Reietti (E morir m'è dolce)

di Nirvana_04
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Avanzi ***
Capitolo 2: *** Abbastanza ***
Capitolo 3: *** Parlami nei sogni ***
Capitolo 4: *** Perdono, perdona ***
Capitolo 5: *** Resta sulla pelle ***
Capitolo 6: *** Rubare il silenzio ***
Capitolo 7: *** In fondo alla scatola ***
Capitolo 8: *** Inseguendo la tua assenza ***
Capitolo 9: *** Mentre la neve cade ***
Capitolo 10: *** Mi scorderò dei fiori d'angelo ***
Capitolo 11: *** Infine, l'estate ***
Capitolo 12: *** In altrettanti modi ***
Capitolo 13: *** Quell'abbraccio, alla fine del mondo ***



Capitolo 1
*** Avanzi ***


Reietti (E morir m’è dolce)

Avanzi
 






Nella piega stropicciata che Sirius atteggia a sorriso è tatuata tutta la sua amarezza – la vostra.
È un ghigno che attraversa la pelle e arriva fino all’osso. E vorresti scappare, giacché conosci quella condizione da tutta una vita – infinita.
Di Sirius restano solo gli avanzi, masticati e sputati. Un orgoglio sdrucito, una tormentata eleganza e una promessa che naviga in mezzo a relitti di colpe e rimpianti – e naufraga.
Dovreste parlare, ma nel silenzio sono le vostre mani strette intorno ai bicchieri già vuoti a metà che gridano il vostro comune assolo – solitudine.
 


 
Nella corrente che scorre a scatti sulle dita di Remus c’è marchiato tutto il suo dolore – il vostro.
Sono mani che si atteggiano ad artigli quelle di Rem. Troppo lunghe e troppo delicate per appartenere a una creatura del buio – oscuro.
Remus è un cucciolo abbandonato che dorme sul ciglio della strada: lui sa vivere di avanzi. Sono sporche le tue mani, sporche e insanguinate più di quanto quelle del tuo amico non potranno mai essere, ma le appoggi comunque sulle sue spalle con fare protettivo – e vergognoso.
Vorresti parlare, ma nel silenzio riconosci l’unica voce che ti è rimasta – rimorso.




 

N.d.A.

Dovrei avere qualcosa da dire dopo aver osato pubblicare questo. Ma la verità è che progetto e drabble sono nate giusto un istante fa, e io non ho ancora realizzato cosa dovrebbero significare. Ho però notato che oggi sono esattamente 4 anni e un mese che sono qui su Efp... chissà, forse il mio subconscio ha voluto celebrare così.
Il contesto dovrebbe essere quello di un giorno qualunque nella cucina di Grimmauld Place, quinto libro. I personaggi sono Remus e Sirius, ovviamente, non so, più avanti, semmai troverò altro coraggio (dev'essermi rimasta della polvere di pazzia da qualche parte) scriverò qualcos'altro su loro o su altri personaggi... l'idea è d'inserire anche altri e variare i contesti.
Aspetto la prossima marea.
A presto!
Questa storia è candidata agli Oscar della Penna 2022 indetti sul forum Ferisce più la penna

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Capitolo 2
*** Abbastanza ***


Abbastanza
 






Silente indossa il fallimento come una vecchia, comoda vestaglia usurata dagli anni – Ariana è l’ombra dei suoi successi.
Lo avverte incombente, il suono di una nave piena di scheletri che si arena sullo scoglio della sua mente, e geme. È una pressione ai polsi, bocche che articolano mute, mani che strisciano sulla carne, e graffiano. Vengono a prenderlo, per tirarlo giù nell’abisso...
Aprire gli occhi è un sollievo, o quasi.
«Perché?»
Il furore nella voce di Severus non può ferirlo – è Ariana il nome della sua eterna agonia.
Volevo rivederla, riportarla indietro. «Io… sono stato uno sciocco.» Un povero, vecchio sciocco. «Terribilmente tentato…»
«Tentato da cosa?»
Dalla redenzione… Ma è solo un’altra bugia. Ho peccato di presunzione. Ho pensato… di essere quello giusto stavolta, quello capace. Il prescelto.
Ma non ha ancora imparato, Silente, lui che ha lottato tutta una vita contro i presagi, e ha perso – sulla nave, i fantasmi abbondano. Ha sognato di avere delle ali, ali di vetro finissimo, su cui la luce si sarebbe infranta e avrebbe ammaliato – Ariana è stata trafitta da quelle schegge di gloria.
«Se solo mi avessi mandato a chiamare prima…» L’accusa di tradimento stride tra i denti del suo giovane amico – una pedina camuffata da alfiere. Se levasse via le mani dagli occhi, il turbamento dietro lo sdegno potrebbe commuoverlo.
Né può avere pietà dell’impotenza di cui chiede perdono, dolore tramortito dalla colpa, la sua – Ariana è la ferita infetta che Severus non può guarire.
Di Severus percepisce l’offesa, preludio dell’ignoranza in cui lo abbandona. Vorrebbe la verità, Severus, ma Silente della verità ha imparato ad avere paura, e abbraccia l’incertezza come ultima àncora per rimanere saldo ai suoi doveri – per il bene superiore, ancora.
E pure sapere non cambia le cose. Sapere vuol dire soltanto portare in capo una corona di spine – e Ariana è la spina più penetrante, la più grande e la più dolorosa.
Volevo sollevarti, Ariana, levare via le ombre dal tuo mondo – strappare i lacci che tarpavano le ali della sua grandezza. Invece è volato alto… il più grande mago di tutti i tempi… mentre le persone a lui più care – torri di carta sulla sua scacchiera – sono scorse sotto di lui, su binari che lui non vede.
Solleva la mano e la osserva, Silente, con meraviglia – è un’amara soddisfazione. Un’impronta, finalmente, della sua mortalità. Adesso non potrà più illudersi.
La vittoria così come la saggezza richiedono un prezzo – ed è stata Ariana la prima a pagarlo.
È diventato quasi un gioco, per Silente, un rimorso assurdo. Un vecchio vizio, il suo. Ci gioca da quand’era bambino, e per lui ha il sapore della merenda che preparava sua madre – segreti e bugie.
Sorride, Silente, perché ormai gli rimane davvero poco da sacrificare. Sta per volare lontano, e Severus dovrà imparare a bastarsi da solo – Ariana è la misura della sua assenza.
È egoista, lo sa bene, e fa male restare solo. Potrebbe chiedere perdono.
«Sono fortunato, molto fortunato ad avere te, Severus.»
Ma non sarà mai abbastanza.
 
 


 
Severus veste una vita intera di lutti – Lily è il profumo della sua paura.
La percepisce sfuggire, la carezza dei suoi occhi, primavera che muore scontrandosi contro la luce del giorno, e svanisce. È una pallida impronta tatuata dietro le palpebre, macchia limpida che lacera il petto, mani che si tendono senza mai toccare. Notti insonni, giorni vuoti, senza pietà.
Chiudere gli occhi è un sollievo, o quasi.
«Mi hai dato la tua parola, Severus
Il ricordo delle parole di Silente gli trapassa la mente – ma è Lily la nota che striscia sulle corde del suo cuore, e sanguina.
Volevo proteggere… morire anche, per te. Ma l’amore e il rimorso e la solitudine sono debolezze, e le debolezze sono appigli a cui si aggrappano i visionari.
«Severus…»
Non voglio… Ma è solo un inutile tergiversare. Qualsiasi cosa. Anche l’anima… pur di salvare l’ultima scintilla che resta di te.
Ma non ha ancora capito, Severus, lui che ha vissuto tutta una vita nella menzogna, e ha rinunciato – nei sogni, lei gli sorride. Si è illuso di essere morto con lei, si è lasciato graffiare dal suo ricordo, invocando il suo nome sottovoce, per paura che sparisse – Lily è il veleno nei suoi respiri.
«Severus… ti prego…» La supplica gli cola addosso come cera, si fondono le maschere, brucia la pelle e fa male – un amico mascherato da carceriere. Se levasse via le mani dalle orecchie, l’affetto dietro la pena potrebbe farlo fuggire.
Né deve esitare davanti alla consapevolezza di essere vivo dopotutto, amarezza uccisa dal disgusto – Lily è la carezza che asciuga le sue lacrime e paralizza le emozioni.
Di Silente fiuta la paura, effetto involontario del dolore. Lo rassicurerebbe, Silente, se potesse gli direbbe che va tutto bene, è così che deve andare, ma Severus della consolazione non sa che farsene, ed è con rabbia che spinge via il suo unico ostacolo – mani sporche di sangue, di nuovo.
E pure laverà il sangue con altro sangue. Perché espiare non sempre vuole dire salvare se stessi– è Lily il suo dolce peccato.
Volevo lasciarmi andare, Lily, nulla aveva più senso se tu non eri più in questo mondo – lui non aveva senso. Invece ha continuato a fare un passo, e poi un altro… il traditore... rubando altri battiti al mondo, sfiorando altre vite – incidenti sulla sua strada – e scoprendo che poteva ancora piangere per qualcuno.
Leva la bacchetta e la punta, Severus, con precisione – è un’estenuante battaglia. Una cicatrice, dopotutto, della sua mediocrità. Adesso non potrà più nasconderlo.
La vendetta così come la cosa giusta richiedono un sacrificio – ed è perdendo Lily che lo ha imparato.
È diventata quasi un’abitudine, per Severus, un rimpianto assurdo. Un vecchio vizio, il suo. Una persona coraggiosa si sarebbe ribellata, sarebbe morta per salvarlo, ma i coraggiosi sono stupidi. Il risentimento è uno sfregio nell’angolo più remoto delle labbra. Il dolore, un sapore amaro che gl’intorpidisce la lingua.
Stringe i denti, Severus, ormai gli resta ben poco da perdere. È già solo
, e Silente verrà pianto da altri – Lily è la misura del suo tradimento.
È disperato, e Silente lo ha reso un infame. Lo avrebbe odiato per questo.
«Avada Kedavra!»
E non sarebbe stato comunque abbastanza.

 


 

N.d.A.

