vivaci, come avete visto.»

Un mugugno sforzato da parte di Mando lo fece interrompere quando questi affondò seccamente l’iniettore in un interstizio della corazza argentea, sulla zona contusa. Lo estrasse con una smorfia invisibile, ma ben intuibile. Ripose la fialetta vuota nella sacca, parlando poi con voce tirata, già nell’atto di alzarsi in piedi.

«Non tirarla per le lunghe,» lo incalzò, la voce poco più di un roco sussurro, ma non per questo meno tesa. 

Cal avvertì con un picco allarmato l’improvvisa ostilità nei suoi confronti per aver evitato di nuovo le loro domande, e sospirò. Non era in caso di inimicarsi un Mandaloriano: spada laser o meno, quel beskar avrebbe costituito un problema.

«Scorch mi chiama “spia”, ma non lavoro per lui, tanto per cominciare. Abbiamo solo una... comunanza d’intenti, ovvero ostacolare quanto più possibile ciò che rimane dell’Impero. Che, per i miei gusti, è fin troppo.»

«Ne sappiamo qualcosa,» commentò Syn, riducendo poi le labbra a una riga sottile, come se si fosse pentita di aver parlato.


Si spostò di un passo dall’ingresso, in un moto nervoso che la indusse a irrigidire le spalle sotto la corazza. Cal decise di non approfondire la questione: trovava che il piccolo tatuaggio della Ribellione e i marchi da soldato d’assalto che portava in piena vista fossero simboli più che sufficienti del suo astio verso l’Impero. 

Quanto al Mandaloriano, non si poteva dire che tra le due fazioni corresse buon sangue, ma sapeva che con quel popolo singolare non era il caso di trarre conclusioni affrettate nemmeno dagli indizi più ovvi.

«Ti sei alleato col Clone,» lo spronò Mando, di nuovo in piedi e piuttosto saldo sulle gambe. «Cosa cercavate, qui sotto?»

«Scorch non è stato del tutto chiaro,» tentennò Cal, inarcando le sopracciglia a sottolineare che fosse sincero, su quel fatto.

Aveva faticato persino a capirlo, tra il miscuglio di Mando’a e Basico che parlava e la sua logorrea inarginabile, figurarsi leggere tra le righe di ciò che gli aveva chiesto di fare. Cosa che, al momento, non gli sembrava il caso di rivelare in termini netti. Mando, in ogni caso, non gli sembrava indossare un’armatura verde e rossa, quindi tanto valeva tenersi l’asso di sabacc nella manica, come avrebbe detto quel baro tetrabrachio di Greez.

«Ha detto solo di riferirgli nel dettaglio chi stesse prendendo parte all’operazione mineraria. Credo che stia cercando qualcuno e credo che c’entriate voi Mandaloriani,» proseguì cauto, con un’occhiata a Mando, che rizzò il capo con improvviso interesse.

«In che modo?»

Cal, a quel punto, sospirò una risatina.

«Neanche il database di BD riuscirebbe a trovare un senso agli intrighi di Mandalore degli ultimi cinquant’anni.» BD fischiò offeso, disapprovando quell’affermazione. «So solo che stava raccogliendo informazioni e che deve tornare su Concord Dawn a fare rapporto. Ma faresti bene a chiederglielo direttamente... mi sembrate già abbastanza in conflitto tra voi e non voglio creare ulteriori incomprensioni.»

Mando, a quell’affermazione reticente, sembrò congelarsi sul posto. L’armatura argentea gli donava di per sé un’aura di immota staticità: compiva solo i movimenti strettamente necessari ad accompagnare le sue parole, ma in quell’istante sembrò tendersi allo stremo sotto la pressione di mani invisibili. Tacque così profondamente che, per un attimo, Cal faticò persino a udire i refoli d’aria che sfuggivano ben udibili dall’elmo, come se fosse entrato in apnea.

«Non ci hai ancora detto cosa cercavi tu,» puntualizzò Syn, dopo uno sguardo laterale e interrogativo a Mando, ancora rigido e piantato al suo posto, una mano che era andata a stringere il bordo della culla.

«Io sono qui per i cristalli kyber, ma credevo fosse evidente,» rivelò Cal, con una scrollata di spalle a celare la metà dei non detti, per poi leggere la confusione nei loro occhi – e visore. «O forse no.»

Mando sembrò staccarsi dall’orbita parallela sulla quale si era agganciato, e rivolse l’elmo verso di lui.

«Kyber, hai detto? Tu sai cosa sono quei cristalli? Sai come funzionano?»

Cal annuì guardingo, interdetto dalla stringa di frasi più lunga che fosse uscita di bocca al Mandaloriano fino a quel momento. Tutto quell’interesse era sospetto, ma, di nuovo, non avvertì alcuna emozione o intento negativo ad accompagnarlo – anzi, fu il pizzicore inaspettato e innocente della speranza a sorprenderlo. Si trovò a increspare la barba attorno a un sorriso.

«Sono cristalli energetici. Alimentano queste,» aggiunse ad abbreviare le spiegazioni, prendendo l’elsa della spada laser.

Notò il modo automatico in cui le mani di entrambi corsero discretamente alle rispettive armi, e puntò così il foro della lama altrove, prima di premere il tasto d’accensione. 

Il familiare sibilo scrosciante riempì la piccola grotta e ogni sporgenza e rientranza della parete venne dipinta in altorilievo dal brillio intenso della lama dai contorni turchesi, di un bianco abbacinante al centro. La lieve cuspide in cui culminava la punta disegnò un piccolo arco a mezz’aria quando la fece ondeggiare con un colpetto del polso, provocando un ronzio basso che riverberò nei loro timpani.

Era chiaro che nessuno di loro due avesse mai visto una spada laser, né uno Jedi. Non avrebbe dovuto sorprenderlo, ne era consapevole, ma era difficile, quando era stato abituato a vederne di ogni tipo e colore sin da quando era in grado di camminare. Si astenne quindi dalle spiegazioni tecniche o più filosofiche, quelle con cui il Maestro Tapal riempiva ore e ore di lezione che sembravano protrarsi all’infinito, e si limitò ai fatti più superficiali:

«Amplificano la ricezione ed emissione dei segnali, oltre a quella della Forza. Il fatto che l’Impero si sia messo a cercare giacimenti di kyber non è un buon segno di per sé, ma almeno vuol dire anche che il Sacrario Jedi su Ilum è rimasto inviolato.»

Stavolta, colse un irrigidimento da parte di entrambi. Quasi poteva vederli tendere le orecchie verso di lui, come bogling incuriositi che fanno capolino da una tana. Vista quella reazione, si sarebbe aspettato qualche domanda in proposito, invece, di nuovo, fu preso in contropiede da ciò che disse Mando:

«Dobbiamo andarcene, ora,» sbottò, quasi affannato; poi, con più veemenza, in un modo che gli parve scollegato: «Gli Imperiali cercano lui.» 

Mando indicò brevemente il piccolo, compiendo un passo nervoso avanti, poi di nuovo indietro. Cal arricciò la fronte e portò un palmo a sfregarsi la barba troppo cresciuta, in quei giorni passati a girovagare per le miniere cercando un’uscita alternativa per sfuggire a Zetz senza mandare all’aria la copertura. Rinfoderò la spada laser, gettandoli di nuovo nella penombra.

«Che vuoi dire?» prese tempo, fissando il Mandaloriano finora imperturbabile che, adesso, sembrava essere a stento contenuto dall’armatura.

«Voglio dire,» riprese lui, avanzando di un passo, «che l’Impero cerca sia lui, sia questi cristalli. Lui sa... controllarli, in qualche modo. Questo è il posto più pericoloso in cui potrebbe trovarsi. E tu lo sai già,» aggiunse aggressivo, con un secco colpo del mento nella sua direzione.

Cal tirò le labbra, i piedi che andarono istintivamente a cercare un appoggio più solido sul terreno, pronti a far presa per un eventuale balzo o torsione.

«So che è versato nella Forza, ed entrare in sintonia coi cristalli kyber ne è una naturale conseguenza. Ma non sapevo che l’Impero lo stesse cercando. Anche se, no, non mi stupisce.»

«Tu...» Mando s’interruppe, lanciando uno sguardo fugace al piccolo, intento a osservare a turno tutti loro oltre il bordo della culla, un’espressione spaurita a raggrinzire il suo volto. «Tu sei uno Jedi, vero?»

Cal ponderò quella domanda con la stessa, ferma cautela con cui maneggiava la propria spada laser, senza stringere troppo la presa, né renderla troppo molle. Si era aspettato di sentirsi porre sin da subito quella domanda e, quando non era arrivata, non si era più aspettato di sentirla, neanche dopo la menzione di Ilum. Il fatto che fosse arrivata adesso lo incuriosiva, mettendolo al contempo in allerta, soprattutto perché non c’era alcuna risposta semplice.

«Sono stato addestrato come Cavaliere Jedi. E seguo le Vie della Forza, anche se non faccio più parte dell’Ordine.»

Vide Mando stringere con più vigore il bordo della culla, fin quasi a farsi tremare le nocche. Quando parlò, la sua voce fu particolarmente roca e bassa:

«Mi è stata assegnata la missione di ricongiungere lui ai Jedi.» Fece una pausa, deglutendo. «È uno di voi.»

Cal quasi sobbalzò. Sentì il silenzio premergli sui timpani, oltre che ai margini della coscienza, lì dove terminava il suo essere e iniziava il flusso della Forza. Mando lo fissava, un tremito impercettibile a scuotergli le mani, le spalle diritte, il respiro superficiale e rapido di chi cerca aria, no ntrovandola. Syn taceva, senza muovere un muscolo, se non per le labbra strette e le sopracciglia inclinate in una piega ansiosa.

Il piccolo stringeva il guanto del Mandaloriano, fissandolo dal basso con un’insistenza che di infantile aveva ben poco – per un istante, Cal colse un breve impulso da parte sua, come un sasso che sfreccia rimbalzando a pelo d’acqua per poi piombare a fondo.

Cal si ritrovò a scuotere la testa, piano, senza quasi rendersene conto, a distruggere quella frase assurda che aveva appena sentito.

«No, non lo è. Lo sarà solo se deciderà di esserlo,» scandì, accigliandosi, una vena severa che andò a tingergli la voce in modo molto più marcato di quanto intendesse.

«Lui ha dei poteri da Jedi,» ribadì Mando, chiaramente convinto di quel fatto, ma altrettanto chiaramente incerto su cosa stesse davvero dicendo, come se stesse ripetendo qualcosa che non comprendeva del tutto. «Come può non essere uno Jedi?»

Il piccolo emise un breve, acuto lamento, e l’elmo del Mandaloriano scattò nella sua direzione come a comando, per poi tornare a rivolgersi verso Cal. 

Questi scosse la testa, senza irritarsi. I Jedi erano niente più che una leggenda, alle orecchie della Galassia, in particolar modo nell’Orlo Esterno. E dove non arrivavano nemmeno le leggende, subentrava l’ignoranza, o la manipolazione.

Non sapeva dire chi avesse spedito quel Mandaloriano in quella caccia al bantha priva di alcun fondamento, né per quale motivo l’avesse fatto. 
Gli era solamente chiaro che, se Mando aveva aspettato fino a quel momento per chiedere conferma dell’ovvio, non era una missione che stava portando a termine a cuor leggero – e il modo in cui il piccolo Ad’ika si aggrappava a lui ne era una prova lampante. Trasse un respiro profondo.

«Il piccolo è sensibile alla Forza in un modo che raramente ho visto prima. È versato nel suo uso e probabilmente lo hai già visto all’opera. Potrebbe rientrare ancora nell’età idonea per l’addestramento.»

 Si interruppe, piantando gli occhi nel punto in cui intuiva fossero quelli del Mandaloriano, ora di nuovo in apnea. 

«Ma non ha scelto di essere uno Jedi, e non sarò io a imporglielo come fu imposto a me. È una sua scelta.»

Gli parve di sentir boccheggiare Mando sotto l’elmo, e anche Syn fu investita da un sussulto di sconcerto. Il Mandaloriano fissò il piccolo, scuotendo il capo, la mano ancora nella stessa posizione.

«E lui cosa vuole?» chiese poi, con veemenza minata da un tremito subdolo. «Puoi... sentire anche quello che pensa? O che prova?»

Cal ripiegò le labbra, corrucciandosi pensoso, riluttante. 

Poteva provarci, nonostante la chiusura ermetica del piccolo al mondo esterno. Non amava violare l’intimità di una mente altrui, ma Ad’ika sembrava tutto, meno che inconsapevole di ciò che stesse accadendo. Nei suoi occhi aleggiava, eterea, tutta la grave saggezza che ricordava di aver visto nel Maestro Yoda, particolarmente evidente, in quel momento, tra le rughe premature che increspavano il suo volto di infante.

Cal scrutò il Mandaloriano, sull’orlo di quella che sembrava disperazione di fronte al vicolo cieco di una ricerca durata chissà quanto; poi il piccolo, che non aveva distolto nemmeno per un istante le pupille dilatate dalla figura ricoperta di metallo che era senza dubbio il suo punto di riferimento. 

Sospirò, passandosi una mano tra i capelli per scostarsi le ciocche troppo lunghe dal volto. Se anche il piccolo avesse espresso la volontà di addestrarsi, ciò non avrebbe cambiato nulla. Ma, almeno, Mando avrebbe avuto una risposta, tra le tante che stava cercando.

Cal socchiuse gli occhi, estendendo appena una mano verso la culla, il cui occupante rivolse subito la sua attenzione verso di lui con fare inquieto, tirando indietro le orecchie. Cal incontrò la sua barriera e si fermò, senza tentare di forzarla. L’altro non cedette, né fece cenno di voler aprire un varco, anche se non rinsaldò le sue difese già inespugnabili nel percepirlo così vicino a lui.

Cal contrasse il volto, imprimendo un’ulteriore spinta alle sue capacità di percezione. L’impronta che captava era ovattata, sbiadita, chiusa dietro mura d’energia invalicabili.

Si rivide per un istante bambino, subito dopo la morte del Maestro Tapal, quando si era trovato a dover chiudere ogni canale di comunicazione con la Forza per sopravvivere alla Purga Jedi. Ma era stato solo per pochi anni. Quel bambino... da quanto si precludeva il contatto con la Forza? Per quanto tempo era rimasto solo, nascosto e abbandonato a se stesso, con una costante minaccia di morte sulla testa? 

Eppure, oltre la confusione imperante, c’era un mare di serenità, un’ancora infissa nel fondale sabbioso – come i piccoli artigli che affondavano adesso nel guanto di cuoio del Mandaloriano.

«È difficile leggerlo,» proferì in un soffio, serrando i denti per la tensione. «Sembra... ritrarsi dalla Forza, è come se fosse fuori dal suo flusso,» tentò di spiegare, con lentezza misurata. 

Abbassò poi la mano, rilasciando con un soffio la pressione accumulata.

«Avverto però molta confusione in lui,» asserì gravemente, riaprendo gli occhi e incontrando la luminescenza azzurrina ormai familiare che permeava la grotta.

Mando spostò il peso da un piede all’altro, evidentemente intento a trattenere l’ennesima domanda che, infine, si lasciò sfuggire:

«E cosa vorrebbe dire?»


Cal fissò il guerriero in armatura dinanzi a lui, sentendo di avere su di lui un potere troppo grande, in quel momento, in grado di stroncare lui e la sua missione con la sola forza delle parole.

«Che adesso non è pronto a diventare uno Jedi, né forse lo sarà mai.»

 





 


Note&Glossario:

– I bogdo e bogling sono due creature apparse in Jedi: Fallen Order. I primi sono carini e coccolosi, i secondi sono macchine di morte e il detto che ho inventato gioca su quello "prendere lucciole per lanterne", oltre che sulla somiglianza tra i due nomi.
– Jaro Tapal è un Lasat, Maestro di Cal, ucciso di fronte a lui durante l’Ordine 66.
– Greez è un compagno di viaggio di Cal nel videogioco (qui, è un semplice easter egg).

Note dell’Autrice:

Cari Lettori,
ve lo aspettavate questo cambio di PoV? Sì? No? Beh, in ogni caso, eccolo qua ♥

Molti di voi avevano indovinato: il guerriero misterioso era proprio Cal Kestis ♥ Spero sia un inserto gradito: il suo doveva essere un semplice cameo, ma ha acquisito molto più spessore con l’evolversi della trama... ma lo scoprirete presto.
Sarò sincera: non so dirvi se sarà ricorrente o meno, come PoV, perché stavo seriamente pensando, dopo l’omissione di quello di Cara, di tenermi un "PoV vagante" con cui approfondire un paio di secondari rimasti in sordina finora, ma vedremo dove mi porterà il cuore ;)


È un capitolo abbastanza tecnico con relativamente poche introspezioni/passaggi descrittivi, e ne sono conscia, ma è fondamentale per il futuro e non ho voluto smollarvi 5k di parole dilungandomi in chiacchiere. Non succede (ancora) nulla di che, a parte il povero Mando sballottato da una quest all’altra, ma nel prossimo capitolo ne vedremo delle belle, promesso :D
Per ora, spero abbiate apprezzato questo primo confronto, ricollegato anche alla citazione iniziale, tratta dalla saga Republic Commando. Sono abbastanza critica con le "vie Jedi" e ho voluto sviluppare il personaggio di Cal sia basandomi sul canone, sia costruendovi degli headcanon. Se volete approfondire il personaggio tramite Wookieepedia/Jawapedia, troverete chicche interessanti, ma sappiate che verrà comunque sviscerato nel corso della storia ♥

Grazie a tutti voi che leggete, commentate e supportate la storia! Siete il mio coaxium **
Alla prossima, di nuovo tra una settimana (eheh)

-Light-

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Capitolo 17
*** Episodio 4: La Trappola – Parte V ***


 

 
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Episodio 4
LA TRAPPOLA

Parte V



 

“L’operazione mineraria su Awath deve procedere come da programma, a ogni costo e con ogni sacrificio. 
Assicurati che il Rodiano segua le direttive... e forza la mano, se proprio devi.

Non farmi pentire di aver chiuso un occhio sul tuo popolo e sul fallimento di Carkoon.”
– Moff Gideon, comunicazione dallo Star Destroyer Revenant,
destinazione ignota, 8ABY ca.

 

 

Din batté più volte le palpebre e quasi pensò che la sua reazione fosse trapelata attraverso il beskar, visto che si sentì gli sguardi di tutti i presenti fisicamente appuntati addosso.

Cosa?

Le assurde parole di Cal si rifrangevano in echi metallici all’interno dell’elmo.

Il Bambino... non poteva diventare uno Jedi? Anzi, non era affatto uno Jedi come aveva sempre creduto? Quel ragionamento seguiva una logica impensabile, errata. Andava a cozzare contro ogni sua convinzione, come un colpo di blaster impazzito che rimbalzava senza via d’uscita su pareti in durasteel.

Lui aveva vagato per mezza Galassia alla ricerca di quei cosiddetti "stregoni" sulla base di cosa? Dicerie e leggende? Menzogne, a quel punto?

Eppure, quella era la Via. L’Armaiola era sembrata così sicura di sé, quando gli aveva assegnato la sua missione. Come se fosse a conoscenza di risvolti dell’Universo a lui ignoti, sondabili solo tramite una profonda conoscenza del Credo, del manda, della vita stessa. Come se fosse in grado di leggere la verità oltre il mito, rendendola visibile anche agli altri.

Si era dunque sbagliata? Din non riusciva a crederlo, non del tutto. Gli aveva... mentito, allora? Din irrigidì la mandibola, ripensando alle rivelazioni di Scorch e a quell’angolo di dubbi nella propria mente che, col passare del tempo, si espandeva sempre più.

C’erano altri Mandaloriani, al di fuori delle Tribù. Mandaloriani che non seguivano il Credo, ma che sembravano saperne molto più di lui su Mandalore e sulla sua storia – persino sui Jedi. Mandaloriani che seguivano un’
altra Via, con la medesima fierezza con cui lui calcava la propria.

Non scacciò quei pensieri molesti: non poteva più ignorare tutti i vicoli ciechi della Via. Non poteva più escludere la possibilità di essere stato ingannato, anche se non riusciva a capirne lintento.

Strinse le dita in un gesto automatico che fece scricchiolare il cuoio del guanto, incrinando la sottile patina di sangue rappreso. Comunque fosse, lArmaiola aveva molto di cui rispondere, sempre che fosse ancora viva. Così come Ruu’buir – anche se da lei poteva aspettarsi una risposta solo attraverso il manda, se davvero esisteva.

Din fece un passo avanti, verso Cal e il muro che aveva appena posto sul suo cammino.

«Lui deve diventare uno Jedi. Questa è la Via,» declamò, appigliandosi a quel concetto rassicurante e accompagnandolo con un moto veemente dellelmo – perché anche sul fondo della menzogna doveva esserci un granello di verità.

Vide il volto di Cal farsi più cupo, gli occhi gettati in ombra delle sopracciglia rossicce che si corrugarono. La sua prima affermazione parve dispiacergli particolarmente.

«Non cè nessun "dovere", Mandaloriano. Non da quando lOrdine è caduto, almeno; e anche allora non era una reale costrizione.»

«Hai detto tu che sei stato costretto,» osservò lesta Cara, cogliendolo apparentemente in fallo.

Invece, Cal si limitò a un sorrisetto dalla piega amara.

«È più corretto dire che non ho avuto scelta. I miei genitori hanno pensato fosse meglio una vita devota allOrdine Jedi che una di stenti, cresciuto in mezzo alla guerra.»

Din deglutì in silenzio, senza poter contraddire quelle parole che sembrarono piantarsi in un punto fin troppo vicino al cuore, in quel frammento di sé rimasto sotto il cielo stellato di Concord Dawn. Ma nessuno lo aveva obbligato a seguire la Via di Mandalore: era stato lui a sceglierla, pur ancora bambino, nel momento in cui aveva accettato di indossare il ciondolo di mitosauro offertogli da Ruu.

Distolse lo sguardo da Cal per posarlo sul piccolo: aveva già gli occhi puntati su di lui, incastonati nei suoi, le mani strette su quello stesso ciondolo che ora pendeva dal suo collo. Din non aveva mai pensato di obbligarlo a seguire la Via, anche se il destino – il manda – li aveva uniti spingendoli a percorrerla insieme, come trovatello e guardiano.

Provò una morsa allo stomaco al pensiero di averlo involontariamente spinto su una strada che, forse, non gli apparteneva. La sentì stringersi ulteriormente nel ripensare agli occhi calmi di Ruu, alla stilla di mestizia e paura che vi galleggiava quando gli aveva detto che doveva seguire la Via. Che, un giorno, avrebbe capito.

Aveva davvero avuto una scelta? Quella domanda si abbatté con un rintocco argentino contro il beskar. La testa gli pulsò attorno alle tempie e incenerì quei pensieri prima che potessero attecchire, immaginandoli spazzati via da una vampata del suo lanciafiamme.

Chiuse per un istante gli occhi, ad attutire il colpo invisibile. Larmatura gli sembrò dun tratto stretta e troppo calda.

Ruotò il capo verso Cal. Il giovane sembrava in attesa che venisse a capo delle sue riflessioni – fu limpressione che gli diede, con quella sua postura flemmatica e gli occhi placidamente socchiusi a schermare le iridi limpide.

Din sospirò, riportando una mano a stringere il bordo della culla. Per trovare una sorta di appoggio ma, anche, per tenerla in qualche modo più vicina a sé – questo laveva scelto, nonostante tutto, e il Bambino aveva scelto lui.

Se era vero che la sua ricerca dei Jedi poteva forse dirsi conclusa, non era del tutto certo che quello fosse davvero il suo desiderio. Ma era la sua missione, legata al Credo e alla promessa fatta ad esso, allArmaiola e al Bambino. Fu solo per quel motivo, che si costrinse a parlare di nuovo:

«Obbligo o no, non puoi almeno aspettare che sia "pronto"? Addestrarlo quando verrà il momento, se lo vorrà?»

A quel punto, la composta patina di compostezza di Cal sembrò incrinarsi, facendo largo a unombra sul suo volto giovane. Strinse le labbra in un moto indecifrabile e scosse la testa con decisione.

«No, Mandaloriano. La Forza mi ha mostrato molti anni fa cosa accadrebbe se prendessi degli allievi, e non ho intenzione di realizzare quella visione. Cè unombra, nel mio futuro, e ho giurato che mai avrei addestrato dei padawan,» asserì, in quella che suonò senza dubbio come una sentenza definitiva, sebbene venata da una sfumatura contrita. «Se davvero vorrà diventare uno Jedi, dovrà trovare un altro Maestro.»

Fu sollievo, quello che si riversò nel petto di Din. Non lo riconobbe subito come tale: avvertì solo mille rivoli dacqua tiepida che scaturivano dal freddo blocco incastrato sotto lo sterno che finalmente si scioglieva. Non ancora, sembrò sussurrare, mentre il concentrato dansia e aspettativa defluiva quietamente.

Gettò unocchiata a Cara, scoprendola adombrata da quelle ultime rivelazioni. Una reazione sensata che avrebbe dovuto avere anche lui, ma che tardava ad arrivare, nonostante avesse appena scoperto di dover ripartire da zero. Da meno di zero, in realtà.

Chinò lentamente il capo, appesantito dai troppi pensieri che vi si affollavano come uno sciame di myrmin inferociti, senza mollare per un istante il bordo della culla. Non poteva lasciarsi sopraffare dai dubbi. Non ora, almeno. Non prima di avere delle risposte.

Prese una boccata daria fredda e stantia: stava per interrogare Cal su quei fantomatici "altri Maestri", quando il giovane puntò di scatto gli occhi verso la fenditura nella parete. Din spostò subito la mano al calcio del blaster, imitato da Cara, una scarica di pelle doca a pizzicargli sotto il beskar. Si era quasi dimenticato che non erano soli, là sotto.

Attivò la visione termica, senza registrare nulla di anomalo oltre la roccia che li separava dal cunicolo principale, ma non sottovalutò lo stato dallerta di Cal, né le rughe di preoccupazione che si inspessirono di colpo sulla fronte del Bambino. Premette il tasto di chiusura della culla, lasciando schiuso uno spicchio appena sufficiente a permettergli di vedere il piccolo.

«Credo che sia meglio riprendere dopo il discorso,» mormorò Cal, sganciando lelsa della spada della cintura e impugnandola saldamente.

BD emise un sommesso cicalio che suonò preoccupato – per quanto "preoccupato" potesse davvero essere un droide, e lologramma della parete traballò a tempo col suo molleggiare inquieto. Din estrasse il blaster, arricciando le dita sul calcio ad accomodare la presa.

«Ci sono altre uscite, oltre a quella della miniera?» chiese Cara, riducendo sensibilmente la voce a un mormorio.

Cal indicò col capo e uno scatto di sopracciglia una direzione precisa, oltre la parete più vicina.

«Ho individuato un paio di sbocchi verso la superficie. Aperture naturali, forse non mappate da Zetz e compagnia.»

«Speriamo, perché non ho alcuna intenzione di fare la fine del womprat in trappola.»

Din non partecipò allo scambio di battute, limitandosi ad accostarsi alla fessura dingresso alla nicchia, una mano che regolava tacca dopo tacca il dispositivo auricolare dellelmo, così da amplificare i suoni circostanti. Oltre il rimbombo cavernoso dei tunnel, scossi da sommovimenti vulcanici e smottamenti tellurici, colse una cadenza più acuta, ritmata. Passi, molti passi che impattavano ritmici e frettolosi contro il suolo, accompagnati da uneco di voci.

Riportò la manopola a una sensibilità non assordante, ma comunque, superiore al normale e scavalcò rapido BD, trapassando lologramma e ignorando le fitte residue al costato. La culla lo seguì dappresso.

Non cera più spazio per i pensieri, adesso: la sua mente si inserì senza scossoni nellassetto da battaglia a cui era stato abituato sin da bambino, lasciando a dopo dubbi e domande.

«Muoviamoci. Abbiamo ancora un vantaggio su di loro,» li incitò, uscendo nel cunicolo tinto di luminescenza azzurrina, dopo aver scrutato entrambe le direzioni a blaster spianato.

Sincamminò nella direzione delluscita senza ulteriori tentennamenti, seguito a ruota da loro: la culla si posizionò tra lui e Cal, mentre Cara andò a chiudere la fila.

«Luscita più vicina?» chiese Din dopo poche falcate, avanzando a fatica oltre una strettoia che grattò contro la beskar’gam.

Cal svicolò con più agilità dietro di lui, assicurandosi che la culla procedesse senza intralci.

«Circa un click. Dà sul versante orientale di Kaha, verso lo spazioporto,» rispose poi, con puntualità apprezzabile.

«Laltra?»

«Due click al massimo. Sbuca su un costone accidentato, ma si può scendere verso la città... anche se senza un sentiero battuto ci vorrà tempo.»

Din si limitò ad annuire, senza rallentare il passo.

«Portaci a quella più vicina: la mia nave è allo spazioporto. Tu non hai intenzione di combattere, vero?» chiese poi, a bruciapelo.

Cal tentennò per un singolo istante, prima di liberare uno sbuffo dallangolo della bocca.

«Non se posso evitarlo. Non voglio essere identificato come "Jedi" e avrei comunque difficoltà contro il tuo compare in beskar,» commentò, con un tenue sorriso che baluginò per un istante nella penombra fluorescente.

Din quasi inchiodò, rischiando di creare un tamponamento a catena dietro di lui. BD, aggrappato alle spalle di Cal, emise una successione di suoni che suonò decisamente seccata. Din ruotò su se stesso, il fiato costretto e improvvisamente bollente nellelmo.

«Il mio "compare in beskar"?» scandì, con la bocca secca.

Cal aggrottò la fronte, colto da genuina sorpresa.

«Laltro Mandaloriano, no? Lakk da guardia che supervisiona Zetz.» Scrollò il capo, come se non riuscisse a raccapezzarsi di fronte alla sua reazione, e qualche ciocca rossa gli scivolò sulle tempie. «Scorch non te lha detto? Pensavo avesse mandato te apposta.»

Din, col cuore che saltò almeno dieci battiti e una fitta violenta dirritazione a scuotergli i nervi, espirò a fatica. A dispetto di tutto, ebbe il nitido sentore che Cal avesse volutamente omesso finora quel pezzo vitale dinformazione. Lasciò correre, concentrandosi su quelli per lui rilevanti – soprattutto con una squadriglia di Imperiali alle costole.

«No. Ma ci sono troppi Mandaloriani o presunti tali su questa roccia,» sbottò, facendo quasi scoppiettare il vocoder, e trovò muto consenso nello sguardo altrettanto aguzzo e scontento di Cara.

Riprese a marciare, i passi decisamente meno lievi di poco prima. Continuarono a districarsi nellintrico di vie, guidati dai precisi cenni di Cal. Din li vedeva appena, la mente offuscata da quellultima, ennesima rivelazione che gli opprimeva i polmoni.

Un altro Mandaloriano. Che serviva lImpero. Non doveva davvero sapere tutto. Ma voleva sapere.

«Sai chi è? Lhai mai visto?» si rassegnò a chiedere, dopo poco.

«Giusto una volta, durante un suo sopralluogo. Zetz lo chiamava Beruya, o qualcosa del genere, ma non sono sicuro che fosse–»

«Beroya,» intuì Din, annuendo tra sé a dispetto della notizia infausta, che lo indusse ad accelerare il passo. «Dank farrik. Non è un nome, vuol dire "cacciatore di taglie". Che armatura indossa?»

Cal si sfregò la barba, pensieroso, mentre gli assestava un colpetto dellelsa sul gomito per indirizzarlo oltre una tortuosa viuzza che aveva quasi mancato di imboccare.

«Era messa male, ma credo fosse verde, bordata di rosso. Aveva quel teschio su uno spallaccio e un emblema che non ho identificato sullaltro,» disse infine, additando il mitosauro in beskar al collo del piccolo, che sporgeva la testolina dalla culla semichiusa.

Din strizzò gli occhi ad attutire la delusione, ma anche il sollievo. Verde per la dedizione al dovere, rosso per onorare un genitore: quei colori non gli erano familiari. Nessuno della Tribù li portava e nessuno aveva mai osato arrogarsi lo stemma sacro del mitosauro. E lunico vero e proprio beroya rimasto in attività negli ultimi anni era lui stesso.

Nessuno della Tribù si era ridotto a far da tirapiedi per lImpero. Non avrebbe sopportato lidea di dover fronteggiare un compagno, fosse stato anche quel buy’ce vuoto di Paz – che, comunque, si sarebbe tolto lelmo piuttosto che collaborare con loro.

«E adesso è qui?» chiese Cara, dal fondo della breve processione.

«Non che io sappia. Mi hanno scoperto qualche giorno fa e da quando mi sono rifugiato nelle caverne ho perso ogni contatto con lesterno. Ma si fa vivo regolarmente. È lunico in grado di tenere a bada Zetz, ed è un miracolo che non si siano ancora ammazzati a vicenda.»

Din e Cara si scambiarono unocchiata oltre Cal: ecco spiegata laccoglienza non esattamente calorosa che era stata loro riservata alla vista di un Mandaloriano. Din si spiegò anche, definitivamente, perché la sua beskar’gam non avesse suscitato tanto scalpore alla Cantina. Fu anche chiaro che, vista la tensione interna ai ranghi, Zetz aveva mire più alte che rimanere un semplice lacchè di qualunque scarto imperiale fosse a capo delloperazione su Awath – magari Gideon in persona.

Un fragore improvviso gli trapassò i timpani, spingendolo a bloccarsi col blaster puntato dinanzi a sé. Colse lombra di Cal che, dietro di lui, si piegava un poco sulle ginocchia, lelsa della spada serrata con entrambi i palmi, pronto ad attivarla.

Leco dellesplosione, accompagnato dal tonfo sordo di pezzi di roccia in caduta libera, si propagava da un punto indefinito davanti a loro – verso luscita. Laveva avvertito con molta più chiarezza dei suoi compagni grazie allausilio dellelmo, ma era indubbiamente vicino, molto più di quanto avrebbe ritenuto rassicurante.

