Hibiscus

di ChrisAndreini
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Biancospino ***
Capitolo 2: *** Ortensia ***
Capitolo 3: *** Anemone ***



Capitolo 1
*** Biancospino ***


Hibiscus

Biancospino

 

Uno sparo.

Era da lì che cominciava sempre. L’impatto uditivo era stata la prima cosa che aveva sentito, mentre l’aria iniziava ad abbandonarle i polmoni, e gli occhi erano chiusi a metà e appannati dalle lacrime.

Era il terzo sparo che aveva sferzato l’aria quella calda notte di maggio, ma era l’unico che la bambina di sette anni premuta con forza nel pavimento ricordava. Forse perché era stato talmente vicino da assordarla qualche minuto. Forse perché le aveva cambiato la vita davanti agli occhi. O forse c’era un motivo più profondo che la portava a ricordare solo ed esclusivamente quello sparo.

Se qualcuno le avesse chiesto di portare alla mente i suoi primissimi ricordi di vita, era probabile che quella notte sarebbe stata la prima scena che le sarebbe venuta alla mente. Lo sparo e tutto ciò che ne susseguì.

Il dolore incredibilmente acuto all’altezza delle costole, dove la pistola che teneva in mano, già premuta contro il suo petto, gliene aveva incrinate alcune per via del rinculo.

L’aria che iniziava a ritornarle nei polmoni mentre la presa feroce attorno al suo collo si allentava abbastanza da permetterle di respirare ancora. E l’odore metallico, fastidioso, ingombrante, che entrò insieme all’ossigeno.

La bambina aprì completamente gli occhi, cercando di capire cosa fosse appena successo, e per un attimo, un breve eppure lunghissimo istante, incrociò lo sguardo con quello dell’uomo sopra di lei. I suoi occhi scuri e iniettati di sangue, che la fissavano con rabbia e incredulità.

Aprì la bocca per dire qualcosa, per urlare, forse per morderla, ma uscì solo uno spruzzo di sangue.

E la vista, il volto, la bocca della bambina si riempirono di rosso. L’odore metallico si fece più forte, e nel silenzio seguente lo sparo che aveva dato il via a tutto, un tonfo sordo, un peso enorme che si abbatteva sopra di lei, furono i due indizi principali di quello che aveva fatto.

L’arma che ancora teneva meccanicamente tra mani venne schiacciata tra i due corpi. La canna della pistola era ustionante, e la camicia da notte della bambina troppo leggera per evitare che la scottasse, ma non avvertì il dolore. Non chiaramente almeno.

Tutto, intorno a lei, era ovattato. L’aria tornò a mancarle, l’odore metallico era nauseante, si sentiva circondata, avvolta, sepolta da quella patina appiccicosa e rivoltante. Una protezione che sembrava più che altro averla appena intrappolata. Una trappola non letale, ma eterna.

Si voltò lentamente alla sua destra, cercando di sfuggire alla visione indistinta di quel volto sporco, gli occhi che si facevano vitrei, la barba irta che le pungolava il collo, e il suo sguardo si posò su una bambina identica a lei, ma pulita. Inginocchiata a terra, guardava la scena sorpresa e confusa.

La gemella provò a sollevare una mano verso di lei, una richiesta di aiuto che la sua voce non riusciva a tirare fuori. Lei si avvicinò.

Strisciò verso la massa informe a terra, che nel buio non riusciva probabilmente a distinguere chiaramente, ma si fermò quando la sua piccola mano affondò nel sangue appena versato.

Gli occhi delle due bambine si incrociarono ancora una volta.

La confusione che prima aleggiava sul volto della sorella mutò in fretta in consapevolezza, incredulità, e poi terrore.

Indietreggiò in fretta, andando a sbattere contro il muro alle sue spalle.

E urlò.

Un urlo che la bambina, sepolta sotto il cadavere del padre che aveva appena  inavvertitamente ucciso, avrebbe ricordato per sempre.

 

Un urlo che la bambina, ormai diventata una donna, sdraiata su un letto che non le apparteneva, continuava a sentire risuonare nelle orecchie, a vent’anni di distanza.

May Campbell si portò le mani sul volto, scuotendo la testa in un inutile tentativo di far scomparire l’urlo che ogni anno, quel giorno esatto, le ricordava come una sveglia che razza di orribile persona fosse. Un’assassina, una pessima sorella, un virus dal quale sarebbe stato molto meglio liberarsi, e si rigirò nel letto cercando di trovare una posizione più comoda, ma finendo solo per rischiare di mangiare i propri capelli corvini che avrebbe decisamente preferito tagliare a zero.

