Dimentica il mio nome

di _Lightning_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Ferro ***
Capitolo 2: *** II. Vetro ***



Capitolo 1
*** I. Ferro ***


Dimentica il mio nome



PORTIA: And you must cut this flesh from off his breast
The law allows it, and the court awards it.

SHYLOCK: Most learned judge, a sentence!
[to Antonio] Come, prepare. 
[1]
 

Parte I – Ferro
 
 

C’è uno strano senso di spaesamento nello svegliarsi con la consapevolezza di aver salvato il mondo. L’universo, in realtà. Ma Tony, in questo caso specifico, sente di dover ridurre quell’impresa – forse per la prima volta in vita sua – e ridarle dimensione umana, la propria.

Quello che lo coglie ad ogni risveglio è più un senso di panico, in effetti. Un istante di angoscia nel riaprire gli occhi e pensare che forse quei cinque anni non sono ancora finiti; che sono sei, o sette, o venti e quello schiocco salvifico non è mai avvenuto. Che forse è ancora la mattina della missione e che sono destinati a fallire – di nuovo, ancora, in un circolo infinito. Hanno incasinato il tempo, e il tempo ha incasinato loro: è così che funziona, di solito. Ritorno al Futuro da manuale, ma senza siparietti comici.

E quindi sente il panico. Gli schiaccia le palpebre e al contempo le sbarra, giocando al tira e molla con lui alle soglie del sonno; creando macigni nei punti in cui si è sentito schiacciato così a lungo da dimenticarsi della loro esistenza. E adesso che sono scomparsi vorrebbe quasi percepirne di nuovo il peso per non sentirsi nudo e spoglio, per non aver paura di sentir inacidire quel senso di liberazione scoprendo che è stata fittizia.

Dura un singolo instante, ogni mattina: una patina di fantasmagorie che gli offusca la vista illudendolo di essere nel prima, che gli fa stridere il cervello con una scintilla di malsano sollievo scaturita da quel pensiero. Si sente tirare dall’interno, tra Tony Stark e Iron Man, e nessuna delle due parti è davvero giusta per lui, almeno non del tutto.

Poi arriva il dolore al braccio, alla gamba, al suo intero lato destro che sembra ancora una ricostruzione raffazzonata del suo corpo, impiantata a forza solo per non farlo collassare. È la sua pelle, è la sua carne; gli appartengono eppure scricchiolano come componenti di recupero infilati a forza nel macchinario sbagliato. Altri macigni, zavorre di sicurezza che gli mozzano il fiato ma gli ridanno ossigeno.

Le prove tangibili che lui è , e anche il resto del mondo.

Quella mattina il panico è un po’ più forte, gli pizzica più violento lungo gli arti e lo afferra alla gola nel rendersi conto di fissare un soffitto bianco e non le assi lignee del suo cottage sul lago. Annaspa su quel dettaglio fuori posto e la consueta ondata di terrore mattutino si schianta in sordina sul fondo della sua mente, soverchiata dallo smarrimento più concreto del risvegliarsi in un letto vuoto.

La sua mente si ripiega su se stessa e si fa tabula rasa – assume le sfumature azzurrognole di uno squarcio nel cielo pronto a risucchiarlo – per poi esplodere in sprazzi di ricordi lucidi.

Espira lentamente, assorbendoli e catalogandoli man mano. È al Complesso. Quello è il soffitto della sua stanza. Pepper e Morgan sono a New York, al sicuro. Oggi ha la prima riunione dei Vendicatori nelle vesti di Tony Stark, Consulente&Meccanico.

Ha uno spasmo involontario che lo sprona a portarsi una mano al centro del petto, in un gesto del tutto futile ma ancora stabilizzante, anche se i suoi polpastrelli segnati da ustioni percepiscono solo a tratti la stoffa della maglietta. Sotto di essa, il cordoncino rotondo e appena in rilievo della cicatrice. Non ci fa quasi mai caso, ormai, ma oggi sembra più accentuata: gli sembra di percepire anche quella orizzontale che lo attraversa. Lascia il palmo pressato contro lo sterno e inspira a fondo, fino ad avvertire un lieve indolenzimento e una flebile protesta da parte di quel paio di costole rimaste più fragili dalla Siberia.

Rilascia di scatto il fiato e si issa a sedere sulla sponda del letto, con un movimento brusco che non dovrebbe concedersi e che gli infiamma il lato destro del corpo. Strizza gli occhi, con una parte del volto che si tende più rigidamente assieme alle sue espressioni, e le nuove ferite si confondono con le vecchie, a ricordargli che è qui per davvero, ma anche altrove, in luoghi freddi in cui non si è sentito per anni.

E lui ha una riunione, oggi, ma non solo. Vecchi fantasmi emergono dalle crepe nel cemento gelato, come sbuffi di ghiaccio sfiorati dal fuoco vivo. Non gli serve un’armatura per affrontarli, ma la vorrebbe.


