Le occasioni perdute

di Lapiuma
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. ***
Capitolo 7: *** 7. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


1.
Attrazione. 
Tutti almeno una volta la sperimentiamo. É un formicolio delle dita, una corrente inarrestabile, i due capi di un elastico che dopo essere stati tesi allo spasimo, improvvisamente non possono fare a meno di ricongiungersi. È antica come il mondo, si intreccia alla nostra natura da sempre. È calamità magnetica, offuscamento della ragione, risveglio dell'animale. È tormento ed estasi, dolcezza di miele e sapido di lacrime.
È ciò che regola i nostri rapporti, che ci spinge a perpetuare la specie, che fa scoccare quel mostro chiamato amore. Sembriamo creati apposta per esserne interessati.
Ma a volte, l'attrazione va repressa, soffocata, condannata ad affogare in zone della nostra anima di cui non sappiamo il nome. Allora diventa afasia, tremore, rabbia, gelosia, instabilità. È un acido che corrode le viscere e un immenso roveto con cui imprigionare il cuore. È contraria alla nostra natura, aliena ai nostri istinti, morte dell'animale sotto la ragione. È squilibrio, violenza silenziosa; repressione dell'attrazione.
......
Quando lo vedo, per un attimo è come se perdessi consistenza: il mio corpo si è dissolto, sono solo negazione, urlo in una prigione. È in un angolo, una birra in una delle sue mani nervose, i jeans stinti avvolti intorno alle gambe lunghe, i baveri del cappotto alzati ad accarezzargli gli zigomi. Mi si attorcigliano le viscere, sono affascinata dall'architettura della sua immagine: un corpo asciutto, tutto piegato in un intrico di linee spezzate, sgraziate, che nell'insieme però sprigiona un fascino impossibile. Stupidamente, mi rendo conto che, per quanto me lo imponga, non posso impedirmi di desiderarlo, di provare per lui una brama meschina, che incrina l’acciaio della mia armatura. Soprattutto quando si lascia cogliere in modo quasi imprevisto in mezzo a una folla, un sorriso pigro, appena accennato sulle labbra, quella sua sottilissima ruga in mezzo alle sopracciglia. 
Davanti a lui sono indifesa, nuda. 
Lui impiega qualche secondo ad accorgersi di me, anzi di noi; ne approfitto per lasciare che il casino assordante del locale mi penetri dentro, ammorbi tutte quelle voci sibilline che mi si rincorrono in testa. Ma poi Alice lo chiama, tutta sorrisi e guance rosse. Sofia, di fianco a me, mi dà di gomito, già ride per la ridicola fibrillazione della nostra amica. Ricambio con una smorfia ironica e alzo gli occhi al cielo, mentre Sofia inizia a sganasciarsi quando Alice prende a correre e si lancia su di lui. Non ha idea quanto mi faccia male questo momento. Se l'avesse, dubito ci troveremmo in questa situazione. Sarebbe tutto molto, molto diverso, non so se meglio o peggio. 
Mentre li raggiungiamo, non oso alzare lo sguardo, mi obbligo a trovare interessanti le chiazze luride sul pavimento. 
Poi, appena entrano anche i suoi di piedi nel mio campo visivo, è il mio momento. 
"Ma voi due non potete trovarvi una stanza? È estenuante stare a guardarvi mentre vi saltate addosso" esordisco e imbottisco le parole di sarcasmo, le metto in ordine tre volte nella mia testa, prima di spararle una dietro l'altra, di fila, senza tentennare. Sofia mi schiaccia il cinque, mentre Alice si mette a ridere, spalmata sul suo corpo, le vocali della sua risata che affondano nel collo di lui. Lui lo ignoro, non lo guardo, lo escludo perentoria dal mio campo visivo. In questo momento, nel momento della mia trasformazione, dell'ibernazione del mio cuore, non esiste, non deve esistere. 
"È sempre un piacere vederti, Irene" la sua voce, però, bassa e scura, mi arriva comunque, fa strage d'ovunque. Per un attimo, il suo astio malcelato mi fa venire voglia di concluderla qui questa pagliacciata, di congedare gli attori ed abbassare il sipario. Il fatto che mi detesti è spina e carezza insieme, orrore e soddisfazione in pari misura. Perché tu non sai le parole che vorrei dirti, i nei che vorrei scoprirti, i baci che vorrei darti. Non lo sai. E mi chiami per nome, irene, irene, irene, e la tua voce mi dà alla testa, mi fa dimenticare cose importanti, cose fondamentali. Tipo Alice. Alice. Lei sì che è importante, fondamentale, vitale. Mentre lui, lui è solo un movimento dei nervi, un capriccio degli ormoni, composti chimici che mi esplodono nel cervello. Lui, lui non è nulla. 
Gli rispondo, senza neanche voltarmi: "Mi dispiace dire, Andrea, che il piacere è tutto tuo". Secondo cinque con Sofia, Alice mi allunga il pugno, mi prega di aver pietà del suo povero ragazzo. Suo. Dovrei essere su di giri, effervescere d’adrenalina: l'ho schiacciato, affossato contro il pavimento senza neanche guardarlo. Invece mi sembro una di quelle libellule mezze affogate, che in estate, ubriache dalla dolcezza dell’uva, si lasciano andare alla deriva sul pelo di un lago. Suo. 
Improvvisamente ho bisogno d'aria, di porre in mezzo a noi spazio, distanza. Decido di prendermi da bere e lascio che Alice e Sofia chiacchierino in sottofondo, mentre tra la gente accaldata, in accoppiamento sulla pista da ballo, individuo il bancone del bar sul lato opposto della sala. "Vado a prendermi da bere, voi rimanete qui?" chiedo e Sofia annuisce, facendo cenno ai due avviluppati l'uno all'altra. Così mi dileguo, diretta alla terra promessa, cercando di farmi strada tra un mar rosso di gente sudata, ubriaca, miseramente alla deriva dentro se stessa. Però, quando mi ritrovo con il cocktail in mano, senza sapere cosa fare, mi sento stupida, intrappolata nella mia idiozia: in realtà non ho nemmeno voglia di bere. Solo di tornare a casa e dormire, sprofondare in un buio denso, impenetrabile. Non voglio stare qui ad annegare in un vortice di corpi drogati. 
Per mia sfortuna, proprio mentre medito se infilare o meno l’uscita, vengo accalappiata da una Sofia sorridente e appiccicosa, che mi trascina di nuovo nel turbine, senza darmi tempo di opporre resistenza. Mi vomita nell’orecchio una fila di parole sconnesse, che colgo solo a tratti: “Dove ti eri cacciata? Mi hai lasciata da sola con quei due… che cazzo di noia… cos’è gin tonic questo?” E approfitta del mio stordimento per rubarmi il drink e scolarlo tutto d’un colpo. Stronza. “Ma ehi! Che diavolo…?” Lei scoppia a ridere, mettendomi a tacere: “Ti sto salvando il fegato cara, tra quindici anni mi ringrazierai” “Intanto mi hai fottuto sei euro e cinquanta, alcolista dei miei stivali” “Da quando sei così tirchia?” “Da quando sei una ladra?” Lei sbuffa, alza gli occhi al cielo, ma sul suo viso è dipinto un sorriso, una pennellata ciliegia, e mi stringe a sé, trascinandomi lontano dalla mia salvezza. Il suo calore di girasole scalda le mie ossa sottili, ali di un uccellino impaurito, e per un attimo squarcia le coltri del mio umore nero, bilioso. Lei mi guarda, sotto le luci stroboscopiche, in mezzo alla pista, e so cosa vede, so che mi vede, ma non penso di ritrarmi: lascio che mi veda, che mi comprenda con quegli occhi dorati, da maga saggia, mentre il suo sorriso si fa tremulo, curva all’ingiù come lo stelo di una campanula gravata dal sole di maggio. Non dice nulla e la ringrazio, appoggiandomi al suo corpo di luce, cercando di assorbire, di imprimere dentro di me quel calore amico e solo suo. Maldestramente le sfioro le guance, tirandole la pelle, e le disegno un sorriso posticcio, perché mi è insopportabile vederla sfiorita. Ci guardiamo di nuovo, dicendo tutto con gli occhi. Non devi essere triste solo per me. Lo so, che non devo, ma non posso impedirmelo. 
Rimaniamo intrecciate, in mezzo alla calca, il mio orecchio sul suo cuore, il suo viso nel mio collo. Ed è splendida e pura, come la rugiada che riverbera la carezza del sole, questa cosa tra me e lei, che ogni secondo nasce, pulsa e muore ed è sempre diversa e sempre uguale a se stessa. 
Lascio che mi trascini di nuovo da loro, seguendola a rimorchio, piano piano. Vorrei nascondermi dietro di lei, dietro la mia intrepida paladina, far in modo che la mia ombra sia inghiottita dal suo fulgore e che nessuno mai più si accorga di me. Sublimarmi in qualcun altro, annullarmi in chi è migliore, lasciare questo corpo pesante, traditore, bugiardo, che dentro di sé macchina e cova, e si diverte a credere che con me lui sarebbe più felice. Che con me starebbe meglio. Che lei lo imprigiona, lo soffoca, lo limita.  
Ma poi li guardo - sono di nuovo davanti a me - e mi ricordo che lei è Alice, Alice che è delicata come l’aurora e dolce come i lamponi d’estate, che ha un cuore di leone ed insieme di cerbiatta. Allora cade il mio castello di carta, crolla sotto la meschinità della sua stessa padrona, e rimangono solo macerie affogate nel buio. 

