Angels - The way of evil

di L_White_S
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 0 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 0.1 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 0.2 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 0.3 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 0.4 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 0.5 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 0.6 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 0.7 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 0.8 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 0.9 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 1.0 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 1.1 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 1.2 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 1.3 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 1.4 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 1.5 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 1.6 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 1.7 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 1.8 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 1.9 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 2.0 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 2.1 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 2.2 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 2.3 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 2.4 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 2.5 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 2.6 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 2.7 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 2.8 ***
Capitolo 31: *** Capitolo 2.9 ***
Capitolo 32: *** Capitolo 3.0 ***
Capitolo 33: *** Capitolo 3.1 ***
Capitolo 34: *** Capitolo 3.2 ***
Capitolo 35: *** Capitolo 3.3 ***
Capitolo 36: *** Capitolo 3.4 ***
Capitolo 37: *** Capitolo 3.5 ***
Capitolo 38: *** Capitolo 3.6 ***
Capitolo 39: *** Capitolo 3.7 ***
Capitolo 40: *** Capitolo 3.8 ***
Capitolo 41: *** Capitolo 3.9 ***
Capitolo 42: *** Capitolo 4.0 ***
Capitolo 43: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


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BIBLIOTECA DI ALESSANDRIA - EGITTO


« Come ti è venuto in mente di venire qui? ».
   Sorprendentemente la bionda si volse: non si sarebbe mai aspettata una domanda del genere dal suo ragazzo, anche se oramai doveva, non era più brillo da un pezzo e apparte un po’ di maleducazione non era stupido.
   Era molto sveglio.
   Quell’enigma aveva anche risvegliato il vecchio amore.
   Ecco spiegato perché i due ora si guardavano in modo malizioso. Sembrava che i loro problemi fossero improvvisamenti svaniti nel nulla.
   « Ho sempre voluto visitarla, poi mi son detta: se cerchiamo un simbolo apparentemente scomparso, in un manoscritto antico, il più antico esistente, se c’è deve essere ad Alessandria. Ecco spiegato l’arcano. Ti dispiace? ».
   « No, affatto. Era tanto che non ti vedevo così felice. Vieni, fatti abbracciare », la chiamò a sé Hasan.
   Scordato il passato, pieno di sofferenze e alcool, la giovane coppia si strinse come mai prima d’ora sfoggiando l’amore finalmente ritrovato d’innanzi ai pochi presenti.
   Dopo un dolcissimo bacio appassionato i due si presero finalmente per mano incamminandosi verso l’elegante scala; lessero in pochi secondi le indicazioni e optarono, senza pensarci troppo, i piani inferiori.
   Quelli antichi.
   La tromba, vuota, rimbombava dei loro passi e quando raggiunsero il primo pianerottolo, sostarono qualche secondo.
   « Medioevo ».
   « Già », rispose prontamente Hasan.
   Entrambi sapevano però che dovevano scendere più in basso, scavare di più nella storia per giungere a una risposta.
   Scesero di altri due piani seguendo la direzione per “storia e religione antica”, finché non giunsero al terzo piano interrato.
   Volevano scendere oltre ma una lussuosa corda appesa alle due ringhiere bloccava il passaggio.
   « Non è il caso », disse il musulmano fermando l’amata.
   C’erano telecamere dappertutto e sarebbe stato molto, molto sconveniente commettere passi falsi.
   Decisero quindi di fermarsi.
   Seguirono l’alfabeto finché ognuno non si fermò alle rispettive lettere: a Samia toccò la B, ad Hasan la C.
   Divisi da circa quindici metri di distanza gli armadi maestosi contenevano migliaia di libri; era come trovarsi d’innanzi a un vocabolario gigante ed era una sensazione a dir poco magnifica.
   In quelle pagine centinaia d’anni di storia erano raccontati per filo e per segno.
   « Bi,bi,bi… Bibbia! Trovata! Hasan non è l’originale e sembra fotocopiata; le do un’occhiata, tu che hai trovato? ».
   Senza rendersene conto la bionda iniziò a urlare per il lunghissimo corridoio; incurante delle telecamere che silenziosamente la spiavano.
   Hasan invece era preso nel leggere il Corano, scovato da un pezzo…
   Il simbolo di Ice infestava come una maledizione le pagine del libro di Allah senza alcuna logica.
   Continuò notando la familiarità con il testo sacro e la normale consuetudine di quell’emblema.
   Poi, circa a metà manoscritto, scovò qualcosa di anormale: le lettere stampate erano state tagliate perfettamente a metà e riuscire a decifrarle sarebbe stato difficile se non impossibile.
   « Hasan vieni qui presto! ».
   In un baleno il ragazzo la raggiunse portandosi il Corano stretto tra le mani.
   La Bionda spiegò le sue paure…
   Vi era un punto della Bibbia sconosciuto, mai sentito, e a dirla tutta anche spaventoso.
   « Nell’Antico Testamento, come in quello nuovo, non si parla quasi mai dell’inferno tranne che in un paio di rarissime citazioni, ma qui… c’è molto di più! ».
   « Cosa hai trovato esattamente? », chiese confuso il musulmano.
   Samia iniziò a leggere cercando di interpretare meglio che poté il latino antico, anche se fortunatamente vi erano dei commenti molto più moderni in basso.
   La bionda non aveva mai capito esattamente il Cristianesimo con la sua ferrea convinzione che vi fossero paradiso, purgatorio e inferno…
   Non esistevano testi scritti a riguardo!
   E allora lì sopra?
   Forse stava capendo e sentendo la paura dei chierici sulla sua pelle…
   « Nella Bibbia sono famosi i paragrafi riguardanti l’Abyssos, "prigione dei demoni e degli angeli ribelli in punizione" dei passi di Luca e Apocalisse, e della Sheol o della Geena ».
   « Uno è il luogo intermedio di soggiorno dell'anima sino alla resurrezione finale… quello che forse è inteso come purgatorio ».
   « E l’altro invece rappresenta un luogo a sud di Gerusalemme dove erano eseguiti sacrifici di bambini tramite roghi e che valeva come luogo di giudizio divino ».
   « Forse l’inferno ».
   Samia scosse la testa. « Ehi ma tu che ne sai? ».
   « Sono un credente, o almeno lo ero. Mi ha sempre affascinato lo studio della Bibbia. Qualcosa so anch’io bellezza ».
   Samia sorrise; lo amava ancora, poi continuò: « Quando Gesù parla della Geena, non si riferisce al luogo geografico ma a quello che esso rappresenta, cioè il luogo della punizione », disse la bella muovendo l’indice per non perdere il segno.
   « Quindi nelle Sacre Scritture l’inferno è rappresentato solo sotto aspetti simbolici? E allora perché a scuola ci dicevano che con atti maligni andavamo all’inferno? ».
   « Non lo so. Alla fine sono tutte metafore; ma se ci pensi la Geena è veramente un luogo in cui si soffre. La storia lo narra. Comunque, nella Sua Parola ci trasmette quali sono gli effetti che questi elementi hanno sulla persona e sono conseguenze che causano dolore e sofferenze... ».
   « E allora? ».
   « E allora nessuno fino ad oggi ha mai dato peso a un testo pieno di allegorie come la Bibbia, nonostante quello fosse REALMENTE un luogo di dolore; in queste pagine però non c’è nulla di simbolico! Non c’è spazio per interpretazioni Hasan! ».
   Samia aveva paura. Per la prima volta in vita sua l’aveva veramente.
   Erano in molti che parlottavano sulle visioni demoniache, su lucifero, l’inferno e tutto il resto ma nessuno ne aveva mai avuto una certezza materiale.
   Questo fino al momento in cui non lesse quelle pagine…
   Quando il volere di Jahve si fece carne, la terra fu squarciata, così come l’agnello offerto in sacrificio. Quando l’angelo più bello, fatto a immagine e somiglianza della Madre fu chiamato, il regno dei cieli fu come scosso, da un terremoto di immane violenza. Fu l’apocalisse.
  Sfoderate le nove lame sacre, i guardiani dell’Eden, esercito del Santissimo, accerchiarono la loro sorella, la più splendente, poiché quello era il volere di Dio. Con un impeto e un fulmine l’erba verdeggiante del paradiso fu aperta sotto le gesta del Signore e un buco, nero come l’Abyssos, diede vita a un vortice di proporzioni e violenza titaniche. Luci il cherubino prediletto fu maledetto:
   Gli uomini ti temeranno,
      nessuno guardarti potrà più con occhi adoranti,
   e subirai le ire dei tuoi fratelli,
      chi ti amerà, ti seguirà
   e formerete così il luogo di sofferenza.
   L’inferno.
   Il tuo nome verrà disprezzato
      e sarai schiacciata come un serpente,
   Lucifero.
Il soffio di Dio fu tale che le ali bianche e splendenti dei nove furono spiegate; lo spirito purificatore di Jahve scelse i suoi degni e scartò i non degni. Luci, la portatrice di luce, perse la lucentezza, precipitando nel baratro dell’Abyssos. Fu seguita da quattro suoi prediletti finché il buco creatosi con la terra, si chiuse con il gesto di Dio.
   Ora erano in cinque e l’amore del Signore tornò splendente nell’eden”.
   Samia continuò a leggere cercando di interpretare al meglio la cacciata di Lucifero, rivelatasi molto più che una semplice descrizione della caduta del re di Babilonia verso la Sheol.
   Vi era realmente quindi, un angelo sulla terra? O nell’inferno?
   E la Bibbia parlava solo per metafore?
   Quel testo allora come l’avrebbero dovuto catalogare?
   Non si parlava del re di Babilonia ma di un angelo caduto!
   « A quanto pare la chiesa reputa sconveniente ufficializzare l’esistenza del diavolo, non è vero Hasan? ».
   Annuendo il giovane si sentì in conflitto, uno strano senso s’impadronì di lui, tanto che continuò a leggere la descrizione a fondo pagina anche senza l’aiuto di Samia; ciò che ne derivò però lo spaventò a morte.
   « Sconveniente non è la cacciata di Lucifero ma ciò che ne derivò in seguito, credo sia per questo motivo che è tenuto tutto all’oscuro, leggi… ».
   « Fermi! », una decina di uomini armati ruppero il religioso silenzio della biblioteca tenendo puntati i mirini delle loro desert eagle.
   Le telecamere avevano svolto bene il lavoro, era necessario tenere d’occhio i curiosi e poiché quella era una biblioteca, non sarebbe stato giusto nascondere due dei libri sacri più antichi, tanto chiunque avrebbe scoperto il segreto avrebbe fatto la stessa fine.
   Un omuncolo bassetto, grasso e calvo, si fece strada tra gli uomini armati: era il direttore. « Mettete le copie ai rispettivi posti, vi prego…».
   « Avete in mano La Verità e la celate in questa maniera? Avete letto? In quest’altra pagina vi è scritto che…».
   Con un lampo silenzioso il primo della fila colpì in pieno petto Hasan che cadendo a peso morto, già diretto al creatore, rimbombò nel lunghissimo corridoio del terzo seminterrato.
   Il proiettile aveva letteralmente bucato il petto e il cuore uscendo dalla parte opposta: in terra un bagno di sangue aveva già macchiato il pavimento e la bionda, tremante, si sentì le suole delle Lamberjack bagnate…
   Non riusciva a crederci.
   Il bassoccio e goffo direttore si massaggiò il collo cercando di allentare la morsa della cravatta; poi fu agguantato dallo stesso uomo che aveva spezzato la vita a Hasan.
   « Vi ho detto di far sparire quella Bibbia e voi continuate a tenerle in bella mostra? ».
   « È stato solo un caso, ve lo posso assicurare, nessuno è mai sceso quaggiù per leggere la Bibbia! ».
   « Comunque sia », un ennesimo colpo in direzione di Samia fu scagliato da quell’arma silenziosa uccidendola così, a sangue freddo, senza permettergli nemmeno di urlare; le fotocopie caddero in terra bagnandosi nel lago di sangue assieme a quelle del Corano.
   I due corpi, uniti, giacevano nel bel mezzo della biblioteca.
   « Il Vaticano non la uccide perché sappiamo bene che s’innalzerebbe un polverone. E non vogliamo che qualcuno faccia la spia giusto? Ve lo ripeto, non possiamo togliere di mezzo ogni povero innocente che capita qua sotto. Abbiate il buon senso di nascondere quelle blasfemie ».

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Capitolo 2
*** Capitolo 0 ***


CAPITOLO  0





1942
   



Oggi, dopo un viaggio di quindici giorni, sono giunto a destinazione. 
   Il mio nome è David e se mai qualcuno leggerà questo diario, vorrà dire che sono morto.
   Ci avevano detto che avremmo trovato riparo, una casa, un lavoro; dopo un solo giorno posso scrivere con convinzione, fermezza ed odio, che ci hanno mentito…
   Poche ore fa ho perso la mia famiglia e la brutalità del loro addio mi perseguiterà per tutto il resto della mia sfortunata vita.
   Eravamo saliti in duemila, forse, su un treno merci diretto in Polonia, con la stupida convinzione, inculcataci da quel regista di cui non ricordo il nome, di trovare una patria, una casa, un habitat… sì, perché agli occhi di quegli uomini forse siamo solo animali.
   In due settimane, da poco meno di duemila ci ritrovammo in poco più di mille. Il viaggio senza sosta era interminabile, il nostro calvario. Il vagone era stracolmo di gente, così pieno che solo dopo qualche decesso fu possibile muoversi, ma ovunque camminavo, calpestavo qualcuno, delle volte i vivi, il più delle volte i morti. Non si mangiava, non si beveva, il bagno era un angolo del vagone dove tutti, uomini, donne e bambini superavano la loro vergogna snudandosi e cercando, per quanto possibile, di venire incontro ai propri bisogni… ma già dopo quattro giorni, la puzza, gli escrementi e persino i vecchi, erano sparsi ovunque.
   Faceva freddo, e anche se la vecchia valigia di papà trasportava i nostri vestiti più caldi, se mai l’avessimo aperta, saremmo stati attaccati da un branco di bestie assatanate in cerca di calore…
   Ma non siamo animali.
   Quando chiudo gli occhi, qui nella mia nuova casa, fatta di legno e di fango, proprio ora, mentre scrivo, mi sembra di vivere la morte di mia sorella, di mia madre e mia nonna… tutti qui hanno perso i loro cari e presto li raggiungeremo anche noi.
   Non so che giorno sia ma stamane, quando il sole era già alto nel cielo, ho potuto avvertire che era mezzogiorno o giù di li… finalmente eravamo arrivati… ma a pensarci bene, sarebbe stato molto meglio non arrivare; sceso dal convoglio ho visto più di cinquecento persone di fianco a me, decine di soldati ci hanno aiutato a lasciare quell’insulso treno poggiandoci delle passerelle in legno, sembravano educati, ma stavano solo velocizzando lo scarico delle merci.
   Un uomo, forse il comandante, disse qualcosa a tre dei suoi: la lunghissima fila di passeggeri fu divisa in due tronconi, gli uomini da una parte, le donne e i bambini dall’altra. Ricordo che mamma, spaventata, mi prese la mano fin quasi a stritolarmela, non voleva lasciarmi, ma quando l’uomo con il fucile puntato si avvicinò, fu colta dal panico e capì che quella sarebbe stata l’ultima volta che mi avrebbe visto.
   Nonostante non fossi adulto, stranamente, quel dottore iniziò a dividerci per l’ennesima volta, classificandomi come idoneo… idoneo per cosa? Nessuno a quanto sembra lo sa. 
   Il campo sterminato si stagliava d’innanzi a noi e le altissime recinzioni sembravano muri invalicabili; non potevamo scappare da nessuna parte. Quando la visita terminò, le donne furono condotte in un lato del campo opposto al nostro, accompagnate verso un casolare più giù di dove stavamo noi. Mio padre aveva paura, lui che non mi ha mai mostrato timore, lui che per me era sempre stato un idolo, ora piangeva, piangeva come la mamma. I nostri bagagli furono scaricati da altri uomini, erano visibilmente scossi, esausti, impauriti e nessuno di loro osava aprire bocca. Portavano un leggerissimo pigiama a righe nere con impressi sopra dei numeri… presero le nostre cose e dopo qualche minuto le portarono tutte via.
   Alcuni anziani, insieme a uomini di età più avanzata, furono scartati nuovamente, gli era stato detto che avrebbero dovuto fare la doccia, in realtà serviva a tutti un bel bagno, accompagnato magari da un bel pasto caldo, ma solo ora mi rendo conto, che di doccia non si trattava minimamente.
   Fummo portati in un edificio basso, squadrato, in cui alcuni bagni la facevano da padrone, il resto era una sala d’attesa, come quelle che si vedono nelle cliniche, noi eravamo in fila, come per prendere il pane al mercato, e aspettavamo il nostro turno: arrivato il mio fui costretto a consegnare abiti, biancheria, la collanina regalatami da mia sorella e i documenti d’identità. 
   Ancora troppo piccolo però saltai la procedura, lasciando indietro mio padre.
   Mi era stato vicino per tutto il tempo e ora, giunti al barbiere, quei dieci metri che ci separavano, affollati, si trasformarono in chilometri; io non avevo ancora né peli, né barba, quindi saltai anche quest’ultima e fui direttamente rasato a zero. Il freddo era così rigido che da quel momento, le orecchie si trasformarono in pezzi di ghiaccio… non ho la forza di toccarle o massaggiarle… ho freddo.
   Mi fu dato un foglio da compilare con il nome e i vari dati personali; mi vestii con quel leggerissimo pigiama a righe e fui marchiato, numerato…
   1312467228, ora questo è il mio nome nel campo.
   Ne avevo uno cucito sulla gamba destra dei pantaloni, uno sul lato sinistro della casacca all’altezza del torace, ed uno tatuato sull’avambraccio. Non ho mai amato l’inchiostro che già a scuola i miei compagni mi spargevano sulla pelle per dispetto, e ora che non posso lavarmelo via, ho voglia di staccarmi l’intero braccio. Li odio, li odio a morte.
   L’immenso Auschwitz, come lo chiamano qui, è diviso in vari settori, io qui credo di esser capitato con dei tedeschi e non capisco nulla di ciò che dicono, ma quella scritta, Arbeit Mach Frei, l’avevo sentita nominare da quel regista, il lavoro rende liberi, ma nessuno, compreso il sottoscritto, dopo averla letta, ne aveva dato importanza…ora… ora so cosa significa.
   Terminate le pratiche fummo scortati al centro del campo, dove già centinaia di persone si spaccavano la schiena scavando, scavando e scavando, erano zuppi di fango e urina, l’acqua piovana aveva impregnato ancor di più le fosse dove in condizioni disumane si lavorava senza sosta per quasi tutta la durata del giorno…
   Mi hanno detto che oggi ho passato la giornata più leggera della mia prigionia, solo sei ore ho trascorso con la pala in mano, ma domani sarà peggio… lo so.
   Proprio ora mi è giunta voce che forse mia madre, mia nonna e mia sorella sono morte, la mia speranza adesso è solo quella di rivedere mio papà, magari domani, tra il fango… sarebbe bellissimo…
   In ogni caso, mi chiedo a cosa possa servire un buco profondo più di trecento metri… forse per i cadaveri? Se è così, spero di entrarci presto… nel frattempo prego Dio, sperando che allevi il mio, come il dolore dei miei compagni di baracca, spalancandoci il prima possibile le porte del paradiso…

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Capitolo 3
*** Capitolo 0.1 ***


CAPITOLO  0.1





ORE  04.00
   



   Il buio invadeva la vista del giovane che, nel freddo, non riusciva a capire dove si trovasse.
   Provò a muoversi, ma capì subito di aver perso la completa sensibilità del corpo, trovandosi in uno stato di semicoscienza. 
   I suoni che lo circondavano erano molti, ma arrivavano al suo orecchio uno per volta, quasi fosse lui a sceglierli; il sangue correva inesorabile nelle sue vene e, anch’esso, era percepito senza alcuna difficoltà rimbombando nella sua testa: l’effetto rassomigliava a quello di una lavatrice nel pieno di una centrifuga.
   Il cuore, quasi impaurito, batteva, batteva e risuonava nel petto; a ogni colpo ricevuto, un sussulto, era così forte che il suo più grande desiderio fu di fermarlo, non resisteva a quel dolore immenso.
   Sotto gli occhi attenti degli scienziati e dei militari fu svegliato da un formicolio che lo portò a un movimento senza controllo, quello fu il primo…
   Il secondo.
   Il terzo.
   Lo colpivano in maniera del tutto casuale in punti indistinti del corpo: tic nervosi attivarono velocemente i suoi muscoli, come fossero stati spenti da tempo; era impaurito.
   Lentamente la temperatura nell’incubatrice salì… 
   All’inizio in modo impercettibile, poi sempre più velocemente.
   Il giovane percepì distintamente il graduale cambiamento mentre gli scienziati iniziarono a monitorare il suo stato psicofisico.
   Il calore lo stava riaccendendo e finalmente, era di nuovo padrone dei suoi arti.
   Il primo istinto fu di portare una gamba avanti, seguita dal braccio destro, ma si rese conto dell’impresa titanica cui stava andando incontro.
   Solo le dita erano libere…
   Persino la testa era bloccata.
   Fu una voce femminile, lontanissima, che lo distolse dalle centinaia di domande che iniziarono a invaderlo…
   Poi ne sentì un’altra… 
   Percepiva qualcosa… qualcosa che con molta probabilità non avrebbe dovuto sentire.
   Il capo della ricerca interruppe il silenzio religioso del comandante che attento, studiava il giovane.
   « Signore, i suoi dati vitali si stanno riprendendo, è cosciente ». 
   Detto ciò, in fretta e furia raggiunse uno dei monitor centrali della stanza e digitando velocemente sulla tastiera, si rese conto che l’attività del soggetto, oltre la norma, riusciva inspiegabilmente a causare interferenze nei computer; nel frattempo la temperatura continuava ad aumentare a dismisura e immobile, il povero ragazzo faticava, come stesse correndo una maratona.
   Come se stesse tornando dall’aldilà…
   Preso dalle numerose informazioni rivelategli dai collaboratori, indaffarati davanti ai computer, un membro dello staff iniziò ad alzare la voce impaurito per ciò che stava avvenendo.
   « Temperatura corporea a 40 gradi centigradi signore, e sale ogni secondo di più… 50 gradi, 55 gradi… ».
   Preso dal panico, il comandante non ci pensò due volte, conosceva il protocollo di sicurezza e così rispose deciso, senza mostrare il timore che lo stava assalendo. 
   « Riaddormentate il soggetto ».
   Sapeva bene che, qualora si fosse liberato, avrebbe fallito la missione che con tanto sudore era riuscito ad ottenere; cinque anni prima…
   In quel momento, prendendo tutti alla sprovvista, il ragazzo spalancò le palpebre riuscendo, per quanto possibile, a mettere a fuoco ciò che lo circondava…
   I soldati imbracciarono i fucili puntandoglieli contro, gli scienziati si bloccarono tutti istantaneamente e il generale, silenzioso, deglutì.
   « Calma signori ».
   I suoi occhi, più azzurri dell’oceano, erano in completo contrasto con il liquido della cella e il fascino che emanavano, non aveva eguali.
   Nonostante avesse il corpo completamente bloccato le pupille, però, erano libere.
   Strano, pensò. Quelli avevano tutta l’aria di non lasciar niente al caso.
   Fu allora che notò decine e decine di bolle d’aria passare a pochi centimetri dal suo viso e più in là, tagliare uno strano liquido azzurro. 
   Ruotando gli occhi il più possibile riuscì a scrutare meglio: era in un involucro di forma cilindrica ricoperto da vetri spessi almeno quindici centimetri, incatenato da blocchi di metallo in grado di sorreggere ogni parte del corpo, rilassandogli tutti i muscoli; uno avvolgeva il collo, uno il petto, altri le braccia. 
   Si rese finalmente conto di non essere disteso, ma in piedi…
   Stava letteralmente fluttuando.
   Lo strano liquido azzurro gli impediva una vista nitida ma distingueva bene la realtà, mentre tutti i presenti, spaventati, erano ancora immobili.
   « Ha aperto gli occhi signore », disse una ragazza seduta in disparte davanti ad un monitor. 
   Amava quella voce... Ma di chi era? 
   Il generale, a quella semplice constatazione, fu preso dal panico; come se si fosse improvvisamente risvegliato.
   Erano passati secoli da quando quel sentimento si era impossessato del suo corpo.
   Cazzo aveva paura o cosa? 
   « Lo vedo signorina si sbrighi, cerchi di addormentarlo e subito! ».
   La cavia percepì immediatamente l’angoscia che in quell’uomo saliva di secondo in secondo, risvegliando in lui domande quanto mai banali…
   Perché avevano paura di lui?
   Iniziò quindi a provare uno strano senso di disgusto nei propri confronti. 
   Improvvisamente il freddo iniziò a subentrare nuovamente: gli scienziati si stavano dando da fare per riaddormentarlo.
   Velocemente perse il controllo delle gambe, delle braccia, i tic nervosi riaffiorarono ma, quasi estasiato e bisognoso di quel calore, decise di ribellarsi.
   Tentando di resistere al gelo che lo avrebbe quasi sicuramente paralizzato ancora, iniziò a muovere forsennatamente le dita di entrambe le mani, cercando di mantenere la circolazione attiva; quella era l’unica maniera per resistere.
   L’unica idea sensata che gli balenò.
   Un improvviso allarme perforò i finissimi timpani provocandogli dolore, lo scienziato a capo dell’operazione corse per le piccole scale, raggiunse il generale al piano poco più in basso e affiancandolo lo prese per un braccio stringendo la morsa.
   Una vera e propria catastrofe stava per verificarsi.
   « Signore, un picco di pressione… si sta svegliando! ».
   Il generale, ritrovato il feeling con l’adrenalina, alzò quindi la voce, tanto da rendere il frastornante suono dell’allarme quasi una leggera canzoncina di sottofondo: « Puntate al petto e agli occhi, non dobbiamo permettergli di scappare! Sparate se necessario ».
   In quel preciso momento una ventina di figure si unirono in una sinuosa danza, circondarono l’incubatrice, tolsero le sicure ai fucili e all’unisono sfiorarono i grilletti delle armi, pronti.
   Decine di laser rossi partivano da quelle armi di precisione mirando principalmente agli occhi che ben presto, iniziarono a bruciargli…
   Il liquido, che velocemente raggiungeva lo zero kelvin, oramai non faceva più effetto.
   Un militare, forse il capo, si voltò di scatto non appena vide un piccolo sorriso sulle labbra della cavia e urlando per chiedere istruzioni, notò che il giovane aveva appena chiuso gli occhi per soffocare il bruciore…
   Era l’apocalisse. 
   Cazzo!
   Il generale, di certo non l’ultimo arrivato, comprese che quello sarebbe stato l’inizio della fine e finalmente diede l’ordine che tutti, scienziati compresi, attendevano.
   « Fuoco! ».
   Il ragazzo continuò a mantenere le palpebre chiuse, ignaro del pericolo.
   Nel caos generale, figlio di quei maledetti fucili, il giovane sembrò dormire beatamente... 
   Poi spalancò le palpebre ancora una volta, mostrando le due iridi luminescenti, favolose.
   Aveva gli occhi accesi come lampade al neon.
   Avvenne qualcosa.
   « Signore! », urlò qualcuno.
   I proiettili frantumarono il vetro spesso quindici centimetri andando a scontrarsi contro una lastra di ghiaccio spessa e gelida.
   Le schegge esplosero in milioni di frammenti che si sparsero per tutta la stanza.
   Ma com’era possibile? Il liquido speciale era oramai allo zero kelvin, non avrebbe mai potuto congelarsi, chi era stato quindi?
   La cavia.
   Centinaia di proiettili iniziarono a scagliarsi contro la parete ghiacciata: alcuni rimbalzavano, altri si conficcavano in profondità.
   Immerso e congelato in un ammasso gelido, il giovane non tentò nemmeno di socchiudere le palpebre per scappare al violento rimbombare di quelle armi…
   Era inattaccabile e col suo sguardo minaccioso guardava le punte incandescenti dei proiettili con superiorità.
   I militari, messi in difficoltà, capirono che le cariche dei fucili non sarebbero mai bastate, ma nonostante ciò, il generale li esortò a continuare.
   Tra il baccano generale il ragazzo percepì qualcosa di diverso intorno a lui, ma non erano le armi… il ghiaccio stava cedendo.
   I soldati lo notarono subito.    
   « Ci siamo! ».
   Alla destra del prigioniero uno spacco iniziò ad aprirsi la strada correndo verso la parte opposta, un altro dall’alto si gettò verso i suoi piedi, un altro raggiunse perpendicolarmente il suo naso dividendo da parte a parte la lastra.
   Ci furono diversi secondi di silenzio dopo che tutti ebbero finito le cariche finché, a un tratto, il ghiaccio collassò lasciandolo senza difese. 
   Cadde scrosciando in terra tra infinite schegge; ormai inerme e senza possibilità di salvezza si accasciò in avanti.
   I sostegni cedettero inspiegabilmente all’istante e i cavi, collegati al petto e alla schiena, si staccarono immediatamente portandosi via lembi di carne.
   Il pavimento divenne rosso: il colore del sangue…
   A peso morto il corpo nudo si unì al linoleum, ora ricoperto di vetri, aggiungendo ferite su ferite.
   Sorpresi, i presenti si voltarono tutti verso il loro capo che immobile assisteva alla caduta del suo più grande nemico.
   Il generale rimase allibito: non era normale che quel ragazzo fosse caduto così rovinosamente in terra senza aver ricevuto alcun colpo mortale.
   Come richiamato, tremolante, il giovane alzò la testa e lo guardò.
   I loro sguardi s’incrociarono per un istante, poi il generale esortò i militari: « Puntate! ». Se la stava facendo sotto.
   Lo sfortunato ragazzo invece non distolse lo sguardo, incurante di ciò che gli fosse successo.
   Immediatamente una schiera di uomini ricoperti d’imbottiture, tasche e oggetti metallici, equipaggiamenti di ultima generazione, lo circondarono puntandogli contro ancora quei laser rossi; perfetti per non mancare il bersaglio.
   Solo una persona si tirava fuori da quella guerra.
   La ragazza, che pochi istanti prima aveva informato il generale, fu richiamata dal comandante: « Signorina come sta, perché è in terra? ». 
   La bellissima assistente non rispose.
   Pochi istanti dopo si allontanò senza problemi dalla scrivania grazie alle rotelle della sedia girevole, scese velocemente al piano sottostante e superò il generale senza degnarlo d’uno sguardo.
   La passerella non fu interrotta da nessuno.
   Superò prima un soldato, un altro e un altro ancora… muta, si avvicinò al ragazzo inerme ed in fin di vita.
   Un militare notò qualcosa di strano, ma non appena informò il suo superiore, in collera con la sua dipendente, fu licenziato immediatamente. 
   « Signorina Vengance che crede di fare torni indietro! ».
   Incurante degli ordini avvicinò il ragazzo tremante, i soldati abbassarono immediatamente i fucili, colpiti dalla scena toccante, mentre il generale impaurito e sorpreso continuava a riprendere la signorina e a maledirla.
   Quell’imprevisto non ci voleva proprio.
   « Angy! Angy Vengance sarò costretto a prendere seri provvedimenti nei suoi confronti! ».
   A pochi metri, finalmente il giovane la riconobbe e mise a fuoco, gli occhi non bruciavano più…
   Una vena di felicità colorò il suo viso, poi avvenne qualcos’altro: gli occhi azzurrissimi della ragazza divennero completamente rossi e stufa dell’incessante voce alle sue spalle, si voltò in collera rispondendo al suo superiore, « Lo faccia… è questo il mio obiettivo ».
   Le iridi erano infuocate come l’inferno.
   Il generale, oramai consapevole di aver perso il controllo della situazione, continuò a supplicare.
   La cavia mosse lo sguardo dal generale, spaventato a morte, agli occhi rossi scintillanti di Angy; fu quasi impossibile ignorare le lacrime che lentamente le solcavano gli zigomi.
   Non ricordava nulla, eppure notò una certa familiarità in quella figura. Poi aveva una voce soave…
   Senza indugiare i soldati ricevettero l’ordine dal loro superiore, posto ora al centro del semicerchio e puntarono nuovamente i fucili.
   Angy si chinò e presagli la mano scoppiò in lacrime. 
   Il giovane fu sopraffatto dalla purezza raggiante della ragazza.
   Gli occhi di lei, tornati alla normalità, ora erano profondissimi e le lacrime, gocce d’oceano senza eguali.
   Fu lei a interrompere l’estasi che stava prendendo il sopravvento, « Credo in te… so che non ricorderai molto dopo quello che ti hanno fatto…». 
   Il ragazzo, balbettando, provò a chiamarla per nome ma fu interrotto bruscamente, « Ho sperato… finalmente finirà tutto, grazie ».
   Le poche parole dette furono bisbigliate.
   Angy s’inginocchiò e, ignorando i militari esortati a sparare, parlò per l’ultima volta, « Amore ricordati di me, qualsiasi cosa accada… Cerca di ricordare chi sei e se perderai la strada…ti sarò sempre vicina. Credi in te stesso. Sempre ».
   Quelle parole, rapide e dirette, lo lasciarono senza fiato e con gli innumerevoli interrogativi che avevano inevitabilmente alzato. 
   La pompa nel petto incominciò a battere forte, sempre più forte… 
   Immaginava cosa fosse successo di lì a poco.
   Improvvisamente lei si avvicinò: i nasi si sfiorarono e velocemente, senza alcun preavviso, le loro labbra si unirono, fu un bacio dolce e leggero, perfetto per farlo abbandonare alla passione.
   Chiuse gli occhi dandosi completamente a lei e fu in quel preciso momento che un’energia spaventosa s’impossessò del suo corpo.
   La vista, che sin quel momento era rimasta sfocata, tornò alla normalità.
   Era nel pieno delle sue forze. 
   Stava succedendo qualcosa. 
   Una sua parte, forse lo spirito, stava finalmente riunendosi al proprio corpo… lo sentiva chiaramente.
   Anime gemelle incorniciate da un amore profondo.
   Ma chi era quella ragazza?
   Senza alcun preavviso, allontanandosi dalla sua bocca, Angy si alzò e lo guardò per l’ultima volta; poi si volse in direzione dei militari.
   Il ragazzo, tornato lucido, comprese cosa sarebbe avvenuto di lì a poco ma ancora immerso in uno stato di semicoscienza, non riuscì a insinuarsi nella scena.
   « Mi hai regalato la vita, se sono qui, è grazie a te, adesso sarò io a salvarti…».
   La cavia non fece in tempo a proferir verbo che centinaia di proiettili furono scaraventati contro di loro, sputati da quelle armi maledette. Il corpo di Angy iniziò a compiere movimenti surreali, come se stesse ricevendo una scarica elettrica sotto tortura. 
   Fu dopo qualche secondo che il ragazzo notò un particolare fantastico, quasi magico: i proiettili indirizzati verso di lui, invece di colpirlo, venivano frantumati a pochi centimetri dalla sua pelle!
   Non ci mise molto a capire di esser protetto da qualcosa di potente e invisibile.
   Quando la scarica finì, il corpo di Angy cadde in terra, proprio vicino a lui.
   Il ragazzo si fece spazio tra i vetri prima di raggiungerla con il suo sguardo. Si sentiva un leone ma in realtà strisciava come un verme.
   I loro occhi s’incrociarono per l’ultima volta, proprio mentre il giovane iniziò a percepire il cuore della sua amata rallentare.
   Era concentrato nel sentire quanti secondi le sarebbero rimasti, quando fu distratto dalla sua voce: « Ti amo, Ice ».
   Allungando il braccio verso di lui, tentò di raggiungerlo ma il suo corpo, esausto, cessò di vivere.
   Il giovane Ice – quello era il suo nome – allungò un braccio riuscendo ad afferrarla per mano, percependo il calore della vita che velocemente si spegneva; aveva ancora le labbra bagnate quando anch’egli cadde stramazzando al suolo, mentre i loro occhi, persi nel vuoto, continuarono a fissarsi.
   A specchiare un amore che oramai era spento proprio come i loro sguardi.
   Fu in quel momento che iniziò a ricordare…




   Alzando gli occhi al cielo, sotto la pioggia torrenziale, Ice voleva alleviare il suo dolore, liberarsi di ogni peccato commesso ma sapeva che quella notte, non sarebbe stato possibile; come tutte quelle passate in precedenza.
   Le gocce si scontravano sul suo viso scivolando velocemente e cadendo sui vestiti oramai fradici.
   Passo dopo passo, ignorò le tenebre e si addentrò nell’oscurità.
   Attraversò il cancello arrugginito ritrovandosi in un viale ricoperto di foglie secche e di fango, i piedi correvano ritti come i binari di un treno, l’andatura era lenta e cauta.
   E faceva bene a tenerla…
   Ai bordi del sentiero, alberi spogli erano piegati dalla maestosità del vento, le loro ombre giocavano con le sue paure più profonde mentre continuavano a ballare nella notte.
   Improvvisamente la pioggia aumentò d’intensità.
   Un lampo in lontananza accese la notte, permettendogli una vista ottimale.
   Centinaia di lapidi erano sparse disordinatamente nel terreno: alcune erano aperte, altre chiuse, alcune erano piano di piccoli vasi di fiori e altre di foglie secche trasportate dal vento e tutte, comunque, lo portarono a una semplice conclusione, era in un cimitero.
   In quell’istante però non notò solo il camposanto; qualcuno lo aspettava.
   Una figura indecifrabile si trovava a circa dieci metri da lui; velocemente un suono raggiunse le sue orecchie vibrandogli nei timpani.
   Un lampo, un tuono, un lampo ancora e ancora: il cielo si riempì di saette e le gocce d’acqua che cadevano dall’alto riflettevano la luce accecante dei fulmini.
   Una tempesta perfetta, impetuosa.
   Senza alcun preavviso un fulmine cadde a pochi metri dai due distogliendo lo sguardo di entrambi verso un albero che per poco non fu abbattuto.
   “Peccato, avrebbe aiutato un fuoco” pensò Ice; la luce dell’incendio, effettivamente, non lo avrebbe di certo intralciato. Era buio pesto cavolo!
   Non appena il giovane portò nuovamente lo sguardo sull’avversario, rimase folgorato: la malvagia figura non c’era già più.
   Impossibile!
   Ora era nervoso, nessuno poteva muoversi tanto velocemente e adesso che ci pensava bene, l’addestramento ricevuto non lo avrebbe aiutato in una situazione del genere.
   Quando un sudicio respiro, proveniente dalle spalle, lo colpì alla nuca.
   Un brivido lo percosse per tutto il corpo facendogli tremare ogni singolo muscolo.
   Forse però era solamente l’adrenalina.
   Non era umanamente possibile muoversi a quel modo, per quanto umani fossero i due avversari…
   A complicargli la vita si era aggiunta la pioggia che, aumentata improvvisamente d'intensità, scrosciava con violenza sul terreno oramai impregnato e ricoperto di fango. 
   Era tanto da ricoprire quasi del tutto i loro piedi. 
   Ice sapeva bene che in quelle condizioni sarebbe stato difficile, se non impossibile, muoversi per affrontare decentemente un combattimento, eppure ciò non lo impensieriva più di tanto… 
   Se la sarebbe cavata come sempre.
   Ciò che però lo tormentava era l’idea di fronteggiare un avversario molto più veloce di lui… era davvero straordinario.
   Quando i numerosi pensieri smisero di distrarlo, si voltò; il volto scuro del nemico a pochissimi centimetri dal suo.
   Il fetore era nauseabondo ma nonostante ciò, non lo riconobbe; era mimetizzato nell'oscurità.
   Non fece in tempo a girarsi del tutto che un pugno fu scagliato immediatamente contro il suo volto. 
   Riuscì a evitarlo scivolando in basso.
   Impuntò i piedi nel fango e subito rispose con un colpo secco allo stomaco.
   Il pugno fu potente, preciso, ma il mostro non si scompose. 
   Un ghigno uscì da quella bocca e Ice, accortosi di aver perso la mano tra i peli della bestia, comprese che in qualche modo le pelurie riuscivano a fornirgli una protezione.
   Velocemente, quasi spaventato, tirò indietro la mano ma fu in quell'istante che una potente presa lo afferrò per il collo alzandolo letteralmente da terra. 
   “Ma chi è?”, si chiese.
   L’istinto fu di portare le mani alla gola per opporre resistenza e non soffocare ma casualmente un lampo illuminò nuovamente la notte permettendogli finalmente di riuscire a vedere il suo avversario. 
   Era umano, nonostante avesse tratti derivanti dai canidi: folto pelo, zanne ed artigli che lentamente stringevano forte, sempre più forte, perforandogli il collo.
   Con una flebile voce, quasi a dimostrare la sua forza, Ice non si sottomise al dolore: « Sei un Livamp, credevo foste stati sterminati…».
   Ci fu un silenzio implacabile; i tuoni e lo scrosciare della pioggia divennero quasi un ricordo, solo il respiro dei due dominò la notte… poi le intemperie ripresero.
   « Io vi ho sterminati ! ».
   Intraprendente, Ice parve lanciare l’ennesima sfida al suo avversario benché, a quel punto, la morsa fosse tale da permettergli di percepire sia la rabbia che il dolore provati dal mostro.
   Si stava divertendo, amava, infatti, vedere i propri nemici perdere il controllo.
   Lentamente un sorriso compiaciuto colorò il suo volto, poi un colpo di vento scoprì il viso della bestia: una profonda cicatrice partiva dalla fronte per arrivare fino al mento, passando per l’occhio sinistro che, offeso, era impotente di fronte quel male.
   La cosa che più lo colpì, non fu l'entità della ferita ma il fatto che ad averla causata fosse stato proprio lui...

   Fu a quel punto che flashback ancor più remoti riaffiorarono nella sua mente.
   Tornando a un passato molto più lontano, svegliando in lui, il ricordo nel ricordo…

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Capitolo 4
*** Capitolo 0.2 ***


CAPITOLO  0.2





ORE  04.30
NEL LABORATORIO
   



   Circa dopo dieci minuti l’imprevisto accaduto, a dire il vero la catastrofe annunciata, tutto era tornato alla normalità: il laboratorio aveva ripreso il lavoro, i soldati, armati fino al collo, continuavano a sorvegliare Ice nella nuova cella acquatica, mentre gli scienziati si erano moltiplicati improvvisamente e ora erano divisi in due gruppi.
   Uno continuava a studiare il ragazzo, l’altro invece era impegnato a un nuovo progetto…
   In quel putiferio, sebbene il generale avesse perso il controllo della situazione, il suo occhio acuto aveva notato il cambiamento della sua segretaria e stranamente, non ne fu sorpreso.
   Aveva percepito perfettamente lo scambio di energia avvenuto tra i due ma a confermare le sue tesi, perché quella era solo una sensazione e nulla più, fu Angy quando esplose; tutti nel laboratorio potevano testimoniare: lo sguardo della bella si era incendiato, acceso come lampade al neon.
   Per quel motivo, ignorando il fattore immaginazione, aveva deciso di svegliare la restante squadra di scienziati a riposo.
   Ne aveva due a disposizione per la missione e ognuna operava sul povero ragazzo dodici ore di fila, ma dopo quel fatto, voleva tutti all’opera, voleva vederci chiaro. 
   Non lasciò la sala nemmeno alla squadra di pulizie e ora, immobile, fissava il ragazzo cercando di comprenderne i segreti.
   Poi uno scienziato si fece avanti…
   « Signore, abbiamo il risultato delle analisi svolte sul corpo della signorina Vengance; come ci aveva chiesto ».
   Il generale spazientito ribatté subito, « Ebbene? ».  
   Titubante, il camice bianco sembrò voler terminare all’istante il dialogo, il capo era davvero su di giri.
   « La pago fior di quattrini ogni minuto di servizio, mi dica che ha scoperto! », urlò irritato il superiore.
   Quasi crocifisso a quel rimprovero, senza nemmeno prender fiato, il collaboratore formulò la risposta calmandolo il necessario, « Potremmo avere a che fare con qualcosa di soprannaturale signore… Il corpo del soggetto risulta avere più di 500 anni, più o meno ».
   Il generale non si sorprese.
   Licenziò l’operatore con un cenno del braccio e lo rispedì ai monitor per lavorare.
   Non c’era tempo da perdere.
   Ice invece era intrappolato nuovamente in quella strana camera, sommerso nel liquido azzurro… 
   Stavolta però ben cosciente e sveglio.
   I muscoli erano nuovamente bloccati, così come le palpebre, serrande meccanizzate ai voleri di quegli animali.
   Laser di colore rosso passavano in rassegna da una pupilla all’altra, era circondato da decine di uomini con le armi puntate costantemente contro il suo viso mentre i camici bianchi, correvano su e giù come topi in gabbia.
   Dalla parte opposta della stanza, su un piano rialzato, Angy si trovava nella medesima cella, immersa però in un cubo ghiacciato: era ibernata.
   Ice provò a chiudere gli occhi ma una scarica elettrica fu iniettata nell’acqua e senza poter urlare, il povero ragazzo percepì un dolore innaturale… 
   Era come ricevere un martello pneumatico su ogni centimetro del corpo e come l’asfalto, si stava frantumando.
   Non aveva mai sofferto tanto e mai in maniera così singolare: fermo e silenzioso, una cavia da laboratorio sotto tortura. 
   Voleva urlare, lo avrebbe fatto all’infinito se la voce glielo avesse permesso.
   Non era il dolore il suo nemico, ma quella visione: vedere la sua amata ibernata era troppo.
   Improvvisamente, forse sotto il suggerimento di Angy, i suoi occhi iniziarono a mentirgli spudoratamente facendogli vedere scene di vita passate, future, o immaginate? Non lo sapeva.
   Quel che capiva in quella sfilza d’immagini, era l’ultimo momento con la bella segretaria, gli altri, non li conosceva e non li ricordava.
   Rivedeva centinaia di proiettili scontrarsi contro la ragazza e non potendo salvarla… si stava struggendo. 
   Il cuore iniziò a pulsargli più velocemente, era infastidito, arrabbiato…
   Vedendo la reazione positiva al farmaco, il capo scienziato seduto al monitor più grande si rivolse al superiore: « Stiamo controllando i suoi pensieri signore ».
   Il generale, muto, seguiva l’andamento dell’ennesimo esperimento per scoprire i segreti celati dietro e dentro quel corpo apparentemente umano.
   Ice, portato al limite in uno stato di semi-illusione, alzò gli occhi verso la camera ghiacciata.
   La bellissima ragazza era congelata, fredda, morta: invecchiava, invecchiava, si decomponeva e ora…
   Era solo un insulso scheletro.
   Era reale o l’ennesima allucinazione?
   La rabbia crebbe in modo spropositato nel giovane, portandolo al dolore più profondo; si sentì sbeffeggiato, usato, al pari di un animale da circo.    
   Improvvisamente quel sentimento lo invase completamente e l’energia maestosa che lo penetrò a forza, non lo aiutò.
   Bloccato com’era, riuscì solo a sprigionarla.
   Gli occhi divennero rossi, proprio come accadde ad Angy, e il potere accumulato, fu strappato dal semplice tubo collegato alle sue spalle. 
   La forza, quasi magica, gli era portata via ogni secondo che passava mentre una barra progresso su uno schermo, cresceva per risposta.
   I presenti festeggiarono all’unisono.
   « Signore guardi i dati, abbiamo un incremento di energia del 200 % ».
   Subito il generale ribatté, non aveva intenzione di fermarsi a quel livello, « Ricontrollategli i pensieri, scegliete quelli adatti, arrivate al 500 % ».
   A quell’ordine tutti gli scienziati si voltarono verso il supervisore e il generale, accesi ora in un botta e risposta di cui l’esito parve più che scontato.
   « Ma generale, rischia la morte; non sappiamo nemmeno se il reattore possa resistere…».
   « Immagazzinate l’eccesso di energia in quelli di riserva, accendeteli, lui non morirà…», rispose furioso.
   « Ma signore! », il supervisore sembrò preso in contropiede…
   « Fatelo e basta », disse il capo chiudendo il discorso.
   Nel momento che tutti s’impegnarono nell’accensione dei reattori, Ice iniziò a perdere quella già precaria lucidità e i suoni, provenienti dall’esterno, lo abbandonarono assieme ai poteri.
   Decine e decine di flash ricominciarono a tagliargli i pensieri. 
   Angy soffriva ancora e la rabbia, stavolta incontrollabile, lo sconvolse letteralmente.
   Dimenticando di trovarsi incubato, prese a muoversi freneticamente nonostante le aste metalliche lo tenessero ben saldo e la cella, inchiodata al pavimento, iniziò a tremare.
   I soldati, per risposta, si mossero all’unisono e presero la mira.
   Pronti per sparare al minimo ordine.
   La barra sullo schermo iniziò ad aumentare nuovamente e un computer, con voce maschile, prese ad aggiornare i presenti sulla percentuale: « Potenza al 250% », ci furono una decina di secondi di silenzio, « Potenza al 300%, 350% ».
   Nella sua immaginazione, Ice vedeva centinaia di proiettili che senza sosta lo colpivano, lo trapassavano come fosse uno spirito, e raggiungevano la sua amata; era impotente, inutile.
   Proprio come la prima volta.
   Urlò; fintanto da far rizzare la pelle agli scienziati e ai soldati.
   Si era immedesimato completamente nel sogno.
   L’energia, pressoché infinita, lo circondò nuovamente.
   Le vene quasi esplosero sotto la cessante corsa del sangue e in quel momento, sotto gli occhi sbigottiti dei presenti, le unghie si allungarono a dismisura.
   Nonostante fosse immerso nell’acqua, si accorse di lacrimare: piccoli frammenti di ghiaccio fuoriuscivano dalle sue orbite per disperdersi tutt’intorno e poi sciogliersi.
   Il supervisore riprese fiducia.
   « 400 % signore, ci siamo quasi ».
   Qualcosa però interruppe il normale, per quanto lo fosse, andamento dell’esperimento…
   « Ehi ma… che succede? » urlò qualcuno, interpellato immediatamente dal general: « Abbiamo raggiunto l’energia prefissata? ».
   Sconsolato, un altro scienziato rispose senza rendersene conto: « No signore…».
   « E cosa sta succedendo??? », il generale aveva perso nuovamente il controllo; lo yoga non aveva più l’effetto di una volta.
   « Siamo scesi ad un valore minimo; ne le piante o gli animali ce lo hanno mai fornito…».
   « Quanto? »
   « 0,001 % signore… ed è in diminuzione ».



Ice si guardò attorno e vide il cimitero: il mostro era ancora d’innanzi a lui e lo teneva saldo per il collo. Lo sfregio sul viso era familiare, troppo forse. 
Sapeva di averlo fatto parecchi anni prima.
E allora?
Allora quella cicatrice lo portò indietro nel tempo, a un ricordo assopito nell’angolo più remoto del suo cervello.

Era in una gola, rocce aguzze sporgevano dalle pareti ai suoi lati impedendogli il passaggio per uscire da quel minuscolo sentiero… Il buio calava di minuto in minuto e le ombre intorno incutevano angoscia.
Un vento gelido soffiava tra le rocce, doveva trovarsi in qualche regione settentrionale.
Decise di arrampicarsi, quello era l’unico modo per uscire; dapprima lentamente, ma via via sempre più spigliato e rapido iniziò la sua scalata. 
Riusciva a compiere balzi di diversi metri tra una parete e l’altra senza alcuna fatica; senza rendersene conto iniziò a sfidare la gravità aggrappandosi laddove chiunque sarebbe potuto soccombere.
Quando mancavano pochi metri per raggiungere la cima, un’ombra improvvisa gli tagliò la strada: ricordandogli cosa fosse la paura.
D’un tratto il cuore accelerò improvvisamente e, quasi si fosse messo d’accordo con i polmoni, il respiro divenne ancor più corto, i muscoli si bloccarono improvvisamente ma questi non gli impedirono di tremare. Come del resto la sua voce.
 « Chi è là? ».
Niente rispose.
Solo l’eco.
Il vento giunse alle sue orecchie, mentre un brivido freddo lo accarezzò dietro la schiena.
Appigliandosi all’autocontrollo iniziò a respirare più lentamente, riprendendo la scalata.
Salendo, il dirupo si allargava progressivamente e una palla di fuoco, ai margini del cielo, accecò la sua vista per diversi secondi; fu costretto a fermarsi.
Quasi sulla linea dell’orizzonte una luce imponente incendiava ogni nuvola attorno a sé per diversi chilometri, il rosso, il rosa, l’arancio e il giallo si mescolavano dando sfumature fantastiche al cielo: il tramonto.
Percepiva perfettamente il calore che emanava, ciò lo rincuorava, anche se una vena di sconforto lo invase per un istante, era triste sapere che di lì a poco sarebbe scomparso per far spazio alla notte.
Voltandosi, quasi richiamato, si trovò una figura indefinita davanti; non ebbe nemmeno il tempo di emettere un gemito che fu afferrato per il collo e schiacciato contro la parete.
Le rocce furono piegate da quella pressione inaudita e dietro la schiena, molte furono frantumate.
Con voce impaurita provò a parlare e dal suo sguardo il demone capì subito la domanda che stava per porglisi.
 « Non è necessario che tu lo sappia…»
Impossibile.
La bestia aveva parlato, ma quella voce rivoltante proveniva dalla sua testa!
Aveva la capacità di comunicare attraverso i pensieri.
In quel preciso istante la morsa attorno al collo si strinse ulteriormente e la pressione esercitata contro le rocce, per un momento, svanì.
Lo prese con forza e scaraventandolo sulla parete opposta, un masso tagliente lo perforò sul fianco sinistro da parte a parte.
Velocemente la vista gli si annebbiò ma fece in tempo a notare che la bestia, nera e indecifrabile, era di nuovo su di lui.
La testa iniziò a girargli: perdeva molto sangue, tanto che la montagna sembrò ruotare, o forse era lui?
Impaurito, invaso dall’adrenalina, non si rese conto che le unghie, tanto curate, si allungarono trasformandosi in veri e propri artigli.
Chiuse il pugno per colpire l’aggressore.
La forza e la velocità con cui partì il colpo furono tali da fargli perdere la direzione e il modo con cui colpì il mostro fu catastrofico.
La mano si aprì e gli artigli, lo sfregiarono.
Un urlo di dolore e odio risuonò nel dirupo e Ice, oramai esausto, fu lasciato cadere nel vuoto.
Gli arti, il petto e la schiena, si scontrarono più volte con le rocce finché non raggiunse il fondo.
Il tonfo della caduta risuonò accompagnato da un eco agghiacciante.
Immobile, come un cadavere, non accennava a muoversi, persino il petto, nonostante fosse prono, smise di inarcarsi.
Non respirava più.
Il dolore glielo impediva. Le gambe non si muovevano, provò a piegare le dita dei piedi, ma non accadde nulla; le braccia, completamente traumatizzate, erano quasi sulla via della decomposizione. Il sangue, mescolatosi con la polvere, aveva creato uno strato di fanghiglia rossastra disgustosa ed era chiaro che oramai era già con un piede nella fossa, anzi con entrambi.
Ruotò la testa, cercando di vedere il suo nemico, ma quando si mosse, un brivido intensissimo di dolore lo assalì: gli artigli, come a indicargli che quella fosse la fine, si assottigliarono. Poi sparirono.
Con la poca vista rimasta, prima di svenire, vide il mostro già pronto nel colpirlo a sangue freddo. 
Non poteva difendersi. 
Quando una luce accecante interruppe il suo contatto con la realtà: la nuca iniziò a brillare e gli occhi, divenuti rossi, si chiusero…
Quella volta, senza sapere da chi o da cosa, fu salvato…
Il bruciore tra le spalle divenne talmente insopportabile che svenne…

   Il ragazzo sbarrò gli occhi permettendo alla pioggia di lambire le sue pupille, quasi volesse lavarsi la faccia per esser sicuro di esser sveglio.
   Il ricordo era tornato al cimitero…

   I due si fissavano ancora, mentre il Livamp, ruppe il silenzio della sua mente. « Ti sei ricordato a quanto pare ».
   Ice, per niente intimorito, rispose senza perder tempo, voleva finire quello scontro il prima possibile, « A quanto pare ».
   Ice, ricordava.
   Quasi felice, il Livamp liberò ancora quella grave e spaventosa voce, mentre la presa al collo si strinse ulteriormente, soffocandolo, « Così ti è venuto in mente il nostro primo incontro, quando mi sfregiasti, sai anche che stavolta finirò il lavoro…».
   Nonostante l’esito dello scontro volgesse tutto in favore del demone, Ice continuò a mostrarsi restio nel cedere e per di più, era sicuro di sé: « È cambiato tutto dall’ultima volta…».
   Erano passati secoli da quando le due forze s’incontrarono, era vero, eppure quello appeso per il collo era proprio Ice. Come poteva fare tanto lo spaccone?
   Prima uno, poi due, tre, i battiti del cuore accelerarono quasi seguissero il suo volere: gli occhi sfumarono lentamente da azzurri fino a divenire rossi, dapprima la circonferenza dell’iride, la fase più eccitante e anche la più dolorosa. 
   Occhi azzurri con contorno rosso fuoco… erano unici.
   L’azzurro fu ben presto sovrastato completamente dal cromatico più caldo che raggiunse la pupilla, mettendo fine a quell’affascinante sofferenza.
   Fissandolo con aria di sfida, Ice lasciò subito le braccia pelose del Livamp che sicuro della vittoria, non accennava a mollarlo; fu a quel punto che il ragazzo lanciò il suo ultimatum, dopodiché, avrebbe attaccato: « Lasciami ».
   A quel comando il demone non si scompose, non avrebbe ceduto alla minaccia di uno stupido ragazzo, era un mostro, più che vero, ma faceva parte di una stirpe di demoni unici e poi, era uno dei guerrieri capi di tutti i Livamp: la classe guerriera per eccellenza.
   Nell’oscurità più completa, Ice portò il braccio destro poco dietro la schiena, fece piegare la scapola e sospirò: non avrebbe voluto farlo, trovava brutto terminare un combattimento ancor prima che fosse iniziato; per questo decise di essere “misericordioso”.
   In realtà dava un significato tutto suo a quella parola.
   Velocemente, chiudendo il pugno destro, solcò l’aria piegando l’avambraccio: il bicipite si gonfiò fino al punto di esplodere e con un colpo secco spezzò l’articolazione del Livamp, piegandola letteralmente al contrario.
   Il demone fu costretto ad allentare la presa e infine lasciarlo.
   Il braccio era spezzato e traballante.
   « Te l’ho detto…è cambiato tutto…».
   La bestia urlò di dolore mentre le ferite sul collo di Ice si richiudevano lentamente. 
   Sprezzante del pericolo, ignaro delle reali capacità del mostro, il giovane si allontanò con passo lento lungo il sentiero, dando le spalle al mostro che, oramai in terra, stringeva l’arto spezzato. 
   Ad ogni passo la maestosa aura invisibile che circondava il ragazzo faceva sì che il fango si solidificasse, persino la pioggia parve non toccarlo più.
   Il potere di cui disponeva, però, era ben più grande, ma non voleva manifestarlo: sapeva bene che alla morte, i ricordi dei Livamp erano trasmessi agli altri appartenenti a quella razza.  
   Era come se nell’anima fossero tutti collegati tra loro; ciò rendeva quasi impossibile combatterli qualora fossero in gruppo.
   Ma lui lo aveva già fatto.
   Lentamente, mentre il ragazzo raggiunse una distanza di circa quindici metri, il demone riuscì a rialzarsi. 
   Non aveva intenzione di perdere quello scontro, d'altronde era l’unico modo per dimostrare ai suoi seguaci che, nonostante avesse perso credibilità dopo lo scontro iniziale, in fin dei conti era sempre il loro capo.
   Avrebbe staccato di netto il braccio del suo avversario come prova per dimostrare che l’artiglio, quello che lo aveva sfregiato, non esisteva più. 
   Ice, dal canto suo, sicuramente non avrebbe permesso quella sorta di redenzione, se così poteva chiamarsi. 
   Sotto i tuoni, mentre la notte raggiungeva l’apice della sua oscurità, il Livamp lanciò l’ennesima minaccia, accolta ancora una volta con indifferenza. 
   « Mai sottovalutare l’avversario… ti ho quasi ucciso tra le montagne e farò lo stesso in questo cimitero; riconquisterò il mio clan », disse il mostro, ansioso di tornare al suo vecchio rango di guerriero capo.
   « Esci dalla mia testa!… », ribatté il giovane. Stava iniziando a odiare quell’insulsa voce.
   Improvvisamente il mostro formulò una domanda così banale che sembrò stupido rispondere… eppure, pensandoci bene, Ice non conosceva la risposta.
   Non fino in fondo almeno.
   « Tu non sei il ragazzo che ho incontrato nel dirupo; chi sei? ».
   « Non lo so…».

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Capitolo 5
*** Capitolo 0.3 ***


CAPITOLO      0.3





   Caduto in quello stato di semi-coma persino la squadra di scienziati addetti alla supervisione di Angy fu chiamata per cercare di comprendere il motivo di quel collasso.
   Del tutto anomalo.
   Era da anni, dall’inizio del XXI secolo, che la continua ricerca di fonti energetiche aveva spinto l’Hide Corporation nello sviluppo, illegale, dell’uso dell’energia biologica.
   Erano state sottoposte a centinaia di esperimenti sia le piante che gli animali, infine anche l’uomo.
   Ogni forma vivente.
   Si era scoperto che il cervello, per coordinare l’organismo, adottava impulsi nervosi alla base del processo biologico; tali segnali avevano una data “forza” che, dopo milioni investiti nella ricerca, la HC era riuscita a individuare, immagazzinando così piccole porzioni di energia.
   L’unico problema era l’obbligo di tenere la cavia costantemente incubata.
   E Ice non stava ricevendo un trattamento diverso da quello delle piante usate anni prima nelle serre.
   Il concetto era stimolare il soggetto nella crescita cellulare, nella digestione, nel movimento, o qualsiasi altro procedimento biologico attuato nella normale routine quotidiana; così facendo, gli impulsi erano amplificati, così come l’energia prodotta dalla cavia.
   Al giovane questo stava capitando.
   I ricordi erano macigni e non c’erano distinzioni tra gli incubi o i sogni, il risultato era il medesimo; ma l’asso nella manica del ragazzo, era la durata infinitamente maggiore rispetto a qualsiasi altra forma di vita.
   Perché raggiunto un certo limite, la vita cessava. 
   Ice invece era straordinario e inclassificabile.
   Unico.
   Peccato che dopo aver sentito la domanda del mostro il ricordo si era interrotto; come se il subconscio lo avesse bloccato di proposito.
   Era forse troppo presto per riesumare la verità?
   Magari era proprio quello il motivo; perché quando riprese a sognare quello che vide fu un altro sogno:

   Era su un letto, disteso e fasciato da bende umide; alzandosi lentamente comprese di trovarsi in una chiesa.
   Una finestra illuminata dalla luce solare proiettava sul grande tavolo al centro della stanza la scena dell’arcangelo Gabriele intento a cacciare gli angeli peccatori dal paradiso. 
   I colori intorno alla figura celeste erano dolci, chiari, era certamente l’immagine del regno dei cieli, poco distante invece le tenebre più oscure…
   La rappresentazione, diretta e perfetta, era ambigua: forse il paradiso non era rappresentato come un luogo solo per i puri, ma come un regno che in fin dei conti era poco distante dall’inferno.
   Due luoghi tanto diversi… ma così vicini…
   Le restanti pareti della stanza erano ricoperte di mensole e armadi, le mura erano rosate, date dal colore delle mattonate, e nonostante fosse privo di fonti di calore, l’ambiente era asciutto e accogliente.
   In sottofondo la musica che l’aveva destato improvvisamente divenne più sonora rimbombando tra le mura e nei corridoi. Ice si alzò lentamente notando la tunica da monaco poggiata su una sedia un paio di metri più in là..
   Era nerissima.
   Ci mise poco a decidersi e dopo qualche secondo d’incertezza riuscì finalmente ad entrarci dentro: era larga e lo faceva sembrare goffo, dandogli l’aria di un ragazzo grasso, al contrario di ciò che era.
   In ogni caso aveva bisogno di indossarla, era spinto da un senso innato di coprirsi.
   Infilò i piedi nei sandali e un po’ scoordinato iniziò a muovere qualche passo. 
   Finalmente raggiunse la porta superando un tappeto di maestosa grandezza, la valicò e s’incamminò per lo stretto corridoio ai cui lati, dei candelabri erano accesi.
   Ce n’erano sei in tutto, tre su un lato e tre sull’altro, le fiamme erano in sintonia e si muovevano assieme, come seguissero le note prodotte dal piccolo organo che s’intravedeva alla fine del corridoio.
   Sembravano persino attratte da lui.
   Arrivato davanti alle numerose canne d’ottone, preso da quel suono liturgico, fu inavvertitamente avvicinato da un uomo.
   Fu colto alla sprovvista e la paura lo dominò per un brevissimo istante…
    Le fiammelle dei candelabri esplosero all’unisono.
   « Mi avete spaventato », disse.
   « Lo avete fatto anche voi, avete dormito per giorni interi con la febbre alta, urlando e sognando continuamente, come vi sentite ora? ». Rispose preoccupato ma chiaramente sollevato il frate.
   « Non ricordo nulla, ora sto meglio grazie. Ma cosa è successo? ».
   « Molto probabilmente avete contratto la peste; qualche settimana fa, mentre passeggiavo, vi ho trovato tra i cespugli privo di conoscenza. I miei allievi mi hanno aiutato portandovi qui al riparo. Ma non vi ho curato io, vi siete svegliato da solo; le preghiere vi hanno salvato…».

   Nonostante fosse un ricordo, Ice, nell’incubatrice, continuava a vivere il sogno come fosse reale, come se davvero si trovasse in quella chiesa; ciò aiutava il folle esperimento della HC, gettando però gli scienziati nell’ignoranza più totale. Nessuno riusciva a comprendere il suo “coma”.

   « Il mio nome è Maurice de Sully, discendente di Marcelle de Sully, nipote del mio prozio Maurice de Sully, vescovo di Parigi, nonché fondatore della chiesa, qual è vostro nome straniero? ».
   Un pò titubante il ragazzo rispose.
   « Ice ».
   Con un volto curioso il frate non nascose il suo stupore. 
   Non aveva mai sentito un nome così strambo e da come il giovane lo aveva pronunziato, era bizzarro anche a lui.   
   «Mai sentito ».
   Subito Maurice fece un giro attorno al giovane per studiarlo a dovere. Poi riprese il discorso.
   « È davvero strano che vi siate ripreso così bene, non    trovate? ».
   Ice avrebbe voluto rispondere ma ovviamente era confuso come Maurice.
   Era stato forse un miracolo?
    Lasciando il frate ai suoi interrogativi s’incamminò per la navata centrale.
   Superò le colonne e le seggiole dei credenti che erano tutti, o quasi, altrove.
   Gli zoccoli di legno rimbombavano nella chiesa ad ogni passo, mentre i suoi capelli davano l’aria di muoversi andando a tempo con il respiro.
   Le fiammelle sparse per la navata erano scosse dalla sua presenza finché, improvvisamente, si fermò davanti ad un altarino, il più bello e grande di tutti.
   Maurice lo seguì lentamente con passo predicatorio alzando gli occhi verso il cielo, quasi volesse chiedere perdono per quel comportamento irrispettoso…
   « Padre mi scusi la domanda, a chi è dedicata la chiesa? Ho visto l’angelo Gabriele sulla finestra e sul tappeto non ho riconosciuto chi fosse…».
   Maurice lo guardò incuriosito, non si aspettava di certo quel genere d’ignoranza entrare nella sua chiesa!
   « Non è l’arcangelo Gabriele, anche nella Bibbia figura sempre come un messaggero; l’arcangelo invece, ovvero capo degli angeli, è uno solo ed è Mi-ka-El…».
   Ice, non mostrò alcuna incomprensione, ricordava quel nome. 
   « San Michele…».
   « Esatto… ricordato per aver difeso la fede in Dio da Satana… ma la chiesa non è dedicata a lui, ma alla Nostra Signora…».
   « Alla Madonna? ».
   « Proprio a lei, benvenuto nella cattedrale di Notre-Dame ».




   Dopo il breve dialogo condotto con Maurice, un giovane chierichetto spuntato dal nulla si avvicinò ai presenti…
   Il frate lo squadrò da cima a fondo, la sua presenza infastidiva particolarmente il cattolico e dopo un pò, persino Ice notò uno strano senso di disagio, una sensazione del tutto nuova.
   Era biondissimo, la lunga chioma copriva entrambe le orecchie e parte della fronte, occhi azzurri e profondissimi, carnagione chiara, era la copia spudorata sia come età che come statura ad Ice. Cambiavano solo i lineamenti del volto e il colore dei capelli; per il resto sembravano fratelli.
   « Philip origliavate come sempre? Quante volte devo ripetervelo…».
   Il ragazzo parve non ascoltare le solite e assillanti lamentele del suo mentore.
   Lo aveva cresciuto fin da piccolo, quando in una giornata di pioggia fu abbandonato sul ciglio delle scalinate della cattedrale…
   Maurice non avrebbe mai potuto rifiutarlo, non dopo che i suoi stessi genitori lo lasciarono alle custodie dello zio Marcelle, crescendolo così, come fosse un figlio, insegnandogli modi e maniere; qualcosa di assolutamente impossibile per un ragazzo cocciuto come lui.
   Ma non fu sempre dura per il povero frate, il ragazzo si dimostrò fin dalla tenera età intelligentissimo e un ottimo cavaliere.
   Le antiche dottrine erano assimilate facilmente da quel biondo, come se le avesse sempre sapute. Stessa sorte toccava ai suoi polsi: ogni qualvolta impugnava una spada… Beh a soli ventidue anni era già un maestro. 
   Oltre ogni logica.
   Dopo un breve silenzio, più che imbarazzante, il frate si rivolse con tono umile e sincero nei confronti di Ice che confuso, parve non comprendere la tensione che stava rendendo l’aria della chiesa irrespirabile…
   « Ice », si interruppe un attimo Maurice prima di riprendere,     « Dovrete fare attenzione…».
“Se volete sopravvivere”.
   Lo straniero capì immediatamente dove stava andando a parare il frate, che serio e un pò timoroso, si tolse il cappuccio mostrando la calvizie e l’aureola di sant’Antonio.
   Le forze inglesi avevano in pugno l’intera Francia, era quasi un secolo che la guerra, senza accennare a smettere, continuava imperterrita a mietere vite. 
   Il monaco aveva visto soldati, fratelli e mariti perdere la vita per colpa del trono; gli uomini più valorosi lo avevano abbandonato e la stessa sorte era capitata alla sua famiglia, si riteneva salvo solo perché servo del Signore.
   Era un altro e ben più grave però il problema…
   Ice lesse chiaramente la paura nel volto del frate, quindi lo bloccò. « Lo farò…».
   « Voi non capite! ».
   Al rimprovero del cattolico seguì un ghigno di stizza da parte di Philip, che voltatosi, finì il discorso senza pensarci due volte.
   « Se Dio avesse voluto salvarci non avrebbe fatto scoppiare la guerra, è solo uno spettatore e non metterà fine allo scontro…».
   Disse aprendo la porta del retro per uscire.

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Capitolo 6
*** Capitolo 0.4 ***


CAPITOLO      0.4





   Il frastuono della musica era assordante, centinaia di ragazzi sotto le luci psichedeliche e le palle sferiche ballavano ormai da ore senza sosta.
   Vodka, alcool e birra scorrevano a fiumi davanti al bancone delle conigliette che, grazie a qualche fuggevole “toccata”, riuscivano a scroccare mance a più non posso.
   La folla continuava come una massa di zombi la danza, mentre una decina di ragazzi seduti in disparte e seri gustavano la serata.   
   Alcuni di loro se la giocavano a carte, altri a braccio di ferro, altri si facevano sfilare qualche centone dalle ballerine sui comodi divani di pelle bianca.
   Uno solo, con lo sguardo perso nel vuoto, sembrava preoccupato…
   Fissava in continuazione lo smartphone sul tavolo mentre, di tanto in tanto, alzava lo sguardo verso il centro della discoteca: lì tre pali metallizzati aiutavano le cubiste a esibirsi…
   Una bella visione, pensò.
   Le strettissime calze a rete stringevano a più non posso le lunghe cosce delle modelle che, quasi viola, sembravano sul punto di esplodere.
    Nessuno però ci faceva caso, l’ecstasy che circolava nei sacchetti e nelle bocche distorceva completamente la realtà: anche le ragazze più brutte sembravano essere degli angeli…
   Mike sentiva il sangue ribollirgli nelle vene, odiava quell’atteggiamento, odiava quei ragazzi, ma amava quel posto, era l’unico in grado di trasmettere vera felicità ed euforia, nonostante il non poco “incentivo” fornito dalla droga.
   Vedere tante persone divertirsi lo rendevano triste in un certo senso: sapere che quell’effetto era provocato soprattutto da quelle pasticche bianche e non dalla mente, era un grave sintomo di quanto la società giovanile stesse via via toccando il fondo; le partite a pallone, le sfide tra amici all’aria aperta… erano solo un vago ricordo.
   E lui che era centenario, ne soffriva più di tutti.
   Oramai ci si divertiva così.
   Eppure ciò che lo impensieriva era qualcos’altro…
   Improvvisamente il telefono iniziò a vibrare sul tavolino di vetro: lo schermo iniziò a lampeggiare e ciò lo distolse dai suoi pensieri erotici che stavano affollandogli la mente. 
   Cinque anni di castità erano troppi da sopportare ora che vedeva quelle bellezze mezze nude, ma ne erano altrettanti che attendeva quella chiamata… Toccò lo schermo e sorpreso, visualizzò un messaggio ricevuto da un numero anonimo.
   Non era ciò che si aspettava.
   “La missione è quasi terminata”.
   Senza il minimo preavviso sbucò da un angolo un ragazzo, era bagnato fradicio e i capelli corti al taglio militare erano schiacciati sul cranio bianco; aveva il fiatone e tremava visibilmente.
   Mike alzò lo sguardo inarcando le sopracciglia, domandandogli con la sola espressione cosa stesse accadendo.
   « Frank è stato ucciso nel vicolo qui dietro! Dobbiamo andarcene, alla svelta! ».
   Il gruppo di amici si voltò di scatto gettando le luci sui due.
   Mike si alzò lentamente, prese il cappotto e mentre tutti fecero lo stesso, pronti a darsi alla fuga, prese parola.
   « Estendete la comunicazione: gli incontri sono annullati fino a nuovo ordine. Vi contatterò tramite email ».
   Ricevuto l’ordine, quell’angolo del locale si svuotò in un baleno mentre Mike, uscito sul retro, si diresse senza farsi notare proprio dove Frank era stato assassinato, ma il corpo del suo compagno, non c’era già più…




ORE  11.30
CRACOVIA 
 POLONIA




   Nel frattempo in una pensione, lontano da sguardi indiscreti, si nascondeva una delle menti di maggior rilievo dell’intero pianeta: il generale Mattew Crow.
   Un uomo alto, cresciuto sotto le armi per via del forte spirito combattivo impostogli dal padre, calvo, sulla sessantina, portava dei baffi folti e curati, occhi neri come la pece e zigomi scavati mostravano la sua stanchezza e il desiderio di andare finalmente, dopo una vita di duro lavoro, in pensione. 
   « Generale ci ha informato con una chiamata il comandante Smith Brown della missione “ENERGY”, direttamente dal Sahara…».
   Crow, intento a scrutare ogni imperfezione nata dalla notte al giorno sulla sua pelle, davanti allo specchio della stanza, si voltò di scatto; era una notizia buona o cattiva? Non si sarebbe mai aspettato una chiamata, soprattutto da quella zona del mondo…
   Le missioni avviate e molto più importanti stavano avvenendo in quel preciso istante in altre parti della terra e attendeva gli esiti di quelle, non della “Energy”, « Cosa è successo ? ».
   « Hanno avuto un problema nel laboratorio, sembra che il soggetto preso in custodia sia in coma ».
   Il generale rimase impietrito, quella era una notizia catastrofica!
   Non era possibile.
   Sapeva bene il rischio della missione e riponeva la fiducia più completa negli scienziati ma soprattutto, nella cavia, conosceva le reali capacità di Ice, o per lo meno, ne aveva sentito parlare…
   Il suo primo pensiero fu rivolto alla causa, « È riconducibile all’incidente di qualche ora fa con Angy ? ».
   Lo scambio d’informazioni viaggiava alla velocità della luce all’interno della compagnia: subito dopo il “fuoriprogramma” di Angy, infatti, il generale era stato avvertito, ma nessuno si sarebbe mai immaginato una ricaduta successiva del ragazzo.
   « Credo che tra quei due ci sia un legame molto più forte di quanto non abbiano dato a vedere », constatò il generale.
   « È possibile… per questo ci stiamo facendo spedire un campione di sangue dal Sahara ».
   « Novità ? ».
   « Lo stiamo facendo analizzare proprio ora sul nostro jet, lo duplicheremo ed useremo sicuramente per portare a termine l’esperimento su Axel…».
   Cavolo, pensò Crow, se ne era proprio dimenticato; quel ragazzo lo avrebbe preso a parolacce, come minimo, se lo avesse visto al laboratorio. Chissà cosa sarebbe successo di lì a qualche ora…
   « Ottimo! », mentì il generale sfregandosi il mento.
   « C’è un problema però ». Ribatte subito il segretario.
   « Quale? »
   « Non abbiamo la minima idea di come reagirà il soggetto a questa trasfusione; non sono cose che si insegnano a medicina quelle che sperimentiamo qui…».
   A quelle parole il generale fulminò istantaneamente il suo secondo e riprese a parlare; era visibilmente teso e inalberato.
   « Le dissi tempo fa, quando entrò nell’operazione, che qui ci troviamo in un suolo completamente diverso e mai raggiunto dalla scienza…». 
   Fu ammonito il segretario che subito annuì guardando in basso in preda alla vergogna; erano dieci anni oramai che aveva abbandonato il “campo” della medicina per improvvisarsi un semplice secondo. Non voleva operare quelle brutalità in maniera diretta, per questo si limitava a supervisionare per conto del generale, anche se molte procedure erano insensate e non le condivideva.
   « A riguardo ho sentito parlare di un brillantissimo studente francese… la nostra compagnia è pronta ad accoglierlo dopo la sua ultima laurea in medicina…».
   Ne aveva quattro in tutto, ma Crow omise quel particolare temendo la reazione del segretario e di tutto lo staff interno; comunque la replica non si fece attendere:
   « Ma eravamo d’accordo che solo io potevo decidere il personale interno! ».
   « Ed ha ragione, ma stavolta è importante, si fidi di me, gioverà a tutti la sua entrata nello staff…».
   « Ci sono persone più qualificate e con decine di lauree, compreso il sottoscritto! Se ho mollato, non è perché sono un incapace! ». Sbottò tutto d’un tratto, « Qual è il suo nome? ».
   « Michelle Muonrat…» 
   Ed ha solo 26 anni, si compiacque il generale.