L’urlo che le risuonava in testa ci mise un paio di minuti a dissiparsi, e solo allora May si decise a ad aprire finalmente gli occhi, e si guardò pigramente intorno, sperando di non trovare qualche sorpresa fuori posto.

Per fortuna, la casa che aveva affittato per un mese, a Kauai, nelle Hawaii, era perfettamente in ordine.

Massaggiandosi la testa che ancora pulsava dolorosamente dopo il solito incubo che aveva avuto, May si mise a sedere, e afferrò il telefono messo in carica sul comodino, per controllare il giorno e l’ora.

17 Maggio. 4.40 del mattino.

Puntuale come un orologio svizzero.

La giovane donna si buttò sul cuscino, chiedendosi se fosse il caso di tornare a dormire, ma sapendo bene che non ci sarebbe riuscita tanto presto.

Sospirò, e prese l’elastico che teneva sempre a portata di mano per legarsi i capelli in una coda che non permettesse loro di finirle in bocca ogni secondo, poi si decise ad alzarsi, e si avviò alla finestra, dalla quale si vedeva chiaramente il mare, nonostante fosse ancora avvolto dall’oscurità.

May non era tipa da mare. Non era neanche tipa da montagna. In generale non aveva preferenze e gusti particolari in fatto di posti, anche se le sarebbe davvero piaciuto stare da sola. La solitudine era il suo unico requisito.

Purtroppo, era praticamente impossibile per lei stare da sola. Non credeva di esserlo mai veramente stata, ma almeno era abbastanza brava ad ignorare l’ambiente circostante in modo da illudersi spesso di esserlo.

Aprì la finestra per far entrare un po’ d’aria, che iniziò a respirare a pieni polmoni, e si concesse il lusso di lasciare la sua mente vagare per un po’, grattandosi nervosamente il collo.

Controllò poi i messaggi sul telefono, eventuali note, me non c’era nulla che riguardasse quel giorno in particolare, o lei.

Neanche un messaggio di lavoro da Rachel, il suo capo e tutrice, la donna che l’aveva mandata lì senza spiegazioni e che non le aveva ancora detto il motivo nonostante ci stesse ormai da due settimane, senza essere mai uscita.

Certo, aver mandato lei non significava necessariamente che aveva un incarico per May in particolare, dato che erano un pacchetto che non si staccava mai, ma avrebbe davvero tanto voluto sapere che missione avrebbe potuto affidare ad una delle sue coinquiline lì, alle Hawaii.

In una zona neanche particolarmente turistica, grazie al cielo: Anahola.

May decise di non farsi domande, anche se avrebbe preferito che il viaggio di lavoro, o vacanza inaspettata, non fosse proprio il mese del suo compleanno.

Aveva dei rituali dopotutto: una lunga camminata, un po’ di autocommiserazione, una visita di cortesia ai suoi genitori morti proprio quel giorno e un’altro po’ di autocommiserazione.

Quasi tutto si poteva tranquillamente fare anche lì, ma May non aveva molta voglia di uscire. Non era uscita da quando erano lì, dopotutto, e la sola idea di incontrare persone non la entusiasmava per niente, e poi non poteva uscire senza avvertire.

…va bene, l’ultima era una scusa bella e buona.

“Non sono neanche le cinque, chi vuoi che giri a quest’ora?” le fece notare una divertita vocina nella sua testa, facendo roteare gli occhi di May, che non sopportava particolarmente quella vocina.

Decise però di assecondarla, dato che di dormire non se ne parlava proprio, e una camminata l’avrebbe di certo aiutata a non pensare troppo allo sparo che ancora vagamente udiva se si dissociava troppo.

E l’urlo che sicuramente l’avrebbe perseguitata per tutto il giorno, come al solito.

Scrisse una nota sul telefono, si vestì velocemente senza darsi la pena di truccarsi o metterci particolare cura e prese distrattamente la borsa che sapeva essere pronta all’uso. Si bloccò sui suoi passi quando il suo sguardo si fermò sulla pistola che aveva messo in un’alta mensola, fuori dalla portata di chi non sapesse dove fosse, e dopo qualche secondo di riflessione, decise che fosse molto più sicuro portarla, come assicurazione.

