Your Turn to Write - whitemushroom

di whitemushroom
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Opening ***
Capitolo 2: *** A KH 1 Story: About a certain boy ***
Capitolo 3: *** A CoM Story: The heart we do not possess ***
Capitolo 4: *** A KH 2 Story: What dreams are made of ***
Capitolo 5: *** A 358/2 Days Story: (Don't) lie to me ***
Capitolo 6: *** A BBS Story: Whoever you want ***
Capitolo 7: *** A KH Coded Story: A Data Heart in a Data World ***
Capitolo 8: *** A KH DDD Story: Think of me ***
Capitolo 9: *** A KHuX Story: Your choice ***
Capitolo 10: *** A KH 3 Story: Baking Blood ***
Capitolo 11: *** Ending ***



Capitolo 1
*** Opening ***


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Gashu



“Il disturbo creato dal flusso dei dati è minimo. La ricostruzione ha un’accuratezza del 98.3%”.
Sul monitor compare la schermata di caricamento: uno sfondo nero con quello che sembra un cuore stilizzato in argento. Potrebbe sostituirlo con qualcosa di più “consono”, ma è cosciente che non sarà una modifica dell’immagine a migliorare le prestazioni già alte del programma. “Sarà l’ultima simulazione prima del Death Game”.
Il libro si era rivelato una scoperta senza precedenti.
Gashu non aveva idea di come fosse stato introdotto nel suo ufficio -le telecamere di sorveglianza avevano subito un guasto proprio il pomeriggio della sua apparizione- ma la portata di quell’oggetto si era rivelata il tassello mancante al loro piano e non avevano tempo di lavorare su inutili congetture.
Avevano testato le repliche dei candidati al Death Game 175 volte; le loro percentuali di sopravvivenza presentavano comunque delle discontinuità statistiche piuttosto marcate, abbastanza da essere considerate poco attendibili ai fini dell’esperimento. Sia lui che Safalin erano concordi sul fatto che suddette variabili fossero dovute all’ambiente chiuso, ripetitivo e privo di stimoli in cui le repliche si muovevano. La difficoltà di ricreare sentimenti ed emozioni tramite Intelligenze Artificiali esacerbava ancora di più il problema.
Ma un libro in grado di convertire in dati i propri contenuti …
“Il caricamento delle memorie è terminato tre ore fa. L’aggiornamento dei file sulla personalità sarà operativo in giornata”
Miley, con le gambe incrociate lungo la sua postazione, sorrise scoccando un’occhiata lungo l’altro capo della stanza. “Se Ranger non batte la fiacca come suo solito potremmo iniziare stasera stessa”
“Come ti permetti? Sei tu che rallenti il mio lavoro! Le Intelligenze Artificiali sono già pronte per l’impianto! Sono i tuoi aggiornamenti ad essere lenti!”
Ranger si alza in piedi, brandendo il cartello con la sua espressione corrucciata. Gashu non ha idea di quale bug si sia impossessato dei circuiti emotivi di Ranger tale da spingerlo a riportare le proprie mimiche facciali mediante cartelli, ma l’ennesima lite sterile tra i due Floor Masters viene interrotta da una voce flebile vicina all’ingresso.
“Credo che dovremmo prima apportare delle modifiche ad alcuni ricordi. Stiamo inserendo delle Intelligenze Artificiali in un contesto troppo diverso dal loro. Adattare le loro memorie al nuovo ambiente è un passaggio vitale per impedire uno shock emotivo che invaliderebbe tutto il lavoro. Abbiamo bisogno di dati sulle loro emozioni, ma dobbiamo evitare che vadano in conflitto”.
Le prime parole vengono ovviamente travolte dagli insulti che Miley e Ranger si stanno vomitando addosso, ma Gashu la ascolta senza scomporsi e la invita ad avvicinarsi al simulatore. Il dispositivo tattile si muove lungo le sue dita, e stavolta i paesaggi che vi scorrono attirano l’attenzione degli altri Floor Masters.
Scorrono immagini di luoghi, persone e strane creature. Immagini che ricordano un album di fotografie dello scorso secolo.
“Limitiamo i loro dubbi al minimo, concentrandoci su simulazioni di durata limitata” prosegue Safalin. Rimane in silenzio, con la testa piegata ed incassata tra le spalle.
Occorrono diversi secondi prima che riprenda il filo del discorso. “Posso incrementare la capacità adattiva delle repliche … ma a scapito di qualche ricordo pregresso, ecco”.
“Eccellente”.
Ad un suo cenno i tre Floor Masters tornano alle proprie postazioni e tornano con un pad ciascuno ed iniziano a scaricare una copia del libro.
Anzi, il termine tecnico dovrebbe essere “Grillario”, almeno a giudicare dalla scritta vergata sulla copertina.
L’ultima simulazione prima del Death Game. Quando tutto avrà finalmente raggiunto uno scopo.
“Miley, Ranger, Safalin … affido a voi la riuscita del nostro piano” dice.
Poi, con calma, estrae la pistola che da sempre tiene al di sotto della giacca e la poggia sul tavolo. Lo fa con calma, senza fretta, assicurandosi che tutti possano sentire il rumore del metallo contro il legno. “Non deludetemi”.
 

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Capitolo 2
*** A KH 1 Story: About a certain boy ***


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Con un sospiro esausto fa ancora un paio di passi avanti.
Non si era mai accorto che avessero sostituito il pontile: diversi anni prima, quando ancora portava una cartella sulle spalle, aveva rischiato di spezzarsi entrambe le gambe per correre sulle assi quasi marcite. Adesso, per fortuna, il legno è di buona qualità e abbastanza largo da farci passare anche due ragazzi alla volta; dipendesse da lui farebbe aggiungere anche un mancorrente o una rete di sicurezza, ma già il poter camminare su qualcosa di robusto può essere considerato un gran successo.
Il ragazzo è dall’altro capo del pontile, concentrato su qualcosa.
Kazumi Mishima riflette qualche istante, poi aumenta leggermente il peso dei propri passi. Le assi scricchiolano abbastanza da annunciarlo, senza però spaventare il giovane che, con fare sospettoso, si volta. “Che ci fa qui, prof?”
“Sei uscito dalla classe e non sei più tornato, Riku. Ti aspettavi seriamente che nessuno venisse a cercarti?”
“Ed ha lasciato gli altri solo per venirmi a riprendere per le orecchie?”
Il professore si ferma, fissando il mare. A mezzogiorno la superficie dell’acqua scintilla come se il sole si trovasse sul fondale. Non vi è nemmeno un’onda, ma la superficie increspata luccica felice mimando lo scintillio della sabbia. Un paio di pesci passano vicino alla riva con un guizzo scuro, ma è un bellissimo cenno di vita in quello scenario che non riesce mai a catturare fino in fondo nemmeno nei suoi quadri migliori. “Li ho lasciati con la signorina Nao. Forse lei riuscirà a tenere Wakka sulla sedia fino alla campanella”.
Alla fine del pontile la sabbia dell’isolotto gli entra nelle scarpe, e il professore si appoggia ad un albero di paopu.
Lo sguardo gli cade subito sui tronchi accumulati sulla sabbia. Ne conta sette, tra palme ed alberi di paopu. Alcuni in buone condizioni, altri praticamente marci. Un paio sono legati da una vecchia corda verdastra.
L’isolotto si alza per un metro dal pelo dell’acqua, dunque è improbabile che siano giunti lì con la marea. “Li hai portati tu qui?”
“Complimenti per lo spirito d’osservazione, prof!”
Tamburella un po’ le dita sulla corteccia.
Dei tanti studenti che gli sono passati nelle classi, Riku è uno dei più problematici. Non il peggiore, certo, ma uno di quelli che sembrano fatti apposta per sfilarti una cinquina tra le mani e farti finire sul giornale delle Isole del Destino per violenza su uno studente. Il rendimento scolastico del ragazzo non è un problema, anzi, se si applicasse un po’ di più sarebbe il migliore della classe. E non è nemmeno “un po’ vivace”, perché altrimenti lo avrebbe trovato a tirare calci ad una palla nel campetto di blitzball dietro la scuola.
Risponde, risponde a chiunque gli capiti a tiro. Ai compagni ed ai professori.
Risponde come se volesse tenere a distanza tutto e tutti. E, per questo motivo, Kazumi Mishima ha il sospetto che girare intorno all’argomento sia la cosa peggiore da fare. “Come mai sei scappato? Era solo un’esercitazione di disegno, non avevo alcuna intenzione di interrogare!”
“Appunto prof. Non avevo voglia di disegnare, tutto qui”
Con un salto si porta sul tronco di un albero di paopu piegato in due. Mishima ha il sospetto che se provasse a farlo anche lui si ritroverebbe il giorno dopo con il nervo sciatico infiammato, quindi si limita a mimare quel gesto spavaldo ma appoggiando solo la schiena al tronco.
Gli occhi chiari del ragazzo saettano da un lato all’altro della baia, il collo teso come se volesse saltare giù dal trespolo e buttarsi in acqua. “Lei ci ha chiesto di fare un disegno del mare. Beh, a me il mare fa davvero schifo”
Stacca un pezzo della corteccia e la butta in acqua.
Irrequieto.
Irrequieto, questa è la parola giusta. “È un po’ come disegnare le sbarre di una prigione, prof”
Il vento porta nuova aria calda.
Mishima la inspira a pieni polmoni, pensando che è stato proprio un peccato aver lasciato il pacchetto di sigari a casa.
Perché un sigaro, si sa, misura sempre il tempo giusto.
Il tempo tra il silenzio e la parola. È il tempo più importante, a guardare bene.
Prova a rimediare sfregandosi le dita, poi passandosele tra i capelli come a riordinarli dopo la leggera folata.
E aspetta, perché il tempo del sigaro è fatto quasi solo di attesa.
“Tanto voi adulti dite sempre la stessa cosa, non è vero? Che non capisco niente, che le Isole del Destino sono il posto più bello del mondo e che non apprezzo nulla di quello che ho. E i miei lo stesso, non fanno altro che dirmi che ho la testa piena di stupidaggini”.
Mishima sorride. Attende, e sorride.
Il tempo, il colore giusto.
“Io me ne vado di qui, prof. Non ce la faccio, giuro, le Isole del Destino mi fanno venire la nausea” dice. I suoi occhi colpiscono ancora la superficie dell’acqua, quasi come se volessero colpire l’intero oceano. La sua voce si riduce ad un sussurro “Questo mondo è troppo piccolo”.
“E quindi è davvero questo ciò che desideri, Riku?” risponde, staccandosi dall’albero.
Con il piede dà un colpetto ad uno dei due tronchi legati, e nonostante ci abbia messo pochissima forza una parte della corteccia si scheggia e cade nella sabbia. “Costruirti una zattera e andartene? Perdonami, ma è l’idea più folle che io abbia mai sent …”
“Figuriamoci!”
Salta giù, irritato. “Tanto dite sempre le …”
“Gradirei che mi facessi finire di parlare, Riku. Un po’ di educazione!”
Inforca meglio gli occhiali. Vede il ragazzo teso, con un piede già pronto ad imboccare il pontile ed a chiudere lì la loro conversazione. E lo vede, ancora curvo, stavolta come un serpente pronto a scattare ed a mordere anche una mano tesa amichevolmente nella sua direzione.
Sì, è irrequieto. Ma stavolta Mishima ha capito perché.
“Ripeto, realuzzare una zattera ed andarsene per mare è una follia … se uno non sa costruirsene una” e, come per conferma, dà un secondo colpo con il piede al tronco. Stavolta questo si apre in due, marcio, ed il suono secco si accompagna all’odore di alghe e di chissà quale pesce in decomposizione. Poi, vincendo il disgusto, dà un piccolo strattone alla corda e quella si scioglie; il tronco non ancora verde rotola in un angolo dell’isolotto. “Con questa roba finiresti a picco dopo nemmeno dieci metri. Non credi che sarebbe il caso di leggere prima un libro che ti spieghi come costruire un’imbarcazione sicura? Io dovrei averne uno a casa, magari potrei prestartelo”.
“È serio, prof?”
“Scherzare non rientra tra le mie migliori capacità, purtroppo…” prova a sorridere, col risultato di un sorriso sghembo che un sacco di colleghi dicono di trovare inquietante. Fa cenno al ragazzo di avvicinarsi, e senza alcun ripensamento quello arriva.
Guardano di nuovo il mare, e adesso le onde si sono sollevate. Con un brontolo un'onda si infrange sulla sabbia dell'isolotto e gli schizzi raggiungono le lenti dei suoi occhiali. “Ognuno ha il suo posto nel mondo, Riku. Io, tu, Sora, Selphie… persino Wakka. Solo che non sempre quel posto è chiaro. Qualcuno lo scopre da grande, qualcuno trascorre la vita intera senza saperlo mai. Altri sono convinti di essere nel posto giusto solo perché tutti li hanno convinti di ciò. Forse…” mormora “… forse tu lo hai trovato un po’ prima degli altri. E finché sarai convinto che il tuo futuro sarà lontano da qui, credo sia un tuo dovere morale andare via dalle Isole. Con un'imbarcazione sicura, però”.
"E lei, prof?"
Sotto i capelli chiari, lo sguardo sfrontato del ragazzo sembra diverso. Diverso come lo sono le acque del mare nel sole dell'alba o al pianto del tramonto. "Lei si sente nel posto giusto?"
"Più o meno…"
Ogni tanto gli sembra di vederlo, come un'ombra quando il sole scivola dietro le foglie degli alberi di paopu. Un rumore, uno strano odore di vernice. Un atelier più grande, in un posto dove non c'è la luce delle Isole del Destino.
Gli appare ogni tanto, quando chiude le palpebre.
Ma non c'è bisogno di turbare un ragazzo già tanto agitato con i sogni di un professore pazzo, forse dei ricordi destinati a svanire come delle impronte sulla sabbia. "... ma dovrà pur esserci qualcuno a mettere un voto in più a Sora a fine anno. Cielo, quel ragazzo è una catastrofe in disegno!"




Kazumi Mishima
Possibilità di sopravvivenza al Death Game: 3%


Safalin appunta i dati sul pad.
Le piace quel Riku, è un buon soggetto: ne ha studiato i tratti salienti nel primo capitolo del Grillario, e quel ragazzo è la prova vivente del concetto di "umanità" che persegue da tempo. Rabbia bilanciata da affetto, passione con dolore, un forte senso di inferiorità unito ad una determinazione di ferro. Checché ne dica Gashu, gli esseri umani non sono soltanto creature negative e sporche.
Quel Riku è uno degli esseri più "umani" che abbia mai avuto il piacere di studiare. Sarebbe persino interessante farne una replica, sicuramente nessuno vi ha mai pensato prima.
Presa dall'ispirazione apre una cartella per scaricarne i dati, e mentre il download inizia la preparazione i suoi occhi tornano sull'Intelligenza Artificiale del professor Mishima, uno dei suoi candidati preferiti. Quello che ha fatto della sua "umanità" la carta migliore per sopravvivere.
3%, comunque, è una percentuale a suo dire inesatta. Un uomo di quell'intelligenza dovrebbe avere un valore almeno del 6.4%, previsioni del computer o meno. Inserisce di nuovo i dati del professore nel capitolo del Grillario per una seconda simulazione, ma una voce taglia il silenzio del suo laboratorio. "Il simulatore non mente, Safalin. Il professore non andrà oltre il primo Main Game, fidati".
"E questo da cosa lo deduci?"
Il nuovo arrivato scivola tra i cilindri di clonazione senza che le sue scarpe lucide emettano alcun suono. Un vetro si appanna al passaggio del suo respiro, ma l'aria che Safalin tiene rigorosamente a circa 10 gradi crea sul cilindro e sulle sopracciglia del ragazzo una sottile patina di brina.
L'altro, però, non sembra accorgersene. "Il professor Mishima è troppo buono per questo gioco. Sarà il primo a cui salteranno addosso. O forse azzererà le proprie possibilità di sopravvivenza per salvare qualcun altro, chi lo sa… Fidati, il 3% è già un buon risultato".
"Le percentuali non hanno mai destato il tuo interesse, Kai" risponde "Non vedo perché tu debba studiarle adesso che il Death Game è quasi pronto ad iniziare".
"Ognuno ha le sue priorità. Ma non sono passato per chiacchierare".
Da sotto il grembiule fa apparire un hardisk nero, anonimo, un po' come tutte le cose che lo riguardano. Per quanto il giovane di fronte a lei si rifiuti di ammetterlo, non c'è un suo movimento che non ricordi i modi impeccabili di Gashu. "Questo lo lascio a te. Sai cosa ne penso di Miley e… beh, cosa ne pensi Ranger di me. Sono i backup di qualche altra Intelligenza Artificiale che ho preparato negli ultimi giorni. Non sono stabili come le tue e probabilmente dopo questa simulazione saranno inutilizzabili, ma credo che valga la pena testarle sul campo".
Sul computer i dati di Kazumi Mishima si arrestano, e mentre ancora il download dei file di quel Riku procede, dei nuovi volti si affacciano sul suo schermo. Safalin riconosce immediatamente i soggetti, esseri umani scartati da Gashu alle selezioni preliminari perché "inadeguati".
Il flusso di stringhe è grezzo ed in effetti la stabilità delle Intelligenze Artificiali è dubbia, ma non può non ammirare le capacità informatiche di Kai Satou nel realizzare programmi complessi con un portatile scadente ed un software che è chiaramente la brutta copia di quello di suo padre. Scorre i nuovi volti e li inserisce nelle cartelle, ma proprio al termine del trasferimento il nome di un file riesce a lasciarla per un istante senza fiato. "Kai… perché hai inserito i tuoi dati qui dentro?"
 

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Capitolo 3
*** A CoM Story: The heart we do not possess ***


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C’era una volta un ragazzo, un ragazzo proprio come tutti gli altri. Usciva la sera per lasciarsi abbagliare dalle luci notturne del traffico di Shibuya col naso all’insù, e rientrava oltre le cinque del mattino perché aveva fatto più di venti giri sulla ruota panoramica. Tre volte alla settimana -almeno- bussava alla sua porta per chiederle qualche yen nei suoi prestiti a lunghissimo termine, prestiti con cui svaligiava tutti i negozi di abbigliamento di Ginzo in un vortice di buste, nastri e scarpe all’ultima moda. Qualsiasi abito, anche i cappotti passati di moda da più di dieci anni, sembrava pensato per star bene sul suo corpo.
Le ragazze lo fermavano per chiedergli se fosse un modello.
C’era una volta proprio quel ragazzo, che in realtà come tutti gli altri non lo era affatto. Se si fosse tagliato per errore nessuno avrebbe visto nemmeno una goccia di sangue, perché sotto la pelle sintetica si alternavano cavi, tubi ed ingranaggi; non aveva mai corteggiato una ragazza perché nelle sue funzioni di base l’atto del baciare non era stato ancora inserito e, da quello che Gashu gli aveva detto, non lo sarebbe stato mai. Nel suo petto non batteva alcun cuore, e l’alimentatore quantico non avrebbe emesso alcun suono nemmeno nel più grave dei guasti.
Eppure il ragazzo era contento di non essere umano: diceva sempre che tra trent’anni Kai sarebbe diventato grigio e pieno di rughe, mentre lui sarebbe stato il giovane ragazzo che il suo papà aveva sempre sognato. Ogni tanto veniva da lei dicendole di non piangere, perché lei era la madre della creatura più bella della Terra; glielo chiedeva con un sorriso, e spesso dalle sue buste multicolori facevano capolino dei cappellini comprati proprio per lei.
C’era una volta un ragazzo di nome Laizer.
Safalin non lo aveva tenuto dentro di sé per nove mesi, ma aveva trascorso nove settimane per assemblarlo nei più piccoli dettagli. Gashu ne aveva settato i chip mnemonici ed il frame vocale, ma era stata lei a premere il pulsante di accensione.