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Capitolo 2
*** 2. ***


2.
Strido. 
Strido in modo acuto e deliberato, un groviglio scuro di rovi in una distesa di papaveri in boccio, inconsapevole se gli altri se ne accorgano o meno. Impacchettata in uno dei vestitini sgargianti di Alice, ho affogato nei liquidi l’insopprimibile impressione, che striscia e si arrampica lungo il mio esofago, di essere un’impostora sul punto di essere scoperta. Il solo fatto che lo percepisca, nero e magnetico, un posto più in là, mi urtica la pelle, fa sbocciare creste di brividi lungo la mia spina dorsale. Sofia, accanto a me, sta ridendo, il gomito puntato tra le mie costole perché le faccia da eco e, almeno, nasconda il mio livore funereo. Io ci provo, tento di forzare i miei muscoli in quella maschera divertita e sarcastica che indosso la maggior parte del tempo; ma forse ho bevuto troppo e non sono in grado di far altro se non sciogliermi, fondermi pian piano nelle pozze di birra sul tavolo. Per quanto possa apparire piuttosto disgustosa come sorte, confido che apprezzerò l’insensibilità degli amici luppoli: essere insensibile ai picchi e alle valli delle sue risate, alle tortuosità delle vene e dei tendini delle sue mani, al modo in cui la luce taglia, come una lama, la sua fisionomia imperfetta mi pare l’unica via di fuga possibile.
Questa volta ha portato un amico, il cui nome devo averlo smarrito tra i fumi dell’alcol e del desiderio; immagino Alice che lo prega di trovare l’amico perfetto per me e Sofia. Mi raffiguro la selezione che deve aver affrontato il poveretto e sorrido, impietosita. Sofia mi scocca un’occhiata, mi interroga con un cenno del mento, che hai da ridere? Io indico il ragazzo e poi ammicco verso Alice, sto pensando a cosa gli deve aver fatto passare. Lei stringe le labbra, nascondendo il riso, poi mormora “La fedina penale gliel’ha già controllata, secondo te?”. Reprimo un ghigno, “Sicuro, la prendi per una principiante? Tessera sanitaria, diploma, certificato di nascita... la stronza ha già tutto...mi chiedo solo se si è già fatta presentare i suoi” “Come se ce ne fosse bisogno… scommetto che sa già quanto guadagnano, se vogliono dei nipoti e se preferiscono essere cremati o meno”. 
A questo punto, scoppiamo a ridere sguaiatamente, collassando l’una sull’altra. Alice ci guarda, fa per dirci qualcosa, ma la precedo, con la lingua improvvisamente sciolta e un fuoco dentro, che si mangia tutto l’alcool che ingerisco da tre ore: “Ma la macchia nera l’hai già trovata o ce l’hai sottoposto ancora candido e perfetto?” Alice sbuffa, smascherata, ma sorride, impenitente: “Guarda che mica l’ho obbligato io a venire… e poi per ora è ancora immacolato e pronto ad essere accasato, vero…?” La lingua le inciampa sul finale, mentre una scintilla di panico le accende lo sguardo: o Gesù, si è dimenticata pure lei il suo nome. Per fortuna Sofia salva la situazione, interpellando il diretto interessato: “Allora hai qualcosa da dichiarare o sei davvero immacolato e pronto ad essere accasato?” 
Per la prima volta da quando siamo stati presentati, soffermo la mia attenzione su di lui, scrutandolo senza troppa delicatezza. Ha un viso affilato, il naso dritto e gli occhi scuri, color onice. Se è imbarazzato o sorpreso, lo tradisce solo la piega della bocca sottile, che a sinistra scarta e cade improvvisamente di lato. Il silenzio perdura un attimo di troppo, mi offre l’occasione per incalzarlo: “La seconda casa dove l’avete? Mare o montagna?” Sofia ridacchia, mentre Alice fa un cenno come a dire d’ignorarmi. Di Andrea rifiuto di esaminare la reazione, mentalmente lo riduco al silenzio, alla non esistenza. 
“Mare” è come se la parola gli sfuggisse, eludesse il controllo di quelle labbra serrate.
“Riviera o Porto Cervo?” “Porto Cervo” questa volta il controllo è meno stringente, le sillabe si lasciano dietro un mezzo sorriso. Sofia emette un fischio, ammirata, e io rivolgo un piccolo applauso ad Alice, “Complimenti signora, ha dei gusti raffinati”. Lei accenna un inchino, soddisfatta, lisciandosi pieghe immaginarie sul vestito. “E il conto in banca?” giustifico la mia maleducazione nei luppoli, ma una bruciante impertinenza mi prude sulla lingua e non riesco a trattenermi. “Cosa?” questa volta quasi si strozza e la spuma della birra gli si arriccia bianca sulle labbra, come i ricami che le onde lasciano sui lidi scuri. “Il conto in banca, quanti zero?” Mi ritrovo il ginocchio di Sofia puntato contro lo stomaco, ma non riesce a trattenersi e mi dà corda: “Sei, sette?” Mi rivolgo scandalizzata direttamente ad Alice: “Non dirmi che è come l’ultimo! A quanto arrivava quello?” “Nemmeno a cinque credo” risponde Sofia. Emettendo un verso disgustato, riporto la mia attenzione su di lui, lo sollecito con un gesto della mano: “Allora?” Lui per un attimo tace, ingolla un altro sorso di birra, poi spara: “Nove”. Sofia inizia a farsi aria con la mano, mentre io scoppio a ridere di gusto. Quando lo guardo, sul suo volto è rimasta impressa la traccia di un sorriso. 
Quando usciamo dal locale, tira un vento gelido, che si insinua fra le anse dei vestiti senza lasciare via di scampo. Alice e Andrea ci salutano subito, dileguandosi nel buio, avvolti in una felicità così abbagliante da non accorgersi dell’imbarazzo che si lasciano dietro. Noi tre ci guardiamo ed esitiamo tutti un secondo a parlare, finendo per accavallarci l'uno sull'altro. In ogni caso, salta fuori che io e il ragazzo senza nome dobbiamo incamminarci nella stessa direzione. Mi propone di fare il tragitto insieme, non riesco a capire se per pura educazione o meno; sto quasi per accampare una scusa, ma Sofia mi precede: “Ottima idea, così almeno una delle due non concluderà la serata sgozzata in un cassonetto”. “Guarda che so cavarmela benissimo da sola e poi non è nemmeno così tardi...” bofonchio, mezza infastidita dalla sua premura, ma mi sottometto docile alla sua occhiata imperiosa, lasciandomi abbracciare e indugiando un istante a guardarla mentre si allontana. Quando mi volto di nuovo verso di lui, si sta accendendo una sigaretta e la fiamma dell’accendino si agita esile nell’aria, sfidata dal vento. Nonostante l’accanimento della natura, porta a termine l’operazione con gesti secchi e veloci, che istintivamente mi sorprendono. Prende una prima boccata, aspirando profondamente, trattenendo dentro di sé il fumo il più possibile, e poi espira, partecipando con tutto il corpo: spalle, collo, testa, tutto sembra espellere da sé una tensione impossibile da trattenere oltre. Mi chiedo, sorpresa, se ne siamo state noi la causa o come mai se aveva così tanto bisogno di fumare abbia atteso fino ad ora. Quando si volta verso di me, un sorriso soddisfatto gli aleggia sul volto, ingentilendo quelle linee di rasoio. Fa per offrirmene una, ma rifiuto con un cenno del capo. È lui ad essere sorpreso ora, mentre mi scruta con la testa inclinata, come se fosse impensabile ricusare una simile offerta. Poi scrolla le spalle, contenta te, ed indietreggia di un passo, facendo cenno di incamminarmi: “Prego”. Gli scocco un’occhiata, stranita, senza sapere se mi prenda in giro o meno. Lui, in tutta risposta, inarca allusivamente le sopracciglia, uno scintillio negli occhi e la sigaretta irta tra le labbra. Non so perché, ma mi viene da ridere, mentre mi incammino mezzo passo davanti a lui. 
Per qualche minuto proseguiamo in silenzio, senza avvertire la necessità di dire alcunché. Mentre attraversiamo i vicoli serpentini del centro, mi lascio vagabondare tra gli stralci di voci e di musica che filtrano fuori dai locali, osservando di soppiatto le vite che palpitano intorno a me. Solo a quest’ora della notte, la miseria e la grandezza del mondo si schiudono veramente davanti ai nostri occhi: amici, amanti, ubriachi, prostitute, drogati, imperversano per le glorie della città storica, vomitano dove una volta abitava un duca, amano dove una volta si impiccavano i ladri. È un prodigio quest’involuzione di epoche e uomini, sempre diversi, eppure sempre uguali a se stessi. 
Solo quando usciamo dalla zona più affollata e la notte torna ad avvolgerci, il ragazzo accanto a me sembra riacquistare consistenza e il suo mistero divenire allettante, impellente. Gli rivolgo un’occhiata di sbieco, incrociando il suo sguardo imprevisto: non pensavo mi stesse osservando e soprattutto non con quell’interrogativo ironico e curioso luccicante negli occhi. Per un attimo, vorrei sottrarmi a questo cono di luce e sfuggire alle sue iridi scure. Ma in esse sembrano aleggiare un senso di sfida e una certa pretesa di superiorità, che risvegliano all'istante il mio orgoglio sopito. Così mi risolvo a contraccambiare il suo sguardo. Quando se ne accorge, quasi s’arresta e pare stupito; io cerco di rivolgergli una smorfia beffarda, ma forse qualcosa va storto, un muscolo, un tendine, un labbro che rifiutano di fare il loro lavoro, perché lui sorride, divertito. Poi si guarda, aprendo le braccia come per farsi scrutare, “La vista è di tuo gradimento?” mi chiede ammiccando. Mi esce un risolino idiota, che spero suoni più mordace di quanto mi sembri: “Stavo solo cercando di capire se i nove zeri fossero fondati”. Le sue labbra hanno un guizzo, fremono come vibrisse, prima che anche lui rida: “Mi dispiace, ma temo proprio di doverti deludere”. Mi porto una mano sul cuore, prima di declamare sconvolta: “Ma non ti vergogni? Prendere così per il culo delle povere fanciulle… scommetto che non siamo nemmeno le prime!” Mi aspetto l’eco di una risata, ma inspiegabilmente è come se appassisse, mentre il sorriso gli muore sul viso e un’ombra scura gli attraversa lo sguardo. Improvvisamente mi sento goffa, inadeguata ed indelicata: in fondo non so nulla di lui, del suo carattere e della sua vita e forse certe schiettezze non dovrei ancora permettermele. Mi affretto a scusarmi, maledicendomi nella mia testa: “Scusa battuta pessima… lascia perdere…” “No no, figurati… non è colpa tua…” si sforza di rispondermi e prende un respiro, sorridendo mesto “...sono solo brutti ricordi”. Annuisco, silenziosa, perché le sue parole hanno un odore familiare, quello delle ferite non ancora rimarginate. “Tutti li abbiamo” sotto il suo sguardo mi sento inquisita e le mie parole improvvisamente mi paiono superflue e banali, avvizziscono. Ma lui pare soppesarle prima di rispondere: “Sì, presumo di sì… solo che i miei penso siano più neri di quelli degli altri”.  
La notte intorno a noi si fa più pesante, ci avvolge nella sua cappa di silenzio e solitudine, che ora sono timorosa di infrangere. Forse è sorpreso dal mio tacere, perché quando rivolge lo sguardo verso di me, nei suoi occhi c’è un’intensità che prima non c’era. Ma per quanto mi scruti, per quanto si spinga a scandagliare il fondale, c’è una cautela in lui, una delicata reticenza, che quando la riconosco, quasi mi spezza. E la riconosco perché è anche la mia, perché questa sua, mia, nostra cautela è l’istintivo e circospetto timore davanti a una fiamma di chi una volta è rimasto bruciato. È l’ardire perduto del funambolo che una volta è caduto, la fiducia spezzata del bambino dopo che gli è stato mentito. È l’inevitabile scudo che nasce con il rifiuto, la snaturante consapevolezza che potresti essere tu, proprio tu, che ora increspi la mia pelle di baci, a farmi del male. È l’amore negato. 
“Mmm... allora proseguiamo?” la sua voce mi riscuote, nemmeno mi ero accorta che ci fossimo fermati. Ma il tono non è sprezzante o seccato, e anzi pare quasi indugiare sulle sue stesse parole, mentre si scompiglia i capelli scuri. “Ah, mi pareva ti fossi incantato” la mia lingua, come un aspide, articola la risposta prima del cervello, e subito vorrei ricacciarmela giù in gola, tanto mi pare dissonante con la delicatezza di qualche istante fa. Lui sorride, ma con un ghigno ironico e distante, come se non ci fossimo appena scoperti intimamente simili, pericolosamente affini. Aspira l’ultima boccata di fumo, rabbrividendo di piacere lungo tutto il corpo, espira, getta via il mozzicone, “E a guardare cosa? Te?” Non so se la sua replica mi stupisca o meno; c’è un’aggressività latente in lui, un’ironia acida che non mi pare emerga sempre in superficie; nel locale, mi era sembrato quasi timido. “A meno che tu non abbia un’oscura fascinazione per i topi, suppongo di sì”. Questa volta il sorriso è più uno stiramento delle labbra serrate, come se, di nuovo, le sue parole per essere pronunciate dovessero eludere il loro controllo.  
Il resto del tragitto lo compiamo in silenzio, se non per scambiarci qualche indicazione. Cerco di rifiutare quando insiste per allungare il suo percorso in modo da accompagnarmi fino a casa: detesto le pure formalità o la condiscendenza e temo che siano queste a dettare il suo comportamento. Ma lui è fermo, irremovibile, e finisco per acconsentire.
Quando scorgo il mio portone in fondo alla via, è come se una fremente agitazione mettesse radici dentro di me: titubante, mi chiedo se dovrei dirgli qualcosa. Esitando, mi chiedo che cosa. Infine, stizzita, mi chiedo perché diamine me lo stia chiedendo. Abbiamo passato insieme mezza serata e già mi ronzano in testa infiniti problemi. 
Comunque sia, quando siamo davanti al portone e mi fermo, il fremito è ormai dilagato in un impacciato imbarazzo. “Ecco, abito qui” non so perchè ma le parole mi escono in un sussurro. Mi schiarisco la gola. Guardo i miei piedi, la porta ed infine lui. Deve aver concluso un percorso analogo, perché i nostri sguardi si incontrano a metà strada. Stira le labbra. Io probabilmente mi produco in un ghigno. Mi aspetto una risposta, ma lui tace. “Beh… allora grazie… per avermi accompagnata” la banalità delle mie parole quasi mi delude: non so perché mi sento in dovere di pronunciare qualcosa di brillante. “Ah figurati… dovere” agita una mano nell’aria, poi si scompiglia i capelli, infine la ficca in tasca. Constatare che l’imbarazzo non è unilaterale, mi fa sorridere: mi scopro a provare verso di lui un’istintiva tenerezza. “Allora ciao… buonanotte” biascico le parole nella sciarpa, quasi a volerle nascondere. “Sì… buonanotte” si esibisce in un buffo commiato, l’accenno di un saluto militaresco e di un inchino, che mi fa sorridere. Mi volto, come a celare il mio riso, sentendomi improvvisamente esausta e sveglissima insieme. Sto per chiudermi la porta alla spalle, quando nel vicolo deserto risuona la sua voce: “Ci rivedremo?” Quando mi volto, lui è in mezzo alla strada, le mani in tasca, tagliato a metà dalla luce di un lampione. Ma il suo viso è limpido, disteso, come se quell’istintiva affinità aleggiasse di nuovo tra di noi. “Sì, suppongo di sì”. Gli impedisco di scorgere il mio sorriso e mi chiudo la porta alle spalle. 