Era ottima per restare nel pieno delle proprie facoltà mentali, l’aiutava stranamente a focalizzarsi, e restare concentrata anche quando la sua mente sarebbe voluta andare in tutt’altro posto. E quel giorno la sua mente era molto più provata, stanca e dissociata del solito.

La mise con attenzione sulla schiena, a contatto diretto con la pelle e nascosta in modo che nessuno la notasse, poi prese le chiavi di casa e uscì, dopo essersi assicurata di aver chiuso bene la finestra.

Non che temesse che qualcuno rubasse qualcosa. Non c’era molto da trafugare, in quella casa in affitto. Ma non voleva comunque correre rischi. Non era al corrente di tutto ciò che avevano portato le sue coinquiline.

***

Un’ora e mezza, cinque chilometri, e una playlist sul telefono più tardi, si era concessa il lusso di fermarsi ad un bar sulla spiaggia per prendere un caffè. Erano ormai le sei passate, ed era improbabile che sarebbe tornata a dormire, e del caffè sarebbe stato utile se non necessario per svegliarsi del tutto ed evitare di svenire dal sonno nel corso della giornata. Per fortuna a quell’ora il bar era vuoto, ed era stata servita molto in fretta dal proprietario. Un tipo cordiale che però non le stava togliendo gli occhi di dosso. May avrebbe di gran lunga preferito che pensasse al suo lavoro e non a lei, anche se probabilmente osservare lei era in parte il suo lavoro. Solo che la ragazza odiava sentirsi osservata, o essere al centro dell’attenzione, e non apprezzava particolarmente neanche la normale cortesia, troppo falsa perché lei la prendesse sul serio. Le facciate delle persone accanto a lei erano sempre motivo di preoccupazione e attenzione. Non ci si poteva mai fidare di chi sorrideva senza intenderlo davvero, di chi salutava solo perché era educato farlo, di chi parlava senza mai agire. Quelle persone erano destinate a pugnalarla alle spalle.

May cercò di ignorare lo sguardo del proprietario, al momento impegnato a lavare qualche tazza sporca, e osservò le onde abbattersi sulla spiaggia. Sembrava un’ottima giornata per gli amanti del surf, non che May fosse tra loro. Ma i raggi del sole che iniziavano a ricoprire la spiaggia e il mare, tingendo il paesaggio di infinite tonalità calde, il vento che le accarezzava la faccia, e il silenzio che circondava il locale, le fecero quasi venir voglia di provare, o almeno di buttarsi nel mare e farsi trascinare dalla corrente. Divertirsi un po’.

“Non ti meriti divertimento…” le ricordò una voce nella testa, accompagnata da un pizzico sulla gamba, che la fece tornare in sé.

Si prese la mano destra per sicurezza, e controllò che il proprietario non si fosse accorto del suo momento di debolezza, ma per fortuna, lui non la stava più guardando. Il suo sguardo si era fatto cupo, e controllava un punto all’orizzonte, molto sul chi vive. May non capì cosa stessa guardando, e non le importava particolarmente.

Sollevata per il pericolo scampato, tornò al suo caffè, affrettandosi a finirlo per poter tornare a casa e restarci a tempo indeterminato.

Purtroppo, non fu abbastanza veloce, e la cosa, o meglio, la persona che il proprietario stava guardando all’orizzonte, rivelatasi essere un tipetto biondo basso e mingherlino, arrivò prima che lei potesse togliersi di mezzo, entrando nel bar stiracchiandosi e iniziando a parlare senza neanche accertarsi di non essere il solo cliente.

-Ciao Kenny, amico mio! Potresti farmi un caffè? Sono distrutto. Ieri è stata una nottataccia- esordì, a voce alta, sedendosi con sicurezza davanti al bancone e iniziando a batterci le mani a ritmo.

May lo prese immediatamente in antipatia. Era tutto ciò che più le dava fastidio: rumoroso, espansivo, nevrotico.

Si maledisse per aver ordinato anche un bagel, e cercò di finirlo in fretta senza però attirare l’attenzione del nuovo cliente, che sembrava il tipo di persona che iniziava una conversazione con chiunque si trovasse attorno e lui, specialmente nei momenti di attesa.

