The Spider, The Captain and The Clown

di evil 65
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Il ritorno ***
Capitolo 3: *** Sete di vendetta ***
Capitolo 4: *** Vengo in pace ***
Capitolo 5: *** Blackbird ***
Capitolo 6: *** Send in the clowns ***
Capitolo 7: *** Memories ***
Capitolo 8: *** We all float down here ***
Capitolo 9: *** The predator ***
Capitolo 10: *** New alliances ***
Capitolo 11: *** The battle of Harpswell ***
Capitolo 12: *** Time to float! ***
Capitolo 13: *** The Eater of Worlds ***
Capitolo 14: *** The Deadlights ***
Capitolo 15: *** Epilogue ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Eccomi tornato sul fandom Avengers! E anche su quello di IT, perché questo sarà un crossover tra i due universi ;)
Questa fan fiction si colloca cronologicamente dopo “ You Got Something For Me Peter Parker” e “So Wrong”, e prima di “Avengers : The King Of Terror”. Non è necessario aver letto quest’ultima per godersi la storia, ma consiglierei a tutti di leggersi prima le alter due fan fiction.
Come Avengers : The King of Terror aveva preso King Ghidorah ( acerrimo nemico di Godzilla ) e lo aveva collocato all’interno della mitologia MCU, questa fan fiction farà lo stesso con IT aka Pennywise, antagonista principale del romanzo horror IT e della sua trasposizione cinematografica in due parti di cui consiglio caldamente la visione.
IT stesso sarà un mix di entrambe le versioni e avrà una gamma di poteri molto più vicina alla sua controparte cartacea ( quindi sì, una minaccia livello Avengers ).
E ovviamente torneranno loro, Peter e Carol, che come per So Wrong saranno i protagonisti della storia.
Ma IT non sarà l’unico villain, e infatti la nostra amabile coppia di supereroi avrà a che fare con ben otto antagonisti ( tra cui Pennywise ). Sì, sono abbastanza crudele.
Ora, tolti di mezzo i convenevoli, vi auguro una buona lettura!




The Spider, The Captain and The Clown

( Track 1 : https://www.youtube.com/watch?v=y6lQMPE6MVE )
 
Una pioggia forte e ritmata picchiettava sui tetti delle industrie Oscorp.
Miles Warren, quarantacinque anni, chiuse gli occhi e si lasciò cullare dai suoni provocati dal temporale.
Si accese una sigaretta e allungò il braccio per prendere una bottiglia di birra.
Tirò fuori dal taschino della giacca gli occhiali da lettura e controllò i parametri dei vari macchinari disposti in tutta la stanza.
Warren era un uomo decisamente alto, con il naso adunco e il viso dai lineamenti volpini, che era anche la ragione per cui molti dei suoi colleghi erano soliti apostrofarlo con un soprannome che si portava dietro dall’infanzia : lo sciacallo.
All’interno della Oscorp era conosciuto come “la risposta inglese a Victor Frankenstein”, una definizione coniata dal suo vecchio professore di scienze avanzate, che poi era diventato decano e alla prima occasione aveva licenziato Warren, costringendolo a trovare lavoro in Europa.
<< Fanculo a quella vecchia scorreggia >> borbottò Warren, per poi ingollare un sorso di birra direttamente dalla bottiglia. << E fanculo anche a te, Victor Frankenstein >>
 Il paragone con lo scienziato pazzo dell’omonimo libro lo aveva sempre infastidito. Dopotutto, i suoi interessi accademici non erano mai stati relativi alla resurrezione, bensì alla clonazione. E le due discipline avevano assai ben poco in comune, a parte la pessima reputazione che le varie opere di fantascienza avevano contribuito a creare.
La figura dello sventurato Frankenstein non aveva mai smesso di perseguitarlo.
Il suo primo incarico in Occidente era stato presso l’università dove l’uomo aveva studiato, a Ingolstadt.
Warren aveva odiato ogni minuto del suo soggiorno passato in Germania. I tedeschi non gli erano mai piaciuti, soprattutto come modelli di comportamento, e questo spiegava in parte le sue dimissioni da Berlino dopo un solo mandato e il suo ritorno in America.
<< Hai controllato i valori? >> domandò un uomo dai corti capelli biondi alle sue spalle. Si chiamava Phineas Horton, ed era il suo collega di lavoro da quasi cinque anni, alle industrie Oscorp. Un tipo decisamente irritante, che cercava sempre di avviare una conversazione con lui, non importa quali fossero le circostanze. Tuttavia, era una persona competente, ragion per cui Warren lo tollerava e non aveva fatto domanda per trasferirlo in un’altra sezione del complesso.
<< Lo sto facendo adesso >> borbottò, in risposta alla domanda dello scienziato.
<< E ? >>
<< E sono valori >>
<< Gli stessi di prima? >>
<< Gli stessi >> confermò Warren, con un movimento sprezzante della mano destra.
Il silenzio tornò a regnare nella stanza, che pareva fuoriuscita direttamente da un film dell’orrore a basso costo, come il Centopiedi Umano.
La soffitta era illuminata da una fredda fila di luci al neon. I tavoli al suo interno erano stracarichi di stampi, catini, masterizzatori, microelaboratori.
Fogli di carta, scatolette vuote e mozziconi di sigarette ricoprivano il pavimento di laminato grezzo.
Dalle travi pendevano alcuni ingrandimenti dei disegni leonardeschi di anatomia maschile.
Legato a un tavolo in fondo alla stanza c’era un uomo basso e nudo, leggermente sovrappeso, con quattro bizzarre appendici metalliche che gli partivano direttamente dalla schiena.  Sembravano quasi le zampe di un tripode, le macchine adoperate dai marziani ne La Guerra dei Mondi.
Era collegato attraverso vari tubi ad alcuni computer e aveva gli occhi coperti da una benda. 
<< Che hai fatto durante il weekend? >> chiese improvvisamente Phineas, rompendo ancora una volta il silenzio del laboratorio.
Warren emise un sospiro quasi rassegnato.
<< Niente, sono andato al cinema >>
<< A vedere ? >>
<< Mah, una schifezza con quella nullità di Ashley Judd >> borbottò, volgendo gli occhi in direzione del soffitto.
Phineas si voltò verso di lui, guardandolo stranamente.
<< Chi? >>
<< Appunto >> rispose Warren, con un sorriso ironico. << Hai controllato la padella?>>
<< No, lascio a te questo onore. L’ho fatto io l’ultima volta >> ribattè il collega.
L’altro lo fissò seccamente. << Non è vero >>
<< Tocca a te. Guarda se il nostro Doctor Octopus ci ha lasciato un regalino >>
<< Dobbiamo segnarcelo. Perché mi ricordo di averlo fatto io anche ieri >>
<< Che…come mi hai chiamato? >>
Il tempo parve fermarsi.
A Warren servì meno di un secondo per rendersi conto che non erano stati né lui né Schults a pronunciare quella frase.
<< Oddio >> borbottò il collega, che ora aveva lo sguardo puntato verso il lettino di un certo paziente. Lo scienziato lo seguì a ruota, posando gli occhi sulla figura esanime di Otto Octavius.
<< Perché mi hai chiamato Doctor Octopus? >> borbottò l’uomo, che fino a pochi attimi prima si trovava in coma. << Mi chiamo…mi chiamo Otto. Perché mi hai chiamato così? >>
Con movimenti rapidi, Warren afferrò il cellulare che teneva nella tasca del camice, compose un numero e se lo portò all’orecchio.
<< Pronto? Sono Miles Warren, dall’ala ospedaliera dell’edificio. Dite al Signor Osborn che il nostro paziente è sveglio >> disse con voce frenetica.
Passarono circa dieci minuti. Quando quel lasso di tempo giunse al suo termine, nella stanza entrò un uomo alto e ben piazzato, probabilmente sulla cinquantina, con corti capelli rossi che incorniciavano un volto da donnola. Indossava abiti firmati di qualità impeccabile, degni della posizione che ricopriva nella società. Perché questa persona non era altri che Norman Osborn, il fondatore delle Industrie Oscorp e uno degli uomini più ricchi del pianeta.
Dopo aver salutato Warren e Phineas con un rispettoso cenno del capo, si diresse rapidamente verso il lettino di Octavius e mise una mano confortante sulla spalla dell’uomo.
<< Ah, vedo che sei finalmente sveglio. Così mi piaci >> disse con voce visibilmente sollevata.
Il corpo del paziente fu attraversato da un sussulto, che venne prontamente imitato dalle quattro braccia meccaniche.
<< Signor Osborn? Dove sono? Che sta succedendo? >> domandò freneticamente. << Mi sento stanco >>
<< Questo perché ti hanno sedato >> rispose il magnante. << Mi dispiace per questo, Otto, ma…dobbiamo parlare. Prima di tutto, qui sei al sicuro >>
<< Al sicuro? Al sicuro da che? >>
<< Ti ricordi come sei arrivato qui? >> chiese l’altro, senza preoccuparsi di rispondere alla domanda del sottoposto.
Questi deglutì a fatica.
<< No >> borbottò a bassa voce. << È così buio. Perché non riesco a vedere?>>
<< Hai subito un grave trauma al sistema nervoso, alla tua vista servirà tempo per tornare come una volta. Qual è l’ultima cosa che ricordi? >>
<< Io…uh…no, io… >> balbetto, mentre le braccia attorno a lui presero ad agitarsi.
Norman diede una rapida occhiata alle appendici meccaniche, prima di volgere la propria attenzione nei confronti di Warren. Questi gli lanciò un cenno affermativo.
<< Ti ricordi quello che è successo? >> domandò il miliardario, tornando a fissare Octavius.
<< N-no >> rispose questi, con un sussurro flebile. Dio, gli faceva male anche solo parlare.
Norman prese un respiro profondo.
<< C’è stato un incidente. Sei rimasto vittima di un grave incidente alle Industrie Oscorp. Sei stato in coma >> disse pazientemente.
Ci fu un attimo di silenzio, mentre Octavius cercava di elaborare l’informazione appena ricevuta.
<< Quanto tempo…quanto tempo sono rimasto in coma? >> chiese con esitazione, quasi come se temesse la risposta ad una simile domanda.
<< …Un anno >> rispose Norman, la cui presa sulla spalla del sottoposto si fece più gentile.
Lo scienziato sussultò una seconda volta.
<< Oh, mio…Io non ricordo quello che è successo. Mi sento come se stessi per vomitare e…oh, mio Dio, cos’è questo! >> esclamò all’improvviso, quando una delle braccia meccaniche gli urto la mano destra.
Norman si ritrasse, visibilmente allarmato, mentre le appendici metalliche iniziarono ad agitarsi convulsamente, come se impazzite.
 << Che cos’è questo?! Che cosa mi avete fatto?! >> ripetè Octavius, dopo aver afferrato uno degli arti.
Norman fece un segno a Warren e questi procedette ad estrarre una siringa dal tavolo operatorio. Poi, gli fece cenno di aspettare e si rivolse al paziente ancora una volta.
<< C’è stato un incidente alle Industrie Oscorp. Hai subito una grave ferita lungo la spina dorsale, che ti ha quasi ucciso. Le tue braccia meccaniche, quelle che usi per i tuoi esperimenti…quelle su cui hai scritto il tuo saggio per Scientific America…in qualche modo si sono fuse alla tua colonna vertebrale, riparando il danno al midollo spinale >> spiegò con tono paziente. << Non abbiamo ancora capito come, ma sembra che tu sia in grado di controllarle >>
<< Toglietemi le bende >> sussurrò Octavius.
Affianco a lui, il magnante rilasciò un sospiro stanco.
<< Otto, i tuoi occhi… >>
<< La prego, Signor Osborn >> supplicò lo scienziato, il volto abbassato a causa della pura sensazione d’impotenza che stava provando in quel preciso istante.
Norman sembrò prendere in considerazione la richiesta dell’uomo.
Dopo quello che sembrò un tempo interminabile, richiamò l’attenzione di Shultz e indicò la benda che copriva gli occhi del paziente.
Questi annuì esitante e procedette a scogliere il pezzo di stoffa.
Sebbene privi di cicatrici o altri segni visibili, gli occhi di Octavius erano parzialmente rossi, con chiazze scarlatte sparse lungo i bordi e le pupille dilatate.
L’uomo sbattè le palpebre numerose volte, nel tentativo di abituarsi alla luce forte e improvvisa.
Sì porto un braccio davanti al volto…e una delle appendici meccaniche seguì il movimento, comparendo nella visione dello scienziato.
Questi sussultò per la sorpresa e cominciò a scansionare freneticamente il proprio corpo.
Quando non vi trovò niente di strano, girò appena la testa per guardare dietro di sé.
<< O mio Dio >> borbottò, quando i suoi occhi si posarono sul meccanismo che collegava le braccia meccaniche alla schiena. Era completamente immerso nella carne, fuso con essa, con vasi sanguigni e capillari ben visibili appena sotto il sottile strato di pelle che ora ricopriva la parte metallica del dispositivo.
Norman sorrise tristemente. << Stiamo cominciando a capire solo ora i principi genetici di quello che è successo. C’è un documento del Dottor Reed Reechards… >>
<< O mio Dio! >> ripetè Octavius, portandosi ambe le mani davanti alla faccia, mentre copiose lacrime cominciarono a scivolargli sulle guance.
<< So che è qualcosa di devastante da scoprire >> continuò Osborn. << E il Dottor Warren è qui per parlare con te. Per aiutarti ad accertarlo >>
Si avvicinò al paziente, dandogli un’altra stretta confortante alla spalla.
<< Speriamo che, da scienziato, tu sia in grado di apprezzare le potenzialità che questo incidente ha portato nelle nostre vite >> disse con tono affabile.  << Possiamo lavorare insieme per scoprire cosa può significare questa scoperta per il futuro dell’umanità >>
Octavius alzò lo sguardo e fissò il magnante con occhi umidi e pieni di disperazione.
Norman sospirò tristemente.
<< Io voglio poterti aiutare, Otto. La domanda che ti pongo è…mi permetterai di farlo? >>
 
                                                                                                                                   * * * 
 
Prologo 

Nella volta grigia del cielo erano comparse delle crepe azzurre attraverso cui i raggi del sole scendevano fino in strada.
Da qualche parte, in mezzo alla foresta, arrivava il suono costante del gocciolare dell’acqua.
 In una situazione ordinaria, Jackie lo avrebbe considerato un piacevole sottofondo al traffico e agli altri rumori della città cui era abituata, se non fosse per un piccolo problema : era arrabbiata.
A circa sette anni, Jackie Myers era stata testimone della prima litigata tra i suoi genitori. Era stata anche la prima volta in cui aveva visto due adulti discutere l’uno con l’altro, e l’esperienza l’aveva lasciata a disagio come mai prima d’ora. Specialmente a causa di tutte quelle strane parole che la mamma gli aveva raccomandato di non ripetere mai, nonostante fossero state usate diverse volte durante l’intero confronto.
Parole come “ puttana” o “ bastardo” che ancora riecheggiavano nella sua mente come colpi di pistola.
Da quel momento in avanti, le cose non avevano fatto altro che peggiorare.
Le litigate dei suoi genitori si erano fatte sempre più frequenti, fino a quando sua madre non aveva trovato un modo per ridurle : gite in famiglia.
Solitamente, alla bambina non importava dove andavano durante questi week-end, e avrebbe accettato più che volentieri una bella scorpacciata di parchi dei divertimenti e minigolf, soprattutto perché avrebbero ridotto al minimo quelle liti sempre più raccapriccianti.
Ma sua madre voleva che le gite fossero anche istruttive, motivo per cui aveva scelto i monti Appalachi come loro prossima destinazione. Più precisamente, una piccola frazione nell'angolo ovest dello stato del Maine, una zona attraversata dalle Witch Mountains.
Inutile dire che la bambina non era rimasta particolarmente elettrizzata dall’idea.  Avrebbe preferito rimanere a casa, e andare a dormire da una delle sue amiche.
Ma naturalmente non aveva fiatato. Era l'idea stessa di andare in gita il sabato a essere sbagliata, ma i suoi genitori non l'avrebbero mai accettato. L’opinione di suo fratello di cinque anni, ovviamente, non andava nemmeno preso in considerazione.
La sera prima, seduti al tavolo in cucina, il padre aveva mostrato loro le fotografie della loro destinazione in una brochure turistica, raffigurante perlopiù sentirei tra gli alberi e certi punti panoramici, in cui le persone erano impegnate a proteggersi gli occhi con la mano e a scrutare al di là di vaste vallate verde smeraldo, consumate dal tempo ma ancora imponenti.
Jackie odiava le passeggiate.
A peggiorare le cose, suo padre aveva calcolato male la quantità di benzina necessaria per arrivare al campeggio, motivo per cui erano stati costretti a deviare in una strada secondaria e perdere almeno un paio di ore di viaggio, per trovare una stazione di servizio in grado di rifornirli. E, com’era prevedibile, l’evento aveva scatenato un’altra lite tra i suoi genitori.
Dopo essersi fermati nei pressi di uno spazio, Tom Myers era uscito dalla macchina con un’espressione adirata, aveva chiuso a chiave la portiera e si era incamminata verso un cartello con la scritta BENVENUTI A HARPSWELL.
Poi, era tornato al sedile del guidatore, aveva aperto la cartina dello stato e se l’era rigirata tra le mani per qualche minuto.
Indicò una serpeggiante linea blu.
<< Questa è la Route 35 >> disse con tono di fatto. << E noi ci troviamo qui >>.
Posò il dito su un quadratino azzurro. Poi, percorse con il polpastrello una serpentina rossa. << La stazione di servizio più vicina si trova a circa sei miglia in quella direzione, ma non penso che riusciremo a raggiungerla in tempo. Dovremo farci portare direttamente i rifornimenti >>
La moglie sospirò seccata, volgendo la propria attenzione nei confronti dei figli.
<< Avete le vostre mantelle? >> chiese, dando un’occhiata significativa in direzione della volta celeste. Grosse nubi avevano cominciato ad ammassarsi da Ovest, accompagnate da un distinto odore di terra bagnata. Con tutta probabilità, si sarebbe presto messo a piovere entro la prossima mezz’ora.
<< Io ho la mia >> borbottò Jackie, con tono poco impegnativo. Affianco a lei, Mike cinguettò un rapido sì.
<< La colazione? >> chiese di nuovo il genitore, rivolta verso Jackie.
In tutta risposta, la bambina si limitò ad alzare il sacchetto in cui, la sera prima, aveva messo alcuni toast imburrati e ricoperti di marmellata di fragole.
La donna annuì soddisfatta e procedette ad avvicinarsi al marito.
Non passarono che appena dieci minuti, e Jackie cominciò a sentire i primi stralci di una discussione in divenire.
Con uno sbuffò stizzito, prese il sacchetto, chiuse Mike in macchina e urlò : << Vado a fare pipì! >>
Suo padre interruppe la conversazione che stava avendo con la madre, guardandola con la coda dell’occhio.
<< Va bene, ma non allontanarti, rimani sul sentiero >> ordinò con un tono di voce che non ammetteva repliche.
La bambina annuì in accordo, e si inoltrò nel piccolo sentiero che confinava con lo spiazzo.
In realtà, non aveva davvero bisogno di fare pipì, voleva solo allontanarsi dai suoi genitori il più possibile.
Appena inoltratasi nel boschetto, venne raggiunta da una cacofonia di piacevoli sensazioni.
L'odore dolce e resinoso dei pini, per esempio, e la vista di quelle nuvole che spiccavano tra le cime degli alberi, più simili a strisce di fumo grigiastro che a nubi.
Solitamente, Jackie riteneva che bisognasse essere adulti per chiamare passatempo una cosa così noiosa come camminare, ma una volta tanto non era poi così catastrofico.
Non sapeva se tutto il sentiero fosse così largo e ben tenuto come quel tratto, le sembrava poco probabile, e sinceramente non le importava. Voleva solo allontanarsi e ritrovare un briciolo di serenità, tutto qui.
Mordicchiò il toast che si era portata dietro e continuò la sua avanzata.
Dopo circa un minuto, arrivò ad un bivio. La pista principale proseguiva sulla sinistra, dove un cartello indicava: CENTRO STORICO.
A destra cominciava un sentiero più modesto e in gran parte invaso dalla vegetazione e, all'imboccatura, il cartello diceva: LAKE PLACID 100 METRI.
Gli occhi della bambina parvero illuminarsi. Non aveva mai visto un lago in vita sua, se non nelle illustrazioni delle enciclopedie e sui libri di scuola.
Forse questa gita non si sarebbe rivelata una completa perdita di tempo.
Presa dalla curiosità, diede un altro morso al toast e arrancò tra pini e abeti che si facevano via via più alti e minacciosi. La luce del sole penetrava obliqua tra le loro cime, in fasci polverosi di colore sempre più sbiadito.
Scese per un dolce pendio, scivolando un po' sul tappeto delle foglie morte dell'anno prima e, quand'era arrivò in fondo, si trovò davanti l’immensa superficie del Lake Placid.
Si guardò, intorno, prendendo una lunga occhiata della splendida vista che si stagliava di fronte a lei, ricolma di uccelli migratori e qualche insetto occasionale. Poi, i suoi occhi vennero catturati da qualcos’altro.
C’era un pozzo, all’estremità opposta di quella piccola radura, semi-nascosto dall’alta vegetazione. Si ergeva di circa un metro al di fuori del terreno, un grosso blocco cilindrico in calcestruzzo quasi completamente ricoperto di alghe lungo i bordi.
Curiosa, la bambina compì alcuni passi in direzione della struttura. Sembrava decisamente fuori posto in mezzo alla bellezza idilliaca del lago. 
Tese l’orecchio, e scoprì che in tutta l’area era calato un silenzio quasi sovrannaturale.
Beh, non proprio. Sentiva ancora il sibilo del vento tra i grandi pini secolari, ma per il resto…niente. Zero assoluto.
 Nemmeno il grido di una ghiandaia, oppure il lontano tamburellare di un picchio che scavava la sua merenda di metà mattina da un albero cavo,  o il rumore fastidioso delle zanzare. Era come se in quel posto ci fosse solo lei e, sebbene l'idea fosse ridicola, non potè fare a meno di pensarlo.
Posò ancora una volta lo sguardo sul pozzo di scolo.
L'acqua precipitava nell'oscurità in uno scroscio sordo. Era un rumore da brividi. Gli ricordava...
( Track 2 : https://www.youtube.com/watch?v=MuCPaRbEuv8 )
<< Ciao! >> esclamò una voce alle sue spalle, facendola sussultare.
Jackie si voltò di scatto…e si blocco, troppo sorpresa da ciò che vide per poter fare altro se non rimanere completamente immobile.
La persona che aveva appena preso posto dietro di lei indossava quello che sembrava un costume da clown color bianco argento. Gli tremava intorno al corpo in quel vento pomeridiano.
Portava abnormi scarpe arancioni ai piedi. S'intonavano ai bottoni a pompon che aveva sul davanti del costume. In una mano stringeva un mazzo di spaghi che trattenevano un grappolo variopinto di palloncini, e quando la bambina si accorse che quegli areostati erano inclinati nella sua direzione, la sensazione di trovarsi in un mondo irreale si fece ancora più pronunciata.
Nell’altra mano, invece, il clown stringeva un bastoncino di zucchero, come quelli che solitamente si ricevono a Natale. Lo reggeva come una silvestre bacchetta magica, o forse uno scettro.
<< Ehm…salve >> rispose la bambina, compiendo inconsciamente un passo all’indietro.
Il clown, il cui volto era adornato da un grande sorriso dipinto di rosso, inclinò leggermente la testa.
<< Chi sei, ragazzina? Come sei arrivata qui? >> domandò con una voce allegra e squillante.
Jackie, rendendosi improvvisamente conto di trovarsi da sola con un completo conosciuto, deglutì nervosamente.
<< M-mi chiamo Jackie >> balbettò con un sussurro. << E…sono arrivata qui per caso >> aggiunse rapidamente.
Il silenzio tornò a regnare nella zona.
Il clown la scrutò con occhi incredibilmente gialli, che non sembravano affatto occhi ma orbite incastonate nella sua pelle cirricea.
Poi, quasi a imitazione di un cane, il pagliaccio annusò l'aria, alzò il bastoncino di zucchero e se lo portò alla bocca. Il muso s'increspò e, per un attimo, Jackie credette di avere le allucinazioni.
Le era quasi sembrato di vedere una doppia fila di enormi denti macchiati di rosso, in quella piccola bocca.
Nel mentre, il clown succhiò l'estremità del bastoncino, e l’azione le ricordò un po' un bambino con un chupa-chups. Poi, con precisa intenzione, serrò i denti sul rivestimento di zucchero e lo spaccò in due.
A causa del silenzio che permeava la zona, Jackie udì distintamente il suono che fecero i suoi denti durante la masticazione, come il rumore dello spezzarsi di un osso.
<< Jackie…Non mi sembra il nome adatto ad una bambina >> disse il clown, dopo quel breve attimo di silenzio.
Detto ciò, compì un inchino aggraziato.
<< Ma chi sono io per criticare? Permettimi di presentarmi. Mi chiamo Pennywise, il clown ballerino! Ma puoi anche chiamarmi il signor Bob Gray. E questo è il mio giardino >> continuò, allargando ambe le braccia e indicando l’area circostante.  
Nonostante l’insolita situazione, Jackie non potè fare meno di rilasciare una piccola risata.
<< Ehm…piacere >> salutò con esitazione, le guance adornate da un rossore imbarazzato. << Mi dispiace, non pensavo che questa fosse un’area privata >>
 Il clown ridacchio a sua volta.
 << Non ti preoccupare, che razza di clown sarei se rimproverassi un bambino per una piccolezza del genere? Ora, piccola Jackie, perché quel muso lungo? >> domandò con tono cantilenante.
 La bambina non era sicura se avrebbe dovuto rispondergli o meno.
Suo padre e sua madre le avevano sempre detto che non avrebbe mai dovuto parlare con gli sconosciuti. Tuttavia, il pensiero dei suoi genitori intenti a litigare la riempì di rabbia, e quel sentimento ebbe la meglio sul buon senso.
<<  Ho solo avuto una giornata stressante >> mormorò a bassa voce.
Al sentire tali parole, Il volto pallido del rinomato Pennywise parve illuminarsi come un albero di natale.
<< Oh, ma allora ti tiro su il morale! Lo vuoi un bel palloncino? >> domandò con fare entusiasta.
Porse la mano destra in avanti e la bambina cominciò a scrutare attentamente il grappolo di areostati.
<< Galleggiano >> osservò lei, notando come questi sembrassero sfidare la gravità stessa. Per di più, andavano contro vento. Non sembravano affatto palloncini normali.
Se possibile, il sorriso sul volto del clown si fece ancora più grande.
<< Ma certo che galleggiano! Tutto galleggia qui intorno! >> esclamò , mentre compiva una piroetta su  se stesso.
Porse un palloncino in avanti, aspettando che Jackie lo prendesse.
Nonostante ciò, la bambina rimase fermo e immobile, gli occhi adornati da una punta di sospetto.
Il ghigno sul volto del pagliaccio si afflosciò leggermente.
<< Se non ti piace il colore posso dartene un altro. Ne ho di blu, gialli, verdi…ti prego, non fare complimenti! >>
Tuttavia, quando Jackie non fece alcun segno di voler rispondere, il clown simulò un’espressione rattristata.
<< Vedo che non sei molto in vena di compagnia. Mi dispiace di averti disturbato >> disse con voce pietosa, per poi dare una rapida occhiata all’area circostante. << È solo che qui intorno non ci sono molte persone con cui parlare. A volte mi sento davvero solo. >>
Al sentire tali parole, il cuore di Jackie venne avvolto da una stretta sgradevole.
Forse era stata un po’ troppo dura con quel clown, in fondo non sembrava una persona cattiva. Un po’ strano certo, ma era pur sempre un clown.
Non aveva fatto alcun tentativo di farle del male, né aveva cercato di rapirla. E in quel momento, sulla riva del lago, c’erano solamente loro due. Se avesse voluto farle del male…probabilmente lo avrebbe già fatto.
<< Ora me ne torno a casa >> continuò il pagliaccio. << Continua pure a fare quello che stavi facendo. Ma non avvicinarti al fiume! A volte qualche alligatore sceglie di venire qui in vacanza >>
E, detto questo, le fece un occhiolino e procedette a incamminarsi verso il pozzo di scolo.
Gli occhi di Jackie si dilatarono come piatti.
<< Tu abiti lì dentro?  >> domandò incredula.
Pennywise si fermò di colpo e, per un attimo, la bambina fu preoccupata di averlo offeso. Invece, il clown si voltò verso di lei con un sorriso ritrovato.
<< Oh, non solo io. Tutto il circo si trova lì sotto! >> esclamò gioviale.
Poi, si chinò verso di lei con fare cospiratorio.<< Lo senti l’odore del circo, Jackie? >>
La bambina inarcò un sopracciglio e allungò il collo per vedere meglio il pozzo.
Improvvisamente, sentì un odore. Odore di…noccioline! Noccioline arrostite e ancora calde!
Diede un paio di rapide annusate, sentendo anche l’aroma di aceto bianco, lo stesso che gli inservienti del Mc Donald spruzzavano sulle patatine fritte! Per non parlare del profumo dello zucchero filato e delle ciambelle che friggevano nell'olio, accompagnato dal fetore più debole di sterco di animali selvatici, forse elefanti o cammelli.
Percepì anche l'aroma allettante della segatura, misto…a qualcos’altro. Qualcosa di decisamente più sgradevole, che sapeva di rame. E c'era anche il puzzo di foglie in decomposizione, un odore fradicio e marcio. Odore di fogna. Tuttavia, gli altri erano più intensi.
Pennywise si avvicinò a lei con passo furtivo, e le posò una mano amichevole sulla spalla.
<< Ci sono le noccioline... >> disse con quel suo sorriso smagliante. << Lo zucchero filato... gli hot-dog... e… >>
<< Pop corn? >> azzardò Jackie, con tono incerto.
 << Pop-corn! >> confermò il clown, annuendo energicamente. << È quello che ti piace di più, non è vero? >>
La bambina sorrise timidamente.
<< Soprattutto quello dolce >> ammise.
Pennywise scoppiò in un allegro schiamazzo.
<< Ne ero sicuro! Anche io lo adoro, lo sai? Perché fa pop! >> disse picchiettando il naso della bambina.
Questa volta, anche Jackie si ritrovò incapace di trattenere una risata.
Sì, quel clown era decisamente una brava persona. Era forse l’individuo più amichevole e spensierato che avesse mai incontrato.
Inoltre, guardandolo meglio, si rese conto di aver commesso un errore. Gli occhi del pagliaccio, infatti, non era affatto gialli, bensì di un blu vivace e limpido, come il cielo stesso.
<< Penso che ti piacerebbe, Jackie >> continuò Pennywise, indicando il pozzo. << A tutti i ragazzi e le ragazze che incontro piace molto, perché lì sotto è come l'isola dei divertimenti di Pinocchio e il paese del Mai-Mai di Peter Pan. >>
Jackie lo guardò stranamente, come se avesse appena detto qualcosa di incredibilmente stupido.
Il clown annuì ancora una volta.
 << È vero, non devono mai diventare grandi ed è quello che tutti i bambini desiderano, no? >> domandò retoricamente.
Inutile dire che Jackie si ritrovò d’accordo con le parole del clow. Nemmeno lei voleva crescere, e lo stesso valeva per tutti i suoi amici.
Posò brevemente lo sguardo sul pozzo, e la cosa non passò certo inosservata agli occhi di Pennywise.
<< Vuoi dare un’occhiata? >> offrì con tono amichevole, quasi come se avesse letto la mente della bambina.
Gli occhi di Jackie parvero illuminarsi. E se questo clown fosse magico, come i personaggi dei film Disney che sua madre la portava sempre a vedere al cinema?
<< Posso? >> chiese incerta, con le mani che tremavano per l’eccitazione a mala pena contenuta.
Pennywise le diede una rapida pacca sulla spalla.
<< Ma certo che puoi! Il mio lavoro è rendere i bambini felici, dopotutto >> disse con tono di fatto. <<  Perciò vieni! Vieni a vedere tutte le meraviglie, prendi un palloncino, dai da mangiare agli elefanti, gioca sullo scivolo…puoi fare quello che vuoi! Purchè tu segua l’unica regola, ovviamente >>
<< E cioè? >> domandò Jackie, sentendosi improvvisamente preoccupata.
L’espressione allegra sul volto del clown cambiò improvvisamente, venendo prontamente sostituita da uno sguardo molto più serio.
<< Non devi mai e poi mai…essere triste! >> terminò, recuperando il suo solito sorriso.
Jackie ridacchiò ancora. Glie l’aveva quasi fatta, dovette ammettere a se stessa.
Poi, puntò lo sguardo in direzione del sentiero da cui era venuta.
<< Non penso di avere il tempo per fare tutte quelle cose >> borbottò riluttante. << Se non torno presto i miei genitori potrebbero preoccuparsi. >>
Pennywise inclinò la testa di lato, cosa che alla bambina ricordò molto un gatto. Il pensiero la fece sorridere, ma quella sensazione di divertimento venne ben presto schiacciata dalla consapevolezza che non avrebbe potuto visitare il circo del suo nuovo amico.
Dopo qualche attimo di silenzio, il clown si strinse nelle spalle.
<< Mi sembra giusto. Va bene, allora, dai solo una rapida occhiata e poi corri subito da mamma e papà! Non vorremmo farli arrabbiare, vero? >> disse con tono malizioso.
Jackie annuì rapidamente, e Pennywise cominciò a guidarla fino al pozzo. Una volta arrivati, la aiutò a salirci sopra, e la bambina si sdraiò a quattro zampe per vedere oltre il bordo dell’apertura senza il rischio di cadere. Tuttavia, l’oscurità fu l’unica cosa ad accoglierla.
Alzò lo sguardo verso Pennywise. << Io non vedo niente >>
<< Guarda con più attenzione, Jackie >> la incitò il clown, con quel suo sorriso apparentemente intramontabile.
Porse ulteriormente la testa in avanti, fino all’altezza del collo. Poteva già sentire il sangue defluirle nel cervello, a causa dell’improvvisa forza di gravità. Eppure, ancora niente. Solo la più completa e tetra oscurità, accompagnata dal suono ritmato dell’acqua gocciolante e dal puzzo delle alghe cresciute lungo le pareti dello scolo.
Girò appena la testa per parlare con Pennywise…e si bloccò. Il clown era sparito, come se si fosse volatilizzato nel nulla.
Un brivido improvviso attraversò la spina dorsale della bambina.
E poi, prima ancora che potesse domandarsi dove diavolo fosse finito il pagliaccio, una pallida mano fuoriuscì dall’oscurità del pozzo e afferrò il volto di Jackie, intrappolandola in una morsa.
La bambina tentò di urlare, ma la presa era troppo serrata, le impediva di aprire la bocca.
E in quel momento, gli occhi impauriti di Jackie si posarono sul volto ghignante e familiare di Pennywise, che ora non era più affianco a lei…ma dentro il pozzo.
E allora Jackie vide la faccia del clown trasformarsi in qualcosa di talmente orrido che, a confronto, le sue più tetre fantasie sul mostro sotto il letto persero ogni consistenza: la sua sanità mentale ne fu distrutta in un sol colpo.
<< Oh ti piacerà, Jackie >> ringhiò l’essere travestito da pagliaccio. << E una volta che sarai con gli altri bambini… vedrai come galleggerai! >>
Con un brusco movimento del braccio, il mostro trascinò la bambina dentro il pozzo.
Si udirono strani scricchiolii, seguiti da gemiti disperati. Infine, sulle rive del Lake Placid tornò a regnare un silenzio spettrale, che venne interrotto solo pochi minuti dopo dalle urla disperate di Tom e Amanda Myers, alla ricerca della loro figlia.



Com’era? Spero bello!
Ho cercato di rendere l’introduzione di IT più originale possibile, distaccandomi da quella del romanzo pur mantenendovi alcuni elementi base. Volevo realizzare qualcosa che fosse al livello dell’incontro tra Pennywise e George senza fare un copia e incolla della suddetta scena, spero di esserci riuscito. Fatemelo sapere nei commenti!
Per chi se lo stesse chiedendo, Miles Warren ( aka Lo Sciacallo ) è un antagonista ricorrente di Spider-Man, mentre Phineas è uno scienziato pazzo dei fumetti Marvel.

 

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Capitolo 2
*** Il ritorno ***


Ecco un nuovissimo capitolo!
Bando ai convenevoli e vi auguro una buona lettura ;)




Il ritorno 

L’asteroide si stava dirigendo verso la Terra ad una velocità di 15 km al secondo.
Il campo gravitazionale di Giove lo aveva deviato mesi addietro. Non di molto: modificare in modo apprezzabile la traiettoria di una simile massa richiedeva un’enorme quantità di energia. Un piccolo scarto, appena percettibile... ma con il tempo, sufficiente. 
Fu una vera fortuna, quindi, che l’alterazione in corso fosse stata notata da una degli astrofisici più decorati del pianeta, la Dottoressa Jane Foster.
Carol Danvers cominciò a fluttuare nel vuoto, si girò verso la luce abbagliante del sole e fece un profondo respiro. Poi si allontanò, con le braccia e il corpo tesi in un’unica linea, e diventò un unico raggio giallo brillante che illuminava la notte eterna dello spazio. 
Fluttuare in quel vuoto senza tempo era una sensazione unica. Liberazione pura, non esistenza e coesistenza con l’intero universo al tempo stesso.
L’asteroide aspettava. Una grossa massa bitorzoluta di scorie che sembrava piombare verso di lei, anche se la sua linea visiva era perpendicolare rispetto al tragitto del meteorite.
Si strofinò la mascella e aggrottò le sopracciglia
Allungò una mano, da cui partì un raggio di luce accecante di energia cosmica verso la superficie rugosa di quella roccia potenzialmente letale, capace di rendere un pianeta sterile.
Dal punto colpito si alzarono i colori dello spettro e dalla superficie salì un getto luminoso.
Carol era straordinariamente forte, ma la sua forza non sarebbe bastata a deviare il corpo celeste, né aveva energia sufficiente per distruggere il meteorite. Quello che poteva fare era usare il suo raggio per surriscaldare una parte della superficie, in modo che la materia dell’asteroide si staccasse come il gas di scarico di un razzo ad angolo retto rispetto alla sua orbita.
Adesso, a milioni di chilometri dalla Terra, una piccola deviazione avrebbe ancora fatto la differenza. Tuttavia, anche per la minima variazione nel corso dell’asteroide era necessaria una quantità incredibile di energia, e una quantità imprecisata di tempo.
Prendendo un respiro profondo e facendo appello a quel potere indomabile che scorreva come un tornado dentro di sé, la supereroina aumentò la forza d’attacco.
Si sentiva viva, enorme e potente. Non poteva fallire, lì, davanti all’occhio nudo del Sole, mentre così tante persone contavano su di lei. C’era in gioco un pianeta, il suo pianeta… la Terra.
La luce crebbe d’intensità ma, per quello che sembrò un tempo interminabile, Carol temette che non sarebbe stato sufficiente.
Poi, un grosso pezzo di asteroide si staccò dalla massa principale, sollevando sbuffi di vapore acqueo condensato e polvere di ferro. Il contraccolpo provocato da quella frattura fu sufficiente a deviare la sua traiettoria di qualche metro.
Quando sarebbe passato vicino alla terra, tale distanza sarebbe cresciuta di almeno 10 000 km.
Con un sorriso stanco e soddisfatto, Carol chiuse gli occhi e puntò in direzione del suo pianeta natale. Era tempo di tornare a casa.
 
                                                                                                                                                           * * *  

Una pagina di giornale che svolazzava tra l’erba secca del parco situato di fronte all’Avengers Mansion andò a fermarsi contro la base della statua di Tony Stark.
Sbatté a intermittenza, come un animale esausto che si ferma per riprendere fiato. Pochi secondi dopo, il vento di Ottobre se la portò via di nuovo.
Un netturbino che si trovava nel bel mezzo del parco osservò il foglio che si stava avvicinando con l’aria di chi si appresta a prendere una decisione titanica.
Poi, con l’esagerata circospezione del bevitore di lunga data, allungò un piede e lo bloccò.
Quando si piegò verso il brandello di giornale, dalla lattina che teneva stretta in mano si riversò sui pantaloni un fiotto di birra.
Dalla bocca gli sgorgò una sfilza di imprecazioni in diverse lingue.
Poi, strofinò la macchia con un largo fazzoletto viola, raccolse il foglio, un’edizione parigina del Daily Bugle, e cominciò a leggere.
I suoi occhi saltavano da una colonna all’altra, divorando le parole.
 
“Sempre più frequenti le segnalazioni di Mutanti in tutto il mondo. Due giorni fa, una coppia di turisti ha affermato di aver investito un uomo con la macchina nei pressi del Canada. Dopo aver contattato le autorità locali per segnalare l’incidente, hanno visto l’uomo alzarsi come se niente fosse e correre nella foresta.”
 
Con un gesto convulso, l’uomo piegò parte del foglio e chiuse gli occhi.
<< Che stronzata >> borbottò a bassa voce.
Quasi in risposta, il suo stomaco emise un sordo brontolio.
L’uomo aggrottò le sopracciglia e buttò giù una lunga sorsata di birra scadente, che gli lasciò un gusto acido sulla lingua ed esplose con un bruciore nello stomaco vuoto. Il brontolio si placò e lui fece un sospiro.
Poi, sentì un sonoro brusio provenire dalle sue spalle. Il netturbino si voltò di scatto.
Una giovane donna bionda, illuminata da una luce dorata, stava scendendo dalla volta celeste.
Il vento cambiò direzione e investì l’uomo in pieno, facendogli perdere la presa sulla pagina del giornale.
Il netturbino spalancò gli occhi con timore reverenziale.
C’era qualcosa di angelico quella donna. Era di una bellezza assolutamente mozzafiato…e molto familiare.
Quando la luce cominciò a diradarsi, l’inconfondibile figura di Capitan Marvel si palesò davanti a lui.
L’uomo rimase fermo e immobile, totalmente incapace di compiere anche il più piccolo movimento. Aveva lavorato in quel parco per quasi nove quindici mesi, ma non aveva mai visto la supereroina di persona. Come il resto del mondo, dopo due anni di assenza, pensava che non sarebbe mai più tornata sulla Terra.
Carol volse al netturbino un rapido cenno del capo e procedette a incamminarsi verso la Avenger Mansion.
Con stivali sportivi, una camicia e una giacca da aviatore marrone, l’eroina varcò la soglia della base con passo marcato e si fermò al banco della reception.
<< Devo vedere il Signor Rhodes >> dichiarò con un sorriso accomodante.
La segretaria, una rossa con la montatura degli occhiali a tal punto sagomata che sembrava portare un pipistrello sulla faccia, la fissò stranita.
<< Il Signor Rhodes è molto impegnato. Chi devo annunciare? >> domandò con voce atona.
Carol inarcò un sopracciglio.
<< Gli dica che Capitan Marvel vuole vederlo >>
<< Oh! >> esclamò la ragazza, guardandola negli occhi. << Mi dispiace… sono nuova, e non l’avevo riconosciuta >>
“ Oh, andiamo, sono passati solo due anni” pensò l’Avenger, cercando di trattenere un’espressione accigliata.
Dopo che la segretaria ebbe annunciato la sua presenza attraverso un interfono, Carol camminò fino alla destinazione prestabilita.
L’ufficio di James “Rhodey” Rhodes era esattamente come se lo ricordava, una sala di medie dimensioni che sembrava fuoriuscita direttamente da un film di guerra degli anni 80, tipo Full Metal Jacket.
C’era una giacca dei Marines appesa al muro, modellini di carro armati, aerei militari e altri macchinari bellici, foto e articoli di giornale raffiguranti War Machine e pure un ritratto del Presidente Barack Obama.
I suoi occhi si posarono finalmente su Rhodey, vestito con la sua consueta uniforme da colonnello, che si alzò dalla scrivania e le lanciò un largo sorriso.
<< Carol! >> esclamò, allungando una mano. << Mi fa piacere rivederti. Ottimo lavoro con quel meteorite, oggi >>
<< Sono solo felice di essere stata utile >> ribattè la donna, stringendo l’arto teso e sorridendo a sua volta. << Di essere tornata col botto, capisci? >>
<< Buffo che tu la metta in questo modo >> disse il collega Avenger, ricevendo un sopracciglio inarcato da parte della bionda.
<< Se tiri fuori uno dei tuoi atroci doppi sensi, Rohdey, giuro che ti lancio dalla finestra >>
<< Ti prego, ho superato quella fase. So fare di meglio, adesso, credimi >> ridacchiò l’altro, per poi farle cenno di sedersi. << Bhe, ora che sei tornata sulla Terra e rientrata dal tuo periodo di pausa, ti rivogliamo alla grande…per conto tuo, ovviamente >>
<< Certo, questa è l’idea >> confermò Carol, con una scrollata di spalle.
Rohdey annuì soddisfatto.
<< Bene…ci serve che tu faccia un’intervista >>
<< … >>
La supereroina prese a fissarlo con uno sguardo impassibile.
<< …No. Mi rifiuto. Scordatelo >>
<< Non è facoltativo, Carol >> rispose il colonnello, con un sospiro stanco.
In tutta risposta, la donna si limitò ad incrociare ambe le braccia davanti al petto.
<< Uh, tu non sei il mio capo. Non sei nemmeno il capo degli Avengers >>
<< Sono stato candidato ad esserlo >>
<< E questo che significa? >> ribattè l’altra, con un cipiglio visibilmente scontento.
Rhodey si accasciò sullo schienale della sedia, intrecciando le dita delle mani sotto il mento e fissando intensamente la bionda.
<< Sono tempi nuovi…e difficili. La percezione del pubblico è più importante che mai. Gli Avengers, sia separatamente che insieme, sono stati sotto torchio ultimamente. E stiamo cercando di migliorare la nostra immagine pubblica >> ammise con riluttanza. << Sei lontana dei reflettori da un po’. Dobbiamo lavorare su questo, renderlo qualcosa di positivo. Sono tutti d’accordo, e io sono stato incaricato di parlarne…perché, bhe, metti un po’ paura >>
<< Che diavolo significa? Sono stata nello spazio a salvare pianeti per quella che mi è parsa una vita…da cose come conquistatori intergalattici ed eruzioni solari…prendo un periodo di pausa per motivi personali e… >>
<< Il problema non è la pausa, Carol. Quella la gente può capirla…in termini umani >>
<< Allora non capis…aspetta! Lo spazio è il problema?! >> domandò l’altra, incredula.
Di fronte a lei, il compagno Avenger annuì in conferma.
<< Lo spazio è il problema >>
<< Sono confusa >> borbottò Carol, portandosi una mano alla testa per frenare l’emicrania imminente. << Sei segretamente  un criminale mandato a torturarmi a suon di stupidità? >>
<< No, ma secondo un sondaggio ciascuno di noi potrebbe voler segretamente conquistare il mondo >> rispose l’altro, con un roteare degli occhi.
La donna prese a scrutarlo stranamente. << Un sondaggio? >>
<< Tutti li fanno, oggi giorno. Il problema di te che sei stata nello spazio per tanto tempo è che…la gente non poteva vederti. E, non avendoti vista…non capiscono cosa tu abbia fatto >>
Carol gemette e affondò nello schienale della sedia. << Stai…stai parlando sul serio? >>
<< Purtroppo sì >> confermò Rhodey, sospirando una seconda volta.
La donna rilasciò un sonoro sbuffo. Dio, ora ricordava perché aveva passato quasi due anni lontano da questo pianeta. Sicuramente c’erano altre ragioni, ma la politica umana era sempre stata una delle poche cose capaci di causarle un esaurimento nervoso.
<< Bene, ok >> borbottò sconfitta. << Vogliono delle foto? Vogliono vedermi da vicino per capire che faccio, chi sono? Bene…lascia che continui a fare quel che faccio >>
<< Più un’intervista >> continuò Rhodey, ricevendo un’occhiataccia da parte della donna.
L’uomo, tuttavia, mantenne un’espressione tranquilla, per nulla intimidito dalla minaccia implicita della collega.
Dopo quello che sembrò un tempo interminabile, Carol rilasciò un sospiro rassegnato.
<< Okay… okay, organizzala >>
<< Già fatto >> rispose Rohdey, arricciando ambe le labbra in un sorriso soddisfatto. << È programmata tra una settimana >>
Carol ringhiò stizzita. << Ti odio. Ho già minacciato di lanciarti da una finestra? >>
<< L’hai fatto. E ho anche bisogno che tu mi faccia un favore >>
<< Ti sto già facendo un favore. L’intervista è un favore >>
<< Okay, diciamo due favori, allora. Anche se questa cosa potrebbe interessarti >> disse l’Avenger, suscitando uno sguardo curioso ad opera della collega.
Nel mentre, Rhodey estrasse un fascicolo rilegato da sotto la scrivania e lo posò sulla superficie del tavolo.
<< Nell’ultimo anno, una regione del Maine è stata soggetta a numerose sparizioni di bambini, tutti di età compresa tra i 5 e i quattordici anni >> iniziò con uno sguardo cupo. << Per qualche ragione, la cosa è passata inosservata a livello nazionale, fino a quando una famiglia che si trovava in viaggio nella zona non ha denunciato la scomparsa della figlia di nove. >>
Carol inarcò un sopracciglio. << Di quanti bambini stiamo parlando? >>
<< Il numero è ancora incerto, ma le autorità della cittadina più vicina ci hanno riferito che sono avvenute almeno tredici sparizioni confermate >> rispose il colonnello, visibilmente a disagio con l’argomento.
La supereroina lo fissò sorpresa.
<< Ok, questo è davvero strano. Come mai una cosa del genere non è su tutti i giornali? >> domandò incredula.
<< È la stessa domanda che mi sono posto >> ammise Rhodey. << Ed è anche la ragione per cui volevo chiederti di dare un’occhiata. È possibile che sia coinvolto un superumano. >>
Carol passò brevemente lo sguardo da lui al fascicolo sulla scrivania.
<< La situazione sembra brutta, certo, ma non così tanto da mobilitare gli Avengers. Non sarebbe meglio lasciare che se ne occupi lo Shield ? >> chiese con tono incerto.
Quasi come se si fosse aspettato quelle parole, Rhodey aprì il rilegato e lo fece scivolare verso di lei.
<< Ecco la cittadina dove sono avvenute la maggior parte delle sparizioni >> disse, invitandola a leggere la prima pagina.
Senza perdere tempo, Carol afferrò il fascicolo, se lo portò agli occhi…e si bloccò.
Un brivido le percorse la spina dorsale, mentre una mano fantasma sembrò attanagliarle lo stomaco.
Sulla cima della pagina, scritto a caratteri cubitali, spiccava il nome della cittadina : Harpswell.
Ad un qualsiasi altro Avenger, la denominazione di quel luogo non avrebbe provocato alcuna reazione. Ma non a lei, non a Carol Danvers. Poiché quella…era la stessa cittadina in cui era nata e cresciuta, e dove attualmente vivevano gli ultimi membri rimasti della propria famiglia.
<< Tutto bene? >> domandò Rhodey, notando che la donna aveva improvvisamente smesso di respirare.
Carol chiuse gli occhi, contò fino a cinque e rilasciò un sospiro.
<< Sì, io…grazie per avermene parlato >> disse dopo qualche attimo di silenzio.
Poi, prese a fissare intensamente il compagno Avenger.
<< Lo prendo >> disse con un tono che non ammetteva repliche.
Rhodey le lanciò un piccolo sorriso.
<< È quello che speravo di sentire. Lì dentro c’è tutto quello che siamo riusciti a scoprire >> disse indicando il fascicolo.
La donna annuì, si alzò dal posto a sedere e procedette a incamminarsi verso l’uscita della stanza.
<< Oh, e porta con te anche il ragazzo ragno >> aggiunse il colonnello, prima che potesse uscire dalla porta.
Carol si drizzò di scatto, come se fosse stata colpita da un fulmine.
Con movimenti quasi meccanici, girò lentamente la testa verso il collega Avenger.
<< Perché? >> chiese in modo apparentemente casuale, nel tentativo di frenare l’ondata improvvisa di emozioni che cominciò ad attraversarle il corpo.
<< Potrebbe servirti una mano >> rispose Rhodey, stringendosi nelle spalle. << Inoltre, è da un po’ che non gli affido missioni, e voi due avete sempre lavorato bene assieme. >>
La donna aprì e chiuse la bocca un paio di volte.
<< Nessun’altro è disponibile? >> chiese, dopo qualche attimo di silenzio.
Rhodey scosse prontamente la testa.
<< No, sono tutti impegnati. Strange sta dando la caccia ad un Ghoul in Sud Africa o qualcosa del genere, Hulk è in una missione di pace in Israele, Bucky e Sam sono in Messico per combattere una cella Hydra dormiente, e i Lang stanno presentando il loro ultimo progetto alla Convention Nazione delle Scienze. Per quanto riguarda me, ho una riunione con il Pentagono tra mezz’ora >> terminò, per poi lanciare un’occhiata perplessa in direzione di Carol. << C’è qualche problema? >>
<< No, affatto >> rispose rapidamente la donna. << È solo che…Sai che preferisco lavorare da sola >>
Al sentire tali parole, le labbra del colonnello si sollevarono in un sorriso orgoglioso.
<< Credimi, il ragazzo non sarà una distrazione >> disse con tono rassicurante. << Negli ultimi due anni ha fatto passi da gigante, c’è un motivo per cui è diventato uno degli eroi più popolari del mondo. Tony sarebbe orgoglioso di lui >>
“ Non è la sua competenza a preoccuparmi” pensò Carol, con una punta di rassegnazione.
Capendo che non sarebbe stata in grado di uscire da quella situazione senza evitare domande scomode, fece appello ad ogni oncia del proprio autocontrollo per mantenere la calma.
<< Dove si trova? >> chiese, dopo qualche attimo di silenzio.
In tutta risposta, Rhodey si limitò a lanciare un ghigno ironico.
<< Ti basterà seguire le sirene >>
 
                                                                                                                                                            * * *  

<< Non è la specie più forte o la più intelligente a sopravvivere, ma quella che si adatta meglio al cambiamento >>
Curt Connors, biologo specializzato nello studio dei rettili, pronunciò quella frase in una grossa aula della Stark Nord High University, edificio finanziato dalla fondazione Stark un anno dopo la morte del miliardario che l’aveva inaugurata.
Peter Parker procedette a scriverla in fretta e furia sul blocco degli appunti, cercando in tutti i  modi di contrastare la stanchezza che dall’inizio di quella giornata cercava inesorabile di fargli chiudere gli occhi.
Non che qualcuno potesse fargliene una colpa. L’aumentò della criminalità per le strade avevano reso le sue ronde sempre più frequenti, e il tempo libero a disposizione era diminuito di conseguenza.
A questo ritmo avrebbe cominciato a soffrire d’insonnia entro la fine del mese, e lo sapeva anche lui.
<< Questa frase è tradizionalmente attribuita a Darwin e in genere si ritiene che tale citazione sia tratta dal libro L'origine della specie. In realtà le citazione non è presente in nessuno degli scritti di Darwin, come confermato anche dallo storico Jon Van Wyeh >> continuò Connors, scrivendo il nome del suddetto scienziato sull’unica lavagna presente nella classe.
La manica del braccio destro mancante, perso durante un’esplorazione in Africa, svolazzò a causa del vento che filtrava dalle finestre della stanza.
 << Questa citazione è tuttora riportata sul pavimento di pietra della California Academy of Sciences, ma l'attribuzione a Darwin è stata rimossa. Con ogni probabilità la citazione è da attribuire a Leon C. Megginson, professore universitario e saggista statunitense, che in Lessons from Europe for American Business scrive: “Secondo L'origine delle specie di Darwin, non è la più intelligente delle specie a sopravvivere. Non è nemmeno la più forte. La specie che sopravvive è quella in grado di adattarsi meglio ai cambiamenti dell'ambiente in cui si trova.” >>
Connors si girò verso il gruppo di studenti raccolti, sorridendo piacevolmente.
<< Lo stesso Megginson in Key to Competition is Management dice: “Non è la più intelligente delle specie quella che sopravvive; non è nemmeno la più forte. La specie che sopravvive è quella che è in grado di adattarsi e di adeguarsi meglio ai cambiamenti dell'ambiente in cui si trova. Così dice Charles Darwin nel suo Origine delle specie.” Il fatto che queste frasi siano associate alla teoria darwiniana e in particolare al libro L'origine della specie potrebbe giustificare in parte l'origine della falsa attribuzione… >>
RIIIIIIIIIIIIIING!
Il suono della campanella gli impedì di terminare la frase.
Con un sospiro rassegnato, l’uomo posò il gessetto sulla scrivania della classe.
 << Bene, tempo scaduto. Vi consiglio di guardarvi il capitolo 12 dell’omonimo libro, potreste trovarla una lettura illuminante >> disse con tono d’avvertimento, facendo una rapida panoramica delle persone raccolte.
Peter scrisse rapidamente anche quell’ultima nota e cominciò a preparare lo zaino.
<< Ciao, Peter >>
Il suono di quella voce lo costrinse a fermarsi.
L’adolescente si voltò, trovandosi di fronte all’esile figura di una giovane ragazza dai lunghi capelli biondi. Aveva una bellezza provinciale, con grandi occhi azzurri e un sorriso che avrebbe potuto illuminare anche la giornata di un aspirante suicida.
<< O-oh. Ciao, Gwen >> balbettò Peter, salutandola con un rapido cenno del capo.
La ragazza roteò gli occhi, come se avesse assistito a quella reazione un milione di volte. Internamente, il vigilante cercò con tutte le sue forze di trattenere un rossore.
Gwen Stacey era probabilmente la studentessa più intelligente della Stark North Hight University, con un quoziente intellettivo che rivaleggiava persino con quello del vigilante. Questo, unito al fatto che fosse anche una delle ragazze più carine del campus, l’avevano resa il bersaglio di numerose cotte.
Lo stesso Peter aveva accarezzato l’idea di chiederle di uscire, prima di seppellire rapidamente quel pensiero traditore. Quell’invito era riservato ad un’altra persona…qualcuno che non vedeva da quasi due anni.
Una stretta dolorosa cominciò ad attanagliargli il cuore, il ricordo inaspettato di una promessa che stava cominciando a farsi sempre più flebile.
<< Lezione interessante, non pensi anche tu? >> disse Gwen, scuotendolo da quella sensazione sgradevole.
L’arrampica-muri sorrise debolmente.
<< Sì, il professor Connors sa sicuramente di cosa sta parlando >> rispose con tono disinvolto. Poi, lanciò alla ragazza un’occhiata incerta.
 << Avevi bisogno di qualcosa? >>
<< Io e gli altri ragazzi ci chiedevamo se volevi venire a studiare con noi >> disse Gwen, facendo cenno ad un gruppo di studenti in attesa all’uscita della classe.
 << Ho anche portato dei muffin! >> aggiunse rapidamente, come se volesse dargli un incentivo per partecipare.
Peter si mosse a disagio sulla punta dei talloni. La tentazione di accettare era forte, ma qualcosa lo costrinse a valutare attentamente le sue prossime parole.
Sarebbe stato così facile lasciarsi andare, vivere la vita normale di un ragazzo universitario, valutare la possibilità o meno di uscire con la studentessa più bella del campus…ma non poteva. Anche dopo che erano passati due anni, non poteva smettere di pensare a LEI.
Per quanto fosse lontana, chissà dove, a visitare posti che andavano oltre i suoi sogni più sfrenati…lui poteva ancora sentire la sua presenza fantasma avvolgerlo con un abbraccio caldo rassicurante. Il sapore delle sue labbra, il tocco dei suoi baci…
Scosse la testa da quei pensieri e volse alla compagna di classe un sorriso imbarazzato. 
<< Mi dispiace, Gwen, ma il mio turno inizierà tra pochi minuti e sono già in ritardo >> disse con tono di scusa.
Il volto della ragazza passò da felice a deluso nella frazione di un secondo.
<< Il tuo lavoro di tiene davvero impegnato >> borbottò con amarezza.
<< Non immagini quanto >> disse il ragazzo, mentre si passava una mano tra i cappeli.
Con un sospiro rassegnato, Gwen gli lanciò una timida occhiata. << Allora…sarà per un’altra volta? >>
<< Sicuramente >> rispose rapidamente Peter, ben consapevole che quella era una promessa che non sarebbe mai riuscito a mantenere. Non quando il ricordo di una certa persona era ancora così vivido nella sua testa.
Dopo essere uscito dall’edificio universitario, l’adolescente s’incamminò con aria stanca verso l’ingresso della metropolitana che confinava con il campus.
Spostò tutti i libri che stava portando sotto un solo braccio, per cercare con la mano libera un gettone nella borsa. Al cancello si fermò da una parte, lasciando passare altri studenti. A giudicare dai loro cartelloni doveva essersi appena conclusa una manifestazione a favore degli Inumani.
Arrivò a destinazione dopo dieci minuti.
Peter aveva affittato un appartamento in un palazzo in arenaria ristrutturato vicino a Central Park, poco lontano dal campus universitario.
Dopo esservi entrato, indossò gli auricolari del cellulare e fece partire una canzone dei Queens a tutto volume.
Quel livello di suono così alto era necessario a causa del vicino del piano inferiore, un fanatico di Lemmy Kilmister che ascoltava di continuo musica Heavy Metal.
Senza perdere tempo, l’adolescente posò i libri sull’unica scrivania presente nel loggiato e cominciò a indossare la sua tuta da Spider-Man.
Una volta terminata l’operazione, aprì la finestra del salotto e si guardò attorno per essere sicuro che nessuno lo avrebbe notato uscire.
<< Si va in scena >> sussurrò a se stesso, per poi coprirsi il volto con la maschera.
 
                                                                                                                                                           * * *
 
Faceva un caldo insolito per essere ottobre, e i bambini attorno alle pompe antincendio costituivano un’immagine senza tempo.
L’unica cosa che mancava era l’esperienza: nessuno sapeva come far uscire l’acqua dagli idranti. E non aveva importanza se una cosa simile avrebbe comportato un improvviso calo della pressione idrica locale, compromettendo seriamente la lotta agli incendi, motivo per cui i piromani erano sempre pronti ad accontentare una banda di ragazzini sudati in una giornata afosa.
Jake Halpner, vestito con pantaloni mimetici e canotta stracciata alla Rambo, era fermo all’angolo tra la Hills e la Brown, cercando di tenere giù la prima pagina della rivista sollevata dalle occasionali folate di vento.
L’articolo era intitolato: “ Spider-Man, la minaccia mascherata, colpisce ancora!”, di J. Joanh Jameson.
L’uomo alzò lo sguardo, quando i suoi complici si fermarono all’edicola vicino a lui, senza dare nell’occhio.
Si guardò attorno un paio di volte. La zona era completamente deserta.
Con un respiro profondo, afferrò la canna delle pistola che teneva nei pantaloni e si preparò a minacciare il proprietario del tabacchino.
Solitamente, i rapinatori prediligevano piccoli negozi e supermercati, ma Jake aveva scoperto che coloro che lavoravano alle edicole erano molto più facili da intimidire, e soprattutto non portavano mai un’arma potenzialmente carica sotto l’asse del gazebo.
Qualcuno lo tocco improvvisamente alla spalla.
Jake si voltò di colpo e la ferocia indurì i suoi scarni tratti portoricani. Poi, l’espressione si sciolse come cera a causa dello stupore. Stava fissando dritto nella maschera di Spider-Man.
<< Toc Toc >> disse il supereroe, con tono di voce allegro.
Gli occhi dell’uomo si dilatarono come piatti. Senza perdere tempo, alzò la canna della pistola e si preparò a sparare, ma qualcosa gli bloccò la mano contro la parete dell’edicola. Una sostanza bianca e filamentosa, fuoriuscita dai polsi dell’Avenger con un sibilo.
 << Hai rovinato la battuta. Avresti dovuto chiedere “ chi è?” >> continuò Spider-Man, con tono beffardo.
Uno dei complici si preparò a fare fuoco.
Peter balzò in avanti e colpì con un calcio laterale il ginocchio dell’uomo. La gamba si piegò.
Gli sferrò un altro calcio alla mandibola e il criminale ricadde a terra, emettendo un sonoro gemito.
 << Certa gente non apprezza l’umorismo di strada >> commentò l’arrampica-muri, scuotendo la testa in finta delusione.
BZZZZZZZZZZZZZZ!
Il suo senso di ragno cominciò a vibrare.
Il secondo complice aveva sparato un colpo, ma Peter fu rapido ad evitarlo.
Saltò in aria con un’eleganza che lasciò il criminale senza fiato. Eseguì una piroetta in volo, portando il tallone destro sotto di sé, e ruotando colpì con un perfetto calcio circolare contro la spalla del malvivente.
Si udì un tonfo secco, come una zucca che cade per terra. L’uomo indietreggiò.
Continuando a roteare, Spider-Man atterrò con leggerezza e si rimise in posizione di combattimento, proprio mentre Jake era riuscito a liberarsi dalla ragnatela.
Il supereroe lo salutò con un rapido cenno del capo.
<< Salve, signor criminale, sono Spider-Man! Puoi chiamarmi insetto, testa di tela… >>
Non più di tanto sorpreso, Jake puntò sua Smith & Wesson a canna mozza, si mise in posizione isoscele, impugnando l’arma a due mani, mirò al centro del vestito del vigilante, fece un bel respiro, trattenne il fiato e premette due volte il grilletto.
Il revolver produsse una bella quantità di fuoco, rinculo e rumore. Nessun altro risultato.
Stupito, l’uomo abbassò la pistola.
Spider-Man era a due metri di distanza, non poteva averlo mancato. Poi, vide la stessa sostanza filamentosa di poco fa… che ora copriva la bocca della pistola.
<< Cha maleducato >> disse Peter, attirando ancora una volta l’attenzione del ladro.
Si lanciò in avanti, abbassandosi per fare perno su una mano, mentre la gamba eseguiva un calcio a falce.
Jake perse la presa sull’arma, che venne prontamente recuperata da una ragnatela dell’Avenger.
<< Tieni, ti è caduto questo! >> esclamò questi, per poi lanciarla contro la testa del criminale. L’uomo cadde a terra a causa della forza d’impatto, e svenne sul colpo.
 << E resta lì! >> ordinò Peter, indicando drammaticamente il corpo immobile del delinquente.
Fatto questo, volse lo sguardo in direzione dell’edicola, dove il proprietario lo stava fissando sbalordito.
Dopo quasi un minuto di silenzio, l’uomo balbettò un rapido : << G-grazie >>
<< Nessun problema, faccio solo il mio dovere >> rispose il vigilante, sorridendo sotto la maschera.
In quel preciso istante, un rumore insolito ma familiare al tempo stesso risuonò alle sue spalle.
Il proprietario dell’edicola spalancò la bocca in apparente sorpresa, mentre una luce abbagliante illuminò il quartiere nonostante fosse già pieno giorno.
La testa di Peter si girò di scatto…e il suo cuore mancò un battito.
Davanti a lui c’era una giovane donna, vestita dalla gola fino alla suola delle scarpe con una bizzarra uniforme variopinta, con motivi rossi e blu.
Aveva un emblema sul petto che ricordava una stella.
Era alta quanto lui, e aveva i capelli lunghi e dorati che circondavano un volto dai lineamenti forti e risoluti. E poi c’erano gli occhi…occhi che Peter non avrebbe mai potuto dimenticare, illuminati come un paio di lampadine.
<< Carol >> sussurrò a bassa voce, le lenti della maschera spalancate per l’incredulità.
Il bagliore che circondava il corpo della donna cominciò a diradarsi, e questa volse al ragazzo un sorriso a mala pena accennato.
<< Peter >> saluto con un rapido cenno del capo.
Inconsciamente, il vigilante compì alcuni passi in direzione della nuova arrivata, quasi come se si volesse accertare di non avere le visioni.
Una volta fermatosi di fronte a lei, allungo la mano e percepì il calore familiare scaturito dall’energia cosmica, e la ritrasse subito. Era l’unica conferma di cui aveva bisogno.
Era…era davvero qui. Carol Danvers, la donna di cui si era innamorato…era di nuovo sulla Terra, e ora stava proprio qui, di fronte a lui.
<< Sei…sei tornata >> disse dopo qualche attimo di silenzio, la gola improvvisamente secca.
Carol lo fissò teneramente. << Già >>
Peter inspirò bruscamente, assimilando ogni cadenza di quella voce che ormai non sentiva da due anni.
Poi, lanciò una rapida occhiata in direzione dell’edicola, poi sui criminali svenuti.
Senza perdere tempo, li intrappolò in un bozzolo di ragnatele e tornò a fissare la supereroina.
<< Ti va di mangiare qualcosa? >>



Com'era? Spero bello!
Aaaaah, quanto mi era mancato scrivere dei miei bimbi. Sono passati due mesi dal finale di So Wrong, quindi spero davvero di non aver perso la mano. 
Penso di essere l'unico scrittore italiano a trattare questa ship ( grazie al cielo per i siti di fan fiction americani e spagnoli ), quindi è un po' una questione di orgoglio personale. 
Nel prossimo capitolo avremo la tanto attesa ( spero? ) rimpatriata tra i due.
In quanti hanno colto la citazione a Wolverine?