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Capitolo 3
*** 3. ***


3.
Il nostro secondo incontro va in scena a casa di Alice, una dozzina di giorni dopo il primo. Il suo minuscolo attico è gremito da una folla adorante, che gravita attorno alla sua figura fulva, incandescente. Sono come lucciole intorno a una fiamma: cercano di partecipare del suo fulgore luminoso senza rimanere bruciate. La calca, però, permette che la presenza di Andrea sfumi nell'indistinto, che il suo potere attrattivo si riverberi in corpi a me estranei. Dietro ad essi mi trincero, combatto la mia guerra silenziosa. 
Tento, invano, di immergermi nella conversazione che Sofia e il nostro gruppo di amici intrattengono intorno a me: stanno parlando dei corsi penso, ma non ne sono sicura. La mia attenzione continua a sfuggire per vie impervie e sconosciute: una fiamma che arde in mezzo alla stanza, bruciando tutto l’ossigeno, un ragazzo che la guarda rapito, ignorando tutto il resto, una nube temporalesca che rumoreggia in un angolo. Sofia mi tamburella su un ginocchio, richiama il mio sguardo su di sé: inarca un sopracciglio, che hai? Sei ancora tra noi o ti devo dare per morta? Stiro le labbra, sforzandomi di sorridere, allontano la sua preoccupazione con lo svolazzo di una mano: sono viva, puoi stare tranquilla mammina. Per dimostrarglielo, quando Filippo si produce in una pessima imitazione di un nostro professore, mi obbligo a ridere. Le sue occhiate scettiche, però, mi dicono che non se l’è bevuta. Mi chiedo perché, dato che questo abisso umorale è divenuto ormai la mia seconda natura: uscirne richiederebbe una forza a me aliena. 
Quando lo scorgo dall’altra parte della stanza, sussulto, sorpresa, come se mi avessero scoperta a rubare. Come mai è qui? Non pensavo che sarebbe stato presente. Distolgo subito lo sguardo, mentre si insinua in me una sottile spirale di panico, che sembra sbocciarmi nel petto e scendere fino allo stomaco. Per fortuna Sofia non lo nota, altrimenti mi avrebbe costretta a salutarlo e non credo di esserne in grado: se penso alle cose che ho visto, a quelle che ha visto lui, dopo che io, io stessa, gliel'ho permesso, la spirale si stringe, muta in un ramo d’edera soffocante. La vulnerabilità istintiva, naturale, a cui inconsciamente mi sono lasciata andare l’altra sera, mi è così estranea nella maggior parte dei casi da mettermi in allarme: di solito tengo a distanza le persone, esercito un minuzioso controllo su quello che di me sanno o che da me ricevono. Rifiutarle, tracciare un'immaginaria linea invalicabile tra me e loro, mi dà l’impressione di avere un potere immenso. È un’illusione contro natura, il gioco grottesco di chi ha paura, ma è anche l’unica via per assicurarsi l’indipendenza senza la quale non essere feriti diventa impossibile. Eppure, l’altra sera sono stata vicinissima a sorpassare quella linea, pericolosamente protesa oltre di essa, inspiegabilmente favorevole a gettare al vento ogni preziosa cautela. E anche se ogni volta che in questi giorni vi ho pensato, sono stata sopraffatta da una paura e da una rabbia feroci, c’è una parte di me, che persiste accanita nell’esortami ad andare da lui. Una sconsiderata, folle parte di me, che non desidera altro che avvicinarglisi, parlargli, farlo ridere, scoprire cosa nasconde il dolore nei suoi occhi. E mi sussurra che, in fondo, ogni mia pretesa di indipendenza è già compromessa, che ogni mio tentativo di estraneità ormai è già irreparabilmente minato dalle mie stesse viscide brame. E sono sufficienti le onde di una voce, i frammenti di un viso a rendermene consapevole: io sono già debole. Quindi, in realtà, a cosa mi sto aggrappando? A un’illusione che è già stata svelata? A un nulla di sole parole? 
Ho solo la tremenda paura che quello che finora è stato uno stillicidio lento, con lui possa divenire un fiume in piena. 
Per questo, mi risolvo ad evitarlo per tutta la sera: non lo avvicino, non lo saluto, non lo faccio ridere. Rimango a gravitare intorno a Sofia, chiusa dietro la cerchia dei nostri intimi amici, costruendo nella mia testa scenari improbabili e catastrofici. Paradossalmente, evitarlo richiede un significativo dispendio di concentrazione, e ciò contribuisce alla mia frustrazione: preda di una stupida paranoia, ho il costante timore che venga a parlarmi. Quando non lo fa, la parte sadica di me, addirittura, osa rimanere delusa. In realtà, ben presto mi accorgo che il proposito di stare lontani è reciproco: ogni volta che per qualche motivo ci ritroviamo vicini, lui sguscia via, riduce a zero le possibilità di un incontro. E nonostante a tratti mi senta trapassata da uno sguardo da parte a parte, appena mi volto, i suoi occhi sono sempre rivolti altrove: addirittura il ficus rattrappito, che anni fa io e Sofia regalammo alla padrona di casa, sembra essere più interessante di me. Ma d’altronde anch’io sono altrettanto rapida e mi basta un guizzo delle sue ciglia per distogliere lo sguardo. Ed è un peccato, perché, da osservatrice cannibale quale sono, non desidererei altro che osservarlo con calma, scoprire come si comporta con gli altri, smascherare la sua freddezza. Vorrei avere il tempo e la libertà per ponderarlo senza alcuna fretta, per abituarmi alla sua presenza senza sentirmi presa d’assalto. Per qualche oscuro motivo, ho come l’impressione che non sarà così. 
L’unica cosa che, invece, riconosco fin troppo lucidamente è quanto sia ridicolo questo teatrino sotto un occhio razionale: ci conosciamo appena, per non dire per nulla, eppure siamo preda di una paranoia paralizzante. Che diavolo stiamo facendo?
Trascorro il resto del tempo in uno stato catalettico e quando giunge l’ora di andarcene, faccio in modi di attardarmi aiutando Alice a mettere in ordine. Solo per un attimo in cucina, mi ritrovo inavvertitamente sola con lui: si sta versando un bicchier d’acqua, ma appena mi vede, mi scocca un’occhiata indecifrabile ed esce dalla stanza. Poco dopo, quando lo sento salutare ed infilare la porta, tiro un sospiro di sollievo. Lascio passare cinque minuti, poi esco anch’io. Nonostante il freddo pungente, per tornare a casa scelgo la strada più lunga. 