-Sono Kanuha per te, specialmente dopo quello che hai fatto ieri sera. Non sei più il benvenuto qui al bar- il proprietario incrociò le braccia, lanciando al biondo uno sguardo sdegnoso, quasi minaccioso.

-Amico, dai, l’ho fatto per te. Quella coppia stava chiaramente progettando qualcosa di losco, che ne potevo sapere che avrei rovinato la proposta di matrimonio di lui?- provò a giustificarsi il cliente, un po’ a disagio, continuando a battere le mani a ritmo.

-Hai chiamato la polizia perché temevi un attentato! Hai davvero superato il limite. Non scherzavo quando dicevo che non ti voglio più qui. Vattene prima che la polizia la chiami io- la voce del proprietario era bassa, ma rimbombò comunque in tutto il locale, facendo sentire tutto a May, che iniziò a considerare l’idea di rimettersi le cuffie in modo da non ascoltare l’inutile conversazione. 

-Sì, lo so. È un periodo un po’ ipomaniaco, te l’ho detto. Ma un paio di giorni e passa. E poi alla fine la polizia ha arrestato un tipo per possesso di droga, quindi ho fatto bene a chiamarla. Cercherò di essere più attento la prossima volta. Però ti prego, ho davvero bisogno di un caffè, e di mangiare qualcosa. Ieri non riuscivo a dormire dopo quello che è successo, soprattutto perché mi sono reso conto che questo bar è esattamente a metà strada tra casa mia e il mio negozio, e dovevo controllare, sai, che fossero esattamente alla stessa identica distanza. Quindi mi sono fatto a piedi tutto il percorso due volte contando i passi e sono, senti questa perché non ci crederai mai, seicentosessantasei passi. Ti giuro, spero di non aver inconsapevolmente evocato Satana con questa mia grande scoperta- il cliente ridacchiò tra sé. Il suo battere sul bancone iniziava davvero a dare sui nervi a May.

Anche il Kanuha sembrava parecchio irritato, guardava il biondo quasi con disgusto.

-Fuori da qui, prima che arrivino altri clienti. Tu sei completamente pazzo. E io non servo i malati di mente- indicò con decisione l’uscita, facendo sobbalzare il ragazzo.

May, dal canto suo, non riuscì a trattenersi dallo sbattere la tazza ormai vuota di caffè sul tavolo.

Non era sua intenzione, a dire il vero, ma le ultime parole del barman avevano innescato un moto di irritazione profonda nella ragazza.

Purtroppo la sua scenata non passò inosservata, e sentì senza neanche bisogno di girarsi a guardarli, gli sguardi di entrambi gli uomini su di lei. Si affrettò a prendere le monete per pagare la colazione e senza dire una parola o guardare i due litiganti, si alzò e si avviò fuori, prendendo le cuffiette per ascoltare la musica durante la passeggiata di ritorno.

Sentì distintamente la voce del proprietario aggiungere un risentito -Visto, spaventi i clienti!- ma aveva tutta l’intenzione di ignorare completamente l’intera situazione, tornarsene a casa e non mettere più piede dentro quel bar.

“Non serve i malati di mente? Che brutto bigotto piccolo figlio di…” la rabbia della sua voce interiore, che le faceva stringere i pugni irritata e per una volta si trovava d’accordo con May, venne interrotta da un contatto del tutto indesiderato che per poco non le fece tirare fuori la pistola.

Si trattenne per puro miracolo, e si scansò velocemente, mettendo mezzo metro di distanza tra lei e lo sconsiderato che aveva avuto la faccia tosta di prenderle la spalla e cercare di fermarla.

-Woo, Margo! Tutto bene? Non ti ho vista quando sono entrato, mi dispiace per la scenata di Kenny. Non ti facevo così mattiniera. Se l’avessi saputo ti avrei offerto un caffè. Perché mi guardi così? Sembra che tu abbia visto un fantasma. Sei…- il biondo logorroico e nevrotico che aveva sollevato un polverone la squadrò completamente, con le sopracciglia aggrottate -…un po’ strana in effetti- commentò poi, massaggiandosi il mento pensieroso.

May indietreggiò di qualche passo, valutando l’idea di scappare. Chi era quell’invasato? Perché conosceva Margo? Quanto bene conosceva Margo? Cosa avrebbe dovuto fare May al riguardo? 

Ma prima che potesse sfoggiare la sua migliore imitazione da Margo, il ragazzo si tirò una manata in testa, come se fosse arrivato da solo alla soluzione. 