Ci sono tante cose che avrei da dire su queste due flash, tanti di quei significati che sto provando a far passare in questa raccolta...
Iniziamo col dare un senso a questa raccolta, che come avrete capito sarà piuttosto disomogenea e che difficilmente tratterà di coppie nell'accezione più romantica. Ho scelto un titolo particolare, con ovvie allusioni a "L'infinito" di Giacomo Leopardi. Quel "naufragar" sostituito nel titolo da "morir" echeggia comunque all'interno dei singoli capitoli (infatti troverete riferimenti al mare, ai relitti, alle tempeste e all'andare alla deriva). Tornando al titolo, i "reietti" di questa raccolta saranno diversi e ognuno in un modo diverso. Si parla di uomini e donne che convivono con dei fantasmi, che scendono a patti con cicatrici e colpe, e se li trascinano dietro. Sono personaggi speculari e "reversi" l'uno rispetto all'altro, che condividono qualcosa eppure la vivono in maniera differente, complementare se vogliamo. Sono personaggi soli che trovano nella solitudine dell'altro una silenziosa consolazione, o semplicemente la consapevolezza di non essere gli unici a soffrire ("e morir m'è docle").
Allo stesso modo, anche i capitoli e i loro titoli avranno una funzione analoga, di questo gioco di scritte che si riflettono e quindi poi si leggono al contrario. Partono dalla stessa origine, ma si muovono in direzioni opposte. Ho cercato, quindi, uno stile, una forma e un lessico che giocassero continuamente su questo doppio binario.
Arrivando a questo particolare capitolo, voglio porre il punto su alcune scelte e alcuni passaggi.
Stavolta siamo nel sesto libro (anche se la scena del POV di Silente viene raccontata attraverso un ricordo di Piton nel settimo libro) e i due POV si svolgono in due scene separate: la prima è quando Severus cura Silente dalla maledizione liberata dall'anello; la seconda segue e dilata quei pochi istanti in cui, nella torre di astronomia, Severus si appresta a mantenere fede alla promessa fatta a Silente, uccidendolo. Ho voluto enfatizzare con questo cambio di scena e di persona narrante il diverso rapporto che c'è tra Silente e Severus rispetto a quello tra Sirius e Remus. Infatti, nel primo capitolo, le drabble erano narrate in seconda persona e mostravano due punti di vista dello stesso momento. Questo per accentuare il legame profondo tra i due personaggi, un'amicizia storica che in qualche modo ha fatto sì che uno conoscesse molto bene l'altro. Al contrario, le due flash di Silente e Severus, scritte in terza persona per enfatizzare la distanza tra loro, mostrano due scene differenti, per accentuare i segreti e le incomprensioni che corrono tra i due. Se Sirius e Remus condividono la loro colpa anche se la vivono in maniera differente, Silente e Severus la celano tra di loro.
La "nave e i suoi fantasmi" che metaforicamente si arena nella mente di Silente ha un'accezione anche ironica, visto che da lì a qualche mese Silente verrà indebolito mortalmente sull'isolotto all'interno della grotta, circondato dagli inferi.
Mentre la frase "su binari che lui non vede" fa riferimento alla scelta del settimo libro in cui Harry incontra Silente nell'anticamera dell'aldilà ed è Harry a dirgli che si trovano alla stazione di King's Cross.
Saranno forse invisibili ai più, ma nella seconda flash ci sono ispirazioni e rivisitazioni tratte sia da "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi" di Cesare Pavese, sia "Sono già solo" dei Modà.

Infine tutti i dialoghi sono stati tratti dai libri della Rowling. L'unica licenza che mi sono presa riguarda la sequenza delle ultime due battute della prima flash, che ho invertito di ordine.
Il resto lo lascio a vostra interpretazione, nella speranza che questo secondo capitolo non sia un completo disastro.
 

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Capitolo 3
*** Parlami nei sogni ***


Parlami nei sogni

 
 
«Mia mamma diceva sempre che le cose che perdiamo trovano sempre il modo di tornare da noi.»
 
 





A volte, la sogni. Chiami il suo nome, e lei appare. Evochi le sue labbra, e loro cantano mute.
Dentro ai sogni c’è la magia di due sguardi che si cercano, si trovano, si divorano. Due luoghi dissonanti, che spezzano il velo. E la senti addosso, come muschio sulla corteccia: ti protegge dalle ombre e t’indica la via – la tua bussola puntata a nord.
Nei sogni, non c’è burrasca che possa separarvi. Lei è resina profumata che s’appiccica all’anima, fiore delicato dai mille colori, fragile brezza a cui tenti di aggrapparti.
Nei sogni, però, le parole non hanno voce, e galleggiano. Sono crepe tra le radici, tappeti di cotone tra bocca e orecchie, e ridono, di una bellezza ferina, vuoto immenso di felicità.
In quei sogni, tu piangi, smarrito.
E ti svegli, col viso asciutto, lo sguardo un po’ più freddo. E rimpiangi la notte, quando speri che lei ti parli. E fingi che non sia dolore quello che sanguina dagli occhi.
E così dici: «È soltanto un sogno.»



 
 
A volte, la pensi. Parli al suo sorriso, e lei sembra ascoltare. Dipingi il suo viso, e questo prende vita sfumato.
Dentro ai ricordi c’è la magia di due braccia che si tendono, si toccano, si stringono. Due tempi dissonanti, che spezzano il velo. E la senti dentro, come cannella la domenica mattina: ti prende le mani e ti racconta dell’Africa – il tuo vento che spira da sud.
Nei ricordi, non esiste sbaglio che possa dividervi. Lei è un giro di valzer in punta di piedi, dita che camminano sulla pelle bagnata, spirito selvaggio a cui vuoi rassomigliare.
Nei ricordi, però, le immagini non hanno contorno, e galleggiano. Sono note che corrono troppo in fretta, macchie di colore scolorite dalla pioggia, e accecano, di un vivido bacio, sapore infinito sul cuore.
Al ritmo di quei ricordi, tu danzi, scalza.
E guardi il mondo, col viso sorpreso, le mani colme di meraviglia. E uccidi il rimorso, quello che infido prova ad annidarsi tra i denti di te bambina. E sei certa che sia gioia quella che stringi al petto.
E allora consoli: «Non è poi tanto diverso da un ricordo. Non credi anche tu, Harry?»



 


 
«Anche se non sempre come noi ce le aspettiamo.»


 

N.d.A.

Stavolta cercherò di essere un po' più breve in questo punto.
Allora, i due personaggi non sono quasi mai chiamati per nome, ma spero di capisca che sono Harry e Luna.
Al contrario delle altre due storie a specchio, qui i personaggi sembrano non interagire tra loro, se non nelle ultime battute di ogni miniflash, persi ognuno nei loro pensieri. Questo perché volevo analizzare soprattutto il loro rapporto con la figura materna, e ovviamente evidenziare le loro differenze di approccio. Entrambi l'hanno vista morire, entrambi probabilmente ne serbano ricordo, ma lo affrontano in maniera differente, anche perché differente è il mezzo attraverso cui loro possono riviverle e risentirle accanto.
E riecco perché il ritorno alla seconda persona: non per enfatizzare la loro vicinanza, ma per un maggiore e più profondo confronto interiore. Seconda persona che non vuole direttamente relazionare i due personaggi (tanto che non appaiono mai l'uno nel POV dell'altro) ma il loro passato.
Al contrario degli altri due capitoli, poi, dove nel primo il momento delle due drabble era il medesimo e nel secondo erano due momenti distinti e separati, qui mi piace considerare che il momento sia il medesimo ma che sia uno il continuo dell'altro, il Pov di Harry scivola in quello di Luna, tanto che le due drabble si concludono con due battute dirette, una seguente l'altra. C'è, quindi, condivisione, pur avendo due percezioni molto dissimili tra loro, al contrario di quello che accade con Remus e Sirius, dove le emozioni di uno si mischiavano a quelle dell'altro, e completamente all'opposto rispetto Silente e Severus, dove la condivisione non c'era affatto.
Boh, spero che abbia un senso quello che ho detto.
Questa storia è candidata agli Oscar della Penna 2022 indetti sul forum Ferisce più la penna

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Capitolo 4
*** Perdono, perdona ***


Perdono, perdona

 



 
A Draco, il vento sulla faccia è sempre piaciuto. Una carezza, gli pare, di quelle che poi non lasciano alcun profumo addosso, solo una leggera impronta. D’autunno, quell’impronta ferisce…
«Santo cielo, di questo passo ci faranno accoppiare anche con gli elfi domestici.»…
…«Non esporti, Draco, fai soltanto quello che ti viene chiesto, andrà tutto bene, vieni.»…
…«Se non hai il coraggio di finirli, lasciali in cortile, ci penserò io.»…
…«Non lo so, giuro, non lo so! BASTA!»
…E non importa se gli procura dolore e se azzittisce ogni altro suono. Draco non vuole più ascoltare.
Per favore, vorrebbe urlare invece, perdono.
Trema, Draco, come quando da bambino, di notte, suo padre spegneva la luce e andava via – nel buio giocano i mostri. È una bufera la sua anima, rimorso che gorgoglia nella fredda luce dell’alba.
Sulla torre di astronomia, gli spettri tengono ben saldo il timone della barca squassata dalla tempesta – Draco ha sempre avuto paura degli spettri: aggrappato al parapetto, è costretto a guardare nell’abisso. Su un fondo di ossa disarticolate, teschi verdastri e mascelle coi denti snudati, c’è quel che resta della sua arroganza.
Ho tentato, davvero, ci ho provato, e non è più tanto certo di chi stia supplicando, se gli scheletri sotto di lui o le voci nella sua testa.
…«Tu non sei un assassino, Draco.»…
…«E tu, Draco? Farai da babysitter ai cuccioli?»…
…«Me ne sbatto di quello che pensi tu! Non prendo più ordini da te, Draco. Tu e il tuo papino siete finiti.»…
…«L’abbiamo trovata… l’abbiamo trovata… PER FAVORE!»
«Per favore!» supplica.
Ma non c’è nessuno.
A Draco, il vento sulla faccia è sempre piaciuto. Una carezza, gli pare, di quelle che asciugano le lacrime e incoraggiano ad aprire gli occhi. Guardare il sole sorgere fa paura, d’impulso si rifugia dietro una mano stretta a pugno. È una cosa sciocca, e dovrebbe vergognarsi. Non è più un bambino, ed è risaputo che i mostri non esistono – cinque sagome nere volano nell’aria.
Piano, un respiro alla volta, distende il palmo, spalanca gli occhi, accarezza il vento.
«Ho avuto paura» confessa arricciando le labbra, «ma ci ho provato» e rabbioso li spinge via, al di là del parapetto.
Cadono giù – i mostri dormono sotto terra – ai piedi di un orizzonte che tra le sue dita tese si frantuma.
 