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Capitolo 3
*** Sete di vendetta ***


Ecco un nuovissimo capitolo!
Primo di leggerlo, vi consiglio di riprendervi la one-shot " You got something for me, Peter Parker? ", poichè gli eventi di quella fic saranno direttamente collegati ad un personaggio che farà la sua comparsa in questo aggiornamento. Se invece l'avete già letta...beh, in quel caso spero che abbiate una buona memoria ;)
Buona lettura!



Sete di Vendetta

Sulla Quinta Avenue regnava una profonda oscurità, e una quiete altrettanto profonda.
Dal suo posto a sedere vicino alla vetrata del ristorante, Peter Parker guardò i lampioni e il continuo fluire del traffico, contraendo le labbra in un’espressione pensierosa.
Tutta quella luce e quell’attività non gli piacevano, ma non poteva farci nulla. Dopotutto, era l’incrocio tra la Quinta Avenue e la Settantatreesima Strada della città che non dorme mai.
E quelle vie erano state altrettanto trafficate anche le sere precedenti che lui aveva trascorso a pattugliare la zona, non aveva quindi motivo di credere che la situazione potesse migliorare.
Carol era di fronte a lui, completamente in silenzio, mentre punzecchiava un piatto di verdure con la forchetta.
<< Hai già cominciato l’università? >> disse all’improvviso la donna, rompendo la quiete imbarazzante.
Peter drizzò la testa di scatto, più che determinato a non lasciarsi sfuggire quell’apertura.
<<  Sono al secondo anno di ingegneria molecolare >> rispose con una punta d’orgoglio.
Carol lo fissò impressionata. << Roba molto avanzata >>
<< Che posso dire? Ho preso a cuore il tuo consiglio >> disse l’altro, con una scrollata di spalle.
La donna gli lanciò un sorriso, il primo che le aveva visto fare da quando si erano incontrati appena un’ora prima. Si era quasi dimenticato quanto potessero essere belli.
<< Sono felice di sentirlo >> disse, per poi addentare un pezzo di melanzana.
Sul tavolo tornò a regnare il silenzio.
Peter si guardò attorno un paio di volte, controllando che nessuno fosse a portata di orecchio.
<< Così…come vanno le cose nello spazio? >> chiese con tono apparentemente casuale, attirando l’attenzione di Carol.
<< Abbastanza bene >>  ripose, dopo un attimo di esitazione. << Ho interrotto un paio di guerre intergalattiche, fermato la distruzione di un pianeta, salvato l’ultima balena astrale dall’estinzione…le solite cose >>
<< Sì, sicuramente roba di tutti i giorni >> commentò Peter, con un ghigno divertito.
La donna si limitò a roteare gli occhi. << E tu? >>
<< Niente di eccezionale >> ammise il vigilante. << Ho speso gli ultimi due anni ad occuparmi delle strade, arrestare criminali basso profilo, più un paio di missioni per debellare le ultime celle dell’Hydra. Oh, c’è stata quella volta in cui ho aiutato Daredevil a combattere Bullseye! >>
<< Bullseye? >>
Peter arricciò il volto in una smorfia.
<< Credimi, non lo vorresti incontrare, quel tipo era un vero psicopatico. Lui e Kasady potrebbero essere fratelli >> borbottò, prima di rendersi conto di quello che aveva appena detto.
Sussultò, mentre anche il volto di Carol veniva attraversato da un cipiglio al sentire il nome del Serial Killer.
Un altro silenzio imbarazzante calò sul tavolo, accompagnato solo dal suono delle macchine che passavano davanti al ristorante.
 << Wow, siamo dei fantastici conversatori >> disse Peter, tentando di disinnescare la situazione.
Carol sorrise ironica. << Parlare di lavoro fa questo effetto, cambiamo argomento >>
<< Buona idea >> acconsentì il compagno Avenger. << Quiiiindi…>>
<< Quiiiindi… >> fece eco lei, tamburellando le dita della mano destra sulla superficie del tavolo.
Dopo qualche altro attimo di silenzio, Peter si indicò la testa.
<< lo sapevi che ora posso muovere i capelli a piacimento? Non c’entrano i poteri ragneschi, eh»
<< Dovrei sentirmi impressionata? >> ribattè l’altra, inarcando un sopracciglio.
Il vigilante si accasciò sulla sedia.
<< Suppongo di no >> borbottò a bassa voce. << Vorresti un drink? In questo posto fanno un Bloody Mary fantastico >>
<< Sono appena tornata da un lungo viaggio di seimila anni luce, penso che per ora mi accontenterò di una bottiglia d’acqua >> rispose la donna, per poi riprendere a mangiare.
Peter rimase fermo e immobile, fissandola per quello che sembrò un tempo interminabile.
<< Il cibo è buono? >> sbottò tutto d’un fiato, sperando di riprendere un qualche tipo di conversazione.
Carol alzò lo sguardo dal piatto, incontrando i suoi occhi ancora una volta. << Non male, anche se le porzioni sono un po’ piccole >>
<< Già…lo sai che le verdure sono state coltivate localmente? >>
<< Interessante >>
Di nuovo silenzio.
“ La cosa sta diventando irritante” commentò mentalmente Peter, visibilmente sconsolato.
Dopo quasi cinque minuti in cui nessuno dei due sembrava più intenzionato a proferire parola, Carol lasciò andare ambe le posate, incrociò le mani sotto il mento e rivolse tutta la propria attenzione nei confronti del vigilante.
<< Peter, sul serio…Perchè stiamo mangiando in un ristorante lussuoso? >> domandò con tono fermò, ricevendo un’espressione sorpresa ad opera dell’arrampica-muri.
Questi si agitò a disagio sulla sedia.
<< Beh, io…ecco…non volevo che pensassi che ho gusti scadenti in fatto di cibo >> borbottò, le guance leggermente arrossate.
Carol inclinò leggermente la testa di lato. << Ti preoccupi di ciò che penso di te? >>
<< … >>
Peter non rispose, e si limitò a distogliere lo sguardo. Suo malgrado, la donna non potè fare a meno di sorridere di fronte alla timidezza del ragazzo.
“ Certe cose non cambiano mai” pensò divertita.
<< Che resti fra noi… se potessi, sceglierei sempre un hot dog al chili >> rivelò, attirando lo sguardo del collega.
Peter le lanciò un’occhiata poco convinta. << Davvero? >>
<< Davvero  >> confermò la donna, con una scrollata di spalle.
Il vigilante sorrise a sua volta, per poi prendere un respiro profondo.
<< Vuoi fuggire da qui e provare gli hot dog più buoni di tutta New York? Io ho ancora fame >>
<< Per un attimo ero preoccupata che non me lo avresti mai chiesto >> disse l’altra, con un sospiro di sollievo.
Peter alzò una mano, richiamando l’attenzione di uno dei camerieri. Questi si avvicinò loro con passo impeccabile e posò il conto del pranzo sulla superficie del tavolo.
Una volta letto, il vigilante sembrò impallidire.
<< Ehm…è un po’ imbarazzante da chiedere, soprattutto perché sono stato io a portarti qui, ma…potresti pagare il conto? Sono un po’ a corto di soldi >> disse con una risata nervosa, rivolto verso Carol.
La donna incrociò ambe le braccia davanti al petto, scrutandolo con divertimento a mala pena celato.
<< E perché dovrei farlo? >>
<< Perché sono la tua persona preferita nell’universo? >>
<< Ritenta >>
<< Nelle prime tre? >>
<< Non ci siamo proprio >>
<< Mi ferisci, Carol. Mi ferisci davvero >> disse l’Avenger, portandosi una mano sopra il cuore.
La bionda ridacchiò.
<< Non è vero >>
<< No, non è vero >> confermò il vigilante, con un sospiro rassegnato. << Ma dovevo tentare. Però guardati le spalle, perché la mia vendetta sarà inaspettata e terribile >>
<< Sai che sono il capo dello spazio, giusto? >> chiese Carol, sorridendo divertita.
Peter rilasciò un sonoro sbuffo.
<< Sì, ma non siamo nello spazio >>
<< Giusto. Ma ti ci potrei lanciare, e allora indovina dove saremmo? >>
<< Spazio? >>
<< Bravo >> disse la donna, per poi picchiettargli amichevolmente la guancia.
Il vigilante arrossì al contatto, mentre Carol procedette ad estrarre il portafoglio dalla tasca della giacca.
Peter la fissò sorpreso.
<< Non devi davvero pagarmi il conto, stavo solo scherzando >> offrì debolmente, per quanto fosse propenso ad accettare quell’inaspettato atto di carità.
<< Ho trovato una ragione per farlo >> disse la bionda, posando i soldi sul tavolo e non incontrando il suo sguardo.
Il cuore del ragazzo mancò un battito.
<< È…è una ragione buona? >> chiese dopo un momento di esitazione.
Carol gli inviò un dolce sorriso. << Solo il tempo lo dirà >>
E, detto questo, si alzò dal posto a sedere e cominciò a incamminarsi verso l’uscita del ristorante.
Peter rimase fermo e immobile dietro di lei, apparentemente incapace di elaborare le parole appena pronunciate dall’eroina.
Scuotendo la testa, si apprestò a seguirla con un ghigno nascosto.
Entrambi lasciarono lo stabilimento, puntando in direzione di Central Park.  A metà strada, Carol estrasse alcuni fogli spiegazzati dalla tasca interna della giacca.
<< Per quanto sia stato bello rivederti, non sono qui solo per una visita di piacere >> disse rivolta all’arrampica muri.
Peter la fissò sorpreso, e forse un pochino deluso.
<< Oh >> fu tutto quello che riuscì a dire, incapace di nascondere un certo livello di amarezza. Carol non sembrò badarci troppo.
<< Rohdey voleva che mi aiutassi con questo >> disse porgendogli le carte.
Il ragazzo le afferrò con esitazione e cominciò ad aprirle.
<< Se non te l’avesse chiesto…saresti venuta a salutarmi? >> chiese dopo un attimo di silenzio.
Carol strabuzzò gli occhi, presa in contropiede da un simile domanda. Aprì la bocca per rispondere, ma si ritrovò incapace di farlo. Ma per Peter fu una risposta più sufficiente.
<< Lo immaginavo >> borbottò, mentre dava un’occhiata al fascicolo. << Di che si tratta? >>
<< Bambini scomparsi >> rispose rapidamente la donna, approfittando del cambio di argomento. << Una dozzina, almeno secondo i dati ufficiali. È accaduto ad Harpswell e Rohdey pensa che potrebbe trattarsi di un superumano >>
<< Il nome mi sembra familiare >> commentò l’altro, stringendo ambe le palpebre degli occhi.
Alzò lo sguardo verso Carol, come per chiedere conferma.
La bionda girò la testa di lato e cominciò a dondolarsi sulla punta dei talloni.
<< È la mia città natale >> spiegò, visibilmente a disagio.
Gli occhi di Peter si dilatarono come piatti.
Ora ricordava, Carol aveva accennato a quella cittadina durante il loro primo incontro al cimitero. In seguito, vi aveva fatto riferimento un paio di volte, senza mai entrare nei dettagli. Ogni volta che il ragazzo aveva provato ad approfondire, lei aveva sempre finito con il cambiare argomento.
<< Naturalmente non sei obbligato a venire >> continuò la donna. << So che sei molto impegnato con i pattugliamenti, per non parlare dell’università… >>
<< Penso che New York possa sopravvivere qualche giorno senza di me >> rispose Peter, per poi posarle ambe le mani sulle spalle.
La bionda tornò a fissarlo.
<< Quindi…accetti? >> chiese con una punta d’incertezza, mista a quello che poteva benissimo essere sollievo. L’arrampica-muri decise d’interpretarlo come tale.
<< Temo che sarai costretto a sopportarmi >> rispose con un ghigno impertinente.
Carol gli lancio un sorriso timido e arrossì leggermente, nonostante i suoi migliori tentativi di evitarlo. Internamente, Peter la considerò una vittoria.
<< Allora… >> iniziò con tono casuale, << Vuoi ancora quell’Hot Dog? >>
 
                                                                                                                                                                    * * * 

La prima volta che Max Dillon aveva ucciso qualcuno era stato un incidente, ammesso che una cosa simile possa essere definita tale.
Operaio edile da quasi dieci anni, aveva fatto cadere per errore una chiave inglese dentro un tritarifiuti, mentre stava finendo di saldare l’impianto di raffreddamento di uno degli uffici delle Oscorp Industries.
L’oggetto era schizzato dritto nel cervello di un dipendente che aveva incautamente superato il nastro giallo delimitante l’area off-limits per recuperare il pranzo dimenticato nel cassetto della scrivania.
Per settimane i sussurri dei colleghi l’avevano perseguitato, insinuandosi negli angoli dei divisori dell’ufficio, riecheggiando all’interno dei bagni, lasciando un segno tangibile su ogni volto.
Molti dei suoi amici cominciarono ad evitarlo, come se la sua semplice presenza potesse contagiarli con qualunque maledizione avesse deciso di prendere possesso del suo corpo. È incredibile quanto la gente potesse essere superstiziosa anche in un periodo apparentemente illuminato come il ventunesimo secolo.
Il suo capo era stato abbastanza gentile, il giorno in cui l’aveva chiamato nel suo ufficio, ma molto fermo.
La sua presenza nell’edificio stava minando il morale e la produttività dei colleghi. E lui, in fin dei conti, non aveva forse bisogno di un po’ di tempo per riflettere su quanto era successo? Allora perché non prendersi quel po’ di tempo?
Qualche settimana più tardi, con i soldi agli sgoccioli e il morale a terra, venne trasferito nell’ala d’ingegneria dell’azienda, dove si sarebbe dovuto occupare dell’impianto elettrico coinvolto con un esperimento scientifico atto a generare energia pulita e rinnovabile. Un lavoro che nessuno dei suoi colleghi avrebbe mai accettato, perché certe mansioni erano spesso causa di incidenti mortali, specialmente se i laboratori della Oscorp erano coinvolti.
Ma Max aveva comunque bisogno di soldi…e così aveva accettato il lavoro senza lamentarsi, una scelta che avrebbe cambiato la sua vita per sempre.
Mentre stava monitorando l’impianto, infatti, venne coinvolto in un improvviso sbalzo di corrente provocato da un test del generatore. L’energia scaturita dal sovraccarico lo investì in pieno, aumentando di migliaia di volte la bio-elettricità del suo corpo e trasformandolo in una lampadina vivente.
Disperato, si era recato all’edificio amministrativo Oscorp che si occupava della sua assicurazione, ma i dirigenti si erano rifiutati di pagarlo a causa delle circostanze straordinarie del suo incidente.
Inutile dire che l’uomo era esploso in una rabbia ceca, devastando gran parte della struttura e uccidendo una guardia di sicurezza nel processo.
Fu anche l’occasione in cui si scontrò per la prima e unica volta contro Spider-Man e Capitan Marvel, finendo in prigione quello stesso giorno.
I mastini della sua anima avevano iniziato a tormentarlo alcuni giorni dopo la sua incarcerazione. E se Norman Osborn non l’avesse visitato, forse Max Dillon sarebbe rimasto per sempre in quella gabbia e avrebbe smesso di dispensare morte.
Invece il direttore generale delle Oscorp Industries era venuto a conoscenza della sua condizione e aveva deciso di fornirgli il suo aiuto. O almeno così gli aveva detto.
L’uomo aveva parlato ai suoi più intimi recessi, alimentando l’odio che covava dentro di sé nei confronti di Spider-Man e Capitan Marvel, promettendogli che avrebbe avuto la sua vendetta finale e che, quando l’ultimo omicidio fosse stato compiuto, gli avrebbe dato pace, guarendolo dalla sua deplorevole condizione. 
Max ripensò a quelle conversazioni con determinazione ritrovata e prese un paio di respiri calmanti per trattenere la propria rabbia.
Il primo appuntamento da rispettare era alle cinque di pomeriggio, mancavano ancora cinque minuti. L’uomo controllava di continuo l’orologio, ma neppure il suo potere avrebbe potuto far muovere più velocemente la lancetta dei secondi.
La pioggia moscovita batteva contro le finestre, incrementando la sua ansia.
Finalmente arrivarono le cinque.
Max fece un respiro profondo e si concentrò. Tanto felice di lasciare quella gabbia puzzolente, quanto spaventato all’idea di affrontare di nuovo il mondo esterno, fece appello al proprio potere.
Non aveva messo piede fuori da quel posto per quasi quattro anni.
Fuoriuscì dalla porta e venne prontamente investito dalla pioggia.
Le mura del carcere incombevano alte, mentre la gocce che lo colpivano formavano aloni luminescenti intorno alla tuta a intervalli regolari. Guardie armate affiancate da cani pattugliavano il perimetro, lanciandogli occhiate diffidenti. Lui si limitò ad ignorarle e procedette a incamminarsi in direzione del cancello d’uscita.  
Il rombo dei lampi occasionali aggredì i suoi timpani stremati.
Max si spinse attraverso il corridoio che lo sperava dalla tanto agognata libertà, con la pioggia che gli scivolava lungo la tuta ed evaporava a causa della temperatura interna del suo corpo, pari a quella di un centrale elettrica in piena attività.
Superò una sbarra a strisce diagonali presso la quale si trovavano due guardie armate ma immobili, avvolte nei loro impermeabili sotto la pioggia. Per un attimo pensò che gli avrebbero sparato alle spalle, ma non accadde.
Uscì dal cancello e si ritrovò di fronte ad una limousine nera.
Ad attenderlo affianco al parabrezza della macchina vi era un uomo anziano vestito con la tipica divisa da autista che Dillon aveva visto solo nei film di Martin Scorsese. Nelle mani reggeva un piccolo cartello con sopra scritto a caratteri cubitali “Max Dillon”.
Il superumano prese un altro respiro e procedette a incamminarsi verso il veicolo. Il suo secondo appuntamento era in attesa.
 
                                                                                                                                                                * * *
 
Di solito, a Norman Osborn piaceva girare per le strade di New York, vedere il flusso e il riflusso del dramma umano sui marciapiedi di Manhattan, attraverso i finestrini oscurati della sua limousine, mentre l’autista si preoccupava degli ingorghi e dei tassisti kamikaze.
Ma quel giorno la città e i quartieri circostanti sarebbero stati nel caos, mentre i passanti occupavano le strade e migliaia di turisti confluivano nel centro per godersi le parate, le bancarelle, i fuochi d’artificio e gli altri festeggiamenti che caratterizzavano il periodo del Ringraziamento.
Per evitare la calca, Norman disse all’autista di prendere una via secondaria, ma anche lì c’era un traffico pazzesco.
Il magnante avrebbe tanto preferito tornare a casa a cambiarsi, ma non c’era tempo.  Andarono direttamente alla Oscorp City Center.
Corde di velluto erano state appese davanti agli ascensori che portavano ai piani superiori, e un’elegante insegna in oro diceva: CHIUSO PER UNA FESTA PRIVATA.
Con le mani sprofondate nelle tasche dell’impermeabile, Norman Osborn camminò fino al palazzo di pietra grigia, alto dodici piani, che costituiva il fiore all’occhiello delle Oscorp Industries.
Le suole delle sue scarpe risuonarono in modo sinistro nel grande atrio del grattacielo.
<< Buongiorno, signor Osborn >> lo salutò un vecchio con una divisa sgualcita, mentre attraversava la cavernosa sala centrale.
<< Buongiorno, Fred >>
<< Ha voglia di prendere un caffè?>>
 Il vecchio era una guardia giurata. Gli piaceva raccontare le storie di quando aveva visto Capitan America combattere i nazisti in televisione, all’epoca in cui era solo un bambino, e di quanto fossero stati terribili i primi momenti della nuova era, dopo la fine della guerra.
<< Magari più tardi >> disse Osborn.  Quel vecchio gli era simpatico, ma in quel momento non poteva stare a sentire le sue interminabili rievocazioni. << Ho del lavoro da sbrigare. Un progetto che voglio concludere al più presto. >>
 La guardia fece schioccare la lingua contro la dentiera e scosse la testa.
<< Lei lavora troppo, signori Osborn. È ancora giovane, dovrebbe uscire di più >>
<< Prenderò a cuore le sue parole >> rispose il magnante, con un sorriso accomodante.
<< Veda di farlo >> disse il vecchio con aria benevola, salutandolo con un rapido cenno del capo.
Una volta giunto a destinazione, Norma premette il pulsante che lo avrebbe condotto al settimo piano dell’edificio, nella zona ristoro.
L’ascensore salì direttamente fino al foyer delle cucine e, appena si aprirono le porte, l’uomo sentì il capocuoco inveire contro qualcuno: senza dubbio l’addetta alle salse, quei due avevano sempre da ridire. Un inserviente stava pulendo il guardaroba, quando Norman uscì dall’ascensore.
<< Assicurati di svuotare tutti i posacenere, Wilson >> raccomandò il magnante.
Poi si fermò un attimo, e si guardò intorno.
Il pavimento in marmo era luccicante, i divani erano appena stati puliti. Le pareti erano tappezzate di fotografie incorniciate di celebrità: politici, campioni sportivi, sex symbol, vip, scrittori, attori, giornalisti e una miriade di assi. La maggior parte aveva scarabocchiato sul proprio ritratto una dedica affettuosa allo stesso Osborn.
Si fermò per raddrizzare la fotografia del Presidente Trump scattata la notte in cui era stato rieletto.
Sable, la sua assistente più fidata, gli si avvicinò con una dozzina di cartoncini rigidi sotto al braccio.
Era una giovane donna dalla corporatura alta e atletica, vestita interamente di bianco, con i capelli argentati che le ricadevano sulla schiena come un lenzuolo.
<< La cucina è nel caos >> annunciò con tono teso. << Lo chef insiste che una degli addetti gli ha rovinato la sua speciale salsa olandese, e minaccia di buttarla giù dalla Terrazza del Tramonto. Abbiamo avuto un piccolo incendio ai fornelli, ma l’abbiamo domato, senza danni. Le sculture di ghiaccio sono in ritardo. Questa mattina, sei dei nostri camerieri hanno telefonato dandosi ammalati. Io la chiamo l’influenza
da party, complicata dal fatto che, a queste feste private, nessuno dà mai mance. Un bonus più consistente potrebbe contribuire a farli guarire in fretta >>
 Norman sospirò, si passò una mano tra i capelli rossi  e disse : << Trovami sei camerieri temporanei, anzi dieci, anche se non saranno bravi come i nostri. Quanto allo chef, non sono preoccupato. Non ha mai buttato nessuno giù dalla finestra >>
Si diresse verso l’uscita delle cucine. Sable lo seguì.
<< I nostri ospiti sono già arrivati? >> chiese il magnante, dopo qualche attimo di silenzio.
Affianco a lui, la donna annuì impassibile.
<< La aspettano dentro >> rispose,  mentre Norman apriva le porte del ristorante. 
Alcuni inservienti stavano tirando fuori i tavoli rotondi per il banchetto e riponendo quelli normali nel magazzino. L’impresa di pulizie lucidava i pavimenti, il lungo bancone ricurvo e i magnifici lampadari art déco che conferivano al palazzo gran parte della sua atmosfera.
Le grandi porte della terrazza erano state spalancate per cambiare l’aria, e stava soffiando una piacevole brezza newyorchese. Osborn poteva percepire, da molto in basso, il rumore del traffico e le sirene della polizia.
Al centro della sala spiccava un grosso tavolo circolare al quale erano seduti quattro individui dall’aspetto ben distinto.
Octo Octavius era a capo tavola, con le sue indistinguibili braccia meccaniche sospese a mezz’aria.
Affianco a lui vi era un uomo di nazionalità messicana, con un marcato tatuaggio a forma di scorpione lungo il collo, seguito da un afroamericano alto e tarchiato, e da un uomo in sovrappeso con folti capelli rossi e una barba ispida.
Costoro erano rispettivamente il trafficante di armi Mac Gargan e la coppia di rapinatori Herman Schultz e Phineas Mason, tre dei primi criminali catturati dal vigilante noto come Spider-Man.
Dopo essersi seduto a capo tavola, Osborn volse al gruppo un sorriso carismatico.
<< Signori, spero che abbiate apprezzato la cena >> cominciò con tono affabile. << Probabilmente vi starete chiedendo perché vi ho riuniti tutti qui? Un attimo di pazienza, l’ultimo ospite sta per arrivare >>
Quasi come ad un segnale, le porte della sala si aprirono nuovamente.
Con grande sorpresa dei presenti - ad eccezione di Osborn, Octavius e Sable - ad attraversarle fu una figura avvolta da capo a piedi in una bizzarra tuta che sembrava fuoriuscita direttamente da uno di quei film di fantascienza anni 50. “Ultimatum alla Terra” e “L’uomo che veniva da Marte” furono i primi titoli che saltarono alla mente di Phineas.
Del nuovo arrivato erano visibili solo gli occhi, gialli e splendenti come un paio di lampadine.
Osborn annuì compiaciuto e indicò il misterioso individuo. << Vorrei presentarvi Max Dillon… >>
<< Electro >> lo interruppe questi, prima che potesse completare l’introduzione. Aveva una voce bassa e graffiante, come il suono provocato dal rumore di fondo di una radio.
<< Electro >> si corresse Osborn, mentre il superumano prendeva posto al tavolo. << Si unirà a noi per il resto dell’incontro >>
Shultz fissò intensamente la figura di Dillon, squadrandolo da capo a piedi.
<< Ho sentito parlare di te. In giro si dice che puoi controllare l’elettricità >> disse con tono impressionato.
Dillon alzò lo sguardo e il criminale si ritrovò a scrutare dritto nei pozzi luminosi che aveva per occhi.
<< Non la controllo >> disse il superumano, dopo un attimo di silenzio. << Io SONO elettricità >>
<< Affascinante >> commentò Octavius, attirando l’attenzione del gruppo. << I miei sensori indicano che il tuo corpo sta bruciando ad una temperatura pari o poco superiore a quella di un fulmine. Sei un vero miracolo della scienza che cammina >>
Mc Gargan rilasciò un sonoro sbuffo.
<< Sì, certo, un miracolo che si è fatto prendere a calci in culo dall’insetto e la sua amichetta bionda >> disse con voce beffarda.
Gli occhi di Dillon diventarono più luminosi.
<< Non ti conviene farmi arrabbiare >> ringhiò, alzandosi di scatto e puntando una mano in direzione dell’ex trafficante. Al contempo, piccole scariche cominciarono a volteggiare attorno alle dita del superumano.
<< Signori…per favore, non vorrei dover ristrutturare questo posto >> disse Osborn in modo pericolosamente calmo, mentre volgeva alla coppia un’occhiata significativa.
Kargan si limitò ad alzare le mani in segno di resa. Dillon, invece, combattè una gara di sguardi con il magnante per circa mezzo minuto, prima di tornare a sedersi.
Norman annuì soddisfatto.
<< Inoltre, se ben ricordo, non è l’unico, qui, ad essersi fatto…prendere a calci da un certo arrampica-muri >> ammonì verso Gargan, il quale si ritrovò incapace di trattenere una smorfia irritata.
Poi, il miliardario indicò il resto delle persone raccolte. << Tutti voi, in un modo o nell’altro, avete sofferto a causa del supereroe noto come Spider-Man. Detto questo, non vi ho convocati qui per criticarvi, al contrario. L’opportunità che attendevo da tempo, nonché la ragion per cui vi prelevai da Ryker’s Island quasi un anno fa, si è finalmente presentata >>
Detto questo, afferrò uno strano dispositivo dalla tasca della giacca e lo posò al centro del tavolo.
Pochi secondi dopo, l’ologramma di una giovane donna dai folti capelli rossi scaturì dall’oggetto.
<< Lei è Shil Obern, una mia impiegata >> spiegò Osborn, rivolto verso la proiezione. << Si è infiltrata nella base dei vendicatori come segretaria, e recentemente è venuta a conoscenza di un bocconcino molto interessante d’informazioni >>
L’immagine cambiò di colpo, rivelando una coppia di figure che ogni partecipante a quell’incontro conosceva assai bene.
<< Spider-Man lascerà New York per eseguire un qualche tipo missione ad Harpswell, una piccola cittadina del Maine. Ad accompagnarlo vi sarà solo Capitan Marvel >> disse il miliardario, indicando la coppia di Avengers sospesi a pochi centimetri dalla superficie del tavolo. << Per la prima volta dall’inizio della nostra partnership, sarà quasi completamente isolato, incapace di ricevere assistenza dal resto della squadra >>
Volse al gruppo un sorriso predatorio.
 << Ed ecco la ragione per cui siete qui. Voglio che catturiate Spider-Man e lo portiate ai laboratori Oscorp. Non importa in quale stato…purchè sia vivo >> terminò con un tono che non ammetteva repliche.
Shultz inarcò un sopracciglio.
<< Perché? >> domandò scontento, attirando l’attenzione del magnante.
<< Semplice, perché ne ho bisogno. È tutto quello che vi serve sapere >> rispose questi, fissando freddamente il criminale.
Un paio di posti più in fondo, Phineas compì un paio di colpi di tosse.
<< Con tutto il rispetto, Signor Osborn…>> cominciò l’uomo, visibilmente a disagio con quello che stava per dire, << Capitan Marvel è considerata uno dei Vendicatori più potenti ancora in circolazione. Dubito seriamente che saremmo preparati per affrontarla, se decidesse di fornire assistenza al ragno. >>
Osborn lanciò un’occhiata laterale in direzione del sottoposto.
Per un attimo, Phineas fu assai tentato di sottrarsi a quell’esame, tuttavia riuscì a mantenere i nervi saldi.
Poi, Osborn arricciò ambe le labbra in un sorriso accomodante e fece un cenno verso Dillon.
<< Electro, qui, è più che qualificato per occuparsi della signorina Danvers >> disse con tono di fatto.
Mc Gargan sbuffò una seconda volta. << Non è quello che ricordo dai giornali >>
<< Mi ha solo colto impreparato! >> sbraitò il superumano, sbattendo un pugno sulla superficie del tavolo. << Inoltre, da quel giorno sono diventato molto più forte >>
<< E per questo verrai fornito della tecnologia necessaria affinchè le circostanze della tua, ehm… cattura… non si ripetano >> si intromise Osborn, indicando Octavius.
Quando Dillon si voltò verso lo scienziato, questi annuì in conferma.
<< Ho lavorato sulla creazione di un condensatore plasmico capace di aumentare la densità molecolare dei tuoi attacchi >> spiegò l’uomo, con voce apparentemente causale, quasi come se stesse semplicemente discutendo del tempo. << Una volta integrato con la tua tuta, non sarà più in grado di assorbirli. >>
Al sentire tali parole, un sorriso cominciò a formarsi sotto la maschera del superumano. Quell’espressione, tuttavia, fu assai di breve durata.
Volse nuovamente la propria attenzione nei confronti di Osborn.
<< Portartelo vivo…non faceva parte dell’accordo >> disse freddamente.
<< Infatti >> si intromise Gargan, incrociando ambe le braccia davanti al petto. << Mi hai promesso la sua testa >>
Norman si limitò ad alzare la mano destra, nel tentativo di placare lo stato d’animo della coppia.
<< Di questo non avete di preoccuparvi. Una volta che io e il buon dottore avremo ottenuto da lui ciò che ci serve…bhe, diciamo solo che potrete disporne nella maniera che più vi aggrada >> terminò con un ghigno.
Poi, fece cenno alla donna che era rimasta al suo fianco durante tutta la durata di quell’incontro.
<< Detto questo, onde a evitare che vi facciate prendere dall’entusiasmo, Sable e Octavius vi assisteranno durante la missione >> spiegò paziente, mentre sia il Dottore che la sicaria annuivano all’unisono.
Mc Gargan, Dillon, Shultz e Phineas cominciarono a guardarsi l’un l’altro, apparentemente impegnati in una conversazione silenziosa.
Passato un minuto, Electro fu il primo a parlare. << Sono dentro >>
<< E io pure >> aggiunse Gargan, il volto adornato da un espressione colma d’anticipazione.
 << Può contare su di me >> riprese Schultz, seguito rapidamente da Phineas.
Se possibile, il sorriso di Norman diventò più grande.
<< Eccellente. Ora…chi vuole il dolce? >>



Boom! Spero vi sia piaciuto.
Ed ecco altri sei antagonisti per la nostra amabile coppia. I fan dei fumetti avranno sicuramente capito dove sto andando a parare...
Max Dillon, aka Electro, era il villain della one-shot citata nelle note a inizio capitolo, ed è uno degli antagonisti più potenti e longevi di Spider-Man. 
Nel prossimo capitolo farà la sua comparsa l'ultimo villain di questa fic...e vi assicurò che sarà una bella sorpresa per molti ;)

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Capitolo 4
*** Vengo in pace ***


Ecco un nuovissimo capitolo, in cui farà la sua comparsa l'ottavo antagonista di questa storia. 
Vi auguro una buona lettura!




Vengo in pace

La notte era tranquilla come uno specchio d’acqua.
Poi, d’un tratto, tutti i cani che abitavano nello stato del Nevada cominciarono ad abbaiare, seguiti rapidamente dal miagolio impazzito dei gatti e dal gracidare delle rane. Gli uccelli, invece, volarono in preda al panico tra gli alberi, volteggiando nel cielo nero come locuste.  
Un disturbo statico attraversò le radio della contea e anche i televisori più nuovi si incendiarono, con il volume sparato a mille.
La gente riunita attorno ad essi fece un balzo all’indietro per l’improvviso boato e le fiammate, abbagliata nei propri soggiorni, nei bar o sui marciapiedi di fronte alle vetrine dei negozi di elettrodomestici dell’intera regione.
Per coloro che in quella notte d’Ottobre si trovavano all’aperto, il fenomeno fu visivamente spettacolare.
Una sottile scia luminosa sfrecciò attraverso lo strato superiore dell’atmosfera terreste, facendosi più intensa mano a mano che si avvicinava al suolo.
Poi cominciò a espandersi, sempre più brillante, come una meteora verde smeraldo.
A un certo punto parve fermarsi, per poi precipitare in centinaia di scintille che lentamente si smorzarono nella notte stellata.
Alcuni testimoni – per lo più contadini - dissero che per un attimo sembrò rimanere sospesa nell’aria, quindi schizzò verso est, sempre più fioca mentre si allontanava.
Il giorno dopo, i giornali della contea si riempirono di storie su UFO e missili provenienti dalla Russia o dall’Iraq. Le classiche bufale che accompagnavano questo tipo di eventi.
Quelli che chiamarono gli uffici meteorologici si sentirono rispondere che probabilmente si era trattato del residuo di qualche meteorite, forse una pioggia improvvisa di stelle cadenti.
Ma nelle pianure del Nevada qualcuno sapeva che le cose erano andate diversamente, anche se non poteva riferirlo a nessuno.

                                                                                                                                                                * * * 

Altrove 

La creatura senza nome cacciava nella semioscurità delle fogne.
La fame le stava addosso, non sembrava mai placarsi del tutto. Ecco perché lei continuava a cacciare, a nutrirsi…a dispensare morte.
Ricordava vagamente un tempo – ma parliamo di miliardi di anni fa - e un luogo in cui era stato diverso. Era stato qualcosa d’altro, qualcosa di più gentile. Ma quei giorni erano ormai finiti. Ora c’era solo la fame, la rabbia e la malizia con la quale perseguiva i suoi diabolici propositi.
Quel giorno aveva scelto la forma di un grosso alligatore per muoversi più agilmente tra i condotti fognari. Non era un corpo che usava spesso, di solito preferiva forme più simili a quelle delle sue prede. Quella del clown era la sua preferita, ci era particolarmente affezionato.
Ricordava ancora un lontano pomeriggio degli anni 20, quando aveva visto per la prima volta Robert “ Bob” Gray con il suo buffo vestito argentato e la faccia dipinta, circondato da decine di bambini sognanti. Bambini pieni di immaginazione…e paure nascoste, facili da imitare e sfruttare. Gustose bellissime paure.
La creatura si mise a scrutare l’area circostante, attirata da una fragranza improvvisa e…sconosciuta.
Sbattè le palpebre da rettile, visibilmente confuso. Era successo qualcosa di nuovo, per la prima volta da molti secoli.
 In quell’oscurità, e soprattutto nell’acqua inquinata soffocata dalle macerie, i suoi occhi servivano a poco. Erano più importanti i gusti e gli odori, le piccole particelle che lo informavano dei pasti da scovare pazientemente. E quell’odore, quella bizzarra fragranza che aveva appena invaso le sue narici, era qualcosa che non aveva mai sentito prima.
Era quasi come il profumo del sole stesso, qualcosa che solo una creatura come lui sarebbe stato in grado di percepire e comprendere. Ma non era proprio la stessa cosa, era mischiato al dolce aroma della carne umana…e qualcos’altro. Qualcosa di non umano, di alieno.
Qualcuno era entrato senza permesso nel suo territorio di caccia. Forse una minaccia, o forse no, ma doveva esserne sicuro. Nella sua lunga vita aveva imparato ad analizzare ogni variabile con calma ed efficienza.
Si immerse. L’acqua sudicia s’infranse intorno al suo muso largo e piatto, mentre la corrente gli scorreva ai lati delle narici sollevate. Di tanto in tanto le membrane trasparenti scivolavano giù a coprire gli occhi sporgenti, poi si sollevavano di nuovo.
Le narici gli diedero le prime avvisaglie del banchetto in arrivo, il riso inconfondibile di un bambino che zampettava proprio sopra di lui.
Anche se di solito preferiva dormire, sapeva che doveva dirigersi verso il cibo.
Vide profilarsi la bocca di un altro tunnel.  Nel canale c’era appena lo spazio sufficiente per voltarsi ed entrare nel nuovo condotto, persino per un corpo flessibile come il suo. Poteva ancora fiutare la preda che l’aspettava da qualche parte, sola e senza la protezione degli adulti.
Più vicino. Molto vicino. Già pregustava il dolce sapore della carne, del sangue e della paura mischiati assieme come un unico e prelibato coctail.
Si sarebbe avventato su quella preda ignara in un attimo. A parte quelli senza vie di fuga, nessun pasto aveva mai tentato di difendersi. Correvano e basta.
La maggior parte tentavano di fuggire lontano da lui, ma non per molto. Perché lui era Harspwell, e quella cittadina era il suo mattatoio personale.
Gli era permesso. Quello era il suo territorio. La sua casa vacanze, lontano dall’infinità del vuoto cosmico.
La grande mascella si aprì ed emise un ruggito che riecheggiò per molti secondi attraverso il labirinto apparentemente infinito di tunnel e condotti, canali e corridoi.
 Quando l’eco alla fine si spense e il predatore puntò verso la sua prossima vittima. Era tempo di nutrirsi ancora una volta, e poi…avrebbe indagato su quel misterioso disturbo.
 
                                                                                                                                                          * * * 
                                                               
La storia di Carol, come quasi tutte le storie degne di nota, comincia con una famiglia. Quando era piccola, pensava che la sua fosse perfetta.  Specie quando lasciarono Boston per il Maine, in modo che il padre potesse aiutare suo zio Richie con i banchi di aragoste che raggiungevano le coste americane.
Harpswell era magica, almeno per lei e i suoi fratelli, Steve e Joe Junior.
Nel Maine le regole erano diverse rispetto a Boston. In poco tempo quei tre bambini erano diventati dei veri teppisti.
Non che a loro importasse,  troppo impegnati com’erano a tuffarsi dal molo, a togliere le aragoste dalle trappole, ad arricchire il loro vocabolario cittadino con qualche bella imprecazione o a riempirsi la bocca delle ciambelle di Sugar’s Lee e di gelati confezionati.
Sì, Carol ricordava tutto. Ma soprattutto…ricordava che non voleva ricordare.
Cercando di tenere a freno quelle memorie spiacevoli, strinse le mani sul volante della macchina e tenne gli occhi sulla strada, proprio mentre il veicolo superava il cartello delimitante il confine di Harpswell.
La cittadina non era cambiata molto dall’ultima volta che l’aveva visitata : una piccola accozzaglia di case e villette provinciali, tipiche del Maine, qualche grosso Megastore, monumenti storici occasionali – quasi tutti riguardanti la pesca – e una piazza centrale che fungeva anche da parco di ritrovo per le famiglie del posto.
Lanciò un’occhiata laterale e vide che Peter si era addormentato durante il viaggio.
Rilasciò un sospiro. In circostanze diverse le sarebbero bastati pochi minuti per raggiungere questo posto, ma la presenza del ragazzo in incognito aveva reso necessario l’uso di uno dei molti veicoli a disposizione della squadra, in questo caso una Chevrolet Caamaro rosso fuoco targata 2010.
Non che alla donna dispiacesse più di tanto, le erano sempre piaciute le macchine sportive. Il problema era che Harspwell distava quasi due giorni di macchina da New York, e Carol non era più abituata a viaggi così lunghi senza l’uso delle proprie capacità speciali. Erano quasi claustrofobici.
Una volta trovato un parcheggio, spinse delicatamente la spalla di Peter e questi si svegliò all’istante.
<< Siamo arrivati? >> borbottò con un gemito, suscitando un roteare degli occhi ad opera della supereroina.
“ Sono io quella che dovrebbe lamentarsi” pensò infastidita.
Lo aiutò a tirar fuori i bagagli e cominciò a guardarsi attorno, nel tentativo di ricordare la strada più veloce per raggiungere la loro prossima destinazione.
Dopo una rapida scansione dell’area, i suoi occhi si posarono sull’emporio di fronte a cui aveva parcheggiato. Era un negozio di ciambelle, sulla cui vetrina era scritto a caratteri cubitali : SUGAR’S LEE, LA CIAMBELLA UFFICIALE DI CAPITAN MARVEL.
Carol guardò l’insegna con occhio critico. << Ufficiale? Non sapevo che l’avessimo resa ufficiale >>
<< Che c’è? Preferisci Dunkstah, adesso? >> disse una voce alle spalle della coppia, spingendoli a voltarsi.
Dietro di loro aveva appena preso posto la figura di un uomo anziano alto quasi un metro e novanta, probabilmente sulla sessantina, con corti capelli bianchi raccolti in una pettinatura a caschetto e gli occhi dai lineamenti vagamente orientali.
<< Meglio tenerlo per te, Danvers. Non vorrai mica che si sappia in giro che ci tradisci >> disse lo sconosciuto, con un occhiolino malizioso.
Carol inarcò un sopracciglio.
<< Tu non sei la signora Lee. È lei la proprietaria di Sugar’s >>
<< Beh, sono Louis Lee >> rivelò l’anziano, tirando fuori un mazzo di chiavi e procedendo ad aprire la porta del negozio.
Gli occhi della donna si dilatarono come piatti.
<< Il piccolo Louis? >> domandò incredula, ricevendo in cambio un sorriso malizioso.
<< Non mi chiamano più così da quando ho superato il metro e novanta. Cosa ti porta da queste parti, Carol? >> chiese allungando la mano destra in segno di saluto.
La bionda restituì il gesto e sorrise a sua volta.
<< Ragioni >> rispose con una scrollata di spalle poco impegnativa. << Dicono che non si può tornare a casa. Ma sinceramente? Da come mi funziona la testa, a volte mi sembra di non essere mai partita >>
<< La cosa non mi sorprende >> ridacchiò l’uomo, per posare gli occhi su Peter. << E tu? Come conosci il nostro intrepido capitano? >>
<< Piacere, mi chiamo Peter Parker >> disse rapidamente il ragazzo. << Lavoro come…uhm, stagista per i Vendicatori >>
<< Un lavoro per cui molti ucciderebbero >> commentò Louis, fissando il vigilante con sospetto.
Questi si trattenne dal sudare, consapevole di quanto la sua storia di copertura suonasse debole. Ma era il meglio a cui lui e Carol erano riusciti a pensare durante il viaggio! Non che le alternative scelte da Rhodey fossero migliori.
Pensò velocemente ad un modo per cambiare argomento.
<< Aspetta, Louis Lee…il tipo dell’albero? >> chiese all’improvviso, ricordando che Carol aveva citato un bambino con quel nome durante la loro prima conversazione al cimitero.
L’uomo di fronte a loro rilasciò un sospiro quasi rassegnato, prima di lanciare alla donna un’occhiata visibilmente irritata.
<< Devi proprio raccontare quella storia ad ogni anima che incontri? >> borbottò stizzito.
In tutta risposta, Carol si limitò a porgergli un sorriso imbarazzato.
Poi, dopo aver salutato Louis con un abbraccio spacca ossa, cominciò a condurre Peter verso quella che sarebbe stata la loro residenza durante l’intero svolgersi della missione.
 
                                                                                                                                                               * * *  

Marie Danvers e suo figlio Joe Junior vivevano lungo il confine della cittadina, appena un isolato dietro al negozio dei Lee. Il tragitto era breve, ma Carol avrebbe comunque avuto il tempo di riflettere sulle poche opzioni che le erano rimaste.
Il sole stava tramontando, la speranza di un po’ di sollievo dal caldo opprimente. Tuttavia, la caligine nell’aria sarebbe durata per giorni.
Dopo un paio di minuti, arrivarono di fronte all’abitazione.
Nonostante fosse alta due piani, la casa dei Danvers era di dimensioni modeste e sorgeva in mezzo a un grande giardino recintato che la nascondeva dalla strada.
Una volta arrivati, Peter e Carol intravidero una donna che li aspettava di fronte all’uscio dell’abitazione.
Il vigilante strabuzzò gli occhi per la sorpresa. Durante il viaggio in macchina si era disegnato mentalmente un ritratto ben specifico della madre di Carol Danvers. Ma quella donna…non sembrava affatto una persona di ottant’anni.
Aveva le stesse caratteristiche facciali di Carol, incorniciate da lunghi capelli argentati che le cadevano sulle spalle, adornati da occasionali striature dorate e lucenti. Gli occhi erano di un blu elettrico, molto diversi da quelli della supereroina.
Nonostante la sua età avanzata, era ancora in carne, con una figura atletica e dai lineamenti risoluti. In poche parole, sembrava che non avesse più di sessant’anni, forse anche meno.
Carol sorrise timidamente e si fermò di fronte a lei. << Ciao, mamma. Sono a ca…off! >>
Prima che potesse terminare il saluto, la donna si era lanciata contro di lei e l’aveva stretta in un caldo abbraccio.
<< Perché non mi hai avvertita? >> borbottò, mentre affondava il viso nei capelli dell’Avenger. << È stato Louis a dirmi che eri in città >>
<< Avevo scordato quanto vanno veloci le notizie qui >> sospirò Carol, mentre la madre si staccava e la scrutava con occhi affettuosi.
<< E io quanto tu vai veloce >> disse dopo qualche attimo di silenzio, posando una mano sulla guancia della figlia.
Poi, gli occhi della donna si posarono su Peter. Il ragazzo era rimasto in silenzio durante lo svolgersi dell’intera scena, sentendosi quasi un intruso in mezzo a quel momento così intimo.
<< Allora, non mi presenti al tuo amico? >> chiese Marie, volgendo un sorriso malizioso in direzione di Carol.
La bionda arrossì appena e si girò verso il compagno di squadra, facendogli segno di farsi avanti. Il vigilante arrossì a sua volta.
<< Peter Parker, signora >> si presentò rapidamente, porgendo la mano destra in segno di saluto. << Lavoro con sua figlia come stagista >>
<< Non chiamarmi signora, ti sembro una signora?>> ribattè freddamente Marie, stringendo ambe le palpebre degli occhi.
Peter lasciò cadere la mano, deglutendo a causa di un improvviso senso di terrore.
<< Io…ehm…uh… >>
<< Ti sto solo prendendo in giro >> lo rassicurò la donna, lanciandosi in avanti e abbracciando il ragazzo con un sorriso malizioso. Il tutto sotto lo sguardo di una Carol molto divertita.
Il vigilante arrossì ancora più intensamente e restituì goffamente il gesto.
Una volta separatisi, Marie si fece da parte e indicò la casa alle sue spalle.
<< Coraggio, entrate >> offrì gentilmente. E così fecero.
Carol diede subito una rapida occhiata agli interni dell’abitazione.
<< La casa è fantastica, mamma >> disse con gioia evidente. Era esattamente come se la ricordava, sembrava quasi che non fosse invecchiata di un giorno. Un conglomerato modesto ma accogliente, pieno di antiquariato e oggetti da pesca sparsi sui muri e sui mobili.
Marie sorrise mestamente. << L’abbiamo ristrutturata nel corso degli anni. Ma sì, abbiamo cercato di non cambiare troppe cose.>>
Mentre li conduceva in salotto, un odore familiare attirò l’attenzione della supereroina.
Facendo mente locale del Layout dell’abitazione, puntò lo sguardo in direzione di quella che doveva essere la cucina. Attraverso la porta semi aperta, intravide qualcosa che le fece venire istantaneamente l’acquolina in bocca.
<< Quella è…>>
<< Torta di pesche e mirtilli, con zucchero di canna…proprio come piace a te >> terminò Marie per lei, dopo aver seguito lo sguardo della figlia.
Carol si voltò verso di lei, gli occhi illuminati per l’eccitazione. L’espressione della bionda, tuttavia, passò da allegra a imbarazzata quando si rese conto che Peter la stava fissando con un sorriso molto divertito. Dio, si stava comportando come una bambina.
<< Ma una cosa alla volta >> continuò la madre, attirando l’attenzione di entrambi. << Peter, ti mostrerò la camera degli ospiti. Carol, Joe è in cortile, ti conviene andarlo a salutare >>.
 
                                                                                                                                                * * * 
 
Carol trovò Joe Junior nel campo da palla canestro che suo zio Richie aveva realizzato per loro a metà degli anni 80.
Il suo fratellino non era cambiato molto dall’ultima volta in cui Carol l’aveva visto. Al contrario della madre, il tempo non si era affatto risparmiato con lui. Non che avesse un brutto aspetto, sia chiaro.
Anche a cinquant’anni, l’uomo era riuscito a mantenere una corporatura atletica e muscolosa che non aveva nulla da invidiare ad attori famosi della stessa età, come Daniel Craig. Il paragone le sembrava appropriato, perché proprio come il divo in questione JJ aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri della madre. Solo lei e Steve avevano ereditato quelli del padre, un fatto che la riempiva di disgusto ogni volta.
<< Ciao, JJ >> salutò con un sorriso affettuoso, attirando l’attenzione del fratello.
Questi si voltò, il viso adornato da un’espressione impassibile.
<< Sono solo Joe, ora >> disse freddamente. Il sorriso di Carol si allentò appena, ma la donna riuscì a mantenerlo.
<< Il Junior l’hai perso per strada? >> domandò con un sorriso di presa in giro.
L’uomo non la degnò di una risposta.
<< Bene, ora vola è fa pure battute. Quando si degna di farsi vedere >> borbottò, per poi lanciare il pallone da basket che teneva tra le mani, centrando perfettamente il canestro presente sul lato opposto del campo.
Carol lo intercettò prima che potesse raccoglierlo.
<< Vuoi sfidarmi? Scommetto che riesco ancora a stracciarti >> disse con un ghigno impertinente.
JJ si limitò a fissarla per quello che sembrò un tempo interminabile, prima di ghignare a sua volta.
<< Ci sto >>
E, detto questo, si fece da parte per permetterle di tirare.
L’Avenger prese un respiro profondo e fissò intensamente il canestro. Poi, lanciò il pallone e guardò con soddisfazione mentre l’oggetto centrava in pieno il bersaglio. Bene, non aveva perso il suo tocco.
<< Bel tiro, eh? >>
<< Non così tosto, fagiolina >> rispose il fratello, con una scrollata di spalle.
Carol inarcò un sopracciglio e incrociò ambe le braccia davanti al petto. << Oh, se lo vuoi più tosto ti accontento >>
<< Chiunque sa fare canestro, da queste parti >> ribattè JJ, per poi puntare qualcosa oltre il confine del campo. <<  Ma se vuoi giocare con i grandi devi superare la rete…e centrare il bidone >>
Poi, afferrò la palla e tirò dritto in quel punto, centrando perfettamente il contenitore argentato dal diametro non più largo del canestro stesso.
<< Solo fortuna >> sbuffò Carol, ricevendo un’occhiata divertita ad opera del fratello.
<< Solo talento. Prova tu, fagiolina >> la incitò con tono beffardo.
La donna strinse gli occhi per la sfida e recuperò la palla. Si girò verso il bidone e aguzzò la vista, tendendo i muscoli e focalizzando il bersaglio con attenzione quasi metodica.
Lanciò la palla…e lo mancò.
Trattenne un ringhio, mentre poteva sentire il ghigno divertito che andò a formarsi sul volto di JJ.
<< Quella Capitan Marvel è un grande eroe a New York. Ma qui? È eliminata  >> disse questi, dandole una rapida pacca sulla spalla.
Carol si voltò verso di lui con il fuoco negli occhi. << Avanti, voglio la rivincita>>
<< Sei stata eliminata. Regole della casa, non puoi venire qui e cambiare gioco >> disse l’altro, sorridendo canzonatorio.
Lo sguardo della donna si fece più affilato. << Wow, tale padre tale figlio, vero Junior ? >>
<< Bada a come parli, super schiappa >> disse il fratello, utilizzando un tono di voce molto più serio.
Entrambi rimasero fermi e immobili, impegnati in una gara di sguardi in cui nessuno dei due sembrava disposto a rinunciare.  Ma in quel momento, la voce di Marie Danvers li costrinse a interrompere.
<< Ragazzi, a cena! >> urlò la donna, richiamandoli in casa.
 
                                                                                                                                                            * * *
 
La cena cominciò in relativa calma.
Sebbene sentisse ancora lo sguardo del fratello su di lei, Carol decise d’ignorarlo e concentrarsi sul cibo che aveva davanti. Non aprì bocca nemmeno quando JJ gli rubò la boccetta del sale proprio mentre era sul punto di afferrarla, probabilmente in un vano tentativo di suscitare un qualche tipo di reazione.
Dopo qualche minuto di silenzio, Marie volse la propria attenzione nei confronti della figlia.
<< Allora…tutto  a posto, Tesoro? >>
<< Uh uh >> rispose Carol, senza alzare gli occhi dal piatto.
Marie sorrise debolmente.
<< Perché era da un po’ che non venivi. E per quanto ti piacciano quelle lasagne… >>
<< Che cosa ci fai qui, fagiolina? >> la interruppe bruscamente JJ, ricevendo uno sguardo d’avvertimento dalla madre.
Carol lo guardò con la coda degli occhi.
<< Devono tutti avere un motivo per visitare la propria famiglia? >>
<< Tutti? No. Tu? Senza dubbio >>
<< Forse stavo solo passando da queste parti e mi mancavate, ok? O forse le lasagne >>
<< Riprovaci >> disse il fratello, incrociando ambe le braccia davanti al petto.
Con un sospiro rassegnato, la donna versò un po’ di vino nel bicchiere e lo inghiottì con un unico e rapido sorso, il tutto mentre Peter la fissava preoccupato.
Il suo umore continuò a naufragare per tutto il pasto.
Il ritmo della conversazione sembrava ormai stabilito. Marie introduceva un argomento e JJ rispondeva con eccessivo sarcasmo e disprezzo.
Peter assisteva al gioco delle parti senza intervenire.  Anche gli altri seduti al tavolo dovevano avvertire la stessa tensione.
 La cena, nonostante la premura della madre, per Carol sapeva di cenere.
<< Joe… >> sospirò Marie, conscia che la situazione fosse sul punto di degenerare.
Il figlio le lanciò un’occhiata impassibile.
<< Mamma, non me ne starò seduto qui a fingere che non ci abbia snobbato per anni. Anche quando papà era malato >> disse freddamente.
Al sentire tali parole, Carol si ritrovò incapace di trattenere uno sbuffo sprezzante.
<< Beh, io non me ne starò seduta qui a fingere che tu non sappia perché non sono venuta…o che papà fosse un grand’uomo …>>
POM!
Joe sbattè ambe le mani sulla superficie del tavolo, alzandosi dalla sedia con uno scatto e interrompendo la donna prima che potesse terminare la frase.
Senza dire una parola, uscì dall’abitazione e chiuse violentemente la porta di casa dietro di sé. Appena mezzo minuto dopo, Carol sentì il distinto rumore di un veicolo che si allontanava dal vialetto.
Con un sospiro quasi rassegnato, si alzò dal tavolo e procedette a seguire il fratello.
Peter rimase ammutolito e passò lo sguardo dalla porta d’ingresso alla figura di Marie Danvers, il cui volto era ora adornato da un’espressione sconsolata.
<< …il cibo è delizioso >> offrì con tono imbarazzato, nel tentativo di sdrammatizzare la situazione.
In tutta risposta, anche la donna si alzò dal posto a sedere, lasciando il vigilante come unico occupante della cucina.