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Capitolo 4
*** 4. ***


4.
Quando Sofia mi suona al citofono, mi precipito giù per le scale: non so nemmeno se mi chiudo la porta alle spalle o se ho spento tutte le luci, ma mi attanaglia una paura tale da far sembrare ben poca cosa uno svaligiamento o un rincaro delle bollette. Lei mi aspetta in strada, battendo nervosamente il piede per terra; appena la vedo, un turbine di versi sconnessi erompe furiosamente dalla mia bocca: “Come sta? Dov'è? Andrea… che diavolo le ha fatto?” “Risparmia il fiato e sbrighiamoci” l’asciuttezza così insolita delle sue parole per un attimo mi paralizza, ma obbedisco e la seguo mentre inizia a correre verso casa di Alice. Nel giro di cinque minuti arriviamo lì: nonostante grondi di sudore dalla testa ai piedi, le mie ossa paiono congelate. Suoniamo al citofono, una, due, tre volte, ma nessuno ci apre: il gelo sopraffà il calore ed inizio a battere i denti. In testa mi nuotano pensieri sconnessi, che non mi curo di afferrare. Quando la quarta volta non ci risponde, decido di suonare ad ogni interno, nella speranza che qualcuno ci apra. La serratura scatta, in un attimo siamo nell’ingresso, poi nell’androne, poi su per le scale. Troviamo la porta del suo appartamento spalancata, come se qualcuno fosse appena uscito in fretta e furia. Entriamo e subito ci blocchiamo, stupefatte: il tavolino al centro del salotto è ribaltato, i soprammobili naufragano per tutto il pavimento e persino il vecchio ficus è abbattuto per terra, i rami nodosi come dita artigliate al pavimento. Una bolla di rabbia e dolore mi si gonfia nel petto, espandendosi sempre di più, schiacciandomi i polmoni e il cuore e lo stomaco.  
“Alice?” la mia voce suona così sbagliata in questo silenzio assordante: gracchia e si spezza, accartocciandosi su se stessa. Mi risponde un gemito a malapena soffocato, simile al guaito di un cucciolo ferito, che mi spezza il cuore. Avanziamo verso la sua provenienza e la troviamo nella sua camera da letto, raggomitolata contro il muro, gli occhi chiusi, le guance bagnate. È così piccola, minuscola come una bambina, che vorrei solo prenderla tra le mie braccia e prometterle che nessuno le farà più del male. Sapere che non potrà mai essere così, mi sgretola. Mi inginocchio accanto a lei, accarezzandole piano i capelli; sorrido appena, quando la sento protendersi verso le mie dita, facendo le fusa come un gatto. Ci scambiamo uno sguardo con Sofia, spostiamola da qui, mettiamola sul letto. Lei un po’ protesta, mentre la tiriamo su, ma cede sotto le parole incoraggianti di Sofia: “Forza tesoro… mica puoi rimanere qui a prendere polvere sul pavimento… ti tiriamo su noi, tranquilla”. Dopo averla messa a letto pressoché esamine, vado a preparare del tè, mentre Sofia rassetta il casino in salotto. Aspettando che l’acqua bolla, penso a tutto e a niente insieme: mi viene in mente che entro la fine della settimana devo tornare in pari a studiare per gli esami, che devo spostare l’appuntamento con il dentista, che devo accordarmi con mia madre per l’imminente compleanno di mio padre. Quando torno in camera, con tre tazze fumanti, Alice è accoccolata contro Sofia: sembra quasi dormire. Poso le tazze sul comodino, mi libero delle scarpe e del cappotto, che solo ora mi rendo conto di indossare ancora, e mi rannicchio sotto il piumone. Il gelo mi abbandona e il mio corpo, a contatto con il loro, pare ritornare a funzionare. Con Sofia ci scambiamo un paio di cenni, ha già parlato? No, ma mi sembra si sia un po’ ripresa. Ma è Andrea vero? Penso di sì. Giuro che gli spezzo la schiena a quel… “La smettereste di confabulare nel vostro solito modo? Non mi sono ancora rincretinita” la sua voce ci interrompe, filtrando da sotto la spalla di Sofia, fragile e acuta. “Sicura? Perché io qualche dubbio in realtà lo avrei…” la prendo in giro, abbracciandola più stretta. In risposta mi arriva uno scappellotto che mi strappa una risata. 
“Andrea mi ha tradita” le parole si arrampicano fuori di lei, faticano ad uscire. Quando le pronuncia, vorrei non averle mai sentite. Mi viene da vomitare. Riesco solo a stringerla più forte, mentre dentro di me detona qualcosa di sconosciuto. Immensa cecità, vergogna, rabbia, stupidità? Le parole si perdono in un silenzio che nessuna ha fretta di riempire: Alice reclama con una mano la sua tazza di tè. Mentre si mette seduta gliela passo. Lei la scola a grandi sorsi, rabbrividendo per l’improvviso tepore. Meccanicamente, me la riaffida e io la ripongo accanto alle altre due. 
Quando parla, lo fa senza guardarci, come se interloquisse con il muro davanti a sé: “L’ho scoperto perché un giorno gli ha scritto una ragazza che non conoscevo. Non mi ha voluto spiegare chi fosse, così l’ho cercata su Instagram e l’ho riconosciuta… era quella tipa che gli stava sempre appiccicata all’inizio, le prime che volte che siamo usciti. Mi sono insospettita e allora ieri sera, mentre dormiva, ho controllato la loro chat… avevo… avevo avuto ragione ad insospettirmi. Stamattina se n’è andato prima che mi alzassi, così l’ho chiamato e gli ho detto che non volevo più vederlo… ma lui è venuto lo stesso e… abbiamo litigato e ci siamo urlati contro… ma visto che non cedevo a un certo punto se n’è andato…”  
Le sue parole aleggiano nella stanza come una nebbia tossica, che il mio organismo rifiuta di respirare. Vorrei disperatamente dirle qualcosa, ma mentre mi affanno a cercare le parole giuste, mi rendo conto di non possederle, di essere miseramente sprovvista. Per quanto lo desideri, forse non sono in grado di curare le sue ferite, forse nessuno lo è: forse solo lei può decidere di ricostruire le sue macerie. Eppure, l’impotenza davanti al suo dolore mi uccide, annichilendomi. 
Quando riprende a parlare, né io né Sofia abbiamo ancora aperto bocca: “Ha tentato di giustificarsi ovviamente… ha detto che era successo solo qualche volta quando stavamo insieme da poco, che non mi conosceva allora e che non importa perché oggi non lo rifarebbe più… ha detto che era lei a cercarlo, a tormentarlo e che lui invece aveva cercato di troncarla…” inizia a singhiozzare e la voce le si spezza in mille singulti “Mi ha detto che se non lo perdonavo voleva dire che non l’amavo davvero e che allora non aveva niente da rimproverarsi… gli ho detto che mi faceva schifo e che ero stata stupida, stupida da morire, a credere di amare una persona del genere… e lui mi ha riso in faccia e se n’è andato, rovesciando tutto per terra”.
Che bastardo. Che grandissimo, fottuto bastardo. Come ha osato farle una cosa del genere? Dirle delle stronzate simili? Vorrei che i singhiozzi di Alice fossero coltellate, e che ciascuna gli penetrasse il costato, che pagasse nel sangue lo strazio che le ha inferto cinque, dieci volte, una non è abbastanza. Vorrei che sentisse la mia furia sferzare sulla pelle e che la sua pena ponesse fine a quelle di Alice. L’idea che non sia così, che un dolore non ne risani un altro, mi è così odiosa in questo momento da sembrarmi assurda: certo che i miei sanguinosi piani di vendetta la salveranno, certo che guariranno le sue ferite. Cosa ho altrimenti da offrirle? Il mio furioso silenzio? Oltre a quello, mi rimane solo un cuore malconcio e raggrinzito, atrofizzato da anni di scarso utilizzo. Ma per quel poco che vale, glielo posso donare.    
Per cui glielo offro, l’unica cosa che ho, l’unica cosa che spero la possa aiutare, e la stringo a me, raccogliendola fra l’intreccio delle mie braccia, lasciando che nasconda le lacrime nel mio petto. “Se potessi, prenderei su di me il tuo dolore” glielo sussurro piano nell’orecchio, come una promessa irrealizzabile e segreta, “se potessi, ti farei scudo con il mio cuore e non permetterei a nessuno di farti del male” la voce mi si frantuma “ma non posso e mi dispiace, mi dispiace così tanto.” Quando la ammetto, la mia umana e terribile fallibilità di fronte al dolore, l’insostenibilità di tutte le mie pretese, è come se in me si sciogliesse qualcosa, come se mi si spianassero le grinze sul cuore. È bellissimo, terrorizzante, di una vulnerabilità pura ed estrema. Mi fa tremare. Distolgo lo sguardo dallo scricciolo rosso sul mio petto e lo rivolgo verso Sofia: sta sorridendo, ma ha gli occhi lucidi, pieni di lacrime. Se potessi, prenderei anche il tuo. So che lo faresti. 
 