 
A Hermione, le foglie tra i capelli hanno sempre divertito. Un solletico, sembrano, di quelli che sfidano a voltarsi, soltanto per scoprire che non c’è nessuno dietro, solo un tappeto di foglie. D’autunno, quel tappeto sanguina…
«Sporca Mezzosangue.»…
…«Tieni giù quel tuo testone, Granger.»…
…«Dimmi dove l’avete presa, parla! Crucio!»…
…«Sì… può darsi…»
…E non importa se riapre vecchie ferite e se scricchiola sotto i suoi piedi. Hermione non vuole più essere muta.
Sono sopravvissuta, vorrebbe gridare invece, non devo farmi perdonare per questo.
Batte i piedi, Hermione, come fa tutte le volte sull’uscio prima di entrare in casa – nel mondo la polvere sporca. Sono granelli finissimi le sue fragilità, rimpianti che si sciolgono, si stemperano, si fanno sera.
Lungo la banchina della stazione i ricordi si rincorrono spensierati nella luce obliqua del tramonto – Hermione ha imparato ad affrancarli, i ricordi: in bilico sull’ultima mattonella prima delle rotaie, annusa l’aria a occhi chiusi. In mezzo al profumo dell’erba, dei resti di carbone e a quello del cuoio, c’è l’odore del ferro, che lacera la pelle, scava la carne.
Ho lottato, continuo a farlo ogni giorno, eppure non riesco a sconfiggerli, e i pensieri sono una lacrima che la mente piange.
«Il Ministero della Magia ha avviato un’inchiesta sui cosiddetti “Nati Babbani”, per meglio comprendere come siano entrati in possesso di segreti magici.»…
…«Questa volta non sei stata all’altezza di te stessa, Hermione.»…
…«Ma sei diventata matta? Sei una strega sì o no?»…
…«Io… forse… sì.»
«Io sono una strega» afferma.
Ma non c’è nessuno.
A Hermione, le foglie tra i capelli hanno sempre divertito. Un solletico, sembrano, di quelli che scompigliano i pensieri e strappano una risata. Camminare in bilico tra il marciapiede e il solco delle rotaie fa paura, d’istinto allarga le braccia per non perdere l’equilibrio. È una cosa infantile, pericolosa. Non è mai stata imprudente lei, e lo sa che se cade la polvere le si attaccherà addosso – dieci macchie saltellano nell’aria.
Piano, un passo alla volta, ondeggia le braccia, dischiude le labbra, insegue il vento.
«Sono Nata Babbana» dichiara, ed è una verità dolce da esclamare in quel luogo, «ma appartengo a questo mondo pure io» e con un calcio sfrega la pietra, la gratta un po’ e qualcosa si solleva.
Sta lì – la polvere è d’oro quand’è colpita dai raggi – su binari vuoti che con lo sguardo percorre.



 

N.d.A.

Non so neanche perché lo sto a dire, visto che sono più che consapevole di non aver azzeccato manco mezza indicazione, comunque l'intento - fallito miseramente - era quello di scrivere seguendo questo prompt, regalatomi generosamente e forse con troppa fiducia da Mari Lace, durante l'attività Scrivimi del gruppo Caffè e Calderotti:
Prompt: Shiyoganai, "non c'è niente da fare", espressione del perdonare e perdonarsi. Spiega come sia concesso di sbagliare. Viene alla fine, quando quel che si poteva fare si è già fatto. (facoltativo; non devi necessariamente inserire la parola, basta il senso)
Personaggio: Luna Lovegood (!) (facoltativo)
Genere: Introspettivo (obbligatorio).
I personaggi si muovono nel post seconda guerra magica, e al contrario delle tre storie che la precedono, qui, qualsiasi distanza potevo inserire, l'ho inserita (ho usato il narratore in terza persona, i due momenti sono distiti e separati, anzi sono uno l'opposto dell'altro). Non ci sono interazioni, nessuno dei due sa che cosa l'altro sta facendo o pensando, eppure, in un modo diverso, entrambi ripensano allo stesso momento (tra i tanti che li tormentano, è l'unico che hanno in comune): la tortura di Hermione a Villa Malfoy per mano di Bellatrix Lestrange.
L'intento era quello di trasmettere attraverso Draco la ricerca del perdono: non solo per aver fallito nel suo perseguire gli ideali della famiglia, non solo per aver fallito il misero tentativo di proteggere Harry e i suoi amici, ma soprattutto perdono per le sue paure; attraverso Hermione, volevo trasmettere il bisogno di perdonarsi le incertezze e le fragilità, quel suo aver rincorso affannosamente l'approvazione del mondo magico.
Adesso non ricordo più tutte le cose che volevo dirvi, ce ne sarebbero un bel po', mi limito soltanto a dire che la frase "spegneva la luce e andava via" è tratto dalla canzone "Quella carezza della sera", da tutta una vita il mio personale tormento.
E basta, mi dileguo.

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Capitolo 5
*** Resta sulla pelle ***


Resta sulla pelle

 
 


Resta sulla pelle l’impronta degli artigli, come un marchio nerissimo, o un’ombra di sporco sotto le unghie. Non se ne va mai via; a volte quegli artigli sono così evidenti che li sento persino graffiarmi lo stomaco e il petto, cercano di risalire, di venire fuori. Né la sofferenza basta più a condonare il mostro che vive in me – stavo soffrendo così tanto quando ha nascosto le mie cicatrici con la sua piccola mano.
Non sono mai stato quello forte, né il più coraggioso, no; e forse per questo, Sirius, hai sospettato di me all’inizio. Non posso dimenticare che, durante tutta la mia vita, la voglia di arrendermi ha quasi ucciso quel poco di umanità che mi resta. Senza di voi, amici miei, il mostro che alberga in me si struscia contro le ossa della gabbia toracica, le percorre con il muso e le frustra con la coda, e io temo che un giorno possa liberarsi e prendere del tutto il sopravvento – mi sono avventato sulle sue labbra, disperato, e se qualche rimorso è nato in me in quel momento, l’ho morso forte tra i denti… la sua pelle tra i miei denti, sono stato così sconsiderato!
Quando penso che, tra tutti noi, sono io l’ultimo rimasto… Non è giusto, no, non è affatto giusto. Io non la merito, questa vita. Se fossi morto io al tuo posto, adesso un mostro in meno scorrazzerebbe tra le persone innocenti, e io non avrei così paura, paura di far loro del male. Cosa ho a che fare io con loro? Oppure questa è la mia punizione… certo, dev’essere così, e lo sai anche tu, Sirius, amico mio, perché in fondo nessuno di noi due era destinato a essere amato. Noi abbiamo rubato attimi di felicità al mondo – ho fatto scivolare la mia mano tra i suoi capelli, ho lasciato che il colore acceso dei suoi anni coprisse la mia vecchiaia, la mia povertà, la mia mostruosità; ho respirato dalla sua bocca, e per un lungo, lunghissimo attimo ho dimenticato la mia solitudine.
Adesso è più difficile illudersi… adesso io corro solo e libero… mentre dormo accanto ai miei pari. Adesso è quasi impossibile non credere che questo non sia il mio posto. Il mostro non può sedere in mezzo alle sue prede! Troppo rischioso, è così sciocco… Una volta eravamo giovani, spensierati. Ma adesso che scusa ho? Eppure non sono cambiato – e dalla pelle adesso non si cancella più il sapore di lei, è ancora caldo sulla lingua, ma puro dolore sulla punta dei denti.
Lo devo a te, però, a te e a James e a Lily. La vostra fiducia e il vostro affetto non alleviano più il dolore delle mie trasformazioni. Il mostro è rinchiuso e non gli permetterò di infettare altri, comunque. No, la maledizione morirà con me; la caccerò, l’abbraccerò, e assieme andremo a fondo nel gorgo pieno di mostri. E mai più ne perderò il controllo, ma… – Non dovrà più accadere, mai più, ma…
Ma non importa quanto forte e risoluto io la spinga via: resta sulla pelle.
 


 
Restano sulla pelle i lividi e le voglie, così simili tra loro che è davvero difficile distinguerli. Non riesco a liberarmi di nessuno dei due; ci sono momenti in cui i lividi pulsano, e allora è più facile riconoscerli, ma anche le voglie fanno male, nello stomaco e nel petto, e io rischio di rompermi e di andare in pezzi. E non so proprio dare un nome a questa creatura che mi sta crescendo dentro – ero felicissima, così felice che non ho capito quanto la mia gioia gli facesse orrore.
Sono sempre stata la più sbadata, quella con la testa per aria, no? Beh, anche stavolta ti toccherà rimediare ai miei pasticci, mamma. Scommetto che tu lo avevi previsto, eh? E mi avevi anche avvertita e supplicata, ma io ce l’ho messa proprio tutta a sbattere al muro te e quella litania di apprensioni ridicole. Smettila di fargli tanti complimenti, ti ho detto, o penserò che te lo voglia sposare tu. Senza di lui, mamma, tutta la forza che credevo d’avere si è prosciugata, sento le mie dita raschiare il fondo, non ce n’è più, temo – gli ho lanciato le braccia al collo con tanta foga che quasi finivamo lunghi distesi e l’ho sommerso entusiasta di baci… ero tra le sue braccia, è stato magnifico!
Quando fingo di non sentire che, dopo tutto il dolore che avete provato, sono io a causarvene dell’altro… mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace. Avrei dovuto rendere la vostra vita bella e riscattarla dall’odio. Se tu non avessi sposato papà, adesso non saresti costretta a vivere da reietta con una figlia stramba e goffa, e io non starei chiusa qui, incatenata dal dolore e dalla rabbia. Ma dimmi, te ne sei mai pentita? Oppure, come me, anche tu non rimpiangi nulla… perché la verità è che entrambe non abbiamo mai permesso al destino di strapparci l’amore. Noi abbiamo tenuto fuori i pregiudizi del mondo – ho preso le sue mani e le ho posate su di me, ho trattenuto le parole mentre un grande sorriso mi scoppiava sulla faccia; ho assaporato il suo desiderio, e in un attimo, in un attimo solo, ho visto tutto il suo coraggio ingrigire.
Adesso fa più male crederci… adesso io cammino sola dentro una stanza… mentre non sento più l’eco dei suoi passi. Adesso è quasi inutile ribellarsi alle sue paure, sognare di poterlo guarire dalle sue debolezze. L’amore, ha! L’amore non riesce a fermare ogni tipo di maledizione. Troppo fragile, sono stata una sciocca… Da bambina ci ho creduto, guardando voi. Ma adesso le vedo le cicatrici, lo sai? Conosco il prezzo che avete pagato e, sai cosa, lo pagherei altre cento, mille volte – e dalla pelle non si lava via il profumo di lui, morbido sulla guancia, penetra sulle vertebre nude.
L’ho imparato da te, dopotutto, da te e da papà. È dal vostro coraggio e dal vostro amore che ho imparato a non arrendermi, a dispetto di tutto e tutti. Lui mi ha detto che non va bene per me, ma che ne sa lui dei miei mostri? Beh, lui può anche rinnegare quello che siamo; io lo custodirò invece, lo cullerò, e riempirò il silenzio chiamando il suo nome. E il vuoto rincorrendo la sua assenza, e… – io lo so che uomo è, lo so, e…
E non importa, non m’importa, quanto veloce e lontano riuscirà a scappare: resta sulla pelle.