                                                                                                                                                                   * * * 

Nevada

La coppia di fratelli Frank ed Edward Pines stava tornando da una consegna a Carson City, Nevada.
Erano alla guida di un grosso camion cisterna lungo circa otto metri che conteneva almeno cinque metri cubi di azoto liquido. I due erano stati chiamati un’ora prima per condurre il mezzo attraverso i boschi della contea, in cambio di un paio di bigliettoni da mille.
Attualmente, la zona circostante era abbastanza buia. Non si vedeva quasi niente, questo perché il primo centro abitato si trovava probabilmente a un centinaio di chilometri di distanza.
I fari illuminavano discariche piene di oggetti di ogni genere, da vecchi veicoli a contenitori di acido solforico. Alcuni detriti erano stati buttati lì da poco. Qua e là si alzava del fumo. C’era anche del materiale incandescente, la cui combustione però era terminata.
Dopo quasi mezz’ora, il camion deviò nella fitta pineta, sobbalzando a ogni infossatura del sentiero.
<< Ferma! >> urlò all’improvviso Frank, attirando l’attenzione del fratello. Questi inchiodò, spegnendo il motore.
<< Per la miseria >> borbottò stizzito. << Che diavolo ti prende?>>
<< Lì, dietro! Giuro di aver visto un tizio con un cilindro d’argento grande quanto una macchina!>>
<< Oh, per l’amor del cielo! Io indietro non ci torno>>  disse Edward, arricciando il volto in una smorfia.
<< Eddai, diamogli solo un’occhiata!>> supplicò l’altro. << Non capita mica tutti i giorni di vedere una cosa del genere >>
<< Merda >> borbottò il fratello, per poi riaccendere il motore del camion e cominciare a fare retromarcia. << Un giorno o l’altro sarai la mia morte! >>
Arrivarono a destinazione dopo mezzo minuto.
In effetti, c’era davvero un grosso cilindro argentato  incastonato nel terreno. Sporgeva dalla sabbia del Nevada per circa due metri emmezzo ed emetteva una luce cangiante di vari colori.
<< Bhe, che io sia dannato >> borbottò Edward, dando una lunga occhiata a quel misterioso oggetto.
L’uomo che gli stava accanto strizzò gli occhi verso di loro, abbagliato dai fari del camion. Era un tizio sporco e lacero, con la barba macchiata dal tabacco e i capelli talmente arruffati da sembrare lana d’acciaio. Aveva decisamente l’aria di un barbone.
I due gli si avvicinarono.
<< È mio!>> gridò lo sconosciuto, spostandosi davanti alla cosa come per abbracciarla.
<< Calma, vecchio>> lo tranquillizzò Frank. << Cos’è quella roba? >>
<< Il mio biglietto per la bella vita. E voi, siete del Governo? >>
<< Diamine, no! Andiamo, amico, vogliamo solo dare un’occhiata >>
L’uomo afferrò da terra una pietra. << State indietro! L’ho trovato io, quindi è mio!>>
<< Non assomiglia a niente che abbia mai visto >> disse Edward, girando attorno all’oggetto con interesse.
Il vecchio abbaiò una risata. << Certo che no! Si tratta senza dubbio di un’arma segreta. È per questo che l’hanno conciata in modo così stravagante >>
<< L’hanno conciata chi? >>
 << Ho già detto troppo. Andate via e lasciatemi solo >> ringhiò il barbone.
 Edward strinse ambe le palpebre degli occhi e osservò il vecchio strambo.
<< Ok, ora mi hai incuriosito>>  gli disse. << Raccontami qualcosa di più >>
<< Sta’ alla larga da me, ragazzo! Una volta ho fatto fuori uno usando solo un barattolo di sottaceti!>>
Edward rilasciò un sospiro quasi rassegnato e infilò una mano sotto la giacca, estraendo una pistola calibro 45.
<< È… è precipitato la scorsa notte >>  balbettò il vecchio, con gli occhi sbarrati per la paura. << Mi ha svegliato. Ha illuminato tutto il cielo come se fosse il 4 Luglio! Oggi l’ho cercato per ore, immaginando che il bosco sarebbe stato battuto da quelli del Governo, invece non è venuto nessuno. L’ho trovato poco prima che facesse buio >>
Abbassò il capo per un attimo, con un’espressione imbarazzata.
<< Doveva essere un aereo a reazione, nessuna traccia di carburante o altro. Ho pensato che i militari mi avrebbero pagato bene per riaverlo. Pensate, una volta un mio amico ha trovato una sonda atmosferica e gli hanno dato cento dollari! Così ho immaginato che una cosa grossa come questa poteva valere un milione di volte tanto!>>
Frank scoppiò in una risata. << Cento dollari, dici? Senti un po’, te ne darò mille per averla >>
<< Posso guadagnarci anche un milione!>>
Frabk inarcò un sopracciglio e fece cenno alla revolver che il fratello teneva in mano.
<< Mille vanno più che bene >> brontolò il vecchio.
ZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ!
Un sonoro sibilò attirò l’attenzione del gruppo.
I tre uomini si voltarono all’unisono in direzione del misterioso oggetto, ora illuminato da un debole bagliore azzurro.
Sorpreso, il barbone compì un balzo all’indietro e mise alcuni passi di distanza tra lui e il cilindro. Aveva visto abbastanza film nella sua adolescenza da sapere che una luce del genere, emessa da un oggetto di natura completamente ignota, non era mai un buon segno.
Al contempo, Edward serrò le mani sulla pistola e la puntò verso il cilindrò, la cui luminosità era ora accompagnata da un ping! basso e ritmato, come il suono di una sveglia.
Uno sbuffò di vapore fuoriuscì dai lati dell’oggetto. Poi, la parte superiore del cilindro di aprì in dure, producendo un fischio acuto e sinistro.
Il barbone deglutì e si avvicinò cautamente alla coppia di fratelli, visibilmente innervosito dall’intera situazione.
Al contempo, qualcosa cominciò ad uscire dall’oggetto.
I tre uomini si drizzarono di scatto, come colpiti da un fulmine, troppo scioccati dallo svolgersi di una scena che sembrava fuoriuscita direttamente da una pellicola dell’orrore.
La figura era alta quasi due metri, umanoide, e sembrava fondersi con le ombre della notte. Aveva una corporatura tozza e muscolosa, pari o superiore a quella di un lottatore di wrestling. No, si corresse mentalmente Edward. Era decisamente più grosso. MOLTO più grosso. E per giunta…non aveva nulla di umano, ad eccezione della posizione eretta su due gambe e la presenza di quattro arti in totale.
La pelle dell’essere sembrava quella di un rettile, e in molti punti era coperta da una sorta di bizzarra armatura, un mix di tecnologia dall’aria futuristica mischiata con oggetti di natura tribale.
Indossava una maschera dalla superficie liscia e levigata, a immagine e somiglianza di un muso tozzo e schiacciato, con un paio di fessure luminose al posto degli occhi.
Vagamente, Edward notò che dalla testa scendevano lunghe trecce dall’acconciatura rasta, simili a quelle che aveva visto nei nativi americani che aveva incontrato durante un viaggio in Nord Dakota.
Senza perdere tempo, l’uomo alzò la pistola una terza volta e la puntò con decisione verso il misterioso individuo.
<< Ok, amico, non fare movimenti bruschi >> ordinò con voce ferma, suscitando un guaito sorpreso ad opera del fratello.
In tutta risposta, la creatura si voltò verso il gruppo di uomini e inclinò la testa di lato, in apparente curiosità.
Edward deglutì per la paura ma cercò di mantenere i nervi saldi. Per far capire all’essere che faceva sul serio, tolse la sicura alla pistola e sorrise con arroganza.
<< È meglio non fare scherzi, amico. Questo non è un giocattolo, e posso assicurarti che è carica >> disse freddamente.
Al contempo, la creatura rilasciò un suono bizzarro, un click! basso e ritmato molto simile al chiacchiericcio di una cicala, o forse di un grillo. Poi, una luce scarlatta partì dalla spalla destra dell’essere e tre puntini rossi si materializzarono sul petto di Edward.
L’uomo inarcò un sopracciglio.
<< Sei sordo? Ho detto di… >>
Non ebbe la possibilità di finire la frase.
Uno strano cilindrò si drizzò dalla spalla della creatura, producendo un sibilo metallico. Poi, un proiettile di luce azzurra partì dalla bocca dell’oggetto, centrando in pieno il corpo di Edward e trapassandolo da parte a parte, sollevando copiosi schizzi di sangue in ogni direzione.
Frank cacciò un urlo terrorizzato, mentre il corpo senza vita del fratello si accasciava sul terreno sabbioso. Tentò di estrarre la pistola che portava nella tasca dei pantaloni…e il movimento attirò l’attenzione della creatura.
Sì udì un altro sibilo e l’area circostante venne illuminata ancora una volta da un bagliore azzurro. Poi, il corpo senza testa dell’uomo cadde a terra, proprio accanto a quello del fratello.
L’essere rilasciò un altro paio di click, prima di puntare lo sguardo in direzione dell’ultimo umano rimasto. Questi si era pisciato nei pantaloni e alzò le mani in segno di resa, con gli occhi gonfi di paura e lacrime.
L’alieno - perché ormai il barbone era sicuro al 100% che quello era un fottuto omino verde – lo scrutò attraverso la maschera con uno sguardo attento e calcolatore, come se stesse valutando il suo livello di minaccia.
Dopo quello che sembrò un tempo interminabile, emise un sonoro sbuffo e si voltò. Inutile dire che il barbone approfittò della cosa per lanciarsi in una fuga rocambolesca attraverso la pineta, urlando “aiuto!” a pieni polmoni.
( Track 3 : https://www.youtube.com/watch?v=1ZTfpKL868A )
La creatura lo ignorò e cominciò a guardarsi intorno.
Alzò il braccio destro, adornato dalla presenza di un bizzarro dispositivo collegato al gomito e al polso da alcuni cavi.
L’essere pigiò alcuni pulsanti e, come dal nulla, un’immagine olografica si materializzò al di sopra dell’oggetto. Raffigurava una giovane donna umana sui trent’anni, dai lunghi capelli biondi, vestita con una tuta rossa e blu dall’aria militare.
L’alieno annuì compiaciuto, mentre numerose sfere fluttuanti cominciarono a fuoriuscire dal cilindro ancora aperto. Erano poco più grandi di un pallone da calcio, ma il bagliore azzurro che le circondava conferì loro un’aria decisamente minacciosa.
Poi, la creatura allargò ambe le braccia e lanciò verso il cielo un ruggito che riecheggiò per tutta la vallata.
Cetanu, capo clan Yautja dei Paya, Era giunto sulla Terra in cerca di una preda ben specifica. E ora…la caccia era aperta.





Boom! Ed ecco qui il nostro ottavo antagonista, che i fan dell’horror e della fantascienza avranno sicuramente riconosciuto. Si tratta di uno Yautja, noto più comunemente con il soprannome di Predator, antagonista principale della saga Predator e co-protagonista dei film Alien vs Predator.
Per chi non lo sapesse, i Predator sono una razza aliena dedita alla caccia di specie ostili o considerate “degne” di essere combatture.
Questo Predator è un mio OC personale e sarà un po’ un’amalgama delle migliori versioni del personaggio sparse per i media. Immagino abbiate capito a chi stia dando la caccia, no? Ecco perché l’ho reso un degno avversario.
Nel mentre, IT ha percepito l’arrivo dei nostri eroi ad Harpswell. Secondo voi come la prenderà?


 

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Capitolo 5
*** Blackbird ***


Ecco un nuovissimo capitolo!
Vi auguro una buona lettura ;)




Blackbird
 

Carol sapeva dove trovare Joe. Con papà, come sempre. Non era tornata sulla tomba da quando era stata messa la lapide.
La donna non cercò nemmeno l’entrata del cimitero.
Il muro di mattoni alto quasi due metri che lo circondava era annerito dalla pioggia ed eroso dal tempo. Lei lo scavalcò con facilità e atterrò al di là senza rumore. 
Era notte fonda e la luna piena passava spesso dietro una compatta coltre di nuvole in movimento.
Gli alberi, lasciati crescere incolti all’interno del cimitero, schermavano gran parte delle luci della cittadina.
Carol avanzò lentamente al buio. Come un’ombra tra le ombre, scivolò dietro una vecchia lapide inclinata come un dente storto nella bocca di un gigante.
Vide un gufo sorvolare un mausoleo che una volta era stato la principale gloria del cimitero. Il monumento di una famiglia un tempo ricca, e adesso dimenticata, era stato lasciato andare in rovina come il resto delle tombe. I suoi marmi intarsiati erano stati smangiati dalle piogge e dagli escrementi degli uccelli, le dorature si erano scrostate in anni d’incuria.
Continuando a camminare, la donna vide il fratello accasciato ai piedi della lapide dedicata a Joe Danvers, un pezzo di marmo di dimensioni modeste, senza particolari caratteristiche che lo distinguessero dalle altre centinaia di tombe presenti nel cimitero.
Carol gli si avvicinò con passo silenzioso. Joe Jr era impegnato a tracannare una confezione di birra industriale e non si accorse della sua presenza fino a quando non si sedette affianco a lui.
<< Di quello che vuoi su di lui, Carol…ma era pur sempre nostro padre >> borbottò dopo un attimo di silenzio, bevendo un sorso di alcol e alzando la lattina verso la volta stellata.
In tutta risposta, la donna si limitò a sbuffare.
<< Suvvia, Joe, sappiamo entrambi che non c’è niente di cui essere fieri >> disse con tono acido, ricevendo un’occhiataccia ad opera del fratello.
Questi trangugiò un altro sorso di birra, come per trattenere una replica velenosa. Poi, porse la lattina verso Carol.
<< Tieni, tocca a te >>
<< No, grazie >>
<< Certo. Hai sempre pensato di essere troppo superiore a noi >> sbuffò lui, suscitando un sussulto da parte dell’Avenger.
<< Questo non è vero >> disse con tono difensivo.
Joe abbaiò una risata amara.
<< Certo che è vero. E ora il mondo intero la pensa così. Non ti basta? Non sei felice? >> sibilò a denti stretti.
Carol sentì una stretta sgradevole attanagliargli il cuore. Odiava quando suo fratello le parlava in questo modo, sembrava quasi come…come LUI.
<< Credo…che non sia così semplice >> sussurrò con voce flebile.
Joe la fissò incredulo. Scosse la testa e si alzò in piedi barcollando, rovesciando un po’ di birra nel processo.
<< Vuoi sapere cos’è semplice? Te ne sei andata >> ringhiò con tono di fatto, per poi schiacciare la lattina e lanciarla oltre la lapida del padre. << Sentiti libera di volartene via ancora >>
E, detto questo, cominciò ad allontanarsi sotto lo sguardo ferito della sorella.
Una parte di lei sapeva che avrebbe dovuto corrergli dietro. Nessuno della sua famiglia era mai stato in grado di gestire bene l’alcol. Ma un’altra parte di lei sapeva il vero motivo per cui aveva deciso di tornare in questa città. Non a causa degli omicidi…ma per fare una lunga chiacchierata con qualcuno. L’unico uomo che se lo meritava davvero.
Stringendo ambe le mani in pugni serrati, si alzò con uno scatto e volse la propria attenzione nei confronti della tomba di Joe Danvers.
<< Sei felice adesso, papà ?>> domandò rabbiosamente. Al contempo, il suo corpo cominciò a illuminarsi di un intenso bagliore dorato.
<< Vorrei tanto che tu fossi stato solo uno schifoso ubriacone. Almeno questo avrei potuto capirlo >> continuò implacabile, riversando in quelle parole tutto il disprezzo e la rabbia che aveva accumulati in quei due anni passati lontano dalla Terra. Sentimenti ed emozioni che Carnage aveva risvegliato in lei durante il loro ultimo scontro, riportando alla memoria ricordi di un passato che aveva cercato di dimenticare con tutta se stessa.
<< Ma non c’è niente di te che abbia mai capito, quindi…perché cominciare adesso ?! >> urlò, per poi colpire la lapide con un pugno impregnato di energia cosmica.
Il pezzo di marmo venne sradicato dal terreno a causa della forza d’impatto e rotolò per diversi metri. Finì la sua avanzata quando incontrò un’altra tomba, sbriciolandosi in mille pezzi.
Carol prese un paio di respiri calmanti, cercando di metabolizzare quello che aveva appena fatto.
“ Ecco, ora dovrò pure comprargli una nuova lapide” pensò con aria stizzita. “ Quello stronzo ha sempre l’ultima risata”.
Abbassando gli occhi a terra, notò che Joe Jr aveva lasciato la confezione di birra dietro di sé, a cui erano attaccata ancora un paio di lattine.
Rimase a fissarle per quello che sembrò un tempo interminabile, come se stesse valutando attentamente quale sarebbe stata la sua prossima mossa.
Esitante, afferrò una delle lattine e la aprì con uno scattò del polso. Fece per portarsela alla bocca…ma si bloccò.
C’era qualcun altro in quel cimitero, a pochi passi da lei.
In un primo momento, a causa dell’oscurità della notte,  credette che Joe Jr fosse tornato a riprendersi la confezione di birre. Ma quando le fattezze del nuovo arrivato si fecero più marcate, Carol si ritrovò sorpresa nello scoprire che si trattava di un clown.
Le sopracciglia della donna si sollevarono per la sorpresa. Che diavolo ci faceva un clown in un cimitero?
Indossava vestiti piuttosto strani, bianchi come un lenzuolo, di fattura apparentemente vittoriana. L’accostamento le giunse spontaneo a causa del distinto collare che circondava la testa del nuovo arrivato, molto simile a quelli che avevi visto rappresentati nei ritratti di personaggi d’epoca, come William Shakespeare e la stessa Regina Vittoria.
Aveva un folto ciuffo di capelli rossi che spiccava su una grossa fronte pallida e sproporzionata. E poi c’erano gli occhi…un paio di lanterne gialle che sembravano danzare nell’oscurità.
<< Salve >> salutò Carol, con tono incerto.
Il clown non rispose e si limitò a fissarla, inclinando leggermente la testa. Per qualche ragione, la donna si sentì snervata da quell’azione insolita. Era quasi come se quel pagliaccio stesse cercando di valutarla.
<< Posso aiutarla? >> continuò con voce più forte, incrociando ambe le braccia davanti al petto per sembrare più intimidatoria.
Internamente, cominciò a valutare l’idea che quel clown potesse essere un individuo poco raccomandabile, perfino un potenziale maniaco. Non si stava comportando come una persona normale.
L’uomo, nel mentre, rimase in silenzio anche questa volta e continuò a scrutarla con occhi curiosi.
“ Fanculo” pensò Carol. Quella sera non era certo in vena di trattare con qualche pazzoide.
Rilasciando un sonoro sbuffò, si voltò e cominciò ad allontanarsi dalla tomba del padre.
<< Dovresti andartene >> arrivò una voce graffiante alle sue spalle, costringendola a fermarsi.
Un brivido attraversò la spina dorsale della donna. Una sensazione agghiacciante, come se qualcuno le avesse infilato un coltello nella schiena.
Si voltò di scatto, i pugni illuminati di energia cosmica…ma del clown nemmeno l’ombra.
Sembrava essersi volatilizzato nel nulla. Il cimitero era tornato completamente deserto.
Carol inarcò un sopracciglio. Che se lo fosse immaginata? Ne dubitava fortemente. Perché mai avrebbe dovuto immaginarsi un clown, specialmente in circostanze come queste?
<< Dio, sto impazzendo >> borbottò a bassa voce.
Poi, i suoi occhi si posarono ancora una volta sulla lattina di birra che teneva nelle mano destra.
<< Beh, tanto vale… >>

                                                                                                                                          * * *  
 
Joe Junior attraversò l’uscita del cimitero con passo marcato, più che desideroso di raggiungere la macchina e allontanarsi da sua sorella entro i prossimi cinque minuti.
Mentre camminava verso il parcheggio del  mausoleo, notò con sorpresa la figura di Peter Parker che si stava avvicinando a lui.
<< Come mi hai trovato? >> domandò con tono burbero, squadrando il ragazzo da capo a piedi.
Non aveva prestato molta attenzione a lui durante la cena, ma ora che lo guardava meglio capì che non doveva avere più di vent’anni. Probabilmente andava ancora all’università.
<< Ho seguito Carol >> rispose Peter, stringendosi nelle spalle.
Joe Jr lo fissò sorpreso.
<< A piedi? >> disse con sospetto. Dopotutto, aveva visto Carol volare fino a qui…e nei dintorni non c’era alcun segno della macchina che lei e il ragazzo avevano usato per arrivare in città.
L’adolescente arrossì, come se fosse stato colto con le mani in un barattolo di biscotti.
<< Sono un corridore molto veloce >> rispose imbarazzato.
Inutile dire che Joe Jr non credeva ad una sola parola. Quel ragazzo stava sicuramente nascondendo qualcosa.
<< Allora, qual è il tuo rapporto con mia sorella? >> chiese dopo un attimo di silenzio.
Se possibile, il volto di Peter si fece ancora più scarlatto, cosa che non passò certo inosservata agli occhi dell’uomo.
<< R-rapporto? Io e lei non abbiamo alcun rapporto! Voglio dire… >> balbettò l’altro, per poi prendere un paio di respiri calmanti. << Sono uno stagista per gli Avengers e recentemente sono stato messo sotto la sua supervisione >>
Joe Jr inarcò un sopracciglio. Uno stagista per gli Avengers? Poissibile…ma improbabile. O forse non era tutta la verità.
Aveva vissuto abbastanza a lungo da riconoscere una storia di copertura quando ne sentiva una. Soprattutto a causa di sua sorella, che spesso e volentieri ometteva dettagli riguardanti le sue missioni per non turbare la madre.
<< Capisco. E perché siete venuti qui? >> riprese con voce inquisitoria, pur cercando di non sembrare sgarbato. L’ultima cosa che voleva era che Carol gli desse il terzo grado per aver trattato male il suo…amico? Impiegato? Apprendista? Non aveva ancora compreso la relazione tra i due, ma di una cosa era abbastanza sicuro : il ragazzo aveva una cotta per sua sorella. Il modo in cui arrossì quando citò il loro rapporto, le balbuzie…beh, erano tutti segni abbastanza riconoscibili.
Certo, non poteva dargli torto, sua sorella era indiscutibilmente una bella donna, i ragazzini sbavano su di lei dalle elementari.
Internamente, provò un briciolo di compassione per lui. Carol non era certo il tipo con cui era facile aprirsi, e questo ragazzo non aveva per niente l’aria di chi potesse sfondare le pareti della sua personalità solitaria.
In risposta alla domanda dell’uomo, Peter prese a fissarlo con aria incerta.
 << Come ho detto, non sono così stupido da pensare che Carol abbia deciso di fare un salto in città solo per farci visita >> spiegò Joe Jr, con una scrollata di spalle.
L’adolescente cominciò a dondolarsi sulla punta dei piedi, visibilmente imbarazzato. Non sapeva se Carol avrebbe voluto coinvolgere la sua famiglia nella loro missione, ma non voleva nemmeno fare una brutta impressione su suo fratello.
<< Siamo qui a causa delle sparizioni di bambini >> spiegò dopo qualche attimo di silenzio, ricevendo un’espressione comprensiva da parte dell’interlocutore.
<< Ah, finalmente il governo ha deciso di agire. Pensavo che si fossero dimenticati di noi >> sbuffò questi, con tono sprezzante.
Peter gli offrì un debole sorriso.
<< Sai per caso se è successo qualcosa di…strano, di recente?>> chiese a bassa voce, facendo ben attenzione che nessuno fosse nei paraggi.
Joe Jr lo fissò divertito.
<< Oltre alla sparizione di 13 bambini che per qualche ragione non ha attirato l’attenzione della Guardia Nazionale? >> domandò beffardo.
L’adolescente arrossì una seconda volta.
<< Sì, oltre a quello >> borbottò imbarazzato.
Questa volta, Joe Jr decise di avere pietà di lui. Incrociò ambe le braccia davanti al petto e chiese : << Del tipo? >>
<< Sai…il solito? Fenomeni strani, nuovi arrivi sospetti…quel genere di cose >> rispose l’altro, gesticolando verso l’area circostante.
Joe Jr rimase in silenzio, soppesandolo con lo sguardo.
<< Sei davvero uno stagista per gli Avengers? >> disse all’improvviso, facendo sussultare il vigilante.
<< Certo, perché dovrei mentire? >> ribattè questi, con tono apparentemente disinvolto.
Joe mantenne un’espressione impassibile.
Ora ne era assolutamente sicuro.  Aveva maturato abbastanza esperienza con la sua famiglia per riconoscere una recita. Quel giorno stava assistendo alla commedia “ Peter Parke, giovane stagista per il gruppo di supereroi più famosi al mondo”.
Annuendo a se steso, tirò fuori un foglietto e una penna dalla tasca dei pantaloni.
<< E va bene. La persona che ti serve è Richard Bachman >> disse con tono di fatto, scrivendo qualcosa sul pezzo di carta e porgendolo a Peter.
L’adolescente inarcò un sopracciglio.
<< Chi è? >>
<< Gestisce la maggior parte delle piccole imprese della città. In questo posto non accade niente senza che lui venga informato >> spiegò l’uomo. << In poche parole, è la tua migliore possibilità di trovare una pista >>
<< La polizia non ha trovato niente di utile? >> chiese l’altro, mentre accettava il foglietto.
Joe Jr gli lanciò un’occhiata incredula.
<< Se lo avessero fatto…non sareste qui >> disse lentamente, facendo arrossire ulteriormente l’arrampica-muri. << Credimi, Bachman è l’uomo giusto. Ogni sera si riunisce con i suoi amici in questo locale >>
 Peter annuì comprensivo e lesse la scritta sul foglietto. << Il Blackbird. Questo Bachman è per caso…ecco, uhm… un ubriacone? >>
<< Non proprio >> rispose Joe, con un’altra scrollata di spalle. << Non è che ti dia un pugno in faccia se non gli offri un drink, ma è uno che di solito sa le cose, o sa come scoprirle. In genere usa il Blackbird come ufficio >>
E, detto questo, superò l’adolescente e lo salutò con un rapido cenno della mano destra.
<< Cerca di non farti coinvolgere in qualche rissa >> borbottò con tono pacato, lasciandosi dietro la figura contemplativa del vigilante.
 
                                                                                                                                        * * *  

Peter non fece molta fatica a scovare il Blackbird. Si trovava proprio nei pressi del piccolo centro cittadino, circondato da attrazioni , chioschi e spettacoli da baraccone.
L’interno del locale, buio e angusto, odorava di birra andata a male e segatura. Una donna si stava dando  da fare su un minuscolo palco, facendo roteare le nappe del suo corpetto di paillettes e agitando il posteriore a suon di musica.
Il posto era abbastanza spoglio, quindi il barista a cui Peter chiese informazioni riuscì a individuare Bachman quasi subito.
<< Vengo qui da anni>> disse l’uomo, non appena il ragazzo si sedette di fronte a lui. << Ho un debole per la bellezza scarna. >>
Bach era magro, piuttosto alto, apparentemente sulla settantina, e indossava un paio di occhiali da vista. La sua parlata era quella tipica di uno cresciuto fuori città.
<< È... un bel posto >> disse Peter, dopo essersi guardato attorno.  
<< E questo è solo un assaggio >> replicò Bachman. << Di solito è molto più affollato >>
L’adolescente annuì, più per cortesia che per altro.
<< Di cosa si occupa nel resto del tempo? >> chiese all’improvviso, nel tentativo di portare avanti un qualche tipo di conversazione.
<< Si potrebbe dire che sono un fantasma>> rispose l’uomo, per poi aggiungere: << Ghost writing, memorie estrapolate da interviste, discorsi. Un po’ di tutto. Qualche storia horror per pubblicazioni di second’ordine>>
<< E…come se la passa? >>
<< Alcuni racconti mi vengono pagati abbastanza bene. Prima della guerra in Vietnam ero arruolato in Marina, ma poi mi spararono alla gamba e fui rispedito a terra >>
<< E non tentò di rientrare in servizio durante la guerra? >>
<< Ci ho provato e riprovato, ma non mi hanno più voluto>> borbottò con amarezza. Poi, buttò giù tutto d’un fiato il drink che aveva di fronte e incrociò le dita.
<< Che cosa posso fare per te, giovanotto? >> chiese con circospezione.
Peter simulò un’espressione imbarazzata.
<< Ecco…lavoro per un giornale locale. Vorrei farle qualche domanda sulle recenti sparizioni avvenute qui in città, se non le dispiace. Un mio amico ha detto che lei potrebbe saperne più di chiunque altro in città >> disse con il tono più piacevole che riuscì a trovare.
La reazione dell’uomo fu praticamente istantanea.
Strinse la presa sul bicchiere, finchè le nocche non gli diventarono bianche, dilatò le pupille come piatti e inspirò bruscamente. Il tutto durò appena un secondo.
Simili azioni, svoltesi in un lasso di tempo così breve, sarebbero quasi sicuramente passate inosservate agli occhi di una persona normale. Ma Peter era tutt’altro che una persona normale, e i suoi sensi più sviluppati gli permisero di cogliere l’improvviso cambio di atteggiamento di Bachman.
<< Signore, si sente bene? >> chiese preoccupato.
L’uomo non rispose e si limitò a fissarlo per quello che sembrò un tempo interminabile, stringendo ambe le palpebre degli occhi in un paio di sottili fessure piene di sospetto.
Dopo un po’, Peter cominciò a sentirsi come se Bachman stesse cercando di leggere la sua stessa anima. Era una sensazione snervante.
Poi, l’espressione sul volto del vecchio si fece molto più accomodante, seppur attraversata da un guizzo di timore reverenziale.
<< Vuoi sapere delle sparizioni? Molto bene >> borbottò, per poi bere un altro sorso del suo drink. << Viene dopodomani a questo emporio, sarò più che felice di darti un quadro completo della situazione >>
Peter inarcò un sopracciglio.
<< Perché non adesso? >> chiese con voce perplessa.
In tutta risposta, l’uomo si limitò ad indicare la ballerina del locale, cosa che fece arrossire l’adolescente.
<< Domani? >> offrì il vigilante, suscitando un sonoro sbuffo ad opera di Bachman.
<< Domani c’è la fiera, ragazzo. Sarò impegnato tutto il giorno >> spiegò questi, per poi porgergli il bicchiere ormai vuoto. << Ora pagami da bere, così sigilliamo l’accordo. >>
Peter rilasciò un sospiro rassegnato, quasi come se si aspettasse che quello sarebbe stato l’esito di quella conversazione.
Posò cinque dollari sul tavolo e borbottò un rapido : << Le auguro una buona serata. >>
Fatto questo, cominciò a dirigersi verso l’uscita del locale.
 
                                                                                                                                               * * *  
 
Mentre camminava lungo lo stabilimento sportivo di Harspwell, Carol chiuse gli occhi e ascoltò i suoni familiari dello stadio di baseball, il richiamo dei venditori, le conversazioni dei tifosi, l’inconfondibile rumore della mazza che colpiva la palla.
Inaspettatamente, si rese conto che erano passati 40 anni dall’ultima volta che aveva visto una partita, e quasi 5 da quando era morto suo padre. Lui tifava per gli Yankees e l’aveva portata a molte partite.
Carol non era mai stata una gran tifosa, ma lo aveva sempre accompagnato volentieri. Era una bella scusa per stare un po’ al sole o all’aria fresca della sera.
Ricordava ancora la prima partita a cui suo padre l’aveva portata. Era il 1980, gli Yankees contro i Kansas City.
I ricordi dell’esultanza di quel giorno, quando un’intera città aveva ruggito un grido collettivo di gioia, portò un sorriso sul viso della donna.
Era stato un momento raro e, guardandosi indietro, avrebbe voluto essere abbastanza adulta da apprezzarne la gioia assoluta e pura, priva di qualsiasi altra emozione o pensiero. In seguito, aveva sperimentato raramente quella sensazione, e mai insieme a suo padre.
Il suono secco di una mazza che colpiva la palla la riportò al presente, dissipando il sorriso dal suo viso. Quei ricordi non le facevano bene. Fuggire dai pericoli del presente rifugiandosi in memorie piacevoli del passato non le sarebbe servito, lo sapeva bene.
Con quella convinzione, aprì un’altra lattina di birra e ne bevve il contenuto tutto d’un fiato.
Mentre percorreva le strade strette e contorte della cittadina, Carol scorse uno stabilimento assai familiare. Il bar si chiamava Blackbird, ed era stato per molti anni uno dei suoi punti di ritrovo preferiti.
Presa da un altro senso di nostalgia, la donna attraversò la porta d’ingresso.
Dentro era buio, e ci volle un po’ perché i suoi occhi si adattassero. Attraversò la sala rettangolare, i gusci delle noccioline scricchiolavano sotto le suole delle sue scarpe.
Il barista alzò la testa mentre lucidava un vassoio di bicchieri. << Desidera? >>
<< Una birra >> fu la sua unica risposta.
Senza perdere tempo, l’uomo le posò davanti un boccale riempito con un liquido ambrato dall’odore inconfondibile.
Carol lo svuotò tutto d’un fiato e represse un rutto assai poco femminile.
Si guardò attorno, notando che nello stabilimento c’erano solamente altri due individui al bancone, anche se alcuni tavoli erano occupati.
L’unica luce proveniva dalle insegne al neon che lampeggiavano al centro del bar, dove una ballerina era intenta a intrattenere alcuni uomini.
Carol udiva lo schiocco delle palle da biliardo che cozzavano nella sala sul retro.
<< Ne vuole un’altra? >> chiese il barman, con un sorriso accomodante.
<< …Certo >> borbottò la donna, sentendosi la testa leggera.
Le dita delle mani e dei piedi si stavano intorpidendo. Era anche ora.
 Aveva passato tutta la serata bevendo a intermittenza, cercando di dimenticare la fastidiosa sensazione di rimpianto mista a collera che aveva cercato di farsi strada dentro di lei da quando aveva messo piede in questa cittadina.
Il barman gli versò un’altra birra alla spina e l’appoggiò sul bancone scheggiato e macchiato.
Carol assaporò l’intera bevanda con un paio di sorsi e mise i soldi sul balcone.
Poi, si alzò dallo sgabello barcollando, e solo la presenza di un tavolino le impedì di cadere a terra.
<< Signorina, si sente bene? Sembra sul punto di svenire >> disse il barista, con voce preoccupata.
Carol scosse la testa.
 << Sì... no... sto bene >> balbettò.
Dietro di lei, l’uomo prese a fissarla con aria incerta.
<< Ne è sicura? Forse dovrebbe sedersi… >>
 << Ho detto che sto bene >> ribattè freddamente Carol, reprimendo un singhiozzo e avviandosi verso l’uscita.
L’ultima cosa che voleva era passare il resto della serata con qualcuno e finirci a letto per errore. Non sarebbe certo stata la prima volta.
<< Carol? >>
Il suono di quella voce familiare la richiamò alla realtà.
Si girò di scatto, trovandosi di fronte alla familiare figura di Peter Parker. La donna si accigliò mentalmente, Che diavolo ci faceva qui? Dopotutto, sapeva molto bene che non era tipo da locale notturno. Certo, a meno che non avesse maturato una sana passione per questo tipo di stabilimenti negli ultimi due anni.
 << Hey, Peter! >> salutò con un sorriso tremante. << Vuoi unirti a me? >>
Dio, era sicuramente sbronza, e il ragazzo se ne accorse quasi subito.
La scrutò da capo a piedi e si guardò intorno.
<< Ehm…non penso sia una buona idea >> disse con tono incerto, mentre Carol rilasciava un sonoro sbuffo.
<< Sempre così noioso, anche dopo due anni. Speravo che il college ti avrebbe alleggerito >> borbottò, camminando fino a lui e cercando di posargli una mano sulla.
Tuttavia, l’effetto dell’alcol si rivelò più forte del previsto. Inciampò in avanti e venne frenata solo grazie all’intervento dell’arrampica-muri, che la prese tra le braccia per impedirle di cadere.
<< Stai bene? >> domandò preoccupato.
Carol alzò la testa, pronta a ribattere, ma quando il suo sguardo s’incrociò con quello del vigilante rimase come pietrificata.
Peter arrossì appena, notando la vicinanza improvvisa dei loro volti.
<< Hai degli occhi bellissimi, lo sai? >> borbottò la bionda, porgendo una mano in avanti e coppandogli una guancia.
Peter avrebbe tanto voluto lasciarsi cullare da quel tocco tanto agognato, ma si costrinse a mantenere una mente lucida.
<< Sei ubriaca >> disse con tono di fatto, rimettendola in piedi e allontanando bruscamente la mano tesa.
Carol inclinò leggermente la testa, guardandolo con un sorriso sciocco.
<< Lo sono? >> chiese con voce allegra, per poi perdere l’equilibrio ancora una volta.
Peter l’afferrò di nuovo e rilasciò un sospiro stanco.
<< Penso sia meglio portarti a casa >> borbottò seccamente.
In tutta risposta, Carol si strinse a lui, affondando il volto nel collo del ragazzo.
<< Ti prendi sempre cura di me >> borbottò assonnata.
Peter sospirò una seconda volta e procedette ad accompagnarla al di fuori del locale. Poi, entrambi si diressero verso l’abitazione dei Danvers, non notando che qualcuno li stava osservando da una macchina parcheggiata poco distante dal Blackbird.
Abbassando il binocolo notturno che teneva tra le mani, Silver Sable estrasse un walkie talkie dalla tasca dei pantaloni e lo sintonizzò su una frequenza ben specifica.
<< L’ho trovato. >>
 
 


 
E così termina un altro capitolo. Non è successo molto dal punto di vista dell’avanzare della trama, ma qui volevo concentrarmi su due degli aspetti principali che ruotano attorno alla figura di Capitan Marvel dei fumetti, e che sono stati tristemente ignorati o solo accennati nel film : il rapporto complicato con la sua famiglia e l’alcolismo.
Il primo è un po’ il fulcro del personaggio anche in questa storia. Chi ha letto So Wrong e i fumetti su Carol sa che il padre la picchiava, ed era spesso ubriaco. Carol stessa divenne un’alcolista, e il vizio del bere per poco non ne causò la morte per intossicazione.
Questi due aspetti sono ciò che mi ha sempre affascinato del suo personaggio e si adattano perfettamente ai romanzi di King. King stesso, infatti, inserisce in molte delle sue opere i temi dell’alcolismo e dell’abuso di bambini ad opera dei genitori, e per una storia con IT/Pennywise mi sembravano quasi d’obbligo.
Spero che la scelta sia stata di vostro gradimento.
Richard Bachman è una caricatura di Stephen King, il quale utilizzava questo nome come pseudonimo.

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Capitolo 6
*** Send in the clowns ***


Ecco un nuovissimo aggiornamento!
Questo capitolo contiene la rivisitazione dei una scena di IT : Capitolo 2 ( chi ha visto il film la riconoscerà subito ), ma non aspettatevi che le cose vadano allo stesso modo ;)
Vi auguro una buona lettura.




Send in the clowns

Carol si svegliò con un forte mal di testa, accompagnata dal ritmico battito del suo cuore.
Un raggiò di sole filtrò dalla finestra della stanza, illuminandole appena il volto.
Aveva caldo. Era sdraiata su qualcosa di morbido, sicuramente un letto. Come ci era finita?
Dell’ultima sera ricordava solo della sua conversazione con Joe Junior…e di essersi ubriacata. Dubitava fortemente che fosse riuscita ritrovare la strada di casa in quelle condizioni. Aveva mica fatto sesso con qualcuno?
Mentre era immersa in quei pensieri, il suo sguardo si posò su una figura semi nascosta nella penombra della camera. Sebbene la sua sagoma fosse distorta, Carol riconobbe all’istante le caratteristiche fisiche di Peter Parker.
<< Buon giorno, dormigliona >> disse il ragazzo con voce gentile.
La donna gemette mentalmente. Fantastico, l’aveva vista comportarsi da ubriaca. Come se la situazione tra loro non potesse diventare più imbarazzante.
<< Come sono arrivata qui? >> borbottò, stropicciandosi gli occhi per frenare la luce improvvisa.
Peter le sorrise timidamente. << Ti ho portato in braccio. >>
<< Certo che lo hai fatto >> ribattè l’altra, accasciandosi sul letto con un altro gemito.
Il vigilante ridacchiò divertito e rimase a fissarla per un qualche istante. Sembrava bellissima anche dopo una sbronza.
<< Stavo pensando di andare alla fiera >> disse all’improvviso, attirando l’attenzione della donna.
Questa inarcò un sopracciglio e lo scrutò attentamente.
<< La fiera? >>
<< Quella per la fiera del raccolto che si terrà oggi in città, tre giorni prima dell’Indipendence Day >> spiegò Peter. << Ne ho sentito parlare in giro, e tua madre mi ha detto che è una sorta di tradizione locale >>
<< Non vi partecipo da quasi trent’anni >> ammise Carol, con una scrollata di spalle. Poi, volse all’adolescente un’occhiata guardinga. << Perché vuoi andarci? >>
<< Precauzione. Se c’è davvero un superumano che sta rapendo bambini in questa città…beh, una fiera piena di persone è come un invito a nozze. Tanti bambini, genitori e passanti distratti, caos... >>
<< Pensi che chiunque stia rapendo i bambini approfitterà della fiera per colpire di nuovo >> ipotizzò la bionda, ricevendo in cambio un cenno di conferma
<< È probabile >> rispose con tono di fatto.
Carol rimase in silenzio per quasi un minuto buono. Certo, i sospetti di Peter erano fondati e valevano la pena di una ronda, ma in quel momento non aveva nemmeno la forza di alzarsi dal letto.
Dopo quello che sembrò un tempo interminabile, tuttavia, fece appello ad ogni oncia di energia che aveva in corpo e si spinse in posizione seduta.
<< D’accordo, verrò con te >> mormorò con tono distante.
Peter la fissò preoccupato. << Te la senti? >>
<< Non è la prima volta che lavoro dopo una sbronza >> disse la donna, compiendo un gesto sprezzante con la mano destra.
Si alzò dal letto…e perse l’equilibrio quasi subito. Fu solo l’intervento di Peter a impedirla una rovinosa caduta sul pavimento.
<< Sarà meglio chiedere a tuo fratello di accompagnarci >> sospirò questi, con un piccolo sorriso.
In tutta risposta, Carol si limitò ad arrossire.
 
                                                                                                                                                     * * *  

Una fiera comunitaria era sempre un’esperienza unica.
Il centro di Harspwell era stato transennato ed era pieno di camion tossicchianti e scricchiolanti, sui cui pianali di legno erano state allestite scene stravaganti.
Lungo il perimetro della piazza centrale, un gruppo di poliziotti sudati stava demolendo un grosso fallo biforcuto. Carol notò che un certo numero di uomini tra la folla distoglieva lo sguardo ogni volta che il piede di porco affondava nel lattice della scultura. Lì vicino, vide che la banda della città stava facendo le prove. Il raglio delle cornamuse risuonava nell’aria afosa e stagnante. 
<< Tenete gli occhi aperti per qualunque cosa che sembri fuori dall’ordinario >> ordinò con voce ferma, ricevendo un cenno determinato da parte di Peter e un roteare degli occhi ad opera del fratello.
<< Signorsì, capitano >> rispose questi, con un saluto militare improvvisato.
La donna si limitò a sospirare e riprese a guardarsi intorno.
I ragazzini correvano sul marciapiede dietro a un malconcio pallone da calcio, mentre in fondo all’isolato veniva improvvisata una partita di baseball.
Radioloni stereo diffondevano una cacofonia di musiche contrastanti: soul, rock, country, classica.
Alcuni bambini piangevano e le madri chiamavano, ma da tutta quella follia emanava un senso di serenità e di sicurezza, un senso di famiglia.
Quando viveva qui, a Carol era capitato poche volte di percepire un desiderio disperato e quasi ossessivo di divertirsi come quello che animava la massa di persone di fronte a lei.
Pigramente, notò che Peter stava ammirando il tutto con aria rapita.
<< Allora, che te ne pare? >> chiese con un sorriso divertito, distogliendolo dalla sua ricerca.
L’adolescente ci pensò un attimo, prima di rispondere: << È carino. Non ho mai assistito a questo tipo di eventi, prima di oggi >>
Affianco a loro, Joe Jr inarcò un sopracciglio.
<< Non ci sono fiere a New York? >> domandò incredulo.
In tutta risposta, il vigilante si limitò a scrollare le spalle.
<< A volte, ma non ho mai avuto il tempo di parteciparvi >> ammise, suscitando un sonoro sbuffo da parte dell’uomo.
<< Ragazzo, dovresti uscire più spesso >> disse questi, dandogli una rapida pacca sulla spalla.
Peter arrossì imbarazzato, facendo ridacchiare i fratelli Danvers.
Poi, lo sguardo di Joe si posò su alcune bancarelle lungo il bordo della piazza.
<< Io vado a prendere qualcosa da mangiare. Non preoccupatevi, terrò gli occhi aperti, ma chiamatemi solo se avete bisogno di qualcosa >>
<< Lo faremo >> promise Carol.
L’uomo annuì e procedette ad allontanarsi, lasciandosi dietro il duo di supereroi.
Ben presto, sia Carol che Peter si ritrovarono immersi nella folla.
Il vigilante fece una smorfia mentre la gente lo comprimeva da tutte le parti.
I marciapiedi erano gremiti di pedoni in costume, tra cui persone mascherate da Avengers.
Lui si spostò alla medesima velocità e nella medesima direzione della mandria, lasciandosi trasportare. Non c’era motivo di richiamare l’attenzione su di sé. Il loro misterioso rapitore poteva essere ovunque.
Sia lui che Carol si aprirono un varco verso l’esterno della massa di persone.
All’improvviso, un mimo vestito con una tuta bianca si parò davanti a loro, facendogli cenno di fermarsi. Peter s’irrigidì. Il mimo aggrottò la fronte in maniera esagerata, poi si fece da parte e lo lasciò passare.
L’adolescente gli lanciò un’occhiataccia, mentre questi si allontanava.
<< Ugh, odio i mimi >> borbottò stizzito. << Mi hanno sempre dato i brividi >>
<< Un’altra cosa che abbiamo in comune >> disse Carol, il volto adornato da un ghigno divertito.
Rimasero in silenzio per qualche minuti, limitandosi a scrutare l’area circostante.
<< Allora…>> iniziò Peter all’improvviso, attirando lo sguardo della bionda. << Come vanno le cose con tuo fratello? So che avete litigato >>
<< E come lo sapresti? >> domandò lei, con un’espressione custodita.
L’adolescente si grattò la testa con aria imbarazzata.
<< Io…potrei averti seguito ieri sera >> ammise con un leggero rossore.
Carol lo fissò duramente, cosa che spinse il vigilante ad alzare ambe le mani in segno di resa, nel tentativo di placarla.
<< Scusa, ero solo preoccupato >> borbottò, suscitando un sospiro ad opera della bionda.
<< Preferisco non parlarne >> disse lei, utilizzando un tono di voce che non ammetteva repliche. Peter si limitò ad annuire. L’ultima cosa che voleva era farla arrabbiare e provocare una scena in mezzo a tutte queste persone.
In quel preciso istante, la banda della città cominciò a suonare.
<< Cominciano le danze >> commentò Carol, volgendo lo sguardo in direzione della strada principale che conduceva alla piazza.
Il carro di apertura avanzò maestosamente sulla strada.
Alle sue spalle, la banda stava eseguendo una versione accattivante di Pineapple Rag. La macchina decappottabile del sindaco seguiva a breve distanza.
Il sindaco stesso, radioso, salutava la folla: un anziano statista da manuale.
Qualcuno tra gli spettatori assiepati lungo il bordo della strada gridò:<< Che ne pensa del nuovo Presidente, signor sindaco? >>
<< Suggerisci. Ti ascolto! >>
La replica dell’uomo suscitò sorrisi, risate e applausi tra il pubblico.
Altri due carri, la polizia a cavallo, dopo di che l’autista mise in marcia la grande limousine, avanzando a velocità costante di quindici chilometri l’ora.
Peter non ci badò troppo e continuò la sua ispezione dell’area circostante.
L’intera piazza era immersa nel caos più totale, sarebbe stato difficile individuare qualsiasi cosa degno di nota. C’erano troppe persone in costume, troppe urla, troppi colori. Troppi suoni e odori che potevano irretire i sensi e nascondere il loro potenziale superumano alla vista.
Peter rilasciò un sospiro sconsolato e procedette a fare un’altra panoramica della piazza. Fu proprio in quel momento che i suoi occhi si posarono su una scena che, per qualche motivo, attirò la sua più totale attenzione.
BZZZZZZZZZZZZ!
Il senso di ragno di Peter cominciò a vibrare, facendolo sussultare per la sorpresa.
Vicino alla strada c’era un pagliaccio che lanciava nell’aria enormi birilli. Intorno a lui si erano radunati  una mezza dozzina di bambini. Uno di loro portava una maschera da Capitan America ed era quello che spiccava maggiormente tra la piccola folla.
Il Clown aveva un gran sorriso sulla faccia. Era calvo, eccetto che per un paio di ciuffi di capelli rossi che gli sporgevano come corna appena sopra le orecchie.
E mentre Peter era impegnato in quell’analisi…accadde. Il Clown alzò la testa di scatto e i suoi occhi incontrarono quelli del vigilante.
Il senso di ragno di Peter cominciò a vibrare ancora più intensamente, come se impazzito.
Si portò una mano alla testa e represse un sibilo, mentre il pagliaccio sembrò scrutarlo a duecento metri di distanza. Poi, sotto lo sguardo incredulo dell’Avenger, arricciò ambe le labbra in un sorriso. Ma non un sorriso amichevole, come quello dei cartoni animati. Sembrava quasi che i bordi delle sue labbra rosso sangue stessero per toccargli le orecchie. Era oggettivamente terrificante.
<< Ma che diavolo… >> sussurrò Peter, stringendo ambe le palpebre degli occhi.
In quel momento, il clown volse la testa in una direzione ben precisa. Peter lo seguì a ruota…e il suo cuore mancò un battito.
Il bambino con la maschera da Capitan America si era allontanato dagli altri ed era sul punto di entrare in una delle attrazioni, un grosso fabbricato che aveva come entrata la bocca spalancata della perfida strega dell’ovest. Sopra di essa c’era scritto a caratteri cubitali “ CASA DEGLI SPECCHI”.
Peter si voltò di nuovo verso il clown, e questi incontrò ancora una volta i suoi occhi castani con un paio di pozzi dorati. Sembravano quasi lanterne.
Poi, il pagliaccio fece un cenno in direzione del bambino con la maschera di Capitan America…e scomparve. Letteralmente, come se non fosse mai stato lì in primo luogo.
Alcuni bambini cominciarono a battere le mani di fronte a quell’incredibile trucco magico. Ma non Peter, la cui mente era ora invasa da un terribile presentimento.
Voltandosi, vide che il bambino con la maschera era entrato nella casa degli specchi.
Senza perdere tempo, il vigilante partì all’inseguimento.
<< Peter! >> esclamò Carol, sorpresa dall’azione del compagno.
Il ragazzo la ignorò e si lanciò di corsa in mezzo alla folla, spingendo o buttando a terra quelli che incontrava.
Si fece largo, ignorando le invettive e gli insulti. Schivò i membri spaventati della banda, passò davanti a un carro allegorico che riproduceva il volto del Presidente e raggiunse la massa di persone dall’altra parte. Sperava solo che sarebbe riuscito a raggiungere in tempo la casa degli specchi.
Un poliziotto lo prese per un braccio e Peter gli diede una ginocchiata allo stomaco, continuando a correre. La gente intorno a lui urlava ma il ragazzo non vi diede alcun peso e attraversò rapidamente l’entrata dell’attrazione.
Il vigilante si ritrovò subito immerso in una cacofonia di luci e suoni.
L’ondata di sensazioni che lo investirono tutte allo stesso tempo venne amplificata dai suoi recettori più sviluppati, cosa che lo costrinse a chiudere gli occhi e tapparsi le orecchie. Dio, aveva sempre odiato questo genere di posti, specialmente le case stregate. Questa non era esattamente una casa stregata, ma ci andava molto vicino.
Facendosi strada nell’oscurità lampeggiante di bagliori al neon, iniziò a tastare ogni superficie con cui entrò in contatto, cercando di mantenere un minimo di orientamento. 
Le case degli specchi erano posti facili in cui perdersi, specialmente se i tuoi sensi erano offuscati da fattori esterni.
Dopo quasi cinque minuti buoni – sebbene a Peter sembrò un tempo molto più lungo – intravide una piccola figura zampettare tra i riflessi di un lungo e stretto corridoio.
<< Ehi! >> urlò il vigilante, nel tentativo di richiamare la sua attenzione. Ma il ragazzino non si voltò e cominciò ad agitare le mani attorno a lui, quasi come se stesse cercando di uscire da una specie di gabbia invisibile.
Peter cominciò a correre verso di lui, mentre il suo senso di ragno riprese a vibrare con grande intensità. Ma quando si trovò a soli tre passi dalla figura minuta, sbattè violentemente contro qualcosa. Si rese preso conto di aver colpito in pieno uno specchio trasparente.
Il rumore provocato dallo schianto, tuttavia, spinse il bambino a voltarsi verso di lui.
<< Chi sei? >> chiese questi, il volto ora scoperto e adornato da un’espressione visibilmente confusa, un po’ impaurita. Aveva folti capelli ricchi di color carbone e le guance coperte di lentiggini.
Peter cercò di simulare un sorriso rassicurante.
<< Sono, ehm…un amico >> offrì con tono gentile.
Di fronte a lui, il bambino inarcò un sopracciglio. << Ma io non ti conosco >>
<< Oh, lo so! Ma vedi, io…sono qui per aiutarti >> spiegò il vigilante, mentre il suo senso di ragno cominciò a vibrare con maggiore intensità. La minaccia, qualunque cosa fosse, era molto vicina.
<< Vuoi aiutarmi a uscire di qui? >> chiese il bambino, apparentemente sollevato. << Perché penso di essermi perso >>
Peter si preparò a sfruttare l’apertura. Tuttavia, prima che potesse anche solo aprire bocca, un rumore insolito attirò l’attenzione della coppia. Sembrava quasi lo strusciare di un pezzo di stoffa contro una superficie liscia.
Peter provò un brivido improvviso e inclinò la testa per vedere oltre le spalle del bambino. Questi seguì lo sguardo dell’arrampica-muri…e si bloccò.
C’era un clown oltre il vetro di quella gabbia improvvisata, inginocchiato a terra. Ma non un clown dall’aspetto buffo, come quelli che Peter ricordava di aver visto negli sketch televisivi per le confezioni di cereali, oppure al McDonald e nei cartoni animati.
Aveva una testa enorme, bianca come un osso, e grossi ciuffi arancioni che gli partivano dalla fronte. Gli occhi erano gialli come un paio di lanterne e puntavano dritti sulla figura spaventata del bambino.
E poi c’era la lingua, che fuoriusciva dalla bocca spalancata come un lungo serpente e stava strusciando lentamente contro una delle pareti di vetro.
In quelle fauci, Peter intravide zanne affilate quanto quelle di uno squalo.
Quel clown, qualunque cosa fosse…non era umano. Non completamente almeno.
Arrivato a quella realizzazione, il vigilante deglutì a fatica, mentre il pagliaccio si alzava in piedi e ritraeva la lingua come il pupazzo di una scatola a molle.
Arricciò ambe le labbra rosse in un sorriso per nulla confortante e passò brevemente lo sguardo dal bambino a Peter. Dopo aver soppesato il vigilante, tornò a fissare il piccolo e sembrò annusare l’aria circostante.
Poi, tirò una testata contro la parete di vetro, facendo sobbalzare entrambi.
Il bambino compì un passo all’indietro, proprio mentre il clown tirava un’altra capocciata allo specchio, senza mai perdere il suo inquietante sorriso. E poi ve ne diede una terza. E poi una quarta. E fu proprio quest’ultima a generare una sontuosa crepa nella superficie trasparente.
Fu allora che sia Peter che il bambino arrivarono ad un’inevitabile conclusione : quella…cosa stava cercando di rompere il vetro.
Senza perdere tempo, il vigilante tirò un pugno alla lastra che lo separava dal piccolo. Questi non sembrò accorgersene, troppo spaventato delle azioni del pagliaccio anche solo per muoversi.
Se possibile, il sorriso sul volto del clown sembrò farsi più grande, rivelando una dentatura affilata che sarebbe stata più appropriata nella bocca di una tigre.
Rilasciò una risata graffiante e tirò un’altra testata, il tutto mentre Peter continuava a colpire la propria parete. E dopo qualche secondo, anche questa cominciò a inclinarsi sotto la forza dei suoi attacchi.
Pugni e testate crebbero di intensità, accompagnati dalle urla del bambino e dalla risata del clown.
Infine, dopo quello che sembrò un tempo interminabile, entrambe le vetrate s’infransero nel medesimo istante.
Il tutto accadde in meno di un secondo. Come se stesse assistendo ad una scena a rallentatore, Peter vide il volto del clown mutare in qualcosa di animalesco.
Fino a quel momento, la struttura facciale del mostro era rimasta per lo più simile a quella di un essere umano. Ora, al posto degli occhi e del naso spiccavano un paio di fauci divaricate come quelle di un serpente, colme di lame affilate.
La bocca della creatura calò rapidamente sul corpo inerme del bambino. Peter fu più veloce.
Colpì il muso del clown con un poderoso pugno, facendolo volare all’indietro, il tutto sotto lo sguardo terrorizzato del piccolo.
Senza perdere tempo, il vigilante si voltò verso di lui.
<< Corri! >> urlò a gran voce, ricevendo un cambio un cenno terrorizzato. Utilizzando l’apertura creata da Peter, il bambino uscì dalla gabbia proprio mentre il clown cominciava a rialzarsi.
Peter strinse gli occhi e alzò i pugni in una posizione difensiva. In tutta risposta, la creatura con le sembianze di un pagliaccio si limitò a inclinare la testa, come se il colpo ricevuto appena pochi secondi prima non lo avesse nemmeno scalfito.
L’Avenger deglutì a fatica. Quel pugno sarebbe stato sufficiente per ribaltare un’auto. Qualunque cosa fosse quell’essere…era molto resistente.
<< Tua madre non ti ha mai insegnato che non si dovrebbe mai interrompere una persona mentre mangia? >> domandò l’essere, con una voce acuta e graffiante.
Il cuore di Peter mancò un battito. Aveva appena detto…mentre mangia? No, doveva aver sentito male.
Eppure…
Lentamente, girò la testa nel punto esatto da cui era scappato il bambino. E allora, una rivelazione terrificante cominciò a farsi strada nella mente dell’adolescente.
“ Non penso che troveremo gli altri bambini” pensò inorridito, mentre una sensazione di nausea lo investì con la stessa intensità di un treno in corsa.
Volse nuovamente la propria attenzione nei confronti del clown. Questi, tuttavia, non era più a un paio di metri di distanza. Al contrario, era proprio di fronte a lui.
Con un movimento fulmineo della mano destra, la creatura alzò Peter in aria e lo scaraventò contro una vetrata.
L’adolescente sbatté con forza contro la parete e ricadde sul pavimento, ansimando come un cane. Era nei guai.
Il clown incombeva su di lui, il volto contorto in un ghigno grottesco.
Peter riuscì a mettersi in ginocchio e vide il mostro dare un paio di rapide annusate.
<< Oh, questo sì che interessante >> commentò quasi a se stesso, osservando il corpo dell’adolescente con rinnovata curiosità.<< Che cosa sei, ragazzino? >>
Ma Peter non rispose, e abbassò lo sguardo, facendo pressione sui pugni per alzarsi. Purtroppo, prima che potesse farlo, qualcosa lo inchiodò a terra.
Il clown scattò una mano in avanti e gli afferrò la parte superiore del cranio.
<< Guardami quando ti parlo, ragazzo >> ringhiò attraverso i denti affilati come coltelli. E allora Peter si ritrovò costretto a scrutare in quegli occhi gialli come il sole. Occhi che non avevano nulla di umano. Gli occhi di un mostro.
Il vigilante sentì la testa girarsi di scatto. Provò un dolore terribile, uno schianto, e la sua bocca si riempì di sangue. Poi, qualcosa lo afferrò per la gola.
Il clown lo guardò con un sogghigno. Poi, alzò la mano destra….e questa cominciò a cambiare.
Le dita guantate si unirono a imitazione di una punta di freccia, mentre il tessuto che ricopriva il braccio dell’essere venne rimpiazzato da una sorta di esoscheletro, simile a quello di un granchio, o forse di un qualche tipo di insetto.
Ora, al posto di un arto umano, vi era una grossa chela dall’estremità affilata.
<< È ora di galleggiare >> disse il clown, sorridendo malignamente.
Peter strinse i denti, preparandosi al colpo imminente.
Un forte rumore risuonò loro spalle.
Il clown si voltò, distratto da qualcosa, e lasciò andare Peter come un sacco di spazzatura.
L’adolescente atterrò di faccia sul pavimento, picchiando la bocca e il naso, e osservò una pozza di sangue allargarsi intorno alla bocca aperta.
Si sentiva la testa leggera e il cuore che batteva all’impazzata. Si rese conto di avere paura, era realmente, sinceramente terrorizzato come non lo era mai stato negli ultimi due anni.
Poi, una figura dorata attraversò gli ultimi specchi rimasti attorno alla coppia, spingendo il Clown contro la parete opposta della stanza e riversando cocci di vetro su tutto il pavimento.
Carol si fermò di fronte a Peter, assumendo all’istante una posizione difensiva, mentre l’adolescente si rialzava e le porgeva un sorriso di gratitudine.
La donna non distolse lo sguardo dal pagliaccio, la cui testa aveva ora assunto un angolo strano. Evidentemente, il colpo appena subito sarebbe stato più che sufficiente per uccidere un normale essere umano. La creatura, tuttavia, si limitò a scrocchiare il colo e le ossa sembrarono tornare nella giusta posizione.
<< Non avresti dovuto farlo >> ringhiò attraverso i denti, volgendo alla nuova arrivato uno sguardo omicida.
Carol strinse gli occhi, dando una rapida occhiata alle sembianze del clown. Non vi era alcun dubbio : era lo stesso individuo che aveva visto la sera prima al cimitero, di fronte alla tomba di suo padre. Non era stata un’allucinazione.
Si lanciò in avanti, il corpo illuminato dall’inconfondibile bagliore di energia cosmica.
Raggiunse il clown con facilità, ma l’avversario era sorprendentemente più forte del previsto.
L’uomo si dimenò e si liberò dalla sua presa in una strana maniera fluida, come se le sue ossa fossero flessibili.
Si strattonarono per un momento e poi Carol si trovò la faccia della creatura a pochi centimetri dalla sua.
Una lunga lingua grottesca guizzò, sfiorando il viso della bionda, la quale ritrasse istintivamente la testa, esponendo il collo e la gola all’avversario che ora la teneva inchiodata ad un muro.
Il clown si chinò in avanti e diede una rapida annusata alla supereroina. 
<< Gustosa, deliziosa…bellissima paura >> sibilò con macabro piacere.
Carol tentò di liberarsi e sparò un proiettile di energia cosmica dritto sulla faccia del mostro. Il volto del clown, tuttavia, si spaccò in due con un sonoro crack!, lasciando che il colpo lo superasse innocuo, per poi riunirsi appena un secondo dopo. Il tutto sotto lo sguardo attonito dell’Avenger.
L’essere sogghignò, la saliva che grondava dai lunghi denti che spuntavano dall’arco mascellare.
Si protese in avanti e la sua lingua accarezzò il viso della donna, che trasalì a quel contatto caldo e umido.
Poi, le fauci del mostro si aprirono ancora una volta come quelle di un serpente, pronte ad addentrarla.
Prima che potesse farlo, tuttavia, una sostanza bianca e appiccicosa si chiuse attorno alla bocca del clown.
Carol girò appena la testa, notando Peter con il braccio destro proteso in avanti e un lancia-ragnatele ben visibile sul polso.
Approfittando della situazione, Carol piegò le mani all’indietro e vi condensò una copiosa quantità di energia cosmica.
La parete dietro di lei esplose letteralmente in aria, inondando la stanza di cocci. L’onda d’urto scaraventò a terra sia lei che il clown.
Senza perdere tempo, la donna lo colpì al centro del torace, facendolo sprofondare nel pavimento.
La zampa insettoide del pagliaccio scattò in avanti, ma Carol rotolò via, evitando il colpo e fermandosi accanto a Peter.
Lentamente, con movimenti meccanici, il clown cominciò a rialzarsi da terra, facendo scrocchiare le articolazioni.
“ Forse ha capacità rigenerative” ipotizzò Carol, notando che l’essere era tornato come nuovo nella frazione di pochi secondi.
Fissò intensamente la donna, il volto ora adornato da un cipiglio. Sembrava decisamente arrabbiato.
Le mani di Carol si illuminarono all’istante di un intenso bagliore dorato, in preparazione di un imminente attacco. Il clown, tuttavia, rimase fermo e immobile, limitandosi a soppesarla con uno sguardo furente.
<< Ci rivedremo presto >> sibilò attraverso le zanne esposte, per poi compiere un paio di passi all’indietro. La sua figura pallida scomparve nell’oscurità, come se non fosse mai stata lì in primo luogo.
“ Ovviamente ha anche il teletrasporto” pensò la donna con aria stizzita. Questa missione si era appena rivelata molto più difficile del previsto.
Volse la propria attenzione nei confronti di Peter.
<< Stai bene? >> chiese con preoccupazione, notando il sangue che gli gocciolava dalla mascella.
L’adolescente si alzò da terra e cominciò a esaminarsi.
<< Penso di sì >> borbottò stancamente, notando che non aveva niente di rotto.
Non convinta, Carol gli afferrò il volto e lo portò vicino al suo, facendolo arrossire.
<< Stai sanguinando >> osservò duramente.
Peter le offrì un piccolo sorriso.
<< È solo un graffio >> disse con tono rassicurante. << Davvero…starò bene >>
La donna lo fissò per qualche altro secondo. Poi, rilasciò un sospiro e diede una rapida occhiata ai suoi dintorni, un accozzaglia di pareti distrutte e vetri sparsi sul pavimento.
<< Andiamocene di qui >> disse stancamente.
Peter fu più che felice di seguire quell’ordine.
 
                                                                                                                                                     * * * 
 
<< Che diavolo era quella cosa?! >> esclamò Carol, mentre il furgone procedeva a passo spedito lungo il promontorio della cittadina.
A causa delle strade chiuse in centro, erano stati costretti a prendere la panoramica che si ergeva sopra uno strapiombo di 10 metri al di sopra del mare, l’unica via accessibile alla periferia della cittadina.
Joe Junior scrutò la sorella con aria visibilmente preoccupata, non avendola mai vista in un simile stato. Sembrava quasi spaventata. E a giudicare dalla storia che la coppia aveva appena finito di raccontargli…beh, aveva una buona ragione per esserlo.
Nel sedile posteriore, Peter deglutì a fatica.
<< Io…non lo so. Ma non sembrava umana >> borbottò, ripensando al modo disinvolto con cui il pagliaccio si era riferito ad una pratica tanto abominevole come quella di mangiare i bambini. << Potrebbe essere una sorta di esperimento illegale. O forse un alieno? >>
Carol contemplò quella domanda in silenzio.
<< È possibile >> rispose dopo quasi un minuto. <<  Ma non penso di aver mai visto niente di simile in tutti i miei viaggi nello spazio >>
<< Mi state seriamente dicendo… che Harspwell, la cittadina più dimenticabile di tutto il Maine… è infestata da un clown mangia bambini? >> disse Joe con un pizzico d’incredulità, girandosi verso sorella. Non lo avesse mai fatto.
La donna fece per rispondergli. Ma prima che potesse farlo, i suoi occhi sfrecciarono brevemente sulla carreggiata…e lì vi rimasero bloccati.
<< Attento! >> urlò con una punta di panico, spingendo Joe a riportare lo sguardo sulla strada.
Lo aveva distolto per un secondo, solo per un secondo. E ora, al centro del lungomare, spiccava la figura di un pagliaccio vestito con sontuosi abiti argentati, nella cui mano destra reggeva un grappolo di palloncini variopinti.
Fosse stata un’altra situazione, probabilmente l’uomo non si sarebbe fatto remore ad investire quel mostro seduta stante. Ma Joe, troppo sorpreso per reagire in modo logico, reagì in modo naturale.
Il suo istinto, influenzato da una reazione quasi automatica per qualunque guidatore, lo spinse a sterzare verso sinistra, proprio contro il lato della carreggiata.
Peter e Carol ebbero appena il tempo di urlare. Pochi secondi dopo, la macchina uscì dalla corsia e precipitò nello strapiombo.



Adoro lasciare i lettori con un bel cliffhanger.
Come avete visto, questo IT è molto più forte di quello dei film, poichè prende ispirazione soprattutto dalla versione del romanzo ( molto difficile da rendere su schermo a pieno potere, quindi hanno dovuto depotenziarla un po' ). 
Nel prossimo capitolo, oltre alle conseguenze di questa caduta, vedremo come se la stanno cavando il resto dei cattivi di questa storia.

 

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Capitolo 7
*** Memories ***


Ecco un nuovissimo aggiornamento!
Ad alcuni potrà sembrare un capitolo di transazione, ma vi assicuro che sarà molto importante per il proseguire della trama.
Vi auguro una buona lettura!