Un flebile verso si levò dalla culla. Din si affrettò a sigillarla, rivolgendo uno sguardo al Bambino, i cui occhi sgranati si persero nel buio sicuro e foderato di duraplast.

«Abbiamo appena perso una via di fuga?»

Cara diede voce al dubbio unanime che si spargeva tra loro assieme al rimbombo residuo dellesplosione.

«Probabile. Luscita è giusto un paio di tunnel più avanti,» confermò Cal, umettandosi nervoso le labbra e accennando al percorso in salita sempre più netta. «Devono averci anticipati dallesterno: non ci sono altre strade, da qui. Anche se non mi spiego come ci siano arrivati in così poco tempo. Non è un accesso facile; non cè nemmeno un punto datterraggio per–»

«Non è un problema, se hai un jetpack,» lo troncò Din, sollevando le spalle a evidenziare il proprio, e il mantello ondeggiò appena, accentuando il movimento.

I torrenti dadrenalina che gli scorrevano nelle vene si fecero più impetuosi. Se cera davvero un Mandaloriano che lavorava per lImpero, non poteva negare che una parte di lui fosse molto ansiosa di fargli rimpiangere quella scelta.

«Portate il Bambino allaltra uscita. Io controllo questa,» disse, la voce che scese di mezza ottava nel parlare. «Vi comunico tramite comlink se è agibile, altrimenti vi raggiungo. In ogni caso, rendez-vous alla Crest

Cara scosse la testa, affatto persuasa, con unocchiata alla sua corazza ancora intrisa di sangue di gundark:

«Mando, non sei nelle condizioni di–»

«Cal può... percepire i pericoli,» la interruppe, più bruscamente di quanto intendesse, «mentre tu sai vedertela benissimo con un manipolo di Imperiali. Il Bambino è più al sicuro con voi. E io so come approcciarmi a un Mandaloriano. Non possiamo comunque lasciare che ci insegua.»

Cara serrò le labbra, segno che non apprezzava quella linea dazione, ma che la riteneva suo malgrado inoppugnabile.

«Aspettate,» intervenne Cal, serrando per un istante gli occhi come poco prima, una mano alzata a mezzaria, che poi scrollò in un cenno dassenso. «Sono ancora dietro di noi. E cè una presenza singola verso questa uscita... laltra sembra libera, almeno per ora, anche se la distanza potrebbe ingannarmi,» concluse, in un chiaro sprone a proseguire.

«Bene, allora non cè bisogno di intercettare il figlio di bantha che ci ha tagliato una via di fuga,» stabilì Cara, buttando fuori un respiro intriso di sollievo.

Din scosse però la testa, nonostante ogni fibra del suo essere sembrasse tendersi in filamenti di durasteel, ordinandogli di seguire quel piano più logico e sicuro – sia per lui che, soprattutto, per il Bambino. Ma quella che gli scorreva nelle vene non era pura e neutrale adrenalina, di quella che infiammava i muscoli per permettergli di portare a termine gli incarichi più estremi scavalcando i limiti del proprio corpo. Non era nemmeno fredda, viva abnegazione di sé per uno scopo più alto, vissuto in aderenza al Credo.

Era un qualcosa di più pungente e contorto; un filo spinato formato da mille, aguzze domande che gli si appuntavano nellanima, prive di risposta e colme di raggiri sin dal primo istante in cui aveva indossato il ciondolo del mitosauro. Quel Mandaloriano traditore era semplicemente lamara goccia di kri’gee che faceva traboccare il vaso.

«No. Voglio vedere in faccia laruetii che lavora per lImpero.»

Il Mandoa, quella lingua estranea che aveva fatto propria assieme al beskar e alla Via, sfuggì tra le maglie del suo autocontrollo, come raramente accadeva al di fuori della Tribù. Scelse con estrema cura le parole che pronunciò – non Mando’ad, ma traditore. E intendeva letteralmente ciò che aveva detto: non avrebbe esitato un istante a strappare di testa lelmo a quel "Mandaloriano", gettando al vento il suo onore già corrotto dal suo voto di lealtà.

La bolla solida di silenzio che li avvolse sembrò fremere, pronta a scoppiare. Cal si fece cupo, la bocca celata del tutto dalla barba, ma il suo nervosismo pareva rivolto più allambiente circostante che a quella affermazione dura e illogica. Cara, invece, sembrava più che contrariata: si mosse inquieta sul posto, irrigidendo mento e spalle. Notò come il suo sguardo corse fugace alla culla, in un muto memento delle sue priorità.

«Vogliono lui e sanno che è sempre con me. È più al sicuro con voi,» si obbligò a ripetere Din, recuperando un tono di voce neutrale. «Non possiamo permetterci di essere seguiti, se è un cacciatore di taglie.»

I cenni dassenso che seguirono quellultima affermazione furono tirati e affatto naturali, ma nessuno dei suoi due compagni sembrava intenzionato a ostacolarlo attivamente, più pressati dalla loro finestra di fuga che si riduceva di secondo in secondo.

Un sommesso patu raggiunse le orecchie di Din oltre la protezione della culla. Dovette fare appello a ogni fibra di volontà per non riaprirla e per trattenere le parole che gli premevano in gola. Per la prima volta da quando aveva accolto con sé il piccolo, vi fu una rigidità ben palpabile nella sua voce infantile. Unombra di rimprovero.

Din tacque, sentendo quellobbligo – quella forza – che lo legava a doppio filo al Bambino tendersi in modo doloroso, quasi fosse cucito sotto le costole, dentro al petto. Come quando aveva visto quella stessa culla allontanarsi al seguito di uno scienziato imperiale. Ignorò la sensazione, come laveva ignorata allora.

N’e’takisit, ad’ika. N’e’takisit. Ni yaimpar iviin’yc, pensò comunque, con tutta l’intensità di cui fu capace. Scusa, ad’ika. Scusa. Torno presto.

Non disse quelle parole: non voleva che fossero le ultime che il piccolo gli sentiva pronunciare, come era accaduto a lui con Ruu. E non lo sarebbero state, questa volta.

Non aprì la culla, né si trattenne ancora, se non per un cenno dintesa con gli altri: voltò le spalle al terzetto e sinerpicò lungo lerta scoscesa del cunicolo, col cuore che batteva fermo ma doloroso alla base della gola.


 


 

Il tunnel si fece più spazioso dopo appena pochi metri e gli permise di procedere con più agevolezza, evitando di urtare le pareti. La percezione del suo mondo si era ridotta alla pressione del blaster nel guanto, al raschiare amplificato del suo respiro nel casco e al franare sommesso di roccia sotto gli stivali.

In lontananza, i passi di Cal e Cara erano già sfumati nel concerto di rombi, scricchiolii ed echi del complesso di caverne. Avrebbero raggiunto ben presto la superficie, evitando forse anche uno scontro diretto con Zetz e la sua banda. Lo sperava, almeno. I due erano comunque guerrieri esperti, più che in grado di tener testa a un misero rimasuglio di forze imperiali.

Il visore registrò un cambiamento di luminosità: una tenue, livida luce solare filtrava fin lì, oltre la svolta a gomito del passaggio. Aggiustò la presa sullarma, attutendo i propri passi e procedendo con più cautela.

Sbucò in una sorta di conca sotterranea invasa da stalattiti, stalagmiti e alte colonne modellate dalleterno gocciolio. Pozze cristalline ristagnava in alcune lievi depressioni del terreno basaltico, catturando il lucore appena percettibile dellalba.

Oltre la strana architettura naturale della caverna, lame sottili di luce scaturivano da un cumulo di rocce ammonticchiate a ridosso della parete cieca. Il tumulo era ancora scosso da piccoli cedimenti e frane: una porzione del soffitto era crollata bloccando luscita, in modo troppo netto per essere naturale. Tramite il visore, scorse il punto dimpatto dellesplosivo: singolo, a medio raggio, forse un missile a concussione. Un fine velo di polvere aleggiava ancora nellambiente, abbastanza ampio da permettere comodamente alla Crest di entrarvi.

Non registrò alcun suono sospetto, né riscontrò alcuna traccia di vita. Forse cera qualche altro passaggio, oltre a quello da cui era giunto lui; oppure, chiunque li inseguisse aveva fatto saltare luscita dallesterno, limitandosi a intrappolarli.

Non era un procedimento da Mandaloriano, quello – si affrontava sempre lavversario, anche nelle operazioni più discrete e soprattutto se era anche lui un Mandaloriano – ma dovette rammentarsi che non aveva a che fare con un vod della Tribù, ma con qualcuno che obbediva allImpero per un pugno di crediti insudiciati.

Avanzò cautamente verso il crollo, pur vedendo con chiarezza che non gli sarebbe stato possibile aprirsi un varco oltre la tonnellata e passa di roccia. Forse con qualche carica termica ben piazzata... così una volta fuori avrebbe avuto il vantaggio di poter raggiungere gli altri per via aerea, o almeno attirare su di sé lattenzione degli inseguitori.

Attraversò la pozza gelida che lo separava dalluscita bloccata, turbandone la superficie immacolata con onde minute, quasi solide nella luce stentata.

A metà strada si immobilizzò di colpo, uno spasmo ad attraversargli la nuca. Un rumore, oltre il gocciolio melodico dellacqua, gli aveva pizzicato i timpani, così fievole da essere quasi indistinguibile e facilmente trascurabile.

A meno che non si fosse stati abituati a sentirlo sin da bambini, e lo si fosse assimilato e catalogato assieme a tutti gli altri suoni considerati familiari, al punto da usarlo come mezzo per distinguere la beskar’gam di ciascun Mandaloriano, anche senza vederla: lacuto e inconfondibile stridio del beskar che sfregava contro il durasteel.

Fu questione di un battito di ciglia: Din si voltò di scatto e aprì il fuoco, proprio quando laltro colpo di blaster impattò contro il suo elmo in un rintocco assordante.

 



 


Note&Glossario
aruetii: estraneo, esterno ai Mandaloriani; per estensione, traditore.
beroya: cacciatore di taglie.
(’)buir: padre/madre. Si può attaccare ai nomi propri come vezzeggiativo (Ruu’buir: mamma Ruu).
kri’gee: un tipo di birra Mandaloriana, molto amara.
myrmin: insetti simili a ragni.
N’e’takisit: scusa, mi dispiaceContrazione inventata da me di N’eparavu takisit, lett. "mi rimangio l’insulto".
– La visione di cui parla Cal nel capitolo non è particolarmente rilevante ai fini della storia: basti sapere che la Forza l’ha "avvertito" che addestrare dei padawan avrebbe inevitabilmente portato al loro massacro da parte dell’Impero. Per questo motivo, in Fallen Order Cal decide di distruggere un holocron (database Jedi) contenente l’elenco di tutti i bambini sensibili alla Forza rintracciati nella Galassia.


Note dell’Autrice:

Cari Lettori,
ci ho mess un po’, è vero... ma come potete vedere, questo è stato un capitolo particolarmente delicato :’)

Vi aspettavate questo risvolto? Beh, nemmeno io, a dir la verità. A un certo punto, Din ha preso iniziativa e ha agito di testa sua... vedremo come andrà a finire ;) Insomma, le strade iniziano a incrociarsi, e vi assicuro che è solo l’inizio. La prossima parte concluderà l’episodio, finora il più lungo, e da quel momento in poi inizieranno a chiarirsi molti dubbi che, lo so, sono rimasti tali finora. Abbiate fede ♥

Detto questo, ringrazio di cuore tutti voi che continuate a seguire la storia, in particolare chi spende una parola per commentarla o aggiungerla alle liste lettura! Grazie, in particolare a Elgas, leila91, Carmaux_95, AMYpond88 e T612 per averla recensita ultimamente ♥ Dico davvero: senza di voi questo viaggio non sarebbe mai arrivato fin qui ♥

Al prossimo capitolo... con una sorpresa! ;)

-Light-

P.S. Ne approfitto per piazzare qui sotto ciò che mi sta facendo brillare gli occhi da settimane, ovvero questa meraviglia di disegno. Un grazie megagalattico a Miryel per averlo realizzato, facendomi piangere di gioia nel vederla esattamente come me l’ero immaginata ♥ Andate a mipiacciarla -> su instagram,<- che aspettate??
Comunque, questa è la mia (nostra) Ruu ♥ (Qui ha circa trent’anni, ovvero quando salva Din; nel presente della storia ne ha circa 60). E niente, ve la lascio qui, sperando che sia così come ve la siete immaginata :’)
[L’immagine in alta qualità è sul mio profilo instagram -> _lightning_efp <- ]

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Capitolo 18
*** Episodio 4: La Trappola – Parte VI ***


 
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Episodio 4
LA TRAPPOLA

Parte VI




 

La mia tariffa è alta. E se si tratta di Mandaloriani, il prezzo sale.
Non amo mischiare le faccende personali col lavoro.
Comunicazione diretta all’incrociatore imperiale Steadfast,
origine ignota, 9ABY ca.


 

Djarin era rapido.

Barcollò sotto l’impatto del blaster, ma recuperò subito l’equilibrio, voltandosi verso l’esatta direzione da cui era partito il colpo e premendo al contempo il grilletto. 


Boba si limitò a ruotare il busto, avvertendo il sibilo del proiettile che gli sfiorava l’elmo. Un’arma Verpine, a giudicare dal fischio acuto e dall’impatto sonoro contro la parete, e una corazza di buona fattura: lo capì dallo squillo argentino che si propagò nella caverna e dal fatto che l’altro non rimase stordito a lungo. Armature del genere non si vedevano da prima delle Guerre dei Cloni, da quando la Ronda si era impossessata delle miniere di beskar sulla luna di Mandalore

Nessun emblema o colore identificativo, se non il sangue nerastro che lo imbrattava: il metallo riluceva nudo nella penombra densa della grotta, accompagnando i movimenti del guerriero assieme allo sciabordio dell’acqua.

Lo vide piegarsi leggermente sulle ginocchia e riconobbe il movimento. Lo anticipò e decollarono quasi in sincrono, coi ruggiti gemelli dei jetpack a squarciare l’aria compressa del sottosuolo.

Alcune stalattiti più sottili cedettero all’impatto con le loro armature, precipitando nella pozza sottostante con un tonfo cristallino. Ventagli di goccioline si sollevarono dalla superficie, smossi dai getti dei propulsori.

Boba cabrò agile verso l’alto, sfiorando il soffitto e balzando oltre l’avversario che, aspettandosi un attacco, scese in picchiata, fuori tiro. Non se ne curò, concentrato sul visore termico che non registrava alcuna altra forma di vita nei paraggi.

Virò di nuovo, rimanendo sospeso a un paio di metri da terra. Tornò a fronteggiare Din Djarin, atterrato nei pressi del tunnel. Boba si accertò nuovamente che fosse solo. Serrò i denti, gli occhi che saettavano in ogni angolo della caverna.

Dov’era il Bambino?

Le informazioni del Moff erano state chiare: i due erano inseparabili. Dove andava uno, andava l’altro. Sempre,  anche nelle situazioni più rischiose.

Forse era con la mercenaria e lo Jedi. In quel caso, sarebbe stato Zetz a intercettarlo. Il solo pensiero gli fece prudere le cicatrici che gli rigavano il volto.

Non aveva speso interi mesi a pedinare quei due da un capo all’altro della Galassia, avendo cura di scrollarsi di dosso anche i segugi di Bo-Katan, solo per vedersi soffiare la taglia da un ex-Imperiale in rovina.

Quando aveva ricevuto la chiamata del Rodiano, era già atterrato su Awath, pronto ad attendere Djarin al varco non appena fosse tornato alla sua nave. Nel precipitarsi invece alle miniere, aveva previsto molte possibilità, inclusa quella di trovarsi ad affrontare l’intero gruppetto da solo, mentre Zetz e i suoi sgherri avrebbero tagliato loro la ritirata... ma quella gli era sfuggita, con una facilità che lo irritò profondamente.

Poteva quasi sentire i rimproveri di suo padre che gli intimava di leggere sempre la situazione nella sua interezza, uscendo dalla rotta singola della caccia. Quel ricordo gli infuse una nuova, gelida calma. 

Si rammentò la propria missione, il proprio voto, tramandatogli dalla stessa persona che gli aveva donato la vita: annientare i Jedi e la Ronda, rinnegare Mandalore. L’armatura di suo padre sembrò vibrare a quel pensiero, ansiosa di gettarsi in battaglia. 

Doveva risolvere alla svelta quel confronto, far fuori Djarin e riguadagnare la superficie per intercettare la taglia.

S’inclinò in avanti, prendendo velocità e schivando due colpi di blaster ben mirati alle giunture della sua corazza.


Imbracciò la carabina. Subito, laltro sparò un colpo preciso alla sua spalla, assorbito dalla tuta di volo rinforzata. Boba tremò, ma mantenne la presa. Mirò alla coscia, allunica placca in durasteel rossiccio, più fragile del beskar. 

Il colpo andò a segno e la gamba cedette sotto limpatto, facendo accasciare lavversario su un ginocchio. Boba diede un colpo secco ai propulsori e accorciò la distanza, riagganciando la carabina alla spalla e facendo scattare la lama da polso. 

Atterrò in scivolata, senza frenare lo slancio, il braccio ritratto per colpire: una pugnalata netta sotto il mento dellelmo, dove il beskar lasciava scoperta la carotide, e lo scontro si sarebbe chiuso in pochi secondi.

Una murata di fiamme lo accecò, spingendolo a interrompere laffondo. Un tintinnio penetrante gli aggredì i timpani mentre la sua lama scivolava sullelmo in una pioggia di scintille, mancando il bersaglio.

Boba indietreggiò di un passo, scartando di lato per evitare il fuoco e cercare unaltra apertura verso il collo del Mandaloriano.

Djarin fu più rapido: si rialzò di scatto e gli sferrò una testata, beskar contro durasteel, che lo rintronò per un istante. Scagliò a sua volta una vampata di fiamme, troppo tardi per colpirlo. 

Lo vide balzare oltre la pozza, aumentando lo slancio con una breve propulsione del jetpack per atterrare leggero a distanza di sicurezza, il blaster di nuovo saldamente impugnato e rivolto verso di lui.

Sotto lelmo scalfito da blaster, spade laser e acido di sarlacc, Boba si concesse di tirare le labbra verso lalto, in un misto di frustrazione e adrenalina. 

Era dai tempi di Solo che non gli capitava una taglia così impegnativa.

La coscia gli pulsava, irradiando scariche acute lungo l’intero muscolo. La potenza di fuoco della tozza carabina era più devastante dei blaster imperiali e Din faticò a mantenere l’equilibrio. Avvertì anche la protesta del torso contuso dal gundark: il bacta non era stato sufficiente a rinsaldare le fratture.

Strinse i denti, vedendo laltro Mandaloriano che atterrava sullaltra sponda della pozza, per poi arrestarsi ben saldo sulle gambe. Sembrò fermarsi per studiarlo a distanza, e Din accolse quella breve tregua per riprendere fiato.

La sua armatura verde e rossa parlava chiaro: era un veterano, con ogni scalfittura e incisione del durasteel a testimoniare uno scontro a cui era sopravvissuto. Portava su uno spallaccio il simbolo del mitosauro, nero su giallo; sullaltro, color cremisi, quello che sembrava un sarlacc ruggente. 

La sua abilità nel volo suggeriva molti più anni di addestramento nella Fenice Nascente rispetto ai suoi, e forse anche di Paz. Era evidente dal modo preciso e aggraziato con cui si librava in aria, senza mai perdere quota e direzione, razionando con cura il carburante.

Si rese conto, con improvvisa lucidità, di essere in svantaggio: ferito, provato dallo scontro coi gundark, di fronte a un altro Mandaloriano con più esperienza e, di certo, meno scrupoli di lui. 

Sbuffò dal naso, cercando di smorzare laffanno. A volte, agiva ancora come un Mando’ad inebriato dalla prima battaglia, troppo sicuro di sé e delle proprie capacità. Quello non era uno scontro che avrebbe potuto vincere indenne.

Prima che laltro potesse reagire o scegliere un piano dazione, Din sganciò un paio di cariche termiche dalla cintura. Ruotò sul posto e le scagliò verso la frana che ostruiva luscita, ad appena pochi passi da lui. Quelle si agganciarono saldamente alla roccia, nel punto più vicino al soffitto, ticchettando rapide.

Decollò subito dopo, avvertendo la contromossa dellaltro, che fu più rapido: un lampo verdastro sfrecciò in aria nella sua visuale periferica, seguito da un potente doppio calcio in pieno petto.

Din boccheggiò, avvertendo uno stridio dolente nelle costole già ammaccate. Perse il controllo del jetpack, deviò e impattò contro una colonna naturale incrostata di calcare, viscida dacqua. Vi si avvinghiò a fatica, trovando coi piedi un sostegno appena sufficiente a non farlo cadere a terra.

Laltro Mandaloriano fece per avventarsi su di lui, per poi virare bruscamente a mezzaria e allontanarsi dal raggio desplosione delle cariche. Din lo imitò, sentendo il serbatoio del jetpack che iniziava ad alleggerirsi.

Le cariche termiche detonarono con un boato, sprizzando ovunque acqua, pietre e schegge rocciose. Londa durto lo sbalzò in avanti, scagliandolo contro la parete, ma si raggomitolò per tempo. Riuscì ad ammortizzare limpatto, si diede la spinta coi talloni e balzò di nuovo al centro della caverna.

Un raggio di luce grigiastra trafisse la penombra, rivelando una breccia nella frana, appena sufficiente a far passare un uomo adulto.

Din fece per dirigersi lì, ma il Mandaloriano gli sbarrò la strada a mezzaria e piegò il ginocchio con un clic : un piccolo missile scaturì dalla placca protettiva. Din ebbe appena il tempo per avvitarsi e dare gas in verticale, mandando il proiettile esplosivo a perdersi nel buio con unesplosione sorda.

Si trovò a sovrastare lavversario di circa un metro, sfiorando il soffitto aguzzo di stalattiti. Approfittò di quel vantaggio: simpennò, compì una mezza capriola su se stesso, disattivò il jetpack ed entrò in stallo, sentendo lo stomaco che si avvitava prima della picchiata. Trattenne il respiro per quella manovra azzardata in un ambiente così ristretto, mentre la gravità lo artigliava.

Cadde a siluro, sparando un colpo. Il Mandaloriano si scansò,  schivandolo come previsto. Din scagliò il laccio dal polso mentre cadeva in verticale accanto a lui, agganciò con uno schiocco la sua caviglia e lo trascinò con violenza verso il basso – poté udire limprecazione gutturale dellaltro, colto di sorpresa, e il singulto stentato del suo propulsore che andava fuori asse.

Un istante prima di impattare al suolo, Din riattivò il jetpack con un ruggito, sterzò verso lalto e recuperò quota, sganciando il rampino. Il clangore metallico che seguì gli confermò lo schianto dellaltro Mandaloriano e gli diede il via libera per la fuga. 

Represse lamarezza per quella tattica affatto onorevole, ma prolungando lo scontro avrebbe solo ottenuto di farsi sgozzare alla successiva colluttazione. Fuggire di fronte a quellauretii... no, quel dar’manda, – un senz’anima, un Mandaloriano che aveva rinnegato tutto ciò che lo rendeva tale – gli bruciava terribilmente.

Il Bambino, però, era più importante. Così come le risposte che gli dovevano Cal e Scorch e lArmaiola.

Schizzò quindi verso lapertura creatasi nella frana, insinuandosi nello spazio troppo angusto e facendosi largo a bracciate verso lesterno. Sassi e detriti rotolarono via, picchiettandogli la corazza con un tintinnio continuo. Si contorse con un grugnito per sgusciare oltre lultimo metro che lo separava dallaria aperta, cercando di scalciare quanto più possibile per occludere il passaggio. Udí un paio di tonfi soddisfacenti.

Quando colse il sibilo alle sue spalle, diede un colpo di propulsore per evadere eventuali proiettili in arrivo. Dietro di lui, una successione serrata di piccole esplosioni si abbatté contro la frana, senza riuscire a smuoverla.

Bene. Il Mandaloriano doveva essere a corto di missili a concussione, anche se non avrebbe tardato a recuperare qualche carica termica per riaprirsi la strada.

Laria livida e ventosa dellalba lo accolse. Il mondo era diviso allorizzonte tra il grigio del cielo e il nero aguzzo dei vulcani, sormontati da sporadici pennacchi di lava. Si trovava sullorlo di un crinale a strapiombo sulle valli laviche, attraverso le quali serpeggiava un sentierino più adatto a un blurrgh che a un umano. In lontananza, emergeva il piccolo spazioporto, spazzato dalla mareggiata ancora in corso.

Lo scoppiettio di statico nellelmo gli disse che la linea comlink con Cara era aperta, seppur con un cattivo segnale, e si affrettò a richiamare sul visore la geolocalizzazione della compagna. Un puntino rosso lampeggiò a circa un click da lì, quasi in sincrono con la spia del jetpack che ormai raschiava il fondo del serbatoio e con gli echi vicini di uno scontro a fuoco serrato.

Prese un respiro pesante, che gli stritolò le costole sotto alla corazza. Poi, con un passo oltre lorlo dello strapiombo, sfrecció nel cielo color cenere, verso il suono dei blaster.
 


Note dell’Autrice:

Macciao! *sventola la manina da dietro un masso* sono proprio io, il vostro cap– ok, la pianto, giuro.

Sì, sono sparita e non ho scusati. Frivolezze a parte, spero che il primo PoV sia stato una sorpresa, e sappiate che sono in fibrillazione per il possibile feedback in merito 👀
In tutto ciò, la prossima parte è lultima di questo interminabile episodio, quindi vi aspetta un altro bel carico di azione!

Ah, per chi si fosse perso qualcosa: ho pubblicato un Glossario su Wattpad, tanto per sfizio personale, e ho revisionato i capitoli pubblicati lì. Qui su EFP sto procedendo a rilento, perché con l'html è un incubo fare tutto, ma riuscirò a sistemare anche qui :)

A prestissimo e grazie a tutti coloro che hanno atteso con pazienza questo aggiornamento ❤️❤️❤️

-Light-

 

 

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Capitolo 19
*** Episodio 4: La Trappola – Parte VII ***


 
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Episodio 4
LA TRAPPOLA

Parte VII



 

“Smantellare la rete di Fulcrum e informatori solo perché l’Impero è "scomparso"?
Assolutamente no.
Conosco l’Impero, e vorrebbe dire lasciare loro campo libero nell’ombra.
Siamo già stati ciechi e sordi in passato: stavolta, rimarremo con occhi e orecchie bene aperti.”

— Iden Versio, Comandante dello Squadrone Danger, in risposta a un Generale della Nuova Repubblica.

 

 

 

Cal aveva quasi dimenticato il suono stridente dei blaster che venivano respinti da una spada laser. Erano passati anni dall’ultimo scontro a fuoco a cui aveva preso parte; quasi si stupì dell’agilità con cui si ritrovò a schivare e parare, generando ventagli di scintille a ogni impatto della lama col plasma.

Alzò la spada per parare un colpo diretto alla sua testa, avvertendone un altro in arrivo dal suo angolo cieco. Portò la mano libera all’elsa e la ruotò lungo la linea di giunzione, sdoppiando la spada. Piegò poi il polso all’indietro per intercettare il colpo alle sue spalle con la seconda lama, più corta e maneggevole.

Una pressione nella Forza guidò la sua mossa successiva: balzò lateralmente con una mezza capriola, frapponendosi tra un’altra scarica di blaster e Syn. Ricompose l’elsa, lasciando attive entrambe le lame e mulinando rapidamente la doppia spada in una girandola azzurrina che fece loro da scudo. Uno dei colpi respinti andò a impattare ai piedi di Zetz, sollevando frammenti affilati di ossidiana.

Il Rodiano riparò dietro una roccia aguzza e lucida come uno specchio nero, intimando ai suoi di fare lo stesso. Antenne di Verpine e lucide canne di blaster sbucavano dietro alle sporgenze simili a zanne di Krayt che costellavano quel crinale vulcanico.

Cal ne approfittò per riprendere brevemente fiato, avvertendo i trilli allarmati di BD direttamente nell’orecchio. Non erano in una bella situazione: Zetz e i suoi scagnozzi li avevano accerchiati a una buona distanza dall’uscita della miniera, tagliando loro ogni via di fuga. Se fosse stato da solo, li avrebbe sbaragliati senza un secondo pensiero – ma, di fatto, non lo era.

Syn, o qualunque fosse il suo nome, cercava come poteva di creare un fuoco di copertura col suo unico blaster, tenendo stretto il piccolo tra il braccio e la corazza, ma non era comunque del tutto al sicuro. Cal non poteva allontanarsi da loro e ingaggiare in prima persona la banda senza il rischio che venisse colpito fatalmente o catturato.

Un ennesimo blaster lampeggiò dinanzi a lui: lo intercettò a mezz’aria con la punta della spada e lo direzionò contro l’aggressore, che crollò a terra con un buco fumante nel torace da insetto.

«Notizie da Mando?» chiese, celando l’affanno mentre schivava un’altra scarica di colpi, che si schiantarono dietro di loro.

«Negativo. Il suo comlink deve essersi danneggiato» disse lei, rispondendo al fuoco in modo preciso, ma troppo rarefatto per tenere a bada i trafficanti. «Adesso sì che mi pento di non aver portato uno Z-6 a ripetizione» sbuffò poi, guardando storto il proprio blaster, più adatto a una missione sotto copertura che a uno scontro aperto.

Cal si concesse un sorrisetto di solidarietà, adocchiando l’ennesimo proiettile diretto verso di loro. Spostò in automatico la spada per pararlo, imprimendo già la rotazione necessaria per rispedirlo al mittente. Invece del familiare rintocco che accompagnava quella manovra, però, udì un crepitio acuto, seguito da una fitta al volto.

Non trattenne un’esclamazione sorpresa e scartò di lato, avvertendo rivoli di sangue che prendevano a scorrere lungo la tempia e lo zigomo. BD lanciò un lungo squittio allarmato, agitandosi sulle sue spalle.

«Per Dathomir, ma che–»

Si tamponò il viso con una manica, avvertendo dei microscopici frammenti metallici sottopelle. E quello che kriff era? Quando vide il secondo proiettile in arrivo, identico al primo, incanalò ogni fibra attiva del suo corpo nel flusso di Forza, riuscendo a visualizzare quellistante come al rallentatore.

Quello che si dirigeva verso di loro non era un agglomerato di plasma ed energia, come quello di ogni blaster, ma un vero e proprio proiettile fisico, simile a una pallina da biglie Wuur infuocata.

Scartò prontamente di lato, scansando anche Syn e il piccolo. Intercettare un colpo del genere con una spada laser significava disintegrarlo in migliaia di frammenti più piccoli e potenzialmente letali, con un raggio molto più ampio dei semplici blaster.

Seguì la direzione da cui proveniva il proiettile, identificando subito la testa blu di Kobal, il braccio destro di Zetz. Scorse il suo sogghigno nel realizzare di averlo messo in difficoltà. Abbaiò un singolo ordine ai suoi, che riecheggiò nella calma dellalba:

«Armi Verpine!»

Vi fu un sommovimento generale tra i trafficanti, accompagnato dal distinto suono di armi che venivano riposte nella fondina e altre che venivano sfoderate e poi caricate con scatti secchi.

Cal avvertì il tempo dilatarsi, come sempre quando attingeva dal flusso di Forza. Il Maestro Tapal lavrebbe rimproverato per quel pensiero: non era il tempo a rallentare, ma lui a sfruttare limpasse del flusso a suo vantaggio, inserendosi nella rapida corrente che circondava ogni vita.

Ritrasse la spada laser, ignorando lo sguardo sconcertato di Syn, poi tese entrambi i palmi davanti a sè. Avvertì come sottacqua le detonazioni dei blaster Verpine, e le visualizzò come piccoli lumicini sul radar di una nave. Si avvicinavano rapidi, dorati nel buio. Cal contrasse appena le dita sentendo lenergia che ne scaturiva, solida e calma come un respiro.

Riaprì gli occhi, trovandosi di fronte alle sagome tremolanti dei proiettili sospesi a mezzaria, vibranti denergia repressa e pronta a esplodere. Colse la meraviglia tinta di paura negli occhi di Zetz e Kobal e, con uno scatto dei polsi, li rispedì indietro. La gragnola letale impattò contro le formazioni dossidiana, creando una fitta pioggia di schegge e frammenti. Un paio di grida gli dissero che alcuni erano andati a segno.

Syn non esitò: colsero lattimo e si mossero in sincrono lungo il versante scosceso che conduceva a Kaha. Le luci notturne della città cominciavano a spegnersi una ad una, accogliendo un mattino reso limpido dalla burrasca. Il sole lottava per sbucare oltre lorizzonte segnato da una linea doro pallido, a bordare nuvole ancora cariche di pioggia. La tenue luce si rifletteva in nastri argentei sullacqua residua che serpeggiava lungo i pendii scuri e le strade di basalto in lontananza, guidandoli verso la meta.

In quel mondo quasi monocromatico, punteggiato da formazioni laviche e speroni aguzzi, Cal fece appello ad ogni briciolo dagilità per non mettere un piede in fallo e ruzzolare rovinosamente a valle, trascinando con sé Syn e il piccolo che procedevano davanti a lui. Di tanto in tanto, faceva oscillare la spada per parare un blaster, o tagliava laria col palmo deviando e bloccando i proiettili a frammentazione che ancora li inseguivano.

Il loro vantaggio era minimo e il confine dello spazioporto, a ridosso della costa, sembrava fin troppo lontano.

«Cal, prendilo tu» gli arrivò allimprovviso, e vide Syn che, senza rallentare, faceva per tendergli il fagotto verde e beige del piccolo.

Cal scosse solo la testa, a tempo con un fendente della spada. Ciò che lex-assaltatrice diceva era logico, ma lui non era fatto per lasciare indietro qualcuno. E poi, limpronta che avvertì nella Forza lo indusse ad aspettare, così come il pigolio speranzoso di BD.