 
§

 
Il caffè mattutino è un imperativo al quale non può rinunciare proprio oggi, non con troppi pensieri alle calcagna che vorrebbe seminare almeno momentaneamente con una buona dose di caffeina. Entrare in sala comune e dirigersi alla zona cucina è quindi un’azione scontata che compie quasi in automatico, con la testa offuscata da cupi arzigogoli mentali.

Il sibilo dei tutori che gli sostengono la gamba e il braccio accompagna i suoi passi e movimenti, segnalando acusticamente ogni picco di dolore e fastidio che trapela oltre la dose di palliativi. È lieto di aver dismesso le bende, almeno, e che si rimasto solo un ampio cerotto morbido a cingergli il lato del collo, dove le ustioni sono ancora sensibili. Pensa che la dottoressa Cho avesse in mente anche la sensibilità altrui, quando gli ha consigliato di non toglierlo, ma cerca di scacciare il pensiero per evitare che vada ad alimentare il turbine di quelli che già gli svolazzano in testa.

Entra zoppicando nell’angolo cucina, gettando un’occhiata distratta al salone: registra di sfuggita la presenza di Barton sul divano, di spalle, con la testa che fa capolino dalla spalliera – e tarda a riconoscerlo nel vederlo col vecchio tagli di capelli militaresco. Lancia un “’giorno” svogliato in quella direzione mentre cerca con gli occhi il barattolo del caffè che, chissà per quale motivo cosmico, ognuno ripone in un posto diverso dopo il suo utilizzo. Forse lo fanno apposta per dargli noia, conclude, quando infine lo individua seminascosto dietro la fruttiera.

«Se volete limitare il mio consumo di caffè, dovete impegnarvi di più, pivelli,» annuncia ad alta voce, svitando il barattolo e inalando a pieni polmoni la fragranza scura e aromatica della miscela divina non decaffeinata – finalmente. «Pepper può darvi qualche dritta utile, nel caso ci teniate così tanto alla mia salute,» conclude, riempiendo il filtro con una dose eccessiva di caffè, per poi incastrarlo nella macchina con la sinistra, incontrando qualche difficoltà di coordinazione.

Il silenzio che arriva da parte di Barton lo lascia interdetto: si sarebbe aspettato perlomeno qualche grugnito seccato in risposta, o magari una battuta secca, sagace e irritante delle sue. Volta il capo, chiedendosi se per caso non si sia defilato già da un po’, lasciandolo a blaterare da solo; si paralizza però a metà del gesto, senza poter evitare che gli si sgranino appena le pupille nell’incontrare quelle che ha puntate addosso.

Non è decisamente Barton, quello. Il cuore gli bussa alle costole nel riconoscerlo, sbatacchiando nella sua gabbia ossea mentre il respiro lo tradisce: Barnes lo sta fissando altrettanto interdetto, con l’aria di chi si vede puntare un fucile contro – o di chi lo punta contro un bersaglio inaspettato.

Il silenzio che si tende tra loro viene riempito dal ruggito della macchinetta del caffè, e Tony si riscuote appena in tempo per piazzare la tazza a raccogliere la bevanda, approfittando della distrazione per sfuggire gli occhi ghiacciati che ha davanti.

«Vedo che il nostro Robin Hood non è stato l’unico a fare un salto dal parrucchiere per la metamorfosi da gangster di strada a cittadino perbene,» bofonchia senza curarsi di alzare troppo la voce, conscio che il super-udito dell’altro gli verrà comunque in aiuto a dispetto del frastuono.

«Già, ho seguito il suo esempio,» taglia corto lui, in tono piatto.

Lo capta con la coda dell’occhio nell’atto di passarsi la mano metallica tra i folti capelli ora tagliati a spazzola. È un’eco lontana di quelle foto di guerra sbiadite che ha intravisto di tanto in tanto. Nei musei o documentari, di solito, ma qualche volta in casa propria, custodite in album poco sfogliati. Deglutisce a forza saliva fredda, puntellando i pugni contro il piano della cucina mentre incita quell’apparecchio infernale a darsi una mossa, così da poter raccattare il proprio caffè e defilarsi in laboratorio fino all’inizio della riunione.

Gli fa male tutto, dalla punta degli alluci alla sommità dello scalpo, come se lo stessero tirando con delle tenaglie.

Trattiene un sospiro in gola, sentendo pulsare il lato ferito per la tensione improvvisa. Progettava di fare colazione in grande, dopo un mese di dieta ferrea; magari stravaccarsi per un po’ sulla sua poltrona-relax inutilizzata da anni e sfruttare FRIDAY per impicciarsi degli affari del Complesso, recuperando i tre mesi di blackout ancora lacunosi che si ritrova a dover gestire. Il tutto è evidentemente andato a monte, adesso.