 


Memories
 
Dicono che gli incidenti non esistano.
A volte la realtà si abbatte contro di noi, altre volte cala su di noi lentamente, malgrado tutti i nostri sforzi per ignorarla. Ma gli incidenti capitano. Annientano il nostro senso di controllo... Se non addirittura le nostre vite.
Dopo la caduta nello strapiombo, Carol e Peter erano usciti dalla macchina quasi completamente illesi, il risultato di tutte quelle migliorie genetiche che aveva potenziato i loro corpi dopo i rispettivi “incidenti”.
Ma Joe Junior non aveva ricevuto alcun tipo di miglioramento. Joe si era schiantato dal posto di guida di un veicolo a quattro ruote da un’altezza di quasi venti metri. Il colpo alla testa subito, sebbene in parte attutito dall’airbag, aveva provocato lesioni cerebrali che, se Carol non fosse stata presente e non lo avesse portato subito all’ospedale, ne avrebbero causato la morte entro un massimo di 15 minuti.
E ora, dopo 32 ore di cure, l’uomo sedeva completamente immobile su una sedia a rotelle, il volto adornato da occhi vacui e impassibili, quasi morti, mentre parte della testa era avvolta da una fascia di bende.
Carol trattenne le lacrime e accarezzò dolcemente le spalle del fratello, mentre una sensazione di rabbia incontrollata cominciò a farsi strada nel suo cuore.
Il clown…quel mostro…era colpa sua. Aveva fatto del male alla sua famiglia per ferirla. Un monito per aver interferito durante quello che sarebbe stato il suo ultimo omicidio.
Avrebbe pagato. Non si sarebbe data pace fino a quando non lo avrebbe trascinato fuori dal buco in cui si nascondeva e ridotto ad una massa informa e singhiozzante.
Scosse la testa da quei macabri pensieri, mentre faceva scorrere la sedia a rotelle attraverso il giardino di casa Danvers. Ora non era certo il momento per soffermarsi sulla propria vendetta, aveva qualcuno di cui prendersi cura.
<< Eccoci qui >> disse Carol, mentre aiutava il fratello a superare gli ultimi gradini del portico. << Ti senti bene qui, eh, JJ? Senti la brezza che viene dal Sound. E da tanti altri canali… >>
L’uomo, tuttavia, non rispose. Non diede nemmeno alcun segno di averla sentita e si limitò a fissare davanti a sé, con uno sguardo perso nel vuoto.
La supereroina strinse i pugni, cercando di trattenere un’altra onta di rabbia.
Peter le posò una mano sulla spalla, dandole una stretta rassicurante. Il gesto fu sufficiente a calmarla.
<< Forse dovrei restare qui >> disse il vigilante con tono gentile.
Carol gli sorrise appena e scosse la testa. << No, abbiamo ancora una caso a cui lavorare, e quell’uomo con cui hai appuntamento potrebbe essere l’unica persona in città a sapere cosa diavolo sta succedendo. Vai pure, io…starò bene. >>
L’adolescente la scrutò incerto per qualche altro secondo. Poi, le porse un cenno del capo e cominciò ad allontanarsi dall’abitazione.
Carol rilasciò un sospiro stanco e condusse la sedia a rotelle del fratello dentro casa. Le sue narici vennero subito invase da un profumo familiare.
<< Senti questo odore, JJ? Sarà quel che penso che sia? >> disse con tono cospiratorio. Ma JJ rimase in silenzio anche questa volta.
Carol lo fissò tristemente e si diresse verso la cucina, dove trovò la madre intenta a mescolare il contenuto di una pentola sul fuoco.
 << Wow, il tuo sugo alla marinara? È il compleanno di qualcuno? >> chiese la bionda, dopo aver dato un’occhiata all’interno della stoviglia. << Hai dimenticato che al momento non può mangiare cibo solido? >>
<< Non lo deve mangiare. Volevo solo che sentisse l’odore di casa >> rispose Marie, con una scrollata di spalle. Carol annuì comprensiva, per poi rimanere in silenzio.
Lanciò un’occhiata laterale al genitore.
<< Mamma… >> iniziò con voce incerta. << Sai che…sai che potrebbe non tornare se stesso, vero? >>
La donna si fermò di colpo. Per un momento, Carol temette di aver affrontato l’argomento troppo presto. Ma l’ultima cosa che voleva era che sua madre si facesse illusioni sulla gravità della situazione.
Dopo quasi un minuto buono, Marie tornò a girare il sugo nella pentola.
<< Niente è mai lo stesso, cara. Il mondo continua a girare…e si accetta la vita come viene >> borbottò freddamente.
La bionda inarcò un sopracciglio.
<< Sì? È questo che ti dicevi quando eri con papà? >> domandò beffarda. Si pentì all’istante di aver pronunciato quella parole.
Marie si voltò verso di lei con uno sguardo così furente che, per un attimo, l’Avenger fu tentata di compiere un passo all’indietro. Il genitore, tuttavia, non aprì nemmeno bocca. Semplicemente si voltò e tornò a cucinare.
 << …Credo che sposterò le mie cose in camera di Joe, sarà più facile controllarlo >> mormorò Carol, per poi fuoriuscire dalla cucina.

                                                                                                                                             * * * 
 
In un certo senso…sua madre aveva ragione: ci si può abituare a quasi tutto. Mamma con il disastro che era suo padre, lei con i poteri avuti per caso da Mar-Vel. Joe con l’incidente…i suoi danni celebrali…
Carol trattenne ancora una volta le lacrime, mentre entrava nella stanza del fratello.
Venne subito accolto da Nox, il gatto di famiglia. Una piccola palla di pelo nera con grandi occhi verdi, i quali la fissarono con curiosità e sospetto mischiati assieme.
Carol restituì lo sguardo. Sua madre le aveva detto di averlo comprato circa dieci anni fa, quindi questa era la prima volta che il felino e la supereroina si incontravano. Tuttavia, l’animale sembrò riconoscere in lei la fragranza familiare di un membro della famiglia Danvers e si avvicinò alla donna con passo furtivo.
Carol sorrise e gli accarezzò dolcemente la schiena, suscitando fusa compiaciute da parte del felino.
Poi, diede una rapida occhiata alla stanza del fratello e arricciò il volto in una smorfia. C’era molta più roba di quanto avesse inizialmente previsto.
<< Che accumulatore. L’abbiamo ereditato da papà, eh, Sox? >> domandò retoricamente, ricevendo in cambio solo un debole miagolio.
La donna si limitò a roteare gli occhi e cominciò ad aprire un cassetto dopo l’altro per togliere la roba in eccesso. Poster, vecchie riviste, giornali, vecchi vestiti…tutto ciò che poteva essere messo in un ripostiglio.
Dopo quasi mezz’ora di lavoro, fu il turno degli armadi.
Sox la seguì a ruota, zampettando vicino alle sue gambe.
<< Attento, ragazzo, questo è l’armadio dove vengono a morire le vecchie t-shirt >> lo avvertì Carol, aprendo le porte del mobile e venendo investita all’istante da un odore piuttosto sgradevole.
Cercando di ignorarlo, la donna cominciò a togliere le magliette più vecchie o logore, fino a quando non trovò una scatola impolverita che era stata sommersa sotto decine di vestiti.
Carol inarcò un sopracciglio.
<< E questo cos’è? Altra roba di Junior? >> borbottò a se stessa, inginocchiandosi sul pavimento e ispezionando attentamente il contenitore.
Aprì il portaoggetti. Era pieno di foglii spiegazzati, foto consumate e ami da pesca racchiusi all’interno di bustine di plastica ammuffite.
“Sembra troppo vecchia per essere di J.J o di Steve…o mia. La mamma deve aver svuotato la soffitta” pensò con un cipiglio.
Afferrò uno dei fogli e lo aprì, sollevando una nuvola di polvere. E quando i suoi occhi si posarono sul contenuto scritto di quel pezzo di carta…sentì il cuore mancarle un battito.
 << Ma cosa…>> borbottò a se stessa, le pupille dilatate e lo sguardo completamente concentrato su quello che stava leggendo.
Il foglio recitava:
 
Amore mio.
Devo farti una confessione...sono distrutto quando non sono con te, ma sono devastato quando lo sono. Ho paura di te e ho paura di perderti. E nessuno al mondo tranne te sa cosa provo.
Sono un idiota. So che non è possibile che finisca bene, per nessuno dei due. So cosa dirà la gente se lo scoprirà. Forse hai ragione, dovremmo smettere di vederci...ma forse ti sbagli, perchè anche se smettiamo di vederci, non smetterò mai di provare qualcosa, che io abbia una famiglia e che tu abbia o no una famiglia.
C'è un motivo per cui ci siamo trovati, amore mio, ed è questo: se la mia anima gemella. Non posso rinunciare a te, e tu non puoi chiedermi di farlo.


Carol rilesse il tutto con un’espressione incredula stampata in volto.
<< Cos’è questa? Chi l’ha scritta? >> sussurrò a bassa voce. << La calligrafia è familiare. Papà? Mamma? Non riesco a immaginare che… >>
Si bloccò di colpo, mentre una rivelazione scioccante cominciò a farsi strada nella sua mente.
<< Oddio…papà aveva una relazione?! >> esclamò incredula.
L’urlo sembrò spaventare Sox, il quale la sorpassò con un balzo e colpì la scatola nel processo, rovesciandone il contenuto.
<< Attento, Sox! >> lo rimproverò Carol. Ma il gatto non si fermò e corse fuori dalla stanza, lasciandosi dietro una donna visibilmente stizzita. << Ugh, guarda cos’hai combinato. >>
Con un sospiro rassegnato, cominciò a raccogliere la roba caduta, fino a quando il suo sguardo non si posò su un oggetto dalla forma bizzarra. Sembrava quasi un cucchiaio d’argento, ma molto più spesso, con uno strano globo di luce azzurro sulla cima.
Gli occhi di Carol si spalancarono per la sorpresa.
<< Non può essere…un disco esterno? >> sussurrò incredula, riconoscendo all’istante uno dei dispositivi Kree più familiari di sempre.
Erano macchinari di dimensioni variabili utilizzati per immagazzinare dati ed effettuare chiamate a onde radio isotoniche, praticamente dei cellulari glorificati per telefonate spaziali.
Carol cominciò a passarselo fra le mani.
“ Che ci faceva papà con un affare del genere?” pensò con un pizzico di meraviglia, ancora scioccata dal fatto che un simile dispositivo si trovasse in possesso della sua famiglia. Forse lo aveva lasciato lei durante una delle sue visite, senza accorgersene? No,non pensava di essere così sbadata. Ma…quale altra spiegazione logica c’era? O forse…
<< Carol, ho bisogno che mi aiuti a portare Joe in camera! >> urlò la voce di sua madre, distogliendola da quei pensieri.
Carol sussultò per la sorpresa e scosse la testa, nel tentativo di schiarirsi le idee.
Lanciò un’ultima occhiata al disco e lo posò sul letto. Ci avrebbe pensato dopo, ora la priorità era suo fratello.
<< Arrivo, mamma! >> rispose mentre usciva dalla camera.
Per un attimo la stanza rimase nel più completo silenzio. Pochi secondi dopo, tuttavia, il dispositivo iniziò a lampeggiare, producendo un PING! basso e ritmato.
 
                                                                                                                                         * * * 
 
Il segnale di riattivazione del disco rigido attraversò il globo ad una velocità di circa 3000 km al secondo, invisibile a qualunque apparecchiatura terrestre. In un qualsiasi altro giorno sarebbe stato completamente ignorato, o al massimo percepito come una semplice variazione nelle onde radio della contea. Ma non quel giorno.
Cetanu sedeva in attesa al di sopra di un trespolo, incurante dei curiosi animali che ogni tanto mettevano il muso fuori dalla boscaglia per osservare quella creatura sconosciuta che puzzava di sangue e morte.  Attorno a lui volteggiavano un paio di sfere metalliche, da cui riceveva aggiornamenti costanti sulle attività di ricerca delle loro compagne sparse per tutto il continente nordamericano.
Improvvisamente, uno dei dispositivo emise un sonoro BIP! Accompagnato da una luce lampeggiante di colore rosso.
<< Energia Kree rilevata! >> esclamò la sfera nell’idioma della razza Yaujta.
Il Predator si drizzò di colpo.
Senza perdere tempo, afferrò il dispositivo e lo collegò al braccio destro con un piccolo cavo. Pochi secondi dopo, alcune coordinate si materializzarono al di sopra dell’arto sotto forma di ologrammi.
L’alieno annuì soddisfatto e cominciò a incamminarsi verso la propria astronave. Al contempo, tutte le sfere cambiarono direzione e puntarono sul Maine.
 
                                                                                                                                          * * *    
 
Ci sono delle ragioni per cui un adulto non vive quasi mai con i genitori.
L’assassino non dovrebbe mai tornare sul luogo del delitto: ci sono ancora tutte le prove. I tuoi vecchi poster, le vecchie action figures… le vecchie lettere d’amore che non sapevi tuo padre avesse scritto a una donna misteriosa.
Tornare a casa è come imparare ad atterrare quando sai già volare. Credete che sfrecciare nell’atmosfera faccia paura? Provate a tornare sulla terra: terrificante. E Carol ora ne era convinta al 100%.
<< Respira, Carol. Questo…è troppo >> borbottò, accasciandosi sul divano del salotto. << La mia famiglia mi manda fuori di testa, Sox. >>
Affianco a lei, il gatto miagolò pigramente e strofino la testa contro quella della donna.
Lei sorrise teneramente e cominciò ad accarezzare la pancia del felino.
<< Carol, ti sei persa? >> arrivò la voce della madre, facendola sospirare.
<< Arrivo,mamma >> rispose con il tono più naturale che riuscì a trovare. Cosa che si rivelò molto più difficile del previsto, considerando tutto quello che le stava passando per la testa in quel momento.
Facendosi forza, lasciò la stanza e tornò nella camera da letto di JJ, dove trovò il fratello già adagiato sul letto.
<< Beh, ho già girato Joe >> disse la madre, accogliendola con un roteare degli occhi. << E ho cambiato le lenzuola. E ho fatto il caffè. Forse non sei l’unica con la superforza >>
<< Lo comunicherò agli Avegers. Aspettati un loro messaggio entra la fine della settimana. >>
Jessica ridacchiò, mentre le porgeva alcune lenzuola. Senza perdere tempo, Carol cominciò a piegarle in silenzio, il volto adornato da un’espressione contemplativa. La cosa non passò certo inosservata agli occhi della madre.
Prendendo un respiro profondo, si avvicinò alla figlia e le posò una mano sulla spalla, attirando le sua attenzione.
<< Che sta succedendo, Carol? Ti comporti in modo strano da quando sei andata in camera di Joe >> affermò preoccupata.
La bionda inarcò un sopracciglio. << Forse sono solo preoccupata per mio fratello. Sai, quello con una lesione celebrale >>
<< Forse potrei aiutarti… >>
<< Forse sei un neurochirurgo? >> ribattè freddamente Carol, facendola sussultare.
<< Sono tua madre >> rispose l’altra, portandosi una mano al cuore.
Rendendosi conto di essere stata un po’ ingiusta, la figlia distolse lo sguardo con aria colpevole.
<< Lo so >>> borbottò amaramente. “Ed è proprio per questo che non posso dirti che papà sta  ancora rovinando la nostra famiglia dalla tomba…anche se vorrei tanto.”
Marie rimase in silenzio, continuando ad osservare la figlia. Quando questa ebbe finito di piegare le lenzuola, le offrì un sorriso incerto.
<< Vuoi darmi una mano con il giardino? >> domandò timidamente.
Carol incontrò ancora una volta i suoi occhi, fissandola sorpresa.
<< …Certo >> rispose dopo un momento di esitazione.
 
 
 
Carol aveva sempre amato il giardino di casa Danvers.
Confinava direttamente con il canale che scorreva sul retro dell’abitazione e sfociava nella baia della cittadina, mentre su lato ovest del loggiato vi era il boschetto di Arspwell, in cui lei e i suoi fratelli erano soliti giocare a nascondino.
L’odore di salsedine che permeava quel luogo riusciva sempre a donarle una sorta di pace mentale. Ma in quel momento, con tutto ciò che era successo negli ultimi giorni, anche i ricordi di un’infanzia ormai perduta si rivelarono nient’altro che ulteriore combustibile per la rabbia che provava.
Volse la propria attenzione nei confronti della madre. La donna era in ginocchio, attualmente impegnata a potare le rose di una delle molte aiuole realizzate attorno alla casa.
<< Mamma, posso chiederti una cosa? >> chiese all’improvviso, attirando l’attenzione del genitore.
Jessica non alzò gli occhi dal lavoro che stava facendo e indicò un angolo del giardino.
<< Solo se mi prendi quell’innaffiatoio >> disse giocosamente.
Con un roteare degli occhi, Carol si alzò da terra e afferrò l’oggetto, per poi posarlo affianco alla madre. << Sai che prendo quest’innaffiatoio da quando ho cinque anni? >>
<< Tre anni. Ed eri tu quella che innaffiava i fiori >>
<< E i sassi >>
<< No, quelli te li mangiavi, assieme alle lumache >> continuò l’altra, ridacchiando divertita. Carol, tuttavia, mantenne un’espressione impassibile.
Prese un respiro profondo e disse: << Volevi sapere cos’è che mi turba? >>
<< A parte il fatto che tua madre non sia un neurochirurgo? >>
<< …A parte questo >> confermò la bionda, cercando di mantenere un tono di voce calmo e raccolto.
A quel punto, Marie abbandonò l’innaffiatoio e si voltò verso di lei.
<< So cosa ti turba, stavo solo aspettando che ti decidessi a dirmelo >> rivelò con tono di fatto, sorprendendo la figlia.
<< Lo sai? >> domandò questa, il volto adornato da un’espressione incerta. La madre annuì con un sorriso.
<< Non c’è nulla di male ad uscire con ragazzi più giovani >> disse con una scrollata di spalle, mentre si rialzava da terra.
Per un attimo, Carol credette di aver sentito male.
<< Perdonami, sono confusa >> disse dopo qualche attimo di silenzio.
Marie le inviò un sorriso impertinente.
<< Carol, sono tua madre, non puoi nascondere nulla da me. Ho visto come te e quel ragazzo vi guardate >> affermò con tono di fatto. << State uscendo insieme, non è vero? >>
In risposta a quella domanda, le guance della bionda si tinsero di rosso. Contò mentalmente fino a cinque e prese un respiro profondo.
<< Mamma, non è questo. Si tratta di papà >> disse seriamente, attirando lo sguardo del genitore ancora una volta.
Poi, mise una mano nella tasca dei pantaloni…e ne estrasse la lettera che aveva trovato appena un’ora prima nella camera di Joe.
Gli occhi di Marie si spalancarono come piatti, quasi come se avesse riconosciuto il foglio spiegazzato.
<< Ho trovate le sue lettere, mamma. Lettere d’amore a un’altra donna. Mi dispiace, non potevo…non posso continuare a fingere che tutto vada bene, non più >> disse con tono freddo, porgendo il pezzo di carta nei confronti del genitore. << Ho bisogno di sapere la verità. >>
Ma Marie non rispose. Rimase completamente ferma e immobile, come pietrificata.
Fissò il foglio per quello che sembrò un tempo interminabile. Poi, si voltò e cominciò a camminare verso il pontile.
Carol rilasciò un sonoro sospiro.
<< Mamma >> chiamò, non ricevendo alcuna parola dal genitore. << Mamma, per una volta dobbiamo parlare di questo.  Non devi più proteggerlo. >>
Cominciò a seguire la madre, fino a quando questa non si fermò ai piedi del pontile. La brezza del canale trasportò un odore si salsedine che investì i loro sensi, mentre una mano fantasma sembrò scendere al di sopra della proprietà, facendola calare in un cupo silenzio.
<< Carol…Non volevo che lo scoprissi così. Te l’avrei detto quando fossi stata pronta >> sussurrò Marie, sorprendendo la figlia.
<< Un momento…tu lo sapevi? >> domandò la bionda con tono incredulo.
La madre sospirò e si voltò verso di lei. << Non capisci. E non pretendo che tu lo faccia >>
<< Non capisco? Certo che non capisco! Come hai potuto lasciare che ti trattasse così? Che CI trattasse così?! >> esclamò l’altra, pervasa da un’improvvisa onta di rabbia.
Questo…questo era troppo. Tutti i sentimenti di odio e rancore che aveva cercato di seppellire stavano ora tentando di uscire allo scoperto con violenza.
  << Come hai potuto passare la vita a difendere qualcuno che non lo meritava…invece di proteggere le persone che lo meritavano ? >> mormorò con voce strozzata, sentendo lacrime amare che cominciarono a inumidirle gli occhi.
Marie sospirò una seconda volta. << Me lo sono chiesta mille volte, tesoro. Quasi quante volte ho chiesto a tuo padre di smettere di bere. Posso solo dire che mi dispiace, Carol. Per tutto, e anche se vorrei che tu mi perdonassi…non sono sicura che lo farai. >>
Si voltò verso il canale che sboccava nell’oceano, ove i raggi del sole ne illuminavano la superficie cristallina. Era quasi come se stesse cercando di trovare un briciolo di conforto in quella bellezza idilliaca.
<< Amavo mio marito. Non era perfetto, ma lo amavo >> riprese dopo quasi un minuto di silenzio. << Incolpo Joe per molte cose…non solo per quello che pensi. Non posso incolparlo perché era infelice o perché desiderava…di più >>
<< ?! >>
Il tempo parve fermarsi.
Carol rimase ferma e immobile, incapace di muovere anche solo un muscolo. Non reagì nemmeno quando la madre la superò, tornando dentro casa.
Dopo quello che le sembrò un tempo interminabile, quasi senza rendersene conto, la bionda cominciò a camminare verso il lato opposto del giardino, proprio dove cominciava il boschetto. E lì vi rimase piantata.
<< Di più >> sussurrò, stringendo ambe le mani in pugni serrati. Il suo corpo stava tremando.
 << Di Più ?! >> ripetè ad alta voce, spaventandolo alcuni corvi tra gli abeti. << Ora basta, papà…hai fatto abbastanza! >>
E, dopo aver pronunciato tali parole, colpì con forza il primo albero che le capitò a tira.
Il tronco della pianta venne sradicato all’istante, rimanendo sospeso in aria per qualche secondo, prima di schiantarsi sulla superficie del canale e produrre uno spruzzo d’acqua alto diversi metri.
Carol cadde in ginocchio e affondò un pugno nel terreno, mentre lacrime amare cominciarono a fuoriuscirle dagli occhi. E poi…tutto cessò.
Rimase semplicemente in quella posizione, ansimando pesantemente. Inconsapevole che era stata osservata per tutta la durata di quella scena.

                                                                                                                                                  * * * 
 
A circa cento metri dall’abitazione dei Danvers vi era una casa abbandonata. Lo stabilimento era stato una delle prime vittime dell’ondata di disoccupazione che aveva preso luogo nell’ormai lontano 2008 a causa del crollo della borsa di Wall Street, ed era rimasto invenduto da allora.
In poche parole, era il posto perfetto per stabilire una base d’osservazione sicura e libera da potenziali interferenze.
Nel salotto della casa, Phineas Mason aveva installato un complesso di telecamera a lungo raggio collegate direttamente a dispositivi di rilevamento termico posizionati entro un raggio di 20 metri da casa Danvers, un sistema di sorveglianza perfettamente camuffato e capace di eludere anche l’occhio più attento.
<< Gesù, cosa l’avrà fatta arrabbiare in questo modo? >> borbottò l’uomo, mentre osservava lo schermo di fronte a sé con un’espressione intimorita.
Affianco a lui, Herman Schultz si strinse nelle spalle. << Magari è quel periodo del mese >>
<< Eh, buona questa…auch! >>
Sable colpì il tecnico alla testa prima potesse completare la frase, mantenendo uno sguardo impassibile.
<< Niente battute sessiste >> ordinò freddamente, ricevendo un rapida cenno del capo da parte del sottoposto. Dio, quella donna gli dava i brividi.
Pochi metri più in la, con le braccia incrociate e la schiena poggiata sul muro, Electro rilasciò un sospiro visibilmente irritato.
<< Perché diavolo non li abbiamo ancora attaccati? >> ringhiò attraverso i denti, mentre il suo corpo emetteva deboli scariche di natura elettrica.
Octavius alzò gli occhi dal computer su sui stava lavorando e lo fissò intensamente.
<< Perché dobbiamo prima essere consapevoli dei loro punti di forza e debolezza, nonché del terreno su cui li combatteremo. Affrontare un avversario senza prima conoscere questi fattori può portare solo alla sconfitta >> affermò con tono di fatto.
Dillon sembrò valutare attentamente le parole dello scienziato. Dopo qualche attimo di silenzio, sospirò una seconda volte e borbottò: << Continuo a pensare che sia una perdita di tempo >>
<< Il tuo reclamo è stato notato e prettamente ignorato >> ribattè impassibile Octavius, mentre riprendeva ad armeggiare con il computer.
Dopo qualche altro minuto, Phineas sembrò decidere che il guardare Capitan Marvel dare di matto aveva perso il suo fascino.
Volse la propria attenzione nei confronti di Mac Gargan, il quale era impegnato a provare la nuova tuta che Ocativius aveva progettato per lui. Si trattava di un esoscheletro di titano alimentato dal prototipo di un reattore Ark, lo stesso utilizzato dai droni delle Stark Industries e ricreato dopo che uno di quegli affari era stato messo fuori gioco a Sokovia nell’ormai lontano 2014.
Per qualche strana ragione, Gargan aveva chiesto specificatamente Octavius di modellare l’armatura con le caratteristiche fisiche di uno scorpione, coda compresa.
<< Scusa se te lo chiedo, ma…perché questa ossessione per gli scorpioni? >> domandò il tecnico, mentre osservava l’arto in questione con nervosismo appena celato. Quella cosa sarebbe stata capace di trapassare un uomo da parte a parte come se fosse un foglio di carta.
Mac si voltò verso di lui e cominciò a soppesarlo con lo sguardo. Per un attimo, Phineas fu assai tentato di allontanarsi - temendo di aver offeso l’ex trafficante - ma facendo appello a tutto il suo autocontrollo riuscì a mantenere una posizione ferma.
Poi, dopo quello che sembrò un tempo interminabile, Gargan iniziò a parlare.
<< Da bambino io e la mia famiglia vivevamo in Messico, a circa trenta chilometri dalla città più vicina. Eravamo poveri e non potevamo permetterci l’assistenza sanitaria >> spiegò con un ghigno ironico. << Un giorno, mentre io e mio fratello giocavamo in giardino, venni punto da uno scorpione. E non uno di quelli che si trovano sotto il tappeto di casa qui in America, ma uno di quelli grossi, potenzialmente letale. Solo una persona su dieci sopravvive ad una loro puntura. >>
Scoppiò in una risata bassa e gutturale.
<< I miei genitori non potevano pagare per le cure. Pensavano che sarei morto. Rimasi steso nel letto per tre giorni, incapace di bere o mangiare. Eppure…il mio corpo riuscì a resistere al veleno >> continuò con un ghigno che fece rabbrividire Phineas.
Indossò gli ultimi pezzi della tuta e questa sembrò attivarsi quasi in automatico.
Un bagliore verde cominciò a diradarsi lungo i punti di congiunzione della placche meccaniche, producendo un ummmm che crebbe e divenne un UMMMMM a tutti gli affetti, attirando l’attenzione del resto della squadra.
 << La mia gente crede che se sopravvivi ad un incontro con un’animale mortale, questi diverrà il tuo totem, il tuo spirito guida…colui che rivelerà la tua vera natura >> disse Gargan, mentre la coda dietro di lui iniziò ad agitarsi, rilasciando sbuffi di vapore e suoni meccanici.
A quel punto, l’ex trafficante di armi volse a Phineas la sua più totale attenzione.
<< E ora, io e il mio totem siamo diventati una cosa sola >> sussurrò freddamente. << Mac era il mio nome da umano. Ora sono…Scorpion. >>
 
 



E anche questa è fatta.
Vi dico già che la trama delle lettere sarà molto importante per il percorso psicologico di Carol e l’esplorazione del suo passato. Chi ha letto i fumetti sa a cosa mi riferisco, ma per coloro che la conoscono solo attraverso i film…eh, eh, ho una bella sorpresa per voi.
Nel mentre, il Predator ha finalmente rintracciato la posizione della sua preda, ovvero Carol stessa. Come mai il padre aveva un dispositivo Kree? Tutto sarà spiegato, non vi preoccupate.
E abbiamo pure assistito alla nascita di Scorpion, uno dei villain più ricorrenti di Spider-Man ( che quasi sicuramente apparirà nel terzo film della saga MCU ).
Il prossimo capitolo si concentrerà su Peter e segnerà il ritorno di Pennywise/IT.
A presto!

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Capitolo 8
*** We all float down here ***


Ecco un nuovissimo capitolo!
Prima di cominciare, alcuni avvertimenti:
La prima parte del capitolo è una sorta di rivisitazione dell’indagine di Mike Hanlon nel romanzo di IT.
Molti degli eventi narrati sono stati ripresi o riadattati da quelli raccontati nell’opera originale. Ne riconoscere sicuramente alcuni, che sono stati ripresi anche nella trasposizione cinematografica del romanzo.
L’ho realizzata anche per dare una panoramica generale della storia di IT a coloro che non hanno mai letto il libro o visto i film.
La seconda parte del capitolo, invece, è la mia preferita, ed è incentrata sull’incontro tra Pennywise e Peter. Mi sono divertito molto a scriverla, soprattutto perché IT è praticamente un orrore cosmico in pieno stile Lovecraft. Puoi fargli letteralmente dire o fare quello che vuoi, senza far sembrare il tutto ridicolo o fuori luogo.
E ora vi auguro una buona lettura!

 
 

We all float down here
 
L’emporio di Bachman – soprannominato The Dark Tower - si trovava proprio di fronte alla parco principale della cittadina, un piccolo negozio d’antiquariato che fungeva anche da libreria.
Gli interni erano freddi e lugubri, avvolti nella penombra del pomeriggio. Sicuramente non accoglienti.
Il vecchio informatore fece subito accomodare l’Avenger su una vecchia poltrona rilegata in pelle e procedette ad offrirgli un bicchiere di Jack Daniel’s.
<< No, grazie, non bevo durante il giorno >> rifiutò educatamente il ragazzo.
Bachman sbuffò sprezzante.
<< I giovani d’oggi non dovrebbero essere quelli più ribelli? >> borbottò a se stesso, mentre afferrava una sedia impolverita e si metteva davanti a Peter. << Innanzitutto, vorrei sapere quanto sei effettivamente informato sulla storia di questa città >>
Il vigilante fece mente locale. Non aveva avuto molto tempo a disposizione per fare delle ricerche adeguate, ma era comunque preparato sull’argomento. << Beh, ho letto “la storia di Harpswell” prima di venire qui…>>
<< Lascia perdere quel tipo di libri, in questo posto non ce n'è uno che valga anche un solo centesimo >> lo interruppe Bachman, suscitando un’espressione confusa da parte del vigilante.
<< Allora da dove dovrei cominciare? >>
<< Cominciare con cosa? >>
<< Le ricerche storiche su questa zona. La comunità di Harpswell>> spiegò pazientemente l’Avenger.
Il vecchio rilasciò un sonoro sbuffo.<< Oh. Bene. Potresti cominciare con il Fricke e il Michaud. Si reputa che siano i migliori.>>
Peter annuì lentamente. << Capisco. E dopo aver letto quelli? >>
<< Letti? No, diavolo! Buttali via, bruciali…facci quello che vuoi, ma dimenticali! Questo è il primo passo >> rispose Bachman, sorprendendo il ragazzo una seconda volta. << L’Hanlon, quella sì che è roba buona. Mike Hanlon era un ricercatore maledettamente in gamba, ma quando si trattava di Harpswell…beh, aveva il cuore al posto giusto. Ha cannato quasi tutti i fatti, ma li ha cannati con sentimento. >>
Detto questo, arricciò le labbra incartapecorite in un sorriso, un'espressione di buonumore che era per la verità un po' inquietante. In quel momento sembrò un avvoltoio che monta soddisfatto la guardia a un animale appena ucciso, in attesa che raggiunga il grado giusto di succulenta decomposizione prima di cominciare a divorarlo.
Peter rimase in silenzio, come se stesse valutando attentamente quelle che sarebbero state le sue prossime parole. Dopo quasi un minuto buono, prese un respiro profondo e disse: << Harpspwell... questa città…non è…non è…>>
<< Non è cosa? >> chiese l’altro, con tono colmo d’anticipazione.
<< …non è normale, vero? >> continuò il ragazzo, scrutandolo con attenzione.
Bachman abbaiò una risata e procedette a scolarsi un altro bicchiere di Jack Daniel’s. << Alludi alle storie spiacevoli che potresti sentire da queste parti, o a quelle che già conosci? >>
Nei suoi occhi scintillò un’ astuta sagacia da vecchio volpone.
<< Sì…capisco perché giungeresti ad una simile conclusione. Harpswell non è sicuramente come le altre comunità del Maine. >>
<< E lei che cosa ne pensa? >> domandò Peter, visibilmente incuriosito.
Bachman scrollò le spalle con aria disinvolta.
 << Io penso che questa città sia posseduta >> fu la sua risposta concisa.
Gli occhi di Peter si spalancarono come piatti. Sì, quella non era decisamente la dichiarazione che si aspettava.
Di fronte a lui, il vecchio si limitò ad annuire con aria solenne.
<< Sì, è la reazione che ottengo ogni volta. Può un'intera città essere posseduta? Posseduta come si dice che lo siano certe abitazioni? >> borbottò quasi a se stesso. << Non una singola casa in quella città, o l'angolo di una determinata via, o un cimitero, ma intendo proprio tutto. La città nella sua interezza. È possibile? Io penso di sì! >>
Si alzò dalla poltrona e camminò fino ad una vecchia scrivania. Una volta lì, aprì il cassetto del mobile e cominciò ad estrarre una copiosa quantità di fascicoli rilegati.
<< Qui ad Harpswell tutto è possibile! >> continuò, mentre dava le spalle a Peter.
Afferrò uno dei fascicoli e lo porse tra le mani del vigilante, che cominciò a sfogliarne il contenuto. Apparentemente, si trattava di una serie di articoli storici riguardanti la città stessa.
<< Negli anni 60, un vecchio storico di nome Roland Ives aveva scritto una serie di articoli su Harpswell >> spiegò Bachman, mentre si risedeva sulla poltrona. << All'epoca in cui io diedi inizio alle mie ricerche, la gran parte degli anziani da lui interpellati erano già morti, ma c'erano figli, figlie, nipoti e cugini. Poi, com'è naturale, una delle grandi verità di questo mondo è la seguente: per ogni anziano che muore, c'è un nuovo anziano in formazione. E una buona storia non muore mai…no, viene semplicemente tramandata. >>
Arricciò le labbra in un sorriso quasi nostalgico.
<< Sedetti su innumerevoli verande e sui gradini d'ingresso. E ascoltai quasi trenta testimonianze! Ives e quelli che lo avevano preceduto erano perfettamente concordi su un punto: l'insediamento originario era stato di trecento persone di razza bianca, tutte inglesi. Avevano uno statuto ed erano ufficialmente conosciuti come la Harpswell Company, una società di pescatori. Il territorio a loro assegnato copriva la città odierna, gran parte della costa e piccoli settori forestali. E fu nell'anno 1741…che si verificò la scomparsa totale della comunità >> continuò, sorprendendo Peter. << I coloni erano tutti lì nel giugno di quell'anno, per un totale di trecentoquaranta anime, ma in ottobre non c'era più nessuno. Il piccolo villaggio di case di legno era deserto. Nella ricostruzione storica riconosciuta, si afferma che tutti gli abitanti furono massacrati dagli indiani, ma non c'è nessun indizio che avvalori questa teoria. Massacro indiano? Difficile, poichè non vennero ritrovati né cadaveri né ossa. Forse un alluvione? In quell’anno non ce ne fu nessuna degna di nota. Malattia? Nessuna traccia nelle comunità più vicine. Scomparvero senza una causa apparente…POOF! Tutte le trecentoquaranta persone, senza lasciare traccia. >>
Scosse la testa e buttò giù un altro bicchiere di alcol, il tutto mentre Peter ascoltava quel resoconto con uno sguardo rapito.
<< E mentre continuavo le mie ricerche, inziai a sentire cose sempre più strane. Circa vent’anni fa, un vecchio mi raccontò di come sua moglie avesse udito delle voci che le parlavano dallo scarico del lavello in cucina durante le tre settimane precedenti la morte della loro figliola, agli inizi della stagione invernale del 1985. «Un gran groviglio di voci, tutte che blateravano insieme», mi riferì. «Disse di aver risposto una volta, anche se era spaventata. Si è sporta sullo scarico e ci ha gridato dentro. 'Chi diavolo siete?' ha domandato. 'Come vi chiamate?' E tutte le voci le hanno risposto, almeno così mi ha detto. Grugniti e belati e balbettii e ululati e guaiti, grida e risa, un vero e proprio circo! E dicevano, secondo lei, la stessa identica cosa:”se verrai quaggiù, galleggerai anche tu”». Ma la vera scoperta avvenne solo qualche settimana dopo. >>
Detto questo, consegnò un altro fascicolo tra le mani di Peter, questa volta contenete una serie di grafici.
<< Guarda >> ordinò con voce ferma, indicando uno dei fogli. << Il tasso di omicidi ad Harpswell è sei volte superiore a quello di qualunque altra cittadina di analoghe dimensioni nel New England. All’inizio, le mie conclusioni preliminari su questi dati mi sembrarono così poco credibili da spingermi ad affidare fatti e cifre al bibliotecario del posto. Questo ragazzo si spinse parecchio più avanti, aggiungendo un'altra dozzina di cittadine a quello che definiva “il campione statistico” e presentandomi un grafico computerizzato nel quale Harpswell spiccava come un occhio nero. « Sembra proprio che la gente di qui abbia un bel caratteraccio, signor Bachman », è stato il suo solo commento. Non ho risposto. Se l'avessi fatto, avrei potuto ribattere che certamente qualcosa ad Harpswell ha veramente un brutto carattere. Dico sul serio! In questa città, i più giovani scompaiono nel nulla al ritmo di una cinquantina l'anno. Perlopiù sono adolescenti che vengono classificati come scappati di casa. Immagino che questa ipotesi sia valida per alcuni di loro…ma non per tutti. >>
Al sentire tali parole, Peter non potè fare a meno di deglutire a fatica.
La situazione era peggio di quanto avrebbe mai potuto immaginare. Da quanto tempo andava avanti questa storia? E perché il governo aveva scelto d’intervenire solo ora? Così tante domande, eppure ancora così poche risposte.
<< E poi, ovviamente…c’è il ciclo >> riprese Bachman, distogliendo il vigilante da quelle divagazione mentali.
Questi inarcò un sopracciglio e fissò confuso il vecchio.
 << Eh sì >>, bisbigliò l’uomo, quasi come se stesse per rivelargli un qualche tipo di segreto. << Io lo so. Ogni ventisei o ventisette anni. Molti anziani lo sanno, ma è uno di quegli argomenti di cui non parlerebbero, nemmeno se li riempissi di alcol.>>
Aprì un altro fascicolo, e lo aprì sulla prima pagina.
<< Nel 1852 una squadra di taglialegna trovò i resti di un'altra squadra che, bloccata dalla neve, aveva svernato in un campo sulle sponde dei Barren un punto in cui si riuniscono molti degli affluenti cittadini. Erano nove uomini in tutto, tutti e nove fatti a pezzi e macellati come maiali >> disse con quel suo sorriso da lupo, mentre Peter arricciava il volto in un’espressione disgustata. << Nel 1879, un uomo sterminò la famiglia avvelenandola. Poi, seduto al centro del cerchio dei congiunti assassinati, ingurgitò un intero bicchiere di veleno per topi. Fu un'agonia certamente dolorosissima, e l'agente che lo trovò scrisse nel suo rapporto che dapprincipio aveva creduto che il cadavere gli sorridesse come un pagliaccio. >>
Sfogliò alcune pagine e porse il fascicolo al vigilante, indicando un articolo ben preciso.
<< Questa è la mia preferita. La domenica di Pasqua del 1906 si tenne una caccia all'uovo di cioccolata in favore di ”tutti i bambini buoni di Harpswell”, che ebbe luogo nel vasto edificio delle ferrerie cittadine. Le zone pericolose furono sbarrate e alcuni dipendenti si assunsero gratuitamente l'incarico di allestire un servizio di sorveglianza per impedire a ragazzi troppo avventurosi di eludere gli sbarramenti e lanciarsi nell'esplorazione >> continuò con tono ironico. << La conclusione avvenne con tre quarti d'ora d'anticipo, alle tre e un quarto. Fu allora infatti che la ferriera esplose. Prima che tramontasse il sole, furono estratte dalle macerie settantadue salme, ma la conta finale arrivò fino a centodue.>>
Rilasciò un sonoro sospiro e si accasciò sullo schienale della poltrona.
<< E tutti questi eventi coincidono con gli anni in cui si verificò l’incremento delle sparizioni di bambini. Esattamente ogni 27 anni >> sussurrò, per poi riempirsi un altro bicchiere e berlo tutto d’un fiato.
Peter rimase in silenzio per quasi un minuto, valutando attentamente tutto quello che aveva appena sentito.
Prendendo un paio di respiri calmanti, volse a Bachman uno sguardo significativo. << Quindi questa…cosa…è come una cicala? Rimane dormiente per 27 anni, poi si sveglia e…e… >>
<< Si da alla pazza gioia con i bambini del posto. E a volte gli adulti, non è certo schizzinosa >> continuò il vecchio, mentre alzava gli occhi in direzione del soffitto.
L’Avenger lo seguì a ruota, sentendosi improvvisamente molto stanco. << Wow >>
<< Già >> borbottò l’altro, per poi porgere un bicchiere di Jack Daniel’s al ragazzo. E questa volta, il vigilante fu più che felice di accettare.
<< Perché nessun’altro se ne è accorto? Perché nessuno fa niente? >> chiese mentre buttava giù alcuni sorsi. << Una cosa del genere dovrebbe essere su tutti i giornali! >>
Bachman tornò a fissarlo.
<< Non è ovvio? Perché non voleva che altri sapessero. Il suo controllo sulla città è praticamente assoluto >> affermò con tono di fatto.
Peter annuì comprensivo. Si portò il bicchiere alle labbra…e si bloccò.
“ Aspetta un secondo…” sussurrò la sua mente, facendolo congelare sul posto. Al contempo, un ronzio familiare cominciò a farsi strada nel suo cervello.
ZZZZZZZZZZZZ
Sì, il suo senso di ragno stava decisamente vibrando. Era in pericolo.
Cercando di non sembrare allarmato, Peter volse all’uomo un sorriso nervoso.
<< Ma allora, come fai a sapere tutte…queste… >>
Si fermò, prima che potesse completare la frase. Perché andata era l’espressione allegra e maliziosa del vecchio, sostituita da uno sguardo molto più freddo.
E in quel preciso istante, alcuni tonfi risuonarono dal fondo dell’emporio. Un suono basso e ritmato che fece sobbalzare il vigilante. Un suono di passi.
<< Mi dispiace, ragazzo. Sono così dispiaciuto. Ma…il diavolo me lo ha fatto fare >> sospirò stancamente Bachman.
Peter si alzò di scatto dalla poltrona, mentre una figura ben distinta si fece strada fuori dalle ombre delle negozio. E non appena i suoi occhi si posarono sulle fattezze del nuovo arrivato…la mente del ragazzo cominciò a urlare.
Un cadavere aveva appena preso posto di fronte alla coppia. Un corpo secco e dalla pelle raggrinzita, con un paio di orbite vuote al posto degli occhi. Indossava un uniforme da soldato vietnamita ricoperta di vermi, mentre un denso liquido color pece gli colava dalla bocca.
Era un po’ più basso di Peter, circa un metro e cinquanta.
Al vigilante ricordò vagamente uno zombie fuoriuscito direttamente da film come “L’alba dei morti viventi”. Ma per Bachman, quello era il fantasma dell’unico bambino soldato che aveva ucciso durante la guerra in Vietnam, il cui volto raccapricciante aveva infestato i suoi incubi dal giorno in cui compì quel misfatto. Quella era la cosa che temeva di più al mondo.
L’uomo cominciò ad allontanarsi e si portò ambe le mani davanti al volto, quasi come se non potesse sopportare la vista della creatura deforme.
<< Ha bisogno che qualcuno tenga d’occhio le cose mentre dorme, capisci? Che lo tenga aggiornato. E in cambio io posso vivere senza la paura costante di essere ritrovato in un sacco della spazzatura. È una questione di domanda è offerta! >> piagnucolò disperatamente, accasciandosi a terra e raggomitolandosi in una palla tremante.
Distolse appena una mano, incontrando l’espressione tradita sul volto di Peter.
<< Oh, non guardarmi così. Non sono stato il primo ad aiutarlo, e non sarò certo l’ultimo. Ora corri, ragazzo. CORRI! >> gracchiò ad alta voce.
Il vigilante non ebbe bisogno di farselo ripetere due volte.
Al contempo, il cadavere lanciò urlo agghiacciante, ma Peter non si voltò per controllare se lo stesse inseguendo.
Uscì dal negozio e fu colto alla sprovvista da una luce abbagliante: le nubi si stavano aprendo e il sole caldo occhieggiava dal cielo, rendendo il prato straordinariamente verde e rigoglioso.
Peter provò un senso di leggerezza al cuore. Era come se in quell’emporio avesse lasciato un fardello insopportabile... poi esaminò l’area circostante, e il respiro gli si bloccò in gola.
A pochi metri da lui c’era il clown, splendente e sorridente come non mai.
<< Ti ho fatto paura, ragazzo mio? >> chiese il mostro con tono divertito.
Peter mantenne una posizione ferma.
<< Io non ho paura di te >> ringhiò freddamente.
Il pagliaccio sorrise e annuì come se non si fosse aspettato di meglio. Labbra rosse che colavano pittura si dischiusero a mostrare denti lunghi e appuntiti come zanne.
<< Potrei averti adesso, se volessi >> commentò. << Ma sarebbe un tale spreco! Nessuno vuole giocare con il clown, da queste parti. >>
Il sogghignò del pagliaccio si dilatò progressivamente.
<< Dai, gioca con me, Peter! Che ne dici di costruire un modellino di Star Trek? Quelli ti piacciono, non è vero? >> disse innocentemente, per poi alzare una mano in direzione del vigilante. << O potremmo giocare ad altro! Che cosa ne dici se punto il dito sullo stomaco e ti faccio venire un cancro al fegato? Oppure te lo punto alla testa e ti piazzo un bel tumore cerebrale. Potrei farlo, se ne avessi voglia. >>
I suoi occhi s'ingrandivano progressivamente. E in quelle pupille nere, Peter vide l’oscurità e si convinse che quella creatura era capace di quello e altro.
Il sorriso sul volto del clown sembrò allargarsi. Poi, schioccò le dita della mano destra.
Come dal nulla, un tavolino si materializzò in mezzo ai due, completo di servizio da tè. C’erano caraffe, tazzine di porcellana, e pure una tegliera contenente quelli che sembravano biscotti.
Peter spalancò gli occhi per la sorpresa e passò lo sguardo da quell’improvvisa apparizione al volto ghignante del pagliaccio.
Questi si limitò a roteare gli occhi.
<< Oh, suvvia, non fare quella faccia! Come ho già detto, se avessi voluto farti del male…beh, lo avrei già fatto >> dichiarò con tono di fatto. << Coraggio, mettiti comodo Spider-Boy. Siamo su un terreno neutrale. Niente doppi sensi, niente armi o sotterfugi, solo un paio di “non così buoni amici” che s’incontrano per il tè delle 5:00. >>
Nonostante le rassicurazioni del pagliaccio, tuttavia, l’Avenger continuò a fissare il tavolo con sospetto.
Pennywise inarcò un sopracciglio.
<< Perché così serio, Peter? Forse mi preferiresti in un’altra forma? >> chiese con tono apparentemente innocente. E in quel momento, l’aspetto del clown cominciò a cambiare sotto gli occhi del vigilante.
La sua figura si fece più corta e snella, i suoi lineamenti distintamente femminili, mentre i capelli divennero una cascata di fili dorati. Al contempo, l’abito vittoriano venne sostituita da una tuta rossa e blu molto familiare.
Peter sbattè le palpebre un paio di volte, rendendosi presto conto che la figura del pagliaccio era stata appena sostituita da quella di Carol Danvers.
<< Così va meglio? Non è proprio il mio genere, ma devo ammettere che ha tutte le curve nei punti giusti >> commentò il mutaforma con la voce della donna, mentre dava un’occhiata al suo nuovo aspetto.
Il sangue di Peter cominciò a bollirgli nelle vene.
Come osava questo…questo…mostro a prendere le sembianze della donna che amava? A contaminare la sua immagine per un qualche contorto senso del divertimento.
<< Smettila! >> ringhiò a denti stretti, facendo un passo minaccioso in avanti. Ormai, la sua paura era stata completamente sostituita da uno spiccato sentimento di rabbia.
La creatura, tuttavia, si limitò a scrollare le spalle con aria apparentemente disinvolta.
<< Come vuoi >> disse con quel suo intramontabile sorriso, per poi assumere ancora una volta le sembianze di un pagliaccio. << Innanzitutto, permettimi di presentarmi! Io sono Pennywise, il clown ballerino! Ma puoi anche chiamarmi Mister Bob Gray. >>
Fece di nuovo segno a Peter di sedersi.
Inizialmente il ragazzo fu assai tentato di rifiutare l’offerta, ma dubitava fortemente che quella cosa lo avrebbe lasciato andare. Inoltre, non aveva ancora fatto alcun tentativo di attaccarlo. Forse questa si sarebbe rivelata un’ottima occasione per ottenere informazioni sul nemico.
Fece come richiesto dal clown e diede una rapida occhiata ai suoi dintorni: il parco era diventato completamente deserto. Era come se Peter fosse stato improvvisamente catapultato in una città fantasma! Mancavano solo una fitta coltre di nebbia e qualche spirito urlante.
Apparentemente soddisfatto dalla scelta del giovane, Pennywise indicò una zuccheriera. << Latte o biscotti? Prego, non fare complimenti, è tutta roba biologica, naturale al 100%! So bene quanto la tua generazione sia fissata su certe cose. >>
<< Sono a posto >> rispose Peter con tono impassibile, cercando di mantenere i nervi saldi. Dio, questa situazione era a dir poco surreale.
Il clown si strinse nelle spalle.
<< A ognuno il suo. Tanto meglio, ce ne sarà di più per me! >> esclamò con tono gioviale, mentre si portava una tazzina alle labbra. Fatto questo, rilasciò un sospiro esagerato.
 << Aaaaaah! Niente di meglio di un po’ di sangue di bambino per stimolare la circolazione >> disse con un ghigno rivolto a Peter.
Il volto dell’adolescente divenne improvvisamente pallido. La reazione sembrò divertire il pagliaccio, che scoppiò in una sonora risata.
<< AH AH! Sto scherzando, ragazzo mio, solo scherzando! Ecco, vedi? >> disse mentre gli mostrava l’interno della tazzina. << Bianco e lucido come il culetto di un neonato. Stavo solo cercando di sdrammatizzare la situazione. Perdona questo vecchio clown, a volte sono proprio incorreggibile. >>
<< Tu non sei un clown >> affermò Peter, scrutandolo con disgusto a mala pena celato.
Pennywise battè ambe le mani in un paio di sonori rintocchi. << Date un premio al detective! >>
<< Penso che tu sia nemmeno umano >>  continuò l’Avenger. << Sei un demone? O forse un alieno? >>
La creatura si portò un dito sotto il mento, come se stesse rimuginando sulla questione.
<< Un po’ dell’uno e un po’ dell’altro, suppongo. O nessuno dei due. A grandi linee, dipende dai punti di vista >> disse dopo qualche attimo di silenzio. << Posso dirti che non sono di queste parti, ma sono cresciuto qui. Ormai mi considero un nativo. Potrei recitarti la Costituzione a memoria. >>
Peter deglutì a fatica, archiviando quelle informazioni per uso futuro. Se questa creatura faceva davvero parte del mondo dell’occulto…probabilmente sarebbe stato necessario chiedere l’aiuto di Strange.
<< Da dove vieni? >> chiese con tono apparentemente disinvolto.
<< Dallo spazio tra gli spazi >> rispose il clown, confondendo il vigilante.<< Non soffermarti troppo sulla questione, giovanotto. Credimi, non finirebbe bene per il tuo cervello. >>
E, dopo aver pronunciato tali parole, battè le mani una seconda volta. << Ma ora passiamo agli affari! Dunque, la prima cosa che volevo fare…era porgerti le mie scuse. >>
Per un attimo, Peter credette di aver sentito male.
<< S-scuse!? >> balbettò incredulo, ricevendo un cenno del capo da parte del pagliaccio.
<< Oh, assolutamente! Vedi, sono il primo ad ammettere che potrei essere stato un po’ troppo precipitoso nelle mie ultime azioni. >>
<< Troppo…precipitoso? Hai quasi ucciso il fratello di Carol! >> esclamò l’Avenger, il cui volto aveva ora assunto un’espressione che rasentava la collera più pura.
Pennywise rilasciò un sonoro sbuffo.
<< Devi vederla dalla mia prospettiva, ragazzino. Siete entrati nel mio frigorifero e avete cominciato a mettere le vostre sporche mani dappertutto senza nemmeno chiedermi il permesso. Per non parlare della vostra deplorevole interruzione della mia ultima cena domenicale. Non si fanno certe cose, no, no! >> disse con il suo tono di voce cantilenante.
Peter strinse le mani in pugni serrati, facendo appello ad ogni oncia di forza che aveva in corpo per non attaccare quel mostro seduta stante.
<< Cena…domenicale? Stavi per assassinare un bambino! >> sibilò a denti stretti.
Pennywise schioccò la lingua con aria infastidita.
<< Assassinare? Che brutta parola >> borbottò quasi a se stesso. << È offensivo, ridicolo e falso. Io mangio per sopravvivere, tutto qui. E voi umani fate esattamente la stessa cosa, quando macellate i maiali o le mucche. Ecco, voi per me questo siete: bestiame. >>
<< Stai mentendo >> sbottò Peter, sorprendendo il pagliaccio. << La tua capacità di somigliare a qualcuno che non sei – o a qualcosa che non sei – ti garantisce la fiducia della gente. Avresti potuto scegliere molte altre persone…Invece, scegli quasi sempre i bambini.>>
La creatura si limitò a roteare gli occhi.
<< Sono il cibo più forte e più saporito! Non hai mai mangiato una fettina di vitella? O il fegato? Ecco, il concetto è più o meno lo stesso. >> affermò con tono di fatto.
Peter tornò a fissarlo con sospetto. << Che intendi con “più o meno”? >>
<< La carne non è certo quello di cui mi nutro >> rispose Pennywise con voce paziente. Sembrava quasi un insegnante che stava cercando di spiegare qualcosa di molto complicato ad un bambino particolarmente stupido.
Indicò se stesso e riprese:  << Quello che vedi davanti a te non è un corpo umano. Non possiede organi che hanno bisogno di proteine o sostentamento, è vuoto. Un semplice guscio che uso per spostarmi alla luce del giorno. >>
La mente di Peter sembrò bloccarsi. Questo…non era il suo corpo? Era solo un qualche tipo di proiezione? Ma durante il loro scontro era sembrato così reale!
Non per la prima volta da quando era iniziata quell’insolita conversazione, il vigilante si domandò quanto fosse realmente potente la creatura che aveva di fronte.
<< Io mi nutro delle loro anime…no, non è il termine corretto…forse “menti” è più appropriato >> continuò Pennywise, ignorando i pensieri dell’Avenger. << Io mi nutro delle loro paure. Delle loro ansie. Del loro dolore. Delle perdite, delle nascite, della gioia…tutto ciò di cui sono fatti. E i bambini sono anche quelli con le emozioni più forti. >>
<< Quindi i più saporiti >> completò Peter, con tono sconsolato.
Il pagliaccio lo indicò con un sorriso estatico.
<< Bingo! È piuttosto facile entrare nelle loro teste ed imitare i loro pensieri, specialmente le loro paure >> disse con un’altra scrollata di spalle.
Gli occhi del vigilante parvero illuminarsi di comprensione.
<< Come con Bachman. È così che lo controlli, non è vero? Prendendo la forma della sua paura >> sussurrò, mentre Pennywise prese a fissarlo con vivo interesse.
<< Sei molto intelligente, ragazzino. Dimmi, hai già incontrati altri esseri come me? >> chiese con un’inclinazione della testa. All’Avenger ricordò un gatto intento ad osservare qualcosa di bizzarro e invitante al tempo stesso: un nuovo tipo di preda.
Ignorando il brivido che gli attraversò la spina dorsale, prese un respiro profondo e disse:  << Non esattamente…ma ho familiarità con situazioni fuori dall’ordinario. >>
“ L’eufemismo del secolo” aggiunge mentalmente, pensando a tutte le cose folli di cui era stato testimone negli ultimi 8 anni.
Pennywise lo soppesò con lo sguardo per quasi un minuto buono.
Ancora una volta, il vigilante si ritrovò ad annegare nei pozzi gialli che aveva per occhi. Sembrava quasi che quel mostro stesse scrutando direttamente nella sua anima per carpirne i segreti più nascosto.
Se possibile, il sorriso grottesco sul volto del clown si fece più grande.
<< Splendido, assolutamente splendido! Ora capisco tutto. Sapevo che tu e la tua amichetta non foste umani ordinari! >> esclamò con tono gioviale. << Impedire la cancellazione dell’universo? Applaudo la vostra perseveranza! Inoltre, penso che dovrei ringraziarvi per aver fatto la guardia al mio mattatoio personale. Bravo cagnolino! >>
Il corpo di Peter si bloccò, mentre una realizzazione terrificante cominciò a farsi strada nel suo cervello. Gli aveva…gli aveva appena letto la mente?
<< Stai fuori dalla mia testa! >> sibilò a denti stretti. Si pentì all’istante di una simile azione.
Pennywise perse il suo sorriso e cominciò a fissare il ragazzo con un’espressione fredda e impassibile. Dio, sembrava ancora più spaventoso.
E in quel momento, Peter si sentì come un canarino di fronte ad un leone che non mangiava da giorni.
<< Hai una percezione esagerata della tua importanza >> disse il clown, dopo qualche attimo di silenzio. << Per uno come me, uno come te è…beh, immagina come ti sentiresti se un batterio si sedesse al tuo tavolo e cominciasse a infastidirti. >>
L’Avenger fu assai tentato di controbattere…ma si ritrovò incapace di farlo. Era letteralmente terrorizzato, non poteva nemmeno aprire bocca.
<< Questo è un piccolissimo pianeta. In un piccolissimo sistema solare…in una galassia che ha appena cominciato a usare i pannolini. Come avrai sicuramente capito, sono vecchio. Sono MOLTO vecchio. Quindi ti invito a contemplare l’idea di quanto io possa trovarti insignificante >> continuò la creatura, indicandolo.
Peter deglutì a fatica.
<< Allora perché sono seduto qui con te? Che cosa vuoi? >> domandò con esitazione.
Pennywise si limitò a scrollare le spalle una terza volta.
<< Un fastidio è pur sempre un fastidio. E non mi piace essere infastidito mentre mangio >> affermò senza vergogna, come se stesse solo discutendo del tempo. << Quindi offrirò a te e alla tua amica un accordo. Lasciate che finisca di riempire la dispensa…e vi lascerò in pace.>>
Il cuore di Peter mancò un battito.
<< Cosa? >> borbottò incredulo, ricevendo un ghigno agghiacciante da parte del clown.
<< Mi hai capito bene, bozo. Prenderò qualche altro bambino, prima di fare il mio lungo riposo. E voi potrete andarvene da questa città senza problemi e continuare a vivere, crescere, prosperare e godervi le vostre vite felici…fino a quando la vecchiaia non vi riporterà sottoterra. >> terminò con una voce molto più cavernosa, mostrando appena le grosse zanne che teneva nascoste dietro a quelle labbra rosso sangue.
Peter rimase in silenzio, fissando il clown per quello che sembrò un tempo interminabile.
Deglutì a fatica…e prese un respiro profondo. C’era solo una risposta che poteva dare di fronte ad un’offerta simile.
<< No >> disse freddamente, suscitando un guizzò di sorpresa nell’espressione del pagliaccio. << Non ti permetterò di fare del male a nessun altro. Puoi dire tutto quello che vuoi. Che per te siamo solo insetti, che fai quello che fai semplicemente per sopravvivere…io non me la bevo. Il modo con cui ridevi mentre quel bambino urlava terrorizzato…il tuo sorriso…tu…tu ti stavi godendo quel momento. >>
Strinse i pugni e si alzò di scatto, facendo cadere la sedia dietro di sé. << Tu provi piacere nel causare dolore, non è così? È vero, non ho mai incontrato un essere come te…ma so bene che cosa sei: un mostro. E per questo motivo…devi essere fermato. >>
Sì, non avrebbe mai potuto voltare le spalle ad una situazione del genere. Non era così che i suoi zii lo avevano cresciuto…e quello non era certo il tipo di persona che voleva diventare. Il tipo che guardava dall’altra parte, ignorando la sofferenza degli altri. E in cuor suo, sapeva che nemmeno Carol avrebbe mai permesso che quegli atti orribili continuassero indisrurbati.
La reazione del clown, tuttavia, non fu quella che si aspettava.
Pennywise cominciò a ridere. Prima lentamente, poi sempre più forte, fino a quando i suoi schiamazzi non riecheggiarono per tutta la lunghezza della piazza.
Dopo quasi un minuto buono, volse al ragazzo il suo terrificante sorriso.
<< Tu pensi di conoscermi? Ah! Non hai mai visto niente come me >> ringhiò attraverso le zanne. Al contempo, la figura del clown sembrò farsi più grande, quasi come se si stesse gonfiando.
Peter compì un passo all’indietro, mentre l’ombra del mostro cominciò a sovrastarlo.
 << Io sono l’Alpha e l’Omega. Sono il superpredatore tra i superpredatori! Io sono un divoratore di mondi e di bambini, eterno e immortale! >> esclamò il pagliaccio, accompagnato dal suono di tuoni e lampi. Pure il sole era sparito, ora coperta da cupe nubi cariche di pioggia.
Poi, la creatura indicò Peter, e questi si sentì scaraventato a terra da una forza invisibile.
<< E tu sei solo un ragazzino…con una maschera >> terminò, con gli occhi gialli che risplendevano nell’oscurità portato dall’imminente tempesta.
Vi fu un lampo improvviso e l’immensa figura del clown scomparve dalla piazza, come se non fosse mai stata lì in primo luogo. Il sole tornò a risplendere sulla cittadina di Harspwell.
Il parco, che fino a pochi minuti fa sembrava completamente deserto, tornò a riempirsi di persone.
Peter rimase fermo e immobile, steso a terra, incapace di muovere anche solo un muscolo. Il suo corpo stava tremando, pervaso da un incontrollabile senso di terrore.
Poi, lentamente, l’adolescente si alzò e cominciò a camminare. Sembrava quasi che fosse sul pilota automatico, non si fermò neppure quando colpì per errore la spalla di un passante e questi gli rifilò una sonora imprecazione.
Continuò a camminare con uno sguardo vuoto, fino a quando non si ritrovò di fronte a casa Danvers.
Fece per avviarsi verso il portico. Ma prima che potesse farlo, intravide la figura di Carol che attraversava i giardini dell’abitazione, diretta verso di lui.
Aveva lo sguardo abbassato a terra e le mani strette in pugni serrati.
Alzò la testa…e i suoi occhi incontrarono quelli di Peter, allargandosi appena per la sorpresa.
Entrambi gli Avengers rimasero semplicemente a fissarsi, come se fossero bloccati nel tempo.
Dopo quasi un minuto buono, Carol si avvicinò al ragazzo…e lo abbracciò. Peter non tentò nemmeno di allontanarsi e restituì il gesto. La strinse a sé con forza, bisognoso di sentire il calore familiare del suo corpo contro il proprio.
Poi, entrambi cominciarono a piangere. Era stata davvero una lunga giornata.
 
 
 
 
Boom!
Spero che vi sia piaciuto. Ho lavorato molto sul dialogo tra IT e Peter, spero di averlo reso grottesco e surreale al tempo stesso, con un pizzico di dark humor alla Pennywise.
Spero che qualcuno abbia colto la citazione a Supernatural.
Nel prossimo capitolo…torna il Predator! E avremo una bella rivelazione ;)
 

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Capitolo 9
*** The predator ***


Eccovi un nuovo capitolo! Senza perdere tempo in convenevoli, vi auguro una buona lettura.
 