«Ti sto solo rallentando» obiettò di nuovo Syn, sparando un paio di colpi alle sue spalle e azzoppando un Verpine troppo audace. «Prendilo e vai alla Crest, prima che–»

Fu costretta a interrompersi, coperta da un rombo improvviso di propulsori. Cal modellò un sorrisetto appena accennato, trovando conferma del suo presentimento nella saetta lucida e argentea che sfrecciò sopra di loro, scagliando una raffica di blaster verso i loro inseguitori. Qualcosa di tondo e metallico rimbalzò ai loro piedi, detonando con un boato e rilasciando getti di fumo.

Mando atterrò di fronte a loro, sdrucciolando sul terreno franabile. Larmatura era ancora inzaccherata di sangue, ma il grigio del beskar faceva capolino in più punti, come se fosse stato lavato dallacqua.

Il piccolo emise un versetto acuto e drizzò le orecchie. Il Mandaloriano inclinò appena il capo nella sua direzione.

«Scusate il ritardo» si limitò a dire, in un tono indecifrabile e venato daffanno. «Ho avuto un contrattempo.»

«Si vede» commentò Syn, accennando a una scalfittura biancastra che risaltava sul suo elmo, vicino al segno annerito di un blaster.

Mando scrollò le spalle in risposta e frammenti di durasteel tintinnarono a terra, staccandosi dalla placca protettiva semidistrutta sulla coscia. Dietro di loro, la voce stridula di Zetz lanciò un ordine incomprensibile, spingendoli a voltarsi: oltre la nuvola di fumo e detriti provocati dalla bomba fumogena, sagome minacciose barcollavano verso di loro.

«Prendo io il Bambino» dichiarò il Mandaloriano, porgendo già il braccio libero dal blaster. «Sono quasi a secco, ma posso raggiungere la Crest

Cal vide la perplessità di Syn, nel modo in cui non eseguì subito quella richiesta. Lui stesso fu colto di sorpresa: Mando non sembrava il tipo di persona che avrebbe lasciato a cuor leggero i suoi compagni in una situazione di pericolo. Cera una nota tesa, nella sua voce, e la sua impressione nella Forza sembrava girare su se stessa in circoli viziosi, come mulinelli che vorticavano attorno a qualcosa di pesante.

Lo scontro con laltro Mandaloriano doveva averlo provato, non solo fisicamente. Cal sospettò che quella minaccia non fosse affatto passata, anche se non avvertiva alcun segnale allarmante nelle vicinanze. La sua lettura della Forza non era infallibile, però, e sapeva di dover chiudere al più presto quello scontro impari.

«Vai» lo incitò, quando vide che il guerriero, nonostante avesse ora il piccolo sottobraccio, ora esitava a decollare. «Qui ci pensiamo noi.»

Mando annuì, attivando il jetpack. Ne scaturì un suono affatto pieno e un po sputacchiante, come se stesse ormai grattando il fondo del serbatoio.

«Torno a prendervi con la Crest» si limitò ad annunciare già a mezzaria, balzando nel vuoto e verso lo spazioporto.

La sua sagoma grigiastra si confuse ben presto col panorama brullo, inseguita da un paio di blaster che si persero nel vuoto.

Cal scambiò un cenno dintesa con Syn e attivò di nuovo la doppia spada, assumendo la posizione di combattimento con entrambe le lame. Adesso, potevano muoversi e agire senza la preoccupazione di dover difendere qualcuno di inerme.

BD, captando le sue intenzioni, saltò giù dalle sue spalle per agevolargli i movimenti. Cal non attese oltre: spiccò un balzo e atterrò dinanzi al Verpine più vicino, scagliandolo da parte con un calcio nel ventre. Fece perno sul piede, parò un blaster e schivò un proiettile con una mezza piroetta, ricongiungendo le spade e respingendo una raffica. 

Avvertì le schegge di qualche proiettile invisibile che gli sfiorarono il braccio, ma non vi badò. Si accucciò, per poi schizzare via, in alto, e si elevò proprio al centro dello schieramento nemico.

I trafficanti si strinsero distinto attorno a lui, pronti a crivellarlo a mezzaria o non appena avesse toccato il suolo. Come previsto.

Cal raccolse appena il corpo, aumentando la velocità dimpatto, e atterrò concentrando tutto il peso e lenergia sul palmo, la spada sollevata a intercettare ogni attacco. La potente onda di Forza che scaturì dallimpatto generò un boato soffuso: tutti gli avversari e i proiettili nel raggio di due metri furono sbalzati via, fornendogli campo libero.

Un Verpine temerario si riprese abbastanza in fretta da tentare di attaccarlo, ma fu abbattuto da un colpo di Syn e stramazzò a terra senza un grido.

Cal guizzò qua e là con lo sguardo, individuando lobiettivo: Zetz, riparato dietro un masso, bofonchiava qualcosa in un comlink da polso. Un istante dopo, il dispositivo cadde a terra assieme alla sua mano, accompagnato dal suo urlo mentre si stringeva il moncherino, le antenne ritorte per il dolore. Crollò in ginocchio, la spada laser puntata alla gola.

«Di ai tuoi di ritirarsi» gli intimò Cal, pestando col piede il comlink dellImperiale.

Dietro di lui colse Syn che, approfittando della confusione, era riuscita a mettere sotto tiro Kobal, rannicchiato al suolo con un suo stesso proiettile conficcato nella caviglia.

Il resto dei Verpine si tenne a distanza, confuso e impaurito di fronte alla possibile perdita dei loro capi.

«Feccia Jedi» sputacchiò Zetz, serrando le labbra sino a renderle di un rosa pallido, livido rispetto alle sfumature violacee della sua pelle. Fissò con sfida la lama sfrigolante denergia a pochi centimetri dal suo collo. «Non lo faresti mai. Voi siete i "Guardiani della Pace"» lo stuzzicò in un sibilo.

Cal si limitò a sollevare le sopracciglia, senza allontanare larma.

«Io non faccio più parte dellOrdine» replicò freddo, avvicinando di qualche millimetro la spada al suo mento.

Ovvio, che non lavrebbe mai fatto... ma Zetz non lo sapeva per certo.

Laltro, però, dovette leggere lesitazione nei suoi occhi o nella sua voce: invece di arrendersi, la sua mano scattò al petto, sotto alla giacca, e impugnò un blaster-derringer.

Fece appena in tempo a puntarglielo contro, che sirrigidì in preda agli spasmi, attraversato da unimprovvisa scarica elettrica. Crollò a terra svenuto. BD balzò allegro sulla sua schiena, molleggiando compiaciuto sulle zampe, col fulminatore che ancora sprizzava scintille.

«Ben fatto, BD. Rischiava di diventare una conversazione terribilmente noiosa» sorrise Cal, invitando il piccolo droide ad agganciarsi di nuovo alle sue spalle.

«Hai intenzione di opporre resistenza anche tu?» sentì chiedere Syn.

Cal si voltò per vedere Kobal che, da terra, ridusse gli occhi scarlatti a due fessure, una mano serrata attorno alla caviglia sanguinante. Si limitò a scuotere lentamente la testa e a far cenno ai suoi di non intervenire. I Verpine rimasti, poco più di mezza dozzina, si ritrassero cauti, poggiando a terra le armi.

«Ottimo, perché abbiamo qualche domanda per te» continuò Cal, ritraendo la spada e agganciandola alla cintura. «Per esempio, chi è che dà davvero gli ordini qui.»

Il Duros fece scattare le pupille orizzontali da lui a Syn, digrignando i denti. Cal capì che non avrebbero cavato un wyyyschock dal buco: Kobal era un semplice secondo in comando, subordinato a Zetz e a chiunque stesse dirigendo loperazione mineraria di kyber su Awath.

«Perché non lo chiedete allaltra testa di beskar?» ringhiò infatti lui, scoprendo i denti consunti.

Syn inarcò un sopracciglio, incalzando il resto con un movimento secco del blaster.

«Al cacciatore di taglie Imperiale? Cosa dovrebbe saperne lui?»

Kobal strinse la bocca sottile, come pentendosi di essersi lasciato sfuggire quel commento. Scoccò unocchiata alla bocca dellarma puntata su di lui, come intuendo che unex-assaltatrice Ribelle avrebbe avuto molte meno remore di uno Jedi nelluccidere un Imperiale.

«È lunico ad avere contatto diretto con chi comanda. Noi eseguiamo solo gli ordini.»

«Ovvero?» intervenne Cal, avvicinandosi di un passo.

«Dovresti già saperlo, in quanto spia,» quasi ringhiò Kobal, stringendo la presa sulla ferita.

«So che state cercando i cristalli kyber, ma non so ancora perché. Anche se posso intuirlo.»

«Allora ne sai quanto noi.»

«E anche quanto Zetz?» aggiunse Syn.

«Sì» rispose laltro, troppo in fretta per essere credibile.

I suoi occhi rossi corsero fulminei alla sagoma scomposta del Rodiano, ancora immobile a terra. Cal meditò un istante sul da farsi, senza riuscire a collegare i puntini nella sua testa – o meglio, collegandoli in modo fin troppo allarmante per volercisi soffermare.

Quella scoperta puntava in ununica direzione: lImpero stava cercando di riassemblare una flotta. Uno Star Destroyer aveva bisogno di cristalli kyber, per le sue armi laser. Dovera, però, quella flotta? Iden non avrebbe accolto bene la notizia, soprattutto se così fumosa.

Così come Scorch non avrebbe preso bene il fatto che il Mandaloriano in verde fosse davvero affiliato con lImpero.

«Ci sono un paio di posti in più, sulla vostra Crest?» chiese infine, accennando a se stesso e a Zetz.

Syn alzò le spalle, sembrando divertita.

«Mando ha una politica piuttosto liberale sui passeggeri extra... sempre che a uno dei due non dispiaccia dormire in una lastra di carbonio.»

«Non credo che Zetz abbia più voce in capitolo» ridacchiò Cal, scuotendo la testa e spostando per un istante da parte le cupe rivelazioni della giornata.

Un rombo lontano attirò il loro sguardo verso lalto: nel cielo ormai schiarito da tinte rosate, si intravedeva una tozza astronave argentea in avvicinamento.

«Tra poco potrai discuterne direttamente con lui» commentò lei, con un cenno del mento.

Cal strizzò gli occhi, mettendo a fuoco il velivolo: la Razor Crest era un vecchio modello di cannoniera della Repubblica, di quelle usate come navi-vedetta nei settori limitrofi dellOrlo Esterno. Non sembrava affatto comoda come lo yatch Mantis a cui era abituato, ma avrebbe dovuto accontentarsi.

Rilassò i muscoli, determinando chiuso lo scontro, quando un secondo rombo colpì i suoi timpani, più basso e cupo. 

La sagoma massiccia di una bizzarra nave verde e rossa si sollevò alle spalle della Crest, mentre decollava dai campi lavici attorno alla città. Rimase sospesa lì per un istante, apparentemente in stallo, per poi inclinarsi di scatto in avanti, abbandonando la posizione orizzontale e rivelando la sua forma a T.

Si scagliò poi allinseguimento della Crest, coi cannoni blaster che squarciarono il cielo di lampi rossi.
 


 

Din tirò di scatto a sé la barra di comando e azionò gli alettoni direzionali: la Crest s’impennò con un sobbalzo, schivando il fuoco nemico. Il rivestimento metallico sbatacchiò, rumoroso, ma la nave resse la pressione dell’aria, subendo solo un breve rollio.

Riportò la nave in posizione orizzontale, con la prua orientata verso luscita della miniera appena visibile nel grigio dei pendii vulcanici. Inutile compiere manovre diversive adesso: laltro Mandaloriano – perché di lui doveva trattarsi – sapeva benissimo dovera diretto. Allontanarsi da Cal e Cara li avrebbe solo esposti al rischio di un fuoco aereo.

Si gettò unocchiata alle spalle, verso il retro della cabina: contrariamente a quanto accadeva di solito durante gli scontri aerei o spaziali, il piccolo non stava esultando a tempo con le manovre, rischiando di cadere dal sedile a forza di agitare le mani. Stavolta, se ne stava rannicchiato nella sua scatola che fungeva da seggiolino, ignorando ciò che accadeva e voltandogli le spalle.

Din trattenne un sospiro, interrotto da un brutto scossone che lo distolse immediatamente: non aveva tempo per riflettere su quello strano atteggiamento, con una Firespray armata fino ai denti alle calcagna che guadagnava terreno.

Cabrò di colpo, innescò i postbruciatori e virò con un dietrofront per tenersi fuori dal mirino dellaltra astronave e tentare di arrivarle alle spalle. Di nuovo, Din non riuscì a scollarsi di coda i cannoni nemici. A dispetto della stazza, laltro mezzo era sorprendentemente agile: era in grado di invertire la rotta con un raggio di virata strettissimo, quasi ruotando sul posto – come ora.

Din rinunciò alla manovra offensiva e riprese ad avanzare, zigzagando in ogni direzione e sfiorando i costoni rocciosi sottostanti: vedeva ormai i suoi compagni, che stavano apparentemente tenendo sotto tiro alcuni trafficanti. Il terreno accidentato non offriva alcuna opportunità di atterraggio: avrebbe dovuto accostarsi in volo e abbassare la rampa per permettere loro di salire a bordo.

Una manovra di per sé rischiosa; ancor di più sotto il fuoco di un cacciatore di taglie.

Il comlink, forse danneggiato dal colpo di blaster, si ostinava a inviare solo un crepitio statico, così sperò che gli altri capissero il suo intento, quando rallentò di colpo di fronte alla nave nemica, ostruendo la sua visuale. La sua forma allungata e la posizione di volo verticale le offrivano una linea di tiro piuttosto scomoda a corto raggio: così non avrebbe potuto colpire né la Crest, né i suoi compagni.

Superò Cara e Cal a rotta di collo, con lombra delle due navi che si proiettò su di loro. Rallentò ancora, aprendo i flap datterraggio: la Firespray fu costretta a scartare bruscamente di lato per non schiantarglisi addosso, e Din ne approfittò per invertire la rotta a velocità minima, calando al contempo la rampa datterraggio.

La Crest gemette per lo sforzo di rimanere sospesa a mezzaria, ma resistette il tempo necessario: non dovette abbassarsi tanto quanto aveva previsto, perché Cal afferrò di peso Cara per la corazza e spiccò un salto di quasi cinque metri, atterrando leggero sulla pedana.

«Recupero gli altri!» gli arrivò ovattata la voce di Cal, attraverso la stiva subito seguita da quella più alta di Cara, indistinguibile.

Non lo vide però saltare di nuovo a terra, e un istante dopo capì perché: attraverso labitacolo, scorse una forma cilindrica e lampeggiante di blu che precipitava a siluro verso il suolo. Non aspettò conferme dal basso e richiuse alla svelta la pedana, invertendo i rotori al massimo per riprendere quota.

Intravide per un attimo delle sagome in corsa sotto di loro – i Verpine in fuga, Kobal che si caricava sulle spalle Zetz per portarlo via – ma non si arrestò, attivando ogni singolo interruttore di potenza a portata di mano sulla plancia di comando.

Il proiettile impattò a terra. Un istante di silenzio opprimente sembrò risucchiare ogni suono attorno a loro.

Din riuscì a contare fino a tre, il muso della Crest saldamente puntato verso il cielo, prima che il fragore metallico di una carica sismica detonasse alle loro spalle, disegnando un anello azzurrino denergia sonica attorno al punto dimpatto. Disintegrò tutto attorno a sé, inclusi i trafficanti.

Londa durto li raggiunse in coda, facendo beccheggiare la nave. Din scorse la forma a T della Firespray che tentava di riprendere la loro scia, e attivò i propulsori supplementari, incurante della protesta gemente della Crest.

Dank farrik. Qualcuno non aveva letto a fondo il Codice dei Cacciatori di Taglie e non sapeva quando mollare losso.

Tentò di anticipare la mossa avversaria: schivò un colpo a ioni paralizzante, ma rollò poi nella direzione sbagliata e ne incassò uno al plasma sullala destra. Il motore perse dei giri, facendo sbandare la nave. Una spia in alto lampeggiò frenetica segnalando un incendio, ma erano ormai quasi fuori dallatmosfera.

Din impostò alla cieca la rotta delliperguida, dirigendosi verso il punto di salto ormai vicinissimo. A malapena si accorse che Cal e Cara lavevano raggiunto nella cabina.

La Firespray guadagnò terreno con uno scatto insospettabile, volando a spirale dietro di loro; un colpo a ioni fece sfrigolare unala, frenandoli. Li superò, lasciando sulla propria scia una seconda carica sismica a mo di mina, poi si ritirò con una brusca virata, liberando la traiettoria di salto.

Il silenzio innaturale avviluppò di nuovo la nave. Era troppo tardi per evitare lesplosione: Din tirò in anticipo la leva con tutta la forza che gli rimaneva, passando attraverso alle prime onde soniche con un boato. La Crest fu scossa violentemente, mandandoli quasi a gambe all’aria .

Poi, le stelle si sfilacciarono attorno a loro in scie luminose, accogliendoli nella salvezza delliperspazio.

Iperspazio, Rotta di Hydian, poche ore dopo.

Il Bambino dormiva profondamente, col viso imbronciato e il piccolo pugno stretto attorno al ciondolo del mitosauro. Din si trattenne dal far oscillare come al solito la sua amaca, intuendo che non sarebbe stato un gesto gradito, stavolta. Si limitò a chiudere il suo scompartimento, senza trattenere un sospiro esausto che si confuse coi sibili dell’aria compressa.

Prese poi a liberarsi dellarmatura, ancora inzaccherata di sangue, cenere e sale. Agognava il getto della doccia e confidava nel fatto di aver bandito Cara e Cal dalla stiva per le successive due ore, così da potersi muovere in libertà.

Ammonticchiò il beskar in un angolo, mise la placca in durasteel danneggiata sul piccolo piano di lavoro e ripose le armi nella rastrelliera, concentrandosi su quei gesti abituali che accompagnavano il suo respiro costretto. Appese la baionetta dellAmban sui supporti un tempo occupati dal fucile. Una premura inutile, per unarma ormai distrutta.

Si sedette infine per terra, la schiena addossata alla parete. Gli pulsava ogni singolo muscolo e osso, a ricordargli gli scossoni della giornata. La vibrazione sottile e acuta che attraversava il metallo, facendogli vibrare appena le vene, confermava che fossero ancora nelliperspazio.

Per la prima volta in vita sua, Din trasse un sospiro di sollievo nel togliersi lelmo. Lo posò sulle ginocchia per un istante, col visore rivolto verso di sé. Scrutò il vetracciaio nero, che rifletteva appena il suo volto, e strinse la presa sul metallo, fino a sentire il bordo imprimersi sui palmi.

Sullo zigomo dellelmo, bianca sul grigio, spiccava la sottile scalfittura di una lama.

 

FINE EPISODIO IV

 


 

Note dell’Autrice

Ehm. Salve? *fugge*
Non avete idea della serie di coincidenze nefaste che hanno ostacolato questo capitolo, MA finalmente siamo qui. Alla fine dell’episodio interminabile, esatto! :D

Spero che questa parte più adrenalinica vi sia piaciuta... e no, non l’ho scritta solo perché volevo uno scontro aereo con le bombe sismiche e la Slave I. No, figuratevi, pff.
Dal prossimo capitolo, torneremo in lidi più calmi... ma non troppo ;)

Vi ricordo che le citazioni introduttive sono sempre più o meno rilevanti, o offrono chicche e retroscena sulla storia/lore. Iden Versio è un personaggio del videogioco Battlefront II che non ha particolare rilievo in questa storia... ma mi piace sempre fornire agganci ed easter egg carini a voi fan, tanto per stimolare le vostre teorie del complotto <3

Ringrazio tutti voi che leggete, seguite e commentate per la pazienza (sapete chi siete, vode e cyar’ike e Jawa e bella gente spaziale). Non faccio promesse sul prossimo capitolo, ma non sarà un’attesa così lunga come queste ultime ♥

Alla prossima,

-Light-

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Capitolo 20
*** Episodio 5: La Via – Parte I ***


 
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Episodio 5
LA VIA

Parte I



 


“Non serve una casa, se la porti nella corazza.”
— Detto Mandaloriano

 

 

 

Venti anni prima, tre giorni alla Battaglia di Coruscant.
Nevarro, Rifugio della Tribù.

Din cammina a passo svelto davanti a lei.

Le sue parole echeggiano nel cunicolo, rimbalzando tra le strette, spoglie pareti. Amplificano gli sporadici acuti che ancora punteggiano la sua voce, facendosi largo tra i toni di baritono su cui ha iniziato a stabilizzarsi. Il vocoder è chiaramente impostato su una frequenza un poco più bassa, nel tentativo di camuffare quei residui d’infanzia ancora percettibili. Ottiene l’effetto opposto, rendendoli più evidenti.

Ruusaan non glielo fa notare, ma sorride tra sé mentre avanzano dai condotti periferici verso la camera centrale del Rifugio. Qualche Mandaloriano di passaggio li saluta lungo il tragitto con muti cenni dell’elmo; uno dei più anziani, con un’armatura violetta e sbiadita, si rivolge a Din e gli offre un breve incoraggiamento in Mando’a a mezza voce. Lui lo accetta compito, terminando ogni scambio con un rispettoso “questa è la Via” e un breve inchino del capo.

Non è abituata a vederlo con l’elmo addosso. Neanche lui è abituato a portarlo: si nota da come muove troppo la testa e da come la incassa spesso tra le spalle col mento inclinato sul petto, avvertendo il peso del metallo.

«Domani, dopo il Mand’aab, devo portarti a una caldera qui vicino» continua Din, svoltando a passo sicuro in uno dei tunnel principali. «L’abbiamo scoperta io e Paz qualche settimana fa... è piena di pesci di fuoco e lucertole laviche. Poi c’è un geyser che soffia ogni sette minuti esatti, e usiamo le rocce che solleva come bersagli. Facciamo sempre a gara.»

Parla con l’entusiasmo dell’ad’ika che anni prima le mostrava fiero un trucco d’abilità appena imparato con la vibrolama, ma la serietà di un Mando’ad che si appresta ormai a indossare il beskar.

«E chi vince, di solito?»

«Io» risponde pronto, con un guizzo di fierezza nel modo in cui solleva il capo. «Di poco, però. Paz è forte» aggiunge subito, facendo spallucce nella tunica, a stemperare quella che potrebbe passare per arroganza.

Bravo, ad’ika, si ritrova a pensare lei.

Rimane in silenzio quando Din di colpo tace, forse distratto dal tumulto di pensieri che di certo lo assale, nonostante sia felice di rivederla dopo quasi un anno. Ruusaan continua a seguire i suoi passi dinoccolati lungo il dedalo sotterraneo, lasciando che sia lui a farle strada, anche se la conosce a memoria.

Anche lei è distratta, stasera. Non vorrebbe mai esserlo, quando è con lui, ma la sua mente corre già a Coruscant, alla Ronda, ad Azi che la aspetta nell’oscurità del sottosuolo, certo che lei risponderà alla chiamata come ogni volta. Certo di averla in pugno come il resto dei guerrieri in blu, con una catena di beskar attorno al collo di ognuno di loro.

Si aspetta da loro solo devozione e fedeltà. Non sa quanto si sbaglia: l’arroganza derivata dalla sua nuova posizione di comando l’ha reso incauto, ultimamente. Cieco ai piccoli segnali che avrebbero potuto metterlo in guardia. Pre Vizsla, nonostante la morte disonorevole per mano di un darjetii, è stato un comandante molto più acuto di lui, anche se altrettanto spietato.

Ruusaan ispira a fondo dentro il casco. Manca poco.

Vorrebbe illudersi che sia libertà, ciò che la attende dopo quella battaglia d’ombre, ma è conscia che ad accoglierla sarà solo una vita da reietta, in fuga da tutto e tutti. In fuga dalla Ronda e bandita dalla Tribù. 

Osserva le pareti del Rifugio, adornate qua e là da stemmi di clan di cui nessuno ricorda più la storia. Non tornerà qui per molto tempo. Forse mai più. Non c’è ritorno da ciò che si appresta a fare.

L’occhiata che lancia a Din, ignaro di tutto, è fuggevole, macchiata di colpevolezza. Lui però si volta, come se l’avesse percepita. Ruusaan intravede il suo sorriso vibrante, anche se nascosto dietro il visore. Le smembra il cuore e mette a tacere parole che potrebbero tradirla.

Din si ferma e le si avvicina di un passo, esitante, col sorriso che si spegne rapido. È alto quanto lei, adesso; minaccia di superarla da un centimetro all’altro.

«Stai bene?»

«Sono solo stanca per il viaggio. Mandalore è lontana.»

«Allora dovresti riposarti adesso. Il Mand’aab sarà all’alba, e qui su Nevarro la notte è breve. Lo sai.»

«Lo so.»

Dovrà partire per Coruscant ancor prima dell’alba, allora.

«Ti accompagno agli alloggi per gli ospiti.»

C’è una sfumatura più adulta, nel modo in cui parla. L’impronta di chi ha accumulato abbastanza esperienze sulle spalle da poter sostenere lo sguardo di un altro guerriero col dovuto rispetto, ma senza timore. Ruusaan sente una stilla d’orgoglio infiammarle lo sterno, nonostante tutto.

Bes le ha detto che, sei mesi fa, ha portato a termine la sua prima taglia sotto la guida di Paz. Si è distinto in età giovanissima, guadagnandosi il diritto di indossare un buy’ce, anche se non ancora in modo permanente. Questo avverrà domani col rito di passaggio, quando giurerà al Credo nella Sala della Forgia. Allora compirà il Mand’aab, il Passo del Mandaloriano, e accetterà un elmo che non potrà più rimuovere.

Ruusaan si corruccia sotto il proprio, inevitabilmente. Quando sente parlare di quelle regole così stringenti si chiede se sia stata una scelta saggia affidare Din alla Tribù per tutto quel tempo. Poi ripensa alla Ronda, ad Azi, al prezzo di sangue che aveva richiesto per far rimanere Din nei loro ranghi. 

Un prezzo che si è rifiutata di far pagare a un bambino. L’ha già pagato lei, quando Azi le ha offerto una nuova Via e un elmo blu sul suolo insanguinato di Eriadu. Inizia a capire solo adesso che anche la morte può essere una scelta. Ma non l’avrebbe mai capito, senza indossare il beskar. Quel circolo vizioso la soffoca e la gratitudine dovuta ad Azi brucia come la lava di Nevarro.

Adesso, l’unica scelta che ha è quella che potrà compiere domani, nelle viscere di una città sordida. Riprende a camminare, scrollando via quelle riflessioni cupe.

«Dopo riposerò. Adesso devo passare da Bes e...»

«La Naur’alor» la corregge svelto Din.

Alza leggermente la voce, come a voler coprire la sua e nascondere quello che, ai suoi occhi, è un appellativo irrispettoso nei confronti della guida della Tribù. Ruusaan coglie una traccia di rimprovero velato che, fino a un paio d’anni fa, non gli sarebbe mai sfuggito di bocca rivolto a lei.

«Devo conferire con l’Armaiola,» lo asseconda, più mite di quanto vorrebbe, «quindi vado alla Forgia e poi andrò a riposare, stai tranquillo.»

Din annuisce soddisfatto. Si ferma poi in mezzo a un crocevia di cunicoli, dove un raro lucernario proietta una pozza di luce morente. Il suo elmo rossiccio, sebbene malmesso, scintilla per un istante come se fosse appena stato temprato. È in semplice durasteel: improbabile che la Tribù possa permettersi più di un pezzo in puro beskar per lui. Forse uno spallaccio o un gambale – tutt’al più la corazza, se sarà fortunato. 

Si merita di più. Ruusaan ha già deciso che sarà il suo elmo a donare il metallo necessario per forgiare il suo. Almeno questo glielo deve.

Raggiunge il ragazzo, percependone la tensione. È emozionato, anche se cerca di non lasciarlo trasparire. Il modo in cui struscia i piedi sul posto le ricorda la prima volta che gli ha fatto vedere il mare, quando ha esitato così a lungo sulla rampa della Cornucopia, affascinato e al contempo intimorito dal ruggito delle onde. Non è una situazione molto dissimile: lo attende qualcosa di bello e nuovo. È normale aver paura, ma anche questo fa parte del rito di passaggio.

«Quando riparti?» le chiede, riscivolando nella cadenza dell’adolescente che dovrebbe essere.

«Non lo so» mente lei, sentendo bruciare la lingua. «Presto, probabilmente. Non dovrei nemmeno essere qui, ma volevo vederti prima del Mand’aab

Questa è la verità, almeno. Come accade spesso, Ruusaan ha l’impressione che Din stia tenendo chiusa dentro di sé la stessa domanda che ha smesso di porle già da anni: “perché non rimani mai?

Non gli ha mai potuto rispondere, ma ha il presentimento che lui abbia sempre saputo la risposta: la sagoma spigolosa di Azi si staglia su di loro come quella notte nelle foreste di Concord Dawn, quando Din ha cessato di essere un bambino ed è diventato un guerriero. Se il manda la guiderà, quell’ombra si dissiperà presto.

«Sono contento che tu sia qui» dice invece, in quel suo modo goffo ma sincero che non l’ha mai abbandonato del tutto.

Ruusaan sorride, sapendo che può percepirlo. Si trattiene dal posare l’elmo contro il suo e lasciargli anche un bacio di Keldabe sulla fronte. Significherebbe tradirsi e rivelare la propria partenza, come ogni volta. Non questa. Stavolta partirà in silenzio, senza far rumore, allontanandosi dalla Via per quella che spera sia l’ultima volta. Tornerà, un giorno. Glielo promette col cuore.

Deglutisce piano, intrecciando un respiro costretto con parole più dolci:

«Dormi bene, Din’ika

«Anche tu, Ruu’buir

Ruusaan salta un battito per la sorpresa: Din non ha la minima esitazione nell’agganciare quella piccola, nuova parola al suo nome per la prima volta. Come se l’avesse sempre pensata. Sin dal giorno in cui gli ha spiegato, sotto le lune diafane di Concord Dawn, che per i Mandaloriani il sangue conta meno di niente. Contano i fatti, e a volte le parole per renderli veri e reali – pronunciabili.

Non risponde, ma gli lascia un buffetto delle nocche sulla parte inferiore dell’elmo, specchio sbiadito di un gesto quasi dimenticato. Il beskar tintinna sul durasteel in una nota sorda. Din sbuffa, a metà tra una piccola risata e un verso scocciato da adolescente restio all’affetto esplicito.

Non l’ha mai adottato, non ufficialmente. Eppure eccolo là, quel legame, racchiuso in una parola emersa dal buio, scintillante come una stella appena nata. Avrebbe dovuto adottarlo anni fa, ma non se ne pente e non importa davvero, adesso.

Se non dovesse tornare, Din porterà comunque sempre nel cuore quella parola – madre. E, per Ruusaan, questa è l’unica cosa che ancora conta davvero.

 



 



Glossario:

ad’ika: figlio o bambino.
buir: genitore (padre o madre).
darjetii: lett. "non-Jedi", dunque un Sith. Il riferimento non esplicito è a Darth Maul, che ha ucciso Pre Vizsla impossessandosi della Darksaber e del titolo di Mand’alor.
Mand’aab: lett. Il Passo del Mandaloriano. Mio neologismo per indicare il rito di passaggio all’età adulta, quando i giovani Mandaloriani votano di non rimuovere mai l’elmo di fronte agli altri.
Mando’ad: Figlio di Mandalore; per estensione "Mandaloriano".
Naur’alor: fabbro, armaiolo. (da nau’ur, "forgiare" e alor, "capo")

 

Note dell’Autrice:

Cari Lett-- no, non ci provo nemmeno, a giustificarmi ahahah

Settembre mi è piombato addosso come una valanga, rubandomi il tempo per portare avanti la storia. E, perché negarlo, per un momento mi sono anche disamorata da Vode An. Sarà che la storia stenta a crescere in termini di lettori (anche se, lo sapete, apprezzo ogni singola parola di chi la segue sin dall’inizio, sufficiente a spronarmi nel continuarla); sarà che ho ricevuto alcune critiche sensate nel corso di scambi e contest su Wattpad; sarà che sono arrivata a un punto critico della trama e quindi ho un po’ d’ansia da prestazione... saranno mille cose, ma non mi sono sentita di scrivere questo capitolo finora.

Questi sono capitoli particolarmente delicati e, oltretutto, ho apportato qualche modifica e correzione a quelli precedenti – perché ovviamente alcune idee vengono in corso d’opera. Azi Sten’ka ha acquistato un ruolo molto più rilevante, come vedete; le menzioni al passato di Ruu sono volutamente ancora oscure, ma Eriadu è il suo pianeta d’origine, ora menzionato nei primi capitoli in cui l’ho introdotta. Ad accompagnare Azi c’è ora uno strill (vd. Glossario che ho appena pubblicato insieme a questo capitolo) di nome Kyr’ad. Sono dettagli minori che vi riporto qui per evitarvi la rilettura ♥

Non prometto aggiornamenti regolari, solo che la storia vedrà la sua conclusione. Il prossimo capitolo, però, è già pronto, e arriverà la settimana prossima ♥

Grazie a tutti coloro che hanno letto, votato e commentato. Senza di voi, Vode An non nsarebbe mai arrivata fin qui ♥

Vor’e, ner vode!

-Light-

P.S. Sono consapevole dell’esistenza del romanzo dedicato a The Mandalorian. Non l’ho letto e non ho intenzione di farlo sino alla conclusione di Vode An per evitare di esserne influenzata, ma qualche informazione presente nel testo (nomi, luoghi, titoli, forse qualche parola in Mando’a) potrebbe richiamarlo a mia insaputa, considerando che uso spesso Wookieepedia come fonte. 

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Capitolo 21
*** Episodio 5: La Via – Parte II ***


 
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Episodio 5
LA VIA

Parte II



 


“Se stai leggendo questo ololibro, è perché sei stato scelto come Reclutatore con l’incarico di addestrare le nuove leve,
preparare i futuri guerrieri della Ronda per la loro missione, 
e per guidarli in battaglia.
Devi istruire e ispirare i nostri guerrieri, cosicché comprendano la loro eredità 
e siano pronti a sacrificare la vita per la causa.”