-Tu non sei Margo!- indovinò, facendo piombare ulteriormente May nel panico. Doveva sembrare Margo agli occhi di chi la conosceva. Diamine, era la prima regola! Ed ora un tizio a caso a Kauai sapeva della sua esistenza. Ottimo, davvero ottimo. Un segreto che conoscevano in pochi spiattellato così per colpa di un caffè mattutino e una mente provata da incubi e ricordi.

-Sei sua sorella, giusto?!- indovinò il biondo, battendo il pugno sulla mano aperta, con sicurezza e soddisfazione.

May rimase un attimo interdetta.

-Margo ti ha… parlato di me?- chiese, confusa, indagando un po’ meglio.

-Sì, cioè, no. Cioè, non proprio. Stavamo parlando di mio fratello, no, che ogni tanto passa a trovarmi e mi aiuta anche con le medicine. Sai, sono bipolare. Non che lo dica troppo in giro ma Margo lo sa quindi lo saprai anche tu, o se non lo sai lo scoprirai, e in generale non lo nascondo nemmeno, insomma, non sono mica pericoloso, solo un po’ svalvolato, ma in senso buono, secondo me. Comunque, stavamo parlando di lui, e lei mi ha detto che ha una sorella, e le vuole un sacco bene. Io posso capirlo, anche io voglio bene a mio fratello. Ha tre anni più di me ma abbiamo un buon rapporto. Lui è il mio fiore di loto, lo ammiro un sacco. Ma stavo dicendo, mi ha detto di avere una gemella, ma non mi ha detto molto altro. Suppongo che tu sia la sua gemella. Scusa se ti ho confuso per lei, ma non pensavo che foste in vacanza insieme, non mi aveva detto nulla. Io sono Sammy, comunque. Samson, in realtà, ma tutti mi chiamano Sammy- con una parlantina così fitta che May a malapena riuscì a distinguere ogni parola, il biondo spiegò velocemente la situazione, e le porse la mano.

May valutò la situazione, ma alla fine cedette e si adeguò al flusso degli eventi.

-May- disse senza stingere la mano di Samson. C’era qualcosa in lui che non la convinceva del tutto. Qualcosa che superava le evidenti incompatibilità che i loro due caratteri avevano. Aveva un aspetto vagamente familiare. Forse la forma del naso, o le labbra. Era sicura di non averlo mai visto prima, dato che aveva un’ottima memoria circa i volti delle persone, soprattutto quelle pericolose, ma c’era qualcosa in lui che la metteva leggermente all’erta. O forse era solo la sua mente a farle bruti scherzi. Era il giorno peggiore per pensare a queste cose, dopotutto.

Gli voltò le spalle e iniziò ad avviarsi verso casa, decisa ad ignorarlo.

-È davvero un piacere conoscerti, May. Hai davvero un bel nome, sai. Siete nate a Maggio? Un momento, siamo a Maggio! Quand’è il vostro compleanno? Devo pensare a un regalo. Sicuramente Margo adorerebbe dei gigli. Tu hai un fiore o una pianta preferita? No, aspetta, voglio indovinare. Mi sembri una tipa da biancospino. Foglie spinose e fiori tardivi, che mostrano la tua natura un po’ scostante ma che si apre con le persone giuste- il ragazzo però iniziò a tallonarla, seguendola saltellando e gesticolando con enfasi mentre parlava a tutto spiano delle proprie teorie sconclusionate. Certo, aveva indovinato il fiore preferito di Margo, o più probabilmente glielo aveva detto lei, ma cos’era questa strana fissa per le piante?

-Sbagli, sono un cactus. Ed ora lasciami in pace- provò a toglierselo di torno, affrettando il passo.

-Sì, forse. Se lo dici tu. Ma non mi sembri un cactus. Continuo a sostenere la mia teoria del biancospino. O Agrifoglio. Il significato è più o meno lo stesso. Sai, mi piacerebbe fare amicizia. Io e Margo siamo diventati grandi amici, e mi fa piacere conoscere anche te. Sai, io non sono un granché in fatto di amicizie…- continuò ad insistere Sammy. May non faticava a credere che le persone preferissero stargli alla larga -…ma faccio del mio meglio. E ho finito le medicine, purtroppo. Sono felice di essere in un periodo ipomaniaco perché se fossi in stato depressivo sarebbe molto più difficile, ma parlare aiuta davvero molto. E lavorare. Cavolo, ho bisogno di un caffè. Tu hai preso il caffè? Cioè, ti ho visto al bar con la tazza in mano e un bagel, ma sei andata via così in fretta che non sono certo tu l’abbia finito- il ragazzo parlava a tutto spiano, un po’ tra sé, un po’ con May, che ad un certo punto semplicemente non lo resse più, e si fermò.