Ha freddo, come in Siberia. La temperatura sembra essere precipitata di dieci gradi nel giro di un battito di ciglia, e non capisce se sia il suo corpo mezzo disfatto a dare i numeri, o se sia la presenza di Barnes a lasciar trapelare un’orma lontana della tundra russa.

Si mostra comunque disinvolto. È bravo a dissimulare: dopotutto l’ha fatto per una vita intera. Però dall’altra parte della stanza c’è comunque una spia e assassino provetto dell’HYDRA, quindi dubita di poterlo ingannare più di tanto. Spia e basta, si corregge mentalmente, a forza, quasi svitando il bullone che regge quel concetto con un veemente colpo di chiave inglese. L’assassino è l’altro, quello rimasto nella capsula criogenica in Wakanda.

Si spera. Lo spera. Si sorprende a farlo, e il cuore scuote di nuovo le proprie sbarre, quasi risentito.

Afferra rapido la tazza con la destra, senza pensare, e quasi se la rovescia addosso quando gli cedono le dita troppo molli.

«Porca putt–» sibila, quando il liquido bollente gli cola sulle piaghe non del tutto guarite, e sente una stilla di lacrime che gli vela gli occhi a quel fiotto di dolore lancinante.

Molla di colpo la tazza, trattenendo altre imprecazioni, e caccia d’istinto la mano sotto al getto freddo del lavandino trovando un tremante sollievo sotto ai flutti, incurante di bagnare il tutore.

«Stark?»

Si irrigidisce, sentendo ogni muscolo farsi di titanio, quasi gli si fosse saldata addosso l’armatura. Non si volta, concentrandosi sullo scorrere dell’acqua sui crepacci e rilievi della propria pelle martoriata – una superficie marziana brulla e inospitale, con scie nerastre a solcargli tendini e venature che si intersecano alle vene vere e proprie in un ricamo irregolare che gli ricorda fin troppo vividamente il palladio.

«A quanto pare, la maggior parte degli infortuni è frutto di incidenti domestici,» ribatte, tentando di allentare i nodi che gli strangolano la voce. «Nel mio caso, però, si aggiunge pure un incidente cosmico pregresso… maledizione,» soffia via in chiusura senza volerlo, quando sente la ferita che riprende a pulsare come un organo a sé stante non appena chiude il getto. «Comincio a pensare che avere un arto di metallo non sarebbe così male, al posto di questo patchwork di pelle e carne.»

C’è un singolo battito di silenzio in cui l’aria pare addensarsi, plumbea di nubi, e Tony aspetta il tuono. Non sa nemmeno dire perché abbia sferrato quel fendente gratuito permettendo all’elettricità di caricarsi. O meglio, è naturalmente portato a scagliare frecciatine contro tutti, senza fare distinzioni – ma quella, più che una frecciatina, è un vero e proprio affondo mirato a un punto vitale.

Si tampona la mano con un canovaccio pulito, continuando a voltargli le spalle a mo’ di labile barriera tra loro.

«Tu dici?» gli arriva in fine, in tono molto meno aggressivo di quanto si aspettasse.

Tony sbuffa, comprimendo la stoffa contro le piaghe per poi voltarsi con deliberata flemma, poggiandosi contro il piano del lavello. Barnes lo scruta con un’ombra inquieta sul volto, le dita meccaniche contratte sullo schienale del divano a segnalare la sua tensione interna. Ha un aspetto meno ostile, senza barba e coi capelli acconciati in quel modo più civilizzato, quasi da bravo ragazzo, ma il suo volto mantiene un che di selvatico che oscilla costantemente tra istinto di fuga e di attacco.

«Dico per dire,» butta fuori infine, modellando le parole in una foggia meno caustica. Barnes, non il Soldato. «Lo faccio spesso; ti conviene abituarti, visto che a quanto pare tra poco diventeremo colleghi

Barnes non abbandona quell’espressione ombrosa, ma la schiarisce di qualche sfumatura appena percettibile, appaiandovi un breve, altrettanto discreto cenno del capo.

«Così pare,» scandisce poi, con lentezza.

Tony serra le labbra, e i suoi occhi viaggiano senza preavviso verso il braccio di Bucky. Vi si incollano, e se in un primo momento ha pensato di deviarli, decide poi di lasciare consapevolmente che vi indugino: su entrambi, in realtà. Sul braccio metallico che ha massacrato suo padre e su quello di carne ed ossa che ha strangolato sua madre.

Sente nitidamente il sangue defluirgli dal volto per andare a coagularsi attorno al cuore, ostruendogli le arterie. Il Soldato, non Barnes.