– Dal Ba’jurne Kyr’tsad Mando’ad di Tor Vizsla,
il Manifesto della Ronda della Morte


 

Adesso, Nevarro, Rifugio della Tribù, 9 ABY
 

Il Rifugio non era cambiato.

La stessa arenaria friabile rifletteva la fioca luce esterna, donandole un alone rossastro. Lo stesso pavimento di terra battuta accoglieva un sottile strato di polvere, che si avvitava in mulinelli improvvisi a seconda delle correnti d’aria. La stessa eco soffusa accompagnava ogni rumore, amplificandolo attraverso la rete fognaria in disuso assieme al flebile ululato del vento.

Quella fu la prima impressione che ebbe Ruusaan, quando discese nel Rifugio dopo più di vent’anni. Bastarono però pochi passi per capire che non era affatto il luogo che ricordava.

Era ciò di intangibile che era venuto a mancare, a fare la differenza. Non captò immediatamente il miscuglio di odori inconfondibile che di solito permeava ogni ambiente: un misto di falò estinti, ferro e spezie piccanti. Era cambiato anche il timbro del silenzio che lo caratterizzava. 

Non era mai stato rumoroso, quel luogo, ma orecchie attente sapevano cogliere tutto ciò che lo aveva reso casa per un Mandaloriano: il cicalio di armature in movimento e il chiacchiericcio pacato dei guerrieri a riposo, accompagnato dal lontano tintinnio di un martello sull’incudine.

Adesso era rimasto solo il sibilo stantio del vento, che passava pigro attraverso la galleria smuovendo aria che, forse, non aveva mai neanche visto la luce del sole e vagava intrappolata da anni in quel dedalo di cunicoli.

«Bes’buir dovrebbe essere qui.»

La voce bassa di Paz la raggiunse alle spalle, mentre il guerriero la superava con falcate esitanti. La sovrastava anche senza armatura completa, ma camminava leggermente incurvato, come nel timore che il soffitto potesse cedere da un momento all’altro. O, forse, l’assenza dell’elmo lo faceva sentire vulnerabile, spingendolo a muoversi più cautamente di quanto avesse mai fatto in vita sua.

«Il segnale è ancora attivo?» chiese Ruusaan, abbassando di colpo la voce nel vedere dei frammenti di metallo sparpagliati per terra.

Un puntatore da elmo, la giuntura di uno spallaccio, la fondina di un caricatore: i segni del passaggio Imperiale sporcavano ancora quel luogo sacro. Ebbe l’impressione di essere entrata in una cripta.

«Forte e chiaro» replicò Paz, voltandosi verso di lei.

Abbassò gli occhi chiari e sottili sul datapad da polso, e un paio di ciocche bionde troppo lunghe gli ricaddero sulla fronte. Ruusaan non si era ancora abituata a vederlo a volto scoperto.

Gli zigomi alti richiamavano quelli di Pre Vizsla, con una stilla della sua stessa, fredda ferocia; ma il ventaglio di lentiggini che li punteggiava vi aggiungeva un’aria scanzonata in contrasto con quella prima impressione ostile. Sotto il velo di sofferenza, Ruusaan scorgeva ancora il ragazzino chiassoso e dalla risata assordante in perenne competizione con Din.

«L’emettitore è nella Forgia. Può averlo attivato solo la Naur’alor» annunciò Paz, dopo aver osservato per qualche secondo lo schermo.

Ruusaan annuì e riprese ad avanzare, sollevata da quella conferma. Il rischio di ritrovarsi in una trappola era ancora molto alto, ma non più imminente.

Così lasciava sperare quel segnale in didita che veniva trasmesso senza sosta dal Rifugio, comprensibile solo ai Mandaloriani: piccole scariche statiche che seguivano un ritmo e degli intervalli precisi sulla frequenza radio. Nulla più che interferenze a un normale orecchio, ma un vero e proprio codice per un Mandaloriano addestrato a riconoscerlo.

Questa è la Via. Questa è la Via. Questa è la Via.

Il segnale che il Rifugio era sicuro e abitato. Trovarono ulteriore conferma nel teschio di mitosauro in beskar appeso sopra l’ingresso della Forgia. Una decorazione rituale, sacra. Nessun Mandaloriano l’avrebbe mai abbandonata e nessun auretii avrebbe mai perso occasione di impossessarsene.

Attorno alla fucina erano disposti martelli e pinze da fabbro, oltre a saldatori, morse e stampi per armi e armature. In un angolo spiccavano tre cataste di elmi e armature, divisi con zelo in beskar puro, durasteel e leghe miste. La prova definitiva che Bes era viva e sarebbe di certo tornata.

Ruusaan deglutì piano quando realizzò di riconoscere alcuni elmi, sebbene vagamente. Si diresse svelta fuori dalla sala, avvertendo un peso nei piedi.

«In molti sono marciati via, quel giorno» commentò Paz, notando il suo sguardo e seguendola senza tentare di fermarla.

La sua voce risuonò colma di quieto dolore, attentamente arginato per evitare che traboccasse. Parlava pur sempre dei compagni di una vita.

«Non tutti. Ma nessuno è ancora tornato» Ruusaan inclinò un poco l’elmo, a sottolineare la lieve sfumatura interrogativa di quell’affermazione.

Paz non reagì subito, lasciando che il silenzio portasse con sé la risposta. Lei non distolse il visore dai suoi occhi, costringendolo a scansare per primo le pupille, prive della familiare protezione del beskar.

«Posso parlare solo per me stesso e per il vecchio Tal’kyc. E Haarar è morto su Zygerria» nel dirlo, si sfregò d’istinto il collo, dove s’intravedeva ancora il segno nero-violaceo del collare-shock. «Noi tre siamo fuggiti insieme dopo l’assalto di Gideon. Ci hanno catturati nel settore zygerriano e il resto lo sai già da Bo-Katan. Degli altri non so nulla.»

Ruusaan dovette quasi trattenere un sorrisetto, a dispetto della situazione: iniziava a capire come si fosse sentito Fenn, quando aveva tentato di farla parlare su Coruscant, ottenendo nient’altro che giri di parole e depistaggi almeno finché non era stata lei, a concedergli una spiegazione.

«Sono giorni che eviti la mia unica domanda.»

Paz ruotò di scatto il capo verso di lei, un lampo di stizza negli occhi che sfumò repentinamente in ira contenuta.

«Non so dove sia Djarin. So solo che è vivo, probabilmente. Cos’altro vuoi che ti dica, Ba’vodu?»

Ruusaan non capì se quell’appellativo, "zia", fosse inteso in modo sincero o con lieve scherno. Non sapeva nemmeno cosa si aspettasse davvero da lui, in realtà, se non sentirgli ripetere quella stessa, identica frase ogni volta che tentava di approfondire la questione. Avrebbe voluto pressarlo, estorcergli tutto ciò che sapeva... ma si frenò, conscia che Paz stesse ancora venendo a patti con tutto ciò che era accaduto a lui e alla Tribù. Col fatto di aver infranto il suo Credo e di non essere più un Mandaloriano.

Ritirò l’attacco:

«Niente, Paz’ika. È già abbastanza.»

Paz si rilassò all’istante, anche se le scoccò un’ultima occhiata aguzza. Ripresero a camminare verso l’uscita, con un nuovo silenzio a premere loro addosso. Ruusaan quasi lo sentiva ronzare nelle orecchie, attraverso l’elmo.

Din era vivo, probabilmente. Non era una certezza, ma almeno sapeva che era sopravvissuto al massacro di Nevarro, riuscendo addirittura a infliggere una sconfitta a Gideon. Il suo intuito aveva avuto ragione, su quello. Sul resto, però, Paz rifiutava di pronunciarsi.

Din, dipinto dalle poche parole colme d’acredine che era riuscita a estorcergli, sembrava ricalcare in modo inquietante ciò che era stata lei molto tempo prima: isolato, solitario, dedito a un unico compito che gli permetteva di abnegare ogni altro pensiero – la Ronda per lei, il Credo per lui. Poi qualcosa era cambiato, per entrambi.

Per lei, quel cambiamento era stato un bambino con una tunica rossa sul fondo di uno scantinato, che l’aveva presa per mano e portata fuori dall’ombra. Per Din... non sapeva dirlo, né immaginarlo. Forse avrebbe dovuto scoprirlo da lui stesso, nonostante il pensiero di rivederlo la facesse sentire sul ciglio di un precipizio. Perché, probabilmente, Din la odiava. E non poteva dargli torto.

Ruusaan arrestò i propri passi nel corridoio d’ingresso, dove delle piccole alcove ricavate nelle pareti fungevano da sedili; alcuni tavolinetti da gioco erano rovesciati a terra, con le carte da sabacc, le pedine e le scacchiere sparpagliate. Un paio sopravvivevano ancora in piedi, con le loro partite ancora in corso, come se i giocatori avessero semplicemente lasciato in pausa il round.

Su una scacchiera, spiccava ancora intatto uno schieramento di akaan’kajir, gli scacchi mandaloriani. Ruusaan si avvicinò indolente, col solo intento di distogliere un poco la mente dai pensieri che la assillavano.

Pedine grigie e rosse in legno di veshok si fronteggiavano su un complesso campo da gioco ottagonale, con caselle componibili di svariati colori. A terra giacevano le schede coi punteggi dei due giocatori, calpestate durante l’assalto degli Imperiali. 

Il rosso era a un paio di mosse dalla vittoria: la figura di un guerriero armato di lancia era già in linea per l’assalto finale al Mand’alor avversario, e una ingente quantità di pedine grigie era accumulata dal suo lato della scacchiera.

Ruusaan riconobbe i pezzi tradizionali del gioco, con amarezza latente: dubitava che la maggior parte dei Mandaloriani cresciuti nella Tribù avrebbe saputo dare un nome ai personaggi raffigurati. Mand’alor del passato, grandi guerrieri, cacciatori di taglie leggendari, politici... semplici figurine di metallo prive di storia, per le mani di chi le aveva mosse sulla scacchiera.

Una mano guantata entrò nel suo campo visivo, muovendo una pedina grigia in modo quasi casuale – eppure decisivo, troncando l’assalto avversario verso il Mand’alor. Trovò ironico che Paz, ultimo superstite noto del proprio clan, si ritrovasse a muovere proprio Tarre Vizsla: suo antenato, creatore della Darksaber e primo Jedi Mandaloriano.

Ma Paz era ignaro di tutto ciò, cresciuto nel ristretto e recluso mondo della Tribù, dove i Jedi, la Ronda e il resto della Galassia erano favole al pari delle stelle del Ka’ra. La versione tradizionale prevedeva uno scontro tra la fazione dei Mandaloriani e quella dei Jedi, ma dubitava che qualcuno nella Tribù sapesse anche solo cosa fosse una spada laser. 

Ed era così assurdo che un Vizsla non sapesse cosa fosse la Darksaber, per loro orgoglio di innumerevoli generazioni. Quando le aveva raccontato del raid di Gideon, si era limitato a descrivere ingenuamente la sua arma come una "spada di luce buia".

Ruusaan strinse le labbra sotto l’elmo. Bes aveva distrutto un’intera generazione di Mandaloriani, tenendoli all’oscuro delle loro radici o troncandole di netto.

Tornò a fissare i pezzi sulla scacchiera, soffermandosi su due figure al margine estremo. Uno scontro secondario per la conquista di una singola casella apparentemente inutile che, a un occhio più attento, risultava essere la mossa chiave per chiudere la partita. 

Guardò meglio le pedine: Tor Vizsla contro Jaster Mereel – e Mereel avrebbe vinto, quando nella realtà, a Galidraan, aveva lasciato orfano un giovane Jango. C’era un qualcosa di intrinsecamente giusto, in quello scontro, un sapore di amara rivalsa della vittima verso il suo carnefice.

Contrasse i muscoli sotto al beskar. Prima di potersi frenare, urtò la pedina di Tor con la punta dell’indice, facendola precipitare dal campo da gioco sulla pila dei caduti.

«Non avanzi?» commentò Paz, additando Jaster e la casella cruciale ora vuota.

Ruusaan scrollò le spalle, lasciando la pedina vincente dov’era.

«A volte si perde anche con la mossa giusta.»

 

 

Venticinque anni prima, poche ore alla Battaglia di Coruscant,
Livello 3149 di Galactic City

Azi Sten’ka la fissa e, nelle iridi di un azzurro sporco, Ruusaan scorge la morte che già lo avvolge. Kyr’ad, là accanto, ringhia e uggiola nel vedere il suo padrone che viene sconfitto, a un passo da uno dei Pozzi senza fondo di Coruscant. Non interviene; rimane accucciato sul posto, stridendo impotente le zanne verso di lei, la sua nuova alpha. Il gocciolio umido delle fogne si mescola con il tonfo metallico dell’elmo di Azi che cade a terra, rotolando poi oltre il bordo della voragine.

«Quando?» gorgoglia il luogotenente della Ronda, col sangue che gli inonda il mento e la voce che rimane salda, forgiata dall’ira. «Quando l’hai deciso?»

Ruusaan trattiene l’impulso di torcere subito la vibrolama nel suo costato. Lo fa solo dopo aver esalato la risposta, cosicché possa udire quel sussurro carico di fiele che quasi si perde tra le folate del sottosuolo:

«Da quel giorno su Lothal.» Vede il lampo di consapevolezza illuminargli fievolmente gli occhi bigi, mentre la pupilla si contrae per il dolore. «Ma l’hai sempre saputo.»

Estrae di netto la vibrolama, spargendo sangue scuro sul suolo metallico. Azi si affloscia come un sacco vuoto. Basta una spinta del tallone e il corpo precipita nel Pozzo, inghiottito dall’oscurità. Ruusaan si scosta dal bordo, intrappolando un respiro in gola. Le tremano le mani, ma non è paura. È sollievo sporco di sangue.

Un uggiolio la fa sobbalzare, mentre lo strill le si avvicina con la coda tra le gambe. Oltre il velo di sottomissione, nei suoi occhi neri scorge un odio vivo. Ruusaan sfiora il calcio del blaster, per poi ritrarre le dita:

«
Usen’ye» ordina, nello stesso tono ringhiante che usava Azi nel rivolgersi alla bestia.

Lo strill obbedisce all’istante, ritraendosi e sporgendosi poi col muso nel Pozzo, nel punto in cui è scomparso il suo padrone. Ruusaan volta le spalle alla voragine e decolla, col jetpack che la solleva come se non vi fosse il peso del tradimento ad ancorarla a terra.

Dietro di lei, sente solo il latrato straziante di Kyr’ad, un’eco dolente persa nelle viscere di Coruscant.

 




 



Glossario:

akaan’kajir: lett. "tavolo da guerra", gioco mandaloriano di mia invenzione, simile agli scacchi ("dejarik" nell’universo di Star Wars; si vede in Una Nuova Speranza sul Millennium Falcon, giocato da Chewbecca e C3P0)
Ba’vodu: zio o zia.
didita: segnale in codice simile al Morse.
Ka’ra: nei miti mandaloriani, un consiglio dei re caduti del passato, visibili nelle stelle.
Usen’ye: vattene.
veshok: albero nativo di Mandalore


Note dell’Autrice:

Cari Lettori!
Alzi la mano chi voleva qualche chicca sul passato di Ruu *coro di grilli spaziali*
In ogni caso, ecco qualche retroscena leggermente significativo. Volutamente, vi sono ancora delle zone dombra nel mosaico di arrivi-partenze-ritorni di Ruu su Nevarro, ma ci arriveremo presto.

Nel frattempo, non posso che ringraziarvi per aver letto fin qui, e in particolare abbraccio le belle persone che hanno speso delle parole dincoraggiamento per la storia: non nego di averne bisogno, poiché sto attraversando un periodo di bassi che, spero, precede un periodo di alti ♥

Alla prossima, spero prestissimo,

-Light-

 

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Capitolo 22
*** Episodio 5: La Via – Parte III ***


 
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Episodio 5
LA VIA

Parte III


 

 

“Quando scegli di camminare sulla Via di Mandalore,
sei al tempo stesso cacciatore e preda.”

— Bes, Armaiola della Tribù, ai suoi seguaci


 

[trigger warning: abuso e violenza accennati/non espliciti]




Trent’anni prima, Lothal,
Accampamento della Ronda della Morte


«Ge’tal

Din pronuncia quella parola spigolosa, pizzicando la manica della sua tunica rossa ormai un po’ sfilacciata. Ruu fa un cenno d’assenso col capo. Anche se non lo guarda direttamente, impegnata com’è a pulire la sua beskar’gam, sa che lo sta ascoltando.

«Vorpan» continua poi, toccando il muschio di un verde brillante che si arrampica sul masso contro cui poggia la schiena.

Un altro cenno d’assenso, seguito dal clic di un meccanismo del parabraccio rimesso al suo posto. Din arriccia lievemente il naso nel cogliere l’odore pungente dell’olio per beskar: un misto di erba bruciata, ruggine e carburante. Gli ricorda un po’ quello dei macchinari agricoli ad Aq Vetina, quando durante l’inverno aiutava suo padre a scrostare via la ruggine dal ferroplast e a mantenere oliate le giunture in vista della semina.

Sarebbe molto più semplice elencare tutti i colori, con davanti un campo di kisiwa a primavera: i prati attorno alla città si dipingevano di mille sfumature diverse, come se qualcuno si fosse divertito a rovesciare dei secchi di vernice sui pennacchi delle piante.

Si sente triste, a pensarci, ma nel risentire quell’odore è anche come se una mano conosciuta gli avesse appena fatto una carezza lì, a chissà quanti parsec di distanza da Concord Dawn.

Si accorge che adesso Ruu lo sta fissando e si affretta a continuare – gli ha già detto troppe volte di non distrarsi:

«Shi’yayc,» articola, lottando contro quella parola che gli appiccica la lingua al palato e indicando la tonda stella di un giallo sbiadito sopra di loro, «ne’tra,» continua svelto, tirando fuori una ciocca scura da sotto il cappuccio, «e, uh...»

Si blocca, guardandosi intorno alla ricerca di qualcosa di blu, realizzando che il cielo su quel pianeta è di una sfumatura troppo verdastra per assomigliarci. Poi quasi si dà una mano sulla fronte e indica la stessa Ruu, sporgendosi verso di lei per poggiare un dito sulla sua corazza, all’altezza del cuore.

«Saviin» conclude, con un sorriso a labbra chiuse.

«Kebiin. Saviin è viola, non blu» lo corregge lei, senza asprezza.

Gli dà una piccola pacca sulla spalla, a segnalare che è stato comunque bravo a ricordarsi così tante parole, prima di tornare alla manutenzione dellarmatura. Din si accuccia sui talloni lì accanto, osservandola attentamente mentre riassembla il parabraccio un pezzo dopo laltro.

Il resto della Ronda si aggira per laccampamento, preparandosi a una nuova missione. Qualche guerriero è riunito in stretti capannelli e sorseggia tihaar, chi senza lelmo, chi sollevandone solo la parte inferiore per portare la fiaschetta alla bocca.

Arriccia le labbra al ricordo del sapore acre del liquore. Ruu glielha fatto assaggiare quasi per gioco, spiegandogli che ha un sapore diverso a seconda del luogo in cui ci si trova. Quello che ha provato lui è speciale, perché è fermentato da frutti che crescono solo su Mandalore: sa di casa per tutti loro.

A lui ha solo bruciato gola e stomaco, ma Ruu e gli altri guerrieri hanno riso dicendo che un giorno gli piacerà. Din spera che sia così, anche se non crede di poter davvero ritrovare casa sua in una fiaschetta dalcool.

Osserva ancora per qualche secondo il via vai di Mandaloriani in blu, ma perde ben presto interesse: è ormai abituato al costante tintinnio metallico delle armature, così non si lascia distogliere.

Si getta solo unocchiata fugace alle spalle quando coglie un sentore di carogna sul vento caldo, ma Kyrad è lontano, intento a curiosare attorno a delle formazioni rocciose ai margini della steppa. Di Azi non vede traccia, per fortuna.

Torna a puntare gli occhi sulla guerriera.

Quando lultima molla del congegno torna al suo posto e il rampino da polso è di nuovo funzionante, Ruu si limita a indicare questultimo, per poi sfiorargli la fronte con lindice e pronunciare una sola parola:

«Ke’partayli

Ricorda”. Din annuisce: Ruu gli ha detto di imparare anche con gli occhi, così cerca di farlo il più possibile tutte le volte in cui lei rimane all’accampamento per più di un paio di giorni.

«E ricorda bene anche i colori» prosegue, distendendo le gambe sullerba secca e arida che ricopre quel pianeta in praterie sconfinate. «Sono importanti, per noi. Ognuno ha un significato: dovrai pensarci bene, quando dipingerai la tua beskar’gam

Din annuisce di nuovo, fissandola serio oltre il visore, per poi gettare uno sguardo verso gli altri guerrieri indaffarati attorno a loro e storcere la bocca. Si inginocchia accanto a lei, osservando ancora un poco i loro compagni e le rispettive armature, prima di parlare di nuovo, sottovoce:

«Che vuol dire il blu?»

«Fiducia e affidabilità. Vuol dire che il popolo di Mandalore può contare sulla Ronda e sulla sua protezione.»

Din si morde il labbro, esitando a chiedere altro. La voce di Ruu si è fatta lontana. A volte succede e non capisce perché – se dipenda da lui o meno.

«Quindi anche la mia sarà blu. Non devo scegliere» afferma, con un piccolo moto di fierezza nel petto: avrà unarmatura come quella di Ruu.

La guerriera muove di scatto la testa verso di lui e Din sobbalza, stringendo le dita attorno al ciondolo del mitosauro in un riflesso istintivo. Gli sembra quasi di scorgere un rimprovero, in quel gesto improvviso.

«Cosho detto?» chiede, aggrottando le sopracciglia.

Ruu scuote la testa, tornando a puntare il visore verso lorizzonte piatto e ondeggiante.

«Niente, ad’ika. Ma è un discorso complesso e dovrai aspettare per capirlo» aggiunge sbrigativa, allungando due dita per dargli un buffetto sotto al mento.

Din scrolla le spalle senza insistere: è abituato a sentirselo dire, che sia per bocca di Ruu, per quella dei suoi genitori o delladulto di turno. Se però prima avrebbe insistito, magari arrabbiandosi o mettendo il broncio, adesso tace. Non ha più nessuna fretta di sapere le cose prima del tempo. E poi, di Ruu si fida.

Ogni ombra di curiosità viene spazzata via quando, voltando appena il capo come seguendo un presentimento, si sente gelare dallinterno. Scatta in piedi prima di poterci pensare nel vedere la massiccia sagoma di Kyrad in avvicinamento.

La bestia a sei zampe caracolla verso di loro col muso allungato e bavoso puntato verso terra, facendo ondeggiare la massa ambrata di pelo e pelle flaccida che lo ricopre. Si arresta a pochi metri e alza di scatto la testa, piantando gli occhi piccoli e rossicci verso di loro, con la lunga coda che prende a frustare laria in modo nervoso.

Din trattiene limpulso di indietreggiare alla vista dei canini aguzzi che fanno capolino dalle sue fauci, così come quello di tapparsi il naso. Respira piano con la bocca, cercando di attutire il tanfo. Lo strill alza una zampa, ad avanzare ancora, ma una voce arida lo ferma a mezzaria:

«Gev

Solo allora Din mette a fuoco la figura allampanata di Azi Stenka che calpesta ad ampi passi lerba scricchiolante. Sente Ruu che, dietro di lui, si rimette in piedi. Qualche guerriero della Ronda si sofferma a guardarli, per poi allontanarsi e creare una bolla vuota attorno a loro.

«Alor» esordisce Ruu a mo di saluto, dun tratto rigida, come sempre quando Azi è nei paraggi.

Azi risponde in Mandoa, in modo troppo complesso e veloce per permettergli di capire. Si rilassa impercettibilmente, anche se ha ancora i palmi sudati. Saranno i soliti aggiornamenti sulle future missioni della Ronda – non che ne capirebbe molto se anche parlassero in Basico.

Din scosta gli occhi dal suo visore a T per non perdere di vista lo strill, ora accucciato ai piedi del suo padrone col muso sulle zampe e la coda che smuove pigra gli steli lì vicino. Non scolla gli occhi da lui e Din inizia a sentirsi una preda.

Ruu, invece, sembra dun tratto agitata, come quella volta nelle foreste di Concord Dawn. Din deglutisce a fatica, percependo la sua improvvisa ansia dalle sue frasi più lunghe, più concitate. Forse, non si tratta della Ronda.

Ne ha la conferma quando, durante una breve pausa, Azi volta il capo verso di lui. Din distoglie lo sguardo per una frazione di secondo, per poi costringersi a sostenerlo, nonostante gli stia battendo il cuore sotto la lingua.

«Lascia decidere lui» dice poi, in Basico, e quelle parole gli colpiscono i timpani come aculei di ghiaccio. «Din Djarin, vuoi diventare un Mandaloriano?»

Il mondo attorno a lui sparisce. Din si sente come quel giorno di fronte al droide che stava per ucciderlo. Sotto tiro, impotente, con la sensazione di dover fare qualcosa, senza sapere cosa. In trappola.

Stavolta, però, agisce prima ancora che i pensieri possano rincorrere le azioni e frenarle:

«Sì» riesce a dire in un battito di ciglia, con la voce annodata.

Azi sembra quasi sorpreso dalla rapidità con cui ha risposto, e ruota appena lelmo verso il basso come a studiarlo meglio. Uno scricchiolio accanto al suo orecchio gli dice che Ruu ha appena stretto i pugni – ma tace, immobile anche lei.

«Jate» replica infine Azi, e a Din sembra di percepire un sorriso in quella parola dassenso, un sorriso sbagliato. «Seguimi.»

Richiama Kyrad con un fischio quasi inudibile e li supera entrambi, voltandosi appena verso Ruu nel farlo. La guerriera non muove un muscolo, come se qualcosa la inchiodasse a terra. Una parte di Din spera che si intrometta, che lo fermi, che si frapponga tra lui e Azi come nella foresta. Che, almeno, gli dica qualcosa prima che se ne vada.

Tutto ciò che sente è un respiro tremolante oltre lo strato di beskar – forse un "ke’taab" sussurrato, forse un refolo di lacrime. È solo allora, che Din avverte la paura farsi strada nel petto e iniziare a dimenare i suoi tentacoli, cercando di afferrargli le gambe per farlo tornare indietro. Li ignora, cercando di ignorare anche la nausea che gli monta nello stomaco e il vortice che gli sta girando in testa.

Azi lo guarda da sopra la spalla, senza rallentare, e gli lancia un ordine abbaiato:

«Tieni il passo, ad’ika, – quella parola suona velenosa, pronunciata da lui, – oggi diventerai un Mandaloriano.»
 

 

Le alte formazioni rocciose che li circondano divorano il cielo, lasciando solo una striscia seghettata che fa da tetto al canyon in cui stanno avanzando. Delle striature più scure e regolari segnano la sagoma tondeggiante delle immense pietre color sabbia, dando l’impressione che qualcuno abbia plasmato quegli strani coni su un tornio, come faceva lui da piccolo quando la vecchia vasaia di Aq Vetina gli permetteva di poggiare le mani sull’argilla in movimento.

Si aggrappa a quel ricordo già sbiadito mentre si sforza di non rimanere indietro rispetto alle falcate ampie di Azi. Kyrad trotterella poco più avanti, aprendo la strada col muso a terra e la coda ritta, annusando ogni sparuto ciuffo derba che gli capita a tiro.

Lalor non si è voltato una sola volta a controllare che lui lo stesse effettivamente seguendo. Forse lo dà per scontato o forse non gli importa che lui si perda nei meandri di quei crepacci o nellinfinita prateria che li circonda.

Din trattiene il fiatone e cerca di rimanere allombra dei costoni rocciosi, lontano dalla striscia di sole impietoso al centro del canyon: fa molto più caldo su quel pianeta, rispetto al clima arido ma freddo a cui è abituato. La tunica rossa che su Concord Dawn lo proteggeva dal vento pungente è diventata adesso una cappa soffocante incollata alla schiena.

Accelera il passo quando vede Azi fermarsi. Sono giunti in una sorta di conca scavata tra le due pareti del crepaccio. Dei coni rocciosi in miniatura spuntano dal terreno, offrendo un po dombra, e il letto asciutto di un torrente spacca la terra in mille crepe irregolari.

Din si ferma cautamente a qualche passo da Azi, preferendo rimanere a distanza sia da lui che da Kyrad. Lo strill sembra su di giri per quella che lui vede solo come una passeggiata fuori programma. Non può fare a meno di tenerlo docchio mentre scorrazza qua e là a caccia di lothrat. Nel cayon echeggiano gli squittii terrorizzati dei roditori che si rintanano nei loro cunicoli sotterranei, lontano dalle fauci dello strill. Din è contento che la creatura sia troppo distratta per badare a lui.

«Ti fa paura?» chiede a sorpresa Azi, che sembra torreggiare su di lui nonostante non sia poi molto più alto di Ruu.

Din alza lo sguardo, strizzando gli occhi per il sole che fa capolino oltre il suo elmo blu. È la seconda volta che lalor gli rivolge direttamente la parola da quando Ruu l’ha salvato: di solito non parla con lui, ma di lui, come se non fosse nemmeno presente. Non sa cosa sia cambiato, ma non gli piace – e quelle domande che gli fa gli piacciono ancora meno. Non sa nemmeno se ci sia una risposta giusta.

Scocca unocchiata allo strill, che adesso ha voltato la testa verso di loro come se avesse intuito che stanno parlando di lui. Visto da lontano, con il perenne olezzo che emana attenuato dal vento e gli occhi incuriositi puntati in modo adorante sul suo padrone, Din può quasi fingere che sia innocuo. Come Tobo, che era pericoloso come ogni massiff da guardia, se preso per il verso sbagliato, ma che a lui non aveva mai torto un capello, neanche quando si arrampicava per gioco sulla sua schiena irta di aculei.

Din torna a guardare Azi: è lui a fargli davvero paura, non il suo strill.

«No» risponde allora, scrollando appena il capo.

Azi sembra tossire, dietro lelmo. Solo dopo un istante Din capisce che era il principio di una risata aspra, più simile a un latrato.

«Male» dice, prendendo a cercare qualcosa appeso alla cintura. «Dovresti averne.»

Azi estrae una vibrolama dal fodero e Din si irrigidisce, contraendo i muscoli, ma il Mandaloriano si limita a porgergli il manico a un palmo dal naso. Din esita, trattenendo limpulso irrazionale di afferrarlo.

«Ti servirà» gli intima Azi con voce raschiante dimpazienza, gelandogli la schiena di sudore freddo.

Din stringe le dita attorno al durasteel, stando attento a non sfiorare il pulsante daccensione. Ruu gli ha mostrato come funziona una vibrolama, anche se non gli ha ancora permesso di maneggiarne una. Cerca di posizionare le dita sullimpugnatura come ha visto fare a lei. Il metallo pesa nella sua mano e lo sente scivoloso sotto i palmi madidi.

È così, che si diventa Mandaloriani?

Si sente come se avesse la febbre, con le palpitazioni che sembrano uscirgli dal petto facendo sobbalzare il ciondolo in beskar sotto alla tunica. Non ha mai usato unarma in vita sua, non ha mai combattuto. Ruu gli ha spiegato che anche quello fa parte della Via, ma ha sempre pensato che sarebbe stata lei a guidarlo. Come ha pensato, nemmeno un mese prima, che sarebbero stati i suoi genitori a guidarlo – ma erano arrivate le bombe e i droidi.

Gli pulsa improvvisamente lo stomaco, con la febbre che aumenta. È paura, la riconosce nelle gambe che sembrano fatte di bacta molliccio, ma quella che gli infiamma la testa è rabbia, perché a guidarlo cè solo Azi. E lui è come i droidi; è ancora più facile crederlo se pensa che sotto a quellelmo e allarmatura non ci siano carne e ossa, ma circuiti e meccanismi.

Attiva la vibrolama col pollice e la punta sfrigolante di energia scaturisce dal manico, facendogli tremare le ossa fino al gomito. Un istinto improvviso e sbagliato sembra afferrargli la mano: è abbastanza vicino ad Azi da poterlo attaccare, se lo volesse – il fianco dellarmatura non è di beskar, lha visto anche prima quando Ruu la puliva.

Sovrappone la mano libera a quella sul manico per fermarsi.

«Kandosii» commenta Azi, in quello che sembra gelido apprezzamento. «Lavevo detto, alla tua cabur, che con te ci serviva solo un po di polso.»

Poi lancia un fischio più simile a un sibilo. Un verso gutturale rimbalza nel canyon, seguito dallo scalpiccio dello strill che insegue qualcosa alle sue spalle. Uno squittio acuto penetra laria, seguito da rumori umidi di qualcosa che si spezza e viene lacerato.

«Iviin, Kyrad!» lo sprona Azi, battendo un palmo sulla coscia.

La bestia obbedisce e si ferma al suo fianco, leccandosi le labbra cadenti con la lingua violacea. Ci sono tracce di rosso attorno alla bocca e Din stringe la vibrolama fino a imprimersi il manico nel palmo.

Azi estende appena una mano, parlando poi con voce piatta:

«Ke’jurkad

Din non fa nemmeno in tempo a capire cosa voglia dire quel comando spigoloso, che sente laria strizzargli le costole e poi schizzargli via dai polmoni quando impatta con la schiena sul suolo duro, nel letto asciutto del torrente.

Kyrad è balzato in avanti, scaraventandolo a terra con un colpo delle zampe anteriori. Avanza ringhiante verso di lui, con gli occhi giallastri ridotti a fessure e gli artigli che raspano il terreno arido segnandovi nuove crepe.

Din ingolla un respiro che non supera la bocca e fissa la creatura davanti a lui con occhi così sgranati da farsi male alle orbite. Sembra ancora più grande, ora che lui è a terra, indifeso. Non riesce a pensare. Stringe il pugno e trova aria: la vibrolama è atterrata a un paio di metri da lui, sbalzata dallurto.