The predator
 
Peter e Carol erano sdraiati nel giardino di casa Danvers, i loro occhi puntati in direzione della volte celeste che si stagliava sopra di loro come una distesa oceanica.
La coppia di Avengers si lasciò cullare dall’odore di erba e salsedine mischiati assieme, dimenticando per un attimo ogni preoccupazione. Non durò a lungo.
Carol prese un respiro profondo, interrompendo la quiete di quel momento apparentemente idillaico. << Quindi, ricapitolando…un’entità maligna che vive da secoli nella mia città si sveglia ogni 27 anni per uccidere bambini >>
<< Già >> rispose Peter, visibilmente stanco.
La donna annuì contemplativa. << E questa…cosa…ha una sorta di controllo mentale esteso su tutti gli abitanti di Harpswell, motivo per cui nessuno si è mai preoccupato di denunciare la situazione >>
<< Praticamente. Se non fosse stato per quella coppia di turisti…beh… >>
La frase “ chissà per quanto altro tempo sarebbe andata avanti questa storia” aleggiò tra loro come un monito silenzioso, facendoli rabbrividire entrambi.
Carol abbaiò una risata incredula.
<< Incredibile >> borbottò quasi a se stessa. << Voglio dire…ho vissuto qui per quasi diciassette anni! Sembrava un posto assolutamente normale. >>
<< Non penso si sia mai svegliato mentre eri qui >> disse Peter, un’affermazione basata su un calcolo approssimativo delle date che Bachman gli aveva fornito durante la loro conversazione.  << Sei stata fortunata >>
<< Oggi mi sento tutt’altro che fortunata >> sospirò stancamente la supereroina.
Il vigilante prese a scrutarla con simpatia.
Carol gli aveva spiegato quello che aveva scoperto durante la sua ispezione della camera di Joe Junior: suo padre aveva avuto una storia segreta con un’altra donna. E, a quanto pare, sua madre ne era sempre stata consapevole.
Internamente, non poteva davvero immaginare come si sentisse dopo una simile rivelazione.
Magari triste e confusa…sicuramente arrabbiata.
<< Hai intenzione di parlarle ? >> chiese dopo qualche attimo di silenzio.
Carol sembrò valutare attentamente quella domanda.
<< Alla fine >> rispose con una scrollata di spalle. << Ma prima dobbiamo occuparci della missione. >>
Detto questo, si alzò da terra con un balzo, venendo rapidamente imitata dal compagno di squadra.
Si voltò verso di lui con un’espressione seria.
<< È evidente che questa creatura possiede capacità di alterazione della realtà piuttosto elevate…ed è praticamente immune ai danni fisici >> continuò con tono di fatto. << Dobbiamo assolutamente chiedere aiuto a Strange. >>
<< Sarà sicuramente più preparato di noi >> confermò Peter, annuendo in accordo.
Era la linea d’azione più sicura. Dopotutto, entità maligne e poteri magici non rientravano certo nella loro area di competenza.
In quel preciso istante, un suono acuto e ritmato cominciò a riecheggiare per tutta la lunghezza del proprietà. Sembrava quasi un allarme antincendio.
<< Che diavolo succede? >> domandò Peter, mentre cercava di capire da dove provenisse quella cacofonia. Non aveva avuto modo di esplorare l’abitazione nel dettaglio, ma era abbastanza sicuro di non aver visto alcun sistema antincendio.
Senza perdere tempo, Carol si lanciò dentro casa e cominciò a seguire il suono, rapidamente affiancata dal vigilante.
La coppia di Avengers salì fino alla camera di Joe Junior, dove trovarono Marie Danvers intenta ad armeggiare con il disco rigido Kree che Carol aveva trovato quella mattina.
<< Mamma? Che diavolo sta succedendo? >> chiese la bionda, attirando l’attenzione del genitore.
Mary ringhiò e sbattè il dispositivo contro il muro della stanza. << È questo dannato aggeggio. Non dovrebbe essere qui! >>
Sia Carol che Peter si guardarono l’un l’altra con espressioni incerte.
<< Io…l’ho trovato nel ripostiglio della camera di Joe >> spiegò la donna. << Penso che fosse di papà… >>
<< Non era suo. Non so nemmeno perché lo tenesse >> borbottò Marie, mentre continuava a sbatterlo contro il muro. << Io…non posso…era un’altra vita… >>
<< Wow, mamma, calmati! >> disse la figlia, avvicinandosi a lei e strappandole il disco dalle mani.
Aprì la finestra della camera. << Ecco, ora ce ne sbarazziamo >>
E, detto questo, lanciò l’oggetto direttamente nel canale che confinava con la proprietà.
Mary rilasciò un sospiro apparentemente sollevato e si appoggiò alla parete, portandosi una mano alla bocca per trattenere un singhiozzo.
La figlia la scrutò attentamente e le posò una mano sulla spalla, nel tentativo di rassicurarla. << Mamma, stai… >>
<< Sto bene >> ribattè l’altra, allontanando il braccio dell’Avenger e fuoriuscendo dalla stanza.
Carol schioccò la lingua e la seguì a ruota, accompagnata da Peter.
<< No, non è vero! >> le urlò dietro. Ma Marie non diede alcun segno di volerla ascoltare e uscì in giardino, camminando fino al bordo del canale.
Carol si fermò accanto a lei.
<< Possiamo parlare di quello che è appena successo? >> chiese dopo qualche attimo di silenzio.
Il genitori si girò a guardarla e passò brevemente gli occhi da lei a Peter.
<< Da sole >> rispose freddamente.
La figlia annuì in accordo e lanciò al compagno supereroe un sorriso imbarazzato.
<< Peter, puoi darci un secondo? >> disse con tono di scusa.
Il vigilante sospirò rassegnato.
<< Certo >> borbottò, per poi allontanarsi dalla coppia e sedersi sul portico dell’abitazione.
Le due donne rimasero in silenzio per quasi un minuto buono, ammirando il sole che cominciava a scomparire dietro l’orizzonte dell’oceano.
Quando quel lasso di tempo giunse al termine, Carol si fece forza e prese un respiro profondo. << Allora.. che cosa ci faceva un disco rigido Kree tra le cose di papà? >>
<< Carol, ciò che voglio dirti non riguarda quell’affare >> rispose Marie, sorprendendo la bionda. << È ora che tu conosca la verità >>
Si voltò verso di lei, dandole la sua più totale attenzione.  << Io e Joe…siamo stati un incidente, più che altro >>
<< Odio gli incidenti >> disse Carol, mentre una sensazione spiacevole cominciò a farsi strada dentro di lei.
Mary arricciò ambe le labbra in un sorriso triste. << Questo lo so, Carol. Ma vedi…anche la cosa migliore che mi sia mai capitata è stata un incidente. >>
TUNG!
Una mano fantasma sembrò avvolgere il cuore della bionda come una morsa.
Mantenne un’espressione impassibile, ma nella sua mente cominciò a infuriare una tempesta di sensazioni. Sorpresa, rabbia, dolore…rassegnazione. Le arrivarono tutte in una volta, come un uragano.
<< Decidemmo di essere felici >> riprese la madre. << Di scegliere la vita che volevamo avere…nel bene e nel male >>
<< Hai scelto il male, mamma >>
<< Ho scelto la nostra famiglia >> ribattè Marie, con uno sguardo duro.
Carol strinse le mani in pugni serrati e sibilò: << Non ci avresti perso andandotene, mamma. Hai fatto male a restare >>
<< Ero troppo orgogliosa >> ammise il genitore, ridacchiando amaramente. << Pensavo di poterlo salvare. È difficile da immaginare, ma ci fu un tempo in cui mi sentivo…potente come te, Carol. >>
Ma in quel momento, la figlia non si sentiva molto potente. In realtà, a ogni parola le veniva sempre più difficile respirare.
Non riusciva più a fingere. Dentro di lei stava salendo una grande disperazione, un’onda incontrollabile che minacciava d’inghiottirla. E per un attimo, Carol fu assai tentata di permetterglielo.
Ma non ne ebbe la possibilità.
Uno strano ronzio attirò la sua attenzione. Alzò lo sguardo, rapidamente seguita dalla madre.
Con loro grande sorpresa, gli occhi delle due donna si posarono su quella che  aveva tutta l’aria di essere una sfera argentata fluttuante, poco più grande di un pallone da calcio. Era sospesa a circa cinque metri sopra le loro testa e sembrava quasi che le stesse fissando attraverso un unico occhio fosforescente.
Carol inarcò un sopracciglio.
<< Ma che diavolo… >>
Prima che potesse completare la frase, lo strano oggetto cominciò a illuminarsi di un intenso bagliore azzurro. E il ronzio crebbe con esso.
La bionda ebbe appena il tempo di capire cosa sarebbe successo di lì a poco. Anni di esperienza con questo tipo di situazioni l’avevano resa molto paranoica.
 << Attenta! >> esclamò, afferrando la madre e lanciandosi in volo, mentre dall’occhio della sfera fuoriusciva un raggio color turchese.
Il proiettile di pura energia colpì in pieno il punto in cui Carol e Marie erano state fino ad un secondo prima, proiettando in aria ammassi di terriccio e generando una colonna di fiamme alta diversi metri.
Carol atterrò sul prato di casa, lasciò andare la madre e si voltò in direzione dell’oggetto.
La sfera fluttuò verso di lei, illuminata ancora una volta da quel bagliore azzurro. Tuttavia, poco prima che potesse sparare, qualcosa la colpì a mezz’aria. L’intelligenza artificiale che la controllava reagì all’istante, volgendo la propria attenzione nei confronti della potenziale minaccia.
<< Ehi! Ehi, tu, specie di transformers! >> gridò Peter, che aveva un braccio teso in direzione della macchina e armato con un lancia ragnatele. << Non ti hanno insegnato che non bisognerebbe mai colpire una signora? >>
In tutta risposta, la sfera si limitò a generare un raggio di pura energia che puntò direttamente verso il vigilante. Questi evitò l’attacco con una rapida capriola all’indietro, degna di un campione olimpico.
<< Mancato! >> disse con un sorriso, mentre atterrava con grazia sull’erba del giardino. Tale espressione, però, ebbe vita assai breve.
Dopo aver posato gli occhi sulla sfera, Peter si rese presto conto che ora l’oggetto era affiancato da almeno altri venti corpi fluttuanti tali quali alla macchina che aveva appena tentato di ridurlo ad un croccante.
<< Oh, cavoli >> borbottò il vigilante, mentre le varie sfere cominciarono a illuminarsi di un familiare bagliore azzurro. Per sua fortuna, non ebbero la possibilità di sparare.
Un lampo di luce bianca illuminò il giardino. Appena una frazione di secondi dopo, tre di quegli oggetti esplosero a mezz’aria, riversando cocci di metallo e cavi sul terreno erboso.
Peter si voltò di scatto e il suo sguardo incontrò l’espressione agguerrita di Carol, vestita con la sua uniforme di Capitan Marvel.
<< Mamma, prendi Joe e portalo via di qui >> ordinò freddamente.
Prima che Marie potesse argomentare, la figlia compì un balzo e atterrò affianco a Peter, proprio di fronte allo sciame di sfere.
<< Cosa diavolo sono queste cose? >> domandò il vigilante, imitando la compagna e assumendo una posizione pronta per il combattimento imminente.
Carol gli lanciò un ghignò divertito. << Intendi i transformers in miniatura? >>
<< Ehi, è da un po’ che non invento soprannomi arguti mentre combatto, sono fuori allenamento >> ribattè l’altro, con una giocosa scrollata di spalle.
L’espressione sul volto della bionda si fece molto più seria.
<< Posso solo dirti che il livello di tecnologia è di gran lunga superiore a qualunque cosa che potresti trovare sulla terra >> affermò con tono di fatto.
Al contempo, la mente della donna cominciò a correre come un treno.
Che fosse tecnologia Kree? Una cella ribelle che voleva vendicarsi di colei che aveva fermato la campagna espansionista della loro civiltà? Non era certo la prima volta che Carol aveva a che fare con membri radicali di quella razza. I suoi scontri con Ronan e gli ex membri della sua vecchia squadra erano solo alcuni dei molti nomi che avevano cercato di farla fuori nel corso degli ultimi trent’anni.
<< Droni alieni? Ok, devo ammettere che è molto figo >> disse Peter, interrompendo le sue divagazioni.
E fu in quel momento che le varie sfere cominciarono a sparare in contemporanea.
 << Meno figo! Meno figo! >> urlò il vigilante, mentre faceva del suo meglio per evitare i colpi. Al contempo, Carol iniziò a bersagliare gli oggetti con raggi di energia cosmica.
In pochi secondi, la zona rurale di Harpswell si era trasformata in un vero e proprio campo di battaglia.
Per un attimo, a Peter sembrò di essere tornato indietro nel tempo, durante la contesa finale contro Thanos. Esplosioni, cenere e pezzi di terreno vaganti, fuoco e fiamme. Anche se, a pensarci bene, una simile scaramuccia non era certo paragonabile allo scontro titanico avvenuto circa quattro anni fa.
L’adolescente utilizzò ogni risorsa a propria disposizione per liberarsi delle sfere, lanciando qualunque roccia o oggetto che gli capitasse a tiro, oppure usando le proprie ragnatele per intrappolarle. Dopo quasi due minuti buoni, era riuscito a distruggerne almeno la metà.
A pochi metri da lui, anche Carol se la stava cavando piuttosto bene. Nonostante i raggi emanati dalle sfere fossero potenti, infatti, per una come lei erano poco più che un fastidio.
Ne incassò la maggior parte, convertendoli in energia da riutilizzare contro gli oggetti in veri e propri ritorni di fiamma. La situazione stava volgendo a vantaggio della coppia di Avengers.
All’improvviso, Una sfocatura attraversò il campo visivo della donna.
Inizialmente, Carol pensò che potesse trattarsi di un’altra sfera e si preparò a colpirla. Ma quando alzò le mani…niente. Non c’era assolutamente niente affianco a lei.
L’Avenger abbassò lentamente le mani. Che se lo fosse immaginata?
Poi, l’aria di fronte sembrò prendere vita.
“ Ma che…” fu tutto quello che la bionda riuscì a pensare, mentre “qualcosa” la colpiva direttamente allo stomaco, spedendola contro il muro esterno di Casa Danvers.
Il corpo di Carol attraversò la parete come se fosse carta pesta, riversando schegge e pezzi di calcestruzzo nell’area circostante.
<< Carol! >> esclamò Peter, voltandosi verso di lei e preparandosi a darle man forte.
E fu in quel momento che una grossa figura si materializzò come dal nulla tra il vigilante e il buco appena aperto nell’abitazione.
L’Avenger si bloccò di colpo e fissò il nuovo arrivato con un’espressione scioccata.
La creatura appena apparsa era molto alta e dalla corporatura umanoide.
Aveva un fisico muscoloso e indossava una sorta di bizzarra armatura, un mix di tecnologia dall’aria futuristica mischiata con oggetti di natura tribale, di cui spiccava uno strano bracciale collegato al braccio destro e ad una spalliera.
Sul volto poggiava una maschera dalla superficie liscia e levigata, a immagine e somiglianza di un muso tozzo e schiacciato, con un paio di fessure luminose al posto degli occhi.
Mentre il vigilante era impegnato ad analizzare la minaccia, Carol emise un gemito e si alzò da terra. Ebbe appena la possibilità d’inquadrare le fattezze del suo nuovo avversario.
Con un movimento fulmineo, Cetanu alzò il braccio destro e lo puntò verso la donna. Dal bracciale fuoriuscì qualcosa che avvolse interamente la figura di Carol, spedendola contro la parete opposta della stanza a causa del contraccolpo subito.
La supereroina si rese presto conto di essere stata intrappolata da una rete. Una molto resistente, a giudicare dal fatto che non riuscì a romperla con un semplice movimento delle mani.
Al contrario, la gabbia metallica – perché Carol era sicura che fosse realizzata con un qualche tipo di metallo – cominciò a stringersi attorno a lei.
Non che la cosa le provocò dolore. Dopotutto, la sua struttura biologica era abbastanza resistente da permetterle di attraversare lo scafo di una nave aliena da parte a parte senza subire il minimo danno. Tuttavia, si ritrovò comunque incapace di muoversi.
Di fronte a lei, lo Yautja estrasse un cilindro di medie dimensioni dalla cintura che aveva sul fianco e, dopo aver cliccato un pulsante al centro dell’oggetto, questi si protrasse per formare una lancia dalle punti aguzze.
Carol spalancò gli occhi, mentre la creatura issava l’arma a mezz’aria e si preparava a colpirla. Non ne ebbe la possibilità.
Una scrivania si scontrò con la schiena dell’alieno, facendolo incespicare in avanti.
<< Ehi, ragazzone, vuoi ballare? >> chiese Peter con tono di sfida, attirando l’attenzione del mostro.
Questi inclinò appena la testa di lato e lo scrutò attentamente, come se stesse cercando di valutare i suoi punti di forza. Poi, una luce scarlatta partì dalla spalla destra dell’essere e tre puntini rossi si materializzarono sul petto del vigilante. Al contempo, uno strano cilindrò si drizzò dalla spalla della creatura, producendo un sibilo metallico.
<< Vuoi ballare? >> disse all’improvviso lo Yaujta, utilizzando la stessa voce di Peter.
L’adolescente lo fissò sorpreso. << Ehi, l’ho chiesto prima io… >>
Prima che potesse finire la frase, un proiettile di luce azzurra partì dalla bocca del cilindro. Fu solo grazie al suo senso di ragno che Peter riuscì a evitare il colpo.
L’attacco, quale che fosse l’energia di cui era composto, fu però abbastanza forte da generare un esplosione che sbalzò il vigilante dritto contro il muro opposto della stanza.
<< Ouch >> borbottò l’Avenger, mentre tentava di rialzarsi.
Nel mentre, l’alieno camminò verso di lui e lo afferrò per il collo, issandolo al livello del volto e scrutandolo attraverso le lenti trasparenti che aveva al posto degli occhi.
Peter tentò di parlare, ma la presa della creatura era troppo forte e gli impediva di respira. Cercò di calciarlo, ma senza successo. Qualunque cosa fosse quel mostro…era molto resistente, abbastanza da subire senza problemi colpi che avrebbero mandato all’ospedale un uomo normale.
All’improvviso, un’esplosione di luce illuminò gli interni dell’abitazione.
Sia Peter che lo Yautja volsero lo sguardo in direzione del punto da cui era partito il bagliore. Carol Danvers era riuscita a liberarsi dalla rete e ora si ergeva in piedi alte e fiera, avvolta da uno strato di energia cosmica.
L’alieno non ebbe nemmeno il tempo di reagire. La bionda balzò in avanti e lo investì con la forza di un treno in corsa, mandandolo fuori dalla casa e facendolo rotolare per diversi metri sul giardino dell’abitazione.
Fatto questo, Carol atterrò sopra di lui con forza, sollevando una densa nube di polveri e detriti.
<< Non so chi tu sia…ma hai appena commesso l’errore più grande della tua vita! >> ringhiò a denti stretti, mentre alzava il braccio destro e si preparava a colpire l’avversario con un raggio di energia.
Purtroppo, l’alieno non aveva alcuna intenzione di subire senza combattere. Il piccolo cannone che aveva sulla spalla puntò verso la testa della supereroina e sparò un colpo.
La bionda incespicò all’indietro con un sibilo, provata dall’attacco inaspettato ma per lo più indenne.
Nello stesso istante, Cetanu si alzò da terra con un balzo e ruggì verso la donna, mentre un paio di lame affilate fuoriuscivano dal bracciale che aveva attaccato al polso.
Entrambi i combattenti si squadrarono a vicenda. La tensione nell’aria era così fitta da poter essere quasi tagliata con un coltello, interrotta solo occasionalmente dai bizzarri ticchetti dell’alieno.
E dopo quello che sembrò un tempo interminabile…sia l’Avenger che lo Yautja caricarono in avanti.
L’extraterrestre menò un rapido fendente della mano, tentando d’infilzare l’avversaria. Carol fu però rapida ad evitare il colpo e affondò un pugno nel suo stomaco, facendolo indietreggiare.
Tentò un secondo affondo, ma questa volta Cetanu riuscì ad afferrare la mano a mezz’aria. Tirò la supereroina verso di sé e la colpì con un poderoso calcio al fianco, mandandola a finire contro un albero confinante con il giardino.
Il tronco della pianta venne sradicato da terra ed esplose in una miriade di schegge, mentre il corpo di Carol rotolò per diversi metri.
La bionda si alzò subito in piedi, appena in tempo per evitare le lame dell’avversario.
Compiendo una rotazione su se stessa, colpì l’alieno alla testa, poi di nuovo allo stomaco. Questi rispose di conseguenza, abbassandosi per evitare un terzo pugno e afferrando la donna per i fianchi.
Fatto questo, la sollevò in aria e la sbattè violentemente a terra, per poi calpestarla.
Carol ringhiò per il fastidio e sparò un raggio di energia cosmica che mancò di pochi centimetri la figura dell’alieno. Il calore derivato dal colpo, tuttavia, fu comunque abbastanza intenso da costringere lo Yautja ad allontanarsi di alcuni passi per impedirgli di rimanere ustionato.
Approfittando di quell’apertura, Carol fece pressione sulle gambe e scattò in avanti, investendo in pieno l’avversario.
Entrambi i combattenti caddero a terra e continuarono a menarsi colpi, sollevando polveri e detriti nell’area circostante.
Alla fine, lo Yautja si ritrovò sopra Carol e alzò la mano destra, pronto ad affondare le lame nel petto della donna. Prima che potesse farlo, tuttavia, una sfocatura familiare invase il suo campo visivo.
Peter afferrò l’alieno per la spalla e fece appello a tutta la sua forza per scaraventarlo lontano dalla collega.
<< Pensi davvero che basti questo per mettermi al tappeto? >> disse con tono beffardo, mentre si metteva di fronte a lei con fare protettivo. La reazione dello Yautja fu rapida e perfettamente fedele al suo personaggio.
Il cannone che aveva sulla spalla si drizzò di colpo e puntò ancora una volta verso il vigilante.
Questi deglutì nervosamente. << Ehm…parlè? >>
BOOM!
Senza degnarlo di una risposta, l’alieno cominciò a bersagliarlo con proiettili di pura energia, come se ormai non avesse più voglia di fare altro.
Peter cercò di evitare il maggior numero di colpi possibili, ma dopo quasi un minuto iniziò a sentire le proprie forze che lo abbandonavano.  A peggiorare ulteriormente la situazione, le sfere rimaste si unirono alla cacofonia dello scontro per dare man forte al loro padrone.
Il vigilante arrivò ad un’inevitabile conclusione: non sarebbe resistito ancora a lungo.
Per sua fortuna, la salvezza arrivò sotto forma di una potente ondata di energia cosmica che spedì lo Yautja direttamente contro un’aiuola a dieci metri di distanza, sollevando una nuvola di terriccio.
Carol atterrò di fronte all’alieno, assumendo ancora una volta una posizione da combattimento. Cetanu si rialzò da terra e fece lo stesso.
Un membro normale della sua razza non sarebbe mai stato in grado di affrontare un individuo del calibro di quella donna, per quanto fossero forti rispetto a molte altre specie. Ma Cetnau era diverso: lui era stato specificatamente addestrato e migliorato geneticamente per dare la caccia all’essere noto come Capitan Marvel, un nome che per decenni era riecheggiato nell’universo, giungendo anche al suo pianeta. Una preda come mai se ne erano mai viste in tutti gli annali che la razza Yautja aveva speso a vagare per le galassie in cerca di avversari degni.
Poiché questo era ciò per cui viveva la il popolo di Cetanu: cacciare e uccidere. Erano gli apex-predator dell’universo, e lui avrebbe combattuto quella battaglia fino alla morte.
I leader della sua razza lo avevano dotato di miglioramenti biologici che altri Yautja avrebbero potuto solo sognare, estrapolando il materiale genetico delle migliori specie dell’universo. E per questo motivo…non li avrebbe mai disonorati.
Ruggì in segno di sfida e allargò ambe le braccia.
Di fronte a lui, la donna strinse gli occhi e si preparò all’attacco imminente. Ma in quel momento…
<< Carol, lascia che ti aiuti >>
Una voce familiare costrinse Carol a fermarsi, prima ancora che potesse compiere anche solo un passo in direzione del bersaglio.
Si girò di scatto. << Mamma! Non puoi stare qui fuori, devi… >>
Le parole le si bloccarono in gola.
Gli occhi della bionda si posarono sulla figura della madre, aspettandosi di trovare una donna vestita con i classici abiti provinciali tipici del Maine. Invece, con grande sorpresa dell’Avenger, Marie Danvers indossava un’armatura da battaglia Kree completa di rivestimento placcato verde scuro: lo stesso modello che Carol aveva usato quando era sotto il comando di Yog Rogg.
<< Ti sbagli, Carol >> disse la donna, il volto adornato da un’espressione seria. << Io POSSO aiutarti. >>
La supereroina sentì la terra aprirsi sotto i suoi piedi.  Aprì e chiuse la bocca un paio di volte, incapace di emettere un qualunque tipo di suono.
Tentò di calmarsi e prese un respiro profondo. << Mamma…ma cosa… >>
<< Te lo spiegherò dopo, giuro. Ma ora dobbiamo occuparci di quest’ospite non invitato >> ribattè il genitore, puntando lo sguardo in direzione di Cetanu. << Quello è uno Yautja, un cacciatore di senzienti. Vagano per lo spazio alla ricerca di prede degne da combattere e uccidere. >>
Carol deglutì a fatica. << Ma sei…sei un… >>
<< Un soldato Kree >> rispose Marie, affiancandosi a lei e assumendo un’inconfondibile posizione da battaglia.
L’Avenger sentì il cuore mancarle un battito. Non poteva crederci. Non VOLEVA crederci. << Allora…allora io sono… >>
<< Sei Car-Ell, figlia di Mari-Ell >> riprese il genitore. << Primo capitano del supremo protettorato, paladina dell’Impero Kree, figlia di Hala per diritto di sangue e di stelle… >>
<< Non è possibile >> sussurrò Carol, mentre il mondo attorno a lei cominciò a girare. << Tu…mi hai fatto le lasagne solo l’altro ieri… >>
<< Sta giù! >>
Senza darle il tempo di completare la frase, Mary si lanciò sulla figlia appena un secondo prima che uno strano disco rotante le tagliasse la testa. L’arma si conficcò nel muro di casa Danvers, trapassando la parete in legno da parte a parte e tornando nelle mani dello Yautja come una sorta di Boomerang.
Con un’agilità impressionante per un qualunque essere umano della sua età, Marie si rimise in piedi con un balzo e partì spedita verso l’alieno, colpendolo con un poderoso pugno alla maschera.
La creatura indietreggiò di un passo e tentò di contrattaccare, ma la donna fu lesta nell’evitare l’assalto e rispose con un calcio rotante dritto alla testa.
Lo Yautja incespicò all’indietro, ma riuscì a evitare un altro pugno. Afferrò il gomito dell’avversaria e calò le lame su di lei con tutta l’intenzione di eliminare quel nuovo fastidio,
Prima che potesse completare l’opera, tuttavia, qualcuno lo trattenne per il braccio.
Sorpreso, Cetanu girò la testa e incontrò gli occhi furiosi di Carol Danvers.
<< Stai lontano da mio madre >> ringhiò la donna, mentre colpiva l’alieno con un pugno allo stomaco. Mary seguì subito dopo, tirando una ginocchiata nel fianco della creatura.
Le due donne cominciarono a bersagliare il guerriero con una freddezza implacabile, senza mai dargli il tempo di recuperare. Pugno, calcio, pugno, gomitata, ginocchiata…la creatura si ritrovò incapace di contrastare la raffica di colpi.
Era forte, certo…ma non abbastanza da combattere in contemporanea due avversari di quel calibro.
Ad un certo punto, Marie afferrò lo Yautja per le spalle e, dando prova di una forza pari almeno a quella di Spider-Man, sollevò la creatura e la lanciò in aria.
<< Ora! >> ordinò, rivolta verso Carol
Dopo un momento di esitazione, la figlia capì all’istante le intenzioni della donna.
Alzò le mani e sparò un’ondata di energia cosmica contro l’avversario, che venne scaraventato lontano dall’abitazione e finì dritto nel canale confinante con la proprietà.
Entrambe le donne rimasero ferme e inattesa, aspettando un eventuale ritorno di fiamma del nemico. Ma la superficie del lago rimase completamente immobile. Dello Yautja…nessuna traccia.
Peter – che nel mentre era riuscito a distruggere le ultime sfere rimaste - le raggiunse subito dopo e volse a Mary un’espressione visibilmente sorpresa.
<< Non mi avevi mai detto che anche tua madre avesse i superpoteri >> commentò con un sorriso eccitato.
Ma Carol non gli rispose e si limitò a inviare una fredda occhiata nei confronti del genitore.
Marie cominciò a dondolarsi sulla punta dei talloni e distolse lo sguardo, apparentemente imbarazzata. Inutile dire che Carol non si lasciò certo incantare dalla reazione della donna.
<< Ora… >> cominciò impassibile, << Hai molte cose da spiegare. >>





BOOM!
Ebbene sì, signore e signori, Marie Danvers era una Kree. Non è una cosa campata per aria, bensì un fatto preso direttamente dai fumetti. Il tutto verrà spiegato meglio nel prossimo capitolo, non preoccupatevi.
Ah, e Cetanu non è certo morto!
Parlando proprio di lui, spero che abbiate apprezzato come ho deciso di renderlo in questa fic. E spero anche che vi sia piaciuto lo scontro in generale che lo vede coinvolto.
Ovviamente un Predator normale non sarebbe mai stato in grado di combattere contro Carol, motivo per cui ho scelto di utilizzare l’espediente narrativo inserito nell’ultimo film della saga, ovvero che gli Yautja si potenziano con il DNA delle razze più pericolose e potente dell’universo ( e in quello Marvel ne hanno di opzioni tra cui scegliere ).
Nel prossimo capitolo, oltre ad esplorare il passato di Marie, avremo il ritorno dei Sinistri Sei e di IT. Le cose si faranno sempre più pesanti per la famiglia Danvers e Peter, ve lo assicuro…

 

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Capitolo 10
*** New alliances ***


Ecco un nuovissimo capitolo! Vi auguro una buona lettura ;)



New alliances

Cetanu arrancò pesantemente lungo il letto del canale.
La maschera che indossava era progettata per fornire una riserva d’aria della durata di quasi venti minuti e l’attrezzatura che ne ricopriva il corpo massicciò lo teneva attaccato al fondo, permettendogli di percorrere l’affluente senza doversi preoccupare di raggiungere la superficie.
Infine, giunse nei pressi della riva e i suoi piedi affondarono tra i ciottoli del bagnasciuga.
Era notte e le stesse illuminavano i cieli di Harspwell come tante piccole lucciole incollate ad una tela color pece.
Cetanu ansimò e si sedette su un tronco d’albero morto, respirando affannosamente a causa della battaglia appena affrontata.
Non aveva previsto l’intervento di un avversario la cui forza poteva competere con quella della sua preda. Per non parlare di quell’essere umano le cui abilità di combattimento rivaleggiavano con quelle di uno Yautja adulto.
Era stato incauto, e aveva pagato questa mancanza con un’umiliazione che lo avrebbe accompagnato per i tempi avvenire.
Ora…come procedere? Non poteva tornare al suo pianeta a mani vuote, sarebbe stato un disonore.
Doveva forse tentare la sorte ancora una volta e morire in battaglia, così da ottenere la fine di un guerriero? Ma così facendo avrebbe sprecato i doni che il suo popolo gli avevano fornito tanto faticosamente.
Per la prima volta, dopo tanti anni, lo Yautja non sapeva come comportarsi.
<< Ti hanno proprio strapazzato, non è vero amico? >> disse una voce improvvisa alle sue spalle, costringendolo a voltarsi.
La doppia lama situata nel bracciale dell’alieno scattò fuori ancora una volta, producendo un sonoro sibilo. Cetanu assunse una posizione di combattimento, pronto ad affrontare qualunque potenziale minaccia.
Si fermò di colpo.
Di fronte a lui aveva appena preso posto “qualcosa” . La parola saltò alla mente del cacciatore in maniera quasi automatica, poiché Cetanu non riusciva a percepire dal nuovo arrivato né paura o timore, sentimenti perfettamente comprensibili quando si era in presenza di uno Yautja.
In realtà, i sensori di Cetanu non riuscivano a rivelare nemmeno il suo battito cardiaco o la sua temperatura corporea. Era come se il Cacciatore si trovasse do fronte ad una massa indistinta che semplicemente…esisteva. I suoi sistemi sapevano che era lì, ma non potevano rilevarla. Qualunque cosa fosse…non era sicuramente umana.
Pennywise sorrise in risposta alla confusione dell’alieno.
<< Non prendertela troppo, quel piccolo ragno ha la tendenza a intromettersi nelle questioni che vanno oltre la sua busta paga. È più forte di lui, dico davvero! Ho recentemente appreso che chiedergli di farsi da parte…beh, sarebbe un po’ come ordinare ad una mosca di non posarsi su una bella montagna di merda fumante >> continuò con tono vagamente ironico.
Schioccò la lingua contro le zanne che nascondeva sotto le sue labbra rosso sangue.
 << Ora ci si mette pure la madre! Gli esseri umani…sono così fottutamente stupidi. Ma è proprio questa loro stupidità a renderli divertenti! >> esclamò, per poi compiere una piroetta su se stesso.
Si fermò di scatto e volse allo Yautja un ghigno smagliante. << Ho visitato molti mondi durante la mia lunga vita, ma penso che la Terra sia diventato il mio preferito. Stare qui è come avere Netflix gratis a tempo illimitato! >>
E, dopo aver pronunciato tali parole, scoppiò in una fragorosa risata che riecheggiò per tutta la lunghezza della banchisa. Cetanu, invece, rimase completamente immobile e si limitò a inclinare la testa, apparentemente confuso dall’affermazione del clown.
Questi arricciò ambe le labbra in un broncio grottesco.
<< Ah, giusto, non sei di queste parti >> sospirò stancamente.
Apparentemente stanco di perdere tempo, l’alieno si lanciò a grandi passi verso il mostro con l’intenzione d’infilzarlo. Era politica di tutti gli Yautja quella di non uccidere mai una creatura senziente disarmata, ma ormai era chiaro che quell’essere fosse abbastanza pericoloso da parlare con un membro della sua specie senza alcun segno di preoccupazione.
Tuttavia, prima che il cacciatore potesse calare la doppia lama sul corpo del pagliaccio, questi sembrò scomparire nel nulla. La sagoma nera e senza volto che indicava la sua presenza ai sensori dell’alieno fu sostituita dal vuoto dell’aria nella frazione di un secondo.
E allora, Cetanu percepì un sibilo alle sue spalle.
Si voltò di scatto, trovandosi ben presto intrappolato in una presa ferrea e implacabile.
Sentì il proprio corpo sollevarsi da terra, mentre i sensori della maschera rilevavano ancora una volta la presenza di quella misteriosa creatura.
<< Ho ucciso per molto meno >> sibilò l’essere, il cui tono di voce aveva assunto una cadenza molto più animalesca.
Cetanu cercò di liberarsi, ma il pagliaccio era troppo forte.
Poi, così com’era iniziata, la presa si allentò e il corpo dell’alieno ricadde ansimante sul terreno fangoso della banchisa.
<< Ma fortunatamente per te, caro il mio cacciatore poco arrendevole, ho bisogno dei tuoi servigi >> continuò Pennywise, compiendo un passo all’indietro per permettere allo Yautja di rialzarsi.
L’alieno osservò attentamente il clown, ora consapevole del fatto che quell’essere fosse abbastanza forte da sopraffare qualcuno che era riuscito a tenere testa ad un individuo potente come Capitan Marvel.
Era decisamente molto più pericoloso di quanto avesse inizialmente supposto.
<< Che cosa sei? >> chiese nel classico idioma Yautja, e com’era prevedibile la creatura riuscì a comprenderlo senza problemi, onde a testimoniare il fatto che fosse tutto fuorchè terrestre.
<< Uhm, vediamo un po’, come potrei spiegartelo… >> borbottò Pennywise, mentre cominciò a picchiettarsi il mento con fare contemplativo.  << Oh, ci sono! Tra la tua gente sono conosciuto con il nome di #!#@#!##@#!!##! >>
Quel nome, incomprensibile a qualunque orecchio umano, riecheggiò nella fabbrica della realtà stessa come un colpo di pistola, attraversando il vuoto tra le dimensioni e provocando in Cetanu visioni di sangue e morte. Un oscuro presagio che portava la pazzia.
Un nome che nella lingua del suo popolo significava “Apex Predator”….il predatore supremo. Colui che cacciava gli dei…La massima esaltazione di tutto ciò a cui aspirava la razza Yautja.
La reazione dell’alieno fu praticamente istantanea. Piegò la testa e cadde in ginocchio senza nemmeno curarsi del dolore che stavano provando le sue articolazioni, a causa dello scontro appena affrontato.
<< Perdonate la mia impudenza. Io…non avevo idea che… >>
<< Nessun danno, nessun fallo, amico mio! >> lo interruppè Pennywise con la sua voce squillante. << è già acqua sotto il ponte, non hai di che preoccuparti >>
Cetanu ebbe giusto il coraggio di sollevare appena lo sguardo, dando prova di una certa perplessità di fronte alle parole del clown.
<< Riferimento alla cultura locale. >> spiegò questi, con una scrollata di spalle. << Per l’amor di mio padre, te ne sei perso di cose! Ma avremo tutto il tempo per rimediare…se farai ciò che chiedo, ovviamente. >>
<< Come posso servirvi? >> chiese rapidamente lo Yautja, chinando la testa una seconda volta.
Il sorriso sul volto di Pennywise si fece molto più grande, scoprendo le zanne affilate che aveva al posto di normalissimi denti umani.
<< Voglio che tu mi aiuti…ad aiutarti…ad aiutarmi! >> esclamò con tono gioviale.
Poi, si chinò verso l’alieno, scrutandolo con anticipazione.  << Dimmi, Cetanu. Saresti aperto all’idea… di cacciare in gruppo? >>
 
                                                                                                                                             * * *
 
Marie Danvers sedette sui gradini del portico e osservò il fumo della battaglia che saliva alto nel cielo, lasciando che il fruscio della brezza serale le accarezzasse il volto.
Sparita era l’armatura da battaglia Kree, sostituita dagli stessi abiti provinciali che aveva indossato per il resto di quella folle giornata.
Di fronte a lei, Peter e Carol poggiavano sull’erba del giardino con le gambe incrociate, in attesa.
Dopo quello che sembrò un tempo interminabile, la donna prese un respiro profondo e cominciò dicendo: << La mia storia, così come tutte le storie Kree…inizia con la guerra. Una guerra che ormai imperversava da più di mille anni tra il nostro popolo e il resto della galassia. >>
Appoggiò i gomiti sulle scale del portico e volse lo sguardo in direzione della volta stellata.
<< I miei genitori erano generali. I miei fratelli? Soldati. E proprio come loro, io venni istruita per essere forte…per imparare a resistere e a vivere in un modo avvolto dal conflitto >> continuò con un sorriso vagamente ironico. << Mi allenavo giorno e notte. Non perdevo mai, anche se non c’era altro da vincere se non una battaglia più dura, un grado superiore. E quando l’Intelligenza Suprema mi rese il più giovane capitano della sua guardia d’elite…beh, quello fu il più grande onore della mia vita. E fu anche il giorno in cui la mia vita cambiò >>
Si fermò di colpo e lanciò una rapida occhiata in direzione della coppia di Avengers, per controllare se stessero ascoltando o meno. I loro occhi erano spalancati e colmi d’anticipazione, ma dietro quelli di Carol la donna riuscì a intravedere un pizzico di disagio…e paura. Paura dell’ignoto, di ciò che avrebbe scoperto se avesse continuato ad ascoltare quella storia.
Marie deglutì a fatica e riprese a parlare.
<< Dopo la mia nomina al Protettorato, fui mandata in missione sulla Terra. Non era Boston la mia destinazione, ma finì fuori rotta >> spiegò con un sospiro, per poi arricciare ambe le labbra in un sorriso triste. << Non scelsi Joe, anche se stavo per silurarlo con il modulo di salvataggio. Ho quasi affondato la sua barca. >>
Ridacchiò al ricordo dell’uomo che l’aveva tratta in salvo, tirandola fuori dall’oceano e avvolgendola in una coperta presa direttamente dall’unico letto dell’imbarcazione.
Ricordava ancora come l’aveva curata e nutrita fino al mattino, senza mai lasciare il suo fianco. E per tutto il tempo era rimasto a fissarla con un’espressione meravigliata, come se avesse appena scovato il più grande dei tesori.
<< Mi affidai al mio addestramento. Primo principio  per l’integrazione di un nuovo pianeta: mai mostrare il proprio potere >> continuò, scuotendo la testa per liberarsi da quell’improvvisa ondata di nostalgia. << Non ebbi bisogno del mio traduttore universale per  comprendere il carattere di Joe. Era gentile, una persona con un grande cuore. E, nonostante le nostre differenze, andammo d’accordo. >>
Sospirò una seconda volta.
<< Forse io ero quella capace di spedire un uomo in ospedale con un solo pugno, ma Joe sembrava fuori posto sulla Terra tanto quanto me, a volte. Sapeva che ero diversa…anche se non sapeva quanto. E io non avevo fretta di dirglielo. Cercavo di concentrarmi su cose più importanti, come Hala. Il Consiglio seguiva tutto quel che mi succedeva sul pianeta. Quel segnalatore che hai trovato? Era il mio legame con l’impero. E quando riferii all’alto comando Kree che Joe era solo la mia copertura..beh, mi cedettero. E per un po’ lo credetti anche io. Dopotutto, un capitano del Protettorato non farebbe mai niente per compromettere la sua missione >> disse con sarcasmo a mala pena celato, ben consapevole di quanto una simile affermazione fosse solo opera dell’indottrinamento a cui erano stati sottoposti tutti i Kree in tenera età.
Di fronte a lei, l’espressione sul volto di Carol si fece improvvisamente cupa. Anche lei ricordava bene quelle parole, le stesse che Yog le aveva rivolto più volte durante i suoi addestramenti per tenerla sotto controllo, fedele ad una causa che in cuor suo la donna non avrebbe mai sostenuto volontariamente.
Peter si accorse dello stato d’animo della bionda e le posò una mano sulla spalla, nel tentativo di rassicurarla. La supereroina gli sorrise dolcemente, per poi volgere la propria attenzione nei confronti della madre ancora una volta.
<< Dicevo a me stessa di integrarmi e aspettare. Proprio come ero addestrata a fare. Ma la verità sa emergere in superficie >> continuò Marie. << Svelare il mio segreto a Joe era assolutamente sbagliato…fu così che capii di amarlo. All’inizio non mi credette…poi, io credetti a lui quando disse che potevamo far funzionare la cosa. Cercai anche di rompere la nostra relazione…ma Joe non voleva rinunciarvi. Così mi chiese di sposarlo…io dissi di sì, e quello fu il giorno più felice della mia vita. >>
E, dopo aver pronunciato tali parole, volse alla figlia un sorriso triste e colmo di rimpianto.
<< Ma fu anche l’inizio…di una lunga bugia. Perché Joe sposò la donna sbagliata. Mari-Ell era venuta sulla terra a cercare una guerra. Marie ci era rimasta per cercare una vita, amore, una famiglia. Tutte quelle cose che nessun Kree conosce mai…e nemmeno sa di volere >> ammise stancamente. << Fu quella la mia scelta. Quando il capitano Mari-Ell divenne la signora Danvers, io divenni la persona che ero destinata a essere…ma non la persona di cui vostro padre si era innamorato. Le lettere che ti hanno spezzato il cuore, Carol, furono scritte a un’altra donna, quella che aveva paura di perdere: Mari-Ell. Qualcuno che non sono più…qualcuno che non voglio più essere. >>
Internamente, la figlia si ritrovò a simpatizzare con le intenzioni del genitore.
Dopotutto…non era stata pure lei in una situazione simile? Non aveva forse cercato con tutta se stessa di allontanarsi dal passato di sangue e violenza in cui l’Impero Kree l’aveva catapultata? Di compensare ed espiare tutte le morti che aveva causato in nome di un falso ideale? Marie aveva solo cercato di fare lo stesso. Di allontanarsi da una vita che aveva riconosciuto come “sbagliata” e dedicarsi ad una causa più nobile.
Poteva davvero incolparla per aver tenuto segreto il suo passato? La bionda non era più tanto sicura.
<< Il tuo povero padre >> riprese Marie, sospirando una terza volta. << Tentavo di essere la donna di cui si era innamorato…ma voi avevate bisogno di una me. E la donna di cui avevate bisogno non era una guerriera di un altro mondo, ma vostra madre >>
<< E se avessi avuto bisogno di entrambe? >> chiese Carol all’improvviso, non senza un certo livello di riluttanza.
La donna le sorrise tristemente.<< Aiutarti a vivere in questo posto, farti sentire umana…era questo il mio compito. E non avevo idea di quanto sarebbe stato difficile. >>
Ridacchiò ancora, mentre i suoi occhi cominciarono a inumidirsi.
 << Joe disse che ci avrebbe protetto. Non aveva idea di quello che stesse dicendo, ma questo me lo fece amare ancora di più. Tuttavia, sapevo che c’era solo una persona sulla terra che poteva davvero proteggere una figlia di Hala…ed era la stessa che aveva rischiato di condurre i Kree da lei. Ecco perché decisi di tagliare i ponti con l’impero >> sussurrò cupamente.  << Garantimmo a te e ai tuoi fratelli un’infanzia quanto più normale possibile, sperando che i geni umani di Joe avrebbero impedito a quelli Kree di prendere il sopravvento. E per un po’ andò tutto bene. >>
Si fermò di colpo e strinse ambe le mani in pugni serrati. Chiuse gli occhi e inspirò profondamente, quasi come se stesse cercando di rievocare un ricordo fin troppo doloroso.
<< Ma con il passare del tempo, tuo padre iniziò a vedere minacce dappertutto. Minacce Kree, che lui non poteva sventare… >>
<< E così beveva >> terminò Carol, il tono di voce ornato da una lieve punta di rassegnazione.
Marie rimase in silenzio per qualche istante, prima annuire con riluttanza.<< Già >>
<< E tu hai lasciato comunque che ti trattasse come spazzatura. Che CI trattasse come spazzatura >> ribattè caldamente la bionda, sbattendo violentemente un pugno contro l’erba del giardino.
Sia la madre che Peter sussultarono, ma gli occhi della supereroina erano puntati esclusivamente sul genitore.
Marie deglutì a fatica, facendo appello ad ogni oncia di forza che aveva in corpo per non sottrarsi a quello sguardo accusatore.
<< Pensavo che con il tempo le cose sarebbe tornate come prima. Troppo tardi, mi resi conto che quella era solo la mera illusione di una donna ingenua. Di qualcuno…che aveva sperato fino all’ultimo in un futuro migliore per la sua famiglia >> sussurrò debolmente.
Ora come ora, pure a lei quelle scuse sembravano vuote. Futili lacrime di coccodrillo appartenenti ad una donna che non era stata capace di proteggere la propria famiglia come si era prefissata.
Aveva fallito. Carol era stata rapita dal suo vecchio popolo e trasformata in un’arma,  Junior avrebbe probabilmente usato una sedia a rotelle per il resto della sua vita, e Steve…Steve era…lui era….
<< E i miei poteri? >> domandò improvvisamente Carol, interrompendo quelle divagazioni mentali.
Marie le sorrise con rassicurazione, ben consapevole delle ragioni che stavano dietro ad una simile domanda. In realtà, era piuttosto sorpresa del fatto che la figlia non glie lo avesse chiesto prima.
 << Furono attivati dall’esplosione del motore a velocità luce, innescando un antico meccanismo di difesa Kree.  Non li hai presi in prestito. Non sono stati un dono…e nemmeno un incidente. L’energia creata da Mar-Vell non ha fatto altro che potenziarli ad un livello che gli scienziati di Hala potevano solo sognare >> spiegò pazientemente. << Un essere umano normale non sarebbe mai sopravvissuto all’esposizione di un’energia simile. Ma tu, Carol…non sei mai stata normale. E nemmeno i tuoi fratelli. >>
<< Incredibile >> sussurrò la figlia, abbassando lo sguardo e osservando le proprie mani con un’espressione meravigliata, quasi per confermare che le parole della madre fossero reali. Che non stesse affatto vivendo in un sogno, o un qualche tipo di allucinazione.
Poi, sentì dita sottili accarezzarle la guancia, e alzando la testa si rese conto che la madre si era avvicinata a lei con occhi gonfi e colmi di lacrime.
<< Mi dispiace, Carol...sono così dispiaciuta. Avrei dovuto proteggerti. E invece io…io… >>
Il genitore s’interruppe di colpo, nel tentativo di reprimere un singhiozzo.
Prima che l’Avenger potesse reagire, si lanciò su di lei e l’avvolse in un abbraccio con tanta forza che, per un attimo, Carol si sentì al sicuro come mai prima d’ora.
<< Piccola mia…mi dispiace così tanto >> ripetè la donna, mentre calde lacrime cominciarono a bagnare il vestito della figlia.
Questa rimase ferma e immobile per qualche secondo.
Infine, quasi con esitazione, avvolse le proprie braccia attorno al corpo della madre e chiuse gli occhi, lasciandosi cullare dal calore di quel momento.
 
                                                                                                                                                   * * * 
 
All’interno della loro base, Octavius e il resto dei suoi associati avevano assistito alla battaglia tra Capitan Marvel e Cetanu con espressioni rapite.
Finito lo scontro, erano rimasti a contemplare quell’evento in assoluto silenzio, quasi fossero incapaci di descrivere a parole ciò che i loro occhi avevano mirato attraverso la rete di videocamere.
Era quasi come se fossero stati catapultati in un film di fantascienza a basso costo.
<< Dobbiamo abbandonare la missione >> disse improvvisamente Octavius, attirando lo sguardo di ogni persona presente nella stanza.
Com’era prevedibile, Max fu il primo a rendere nota la sua opinione in maniera abbastanza vocale.
<< Che cosa? Perché ?! >> esclamò con un sottofondo di pura collera, mentre i suoi occhi cominciarono a illuminarsi di un intenso bagliore azzurro.
Octavius, tuttavia, mantenne un’espressione impassibile, per nulla influenzato dallo stato d’animo del superumano.
<< Ci sono troppe variabili sconosciute. Combattere due degli Avengers più forti in contemporanea era già molto rischioso di per sé >> affermò con tono di fatto. << Ora? Abbiamo pure un terzo meta-umano la cui forza fisica è poco sotto, se non paragonabile, a quella di Capitan Marvel. Non siamo preparati per affrontare una simile minaccia >>
<< Posso combatterle entrambe >> ringhiò Max, puntando un dito sul petto dello scienziato.
Questi si limitò a scostarlo con uno dei suoi bracci meccanici.
<< No, non puoi. E quella creatura di poco fa te lo ha appena dimostrato >> disse indicando le schermate.
Phineas sollevò la mano destra con esitazione.
<< A proposito dell’Elefante nella stanza… qualcuno potrebbe spiegarmi che diavolo era? >> chiese riferendosi alla creatura che, solo pochi minuti prima, avevano visto affrontare senza problemi uno degli Avenger di sempre.
Sable scrutò attentamente le riprese delle telecamere.
<< Sicuramente un alieno, ma non figura tra le specie che hanno visitato il pianeta dopo l’invasione Chitauri del 2012 >> spiegò pazientemente. E, in quanto assistente personale di Norman Osborn, aveva avuto il privilegio di visionare tutti quei file riguardanti il comparto alieno presente nei database dello Shield, a cui il direttore della Oscorp era riuscito ad accedere grazie ai suoi stretti rapporti instaurati con l’esercito degli Stati Uniti.
Max sbattè violentemente un piede contro il pavimento della stanza, generando un’onda di pura elettricità che per poco non mandò in tilt le apparecchiature che Phineas aveva installato così diligentemente.
<< Chissene frega di quella cosa! Mi avete tirato fuori di prigione per uccidere quella donna. E come ha detto lo stesso Osborn, dottore… >> disse sottolineando il titolo di Octavius con fare beffardo, << Una simile occasione per catturare l’arrampica muri potrebbe non ripresentarsi mai più. >>
E, malgrado la palese mancanza di rispetto del superumano, Octavius era ben conscio del fatto che una simile affermazione non era poi così lontana dalla verità.
Spider-Man operava quasi sempre a New York, un luogo facilmente accessibile alla maggior parte dei Vendicatori, i quali sarebbero potuti accorrere in suo aiuto al minimo segno di pericolo.
L’arrampica muri era troppo ben sorvegliato. In poche parole, le opzioni a disposizione di Octavius era molto limitate.
Prese un respiro profondo e volse al gruppo un’espressione risoluta. << Telefonerò subito al signor Osborn. Avremo bisogno di aiuto. >>
<< E l’aiuto è arrivato! >> esclamò una voce improvvisa alle spalle del medico.
Il resto dei supercriminali compì un balzo all’indietro per la sorpresa, rapidamente imitati da Octavius.
Questi si voltò di scatto…e i suoi occhi si spalancarono per la sorpresa.
Di fronte a loro aveva appena preso posto la figura di un clown vestito con un abito argentato di fattura vittoriana. Aveva un volto sproporzionato, incorniciato da una folta capigliatura di ciuffi arancioni e un paio di occhi gialli come il sole stesso.
Sable non perse tempo. Estrasse una pistola e la puntò in direzione dello sconosciuto.
<< Chi sei? Come sei entrato qui? >> domandò freddamente.
In tutta risposta, il pagliaccio si limitò a inclinare la testa.
<< Chi? Chi è solo il pronome conseguente alla funzione. Ma ciò che sono…è un amico! >> disse con tono gioviale, per poi compiere un inchino aggraziato.  << Mi chiamo Pennywise. E per quanto riguarda il come sono entrato… >>
Il tutto accadde nella frazione di pochi secondi.
Un momento prima, il clown era proprio di fronte a loro, una sagoma ben distinta di rosso e argento. Un secondo dopo…era scomparso, come se non fosse mai stato lì in primo luogo.
Il gruppo di criminali cominciò a guardarsi attorno con aria frenetica.
Poi, Phineas percepì uno spostamento d’ara alla sua sinistra.
<< Ciao! >> esclamò Pennywise, suscitando un grido di sorpresa ad opera del tecnico.
Mac Gargan, che si trovava a pochi passi dalla coppia, fece scattare la coda metallica come una frusta. Il pungiglione trapassò il braccio destro del clown da parte a parte, mozzandoglielo di netto.
L’ex trafficante si aspettava molte cose. Magari uno spruzzò di sangue, oppure che quello strano individuo si mettesse ad urlare come un forsennato…ma non accadde nulla di tutto ciò.
Pennywise si limitò a raccogliere il braccio da terra e a scrutarlo con i suoi occhi dorati.
<< Non è stata una mossa molto carina >> commentò con un broncio infantile.
Fatto questo, porse l’arto mozzato in direzione di Mc Gargan.  << Hai bisogno di una mano? AHAHAHAHAHAH! >>
Scoppiò in una risata fragorosa che riecheggiò per tutta la lunghezza dell’abitazione. Suo malgrado, l’ex trafficante si ritrovò incapace di trattenere un brivido.
Durante la sua vita aveva incontrato molte persone spaventose, dai più pericolosi criminali fino a magnanti senza scrupoli come Norman Osborn. Ma questa…cosa – perché l’uomo era ormai sicuro che l’essere di fronte a lui non fosse affatto umano – era riuscito ad inquietarlo come mai prima d’ora.
Pennywise collegò il braccio al moncherino della spalla e questi cominciò a riattaccarsi al corpo del clown come se avesse vita propria. In pochi secondi…era tornato come nuovo.
Octavius sollevò gli arti meccanici con aria minacciosa, pronto a combattere se necessario. Di solito tendeva ad evitare i conflitti, era sempre stato più il tipo di persona che preferiva usare il cervello piuttosto che i muscoli. Detto questo, non era certo estraneo alla violenza, non dopo che aveva passato così tanti anni al servizio di Osborn.
Di fronte alle azioni dello scienziato, Pennywise rilasciò un sonoro sbuffo e roteò gli occhi. << Oh, suvvia, vediamo di non far scoppiare un gigantesco pasticcio. Ve l’ho detto, sono qui per aiutarvi! Lo siamo entrambi, in realtà. >>
Octavius si fermò di colpo e inarcò un sopracciglio.
<< Entrambi? >> chiese con esitazione.
La risposta ad una simile domanda non tardò ad arrivare.
La porta dell’abitazione si spalancò di colpo e una possente figura fece capolino nel salotto. La stessa che pochi minuti prima aveva affrontato Capitan Marvel in una battaglia senza esclusione di colpi che aveva ridotto un intero quartiere in macerie.
Cetanu scrutò il gruppo di supercriminali con curiosità velata, mentre questi ora puntavano le proprie armi su di lui.
Octavius rimase fermo e immobile per quasi un minuto buono, passando lo sguardo tra le due creature come se stesse cercando di valutare i loro punti di forza e debolezza.
Passato quel lasso di tempo, fece un cenno al resto della squadra.
<< Abbassate le armi >> ordinò, ricevendo espressioni visibilmente sorprese  ad opera del gruppo.
<< Parli sul serio? >> disse Max, le cui mani avevano già cominciato a caricarsi di un intenso bagliore.
Octavius si voltò prontamente verso di lui.
<< Fatelo! >> ripetè ad alta voce. E questa volta, seppur con una certa riluttanza, i vari criminali fecero come richiesto.
Lo scienziato annuì soddisfatto e puntò un braccio artigliato in direzione di Pennywise. << Comincia a parlare. >>
<< Con piacere! >> esclamò questi, battendo le mani in un sonoro rintocco.
Come dal nulla, una sedia si materializzò al centro della stanza, scioccando ulteriormente il gruppo.
Al tempo stesso, il vestito argentato di Pennywise venne sostituito da un completo nero che assomigliava vagamente a quelli indossati dagli imprenditori aziendali delle grandi città.
“ Manipolazione della realtà” pensò Octavius, riconoscendo un potere che fino a quel momento si credeva riservato esclusivamente al Dottor Strange.
Chiunque fosse quello strano individuo vestito da clown…era molto potente. E quindi pericoloso.
 << Amici miei, voi avete un certo potenziale, e io voglio aiutarvi a sfruttarlo al massimo>> iniziò il pagliaccio, con un tono di voce affabile. << La situazione è la seguente: volete catturare spider-boy, ma per farlo sarete costretti a liberarvi di quell’adorabile coppia di bionde laggiù. E sfortunatamente per voi, il qui presente Max non sarà mai in grado di batterle da solo. >>
L’uomo in questione sussultò per la sorpresa.
<< Come sai il mio nome… >>
<< At-at-at ! >> lo fermò Pennywise, senza mai perdere quel suo sorriso apparentemente intramontabile. << Non interrompermi >>
Il superumano sembrò sul punto di controbattere, ma una rapida occhiata ad opera di Octavius lo costrinse a fermarsi.
Soddisfatto, Pennywise riprese a parlare.
<< Fortunatamente per voi, Cetanu è più che disposto ad assistervi in questa impresa. In cambio, chiede solo la possibilità di poter infliggere il colpo di grazia alla donna che conoscete con il nome di Capitan Marvel >> disse indicando l’alieno affianco a sé. << Se volete la mia modesta opinione, si tratta di uno scambio più che equo. >>
<< E tu che cosa ci guadagni ? >> chiese all’improvviso Mc Gargan, il cui passato da criminale lo avevano reso molto percettivo riguardo a simili trattative.
La creatura con il volto di un clown si limitò a scrollare le spalle.
<< Diciamo solo che voglio quella coppia di scocciatori il più lontano possibile da qui. O morti. Non m’importa davvero, purchè spariscano dalla mia vista per sempre >> affermò con tono di fatto. << In altre circostanze me ne sarei occupato di persona. Sfortunatamente, non posso ucciderli a causa di…ragioni che non ho intenzione di divulgare. Vi basti sapere che i nostri obbiettivi coincidono. >>
E, dopo aver pronunciato tali parole, il sorriso sul suo volto del clown si fece più grande, rivelando alcune zanne dai bordi seghettati.
<< Allora…abbiamo un accordo? E non venite a dirmi che non v’interessa, perché posso leggervi nella mente >> disse con una naturalezza disarmante, scioccando non poco la banda di criminali.
Octavius rimase in silenzio, rimuginando attentamente sui i pro e i contro di una simile proposta.
In circostanze normali non avrebbe mai preso in considerazione l’idea di allearsi con una variabile così imprevedibile, ma a sua insaputa l’influenza mentale di Pennywise aveva già cominciato a farsi strada nel suo cervello come un’infezione, offuscando il suo giudizio.
Fissò il clown dritto negli occhi e prese un respiro profondo.
<< Noi…accettiamo la vostra gentile offerta. >>



BOOM! Ebbene sì: IT, Cetanu e i Sinistri Sei hanno unito le forze.
Molti recensori pensavano che IT avrebbe cercato di cacciarli o ucciderli. Io vi rispondo…perché dovrebbe? Le persone vanno e vengono da Harpswell di continuo. Finchè non interferiscono con la sua dieta, IT è contento.
Inoltre, non è la prima volta che fa uso di persone dalla dubbia morale per perseguire i suoi diabolici propositi. Basti pensare a come nel romanzo usa il marito di Beverly per rapire la moglie di Bill, oppure il suo fantoccio preferito, Henry Bowers.
Perché sì, IT non può uccidere Peter e Carol, per qualche ragione. E credetemi, una ragione c’è, e verrà spiegata più avanti.
Inoltre, Marie fa riferimento a Mike Danvers, l'altro fratello di Carol. Cosa gli sarà successo?

 

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Capitolo 11
*** The battle of Harpswell ***


Uff, ce l’ho fatta! Scrivere questo capitolo è stata una vera impresa, poiché presenta una delle sequenze d’azioni più complicate che abbia mai realizzato. Capirete presto di cosa sto parlando ;)
Senza ulteriori indugi, vi auguro una buona lettura!

 
 
 
The battle of Harpswell
 
Carol rilasciò un sospiro soddisfatto e procedette a riporre il comunicatore nella tasca dei pantaloni.
<< Ho parlato con Rhodey, e ha accettato di ospitarvi al quartier generale di New York >> disse mentre si rivolgeva alla madre, affiancata dalla figura di Peter.
Marie inarcò un sopracciglio, visibilmente contrariata. << È davvero necessario? >>
<< Solo fino a quando non avremo sistemato questa faccenda del clown assassino >> la rassicurò rapidamente la figlia. << L’ultima cosa che voglio è lasciare te e J.J soli in città, alla merce di quella…cosa. >>
Detto questo, passò lo sguardo sul compagno Avenger. << Ti dispiace tenere pronta la macchina? >>
<< Sono ai vostri ordini, mia signora >> rispose questi, compiendo un’elegante reverenza.
Carol roteò gli occhi con aria divertita. Prima che l’adolescente potesse andarsene, si avvicinò a lui e lo abbracciò con forza.
<< Grazie per essermi stata vicina >> gli sussurrò nell’orecchio, facendolo rabbrividire.
Internamente, la bionda si ritrovò a ghignare. Era abbastanza orgogliosa del fatto che potesse ancora suscitare una reazione di quel tipo, sebbene Peter fosse sempre stato abbastanza facile da stuzzicare.  
Arrossì inconsciamente a quel pensiero e si allontanò rapidamente. Fece per voltarsi, ma il vigilante le posò una mano sulla spalla.
Sembrò lottare con le parole, mentre la supereroina lo scrutava curiosamente.
Dopo qualche attimo di esitazione, si fece coraggio e prese un respiro profondo.
<< Quando saremo tornati a New York… >> cominciò con esitazione, prima di fermarsi di colpo.
Carol inclinò la testa di lato, fissandolo con anticipazione. << Sì? >>
L’adolescente deglutì a fatica, facendo appello a tutto l’autocontrollo che aveva in corpo per non sudare.
<< Volevo chiederti…e non sei obbligata a rispondere subito… >> disse con le guance rosse per l’imbarazzo, vorresti venire a cena fuori con me? >>
Inutile dire che la domanda prese non poco in contropiede la sua interlocutrice.
Carol spalancò gli occhi per la sorpresa, ma per il resto rimase completamente immobile, senza proferire parole.
Peter cominciò ad agitarsi sotto il suo sguardo, ma riuscì a mantenere i nervi saldi e a simulare un’espressione determinata. Mentalmente, tuttavia, era sinceramente preoccupato dallo scoprire quale sarebbe stata la risposta della bionda. Perchè se tale risposta fosse stata un rifiuto, anche dopo tutto quello che avevano passato negli ultimi giorni…onestamente, non sapeva se avrebbe mai avuto un’altra occasione per riallacciare i rapporti con quella donna tanto sfuggente.
Carol rimase in silenzio per quasi un minuto buono. Passato quel lasso di tempo, rilasciò un secondo sospiro.
<< Prenderò in considerazione la tua offerta >> disse con un piccolo sorriso, facendo battere il cuore dell’Avenger.
Questi si ritrovò incapace di non sorridere a sua volta.
<< Non è un “no” >> affermò con tono di fatto, per poi fuoriuscire dalla casa.
Carol lo guardò andarsene  con un luccichio negli occhi, portandosi inconsciamente una mano al petto. Dio, quanto le era mancato quel suo atteggiamento fanciullesco.
Si voltò verso la madre…e si bloccò, notando il modo con cui la stava fissando.
<< …Perché non mi hai detto che il tuo ragazzo era Spider-Man? >> domandò la donna, il volto adornato da un ghigno visibilmente divertito.
Carol gemette per il fastidio.
“ Grazie mille, Peter.”
<< Andiamo a prendere Junior >> borbottò stizzita, superando il genitore e incamminandosi verso la camera del fratello.
Anche se ora non poteva vederla, era abbastanza sicura che sua madre stesse ancora sorridendo.
 