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Capitolo 5
*** 5. ***


5.
Quando il giorno seguente esco da casa di Alice, è ancora presto e in giro non c’è quasi nessuno: posso allungarmi nel mattino, stirare le mie membra tra le pozze di luce e di ombra senza che occhio umano se ne accorga. È rasserenante, liberatorio, strano per quanto mi faccia sentire bene. Ma nell’aria freme un’epifania appena nata, bisognosa della mia protezione, e la purezza di questo momento mi spinge a concedergliela. So bene che durerà solo qualche attimo, questa luminosa inconsistenza, così estranea e così gradita, ma sono attimi preziosi, che non voglio lasciarmi sfuggire. Eppure, più cerco di afferrarli, di stringerli tra le mie dita goffe, più torno conscia della mia oscura pesantezza. E per quanto voglia allontanarla e cacciare via con lei l’affanno dei miei peccati, c’è una nuova, serpentina vergogna che striscia dentro di me, suggerendomi idee ributtanti ed oscene: mi sussurra che sono una complice, che sono caduta come un’idiota sotto il suo fascino, che non ho fatto niente per prendermi cura di lei. Mi ricorda che in certi momenti l’ho odiata. Con perverso compiacimento, mi chiede come faccia a ritenermi migliore di quella ragazza: non l’avrei forse fatto anch’io se ne avessi avuta l'occasione? Ma si può sapere come diavolo fai a guardare ancora Alice negli occhi? A chiamarla “amica”?
La luce cessa di essere una benedizione, mentre torno a sentirmi un essere lurido e sporco: ora mi giudica e l’epifania danza leggera davanti ai miei occhi, inafferrabile, ma più vicina che mai. Non riesco a capire se mi stia sbeffeggiando o meno. Torno a casa dilaniata tra impulsi opposti, piedi di fata in scarpe di piombo, e sebbene mi sia appena svegliata, vorrei solo dormire per un’altra decina abbondante di ore. Spegnere tutto questo cortocircuito umorale, sognare di essere una nuvola. Vivere come vapore acqueo; non sarebbe esaltante? 
Svoltando nel vicolo di casa mia, concludo che questa mattina non andrò a lezione: non sono pronta ad avere intorno a me una masnada di esseri umani più o meno irritanti. Da domani riprenderò a comportarmi in modo pseudo-antropomorfo; ma per oggi mi accontento del mio isolamento ferino. 
Sono così assorta nel prefigurarmi la mia caffettiera borbottante sul fornello da non accorgermi della figura appiattita contro il mio portone. E quando lo faccio ormai è troppo tardi: nei pochi metri che ci separano non ci sono vie di fuga, e, a meno che non decida di coprirmi di ridicolo battendo in ritirata, sono condannata ad incrociarlo. Merda. Oltretutto lui mi ha già vista e si sta protendendo verso di me, quindi mi ha chiaramente riconosciuta. Merda di nuovo. Ma cosa diavolo ci fa qui? Non l’ho mai visto aggirarsi prima in questa zona. Ma non può essere venuto per me. Non dopo l’altra sera...
Lo raggiungo lentamente, mentre una confusione di parole, pensieri ed emozioni mi si affastellano dentro, raggrumandosi in un nervosismo incandescente. Lui, però, deve trovarsi nelle stesse condizioni, perché ha il viso storto in una smorfia tra l’imbarazzo e il timore, che, a sorpresa, trovo buffissima. Eccoci, infine, faccia a faccia, tanto vicini che il suo corpo mi protegge dal vento. Non ho la benché minima idea di cosa dire, dunque attendo che sia lui ad iniziare, sfruttando questi secondi per osservarlo. Si ricostruisce nel mio occhio come un gioco di incastri apparentemente discordi: gli occhi onice nella pelle pallida, i lineamenti affilati nella carne morbida, le spalle leggermente incurvate nel corpo alto e snello. Dà un’impressione di ritorsione, di incuneamento su se stesso: mi ricorda gli autoritratti di Schiele. 
“Io… ecco io stavo passando di qui e ho pensato di venire a salutarti” esordisce schiarendosi la voce e gettandomi un’occhiata di sbieco. È nervoso almeno quanto me e questo in qualche modo mi lusinga, dissipando parte del mio imbarazzo. “Alle otto del mattino?” come al solito la mia voce è più tagliente di quanto dovrebbe, ma lui pare non farci caso. Si stringe nelle spalle, mi risponde con un tono fanciullesco: “Dormo poco”. Le mie labbra tremano, trattengono dentro di sé il riso, ma, di nuovo, lui sembra afferrare le mie intenzioni, e sorride compiaciuto. “Vuoi salire per un caffè?” questa volta le parole erompono dalla mia bocca, superando le restrizioni delle labbra e del senno. Le guardo allibita disperdersi per l’aria, e proprio un attimo prima che un’onda di rimproveri, strida e maledizioni si abbatta sulla mia dannatissima lingua, lui accetta. Non so come mai, ma questo mi stupisce ancora di più. Probabilmente strabuzzo gli occhi o lo guardo allucinata, perché si affretta subito a replicare: “Ma se ti disturbo o hai qualcosa da fare, tranquilla… non c’è problema” “No no, figurati, non ho nulla da fare… sono solo stupita che tu abbia accettato... visto il mio…” Il mio pessimo carattere? La mia misantropia dilagante? La mia acidità insoffribile? Annaspo, cercando un eufemismo meno degradante. “Visto il tuo temperamento da chihuahua incazzato?” Quando risponde, per un attimo lo fisso sorpresa, poi scoppio a ridere: “Avrei detto da drago con l’acidità di stomaco, ma suppongo che l’idea sia quella”. Lui sogghigna, mettendo su un’aria spavalda: “No, purtroppo non mi fa affatto paura.” 
Di nuovo, rimango stupita: ho come l’impressione che vi siano segreti di carne e di sangue nelle sue parole. Segreti che mi mettono in soggezione, che pretendono delucidazioni a cui non sono ancora arrivata. A cui non so se voglio arrivare. Per il momento, cerco di scrollarmele di dosso, rifiuto di soppesarle a dovere. Così lo invito ad entrare, incamminandomi davanti a lui sulle scale ripide, le mani sudate, non so se per il nervosismo o per il suo sguardo che sento bruciare in mezzo alla schiena. Quando al quarto piano, però, lo sento ansimare leggermente, gli scocco un’occhiata in tralice: “Non dirmi che i tuoi polmoni da fumatore incallito non ce la fanno già più”. Lui sbuffa, alzando gli occhi al cielo: “Ah-ah-ah molto divertente. Non è colpa mia se vivi in cima a una dannata torre”. Mi volto, nascondendo il mio ghigno vittorioso, ma lui per l’ennesima volta pare sappia quello che sto facendo, nonostante cerchi di nasconderlo: “Sono praticamente certo che tu ti stia divertendo un mondo”. Questa volta non riesco a reprimere una risatina idiota, che fugge via tra le falde della giacca. 
C’è una parte di me che al momento è sconvolta da tutto ciò: da tutta questa espansività, allegria, spensieratezza. È attonita, stupefatta, non riesce a processarlo. Mi urge di fermarmi, di cacciare questo sconosciuto, di smetterla di ridere come una bambina sulle scale. Ma c’è un’altra parte di me, quella che poco fa mi invitava ad allungarmi nel sole, a catturare la mia epifania, che invece è in fibrillazione, sprizza adrenalina da tutti i pori. E oggi non posso impedirmi di seguirla. 
Mentre frugo nella borsa alla disperata ricerca delle chiavi, una vena di nervosismo mi ingarbuglia le dita, ma è una tensione buona, una soffusa elettricità per nulla fastidiosa. Lo spettro dell’ansia paralizzante che provo di solito, inoltre, viene completamente scacciato via quando lui mi chiede se per caso abbia bisogno di un sonar per aiutarmi nella mia impresa. “E io che pensavo che dopo le scale non avessi più fiato da sprecare.” “Si vede che non mi conosci, se no sapresti che la mia arguzia ha i tempi di recupero più brevi della storia.” “Ma quindi è per questo che sei venuto da me: hai già infastidito a morte tutta la gente di tua conoscenza e ora sei in cerca di un’altra vittima!” “Merda, due minuti e mi hai già scoperto!” 
Mentre se la ride di gusto, io finalmente trovo le chiavi ed apro la porta. Entro, liberandomi di sciarpa e giacca e catapultandomi verso il mio minuscolo angolo cottura: il livello di caffeina nel mio sangue deve essere ai minimi storici. Mi accorgo un secondo in ritardo che lui è rimasto impalato sulla porta, senza sapere che fare. “Getta pure il cappotto dove ti pare, non preoccuparti” lo invito a farsi avanti con un gesto della mano. “In realtà ho paura che rimanga fagocitato da questa giungla…” sogghigna, alludendo alle cataste di libri, quaderni, fogli e cataloghi che si innalzano traballanti per tutta la stanza. “Ti stai per caso riferendo al perfetto ordine di casa mia?” insinuo, minacciandolo con il mestolo. “A dire il vero, dubito che la gente normale consideri questo un perfetto ordine…” replica, scoccandomi un’occhiata impertinente. “Bazzecole, è solo questione di punti di vista…” minimizzo, mettendo finalmente la caffettiera sul fuoco. Quando mi volto verso di lui, lo colgo mentre osserva incuriosito i volumi alla deriva intorno a sé. Normalmente un’intrusione simile mi procurerebbe un atroce fastidio; oggi, invece, non riesco a fare altro che a scrutarlo, una pennellata di nero e di bianco che divide in due il mio rifugio luminoso, con le pareti gialle. È una composizione bizzarramente armonica, in cui gli stridori cromatici si riconducono a un’eufonia inspiegabile. “Posso?” mi chiede indicando un catalogo particolarmente voluminoso. Annuisco, avvicinandomi: ha tra le mani la mia preziosissima monografia su Paolo Veronese, uno dei miei veneziani preferiti. Sbircio da sopra la sua spalla, mentre scorre le pagine, affascinato dal tripudio di colori che esplode davanti ai suoi occhi. “È uno dei miei preferiti” mormoro dopo qualche secondo “la finezza e l’esuberanza del cromatismo, l’arditezza compositiva… è semplicemente superbo...” non mi accorgo nemmeno di quante parole infilo l’una dietro l’altra, mentre gli indico questo o quel dettaglio, stupendomi ancora una volta di quanta straordinaria maestria ci sia dietro una sola sfumatura di rosso. Davanti alle Nozze di Cana quasi inciampo nel mio stesso fervore, descrivendogli il circo sontuoso e caotico dei commensali. Quando finisco, mi sta scrutando con la testa lievemente inclinata e ha lo sguardo acceso, intrigato. Valuto indecisa se continuare, ma per fortuna la caffetteria inizia a borbottare, ponendo fine alla mia esitazione.
Mentre verso il caffè, mi rendo conto che ignoro ciò che lo appassiona o ciò di cui il suo animo si nutre fervidamente. Non so se mi sento già legittimata a chiederglielo; in fondo lo obbligherei a venire allo scoperto, a denudarsi pubblicamente. Ma in questo momento lui sta letteralmente passeggiando tra le cose che mi sono più care, quindi presumo di potermelo permettere. Sto per chiederglielo, quando lui mi precede: “Quindi sei un’appassionata d’arte…” Annuisco immediatamente, mentre posiziono le tazzine con lo zucchero su un vassoio e mi dirigo verso il terrazzino: “Sì, da sempre credo… è da quando sono bambina che mi trovo più a mio agio davanti a un Tiziano che ad una persona” lo confesso senza vergogna, temendo solo che lui non comprenda quanto viscerale sia quello che intendo dire. “So cosa intendi” dice invece “per me è lo stesso con la filosofia”. Taccio, attendendo che prosegua. “È come una fame insaziabile, no? Più ne hai, più ne vuoi avere ancora… più ne sai, più ti rendi conto della vastità della tua ignoranza.” È una descrizione così precisa e pregnante che mi chiedo come abbia fatto a dubitare della sua comprensione: è esattamente così. E non potrebbe essere diversamente.
Appoggio il vassoio sul pavimento in mezzo alle due sedie che occupano il mio minuscolo terrazzino e lo invito a sedersi sull’altra. Con un sospiro di piacere, introduco nel mio corpo la mia beneamata caffeina, contemplando davanti a me il momento spettacolare in cui la città si risveglia nel cielo terso di tramontana. Dopo le parole di prima, è come se nessuno dei due sentisse la necessità di dire niente; come se ormai quel fastidioso obbligo, che spinge due sconosciuti a riempire frettolosamente ogni attimo di silenzio con un blaterare vuoto, sia stato decisamente superato. 
Osservo la città e, come ogni volta, cerco di indovinare se mi sbranerà o se mi lascerà brillare: sembra esserci così poco spazio qui, in questo dedalo di vie inestricabili e di case tanto affastellate che diventa difficile a capire se si stiano sostenendo o soffocando a vicenda. Vorrei che mi desse un segno, che mi mostrasse la strada; ma non ricevo nulla dalla sua bellezza aspra, altera, inespugnabile. Solo due millenni e mezzo di storia che mi sfidano, chiedendomi se sarò all’altezza di una genesi simile. Vorrei rispondere di sì, ma la voce mi muore in gola. 
“A cosa stai pensando?” la sua voce emerge tra le nebbie delle mie malinconie, mi ancora alla realtà. Mi volto verso di lui: è chinato verso di me, i gomiti sulle ginocchia, il mento appoggiato sulle dita intrecciate. “A nulla” rispondo. China la testa da un lato, ma per favore, non inganni nessuno. Sbuffo, alzando gli occhi al cielo, Gesù come sei pressante. Lui sorride, scanzonato, se lo pensassi davvero, non saremmo qua. Sospiro, sconfitta, abbracciandomi le ginocchia e raccogliendomi sulla sedia: “Pensavo a cosa dovrei fare del tempo che mi è dato… se sarò all’altezza di tutta questa... storia e di tutta questa vita”. Indico la città di fronte a noi, rifuggendo il suo sguardo. Lui, però, lascia che il silenzio perduri, che la curiosità della sua reazione vinca la mia timidezza. Lo affronto: il suo volto è nudo, spoglio di ogni artificio e, come quella sera, reticenza e dolore vi si leggono in pari misura. “Ti assicuro che il problema del tempo a volte non mi lascia dormire,” mi confessa sottovoce, “ho sempre l’impressione terribile di non averne a disposizione abbastanza”. “Come fai a liberartene?” “Non lo faccio”, si stringe nelle spalle, “e credo di esservi quasi abituato ormai...tu ci riesci?” “Solo a tratti”. Evito di dirgli che parlare con lui arresta nella mia mente lo scorrere molesto delle occasioni perdute. 
“A proposito di tempo, suppongo che ora dovrei andare” si sfrega le mani sui pantaloni, alzandosi dalla sedia. Andare?! Che se ne vada ora mi sembra inconcepibile; ho come l’impressione che la mia giornata senza di lui affogherà nuovamente nel grigio, che finirò fagocitata dalle mille paranoie che mi assaliranno appena metterà piede fuori dalla porta. Allo stesso tempo, mi sembra ridicolo implorarlo di restare qua a calmare i miei nervi. Così rimango un attimo in silenzio, attonita, prima di rispondere: “Mmm… sì certo… anzi scusa se ti ho trattenuto più del previsto”. “No no assolutamente, sono io che mi sono imposto…” mentre risponde, mi alzo anch’io, ed improvvisamente lo spazio sembra in qualche modo saturo dei nostri corpi, non c’è un’ansa che non sia invasa dal fremere della carne e dal pulsare del sangue. Imbarazzo, stupore, attrazione? Cos’è questa cosa? Perché la sto provando?
Stiamo fermi l’uno davanti all’altra per qualche secondo, squadrandoci imbarazzati. Poi ci produciamo in una risata nervosa, che mi illudo dissipi questa coltrina tossica ed elettrica. “Ti accompagno alla porta, non vorrei che ti perdessi in mezzo alla giungla” cerco di scacciare con l’ironia il desiderio strisciante di avvicinarmi al suo corpo, di gustarne il contatto. “E pensi che il mio cappotto sia ancora rintracciabile o l’entropia l’avrà già fagocitato?” “Dipende se la fortuna ti assiste… ma guarda un po’ che strano, è proprio qua!” afferro l’indumento dalla sedia su cui l’aveva abbandonato e glielo porgo. Cerco di non fissarlo mentre lo infila. In un passo siamo sulla soglia e in un altro lui è fuori, sul pianerottolo. “Grazie per il caffè e per avermi fatto salire dopo…” esita, in difficoltà, ma so che si riferisce all’altra sera, quando la stessa paura, che inizierà a logorarmi appena se ne andrà, ha preso il sopravvento. “Figurati, non c’è problema” mi affretto a replicare. “Allora ci vediamo... mi ha fatto piacere parlare con te” accenna il suo buffo commiato ed inizia a retrocedere. “Anche a me” rispondo, salutandolo con la mano. Solo, quando è ormai sulla prima rampa, aggiungo: “E sta’ attento a non schiattare sulle scale!” Mi assicuro di godere della sua risata prima di chiudere la porta.
 