 

N.d.A.

Non sono minimamente soddisfatta di questo capitolo - soprattutto della seconda parte con la "voce" di Tonks, però volevo troppo pubblicare, mantenere la promessa che ho fatto a me stessa, in questo periodo più che mai, perchè ho proprio bisogno di tenere il controllo almeno su una cosa nella mia vita, per quanto piccola e insignificante possa apparire.
Odio la prima persona, e mi maledirò in eterno per aver deciso di utilizzarla qui, ma ormai è cosa fatta. Veniamo alle solite spiegazioni (e stavolta sono un bel po'... sai la novità).
Allora ho scelto la prima persona perché volevo trasmettere una distanza tra i due personaggi - e questa distanza è ricalcata anche dal fatto che entrambi parlano ad altri e non tra di loro - ma è anche una prima persona che li fa tendere, volenti o nolenti, l'uno verso l'altro, come se risuonassero e si stessero calamitando inconsciamente. Il loro è un iniziare a precipitare l'uno nelle braccia dell'altro.
Anche le due scene sono diverse: quella con la "voce" di Remus è ambientata nel natale del sesto libro, quando lui, nella cucina dei Weasley, mentre tutti ascoltano la cantante preferita di Molly, lui guarda il fuoco e sembra sprofondarci dentro (ho sempre immaginato che ci fosse stato un momento tra di loro, subito dopo la morte di Sirius, in cui si siano avvicinati maggiormente e Remus abbia ceduto al desiderio); quella con la "voce" di Tonks è volutamente più ambigua, perché potrebbe benissimo adattarsi a un momento analogo nel sesto libro, quando Remus rifiuta di stare con lei, ma dico che ci sono delle ambiguità perché ho fatto in modo che il momento potesse benissimo essere uno del settimo libro, quando lei aspetta Teddy e Remus è scappato lasciandola a casa con i genitori.
Altra cosa importante: il capitolo non è solo diviso in due scene, ma ogni scena è divisa in due. Da una parte c'è la parte cosciente di Remus che parla "mentalmente" con Sirius e che sembra parlare della sua condizione di lupo mannaro, dall'altra c'è una parte di Remus che si insinua in questa conversazione muta e che rivive il ricordo con Tonks; lo stesso vale per quando concerne la parte di Tonks, da un lato un discorso muto con la madre, dall'altro il semplice ripercorrere quei momenti, ritornarci con la mente, involontariamente. Volevo trasmettere il senso di tormento che, nonostante i nostri propositi e gli altri pensieri a cui ci aggrappiamo, arriva e non si riesce a scacciare via. La frase finale di entrambi i pezzi vuole essere una conclusione per entrambe queste due "coscienze".
Infine, "i colori accesi dei suoi anni" è tratta da "Ti lascerò" di Anna Oxa e Fausto Leali.
Mentre "rubato attimi di felicità al mondo" è stato il mio personale tormento che mi ha perseguitato mentre scrivevo, distraendomi e torturandomi. Ho l'impressione di aver già usato questa espressione da qualche parte, mi sembra di averla già o forse letta. Usando i motori di ricerca non è uscito nulla, ma resta comunque il dubbio.
Va bene, adesso torno alla mia vita e lascio voi alle vostre.

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Capitolo 6
*** Rubare il silenzio ***


Rubare il silenzio
 

 


Sc’erano sussurri, quella notte. Tonti, e dappertutto. Sono scoppiati all’improvviso, come uno sciame di api a cascia. E ombre… anche ombre tremolanti – volti sconosciuti – che li riproponevano senza fiato, sempre gli stossi sussurri, e altre che li strillavano. E poi le urla, le lacrime, il dolore… Ho capito cos'è la paura esattamonte quella notte, ascoltando come rotolava il suo nome da una bocca all’altra. Un suono aghiacciante, che diventava via via più freddo, più inquietonte, più viscido.
È stata la paura… ha reso sordo il mondo. Ci agredisce, dentro e fuori, è snervonte… oh, Bill, a volte mi sembra che sci piova addosso. Quella notte, non riuscivo più a sentir le vosci delle mie compagne, ogni volta che provavo a parlare sentivo come una corda che mi taliava la gola. Questo mi ha fatto tonto rabbia!
Avevo tonto voglia di afferrare mia sorella e portarla il più lontano possibile da lì. Sono stata una codarda! Ma il tuo sguardo… io non dimentico lo sguardo tuo di quella notte. Nessuna hésitasion. Non sc’era alcun desiderio di fujir o di nascondersi. Tutti gli altri erano tonto spaventati – erano troppo piccoli! – ma il tuo sguardo non ha vascillato: era duro come la roscia. Ha lascerato il silonsio, mi ha dato il courage.
Ah, è talmonte vigoureux, il tuo sguardo. È tutto sciò che mi serve adesso, in mezzo à la guerre, per continuare a combattere. Da quella notte, non ho più smesso. Tutti ascoltavano confusi le parole di Silonte. Tutti si preparavano a seppellire le loro speronse assieme a Cedric. E invesce io ho preso la mia décision: in silonsio, sono rimasta. Perché questa è diventata la mia guerre nel momento in cui hanno assassinato un mio amico. È diventata la mia guerre quando hanno minasciato di rovinare tutti i nostri sforzi di coopération. Ma scerto che loro sci voliono separare: divisi, sci azzittiscono più facilmonte.
Ma, Bill, non è per nionte somplisce, ascidenti!
Ho paura, Bill. Di perdere le persone che amo. Di perdere te. Quando guardo la porta di casa e ponso a tutto il male che sc’è la fuori. Gli occhi di chi si chiuderanno questa volta? Io li ho visti, i suoi occhi, aperti verso il scielo muti.
Ma tu sei talmonte corajioso, Bill! Riesci sompre a tirarmi fuori da questi brutti ponsieri. E se qualcuno ponsa di portarmi via sciò che io amo… non lo ascetto! Combatterò!
Scerto! Preferisco fare i conti tutti i jiorni con la paura plutôt que con il rimorso. Sarebbe un’honta troppo gronde! Solomonte… tu continua a guardarmi, Bill, continua a rubare spazio a questo stupido silonsio. Mi basta sentir rujir la tua indomita fermezza attraverso i tuoi occhi. Mi basta che mi strinji con le tue mani jontili e il tuo caldo sorriso. E la notte si riempirà di dolscissime melodie.
 


 
Li ho sentiti pure io, i sussurri. Fitti, disperati, e tutt’attorno a me. Non lo so quante volte hanno implorato una cura, o solo anche una speranza. Io lottavo per restare a galla, mentre mani che non erano umane tentavano di tirarmi dentro un vortice pieno di tenebra, e ho avvertito altre mani – carezze decise a strapparmi a quel mare denso. E pure la paura, i pianti, il supplizio stavano lì, vagavano ai margini del mio inferno.
Paura e rabbia, loro mi hanno tenuto compagnia per un po’. Scommetto che avresti voluto gridare… o almeno, ricordarti che suono avesse la tua voce. Io anche, ma soprattutto provavo una voglia matta di ritrovare me stesso. Di ritrovare te, Fleur. Ho fatto una gran fatica per dare un nome a quelle voci, finché non ho sentito la tua.
Conosco la sensazione che si prova davanti a una forza che sembra indistruttibile. Ricordi quanto tremavano le mie gambe, e come vacillavano i miei occhi? Se non ci fossi stata tu a sorreggermi, e se le tue mani non avessero amato tanto le mie cicatrici, sarei crollato a terra. Sei arrivata giusto in tempo, prima che la sofferenza diventasse così tanta da farmi sprofondare assieme al mio coraggio. Tu sei il mio coraggio.
E allora ti dirò solo una cosa. Non permetterli di azzittirti, non permettere a nessuno di dividerci. Continua a rubare il silenzio con la tua forza, con la tua rabbia, con il tuo coraggio. Credono di poterci spezzare con la paura, di seminare il panico con l’incertezza. Beh, non riuscirà a fermare noi questa notte, e neppure tutte le altre a venire, chiunque proverà a separarci. Siamo riusciti a restare uniti pure quando le ombre hanno preso fuoco e hanno incenerito la nostra notte. Io ti prometto che ce ne saranno altre, e in tutte queste tu mi troverai al tuo fianco. Guardami, parlami.
Sarebbe più difficile se non avessi te, Fleur.
Ma l’amore è un dolce mare in cui dormire. E se fosse per sempre, e se fosse tra le tue braccia, lo potrei accettare. È il rimpianto che temo, Fleur. Tutte le cose che avrei potuto fare, tutte le cose che avrei potuto avere, e ho lasciato andare.
Sei tu che mi strappi a questi attimi cupi, Fleur. Chi riuscirebbe mai a domare il tuo furore? E io come potrei mai pensare di vivere senza te? Combatteremo assieme!
Non credo che sarò sempre forte, allegro e sensibile. Ci saranno delle notti buie, notti in cui mi mancherà il fiato, e spetterà a te confortarmi. Ma passeranno, sai? Io ce la metterò tutta. Bisognerà scavare a mani nude per riveder le stelle, Fleur, nessuna mano resta liscia e pulita se ha vissuto certe notti. Ma tu parlami, urla il mio nome, e insieme deruberemo del silenzio la notte.



 

N.d.A.