                                                                                                                                                 * * *  

Peter aprì il bagagliaio della macchina e cominciò a stiparvi dentro le valigie per il viaggio, canticchiando il motivetto che componeva la sigla iniziale di “Avengers – earth’s mightiest heroes”, un cartone dedicato agli eroi più potenti della terra e finanziato dalla Disney. Ricordava ancora quando il CEO della corporazione, Kevin Fiege, aveva tentato di convincerlo a rivelargli la sua identità segreta per poter inserire la sua controparte umana all’interno dello spettacolo, cosa che il ragazzo aveva ovviamente rifiutato.
Non che questo avesse scoraggiato l’uomo dall’utilizzare Spider-Man nello show, soprattutto perché era diventato uno dei membri della squadra più popolari tra i bambini. Inutile dire che Peter si era sentito non poco orgoglioso di questo fatto.
Inoltre, al fine di poterlo inserire nello spettacolo, la Disney era stata costretta a pagargli un cospicuo assegno che il ragazzo aveva usato per pagarsi la retta universitaria e spese associate per un totale di quattro anni.
Tutto sommato, la sua vita stava andando a gonfie vele…certo, se non si teneva contro del clown mangia bambini che lo aveva minacciato a mala pena sei ore prima. Ma presto quel problema sarebbe stato nelle mani di Strange, quindi…perché preoccuparsene?
In quel preciso istante, qualcosa atterrò proprio di fronte all’adolescente, posandosi sul tettuccio del veicolo.
Inizialmente, Peter pensò che si trattasse di una lucciola, cosa perfettamente comprensibile dato che la “cosa” in questione aveva il corpo di un insetto che emetteva deboli segnali lampeggianti a intermittenza.
Tuttavia, il vigilante notò subito un particolare che sarebbe sicuramente passato inosservato agli occhi meno sviluppati di un normale essere umano: l’animale in questione aveva parti meccaniche che spiccavano sotto il suo esoscheletro trasparente, probabilmente composto da un qualche tipo di polimero.
<< Ma che… >> borbottò, scrutando attentamente la piccola creatura.  << E tu cosa sei, piccolino? >>
L’insetto meccanico si limitò a fissarlo per qualche altro secondo. Passato quel lasso di tempo, cominciò a battere rapidamente le ali e si levò in aria, allontanandosi dal ragazzo e puntando verso la foresta.
La curiosità di Peter ebbe la meglio sul buon senso.
Strinse gli occhi e seguì la creatura, che ormai aveva compreso essere una sorta di drone in miniatura.
Infine, giunse nei presi di una radura che si apriva a circa cento metri dal confine del boschetto, appena illuminata dalla luna che spiccava alta nel cielo.
La lucciola meccanica si era posata su una radice che sporgeva da terra, quasi come lo stesse sfidando a prenderla.
Peter si chinò sulle ginocchia, osservandola con attenzione.
ZZZZZZZZZZZZ!
In risposta a quella vibrazione familiare, la reazione dell’adolescente fu praticamente istantanea.
Balzò in aria e atterrò al di sopra di un ramo, proprio mentre una forza invisibile centrò l’albero situato nei pressi del punto in cui era stato fino a pochi secondi prima.
La pianta venne sradicata dalla potenza del colpo, sollevando terriccio e foglie autunnali.
Nel mentre, i naniti  che componevano la Iron-tuta di Spider-Man cominciarono a ricoprire il suo corpo, proprio mentre una persona dall’aspetto familiare si faceva strada oltre il confine della radura.
Si trattava di un uomo alto e tarchiato vestito con un’armatura di colorazione gialla, la cui superfice presentava un mosaico simile a quello di un alveare. Su ambe le mani portava un paio di guanti dall’aspetto meccanico, illuminati di un intenso bagliore verde.
L’unica cosa scoperto era il volto…uno che il vigilante riconobbe all’istante.
<< Schultz! >> esclamò Peter, salutando il criminale con voce beffarda. << Sapevo che nessuna prigione sarebbe mai stata abbastanza spessa per contenere il tuo testone>>
<< Abbastanza spessa…divertente >> ribattè l’altro, stringendo ambe le palpebre degli occhi.
Il vigilante si limitò a ridacchiare. << Non sapevo che insegnassero l’umorismo anche al fresco… >>
ZZZZZZZZZZZZ!
Si portò una mano alla testa, sorpreso dal fatto che il suo senso di ragno stesse ancora vibrando.  Di solito non lo faceva mai quando aveva il cattivo proprio lì davanti.
La risposta a quell’insolito fenomeno non tardò a farsi sentire. Letteralmente e figurativamente.
Qualcosa colpì il vigilante sul fianco, cosa che gli fece perdere l’equilibrio.
Cadde tra i cespugli con un gemito, ma si rialzò quasi subito per confrontare la nuova minaccia.
<< Oh, scusami, Spidey. Forse avrei dovuto aspettare il mio turno >> disse Mac Gargan, sorridendo malignamente e atterrando proprio di fronte all’arrampica muri, mentre la coda meccanica della sua tuta da Scorpion si agitava alla sue spalle.
Peter riconobbe subito l’ex trafficante e scrutò attentamente l’armatura, nel tentativo di comprenderne punti di forza e debolezza.
<< Bel giocattolino >> commentò con voce apparentemente calma. << Vedo che voi due vi siete messi in società >>
<< Noi due? >> ripetè Schultz, gli occhi adornati da un insolito luccichio.
E fu in quel momento che il senso di ragno dell’Avenger prese a vibrare una terza volta.
ZZZZZZZZZZZZZ!
Questi compì una capriola di lato, appena in tempo per evitare una scarica elettrica che andò a conficcarsi nel terreno, generando una sonora esplosione.
L’autore di quell’attacco sbucò dagli alberi e si fermò accanto ad una quercia, appoggiandosi al tronco della pianta e incrociando ambe le braccia davanti al petto.
<< Temo che non te la caverai con così poco, insetto >> ringhiò Max, mentre il suo corpo cominciò a illuminarsi di un intenso bagliore azzurro.
Al contempo, altre due figure si fecero strada nella radura. La prima apparteneva ad una donna vestita da capo a piedi con una tuta completamente bianca, un colore che si sposava perfettamente con la massa di folti capelli argentati che le cadevano sulla schiena. Nella mano destra reggeva quello che aveva tutta l’aria di essere un pungolo elettrico, mentre in quella destra spiccava un grosso coltello dalla lama seghettata.
Ma ciò che attirò davvero l’attenzione dell’arrampica muri fu la seconda figura. Si trattava di un uomo piuttosto basso, ma dalla corporatura massiccia, vestito in un trench marrone in pelle di cuoio.
Dietro di lui spiccavano quattro protuberanze meccaniche che gli partivano direttamente dalla schiena, simili alle appendici che Peter aveva visto un paio di volte nei Tripodi del film “La Guerra dei Mondi”.
E quando l’adolescente pensò che le cose non potessero peggiorare ulteriormente, ecco che l’aria vicino all’uomo cominciò ad incresparsi. Cetanu si materializzò come dal nulla in mezzo al campo di battaglia, suscitando un brivido lungo la spina dorsale del vigilante.
Venne presto affiancato da una massa indistinta di tante piccole lucciole meccaniche, tali quali a quella che Peter aveva seguito fin lì…tranne per il fatto che queste avevano tanti piccoli laser rossi che puntavano dritti verso di lui.
<< Allora, aracnide…vuoi dire le tue ultime parole? >> chiese Mac Gargan, mentre si scrocchiava il collo un paio di volte.
E di fronte ad una simile domanda, l’adolescente non potè fare altro che deglutire a fatica. << L’unica cosa che mi viene in mente è…mamma mia >>
<< Che ne dici di “siete tutti in arresto” ?>> arrivò una voce femminile dalla coltre di alberi.
Internamente, Peter tirò un sospiro di sollievo, mentre la figura di Capitan Marvel atterrava affianco a lui con un sonoro tonfo, sollevando foglie secche e pezzi di terriccio bruciato.
Schultz, Gargan e Sable si tesero all’istante, consci di trovarsi di fronte ad una persona che avrebbe potuto mandarli in ospedale con pochissimo sforzo.
Octavius, al contrario, mantenne una posizione completamente rilassata.
Volse lo sguardo in direzione di Max e chiese: << Electro, ti dispiace? >>
<< Affatto >> rispose il superumano, compiendo alcuni passi in direzione dell’Avenger.
Carol strinse gli occhi e arricciò le labbra in un ghigno beffardo.
<< Vedo che la prima lezione non ti è bastata >> disse mentre stringeva ambe le mani in pugni serrati. << Forse necessiti di un ripasso. >>
Ma Electro non si lasciò abbindolare dalla provocazione della donna.
Il bagliore che ricopriva la sua tuta cominciò a condensarsi lungo le braccia, aumentando d’intensità.
<< Tra due giorni è il mio compleanno. Che ne dici di accendere le candeline in anticipo?! >> urlò, il volto adornato da un’espressione maniacale.
Porse le mani in avanti…e un potente getto di natura elettrica scaturì dalla punta delle dita, puntando in direzione della bionda. Il calore prodotto dal fulmine superava i 10 000 gradi e bruciò qualunque cosa situata nel raggio della massiccia onda termica.
Carol, tuttavia, rimase ferma e immobile, fiduciosa che il suo corpo sarebbe stato in grado di assorbire l’attacco senza problemi, proprio come era accaduto tante altre volte in cui aveva combattuto con avversari che facevano uso di armi ad energia.
Il fulmine la colpì in pieno petto, illuminando la radura circostante. E per la prima volta dal suo scontro con Carnage…la donna provò dolore.
Fu come essere colpiti da un treno in corso. Si piegò in avanti e sputò un rivolo di saliva, mentre la forza dell’attacco la scagliava dritta contro un albero.
La pianta, tuttavia, non frenò certo l’avanzata della donna, la cui esile figura sparò dritta oltre la foresta, atterrando nei giardini di casa Danvers e proiettando in aria una densa nube di detriti e pezzi di terriccio.
Peter fissò l’intera scena con fare incredulo.
<< Carol! >> esclamò, pronto a correre in aiuto della compagna Avenger. Non ne ebbe la possibilità.
Sable si frappose all’istante tra i due e compì un affondo con il coltello.
Sorpreso, il vigilante riuscì a evitare l’attacco per un pelo, ma non fu altrettanto fortunato con il calcio rotante che la donna gli indirizzò sul fianco. Poi, l’avversaria balzò in avanti e protese il pungolo elettrico, centrando il petto dell’adolescente e sbalzandolo di alcuni metri.
Peter sibilò per il dolore e saltò in aria per evitare un altro affondo, ma i movimenti di Sable erano molto più veloci di quanto si aspettasse, scattanti come quelli di un gatto. Ben presto, entrambi i combattenti si ritrovarono coinvolti in una danza mortale, un tripudio di attacchi e schivate in cui nessuno dei due sembrava disposto a demordere.
“ Questa donna…non è del tutto umana” valutò il ragazzo. Nessun’umana normale sarebbe mai stata in grado di tenergli testa in uno scontro corpo a corpo. E chiunque fosse questa donna…lo stava mettendo non poco in difficoltà, nonostante l’addestramento aggiuntivo ricevuto dagli altri Vendicatori.
Pugno, gancio destro, gomitata, calcio laterale…per quanto fosse veloce, Sable riusciva a schivare ogni sua offensiva, rispondendo di conseguenza. Non che il vigilante fosse da meno, sia chiaro. Pure lui aveva una sentinella della sopravvivenza che lo aveva servito fedelmente negli ultimi anni, e anche in quel momento stava facendo il suo lavoro a dovere. La vera domanda era…per quanto tempo ancora?
Nei giardini di casa Danvers, invece, stava per avere luogo una battaglia di tutt’altra entità.
Carol si alzò lentamente dal cratere fumante e si portò una mano sul punto in cui Electro l’aveva colpita.
<< Che diamine? >> sussurrò, conscia del fatto che avesse sentito tutta l’intensità di un colpo che il suo corpo geneticamente modificato avrebbe dovuto assorbire.
Max fuoriuscì dalla selva e cominciò a camminare verso di lei con aria fiduciosa.
<< Quel trucchetto non funzionerà una seconda volta >> disse con un sottofondo di cupo divertimento, visibilmente compiaciuto dall’espressione rabbiosa che ricevette dalla supereroina.
Quest’ultima cominciò a illuminarsi di un intenso bagliore dorato e sparò verso il cielo, fermandosi ad alcuni metri da terra e preparandosi a riversare sul superumano un torrente di energia cosmica.
In quel momento, Cetnau sbucò dalla coltre di alberi e affiancò il criminale.
<< È ora di tarparle le ali >> disse questi, indicando la bionda.
Lo Yautja non annuì nemmeno e si limitò ad estrarre un paio di sfere dalla cintura dell’armatura. Queste partirono spedite in direzione dell’Avenger, illuminate da un’occasionale ping! rosso. E quando furono ad appena un paio centimetri da lei - poco prima che la donna potesse completare il suo attacco – esplosero all’unisono, illuminando la volta stellata di fiamme. Subito dopo, la figura di Carol cominciò a precipitare a terra, fino a schiantarsi contro il giardino dell’abitazione una seconda volta.
Sia Electro che Cetanu cominciarono a camminare verso di lei, mentre la donna fuoriusciva tossendo dal cratere fumante appena creato. Ma proprio in quel momento, Marie Danvers atterrò di fronte ai due con un balzo, nuovamente vestita nella sua armatura da battaglia Kree.
<< State lontani da mia figlia >> ringhiò, assumendo una posizione difensiva.
Max ridacchiò divertito.
<< Di solito non me la prendo con le donne anziane. Ma per te… >> disse mentre le sue mani iniziarono a rilasciare scariche di natura elettrica, << Penso che farò un’eccezione >>
<< Vuoi ballare? >> aggiunse Cetanu con la registrazione della voce di Peter, mentre dai suoi polsi fuoriuscivano un paio di lame affilate.
Marie venne presto affiancata dalla figlia ed entrambe le donne caricarono verso la coppia di avversari.
La battaglia di Harpswell…era cominciata.
 
                                                                                                                                                     * * *
 
Sable scattò in avanti come un serpente, muovendo il coltello con grande maestria.
Ad ogni colpo puntava sempre alle giunture della tuta - le parti più sottili – dando prova di una mentalità nata per comprendere al meglio le debolezze di un avversario e sfruttarle a proprio vantaggio.
Peter fece una capriola in aria e atterrò a testa in giù sul tronco di un albero, portandosi lontano dal raggio d’azione della donna. Aveva bisogno di elaborare una strategia. Non poteva certo continuare a schivare per sempre…
ZZZZZZZZZZZZZZZ!
Saltò di lato, appena in tempo per evitare una raffica di proiettili scaturita direttamente dallo sciame di lucciole meccaniche. Prima che potesse atterrare su un altro albero, tuttavia, qualcosa lo afferrò allo stomaco.
Abbassando appena lo sguardo, il vigilante si rese conto che si trattava di una di quelle strane appendici meccaniche che spuntavano dalla schiena dell’uomo con il trench.
<< Lanciamelo! >> esclamò Schultsz, e questi fece come richiesto, agitando il tentacolo e spedendo Spider-Man dritto contro il criminale.
Shocker sollevo ambe le braccia e sparò una potente onda sonica, colpendo l’arrampica-muri in pieno.
<< E gli yankees battono un fuori campo! >> urlò con un ghigno maniacale, mentre il corpo del vigilante atterrava pesantemente sul terreno della foresta.
Peter tossì dietro la maschera e si rimise in piedi con un gemito. << Ugh, brutta storia >>
<< No >> lo interruppe una voce alle sua spalle.
Il vigilante ebbe appena il tempo di voltarsi, incontrando lo sguardo malevolo di Mac Gargan.
 << Io sono brutto >> ghignò il trafficante, procedendo ad avvolgere la propria coda attorno al collo dell’Avenger.
Questi tentò di liberarsi, ma invano. La presa dell’avversario era troppo forte.
Poi, Gargan cominciò a sbatterò violentemente da una parte all’altra della radura, per poi lanciarlo in direzione dello sciame di lucciole. Le piccole macchine presero a sparargli addosso senza un minimo di esitazione, intaccando pesantemente i sistemi interni della tuta.
Peter crollò a terra, visibilmente provato dalla raffica di colpi. Tentò di rialzarsi, ma qualcosa lo inchiodò a terra.
<< Pensavo che saresti stato molto più difficile da catturare >> commentò Octavius, mentre faceva pressione sul corpo dell’eroe utilizzando uno dei suoi bracci artificiali. << Mi deludi veramente, Spider-Man. E lui che ti tiene in così grande stima. >>
L’adolescente grugnì per il dolore.
<< Prima di tutto, chi sarebbe questo LUI? Dovresti chiarire i pronomi che usi. E secondo…tu non mi hai preso! >> esclamò, mentre tre zampe meccaniche sparavano dalla schiena, ingaggiando quello dello scienziato e costringendolo a indietreggiare.
Il vigilante si mise rapidamente in piedi, assumendo una posizione difensiva. << E sentiamo, tu chi saresti? Capitan Scarafaggio? L’Anemone Anemico? Il Polipone Samara? >>
<< Io sono un dottore >> ribattè Octavius, stringendo gli occhi in un paio di fessure.
In risposta a quella dichiarazione, Peter si limitò a rilasciare un sonoro sbuffo.
<< A te serve un dottore! E una camicia di forza molto resistente >> aggiunse, mentre uno dei bracci meccanici tentava di colpirlo. L’Avenger riuscì a evitarlo senza problemi e atterrò su un ramo d’albero.
<< Non sono pazzo >> ringhiò lo scienziato. Al contempo, i quattro tentacoli fecero pressione sul terreno, permettendogli di raggiungere l’arrampica-muri. << Con me tramonterà la tua esistenza strisciante. >>
Spider-Man saltò su un altro ramo, mentre quello su cui si trovava in precedenza venne tranciato in due. << No, non c’è proprio niente di folle in questa tua affermazione, Mr Crab. >>
<< È dottore! >> sibilò Octavius, il volto adornato da un’espressione visibilmente irritata. Non era certo abituato a trattare con persone così loquaci.
Cominciò a bersagliare il vigilante, agitando gli arti meccanici in una frenesia impazzita e colpendo qualunque cosa si frapponesse fra lui e l’Avenger.
Peter fece del suo meglio per evitare gli attacchi, ma presto si sentì sopraffare dalla stanchezza.
<< E in cosa ti sei laureato, in polpologia?>> chiese con tono beffardo, nel tentativo di far perdere la concentrazione dell’avversario. << Ehi, questo sì che è un bel titolo per te…Doctor Octopus! Orecchiabile, no? >>
<< Non burlarti di me! >>
Questa volta, per frenare l’attacco imminente, Spider-Man fu costretto a portare le zampe meccaniche in avanti e intralciare quelle di Octavius.
Sfortunatamente, il numero limitato di arti gli impedì di frenare l’avanzata del quarto. Ben presto, si  ritrovò avvolto in una poderosa stretta.
<< Sei molto più interessante di persona >> commentò lo scienziato, mentre tirava l’Avenger verso di sé. << Non vedo l’ora di sezionarti. >>
<< Sezionarmi? Di canaglie come te ne era piena la mia scuola. E tu saresti stato il peggiore della squadra! >> ribattè Peter con voce strozzata. I polmoni gli erano in fiamme e i sistemi interni della tuta avevano cominciato a lampeggiare di rosso a causa della pressione esercitata dal tentacolo.
Octavius schioccò la lingua e procedette a sbattere violentemente l’adolescente sul terreno.
<< Loquace… >> iniziò, per poi ripetere la stessa azione una seconda volta, << non è sinonimo di intelligente, aracnide! >>
Lanciò il corpo dell’Avenger contro Gargan e questi lo colpì con la coda, inchiodandolo contro il tronco di un albero.
Peter sputò sangue dentro la maschera e tentò di rimanere cosciente.
<< Auch >> fu tutto quello che riuscì a borbottare, poco prima di essere nuovamente scaraventato in aria.
 
                                                                                                                                                        * * *  

Un lampo azzurro illuminò l’oscurità della notte, rapidamente seguito dal suono inconfondibile di un fulmine che colpiva il suolo.
Carol evitò l’attacco e rispose con una raffica di energia cosmica, che venne prontamente intercettata da uno degli attacchi dell’avversario.
Entrambe i raggi si collegarono a mezz’aria, sprigionando scintille e scariche di natura elettrica nell’area circostante. Pezzi di terriccio si sollevarono da terra, scoppiettando a causa del calore generato dalla potenza di quei colpi, mentre l’erba del giardino iniziò a prendere fuoco.
Dopo qualche altro secondo, l’accumulo di energia si rivelò troppo elevato da sostenere ed entrambi i colpi esplosero in una miriade di scintille. Ma i due combattenti non si lasciarono frenare da un simile intoppo.
I loro corpi schizzarono in aria come petardi, ad una velocità assai difficile da rilevare per un normale occhio umano. Ad un passante casuale sarebbero apparsi quasi come una coppia di meteore in perenne rotta di collisione.
Pochi metri sotto di loro, Cetanu e Marie erano impegnati in un balletto mortale.
Il Cacciatore menò le braccia in rapidi fendenti e la donna fece del suo meglio per evitare le lame che spuntavano dai polsi dell’alieno come coltelli da macellaio.
“No” si corresse mentalmente. Perché un coltello da macellaio non sarebbe mai riuscito a scalfire la sua pelle rinforzata. Quelle lame, invece…sarebbero state capace di penetrare lo scafo di una corazzata Kree.
Erano progettate per uccidere e avrebbero perseguito il loro scopo in maniera assolutamente efficiente e spietata.
Dopo l’ultimo assalto, Marie riuscì a trovare un’apertura e colpì lo Yautja allo stomaco, facendolo indietreggiare.
Questi si rimise subito in posizione d’attacco, apparentemente inalterato dal colpo appena subito. Un colpo che sarebbe stato sufficiente per spezzare la schiena di un normale essere umano. 
La donna non perse tempo e scattò in avanti, cominciando a menare pugni e calci contro l’avversario.
Lo yautja riuscì a scansare la maggior parte dei colpi e rispose in natura.
<< Se vuoi condividere il destino della tua figlia mezzo sangue, guerriera di Hala…Cetanu non te lo negherà! >> ruggì l’alieno nel suo idioma nativo.
I sistemi interni della tuta di Marie tradussero il tutto senza problemi, spingendo la donna ad aumentare l’intensità dei propri attacchi.
All’improvviso, una forza sconosciuta la colpì al fianco. Sentì il respiro che le si mozzava in gola, mentre il suo corpo rotolò per diversi metri lungo il terreno erboso, fino a sbattere violentemente contro un albero.
Tossì un rivolo di sangue, alzò lo sguaro…e si bloccò.
Di fronte a lei avevano appena preso posto due esseri dall’aspetto a dir poco grottesco.
Erano quadrupedi, grossi almeno quanto un lupo, con teste massicce e tozze adornate da numerosi spuntoni. Le fauce irte di denti affilati erano piegati in ghigni malevoli a causa di lunghe zanne che fuoriuscivano direttamente dalla mandibola. La loro pelle era di una colorazione molto vicina al blu, simile a quella di un rinoceronte.
<< Il cacciatore si è portato dietro i suoi cani >> sibilò l’ex Kree con fastidio.
E in quel momento, le due bestie ruggirono all’unisono, per poi caricare verso di lei.
Marie urlò di rimando e partì a sua volta, puntando dritta contro le creature.
Una di esse le balzò addosso con tutta l’intenzione di staccarle la testa con un unico e poderoso morso. La seconda, invece, aveva occhi solo per le gambe.
Marie fece pressione sui piedi e saltò in aria, evitando quest’ultima e portandosi proprio nella traiettoria della prima. Sospesa nel vuoto, girò su se stessa e colpì la testa della bestia con il tacco della scarpa, facendola precipitare al suolo con uno stridio.
Atterrò a sua volta e rotolò subito di lato, appena in tempo per evitare un pugno ad opera di Cetanu.
Tentò di contrattaccare, ma una delle bestie la attaccò alle spalle, inchiodandola a terra con le sue robuste zampe artigliate. Con la coda dell’occhio, Marie vide che quella che aveva colpito si era già rialzata…e aveva gli occhi puntati su di lei.
Prendendo un respiro profondo, la donna strinse ambe le mani e pigiò l’erba sotto di sé, riuscendo a sollevare la schiena e facendo incespicare il suo assalitore all’indietro.  Fu tutto quello di cui aveva bisogno.
Si voltò di scatto, afferrò le zanne della creatura e cominciò a tirare con tutta la forza che aveva in corpo.
La bestia cominciò a stridere per il dolore e tentò di liberarsi, ma invano: Marie strappò le protuberanze ossee direttamente dal suo cranio, uccidendola.
Fatto questo, girò su se stessa appena in tempo per incontrare quelle della seconda bestia. Fu così che Kree e cane da caccia si ritrovarono bloccati in una sorta di braccio di ferro tra pesi massimi.
Il terreno sotto i piedi della donna cominciò a inclinarsi e lei iniziò a indietreggiare. Fu presto chiaro che la forza esercitata da quell’essere era superiore alla sua.
E in quel preciso istante, un ronzio familiare risuonò nelle orecchie della Danvers.
Girando appena la testa, Marie si rese conto che il piccolo cannone sulla spalla di Cetanu stava puntando direttamente su di lei e sembrava ormai in procinto di sparare.
La donna fu costretta a reagire in fretta. Si scansò di lato, ma il conseguente contraccolpo permise ad una delle zanne della bestia di strusciare contro il suo fianco, intaccando l’armatura e procurandole una sontuosa ferita. Poco male. Sarebbe stato un piccolo prezzo da pagare per sopravvivere a ciò che accadde dopo.
L’arma dello Yautja sparò, e un proiettile di pura energia andò a infrangersi contro la creatura, squarciandola in due. E Marie non diede certo il tempo all’alieno di comprendere quello che era appena successo.
Scattò ambe le braccia in avanti, lanciando le zanne come un paio di giavellotti. Cetanu riuscì a intercettare il primo, ma il secondo gli si conficcò direttamente nell’articolazione della spalla, facendolo ruggire di dolore.
Cadde all’indietro tra i cespugli, e la donna approfittò della situazione per cominciare a correre in direzione della battaglia che si stava svolgendo tra Carol ed Electro.
Sua figlia...aveva bisogno di aiuto.
 
                                                                                                                                                                 * * *               
 
Peter trattenne il respiro.
Era riuscito a sfruttare l’oscurità della foresta per nascondersi alla vista dei suoi assalitori, ma dubitava seriamente che una simile tattica sarebbe durata a lungo andare.
Quasi some se l’universo volesse dargli una prova concreta a favore di questa ipotesi, ecco che lo sciame di lucciole pilotato da Phineas si materializzò davanti a lui. L’adolescente ebbe appena il tempo di evitare la conseguente raffica di colpi, il cui scoppiettare attirò subito l’attenzione della banda di criminali.
Peter cominciò a muoversi da un ramo all’altro, mentre lo sciame lo inseguiva con implacabile efficienza, senza minimamente accennare al voler frenare la sua caccia. 
Atterrando con un balzo, il vigilante fece saettare le zampe meccaniche e tranciò di netto il tronco di un albero, facendolo precipitare. Per sua fortuna, la reazione delle lucciole non fu abbastanza rapida.
L’albero cadde proprio in mezzo alla loro traiettoria, e lo sciame di piccole macchine vi si schiantò contro, esplodendo in una miriade di scintille e sbuffi di fumo.
Ma Peter non ebbe nemmeno il tempo di godersi quel breve attimo di vittoria, poiché una forte onda sonica lo colpì direttamente alla schiena, spedendolo oltre la foresta. Il corpo del vigilante rotolò lungo il giardino di Casa Danvers, proprio mentre Shocker si faceva strada oltre la coltre di alberi assieme a Scorpion.
Il criminale sorrise soddisfatto e cominciò a caricare un secondo colpo, puntando i pulser in direzione di Peter.  Sfinito – ma ancora in grado di combattere – il vigilante fu rapido a contrattaccare.
Strinse la mano a pugno e sparò una ragnatela che andò a conficcarsi nel petto di Schultz.
Il corpo dell’uomo cadde in avanti, provocando un contraccolpo dell’onda sonica che stava per generare. L’onda d’urto conseguente spinse il criminale in aria, facendolo ricadere pesantemente sul cratere appena generato dall’attacco.
Mac Gargan lanciò un’imprecazione e fece scattare la coda da scorpione come una frusta.
Peter schivò il colpo. Era molto più agile di quanto ci si sarebbe potuti aspettare da un qualunque essere umano, ma l’ex trafficante era ben conscio di quali mostruose abilità fosse dotato quel ragazzo.
Tornò all’attacco con un ringhio, muovendo la coda in rapidi movimenti.
Spider-Man indietreggiò e cominciò a colpirlo alle gambe con una raffica di ragnatele, rendendo l’avversario sempre più inabilitato ad ogni passo, finché questi non si ritrovò incollato a terra.
ZZZZZZZZZZZZZZ!
Il ronzio familiare permise a Peter di evitare un altro attacco ad opera di Sable, la quale aveva ripreso a bersagliarlo con il coltello.
<< La cosa sta diventando snervante >> borbottò il vigilante, compiendo alcune capriole all’indietro.
Un’altra vibrazione lo costrinse a scansarsi di lato, proprio mentre la punta della coda di Gargan si conficcava nel punto in cui era stato fino ad un secondo prima.
Internamente, l’adolescente si ritrovò non poco sorpreso dal fatto che l’uomo fosse riuscito a liberarsi così in fretta.
Scattò in piedi e si preparò all’assalto imminente.  Teneva le mani davanti a sé, con i palmi aperti, in una posizione da karate. Quando saltò, il piede con rinforzo metallico colpì la l’ex trafficante alla testa.
Gargan cadde in un’aiuola, sollevando terra e concime.
Senza dargli il tempo di recuperare, Spider-Man saltò sopra di lui e lo colpi una, due, tre volte in faccia.
Il criminale sibilò per il dolore e usò la coda come leva per tirarsi in piedi, proprio mentre Peter lo avvolgeva in un filo di ragnatela.
Girò su se stesso nel tentativo di colpirlo, e il vigilante seguì a ruota, esercitando un po’ di pressione sulle braccia.
Lo slancio mandò Gargan a volare oltre la macchina parcheggiata nel vialetto. Cadde per terra, rotolò e sbattè violentemente contrò il muro di casa Danvers.
Si rialzò a fatica e si tolse un po’ di sporcizia dalla tuta meccanica, lanciando a Peter uno sguardo di puro odio. Respirava a fatica e sembrava piuttosto provato dai colpi appena subiti, ma in lui il vigilante vide ancora la determinazione di un uomo che avrebbe continuato a combattere fino alla morte.
“ Non posso continuare così” fu la conclusione a cui arrivò l’Avenger. Combattere un singolo avversario era semplice. Due? Più complicato. Tre? Difficile, ma ancora fattibile…ma quattro avversari capaci di tenergli testa in combattimento? Questo andava ben oltre le sue competenze. Doveva assolutamente ridurre il loro numero.
Un’idea cominciò a prendere forma nella mente dell’arrampica-muri.
Volse la propria attenzione nei confronti di Shocker e disse: << Lo sai, Schultz? Una volta ho conosciuto una talpa che mirava meglio di te! >>
La reazione del criminale fu rapida e prevedibile.
Arricciò il volto in una smorfia grottesca e porse ambe le mani in avanti.
<< Sta zitto! >> gridò, mentre una potente onda sonica scaturiva dai pulser e puntava dritta contro Peter.
“ Tutto secondo i piani” pensò il ragazzo, mentre rotolava di lato per evitare l’attacco.
Troppo tardi, Schultz si rese conto di essere caduto in una trappola. Il colpo sonico attraversò la distanza tra l’uomo e Spider-Man nella frazione di pochi secondi, ma senza un bersaglio continuò implacabile la sua avanzata, fino ad infrangersi contro la macchina parcheggiata nel vialetto.
Il veicolo sbalzò in aria...e finì dritto contro la figura di Gargan.
<< Oh >> fu tutto ciò che l’ex trafficante riuscì a dire, prime di essere travolta da una tonnellata di acciaio.
Sia la macchina che il criminale attrvarsarono il muro di casa Danvers come se fosse fatto di burro, spargendo schegge di legno e detriti nell’area circostante. Pochi secondi dopo, quella sezione del complesso cominciò a crollare su se stessa, seppellendo Gargan sotto una catasta di cartongesso.
Schultz spalancò gli occhi per la sorpresa e schioccò la lingua.
<< Scusa! >> esclamò, seppur consapevole del fatto che il compagno d’armi non sarebbe mai stato in grado di sentirlo. Forse era addirittura morto.
In quel preciso istante, qualcuno gli picchietto la spalla.
<< Toc toc >> disse una voce che provocò un brivido lungo la spina dorsale dell’uomo.
Ebbe appena il tempo di girarsi, poco prima che Spider-Man lo centrasse con un pugno in volto. Il colpo, seppure non abbastanza forte da rompergli le articolazioni del cranio, fu comunque sufficiente a metterlo K.O.
Il corpo di Schultz crollò a terra come un sacco di patate, il tutto sotto lo sguardo soddisfatto di Peter.
“ Fuori due” pensò vittorioso.
ZZZZZZZZZZZZZ!
Si voltò di lato, appena in tempo per evitare il pungolo elettrico di una certa sicaria.
Sable era tornata all’attacco e sembrava del tutto intenzionata a completare il lavoro che i suoi collaboratori non erano riusciti a portare a termine.
I suoi movimenti erano agili quanto quelli di Spider-Man e, considerata la sua forza, per un momento l’adolescente si ritrovò a valutare l’idea che fosse stata potenziata geneticamente.
A ogni ulteriore parata o pugno della donna, Peter sentì le proprie forze abbandonarlo. Probabilmente aveva subito fratture multiple a causa dei colpi subiti in precedenza, e forse pure un’emorragia interna.
“ Non posso continuare. Devo…”
Prima che potesse completare quel pensiero, Sable riuscì a centrarlo con un poderoso calcio laterale alla testa, facendolo cadere a terra. L’adolescente tentò di rialzarsi, ma lei gli mise un piede sulla gola, bloccandolo.
<< Spiacente, signorina >> disse il vigilante, con tono di voce strozzato. << Ma il sadomaso non è esattamente il mio genere. Almeno mi inviti prima a cena! >>
Con sua sorpresa, gli occhi della donna parvero allargarsi. Sembrava sinceramente presa in contropiede da quelle parole.
Peter non lasciò certo che una simile apertura andasse sprecata.
Fece forza sulle gambe e colpi Sable alla schiena, facendola incespicare in avanti e perdere la presa.
Rotolò di lato e si rimise in piedi, per poi avvolgere la sicaria in un bozzolo di ragnatele. La donna cadde a terra e tentò di liberarsi, ma senza alcun risultato. La sostanza vischiosa era troppo densa.
Arrivando alla conclusione di essere finalmente fuori pericolo, Peter rilasciò un sospiro di sollievo.
<< E resta lì! >> disse indicando la donna. Sable, tuttavia, si limitò a sorridergli, il che allarmò ulteriormente l’Avenger. Presto si rese conto del perché.
ZZZZZZZZZZZZZZ!
Qualcosa di duro e metallico le afferrò allo stomaco e al collo, sbattendolo violentemente contrò ciò che rimaneva del muro esterno di Casa Danvers.
<< Se vuoi una cosa fatta bene…fattela da solo >> commentò Octavius, mentre Peter cercava inutilmente di liberarsi dalla presa dei tentacoli.
Uno degli arti meccanici cominciò a contrarsi. Le appendici alla punta presero a brillare di un intenso bagliore azzurro, accompagnato da occasionali scariche elettriche.
Spider-Man deglutì a fatica e fece pressione sulla parete per spingersi in avanti. Purtroppo, l’azione si rivelò del tutto inutile, poiché la forza esercitata dai tentacoli superava di gran lunga la sua. Era in trappola.
Octavius arricciò ambe le labbra in un sorriso colmo d’anticipazione. << Non preoccuparti, non farà male…molto! >>

                                                                                                                                                * * *
 
Un esplosione di luce illuminò la volta celeste come tanti fuochi d’artificio.
Carol ed Electro continuarono a bersagliarsi di colpi energetici, riversando scintille e scariche elettriche al di sopra della città, mentre il bagliore dei loro corpi cresceva di conseguenza.
All’improvviso, il criminale saettò alle spalle dell’Avenger, centrandola alla schiena con un poderoso pugno. Il colpo, che in altre circostanze non avrebbe fatto altro che caricare ulteriormente la donna, fu abbastanza forte da scaraventarla verso terra, facendola schiantare nel quartiere sottostante.
Electro sorrise, soddisfatto che i macchinari realizzati da Octavius si stessero rivelando utili come sperato.
Carol fuoriuscì dal cratere, gemendo per il dolore. Portandosi una mano alla bocca, si rese conto che stava sanguinando dal labbro.
<< Tsk…ora mi hai fatto arrabbia… >>
Si bloccò di colpo, gli occhi puntati in direzione di una scena che le fece fermare il cuore.
Vide Peter mentre veniva sbattuto violentemente contro il muro di Casa Danvers, avvolto dai tentacoli meccanici dell’uomo vestito con il trench. Il vigilante sembrava incapace di liberarsi ed era in evidente difficoltà.
Carol stava per lanciarsi in suo aiuto, ma in quel momento la figura di Electro atterrò davanti a lei, sollevando una nuvola di polvere.
La donna strinse i denti e passò brevemente lo sguardo tra il superumano e la figura intrappolata del compagno.
Non sarebbe mai stata in grado di liberarsi del suo avversario e raggiungere Peter in tempo. Ma come comportarsi in una situazione del genere? Era letteralmente bloccata tra l’incudine e il martello. Ma forse…
Un’idea rischiosa attraversò la mente dell’Avenger. Un piano fattibili…ma assai pericoloso per la sicurezza del compagno. Tuttavia, era anche l’unica linea d’azione che avrebbe potuto ribaltare le sorti dello scontro.
Prese un respiro profondo e volse un ghigno derisorio nei confronti Electro.
<< Pensi che solo perché non riesco ad assorbire i tuoi attacchi sarai in grado di battermi? >> domandò con tono di voce beffarda, mentre al contempo cominciava a circumnavigare il supercriminale.  << Sei solo un criminale di serie B, Maxwell. A confronto di individui come Thanos e Carnage…beh, non sei altro che una macchia di schifezza spiaccicata sulla pagina sportiva del giornale. >>
Tali parole ebbero l’effetto sperato.
Gli occhi di Electro cominciarono a scoppiettare, segno del fatto che fosse incredibilmente arrabbiato.
Porse le mani in avanti con tutta l’intenzione di compensare una simile offesa.
<< Muori! >> urlò, mentre un raggio di pura elettricità sparava in direzione di Carol.
“Jackpot” pensò la donna. Al contempo, condensò una grande quantità di energia cosmica nelle mani, creando una sorta di scudo che intaccò il colpo avversario.
Il potere di Electro e quello di Capitan Marvel cominciarono a lottare per il predominio, condensandosi in una sorta di bolla. Scariche di natura elettrica - e non - iniziarono a scaturire da quella sorta di sfera, riducendo in fiamme qualunque cosa con cui entrassero in contatto.
Nel mentre, Carol fece appello ad ogni oncia di forza che aveva in corpo per muovere le braccia lungo il fianco destro…indirizzando ambe gli attacchi verso un punto ben preciso.
La bolla di pura energia condensata puntò su Octavius e lo colpì dritto alla schiena. Electro non ebbe nemmeno il tempo di avvertirlo.
Poco dopo, un urlo di dolore squarciò la cacofonia della battaglia, mentre il corpo dello scienziato veniva avvolto da un intenso bagliore. Seguì rapidamente il grido di Peter, ma il vigilante non si lasciò certo sfuggire una simile occasione.
Approfittò della presa allentata degli arti meccanici, saltò a debita distanza dall’avversario e atterrò sulla schiena con un tonfo. Al contempo, Octavius cadde in ginocchio, mentre scie di fumo si alzarono dalla sua figura martoriata.
Appena pochi secondi dopo, il corpo dello scienziato crollò a terra. Vivo…ma sicuramente fuori gioco.
Electro si voltò all’istante in direzione di Carol, avvolto dalla testa ai piedi in un alone che illuminò l’intera proprietà.
<< Maledetta! >> ringhiò, per poi lanciarsi contro di lei.
Carol evitò l’assalto e utilizzò la collera del supercattivo a proprio vantaggio.
Si mise dietro di lui e lo spinse violentemente sul terreno, sollevando zolle di terra.
<< Vediamo come te la cavi senza questa tuta >> sibilò, afferrando il suddetto indumento e cominciando a tirare. Affondò un piede nella schiena dell’uomo per fare pressione e con un grido di pura rabbia strappò la tuta direttamente dal corpo di Max.
Compì un balzo all’indietro e gettò l’indumento da parte, proprio mentre Electro si rialzava in piedi.
Questi si voltò verso di lei…e il cuore della donna mancò un battito.
Si era aspettata molte reazioni da parte dell’uomo: rabbia, fastidio, possibilmente un po’ di paura. Quello che non si aspettava era il sorriso predatorio che Max le stava rivolgendo in quel momento.
Alzò ambe le mani verso di lei, e allora Carol intravide un paio di sottili bracciali avvolti attorno ai polsi del superumano, che fino a quel momento erano stati nascosti sotto le maniche della tuta.
<< Pensavi davvero che fosse la tuta a impedirti di assorbire la mia energia? >> chiese Electro con tono beffardo.
Un raggio di pura energia scaturì dai palmi dell’uomo, colpendo in pieno la donna. Ma per qualche ragione, l’attacco sembrò molto più potente dei precedenti e la scaraventò contrò ciò che rimaneva di Casa Danvers.
Tossì un rivolo di sangue e provò a rialzarsi, ma un secondo colpo la tenne inchiodata a terra.
<< Stupida! Quella tuta serviva a proteggere i miei colleghi! >> continuò Max, attaccando una terza volta.
L’elettricità cominciò a farsi strada nel corpo della supereroina, facendola sibilare per il dolore.
<< Ma visto che ora sono tutti fuori gioco…credo di non aver più motivo di trattenermi >> concluse il supercattivo.
Alzò la mano destra ed evocò una lancia fatta di pura elettricità condensata. Sembrava quasi un’arma solida.
Sorrise con fare maniacale e disse: << Così cade Capitan Marvel…per mano di Electro! >>
L’arma calò sul petto della donna. Carol chiuse gli occhi, aspettando il dolore inevitabile.
Sapeva bene che, senza la possibilità di assorbire l’energia generata dall’uomo, la sua pelle sarebbe stata trapassata da parte a parte come se fosse burro.
Ma in quel momento, una sfocatura verde entrò nella visuale della donna.
Carol osservò il tutto come a rallentatore, mentre Marie Danvers afferrava Electro alle spalle, stringendolo a sé. Quell’azione la mise direttamente in contatto con l’energia di cui era composto il superumano, qualcosa che avrebbe ridotto un uomo normale ad uno scheletro fumante.
Ben presto, la figura dell’ex Kree venne avvolta da numerose scariche elettriche.
La donna urlò per il dolore. Tuttavia, tenne salda la presa e cominciò a roteare su se stessa, facendo appello ad ogni oncia di autocontrollo che aveva in corpo per non lasciare andare il criminale nonostante la pena che stava affrontando.
Poi, scaraventò Electro oltre i giardini della proprietà…dritto nel canale che affiancava il loggiato.
La reazione del corpo del supercattivo a contatto con la superficie dell’affluente fu praticamente istantanea: Max cacciò un urlo di dolore che sembrò riecheggiare per tutta la città, seguito da un lampo accecante. La sua figura cominciò a distorcersi, diventando una massa indistinta di lampi e scariche elettriche.
Schizzi d’acqua si sollevarono verso il cielo, mentre il corpo del superumano diventava sempre più sfocato. Scintille, onde, tuoni e lampi…silenzio.
Una calma piatta tornò a regnare sul canale, come se non fosse successo nulla. Di Electro…nessuna traccia.
Carol volse alla madre un’espressione incredula. << Come…come sapevi che avrebbe funzionato? >>
<< Un’idea del tuo amico >> rispose la donna, indicando dietro di lei.
A quel punto, la figura martoriata di Peter zoppicò fino alla coppia con aria visibilmente stanca.
<< Chimica elementare. L’acqua è davvero un buon conduttore >> borbottò, sorridendo sotto la maschera nonostante il dolore provocato dallo scontro.
Lanciò una rapida occhiata in direzione del canale.
 << Anche se dubito che una cosa del genere lo fermerà a lungo. Dagli un paio d’ore e sarà come nuo…Off! >>
Prima che potesse terminare la frase, Carol si lanciò in avanti e lo strinse in un poderoso abbraccio.
<< C-Carol! >> balbettò il vigilante, mentre Marie volgeva alla coppia di Avengers un ghigno divertito.
<< Ti sei sicuramente meritato quella cena >> disse la bionda, facendo arrossire l’adolescente.
Questi si preparò a restituire l’abbraccio, seppur imbarazzato dalla presenza di Marie…e si bloccò.
ZZZZZZZZZZZ!
L’aria dietro a Carol sembrò incresparsi. Questo, unito al suo senso di ragno, fece reagire il vigilante praticamente d’istinto.
<< Carol! >> esclamò, portando la donna dietro di sè e frapponendosi fra lei e l’imminente minaccia.
La supereroina ebbe appena il tempo di spalancare gli occhi per la sorpresa, mentre osservava qualcosa di aguzzo e invisibile farsi strada verso l’adolescente. Era come osservare il tutto attraverso un telo di plastica.
Ma poco prima che l’increspatura potesse incontrare il petto di Spider-Man…ecco che il corpo di Marie gli si mise davanti.
Si udì il suono di qualcosa che veniva lacerato.
Il tempo parve fermarsi e un silenzio inesorabile sembrò calare su tutta la zona. Appena pochi secondi dopo, una lunga lancia metallica si materializzò al centro dello stomaco della donna.
Dietro di lei, Cetanu tornò visibile e tirò indietro l’arma, riversando uno spruzzo di sangue sul terreno erboso.
Marie cadde a terra e tossì un rivolo di saliva scarlatta, gemendo per il dolore.
Gli occhi di Carol si illuminarono come un paio di lampadine. Senza nemmeno rendersi conto di quello stava facendo, scattò in avanti e colpì lo Yautja con tanta forza da fargli attraversare Casa Danvers da parte a parte.
<< Mamma! >> urlò disperata, mentre si piegava sul corpo del genitore. Peter si affiancò subito a lei e cominciò a esaminare la donna.
Il buco che ora le adornava lo stomaco era grande quando una palla da baseball e sanguinava copiosamente. Al vigilante bastò solo un’occhiata per comprendere che quella era davvero una brutta ferita…e potenzialmente mortale.
Carol arrivò probabilmente alla stessa conclusione, perché si alzò in piedi con fare quasi meccanico e si voltò in direzione di Cetanu, fissandolo con odio oltre l’enorme buco che il corpo dell’alieno aveva scavato nelle mura dell’abitazione.
<< Tu…tu… >> sussurrò, mentre lo Yautja procedeva a rialzarsi.
La figura di Capitan Marvel cominciò a tremolare e l’erba attorno a lei iniziò a prendere fuoco.
E fu in quel momento…che un urlò titanico squarciò il silenzio della notta.
<< GAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAH! >>
L’esplosione di energia cosmica fu l’equivalente di un’eruzione vulcanica stipata nel corpo di una singola donna. Peter si mise subito sul corpo di Marie, per proteggerla dalla conseguente onda termica.
I sistemi della tuta lampeggiarono di rosso e la temperatura interna cominciò a salire esponenzialmente.
La figura di Carol divenne rossa come il fuoco stesso. Sembrava quasi avvolta dalle fiamme di una stella sul punto di andare in supernova.
Era una visione terrificante e magnifica al tempo stesso.  Rabbia, dolore, disperazione…tutte quelle emozioni si riversarono nella mente della supereroina come un fiume in piena.
Scattò in avanti, lasciandosi dietro una scia di ceneri e terra bruciata.
Cetanu non ebbe nemmeno il tempo di realizzare ciò che stava per accadere. Venne colpito in pieno da un pugno condensato di pura energia cosmica a temperatura solare.
Sentì il proprio pettò spaccarsi in due, e il suo corpo volò spedito come se fosse più leggero dell’aria.
Una sfocatura rossa gli arrivò alle spalle, prima che potesse finire sulla strada. Carol gli afferrò la testa da dietro e la sbattè violentemente contro il vialetto dell’abitazione, generando un’onda d’urto abbastanza forte da sollevare diverse zolle di terreno per un raggio di venti metri.
I pali della luce che si trovavano nel quartiere iniziarono a sprigionare scintille. Alcuni crollarono e altri ancora presero fuoco.
Carol girò il volto dell’alieno e notò che la maschera si era spezzata, rivelando le vere fattezze della creatura. Un paio di piccoli occhi gialli incontrarono quelli della donna, due palline di luce incastonate in una testa sproporzionata e dotata di grosse mandibole, simili a quelli di un ragno.
Cetanu sostenne lo sguardo della supereroina, sfidandola a completare l’opera…a dargli la sconfitta degna di un guerriero del suo calibro.
La rabbia tornò a farsi strada nell’animo dell’Avenger.
<< Muori! >> esclamò, mentre sbatteva un pugno sul volto dell’alieno. Sangue verde schizzò in ogni direzione, bagnandole la tuta.
<< Muori! MUORI! >> continuò, colpendo la creatura ad ogni urlo.
Dopo quasi un minuto buono, sì udì un sonoro Crack! e il cranio dello Yautja cedette sotto la potenza di quell’assalto, riversando frammenti di cervello e liquido bioluminescente sulle ginocchia della donna.
Ma ella sembrò non accorgersene e continuò a colpire il volto maciullato di Cetanu come se ormai non potesse più fare altro.
E ancora…e ancora, per quello che sembrò un tempo interminabile.
L’alieno aveva già esalato il suo ultimo respiro da un po’, eppure lei non sembrava capacitarsene. Aveva ferito sua madre e meritava che le sue sofferenze continuassero anche dopo la morte.
<< Carol, basta! >> urlò una voce maschile alle sue spalle. Ma la donna sembrò non sentirla e continuò a colpire ciò che restava dello Yautja.
All’improvviso, una mano si posò sulla sua spalla.
<< Caro…basta >> sussurrò Peter, facendola fermare di colpo. << È finita. È …è morto. >>
Quelle parole ebbero l’effetto sperato.
La donna si svegliò come da un sogno e si portò ambe le mani davanti agli occhi. Vide il sangue verde di Cetnau che le colava tra le dita e il cranio spappolato dell’alieno.
Trattenne un coniato di vomito e alzò lentamente lo sguardo in direzione del compagno Avenger.
<< Peter… >> sussurrò, mentre questi la abbracciava con fare rassicurante.
La donna sussultò al contatto, il cuore che le batteva a mille. Che cosa diavolo stava succedendo? Un momento prima stava combattendo contro Electro, e poi…
<< Mamma! >> esclamò, staccandosi dal vigilante e alzandosi di scatto.
Senza perdere tempo, corse in direzione del genitore ancora disteso sull’erba del giardino. L’emorragia allo stomaco non sembrava intenzionata a fermarsi e neppure la rigenerazione avanzata della razza Kree sarebbe stata in grado di curare una simile ferita.
Carol si portò una mano alla bocca per trattenere un urlo, ignorando il sapore del sangue di Cetanu che le bagno le labbra.  
<< Mamma…no, ti prego! Non puoi… >> singhiozzò, piegandosi sul corpo di Marie e afferrandole la mano destra.
La donna tossi un grumo scarlatto.
<< Piccola mia… >> sussurrò, sollevando il braccio libero e accarezzando dolcemente il volto della figlia.
Peter si accosto a lei, ma Carol non se ne rese nemmeno conto e cominciò a piangere.
<< Non puoi morire. Non quando ti ho appena ritrovato. Non sono…non sono così forte… >>
<< Lo sei. Sei la mia bambina…la mia piccola Car-Ell…>> disse Marie, arricciando ambe le labbra in un sorriso stanco.
Incapace di trattenersi oltre, la supereroina strinse il corpo del genitore. Con movimenti impacciati a causa del dolore, l’ex guerriera Kree restituì il gesto.
Mentre percepì un vuoto familiare farsi strada dentro di lei, Carol sentì anche il cuore della madre battere contro il suo. A poco a poco si sentì autorizzata a sentire altre verità, in qualche modo familiari e non familiari al tempo stesso. La verità su di lei…su loro due. In quel momento, in ogni momento. Perché era così che aveva sempre immaginato questo amore, queste braccia attorno a lei.
Questa persona aveva plasmato il mondo…il suo mondo, in così tanti modi.  Questa Mar-Ell, che aveva conosciuto quel che lei già conosceva…era stata dove lei era stata e aveva visto ciò che lei aveva visto…era ciò di cui più aveva fantasticato.  A ogni stella cadente, a ogni candelina spenta, immaginando di non doversi più sentire sola.
<< Sei la figlia di tua madre >> sussurrò Marie, mentre sentiva l’aria attorno a lei farsi sempre più pesante.
Carol strinse i denti e calde lacrime continuarono a bagnarle l’armatura.  << Ci sono tante cose che voglio chiederti…>>
<< E ci sono tante cose che io devo dirti.  Sui nostri poteri…la nostra razza…la nostra famiglia… >>
<< Su di te, mamma >> ribattè la figlia, singhiozzando disperatamente.
Marie non rispose e si limitò a stringerla a se, passandole una mano rassicurante tra i capelli dorati.
Carol tornò a fissarla dritta in quegli occhi del colore del cielo più limpido. << Che cosa volevi, quando sei venuta qui da Hala? Qual’era la tua missione? >>
<< Oh, tesoro…non è ovvio? >> disse la donna, con voce sempre più flebile. << Eravate voi…la mia missione siete sempre stati…voi. >>
E fu in quel momento, nella calda notte di un giorno autunnale, che Marie Danvers, figlia di Hala, madre di Carol Danvers…spirò.
 
 
 
 
 
Già…perché io non sono contento se non faccio scoppiare almeno una tragedia a fic.
I Sinistri Sei sono stati sconfitti ( anche se Phineas ha partecipato alla battaglia solo con le sue lucciole meccaniche ), Cetanu è morto…ma ad un prezzo altissimo. E credetemi, non è finita qui.
Mentre avveniva tutto questo, IT non è certo rimasto a guardare.
Spero che lo scontro a nove vie sia stato di vostro gradimento, poichè è la prima volta che realizzo una battaglia con così tanti combattenti costretti ad alternarsi, ciascuno dotato del proprio stile per quanto riguarda poteri, armi o altro.
Ho cercato di dare a ciascuno di essi il giusto spazio, e – soprattutto - una degna uscita di scena.
Fatemi sapere se ci sono riuscito!

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Capitolo 12
*** Time to float! ***


Eccovi un nuovissimo capitolo!
Vi auguro una piacevole lettura e spero che troverete il tempo per lasciare un commento ;)


 

Time to float!
 
Una lieve brezza cominciò a calare sulla città di Harpswell. Un vento leggero che portava il respiro della morte, giunto in quella cittadina del Maine per sottrarre un’altra anima dal mondo dei viventi.
Carol rimase in ginocchio, affianco al corpo esanime della madre, incapace di credere a quello a cui aveva appena assistito. Peter si trovava a pochi passi da lei, le mani chiuse in pugni serrati e il volto abbassato in cupa rassegnazione.
Un gemito attirò l’attenzione di entrambi.
Schultz sembrava essersi ripreso dal colpo infertogli da Spider-Man pochi minuti prima, e stava cercando di rialzarsi.
La reazione di Carol fu praticamente istantanea.
Prima ancora che Peter potesse tentare di calmarla, si alzò di scatto e camminò rapidamente fino all’uomo. Questi non ebbe neanche il tempo di rendersi conto di cosa diavolo stesse per succedere.
La donna lo afferrò per il colletto e lo sollevò a mezz’aria, facendogli emettere un grido di sorpresa.
<< Chi vi ha ingaggiato? >> chiese freddamente, il volto adornato da un’espressione impassibile.
Schultz si limitò a inviarle un’occhiata sprezzante. << Se pensi che ti dirò qualcosa… >>
Non riuscì a finire la frase. Carol partì spedita in avanti e lo sbattè violentemente contro il tronco di un albero.
<< Chi-vi ha-ingaggiato? >> ripetè con maggiore enfasi, gli occhi parzialmente illuminati da un intenso bagliore.
Il criminale, tuttavia, mantenne un’espressione risoluta. Una scelta che avrebbe presto cominciato a rimpiangere.
<< Non vuoi parlare? Bene >> sussurrò Carol, per poi posare una mano sul volto dell’uomo.
Per un attimo, non accadde nulla. Poi, la donna riversò nelle dita un torrente di energia cosmica…e cominciò a bruciare la faccia di Schultz.
Questi spalancò gli occhi e urlò per la sorpresa e il dolore al tempo stesso, mentre sentiva la propria pelle squagliarsi sotto il calore generato dall’Avenger. Fu una sensazione straziante. Era quasi come se qualcuno lo avesse costretto a poggiare la guancia sopra una fornace accesa. No…era peggio. MOLTO peggio. L’uomo non ebbe alcun problema a contemplare che le fiamme dell’inferno non avessero nulla da invidiare a ciò che stava patendo in quel preciso istante.
<< Chi vi ha ingaggiato?! >> ringhiò Carol, aumentando la pressione esercitata sul suo viso.
Ben presto, l’uomo si ritrovò incapace di sopportare ulteriormente quel dolore.
<< Osborn! Norman Osborn >> urlò disperato, mentre calde lacrime cominciarono a bagnargli la tuta.
La supereroina ritrasse la mano e prese a fissarlo con un’espressione confusa. Quel nome…le sembrava familiare. Ma dove lo aveva già sentito?
La risposta a tale domanda non tardò a farsi sentire.
<< Il magnante delle industrie Oscorp? >> chiese incredulo Peter, avvicinatosi alle spalle della collega.
Carol inarcò un sopracciglio. Conosceva le Industri Oscorp…come qualsiasi altra persona di New York, del resto. Assieme alla Stark Tower, la loro sede logistica era l’edificio più alto di tutta la città.
<< Sì, lui! >> confermò Schultz, annuendo rapidamente.
La supereroina strinse ambe gli occhi in un paio di fessure.
<< Perché? >> domandò impassibile.
E quando il criminale sembrò  restio a risponderle, riversò altra energia cosmica nelle dita.
<< Perché ?! >>
<< Voleva che ti catturassimo! >> urlò impaurito , volgendo lo sguardo in direzione di Peter. Questi spalancò le lenti della maschera, visibilmente sorpreso dall’affermazione dell’uomo.
Perché mai un magnante miliardario avrebbe voluto catturarlo? Inoltre, se aveva inviato questa squadra di maniaci ad Harpswell…allora era a conoscenza della sua identità segreta! Ma come? Lui…era stato attento. O, almeno, era abbastanza sicuro di esserlo stato. Nessuno, a parte gli Avengers, sua Zia e Ned, era a conoscenza della sua identità civile. Ma allora, come…
<< Non so perché, lo giuro! >> riprese Schultz con voce supplichevole, distogliendolo da quei pensieri.
Carol fissò intensamente l’uomo, valutando l’idea di bruciargli la faccia anche solo per potersi sentire un po’ meglio nonostante la situazione attuale.
Ma in cuor suo, sapeva bene che Peter non avrebbe mai approvato un simile comportamento. Con tutta probabilità, avrebbe cercato di fermarla.
Giunta a questa conclusione, sbattè la testa del criminale contro l’albero e lo mise K.O.
Lasciò cadere il corpo dell’uomo e prese un paio di respiri profondi, nel tentativo di calmarsi. E fu in quel momento …che un pensiero inquietante cominciò a farsi strada nella mente della supereroina.
<< Joe… >> borbottò a se stessa, dopo essersi ricordata che il fratello era rimasto in casa per tutto questo tempo. Una casa che, negli ultimi minuti, era stata teatro di una battaglia che ne aveva spazzato via almeno la metà.
Voltandosi, si rese conto che parte del loggiato era crollato su se stesso. E se Joe fosse stato ferito durante lo scontro? O peggio…
Cominciò a correre in direzione dell’abitazione, rapidamente seguita da Peter.
Una volta entrati, i due Avengers si resero conto quanto la battaglia avesse pesantemente influito sulla casa. Sembrava l’ultima vittima di un bombardamento: i mobili erano a pezzi, il tetto sembrava sul punto di collassare, le mura ancora in piedi si contavano sulle dita.
Ma ciò che fece davvero gelare il sangue di Carol, una volta che i suoi occhi ebbero finito di perlustrare gli interni del loggiato…fu l’enorme scritta rossa dipinta sull’unica facciata del salotto rimasta intatta.


TUO FRATELLO È PRONTO A GALLEGGIARE!

Firmato, Pennywise :) 

 
                                                                                                                                  * * *
 
Joe Junior si sveglio dopo due giorni passati nell’immobilità più totale.
La prima cosa il suo corpo registrò…fu l’odore. Un odore di uova marce e di rame mischiato assieme, come la carcassa di un animale morto.
Sbattendo le palpebre un paio di volte, i contorni di ciò che lo circondava cominciarono a farsi più marcati. Presto, si rese conto di essere in un luogo buio e umido.
Era in una stanza di notevoli dimensioni. Il pavimento su cui poggiava il suo corpo era coperto di frammenti di porcellana. Poco lontano da lui, vi era un  serbatoio inclinato in una pozzanghera. Il resto era occupato da enormi cataste di oggetti che andavano da bici abbandonati a televisori fatti a pezzi, passando per roba più rudimentale come sacchetti di plastica e rotoli di cartai genica usati. Sembrava quasi una discarica.
<< Dove…dove sono? >> sussurrò a se stesso, mentre i ricordi dell’incidente cominciarono a inondargli la mente come un fiume in piena. << C-cosa è…cosa è successo? >>
Un ringhio alle sue spalle lo fece sussultare.
Si voltò di scatto e puntò lo sguardo in direzione di un’apertura situata lungo la parete opposta della stanza. Dapprima come scintille, vide un paio di occhi luminosi nella tenebra. Divennero velocemente più distinti, animati da un riverbero malvagio.
Ora, sovrapposto al rumore di acqua scroscianti, Joe udiva un suono nuovo... un ringhio.
 Una zaffata fetida esplose dalla bocca frastagliata dello scarico, facendolo vacillare all'indietro e tossire per trattenere il vomito.
Poi, qualcosa si fece strada oltre l’apertura…e il cuore di Joe mancò un battito.
Era lo stesso inconfondibile e terrificante Rottwailer che quasi quarant’anni prima era riuscito a mandare Joe in ospedale, dopo avergli morso la gamba. L’uomo lo aveva sognato molte volte da allora, e ancora oggi riteneva che quell’animale fosse la cosa più terrificante su cui i suoi occhi si fossero mai posati.
Il grosso cane - nero come la notte - si fermò con le zampe villose ai lati dell'apertura dello scarico.
Feroci occhi rossi lo scrutarono. Il muso si arricciò, esponendo zanne fra le quali colava una schiuma giallognola.
Mandò un ringhio paralizzante che risvegliò in Joe paure che credeva di aver superato ormai da tempo. Poi…scomparve nell’oscurità, senza lasciare traccia. E prima che l’uomo potesse domandarsi cosa stesse succedendo, ecco che una voce squillante riecheggiò alle sue spalle.
<< Fatti avanti, Junior! Fatti avanti! >>
Joe si voltò di scatto e, aguzzando la vista, si rese conto che proveniva da quello che aveva tutta l’aria di essere un fonografo.
<< Vieni a trasformarti! Vieni a galleggiare! Riderai! Volerai! Gioirai…morirai… >> continuò la voce, mentre una strana musica da carnevale iniziò a suonare in sottofondo. << Ti presento Pennywise…il clown ballerino! Ah ah ah ah ah! >>
Joe cominciò a indietreggiare…e la sua schiena tocco qualcosa che non era sicuramente un muro. Il corpo dell’uomo si tese come una corda di violino.
Deglutì a fatica, alzò lo sguardo…e i suoi occhi incontrarono quelli gialli e malevoli di Pennywise.
<< Boo! >> esclamò il clown, sorridendo malignamente.
Joe cacciò un urlo di sorpresa e tentò di allontanarsi, ma invano. La creatura lo afferrò per il collo con una delle sue mani guantate e lo sollevò da terra come se non avesse peso.
L’uomo cercò di liberarsi, ma il periodo passato come un vegetale ambulante aveva drasticamente influito sulla sua salute. Era completamente alla merce del pagliaccio.
<< Io…ugh…non ho paura di te >> balbettò con voce strozzata, mentre la presa dell’essere sembrò farsi più forte. Questi si limitò a ridacchiare, apparentemente divertito dalle parole del suo prigioniero.
<< Ne avrai, ragazzino >> commentò con una voce molto più profonda. << Ne avrai eccome! >>
Fu allora che il volto di Pennywise cominciò a cambiare. Le pupille della creatura si ridussero a un paio di linee sottili, come quelle di un serpente, e un paio di fauci irte di denti affilati, gocciolanti saliva, si materializzarono dal nulla, al posto della maggior parte del viso. 
I suoi occhi rotolarono all’indietro, la bocca iniziò a farsi sempre più larga, come le fauci di una lucertola.
Joe fu visibilmente tentata di urlare, ma i suoi istinti vennero prontamente surclassati dall’ ondata di shock che gli balenò in corpo, non appena il volto del pagliaccio prese a mutare in quell’immagine distorta e irriconoscibile.
E poi, una luce abbagliante fuoriuscì dalla gola del mostro, accompagnata da una serie di grida disperate. Per un attimo, Junior credette di essere impazzito. Non aveva la minima idea di quanto un simile pensiero fosse coerente con la realtà che stava per abbattersi su di lui.
Guardò dritto nella luce di IT…e la sua mente si spezzò.
Gli occhi dell’uomo divennero completamente bianchi. Appena un paio di secondi dopo, Il suo corpo cominciò a galleggiare verso l’alto, come una piuma.
Pennywise osservò soddisfatto la propria opera.
<< Adoro le riunioni di famiglia >> sibilò attraverso i denti.
La portata principale era pronta. Ora doveva solo apparecchiare la tavola per l’arrivo dei suoi prossimi ospiti.
 