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Capitolo 6
*** 6. ***


 
6.
Io non dovrei essere qui, sotto queste luci, in mezzo a questa gente. Dovrei essere altrove, in un luogo dove i miei pensieri abbiano spazio e tempo per germinare; qua soffocano su se stessi, inebetiscono la mia lucidità. Il disagio mi serpeggia addosso, artigliandomi le viscere: ho come la sensazione che una mano invisibile me le strizzi dall’interno. Cerco invano di rassicurarmi, ripetendomi che il piano di Alice avrà successo, che, in fondo, lei è pratica di gesti plateali. Ma sono insidiata dal presagio terribile che quello che stiamo per fare non guarirà il dolore di nessuno e piuttosto sfregherà sale su ferite già sanguinanti. Per fortuna, Sofia è accanto a me ad infondermi la sua quieta sicurezza: mi sembra di respirarla come ossigeno, unico appiglio contro la deriva in questo tumultuare di corpi.
In realtà, il proposito di Alice è piuttosto semplice: umiliare Andrea davanti a tutti con una bella sfuriata all’antica, giocare pubblicamente a freccette mirando al suo cuore come a un bersaglio. Forse è un po’ rozzo e maldestro, ma dissuaderla si è dimostrato impossibile questo pomeriggio. Quindi, ora ci troviamo nel pieno svolgersi di questa squallida pantomima, sul fondale l’ennesima festa universitaria uguale a se stessa: una massa di persone che giocano l’una con l’altra, inneggiando a una narcosi di massa. “Sei sicura di volerlo fare?” Sofia tenta un’ultima volta di farla desistere. Ma Alice annuisce, continuando a scrutare la sala, ignorando le nostre preoccupazioni. Io, invece, vorrei prenderla da parte e scuoterla, gridarle e chiederle come diavolo pensa che io possa proteggerla se lei si sottopone così temerariamente al fuoco nemico. Allora, lei risponderebbe che io la voglio tenere in una gabbia dorata, che sono convinta che sia debole e fragile come un uccellino. E io piuttosto di assentire, mi morderei la lingua a sangue, ma non potrei negare che l’idea rassicuri la mia ipocondria. 
“L’hai già visto?” mentre glielo chiedo, spero che Andrea abbia cambiato idea, decidendo di non palesarsi stasera. Lei scuote la testa, ma non demorde: “No, ma Giacomo mi ha assicurato che ci sarebbe stato”. Giacomo. Le reazioni che il mio corpo ha al suo nome, sono improvvise, sregolate, del tutto prive di ragione: sulle guance mi fioriscono macchie scarlatte e le orecchie mi diventano incandescenti. Vorrei dire che sono sorpresa, ma mentirei: è da una settimana, da quando ho raccontato loro della sua visita, che il suo nome mi ronza perennemente in testa, facendosi beffe delle mie paranoie. Ho cercato di estirparlo in tutti i modi, ma lui riesce sempre a rimettere radici, come una pianta tossica ed infestante. Mi sono impedita di chiedere se sarebbe stato presente: immaginarlo accanto ad Andrea, raffigurazione plastica dei miei segreti, scatena dentro di me un’agitazione nevrotica, che nasconde un timore vigliacco. Temo che la vergogna che mi assale alla sua vista inquini la sintonia fremente e pura appena sbocciata tra me e Giacomo: i miei impulsi sono come un morbo che impesta tutto quello che incontra. Incrocio lo sguardo di Sofia, che sogghigna davanti al mio rossore. “Guarda che non mi piace” le mie bugie hanno la stessa consistenza dei pappi di un soffione. Lei scoppia a ridere, ma non infierisce oltre. 
Per la mezz’ora seguente, attendiamo che arrivi. Sofia tenta di convincerci a ballare, ma Alice è un fascio di nervi e io trovo sempre qualsiasi scusa per evitare la derisione di massa; in compenso, i temerari in pista offrono un ottimo spunto per ingannare il tempo: dimenano le braccia e i fianchi, cercando vanamente di indovinare il ritmo tra i fumi dell’alcol. Mi sembrano la versione squallida e ridicola dei ballerini grotteschi e selvaggi di Toulouse-Lautrec. A un tratto, però, quello che stiamo facendo inizia a parermi soltanto infinitamente stupido, ridicolo persino: oramai è quasi mezzanotte e se Andrea non si è ancora palesato, dubito che comparirà questa sera. Sto per farlo notare ad Alice, quando insieme a Giacomo varca l’entrata sulla nostra sinistra. È qui. C’è un istante, in cui il mio petto si stringe in uno strano viluppo, in cui un brivido mi increspa la pelle, che mi lascia momentaneamente nuda e disarmata: mi soffermo ad osservarlo e non riesco ad evitare che mi noti. C’è un istante, in cui il suo sguardo si illumina, in cui sillaba un ciao e mi rivolge il suo buffo saluto, che riduce le mie ansie a volute di fumo: mi scruta sfacciatamente e non riesco ad impedirmi di sorridere. 
Seguono una cascata di secondi, in cui io mi riscuoto, ricordandomi di Andrea al suo fianco, e tento di fargli capire che devono allontanarsi, ma lui mi risponde con uno sguardo stranito e poi è già troppo tardi, perché anche Alice li nota ed emette un verso che suona come un lamento e un ruggito insieme. Mi chiedo se è al corrente di come mai il suo amico si dovesse trovare qua oggi, ma dalla sua esitazione deduco di no: sono divisa tra un’isteria un po’ sadica e un presentimento catastrofico. Mi affretto dietro Alice, che praticamente sta marciando verso di loro: di nuovo, mi trovo combattuta tra un orgoglio colmo di tenerezza e una preoccupazione venata di paura. Quando li compariamo davanti, lo stronzo sembra sorpreso: articola più volte qualche sillaba a vuoto, facendo scorrere lo sguardo avanti ed indietro su noi tre fino a fissarlo sulla fiamma al centro. Ed insospettabilmente, sono sorpresa anch’io, perché ad assalirmi non è la tanto temuta vergogna, ma una repulsione indomita e furiosa, che mi fa prudere le mani. Solo in ritardo, Giacomo torna ad insinuarsi nel mio campo visivo, ma, una volta che vi è compreso, è come se la sua figura avvincesse le mie iridi, precludendomi di guardare altrove. Ed essere indagata a mia volta, stranamente, non mi pare nemmeno un affronto così insostenibile. Mi fa un cenno con il mento, toccandosi le ciocche scure, i capelli, li hai tagliati? Annuisco, sfiorandomi il caschetto corto, improvvisamente conscia del mio aspetto, che di solito ignoro senza alcuna cura. Sorride, poi sillaba: “Mi piacciono”. Cerco disperatamente di impedirmi di arrossire, ma è impresa vana sotto il suo sguardo. Appena se ne accorge, il suo sorriso diventa più ampio. 
All’inizio Alice si limita a squadrarlo, riducendolo a un silenzio terrificante; quando, però, lui fa per parlare, la sua voce vibra nell’aria come una coltellata: “Andiamo fuori, qui le tue stronzate si perdono fin troppo facilmente”. Giacomo indugia, guardandoci confuso, mentre Andrea deglutisce, scegliendo saggiamente di tacere. Di nuovo, le parole di Alice sono lame: “Ah, già, che stupida! Dimenticavo di aver a che fare con un codardo che si para il culo con gli amici! Tanto perché non ti perda nei prossimi eventi, il coglione qui presente mi ha tradita”. Il suddetto coglione trasalisce, mentre sul volto dell’altro si dipingono prima l’incredulità e poi il disgusto. “Che cazzo hai fatto?” le parole erompono dalle sue labbra in un ringhio. L’imputato trasalisce una seconda volta, ma rimane zitto, fissandosi i piedi. Non pensavo si sarebbe mostrato così remissivo: se non volessi strozzarlo, mi farebbe quasi pena. Alice si produce in una risata acida, corrosiva, prima di superarli ed uscire dal locale. Fuori, ci accoglie il gelo notturno e qualche campanello di intrepidi fumatori, mentre in fondo alla via una ragazza sta rigettando l’anima dentro a un tombino, assistita da un’amica chiaramente poco più sobria di lei. Noi occupiamo il centro della strada, schierandoci in due file contrapposte: da un lato, io, Sofia e Alice, dall’altro Andrea. Giacomo, invece, rimane nella terra di nessuno, in chiara difficoltà. Mi lancia un’occhiata di sottecchi, ma non so cosa rispondergli. 
“Sei una stronza” sono sorpresa che il primo a parlare sia Andrea “lo sei sempre stata, ma stasera ti sei davvero superata”. La mia lingua schiocca come una frusta, non riesco a trattenermi: “Non ti permettere, bastardo”. Quando rivolge lo sguardo su di me, ho un brivido: c’è un’ombra nera nei suoi occhi che sembra realizzare i miei presentimenti. “Scommetto che non sa nemmeno di cosa stiamo parlando, vero?” sputa le parole fuori dai denti, ignorandomi e rivolgendosi direttamente ad Alice. Sto per ribattere, punta sul vivo, ma lei mi scocca un’occhiata ammonitrice, inducendomi a tacere. Obbedisco, facendomi violenza: in fondo è assurdo, io so benissimo di cosa stanno parlando! No? Mi volto verso Sofia, ma lei alza le spalle, scuotendo la testa, non so a che cosa si riferiscano. “Questo riguarda te, non me” Alice ribatte, alzando il mento. Ma io noto subito come apre e stringe i pugni, in preda al nervosismo. Ma di che cosa diavolo stanno parlando? Getto uno sguardo a Giacomo, ma lui sta fissando Andrea, corrucciato. Si è improvvisamente incupito, e una ruga gli solca la fronte; immediatamente, sento l’istinto inspiegabile di avvicinarmi per spianargliela. L’altro sta ricambiando il suo sguardo e, se non fossi offuscata dalla rabbia nei suoi confronti, giurerei che sembra immensamente triste, gravato da un peso troppo massiccio. Attendo una risposta, ma il silenzio si tende nell’aria per alcuni istanti di troppo: che sta succedendo? Sento un grumo di tensione concentrarmisi nel petto, mentre loro tre, Andrea, Alice e Giacomo, sembrano impegnati in una conversazione silenziosa. Per l’ennesima volta, mi rivolgo verso Sofia, ma lei pare ignorare quanto me le cause dello spettacolo assurdo che ci si svolge di fronte. 