Intanto auguri di Buone Feste a tutti quanti!
Ho deciso di dedicare Dicembre all'amore, alla guerra, al coraggio e alla ferocia di chi combatte e non si arrende, nonostante la paura per sé e le persone che ama.
E chi meglio di Fleur e Bill potevano incarnare meglio questi temi?
La storia è ambientata in un periodo imprecisato, ma io ho immaginato questi due personaggi confrontarsi e supportarti in una notte come le altre, durante il settimo libro, dopo che il trio aveva lasciato la loro casa.
Al contrario della precedente coppia, dove Remus e Tonks cadevano in quel vortice di angst mentre, loro malgrado, si calamitano e danzavano sospesi in questa dolce caduta, Bill e Fleur si trovano, si cercano, rimangono uniti, stretti in questo abbraccio di paure e coraggio.
Torna la prima persona - per la mia felicitòà, eh, si vede? - stavolta i personaggi però parlano tra loro, si confortano a vicenda, scivolano l'uno nella mente e nel cuore dell'altro. Tutti i modi per rendere stilisticamente questa appartenenza, questa vicinanza, questo loro essere fatti l'uno per l'altra, io li ho inseriti qui. Ed ecco la pazzia delle pazzie.
Non solo ogni paragrafo di Fleur ha lo stesso numero di parole del paragrafo corrispondente di Bill, ma se mai vi venisse voglia di frammentare i vari paragrafi e alternarli - uno di Fleur e uno di Bill - dovreste scoprire che in realtà queste due flash sono un vero e proprio dialogo tra i due.
Bene, dicono che l'amore vero è folle. Io adoro l'amore che c'è tra questi due, e spero di averne fato assaggiare un po' anche a voi.
Tanti Auguri!

P.s. Alcune delle parole finali del Pov di Bill sono ispirate dalla canzone "Io ci sarò" degli 883.

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Capitolo 7
*** In fondo alla scatola ***


In fondo alla scatola
 


 
In fondo alla scatola, sono rimasti soltanto ricordi.
Sirius scava a mani nude pur di tirarli fuori dal fango. Scava con ferocia selvaggia, spezzandosi le unghie e il cuore, macchiandosi il sorriso e l’anima. Scava, mangiando colpe e sputando rancore. Scava.
E mentre lo fa, Sirius affonda sempre di più, dimenante e collerico, e il fango gli s’appiccica addosso; gli schizza sugli occhi, scende giù nella gola, cola dai denti snudati. Poco alla volta macera il sangue e obnubila la mente, fino a quando tutto secca – fango, sangue, senno – e lui può grattarli via.
Restano i solchi però, solchi dappertutto. Solchi sulla pelle e solchi sulle pareti. Solchi che il mostro che abita con lui quella cella viene di notte a riempire. Li riempie con il tormento, li riempie con il rimorso, alle volte li riempie pure con una risata isterica. A Sirius non importa, il mostro può dilaniarlo, rattopparlo o divorarlo pure se vuole. Ma non deve toccare i suoi ricordi. A quelli, Sirius fa la guardia.
Non dorme Sirius, non dorme il mostro. Di giorno si fissano in cagnesco, di notte si contendono i fantasmi di risate e corse sul prato come fossero ossa. Se piove, si ringhiano a vicenda. Se la luce del sole inonda il pavimento, si ritirano ognuno al proprio angolo scuro. Fanno così per un po’. Sirius è convinto che fanno così da un secolo ormai, il mostro lo guarda con la tranquillità di chi ha aperto appena adesso gli occhi sul mondo. Ma non è un mondo quello, è soltanto una scatola.
In fondo alla scatola, camminano le ombre a piedi scalzi.
È un suono molesto, un suono sbagliato. È il suono di cose annegate che tornano a galla con un risucchio viscido. Sirius non può fare un passo senza udire quel risucchio.
James… fa l’eco dei suoi passi. Rimbomba tra quelle quattro pareti, se Sirius chiude gli occhi forte abbastanza, può sentire la pallida ombra camminargli a fianco, un passo dietro. Sirius fa un passo, l’ombra fa un passo. E quando Sirius è troppo annoiato per farsi inseguire, e il suo corpo sedimenta sul pavimento, allora quel nome raschia contro la pietra, e si ode uno sciabordio, in fondo alla scatola, di cose che stanno per annegare di nuovo.
Sirius allora trascina le ombre con sé contro la parete, e il fango adesso gli arriva alla cintola. Se lo stringe al petto quel nome, si stacca lembi di pelle per poterselo cucire addosso e tenerlo al caldo. Quantomeno all’asciutto. In un mondo migliore, quel nome avrebbe dovuto dilagare, ma quella è soltanto una scatola.
In fondo alla scatola, c’è un minuscolo foro attraverso il quale potrebbe guardare fuori.
Potrebbe infilarci un dito e strappare un pezzo di parete. E un pezzo di parete per volta, potrebbe aprirsi un varco e scappare. Potrebbe tornare a camminare per il mondo. Potrebbe tornare a ridere e a correre sui prati assolati. Potrebbe tornare a essere un uomo libero. A essere di nuovo un uomo.
A Sirius tutto questo non importa.
Non gl’importa d’ingrigire dentro una prigione – il mondo, fuori, ha preso fuoco, ogni cosa è avvolta dal fumo e nevica cenere.
Non gl’importa di sporcarsi i vestiti e le mani – il fango ha lo stesso colore del sangue rappreso.
Non gl’importa se la melma ormai ha raggiunto quasi il tetto – l’aria puzza di cose morte, di cose perdute.
Sirius siede sul fondo e trattiene il respiro.
In fondo alla scatola, c’è tutto quello che desidera.
 
 
 
In fondo alla scatola, sono rimasti soltanto ricordi.
Walburga esige che vengano tirati a lucido ogni giorno. Lo esige con una fretta disperata, quasi pensi che da un momento all’altro la porta di casa possa aprirsi e la sua famiglia rincasare. Lo esige, e arriva persino a raddrizzare lei stessa alcuni quadri. Deve esigerlo.
E quando lo fa, la voce di Walburga si fa un pochino più gracchiante, angosciata e rigida, e il pulviscolo le vortica davanti alla faccia; volteggia per le stanze, riposa sui vecchi cimeli, appesantisce le ragnatele sui lampadari. Poco alla volta forma uno strato sopra ogni cosa, fuori e dentro di lei, finché anche la luce delle candele sembra farsi stanca e malata.
Pensava di aver creato una famiglia che neanche il paradiso avrebbe potuto smuovere, una famiglia come nessun’altra. Una famiglia indistruttibile. E mentre aspetta che ritorni, Walburga siede in mezzo ai suoi sogni infranti, siede in mezzo alle sue aspettative crollate, in mezzo persino ai rimpianti inconfessati. Ha tanto tempo adesso per trastullarsi con le foto e i ritratti, Walburga, ripescare dal fondo della mente le lezioni imparate a memoria e ripeterle ancora e ancora e ancora.
Ripete il motto di famiglia Walburga, si aspetta che lo facciano anche le persone nelle foto. Sorseggia il tè mentre ricorda al ritratto di suo marito di non rivolgere più il saluto allo sventurato, addenta una tartina mentre insegna a suo figlio lo sdegno col quale guardare la cugina rinnegata. Se un clacson suona, strilla a tutti di non interromperla. Se qualcuno bussa alla porta, si ritrae dietro le tende e aspetta che vada via. Walburga esige e aspetta. Si convince che non è passato poi così tanto da quando ha iniziato ad aspettare, ma c’è la polvere che riveste ogni cosa, persino le sue spalle. Forse è neve. Ma non è il mondo fuori quello, è soltanto una scatola.
In fondo alla scatola, camminano le ombre a piedi scalzi.
È un fruscio impercettibile, di passi nudi che sgattaiolano di sopra. È il frusciare di vesti a brandelli, rosicchiate dalle tarme, che risvegliano i fantasmi di cose carbonizzate. Walburga fiuta odore di bruciato ovunque vada.
Regulus… fa il suo cuore lacerato. Lo cerca tra quelle quattro pareti, si aggrappa alla balaustra per non crollare a terra e lo chiama, grida forte il suo nome. Walburga lo cerca in ogni corridoio e in ogni stanza. E quando non trova più la forza di aprire quelle dannate porte, si convince che spiando dal buco della serratura lo vedrebbe esercitarsi nella sua stanza. Lui e quel suo piccolo musino ben stretto, lo sguardo fiero e concentrato.
Walburga allora scivola lungo il muro, poggia un orecchio alla porta, le mani sulla maniglia, e a labbra strette intona una melodia. Ma non la apre mai quella porta, non vuole disturbare il suo piccolo uomo, piuttosto rimane in attesa, mentre i capelli imbiancano e la crocchia si sfalda. Rimane con la mano sulla maniglia. Se quello fosse un mondo giusto, Walburga entrerebbe e danzerebbe con lui, ma quella è soltanto una scatola.
In fondo alla scatola, c’è un minuscolo foro attraverso il quale potrebbe guardare fuori.
Potrebbe ruotare il chiavistello e spalancare la finestra. E senza i vetri opachi a rattristire la stanza, potrebbe lasciare che i raggi del sole si stiracchino sulla moquette. Potrebbe pettinarsi i capelli e sciogliere lo scialle. Potrebbe sedersi allo scrittoio e scrivere una lettera. Potrebbe organizzare un ballo. Un ballo per la sua perfetta famiglia.
Potrebbe, ma non lo fa.
Walburga sorseggia il tè col camino freddo – il mondo è una gabbia fredda, ogni cosa appassisce e muore.
Walburga vaga per i corridoi chiacchierando con i fantasmi – non importa se sono muti, Walburga non ha mai ascoltato una singola risposta.
Walburga appoggia la guancia alla parete dell’ingresso – ormai ci sono ragnatele persino sul suo cuore.
Resterà là, in attesa che la sua famiglia ritorni.
In fondo alla scatola, c’è tutto quello che desidera.



 

N.d.A.