“Guarda qua, Safalin!”
Il pavimento del Castello dell’Oblio si tinge di nero e d’istinto lei si allontana verso la parete.
La notte, se alla notte in fondo si può paragonare, si muove in flussi lenti ed impetuosi, privi di ritmo; prova a fissarla con maggiore attenzione ma i guizzi scuri della superficie scivolano contro il pavimento, vi si immergono per poi risalire ed aprirsi di nuovo, dividersi ed unirsi ancora in un vortice che trova l’anima della figura giovane e determinata al centro del salone. L’Oscurità si muove insieme all’Animofago, e Riku la muove con la forza del proprio cuore. Lui si muove, un’ombra tra le ombre, ed ogni suo gesto, ogni suo respiro diventano tutt’uno con la notte artificiale.
Mena un fendente in avanti.
È forte, ma adesso lo è di più e raggiunge l’altro lato della stanza in pochissimi istanti.
Riparte di nuovo, e mentre salta l’Oscurità gli avvolge le gambe e la vita fino a spingerlo a toccare il soffitto. Atterra sul bersaglio immaginario e l’Animofago scatta in mezzo alle tenebre per disarmare e mettere in ginocchio lo sfortunato avversario mentre negli occhi azzurri si riflettono soltanto vittoria e soddisfazione. “Che te ne pare? Sono pronto sì o no?”
“Sei migliorato molto, su questo non c’è dubbio”.
Il ragazzo sogghigna, e quando schiocca le dita l’Oscurità svanisce come era apparsa; il bianco del Castello dell’Oblio scintilla nel suo gigantesco silenzio, ed il ragazzo sposta nervosamente il peso da un piede all’altro in attesa di quello che è convinto sarà uno sguardo di genuina approvazione. “Stavolta Sora la pagherà, parola mia! La sua vittoria alla Fortezza Oscura è stata solo questione di fortuna” mormora. Lo sguardo stizzito cade sull’Animofago, che svanisce con un gesto nervoso del padrone. “Entro stasera sarò il vero prescelto del Keyblade”.
In realtà Safalin non sa bene come rispondergli. Si è inserita sotto forma di Intelligenza Artificiale nel secondo capitolo del Grillario perché c’è qualcosa che desidera capire e che va ben oltre le necessità di testare le personalità dei concorrenti del Death Game. Vi è una domanda a cui nessuna altra simulazione avrà mai le possibilità di rispondere e Riku, seppur inconsapevole, ne è la chiave. “Giusto … ciò che è accaduto alla Fortezza Oscura è stato … inspiegabile” dice, rendendosi conto che il ragazzo pende letteralmente dalle sue labbra. “Ma per sicurezza vorrei ripeterti le analisi del sangue. Ho il sospetto che questo costante flusso di Oscurità possa avere delle serie ripercussioni sul tuo apparato circolatorio”.
“Il tuo zelo è sempre apprezzato, Safalin. Ma stavolta è fuori luogo”.
Il nuovo venuto ha il passo fermo, e con un gesto imperioso della mano sinistra stronca sul nascere qualsiasi risposta.
Safalin ha sempre trovato curioso lo stridere del Castello avvolto nel bianco con quelle tuniche nere così come la moltitudine di espressioni su quei visi che di sentimenti non dovrebbero averne: la figura sposta lo sguardo su tutti loro, sicuro di avere ben chiaro il ruolo di comando in quella stanza. Si avvicina al ragazzo e gli stringe la spalla con la mano “Riku è in perfette condizioni di salute. Il suo corpo è in grado di tollerare l’Oscurità dei portali anche senza una delle nostre tuniche, altri esami sarebbero solo una perdita di tempo” dice “Vai a prepararti. A breve potrai confortarti di nuovo con Sora”.
“E voi mi aiuterete a proteggere Naminé”
“Un accordo è un accordo” risponde con tono secco; la testa si piega leggermente in avanti, il segnale di congedo che il giovane stava aspettando. Strofina gli stivali a terra, poi dà loro le spalle ed esce dalla stanza rivolgendole solo un labile gesto di saluto.
L’Organizzazione XIII sono dei Nessuno, creature dagli abiti scuri e senza un cuore. Ne sono apparsi soltanto sei in questo capitolo e la hanno affascinata sin da subito.
Lui più di chiunque altro.
“Il potere dei ricordi supera qualsiasi mia aspettativa, devo ammetterlo”.
Vexen, n. IV dell’Organizzazione, ha in sé l’unica risposta di cui lei abbia bisogno. I suoi occhi fissano il punto in cui il ragazzo è sparito “È convinto di essere quello vero”.
“Stupefacente, non lo metto in dubbio …”
Con calma Safalin raccoglie le sedie rovesciate dall’esibizione di Riku e le avvicina di nuovo al tavolo da lavoro. Da uno studio rapido e poco approfondito di quelle pagine le era stato comunque piuttosto chiaro che il Gelido Accademico avesse bisogno di un assistente per la gestione basilare del laboratorio, le analisi di routine dei soggetti di ricerca e l’archiviazione dei risultati meno significativi, dunque con le sue competenze di programmazione non le è stato difficile infilarsi in quella sottile trama di dati mancanti. Inserisce un paio di fogli sparsi in un faldone e lo deposita sullo scaffale corretto chiedendosi come possa un uomo solo gestire con efficienza una mole di esperimenti simile con appunti sparsi tra i computer del Castello e fogli di carta scarabocchiati in una grafia illeggibile. I movimenti sono però soltanto un contorno dei suoi pensieri, un modo ritmico per trovare le parole giuste. “…ma lei ne è soddisfatto, dottore?”
“Che domande … certamente. È il frutto più ingegnoso della mia ricerca sulle Repliche. Ha il potenziale per superare persino no. I”
“Le sue capacità combattive e la sua determinazione a perseguire obiettivi programmati dall’Organizzazione sono stupefacenti. Ma non parlavo di questo” sussurra “Parlavo di lei”
“Non ti capisco, Safalin. Smettila di parlare per indovinelli. Mi sembri il n. XI!”
Certo, lei ha letto il Reverse Rebirth.
Ha sfogliato l’intero capitolo, pagina dopo pagina, con quelle immagini che si susseguivano quando nessuno degli altri Floor Masters pensava di dedicare loro più di un’occhiata.
Li ha visti, perché i dati hanno forme, colori, parole.
Hanno labbra, e sorridono; piccoli cenni, approvazioni, tra quelle stringhe scivolano informazioni silenziose che gente come Miley non riuscirebbero nemmeno ad individuare, men che mai a leggere. Non capirebbero quel ragazzo, la giovane copia, che mette nei suoi colpi tutta l’energia possibile, orgoglioso di non essere l’originale ma il frutto di una mente geniale, un’eccellenza. E lui, il Nessuno, che ne studiava i progressi da lontano, con l’occhio verde che si sollevava in modo impercettibile dal resoconto da inviare al Superiore per studiare quei gesti che da artificiali diventavano ogni giorno più naturali e fluidi, non più quelli di una marionetta ma quelli di un giovane uomo. Non capirebbero il perché di quel labbro sollevato nonostante la Replica lo avesse disturbato durante un esperimento per fargli vedere la nuova parata che aveva appreso sui simulatori da battaglia.
Ma lei, lei sì. “Intendo esattamente quello che ho detto, dottore. Lei lo sapeva che i sorrisi di quel ragazzo non sarebbero tornati mai più”.
“Safalin, questo è un terreno pericoloso. Stai facendo infuriare la persona sbagliata …”
La risposta è lì, ed è in quel momento “Mi dica come riesce a sopportarlo”.
Come previsto, il gelo arriva. Il freddo, quello che il n. IV comanda più di un’estensione di un braccio o degli occhi. Le pizzica contro il collo, ma lei non ha alcuna intenzione di piegarsi o tornare indietro a mani vuote.
Dei cristalli si avviluppano tra i suoi capelli, mirando al viso.
Anche in quel corpo fatto di dati può sentire il dolore del freddo tagliente sulla pelle, ma non può permettersi di perdere nemmeno un battito di ciglia di quello studioso che, come lei, a concesso a qualcosa di “più grande” di portargli via la creatura a cui il proprio ingegno aveva donato il respiro dell’esistenza. E dietro quegli occhi verdi si muove qualcosa di liquido e disperato che in un Nessuno non dovrebbe esistere.
Una seconda stretta le morde le gambe e le stringe in una massa. Le dita dei piedi agonizzano, ed ogni fibra della sua stessa Intelligenza Artificiale si ribella contro quel dolore immobile e perenne, pregandola di staccare il flusso di dati e abbandonare la simulazione.
Ma lei, semplicemente, non vuole farlo. Fissa il suo sguardo tra i cristalli che ormai stanno riempiendo la stanza per depositarsi su di lei. “La ricerca scientifica richiede dei sacrifici, Safalin. Non avere un cuore è un vantaggio, in questo caso”.
Non avere un cuore.
“Sarà come dice lei, dottore …” mormora, stavolta col ghiaccio fin dentro i polmoni.
Stringe, stringe e attacca.
O forse semplicemente la tiene a distanza per paura che riesca a sfiorare con un dito la crepa nascosta tra le mura di cristallo.
Gli arti inferiori non le rispondono più. “… ma allora perché, per una volta, non sono io la persona che piange in questa stanza?”


“LO ODIO, LO DETESTO, QUEL FIGLIO DI PUTTANA DEVE MORIRE!”
Safalin riconosce l’inconfondibile tocco di Miley nell’aver sganciato un Ranger in piena crisi emotiva proprio nel suo laboratorio. Il ragazzo attraversa la stanza ad ampie falcate senza prestare alcuna attenzione a nulla, ringhiando alle capsule contenenti le repliche come se quelle bambole inerti potessero assorbire la sua frustrazione.
“QUELLO LÌ VUOLE PARTECIPARE AL MAIN GAME E PAPÀ COSA FA? COSA FA?” strilla, piazzandole davanti agli occhi tutti i suoi cartelli espressivi per costringerla a sollevare gli occhi dal tablet. La sensazione di intorpidimento della simulazione permane nonostante il distacco dal sistema di comunicazione con il mondo dei dati, e nonostante il laboratorio abbia una temperatura più che accettabile è sicura di sentire ancora su di sé, sotto la pelle, la stretta di gelo che la stringe contro la spina dorsale. “NON FA N-U-L-L-A PER IMPEDIRGLIELO! PERCHÉ LUI È IL SUO FIGLIO VERO, SE INVECE IO AVESSI FATTO UNA COSA DEL GENERE MI AVREBBE SMANTELLATO PEZZO DOPO PEZZO!”
“Ranger, calmati. Non credo che …”
“CALMARMI? CALMARMI?”
Con uno scatto d’ira si scaglia contro una capsula, sferrando un pugno. Il vetro rinforzato regge l’impatto, ma oltre il contenitore Safalin scorge il corpo della replica di Sara ondeggiare nel fluido rigenerante con il filo dell’alimentazione artificiale sganciato dal corpo.
L’ennesimo fantoccio da cremare.
Ranger bestemmia fragorosamente e scaglia un cartello a terra, pestandolo con violenza fino a spaccarlo. E, nonostante cerchi di coprirsi la bocca, i suoi lineamenti arrivano agli occhi di Safalin senza nessuno schermo.
Ci sono dei sentimenti, in quei circuiti.
Sentimenti, pensieri, file, errori di sistema.
Programmi, cartelle, allarmi, un dolore così forte da stravolgere l’intero assetto emotivo.
Quando ha concesso a Gashu di “ottimizzare” Laizer non doveva essere … così.
O forse, come era stato per Vexen, lo aveva sempre saputo ed aveva pensato che non avere un cuore sarebbe stato sufficiente per portare avanti il Death Game senza errori.
“Sai cosa farò, Safalin? SAI COSA FARÒ?” grida, stavolta venendole contro.
Ha accettato di essere la sua sottoposta nel Second Floor anche per stare vicino a quel ragazzo che, tanto tempo fa, le portava delle borsette firmate e dei trucchi per darle un aspetto più allegro “LO AMMAZZERÒ, SÌ! COSÌ PAPÀ VEDRÀ QUANTO KAI FACCIA SCHIFO! E ALLORA PREFERIRÀ ME, PERCHÉ SONO IL PIÙ FORTE!”
L’invidia, il virus che Gashu gli ha installato dentro.
Sperava che il n. IV avesse una risposta a tutto questo. Lui, con le sue Repliche perfette costruite chissà come, con il giovane Riku a cui aveva rimosso ogni cosa, persino il ricordo di essere un burattino. Quello che nei dati del Grillario veniva chiamato il “Gelido Accademico”, un titolo che le aveva fatto pensare che si trattasse di un uomo in grado di seppellire qualsiasi cosa, anche i pensieri dolorosi, in una bara di ghiaccio che nemmeno il rimorso sarebbe riuscito a scalfire. Aveva sperato che nelle creature senza cuore vi fosse la soluzione a quella fitta che la colpisce sempre quando vede Ranger gridare in quel modo, quel pensiero che ormai da tantissimo tempo l’ha trasformata nella Crying Doll.
“Senti, Ranger …”
Non avere un cuore, le ha detto.
Un vero peccato, perché a quanto pare anche per lui non è stato sufficiente. “… perché non facciamo un salto a Ginzo? Ho visto in vetrina una camicia che ti donerebbe davvero tanto”
Ci ha provato, certo.
E, quando lui si gira come se l’avesse sentita per la prima volta da quando è entrato, qualcosa di Laizer si muove oltre i sintetizzatori visivi.
Ma è un istante, perché il cartello nero torna di nuovo in mezzo a loro, stavolta con il ghigno di Ranger. “Safalin, ma che dici? Ti sembro il tipo da COMPRARE dei vestiti?”

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Capitolo 4
*** A KH 2 Story: What dreams are made of ***


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La visita di Ranger ha lasciato come al solito il laboratorio in uno stato indecente. Safalin chiude il corpo ormai inutilizzabile di Sara Chidouin nell’inceneritore mentre i parametri del cilindro di sostentamento nutrizionale le confermano che i dati dell’Intelligenza Artificiale del soggetto sono stati compromessi dal trauma e necessitano di un’ulteriore revisione. Con un gesto secco Safalin spenge le spie rosse dell’allarme ed il suo computer inizia ad aggiornare per l’ennesima volta i file; non le sarebbe dispiaciuto usare la ragazza per la simulazione del terzo capitolo -a quanto riportato da Gashu la sua introduzione nella realtà virtuale da parte di Miley ha avuto delle ripercussioni interessanti- ma il tempo stringe e non ha tempo di attendere l’upload.
Il suo sguardo cade sul cilindro contiguo a quello di Sara, ed in pochi istanti comprende chi sarà la prossima cavia.



“Io le aiuole le terrei. Un po’ di fertilizzante, un bel colpo di forbici e tornano come nuove, parola mia. L’ingresso al giardino invece è terrificante, l’ideale sarebbe addirittura una bella vasca con dei pesci, ma mi costerebbe un capitale”
“Certamente, signore”
“Un vialetto con dei ciottoli andrà più che bene. Ho anche una mezza idea di dove procurarmeli …”
“Lei è una vera volpe, signore”.
Keiji Shinoji sospira, dando per la centesima volta un’occhiata al cellulare. Nessuna notifica, nemmeno uno dei soliti sms deliranti di Judy. Oltretutto in telefono gli segnala in via impietosa la totale assenza di campo e dubita che in quel buco abbandonato da oltre trent’anni ci sia un WiFi a cui aggrapparsi. Quando il suo interlocutore inizia a guardare con fare critico ogni singolo mattone della parete il giovane poliziotto capisce che ne avranno almeno per altre tre ore, sempre che non muoia di noia prima o si faccia sbattere dentro per papericidio aggravato. “Modestamente, ragazzo, quello già lo so”.
Riprende di nuovo il cellulare dalla tasca in cui lo aveva scagliato nella speranza che la luce dello schermo possa impedirgli di impazzire del tutto e dare così a Basettoni la scusa definitiva per mandarlo a dirigere il traffico dei carretti di Agrabah insieme a Manetta.
L’incarico all’inizio non era sembrato dei più terribili: il commissario si era premurato che l’ospite avesse una scorta h24 per tutta la durata della sua visita a Crepuscopoli. Un pezzo grosso, aveva borbottato il vecchio Basettoni, un magnate del Castello Disney che andava spesso a cena col Re in persona e che avrebbe potuto anche mettere una buona parola con Sua Maestà sull’operato del loro scalcinato distretto di polizia. Il papero aveva appena acquistato a costi stracciati diversi lotti sotto la loro giurisdizione ed aveva deciso di ispezionare una ad una le sue nuove proprietà; considerata la sua importanza il commissario aveva deciso di affiancargli una scorta nel caso accadesse qualcosa di grave al loro ricchissimo visitatore, anche se nelle ultime ore la cosa più pericolosa che avessero incontrato era stato un gruppo di monelli sullo skateboard che per poco non avevano travolto il nuovo arrivato.
Grazie al cielo la vecchia villa oltre il bosco era l’ultima della giornata: Keiji si era chiesto chi fosse stato l’imbecille che avesse costruito quell’edificio in un punto così isolato, tanto per cominciare, e chiunque fosse aveva lasciato crescere l’erba così tanto che del signor De Paperoni ne affiorava soltanto la vecchia tuba.
“Un vero affare, considerato quanto l’ho pagato. Si vede che il proprietario aveva voglia di disfarsene”.
Lo credo bene, pensa il poliziotto, ma tiene il commento per sé. L’idea di una lezione di finanza da parte di un vecchio riccone era piacevole quasi quanto un pomeriggio a firmare scartoffie ed ascoltare la denuncia di un paio di ragazzini che sostenevano che qualcuno avesse rubato un paio di scalini dalla stazione. “Ragazzo, ti sto dando una lezione gratis. Il tempo è uno dei migliori soci in affari quando si tratta di mercato immobiliare”.
Dice, e dopo un paio di salti arriva all’ingresso e gira una vecchia chiave dentro la toppa della serratura.
“Questa baracca diventerà un resort a sette stelle, parola mia!”
Guarda di nuovo il telefono nella speranza che Flaminio abbia risposto al messaggio, ma da quando il suo collega si era distinto per la questione dei bambini smarriti al Paese dei Balocchi era finito sotto l’ala del prefetto del Castello Disney ed era in missione trenta ore su ventiquattro. Tre giorni prima gli aveva scritto dicendo che sarebbe andato alle Terre del Branco: roba di quelle che scotta, per gente d’azione, la morte in circostanze misteriose di due membri “importanti” della famiglia reale ed una richiesta di indagine formale da parte della moglie di una delle vittime. Ma non gli sarebbe dispiaciuto nemmeno accompagnare Judy a Nottingham per quell’inchiesta sul livello di corruzione locale e su certi contrabbandieri che infestavano la foresta; certo, gli scatti che la sua collega gli mandava negli ultimi tempi erano diventati terribilmente monotoni e tutti riguardanti uno dei banditi con arco e frecce che faceva il bagno sotto una cascata -Judy era in quella fase mammifera dell’anno riassumibile con un “basta che respiri”, e se disgraziatamente aveva il pelo rosso era finita- ma avrebbe volentieri ascoltato per la ventesima volta le paturnie romantiche della sua collega pur di partecipare ad un’indagine vera.
Certo, Flaminio era uno su cui ci potevi sempre mettere la mano sul fuoco. E Judy era una sveglia, sempre sul pezzo, una capace di stare mesi sotto copertura e non destare nemmeno un sospetto.
Mentre lui era più … come aveva detto Basettoni … l’adorabile poliziotto di quartiere di Crepuscoli.
Specie dopo il caso Megumi.



Safalin osserva il giovane poliziotto attraverso lo schermo che la separa dalla realtà virtuale: rispetto alla simulazione del professor Mishima ha aggiunto una mole considerevole di ricordi, ma nonostante la compressione forzata delle cartelle mnemoniche sembra che Keiji Shinoji non manifesti alcuna difficoltà nell’interazione con l’ambiente circostante. Il pad la avvisa che l’Intelligenza Artificiale del poliziotto sta cercando inconsciamente di accedere ai dati di un’altra concorrente, la signorina Megumi Sasahara, ma trasferisce rapidamente la cartella su un driver esterno impedendone la lettura.
Miley e Ranger non sono d’accordo, ma per lei è vitale che i file di un candidato non interagiscano con quelli degli altri. Una questione di affidabilità e riproducibilità dei dati che chiaramente gli altri Floor Master non hanno afferrato.



Keiji scuote la testa non appena la porta si apre con un sonoro cigolio, e qualsiasi pensiero gli stia attraversando il cervello svanisce non appena la puzza di aria stantia lo accoglie come la più zelante delle padrone di casa.
Le ghette del signor De Paperoni sono l’unico suono che attraversa il pavimento dalle ampie lastre marroni che senza dubbio ha visto un’aspirapolvere non meno di tre decadi addietro; i suoi mocassini sfondati mandano solo uno scricchiolio sommesso, anche se in quel silenzio innaturale sembrano comunque rumorosi come una banda di ragazzini al torneo Struggle. L’enorme salone occupa da solo più della metà del piano terreno, reso ancora più ampio dall’assenza di mobili di qualsiasi tipo. Lungo la parete adiacente all’ingresso nota una macchia chiara lungo i mattoni, segno che probabilmente quel luogo era stato occupato per diversi anni da un mobile di taglia grande, forse una credenza o una piccola libreria. Ai lati dello stipite ci sono due candelabri alti di quelli che non troverebbe nemmeno nel più vintage dei mercatini dell’usato, entrambi con il treppiede cigolante e privi di candele su tutte le braccia.
L’attenzione del vecchio papero viene attratta dall’unico elemento di spicco del salone, una teca di vetro ormai annerito posizionata proprio al centro della struttura. Si regge su un basamento in ferro battuto decorato ma piuttosto pesante, osserva Keiji, probabilmente il motivo per cui i precedenti proprietari non l’avevano portata via. Riesce a vedere gli occhi del signor De Paperoni oltre le lenti dei suoi occhiali venire calamitati da un lieve baluginio dorato che guizza nella teca quando i raggi del crepuscolo attraversano la stanza da una finestra sul lato opposto del salone e raggiungono il vetro. D’istinto si porta al suo fianco, e si accorge di star studiando le due rampe di scale che conducono al primo piano con molta più apprensione del necessario.
Si rende conto solo in quel momento di non avere con sé la pistola.
E, come a confermare i suoi timori, nel silenzio spettrale rimbomba il rumore di una porta chiusa al piano di sopra.
“Giovanotto, qualcuno ha i nervi a fior di pelle!” borbotta il pennuto. Anche se gli dà le spalle deve aver intuito i suoi pensieri. “Sarà stato il vento”
“Fuori non c’è affatto vento, signor De Paperoni”
Con cautela sale i primi gradini di una delle scale. Annusa l’aria come fa sempre Judy, e nessun alito d’aria fresca gli solletica le narici.
Niente corrente.
Niente vento.
“Non siamo soli, signore”
Il vecchio cilindro gli viene vicino. Scruta il punto da cui è venuto il rumore, poi da sotto il pastrano -che senza dubbio ha visto giorni migliori- fa spuntare una torcia tascabile. “Beh, è un bel problema per questo terzo incomodo. Non si entra nelle aree della PdP senza pagare”.
Inizia a salire i gradini con una velocità sorprendente per la sua età. “E se è un malintenzionato … farà la conoscenza la mia spingarda”.
“Signor De Paperoni, aspetti un attimo!”
Urla Keiji, maledicendosi tre istanti dopo sentendo la propria voce riecheggiare probabilmente anche nell’angolo più infimo delle cantine della villa; con un salto attraversa i gradini e si para davanti all’arzillo magnate. Lo sguardo con cui il papero lo fissa deve essere quello con cui conclude i suoi leggendari affari, ma davanti al giovane poliziotto si staglia l’immagine di un Basettoni tuonante all’idea che il loro ospite possa tornare con anche solo una piuma sgualcita. “Sono io la sua scorta. La sua sicurezza è la mia priorità” dice, cercando di suonare più autoritario che disperato. “Lei mi aspetti qui. Io perlustro il primo piano e torno immediatamente”.
“Ragazzo, tu hai un’assicurazione, vero? Se non erro voi poliziotti siete tenuti ad averne una”
“Beh, certo, ma …”
“Perfetto. Non intendo accollarmi le tue spese mediche se ti fai male, intesi? Ma se sei assicurato allora non c’è problema”.
Si mette seduto su uno scalino e sgancia dalla schiena il vecchio archibugio che Keiji gli ha notato sin dal suo arrivo al commissariato. È un pezzo di antiquariato a tutti gli effetti -ad occhio e croce forse i meccanismi sono così arrugginiti da non riuscire a sparare- ma nelle mani del papero sembra molto più minaccioso di una pistola carica e funzionante nelle proprie. Si appoggia la spingarda sulle ginocchia e fissa il portone d’ingresso come un mastino. “Vai a vedere e torna subito. Me la so cavare, fidati!”
Il tono ammette ancora meno repliche di quelle che il poliziotto stava cercando di formare, quindi annuisce e percorre gli ultimi gradini della scalinata.


Nel momento in cui il concorrente percorre le scale e muove i primi passi verso il corridoio, Safalin inizia a cancellare i dati del livello inferiore. Al momento Keiji Shinoji le sembra uno dei candidati più adeguati alla vittoria del Death Game -9.5%, secondo soltanto alla gran favorita Sara Chidouin- e già le esperienze raccolte da questa simulazione potrebbero considerarsi sufficienti.
Il ragazzo è attivo, forte e con un buono spirito di osservazione. Ha appena dimostrato di saper scortare e proteggere.
La memoria del computer principale però non è infinita, e mentre il poliziotto adatta il proprio passo al pavimento scricchiolante per fare meno rumore Safalin rimuove tutto ciò che si trova al piano terra.