Ma riesce a vederne entrambe le essenze al contempo, come se fosse una figura in vetro soffiato sovrapposta a un’altra, altrettanto trasparente, altrettanto fuorviante e in contrasto col nucleo di metallo crudo che ospita, silenzioso ma vibrante. In contrasto con lui stesso, che il metallo inerte lo pone a involucro per proteggere le schegge di vetro fragile che tintinnano all’interno, che si rimescolano facendo rumore di non detti.

C’è molto altro, là dentro, che non vorrebbe essere in grado di vedere, e molto dentro di sé che vorrebbe lasciar chiuso in una corazza.

Si chiede perché non se ne stia andando, chiudendosi in laboratorio come aveva intenzione di fare, e rimanga in ascolto di quella vibrazione sottile che gli preme sui timpani. Perché Barnes non se ne stia andando, e rimanga lì a fissarlo e non fissarlo, come se quel tintinnio sommesso lo percepisse.

Tony beve un sorso di caffè. Non si muove, rimane in quel groviglio di vetro e ferro in attesa che si sciolga.


 
Fine Prima Parte

 

Note:
[1] PORZIA: E tu dovrai tagliare questa carne dal suo petto. / La legge lo permette e la corte lo ritiene giusto. / SHYLOCK: Oh, dottissimo giudice, qual sentenza! /[ad Antonio]  Vieni, preparati. Citazione da Il Mercante di Venezia di Shakespeare. La scelta di riportarla ruota attorno al concetto, ricorrente nella commedia, della “libbra di carne” che Shylock esige come pagamento, e di come questo pagamento, alla fine, si ritorca contro di lui, costringendolo a rinunciarvi in toto.


Note dell'Autrice:

Cari Lettori,
da quanto ho in cantiere questa storia? Da anni, in effetti. Almeno due, per essere precisi, ovvero da poco prima di Infinity War, quando pensavo che ci sarebbe stato un qualche tipo di confronto tra Tony e Barnes... a posteriori mi vien da ridere nell'averci anche solo sperato, visto come hanno trattato pure la frattura tra Tony e Steve, ma per fortuna esistono le fanfiction <3 Non mi dilungo in chiacchiere, e spero che questo capitolo, il primo di due, vi abbia messo curiosità. Chi mi legge sa come la penso sull'ipotetico rapporto Stark-Barnes, quindi non me ne vogliate se sceglierò un approccio "tagliente", considerando che è un PoV-Tony.

Il titolo e alcuni riferimenti interni al testo risentono del meraviglioso albo a fumetti Dimentica il mio nome di Zerocalcare. Come tematiche è abbastanza distante da ciò che tratto qui, ma il concetto d'identità che propone è invece molto attinente. Vi invito a leggerlo nel caso vogliate straziarvi l'anima <3
Grazie alla mia Guascosa Miryel per avermi fornito le tre parole ispiratrici e per avermi spinta a rileggere Zerocalcare qualche tempo fa <3
Grazie per aver letto fin qui, e alla prossima settimana con il capitolo conclusivo!

-Light-


 
Disclaimer:
Non concedo, in nessuna circostanza, né l'autorizzazione a ripubblicare le mie storie altrove, anche se creditate e anche con link all'originale su EFP, né quella a rielaborarne passaggi, concetti o trarne ispirazione in qualsivoglia modo senza mio consenso esplicito.
Questa storia è scritta senza scopo di lucro.


©_Lightning_

©Marvel

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Capitolo 2
*** II. Vetro ***


*Avviso importante nelle NdA

Dimentica il mio nome



SHYLOCK: Is that the law?
PORTIA: Thyself shalt see the act.
For as thou urgest justice, be assured
Thou shalt have justice more than thou desirest. 
[1]

Parte II – Vetro



L’aria è solida e deve essere intaccata con uno scalpello ad ogni respiro, immettendo sottili schegge nei polmoni. Tony si sente in uno di quei vecchi film con due pistoleri intenti a fronteggiarsi sotto il sole a picco, e quasi gli pare di sentire una musica di fischiettante tensione nelle orecchie.* Ma l’unico suono a cadenzare i loro sguardi in rotta di collisione è la sporadica goccia che sfugge dal rubinetto impattando seccamente contro il lavello.

Tony deglutisce il caffè percependolo come magma – troppo caldo, troppo viscoso – ma lo manda comunque giù oltre al pomo d’Adamo che gli si è incastrato in gola. Barnes serra le dita metalliche sulla spalliera del divano, ritmicamente, seguendo una marcia tutta sua, ed è un movimento ipnotico che ricorda lo strizzare di un grilletto. Il caffè gli arriva nello stomaco e poi risale, bloccandosi nel cardias a premere contro il diaframma. Gli fa male lo sterno lungo le sottili fratture rimarginate ormai da anni, e crede di sentirlo spezzarsi come un osso di seppia da un momento all’altro.