Lui continuò qualche passo.

-No perché se vuoi un caffè c’è un posto decente vicino al mio negozio. Qui è meglio, ma comunque sveglia, e fanno una macedonia davvero… tutto bene?- dopo aver fatto quasi una cinquantina di metri senza rendersi conto dell’interruzione, Sammy si voltò verso May, con sguardo interrogativo.

-Non mi piace essere pedinata- la ragazza andò dritta al punto, senza neanche premurarsi di indorare la pillola o cercare parole più gentili. Non le importava minimamente di ferire i sentimenti di quel tipo, e voleva solo tornare a casa e prendere un aspirina, dato che iniziava ad avere un atroce mal di testa.

L’unica cosa che le stava impedendo di crollare era la consapevolezza del freddo metallo della pistola premuto contro la sua schiena.

-Oh, ma non ti sto pedinando. Il mio negozio è in questa direzione. Pensavo stessimo semplicemente facendo la strada insieme- spiegò lui, indicando a grandi linee dove si trovava il suo fantomatico negozio.

-Beh, non mi piace fare la strada insieme a nessuno. Non mi piace quando la gente parla a tutto spiano e non mi piace stare in compagnia delle persone, soprattutto non il giorno del mio compleanno. Quindi va per la tua strada e io vado per la mia, in solitaria- gli fece presente, con voce ferma e stringendosi nelle spalle.

Sammy rimase in silenzio per qualche secondo, e May ebbe l’impressione di aver appena commesso un errore madornale. 

Non a parlargli male, parlava sempre così a tutti, non era una novità, ma forse gli aveva dato un’informazione di troppo che sarebbe stato meglio non riferirgli.

-Va bene, non ti scaldare. Basta dirle, le cose. Non volevo infastidirti, ma senza medicine è un po’ difficile controllare il flusso di pensieri e tendo a parlare troppo, quindi…- si interruppe, coprendosi la bocca e facendo un profondo respiro -…ecco, appunto- sospirò, un po’ tristemente -Vado in negozio, allora, biancospino. Buon compleanno, comunque- la salutò, prima di rimettersi una mano sulla bocca e continuare per la sua strada, a passo più spedito e testa bassa.

Diamine! Gli aveva appena detto che quello era il suo compleanno! Non riusciva a credere di aver commesso un tale errore!

Beh, almeno se lo era levato di torno. Era stato anche meno difficile di quanto si aspettasse, anzi, il biondo aveva dimostrato un atteggiamento insolitamente maturo, tranne per quel ridicolo e stupido nomignolo.

Finalmente May mise le cuffiette per ascoltare la musica, e valutò la strada meno trafficata per tornare a casa.

Scrisse una nota nel telefono raccontando a grandi linee cosa aveva fatto, e sottolineò con attenzione l’incontro con Sammy e l’informazione che le era purtroppo sfuggita.

Sperava che Margo non si arrabbiasse.

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Capitolo 2
*** Ortensia ***


Ortensia

 

 

May si svegliò con il fastidioso rumore dei tacchi a stiletto che rimbombavano in tutta la casa, e non trattenne un grugnito infastidito. Detestava caldamente la persona alla quale sicuramente appartenevano, e in tutta franchezza non capiva come riuscisse ad indossare sempre quei trampoli scomodissimi.

-Che stai facendo, Marika?- chiese, guardando con fastidio la ragazza intenta ad infastidirla, che stava recuperando oggetti da infilare in borsa.

-Vado al bar a bere qualcosa. Dovresti provarlo ogni tanto. Divertirsi, sai, non uccide nessuno- rispose lei, in tono infantile, mettendosi davanti allo specchio e sistemandosi il trucco.

May era in profondo disaccordo con il commento finale, ma decise di tenere per sé le sue osservazioni. Era sempre abbastanza impossibile avere una conversazione seria con Marika, ed erano troppo diverse per vedere il mondo allo stesso modo.