“Dimmi che non è vero” Giacomo sussurra, ma c’è un’incrinatura nella sua voce, che mi fa rizzare i peli sulla nuca: attraverso vi filtra un dolore puro e ferino, a stento trattenuto. Sta fissando Andrea, ma questo pare incapace di sostenere il suo sguardo. Si volta, dandogli le spalle. “Ti prego, dimmi che mi sto sbagliando” il tono di supplica nella sua voce mi strazia e vorrei andargli vicino, sanare queste ferite assurde e sconosciute. Ma sono come ghiacciata, paralizzata sul posto e Andrea continua a non rispondere. Anche Alice sembra aver improvvisamente perso ogni ardimento e si tormenta le mani, alternando lo sguardo fra i due. Per qualche attimo, è come se la notte si tramutasse in vetro e fosse sufficiente un solo movimento per mandare tutto in pezzi: mi accorgo di trattenere il respiro. Poi, finalmente, l’interrogato si decide a rispondere: “È così”. Sono due parole smozzicate, estorte a forza e sussurrate, eppure detonano come fossero tritolo: Giacomo emette un verso animale e si piega in due, come se una pallottola gli avesse aperto le viscere, mentre Andrea inizia a tremare in modo nevrotico. Il grumo di tensione dentro di me diventa incandescente, mi brucia l'ossigeno nei polmoni. Percepisco Alice ingoiare bruscamente il respiro, mentre Giacomo si rialza; e cerco, invano, di soffocare la stessa sorpresa, quando mi accorgo, dalla sua postura, dalla sua espressione, che il suo dolore è mutato in furia.
"Voglio sentirtelo dire” per un attimo, è come se non riconoscessi la sua voce: stride contro i timpani come l'acciaio. Andrea scuote la testa, trattenendo a malapena un singulto: "Lo sai già". "Non mi importa" è irriconoscibile adesso, beffardo e crudele. "Perché me lo fai fare?" una curiosità sincera e una supplica vana. "Perché? Tu mi chiedi perché?! Cristo santo, ma non ti vergogni?" Giacomo ride ed è una risata rauca, senza la minima allegria, "Dillo e basta". Andrea deglutisce, sembra sul punto di vomitare, ma quando inizia a parlare, lo fa guardando l’altro negli occhi: “La ragazza con cui…” fa un gesto eloquente verso Alice “... era... era Isabella Marchesi”. 
Istintivamente il mio cervello si rifiuta di processare l’informazione: questo non è quello che ci aveva detto Alice; getto un’occhiata a Sofia per accertarmene, ma lei pare sbigottita tanto quanto me. Mi rifiuto di crederci; insomma, non può essere vero. Ma qualche secondo dopo, Alice si rivolge verso di noi, in volto una muta preghiera di scuse e un accenno di vergogna. Ci ha mentito. Ci ha ingannate e questo cambia tutto. Perché Isabella Marchesi non è un agglomerato di sillabe qualsiasi, no. Isabella Marchesi è un nome, una storia nota a tutti e, a quanto pare, la chiave per comprenderne un’altra sconosciuta. Isabella Marchesi: la ragazza che non conosci personalmente, ma che sembra essere ad ogni festa ed andare d’accordo con tutti; la ragazza che sbirci da lontano e che vorresti non invidiare, perché sembra davvero essere amichevole e gentile, anche quando sulla metro, mezza ubriaca, ti scambia per una sua amica; la ragazza che qualche mese dopo essere stata lasciata bruscamente dal suo ragazzo storico, tenta di porre fine alla sua vita, aprendosi le vene. Isabella Marchesi: la ragazza a cui fu preclusa la morte, ma a cui, per compenso, fu offerto di diventare l’argomento di conversazione preferito da tutti. La ragazza che fa luce sul dramma che mi si consuma davanti: perché il ragazzo che ora piange, ma stringe i pugni e rifiuta di disintegrarsi contro l’asfalto, non è solo Giacomo occhi di onice, ma è anche quel Giacomo, quel Giacomo Rosmini eletto a furor di speculazioni come causa del tentato suicidio dell’ex-fidanzata. Lo scruto, per la prima volta a conoscenza della sua identità, ma non percepisco nessuna estraneità: ho davanti la medesima persona capace di entusiasmarsi per la pittura veneziana e di parlare di tutto e di niente. Il suo dolore ora ha semplicemente trovato spiegazione. 
“Dimmi che è stata comunque colpa mia” cerca rinsaldare la voce, ma sotto infuriano cose indicibili, che la frantumano in schegge acuminate. “Dimmi che con lei non c’è stato niente, che te la scopavi e basta” un ordine, una preghiera, l’ultimo impeto di un naufrago verso un salvagente. “Dimmi che è vero… che è vero che si è aperta le vene per colpa mia” un singulto implode fra le sue parole, spezzandomi il cuore. 
Inaspettatamente è Alice a rispondere, sibilando stridula: “Non è mai stata colpa tua… nemmeno all’inizio, ma è sempre, sempre stata colpa sua”. Nonostante tremi visibilmente, fissa Andrea con un compiacimento sinistro, vagamente sadico: “La foto… quella foto di Isabella con quel ragazzo alla festa, l’ha fatta lui… è solo colpa sua” inizia ad applaudire, sfottendo il ragazzo “... proprio un’idea grandiosa quella di distruggere le relazione di un tuo amico, solo perché volevi scoparti la sua ragazza!”. Alla sua accusa, Andrea sembra rinfiammarsi di colpo: “Ma complimenti, complimenti davvero… continua pure a rifiutare il tuo ruolo in questa storia, a gettare merda sugli altri e dichiararti innocente! Chi cazzo è stato a farsi venire in mente l’intera faccenda, eh?! Sentiamo! Tu quella sera volevi solo farti notare, leccarmi il culo e guadagnarti un posto nel mio letto, quando mi fossi stufato di lei!” ora sta urlando ed è inutile cercare di ignorare gli sguardi che ci si sono puntati addosso: devono aver capito di che stiamo parlando, perché è come se percepissi mille minuscoli proiettili conficcarmisi nella carne. Siamo inerti davanti a un fuoco incrociato di recriminazioni e giudizi affrettati, ma l’unico dolore che percepisco è lo strazio delle parole di Giacomo. Mi sembra insopportabile che il ragazzo che ama la filosofia e saluta la gente in modo buffo, debba soffrire così atrocemente sulla pubblica piazza; voglio proteggerlo, permettergli di elaborare le sue emozioni in privato. Mi muovo prima di potermene pentire, attraversando la terra di nessuno e ponendomi di fronte a lui. In sottofondo sento Alice emettere un latrato di protesta, ma la ignoro. I nostri sguardi si incrociano e il suo brucia, è quasi troppo brutale e sincero per essere sostenuto: ora sai chi sono. No, Giacomo occhi di onice, io non so chi tu sia, perché mi rifiuto di credere che questa storia possa definire tutto te stesso: sarebbero queste le parole che vorrei dirgli, ma sono parole enormi e spaventose, capaci di portare alla luce emozioni abissali. Così, di slancio mi protendo verso di lui e lo abbraccio, nel tentativo piuttosto goffo di fargli da scudo con il mio corpo. Subito si irrigidisce, rimanendo immobile, ma, dopo qualche secondo, è come se un nodo si sciogliesse dentro di lui e qualcosa di caldo, come il battito del suo cuore, mi penetrasse sottopelle: le sue braccia mi stringono prima piano, poi sempre più forte, gli impedisco di andare in pezzi. Le sue lacrime mi bagnano la guancia e cerco di avvolgerlo ancora di più, di inglobare il suo dolore nell’intreccio delle mie braccia. “Mi dispiace” mormoro pianissimo a un soffio dal suo orecchio “mi dispiace tantissimo”. Il suo singulto si riverbera nel mio corpo, lungo le mie terminazioni nervose. I nostri corpi si modellano l’uno sull’altro, accordandosi in sintonia. Mi accorgo di stargli accarezzando la nuca e il collo, intrecciando le dita nelle corte ciocche arricciate: imbarazzata, faccio per ritrarmi, ma lui mi stringe a sé, invitandomi a continuare con un cenno della testa, simile a un cane affettuoso. Cerco di nascondere il sorriso che spontaneo mi sale alle labbra, ma lui deve percepirlo sagomarsi contro il suo collo, perché inizia ad accarezzarmi la schiena. Emetto un sospiro tremulo e realizzo che, per quanto stia confortando lui, stento a ricordare un altro momento in cui mi sia sentita così appagata e al sicuro. Il suo contatto si diffonde dentro di me come un’edera buona, che ovunque si radichi distribuisce linfa, anziché assorbirla. È una sensazione sconosciuta, ma piacevolissima, che al momento non ho la forza di rifiutare. Quando, dopo qualche istante ancora, ci separiamo, lui non smette di toccarmi, lasciando la sua mano sulla mia schiena. Constatiamo che Andrea, nel frattempo, debba essersene andato, mentre Sofia e Alice si sono allontanate di qualche metro e sembrano discutere in modo piuttosto concitato. La sola prospettiva di unirmi al litigio è sufficiente a farmi venire l’emicrania; fortunatamente intercetto lo sguardo di Sofia, che si limita ad annuire, come se avesse già compreso la situazione. La saluto con un gesto della mano, poi mi volto di nuovo verso Giacomo. Mi sta guardando: la fiducia nel suo sguardo mi annichilisce e mi rende un gigante. Così lo prendo per mano e ci dileguiamo nella notte.