Kyr’ad balza di nuovo e a Din sembra di vederlo al rallentatore – come quando il droide ha alzato il braccio per sparargli. Stavolta non c’è Ruu a salvarlo.

Sente una morsa afferrargli il corpo per farlo muovere, anche se non glielha mai ordinato.

Rotola di lato e le fauci schioccano dove prima cera la sua mano. Fa leva sulle ginocchia per scappare, ma listante dopo Kyrad lo inchioda di nuovo a terra premendogli le zampe sulla schiena. Gli artigli lo graffiano in mezzo alle scapole, affilati, e sente il sapore della polvere in bocca quando lo strill scatta per addentargli la nuca. Trova solo la stoffa del cappuccio e la tira verso di sé, mozzandogli il fiato in un verso strozzato quando la tunica gli affonda nel collo.

Gli si oscura la vista, a corto d’aria, ma continua a divincolarsi, sentendo una ventata di fiato fetido addosso e il concerto di ringhi e denti digrignati a un soffio dall’
orecchio – agita a vuoto le mani, graffiando il terreno e sbucciandosi i gomiti, ma Kyrad non molla la preda: lo strattona di nuovo con violenza e il colletto ruvido gli scortica la pelle sotto al mento.

Sta per morire.

È un pensiero che gli fende la mente col rombo di unastronave in decollo e lui reagisce con altrettanta rapidità: smette di scappare, chiude il pugno attorno a un sasso che trova a tentoni e colpisce, sferrando un colpo alla cieca dietro di sé – poi un altro, più forte.

Sente il naso umido di Kyrad impattare contro le nocche, poi il sasso che si abbatte sulla sua mascella . Un guaito gli perfora i timpani e la pressione su di lui si allenta per una frazione di secondo; Din si rigira sulla schiena e gli assesta un calcio sul petto con tutta la forza che ha.

Kyrad indietreggia di un passo, starnutendo e scrollando il capo in modo convulso, con un taglio superficiale sulla guancia cadente. Din si ritrae frenetico, col cuore che sembra battergli in tutto il corpo e il volto che pulsa e va a fuoco. Annaspa aria calda e tenta di rimettersi in piedi, con le vertigini che gli avvitano la testa, la mano stretta attorno al sasso come se fosse la sua stessa vita.

Listinto è di fuggire, di lasciarsi alle spalle quella creatura orrenda che, adesso, lo sta già di nuovo puntando con occhi incattiviti dal dolore. Din ritrova la terra sotto ai piedi e fa per assecondarlo, con ogni fibra del suo corpo concentrata nelle gambe per correre – ma una mano pesante lo afferra per il cappuccio sbrindellato in modo non molto diverso da Kyr’ad, arrestando il suo scatto e facendogli sbattere la tempia contro il beskar dell’armatura.

«Volevi diventare un Mandaloriano? Allora combatti» gli sibila Azi nell
orecchio, torcendogli la tunica fino a farla diventare quasi un cappio attorno al collo, con laltra mano tesa di fronte a sé a frenare lo strill. «Se non ti ammazza Kyrad lo faccio io. Non ho bisogno di un hut’uun nella Ronda.»

Din si divincola, con un picco dira che gli morde le viscere e il desiderio repentino di avere di nuovo la vibrolama in mano, invece di un semplice sasso. Fa solo in tempo a torcere il collo per fissare il visore buio di Azi con gli occhi offuscati di rabbia e lacrime, prima di venire scagliato di nuovo verso Kyrad.

Incespica e cade carponi, con le ginocchia che cedono come se qualcuno gliele avesse colpite da dietro con un bastone. Le sue mani impattano per terra, con sassolini e spine che perforano la pelle – e il manico della vibrolama ancora attivata, lì a terra, che gli sfiora il braccio, ustionandolo.

Grida, ma lancia il sasso contro Kyrad e afferra l’arma senza neanche sapere cosa sta facendo. Din sa di avere ginocchia e gomiti che bruciano, la schiena che pulsa lungo i graffi dove la tunica si è appiccicata per il sangue e la testa che ondeggia – ma il suo corpo non sente nulla e si muove da solo. Stringe i denti e pianta i piedi a terra, con l’arma puntata dritta davanti a sé.

Lo strill è più guardingo, adesso. Gli gira attorno a distanza di sicurezza, con le sei zampe che poggiano silenziose tra ciuffi d
erba e terra riarsa in una cadenza ipnotica. Scocca occhiate confuse al suo padrone, come aspettando un suo ordine che non tarda ad arrivare, aspro:

«Ke’jurkad, di’kut!»

Kyrad scatta e Din stavolta è pronto, ma non abbastanza rapido: riesce a non farsi atterrare di nuovo, ma la zampata gli sfiora comunque il volto e la lunga coda gli sferza un fianco come una frusta.

Barcolla e gira su se stesso, con larma stretta tra le mani e puntata di fronte a sé. È una difesa inutile, perché Kyrad gli gira attorno tentando di prenderlo alle spalle, costringendolo a muoversi e indietreggiare. Din tira un paio di fendenti a caso, cercando di far indietreggiare lanimale, ma quello si limita a scartare a destra e a manca cercando unapertura, con le fauci grondanti di bava che schioccano sempre più vicine alla sua carne.

Quando la vibrolama trancia di netto un paio di baffi di Kyrad, Din pensa per un istante di poter vincere, di poterlo almeno spaventare. Si rende conto troppo tardi di essere finito con le spalle contro la parete del canyon, in trappola.

Kyrad si acquatta, caricando il balzo, negli occhi la scintilla del cacciatore che ha finalmente braccato la preda.

Din sente qualcosa, dentro di lui, che scatta con la stessa violenza di una vibrolama appena attivata. Sa che non è lui a urlare e lanciarsi in una carica cieca addosso a Kyrad, cogliendolo di sorpresa, e sa che non è lui a gettarsi sul suo dorso e a stringergli convulsamente le braccia attorno al collo, cercando di strangolarlo e costringerlo a terra.

Kyr’ad si impenna, tentando di scrollarselo di dosso, ma Din non molla la presa – è come con Tobo, quando giocavano alla lotta e gli si metteva a cavalcioni sulla schiena. Solo che ora non si limita ad aggrapparsi e farsi sballottare qua e là ridendo, ma incrocia i polsi e serra i gomiti, sentendo il sangue dello strill che pompa sotto la sua stretta e gli artigli che arrancano a vuoto cercando di disarcionarlo, finché la vibrolama nell’altra mano non trova un’apertura e lacera pelle e pelo.

Lo strill ruggisce, si inarca sulle zampe anteriori e sgroppa, facendogli perdere la presa. Din rotola e si rialza subito, mosso da un istinto che gli impedisce di stare fermo, di rimanere a terra, di farsi sbranare come una preda, come il lothrat sventrato a pochi metri da lui, con le viscere riverse nella polvere e gli occhi bianchi.

Kyrad uggiola rannicchiato a terra, passandosi una zampa sullorecchio mozzato. Din gli è di nuovo addosso, con la mano armata pronta a colpire – alla gola, sotto alla mandibola, come quando suo padre sgozzava un nerf: un taglio netto e sicuro per non fargli nemmeno capire cosa stava accadendo.

Il grido che lancia prima di colpire parte dal basso, dal pozzo nero che tenta di inghiottirlo da quando lhanno chiuso in uno scantinato buio – vuole uscire, vuole scappare da là sotto.

«Gev!»

Una morsa gli stritola il polso, così forte che la vibrolama gli cade di mano. Si sente tirare verso lalto e sollevare come se pesasse quanto un ramoscello di veshok, col braccio che si tende dolorosamente. Azi lo allontana di peso dallo strill ferito, rimettendolo bruscamente a terra qualche metro più in là, senza mollargli il polso.

Din sente il sangue bloccato sotto il suo guanto e la mano che perde sensibilità, pizzicandogli le dita. 
Ha un velo sfocato davanti agli occhi e non riesce a rendere nitida limmagine troppo vicina del Mandaloriano. Lelmo blu occupa la sua intera visuale, divorando tutto il resto. Per un istante vuole credere che sia Ruu, anche se sa che non è così.

«Sei un guerriero» dichiara Azi, con la voce profonda che sembra strisciare nel sottosuolo di un luogo buio e umido, accompagnata da un fruscio metallico.

Din batte le palpebre, sentendole appiccicose. Passa la manica libera a pulirle e si rende conto solo ora che è sangue – non il suo, almeno non quello. Lultima parte della frase dellalor risuona in modo più cristallino.

Solo adesso, mettendo a fuoco ciò che vede a tempo coi battiti impazziti del suo cuore, si rende conto che Azi si è tolto lelmo.

Il suo volto è schiacciato: la punta del lungo naso si discosta appena dalle labbra e gli zigomi sono appiattiti, come se si fossero deformati sotto la pressione costante dellelmo. Una cicatrice purpurea gli attraversa in diagonale la bocca. È più vecchio di quanto credesse, coi capelli e la barba rada di un color catrame screziato di grigio e bianco. Ha gli occhi chiari simili a ghiaccio sporco, quello che ricopriva le pozzanghere per strada ad Aq Vetina dopo una nottata di gelo e che veniva calpestato dai passanti fino a diventare fanghiglia.

Forse ha l’età di suo padre, ma nemmeno un briciolo della severità gentile che animava i suoi occhi: in quelli di Azi scorge solo durezza e ferocia trattenuta solo in parte. Se prima ne aveva paura, adesso lo terrorizza. Vuole che si rimetta l’elmo, incastrato tra il suo braccio e l’armatura.

Il Mandaloriano non si abbassa su un ginocchio come fa Ruu: lo fissa dall
alto, sovrastandolo, a ricordargli che potrebbe spezzargli il polso con un semplice scatto della mano e ucciderlo con altrettanta facilità. Din sobbalza, quando allunga laltra mano ad afferrargli rudemente la nuca, tirandogli i capelli, per poi chinarsi a schiacciare la fronte contro la sua e sibilare ununica frase incomprensibile:

«Kyr’tsad kar’tayl gar sa’ad.»

Din inala una zaffata acre sul suo alito, di fumo e tihaar e sangue, vede le pagliuzze più scure nelle iridi di Azi e conta le rughe scavate attorno agli occhi – e lattimo dopo è di nuovo libero di muoversi e respira aria tiepida, pulita.

«Sei un Mandaloriano, adesso.»

Azi si è già rimesso lelmo e si sta allontanando, seguito da Kyrad. Lo strill si volta un paio di volte, come assicurandosi che lui tenga il passo. Din rimane fermo, col fiato corto che a malapena riesce a uscire dal naso prima di rientrarvi. Non si è mai sentito così vivo, ma una parte di lui pensa che forse è morto e la paura si gonfia e contorce come se avesse vita propria – come fosse lei a comandarlo.

Il silenzio del canyon gli pesa addosso, caldo e viscoso. Delle chiazze rossastre macchiano la terra. Poco distante, il cadavere semi divorato del lothrat tende le zampe rigide verso il cielo. Din trattiene un conato.

Ke’taab, adika.

Si aggrappa a quella voce e obbedisce, anche se Ruu non è lì – anche se dovrebbe esserci.

Riprende a marciare, con lividi e graffi che pulsano e una corda di rabbia che gli stritola il cuore.

 



Glossario:
alor: comandante, capo
cabur: guardiano o tutore
di’kut: idiota
gev: fermo, basta.
hut'uun: codardo; insulto molto pesante per un Mandaloriano.

iviin: veloce, sbrigati
jate: bene
kandosii: fantastico, ottimo (lett. "gloria").
K’/ke’: prefisso imperativo che si antepone ai verbi.
Ke’jurkad: attacca (jurkadir: attaccare).
Kyr’tsad kar’tayl gar sa’ad: lett. la Ronda della Morte ti riconosce come figlio. È una storpiatura di mia invenzione della formula d’adozione ufficiale "Ni kar’tayl gar sa’ad" = "Ti riconosco come figlio".
kisiwa: un cereale di mia invenzione, coltivato su Concord Dawn. Per descrivere i campi attorno ad Aq Vetina mi sono ispirata alla fioritura delle lenticchie di Castelluccio.
lothrat: topo/ratto di Loth. Ho preferito mantenere la grafia anglosassone.
nerf: animale domestico di aspetto bovino, allevato per la carne e la pelliccia.
strill: vd. glossario.
veshok: albero tipico di Mandalore e Concord Dawn

Riassunto dei colori citati: ge’tal, vorpan, shi’yayc, ne’tra, saviin, kebiin: rosso, verde, giallo, nero, viola, blu.


Note dell'Autrice:

Cari Lettori,
se siete arrivati fin qui, vi offro un premio per la resistenza :'D
Questo è stato un capitolo difficile da scrivere, ma necessario, perché nella mia testa raccorda mille cose diverse, sia per l'introspezione ed evoluzione di Din, sia per quella di Ruu, sia per lo sviluppo del loro rapporto che, come state vedendo da questi capitoli, non è affatto rose e fiori come poteva forse sembrare all'inizio – anche se ho sempre gettato indizi in merito.
Ho messo il trigger warning dopo averci riflettuto a lungo, ma ho ritenuto corretto avvertire il lettore, considerando cosa succede a Din che, qui, ha otto o nove anni. E considerando che per scrivere la scena del "battesimo forzato" non mi sono sentita affatto a mio agio, e spero che questa sensazione sia passata, perché l'intento era proprio quello.
Detto questo, la pianto di sproloquiare, vi ringrazio per aver letto fin qui e ringrazio tutti coloro che continuano a leggere e seguire la storia ♥
Un abbraccio di beskar,

-Light-

P.S. Fortunelli di EFP, voi vi beccate i capitoli nell'ordine e versione definitiva dopo che ho fatto pace col cervello: sappiate che l'ultima sezione è un inedito totale e su Wattpad dovranno aspettare un'altra settimana ;)




 

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Capitolo 23
*** Episodio 5: La Via – Parte IV ***


 
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Episodio 5
LA VIA

Parte IV


 

 

“C’è solo una Via. La Via di Mandalore.”
— Din Djarin, Figlio della Ronda

 


 

Trent’anni fa, Lothal,
Accampamento della Ronda della Morte


Il mondo ondeggia e traballa attorno a lui.

Din lo sente sobbalzare sotto le suole consunte delle scarpe, come se le bombe stessero di nuovo cadendo su Aq Vetina. Sopra di lui, in lontananza, si ripete il suono delle porte metalliche che sbattono, tagliando fuori la luce polverosa della città. Non sa perché stia vedendo e sentendo quelle cose. Sono passate, sono ricordi; eppure se le ritrova davanti agli occhi.

Non capisce e non sa se sia meglio concentrarsi su quello o sul dolore che pervade il suo corpo come acqua bollente. Non distingue neanche più le singole ferite e lividi. Tenta solo di non perdere di vista la schiena squadrata di Azi davanti a lui. La sua silhouette blu si staglia sopra l’erba della prateria come un silos, quello che a casa usava come punto di riferimento quando si addentrava troppo nei campi di kisiwa. È un confronto che fa male, quindi lo chiude fuori dalla testa, concentrandosi sul suolo dissestato per non inciampare.

Kyr’ad cammina tra loro due, silenzioso. Di tanto in tanto si gira a controllarlo, con l’orecchio mozzato e sanguinolento che si irrigidisce in modo innaturale, per poi riprendere a trottare con la coda che struscia a terra. Din lo ignora. Dovrebbe fargli paura, adesso, ma non riesce a provarne – non riesce a provare niente.

Quando arrivano all’accampamento, Din si blocca: vede Ruu, ma lei non sta guardando nella loro direzione. È in disparte e parlotta con un altro Mandaloriano che non ha mai visto, di cui non riconosce l’elmo bianco e blu. Pensa solo che la sua armatura è strana e troppo leggera in confronto a quelle della Ronda: gli sembra una donna. Quando volta il capo, si trova a fissare gli occhi di un convor dipinti in blu sulla calotta.

La Mandaloriana fa un cenno verso lui e Azi col mento appuntito dell’elmo e Ruu si volta all’istante per poi venire loro incontro a passo spedito, spiccando quasi in una corsa nell’ultimo tratto. Azi la intercetta bruscamente, ringhiando qualcosa di incomprensibile in Mando’a a cui Ruu risponde altrettanto alterata. L’altra Mandaloriana grida qualcosa che somiglia a un comando, attirando l’attenzione di Azi, per poi proseguire inaspettatamente in Basico:

«Muoviti, Pre ti aspetta. Sai che non è paziente.»

Azi esita un istante, poi scosta via Ruu con una spallata e si dirige verso l’altra guerriera.

«Ne kyr jii» le dice a mezza voce, ma ancora ben udibile.

Non finisce qui. Din abbassa lo sguardo a terra, sulle sue scarpe impolverate.

«Ulik’ad!» sente sibilare Ruu, furente, quando l’alor si allontana e sparisce dentro la sua tenda.

Avverte Ruu che si gira verso di lui, ma non alza ancora lo sguardo. Per un solo attimo si sente distante da lì e da tutto quello che è successo: cerca di aggrapparsi a quella sensazione come se potesse sprofondare nel terreno. Quando infine si azzarda ad alzare la testa, si trova a indietreggiare di scatto, raccogliendo le mani al petto come se impugnassero ancora la vibrolama. Sbatte le palpebre e davanti a lui vede solo l’armatura blu di Azi.

È tornato indietro? Perché non l’ha visto?

L
alor Si inginocchia di fronte a lui. Il visore nero a T lo scruta minaccioso, con le infossature dell’elmo sugli zigomi che sembrano diventare più aguzze.

«Din...»

Una mano guantata gli sfiora il polso, lo stesso che gli stava per spezzare prima – Din si risveglia, un attimo prima di sentire la morsa che lo stritola.

«Non mi toccare!»

Balza all’indietro come se gli avesse dato una scossa elettrica. È affannato e non sa nemmeno perché, ma sente l’aria che brucia e diventa solida quando passa nella gola, espandendosi in tutto il corpo e attraverso graffi e lividi. Gli sembra di vedere doppio, ma adesso riesce a mettere meglio a fuoco l’armatura di fronte a lui: è Ruu, la riconosce dal graffio a spirale sulla calotta dell’elmo e dalla voce che, anche se adesso pronuncia solo un mormorio incomprensibile, è morbida e calda.

Non si sente rassicurato, anzi, fa un altro passo indietro, rifuggendo la sua mano che si tende di nuovo. Fissa l
’elmo blu che ha significato fiducia e affidabilità fino a meno di un’ora fa e vorrebbe avere di nuovo la vibrolama in mano – vuole combattere col mondo intero, con Ruu, con Azi, con gli altri Mandaloriani e i droidi e suo padre e sua madre che sono morti e non l’hanno portato con loro.

Quando la guerriera fa per avvicinarsi di nuovo, scaccia via le sue mani e si sottrae alla sua presa.

«Perché non hai fatto niente?!» grida, con una voce che non sapeva di avere e che gli scartavetra la gola.

Afferra il ciondolo in beskar e se lo strappa dal collo, spezzando il legaccio di cuoio e incidendosi la pelle. Non gli importa. Lo getta nella polvere, ai piedi di Ruu. La fissa per un singolo istante, affannato, poi le volta le spalle e schizza via, verso l’erba alta della steppa.

«Din!»

Ignora quel richiamo acuto, già inghiottito dal mare giallastro e scricchiolante. Corre, con gli occhi puntati verso il cielo sempre più scuro e i piedi che urtano sassi e avvallamenti una storta dopo l’altra. Si aspetta di sentire il suono di un blaster o i ringhi di Kyr’ad o le mani di Azi che lo agguantano e lo frantumano e lo fanno a pezzi perché sta scappando e non è un vero Mandaloriano.

L’unico suono è il suo respiro convulso, lo scalpiccio dei suoi passi e il fruscio degli steli spezzati. Sente di tanto in tanto uno zampettare di animali in fuga e vede insetti arancioni che smettono di frinire e balzano via sfiorandogli le gambe. Non si ferma, neanche quando tra l’erba scorge un’ombra, più grande e massiccia che scivola via come uno spettro.

Non si ferma finché la steppa rinsecchita non si apre in una piccola radura, un isolotto di terra riarsa in mezzo a quell’immenso fiume ondeggiante. Una roccia oblunga svetta al suo centro, offrendogli un appoggio mentre cerca di riprendere fiato coi polmoni che vanno a fuoco e la milza che gli invia coltellate. Il suo stomaco cede e si ritrova carponi per terra, scosso da un conato che lo piega in due. Rimette solo bile acre e si lascia cadere contro la roccia con gli occhi che lacrimano per lo sforzo.

Nel cielo ormai buio cerca il profilo del Guerriero, sapendo che non lo troverà. L’intricato tappeto di stelle gli offre solo costellazioni sconosciute in cui non riconosce nulla di familiare, nemmeno tentando di inventarne di nuove.

Si stringe la tunica sullo sterno, strizzando la stoffa tra le dita senza sentire il profilo aguzzo del ciondolo al di sotto. Si pente di averlo gettato via. Si sente nudo e ha freddo, anche se la notte è calda e rivoli di sudore gli incollano i capelli alla fronte. Se la asciuga con la mano e la ritira sporca di sangue.

Ripiega le ginocchia contro il petto e vi poggia il mento, col respiro ancora affannato che non riesce a placarsi, come se avesse qualcosa di vivo dentro al petto che gli ruba tutta l’aria. Non sa cosa gli stia succedendo, vuole solo scacciare via quella cosa estranea che gli impedisce di respirare. Ce l’ha dentro il petto da quando le porte dello scantinato si sono chiuse sopra di lui e gli sembra che diventi sempre più grande, più pesante – lo schiaccia, come Kyr’ad quando lo ha sbattuto nella polvere e Azi quando lo ha afferrato e–

Preme la bocca contro le ginocchia e si tira con uno scatto il cappuccio sopra la testa, creando un’oscurità rassicurante attorno a lui che taglia fuori tutto il resto del mondo. Lì, riesce a scorgere le stelle del Guerriero impresse dietro le palpebre. Cerca di seguirle per scappare dalla vertigini, ma rimane bloccato nello stesso punto, dentro lo scantinato scosso dalle bombe. Vuole scappare, ma non riesce a muoversi, come quella volta.

Vuole che Ruu apra di nuovo quella porta e per portarlo via da lì.


 



Quando Ruu lo trova, Din ha fatto in tempo a elencare più volte in Mando’a tutti i colori attorno a sé, sussurrandoli contro la stoffa della tunica – ge’tal, rosso. Quello lo ripete più volte, soffermandosi sull’ultima sillaba: tal. Vuol dire sangue, come quello secco che ha sulle mani e sul viso.

Alza gli occhi quando sente un tramestio di steli spezzati. La vede subito, aggiungendo un colore alla sua lista: kebiin. Blu, un’ombra che supera gli steli essiccati della steppa e avanza verso di lui.

Davanti a lei c’è Kyr’ad. Din non scatta in piedi come ha fatto qualche ora fa, ma rimane a fissare l’animale coi pugni serrati, mordendosi l’interno della guancia e sentendo scariche elettriche lungo le gambe che gli gridano di riprendere a correre.

«Jate, Kyr’ad. Yaim» ordina seccamente la guerriera, frapponendosi tra lui e lo strill, che zampetta subito via con un uggiolio sommesso.

Din batte le palpebre, solo per un istante – almeno così crede. Ora però Ruu è di fronte a lui, piegata come sempre su un ginocchio per portarsi alla sua altezza. Sulla corazza spicca il ciondolo di beskar che ha gettato via. Trattiene l’impulso di afferrarlo: non sa se è ancora suo.

«Ruu...»

Lei fa un movimento rapido che non riesce a cogliere e subito dopo Din sobbalza, colto da un dolore breve e acuto all’orecchio.

«Non farlo mai più» gli intima lei, con la mano che gli ha appena tirato l’orecchio adagiata sulla sua guancia, improvvisamente delicata.

Non indossa i guanti e c’è qualcosa di strano nella sua voce. Quando parla di nuovo, capisce che sta tremando:

«Non farlo mai più.»

Din non ha controllo sul singhiozzo che gli sfugge dalle labbra, né su tutti i successivi e sulle lacrime che gli inondano le guance. Si alza in piedi e porta di scatto i palmi agli occhi, sfregandoli e premendo così forte da farsi male alle orbite, nel tentativo di ricacciarle indietro e bloccare quell’ondata di sale.

Oltre i singulti che sembrano spezzarlo in due sente un fruscio, un tonfo metallico, poi Ruu gli scosta le mani dal volto. Un mare di treccine lo avvolge quando lo stringe a sé. Din sobbalza e per un attimo vuole di nuovo scappare. Vuole essere ancora arrabbiato con lei, vuole rianimare quella scintilla che gli bruciava il viso e il petto fino a poco fa. Sposta gli occhi sul suo elmo, posato tra i ciuffi d
erba secca – solo allora si arrende e sceglie di confondersi nell’abbraccio.

Cerca di ricordare quello di sua madre: l’impronta fresca di vestiti appena lavati che gli lasciava nel naso, il sentore di farina di kisiwa sulle mani callose, i baci sulla fronte nelle notti di tempesta, i capelli lunghi, neri e lisci come i suoi con cui si divertiva a giocare da piccolo. Tutto ciò che fino a qualche mese fa chiamava casa – ma lui ormai è un Mandaloriano e casa è solo una parola lontana.

Cerca a tentoni il ciondolo di beskar, stringendolo nel pugno e sentendosi un po’ più forte anche solo così, anche se non riesce a smettere di piangere.

«Voglio anch’io un elmo» riesce a dire confusamente, non sa nemmeno perché.

«Così non ti vede nessuno lo stesso, ad’ika» risponde Ruu, come se invece avesse capito tutto.

Lo avvolge più strettamente e gli fa nascondere il viso contro la sua corazza. Solo allora Din smette di combattere per quella che gli sembra la notte intera.



 




«Sei calmo, adesso?»

La voce di Ruu è bassa ma sembra rimbombare nella corazza, dopo quel silenzio infinito rotto solo dal frinire degli insetti. Din annuisce, passandosi la manica sul naso.

«Jate

Non lo scansa né lo trattiene e lui tiene la testa poggiata contro il metallo ormai scaldato dalla sua guancia. Passa ancora un momento, prima che riesca a staccarsi da lei e dal suo tepore. Si trova a incrociare i suoi occhi color miele e lei gli rivolge un sorriso appena accennato. Abbassa lo sguardo: gli sta porgendo il ciondolo in beskar. Lo prende senza nemmeno pensarci, seguendo con le dita il profilo affilato del teschio di mitosauro. Alza fugacemente gli occhi su di lei, incerto su cosa dire.

«Non sono arrabbiata, ad’ika. Mi hai fatto paura, tutto qui.»

«Tu mi hai fatto male» replica lui con voce arrochita, strofinandosi l’orecchio e sentendosi sbagliato nel dirlo.

Azi gli ha fatto male. Gli ha quasi rotto un polso e l’ha scaraventato per terra e ha detto a Kyr’ad di sbranarlo. Voleva ucciderlo. Una tirata d’orecchio in confronto è quasi una carezza – però lo dice lo stesso, risentito, perché lei non l’ha fermato e non ha fatto niente per aiutarlo.

«Scusa» risponde soltanto Ruu, tornando seria. Gli chiude le dita sul ciondolo. «Non perderlo mai.»

Din fa un cenno col capo in silenzio, come ha visto fare spesso ai Mandaloriani. Non ha voglia di parlare. Gli sembra che le lacrime gli abbiano portato via tutte le parole.

Si rigira il ciondolo nei palmi prima di rimetterselo al collo, sotto la tunica che ormai è uno straccio. Ruu gli raddrizza il colletto, sfiorando con una nocca l’escoriazione sulla mandibola, dove la stoffa è affondata con violenza mentre Kyr’ad lo azzannava. Din sobbalza senza volerlo e Ruu gli inclina il viso per vedere meglio la ferita.

«Dove ti fa male?»

Din scuote la testa, distratto. Sente i graffi ancora umidi sulla schiena che tirano e troppi lividi per contarli, molti più di quella volta che è ruzzolato giù da un tetto per aver messo un piede in fallo. Anche quella volta si era rimediato un paio di scappellotti dai suoi genitori. Ripiega le labbra su se stesse, strizzando gli occhi.

Un fruscio più forte degli altri scuote la steppa e si ritrova di nuovo all’erta, con le pupille che corrono di loro volontà verso la direzione in cui si trova l’accampamento, aspettandosi di veder spuntare Azi o Kyr’ad. Tira su col naso, più piano che può.

«L’alor dov’è?»

«È impegnato. Ci penso io a lui» sembra leggergli nel pensiero lei, alzando poi gli occhi rattristati. «Ad’ika, fai sempre quello che ti dice.»

Din non la guarda ma sente il volto indurirsi, con la bocca che si piega verso il basso. Per un momento, gli viene in mente suo padre quando era contrariato per qualcosa. Si chiede se in questo momento gli assomigli. Si gira verso Ruu, senza poter fare nulla per non sembrare arrabbiato.

«Non voglio.»

«Fallo e basta. Io non posso proteggerti, se scappi via così.»

Ruu è sempre pacata, non alza mai la voce: a Din ricorda il vento gentile che soffiava su Concord Dawn d’autunno. Adesso gli sembra solo stanca, ed è peggio di qualsiasi altra cosa.

«Non mi importa.»

«A me sì. Quindi obbedisci a me e all’alor

«Tu non vuoi davvero» ribatte Din a voce più alta, soffiando aria dal naso.

«Io non voglio che ti uccida.» Fa una pausa, lasciando cadere quelle parole pesanti tra loro. «Perché lo farà, se non ti comporti come dovresti

Din lo sa già. Prima lo ha quasi fatto. Alza il mento, sfidando Ruu.

«Come un vero Mandaloriano?»

Ruu lo fissa sgranando appena gli occhi. Lo prende per le spalle, con un’improvvisa energia che lo fa irrigidire.

«Non c’è niente, niente di davvero “mandaloriano” in ciò che ti dice lui. Non è quella, la Via. Non lo è mai stata, né lo sarà mai.»

Din scuote la testa e stringe le sopracciglia in una ruga interrogativa.

«E allora perché lo segui? Perché non te ne vai?»

Ruu inclina un poco la testa di lato, con un velo che va ad appannarle gli occhi. La sua tristezza dura un istante, poi arriccia la fronte e stringe appena la presa sulla stoffa, ritirando la mano macchiata di rosso.

«Togliti la tunica: stai sanguinando» tronca il discorso, esortandolo con un colpetto sul braccio.

Din non si muove, deluso.

«Perché non te ne vai?»

Ruu sospira.

«Perché non posso. Ho un debito con lui.»

Din schiude la bocca per chiedere altro, ma gli occhi cupi di Ruu gli dicono di non insistere ancora, di non oltrepassare quella linea che sembra essersi tracciata tra loro. Obbedisce e si toglie la tunica, sentendo i graffi sulla schiena che adesso sembrano essere diventati più profondi e caldi.

Ruu non parla per tutto il tempo che impiega a disinfettare ogni singolo taglio e sbucciatura con il flacone di bacta che estrae dalla bisaccia. I graffi sulla schiena fanno malissimo, ora, e Din teme di vederla prendere da un momento all’altro il cauterizzatore che le ha visto a volte usare su di sé o sui compagni per le ferite più profonde. Per fortuna, si limita a mettergli solo dei punti a strappo fastidiosi. Alla fine Din si rimette la tunica, anche se ormai è poco più di uno straccio strappato in più punti.

Ruu ripone il bacta al suo posto e passa a ripulirgli il viso dal sangue rappreso con un lembo della sua cappa inumidito dalla borraccia. Attorno a loro hanno iniziato a fluttuare degli strani insetti luminosi che emanano un chiarore azzurrino. Din ne segue i ghirigori nell’aria, dimenticandosi per un momento dov’è e cosa sia successo. Visti così contro il cielo nero, gli sembrano mille altre stelle galleggianti e vorrebbe poterle spostare come vuole lui per rivedere le costellazioni che conosce. Anche così, non saprebbe dove andare.

«Come faccio a capire cosa devo fare per seguire la Via?» si sente chiedere, da molto lontano. «Non basta essere Mandaloriani?»

Ruu finisce di lavargli via una macchia dal sopracciglio, prima di rispondere:

«Cosa ti ha detto Azi?»

Din batte le palpebre, con gli occhi che ancora bruciano di sale e sangue.

«Che adesso sono un Mandaloriano.»

Ruu annuisce, passando a pulirgli i palmi e le unghie spezzate con la bocca tirata in una riga dura.

«E basta?»

«Ha detto anche una cosa in Mando’a che non ho capito» rivela a bassa voce.

Non dice di come Azi lo ha afferrato e ha premuto la fronte contro la sua, facendolo sentire indifeso, incapace di sfuggire a quel contatto non voluto. Sente ancora il puzzo acre di tihaar e fumo in gola. Sente ancora l’impulso che guida la sua mano non più armata verso la gola scoperta dell’alor. Si sente sporco. Sfrega le nocche della mano libera contro i pantaloni come se potesse pulirle, non solo dal sangue.

«Te la ricordi? Sapresti ripeterla?»

Gli echi delle sue parole gli battono ancora contro i timpani, nitidi.

«Kyr’tsad kar’tayl... gai sa’ad» ripete subito, incespicando nella pronuncia.

Il volto di Ruu si paralizza in una maschera di gelo. Lascia andare la cappa e gli stringe le mani così forte da fargli quasi male. Din sobbalza e Ruu gliele lascia di colpo. Al sollievo segue il vuoto, la sensazione di precipitare.

«Sei sicuro? Ti ha detto proprio queste parole?»

La sua voce è affannata, incastrata in gola. Din sente il cuore che inizia a correre come se Kyr’ad gli stesse di nuovo per saltare addosso per sbranarlo. Annuisce e basta, con un tremore incontrollabile che lo scuote da capo a piedi nel vedere gli occhi adesso impauriti di Ruu. Non l’ha mai vista così. Cosa c’è di peggio di quello che è appena successo? Cosa la spaventa così tanto?

«Che vuol dire?» domanda, senza riuscire a trattenere uno stridio nella voce.