Non sa più cosa sia un ricordo e cosa una sensazione reale. Si chiede se si possa elaborare una sintesi chimica, per dimenticare, per farsi scappare i ricordi dal cervello e lasciare dietro di loro una tavola intonsa e spoglia, pronta ad essere incisa di nuovo con lettere meno aguzze. Non lo sa. Sa risolvere problemi e nodi quantistici, ma la scienza delle emozioni gli è sempre stata troppo oscura per anche solo tentare di approcciarla. No, non sa quale sia la formula della dimenticanza. Non spetta a lui scoprirla, e di certo non ha nulla a che fare col perdono.

Ma ha a che fare con le gabbie. Con quella toracica che gli hanno fracassato in Siberia, con quella arrugginita in cui vede chiuso Barnes e con quella venefica che rinchiude il suo stesso cervello. Forse serve una chiave, o forse va semplicemente divelta una sbarra alla volta. Ha una certa esperienza, in evasioni.

«Non mi piace avere sospesi,» proferisce infine, e le parole slittano verso Barnes con più lentezza di quanto dovrebbe essere possibile, suscitando una reazione tardiva.

Un leggero strizzare d’occhi e una contrazione della mascella unito al capo che si solleva, impercettibilmente. A metà tra attacco e difesa, di nuovo, e il braccio metallico riluce in modo innaturale, catalizzando la sua attenzione.

«Abbiamo sospesi?» chiede poi, lentamente, e se Tony ha l’istinto primario di prenderla come una provocazione, capisce poi all’istante che è una vera e propria domanda che richiede risposta.

«Non ne abbiamo?» è tutto ciò che offre, tastando un terreno apparentemente solido che nasconde sabbie mobili e paludi nere in cui è facile sprofondare.

Le dita metalliche si stringono di nuovo sulla fodera del divano; la stoffa si tende, e potrebbe strapparla con una semplice trazione, come decenni fa, quando si sono chiuse a pugno per abbattersi sul volto indifeso di Howard. Batte le palpebre e il sangue nerastro che le macchia sparisce assieme a un altro sorso di caffè dal nauseabondo retrogusto ferrigno.

«Non posso ripagarli, Stark,» enuncia infine, in punta di rasoio. «E lo sai che non posso, né da vivo né da morto. O mi avresti ucciso già in Siberia.»

«La tentazione c’è stata,» ribatte, senza una stilla d’emozione nella voce. C’è ancora, quella tentazione, bollata come disumana e incatenata nei reconditi del suo inconscio, e sa che Barnes riesce a vederla in trasparenza assieme a tutto il resto. «Non posso dire che sarebbe stata una scelta produttiva. Sono un tipo pragmatico. E appunto per questo non mi piace avere sospesi, considerando che l’ultimo ha collateralmente portato al dimezzamento dell’universo.»

Butta via quell’affermazione come fosse un commento casuale sul tempo, o su una qualunque incombenza casalinga di poco conto, e vede un lampo di sorpresa scorrere negli occhi cristallini del soldato. Dura una frazione di secondo, prima che le saracinesche tornino a calare sulle sue iridi.

«Steve?» chiede semplicemente, e Tony pensa tra sé che si è meritato la fama di cecchino, anche se forse Kennedy avrebbe da ridire in proposito.

«Potrebbe esserti giunta la voce che i nostri rapporti si sono… raffreddati, dopo che ha giocato al gioco del silenzio per qualche anno di troppo per poi concludere il tutto con una partita di Acchiappa la Talpa sul mio petto. Devo ancora presentargli il conto dell’osteopata.»

Cala una cortina di silenzio gelido, e vede che Barnes abbassa gli occhi per una frazione di secondo sul punto in cui Steve ha abbattuto lo scudo, per poi tornare a fissarlo negli occhi, teso.

«Non avremmo dovuto,» esala infine, e non capisce se stia parlando con rimorso o, più probabilmente, con la vergogna di un soldato che è uscito dai ranghi lasciando qualcuno indietro.

«Non avrebbe dovuto,» lo corregge d’impulso Tony, scrollando le spalle con una fitta che percuote la destra. «Tu ti reggevi a malapena in piedi ed eri un po’ troppo smontato per essere utile. Non è certo da te che mi sarei mai aspettato aiuto… insomma, per quanto ne sapevo eri ancora programmato per eradicare la stirpe degli Stark.»

Stavolta l’espressione che contrae il volto di Barnes è innegabilmente rabbia, tenuta a freno unicamente dalla particolare circostanza di stare parlando con lui, e non con chiunque altro. Tony sospira a mezza bocca, per poi gettare lo sguardo lontano da lui, oltre la vetrata affacciata sull’Hudson.