   Michelle era al settimo cielo, non credeva ai suoi occhi, stava per partire e ancora aveva lo sguardo fisso sul monitor del pc. 
   La mail ricevuta era chiara e diretta, non lasciava spazio a incomprensioni: una settimana prima aveva acceso Gmail e tra la posta ricevuta aveva scovato una strana stringa richiedente i suoi dati personali, ed aperta, aveva ricevuto la notizia; finalmente gli sforzi erano diventati realtà, era entrato nella società più grande del pianeta.    
   Fantastico.
   Prese la valigia e lo zaino, si mise il cappotto e squadrò ancora una volta il computer, oramai spento, aprì lentamente la porta di casa trovandosi di fronte una scintillante Bentley nera.  
   Fece per correre e buttarsi a capofitto ma attese qualche secondo, attento a non farsi notare dai soliti vicini, spioni come sempre; scese i cinque scalini e mise il trolley sul marciapiede.
   A pochi metri dalla lussuosa auto si fermò, restando in attesa, guardandosi intorno con aria smarrita. 
   Si aspettava un’accoglienza con i fiocchi, ma nessuno lo salutò, nessuno gli prese il bagaglio e nessuno gli aprì lo sportello, fu a quel punto che il motore rombante si accese risuonando nella sua testa, così senza troppi complimenti, alzato di peso il trolley, aprì lo sportello e si gettò a capofitto; non voleva di certo perdere quell’opportunità.
   Entrato, l’auto partì lentamente immettendosi nel traffico.
   Circa dopo venti minuti notò le insegne dell’aeroporto ma quando lo raggiunse, rimase con l’amaro in bocca: non amava affatto volare, in realtà quello era il suo primo viaggio in aereo, ma non ci aveva messo molto a capire che si stava dirigendo in un’area “riservata”.
   Non c’erano auto parcheggiate, turisti, o il personale addetto al controllo dei bagagli. Nessuno.
   Non è quello che mi sono sognato stanotte, disse tra sé.
    Dal finestrino vide solamente un jet al centro della pista; l’auto si fermò ed improvvisamente lo sportello si aprì, mostrando un uomo con un berretto tanto abbassato da nascondergli il volto.
   « Buon giorno Signore. Questo è il suo volo. A bordo il personale esaudirà ogni suo desiderio; buon viaggio ».
   Salutato il ragazzo, l’ambiguo autista scese i bagagli e chiuse la portiera; si allontanò velocemente e scomparve tra la nebbia mattutina.
   Il biondino non era entusiasta di volare, ma appena si affacciarono due hostess dal portellone, due sventole, ci ripensò subito: agguantò i suoi oggetti e salì al volo la passerella. Non vedeva l’ora di gustarsi il viaggio…

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Capitolo 7
*** Capitolo 0.5 ***


CAPITOLO      0.5





   Non appena il biondino varcò la porta, Ice fu investito da una luce accecante e caldissima che quasi lo costrinse a chiudere gli occhi. 
   A mezzogiorno il sole era una palla di fuoco alta nel cielo.
   Per un brevissimo istante gli occhi del ragazzo rifletterono uno stupendo colore rosso fuoco, subito sovrastato dall’azzurro più profondo delle due scintillanti iridi.
   In certi momenti gli facevano male ma poi il dolore svaniva subito. Chissà qual era la causa.
   Si guardò attorno.
   La vita nelle strade era movimentata e frenetica e in tutti gli sguardi curiosi che Ice incrociò, un velo di terrore veniva accuratamente nascosto: la popolazione preferiva non fare domande sul nuovo arrivato piuttosto che interrompere il lavoro…
   Gli invasori erano attenti a ogni minimo particolare.
   « Restate in silenzio e con lo sguardo rivolto verso il basso, nessuno vi avvicinerà. Dobbiamo uscire dalla città ».
   Suggerì Phlip senza aggiungere altro. Nascondeva qualcosa?
   Le guardie non avrebbero mai interrotto la penitenza di un frate e poi Ice, non era l’unico vestito in quel modo…
   Non doveva quindi avere paura. Stranamente si fidava del biondo.
   Avevano percorso all’incirca cinquecento metri e già aveva incrociato altri tre o quattro uomini nella stessa posizione: capo chino e mani in preghiera, così si pentivano…
   Era anche un ottimo modo per mimetizzarsi però.
   Aumentando il passo per non destare sospetti, Philip raggiunse una distanza tale da costringere Ice a correre per raggiungerlo.
   Era davvero troppo lontano.   
   Corse ancora.
   “Ma dov’è?”.
   Lo aveva perso.
   “Maledizione!”.
   Ice non si arrese e fu la disperata ricerca di Philip a spingerlo a conoscere un lato nuovo di sé, che mai avrebbe immaginato di possedere; ripensando a quando vide il biondo la prima volta, pochi istanti prima, con quella chioma, quegli occhi chiari… fu sopraffatto da uno strano senso di nausea, da un odore fortissimo…
   In men che non si dica riuscì a percepire lo stesso profumo tra decine e decine di uomini, mentre la folla incuriosita lo fissava.
   Fu in quel momento che comprese che sarebbe stato in grado di pedinare chiunque seguendo esclusivamente l’odore.
   No, non era un cane, ma si sentiva come i randagi che giravano per il mercato.
   Un segugio nel vero senso della parola.
   I passi aumentavano e nonostante i due compagni fossero separati da una ventina di metri circa, erano perfettamente in simbiosi, dove Philip svoltava, Ice lo seguiva…
   Finalmente la folla svanì finché non si ritrovarono alla periferia della città.
   Senza rendersene conto, Ice intraprese un ciottolato alla base di una collina e raggiunse la sommità dell’altura da cui tutta la città, o quasi, poteva essere osservata nel silenzio più profondo.
   Arrivato, fu investito da un vento freddo che entrando nel cappuccio, gli scoprì il capo; Philip si materializzò da dietro l’unico albero presente e dopo essersi accertato dell’assenza inglese, avvicinò il ragazzo.
   Era serio e attento, sicuro di non esser stato seguito: di lì a poco avrebbe incontrato una persona, non poteva rischiare di essere scoperto.




   La minaccia inglese era spesso elusa da chi, patriottico, tentava di vivere, per quanto possibile, senza divieti e obblighi.
   Erano molti gli uomini che usavano lo stratagemma adottato da Ice, ciò rendeva quasi impossibile riconoscere i veri e propri pastori; lo sforzo subito per mantenere la castità spesso terminava dopo tre o quattro mesi di pura pudicizia; poi subentrava la natura umana.
   Era questo il principale motivo per il quale i chierici passavano il più delle ore della giornata in penitenza piuttosto che celebrare la liturgia…
   Il risultato: decine e decine di “preti in penitenza” vagavano per le strade delle principali città, sia francesi che inglesi; un punto a favore per la resistenza che via via stava crescendo sempre più.
   Eppure, di tanto in tanto, qualche povero uomo era ugualmente scoperto, seguito e giustiziato, senza dare troppo nell’occhio.
   Tutto avveniva nella maniera meno “rumorosa” possibile, gli invasori non volevano destare inutili clamori, le genti erano stupide e chissà cosa avrebbero issato se avessero saputo della vera ragione della guerra…
   Erano settimane intere che Marcelle de Sully, a sua insaputa, era costantemente sorvegliato e con lui chiunque lo avvicinasse; gli inglesi avevano l’impressione che quell’uomo nascondesse qualcosa. E non si sbagliavano.
   Fu proprio quella mattina che un finto credente, una delle guardie sottocopertura, entrò nella cattedrale e notò il nuovo ragazzo; senza dare nell’occhio sentì tutta la conversazione avvenuta nella navata principale e terminata, uscì, seguendo i due ragazzi.
   Con non pochi problemi pedinò il fallace sacerdote tra la folla del mercato finché non giunse a poca distanza dalle mura della città, su una piccola collina.
   Con adeguata accortezza rimase tutto il tempo fuori dalla vista dei due giovani, appostandosi tra la piccola boscaglia cresciuta alla base del versante est del monte…
   Attese qualche istante finché non vide uno dei due ragazzi, quello biondo, uscire da dietro il tronco dell’unico cipresso presente.
   Fu a quel punto che alzò un braccio e con maestria, senza emettere il minimo rumore, afferrò l’imponente legno alle sue spalle, lo portò davanti a sé, e con l’altro scelse senza badarci troppo una delle cinque frecce presenti nella borsa.
   Dispose il dardo diligentemente, prese la mira, proprio all’altezza della spalla sinistra del biondo e fletté la corda all’indietro.
   La rapidità dell’operazione fu tale che non appena il cavo raggiunse il limite massimo, pronto per torcersi e rumoreggiare, la freccia fu scoccata senza emettere alcun rumore.
   Solo un flebile fruscio tagliò l’aria.




   Nel momento stesso che Philip aprì la bocca, sperando di iniziare il discorso, il piccolo “Ssss” prodotto dal dardo sin quel momento, divenne il suono fortissimo che entrambi i ragazzi percepirono.
   L’attenzione di Ice si rivolse subito verso quel rumore alla sua destra tanto che vide una scia argentata tagliare l’aria a pochi centimetri dal suo viso.
   La freccia solcò per intero la distanza scelta dall’inglese per poi colpire il bersaglio nella miglior maniera possibile.
   La punta metallica strappò violentemente la stoffa bruna del giovane che subito assunse un colore rosso scuro: la carne fu squarciata senza difficoltà liberando il fiotto di sangue che presto circondò il corpo di Philip accasciato a terra.
   Tutto avvenne in pochissimi secondi lasciando Ice interdetto.
   Il biondo, quasi sul punto di svenire, non fu subito soccorso dal compagno che al contrario, voltatosi, cercò di individuare l’aggressore, oramai scomparso.
   Il vento penetrò senza ostacoli negli occhi disorientati del giovane che subito fu riportato con i piedi per terra: Ice s’inginocchiò tentando di curare il compagno.
   Ma che ne sapeva lui di come alleviargli il dolore? 
   Non sapeva né chi era né da dove venisse! Figurarsi improvvisarsi dottore. In realtà non sapeva molto ora che ci pensava…
   Le urla strazianti di Philip lo riportarono alla realtà e il moro, senza rendersene conto, tremava, mentre goffamente cercava di tamponare la ferita.
   Il dardo, quasi un siluro, aveva trapassato da parte a parte la spalla sinistra di Philip, a pochissimi centimetri dal cuore.
   Ogni secondo perso trasformava il ragazzo in un cadavere sempre più bianco e sempre più freddo.
   Ice doveva fermare l’emorragia il più presto possibile.
   Nel tentativo di alzare il corpo semicosciente del compagno, una mano femminile lo avvicinò silenziosa per aiutarlo.
    Per istinto cercò di capire chi fosse ma la paura di perdere Philip non lo distolse un attimo.
   Lo sentiva vicino a sé, come fosse un fratello. 
   « Dovete sfilargli la freccia! », disse una voce melodiosa.
   E mentre la donna, con i suoi lunghi capelli mori copriva casualmente il volto sofferente di Philip, Ice decise di afferrare quell’arma maledetta; entrata per metà.
   Non voleva provocare altro dolore così, senza pensarci due volte, la spezzò; passò un braccio dietro il capo penzolante di Philip e quando ebbe trovato la punta, tirò con tutta la forza.
   Il ragazzo urlò con tutta l’energia rimastagli per poi svenire tra le braccia dei due.
   Subito la mora prese un panno bianco, magicamente pronto per l’occasione e lo strinse con violenza sulla ferita, tamponandola.
   Uno scalpitare impetuoso attirò lo sguardo del giovane finché non vide un animale alto il doppio di lui, era bruno con una lunga criniera nera come la coda che veniva sventolata a destra e sinistra, il muso, forsennato, faceva costantemente su e giù; era un bellissimo cavallo, pensò.
   Subito si voltò alla ricerca della ragazza che vide china sul suo compagno…
   Rimase folgorato.
   Il vento le aveva scompigliato i capelli che muovendosi continuavano a mescolarsi con quelli di Philip coprendogli il viso, sembrava volessero proteggerlo.
    Il lungo vestito bianco era per metà insanguinato e da un lato, uno strappo aveva scoperto le lunghe e affascinanti gambe.
   Il silenzio s’impossessò dei presenti per poi esser subito interrotto da un dolce singhiozzo.
   Ice immaginava perfettamente da dove provenisse. 
   « Ehi…».
   La ragazza alzò di colpo il capo mostrando i suoi dolci lineamenti.
   Le labbra rosate erano gonfie e carnose ma mostravano chiaramente il dolore provato; le guance tondeggianti erano tagliate entrambe da due rigagnoli lucenti: partivano da due occhi marroni, sottili e laceranti, protetti da delle ciglia nerissime, curve e lunghe, evidenziando la sensualità e la dolcezza di cui disponeva, nonostante stesse piangendo.
   Lo sguardo sofferente penetrò a forza negli occhi del giovane facendogli formicolare ogni centimetro del proprio corpo.
   Il dolore provato era manifestato apertamente senza vergogna tanto che persino Ice si sentì gli occhi gonfi pronti a esplodere…
   « Non mollate amore, vi prego…».
   Era certamente pericoloso soffermarsi in quel luogo, i presenti sapevano perfettamente che avrebbero dovuto spostarsi il prima possibile.
   Qualcuno voleva ucciderli!
   Fu a quel punto che Ice, alzatosi, con il cuore a mille, tese la schiena e allungò opportunamente le braccia per afferrare il corpo rannicchiato di Philip, « Dobbiamo portarlo via ».
   La ragazza, sul punto di svenire, riuscì ad annuire e con non poca fatica si mise in piedi.
   Lo sforzo e l’attenzione per non farsi scoprire dagli inglesi furono nulli e per di più ora non potevano fare ritorno alla cattedrale senza dare nell’occhio.
   Dovevano trovare un altro modo per portare Philip al riparo.
   La ragazza, senza indugiare, salì sul gigantesco cavallo e prese le briglie, con un cenno del capo ordinò chiaramente a Ice di mettersi all’opera.
   Subito il biondo fu accuratamente fatto salire e poggiato contro la schiena della mora.
   « Non volete venire? ».
   Non se la sentiva di salire su quella bestia, ma per aiutare il compagno lo avrebbe senz’altro fatto, l’unica indecisione era: “Ce l’avrebbe fatta il cavallo?”.
   Con qualche difficoltà alla fine montò in groppa al purosangue e non appena si assestò, la giovine partì di colpo.
   Stava per cadere all’indietro, che fece per tempo uno scatto in avanti aggrappandosi al suo grembo bloccando così anche il povero Philip, privo di sensi e ora bloccato tra i due.
   Il cavallo trottava senza mostrare alcun fastidio e Ice, impaurito, vedeva correre la strada a pochi centimetri da se; il morbido corpo della mora era caldo ed appagante, non avrebbe mai voluto staccarsi da lei…




   L’infame guardia, nascosta, osservò per intero tutta la scena ma non potendo seguire i tre a cavallo, decise di tornare indietro a fare rapporto. 
   La sera oramai stava calando e quasi sicuramente non avrebbe incontrato nessuno lungo il cammino; dopo il tramonto il più delle volte la città era deserta.
   Percorse la via principale accompagnato dal chiarore della torcia, finché, silenzioso, non raggiunse un portone vecchio e metallico.
   Era un luogo angusto e umido, le pareti parvero schiacciare l’inglese a ogni scalino che scendeva; le ragnatele erano immense e s’incendiavano con le scintille liberate dalla fiaccola.
   Finalmente raggiunse la fine della scalinata e lì un portone, tre volte quello precedente, lo bloccò; allora prese una chiave dalla borsa, la infilò in una fessura, girò, la tolse e fece lo stesso con le altre due.
   Il metallo vibrò nel lunghissimo corridoio e la porta si spalancò.
   Percorse decine di metri guidato dall’unica luce presente alla fine del tunnel e quando si avvicinò abbastanza, la torcia improvvisamente si spense.
   Un vento gelido lo accompagnò fino alla destinazione. Poi cessò.
   Una trentina di uomini armati ridevano e scherzavano, alcuni giocherellavano con qualche povera donzella, altri seri, discutevano sul da farsi, altri ancora, a terra, dormivano.
   Uno solo, incappucciato e seduto in disparte, continuava a disegnare con l’indice un cerchio immaginario sul legno marcio della tavolata.
   Appena l’inglese fu notato tutti si voltarono. 
   Egli, seguendo le usanze, s’inginocchiò recitando l’antico idioma.
   I presenti si alzarono e piegando il capo, in senso di rispetto, si misero una mano al cuore.
   Erano uniti da un patto di sangue, consapevoli che l’uccidere fosse un peccato mortale.
   Dovevano farlo però, ne era in gioco la salvaguardia dell’impero.
   « Ho fatto ciò che mi avete chiesto ».
   L’incappucciato smise di ruotare il dito e si alzò avvicinando il nuovo arrivato. 
   Allungando il braccio, mise la mano destra sulla spalla del suo discepolo, « Il re vi darà la giusta ricompensa ».
   La notizia sorprese tutti, tanto che un fastidioso bisbigliare irruppe nella sala; debitamente interrotto dall’inglese.
   « Il re? Credete mi accoglierà? ».
   Il silenzio tombale tornò improvvisamente; i presenti si guardarono negli occhi visibilmente scossi e impauriti.
   Non era passato molto da quando l’insulso suddito era entrato a far parte della setta, e ora che era uno di loro, poteva permettersi di fare tutto, tranne che rivolgere domande riguardanti il re…
   Con un dolce ma forzato sorriso, l’incappucciato, nascosto nell’ombra, rispose; « Certamente ».
   In men che non si dica, con una rapidità inaudita, si avventò contro il discepolo afferrandolo per la testa, lo alzò di peso e senza timore si avvinghiò mordendolo sul collo.
   Le vergini iniziarono a urlare ma subito furono accerchiate subendo all’istante la stessa crudele sorte.
   « Che spreco », disse qualcuno.
   Era stato uno sbaglio reclutare nuovi uomini direttamente dalle fila dell’esercito inglese, nessuno doveva venir a conoscenza del reale obiettivo di Ry.

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Capitolo 8
*** Capitolo 0.6 ***


CAPITOLO       0.6





ORE  16.30
AUSCHWITZ




   Il pranzo della pensione, per quanto semplice, aveva saziato il generale sino a riempirlo; sentiva chiaramente la stanchezza appesantirgli le palpebre ma non si sarebbe mai potuto addormentare quando c’era del lavoro da sbrigare; perciò, con circa un’ora d’anticipo, decise di recarsi sul campo per non cadere tra le braccia di Morfeo.
   Davanti l’entrata principale al campo di sterminio, tra il vento che spostava le innumerevoli gocce d’acqua, due ombrelli neri riparavano il Generale Mattew Crow e il suo secondo dalla pioggia che non accennava a smettere.
   « Quanto manca al suo arrivo? ».
   Il segretario posò gli occhi sul Rolex argentato e un pò titubante rispose, « È in ritardo ma sono sicuro che sta per arrivare ».
   «  Lo spero…»
   Crow stava visibilmente perdendo le staffe, odiava quel posto con tutto se stesso, sia per gli esperimenti passati, sia per quelli che faceva la compagnia ma purtroppo, non era il solo a dover prendere le decisioni e molte volte, le sue idee non venivano nemmeno prese in considerazione dagli altri consiglieri.
   In genere il secondo non infieriva mai sullo stato d’animo del superiore, anche perché c’era abituato oramai, si comportava allo stesso modo ogni qualvolta passavano per Auschwitz, ma quella volta volle rompere il ghiaccio, l’attesa non finiva mai. Quando sarebbe arrivato Michelle?
   « Odia davvero tanto il terzo Reich? », disse voltandosi.
   Crow, che tutto si aspettava fuorché quella domanda, lo squadrò da cima a fondo prima di rispondere. « Si vede così tanto? Sto proprio invecchiando…» – Sorrisero entrambi – « Bè… non ho mai mandato giù gli esperimenti nazisti e non condivido ciò che facciamo; sappiamo entrambi che ogni uomo, buono o malvagio che sia, è mosso solo dalle sue idee, dai suoi ideali, per questo non esiste un concetto ben definito di cosa sia realmente il bene o il male…».
   « In quanto tutto è relativo…».
   « Esattamente, incominciando da Napoleone, fino ad arrivare a Hitler, sono stati commessi crimini e brutalità che mai nessuno potrà comprendere fino in fondo. Tutto si studia partendo dal perdente, ma in ogni nazione la storia cambia, ognuno vede il passato con occhi diversi. Il Kaiser, se pur spietato, sapeva le brutalità che avvenivano in questo campo; per questo lasciò il comando del più grande centro di sterminio al generale Hoss…».
   « Che come lui condivideva l’ideale di salvaguardare la razza “ariana”…».
   « Ma che era mosso solo dalla pazzia…».
   « Non la seguo Generale ».
   « Voglio dire che nessuno ha il diritto di giudicarsi “guaritore” del mondo, pazzo o sano che sia; perché la vittoria di un popolo, dà sempre qualcuno perdente. Anche se con le migliori intenzioni, un “cattivo” ci sarà sempre, non spetta a noi quindi salvare il mondo ».
   « Ma noi almeno ci proviamo…».
   Il discorso andò a parare proprio dove Mattew voleva; finalmente stava per liberarsi di quel peso che portava dentro da mesi, « Lo so, ma è da un pò che ho perso fiducia nella compagnia; per questo ho deciso di ritirarmi…».
   La notizia non fu presa per niente bene dal “segretario" che con tono di rimprovero, delusione e sorpresa, non proferì altro che tre parole prima di esser brutalmente interrotto, « Ma Signor Generale…».
   « Fino ad oggi l’ho solo pensato, ci ho riflettuto molto e solo lei ne è al corrente; oggi presenterò parte del programma al nostro ospite Mounrat, confido molto in questo ragazzo… mi raccomando non dica a nessuno della mia decisione ».
   « Certo Signore…».
   Finito il dialogo, quasi fosse tutto calcolato, miracolosamente apparve la lunga limousine che con ansia i due attendevano; bucò la nebbia grigiastra e si avvicinò silenziosa.
   Sia Crow che il segretario scrutarono all’interno della portiera cercando di individuare il loro uomo; il vetro però era troppo scuro per riuscirci.
   Scendendo velocemente, tutto rintronato, il ragazzo poggiò i piedi sul ciottolato del campo, quasi volesse baciarlo, poi si presentò sventolando la sua brillante chioma scura sotto il diluvio e freddando con uno sguardo glaciale i presenti.
   « Lei deve essere il Generale Mattew Crow, io sono Michelle Mounrat, piacere di conoscerla…».
   « Il piacere è mio… ho sentito parlare molto di lei, ma mi dica, come mai questo ritardo? ».
   Avvampando all’istante, il giovane si sentì un completo idiota, non voleva rivelare il suo mal d’aria dando l’impressione d’un fannullone, ma dopo qualche minuto, spiegò le sue ragioni; poi quelle hostess lo avevano aiutato a distruggere la sua autostima poiché aveva passato il viaggio a vomitare in bagno mentre loro lo attendevano sui morbidi sedili dell’aereo.
      « Comunque ce l’ha fatta, i miei complimenti ».
   Quello era il primo complimento uscito dalla bocca del generale Crow, tanto che il segretario se ne accorse immediatamente fissando il superiore quasi fosse geloso.
   « Grazie! ».
   Michelle aveva duemila domande da porre al suo nuovo datore di lavoro ma decise di rimandarle seguendo quelle che per prime iniziarono ad affollargli la mente.
   « Così questo è il famoso campo di sterminio, non credevo mettesse tanta angoscia, ma non capisco. Che ci facciamo qui? ».
   « Lo vedrà presto ».
   Per tutta la conversazione, il segretario rimase muto, quasi affascinato da quel ragazzo che in poco tempo era riuscito a conquistare il generale con la sola semplicità di cui disponeva. 
   Qualcosa in lui lo poneva a un livello notevolmente più alto rispetto agli altri uomini e la sola idea di servirlo, dopo il possibile abbandono del Generale Crow, lo allettava.
   In trenta anni di servizio non aveva mai potuto mostrare il suo lato omosessuale eppure, se pur con qualche fatica, era riuscito a trattenere i suoi istinti verso quel giovane solo fino ad un certo punto, intromettendosi poi nel discorso: « Io sono Michael Cromin, piacere di conoscerti! ».
   « Piacere Michael ».
   Il segretario però doveva mantenere la disciplina se voleva tenersi il lavoro, le regole erano chiare: nessun tipo di rapporto all’interno dello staff, né etero né omo, ma quella chioma mora bagnata dalla pioggia, gli occhi azzurri, le labbra sottili e la pelle chiara… completavano la perfezione di quel ragazzo facendogli perdere la testa.
   Michelle, dal canto suo, aveva letto il regolamento in vigore all’interno della società sulla mail perciò sapeva bene ciò che poteva permettersi di fare e ciò che non poteva, decise quindi di lasciarsi scivolare sul cappotto fradicio l’infatuazione del segretario. E poi a lui piacevano le donne.
   Oddio che figura che aveva fatto sull’aereo. Ù
   Ancora ci pensava!
   Il Generale invece ci mise poco a capire che quell’imbarazzo appena sbocciato era in realtà qualcos’altro: fu in quel momento che decise di riprendere in considerazione la sua decisione di lasciare la compagnia.
   Con tono infastidito, Crow ruppe l’atmosfera. « Andiamo ora ».
   « Dove Signore? ». Rispose prontamente Michelle.
   « Nel Laboratorio ».
   « E dove si trova ? ».
   « Proprio sotto di noi ».

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Capitolo 9
*** Capitolo 0.7 ***


CAPITOLO      0.7





   Ice non sapeva quanta strada avesse percorso attraversando tutto il bosco, ma il mal di stomaco e la nausea, oltre ad un imponente dolore tra le gambe, lo avevano fatto letteralmente a pezzi.
   Era più in fin di vita lui che Philip.
   Fortunatamente quando smontò da cavallo, il senso di protezione verso il suo compagno lo mantenne saldo con i piedi in terra, pronto a trasportarlo in una vecchia casaccia poco lontana.
   La luce della luna filtrava tra le folte chiome del bosco; i roveri erano a centinaia, casa perfetta per gufi, pipistrelli e ogni genere di animale notturno.
   Sembravano tutti pronti ad accogliere i tre ospiti con i loro versi inquietanti.
   Non appena varcarono la porta, Ice notò subito un certo ordine all’interno del vecchio edificio, il tavolo d’innanzi al piccolo camino era posto per dare calore qualora il fuoco fosse stato acceso, le sedie ordinate invitavano i presenti a una pausa, persino le stoviglie erano già pronte per essere usate.
   Subito la ragazza si avvicinò a una porta socchiusa, la spalancò, e fece strada a Ice; esausto portava il suo compagno svenuto tra le braccia.
   Varcò la soglia e vide un letto di proporzioni matrimoniali, sembrava appena rassettato, nemmeno una piega rompeva la solidità della coperta; un vetro vecchissimo con delle macchie nere era sistemato alla spalliera di legno che dava sull’antico muro e un candelabro illuminava la stanza.
   Il corpo stanco del biondo fu adagiato e rimboccato dai due.
   La notte correva e il povero ragazzo, in preda agli incubi, continuava ad agitarsi nonostante la ragazza avesse disinfettato la ferita.
   La febbre doveva essere alta perché il giovane era un forno a legna e il sudore, copioso sul volto, rifletteva la pelle sotto la fioca luce.
   Il piccolo camino fu acceso dalla mora, con la speranza di riscaldare quell’ambiente tanto freddo quanto isolato.
   Erano passate più di cinque ore e sia Ice che la dama non si erano ancora rivolti la parola. 
   Incrociavano i loro sguardi ma ogni volta erano costretti a rimandare per correre in aiuto di Philip che urlava e si dimenava. Erano i gufi a parlare quella notte.
   Improvvisamente un dolore fortissimo fece mancare il povero Ice che, tornato al camino, si accasciò sul tavolo mentre le fiamme ballavano a pochi metri da lui.
   Sembravano godere dei suoi mancamenti. Ne aveva avuti già due cavolo. Ma perché? Lui stava bene!
   La dama, non accortasi di nulla, rimase invece inginocchiata ai lati del letto e tenendo una mano stretta al sofferente Philip, si avvicinò con il viso sul cuscino; i nasi che si sfioravano.
   « Amore mio sono qui », disse dopo l’ennesimo fremito del suo amato.
   Le lacrime di lei avevano appesantito le lenzuola, ora quasi completamente fradice e solo i singhiozzi, con lo scoppiettio del fuoco, sorvegliavano la casa.
   Era una fortuna che quella vecchia costruzione fosse ancora in piedi, ed era un ulteriore miracolo che nessuno l’avesse scoperta.
   Era il loro rifugio. 
   Figlia di corte, impossibilitata ad ambire alla corona, era stata costretta all’età di quindici anni ad abbandonare ogni genere di sfarzo cercando di vivere tra il popolo senza mostrarsi la regina che in realtà era.
   I nemici l’avrebbero uccisa, così come successe anni addietro alla sua famiglia.
   In una giornata afosa, quando la peste dilagava e spezzava centinaia di vite, era stata colta dal malore.
   Tra il popolo non erano in molti a esser soccorsi e ancor di meno erano quelli che guarivano, eppure quel dì Philip, come suo solito, aveva disubbidito al padre adottivo allontanandosi da Parigi, una delle più efficaci soluzioni per sfuggire alla morte nera, peccato però che il vecchio frate credesse fermamente solo e soltanto nella misericordia di Dio.
   Fu proprio quella la mattina che i due si incrociarono.
   Philip l’era rimasto accanto, innamorato fino al midollo, non temendo la malattia, nella cattedrale dove il suo mentore lo aveva accolto nuovamente come il figliol prodigo.
   Il carattere irascibile del giovane sembrava esser il vero e proprio io del biondo ma nonostante tutto, la sua amata continuava ad affiancarlo mostrandole la giusta via.
   Era davvero la sua principessa.
   Non avrebbe mai immaginato di trovarsi nella situazione opposta, non era abituata a vedere Philip soffrire.




   Per quanto comodo potesse essere il duro legno, Ice dormiva incessantemente sul tavolo, riscaldato dal calore delle fiamme che quasi lo avvolgevano; il fuoco sembrava vivo, nel vero senso della parola.
   Non sapeva quanto avesse riposato, ma improvvisamente aprì gli occhi sentendo un rumore anomalo. 
   In un baleno scattò in piedi provando a scrutare nelle tenebre.
   Era ancora notte e il vento portava una pesantissima pioggia che rendeva l’aria irrespirabile; controllò ogni angolo della casa, si affacciò persino alla porta che richiuse subito dopo un lampo agghiacciante, ma notò che tutto era in ordine.
   Si avvicinò infine al legno della stanza da letto che spaventosamente cigolava.
   Infilò la testa per sbirciare e accertarsi delle condizioni di Philip che rilassato finalmente dormiva; la mora accasciata in terra lo teneva per mano.
   Aveva un viso bianchissimo e perfetto, come una bambola di porcellana; doveva essere esausta, tanto che Ice si avvicinò e prese un angolo della coperta, lo rivoltò e glielo porse coprendola.
   « Amore ».
   Nel bel mezzo del sonno la ragazza, quasi certamente rivolta al suo amato, intimidì Ice che udendo quelle parole, rimase sbalordito e voltandosi, chiuse la porta.
   Fuggì a dire il vero.
   Tornò al fuoco, ora più grande, e rimase per tutta la notte a fissare la legna bruciarsi. Più che convinto d’intraveder qualcosa tra le fiamme.
   



   La mora, sentendo il calore dei raggi solari penetrare nella stanza, accompagnati dal cinguettio del bosco, aprì lentamente gli occhi trovandosi seduta in terra protetta dalla stessa coperta che avvolgeva Philip. Il suo amato continuava a dormire senza sosta e sembrava stesse migliorando: non era sudato e non scottava.
   « Grazie », disse sorridendogli, ignara che in realtà qualcun altro l’aveva coperta.
   Si alzò cercando di non provocare alcun tipo di rumore e uscendo chiuse la porta.
   L’odore di cenere era perfettamente percettibile: il camino doveva essersi spento poco tempo prima dell’alba.
   Ice invece era lì, ancora disteso sul tavolo che cercava di riposarsi.
   La dama si chiese come facesse in quella strana posizione a dormire così profondamente, ma subito le venne in mente come si era alzata poco prima.
   Non erano poi tanto diversi i due.
   Lei in terra e lui sul tavolo, poco cambiava.
   Avvicinandosi all’uscio lo aprì per far filtrare l’aria mattutina nella casetta e subito fu invasa dal profumo del bosco ancora bagnato.
   Le pozze d’acqua ricoprivano gran parte del terreno, riflettendo le alte chiome e dando la strana impressione di vedere un bosco sottosopra.
   Era felice di trovarsi nella vecchia casa con Philip, ed era entusiasta; il suo amato stava guarendo. A dire il vero in maniera innaturale. Una benedizione forse?
   La cosa strana era che non nutriva alcun interesse verso l’ospite che gli aveva salvato la vita.
   Era lì, ancora assorto nel sonno più profondo.
   Anzi no…
  “Dov’è?”.
   Senza sentirlo il ragazzo si era mosso con cautela affacciandosi alla finestra poco distante dall’uscio, ed entrambi assaporavano il fresco del bosco.
   Il peggio era passato, eppure nessuno dei due osava rivolgersi all’altro.
   Il timore di sbagliare era visibilmente manifestato dai modi incerti di entrambi che muti, ignoravano le loro rispettive presenze, fingendo di trovarsi soli.
   Di tanto in tanto Ice la guardava fuggevole e in quegli stessi momenti, lei lo imitava; l’imbarazzo provocava diversi minuti di stallo nei quali nessuno si voltava o batteva ciglio.
   Dopo un pò, la solfa riprendeva daccapo.
   Senza il minimo preavviso Ice, con il cuore a mille e sul punto di svenire, disse qualcosa.
   « Sta bene Philip? ».
   Era passata mezza giornata e le aveva rivolto una domanda tanto banale? 
   La mora parve quasi frastornata dall’incapacità del ragazzo di dare inizio a un discorso e la cosa la infastidiva notevolmente; forse perché in fin dei conti nemmeno lei ci stava riuscendo.
   « Avete impiegato metà mattinata per domandarmelo, complimenti », disse la ragazza in tono di sfida ed intenta ad infierire sull’imbarazzato ospite.
   « E voi metà mattinata per farmelo sapere ».
   « Potevate controllare voi stesso! ».
   « Non volevo disturbare ne voi, ne lui ».
   « Ci state riuscendo comunque grazie! ».
   Era un botta e riposta freddo e distaccato, ma amichevole, parvero quasi contenti nel fronteggiarsi, dato che era l’unico modo per intavolare un discorso ed iniziare a conoscersi.
   



   Dopo un breve silenzio, nel quale i due cercarono concentrazione per riprendersi dalle folli e malsane impressioni, provarono pacificamente a ricominciare.
   Purtroppo con l’ennesima dose d’imbarazzo.
   « Io…», « Io…».
   « Siete impossibile! », sbraitò la dama.
   Quasi sorridendo e felice, Ice rispose senza pensarci due volte, attaccandola nuovamente, « Lo stesso vale per voi, grazie ».
   La situazione, sempre più comica, sarebbe durata ancora a lungo se nessuno avesse ceduto, finché non fu proprio il ragazzo a dargliela vinta.
   « Mi chiamo Ice », recitò tutto d’un fiato.
“Strano almeno quanto lui”, pensò al volo lei.
   « Angeline » disse, liberandosi dal macigno che le schiacciava lo stomaco.
“ Bellissimo”.




   L’inglese, così come le vergini, era stato ucciso nei sotterranei della città da un gruppo di uomini follemente potenti e silenziosamente mortali.
   Nell’ultimo triste attimo di vita i poveretti erano riusciti a vedere una trasformazione singolare avvenuta sul viso e il corpo dei loro uccisori: improvvisamente i loro occhi, divenuti rosso fuoco, si erano accesi come fiammelle mentre le unghie, allungatesi, si erano trasformate in vere e proprie lame pronte per sgozzarli. Artigli micidiali al pari dei canini, troppo lunghi per essere umani.
   Una morte atroce e dolorosa infine era sopraggiunta.
   Le gesta dell’incappucciato però erano tutt’altre e incalcolabili, eppure, d’innanzi al suo re non contavano nulla.
   Ry, come lo chiamavano, diminutivo di Henry, era un sovrano giusto, intenzionato a riprendersi ciò che apparteneva a lui e alla sua dinastia di diritto; ma anche il re buono aveva un lato oscuro e la guerra, in realtà, era stata intrapresa per un altro motivo…
   Acquisito il potere, il neo-sovrano aveva creato l’ordine delle Dominazioni, ripreso dalla gerarchia degli angeli, i quali nelle sacre scritture erano l’esercito dell’apocalisse di Dio. 
   Le dominazioni ricevevano ordini da Dio, l’ordine li riceveva da Ry: prima piccolo principe di corte, ora sovrano di due mondi.
   Un ragazzo immortale a capo di una nazione e intenzionato a conquistare quella che di diritto era sua; non lo avrebbe fermato nessuno. 
   Eppure, durante la campagna, si era imbattuto in quell’insulsa resistenza che trucidava i suoi fidi collaboratori giorno dopo giorno, nonostante li avessero soprannominati “immortali”.
   C’era una guerra nella guerra, e nessuno lo sapeva.
   Così, mentre il monarca fronteggiava con il suo esercito i nemici agli occhi di tutti e della storia, la setta aveva il compito di attaccare quel gruppo di stupidi contadini francesi – come li aveva soprannominati –.
   Talvolta però capitavano degli spiacevoli “inconvenienti”, come quello accaduto a Philip.
   Le dominazioni non potevano uccidere sempre; c’era un limite a tutto, perciò molte volte si servivano del loro stesso esercito, quello inglese, per arruolare gli uomini più valorosi e dopo un’accurata transizione, ricevevano il battesimo di fuoco compiendo omicidi inspiegabili che solo Ry trovava “giusti”.
   Erano uomini malvagi, ma si limitavano, non come il pazzo re.
   Le continue richieste per uccidere uomini, donne o bambini, apparentemente senza alcuna logica, non erano più tollerate e di tanto in tanto l’ordine si rivelava a qualche pover’uomo che, felice di entrare e farne parte, avrebbe venduto anche l’anima e il sangue.
   Proprio com’era accaduto all’inglese, poi ucciso per mantenere il segreto.
   Non c’erano domande, solo ordini, eppure seguire apparentemente un neonato e un prete, Philip e Maurice, risvegliava numerosi interrogativi nella setta.
   Che avevano di particolare quei due?
   Ormai però non c’era più nulla da interrogarsi, il ragazzo biondo era morto e di lì a poco sarebbe toccato anche al prete.

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Capitolo 10
*** Capitolo 0.8 ***


CAPITOLO       0.8
 
 
 
 
 
ORE  17.30
ENTRATA LABORATORIO
AUSCHWITZ
 
 
 
 
   L’inverno in Polonia è letale, il termometro scende facilmente a meno 20 gradi centigradi e quel giorno, al campo di Auschwitz, la temperatura toccava le minime più alte mai registrate per quella stagione: -29°C ed era solo pomeriggio. A risentirne maggiormente erano il Generale e il segretario; Michelle stranamente si trovava a proprio agio.
   « Ha chiuso i cancelli per i turisti Michael? ».
   Senza degnarsi di una risposta, il distratto segretario seguì l’ordine del superiore senza mostrarsi imbarazzato; era raro che ignorasse le procedure e la rigidità del capo. Michelle lo rapiva, letteralmente.
   In quel momento estrasse dal cappotto un telecomando, grande come quelli per la chiusura centralizzata delle auto. Poi schiacciò un pulsante.
   Inizialmente non successe nulla, dopodiché una dietro l’altra, centinaia di luci si accesero finché non raggiunsero il cancello principale, quello dove una volta passava il treno che trasportava i poveri detenuti.
   I “lampioni” erano minuscoli led azzurri nascosti tra la corta erba che cresceva nel campo, nessun turista li avrebbe mai notati.
   Il laboratorio era invisibile e così era stato fin dalla nascita del campo di concentramento.
   Hitler lo aveva fatto costruire in gran segreto trasportando materiale la notte, mentre tutti i prigionieri dormivano; nessuno si accorgeva dei movimenti che avvenivano ad Auschwitz e chi li notava, non avrebbe potuto di certo raccontarli, chi entrava nel campo non ne usciva vivo.
   Ogni giorno migliaia di ebrei erano costretti a scavare per più di dodici ore di lavoro tunnel che mai nessuno fu in grado di comprenderne l’utilità: il laboratorio, ne è il risultato.
   Un edificio situato a 100 metri di profondità raggiungibile solo con un ascensore, una è l’entrata, e una è l’uscita.
   Dopo il suicidio di Hitler il laboratorio fu dimenticato, nonostante il Kaiser riponesse le speranze di vincere la guerra proprio tra quelle mura; oltre lo studio della bomba atomica e di soldati geneticamente modificati, infatti, in quella struttura erano create delle armi molto più efficaci, perché basate sulla paura che potevano incutere: gli UFO.
   Alcuni nazisti si erano tramandati la leggenda del laboratorio segreto, solo in pochi ne erano a conoscenza e ancor meno lo avevano visto ma ora, anche Michelle lo avrebbe ammirato; la sua euforia gliela si leggeva chiaramente in faccia: sembrava un bambino al luna park.
   Chiuso l’enorme cancello, il generale e il segretario iniziarono la normale procedura di apertura del laboratorio…
   Michael iniziò stranamente a incamminarsi sulle traversine di legno dei vecchi binari e ad ogni passo, il generale componeva un codice che inviava a tempo sul suo palmare High Tech; era come la serratura di una porta inviolabile, la combinazione di un lucchetto sconosciuto…
   Michelle, dal canto suo, osservava ogni particolare.
   La procedura andò avanti per circa venti secondi, decine di numeri e traversine furono “schiacciate”.
   Mounrat rimase immobile tutto il tempo studiando minuziosamente ogni minimo movimento, fissando i codici e fotografandoli nella sua memoria…
   Finalmente qualcosa accadde: i led azzurri cambiarono lentamente colore iniziando ad assumere una tonalità via via sempre più calda; divennero rossi e stranamente, come le luci di un’ambulanza, incominciarono a ruotare tutti assieme. Il campo si trasformò, almeno all’apparenza, in una pista di atterraggio per aerei.
   In quel momento tre jet militari sorvolarono Auschwitz emettendo un rumore fortissimo, simile al passare di unghie su una lavagna.
 “Uno schermo”, pensò la recluta con quattro lauree.
   Fu senza rendersene conto che una porticina, mossa da qualche meccanismo, si materializzò a poca distanza dal Generale; si trovava immersa nel fango, ai lati della strada, nel fosso dove l’acqua piovana veniva incanalata.
   « E noi dovremmo passare tra quello schifo Signor Generale? ».
   « È la procedura…».
   Il segretario in fretta e furia tornò con il gruppo e prese parola: « Non si preoccupi Signor Mounrat, potrà solo che apprezzare ciò che l’attende…».
   « Ah ne sono sicuro! ».
   « Allora entriamo? È molto che non metto piede qui dentro, vediamo come procede lo studio su Axel ».
   A quelle parole tutti accompagnarono il Generale seguendolo a ruota mentre Michelle, ripensando al codice d’entrata, si ammutolì; il luogo più segreto del pianeta stava per divenire suo.
 
 
 
   Nel frattempo la missione Energy del Sahara, per quanto possibile, era partita daccapo.
   Nonostante Ice mostrasse chiaramente ogni sintomo che i medici dell’intero pianeta avrebbero diagnosticato come coma, gli scienziati dell’Hide Corporation continuavano a sorvolare quel particolare tentando continuamente di attingere quanta più energia dal ragazzo che di tanto in tanto mostrava dei picchi spaventosi…
   Il primo, a insaputa degli scienziati, era avvenuto quando aveva sognato Angeline che in lacrime abbracciava Philip, il secondo, molto più forte, quando la dama inconsciamente lo aveva chiamato “amore”; a quanto sembrava, erano proprio i suoi ricordi a scatenare il potere che nascondeva.
   Gli scienziati però, per quanto cervelloni, non riuscivano a spiegarsi quell’alterazione così grande, ma ciò non li spaventava, perché qualsiasi cosa fosse, era perfetta per risvegliare in lui ciò di cui avevano bisogno.

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Capitolo 11
*** Capitolo 0.9 ***


CAPITOLO      0.9
 
 
 
 
 
   Era passata l’ora di pranzo e sia Ice che Angeline, dopo un rapido pasto, avevano ripreso a parlare senza sosta.
   Lei gli aveva raccontato del suo passato da principessa, un’esperienza del tutto nuova per Ice che tranne che per la giornata precedente, non ricordava molto delle sue origini, se non il nome di appartenenza.
   Ciò aveva incuriosito la dama che lo ammirava e lo studiava allo stesso tempo.
   Era un ragazzo difficile da inquadrare e pieno di segreti, se lo sentiva.
   Philip invece era così, come appariva, uno sbruffoncello dall’animo nobile, un ottimo cavaliere, un egregio amante…
   Non che fosse sposata, ma la passione che il biondo le mostrava ogni volta, ricordava quella di due amanti e ciò la rendeva chiaramente pazza di lui.
   Ice, dal canto suo però, non conosceva il significato della parola “amore”.
   Almeno così credeva; era un mondo nuovo quello che gli si stava presentando e c’erano molte cose che non conosceva.
   I due, quasi dimenticandosi dell’imbarazzo iniziale, ora scherzavano e si prendevano in giro, come se si conoscessero da un pezzo, come se quello fosse il primo incontro di due amici che non si vedevano da tempo.
   « Siete proprio legata a Philip ».
   Sorpresa! Angeline non si sarebbe mai aspettata una domanda-affermazione così diretta.
   Era furbo lo sconosciuto.
   Voleva rispondere un sì tanto scontato quanto profondo, ma stranamente non volle farlo.
   Indugiò per qualche secondo, palesando la paura che covava dandogli quella notizia.
   Forse Ice la sapeva lo stesso, sembrava gli avesse letto nel pensiero per tutto il tempo, ma non aveva intenzione di manifestarla così apertamente, dirgli di amare Philip…
   Non sia mai! In fondo lo conosceva appena, che ragione aveva per raccontargli i suoi sentimenti!
   Angeline era una donna di corte, educata e riservata, non rispondeva di certo a quelle domande!
   Eppure aveva l’impressione che stesse cercando di mantenere una porta aperta per il nuovo ragazzo, anche se odiava ammetterlo.
   Era abituata al bellissimo biondo, del tutto diverso dal moro che aveva di fronte, eppure una parte di lei lo ammirava, mentre l’altra lo odiava letteralmente.
   Stava diventando pazza.
   « Farei di tutto per lui ».
   Ed era vero.
   La risposta, impassibile, sembrò quasi togliere vent’anni di vita alla ragazza che si vergognò con tutta se stessa.
   Perché aveva risposto?
   Non voleva, eppure lo aveva fatto, qualcosa la stava letteralmente ipnotizzando, era Ice???
   Aveva l’impressione di piacere allo sconosciuto, ma a chi non piaceva? Già Philip doveva farsi in quattro per proteggerla dai numerosi pretendenti che ignoravano un loro legame, poiché era raro vederli assieme, eppure Ice non mostrò alcuna insicurezza, nonostante gli avesse detto, in maniera del tutto chiarificante “sono sua”.
   Le scaramucce di pochi minuti prima erano solo un ricordo, ora la casa era di nuovo silenziosa, ed entrambi, erano fissi ognuno sull’altro.
   Ice sembrava volesse aggiungere altro, Angeline era intenzionata a esaudire ogni suo desiderio.
   L’attrazione che li stava unendo cresceva senza sosta di secondo in secondo, i cuori di entrambi sembravano esser in simbiosi e da un petto all’altro battevano all’unisono.
   A ritmo dei loro pesanti respiri, comandati dai loro sensuali pensieri.
   L’aria della casa divenne bollente, la pelle della dama bolliva, gli occhi glaciali di Ice la stavano mangiando viva…
   Era persa.
   Quasi senza rendersene conto si rivolse al moro con parole che con un’altra persona non avrebbe mai osato pronunziare, le stesse che analogamente le aveva sussurrato Philip quando si era svegliata dopo aver combattuto la peste.
   Non avrebbe mai immaginato di ripeterle a uno sconosciuto.
   In passato il tutto era sfociato in un bacio passionale, sbocciato poi in un amore profondissimo, ma ora?
   Che sarebbe successo?
   Non ci rifletté e si lasciò andare.
   « Se vi dicessi che per voi farei di tutto…», disse la ragazza avvicinandosi spaventosamente alla bocca di Ice per sussurrarglielo…
   Le stesse parole che le disse Philip.
   « Vi risponderei che per voi, farei l’impossibile ».
 
 
 
 
 
 
   Allucinata dalla risposta, Angeline si lasciò cadere verso le labbra di Ice che, prima ancora di sfiorarle, si mosse per non farsi baciare.
   Anche se era quello che voleva.
   Sentiva un’energia spaventosa sprizzargli da tutti i pori, avrebbe potuto alzare una montagna intera se avesse voluto, ma Philip era lì sulla porta e li osservava.
   Fortunatamente i riflessi di Ice bloccarono la dama sul punto più bello, nel momento più tragico.
   Tutto però era filato liscio, “almeno per ora”. Pensò il giovane conquistatore.
   Subito, non appena la ragazza notò il malato, si volse frastornata.
   Che ci faceva il suo amore in piedi?
   Era lì, immobile, quasi sul punto di morire, eppure si era alzato per vederla… o per salvarla dallo sconosciuto?
   « Ve la siete vista brutta », disse Ice cercando di nascondere ciò che pochi istanti prima stava ignobilmente facendo.
   Lo sguardo fisso e bruto di Philip sembrò volesse strangolarlo.
   Angeline si alzò di scatto e corse verso le braccia del biondo.
   « Dovete riposarvi! Cosa vi è preso! ».
   « Dovevo vedervi…» disse il biondino per poi riprendere,         « Avevo… avevo bisogno di voi ».
   Senza pensarci due volte la principessa lo prese e aiutandolo a camminare, lo riportò a letto.
   Ci fu un istante nel quale i due ragazzi si guardarono fissi nelle orbite, pronti a venire alle mani, i quattro occhi azzurri scintillarono senza lasciar trasparire nessun’emozione.
   Angeline, tornando al battente, non alzò nemmeno lo sguardo e chiuse la porta vergognandosi; il cuore in gola.
   Rimasto solo, Ice ebbe la sensazione di venir investito da uno scrosciare impetuoso d’acqua; fu a quel punto che sconsolato uscì nel bosco.
   Vedendo pesanti nuvoloni rientrò e si avvicinò al camino: di lì a poco avrebbe piovuto, ne era sicuro.
   Un bel fuoco era ciò che ci voleva.
   Dopo aver armeggiato con il legname accatastato, riuscì a creare una base solida per la fiamma.
   Improvvisamente, sentendosi mancare, gli occhi iniziarono a bruciargli; vere e proprie ustioni lo stavano uccidendo tanto che, dolorante, si accasciò in terra silenzioso.
   Rotolò tenendosi il viso per un tempo che sembrò interminabile, poi, magicamente, il fuoco si accese da solo.
   Fu in quel momento che il dolore scomparve.
   Allucinato, il ragazzo si allontanò in un baleno arrivando dalla parte opposta della stanza mentre le candele, sparse per l’ambiente, iniziarono a sciogliere la cera con il poco calore che emanavano.
   Si erano accese anche loro.
   Era qualcosa di sovrannaturale e Ice ne fu scosso; uscì in fretta e furia dalla porta per correre verso un albero e ripararsi dalla pioggia pesantissima che cadeva.
   La casa, scura, ora lo metteva in soggezione; c’era qualcosa nell’aria, qualcosa di malvagio, e lui lo percepiva.
   Decise di passare del tempo all’esterno, freddandosi, sotto il diluvio.
   I minuti passavano e presto il tramonto sarebbe terminato; non che lo vedesse, ma il bosco notturno si stava risvegliando.
   Non pensava a nient’altro, non gli importava del pericolo che correva restando all’esterno, aveva solo l’immagine dolce e struggente di Angeline che piangeva, gli bastava per invadere ogni suo pensiero e portarlo in un’altra dimensione.
   Era bellissima.
   Succube della sua immaginazione, il ragazzo percepì un rumore familiare partire dal lato opposto della casaccia, sempre più tenebrosa.
   Lo conosceva.
   Alzandosi lentamente dalla melma del terreno, s’incamminò stando bene alla larga dalle mura dell’edificio.
   Giunse a una diversa struttura di legno, non molto grande e vide lo stupendo cavallo che lo aveva trasportato il giorno prima.
   Scalpitava e mangiava il fieno ingiallito.
   “Questo è un ottimo posto per passare la notte”.
   Aprendo la vecchia porta scardinata, con non poche difficoltà aggirò il cavallo e salì su una scaletta al piano superiore: un angusto spazio dove il fieno veniva fatto essiccare.
   Si tolse i vestiti fradici e tra le pungenti pagliuzze, si distese guardando il legno a pochi centimetri dal suo viso.
   Aveva l’impulso irrefrenabile di coprirsi, ma doveva asciugarsi, non voleva ritrovarsi ammalato assieme a Philip.
   La giornata era passata velocemente da quando aveva iniziato a conoscere Angy, così l’aveva soprannominata.
   La principessa gli aveva rubato il cuore.
   Si concentrò cercando di sforzarsi nel rivivere la mattinata daccapo, con l’imbarazzo, la passione e, sì, persino la vergogna provata d’innanzi a Philip.
   Quando, senza rendersene conto, la sua attenzione si focalizzò sullo scalpitare del cavallo prima, e su tutt’altro poi.
   Sentì chiaramente, ciò che non voleva sentire.
 
   Due corpi, tra le lenzuola, rotolavano uno sull’altro; ansimavano, vibravano…
   Philip baciava la calda pelle di Angey mentre lei, seduta su di lui, inarcava la schiena mostrandogli il corpetto rosato che fu presto aperto, scoprendole i seni.
   Le morbide labbra del biondo afferravano ogni protuberanza di lei, dalle dita al mento, dal seno alla lingua; i loro corpi, eccitati, si sfregavano in continuazione mandando in ebollizione gli spiriti innamorati dei due. 
   “Angeline!”.
   Un sentimento terribile prese il sopravvento su Ice che senza rendersene conto, si sentì gli occhi pesantissimi, sul punto di esplodere. Batté le palpebre per venir incontro al fastidio che iniziò a provare, quando due cascate salate si riversarono sulle sue guance.
   Perché piangeva? Cos’era quel sentimento che stava provando accompagnato dal buco allo stomaco?
   Fu a quel punto che si lasciò andare iniziando a sognare…
  
   Due iridi azzurre sbucarono dal buio.
   Saltò dal fieno come un grillo e col fiatone.
   Non fu in grado di comprendere quanto avesse dormito, ma il colpo al cuore, lo svegliò togliendogli il respiro.
   Era sicuro di averli già visti altre volte, erano familiari, ma la paura provata era senza precedenti; quello era stato il suo primo incubo.
   La morte al contrario, pensò, sarebbe stata senz’altro più amichevole di quei due occhi spaventosi.
   Circa dieci minuti dopo la stanchezza lo fece sprofondare nuovamente in un sonno ancor più profondo.
 
 
 
 
   Erano passati due giorni e la pioggia non accennava a smettere per lasciar spazio al cielo limpido e fresco della primavera; quella notte una vera e propria bufera si stava abbattendo sulla Francia.
   Maurice aveva appena terminato di celebrare la liturgia quando i fedeli lasciarono all’unisono la cattedrale, tornando nelle rispettive case; solo qualcuno rimase in silenzio cercando di pregare parlando personalmente con Dio.
   Era stanco.
   Tutto il giorno aveva sperato nel ritorno di Philip e Ice, ma sapeva bene che non sarebbe successo; quel biondo aveva la facoltà di manipolare chiunque con quel modo di fare e Ice non ne sarebbe stato di certo immune.
   Gli venne in mente quando quasi vent’anni prima lo trovò sulle scalinate della chiesa, era un neonato fragile, si ammalava spesso e ora non gli pareva vero che fosse diventato uomo; era felice, ma non riusciva a perdonarsi per la scarsa capacità di controllo che aveva su di lui.
   Stava sbagliando ancora perché il nuovo arrivato, si comportava allo stesso modo.
   E lui soffriva.
   Nella sua monotona vita era riuscito a trovare due ragazzi, uno più bello dell’altro, “un segno di Dio”, eppure aveva fallito due volte con loro.
   Volle rivolgersi alla Madonna in cerca di conforto.
   Lasciò quindi la navata centrale e si diresse verso la piccola cappella privata.
   Il pesante scrosciare rimbombava tra le pareti di pietra della cattedrale, bussando incessantemente sul tetto dell’edificio; di tanto in tanto qualche lampo squarciava le nuvole illuminando improvvisamente i corridoi bui che il frate silenziosamente attraversava.
   C’era un’atmosfera tenebrosa, ma Maurice continuò ad avanzare senza perdersi d’animo.
   Superò circa tre porte, le richiuse diligentemente e salutando tre sorelle, si diresse verso la cappella…

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Capitolo 12
*** Capitolo 1.0 ***


CAPITOLO  1.0
 
 
 
 
 
ORE   19.30
LABORATORIO HIDLEE
AUSCHWITZ
 
 
 
 
   Una piccola scalinata ripida portava il Generale, il segretario e Michelle nel laboratorio; erano diversi minuti che scendevano al buio e la giovane matricola era impaziente di raggiungere la méta.
   Delle piccole plafoniere impolverate illuminavano a malapena i taglienti gradini di marmo ma, senza troppe difficoltà, i tre scendevano lentamente.
   « Generale mi tolga una curiosità, i jet che sono passati sopra di noi li ha chiamati lei? A cosa servivano? ».
   Il ragazzo era sveglio, sia Michael che Mattew si scambiarono una rapida occhiata, non si aspettavano di certo una recluta di tale livello.
   « Siete a conoscenza dei moderni satelliti? Potrebbero scattarci delle foto e scoprire facilmente il nostro segreto; quei jet sono aerei in grado di schermare qualsiasi territorio si trovi sotto il triangolo creato dalla loro formazione. Ne esistono solo tre al mondo, hanno una tecnologia d’avanguardia che molti ingegneri, anche all’interno del nostro staff, non riescono a comprendere ».
   « Cosa fanno di preciso? ».
   In realtà nemmeno il generale sapeva rispondere esaurientemente a quella domanda, quegli aerei avevano fatto centinaia di voli intorno al mondo per “fotografare” l’intero globo quando nelle zone interessate vi era una totale assenza umana, infatti, pochi minuti prima, dallo spazio i tre ombrelli sul campo erano solamente pura immaginazione: la formazione fantasma nascondeva tutto.
   Potevano essere impiegati persino sul campo di battaglia nascondendo l’eventuale attacco da parte di truppe sia terrestri che navali; oltre i satelliti, infatti, nemmeno i radar captavano il loro segnale; la base dei jet era la stessa degli stealth, ma notevolmente migliorata.
   « Per farla breve, fotografano il territorio sotto cui volano, nascondendo ogni movimento terrestre…».
   Michelle non trovò un’altra domanda da proporre al generale; con poche parole aveva espresso ciò che eccezionalmente erano in grado di compiere quei jet.
   Anzi sì, dopo qualche secondo una la trovò, ma era retorica; già sapeva l’eventuale risposta di Mattew.
   « E qualcuno è al corrente dell’esistenza di questi aerei? ».
   « No… nessuno ».
   Ci aveva preso.
   Sorrise il Generale, mentre Michelle rimase muto; c’era ancora molto da vedere.
   Finalmente le scale terminarono.
   I tre si ritrovarono ancora in un corridoio scuro, illuminato stavolta da centinaia di neon bianchi sistemati in terra; il passaggio era appena due metri di altezza e largo quarantacinque centimetri. Lo stretto necessario per far passare i “turisti”.
   Improvvisamente l’angusto passaggio si aprì allargandosi sia in altezza che in larghezza: avevano di fronte una porta di acciaio perfettamente lucida alta almeno 9 metri.
   Forse anche di più.
   “ H.I.D.L.E.E ”.
   Hide - Imperial Deathless - Laboratory of Extreme Experiment, così c’era scritto…
   Michelle si sentì impotente d’innanzi a tanta maestosità.
   La sua figura riflessa sul metallo diede subito all’occhio.
   « Come si sente? La vedo sconvolto », domandò il generale.
   « Non mi sarei mai aspettato un laboratorio di questa portata…».
   « Non si preoccupi, la capisco. Michael! ».
   In quel momento, dopo l’ordine del superiore, il segretario si avviò in un preciso punto della maestosa porta poggiando il pollice della mano destra; proprio al centro di una piccolissima rientranza.
   Al solo contatto uno schermo, come per magia, si materializzò sulla lastra di acciaio e una tastiera scese, pronta per essere usata.
   « Salve Generale Crow, ben arrivato; è tanto che non ci fa visita, per piacere inserisca i suoi dati, il codice segreto, poggi il palmo della mano sull’apposita zona e pronunci il suo nome ».
   Michelle rimase sconcertato, era un computer parlante?
   Crow fece quanto richiesto dopodiché:
   « Grazie Generale, prenderà alla sprovvista tutti quanti con questa visita, nessuno si aspettava il suo arrivo, non dopo quello che è successo…».
   « Cavolo parla! ».
   Urlò entusiasta Michelle.
   « È  stato tutto risolto da Smith, almeno così ci ha detto ».
   « Si fida del suo…».
   « Fratellastro? Bè, ho qualche altra possibilità? ».
   Lentamente, senza il minimo avvertimento, la maestosa porta metallica si aprì in due: il meccanismo era un miracolo ingegneristico, grande poco più del motore di un’automobile spostava trenta tonnellate d’acciaio senza il minimo sforzo.
   Mentre i visitatori entrarono, visibilmente entusiasti, l’altoparlante del computer richiamò ancora una volta l’attenzione del supervisore…
   « È sveglio, ha superato ogni nostra aspettativa, ed è stabile ».