Il corridoio è, se possibile, ancora più stantio dell’ingresso. Se nel salone l’ampiezza della stanza e la buona illuminazione copriva in parte l’odore di chiuso, il corridoio stretto del primo piano non lascia alcuna via di fuga. Il naso viene assalito dalla sensazione che qualcosa di legno -forse una delle porte- debba essere muffita. Come già aveva notato dall’esterno, il piano superiore era nettamente più piccolo rispetto al basamento. Diverse porte si affacciano lungo il corridoio e nel gettarvi un occhio all’interno Keiji nota come, anche qui, la maggior parte dei mobili sia stata portata via ad eccezione di qualche scrittoio tarmato ed un paio di armadi troppo difficili da smontare. Probabilmente stanze private, una addirittura con un bagno al proprio interno, con i vetri delle finestre così anneriti da rendere impossibile anche solo l’idea che qualcuno vi abbia messo piede prima di lui nell’ultimo decennio.
Al massimo, si trova a ragionare tra sé e sé, si sarà trattato della bravata di qualche ragazzino. Una di quelle prove di coraggio idiote che anche lui e Flaminio hanno fatto ai loro tempi: sì, entrare nella villa abbandonata e far prendere un infarto allo stupido poliziotto ed al papero miliardario sembra proprio una di quelle scemenze degne di quel teppistello di Hayner e della sua banda. Già se li immagina oltre l’ultima porta rimasta da esplorare, con la finestra aperta ed il branco di mocciosi che sta scappando a perdifiato nel giardino della villa mandandogli dei gestacci; ma in fondo, sospira mentre abbassa la maniglia, immaginare un qualche ladro o un intruso è comunque la cosa più emozionante che gli sia capitata negli ultimi mesi.
Fino a quel preciso momento.
La stanza è completamente bianca. Bianca, ma di un bianco così innaturale che per un istante Keiji si ritrova a trattenere il respiro e coprire gli occhi con le mani. Le finestre sono pulite, illuminate, con delle tende sottili che è sicuro di non aver visto nella perlustrazione esterna. C’è un tavolo grande, chiaro, di un materiale che non gli sembra né legno né marmo e con sopra un vaso con dei fiori così candidi da essere semplicemente innaturali. Le narici riconoscono subito dell’aria fresca nonostante i vetri siano chiusi.
L’intera stanza è tappezzata di disegni: ne riesce a contare oltre una dozzina lungo le pareti, ma gli basta abbassare lo sguardo per vedere almeno un’altra ventina di fogli sparsi anche sul pavimento. Tutti realizzati con dei pastelli, l’unica fonte di colore in quella stanza che stona senza ombra di dubbio con l’intera struttura della villa. Le immagini sono state fatte da una mano senza dubbio infantile, ma attirano i suoi occhi e si ritrova a fissarli uno dopo l’altro senza alcun motivo apparente, quasi come se vi fosse una storia snocciolata davanti a lui il cui significato non risulta accessibile. Ed è seguendo quelle note di colore che si accorge di lei.
Si dà dell’imbecille per non averla notata subito. Sarebbe pronto a scommetterci la mano sul fatto che fino a qualche istante prima la sedia contro il tavolo fosse vuota, ma una cosa del genere è talmente tanto impossibile che può imputare il tutto alla sua distrazione. Sta di fatto che la bambina è lì, la schiena dritta contro lo schienale, le mani incrociate sopra un blocco da disegni con dei pastelli appoggiati in disordine sul tavolo. Ha gli occhi azzurri, di una tinta ancora più innaturale di tutto il bianco che la circonda. Sorride, o forse no.
“Ehm … ciao …”
Mormora Keiji, cercando di trovare qualche parola quantomeno di senso compiuto. “Uhm … ecco … cosa ci fa una ragazza così carina qui dentro?”
Nulla.
Tutto questo al signor De Paperoni non piacerà nemmeno un po’. E nemmeno al commissario.
Guarda ancora una volta i fogli sparsi tutt’intorno. “Bei disegni, sai? Li hai … fatti tu, vero? Sai, mi piacciono proprio!” mormora “Sono una … uhm … nota di colore interessante in questa stanza …”
La bambina muove un po’ la testa, e stavolta le labbra si inarcano in quello che è chiaramente un sorriso.
Keiji la osserva ancora: sembra in buono stato di salute, i capelli biondi sono puliti e tutto sommato in ordine, il vestito è molto semplice ma pulito e stirato. Fa ondeggiare le gambe al di sotto del tavolo, dunque non è bloccata su quella sedia o paralizzata. Lo sfiora il sospetto che possa essere autistica, ma questo non spiegherebbe cosa ci faccia in una villa abbandonata. “C’è qualcuno con te in questa casa?”
“Ci sei tu, Keiji”.
Le parole lo spiazzano come un colpo di pistola a bruciapelo. Potrebbe giurare di averle immaginate, ma la bambina ha chiaramente mosso le labbra. Nonostante questo, la voce sembra davvero provenire da un altro posto. “Uhm … conosci quindi l’adorabile poliziotto di quartiere di Crepuscopoli?”
Va bene, delle tante cose impossibili delle ultime ore quella le batte tutte. La osserva ancora, poi con la mano sinistra si dà un bel pizzicotto sulla coscia tanto per assicurarsi che non sia …
“Un sogno. Non esattamente, ma quasi”.
A quelle parole d’istinto il ragazzo fa due passi indietro. Sbatte contro la porta e la mano cerca nervosamente la maniglia, ma i suoi occhi non riescono a staccarsi da quelli della bambina che gli ha chiaramente letto nel cervello. Le dita scivolano lungo la superficie, ma dove dovrebbe esserci la toppa vi è solo del legno liscissimo. Vorrebbe girarsi ed aprirla di scatto, ma qualcosa gli dice che dare le spalle a quella fanciulla sarebbe la peggiore idea della sua vita. “Non ho molto tempo, Keiji Shinoji. Ma sappi che per quelli come noi è tutto un sogno. I nostri ricordi, la nostra vita, le nostre avventure … il nostro domani”.
“Non …”
“I sogni sono soltanto un flusso atipico di dati. Ma frammenti di sogno sparsi … possono creare un mondo intero. Persino un futuro. Un futuro che altre persone scrivono per noi. Io posso aiutarti, ma la scelta se uscire da qui o meno è soltanto tua”.
Ogni cosa sembra surreale.
Il cuore inizia a martellargli anche dentro le tempie, e nell’istante in cui pensa che scendere sotto, afferrare il signor De Paperoni e darsela a gambe da lì sia la migliore pensata del momento si volta e scopre che la porta attraverso cui era entrato lì dentro non ha più né una maniglia né una serratura. Vi si appoggia con tutto il suo peso per saggiarne la resistenza, ma i muscoli del collo gli restano immobili e lo costringono ad osservare la bambina che nel frattempo ha impugnato un pastello.
Sta dicendo parole senza alcun senso, quello è chiaro, ma c’è qualcosa in lei che calamita in sé ogni sua paura, qualcosa di così artificiale da stonare con tutto il resto ma così ben nascosto che anche gli anni trascorsi come poliziotto non riescono ad individuare.
Una delle sue minuscole mani si stacca dal tavolo, e lentamente punta verso una delle finestre. “Ti dispiacerebbe dirmi cosa vedi?”
Non è certo di quale motivo sospinga le sue gambe verso una delle finestre dando dunque le spalle alla bambina, ma gli occorre poco perché le sue dita scostino le tende sottili ed il naso gli si incolli al vetro. La luce del tardo pomeriggio lo saluta e gli riscalda le guance, divisa in sottili raggi che illuminano alcune porzioni di erba cresciuta ben oltre le vecchie aiuole in pietra; l’enorme giardino è deserto, e se non fosse per il sottile sentiero calpestato da lui e dal papero nemmeno un paio d’ore prima potrebbe giurare che nessuno, negli ultimi anni, abbia mai trovato il coraggio di varcare il grande cancello arrugginito o di scavalcare il muretto solo come atto di spavalderia. Sorride alla tranquillità del boschetto al di là della villa, ai ricordi delle varie scappatelle e poi ancora prima, agli interminabili pomeriggi trascorsi tra i raggi del loro eterno tramonto in quelle estati folli e bellissime.
La ragazzina parla di sogni e di dati.
Ma oltre il sentiero perso nel sottobosco non ci sono sogni. C’è la sua città, il suo distretto pieno di noiose carte compilate, c’è il Bar Vespro a cui ha devoluto metà del suo stipendio per consolare Judy la sera in cui aveva visto su Keybook la foto di Flaminio con la sua nuova fiamma, una sventola di Arendelle con delle gambe lunghe due volte lei -orecchie incluse. E ci sono i pomeriggi trascorsi a prenderci mazzate su mazzate al torneo Struggle per farsi notare un pochino da Megumi, o l’onta di perdersi nei sottopassaggi durante la caccia ad un ladruncolo ed essere recuperato dal sergente Manetta.
Il passato non è un sogno. E, di quello ne è più che certo, non lo sarà il domani.
Ma forse quella strana bambina è solo tanto malata. “Non c’è nulla di strano, piccola. Solo il giardino”.
“Guarda meglio” risponde lei.
Sarebbe pronto a giurare di poter sentire il suo pastello grattare contro un foglio. “Guarda meglio, agente Keiji Shinoji”
Fissa ancora fuori, stavolta meno convinto di prima. Una delle tende gli sbatte un po’ contro il naso, e la scosta con fare pigro. Guarda ancora il muretto e le punte del cancello in ferro battuto, dove per movimentare un po’ la scena si è accomodata una cornacchia: l’erba è esattamente uguale a prima, e senza dubbio il signor De Paperoni non si è allontanato dal salone per fare una seconda esplorazione del perimetro. Si sporge verso destra, ma oltre a qualche tegola non riesce a vedere molto oltre lo splendido arancione del cielo ed il verde degli alberi. “Stai tranquilla, non c’è davvero null ...”
Poi nota qualcosa.
Un riflesso, o almeno così sembra. Una scia di luce anomala, diversa dalle altre, che potrebbe persino appartenere alla delicata trama delle tende, troppo chiara per appartenere al sole del Crepuscolo. Sbatte le palpebre per allontanare quel baluginio, ma si accorge di volerne seguire il movimento più di quanto gli occhi ne abbiano bisogno. La luce contro il vetro è ancora calda, bellissima, e quando anche la fronte preme contro il vetro si accorge che c’è qualcosa tra le fronde degli alberi. O forse, realizza qualche istante dopo, sono le fronde degli alberi stesse a chiamarlo nel loro colore forte, che ha sempre trovato rassicurante nella massa arancione della sua città.
Verde, in realtà, è il colore dei capelli della donna che lo sta fissando oltre il vetro della finestra.
Vorrebbe fare un passo all’indietro ed allontanarsi dal vetro, ma si accorge di non riuscire a muovere un muscolo, nemmeno per avvisare la bambina; qualcosa dentro di lui non vuole distaccare le iridi da quella figura al di là della finestra, una donna che non ha mai visto in vita sua con gli occhi pieni di lacrime ed un lungo nastro azzurro che le avvolge il corpo e le braccia. E più la osserva, più la retina assimila dettagli di quella figura e più gli sembra di non ritrovare davanti a sé il giardino, il cancello, l’erba alta o il bosco, ma tutto oltre la donna è diventato grigio e freddo tanto da poter giurare di vedere persino degli schermi di televisori o computer. La donna è immobile, ma i suoi occhi sembrano puntati solo su di lui.
Non è bella, ma le sue mani sfiorano il vetro, incuriosite soltanto di poterla sfiorare. Non le guarda, perso nelle sue lacrime, eppure a tentoni riesce a stringere la maniglia per aprire la finestra e raggiungerla ovunque si trovi.
“A TERRA, RAGAZZO!”
Gli anni e l’istinto da poliziotto gli salvano la vita. Il click alle sue spalle lo costringe a buttarsi contro il pavimento mentre schegge di ogni forma gli esplodono addosso. Si copre gli occhi col braccio, e proprio mentre sta per inciampare nelle tende sente qualcosa afferrarlo a livello della vita e spingerlo con violenza oltre quello che, realizza mentre i suoi piedi perdono contatto col pavimento, è il parapetto della finestra. Prima ancora di aprire gli occhi un dolore indicibile gli esplode all’altezza della spalla sinistra e, quando trova il coraggio di sollevare le palpebre, si accorge di aver appena fatto un volo di schiena al primo piano spintonato da un papero con un pastrano vecchio quanto lui e con una spingarda a sale grosso ancora fumante e puntata contro il vetro rotto della finestra. “Stai tranquillo, giovanotto, so come gestire le streghe” borbotta, perfettamente in piedi nonostante la caduta. “Intelligenza, aglio e una spingarda sempre carica. Meglio di tante diavolerie moderne, dai retta a me!”
“Signor De Paperoni, la bambina ...”
“Non c’era nessuna bambina, ragazzo! Solo quella megera oltre il vetro! Me lo sento nel cilindro, era tutto un suo piano per impadronirsi della mia Numero 1!”
Keiji fatica a rimettersi in piedi, e non appena prova a recuperare l’equilibrio una seconda fitta gli attraversa tutta la colonna vertebrale lasciandolo senza fiato. Guarda ancora il punto da cui sono caduti e dalla finestra in pezzi riesce ancora a scorgere le tende sottili, stracciate ma ancora al loro posto, che scivolano nell’aria sospinte da un vento leggero. Allunga il collo per guardare meglio, ma l’interno della stanza gli sembra grigio e poco illuminato, lontano dal bianco che lo aveva quasi ipnotizzato.
Della bambina, invece, nessuna traccia.
“Oh, quelli dell’agenzia immobiliare stavolta mi sentiranno! Eccome se mi sentiranno! Vendere al sottoscritto una casa stregata, cose dell’altro mondo!” starnazza, levandosi l’arma dalla spalla e sistemandola lungo le spalle mentre già corre verso il cancello ad un passo incredibile per le sue vecchie ghette. “Mi ridaranno tutti i soldi fino all’ultimo nichelino, parola mia! E tu, ragazzo, li sbatterai dentro per truffa, SIAMO INTESI?”
Il poliziotto annaspa, cercando di tenere il passo e di capire alla svelta come imbastire una spiegazione sufficiente per impedire al commissario Basettoni di sbatterlo a pulire i bagni dei cadetti non appena per Crepuscopoli si spargerà la voce di una villa stregata ai limitari del bosco.



Kai la osserva dalla soglia del laboratorio. Safalin sa benissimo che il giovane ha spiato ogni sua mossa sin da quando ha iniziato la simulazione, ma non per questo intende facilitargli il rapporto. Ci sono dei momenti in cui capisce perché quegli occhi vacui e quelle mani sempre strette contro la schiena disturbino tanto i circuiti di Ranger. “Sembra che l’anomalia riscontrata da mio padre non sia poi tale. Anche tu hai notato delle interferenze”
“Più di una” commenta lei mentre arresta il sistema. Sulla sua destra l’indicatore dei parametri vitali del candidato appena utilizzato lampeggia altre due volte e poi torna alla normalità. “Oltre al vecchio papero non doveva esserci nessuno in quella simulazione. C’è stata un’interferenza di dati provenienti dall’esterno che ha persino ripristinato una mia operazione”.
“Una sorta di antivirus interno? Plausibile”.
Per sicurezza Safalin controlla il tracciato delle sue ultime operazioni. La cancellazione del piano terra dell’edificio e del papero risulta essere stata eseguita correttamente, ed anche nel driver secondario non riesce a trovarne alcuna traccia. Eppure i file del personaggio di supporto sono stati ripristinati senza la sua autorizzazione, così come il flusso di dati anomalo che è entrato in funzione nell’esatto momento in cui il candidato era giunto nell’ultima stanza della sua esplorazione. “Forse avremmo dovuto eseguire una scansione più approfondita del Grillario prima di utilizzarlo per queste simulazioni, Kai. Ho come il sospetto che Gashu sia stato … affrettato”.
“Il Death Game prima di tutto, Safalin”.
Viene vicino alla sua postazione, come incantato dal monitor vuoto. “Non saranno delle anomalie a fermarci, dico bene? Cercate solo di fare attenzione, voi tre”.
Allunga una mano nella sua direzione, e per la prima volta qualcosa si muove dietro le sue iridi noiose e vacue. Lei rimane immobile mentre lui le sfiora il vestito all’altezza della pancia, poi afferra qualcosa e rapidamente se la porta alle labbra.
“Interessante … cosa ci fa del sale grosso sui tuoi vestiti?”
 

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Capitolo 5
*** A 358/2 Days Story: (Don't) lie to me ***


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“Ti aspetto alla Collina del Tramonto. C’è qualcosa … qualcosa che devo dirti”
“Ehi, stai attento, ragazzo!”
Shin esplode in mille scuse quando si accorge di aver clamorosamente mancato il bicchiere e di aver versato l’acqua dritta dritta sulla mano del cliente. Corre a prendere l’asciugamano sotto al bancone e prima di riuscire a tamponare il danno l’uomo è uscito dal bar sbattendo la porta -e senza pagare.
“Ma cosa ti dice la testa, kupo?” borbotta Mog dall’altro capo del locale. Grazie al cielo i clienti sono finiti e tra cinque minuti c’è la chiusura. “È da stamattina che sei strano, kupo! Cioè, più del solito …”
“Eddai, Mog, sono solo un po’ nervoso. Un po’ tanto, ecco”.
“Ringrazia che il signor De Paperoni oggi non sia passato, kupo. Ti saresti fatto licenziare …” risponde la noiosa palla di pelo mentre inizia a controllare il registratore di cassa ed a riordinare gli scontrini “…di nuovo”.
Beh, le lamentele del vecchio papero potranno aspettare domani. Cioè, ci saranno di sicuro -figuriamoci se quel Moguri con la bocca a ciabatta non farà la spia- ma a conti fatti Shin non è ben sicuro di arrivarci al domani. Morirà prima, poco ma sicuro. Dicono che a certe persone possa prendere un infarto, in questi casi.
A lui prenderà sicuro. Così, morto stecchito.
Il signor De Paperoni non dovrà nemmeno pagargli la liquidazione. “Senti, Mog, devo proprio andare” dice lanciando la divisa del bar in un angolo “Fai chiusura al posto mio, vero?”
“Non esiste affatt …”
E via, in strada. Fuori da quel posto del cavolo.
Se non dovesse pagarsi l’affitto di quella stanza minuscola con persino il bagno in comune avrebbe dato il benservito a quel Moguri pedante ed al suo capo col cappello a cilindro che non lascia una mancia nemmeno pregando. A loro due ed a tutta la gente che entra in quel bar da quattro soldi, prende un caffè, morde una pasta con sguardo afflitto e se ne va senza lasciare nemmeno due munny nel bicchiere delle offerte -che in ogni caso Mog svuota con solerzia a fine giornata. Tutti grigi, tutti di corsa. Nessuno che ti augura una buona giornata nemmeno per errore. Poi si chiedono perché gli piacciano tanto i computer.
Dietro uno schermo è tutto dannatamente più semplice: a nessuno importa poi davvero chi tu sia, ma si può instaurare una conversazione senza che qualcuno stia lì a guardare come sei vestito, se hai i capelli in disordine, se rimani in silenzio perché quando l’altro parla non sai bene cosa rispondere senza sembrare un imbecille. Il computer ti dà almeno il tempo di pensare, di ragionare un po’ su quale sia il modo corretto per affrontare una discussione spinosa.
Puoi anche mentire un po’ senza che ti si legga in faccia.
Puoi persino immaginare che la persona dall’altra parte dello schermo sia persino felice durante uno scambio simpatico di battute. Immaginare, per carità, non di più. La gente vera, quella che lo aspetta non appena si chiude la porta di casa alle spalle, non ride mai.
A parte Lui.
Lui sorride sempre. Lui gli sorride sempre, che è tutta un’altra faccenda. Persino quella volta che per tirare fuori i ghiaccioli al sale marino dal freezer per poco non glieli aveva fatti cadere sul vestito e si sarebbe buttato sotto il tram per la vergogna. Sorride tutte le volte che si siede nel suo tavolino preferito, quello all’angolo vicino al portaombrelli, gli chiede una cioccolata calda e vi stringe le dita per scaldarsele. E Shin gli mette sempre un po’ di panna e dei biscottini extra senza farlo pagare, al diavolo quella vecchia tuba spilorcia del suo capo.
Lui che sembra ignorare tutto e tutti con quei suoi occhi verdi da uccello predatore, ma che un pomeriggio, quando il bar era deserto e persino Mog era uscito per delle commissioni, gli aveva fatto cenno si sedersi al tavolo con lui per fare quattro chiacchiere. Shin si era seduto sul divanetto con la stessa nonchalance con cui si sarebbe accomodato sulla sedia elettrica, eppure dopo qualche minuto sarebbe rimasto ad ascoltarlo in eterno.
Dunque il giorno che lo aveva visto sedersi al solito tavolo, con un portatile in mano e la faccia di chi non avesse la più pallida idea di dove fosse persino il tasto dell’accensione, Shin si era sentito in obbligo morale di venirgli vicino. Era chiaro che quel computer non fosse suo e non lo avesse preso esattamente per vie legali, ma lo sguardo che aveva fatto nello stesso istante in cui gli aveva bypassato il codice d’accesso -Ienzo. Ma che cavolo di password era, senza nemmeno un numero o una maiuscola- lo aveva ucciso. Per quel sorriso probabilmente gli avrebbe forzato i server della PdP e della Rockerduck Inc, se solo glielo avesse chiesto.



Shin Tsukimi
Possibilità di sopravvivenza al Death Game: 0%


“Delle tante cazzate uscite dalla bocca di Ranger questa mi sento di approvarla”.
Miley si avventa sull’unica sedia del laboratorio e mette i piedi sul bancone delle riparazioni. Da chissà dove fa apparire un barattolo di popcorn ed inizia a masticarlo rumorosamente per ribadire il concetto che non intende muoversi da lì fino al termine della simulazione. “Questo qui non è un concorrente. È un caso umano”.
“Le precedenti simulazioni hanno dimostrato che la sua incapacità di sopravvivere sia collegata alla presenza della concorrente Kanna Kizuchi” risponde Safalin. “Ranger lo ha analizzato nel primo capitolo. Il cambio di ambiente non ha alterato il risultato”.
“E quindi vuoi studiare il caso umano per vedere se in assenza di quella mocciosa riesca a cavarsela? Questo inizio sembra tutto meno che promettente …”
Safalin si trova a concordare, ma non certo per le discutibili qualità del candidato in esame. Senza aggiungere altro si avvicina a Miley e ne allontana i piedi dalla sua postazione di lavoro; quella protesta, ma per tutta risposta posa tre pile di appunti sul tavolo nello stesso punto in cui l’altra aveva appoggiato gli stivali. “Non proprio, Miley” risponde, gli occhi fissi sui dati in uscita dal suo tablet “Non proprio”.