Siamo finalmente giunti al giro di boa.
Questo capitolo, così freddo e cantilenante, asimettrico pure, è tutto dedicato alla famiglia Black. Ancor meglio, i suoi protagonisti sono due dei personaggi che più mi affascinano, soprattutto per quanto concerne il loro rapporto: Sirius e Walburga, un figlio e una madre, unici supertisti della loro gloriosa famiglia. Mi sono sempre chiesta se una parte di Walburga pensasse ogni tanto a lui, al figlio rinnegato e rinchiuso in prigione. E questa è - in parte - la mia risposta, la mia personale versione.
Walburga è essenzialmente una persona orgogliosa, e se ha pensato a Sirius lo avrà fatto in termini esplicitamente non affettuosi. Il figlio è in prigione, ma anche lei lo è.
E qui entra in gioco il titolo e quelle quattro frasi che si ripetono in entrambe le flash (allungate, sorry but not sorry). Ho usato il grassetto, cosa che odio con tutta me stessa fare in un testo, perché volevo rendere visivamente l'idea delle quattro pareti dentro le quali si muovono i personaggi. Quattro pareti essenzialmente uguali; sono le anime al loro interno che cambiano e sono radicalmente diverse. Ecco, il testo, nella sua forma più visiva e stilistica, vuole rappresentare questo. Assieme, ovviamente, al gioco con la terza persona che dovrebbe dare distacco. I testi, poi, sono diversissimi tra loro: se quello di Sirius ha una forma cantilenante, a più riprese, che vuole scandire un po' la sua discesa verso il rimorso e la pazzia; quello di Walburga è più scorrevole, più malinconico, perché alla pazzia/solitudine Walburga si approccia con piglio severo e rigido. Mentre Sirius annaspa, lei attende composta (o quasi).
Ultima cosa che volevo sottolineare: Sirius e Walburga hanno una perdita in comune, ma avrebbero anche qualcuno al quale poter pensare con conforto (l'uno all'altra, sono madre e figlio), invece Sirius è completamente avvinto dalla perdita di James, mentre Walburga rivolge tutte le sue vane speranze su Regulus morto.
Concludo velocemente dicendovi che "Pensava di aver creato una famiglia che neanche il paradiso avrebbe potuto smuovere, una famiglia come nessun’altra. Una famiglia indistruttibile." sono ispirate dalla canzone "Dynasty" che Ele Linalee mi ha involontariamente fatto conoscere. Ci tenevo a ringraziarla anche qui.
Ho finito, per ora.

Questa storia è candidata agli Oscar della Penna 2022 indetti sul forum Ferisce più la penna  

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Capitolo 8
*** Inseguendo la tua assenza ***


Inseguendo la tua assenza
 

 
 
Succede una cosa strana, succede ogni volta che qualcuno ride: una parte della tua anima si distacca dal resto con un dolorosissimo strappo, mentre tu ti volti. Dev’essere così, è giusto che sia così. Ma questa volta è diverso, ti fa quasi bene al cuore. Sai che non è lui, non può essere lui – lui è andato, non tornerà.
È il fantasma di quell’ultima risata che ti fa voltare – l’ultimo istante di allegria che hai provato. Ne sei stato testimone, quindi è tuo dovere voltarti e cercarla, ricordarla, inseguirla per il mondo. Ti sembra che stia uscendo proprio adesso dal bar – ne senti già l’assenza.
Non si è mai sentito che Percy Weasley ruzzoli giù dallo sgabello, calpesti la sciarpa, inciampi, se la butti attorno al collo, e nel farlo si frusti la faccia, come un perfetto idiota, dimenticando per giunta l’ombrello. Ma hai fretta – per la seconda volta nella vita, senti di essere in ritardo (e sappiamo tutti com’è andata a finire la prima volta).
Lo sei davvero, un idiota, comunque. Perché sotto la pioggia, fradicio come un pulcino spelacchiato, mentre ancora ti stai chiedendo che diavolo vorresti fare o se sei veramente impazzito, ti ritrovi a gridare un «aspetta» a una perfetta sconosciuta. Magari non mi ha sentito, ti prepari a Smaterializzarti.
Ma lei si sta voltando – si volta, con una lentezza straziante, come se stesse attraversando l’intero mondo solo per guardarti negli occhi, inchiodandoti fermo lì, in attesa. S’affaccia incuriosita da sotto l’ombrello. «Sì?»
Sei tutto in disordine, e pure zuppo sei, idiota. Come un naufrago che striscia a terra boccheggiante, senza fiato e senza senno. Di certo, questo non è da te.
«Ti ho sentita ridere» balbetti. Che cosa stupida da dire! «E mi chiedevo…» Se ti lasciassi andare, lo rimpiangerei per sempre, deglutisci. «Qual è il tuo nome?» provi a darti un contegno.
Ride di nuovo – ride di te, idiota, di sicuro pensa che sei ridicolo con quell’espressione incantata e le braccia un po’ sbilanciate in avanti, come se volessi penderla al volo, come se avessi paura di cadere. Ma intanto ride.
«Audrey.»
Audrey.
Sotto la pioggia, gioia e tristezza si tengono per mano, tra loro l’eco di una risata.
Sotto la pioggia, le labbra bevono direttamente dal cielo.
Sotto la pioggia, si può solo sussurrare un “ti amo” a mani vuote, perché qualunque altra cosa verrebbe rovinata.
 
«Non le vorrai mica regalare un fermacarte per San Valentino, eh, Perce? Penserà che sei un idiota. Almeno, se proprio devi, ricordati di sorridere. Gli idioti innamorati lo fanno.»
 
 
«Cosa le regalerei io, dici? Facile, me stesso! Cosa dovrebbe desiderare di più una donna che ha già me? Siamo perfetti io e te, Georgi… Solo, io sono un po’ più bello.»
 
Sotto la pioggia, i colori del mondo si bagnano e colano a terra, lasciando solo grigio.
Sotto la pioggia, anche George si appanna, e chi lo guarda potrebbe benissimo scambiarlo per Fred.
Sotto la pioggia, è ancora possibile sentirsi la metà di qualcosa di perfetto.
Angelina.
«Angelina!»
Piange come te – piange a causa tua, scemo, di sicuro crede che tu potresti essere lui un momento prima di svanire dietro questa stupida pioggia che tutto confonde, e scoprire che era solo un sogno, potrebbe essere un incubo, potrebbe essere uno di quegli scherzi ch’eravate soliti fare a Hogwarts. E intanto piange.
«Che ci fai qua?» mormori. Che cosa inutile da chiedere! «Il negozio è chiuso…» Ho solo un rimorso nella vita. Questo rimorso mi ha fatto a pezzi, serri gli occhi. «Ti ho vista dalla finestra» provi ad annullare le tue incertezze.
Sei un guscio vuoto, e ora anche zuppo, scemo. Una volta ti saresti tolto la giacca per ripararla dalla pioggia, una volta ci avrebbe di sicuro pensato Freddy. Di certo, sarebbe arrivato prima lui di te.
Ma lei ti sta prendendo per mano – ti tiene la mano, con una dolcezza insopportabile, come se stesse cercando di strapparti di dosso tutto il dolore che ti si è incrostato sulla pelle, lasciandoti nudo lì, indifeso. S’appoggia sul tuo petto, e fa male, perché non sentivi più calore nel petto da molto tempo e avevi scordato cosa si prova. «Anch’io.»
Magari non mi ha riconosciuto, vorresti che fosse così. Perché sotto la pioggia, fradicio come un maglione dimenticato sull’erba, mentre provi l’insana voglia di vestire ancora i suoi panni e di essere scambiato per lui, ti ritrovi a urlare «sono George» in una strada deserta. Lo sei proprio, uno scemo, senza di lui.
C’è lei, e ci sei tu – ancora una volta senti di essere quello sbagliato, senti di essere tu quello morto (e sappiamo tutti chi, invece, non potrà più mordere la vita). Non si è mai visto George Weasley restare senza parole, ma neanche un George senza Fred pensavi potesse esistere, e tu sai che senza lui, a te non restano spalle a cui appoggiarti, sorrisi da copiare, discorsi da finire.
È l’ombra della sua presenza che vi fa abbracciare – l’ultimo momento in cui ti sei sentito completo. Ne sei stato privato, quindi ti sei nascosto dove sapevi avresti trovato l’ultima pergamena sulla quale aveva scarabocchiato, l’ultima crostatina che aveva morso, l’ultimo scherzo che lo avevi ascoltato programmare. Ti sembra di rivederlo di nuovo – non ne senti quasi più l’assenza.
Succede una cosa strana, succede solo con lei tra le tue braccia: un pezzo della tua anima torna a casa, mentre tu la scosti un po’ da te. La guardi piangere senza alcuna vergogna, lei ti guarda feroce. Ma questa volta è diverso, le accarezzi il viso e quasi sorridi. In qualche modo, lui è anche in lei, e tu non la lascerai andare via – lui è con te, e mai se ne andrà.



 

N.d.A.

Lo confesso, questa ha fatto proprio male.
Il titolo vuole essere un sottinteso, come se fossero Percy e George a pronunciarlo, mentre vivono questo loro amore (sì, doveva essere il capitolo dedicato a San Valentino, ma volete che mancasse l'angst?). A questo punto, uno si aspetterebbe una prima persona narrante, invece ho optato per una seconda, che mi permettesse di lasciare più o meno muti i due personaggi, perchè fosse la loro anima, attaccata dalle parole del narratore, a parlare con i loro gesti, il loro dolore, le loro emozioni.
E se nella prima flash vediamo come nasce un amore, nella seconda vediamo un amore perseverare (e ammetto che la mia visione dell'amore di George e Angelina potrebbe inquietare).
Parlando un attimino della struttura adottata. Questa volta, invece che seguire la stessa direzione per creare il riflesso, ho lasciato che le due flash si allungassero ai lati opposti partendo dallo stesso punto. Così, sembra assurdo da spiegare, ma diciamo che ho iniziato la seconda flash da dove finisce la prima, e da lì ho risalito. Se la prima flash sembra creare uno strappo nella rassegnazione di Percy, nella seconda quello strappo viene ricucito, come tirare su una zip.
Ho voluto poi lasciare le battute più importanti e lunghe a Fred, perché ho sempre immaginato che fosse lui quello dalle molte parole. Qui, dove l'allegria tace e le parole sono rarefatte, è il suo spirito a fomentare l'amore. E niente, Fred in versione cupido è la stoccata finale. Adesso sparisco.

Questa storia è candidata agli Oscar della Penna 2022 indetti sul forum Ferisce più la penna  
 

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Capitolo 9
*** Mentre la neve cade ***


Mentre la neve cade
 
 
 
«È uguale a James!»
 