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Capitolo 13
*** Capitolo 1.1 ***


CAPITOLO      1.1
 
 
 
 
 
   Quella sera un nuovo credente si era unito alla liturgia celebrata da Maurice; l’uomo, rimasto col capo chino per tutto il tempo, minimizzando ogni movimento, si era alzato improvvisamente proprio al termine della messa, seguendo il frate.
   Sarebbe stato senz’altro un vantaggio enorme conoscere le varie stanze di Notre-Dame.
   Quante monache aveva contato? Una trentina, come minimo, quindi… quante camere c’erano in quella cattedrale?
   Avrebbe attaccato senza destare sospetti e se ne sarebbe andato in tutta calma se avesse saputo la pianta dell’edificio, ma così com’era, aveva l’impressione di trovarsi in un labirinto!
   Erano passati circa un paio di minuti e quasi tutti i presenti avevano abbandonato la navata con l’intento di tornare alle proprie abitazioni, persino le sorelle, dieci ne aveva contate, si erano dileguate.
   La tempesta continuava a fischiare fuori dalla chiesa.
   Il frate aveva benedetto i presenti per poi recarsi, in tutta fretta, nel suo alloggio privato.
   Come di consuetudine, l’uomo si alzò nascondendo il volto sotto l’ombra del grande cappuccio, dirigendosi verso le stanze; l’inflessibile attenzione per i particolari e la disciplina lo costrinsero a seguire la sua preda a una distanza tale da rischiare di perdere le sue tracce: i corridoi bui e longilinei, con i numerosissimi incroci, formavano un labirinto letale per chiunque entrasse, estraneo che fosse.
   Fu dopo qualche minuto di silenzioso pedinamento che il frate salutò un paio di monache ed entrò in una delle porte.
   Estasiato dalla caccia, l’incappucciato non si accorse che alle sue spalle qualcuno stava sopraggiungendo mentre d’innanzi a lui, svoltato l’angolo, altre monache lo avrebbero intercettato senz’altro.
   Non poteva farsi scoprire, qualunque fosse la causa; uccidere il predicatore e quindi la riuscita della missione, era equiparabile a nascondere la sua presenza.
   Il fallimento di una o dell’altra avrebbe portato a morte certa; Ry non perdonava.
   L’idea malvagia che sfiorò all’istante i suoi pensieri fu di compiere una silenziosa strage, ne era capace; le dominazioni ne erano capaci.
   Un omicidio di massa era l’ideale il più delle volte.
   Il suo istinto acconsentì, Ry avrebbe approvato, ma non il suo spirito.
   L’incarico affidatogli era semplice, forse troppo, perché doveva mandare tutto all’aria? Uccidere un umano qualunque non avrebbe richiesto abilità speciali e se le avesse usate, non se lo sarebbe mai perdonato.
   Non avrebbe “giocato alla pari” e la lealtà, era tutto per lui.
   Quindi, perché imbrogliare?
   Purtroppo però non aveva chissà quante scelte sottomano.
   O uccideva tutti, atto ignobile, o usava le sue particolari capacità; in entrambi i casi, il suo ego avrebbe ricevuto un durissimo colpo.
   “Maledizione”.
   Non poteva rischiare di esporsi.
   I frati e le monache s’incontrarono a metà corridoio, benedicendosi.
   Rimasero qualche secondo a parlottare sugli avvenimenti della giornata: stranamente gli invasori quel giorno avevano avuto l’ordine di ripiegare.
  “Chissà perché”, pensò l’incappucciato.
   Le quattro figure sotto di lui non si sarebbero mai accorte della sua presenza: con naturale disinvoltura, al loro arrivo, era riuscito a compiere un balzo tale da raggiungere il soffitto sopra le loro teste, allargando poi le braccia e le gambe, necessarie a porre la giusta resistenza contro lo forza di gravità.
   Il risultato: sembrava un ragno pronto per assaporare le quattro mosche cadute nella sua tela.
   Purtroppo il suo istinto, per quanto succube, in quei casi spesso riaffiorava facendogli perdere il controllo; la lingua biforcuta come quella di un rettile uscì allo scoperto sfregandosi contro i pungenti canini, pronti ad assaporare la calda carne umana.
   Fortunatamente fu interrotto nel momento stesso che l’attacco stava per compiersi.
   Un lampo, seguito immediatamente da un tuono, illuminò quella parte di corridoio.
   Una monaca, presa dallo spavento, alzò lo sguardo imprecando.
   La figura di una bestia di satana, pronta per ucciderla, le sconvolse la mente; provò a urlare, ma non appena tentò di farlo, per poco non svenne.
   Fu a quel punto che provvidenzialmente il più giovane dei pastori balzò in avanti e l’afferrò; i coscienti alzarono subito lo sguardo ma non videro nulla; solo qualche tavolaccia di legno.
   L’incappucciato, vistosi scoperto, si era allontanato dalla luce del lampo indietreggiando opportunamente.
   Era immerso nell’oscurità, tanto che i sei occhi rimanenti, nonostante lo stessero fissando, non riuscirono a individuarlo.
   Rimasero tutti immobili, scrutando le tenebre, ma nessuno ebbe il coraggio di perlustrare il corridoio con cura; quella notte incuteva già abbastanza paura e qualora l’avessero scoperto, l’incappucciato sarebbe partito all’attacco.
   In pochi istanti la monaca fu soccorsa e portata in una delle innumerevoli stanze, forse la sua, ricevendo le cure di cui aveva bisogno; ma che di lì a poco, non le sarebbero servite.
   L’incappucciato, di nuovo solo, si lasciò andare e dopo un’acrobazia, quasi fosse un gatto, tornò con i piedi per terra.
   Percorse pochi passi, quelli che lo separavano dalla porta del frate, e piegata la vecchia maniglia d’ottone, fece scattare la serratura chiusa dall’interno, poi entrò.
   Maurice, seduto sui talloni, era al centro della stanza rivolto alla luna, sarebbe stata la sua ultima penitenza e il killer sapeva che quella notte, un solo omicidio non sarebbe bastato…
 
 
 
 
   Era ancora notte fonda quando Ice aprì improvvisamente gli occhi.
   La luna era alta nel cielo e il silenzio padroneggiava nel bosco, la pioggia finalmente aveva cessato di cadere e sia Philip che Angeline sembrava dormissero.
   Qualcosa però non andava, era tutto fin troppo calmo e il ragazzo lo percepiva benissimo.
   Una strana sensazione, quasi innata, gli impediva di prender sonno nonostante cercasse da ore di chiudere gli occhi e scacciare i fastidiosi pensieri; anche il cavallo, poco sotto, sembrava pronto per aiutarlo, era sveglio e pimpante, continuava a scalpitare, eppure erano passate almeno un paio d’ore da quando Ice lo aveva raggiunto nel fienile.
   Provò a immaginare quello sguardo glaciale ancora una volta, forse era quella la causa del suo stato d’animo; anzi no, non lo spaventava più: erano già tre o quattro volte che chiudendo gli occhi ci aveva ripensato, e ora non gli faceva più tanta paura.
   Era un sollievo a dir la verità. Eppure il problema di fondo restava.
   Girarsi e rigirarsi sul fieno serviva solamente a pungerlo; il sonno lo aveva definitivamente abbandonato per quella sera.
   Quando tutt’un tratto gli venne in mente la strada percorsa con Angeline, il tentato omicidio a Philip, e l’imponente Notre-Dame.
   L’illuminazione non si fece attendere.
   “Maurice”.
   Senza esitazione indossò gli abiti ancora bagnati, scese le scale e salì in groppa al destriero.
   I massicci tronchi del bosco sfilavano a velocità elevata mentre il cavallo, guidato da Ice, galoppava senza sosta.
   Gli ululati selvaggi non distrassero il ragazzo, che sicuro della sua intuizione, tentava di raggiungere il più in fretta possibile il centro abitato.
   Finalmente, superata la paura di trovarsi a circa due metri da terra e correre su una bestia senza controllo, riuscì a valicare la fitta sterpaglia ai confini della città.
   La prima considerazione fu la stessa di quando aprì gli occhi destandosi: era tutto fin troppo calmo; nessuno si aggirava per strada, la pioggia aveva lasciato solo un pesantissimo odore di erba bagnata e persino il vento aveva deciso di andare a dormire quella notte.
   Parigi era deserta.
   Nessuna guardia, né inglese né francese, persino gli ululati erano spariti; solo il pesante respiro del cavallo al suo fianco poteva esser percepito, il resto era completamente morto.
   Con evidente angoscia e non poco timore si diresse lentamente verso la cattedrale.
   La porta principale sembrava esser sigillata e nessun lume proveniva dall’interno. Il buio più completo.
   Il primo pensiero fu di circoscrivere il perimetro dell’edificio e così, abbandonando sul posto l’animale, iniziò a correre lungo la mattonata grigia della chiesa.
   Raggiunse poi una struttura più bassa, apparentemente un’abitazione, “forse dei fedeli” pensò: aveva delle piccole finestrelle in alto, poco sotto il cornicione del tetto e sembrava un piccolo condominio.
   Era troppo scuro: intravedere qualcosa divenne ben presto impossibile perché a complicargli le cose si era intromesso anche un nuvolone.
   La luna era coperta e l’ambiente, oramai, sembrava un pozzo senza fondo.
   Muovendosi lentamente superò l’angolo e dopo qualche silenzioso passo notò una porta spalancata che cigolava avanti e indietro.
   Fu quando allungò il braccio per bloccarla che sentì uno strano liquido sul legno e sul marmo sotto i suoi piedi.
   Una qualsiasi altra persona avrebbe avuto paura, eppure quel sentimento era l’ultimo che il ragazzo avrebbe provato quella sera; d’altronde la curiosità se lo stava mangiando vivo. Ma forse, più semplicemente, non conosceva il vero senso del pericolo.
   Entrando notò ai suoi lati le grigie pareti del corridoio schizzare verso l’ignoto d’innanzi a se, mentre in terra, il liquido percepito era sempre più pesante e rendeva l’aria irrespirabile.
   C’era uno strano odore, quasi nauseante. Di ferro forse.
   Senza rallentare superò cinque o sei porte, quasi fosse richiamato da quella puzza sempre più forte, finché, svoltando a sinistra, entrò nell’unico battente aperto…
   Per tutta la “passeggiata”, lenta nell’oscurità, non commise un passo falso, nemmeno uno scricchiolio risuonò nel corridoio, e quando arrivò nella stanza completamente vuota, la retta figura d’innanzi a lui non si accorse della sua presenza.
   Era a circa un metro e mezzo quando l’uomo, percependo un movimento alle sue spalle, s’irrigidì di colpo.
   Forse però, quella che fu la sua prima impressione, si rivelò errata; non era un uomo.
   Voltandosi di scatto e allungando un braccio, tanto peloso quanto grosso, fu colpito in pieno: scaraventato in alto contro l’angolo più lontano della stanza.
   La reazione del giovane gli permise di ammortizzare il colpo e aggrapparsi con gli artigli sulle travi di legno.
   Erano usciti all’istante; fenomenali.
   Quando ritrovò la lucida, ancora euforico, si accorse di trovarsi all’incirca a circa tre metri da terra; il nemico era già sparito e al suo posto, c’era un corpo senza vita.
   Subito lasciò andare la presa e si diresse verso la salma; quando le nuvole lasciarono spazio alla luna, il volto oramai senza espressione di Maurice era l’unica parte del corpo intatta. Il resto era sparso qui e là.
   Non era unito a quell’uomo ma la rabbia che s’impossessò istantaneamente di lui fu notevole, forse più perché era stato colpito che per altro.
   In realtà, non lo sapeva nemmeno Ice il vero motivo.
   Abbandonando il corpo freddo del frate, si diresse verso l’uscita; il sangue: era quella la puzza che sentiva.
   Tornato all’aria aperta, fu colto dall’ennesimo senso di nausea, un odore diverso lo richiamava di nuovo verso l’ignoto; era qualcosa di soprannaturale e insieme spaventoso.
   La puzza di morte, non di morto.
   L’alba stava salendo velocemente quando si diresse verso un casolare, forse una taverna, seguendo quello strano effluvio.
   L’effetto che gli stava causando era catastrofico, quasi una droga, non percepiva più nessun rumore e la città, a sua insaputa, si stava risvegliando...
   Farsi trovare vicino la cattedrale era una cattiva idea, pessima in realtà.
   Assuefatto, rimase immobile per chissà quanti secondi davanti all’uscio, poi si decise ad aprire la porta.
   Nello stesso frangente che toccò il legno, il fetore che per lui era a dir poco celestiale, lo invase profondamente e ancora una volta, vide i medesimi occhi azzurri scrutarlo, studiarlo, penetrarlo nell’anima.
   Dopo qualche minuto di stallo, un oggetto freddo e tagliente sul collo lo fece tornare alla realtà, la lama di un inglese lo teneva sottomira…
 

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Capitolo 14
*** Capitolo 1.2 ***


CAPITOLO      1.2
 
 
 
 
 
   Maurice era morto e per di più Ice era stato trovato.
   Forse era stata un’imboscata o una coincidenza, fatto sta che ora il ragazzo era con le spalle al muro, circondato e indifeso.
   Avrebbe voluto sfoderare tutte le capacità di cui disponeva.
   Era stato fantastico come aveva attutito il colpo del mostro, ma per quanto ci provasse, ora non succedeva nulla.
   I soldati, che tutto parevano fuorché guardie inglesi, erano alte e possenti, con dei bicipiti grandi quanto le cosce, nascoste da un mantello che copriva persino le caviglie; tutti avevano dei cappucci ripiegati all’indietro e avevano lo sguardo fermo, truce, con occhi neri da cui non traspariva nemmeno un velo di sentimento, parevano cadaveri in un certo senso.
   Comunque erano diversi ognuno dall’altro, un paio erano completamente rasati e portavano piercing sia all’orecchie che al naso, altri portavano capelli lunghi, certi erano orribili, con le orbite scavate così come le guance ed il naso aquilino.
   Bè, ognuno a quanto sembrava aveva la sua storia.
   Solo uno continuava a nascondersi sotto la copertura di quel pesante mantello.
   Ice si guardò attorno senza capire dove fosse: quello era un posto completamente diverso dalla chiesa e dal fienile; decine di quadri erano appesi sulle pareti color carminio, dei materassi comodissimi circondavano uno spazio immenso al cui centro la squadra di assalitori scrutava il ragazzo. Un tavolo, forse più un tesoro, aveva le gambe completamente d’oro, così come le cuciture della stoffa del morbido sofà su cui sedeva.
   Le candele, un centinaio, illuminavano a festa la sala e il profumo di cera dominava nell’aria.
   Era una reggia, nel vero senso della parola, ma il suo sesto senso lo allertò: era la fine.
   No! Non poteva esserlo, non voleva! Doveva scoprire il motivo di quelle visioni, così come sentiva il cuore costringerlo a rivedere Angeline.
   Nell’angolo più distante due spade, una d’oro e una d’argento, scintillavano e illuminavano gli occhi dei presenti; erano stupefacenti e Ice, attratto, rimase a fissarle finché l’incappucciato non gli si avvicinò: con una stretta micidiale chiuse il pugno intorno al suo mento e gli rivoltò la testa con una rapidità tale che il povero ragazzo per poco non sentì l’osso del collo rompersi.
   Ice lo fissò dritto negli occhi e così fece il bastardo d’innanzi a lui; i seguaci erano immobili e agitati, nessuno sin quel momento aveva mai avuto l’occasione di affrontare il loro capo.
   In realtà nessuno aveva mai avuto il fegato di farlo, anche quando le sue decisioni erano in contrasto con l’intera setta.
   Con un movimento del capo, Ice si voltò liberandosi dalla sua letale morsa e quasi d’impulso, gli si avventò contro.
   Notò di esser legato sia per braccia che per piedi.  
   Non era proprio nella situazione adatta per combattere; sembrava un salame.
   L’incappucciato, indignato per quella reazione, lo afferrò per il collo e in un battito di ciglia, aggirando il sofà, lo attaccò letteralmente al muro.
   Con un pugno in pieno volto Ice sentì il sangue scivolare lentamente dalle sue labbra, mentre il petto a malapena si gonfiava sotto i suoi deboli respiri: era sul punto di soffocare.
   Gli occhi iniziarono a volteggiare mentre braccia e gambe caddero verso il basso; sapeva di poter lottare e difendersi, ma l’energia del suo nemico era qualcosa di spaventosamente irreale.
   Fu nel momento stesso che i sensi iniziarono ad abbandonarlo che l’incappucciato, quasi sentisse il mancamento del ragazzo, ruppe quel maledetto calvario e avvicinandosi al volto del prigioniero, poté quasi baciarlo se solo avesse voluto.  
   « Avete proprio una brutta cera », si rivolse al povero Ice che, con il labbro ormai spaccato e gonfio, non aveva nemmeno la forza di rispondere e qualora l’avesse fatto, chissà che assurdi versi gli sarebbero usciti; poi riprese: « Non è mia consuetudine un colloquio di codesto argomento ed in malo modo; io di solito uccido i miei nemici, ma vi sottopongo…».
   Ice lo bloccò improvvisamente con una boccaccia.
   « Cosa diavolo volete…».
   « Ah cosa vorrei? Chi può dirlo, voi tutti potreste dirlo? » – si rivolse ai presenti per poi lasciare Ice sulle tremolanti gambe e iniziare a passeggiare per la sala – « Nessuno può dirlo, ma ciò che vi sto chiedendo in così gentil modo è qualcosa che…».
   A quel punto Ice smise di ascoltare il bastardo che gli aveva frantumato il labbro e sentendosi minacciato, sul serio stavolta, ruppe le corde e in pochi attimi afferrò un ferro posto alla base del camino poco vicino.
   Era rovente, ma lo rivolse comunque al suo avversario.
   Gli occhi rossi erano pronti per la battaglia e lo riempivano d’energie.
   Silenzio…
   L’avversario in un battito di ciglia era corso dalla parte opposta e aveva afferrato una delle spade: quella dorata.
   I movimenti rapidissimi dei due scossero l’aria dell’intera stanza tanto che il fuoco, mosso, aveva rilasciato centinaia di scintille tutt’intorno.
   I duellanti non vi badarono, nonostante il metallo lucente della lama riflettesse ancora di più la luce della fiamma e delle faville.
   « In gentil modo? Non fatemi ridere. Chiamate “gentil modo” ciò che avete fatto a Maurice? ».
   « Oh… ma quello è stato uno spiacevole equivoco… non è opera nostra. In ogni caso da voi non voglio nulla, siete voi che lo volete…».
   « Ah, e cosa vorrei, sentiamo…».
   « Uccidere. Uccidere una persona…».
   « Non ho intenzione di uccidere nessuno », ribatté fiero Ice.
   Il discorso stava tirando troppo per le lunghe, il ferro rovente nel palmo del ragazzo stava bruciando lentamente la sua carne e l’incappucciato se ne era accorto da un pezzo, per quello non arrivava al sodo.
   « Forse ora, ma presto la cercherete e sarete costretto a macchiarvi le mani…».
   « State zitto! ».
   Avventandosi come una saetta, la furia del ragazzo fu percepita da tutti; le dominazioni non avevano mai avuto occasione di trovarsi d’innanzi un ragazzo tanto speciale.
   Si sentiva nell’aria che aveva qualcosa di diverso rispetto i comuni mortali; in un certo senso, era come loro.
   Manovrando il ferro ancora incandescente, l’incappucciato si trovò in netta difficoltà, perché oltre a nascondere il volto ai suoi stessi seguaci, era costretto a compiere spostamenti molto più ampi altrimenti il lungo vestito sarebbe bruciato in poco tempo, e lui non voleva rivelare di certo la sua identità.
   Fu dopo qualche schivata che Ice perse l’iniziale accanimento, forse ustionato o forse per l’egregia abilità del suo avversario, lasciò andare l’unica arma in grado di difenderlo: fu allora che l’incappucciato gli si avventò contro ancora una volta e con un pugno secco allo stomaco lo piegò in due, sussurrandogli qualcosa all’orecchio…
   Proprio prima che svenisse.
   « Sono sicuro che presto tornerete ».
   Erano passati pochi minuti e sotto gli ordini dell’incappucciato, la setta aveva trasportato diligentemente Ice fin la cattedrale, avevano ripulito tutto, e ora non c’erano più segni di uccisioni o di lotta.
   Ry poteva essere fiero dell’operato delle sue dominazioni: presto il ragazzo avrebbe fatto ritorno chiedendo, anzi implorando, d’esser accolto.

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Capitolo 15
*** Capitolo 1.3 ***


CAPITOLO  1.3
 
 
 
 
 
ORE  06.30
NEL LABORATORIO
 
 
 
 
   Ice era in coma, Angey era morta, il piano stava funzionando alla perfezione.
   Nel bel mezzo della confusione il dottor Collins aveva abbandonato il restante gruppo di scienziati per appartarsi nel suo alloggio privato; già, la missione ENERGY oltre ad essere segreta rinchiudeva oltre le cavie persino i membri che vi partecipavano.
   Tutto il personale era costretto a vivere nel laboratorio sotterraneo del Sahara.
   Erano cinque anni che il dottore aveva lasciato la vecchia Londra ed il reparto di terapia intensiva per “raggiungere nuovi orizzonti”, così lo sconosciuto Mattew Crow aveva detto prima di offrirgli una nuova vita. Al miglior medico dell’ospedale, ed anche all’unico vedovo.
   Era sposato da soli due anni quando, in circostante spiacevoli, così dissero gli agenti di polizia, la sua dolce metà perse la vita: era domenica, il suo abituale giorno di riposo, e quella volta fu chiamato di corsa dall’ospedale per salvare un uomo.
   Una richiesta alquanto singolare poiché quel giorno altri medici erano in turno e mentre Collins arrotondava lo stipendio, successe qualcosa...
   Povera moglie.
   Dimostrandosi il migliore curò la persona che aveva interrotto l’abituale scampagnata familiare e tornato, la tragedia gli s’impresse nella mente.
   La moglie, Susy, era bruciata viva con la casa; un’esplosione dalla tubatura del gas, dissero.
   Da quel momento, il brillante dottore si era chiuso in se stesso trovando conforto nel lavoro, salvando vite all’ospedale, e odiando lo sconosciuto che quella maledetta domenica lo aveva portato via dal nido d’amore che si era costruito.
   Solo in seguito scoprì chi era il malato: Mattew Crow.
   Questo era il principale motivo del carattere scontroso che aveva verso tutti i membri dell’Hide Corporation, insulsi servi.
   Quel giorno però sarebbe cambiato tutto.
   Una settimana prima del suo reclutamento, quando tutte le pratiche erano ultimate per entrare nello staff del generale e raggiungere il Sahara, uno sconosciuto era entrato in possesso del suo numero di cellulare, quello fornito dalla stessa corporazione.
   Ogni dipendente, infatti, aveva la vita completamente sorvegliata: telefonino, computer, email, tutto rigorosamente fornito dall’Hide & Co e nessuno, tranne i membri altissimi dell’associazione, poteva avvicinarlo.
   Quel fatto singolare perciò, lo aveva spaventato e confuso, tanto da costringerlo a ignorare la chiamata per cinque anni consecutivi.
   Chi poteva contattarlo? E soprattutto, perché?
   Così fece sin quella mattina quando il cellulare, puntuale come un orologio, squillò ancora una volta.
   Aprì gli occhi e notò l’HTC nero metallizzato accendersi, “numero privato”. Era curioso, troppo forse; gli avvenimenti della sera precedente avevano aperto in lui uno strano senso di curiosità…
   E se non fosse una coincidenza?
   Rispose.
   « Pronto! Pronto! ».
   L’altro capo del telefono tacque; poi improvvisamente una voce metallica rispose.
   « Vuoi conoscere la verità sulla morte di tua moglie? ».
   Un colpo micidiale al petto impedì al medico di respirare per secondi interi, perdendo istantaneamente quel senso di sonnolenza che hanno tutti la mattina presto.
   « Cosa vuoi? Chi sei? ».
   « Un tuo amico. So cosa è successo cinque anni fa e cosa ti ha spinto a entrare nella corporazione ». Ci fu un momento di silenzio, poi riprese. « La vendetta ».
   « Come fai a saperlo? ».
   « Diciamo che io sono coinvolto più o meno come te…».
   Prima ancora di terminare la frase Collins lo bloccò.
   « Sei nel Sahara anche tu? ».
   « Già… ed ho bisogno del tuo aiuto ».
   Ma com’era possibile? Conosceva tutti i suoi colleghi eppure nessuno aveva quella voce così singolare; stava usando sicuramente un qualche marchingegno in grado di storpiare la voce.
   « Sono uno scienziato come te, abbiamo anche lavorato insieme…».
   « Io so che mia moglie è morta assassinata, nonostante le autorità neghino l’evidenza; ho scelto di entrare nella Corporazione per liberarmi dal senso di vendetta che mi stava uccidendo ». Prese fiato. « Una volta entrato però mi è stato tutto chiaro; quell’opportunità sbucata dopo la morte di Susy non è stata una coincidenza. Era tutto già scritto ».
   Era chiaro che Collins non si sfogava da tempo, tanto che dall’altra parte della cornetta lo sconosciuto tacque ascoltando minuziosamente la storia del suo collega.
   « Una volta assunto dalla Hide Corporation mi sono ritrovato faccia a faccia con Crow e se non è segno del destino questo… quell’uomo merita la morte ».
   A quanto pareva Collins aveva messo al proprio posto ogni tassello di quell’intricato puzzle regalatogli dalla corporazione.  
   Molte volte, infatti, accadeva che qualche “spiacevole incidente” spezzasse la felice vita della maggior parte degli uomini facoltosi presenti sul mercato del lavoro e la HC, una benedizione, era pronta ad accoglierli con una seconda opportunità.
   Ciò era un bene, giacché tutti, o almeno i più sprovveduti, lavoravano senza sosta escludendo ogni emozione umana, erano più robot che uomini, altri invece, il male vero e proprio, remavano contro la società nel vero senso della parola.
   Quello poteva essere l’unico modo per affondare l’Hide Corporation: un attacco dall’interno.
   Più o meno quello che stava architettando il medico.
   « Ma Crow non è qui nel Sahara ». Disse la voce metallica immaginando già la possibile risposta del furioso Collins.
   « Quel bastardo mi ha allontanato, ma finita la ENERGY, tornerò ad Auschwitz…».
   Era proprio questo che lo sconosciuto desiderava da Collins: far cessare la missione E.
   « Non terminerà mai; lo sai questo? L’unico modo per bloccarla è liberare la cavia, ne sei capace? ».
   Non proprio, Collins alla fine era un “semplice scienziato”, però aveva visto le procedure degli altri, quando Ice era stato catturato come un animale.
   « Posso farlo… domani notte ». Un giorno sarebbe bastato, doveva prepararsi ogni procedura per riuscire nell’impresa. Ma c’era un problema, « Una volta in superficie come fuggirà per il Sahara? ».
   « Non preoccuparti, a quel punto me la vedrò io ».
   La telefonata stava per interrompersi, un dialogo troppo prolungato avrebbe fatto scattare i sistemi di sicurezza informatici della HC.
   « Ah, una cosa » disse lo sconosciuto.
   « Cosa? ».
   « Chiamalo Ice ».

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Capitolo 16
*** Capitolo 1.4 ***


CAPITOLO      1.4
 
 
 
 
 
   I raggi solari entrarono nella stanza.
    Angeline, ancora rannicchiata sotto le morbide coperte, sembrava una principessa: il suo viso era più rilassato che mai, raggiante come il sole.
   Dormire con il suo Philip dopo aver fatto l’amore, non c’era niente al mondo di più bello.
   Il caldo respiro sul suo collo, le giganti braccia che la avvolgevano dandogli quel senso di protezione di cui aveva bisogno, la sua schiena poggiata contro il muscoloso petto e gli addominali scolpiti…
   Distesi su un fianco, uniti, erano una cosa sola.
   E lo amava, lo amava alla follia.
   Però quel ragazzo moro che aveva incontrato la faceva sentire “diversa”; c’era qualcosa che la attirava a lui.
   Quando si voltò, baciata dalla luce, aprì gli occhi nerissimi e scintillanti ma non lo vide.
   La morbida chioma bionda e arruffata che si aspettava di vedere non c’era.
   Alzandosi di scatto prese il corpetto e dopo qualche minuto si rivestì, passò davanti al camino oramai spento e si affacciò sul fitto bosco.
   Era una giornata buia, nuvolosa e fredda, ciò che più odiava Philip; ma allora dov’era?
   Era sicura che con quel tempo fosse rimasto senz’altro sotto le coperte con lei, eppure non c’era; scrutando bene tra gli innumerevoli tronchi vide in lontananza una macchia scura muoversi e agitarsi tra i rovi del bosco e spaventata, vide ai suoi lati che gran parte degli imponenti alberi, erano stati abbattuti.
  “Mi hanno trovata”.
   Improvvisamente la figura tenebrosa d’innanzi a lei svanì nel nulla e subito dopo, spaventata, chiuse la porta; fu a quel punto che si allontanò barcollando con il cuore a mille e indietreggiando, sentì chiaramente qualcuno bloccargli la strada: gli era andata addosso senza nemmeno vederlo.
   « Ehi, tutto bene? ».
   « Aiu… aiuto, Philip! ».
   Senza rendersi conto di chi avesse urtato, incominciò a battere pugni e calci contro il petto di un energumeno alto almeno due metri, pronto per ucciderla a sangue freddo.
   « Angy, calmati sono io! ».
   A quelle parole si bloccò improvvisamente e alzato il capo, vide i delicati lineamenti di Philip muoversi per sorriderle: era tornata in paradiso soltanto vedendolo.
   Il cuore continuava a pompare nel piccolo petto e i nervi tesi a mille la irrigidirono come una statua di marmo; gli occhi gli si fecero più pesanti…
   Poi pianse.
   Piangeva e singhiozzava.
   « Tesoro sono qui  ».
   « Prometti di non lasciarmi più ».
   « Te lo prometto ».
 
 
 
 
   Anche Ice aveva aperto gli occhi e con aria sorpresa, aveva notato che era tutto intero. Le braccia e le gambe sembravano funzionare perfettamente; solo un dolore più interno lo disturbava.
   Il labbro era gonfio e lo stomaco, sottosopra, gli faceva un male cane; così come il palmo della mano.
   Si alzò lentamente aspettandosi di esser circondato ma non successe nulla.
   Zoppicando camminò per tutta la stanza, la stessa in cui si era svegliato due giorni prima, non notando alcun cambiamento: il tappeto era in terra, le librerie in ordine e San Michele cacciava ancora i peccatori dal paradiso; uscì ed intraprese il corridoio che con molta probabilità era lo stesso percorso dal killer poche ore prima.
   Era tutto in ordine, il profumo d’incenso era buono e non troppo forte, la cera delle candele dolce e tropicale, niente di anormale.
   Si diresse alla navata principale quando un odore, vomitevole, lo bloccò.
   Proveniva da un battente diverso, non era la stanza dove la sera prima Maurice era morto.
   Piegò lentamente la maniglia e vi entrò.
  “Oddio”.
   Non appena mosse un piede, ebbe la sensazione di camminare su una piccola superficie liquida, come la sera prima, ma non era acqua.
   Un lago rosso faceva da contorno a un quadro assai più raccapricciante: sul letto una monaca era stata letteralmente strappata alla vita, gli occhi completamente rossi così come il vestito bianco, le lenzuola, le gambe, il collo e le mani.
   Non c’era niente che non fosse del suo colore naturale, persino il viso sembrava esser stato dipinto, ma non era vernice, stessa sorte era toccata ai lunghi capelli, non più neri.
   Avvicinandosi, più per curiosità che per altro, Ice notò uno squarcio nel vestito partire dall’altezza dell’ombelico fino ad arrivare al collo; ma non si sporse ulteriormente, non voleva vedere cosa vi fosse stato sotto.
   Lentamente indietreggiò per l’odore sempre più pesante e per la paura di esser scoperto ma non appena fu a pochi passi dal corridoio, un’altra sorella, che passeggiava per di là, incappò nel fiume di sangue che aveva invaso velocemente l’esterno della stanza.
   Si mise a urlare.
   La voce squillante richiamò l’attenzione di tutti, dai religiosi ai francesi, per arrivare anche agli inglesi, tutti accorsero immediatamente nella cattedrale abbandonando le strade; in poco tempo una folla immensa si accalcò negli alloggi di Notre-Dame.
   Ice fortunatamente, vista la reazione della monaca, corse all’esterno e raggiunto l’amico purosangue, rimasto al palo tutta la notte, salì in groppa senza dare troppo nell’occhio.
   Se lo avessero fermato, con molta probabilità, sarebbe stato giustiziato.
   Ma cosa era successo? Maurice era stato ucciso e fatto sparire, ma quella monaca non aveva avuto lo stesso trattamento? Perché? Cosa c’entrava?
   Il cielo, divenuto completamente scuro, copriva i caldi raggi solari che di tanto in tanto, aiutati da qualche folata di vento, aprivano le pesanti nubi lasciando spazio per qualche breve minuto alla luce.
   Ice correva ancora una volta sul destriero attraversando tutta la periferia della città; in poco tempo aveva raggiunto il bosco ricordando, più o meno, la strada per la casaccia di Philip ed Angy.
   Ciò che lo stupiva era il feeling che stava acquisendo con il passar del tempo con il mammifero; ora, a ogni galoppata, riusciva ad alzarsi e abbassarsi senza disturbare la corsa scatenata del purosangue.
   Era eccitante cavalcare quell’animale.
   Dopo esser penetrato nella boscaglia, però, era stato costretto a rallentare, il terreno era impervio e pesante: la pioggia della serata precedente lo aveva disconnesso e sfortunatamente, quando oramai mancava poco all’arrivo, il temporale tornò a fargli compagnia.
   Da quel momento il cavallo sembrò non ascoltarlo più, era nervoso, e anche il giovane lo era.  
   Raggiunto il nido d’amore dei due, Ice scese al volo abbandonando il fido destriero: la porta si spalancò.
   Era Philip.
   Aveva uno strano odore femminile addosso ma non era imbarazzato, Angy invece dormiva; quello sarebbe stato il loro primo discorso faccia a faccia.
   Ci fu silenzio però, i due si studiarono per qualche istante mentre la pioggia, mossa dal vento, bagnava entrambi i ragazzi: erano completamente fradici.
   Ice notò subito le condizioni del biondo.
   Era in buono stato, non sembrava nemmeno esser stato sfiorata dalla freccia che poche ore prima aveva rischiato di ucciderlo; anzi, era sereno e calmo.
   Era guarito magicamente.
   Il moro invece era chiaramente esausto e spaventato, una differenza abissale risiedeva nei loro caratteri e quella ne era una piccolissima prova.
   Ice, sfinito, boccheggiava d’innanzi agli occhi glaciali di Philip che non fece una piega; poi prese parola.
   « È successo… è successo…».
   Il biondo lo fissava.
   « Ieri hanno provato ad uccidervi e stanotte è morto Maurice, l’ho visto ».
   Quasi fosse a conoscenza dell’accaduto, il biondo non si scompose e attento, sembrò sul punto di addormentarsi per la concentrazione mostrata. L’aria superiore con la quale squadrava Ice era letale, fiera, aveva in mano la situazione, o almeno così sembrava.
   Nonostante lo nascondesse, Ice odiava quell’atteggiamento.
   « Non mi sorprende che le dominazioni lo abbiano fatto ».
   Ice parve confuso, che cavolo erano le dominazioni?
   « Cosa? ».
   «È l’esercito privato del re inglese, si vocifera che siano uomini con poteri sovrannaturali; cosa avete fatto al volto? ».
   « Ho avuto un semplice battibecco con il loro capo ».
   « E non vi siete fatto nient’altro? ».
   Scuotendo il capo, Ice fece capire che quel brutto segno all’altezza delle labbra era l’unica prova della sua lotta con l’incappucciato, eppure ancora sentiva un vuoto allo stomaco…
   « Ci sarà un modo per fermarli? Dobbiam...».
   « Noi non faremo un bel niente! ».
   A quel rimprovero Ice rimase frastornato, successivamente però perse il controllo, non tollerava quello stupido atteggiamento.
   Philip, più freddo che mai, si accorse del repentino cambiamento d’umore del suo interlocutore, intravedendo nei suoi occhi una piccola scintilla rosso fuoco; fu a quel punto che chiuse la porta per non destare l’amata e sicuro di esser seguito s’incamminò nel bosco.
   « Perché non dovremmo agire? ».
   « Moriremmo ».
   « Che state dicendo, prima o poi vi troveranno, tanto vale combattere, non vi importa per la sorte di Maurice? ».
   A quella domanda Philip si assestò saldo sui due piedi bloccando la lenta camminata, fermando così anche l’agitato passo di Ice; si voltò e rispose con una calma tutt’altro che normale.
   « A Maurice è toccato ciò che non potevamo prevedere, ora è in pace; se lo merita ».
   Ice non ci vide più dalla rabbia.
   « Se lo merita! Se vi sentisse Angy vi schiaffeggerebbe; quell’uomo è stato come un padre per voi! E lo ricambiate in codesto modo? So tutto! Angeline mi ha raccontato la vostra storia ».
   Il tono tagliente del giovane Ice era affilato come una lama e per quanto fossero buone le sue intenzioni, aveva scavato ulteriormente nella voragine di dolore che logorava il povero Philip. Forse era per quel motivo che chiuso in se stesso sembrava non soffrisse ma dentro, un fuoco ardeva pronto a esplodere, pronto a colpire chiunque.
   « Non ho intenzione di continuare questo discorso. La nostra conversazione finisce qui ». Si voltò e s’incamminò intenzionato a tornare dalla sua principessa.
   Su tutte le furie Ice lo prese per un polso cercando di farlo ragionare ma non appena allungò il braccio, Philip lo afferrò e torcendolo come un panno, lo costrinse a girarsi con la faccia contro il tronco di un albero.
   Lo attaccò alla corteccia schiacciandogli la testa senza esitazione.
   « Se vi hanno preso, vorranno qualcosa anche da voi; sbaglio? Non lasciano nessuno in vita, tantomeno libero. Pensate a voi e vivrete più a lungo, non vi voglio più vedere ».
   Quando la pressione travolgente si annullò, Ice si voltò.
   Philip era già distante.
   Forse chiedere il suo aiuto era stato un errore, un madornale errore.
   Era scosso, non si sarebbe mai aspettato una simile reazione da parte del suo “amico”.
   D'altronde però, non aveva tutti i torti, non aveva motivo di fidarsi di lui, era stato risparmiato e il trattamento subito non era certo riservato a tutti.
   Le dominazioni volevano qualcosa da lui; ma anche dal biondo a quanto sembrava.
   Ice era stato risparmiato, ma Philip? Che motivo avevano di ucciderlo? C’erano troppe domande e nemmeno l’ombra di una risposta.
   “Maledizione”.
   Doveva avvicinare l’esercito privato inglese e sterminarlo. Doveva vendicarsi; l’incappucciato l’avrebbe pagata.
   Ma come?
   Non era in grado di duellare e vincere da solo era un’impresa più utopica che impossibile.
   E quel mostro nella stanza di Maurice? Che diavolo era?
   Eppure, nonostante non avesse la benché minima idea sul da farsi, fu illuminato improvvisamente; “la resistenza”.    
   Poteva entrarne a farne parte e portare a termine la sua missione.
   Angy gli aveva parlato della setta di contadini…
   Forse Philip lo avrebbe aiutato in seguito ma per il momento doveva semplicemente cavarsela da solo; la sensazione che aveva non era delle migliori; inconsciamente sapeva che entrare nella resistenza sarebbe stato difficile, se non impossibile.
   Seduto ai piedi dell’albero, quello su cui Philip lo aveva sbattuto, il povero ragazzo guardava la verde chioma sulla sua testa e cercando di riprendersi, si faceva lambire il viso dalla pioggia.
   Era rilassante, un vero e proprio massaggio.
   Di sfuggita notò la mano con cui la notte precedente aveva impugnato il ferro rovente: era normale, non c’era niente d’anomalo, non sentiva più nemmeno dolore. Forse sapeva perché le dominazioni lo avevano risparmiato.
  “ Chi sono io…”
   Improvvisamente il dolore allo stomaco divenne più forte del solito tanto che rimettersi in piedi fu un’impresa. 
   Incamminandosi lentamente riuscì a raggiungere il fienile ma non vi riposò; prese il cavallo e decise di esaudire la richiesta di Philip.
   Avrebbe combattuto da solo.
   Il sole non accennava a manifestarsi e quella giornata, per quanto ricca d’avvenimenti, doveva esser dimenticata il più in fretta possibile.
   Aveva scoperto di avere qualche strano potere, ma a che prezzo: si era ritrovato nuovamente solo… e Angy, chissà se l’avrebbe mai più rivista.
   A rimetterci, povero, era stato soprattutto il cavallo che ancora una volta lo aveva trasportato in città; era stanco, bagnato e faticava molto, persino il respiro non era più regolare come prima e sicuramente aveva fame.
   Fame?
   Fame.
   Forse era quello il dolore allo stomaco.
   Per sicurezza, raggiunta Parigi, Ice si tenne ben lontano dalla cattedrale, era troppo pericoloso.
   Scese da cavallo e lo guidò per tutto il tempo a passo d’uomo, finché, non trovò un maneggio.
   Fece entrare l’animale e richiuse il recinto in legno.
   Era incustodito, “meglio così”, qualora avessero richiesto del danaro per il servizio offerto, se non con gli stracci che indossava non avrebbe potuto pagare il conto. E l’idea di indebitarsi non lo allettava.
   In seguito, non badando alla pioggia che finalmente stava cessando, alzò il cappuccio e decise di trovare un “pastore”.
   In realtà il suo scopo era di seguire qualche membro di quella fantomatica resistenza, ma sapeva bene che qualora avesse sbagliato, si sarebbe ritrovato solamente in una chiesa, e il tempo perso pedinando la preda era irrecuperabile.
   Finalmente, dopo qualche minuto di ricerca, ne comparve uno: aveva una tonaca scura, cappuccio sulla fronte e mani in preghiera; senza pensarci due volte, tenendosi a debita distanza, lo seguì come un’ombra.
   C’era gente in strada, ma si aprì il varco giusto ignorando la maleducazione con la quale si scontrava con la folla.
   Gli inglesi continuavano a spadroneggiare, mentre i francesi erano costretti ad assistere inermi ai soprusi commessi sugli indifesi: non era un quadro felice.
   Il popolo era visibilmente esausto, forse doveva fermare il re straniero prima delle previsioni che si era fatto…
   Come il senso innato di coprirsi, aveva l’obbligo di metter fine a quelle sofferenze. Era un dovere che sentiva nascergli da dentro.
   In ogni caso, superò quegli scempi e raggiunse una piccola chiesa con il tetto di legno e un porticato in stile gotico. Era piccola, molto più di Notre-Dame, un rifugio adatto alla resistenza; peccato che entrando non vide altro che una semplice cappella.
   Allora, uscendo, ne seguì un altro ancora. Per le strade parigine non si parlava d’altro che della sparizione del vescovo Maurice e della morte inspiegabile di madre Madrienne.
   Per quanto potesse percepire, aveva capito che persino l’esercito inglese non era a conoscenza dell’accaduto, ciò scagionava una possibile loro manovra.
  “E di chi è la colpa allora?”. Si aggiunse l’ennesima domanda nella già affollata mente di Ice.
   Perse tutto il pomeriggio seguendo una decina di frati ma nessuno sembrò qualcosa di più di un semplice pastore.
   Era possibile che la resistenza avesse cessato di muoversi dopo gli avvenimenti successi la sera prima? E se la colpa era proprio la loro? Poi Philip sembrava essere più a disagio che in lutto; qualcosa non tornava.
 
 
 
 
   La fame, se quello era, stava letteralmente divorando il povero ragazzo. Aveva passato tutto il pomeriggio alla ricerca di qualche indizio ma sfortunatamente con esiti negativi. Il tramonto era oramai prossimo e Ice era esausto: la postura di penitenza era micidiale. Come facevano i frati a praticarla per giornate intere?
   Fu quando persino gli occhi iniziarono a fare cilecca che decise di fermarsi appartandosi in una delle cappelle lì vicino; una delle tante che aveva visitato quel giorno.
   Era l’ora del pasto serale e nessun credente era presente; nemmeno la liturgia era celebrata. Il silenzio regnava nella chiesa e il giovane, sul punto di svenire, guardava il volto del Salvatore alle spalle dell’altare.
   Era crocifisso, i chiodi lo univano alle tavole di legno eppure era serio, non provava dolore e quel suo sguardo fermo gli faceva accapponare la pelle; i due si guardavano fissi, tanto che il ragazzo percepì una presenza. Qualcosa che lo raggiunse penetrandolo fin dentro l’anima.
   L’incontro con il signore però s’interruppe non appena un uomo, silenziosissimo, lo avvicinò toccandogli la spalla. Ice, con la guardia abbassata, fu preso dal panico e alzatosi di scatto si voltò pronto per combattere.
   Era un frate, sui quarant’anni, ma aveva un non so che di combattivo: una cicatrice tagliava per metà il suo zigomo sinistro fino ad arrivare al sopracciglio, un orecchino, un naso aquilino, labbra dure, occhi truci e neri, capelli corti ai lati e più lunghi sopra. Tutto sembrava fuorché un pastore.
   I due si studiarono per qualche secondo sotto l’attento sguardo del Nazareno poi, intento ad avvicinarsi, il quarantenne fu subito allontanato da Ice che lo sfilò tra le panche consumate della chiesa.
   Era proprio stanco.
   Fu a quel punto che l’uomo decise di rivelarsi.
   « Non dovete temermi, oggi vi abbiamo sorvegliato e siete stato all’altezza delle aspettative ».
   «Chi siete? ». Domandò direttamente il ragazzo, per niente in vena di iniziare un discorso con giri di parole.
   « Alexandre Leroy, membro della resistenza, piacere di conoscervi ».
   Non era possibile, quasi un sogno ad occhi aperti, dopo tutta quella fatica e sangue freddo mantenuto per le strade della città, ce l’aveva fatta.
   Era reale? O un’allucinazione?
   Il pomeriggio in penitenza era stato ripagato, Dio lo aveva forse aiutato?
   Il Nazareno sembrò sorridergli sulla croce.
   L’uomo non parve capire l’iniziale atteggiamento del giovane che, preso dall’euforia, lo escluse tornando con lo sguardo fisso verso l’altare.
   « Come mi avete trovato… io, io non ho saputo trovare nessuno di voi…» disse avvilito Ice.
   « Certo che lo avete fatto! Tra tutti quei frati in penitenza avete seguito per la maggior parte membri della resistenza. Quando entravate nelle cappelle, non avete mai sbagliato. Pedinavate sempre uno dei miei fratelli ».
   Era vero, quasi avesse avuto un sesto senso; Ice aveva seguito ogni frate, ma alcune volte si era spinto persino nelle chiesette della città per controllare meglio; purtroppo però non aveva trovato nulla di particolare.
   Comunque non avrebbe mai immaginato di seguire le persone giuste senza rendersene conto.
   Ice, soddisfatto, non seppe cosa rispondere.
   « Voi seguivate noi…».
   « E voi seguivate me ».
   Appagati, entrambi accennarono un lieve sorriso finché, finalmente vicini, non tesero entrambi le braccia per stringersi la mano. « Ice ».
   Sorpreso, Alexandre sbarrò gli occhi, non si aspettava di certo un nome del genere.
   Da quanto ne sapeva, erano solo gli immortali a possedere quei nomignoli.
   C’era qualcosa di diverso in lui però; non era malvagio, anzi sembrava non conoscesse nemmeno il significato di quella parola per quanto sembrasse puro il suo volto.
   Doveva portarlo con sé.
   Con un cenno fece a Ice di seguirlo e proprio dietro il piccolo altare, sotto l’attento sguardo di Gesù, si piegò, spostò un tappeto rosso con impressa la croce latina e scoprì una botola: era in legno e un manico dorato era pronto per esser afferrato.
   Una scalinata marmorea si gettava nell’oscurità di quel sotterraneo e i due, attenti a non esser osservati, vi entrarono silenziosamente.

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Capitolo 17
*** Capitolo 1.5 ***


CAPITOLO      1.5
 
 
 
 
 
   I raggi solari entrarono nella stanza.
    Angeline, ancora rannicchiata sotto le morbide coperte, sembrava una principessa: il suo viso era più rilassato che mai, raggiante come il sole.
   Dormire con il suo Philip dopo aver fatto l’amore, non c’era niente al mondo di più bello.
   Il caldo respiro sul suo collo, le giganti braccia che la avvolgevano dandogli quel senso di protezione di cui aveva bisogno, la sua schiena poggiata contro il muscoloso petto e gli addominali scolpiti…
   Distesi su un fianco, uniti, erano una cosa sola.
   E lo amava, lo amava alla follia.
   Però quel ragazzo moro che aveva incontrato la faceva sentire “diversa”; c’era qualcosa che la attirava a lui.
   Quando si voltò, baciata dalla luce, aprì gli occhi nerissimi e scintillanti ma non lo vide.
   La morbida chioma bionda e arruffata che si aspettava di vedere non c’era.
   Alzandosi di scatto prese il corpetto e dopo qualche minuto si rivestì, passò davanti al camino oramai spento e si affacciò sul fitto bosco.
   Era una giornata buia, nuvolosa e fredda, ciò che più odiava Philip; ma allora dov’era?
   Era sicura che con quel tempo fosse rimasto senz’altro sotto le coperte con lei, eppure non c’era; scrutando bene tra gli innumerevoli tronchi vide in lontananza una macchia scura muoversi e agitarsi tra i rovi del bosco e spaventata, vide ai suoi lati che gran parte degli imponenti alberi, erano stati abbattuti.
  “Mi hanno trovata”.
   Improvvisamente la figura tenebrosa d’innanzi a lei svanì nel nulla e subito dopo, spaventata, chiuse la porta; fu a quel punto che si allontanò barcollando con il cuore a mille e indietreggiando, sentì chiaramente qualcuno bloccargli la strada: gli era andata addosso senza nemmeno vederlo.
   « Ehi, tutto bene? ».
   « Aiu… aiuto, Philip! ».
   Senza rendersi conto di chi avesse urtato, incominciò a battere pugni e calci contro il petto di un energumeno alto almeno due metri, pronto per ucciderla a sangue freddo.
   « Angy, calmati sono io! ».
   A quelle parole si bloccò improvvisamente e alzato il capo, vide i delicati lineamenti di Philip muoversi per sorriderle: era tornata in paradiso soltanto vedendolo.
   Il cuore continuava a pompare nel piccolo petto e i nervi tesi a mille la irrigidirono come una statua di marmo; gli occhi gli si fecero più pesanti…
   Poi pianse.
   Piangeva e singhiozzava.
   « Tesoro sono qui  ».
   « Prometti di non lasciarmi più ».
   « Te lo prometto ».
 
 
 
 
   Anche Ice aveva aperto gli occhi e con aria sorpresa, aveva notato che era tutto intero. Le braccia e le gambe sembravano funzionare perfettamente; solo un dolore più interno lo disturbava.
   Il labbro era gonfio e lo stomaco, sottosopra, gli faceva un male cane; così come il palmo della mano.
   Si alzò lentamente aspettandosi di esser circondato ma non successe nulla.
   Zoppicando camminò per tutta la stanza, la stessa in cui si era svegliato due giorni prima, non notando alcun cambiamento: il tappeto era in terra, le librerie in ordine e San Michele cacciava ancora i peccatori dal paradiso; uscì ed intraprese il corridoio che con molta probabilità era lo stesso percorso dal killer poche ore prima.
   Era tutto in ordine, il profumo d’incenso era buono e non troppo forte, la cera delle candele dolce e tropicale, niente di anormale.
   Si diresse alla navata principale quando un odore, vomitevole, lo bloccò.
   Proveniva da un battente diverso, non era la stanza dove la sera prima Maurice era morto.
   Piegò lentamente la maniglia e vi entrò.
  “Oddio”.
   Non appena mosse un piede, ebbe la sensazione di camminare su una piccola superficie liquida, come la sera prima, ma non era acqua.
   Un lago rosso faceva da contorno a un quadro assai più raccapricciante: sul letto una monaca era stata letteralmente strappata alla vita, gli occhi completamente rossi così come il vestito bianco, le lenzuola, le gambe, il collo e le mani.
   Non c’era niente che non fosse del suo colore naturale, persino il viso sembrava esser stato dipinto, ma non era vernice, stessa sorte era toccata ai lunghi capelli, non più neri.
   Avvicinandosi, più per curiosità che per altro, Ice notò uno squarcio nel vestito partire dall’altezza dell’ombelico fino ad arrivare al collo; ma non si sporse ulteriormente, non voleva vedere cosa vi fosse stato sotto.
   Lentamente indietreggiò per l’odore sempre più pesante e per la paura di esser scoperto ma non appena fu a pochi passi dal corridoio, un’altra sorella, che passeggiava per di là, incappò nel fiume di sangue che aveva invaso velocemente l’esterno della stanza.
   Si mise a urlare.
   La voce squillante richiamò l’attenzione di tutti, dai religiosi ai francesi, per arrivare anche agli inglesi, tutti accorsero immediatamente nella cattedrale abbandonando le strade; in poco tempo una folla immensa si accalcò negli alloggi di Notre-Dame.
   Ice fortunatamente, vista la reazione della monaca, corse all’esterno e raggiunto l’amico purosangue, rimasto al palo tutta la notte, salì in groppa senza dare troppo nell’occhio.
   Se lo avessero fermato, con molta probabilità, sarebbe stato giustiziato.
   Ma cosa era successo? Maurice era stato ucciso e fatto sparire, ma quella monaca non aveva avuto lo stesso trattamento? Perché? Cosa c’entrava?
   Il cielo, divenuto completamente scuro, copriva i caldi raggi solari che di tanto in tanto, aiutati da qualche folata di vento, aprivano le pesanti nubi lasciando spazio per qualche breve minuto alla luce.
   Ice correva ancora una volta sul destriero attraversando tutta la periferia della città; in poco tempo aveva raggiunto il bosco ricordando, più o meno, la strada per la casaccia di Philip ed Angy.
   Ciò che lo stupiva era il feeling che stava acquisendo con il passar del tempo con il mammifero; ora, a ogni galoppata, riusciva ad alzarsi e abbassarsi senza disturbare la corsa scatenata del purosangue.
   Era eccitante cavalcare quell’animale.
   Dopo esser penetrato nella boscaglia, però, era stato costretto a rallentare, il terreno era impervio e pesante: la pioggia della serata precedente lo aveva disconnesso e sfortunatamente, quando oramai mancava poco all’arrivo, il temporale tornò a fargli compagnia.
   Da quel momento il cavallo sembrò non ascoltarlo più, era nervoso, e anche il giovane lo era.  
   Raggiunto il nido d’amore dei due, Ice scese al volo abbandonando il fido destriero: la porta si spalancò.
   Era Philip.
   Aveva uno strano odore femminile addosso ma non era imbarazzato, Angy invece dormiva; quello sarebbe stato il loro primo discorso faccia a faccia.
   Ci fu silenzio però, i due si studiarono per qualche istante mentre la pioggia, mossa dal vento, bagnava entrambi i ragazzi: erano completamente fradici.
   Ice notò subito le condizioni del biondo.
   Era in buono stato, non sembrava nemmeno esser stato sfiorata dalla freccia che poche ore prima aveva rischiato di ucciderlo; anzi, era sereno e calmo.
   Era guarito magicamente.
   Il moro invece era chiaramente esausto e spaventato, una differenza abissale risiedeva nei loro caratteri e quella ne era una piccolissima prova.
   Ice, sfinito, boccheggiava d’innanzi agli occhi glaciali di Philip che non fece una piega; poi prese parola.
   « È successo… è successo…».
   Il biondo lo fissava.
   « Ieri hanno provato ad uccidervi e stanotte è morto Maurice, l’ho visto ».
   Quasi fosse a conoscenza dell’accaduto, il biondo non si scompose e attento, sembrò sul punto di addormentarsi per la concentrazione mostrata. L’aria superiore con la quale squadrava Ice era letale, fiera, aveva in mano la situazione, o almeno così sembrava.
   Nonostante lo nascondesse, Ice odiava quell’atteggiamento.
   « Non mi sorprende che le dominazioni lo abbiano fatto ».
   Ice parve confuso, che cavolo erano le dominazioni?
   « Cosa? ».
   «È l’esercito privato del re inglese, si vocifera che siano uomini con poteri sovrannaturali; cosa avete fatto al volto? ».
   « Ho avuto un semplice battibecco con il loro capo ».
   « E non vi siete fatto nient’altro? ».
   Scuotendo il capo, Ice fece capire che quel brutto segno all’altezza delle labbra era l’unica prova della sua lotta con l’incappucciato, eppure ancora sentiva un vuoto allo stomaco…
   « Ci sarà un modo per fermarli? Dobbiam...».
   « Noi non faremo un bel niente! ».
   A quel rimprovero Ice rimase frastornato, successivamente però perse il controllo, non tollerava quello stupido atteggiamento.
   Philip, più freddo che mai, si accorse del repentino cambiamento d’umore del suo interlocutore, intravedendo nei suoi occhi una piccola scintilla rosso fuoco; fu a quel punto che chiuse la porta per non destare l’amata e sicuro di esser seguito s’incamminò nel bosco.
   « Perché non dovremmo agire? ».
   « Moriremmo ».
   « Che state dicendo, prima o poi vi troveranno, tanto vale combattere, non vi importa per la sorte di Maurice? ».
   A quella domanda Philip si assestò saldo sui due piedi bloccando la lenta camminata, fermando così anche l’agitato passo di Ice; si voltò e rispose con una calma tutt’altro che normale.
   « A Maurice è toccato ciò che non potevamo prevedere, ora è in pace; se lo merita ».
   Ice non ci vide più dalla rabbia.
   « Se lo merita! Se vi sentisse Angy vi schiaffeggerebbe; quell’uomo è stato come un padre per voi! E lo ricambiate in codesto modo? So tutto! Angeline mi ha raccontato la vostra storia ».
   Il tono tagliente del giovane Ice era affilato come una lama e per quanto fossero buone le sue intenzioni, aveva scavato ulteriormente nella voragine di dolore che logorava il povero Philip. Forse era per quel motivo che chiuso in se stesso sembrava non soffrisse ma dentro, un fuoco ardeva pronto a esplodere, pronto a colpire chiunque.
   « Non ho intenzione di continuare questo discorso. La nostra conversazione finisce qui ». Si voltò e s’incamminò intenzionato a tornare dalla sua principessa.
   Su tutte le furie Ice lo prese per un polso cercando di farlo ragionare ma non appena allungò il braccio, Philip lo afferrò e torcendolo come un panno, lo costrinse a girarsi con la faccia contro il tronco di un albero.
   Lo attaccò alla corteccia schiacciandogli la testa senza esitazione.
   « Se vi hanno preso, vorranno qualcosa anche da voi; sbaglio? Non lasciano nessuno in vita, tantomeno libero. Pensate a voi e vivrete più a lungo, non vi voglio più vedere ».
   Quando la pressione travolgente si annullò, Ice si voltò.
   Philip era già distante.
   Forse chiedere il suo aiuto era stato un errore, un madornale errore.
   Era scosso, non si sarebbe mai aspettato una simile reazione da parte del suo “amico”.
   D'altronde però, non aveva tutti i torti, non aveva motivo di fidarsi di lui, era stato risparmiato e il trattamento subito non era certo riservato a tutti.
   Le dominazioni volevano qualcosa da lui; ma anche dal biondo a quanto sembrava.
   Ice era stato risparmiato, ma Philip? Che motivo avevano di ucciderlo? C’erano troppe domande e nemmeno l’ombra di una risposta.
   “Maledizione”.
   Doveva avvicinare l’esercito privato inglese e sterminarlo. Doveva vendicarsi; l’incappucciato l’avrebbe pagata.
   Ma come?
   Non era in grado di duellare e vincere da solo era un’impresa più utopica che impossibile.
   E quel mostro nella stanza di Maurice? Che diavolo era?
   Eppure, nonostante non avesse la benché minima idea sul da farsi, fu illuminato improvvisamente; “la resistenza”.    
   Poteva entrarne a farne parte e portare a termine la sua missione.
   Angy gli aveva parlato della setta di contadini…
   Forse Philip lo avrebbe aiutato in seguito ma per il momento doveva semplicemente cavarsela da solo; la sensazione che aveva non era delle migliori; inconsciamente sapeva che entrare nella resistenza sarebbe stato difficile, se non impossibile.
   Seduto ai piedi dell’albero, quello su cui Philip lo aveva sbattuto, il povero ragazzo guardava la verde chioma sulla sua testa e cercando di riprendersi, si faceva lambire il viso dalla pioggia.
   Era rilassante, un vero e proprio massaggio.
   Di sfuggita notò la mano con cui la notte precedente aveva impugnato il ferro rovente: era normale, non c’era niente d’anomalo, non sentiva più nemmeno dolore. Forse sapeva perché le dominazioni lo avevano risparmiato.
  “ Chi sono io…”
   Improvvisamente il dolore allo stomaco divenne più forte del solito tanto che rimettersi in piedi fu un’impresa. 
   Incamminandosi lentamente riuscì a raggiungere il fienile ma non vi riposò; prese il cavallo e decise di esaudire la richiesta di Philip.
   Avrebbe combattuto da solo.
   Il sole non accennava a manifestarsi e quella giornata, per quanto ricca d’avvenimenti, doveva esser dimenticata il più in fretta possibile.
   Aveva scoperto di avere qualche strano potere, ma a che prezzo: si era ritrovato nuovamente solo… e Angy, chissà se l’avrebbe mai più rivista.
   A rimetterci, povero, era stato soprattutto il cavallo che ancora una volta lo aveva trasportato in città; era stanco, bagnato e faticava molto, persino il respiro non era più regolare come prima e sicuramente aveva fame.
   Fame?
   Fame.
   Forse era quello il dolore allo stomaco.
   Per sicurezza, raggiunta Parigi, Ice si tenne ben lontano dalla cattedrale, era troppo pericoloso.
   Scese da cavallo e lo guidò per tutto il tempo a passo d’uomo, finché, non trovò un maneggio.
   Fece entrare l’animale e richiuse il recinto in legno.
   Era incustodito, “meglio così”, qualora avessero richiesto del danaro per il servizio offerto, se non con gli stracci che indossava non avrebbe potuto pagare il conto. E l’idea di indebitarsi non lo allettava.
   In seguito, non badando alla pioggia che finalmente stava cessando, alzò il cappuccio e decise di trovare un “pastore”.
   In realtà il suo scopo era di seguire qualche membro di quella fantomatica resistenza, ma sapeva bene che qualora avesse sbagliato, si sarebbe ritrovato solamente in una chiesa, e il tempo perso pedinando la preda era irrecuperabile.
   Finalmente, dopo qualche minuto di ricerca, ne comparve uno: aveva una tonaca scura, cappuccio sulla fronte e mani in preghiera; senza pensarci due volte, tenendosi a debita distanza, lo seguì come un’ombra.
   C’era gente in strada, ma si aprì il varco giusto ignorando la maleducazione con la quale si scontrava con la folla.
   Gli inglesi continuavano a spadroneggiare, mentre i francesi erano costretti ad assistere inermi ai soprusi commessi sugli indifesi: non era un quadro felice.
   Il popolo era visibilmente esausto, forse doveva fermare il re straniero prima delle previsioni che si era fatto…
   Come il senso innato di coprirsi, aveva l’obbligo di metter fine a quelle sofferenze. Era un dovere che sentiva nascergli da dentro.
   In ogni caso, superò quegli scempi e raggiunse una piccola chiesa con il tetto di legno e un porticato in stile gotico. Era piccola, molto più di Notre-Dame, un rifugio adatto alla resistenza; peccato che entrando non vide altro che una semplice cappella.
   Allora, uscendo, ne seguì un altro ancora. Per le strade parigine non si parlava d’altro che della sparizione del vescovo Maurice e della morte inspiegabile di madre Madrienne.
   Per quanto potesse percepire, aveva capito che persino l’esercito inglese non era a conoscenza dell’accaduto, ciò scagionava una possibile loro manovra.
  “E di chi è la colpa allora?”. Si aggiunse l’ennesima domanda nella già affollata mente di Ice.
   Perse tutto il pomeriggio seguendo una decina di frati ma nessuno sembrò qualcosa di più di un semplice pastore.
   Era possibile che la resistenza avesse cessato di muoversi dopo gli avvenimenti successi la sera prima? E se la colpa era proprio la loro? Poi Philip sembrava essere più a disagio che in lutto; qualcosa non tornava.
 
 
 
 
   La fame, se quello era, stava letteralmente divorando il povero ragazzo. Aveva passato tutto il pomeriggio alla ricerca di qualche indizio ma sfortunatamente con esiti negativi. Il tramonto era oramai prossimo e Ice era esausto: la postura di penitenza era micidiale. Come facevano i frati a praticarla per giornate intere?
   Fu quando persino gli occhi iniziarono a fare cilecca che decise di fermarsi appartandosi in una delle cappelle lì vicino; una delle tante che aveva visitato quel giorno.
   Era l’ora del pasto serale e nessun credente era presente; nemmeno la liturgia era celebrata. Il silenzio regnava nella chiesa e il giovane, sul punto di svenire, guardava il volto del Salvatore alle spalle dell’altare.
   Era crocifisso, i chiodi lo univano alle tavole di legno eppure era serio, non provava dolore e quel suo sguardo fermo gli faceva accapponare la pelle; i due si guardavano fissi, tanto che il ragazzo percepì una presenza. Qualcosa che lo raggiunse penetrandolo fin dentro l’anima.
   L’incontro con il signore però s’interruppe non appena un uomo, silenziosissimo, lo avvicinò toccandogli la spalla. Ice, con la guardia abbassata, fu preso dal panico e alzatosi di scatto si voltò pronto per combattere.
   Era un frate, sui quarant’anni, ma aveva un non so che di combattivo: una cicatrice tagliava per metà il suo zigomo sinistro fino ad arrivare al sopracciglio, un orecchino, un naso aquilino, labbra dure, occhi truci e neri, capelli corti ai lati e più lunghi sopra. Tutto sembrava fuorché un pastore.
   I due si studiarono per qualche secondo sotto l’attento sguardo del Nazareno poi, intento ad avvicinarsi, il quarantenne fu subito allontanato da Ice che lo sfilò tra le panche consumate della chiesa.
   Era proprio stanco.
   Fu a quel punto che l’uomo decise di rivelarsi.
   « Non dovete temermi, oggi vi abbiamo sorvegliato e siete stato all’altezza delle aspettative ».
   «Chi siete? ». Domandò direttamente il ragazzo, per niente in vena di iniziare un discorso con giri di parole.
   « Alexandre Leroy, membro della resistenza, piacere di conoscervi ».
   Non era possibile, quasi un sogno ad occhi aperti, dopo tutta quella fatica e sangue freddo mantenuto per le strade della città, ce l’aveva fatta.
   Era reale? O un’allucinazione?
   Il pomeriggio in penitenza era stato ripagato, Dio lo aveva forse aiutato?
   Il Nazareno sembrò sorridergli sulla croce.
   L’uomo non parve capire l’iniziale atteggiamento del giovane che, preso dall’euforia, lo escluse tornando con lo sguardo fisso verso l’altare.
   « Come mi avete trovato… io, io non ho saputo trovare nessuno di voi…» disse avvilito Ice.
   « Certo che lo avete fatto! Tra tutti quei frati in penitenza avete seguito per la maggior parte membri della resistenza. Quando entravate nelle cappelle, non avete mai sbagliato. Pedinavate sempre uno dei miei fratelli ».
   Era vero, quasi avesse avuto un sesto senso; Ice aveva seguito ogni frate, ma alcune volte si era spinto persino nelle chiesette della città per controllare meglio; purtroppo però non aveva trovato nulla di particolare.
   Comunque non avrebbe mai immaginato di seguire le persone giuste senza rendersene conto.
   Ice, soddisfatto, non seppe cosa rispondere.
   « Voi seguivate noi…».
   « E voi seguivate me ».
   Appagati, entrambi accennarono un lieve sorriso finché, finalmente vicini, non tesero entrambi le braccia per stringersi la mano. « Ice ».
   Sorpreso, Alexandre sbarrò gli occhi, non si aspettava di certo un nome del genere.
   Da quanto ne sapeva, erano solo gli immortali a possedere quei nomignoli.
   C’era qualcosa di diverso in lui però; non era malvagio, anzi sembrava non conoscesse nemmeno il significato di quella parola per quanto sembrasse puro il suo volto.
   Doveva portarlo con sé.
   Con un cenno fece a Ice di seguirlo e proprio dietro il piccolo altare, sotto l’attento sguardo di Gesù, si piegò, spostò un tappeto rosso con impressa la croce latina e scoprì una botola: era in legno e un manico dorato era pronto per esser afferrato.
   Una scalinata marmorea si gettava nell’oscurità di quel sotterraneo e i due, attenti a non esser osservati, vi entrarono silenziosamente.

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Capitolo 18
*** Capitolo 1.6 ***


 
 
CAPITOLO  1.5
 
 
 
 
 
ORE  20.30
NEL LABORATORIO
 
 
 
 
   Era passata una giornata intera; il dialogo con lo sconosciuto sembrava quasi un sogno eppure sul registro chiamate dell’HTC vi era un numero anonimo…
   Era successo veramente quindi.
   Collins aveva cercato per tutto il tempo di fare mente locale, tornando a quando Ice, più morto che vivo, era stato portato a forza da uno strano individuo moro; il resto, erano solamente dei flashback, frammenti di un ricordo troppo distante per poter esser visualizzato.   
   Nonostante ciò non si diede per vinto.
   I sistemi di sicurezza erano progrediti, persino le procedure di cambio personale si erano modificate, era mutata ogni cosa; i vecchi fascicoli riguardo al funzionamento dell’ascensore erano tenuti sottochiave e mai avrebbe potuto raggiungerli senza esser scoperto: le telecamere a circuito chiuso del laboratorio erano a centinaia…
   L’unica idea buona che sfiorò lo scienziato fu di manomettere il sistema d’allarme, ma come?
   Anche quello era super sorvegliato.
   Improvvisamente il telefono della sua stanza squillò tre volte consecutive non dandogli il tempo di avvicinarsi e alzare la cornetta: era un chiaro segnale, doveva attaccare, il turno capitatogli era 21-04; quello giusto per attuare il suo piano.
   In fretta e furia si agghindò come un albero di natale pronto per entrare in sala operatoria e con il suo lucidissimo camice bianco scese nel laboratorio.
   La porta era ancora chiusa e in fila, con gli altri suoi colleghi, aspettava il via per timbrare una sorta di presenza e adoperarsi.  
   La procedura era sempre la stessa, scocciante e fastidiosa come l’appello fatto nelle scuole private prima ancora di entrare in classe.
   Che senso aveva far timbrare cinquanta scienziati segregati in un laboratorio nel bel mezzo del deserto?
   Finalmente il semaforo verde sopra le ante di titanio si accese e gli operatori, uno per volta, si apprestarono ad entrare.
   Senza rendersene conto iniziò a sentir palpitare il cuore proprio sotto il mento: era emozionato e spaventato allo stesso tempo, non aveva idea di cosa avrebbe dovuto fare; le possibilità di liberare la cavia erano pressoché nulle e purtroppo non era riuscito a contattare lo sconosciuto.
   Infatti, dopo la chiamata mattutina, si era volatilizzato.
   Lo svolgersi delle operazioni era uguale ai giorni precedenti, tutti erano chini sulla propria console a studiare i vari dati fisiologici del soggetto e solo qualcuno di tanto in tanto si alzava per sgranchirsi le gambe, avvicinando proprio l’incubatrice con dentro Ice.
   I militari della HC erano statue marmoree; non emettevano alcun tipo di rumore né di movimento, ma qualora fosse successo qualcosa, sarebbero scattati come molle.
   Quella sera però, dopo venti minuti il via vai divenne generale.
   Nessuno era ancora riuscito a comprendere l’apparente stato di coma del soggetto eppure l’energia sviluppata dal ragazzo era più che positiva; in barba alle più scure aspettative che si erano create poche ore prima.
   Collins più che lavorare cercava una soluzione al suo enigma: far salire il ragazzo nella capsula dell’ascensore sino in superficie.
   Ma come avrebbe fatto?
   L’incubatrice acquatica era sì una prigione, ma anche l’unica via d’uscita sicura dal laboratorio; Ice era intrappolato ma sarebbe bastato premere uno dei pulsanti giusti per spedire la cavia al tanto ambito livello zero.
   I minuti passavano e il sudore, freddo, stava bagnando completamente la rugosa fronte dello scienziato.
   Improvvisamente, sul monitor adibito all’attività psichica di Ice, un segnale rosso, più d’allerta che di controllo, iniziò a lampeggiare illuminando delle parti specifiche del cervello umano rappresentato.
   Il potenziale elettrico era spaventosamente fuori controllo e l’elettroencefalogramma dava chiari segni di cedimento, illustrando calcoli incomprensibili: le onde alfa, quelle generate nei ritmi “di base”, erano inspiegabilmente accompagnate da quelle beta, le più veloci, ma dominanti in un soggetto ad occhi aperti, non in uno in coma.
   Persino le theta, rappresentanti tensioni emotive, presentavano valori rasenti l’impossibile.
   Qualunque cosa fosse, Ice stava vivendo qualcosa, qualcosa che lo toccava nel profondo. Forse iniettargli sei dosi di quel “farmaco dell’emozioni” non era stato geniale. Oppure si?
   Il campo magnetico schermato dall’incubatrice e catturato dagli SQUIDs, super sensori in grado di misurare la potenza del segnale, era considerevolmente superiore a quella di qualsiasi essere umano: i Femtotesla prodotti erano come quelli di un contesto urbano, qualcosa di straordinario, calcolando che provenivano dal cervello di un ragazzo.
   I militari, impotenti, non avevano la minima idea di come comportarsi, d’altronde Ice era immobile, invece il personale correva da una parte all’altra del laboratorio.
   Ancora in crisi.
   Nel momento stesso che i valori divennero critici, l’alluminio e lo strato ferromagnetico dell’incubatrice divennero una mega calamita; le armi, così come ogni oggetto metallico, furono trascinate a forza contro Ice che immobile, sognava beatamente.
   Sorrideva persino.
   Collins, profondamente colpito, ammirava la scena cinematica presentatagli davanti, ma in quel momento l’HTC vibrò nei pantaloni; sorpreso, mise una mano nella tasca, tirò fuori l’apparecchio e vide una chiamata sconosciuta ma nel momento stesso che rispose, l’energia sprigionata dall’encefalo del giovane fu devastante; tanto da allontanare tutto ciò che fino a pochi secondi prima aveva attirato a sé.
   I presenti furono investiti da un’ondata d’energia spaventosa, tanto che il telefonino del traditore volò via contro il muro alle sue spalle; rompendosi.
   Il ragazzo aveva una forza psichica pari a quella di un essere sovrumano, un’energia notevolmente superiore ai comuni mortali, lontana dall’essere codificata scientificamente.
   Il capo della ricerca, nel trambusto generale, si aggrappò all’interfono chiamando il suo superiore e le restanti guardie.
   Senza il minimo preavviso i pannelli di vetro del laboratorio esplosero all’unisono colpendo ogni cosa, dai computer agli scienziati e nel baccano più completo, Ice sembrava non accorgersi di nulla…
   La squadra militare fu subito affiancata da un’altra ancor più preparata di scienziati e il comandante Brown, ora di nuovo presente.
   Aveva qualcosa in tasca.
   Scortato, si lanciò subito nella mischia, mentre schegge di vetro continuavano a esplodere senza il minimo controllo.
   Collins guardò meglio.
   Brown aveva un piccolo aggeggio tecnologico nella costosa stoffa dei pantaloni: con quello si poteva controllare qualsiasi apparecchiatura del complesso; dalla corrente elettrica ai sistemi di sicurezza, per arrivare persino all’acqua corrente. Se lo avesse preso, avrebbe raggiunto il suo obiettivo.
   Nel caos totale Brown, intrepido, si avvicinò alla cella del ragazzo, lo fissò per qualche secondo e si voltò.
   « Voglio la squadra quattro all’ingresso del laboratorio, mandateceli subito ».
   Nonostante l’apparente cataclisma e lo stato semiaddormentato di Ice, il comandante non volle rischiare, qualcosa stava mutando: in 48 ore erano successe troppe cose, ed H1 era stranamente reattivo, come mai era successo nei cinque anni precedenti. La squadra scelta era la quattro, soprannominata così per la “curiosa” abilità dei membri che ne facevano parte.
   Uno dei tanti esperimenti condotti dall’Hide Corporation era quello sulle capacità umane, sia intellettuali che fisiche, alla base come al solito veniva studiato il cervello; l’avanzamento tecnologico e le ingenti somme della società contribuirono a scoprire la flessibilità dell’encefalo umano.   
   Si era visto che un uomo, perso un qualsiasi arto, era in grado di riprendere in fretta l’uso di uno nuovo imputatogli e così succedeva anche avendo metà cervello: la parte rimanente, infatti, imparava senza alcun problema a muovere gli arti del lato opposto.
   La squadra quattro non era niente di trascendentale agli occhi della corporazione, eppure i quarantaquattro soldati scelti sarebbero stati qualcosa di fantastico agli occhi dell’opinione pubblica.
   Silenziosi e letali, non erano equipaggiati come i normali militari dell’era moderna, anzi, la loro capacità riprendeva un modo di combattere del tutto antico; usato nel medioevo.
   Una per mano, da qui il nome “squadra quattro”, impugnavano delle lame a doppio taglio, veri e propri prolungamenti degli arti superiori.
   Gli esperimenti condotti, inizialmente con esiti negativi, erano riusciti a unire l’uso delle pesanti spade a due mani con quello di un normale coltello da cucina; il risultato era semplice, muovere una spada da venticinque chili come fosse una piuma. Quei soldati erano unici; i loro cervelli “sentivano” la lunghezza delle lame come fossero state le punte delle loro dita.
   I normali “settaggi” degli encefali erano stati alterati, non sentivano dolore, avevano dei riflessi in grado di permettergli di affettare una mosca, e la loro energia era equiparabile a quella di un carro armato.
   Nessuna malattia, nessun bisogno naturale, quasi tutti uguali: vere e proprie macchine da guerra.
   Ice non ne sarebbe uscito illeso, su questo la corporazione aveva la certezza matematica.
   Collins iniziò a dubitare della riuscita del suo piano…
   Fu in quel momento, quasi avesse sentito l’ordine, che Ice spalancò gli occhi.
   Ancora una volta.
   Improvvisamente il laboratorio si trasformò in un museo delle cere.
   Tutti immobili, visibilmente scossi, si bloccarono immediatamente appena Ice tornò cosciente; qualcosa però era cambiato dal giorno prima, i suoi occhi azzurrissimi non mentivano.
   Forse nemmeno la squadra era alla sua altezza.
   I monitor, così come le lampade al neon, esplosero rilasciando centinaia di frammenti tutt’intorno, colpendo qualsiasi cosa fosse nelle vicinanze; persino i militari protetti con i giubbotti antiproiettile furono trafitti a morte, stessa sorte toccò a molti scienziati.
   Fortunatamente Collins e Brown rimasero incolumi.
   Il comandante, tremante, sapeva cosa doveva fare per sopravvivere; la morte non lo allettava di certo.
   Sapeva bene però che la sua carriera nella HC sarebbe terminata all’istante, nonostante fosse il fratellastro del capo supremo.
   Doveva premere un solo pulsante e sarebbe finita.
   Ma non ne aveva il coraggio…
   Quanta fatica avevano fatto, pochi anni prima, solo per avvicinarlo, e ora? Avrebbe buttato via tutto per portare a casa la pellaccia? “No grazie”. Non ci pensava minimamente.
   La morte aveva uno strano modo di presentarsi, uno strano retrogusto amaro lo stava assalendo, oramai si era convinto di una cosa: stava passando troppo tempo in compagnia dell’uomo con la falce e forse stava buttando via la sua vita rinchiuso in un bunker…
   Tanto valeva lasciar perdere tutto, in ogni caso o sarebbe morto, o nella migliore delle ipotesi licenziato.
   Era senz’altro migliore la seconda opzione.
   “Al diavolo”.
   Senza alcun preavviso, durante tutta la religiosa meditazione, Brown fu avvicinato silenziosamente dallo scienziato che gli avrebbe senz’altro risparmiato senza troppi complimenti il licenziamento.
   In un paio di minuti gli attenti occhi di Collins studiarono di nascosto il piccolo apparecchio tecnologico trovando finalmente la soluzione all’enigma: proprio al centro, su un pulsante rosso vi era una piccola scritta bianca: le lettere formavano la parola “dimīsi”.
   Ora, il suo latino era alquanto fuori allenamento, ma non ci voleva tanto a fare due più due, con un tasto grande quanto una casa che diceva solamente “rilascio”.
   In un baleno, sotto il glaciale sguardo del ragazzo, il londinese si buttò corpo a corpo contro il suo superiore.
   Ci fu una piccola zuffa; volarono calci e pugni da entrambe le parti, mentre i due si rotolavano tra i taglienti vetri del laboratorio oramai divenuto silenzioso.
   Dopo una violenta botta, Brown perse il tanto ambito apparecchio e nel momento stesso che cadde, Collins ci si avventò sopra; Ice non vide tutto ma già iniziò ad assaporare l’aria di libertà…
   In pochi secondi i monitor ancora funzionanti iniziarono a emettere un suono fastidiosissimo, come quello che avviene passando delle unghie su una lavagna… finché non esplosero.
   Non era rimasto niente d’intatto e il laboratorio, completamente al buio, era illuminato solo da un paio di luci al neon blu, quelle d’emergenza, le uniche superstiti. A malapena si vedeva a un palmo dal naso.
   I due uomini continuarono a combattere per alcuni minuti finché lo scienziato non si rifugiò in un angolo buio.
   Aveva sottomano l’apparecchio e nel momento stesso che tentò di pigiare il rosso, uno sparo rimbombò nella sala.
   Collins cadde a terra a peso morto e così la sua mano che inavvertitamente schiacciò ogni tastierino presente sul palmare.
   « Stronzo ».
   « Cosa cazzo hai fatto! », urlò Brown.
   Improvvisamente il pavimento meccanizzato si allontanò dalla cella; Ice fu inglobato in una specie di capsula proveniente dal basso e fu proiettato in una tromba oscura che senz’altro lo avrebbe portato in superficie.
   « Ce l’ho fatta…», disse esalando l’ultimo respiro cessando presto di respirare per poi perdersi con lo sguardo nel vuoto.
   Quella era la sua vendetta contro Crow.
   Ogni venti metri delle luci bianche illuminavano in precisi punti il lunghissimo tunnel ma nonostante ciò era quasi completamente buio.
   Le vibrazioni provocate dalla salita erano incessanti, fortissime, il ragazzo doveva correre a una velocità supersonica, eppure ogni insetto attirato da quel bagliore, ogni cavo sul muro, ogni crepa nella parete, ogni imperfezione rimaneva impressa nella sua mente con relativa facilità: Ice viveva la fuga con relativa lentezza, quasi fosse un miraggio. Era interminabile.
   La capsula, progettata per correre sui centocinquanta chilometri orari o più, raggiunse la superficie in pochissimo tempo eppure la fuga parve infinita.
   Qualcosa non andava…
   Stava rallentando il tempo o i suoi riflessi erano tanto veloci da non accorgersi di correre a quasi duecento all’ora?
   I suoi poteri erano davvero infiniti…
   Un fortissimo mal di testa lo colpì improvvisamente facendogli uscire del sangue dal naso che in un batter d’occhio si disperse nel liquido della cella; la corsa ridivenne velocissima finché in pochi secondi non si ritrovò sotto le stelle, alla tanto amata superficie.
 
 
 
 
   “Porca puttana!”.
   Esclamò ad alta voce Brown dopo aver visto in diretta la capsula portare Ice nel deserto.
   In fretta e furia uscì dal laboratorio dribblando i corpi senza vita del personale, corse incespicando attraverso il corridoio e chiamò l’ascensore.
   In cinque anni non si era mai lamentato dell’efficienza di quel “montacarichi ultratecnologico”, come lo chiamavano tutti, un mezzo che aveva poco da invidiare alla capsula di Ice, trasportava, infatti, il personale su e giù dagli alloggi alla mensa, fino al laboratorio, con una velocità unica, nonostante fosse calibrato per trecento persone; ma quella volta l’attesa parve di decine e decine di minuti.
   Finalmente le porte silenziose si spalancarono e vi entrò: era immenso, un appartamento completamente specchiato, freddo e asettico.
   Il vetro lo riflesse mostrandogli ciò che in realtà era: un uomo solo, stanco e malconcio.
   Non badò troppo alle sue copie apparse sulle pareti e digitò sul computerino lì vicino il numero della sua stanza.
   In un battibaleno l’ascensore raggiunse la méta. Brown passò il pollice sull’identificatore d’impronte e le porte si spalancarono. Corse a tutta velocità verso la sua console, da dove sorvegliava tutti, e si sintonizzò sulle tre telecamere nascoste in superficie.
   Triangolavano il perimetro proprio sopra il laboratorio e a qualsiasi intrusione esterna, sarebbe scattato l’allarme; quella volta però non fu così, perché la squadra quattro lo aveva disattivato; se non lo avesse fatto, sarebbero scattati tutti i sistemi di sicurezza e la notizia sarebbe giunta in pochi secondi fino ad Auschwitz, dove Crow alloggiava.
   Il suo fratellastro non avrebbe dovuto preoccuparsi per quell’inconveniente, Brown se la sarebbe cavata da solo, rimettendo tutto in ordine; anche se sapeva bene che non ce l’avrebbe mai fatta a meno di un miracolo.
   La speranza però era l’ultima a morire.
   La capsula era al centro del triangolo e Ice, stupito, osservava delle figure decisamente ambigue muoversi tutt’intorno a lui; erano in simbiosi in un certo senso, come se avessero avuto i cervelli collegati tra di loro.
   Eseguivano una strana danza, disponendosi in formazione, pronti per attaccare il ragazzo.
   Ma non successe nulla.
   Brown non aveva mai avuto l’occasione di vedere la squadra con i propri occhi e in un certo senso non vedeva l’ora di gustarsi lo scontro; eppure non era impaziente, sperava solo in una loro riuscita. Al contrario, però, Ice non accennava a liberarsi dalla capsula.
   Strano.
 