                                                                                                                          * * * 
 
L’orologio della città segno le 19:00 in punto.
Richard Bachman chiuse il registratore di cassa e procedette a trasferire i guadagni della giornata nella piccola cassaforte che poggiava nell’angolo più interno del negozio, poco distante dalla scrivania che fungeva anche da tavolo di lavoro per l’analisi dei vari oggetti che gli venivano consegnati mensilmente da clienti o investitori dell’antiquariato.
Digitò la combinazione e rilasciò un sospiro affranto, ripensando agli eventi della giornata. Ripensando…al ragazzo che aveva condannato a morte, dopo averlo lasciato nelle grinfie del Male in persone.
Un vero peccato. Quel Peter gli piaceva, sembrava un giovane con la testa sulle spalle, molto educato. Non se ne trovavano più molti così, di questi tempi.
TRIIIN!
Il rumore del campanello d’entrata alle sue spalle lo costrinse a voltarsi.
<< Mi dispiace, ma siamo chiu… >>
Si fermò di colpo, non appena i suoi occhi incontrarono l’inconfondibile figura di Capitan Marvel.
<< Oddio >> fu tutto quello che riuscì a dire, prima che la donna lo afferrasse per il collo e lo scaraventasse oltre la scrivania.
Rotolò a terra e sbattè violentemente contro il muro opposto del negozio, lussandosi la spalla. La supereroina camminò fino a lui, rapidamente affiancata da un altro individuo che l’uomo riconobbe all’istante: Spider-Man.
Cosa diavolo ci facevano due Avengers ad Harpswell? E cosa più importante…cosa diavolo volevano da lui? Perché lo stavano attaccando ?!
Mentre la mente di Bachman cominciò ad elaborare varie ipotesi, Carol si piegò sulle ginocchia e gli afferrò una mano. L’ex soldato tentò di liberarsi, ma la presa della donna era troppo forte.
<< Te lo chiederò solo una volta. Dove si trova? >> ringhiò lei a denti stretti, ricevendo in cambio un’espressione visibilmente confusa.
<< C-chi? >>
<< Risposta sbagliata >>
CRACK!
Bachman emise un grido di dolore che riecheggiò per tutto il negozio e parte dell’isolato. Carol aveva stretto la presa sulla mano, non abbastanza da rompergliela…ma esercitando una forza sufficiente per lussargli l’articolazione del polso.
<< Riproviamo? >> chiese con un sorriso apparentemente innocente, mentre calde lacrime cominciarono a scivolare sul volto dell’uomo.
<< N-non so di chi tu stia parlando >> balbettò questi. << Ti prego, io…>>
<< Il clown, lurido figlio di puttana. Dimmi dove si trova! >> ringhiò l’eroina, ora illuminata da un intenso bagliore dorato.
Fu in quel momento che Bachman comprese finalmente la ragione per cui due degli esseri più potenti della Terra fossero entrati nel suo negozio. Loro…loro sapevano…
<< I-io non posso…mi ucciderà! >> esclamò terrorizzato.
In tutta risposta, Carol si limitò a fissarlo con aria impassibile. Rimase completamente ferma e immobile per quasi un minuto, lanciando solo una breve occhiata in direzione di Peter.
Quando quel lasso di tempo giunse al suo termine, volse nuovamente la propria attenzione nei confronti dell’ex soldato, fissandolo con una tale intensità che - anche se solo per un istante - l’uomo credette che sarebbe riuscita ad ucciderlo semplicemente guardandolo. Era una visione assolutamente spaventosa.
<< Mio padre era un uomo estremamente violento. Ogni volta che sbagliavo qualcosa... PUM! Un bel pugno >> iniziò la donna, con voce apparentemente casuale.  << Inizialmente ero una ragazza tranquilla, non facevo mai niente di male. Eppure… PUM! >>
Simulò un gesto con la mano libera, facendo sussultare Bachman.
Di fronte a quella reazione, Carol ridacchiò in apparente divertimento.
<< Al paparino piaceva molto l’alcol, capisci? E con il passare del tempo…riuscì a trasmettermi un po’ di quella passione per il menare le mani. Fu così che pure io diventai una persona estremamente violenta. Sul serio, niente mi da gratificazione quanto spaccare la faccia ad un pezzo di merda che se lo merita. E tu… >> disse indicando l’uomo, << caro il mio Bachman…hai speso l’ultimo anno ad aiutare un mostro a rapire e uccidere bambini. >>
Fece un sorriso predatorio e picchiettò la guancia dell’uomo, il quale aveva cominciato a sudare copiosamente.
<< Per quanto mi riguarda…questo ti rende un pezzo di merda di alta levatura. E questo mi fa arrabbiare. E quando mi arrabbio…alle persone capitano cose brutte >> sussurrò pericolosamente, avvicinando appena il volto a quello dell’ex soldato.  << Tu mi dirai dove si nasconde quel pagliaccio…o io ti colpiro ancora. E ancora…e ancora, fino a quando il tuo volto non sarà altro che una macchia informe spiaccicata sul muro di questo negozio. Ma forse non mi fermerò qui, no… >>
Sollevò la mano dell’uomo, ancora tenuta saldamente nella propria.
<< Forse prima ti romperò tutte le dita…e poi le mani…e i piedi >> continuò con voce apparentemente disinteressata, quasi come se stesse semplicemente discutendo del tempo. << Forse ti spezzerò le ginocchia…e solo quando avrai esalato il tuo ultimo urlo, solo quando avrai provato sulla tua stessa pelle il dolore che sto provando ora…solo a quel punto ti strapperò il cuore a mani nude e lo darò in pasto ai cani. >>
Il volto di Bacham si fece sempre più pallido. Deglutì a fatica, sentendosi la gola improvvisamente secca.
<< N-non puoi farlo…sei un supereroe…GHA! >>
Senza dargli la possibilità di terminare la frase, Carol fece pressione sul mignolo della mano e glielo spezzo, producendo un sonoro Crack!.
<< Non oggi, Bachman…non oggi >> sibilò attraverso i denti, mentre l’uomo riprendeva a piangere.
I suoi occhi si posarono sulla figura di Spider-Man, in cerca di aiuto.
<< L-le permetterai di farlo? >> domandò con voce supplichevole.
Peter si limitò a scrollare le spalle.
<< Ho le mani legate, amico. Se provassi a fermarla…beh, probabilmente mi scaraventerebbe dall’altra parte della strada >> rispose con cupo divertimento.
Fu allora che Bachman si rese finalmente conto di quanto fosse precaria la sua situazione.
“ Mi uccideranno…Oddio, mi uccideranno!” pensò disperato, mentre Carol sollevava la sua mano ancora una volta.
<< Quale dovrei rompere per prima? L’indice? L’anulare? O forse il pollice? >> chiese innocentemente. << Di solito è il preferito di tutti >>
<< I Barren! >> esclamò l’uomo, ormai troppo spaventato per poter pensare correttamente. Gli ultimi mesi sotto l’influenza di IT avevano drasticamente alterato la sua psiche, rendendolo sempre più facile da manipolare. Andato era il soldato che aveva combattuto per il suo paese nei lontani anni 70. Al suo posto…era rimasto solo un uomo impaurito.
Carol inarcò un sopracciglio e gli fece segno di continuare. Bachman deglutì una seconda volta.
<< È lì che si nasconde. Lui…usa le fogne per spostarsi >> aggiunse rapidamente.
La donna rimase in silenzio e lo scrutò attentamente, in cerca del minimo accenno di menzogna. Non ne trovò alcuno.
<< …Mostrami il suo rifugio >> ordinò freddamente.
Senza perdere tempo, l’uomo si alzò in piedi e, cercando di ignorare il dolore alla mano, camminò fino alla scrivania e aprì uno dei cassetti. Dopo qualche secondo speso ad armeggiare con i suoi interni, ne estrasse quella che aveva tutta l’aria di essere una mappa.
Solo che questa non rappresentava edifici o parchi…bensì le fognature della stessa Harpswell.
<< Ecco >> disse indicando un grosso cerchio nero che spiccava nel quadrante Nord-Est della cittadina. << L’entrata è qui, nel vecchio pozzo che si trova nel seminterrato di Neibolt Street 29. >>
Carol strinse gli occhi e fece mente locale.
Sì, ricordava bene quell’edificio. Era un’abitazione abbandonata situata nei pressi della periferia di Harpswell, spesso usata come rifugio da drogati e barboni. Un luogo che la maggior parte degli abitanti della cittadina preferivano evitare come la peste.
<< Non mi stai mentendo, vero Bachman? >> domandò con tono stucchevole, mentre afferrava saldamente il volto dell’ex soldato.
Questi scosse rapidamente la testa.
<< N-no >> balbettò, troppo impaurito per poter distogliere lo sguardo.
Carol lo fissò per qualche altro secondo…e poi, procedette a colpirlo in testa con un pugno, mandandolo a dormire.
<< Grazie per la collaborazione >> disse con tono beffardo, mentre si voltava in direzione di Peter. << Andiamo? >>
<< Purchè questa non diventi un’abitudine >> sospirò rassegnato, mentre lanciava una rapida occhiata al corpo di Bachman. Non gli era mai piaciuto ricorrere a simili metodi per estrarre informazioni, ma considerato quello che aveva passato Carol nell’ultima ora…beh, sinceramente non se l’era proprio sentita di provare a dissuaderla.
Con quel pensiero in mente, fece un cenno alla donna e fuoriuscì dal negozio. Poi, entrambi cominciarono a incamminarsi verso la loro prossima destinazione.
 
                                                                                                                             * * * 
 
Il numero 29 di Neibolt Street era esattamente come Carol lo ricordava.
Una villa di medie dimensioni dai comignoli aguzzi, consumata dal tempo e circondata da un giardino che pareva non essere stato curato da decenni, forse secoli.
Attorno ad essa aleggiava un’aria sinistra, soprattutto per le varie crepe che spiccavano lungo le pareti esterne, e anche la vista di tutte quelle ragnatele - appena visibili finestre ormai rotte - non poteva che accentuare ulteriormente la sensazione di essere stati catapultati in un film dell’orrore anni 80. 
Nessuno sapeva davvero quando fosse stata edificata, né chi fossero i suoi primi proprietari…e la donna cominciava a capire il perché.
Carol prese un respiro profondo e guardò lateralmente Peter.
<< Sei libero di non venire >> disse dopo qualche attimo di silenzio. << Non ti giudicherò per questo. >>
Il ragazzo si limitò ad inarcare un sopracciglio, fissandola con uno sguardo che lasciava trasparire una certa incredulità.
Nonostante la situazione, Carol si ritrovò a sorridere.
<< Giusto…domanda stupida >> disse con un sospiro, per poi porgergli la mano destra. << Pronto? >>
<< Come non mai >> rispose il vigilante, intrecciando le sua dita con le proprie. << Facciamo a pezzi quel bastardo. >>
A quel punto, entrambi cominciarono a incamminarsi verso l’entrata dell’abitazione.
Una volta giunti nei pressi del portico, le foglie sotto la veranda scricchiolarono e sbuffarono un olezzo acido e stantio.
Carol arricciò il naso. Aveva mai sentito foglie puzzare in quel modo? Non gli sembrava. Pareva quasi…odore di cadavere.
Aprì la porta e allungò il collo, scorgendo gli interni dell’abitazione.
<< Però, un posto davvero incantevole >> commentò Peter, mentre faceva lo stesso.
Il locale era in penombra, debolmente rischiarato da una luce sepolcrale che filtrava dalle finestre e si adagiava sul pavimento in terra battuta. Sembrò spazioso , quasi troppo, come se stesse sperimentando un'illusione ottica. S'incrociavano sopra di lui polverose travi di sostegno.
Le tubature che ne percorrevano il soffitto e parte delle pareti erano arrugginite. Dai tubi dell'acqua, in lunghi, sporchi brandelli, pendeva un vecchio straccio che doveva essere stato bianco.
C'era lo stesso odore di prima anche lì sotto, un disgustoso odore di putrescenza.
Dopo qualche minuti di esplorazione, la coppia di Avenegrs si diresse verso le scale di quella che doveva essere la cantina.
Vi si fermò davanti e guardò sotto. Allungò una gamba nel buio del sottoscala e con il piede uncinò qualcosa che trascinò fuori: era un guanto da clown bianco, ora sporco di terriccio e polvere.
Senza badarci troppo, continuò a scendere e Peter la seguì a ruota.
La cantina era altrettanto sporca quanto il livello superiore dell’abitazione.
 In un angolo erano ammassate bottiglie vuote. La donna odorò alcol etilico, soprattutto vino, e fumo stantio di sigarette. Era questo il puzzo dominante, che tuttavia si mescolava a quell'altro odore, ora più intenso.
E al centro della cantina…c’era un pozzo.
Carol guardò nell'apertura. Era larga forse un metro emmezzo, scuro come una caverna. Il bordo di pietra era incrostato di qualcosa di cui preferiva non sapere niente. Le ritmiche vibrazioni che salivano da esso avevano un potere quasi ipnotico e trasmettevano a alla bionda un senso di torpore.
Lanciò un’ultima occhiata in direzione di Peter e questi annuì in tacito accordo.
Poi, entrambi cominciarono a scendere.                                                                            

                                                                                                                            * * * 
 
Le fognature di Harpswell vennero realizzate nel 1885.
Da quell’anno in avanti, ci furono almeno una decina di diverse amministrazioni locali che avevano via via ampliato il sistema.
Durante la Depressione, la speciale amministrazione per i lavori pubblici fece costruire un intero sistema di drenaggio secondario e un terzo livello di fognatura. C'erano grossi stanziamenti per le opere pubbliche in quel periodo, ma il tizio che dirigeva tutti quei progetti restò ucciso nella seconda guerra mondiale e cinque anni dopo il dipartimento delle acque scoprì che quasi tutti gli incartamenti relativi erano scomparsi. Qualcosa come quattro o cinque chili di disegni finiti nel nulla fra il 1937 e il 1950.
Il che significava che quasi nessuno sapeva dove andavano a finire tutte quelle dannate gallerie che componevano il sottosuolo della cittadina, né perché.
Quando tutto funzionava, nessuno ci faceva caso. Quando qualcosa andava storto, invece, c’erano sempre tre o quattro poveri diavoli del dipartimento delle acque di Harpswell che dovevano andar giù a scoprire qual era la pompa che si era inceppata o dove si era verificata l'ostruzione. E quando dovevano scendere là dentro…era meglio che si portassero dietro dei viveri.
Perche le fogne di Harpswll erano un luogo buio, puzzolente e pieno di topi.
Già di per sé, queste erano tutte ottime ragioni per non entrarci, ma la più importante di tutte era che ci si poteva perdere. È spesso non si tornava più.
E ovviamente c’era l’altra questione…
<< Ugh, acqua nere >> borbottò Peter, mentre faceva del suo meglio per non pensare al fatto che metà delle sue gambe erano immerse fino al polpaccio nell’affluente fognario della cittadina.
Carol gli lanciò un’occhiata confusa. << Acque…cosa?>>
<< In poche parole? Rifiuti, piscio e merda. Stiamo letteralmente camminando nei liquami di Harpswell >> borbottò amaramente il vigilante, suscitando una smorfia ad opera della collega.
<< Grazie mille, Peter, avevo davvero bisogno di quell’immagine mentale >> commentò lei con un roteare degli occhi.
Il luogo che li circondava era immerso nell’oscurità più totale, motivo per cui la donna aveva riversato un po’ di energia cosmica nella mano destra. Abbastanza da illuminare il percorso senza rivelare la loro presenza. Anche se dubitava seriamente che la “cosa” a cui stavano dando la caccia non ne fosse già a conoscenza.
Tra quei condotti, la poca luce che giungeva fin lì filtrava dalle aperture nello zoccolo dei marciapiedi sopra di loro e qualche volta anche dalle fessure di qualche tombino. C'era del fantastico nel pensare che si trovavano sotto la città.
L'acqua si fece  più profonda. Già tre volte avevano visto galleggiare nella corrente animali morti: un topo, un gattino, un cadavere gonfio e dal pelo lucido che poteva essere una marmotta. Carol aveva sentito Peter trattenere un verso di disgusto.
L'acqua nella quale avanzavano era relativamente tranquilla, ma non sarebbe stato così ancora per molto: già si udiva non lontano un boato sordo. Man mano che procedevano, crebbe d'intensità.
Il condotto che stavano percorrendo girò ad angolo retto verso destra. Svoltarono di conseguenza e trovarono tre altri canali sotterranei che si riversavano in quello che avevano percorso. Erano allineati uno sopra l'altro, come le tre luci di un semaforo. Il loro condotto finiva lì.
La luce era leggermente più forte.
Peter alzò la testa e vide che si trovavano in un pozzo squadrato alto cinque metri circa. In cima c'era una grata dalla quale cascava loro addosso acqua a secchiate.
<< Junior! >> esclamò Carol, sperando con tutta se stessa di ricevere almeno una risposta da uno dei tre cunicoli. Tale speranza fu presto spazzata via da un silenzio inesorabile.
La donna schioccò la lingua e contemplò le bocche con aria scoraggiata. Quella di mezzo rovesciava acqua grigiastra. Da quella inferiore usciva un getto bruno di liquame semiliquido. Quella superiore, invece, rimetteva acqua quasi trasparente, sporca solo di foglie, pezzettini di legno e di rifiuti, quali mozziconi di sigarette, fascette di chewing-gum e altro del genere. E fu proprio sopra quella bocca che Carol intravide una scritta rossa a caratteri cubitali.
Recitava:
SE TUO FRATELLO VUOI RITROVARE, PER QUESTA VIA DOVRAI ANDARE.
<< Fantastico, ora si improvvisa pure poeta >> borbottò amaramente.
Entrambi gli Avengers si avvicinarono alla bocca superiore ed entrarono a carponi nel condotto con la faccia accartocciata in una smorfia.
L'odore era sì quello di fogna, odore di escrementi, ma in esso si mescolava anche un odore diverso, no? Un odore subdolo e organico. Se il cadavere di un animale avesse mai potuto avere un odore, non poteva essere molto diverso da quello che sentiva.
Questa è la direzione giusta. La cosa a cui davano la caccia era stata qui... ed era da molto tempo che girava da queste parti.
Pochi metri più avanti, l'aria divenne rancida e velenosa.
La coppia avanzò lentamente, resistendo alla pressione opposta di una sostanza fluida che non
era fango.
Infine, si trovarono in una grossa stanza.
L'oscurità era popolata di suoni, tutti amplificati ed echeggianti. C'erano gorgoglii e strani gemiti metallici.
Carol aumentò appena la luminosità delle mani, permettendo loro di distinguere ciò che li circondava.
Sembrava quasi che fossero stati catapultati nella discarica del Paese dei Balocchi. Ovunque i loro occhi si posassero, vi erano oggetti d’uso quotidiano e giocattoli accatastati l’uno sull’altro in enormi montagne fatte di spazzatura che si ergevano fino al soffitto gocciolante.
Inconsciamente, Peter sollevò la testa …e si bloccò.
<< Ehm…Carol… >> balbettò nervosamente, attirando l’attenzione della supereroina.
Questa inarcò un sopracciglio e seguì il suo sguardo. Ben presto, il volto della donna divenne una maschera di orrore.
<< Oddio >> sussurrò, non appena i suoi occhi si posarono su numerosi corpi di bambini che fluttuavano lungo il soffitto come palloncini. Avevano espressioni vuote, sembrava quasi che fossero in coma. Ma aguzzando meglio la vista, Carol si rese conto che ad alcuni di loro mancavano delle braccia…oppure le gambe…oppure la faccia…e la testa.
Deglutì a fatica e trattenne un coniato di vomito.
<< Quanti pensi che ce ne siano >> chiese Peter, il cui tono di voce aveva assunto una cadenza a dir poco sconsolata.
<< Ne conto…ne conto almeno una ventina >> rispose la compagna, incapace di sostenere ulteriormente quella vista.
Abbassò lo sguardo e sentì una mano stringerle la spalla con fare rassicurante.
<< Stai bene? >> chiese Peter, visibilmente preoccupato.
Carol annuì esitante.  << Sì, io…andiamo avanti >>
E così fecero.
Cominciarono ad esplorare la stanza, lanciando rapide occhiate alle montagne di rifiuti, nel tentativo di scovare anche il minimo segno di un indizio che potesse svelare la posizione di Joe.
Poi, dopo quasi dieci minuti di ricerca, la coppia si ritrovò in uno spazio aperto che dava su una specie di cornucopia. E al centro di quello spazio…vi era un corpo fluttuante molto familiare.
<< Junior! >> esclamò Carol. Senza perdere tempo, si lanciò in aria e afferrò il fratello, per poi trascinarlo a terra. Aveva i capelli umidi, il volto sporco e gli occhi spalancati del bianco più vivo, privi di pupille.
Il cuore della donna mancò un battito.
<< Junior! Oddio…Junior, no>> sussurrò, mentre veniva raggiunta da Spider-Man.
Mise un orecchio sul petto del fratello…e attese.
…Tung….tung…tung…
Il battito di un cuore pulsante le inondò il corpo di sollievo.
<< è vivo >> borbottò, facendo appello a tutto il suo autocontrollo per non scoppiare a piangere. << è ancora vivo >>
<< Per ora! >> esclamò una voce familiare alle spalle della coppia.
Carol si alzò di scatto e sollevò ambe le mani in avanti, illuminandole di energia cosmica. Peter la seguì a ruota, attivando le zampe meccaniche della tuta e preparandosi per lo scontro imminente.
Pennywise si trovava a circa una decina di metri da loro, il volto adornato da quel suo intramontabile sorriso color sangue.
<< Che cosa gli hai fatto, mostro? >> ringhiò la bionda, mettendosi di fronte alla figura del fratello con aria protettiva.
In tutta risposta, il clown ridacchiò in apparente divertimento.
<< Niente che non si risolverà con una bella dormita >> commentò con tono disinvolto, per poi cominciare a circumnavigare la stanza. << Devo ammetterlo, portarlo qui è stato un gioco d’azzardo. Non ero sicuro che sareste venuti…ma ci speravo davvero. >>
Sia Carol che Peter rimasero completamente immobili, seguendo la creatura con lo sguardo e preparandosi a reagire al minimo segno di attacco o minaccia.
<< Perché stai facendo tutto questo? >> domandò l’arrampica-muri, stringendo ambe le lenti della maschera in un paio di fessure. << Sei più potente di noi, lo scontro nella casa degli specchi lo ha dimostrato. Perché non hai cercato di ucciderci? >>
Pennywise si fermò di colpo e incrociò le braccia dietro la schiena.
Volse la propria attenzione nei confronti del vigilante, fissandolo attentamente con i pozzi dorati che aveva per occhi. Per un attimo, Peter si sentì nuovamente annegare in un oceano di orrore e disperazione, un mondo completamente separato da quello materiale. Un mondo pieno di mostri…e morte.
Tuttavia, si costrinse a mantenere i nervi saldi e restituì lo sguardo del pagliaccio con un’espressione determinata.
Pennywise sembrò non poco divertito dalla tenacia dell’adolescente.
<< La risposta semplice? Non potevo >> rispose con tono di fatto, sorprendendo non poco la coppia di Avengers.
<< Che cosa? >> sussurrò Peter, visibilmente preso in contropiede da quell’affermazione. << Perché? >>
A quella domanda, il clown cominciò a picchiettarsi la punta del mento, come se stesse valutando la possibilità di fugare o meno i loro dubbi.
Dopo qualche altro attimo di silenzio, sembrò giungere ad una conclusione.
<< Cercherò di spiegarvelo in modo tale che anche le vostre piccole e limitate menti mortali possano comprendere >> esordì con la sua voce squillante, per poi compiere un paio di colpi di tosse. << Vedete, bambini, per quanto l’universo possa sembrare caotico…in realtà, ha delle regole. Regole che perfino entità del mio calibro sono costretti a seguire, per evitare di attirare l’ira di certi individui bacchettoni che prendono molto a cuore il vangelo da loro professato. >>
Un milione di pensieri cominciarono ad attraversare la mente di Peter.
Regole? Individui bacchettoni? C’era davvero qualcuno capace di costringere una creatura come Pennywise a sottostare ad una serie di norme? Una sorta di…polizia universale? O forse un ente superiore?
Al pensiero che nell’universo potessero esserci altri esseri come lui…il vigilante si ritrovò incapace a trattenere un brivido.
Nel mentre, Pennywise sollevò l’indice della mano destra. << Ecco una delle regole più fastidiose: su questo piano esistenziali, gli esseri viventi come me…devono rispettare la legge della forma che abitano. >>
<< Che cosa significa? >> chiese Carol, il volto adornato da un’espressione diffidente.
La creatura si limitò a scrollare le spalle.
<< Significa che i poteri di questo corpo sono limitati a ciò che gli umani credono che sia capace di fare. Niente di più, niente di meno >> riprese pazientemente. << Se voi credete che questo corpo sia forte…allora lo è! Se pensate che sia debole…allora lo è! >>
Battè ambe le mani in un sonoro rintocco, facendo sussultare la coppia.
Poi, il sorriso del clown sembrò allargarsi ulteriormente, rivelando le zanne ingiallite che nascondeva sotto le labbra purpuree.
<< Ci ho messo anni per arginare questo problema. Quando mi hai visto rompere un vetro che pure tu avevi difficoltà a fare  a pezzi, Spider-Boy, il tuo cervello si è automaticamente convinto che ero più forte di te… quando in realtà era solo una mera illusione! >> esclamò con voce gioviale, mentre indicava il vigilante.
Puntò lo sguardo in direzione di Carol.
 << E quando la tua amichetta mi ha visto rigenerare le ferite che mi aveva inferto, come se fossero solo dei semplici graffi di seconda mano…a quel punto, pure lei si era convinta che fossi capace di tenerle testa in uno scontro >> terminò.
Fu allora che una rivelazione cominciò a farsi strada nella mente di Peter.
<< Ecco perché preferisci uccidere i bambini >> sussurrò quasi a se stesso. << Non è solo per le loro paure…ma perché sono molto più suggestionabili…più facili da ingannare. >>
<< Esattamente! >> confermò Pennywise, annuendo energicamente. << Purtroppo, questa è anche un’arma a doppio taglio. Specialmente quando si tratta di persone come voi. >>
Improvvisamente, l’aria del luogo iniziò a farsi più pesante. La coppia di Avengers sentì un brivido attraversare le loro spine dorsali, seguito da una fredda morsa che cominciò ad attanagliare i loro cuori.
Al contempo, l’espressione sul volto del clown cominciò a farsi sempre più cupa e innaturale.
<< Persone piene di…speranza >> ringhiò attraverso i denti. << Persone che vivono nella convinzione di poter superare ogni avversità…di elevarsi al di sopra del male come vincitori…convinti che non saranno i loro nemici ad ucciderli, e che continueranno a vivere per poter combattere un altro giorno. >>
Sotto gli sguardi allarmati di Peter e Carol, i lineamenti facciali del clown assunsero caratteristiche molto più bestiali, assai lontane da quelle di un volto umano.
Per un attimo, all’arrampica-muri parve di intravedere un paio di tenaglie spuntare dagli angoli della sua bocca, ma pensò che potesse trattarsi di un gioco di ombre.
<< Potevo combattervi…ma non potevo uccidervi, semplicemente perché voi pensavate che non ci sarei riuscito! Un bel rompicapo >> continuò la creatura, con aria visibilmente stizzita. << Ecco perché…vi ho portati qui. >>
Il tempo parve fermarsi. Un silenzio inesorabile sembrò calare nelle profondità della cisterna, accompagnato solo dal plop! occasionale dell’acqua piovana che scrosciava lungo le pareti dell’area fognaria.
Peter e Carol si drizzarono all’istante, i muscoli tesi per l’anticipazione. Il sangue cominciò a pompare nei loro corpi ad una velocità allarmante, mentre Pennywise recuperava il suo agghiacciante sorriso.
<< Come ti ho già detto, Peter, questo non è il mio vero aspetto. Solo…un abito. Un costrutto che uso per camminare tra i mortali >> disse indicando il suo corpo. << La mia vera forma si trova in un altro luogo.  Alcuni di voi umani lo conoscono con il nome di “Macroverso”. È piuttosto stupido, se volete la mia sincera opinione. >>
Fu dopo che Pennywise ebbe pronunciato tali parole…che il mondo attorno alla coppia cominciò a cambiare.
Una vecchia tappezzeria che mostrava elfi in cappuccio verde fra greche di boccioli di rosa si andò sfogliando dall'intonaco spugnoso. Il soffitto si alzò, quindi cominciò a rimpicciolire in lontananza come un razzo decollato verso la stratosfera. Le pareti si allungarono insieme con il soffitto, elastiche come chewing-gum e si slungarono anche le facce dei bambini morti, che persero ogni traccia di fisionomia quando gli occhi si trasformarono in lunghe fessure nere.
<< Vedete, cari i miei piccoli eroi…questo luogo è il punto esatto in cui le pareti che separano la vostra realtà dal Macroverso sono più sottili. In questo momento, il costrutto che indosso e la mia vera forma sono quasi culo e camicia >> riprese Pennywise, mentre il suo corpo iniziò ad ingrandirsi. << Non abbastanza da permettermi di utilizzare i miei poteri al 100%...ma abbastanza da permettermi di arginare qualche regola fastidiosa. >>
Peter e Carol compirono un passo all’indietro. Adesso, la figura del clown era alta quasi dieci metri, tanto grossa da poter quasi toccare il soffitto della stanza.
<< Indovinate di quale regola sto parlando >> sibilò attraverso le sue zanne ingiallite, sorridendo in modo predatorio.
Senza perdere tempo, i due Avenger attivarono la modalità da battaglia delle rispettive tute.
<< Non vi ucciderò subito, no >> continuò il clown, la cui voce aveva assunto la cadenza di un motore a scoppio sul punto di esplodere. << Per tutte le seccature che mi avete fatto passare…oh, vi assicuro che mi divertitò…MOLTO! >>
Accadde tutto nella frazione di un secondo.
Peter si sentì tirare da una forza invisibile e il suo corpo partì spedito all’indietro, allontanandosi da Carol.
<< Peter! >> esclamò la donna, mentre si preparava a seguirlo. Non ne ebbe la possibilità.
Il pavimento sotto di lei si aprì come il guscio di un uovo e la supereroina cominciò a precipitare nel nero abisso appena creatosi, urlando per la sorpresa.
Al contempo, Pennywise allargò ambe le braccia a mo’ di presentatore.
<< È ora di galleggiare! >> esclamò.
In quel momento, le lancette della torre dell’orologio cittadina segnarono mezzanotte. L’illuminazione notturna del complesso urbano si attivò in maniera del tutto automatica, poiché collegata ai meccanismi interni della centrale elettrica situata al confine dei Barrens.
 Fu anche l’ora esatta in cui le fogne di Harpswell esplosero in una cacofonia di suoni e colori, trasformando quel mondo oscuro e maleodorante in uno sfarzoso carnevale degli orrori.

 
 



Boom! E credetemi…nel prossimo capitolo galleggeremo un po’ tutti!
Spero che la spiegazione sul perché IT non abbia ucciso subito Peter e Carol sia stata di vostro gradimento. Sia chiaro, non me la sono inventata, si basa proprio sulla mitologia dell’universo di King.
Chi saranno le “entità bacchettone” a cui Pennywise fa riferimento? I fan dei fumetti e di IT forse lo hanno già capito.
Ci vediamo tra due settimane!

 

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Capitolo 13
*** The Eater of Worlds ***


Eccovi un nuovissimo capitolo! Vi auguro una piacevole lettura, perché qui si entra nel vivo della lotta ;)



The Eater of Worlds
 
Gli occhi di Peter Parker si spalancarono lentamente.
Ciò che videro, una volta che furono completamente aperti? Il buio. Era tutto ciò che lo circondava: il nulla assoluto. Era buio…e faceva freddo.
Per un attimo, l’adolescente credette di essere morto. Il pensiero che la non-vita potesse assomigliare a ciò in cui era stato catapultato – un nulla cosmico – lo fece rabbrividire. Ma fu proprio quella sensazione di terrore e incertezza a fargli capire che era ancora vivo, che era molto più che semplice pensiero disincarnato.
E poi, una voce squillante riecheggiò attorno a lui come un colpo di cannone.
<< All’inizio era il nulla. E poi fu…Guerra! >>
BOOM!
Un bagliore accecante esplose al centro di quel vuoto, illuminandone ogni angolo.
Peter si ritrovò costretto a coprirsi gli occhi per non perdere la vista, ma sentì comunque il calore di quel lampo che gli bruciava la pelle, attraversando i rivestimenti della tuta come fossero burro.
<< La luce dell’essere esplose nel mio regno. Accecato, caddi per eoni nello splendore >> continuò Pennywise, sebbene il vigilante non potesse capire se fosse vicino a lui o distante chilometri. Era tutto troppo confuso.
<< E dentro quella luce…qualcos’altro…dei. >>
Quando il calore cominciò ad attenuarsi, Peter abbasso la mano…e allora li vide. Giganti che sembravano usciti direttamente dai sogni più sfrenati di un pittore rinascimentale. Esseri grandi quanto galassie in armature fatte di pura luce, reggenti grandi alabarde nelle loro mani corazzate.
Non avevano volto…non avevano voce…erano semplicemente esistenza allo stato puro.
E in mezzo a loro? Un ombra, piccola e apparentemente insignificante, di cui Peter distinse solo un paio di occhi gialli come il sole stesso. Gli occhi…di Pennywise.
<< Quelli che giudicarono la mia dimora…incompleta. Come argilla per i loro sgraditi progetti >> ringhiò la voce, mentre il vuoto attorno all’Avenger cominciava a cambiare. << Che hanno bandito il mio abisso negli angoli più profondi della loro creazione. >>
Presto, il nulla venne sostituito dal “qualcosa”. Stelle e pianeti iniziarono a volteggiare lungo orbite ellittiche, comete sfrecciarono nell’oscurità e nebulose esplosero come fuochi d’artificio in mezzo a quella cacofonia di fenomeni cosmici.
L’ombra che una volta era IT osservò il tutto con cupo interesse…e provò rabbia. Rabbia per coloro che avevano osato sconfinare nella sua dimora. Nel suo santuario.
<< Erano giunti a chiamare il mio regno “spazio”, come se fosse qualcosa di vuoto che andava colmato >> sibilò,  mentre uno dei giganteschi esseri si chinava ad osservarlo con apparente curiosità.
Allungò la sua mano corazzata e IT vi salì sopra, inclinando la sua testa priva di caratteristiche facciali…ad eccezione degli occhi. Quegli occhi tanto familiari a Peter, detentori di pensieri che avrebbero potuto ridurre in poltiglia il cervello di qualunque mortale. Gli occhi del Male primordiale.  
<< Ma il mio regno non era vuoto. Il mio abisso non era morto…non era vuoto! >> rimbombò la voce, tanto forte da costringere l’Avenger a tapparsi le orecchie. << L’infinità delle mie terre non era a loro disposizione per essere distrutta e rimodellata. No…il vuoto respira. L’abisso…ha i DENTI. E le ombre si ingrandiscono alla luce. >>
Sotto il suo sguardo incredulo, la piccola ombra balzò verso il collo del gigante e aprì una sontuosa ferita nella sue carni, attraversando l’armatura dell’essere nella frazione di un battito di ciglia. Il titano, troppo sorpreso per potersi difendere adeguatamente, riuscì solo a portarsi ambe le mani nel punto in cui era stato colpito, mentre un liquido dorato e luminoso cominciò a fuoriuscire dal suo corpo.
<< Quella fu la prima volta che assaporai il sangue della creazione. E per quel crimine…venni bandito >> continuò Pennywise, mentre uno degli altri giganti si apprestava ad aiutare il compagno ferito.
Menò un possente fendente della sua alabarda, e l’arma andò a scontrarsi con il corpo minuto dell’ombra, scaraventandola oltre i confini dell’esistenza.
 << Ma gli dei non sapevano cosa avevano fatto. Gli sciocchi mi avevano mandato a casa, nel mio vuoto. Il mio “ Macroverso “ >> continuò la voce con cupo divertimento.  << Lì cominciai ad evolvere. Là, avvolto nell’oscurità, il dio di un’idea dimenticata…divenne il dio della distruzione. >>
A testimonianza di quell’affermazione, l’ombra cominciò a crescere. Divenne una massa indistinta di luce e oscurità al tempo stesso, sfruttando il sangue della Creazione come carburante.
<< Cominciai a cibarmi della luce…e la luce divenne parte di me. E con il passare di altri eoni, scoprì un altro cibo molto nutriente: l’immaginazione >> sussurrò, mentre urla di ogni genere e cadenza iniziarono a riecheggiare per lo spazio. Urla appartenenti a razze di cui Peter non aveva mai sentito parlare, altre fuoriuscite dalla bocca di tutte quelle anime umane che IT aveva mietuto nel corso della sua lunga vita.
<< E allora bevvi del sangue di innumerevoli razze…e migliaia di mondi caddero sotto le mie zanne. Miliardi di anime divennero parte di me. E le loro urla sono la canzone che mi accompagna ogni secondo della mia esistenza >> ringhiò l’entità.
E in quei pochi secondi che racchiudevano parte dell’eternità…Peter vide l’orrore. E capì che l’universo era dominato da Mostri.
<< Io SONO LA VITA! >>
BOOM!
Un’altra esplosione.
Luce…buio…silenzio.
 
                                                                                                                    * * * 
 
Paura. Per Carol era…fiori nella neve, dove nessun fiore dovrebbe mai crescere…un soldato in divisa bianca, immobile come un sasso. Una bandiera stesa e piatta come il quadrato di erba sintetica su cui stava in piedi. Paura era il tasto sibemolle, le prime lente note di taps…prima che si rendesse conto di cosa significassero e dove le aveva già sentite…al funerale di tuo fratello Steve, morto in Iraq. Pensava che questa volta sarebbe stata più facile. Ma niente con la sua famiglia era mai stato facile.
Per Carol Danvers, la paura era cercare le parole quando non c’era rimasto più niente da dire.
Quando aveva aperto la bocca per parlare, riusciva a stento respirare. Come se Joe Danvers avesse risucchiato tutto l’ossigeno dal mondo quando lo aveva lasciato…l’aveva lasciata.
Carol era abbastanza sicura di aver già vissuto una volta il funerale del genitore. Eppure…eccola lì, ancora una volta in quel cimitero avvolto da bianche fumate, a fissare un’immagine speculare di se stessa.
Suo fratello e sua madre erano più giovani, mentre lei era uguale a come era adesso.
Attorno a loro vi erano decine di persone vestite di nero e in divisa militare, tutti membri della famiglia di Joe, oppure compagni d’armi che avevano servito assieme a lui durante la sua carriera militare.
<< Capitano…qualche ultimo pensiero su suo padre? >> chiese improvvisamente il prete, riferendosi alla sua copia.
La donna in questione sussultò, come se si fosse appena svegliata da un sogno ad occhi aperti.
<< Io… >> borbottò, volgendo lo sguardo in direzione della bara contenente il genitore, sul punto di essere posta nella fossa comune scavata quella stessa mattina.
Carol trattenne il respiro e vide la sua controparte deglutire a fatica, mentre si avvicinava con passo lento ed esitante fino alla cassa in legno bianco.
Vi posò una mano sopra e chiuse gli occhi, sussurrando:  << Mio padre….era un avversario valido. >>
Quelle parole riecheggiarono per tutto il cimitero come un colpo di pistola.
Il cielo cominciò a farsi più cupo, facendo calare un ombra sull’ammasso di lapidi raccolte.
In quel preciso istante, qualcosa afferrò la spalla dell’Avenger, suscitandole un brivido lungo la spina dorsale. Con la coda dell’occhio, si rese conto che si trattava di una mano dalle sembianze scheletriche, quasi priva di carne. Ed essa era collegata ad un braccio ricoperto da una manica ingiallita, attaccato a sua volta ad un corpo umano.
No, si corresse mentalmente Carol. Quel corpo aveva ben poco di umano. Sembrava quasi uno zombie…e aveva il viso con le sembianze di Joe Danvers.
<< Dimmi, Carol…sei ancora la mia bambina? >> chiese il cadavere con una bocca senza labbra, scoprendo una fila di denti ricoperti da vermi e piattole color carbone.
La bionda rimase ferma e immobile, fissando dritta nelle pupille grigie di quel morto tanto simile a suo padre, eppure diverso.
Dopo quello che sembrò un tempo interminabile, prese un respiro profondo e…
<< No >> ringhiò freddamente, per poi sparare un raggio di energia cosmica nel petto dello zombie.
Questi lanciò un urlo animalesco e crollo a terra, riducendosi ad un mucchietto di cenere.
Il tutto sotto lo sguardo impassibile dell’Avenger.
<< Questo trucco non funzionerà con me. Non una seconda volta >> disse con tono di fatto, mentre il mondo attorno a lei cominciò improvvisamente a cambiare.
Non era più al cimitero.
Era in piedi in mezzo ad una foresta ed era quasi il crepuscolo.
Sembrava quasi il boschetto che circondava Harpswell, eppure era…diverso. Il fogliame era più esuberante, più fitto, inondato di una selvaggia fragranza. C'erano piante che non aveva mai visto, fra le quali felci gigantesche che dapprima aveva scambiato per alberi. C'era anche un rumore di acqua correnteò
 Inoltre, faceva parecchio caldo. Non che non facesse caldo nel Maine…ma quest'afa non era certo normale, nei periodi autunnali.
Nelle depressioni del terreno si annidava una bruma bassa, fumosa e densa. Emanava un sottile odore agro, come quello del fumo di legna troppo fresca.
Si fermò per guardarsi intorno, ruotò su se stessa e studiò l'orizzonte.
La città…era sparita. Là dove una volta c'erano le case, ora emergevano, dal fitto delle felci gigantesche e dei pini, massi e rosse formazioni di arenaria.
Qualcosa agitò rumorosamente i cespugli e poi qualcos'altro ancora. Carol ruotò su se stessa con il cuore che le batteva dolorosamente nel petto e vide per un istante la sagoma di un animale simile a un grosso struzzo.
Venne seguita a ruota da delle piccole creature simili a topi, insetti e altre bestie a cui non riusciva neppure a dare un nome.
“ Sta per succedere qualcosa… e loro lo sanno” fu il primo pensiero che attraversò la mente della supereroina.
Gli uccelli passarono, presumibilmente per atterrare in massa più a sud. Un altro animale misterioso galoppò nei pressi del punto in cui si era fermata... e un altro ancora.
Poi ci fu silenzio, salvo che per il rombo costante di un fiumiciattolo. C'era una sospensione in quel silenzio, un'attesa, qualcosa di gravido che a Carol piacque assai poco.
Nello stesso istante si rese conto che qualcosa aveva cominciato ad invaderle i piedi… un formicolare costante che gli saliva nelle caviglie e nei polpacci fino alle ginocchia, trasformandole i tendini in un paio di corde afflosciate. Cresceva. E cresceva…
La vibrazione acquisì voce, un boato in crescendo che raggiunse un'intensità travolgente.
Si schiacciò le mani sulle orecchie e urlò. E non udì se stessa urlare.
Le nuvole a ovest si accesero di un'infioritura di fuoco vermiglio. La fiammata scese verso di lei, ingigantendosi durante il viaggio, da arteria a torrente a fiume, di un colore sempre più minaccioso; poi, quando un oggetto incandescente trapassò la volta delle nubi cadendo verso la terra, si alzò il vento. Era torrido, fumoso e soffocante. L'oggetto nel cielo era possente, una fiammeggiante capocchia di fiammifero così fulgida da non poterla guardare a occhio nudo. Da esso scaturivano scariche elettriche, frustate azzurre che lampeggiavano e si lasciavano dietro una scia di tuoni.
E per quanto potesse sembrare strano…Carol intuì subito che doveva trattarsi del Male primordiale che avrebbe infestato Harpswell milioni di anni dopo.
Stava assistendo all’arrivo di Pennywise sulla Terra. All’arrivo…di IT.
Ci fu un'esplosione, un boato seguito da uno spostamento d'aria che la fece stramazzare a terra.
Seguì una seconda esplosione. Carol aprì gli occhi e vide un bagliore e una colonna di fumo che si alzava nel cielo.
Poi, un’enorme nuvola piroclastica si abbattè su di lei.
 
                                                                                                                          * * * 

Peter si ritrovò immerso nel buio ancora una volta.
Attorno a lui non vi era altro che il vuoto…eppure, a dispetto di ogni logica possibile, riusciva chiaramente a distinguere i contorni del suo corpo, i colori della tuta…quasi come se tutta la luce di quel luogo fosse concentrata esclusivamente su di lui.
<< Aiuto!! >> urlò una voce improvvisa nell’oscurità. Una che Peter riconobbe all’istante.
<< Carol! >> esclamò, mentre cercava di capire il punto da cui era partita. Un’impresa assai difficile, considerando il fatto che tutto ciò che lo circondava era il nulla più assoluto.
Camminò alla ceca per quello che sembrò un tempo interminabile, fino a quando i suoi occhi non si posarono sulla figura della compagna. Il suo corpo era appena illuminato da un intenso bagliore ed era avvolto da numerosi viticci color sangue.
<< Peter, aiutami >> singhiozzò la donna, il volto adornato da un’espressione sofferente.
Il ragazzo si ritrovò ad esitare. Carol era forse la donna più forte e coraggiosa che avesse mai incontrato. Ed era anche molto orgogliosa. Non avrebbe mai chiesto aiuto…
<< Non puoi ingannarmi >> disse freddamente, rimanendo ben piantato dove si trovava.  << lo so che non è reale! >>
<< Ma davvero?! >> chiese improvvisamente l’inconfondibile voce di Pennywise.
Il clown apparì come dal nulla affianco alla supereroina e le afferrò il collo, issandola da terra. La donna emise un sussulto soffocato e cercò di liberarsi, invano.
Questa volta, l’istinto di Peter ebbe le meglio sul buon senso.
<< Carol! >> esclamò, lanciandosi verso di lei. Tuttavia, una volta che il suo pugno entrò in contatto con il volto di Pennywise…sia la creatura che la donna si dissolsero in una coltre di nebbia.
Il vigilante iniziò rapidamente a guardarsi attorno, facendo appello ai propri sensi più sviluppati per cercare di prevenire un qualunque tipo di attacco.
<< Tu non sai cosa è reale, Spider-Boy! >> sibilò una voce alle sue spalle.
Peter si voltò di scattò e menò un altro pugno, ma il colpo incontrò solo il vuoto dell’aria.
All’improvviso, la figura di Pennywise si materializzò di fronte a lui. Nella mano destra, reggeva un grappolo di palloncini rossi.
<< Su, vieni dal clown, Peter! >> disse con tono beffardo, scoprendo le zanne che nascondeva sotto le labbra color sangue. << Galleggerai anche tu, quaggiù. TUTTI galleggiamo, quaggiù. Sì, galleggiamo! >>
Scoppiò in una sonora risata, un trillo acuto e graffiante che risuonò per tutta la lunghezza di quel vuoto senza fino.
Preso da un’improvvisa ondata di rabbia, il vigilante partì spedito contro il clown con tutta l’intenzione di ribaltare le carte in tavola. Ma prima che potesse raggiungerlo, si ritrovò a sbattere contrò qualcosa di invisibile.
L’aria di fronte a lui sembrò incresparsi. Era quasi come se avesse centrato in pieno una vetrata particolarmente resistente.
E non appena quel pensiero attraversò la mente del ragazzo, ecco che gli occhi di Peter incontrarono un’immagine speculare di Spider-Man.
<< Guardati allo specchio >> continuò Pennywise, mentre il vigilante scrutava direttamente nelle lenti bianche del proprio riflesso. << Sei solo un bambino spaventato in tuta da ginnastica! Come puoi sperare di affrontarmi? >>
FLASH!
Un altro lampo di luce.
Il vuoto venne sostituito da una collina piena di lapidi, avvolta nell’oscurità più totale: un cimitero.
Nel cielo non vi era nemmeno l’ombra di una stella. Tra le tombe, rampicanti e alberi morti erano l’unica forma di vita che serpeggiava in quel luogo desolato.
E a pochi passi da lui, Peter intravide una lapide su cui era stato inciso un nome che suscitò un’ondata di nausea nel suo stomaco: Tony Stark.
Inconsciamente, il vigilante camminò fino alla tomba e vi posò sopra una mano tremante.
<< Se tu fossi stato più forte… forse Tony sarebbe ancora vivo >> sussurrò dolcemente la voce di Pennywise, facendolo rabbrividire.
Fu in quel momento…che una mano scheletrica sbucò dal terreno situato ai piedi della lapida, seguita dal suono familiare di giunture meccaniche pienamente operative.
Colto di sorpresa, Peter balzò all’indietro e cadde a terra. Pochi secondi dopo, l’inconfondibile figura di Iron-Man si fece strada da sotto la tomba.
Parte del casco era stata rimossa, rivelando un teschio ghignante a cui erano rimasti ancora alcuni pezzi di carne attaccati.
Il vigilante rimase fermò e immobile, troppo scioccato da una simile visione per poter anche solo respirare.
Il cadavere del suo ex mentore lo affettò per il collo, issandolo da terra. La sua presa era reale e concreta, tanto quanto quella dei nemici che aveva combattuto fino ad ora.
<< Dentro di te, sai che ho ragione >> disse il mostro, la cui voce sembrava quasi un miscuglio tra quella di Pennywise e dello stesso Tony Stark. << Hai fatto la tua scelta! Dovevi seguire il mio consiglio e farti da parte. Ed ora... tu... devi...morire! >>
E, dopo che il cadavere ebbe pronunciato tali parole, Peter si sentì di nuovo tirare all’indietro da una forza invisibile.
 
                                                                                                                  * * * 
 
Carol Danvers spalancò gli occhi.
Girò la testa da una parte all’altra, rendendosi presto conto di trovarsi in una specie di caverna.
L’aria attorno a lei era satura e stantia, completamente immobile. Non vi era alcun suono…ad eccezione del plop! occasionale di acqua piovana che percorreva i numerosi cunicoli che spiccavano lungo il soffitto di quel luogo scavato nella terra.
<< Cerchi qualcosa? >> chiese una voce familiare alle sue spalle, costringendola a voltarsi.
Senza perdere tempo, la donna sparò un raggio di energia cosmica verso la figura di Pennywise, ma questi si limitò a dissolversi in una nuova di fumo.
Riapparve a circa un centinaio di metri dalla donna, girato di schiena. Carol strinse gli occhi e volò fino a lui con un unico balzo.
<< Io non ho paura di te >> disse freddamente, pronta a scaricargli addosso un altro attacco.
Il clown, tuttavia, continuò a darle le spalle e cominciò a camminare con aria apparentemente disinvolta.
<< Forse no…mai hai comunque paura di qualcosa >> dichiarò con tono di fatto.
Inutile dire che quelle parole non fecero per nulla a piacere alla supereroina. << Pensi che sia così? >>
<< Oh, lo so che è così! È quello che ho sempre conosciuto meglio di voi mortali…le più grandi paure che aleggiano nelle vostre piccole menti >> rispose la creatura.
Girò appena la testa di lato, volgendo alla donna uno dei suoi sorrisi agghiaccianti. << La tua? È che perderai tutti coloro che ami! >>
FLASH!
Un lampo di luce illuminò le tenebre di quella foresta.
Improvvisamente, Carol non si ritrovò più circondata da alberi…ma al centro di quello che aveva tutta l’aria di essere un campo di battaglia.
La zona era completamente disseminata di cadaveri, in parte sommersi da grossi cumuli di cenere. L’aria era stantia del puzzo di morte e fiamme. Dense nuvole di fumo oscuravano la volta celeste, accentuando la cupezza di quel luogo.
E in mezzo a tutta quella devastazione…Carol vide i suoi compagni Avengers, esanimi, distesi a terra come tante marionette a cui avevano appena staccato ai fili. Peter spiccava tra tutti loro, il corpo martoriato e spezzato, affiancato dal cadavere di Marie Danvers e di suo fratello Junior.
Quella visione, unita al trauma del vedere la madre morire solo pochi minuti prima, si rivelarono troppo anche per la donna.
Si piegò in avanti e si portò una mano alla bocca, nel tentativo di trattenere un conato di vomito.
<< Ma soprattutto, hai paura che sarai tu stessa la causa della loro morte. Perché non eri abbastanza forte per impedirlo >> sussurrò la voce di Pennywise attorno a lei.
Carol si voltò di scatto…ma non trovò nessuno. Continuò a guardarsi attorno con aria frenetica, nel tentativo di localizzare la creatura.
<< Sei sempre scappata da tutti! I tuoi amici, la tua famiglia, il tuo stesso pianeta >> continuò il clown, rimanendo celato alla vista. << Pronta a buttarti a capofitto nei problemi degli altri…ma incapace di affrontare i tuoi. >>
All’improvviso, un’ombra calò su di lei.
Carol alzò appena lo sguardo…e si bloccò. Gli occhi della donna incontrarono quelli gialli e malevoli di Pennywise, attualmente nella sua forma di clown gigante.
Sorrise all’Avenger, scoprendo le zanne affilate, mentre con la mano destra sradicò il tronco di un albero morto.
<< In fondo, sappiamo entrambi che, nonostante tutto il tuo potere…nonostante tutta la tua forza… >> sibilò il mostro, mentre sollevava la pianta a mo’ di mazza, << Non sei altro…che una codarda! >>
E prima che la donna potesse anche solo avere il tempo di reagire a quelle parole, il clown la colpì violentemente con il tronco, facendola volare per diverse centinaia di metri.
Il corpo della supereroina sbattè contrò qualcosa di solido.
Sì udì il suono di vetri che andavano in frantumi. Poi…silenzio.
 
                                                                                                                            * * *
 
<< Peter! >>
Il suo della voce di May Parker fece destare Spider-Man da un sogno ad occhi aperti.
Guardandosi intorno, si rese conto di essere ancora circondato dalla più totale oscurità.
<< Peter? >> disse nuovamente quella voce familiare, un sussurrò che sembrava lontano e vicino al tempo stesso, come una sorta di eco.
Il cuore del vigilante cominciò a battere a mille.
<< Non è reale…non è reale… >> borbottò, mentre si portava ambe le mani sopra le orecchie.
ZZZZZZZZZZ!
Improvvisamente, la familiare vibrazione del senso di ragno lo costrinse a spostarsi di lato. Appena in tempo, poiché qualcosa si schiantò nel punto esatto in cui si trovava fino ad un secondo prima, sollevando una densa nube di detriti.
Peter si rimise subito in piedi e assunse una posizione di combattimento. Nel mentre, qualcosa di grosso e decisamente meccanico fuoriuscì dalla coltre di polveri. Un essere umanoide ricoperta da capo a piedi con una bizzarra armatura. Sulla schiena spiccavano un paio di grosse ali meccaniche, simili a quelle di un rapace.
<< Ciao Petro! >> esclamò il criminale noto come l’Avvoltoio, mentre le lenti color smeraldo del suo casco si posavano sulla figura dell’Avenger.
Questi spalancò le proprie per la sorpresa.
<< Toomes! >> esclamò, riconoscendo all’istante il primo criminale contro cui aveva combattuto agli inizi della sua carriera di supereroe.
Subito, la mente del ragazzo cominciò a correre. Era forse un illusione? Oppure Toomes era davvero lì, di fronte a lui? Sapeva che era evaso di prigione quasi due anni prima, assieme a Phineas, Schultz e Gargan. E se questi tre erano stati reclutati da quella banda di pazzi…vi era una forte possibilità che pure il trafficante fosse stato coinvolto nella loro missione.
Ma se così fosse, perché non aveva combattuto assieme agli altri? Forse si era tenuto in disparte, aspettando il momento più propizio per attaccarlo, quando era solo e incapace di richiedere aiuto. Ormai, aveva cominciato ad intuire che Pennywise si fosse in qualche modo alleato con la banda di criminali e quello strano alieno cacciatore.
E se così fosse, allora…
<< Penso di doverti un rimborso per aver spezzato il cuore di mia figlia >> disse Toomes, distogliendolo da quei pensieri.
Il vigilante non ebbe nemmeno il tempo di controbattere. L’uomo si lanciò in avanti, allargando ambe le ali e puntando in direzione del supereroe.
Peter si lanciò in aria, evitando appena in tempo l’attacco avversario. Tuttavia, non ebbe la possibilità di atterrare.
Qualcosa lo afferrò a metà del salto, intrappolandolo in una morsa. Abbassando lo sguardo, il vigilante si rese conto che era stato appena catturato da uno dei tentacoli dell’uomo che aveva ribattezzato come Doctor Octopus.
<< Eilà, aracnide >> sorrise questi, scoprendo una dentatura impeccabile.
Il vigilante gli sparò contro una ragnatela, ma questa sembrò attraversare il volto del supercriminale come se fosse fatto di nebbia. Eppure, Peter poteva chiaramente sentire gli effetti della sua presa, concreta quanto lo era stata alcune ore prima.  Quella era molto più che una semplice illusione…
Prima che potesse completare quel pensiero, il vigilante si sentì lanciare in aria, dove venne afferrato dalle zampe meccaniche di Toomes.
<< Tocca a me! >> esclamò questi, mentre scendeva in picchiata e lo sbatteva violentemente contro il terreno. Imitò l’azione una seconda volta…e poi una terza.
Peter sentì qualcosa rompersi dentro di sé, probabilmente un osso o due. Sputò sangue nel casco della tuta e strinse i denti per frenare un’improvvisa ondata di dolore. Poi, la maschera si spaccò in due, rivelando il suo volto martoriato e pieno di lividi.
Facendo appello a tutta la forza di volontà che aveva in corpo, piegò la schiena all’indietro e calciò il supercriminale in volto. Il corpo dell’uomo cadde pesantemente a terra…per poi dissolversi in una coltre di vapori.
Peter non perse tempo a soffermarsi sulla cosa e si alzò in piedi, portandosi una mano al fianco e cercando di lenire il dolore.
Fu allora che i suoi occhi si posarono su una visione assai bizzarra.
Di fronte all’adolescente, infatti, avevano appena preso posto un totale di tre porte incastonate in una parete rocciosa. Su ciascuna di esse era stata incisa una scritta rosso sangue:
SPAVENTOSO  per quella di sinistra, POCO SPAVENTOSO per quella centrale e PER NULLA SPAVENTOSO per quella di destra.
Inutile dire che il vigilante si trovò non poco a corto di parole.
“Seriamente?” fu tutto quello che riuscì a pensare, dimenticando per un attimo l’agonia che stava passando.
<< Andiamo, questo trucco lo conoscono tutti >> borbottò con un roteare degli occhi, mentre si avvicinava alla porta con sopra scritto SPAVENTOSO. Era abbastanza sicuro che Pennywise stesse solo cercando di manipolarlo psicologicamente.
Prese un respiro profondo, aprì il cardine…e si trovò davanti ad un corridoio apparentemente vuoto.
<< Jackpot >> sussurrò a se stesso, preparandosi a compiere un passo in avanti. Ma in quel momento, uno strano cigolio attirò la sua attenzione.
Abbassò lo sgaurdo…e si bloccò.
C’era…un cane ai suoi piedi. Un volpino, per essere più precisi, dal folto manto rosso. Era poco più grande di un pallone da calcio e stava fissando l’Avenger con un paio di occhioni neri e lucidi.
Peter compì un passo all’indietro. Era forse una trappola? Considerato tutto quello che aveva visto negli ultimi minuti, il vigilante non ebbe alcun problema a crederlo.
Tuttavia, quel corridoio sembrava essere l’unica via d’uscita da questo posto infernale, per cui…
<< Ehm…ciao, bello? >> disse con voce incerta, mentre si chinava in avanti e afferrava il cagnolino.
Questi si limitò a inclinare la testa di lato, continuando a fissare il vigilante. Per un attimo, Peter si sentì estremamente sollevato.
Quel volpino sembrava del tutto innocuo. Sicuramente, Pennywise aveva solo scambiato le scritte delle porte per ingannarlo…
Ebbe appena il tempo di completare quel pensiero.
Come dal nulla, il musetto del cane sembrò spaccarsi in due, aprendosi come i petali di un fiore. E ogni petalo…aveva decine di denti seghettati incastonati al suo interno.
<< ODDIO! >> esclamò il vigilante, mentre la bestia cercava di staccargli la testa con un unico e rapido morso.
Senza perdere tempo, Peter lanciò il cane demoniaco all’interno del corridoio e chiuse la porta dietro di sé con un sonoro tonfo.
<< Ok…è stata una mossa molto stupida >> borbottò a se stesso, mentre prendeva alcuni respiri calmanti.
E fu allora…che la terra sotto di lui cominciò a tremare.
Il corpo del vigilante venne istantaneamente percorso da un brivido di anticipazione. Appena un secondo dopo, il pavimento si aprì in due, ingoiandolo dalla testa ai piedi.
Peter cadde pesantemente su una superficie solida e polverosa. Guardandosi attorno, si rese conto di essere finito in una sorta di pozzo.
Alzò lo sguardo…e i suoi occhi incontrarono quelli dorati di Pennywise, il quale lo stava fissando dall’apertura da cui era precipitato.
La bestia sorrise con intento malevolo.
<< Sarai anche diventato un supereroe, Peter. Ma nel profondo rimarrai sempre un perdente senza genitori e senza amici! >> esclamò, mentre procedeva a chiudere quell’unica via di fuga con una grossa pietra. << Che morirà…da solo! >>
Per un attimo, non accadde niente. Poi, un sonoro gorgoglio cominciò a riecheggiare per tutta la lunghezza del pozzo.
Peter si guardò freneticamente attorno, nel tentativo di individuarne la provenienza. E fu in quel momento…che uno strano liquido prese a fuoriuscire dai bordi del contenitore.
Non era acqua, aveva una consistenza molto più densa. E poi c’era l’odore: un odore familiare, simile a quello del rame…sangue! Il pozzo si stava letteralmente riempiendo di copiose quantità di sangue fresco!
Peter emise un grido e tentò di fare appello all’aderenza delle proprie mani per arrampicarsi.
Ma per qualche ragione, si ritrovò incapace di risalire la parete. Era come se i suoi poteri fossero stati appena soppressi.
Era…era in trappola.
 