 
Temerario e leale.                                        
Parole da pronunciare con orgoglio, ma che fanno tremare Minerva McGranitt. La fanno tremare fin dentro al midollo, le fanno tremare le labbra.
Anche James era temerario e leale, e per il suo coraggio e la sua lealtà era morto. Morto. Il ragazzo tutto sorrisi e marachelle, l’uomo dagli ideali forti e le grandi speranze, il suo allievo.
E suo figlio…
Lo studia da dietro gli occhiali, lo studia nascosta dietro una maschera di severità, Minerva. Lo studia camminare e la neve intorno a lui cade e ricopre tutto e dissipa le ombre.
Non esiste più un posto dove nascondersi.
Presto arriverà la bufera, che trasformerà quel mare calmo in una lastra di ghiaccio, e allora il figlio di James si ritroverà ad affrontare gli stessi mostri che avevano ucciso il padre.
Il mio allievo.
Minerva lo studia da dietro la cattedra, lo studia infervorata dalla voglia di prepararlo. Lo studia mentre sbaglia e riprova e una scintilla prende forma davanti a lui.
Un piccolo porto di speranza.
Temerario e leale: parole da pronunciare con orgoglio.
Perché quando la neve attecchirà, non saranno i rimpianti ad attecchire con essa.
 
 
Irriverente e gentile.
Parole da accarezzare con avidità, ma che fanno tremare Horace Lumacorno. Lo fanno tremare fin dentro al cuore, gli fanno tremare le mani.
Anche Lily era irriverente e gentile, e per la sua irriverenza e il suo buon cuore era morta. Morta. La ragazza tutta pepe e sorrisi, la donna dall’indole impavida e le grandi idee, la sua allieva.
E suo figlio…
Lo ammira da dietro i fumi soporiferi, lo ammira nascosto dietro una nube di chiacchiere leggere, Horace. Lo ammira avanzare e la neve sotto i suoi piedi si sporca e s’insanguina e si fa livida.
Non esiste più un posto in cui ripararsi.
Presto calerà la notte, che reciderà quell’estate giovane come un fiore nelle mani dell’inverno, e allora il figlio di Lily verrà dilaniato dalla stessa creatura che aveva divorato sua madre.
Il mio allievo.
Horace lo ammira da dietro il calderone sbuffante, lo ammira irretito dal desiderio di preservarlo. Lo ammira mentre trionfa e festeggia e un’ombra prende corpo dietro di lui.
Un’effimera proiezione della sua paura.
Irriverente e gentile: parole da accarezzare con avidità.
Perché quando la notte calerà, saranno i rimorsi che lo verranno a scovare.
 
 
«No, gli occhi no. Gli occhi sono di Lily…»




 
N.d.A.

Quando ho iniziato questo progetto, l'ho fatto con tanto entusiasmo e la sventatezza di chi ama seguire la folle idea di un momento. Arrivati a questo capitolo, però, comincio a sentire la fatica della lunga distanza e la difficoltà di procedere con sempre meno tempo a disposizione.
Questa storia è stata scritta in meno di un'ora e mezza, e temo proprio che questo si senta.
Ma andiamo con le solite note. Le due frasi che aprono e chiudono il capitolo sono da intendere come una dialogo tra Minerva e Horace. Il tempo è dilatato, rarefatto al massimo, perché in mezzo a questo botta e risposta, nell'attimo di fiato tra l'una e l'altra, io ho inserito questi due viaggi introspettivi.
Ho voluto analizzare questi due professori partendo da un focus preciso: il loro segreto (ma non tanto) attaccamento ai loro pupilli. Sì, perché dentro di me ho sempre pensato che quello scapestrato di James fosse la croce e la delizia della McGranitt.
Partendo da questo attacco, quindi, ho messo in campo due personaggi diametralmente opposti: una vuole preparare, l'altro preservare; una è orgogliosa di James, e lo è anche di Harry, ma dentro di lei, come insegnante, suo compito fornire tutti gli strumenti perché il destino di Harry sia diverso da quello del padre; l'altro è avido ed egoista, e a modo suo sente di aver perso uno dei suoi trofei (sembra brutto da dire così, comunque credo che le fosse davveroa affezionato, anche se ognuno di noi ha un modo diverso di relazionarsi all'affetto e ai sentimenti in generale) sente di aver perso un piccolo fiore delicato della sua vita, e vorrebbe che lo stesso non succedesse con il figlio di lei; una esalta la fierezza, l'altro la dolcezza.
Il titolo, poi ripreso lungo la narrazione, vuole essere un'evocazione di questo momento silenzioso, sospeso, d'introspezione, ma vuole anche richiamare una serie di cose come la morte, il dolore, la calma apparente, la sconfitta.
Spero che non sia troppo deludente il tutto.

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Capitolo 10
*** Mi scorderò dei fiori d'angelo ***


Mi scorderò dei fiori d'angelo

 
 
 
«E tu dov’eri? Per chi combattevi?»
Senza pietà.
 
Mi scorderò dei fiori d’angelo e del tuo sorriso complice, la mattina.
Mi scorderò delle tue guance sporche d’imbarazzo e delle tue unghie colorate di terra.
Mi scorderò di quella felicità che ho tenuto per mano mentre sgattaiolavamo, complici, nel nostro giardino.
Mi scorderò di questo stupido noi, che tanto ho curato, pregato, sognato. Dovessi sradicarlo dal petto, gettarlo tra le ortiche e lasciare che il tempo lo sgretoli via. Dovessi perfino squarciarmi il ventre con le mie stesse mani. Ho sentito già delle mani squarciami il ventre, sai? Di notte, seduta alla finestra, mentre ero in attesa. Qualcuno – o qualcosa, non so – mi ha sfiorato la pelle dandomi i brividi e poi mi ha lacerato la carne... o forse è venuto fuori da dentro, richiamato da una forza maligna.
Un dolore lancinante, un pianto inconsolabile, ma nessuno di questi due era il mio.
Io sono rimasta a cullare un infante vestito a lutto, ad asciugare raggi di sole sulle guance di un’anima bruciata. Sono rimasta sola, con la schiena spezzata, il ventre vuoto, gli occhi aridi come pietra, le mani annerite dalla vergogna, in silenzio.
Sono rimasta ad aspettare un uomo che non sarebbe più tornato, l’ultimo mio faro in quest’orizzonte di oscurità. La paura me lo ha strappato via prima ancora della fredda morte. E con che coraggio tu vieni ora, qui?
Mi chiami sorella… Ma quale significato vuoi che abbia per me questa parola se non quello del rimorso? Quale consolazione potrei trarne sentendola? Forse pari a quella di un ferro rovente nella gola o del filo spinato stretto alle braccia.
Sorella
 
 
Sorella…
Ho perso una sorella, ma non ho mai scordato di averne smarrita un’altra. Ho rinunciato ai miei sogni, ho sacrificato le mie speranze, ma non sopporto più di convivere con il rimpianto di questi se. E se… e se avesse bisogno di me? E se potessimo essere ancora felice? E se…
Ho rigirato il vuoto tra le dita fino a scorticarmi la pelle, ho raccolto il sangue nelle mie mani avvolgendomi nel freddo silenzio dell’amore. Sì, anche io ho fatto tutto per amore. Non ci credi?
Io ho accettato di vivere nell’obbedienza per gioire muta e folle di ogni passo che il frutto del mio ventre avrebbe mosso su questo mondo. Ho accettato di tacere la mia paura, a testa alta, a labbra strette, con le mani strette in grembo, la pelle rivestita di colpe.
Un peccato inconfessabile, una rabbia distruttrice, e nessuna possibilità di gridare.
Che non potremo mai scordare questo fragile noi, che tanto ho rinnegato, calpestato, ucciso. Neanche quando avremo i polmoni pieni di sabbia e grumi di sangue sotto le unghie. Neanche quando avremo dilaniato l’ultimo brandello del nostro legame. Ci ho provato mille volte, sai? Di notte, seduta alla finestra, mentre stavo in ascolto. Di qualcuno – o di qualcosa, non ricordo – che ricucisse i pezzi della mia anima… o che mi prendesse per mano e mi portasse ancora una volta ad annusare il profumo della primavera.
Non potrai scordarti il profumo di maggio e il solletico dei piedi nudi sull’erba.
Non potrai scordarti delle carezze tra le trecce e della filastrocca che cantavamo.
Non potrai scordarti di quella spensieratezza che inseguivano sotto un cielo d’innocenza infinito.

«Io non combattevo. Come te.»
Senza pietà.

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Capitolo 11
*** Infine, l'estate ***


Infine, l'estate
 


Un coacervo di grugniti e bestemmie morse a metà strada tra il cuore e il mondo, questo sei tu, Aberforth.
«Siamo la resistenza, Ab.» Solo rimorso nascosto sotto altro rimorso, ossa che coprono ossa. «Non ci faremo fermare da qualche graffio.»
Sono onde che ti sollevano e provano a trascinarti con sé, le sue parole. Ma il ragazzo è giovane: ha scavato un po’ in mezzo al fango e pensa di aver trovato il coraggio. Oro dei pazzi, rende ciechi gli stolti e i figli dell’estate.
Tu ricordi. Fili di seta e una bocca che si schiude appena. Pelle diafana e sussurri di rosa. La tua estate che si assopisce – e non si sveglia più.
«Meglio che lasci perdere, ragazzo.»
Lasciami perdere.
 
 
Un groviglio di lamenti e desideri annaspati a metà strada tra le labbra e il sogno, questo è rimasto di te, Gellert.
«Dov’è? Chi l’ha presa?» Un unico rimpianto appuntato sul petto, miele versato sui carboni. «Potresti ancora essere grande, conoscere l’immortalità.»
È acqua di fonte che viene a lavarti le mani, il dono che pensavi non potergli più fare, la tua negazione. Soltanto l'altro non capisce: hai già abbracciato quella follia e sai a quale rovina conduce. Giochi di luce, attraversano il corpo e recidono la felicità.
Tu vivi. Dita sottili e suoni ombrosi che si riversano sul tuo collo. Pergamena sull’erba e foglie imbevute d’oro. La tua estate che ti culla – ti viene a prendere.
«Uccidimi, da me non avrai niente. Ma tu uccidimi pure. Uccidimi.»
Liberami.