 
 
   Nel frattempo, fuori dal raggio visivo delle telecamere, una figura si muoveva cauta tra le dune del deserto, spostandosi nell’ombra all’insaputa di tutti i presenti tranne che di Ice, il quale, senza troppe difficoltà, l’aveva subito notata nonostante fosse sfocata…
   Sembrava un ninja, Ice ne era sicuro, eppure man mano che si avvicinava, agli occhi del ragazzo giungevano particolari sempre più diversi e più singolari. Aveva una tuta tecnologica completamente aderente e nera, con parti meccanizzate proprio in prossimità delle articolazioni; indossava un casco integrale riflettente al cento per cento su cui ci si specchiavano le stelle e infine delle scarpe, le cui suole, illuminate, davano l’impressione di esser parte integrante di un sistema da combattimento di ultimissima generazione. Alle sue spalle invece vi era un pendente, forse una spada.
   Disposte in cerchio, le quarantaquattro guardie non potevano essere attaccate singolarmente per via della posizione scelta, chi era dall’altra parte, infatti, avrebbe notato all’istante l’intruso.
   Liberarlo senza uno scontro diretto era un’impresa impossibile, e un uomo, per quanto equipaggiato, non avrebbe mai potuto farcela contro così tanti avversari.
   Contro ogni logica, il ninja non parve preoccupato e senza rifletterci troppo uscì allo scoperto prendendo di petto il primo membro della squadra senza esitazione.
   Ai lati gli altri si erano già mossi per fermarlo.
   Nonostante i membri della quattro avessero delle capacità fuori dall’ordinario, il ninja impedì agli avversari ogni tecnica insegnatagli dalla HC: spada in difesa, piedi saldi, una ferrea impugnatura e zero paura.
   Non necessariamente in quest’ordine.
   Tutto si svolse in non più di due o tre secondi tanto che Brown non ebbe il tempo di capire cosa stesse succedendo che già una seconda guardia fu colpita a morte.
   L’intruso era troppo veloce, già aveva falciato due nemici ed entrambi non erano riusciti neppure ad alzare le lame di qualche grado per la posta frontale, posizione assunta in genere per iniziare un duello.
   Un colpo sgualembrato, via di mezzo tra un fendente e un tondo, è il classico colpo che viene portato alle spalle del nemico con un taglio inclinato a quarantacinque gradi; in poco tempo aveva sviato la prima guardia e con il secondo, come fosse un colpo unico, aveva squadrato perfettamente la seconda vittima infliggendogli un violento montante.
   In un balletto sincronizzato i quarantadue uomini rimasti accerchiarono il ninja che, sfoggiando una cultura particolarmente ricca, mise in mostra ogni postura difensiva di cui era in possesso: dalla reale alla longa, da quella a dente di cinghiale fino alla donna sovrana.
   Tenere a bada quattro spade alla volta era un’impresa ardua; non bastava infatti muovere a velocità sovrumana la lama, doveva anche concentrarsi per schivare con il corpo i colpi che altrimenti avrebbero squarciato la tuta.
   Persa quella, avrebbe perso la vita.
   Ma Ice, attento, sentiva perfettamente che quell’armatura era in realtà solo il contorno; chi la indossava, non era umano.
   Velocemente la quattro si ritrovò dimezzata e i superstiti, in netta difficoltà, non riuscirono nemmeno a sfiorare l’intruso. Per niente esausto e fresco ancora come una rosa.
   Infatti, oltre a rispolverare le antiche posture da combattimento, aveva uno strano modo di bloccare i colpi altrui: molto semplicemente poggiava la propria lama sulla faccia metallica dell’attaccante abbassandogliela forzatamente a ogni incrocio.
   Dava l’idea di schiaffeggiare i nemici impartendo una dura lezione ai pupilli dell’Hide Corporation.
   Brown dal monitor si stava mangiando le mani, che cazzo stava succedendo?
   In pochi minuti la sabbia bianca del deserto si ritrovò tinta di un color rosso cupo mentre centinaia di corpi senza vita giacevano in terra.
   La carneficina era terminata e con passo rapido il ninja giunse in poco tempo a non più di qualche metro dalla cella.
   Era stato letale e Ice non vedeva l’ora di esser liberato finché, una volta raggiunto, lo spadaccino si mise in una posizione fuori dall’ordinario; precisamente su un fianco: prese la spada e l’allungò dietro la schiena.
   E ora?, pensò la cavia.
   In pochi istanti fece sibilare la lama e con un taglio netto aprì uno squarcio sulla parete della capsula.
   Il vetro rinforzato rimase intatto portando a zero l’euforia iniziale.
   Fu a quel punto che un sibilo potentissimo, forse un emettitore di frequenze, fece vibrare il vetro che frantumato collassò in milioni di pezzi: l’acqua calda si riversò nella sabbia e Ice fu finalmente libero.
   Tra le spalle l’intruso nascondeva il fodero di quella straordinaria arma e una borsa.
   Senza pensarci due volte la porse al giovane.
   « Chi sei? ». Domandò incuriosito il ragazzo, ma il ninja non rispose, anzi parve non sentirlo affatto.
   Ice, inginocchiato, aprì la cerniera della sacca e vi trovò qualche vestito, un paio di scarpe e dei documenti con sopra la sua foto.
   Ehi, dei documenti?
   Riprese in mano la carta d’identità e vide meglio la sua foto, era giovane, bello, moro con degli occhi azzurri come il mare; “ Ice Cy Lee ”: il suo vero nome.
“Ma che razza di nome è”. Si domandò alzando lo sguardo; ma il ninja era già sparito.
   Sembrava il nome di un killer!
   In pochi minuti il ragazzo svuotò la tracolla indossando i blu jeans, le scarpe sportive e una maglietta nera. Un abbigliamento certamente poco adatto per soggiornare nel deserto.
   Improvvisamente un elicottero, alzando una tempesta di sabbia maestosa, atterrò pochi metri più distante.
   I vetri erano neri, sarebbe stato impossibile vedervi dentro, ma quello era senz’altro il suo mezzo di trasporto.
   Affondando con le training bianche nella sabbia, Cy Lee mosse i primi passi verso la libertà.
 
 
 
 
   La cornetta del telefono sollevata non permetteva di ricevere alcuna chiamata e Brown, ancora sotto shock, non aveva la minima intenzione di contattare il fratello.
   Era forse la quarta volta che stava rivedendo le videoregistrazioni delle tre telecamere e ancora non riusciva a crederci: la squadra quattro era stata disintegrata in meno di due minuti da qualcosa d’invisibile.
   Ora, o “la cosa” era stata troppo rapida, o non esisteva; Ice però parve osservare perfettamente lo svolgersi della scena, quindi poteva esser stato lui.
   « Chi è quel ragazzo Santo Dio! ».
   Purtroppo però le registrazioni si bloccavano esattamente dopo un sibilo.
   Cazzo!
   Non sapeva cosa stesse avvenendo in superficie e mandare lì altri uomini sarebbe stato un inutile spreco di vite, sì, doveva assolutamente chiamare Crow...

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Capitolo 19
*** Capitolo 1.7 ***


CAPITOLO      1.6
 
 
 
 
 
   In pochi secondi il profumo sobrio della chiesa fu sopraffatto da quello più pesante e vomitevole dei sotterranei; veri e propri tunnel scavati dalla resistenza sfruttando per la maggior parte il rudimentale sistema fognario della città.
   Di certo era molto meno pericoloso, giacché solamente poche persone ne erano a conoscenza, perciò potevano ritenersi al sicuro, anche se i ratti in sovrappeso non erano di buon auspicio.
   Erano gatti cavolo!
   Vabbè. Sempre meglio delle dominazioni comunque.
   Terminata la scalinata, Alexandre si fece strada nel buio. Non vi era la benché minima illuminazione eppure Ice riuscì a seguirlo senza difficoltà.
   Dopo qualche minuto passato tra gli escrementi e il lerciume del condotto, svoltarono a destra, in un tunnel che sembrava più pulito. Anche se faceva ugualmente schifo.
   Percorsero un centinaio di metri, la passeggiata parve infinita, finché non scorsero all’orizzonte un bagliore quasi impercettibile prodotto da una lampada a olio.
   In quel punto i mattoni erano più integri, quasi riflettevano la luce dell’unica fiaccola presente, presa subito da Alex.
   A quel punto iniziò un intricato percorso labirintico sotto la Parigi medievale e Ice, sorpreso ed eccitato, si scoprì prontissimo per affrontare la sua missione.
   Ben presto però delle voci in lontananza lo allertarono.
   Di chi erano?
   Sicuramente la fratellanza. Il moro lo capì quando li raggiunsero. 
   Un gruppo folto d’individui era inginocchiato formando un cerchio; confabulavano.
   « Guardate chi è venuto a trovarci! » scoppiarono in una risata i presenti mentre Alexandre manteneva il sangue freddo; « È da tanto che non ci degnate della vostra presenza Alexandre! ».
   Ice parve non comprendere; Alex era membro della resistenza sì o no?
   « Io, qui, d’innanzi a voi fratelli, giuro solennemente di proteggere la nostra patria, il nostro onore, e dare la vita per ognuno di voi, chiedo scusa; a tutti ».
   Il nuovo arrivato si sentì fuori luogo, quasi il terzo incomodo, peccato che in quella fogna vi fossero una ventina di uomini.
   « Io », disse l’uomo che alzò la voce poco prima portandosi una mano al petto e mostrandosi a tutti, « Io vi accolgo a nome mio e dei fratelli, in nome di un ritorno senza condizioni ».
   A quel punto tutti i presenti, uno alla volta, mostrarono il loro benestare portandosi anch’essi la mano destra al petto:        Alexander era stato perdonato; ma il rituale di accoglienza fu scioccamente interrotto da Leroy.
   « So che questo non è né il luogo, né il modo, ma vi chiedo una condicio sine qua non ».
   I membri della resistenza si voltarono tutti per trovare un accordo, finché, sempre lo stesso, forse il più anziano e importante, non rispose. « E quale sarebbe? ».
   « Entrerò nuovamente nella fratellanza a patto che questo ragazzo ne faccia parte con pari diritti e doveri ».
   Il silenzio più tombale che si potesse immaginare ghiacciò i respiri dei presenti.
   Persino quello di Ice.
   Non vi era un vero e proprio capo nella resistenza, i membri che ne operavano avevano tutti egual diritti e parola, quasi nessuno osava prendere decisioni per conto degli altri, se non per votazione. Anche se i più anziani avevano maggior peso nelle decisioni…
   In ogni caso il vero e proprio “leader” era quello che dimostrava maggior capacità rispetto i fratelli e purtroppo, erano quasi tutti allo stesso livello: quello di uomini comuni.  
   Alex però aveva visto qualcosa in quel ragazzo, qualcosa di semplicemente “diverso”.
   Non comune.
   Il problema di quella richiesta era elementare però: portare un estraneo a conoscere i punti deboli della setta, poter essere comandati da un ragazzo poco più che adolescente, dare la vita per un “poppante”, non era una concezione adatta.
   Quegli uomini non lo avrebbero mai accettato; chi poteva permettere una cosa del genere?
   « So per certo…», riprese la parola Alex, « …che è una decisione difficile da prendere, ma d’innanzi a voi, grandi saggi, vi tengo al corrente che durante la mia assenza mi sono tenuto in contatto con alcuni membri della fratellanza, ed oggi quegli stessi fratelli mi hanno aiutato nello scoprire le straordinarie capacità del ragazzo ».
   Ice, tremolante, fu avvicinato lentamente da un paio di uomini che iniziarono a girargli intorno come fosse una preda.  
   L’anziano invece si tenne a distanza.
   « Avete un nome? ».
   « Ice, signore ».
   Ci fu ancora silenzio. Tutti si aspettarono il casato che lo avrebbe contraddistinto… ma la risposta terminò immediatamente.
   « Capisco… E da dove provenite? ».
   Passarono un paio di secondi prima di accennare una risposta, ma quando il ragazzo tentò di parlare, Alex prese parola, salvandolo dal terzo grado che stava subendo.
   « Non importa, come membro della fratellanza vi sottopongo fiducia, la più completa, come io la nutro profondamente verso Ice. Accoglietelo. Ve lo chiedo come favore personale ».
   Una veloce consultazione allentò la tensione nel tunnel finché il portavoce non si fece avanti.
   « E sia! ».
   Non ebbero il tempo di esultare.
   « Ad una condicio sine qua non ».
   « Quale? ».
   « Dovrete battervi d’innanzi ai fratelli ».
 
 
 
 
   Alexandre sapeva che ogni nuovo membro della confraternita avrebbe dovuto svolgere una sorta di “prova”; un vero e proprio test per dimostrare la propria validità d’innanzi ai fratelli, e quale modo migliore se non quello di fronteggiare un consanguineo?
   Il suo piano però era andato a rotoli; non avrebbe mai immaginato di dover toccare proprio a lui dare il benvenuto a Ice.
   Il ragazzo era stato trascinato a forza in un mondo di cui non conosceva nemmeno l’esistenza, in una guerra secolare tra le dominazioni e la fratellanza.
   Fortunatamente la richiesta dei fratelli voleva sì, un combattimento tra il figliol prodigo e Ice, però non avevano specificato quando e dove. E l’appello era routine nella setta, anche perché quello era l’unico modo di sovvertire le decisioni prese dagli altri.
   Vi era poi un particolare di non poca importanza: Ice non sapeva nemmeno maneggiare la spada!
   Fu a quella richiesta che il giovane estraneo si avvicinò ad Alex sussurrandogli qualcosa all’orecchio:
   « Cosa vi viene in mente! Io non combatto e non lo farò di certo contro voi! ».
   « State zitto, abbiamo ancora l’appello da chiedere, potremmo fronteggiarci stanotte, domani o tra un anno, prega che non scendano a condizioni. Il resto lo decideremo noi due ».
   « Potete andar…».
   « Aspettate! ».
   Quando la decisione stava per essere pronunziata, un paio di fratelli, visibilmente contrari, cambiarono nuovamente la strategia di Alex. Era andato davvero tutto a rotoli maledizione!
   « Cosa c’è? », disse il più anziano sventolando infastidito il suo mantello scarlatto.
   « Propongo la mia condizione ».
   « Sentiamo ».
   « Sapete bene fratelli che è una campagna difficile quella iniziata non pochi mesi fa e non abbiamo né le risorse, né il tempo per sottostare alle richieste di questi due. Il nostro compito è di fronteggiare le dominazioni, ve lo siete forse dimenticato? Voi, speravate forse nell’appello Alex? ».
“Si bastardo”, infuriò la mente di Alexandre.
   « Cosa volete? », prese la parola Ice destando inevitabilmente tutti i presenti e portando i loro sguardi sui suoi freddi occhi azzurri.
   « Ho accettato pocanzi di accogliervi nuovamente con i miei fratelli, ma non di sottostare alla vostra condizione.  Combatterete stanotte. Aspetteremo giusto il tempo dei convenevoli. Siete d’accordo? ».
   In quel maledetto istante tutti i presenti portarono la mano al proprio petto accettando la richiesta del bastone che aveva perfettamente bloccato la ruota strategica di Alex.
   « Accettiamo la condicio ».
   « No! ». Sbuffò Ice.
   « È deciso, vi lasciamo ai convenevoli, sapete dove trovarci ». A detta di quelle parole, la fratellanza si dissolse nell’ombra oscura dei tunnel.
   « MALEDIZIONE! », imprecò ancora una volta il giovane ad alta voce.
   « Potrebbero sentirci » constatò sconfitto Alex.
   Quello era il bello della fratellanza, una vera unione tra fratelli sempre in lotta; era infatti quasi impossibile soddisfare con un’unica richiesta i desideri di tutti, ed Alex era un maestro nell’imporre il proprio volere, peccato che quella sera fosse stato sbeffeggiato. Capitava di tanto in tanto.
   « Ora dove sono andati? ».
   « Nell’Alfa e l’Omega. La stanza delle celebrazioni; stenterai a crederci ma ci sono stanze qua sotto ».
   La fratellanza non badava a spese. Tenere nascosta la loro identità comportava necessariamente vivere isolati dal mondo esterno; non vi erano donne, per “inutili distrazioni”, non vi erano passatempi.
   Solo la battaglia, quello era il loro motto e nella fogna vivevano proprio come i topi, coprendosi però di ogni qual genere di lusso possibile, perché alla fin fine, erano per la maggior parte uomini ricchi, costretti a dividere i loro averi per i fratelli.
   Per la sopravvivenza.
   Accadeva frequentemente però che i migliori nell’arte del combattimento fossero spesso contadini, ufficiali francesi o giovani ragazzi sotto le armi con voglia di riscattare la patria. Vi era persino una divisione di rango, come quella tra gli intellettuali, gli anziani e l’esercito; tutti con pari diritti e doveri.
   Alex era un uomo di corte, forse era quello il motivo per il quale era stato accolto nuovamente a braccia aperte; lui dava consigli, studiava i piani d’attacco, forniva armi e partecipava alla battaglia. Era uno degli uomini più completi presenti nella resistenza.
   « Sta per inizio e fine, è qui che i membri della fratellanza iniziano il loro viaggio, ed è qui che cessano di vivere ».
   « È anche una camera mortuaria quindi? ».
   « In un certo senso. I feriti, i vecchi e i malati muoiono qui, è tradizione. Ed è tradizione che lo scontro d’iniziazione porti una vittima. In questo caso io, o te ».
   A quella scoperta Ice rimase tanto stordito che l’espressione del suo viso sembrò quella di un giovane sul punto di morte. Schifato e deluso, non si aspettava certo una cerimonia di quel tipo.
   Ma c’era ancora una via d’uscita e Alex l’avrebbe senz’altro sfruttata.
   « Il duello è all’ultimo sangue, ma se lo scontro rivela le capacità dell’iniziato, in questo caso le tue, prima del colpo di grazia gli anziani lo terminano. La nostra unica occasione è di dimostrare le nostre virtù e sperare in una clemenza ».
   « C’è un particolare. Io non so duellare », lo bloccò sul nascere Ice.
   Non era un problema, Alex aveva messo in conto anche quello; infatti l’incontro si sarebbe svolto alla pari, perciò in quel caso a mani nude.
   Finito di illustrare ogni particolare, Alex, guidandolo fino l’Alfa e l’Omega, rimase muto per tutto il tempo.   
   Sapeva bene che doveva fronteggiare il giovane ragazzo con tutta la tenacia e l’esperienza di cui disponeva, qualora non l’avesse fatto, la prova sarebbe stata falsata e le capacità di Ice non si sarebbero mostrate ai fratelli; così facendo, però, lo avrebbe ridotto in fin di vita, se non ucciso.
   Doveva perciò solamente sperare in un incontro di pari livello.
   E nella clemenza finale.
   « Perché siete stato perdonato? », chiese Ice mentre si accingevano a raggiungere la stanza.
   « Perché li avevo abbandonati. Nessuno abbandona la setta ».

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Capitolo 20
*** Capitolo 1.8 ***


CAPITOLO  1.8
 
 
 
 
 
ORE  05.00
 
 
 
 
   Subito dopo esser salito sull’elicottero Ice, visibilmente stanco, chiuse gli occhi addormentandosi in un sonno profondissimo; sognava un passato sempre più lontano… sempre più sorprendente.
   Erano passate poco più di otto ore e il cervello gli stava già facendo un brutto scherzo: l’impressione di vivere giorni interi e tornare alla realtà allungava sì le aspettative di vita, ma era anche stancante.
   In un certo senso viveva in due mondi completamente separati. Per questo si scoprì euforico prima di addormentarsi; voleva continuare il sogno ambientato nell’Alfa e l’Omega.
   In uno correva velocemente riscoprendo il suo intricato passato, nell’altro, molto più lento, cercava di controllare il suo futuro.
   Affascinante, in un certo senso.
   Fortunatamente nella tasca dei jeans un bellissimo smartphone lo riportò con i piedi per terra “suggerendogli” ora e data.
   Ora poteva ritenersi soddisfatto.
   Portava un abito, aveva i documenti che per quanto strambi sembravano abbastanza autentici, e aveva una “guida”, essenziale per sopravvivere.
   Senza cellulare dove sarebbe potuto andare?
   Era comica la cosa, nella rubrica non vi erano numeri e non aveva nessun contante; quell’apparecchio tecnologico se non per l’ora e la data non serviva a molto.
   Passarono pochi minuti e subito comprese di esser tornato nuovamente in gabbia: chiuso in un elicottero, ancora bloccato, alla mercé di qualche sconosciuto.
   Provò a battere più volte i pugni contro la lamiera che lo divideva dalla cabina di pilotaggio ma non rispose nessuno.
   Passarono alcuni secondi finché un cambio repentino di direzione lo scaraventò contro il portellone sigillato; fu a quel punto che il mezzo virò nell’altro senso, tanto che fu costretto ad aggrapparsi su qualche sostegno per non rotolare contro la carlinga.
   Improvvisamente la forza centrifuga lo attaccò contro il vetro scurissimo: un fiotto rosso di sangue lo ricoprì dalla testa ai piedi.
   In un caos senza controllo nemmeno il ragazzo riuscì a comprendere cosa stesse succedendo; una cosa era chiara: stava precipitando.
   Tutto avvenne in pochissimi secondi e quando comprese che la fine era vicina, ormai era troppo tardi.
   L’urto spaventoso schiacciò il metallo al suolo che impattando collassò portandosi dietro per inerzia sedili, vetri, rotore, pale e tutto il resto. Compreso Ice.
 
 
 
 
   Il telefono del Signor Brown squillava già da qualche secondo ma nessuno si apprestò a rispondere.
   Dopo la strigliata d’orecchie ricevuta dal fratellastro, Smith aveva letteralmente paura di pigiare il tasto per accettare la chiamata.
   Dio solo sapeva con quale coraggio aveva lasciato il cellulare acceso dopo l’ultima telefonata. Crow era su tutte le furie.
   Scoperto ogni minimo particolare il capo della corporazione era schizzato pazzo, sembrava un drogato in cerca della sua dose quotidiana, ma non aveva di certo intenzione di trovare la metamfetamina; aveva in mente una cosa sola: Ice.
   Finalmente si decise a rispondere.
   « Pronto…», disse sconfitto.
   « Non dovevi lasciare il telefono, perché non hai risposto subito? ».
   « Ero in bagno Mattew ». Mentì Smith.
   « Ho mandato i jet per bloccare l’elicottero. È precipitato al Cairo. Ora voglio che tu riprenda in mano la situazione inviando immediatamente una squadra sul posto. È tutto chiaro? ».
   « Lo è ».
   « Aspetto tue notizie », disse attaccando.
   Non era andata poi tanto male la telefonata, solo che Smith aveva il cuore a mille e stava seriamente rischiando un attacco di cuore; inoltre era fisso con lo sguardo sulle telecamere a circuito chiuso e si stava convincendo sempre più che la sua squadra quattro era stata annientata proprio da Ice.
   I suoi poteri erano davvero sovrumani; con la sola forza del pensiero aveva sterminato l’esercito più forte della corporazione.
   In un baleno uscì dalla stanza premendo poco prima un tasto specifico sotto la scrivania; l’allarme risuonò nell’intera struttura chiamando a rapporto qualsiasi militare presente.
   Forse però non sarebbe bastato: la punta di diamante era stata scalfita poche ore prima da Ice e non c’erano garanzie di riuscita, in ogni caso doveva spedire sulla zona dello schianto quanto più personale possibile.
   Era costretto a farlo.
   Brown, preso l’ascensore privato, salì in un hangar nascosto a pochi metri sotto le dune sabbiose e non appena varcò le lucenti porte, una squadra di uomini lo stava già attendendo.
   Tutti immobili, sull’attenti, si accinsero nel saluto militare; al primo passo del loro superiore, in perfetta sincronia, portarono tutti la mano destra, rigida, alla fronte.
   Era fiero dei presenti, rispettava ed onorava il suo personale, ma lo sguardo fermo che mostrava nascondeva un sottile velo di paura e rammarico; mandare allo sbaraglio tutti quanti…
   Pregava in qualche assurdo miracolo che almeno uno di loro si salvasse.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
IL CAIRO
 
 
 
 
   L’alba si levava all’orizzonte mentre gli otto milioni di abitanti sonnecchiavano beatamente.
   Le luci sfavillanti del porto e dei grattacieli illuminavano ancora il caldo Nilo e di tanto in tanto la quiete era interrotta bruscamente dal traffico metropolitano; ancora esiguo per quell’ora.
   Quel giorno però, qualcosa cambiò la solita routine.
   « Ehi, Hasan, hai visto? ».
   « Samia sono stanco, abbiamo ballato tutta la notte, che c’è da vedere se non un bel letto caldo ».
   I due ragazzi, di ritorno da una discoteca, avevano assistito a tutta la scena: i jet, l’elicottero, lo schianto.
   « Guarda là! ».
   A pochi chilometri dalle rive ondulate del fiume, un incendio spaventoso aveva attirato lo sguardo del ragazzo, che brillo, non aveva la benché minima idea di cosa stesse vedendo, se il lampadario della sua stanza o il sole di mezzogiorno: aveva bevuto troppo.
   Con una brusca sterzata la biondissima Samia svoltò contromano passando per una viuzza a senso unico e sfrecciando tra i numerosi veicoli parcheggiati.
   L’asfalto aveva crepe ovunque, i rottami erano sparsi dappertutto e le lamiere erano schizzate persino nelle vetrine dei negozi; il bagliore delle fiamme illuminava lo sguardo stupito della ragazza che al volo, si tolse la cinta e corse verso le macerie lasciando il suo compagno nell’auto.
   Si era addormentato di nuovo.
   Le sirene dei pompieri e della polizia erano accompagnate anche da quelle dell’ambulanza ma erano troppo lontane; per raggiungerla dovevano prolungare la loro corsa di almeno un paio di chilometri, infatti, in quel punto non vi erano ponti. E l’ospedale era sulla riva opposta.
   Incauta e desiderosa di riscatto si avvicinò contro le lamiere incandescenti e le pale spezzate; i piloti erano morti entrambi.
   Il portellone, spaccato a metà, doveva nascondere qualcuno, pensò la ragazza; a confermarlo c’era sul vetro una chiazza gigantesca di sangue che impediva di vedere all’interno.
   « O mio Dio! ».
   La mano di qualcuno usciva da un foro nell’elicottero.
   Senza pensarci due volte si buttò contro il portellone e con un paio di botte riuscì ad aprirlo; abbastanza da vedervi dentro.
   C’era sangue ovunque, il fuoco illuminava il corpo martoriato di un ragazzo che con gli occhi chiusi, sembrava dormisse beatamente.
   Anzi sembrava morto.
   Samia riuscì ad afferrare il polso del giovane e tirandolo con tutta la forza a sé lo trascinò più vicino. « Ah! », esclamò.
   Il ragazzo aveva spalancato improvvisamente gli occhi, accesi di un colore azzurro intenso.
   Avrebbe giurato di vedervi riflessi rossi al loro interno ma con molta probabilità quel colore era dipeso dalle fiamme inarrestabili che si stavano propagando.
   Era bellissimo, un viso dolce come quello di un bambino, ma con uno sguardo così glaciale da spaventarla a morte; improvvisamente le pupille si mossero e l’insanguinato riprese conoscenza.
   « Come ti senti? ».
   Senza badare alle parole della ragazza il superstite girò il capo contro la lamiera e fissandola la scaraventò a dieci metri di distanza. Per poco non prese la sua auto.
   « Cos… cosa hai fatto? ». Disse la ragazza stupefatta.
   « Niente. Portami via di qui ».
   I soccorsi stavano arrivando e Samia non aveva la benché minima intenzione di portare uno sconosciuto psicopatico in casa sua. Non era pronta a farlo.
   Le sirene avevano appena lasciato il ponte e si stavano avvicinando a tutta velocità sul luogo dell’incidente, tanto che persino Hasan, addormentato, fu svegliato di soprassalto.
   « Portami via ».
   « Non posso ».
   « Portami  via o verrò rinchiuso ancora, non badare alle ferite, guarirò ».
   Fu in quel momento che delle urla provenienti dall’auto nera della ragazza interruppero il dialogo dei due: era Hasan.
   « Samia arrivano! Porta qui il culo e andiamocene! C’è la “festa” in macchina! ».
   « È questo il tuo nome? ».
   « Già ». Rispose stizzita.
   « Bello…».
   La stessa visione dei sogni subentrò.
   Due occhi azzurri sbucarono dalle tenebre e lo travolsero.
   Il giovane superstite svenne tra le braccia della ragazza proprio mentre i soccorsi erano a poche decine di metri da loro.
   « Cazzo vieni Samia! ».
   Preso in spalla il ragazzo, la bionda aprì il portabagagli posteriore del fuoristrada e lo scaraventò dentro come fosse un sacco di patate. Era pesante ma la determinazione l’aveva spinta a non mollare, di rado si arrendeva.
   « Che stai facendo! ».
   « Risali in macchina Hasan, torniamo a casa ».

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Capitolo 21
*** Capitolo 1.9 ***


CAPITOLO      1.9
 
 
 
 
 
   Illustrate le regole del gioco, Alex divenne improvvisamente muto mentre il giovane Ice lo seguiva a pochi passi da dietro. Le lanterne illuminavano la via e quando furono giunti a destinazione, una scala divise a metà il corridoio che in quel punto sembrava curvare sia da un lato che dall’altro.
   Scesi un paio di scalini, il giovane notò con grande stupore che la stanza era tonda: in alto vi era il piano superiore da cui gli anziani e i membri della fratellanza erano ansiosi di gustare il combattimento mentre ai lati un colonnato nascondeva decine e decine di torce che illuminavano la stanza. 
   L’ambiente era stato ricavato nella parte più fragile del terreno in una buca profonda almeno dieci metri da cui era nata poi l’Alfa e l’Omega.
   Centro dei sotterranei e quartier generale della resistenza, s’ispirava ai vecchi anfiteatri romani e li in mezzo, presto i due gladiatori avrebbero mostrato le loro virtù.
   Le ombre prodotte dai sostegni erano raggi nerissimi che si scontravano al centro del colonnato tagliando millimetricamente la pavimentazione.
   Cucite a dei teli rossi che scendevano dalla balconata, tesi e pronti per spezzarsi, le custodie delle più strampalate e letali armi erano li, in procinto di essere usate; ovviamente non ce n’era una che ispirasse al ragazzo fiducia.
   « Il saluto è d’obbligo Ice », disse sottovoce Alex.
   In pochi secondi i due si trovarono faccia a faccia mentre in alto i vecchi studiavano il nuovo membro e i giovani scommettevano sul vincitore.
   Seguendo l’inchino del suo maestro, il giovane abbassò il busto fino a raggiungere i novanta gradi necessari per aprire le danze.
   « Sapete entrambi che dovrete fronteggiarvi con il massimo impegno, rispetto e dedizione », disse un vecchio dall’alto.
   « Sì ».      
   Oddio stava succedendo tutto troppo in fretta, il giovane aveva l’aria confusa e parve non voler dare il consenso per iniziare il combattimento: “…porterà ad una vittima…”?
   Lui non avrebbe ucciso nessuno e non voleva di certo morire, poi però si scoprì ansioso di iniziare.
   « Sì ».
   « A voi! ».
   In un baleno Alex si precipitò contro uno dei teli e con non poca premura scelse una delle tante lame appese: una spada. Non voleva insospettire i fratelli ed era chiaro il messaggio che voleva recapitare a Ice.
   Avrebbe combattuto all’ultimo sangue.
  “Va bene Alex”.
   Sotto gli attenti occhi degli spettatori e dei ratti i due iniziarono a studiarsi.
   Ad ogni passo del maestro ne corrispondeva uno da parte del ragazzo. Così facendo ben presto si ritrovarono a disegnare una circonferenza perfetta al centro della stanza: Alex si avvicinava e Ice fuggiva. Perfetto! Stava succedendo proprio quello che Leroy non voleva.
   “Maledizione Ice! Fate qualcosa o sarò costretto a…”
   Fu a quel punto che Alex smise di pensare e seguendo il suo istinto tentò di colpire il ragazzo; peccato che in un battibaleno il fanciullo era già corso per impugnare una spada.
   La prima sferzata era andata a vuoto, “non male per un pivello”.
   Non sapeva combattere ma era rapido a imparare; avrebbe copiato il suo mentore cercando di superarlo durante lo scontro.
   Senza preavviso, mentre i due si fissavano gelidamente, le spade di entrambi scintillarono nella stanza vibrando nelle viscere di Parigi destando non poche domande nei fratelli.
   Quel giovincello non era male dopotutto. E poi quel nome… “troppo strano per un umano”, continuavano a pensare i saggi.
   Tutto taceva, solo i passi accompagnati dai respiri e gli urli stridenti delle armi risuonavano; con fare violento, cauto e deciso, Alexandre iniziò a colpire ripetutamente il povero ragazzo mirando principalmente al petto e all’addome, talvolta con l’intenzione di raggiungere la giugulare ma con destrezza e fortuna Ice riusciva, benché non se ne rendesse conto, a mantenere la lama dritta; tanto bastava per attutire i colpi, uno alla volta .
   Lo stratega però sapeva che ciò non sarebbe bastato; doveva mostrarsi più che convinto nella causa e poi, solo così Ice si sarebbe sbloccato.
   Dopo tre o quattro sferzate si staccò velocemente dalla punta metallica del giovane e prese, ai teli, un’altra spada di un metro e mezzo.
   Iniziò a volteggiarle.
   Aveva un modo tutto suo di combattere e ciò lo rendeva irresistibile agli occhi di tutti… Non vi era infatti un solo fratello che non volesse, almeno un pò, assomigliargli.
   Persino gli anziani lo invidiavano.
   L’iniziato, con molta meno esperienza, non si affrettò minimamente ad artigliare un’altra arma: già una era troppa per i suoi gusti, decise quindi di fronteggiarlo così, a viso aperto, al limite delle sue possibilità.
   Appena il primo colpo fu lanciato, come di riflesso, il suo braccio destro accompagnato da busto spalla e petto deviò il colpo e proprio mentre l’altra lama stava sopraggiungendo, già aveva anticipato la mossa, scoprendosi però dal lato opposto.
   Non vi era alcuna possibilità di riuscita, a meno che di un’offensiva spietata.
   Non poteva sperare di prevedere ogni attacco da entrambi i lati e di lì a poco, se non per morte, sarebbe stramazzato al suolo stanco e sfiancato.
   In quel momento però qualcosa lo sbloccò: era la prima lezione quella e già aveva appreso da solo, una delle basi del combattimento; l’attacco era la miglior difesa a cui poteva ambire.
   Non sapeva come difendersi ma attaccare era decisamente più semplice che schivare e prevedere l’avversario.
   Con un fendente diretto spezzò la difesa delle due lame e se Alex non fosse rotolato all’indietro, lo avrebbe senz’altro colpito; era entusiasta di ciò che aveva appena compiuto.
   Con quella mossa aveva colto alla sprovvista tutti, il brusio di sottofondo ne era una prova.
   Sapeva però che quello era stato un colpo fortuito, non avrebbe avuto certo un’altra occasione per ripeterlo e mirare al petto.
   Cercare di superare entrambe le spade quindi era una perdita di tempo ed energie, doveva colpire più in basso, magari all’altezza dell’inguine, una coscia o un polpaccio.
   In realtà qualsiasi cosa andava bene, purché mettesse in difficoltà Alex sorprendendo gli anziani.
   Alex, muovendo qualche passo, lasciò campo libero a Ice con l’intenzione di studiare l’avversario o più semplicemente aiutarlo a riordinare le idee.
   Il duello oramai andava avanti già da qualche minuto ed era chiaro che il giovane, senza un adeguato insegnamento, non avrebbe potuto sopraffare l’esperto Leroy; tantè che il pubblico iniziò a dare ambigui cenni di noia.
   Alexandre se ne accorse, ma non avrebbe mai colpito a morte Ice.
   Con un balzo rapido i due vennero a contatto incrociando le spade e mentre i vecchi prendevano le loro decisioni, i combattenti si scambiarono qualche piccola parola, continuando a fingere di combattere.
   « Che state facendo dovete impegnarvi! ».
   « Ci sto provando! ».
   Un colpo potente e veloce di Ice riuscì a far perdere l’equilibrio e una lama ad Alex che preso alla sprovvista, rimase per un momento con la guardia abbassata; tanto bastò al ragazzo per indirizzare l’arma tagliente verso il suo collo.
   In quel momento però una luce accecante lo investì e quando ci si abituò, si rese conto di trovarsi nello stesso identico luogo ma il suo avversario, scuro in volto, sembrava fosse una donna.
   Due occhi azzurrissimi, gli stessi che continuava a sognare, lo spaventavano e lo attaccavano.
   Senza muovere un muscolo si sentì schiacciato da quello sguardo; in una buca profonda e fangosa.
   « Chi siete! ».
   Nessuno rispose all’eco infinito di quell’affermazione, che aveva tutta l’aria di una domanda senza alcun punto esclamativo.
   Tagliando l’aria, svanendo nel nulla per poi riapparire sempre più vicino, i due occhi si scagliavano contro di lui sbattendo nella sua anima, quasi fosse uno spirito o, come al solito, il suo peggiore ed unico incubo.
   Poi, tutt’un tratto, tornò alla normalità.
   Il pubblico sugli spalti era in piedi, Alexandre aveva per tempo alzato la spada ed entrambi si rivolgevano l’acciaio contro i rispettivi volti.
   Gli occhi rosso fuoco di Ice ribollivano; lo sguardo perso nel vuoto non lasciava trasparire emozioni.
   Le punte aguzze e scintillanti si scontravano contro i loro menti finché il ragazzo lasciò andare l’arma.
  “È finita”, pensò soddisfatto Alex, nessuno era mai arrivato a un “pareggio” contro di lui; ciò sarebbe bastato perché in quel momento di black out, Ice lo aveva massacrato di colpi costringendolo alla fuga per riagguantare la seconda spada.
   Peccato però che con un colpo secco la lama fu spezzata in un battito di ciglia.
   I presenti, muti, avevano mille idee nella testa, eppure nessuno osò aprir bocca.
   Chi era quel ragazzo? Forse un immortale?
   « La condizione è soddisfatta, la vostra decisione? ».
   « Alexandre, il ragazzo ha volontariamente gettato la spada, in chiaro segno di resa... Voltatevi », disse un vecchio maledetto.
   Ice tremava grazie ai fasci nervosi del suo corpo, oramai a fior di pelle, e quando era tornato alla realtà, aveva captato al volo l’esito dello scontro, gettando il più lontano possibile la sua arma.
   Arrendendosi.
   Se non lo avesse fatto, avrebbe staccato la testa di Leroy senza esitazione.
   Che gli era preso? Era impossessato o cosa?
   Non era quello però l’atto finale dello stratagemma: con un colpo fulmineo l’impugnatura passò dalla mano di Alex a quella di Ice che rivolse prontamente la lama al collo del suo compagno, fatto cadere in terra con un colpo alle gambe.
   Leroy era in ginocchio d’innanzi ai fratelli, sottomesso a Ice, preso per i fondelli come fosse al suo primo combattimento.
   Calò il silenzio, debitamente rotto dal giovane.
   « Chi vi dice che mi sia arreso? ».
 
 
 
 
   Per la prima volta dopo anni, l’esperto Alex stava mostrando un sentimento che oramai credeva represso da tempo, tutti lo notarono, stava provando vera e propria paura; non si sarebbe mai aspettato una simil fine.
   Non era nemmeno nelle più rosee aspettative e quel ragazzo di certo nascondeva dentro di sé un segreto di proporzioni gigantesche. Ma la cosa stupefacente era che tutti quanti provassero la stessa sensazione: vedere un loro fratello, forse il migliore, sbeffeggiato a quel modo e per di più inginocchiato sotto l’arma di un doppiogiochista era spaventosamente frustrante.
   « Avevate detto fino all’ultimo sangue giusto? Mi dispiace   Alex ».
   Con un colpo caricato fin dietro la schiena Ice tagliò l’aria facendo sibilare l’acciaio nell’Alfa e l’Omega poi, ancora una volta, quegli occhi gli invasero i pensieri distogliendolo dalla realtà.
   « Basta… hai mostrato loro abbastanza ». Dissero gli occhi.
   La sciabolata s’interruppe a pochi centimetri dalla pelle sudata e tremante di Alexandre e non appena Ice tornò in sé, gettò letteralmente via l’arma... Stavolta era davvero tutto finito.
   Il ferro si andò a conficcare nella parete rocciosa.
   Silenzio.
   Nessuno parlò. Inizialmente.
   « Siete decisamente uno di noi! », urlò un anziano dalla balconata per poi stramazzare a terra.
   I vecchi, chi dei quali si reggeva a malapena in piedi, erano immobili, immersi nei loro pensieri, pronti a sfruttare a dovere la new entry per contrastare le dominazioni; i giovani lo temevano e già lo odiavano.
  Per poco non faceva fuori il migliore di loro. Che gli era preso? Fortunatamente i saggi lo avevano bloccato in tempo.
   Anzi no! Si era bloccato da solo.
   « Ce l’hai fatta ragazzo », si rivolse il sottomesso a Ice.
   « Cosa mi è successo? ».
   « Mi avete battuto! Lo sapevo, avevo ragione a credere in voi! Ora andiamo a festeggiare, offro io! ».
   Leroy, intento a nascondere l’incertezza e l’amnesia del giovane ai suoi compagni, urlò per tutto il tempo euforico di aver abbracciato la morte e averla lasciata andare come nulla fosse; per qualche miracolo era sopravvissuto alla scatenata psiche di quel giovane.
   E cosa era stato costretto a fare per mascherare quel segreto?
   Invitare tutti a bere, lui che già aveva condiviso tutto con la fratellanza, lui che era il più tirchio di tutti.

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Capitolo 22
*** Capitolo 2.0 ***


CAPITOLO  2.0
 
 
 
 
 
ORE  06.00
 
 
 
 
   Samia era esperta nel far perdere le proprie tracce. Anche quando era inseguita da polizia, pompieri e ambulanza. Oramai salvare il culo ad Hasan una notte si ed una no l’aveva resa una degna erede di Eva Kent, aveva imparato ogni trucco della fuga: al pari di Diabolik.
   Avere un fidanzato dolce, romantico e speciale l’aveva resa la ragazza più felice della terra, questo fino a pochi mesi prima.
   La scomparsa dell’intera famiglia Hussein in un incidente stradale aveva sconvolto la psiche di quel ragazzo che, disoccupato, viveva ogni giorno della sua vita rinchiuso in camera attendendo la notte per poter “festeggiare” nel suo locale preferito, dove era schiavo dell’alcol e della droga.
   Quella era la sua vita, Samia era solo una scocciatura, una fidanzata che rompeva e frignava, questo pensava di lei oramai; ignorando che senza il suo amore, sarebbe stato solo uno dei tanti barboni del Cairo.
   Ciò che pesava sulla coscienza della ragazza era aver fallito, non esser riuscita a far sbocciare nuovamente il ragazzo che le aveva rubato il cuore, forse per questo aveva aiutato quello sconosciuto poco prima.
   Quel gesto l’aveva per un attimo liberata dal peso perenne di Hasan. Si era riscattata; peccato però che sulla strada di casa aveva avuto modo di ripensare alle sue azioni e sinceramente, cosa diavolo le era preso?
   Aveva aiutato un fuggitivo?
   Non che lei non lo fosse ma un ragazzo con dei poteri? Una cavia da laboratorio magari…
   Wow come aveva fatto volare quel portellone con la sola forza del pensiero; era stupefacente!
   Finalmente erano arrivati nella tana e non appena la ragazza fermò l’auto, il fuggitivo scese sulle sue gambe abbandonando il bagagliaio mentre Hasan, come tutte le sere, era portato a fatica da Samia.
   La loro casa si trovava in una zona dismessa del porto, tra milioni di container abbandonati.
   I due avevano costruito una vera e propria dimora; avvicinando i grossi ammassi di ferro erano state create stanze, bagni e un salone, certo non vivevano in un hotel a cinque stelle ma per loro andava più che bene. C’erano letti, mobili, quadri, carta da parati, un forno, un lavandino e i sanitari, tutti ordinati come fosse un vero appartamento; persino la tv e la playstation erano presenti.  
   Frammenti della loro vecchia vita forse.
   « E così vivete qui? », disse Ice tornando velocemente alla realtà.
   « Non è il Grand Hotel ma ci si fa l’abitudine », rispose la bionda.
   « Affatto, è piccolo ed accogliente, sicuramente migliore del posto da cui provengo; o almeno di quel che mi ricordo… ».
   Samia aveva appena lasciato Hasan sul divano sgualcito di pelle bianca e si era opportunamente allontanata dal bellissimo moro che gironzolava in salotto.
   « Come ti chiami? ».
   « Ice ».
   « Da dove vieni? ».
   « Dal deserto ».
   « Come hai fatto a guarire così rapidamente? E chi erano i piloti morti del tuo elicottero? Fai parte di una qualche associazione segreta? ».
   « Io… io…».
   Nel momento stesso che il ragazzo provò a formulare una risposta degna di questo nome, cercando di racchiudere i suoi tre giorni di vita in una frase logica, l’ennesima visione lo distolse dalla realtà.  
   Stavolta però molto più profonda…
   Era sempre lo stesso sguardo: regnava il buio e due occhi, azzurrissimi, lo guardavano scavandolo nell’anima.
   In attesa di una sua mossa.
   Immobile nella stanza sembrava fosse un cieco e Samia, che continuava a domandare, non si rese conto che il giovane era entrato in un ambiguo stato di trans…
   « Non hai bisogno di raccontarle il tuo passato ».
   Quegli occhi, per la prima volta in assoluto, parlarono; come nel sogno, esplodendo in una voce dolcissima, tanto da spaventare.
   « Chi sei? Sai chi sono? ».
   « Rivivi il tuo passato », dissero.
   A quelle parole il giovane ragazzo, stordito da una qualche forza invisibile, cadde in terra ai piedi del divano dove Hasan dormiva beatamente.
   Solo la bella Samia restò sveglia fissando i due dormiglioni.
   « Pfui… Li trovo tutti io, certo però un uomo nel momento del bisogno non guasterebbe! ».

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Capitolo 23
*** Capitolo 2.1 ***


CAPITOLO      2.1
 
 
 
 
 
 “Le donne sono un’inutile distrazione”, questo pensavano i membri della resistenza.
   Eppure di tanto in tanto i fratelli soddisfacevano i desideri più profondi sfogandosi con le loro donzelle preferite; in una casa neanche tanto lontana dalla grande chiesa di Notre Dame.
   Quello era il loro modo di festeggiare e poiché si pagava l’ingresso, Ice comprese al volo la “gentile offerta” di Alexandre.
   La prostituzione, a quanto sembrava, non era malvista; non erano pochi infatti i clienti quella sera e tutto sembrava “nella norma”.
   Routine?
   Entrati, quasi in territorio nemico, i fratelli sfilarono intimoriti tra i morbidi divani cercando di adocchiare le loro prede più prelibate: c’era chi andava con una, chi con due, chi con tre, ma non era affatto un ambiente sudicio e sporco abbandonato a se stesso, anzi, una volta varcata la soglia si veniva investiti da un profumo fortissimo di rose appena colte, mentre centinaia di petali rossi sparsi in terra accoglievano i possenti maschi.
   Le lampade erano nascoste dietro alcuni tendaggi di color chiaro, dal giallo al rosso questi creavano effetti stupefacenti dando risalto alla luce “romantica” del posto, che in realtà di romantico non aveva nulla, ma tanto bastava per sorprendere ancor di più gli “animali”: come se quelle bellezze in carne ed ossa non ci riuscissero già.
   In pochi istanti la grande fratellanza si dileguò nel nulla; restarono solo tre o quattro fratelli, ancora alla ricerca disperata di qualche donna.
   Ice era spaesato e Alexandre fiero.
   « Vieni ragazzo, sediamoci un pò ».
   Nel bel mezzo della sala, tra i gemiti e le urla, i due si accomodarono su un morbido sofà giallo con ricami dorati.
   Si scambiarono un’occhiata, la diedero ai presenti, attenti a non farsi ascoltare, ed iniziarono il dialogo.
   « Perché siamo venuti qui? ».
   La domanda più banale del mondo, constatò Alex.
   « È semplice, qui nessuno sente e tutti si divertono… Tra poco toccherà anche a noi due; ma prima vorrei porvi una domanda ».
   « Vi ascolto ».
   « Cosa pensate di questo posto? Intendo dire, vi piace? Non vorrei sbagliare nel porvi questo dono, in fondo è per voi tutto questo: pocanzi avete duellato come nessuno ho mai visto fare ».
   Ice sbarrò gli occhi cercando di affinare l’udito, tra tutto quel baccano sperava di aver capito male, ma lo sguardo invidioso di Alexandre lo contraddiceva.
   « Guardate che non ho combattuto io, non mi ricordo assolutamente nulla di ciò che è capitato là sotto! ».
   « Che vuol dire, “non ricordate”, suvvia non nascondete la vostra indole da guerriero! Mi avete fronteggiato con visibile timore, per poi mostrarvi a tutti quanti, sorprendendoci, come un cavaliere di rara fattura… Avete il mio rispetto ».
   « Non sto scherzando! Dovete credermi: mi capita spesso di avere delle visioni spaventose in cui un muro oscuro è letteralmente bucato da uno sguardo di ghiaccio; nell’Alfa e l’Omega è capitato ancora, ciò che ho fatto, non è opera mia e se lo è, non lo ricordo affatto ».
   « Sul serio non vi ricordate delle ripetute sferzate che mi avete inflitto? Devo ammettere che nemmeno in battaglia sono stato tanto vicino alla caduta… Ma ditemi, quegli occhi… vi sono in qualche modo familiari? ».
   Ice pensò per più di un minuto a dove li avesse già visti, ma nulla tornò alla sua mente, quando improvvisamente, in maniera del tutto casuale, il suo sguardo si posò su un bellissimo specchio a muro con contorni d’oro massiccio e ciò che vide gli tolse il fiato.
   Identici alle sue visioni.
   « Non è possibile…».
   « Cosa? Che avete visto? ».
   « Sono io: le visioni che ho, sono il riflesso del mio sguardo, guardate lo specchiò laggiù…».
   Alex si precipitò verso il muro senza destare sospetti; fermo a esplorare il gelido sguardo del suo allievo.
   Lo specchio incuteva molta più paura della visione diretta.
   « Devo ammettere che avete un carisma tutto vostro e ad esser sincero ho la pelle d’oca, credete ci possa essere un collegamento tra le vostre visioni e voi stesso? Io non vi conosco, ma se nel recente passato un trauma vi avesse colpito? ».
   « Potrebbe essere, ma non ricordo nulla…».
  “Maledizione!”.
   Quando il dialogo divenne più interessante, i due furono avvicinati inavvertitamente da due splendide ragazze; tanto che Alex rimase folgorato. Quasi avesse visto la madonna o il diavolo stesso; sì, perché a quell’epoca la bellezza, nel senso oggettivo del termine, era considerata come dominio del maligno, pertanto era rappresentata solo come attributo agli spiriti paradisiaci; anche per questo motivo amava il “bordello”… perché per lui, come per tutti, era come sentirsi in paradiso!
   Al volo fu allontanato dal giovane, rimasto con lo sguardo perso nel vuoto ma diretto tra i seni della ragazza.
   « Cosa guardate bel ragazzo? Basta chiedere ».
   Con un rapido movimento la ragazza dai capelli rossi si sfilò la bianchissima sottana mostrando le sue curve; peccato però che Ice restò imbambolato.
   Con una risata birichina la rossa si gettò al suo fianco piegando la morbida piuma del divano.
   Ice si avvicinò così ai suoi prorompenti seni e a quel punto, affumicato da un quintale di profumo, tornò in sé; saltando letteralmente sul posto.
   Il suo sguardo ammaliava: i due occhi verdi, truccati fino all’orlo, erano sicuri e nascondevano una sincera maliziosità.
   La bocca carnosa non vedeva l’ora di assaporare qualcuno o qualcosa; i capelli increspati assomigliavano vagamente a una ragnatela, trappola mortale per le incaute mosche.
   Ed Ice sì, si sentiva una mosca.
   Fu uno scambio di attenzioni reciproche e nonostante fosse inesperto nel sesso, la rossa, forse di qualche annetto più grande e quindi più spigliata in certe cose, restò infatuata dalla purezza che sprigionò il giovane; ed era un bene, di tanti uomini che aveva visto o incontrato nessuno era vagamente simile a quel moro dagli occhi azzurri.
   « Salve ». Si presentò subito la ragazza cambiando istantaneamente la sua strategia di persuasione.
   « Buona sera Signora…».
   Signora? Cosa gli era preso… tutto sembrava fuorché una signora! Né una vecchia né una baldracca, sembrava un angelo in terra.
   « Qual è il vostro nome ? ».
   Era solito per le prostitute usare un nome inventato o molte volte dato proprio dai clienti, magari di qualche donzella impegnata o dell’amore irraggiungibile e già che Ice, ignaro di tutto, le aveva rivolto una domanda del genere, la rossa capì immediatamente che non c’era nulla di ambiguo in quel giovane e che forse tutti gli altri maiali erano “sbagliati”.
   “Eh, se tutti fossero come te”.
   « Il mio è Ice, piacere di conoscervi! ».
   Colpita dalla semplicità, dal modo di parlare, dalla sensualità intrinseca della sua voce, la prostituta si presentò al suo cliente violando la regola principale vigente in quella casa: dichiarò il suo vero nome.
   « Jenevieve, piacere mio…».
   Ignorando i pericoli cui poteva andare incontro, la ragazza si sentì tanto impotente quanto stupida quando comprese ciò che aveva appena detto ma quel giovane sembrò a dir poco felice di far conoscenza con qualcuno; forse era un ragazzo solo…
   Gli occhi profondi non mentivano, doveva essere proprio così.
   « Venite con me ».
   Jenevieve afferrò di colpo la mano del cliente e lo portò su per le scale, al piano dove in genere si “consumava l’entrata” ma una volta lì, attraversando un eco di urla e piacere, i due salirono ancora, trovandosi in pochi secondi sulla terrazza, all’aperto tra i lenzuoli stesi e le stelle.
   Lì nessuno li avrebbe potuti né sentire, né vedere.
   La corsa sembrò togliere ogni energia al ragazzo che esausto, sentì la testa girargli mentre del sangue aveva addirittura iniziato a colargli dal naso.
   Non era normale calcolando il duro scontro da cui era uscito indenne poco prima.
   La donna prese al volo una seggiola e lo fece sedere.
   Non era infatti la prima volta che qualcuno avesse giramenti di testa in sua presenza; in fondo era una dea!
   In men che non si dica gli si avvicinò pericolosamente e… si inginocchiò!
   Cosa diavolo gli era preso? Ice stava sperimentando per la prima volta una sensazione del tutto nuova: aveva anche un certo formicolio un pò più sotto l’ombelico…
   La donna, infatuata come non mai, socchiuse gli occhi e prese ad accarezzargli l’addome, il petto, le spalle, finché l’euforia la scagliò, oramai in preda alla più profonda delle eccitazioni, contro le carnosi e gelide labbra del ragazzo.
   Ice, sbarrati gli occhi come fosse in preda ad uno dei suoi soliti incubi, anzi al solito, perché era sempre lo stesso, si sentì mancare ogni arto del corpo, come se improvvisamente l’intera muscolatura si fosse addormentata.
   Brividi intensissimi lo fecero vibrare fin dentro le ossa, il respiro mancò nel momento stesso che la lingua della ragazza penetrò a forza nella sua bocca scrutando ogni particolare di quell’apertura e stranamente, da sveglio, rivide i soliti occhi azzurri ma avvenne qualcosa di diverso quella volta…
   L’iridi azzurre del ragazzo si trasformarono e divennero rosse, tanto che un incendio al confronto poteva sembrare una scala di grigi.
   Un bruciore intenso lo fece tornare in sé finché, di riflesso, allontanò Jenevieve quasi fosse schifato.
   Lei cadde all’indietro.
   Respirava ancora a malapena, tossiva e deglutiva con difficoltà, gli occhi bollenti non gli permettevano di mettere a fuoco nemmeno le ginocchia poco più in basso, mentre la ragazza, ancora eccitata, guardava una piccola sporgenza creatasi tra le cosce del bellissimo cliente; ignara del cambiamento avvenuto nel giovane.
   Gattonando, pronta per agguantare la preda, la prostituta si avvicinò velocemente ma a quel punto dei fuoriprogramma multipli la interruppero.
   « Eccoci fratelli, lo abbiamo trovato! ».
   « Vi eravate nascosto bene è fratello! ».
   « Vedo che vi stavate divertendo, fateci partecipare! ».
   Commenti sciocchi, ma tutti intenti a sdrammatizzare la situazione, risuonarono nel terrazzo mentre la donna in lacrime li malediva.
   Aveva perso l’occasione di far suo l’uomo perfetto!
   In pochi secondi però la fratellanza notò lo stato confusionale del giovane.
   « Ehi, ragazzi, correte qui presto! ».
   Urlò uno.
   In men che non si dica la voce era giunta già al piano di sotto dove Alexandre continuava a divertirsi; in pochi secondi si fece strada tra la folla arrivando al suo allievo, che con lo sguardo perso nel vuoto respirava a malapena.
   Lo chiamò per una decina di volte, voltandogli anche il capo, ma Ice non sembrò avere la forza di riaccendere lo sguardo e nemmeno il cervello.
   Gli occhi erano tornati azzurri prima ancora che tutti gli altri arrivassero, quindi con molta probabilità, nessuno di loro avrebbe mai immaginato che il suo sguardo potesse cambiare colore…
   Proprio come si vociferava accadesse agli immortali.

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Capitolo 24
*** Capitolo 2.2 ***


CAPITOLO  2.2
 
 
 
 
 
   Le squadre di Brown avevano perlustrato per interi chilometri la zona dello schianto non trovando nulla.
   La polizia locale aveva appena esteso un rapporto sull’accaduto ma le talpe dell’Hide Corporation avevano messo tutto a tacere ancor prima che si muovessero le acque; i rottami erano stati completamente rimossi e portati nel laboratorio del deserto per esser studiati mentre gli ordini di Smith erano stati chiari: trovarlo, bisognava trovarlo il prima possibile.
   Non poteva essere andato tanto lontano.
 
 
 
 
   Accuratamente coperto, disteso su quello pseudo-pavimento di metallo, Ice sognava beatamente quasi fosse in coma; di tanto in tanto riusciva anche a sorridere mostrando delle strane protuberanze appuntite proprio all’altezza dei canini.
   Samia lo aveva fissato all’incirca per mezz’ora dopo che si era addormentato e fortunatamente si era risparmiata quella visione; qualora l’avesse visto, nessuno l’avrebbe salvata da una sicura sincope.
   Si era fatta l’ora di pranzo, anzi a dire il vero era stata già abbondantemente superata, e finalmente Hasan iniziava ad accennare un qualche movimento.
   Oramai gli effetti della sbronza non lo intaccavano più ed ogni mattina si ritrovava sistematicamente con un comune mal di testa, nemmeno tanto forte.
   Quando si voltò, ancora con gli occhi chiusi, già sapeva di trovarsi sul divano perché aveva freddo e sentiva chiaramente che il profumo di Samia non era tra le coperte.
   Anzi, non le aveva affatto le coperte.
   Mise un piede in terra calpestando qualcosa di morbido e caldo.  
   Era una piacevole sensazione, forse era quel nuovo tappeto che la sua stupida ragazza insisteva nel comprare per dare un tocco più casalingo al container.
   « Aaaah, per una volta Samia non ha sbagliato ». Disse felice sbadigliando.
   Poggiò l’altro piede, ancora tutto addormentato, e non appena provò ad alzarsi aiutandosi con i tricipiti, rotolò su qualcosa di tondo schiantandosi a faccia avanti due metri più distante.
   « Ma… ma che caz…».
   Al volo la bionda entrò nel soggiorno e vide il deceduto Ice accennare un lieve sorriso ( fortunatamente ), mentre Hasan, ai suoi piedi, imprecava e bestemmiava in turco.
   « Ma cosa ho preso! ».
   « Ihih… lui », disse indicando il corpo addormentato dell’ospite.
   L’espressione eloquente del ragazzo dimostrò chiaramente che quanto successo la notte prima, per la sua mente, non era affatto accaduto.
   Non ricordava l’elicottero, la polizia, il ragazzo… nulla.
   Meglio così, almeno avrebbe potuto raccontare fandonie senza che Hasan lo venisse a sapere.
   Non aveva mai voluto approfittare di quelle situazioni in passato ma quel giorno poteva permettersela qualche bugia!
   Non voleva sorbirsi il solito pippotto del finto fidanzato preoccupato e geloso.
   « Spero ti ricordi chi sia! ».
   « Non ne ho la più pallida idea…», rispose grattandosi il capo in cerca di risposta.
   E così, contenta e col cuore a mille, la ragazza diede inizio alla commedia, alzando il sipario…
   « Porca puttana Hasan! Ieri sera al club ti sei sbronzato, hai conosciuto ballato e scherzato con questo tizio tutta la notte e poi te lo sei portato a casa come foste fratelli e non te lo ricordi nemmeno? Dimmi, dimmi ora come vuoi giustificarti. Ti ricordi almeno come si chiama o ti sei dimenticato anche il suo nome? ».
   Imbambolato, con gli occhi socchiusi e le mani sugli orecchi, intenzionate a proteggere i timpani dalle corde vocali squillanti di Samia, Hasan aveva l’aria convinta di non conoscere quel ragazzo.
   Alla bionda un po’ dispiacque, ma ormai il dado era tratto e la scena era più che avviata.
   Il pubblico avrebbe senz’altro gradito la sua performance.
   Eh sì, da piccola glielo dicevano tutti di fare cinema, una carriera teatrale, ma quel genere di cose non le erano mai piaciute, a partire dalle recite scolastiche.
   Però era brava, c’era da ammetterlo.
   « Sul serio non me lo ricordo…».
   « Si chiama Ice coglione! È cascato a terra subito dopo di te ieri notte e vi ho lasciato ai vostri comodi ».
   Nonostante quel baccano, il moro continuava a russare senza badare ai presenti che d’innanzi a lui litigavano e decidevano sul da farsi.
   Sia Hasan che Samia avevano deciso di lasciarlo riposare ancora un po’, cambiando inevitabilmente stanza, eppure era calata la notte e stranamente quello dormiva ancora.
   « Ehi Samia, vieni qui a vedere; ma perché credi stia ancora dormendo? Abbiamo preso della roba tanto forte ieri notte? ».
   « Non più di te, ma sembra stia riposando… chissà cosa ha passato poveretto… Lasciamolo in pace ».
 
 
 
 
SHIN-CORE
AUSCHWITZ
 
 
 
 
   Michelle non riusciva a credere a ciò che vedeva; trovarsi in quel posto per lui era già un sogno ma quello, sì… era proprio un sogno.
   Dopo aver lasciato il laboratorio avevano superato una piccola porta, apparentemente uno sgabuzzino, erano scesi per tre rampe di scale che si stagliavano su una tromba oscura e profondissima, ed erano entrati nell’unica porta che c’era, bloccata da una manopola che girarono contemporaneamente tutti assieme.
   Ora, si trovavano d’innanzi ad una sfera, una biglia gigantesca, completamente nera.
   Era racchiusa da un involucro che la proteggeva, tra quattro pilastri: partivano dal pavimento fino ad arrivare al soffitto, si creava così la forma di un ovale; con un pò di fantasia poteva assomigliare alla radiografia di un uovo, la sfera era il tuorlo.
   Era imponente e tutt’intorno una decina di neon azzurri racchiudevano la palla, illuminandola.
   « Ah finalmente! Eccoci! Buona sera Shin! ».
   Crow iniziò a parlare rivolgendosi a quell’ammasso scuro: era alto almeno due metri e mezzo, le luci al neon erano riflesse sulla sua struttura e la stanza, completamente circolare, sembrava vuota e piena allo stesso tempo.
   Il ragazzo stava visitando ogni parte nascosta del laboratorio segreto eppure quella stanza aveva un’importanza molto superiore alle altre; ne era più che sicuro.
   « Buona sera Generale…».
   Impossibile!
   Una voce maschile, metallica e profonda, rispose con garbo ed accortezza, sicura di non interrompere i tre ospiti nel loro dialogo.
   Michelle era sveglio, sapeva bene che quasi sicuramente era un qualche tipo di programma super avanzato di un qualche iper computer, tipo quelli della NASA.
   Ripensò a quando sentì la voce femminile chiedere i dati del suo superiore all’entrata: non erano uguali, ma forse quello era un altro tipo di programma…
   Stupefacente.
   « Michelle, le presento Shin, il computer più veloce, intelligente e potente del mondo ».
   « È il fratello di quello di sopra? ».
   « Tecnicamente sono il padre…».
   Michelle non proferì verbo, fissando con venerazione quel gioiello tecnologico.
   « All’entrata del laboratorio ero sempre io: quello era un mio sottoprogramma, un’applicazione…».
   Ci aveva visto giusto il ragazzo, era proprio come pensava!
   In men che non si dica gli occhi blu intenso di Michelle iniziarono a trasparire un’energia tale da scuotere persino la potente macchina; avere a disposizione una tecnologia tanto all’avanguardia e tenerla nascosta era uno scempio verso il genere umano. Avrebbe potuto aiutare chiunque nel lavoro, nelle case, nelle scuole, qualcosa molto al di là dei processori di terza generazione…
   Un’intelligenza artificiale al servizio dell’uomo, applicabile alle auto, ai robot, persino alla bioingegneria.
   Era strano in effetti… possibile che un cervellone come Crow non ci avesse minimamente pensato?
   « Generale – riprese a parlare la macchina – ho intercettato le comunicazioni delle squadre inviate al Cairo. Stanno ispezionando l’intera superficie dello schianto palmo a palmo, ma…».
   « Non lo trovano…», rispose sconfitto Crow.
   Era un’aspettativa fin troppo rosea sperare di ritrovarlo, certo il difficile sarebbe stato prenderlo, ma già trovarvisi faccia a faccia era una conquista. Dovevano terminare in fretta l’esperimento su Axel, era l’unica opzione che avevano.
   Solo lui era in grado di influenzare l’andamento della situazione, non voleva farlo, ma non aveva alternative; l’ultima volta che lo aveva sentito gli aveva rivolto minacce pesantissime; non lo dava a vedere, ma Mattew aveva una paura fottuta.
   Chiunque avrebbe avuto paura di un vampiro del ventesimo secolo…
   Soprattutto se ce l’avesse categoricamente con te.
   « Michael continui il tour con Michelle, io vi raggiungo subito, ho una faccenda da sbrigare qui con Shin ».
   « Certamente generale ».
 
 
 
 
   L’elicottero era precipitato ma non tutto era perduto, Mike lo sapeva.
   Il segnale gps dell’iPhone recapitato a Ice era chiaro: il suo amico si era spostato dopo lo schianto; quindi stava bene.
   L’appartamento era vuoto e silenzioso, la tv era spenta e le luci illuminavano a fatica il salone.
   Il ragazzo era al computer e studiava minuziosamente il segnale emanato dal cellulare di Ice; era stato fortunato a incontrare quell’uomo, ma non si fidava minimamente del suo operato, benché alla fine il suo amico, come promesso, era stato liberato.
   Era stato raggiunto telefonicamente da un numero sconosciuto e una voce metallica gli aveva rivelato l’intenzione di liberare il suo amico, ma chi era?
   Aveva mille domande nella testa e nessuna trovava risposta.
   Il casato, nonostante avesse regole precise da adottare in momenti come quello, non era più quello di una volta; la notte, unico momento della giornata in cui poteva uscire con i consanguinei, non era più sicura: erano già morti troppi fratelli ed il clan guerriero sembrava incapace di porre fine al massacro.
   I lycan erano spietati e bene organizzati, doveva prendere una decisione drastica, il più in fretta possibile.
   Aveva altro però da sbrigare, faccende personali.
   Andò all’armadio e accendendo la luce con la forza del pensiero aprì l’anta principale, estrasse un paio di cartelle cliniche e tornato alla scrivania, si mise a sfogliarle.
   All’indomani doveva incontrare il suo dottore, perché a quanto pareva, la malattia stava consumando in fretta il suo corpo; sperava con tutto il cuore di riuscire a resistere finché non avesse rincontrato il suo migliore amico.
 