Shin sa tutto di lui. Fa parte di un’organizzazione che uccide gli Heartless, quei mostri che ogni tanto appaiono nel bosco vicino alla vecchia villa o nei punti meno frequentati del quartiere del mercato: certo, dovrebbe essere un segreto, ma non sarebbe la prima volta che gente dai lunghi cappotti neri viene avvistata in giro per Crepuscopoli. Il suo capo si chiama Xemnas, un tipo distaccato che guarda tutti dall’alto in basso, mentre il suo vice, di nome Xigbar, è una persona rumorosa che ha persino una benda come i pirati! C’è un tale Demyx che suona tutto il santo giorno, non ha voglia di lavorare e falsifica sempre i rapporti, ma anche un tipo -non ricorda bene il nome- che lo ha sfidato a carte ed in una sera gli ha portato via tutti i risparmi di tre settimane.
E poi c’è Saïx.
Se un’altra persona gli avesse raccontato di lavorare per quello che chiaramente è un lupo mannaro gli avrebbe riso in faccia per poi scappare via bollandolo come uno psicolabile, ma dalla sua bocca tutto sembra assolutamente vero. Gliene ha parlato un po’ a voce bassa, come se avesse paura di vederlo sbucare nel loro bar da un momento all’altro; ogni pomeriggio aggiunge un dettaglio e negli ultimi tempi Shin controlla bene la gente che passa oltre il negozio nel timore di vedere quei capelli blu, gli occhi luminosi e dei denti che da soli potrebbero staccargli un braccio intero. Sa che può abbattere un muro con un solo pugno e che impazzisce del tutto con la luce della luna. E come in un videogioco tutti loro sanno usare la magia, anche se quando gli ha visto creare una fiammella sul palmo della mano per poco non sveniva sul posto.
Sono persone speciali che appaiono e scompaiono in un battito di ciglia, ma lui è senza dubbio il più speciale di tutti.
Dunque quando quella mattina si era presentato sulla soglia del bar, chiedendogli di incontrarsi alla Collina del Tramonto dopo lavoro, Shin si era sentito morire.
Non un appuntamento, ma un Appuntamento.
Quello con la A maiuscola, tanto per intendersi. Quello che nelle leggende del web arriva sempre circondato da rose rosse e cori angelici, ma nel suo caso gli è piombato tra capo e collo proprio la mattina che aveva messo il maglione con un buco all’altezza del collo e che per dormire dieci minuti in più aveva saltato l’obbligatoria pratica della doccia. Il cappello non si intona neanche per errore con qualsiasi altro vestito abbia indosso, ma i capelli sono così impresentabili che tanto vale nasconderli ed imbastire la scusa di un’otite. O forse no, che poi pensa che sia malaticcio ed inaffidabile.
Arrivato quasi alla Collina del Tramonto l’idea di buttarsi sotto un treno per zittire il cuore che gli martella nello stomaco scala rapidamente la top ten delle alternative ed arriva strombazzando in top five quando lo vede su una terrazza, le braccia appoggiate al parapetto e lo sguardo perso nell’eterno vespro della loro città. Lui lo nota e gli fa cenno di salire, ma a Shin le gambe sembrano diventate di marmo.
Si devono sentire così quelli che vanno al patibolo.
“Ciao”.
A bella posta la lingua gli si attacca al palato e decide di entrare in sciopero. Grazie al cielo il rumore dei freni del tram copre il suono inarticolato che dovrebbe corrispondere al suo saluto.
“Grazie … grazie di essere venuto. E per l’aiuto che mi hai dato con quel computer”
“P…prego …”
Risposta imbecille per Shin imbecilli.
Qualcuno deve aver preso i suoi piedi di peso e trascinato vicino a lui; a questa distanza, col profumo tossico del suo cappotto nero anche nel cervello, Shin riesce già a vedere i necrologi del giorno successivo con la propria faccia e l’avviso di ritrovamento di cadavere morto per arresto cardiaco su una terrazza di Crepuscopoli.
Rimangono lì, con un silenzio pesante come un deposito. Nonostante il suo aspetto un po’ aggressivo Shin ha capito che su certe cose anche l’altro non è così disinvolto come potrebbe sembrare, tant’è che non stacca gli occhi dalla punta degli stivali. “Ho bisogno assolutamente di parlarti di una cosa … però non saprei davvero da dove iniziare, scusami”.
Almanacca rapidamente tutte le soluzioni possibili con quel poco di logica rimasta: la cosa più corretta dovrebbe essere quello che si vede in tutti i film, ovvero farsi avanti con passo fermo, stringerlo a sé e poi …
Scartata senza indugio quell’opzione il piano di riserva dovrebbe essere quello di prendergli la mano appoggiata sulla balaustra, stringerla, sentirne il calore, pregare di non assumere tutte le tinte di un pomodoro maturo e guardare insieme il tramonto. Un piano in apparenza privo di falle ma che mostra tutta la sua infattibilità quando si accorge che le proprie dita si muovono al rallentatore e ogni centimetro mosso verso le sue dura un’agonia. Finge di essere mortalmente interessato ad una minuscola crepa della balconata mentre il suo mignolo sfiora per errore il guanto nero dell’altro, che forse per l’emozione gli sembra addirittura incandescente.
Lui non la scansa. Per carità, nemmeno la afferra, ma il fatto che non abbia ritirato la mano fa capire a Shin di essere sul binario giusto, ci vorrà giusto il tempo di convincere le altre quattro dita ad avvicinarsi.
Con la luce di Crepuscopoli annidata tra i suoi capelli, Shin pensa che non ha mai visto qualcuno di così bello in tutta la sua vita.
“Si tratta di Roxas”.
“Ah …”
Già. Avrebbe dovuto immaginarlo. “ … me ne hai parlato. Il tuo … amico …”
“Sì. Ma per me è più di un normale amico”.
Sì, adesso torna tutto.
Ci aveva sperato, certo.
Ma come gli era venuto in mente che uno come lui, che affronta gli Heartless con la sua magia, che può teleportarsi con uno schiocco di dita e che è così … sì, che è così dannatamente bello … potesse provare qualcosa per uno sfigato di Crepuscopoli come lui? Cioè, ma cosa gli era passato per la testa? “Lo immagino …”
Scansa la mano e la rimette in tasca. Non la laverà almeno per una settimana, anche solo per il ricordo di quel guanto nero. “… una volta mi hai detto che lui … ti fa sentire come se avessi un cuore, giusto?”
“È così, Shin. Ed è per questo che volevo parlarti. Sei una delle persone più sincere che io abbia mai conosciuto in vita mia”
Riesce a fiutare la doratura della pillola prima ancora che lui apra bocca. Certo, lui è Shin Tsukimi, l’amico. Quello con la A minuscola, però. Quello che non ha un Keyblade con cui sconfiggere onde di Heartless, che non ha gli occhi luminosi come il cielo, che non ha quella voce da cantante che ogni tanto se la immagina passare alla radio. Quello che prepara la peggiore cioccolata della città, che si fa prendere dal panico anche per un topo e che parla a fatica e magari dietro ad uno schermo ma che sì, è tanto sincero. Quello che non ti fa sentire come se avessi un cuore ma che al massimo ti ripara il pc. E sta per dare consigli d’amore alla persona che gli ha fatto girare la testa. “Dimmi”.
“Io … io so delle cose su di lui, Shin. Cose che lui ignora, e che credo abbia il diritto di sapere. Alcune le intuivo da tempo, ma adesso … dopo quello che ho scoperto in quel computer …”
Sospira, abbassando gli occhi.
“… non posso più fingere. Non posso di nuovo mangiare il gelato insieme a lui come prima, come se non fosse successo nulla. E sai, penso che se avessi avuto il coraggio di parlargli sul serio, affrontando la cosa, magari non facendo tutto di testa mia … forse avrei potuto evitargli … evitarci tutto questo. Volevo proteggerlo dalla Verità, aggiustare le cose, credevo che sarebbe bastato prendermi tutte le responsabilità, se necessario anche con Saïx, ma non ha funzionato. Anzi, ormai temo di aver fatto un gigantesco errore”.
Parla, così, di getto. Con più foga di quanta Shin gliene abbia mai vista, con quegli occhi verdi che compiono giri indefiniti pur di non incontrare i suoi e tornare alla punta degli stivali. “Tu cosa avresti fatto al posto mio, Shin? Avresti mentito alla persona a cui tenevi più di ogni altra, se fosse stato a fin di bene? Sii sincero”.
“Io …”
Respira, cercando di vedere il cuore di quella strana domanda.
Non si è mai posto il problema, forse perché non ha mai avuto grossi segreti nel cassetto, o forse perché non ha mai avuto persone così importanti per cui porsi un simile interrogativo. Forse essere speciali vuol dire anche questo.
Ha passato le ultime settimane immaginandolo lassù, sulla Torre dell’Orologio, le gambe perse nel vuoto mentre lui correva come un pazzo per non perdere il tram. O mentre tornava dal supermercato con le borse della spesa e guardava in alto, sicuro che fosse lì a divorare gelato al sale marino con quel Roxas e quell’altra persona.
Non ha mai trovato il coraggio di chiedergli se potesse unirsi a loro, anche se probabilmente schiatterebbe lungo le scale o cadrebbe dal parapetto. Non lo ha mai chiesto e sente di non poterlo fare mai più.
Perché lui non è come Roxas, il ragazzo speciale, ma darebbe qualsiasi cosa per essere un po’ come lui; o meglio, darebbe qualsiasi cosa per non essere solo un ragazzo stupido, timido, talmente impacciato da non riuscire a dare una risposta di senso compiuto senza sentirsi la lingua più pesante di un macigno. Anche solo per un giorno.
Anche solo per un pomeriggio, il tempo di rimanere a fissare il tramonto dall’alto insieme a lui “… io non sono come te, o come lui. Non credo di avere la risposta giusta così, su due piedi”.
“Non credo nemmeno io che ci sia una risposta giusta, sai? Mi piacerebbe solo sapere cosa avresti fatto tu”.
“Perché ti interessa così tanto?”
“Perché potrebbe essere l’ultima volta che posso chiedertelo”.
Gli si blocca il respiro a metà.
La frase prende forma sul serio, ben più forte dentro il suo cervello. Si irrigidisce, pronto a chiedergli una spiegazione, anche mezza frase masticata, ma poi le vede.
Vede quelle sottili strie luminose agli angoli dei suoi occhi, che fanno di tutto per non cadere. Le sente tutte su di sé, illuminate dalla luce del crepuscolo, come un terreno che potrebbe esplodergli sotto i piedi alla minima frase sbagliata. Ed è tutto sbagliato, perché un eroe come lui non dovrebbe piangere, non dovrebbe soffrire mai. Prenderebbe quel Roxas e lo butterebbe giù da un balcone solo per aver reso triste una persona simile.
No, lui non lo farà.
“… beh, io non saprei mentire nemmeno volendo. Mi si leggerebbe in faccia dopo nemmeno cinque minuti, fidati”.
Lo guarda, ma poi riprende fiato. E anche se sta senza dubbio dicendo parole senza senso con la faccia più rossa di una mela sa che nulla ha più importanza. Per nessuno di loro due.
“Ma se ne fossi in grado lo farei. Con tutte le mie forze. Se con una bugia, due, tre, anche mille potessi proteggere qualcuno a cui tengo … sì, sarei disposto a mentire. E sì, lo so che non è giusto, che è egoista, che non rispetta l’altra persona, tutto ciò che sai meglio di me. Ma lo farei lo stesso” continua “Uno non vorrebbe mai veder piangere la persona che ama, giusto?”
Il calore è improvviso, non calcolato.
Gli arriva al cervello prima ancora che le dita finiscano di registrare l’immensità di quel contatto. Delle proprie mani tra le sue.
“Grazie, Shin. Grazie davvero. Forse era tutto ciò di cui avevo bisogno”.
“Di nulla …”
Una bugia per una bugia. Tante cose che non sa, che ignora, che fanno parte di un mondo troppo distante che riesce solo ad immaginare. Un mondo di eroi, di maghi, di cappotti neri come la notte che ti catturano lo sguardo, di creature che dicono di non avere un cuore per chissà quale strano motivo ma che senza dubbio mentono, perché un essere meraviglioso che si costringe a ricacciare indietro le lacrime un cuore lo deve avere di sicuro. E se di lui non potrà avere altro che un suo ricordo … Si immerge in quegli occhi, in quel sorriso un po’ strano ma gentile, in quei capelli verdi come un prato ed in quella sciarpa così improbabile che solo lui riesce ad indossare senza sembrare ridicolo. Un piccolo quadro solo per lui, un regalo concesso dalla luce del loro tramonto eterno. “ … di nulla, Xion”.



“La tua faccia fa già schifo di suo, Safalin, ma adesso ti stai superando”.
Ci ha messo più di dieci minuti a silenziare tutti gli allarmi partiti all’unisono dai suoi computer. Un paio di download sono partiti senza nemmeno chiederle l’autorizzazione ed uno dei server di memoria si è spento senza alcun motivo, ma Miley è rimasta immobile senza darle il benché minimo aiuto. Non che ne abbia bisogno, ma il suo sorriso irritante mentre tutta la simulazione del pomeriggio va a farsi friggere senza un motivo peggiorerà l’umore con cui sarà costretta a fare il rapporto a Gashu.
Dannata anomalia. “Il server aveva calcolato il 99% delle possibilità che il fantoccio assumesse le sembianze di Kanna Kizuchi. Sarebbe stata la prova definitiva del loro collegamento. Ci avrebbe consegnato le percentuali di sopravvivenza precise di entrambi i concorrenti senza più alcun margine di errore”.
“Fregata da un misero 1%, Safalin?”
“Questo Grillario non ci sta dando le conferme di cui avevamo bisogno”.
“E invece secondo me sta superando ogni aspettativa!”
Si stiracchia, poi si alza e allontana la sedia con un calcio. Prima che possa chiederle di fermarsi è già arrivata ai cilindri delle repliche. Ne punta una, tutta soddisfatta. La replica che ormai tiene da parte solo come contenitore di organi e hardware di ricambio, ma che i recenti sviluppi hanno reso inutilizzabile in vista del Death Game. Il pupazzo che anche nel liquido di sospensione tiene i suoi occhi verdi aperti e sgranati, come se parte di lui fosse ancora operativa. “Tu e Gashu vi state fossilizzando su queste stupide percentuali. Ma i nostri concorrenti sono molto più di qualche sterile numero nelle vostre tabelle. E, se dovessi puntare qualche yen, li butterei proprio su quella pippa di Shin!” sorride, poi rivolge il dito medio al corpo inerte “Secondo me renderà il Death Game più … interessante”.
Il rapporto a Gashu si fa senza dubbio più impellente, e per Tia Safalin è un sollievo vedere la sua collega andarsene con un colpo d’anca fuori dal suo laboratorio.
Il primo punto da risolvere è il fatto che di solito qualunque cosa Miley designi come “interessante” potrebbe esplodere tra le loro mani nel corso del Death Game, e con ogni buona dose di probabilità lo farà nel peggior momento possibile. 0% o meno.
Il secondo è riuscire a capire cosa colleghi la mente di Shin Tsukimi con i dati di Sou Hiyori, il candidato morto prima dell’esperimento finale.
Il terzo, ancora più pressante, è il sospetto che Miley non fosse finita nel suo laboratorio per mero caso.



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Sou Hiyori, il volto assunto da Xion

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Capitolo 6
*** A BBS Story: Whoever you want ***


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Tirò su col naso, cercando di farsi forza. Il fazzoletto era in tasca, ma qualcosa le stringeva le mani dietro la schiena e non riusciva a raggiungerlo; si mise a sedere nel buio più totale, felice che almeno i piedi fossero liberi.
Poteva sentire i suoi passi rimbombare dal piano di sopra.
Sarebbe sceso da lei.
Sapeva che avrebbe dovuto provare a gridare, a cercare aiuto, a dare qualche calcio in giro per attirare attenzione, ma la paura le aveva preso la gola e gliela aveva serrata in una morsa. Perché forse le Scope di guardia non stavano passando da quelle parti, ma lui l’avrebbe sentita senza dubbio, e allora …
Era stata una stupida, una vera stupida. Kugie le aveva detto di non allontanarsi da lei nemmeno per un momento, ma si era attardata al banchetto per osservare il Gelato Ritmato e l’attimo dopo sua sorella era svanita nella calca. Si era arrampicata su delle casse per vederla meglio, ma niente, e quindi chiedere aiuto ad un passante le era sembrata la migliore idea possibile, anche se a casa sua madre le aveva sempre detto di non dare confidenza agli estranei. Il signore le era sembrato forte, le aveva dato subito un senso di sicurezza, quindi quando le aveva detto di fermarsi in un vicolo meno frequentato per fare il punto della situazione non avrebbe certo immaginato di ritrovarsi con un sacco sulla testa e trascinata via.
Sì, era stata la più sciocca delle sciocche. Appena lo avrebbero saputo, anche i suoi compagni di classe avrebbero riso di lei. Certo, se fosse riuscita a tornare in classe …
“Allora, signorina, hai messo di piangere? I bambini che piangono mi fanno venire il mal di pancia!”
“I … Io …”
“Molto bene, facciamo progressi. Adesso mangia queste verdure! E non piangere, o ti rimetto il sacco in testa!”
La forchettata di fagiolini le atterrò in bocca prima che potesse protestare. Grazie al cielo a Kanna piacevano le verdure e mangiava anche un po’ di quelle di Kugie, ed anche se quelle erano senza sale e limone le mandò giù senza protestare. Almeno il suo rapitore non voleva farla morire di fame. La cosa la rassicurò, o almeno finché non vide la mole di fagiolini ancora rimasta sul piatto in bella mostra davanti a lei. “Il vecchio Macchia Nera ha ragione. Un ostaggio serve sempre. Mangerai anche la mia porzione, signorina!”
“Ostaggio?” domandò, commettendo poi l’errore di aprire di nuovo la bocca solo per concedere nuovo spazio alle verdure.
“Certo! Non ti ho rapita per darti da mangiare gratis, sai? Quando vedranno che ho un ostaggio mi consegneranno il premio Millesogni senza fiatare!”
Per sua fortuna il piatto ormai era vuoto per metà e anche il suo rapitore sembrava soddisfatto del risultato. Adesso ovviamente le faceva anche un po’ male la pancia, ma non voleva dire a quel tizio grande e grosso che doveva andare in bagno.
Lo guardò un po’ meglio. Adesso che aveva nominato il premio Millesogni si accorse che il vestito del suo rapitore, a guardarlo meglio, sembrava proprio una tuta da pilota. “Tu partecipi alle Corse Folli?”
“Partecipo? Mia cara, io VINCO le Corse Folli. Io concedo ai miei avversari solo l’onore di mangiarmi la polvere!” disse. Appoggiò il piatto per terra, mise un piede su una sedia ed esibì un saluto di trionfo verso di lei. “L’unico, inimitabile, impareggiabile, insuperabile e fortissimo Capitan Oscurità è una garanzia quando si parla di TRIONFARE!”
“Oh …”
Le Corse Folli erano davvero pericolose. Sua madre chiedeva sempre a suo padre di cambiare canale quando erano a cena e trasmettevano una gara: diceva sempre che la gente si faceva male sul serio, lì, e che trasmettere le corse in orari dei bambini era davvero diseducativo. Non che Kanna fosse convinta di aver capito bene cosa volesse dire la parola “diseducativo”, ma era chiaro che le Corse fossero cose per gente coraggiosa e sprezzante del pericolo. Un sacco dei suoi compagni di classe scrivevano nei temi che sarebbero diventati dei piloti ed avrebbero guadagnato un sacco di munny.
Sicuramente Gin, il suo amico, avrebbe saputo subito riconoscere questo pilota dalla tuta nera e viola -sua madre gli regalava sempre le figurine ed era l’unico ad aver completato l’album- ma lei non aveva mai sentito parlare di questo Capitan Oscurità. Il nome, però, era davvero spaventoso. “ … ma, signor Oscurità … se tu sei così forte … perché vuoi un ostaggio?”
“Ma è chiaro. Perché voglio il premio!”
Kanna si morse un po’ il labbro come faceva sempre quando non capiva qualcosa -la matematica, ad esempio. Sapeva che non avrebbe dovuto fare tante domande ad una persona così grossa e cattiva, ma proprio non capiva. E Kugie le diceva sempre di fare delle domande quando non capiva, e di non tenersi mai tutto dentro.
“Ma se sei così bravo nelle corse … non lo vinci lo stesso il premio?”
“COS …? Beh, CERTO!”
Iniziò a tossicchiare. Kanna era abbastanza sicura di non avergli visto mangiare nulla e di certo non i fagiolini, eppure sembrò come se qualcosa gli fosse andato di traverso “Io vinco … sempre. No, SEMPRISSIMO, accidenti! Magari qualche volta … coff … sì, magari qualche volta faccio vincere gli altri … coff …” borbottò, poi scese dalla sedia “… ecco, non posso vincere sempre io, giusto? Le gare sarebbero noiosissime, non trovi?”
“Oh, in effetti …”
“Proprio così … coff … io sono bravissimo. Però faccio vincere gli altri. Ogni tanto. Ogni tanto spesso … coff … Quasi sempre, a dire la verità”.
Fece una faccia strana. Kanna non era molto brava a scuola ed anche quando si trattava di giocare a palla era davvero terribile, ma capiva subito quando una persona era triste, anche quando cercava di nasconderlo con delle bugie. E il signor Oscurità le sembrò davvero molto triste. Il che era strano, perché di solito le persone cattive non erano mai tristi. Erano cattive, Kugie lo diceva sempre, dunque non avevano tempo per essere infelici visto che pensavano solo a fare cose malvagie.
Il pilota si sedette. La sedia mandò un rumore terribile e Kanna era sicura che sarebbe caduta in pezzi sotto il suo peso, ma preferì non discutere. Lui raccolse il piatto di verdure -sembrava un po’ più piccolo vicino alla sua faccia enorme- e sospirò. “Ok, va bene, tappetta. Va bene. Non le vinco le corse. Non ne ho mai vinta una. Nemmeno per errore. Faccio schifo in tutto”.
Raccolse anche la forchetta da terra, gettò uno sguardo triste alla verdura rimasta e la trangugiò tutta in un paio di bocconi. “Pallafrutta? Con questa pancia mi scambiano tutti per la palla. E il gelato Ritmato? Io ODIO la musica. Ma niente, anche con le Corse è inutile, è un miracolo se non mi schianto dopo la prima curva. Giusto con un ostaggio mi daranno il premio Millesogni”.
Kanna sgranò gli occhi “Ma perché vuoi tanto questo premio?”
“Ma che domande sono? Chiunque vorrebbe il premio Millesogni!”
Lei si mise a sedere un po’ meglio senza più preoccuparsi di avere le mani ferme. Il premio era una cosa importante, certo. Riceverlo dalle mani della regina era un onore incredibile, ma suo padre diceva sempre che non si poteva vincere così, facendo cose banali. Si doveva essere amati, amati sul serio. Essere degli eroi, in pratica.
Il signor Oscurità però di eroico non aveva molto. Innanzitutto perché era chiaro che non gli piacessero le verdure, ed i veri eroi mangiavano sempre tutto e non lasciavano mai nulla nel piatto. Poi, cosa più importante, l’aveva rapita, ed era chiaro che non si potesse essere amati se ci si metteva a sequestrare le persone. I suoi genitori glielo ripetevano sempre che comportarsi bene era fondamentale per essere sempre considerati dalla gente, ma il signor Oscurità non sembrava sapere una cosa così importante. Forse, pensò Kanna riprendendo un po’ di coraggio, nessuno glielo aveva mai spiegato. “Per ricevere il premio bisogna essere degli eroi, sai?”
“E credi che non lo sappia?” rispose lui “Ma fare gli eroi è faticoso. E io non ci riesco. Specie da quando quel mozzo da quattro soldi mi ha rubato tutta la scena. Guardami, tappetta, ti sembro uno con la faccia da eroe?”
“Beh, non proprio, però …”
Si concentrò.
Kugie le diceva sempre di pensare prima di aprire bocca. Ogni tanto Kanna trovava la cosa molto difficile, perché la mamma le diceva di dire sempre la verità mentre sua sorella le ripeteva che dire troppa verità faceva arrabbiare la gente; doveva dire una cosa intelligente che non facesse infuriare il signor Oscurità, ma non poteva nemmeno dire una bugia, perché ai bambini che dicevano le bugie si allungava il naso. “… però secondo me puoi essere un eroe, sai? Anzi, puoi essere tutto quello che vuoi”.
“Cosa?”
“Sai, stamattina, quando ho perso Kugie … avevo davvero paura. C’era tantissima gente, e non la vedevo da nessuna parte. Non sapevo da chi farmi aiutare perché tutti avevano tanto da fare, però quando ti ho visto ho pensato che tu fossi … fortissimo!” disse, tirando un po’ su col naso. Il signor Oscurità la stava guardando con la bocca spalancata, ma non sembrava arrabbiato per quello che gli stava dicendo. Sì, a guardarlo bene non doveva essere troppo cattivo “Avevi un vestito un po’ troppo nero, ma potevi davvero aiutarmi”.
Sorrise.
“Io credo che puoi vincere il premio anche senza un ostaggio. Sono sicura che puoi essere anche un eroe” arrossì “E senza le Corse Folli. Quelle sono davvero pericolose”.
“Chiunque io voglia, dici …”
Lei annuì.
Sì, il signor Oscurità non era poi così malvagio. Un po’ pericoloso, quello forse sì, però sotto quella pelliccia tutta nera ed i denti grandi forse sarebbe stato anche simpatico. Soprattutto perché da quando aveva iniziato quella conversazione i nodi che le stringevano le mani si erano allentati, quindi forse non era nemmeno tanto bravo a legare le persone ed a fare loro del male. Tendeva a mordersi il labbro proprio come lei quando pensava, e si grattava anche il mento peloso con sempre più energia. “Aspetta qui, nanetta!”
Con un paio di balzi uscì dalla stanza lasciando lì il piatto e la forchetta. I suoi passi risuonarono per tutte le scale, e quando sparirono per una decina di minuti buoni Kanna si chiese se fosse il caso di alzarsi lo stesso e andare a vedere cosa fosse successo. In fondo era libera, il signor Oscurità aveva sbattuto la porta senza chiuderla a chiave ed anche i piedi potevano muoversi, quindi si alzò, si sistemò la gonna e si avviò verso l’uscita. Sobbalzò solo quando l’istante successivo, con un violento fragore, la porta si aprì di scatto e per poco non la mandò per terra. Quel poco di luce che filtrava da fuori venne praticamente oscurata dalla gigantesca figura che le si parò davanti, mani ai fianchi ed un mantellino color arancione che sventolava anche senza nessuna corrente d’aria. “C’È QUALCUNO CHE HA BISOGNO DI UN EROE?”
Kanna impiegò qualche istante a capire cosa fosse successo. Il nuovo arrivato indossava una tuta bianca che peggiorava ancora di più la forma della sua pancia, aveva una cintura vistosa ed una maschera bianca appuntita che non riusciva affatto a mascherare il faccione corpulento. “Signor Oscurità, cosa …?”
“CAPITAN OSCURITÀ? MA FIGURIAMOCI! HO DISTRUTTO QUEL CATTIVONE CON UN SONORO CALCIO NEL SEDERE! UN VERO EROE NON PUO’ LASCIARE UNA PRINCIPESSINA DEL CUORE COME TE NELLE MANI DI UN SUPERMALVAGIO!”
Lo fissò perplessa cercando di capire cosa ci fosse di strano, ma lui la prese per mano e la accompagnò verso le scale. Nonostante la mole, notò Kanna, aveva qualcosa persino di delicato. “Il qui presente Capitan Giustino ti darà un passaggio fino a casa, piccola. Adesso sei al sicuro!”