«Che adesso sei un Figlio della Ronda.»

Din legge di nuovo la paura negli occhi di Ruu, nel modo in cui il suo volto spigoloso si tende.

Come te?

Non riesce a chiederglielo, perché lei lo stringe a sé senza preavviso, senza un’altra parola. Per un battito Din ha l’istinto violento di urlare, scansarla e scappare di nuovo negli steli alti della prateria – di perdersi nel nulla e non essere più ritrovato perché un
 giorno anche Ruu lo lascerà, come i suoi genitori lo hanno lasciato nella cantina e come Azi lha lasciato nella polvere. 

Invece rimane immobile, con le braccia molli e il volto nascosto tra il suo spallaccio e il collo. Non capisce più niente e fa finta di non essere lì. Di essere ancora su Concord Dawn, ad Aq Vetina. Non ci riesce, perché è tutto troppo diverso. Inala a fondo contro la corazza di Ruu. Sente solo odore di metallo e cuoio, con l’orma ferrosa del suo stesso sangue sullo sfondo. Stringe le dita attorno al ciondolo in beskar e le sente ancora sporche. Non si è mai sentito così stanco, così pronto a raggomitolarsi e non muoversi più.

«Voglio andare a casa.»

Ruu sospira, tirandogli il cappuccio logoro sulla testa. Porta una mano dietro alle sue ginocchia e lo solleva da terra come se non pesasse nulla. È di nuovo un ramoscello di veshok, ma stavolta non è una sensazione spiacevole e non si oppone.

Sotto di lui gli insetti luminosi svolazzano pigri, seguendo rotte imprevedibili come stelle mobili. Alza la testa: guarda il cielo buio e infiammato da miliardi di stelle, senza riconoscerne nessuna. Da qualche parte, lassù, c’è anche Aq Vetina.

«Un giorno ti porto via» sussurra Ruu, premendogli una mano sulla schiena.

Ha il capo reclinato all’indietro: sta guardando anche lei le stelle.

«A casa?»

Lei sospira piano e Din sente il suo petto alzarsi e abbassarsi a tempo col suo.

«In un posto che potrai chiamare casa.»

Din le passa un braccio attorno al collo, sentendo le vertigini a forza di guardare il cielo così lontano.

«Promettilo.»

Quella richiesta si getta fuori dalle sue labbra senza nemmeno dargli il tempo di pensarla. Rimane sospesa tra loro, nel buio punteggiato di lumicini volanti. Ruu lo scosta da sé, tenendolo saldamente. Gli fa alzare il viso con una nocca sotto il mento e lo fissa negli occhi.

«Haat, ijaa, haa’it» mormora, solenne. «È un giuramento, e i Mandaloriani mantengono sempre la parola data.»

Din la fissa negli occhi. Sono lucidi e sulla sua pelle bronzea si scorgono delle striature più scure e umide, che rilucono appena nella luce fioca delle stelle sopra e sotto di loro.

«Allora prometti che vieni anche tu.»

Ruu tace per un lungo secondo che gli risucchia via il cuore dal petto, ma non distoglie lo sguardo.

«Non posso.»

Poi gli si accosta appena, sfiorandogli la fronte con la propria. Din, per un istante, ha l’istinto di ritrarsi – vede Azi, il suo volto glaciale, avverte la stretta dietro la nuca che gli tira i capelli e sente la patina di sangue e sudore sulla pelle – poi le treccine di Ruu gli solleticano le guance, il suo tocco gentile gli sostiene il mento e un velo di frescura si posa contro la sua fronte bollente. Oltre il metallo e il cuoio e il sangue coglie una nota più soffice, di fiori, spezie e calore lontano.

«Ma tornerò sempre, ad’ika, questo te lo prometto. Tu devi solo aspettarmi.»

Din chiude gli occhi pesanti di stanchezza, col profumo di una casa ancora estranea ma un po’ più vicina che lo culla. Il peso nel suo petto diventa più lieve, solo un’ombra indistinta tenuta a bada dal ciondolo in beskar.

«Va bene.»

Si addormenta così, aggrappato a quella promessa che gli fa già da corazza.


 


Glossario:

haat, ijaa, haa'it: lett. "verità, onore, visione". Formula di giuramento.
ulik'ad: bastardo
yaim: casa


Note dell’Autrice:

Cari Lettori, eccoci qui con la diretta continuazione (e finale) di questo lungo flashback.
So che potrebbe sembrare fine a se stesso, ma in realtà cela molti dettagli che diverranno più chiari con gli sviluppi futuri, soprattutto a livello di sviluppo ed evoluzione dei personaggi.
Ovviamente, questa storia non tiene conto della seconda stagione, per questo l'entità dei "Figli della Ronda" si discosterà leggermente da quella presentata nel canone, anche se rimarrà coerente con esso.

Ringrazio di cuore i pochi intrepidi che continuano a leggere e seguire questa storia ♥
Alla prossima, spero con un aggiornamento altrettanto pronto,

-Light-



 

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Capitolo 24
*** Episodio 6: La caccia – Parte I ***


 
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Episodio 6
LA CACCIA

Parte I

 


 
“Nello stomaco di un drago krayt
troverai più cacciatori di perle divorati che perle di krayt.”

— Proverbio di Tatooine

 


 


Mare delle Dune, Tatooine, 9ABY

La sabbia si agitò in gorghi liquidi, abbattendosi poi contro una duna come un’onda contro le scogliere di Zeffo. Le vibrazioni scuotevano il suolo, basse e potenti, a indicare la stazza della creatura che si muoveva in profondità sotto di loro.

Cal distinse un’increspatura più evidente a qualche centinaio di metri, nella vallata ai piedi dello sperone roccioso su cui avevano trovato rifugio. Sembrava che qualcosa nuotasse a gran velocità sotto al deserto. Una protuberanza spinosa emerse per qualche istante fendendo i flutti sabbiosi, simile a una delle tante rocce che costellavano il Mare delle Dune. Scomparve altrettanto rapidamente, accompagnata da un brontolio di tuono.

L’onda di sabbia si affievolì per poi svanire del tutto, lasciando solo un lieve tremore sotterraneo dietro di sé. 
Cal avvertiva ancora limmensa impronta nella Forza del drago krayt, comparabile solo a quella dei giganteschi binog su Bogano. Mentre quelle erano creature placide e innocue, però, il drago krayt emanava anche una tinta feroce e predatoria che gli fece rizzare i peli sulla nuca.

«Questo sarebbe il tuo piano?» sbottò, con voce più stridula di quanto intendesse.

«È unidea che finora ha funzionato.»

Din nemmeno lo guardò, imperturbabile come sempre.

«Abbiamo appena rischiato di essere inghiottiti» obiettò, supportato da un paio di fischi indignati di BD-1, che saltellava nervoso ai loro piedi.

«Devo concordare con Cal» intervenne Cara, fissando corrucciata il punto in cui era sparita la creatura. «Mi sembra un tiro a sabacc, più che un piano.»

A chiudere quellaffermazione, il Bambino emise un versetto più basso del solito, accompagnato dal cipiglio scocciato che non lo abbandonava ormai da tempo. Din sospirò in modo ben udibile.

«Seguire le piste dei Tusken è sicuro e il territorio di caccia del krayt non va oltre queste montagne. Il terreno diventa troppo roccioso.»

«Cosa impedirebbe a quel cacciatore di volare direttamente fin qui?» chiese Cara, sollevando un sopracciglio.

«Quelle» rispose soltanto Din, puntando lindice dietro di loro.

Cal si voltò, osservando le formazioni rocciose alle loro spalle: alte pareti granitiche e argillose emergevano dal deserto come isole attraversate da profondi canyon. Sulla superficie levigata si distinguevano linee più scure e più chiare, a indicare il trascorrere dei millenni. Cime frastagliate e aguzze seghettavano il cielo, probabilmente pronte a franare, e qua e là si slanciavano sottili archi di roccia attraverso cui fischiava il vento torrido. Il suolo allombra delle montagne era compatto e ricoperto da un sottile velo di sabbia.

«Non cè spazio per far atterrare una nave» concluse Cal rivolgendosi a Din, che annuì. «Ma nel Mare delle Dune...»

«... sarebbe come servirla per cena ai draghi krayt: sentirebbero le vibrazioni a cento klick di distanza» completò Din, avviandosi già verso le rocce con uno scricchiolio di sabbia sul terreno duro. «E nessun jetpack ha abbastanza carburante per coprire una distanza così ampia: dovrà addentrarsi qui a piedi o con uno speeder e rischiare di essere divorato. Oppure abbandonare la caccia e attenderci a Mos Eisley.»

Cal storse la bocca a quella risposta, ma non obiettò. Si abbassò e permise a BD-1 di balzargli in spalla, poi fece cenno col capo di avviarsi a Cara, che sembrava ancora piuttosto restia a seguire il piano. Anche a lui non sembrava così ben congegnato, ma piuttosto frutto di un frenetico bisogno di portarsi in salvo, con lombra di quel cacciatore e di conseguenza dellImpero che incombeva sul Bambino.

«Non possiamo sopravvivere a lungo nel deserto» commentò soltanto lex-Ribelle, seguendo infine le orme del Mandaloriano.

Lombra obliqua del canyon li avvolse, stemperando lintenso calore dei soli gemelli ormai vicini allo zenit. Din tacque per qualche secondo prima di rispondere, mentre discendevano una ripida scarpata che franava sotto i loro passi.

«Il popolo della sabbia ha un vecchio debito con me. i Tusken potranno tollerarci per un breve periodo, per poi indicarci le piste sicure verso Mos Pelgo. Da lì potremo contattare Motto e decidere il da farsi per recuperare la Crest

Stavolta, quellaffermazione fu accompagnata da un trillo vivace del Bambino, che si sporse dalla culla osservando il mondo roccioso attorno a loro, subito frenato dalla mano guantata del Mandaloriano per evitare che scavalcasse il bordo.

«Adesso sembra già più un piano» gli concesse Cara. «Potresti anche provare a condividerli, prima di agire» lo rimproverò subito dopo, non poi così scherzosa.

Cal ebbe limpressione che ci fossero dei trascorsi, su quel tema, e scambiò unocchiata con BD-1, che si limitò a roteare le orbite robotiche.

«Non cera tempo per spiegare» tagliò corto Din. «Adesso troviamo i Tusken.»

Cal non intervenne, facendo morire lì la discussione e lasciando al vento teso lultima parola. I granelli di sabbia gli si posavano sul viso e tra i capelli, fastidiosi, e il baluginio dei soli lo accecava quando non cerano le rocce a ripararli.

Fu un cammino tortuoso, reso massacrante dal caldo e dal terreno accidentato su cui avanzavano. Il Mandaloriano sembrava orientarsi senza difficoltà nel dedalo roccioso, fermandosi solo di tanto in tanto, come in ascolto degli smottamenti e scricchiolii del canyon attorno a loro.

«Ci siamo» disse infine, arrestandosi di colpo dopo aver superato un varco piuttosto stretto.

Davanti a loro, si susseguivano onde solide di roccia che davano limpressione di trovarsi in un vero e proprio Mare delle Dune, circondato da costoni ripidi e spogli.

Cal notò qualcosa giusto alluscita del passaggio sabbioso che avevano appena attraversato, in una zona di terreno più sabbiosa. Si accovacciò sui talloni, osservando la strana montagnola di rocce lucenti impilate in una piramide, di certo da mano umana. Erano di forma sferica, leggermente rosate; avrebbe potuto stringere le più piccole tra due dita, mentre avrebbe dovuto usare entrambe le mani per sollevare le più grandi.

«Non toccarle. È la tomba di un bantha» gli intimò Din, mentre si guardava attorno.

Cal, sebbene incuriosito, seguì il suggerimento, cogliendo un sottotono ammonitore. Lasciò che fosse BD a scannerizzarle a distanza. Perle di krayt, apparve nellologramma informativo che proiettò a mezzaria: preziosissime, a quanto pareva e... prodotte in un modo che avrebbe fatto volentieri a meno di conoscere.

«Ugh. La gente rischia la vita per questa roba?» commentò, allontanandosi con lieve ribrezzo, rispecchiato dai cigolii tremolanti di BD.

«I cacciatori di krayt sì. I Tusken preferiscono il metodo più sporco, ma più sicuro» commentò vago Din.

«Credo che preferirei affrontare un krayt, piuttosto che frugare nei suoi escrementi in cerca di perle..» arricciò il naso Cal.

«Non hai mai visto un krayt» ribatté lui, gli sembrò con unombra divertita nella voce ovattata dal casco.

Cal sorrise, per poi sobbalzare nel percepire un pizzicore nella Forza. Portò la mano allelsa della spada; in quel momento, un acciottolio riecheggiò tra le pareti rocciose, mettendo in allarme anche Din e Cara. La culla si chiuse con un sibilo.

Cal alzò lo sguardo, seguendo la percezione come se un filo lo stesse tirando verso la fonte del pericolo. Due sagome brune e incappucciate si stagliarono su un sentiero quasi invisibile sulla cima dei costoni rocciosi, accompagnate dal riflesso della luce sulle lunghe canne dei fucili.

Predoni Tusken.

Cal serrò la presa sullelsa, imitato da Cara con il suo blaster. Il Mandaloriano fece un brusco gesto, tagliando laria col palmo.

«Niente armi.»

Avanzò poi di qualche passo, portò le dita ai comandi esterni dellelmo e gridò qualcosa che assomigliò al verso rauco e gutturale di un Ithoriano, amplificato dal modulatore. Una risposta altrettanto incomprensibile riecheggiò nellaria tersa, seguita da un tramestio di passi.

Altri Tusken parvero sbucare dal nulla attorno a loro. Cal li percepì solo ora, tanto erano fusi con lessenza stessa del deserto e col suo respiro silenzioso. Erano esattamente come li aveva immaginati dai racconti: completamente avvolti da vesti color sabbia, con il capo spinato fasciato da bende da cui sbucavano unicamente gli occhiali sporgenti e la maschera filtra-umidità. Delle bandoliere fasciavano loro il petto e molti portavano un lungo maglio dallaria letale sulla schiena.

Si assembrarono rapidi attorno a loro, borbottando sottovoce, ma apparentemente senza intenzioni ostili. Un paio di massiff dai dorsi spinosi si avvicinarono, annusandoli incuriositi coi loro musi da rettile. Sia Cal che Cara li lasciarono fare, permettendo sia a loro che ai Tusken di constatare le loro intenzioni pacifiche.

Con sua sorpresa, Din si abbassò invece su un ginocchio, dando una pacca sulla mascella di un massiff e rimediandosi una lieve testata entusiasta contro lelmo. Un Tusken parve commentare la cosa, per poi prendere a comunicare a larghi gesti con Mandaloriano in quella che sembrava una vera e propria lingua.

Din si rialzò e rispose allo stesso modo, più lentamente. Cal e Cara si scambiarono unocchiata, memori dellavvertimento del compagno, ed evitarono di interrompere quello scambio serrato.

Din mostrò loro il Bambino, aprendo la culla con evidente riluttanza e dopo più richieste da parte loro. Dopo un primo momento di curiosità, gli dedicarono la stessa attenzione che avrebbero rivolto allennesima roccia del deserto.

Il Tusken più loquace indicò dun tratto lelmo di Din, al che lui rispose segnando una netta croce a mezzaria e scuotendo la testa, in una risposta inequivocabile. Il Tusken ripetè il gesto e stavolta Din si limitò a indicare lui di rimando, in particolare le bende che gli coprivano il capo. Laltro parve sorpreso, confabulò brevemente con un suo compagno e poi annuì, abbattendo al contempo il pugno nel palmo.

Cal sobbalzò quando un vociare quasi assordante si levò dagli altri Tusken e trattenne a stento listinto di toccare la spada laser. I Tusken, però, non fecero altro che sciogliere i ranghi. Quello che aveva parlato fece un ultimo gesto, agitando velocemente le dita dal basso quasi fossero fili derba e portando infine la mano al petto, a destra. Poi sembrò indicare loro di seguirlo.

«Siamo sotto la loro protezione, per ora» annunciò loro Din, di nuovo in Basico. «QQahme,» accennò al predone con cui aveva interagito, «è il Tusken che ho salvato da un Imperiale anni fa.»

«Sono più pacifici di quanto credessi» commentò Cara, liberando un sospiro sollevato.

«Più o meno. Hanno chiesto il mio beskar come pagamento aggiuntivo per voi» rispose Din, scrollando le spalle. «La trattativa poteva finire male, ma gli ho spiegato che per noi Mandaloriani è sacro quanto le loro vesti. Ha funzionato.»

«Meglio per noi» sbuffò Cal, seguendo i predoni attraverso una spaccatura nella roccia che non avrebbe altrimenti mai notato. «Dove hai imparato il Tusken?»

Din, come spesso accadeva, non rispose subito, come se stesse cercando di comporre la risposta più breve possibile.

«Ho viaggiato spesso su Tatooine.»

Cal annuì, senza indagare oltre, e abbassò lo sguardo: il massiff di prima trotterellava accanto al Mandaloriano, tenendo il suo passo.

«A quanto pare gli piaci» sorrise Cara. «È raro che si affezionino.»

«Avevo un massiff, da bambino» rispose lui, quasi sovrappensiero.

Parve rendersi conto di aver rivelato uninformazione su di sé, perché accelerò di poco il passo, accostandosi alla culla e rivolgendo la sua attenzione al Bambino, che era ancora piuttosto propenso a ignorarlo.

Cal non ritenne opportuno indagare oltre e Cara non insistette.

Din Djarin aveva le sue ombre, come tutti loro – e anche per tutti loro cera stato un tempo in cui non erano stati guerrieri, Jedi o Mandaloriani, ma soltanto bambini. A dispetto delle corazze e delle apparenze, era naturale che a volte dei frammenti della loro vecchia vita riaffiorassero: pronunciarli ad alta voce era un modo come un altro per non dimenticarsi chi erano stati. Valeva per lui, nel ripensare a quando era ancora un giovane padawan, e valeva anche per Din e Cara.

«Dove ci stanno portando?» chiese Cara, dopo una decina di minuti di marcia serrata.

«Al "Cuore del Deserto"» rispose in modo criptico Din.

«Sarebbe?» incalzò Cara.

«Il mio Tusken è arrugginito. Non ho capito esattamente cosa intendano, ma hanno detto che “nessun cacciatore si avvicinerebbe lì”.»

«Perché noi dovremmo, allora?» intervenne Cal, sospettoso.

La situazione cominciava a non piacergli: l
ultima volta che si era avvicinato a un luogo evitato da tutti, su Dathomir, si era trovato intrappolato in un inferno mortale di trappole e nemici determinati a ucciderlo. Rallentò leggermente il passo, per poi rendersi conto che altri predoni avanzavano dietro di loro nella fenditura rocciosa, sbarrando il cammino. BD emise un fievole squittio allarmato.

«I Tusken sono un popolo di parola» ribatté Din, con un velo dirritazione. «Non ci tradiranno.»

«Se avessero voluto ucciderci, lavrebbero già fatto» osservò Cara, sollevando le sopracciglia e rivolgendogli furbamente le stesse parole che aveva usato lui con loro nelle miniere di Kaha.

Cal sbuffò dal naso cedendo il punto a malincuore, affatto rassicurato. Continuò a seguirli in silenzio, tenendo per sé i suoi dubbi mentre i soli gemelli di Tatooine cominciavano a tramontare.

Un fremito nella Forza gli fece pizzicare i polpastrelli: aveva un brutto presentimento.


 

Un fremito nella Forza gli fece pizzicare i polpastrelli: aveva un brutto presentimento


 



Glossario:
binog: enorme creatura anfibia nativa di Bogano. Può vivere millenni ed è considerata sacra.
drago krayt: gigantesco rettile che vive nelle profondità sabbiose del Mare delle Dune su Tatooine. Inghiotte sassi per favorire la digestione e questi, levigati dai succhi gastrici e poi espulsi, si trasformano in perle preziose.
massiff: già citato in precedenza, rettile quadrupede utilizzato come animale da guardia. Il fatto che Din ne avesse uno da piccolo è un mio headcanon per spiegare perché ne accarezzi uno nella seconda stagione.
Tusken: anche chiamato "popolo del deserto", sono per lo più predoni che rifuggono contatti con gli umani se non quando strettamente necessari. Non rimuovono mai le bende con cui si coprono. Venerano il deserto e i bantha e lo conoscono meglio di chiunque altro.

Note dell’Autore:

Salve, cari Lettori, e un tardivo Buon Natale e tutti voi!

Avrei voluto pubblicare il 25, ma mi sono trovata a sperimentare l’ebrezza di lavorare quasi 24/7 nel periodo natalizio, quindi il tempo è stato quello che è stato. Conto però di aggiornare nuovamente prima dell’uscita di The Book of Boba, quindi a brevissimo ;)
Il capitolo è revisionato un po’ al volo perché adesso mi interessa terminare quest’episodio, ma ci tornerò sicuramente su.

È un capitolo di raccordo, me ne rendo conto... ma a me era rimasto qui il vedermi soffiare l’idea del drago krayt dalla seconda stagione di The Mandalorian, quindi ho voluto almeno inserirlo marginalmente ♥ (o forse non marginalmente? Lo scoprirete solo leggendo).
Per chi dovesse avere una memoria di beskar, qui si spiega finalmente perché Ruu sia schifata nel vedere delle perle di krayt in una cantina su Coruscant nell’episodio "Tracce" :’)

Dal prossimo capitolo entriamo nel finale di stagione!
A prestissimo,

-Light-

 

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Capitolo 25
*** Episodio 6: La caccia – Parte II ***


 
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Episodio 7
LA CACCIA

Parte II

 




 
“Le tribù si sono disperse, distanti l’una dall’altra,
ma sono tutte dei Sabbipodi
e tutte onorano la terra che le accoglie.”

— Frammento di storia Tusken




 

 

 

 

 

Desolazione dello Jundland-Mare delle Dune, Tatooine

Sui Tusken, Cara aveva sentito solo leggende e voci di spazioporto, nessuna di queste positiva. Erano predoni spietati, le cui sanguinose razzie ai danni dei coloni di Tatooine facevano scalpore anche a parsec di distanza – e viceversa, quando i coltivatori di umidità decidevano di vendicarsi dei torti subiti. 

Si diceva anche che nascessero dalla sabbia stessa assieme a un bantha, da cui non si separavano per il resto della vita, che non avessero bisogno d’acqua per sopravvivere e che anche i più grandi guerrieri giravano alla larga da un Tusken armato di un gaderffi – il lungo bastone da combattimento che, anche ora, baluginava al sole sulle loro schiene.

A sentirne parlare, erano un popolo guerriero simile Mandaloriani, ma allo stesso tempo profondamente diverso. Sembravano più schivi e selvatici, estranei alle guerre di proporzione galattica e guidati da codici di comportamento forse ancora più stringenti di chi seguiva la Via e il Credo.

Non se ne stupiva, considerando il pianeta ostico su cui vivevano, che sembrava già volersi scrollare di dosso chiunque cercasse di abitare le sue distese aride e infuocate con ogni tipo di avversità.

Ora che li vedeva di persona, non aveva dubbi sulla veridicità di quelle voci: se Mando non avesse avuto quel debito di sangue con uno di loro, probabilmente li avrebbero attaccati, uccisi e depredati, per poi lanciare i loro corpi in una delle tante fosse sabbiose di Tatooine.

Non sapeva se la totale neutralità con cui il Mandaloriano interagiva con loro fosse dettata dal suo Credo, che accoglieva qualunque popolo e specie senza distinzioni, o da un’ingenuità di fondo – ma Cara fu lieta che avesse salvato quel Tusken, anni prima, e che fosse in grado di comunicare con loro.

Per quanto enigmatica fosse la loro destinazione, adesso stavano attraversando i territori più insidiosi di Tatooine accompagnati dalle migliori guide possibili.

Il susseguirsi aspro di canyon e archi della Desolazione dello Jundland stava pian piano lasciando il posto a un terreno più aperto, man mano che discendevano nuovamente verso le piane sabbiose del Mare delle Dune, seguendo il lento calare dei soli.

Il cielo iniziava a tingersi di porpora, quando arrivarono ad avanzare sulle pendici di una mesa. Le pareti verticali s’innalzavano per centinaia di metri accanto a loro e sprofondavano per altrettanti verso gli immensi gorghi di sabbia sottostanti.

I Tusken si muovevano senza timore lungo lo stretto sentiero, con più agilità di quanta ne avrebbe avuta un dewback con quattro zampe. Dove passavano loro, neanche un sassolino precipitava verso l’abisso; lei, Mando e Cal, sebbene fossero combattenti ormai veterani abituati a muoversi sui terreni più impervi, non riuscivano comunque ad avere la medesima agilità nel camminare su una strada che loro battevano forse da millenni.

Infine, quando un unico sole era ancora sopra l’orizzonte, si fermarono su un piccolo pianoro che aggettava sul Mare delle Dune, distaccandosi dalla mesa. Oltre il ciglio dello sperone, la sabbia continuava ad agitarsi in mulinelli costanti, come se fosse viva.

Dei complessi cavernosi sembravano aprirsi in quel punto e alcuni Tusken si addentrarono nelle piccole grotte. Erano dei rifugi stabili, a giudicare dal terreno molto battuto e dalle grezze suppellettili che si intravedevano all’interno.

Cara scambiò un’occhiata con Mando, che già aveva voltato l’elmo nella sua direzione: dopo Awath, nessuno dei due era entusiasta all’idea di infilarsi di nuovo sottoterra.

Cal sembrava dello stesso avviso, considerando la smorfia che fece in risposta al sibilo robotico di BD-1, intento a zompettare nei pressi delle caverne con lo scanner attivato. Cal girò sul posto in modo nervoso, con gli occhi che scattavano qua e là a scandagliare la zona: Cara ormai sapeva che riusciva a percepire molto più di quanto fosse visibile all’occhio, ma non gli sembrò ancora allarmato.

«Sembra abbastanza isolato» commentò quindi a mezza voce mentre Mando si guardava attorno a falcate lente, come faceva spesso quando giungevano in un nuovo posto.

La culla lo seguiva passo passo, col Bambino che, ormai, iniziava a cedere al sonno.

«Qui dovremmo essere quasi invisibili anche da una nave» disse lui, ruotando il capo verso l’alto per verificare l’angolazione delle rocce più sporgenti.

«Bene. Siamo arrivati o è solo una tappa?»

Mando non rispose, perché venne approcciato da un Tusken. Cara non seppe dire se fosse lo stesso di prima o meno, ma presero di nuovo a parlare a gesti, in quel modo a lei incomprensibile.

Cercò comunque di seguire il filo del discorso e intuì, dal modo in cui indicò più volte il terreno coi palmi, che Mando stesse chiedendo dove fossero. Il Tusken rispose in modo già visto: agitò le dita dal basso verso l’alto, come fossero tentacoli, e portò il pugno sulla destra del petto.

«Q’Qahme dice che siamo arrivati nel... 
sul “Cuore del Deserto”» si corresse Mando, quando il Tusken ripeté con più veemenza un gesto verticale.

Cara si guardò attorno: a parte la 
mesa su cui si trovavano, non più alta di quelle che circondavano Mos Eisley e gli altri spazioporti di Tatooine, nulla di quel luogo suggeriva una qualche particolarità evidente.

Q’Qahme parve percepire la sua perplessità, perché le fece improvvisamente cenno di avvicinarsi con entrambe le mani, per poi indicare il ciglio del costone roccioso. Cara allargò un poco gli occhi, sorpresa e ancora non del tutto propensa a fidarsi di un Tusken – non voleva nemmeno offenderlo, col rischio di turbare quella pace precaria.

«Assecondalo» esalò Mando, a malapena udibile e muovendo per primo un passo verso di lui.

Cara lo imitò, portandosi con cautela a un passo dal precipizio, sul bordo del quale QQahme si muoveva con la stessa naturalezza che sulla terra solida. Puntò lindice fasciato da bende verso il basso, dove i flutti sabbiosi ondeggiavano pigri, smossi dai perenni smottamenti sotterranei delle dune.

Cara strizzò gli occhi, senza vedere niente di insolito nella luce morente del crepuscolo.

Il Tusken indicò gli occhialoni che sporgevano dalle sue bende e articolò qualcosa di inintelligibile nella sua lingua raschiante e gutturale, a cui Mando reagì inclinando il capo in un moto incuriosito.

«Dice di guardare bene» scrollò le spalle, tornando a puntare il visore verso il basso.

«Io non vedo niente di...»

Cara si interruppe, battendo le palpebre. Pensò che fosse stata unombra insolita, data dallinclinazione dellultimo sole che stava scomparendo allorizzonte. Poi lo vide di nuovo: un guizzo appena sotto la superficie della sabbia, troppo rapido per essere semplicemente il moto ondoso naturale del Mare delle Dune. Ne vide altri, anche molto distanziati e scorse per un istante quello che le sembrò una liana rosea e carnosa.

Da quel dettaglio, Cara allargò lo sguardo a tutta la piana desertica, cogliendo solo ora ciò che stava vedendo: non erano le dune a muoversi assecondando i venti e la gravità, ma qualcosa di vivo e colossale celato appena al di sotto.

«Un sarlacc» disse Cara, a bassa voce.

«Un sarlacc dormiente» aggiunse Cal, ora dietro di loro.

BD-1, appollaiato sulla spalla, proiettò degli ologrammi con dei dati zoologici che mostravano la gigantesca mole sotterranea dellanimale.

«La sabbia si è accumulata nel corso dei millenni e ha ostruito il pozzo in cui si è annidato, ma è ancora vivo. Lo avverto nella Forza.»

«Ora è chiaro perché nessuno si avvicina qui» osservò Cara, ancora ipnotizzata dalle spirali di sabbia smosse dal lento contorcersi della creatura.

«I Tusken li difendono. È un luogo sacro.» replicò Mando.

Cara volse lo sguardo ai loro accompagnatori. Anche QQahme fissava la distesa sottostante, in un modo che sembrava contenere anche un tacito rispetto: aveva le mani giunte in grembo, in una posa insolita per un Tusken sempre in assetto di guerra. Anche i suoi compagni si erano fermati vicino al ciglio del burrone e fissavano la dimora celata del sarlacc, chi in piedi, chi seduto, chi in ginocchio. Gli ultimi raggi di luce si tuffavano oltre le alture in lontananza, stagliando lunghe ombre che ben presto scomparvero.

Il vento calmo del deserto portava con sé la calura delle rocce, mentre laria già iniziava a rinfrescare portando con sé le gelide notti di Tatooine.

Cara provò, per un momento, la stessa pace che aveva provato su Sorgan, quando riposava accanto alle vasche del krill dopo una giornata di incontri sul ring e i crostacei emanavano una luce bluastra illuminando la notte. La stessa pace che in unaltra vita aveva cercato su Alderaan, nel silenzio terso dei boschi montani e nel fragore cristallino delle cascate che esplorava con suo fratello da bambina.

Non avrebbe mai creduto di poter trovare una scaglia di quei ricordi e di quella pace lì, nel deserto remoto di Tatooine. Anche Mando e Cal fissavano il deserto, ognuno perso nei suoi pensieri, per un momento lontani dalla fuga e dalle loro missioni. Persino il Bambino si era assopito, con una piccola mano stretta a pugno attorno al mantello di Mando, in quello che forse era un piccolo perdono.

QQahme ruppe il raccoglimento con un verso breve e insolitamente pacato; fece un gesto a Mando spingendo entrambi i palmi verso lalto e lui annuì, seguendolo verso il resto del gruppo.

Pochi minuti dopo, un fuoco schermato scoppiettava in una delle caverne. Il fumo veniva aspirato dalle correnti interne e rigettato fuori chissà dove attraverso i cunicoli sotterranei, rendendolo di fatto invisibile se non guardando dallangolazione e altezza giusta.

Seduti attorno al fuoco, Cara e gli altri stettero ad ascoltare il deserto e i Tusken che, secondo il poco che riusciva a capire Mando, raccontavano leggende sui sarlacc. Di come il “Cuore del Deserto
” fosse il primo sarlacc di Tatooine e che sarebbe stato l’ultimo a morire – e allora sarebbero morti anche i Tusken e il pianeta stesso. 

Del Tusken che aveva esplorato un sarlacc morto, scoprendone per primo la vastità sotterranea. Dei mille e più “cacciatori eretici
” che avevano tentato di abbatterli, fallendo. Dei sacrifici che il loro popolo aveva compiuto per placarne l’ira; di chi era caduto nelle loro fauci ed era perito e dei pochissimi che, invece, erano sopravvissuti e ne portavano le cicatrici indelebili.

Cara ascoltava a tratti i borbottii gutturali dei Tusken, a tratti Mando che traduceva qua e là ciò che riusciva a cogliere. Dopo svariate storie, fu invitato lui stesso a raccontare qualcosa dei suoi viaggi. Cara e Cal si scambiarono un sorriso divertito, nel vederlo al centro di quel palcoscenico improvvisato mentre cercava di narrare – un po in Basico, un po a gesti, un po in Tusken – lepisodio della caccia al mudhorn.

Alla fine, quando rivelò che i Jawa avevano mangiato luovo di mudhorn che aveva così faticosamente recuperato per loro, Cara si poté annoverare tra i pochissimi individui nella Galassia ad aver sentito la risata di un Tusken, sorprendentemente acuta e singhiozzante.

Rise anche lei, assieme a Cal e forse Mando, e non notò subito che qualcosa non andava: una delle ombre attorno al fuoco, quella del Tusken di guardia allingresso, era sparita. 

Se ne accorse solo quando Cal balzò in piedi e uno schiocco le ferì lorecchio, seguito da un clangore metallico. Subito dopo, il ronzio di una spada laser sovrastò le grida dei Tusken, mentre una vampata di gas lacrimogeno fuoriusciva da una granata ai loro piedi, tra il caos di Tusken che imbracciavano le armi – anche lei scattò col blaster spianato, tentando di coprirsi gli occhi lacrimanti.

Il rampino che aveva arpionato la culla, trascinandola verso luscita, cadde reciso a terra dalla spada di Cal. La culla roteò a mezzaria, chiudendosi subito, e Mando scattò in avanti per recuperarla.