 
 
 
 
   Erano passati esattamente due giorni e sia Samia che Hasan iniziarono a preoccuparsi, visti gli esiti negativi nel svegliare Ice.
   Da un lato però la nuova situazione aveva portato la pace tra i due, il drogato non era brillo da più di ventiquattro ore e assieme alla ragazza fissava il moro, steso sul divano come fosse il loro bambino… sì, quello che avevano desiderato di avere.
   Si erano riappacificati, ed era stato quello strano ospite a creare il miracolo.
   I giorni erano trascorsi in fretta, la colazione, il pranzo e la cena erano consumati in terra nel soggiorno, proprio vicino a Ice che immobile, sembrava non degnarsi nemmeno di respirare; Hasan era spaventato, aveva provato due giorni prima a chiamare l’ospedale ma Samia si era rifiutata ed opposta a quella decisione.  
   Ed era alquanto strano da parte sua.
   Che dire della notte poi!
   Anche se il ragazzo con i poteri dormiva, non poteva dirsi la stessa cosa per Samia: certo, Hasan russava e si dimenava come il solito ma lei, apparte qualche lieve dormiveglia, non si era ancora abbandonata a un sonno vero e proprio.
   Il ronzio delle lampadine spente era fastidiosissimo e innaturale.
   C’era qualcosa nell’aria e ci avrebbe messo la mano sul fuoco che erano segnali di Ice.
   La notte capitava, infatti, che le luci si accendessero e si spegnessero da sole, a volte sembrava persino di trovarsi in un incontro ravvicinato alla Steven Spielberg. Fortunatamente Hasan aveva il vizio di dormire con la testa sotto il cuscino perciò, non se ne era ancora reso conto.
   Una di quelle sere la bionda, alzatasi in punta di piedi, sorvolò il piccolo corridoio e si mise seduta in terra, a gambe incrociate sul tappeto, ferma a fissare Ice: il ragazzo si era voltato e la vecchia coperta penzolava da una parte scoprendo un lato della schiena.
   Che cos’è…
   La pelle, raggrinzita e infreddolita, inspiegabilmente sudava mentre piccole gemme diamantate la ricoprivano quasi del tutto come rugiada.  
   Sembravano schegge di ghiaccio.
   Allungò una mano per accarezzarlo, palpare quella singolarità, ma sentendo un brivido gelido, si ritrasse.
   Le sembrò di morire.
   Una visione spaventosa s’impossessò di lei: due occhi penetranti sembravano stessero per succhiargli via la vita.
   Fortuna che si era staccata all’istante.
   All’unisono Ice iniziò a respirare più faticosamente nonostante continuasse a dormire mentre dalla nuca, si scoprì un disegno: sembrava un tatuaggio antichissimo.
   Non aveva idea di cosa rappresentasse e non poteva sapere se prima di quell’avvenimento Ice già lo portasse.
   Si alzò barcollando con l’intenzione di andare a prendersi qualcosa da bere e quando arrivò in cucina mise sotto l’acqua calda un pentolino cercando di calmarsi con una camomilla.
   La mente sembrò tornare su di giri e più lucidamente ripensò a quel disegno; forse lo aveva visto su qualche vecchio libro di storia, era uno stemma…
   Ne era sicura, lo ricordava.
   Padre egiziano e madre italiana avevano spinto la piccola Samia a sorvolare quel piccolo spazio di mare decine e decine di volte dal Cairo a Roma, da Roma al Cairo, in attesa di un accordo tra i litiganti genitori; era stata sballottata come un bagaglio da una parte all’altra senza poter decidere con chi volesse stare, d’altronde era troppo piccola nel periodo di divorzio. Capitavano mesi, a volte anni, nei quali non vedeva e ne sentiva o il padre, o la madre.
   Un’infanzia difficile.
   Aveva frequentato un sacco di scuole diverse, inizialmente private, poi le comunali quando i suoi avevano cominciato a spendere le loro finanze in sentenze appelli e avvocati: in Italia non era riuscita a trovarsi nemmeno un amico, alle elementari e alle medie i suoi compagni erano incoraggiati dai genitori a non frequentarla, alle superiori era stata direttamente scartata, vittima di una malsana idea di razzismo, in Egitto invece era semplicemente invidiata ed odiata. Non capitava a tutti di poter andare a vivere nel bel paese, essere così bella e non accettare il regalo che il destino a pochi riservava.
   Ricordava bene però, quando sia in una nazione che in un’altra, era costretta dai rispettivi genitori ad assistere alle lezioni di religione, non che le trovasse interessanti, infatti si giudicava atea, ma quelle stressanti e pesantissime ore di scuola di tanto in tanto le avevano suscitato qualcosa di molto diverso dalla noia.
   In Italia si parlava di Cristo, di Dio e del paradiso; in Egitto, di Maometto del Corano e di Allah. Delle innumerevoli parole di “Dio”, dell’uno o dell’altro che fosse, e persino dell’arcangelo che per entrambe le religioni, con somma coincidenza, si chiamava Gabriele.
   Per non parlare dell’aldilà, simile per entrambe.
   Questo processo di apprendimento l’aveva portata a credere semplicemente nel nulla; troppi vuoti, troppe domande non risposte.
   Forse sì, esisteva qualcuno di superiore, ma non capiva l’accanimento dell’uomo nella ricerca di quest’ultimo; lei si apriva al Signore quando meglio credeva e tutta la fiscalità della chiesa & Co. non la inquadrava. Per non parlare del padre! Che così come fece lui, i suoi nonni e gli antenati, la costrinse ad imparare a memoria ogni pagina, frase e lettera di quel mattone di Corano attuando il cosiddetto processo chiamato hifz ( difesa ) un modo per garantire la preservazione del libro sacro nella sua forma autentica per secoli.
   Ed era in quei giorni di inaudita sofferenza che più volte, anche nella stessa riga, compariva un vocabolo incomprensibile persino per gli anziani ed ora non gli sembrava vero: era quello che Ice portava sulla nuca!
   Fin quel momento non aveva incontrato nulla di realmente tangibile che somigliasse a qualcosa di divino ma ripensando allo sportello strappato con la forza del pensiero, iniziò a credere in qualcosa che nemmeno lei sapeva descrivere a parole…

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Capitolo 25
*** Capitolo 2.3 ***


CAPITOLO      2.3
 
 
 
 
 
   Un baccano micidiale aveva interrotto la calda serata dei numerosi clienti della casa, la fratellanza aveva messo a soqquadro ogni cosa, gli uomini erano stati allontanati a forza e le donne, il peggior dei mali, erano così libere di potersela prendere con Jenevieve: aveva rovinato tutto.
   La fratellanza a volte aveva delle idee alquanto singolari ma d’altronde, cosa potevano permettersi di fare? Toccare una fanciulla? Non sia mai! Il gentil sesso era letteralmente venerato, per quello preferivano tenersene alla larga; sapevano che al lungo andare una donna, anche la più fragile, li avrebbe comandati a bacchetta.
   Ecco perché tra le loro fila non ce n’era una.
   Il ritorno ai sotterranei invece non era stato uno dei più facili.
   Le strade si erano riempite di gentaglia, tutta attenta ad impicciarsi dell’accaduto, così come le guardie: trasportare quindi il corpo semi-cosciente di Ice era stata un’impresa epica.
   Era freddo come la pietra, chi lo sosteneva a malapena riusciva a stargli vicino, sembrava più morto che vivo, eppure non era successo nulla.
   A detta della prostituta.
   In poco tempo volarono settimane intere, forse anche qualche mese e Ice, ancora semicosciente, era sorvegliato ed accudito da quello che si era proclamato suo maestro: Alexandre.
   Nonostante i numerosi agganci, la mano manipolatrice della resistenza non era riuscita a trovare un solo medico in grado di rimediare al male che affliggeva il giovane, tanto che erano stati costretti a “rapire”, usando sempre le buone maniere, quella donna, Jenevieve, tentando invano di estorcerle una qualche confessione su ciò che era successo quella notte. Ma non c’era nulla da fare: si erano scambiati solo un innocente bacio.
   La rossa era stata persino scortata nei sotterranei per riportarla faccia a faccia col giovane, che con lo sguardo perso nel vuoto, non sembrava nemmeno ricordarsi di lei.
   Al contrario la ragazza era costantemente affascinata da lui, tantè che Alex decise di trattenerla a data da destinarsi finché la guarigione di Ice non fosse avvenuta; ormai comunque era stata bandita da quel bordello per aver rivelato il suo vero nome, ed in ogni caso non era mai andata a genio a tutte le altre intrattenitrici, era troppo bella per competere con loro.
   Nel frattempo la guerra contro le dominazioni andava avanti senza sosta, togliendo risorse sia all’una che all’altra fazione e da quando la rossa aveva messo piede nei sotterranei, era entrata a far parte a tutti gli effetti della resistenza, curava i feriti, aiutava i malati, cucinava persino per loro, lei che non aveva mai imparato da piccola, orfana che fu; ma a quegli uomini piacevano veramente le pietanze cucinategli, oppure le mentivano? In ogni caso la facevano sentire una vera regina e poi aiutava Ice o perlomeno, gli faceva compagnia.
   C’era qualcosa però che nascondeva la ragazza, peccato che nessuno, nemmeno Alexandre, lo aveva notato, e non erano in pochi gli uomini che si permettevano di spiarla…
   Arrapati com’erano.
   Una delle tante notti, mentre la battaglia in superficie mieteva vittime, come di suo solito Jenevieve si era diretta nella lussuosa stanza di Ice, quella privata del suo maestro che si era gentilmente offerto di cedergliela; aveva un’aria familiare…
   Sembrava una riproduzione fedele del bordello, solo molto più rustico e virile.
   Quando varcò la porta fu subito attratta da quell’imponente letto a baldacchino da cui scendevano dei bianchissimi panneggi, lo aveva visto decine e decine di volte ma immaginarsi ogni volta nuda, dietro quel sottile strato di seta mentre faceva l’amore con Ice la portava sempre su di giri.
   E la faceva soffermare per parecchi minuti sull’uscio.
   Le batteva il cuore a mille. Le tremavano le gambe, la voce e anche il respiro.
   Quando si sedeva proprio li, di fianco al giovane, illuminata dalle candele, sentiva ogni volta un’attrazione tanto forte quanto la paura di esser scoperta; per quel motivo, per circa un mese era restata sempre muta e tremante a fissarlo, studiarlo, a mangiarlo con gli occhi. Quella notte però qualcosa sarebbe cambiato…
   « Salve Ice, sono io… Jenevieve… », disse la ragazza avvicinandosi al letto; intimorita ma decisa fece il giro del baldacchino e vide il volto perso nel vuoto del ragazzo, sembrava non averla sentita proprio.
   Meglio così, si disse, sarebbe stato più facile confidarsi.
   Aveva ripetuto quelle parole infinite volte nella sua stanza, da sola, ma ora che doveva liberarsene sembrava non ricordarsene affatto, eppure sapeva quella filastrocca a memoria; con molta probabilità Ice stava ascoltando. Comunque si fece coraggio e andò avanti.
   « Quella notte sulla terrazza ho visto qualcuno mentre vi baciavo ed ho sentito un’energia avvolgermi completamente finché non mi avete allontanata; è stata l’esperienza più affascinante della mia vita e vi giuro che farei di tutto per riavervi di nuovo qui con me! ».
   Prese a singhiozzare.
   Il peso opprimente di quella situazione era ormai troppo da sopportare, Jenevieve sapeva, in cuor suo, che se quel ragazzo era paralizzato e sul punto di morire era stata colpa sua.
    Le lacrime iniziarono a solcare copiose le bianche e morbide guance della fanciulla bagnando velocemente la mano gelida di Ice che immobile, sembrava aver voltato lo sguardo per avvicinare la bellissima ragazza.
   « Mi avete rubato il cuore ed ogni notte rivivo quella sera, non c’è momento della giornata in cui voi siete fuori dai miei pensieri, sento qualcosa che ci unisce e vorrei, vorrei tanto riavervi qui, sentire la vostra voce... Potervi amare…».
   I palmi congelati di Ice trasformavano le graziose lacrime della ragazza in piccolissime schegge di ghiaccio, era come un sogno, un incubo.
   Chi era?
   Jenevieve chiuse e poi riaprì gli occhi, bagnando con il suo dolore la fronte del ragazzo.
   Non ce la faceva più.
   Era stata presa e strappata dal suo mondo e non si era opposta, viveva in mezzo a trenta e più uomini non lamentandosi di nulla e tutto per stargli vicino; il loro primo incontro era stato fatale.
   Per entrambi.
   Eppure era ancora li con lui.
   Sicura che nessuno fosse nel tunnel fuori la stanza, quasi avesse un sesto senso, la rossa si avvicinò ancora una volta alle gelide labbra del ragazzo, pronta nel dargli l’ennesimo bacio; speranzosa di tornare alla normalità.
   Forse lo avrebbe fatto tornare dall’aldilà, tanto valeva tentare, non poteva starsene in un letto attendendo la morte: lei aveva bisogno di lui…
   E forse lui di lei.
   Quando socchiuse le palpebre rivide, come ogni qualvolta che pensava a lui, quel mostro, quei due occhi malvagi pronti a divorarla: erano apparsi quella volta che si erano baciati e non se ne erano più andati, la perseguitavano continuamente, nei sogni, negli specchi, nell’acqua, le era sembrato di vederli anche nel fuoco e forse quello che stava per fare l’avrebbe finalmente liberata da quell’opprimente sensazione di terrore.
   Scacciò quello sguardo pietrificante dalla sua mente e senza badarci troppo posò delicatamente le labbra su quelle di Ice…
   Ci fu silenzio.
   Rivide ancora gli occhi maligni.
   Ice mosse lentamente le pupille alla ricerca delle sue e quando gli iridi divennero rossi come il fuoco, lei spalancò le palpebre; lo sguardo completamente bianco.
    Il cuore iniziò a rallentare così velocemente che si bloccò improvvisamente, mentre un calore profondissimo risvegliò il corpo senza forze del ragazzo.
    L’aria divenne gelida, le candele si bloccarono immediatamente assieme alle ombre, mentre un chiarore azzurro colorava la stanza.
   Jenevieve cadde a pochi centimetri da Ice…
   Senza vita.
 
 
 
 
   Trascorsero pochi minuti, il tempo di dare al ragazzo la capacità di comprendere cosa fosse successo.
   Ice aprì gli occhi, le narici, affinò l’udito, palpò l’aria con la pelle e si alzò di scatto, come fosse stato in letargo per tutto quel tempo, come se non fosse successo nulla.
   Aveva l’impressione di essersi riposato solo un paio di notti o più, aveva i muscoli tutti indolenziti, più gonfi, pronti a scaricare l’imponente energia che lo abitava; si voltò lentamente e vide il corpo bellissimo di Jenevieve.
   Ricordava quella ragazza, a dire il vero era l’ultima persona che ricordava di aver visto poi, il sonno profondo e nulla più.
   Aveva le palpebre abbassate e dormiva beatamente li vicino trasmettendogli una sensazione unica: un senso di onnipotenza.  
   Sapeva che in quel caso, lei dipendeva da lui e uomo quale era doveva sorvegliarla, confortarla, riscaldarla con la sua presenza.
   Il sonno è il momento in cui un uomo è più fragile ed affidarsi a qualcun altro richiede una fiducia senza eguali: quella che lui stava ricevendo, ma non aveva idea che la bellissima rossa giaceva nel suo letto senza vita.
   Attento a non svegliarla, posò una mano sulla sua delicatissima fronte e non appena lo fece balzò di un paio di metri lontano dal letto, spaventato ed euforico.
   Aveva toccato una donna o una lastra di marmo? Era fredda, tanto che la sensazione provata fu quella di bruciarsi la mano.
   Non riuscì a capacitarsene.
   Passeggiò su e giù, a destra e a sinistra del letto come fosse un leone in gabbia, senza riuscire a ricordare cosa fosse successo: vedere quella creatura tanto splendida morta vicino a lui gli lacerava l’anima.
   Quando fu sul punto di esplodere, l’ennesima visione lo accompagnò in un urlo di dolore prorompente e spaventoso, tanto che gli occhi divennero immediatamente rossi e le unghie lasciarono posto a degli artigli letali.
   « Questo è ciò che succede », dissero quegli occhi maledetti.
   Quegli occhi tanto belli quanto i suoi.
 
 
 
 
 “Chi siete… chi diavolo siete…” continuava a ripetersi.
   Prosciugato, esausto e solo, il povero ragazzo rimase per ore ed ore nella stanza privata di Alexandre fissando il corpo senza vita di Jenevieve. Non aveva il coraggio di avvicinarsi e non chiudeva le palpebre chissà da quanti minuti per paura di quella maledetta visione.
   Stava uscendo pazzo.
   Finalmente, quando forse la mattina stava levandosi, il combattente Alexandre spalancò la porta ansioso; sperava di trovare Ice cosciente, aveva pregato abbastanza, doveva solamente sopraggiungere il miracolo.
   Quando varcò l’uscio vide il corpo della fanciulla disteso sul letto in un sonno profondissimo mentre il giovane ragazzo era sparito.
   Si aggirò in preda al panico per tutta la stanza finché non lo trovò in un angolo buio con le mani tra i capelli e due occhiaie da far paura. Rappresentava la morte in terra.
   Con un urlo grave e virile Alexandre chiamò a raccolta tutta la fratellanza mentre Ice, in terra, si dondolava come un pazzo.
   « Dobbiamo lasciare la città, il tempo necessario per permettere al ragazzo un riposo adeguato lontano dalle Dominazioni ».
   Un paio di uomini, surclassati dalla bellezza raggiante della ragazza le si avvicinarono e scoprirono immediatamente l’orrore che giaceva su quel meraviglioso letto.
   « È… è morta…».
   Senza scomporsi minimamente il proprietario della stanza prese in mano la parola illustrando un piano d’attacco alternativo: la fratellanza doveva allontanarsi dai civili spostando lo scontro fuori Parigi, magari tra i fitti boschi ad ovest, dove di rado passava qualcuno; li sarebbe sorta la nuova base operativa.
   Per quanto riguardava Ice, era visibilmente instabile e avrebbero presto indagato sul decesso della prostituta; per ora, dovevano solamente lasciarlo riposare.
   C’era qualcosa sotto; Leroy lo sapeva.
   E se era un immortale come pensava?
   Le prove che il ragazzo facesse parte della fazione nemica erano più che sufficienti ma Alex non volle parlarne ai compagni, voleva curarsi lui del ragazzo e magari renderlo il combattente perfetto per la sua causa.
 
   La morte del suo mentore non aveva minimamente scalfito la corazza d’acciaio di Philip. La vita solitaria che viveva con Angeline andava a gonfie vele mentre quelle strane ombre che la ragazza di tanto intanto avvertiva aggirarsi nei boschi erano scomparse.
   Tutto sembrava volgere al meglio, eppure la bellissima mora ripensava notte e giorno al profondo sguardo di Ice, erano mesi che immaginava di rincontrarlo, alla sua voce, alle dolci parole che le aveva rivolto togliendogli letteralmente il fiato, ma tutto ciò era buffo. Non lo conosceva nemmeno e gli aveva addirittura detto che avrebbe fatto l’impossibile per lei! Era fuori di testa!
   O forse era innamorato.
   Non aveva avuto il coraggio di chiedere a Philip che fine avesse fatto, lo conosceva bene, era troppo geloso per permettergli un dialogo razionale, ma non c’era un minuto al giorno in cui quella domanda assillante non bussasse nell’anticamera del suo cervello.
   Una sera, quando la luna piena illuminava la camera dei due amanti, Angeline si fece coraggio ed intraprese un discorso da cui difficilmente sarebbe uscita vittoriosa.
   « Sapete Ice vi ha salvato la vita mesi orsù, spero lo abbiate ringraziato quando ci ha lasciato ».
   Aveva iniziato la conversazione nel modo più pacato possibile e dall’espressione confusa e sorpresa di Philip sembrava fosse partita col piede giusto.
   « È vero, ma non ci ha lasciato, è vivo », rispose freddo lui.
   Come immaginava, l’astuto Philip stava sviando il discorso ed era strano che sapesse le sue condizioni, chissà magari stava bene veramente.
   « Quelle ombre nel bosco sono sparite pochi giorni dopo l’assenza di quel ragazzo…mi chiedo se c’entri qualcosa…».
   « Io non credo…».
   Era strano, non si era mai sentita così, ma la curiosità di conoscere la verità aveva spinto la ragazza sull’orlo di una crisi di nervi, non avrebbe mai immaginato di alzare la voce con il suo Philip.
   « Ora basta ditemi la verità, perché se ne è andato? È vivo? Per l’amor del cielo ha salvato anche la mia vita quando voi eravate stato colpito. Spiegatemi! ».
   Contro ogni logica il biondo scese lentamente dal letto e si avviò verso la vecchia finestra; il vetro rifletteva parte della stanza, il suo volto, la dolce Angy e la luna: era bello, pensò…
   Ma era arrivato il momento di affrontare l’argomento e stranamente non era affatto infuriato con la sua dama.
   Dialogarono senza problemi, sia dall’una che dall’altra parte gli animi erano pacati, forse anche Philip aveva qualcosa in sospeso con Ice, per questo non oppose resistenza alle continue richieste di Angy.
   Lo aveva mandato via semplicemente perché il moro voleva a tutti i costi metter fine ad un conflitto di cui nemmeno faceva parte, o voleva allontanarlo da lei?
   Angeline, visibilmente affranta, prese parola, cercando una volta per tutte di smuovere l’animo immobile del suo amato.
   « Ho sempre creduto che voi avreste purificato la terra come faceste con il mio corpo dalla peste, è un’utopia lo so, ed ora sono giunta alla conclusione che invece moriremo qui, forse invecchiando o forse uccisi dal sopraggiungere del conflitto; se credete di poter scappare vi sbagliate, Ice lo aveva capito e non nego che vi vorrei un pochino come lui. Ditemi se è vivo, mi dà speranza per un futuro migliore ».
   « È vivo e si sta dirigendo nel grande bosco ad ovest con un gruppo di quaranta uomini con l’intenzione di pianificare presto un attacco: vi conosco bene e così l’ho tenuto d’occhio, non volevo arrivare a questo dialogo senza risposte…».
   Presa in contropiede la fanciulla si alzò di scatto abbracciando il possente Philip da dietro, non riusciva nemmeno a stringere la morsa per quanto era enorme e muscoloso; se si fosse unito a quegli uomini le sorti della sua patria sarebbero state in buone mani, ne era sicura.
   Poi gli teneva sempre testa e sapeva dall’inizio che un giorno non lontano avrebbero intrapreso quel discorso, lo ammirava per questo.
   La capiva sempre. Sapeva sempre tutto.
   « Vi amo…», disse lei, succube del suo innegabile fascino.
   Un bacio appassionato interruppe per un momento i veloci pensieri di entrambi, durò per parecchi secondi e non appena si staccarono, Angy fece ciò che ogni donna ama fare al proprio uomo, comandarlo.
   « Andremo con loro…».
   « Ma…».
   Il biondo avrebbe voluto dirle ti amo in risposta ma fu preso alla sprovvista.
   « Fermeremo la guerra! », urlò lei entusiasta.
   Ice e Philip insieme avrebbero fatto faville!
 
 
 
 
   La decisione di lasciare la città era stata presa poco prima dell’alba e già la giornata era passata.
   La maggior parte del tempo era stato perso nei condotti per ripulirli dei loro effetti e di qualsiasi traccia umana.
   La storia avrebbe ricordato quei tunnel come semplici fogne.
   Nessuno avrebbe raccontato nei libri che lì la resistenza francese si nascondeva per combattere gli inglesi.
   Ora l’Alfa e l’Omega era solamente un buco nel terreno poco sotto Parigi.
   I fratelli non si erano opposti alla decisione di Alex di lasciare la loro casa; forse perché lo volevano un po’ tutti; era troppo tempo infatti che vivevano in quella fogna.
   Chiunque avrebbe accettato quella proposta.
   In fondo erano uomini, non topi!
   Aspettarono il sopraggiungere del crepuscolo per uscire allo scoperto: seguirono l’unico tunnel in grado di portarli poco fuori le porte della città e finalmente lasciarono Parigi.
   Tutto taceva, non c’era vento, le chiome degli alberi erano silenziose, nessun cinguettio, nemmeno un rumore.
   Solo una piccola carovana di uomini e carrozze passava indisturbata nella notte, tra i boschi bui illuminati solo dalla luna e dalle stelle.
   Dopo un inizio tranquillo, il sentiero iniziò ad essere più sconnesso, c’erano buche, ciottoli piccoli quanto un’unghia ed altri quanto un pugno; a quel punto le ruote dei carri accompagnarono la fratellanza con un cigolio continuo e simpatico, tanto che qualcuno non risparmiò qualche battuta contro Gaubert, il contadino ricco e benestante a capo della tenuta in cui erano sbucati all’uscita dei tunnel.
   Era lì che avevano preso tutto l’occorrente per il viaggio: carri, cavalli, fieno e quant’altro.
   Ice si trovava al centro del gruppo su una carrozza, non ce la faceva a camminare mentre Alexandre, come tutti, marciava senza fatica.
   Voleva aiutarlo, magari avvicinarlo per parlargli, ma non era possibile; il suo compito era quello di sorvegliare e mantenere la sicurezza dei compagni.
   Ripensava spesso alle visioni di Ice, ai due mesi interi di malattia, alla morte di quella fanciulla, sepolta nella terra di Gaubert con un rituale velocissimo che di certo non gli competeva, e ai colpi possenti, fuori dal comune, infertigli durante l’iniziazione.
   Aveva deciso di accogliere quel giovane perché credeva in lui, lo aveva visto aggirarsi per le strade come un segugio, sicuro di se e di cosa voleva, ed era raro trovare un ragazzo del genere di quei tempi. Somigliava al suo vecchio allievo, un vero asso con la spada, solo che Ice con molta probabilità si stava avviando a diventare presto il suo più grande nemico…
   Perché aveva ucciso Jenevieve? Doveva scoprirlo.
 
 
 
 
   Angeline, al settimo cielo, scoppiò ben presto in un sonno profondissimo, ansiosa di lasciare la città, felice nel poter rivedere Ice; Philip invece, non riusciva a chiudere occhio.
   Fissava il camino quasi spento, alla finestra la luna, nel letto il soffitto; sapeva bene che l’indomani sarebbe stato duro, non tanto per il viaggio quanto per le conseguenze…
   Gli era stato fatto promettere di proteggere Angy, non di portarla nella battaglia, e di lì a poche ore il patto stipulato qualche anno prima stava per essere infranto.
   Aveva provato tutta la serata a dissuaderla, ma con scarso successo; per qualche ragione a lui sconosciuta voleva lasciare la città e incontrare nuovamente quel giovane…
   Se non avesse avuto legami con la sua bella, lo avrebbe sbattuto in terra e riempito di botte; non sopportava la sua faccia e l’idea che fosse stato salvato da lui lo disgustava.
   Non era una cosa personale, solo, non lo reggeva.
   La notte fece velocemente spazio all’alba e quando finalmente Angeline sbatté le palpebre ancora semiaddormentate, capì subito che quella sarebbe stata una giornata interessante.
   Philip era fuori l’uscio a preparare il vecchio carretto sgangherato del fienile, aveva riparato i raggi di una delle ruote e vi aveva allacciato un cavallo, prontissimo per il viaggio.
   Ma non era il loro, quello che lei conosceva era stato preso da Ice, questo era bianco, robusto, un vero purosangue.
   « Dove lo avete preso? ». Disse confusa la ragazza al biondo che nemmeno l’aveva degnata d’uno sguardo.
   Forse era infuriato, pensò lei.
   « Ho riscosso un favore da quel contadino, come si chiama, Edouard, ma non l’ho trovato, la fattoria è disabitata, in ogni caso ho preso questo gioiello… vi piace? ».
   Philip sapeva bene perché era disabitata… avrebbe preferito non saperlo ma non dipendeva da lui…
   Quasi tutte le terre erano state abbandonate.
   Tutti erano fuggiti.
   « È bellissimo…».
   Ultimati i preparativi, dato da mangiare al purosangue e accorti di non essere seguiti, Philip diresse il calesse verso il fittissimo bosco ad ovest, seguendo un sentiero isolato, forse lo stesso che poche ore prima aveva intrapreso Ice.
   Prima o poi lo avrebbe incontrato…

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Capitolo 26
*** Capitolo 2.4 ***


CAPITOLO      2.4
 
 
 
 
 
   Il gruppo, unito, viaggiava senza sosta verso il fitto bosco a ovest di Parigi; la notte era sfruttata per riposare un paio d’ore e subito si riprendeva a marciare.
   Non volevano esser scoperti e attaccati quando più fragili; la resistenza era ben organizzata, su questo non gli si poteva dar torto, sembrava un esercito pronto a raggiungere lo schieramento per la battaglia.
   Inoltre i fratelli erano divisi in gruppi di tre per cacciare i cervi, un’ottima pietanza per restare in forze.
   Ice non era sceso nemmeno una volta dal carro e lentamente il suo sesto senso stava riaffiorando. Percepiva distintamente odori e rumori, solo una cosa lo preoccupava: non aveva ancora la forza per aprire gli occhi.
   Aveva però l’energia per struggersi e incolparsi. La morte di Jenevieve era colpa sua.
   Con il cuore in gola, la prima linea avanzava attenta a non incappare in qualche trappola perché, senza strategia, qualora fossero stati attaccati, avrebbero di certo perso lo scontro.
   Fortunatamente però per i quattro giorni di cammino non incontrarono nessuno e di lì a poche ore avrebbero raggiunto la tanto ambita oasi.
   Quando Ice si risvegliò dal sonno, finalmente riuscì a spalancare le palpebre assonnate: faceva freddo e ogni arto era addormentato. Si alzò furiosamente quando notò che il carretto non si muoveva più; era sicuro di aver riposato solo pochi minuti ma quando scese, abbastanza goffamente, vide la fratellanza divisa per la radura in cerca di relax: ognuno faceva i suoi comodi, chi si riposava sotto gli alberi, chi nelle tende, alcuni erano intenti a riscaldarsi attorno un piccolo fuoco; altri si allenavano in duello. Era stato creato un vero e proprio campo base, ottimo per difendersi.
   Posto al centro del bosco, sulla radura più alta, avevano trovato il posto ideale da cui osservare ogni movimento ai piedi dell’altura.
    Salutando i presenti, Ice iniziò ad aggirarsi in forze per il campo sotto il sorpreso sguardo di tutti: era stato in fin di vita per mesi e ora sembrava un uomo nuovo.
   Era solo un pò stanco.
   Strano.
   Ma non ci badò.
   Era inverno ma la neve non era pronta per cadere. L’aria pungente entrava fin dentro le ossa eppure, inspiegabilmente, il ragazzo non percepì nulla.
   O almeno, non lo diede a vedere.
   Il vento non lo sfiorava, il freddo non lo intaccava e la pioggia, scoppiata improvvisamente, non lo bagnava.
   Si mise seduto su un tronco a pochi metri da due fratelli a osservare il loro interessantissimo scontro: erano esperti, lo si notava subito, e la loro classe era ineguagliabile, nonostante fossero dei comuni contadini.
   Si fissavano, si aggiravano nel campo senza voltarsi, intenti a studiarsi.
   Le gambe, saldissime, erano blocchi di marmo in grado di attutire qualsiasi colpo, non si sbilanciavano mai; sembrava di osservare dei possenti alberi i cui rami erano le gigantesche braccia, mosse dal vento, pronte a colpire l’avversario: affondavano, schivavano, paravano i colpi senza alcun problema.
   Magnifici.
   Ice ne restò estasiato.
   Lo scontro andò avanti per parecchi minuti; i due non sentivano il sopraggiungere della fatica?
   Sarebbe stato fantastico combattere in quella maniera, senza patire il peso della spada e della morte sul collo. Senza paura.
 
 
 
 
   Uscito dalla tenda degli anziani, dopo aver discusso a lungo sul da farsi, Alex si era avviato verso il carretto ove era stato trasportato Ice e non trovandolo si era aggirato nel campo per scovarlo.
   Naturalmente il suo attento occhio si soffermò sulla fratellanza, fiero di loro e della loro tenacia.
   Erano uomini straordinari, immuni alla paura e alla solitudine, la sua famiglia… ognuno dipendeva dall’altro, questa era la loro forza.
   Finalmente notò Ice seduto su un tronco.    
   Osservava il combattimento dei suoi compagni, ora in sei, in uno scontro “tutti contro tutti”; un bel modo per esercitarsi e simulare la battaglia con gli immortali.
   Edouard come suo solito impartiva una dura lezione ai presenti, destreggiandosi con tecnica e velocità invidiabili.
   Il ragazzo era assuefatto, sembrava dipendere dalla lotta come il fante dipendeva dalla lama e ciò era un bene; forse era quasi pronto al passo decisivo.
   Il suo attento sguardo seguì ogni movimento, ogni vibrazione di quei possenti muscoli, sentiva la battaglia e sembrava anticipare con gli occhi gli attacchi di tutti.
   Sarebbe stato già pronto per l’allenamento? Probabile, ma doveva prima imparare a maneggiare il ferro come fosse il prolungamento del suo braccio, così forse avrebbe superato anche il suo vecchio discepolo.
   Lo scrosciare della pioggia non distolse nemmeno per un attimo il ragazzo che fu presto affiancato da Alex.
   « Vorreste provare? », disse senza giri di parole il mentore.
   Ice non rispose, aveva altro per la mente.
   « Forse ».
   I due si avvicinarono e si salutarono con un lieve imbarazzo iniziale: Alex allungò un braccio e aprì il palmo della mano, mentre Ice, rimasto immobile per qualche secondo, lo imitò e finalmente strinsero entrambi la morsa, come a stipulare un patto di sangue.
   « Che ne dite? », domandò ansioso il maestro.
   Quasi dimenticandosi di cosa stessero parlando, il ragazzo voltò nuovamente lo sguardo verso il duello, lo fissò per qualche istante; poi ruppe il silenzio: « Di spezzare vite? Preferirei non pronunciarmi…».
   Quella risposta singolare non combaciò minimamente né con lo sguardo che Alex aveva visto nei suoi occhi, né tantomeno con quello del suo vecchio allievo…
   « Qualcosa non va ragazzo? ».
   « Insegnatemi a duellare ».
   « Ad uccidere? ».
   « Fa lo stesso ».
   Felice di ricevere quell’ordine, Alexander si avvicinò al ragazzo e gli posò una mano sulla nuca, quasi volesse prenderlo e portarlo a sé, poi rimase immobile.
   Il calore del suo corpo era paragonabile al sole eppure la pelle era gelida come la neve.
   Ice era indecifrabile.
   « Lo farò, ma prima dovrete imparare a maneggiare la vostra lama; vi presterò la mia e quando sarete in grado di muovervi così – disse indicando il gruppo di uomini al centro del campo – me la riprenderò. A quel punto sarete un ottimo cavaliere ».
   Prendendo il mentore alla sprovvista Ice allungò il braccio per primo e aprì il palmo: « Ci sto ».
 
 
 
 
   Come fosse un essere sovrumano, Philip diresse il cavallo per decine e decine di sentieri diversi senza mai fermarsi, per circa una decina di giorni.
   Attento a non cadere in qualche imboscata, seguendo la lievissima pista lasciata dalla resistenza.
   Era strano, in genere quegli uomini non lasciavano mai segni del loro passaggio, forse era una trappola, ma d’altronde aveva perlustrato ogni sentiero possibile e rimaneva solo quello.
   Angeline invece si limitava a dormire e ad accudirlo durante i momenti di pausa; Philip non aveva mai riposato e le dispiaceva…
   Quando finalmente raggiunsero il bosco, le uniche tracce presenti sparirono improvvisamente, ciò significava che o aveva sbagliato strada, oppure era il posto giusto.
   Più plausibile la seconda; era strano che proprio ai piedi di una collina le tracce si volatilizzassero nel nulla e poche decine di metri prima girassero in tondo.
   Era una tattica difensiva alquanto insolita, se aveva capito il loro nascondiglio Philip, che chance avevano di cavarsela contro i loro nemici?
   Intraprese con non poche difficoltà un sentiero naturale tra i giganteschi tronchi e finalmente giunse lì sopra, dove sapeva di trovare la resistenza.
   Angeline dormiva beatamente, meglio, sarebbe stata una donzella al settimo cielo e il baccano che avrebbe fatto si sarebbe sentito fino a Notre-Dame.
   Era meglio non attirare troppe attenzioni.
   Fermò l’animale, scese senza far rumore e fu immediatamente circondato da una decina di lame scintillanti e affilate; l’oscurità non permetteva di riconoscere gli uomini ma uno di loro, forse due, lo inquadrarono subito.
   « Cosa ci fate qui? ». Domandò uno mentre l’altro sembrò un po’ scombussolato.
   Angeline fu lasciata al suo riposo mentre il restante gruppo di fratelli spostò il carro avvicinandolo agli altri.  
   Il biondo non oppose resistenza; si fidava di loro.
   Rimasero in tre: Philip e i due incappucciati.
   Ma che motivo avevano di nascondersi? Era così buio che non avrebbe comunque potuto riconoscerli!
   « Chiedo perdono per aver… cerco asilo, cerchiamo asilo ».
   Perché si era bloccato? Perché chiedeva perdono?
   I due si scambiarono qualche sguardo decidendo sul da farsi poi, sempre lo stesso, annuì.
   « Vi porto dagli anziani, seguitemi ».
   L’altro rimase fermo senza voltarsi mentre l’ospite, accompagnato, fu tenuto sott’occhio dagli altri fratelli.
   Philip studiò il campo a fatica nel buio.
   Era grande: i carri con i viveri erano per lo più raggruppati al centro mentre esternamente vi erano le armi, asce e spade, scudi ed elmi, corazze, cavalli e fuochi.
   Una spirale al cui c’entra ci si riposava e all’esterno si combatteva; era proprio al di fuori, infatti, che le impronte nel terreno suggerivano una zona adibita alla battaglia.
   Una postazione difensiva unica; non aveva mai visto niente del genere.
   Poi, cosa alquanto stupefacente, notò che i tronchi esterni al campo presentavano solchi larghi quanto un avambraccio e lunghi quanto una gamba.
   Erano a decine, poco profondi, con tagli netti e quasi perfetti.
   Era la prima volta che assisteva a una cosa del genere: ogni fusto ne presentava qualcuno…
   Un’opera di chi?
   Finalmente entrò in una tenda ma ad attenderlo non furono gli anziani…
   In realtà rimase solo con quell’uomo.
   Che voleva lo sconosciuto?
   Si fissarono entrambi e poi l’uomo parlò, proprio mentre si accingeva nel mostrarsi.
   « Perché ci avete seguito Philip? Vi avevo fatto promettere…».
   « So bene cosa vi ho promesso, vostra nipote è insistente, forte come voi, come suo padre, re di spessore e di valore. State tranquillo, non sa di voi né della vostra parentela ».
   Purtroppo Philip aveva nascosto moltissime cose alla sua amata e ciò lo tormentava di mattina in sera.
   Forse aveva accettato il viaggio per redimersi; se Angeline avesse saputo, il loro rapporto si sarebbe ripreso.
   Non riusciva a mentirle ogni secondo!
   « Vi avevo fatto promettere di tenerla lontano dai pericoli e l’avete portata qui! ».
   « Parigi è nel caos, era comunque necessario partire e la protezione maggiore a cui potevo ambire siete voi; ho visto come vi siete organizzati, i miei complimenti ».
 

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Capitolo 27
*** Capitolo 2.5 ***


CAPITOLO      2.5
 
 
 
 
 
   Stordito come gli fosse arrivato un macigno in testa, Ice si aggirò per la circonferenza del campo dondolandosi come fosse ubriaco, lui che non aveva mai bevuto.
   Improvvisamente si fermò davanti ad uno dei tronchi con quei singolari solchi.
   Vi poggiò dentro una mano e sentì il calore della corteccia: era una sensazione strana, tutto era freddo eppure in quel preciso punto c’era ancora del calore.
   Certo che rivedere Philip dopo più di due mesi lo aveva stordito non poco.
   Il biondo non lo aveva riconosciuto, coperto com’era, ma tra i due c’era stato un piccolissimo frangente in cui si erano scambiati dei gelidi sguardi.
   Qualcosa li univa, ne era certo.
   E ora che stava imparando a maneggiare la spada era ansioso di misurarsi con lui.
   Quel biondo lo stimolava inspiegabilmente a superarlo, non vi era un particolare motivo però, era così e basta.
   Abbandonati i pensieri, il ragazzo sfoderò lentamente la pesantissima arma di Alexandre e notò che ancora, dopo circa una settimana, non riusciva a tenerla saldamente stretta.
   Guardò l’innocente corteccia sfregiata in due punti.
   “Troppo pochi”, si disse.
   Indietreggiò di qualche passo e iniziò: i movimenti fluidi e sinuosi somigliavano molto alle fiamme di un imponente fuoco, il calore cresceva e consumava le sue paure, le inibizioni e altrettanti timori; era un tutt’uno con la lama, la sentiva parte del suo corpo, così come la punta aguzzina, pronta a scalfire ogni cosa.
   Volteggiava l’acciaio sotto la chioma, spostava l’aria e attirava le foglie ancora verdi a sé, aveva la forza di un ciclone, mentre la luna rifletteva nel gelido metallo.
   Il sibilo era unico, i fratelli ogni volta lo ammiravano e lo imitavano scherzando tra di loro, erano ansiosi di fronteggiarsi con lui: lo avevano visto crescere di giorno in giorno e ora che era diventato uomo, non vedevano l’ora di battagliarlo.
   Persino Alexandre lo aveva incoraggiato nel duello con gli altri ma il ragazzo si era opposto.
   Voleva controllare la velocità, la precisione e i movimenti in maniera impeccabile, convinto di raggiungere la perfezione.
   Solo allora sarebbe stato pronto.
   Silenzioso Edouard si avvicinò e lo squadrò con venerazione, poi lo interruppe.
   « Domani mattina abbiamo la caccia, lo ricordavate? È il nostro turno, andate a riposarvi », disse con tono di sottomissione ed accortezza. « Ormai siete pronto, riposatevi ».
   « Se me lo dite perché è la prima caccia non dovrete preoccuparvi – disse sferrando un paio di colpi contro il tronco – ricordo bene i vostri insegnamenti; ci vediamo domani, notte Edouard ».
   Licenziando il compagno, Ice interruppe sul nascere il discorso mandando l’amico a farsi fottere in maniera del tutto educata.
   Poi riprese a sfogarsi sull’albero.
 
 
 
 
   Dopo aver passato mesi interi senza alcuna sua notizia, Alex rimase a parlare con Philip nella tenda finché il giovane non si fu addormentato: era esausto.
   Aveva spinto i suoi limiti fino a superarli, tutto per proteggere la bellissima Angeline ma ora però il problema era un altro: aveva già ottenuto abbastanza dalla fratellanza, avevano accolto Ice, e chiedere nuovamente di accettare un giovane e una fanciulla era improponibile.
   Anche se quest’ultima era sua nipote.
   Suo fratello, il re, l’aveva salvata e in punto di morte l’aveva commissionata a lui, l’amato affiliato, il combattente del regno.
   Il peso però di accudirla lo aveva schiacciato a tal punto da costringerlo ad affidarla a una parrocchia…
    Era un guerriero di stirpe reale, non una badante.
   Amava la nipotina con tutto se stesso, peccato però che in quegli anni la peste aveva iniziato a uccidere chiunque; popolani o principi che fossero.
   Alex era combattuto, voleva portarla via il più lontano possibile ma quando l’aveva sorpresa con Philip, non si era sentito di rivelarle la vera identità sulle sue origini.
   Non voleva separarli.
  A quel tempo gli immortali lo avevano scelto per combattere una battaglia che sarebbe durata in eterno, perciò si era visto costretto a insegnare qualsiasi cosa sapesse a quel giovane, con la speranza che potesse difenderla ed allontanarla dalle battaglie, vivendo il più possibile, sperando in una pace che l’avrebbe riassegnata al trono.
   Il suo amato allievo era Philip.
   Uscì senza far rumore e quando si trovò fuori al campo, sentì in lontananza un fruscio continuo e incessante, come un vento di foglie: era Ice.
   Senza avvicinarsi più di tanto rimase a guardarlo cercando di non distrarlo.
   Non lo aveva mai visto allenarsi con quella foga: la corteccia da un lato era quasi del tutto sparita e l’albero, oramai spoglio, di li a poco sarebbe caduto.
   Forse era davvero pronto per la fase successiva e poi era sicuro che quel giovane potesse benissimo competere con Philip; aveva tutte le carte in regola per farlo.
   Tenendosi saldamente alla larga tentò di raggiungere l’accampamento degli anziani ma s’imbatté in un profumo dolciastro, di vaniglia e rose.
   Poco più in là vide una fanciulla, che bagnata dalla luce della luna, sembrava uno degli angeli di Dio.
   Rimase con il cuore in gola per qualche secondo, senza nemmeno salutarla: i due si guardarono, lei era silenziosa, imbarazzata, lui… non se lo sapeva spiegare, la sua bellissima nipotina era diventata più bella di Venere!
   « Buonasera ».
   « Buonasera a lei ».
   Lasciati i convenevoli, entrò nella tenda dei saggi, l’unica illuminata, salutò e si unì al banchetto.
   Non riusciva ancora a credere di aver parlato dopo più di quindici anni con l’unica parente rimastagli: ora una vera donna.
   Quando smise di sognare ad occhi aperti notò numerosi boccali di vino sparsi qua e là; era presente anche quell’odioso Edouard: sarebbe stato difficile dissuaderli con lui presente, ma erano tutti un pò brilli; meglio, avrebbe aggirato facilmente le loro negazioni.
   « Buonasera signori », si presentò Alex unendosi a loro e sorseggiando un pò di vino.
   « Finalmente ci degnate della vostra presenza! È arrivato quel ragazzo con la bellissima fanciulla, lo sapevate? Perché ci degnate della vostra presenza solo ora? », disse il più anziano seguito dalle risate di tutti gli altri.
   Solo Alex restò serio non mostrando alcun risentimento.
   Le prese per i fondelli erano sciocche.
   « Ho parlato con il giovane, Philip è il suo nome, ha seguito le nostre tracce da Parigi, era a conoscenza della fratellanza ed è venuto in cerca di aiuto. Parigi è nel caos… Non possiamo abbandonarli ».
   Il discorso corto ed esaustivo era buona cosa, non piaceva agli anziani dialogare con giri di parole, loro volevano andare subito al sodo, cosa che fece, accontentandoli.
   Rimuginando per qualche minuto, sotto l’occhio vigile di Leroy, i dieci uomini si accordarono sul da farsi, pur continuando a bere come spugne.
   « Siamo giunti ad una conclusione ».
   Alex annuì in senso di rispetto.
   « Acconsentiamo al ragazzo di soggiornare qui con noi, un uomo in più in armi è sempre un’ottima cosa di questi tempi, voi lo sapete, poi è anche giovane e possente, meglio ancora! Per quanto riguarda la ragazza – tutti scoppiarono in una risata generale – la metteremo su un carro e la spediremo dalle dominazioni, forse la lasceranno vivere; mi è stato riferito che è di una bellezza divina… Magari i nostri avversari, ammaliati, perderanno la ragione permettendoci di vincere! Ahahah ».
   La tenda divenne improvvisamente una bolgia mentre tutti scoppiarono a ridere ubriacandosi.
   Alex strinse i pugni fin tanto da farsi uscire il sangue…
   « NO! » disse ribattendo e alzandosi. Non aveva la minima intenzione di lasciare la sua nipotina al fato e lei non meritava nemmeno gli insulti di quei vecchi bastardi.
   « Allora resterà con noi, d’altronde siamo uomini, abbiamo anche noi le nostre esigenze! ».
   Le risa divennero così assordanti che Alex, per non venire alle mani, uscì furioso.
   Si voltò per vedere se la bellissima mora stesse lì, nel punto dove l’aveva lasciata, ma notò che era sparita.
   Forse si era riaddormentata nel carro, almeno si era risparmiata di sentire gli sciocchi commenti dei fratelli.
   Decise di mettersi anch’egli a riposare, magari il sonno lo avrebbe aiutato a freddare i bollenti spiriti prima di uccidere qualcuno.
   Sapeva che era peccato e col veleno in corpo non era mai buona cosa combattere.
   A pochi passi dal proprio alloggio notò una figura d’innanzi a sé: era Edouard, non lo aveva visto alzarsi.
   « Calmatevi », disse.
   « Non ditemi cosa debbo o non debbo fare! Ora scusatemi, ho da fare », rispose a bocca asciutta spingendo da un lato il compagno.
   Edouard lo lasciò passare per poi bloccarlo con delle parole così taglienti da poterlo uccidere.
   « So che è vostra nipote e Philip il vostro allievo, non fatemi rimpiangere di mantenere il segreto », disse scomparendo nella notte.
 
 
 
 
   Angeline, confusa, ebbe l’impressione di conoscere l’uomo che l’aveva salutata appena scesa dal carro, ne era più che sicura, ma magari era solo un’impressione, si disse.
   Nel silenzio più completo, aggirandosi nel campo mentre i pochi svegli erano a guardia, fu attratta da un fruscio continuo, sembrava il rumore prodotto da una frusta contro qualcosa… qualcosa di duro.
   Le ombre erano tenebrose, le chiome degli alberi le stringevano la gola, come se si trovasse dentro a un pozzo, e solo la luna, in alto, riusciva a darle la forza per andare avanti.
   Temeva di esser attaccata da quella figura scura che aveva visto a Parigi, ma poi ripensò a Phjlip e a Ice…
   No, era al sicuro. Che sciocca che era.
   Lentamente seguì la fonte di quel rumore e vide un uomo, scuro in volto, manovrare una lama di un metro e mezzo buono come fosse un ramoscello, intento a colpire rapidamente, con percosse continue e lampanti, la corteccia di un albero.
   “O mio Dio”.
   Il tronco era per metà stroncato mentre nei solchi prodotti dall’arma, quelli più profondi, sembrava ci fosse del carbone ardente.
   Era qualcosa che mai avrebbe immaginato di vedere nella sua vita.
   L’uomo era alto, slanciato e non molto muscoloso, ma agile e con una forza sovrumana.
   Attenta a non disturbarlo si avvicinò raggiungendo un tronchetto tagliato poco lontano, vi si poggiò sopra e vi restò per tutta la durata dell’allenamento.
   Non riuscì a vedere chi fosse, ma con il cuore quasi impazzito sperò con tutta se stessa che quell’uomo fosse lui: Ice!
   Non pensava che a lui.
   Dopo forse un’ora o poco meno, l’allenamento ebbe fine.
   Il ragazzo, sbracciato e splendente sotto la luna, aveva uno strato di sudore quasi ghiacciato: faceva freddo quella notte eppure, appena i colpi inferti all’albero cessarono, la temperatura del bosco sembrò salire di circa sei o sette gradi.
   Strano.
   Faceva comunque un gelo della malora per girare a braccia scoperte, ciononostante il giovane sembrò non sentirne gli effetti.
   Angeline si era coperta per bene invece, questo fino a quando non vide il volto del ragazzo…
   Lasciò cadere la morbida e calda coperta prestatagli da uno dei fratelli e rimase senza fiato.
   Lo stesso accadde a Ice.
   Ricevere un pugno con tutta la violenza possibile alla bocca dello stomaco era come una carezza a confronto di ciò che stavano provando, un dolore interno così profondo, così forte…
   Angeline si alzò fulminea cercando di riagguantare la coperta mentre Ice assisteva imbarazzato e sorridente.
   I fratelli all’unisono si voltarono incuriositi.
   Infastidito dalla loro presenza, il giovane conficcò con violenza la spada nel suolo.
   Un modo usato per rammentare ai fratelli la loro scortesia.
   Si praticava a quei tempi.
   Così tutti sloggiarono, lasciandoli soli.
  “ Siete voi…”.
   Attenti a non rovinare quel momento magico entrambi rimasero in silenzio…
   Sembrava si capissero al volo, o forse non riuscivano a trovare le parole giuste per salutarsi dopo tanto?
   Avevano in mente ancora il loro primo incontro. Fantastico.
   Ed erano ancora attratti l’uno dall’altro come mesi prima.
   Poi Ice subentrò, non voleva ripetere gli errori fatti nella casina.
   « Angy...», la sua voce calda e dolce risuonò nei timpani della ragazza così a fondo che sembrò le parlasse attraverso il pensiero, « Avete freddo, cosa state facendo qui fuori, se avessi saputo, avrei smesso ore fa…».
   « Non dovreste preoccuparvi, sono adulta e poi un vostro compagno mi ha dato questa, è stato molto gentile ».
   “Ah, non ne dubito…”.
   Angeline si massaggiò comunque le braccia prima di alzarsi e abbandonare il tronchetto. I glutei erano congelati e le gambe addormentate.
   La bella, visibilmente infreddolita, cercò in tutti i modi di nascondere il suo status ma le labbra, viola e in completo contrasto con la pelle bianca, non lasciarono dubbi: aveva combattuto il gelo solo per stargli accanto.
   Ice si sentì prepotentemente in colpa, era una serata calma ma troppo fredda per lei, da quando aveva osato spingersi oltre aveva scoperto di riuscire a manipolare la temperatura dell’ambiente che lo circondava.
   Perciò in un certo senso il malessere di Angy era colpa sua.
   Comunque ora che aveva smesso la temperatura era ugualmente rigida, dieci gradi erano troppo pochi per la pelle delicata della bella.
   « Sembrate intento a trovare una soluzione », disse con il solito tono di sfida « Ah, come avevate detto? Avreste fatto l’impossibile? Non credo che riuscireste a manipolare il tempo, ma non vi preoccupate », si avvicinò al giovane per posargli una mano sullo zigomo ma Ice spostò velocemente il capo, facendo persino un passo indietro, allontanandosi.
   I loro volti, specchiati nei rispettivi sguardi, erano più belli che mai e saldamente immobili.
   Angeline fece finta di nulla, nonostante il ragazzo l’avesse visibilmente rifiutata, «  Vado a dormire… buona notte Ice ».
   Il moro non poté permettersi di toccarla, non poteva rischiare.
   Nemmeno se a farne le spese sarebbe stato il loro rapporto.

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Capitolo 28
*** Capitolo 2.6 ***


CAPITOLO      2.6
 
 
 
 
 
   Era stata una serata faticosa, così come quella prima e quella prima ancora, ma aver incontrato Philip e Angy era stata una sorpresa in grado di ridestarlo.
   L’allenamento quella notte era stato più duro del solito eppure il ragazzo non si sentì poi così fiacco: forse l’idea che Angy stesse a pochi metri da lui lo sollevava enormemente facendogli dimenticare la stanchezza.
   Sì, doveva esser così, eppure aveva notato qualcosa di singolare al suo saluto.
   Qualcosa di spaventoso.
   Quegli occhi maligni erano spariti da tanto ormai, finalmente lo avevano lasciato in pace, eppure in quel frangente erano riapparsi, costringendolo ad allontanarsi per non esser investito da quella visione.
   Non aveva la minima intenzione di rivivere l’esperienza vissuta con Jenevieve e non voleva di certo rischiare di uccidere la ragazza di cui con molta probabilità si era innamorato.
   Improvvisamente un vuoto incolmabile iniziò a divorargli l’anima gettandolo in un baratro senza fondo; ciò che gli balenò fu tanto semplice quanto complicato allo stesso tempo.
   Aveva stretto la mano a tutti gli uomini della fratellanza, lo aveva fatto anche con Alex e quella sensazione non si era mai manifestata, eppure dopo esser stato solo sfiorato da Angy aveva sentito chiaramente un risucchio pronto a svuotarlo…
   Non era possibile!
  “ Si è proprio così…”
   Si era salvato per miracolo, fortunatamente non era caduto in coma di nuovo e qualora fosse successo, la persona che l’avrebbe pagata sarebbe stata la povera fanciulla; con la morte.
   Portava una maledizione, forse la più crudele di tutte.
   Toccare una donna, qualsiasi fosse, avrebbe portato lui o lei a morte certa.
   Non poteva avere contatti di nessun genere e ciò iniziò a logorarlo da quel momento per tutta la notte. E chissà per quante altre notti ancora.
   Poi l’idea che fosse stato salvato da quegli occhi, era ancor più opprimente.
   Immerso nei propri pensieri, il giovane non si accorse del sopraggiungere dell’alba e del buon odore mattutino.
   Non aveva dormito e non aveva sonno, non era stanco e non aveva fame. Cosa gli stava succedendo?
   Con passo lento e cauto Edouard, al centro di due cavalli portati per le briglie, lo raggiunse e lo salutò; era visibilmente entusiasta.
   « Oggi tocca a noi, andiamo! ».
   Senza alcuna incertezza il giovane montò a cavallo dopo essersi armato impugnò l’arco.
   Edouard fece lo stesso e frustò il purosangue, sicuro di essere seguito.
   I due cavalcarono per parecchi minuti mentre Ice, nella sua mente, rivide le settimane precedenti, quando era stato addestrato al tiro con l’arco.
   Quante difficoltà aveva incontrato!
   Quegli arnesi erano pesanti e ancor più faticoso era tirare la corda tenendo ben salda la mira.
   Si era allenato molto ed ora riusciva a colpire più volte qualsiasi bersaglio scegliesse, fermo o in movimento che fosse.
   Sempre al centro.
   Colpire un animale selvatico quindi sarebbe stata una passeggiata.
   Giunti nella boscaglia più fitta si videro costretti a smontare e lasciare gli stalloni al palo.
   Tra i suoni della natura i due si mossero silenziosi; attenti a non far rumore: a pochi metri una combriccola di cervi stava banchettando.
   « Siete pronto? Tocca a voi », si rivolse sottovoce l’uomo al ragazzo.
   Ice lasciò dietro il compagno e si avvicinò lentamente alle prede, sicuro della copertura degli imponenti tronchi.
   Voleva avvicinarsi il più possibile: dal punto dov’era non poteva scoccare la freccia in maniera del tutto tranquilla. Pendevano troppi rami.
   “Ce la potete fare”.
   A circa dieci metri di distanza il ragazzo prese fiato dietro l’ultimo tronco disponibile, certo che quello sarebbe stato l’unico in grado di fornirgli la copertura ideale per un attacco; poi si voltò.
   Erano tre cervi, due piccoli di forse un paio d’anni e uno molto più grande, probabilmente l’adulto.
   Prese l’arco e sporgendosi abbastanza afferrò un dardo alle sue spalle, lo collocò diligentemente sulla corda e tirò con violenza proprio nel momento che prese la mira.
   Gli era stato insegnato di non soffermarsi troppo, perché più passava il tempo e più rischiava di stancarsi, ma quella volta rimase immobile per parecchi secondi.
   Con un occhio chiuso riuscì a vedere la punta metallica della freccia proprio a pochi centimetri di distanza dal bersaglio: il cuore dell’animale.
   Non voleva uccidere quella bestia, non voleva stroncare quel nucleo, ma Edouard assisteva e se la caccia non fosse stata all’altezza delle sue aspettative avrebbe spifferato tutto ai vecchi.
   E se fosse stato destino? Cavolo il sorteggio per le coppie non poteva esser capito peggio.
   Era meglio non rischiare una possibile eliminazione dalla resistenza; non dopo la fatica che aveva fatto Alex per permettergli di entrare.
   Poi voleva vendicare il frate.
   Guardò per l’ultima volta i tre quadrupedi e scosse la testa.
   Abbassò lo sguardo e con esso l’arco.
   Non voleva uccidere. Non era pronto, non ancora.
   Si voltò per vedere il suo compagno ma non appena lo fece un dardo fu schioccato velocemente proprio dal punto dove si trovava l’uomo e la freccia, passando in maniera del tutto disinvolta tra la boscaglia, colpì a morte l’animale più grande.
   Un fulmine tagliò lo sguardo del giovane accecandolo e bloccandogli il cuore.
   La bestia cadde a terra senza vita mentre i due piccoli iniziarono a frignare e ad agitarsi in circolo. Ice sperò scappassero ma non si mossero.
   Poi fu assuefatto dal dolore che il cervo iniziò a manifestare: urlava e tremava intento a cacciare i suoi piccoli per permettergli la sopravvivenza.
   Edouard mostrò l’entusiasmo e la fierezza che gli competeva ma guardando Ice, lo spinse a finire l’opera.
   Chiudendo l’occhio destro, il giovane scelse il bersaglio: aveva intenzione di metter fine alle sofferenze del più grande e con un unico colpo uccidere uno dei piccoli.
   Tirò indietro più forte che poté, quasi a spezzare il legno, e nel momento stesso che iniziò a studiare i movimenti frenetici delle bestie, la vista gli mancò.
   Batté più volte le palpebre finché la realtà non gli fu tornata a pelle ma a quel punto incappò in un altro problema; un problema enorme: le figure non erano più nitide e a malapena s’intravedevano i loro contorni.
   I colori della boscaglia si erano allargati e si espansero ulteriormente come fossero schizzi d’olio di un pittore ubriaco. Era tutto sfocato.
   Continuò a studiare le povere bestie attraverso il marroncino del pelo e quando fu sul punto di esplodere, chiuse gli occhi e scoccò la freccia.
 
 
 
 
   Di buon mattino Alex uscì aggirandosi per il campo, congratulandosi per l’ottimo lavoro svolto con le guardie e sgranchendosi le gambe; dormire in quelle tende, dopo esser stato per anni su un baldacchino di lusso, era un’esperienza tragica e traumatica. Comunque non paragonabile a quella che Ice aveva appena passato.
   « Figliuolo che cosa è successo? ».
   Ignaro della presenza del suo mentore, con lo sguardo perso e fisso verso il suolo, Ice restò rannicchiato in un angolo del campo senza muoversi e senza parlare.
   “Oh no”, pensò Leroy rammentando il coma di mesi prima.
   « Ice per l’amor del cielo rispondetemi! ».
   Senza alzare lo sguardo il giovane lo accontentò, « Ho scoperto qualcosa… ».
   A quelle parole la mente ancora addormentata di Leroy fu attaccata da decine e decine d’idee senza controllo, risvegliandosi.
   In qualche modo Ice aveva saputo del segreto che portava: Philip era stato il suo primo discepolo e Angy era sua nipote, cos’altro poteva esserci di peggiore?
   Ice non si sarebbe mai più fidato di lui, a meno che di una confessione all’ultimo momento.
   Commettendo però l’errore più grande che potesse fare…
   Non doveva spifferare tutto a quel modo.
   « Sono stato sul punto di dirvelo Dio solo sa quante volte e vi chiedo scusa per avervelo nascosto, ma l’ho fatto per il suo bene, l’ho cresciuta come fosse mia figlia e l’ho lasciata al suo amato Philip, sicuro di un futuro senza pericoli; vogliate perdonarmi per avervi omesso questo particolare…».
   Ora tutto tornava, come Philip li aveva trovati, come faceva ad averlo “battuto” pochi mesi prima, per quale motivo si opponeva a voler combattere per difendere la Francia… Era Angeline la causa.
   Ed era stato anche tradito dal suo mentore!
   Ice inarcò le sopracciglia a quella verità, che ovviamente non si sarebbe mai aspettato di scoprire a quel modo… ma oramai…
   « È questo il motivo? Pochi mesi orsù mi sorvegliavate perché mi ero imbattuto in vostra nipote? Avete finto per tutto questo tempo credendo in qualcosa che non esisteva?!? Mi avete preso per i fondelli fino ad ora? ».
   A quello sfogo il massiccio Alex sembrò acquietarsi come un cucciolo, inerme di fronte quelle accuse.
   « Forse, quanto avete ragione; ma posso giurarvi che mi sono ricreduto; quando ci siamo confrontati nell’Alfa e l’Omega mi avete chiarito ogni dubbio… Voi siete speciale e superate di gran lunga…», si bloccò non appena vide il suo allievo sopraggiungere, « Credetemi… lo avete visto anche voi! ».
   « Non osate giurare, voi con me non avete più nulla a che    fare! ».
   Gli occhi, letteralmente incandescenti, tolsero ogni possibilità di ribattere ad Alex che quasi con le lacrime agli occhi lasciò andare il giovane per la sua strada senza tentare di fermarlo; da un lato era felice di aver ritrovato la sua amata nipotina ma dall’altro… era distrutto.
   Ice non sarebbe mai più stato il suo più grande allievo.
   E ora non avrebbe scoperto il suo segreto.
 
 
 
 
   Sconsolato e lacerato, Alex passeggiò senza una precisa méta per il campo mentre Ice, alle sue spalle, usciva dal perimetro protetto scendendo per la collina.
   Lo aveva abbandonato per sempre senza pensarci due volte. Era insensibile e glaciale proprio come il suo nome.
   Poi, quasi fosse uno scherzo del destino, gli anziani, anzi a dire il vero tutti i fratelli, lo circondarono improvvisamente.
  “Che vogliono ora”.
   « Vi chiediamo scusa per ieri notte, il buon vino ci ha offuscato la mente. Stamane abbiamo raggiunto un accordo cui non potete opporvi: il ragazzo può restare, la fanciulla invece potrà farlo solamente se Philip sarà in grado di  fronteggiare Ice all’ultimo sangue e batterlo, ciò dimostrerà il suo potenziale. Ci fornirà la prova tangibile di saper difendere la bella con la quale è arrivato. In quanto a Ice, crediamo in lui… l’allenamento sostenuto ha dato i suoi frutti. È uno di noi ».
   Tragicamente, in quel frangente il campo si riempì di tutta la fratellanza; persino Philip e Angeline avevano udito quella richiesta.
   Solo Ice, più distante, si era perso la decisione dei saggi e oramai era troppo lontano per tornare indietro.
   Aveva abbracciato la sua maledizione, star vicino ad Angy senza poterla sfiorare era troppo dura da sopportare, tanto valeva abbandonare tutti e trovare da solo la sua strada.
   « Mi dispiace, non posso accondiscendere alla vostra richiesta. Ice ha lasciato la fratellanza », rispose tremante Leroy: era a pezzi, con il morale sotto i piedi.
   « Questo è un gravissimo problema, nessuno lascia la fratellanza senza averne discusso con i saggi, dovreste saperlo voi più di tutti! In questo caso il ragazzo fronteggerà i fratelli da solo, contro tutti. Non risparmiamo nessuno, lo sapete ».
   « Ma…».
   « Accetto! », la voce ferma e lo sguardo di pietra del biondo erano chiari.
   La sua amata, di fianco a lui, era rimasta senza fiato, come Alex del resto; Philip si sarebbe battuto contro tutti quegli uomini per lei. Lui che a malapena riusciva a fronteggiarne al massimo tre o quattro… Quelli invece erano una quindicina!
   “ Philip…”
   « Accetto di incontrare Ice » – comandò il ragazzo ansioso di togliersi di mezzo quella seccatura, tanto nessuno di quegli idioti sapeva realmente combattere e a lui importava solo una cosa: umiliare il moretto d’innanzi la sua amata,  « All’ultimo sangue…».
 
 
 
 
   Non c’era una vera e propria ragione ma Philip era giù di morale per la fuga di Ice; aveva sloggiato troppo in fretta, doveva farlo fuggire lui e nessun altro.
   Così che gusto c’era?
   Da quando i due si erano conosciuti, aveva passato troppo tempo in silenzi imbarazzanti con la sua amata e non lo tollerava; quel giovane si era intromesso nel loro rapporto troppo velocemente e ciò lo mandava fuori di testa.
   Sapeva che qualcosa non andava ma se la sua unione con Angeline doveva finire, doveva terminare per cause naturali, non a causa sua; oramai la considerava di sua proprietà, la amava ma era accecato dal dovere di proteggerla.
   Avrebbe ucciso a occhi chiusi per lei.
   « Scommetto che il ragazzo tornerà presto, forza fatevi sotto ho intenzione di riscaldarmi prima ».
   L’arroganza del biondo divenne ineguagliabile, Angy lo fissò senza riconoscerlo, non lo aveva mai visto comportarsi a quel modo e quel che ricordava era un ragazzo dolce, opposto al Philip di ora.
   Ice lo aveva cambiato.
   Perché si odiavano tanto?
   « Cosa state dicendo! », si insinuò Leroy. Stava andando tutto a rotoli, aveva perso il controllo sul suo allievo e lo spirito combattivo assopito del giovane sembrava esser riaffiorato.
   Allungò un braccio cercando di farlo ragionare ma Philip si divincolò e sfoderò la spada, dirigendola contro tutti; d’innanzi gli occhi stupiti di Angeline.
   Era troppo, i fratelli, per niente impauriti, sfoderarono le lame e lo accerchiarono.
   I duellanti indossavano stivali, dei calzoni di pesante pelle nera e delle giacche di egual materiale, con una sorta di maglia d’acciaio a rete per proteggerli: era arrotolata proprio su tutto il dorso fino a racchiudere l’intero collo.
   Non si erano equipaggiati di elmo, perché alla fin fine quell’oggetto intralciava solo e poi, anche se non era un duello all’ultimo sangue, volevano fargli gettare la spugna il prima possibile. Erano in molti contro un giovane, non c’era motivo di prenderlo sul serio.
   Poi nessuno era così idiota da cercare uno scontro diretto con i migliori combattenti della Francia, non dopo averli sbeffeggiati almeno.
   Quel giovane però oltre alle loro lame non poteva meritarsi nient’altro, nemmeno il rispetto; cosa che Ice aveva raggiunto con dedizione e fatica.
   Angeline si era rifugiata in un angolo lontano del campo piangendo…
   Ice l’aveva lasciata senza nemmeno salutarla, senza darle spiegazioni, mentre Philip, per proteggerla e in preda alla pazzia, rischiava la vita.
   Che diavolo stava succedendo? Tutto andava a rotoli!
   In lontananza si sentirono numerose voci e rumori di ferraglia: il combattimento stava iniziando e lei non aveva nemmeno avuto il coraggio di parlare con il suo amato.
   Per quel motivo corse a perdifiato verso il lato opposto dell’accampamento e vide il suo prestante uomo con la lama scintillante esser accerchiato da quindici o venti uomini.
   « Vi amo! Mettetecela tutta! » urlò la giovane senza badare ai presenti; si dichiarò così apertamente che persino Ice, già arrivato nella valle, sentì la sua deliziosa voce, fermandosi e voltandosi.
   Fingendo di non aver sentito, Philip rimase immobile pronto a dare inizio allo scontro… Avrebbe cercato di fare nel modo più velocemente possibile, per tornare in fretta da lei.
   La stava riconquistando forse?
   “Vi amo anche io mia principessa”.
 
 
 
 
   Quando i saggi diedero il via, gli avversari del biondo lo attaccarono simultaneamente.
   Philip corse, cogliendo alla sprovvista la sua vittima e con un colpo secco al volto, il suo pugno fece cadere il primo dei fratelli.
   Sembrava essersi quasi teletrasportato per la rapidità con cui aveva atterrato Edouard.
   “Strano che di tanti abbia scelto proprio quel bastardo”.
   Bene così figliuolo. Si disse Leroy.
   Con un attacco rapidissimo scalzò uno dei fratelli e con una sciabolata ne prese un altro “schiaffeggiandolo” letteralmente con la gelida lama.
   C’era chi lo attaccava alle spalle, chi davanti, alcuni di lato, altri miravano alle gambe, eppure la sua rapidità e i riflessi lo facevano combattere a un livello notevolmente più alto.
   Quando improvvisamente tutti si bloccarono; mentre Philip, adrenalinico, continuò ad armeggiare al centro del campo. 
   «Avanti! Non ditemi che avete paura! », li esortò spavaldo.
   Poi di colpo si fermò.
   Angy voltata, era stata la prima ad averlo notato, poi a seguire gli anziani, Alex, i fratelli e infine lui: Ice era lì, a pochi metri da loro ed assisteva al combattimento; non poteva perderselo dopotutto.
   “È impossibile, bastardo!”, infuriò la mente del biondo.
   Prendendo lo slancio necessario Philip si diresse a tutta velocità contro il moro cercando di colpirlo senza esitazione.
   Stranamente l’aria divenne gelida come la notte prima.
   Con uno scambio rapidissimo i due alzarono le spade: ora i ferri dividevano i loro volti.
   « No, no fermatevi! », urlò Angeline senza che nessuno gli diede conto; nemmeno Ice.
   Su tutte le furie, il prestante Philip aveva perso la possibilità di mostrare il suo valore e quel marmocchio, che tanto piccolo non era, gli aveva rubato la scena: lo odiava, lo stava odiando sempre più.
   Sottovoce i due si scambiarono qualche parola mentre sia Alex che Angy pregarono per un rappacificamento.
   Qualcosa d’incomprensibile spingeva quei due ragazzi alla lotta, all’odio, e nessuno aveva le palle di bloccarli. Erano spaventosamente forti, e incazzati.
   « Ho notato che fuori il campo avete sterminato gran parte delle dominazioni, complimenti e tutto mentre Angy riposava? Siete un maestro! Ed anche un bugiardo ».
   Ice ci aveva visto giusto, il viaggio non era andato per niente bene; Angeline riposava mentre il biondo sterminava i suoi nemici proprio come una pantera, nella notte.
   Era malvagio nel profondo, proprio come lui.
   « Non osate chiamarla in quel modo! », le lame dei due sferragliarono rompendo il silenzio sceso sul bosco.
   I due spingevano con tutte le loro forze mentre di tanto in tanto delle scintille accendevano ancor più pericolosamente lo scontro.   
   Ice poi non indossava nessun genere di armatura.
   Pericoloso, data la foga del biondo che sembrava non aver la minima intenzione di lasciarlo vivere. Ma perché?
   Perché ce l’aveva tanto con lui? Forse Angeline gli aveva raccontato del loro dialogo alla casaccia?
   Se era quello il motivo… beh allora aveva tutto il diritto di esser furioso no?
   « Non volevo perdermi lo scontro “maestro”, ed ho dimenticato di riconsegnarvi questa! », urlò il ragazzo in direzione di Leroy senza però distogliere lo sguardo dai glaciali occhi di Philip.
   Il tono di voce di Ice era ironico.
    Angeline era confusa, così come i fratelli; Alexandre invece sapeva bene perché il ragazzo parlasse a quel modo.
   « Tenete! – lanciò il pesantissimo acciaio ai piedi del suo mentore – ci penso io a questo buffone ».
   Senza difese e senza alcun apparente piano, Ice sembrò impazzito; magari era anche speciale ma il suo istinto aveva intrapreso la via del suicidio.
   « Come volete, vi accontento subito! ».
   Con un paio di affondi diretti e letali il biondo strinse spalle al muro il pazzoide che sin quel momento aveva schivato senza troppi problemi il suo nemico e il ferro.
   Fissi, occhi negli occhi, con un colpo secco all’inguine Philip mise fine allo scontro ma Ice, lasciandosi scivolare sul fogliame, lo schivò rotolando poco più in là.
   Angeline si copriva la bocca per non urlare mentre gli altri uomini, ignari che i due facessero sul serio, assistevano impassibili al combattimento.
   Alex invece era il più preoccupato, forse anche più di sua nipote, mentre Edouard, con il labbro sanguinante, sembrava soddisfatto di come si stavano svolgendo le cose: aveva lasciato di proposito le tracce della carovana per farsi raggiungere dal biondo e presto Ice avrebbe perso lo scontro.
   L’obiettivo era semplice: far allontanare Ice da quegli insulsi mortali.
   Tirati su i pugni, Ice fece cenno al suo rivale di attaccarlo e come su un ring di pesi massimi, i due iniziarono a darsele di santa ragione; anche se in realtà solo Philip le stava prendendo.
   I palmi stretti e duri del biondo erano pesantissimi, ma la velocità spropositata di Ice era sovrannaturale.
   Lo scansava, lo sbeffeggiava e poi con dei diretti al volto lo colpiva.
   I due mesi non erano bastati per fargli muovere la spada in maniera perfetta ma in quanto all’arco e ai cazzotti era diventato un fenomeno tra i fratelli.
   Gliene diede cinque o sei facendolo barcollare ma Philip restava sempre in piedi, sempre più sanguinante: le labbra erano entrambe spaccate mentre la palpebra sinistra era tagliata in un punto.
   Il sudore, mischiato al sangue e alla chioma, aveva trasformato il suo bellissimo viso in un bagno di dolore, anche se sembrava non sentisse nulla.
   Le unghie di Ice invece si erano allungate, persino i canini erano scesi fin sopra il labbro inferiore, tanto che il suo rivale lo guardò sgomento, come avesse visto uno spettro.
   Poi improvvisamente le solite visioni iniziarono ad apparire senza controllo a ogni attacco del biondo.
   Gli occhi azzurri rompevano il contatto con la realtà distraendolo dal combattimento.
  Le vedeva spesso, ci aveva fatto l’abitudine oramai, ma Ice indietreggiava impaurito sia da loro sia dai colpi di Philip: quello era giocare sporco, lottavano in due contro di lui!
   Poi perse l’equilibrio cadendo all’indietro.
   Fu a quel punto che il biondo, montatogli sopra, lo prese a pugni sempre più violentemente finché non gli ruppe di netto il labbro inferiore.
   Si trovarono ben presto in un bagno di sangue mentre Angeline, scoppiata a piangere da un pezzo, era sola, nonostante Alex volesse stringerla a sé.
   Ice stava perdendo conoscenza, tanto che smise di opporre resistenza trasformandosi, di fatto, in un sacco d’allenamento; solo le visioni lo mantennero sveglio e quando cessarono, Philip oramai esausto si alzò lasciandolo tra la polvere e il sangue.
   Sotto lo sguardo di tutti, compreso dell’euforico Edouard.

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Capitolo 29
*** Capitolo 2.7 ***


CAPITOLO      2.7
 
 
 
 
 
 “Perché, perché…”
   Sfinito fin tanto da non riuscir a parlare, Ice iniziò per la prima volta a rivolgersi a quelle visioni cercando di venirne a capo.
   Ci pensava continuamente ma ora era molto diverso, quasi la loro presenza gli ricordava chi fosse; peccato però che lui non lo sapesse.
   A parte conoscere di possedere una maledizione non sapeva nulla della sua vita.
   Era disteso in terra con lo sguardo rivolto verso il cielo a guardare le nuvole: era buio e di li a poco sarebbe scoppiato un temporale.
   Cosa che avvenne.
   Ma lo comandava lui?
   Lo sbattere delle pesanti gocce sul suo viso portarono via la sporcizia dal volto tumefatto e consumato, provocandogli dei brividi elettrici di dolore e sollievo.
   Era così distrutto che persino un po’ d’acqua lo stava facendo soffrire.
   Non voleva alzarsi e non voleva trovare riparo, forse stava cercando la morte, un bel modo per riposarsi; tanto che motivo aveva di lottare? Quelle visioni erano peggio della sua maledizione e sembrava influenzassero la sua vita.
   Rimase per tutta la durata del giorno in quel punto immobile come un cadavere finché non calò la notte.
   Nessun fratello gli si avvicinò, né Alex né Angy, nemmeno gli anziani.
   Credevano in lui ma ora che aveva perso nessuno teneva più conto della sua presenza, in un certo senso aveva sprecato la loro fiducia.
   E pensare che girovagavano per il campo senza nemmeno guardarlo.
   Era invisibile ai loro occhi!
   Che farabutti.
   La soluzione più logica che riuscì a trovare fu una sola: abbandonarli per sempre; tanto oramai restare con loro non sarebbe servito a nulla se non a ricordargli la sua sconfitta, la sua incapacità di battere anche solo un ragazzo. Come avrebbe potuto fronteggiare le dominazioni?
   Che idiota che era stato…
   Oramai comunque aveva perso tutto, l’unico rimpianto era Angy…
   Nella notte buia il vento lo aiutò a rialzarsi; era arrivata l’ora delle risposte e a Parigi un uomo gliele avrebbe senz’altro date…
   A quanto pareva l’incappucciato ci aveva visto giusto.
 