Kizuchi Kanna.
Possibilità di sopravvivenza al Death Game: 2.7%

Safalin rimette in ordine la stanza senza curarsi delle ultime immagini sullo schermo. Le ultime simulazioni si erano dimostrate piene di infiltrazioni di dati, e non nascose un sospiro di sollievo quando i dati fluirono in maniera regolare sul pad. Controllò gli aggiornamenti, ma sia Ranger che Miley non avevano ultimato i propri controlli.
Le analisi della concorrente Kanna Kizuchi sembravano in linea con i dati ottenuti dalle precedenti simulazioni, con una autonomia della candidata piuttosto limitata e le sue alte probabilità di decesso dovute alla carenza di anni di vita e di esperienza. Non le era ancora chiaro quale valore potesse avere un simile soggetto nell’esperimento finale, ma la scelta dei candidati veniva da molto più in alto sia di lei che di Gashu.
L’unica possibilità che la mocciosa sopravvivesse era forse la sua estrema debolezza, la sua voce pigolante che la rendeva innocua e trascurabile agli occhi dei soggetti più pericolosi.
Una strategia di sopravvivenza come un’altra, pensa Safalin. Un modo di sopravvivere non dissimile a quello di molti animali, un azzardo quasi inconsapevole.
Un azzardo che non tiene conto della logica, della forza, delle stesse percentuali di sopravvivenza.
Un azzardo che forse viene dal cuore.


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N.d.W: nel gioco originale Kanna tende a parlare di sé in terza persona, come succede molto spesso tra i personaggi giapponesi. In italiano sarebbe sembrato molto fuori luogo, quindi ho deciso di limitarmi a dare a Kanna -ed a tutta la narrazione- uno stile piuttosto ingenuo e semplice.
 

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Capitolo 7
*** A KH Coded Story: A Data Heart in a Data World ***


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“Non capisco, Safalin. Kai si era offerto volontario. Potevamo mandare lui”
Safalin rimpiange di non aver mai pensato a prendere delle cuffie: la voce di Ranger sta superando gli acuti consentiti, ma non ha tempo da dedicargli. Il server finisce di caricare e la lista degli ultimi accessi alla sua postazione viene elaborata per la terza volta senza alcun cambiamento; la violazione del suo archivio personale non è stata eseguita da un operatore fisico, almeno da quanto sembra, ma quando va ad incrociare le stringhe degli accessi da remoto la cosa si complica. Il tracker che ha disposto alla protezione dei file più “delicati” segnala solo frammenti di un programma estraneo alla sua lettura.
Un programma che sembra essere stato lanciato dall’interno dello stesso Grillario.
In altre parole, un virus.
“Magari a Kai gli si sarebbero fritte le sinapsi. Magari gli si sarebbe spento il suo bel cervellino e sarebbe finito a cagarsi e pisciarsi addosso” ripete Ranger, chiaramente alla ricerca di attenzioni “Magari sarebbe morto e basta!”
“Ranger, connetti i circuiti, per favore”.
Forse ha parlato più ad alta voce del solito, perché il cartello dell’altro assume l’espressione interrogativa. Non le piace alzare la voce su di lui, ma in quel momento non può permettersi di perdere tempo davanti a simili formalità. “Sai che non possiamo fidarci di Kai. E nemmeno di Miley. Non del tutto, almeno”.
Il secondo cartello mostra una faccia soddisfatta. Dei tanti scompensi inseriti nei circuiti psicosomatici di Ranger, Gashu ha fatto almeno attenzione a non cancellare del tutto la parte del buonsenso. A differenza degli altri Floor Master, la sua bambola riesce ad accettare le argomentazioni più logiche -o almeno quelle che vanno a proprio favore.
Ormai non ha dubbi che questo Grillario possieda qualcosa di anomalo: i suoi ambienti simulati sembrano usciti dalle mani di un tecnico informatico più abile persino di quelli pagati dalla Asunaro, ma allo stesso tempo vi sono aree e cartelle interne che non è riuscita ad aprire nemmeno con i suoi migliori programmi. La simulazione con l’agente Shinoji le aveva confermato la presenza di un antivirus interno al Grillario stesso -nulla di impensabile considerata la mole di dati potenzialmente pericolosi- ma l’attacco perpetrato ai suoi computer non può essere ignorato in nessun modo. È chiaro che il libro vada oltre la semplice natura di simulatore di aree di combattimento e personaggi scriptati, ma non avrebbe mai pensato che potesse connettersi sul network della Asunaro per sottrarle dei dati.
E non dei dati qualsiasi.
Aveva sempre pensato che in fondo certe informazioni sarebbe stato meglio seppellirle nella cartella più abbandonata del suo computer per poi farne una sola copia, chiuderla in un hardware e metterlo in un armadio polveroso, ma in ogni caso quei dati non potevano uscire dal suo laboratorio.
Men che mai finire nelle mani di qualcun altro.
“Proporrei di inviare qualcuno di più … sacrificabile”.
La schermata a forma di cuore inizia il caricamento.
Nei pochi istanti che la figura impiega per formarsi sullo schermo Tia Safalin si domanda con più attenzione come la Asunaro possa essere entrata in possesso di quel Grillario.


Il più sacrificabile, ovvio. Quello meno produttivo, quello che andava in bagno bensì due volte al giorno quando i suoi colleghi se la tenevano e rimanevano con i didietro incollati alle sedie.
Quello che alla pausa caffè andava davvero a prendere il caffè alla macchinetta invece di continuare a battere sulla tastiera per farsi notare dal capo.
Certo che avevano mandato lui.
Shunsuke Hayasaka fa un passo indietro e le scarpe gli affondano nella sabbia fino al calcagno. Le forme cubiche color rosso e nero stavolta sono molte di più di quelle del quadro precedente ed a quanto riesce a vedere gli bloccano del tutto l’accesso al molo. Sono enormi, compatte e, se la sfortuna continua a perseguitarlo, inizieranno a muoversi come quelle di due livelli prima e lo spingeranno in acqua per scacciarlo.
Si accuccia dietro il promontorio e fa per levarsi la sabbia dalla scarpa nell’attesa di farsi venire in mente un buon piano. Le dita slacciano la scarpa e spazzano via i granelli, uno dopo l’altro, e qualcuno gli resta appiccicato tra i polpastrelli donandogli una sensazione di calore piacevole, quasi come se tutto il sole che splende su quell’isola abbia deciso di dargli un incoraggiamento.
A parte il fatto che non c’è nessun sole, nessuna isola, nessuna spiaggia dai granelli bianchi e finissimi.
Non c’è nessun mare da copertina, solo dati.
Dati, stringhe, numeri. Il tepore che gli trasmette la sabbia non sono altro che segnali inviati da un server che nemmeno lui sa bene dove si trovi. Sono stimoli che in questo momento arrivano al suo cervello grazie a degli induttori mnemonici che sono stati agganciati al suo corpo bloccato nella stanza delle simulazioni della Asunaro. Lo Shunsuke Hayasaka che in quel momento sente il cuore battere all’impazzita nel terrore che i blocchi si sveglino e che per poco non fa cadere in acqua anche la propria scarpa è solo un avatar, un ammasso di dati connessi da una intelligenza artificiale -già, quei dati li aveva raccolti lui stesso, ironia della sorte- chiuso dentro Coded, la realtà virtuale su cui la sua azienda sta lavorando da oltre dieci anni.
Tira un respiro profondo e si pulisce gli occhiali con il dorso della giacca.
Quei blocchi sono dei bug. Quegli stessi bug che ogni tanto gli impallavano il computer e mandavano a quel paese ore di lavoro. È curioso vedere la forma che assumono in quella realtà virtuale, ma è ancora più spaventoso sapere che quei blocchi sono dei programmi attivi, pericolosi e potenzialmente aggressivi verso chiunque cerchi di ripristinare il sistema. Quando era stato inviato nel primo livello, una specie di pigra cittadina, per poco non era stato cancellato dall’intero sistema operativo per averne toccato uno con una mano.
E come gli aveva fatto notare Rio Ranger, quel piccolo borioso viziato figlio del capo, nessuno si sarebbe preso la briga di scollegarlo dalla realtà virtuale in caso di “danni collaterali”. Nessuno avrebbe telefonato in ufficio per chiedere che fine avesse fatto il povero Hayasaka, visto che tanto non aveva uno straccio di fidanzata ed i suoi parenti li vedeva soltanto durante le feste comandate.
Già, era il più sacrificabile, e tra l’attaccarsi alla macchina della simulazione virtuale e perdere l’unico posto di lavoro che fosse riuscito a trovare … aveva accettato la macchina.
Coded, il fiore all’occhiello dell’azienda, era stato violato.
Hayasaka, il responsabile della raccolta dati per l’inserimento di Intelligenze Artificiali all’interno della realtà virtuale, aveva riscontrato numerosi errori di sistema, ed anche i suoi colleghi avevano lamentato più di un malfunzionamento dei loro programmi. L’intero server su cui era caricato Coded aveva riportato la comparsa di bug multipli senza una radice comune, quello che la signora Tia Safalin, il supervisore, aveva ritenuto un attacco informatico senza precedenti; a suo giudizio l’unico modo per rimuovere quei virus era agire a livello del cuore stesso di Coded portando un Programma Ostruttore in grado di cancellare la fonte stessa delle anomalie. Una tecnica che ad Hayasaka sembrava uscita da uno di quegli stupidi videogiochi che andavano tanto di moda tra i ragazzini … ed in quel momento avrebbe dato volentieri due stipendi per far fare quel lavoro ad uno dei suddetti ragazzini che senza dubbio sarebbero stati ben felici di assumere un avatar virtuale per lanciarsi in un programma di simulazione ambientale e distruggere blocchi.
Mette una mano sotto la giacca: il Programma Ostruttore M.A.P.L.E. ha la forma di una sfera rosa non più grande del suo pugno. La dottoressa Safalin si era raccomandata più volte di non rilasciare M.A.P.L.E. prima di aver ricercato l’origine dei bug, perché altrimenti avrebbe causato il collasso di tutto Coded e dunque di anni di lavoro della Asunaro. E Hayasaka ovviamente non può nemmeno permettersi di deludere i suoi superiori. Mentre osserva la distesa compatta di blocchi pensa alla reazione esplosiva del signor Ranger il giorno in cui ha buttato fuori un giovane e promettente stagista -tale Tsukimi, se ricorda bene- dopo soli due giorni di lavoro perché gli aveva rovesciato del caffè sulla cravatta.
Ha una sola possibilità per superare quel livello e raggiungere il molo.
Trae un respiro profondo ed entra in acqua.
La temperatura è fresca, anche gradevole. Il fondale è davvero basso, gli arriva a metà della coscia, e l’acqua è talmente cristallina che la simulazione gli permette persino di osservare il proprio riflesso. Si pente di non essersi levato almeno scarpe e calzini, perché la sensazione di impedimento degli arti inferiori si manifesta dopo i primi dieci passi, ed il pensiero che si tratti soltanto di una serie di dati inviati al suo cervello non migliora le cose. Ma ormai ha commesso questa stupidaggine e può soltanto andare avanti.
Il livello chiamato Isole del Destino è piacevole. Deve essere stato pensato per essere venduto a qualche riccone obeso che vuole godersi una spiaggia paradisiaca senza sollevare il didietro dalla propria poltrona. Il sole non brucia, ma genera una dolce sensazione lungo le spalle, ed i raggi si frammentano contro la superficie del mare in un gioco di riflessi che Hayasaka non ha visto nemmeno le volte che è andato in vacanza in una vera spiaggia. Un paio di pesci guizzano vicino alle sue gambe, ma non appena le onde muovono il tessuto dei suoi pantaloni questi scappano, e in lontananza degli uccelli marini mandano un verso così realistico che si volta ad osservarne il volo.
Cammina ad una decina di metri da riva, gli occhi fissi sui blocchi ammucchiati lungo tutta la superficie della sabbia: sa che si attivano soltanto quando si avvicina, dunque finché si mantiene a questa distanza di sicurezza può continuare ad avanzare, girare loro intorno e portarsi fino al piccolo molo che adesso distingue con precisione.
I dettagli di quel mondo sono impressionanti: le palme sono di un verde carico, forse l’unica nota “innaturale”, con dei frutti a forma di stella che fanno venire l’acquolina persino ad uno come lui. È pronto a scommettere qualunque cosa che i programmatori del livello hanno in cantiere l’idea di inserire nella simulazione decine di Intelligenze Artificiali di bellissime ragazze in costume da bagno pronte ad accogliere festanti l’eventuale acquirente di quella realtà virtuale.
Anzi, devono aver già messo su qualcosa del genere, perché c’è già un abbozzo di figura femminile proprio all’estremità del molo.
Hayasaka riduce passo dopo passo la distanza tra sé ed il pontile, sicuro di aver eluso i blocchi, osservando la AI immobile, in attesa.
Al contrario di quanto supposto, non è una sventola in costume aderente dalla quinta di reggiseno. È una figura minuta a metà tra una bambina ed una ragazza con un abito semplice, bianco, di quelli che potrebbe trovare sui manichini delle Intelligenze Artificiali non avviate del tutto. Potrebbe sembrare un programma ancora in fase di completamento, ma quando si avvicina al molo lei solleva la testa e gli rivolge un cenno di saluto. “Sono felice che tu sia sano e salvo, Hayasaka”.
I suoi passi si fermano di colpo.
“Sai chi sono?”
“Certo” risponde lei. Ha dei capelli biondi davvero molto belli. “Avvicinati pure”.
Ha incontrato qualche Intelligenza Artificiale nel corso dei precedenti livelli. Un guerriero tutto muscoli che faceva le flessioni in un arena, un’altra bambina nel quadro del giardino gigante e persino un’odalisca con un vestito azzurro che gli aveva lasciato ben poco spazio all’immaginazione. Ma erano tutti personaggi con delle frasi preconfezionate, figure di sfondo che non avevano nemmeno notato il suo accesso. Questa bambina, invece, sta parlando proprio con lui. “Ti ha … uhm … progettata la dottoressa Safalin per questa operazione? Sei un programma di supporto?”
“Non proprio. Ma sono qui per te. E tu sei qui per me, giusto?”
“No, cioè …” mormora, lo sguardo che va da lei ai blocchi. Sono ancora inerti, anche se lungo la loro superficie rossastra riesce a scorgere qualche scintillio. La realizzazione, insieme alla paura, lo coglie all’improvviso “Sei tu la causa del crash di Coded?”
“In parte. Ammetto che è un effetto collaterale di un mio … operato” sorride. Ha gli occhi azzurri come il mare della simulazione. “Però vieni fuori dall’acqua, Hayasaka. Anche se siamo fatti di dati non vuol dire che non possiamo sentire freddo”.
Dunque è fatta di dati.
È un programma. O forse un avatar come lui.
Di tutte le istruzioni lasciategli dai suoi supervisori non è contemplato nulla di simile: forse dovrebbe scagliare M.A.P.L.E. nel programma e basta, ma la sua curiosità di ingegnere informatico inizia a solleticargli dietro la testa. Si guarda intorno, quasi nel terrore di vedere un antivirus con la faccia di Ranger entrare nella simulazione, e poi a passi lievi esce dalla spiaggia.
Dopotutto è suo dovere controllare la situazione.


“Agganciata”.
La stringa inizia a comporsi sul monitor. Ha eluso almeno quattro suoi tentativi di deframmentazione, ma adesso i dati assumono forme comprensibili. Da un CD che ha tenuto volutamente separato dal resto del suo santuario informatico, Safalin inizia a confrontare i dati in arrivo dalla simulazione di Shunsuke Hayasaka con quelli che aveva estratto a fatica dai resti della simulazione di Keiji Shinoji. Ed i risultati sono esattamente quelli che immaginava. Da oltre le sue spalle anche Ranger fissa lo schermo come un predatore “Sono identici, Safalin. È al 98.7% quello stesso programma. Il nostro virus”.
“È più di un virus”.
Ne aveva avuto la conferma durante le precedenti simulazioni. All’inizio credeva si trattasse solo di un livello di protezione del Grillario, ma l’ultimo attacco informatico le ha lasciato alcuni dubbi sulla natura del file. “È un programma autonomo a crescita interna. Non è stato realizzato per la semplice protezione dei dati del suo archivio, quella è solo una delle funzioni” mormora, preparandosi ad un download che si preannuncia burrascoso. “Esegue delle azioni non programmate in origine, si espande secondo dei parametri criptati nella sua stessa stringa. È più una Intelligenza Artificiale che non un programma”.
E dietro una Intelligenza Artificiale c’è sempre un programmatore. Osserva la simulazione nella simulazione, il setting che ha realizzato a partire dal sesto capitolo del Grillario per isolare quella maledetta stringa dalle sembianze di una bambina. Se la I.A. di Hayasaka si atterrà al piano, M.A.P.L.E. scaricherà quell’interferenza dritta in una cartella sul suo hardware e recupererà i dati sottratti, quelli che al momento premono sia a lei che a Gashu.
“Avanti, Hayasaka. Inizia il download”.