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Capitolo 7
*** 7. ***


7.
Il nostro ultimo incontro è breve, fortuito, dolorosamente imprevisto. È sera e sto tornando a casa dall’università, con un enorme catalogo di Caravaggio sottobraccio; sto rimuginando su un saggio di Zeri senza riuscire a venirne a capo e macino la strada sovrappensiero. Così, quando lo scorgo sull’uscio del mio palazzo, è come se precipitassi giù dalle nuvole. Mentre lo raggiungo, mi apro in un sorriso timido; ma dentro di me imperversano gli eventi di una settimana fa, mi scaldano e mi gelano: la festa, il litigio, il calore del suo abbraccio, il ritorno a casa in un gravido silenzio. Una speranza timida e folle si libra sopra di loro, nonostante i miei secchi rimproveri. 
“Ciao” questa volta non attendo che parli, non riesco a contenermi. Mi aspetto una risposta altrettanto spontanea, invece lui esita, rifuggendo il mio sguardo. Mi acciglio, stranita, ma il silenzio perdura, lui sembra non riuscire a spezzarlo. Ancora, non mi guarda. “Che hai?” la petulanza infantile ed acuta delle mie parole mi irrita, ma non riesco a spiegarmi la sua reticenza. “Devo parlarti” la sua voce mi risulta estranea, mi allarma: una fredda vena di panico soffoca il mio entusiasmo. Deglutisco, esitante gli chiedo se vuole salire. Lui, per un attimo, pare spaesato, mi lancia uno sguardo lucido di rimpianto che non riesco a razionalizzare. Mi scopro ad avere paura.
“Tra una settimana me ne vado” parla, ma le sue sono parole prive di senso. All’inizio non le comprendo, mi sembrano in un’altra lingua. Poi le ripete. Una, due volte. A un certo punto lo fermo, mi arrendo all’evidenza del loro significato. Gli chiedo perché. Mi dice che lo hanno accettato a Pisa per fare la magistrale. Da quando lo sa? Confessa, con gli occhi bassi, di averlo appreso un mese fa. Ma ha deciso definitivamente solo la scorsa settimana. Dopo che ha saputo tutto. Fa una pausa, mi prega di capirlo. Dice che ha bisogno di cambiare ambiente, di imprimere una svolta alla sua vita: in questa città tutti lo considerano alla stregua di un assassino. Vorrei dirgli che io non lo faccio, ma mi sentirei patetica. Lui, comunque, sembra intuirlo: mi accarezza con lo sguardo, poi mi dice che l’unica cosa che rimpiange di dover lasciare sono io. Non so se si aspetti una qualche reazione, ma io sono intrappolata in un istupidimento abbacinante, nebbioso, che contiene a stento il deflagrare del mio cuore. Non so cosa farmene del suo rimpianto, in fondo: non colmerà la sua mancanza. 
L’irrevocabilità della sua prossima assenza mi si impone alla mente in modo improvviso e categorico, mi mozza il respiro. Giungerei fino a pregarlo di restare, ma nessuno ha diritto di farlo. Frammenti dei nostri incontri mi si ripresentano all’attenzione, mi sorprende la loro esiguità e allo stesso tempo la loro importanza capitale. In realtà, tra noi non è successo nulla: ma quel nulla nella mia disperazione mi è parso qualcosa, se non un tutto. Così, accanto a una malinconia struggente, sboccia una calda gratitudine, la rincuorante consapevolezza che, nonostante la natura effimera del nostro legame, in me ora splende un frammento di lui e in lui un frammento di me. Incontro l’onice lucida delle sue iridi e ne divento assolutamente certa. Nessuno dei due sarà più solo. Sorridendo un po’ incerti, offuscati dalla commozione, ci stringiamo la mano. Una tacita promessa, un muto ringraziamento.
“Buona fortuna Giacomo”.
“Ad Maiora, Irene”.
 

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