                                                                                                                       * * * 
 
I sensi di Carol vennero invasi da un odore acre e maleodorante.
L’aria che la circondava era umida…e fredda al tempo stesso. Per ogni goccia di sudore che le colava sulla pelle, ecco che giungeva una ventata di brezza gelida che la faceva rabbrividire.
Si sollevò a fatica, portandosi una mano alla tempia per frenare il mal di testa che stava rischiando di spaccargli il cranio in due.
Presto, si rese conto di essere in una foresta. Ma non come quella in cui era stata catapultata pochi minuti prima, manifestazione illusoria di una Terra primordiale.
Questo bosco era secco e decadente, praticamente morto e immerso in una tetra oscurità. Non c’erano né foglie né animali…solo nebbia e tronchi decadenti, avvolti da una sottile nebbia.
E i suoi piedi era immersi fino alle caviglie in un qualcosa di liquido e fangoso. Sembrava quasi che fosse stata catapultata in una sorta di palude…
<< Carol! >>
Il suono inconfondibile della voce di Peter la distolse da quei pensieri.
Era un urlo disperato…un grido d’aiuto.
Il cuore della donna cominciò a battere a mille. Era forse un’illusione? Pennywise stava cercando d’ingannarla?
Non era disposta a correre il rischio.
Prese un respiro profondo e si lanciò verso il punto da cui aveva sentito provenire la voce. Attraversò fronde e alberi morti, mentre arrancava attraverso l’acqua paludosa.
Infine, si ritrovò di fronte ad un muro. O meglio, una sorta di parete che sembrava non avere fine, nera come la pece. Era liscia, perfettamente levigata, e s’innalzava fin sopra le nubi di quel luogo spettrale.
<< Peter! >> urlò, guardandosi attorno con aria frenetica.
Dentro al pozzo, il vigilante sentì la voce della compagna Avenger. Il sangue aveva già ricoperto tre quarti della bocca e lui stava facendo del suo meglio per tenersi in superficie nonostante la pesantezza della tuta.
<< Carol >> sussurrò, capendo che la donna si trovava proprio al di fuori di quella trappola mortale. << Carol, sono qui! >>
Al di fuori del pozzo, la donna udì la voce del ragazzo provenire da oltre la parete.
Spalancò gli occhi per la sorpresa e colpì il muro con tutta la forza che aveva in corpo.
<< Peter, resisti! >> urlò di rimando, il volto ora adornato da un sorriso sollevato. Quell’espressione, tuttavia, fu assai di breve durata…poiché notò che la parete non aveva subito il minimo danno. Era completamente intatta, quasi come se non fosse stata toccata.
La bionda sussultò e procedette a colpirla una seconda volta. E poi una terza…e una quarta.
Niente. La superficie del muro non si era nemmeno scheggiata.
Nel mentre, all’interno del pozzo, il flusso di sangue aveva quasi raggiunto l’apertura. Peter spinse le mani in alto, nel tentativo di smuovere la pietra che fungeva da tappo, ma ogni suo tentativo si rivelò vano.
<< Carol! >> urlò ancora, ma le sue parole uscirono ovattate da un gorgoglio strozzato. Il sangue era ormai arrivato alla bocca.
La bionda sussultò, capendo all’istante che qualcosa non andava.
Fu allora che una rivelazione cominciò a farsi strada all’interno della sua mente. Peter…stava morendo. Oltre quella parete, completamente solo…stava morendo! Ecco perché Pennywise le aveva permesso di arrivare fin lì: voleva che assistesse agli ultimi momenti del vigilante. Voleva costringerla a SENTIRE le sue urla disperate, le invocazioni di aiuto a cui non sarebbe stata in grado di rispondere.
<< No….no, no, no! >> ringhiò, mentre ad ogni parola tirava un poderoso pugno alla parete.
Nel pozzo, il volto di Peter era ormai appiccicato alla roccia che copriva l’apertura. Entro un minuto al massimo…sarebbe stato completamente sommerso.
“ Morirò qui, non è vero?” pensò con rassegnazione, ormai conscio che fosse alla completa merce di Pennywise.
<< Carol …>> disse dopo qualche attimo di silenzio, il volto adornato da un triste sorriso, << Per favore…vattene da qui. Fuggi e non guardare indietro. >>
Oltre la parete, il cuore della donna mancò un battito.
<< No…te lo può scordare >> sibilò, gli occhi illuminati da un intenso bagliore dorato. << Io ti salverò…io…>>
<< Va tutto bene, Carol >> continuò Peter, il volto ora coperto da una coltre di sangue. << Di agli altri che mi dispiace…prenditi cura di mia zia, ok? Io…ti amo… >>
Il vigilante si ritrovò completamente sommerso.
“Ti amo”
Quelle parole giunsero alle orecchie di Carol come un colpo di pistola.
La mente della donna venne invasa da centinaia di immagini. Piccoli momenti tutti mischiati assieme…momenti che aveva passato con l’arrampica-muri…momenti che non aveva mai dimenticato.
Il loro primo incontro, durante la battaglia contro Thanos. Lei sopra la sua figura martoriata, mentre quel giovane ragazzo stringeva a sé l’arma più pericolosa dell’intero universo.
“ Ciao…sono Peter Parker” le aveva sussurrato con un sorriso tremante, nonostante fosse ricoperto di lividi e graffi.
E poi, il giorno in cui entrambi visitarono la tomba di Stark. Carol ricordava ancora l’odore della terra dopo la pioggia…calde lacrime che le scorrevano sulla giacca nera…un abbraccio pieno di calore, da cui nessuno dei due era intenzionato a sottrarsi.
Seguirono altri momenti. Cominciarono ad allenarsi insieme, ad uscire insieme…presto, arrivò il combattimento con Electro. Carol ignorò l’ondata di rabbia che l’avvolse al pensiero del supercriminale, concentrandosi sulla conversazione che entrambi ebbero sul tetto di quel grattacielo. Sembrava passata un’eternità.
E poi, venne il compleanno di Peter…e il loro primo bacio. Il sapore familiare delle sue labbra contro le proprie era ancora vivido e rassicurante. Venne seguito da molti altri baci…e qualcosa di più. Calore, i loro corpi avvolti da una coperta, sorrisi e occhiate appena accennate ad ogni missione…e Carnage.
Colui che aveva risvegliato memorie che aveva sperato con tutta se stessa di dimenticare. Il bambino che non era mai esistito, le parole insensibili che aveva rivolto a Peter…
Venne improvvisamente inondata dalla vergogna. Ma tale sensazione venne presto sostituita da qualcos’altro…qualcosa di bello…perché la prossima visione rappresentava il vigilante, mentre con un sorriso gentile le diceva che l’avrebbe aspettata, non importa quanto tempo avrebbe passato lontano dalla Terra.
Carol si ritrovò a specchiarsi in quegli occhi castani carichi d’amore. Vide tutto questo nella frazione di pochi secondi…e un calore familiare cominciò a farsi strada nel suo corpo.
<< AAAAAAAAAAAAAAH ! >>
L’urlo riecheggiò per tutte le fognature di Harpswell, accompagnato da un bagliore tanto intenso da illuminare ogni cunicolo del complesso di gallerie.
Carol si lasciò guidare da quei ricordi. No…non si sarebbe arresa. Nessun’altro sarebbe morto, quel giorno. Nessun’altro! E soprattutto…NON PETER!
Tirò un pugno contro la parete, e questa rimase completamente immacolata. Ma la donna non ci fece nemmeno caso. Tirò un secondo pugno, ignorando ogni logica. Quel muro aveva già affrontato gli attacchi della donna, perché questa volta il risultato sarebbe dovuto essere diverso? Ma la mente di Carol bandì all’istante quel pensiero.
“Posso farcela…è solo un muro…un muro fragile che può essere abbattuto... È SOLO UN MURO!”
E questa volta, quando le nocche della bionda incontrarono la liscia parete nera…l’impatto generò una densa ragnatela di crepe su tutta la superficie. Ma Carol non perse tempo a cantare vittoria.
Tirò un altro pugno…e poi un altro…e un altro ancora. Ben presto, densi fiotti di “qualcosa” di rosso cominciarono a schizzare dalle crepe appena formatesi sulla parete.
Il bagliore che avvolgeva il corpo di Carol crebbe d’intensità. Il costrutto creato da Pennywise cominciò a cedere, ma non sotto la potenza di quei colpi…ma per mano della convinzione di una donna che aveva scelto di proteggere una persona che amava.
Altri sonori tonfi riecheggiarono nella foresta spettrale, seguiti dal suono delle pietra che si spezzava.
Infine, dopo quello che sembrò un tempo interminabile…la parete crollò come un castello di sabbia, riversando copiose quantità di sangue nell’area circostante.
Il corpo di Peter Parker schizzò al di fuori del pozzo, ruzzolando a terra e finendo ai piedi della donna.
<< Peter! >> esclamò lei, chinandosi all’istante per controllare le condizioni del vigilante.
Non si muoveva. Era completamente immobile, con un volto pallido e bagnato da sfumature rosse.
Una presa agghiacciante sembrò afferrare il cuore della supereroina.
 << Ti prego, no… >> sussurrò con le lacrime agli occhi, mentre con la mano destra sollevava appena la testa dell’Avenger. Fatto questo, si chinò in avanti e cominciò a rilasciare aria nei polmoni del ragazzo.
Si alzò rapidamente e spinse con forza sul suo torace, ripetendo l’azione più volte.
Per un attimo…non accadde niente. Poi, un flotto di saliva misto a sangue fuoriuscì dalla bocca di Peter, rapidamente seguito da sonori colpi di tosse.
Carol rimase come pietrificata, incapace di esternare la felicità che stava provando in quel preciso istante. Era vivo…oddio, era vivo!
Il vigilante aprì lentamente gli occhi…e incontro quelli umidi e sollevati di Capitan Marvel.
<< Carol… >> salutò con un sorriso tremante, mentre sollevata una mano e la posava sulla guancia della supereroina.
La donna trattenne un singhiozzò a la strinse a sé, baciandone le nocche.
Aiutò il ragazzo a rimettersi in piedi, per poi stringerlo in un caldo abbraccio. Questi restituì il gesto, stringendola a sua volta, come se ormai non potesse più fare altro.
Rimasero in quella posizione per quasi un minuto buono. Poi, entrambi si staccarono lentamente…e si guardarono negli occhi.
Il vuoto che li separava venne attraversato da un brivido di anticipazione.
<< Idiota >> sussurrò Carol, mentre si chinava in avanti e posava le proprie labbra su quelle di Peter.
L’arrmapica-muri spalancò le palpebre per la sorpresa. Per un attimo, credette che il suo cervello avesse smesso di funzionare.
Sentì un intenso calore farsi strada nel suo stomaco…accompagnato da un’odore dolce e acre al tempo stesso…qualcosa di morbido che premeva contro di lui…
Erano passati due anni dall’ultima volta in cui aveva provato una sensazione simile. Quante notti insonni aveva passato al ricordo dei baci di quella donna? Troppe da contare…e sinceramente, in quel momento non aveva la forza di preoccuparsene.  
Chiuse gli occhi e approfondì il contatto, assaporando le labbra di Carol per quello che sembrò un tempo infinito.
Si staccarono dopo quasi un minuto, i volti adornati da un lieve rossore…
<< Oh, ma quanto siete carini >> sibilò una voce alle loro spalle.
Entrambi gli Avengers sussultarono e si voltarono di scatto. Pennywise si trovava a pochi passi da loro, le labbra arricciate in un sorriso disgustato.
<< Spero che vi siate goduti quel bacio a dovere…perché sarà l’ultimo della vostra vita >> ringhiò attraverso le zanne sporgenti.
Senza perdere tempo, Carol si mise subito di fronte al compagno.
<< Peter, tutto questo non è reale. Lui non può farci del male >> disse freddamente, i pugni illuminati da un familiare bagliore dorato. << È solo un clown >>
A quelle parole, il ghigno sul volto del pagliaccio sembrò allargarsi.
<< Solo…un clown? >> domandò retoricamente, prima di scoppiare in una risata agghiacciante.
Vi fu un altro bagliore. Una luce accecante che avvolse la totalità di quel luogo oscuro.
Sia Carol che Peter furono costretti a coprirsi gli occhi, convinti che avrebbe potuto accecarli. Era più intensa di qualunque sole su cui la donna avesse mai posato gli occhi…ma non era calda. Era fredda…e puzzava di morte.
Quando i due Avengers abbassarono le mani…l’orrore li avvolse come un lenzuolo.
IT era davanti a loro, ma non aveva più le sembianze di un clown. Era un ragno da incubo venuto da oltre il tempo e lo spazio, una creatura inimmaginabile persino nelle fantasie più ardite dei supplizi perpetrati negli infimi gironi dell'inferno.
Era alto forse cinque metri e nero come una notte senza luna. Ciascuna delle sue zampe era possente come un tronco d’albero. I suoi occhi erano rubini malevoli e scintillanti, sporgenti dalla orbite piene di un fluido color del cromo.
Apriva e richiudeva le mandibole frastagliate, scaricando nastri di schiuma. Raggelato in un orrore estatico, in bilico sul ciglio della totale follia, Peter osservò con la calma serafica dell'occhio dell'uragano che quella schiuma era viva: cadeva sul pavimento lastricato e scodinzolava via per infilarsi nelle crepe come masse di protozoi.
 << Io sono la Mangiatrice di Mondi >> ringhiò l’essere, riversando copiose quantità di quella sostanza vischiosa dalle forcipule.
Entrambi i supereroi rimasero completamente fermi e immobili, incapaci di muovere anche un solo muscolo. Era quasi come se i loro corpi si rifiutassero di rispondere ad un qualunque comando.
Era la sensazione che molti animali provavano di fronte ad un predatore dal quale non potevano fuggire. Una completa e totale sottomissione derivante dalla forma più pura e primordiale…di terrore.
<< Siete davvero adorabili. Non so proprio chi uccidere per primo! >> aggiunse il gigantesco ragno, mentre passava i suoi occhi malefici da un Avengers all’altro.
<< Nha, sto scherzando >> disse dopo qualche attimo di silenzio, volgendo la propria attenzione nei confronti di un certo arrampica-muri. << Tu. Tu sarai sicuramente il primo, piccola peste. >>
Si chinò in avanti, fino a quando le sue tenaglie non furono ad appena pochi centimetri dal volto del ragazzo. Poi, sollevò la testa quel tanto che bastava per rivelare una piccola bocca irta di denti acuminati.
E da quell’apertura…venne una luce. La luce di IT…i Pozzi Neri.
<< Vieni…a galleggiare! >>
 
 
 
 
Dum, dum, duuuuuuuuum!
Sarà perché sono sadico, ma questo è forse il capitolo della storia che più mi sono divertito a scrivere.
Qui ho avuto la possibilità di scatenarmi non poco con le torture psicologiche di Pennywise, che spero abbiate apprezzato. Una di esse è una citazione a “Spider-Man Far From Home”.
Vi ho pure dato un assaggio delle sue origini e del suo arrivo sulla Terra.
Analogamente al romanzo, in questo mio personale universo IT è un’entità che esisteva prima della creazione stessa, il signore indiscusso del vuoto.
I giganti di luce con cui combatte all’inizio sono i Celestiali, già citati da King Ghidora nella fan fiction “Avengers – The King of Terror”.
Per chi non avesse letto il romanzo di IT, il ragno gigante non è la sua vera forma, ma solo l'immagine più vicina a ciò che i comuni mortali possono associare al vero aspetto di IT, la cui essenza è ancora nella sua dimensione separata ( il Macroverso ). Quando è in forma di ragno, IT è femmina, motivo per cui si definisce come la Mangiatrice di Mondi. 
Inoltre, scopriamo cos’è successo all’altro fratello di Carol, morto in guerra quando presatava servizio in Iraq.
E finalmente, dopo varie peripizie, Carol e Peter si scambiano il loro primo bacio dopo ben due anni di separazione! Momento peggiore non potevano scegliere…

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Capitolo 14
*** The Deadlights ***


Eccovi un nuovissimo capitolo!
Preparatevi mentalmente, perché i concetti che vi ho inserito possono risultare abbastanza complessi e difficili da comprendere.

 
 
 
The Deadlights
 
Si dice che un sogno duri solo un attimo. E tuttavia, in quell'attimo, un uomo può vivere tutta una vita.
Può soffrire e morire. Ma chi può dire qual è la realtà più vera? Quella che viviamo o quella dei sogni tra paradiso, cielo e Terra?
In quel momento, Peter non era nemmeno sicuro se stesse sognando o meno.
Al buio, la sua mente continuava a funzionare come una macchina divoratrice, l'unica cosa sveglia dell'universo.
Forse stava davvero dormendo e presto si sarebbe svegliato nel suo appartamento squallido a New York. Cercò di aprire gli occhi e distinguere le pareti, il cassettone nell'angolo.
Lo invase la vecchia sensazione di essere indifeso. Piccolo, debole, mortale…solo.
Girò la testa sulla destra, essendogli venuta in mente la radiosveglia. Ma non c’era niente, e mai avrebbe potuto esserci…perché l’anima di Peter stava volando fuori dal suo corpo.
Venne sparata come un proiettile vivente fino ai confini della creazione.
Fu sollevato e scaraventato oltre le pareti del cosmo. Il suo corpo era ancora fermo dov'era prima, i suoi occhi erano fissi negli occhi di IT…ma la sua anima non c’era più.
Volando in un rombo assordante, piombò in un budello nero e grondante, vecchio di decine…no, centinaia…mgliaia…milioni e miliardi e forse trilioni di anni, proiettato in un silenzio mortale attraverso innumerevoli incroci, alcuni illuminati da strane spirali dorate, alcuni da palloncini pieni di una macabra luce bianca come un teschio, altri neri come la morte.
 La sua mente fu lanciata a una velocità di mille miglia orarie oltre pila di ossa, alcune umane e altre no, proiettato come un missile, ora in una traiettoria che non aveva direzione, verso un buio titanico.
“È  solo un illusione” pensò con tutta la forza che aveva in corpo. “Non può essere reale…sono ancora ad Harpswell...”
<< Non è un'illusione, stupido marmocchio! >> ringhiò l’inconfondibile voce di Pennywise, attorno a lui e dentro di lui. << Questa è l'eternità! La Mia eternità e tu ti sei perso in essa, perso per sempre, non troverai mai la via del ritorno. Adesso sei eterno, condannato a vagare nel nero... finché non incontrerai Me a faccia a faccia! >>
Improvvisamente, l’anima di Peter cominciò a rallentare. Era come se una forza esterna stesse cercando di frenarne l’avanzata.
Si fermò di colpo, bruscamente, ritrovandosi in uno spazio vuoto.
Poteva ancora sentire la presenza di IT. Ma c'era…qualcos'altro.
Peter ne avvertì una poderosa presenza nel buio. No. Ce ne erano due. Una grande e una piccola.
Non provò paura, bensì un sentimento di soverchiante, riverente soggezione. C'era nel buio un potere almeno pari o poco inferiore a quello dello stesso IT.
Volò verso quelle presenze e i suoi occhi si posarono su un'enorme Tartaruga, con una corazza che sembrava fatta di stelle. La sua antica testa di rettile si sporse lentamente dal guscio e il Peter credette di percepire una vaga e sdegnata sorpresa da parte dell'essere che l'aveva scaraventato là fuori.
Gli occhi della Tartaruga erano dolci e sembravano contenere un paio di galassie. Affianco ad essa vi era…una donna.
Era alta e ossuta, con corti capelli neri, grandi occhi blu, un naso camuso e una bocca stretta e increspata. Vestiva con una gonna azzurra lunga fino ai piedi, con due linee verticali bianche, e un cappotto nero fino al ginocchio, sopra una camicetta bianca e una sciarpa a righe rosse e rosa. Il tutto era completato  da un buffo cappello color pece ghindarlato di ornamenti floreali, guanti bianchi e un paio di stivali da pioggia.
Sedeva su una sontuosa poltrona sospesa in quel vuoto senza fine, sul cui fianco era poggiato un ombrello.
Mentre il rettile affianco a lei lasciava trasparire una sensazione di saggezza e vecchiaia, ella sembrava circondata da un’aura di malizia e giovinezza. Ma c’era gentilezza anche nei suoi caldi occhi azzurri, accompagnati da un sorriso benevolo.
<< Questa sì che è una sorpresa >> commentò con una voce talmente calda e rassicurante che, per un attimo, Peter rivalutò l’idea che potesse trovarsi in un sogno. << Era da molto tempo che non ricevevamo un’ospite. Avessi saputo del tuo arrivo, avrei preparato un po’ di tè. >>
<< Cara sorella, penso che questo giovanotto necessiti di qualcosa di molto più forte >> ribattè la Tartaruga, mentre scrutava il vigilante con curiosità velata.
Peter deglutì – ammesso che fosse capace di un’azione del genere – e scrutò la coppia di esseri con sospetto.
<< Chi siete? >> sussurrò, e la sua voce venne fuori quasi come un trillo, etera e senza sesso.
La donna emise un sussulto udibile.
Si portò una mano alla bocca, nascondendo un sorriso misterioso.
<< Povera me! È passato così tanto tempo dall’ultima volta in cui ho interagito con un mortale, che ora ho pure dimenticato le buone maniere >>
<< Siamo eterni, sorella, non possiamo dimenticare >> argomentò la Tartaruga, prima di volgere a Peter uno sguardo quasi rassegnato. << Devi perdonarla, bambino, ti sta solo prendendo in giro. >>
In risposta all’accusa del rettile, la donna si limitò a ridacchiare.
Il suono di quella risata viaggiò in lungo e in largo, avvolgendo il ragazzo in un caldo abbraccio. Era una cadenza bellissima e senza tempo, la cosa più benvenuta che Peter avesse mai udito. Era il suono della speranza.
<< Io ho molti nomi, giovanotto >> riprese la donna. << Tanti quante sono le stelle dell’universo! Ma per amor di conversazione, e soprattutto perché molti di loro non potresti pronunciarli…puoi chiamarmi Mary >>
<< E io sono la Tartaruga >> proseguì l’enorme creatura che le si trovava affianco. << Io ho fatto il tuo universo, ma ti prego non incolparmi per questo. Avevo mal di pancia. >>
Di fronte a quella dichiarazione, la mente di Peter sembrò vacillare.
Sebbene non avesse un corpo, si sentì percorrere da un brivido d’anticipazione e timore reverenziale mischiati assieme.
<< Che…che cosa siete? >> domandò con la sua voce senza identità.
La donna si alzò dalla poltrona e compì una reverenza aggraziata.
<< Noi siamo i guardiani, giovanotto >> rispose con quel suo sorriso apparentemente intramontabile. << Per tempo incalcolabile, siamo stati le sentinelle del tuo universo. Abbiamo assistito a miracoli su miracoli, tali che i mortali come te potrebbero a stento sognare. Siamo stati testimoni della distruzione di mondi e della nascita di galassie. Anche nella nostra solitudine, non siamo mai soli. La sinfonia celeste è la nostra compagna costante e la musica delle sfere non cessa di suonare. >>
<< Parole rimarchevoli, sorella, penso che dovresti annotarle >> commentò la Tartaruga. << Ne verrebbe fuori una bella poesia. >>
La rinomata Mary girò la testa verso la creatura, gli occhi adornati da un luccichio malizioso. << La leggeresti? >>
<< Sai che non m’interesso di certe cose, io voglio solo dormire. Ma per te…potrei fare un’eccezione >> aggiunse il rettile, increspando i muscoli del becco in un sorriso che non aveva nulla di umano.
L’anima di Peter cominciò a guardarsi attorno. << Dove mi trovo…e perché sono qui? >>
<< È un po’ difficile da spiegare >> ammise la donna, mentre si picchiettava il mento in apparente contemplazione. << Vedi, giovanotto, in principio il multiverso era una singolarità. Nel caso tu non lo sappia, una singolarità è un punto di dimensione zero e di densità infinita. Da zero che era l'universo acquisì il concetto di spazio per come lo conosci, e lentamente si espanse fino a formare quello attuale. Ma uno spazio deve essere almeno più grande di una particella elementare. Quando il multiverso si espanse dalla dimensione zero, per un determinato periodo, rimase più piccolo di una particella elementare: ed è proprio quello il momento in cui ti trovi adesso, bambino. La sua lunghezza è dieci alla meno quarantatré secondi, ma lo spazio che contiene è comunque infinito. >>
Compì alcuni passi in avanti, fino a quando non si ritrovò ad appena pochi centimetri dall’anima del ragazzo.
<< Ma il motivo per cui sei qui…questa è una domanda a cui non posso rispondere >> continuò con tono apparentemente meravigliato. In esso, Peter riconobbe la voce di qualcuno che aveva appena scoperto qualcosa di nuovo dopo tanto tempo.
Lo sguardo di Mary sembrò scrutare dentro di lui. Era caldo e severo al tempo stesso, come quello di una madre…o forse di una tata. L’associazione gli arrivò quasi spontanea, probabilmente a causa del modo con cui era vestita.
Dopo quello che sembrò un tempo interminabile, la donna porse ambe le mani in avanti e afferrò gentilmente le tempie (aveva le tempie?) di Peter.
L’anima del ragazzo venne percossa da un fremito. Durò solo per un secondo – o forse meno – ma, a quanto pare, quello era tutto il tempo che serviva alla misteriosa Mary per giungere ad una conclusione.
<< Ah…sembra che tu abbia incontrato il nostro fratellone problematico >> disse con un sospiro rassegnato. << È sempre stato un tipo così vendicativo e rancoroso. E sembra che tu l’abbia fatto arrabbiare non poco, bambino. >>
La mente di Peter cominciò a correre a mille.
Fratello? Loro…erano imparentati con la cosa responsabile di tutto questo? Ma…ma come? Sembravano così diversi…così luminosi e pieni di vita. IT , al contrario…odorava di morte e decadenza.
Di fronte a lui, Mary Schioccò la lingua e cominciò a scuotere la testa in apparente delusione.
<< Ma come sei sopravvissuto? Hai visto la sua luce…non dovresti essere qui… >> borbottò più a se stessa che a lui.
Alzò lo sguardo, e allora Peter si ritrovò a specchiarsi in un paio di pupille vecchie quanto il tempo stesso.
<< Sei davvero una meravigliosa novità >> sussurrò l’entità, mentre accarezzava dolcemente il non-volto della sua anima.
L’Avenger si lasciò cullare da quel contatto rassicurante. In quel momento, pensò che avrebbe potuto agognarlo in eterno. Che avrebbe potuto rimanere lì per sempre…
Si fermò di colpo.
No…non poteva rimanere lì. Doveva andarsene. LEI era in pericolo!
<< Devi fermarlo>> disse con la sua voce etera. << Ucciderà Carol! >>
<< Noi non prendiamo posizione in queste questioni >> ribattè Mary, fissandolo severamente. << Nostro fratello ha il suo posto nel multiverso, proprio come noi. >>
Il ragazzo fece per controbattere…ma non ne ebbe la possibilità.
Sentì una stretta sgradevole attanagliare il suo corpo fatto di solo pensiero. Caddè in ginocchio, e per qualche ragione sentì il dolore delle proprie gambe che colpivano un pavimento di puro vuoto.
Fu allora che il giovane comprese: IT era tornato a prenderlo.
<< Ti, prego, aiutami… >>
<< Devi aiutarti da te, figliolo >> disse la Tartaruga, con tono di voce calmo e pacato.
La presa cominciò a farsi più insistente. Peter si sentì tirare all’indietro, come un pesce all’amo.
<< Ma come? Ti supplico, dimmi come! Come? >> piagnucolò nell’oscurità.  << Ti prego, voi siete buoni… lo sento, sono convinto che voi siate buoni, e io vi sto pregando... perché non mi aiutate? >>
<<  Già lo sai, bambino >> rispose Mary. << Noi siamo oltre i desideri dei mortali…e ogni cosa ha il suo tempo.>>
<< Vi prego… >>
<< Figliolo, una cosa sola ti posso dire…devi farti furbo >> continuò la Tartaruga. << Credimi, Quando finisci in un pasticcio cosmologico come questo…l'unica cosa da fare è gettare via il manuale delle istruzioni. >>
La voce del rettile si stava indebolendo. Al contempo, l’anima di Peter cominciò ad arrancare in un’oscurità che sembrava ancora più profonda.
Ma fu in quel momento…che accadde qualcosa di decisamente inaspettato.
Un lampo di luce illuminò le tenebre di quel luogo. Un bagliore bianco come il sole stesso che partì poco lontano dalla coppia di entità.
E in quel punto esatto…l’oscurità cominciò a incresparsi come il guscio di un uovo.
L’anima di Peter tintinnò per la sorpresa e la paura.
<< Questo sì che è interessante! >> esclamò Mary, apparentemente colpita da quello strano fenomeno. << Sembra che qualcuno voglia parlare con te. >>
E prima che il vigilante potesse chiedersi cosa intendeva, ecco che una figura indistinta iniziò a fuoriuscire dal banco di particelle.
Un corpo di pura luce, di cui non era distinguibile alcuna caratteristica fisica che ne indicasse l’età o il sesso. Era semplicemente un ammasso luminoso dalla forma vagamente umanoide…e stava camminando nella sua direzione.
<< Chi sei? >> chiese Peter, quando la forma senza nome si fermò proprio di fronte a lui.
Essa non rispose e si limitò a porgere il volto – ammesso che quello fosse il volto – vicino alla fronte del ragazzo.
Questi sentì qualcosa di caldo che lo toccava. Lo aveva appena baciato?
I suoi occhi senza palpebre si spalancarono per la sorpresa.
<< Tu… >>
Non ebbe la possibilità di terminare la frase.
Si sentì tirare all’indietro con uno strattone e riprese a scivolare sul palcoscenico dell’eternità.
La Tartaruga e Mary scomparvero, così come la forma senza nè volto né nome.
Riprese la sua corsa nel vuoto dell’eternità, e la voce di IT riecheggiò alta e potente attorno a lui.
<<  Allora, che cosa te ne pare, mio piccolo amico? >> domandò con il suo classico tono frizzante. <<  Ti piace? Ti stai forse divertendo? Ti ha fatto piacere conoscere i miei fratelli? Credevi che forse avrebbero potuto aiutarti? AH! >>
Peter non rispose. Non poteva, e francamente non sapeva se sarebbe mai stato più in grado di parlare.
Era solo e spaventato come non lo era mai stato prima di quel momento. No…non era solo. IT era con lui…da qualche parte che non poteva vedere. Ma la sua presenza era innegabile.
<< Coraggio, Peter, non essere timido! Ti piace questo piccolo giro turistico del niente che c'è al di Fuori? Aspetta d'essere passato attraverso! Aspetta di essere passato dall'altra parte, dove ci sono Io! Vedrai! Aspetta di vedere i Pozzi Neri! li guarderai e impazzirai... ma vivrai... e vivrai... e vivrai per sempre! Galleggerai…nei pozzi neri... dentro di Me... >>
L’anima di Peter venne avvolta dalla malefica risata di IT.
Presto, il vigilante si rese conto che la voce dell’entità si stava contemporaneamente spegnendo e amplificando, come se lui stesse simultaneamente uscendo dalla sua portata... e precipitando in essa.
E forse era proprio così. Perché sebbene le voci fossero in sincronia perfetta, quella verso la quale stava viaggiando…era assolutamente aliena e formulava sillabe che nessuna lingua umana sarebbe stata capace di riprodurre. Doveva essere la voce dei pozzi neri. La vera forma di IT.
La sua corsa si fermò all’improvviso.
Peter si accasciò a terra, un corpo nudo e luminoso che giaceva nell’oscurità. La sua mente era stata sopraffatta  dal primo apparire di IT com’era realmente, spogliato di tutte le sue piccole maschere e malie.
E naturalmente tutte le sue malie non erano che specchi, nei quali si riflettevano agli occhi terrorizzati dello spettatore le più spaventose creazioni della sua mente, con la stessa efficacia con cui uno specchio può riflettere il sole in una pupilla ignara e spalancata per accecarla per sempre.
Ora l’anima di Peter era con IT, in IT, oltre la fine del Macroverso, nelle tenebre, nelle remote regioni che sono oltre tutte le altre regioni. Era nell'occhio di IT. Era nella mente di IT… Era nei pozzi neri.
<< Sei solo, Peter. C'è solo oscurità per te… e solo morte per coloro a cui tieni >> disse una voce profonda e graffiante, un tuono che riecheggiò attorno a lui come un colpo di cannone.
Al contempo, una figura cominciò a farsi strada oltre il nulla cosmico. Era senza forma, senza caratteristiche distintive…solo una massa nera come la notte, con filamenti di luce che le zampillavano attorno.
E poi c’erano gli occhi. Un paio di occhi gialli come il sole stesso: gli occhi di Pennywise.
<< Pensi che io sia malvagio…ma ti sbagli. Faccio la mia parte nel palcoscenico del cosmo. Faccio quello che posso per formulare la risposta perfetta. Ma quella risposta non può arrivare prima che tutti siano pronti a sentirla. Quindi faccio quello che posso per dare qualche anticipazione >> continuò la voce, mentre si faceva sempre più vicina. <<  A volte, la mia rabbia per la luce è evidente. Ma non è solo rabbia, te lo assicuro. Può apparire come tale, ma è anche un indizio per ciò che aspettata tutti voi. >>
La massa indistinta cominciò ad avere una forma. Ed essa era quella di un clown vestito con abiti argentati e dalla cui testa sproporzionata spiccavano un paio di ciuffi arancioni.
<< Ho camminato su un miliardo di mondi…e per ogni mondo, ho spento milioni di luci. >>
Si fermò ad appena un passo da Peter e scrutò la sua anima rannicchiata con cupo interesse. Una piccola luce in mezzo al vuoto, nuda e sola.
Allungò una mano verso quel corpo martoriato.
<< Sei forte, bambino… ma io sono al di là della forza. Sono la fine…e sono venuto per te, Peter. Ecco la risposta perfetta… >>
La mano di Pennywise tocco la spalla del vigilante…e in quel momento, per la prima volta da innumerevoli eoni, IT provò dolore.
<< COSA?! >>
 
                                                                                                                                                   * * * 
 
L’anima di Peter tornò nel suo corpo.
La prima cosa di cui si rese conto, una volta che i suoi sensi furono nuovamente sincronizzati con un’esistenza terrena…furono le urla. Urla agghiacciante e inumane che sembravano provenire da un altro mondo.
La seconda cosa di cui divenne consapevole…furono le braccia di Carol che lo sostenevano.
Sbattè le palpebre e cominciò a guardarsi intorno.
I suoi occhi color nocciola si posarono brevemente sul volto sollevato della bionda, prima di soffermarsi su una scena che lo sorprese non poco.
L’enorme ragno che IT aveva scelto come sua ultima forma si trovava a circa una decina di metri da loro…ed era l’origine di quelle urla. Sembrava come se qualcosa lo avesse ferito, eppure il vigilante non notò segni particolari sul suo corpo grottesco.
La bestia piagnucolo e sibilò verso di lui, agitando le zampe con movimenti rapidi e scattanti.
<< Non può essere. Tu…TU… >>
La sua voce furoiuscì dalle mandibole bassa e graffiante, leggermente distorta.
Scosse la testa e si lanciò contro la coppia di Avenger, protraendo uno degli arti anteriori con l’intenzione di porre fine alla loro vita.
Tuttavia, quando la zampa uncinata entrò in contatto con il petto di Peter…divenne polvere.
 << AAAAAAAAAARGH! >> agonizzò la bestia, capovolgendosi sulla schiena come un granchio.
Il corpo da ragno iniziò a cambiare, diventando sempre più piccolo, il tutto sotto gli sguardi increduli di Peter e Carol.
Dopo quasi mezzo minuto, l’inconfondibile figura di Pennywise si materializzò di fronte a loro.
Ma era diverso. Il volto era raggrinzito, decadente, come se il trucco bianco che lo ricopriva si stesse sciogliendo.
Sembrava…malato, fu il primo termine che attraversò la mente dell’arrampica-muri.
Nel mentre, la mente di IT stava elaborando miliardi di possibilità nello stesso istante. Ovunque, nel multi verso, i suoi avatar vennero percossi da un fremito di sorpresa.
Perché? Perché stava accadendo qualcosa del genere? Lui era l’Eterno, il mangiatore di mondi! Quel marmocchio era solo un umano, un semplice ammasso di carne, sangue. I suoi fratelli lo avevano forse aiutato? No…non s’immischiavano mai in certe cose. Vivi e lascia vivere, questo era il silenzioso patto tra le tre entità cosmiche…a meno che…
E se fosse esistito un Altro? E se quel marmocchio fossero stato agente di qualcosa di altrettanto potente? Magari quanto lui!
Se... se... IT cominciò a tremare. L'odio era una novità. Il dolore era una novità. Sentirsi ostacolato nei propri proponimenti era una novità. Ma la verità più terribile era quella paura. La paura…di essere stato ostacolato da qualcuno come lui.
Fu allora che una rivelazione cominciò a farsi strada nella mente contorta dell’entità.
<< Sei uno dei suoi >> sussurrò con tono febbrile, gli occhi gialli rivolti in direzione di Peter. << Uno dei suoi animaletti…NO! Questo è il MIO mondo! Il MIO mattatoio! >>
Si alzò di scatto e partì spedito verso il vigilante, le mani protese in avanti e il volto chiuso in una smorfia grottesca.
Peter reagì d’istinto e si alzò rapidamente in piedi, nel tentativo di proteggere Carol dall’assalto della creatura.
Ma quando le dita guantate del clown si posarono sul volto del ragazzo…anch’esse diventarono polvere.
Pennywise compì un balzo all’indietro, rilasciando un grido di dolore. Al contempo, il corpo del pagliaccio cominciò lentamente a dissolversi.
Dapprima, sontuose crepe iniziarono a spaccargli il volto e gli abiti vittoriani, diffondendosi da capo a piedi come una sorte d’infezione. Poi, le gambe del clown crollarono su loro stesse, riversando una cospicua quantità di granelli color cenere sul pavimento della stanza.
<< Lei non ha alcun potere qui! >> piagnucolò Pennywise. << Quella puttana schifosa… Le insegnerò io cosa succede a chi tenta di fregarmi! Le insegnerò IO cosa accade a chi cerca di fottermi! >>
Per la prima volta da quando l’aveva incontrato, Peter si ritrovò a provare pena per la creatura che aveva di fronte.  Bandì subito dalla mente quel pensiero, non appena gli occhi gialli dell’essere si posarono su di lui.
<< Povero stolto. Tu non hai la minima idea di con chi hai scelto di invischiarti. Lei sarà la tua morte! >> ringhiò attraverso le zanne. << Tornerò…giuro che tornerò! Il tuo mondo brucerà, e delle anime di coloro che ami non resteranno altro che brandelli! >>
Ormai, del corpo di Pennywise restava solo una testa sproporzionata piena di ciuffi arancioni.
<< Fa male… >> sussurrò la creatura, mentre anche quella cominciava a dissolversi. << Fa ma… >>
Non ebbe la possibilità di terminare la frase.
Il volto del clown divenne polvere nel vuoto e si mescolò con le pozze d’acqua disseminate lungo tutto il bacino fognario.
Peter e Carol rimasero completamente fermi e immobili, incapaci di credere a ciò cui avevano appena assistito.
Era…era morto? Avevano davvero ucciso quella cosa? Entrambi ne dubitavano fortemente.
Durante la loro precedente conversazione, Pennywise aveva affermato che il suo corpo attuale non era altro che un costrutto utilizzato dalla sua vera forma per muoversi sul piano mortale.
Peter aveva avuto un assaggio di quella forma…dell’orrore che si celava oltre le pareti del suo universo. Una dimensione piena di oscurità e mostri, dove concetti come luce e creazione non erano altro che mere fantasie delle entità che vi abitavano.
Ma allora…dov’era finito IT? Perché aveva reagito in quel modo dopo che lo aveva toccato? E soprattutto…chi era la LEI a cui si stava riferendo?
“ Sei uno dei suoi animaletti” aveva sussurrato Pennywise, con tono febbrile.
Come dal nulla, il ricordo di quelle parole provocò un brivido d’anticipazione lungo la spina dorsale del vigilante. Era quasi come se il suo corpo stesse cercando di dirgli qualcosa.
Che IT si stesse riferendo alla misteriosa entità che aveva incontrato nel Macroverso, assieme alla Tartaruga e a Mary? Perché aveva deciso di aiutarlo?
Non ebbe la possibilità di soffermarsi ulteriormente sulla questione.
Attorno alla coppia di Avengers…la terra cominciò a tremare. Le montagnette di rifiuti che adornavano la stanza presero a collassare su se stesse, accompagnate da numerosi tonfi.
Alzando appena lo sguardo, il vigilante si rese conto che erano stati generati da pezzi di soffitto cadenti.
Il flusso dell’acqua che scrosciava nel bacino crebbe d’intensità, segnalando una rottura delle tubature collegate a quella parte della fognatura. Ben presto, il fiotto si trasformò in un vero e proprio fiume in piena.
Crepe di ogni forma e dimensione iniziarono a protrarsi dal pavimento, generando spaccature abbastanza grandi da ingoiare oggetti di notevoli dimensioni, tra cui un vecchio frigorifero e un armadio a due ante. Poi, il mondo attorno agli Avengers cominciò a crollare.
Carol non perse tempo e afferrò Peter per il fianco, mentre faceva lo stesso con il fratello. Fatto questo, fece appello ad ogni oncia di energia che le era rimasta e schizzò verso l’altro, mentre il pavimento sotto di lei scompariva in una nube di fumo e detriti.
Il corpo di Carol - capace di attraversare la fiancata di una nave corazza Kree da parte a parte – sfondò il soffitto della fognatura e schizzò oltre il manto stradale.
Salì alta nel cielo, rimanendo sospesa nel vuoto dell’aria, a circa una decina di metri da terra.
La donna e il suo compagno Avenger si resero conto di essere proprio al di  fuori della casa di Neibolt Street.
Ma come diavolo era possibile? Erano abbastanza sicuri di aver camminato nelle fogne per ore, allontanandosi non poco dall’entrata del pozzo che avevano usato per accedervi.
Quanto di ciò che avevano visto in quel labirinto era stato reale…e quanto non era stato solo una semplice illusione creata dallo stesso Pennywise?
Mentre la mente della coppia era attraversata da mille domande, ecco che la villa cominciò a collassare.
Dapprima crollarono le impalcature della facciata anteriore, rapidamente seguite dai muri di sostegno laterali. Il soffitto seguì subito dopo, facendo calare sull’ intero quartiere una densa nube biancastra.
Dopo circa un paio di minuti…la casa di Neibolt Street scomparve dalla faccia della Terra, come se non fosse mai esistita in primo luogo.
Infine…tutto cessò. Un silenzio di tomba tornò a regnare nella periferia di Harpswell.
Capendo che il pericolo era finalmente passato, Carol atterrò dolcemente sulla strada posta di fronte al cumolo di macerie appena creatosi.
Posò dolcemente J.J sull’asfalto e crollò a terra, rapidamente seguita da Peter.
Entrambi gli Avengers si accasciarono sulla schiena e volsero lo sguardo verso il cielo stellato che sovrastava la cittadina.
<< È finita >> sussurrò la bionda, attirando l’attenzione del compagno.
Questi la scrutò in silenzio per qualche secondo, prima di arricciare le labbra in un sorriso stanco.
<< È finita >> disse a sua volta, mentre intrecciava una mano con quella della supereroina.
Lei non diede alcun segno di volersi sottrarre a quel contatto.
Rimasero semplicemente lì, in mezzo alla strada, mentre fumo e cenere s’innalzavano dai resti di Neibolt Street.
Poco dopo, il suono di alcune sirene e ambulanze cominciò a risuonare per tutta la lunghezza del quartiere.
Peter gemette interiormente. Doveva assolutamente trovare qualcosa per coprirsi il volto.
 
 
 
 
E così finisce l’ultimo capitolo! Sarà seguito da un epilogo che aprirà le porte per la prossima storia collegata a questo universo Marvel.
È stato molto difficile scrivere questo aggiornamento, poiché la parte cosmologica del romanzo di IT è sempre stata piuttosto complicata. Ho anche ripreso alcuni dialoghi della storia per rendere il tutto più comprensibile. 
La Tartaruga è l’entità benevola complementare a IT e il creatore dell’universo in cui è ambientato il romanzo. Mary, invece…è Mary Poppins. Sì, proprio lei.
Per il suo inserimento potete ringraziare Uptrand, il quale mi aveva fatto notare le similitudini tra lei e IT, a dispetto delle personalità opposte.
All’inizio avevo preso il suggerimento di un suo inserimento come uno scherzo…ma poi mi sono ricordato che Mary Poppins è davvero un’entità cosmica nella bellissima serie a fumetti “La lega degli straordinari Gentlemen”. E così ho deciso di crossoverare pure lei e renderla la sorella di IT e della Tartaruga.
La misteriosa entità senza nome e forma ( colei che offre la propria protezione cosmica a Peter, permettendogli di distruggere l’avatar di IT ) è un personaggio dei fumetti Marvel molto legato a Spider-Man, comparso anche in molti altri media a lui legati. Chi è? Eh eh, dovrete continuare a seguire la serie per scoprirlo.
Preciso che IT non è affatto morto, Peter è solo riuscito a distruggere il costrutto che usava nel suo mondo. Ce ne sono milioni sparsi per il multiverso, e la vera forma di IT è ancora al sicuro nel Macroverso...ed è MOLTO arrabbiata.

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Capitolo 15
*** Epilogue ***


Ecco l’ultimo capitolo! Vi auguro una buona lettura, e vi consiglio di andarvi a leggere le note una volta terminato ;)
 


Epilogue
 
La sala d’attesa, al secondo piano dell’edificio, era molto piccola, molto lussuosa, molto intima. Era tutta per lui: Norman Osborn, presidente delle Oscorp Industries e rappresentante della maggior parte delle grandi aziende di New York.
All’uscita dell’ascensore, il miliardario camminò con passo sicuro fino alla porta del suo studio.
Una stagista, che a Osborn ricordava vagamente una delle vecchie star della gloriosa Tv viste quand’era ragazzino, sorrise al suo ingresso. Era seduta a una scrivania pittoresca, all’interno di una rientranza che sembrava una giungla equatoriale, circondata com’era da tante piante.
Quando l’uomo varcò la porta dello studio, prese una rapida occhiata agli interni della stanza.
A dispetto di quello che una persona comune si sarebbe potuta aspettare, l’ufficio aveva caratteristiche quasi spartane.  C’erano solo una scrivania, una stampate fax, una macchinetta del caffè modello Moka e qualche felce sparsa lungo gli angoli.
E una volta dentro…Norman si trovò davanti a due figure che riconobbe all’istante: gli eroi noti al pubblico come Capitan Marvel e Spider-Man.
Il magnante rimase fermo e immobile, gli occhi puntati in direzione della coppia per quasi un minuto buono.
Quando quel lasso di tempo giunse al termine, rilasciò un sospiro infastidito.
<< Sembra che dovrò trovare nuovi addetti alla sicurezza >> borbottò più a se stesso che a loro, mentre camminava fino alla macchinetta del caffè.
Carol fu la prima a farsi avanti.
<< Dobbiamo parlare con lei, Signor Osborn >> disse freddamente, il volto adornato da un’espressione impassibile.
Norman si limitò a darle la schiena e cominciò ad armeggiare con il Moka.
<< Quello che dovreste fare…è prendere un appuntamento >> rispose con tono casuale. << Ma per gli Avengers? Beh, sono disposto a fare un’eccezione. >>
Detto questo, riempì un bicchiere di caffè e si voltò nuovamente in direzione della coppia di supereroi, le labbra ora arricciate in un sorriso accomodante.
<< Allora, cosa posso fare per voi? >> chiese con voce apparentemente piacevole. Non sembrava per nulla intimidito dal fatto che due degli esseri più potenti del mondo avessero fatto irruzione nel suo santuario senza alcun tipo di avvertimento. Era quasi come si aspettasse una loro visita.
Già solo questo fu sufficiente a far cadere lo stomaco di Peter. Ormai, era abbastanza sicuro di quale sarebbe stato l’esito di questa conversazione…e non era affatto quello che aveva sperato.
<< Sappiamo che è stato lei ad organizzare l’evasione di Adrian Toomes, Herman Schultz, Phineas Mason e Mac Gargan, due anni fa >> disse Carol, lasciando trasparire quel tono autoritario che di solito riservava ai criminali appena catturati o colti in flagrante.
Osborn, tuttavia, mantenne il suo sorriso, per poi arricciare il volto in un’espressione confusa.
<< Temo che questi nomi non mi siano familiari >> ribattè con tono contemplativo. << Ma se volete, posso chiedere alla mia assistente di rinfrescarmi la memoria. >>
E, detto questo, camminò fino alla scrivania e premette un pulsante giallo situato appena sotto la cornice del mobile. Dopo appena mezzo minuto, qualcuno si fece strada oltre la porta dell’ufficio. Una figura che sia Peter che Carol riconobbero all’istante.
La bionda strinse ambe le palpebre degli occhi, non appena il suo sguardo si posò sull’inconfondibile volto della donna che aveva cercato di catturare il suo compagno di squadra appena due giorni prima.
<< Tu… >> sibilò a denti stretti.
La sicaria si limitò a lanciarle una rapida occhiata, fermandosi affianco a Osborn con occhi vacui e inespressivi che non faceva trasparire altro che pura professionalità.
<< Lei è Sable, la mia…tuttofare >> disse Norman, il cui sorriso aveva assunto caratteristiche molto più predatorie. << Davvero, se non fosse per lei…beh, temo che finirei pure con il dimenticarmi di allacciare le scarpe. >>
<< Lei è troppo modesto, Signor Osborn >>
Il magnante ridacchiò, apparentemente divertito dalle parole della segretaria.
<< Dimmi, Sable, i nomi Adrian Toomes, Herman Schultz, Phineas Mason e Mac Gargan ti suonano familiari? >> chiese con tono casuale.
La donna si portò una mano al mento, simulando un’espressione contemplativa.
<< Se non sbaglio, sono i nomi di alcuni trafficanti di armi catturati dal qui presente Spider-Man, circa otto anni fa. Ma, a parte questo, temo di non essere molto preparata sull’argomento >> ammise con una scrollata di spalle.
A quelle parole, Osborn allargò ambe le braccia e rilasciò un sospiro affranto.
<< Sembra che non potrò esservi molto utile… >>
Non ebbe la possibilità di terminare la frase.
Carol scattò in avanti e lo afferrò per il colletto della giacca, sollevandolo da terra. Sable avvicinò rapidamente la mano destra alla cintura dei pantaloni – probabilmente per afferrare una pistola – ma un rapido sguardo ad opera del suo superiore la costrinse a fermarsi.
<< Pensi davvero di potertela cavare così? >> ringhiò Carol, gli occhi ora illuminati da un intenso bagliore dorato. << Organizzare un’evasione, inviare degli uomini a catturare un Avenger, provocare la morte di un civile…e andartene via come se niente fosse? >>
Nonostante la sfuriata della supereroina, il volto di Osborn rimase una maschera sorridente e accomodante.
Rimase in silenzio per qualche secondo, lo sguardo fisso in quello della bionda.
<< Signorina Danvers… >> cominciò pazientemente, << rispetto il lavoro degli Avengers più di chiunque altro, ma se non mi lascia andare entro cinque secondi…beh, temo che dovrò indire una conferenza stampa in cui mostrerò foto e video alquanto dettagliati di Capitan Marvel sul punto di pestare a sangue uno stimato membro della nostra società. >>
Detto questo, indicò un angolo del soffitto dell’ufficio.
Carol seguì il dito con lo sguardo…e si bloccò. C’era una telecamera a circuito chiuso situata proprio in quel punto della stanza. La spia rossa che lampeggiava accanto alla lente era un segno più che chiaro che stesse registrando.
La donna imprecò mentalmente.
<< Senza alcuna prova che condanni questi presunti crimini di cui mi accusate, potrei aggiungere >> riprese Norman, mentre continuava a sorridere piacevolmente.
Carol rimase in silenzio, passando brevemente la testa da lui alla telecamera.
Poi, dopo quello che sembrò un tempo interminabile, schioccò la lingua e lasciò andare l’uomo.
Osborn si rimise a posto il colletto come se niente fosse. Analogamente a prima, non sembrava per nulla preoccupato dall’intera situazione e nemmeno dalle accuse dell’Avenger.
Per quanto avesse sperato il contrario, Carol non si ritrovò certo sorpresa dalla cosa.
Una volta tornati a casa Danvers, lei e Peter avevano scoperto che i loro attaccanti avevano approfittato della loro momentanea assenza per darsela a gambe. In circostanze diverse, entrambi gli Avengers avrebbero consegnato personalmente i criminali alla prigione più vicina. Sfortunatamente, il rapimento di Junior per mano di Pennywise aveva reso impossibile una simile linea d’azione…e Osborn ne era perfettamente consapevole.
Non essendoci video dello scontro, né testimoni, ad eccezione di una donna la cui cittadinanza terrestre era incerta al meglio e un vigilante la cui identità non poteva essere confermata…beh, nessuna giuria competente avrebbe mai dato peso alle parole della coppia riguardo un eventuale coinvolgimento illecito di uno degli individui più ricchi e stimati di New York, nonostante la loro posizione. E Osborn sapeva anche questo. E non potevano nemmeno provare che Sable fosse stata coinvolta nell’attacco.
Non potevano toccarlo…la legge, come in molte altre situazioni, era contro di loro. 
Carol fece per andarsene, ma con la coda dell’occhio notò Peter incamminarsi fino alla figura del magnante, fermandosi ad appena un paio di passi da lui.
Il vigilante rimase completamente immobile, le lenti della maschera fisse negli occhi del miliardario. Questi restituì il suo sguardo con diffidenza, quasi si aspettasse di essere attaccato. Sable, a quanto pare, si ritrovò a condividere i timori del suo capo, poiché riavvicinò la mano alla pistola che aveva appesa alla cintura.
Peter, tuttavia, non fece alcun segno di voler colpire l’uomo. Semplicemente, si limitò a scrutare Osborn da capo a piedi.
<< Conosco i tipi come te >> disse all’improvviso, sorprendendo il magnante. << Persone che si ritengono intoccabili a causa della propria posizione. Convinte di avere sotto controllo tutto e tutti grazie ai loro agganci e al loro denaro: Gangster, funzionari dell’Hydra…non ha importanza. Alla fine, finiscono sempre con il fare un passo falso. >>
Di fronte a lui, Osborn aprì la bocca per controbattere, ma Spider-Man non gli diede la possibilità di farlo.
<< Pensi di avere il controllo…ma ti sbagli. Ora sappiamo chi sei. Il tuo anonimato non potrà più aiutarti >> continuò implacabile, mentre gli puntava un dito contro. << Non m’importa perché volevi catturarmi. Se per vendetta, per usare i miei poteri, o per altre mille ragioni. D’ora in avanti…ti starò addosso come una zecca sul pelo di un cane. >>
Si porse in avanti, le lenti della maschera ora assottigliate in un paio di fessure.
<< E quando farai quell’inevitabile passo falso…io sarò lì, pronto a sbatterti in galera >> sussurrò freddamente.
Detto questo, si girò di scatto e procedette a fuoriuscire dallo studio, lasciandosi dietro un Norman Osborn visibilmente fumante.
Carol sorrise appena, prima di chiudere il volto nella sua consueta “espressione da poliziotta”, come a Peter piaceva indicarla.
Si avvicinò al magnante e gli posò una mano sulla spalla.
<< Prova ad avvicinarti a lui ancora una volta…o semplicemente a guardare nella sua direzione…e che Dio mi aiuti, ti staccherò la testa personalmente, anche a costo di venire bollata come criminale a vita >> ringhiò, il corpo illuminato da un debole bagliore dorato.
Osborn rimase in silenzio e si limitò a fissarla con uno sguardo duro.
Carol si voltò, apparentemente soddisfatta dal suo tentativo di intimidazione. Fece per uscire dallo studio…
<< Ho saputo di sua madre e suo fratello, signorina Danvers. >>
La donna si bloccò di colpo. Rimase con la mano stretta attorno al pomello della porta e il suo corpo venne percosso da un brivido di collera. 
<< Le faccio le mie condoglianze. Spero davvero che vostro fratello si riprenda >> proseguì il magnante, con tono piacevole. E, sebbene Carol non potesse vederlo, riuscì comunque a immaginare il ghigno intonacato sul volto dell’uomo.
Prendendo un respiro profondo, la bionda fece appello a tutto l’autocontrollo che aveva in corpo per non girarsi e scaraventare il miliardario dalla finestra dell’ufficio.
Uscì dalla stanza e sbattè violentemente la porta dietro di sé. Pochi secondi dopo, il pomello deformato cadde a terra con un tonfo.
 
 
Scena Post-Credit
 
In passato, se qualcuno avesse detto a Yon Rogg che un giorno sarebbe stato condannato dal suo stesso popolo come criminale di guerra e costretto al lavorare nei campi di un pianeta vulcanico, anche dopo tutto quello che aveva fatto in nome dell’impero Kree…beh, probabilmente avrebbe riso in faccia a quella persona, per poi ucciderla sul posto con un bel colpo di blaster alla testa.
Quanti atti moralmente discutibili aveva compiuto sotto ordine dell’Intelligenza Suprema? I pianeti che aveva aiutato a conquistare, le popolazioni che aveva contribuito a sterminare, le famiglie che aveva personalmente distrutto…troppe per contare, su tutti i fronti.
E ora…eccolo lì. Costretto a condividere una cella 2x3 con un grosso alieno bavoso che assomigliava più a un calamaro che a un essere intelligente.
Tutto a causa sua: Carol Danvers, l’erede di Mar-Vel. Ancora malediva il giorno in cui aveva deciso di portarla su Hala, anziché eliminarla seduta stante.
Le aveva dato tutto: una patria, compagni di squadra, uno scopo…e lei lo aveva tradito, dichiarando guerra allo stesso popolo che l’aveva accolta. E proprio a causa sua, dopo innumerevoli scontri, l’Impero Kree aveva scelto di interrompere le sue vie espansionistiche e consegnare alla Nova Prime tutti coloro che erano stati bollati come fautori di crimini di guerra; Yon Rogg era stato tra questi.
Come ogni giorno, i soldati della Nova Corps avevano radunato le squadre di lavoro, selezionando i prigionieri a casaccio per la giornata di servizio nelle fattorie. Yon preferiva darsi da fare e aveva quasi abbandonato la speranza, quando una guardia agitò il fucile in direzione della porta della sua cella.
Poco tempo dopo, lui e altri cinque individui erano  incatenati per le braccia a una panca sul retro di un arrugginito turbo furgone, mentre un terzetto di guardie li sorvegliava dal vano anteriore del veicolo.
Nessuno dei prigionieri guardava i compagni, cosa che l’ex kree interpretò come un buon segno: se qualcuno tra loro avesse avuto intenzione di ucciderlo, almeno non avrebbe avuto alleati.
Il trasporto si fermò così di colpo…che lui venne scaraventato in avanti, con il metallo delle catene che gli affondava nella carne dei polsi. Fuori risuonarono alcune grida.
La curiosità gli si insinuò nel cervello: erano in viaggio da troppo poco tempo per essere arrivati alle fattorie.
Gli altri prigionieri si agitarono inquieti, spostando lo sguardo dalle guardie al portello anteriore.
<< Nessuno si muova! >> scattò uno di loro. I suoi due compagni avevano le armi spianate e tutti e tre erano rivolti verso il portello.
Yon sentì il tonfo sordo di qualcosa di metallico e un sottile lamento acuto. Adesso uno degli altri prigionieri aveva sollevato lo sguardo con un sorriso di eccitazione, come se avesse capito cosa stava succedendo.
Poi, l’avantreno del trasporto esplose.
Il ruggito della granata che scoppiava gli aggredì le orecchie e trasformò le urla, le grida e le scariche di blaster che seguirono in un incomprensibile ronzio metallico.
Un fumo che portava con sé odore di cenere e di circuiti in fiamme inondò lo scompartimento posteriore, pungendogli gli occhi e le narici. Cercò di seguire quello che stava succedendo, di osservare i movimenti dei soldati, ma guardare gli faceva male ed era costretto a sbattere le palpebre a causa della polvere. Tenne lo sguardo rivolto verso il pavimento, ma con la coda dell’occhio vide gli ufficiali della Nova Corps morire uno dopo l’altro, abbattuti da un fuoco di sbarramento di scariche di particelle che trapassarono le armature e generarono scintille sulle pareti del trasporto.
<< Dentro! >> chiamò una voce soffocata, che riuscì a stento a sentire al di sopra delle vibrazioni nelle orecchie. << Yon Rogg! Dov’è Yon Rogg?!>>
Yon sollevò il mento con un sussulto e si voltò verso la parte anteriore del turbo furgone.
Tre figure armate, con armature da battaglia bianche come un osso, si fecero largo fra i corpi.
Yon li riconobbe all’istante. I prigionieri dei campi detenuti dalla Nova Corps li conoscevano con molti nomi, ma erano quasi universalmente noti con il termine di Stromtrooper.
Erano soldati di un potere nascente che da qualche anno aveva cominciato a farsi un nome nella Galassia. Un’organizzazione che si definiva semplicemente “l’Impero Galattico”.
Nessuna afflizione, nessun pianeta a cui erano legati. Apparentemente, vi facevano parte individui provenienti da ogni razza, perfino alcuni Kree.
Però non aveva senso. Perché avrebbero dovuto cercarlo? Forse era una coincidenza, forse erano alla ricerca di un altro prigioniero e lui aveva sentito male…
<< Yon Rogg! >> chiamò di nuovo il capo del gruppo, riconoscibile a causa della spalliera rossa che spiccava rispetto alle armature immacolate dei suoi compagni.
<< Lui >> disse un altro soldato, indicando nella sua direzione.
La sordità momentanea stava diminuendo. Yon attese, quasi aspettandosi una scarica di blaster alla testa, e chiedendosi che sensazione avrebbe dato. La gente moriva in fretta per un colpo di blaster, l’aveva visto abbastanza spesso.  Non pensava che avrebbe fatto troppo male.
Uno degli altri soldati armeggiò con le sue catene, fino a riuscire ad aprirle con una chiave trovata sul corpo di una delle guardie. Yon si alzò di scattò, ancora stordito dal fumo e dal sangue che gli andava alla testa, ma decise di non darlo a vedere. Il suo “salvatore” accennò a dire qualcosa, quando dall’altro lato del furgone un prigioniero chiamo: << Ehi, e noi?! >>
Il soldato in piedi davanti a lui voltò le spalle…e Yon vide un’occasione.
In un secondo attraversò metà dell’ampiezza del furgone, piantando saldamente un piede nel ventre del capo Stormtrooper e mandandolo a sbattere contro la parete. Lo slancio gli permise di rimanere in piedi mentre ruotava verso un secondo corpo e si avvicinava. Vibrò un pugno e atterrò in un colpo solido sulla faccia di un altro soldato, tanto che avvertì il casco dell’uomo – ammesso che fosse un uomo - spezzarsi sotto la forza dell’attacco.
Superò il terzo soldato con uno scatto e fuoriuscì dal furgone, pronto a lanciarsi in una fuga rocambolesca negli spazi sconfinati del pianeta. Non ne ebbe la possibilità.
Qualcosa lo afferrò alla gola. Una stretta forte e implacabile che lo costrinsi a fermarsi sul posto.
Si portò ambe le mani al collo, nel tentativo di liberarsi…ma le sue dita incontrarono solo l’aria. Non c’era nessuno ad afferrarlo, eppure…eppure poteva chiaramente sentire una forza estranea occludergli qualunque possibilità di respirare.
E fu in quel momento…che un suono basso e sibilante risuonò davanti a lui, accompagnato da un distinto rumore di passi.
L’ex soldato Kree alzò gli occhi, ansimando in cerca di aria. Al contempo, una figura alta e tarchiata si fece strada oltre le nuvole sulfuree del pianeta vulcanico.
Il nuovo arrivato indossava un’armatura nera come la pece, avvolta in un lungo mantello. Il suo volto, coperto da quella che sembrava una maschera completa di respiratore, era un orrore scheletrico e lucido, con un paio di lenti rosso sangue al posto degli occhi.
Yon sentì la presa invisibile allentarsi e cadde in ginocchio, mentre una sensazione sgradevole cominciò a farsi strada dentro di lui.
L’ex Kree conosceva bene l’identità di questo individuo. Aveva sentito storie, voci e sussurri di colui che aveva cominciato a riempire il vuoto lasciato da Thanos pochi anni dopo la sua morte, divenendo in poco tempo uno degli esseri più temuti della Galassia: Darth Vader, il Leader Supremo dell’Impero.
Da quando aveva fatto la sua prima apparizione sugli Holo-video di numerosi pianeti, circa cinque anni fa, l’uomo si era subito guadagnato la fama di un tiranno spietato e senza cuore, capace di prendere il controllo di un pianeta in pochi giorni.
Decine di mondi erano caduti sotto il suo controllo, diventando ingranaggi funzionali della macchina imperiale di cui era il leader indiscusso. Ma cosa mai avrebbe potuto volere da qualcuno come lui? Un ex soldato Kree rinnegato dalla sua stessa gente?
Quasi come se fosse consapevole dei pensieri che intercorrevano nella mente di Yon, Vader si inginocchio di fronte a lui e lo fissò attraverso le lenti rosse della maschera.
<< Ti ricordi di me? >> chiese con voce impassibile, un rombo basso e gutturale che risuonò per tutta la vallata come un tuono a ciel sereno.
Yon spalancò gli occhi per la sorpresa. Lui e Vader si erano già incontrati? Impossibile, si sarebbe certamente ricordato di un individuo del genere.
Il respiratore dell’uomo emise un suono apparentemente scontento.
 << No, certo che no >> disse dopo qualche attimo di silenzio. << Ma lo farai. >>
E prima che Yon potesse domandargli a cosa si stesse riferendo, Vader compì un rapido gesto con la mano destra. Appena un secondo dopo, il corpo dell’ex soldato Kree cadde pesantemente a terra, immerso in un sonno profondo.
L’uomo in armatura nera si rialzò in piedi, mentre due soldati procedevano a raccogliere il prigioniero.
<< Lord Vader, la flotta della Nova Corps si sta avvicinando >> disse il leader dello squadrone, attirando l’attenzione del suo comandante.
La maschera inespressiva si posò su quella bianca dello stormtrooper, suscitando un brivido lungo la spina dorsale del soldato.
<< Dite al Grand’Ammiraglio Thrawn di prepararsi per il salto a velocità luce >> ordinò freddamente Vader. << Abbiamo ciò per cui siamo venuti. >>
Il caporale annuì rapidamente e procedette a fare come richiesto.
Al contempo, Vader estrasse un oggetto metallico circolare da sotto il mantello: un proiettore olografico.
<< Fuori quattro…ne resta uno solo >> sussurrò, mentre attivava il dispositivo.
E fu in quel momento…che l’immagine olografica della donna conosciuta come Capitan Marvel si materializzò di fronte al signore della guerra.
 
 
 
 
Dum, Dum, Duuum, Dum, Dum, Dum, Dum, Dum, Duuuuuum!
E con questo capitolo termina la fan fiction…ma non certo la storia.
E sì, ho appena inserito Darth Vader all’interno dell’MCU, assieme ad altri personaggi di Star Wars che incontrerete nel prossimo e ultimo capitolo di questa saga ambientata nel mio personale universo Marvel post Endageme.
Cosa aspettarsi da questa storia? Innanzitutto, sarà un mega crossover che coinvolgerà tutte le trame e i personaggi delle fan fiction precedenti:
  • So Wrong ( e one shot prequel associata )
  • The Spider, the Captain and the Clown
  • Avengers The King Of Terror

La fic sarà un sequel diretto di Avengers – The King of Terror, e avrà come antagonista centrale Pennywise/IT, come anticipato dalla scena post-credit della suddetta storia. Ma non sarà certo l’unico villain principale!
Come avrete già capito, Darth Vader stesso sarà uno dei big bad…e ha un conto in sospeso con Carol. Ho passato molto tempo ad elaborare un modo per integrarlo all’interno dell’MCU, e spero che il risultato finale sarà di vostro gradimento.
E ovviamente avremo King Ghidorah, più che desideroso di vendicarsi dell’umiliazione subita nella sua fic. E non pensate che mi sia dimenticato di Carnage, pure lui causerà non poche grane agli eroi più potenti della terra. E sì, Norman Osborn avrà un ruolo molto più centrale e diretto. Oltre a loro, avremo pure il ritorno di un vecchio MCU villain e un antagonista completamente nuovo preso direttamente dal franchise di Godzilla.

Parlando degli Avengers, questa volta i protagonisti della fic non saranno solo Peter e Carol ma, analogamente ad Avengers – The King of Terror, ogni eroe avrà il suo spazio. In particolare, Strange e Wanda avranno una delle mie sottotrame preferite della storia. Inoltre, il fatto che Pennywise/IT sia la minaccia principale mi ha fornito un espediente per riportare anche qualche personaggio che in circostanze normali non avrebbe mai potuto far parte della trama. E per aggiungere una ciliegina alla torta, avremo eroi provenienti da molti altri fumetti Marvel non ancora parte dell’MCU...tra cui Deadpool ;)
Detto questo, mi prenderò una pausa di qualche mese dalle fic MCU, in modo da elaborare la trama a dovere. È un progetto molto complesso, quindi voglio fare le cose per bene.
Con tutta probabilità, comincerò a pubblicare a Settembre o fine Agosto. Nel mentre, se vi piacciono i miei crossover, vi invito a dare un’occhiata a The War of Ice and Nightmares, un enorme crossover Disney/Dreamworks attualmente in corso.

Spero che questa storia vi sia piaciuta!

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