Era passato tanto tempo dall’ultima volta che si era seduto in quel modo, con le gambe nel vuoto ed una brezza leggera nei capelli. Il sole artificiale inizia ad asciugare i suoi vestiti, e dopo un istante di leggero imbarazzo, Hayasaka si slaccia la cravatta e si leva anche la giacca, rimanendo in camicia e pantaloni. Il riflesso dell’acqua, anche se finto, gli illumina gli occhiali e, non appena prova a sedersi meglio per evitare di fissare la bambina in controluce, gli sembra di vedere delle conchiglie bianche ed azzurre sul fondo.
La bambina-programma ha dell’incredibile. Hayasaka ha passato gli ultimi tre anni a raccogliere ed unificare dati di diversi soggetti per conto della Asunaro: non si è mai davvero chiesto a cosa servissero tutte le quelle informazioni -pubblicità, sondaggi di mercato, o almeno quello si era sempre raccontato- ma la verità è che ha trascorso la maggior parte del suo tempo a raccogliere informazioni, altezza, peso, gruppo sanguigno, persino analisi del sangue e scontrini di alcuni soggetti che gli venivano inviati dalle alte sfere. Li ha incanalati, confrontati ed ha comunicato anomalie ai propri superiori. Negli ultimi tempi ha persino iniziato a sviluppare modelli tridimensionali in grado di ricostruire, mediante sommatoria di tutti i dati raccolti, possibili fattezze dei campioni studiati senza mai averli visti di persona. Un progetto che aveva ricollegato alla necessita di creare personaggi pregenerati nelle simulazioni di Coded quanto più realistici possibile, ma anche il lavoro del suo intero team non era mai arrivato a ricostruire qualcosa di … simile.
I capelli della bambina sono dei frame dettagliatissimi: sono stati realizzati uno ad uno, non come le capigliature digitali come la sua che ad un attento esame si vede che sono unificati su un solo livello. Il vento dal mare ne muove soltanto alcuni, e tutti gli altri seguono il movimento della testa con una perizia che occorrerebbero almeno 50 Giga di memoria per salvare un programma così complesso e dalle migliaia di variabili. Gli occhi, proprio come quelli degli umani, si muovono da una parte all’altra e persino le palpebre si aprono e si chiudono con un ritmo irregolare, degno del più ardito programma.
Appoggia le dita sul vestito -ha paura ad avvicinarsi per scoprire se la trama del tessuto è davvero perfetta come il resto della ricostruzione- e le incrocia. Appoggia i polpastrelli uno contro l’altro con un gesto che può ricordargli solo il nervosismo umano. “Sapevo che avrebbero mandato qualcuno a cancellarmi, Hayasaka. E sono felice che abbiano scelto di mandare proprio te. Gli altri concorrenti che hanno caricato … potrebbero non capire”.
“Concorrenti?”
“Concorrenti, sì. Non sei l’unica simulazione che hanno inviato nel Grillario” dice.
Hayasaka non riesce a risponderle, ancora fossilizzato sul dettaglio della fibbia dei suoi minuscoli sandali che ha un buco un po’ più consumato degli altri. Un’opera d’arte informatica.
“Asunaro non è quello che sembra, Hayasaka. Il tuo lavoro … non è ciò che sembra. E sono convinta che anche tu, dal profondo del tuo cuore, abbia capito”.
Si leva gli occhiali, un gesto che usa spesso solo per concentrarsi. E, senza smettere di fissare la bambina-programma, si accorge di vedere benissimo anche senza: se li rimette un istante, giusto per testare la situazione, ma il risultato non cambia. Si annota mentalmente di farlo presente alla signora Safalin quando uscirà di lì. O forse il supervisore lo sa già, ed hanno deciso di rendere più gradevole agli acquirenti la realtà virtuali limitando cose tanto noiose quanto i difetti nella vista.
Sì, lo aveva iniziato a sospettare.
Il bisogno di realizzare delle versioni virtuali dei soggetti campione era diventato ogni giorno più stringente, le consegne più ravvicinate nei tempi per dati che in fondo stavano raccogliendo da tantissimo tempo. Aveva continuato a incrociare dati e tabelle anche quando gli era stato chiesto di studiare in dettaglio gli spostamenti di un bambino di forse undici anni che non aveva nulla di statisticamente interessante né per il marketing né per eventuali ditte farmaceutiche.
Ma lui, in fondo, cosa avrebbe potuto fare? “Tu invece sai tutto, immagino”.
“Nessuno sa tutto. Né io, né la Asunaro. Siamo un mondo di informazioni frammentate alla ricerca costante di ciò che ci manca. A me, per esempio, manca M.A.P.L.E. Ne ho bisogno per accedere ad alcuni dati importanti”.
Le sue dita vibrano nell’aria. Hayasaka riconosce la comparsa di un algoritmo di secondo livello, e le stringhe in pochi istanti assumono la forma di quello che sembra un blocco da disegno. Istintivamente avvicina la testa per osservare i bozzetti colorati presenti sul primo foglio, dove delle figure (che sembrano uscite dalla mano di una bambina dell’asilo) si rincorrono su una lunga scala. Lei gli fa spazio vicino a sé, e gira il foglio.
Hayasaka vede il viso di un ragazzo dai capelli castani che sembra dormire in una … cosa grigia e ovale. “Ci sono dei dati che devo assolutamente recuperare. I miei tentativi di ripristinare i ricordi di questo ragazzi hanno generato anche i bug che affliggono questo mondo. Ho bisogno di un Programma Ostruttore per salvare il mio amico … e sono felice che la Asunaro me ne abbia consegnato uno. Ho dovuto sottrarre alcuni loro dati sensibili per convincerli ad agire in questo modo”.
Hayasaka, nonostante il calore, sente il gelo partirgli dai piedi.
Se quello che la bambina gli sta dicendo è vero … la signora Safalin ed il signor Ranger non devono aver previsto questo scenario. L’unico elemento chiaro fino a quando era entrato lì dentro era che non doveva rilasciare M.A.P.L.E. in nessun caso, pena … pena qualsiasi cosa sarebbe successo non appena avrebbero scollegato il suo corpo dal simulatore. “Sai che non posso farlo, vero?”
“In realtà puoi. Devi solo mettermelo in mano. Non è difficile”.
“Tu sai cosa intendo …”
“Lo so. È per questo che sono felice che abbiano mandato proprio te”.
Gira un foglio, stavolta vuoto, e nelle sue mani compare una matita. Inizia a disegnare un viso, un viso circondato da capelli castani ed un ferreo paio di occhiali. “Puoi lanciare M.A.P.L.E. in questo istante, e mi cancelleresti per sempre da questo sistema. Recupereresti i dati sottratti alla Asunaro e consentirai loro di andare avanti con quel loro folle progetto. Oppure …”
Aggiusta la posizione del blocco, come per essere sicura di ritrarlo al meglio.
Come se stesse parlando del prossimo gioco da fare, e non di un programma che potrebbe deframmentarla e scaricarla nei computer della sua associazione da un momento all’altro. “… oppure potresti fare la cosa giusta. Lasciami il programma intatto, ed il server Coded crollerà. Ma ti darò i dati che ho sottratto. Anche se forse andrebbero cancellati anche quelli …”
“E se mi rifiutassi?”
“Dovrai solo guardare dentro te stesso, Hayasaka”.
Poi abbassa la testa e riprende il disegno.
Lo sta raffigurando nei suoi dettagli piccoli e sbozzati, con tanto di giacca e cravatta. L’impiegato perfetto, un po’ triste, che anche nel foglio sta immobile a guardare il disegnatore, quasi in attesa di ordini. I bozzetti dei fogli precedenti sembrano aver qualcosa di vivo, di colorato, di rosso, blu e verde che corrono e si inseguono come a voler uscire dallo spazio rettangolare in cui sono confinati; e c’è il ragazzo che dorme, ma anche da quelle poche righe a pastello sembra molto più espressivo del suo disegno grigio come la giacca che indossa.
È la cosa più triste che abbia mai visto.
E in quella figura abbozzata è convinto di non vedere solo Shunsuke Hayasaka: è così banale che potrebbe rivedere Sayaka, la collega alla postazione alla sua destra, o Shizuka, del comparto grafico. Con i maschi poi è così incredibilmente azzeccata, potrebbe essere il disegno di Ryoma, di Akinari e persino di Shintaro, levando gli occhiali. Tutti loro, figure grigie che in fondo potrebbero non avere nemmeno un nome, bloccate a battere numeri sulla tastiera per paura di finire per strada da un momento all’altro. Nessuno che si sia fatto domande.
O, se come lui se le è poste, alla fine è rimasto in silenzio ed ha continuato ad accumulare dati. Come se quello che accadeva alle persone che studiava, come a quel bambino, fossero lontane. Molto lontane.
Lontane come lo sono i gabbiani all’orizzonte di quel paradiso artificiale.
Sa cosa succederà quando si scollegherà da lì.
Ma, osservando di nuovo il pupazzetto grigio e triste su quella pagina, realizza che non ha poi davvero tutta questa importanza. “Al diavolo tutto …”
Qualcosa potrebbe cambiare dentro la Asunaro. Non lo sa per certo, ma senza ombra di dubbio ogni suo gesto modificherà per sempre il corso della sua azienda, del suo lavoro, della sua vita.
Non sa se quel progetto verrà fermato, se qualsiasi cosa deciderà in questo mondo virtuale, un avatar tra miliardi di stringhe, potrà davvero salvare delle vite, o almeno impedire qualsiasi progetto schifoso ed illegale a cui ha accettato di partecipare guardando oltre.
“Io … io non so se posso davvero rimediare a ciò che ho fatto”.
Prende la sfera di M.A.P.L.E., e prima che la bambina possa muovere un muscolo è lui che gliela mette tra le mani.
“Però …”
Qualsiasi cosa accada. “… io ci voglio provare”.


Il silenzio del suo laboratorio è irreale. Anche il più piccolo ronzare dei computer in caricamento ha cessato di esistere, e Safalin fissa lo schermo nero del simulatore alla ricerca di un modo per riprendersi.
Da quando si era occupata delle Repliche e della realizzazione delle Intelligenze Artificiali non era mai capitato che l’intero piano venisse bloccato. Ci vorrà addirittura una giornata per procedere al riavvio del sistema, tempo che al momento non possono permettersi di perdere. Grazie al cielo il backup delle IA è salvo su memorie esterne in duplice copia, ma Safalin ha il sospetto che stavolta soltanto la sua eccessiva sicurezza abbia messo al riparo il progetto Death Game.
Il programma-bambina si è rivelato ben più di una anomalia, e probabilmente questo comprometterà l’efficienza di M.A.P.L.E. fino all’inizio del progetto vero e proprio. Miley dovrebbe essere in grado di riprogrammarne le funzioni principali, ed a malincuore sa che dovrà affidare a lei quella parte del piano.
Lei e Ranger hanno un altro compito, uno che Gashu ha sempre cercato di tenere soltanto per le emergenze. Un compito per cui occorrono i dati che il programma-bambina ha sottratto e che però ha restituito prima di mandarle in blocco il sistema. Ha dovuto svuotare alla massima velocità il suo pad di scorta per scaricarvi tutti i dati, una delle cartelle più pesanti dell’intero progetto.
Un piano che non la convince eccessivamente, perché ha enormi possibilità di rivoltarsi contro di loro nel momento peggiore possibile.
“Qualche volta però papà proprio non lo capisco” borbotta Ranger, rompendo il silenzio. Sulle spalle ha caricato un manichino appena staccato dal liquido di alimentazione, e le macchie colano sul pavimento dando il colpo di grazia a quella situazione. “Glielo ho detto mille volte, non ha bisogno di nessun altro per gestire il Death Game. Basto io!”
Safalin fa appena in tempo a rimuovere il pad ed un quaderno di appunti dal tavolo che Ranger lancia il corpo esanime sul tavolo. “E di certo non abbiamo bisogno di uno che si è fatto ammazzare come un COGLIONE!”
Safalin sospira.
Da una parte comprende le motivazioni di Gashu, dall’altra … È abbastanza convinta che il programma-bambina non le abbia sottratto quei dati per puro caso. Non sa ancora cosa vi sia dietro al segreto del Grillario, ma a giudicare da quello che è accaduto col candidato Shunsuke Hayasaka e sulla sommatoria delle anomalie delle simulazioni è chiaro che si trova davanti a qualcosa di senziente. Informatico, artificiale, ma senziente.
Un nuovo nemico per cui serve un nuovo alleato. O uno vecchio, considerata la scarsezza di personale.
Il pad si attiva con lentezza, e Safalin apre la cartella M.I.D.O.R.I.

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Capitolo 8
*** A KH DDD Story: Think of me ***


9YLmoOS


Una delle prime regole, si sa, è che l’Arte è immortale. Perché i sogni, i pensieri e l’amore non possono deperire come i corpi umani, e quando vengono catturati su una tela o su un blocco di marmo conferiscono ad essi la loro stessa immortalità. E lo stesso vale anche per le canzoni, perché le grandi musiche ci portano il cuore dei loro compositori attraverso il tempo, quasi come se potessero parlarci da un mondo ormai cambiato.
Certo, non tutta l’arte è … Arte.
Cosa segni la differenza tra queste due parole non è sempre chiaro, ma ogni artista ha il dovere morale di arrivare a quell’Arte.
Non c’è una regola precisa. Non sempre un vero artista è più “bravo” di un altro, non sapresti riconoscere a prima vista chi è in grado di afferrare i sentimenti e farli propri da chi dipinge senza passione, è una questione che non si riesce a misurare con i semplici numeri.
Molti dicono che l’Arte sia in grado di far piangere.
E Nao Egokoro, in quel momento, piange davvero.
Nei libri la cattedrale di Notre-Dame non è semplicemente Arte. Il mondo è costellato di chiese, basiliche, edifici religiosi di qualsiasi tipo in grado di convincere anche l’uomo o la donna meno credenti ad entrare solo per potersi immergere nelle opere d’arte più nascoste, nei quadri che hanno segnato la storia illuminati ancora soltanto da fioche candele, oppure a fissare dal basso i soffitti intarsiati che ti fanno pensare che sia impossibile per un comune essere umano realizzare da solo delle forme così perfette. Ne ha viste decine nei suoi viaggi, ma nessuna può competere con Notre-Dame, la Regina.
È così alta da salire fino al cielo.
La carrozza ha varcato le mura di Parigi da oltre un’ora, eppure le campane stanno suonando senza sosta; all’inizio aveva creduto che si trattasse di tante chiese nell’ora della messa, ma giunta nell’enorme piazzale capisce Lei è l’unica voce che canta in quella città folle, strana e bellissima, un petto enorme dentro cui battono quelle che sono le campane più grandi del mondo. E lì sotto, invece di sentire il rumore assordante di quella voce di bronzo, riesce a respirare soltanto un senso di pace che viene però disturbato quando la portiera si apre ed il capitano Febo le offre il braccio per farla scendere e riportarla alla realtà.
“Prego, mademoiselle” dice, con quell’accento buffo che le hanno detto essere la lingua dei poeti.
La Regina ha il vestito strappato, distrutto.
La parte inferiore della facciata è annerita, ed il rosone che le hanno sempre mostrato nei libri di scuola ha solo dei frammenti di vetro ancora aggrappati al marmo, ed il suono delle campane esce persino da lì. I doccioni della balaustra al primo piano sono andati distrutti, così come due guglie inferiori sul versante sinistro; un gruppo di uomini hanno costruito delle impalcature e stanno lavorando sopra la volta del portone di destra per rimuovere l’alone nero dei mattoni, e quando volge lo sguardo verso l’ingresso si accorge che il portone centrale non esiste più e tutto ciò che ne rimane sono dei giganteschi cardini anneriti.
I volti dei santi non mostrano alcuna espressione.
L’arcidiacono è un uomo che mostra più anni di quanti ne possegga. Scende le scale incespicando, un gradino alla volta, con addosso tutti i segni di un corpo possente ormai abbandonato al tempo; fa per venirle incontro, ma uno degli operai gli si avvicina con fare rispettoso e gli indica uno dei rosoni minori. L’uomo annuisce, stanco, e nel tempo di questo rapido scambio di parole Nao è arrivata fin sui gradini. Lo osserva, ma l’arcidiacono non le porge la mano per il bacio dell’anello. “Dunque lei è l’artista d’oltremare?”
“Lavoro all’atelier del maestro Mishima da anni” risponde. “Sono il primo pittore della sua bottega”.
Il maestro l’aveva avvisata che in quella città molti uomini erano diffidenti verso le donne che svolgevano un lavoro leggermente più evoluto del lavare i panni all’abbeveratoio e badare ai bambini, ma l’arcidiacono non sembra preoccuparsi troppo. Lui ed il capitano si scambiano un cenno, e dopo un saluto veloce l’uomo riparte con la carrozza. “Non avrà di che annoiarsi, mademoiselle” fa la figura anziana, invitandola ad entrare. “Benvenuta nella casa del Signore. Che Lui benedica il suo lavoro”.


“Uff, così non va!”
Il pomeriggio volge alla fine, e l’ultima modella lascia il suo studio. È la decima in quella giornata, sospira Nao, ma nemmeno lei è riuscita a convincerla. Quasimodo, il simpatico campanaro della cattedrale, arriva non appena la giovane si chiude la porta dello studio improvvisato alle spalle e inizia a rassettare. Nao si accorge di aver appallottolato decine di fogli di carta e di averle lanciate ai quattro angoli della stanza, dunque si precipita a raccoglierle.
“Ehi, però l’ultima era davvero carina!” sorride Quasimodo. Il ragazzo la fa morire dalle risate: certo, è gobbo e pure molto brutto, ma è l’unica nota rumorosa di tutta Notre-Dame; Nao non lo avrebbe mai detto, ma è anche bravissimo con i pennelli e sa mescolare meglio le tempere meglio di tutti i garzoni della loro bottega e tratta i pennelli e le tavolozze con un rispetto incredibile. “Dimmi, cosa aveva che non andava?”
“È che … cielo, non lo so cosa non andava!”
Mettere a posto l’atelier è un’impresa. Il maestro ha sempre detto che un artista non deve mai demandare la pulizia e l’ordine del proprio posto di lavoro a nessun altro: uno studio è dove l’Arte nasce, dopotutto, e saper dipingere, plasmare l’argilla o il marmo, suonare … non è tutto. Non conta solo il pittore, diceva sempre il maestro Mishima, ma ogni singola cosa che tocca, ogni aria che respira. Ha più volte insistito con Quasimodo che non le serve una mano a riordinare, ma è chiaro che il ragazzo abbia una voglia matta di fare quattro chiacchiere con qualcuno ed in effetti anche lei ha bisogno di compagnia dopo una giornata di fallimenti. Impiegano oltre un’ora a preparare i fogli nuovi e i panchetti per le modelle del giorno successivo, poi escono e percorrono la navata.
L’interno è stato devastato.
Quasimodo le ha raccontato di essere stato presente quando la follia del giudice Claude Frollo ha portato la cattedrale alla rovina; ne parla sommessamente, come se qualcosa lo turbasse al ricordo di quell’uomo, e molto più spesso racconta invece di Sora e Riku, due giovani stranieri che hanno fermato Frollo prima che lui e le sue creature radessero al suolo l’intera Notre-Dame. Ma se l’esterno della Regina è annerito, l’interno sembra essere stato colpito dalla furia cieca di un mostro infernale: l’incendio ha divampato per tutto il primo livello, e delle panche in legno non ne è rimasto più nulla. La navata di destra è crollata, e le scale che portano al piano superiore non sono accessibili e a detta dell’arcidiacono non lo saranno per oltre tre mesi; le pale dei Santi sono andate perdute, e lungo la navata sinistra le poche che non sono state incenerite sul colpo sono così annerite da essere irriconoscibili. Le scalette del pulpito erano di quercia, e adesso l’accesso alla pedana sopraelevata è precluso, dunque l’arcidiacono dice messa seduto lungo le scale che conducono all’altare.
Quando loro escono sono appena terminati i Vespri.
La gente esce sommessamente, una volta, senza più segnarsi la fronte perché l’enorme acquasantiera è stata ridotta in mille pezzi dalla caduta di una statua. Nonostante la disgrazia e la fatica di dover ascoltare la parola del Signore in piedi le due navate sono piene, e gente di tutte le età scivola tra le macerie con un sorriso, e più di qualcuno si ferma a lasciare delle monete nella cesta delle offerte, un sacco di tela improvvisato che lo stesso sacerdote sorregge. Lei e Quasimodo aspettano nell’ombra del portone che la folla si dissipi, e gli occhi di Nao si fermano sulla pala più grande, quella che domina le spalle dell’altare.
È venuta lì per lei, sospira.
È venuta lì per l’immagine di quella Donna, per la Madre del Mondo.
Per quella Donna che da secoli teneva tra le braccia il suo Figlio, il Salvatore, e che adesso non ha più una forma, un viso, delle lacrime per piangere per i peccati degli uomini. L’incendio ha trasformato lo stucco bianco in un dedalo di crepe, ed i colori si sono sciolti in un’unica, enorme macchia scura che rende irriconoscibili le due figure, come se le fiamme dell’inferno avessero combattuto una strenua battaglia ed avessero trionfato persino sull’amore della Madre. Ha dato disposizioni di far grattare via tutto lo stucco per esporre la parete pura e ricominciare con l’intonaco, ma la parete è enorme e gli uomini sono ancora al lavoro nella parte bassa della pittura. Forse per quando avranno terminato sarà riuscita a trovare una modella in grado di impersonare davanti alla sua tela la figura della Madre.
“Senti, io di bellezza non sono certo un esperto!” fa Quasimodo, invitandola lungo le scale che portano ai suoi alloggi, tra i pochi che non sono crollati. “Ma a me sembravano tutte fantastiche! C’era quella fioraia che … beh, ha fatto uno sguardo così perfetto che l’avrei scritturata in meno di un minuto!”
“Il punto non è che devono essere solo belle, Quasi. L’arte non è solo questo”.
Si sporgono insieme su una delle balconate. Una gargolla sovrastante è crollata, ma a parte la calcina ed un paio di mattonelle divelte la facciata meridionale è stata quella meno colpita dagli incendi ed è ancora uno dei pochi punti dove si possa ammirare il tramonto su Parigi. Afferra al volo uno dei sacchi di grano di Quasimodo ed iniziano a dare da mangiare alle colombe: Nao non ha mai amato troppo i volatili, ma il campanaro ha con loro un rapporto speciale e ogni volta sembra che tutti gli uccelli della città aspettino solo che siano terminati i Vespri per prendere d’assalto i loro sacchi. Trascorrono qualche minuto così, poi entrambi osservano il placido scorrere della Senna prima che le luci scompaiano.
Le vengono in mente i primi tempi nella bottega, e di come il suo maestro insistesse col riprendere qualsiasi panorama più e più volte, a seconda della luce. “Vedi, il maestro Mishima ha sempre detto che l’Arte non deve essere soltanto qualcosa di bello. Deve essere qualcosa di personale. Chiunque veda un’opera deve dire Questo è chiaramente un lavoro di Nao Egokoro, non devono confonderlo con quello di nessun altro”.
“Quindi è come se … dovessero pensare a te”.
“Esatto!”
“E come si fa a pensare a te guardando una pala della Vergine?”
“Appunto” risponde.
Sotto di loro anche gli operai iniziano a rientrare. Lasciano le impalcature e canticchiano qualcosa mentre vanno a casa, ed un paio di donne si affacciano timidamente dalle strade per prendere sotto braccio i loro mariti. Una zingarella si affaccia all’incrocio con un cestino pieno di fiori e qualcuno si china per lasciarle delle monete mentre anche un uomo col suo teatro di burattini deambulante richiude la baracca ed inizia ad incamminarsi in direzione della Senna. Quando Notre-Dame sarà ricostruita, pensa, verranno tutti a vedere la sua opera. La aspettano, e non intende deludere nessuno di loro. Ma allo stesso tempo vorrebbe che sì, come ha detto Quasimodo, quelle figure intente a lavorare come api industriose possano sollevare la testa durante la preghiera e, seppur per un breve istante, fissare la Madre e pensare a lei. “Voglio fare qualcosa di nuovo. Qualcosa di stupendo, che lasci tutti a bocca aperta. Tutte quelle donne erano carine, Quasi, però erano un po’ …” abbassa la voce, sapendo di star per dire una cattiveria “… banali”.
“Allora domani lascia perdere le audizioni!” fa lui.
È un’impressione, o da lontano il burattinaio ha davvero fatto un cenno della mano verso di loro? “Forse so di cosa hai bisogno!”