Una mano più rapida la afferrò, tirandola a sé fuori portata.

Mando si immobilizzò, il blaster puntato verso la sagoma che iniziava a distinguersi nel cono di luce: un Mandaloriano in armatura rossa e verde si stagliava nellingresso, col visore a T puntato in quello dellavversario. Sembrò fare un cenno col capo, quasi un saluto.

Din fece appena in tempo ad avanzare di un passo verso di lui, che quello decollò con un ruggito di fiamme, portando con sé la culla.



 

Din fece appena in tempo ad avanzare di un passo verso di lui, che quello decollò con un ruggito di fiamme, portando con sé la culla


 


Note dell’Autrice:

Cari Lettori!

Mi ero ripromessa di non fare digressioni sui Tusken and yet here we are. Nell’universo espanso hanno approfondito moltissimo i loro usi e i loro costumi – io, come mio solito, ho preso un po’ di tutto e ho aggiunto del mio. Spero apprezziate – ma so benissimo che avete occhi solo per il finale del capitolo, come è giusto che sia!
Come vi avevo accennato, qui si entra nella fase finale e non potevo non buttarci in mezzo Boba e un bel sarlacc per fare un po’ d’atmosfera (certo, ma ricordate il principio della pistola di Čechov :D). Insomma, ne vedremo delle belle.

Ho anche deciso di dedicare un (ultimo) capitolo al PoV Cara. Ho sbollito lo sdegno per lo scandalo (pur non giustificando nulla e rimanendo delle mie idee) e sono riuscita a separare attrice e personaggio. Spero che vi abbia fatto piacere ritrovarla ♥
Alla prossima,

-Light-

P.S. Quando ho scritto il capitolo NON avevo ancora visto il primo episodio di The Book of Boba... diciamo che ora i Tusken mi fanno molto comodo ahahah
 

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Capitolo 26
*** Episodio 6: La caccia – Parte III ***


 

 
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Episodio 6
LA CACCIA

Parte III



“Il solo nome di Fett sarebbe in grado
di far scappare ogni taglia nel raggio di cento parsec
dritta verso le Regioni Ignote.
E non servirebbe comunque a sfuggirgli”

— Bossk, cacciatore di taglie Trandoshano,
sul suo ex-collega Boba Fett


 

 

 

Su Tatooine, la notte era sempre limpida e illuminata da almeno due delle sue tre lune: le falci di Ghomrassen e Guermessa brillavano feroci nel cielo, quasi accecanti, disegnando ombre spigolose tra i crepacci scoscesi. Boba individuò senza difficoltà il suo speeder, accostato a una roccia sul limitare del Mare delle Dune – ben lontano dalle spire letali del sarlacc e alla fine della pista dei Tusken che attraversava i territori dei draghi krayt.

La culla lo impacciava e iniziò la discesa verso il suolo tenendola stretta contro la corazza. Avvertiva dei tenui movimenti all’interno, come se il Bambino stesse prendendo a pugni il duraplast del coperchio.

Dietro di sé, colse il sibilo di un altro jetpack. Diede gas, perdendo ancora quota fino a sfiorare il profilo della mesa sacra ai Tusken e zigzagando tra macigni, archi e speroni rocciosi. Si tuffò infine oltre lo strapiombo, raddrizzandosi di colpo per frenare l’impeto e atterrare saldamente a pochi metri dallo speeder.

Lasciò andare la culla e si voltò afferrando la carabina dalla spalla. Centrò subito nel mirino il guizzo argenteo di Din Djarin all’inseguimento e trattenne il respiro. Premette il grilletto e blaster colpì precisamente il gambale dell’armatura, mandando in un breve avvitamento l’avversario.

Approfittò di quell’attimo e assicurò la culla al portapacchi dello speeder, voltandosi a sparare ancora una volta prima di salirvi – non ne ebbe il tempo, perché Djarin non deviò e impattò a rotta di collo contro di lui, spedendoli entrambi a schiantarsi contro la roccia alle loro spalle.

Il clangore del beskar e del durasteel ruppe la quiete del deserto.

Boba stramazzò a terra e non trattenne un gemito nel cozzare l’elmo contro la superficie irregolare. Udì l’eco del Mandaloriano, altrettanto stordito dall’urto, che barcollava alla cieca per rimettersi in piedi.

Riaprì gli occhi su una scena che gli rimase impressa nelle pupille, nella frenesia della battaglia: le lune di Tatooine illuminavano la vallata rocciosa con ombre aguzze. In lontananza, il brillio ben noto e odiato di una spada laser fendeva l’oscurità dei canyon.

Lo Jedi e la Ribelle sembravano diretti lì, verso il suo speeder – verso la sua taglia.

Erano inseguiti dai Tusken, in un concerto di grida assordanti e spari. Si erano rivoltati contro di loro – forse nel vedere quell’arma spaventosa, oggetto di leggende terribili, forse perché avevano osato turbare la quiete sacra di quel luogo – e li stavano respingendo a colpi di gaffi e fucili cycler.

Spari, urla, ringhi di massiff e il riverbero elettrico della spada laser spezzavano il silenzio altrimenti assoluto del deserto. Una parte di lui rimpianse di non poter affrontare faccia a faccia lo Jedi. L’altra, più saggia, ringraziò i Sabbipodi e la loro ferocia per facilitargli l’incarico.

Tornò con la testa nello scontro, schivando un colpo di blaster di Djarin che frantumò la roccia accanto a lui. Lo vide girarsi di colpo per afferrare la culla, ma non glielo permise.

Si sollevò su un ginocchio, attivando il lanciamissili miniaturizzato. Uno sciame di razzi decollò dagli alloggi con scie di fuoco, impattando con sprazzi di scintille contro il beskar nemico. Vide Djarin barcollare, poi udì un clic secco.

Un sibilo acuto lacerò l’aria: oltre il fumo, uno stormo di proiettili argentei si avvitò fulmineo, stridendo come falchi urlatori in picchiata verso di lui.

Sibilanti. Boba si gettò a terra, incassando la testa tra le braccia, i guanti incrociati a schermare la nuca e le ginocchia al petto, esponendo all’attacco solo la schiena ben protetta dal jetpack e dal durasteel.

Una tempesta metallica si abbatté su di lui, tintinnando argentina contro il metallo. Un sibilante affondò in un interstizio dell’armatura sul gomito e un altro alla base della coscia, lacerando tessuto e ustionandogli pelle, ma non affondò abbastanza da intaccare la carne. L’odore acre di bruciato gli risalì fino alle narici, ma ignorò la stilettata di dolore e balzò in piedi, intercettando il colpo di vibrolama diretto alle sue dita.

Il filo sfrigolante dell’arma si abbatté sulle nocche rinforzate dei guanti. – con un lampo rosso, avvertì un dito che si insaccava. Avanzò di un passo e speronò l’avversario con tutto il proprio peso, sbalzandolo indietro il tanto che bastava per riacquistare spazio attorno a sé.

Djarin sbatté contro la roccia, lasciandogli un istante di respiro. Boba afferrò la carabina, facendo per puntarla contro lo Jedi e la Ribelle ora accerchiati dai Tusken, ma fu costretto a parare col fucile un altro fendente diretto alla base del collo.

Ringhiò, gettandosi di nuovo nello scontro – non poteva occuparsi della taglia finché Djarin era in piedi o in vita.

Lo rispedì indietro con uno spintone, aggiungendo una vampata del lanciafiamme per guadagnare tempo, ma il beskar puro della sua armatura e la tuta di volo ignifuga resero inutile l’attacco. Djarin attraversò il fuoco e lo afferrò di scatto per le spalle, agganciando le dita sotto la corazza. Attivò per pochi istanti il jetpack a piena potenza, sbalzando entrambi da terra e facendoli ruzzolare lungo una ripida scarpata appena dietro di loro. 

Boba imprecò silenziosamente: gli aveva fatto perdere di vista lo speeder e la culla, lasciandola alla mercé dei suoi avversari.

Oltre il crinale udiva ancora lo scontro serrato tra i Tusken e i due guerrieri, col suono stribulo dei blaster deviati da una spada laser. Molto più vicino, udì un ringhio minaccioso. Alzò lo sguardo, inquadrando un massif di stazza considerevole che si slanciava verso di loro.

Bene. Alzò il pugno, contraendo in modo quasi doloroso la gola per impartirgli uno dei pochi comandi che ricordava dalla sua breve permanenza coi Tusken – quando lo udì alle sue spalle, pronunciato con altrettanta forza dal Mandaloriano:

«Urk!»

Il massiff si arrestò in un ventaglio di brecciolino ed esitò un singolo istante, confuso, gli aculei sul dorso che vibravano. Poi voltò il capo si avventò su di lui a fauci spalancate. Boba parò le mani avanti e scagliò di lato la bestia, che quasi gli slogò un polso con i suoi denti da rettile. Prima che potesse tornare all’attacco, afferrò il la carabina e la abbatté con un colpo alla testa; il massiff stramazzò a terra con un guaito.

Djarin gli fu addosso l’istante dopo, tentando di riprendere il corpo a corpo, ma lo arrestò con un colpo in pieno petto che gli mozzò il fiato, arrestandone lo slancio. Ancora a terra, alzò la mira, mirando alla giuntura sotto l’ascella rimasta scoperta, ma il Mandaloriano si riprese con sorprendente rapidità.

Djarin fece partire il rampino con un movimento fulmineo, strappandogli l’arma dalle mani – Boba non la trattenne, per evitare di essere trascinato a portata di vibrolama. Diede un colpo di jetpack, riacquistando il terreno sotto ai piedi e tornando in cima alla scarpata. Djarin lo seguì come un’ombra. 

Gettò uno sguardo verso lo scontro: lo Jedi era riuscito a respingere i Tusken con un’onda di Forza e stava raggiungendo la Ribelle, già in sella allo speeder. La culla era ancora assicurata al portapacchi, chiusa. Un richiamo – Mando! – giunse fin lì oltre il caos di grida gutturali, ruggiti e spari, sommate a una vibrazione più bassa simile a un terremoto. Il sarlacc era inquieto, forse risvegliato dal caos: sullo sfondo delle dune scorse la sagoma di un’enorme liana che si innalzava e contorceva, in cerca di una preda.

Si distolse da quella vista, che gli faceva bruciare le ustioni ormai rimarginate. Fece appena in tempo a impugnare la sua vibrolama e a scagliarsi contro Djarin prima che questi potesse attivare il jetpack per dileguarsi. Lui reagì con violenza inaspettata, scoprendosi completamente e sferrando una testata contro il suo elmo che gli rintoccò nel cranio. Offrì un bersaglio facile, da sprovveduto.

Boba accusò l’urto, ma strinse i denti e riuscì ad assestare un fendente alla sua spalla rimasta vulnerabile. Djarin soffocò un grido quando la lama squarciò tessuto e carne poco sopra la clavicola.

«Andate!» lo sentì urlare, verso i suoi compagni, e l’ordine fu seguito dal rombo lontano dello speeder.

Boba fece per decollare – non potevano sfuggirgli – ma Djarin lo incalzò nuovamente con un affondo, ancora fin troppo energico. Boba lo scartò, evitandolo, e riuscì a costringerlo con le spalle contro la roccia con un calcio nel ventre.

Rilasciò un respiro affannato: non poteva prolungare lo scontro. Iniziava ad avvertire la stanchezza nelle ossa, con le cicatrici dell’acido di sarlacc che tiravano a ogni movimento e i muscoli che protestavano a ogni urto. Era provato dal lungo viaggio nel deserto, dalle ore di appostamento sotto i soli cocenti di Tatooine e da quella caccia che durava ormai da mesi.

Suo padre era sempre stato chiaro e sentiva i suoi insegnamenti che gli premevano dietro i timpani, sotto il suo stesso elmo:
sei un cacciatore, quindi stanca la tua preda. Mai il contrario.

Fu quel fugace pensiero a suo padre, a dargli la soluzione.


L’unico colpo che assestò con la vibrolama fu preciso, anche se Djarin non se ne rese conto, illuso di aver schivato un fendente diretto al costato e deflesso dal jetpack. Decollò subito dopo, con la rapidità che lo contraddistingueva. Boba glielo permise e lo vide fare subito rotta verso i suoi compagni.

Non si disturbò nemmeno a iniziare l’inseguimento: recuperò la carabina e si limitò a tenerlo nel mirino, pronto a sparare – ma non ve ne fu bisogno. Ad appena qualche metro d’altezza, il getto sinistro del jetpack si affievolì di colpo, facendolo sbandare. Il sibilo di carburante e gas che fuoriusciva dal tubo che aveva reciso era ben distinguibile alle sue orecchie allenate. Osservò con calma calcolata gli sforzi dell’avversario per riprendere l’assetto di volo ormai compromesso.

Li stroncò con un colpo ben piazzato che colpì il diffusore del jetpack, rendendolo del tutto inutilizzabile. Djarin si contorse, cercando di attutire il contraccolpo e riequilibrare la potenza dei getti, ma la caduta era ormai inarrestabile – da un’altezza che, senza armatura, sarebbe stata fatale.

Boba udì distintamente il clangore del beskar che si schiantava a terra e, sotto, lo schiocco netto di qualcosa che si spezzava. Djarin urlò e si contorse con uno spasmo, la gamba destra piegata in una posizione innaturale. Boba sparò un altro colpo sulla calotta del suo elmo, stordendolo ulteriormente.

Mai affidarsi troppo al jetpack. Anche quello gliel’aveva insegnato suo padre, morendo nel modo più atroce.

Il capo di Djarin crollò a terra e Boba non gli prestò già più attenzione. Guardò verso i due fuggiaschi, che avevano esitato in attesa del compagno, mentre una torma di Tusken inveiva contro di loro con alte grida e qualche inutile sparo. Si dirigevano a rotta di collo verso il deserto.

Boba si inclinò in avanti, col il missile a concussione puntato verso lo speeder. Mirò sulla sua traiettoria, in modo da non colpirlo direttamente e arrestarne soltanto la corsa – le taglie vive erano sempre una seccatura. Il missile partì con un rombo e disegnò una parabola di fumo e scintille verso il punto d’impatto. Non lo raggiunse: si arrestò a mezz’aria, come bloccato da una forza invisibile, ed esplose assordante come un fuoco d’artificio su Coruscant.

Boba cacciò aria frustata dal naso. Lo speeder prese velocità, ripercorrendo la pista dei Tusken che aveva lasciato lui poco prima e sparendo dietro la prima duna argentea, sfiorato dai tentacoli del sarlacc.

Maledetti Jedi.

Si voltò quindi verso il Mandaloriano, che stava ora tentando di rimettersi in piedi nonostante traballasse visibilmente sulla gamba ferita. Boba ruotò di un passo, assestando la presa sulla carabina. Annullò la distanza fra loro e incastrò la canna dell’arma tra la sua corazza e il bordo dell’elmo, premendo sul collo.

Djarin si arrestò, stringendo le dita sulla vibrolama ancora snudata. Boba Fece un gesto col capo, indicandola col mento.


«Puoi combattere, se vuoi. Ma morirai solo stanco.»

 


FINE VOLUME I

 


 

Glossario¬e:
urk: attacca/ferisci (dedotto dal pochissimo Tusken trascritto che ho reperito in giro). 
(bastone) gaffi o gadderffi: il bastone da combattimento Tusken.
-La frase conclusiva di Boba è un rimaneggiamento di una sua famosa citazione: "you can run, but you’ll only die tired."

Note dell’Autrice:

Eh, già, cari Lettori: siamo alla fine del Volume I.
Non credevo che questo giorno sarebbe mai arrivato, in primis perché non era nei miei piani un Volume II... ma la Forza mi ha portata qui, quindi chi sono io per lamentarmi?
Fornirò tutte le spiegazioni del caso nel prossimo capitolo, l’Epilogo – o, se volete, una sorta di teaser del Volume II. Per ora, sappiate solo che il viaggio di Din e dei suoi compagni è ben lontano dalla conclusione ♥

Ci vediamo prestissimo e grazie a tutti coloro che leggono, commentano e votano questa storia: come ho detto spesso, siete il mio coaxium e senza di voi la nave di questa storia non avanzerebbe.

-Light-

Ulteriori note:
Per chi segue The Book of Boba Fett: ovviamente "questo" Boba, come accennato in precedenza, non è il Boba che appare nella serie o nella seconda stagione di The Mandalorian. Mi sono tenuta più vicina alla versione "classica" e il riferimento al tempo trascorso coi Tusken è in realtà un mio headcanon precedente alla serie: avevo immaginato che vi avesse stretto una breve alleanza per recuperare l’armatura sottratta dai Jawa (in questa storia non esiste Cobb Vanth) e che la cosa fosse però finita lì. L’ottima conoscenza di Tatooine di Boba deriva sia da questo, sia dal fatto che avesse frequenti rapporti d’affari con gli Hutt.
- Nel mio headcanon, Din da bambino aveva un massiff, per questo conosce i comandi da impartirgli in Tusken. Il massiff si trova anche su altri pianeti desertici, non è prerogativa assoluta di Tatooine e dei Sabbipodi, ma mi piaceva l’idea di spiegare perché interagisca in modo così amichevole con un massiff nella S2.Sul perché i genitori abbiano scelto un animale da compagnia così particolare, c’è tutta un’altra storia dietro che prima o poi forse racconterò.

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Capitolo 27
*** Epilogo ***


 
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EPILOGO

EPILOGO

 

“Mio alleato è la Forza, e un potente alleato essa è.
La vita essa crea e accresce, la sua energia ci circonda e ci lega.
Creature luminose noi siamo, non questa materia grezza.”

― Gran Maestro Yoda ai suoi allievi

 

 

 

 

Star Destroyer Imperiale Revenant, Orlo Interno, Settore O-9

I corridoi dello Star Destroyer rilucevano di un brillio sinistro, lo stesso che si rifletteva sul suo beskar sporco di sabbia e sangue.

Din avanzava trascinando la gamba come poteva, con la carabina del cacciatore di taglie che gli premeva tra le scapole quando rallentava troppo il passo.

Non aveva ritenuto necessario usare delle manette-shock o altri mezzi di costrizione: Din aveva già tentato una sortita su Tatooine, che si era conclusa con un rampino aggrovigliato alle caviglie e una caduta rovinosa, col rischio di finire oltre il crinale di una duna nelle fauci di un krayt.

La marcia lungo la pista Tusken fino alla Firespray del cacciatore di taglie era stata lenta, massacrante, e si era protratta fino all’alba. Din sentiva ancora la gola arida, nonostante i meloni neri ricolmi d’acqua che il suo carceriere aveva disseppellito dalla sabbia avessero loro evitato di morire di sete.

Anche ora camminava a fatica, con la testa pesante per quella che probabilmente era febbre da infezione. A parte una siringa di bacta per evitargli la morte, la gamba era rimasta priva di cure – qualcosa, nel ginocchio, non si muoveva nel modo giusto e gli inviava scosse di dolore a ogni passo, assieme alla sensazione rivoltante delle ossa che sfregavano l’una contro l’altra. Non l’aveva ucciso, certo, ma tenerlo in buona salute non sembrava la sua prerogativa.

Incrociarono un paio di pattuglie di assaltatori, che indugiarono fin troppo a osservare un Mandaloriano sconfitto e dolorante portato a spasso da quello che poteva sembrare un suo commilitone.

Era solo un auretii, però. Un traditore del beskar, un rinnegato che portava quelle placche di metallo senza rispettarne minimamente la sacralità – forse nemmeno conoscendola – e senza rispettare il Credo.

Din non l’aveva visto in volto, ma l’aveva colto a togliersi l’elmo come se lui nemmeno fosse lì, prima di mettersi alla guida della Firespray. Sotto al beskar che aveva sempre custodito come una parte stessa del suo corpo e di quello di tutti i Mandaloriani che l’avevano indossato prima di lui, Din ribolliva di rabbia silenziosa, mista alla morsa della paura.

Non per lui stesso: se Gideon l’avesse voluto morto, quell’
auretii non si sarebbe disturbato a portarlo fin lì. Pensava al Bambino e pregava il manda e tutto il Ka’ra tra le stelle che fosse al sicuro con Cal e Cara. Sentì un sapore acido in gola al pensiero che l’ultima volta che aveva davvero pregato fosse stato per Ruu.

Liberò un respiro più rumoroso degli altri, sentendo un blocco di beskar nel petto. Subito, la canna del blaster andò a pungolargli la schiena.

Non una parola aveva lasciato la bocca dellaruetii, se non una breve e stringata olo-comunicazione a Gideon durante il viaggio nelliperspazio. Daltronde, nemmeno lui riservava chiacchiere inutili alle proprie taglie, quando non le ibernava direttamente nella carbonite.

La porta del ponte di comando si stagliò dinanzi a loro. Colse il loro riflesso sulla lucida superficie in durasteel, due macchie sfocate color verde e argento. Il cacciatore si sporse a premere i tasti del quadro di comando. Un sibilo accompagnò la sua apertura sulla plancia spaziosa e asettica. Din sentì il fiato corto a quella visione, ben diversa dal manipolo di disperati che gli aveva assegnato la taglia sul Bambino. 

LImpero non era affatto caduto: il castello di comando era occupato da troppi ufficiali imperiali in grigio e da qualche superiore in uniforme più scura, come se non fosse passato nemmeno un giorno dalla distruzione di Alderaan e dalla Grande Purga. Una figura in nero si stagliava davanti alle paratie in transparacciaio dello Star Destroyer, oscurando una parte delle stelle, che punteggiavano fitte quellangolo di Galassia. Si scorgeva anche la superficie boscosa di un pianeta violetto, striato da nubi dense.

Moff Gideon si voltò non appena udì i loro passi sul ponte e, dopo una breve occhiata a entrambi, posò lo sguardo sul suo visore. Din non mosse un muscolo, se non quelli necessari per continuare a camminare nel modo più diritto possibile, anche con la gamba in fiamme.

Gli occhi di Gideon, visti da vicino e non attraverso la vetrata disintegrata di una cantina, erano ancor più neri di quanto avesse immaginato. Il suo volto spigoloso sembrava una rozza lastra di metallo in attesa di essere forgiata per assumere unespressione. Din ebbe la sgradevole sensazione di essere privo di elmo di fronte a lui. Il Moff lo conosceva – sapeva il suo nome, da dove veniva, chi fosse la sua famiglia. 

Anche Din lo conosceva. Ricordava il suo nome sussurrato di elmo in elmo come quello di un demone durante le serate attorno al fuoco della sala comune, lunica luce che potessero concedersi in quegli anni di persecuzione. Ricordava il Mandaloriano mutilato e con la corazza deforme che narrava singhiozzando della Notte delle Mille Lacrime, quando interi squadroni dassalto erano stati vaporizzati a Keldabe dalle truppe imperiali. Ricordava lArmaiola che, mentre ascoltavano quel resoconto angosciante, posava delicatamente lelmo contro quello di un Paz ancora ragazzo, come a ringraziare che fosse lì e non morto nella carneficina. 

Din aveva udito solo a metà la voce del guerriero sopravvissuto, con gli occhi sbarrati sotto lelmo e il cuore in gola. Il calore del fuoco gli era sembrato insopportabile, nonostante il gelo che gli aveva artigliato le mani e il petto.

Molto più tardi, nel silenzio buio della sua stanza, lArmaiola si seduta ai piedi del suo letto e gli aveva sfiorato il capo scoperto con un leggero sospiro. Din aveva capito ancor prima che parlasse che Ruu non sarebbe più tornata.

Strinse i pugni come li aveva stretti allora, quando a dodici anni il mondo aveva di nuovo cessato di avere un senso – e non avrebbe permesso che accadesse di nuovo, non per mano dello stesso demone. 

Gideon stese le labbra in quello che poteva essere scambiato per un sorriso, ma che fu una semplice contrazione priva di calore, come se fosse riuscito a intravedere la sua espressione contratta sotto il beskar.

Puntò quindi le pupille accanto a lui, nel vuoto che, nei suoi piani, doveva essere occupato dalla culla del Bambino. Din, nel segreto del proprio elmo, liberò una smorfia di feroce compiacimento di fronte allinnegabile delusione che serpeggiò sul volto dellimperiale. Gideon si rivolse al cacciatore di taglie dietro di lui.

«Mi aspettavo di più, dal più grande cacciatore di taglie della Galassia. Forse i geni di tuo padre sono andati sprecati?»

A Din parve di avvertire il picco di elettricità dietro di lui, quasi fosse passato da beskar a beskar.

«A giudicare dallo stato attuale dellImpero, sì.»

Un lampo dira attraversò le iridi del Moff, che incrociò le mani dietro la schiena.

«Non riceverai il tuo pagamento finché non mi porterai la vera taglia.»

«Hai la tua taglia davanti agli occhi, coi giusti mezzi» ribatté lui, sottolineando lallusione con un colpetto della carabina contro la sua corazza.

Din si irrigidì, trattenendo listinto di afferrare la canna dellarma, strappargliela dalle mani e scaraventarlo a terra. Era circondato da Imperiali: sarebbe stata una soddisfazione breve.

Gideon spostò di nuovo lo sguardo sul suo visore. Din serrò la mandibola con un cigolio, pronto a fronteggiare i mezzi di tortura che, sicuramente, si celavano dietro le porte blindate di quella fortezza volante. Con sua sorpresa, però, il Moff si limitò a esasperare un guizzo delle sopracciglia.

«Oh, lui non mi dirà niente, nemmeno senza elmo e con uno scortica-mente nel cervello. Sbaglio, Mandaloriano?»

Din lasciò che fosse il suo silenzio a rispondere, offrendogli solo la superficie inerte del proprio visore. Rimase immobile, pronto alleventualità che Gideon allungasse semplicemente una mano per togliergli lelmo. Invece, lui si limitò a un altro sorrisetto freddo.

«Come immaginavo. So già chi sei sotto il beskar, Din Djarin, e toglierti lelmo non mi porterebbe nulla. Ferire nellorgoglio un Mandaloriano non ha mai prodotto risultati e, credimi, lo so bene» continuò in tono leggero, come se stesse raccontando un evento particolarmente piacevole. «Ho mezzi più efficaci della tortura e dellumiliazione, per arrivare a ciò che voglio.»

Detto ciò, premette un pulsante sul suo comlink da polso, per poi fare un cenno al cacciatore di taglie.

«Fett, tu rimettiti sulle tracce della taglia... sono sicuro che lo Jedi sarà un buon incentivo. Mi aspetto un servizio impeccabile, stavolta.»

«Io non servo nessuno» quasi ringhiò Fett, suonando a un passo dal puntare larma contro di lui.

Il diverbio fu interrotto dal sibilo della porta che si apriva, seguito dal suono cadenzato di passi e da un raschiare indecifrabile contro il pavimento.

Fett si mosse e, dopo un respiro trattenuto bruscamente, lo sentì scostare la canna dellarma dalla sua schiena per puntarla verso la porta. Quando Fett parlò, fu in un respiro velenoso:

«Questo non era negli accordi.»

Anche Din fece per voltare appena il capo, così da inquadrare il nuovo arrivato. Si congelò a metà del movimento, quando nel filtro dellelmo si insinuò un olezzo quasi dimenticato che lo prese alla gola.

«Devi proprio portarti appresso questa bestiaccia?» commentò Gideon con una smorfia e unocchiata a terra, ignorando Fett.

Non vi fu risposta, solo altri passi – pesanti, accompagnati dal tintinnio del beskar e da un ringhio basso e vibante. Alzando lo sguardo, Din sentì la corazza pesargli addosso come un macigno nel vedere uno strill avanzare verso di loro, con i denti già snudati. Oltre un velo tremolante di febbre e sconcerto riconobbe lorecchio mozzato, il pelo color sabbia, vide la ragnatela di nuove cicatrici impresse sul suo muso, gli occhi gialli e dilatati puntati su di lui.

E dietro, simile a unombra bluastra emersa dal buio dei ricordi, vide un fantasma.

 

???



Adesso, da qualche parte nella Galassia

Aveva freddo.

Non riusciva a sentire altro.

Freddo, e un grande sonno che gli premeva addosso.

Ricordava quelle sensazioni – aveva dormito per così tanto tempo... ma quando era successo? Quello non riusciva a ricordarlo.

La Forza oscillava piano attorno a lui. La sentiva – fuori, dentro, ovunque, qui e altrove, adesso e sempre – e ondeggiava tranquilla come aveva sempre fatto.

No. No, la Forza non oscillava, scorreva.

Schiuse gli occhi pesantissimi e, tra i flussi multicolori della Forza, vide muoversi due ombre familiari. Un alone blu circondava la prima, quella del ragazzo; uno rosso la donna. Tremolavano come fiamme liquide – vive, energiche.

Sentì un po meno freddo.

Abbassò gli occhi: era lui a ondeggiare, non la Forza. La sua piccola amaca si muoveva a destra e a sinistra, ipnotica, anche se non cera più una mano che la spingeva. Il freddo divenne un ago, a quel pensiero.

Richiuse gli occhi, facendo un breve sospiro. 
Forse doveva dormire di nuovo – per chissà quanto tempo.

Una corrente di Forza lo sfiorò in modo più intenso, quasi a tenerlo sveglio. La seguì prima che svanisse, aggrappandosi a lei. Si sentì leggero, senza più un corpo, e si lasciò guidare lontano da lì, attraverso le stelle che gli sfrecciavano accanto come muri di luce.

Poi lo sentì.

Un battito minuscolo, lontanissimo, che pulsava in una fiammella argentea. Tese una mano – se stesso, attraverso la Forza – fino a sfiorarla.

Un sussulto.

Ad’ika.

Riaprì gli occhi di scatto e un sorriso si fece strada sul suo volto: il freddo e il sonno erano passati – la paura era passata. Stavolta non avrebbe dovuto dormire, perché aveva qualcuno da aspettare. Una spirale dargento lo avvolgeva, unita alle mille altre che ondeggiavano attorno a lui come un mare che lo cullava. Strinse le mani al ciondolo tiepido che portava al collo.

Suo padre sarebbe tornato.

 

 

CONTINUA NEL VOLUME II:
“VODE AN – I FIGLI DI MANDALORE”

 


Glossario&Note:
aruetii: traditore, estraneo, non Mandaloriano.
Ka’ra: secondo le leggende, gli spiriti degli antichi re di Mandalore, adesso dispersi tra le stelle.
manda: collettività Mandaloriana, formata sia da persone vive che non, unite dal medesimo Credo e unità culturale.

 

 

Note dell’Autrice:

Cari Lettori... sì, questo è davvero l’ultimo capitolo, almeno per ora.
Non dirò una sola parola su ciò che ho scritto: lascio tutto alla vostra libera interpretazione e al vostro giudizio.

Non disperate, però, il Volume II è già in stesura. Stavolta ho intenzione di fare le cose per bene: mi porterò ben oltre la metà dei capitoli prima di iniziare a pubblicarlo, così da garantirvi aggiornamenti regolari.

Nel frattempo non rimarrete a bocca asciutta, poiché inizierò la revisione di Vode An. Con essa arriveranno, udite udite, dei capitoli inediti.
Questo perché la storia si è ampliata e trasformata in corso d’opera. Visto dove ero arrivata, sarebbe stato impossibile colmare i "vuoti" senza creare confusione in voi lettori: non erano previsti due volumi e mettere nel secondo o prima di questi ultimi capitoli determinati avvenimenti non avrebbe senso, considerando i nuclei narrativi che adesso li caratterizzano.
Saranno delle parti di raccordo incentrate principalmente su Ruu, Scorch e la "parte mandaloriana", che è scesa un po’ in sordina in questa seconda parte della storia.

Oltre a ciò, potrete trovare (su Wattpad) aggiornamenti anche su Vode An – Legami di sangue, la raccolta spin-off dove getto un po’ di luce sull’infanzia di Din. Una specie di extra, insomma, anche se potrete ritrovare qualche concetto/dialogo/passaggio nel Volume II.

Detto questo, la smetto di sproloquiare. È stato un lungo viaggio fin qui e ringrazio tutti coloro che hanno letto, commentato, votato, aggiunto la storia alle loro liste o hanno speso una parola per consigliarla/pubblicizzarla. Vi ringrazio di cuore ♥
E per tutti i lettori silenziosi, questo è il momento giusto per farmi sapere, se volete, cosa pensate della storia, anche con un commento microscopico ♥

Vi mando un abbraccio di beskar e ci rivediamo presto in questa Galassia lontana lontana!

-Light-

 

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Capitolo 28
*** Joha'miit – Glossario ***


Joha'miit

GLOSSARIO
 

Un "piccolo" glossario e appendice da consultare a vostra discrezione.
Tutte le informazioni qui reperibili vedranno la luce nel corso della storia, ma potreste trovare qualche dettaglio in più,
ovviamente non rilevante ai fini della trama – questo perché vi sono riportate anche voci secondarie, semplicemente menzionate di sfuggita.
Prendetelo come un piccolo bonus nell’attesa del prossimo capitolo ♥

Questo glossario sarà in costante aggiornamento, di pari passi con l’avanzare della storia.
Per i nuovi lettori, ATTENZIONE:
in queste righe potreste trovare spoiler su personaggi, eventi e quant’altro. Anche chi è in pari con la storia potrebbe scovare qualche "teaser" non spoiler.
Vi consiglio di usare la funzione di ricerca e cercare la singola parola che vi interessa per evitare incidenti :)

[Le espressioni, parole e luoghi sottolineati sono di mia invenzione e ne vieto l’utilizzo senza mio consenso.]
[Cliccate su questo >>link<< per accedere alla versione illustrata del Glossario su Wattpad]

 


LINGUE

PAROLE IN MANDO’A E ALTRE LINGUE



 

NB. Le sillabe tra parentesi esplicitano il plurale.