«So che non sei stato tu,» mormora infine, sentendo di pescare ogni parola come un pesce riottoso tirato all’amo, e vede il piccolo scatto degli occhi di Barnes, come se credesse che quella frase sia rivolta a qualcun altro. «Sono un genio: invento roba, scopro cose, creo e risolvo crisi mondiali… posso arrivarci. Eppure,» fa un cenno del mento verso il suo braccio artificiale, «non è così facile ricordarsene, con quell’affare davanti agli occhi. O dimenticare, se è per questo.»

«Non è stato questo braccio,» replica Barnes, in quello che adesso sembra un tono cauto e quasi… gentile che lo prende in contropiede. Ruota la protesi per mostrargli l’assenza della stella cremisi sulla spalla e il vibranio perfettamente immacolato del Wakanda, ma vede comunque il metallo sovietico cromato e la stella a cinque punte in sovrimpressione, tatuata nelle retine. «Ma non mi aspetto che dimentichi. Ne so qualcosa, di associazioni mentali involontarie.»

Tony si ritrova ad annuire una volta, capendone abbastanza di intrusioni nella propria testa per provare una sparuta pagliuzza di empatia che gli incenerisce le sinapsi, inaspettata e indesiderata. Abbassa gli occhi a incontrare il fondo della propria tazza: vorrebbe qualcosa di più forte del caffè, in questo momento.

Gli scorrono in fondo alla mente vecchie foto di guerra, immagini rubate alle pause tra i combattimenti. Suo padre non amava mostrarle, contrariamente a quanto avrebbe suggerito la logica. La guerra e la sua rievocazione era solo un mezzo per infondergli un po’ d’acciaio nella spina dorsale: dei lutti, dei rimpianti, dei soldati perduti, di Steve Rogers e James Bucky Barnes non parlava mai. Era Capitan America, ad occupare la scena, la cui figura imponente oscurava il mondo ai suoi occhi di bambino e adolescente diventando un ostacolo da abbattere o aggirare.
Barnes sorrideva, in molte di quelle foto, impettito nell’uniforme come fosse in uno smoking a un gran galà al Plaza, nella Manhattan degli anni Quaranta. Sembrava nel suo ambiente naturale, ma Tony sa fin troppo bene quanto sia facile fingere davanti all’obbiettivo di una macchinetta fotografica. Ad alcune persone viene naturale, è un dono innato, e si ritrova a pensare che qualcosa in comune ce l’hanno, dopotutto, in quel contrasto di ferro inespugnabile e vetro falsamente trasparente.

Il rancore è corrosivo, gli torna in mente, dopo mesi da quando ha pronunciato quella frase. [2] Rischia di intaccare entrambi, continuando a scavare ferite una goccia d’acido alla volta.

«Cosa vuoi dirmi, Stark?» sbotta infine Barnes, facendolo quasi trasalire e procurandogli una schicchera al lato ferito e sempre più indolenzito con ogni minuto che passa in piedi. «Non sei tipo da aprir bocca senza un intento, e preferirei capire cosa vuoi da me, o cosa ti aspetti che faccia,» continua, raddrizzandosi un poco e scagliandogli contro uno sguardo acuto al quale non si sottrae, rigirandosi in mano la tazza in modo assente.

I suoi occhi lo mettono in difficoltà: sono glaciali, ma in qualche modo addolorati. Non riesce a capire se per se stesso, per lui, o per chi è capitato nel suo cammino teleguidato.

«Visto che siamo sempre in vena di giochi, vorrei solo vincere questa partita di Indovina Chi e tirar giù qualche figurina nel mio campo per capire con chi sto parlando adesso,» proferisce infine, dopo un lungo momento in cui fa combaciare il manico della tazza con una delle piaghe che gli solca il palmo.

Se le cose fossero andate storte, avrebbe potuto ritrovarsi anche lui con un braccio di metallo. La sorte sa essere ironicamente beffarda, ma a volte tiene per sé i suoi tiri mancini. Non per questo si astiene dal sogghignare verso di lui attraverso ogni cicatrice, a ricordargli il brutto scherzo che avrebbe potuto giocargli, camminandogli di fianco in modo che lui non lo dimentichi mai.

Vede Barnes aggrottare le sopracciglia, con un velo di smarrimento nello sguardo, e la sua figurina in vetro si colora di tinte diseguali: soldato, uomo, assassino. Oscillano e si rimodellano sotto al calore improvviso suscitato da quella domanda indiretta che esige una risposta convincente, per seppellire davvero i rancori.

«Non il Sergente Barnes, né il Soldato d’Inverno,» risponde dopo qualche istante, con determinazione graffiante. Incassa la testa nelle spalle, come se avesse subìto uno scossone inatteso. «E nemmeno più “Bucky”, in effetti.»

Tony arriccia la fronte, con quelle due affermazioni contrastanti che non lo aiutano nel suo gioco mentale di sospetti, aggiungendo solo identikit ammantati d’ombra davanti a lui e una massa di vetro informe in continuo rimodellamento. Sente le schegge nel suo petto rimestarsi, cercando di tenere il suo passo nel trasformarsi.