Nella prima mattina la piazza di Notre-Dame è un mare in tempesta, e Nao un naufrago aggrappata ad un tronco di legno. Ogni passo è un’impresa in quel luogo dove oltre un migliaio di persone si muove, parla, grida, si ferma all’improvviso bloccando tutti gli altri dietro. Nao si ritrova tra due signore alte la metà di lei e larghe il doppio intente a discutere davanti al banco del panettiere, e l’odore delle baguette appena sfornate viene soppresso dalla puzza di aglio e cipolle che una delle due matrone emana già di prima mattina; tenta di aggirarle, ma un signore con un carretto carico di bambole di pezza inchioda proprio davanti a lei, impedendole il passaggio. Aspetta pazientemente che si sposti, ma l’uomo sembra intenzionato a mostrare le proprie mercanzie proprio in mezzo al percorso, e quando prova a chiedergli se può spostarsi per lasciarla passare le campane di Quasimodo coprono il suono della sua voce -non quello delle signore alle sue spalle, però. Quando riesce a liberarsi da quella scomoda posizione si sporge per vedere l’area meridionale del piazzale e scorge l’ambulante con il teatro di burattini che aveva notato la sera precedente, che riesce a farsi notare anche in mezzo a quella folla multicolore. I gitani, come le ha detto Quasimodo con uno strano sorriso, sono il vero colore di Parigi.
Intorno al teatro i bambini si accalcano. Il campanaro ha detto che il posto giusto per lei sono i Vicoli della Luna, quelli alle spalle del teatro. Nao rimane colpita da come il burattinaio riesca ad assumere mille voci diverse mentre dalle sue mani dei pupazzi assurdi dalle chiavi enormi scalano una Notre Dame di cartapesta accompagnati dagli incoraggiamenti del piccolo pubblico.
Il teatro, direbbe il suo maestro, è uno dei volti più belli dell’Arte.
Quel burattinaio dalla pelle scura, pensa tra sé superando la calca, ha già raggiunto il suo obiettivo.
Quei bambini, domani, penseranno a lui e solo a lui.
La musica è la signora dei Vicoli della Luna. Gli edifici sono delle costruzioni su due o tre piani, ed in quelle stradine strette e contorte il suono delle campane scivola fino a svanire davanti allo squillare degli organetti e dei tamburelli. È un quartiere vecchissimo, le aveva detto Quasimodo, antecedente addirittura alla costruzione della cattedrale; Nao alza la testa per contemplare il cielo, ma un dedalo di fili e panni colorati appesi svolazzano come centinaia di bandiere e per poco non inciampa in una minuscola figura in cui riconosce la giovane fioraia della sera prima. I gitani si accalcano lungo i margini della strada; la gente li saluta ed i bambini impazziscono per loro, anche se Nao non può non notare che molti uomini camminano spediti, con le mani sulle tasche, senza degnare gli zingari di una parola.
“Un munny per una poesia dedicata ai tuoi occhi, principessa!” dice un uomo dai denti tutti d’oro, con un fazzoletto arancione e rosso al collo e tutti i denti d’oro. Nao gli lancia una moneta nel cappello a terra, ma lo saluta prima ancora che quello inizi a cantare, perché la sua fonte di ispirazione è poco più avanti, su un palchetto rialzato e batte il tempo con un tamburello.
Le gitane sono le donne più belle del mondo. Quasimodo glielo ha detto con uno sguardo languido che non aveva bisogno di interpretazione.
Ballano in una frenesia strana, disordinate ma allo stesso tempo in uno spettacolo che avvolge chiunque commetta il peccato di guardare quelle forme attraenti. Nao senza accorgersene batte i piedi al ritmo della prima ballerina, una gitana dai lunghi capelli neri che guida le compagne con un tamburello. Intorno a loro una platea di lavoratori, tra cui riconosce anche un paio di operai della cattedrale, battono le mani rapiti dai piedi scalzi di quella figura meravigliosa. Qualcuno lancia monete sul palco verso le altre ballerine, ma quella donna risalta come la Vergine in un coro di angeli.
Deve parlarle.
L’esibizione dura ancora diversi minuti e Nao non si perde un istante di quella gonna che fluttua ad ogni passo.
Ed è con quella gonna che la immagina dipinta sulla pala, davanti a tutti, con quegli occhi simili a smeraldi che sembrano fatti solo per far alzare la testa dei fedeli. Sarà la Madre dalla pelle scura, il simbolo di quella Parigi data alle fiamme e poi risorta e nessuno, nessuno che poggerà gli occhi su quella meraviglia potrà non pensare a Nao Egokoro.
Pensate a me, sussurra quando la danza si interrompe e le gitane scendono una ad una dal palco. Nao si mette titubante dietro alla schiera di uomini che applaudono e che si muovono in fila per strappare alla dea dai capelli neri un saluto, un sorriso, magari uno di quei baci che lancia alla folla. La deve convincere a posare per lei, dovesse buttarsi ai suoi piedi e pagarla con tutti i suoi risparmi. Non ha dubbi che anche il maestro ne sarebbe …
“Scusate, scusate un attimo!”
Fa una voce piccola, squillante.
Viene da sopra il palco, ma nessuno sembra fare caso a lei. Nao si volta, e da sopra le assi di legno improvvisate fa capolino una strana figura. “Adesso sarebbe il mio turno!”


“Allora, Safalin, come te la stai cavando?”
Safalin è sempre stata convinta che, nella sua esistenza presso la Asunaro, Miley avrebbe prima o poi vinto l’ambito ruolo di farle da ultimo chiodo della sua bara, eppure Sou Hiyori è resuscitato solo da due giorni e già sembra interessatissimo ad assumere questo ambito primato. La sua faccia da rapace le urta seriamente il sistema nervoso.
“Benissimo, Sou. Questa simulazione procede per il verso giusto” risponde, mentre continua il download con il report delle azioni di Egokoro. “Non dovresti occuparti dei lavori al Quarto Piano?”.
“Ma io mi sto occupando dei lavori del Quarto Piano, Safalin …” sussurra con quel suo sorriso che le ricorda perché nemmeno lei, la Crying Doll, ha versato una lacrima quando Alice Yabusame ha spaccato il cranio al suo inquietante collega. “… a modo mio, lo sai”.
Rimpiangendo le sfuriate di Ranger, Safalin decide di ignorarlo e di sedersi ad osservare il finale della simulazione di Nao Egokoro; la ragazza non fa parte del gruppo dei candidati selezionati dalla Asunaro, ma l’idea di testare una delle AI realizzate da Kai in questo capitolo del Grillario piuttosto confuso ed instabile le era subito sembrata una buona idea. Non fa parte dei protocolli ufficiali, ma dopo gli eventi del capitolo di Coded c’è qualcosa che le sfugge in quel libro, ed usare una AI non canonica potrebbe risparmiarle moli di lavoro e di dati. Tutti concetti che non ha alcuna intenzione di spiegare a Sou.
Anche perché senza dubbio ci è arrivato da solo.
Sullo schermo, però, si è affacciato un dato insolito. Uno chiaramente non intrinseco alla simulazione e che non ha inserito di persona.
Nel riflesso del monitor, il suo collega manda un ghigno infernale.


“Ma chi ti vuole, mocciosa?”
“Ridateci le ballerine!”
La ragazza appena salita sul palco avrà più o meno i suoi anni. Il suo abito sgargiante è simile a quello di altre gitane, ma ha la pelle chiara come quella dei parigini; i capelli hanno un colore simili ai propri, dei ciuffi di un rosa acceso che escono da sotto un cappuccio giallo così grande che di teste potrebbero entrarcene almeno tre. Tra le mani tiene cinque palline colorate che rischiano di caderle non appena mette piede sull’ultimo scalino e la folla la accoglie con un pomodoro che evita per un soffio. Nao si gira verso le altre gitane, che si sono raccolte in un angolo della strada scambiandosi convenevoli; nemmeno lei, la regina dagli occhi verdi, sembra accorgersi del goffo tentativo della sua collega in difficoltà. Il capitano Febo le si è avvicinato, e mentre i due iniziano a parlarsi un secondo ortaggio vola e per poco non sbalza la fragile artista fuori dal palco. Nao vorrebbe gridarle e dirle di andarsene anche solo per evitare che venga presa di mira dalla gente, ma nonostante l’accoglienza la giovane fa un piccolo inchino ed inizia a lanciare le sue palline in aria. Quello che sembra l’inizio di un numero da giocoliere viene però interrotto dopo nemmeno dieci secondi perché la ragazza inciampa su uno dei veli caduti alle sue compagne nello spettacolo precedente e tutte le palline rotolano fuori dal palco nell’ilarità generale. Nel bombardamento di cavoli, uova e pantofole che ne segue Nao cerca di levarsi dalla massa dove stanno accorrendo anche gente dei vicoli vicini per puro divertimento; stringe i denti e si ricorda il motivo per cui è ancora lì, e vede il gruppo delle gitane allontanarsi dal Vicolo della Luna senza prestare attenzione alla confusione generale intorno a loro. Fa per lanciarsi all’inseguimento della sua modella, ma con un sospiro si ferma.
L’Arte può aspettare ancora una mezz’ora.
Gli astanti si sono già stancati del nuovo gioco, ed a parte qualche fischio lanciato a metà strada Nao riesce ad arrivare al palco che buona parte della folla si è già diradata. Quasimodo le ha detto che qualche volta gli abitanti della città non sono il massimo, ed è pronta a confermarlo quando arriva dall’artista improvvisata senza che nessuno le dia una mano a rialzarsi. Il suo maestro, pensa tra sé, lo avrebbe fatto subito.
“Tutto a posto?” le chiede mentre si accorge di un paio di palline per terra e le raccoglie.
La ragazza si massaggia la testa e si mette a sedere con le gambe sul bordo. “No …”
La sua faccia è così buffa che per poco non le viene da ridere, ha un’espressione di disappunto così marcata che senza dubbio non fa alcuno sforzo per nasconderla. “Anche stavolta mi è andata male …”
“Il tuo è un numero di equilibrismo?” le chiede, porgendole tutte le palline che è riuscita a trovare. Con la coda dell’occhio cerca la bellissima gitana di prima, ma ormai è scomparsa. Ma può comunque provare a correrle dietro se si sbriga, una creatura del suo livello non passa certo inosservata.
La giocoliera scende dal palco con un sonoro tonfo e per poco non perde l’equilibrio per la seconda volta. “Anche! Ma non solo!” dice, stavolta con una faccia da bambina “Voglio far divertire la gente! In questa città dopo tutto quel casino c’è davvero bisogno di ridere un po’, non trovi?”
Nao annuisce e fa per iniziare ad avviarsi, ma la ragazza si è già ripresa. Con il gomito cerca di ripulirsi il cappuccio dalla macchia di un pomodoro, ma il risultato è catastrofico e la polpa rossa si espande per tutto il vestito facendole emettere un suono di puro disappunto. “Devo ancora imparare, però un giorno ci riuscirò. La gente penserà a me ed avrà voglia di sorridere!”
“È il tuo sogno?”
“Certo” sorride, mettendosi di nuovo sulle spalle il suo cappuccio che adesso ha più colori di un vestito da gitana “È il sogno di ogni grande artista, no?”
Pensa a me.
Annuisce.
I piedi le dicono di iniziare ad incamminarsi, altrimenti la sua musa raggiungerà la Corte dei Miracoli e sarà impossibile riuscire a ritrovarla prima di domani. Il cuore, però, le sta dicendo un’altra cosa.
Magari la gente di Parigi, come dice questa buffa ragazza, ha bisogno di sorridere un po’. Le torna in mente lo sguardo spento dell’arcidiacono, o i sospiri di Quasimodo quando le parla delle fanciulle gitane. Le signore nervose al mercato, e la gente pronta a tirare ortaggi ad una fanciulla alle prime armi. Forse è proprio per quel motivo che ha avuto tanta difficoltà a trovare una modella degna di ciò che sognava, forse perché quello che voleva era raccogliere quella strana essenza a cui non riusciva a dare un nome.
Il giorno in cui quelle persone alzeranno una testa verso un’opera di Nao Egokoro dovranno pensare a lei.
Ma dovranno sorridere.


“Se non ricordo male nelle linee guida dell’uso del Grillario avevo sottolineato l’importanza di NON inserire due AI nella medesima simulazione per evitare variabili aleatorie” sottolinea Safalin. “Adoro constatare come io sia l’unica a prendere alla lettera le poche e semplici disposizioni al riguardo”.
Non le va di girarsi. Non ne ha bisogno.
Contro lo schermo scuro la faccia di Sou è ancora visibile. Il suo ghigno è diventato un sorriso di soddisfazione. “Oh, Safalin, lo sappiamo entrambi che la AI della signorina Egokoro non fosse legale. Quella della concorrente Anzu Kinashi, al contrario, rientra perfettamente nei parametri della simulazione. Temo di non essere l’unico a non essere proprio ligio al dovere, qui dentro”.
Sulla schermata del Grillario appare la cartella di compressione e l’immagine di Anzu Kinashi, la giovane concorrente dal cappuccio giallo e con la passione per l’arte di strada, viene fagocitata insieme all’enorme mole di dati che, senza che lei lo abbia autorizzato, viene scaricata nella cartella condivisa con il loro collega. Anche dal riflesso riesce a vederlo sollevare il proprio pad, osservare soddisfatto il completamento del download e schioccarle una sonora faccia di vittoria. “Ah, ma per caso Gashu sa che state usando delle AI non autorizzate?”
Lei non risponde.
Non lo fa perché se iniziasse una discussione probabilmente scaglierebbe contro quell’omuncolo anche la memoria centrale del computer, e metterebbe a rischio anni di lavoro. Gashu ha chiesto a lei e Ranger di resuscitare quel bastardo, e per un attimo rimpiange di non aver lasciato alla misteriosa bambina incontrata dal concorrente Hayasaka i dati mnemonici su cui era archiviata la stessa essenza di Sou.
Il tutto sta nel fingere di voler tornare a lavoro.
Un file viene scaricato, stavolta soltanto sul suo profilo personale.
“Ancora grazie mille, Safalin. Non avevo alcuna intenzione di iniziare una simulazione da solo! Mi hai risparmiati una enorme perdita di tempo!”
Aspetta che si allontani, nella speranza che scivoli dalle scale e si rompa l’osso del collo sul pavimento appena lavato.
Nulla, ma quando il rumore svanisce apre con curiosità il file appena arrivato. Un formato jpeg di scarsa qualità, ma che non era presente all’inizio della simulazione.
Le sorride l’immagine di una Vergine in gloria, seduta tra gli Angeli, con il Figlio tra le braccia.
Una Vergine molto strana, con i capelli rosa ed un sorriso che riesce persino ad oltrepassare lo schermo.

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Capitolo 9
*** A KHuX Story: Your choice ***


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Seduta contro lo schienale, Safalin si costringe a non guardare lo stato impietoso del suo laboratorio. Si è chiusa la porta a chiave, puntando solo il monitor davanti a lei e la schermata di caricamento del nuovo capitolo del Grillario. Oltre a quello ne rimane soltanto uno, e meno di una settimana la separa dall’apertura del Death Game.
Gashu le ha ordinato di raccogliere tutti i dati ottenuti anche dalle simulazioni di Ranger e di Miley e di fargli avere un rapporto dettagliato delle percentuali di sopravvivenza dei candidati non appena terminato lo studio dell’ultimo capitolo: Ranger si è dimostrato stranamente collaborante e le ha già inviato tutto il rapporto, mentre Miley sorride tra sé e senza dubbio glielo consegnerà all’ultima ora utile solo per divertirsi a vederla rimproverata da Gashu.
In ogni caso i risultati non hanno smentito i dati ottenuti dalle simulazioni antecedenti al Grillario: Sara Chidouin avrebbe bisogno di qualche altra verifica, ma le reazioni della sua AI nel primissimo capitolo sono state davvero degne di nota e lo stesso si può dire dell’agente Shinoji. Non capisce perché la concorrente Anzu Kinashi abbia invece una percentuale dell’8% -altissima, ben oltre la metà dei partecipanti- dopo l’ultimo esperimento sulla AI, ma in fondo le reazioni dei concorrenti sono verosimili e si sente già di fare delle predizioni azzardate.
Il concorrente che si accinge a caricare ha discrete possibilità di vittoria. È forte, determinato, anche piuttosto brillante, il concetto di persona “vincente” secondo i canoni della Asunaro.
Eppure le percentuali lo danno ben al di sotto di Sara, una semplice studentessa del liceo. Miley ha già studiato qualcosa del suo profilo, e sogghignando le ha detto di essersi fatta un’idea del perché.
Safalin però di certe cose preferisce accertarsene in prima persona.


La musica si sente anche fuori dalla porta.
Ogni tanto Mog, il moguri che ha il negozio proprio sotto casa loro, si affaccia e con il pompon arruffato chiede di fare silenzio perché vorrebbe dormire, ma stavolta Alice non lo vede.
Meglio.
Gli girano così tanto che lo attaccherebbe al muro.
Il pezzo che Reko sta suonando è quello che pensano di portare al Festival delle Unioni tra tre mesi. Ci stanno lavorando su da un sacco di tempo e sono ancora indecisi se chiedere a Crio e Fiamma di unirsi per mettere più voci al momento del ritornello: perché sì, sua sorella Reko deve essere la prima cantante e su questo non ci piove, ma per dare una bella scarica di energia al pezzo qualche altra voce sarebbe il massimo.
Solo che quel brano non lo suoneranno mai più.
Alice apre la porta, ancora meditando su come parlare della cosa a Reko, e la trova al centro del salone, il microfono acceso davanti a sé ed i bongo legati ai fianchi per permetterle di suonare, cantare e muoversi allo stesso tempo. “Alice, si può sapere dove ti eri cacciato?”

 

"Skuld, ti sei bevuta il cervello o cosa?”
Alice riprende fiato. Si siede sulla fontana della piazza principale di Daybreak Town nella speranza che gli spruzzi d’acqua fredda lo riportino alla realtà e gli raccontino che gli eventi delle ultime ore siano stati soltanto un incubo. Purtroppo, però, il riflesso nell’acqua gli restituisce soltanto il suo viso stanco e con una nota di spavento che era convinto di non aver mai posseduto in vita sua.
La cosa che gli fa davvero girare le palle, però, è l’espressione serena di Skuld mentre gli viene accanto. “Alice, perdonami, ma non capisco perché te la stai prendendo così tanto. Io credo che essere scelti da Master Ava sia un grande onore”.
Ava.
Quella testa di cazzo.
Più che la maschera della Volpe avrebbero dovuto darle quella della Faina.
“Senti, ve lo scordate che io mi unisca a voi, chiaro? Col cavolo che lascio i miei amici a crepare mentre voi eletti andate a salvarvi il culo altrove!”
Per la rabbia e la stanchezza si accorge di non aver ancora ritirato il proprio Keyblade. Lo fa sparire nell’aria con un cenno secco della mano, cercando di contenere l’impulso di darlo su quella che fino a qualche minuto prima credeva essere una sua amica.




“Giornata problematica” risponde.
Si mette seduto sul vecchio divano in pelle del loro salotto, afferrando la chitarra. Pizzica un paio di corde per schiarirsi la voce e cercare di trovare un modo decente per acciuffare l’argomento, ma le parole faticano ad arrivare. Ha sempre parlato un po’ di tutto con sua sorella -anche di certe cose un po’ private che le femmine non dovrebbero sapere- eppure adesso, davanti ai loro strumenti musicali preferiti, l’unica cosa che gli viene in mente è una pietosa bugia per prendere tempo “Oggi cercare la Lux è stato un po’ un casino. Pare davvero che gli Ursus la vogliano tutta per loro”.
Capisce subito di aver fatto una cazzata perché lei d’impatto spenge il microfono, butta rumorosamente i bongo sul divano e gli viene sotto col suo sguardo reso ancora più minaccioso dal trucco di scena che insiste per portare anche durante le prove. Incrocia le braccia e lo fissa dall’alto in basso. “Quindi vuoi dirmi che di questa storia dei Dandelions non sai davvero nulla?”
“Come sai dei Dandelions?”

 

Reko è abituata ad avere delle ammiratrici. Mentirebbe se dicesse che la cosa le dispiace. Certo, ogni tanto deve fare lo slalom tra i ragazzi che le chiedono di uscire, ma è il prezzo della popolarità.
Reko è da un po’ che se ne è accorta.
La ragazza è venuta agli ultimi suoi concerti, ma si è sempre tenuta in disparte, magari seduta sui tetti piuttosto che scendere in primissima fila sotto il palco; era al negozio dei fiori, qualche settimana prima, e l’ha vista nascondersi dietro la porta della serra quando è entrata per comprare un pesticida; è pronta a scommettere il suo tamburo preferito di averla vista dietro un albero, al Castello dei Sogni, quando quell’imbecille col monocolo aveva cercato di ficcarle un’orribile scarpetta di cristallo e si era dovuta levare gli anfibi per farlo.
All’inizio ha pensato all’ennesima stalker, ma di solito quelle ti levano l’aria a forza di domandarti foto, autografi o dediche; quella ragazza invece è silenziosa come un alito di vento, e nel corso dei giorni Reko ha iniziato ad abituarsi a questa strana presenza che invece di innervosirla le strappa persino qualche sorriso.
Ha sempre avuto un debole per le ragazze timide.
Tre giorni fa, però, davanti alla porta di casa ha trovato un biglietto. Sarebbe potuto essere di qualsiasi ammiratore, ma le è bastato sentirne il profumo per capire che si trattava di lei. Dentro c’era un fiore, un dente di leone, ed un solo nome.
Strelitzia.
Da quel giorno non l’ha più vista.




Discutere con Alice non porterà da nessuna parte.
Con un sospiro gli atterra vicino, sul divano. “Ho indagato per conto mio. Una bella merda, non trovi?”
“Mi hanno chiesto di unirmi a loro, sai?”
La risposta non la coglie del tutto impreparata. Master Ava sta radunando i migliori Keybladers di tutte le Unioni, e suo fratello ha tutti i requisiti; certo, quando ci si mette è un coglione di proporzioni stellari, ma in battaglia sarebbe in grado di pestare anche uno degli Union Leader. Se lei fosse stata Master Ava … sì, avrebbe iniziato proprio da lui.
Da quando Strelitzia è sparita ha iniziato a fare domande, e se quello che alcuni Keybladers suoi fan le hanno rivelato è vero -al modico prezzo di un sorriso, una bibita ed una foto con lei- è che questo casino tra le Unioni che si accusano di rubare la Lux potrebbe sfociare in qualcosa di molto, molto più grave.
Alice va in cucina, e ritorna con due birre. “Ci sarà una guerra, Reko. E i Dandelions si terranno in disparte. Lasceranno Daybreak Town e rifonderanno le Unioni da un’altra parte. Sembra che ci saranno anche Ephemer e Skuld”.
Reko la butta giù tutta d’un sorso.
Il clima tra le Unioni negli ultimi tempi è degenerato di brutto, ma non avrebbe mai pensato ad una guerra. Qualche Keyblader dalla testa calda qualche volta era venuto alle armi con quelli delle altre Unioni e alcuni degli Union Leaders avevano discusso con toni più accesi del solito, eppure anche adesso, ascoltando le parole di suo fratello, le sembra impossibile che possa scoppiare un conflitto tra tutti loro.
Un conflitto vero, dove la gente muore.
Sì, ci sta tutto.
Ci sta tutto che abbiano chiesto a suo fratello di unirsi ai Dandelions, e non a lei.
Lei al massimo sa suonare i bongo.
Ha voglia di un’altra birra, ma pure di altre due o tre.
Perché sì, la cosa un po’ le fa girare le palle, ma sa che Alice è la scelta migliore. E visto che è forte, ma talvolta pure un po’ scemo, è meglio che non sia da quelle parti quando la guerra scoppierà, che magari si farà venire qualche stupido senso di colpa e si metterà in pericolo per una stupidaggine. “Beh, sono contenta che ti abbiano scelto per partire! E che ci siano Ephemer e Skuld a buttare un occhio su di te!”
“Ma che ca …”
Detesta quando le si scioglie il trucco.
La fa incavolare.
Perché quando il trucco nero inizia a sbavare è un casino.
Non ci si fa vedere col trucco sbagliato in pubblico, nemmeno se il pubblico è quel cretino di suo fratello. Che poi sembra che piange, e Reko Yabusame non piange mica. Non perché magari tra qualche giorno non rivedrà Alice mai più. “Sai come si dice, no?” borbotta, voltandosi di scatto per non far vedere lo stato pietoso del suo rimmel. “Anche se partirai, sappi che il mio cuore sarà sempre con te. Pure attraverso lo spazio e il tempo, se necessario!”
Oddio, sembra proprio una di quelle frasi delle loro canzoni, solo che adesso a tutto pensa meno che a …
“Reko, si può sapere che cazzo stai dicendo?”
Alice appoggia la bottiglia vuota sul pavimento e allunga i piedi sul tavolino. Reko si volta in tempo per afferrare al volo uno dei suoi bongo che Alice le ha appena lanciato, per poi riprendere in mano da chitarra e buttare giù uno dei suoi accordi in grado di far vibrare pure il soffitto. “Io non vado da nessuna parte!”