 
 
 
   Quell’uomo, Alexandre, aveva vietato per tutto il resto della giornata ad Angeline di tener compagnia al suo amato, non voleva lo vedesse ridotto in quello stato, mentre Philip invece si era ritrovato “solo” con alcuni degli anziani, con Edouard, gonfio da uno zigomo, e il maestro: lo fasciavano, abbeveravano, medicavano, alleviando il fortissimo dolore che lo bloccava dalla testa ai piedi.
   Camminare e parlare era impossibile, le fibre dei muscoli sembravano ridotte a brandelli tanto che nemmeno i pugni riuscì più a stringere.
   Ice aveva perso il duello ma era stato l’avversario più in gamba che avesse mai incontrato.
   Leroy gli aveva raccontato che quello era stato il frutto di un allenamento durato meno di un mese e ciò, oltre a sorprenderlo nel profondo, lo aveva spinto a rispettarlo.
   Perché in fin dei conti, era stato stupefacente.
   Iniziò inconsciamente ad ammirarlo.
   Calata finalmente la notte e pulito al meglio Philip, Angeline, assecondata dallo zio, fu scortata da uno dei fratelli entrando di nascosto nella tenda del biondo.
   Il suo amato era disteso come un cadavere su una brandina bianca, divenuta rossa in più punti per le copiose ferite.  
   Aveva le braccia piegate sul torace come fossero in preghiera, lui che non era devoto a nessuno, e quando notò la sua presenza, emise un verso così animalesco ma tanto dolce da ricordarle il miagolio di un gattino voglioso di coccole.
   Angeline fu subito su di lui e poggiò il palmo della mano proprio sopra le sue, cercando di confortarlo.
   Piangeva, singhiozzava e, se pur nascondendolo, tremava come una foglia secca.
   Non aveva mai visto Philip in quelle condizioni: il labbro rotto, uno zigomo gonfissimo e livido, un occhio violaceo e i capelli sporchi; respirava persino a fatica.  
   Possibile che era ancora in tensione per lo scontro?
   O aveva solo difficoltà a respirare?
   La mente di Angeline rivisse per un breve istante il passato, a quando lo vide per la prima volta:
 
   La situazione quella volta era invertita.
   Lei era su un letto malata e lui la accudiva giorno e notte; innamorato perso.
   All’inizio non fece caso alle sue frequentissime visite nella stanza della chiesa ma quando queste erano cessate, per qualche motivo a lei sconosciuto si era sentita persa.
   Quella solitudine l’aveva aiutata a capire quanto dipendesse da lui…
   Era stata sempre fredda nei suoi confronti ma aveva sbagliato, forse lo amava e il vuoto alla pancia ne era una conferma.
   Le sue parole al risveglio erano state come frecce scoccate contro il suo cuore.
   Col passare del tempo comprese di amarlo alla follia ed ora che era ridotto male… lo amava ancor di più.
   Gli veniva da piangere; come aveva potuto minimamente pensare di abbandonarlo per Ice? Il bastardo che lo aveva ridotto in quello stato?
   Nonostante vi fosse una forte attrazione tra i due, lei aveva cuore, mente e occhi solo per il suo amato Philip, non lo avrebbe mai e poi mai tradito.
   Dipendeva da lui.
   E ora lui da lei.
   Durante la notte si era affidata a un’insistente preghiera, mentre era osservata con devozione dal tumefatto Philip: pregava Dio, la Madonna, con la speranza di far guarire il prima possibile il suo giovane… come successe per le volte passate.
   Il suo amato guariva sempre in fretta dopo i suoi rosari.
   Il biondo rimuginò un attimo prima di prender sonno.
   Forse stava sbagliando tutto  e mantenere il silenzio non avrebbe fatto altro che peggiorare le cose: sapeva che Ice sarebbe tornato dalle dominazioni. Ma che fare?
   Doveva fermarlo cavolo!
   In cuor suo sapeva che Ice era come lui, non doveva abbandonarlo.
   Con voce fioca si rivolse alla dolorante Angy, oramai dormiente.
   « Lo porterò indietro, lo prometto ».
 
   Zoppicando e trascinandosi per i boschi, tra gli ululati e le tenebre, Ice si allontanò il più possibile dal campo per trovare l’incappucciato; aveva bisogno di lui.
   Aveva superato il pendio della collina con non poche difficoltà, inciampando in un ramo e rotolando fin giù senza controllo.
   Risultato, si era spezzato una gamba ed un braccio.
   Era sporco ed esausto, piangeva per l’immenso dolore che stava provando.
   Niente di più, niente di meno.    
   Non aveva rimpianti, non sentiva emozioni.
   Lo scontro lo aveva cambiato.
    Quando raggiunse il limite, il corpo si accasciò facendolo inginocchiare sul terreno umido e disconnesso; sapeva che in quelle condizioni non sarebbe arrivato da nessuna parte e nessuno lo avrebbe aiutato.
   La convinzione che quella fosse la fine sopraggiunse ben presto assieme a un branco di lupi, pallidi come la neve che aveva iniziato a cadere pochi minuti prima.
   Lo avevano circondato in una formazione perfetta perché anche se fosse stato in grado di scappare, si sarebbe battuto di certo in almeno un paio di loro; dando quindi il tempo agli altri di sopraggiungere.
   In ogni caso non ce l’avrebbe mai e poi mai fatta a fuggire. Nemmeno nel pieno delle forze.
   « Sono vostro », disse dandosi in pasto alle belve.
   I piccoli fiocchi bianchi iniziarono a tagliargli la visuale dal terreno mentre i suoi occhi, azzurrissimi, trasparivano rassegnazione.
   Non aveva avuto nemmeno il coraggio di alzare il capo per guardare la morte nelle zanne delle bestie, gli bastò il finissimo udito per capire quanto fossero distanti.
   Ciò la disse lunga… giacché non si degnò nemmeno di provar paura di fronte l’uomo con la falce.
   Era davvero così speciale o era tanto idiota?
   Improvvisamente uno di loro avanzò rompendo il cerchio e prese a correre all’impazzata con le fauci spalancate e la bava viscida; rendendosi ancor più inquietante.
   Era grosso, sembrava quella bestia di Angy, sembrava quel suo adorato cavallo, la stazza infatti era diversa da quella del restante branco quindi con molta probabilità ne era il capo.
   Forse, colpito lui, gli altri sarebbero fuggiti.
   Quando il lupo fu a pochi metri, Ice alzò un braccio per difendersi e cogliendolo alla sprovvista lo scaraventò dalla parte opposta.
   Non fece in tempo a rotolarsi completamente che con uno scatto fu di nuovo su di lui e stavolta, esausto, il moro poté solo contrapporsi con l’unico braccio rimastogli.
   I denti aguzzi affondarono nella sua carne fintanto da intaccargli l’osso.
   Il sangue iniziò a sgorgare come fosse una cascata tanto che a quella vista gli altri sciacalli corsero in gruppo per afferrarlo.  
   Quando fu sul punto di mollare e mandare tutto al diavolo, accadde qualcosa però: apparve qualcosa… di molto reale.
   Non il suo solito incubo.
   Anche se aveva l’impressione che c’entrassero i soliti occhi blu.
   Una figura alta e slanciata con una chioma lunghissima e ancor più nera delle tenebre si era intromessa: era di spalle ma la luna, biancastra, riusciva ad illuminarla scoprendogli uno strano disegno sulla rilucente pelle mentre una vestaglia nera e trasparente copriva a malapena il suo fondoschiena.
   Le sue curve perfette lo fecero impallidire. A quell’apparizione il branco si staccò fuggendo via.   
   La luce prodotta dalla donna era così bianca da spaccare la notte a metà, illuminando a giorno quella parte del bosco. Il calore prodotto da quei raggi lo investì in pieno facendolo accasciare in terra e quando rialzò il volto, la donna si era volatilizzata nel nulla così com’era venuta.
   Era il suo angelo custode…
   Le ferite riportate tolsero ben presto i cinque sensi al povero ragazzo che fu subito preso e portato via da un uomo a cavallo, sopraggiunto poco dopo…
 
 
 
 
   Non avendo la forza necessaria per alzarsi, dopo urli, ustioni e lacrime versate, Ice passò parecchi giorni su un lettino, curato da qualcuno che di certo non lo stava facendo per compassione: il braccio destro, quello azzannato dal lupo, era stato cucito prima e bruciato poi e le cicatrici ora non si vedevano quasi più; per il labbro e i numerosi lividi invece non era stato fatto molto; sarebbero guariti da soli.
   Quando ebbe la sensazione d’esser di nuovo in forze, il ragazzo aprì lentamente gli occhi: il posto era familiare, molto familiare.
   Si alzò lentamente affondando tra la morbida piuma del sofà: aveva i ricami d’oro, lo aveva senz’altro già visto. C’era un camino, uno specchio, persino le spade viste qualche mese prima…
   “Oddio”.
   In poco tempo la mente lucidissima tornò a qualche settimana prima, quello… quello era il rifugio delle dominazioni!
   Scattò in piedi come una molla, si allontanò in fretta da quel posto, o almeno ci provò per i primi due minuti, ma notò ben presto che tutte le porte della stanza dovevano esser state blindate.
   Era bloccato. Beh, almeno non era stato incatenato come l’ultima volta.
   Dopo qualche istante di puro panico tornò lucido: in fondo era ciò che voleva, perché mai avrebbe dovuto provar paura?  
   Improvvisamente un piccolo brivido gelido lo scosse come in preda ad un attacco epilettico e notò più in là, proprio sopra il camino acceso, un quadro; vi era raffigurato un uomo, bello, prestante, aristocratico, portava… ma era Edouard!
   Portava una corona d’oro tutta diamantata, uno scettro che lo faceva assomigliare a uno stregone e un mantello lungo il doppio della sua statura.
   Lo sfondo era proprio quel camino d’innanzi a lui, ciò significava che il ritratto era stato dipinto proprio lì, nel punto dove ora immobile lo stava fissando.
   Era confuso, in un certo senso aveva paura di quel personaggio soprattutto dopo che i compagni della fratellanza gliene avevano parlato con visibil timore: aveva ucciso i propri cari per divenir sovrano commettendo così il peggiore degli atti capitali, un atto ignobile… Quale uomo sano di mente avrebbe compiuto un gesto così immorale? Erano andati pure a caccia insieme!
   Era infiltrato nella resistenza!
   Ice rimase colpito dalla maestosità del dipinto tanto che rimase a fissarlo a lungo finché un sesto senso lo aiutò a scoprire di non esser solo.
   Sul tavolo alle sue spalle l’incappucciato lo osservava dall’ombra della stoffa. Il sangue del ragazzo si ghiacciò istantaneamente mentre il cuore, goffamente, perse il suo tranquillo battito iniziando a pompare sempre più velocemente.  
   Non aveva accennato a un attacco, non gli aveva rivolto la parola, forse nemmeno lo guardava; tutto faceva supporre che non gli avrebbe torto un capello.
   Eppure aveva paura.
   Poi mosse una torre. E cadde un pedone.
   Inquietante.
   « Scacco matto ».
   Era fuori di testa o cosa? Giocava da solo!
   Poi con un cenno del capo indicò a Ice la seggiola d’innanzi a sé mentre il ragazzo, quasi ipnotizzato da quella presenza misteriosa, si ritrovò già al tavolo.
   Ansioso di iniziare la partita.
   Qualsiasi fosse.
   Lentamente l’incappucciato alzò il capo fissandolo.
   Sperava fosse Edouard, il re maligno, ma non fu così. Voleva chiedergli spiegazioni maledizione!
   Comparve un ragazzo, più grande, grosso e robusto di lui.
   I capelli biondi e lisci, pettinati all’indietro, gli si riversavano sulle spalle scoprendo l’ampia fronte, spezzata da due sopracciglia curatissime e due occhi neri. Era sfregiato da una cicatrice sull’intero zigomo sinistro ma nonostante ciò era bello come il sole, non sembrava un combattente.
   Ice sapeva che quell’uomo non si sarebbe mai mostrato all’interno della setta, coloro per cui avrebbe dato anche la vita, allora… perché lo aveva fatto proprio con lui? Che motivo c’era? E poi era così giovane… chi era? Sembrava avessero la stessa età.
   « So bene che vi stareste chiedendo quale sia il motivo di tanto riserbo e perché mi sia mostrato a voi; so che la fratellanza vi ha parlato di me, o dovrei chiamarla Hide? È così che l’avete scherzosamente ribattezzata? ».
   Era impossibile, chiaramente impossibile.
   Ne aveva parlato con Edouard durante il durissimo allenamento nel campo: tutto il riserbo, il nascondersi nell’ombra, le azioni compiute in onore della patria all’insaputa del suo stesso popolo, aveva scelto quel nome perché era molto più profondo, dava un tocco più cupo e più serio alla setta, quello che di lì in avanti sarebbe diventato il nome della resistenza; ma non ne aveva parlato con nessun’altro!
   Come faceva a saperlo? Edouard aveva sputato il rospo?
   Sicuramente, giacché a quanto raffigurava il quadro in quella stanza era lui stesso il capo delle dominazioni.
   « Acquietate il vostro animo, Edouard è un valido sovrano…».
   Ma come diavolo faceva?
   « Vi leggo nel pensiero, semplice. Edouard non ha parlato. In effetti è da tanto che si diletta a giochicchiare infiltrato nella resistenza ed è da molto che non lo vedo ».
   Fantastico! Quella fu una scoperta allucinante! Mai Ice si sarebbe aspettato di incontrare un uomo, o per meglio dire ragazzo, con così tanti segreti, perché a quanto gli suggeriva l’istinto quel biondino laccato aveva ben altri assi per la manica.
   Non ci stava capendo più nulla però. Oddio. Somigliava persino a Philip ora che ci faceva caso.
   No, forse se lo stava immaginando.
   « Voi. Siete le dominazioni? », chiese confuso.
   « Sì ».
   Improvvisamente la testa di Ice si riempì di domande.
   E se il carnefice di Maurice fosse stato un membro delle dominazioni?
   In fondo se l’incappucciato sapeva leggere nel pensiero magari gli altri riuscivano a trasformarsi in bestie! Chi lo sapeva.    Mentre Philip? Perché lo faceva sentire così inferiore ed era tanto forte?
   Perché le dominazioni combattevano “l’hide”?
   Qual’era la genesi di quel conflitto?
   « Andiamo per ordine ragazzo. Ascoltate senza interrompermi, daremo risposta a molte vostre domande ».
   Il biondo aristocratico ammaestrò il giovane Ice come un cagnolino.
   Il ragazzo sembrò dipendere dalle labbra del nemico e quasi, per più di una volta, gli era parsa l’idea di allearsi con lui.
   Non sapeva se quel pensiero assurdo provenisse dal proprio cervello o gli fosse stato innestato ma sapeva solo che quell’idea lo stava punzecchiando già da parecchi minuti.
   Aveva saputo di fatti così soprannaturali e fuori dall’ordinario in così poco tempo che l’idea di mondo terreno e trascendentale si era fusa in un unico blocco: quello in cui era stato risucchiato.
   Il laccato gli raccontò la storia…
   A quanto sembrava il principino deriso dal re d’Inghilterra, Henry, comunemente chiamato nella setta Ry, aveva avuto l’onore di divenire un immortale durante una battuta di caccia; ma perché proprio lui?
   « Sono stato io ».
   « Cosa? ».
   « Così come voi, mi sono svegliato senza sapere dove o chi fossi. A parte il mio nome non ricordavo nulla. A differenza dei nascituri però sapevo già parlare e muovermi, benché il mondo mi sembrasse estraneo. Mi sono ambientato il meglio che ho potuto scoprendo lentamente dei poteri che le persone comuni avrebbero descritto come sovrannaturali. Non avevo bisogni naturali, non avevo fame e non invecchiavo…».
   Alzandosi dalla sedia il biondo si diresse verso il camino fissando l’imponente quadro appeso sopra la sua testa. Ice lo guardò esterrefatto.
   Poi riprese il discorso: « Le persone a cui mi affezionavo morivano o per cause naturali o per le battaglie, io venivo ferito, ma niente di più. Sono stato cacciato come una preda sia da uomini che da bestie. Ho dato inizio a un conflitto senza rendermene conto…».
   “Il mostro dentro la chiesa”.
   « Le creature che mi davano la caccia erano in grado di togliermi di mezzo senza che me ne accorgessi; sì, erano uguali al mostro di Notre-Dame se ve lo steste chiedendo. Ho così scoperto…», toccò il quadro con il suo indice sinistro quasi rivivesse nitidamente il ricordo, « Che però potevo rendere gli umani miei servi, dargli i miei poteri. Potevo trovarmi degli alleati ».
   « Per questo avete scelto Ry? ».
   « Certo! Chi meglio di un futuro re era in grado di fornirmi i mezzi necessari a sconfiggere quei demoni immortali e pelosi? ».
   Ice però non capì; cosa c’entrava la resistenza? E Philip?
   « La guerra è scoppiata come conflitto personale, Henry voleva riconquistare il trono appartenuto alla sua dinastia e dato che da solo non potevo oppormi, sono stato costretto ad accondiscendere. Aveva un esercito di immortali a quel tempo. Ovviamente davano retta più al loro re che non a me; non vi nego però la sorpresa che ho avuto quando ho scoperto che quei mostri infestavano anche la Francia. Nacquero allora le dominazioni, ordinate a sterminare quelle bestie ».
   Cosa? Che stava dicendo? Che oltre agli immortali c’erano dei mostri ancor più spaventosi liberi? Allora Maurice era morto veramente per colpa di quei demoni! Ma chi erano? Da dove provenivano?
   « A questa domanda non so rispondere », s’interruppe il biondo laccato prima di continuare.
   Ice lo ascoltò attentamente ma all’improvviso una visione lo portò proprio al racconto che stava sentendo. Il biondo gli stava facendo vivere il passato con i suoi poteri. Erano ovviamente allucinazioni… ma erano anche così reali…
   « Perché combattete la resistenza? » domandò.
   « Tra loro ci sono anche i nostri avversari. Quando vi siete fronteggiato con Philip avete notato i suoi canini? Non è l’unico ad averli ».
   Ice li aveva notati, eccome se li aveva notati!
   La prima volta che si erano scontrati fuori il capanno nel bosco il moro era stato letteralmente alzato da terra riuscendo così a vedere di sfuggita due denti aguzzi e lunghi che non avevano nulla da invidiare a quello dei lupi ma ora che ci pensava, anche lui nei suoi frequenti cambiamenti d’umore sentiva delle lunghe zanne crescergli.
   Possibile che era come Philip? No! Mai e poi mai, non poteva essere come lui. Poi lui non era un demone peloso!
   « Non siete come lui, ve l’ho detto. Io ero come voi. Siete il primo immortale di nascita; quegli insulsi credono di stare al riparo ma non sanno che sono infetti. Philip non è l’unico demone tra loro. Ve l’ho detto ».
    « Come dovrei comportarmi, ditemi », chiese Ice stordito dalla recente scoperta sul suo conto e quello di Philip.
   Restando in silenzio, scegliendo le parole adatte, il laccato elettrizzò l’aria saturandola col nervosismo del giovane.
   « Unitevi a noi, se sapessero la vostra differenza vi ucciderebbero senza esitazione ».
   Muto e visibilmente incerto, il ragazzo rimase a testa china per qualche minuto con l’intento di decidere il da farsi.
   Philip si era rivelato un demone, forse lo stesso che aveva ucciso Maurice, mentre l’Hide stava dando la caccia proprio alla sua specie, ignara degli infiltrati al suo interno; poi c’era quella ragazza, come si chiamava? Si era dimenticato il nome...
   Cosa gli stava succedendo?
   « A proposito, il mio nome è Wsath, benvenuto tra noi ».

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Capitolo 30
*** Capitolo 2.8 ***


CAPITOLO      2.8
 
 
 
 
 
   Le taglienti parole di Wsath erano macigni nella mente di Ice.
   Aveva passato tutta la notte rinchiuso in quella stanza, fissando il pedone schiacciato dalla torre mentre il camino finiva di ardere la legna. Aveva avuto modo di pensare un po’ a tutto: alle persone che aveva incontrato, a chi gli aveva voltato le spalle, a chi lo odiava, a chi gli offriva la salvezza…
   Wsath gli aveva promesso che in poco tempo avrebbe appreso molto più che il semplice duello spada in mano. E l’idea di leggere la mente, conoscere ogni qual profondo pensiero altrui, lo allettava. E non poco…
   Anche se l’unica cosa cui pensava era sempre la stessa, a lei, era il pallino fisso che lo tormentava, a quella ragazza di cui non ricordava più il nome, persino le fattezze si stava dimenticando e la vista peggiorava di giorno in giorno. Non l’avrebbe mai più rivista.
   Ice raggiunse la finestra e si affacciò alla balconata.
   Le dominazioni alloggiavano in un castello poco fuori Parigi, su un monte da cui si vedeva l’intero bosco sottostante.
   Ma com’era possibile? Non dovevano essere introvabili? Forse l’idea che loro fossero “i buoni” e l’Hide, “i cattivi”, nascosti come topi sotto terra, non era poi così malvagia. Quale poteva essere altrimenti il motivo per adottare quella strategia? Ora che ci pensava uscivano quasi sempre di notte poi. Perché? Avevano qualcosa contro la luce solare?
   Una cosa era certa, non si fidava minimamente, né di Alex, né di Philip, né tantomeno di Wsath.
   Le idee erano troppe e troppo confuse.
    Il ragazzo era rinchiuso nella torre più alta del castello e così, come una dama in attesa del suo principe azzurro, Ice rimase parecchi giorni attendendo un qualche segno divino in grado di mostrargli la via da seguire.
   Ma non avvenne nulla.
   Aveva persino iniziato a scrivere una sorta di diario, almeno si teneva occupato, si era addirittura stupito quando raggiunse la consapevolezza di saper sia leggere che scrivere.
   Non ricordava di aver passato la giovinezza sui libri.
   Il laccato era davvero come lui?
   Chi lo aveva messo al mondo? Chi lo aveva educato? Chi era?
   Poi come lui non aveva fame e non aveva sonno. Perché?
   Le notti passavano molto più in fretta del giorno, forse perché le tenebre lo tenevano occupato mentre la luce lo accecava.
   Come la resistenza quindi.
   Ma allora… a quale schieramento apparteneva? Non ci stava capendo più nulla!
   Si sentiva come un pipistrello, quei brutti esseri pelosi che ogni sera gironzolavano fuori il terrazzo.
   Ogni mattina si alzava prima dell’alba dal sofà sperando in una visita ma non successe mai nulla; né al di là delle mura, né oltre la soglia della porta. Lo avevano lasciato solo per fargli schiarire le idee autonomamente.
   Ma perché non lo sorvegliavano nemmeno?
   Era un prigioniero sì o no?
   Con sua somma sorpresa, quando fu abbastanza stanco della routine, si accorse che il battente d’ingresso era sempre stato aperto; non era rinchiuso come credeva!
   Che idiota che era stato.
   Le scale gelide e umide erano in mattone antico, il muschio cresceva in tutte le crepe delle pareti e sulle alzate dei gradini; si salvavano solo gli imponenti quadri appesi qui e là: raffiguravano sempre uomini diversi ma tutti alti, muscolosi, grossi come armadi, larghi come tronchi e spaventosi come il re.  
   Sembravano combattenti. Ognuno posava con un’arma in mano; chi stringeva pugnali, chi spade ed asce, chi archi, chi dei boccali, chi semplicemente fissava lo spettatore.
   In quel caso era la figura di Wsath che era stata presa in esame.
   Erano comunque tutti uomini con non più di trentacinque anni e non meno di ventidue o ventitré.
   Combattenti giovani ma chissà quanto letali. Si disse.
   Vi era posto anche per le donzelle però ma non ce n’era una che fosse stata immobile per il ritratto: tutte scompigliate con i capelli mossi, arruffate, con le vesti mezze strappate e seminude.
   Erano per lo più more e rosse, truccate solamente intorno gli occhi dando risalto maggiormente al loro accattivante sguardo.
   Qualcuna si era addirittura dipinta le labbra, tinte di un rosso così scuro da ricordare il colore della carne viva; erano affascinanti, oltre che inquietanti.
   Così come la partita a scacchi.
   Ice non sapeva il motivo per il quale era entrato in contatto con tutte e due le fazioni, forse entrambe sapevano qualcosa su di lui, qualcosa che abilmente tenevano celato, qualcosa che forse avrebbe potuto porre fine a molte delle sue domande.
   Un sesto senso però lo tenne all’erta: era sicuro che come Alex, anche Wsath gli avrebbe tenuto nascosto la verità.
   Certo, l’idea di somigliare a Philip, anche solo per un po’, iniziò a disgustarlo. Una bestia pelosa e priva d’umanità.
   Che schifo. Non si sarebbe mai trasformato in un mostro del genere.
   Ovviamente però gliene doveva dare atto, il biondo era un ragazzo fortunato: aveva un maestro benevolo, un mentore che lo aveva accudito, una fanciulla innamorata persa…
   Lui invece cosa aveva? Nulla.
   Perché Philip aveva avuto tutto e lui no?
   Gironzolando per il castello, Ice si era imbattuto in una cella alla fine di un lunghissimo corridoio: era buia e dava l’impressione d’esser in pendenza.
   Fortunatamente la trovò aperta e senza troppi indugi vi entrò accompagnato da una torcia; opportunamente presa dal muro.   
   Scese qualche metro, poi qualche scalino, finché non raggiunse l’oscurità.
   “Che posto è mai questo?”.
   Improvvisamente la luce delle torce gli rivelò tutto.
   Sembrava una città sotterranea cavolo!
   C’era persino un fabbro che sfornava metalli: in un angolo vi erano ammassate centinaia di armi stralucenti e nuove di zecca, mentre in un altro ve ne erano molte rotte.
   Spezzate di netto; quasi tutte allo stesso modo.
   Ice camminò spaesato.
   Era ancora nel castello? O nelle viscere della terra?
   Nessuno badò alla sua presenza, tanto che si avventurò senza esser fermato da nessuno.
   Infine raggiunse una sala.
   Vi erano numerosi uomini che assorti ed euforici assistevano con molta probabilità a un duello, il violento stridere dei ferri ne era una prova.
   Tentò quindi di superare la folla e con non poca fatica raggiunse la seconda fila.
   “Eccoli”, pensò vedendoli.
   Dopo aver gettato le armi due se le stavano dando di santa ragione; chiazze di sangue coloravano il marmo al centro della folla mentre i corpi dei combattenti erano lividi e gonfi.
   Uno aveva numerose escoriazioni impresse su quasi tutto il corpo: erano due buchini da cui fuoriuscivano dei rigagnoli di sangue. Sembravano… oddio erano segni di denti? No ma dai… impossibile!
   Ce ne erano anche due all’altezza del collo.
   I duellanti si colpirono senza risparmiarsi.
   Magnifico!
   Se le stavano suonando veramente, non come accadeva nella fratellanza, quello sì che era un vero e proprio allenamento.
   « Vi piace? », disse un uomo alle sue spalle. Aveva una voce familiare, sembrava… era Wsath!
   « Molto, ma ditemi, cosa sono quei segni sui loro corpi? », domandò subito Ice indicando quello messo peggio: l’unico con i capelli scuri.
   Oltre a lui ovviamente.
   « Sono morsi – Ice fece un’espressione tanto sorpresa che Wsath riuscì a stento a non ridere, poi continuò – questo è un allenamento, certo, ma quell’uomo con i capelli lunghi, che come vedi ringhia e mostra le zanne, è un nostro nemico. Lo abbiamo catturato poco lontano da dove abbiamo trovato voi. È una bestia. Ovviamente ora non è trasformato altrimenti lo avremmo dovuto attaccare in cinque o sei… comunque ora sta cercando di sopravvivere il più possibile contro le dominazioni. Se ucciderà il fratello impegnato nella lotta, vorrà dire che quest’ultimo non era all’altezza, se soccomberà… bè… avremo un avversario in meno. In ognuno dei due casi sarà fatto fuori lo stesso ».
   Carne da macello.
   “Erano umani quindi i mostri pelosi? E perché non si trasformava? Certo se era lui quello con i canini allora perché aveva i segni sul proprio corpo? Si mordeva da solo?”. Ice non era stupido. Qualcosa non tornava e Wsath non gliela raccontava giusta.
   Ovviamente anche nelle dominazioni c’erano individui con dei denti appuntiti. Altrimenti la scena che aveva di fronte era insensata.
   Quell’uomo era una cavia e le dominazioni uccidevano per puro divertimento, in ogni caso il ragazzo ammirò lo stile barbaro della setta.  
   Erano molto più crudeli e spinti di quanto immaginasse e questo lo eccitava.
   La futura vittima sembrava una tigre in gabbia, graffiava e mordeva al pari di un felino, eppure il suo concorrente, forse perché spinto dall’incitamento dei compagni, non si piegò nemmeno per un secondo.
   “Che potere…”.
   Quando lo scontro sembrò volgere al termine le urla euforiche dei presenti salirono improvvisamente ed Ice fu inavvertitamente spintonato in avanti raggiungendo la prima fila e ritrovandosi al centro del ring.
   Wsath lo guardò sorridente.
   L’uomo con i capelli scuri, in ginocchio e pronto per morire, si volse…  « Ice, ma cosa…», provò a dire.
   Il moro lo riconobbe: era un compagno con cui aveva passato qualche giorno nel campo della fratellanza. Ora era lì, faccia a faccia con la morte e si era rivelato uno di quei mostri tanto sbandierati da Wsath.
   Era uno dei fratelli che si dava un sacco di arie ma ora che l’uomo con la falce lo stava per toccare si era rivelato un agnello, era affascinante in un certo senso. Perché solo in quei momenti un uomo si dimostrava per ciò che era veramente.
   Un po’ preso alla sprovvista Ice lo guardò con gli occhi sbarrati. Lo conosceva. E tra non molto lo avrebbe visto agonizzare. E stranamente non vedeva l’ora che accadesse. Era curioso di scoprire come sarebbe finita la sua vita, cosa avrebbe detto o fatto. Iniziò a provare una bellissima sensazione.
   La morte… era bella dopotutto.
   Con la rapidità di un falco la dominazione si avventò sulla lama, la strinse saldamente e con un colpo secco perforò in due lo stomaco del nemico. Inerme e sconcentrato.
   Gli occhi rivolti al soffitto scesero sullo sguardo impietrito di Ice finché, in fin di vita, non caddero in terra; tremò sputando sangue mentre i denti aguzzi tornarono normali. Anche l’azzurro degli occhi sfumò a marrone.
   La lingua gli penzolò fuori dalla bocca ma questo non gli impedì di parlare… « Scap…».
   Ancora prima di farlo terminare, Ice, ansioso di metter fine alla sua vita, lo afferrò per il collo e con un movimento rotatorio gli spezzò il tronco. Tutti esultarono.
   “Un fratello in meno”, si disse.
 
 
 
 
   Mentre Ice era stato perso di vista, come volatilizzato nel nulla, Philip era stato accolto a braccia aperte quasi fosse il messia.   
   Aveva suggerito piani d’attacco, imboscate, persino un modo per far infiltrare una spia nelle dominazioni; eppure tra i grandi della fratellanza vigeva il silenzio, il dolore, la paura.
   Uno dei loro fratelli, quello mandato a trovare Ice dopo lo scontro, non aveva fatto ritorno. Era forse quello più esperto e lo avevano perso.
   Dopo quattro giorni era da considerarsi morto.
   La sua sparizione aveva destato non pochi allarmismi circa l’effettivo carattere di Ice, magari lo aveva fatto fuori proprio lui, anche se Philip non lo riteneva ancora capace di un atto tanto crudele; non poteva esser caduto nella ragnatela del male in così poco tempo.
   Infine, una riunione durata parecchi giorni, aveva dato l’esito che egli sperava: sarebbe stato lui l’infiltrato.
   Le dominazioni, infatti, erano formate per lo più da uomini biondi con i capelli lunghi, ciò cadeva proprio a fagiolo, poiché gli assomigliava.
   Una coincidenza?
   Ora l’Hide non doveva fare altro che tendere un’imboscata a uno delle dominazioni, poi il resto sarebbe venuto da sé.
   Inutile dire che il parere di Angeline fosse contrario.
   Lei non voleva più avere nulla a che fare con Ice, o almeno si era convinta di quell’idea; Philip invece aveva ben a mente quale fosse il suo compito: ritrovarlo.
   Anche se non riusciva a credere che lo pensasse veramente, ora gli importava di lui: lo scontro gli aveva aperto gli occhi definitivamente.
   Alex invece era molto più cauto e razionale.
   Non ci avrebbe messo la mano sul fuoco sull’innocenza di Ice.
   Da quando il moro li aveva abbandonati erano stati stabiliti turni di pattuglia su tutta l’area boschiva mentre in città erano state convocate delle squadre di tre uomini con lo scopo di cercarlo.
   Anche se era molto più probabile che il ragazzo fosse entrato nelle dominazioni, Leroy non aveva perso la speranza di trovarlo nella Parigi conquistata.
   E poi le squadre avevano anche il compito di pedinare i biondi delle dominazioni; l’obiettivo principale infatti restava sempre quello fronteggiare gli inglesi.
   Finalmente i preparativi furono ultimati.  
   Tutto iniziò poco fuori Parigi, quando l’Hide mise a frutto il piano di Philip.
   Non era raro infatti imbattersi in biondi platino, così, dopo un attento pedinamento, la fratellanza aveva intercettato alcuni membri delle dominazioni proprio tra le sterminate pianure adiacenti la città.
    Leroy, accompagnato da un piccolo contingente e da Philip, li aveva seguiti e ora, dopo l’omicidio che si erano prefissati di compiere, sarebbe partita la missione per ritrovare Ice.
   « Ma dove stanno andando? », disse Alexandre in groppa al destriero.
   « Chi può saperlo? », rispose Philip.
   Si vociferava che tra le pianure sconfinate vi fosse un castello ma nessuno ne aveva mai dato prova.
   Nessuno lo aveva mai visto.
   In quel periodo infatti la nobiltà era nel pieno del conflitto con i contadini e la nascita dei castelli della Loira era stata rimandata a qualche ventennio successivo, però, qualcuno sosteneva che poco fuori la città vi fosse un magnifico edificio.
   E quale altro poteva essere se non un castello?
   « Andiamo! », urlò Alexandre a capo del contingente.
   Sorvolando con i purosangue le verdi colline francesi, la resistenza bersagliò le dominazioni e i nemici, demoni infernali, morirono sotto lampi di luci accecanti.
   Alla morte quei bastardi svanirono nel nulla. A quanto sembrava nemmeno Dio gradiva la loro sepoltura. Comunque perirono tutti.
   Solo un uomo rimase in piedi e prima che potesse trovare riparo tra la boscaglia, con una scoccata Leroy infilò il dardo nella sua gamba destra. Tenendolo in vita e impedendogli di scappare.
   Ora la dominazione era in terra come un verme strisciante.
   Unico superstite.
   La raggiunsero e smontando da cavallo Philip fu subito preso sott’occhio dallo strano individuo che silenzioso, non soffriva.
   « Dov’è il nascondiglio! », urlò Leroy cercando di estorcergli una qualche confessione.
   Il platinato continuò a fissare il biondo; simile a lui.
   « Volete prendere il mio posto? Avete intenzione di mandare una spia? Non ce la farete. Rassegnatevi », disse il farabutto.
   « Dovèèè! ». Alex perse il controllo e con un pugno distrusse letteralmente il labbro del prigioniero.
   « Non ce lo dirà mai », constatò Edouard attirando le attenzioni dei presenti. Il prigioniero lo guardò ma subito volse la testa. Pezzente che non era altro.
   « Stava andando in quella direzione, quindi la méta sarà oltre il bosco della Drienne », disse Philip cercando di venirne a capo.
   « È bruciato anni fa. Non credo sia rimasto qualcosa », rammentò Alex l’incendio appiccato dagli inglesi al loro arrivo.
   « Bruciato? », la dominazione non capì.
   « Non è un cumulo di cenere e carbone? », si rivolse Edouard al platinato.
   Con un secondo pugno alla mascella Alex distrusse l’articolazione della dominazione impedendogli di sghignazzare, e forse anche parlare.
   Li stava confondendo quel farabutto.
   « E ora? », Philip terminò le idee.
   Scoccando un altro dardo, a distanza ravvicinata, Edouard mise fine alla vita del prigioniero che sbuffò in un lampo di luce.
   « Ora raccatterai i vestiti e lo impersonerai. Le dominazioni sono solite mantenere il segreto ragazzo. Abbiamo perso solo tempo qui », disse Edouard lanciandogli gli indumenti scuri e aristocratici del morto.
   « Non abbiamo altre chance. Dovrete proseguire dritto verso la Drienne. Il farabutto sembrava non conoscere dell’incendio avvenuto anni fa, quindi forse al centro del bosco ancora esiste qualcosa…», disse Alex nervoso.
   « Va bene. Portate i miei ossequi ad Angeline. Ci vediamo tra qualche giorno ».
   Mentre il biondo abbandonò la truppa, gli altri membri della resistenza tornarono indietro; solo uno restò solo.
   « Ehi Leroy non vieni? », urlò qualcuno da lontano.
   Alexandre si avviò senza rispondere verso la folta boscaglia… aveva visto qualcosa tra i ciuffi d’erba. Qualcosa che ancora si muoveva…
   « Fratello dobbiamo tornare al campo! », Edouard tentò invano di dissuaderlo ma Leroy non rispose…
  
   Era passato quanto? Un mese? Forse due, e Ice era entrato in perfetta simbiosi con le dominazioni. Era diventato padrone di una stanza lussuosissima nell’ala nord del castello vincendo un duello contro uno dei più esperti combattenti: lo aveva umiliato e sbeffeggiato proprio lì, dove qualche settimana prima aveva spezzato il collo a Gerard.  
   Ora si crogiolava con le bellissime donne del palazzo e viveva nello sfarzo più sfrenato. Wsath era entusiasta del ragazzo ma nonostante riuscisse a compiere azioni stupefacenti, non era ancora in grado di controllare gli oggetti con il pensiero.
   “Cavolo gli altri incapaci ci riescono!”.
   Era solo nella sua immensa stanza e riflesso nel gigantesco specchio a muro cercava di aprire la mente avvicinando la pesantissima spada al palmo della sua mano.
   Erano giorni che provava e riprovava ma tranne ingenti mal di testa e lievissime emorragie al naso non la smuoveva di un millimetro.  
   Diversamente però accadeva con oggetti più piccoli: almeno quelli riusciva a prenderli; peccato che dopo poco cadessero in terra.
   Le dominazioni invece anche da distratte o ubriache riuscivano nell’impresa! Ma come cavolo facevano!
   Nonostante si sforzasse, nelle ultime due settimane aveva notato però che la vista gli era calata spaventosamente.
   A fatica riusciva a distinguere i volti dei suoi compagni e delle donne con cui s’intratteneva, stando attento però a proteggersi: indossava, infatti, sempre dei pesanti guanti neri di pelle con cui le accarezzava mentre, seminude, queste si leccavano e toccavano; si eccitava da matti, nonostante lo sguardo spaventoso lo interrompesse ogni volta.
   La notte la visione gli impediva di dormire, di giorno di fare qualsiasi altra cosa. Via via stava divenendo cieco e non aveva avuto il coraggio di dirlo a nessuno. Non gli importava di nulla, tanto i restanti sensi lavoravano senza sosta e il suo finissimo udito lo aiutava a percepire ogni cosa.
   Alla fin fine quei due occhi demoniaci oramai gli facevano compagnia. Erano i soli amici che aveva.
   Ovviamente li odiava sempre.
   Nello specchio offuscato quelli che vedeva erano i suoi o quelli delle visioni?
   Improvvisamente la porta si spalancò e di colpo entrò Alain, un orfanello di tredici anni.
   Aveva dei capelli biondi molto più corti degli altri e degli occhi verdi come gemme; con stupore il giovane vide un boccale fluttuare proprio davanti all’uscio.
   Aveva il respiro corto, doveva esser successo qualcosa.
   « Cosa c’è », disse scocciato Ice concentrato a far levitare la coppa.
   « Maestro, devo…», sorvolò il calice fluttuante con un po’ di sorpresa, « Devo informarvi che venti dei nostri uomini sono stati trucidati dalla resistenza; da stamane non hanno più contatti con le dominazioni di guardia e Wsath è disperso. È tornato sano e salvo un solo uomo, venite presto. È giù nell’atrio ».
   Quasi senza dare troppo nell’occhio Ice nascose la sua avanzata cecità e scese le scale seguendo il discepolo. In poco tempo furono due piani più giù, percorsero la lunga navata tappezzata di quadri e raggiunsero il sopravvissuto.
   Era dolorante in terra e ricoperto per la maggior parte di un liquido rosso, sangue, pensò Ice. Aveva i capelli così sporchi che quasi parevano castani.
   « Fatelo pulire e curare dalle Vergin, gli parlerò con calma quando si sentirà meglio ».
   In poco tempo l’atrio si riempì di gente, sia di sesso maschile che femminile, appunto le vergini, che se pur bellissime e facili, difficile a crederlo, erano vergini. Per loro esistevano “altre vie” per raggiungere il piacere, anche se poi urlavano doloranti imprecando Dio.
   Alain, come tutti, sapeva che senza Wsath il capo sarebbe stato il proprietario dell’ala nord e dato che Ice aveva tolto la vita anche a quello, era lui di diritto il “principe” delle dominazioni. Aveva fatto fuori ogni pedina della scacchiera.
   Il moro però non aveva idea di come comandare una setta, aveva avuto tutto il tempo di studiare il maestro ma quelle cose non facevano per lui; tanto valeva mandare tutti allo sbaraglio, uomini e donne; per quello che gli importava!
   Poi però l’idea di comandare si fece via via più nitida nella sua mente, offuscandolo e distogliendolo dalla sua intenzione iniziale.
   « Che nessuno esca dal castello. È un ordine ».

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Capitolo 31
*** Capitolo 2.9 ***


CAPITOLO  2.9
 
 
 
 
 
   Era più di una settimana che Ice dormiva, sembrava stesse bene ma sia Samia che Hasan erano in crisi. Non volevano portarlo all’ospedale, con molta probabilità quei militari che stavano ispezionando la città cercavano proprio lui ma tenerlo in quel container era troppo pericoloso. Persino il dormiglione Hussein aveva notato, dopo molto, le lampadine accendersi durante la notte, anzi a dire il vero ora si accendevano anche di giorno. Ice dormiva senza sosta e nulla lo scuoteva da quel sonno pesantissimo.
   La vita dei due amanti andava avanti o per lo meno, ci stavano provando. Una squadra di polizia cercava senza sosta qualcosa, qualcuno, ma i due avevano visto troppa tv per cadere in quei tranelli. Samia aveva intanto raccontato al suo ragazzo la verità sulla notte in cui Ice fu trovato e lui l’aveva presa molto bene: al suo posto avrebbe fatto lo stesso.
   La paura di essersi cacciati in qualche guaio però era troppo forte, tanto che la ragazza aveva deciso di chiamare in Italia, tentando di parlare con la madre che però non aveva risposto… forse era in uno di quei viaggi aziendali che le piacevano tanto e non portava mai il cellulare privato.
   Il Corano invece, quello moderno, era stato letto e riletto anche da Hasan ma quel simbolo dietro la nuca del ragazzo non compariva nemmeno una volta; anche la bibbia non accennava a nulla del genere. E ciò era stranissimo; possibile che nella ristampa moderna erano stati volontariamente saltati dei pezzi?  
   C’era forse una qualche cospirazione dietro?
   Nel frattempo il ragazzo si girava e rigirava tra le coperte come fosse un bambino, sognando senza sosta l’origine della sua vita così tanto scombussolata…
 
 
 
 
   Legato con delle pesantissime catene di ferro, Wsath era caduto nell’imboscata della fratellanza: aveva assistito con i propri occhi all’uccisione dei suoi compagni e colto di sorpresa da tutti i suoi acerrimi nemici non era riuscito a svignarsela.
   Quando aveva iniziato a trasformare gli umani, un po’ alla volta la sua energia vitale, quella che lo aveva di fatto contraddistinto come essere superiore, si era andata affievolendo, quindi non era più la macchina senza paura ed omicida di una volta e per di più quell’insulsa resistenza aveva architettato bene il piano: in molti erano stati trucidati nella pianura poco lontano il castello e seppur avesse finto la morte, non si era volatilizzato come loro, quindi era stato preso e portato via.
   Ora era stato trascinato proprio sotto Notre-Dame, al centro dell’Alfa e dell’Omega, portato a forza dal solo Alex, intento a regolare i conti faccia a faccia. L’unico che si era accorto del suo corpo tra l’erba alta.
   A fatica Leroy aveva convinto i compagni e Edouard a lasciarlo andare in solitaria e ora finalmente avrebbe chiacchierato un po’ con il suo nemico, colui che aveva ucciso gran parte dei suoi fratelli.
   Le torce erano spente, solo quella tenuta da Alexandre illuminava a malapena i sotterranei spaccando in due l’oscurità opprimente dei tunnel.
   Wsath aveva sentito solo vociferare di quel posto e se pur un uomo senza paura, l’incappucciato aveva iniziato a tremare vistosamente perché anche ai tempi d’oro, l’immortalità era utopia: poteva sempre morire in battaglia.
   Lo aveva sempre saputo ma senza i poteri, oramai del tutto spariti, era solo un comune uomo.
   Impossibile a crederci ma aveva paura.
   Eh… se Ice fosse stato presente… avrebbe visto il terrore anche nei suoi occhi. La falce spezzava la vita di chiunque, anche dell’uomo più sicuro al mondo.
   Opponendo resistenza Wsath ritardò solo di qualche minuto l’arrivo al centro della tondeggiante sala, inalberando maggiormente il suo accompagnatore, oramai più che convinto della sua decisione: lo tirava e lo strattonava a forza trascinandolo con sé così violentemente da potergli spezzare entrambe le braccia.
   Voleva conoscere a tutti i costi la verità. Che cosa era capitato a Ice? Disperso oramai da quasi tre mesi.
   Giunti a destinazione con un pugno violentissimo Alex spaccò di netto il labbro superiore del nemico facendogli sputare sangue e rivoltandogli il capo fin quasi a staccarglielo.
   « Questo è per farvi capire che non scherzo. Ditemi dov’è! ».
   Sghignazzando, il malefico Wsath spalancò la bocca mostrando le sue lunghe zanne e sputando il liquido rossastro in terra.
   Poi si leccò la ferita.
   Gli occhi nerissimi erano divenuti azzurri, quasi come quelli di Ice. « Non sareste in grado di uccidermi a mani nude perciò…».
   Impedendogli di terminare la frase Leroy estrasse una lama da dietro la schiena, incastonata nella cinta di cuoio e la diresse senza ragionare alla gola dello sfregiato.
   Quella era la primissima volta in tutta la sua vita che stava sorvolando sul credo seguendo solamente l’istinto e le forti emozioni; si meravigliava di non aver rimpianti ma non poteva cedere, non adesso.
   « Dov’è! ».
   « Lo avete abbandonato ed io ve l’ho messo contro, crede che voi siate il male che attanaglia questa terra e vi sterminerà tutti, così come ha fatto con i capi delle dominazioni. Ha terminato la partita a scacchi egregiamente. Il potere di quell’angelo, così come il suo carattere, è incontrollabile; paragonato a Dio è il male fatto persona ».
   Il credo di Alex lo costrinse a contenersi fintanto che il prigioniero non avesse terminato la frase, stringendo l’affilato pugnale con tutta la forza fin quasi a spezzarsi le dita.
   Lo sfregiato rideva, rideva e rideva, vedendo l’impotenza del suo acerrimo nemico.
   « È bastato il vostro discepolo Philip a convincerlo. Avete mai notato che anche lui presenta queste? », con un dito il biondo indicò, pungendosi volontariamente, uno dei due canini bianchissimi. Ma a quella domanda Alexandre rimase impietrito; aveva educato e cresciuto quel ragazzo, gli aveva persino affidato la nipote e non aveva mai notato che era uno di loro? Era anche biondo platino come loro!
   « Ahahah… ahahah, questo è solo l’inizio. Prest…», un colpo secco aprì un varco tra la bianca e fredda pelle del bastardo all’altezza della giugulare. Una cascata inarrestabile di sangue si riversò verso il basso e con le mani alla gola, Wsath cercò di tamponare l’emorragia come meglio poté ma a quel punto un secondo colpo, diretto al cuore, lo fece stramazzare al suolo, finché con un lampo di luce nera non scomparve nel nulla. In uno sbuffo di polvere.
 
 
 
 
   Anche nei momenti più difficili il ragazzo aveva appreso la capacità imprescindibile di mantenere la calma, liberare la mente e ragionare. Lo aveva imparato facendo levitare gli oggetti di piccola statura in primis e ora quello che gli stava capitando aveva tutta l’aria d’esser il battesimo del fuoco. Ma non era stupido e di certo non voleva ritrovarsi solo a combattere contro i suoi ex compagni. Perciò convocò i principali proprietari delle restanti parti del castello, “le pedine”, come le chiamava Wsath, e lasciò loro il comando.
   Ice era furbo. Non avrebbe mai comandato un esercito non suo.
   Soprattutto non avrebbe mai comandato gli stessi uomini con cui aveva avuto a che fare nella partita a scacchi del castello! Sì, aveva di certo conquisto il conquistabile ma a che prezzo? Anche nelle dominazioni si era fatto dei nemici.
   Era sempre solo.
   Quindi perché rischiare d’esser abbandonato sul campo? Lui pensava a se stesso e a nessun altro.
   Certo, chi solo osava contraddirlo si ritrovava senza parola vista e arti; non meritava di vivere, ma nemmeno di morire, per quello si comportava a quel modo: si sentiva misericordioso!
   Ice era incontrollabile se non lo si prendeva dal verso giusto.
   Concluse  le “pratiche” insulse della setta, il ragazzo lasciò l’ala nord incamminandosi in quella parte del castello che era stata improvvisata medicheria; vi erano bende, lacci, aghi, fili e ferri incandescenti per chiudere le ferite; era presente persino una piccola carrucola adibita alla tortura: sempre meglio esser previdenti che sprovveduti.
   Tutto opportunamente fatto preparare per il sopravvissuto.
   Alla sua entrata però il biondo non fu sorpreso di vederlo.
   “Strano”. Ogni membro delle dominazioni era biondo e nel vederlo tutti restavano di sasso.
   Qualcosa non tornò quindi.
   Il superstite si volse leggermente e poi tornò freddo a guardare il soffitto e le sue pitture.
   Sembrava lo conoscesse dato l’atteggiamento. Ma chi era?
    Dopo qualche passo lento Ice fu su di lui, lo guardò, ma non lo riconobbe, la vista era calata parecchio, così come la memoria…
   « Guardatemi », si rivolse al sopravvissuto.
   D’innanzi quella richiesta il biondo sembrò non sentirlo nemmeno; continuava a riposare disteso sul materasso senza batter ciglio, anche se aveva l’aria di trattenersi da una risata.
   In terra il mosaico gigante era macchiato da sbuffi rossi, sembrava sangue, anche numerosi segni di lotta confermavano quella tesi ma il moro non se ne accorse; strano, in effetti, che non si aggirasse nessuno per quella parte del castello nonostante l’incarico affidato alle vergini.
   « Guardatemi! », comandò.
   Allargando lentamente le labbra e mostrando le lievi fossette createsi sugli zigomi, il ragazzo si volse lentamente fissando il suo acerrimo nemico.
   Poi si gettò faccia a faccia sfiorando con il naso quello di Ice.
   « Mi vedete o non riuscite nemmeno più a riconoscere la mia voce? ».
   Impossibile!
   Cavolo aveva notato qualche somiglianza ma non gli era minimamente passato per la testa che fosse lui e ora lo aveva di fronte, nella sua reggia, nel suo mirino. Philip.
   Il moro tentò all’istante di afferrargli il collo ma con una schivata fulminea il ragazzo si allontanò immediatamente dopo aver deviato il colpo.
   Ice guardò in direzione del suo avversario, benché lo sguardo fosse certamente sconvolto. Voltava il capo seguendo solo i sonori passi di Philip, semmai si sarebbe bloccato, non lo avrebbe più individuato.
   Era…
   « Un povero cieco…» si rivolse il biondo alle spalle del moro facendolo voltare ma quando questi si fu girato, la voce era già lontana.
   « Voi mi sottovalutate », lo intimidì Ice.
   Il biondo giochicchiò con il ceco al gatto e al topo ma quando passò troppo vicino Ice si volse nel momento migliore e l’afferrò per la gola. « Ne è passato di tempo da quando lo faceste voi…».
   Stringendo progressivamente la morsa, le braccia possenti di Philip cercarono in tutti i modi di allentare la presa, nonostante non riuscisse a respirare.
   Ma non aveva affatto paura dell’uomo con la falce…
   In un certo senso era la spudorata copia di Ice.
   Senza il minimo ripensamento la presa divenne più violenta.
   Gli artigli gli bucarono il collo mentre i canini si allungarono spaventosamente.
   Avvertendo la sicurezza nel suo avversario però, Ice allentò improvvisamente la presa; sorpreso Philip tornò a toccare con i piedi per terra.
   Aveva tutti i nervi tesi al massimo ed era pronto da un pezzo per dar vita allo scontro della loro vita ma Ice lo fermò con un cenno del braccio; sembrava lo fissasse negli occhi per la prima volta…
   Ci vedeva si o no?
   « Non è ancora giunto il momento per entrambi, tornate al campo, state con qualche donna ed ubriacatevi, lo scontro arriverà presto… Ah portate i miei omaggi ad Alex…».
   « Vi siete dimenticato anche di Angeline? », domandò il biondo approdando così sull’ultima spiaggia.
   Ice, per risposta, rimase con lo sguardo fisso nel vuoto senza trasparire emozioni. Non aveva mai sentito quel nome. Di cosa stava parlando quel ragazzo?
   Svanendo nel nulla Philip lasciò improvvisamente il castello e con esso ogni speranza di riportare il ragazzo ai suoi reali amici…

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Capitolo 32
*** Capitolo 3.0 ***


CAPITOLO  3.0
 
 
 
 
 
   In poco più di qualche secondo Philip si materializzò, come fosse uno spirito, dentro la propria tenda; Angeline era distesa su una scomoda amaca e dormiva: aveva gli occhi arrossati, sembrava avesse pianto.
   Il senso di colpa invase il giovane facendolo inginocchiare d’innanzi a lei; senza rendersene conto iniziò a lacrimare e singhiozzare mentre con una mano tremante iniziò ad accarezzare la purissima pelle della fanciulla.
   Stava andando tutto a rotoli ed era lui la causa di tutto; le aveva mentito per proteggerla, non le aveva detto chi era per non perderla, ma nonostante tutti i suoi sforzi la stava comunque allontanando. E non era colpa di Ice.
   Quella sera era in vena di bere e ubriacarsi, non aveva la minima idea di come sarebbe finita quella storia, il moro era cambiato, era mutato completamente e c’era l’alta probabilità che fosse diventato il signore delle dominazioni…
   Conosceva bene quell’assurda gerarchia dettata dalla forza e dato che Ice di capacità ne aveva a bizzeffe, forse aveva vinto la partita a scacchi da un pezzo; persino le dominazioni non raggiungevano un grado di crudeltà così profondo e pensare che lo aveva conosciuto quando a malapena reggeva in mano una spada…
   Ora alzava gli uomini senza nemmeno vederli.
   Sì, c’era proprio da berci su.
   Preso il destriero si diresse alla taverna, poco lontano da Notre-Dame, lì le donne e gli amici lo avrebbero senz’altro tirato su di morale.
   Arrivato scese di corsa dall’animale e spalancò la porta, nessuno si voltò, tutti erano presi a bere e scherzare, altri a tradire le proprie mogli con qualche puttana.
   Si sedette a un tavolo attendendo d’esser servito; era un cliente abituale, quindi non c’era bisogno dell’ordinazione; dopo qualche secondo però una figura indistinta spostò la sedia di fronte a lui e ci si sedette.
   I due si scambiarono un’occhiata, si riconobbero subito benché nascondessero gran parte del volto con una specie di turbante.
   « Ho incontrato Ice maestro… non è quello di prima… non più per lo meno ».
   Alexandre non disse nulla, si aspettava un cambiamento del genere, in fondo le dominazioni riuscivano a fare anche dei completi lavaggi del cervello solo parlando; avevano dei poteri sovrannaturali in grado di influenzare chiunque…
   Purtroppo però Leroy non rispose o almeno, ci mise un po’. Aveva altro per la testa, Ice era la sua seconda priorità ora…
   Che aveva quindi?
   Finalmente disse qualcosa.
   « Ho parlato con l’incappucciato… ha fatto intendere che il processo è irreversibile, forse ciò che è stato risvegliato è proprio il vero Ice, in ogni caso…».
   Alzandosi improvvisamente Alex lasciò cadere la sedia alle sue spalle mentre Philip, che a riflessi non aveva nulla da invidiare a una mosca, fece lo stesso. Con un balzo fulmineo Leroy sorvolò la tavola e fu sul suo allievo, con un pugnale alla giugulare.
   L’inerzia li spinse fino al muro poco più giù mentre la taverna, silenziosa, si era completamente bloccata per assistere alla scena.
   Il respiro del maestro era pesante, quasi tremava, aveva appena ucciso un uomo a sangue freddo mentre ora stava per farlo con quello che considerava suo figlio; Philip invece non aveva avuto minimamente il tempo di difendersi, anche se il lancinante dolore prodotto dalla botta lo fece in qualche modo svegliare: ringhiando spalancò la bocca mostrando gli affilati canini, mentre le unghie si allungarono fino a divenire artigli letali. Era come Ice quindi?
   Comunque si stava mostrando finalmente. Ignorando il suo giuramento sorvolò sul terrore d’esser rifiutato per ciò che in realtà era: un mostro. In quello stato odiava addirittura se stesso ma spalle al muro non aveva altre possibilità…
   « Siete uno di loro, è questo il motivo per cui ci danno battaglia… Avete mentito al vostro maestro, a mia nipote! Io vi ho dato tutto! ».
   Gli occhi blu di Philip non trasparirono emozioni mentre la bava, copiosa, scendeva dalle fauci, sembrava un essere indemoniato. « Se vi ho omesso questo particolare è perché volevo proteggere voi e lei… Sono nato così, ma non sono malvagio ».
   Ora tutto tornava. Philip aveva abbandonato le dominazioni quando ancora era giovane; era scappato girovagando per la Francia e cercando di non esser trovato, in quel suo viaggio purificatore era incappato in Angeline e Alexandre: l’amore sensuale e paterno lo avevano cambiato, non era un mostro, non più almeno…
   Ma quanti anni aveva allora? Era un immortale?
   Alexandre crebbe all’istante alle parole del biondo: lo amava troppo per ucciderlo. Peccato che non fosse a conoscenza del fatto che il neonato Philip fu lasciato sulle scale di Notre-Dame da qualcuno…
   Quindi, perché gli davano la caccia se era stato abbandonato? Il ragazzo raccontava la verità come più gli faceva comodo…
   Staccandosi improvvisamente, Leroy allontanò velocemente la lama dalla carotide dell’allievo mentre la taverna, divenuta un cimitero, li accolse nella sua silenziosità.
   Erano fuggiti tutti.
   Sbolliti gli spiriti e ritrovata la fiducia, anche se con non poca fatica, i due raggiunsero il loro tavolo, alzarono le sedie da terra e si accomodarono nuovamente.
   Gli artigli, incrociati sul tavolo, così come i lunghi canini di Philip si ritirarono velocemente, mentre il maestro rinfoderò il pugnale.
   « Ora… ditemi cosa avete scoperto nel castello… Ho comunque bisogno di voi per proteggere mia nipote…».
   “L’erede al trono”.
 
 
 
 
   Più passava il tempo e più sembrava che l’energia del ragazzo esplodesse… Era come un fuoco che una volta accesa la piccola fiammella alla base diveniva in pochi secondi un incendio purificatore… e c’era tanta gente da purificare…
   Ice si era rinchiuso oltre la cancellata che portava ai sotterranei del castello, dove aveva già stroncato cinque o sei vite, a dire la verità non se lo ricordava più; erano molte le cose che aveva dimenticato ad esser sinceri…
   Sul marmo bianco, lì dove pochi giorni prima primeggiava il rosso del sangue versato, decine di candele sistemate in tondo lo accolsero già accese.
   Si era reso conto che, oltre a cambiare la temperatura, riusciva persino ad accendere fuochi, candele, lanterne; qualsiasi cosa avesse a che fare con le fiamme dell’inferno, ed era una bella sensazione. Ognuno aveva un proprio dono. Quello era il suo.
   Sorvolò con un salto la circonferenza infuocata e vi raggiunse il centro. Chiuse gli occhi cercando di raggiungere la concentrazione sufficiente e diede vita al suo allenamento.
   Sfoderò la lama.
   Una danza degna di un’impeccabile istruzione iniziò a manovrarlo come fosse un burattino.
   L’eco prodotto dal fruscio dell’acciaio nell’aria risuonava nei sotterranei finché non divenne un frastuono incontrollabile.
   Le fiammelle in terra si muovevano vorticosamente mentre l’ombra spaventosa del giovane sembrava indemoniata, eppure a vederlo aveva l’aria di un angelo nel bel mezzo del suo balletto divino, quello che si vociferava rendesse omaggio a Dio…
   Quello facevano i cherubini. O almeno così narravano i preti.
   Comunque non aveva idea di come gli fosse venuta in mente una cosa del genere; sapeva solo che durante il sonno aveva avuto modo di sognare quel rituale e al suo risveglio era stato bello scoprire di saperlo fare alla perfezione.
   Il sudore copioso lambiva la fronte gettandosi in terra; le braccia snelle ma muscolose riflettevano il fuoco tutt’intorno, la lama specchiava il suo lucente viso e gli occhi rossi carminio. Era fenomenale.
   Lo sguardo, gettato nel vuoto, dava l’impressione che pensasse a qualcosa… Era serio... preoccupato… forse manovrato.
   Da chi?
   Improvvisamente la cancellata di ferro al piano superiore fu scardinata da una forza imponente e decine di passi iniziarono a risuonare tra i tunnel freddi e bui dei sotterranei.
   Giunsero una ventina di guardie al seguito d’un uomo bello come la luna e splendente come un diamante: la carnagione chiara non aveva nulla da invidiare a quella delle donzelle del bordello. Sembrava una bambola di porcellana, il pizzetto scuro, così come i capelli e gli occhi incutevano terrore solo a sentirli addosso ma Ice, coinvolto com’era, non vi badò.
   Continuò quindi il suo ballo.
   Il gruppo si bloccò dietro al re d’Inghilterra.
   Era Ry, lucente come il sole, la bella copia di Edouard, usata per mascherarsi e mimetizzarsi tra gli avversari, accorso immediatamente dopo esser stato informato del caos avvenuto nella sua legione, un problema nato apparentemente dall’entrata di quel ragazzo, così promettente ma così incontrollabile…
   Rimase per diversi minuti lì fuori il cerchio di fuoco a fissarlo, sperando in un suo omaggio, ma Ice non lo liquidò nemmeno, era in un’altra dimensione… a tutti gli effetti.
   Con un colpo di vento il re spense improvvisamente tutte le fiammelle tranne quella che aveva davanti: Ice fu costretto a bloccare la danza e data l’unica luce presente, si volse proprio in direzione di quello che doveva essere il suo sovrano. O almeno, quello che doveva servire.
   Mosse due passi avvicinandosi al bagliore e cercando d’individuare la figura d’innanzi a sé.
   Una morsa letale lo perforò su una spalla obbligandolo ad inginocchiarsi ma alzando il capo non notò nessuno di loro muoversi. Era come se una forza invisibile lo comandasse a bacchetta.
   « Mi sembra di specchiarmi in voi quando ancora non avevo abbracciato il mio destino; se è così posso dire con fermezza che avrete un futuro roseo. Inchinatevi al vostro sovrano ».
   Allungando il braccio destro, come da tradizione, il nuovo membro doveva manifestare la propria obbedienza al re baciandogli la mano e giurando fedeltà secondo l’antico idioma.  
   Peccato che Ice non fosse stato istruito riguardo quell’usanza… Wsath non ci aveva minimamente pensato…
   Allora perché l’aveva preso sotto la sua ala? Cosa escogitava l’incappucciato per lui?
   D’istinto il giovane accolse il palmo e lo baciò ma quando toccò alla promessa non proferì parola. Inaccettabile.
   Uno schiaffo potentissimo lo sfregiò perché il re, uno stolto ricco e imbecille, si crogiolava con anelli grossi come pietre. In quel caso era stato un rubino a rompergli lo zigomo.
   Beh almeno ora la gemma brillava del suo sangue.
   Ice fu accecato dalla rabbia e dal fuoco cui prendeva nutrimento e quando fu sul punto di alzarsi e colpirlo a morte una voce lo interruppe: era Alain.
   « Non merita il vostro castigo! È Wsath causa della sua maleducazione. Non è stato istruito mio signore ».
   « E voi sareste? », disse l’inglese voltandosi sorpreso.
   « Alain, vostro suddito e discepolo di costui ».
   Scoppiando in una sonora risata il re si voltò verso il suo esercito che fu sopraffatto dalla comicità di quella risposta.
   « Se voi siete il suo discepolo non c’è dubbio… sono sicuro che presto supererete questo stolto! Inginocchiatevi figliuolo! ».
   Intento a manifestare la propria obbedienza, il giovane Alain fece un paio di passi fermandosi proprio ove il braccio del sovrano lo avrebbe accarezzato ma quando fu all’altezza del marmo… la mano non lo toccò.
   Con un balzo fulmineo Ice si era alzato e con una presa letale al collo lo teneva stretto.
   Le guardie non erano riuscite a fare un passo quanto era stato veloce.
   Dallo zigomo il moro fece cadere un po’ di sangue sulla pelle candida del re prima di sussurrargli qualcosa.
   « Credete che qualcuno possa superare il sottoscritto? Vi consiglio di smaterializzarvi prima che vi stacchi il collo.  Abbiamo in comune il nemico, nient’altro. Abbandonate la convinzione di comandare su Alain, né tantomeno su di me. IO NON SONO COME VOI ».

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Capitolo 33
*** Capitolo 3.1 ***


CAPITOLO      3.1
 
 
 
 
 
 “Cazzo!”, continuava a ripetersi Mike. Quel messaggio arrivatogli qualche settimana prima in discoteca era stato un fulmine a ciel sereno, finalmente aveva iniziato a sperare, ma ora…
   Era quasi riuscito nell’impresa di liberare il suo amico da quel laboratorio maledetto ma la HC aveva mosso la regina bloccandolo proprio sullo scacco matto. L’elicottero mandato in soccorso non aveva fatto ritorno e il segnale gps era svanito; lo sconosciuto, quello con il numero privato, si era volatilizzato nel nulla e se pur in grado di rintracciare quel cellulare, era riuscito solamente a dedurre che quell’apparecchio era di un’anziana vecchietta; chiunque l’avesse usato se ne era liberato.
   Cazzo!
   La sopravvivenza del casato, inoltre, era diventata difficile senza il sovrano o almeno era così che era qualificato, anche se Ice si era sempre opposto a quella decisione.
   Mike avrebbe fatto di tutto per riaverlo lì con lui, almeno per poterlo vedere un’ultima volta. Prima della sua morte.
   Era malato, il cancro al fegato si era sviluppato troppo in fretta e presto non ce l’avrebbe più fatta…
   Il dottore gli aveva diagnosticato massimo un anno di vita, troppo poco per attendere il miracolo di rivedere il suo amico.  
   Doveva prendere una decisione drastica il prima possibile.
   Nonostante fosse qualificato come “immortale”, era molto più fragile di quanto ci si aspettasse; ed era così per tutta la sua razza.
   Comunemente chiamata Vampires.
   I vampiri dei film.
   Erano passati secoli da quando l’estinzione aveva raggiunto l’apice a causa di una guerra impari contro i livamps, mostri tanto spietati che a confronto lui e suoi fratelli sembravano esser delle formiche, così piccole e così fragili…
   Nonostante agissero spesso in gruppo, nessuno, nemmeno i combattenti più bravi tra le file dei vampires si vociferava fossero riusciti a sopravvivere anche ad uno di quegli esseri, ciò impediva quindi una qualsiasi loro descrizione, combattevano alla cieca, senza conoscere il nemico, anche se Ice a dirla tutta gli aveva confessato di conoscerli bene…
   Peccato però che per qualche assurdo motivo celasse la loro identità: il casato così si era inevitabilmente diviso da chi, diffidente, non si fidava e da chi lo ammirava a tal punto da venerarlo, come appunto Mike.
   Tutto era avvenuto intorno al diciassettesimo o diciottesimo secolo, quando il giovanissimo moro aveva intrapreso una battaglia personale contro i mostri, portandoli all’estinzione o almeno così pareva fino a quel momento…
   In ogni caso le gesta di Devil, così lo chiamavano, lo qualificavano come protettore della razza e quindi degno sovrano del casato.
   Ice comunque continuava a opporsi e la sua unica via di fuga da quell’opprimente compito erano i brevi periodi di relax lontano dall’Europa, sottoscritti e concessi dai membri più anziani. Purtroppo però, più di cinque anni lontano dal trono iniziavano a essere troppi…
   I fratelli iniziavano a porsi domande, si vociferava che se ne fosse andato o addirittura che fosse morto ma Mike aveva sempre smentito quelle voci, dichiarando più e più volte che il loro re continuava a riposare senza sosta a Shangai.
   Sì perché così come respiravano, i vampires avevano dei lunghi periodi di sonno. Al pari degli animali anche loro cadevano in “letargo”, in diversi individui poteva durare mesi, alcuni se la cavavano con un paio di settimane, ad altri toccavano interi anni da passare in compagnia di Morfeo ma non erano veri e propri sonni, era per lo più un sistema di difesa naturale: quando infatti un Vampires raggiungeva il giusto periodo di sviluppo il corpo diveniva così fragile che apparentemente “l’unbroken sleep” – letteralmente sonno ininterrotto – era l’unica soluzione in grado di alleviare il dolore di quella mutazione, al loro risveglio, erano tali e quali a prima solo con la vista molto più acuta, l’udito più fine e i sensi sviluppati al massimo; capitava persino che qualcuno si trovasse con il colore degli occhi, come quello dei capelli, cambiato.
   Era una razza unica.
   Come avviene per gli umani che la mattina dopo una notte di egregio riposo si sentano pieni di energie, loro al termine del letargo rinascevano completamente.
   Ora, tutto quello che stava accadendo era assai strano, Ice infatti era tra quelli, se non l’unico, che manteneva inalterate le sue caratteristiche, occhi azzurri, capelli mori, forse i muscoli gli si gonfiavano un pochino ma restava sempre lo stesso… quindi, che motivo c’era di questo insistente “sonno”? 
    Poi in realtà erano trascorsi all’incirca quindici anni da quando aveva abbandonato il casato con la scusa della metamorfosi, ma non durava mai così tanto…
   Cosa gli stava succedendo? Chi era in realtà il suo migliore amico?
   Fu dopo qualche anno che Mike decise quindi di attuare numerosissime ricerche incrociate con l’intento di localizzarlo e grazie alla sua simbiosi con i PC era riuscito a scovarlo proprio nel sol levante.
   Purtroppo però, una volta contattatolo, gli era stato ordinato e fatto giurare che avrebbe mantenuto il segreto anche a costo della vita ma ora che il cancro lo stava divorando velocemente e la continua sparizione dei fratelli era divenuta un serio problema, doveva rivelare per forza di cose la verità.
   Ice aveva passato dieci anni in Cina, tre dei quali nel cosiddetto letargo, quindi con molta probabilità era stato proprio il re a farsi trovare.
   Altrimenti ci sarebbe riuscito prima no?
   Fortunatamente, al contrario del sovrano aggrappato ancora all’antichità, si era destreggiato nel web come un vero hacker ed era riuscito, oltre ad eludere le accortezze del suo amico, persino a localizzare l’hotel in cui alloggiava al centro di Shangai. Si era infiltrato nelle prenotazioni ed era riuscito a tenere sott’occhio cosa richiedesse a colazione, a pranzo e a cena, chi frequentasse; tutto grazie ad internet.
   Ice gli aveva dato una mano e lui si era preso l’intero braccio!
   Era un mostro con i computer, né più né meno.
   Non era stato difficile nemmeno seguire i movimenti della corporazione, solamente… cosa mai avrebbe potuto fare da solo, contro un’intera società multimilionaria?
   Era bravo… ma solo con i PC!
   E per non parlare poi dei suoi problemi! La notte non dormiva, non mangiava, non beveva… da amico avrebbe dovuto mantenere il segreto senza se e senza ma, eppure salvare il sovrano significava anche perdere la sua fiducia; in ogni caso voleva infischiarsene beatamente, quella volta avrebbe seguito il credo e come councillor, membro del consiglio dei saggi, aveva tutto il diritto di informare gli anziani e la razza. Mandare al diavolo la sua amicizia con Ice per permettere di salvarlo?
   Non c’era nemmeno da domandarselo.
   Squillò il telefono, era tardi, anzi in realtà era presto: la sveglia aveva iniziato a suonare l’alba, ma lui era già rincasato dalla solita discoteca, quella sera non era il caso di intrattenersi troppo con le cubiste umane. E poi, era troppo pericoloso. Aveva trasgredito già troppe volte ai suoi stessi ordini.
   La continua sparizione dei suoi compagni aveva spinto il casato a dividersi; le riunioni avvenivano tramite video-chat, così come le squadre dei guerrieri che si organizzavano via e-mail per cercare di arginare l’ignota minaccia.
   Mike andò alle finestra dell’appartamento abbassando le tapparelle una per una: il sole stava sorgendo.
   Piombata l’oscurità si avvicinò al gigantesco acquario nel salone, accese la luce e sedutosi alla scrivania iniziò ad ammirare i bellissimi pesci tropicali che si era fatto importare dall’Oceania.
   Accese il computer e non appena il caricamento fu terminato iniziò ad aggiungere nella lista dei “TO” tutti i contatti cui intendeva spedire la mail; poi, iniziò:
   Fratelli, sono Mike Blank, uno dei pochi councillor rimasti nonché consigliere del re. Non ho la minima idea di quanti di voi siano in vita, né quanti possano leggere il mio messaggio, oramai sono più di due settimane che non abbiamo la possibilità di incontrarci perché come potete constatare da soli, il casato è allo sbando. Inizio chiedendovi scusa perché con molta probabilità, tutto quello che sta accadendo è a causa mia.
Dieci anni fa il re, sotto mio suggerimento e appoggio, riuscì ad ottenere dal consiglio un unbroken sleep forzato, perché come sapete, il nostro sovrano è… diciamo che ha dei problemi personali; all’epoca la ritenemmo una valida soluzione per tentare di arginare il male che lo affliggeva, tanto che lo spedimmo a Shangai con la speranza che il casato callaway riuscisse nel miracolo di distoglierlo dal suo pallino, esorcizzarlo se così vogliamo dire. Da quel dì, perdemmo le sue tracce. Io ho perso le sue tracce.
Dopo fittissime ricerche incrociate otto anni fa incappai nel suo codice bancario “speciale” venendo a scoprire dove trovasse alloggio; ovviamente non avevo la certezza matematica che fosse lui, così lo raggiunsi telefonicamente con la nostra linea privata: mi fu fatto giurare di mantenere il segreto, che avrebbe trascorso altri due anni a Shangai e poi sarebbe tornato ma finita quella chiamata non fui mai più contattato. Ora l’Hide Corporation, come sapete, ci dà la caccia dal quattordicesimo secolo e in qualche modo è venuta a conoscenza del nostro re e non chiedetemi come, lo hanno preso.
Ho seguito per cinque lunghi anni gli spostamenti che avvenivano per l’intero globo dei suoi dati, valicando più di una volta i codici di sicurezza della corporazione, arrivando a conoscere la sua ubicazione. Alcune settimane fa ho inviato un elicottero nel Sahara dopo esser stato avvicinato da un uomo che senza scendere a compromessi mi ha giurato che avrebbe tirato fuori Devil. Ripensandoci bene ho fatto una sciocchezza a fidarmi di uno sconosciuto ma dato le non poche difficoltà del casato, alle parole più che convincenti di quell’uomo mi sono lasciato persuadere. Non ci sono scuse. Ho sbagliato.
Vi chiederete che fine abbia fatto.
Bè, l’elicottero è precipitato e lo sconosciuto non è rintracciabile. Siamo all’incirca cinquantamila in tutta Europa, pochi, lo so, e so che molti di voi detestano il nostro re ma per chiunque volesse estendo questo invito a partecipare al recupero di Ice al Cairo. Per chi crede nella missione basterà cliccare il link a seguito del messaggio e comparirà la latitudine e la longitudine che dovrete raggiungere a due settimane da ora, io sarò presente, spero anche voi.
Cordiali saluti,
Mike.
 