«Nemmeno Bucky?» ripete, perplesso e avvertendo una nota di pericolo in un fatto simile. Ha sempre considerato Bucky l’identità legante tra tutte la svariate che gli ruotano impazzite attorno, come lune che si eclissano a vicenda, e sentirlo negare questa convinzione lo mette in allarme.

Barnes scrolla la testa, passandosi una mano a stringere i capelli corti sul davanti, in quel tic nuovo e al contempo consumato.

«Credo che l’unica persona a vedermi davvero ancora come Bucky sia Steve,» risponde poi, tirando le labbra in una smorfia che sa d’ironia, ma anche di frustrazione.

«Uh, sì, Mr. Patriottismo ha una discreta tendenza a bollare a vita le persone. Sai com’è… una volta mercante di morte, per sempre mercante di morte,» si lascia sfuggire a raffica, cercando di camuffare la propria sorpresa nel sentirlo effettivamente criticare l’amico d’infanzia che dovrebbe essere la sua ancora di sicurezza. Si affretta a continuare, notando lo sguardo interdetto che gli rivolge Barnes: «E quindi, chi saresti?»

«Solo James, suppongo,» risponde lui, con prontezza minata dall’oscillazione della sua voce, che quasi vira su un interrogativo riflesso nelle sue pupille.

«”Solo James”, mh,» borbotta tra sé Tony, poggiandosi infine al bordo della penisola per alleviare la pressione dalle ferite, che hanno un picco di fitte a quelle parole.

«Non posso offrirti di più, perché è tutto ciò che ho adesso,» conclude lui, con una semplicità non artefatta e una scrollata di spalle disarmante. «Basta, a togliere di torno qualche “sospeso”?»

Tony alza a sua volta le spalle in automatico, evitando il suo sguardo che, da incolore, si tinge di una nota che non riesce – o non vuole – identificare. Non avrebbe mai pensato di trovarsi dalla parte di chi riceve ramoscelli d’ulivo, e per un secondo non gli sembra poi così folle che Rogers abbia rifiutato il suo, così tanti anni fa.

Quel pensiero lo folgora sul posto, bloccando il suo intento di avviarsi verso l’uscita gettandosi alle spalle una qualche affermazione sarcastica arrabattata sul momento, che avrebbe continuato a tenere in aria la questione con getti roventi di risentimento e rancori. E prima o poi sarebbe crollata addosso a entrambi di schianto, infrangendo il vetro e spaccando il ferro. Forse farla atterrare in modo meno distruttivo non è un’impresa impossibile, con un briciolo di spina dorsale d’acciaio.

Si blocca nei suoi passi zoppicanti, rivolgendo uno sguardo al braccio metallico ben in vista – un pugno in volto e un grido strozzato che ha solo potuto immaginare – e soffermandosi poi sul volto di Barnes. Gli sembra stanco, semplicemente, a dispetto del suo apparire roseo e giovanile come il soldato di settant’anni fa.

Il perdono è una formula che non ha mai perfezionato del tutto, perché non è mai stato capace di applicarla nemmeno su se stesso, né è mai riuscito ad accettarla da altri. Non gli è stato offerto spesso. Ne ha avuto un breve assaggio in quell’istante di determinato terrore prima di schioccare le dita, evaporato nell’attimo in cui ha riaperto le palpebre sul mondo.

Si può dire che nemmeno Pepper l’abbia mai perdonato nel senso stretto del termine. Lei l’ha sempre accettato così com’era, ha sempre visto oltre la corazza, perfettamente consapevole di chi era e di chi sarebbe potuto diventare. Non c’è perdono, nell’amare in modo incondizionato, e anche quello è un concetto con cui fa fatica a venire a patti.

La sua mente si ritrae, ma poi corre comunque all’indietro, scavalcando anno dopo anno fino a tornare nella grotta. Torna agli occhi limpidi e acuti di Yinsen sull’orlo della morte. Forse lui è stato l’unico ad averlo davvero perdonato in vita sua, a credere di poter essere migliore di quanto non fosse al punto da sacrificare la propria vita per permetterglielo. Un atto di fiducia cieca che ancora lo tormenta, e che al contempo allevia il peso delle proprie scelte.
In fondo però, lo sa, quella di Yinsen è stata anche una bugia rivolta persino a se stesso. Una bugia di perdono che l’ha di fatto guidato sin qui, all’alba di un mondo che ha salvato per non sprecare la propria vita, né quella di nessun altro. E si chiede se non sia il suo turno per fare lo stesso, se quello non sia una sorta di eterno ritorno con personaggi sempre diversi a calcare il palco e a portare avanti lo spettacolo.

Un altro schiocco di dita.