’ika: suffisso vezzeggiativo da apporre ai nomi propri, generalmente usato nei confronti di un figlio o un partner (Ruusaan-> Ani’ka; Bo-Katan-> Kat’ika; Din-> Din’ika; Fenn-> Fen’ika etc.)

ad’ika: bambino o figlio; vezzeggiativo generico, non implica necessariamente parentela.

akaan’kajir:  lett. "guerra su tavolo". Variante Mandaloriana del gioco dello shah-tezh, antenato degli oloscacchi. Giocato tradizionalmente su una scacchiera in legno di veshok e con dodici pezzi in beskar, raffiguranti guerrieri e personalità realmente esistite. La versione classica prevede uno scontro tra una fazione di Mandaloriani e una di Jedi.

aliit: tribù, famiglia.

alor: comandante, capo.

aruetii(se): traditore, estraneo, qualcuno che non è Mandaloriano.

beroya: cacciatore di taglie.

bes’edee: mitosauro

beskar: metallo praticamente indistruttibile, sacro ai Mandaloriani. Resiste persino alle spade laser e, per questo, durante la Purga Jedi fu trafugato dall’Impero.

beskar’gam: armatura tradizionale mandaloriana. Generalmente in beskar, può essere anche composta da materiali meno nobili, quali durasteel o katarn, più leggeri e facilmente reperibili.

buir: genitore, padre/madre (il Mando’a è una lingua priva di genere). Può essere apposto in coda a un nome proprio, col significato vezzeggiativo di "mamma/papà" (Ruu’buir).

buy’ce(se): elmo tradizionale mandaloriano, dal tipico visore a forma di T. È accessoriato con vari tipi di visore (termico, di movimento, zoom) e con un impianto di amplificazione sonora. Può essere a tenuta stagna. Alcuni modelli sono dotati di sistema di mira per i missili, come quello di Boba Fett. Gli elmi femminili, a volte, si distinguono per le fessure per gli occhi più oblunghe, a forma di foglia.

Ca’senaar: Nite Owls, il gruppo di guerrieri d’elite della Ronda della morte.

chakaar: carogna, stronzo.

Cuy’val Dar: "coloro che non esistono più". I Guerrieri Mandaloriani convocati su Kamino da Jango Fett per addestrare i Cloni. Vista la segretezza dell’incarico, sparirono senza lasciare traccia per tutta la durata dell’addestramento.

dar’akaniir: arrendersi.

di’kut: stupido, idiota.

fierfek: imprecazione volgare in huttese.

jai’galaar: "falco urlatore"; simbolo della Ronda della Morte stilizzato sulle loro armature.

jetii(se): Jedi.

joha’miit: dizionario, glossario

kandosii: grandioso, fantastico (anche iron.)

K(e)’: prefisso imperativo.

ke’taab: continua a marciare

kov’nynir: testata/bacio di Keldabe. a. Un violento colpo sferrato con l’elmo contro il volto o la testa di un avversario. b. Un colpetto, elmo contro elmo, corrispondente a un bacio romantico o familiare, dato solitamente in situazioni in cui non è possibile stare a volto scoperto (es. prima di uno scontro). Non corrisponde a un semplice saluto: è un gesto molto, più intimo e praticato solo da persone in confidenza fra loro.

kri’gee: birra Mandaloriana, molto amara.

kyr’bes: teschio di mitosauro; per estensione "corona", dall’antica corona del Mand’alor costituita da ossa di mitosauro.

Kyr’tsad: Ronda della Morte. Gruppo estremista mandaloriano che ha rovesciato il governo pacifista di Satine Kryze, prendendo il controllo di Mandalore. Pre Vizsla ne era il capo, prima di essere ucciso da Darth Maul e perdere la Darksaber. In seguito, la Ronda si è scissa in due fazioni, una rimasta fedele a Vizsla, l’altra a Maul. NB. Darth Maul non verrà mai menzionato esplicitamente in questa storia, per mia scelta personale.

manda: un concetto spirituale della cultura mandaloriana. Indica l’anima collettiva mandaloriana, formata sia da coloro che sono ormai morti, sia da coloro che ancora sono in vita. Il contatto tra le due parti è molto sentito e va coltivato tramite la rimembranza periodica di coloro che sono "marciati via".

Mando: termine generico per indicare un Mandaloriano, generalmente in uso tra i non Mandaloriani.

Mando’a: la lingua dei Mandaloriani, protetta e tramandata gelosamente.

Mando’ad(e): "figli di Mandalore"; termine con cui si identificano i Mandaloriani.

Mand’alor: il capo e comandante assoluto dei Mandaloriani.

Manda’yaim: Mandalore, pianeta identificato come patria dai Mandaloriani.

ne’tra’kad: "lama oscura", ovvero la Darksaber. Simbolo di comando del Mand’alor, che deve vincerla in combattimento per guadagnarsi il titolo.

osik: merda.

oya manda: "viva il manda"; esclamazione o formula generica strettamente interconnessa alla credenza nel concetto di manda. Può essere un augurio di buona fortuna, un incoraggiamento, un’espressione di solidarietà o vicinanza a qualcuno o all’intera collettività Mandaloriana.

Resol’nare: le Sei Azioni, ovvero i principi fondanti della cultura e società mandaloriana (educazione dei figli, armatura, difesa del clan, Tribù, lingua e Mand’alor).

sen’tra: jetpack tipicamente usato dai Mandaloriani. A volte monta un missile a concussione.

shabuir: bastardo.

shebs: chiappe.

skug: imprecazione zygerriana.

striil: strill; creature simili a canidi a sei zampe, con ampie porzioni di pelle flaccida che fungono da rozze ali, permettendo loro di planare per brevi tratti. Sono ermafroditi. Estremamente aggressivi e protettivi nei confronti del loro padrone, sono animali da compagnia favoriti dai Mandaloriani. Emanano un olezzo sgradevole per gli uomini e risultano invece inodori alle donne.

tal: sangue.

tihaar: distillato alcolico trasparente, estratto da qualunque tipo di frutto disponibile. Noto per il sapore forte e bruciante.

vod(e): fratello/sorella, non necessariamente di sangue. Appellativo generico in uso tra i Mandaloriani.

verd(a): guerriero/i.

wayii: esclamazione generica di sorpresa, felicità o allarme.

yaim: casa.


 

FORMULE E FRASI IN MANDO’A


 

Bacio di Keldabe: (vd. kov’nynir)

Bas’an shev’la: "l’addio silenzioso". Antica tattica Mandaloriana che consiste nello sciogliere i ranghi, per poi ricomporli come un sol uomo in un’occasione più favorevole, anche a distanza di molti anni.

Buy’ce gal, buy’ce tal [...]: "un elmo/secchio di birra, un elmo/secchio di sangue [...]"; primo verso di una canzone da bevute mandaloriana.

Cuy’ni Mando: sono Mandaloriano.

Dha Werda Verda: "Ira dei Guerrieri-Ombra"; danza di guerra simile alla haka Maori, praticata come riscaldamento o prima di una battaglia per infondere coraggio alle truppe.

K’olar!: muoviti!

K’uur!: zitto!

Mar’e!: finalmente!

Me’ven?: cosa? Come? (spesso aggressivo).

N’eparavu takisit/N’e’takisitforma estesa/contrazione di "mi rimangio l’insulto" = "scusa"

Ner vod: fratello/sorella mio/a; espressione di cameratismo in largo uso tra i Mandaloriani.

Ni su’cuy, gar kyr’adyc. Ni partayli, gar darasuum: "io sono vivo, tu sei morto. Io ti ricordo, tu sei eterno". Formula per ricordare le persone care scomparse.

Tion’gar?: chi sei?

Vode An: Fratelli Tutti; canto di guerra mandaloriano.


 

MODI DI DIRE


 

Prendere bogdo per bogling: prendere lucciole per lanterne o fischi per fiaschi.

Strappare le orecchie a un gundark: essere forte fisicamente, avere coraggio da vendere.

Come due akk nell’arena: fronteggiarsi in modo aggressivo.

Ignorare il bantha nella stanza: ignorare un problema palese e visibile a tutti.


 

LUOGHI

PIANETI E LUNE


 

Alderaan: pianeta del Nucleo allineato con la Ribellione. Fu completamente distrutto dalla Morte Nera.

Altora: pianeta dell’Orlo Esterno infestato dagli altagaks, creature carnivore su cui spesso gli allevatori locali pongono ricche taglie di caccia.

Alzoc III: pianeta glaciale dell’Orlo Esterno. Patria dei Talz, una popolazione primitiva simile a degli yeti. Viene citato in The Mandalorian, in quanto Din vi ha svolto un incarico non meglio specificato.

Awath: pianeta vulcanico dell’Orlo Esterno, noto per la sua ingente esportazione di sale (marino e salgemma) e sale cromatico, estratto nelle miniere di Kaha. Colonizzato principalmente da Sullustani e Abednedi.

Bespin: pianeta gassoso dell’Orlo Esterno. Vi si estrae il gas tibanna. Colonizzato principalmente da umani e da tecnici Ugnaught.

Concord Dawn: pianeta nel settore Mandaloriano. In seguito alle numerose guerre che l’hanno devastato, un terzo della sua massa si è disintegrato, creando una cortina di asteroidi e detriti nella sua orbita. Da sempre in rapporti amichevoli con Mandalore e il suo popolo, è patria di molti guerrieri Mandaloriani quali Jaster Mereel, Jango Fett e Din Djarin* [nel mio headcanon] e ospitava la base operativa dei Protettori, la guardia regia Mandaloriana.

Concordia: luna di Mandalore, ove si trova la maggior parte dei giacimenti di beskar. Sottratta dall’Impero dopo la sua ascesa, è stata spogliata di ogni residuo del prezioso metallo.

Coruscant: pianeta ecumenopoli del Nucleo, occupata da una metropoli che si snoda per migliaia di livelli nel sottosuolo. Sede del Governo Galattico e del Parlamento.

Dantooine: pianeta dell’Orlo Esterno, arido e scarsamente popolato.

(Luna di) Endor: luna boscosa orbitante l’omonimo pianeta, teatro di uno degli scontri decisivi della Guerra Galattica tra Impero e Alleanza Ribelle.

Eriadu: ricco pianeta dell’Orlo Esterno, famoso per i suoi giacimenti minerari. Ospita svariate famiglie di alto lignaggio e affiliate con l’Impero, quali i Tarkin.

Geonosis: pianeta desertico dell’orlo esterno, teatro della prima battaglia a coinvolgere i soldati Cloni della Repubblica.

Hosnian Prime: pianeta del Nucleo, futura sede del Governo Galattico.

Hoth: pianeta glaciale dell’Orlo Esterno, sede di una delle battaglie decisive tra Impero e Alleanza Ribelle.

Jakku: pianeta desertico dell’Orlo Esterno, dove l’Impero fu "definitivamente sconfitto" dall’Alleanza Ribelle.

Kamino: pianeta oceanico delle Regioni Ignote, sede del Complesso di Clonazione gestito dai kaminoani e luogo di nascita dei Cloni. La capitale e centro di ricerca principale è Tipoca City.

Kashyyyk: pianeta dell’Orlo Medio, originario dei Wookiee. Ricoperto interamente da foreste, questo paradiso lussureggiante è stato devastato dall’Impero per raccogliere materie prime e pregiato legno di wroshyr, albero sacro ai Wookiee.

Kessel: pianeta minerario dell’Orlo Esterno. Nei suoi complessi minerari si estraggono spezia e coaxium, tristemente noti per aver impiegato schiavi Wookiee durante il regime dell’Impero.

Malachor: pianeta dell’Orlo Esterno, ritenuto maledetto dai Mandaloriani a causa delle loro ingenti perdite durante le Guerre Mandaloriane.

Mandalore (Manda’yaim): pianeta del Settore Mandaloriano, considerato patria dai Mandaloriani. Fu colonizzato in tempi antichi dai Taung, primi seguaci della cultura mandaloriana. A causa del loro esiguo numero, iniziarono ad accogliere membri di altre specie tra le loro fila, accettandoli come Mandaloriani a tutti gli effetti e dando vita, nel corso dei millenni, al popolo eterogeneo oggi conosciuto.

Mon Cala: pianeta acquatico dell’Orlo Medio, patria degli anfibi Mon Calamari.

Mygeeto: pianeta glaciale dell’Orlo Esterno, teatro di molte battaglie durante le Guerre dei Cloni.

Nar Shaddaa: luna di Nal Hutta, pianeta natio degli Hutt. Soprannominata "La Luna dei Contrabbandieri", è uno dei centri di traffico illegali più grandi della Galassia.

Nevarro: pianeta vulcanico dell’Orlo Esterno. Un tempo roccaforte imperiale, adesso ospita una delle Tribù mandaloriane, oltre a un centro di comando della Gilda dei Cacciatori di Taglie.

Sullust: pianeta vulcanico dell’Orlo Esterno, patria dei Sullustani e sede di una fiorente industria metallurgica.

Tatooine: pianeta desertico dell’Orlo Esterno, luogo di nascita di Anakin e Luke Skywalker. Qui si trovano il Palazzo di Jabba e il Pozzo di Carkoon, nel quale Boba Fett era stato dato per morto.

Zygerria: pianeta dell’Orlo Esterno, patria dei felidi Zygerriani. Da sempre dediti alla tratta di schiavi, hanno fornito forza lavoro all’Impero per decenni – in particolar modo Wookiee. Con l’avvento della Nuova Repubblica il commercio è stato ufficialmente interdetto, ma continua a fiorire nel sottosuolo.


 

CITTÀ E LUOGHI


 

Agruss: capitale del pianeta Zygerria. Metropoli in stile mesopotamico, costellata di giardini pensili e ziqqurat.

Aq Vetina: luogo di nascita ufficiale di Din Djarin. Nel mio headcanon è situata su Concord Dawn, ma non si sa la sua esatta ubicazione, né se sia un pianeta o una città.

Carkoon: crepaccio su Tatooine, sul fondo del quale è annidato un gigantesco sarlacc. Boba Fett vi precipita in seguito allo scontro con Luke Skywalker e Han Solo, venendo dato per morto.

Canale di Kessel: pericolosa rotta di contrabbando che attraversa una sezione tempestosa della Galassia.

Crevasse City: città di Alderaan, costruita lungo le pareti di un profondo crepaccio.

Eriadu City: ricca capitale dell’omonimo pianeta. Ospitava la residenza dei Tarkin e di svariati altri sostenitori dell’Impero.

Gyracittà di Nevarro, ospitante la Gilda dei Cacciatori di Taglie e la Tribù mandaloriana di Din.

Kahacapitale di Awath, costruita lungo le pendici di alcuni vulcani dormienti o spenti. Nota per il commercio di sale cromatico, è stata per decenni sotto il controllo imperiale.

Keldabe: antica capitale di Mandalore, costruita su una rupe affacciata sul fiume Kelita. Dall’urbanistica caotica e non particolarmente moderna, porta i segni della guerra civile tra i Tradizionalisti e i Nuovi Mandaloriani. La maggior parte dei Mandaloriani la riconosce come unica legittima capitale, opposta a Sundari.

Kyrimorut: piccolo insediamento tradizionale su Mandalore, fondato dal Clan Skirata. Ospitava Cloni disertori in seguito all’ascesa dell’Impero ed è tuttora un punto di riferimento per molti Mandaloriani.

Rotta di Hydian: una delle rotte commerciali più lunghe e trafficate della Galassia; ne attraversa il Nucleo e termina alle estreme propaggini dell’Orlo Esterno.

Sorgan: pianeta boscoso dell’Orlo Esterno. Ospita villaggi di allevatori di krill e fungeva da base per Cara Dune. Din vi trascorre un breve periodo, prima di riprendere il proprio viaggio.

Sundari: nuova capitale di Mandalore in seguito alla Guerra Civile Mandaloriana. È costruita in un arido deserto, risultato delle devastanti guerre che hanno colpito il pianeta. Futuristica e moderna, è racchiusa in uno scudo metallico protettivo che la rende idealmente imprendibile. Era sede del governo dei Nuovi Mandaloriani, guidati da Satine Kryze.


 

MATERIALI, ARMI, NAVI, DISPOSITIVI, ALTRO


 

Amban (fucile): un fucile con tre modalità di fuoco: semplice, stordente e disintegrazione. La baionetta biforcuta è in grado di elettrificare i nemici.

astromech: un tipo di droide specializzato nelle riparazioni navali (come R2D2).

blaster: pistola a raggi denergia. Larma da fuoco più impiegata nella Galassia, nei più svariati modelli.

blaster Verpine: pistola che, al contrario dei normali blaster, spara proiettili fisici a frammentazione, basandosi sullenergia cinetica per causare danni. Particolarmente efficace contro le spade laser, che non riescono a respingerli.

bowcaster: arma da fuoco simile a una balestra, largamente impiegata dai guerrieri Wookie. Spara devastanti raggi di plasma.

cannone blaster: particolare tipo di arma a ripetizione, pesante e difficile da trasportare. Devastante a lungo e medio raggio, fu usata dallImpero/ex-Repubblica durante lAssedio di Mandalore per far strage dei guerrieri Mandaloriani.

coaxium: carburante per astronavi minato su Kessel, anche noto come "iper-carburante". Persino delle piccole quantità hanno un valore inestimabile.

collari-shock: collari in grado di trasmettere scosse elettriche a chi li indossa. In uso soprattutto tra trafficanti e schiavisti.

comlink: abbr. di comunicatore. È una ricetrasmittente.

crediti: la valuta ufficiale in uso nella maggior parte della Galassia. Possono essere digitali, sotto forma di chip o blocchetti di metalli preziosi.

cristalli kyber: cristalli in grado di amplificare energia e Forza. Vengono usati come nuclei delle spade laser, oltre che nella costruzione di armi laser ad alto calibro, come il raggio della Morte Nera e quelli degli Star Destroyer.

DC-17 (Deece)fucile multiuso in dotazione ai Cloni Commando della Repubblica.

dejarik: chiamato anche oloscacchi, è un complesso gioco di strategia giocato su un tavolo circolare, ove vengono proiettate le pedine.

durasteel: metallo ultraresistente impiegato nello scafo delle navi spaziali e per edifici militari.

duraclast: materiale sintetico simile ad argilla compattata.

duraplast: materiale sintetico simile a plastica molto resistente.

elettrofrusta: frusta alimentata da energia elettrica o plasma. In uso soprattutto tra gli schiavisti Zygerriani.

flimsi: materiale sintetico equivalente alla carta.

glimmik: tipo di musica dal ritmo martellante e frenetico, spesso suonata nei locali notturni.

grog nevarriano: liquore tipico di Nevarro, estratto dai petali di rose-magma.

holocron: database Jedi di forma cubica, decorato da complesse geometrie. È accessibile solo a chi sa padroneggiare luso della Forza.

iperguida: dispositivo di bordo che permette di calcolare una rotta sicura impiegando la velocità della luce.

ipersalto: atto di viaggiare alla velocità della luce. Vi sono dei punti specifici prefissati nei pianeti che vedono più transito spaziale.

Katarn (corazza): modello di corazza tipica dei Cloni dellEsercito della Repubblica, resistente ai blaster.

klick: slang per un chilometro.

Moff/Gran Moff: gradi dellesercito Imperiale, corrispondenti a Governatori di un pianeta, sistema o settore.

Mon Calamari (incrociatore/mercantile)navi dalla forma tondeggiante e oblunga tipiche di Mon Cala.

ololink: sistema di comunicazione che permette di vedere il proprio interlocutore tramite un ologramma.

perle di krayt: gemme preziose prodotte dai draghi krayt. Inghiottono pietre per agevolare la digestione; queste vengono poi levigate dai succhi gastrici ed espulse sotto forma di perle scintillanti. Nonostante raccoglierle non richieda uno scontro diretto con i draghi krayt, la loro ricerca rimane altamente pericolosa.

permacrete: materiale sintetico simile a cemento armato.

permaglass: materiale sintetico simile a vetro, resistente ai blaster e agli urti, impiegato sia nelledilizia che nellaeronautica.

plastoid: materiale sintetico equivalente alla semplice plastica.

Razor Crestantiquato modello di nave-vedetta, in uso durante la Vecchia Repubblica.

repulsorlift: tecnologia di levitazione impegata in mezzi di trasporto aereo e terrestre, quali speeder di piccola e media stazza, così come montacarichi e mezzi pesanti.

rhydonium: gas utilizzato come carburante. Altamente esplosivo, infiammabile e suscettibile agli urti.

shah-tezh: gioco di strategia, antenato del dejarik.

spezia: sostanza stupefacente, oggetto del più grande giro di traffici illeciti e contrabbando della Galassia. Ne esistono svariate tipologie.

spotchka: liquore di un blu brillante estratto dal krill, microrganismi allevati dagli abitanti di Sorgan.

Star Destroyer: Incrociatore imperiale di grossa stazza e di forma triangolare.

tibanna: un prezioso gas di raffreddamento utilizzato nei sistemi balistici e di iperguida delle navi.

turbolaser: particolare tipo di cannone laser montato su navi ammiraglie e di grossa stazza. Non particolarmente potente, è ideale per abbattere velivoli agili e veloci, come caccia e intercettori.

vocoder/modulatore: un dispositivo che converte i suoni in parole, nel caso di specie senzienti con un apparato fonatorio incapace di produrne (come gli Ithoriani) o che permette alla voce di fuoriuscire da un casco o elmo a tenuta stagna.

X-Wing: caccia da assalto la cui icona è indissolubilmente legata allAlleanza Ribelle.


 

CREATURE

SPECIE SENZIENTI


 

Abednedi: specie umanoide dalla testa allungata, con due escrescenze simili a baffi a contornare la bocca. Impiegati nelle più svariate professioni, si vedono comunemente in ogni angolo della Galassia.

Cloni: soldati creati dai Clonatori di Kamino con il genoma del cacciatore di taglie mandaloriano Jango Fett.

Cloni Commando: elite di Cloni specializzata in missioni sotto copertura o missioni-ombra.

Duros: specie umanoide dalla pelle blu e grandi occhi rossi, privi di naso e capelli. Tipicamente dediti alla caccia di taglie o a lavori mercenari, sono guerrieri formidabili.

Hutt: specie rassomigliante grosse larve. Senzienti e avidi, sono tipicamente invischiati in affari illeciti, come traffico di spezia, schiavi e taglie. Controllano Tatooine e Nal Hutta, la cui luna, Nar Shaddaa, è un centro operativo noto nel mondo della malavita galattica.

Ithoriani: detti anche "Teste a Martello", sono una peculiare specie dalla testa simile appunto a un martello o una spatola, con occhi sporgenti e bocca incapace di articolare il Basico. Si servono di vocoder.

Mandaloriani: popolo guerriero ormai privo di ununità e sparpagliato ai quattro angoli della Galassia. Da sempre in conflitto con i vari governi centrali della Galassia, vi sono anche contrasti interni tra le varie fazioni più o meno tradizionaliste.

Rodiani: specie umanoide dalla pelle composta da scaglie iridescenti dei colori più disparati. Hanno bocca a imbuto, due antenne sulla fronte e, a volte, un irto ciuffo di capelli sul capo. Noti cacciatori di taglie e contrabbandieri, non è raro vederli ricoprire anche incarici politici.

Sullustani: specie umanoide dalle tipiche doppie guance cadenti, occhi neri privi di sclera e grandi orecchie che sporgono dal tipico copricapo aderente in cuoio. Ingegneri e tecnici provetti, sono spesso impiegati come tali in complessi industriali e basi spaziali.

Trandoshani: specie rettile umanoide, dalla pelle squamosa e verdastra e occhi arancioni con pupilla verticale. Noti per la grande forza e labilità nella caccia, operano spesso come cacciatori di taglie. Bossk è uno dei più noti.

Twi’lek: specie umanoide dotata di lekku, tentacoli sensoriali che spuntano dalla nuca, utilizzati nella comunicazione con i propri simili. Sono noti per essere impiegati come escort o lap-dancers nei night club, per via del loro aspetto gradito a molte specie nella Galassia, ma svolgono i lavori più disparati.

Ubesi: popolo restio a ogni contatto con gli altri, specializzato nella caccia di taglie. Indossano un casco squadrato che non rimuovono mai.

Ugnaught: specie umanoide di bassa statura, dal naso porcino e con folte basette e sopracciglia. Lavoratori instancabili, si occupano spesso di ruoli tecnici e ingegneristici, più notoriamente negli impianti di estrazione di tibanna, su Bespin.

Verpine: specie insettoide, inventori dei blaster Verpine.

Weequay: specie umanoide dalla pelle coriacea e brunastra. Il viso è ricoperto di escrescenze cornee che donano loro tratti molto duri e affilati. Portano spesso i capelli acconciati in dread o treccine. Particolarmente noti come pirati spaziali.

Wookiee: specie umanoide, ricoperta da un folto pelo marrone-rossiccio. La grande altezza e limmane forza fisica ne hanno fatto una preda ideale per gli schiavisti e per gli Imperiali in cerca di forza-lavoro. Guerrieri formidabili, sono noti per strappare brutalmente le braccia ai nemici in battaglia.


 

FAUNA, FLORA, SPECIE SEMI SENZIENTI


 

akk: specie non senziente di aspetto canino e insettoide assieme. Popolari animali da compagnia, vengono spesso impiegati nei tornei di combattimenti legali e non.

altagaks: rettili feroci, scaltri e dotati di artigli e spine. Flagello per il bestiame su Altora e spesso oggetto di taglie di caccia.

blurrg: specie rettile non senziente, bipede e dallaspetto simile a un enorme girino. Impiegata come animale da soma e da trasporto in tutta la Galassia.

drago krayt: specie non senziente, nativa di Tatooine. Questi rettili giganteschi vivono in grotte o sotto la sabbia e fanno preda di tutto ciò che capita loro a tiro. Sono ricercati da cacciatori e disperati per le preziose perle che producono.

fathier: specie quadrupede simile a equini, con grandi orecchie cadenti. Agili grazie alle lunghe zampe, vengono impiegati come animali da corsa.

fyrnock: specie non senziente che abita grotte e luoghi bui. Estremamente aggressiva, agile e dotata di zanne e artigli affilati, viene considerata una piaga.

gundark: specie non senziente di grossa stazza, con quattro zampe motrici e due braccia prensili sul ventre, dal manto rosso acceso e folta criniera bruna. Tipicamente annidata in grotte e caverne, vive spesso in branchi e pochi sopravvivono a un incontro ravvicinato.

kisiwa: cereale largamente coltivato su Concord Dawn. Dai chicchi color ocra, durante la maturazione assume le più svariate sfumature di colore, dal blu, al giallo, al rosso.

krykna: specie aracnoide di stazza considerevole. Resistente ai blaster e alle armi da taglio, attaccano tutto ciò che vedono.

lishek: specie rettile nativa di Nevarro, dalle ampie ali. Di abitudini notturne, attaccano in gruppo.

massiff: specie rettile non senziente, di aspetto canino, con spine aguzze sul dorso. Tipico animale da compagnia dei Nomadi Tusken.

myrmin: piccoli insetti simili a ragni.

narglatch: specie non senziente a quattro zampe, simile a un leone dalla criniera blu e con coda di rettile.

nexu: specie non senziente, con laspetto e le fauci di un felino, il muso aracnoide con molteplici occhi e coda biforcuta.

porg: specie di uccelli marini originaria di Ahch-To, innocui e goffi.

ragno da spezia: aracnide utilizzato per filare il glitterstim, una spezia particolarmente pregiata.

rancor: specie bipede semi senziente, simile a una rana pescatrice dalle lunghe braccia e con zampe dotate di artigli. È impiegata di solito nei combattimenti clandestini.

rose-magma/rose laviche: particolare tipo di rosa, con spine rosse, stelo cinereo e fiori neri o antracite. Cresce sui terreni vulcanici, spesso in prossimità di crateri e lava.

sarlacc: specie invertebrata di dimensioni colossali, simile a una pianta carnivora. Si annida nei crepacci di Tatooine e inghiotte la preda servendosi dei lunghi tentacoli, impiegando poi millenni per digerirla completamente.

scimmia-lucertola: primate agili, di picecola stazza e dalle livree più disparate, spesso utilizzato come animale da compagnia da pirati e trafficanti.

tooka: specie non senziente di taglia piccola, simile a un gatto dalle lunghe orecchie coniche e larga bocca da rana. Popolari animali da compagnia.

veshok: albero nativo di Mandalore, su cui si trovano vaste foreste.

womprat: specie di roditore non senziente, considerata un animale nocivo in tutta la Galassia.


 

PERSONALITÀ, EVENTI, FAZIONI RILEVANTI


 

Alleanza Ribelle: o semplicemente "Alleanza" o "Ribelli", è linsieme di pianeti e sistemi che si opponeva apertamente al regime imperiale durante la Guerra Galattica. Con le vittorie di Endor e di Jakku, lAlleanza consolida la propria posizione, assurgendo a Nuova Repubblica.

Battaglia di Coruscant (19BBY): battaglia cruciale delle Guerre dei Cloni. Il Cancelliere Palpatine, futuro Imperatore, fu rapito dai Separatisti, e il pianeta di Coruscant subì lattacco diretto delle loro forze da sbarco.

Battaglia di Galidraan (44BBY): battaglia che vide contrapposti Jedi e Mandaloriani. Una manovra politica orchestrata dalla Ronda della Morte mise  Jedi e Mandaloriani gli uni contro gli altri. Questi ultimi furono sterminati. Lunico superstite fu Jango Fett, che da allora nutre rancore verso i Jedi e la Ronda – già responsabile della morte di suo padre adottivo, Jaster Mereel.

Battaglia di Gyra (4ABY): battaglia per la liberazione di Nevarro dallImpero. I tentativi dei Ribelli ivi stanziati furono perlopiù futili e, anche dopo che le truppe furono formalmente scacciate, la presenza imperiale non svanì mai del tutto dal pianeta, che fungeva da rifugio per i superstiti di Jakku.

Battaglia di Jakku (5ABY): battaglia che segnò definitivamente la disfatta dellImpero, almeno ufficialmente.

Boba Fett: cacciatore di taglie, famoso in tutta la Galassia per la sua spietatezza e professionalità. Di origini mandaloriane per parte del padre, non è chiaro se si identifichi o meno come tale. Ha servito per anni lImpero ed è stato ingaggiato per catturare Han Solo, col quale ha un conto aperto. NB. Le sue vicissitudini in questa storia divergono da quelle presentate finora nella serie.

Bo-Katan Kryze: ex-membro della Ronda della Morte e sorella di Satine Kryze, regnante di Mandalore a Sundari. Si distacca dalla Ronda dopo la morte di Pre Vizsla per mano di Darth Maul e dedica il resto della sua vita a cercare di ricostituire lantica unità mandaloriana, distaccandosi in parte dai metodi violenti di Pre.

Boushh: cacciatore di taglie Ubese, particolarmente noto per la sua abilità. "Compare" ne Il Ritorno dello Jedi, in realtà impersonato da Leia sotto copertura per infiltrarsi nel Palazzo di Jabba.

Cal Kestis: giovane Jedi scampato allOrdine 66. Dopo lunghe peripezie, dedica la propria vita a contrastare lImpero e a proteggere i bambini sensibili alla Forza.

Clan Skirata: un easter egg per chi ha letto la saga Republic Commando. Kal Skirata, sergente addestratore Mandaloriano su Kamino, ha aiutato svariati Cloni a disertare dopo lavvento dellImpero, fondando una piccola comunità a Kyrimorut, su Mandalore. Ordo è suo figlio adottivo – così come molti altri Cloni sotto il suo comando. Tutto ciò non è rilevante ai fini della storia, ma sono semplici citazioni marginali.

Fenn Rau (Skull): Mandaloriano, membro dei Protettori, ovvero la guardia regia mandaloriana. Pilota provetto, ha partecipato come pilota alle Guerre dei Cloni come alleato della Repubblica, con lo Squadrone Skull. In seguito allavvento dellImpero si schiera con questultimo, difendendone legida su Concord Dawn, finché non cambia fazione, unendosi alla lorra contro di esso. NB.Nel canone, questo cambiamento dideali è dovuto allincontro con Ezra Bridger (Rebels); in questa storia, ho semplificato le cose ponendo Bo-Katan come figura centrale del suo cambiamento.

Grande Purga (19BBY-ignoto.): la sistematica persecuzione dei Mandaloriani e del loro beskar in seguito allascesa dellImpero.

Jango Fett: cacciatore di taglie durante le Guerre dei Cloni, fu il donatore di genoma che permise la creazione dellesercito di Cloni della Repubblica. Volle per sé un Clone non modificato e privo di crescita accelerata, che adottò e crebbe come suo figlio, Boba.

Jaro Tapal: Maestro Jedi di Cal Kestis, ucciso durante lOrdine 66.

Nite Owls (Casenaar): divisione di guerrieri delite della Ronda della Morte. Ne facevano parte Bo-Katan Kryze e Ruusaan Motir.

Notte delle Mille Lacrime (post 19BBY): ricordata così dal popolo mandaloriano, fu la notte in cui lImpero bombardò Mandalore con lausilio dei cannoni blaster, facendo sterminio di guerrieri, così da ottenere il controllo del pianeta e del suo beskar.

Ordine 66: lordine emanato dallImperatore/Cancelliere Palpatine, intimando ai Cloni di sterminare i Jedi in quanto colpevoli di tradimento. Nel canone ormai consolidato, i Cloni sono influenzati da un chip cerebrale e pertanto incapaci di opporsi allOrdine. Io mi rifaccio al vecchio canone, ormai Legends, in cui i Cloni avevano libero arbitrio sulla questione.

Pre Vizsla: ex-comandante della Ronda della Morte, dai metodi brutali e sanguinari. Possessore della Darksaber, la perde scontrandosi con Darth Maul, generando la disgregazione della Ronda.

Protettori di Concord Dawn: corpo scelto di guerrieri mandaloriani di stanza su Concord Dawn. Ex-Guardia Regia Mandaloriana, alleatisi temporaneamente con lImpero dopo la sua ascesa.

Purga Jedi: sterminio dei Jedi a opera dellImpero tramite lOrdine 66.

Satine Kryze: duchessa e regnante pacifista di Mandalore durante la Repubblica, si impegnò a smantellare la cultura guerrafondaia del proprio popolo. Pur ricevendo consensi, la sua manovra fu ritenuta troppo radicale, provocanto un ritorno del gruppo terroristico e tradizionalista della Ronda della Morte. Deposta dal potere, fu successivamente uccisa da Darth Maul.

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