 

Piove.
Piove fottutamente. Piove come se il mondo finisse domani.
Alice mena fendenti senza più riconoscere facce, amici, o le armature delle Unioni. Combatte cercando ancora di capire perché siano tutti lì, quale Union Leader abbia dato per primo l’ordine di scontrarsi, o perché fino a qualche giorno fa la ragazza che incontrava tutti i giorni dietro al bancone del bar adesso pende senza vita dalla punta del suo stesso Keyblade.
Accanto a lui Reko deflette un incantesimo e con la sua arma lo rimanda al mittente freddando quei tizi Ursus -ma non saranno Leopardus?- con un gesto secco. Nel rombo assordante dei Keyblade che si scontrano e cadono a terra senza sosta sono uno accanto all’altra, spalla a spalla, lui con gli abiti a brandelli e lei col trucco così sfigurato che sembra un vero spirito della battaglia. Reko sputa a terra, e ne esce sangue. “Ti sei pentito di non essere partito con loro?”
“Giusto un pochino …”
Tira un altro affondo, ancora più veloce, e per un attimo solo loro due sotto la pioggia ed i cuori che sfrecciano verso il cielo nero.
Oltre lo spiazzo, immobile, la sagoma di uno Union Leader abbatte cinque giovani Custodi che sono partiti all’attacco con un unico fendente. “… ma il mio posto è qui. Il nostro posto è qui”
Un lampo illumina il campo di battaglia, riflettendosi sulle lame dei Keyblade piantati a terra. E, in quella luce eterea, Alice è pronto a scommettere di intravedere sul volto di quello Union Leader la maschera della Volpe.
“Andiamo a farle il culo, Reko?”
Lei sorride, di quei sorrisi in grado di invertire il cielo e la terra. “Il primo che arriva offre da bere all’altro!”




Stampati sul tavolo ci sono i loro profili.
Kazumi Mishima. Shin Tsukimi. E, ovviamente, Alice Yabusame.
Safalin li osserva, dati alla mano.
Le possibilità che il candidato Alice Yabusame superi il Death Game sono più alte degli altri, ma è chiaro che esse siano dipendenti, come per i candidati Mishima e Tsukimi, dalla presenza di altri elementi nell’ambiente.
Una dipendenza pericolosa, la variabile che le sue vecchie simulazioni non sono riuscite a calcolare. Di solito preferisce non inserire nella simulazione due AI, ma forse il legame già esistente tra i due fratelli Yabusame non dovrebbe costituire un problema e, magari, potrebbe addirittura farle avere dei dati realistici da presentare a Gashu prima del lancio.
Perché sa benissimo che, nonostante i veri Reko ed Alice non si parlino ormai da tempo, nel momento in cui quei due si ritroveranno faccia a faccia nel Death Game tante cose cambieranno ed i suoi dati per allora devono essere pronti. Il legame tra fratelli, si sa, è una delle forze più potenti al mondo.
Un vero peccato che dei due potrà sopravviverne soltanto uno.
 

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Reko Yabusame

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Capitolo 10
*** A KH 3 Story: Baking Blood ***


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Il lievito ha un profumo tutto suo.
Quello è il primo pensiero di Mai al mattino, e sempre lo stesso da quando riesca a ricordare.
L’ultimo impasto è pronto e lo mette in una ciotola, coprendolo poi con un canovaccio: la lievitazione naturale è il segreto del suo forno, ma tra uno sbadiglio e l’altro pensa che prima o poi dovrà trovare il coraggio di assumere qualcuno perché iniziare ad impastare alle due del mattino ogni giorno sta iniziando a farsi sentire. E stasera non può certo permettersi di avere le occhiaie o di sbadigliare sul più bello.
L’ultimo filone di pane viene messo in cucina a lievitare e mai corre alla dispensa. I mirtilli che si è fatta portare direttamente dal Regno di Corona mandano un profumo talmente eccezionale che non resiste e ne porta uno alle labbra. Succoso, dolce, ma con quel retrogusto amarognolo che trasforma le torte e le crostate in veri capolavori e non in quelle schifezze zuccherine da pasticceria commerciale (come quelle della P.d.P, per intendersi) che dopo due morsi ti impastano la bocca. Solleva la cesta di mirtilli, la appoggia sul tavolo e prende la pentola dove la crema pasticcera che ha preparato la sera prima si è intiepidita.
Oggi alle nove passerà sicuramente quel signore anziano, quel maggiordomo tanto distinto che lavora per la famiglia Phantomive, quelli con la villa un po’ fuori Radiant Garden. L’uomo passa tutti i giovedì per ordinare almeno una dozzina di torte per il conte, la contessa ed i loro gemellini; sembra che uno dei due sia molto malato, e Mai aggiunge sempre un barattolo di miele omaggio. Una volta ne ha visto la foto, e le ha fatto davvero molta tenerezza.
Certo, le ordinazioni del conte sono sempre una mole di lavoro enorme, ma per fortuna la sera prima si era anticipata sia la preparazione della crema che l’imburrata degli stampi, così dopo mezz’ora i dolci entrano nel forno ed occorrono solo pochi minuti per inondare il forno di un odore magico.
Glielo ha detto Tiana, la cuoca del palazzo.
A cui lo ha detto Celes, a cui lo ha detto Dilan in uno dei suoi tentativi di abborracciare una conversazione decente.
Insomma, fonti super affidabili le hanno riportato che il dolce preferito di Aeleus sia la crostata con la marmellata di mirtilli. Ed è proprio una enorme crostata di mirtilli quella che esce prima dal forno e su cui Mai passa una spolverata di zucchero a velo, proprio quella che gli offrirà oggi pomeriggio durante la loro prima uscita seria e galante per un bel picnic nei giardini centrali di Radiant Garden.
Perché, si sa, gli uomini vanno un po’ presi per la gola.
L’orologio segna le cinque, e manca più di un’ora all’apertura al pubblico. Di solito la impiega sonnecchiando sulla sedia, ma oggi il cervello va da una parte all’altra terrorizzato all’idea di scegliere qualcosa di carino da indossare per il picnic. Per riempire il tempo si carica sulle spalle il sacco dell’immondizia ed imbocca la porta sul retro chiedendosi se sia il caso di sfoggiare i guanti rossi che ha comprato due giorni prima.
“Ti sto chiedendo di fidarti di me”.
Una voce maschile. Bassa, monocorda.
Per poco Mai non sobbalza.
Lungo la strada l’unica luce accesa è quella delle finestre del suo forno; le luci delle abitazioni sono spente, e persino le insegne al neon del ristorante di lusso dall’altra parte della via tacciono. Si dà subito dell’idiota impressionabile -la voce è venuta dalla fine del vicolo, e magari è solo una coppietta in cerca di un po’ di privacy- e tirando un sospiro si avvicina ai secchi dell’immondizia. La testa è già pronta a tornare sulla scelta del migliore accessorio per l’evento del pomeriggio, ma una seconda voce, ben più alta, le arriva nelle orecchie come una frustrata.
“Perdonami se te lo faccio notare, ma nella tua bocca la parola fiducia suona fuori posto come un Simile tra i Berserker”.
Una voce che riconoscerebbe tra mille.
Ritira la mano appoggiata al coperchio del secchio come se scottasse. Senza neppure sapere il perché si scopre a trattenere il fiato, terrorizzata dal produrre anche il più piccolo suono. Col sacco ancora tra le mani cammina in punta di piedi lungo l’asfalto, diretta verso l’inizio del vicolo. Soltanto la luce che fuoriesce dai vetri della sua stessa cucina le impedisce di andare a sbattere, la stessa che dopo qualche passo svela due figure in piedi al termine della strada.
L’ultima persona che ha parlato, l’uomo dalla voce alta, si muove avanti e indietro nello spazio angusto tra le case. Si sofferma vicino ad un cumulo di vecchi skateboard abbandonati, ed in quell’istante la lama di luce scopre il fisico asciutto ed i capelli chiari di Even, primo studioso di corte e candidato al trono di Radiant Garden. L’altro uomo si mantiene sul fondo della strada, un’ombra tra le ombre, e di lui Mai riesce s scorgere solo la forma di un lungo abito scuro.
“Eppure hai accettato di parlare con me” mormora quest’ultimo “Dunque la proposta ti interessa”.
“Non ci provare, Saïx …”
Even preferisce i pasticcini. Quelli morbidi, al burro ed al profumo di crema di mandorle.
Lo sa perché da quando Radiant Garden è stata ricostruita lui e Ienzo hanno spesso il venerdì mattina libero e passano sempre al forno, talvolta accompagnati da Aeleus.
Even insiste sempre per pagare lui.
Essere un punto di riferimento per quelli del palazzo ha sempre stuzzicato un po’ l’orgoglio di Mai eppure, in quel momento, l’idea di vedere con i propri occhi il futuro re di Radiant Garden in quel vicolo le fa gelare il sangue nelle vene.
“… non saresti venuto fin qui se non fossi stato certo che la cosa mi interessasse”.
“Mi conosci”.
“No. È che voi ragazzini siete prevedibili”
Aguzza gli occhi, sforzandosi di vedere il volto dell’uomo chiamato Saïx, ma il buio ed un pesante cappuccio scuro ne coprono i lineamenti. Sa solo che sembra più basso di Even e che anche la voce potrebbe esserle familiare, in un modo o nell’altro.
Il futuro re continua a muoversi, e nel momento in cui la scarsa luce illumina il suo sorriso Mai non ha più dubbi di star ascoltando qualcosa che non dovrebbe. “In ogni caso per l’accordo è valido. Suppongo che il nostro piano non comprenda Ienzo, Dilan o Aeleus”.
“Sei tu quello bravo a sporcarti le mani, Even”.
Un tonfo.
Piccolo, secco, vicino a lei.
Accanto ai suoi piedi.
Mai realizza con orrore di aver appena fatto cadere il sacchetto della spazzatura sull’asfalto. Il rumore leggero esplode nel silenzio del vicolo come un colpo di fucile.
E, prima che possa voltarsi indietro e barricarsi dentro al forno, un secondo rumore appare alle sue spalle ed una figura esce dal buio, una mano che saetta contro di lei. Mai lancia un grido ed inizia a correre, ma non riesce a compiere nemmeno cinque passi che la figura le salta addosso con uno scatto disumano e la spinge contro il muro. Un dolore le sale lungo la schiena, ma una seconda fitta, ancora più forte, le esplode lungo il collo quando la mano la afferra ed inizia a stringere. D’istinto tira un calcio contro il suo aggressore, ma quello non sembra nemmeno accorgersi del colpo. Le manca il fiato, e nella scarsa luce vede degli occhi gialli scintillare sotto un pesante cappuccio nero.
“Saïx, lasciala”
La voce di Even si avvicina. Mai prova a gridare aiuto, ma le sue labbra si aprono solo per rubare a fatica una manciata d’aria. “Non mi pare il caso di …”
“Neanche per sogno, Even. E non farmi la morale”.
Mai tenta di avvicinare le mani alla faccia dell’aggressore per graffiarlo, ma le sue unghie si abbattono su una pelle dura e secca.
Nell’aria c’è il profumo delle torte al mirtillo.
Hanno finito di cuocere.
“Questa qui ha sentito tutto. Devo ricordarti quanto sia importante la segretezza?”
“Non devi ricordarmi un bel niente. So quello che stiamo rischiando” dice il futuro re.
È quasi al loro fianco, e tra le lacrime Mai ne riesce a distinguere solo la forma confusa del suo lungo camice bianco. “Ma vorrei ricominciare questa nuova vita in modo diverso”.
Diverso …”
La mano continua a stringerla.
Mai ha l’impressione che la presa per un attimo si sia allentata alle parole di Even, ma la testa continua a girarle.
Forse Aeleus è da qualche parte.
Magari sta cercando il futuro re.
“La vuoi sapere una cosa, Even?”
È solo un momento, ma le risuona fin dentro la testa.
Un dolore forte, come non ne ha sentiti mai, all’altezza dello stomaco, come se una bestia feroce le avesse appena afferrato il ventre.
Poi, come è venuto, il dolore inizia sparire. La testa ancora le gira, i contorni delle figure spariscono.
Ancora il profumo delle sue torte.
Ma è diverso.
Forse non ha fatto in tempo, e le si sono bruciate tutte.
O forse, pensa, c’è uno strano odore di sangue nell’aria.
“Quelli come noi non cambiano mai”.


Safalin stacca la simulazione.
L’osservazione dell’IA di Mai Tsurugi è stata una clamorosa perdita di tempo, specie perché le prove a sua disposizione sono scadute. La candidata non possiede alcuna caratteristica in grado di superare il Death Game con successo, ma andava testata almeno una volta per correttezza del lavoro. Sou le ha chiesto comunque di inviarle tutti i dati riguardanti la giovane panettiera, e con un sospiro, Safalin invia l’estratto della simulazione direttamente al quarto Floor Master.
Se avesse ancora tempo a disposizione non le sarebbe dispiaciuto testare qualche altro candidato, ma stavolta Gashu pretende delle percentuali entro la sera e non sarà certo lei a consegnargliele in ritardo.
Anche perché Ranger le ha detto di venire al suo terminale per una questione importante, e la sua creatura su certe cose ha un dannatissimo fiuto.

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Capitolo 11
*** Ending ***


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Kai


“Non mi aspettavo di rivederti”.
Kai non ha mai capito perché quella bambina disegni così tanto. Per essere un programma dotato di un’autonomia superiore alla norma, quella Data Naminé tende a ripetere l’atto del disegnare in maniera fin troppo ripetitiva.
Ha faticato a trovarla: l’attacco di Rio Ranger alle sue stringhe principali deve aver allertato dei programmi di sicurezza del Grillario che nemmeno lui ha avuto modo di scandagliare fino in fondo. Nel mondo reale l’accesso ai programmi di simulazione è stato arrestato, e se Ranger, Miley, Safalin e Gasshu non hanno ancora cercato di forzarne le password è solo perché al momento la loro attenzione è solo sul Death Game.
La figura sottile è seduta sul bordo di una capsula che a Kai ricorda un fiore di magnolia. Tiene le gambe nel vuoto, pigramente, e le mani corrono sui fogli senza sosta, soffermandosi solo qualche volta per prendere una gomma appoggiata lungo le ginocchia e cancellare qualche tratto maldestro.
Esattamente come il primo giorno che l’ha incontrata, quando l’uomo dal cappotto scuro e dai modi variopinti gli ha consegnato quel Grillario e dentro vi ha trovato lei, un’Intelligenza Artificiale fatta di dati che sfida le migliori creature della Asunaro.
Kai si strofina le mani nel grembiule, ma il suo gesto cade nel bianco di quella stanza virtuale. “E la cosa ti disturba?”
“Sono poche le cose in grado di disturbarmi, Kai Satou. Anche se il tuo collega Ranger vi è riuscito”.
“Ranger è più di un disturbo”.
Kai sospira.
Ha fatto di tutto per impedire a Safalin, il cervello della Asunaro, di intralciare i suoi piani. E invece quella bambola imperfetta di Ranger si è rivelata molto più problematica di quello che si sarebbe aspettato.
Lo ha sottovalutato.
O, sospira, ha sottovalutato l’odio che quell’ammasso di circuiti e programmi ha sempre provato nei suoi confronti. “In ogni caso il mio piano ha avuto successo. Queste simulazioni hanno rallentato il lavoro della Asunaro e mi hanno permesso di avere accesso ai dati delle AI che mi erano precluse ed alla sequenza operativa di M.A.P.L.E.” sussurra, facendo scivolare la mano sugli arnesi da cucina che lo hanno seguito anche in quel mondo artificiale. “E non ce l’avrei mai fatta senza di te, Naminé”.
“Hai uno strano concetto del ce l’avrei fatta, Kai. Molte persone che conoscono stenterebbero a definire la tua situazione un … successo”.
Ha una voce bassa, delicata. A tratti sembra l’ambiente la ripeta come un’eco, un suono che gli arriva fin nella mente. Le sue mani si muovono in maniera automatica, eppure non le ha mai visto un disegno uguale ad un altro; se potesse, gli piacerebbe conoscerne il programmatore.
“Ho solo portato a termine un obiettivo” risponde.
“Un obiettivo deciso da te, Kai?”
“Assolutamente”.
Sono parole strane.
Uno scambio di battute ed una curiosità inusuali per quella bambina.
Si accorge che anche in quella stanza virtuale le mani iniziano a sudargli e d’istinto se le asciuga lungo il grembiule. “Fermare mio padre Gashu e l’intero sistema del Death Game è la mia priorità”.
Lei lo invita ad avvicinarsi, e Kai sa di non potersi sottrarre. Quando le viene accanto segue il percorso delle sue dita sottili, e gli occhi gli cadono sulla nuova immagine appena comparsa. Abbozzata tra i pastelli bianchi, rosa e azzurri, sulla carta fa capolino proprio l’immagine stilizzata della stessa Naminé: alla sua destra ed alla sua sinistra spuntano le sagome di due ragazzi dai colori vivaci, uno dai capelli chiari ed uno dai capelli castani a punta. Sul momento gli sfuggono i nomi, ma è convinto di averli già visti più di una volta nelle simulazioni del Grillario, due figure ricorrenti in quell’universo racchiuso tra le pagine di quel diario.
Si rende conto che è la prima volta in cui Naminé rappresenta se stessa sulla carta.
“Oh, no. Questa è la vera Naminé”.
A quelle parole Kai ha un sussulto, come se quello strano programma dagli occhi azzurri gli avesse appena letto nella mente.
“Sono stata realizzata a sua immagine e somiglianza. Il mio creatore voleva darmi un aspetto familiare, e dunque ha scelto lei come modello per il mio frame visivo. Suppongo mi abbia dotata di un sistema vocale e di pattern di approccio alle difficoltà molto simili ai suoi, e quindi per molto tempo mi sono considerata soltanto come una sua versione digitale. Ma una AI non è mai uguale al proprio originale. Non è migliore, ma nemmeno peggiore. È semplicemente diversa, proprio perché non è limitata dai problemi del mondo reale. Io sono diversa dalla vera Naminé …”
Con delicatezza la gomma sfrigola sul foglio, e dell’immagine della bambina dal vestito bianco non rimane che un segno abbozzato tra le figure dei due ragazzi. “… ma si può dire la stessa cosa di te?”
Kai sospira.
Con un gesto quasi primordiale estrae la sua padella preferita e la osserva.
La pulisce con così tanta precisione che sa di potercisi specchiare sul fondo, se c’è abbastanza luce.
L’utensile gli riflette la sua faccia stanca, sfibrata, carica di una mole di dati che nel mondo degli umani sarebbe paragonabile ad una cascata di pensieri in continuo movimento. Nel mondo digitale del Grillario il tempo non ha alcun senso, ma sarebbe pronto a scommettere che sono passati oltre tre giorni standard dal momento in cui ha iniziato ad elaborare i dati degli ultimi eventi vissuti; ed ha girato lì, in quell’universo pieno di simulazioni, senza sapere chi o cosa stesse effettivamente cercando.
Una soluzione, forse.
O un nuovo concetto di esistenza.
Il vero Kai ormai giace da qualche parte, forse in una discarica abusiva, con i polsi tagliati. Ha scelto di entrare di persona nel Death Game una volta che i suoi piani di sabotaggio della Asunaro sono stati scoperti da Ranger, ma il Gioco ha avuto delle regole che la sua matrice e creatore non è riuscito ad oltrepassare.
Lui è soltanto la sua AI, per di più realizzata con mezzi di fortuna.
Ma, a conti fatti, potrebbe mai essere qualcosa di diverso? “Ha poi davvero importanza, Naminé?”
“Se non la avesse, non saresti qui. Ti saresti lasciato cancellare della prima attivazione di M.A.P.L.E., proprio come il tuo creatore si è lasciato morire durante il primo Main Game” mormora, lanciandogli uno strano sorriso “E invece hai preferito venire da me. Hai preferito cercare un senso alla tua esistenza, anche se artificiale”.
“Potresti aiutarmi a trovarlo?”
“Penso proprio di sì”.
Con un sospiro ripone la padella insieme agli altri utensili, afferrando nella mente tutti i dati degli eventi passati negli ultimi giorni. Una mole impressionante di storie, persone, AI rinchiuse in delle simulazioni e creatori capricciosi. Tutto ciò che Kai ha provato dentro di sé, la paura di perdere Sara, molte cose che ha caricato dentro la sua esistenza informatica ed a cui ancora non riesce a dare un posto vero e proprio. Ricorda i visi di Miley, Safalin e Ranger, e l’espressione indecifrabile di Gashu.
Dati dentro un’esistenza di dati.
Il vero Kai lo avrebbe trovato affascinante.
Lui, invece …
Un’altra delle capsule, identica a quella di Naminé, si schiude. Kai vi guarda all’interno, ma vede soltanto del leggero vapore biancastro spandersi tra i petali della capsula ed un interno blu di cui non riesce a definire le forme. Vi si avvicina, incredulo, e capisce che forse il suo viaggio lontano dal mondo reale è appena cominciato.
Fa per appoggiarvi all’interno i suoi arnesi da cucina prima di entrare in quella capsula, ma qualcosa lo ferma.
Perché le AI non sono come i loro originali, così ha detto Data Naminé.
E in fondo lo diceva anche il suo creatore, contro tutti i dettami della Asunaro.
Dal bordo dell’altra capsula, con le gambe ancora nel vuoto, la bambina da cui tutto è iniziato e si è concluso gli lancia un ultimo saluto.
Kai scrolla le spalle, ma prima che i petali si chiudano intorno a lui prende la pentola, il mestolo, i coltelli e li spinge fuori di lì.
Sarà un viaggio, ma il viaggio di una AI.
Una AI che, a differenza degli umani, può abbracciare un universo infinito di possibilità.
“Grazie, Naminé”.

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