«Sì,» dice infine, in un respiro, con lo sguardo rivolto altrove e i pensieri che balzano al futuro più prossimo staccandosi dal presente. «Forse sì.»

Coglie di sottecchi il cenno d’assenso di Barnes – di James – a tempo con l’etereo martelletto di un giudice che schiocca nelle loro orecchie. Vede ancora il braccio, la stella, un filmato in bianco e nero che scorre in sovrimpressione quando lo guarda; ricambia comunque il gesto in un’eco di conferma – e la seduta è tolta.

È così facile fingere, fondere corazze, rimodellare vetri, dimenticare e cambiare nome per balzare nei vestiti dell’ennesimo ruolo, calpestando il palco con una nuova recita sulle labbra di una maschera. Sono ancora in scena, e quella è ancora una mezza bugia che rende la vita meno corrosiva.

Ma è una bugia di vetro e, almeno per ora, può bastare.



 
–FINE–


 

Note:
 
[1] SHYLOCK: È questa la legge? / PORZIA: Leggi tu stesso l’atto. Poiché, visto che chiedi giustizia, sii certo che l’avrai, e più di quanta ne desideri.”
[2] Frase che Tony rivolge a Steve in Endgame, nell’incontrarlo al Complesso prima della missione per le Gemme.
 
*Un umile e doveroso omaggio al Maestro Ennio Morricone, che ha accompagnato la stesura di questa e mille altre storie nel corso degli anni.


Note dell'Autrice:

Cari Lettori, avevo detto "alla prossima settimana" nell oscorso capitolo, ma... evidentemente qualcosa è andato storto, ovvero la revisione e quasi completa riscrittura del capitolo attuale. Spero che abbiate letto con piacere <3

Il punto è che ci tenevo, a "fare centro" con questa storia e a concluderla in un modo che mi soddisfacesse il più possibile (non del tutto, quello mi è quasi sempre impossibile). Non è perfetta, ma è ciò che volevo scrivere.
Tutto ciò per dire che questo aggiornamento segna di fatto l'inizio di una lunga, lunga pausa dalla Marvel. Con questa storia sento di aver detto tutto ciò che avevo da dire sul personaggio di Tony, e qualunque aggiunta mi sembrerebbe forzata. A conti fatti scrivo sul personaggio dal lontano 2012, con più di quaranta storie all'attivo che lo vedono come protagonista o co-protagonista. Ho scritto probabilmente milioni di parole su di lui e, in tutta sincerità, le reputo sufficienti. Continuare a insistere sul personaggio mi sembrerebbe una forzatura, almeno adesso. Di conseguenza:

 
 
• Tutte le long e raccolte in corso, ovvero 
• Back in Black, invece, continuerà "regolarmente" 
(tra virgolette perché la aggiorno in modo randomico, ma è l'unico progetto di cui posso assicurare al 100% la continuità e il completamento).
• Non smetterò di scrivere su altri fandom, quindi Sotto un cielo di fuoco e Vode An verranno aggiornate.
• I
 progetti in collaborazione con altri utenti continueranno, seppur sporadicamente.
• Continuerò a leggere e recensire sul sito, coi miei soliti tempi biblici.

Mi sembrava quasi troppo egocentrico fare una comunicazione simile in pompa magna... ma poi ho pensato che c'è comunque gente che mi segue, alcuni da anni, spesso in silenzio, e mi è sembrato doveroso avvisare tutti per evitare frustrazione a chi sta aspettando aggiornamenti che, al momento, non garantisco arriveranno e di certo non in tempi brevi. Da una parte mi dispiace dire tutto ciò, ovviamente, dall'altra sento il bisogno di staccare da un fandom che mi ha dato e a cui (spero) ho dato tanto, ma che ormai non stuzzica più la mia vena creativa nel modo che vorrei.

Chi mi segue sa che sto sperimentando altrove, sul fandom di Star Wars, e prossimamente potrei cimentarmi in qualcosa di originale. Posso solo dire che il "cambio d'aria" ha giovato sia a me che alla scrittura, facendomi tornare la voglia di scrivere, mettermi in gioco e uscire un po' dalla mia zona di sicurezza per vivacizzare stile e temi trattati. Magari mi stuferò tra un paio di settimane e tornerò al nido, non so ancora dirlo... ma per ora mi sento a posto con la scelta di mettere in pausa Marvel, Tony&co a tempo indeterminato, chiudendo il cerchio con questa storia che per troppo tempo non ha trovato una conclusione.


Detto questo, posso solo sperare che avrete voglia di seguire le mie disavventure scrittorie anche altrove, ma a prescindere da ciò, grazie. Grazie per aver letto, sia la storia che le note, e a tutti coloro che mi hanno letta nel corso di questi anni: siete stati il motore della mia scrittura e delle mie storie <3
Alla prossima, qui o altrove,


-Light-
   

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