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Capitolo 12
*** In altrettanti modi ***


In altrettanti modi
 






 
Non c’è illusione più grande della luce, vero?
Un mattino apri gli occhi, e la vedi, verde come il peccato, sottile come la speranza. Sta là quella dannata, tra la linea del cielo e quella del mare.
Non ci sta proprio un’illusione più spregevole, dico io. Proprio un bell’affare per chi è costantemente vigile, pronto a scovarla. Ah, i migliori sono i primi a cadere nella sua trappola.
E comunque sta tutto qua. Una mattina apri gli occhi, e inizi ad aspettare che compaia là in mezzo, bassa sull’orizzonte. È proprio una bellezza, vero? Uno schiocco, pare che voglia baciarti da lontano, e speri quasi si avvicini un pochino per sentirne il sapore sulla bocca. Aspetti che sbuchi fuori e che ti baci, così, puff, proprio un bel bacetto. Inizi ad aspettartela un po’ ovunque.
La vidi presto quand’ero giovane, e già sapevo, sapevo, che le avrei dato la caccia tutta la vita, e che la vita l’avrei consumata dandole la caccia. Che l’avrei sognata, di notte. Che l’avrei cercata dentro la mia stessa ombra. Che mi sarei mangiato tutti i rimorsi pur di agguantarla, quella maledetta.
Sarebbe venuta a cercarmi lei, sicuro, mi avrebbe baciato – sulla punta del naso come le madri fanno coi propri frugoletti, o su un occhio, come le amanti più zuccherate – e sarebbe sparita di nuovo.
In altrettanti modi, sarebbe riapparsa, un po’ dove gli faceva comodo a lei.
Prendendomi un pezzo alla volta, senza mai riuscire ad afferrarla davvero, e alla fine manco tutto. Qualcosa resta. Resta sempre.
Là, tra la linea del cielo e quella del mare.
 

 
Non è la luce, ma la nostra mente, a illuderci.
Se fossimo felici, la luce ci sembrerebbe un miracolo; se fossimo disperati, si trasformerebbe invece nel segnale della sciagura. E se guardandola perdessimo il senno… o nel tentativo di afferrarla la vita… lei starebbe ancora là, tra le nuvole e il mare.
Ma io dico che vale la pena rincorrerla. Continuare a provare, combattere per essa. Dopotutto, rimane sempre un incredibile spettacolo.
E tuttavia la luce è soltanto luce. È quello che sta dietro, che conta. Un cielo pieno di stelle, il sole caldo sulla pelle, l’abbraccio di un amico, il sorriso di una donna. Direi che vale la pena inseguirla solo per beneficiare di tutto questo bene caro. Non guardare la luce, ma ciò che essa illumina.
Vorrei vederla solo per poter andare oltre, scoprire cos’altro c’è al di là di quel limite. Non fermarsi, non lasciarsi accecare, camminare è più importante. Va bene sedersi un momento sulla riva, affondare le mani nella sabbia, respirare, sperare. Ma poi bisogna rialzarsi, scivolare in mezzo ai rimpianti e continuare a correre.
Dici che alla fine è lei la cacciatrice? Prima o poi darà la caccia a tutti noi, ci troverà – ci assalirà alle spalle, fiera in agguato, o striscerà dentro una stanza chiusa, dove qualcuno s’è rintanato – e ci chiuderà gli occhi.
Tuttavia io scommetto che ci accarezzerà soltanto e passeggerà un po’ con noi, in altrettanti modi.
Fino a quel momento io guarderò l’orizzonte sperando di ammirarla, camminerò a piedi nudi, sorriderò al nuovo giorno. Lo farò anche per te. Che un po’ mi aspetti. Brinderemo assieme, un giorno. Ti stringerò la mano.
Là, tra le nuvole e il mare.



 

N.d.A.

Credo che questo sia il capitolo più enigmatico della raccolta. Mi piacerebbe che riusciste voi a indovinare i personaggi, spero che li abbiate capiti in qualche modo, ma ci tengo a spiegare una cosa e allora devo riverlarli comunque.
Il primo è Moody, il secondo è Kingsley.
Il loro è una conversazione sospesa, che si dilunga tra il battito di un aurore diverse. Ho immaginato le parole di Moody in qualche modo venire pronunciate negli attimi della sua morte - in questo caso, l'aurora, la luce, simboleggiano la fine di una vita; mentre la risposta di Kingsley arriva mesi dopo, all'alba di un nuovo giorno, quando i morti sono stati contati, e così i sopravvissuti.
Il loro è un messaggio nascosto, come il passaggio di un testimone, l'eco di una conversazione che avrebbe potuto aver luogo, o che forse non ha poi bisogno di così tante parole.

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Capitolo 13
*** Quell'abbraccio, alla fine del mondo ***


Quell'abbraccio, alla fine del mondo





«Va bene, adesso lo prendo, eh? Sto attento, ce la faccio, che ci vuole!… così va bene?»
Non avere paura, Harry. Tenere in braccio un figlio è una cosa naturale. Prima hai le braccia vuote, poi non c’è più posto.
«Vai alla grande… papà
Il sorriso della mamma non ha confini. È un sorriso stanco, il sorriso delle persone vincenti, perché non si può trionfare se non dai prima tutto te stesso. È il sorriso più bello del mondo.
«Secondo me, riesco anche a tenerne due in una volta.»
Anche tre, quattro, un’intera squadra. Perché basta toccare una volta un figlio per sapere che non ne potrai più fare a meno. Ti scuoterà l’anima, e l’amore, d’improvviso, si moltiplicherà.
«Scommettiamo?»
Scommettiamo?
 
Quanti luoghi esistono così nel mondo, talmente vuoti da non entrarci più nulla. Luoghi pieni di ombre, che entrano nel sangue e nessun altro può vedere. Luoghi profondi un abisso, dove le tue impronte possono nascondersi, e così sopravviverti.
Luoghi che si pesano in distanze. Distanze che si misurano in profumi, che lasciano una scia, l’odore della pelle, la sua.
Sembra passata una vita intera, o forse sei tu che ti stai allontanando. Da quell’abbraccio al sapore di erba, ginestre e lillà, chicchi di caffè nero, capelli bagnati… un miscuglio di verde e morbidezza e casa. Le braccia di tuo figlio, così corte da poter abbracciare il mondo.
L’avessi saputo, lo avresti stretto più a lungo. L’avessi saputo ti saresti affogato nel suo piccolo collo pur di lasciare lì il tuo odore, la traccia indelebile che sei esistito, lì, con lui, nello stesso luogo, nello stesso istante. Che l’hai avuto tra le mani, e che eri pronto a dargli tutto. Eccolo, avresti detto, tutto l’amore che ho da offrirti. Sarebbe stato appena abbastanza, ma eri pronto a darlo tutto.
E sembri vagare, essenza più effimera di un fantasma, senza ancora né direzione. Sei ricordo, sei impronta lungo la strada, sei luce verde dietro le palpebre, amore che ferisce. In quei solchi di sangue sbocceranno lillà…
 
 
…E alla fine ti sembra di stare sospeso, come un’aquila a cui nessuno ha insegnato a volare, ti sembra di stare così da una vita intera. Stai volando, ma non ricordi come, e senti di colpo l’assenza della terra sotto i piedi, e un’attrazione, verso un punto perso da qualche parte nel mondo.
Una traccia di là della curva, un odore che non hai mai sentito prima ma che ti sembra di conoscere da sempre. Il profumo della sua pelle, il vostro.
Hai una vita davanti, eppure hai l’impressione di averla consumata tutta, ti sembra di vederne i margini. Sono chiazze sfocate piene di colori, ombre sulle ciglia, scie bagnate sulle guance. Hai camminato, corso, cercato. Ti sei affannato per trovare la tua casa, ma solo ora che il tempo si è fermato ti accorgi di averne sempre tenuto il peso sulle spalle.
Potessi camminare verso il cielo ad occhi chiusi consapevole che non si smette mai di respirare, troveresti il coraggio per fare quell’ultimo passo. Potessi nascere di nuovo per risentire la dolcezza di una madre e un padre, scopriresti quante cicatrici ti hanno lasciato addosso. E se potessi sederti sul ciglio di quei solchi per guardare mentre il mondo fuori piove, capiresti che è da lì che proviene il sole.
E dovresti averla imparata questa lezione, tanti anni fa. Ma non lo ricordi, o forse semplicemente non hai più il tempo per pensarci. C’è tuo figlio che ti sta chiamando. In un attimo hai cancellato quel che restava della distanza tra voi, sei morto in quel passo, ed è subito un’altra vita questa. C’è il sole nelle tue braccia.
 
«Che aspetti? Prendilo, Harry.»
Ho capito, papà. Negli occhi di un figlio c’è la meraviglia delle prime cose. Il primo incontro, il primo tocco, la prima domanda. Sarò in grado di proteggerlo?
«Attento alla testa… così.»
E tu padre, che sembri muovere le braccia per la prima volta assieme a lui, tu che resti immobile per paura di spaventarlo, che con le dita accarezzi l’aria per paura di ferirlo, tu non sai quanto male farà ogni respiro, ogni lacrima, ogni caduta.
«Sto attento, ce la faccio… va bene così?»
E quanto dolce sarà quel dolore. Guardarlo. Sorridere. Morire ogni volta. Vedere il sole per la prima volta. Tenerlo per mano, stringerlo tra le braccia, la prima… un’altra volta ancora. Come sedersi sul ciglio della strada, la fine del mondo.
«Va tutto bene, James.»
Va tutto bene, papà.



 

N.d.A.

Questo capitolo ha subito tanti rimaneggiamenti, e ancora adesso non sono pienamente soddisfatta del risultato. Avrei voluto chiudere questa raccoltaa in bellezza, una storia per ogni mese + un extra, qualcosa che fosse collegato alla raccolta ma che in qualche modo rappresentasse l'epilogo di ogni singola storia. E dopotutto è questo che, nel mare di angst e dolore e fantasmi e rimorsi, è sempre stato il perno della raccolta. Il passaggio di testimone, da un personaggio all'altro, da un capitolo all'altro. Tutte tessere dello stesso puzzle.
E morir m'è dolce. Se ci dev'essere un destino, un filo che lega tutti i personaggi e tutti i loro percorsi, allora quel filo porta qui: porta alla vita, al dare vita, a sacrificare vita, a vederla risplendere.
E quindi ecco James che si vede sfilare il figlio Harry tra le braccia, a lasciarlo nel mondo, e Harry che è sopravvissuto e, come se la storia non si fosse mai fermata, come se non fosse passato nemmeno un giorno, ecco che Harry prende tra la braccia il piccolo James Jr, chiudendo un cerchio.
Devo fare solo le ultime precisazioni: in tutti gli altri capitoli le "coppie" di storie sono stti scanditi da un mood che si ripeteva sempre, rimorso/rimpianto. Queste due parole sono presenti in tutti i capitoli, e ogni capitolo ha giocato a mettere in contrasto queste due sfumature del, all'apparenza, lo stesso concetto.
Questo capitolo si è ispirato molto alla canzone dei Modà "Se si potesse non morire", di cui alcune frasi sono finire direttamente in questo finale.
Grazie.

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