    Send? Inviare quel messaggio avrebbe rappresentato non pochi rischi poiché moltissimi computer, soprattutto quelli civili, erano sorvegliati continuamente; dai governi, dagli hacker e forse anche dalla corporazione. Per questo Mike inserì una stringa contenente una password e dato che ogni vampires era “numerato”, non vi sarebbero stati problemi su chi avrebbe letto la mail. Il giochino imparato al master d’informatica era utilissimo in quei casi.
   « Invio ».
   Le mail furono inoltrate in poco meno di cinque secondi in tutta Europa.
   Mike si accasciò di peso sullo schienale pieghevole della sedia da ufficio facendolo scricchiolare; le rotelle furono spinte dalle possenti gambe finché non si fermarono poco distanti dalla scrivania: si voltò e si sorprese nuovamente di quanto fossero belli quei pesci. Sperava con tutto il cuore che durante la permanenza all’estero l’alimentatore automatizzato non s’inceppasse e continuasse il suo lavoro perché al suo ritorno, se quelle magnifiche creature fossero morte, le avrebbe fatte ricomprare ad Ice.
   Se tutto fosse andato per il verso giusto ovviamente…
 
 
 
 
   Il laboratorio chimico, quello nucleare e biologico, erano stupefacenti, sembrava un tour ambientato nell’anno 3000, con apparecchiature così tecnologiche che a confronto i cellulari touchscreen e le tv 3d erano da collocarsi nell’età della pietra.  
   Michael era entusiasta nel mostrare al nuovo arrivato tanta magnificenza e glielo si leggeva in faccia. Poi, giunti alla fine di un corridoio simile a una discoteca, pieno di luci al neon e specchi, furono bloccati dall’improvvisa figura del generale Mattew, sbucata più giù.
   La visita stava per finire? Non proprio…
   « Da questa parte ».
   I due si avviarono con passo spedito verso il loro superiore finché in una manciata di secondi non lo raggiunsero nel bel mezzo d’un incrocio. Davanti c’era una porta blindata alta circa due metri e mezzo.
   Il dispositivo di rilevamento passò ai raggi i tre uomini e fece scattare le imponenti ruote metalliche: con un suono melodioso l’acciaio sembrò cantare mentre si spostava; Mattew entrò ancor prima che il processo di apertura fu completato.
   Michelle lo seguì, così come Michael.
   Dove siamo?
   I tre sbucarono dietro una decina di uomini e monitor. Al piano superiore di un laboratorio silenzioso e attento a catalogare le attività di un pazienze poco più giù…
   Mattew fu subito accolto con il saluto militare, debitamente interrotto con un cenno del capo che fece riaccomodare gli scienziati.
   Li ammirava per l’egregio lavoro che continuavano a svolgere giorno e notte; erano fenomenali.
   Michelle invece si fiondò contro il gigantesco vetro e guardò: al centro della sala vi era una capsula di vetro collegata a cinque o sei tubi d’acciaio. Tutt’intorno delle spessissime lastre di metallo riflettevano in maniera assai distorta il riflesso di…
   « Ehi ma c’è qualcuno là dentro! ».
   Con passo silenzioso Crow avvicinò la matricola e rispose facendo voltare tutti i presenti, compreso il giovane, « Sì ».
   « Ma, ma… non è illegale tutto questo?!?!? Che diavolo combinate qua sotto! ».
   Michelle sapeva bene che la domanda posta al generale era retorica, molto retorica, perché con molta probabilità ogni cosa presente ad Auschwitz, sia esterna che interna, sia sotterranea che sopraelevata, era stata o era illegale.
   E pensare che tutto quell’edificio era nato grazie al sudore e alla morte di tutti quegli ebrei…
   « Il suo nome è Axel e non è come pensa lei, si è offerto volontario ».
   Sì, era proprio così, quel ragazzo, per quanto improbabile, era entrato nell’operazione GROWTH, incremento, di sua spontanea volontà circa cinquanta anni prima, quando il generale era ancora una matricola. Fu in quel preciso istante che dei vecchi ricordi tornarono alla sua mente:
 
   Era appena entrato a far parte della corporazione, così come suo fratello o meglio, il suo fratellastro Smith, quando conobbe Axel.
   Le regole dell’Hide erano ben rigide e malgrado il padre, Jonathan Crow, fosse uno dei maggiori leader della compagnia, i due fratelli non avrebbero mai potuto lavorare assieme; non erano minimamente permessi sentimentalismi, figurarsi legami di parentela.
A uno toccò il Sahara, all’altro la Polonia. Le due giovani promesse erano unite, unite da un destino tanto comune quanto crudele che inevitabilmente li aveva legati per sempre: entrambi avevano perso le madri, una deceduta di leucemia e l’altra di cancro ai polmoni, entrambi si consideravano fratelli, tanto bastava per allontanarli.
Il padre non diede mai a vedere il dolore per quella scelta ma era addolorato e distrutto per aver perso gli unici amori della sua vita e ancor di più per esser stato incapace di riuscir a tener unita la famiglia.
Fortunatamente sia Smith che Mattew avevano ormai una ventina d’anni e non avrebbero creato problemi in sede al consiglio, rispettando quella decisione, ma ambedue erano delusi, odiavano il padre e senz’altro avrebbero voluto un’esistenza diversa.
Fu proprio allora che Mattew conobbe Axel Helsing, un giovane ragazzo di origini inglesi entrato come lui nella corporazione poco prima; era stato il suo primo collega ed anche il primo amico non condiviso con l’adorato fratello.
Quell’amicizia si era rivelata importantissima per il giovane Crow che ormai non aveva più niente se non l’affetto dell’inglese.
Seguivano insieme i corsi di formazione all’accademia privata, condividevano la stanza d’albergo, uscivano assieme, andavano a donne insieme.
Senza rendersene conto tra loro nacque un’amicizia talmente forte da rischiare il licenziamento: non potevano esserci rapporti umani nella corporazione, solo il lavoro aveva la massima priorità.
Mattew comunque non si diede per vinto perché con molta probabilità chi riceveva la liquidazione sarebbe stato anche sepolto; nessuno lasciava incolume l’Hide. Più una setta che una vera e proprio corporazione.
Comunque… durante una ricerca era incappato nell’origine di quel cognome tanto ambiguo quanto misterioso del suo amico: Helsing.
A quel tempo i due ragazzi erano entrati a tutti gli effetti nella società e sia l’uno che l’altro si prefiggevano scopi ben differenti.
Una notte, infatti, nella hall dell’albergo, i due si erano riuniti per un colloquio segreto: dovevano fronteggiare e venir a capo al difficile rapporto con la corporazione; nessuno voleva esser licenziato, né tantomeno ucciso, avrebbero stroncato la loro preziosa amicizia?
O sarebbero scappati?
Mattew però voleva conoscere la verità e ciò che aveva scoperto sul passato del suo compagno non lo avrebbe di certo nascosto: durante il colloquio avrebbe sputato il rospo.
Non era capace a mantenere i segreti.
« Il mio vero nome è Axel Schmied Van Helsing », così aveva esordito l’amico prendendolo alla sprovvista.
Proiettando il discorso in un argomento che di certo non c’entrava nulla con quello che si erano prefissati.
Figlio nientedimeno che del famigerato cacciatore di vampiri del diciannovesimo secolo, progenie di un uomo logorato dal male a tal punto da compiere esperimenti sul proprio corpo cercando di ingannare la morte…
Una credenza popolare parlava del conte Helsing come un semi-immortale, uno scienziato tanto geniale da esser riuscito a sintetizzare parte del sangue vampiro cosi da iniettarselo e competere in una battaglia fin quel momento impari contro i demoni della terra; ma cosa c’entrava un uomo del 1800 con Axel?
Perché aveva lo stesso cognome?
Il conte, nonostante i numerosissimi sforzi e una vita intera buttata alla ricerca di Vlad III non riuscì comunque a debellare il male dei vampiri e l’abuso del sangue, con il tempo, lo rese più debole, tanto da spingerlo al suicidio, cosa che si vociferava avvenne quando ebbe un figlio che alla nascita diede un morso alla stessa madre, uccidendola.
Quel bambino era Axel.
Il frutto di un incrocio tra immortale e mortale.
Quando Smith seppe del segreto, tenuto abilmente nascosto, fu sorpreso di scoprirsi spaventato; lui che aveva sempre avuto un debole per le creature mitologiche, di fantasia e leggenda… non avrebbe mai immaginato che il suo migliore amico fosse un… un semi-immortale.
Un semivampiro.
 
Mattew rabbrividì al ricordo di quella scoperta.
 
Comunque quella scoperta gli diede più fiducia: Axel era un immortale con dei poteri, avrebbe dovuto temere la corporazione? Certo che no! Dato che aveva come minimo duecento anni non gli sarebbe accaduto nulla.
Almeno a lui.
In ogni caso non capitava tutti i giorni di incontrare un vampiro, tantomeno uno buono.
Ma era un vampiro?
I miti dei demoni lo affascinavano da sempre e scoprire le loro sembianze, molto più che fantasiose e demoniache, lo proiettarono in un mondo parallelo, dove gli esseri immortali, all’insaputa di tutti, vivevano tra le persone comuni.
Proprio come Axel.
Dal canto suo, invece, il vampiro non aveva la minima intenzione di seguire le orme del padre e lo scopo cui ambiva non era quello di vendicarlo o uccidere i succhiasangue; era quello di sfruttare la modernissima tecnologia dell’epoca posseduta dalla società per trasformarsi definitivamente in umano.
Ora si spiegava la sua riluttanza nel dove uscire in pieno giorno…
A detta sua poi il peso dell’eternità era troppo da sopportare e il solo pensiero che vivesse infinitamente, accompagnato dai suoi “consanguinei” immortali, lo disgustava; iniziò quindi a detestarli.
Smith e Axel, dopo un anno senza rivolgersi neppure uno sguardo, né in accademia né al dormitorio, si riappacificarono venendo a un compromesso: l’odio che Helsing provava per la sua razza lo avrebbe spinto ad annientare tutti i vampiri della terra; in cambio la società avrebbe trovato la cura per renderlo umano…
Questo avvenne cinquanta anni prima ma ora, ora tutto era cambiato…
   « Lasciateci soli per favore », si rivolse Mattew ai presenti che all’unisono abbandonarono le comodissime sedie per uscire dall’imponente porta metallica.
   « Anche voi Michael », preso alla sprovvista, mogio mogio, il braccio destro del generale lasciò tristemente la sala chiudendo per ultimo l’acciaio.
   Crow posò una mano sulla spalla del ragazzo che silenzioso continuò a scrutare attraverso il vetro la figura indistinta nella capsula; poi tornò indietro, si sedette alla scrivania principale e incrociò le braccia.
   Infine sospirò.
   Fu allora che Michelle si unì a lui.
   « Il ragazzo lì in fondo si chiama Axel… ed è malato…».
   « Cos’ha per trovarsi qui generale? », domandò visibilmente confuso il giovane.
   Malato?
   Pfui, non avrebbe mai creduto a quella sciocchezza.
   « È… è difficile. E complicato. Particolari studi scientifici mondiali, oltre che ai nostri, hanno portato come riscontro una particolare forma di malattia, frutto di un incrocio tra un virus e un difetto genetico. Vi spiego in modo chiaro e semplice…». Il generale era assai nervoso, glielo si leggeva in faccia, Michelle si accorse persino che stava tremando ma nonostante ciò Crow continuò tutto d’un fiato: « Partiamo dall’Eme; questa molecola ha la capacità di legare in modo irreversibile l’ossigeno o più semplicemente trasportarlo nel sangue e nei muscoli, quando nel corpo umano uno degli enzimi che è adibito a sintetizzare il gruppo Eme viene alterato, si ha la nascita di alcune malattie genetiche chiamate porfirie. Queste malattie rarissime si dividono principalmente in due gruppi, Axel nello specifico, è affetto dal Morbo di Gunther, che causa la distruzione dei globuli rossi e da fotosensibilità ».
   A quelle parole Michelle si voltò di scatto affacciandosi nuovamente alle grandi vetrate.
   Aveva sentito parlare del Morbo ma non era mai stato in grado di vederne qualcuno affetto: si diceva che i sintomi erano chiaramente visibili dalle urine rosse e dall’eritrodonzia: infatti, illuminando i denti del malato con luce ultravioletta questi diventavano rosso fluorescente.
   Spaventoso.
   Sapeva inoltre che recentemente – si parlava di qualche anno prima – era stata scoperta una simbiosi con il virus della rabbia, ma non ne aveva mai capito il nesso, forse l’Hide Corporation ci era arrivata?
   « Numerose ricerche condotte dal nostro settore sugli sviluppi dell’evoluzione hanno riscontrato un’esplosione di questi difetti genetici intorno al diciottesimo secolo. Lei sa cosa avvenne in quegli anni in Europa Michelle? ».
   Bè, come faceva a non saperlo, il 1700 era l’epoca dell’illuminismo! Eppure… no. Era troppo banale la risposta pensandoci bene… poi fece mente locale, perché quello su cui voleva andare a parare il generale non c’entrava quasi sicuramente nulla con il secolo dei lumi.
   Intorno quegli anni in conformità a tantissime testimonianze e superstizioni dell’Europa dell’est e dei Balcani, nacque nel folklore europeo la figura dei revenant; i cosiddetti morti viventi.    
   Con il passare del tempo la credenza in tale leggenda divenne così forte e persuasiva da creare un’isteria di massa in tutto il vecchio continente.
   Avvennero addirittura delle pubbliche esecuzioni a persone che all’epoca furono ritenute vampiri.
   « Nacque il mito dei Vampires, dico bene generale? ».
   « Esattamente ».
   All’epoca però la popolazione mondiale non poteva minimamente conoscere il gruppo Eme, il Morbo di Gunther e la genetica, tanto che chiunque mostrasse tratti ritenuti “essenziali” del vampiro, era giustiziato, decapitato, impalato e sepolto.
   « Conosce l’omofobia? Mi dica il significato », Crow era più serio di sempre.
   « In tre parole. Paura del diverso ».
   « È così; quello che avvenne nel 1700 non si discosta molto dal piano purificatore del Furher e del razzismo. Perché sterminò sei milioni di ebrei? ».
   « Per paura? », esordì Michelle.
   « Fondamentalmente. Nel secolo dei lumi successe la stessa identica cosa. Furono sterminate milioni di persone perché ritenute demoniache per terrore; in realtà erano solamente affette dal morbo. La continua e perenne distruzione dei globuli rossi costrinse i malati ad “attaccare” gli uomini esenti dal virus. I corpi trovati nelle tombe, descritti come gonfi, in carne e rosei, erano caratteri dalla particolare decomposizione di quei soggetti, erano belli e colorati – di sangue s’intende – non certo perché la notte si alzassero dalla tomba e girassero per la terra uccidendo la popolazione! ».
   « L’isteria fa questo effetto generale », lo bloccò la matricola per fargli prendere fiato; Mattew era partito per la tangente.
   « C’è da aggiungere però che con molta probabilità l’atto del morso nei vivi ha portato all’evoluzione della specie: ecco spiegata la presenza dei canini lunghi e affilati nei vampiri; che altro non furono, che dei malati cronici. 
   E così i canini non sono che delle semplici evoluzioni? Si domandò Mounrat.
   « Ora vi stareste chiedendo cosa c’entri tutto questo con Axel?
   « In realtà si generale ».
   « Allora vi suggerisco di fare come quando studiaste Einstein, scartando tutte le basi della fisica e dell’immobilità dello spazio e del tempo.  Fate lo stesso perché quel che vi ho detto è scienza ma quel ragazzo laggiù è un vampiro con più di duecento anni. E apparentemente, è un immortale ».
   « Cosa? ».
   « Gli immortali esistono ».

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Capitolo 34
*** Capitolo 3.2 ***


CAPITOLO  3.2
 
 
 
 
 
   Le dominazioni erano un ramo del potente esercito inglese ma queste, per quanto ben organizzate, erano suddivise persino al loro interno in vari gruppi e sezioni: le truppe private di Ry ne erano una prova.
   Si vociferava fossero le più forti, le più spietate…
   Ice non riuscì a tenere a bada il sovrano che queste lo accerchiarono immediatamente sfoderando le spade e indirizzandole alla sua gola. Erano nascoste nell’ombra, come sempre.
   Alain invece era solo un giovane nato in quel mondo ultraterreno; non aveva più di diciassette anni ma conosceva bene le storie che si raccontavano delle dieci morti. Così erano soprannominate.
   Si vociferava avessero appreso le arti magiche in oriente, dove era addirittura possibile imparare a levitare da qualche monaco con la testa rasata; si raggiungeva lo stato di pace con il mondo circostante amplificando il potere distruttivo del proprio corpo, per poi riuscire a trasformarsi in veri e propri dèi terreni.
   Anche il re forse aveva appreso quelle arti mistiche ma nessuno ne aveva mai avuta una dimostrazione. Fino a quella notte.
   Ice teneva saldo per il collo il sovrano ignorando i dieci uomini che freddi e immobili lo minacciavano: aveva mille lame dirette alla giugulare come fossero i raggi di una ruota ma impavido se ne fregò; finché Ry sarebbe stato sotto il suo controllo nessuno lo avrebbe toccato o almeno, così credeva.
   Quasi avesse richiesto più spazio, le dieci morti lasciarono la scena al sovrano che subito, cosa impossibile per chiunque – a detta di Alain – si smaterializzò pur essendo bloccato fisicamente.
   Liberare lo spirito, la propria essenza, era un gioco da ragazzi, persino il giovane discepolo ci riusciva di tanto in tanto ma serviva una concentrazione mostruosa e una forza mentale senza pari.
   La mente doveva scindersi dal corpo terreno, bisognava restare soli con se stessi e allontanarsi alla velocità del vento, così avveniva quella magia ma farlo con qualcosa che non fosse un qualsiasi indumento era a dir poco impossibile.
   Anche un calice o un candelabro erano pesantissimi da spostare! Figurarsi riuscirci con la morsa di Ice sul collo!
   Invece, senza alcun problema, Ry mostrò per la prima volta le sue arti, la sua magia, il vero potere; quello tanto ambito dal moro.
   Si smaterializzò per poi apparire alle sue spalle ma, cosa impossibile, si portò dietro il braccio del malcapitato, lo stesso che poco prima lo stava bloccando.
   Glielo strattonò e il risultato fu semplice: Ice iniziò a soffocare sotto il suo stesso arto.
   Con qualche difficoltà riuscì a divincolarsi e voltatosi per un faccia a faccia rimase sorpreso d’innanzi la nube di polvere che improvvisamente si era levata.
   Dov’era finito il re?
   Si era smaterializzato come uno spirito. Ecco che fine aveva fatto.
   Le risa di Ry rimbombarono nella sua testa e nei sotterranei: Ice aveva la mente in balia del sovrano.
   Oltre a smaterializzarsi, infatti, per le dominazioni era un gioco da ragazzi persino insinuarsi nelle menti e alterare percezioni e umori.
   Potevano anche comandare a bacchetta un uomo: quello che stava accadendo al povero Ice.
   Alain si era accorto inoltre che da quando il maestro aveva iniziato a perdere la memoria e a mostrare parecchi sintomi della cecità la sua psiche si era indebolita particolarmente. Non era più il giovane spavaldo e impavido di una volta; ora temeva qualcosa; l’ignoto.
   Ma di cosa aveva paura veramente?
   E perché nessuno lo aveva notato tranne lui?
  Ah già… Lui era diverso da tutti gli altri… era uno dei pochi nato con la facoltà di leggere facilmente il pensiero e ciò lo aveva proiettato nell’iperuranio caotico dei pensieri del moro: una volta pensava parecchio al vecchio amico Philip, ad Alexandre e a una donna, di cui forse ne era stato colpito, ma adesso non si curava di nulla, niente di niente, era vuoto come l’oscurità…
   Alain aveva avuto sempre un po’ paura di lui… soprattutto perché aveva ucciso il proprietario dell’ala nord senza problemi: suo padre.
   Nonostante ciò sembrò l’avversario ideale per mostrare a tutti il potere di sua maestà e nonostante avesse una mente letteralmente vuota, Ice era fragile, tanto che ben presto il re volle umiliarlo facendolo inginocchiare a forza contro la sua volontà, proprio sull’ultima candela accesa.
   Il viso grondante di sudore fu spinto verso la piccola fiammella, a pochissima distanza dal fuocherello bollente, così che qualche ciocca fu bruciacchiata.
   La luce si riflesse nei suoi occhi azzurri e nonostante soffrisse, soffrisse da morire, qualcosa gli diede il sostegno necessario…
   E non fu la presenza del suo discepolo o i suoi vecchi amici, perché oramai non aveva più ricordi…
   Forse era la potentissima persuasione del sovrano, eppure lì, inginocchiato e con la faccia attaccata alla fiamma, pronta per esser bruciata, aveva l’impressione che tra il giallo l’arancio e il rosso vi fosse qualcosa; una figura indistinguibile di una persona, affascinante, bella e addirittura profumata.
   Ice non oppose resistenza perché contro ogni logica traeva energia da quella candela, da quell’allucinazione.
   Dimenticandosi dei presenti fu come assalito da un ricordo lontanissimo, da un qualcosa che inspiegabilmente era stato costretto a ignorare e dimenticare; quella era una donna, colei che sin quel momento aveva incontrato nei sogni, nella realtà, nel pericolo.
   A dirla tutta la vera e propria presenza che sola lo aveva manovrato come una pedina.
   Nonostante le dieci morti, Alain e persino Ry non percepirono nulla, Ice fu come colto da un senso di trans.
   Lei era mora, la carnagione chiarissima brillava nell’oscurità mentre il suo sguardo, abbassato, non gli permetteva di assaporare quel che sarebbe stato con molta probabilità uno sguardo agghiacciante, sì perché se la stava mangiando viva.
   Da lei traeva energia.
   Cessata ogni minima resistenza da parte del moro, il sovrano lasciò andare la morsa invisibile permettendo a Ice di alzarsi lentamente: aveva gli occhi rosso fuoco e i bordi azzurrissimi.
   “Non è poi tanto diverso da me”, pensò il re.
   Ry non volle infierire, al contrario sembrò aiutarlo nel riprendere conoscenza e calma: il ragazzo era proiettato in un universo parallelo, sembrava non facesse parte di quel posto, la sua camminata il suo candore e lo spirito erano mutati, era come… era come assistere all’ascesa di un angelo, brillava, brillava come fosse il sole.
   Come d’incanto tutti, escluso Alain, svanirono nel nulla sotto richiesta del re, lasciando i sotterranei vuoti e silenziosi.
   Erano scappati?
   Anche il discepolo aveva tutta l’intenzione di darsela a gambe ma a cosa sarebbe servito?
   Era sempre Ice dopotutto; non un mostro.
   Anche se aveva paura. Ne aveva da morire.
   Immobile, con lo sguardo verso la fredda pietra ai suoi piedi, il moro non mosse più un passo, quasi disgustato da quel luogo così sudicio e puzzolente.
   Alain iniziò a tremare.
   Cosa gli stava succedendo? Si sentiva “strano”, aveva l’impressione di bruciare dall’interno, come se fosse stato contagiato da un virus o qualcosa di simile, più provava a raggiungere il maestro più era abbracciato dalla morsa del dolore, fintanto da strisciare in terra.
  Più provava a respirare, più l’aria nei polmoni sembrava abbandonarlo, era Ice che inconsciamente lo stava uccidendo.
   Ma come faceva? Era più forte delle dominazioni e del re…
   Chi era veramente?
   Improvvisamente rivisse la sua vita.
   Alain, nato in circostanze particolari, aveva perso la madre umana perché ritenuta inferiore, uccisa dal padre che odiava tanto, quello squartato da Ice nella partita a scacchi. Uccisa per colpa di uno stupido credo.
   Ora, quasi fosse destino, lo stesso maestro gli avrebbe tolto la vita. Quasi lo ringraziò perché finalmente l’avrebbe rivista.
   “Non ho paura di morire”, si disse.
  
  
 
 
   In pochi secondi Ry fu raggiunto dalle dieci morti nella sua biblioteca privata, quella nascosta nell’ala nord.
   Era freddo, lucido e cauto. Non sapeva bene cosa stesse accadendo al giovane Ice ma qualunque cosa fosse, l’avrebbe sfruttata a suo vantaggio.
   Con molta probabilità Alain sarebbe stato ucciso lentamente fino a soffocare, e il risultato?
   Ice sarebbe tornato alla realtà con l’intenzione di vendicarlo.
   Ottimo per combattere la resistenza no?
   Anche al re, che ricordasse, era capitata un’esperienza simile qualche anno prima: Wsath, alias l’incappucciato, soffriva di perdita di memoria e uccideva chi gli stava vicino senza rimpianto. Erano quasi identici quei due.
   Ma che nascondevano?
   « Francin ».
   Rivolgendosi a uno dei presenti, forse il più fidato, il re visibilmente confuso lasciò spazio al suo suddito che scelta accuratamente la sezione afferrò una scala di legno e si arrampicò per la biblioteca. Si soffermò dopo parecchi minuti in un punto esatto e scelse un libro, nascosto dietro ad almeno altre tre file di vecchi manoscritti.
   Era un diario antichissimo, coperto da uno strato di polvere così spesso che quando fu pulito la sua lucentezza tornò in un baleno allo scoperto: era alto, la copertina in pregiata pelle nera era chiusa con cura da un laccetto d’oro che si protraeva sui quattro spigoli e… non aveva titolo.
   « A lei, mio re ».
    Inginocchiato, Francin porse il lucente diario al re che subito lo aprì incominciando a leggere dalla primissima pagina, nonostante vi fosse un segnalibro a forma di croce molto più avanti.
   Fu a quel punto che si soffermò più volte su un particolare punto del testo:
   “…i giorni passano senza sosta ed io perso nella mia solitudine, non so più… chi sia. Ho conosciuto parecchie persone, forse, perché in molti per le vie mi salutano ma non ricordo nulla, nessuno mi è familiare, sono solo. Il dolore è il mio unico amico e il male, solo, mi dà conforto. Ho notato che uccidere è l’unico modo per alleviarlo e far cessare le mie infinite domande. Chi sono io?...”
   Quella parte era la più interessante e l’era ogni secolo in quale il re rileggeva il vecchio diario del suo caro amico Wsath. Anche Ice aveva iniziato a scrivere per ricordare ma aveva iniziato troppo tardi…
   Il passato stava svanendo troppo in fretta.
   Un bene per i suoi scopi.
   « Tra non molto il ragazzo si calmerà e perderà i sensi, portatelo nella sua stanza e sorvegliatelo. Al suo risveglio scortatelo da me ».
 
 
 
 
   Alexandre era stato molto duro nella bottega ma aveva raddrizzato Philip senza alcun timore nonostante il biondo avesse mostrato le zanne senza pensarci due volte.
   Se l’Hide avesse saputo del suo segreto, lo avrebbero ucciso in men che non si dica; i demoni erano letteralmente odiati.
   Però Philip era buono…
   Inoltre si era rivelato un’ottima spia e le informazioni sottratte erano decisamente utili. Il biondo aveva la capacità di leggere nel pensiero – come Alain del resto – e non aveva trovato difficoltà nell’inserirsi nelle menti delle dominazioni prima di ucciderle nell’atrio. Aveva sfoderato tutte le sue capacità insegnategli e si era mosso bene all’interno del palazzo, attendendo con pazienza l’arrivo di Ice. Purtroppo però leggere la sua mente si era rivelato inutile dato che non c’era niente nel suo cervello…
   Lo reputava un completo idiota ora.
   In ogni caso le dominazioni erano a conoscenza, più o meno, del loro campo base, lo avevano seguito mentre portava Angy sul carretto, quindi sarebbero presto stati attaccati…
   Ma come potevano difendersi?
   Un’imboscata sarebbe stata l’ideale.
   Si era fatto mattina e sia Philip che Alexandre erano rientrati all’accampamento. Il biondo di buon passo si recò entusiasta dalla sua amata ma quando fu a pochi piedi da lei percepì chiaramente la sua assenza. Preso dal panico strappò con violenza il telo ed entrò: tutto era in ordine, non vi erano segni di scontro, quindi Angeline non era stata portata via come inizialmente aveva immaginato e poi con tutti quegli uomini possibile che nessuno se ne fosse accorto?
   Allora dov’era?
   Girò con passo spedito per l’accampamento non dando troppo nell’occhio, tanto quasi tutti erano dediti all’allenamento e alla caccia, ma non la trovò.
   Tornò dal suo maestro, seminudo nella tenda: era nel bel mezzo del solito riscaldamento pre-duello.
   Non vi badò e invase la sua privacy.
   « Phil…».
   « Maestro Angeline è sparita, nel campo non c’è e dubito che qualcuno l’abbia vista ».
   A quelle parole tremolanti e colme d’angoscia Alex si vestì in pochi secondi cercando di immaginare come la giovane nipote fosse riuscita a svignarsela. Chiunque l’avesse presa, sarebbe stato sicuramente un demone; si vociferava, infatti, che questi riuscissero ad attraversare muri e scomparire senza la minima difficoltà e pensandoci bene, quello poteva esser l’unico modo per portarla via alla fratellanza.
   Leroy convocò velocemente un’assemblea, quella che stavano per prendere con molta probabilità sarebbe stata una decisione drastica.
   La più difficile che avesse mai dovuto affrontare.

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Capitolo 35
*** Capitolo 3.3 ***


CAPITOLO  3.3
 
 
 
 
 
   Quello strano cellulare senza sim era stato smanettato da Hasan senza problemi, eppure non era riuscito a trovare nulla fuori dall’ordinario. Aveva persino provato a inserirci la sua scheda, perché in fondo l’iPhone lo allettava non poco, ma così facendo lo aveva rotto: stranamente l’apparecchio si era bruciato e ora non si accendeva più…
   Aveva fatto un pasticcio forse.
   Le ricerche quindi si erano intensificate, oramai sia Hasan che Samia erano decisi a risolvere l’enigma di Ice, tanto che si erano finalmente spinti oltre la soglia di casa per effettuare una scansione approfondita dei testi antichi nella biblioteca di Alessandria.
   Blindato il container, sicuri che il giovane ospite continuasse a dormire, cercando in tutti i modi di non dare nell’occhio alle numerosissime pattuglie che avevano ormai casa per le strade della città, erano usciti in pieno giorno, alle dodici in punto.
   La méta era la cosiddetta “casa del sapere”, fiduciosi di trovare qualcosa.
   Qualsiasi cosa.
   Rispetto quella antica, la nuovissima biblioteca era un vero e proprio museo edificato su dieci piani; il grande edificio circolare con tetto a spiovente s’ispirava a un sole che sorgeva dal mare, quattro piani scavati nel sottosuolo avevano lo scopo di inglobare le vecchie rovine mentre i restanti sette convergevano verso l’alto.
   La parte in basso dell’edificio quindi ospitava scritti antichi, quella alta, libri più moderni.
   Samia aveva scovato nel web un articolo riguardante una parte distrutta – della vecchia biblioteca – nel famoso incendio del 41 d.C. quando il califfo arabo Omar ordinò la distruzione di ogni manoscritto; fortunatamente il comandante Amr, fine intellettuale, volle salvarli.
   « Quindi abbiamo una remota possibilità di trovare qualche stampa antica? », si rivolse Hasan alla bionda dopo aver ascoltato con cura il racconto e pigiando l’acceleratore.
   « Se il generale dell’esercito nascose i manoscritti più importanti sì, ma dubito che saremmo in grado di scovare qualcosa dato che sopra ci hanno costruito la nuova biblioteca ».
   I due sapevano che non sarebbe stato difficile trovare qualche vecchio libraccio, il problema era un altro: accedere alla parte antica che, a detta del sito ufficiale, era chiusa al pubblico.
   Fingersi ispettori? Vestiti com’erano?
   Era una sciocchezza.
   Guardie? Manutentori?
   Niente.
   Non c’era via d’entrata.
   In ogni caso il viaggio sembrò terminare molto velocemente poiché entrambi correvano a mille con i pensieri e mai il tempo passava così in fretta se non si pensava a qualcosa di serio.  
   Parcheggiarono nelle strisce blu riservate alla biblioteca, scesero per comprare alla macchinetta il biglietto di mezza giornata e lo esposero sul cruscotto.
   « Andiamo? ».
   Andiamo.
   « Ecco la biblioteca di Alessandria ».
   Come due perfetti turisti valicarono la bellissima porta a ruota con le gigantesche vetrate e giunsero alla biglietteria.  
   Salutarono educatamente e acquistarono due tickets; li mostrarono poco più avanti al controllore che subito gli diede il benvenuto.
   Superarono i tornelli ed entrarono a viso aperto nell’atrio principale. Era bellissimo.
   Divani di pelle di camoscio, tappeti d’interi metri ricamati come solo i maestri persiani riuscivano, piante tropicali che addobbavano la sala di lettura, scale di pregiato parquet che indicavano la via per varie sezioni.
   Perfetto.
   Tutto lo era.
   Hasan aveva guidato, perciò si concesse una pausa di cinque minuti rinfrescandosi con una bottiglia d’acqua ghiacciata per rilassarsi un po’; Samia invece era tutta euforica.
   Non c’era quasi nessuno a quell’ora, faceva troppo caldo alle sei di pomeriggio e poi erano giorni che il sistema di condizionamento non funzionava, ecco spiegato il deserto nella biblioteca più famosa del mondo, ma non era affatto un male!
   « Come ti è venuto in mente di venire qui? ».
   Sorprendentemente la bionda si volse: non si sarebbe mai aspettata una domanda del genere dal suo ragazzo, anche se oramai doveva, non era più brillo da un pezzo e apparte un po’ di maleducazione non era stupido.
   Era molto sveglio.
   Quell’enigma aveva anche risvegliato il vecchio amore.
   Ecco spiegato perché i due ora si guardavano in modo malizioso.
   « Ho sempre voluto visitarla, poi mi son detta: se cerchiamo un simbolo apparentemente scomparso, in un manoscritto antico, il più antico esistente, se c’è deve essere ad Alessandria. Ecco spiegato l’arcano. Ti dispiace? ».
   « No, affatto. Era tanto che non ti vedevo così felice. Vieni, fatti abbracciare », la chiamò a sé Hasan.
   Scordato il passato, pieno di sofferenze e alcool, la giovane coppia si strinse come mai prima d’ora sfoggiando l’amore finalmente ritrovato d’innanzi ai pochi presenti.
   Dopo un dolcissimo bacio appassionato i due si presero finalmente per mano incamminandosi verso l’elegante scala; lessero in pochi secondi le indicazioni e optarono, senza pensarci troppo, i piani inferiori.
   Quelli antichi.
   La tromba, vuota, rimbombava dei loro passi e quando raggiunsero il primo pianerottolo, sostarono qualche secondo.
   « Medioevo ».
   « Già », rispose prontamente Hasan.
   Entrambi sapevano però che dovevano scendere più in basso, scavare di più nella storia per giungere a una risposta.
   Scesero di altri due piani seguendo la direzione per “storia e religione antica”, finché non giunsero al terzo piano interrato.
   Volevano scendere oltre ma una lussuosa corda appesa alle due ringhiere bloccava il passaggio.
   « Non è il caso », disse il musulmano fermando l’amata.
   C’erano telecamere dappertutto e sarebbe stato molto, molto sconveniente commettere passi falsi.
   Decisero quindi di fermarsi.
   Seguirono l’alfabeto finché ognuno non si fermò alle rispettive lettere: a Samia toccò la B, ad Hasan la C.
   Divisi da circa quindici metri di distanza gli armadi maestosi contenevano migliaia di libri; era come trovarsi d’innanzi a un vocabolario gigante ed era una sensazione a dir poco magnifica.
   In quelle pagine centinaia d’anni di storia erano raccontati per filo e per segno.
   « Bi,bi,bi… Bibbia! Trovata! Hasan non è l’originale e sembra fotocopiata; le do un’occhiata, tu che hai trovato? ».
   Senza rendersene conto la bionda iniziò a urlare per il lunghissimo corridoio; incurante delle telecamere che silenziosamente la spiavano.
   Hasan invece era preso nel leggere il Corano, scovato da un pezzo…
   Il simbolo di Ice infestava come una maledizione le pagine del libro di Allah senza alcuna logica.
   Continuò notando la familiarità con il testo sacro e la normale consuetudine di quell’emblema.
   Poi, circa a metà manoscritto, scovò qualcosa di anormale: le lettere stampate erano state tagliate perfettamente a metà e riuscire a decifrarle sarebbe stato difficile se non impossibile.
   « Hasan vieni qui presto! ».
   In un baleno il ragazzo la raggiunse portandosi il Corano stretto tra le mani.
   La Bionda spiegò le sue paure…
   Vi era un punto della Bibbia sconosciuto, mai sentito, e a dirla tutta anche spaventoso.
   « Nell’Antico Testamento, come in quello nuovo, non si parla quasi mai dell’inferno tranne che in un paio di rarissime citazioni, ma qui… c’è molto di più! ».
   « Cosa hai trovato esattamente? », chiese confuso il musulmano.
   Samia iniziò a leggere cercando di interpretare meglio che poté il latino antico, anche se fortunatamente vi erano dei commenti molto più moderni in basso.
   La bionda non aveva mai capito esattamente il Cristianesimo con la sua ferrea convinzione che vi fossero paradiso, purgatorio e inferno…
   Non esistevano testi scritti a riguardo!
   E allora lì sopra?
   Forse stava capendo e sentendo la paura dei chierici sulla sua pelle…
   « Nella Bibbia sono famosi i paragrafi riguardanti l’Abyssos, "prigione dei demoni e degli angeli ribelli in punizione" dei passi di Luca e Apocalisse, e della Sheol o della Geena ».
   « Uno è il luogo intermedio di soggiorno dell'anima sino alla resurrezione finale… quello che forse è inteso come purgatorio ».
   « E l’altro invece rappresenta un luogo a sud di Gerusalemme dove erano eseguiti sacrifici di bambini tramite roghi e che valeva come luogo di giudizio divino ».
   « Forse l’inferno ».
   Samia scosse la testa. « Ehi ma tu che ne sai? ».
   « Sono un credente, o almeno lo ero. Mi ha sempre affascinato lo studio della Bibbia. Qualcosa so anch’io bellezza ».
   Samia sorrise; lo amava ancora.
   « Quando Gesù parla della Geena, non si riferisce al luogo geografico ma a quello che esso rappresenta, cioè il luogo della punizione », disse la bella muovendo l’indice per non perdere il segno.
   « Quindi nelle Sacre Scritture l’inferno è rappresentato solo sotto aspetti simbolici? E allora perché a scuola ci dicevano che con atti maligni andavamo all’inferno? ».
   « Non lo so. Alla fine sono tutte metafore; ma se ci pensi la Geena è veramente un luogo in cui si soffre. La storia lo narra. Comunque, nella Sua Parola ci trasmette quali sono gli effetti che questi elementi hanno sulla persona e sono conseguenze che causano dolore e sofferenze... ».
   « E allora? ».
   « E allora nessuno fino ad oggi ha mai dato peso a un testo pieno di allegorie come la Bibbia, nonostante quello fosse REALMENTE un luogo di dolore; in queste pagine però non c’è nulla di simbolico! Non c’è spazio per interpretazioni Hasan! ».
   Samia aveva paura. Per la prima volta in vita sua l’aveva veramente.
   Erano in molti che parlottavano sulle visioni demoniache, su lucifero, l’inferno e tutto il resto ma nessuno ne aveva mai avuto una certezza materiale…
   Questo fino al momento in cui non lesse quelle pagine…
   Quando il volere di Jahve si fece carne, la terra fu squarciata, così come l’agnello offerto in sacrificio. Quando l’angelo più bello, fatto a immagine e somiglianza della Madre fu chiamato, il regno dei cieli fu come scosso, da un terremoto di immane violenza. Fu l’apocalisse.
  Sfoderate le nove lame sacre, i guardiani dell’Eden, esercito del Santissimo, accerchiarono la loro sorella, la più splendente, poiché quello era il volere di Dio. Con un impeto e un fulmine l’erba verdeggiante del paradiso fu aperta sotto le gesta del Signore e un buco, nero come l’Abyssos, diede vita a un vortice di proporzioni e violenza titaniche. Luci il cherubino prediletto fu maledetto:
   Gli uomini ti temeranno,
      nessuno guardarti potrà più con occhi adoranti,
   e subirai le ire dei tuoi fratelli,
      chi ti amerà, ti seguirà
   e formerete così il luogo di sofferenza.
   L’inferno.
   Il tuo nome verrà disprezzato
      e sarai schiacciata come un serpente,
   Lucifero.
Il soffio di Dio fu tale che le ali bianche e splendenti dei nove furono spiegate; lo spirito purificatore di Jahve scelse i suoi degni e scartò i non degni. Luci, la portatrice di luce, perse la lucentezza, precipitando nel baratro dell’Abyssos. Fu seguita da quattro suoi prediletti finché il buco creatosi con la terra, si chiuse con il gesto di Dio.
   Ora erano in cinque e l’amore del Signore tornò splendente nell’eden”.
   Samia continuò a leggere cercando di interpretare al meglio la cacciata di Lucifero, rivelatasi molto più che una semplice descrizione della caduta del re di Babilonia verso la Sheol.
   Vi era realmente quindi, un angelo sulla terra? O nell’inferno?
   E la Bibbia parlava solo per metafore?
   Quel testo allora come l’avrebbero dovuto catalogare?
   Non si parlava del re di Babilonia ma di un angelo caduto!
   « A quanto pare la chiesa reputa sconveniente ufficializzare l’esistenza del diavolo, non è vero Hasan? ».
   Annuendo il giovane si sentì in conflitto, uno strano senso s’impadronì di lui, tanto che continuò a leggere la descrizione a fondo pagina anche senza l’aiuto di Samia; ciò che ne derivò però lo spaventò a morte.
   « Sconveniente non è la cacciata di Lucifero ma ciò che ne derivò in seguito, credo sia per questo motivo che è tenuto tutto all’oscuro, leggi… ».
   « Fermi! », una decina di uomini armati ruppero il religioso silenzio della biblioteca tenendo puntati i mirini delle loro desert eagle.
   Le telecamere avevano svolto bene il lavoro, era necessario tenere d’occhio i curiosi e poiché quella era una biblioteca, non sarebbe stato giusto nascondere due dei libri sacri più antichi, tanto chiunque avrebbe scoperto il segreto avrebbe fatto la stessa fine.
   Un omuncolo bassetto, grasso e calvo, si fece strada tra gli uomini armati: era il direttore. « Mettete le copie ai rispettivi posti, vi prego…».
   « Avete in mano La Verità e la celate in questa maniera? Avete letto? In quest’altra pagina vi è scritto che…».
   Con un lampo silenzioso il primo della fila colpì in pieno petto Hasan che cadendo a peso morto, già diretto al creatore, rimbombò nel lunghissimo corridoio del terzo seminterrato.
   Il proiettile aveva letteralmente bucato il petto e il cuore uscendo dalla parte opposta: in terra un bagno di sangue aveva già macchiato il pavimento e la bionda, tremante, si sentì le suole delle Lamberjack bagnate…
   Non riusciva a crederci.
   Il bassoccio e goffo direttore si massaggiò il collo cercando di allentare la morsa della cravatta; poi fu agguantato dallo stesso uomo che aveva spezzato la vita a Hasan.
   « Vi ho detto di far sparire quella Bibbia e voi continuate a tenerle in bella mostra? ».
   « È stato solo un caso, ve lo posso assicurare, nessuno è mai sceso quaggiù per leggere la Bibbia! ».
   « Comunque sia », un ennesimo colpo in direzione di Samia fu scagliato da quell’arma silenziosa uccidendola così, a sangue freddo, senza permettergli nemmeno di urlare; le fotocopie caddero in terra bagnandosi nel lago di sangue assieme a quelle del Corano.
   I due corpi, uniti, giacevano nel bel mezzo della biblioteca.
   « Il Vaticano non la uccide perché sappiamo bene che s’innalzerebbe un polverone. E non vogliamo che qualcuno faccia la spia giusto? Ve lo ripeto, non possiamo togliere di mezzo ogni povero innocente che capita qua sotto. Abbiate il buon senso di nascondere quelle blasfemie ».
 
 
 
 
   Inviata la mail in tutta Europa, Mike aveva iniziato a sorvegliare la corporazione grazie al suo formidabile pc; peccato però che ogni movimento dell’Hide sembrava essersi congelato.  
   Perse un paio di giorni cercando di porre rimedio a quel guaio ma non ci riuscì.
   Si diresse perciò, senza alcuna esitazione, all’agenzia di viaggi: cambiò la prenotazione del biglietto aereo e partì con cinque giorni d’anticipo rispetto la data prefissata.
   Ora era in Africa, in uno di quei posti che mai avrebbe pensato di visitare.
   Appena giunto all’aeroporto aveva notato subito un via vai continuo di militari ma soprattutto polizia in borghese: la corporazione.
   Fortunatamente la copertura escogitata era geniale: ricco figlio di due imprenditori, Mike Curtis Blank era in viaggio d’affari per acquistare qualche manoscritto direttamente alla biblioteca di Alessandria e visitare Il Cairo faceva parte dell’itinerario.
   Tutto poi era semplificato dallo spropositato conto in banca di cui disponeva.
   Immettere virus su internet per conto delle società adibite agli antivirus lo aveva reso ancor più ricco!
    Comunque… la città era piena zeppa di HM – hideman, come chiamava i membri della società – ma senza alcun problema, la limousine che aveva prenotato lo coprì egregiamente.
   Era già diretto all’hotel.
   Il viaggio era stato pesante, lui che non aveva mai volato si era ritrovato su un aereo ultramoderno, in prima classe, e benché l’alcool e il fumo lo rilassassero, aveva avuto una fottutissima paura per tutto il tempo del volo.
   L’albergo in cui alloggiava era degno del nome che portava – Grand Palace Hotel – e le sette stelle impresse all’entrata erano solo un biglietto da visita per la gigantesca hall addobbata con i milioni dei propri clienti: al centro un sofà di pelle bianca dominava la scena e la scalinata centrale; ai lati due trombe trasparenti facevano da panorama a un paio di ascensori di cristallo, come quelli delle navi da crociera, e sia a destra che a sinistra, tra le piante tropicali, due reception accoglievano i fortunati miliardari che avevano il privilegio di soggiornare lì.
   « Benvenuto Signor Curtis », si presentò il receptionist.
   « Ecco la chiave della sua stanza, la 404, buona                   permanenza ».
   « Grazie! ».
   Mike aveva sempre nascosto ai propri “fratelli” le ingenti somme di denaro di cui disponeva, quindi si era ritrovato a mentire sulla sua vita, mescolandosi con gli altri vampiri per i ghetti e le periferie di Amsterdam come fosse uno di loro, come fosse un poveraccio, ignorando i vecchi modi e le usanze insegnategli dal padre e dalla madre: conti aristocratici della vecchia Europa feudale; eppure riassaporare le proprie odiate origini, in quell’Hotel, lo avevano rinfrescato nuovamente.
   Mi mancano.
   Preso l’ascensore si diresse al quarto piano e quando raggiunse la stanza notò che le valigie erano già state trasportate e adagiate con cura in un angolo della stanza.
   Anzi, della Suite.
   Al centro uno stupendo pianoforte a coda dominava la scena mentre più giù un’enorme vetrata era nascosta da una tenda ancor più grande; si tolse il cappotto e lo lanciò sull’appendiabiti.
   Si diresse nella stupenda stanza da letto per poi recarsi nel bagno che una persona comune avrebbe chiamato piscina privata.
   Era stupendo, sembrava un regalo, il regalo di Ice prima che la morte fosse sopraggiunta.
   Forse doveva smettere di fare il tirchio come Paperon De Paperoni e godersi i miliardi.
   Cavolo non avrebbe mai visto quello sfarzo se non fosse stato per il suo amico!
   Accese il pc buttandosi sul sofà e attese di collegarsi al Wi-Fi.
   La speranza era di trovare un qualche necrologio sugli ultimi avvenimenti della città e poteva farlo solo da lì. Non conosceva la lingua locale e il traduttore installato nel personal computer era l’asso nella manica che gli serviva.
   Passò l’intero pomeriggio cercando e ricercando nel web ma non trovò nulla.
   Nemmeno l’accenno di un elicottero precipitato: la corporazione copriva ogni cosa.
   La notte era finalmente sopraggiunta e non appena l’ultimo raggio di sole scomparve si precipitò in bagno.
   Si tolse gli abiti per immergersi nella piscina: la pomata scura, come il fondotinta di una quarantenne, si sciolse in fretta nell’acqua calda portando allo scoperto la bellissima epidermide argentea.
   L’aveva indossata per tutta la giornata e il fastidio che ne era derivato era immenso, per questo decise di rilassarsi per un paio d’ore finché non tornò all’opera.
   Alle nove di sera la luna era già alta nel cielo ma la vita notturna non fu quella che si era immaginato: auto di lusso, discoteche e poker circondavano lo sfarzoso hotel rendendolo, di fatto, il centro del divertimento.
   Al di fuori del suo perimetro, il nulla.
   Scese alla reception e decise di fare la cosa più semplice: interagire con qualcuno.
   « Buonasera », si rivolse alla receptionist.
   « Buonasera a lei Signor Curtis. È di suo gradimento la suite? », gli sorrise la bella mediterranea fulminandolo con gli scurissimi occhi felini.
   « Perfetta, grazie ». Fece finta di distogliere l’attenzione e di andarsene quando di scatto si voltò: « Mi è sembrato di intendere che vi fosse una sala d’azzardo qui attorno, vorrei svagarmi un po’… ».
   Senza attendere un secondo di più la donna fece cenno all’usciere di chiamare l’autista: « Certamente, la limousine la porterà dove lei desidera, buona serata Signore ».
   Uscendo, le decine di persone presenti furono richiamate dall’intrigante Hummer lungo dieci metri, nero, con i cerchi cromati e i finestrini oscurati; perfetto per passare inosservati, pensò ironicamente.
   Circa venti minuti dopo era già nella sala da gioco, dove cinque o sei ricconi stavano prendendo posto per scambiarsi qualche sguardo.
   Il poker stava per iniziare!
   Mike quella sera però non avrebbe giocato; non ne aveva voglia e aveva altro da fare.
   Sennò che era partito a fare con cinque giorni d’anticipo? Per giocarsi i soldi?
   Sorvolò tutta la stanza e quando avvicinò il buttafuori questi lo lasciò passare addirittura con un inchino.
   Era entrato nella discoteca immensa e confusionaria, proprio come la voleva lui, casa dolce casa, si sedette in un angolo e decise di attendere l’hostess, speranzoso di scoprir qualcosa…

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Capitolo 36
*** Capitolo 3.4 ***


CAPITOLO  3.4
 
 
 
 
 
   Gli incubi erano continui, profondi, incessanti, reali…
   Ice si alzò di scatto voltandosi nelle lenzuola impregnate del suo sudore; non ricordava né cosa fosse successo e né perché si trovasse lì.
   Poi ci pensò.
   L’ultimissima immagine rimastagli era il fuocherello prodotto dalla candela proprio mentre stava per bruciarsi poi, il nulla.
   « Cos… che volete! ».
   Provò a fronteggiare le dieci morti ma un dolore lancinante al capo lo fece vibrare rivoltandolo in terra.
   « Manca poco alla transizione », disse uno.
   La lucidità del giovane era già andata a farsi benedire per questo si perse gli interessanti commenti dei presenti.
   Aveva capito bene però? Transizione?
   Fu preso di peso come un sacco di patate e portato a forza d’innanzi al re.
   Questi iniziò a balbettare, ad aprire bocca, ma lui non capì.
   Ice aveva il cervello a brandelli e non connetteva né pensieri né movimenti.
   « Siete la mia copia spudorata ».
   Contro ogni supposizione il ragazzo, che sin quel momento era rimasto in terra tremante alzò il capo prima e un ginocchio poi.
   Ben presto si ritrovò al cospetto di Ry, ancora una volta, sulle proprie gambe.
   Fissava quel bastardo dritto negli occhi.
   Era incerto però; perché Alain non era comparso?
   Che fosse successo qualcosa?
   « Dov’è? », chiese barcollando.
   « Siamo in guerra, ve lo siete forse dimenticato mentre uccidevate i miei generali? ».
   « Dov’è! », ribatté Ice con la bava alla bocca prima di stramazzare in terra.
  Respirava con difficoltà.
  « È morto, un umano lo ha ucciso mentre eravate nella vostra stanza. Si stava allenando tra le colline a valle con dieci dei miei uomini. Abbiamo trovato le loro ceneri. Ci stanno massacrando amico mio ».
   Il sangue bollente del giovane si placò istantaneamente, congelandosi, riportandolo alla lucidità.
   Ry vide l’espressione sul volto del moro cambiare radicalmente; poi si alzò dal pesante trono e dopo essersi inginocchiato lo prese da sotto il mento. « Vorreste ucciderli? ».
    La mano ferma e bianca del sovrano toccò Ice aiutandolo ad alzare il capo: « Siamo immortali, eppure quelle stupide creature hanno trovato il modo di ucciderci », disse.
   Sul punto di vomitare, il moro spalancò la bocca guardando il tappeto rosso in basso.
   Cercò di liberarsi del dolore allo stomaco ma dalla cavità orale uscì solo un suono grottesco e spaventoso.
   « Resistete, state per divenire uno di noi a tutti gli effetti ».
   Con l’acidità che aveva oramai invaso la bocca e indolenzito persino la lingua il ragazzo riuscì a formulare una frase senza vomitare.
   « Io non sarò mai come voi, ne come loro! ».
   I denti affilati di Ry si mostrarono improvvisamente, quasi interagissero con i canini di Ice che in quel momento si ridestarono allungandosi fin tanto da fargli sanguinare le gengive.
   “ Così, avanti…”.
   Le pupille infuocate erano scintille nel volto dolorante e il sudore, un lago sul pavimento.
   Ice iniziò a dimenarsi rotolandosi in terra e urlando a squarcia gola mentre mostrava ai presenti la bianchissima dentatura.
   Ry non si allontanò, nonostante fosse imprudente assistere da vicino a una transizione.
   Rimase a poche decine di centimetri dal ragazzo, assistendolo, toccandolo, asciugandogli il viso e spostandogli le ciocche bagnate dagli occhi.
   Ringhiava e si allargava quasi fosse un mostro; il fisico sembrò crescere a vista d’occhio mentre bicipiti, pettorali, spalle e cosce iniziarono a delineare un corpo privo di imperfezioni.
   A ogni transizione capitava spesso che qualcosa andasse storto, un arto ad esempio poteva svilupparsi in maniera diversa dall’altro, o addirittura che qualcuno perdesse le capacità peculiari degli immortali; per questo non tutti sapevano leggere nel pensiero e per lo stesso motivo non tutti si smaterializzavano.
   Ma a Ice sembrava stesse andando tutto per il meglio.
   « La transizione è sopraggiunta più in fretta del previsto, il dolore e la rabbia lo stanno accecando, è come se la perdita di Alain non fosse la prima che abbia avuto… anche se tutto ciò è impossibile, non dovrebbe ricordarsi nulla », constatò Ry ordinando in seguito ad un suddito di portargli dell’acqua.
   I quattro camini alle pareti furono accesi in un baleno mentre la legna iniziò a scoppiettare sotto le imponenti fiamme. I presenti si voltarono assieme al sovrano che spaesato non giunse a nessuna conclusione…
   Poi, improvvisamente, il caldo e la luce accecante delle fiamme si estinsero.
   Ice era rannicchiato in posizione fetale al centro della stanza mentre le dieci morti si erano rifugiate sotto gli imponenti archi in stile gotico, tra i colonnati.
   « È spaventosamente forte », disse qualcuno.
   Quella era la fine.
   Al termine di ogni transizione capitava spesso che l’acqua, l’aria o il fuoco fossero manipolati, a indicare la vocazione dell’iniziato, ma mai nessuno era riuscito a gestire il fuoco…
   Simbolo dell’inferno.
   « È uno di noi » constatò esaltato Ry, « Ora il sonno lo condurrà a un riposo della durata di quindici settimane, è già tanto che fin questo momento andasse in giro come nulla fosse; adagiatelo nella sua stanza e fate rapporto sulla resistenza, ben presto affronteremo una nuova battaglia ».
 
 
 
 
   « Dove sono? Che è successo…».
   Angeline aveva visto il rapporto con Philip incrinarsi da quando avevano raggiunto il campo della resistenza, sperava con tutta se stessa in una vittoria, come se quell’istinto venisse dal proprio spirito, ma ciò che aveva trovato tra quelle tende l’aveva scombussolata – Ice – e per di più il suo amato era cambiato drasticamente; non era più quello di una volta, era un guerriero.
   Anzi, non lo sapeva.
   Chi era in realtà?
   L’ultima cosa che ricordava era il campo: si trovava nella sua tenda ad attendere Philip quando una luce accecante l’aveva costretta a coprirsi il viso prima di placarsi.
   Ma ora? Dov’era?
   Ora si trovava in un fienile abbandonato chissà dove, tra la paglia umida e il terreno gelido.
   Incerta la ragazza si alzò, stupita di quanto fosse semplice quel gesto, si sarebbe aspettata qualche livido, qualche graffio, ma nulla di ciò sembrò averla colpita. Quando mosse qualche passo verso l’uscita la gelida sensazione che vi fosse qualcuno alle sue spalle la bloccò, freddandola sul posto; la pelle formicolava e l’aria divenne centinaia di volte più fredda.
   Odiava il buio, così come la paura, perciò si voltò di scatto senza pensarci su.
   E la visione fu agghiacciante.
   Una figura indistinta ma dalle forme femminili era lì, scura in volto, a pochi metri da lei e quando alzò lo sguardo, due occhi freddi come il ghiaccio incendiarono il fienile.
   Angeline scoppiò in lacrime senza emettere alcun suono, il cuore le batteva in gola e nel petto, un dolore fittissimo allo stomaco la fece restare sveglia ricordandole che quello non fosse un sogno.
   Quel demone d’innanzi a lei era tanto singolare quanto spaventoso ma soprattutto, reale.
   I capelli, scurissimi e lisci, ricadevano sui perfetti e prorompenti seni, coprendoli, mentre il gioco d’ombre prodotto dalle fiamme fece si che lì, all’altezza del sesso, non fosse possibile intravedere cosa fosse. I fianchi erano tondi, le gambe lunghe e sottili spaccavano le fiamme e tra il fuoco dell’inferno gioiva del calore circostante.
   Era nuda ma s’intravedeva all’altezza delle due cosce un tribale, uno stemma identico per entrambe le natiche finché, quasi avesse letto il suo pensiero, il demone non si voltò per mostrarglielo.
   Aveva un fondoschiena scolpito direttamente dal Santissimo.
   Il disegno rappresentato partiva dalla nuca per allungarsi fin sopra i glutei, non era continuo e non aveva una forma perfettamente comprensibile ma visto con occhi distanti, non a pezzi, era chiaro: sembrava il dipinto di due ali ripiegate.
   Quando la ragione dominò il terrore, ormai era già troppo tardi.
   Il demone, svanito nel nulla, apparve in un attimo proprio alle sue spalle, così vicino che il caldo afoso e soffocante dell’incendio non fu più avvertito, lasciando posto al freddo polare della donna ( ? ).
   Ma era una donna? Non lo sapeva con certezza.
   Una voce pungente come spine e tagliente quanto una lama squarciò il silenzioso scoppiettio della paglia, rivelandosi molto più che diabolica.
   « Se non posso averlo è a causa vostra, ma presto invecchierete e morirete come l’amore che prova per voi, ricordatevi queste parole, umana ».
   Improvvisamente le fiamme si estinsero ed Angeline, sola ma consapevole di non esserlo mai stata, cadde a terra infreddolita e tremante.
   Era persa e perduta.
 
 
 
 
   La riunione al campo base era iniziata da un pezzo ma non se ne voleva uscire; Philip era in collera con se stesso e con tutti quanti, Angeline nel posto più sicuro al mondo era stata presa.
   Nessuno l’aveva vista ma tutti l’avevano sentita piangere e questo rendeva ancor più triste il biondo che, impazzito, aveva iniziato a contare i secondi da quando l’amore della sua vita lo aveva abbandonato.
   Era notte e tutti al centro del bosco discutevano d’innanzi a un focolare il da farsi, escludendo quelle teste vecchie dei saggi. Philip non ne voleva sapere di ascoltarli, a loro importava solo delle sorti della guerra e semmai un loro fratello fosse stato catturato, lo avrebbero di certo lasciato agli immortali, egoisti com’erano, quindi, perché dargli retta? La loro idea era chiara e semplice: non fare nulla.
   Il giovane però era decisamente di parere opposto, così come Alex del resto.
   Non tutti comunque erano entusiasti di quella situazione e si stavano solcando diverse vie da intraprendere ma ogni stratagemma portava a una sola conclusione…
   « Dobbiamo attaccare quel castello, è l’unica soluzione », ribatté con vigore Philip alzandosi d’innanzi al fuoco, impugnando la spada.
   « È così, abbiamo atteso per troppo tempo le loro mosse e il risultato che abbiamo ottenuto? Noi invecchiamo signori miei mentre loro godono dell’immortalità, presto moriremo senza nemmeno aver combattuto e i nostri figli, i nostri giovani, rimarranno all’oscuro del male che ci attanaglia », disse Leroy appoggiando il prode discepolo.
   « Hanno una posizione di rilievo di non poco conto, andremo a fronteggiarli nel loro stesso castello e giocheranno in casa », constatò qualcuno.
   « Silenzio! » urlò Philip.
   « Che succede ? », bisbigliò sottovoce il suo maestro.
   Il finissimo udito del giovane aveva captato qualcosa nell’aria, una voce lontana ma spaventosamente vicina lo scherniva e lo derideva mentre, euforico, capiva di esser tenuto sott’occhio da qualcuno.
   « Tra non molto sarà giorno e strada facendo vi illustrerò il mio piano, preparate i cavalli e le lame, alla luce del sole attaccheremo il castello e vi giuro che non si aspetteranno il nostro attacco ».

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Capitolo 37
*** Capitolo 3.5 ***


CAPITOLO      3.5
 
 
 
 
 
   Mio Dio.
   Finalmente la giornata era giunta al termine e sia il generale che tutti gli scienziati, compreso quell’effemminato di Michael, erano scesi all’ultimissimo piano: quello dei servizi, del ristoro e degli alloggi.
   Era stata l’esperienza più stupefacente e intensa che Michelle avesse mai fatto e quello era solo il primo giorno.
   Entrato nella sua stanza, piccolina ma super arredata, si era fiondato in bagno per guardarsi allo specchio: non voleva perdersi la soddisfazione di vedersi scioccato dalla scoperta che Axel, la cavia nel laboratorio, fosse un ragazzo con più di due secoli di vita!
   Certo aveva studiato i fenomeni paranormali e si era interessato molto alle creature “non umane” ma venirne a scoprire l’esistenza in quel modo lo faceva sentire piccolo piccolo, quasi insignificante, perché voleva dire che chissà da quali e quanti “individui” era popolata la terra…
   A questo punto poteva benissimo credere anche agli alieni.
   « Una società segreta che tiene un semi-immortale in custodia… Roba da matti ». Esclamò il giovane buttandosi sul letto.
   A quanto sembrava la scienza era riuscita a diagnosticare il virus che attanagliava i vampiri, non riuscendo però a identificarne la natura immortale e i caratteristici “poteri”; ciò poteva significare una sola cosa quindi: la magia e tutte quelle stronzate lì erano vere.
   Ignorando i numerosi pensieri si sfilò il cellulare ma notò con sconforto che a più di trecento metri sotto terra, nonostante tutta la tecnologia all’avanguardia, non era possibile comunicare con l’esterno.
   Aprì la pagina dei messaggi e ne digitò uno:
 
SONO ENTRATO. MI FARÒ PRESTO VIVO.
 
   Inviò il messaggio a un numero non presente in rubrica facendo appello alla sua memoria.
    « Cazzo », disse consapevole di dover attendere il primo spiraglio di segnale, « Vabbè… arriverà ».
   In fondo il laboratorio era a cento metri di profondità, con un po’ di fortuna avrebbe trovato campo. C’era solo da attendere.
   Philip ripensò allora all’obiettivo: prelevare quante più informazioni possibili e distruggere l’Hide dall’interno, questo si era prefissato di fare.
   Quanto tempo era passato da quando l’amore della sua vita lo aveva abbandonato per entrare nella corporazione?
   Perché la sua ragazza lo aveva abbandonato? Non se lo spiegava.
   Aveva addirittura cambiato nome e cognome per mascherarsi e tenerlo lontano dal pericolo ma ora si era volatilizzata nel nulla: doveva scoprire la verità e affondare la Hide Corporation, in un modo, o nell’altro.
 
 
 
   L’intera nottata in discoteca, oltre a provocargli un fortissimo mal di testa, aveva dato nient’altro che esiti negativi.
   Mike aveva buttato una notte intera così, al vento, senza riuscire a scoprire nulla, apparte il fatto che due o tre ragazze, infatuate, avevano voglia di fare del sano sesso selvaggio in un triangolo amoroso.
   Era rientrato alle sei del mattino, poco prima che il sole sorgesse, quando nella hall principale, cinque omaccioni in giacca e cravatta gli bloccarono la strada, come fosse uno qualunque.
   Lo lasciarono in sosta qualche minuto per poi dileguarsi scortando un uomo alto, snello e scuro in volto.
   Sembrava un vero signore, come quelli che si vedono nei film sulla Mafia, ma era troppo prestante e fotogenico per appartenere alla malavita, sembrava più un modello; certo uno di una certa età, certamente era sulla quarantina.
   « Chi è? », chiese Mike al receptionist.
   « Adrien Florenz, un rappresentante del Vaticano; veste bene non trova? ».
   Eccome se non vestiva bene: completo Gucci e scarpe Armani, Rolex a uno e Bvlgari all’altro polso!
   « Quanto soggiornerà? Non vorrei far troppa baldoria nella suite… tra quattro giorni avrò degli ospiti ».
   « Non dovrebbe preoccuparsi di questo; ogni muro è fatto a prova di bomba! Comunque la prenotazione termina entro due giorni, non avrà problemi con i suoi amici! ».
   « Grazie ».
   Rilasciati circa duecento euro al receptionist, Mike prese al volo la chiave 404 e si diresse all’ascensore vuoto a sinistra della stanza. Era quasi mattina e le uniche chiavi appese alle spalle del bancone in pregiato mogano erano due: la sua e la 505. Peccato però che al momento della prenotazione gli avessero confermato che il quarto piano era l’ultimo dell’edificio.
   Perciò, dove andava quell’uomo? In un piano segreto?
   Poi… il Vaticano?!? Cosa c’entrava lo stato della chiesa? Fu a quel punto che la curiosità prese il sopravvento.
   Entrò al volo nella sua stanza e si spogliò completamente, oramai stava facendo giorno e per uscire avrebbe dovuto spalmarsi la crema… no, no, ci avrebbe messo troppo tempo ed era stanco per farlo. Si distese allora sul letto, prese aria a tempi regolari e scrutò il suo Omega. Poi socchiuse gli occhi.
   A poco a poco escluse ogni rumore che gli fu d’intralcio e senza rendersene conto iniziò a fluttuare a pochi metri dalle morbide lenzuola del matrimoniale.
   Origliare era sempre stato il suo forte sin da quando era piccolo, lo faceva sempre tra gli spessi muri del castello al tempo del feudalesimo ma ora sarebbe stato diverso.
   Era concentrato al massimo, il ronzio dell’umidità sui cavi elettrici, i motori delle auto in strada, i passi della ditta di pulizie nei corridoi, il russo degli albergati, ogni rumore escluso, tranne quello che gli interessava…
   « Pronto? È tutto risolto, i due ragazzi sono stati eliminati e la loro auto è stata fatta sparire. Come dice? No, erano dei vagabondi, credo dormissero in auto; non risultano residenze a nome Samia Hassan ed Hasan Hussein e quei due riscontri sono già stai controllati, tutto pulito. Ci vediamo presto signore ».
   Wow! Da quando erano morti i suoi genitori Mike non aveva più provato a origliare, poiché aveva scoperto la loro tragica fine proprio in quel modo, ma a quanto pareva non aveva perso il tocco magico!
   Era incappato nel momento migliore del dialogo e se due più due faceva quattro, quei due giovani dovevano proprio essere i testimoni dello schianto dell’elicottero!
   In ogni caso non capiva il nesso con il Vaticano, che fosse una copertura anche quella? Ma non se ne curava minimamente, forse avrebbe scoperto la verità ancor prima dell’appuntamento con i vampires e sarebbe stato epico se al loro incontro il re fosse stato presente sorprendendoli tutti!
   Ora doveva solo attendere la notte, due vagabondi? Cos’era lui ad Amsterdam? E dove passava ogni notte? In discoteca! Forse quelle umane infatuate gli sarebbero servite a qualcosa dopotutto: non aveva scovato nulla perché non sapeva cosa cercare, ora però aveva metà del bottino in tasca!
 
 
 
 
   Da come si era sviluppata la vicenda, la nottata passata in discoteca era stata magnifica. Era stato guardato con occhi scettici da tutti e seppur quella disco era uno dei locali più in del Cairo, qualche amico di qualche cugino di qualche fratello che lavorava nell’hotel più famoso dell’Egitto si era lasciato scappare che i dipendenti del Palace erano sottopagati e che ogni qualvolta gli venissero rivolte domande erano ben disposti a parlare, in cambio di bei soldoni. Ovviamente.   
   Ecco spiegati i duecento euro di “mancia” al receptionist.
   Quella mattina il rappresentante del Vaticano aveva levato le tende in fretta e furia per tornare in patria, lasciandosi dietro una scia di domande senza risposta; domande alle quali Mike avrebbe presto trovato soluzione.
   Era quasi sera, l’ora ideale per lasciare la gigantesca suite per prepararsi a giocare all’investigatore. Giunto nella Hall, diretto alla reception, avvenne però qualcosa d’inaspettato: con lo sguardo prima e con l’olfatto poi occhiò una di quelle sventole mediterranee che di rado si vedono nei film e ancor più difficilmente per le strade; a lui invece era capitata in albergo! Era al settimo cielo e sapendo quello che di lì a poco lo avrebbe aspettato, concedersi qualche svago non era di certo vietato. In fondo stava morendo.
   Erano mesi che non “mangiava come si deve” e il profumo sobrio dell’egizia era camomilla in grado di alleviare le sue incertezze e paure.
   Si era quasi dimenticato che oltre a saper leggere nel pensiero sapesse anche comandare le menti umane… eh sì, non era un vero combattente ma per tutto il resto era un vero Vampires, di razza pura; non c’era cosa che non sapesse fare.
   Quando passò a pochi centimetri dalla mora, incrociando gli sguardi, la febbre salì a mille tanto che per poco non sfoderò le zanne d’innanzi ai presenti per assaporarla lì, nella Hall.
   Fu attento a ogni minimo particolare: la riccia aveva nel palmo della mano destra la chiave elettronica 444.
   Il quarto piano anche te, èh!
   Non sapeva di preciso da cosa fosse dipeso quell’istinto che via via lo stava riportando sulla strada del vampiro da strada, quello fuori controllo, ma quella sensazione incontrollabile era stupefacente.
   Si voltò ansioso di ammirare le elegantissime scarpe firmate, lo spacco a tutta coscia e il prorompente fondoschiena che sinuoso, si adagiava fiero contro il sottilissimo vestito di lino. Chiuse l’ascensore senza voltarsi e salì.
   Per tutta la durata del tragitto Mike rimase imbambolato, letteralmente a bocca aperta, finché la bellissima femmina – perché quello era il termine che aveva iniziato a bramare prima di possederla – non scomparve.
   Attese che la chiamata fosse verde e schiacciò il pulsante adibito alla discesa dell’ascensore. Il primo a toccare la Hall però fu quello del lato opposto così senza pensarci due volte, si gettò a capofitto dall’altro lato dello scalone e salì.
   Il dolcissimo suono poi lo richiamò alla realtà: era finalmente giunto a destinazione e non appena le porte si aprirono il corridoio si riempì di persone.
   Era ora di cena e ogni riccone presente non vedeva l’ora di assaporare le succulente pietanze preparate dallo chef.
   Con non poche difficoltà riuscì a destreggiarsi tra la folla sopraggiungendo fino alla sua stanza, la sorvolò senza esitazione e s’incamminò verso la 444.   
   Barcollava come un ubriaco e ad ogni passo verso quella bellezza era sempre più saturo di lei; c’era però qualcosa che non andava.
   Quando fu a pochi passi dalla méta, proprio d’innanzi la 442, si voltò entusiasta nel vedere che tutti i presenti erano scesi: chi con l’ascensore, chi a piedi.
   Era solo. Ottimo.
   Arrivato sull’uscio constatò che la porta lo attendeva già aperta e non appena la valicò un boato assordante la fece sbattere contro i montanti, come sbattuta da una tromba d’aria.
   La riccia era ritta sulle lenzuola disfatte con i capelli tutti arruffati, come una gatta in calore, pronta ad accoglierlo quasi avesse percepito il suo istinto.
   In un lampo Mike balzò, sorvolando più di cinque metri, sul letto; la agguantò e sfoderò i lunghi canini.
   Non doveva terrorizzarsi?  
La sconosciuta non lo fece e quando s’impuntò sui gomiti, montandogli sopra per cavalcarlo, sorrise vogliosa, leccandosi prima le labbra e poi i lucenti canini sporgenti.
   Un momento!
   « Oh Santo Dio! ».
   Balzò all’improvviso l’europeo a quella visione.
   « Ecco cos’era quell’istinto! ».
   Stava già gironzolando per la stanza con le mani tra i capelli quando l’egiziana scoprì prima i seni e poi il sesso.
   Ora era sdraiata e con le natiche al vento agitava le gambe.
   Era eccitante l’idea di fare sesso con una sconosciuta, soprattutto dopo aver fatto il voto di castità di cento anni per aver perso Ice!
   Ne erano passati solo cinque da quando aveva iniziato ma lui, che come tutti quelli appartenenti alla sua specie vivevano delle relazioni sessuali prima e sentimentali poi, si sentiva un leone in gabbia. E ora che stava per trovare il sovrano, non avrebbe di certo trasgredito alle regole!
   Anche se a dirla tutta era stufo di quelle gatte morte dell’Europa del nord, tutte bionde con gli occhi azzurri e la pelle come la mozzarella! Questa era una dea: capelli castani tendenti al nero e ricci, occhi bui come le tenebre e una carnagione scura tanto da farla sembrare abbronzata; stupenda.
   Aveva sentito parlare dei vampiri delle altre nazioni, ognuno aveva dei caratteri particolari e ben distinti, ma questa sembrava la madre di tutti gli esseri immortali.
   Si spogliò proprio su di lei, strappandosi i vestiti di dosso così come la pelle, graffiata dalle affilate unghie di entrambi: le loro lingue, vogliose, roteavano e si battagliavano d’innanzi i quattro canini, come fossero cavalieri intenti a proteggere l’entrata del loro castello, mentre i fianchi dei due si muovevano a ritmo alterno, strusciandosi e spingendosi contro i loro sessi.
   Con un impeto la donna prese il giovane per i capelli e lo addentò con violenza, succhiando a ondate dalla vena pulsante del collo, con ingordigia; gli occhi azzurrissimi del giovane si accesero improvvisamente, così come le luci della stanza che andavano e venivano a tempo con il suo respiro.  
   Nella lingua antica la donna – di qualche secolo più anziana di lui ma per nulla appassita – lo supplicò di fare lo stesso con il suo corpo, adagiandosi sul cuscino e voltando il capo mostrando il lucente collo: era sudata, bagnata… e Mike, prima di unirsi a lei, la azzannò come fosse un lupo, incurante di tutto e del suo dovere…
   Poi prese a pompare dentro di lei.
 

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Capitolo 38
*** Capitolo 3.6 ***


CAPITOLO      3.6
 
 
 
 
 
   La notte stava per lasciare spazio al caldo sole ma la luna e le stelle erano ancora alte nel cielo.
   Angeline aveva passato la vita studiando la storia, i miti, ma non si era mai lasciata abbindolare dalla fantasia, dalla religione, o dai demoni; per lei le sette erano congreghe di pazzoidi che godevano degli atteggiamenti sadici e masochisti degli aderenti. Pazzoidi appunto. Persone malate e affette da ignoranza cronica.
   La superstizione non faceva per lei.
   Ma allora… quella visione? Di certo non era stata frutto della sua immaginazione, l’aveva distrutta psicologicamente.  
   Presto sarebbe morta e l’uomo innamorato di lei avrebbe dimenticato tutto; ma chi poteva essere? Perché quel demone si augurava la sua morte? Chi era innamorato di lei?
   Lei era pazza di Philip, così come lui lo era nei suoi confronti, e Ice non era nemmeno il vertice che lei si aspettava in grado di chiudere il triangolo amoroso; anche se era comunque misterioso e affascinante: in ogni caso, non ci stava capendo più nulla.
   Quante ore erano trascorse da quell’orrenda apparizione, una o due?
   Eppure continuava a piangere senza sosta, a tremare come una foglia secca scossa dal vento prima di lasciarsi cadere dal ramo e a lei quello stava accadendo.
   Si stava lasciando andare.
   In terra, tra la paglia e la cenere, aveva ben poco di femminile, né profumata né pulita, sembrava avesse perso la voglia di vivere, come se quel demone gli avesse strappato la ragione, la sua integrità.
   Il fumo continuava a levarsi dai rimasugli, l’aria era satura di fuliggine e aveva la completa sensazione di esser caduta all’inferno; strisciando come un verme, sporca fino all’anima, si avvicinò all’unico battente presente: era semiaperto e un lievissimo fascio di luce la stava avvertendo che presto sarebbe sbocciato un nuovo giorno.
   Strisciò e si dimenò fintanto da riuscire a vedere il fittissimo bosco e ad assaporare l’aria umida e la rugiada mattutina. Stava soffocando e da come respirava se non si fosse abbandonata al bosco sarebbe morta in quel marciume.
   Provò a urlare, a chiedere aiuto, ma quando cercò di far vibrare le corde vocali la voce si strozzò in gola; sentiva le pesanti ceneri fin dentro i polmoni e la bocca era troppo asciutta per permettergli di parlare.
   Voleva rifugiarsi nella foresta, tra i giganti pini e le bianche betulle, ma non ne aveva la forza; mosse ancora qualche passo, cercando di alzarsi, ma stramazzò in terra, come se la sua anima fosse stata avvelenata: il corpo era integro ma il dolore lancinante veniva dall’interno.
   Il viso, sporco e nero, era tagliato proprio sotto gli occhi da due rigagnoli rosati, le lacrime la stavano lavando.
   Quando fu abbastanza lontana, tra l’erba alta e bagnata, si sentì rinascere. Soddisfatta ed esausta si voltò su un fianco dando le spalle a quella vecchia casaccia.
   D’innanzi a lei il sole spuntava dietro centinaia di tronchi, illuminandola, riscaldandola e poco prima di abbandonarsi a un sonno rilassante, riuscì a intravedere oltre la collina una roccaforte: i corvi erano aguzzini e la pietra sembrava in ottimo stato.
   Doveva essere un castello che lei non conosceva, perché tutti quelli del suo regno erano in rovina e quelli della Loira non erano di certo come quello…
   Non appena fosse stata in grado di alzarsi lo avrebbe raggiunto, doveva raggiungerlo.
 
 
 
 
 
   La resistenza aveva potuto riposare prima dell’attacco, tutti erano rincasati dopo la riunione, tutti tranne Philip.
   Il biondo era duro con i fratelli, freddo e opprimente.   
   Aveva steso un rapporto completo al suo maestro sul piano d’attacco, sulla struttura del castello, su come uccidere facilmente gli immortali, una preparazione perfetta; ma non tanto. Non era così sicuro.
   « Ice è un immortale e qualunque cosa faccia, prima o poi mi ci troverò davanti e non sarò in grado di ucciderlo perché… perché è come me », disse ad alta voce guardando i tronchi semidistrutti dal suo “psudonemico”.
   Anche Philip aveva subito la transizione, lo ricordava bene e sapeva che poco prima e subito dopo, la psiche degli immortali era assai manipolabile, il risultato perciò parve semplice, un buono poteva divenire malvagio e uno come lui poteva trasformarsi in un eroe.
   « Grazie a te Angeline ».
   Era stata la sua amata a renderlo il giovane bello e prestante che ora era: un uomo di corte invidiato e venerato; la tenacia e la sicurezza che aveva mostrato al banchetto d’innanzi al fuoco però avevano destato non pochi sospetti tra i fratelli.
   « E hanno ragione », constatò sconsolato flettendo le gambe per raccogliere un ramoscello e disegnare un cerchio nel terriccio umido.
   Non sapeva più chi era e non faceva di certo parte dell’Hide, così goffamente ribattezzata da Ice; non era nemmeno sicuro della vera ragione che continuava a spingerlo verso il castello.  
   Voleva davvero salvare Angeline? O fronteggiare i suoi ex compagni, compreso Ice?
   Fece tre, quattro giri e anche più attorno al campo studiando minuziosamente la natura, la fauna e i colpi violenti del discepolo “incapace”; che a quanto sembrava non lo era più.
   Aveva paura.
   Forse quella era la prima volta in assoluto.
   In passato aveva rischiato innumerevoli volte di soccombere, ma non gliene era mai importato perché non aveva mai avuto nulla da perdere invece, buffo, ora iniziava a temere il tempo, a perdere il controllo ogni secondo che passava, perché… perchè semplicemente sapeva di non comandare il suo destino. Non più almeno.
   Era in balia di forze molto più potenti e oscure.
   Si era sempre mostrato insensibile e distaccato nella sua vita, senza mai lasciar trasparire un’emozione ma quella notte, quella prima della battaglia, gli venne spontaneo piangere, lasciar per una volta liberi gli occhi e sfogarsi, perché a quello servivano le lacrime.
   Quando tutti, svegliati da Alexandre, uscirono e si armarono.
   « Tutto bene Philip? », chiese timidamente il maestro vedendolo; il biondo fortunatamente aveva avuto il tempo necessario per voltarsi e asciugarsi il viso.
   « Sì, perché? ».
   « Siete rosso in volto ».
   « N... no, sto bene, grazie. Arrivo subito ».
   Abboccando volontariamente alla balla, Leroy lasciò indietro il giovane incamminandosi con il resto della truppa verso il castello maledetto.
   Il biondo tornò allora al suo alloggio e brandì spada, elmo e armatura; montò a cavallo e raggiunse il gruppo.
   L’alba si stava levando ed erano già parecchi minuti che la resistenza trottava silenziosa nell’angusto sentiero del bosco.
   Philip si era tenuto dietro, chiudendo la formazione, ma da quando avevano sorvolato su sette o otto fienili incendiati, aveva affrettato il passo raggiungendo i primi.
   Non era normale che il legname, così come la paglia messa dentro ad essiccare, fosse stata bruciata a quel modo e soprattutto volontariamente; tutti sapevano che ogni castello possedesse una quindicina di casacce per i taglialegna nella propria tenuta e quelle facevano proprio parte di quello degli immortali.
   Erano gli indizi necessari per giungere alla roccaforte.
   Si sviluppavano in cerchi concentrici, quindi sarebbe stato semplice giungere a destinazione con i fumi che convergevano tutti verso un unico punto all’orizzonte ma… perché fare una cosa del genere? Volevano lo scontro? Li attendevano?
   Era una trappola? Chi aveva appiccato gli incendi?
   « Shh. Fermi tutti ». Li apostrofò Philip bloccandosi e smontando da cavallo.
   Sguainò la spada avviandosi lentamente tra i folti arbusti ai margini del sentiero; attese.
   Poi si affrettò a raggiungere cavallo e scudo.
   « Cosa sta succedendo? », chiese qualcuno.
   I lunghi fili d’erba furono aperti in men che non si dica e un lupo di dimensioni enormi sbucò dalla foresta, ringhiando e divedendo il gruppo.
   I cavalli imbizzarriti saltarono sul posto mentre tutta la fratellanza si ritrovò col sedere in terra.
   Solo Philip era armato e pronto per un combattimento.
   Nel momento stesso che la bestia con il folto pelo nero e i denti più lunghi degli artigli cercò di afferrarlo, con un balzo di due metri e una capriola il biondo raggiunse lo scudo mandando la bestia poco più giù, dove nel frattempo un’altra ancora stava sopraggiungendo.
   Le due s’incrociarono, si scontrarono, dando il via a una piccola zuffa per primeggiare e decidere chi delle due avesse la precedenza.
   L’ultima arrivata parve imporsi, tanto che a Philip venne un colpo allo stomaco: era grossa almeno il doppio della prima, forse era tre metri e la bava, copiosa, gli lambiva le zanne: rivoltante.
   “Non posso fronteggiarle normalmente con la fratellanza qui dietro!”
   « Andatevene! Le tengo io a bada, salvate Angeline! » si rivolse urlando ai presenti.
   Quasi avessero percepito l’ordine al volo, i fratelli si alzarono all’unisono, impugnarono spade e scudi, pronti a proteggersi a vicenda.
   “Che stanno facendo?”
   « Non vi lasciamo da solo Philip! », lo riprese uno al centro del gruppo facendo annuire tutti quanti, compreso il dubbioso Alexandre.
   Con un impeto di rabbia una bestia corse alla sua sinistra, mentre l’altra prese la direzione opposta, accerchiandolo; le loro possenti zampe scavavano il fondo bosco ad ogni passo mentre il fogliame era mosso dalle loro prestanti code e pesanti fetori.
   Una delle due lo guardava fisso, con gli occhi marrone corteccia, profondi quanto l’oceano: sembrava volerlo avvertire di stare alla larga da quel posto.
   Philip si specchiava dentro quei due iridi percependo in maniera distinta l’avvertimento ma non avrebbe mai cambiato idea.
   Entrambe le creature saltarono cercando di agguantarlo, pronte a divorarlo, ma con una schivata il giovane le aggirò.
   I fratelli erano terrorizzati, una cosa era combattere e fronteggiare dei demoni in forma umana, una cosa era vedersela con delle bestie assetate di sangue come quelle.
   Quando i due animali iniziarono a girargli attorno, Philip lasciò andare la spada mostrando gli artigli e i taglienti canini, ringhiando a più non posso, cercando di incutere alle bestie la stessa paura che gli avevano infuso nelle ossa.
   « È uno di loro! » esclamò qualcuno, ma a quel commento lo sbigottimento generale fu sovrastato dalle pesanti urla dei lupi e dai loro ringhi tenebrosi.
   “Non tornerò a essere quello di una volta, salverò Angeline, glielo devo”.
   Gettandosi contro il più grande senza timore, la creatura più piccola lo seguì a sua volta e non appena giunsero sull’enorme lupo, il biondo si smaterializzò sorprendendo tutti.
   Le bestie si azzannarono involontariamente per il collo: fiotti di sangue bagnarono i peli di entrambi mentre la più minuta, con il collo spezzato, cadde a terra morente.
   “Avanti, fatti sotto”.
   Il lupo nero prese la rincorsa e quando fu a pochi metri da Philip, il biondo si volatilizzò nel nulla.
   Il silenzio cadde nella foresta, accompagnato solo dal profondo respiro dell’animale che con l’olfatto cercava di individuare la preda.
   Fu in quel frangente che Alex strinse i pugni, afferrò la spada poco distante e si avventò contro la bestia nel momento stesso che questa lo squadrò da cima a fondo; era stato troppo lento e il gigante lo stava già attendendo con la bocca aperta.
   Non era riuscito nemmeno ad alzare la pesante lama.
   Ritto su due zampe il lupo squarciò entrambe le scapole del maestro e quando fu sul punto di addentare il fragile collo, Philip si materializzò proprio tra i due, subendo il profondissimo morso.
   Gli affilati denti penetrarono a forza fin quasi a strappargli la vita.
   Con un braccio teso il giovane richiamò a sé la spada gettata poco prima; ignorò il lancinante dolore e con un fendente diretto al petto della bestia, la squartò dal basso verso l’alto, spuntando con l’acciaio proprio dietro la nuca dell’animale.
   I due si accasciarono a terra trascinati dal peso del lupo mentre Leroy, bianco come un morto, aveva iniziato a tremare e sputare sangue.
   « Ragazzo ».
   Barcollante, Philip strisciò verso di lui tenendogli la testa alta per guardarlo dritto negli occhi; era come assistere alla morte di un padre e per il maestro era l’addio da dare ad un figlio.
   Le lacrime del discepolo bagnarono le labbra insanguinate di Leroy.
   Poi… prima di esalare l’ultimo respiro disse qualcosa.
   « Siete il mio orgoglio, mio figlio. Salvateli ».
   La testa divenne un improvviso macigno tra le mani del giovane per poi cadere a forza contro i ciottoli rossi del sentiero. C’era sangue dappertutto.
   “Lo farò”.
   Alzandosi, con le lacrime copiose, Philip fu circondato dalla resistenza e preso a calci per farlo inginocchiare a forza.
   « Siete uno di loro, morirete qui, subito! ».
   Con voce sommessa, quasi venisse dall’altro mondo, tutti si voltarono verso il corpo senza vita di Alex udendo chiaramente il suo solito tono.
   « No. È uno di noi ».
   La resistenza si sbloccò.
   Con un’espressione di vittoria Philip, con gli occhi ancora lucidi e arrossati per la pesante perdita, era riuscito a mantenere la calma e a manipolare circa venti persone, calmandole momentaneamente.
   Fortuna che avesse anche lui il potere degli immortali…
   I cavalli però erano fuggiti assieme ai viveri, al contrario delle armi, sparse qui e là sul sentiero.
   Il biondo, zoppicante, s’incamminò: tutti lo seguirono, compresi i più scettici.
   Non ce l’avrebbe fatta a combattere ma oramai non aveva altre possibilità: rimpiangeva la morte del maestro e doveva  esaudire il suo ultimo desiderio; tutti avrebbero provato a esaudirlo.
   La notte prima, infatti, Alexandre aveva rivelato il legame di parentela con Angeline e poiché lei era l’ultima nipote, la principessa, aveva usato quella scusa per promuovere definitivamente la campagna.
   Anche se non si fidavano, chi ora avrebbe girato i tacchi per fuggire? Angy era l’ultima erede al trono, dovevano salvarla.
   Improvvisamente Philip cadde esausto, la mano sul dolorante collo: aveva un prurito spaventoso attorno la ferita.
   Ogni vena bruciava come l’inferno.
   « State bene? ».
   « Me la caverò, andiamo ».
 
 
 
 
    Ry ammirava soddisfatto e un po’ dubbioso il paesaggio d’innanzi al castello: era immenso e sconfinato, gli alberi erano svegliati delicatamente dal vento mentre il sole sorgeva dal lato opposto delle mura; presto avrebbe dovuto rifugiarsi...
   Le nuvole erano lana nel cielo eppure di tanto in tanto sbuffi di fumo si alzavano dalla foresta oscurandolo.
   Qualcosa non quadrava.
   Si era affacciato di sfuggita da ogni finestra della fortezza e aveva notato chiaramente che le vecchie casette dei taglialegna erano state incendiate di proposito.
   Ora, trasportati dal vento, la cenere e il fumo giungevano con violenza nelle sobrie stanze dorate rendendo l’aria pesante e irrespirabile.
   Non era lo stratagemma perfetto per confondere il nemico: cosa diavolo stava facendo la resistenza?
   E perché il vento faceva convergere i fumi tutti nel forte?
   Che magia era?
   Bè, almeno i suoi uomini erano già a guardia su tutto il perimetro e attendevano l’imminente attacco; il problema era appunto respirare.
   L’ossigeno sembrava avvelenato.
   Ice dormiva beatamente nella sua stanza rassicurando il sovrano: qualora si fosse alzato, sarebbe stato un suo discepolo a tutti gli effetti e avrebbe combattuto al suo fianco per primeggiare sulla terra; quello che stava accadendo con la resistenza era solo una scocciatura, era un altro il vero problema.
   Erano quei lupi il loro obiettivo.
   Quando i raggi solari avevano ormai iniziato a illuminare le mura, l’unica soluzione per ovviare al problema sarebbe stata quella di nascondersi nei sotterranei attendendo con impazienza i nemici, magari sorprendendoli con un’imboscata; era infatti troppo pericoloso fronteggiarli nei lunghi corridoi o nelle gigantesche sale da ballo, tutto era tappezzato di finestre a mosaico e la luce non gli faceva bene, certo non li uccideva ma li rendeva deboli.
   Ry odiava dormire con qualsiasi abito e dato che quella teoricamente sarebbe stata l’ora del riposo giornaliero, era nudo: si alzò definitivamente rivestendosi, indossando persino il lungo mantello nero, impugnò la spada per riporla al sicuro nel fodero e la appese alla cintola.
   Si avvicinò al maestoso specchio a muro e rimase poco più di qualche secondo a rimuginare qualcosa, poi uscì recandosi nella sala principale.
   C’erano le dominazioni in gran completo, tranne quelle di guardia che girovagavano per la tenuta.
   « Quest’oggi dormiremo nei sotterranei, date l’ordine di lasciare aperte tutte le porte, sarà una giornata epica ».

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Capitolo 39
*** Capitolo 3.7 ***


CAPITOLO      3.7
 
 
 
 
 
   La finestra aperta lasciava entrare un vento caldissimo nella stanza facendo sventolare a più non posso le stupende tende di lino bianche della 444.
   La porta del bagno si era aperta una cinquantina di volte per poi richiudersi con violenza. Sbatteva e sbatteva in continuazione.
   Il mal di testa era enorme, nemmeno una siringa concentrata di adrenalina avrebbe smosso il ragazzo che sul letto, mezzo nudo, era ancor per metà sotto la furia riccia.
   Tlin tlin,tlin tlin.
   Era familiare quel suono, lo aveva ascoltato la prima volta quando aveva settato il cellulare appena aperto dalla scatola e quella era la seconda volta che lo risentiva.
   Sbadigliava e si stiracchiava come un bimbo, apriva e socchiudeva gli occhi ancora addormentati, quando un lampo lo fulminò.
   « La sveglia cazzo! ».
   Buttandosi giù dal letto e trascinandosi quasi tutto il lenzuolo, compreso il materasso, s’infilò i jeans, i calzini….
   « Dov’è quell’altro! ».
   Buttò all’aria ogni cuscino, rovesciò ogni cosa, finché non lo trovò e s’infilò entrambe le scarpe. « Porca troia ma quanto ho dormito! Cazzo cazzo cazzo! ».
   Si ricordava bene: aveva settato la sveglia quando aveva comprato il nuovo telefonino, ma tarato peggio di un orologio atomico, si alzava come al solito cinque minuti prima del fatidico tlin tlin ad Amsterdam, spegnendolo anticipatamente ogni giorno, ora invece era in terribile ritardo. Fortunatamente era stato previdente impostandola a poco meno delle ventitré e mezzo e l’incontro era a mezzanotte.
   Girovagò per la camera come un gatto alla ricerca di una via d’uscita e trovò solo la giacca; la camicia l’avrebbe ricomprata, in fondo aveva speso solo quattrocento euro per quel pezzo di stoffa.
   Prese gli effetti personali, chiavi, occhiali e portafogli, poi si voltò: la bellissima vampira era nuda, ancora dormiente nonostante il baccano che avesse fatto e la coperta, quasi del tutto in terra, nascondeva solo una parte della schiena e dei glutei.
   Il resto era in bella mostra.
   I capelli ricci e mossi erano allargati sul gigante cuscino come dei serpenti e il suo respiro era regolare; stava bene.
   Per fortuna
   Nei vampiri, infatti, quando il bisogno sessuale diveniva incontrollabile, capitava che accadessero spiacevoli sorprese a letto: la caratteristica della loro specie era quella di farlo due, tre volte al giorno – come minimo – per sfogarsi, era sempre stato un loro bisogno, ma quando qualcuno rientrava dall’astinenza o era troppo su di giri per via della mancanza dell’atto, uno dei due si svegliava sempre mezzo rotto. Ovviamente poi guariva ma rovinare un corpo così stupendo gli sarebbe dispiaciuto.
   Prese l’ascensore e scese nella hall. Si recò alla reception, fortunatamente aperta ventiquattro ore su ventiquattro, e salutò la ragazza con il fiatone.
   « Salve! ».
   « Buonasera a lei Signor Curtis, vuole che le chiami la limousine? ».
   « Sì grazie. Ma mi tolga una curiosità, ha visto l’altro ragazzo? Mi era sembrato di capire che facesse lui il turno di notte ».
   Imbarazzata e abbastanza sconcertata, la ragazza abbassò visibilmente lo sguardo facendo finta di armeggiare con una pila di fogli, tentando di sistemarli quando erano già spillati e ordinati.
   « Bè era così infatti. Ha avuto un incidente con la macchina ieri sera dopo il lavoro, ora è in coma. Dicono si sia addormentato al volante. Mi scusi ».
   Addolorata dalla notizia del suo collega la ragazza scoppiò in lacrime cercando in egual maniera di svolgere il suo lavoro ma Mike, che era solo nell’atrio, la lasciò sola uscendo in strada dove la Hummer stava già attendendolo.
   Entrò al volo e si chiuse subito lo sportello alle spalle, poi l’interfono si accese rivelando la voce dell’autista:
   « Dove la porto stasera Signore? ».
   « Ha presente la parte abbandonata del vecchio porto? Dove ci sono tutti quei container? ».
   « Signore? »,
   Chiese meravigliato l’autista, sapeva bene che quella zona della città faceva da sfondo alla malavita e alla criminalità organizzata. Si vociferava che nemmeno fosse pattugliata dalla polizia da chissà quanti anni…
   « Mi porti lì grazie ».
 
 
 
 
   « Sì signore, si erano messi d’accordo. Sì. Hanno riempito l’auto di proposito di vecchi stracci depistando le nostre indagini. Il computer di bordo è stato manomesso ma i tecnici l’hanno rimesso a nuovo. Come dice? Sì, in memoria c’era la loro destinazione, la biblioteca. Abbiamo seguito la strada al contrario; siamo arrivati proprio ora, la tengo informata ».
   Il Vaticano opera nel bene, continuava a ripetersi George.
   Uccidere quei due ragazzi era stato necessario, obbligato da una promessa avrebbe protetto il mondo costi quel che costi, anche se ora era più confuso che mai. Erano giovani, troppo per morire così, ed era sicuro che quel peso opprimente lo avrebbe accompagnato fino alla fine dei suoi stramaledetti giorni.
   Le ricerche avevano spinto lui e la sua squadra, un mini esercito composto di dieci uomini ultra equipaggiati, sino al porto; cercavano qualcuno anche loro…
   Al centro del gruppo, armato come al solito della preferita desert eagle, la squadra si muoveva cautamente tra gli altissimi container abbandonati.
   Erano le undici e mezzo di sera e benché si trovasse in Africa, quella notte era decisamente più fredda delle altre; i passi dei dieci uomini erano attenti e silenziosi ma nonostante ciò, i loro movimenti erano ben distinti tra le lunghe pareti di metallo.
   Era un vero e proprio labirinto, centinaia e centinaia di cassoni grandi più di sette o otto metri erano sparsi qua e là proiettando i visitatori, qualora si fossero divisi, in una giostra solitaria e senza uscita.
   A complicare le indagini era scoppiato anche un temporale che oltre a rumoreggiare sui container, aveva magicamente creato delle pozze d’acqua così profonde da costringere i militari a trovare più di una volta delle strade alternative.
   Il terreno faceva schifo. Nel vero senso della parola.
   Gli occhiali a infrarossi in dotazione non servivano a molto poiché ad accompagnare le pesanti gocce d’acqua erano subentrati anche numerosi fulmini.
   Tutto stava disturbando la missione dei Genesi; la squadra speciale formata dagli 007 dello stesso Vaticano.
   Loro avevano il compito di far luce su cosa avessero scoperto i due ragazzi egiziani, Samia e Hasan.
    Ma perché le indagini li avevano condotti fino al quartiere più malfamato del Cairo?
   « Stop. Fermi tutti ragazzi, ho sentito dei rumori provenire dall’altra parte, in formazione ».
   Mossi dalle vecchie regole di base tutti quanti, compreso George, si disposero dietro Mcdouglas, un ex marines cacciato dagli States per il suo carattere riprovevole.
   Era principalmente un lupo solitario, il più astuto e in gamba della squadra, e anche il più incosciente.
   Lentamente, a turno, corsero nell’angusto corridoio formatisi tra due container e si divisero: Mcdouglas rimase lì, immobile con altri tre uomini, mentre gli altri si erano posizionati dall’altra parte.
   Avevano allargato il loro campo d’azione, sicuri di accerchiare chiunque fosse. George era con loro.
   Le ricetrasmittenti funzionavano a dovere, almeno quelle, e sincronizzandosi tutti allo stesso modo, iniziarono col disegnare un possibile attacco.
   Circa tre minuti dopo, la squadra capeggiata da George si divise ulteriormente lasciandolo con soli due uomini, gli altri tre si erano allontanati: due avrebbero raggiunto uno dei container poco distanti, coprendo così anche il lato ovest, mentre all’altro era capitata la gru.
   Avere una visione ottimale della zona era una priorità ma doveva limitarsi a tenere sott’occhio la situazione dall’alto, solo qualora fosse stato necessario doveva iniziare il cecchinaggio, Zeta lo sapeva.
   « Ecco, la vedete? », domandò attraverso il microfono George sentendo per tempo il motore e i fari di una lussuosissima auto.
   « È proprio bella. Sentite ragazzi, vi lascio la mia paga se non me la scheggiate, quel gioiello torna a casa con me intesi? », ordinò invece Mcdouglas.
   Le luci di posizione, i fendinebbia e gli abbaglianti erano inseriti costringendo una volta per tutte i Genesi ad abbandonare gli infrarossi per non esser accecati.
   La pioggia era divenuta più copiosa e aveva iniziato a impregnare il viscido terreno così come i giubbotti dei presenti.
   « Ho un riscontro », disse l’addetto al palmare.
   « Parla » lo apostrofò scocciato il lupo solitario posto all’ombra dell’altro container.
   « La targa parla chiaro, è stata acquistata di recente dal Gran Palace Hotel, costruita ed importata direttamente dall’America ».
   « Deve esserci un pezzo grosso quindi là dentro. Attendiamo », ordinò George prima di interrompere le comunicazioni.   
   Quell’Hummer era favoloso, cerchi in lega da ventuno pollici, vernice nera traslucida, cromatura su maniglie vetri e cofano; finestrini oscurati: splendido.
   Erano passati circa trentasette minuti da quando la gigantesca limousine aveva parcheggiato al centro dello spiazzo restando per tutto il tempo con i fari accesi, diretti proprio in direzione di George e compagnia bella, ma cautamente i nove uomini non si erano fatti vedere.
   La notte era giovane, da poco era scoccata la mezzanotte, ma sia Mcdouglas che tutti gli altri stavano perdendo la pazienza, compreso il cecchino, già posizionato a metà gru.
   Finché il sensore di movimento non captò qualcosa.
   « Signore, signore », batté con forza lo 007 sul braccio freddo e indolenzito di George che continuava a scrutare la macchina in attesa che accadesse qualcosa. « Cosa c’è? ».
   « Il palmare indica il sopraggiungere di una ventina di uomini proprio dall’altra parte dello spiazzo e sembra si muovano in formazione ».
   Senza perdere la calma, scrutando con attenzione oltre la lussuosa auto, tutti quanti, ascoltato l’interfono, cercarono di individuare qualcuno oltre lo spiazzo.
   « È impossibile vedere ».
   Ovvio, con i fari puntati contro!
   « Qui è Zeta. Dalla gru ho una visuale migliore. Sembrano… sembrano dei militari: fucili d’assalto, kit per le situazioni d’emergenza, giubbini in kevlar, un artificiere mi pare e un lanciarazzi ».
   « Cosa cazzo ci fanno con un lanciarazzi! », urlò al microfono l’irrequieto Mcdouglas.
   Mantenendo la calma, George studiò con minuziosità ogni elemento presentatogli per poi ordinare alla sua squadra: « Sanno a cosa vanno in contro e sembrano più preparati. Attendiamo una loro mossa, poi entreremo in azione ».
   Mi preoccupa la limousine però…
 
 
 
 
   Qualcosa non quadrava. Smith aveva perlustrato tutta la città e si era messo all’opera fin da subito nonostante lo stancante viaggio dal laboratorio del Sahara; aveva setacciato con i suoi uomini quella zona della città già qualche giorno prima: non trovando niente, e ora i numerosissimi agganci della corporazione gli suggerivano che qualcuno girasse nella città armato fino ai denti?
   Erano sulle tracce di un gruppo di mercenari?
   Patriottici?
   Chi poteva saperlo. In ogni caso quella notte sarebbe stata di fuoco.
   In quella zona abbandonata del porto avrebbe potuto far baccano senza incappare nella polizia o in un richiamo verbale da parte del fratellone, era malato per la battaglia e non vedeva l’ora di dare inizio alle danze.
   « E se stessero bramando quello che cerchiamo noi? ».
   Doveva essergli sfuggito qualcosa se erano tornati ancora una volta nella zona del porto abbandonato.
   « Fate sapere al generale qual è la situazione, contattatelo con un messaggio. Non perdete troppo tempo, a quanto pare il loro campo d’azione è molto più vasto del nostro, ed hanno un cecchino già sistemato », disse guardando verso la gru, « Non possiamo muoverci ».
   « E quell’auto signore? », chiese un cadetto.
   L’aveva notata subito ma non ci aveva badato più di tanto, capitava spesso che qualche riccone si appartasse nei quartieri più malfamati della città per sniffare o darsi al sesso di gruppo e quel posto era l’ideale.
   Peccato però che avessero scelto la serata sbagliata: l’hummer era al centro di un apparente campo di battaglia.
   « Ignoratela. Cercate di aggirare il raggio d’azione del cecchino e dividetevi in quattro squadre da cinque. Tu, tu tu e tu, restate con me. Gli altri si allarghino tra questi corridoi facendo attenzione. Avete le radio, usatele se siete in difficoltà; non sappiamo quanti sono e perché siano qui. Andate ».
   Brown era diretto negli ordini, non ricordava nemmeno i nomi dei suoi uomini ma a loro non importava perché sapevano bene che con tutti i militari presenti nell’Hide sarebbe stato impossibile tenerli tutti a mente; la squadra si aprì improvvisamente dividendosi.
   Quando erano partiti non avrebbero mai immaginato di fronteggiare un’altra organizzazione, per questo molti di loro erano in ansia, ma l’addestramento ricevuto li aveva resi uomini eccezionali; anche in casi come quello avrebbero mantenuto la calma. E poi, forse, erano persino in superiorità numerica.

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Capitolo 40
*** Capitolo 3.8 ***


CAPITOLO      3.8
 
 
 
 
 
   Ignaro di trovarsi a pochi metri da un campo di battaglia degno di una guerriglia in Medio Oriente, Ice dormiva beatamente tra i morbidi cuscini offertigli dai defunti ragazzi egiziani, in uno dei container che con molta probabilità i militari stavano affiancando per ripararsi dai mirini nemici.
    Il sonno non era profondo, non più almeno, e la sua mente, rilassata, stava via via ricordando sempre più il suo travagliato passato.
   I suoni erano profondi, ad ogni passo un eco infinito giungeva alle orecchie del giovane in maniera confusa; il castello era freddo e spento. Persino affumicato ora che ci faceva caso.
   « Come vi sentite? », chiese Nicolas al biondo Philip, visibilmente scosso.
   Finalmente erano giunti alle porte del forte, stranamente pronto ad accoglierli; erano più che confusi.
   « Bene », “Non mi sono mai sentito così prima d’ora”.
   La ferita sul collo si era rimarginata e stranamente il bruciore era scomparso. Si era abituato a quell’infezione e ora era nel pieno delle forze.
   La voglia di salvare Angeline era più forte di qualsiasi altra cosa.
   Entrarono.
   Uno scalone con il corrimano decorato a oro, le alzate marmoree con un lungo tappeto rosso, i giganteschi quadri, le vetrate a mosaico tutte colorate, lo strano stemma degli immortali impresso sopra: l’entrata, da sola, metteva più brividi che altro.
   Poi perché faceva così freddo tra quelle mura?
   Verso la fine del viaggio la resistenza aveva potuto studiare ancora una volta la pianta, minuziosamente descritta da Philip, ed erano giunti tutti a una semplice conclusione: dovevano restare uniti.
   Fronteggiare un immortale alla pari li avrebbe condotti a morte certa, dovevano quindi attaccarli in superiorità, anche tre contro uno.
   Lentamente, capeggiati dall’intrepido biondino, perlustrarono ogni stanza, ogni piano, finché non s’inoltrarono in una parte del castello così tenebrosa da bloccarli sul posto.
   Cinque esseri erano nel bel mezzo di un corridoio, intenti a sorvegliare un’entrata.
   Chi c’era nella stanza? Era forse un’imboscata?
   « Philip qui ci pensiamo noi, voi andate avanti ».
   “Nemmeno per sogno, Angeline potrebbe trovarsi la dentro”.
   Sguainando la lama e attirando su di sé gli sguardi accattivanti dei nemici, Philip prese a correre verso di loro smaterializzandosi e comparendo qualche metro più avanti, sorvolando in pochi secondi il lunghissimo corridoio.
   I compagni, vista la sua velocità, lasciarono le lame e impugnarono gli archi scoccando all’unisono dei dardi in maniera così impeccabile che raggiunsero i bersagli proprio mentre il biondo stava per colpirli a morte.
   Non ci volle tanto a ucciderne due.
   Ora ne mancavano tre.
   Nicolas, che conosceva bene il modo di combattere delle dominazioni, aveva il sangue che gli ribolliva nelle vene: non era ancora riuscito, dopo anni, a superare il trauma della morte della famiglia, così prese a correre con altri due compagni affiancando il biondo nella piccola battaglia.
   Le spade tremavano e si scagliavano violentemente una contro l’altra rimbombando nel lungo corridoio di pietra e dopo pochi minuti, la zuffa si concluse con tre lampi di luce in rapida successione.
   Ora i fratelli erano tutti vicini alle spalle di Philip, impazienti di aprire la porta: era bloccata e il metallo, ghiacciato, impediva a chiunque di aprirla.
   « Allontanatevi », ordinò Philip.
   Dirigendo il palmo della mano contro la serratura, il giovane chiuse il pugno e stringendo violentemente la morsa scardinò l’ostacolo gettandolo verso la fine del corridoio; dalla parte opposta dalla quale erano venuti.
   Entrò al volo nella stanza, apparentemente normale, e non vi trovò nessuno.
   « Angeline! ».
   Fece un rapido giro attorno al letto, disfatto, guardò nell’armadio vuoto e si affacciò alla finestra.
   « Angeline! ».
   Uscì furioso in corridoio diretto verso le altre zone del palazzo.
   « Dove andate? », urlarono un paio dei suoi mentre tutti gli altri cercarono invano di trattenerlo.
   Si erano divisi. E non era un bene.
 
 
 
 
   Philip era fuggito via in preda alla rabbia portandosi dietro più della metà della fratellanza. Nicolas era rimasto nella stanza con altri tre compagni in cerca d’indizi ma non vi aveva trovato nulla.
   Perché le dominazioni dovevano sorvegliare una stanza vuota?
   Ora era immobile davanti lo specchio dorato intento ad asciugarsi il sudore con un fazzoletto: avevano fatto fuori cinque immortali in pochi minuti, non male.
   La piccola ferita sul braccio provocata dal pugnale di uno di quei bastardi era rossa come i suoi capelli e gli occhi azzurri erano esausti ma profondi…così come…
   « Ice! ».
   Fluttuando nell’aria il giovane aveva guardato dall’alto lo svolgersi dell’intera scena in silenzio.
   « Attento! », urlò uno dei due quando improvvisamente il ragazzo si avventò su di lui spalancando le fauci e gli artigli.
   « Fermo! No Ic…».
   Urla di terrore riecheggiarono tra le mura giungendo fin sotto, dove Philip si era immobilizzato.
   « Nico ».
   « Ormai è tardi », disse il biondo addentrandosi in un corridoio pieno di mezzi busti e quadri d’altri tempi: una grata metallica era spalancata e per metà immersa nell’oscurità. Li attendeva.
   « Guardate qui » disse qualcuno rivolgendosi ai compagni.
   I mezzi busti rappresentavano uomini colti o almeno così apparivano, guerrieri e cavalieri, tutti sorridevano in maniera vistosa e tutti mostravano fieri i loro canini sporgenti; a quella vista Philip soffiò d’istinto come un gatto mettendo alla luce la sua bianchissima dentatura.
   Tutti i fratelli lo guardarono in silenzio.
   Erano spaventati, non si fidavano ciecamente, ma in cuor loro sapevano che quel gesto indicava chiaramente da che parte dello schieramento fosse.
   Intrapresero lentamente il corridoio delle statue giungendo in prossimità della porta d’acciaio e uno per volta, silenziosamente, entrarono nelle tenebre.
   Ignari del pericolo cui stavano andando incontro.
   Le gallerie sotterranee sembravano esser state scavate nella pietra e da come si presentavano, sconnesse e male illuminate, doveva esser proprio così.
   Le lampade a olio erano sorrette da ganci di ferro arrugginito in maniera assai blanda, nonostante il palazzo fosse la degna reggia di un conte.
   Le pareti erano fredde, in terra gli scarponi scivolavano tra le pozze d’acqua stagnante e il caldo respiro dei presenti sembrava fumo.
   La temperatura era glaciale.
   Quando raggiunsero la fine della galleria, uno spiazzo illuminato da una trentina di candele li attendeva: in terra le cere erano perfettamente sistemate e formavano un cerchio geometricamente ineccepibile.
   Sembrava l’iniziazione di qualche rito satanico. Poi, improvvisamente, il giovane a capo dei fratelli sentì qualcosa nell’aria; un odore di fresco e pulito.
   « Restate uniti! ».
   Cadendo dall’alto, come fossero pipistrelli, le dominazioni atterrarono la maggior parte degli ospiti mettendoli in seria difficoltà; fortunatamente quei semplici umani sapevano il fatto loro e dopo un inizio incerto, le spade di entrambe le fazioni iniziarono a scintillare.
   Solo Philip invece, con un balzo, schivò uno dei mostri rotolando poco distante.
   « Non apritevi, restate vicini! ».
   Con un occhio acutissimo il biondo aveva notato che da quello slargo si protraevano altre tre o quattro gallerie. Non dovevano dividersi. Già aver lasciato Nico era stato un errore.
   I chiaro scuri erano troppo pesanti e le ombre impazzite degli spadaccini rendevano tutto più confuso, fu proprio mentre il suo sguardo studiava l’ambiente che fu attaccato improvvisamente dallo stesso mantello scuro che si era gettato su di lui poco prima: era Ry.
   « Edouard ».
   Con una velocità incredibile il giovane estrasse la spada scintillante deviando la sferzata del suo nemico proprio verso la parete alle proprie spalle.
   « Osate entrare in casa mia, sporco traditore ».
   All’insulto seguirono urla di dolore e lampi di luce – segno che qualche immortale era stato ucciso – e il verso gutturale delle corde vocali di Philip.
    I denti del biondo si allungarono molto più rispetto le altre volte mentre gli occhi, scuri come le rocce, rifletterono i taglienti artigli avvinghiati al manico della lama.
   Quella di Alexandre.
   Aveva deciso di battagliare con quella del maestro per vendicarlo.
   Tra la zuffa generale i due avversari sembravano ricavarsi lo spazio sufficiente per duellare; talvolta dandosi il fianco per schivare i presenti che in quella “guerra personale”, erano solo d’intralcio.
   Philip si smaterializzò improvvisamente e così fece Ry.
   I due apparvero qualche metro più lontano sferragliando le loro lame, per sparire subito dopo.
   Quando uscirono nuovamente allo scoperto, con un colpo da maestro, il giovane si gettò in terra raccogliendo la spada di qualcuno, evidentemente già morto.
   Ora aveva due lame, ciò che più lo entusiasmava, così iniziò a sventolarle contro il nemico…
   Glielo aveva insegnato Alex.
   Il sovrano però non mostrò paura e senza preavviso si gettò a viso aperto tra le possenti braccia di Philip, pugnalandolo alla coscia con un coltellino nascosto.
   L’arma rimase nella carne. Disgustoso.
   Con un balzo degno di un ballerino poi si trovò alle spalle del biondo e con un colpo secco, lo infilzò sull’altro arto.
   Fortunatamente Philip si era spinto in avanti cercando di riparare le parti vitali.
   Ora però aveva entrambe le gambe sanguinanti che a malapena lo sorreggevano.
   Impugnò il coltello e lo tolse digrignando i denti e serrando la mascella; cercando di offuscare il dolore nel miglior modo possibile.
   Il cuore batteva a mille, tanto che il fiotto di sangue smise di sgorgare solo quando si fu inginocchiato; era una scena biblica, nessuno si sarebbe mai aspettato una simil fine dal giovane che con tutto il cuore si era ripromesso di salvare la sua amata.
   Nonostante ciò, nessuno vi badò.
   Stava morendo da solo.
   Oramai le dominazioni e la fratellanza avevano ingaggiato la battaglia finale per primeggiare.
   Nessuno si curò di lui.
   Con passo lento il bastardo inglese si avviò verso di lui per terminare il lavoro.
   Philip, stremato e con i capelli sudati, era poco fuori il cerchio di candele con lo sguardo stanco rivolto alle rocce e alle ferite poco più in basso.
   Non era quello il combattimento che il suo maestro si sarebbe aspettato e non avrebbe di certo gettato la spugna a quel modo.
   Gli occhi erano smarriti, persi e mai erano stati così neri. La vista andava e veniva, “tanto basta”, si disse.
   « Puzzate di paura come quelle sudice bestie ».
   Allungò una mano e prese il pugnale.
   Con un attacco fulmineo lanciò con violenza il piccolo coltello proprio all’altezza del viso del nemico.
   Il sibilo tagliò tutto il campo di battaglia.
   Ry, grazie a dei riflessi sovrannaturali, compì una ruota all’indietro e ricadde sulle gambe, a pochi metri dalla parete: il piccolo pugnale si andò a conficcare proprio nella roccia alle sue spalle.
   Sorrise nel vedersi tutto intero ma quando tornò a posare gli occhi su Philip, una visione agghiacciante lo traumatizzò.
   La spada di due metri e mezzo che il giovane aveva usato durante tutto il combattimento stava viaggiando a mezz’aria ritta come una freccia e in un baleno lo trapassò proprio al centro del tronco.
   Il torace scrocchiò come fosse un ramoscello e la lama penetrò fino in fondo.
   La punta scintillante andò a sbattere contro una roccia sporgente mentre il manico, color rosso sangue, era entrato in contatto con il petto tanta era stata la violenza con cui Philip l’aveva scagliata.
   In una luce accecante la possente arma fu risucchiata nel nulla seguita dall’immortale che prima di dire addio alla vita, lanciò un urlo talmente forte da risuonare in tutto il castello.
   Il giovane aveva vinto.
   Non era in grado di fronteggiare un nuovo duello ma quando si accorse che quasi tutti i suoi alleati erano a terra in fin di vita, fu costretto a rialzarsi come un leone, consapevole di dover dare tutto se stesso per riuscire a trovare Angeline.
   Ma… non era strano? Possibile che nessuno ne avesse fatto parola? Dove la tenevano nascosta?
   Lentamente la ferità iniziò a rimarginarsi mentre in un baleno fu accerchiato dagli avversari; tremante guardò attorno quasi in preda al panico, cercando di mantenere la lucidità per capire contro quanti uomini si trovasse.
   Troppi. Non ce l’avrebbe mai fatta. Non riusciva nemmeno a contarli.
   Improvvisamente una presenza calda alle sue spalle lo distolse per un attimo dalla battaglia, dandogli manforte.
   Si voltò quanto bastò per capire chi fosse.
   Era stremato e per di più senza un’arma.
   Quasi ne avesse letto i pensieri, una mano gli tese la spada più bella che avesse mai visto.
   In realtà non aveva nulla di speciale, ma in quel particolare momento, l’arma gli sembrò stupenda, sicuramente la più bella mai impugnata.
   Il viso stanco e affranto fu presto illuminato da un sorriso delicato e vero, quando con sua soddisfazione fu raggiunto da due occhi azzurri come il mare.
   Lo guardavano con ammirazione e gli stavano dicendo con convinzione che lo avrebbero salvato.
   Lo sentiva dal profondo.
   Ice gli stava coprendo le spalle e insieme erano al centro delle dominazioni.
   « Sono qui fratello », lo rassicurò.
   Piangendo silenziosamente Philip tornò a voltarsi contro il resto delle dominazioni e insieme diedero inizio all’ultimo assalto.
   Benché fosse cieco, il moro aveva la capacità di schivare e duellare senza difficoltà anche contro più di tre spade alla volta, spostandosi volontariamente d’innanzi a quello che oramai considerava come un fratello, aiutandolo e proteggendolo.
   Venendo persino colpito per salvarlo.
   Aveva ascoltato minuziosamente tutto il combattimento avvenuto fuori la sua porta tanto che quel dormiveglia in cui era incappato era stato presto interrotto.
   Alla faccia di Ry che credeva sarebbe durato settimane intere!
   Philip gli aveva riportato i ricordi, oltre che la redenzione.
   I flashback del passato lo avevano definitivamente svegliato da quel torpore.
   Maurice, Alain, Alex e Philip…
   Come poteva averli dimenticati?
   Non ci aveva messo molto a capire gli errori che lo avevano spinto a capofitto nel sentiero del male, ma ora era tornato con i piedi per terra.
   Stava proteggendo il suo amico, suo fratello.
   “Questo è il vero Ice”.
   I due tennero testa a tutte le dominazioni, comprese le dieci morti, mentre lampi di luce accecavano il felice Philip in segno di vittoria.
   Non ne mancavano molti, forse due o tre, quando il giovane salvatore cadde inspiegabilmente a terra; con le mani sul pavimento, a gattoni: sudava e sputava sangue, seppur non fosse stato colpito a morte.
   « Ice! ».
   « Quegli occhi…».
   Un immortale aveva già teso la lama sul collo del moro, pronto a decapitarlo.
   Philip prese la rincorsa e quando la dominazione fu per abbassare il tagliente ferro, il giovane biondino si gettò a capofitto sotto l’arma.
   I vestiti furono stracciati e il rumore disgustoso della carne aperta irruppe nei tunnel.
   Philip fu colpito a morte, proprio sul fianco sinistro, vicino al cuore.
 “Non è possibile!” si maledì Ice.
   Con lo sguardo tremante il moro aveva notato che quello era l’ultimo bastardo rimasto, li avevano uccisi tutti maledizione!
   Che scherzo del destino era quello?
   Come poteva Philip farsi colpire a morte dall’ultimo?
   L’ultimo!
   Con una rabbia spaventosa Ice si alzò di scatto facendo indietreggiare l’ignobile omicida.
   La ferocia del giovane fu inaudita: gli occhi, più bianchi che celesti, erano lampade sul suo viso infuocato.
   L’avversario cercò di scappare ma a quel punto accadde qualcosa d’imprevedibile.
   D’inevitabile.
   Angeline, arrivata per assistere allo scontro, si era sorretta a malapena vedendo Philip colpito a morte e dopo un paio di boccate d’aria, prese per non svenire, si era lanciata in mezzo allo spiazzo dei sotterranei.
   Il sangue bagnava le sue vesti, così come le lacrime che le solcavano gli zigomi.
   Non era pulita e limpida come il solito, ma era ugualmente la creatura più bella che Ice avesse visto.
   Era cieco ma la vedeva.
   Mancavano pochi metri tra lei e il suo amato in fin di vita quando quel figlio di una buona donna non si girò per darsela a gambe, infilzando nel mezzo dello stomaco la bellissima fanciulla.
   I suoi occhi si spalancarono improvvisamente e per la forza con cui continuò ad andare avanti, sfilò di prepotenza l’arma dall’immortale andando a schiantarsi proprio al centro del cerchio di fuoco.
   Il sangue le sgorgava come un fiume in piena e gli occhi senza vita, spenti, si bloccarono sul soffitto.
   Così come quelli di Philip che a malapena riusciva a vederla.
   Il moro allungò una mano sul pugnale a pochi centimetri da Philip e, dopo averlo afferrato con la forza del pensiero, lo scagliò con violenza contro il fuggiasco; uccidendolo in uno sbuffo di luce.
   L’emorragia era enorme e niente l’avrebbe salvata, benché Ice si gettò all’istante su di lei, cercando di alleviarle la caduta; purtroppo però, era arrivato troppo tardi.
   Le ultime parole di Philip furono lanciate con un urlo stridulo nei suoi confronti, prima di lasciarsi andare per seguire la sua amata.
   Aveva perso tutto, continuare a combattere per la vita non gli importava più.
   « So che potete. Salvatela, vi prego. Addio fratello ».
   Il flebile respiro del biondo si bloccò istantaneamente gettando i sotterranei nel silenzio più completo.
   Ice era rimasto solo, tra morti e svenuti.
   Ma perché si era accasciato poco prima? Non doveva succedere!
   Aveva visto i soliti occhi, ebbene?
   Non aveva MAI perso i poteri!
   Che era successo?!?
   Qualcosa comunque lo aveva indebolito ma non sapeva se fosse stata l’improvvisa apparizione di Angy; sapeva però che la memoria gli era inspiegabilmente tornata, come fosse un segno del destino.
   Peccato però che oramai fosse troppo tardi: il cuore della fanciulla non batteva già da parecchio e adesso era pallida come la neve.
   Le fiammelle si stavano anche affievolendo, reclamizzando la fine.
   Ice si avvicinò ugualmente a Angeline, cercando di esaudire l’ultimo desiderio del suo amico.
   « Vi chiedeste cosa avrei fatto per stupirvi », si rivolse alla bella ricordando il dialogo nella casetta del bosco.
   Ci fu una pausa infinita nella quale il giovane, con le lacrime agli occhi, si strinse nelle spalle fissando le labbra candide e il viso perfetto della principessa.
   Non ricordava perfettamente tutto ma la sua purezza bastò a strappare al giovane un commento che quasi non si accorse di pronunciare.
   « È questo il mio impossibile per voi ».
   Scendendo lentamente verso il basso, consapevole di rischiare tutto, chiuse gli occhi posando le morbide labbra su quelle vellutate di lei e, con un bacio, un semplice tocco, fece schioccare la luce nelle tenebre, accendendo improvvisamente tutte le candele.
   Il sole parve illuminare i sotterranei del castello con una luce talmente forte da rendere la giornata buia a confronto.
   Stava sacrificando i suoi poteri e se stesso, per portare in vita la donna che amava.

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Capitolo 41
*** Capitolo 3.9 ***


CAPITOLO      3.9
 
 
 
 
 
   Più i minuti, accompagnati dai secondi, scorrevano, più quella convinzione stava prendendo una reale forma nella mente di Mike.
   Erano in ritardo, chiunque si fosse degnato di presenziare all’incontro stava mancando all’appuntamento; e i vampires non erano mai dietro le lancette dell’orologio.
   Gli avevano dato buca; di cinquantamila o più consanguinei sparsi per l’Europa, nemmeno uno si era scomodato a raggiungerlo e ciò lo riempiva di rammarico.
   Disse all’autista di attendere un altro po’, giacché il segnale gps del telefonino era scomparso proprio lì, ma a quel punto successe qualcosa d’inaspettato; gettandolo nel caos.
   « Andiamocene…», disse tristemente Mike.
   L’hummer, intento a partire, fu spaccato da un tuono che ruppe il silenzio della notte.
   « Signore stia giù! », urlò l’autista attraverso i piccoli altoparlanti ai lati della limousine e non appena i due furono sui pregiati tappetini, i frammenti di vetro esplosero all’unisono.
   Durante la manovra i giganteschi fari avevano illuminato con facilità il fondo dello spiazzo e non era stato difficile scovare due o tre uomini armati fino ai denti.
   Subito dopo l’auto era esplosa in milioni di frammenti di vetro mentre i due “ospiti” tremavano nascosti sotto i sedili di pelle.
   Stava accadendo l’inverosimile, Mike urlava cercando di sovrastare quel rumore indescrivibile nato apparentemente dal nulla, maledicendo se stesso per non essersene rimasto a casa.  
   Eppure aveva controllato con cura la stringa con la password da immettere per leggere le mail, nessuno poteva essere a conoscenza di quel luogo d’incontro, o forse si?
 
 
 
 
   Dopo il fragore iniziale, gli uomini di Brown, ancora alla ricerca delle postazioni, si bloccarono improvvisamente guardandosi.
   Ci fu una sorpresa generale finché la voce incazzata del loro superiore non si materializzò nelle radio; era su tutte le furie.
   « Chi è quel figlio di puttana che ha aperto il fuoco! Fate rapporto! ».
   Una per una, le quattro squadre informarono il generale che rimase senza parole: era la fazione avversaria che aveva dato il via allo scontro.
   « Rispondete con il fuoco, voglio una vittoria schiacciante. Siete i migliori! ».
   Sia dall’una che dall’altra parte i bagliori prodotti dai fucili d’assalto illuminavano i lunghi e stretti condotti dei container, mentre la scintillante limousine nera riceveva proiettili di chissà quale calibro visto che i fori nella carrozzeria erano più o meno larghi quanto un pugno.
   La battaglia insorta era stabile, nessuna delle due fazioni faceva vittime poiché entrambe vantavano nelle proprie file personale altamente qualificato.
   « Chi cazzo sono questi! », esclamò Brown ad alta voce destando l’attenzione di quattro sui compagni, poi cambiò gli ordini, continuando in quel modo avrebbero solo perso tempo e munizioni.
   « Dividetevi, puntate tutti sul lato nord e non sparatevi tra di voi, dobbiamo raggiungere l’altro lato del porto! ».
   Impartito l’ordine, il comandante si gettò proprio al centro della piazzola, tra i proiettili che lo sfioravano, e con una scivolata arrivò al riparo cui ambiva: l’hummer.
   Fortunatamente era parcheggiato ortogonalmente rispetto i suoi avversari perciò sarebbe stato più al sicuro dato che i proiettili dovevano penetrare nell’anteriore, sorvolare tutti i sedili e chissà che altro, per poi bucare il baule e colpirlo: era impossibile a conti fatti.
   Quando inspiegabilmente la gomma di scorta, appesa proprio sopra la sua destra, esplose sbuffandogli in testa.
   « Come non detto! ».
   Era una situazione disperata, a tutti gli effetti, soprattutto quando l’auto decise di ripartire sgommando a tutto gas rischiando di investirlo; con un balzo riuscì ad aggrapparsi al copertone sgonfio, riparandosi dietro il brillante cerchio cromato e arrampicato fin sopra il lunotto posteriore, si gettò tra i sedili.
   « Oddio ».
   Un uomo, elegantissimo, stava sul fondo e si copriva le orecchie come una femminuccia ma quando si accorse dell’intruso, si voltò di scatto ringhiando e mostrando i canini: era un vampiro.
   Fifone a quanto sembrava.
   Con un colpo al volto, senza paura né timore, l’uomo scagliò con violenza il calcio del fucile contro l’immonda creatura facendogli perdere i sensi.
   Spinto dall’adrenalina, corse a testa bassa fino a raggiungere addirittura una piccola jacuzzi, però, la sorvolò e giunse finalmente alla vetrata oscura che divideva l’abitacolo dal resto della limousine; era esplosa anch’essa in mille pezzi e quando la valicò vide che sotto il volante giaceva l’autista, colpito da una pallottola vagante.
   Voleva guidare? Si era impazzito?
   Quando scivolò sul sedile dietro al volante, rimanendo accuratamente accucciato, spostò di qualche centimetro il corpo senza vita del giovane egiziano occupando posto sui pedali.
   Qualcosa però lo bloccò.
   Un vampiro? Non gli era mai stato perfettamente chiaro se Ice appartenesse a quella specie ma comunque ne aveva molti tratti somiglianti. Cosa ci faceva un vampiro, che dal volto bianco e tondeggiante non sembrava minimamente del posto, al Cairo?
  
 
 
 
   « Chi ha sparato per primo! ».
   « Io no signore ».
   « Nemmeno io ».
   « Neanche io ».
   Tutte le voci dei dieci uomini avevano negato: non erano stati loro quindi, in ogni caso Mcdouglas, serio e concentrato, non aveva risposto alla domanda.
   Stava ammirando il suo bellissimo Hummer andare in pezzi, non riusciva a crederci…
   No, non era stato nemmeno lui a far scoppiare i vetri del mezzo.
   Poi a dirla tutta sarebbe stato impossibile con un singolo colpo frantumarli tutti.
   « Zeta com’è la situazione da lassù ».
   Dopo un fruscio sconnesso e qualche secondo d’attesa la voce affaticata del cecchino prese in mano la situazione.
   « Signore sono dei fulmini, non riesco a prenderne nemmeno uno e con questa nebbia non vedo un accidente, gli occhiali servono a poco e il sensore di calore non è chiaro. Ogni volta che sparo, il proiettile si conficca in uno di quei container del cazzo ».
   Zeta non aveva tutti i torti, era una situazione delicata e nonostante quegli 007 fossero i migliori, a quanto pareva c’era qualcuno a un livello superiore.
   « Non darti per vinto ragazzo ».
   Ehi, ma… un momento. La lunghissima limousine aveva cambiato senso di marcia, pochi secondi prima stava sgommando in retromarcia e ora era diretta a tutta velocità proprio contro il container che dava riparo a Mcdouglas.
   « Spara Zeta, sparagli! ».
   Con tre colpi in successione le scintille sul cofano non impensierirono l’autista e non appena il nerissimo Hummer si schiantò contro le spesse lamiere, accartocciandosi, una ventina di Airbag esplosero come bombe rendendo la macchina un goffo palloncino ambulante.
   Con destrezza l’abile soldato scese dal lato oscuro al cecchino e fece il giro del container.
   « Cazzo », disse Smith.
   Tre uomini erano tra un bagno di sangue avvinghiati tra loro: uno era un suo cadetto, gli altri due…007?
   Prese dalla fondina la lucente M9 e svoltò l’angolo.
   Li aveva presi alle spalle.
   Quattro uomini affacciati sull’hummer sparavano e impartivano ordini: due su un lato e due sull’altro container, divisi dal muso della lussuosa auto.
   Brown camminò immerso nel buio con la pistola puntata, sicuro della sua posizione privilegiata: non lo avrebbero mai visto.
   L’istinto gli suggerì di sparare ma non se la sentì di uccidere a sangue freddo: doveva scoprire cosa c’entrassero i  “doppi zero” in quella faccenda.
   « Guardate la mia nuova auto, cosa gli hanno fatto! » disse uno.
   Silenzioso sorvolò i sette metri che lo dividevano dai nemici, tenendo costantemente l’arma puntata verso quello che con molta probabilità doveva essere il capo. Solo lui comandava infatti.
   Capelli scuri, pizzetto e naso delle più comuni fattezze; doveva essere il capo.
   Era sul lato opposto però e non sarebbe stato saggio tenere sott’occhio solo lui poiché la squadra, con licenza di uccidere, non avrebbe mai accettato un compromesso.
   Se voleva vincere, avrebbe dovuto tenerli sotto mira tutti assieme.
   Impossibile.
   Impugnò quindi l’altra pistola in dotazione e con due mani puntò le armi a quello più grosso e al capo dietro l’altro container.
   Il rumore fu flebile e silenzioso in confronto agli spari prodotti dai fucili ma tutti e quattro si voltarono verso di lui istantaneamente.
   « Però! », costatò un omuncolo largo quanto un armadio, accovacciato; era lo stesso che aveva commentato sullo stato della Limousine.
   Ciò voleva dire che non erano stati loro a sparare?
   « Cosa ci fate qui? », domandò su due piedi Brown mostrandosi dubbioso.
   I tre lasciarono cadere tutti i fucili, tranne quello che piangeva l’hummer distrutto.
   « Potremmo farti la stessa domanda, amico ».
   « Taci Mc! », lo apostrofò l’attento George.
   La radio era aperta e tutta la squadra della corporazione, sentendo il dialogo, fu presto su di loro costringendo il duro uomo a gettare l’arma proprio ai piedi di Brown.
   « Stavamo cercando la casa di due ragazzi. E voi? », sputò in terra contrariato George per aver parlato a viso aperto.
   Non avrebbe mai dovuto farlo, glielo avevano insegnato all’accademia ma quella era una situazione disperata.
   « Ma non farmi ridere. Una casa tra i container? Bella trovata ».
   « Voi piuttosto, cosa cercate? Potreste degnarvi di rispondere poiché avete quasi sterminato la mia squadra e con molta probabilità moriremo anche noi », George era rimasto solo con Mcdouglas e altri due. Forse il cecchino era ancora vivo ma non ne era sicuro.
   « Ice…».
   I quattro 007 si scambiarono degli sguardi confusi senza capire.
   « Chi? ».
   Istantaneamente tutti quanti imbracciarono i fucili, George e Mcdouglas non avrebbero mai immaginato che sarebbero morti in quel modo ma rimasero a bocca aperta quando videro con i propri occhi che tutta la squadra nemica puntava proprio verso il centro dello spiazzo, dove poco prima la limousine era parcheggiata.
   Persino gli 007 superstiti si voltarono.
   Al centro del porto, tra le innumerevoli lastre d’acciaio e i container bucherellati, un ragazzo, poco più che ventenne, camminava verso di loro come un fantasma; non mostrava paura, non accennava a rallentare.
   Gli occhi blu elettrico studiavano il gruppo di presenti scavando nei loro pensieri, finché non riconobbe Brown, l’uomo che lo aveva tenuto sotterrato per cinque infiniti anni.
   Le iridi rosse come l’inferno illuminavano il viso pacato.
   Si scoprirono spaventati.
   « Ma chi è? », domandò Mc.
   All’unisono spararono cercando di bloccarlo ma i proiettili, incandescenti nel gelo di quella notte, sembravano spostarsi volontariamente deviando la loro traiettoria per andare a fermarsi qualche metro più giù.
   Persino Zeta, con il suo M95 modificato, prese la mira e sparò dall’alto verso il basso ma la sua posizione privilegiata dalla gru non sembrò aiutarlo.
   Il proiettile fu spostato proprio a ridosso della nuca del giovane andando a scavare un solco nell’asfalto.
   Sparò tre, quattro volte e tutti i colpi andarono a vuoto disegnando in terra una bizzarra costellazione.
   « Mio Dio, aiutaci! ». Disse George.
   Fu a quel punto che Ice illuminò la notte con i suoi occhi di ghiaccio e uccise i presenti uno a uno finché non rimase Brown, al quale gli riservò una morte lenta e dolorosa, sbattendolo contro uno dei container strinse gli artigli e gli frantumò il collo.
   Rimase appeso per qualche minuto, giusto il tempo per far smettere al sangue di gocciare.

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Capitolo 42
*** Capitolo 4.0 ***


CAPITOLO       4.0
 
 
 
 
   « L’aereo per Amsterdam partirà con un ritardo di quindici minuti causa manutenzione straordinaria », disse la sensuale voce femminile negli altoparlanti dell’aeroporto.
   Meglio, si disse Mike, avrebbe potuto assaporare per l’ultima volta l’aria calda dell’Africa prima di tornare nella fredda Europa. Erano le nove di sera e nonostante il vento costrinse i residenti a coprirsi, per lui quella brezza fu un cocktail invidiabile.
   Poi qualcuno lo raggiunse e si sedette di fianco a lui.
   Di tanti posti liberi che c’erano… poi, capì… Era il suo amico.
   « Hai sentito? Dovremmo starcene in questa terra del cazzo per altri quindici minuti, non ne posso più! », disse scocciato sorseggiando una Coca Cola e addentando un Big Mac.
   « Sei troppo superficiale, questa è l’Africa, paese delle antilopi e dei leoni, non è un posto che si visita tutti i giorni sai? », disse il sorridente Mike senza voltarsi.
   « Parla per te, io sono stato rinchiuso cinque anni sotto terra! ».
   Con la bocca stracolma d’insalata, per poco il giovane moro non soffocò.
   Era fuori controllo ma era un secolo che non mangiava quella roba e ne andava pazzo.
   Era il quarto menù che si era andato a prendere nel McDonald dell’aeroporto e dato l’orario, era l’unico che quella sera mantenesse il rush vivo per i tre cassieri. Mentre nella cucina, gli “chef” continuavano a maledirlo; divertente.
   Era al settimo cielo.
   « Grazie per avermi salvato maestà », disse con gli occhi gonfi di lacrime il councillor voltandosi per guardarlo.
   Ancora non riusciva a credere che tra tutti quei proiettili, fifone com’era, era riuscito a salvarsi.
   Il lancinante dolore alla mascella non lo aveva ancora abbandonato nonostante fossero passati un giorno e una notte ma era in perfetta forma e questo grazie a Ice.
   « Ma se ho letteralmente fatto esplodere quel gioiello di limousine », disse scherzando.
   Poi continuò lasciando in silenzio il suo subordinato che nonostante fosse un incapace nell’arte del combattimento, si era rivelato l’unico vampiro con le palle che aveva avuto il coraggio di sorvolare mezzo mondo per salvarlo.
   « A quanto ho capito ho fatto scoppiare io la guerriglia tra la Hide e gli altri, se non mi fossi svegliato di soprassalto tutti quei proiettili non avrebbero rischiato di ucciderti, è colpa mia, ti chiedo scusa ».
   Il sogno aveva portato alla memoria tutto, ora capiva perché Angy lo aveva supplicato di ricordare e perché si era spinta con tanta facilità verso di lui, incurante dei proiettili.   
   Aveva vissuto un’intera vita e anche più grazie a lui e con il suo ultimo bacio lo aveva investito dei suoi ricordi e del suo maestoso potere. Ora era morta e l’avrebbe portata per sempre nel suo cuore.
   « Che cosa hai sognato? ».
   « Ho fatto un sogno fantastico… e mi auguro di farlo ogni notte. Ci sono parti della mia vita che ancora non ricordo ma quella, la porterò per sempre nel mio cuore ».
   « Si prega ai passeggeri diretti per Amsterdam di imbarcarsi, grazie. Ci scusiamo per il ritardo ».
   I due ragazzi si alzarono, presero cappotti e valigie.
    Ice si era fatto comprare tutti abiti firmati, sembrava uno sceicco Europeo, così l’aveva ribattezzato Mike.
   « È da questa parte l’imbarco Ice! Dove stai andando! ».
   Correndo come un forsennato, il moro si stava allontanando in fretta diretto per l’ennesima volta al fast food.
    « Arrivo subito, avviati! ».
   È incorreggibile.
   Cinque minuti dopo Ice presentò passaporto carta d’identità e biglietto.
   Ci fu un’attesa imprevista, parvero sorgere dei problemi, mentre di là del vetro, sulla pista, i passeggeri stavano già salendo sul velivolo. C’era anche Mike.
   « C’è qualche problema? », domandò senza preoccupazione.
   « Questo passaporto è… falso signore ».
   Uff… non me ne andrò mai.
   Lo sguardo profondo di Ice si rispecchiò nei sinceri occhi dell’agente mentre un lievissimo sorriso mosse le dolci labbra del giovane, trasformando le azzurrissime iridi in un lieve rossastro, proprio in prossimità delle pupille.
   « Ne è sicuro? ».
   « Mi scusi, vada pure ».

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Capitolo 43
*** Epilogo ***


EPILOGO
 
 
 
 
 
DUE MESI DOPO…
 
 
 
 
 “Matricola 1348334, grazie del caloroso aiuto che mi avete offerto nel Sahara. Non ricordo perché tra i membri del casato ci sia tanto astio nei miei confronti, ma spero che presto la memoria torni e possa portarmi a capire. In Africa l’unico che si è degnato a prestarmi soccorso, a modo suo, è stato Mike, ed ho intenzione di lasciargli il trono, perché credo sia lui il più qualificato. Spero vi presentiate alla cerimonia d’incoronamento, altrimenti verrò a cercarvi uno a uno.
   Cordiali saluti.
   Ice Cy Lee.”
 
   « Forza Ice stasera si va in discoteca! Che stai facendo ancora al computer! », si rivolse visibilmente contrariato Mike al sovrano.
   « Ecco, ecco », in fretta e furia Lee inviò la mail e spense il monitor prima e la corrente dalla ciabatta poi.
   « Ma che stai facendo? Ti ho immesso la stringa, ti ho aperto la pagina per inviare il messaggio, potevi benissimo chiamarmi anche per spengere il pc! »,
   Imbarazzato, Ice si sentì un idiota, con la tecnologia non ci sapeva proprio fare.
   « Bè ormai è andata. L’ho spedito no? ».
   « Sì, mi è sembrato di vedere “invio riuscito” prima che togliessi la corrente a tutto. Andiamo ».
   Armeggiando con il mouse e la tastiera, il sovrano mise tutto in ordine e corse all’attaccapanni; prese il cappotto e infilò le chiavi di casa in tasca.
   Afferrò il cellulare, anch’esso impossibile da usare per lui, e lo lasciò cadere lentamente nella tasca interna del pesante soprabito.  
   Era davvero fredda l’aria ad Amsterdam e la notte quando usciva aveva l’impressione di trovarsi nel bel mezzo dell’antartico.
   Ma non gli importava, poteva uscire solo al calare del sole purtroppo.
   E quella cosa non gli andava giù…
   Salirono sulla sfavillante SLS e lasciarono il parcheggio sotterraneo rombando con il potente motore Mercedes, passarono per le vie del centro, musica a palla e urlando come pazzi, quasi fossero ragazzini adolescenti, non vergognandosi minimamente di apparire dei veri e propri IDIOTI.
   Erano vestiti da signori ma non lo sarebbero stati, non quella sera.
   Venti minuti dopo si bloccarono davanti all’entrata della discoteca parcheggiando lì, in mezzo a tutti; la fila di persone che voleva entrare si bloccò improvvisamente per ammirarli.
   Mike lanciò le chiavi a un buttafuori che subito li accolse a braccia aperte, ansioso di fare un giro con la belva per portarla al parcheggio.
   Ice invece era scocciato.
   « Al ritorno la guido io ».
   « Ma se non sai usare nemmeno l’iPhone che ti ho regalato! Ed è già il secondo se non sbaglio »
   Il giovane councillor gli diede uno spintone ed entrarono.
   L’Escape non era il locale preferito di Ice ma quella prima volta che vi entrò rimase folgorato.
   La fila fuori era lunga un centinaio di metri ma all’interno duemila persone si scontravano una contro l’altra mentre la musica assordante andava a ritmo delle luci psichedeliche.
   Mike gli aveva promesso un divertimento assoluto e da quello che vedeva sarebbe andata proprio così.
   Poi aveva scoperto che ogni notte il locale cambiava arredamento quindi… era favoloso!
   Lui era abituato al Sinners, che diviso su tre piani aveva la disco al più basso, piena di specchi che lo facevano impazzire e il Moulin Rouge al più alto, una vera chicca.
   Comunque quella sera sarebbe stata per l’immenso Escape.
   « Vado a prendere da bere, ci vediamo dopo! », urlò il vampiro.
   Ice aveva invece bisogno di riposarsi un attimo, il frastuono era molto più assordante del solito e cazzarola, non vi era un posto a sedere!
   Qualche minuto passato a boccheggiare e subito si gettò nella mischia, tutti con le braccia alzate in direzione della console dove addirittura tre dj stavano armeggiando per spingere i clienti al limite del divertimento.
   Quando una folata di vento investì solamente il giovane, bloccandolo, tutti gli altri continuarono a saltellare sulle note di David Guetta accompagnato dal fenomenale Akon in Sexy Beach.
   Era la canzone preferita di Ice.
   A pochi metri da lui, tra la folla immensa, ballava una ragazza, diversa da tutte le altre.
   Bellissima.
   Alta, snella, il suo miniabito nero con una maxishirt s’intonava perfettamente agli splendidi capelli lucenti e scuri come le tenebre: le labbra rosee erano due cuori sul viso tondo e morbido mentre gli occhi, abbassati, mostravano lo scurissimo ombretto applicato poco prima.
   La gonna risaltava le gambe da modella e quando si mosse mettendo in mostra la schiena, completamente scoperta, la folla parve infiltrarsi volontariamente tra i due mostrando solo un pezzo di quella che doveva essere la creatura più bella dell’intero universo.
   Sexy Beach risuonava nelle orecchie di Ice con un ritmo spaventosamente perfetto.
   Il ragazzo era caduto in trans e quell’esperienza non era lontanamente equiparabile a quella del Sahara, a quando aveva visto Angy nel laboratorio.
   La bella della discoteca era indescrivibile.
   Certo, ancora pensava ad Angeline, morta per lui, ma forse doveva andare avanti.
   Sui 3\4 il viso lievemente piegato della bellissima ragazza sembrò fermo proprio per farsi ammirare finché non scomparve tra la folla.
   Il moro restò con lo sguardo perso nel vuoto.
   La nottata era finita e Ice non faceva altro che rivedere quella splendida creatura mentre si faceva guardare.
   Non riusciva a togliersela dalla mente.
   Durante la strada del ritorno aveva ritirato la richiesta di guidare la lussuosa Mercedes; non voleva far svanire quella visione cazzarando per strada con il suo amico. Per questo rimase muto tutto il tempo.
   Ovviamente finché Mike non gli domandò cosa avesse fatto.
   « Tutto bene? Sembra ti sia cascato il mondo addosso, dai la prossima volta andiamo alla tua discoteca preferita va bene? ».
   « Non è questo…».
   Allargando la bocca, il vampiro si trattenne da una fragorosa risata prima di sparare a zero un’altra delle sue battute; fortunatamente fu anticipato.
   « Ho visto una ragazza. Bellissima. E tra quel baccano nessuno sembrava curarsene ».
   « Ti ricordi che canzone c’era sotto? », chiese stranamente Mike.
   « Sexy Beach, perché? ».
   « Aaaah, allora si spiega tutto! ».
   « Cosa vorresti insinuare? ».
   « Oh, niente maestà, niente! » rise il ragazzo.
   Sparando al volo la medesima canzone, cercando di cavare fuori qualche altro indizio dal sovrano, la SLS rombò tra le strade di Amsterdam.
   Ice guardava correre fuori il finestrino il quartiere a luci rosse.  
   Quella visione lo aveva scombussolato.
   « Non l’ho raggiunta, ed è sparita tra la folla, ho intravisto solo una parte della schiena e portava un tatuaggio lungo fin dentro la gonna, partiva dalla spalla mi pare ».
   « Ah ottimo indizio!  », disse Mike voltandosi a guardare il suo amico con il capo chino intento a pensare profondamente…
   Conosceva quello sguardo. Sapeva cosa significasse.
   Sarebbero sorti solo problemi. Il casato non avrebbe approvato l’unione con un’umana.
   « La troverò ».
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 
 
 

 
 
 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ice tornerà prossimamente in:
 Angels, The balance of shares,
con l’intenzione di scavare ancor più a fondo nel suo passato e trovare ad ogni costo la bella della discoteca…

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