-A quest’ora?- disse solo, poco convinta -Non è un po’ presto per uscire?- era primo pomeriggio. Poco dopo le quattro a giudicare dalla posizione del sole che si intravedeva oltre le tende.

-Ogni momento è buono per bere e rimorchiare!- esclamò lei, battendo le mani entusiasta e rischiando di far rovesciare il mascara… forse. Si rovesciavano quei cosi, o non erano abbastanza liquidi? May non lo sapeva, e non le importava più di tanto. Il trucco era scomodo e inutile, solo un’imposizione sociale per sembrare più attraenti agli occhi del sesso opposto. Una delle tante maschere che coprivano il genere umano.

-Perché sei sveglia?- chiese poi Marika, finendo di mettere il rossetto e passando ai capelli.

-I tacchi- borbottò, anche se non ne aveva idea, in realtà. Le davano fastidio, sì, ma mai così tanto da svegliarla. E odiava essere costretta a parlare con Marika. Quella fastidiosa vanesia piena di sé che non riusciva a stare senza compagnia. 

-Il prezzo della bellezza- commentò lei, indifferente, fermando il chignon con dei ferretti -Odio i capelli così lunghi. Sono più bella con un taglio corto- aggiunse poi, molto tra sé.

Quella era forse l’unica cosa che avevano in comune. Anche May trovava molto fastidiosi i capelli lunghi. Ma non per una questione di bellezza, quanto di comodità. 

-Allora, visto che sei sveglia, che mi dici del nuovo ragazzo di Margo?- chiese poi Marika, per fare conversazione. May non ne aveva proprio voglia, e neanche rispose. E poi non sapeva nulla di un nuovo ragazzo di Margo, ed erano affari suoi.

-Sai, quel Sammy, che vede sempre. L’ho intravisto per poco, l’altro giorno, e ho letto le note sul telefono. Tu lo hai incontrato, che tipo è?- insistette l’altra ragazza, che aveva sempre un bisogno patologico di parlare. Ma perché? Cosa aveva da dire, sempre, in ogni momento?!

-Chiassoso- rispose May monosillabica. Non aveva aggettivi migliori per definirlo, e non le andava di cercarne altri. A differenza di Marika, lei parlava con uno scopo.

-Stavo pensando di andarlo a trovare. Credi che mi troverebbe più carina di Margo? Io penso di sì. E sono anche molto più simpatica- 

“…e modesta, chiaramente” May sbuffò, alzando gli occhi al cielo.

-Smettila di fare così, vuoi forse negarlo?- la provocò Marika, lanciandole un’occhiataccia.

-Sì, nessuno è meglio di Margo- May alzò le spalle. Era una verità inoppugnabile che nessuna di loro poteva dimenticare. Margo era la migliore, e nessuna si avvicinava neanche lontanamente a lei. Fine della storia.

Anche Marika lo sapeva, e rimase in silenzio per qualche secondo, lottando con un ciuffo ribelle.

Alla fine si arrese e lo lasciò lì, sbattendo il pugno contro il lavandino, seccata.

-Dici così solo perché io non ti piaccio. Ma sono meglio di Margo! E meglio anche di te! Io sono la migliore di tutti, e un giorno anche Rachel se ne accorgerà. Se ne accorgerà e chiederà che faccia tutto io! Perché Rachel mi adora. E voi siete solo invidiose- esclamò con spiccata drammaticità. May odiava quando si comportava in questo modo.

-Esibizionista-

-Asociale!- 

Marika chiuse gl occhi, ricacciando indietro le lacrime, e poi sciolse nuovamente i capelli, preferendo tenerli all’indietro con dei fermagli.

-Perché non torni a dormire così posso finire di prepararmi in tranquillità e andare al bar senza i tuoi commenti degradanti?- chiese, cercando di mantenere un tono freddo e di superiorità. May avvertiva il dolore nascosto dietro le sue parole taglienti, ma non si sentì particolarmente in colpa. Aveva detto la verità, dopotutto, e la sensibilità di Marika a questo tipo di commenti era solo una debolezza che doveva affrontare e superare. May non era sua madre, e non era tenuta a indorare la pillola. A malapena sopportava la sua presenza.

E infatti avrebbe con piacere eseguito e sarebbe tornata a dormire, ma non credeva fosse il caso. Si era svegliata per un motivo, dopotutto, ed aveva tutta l’intenzione di scoprire quale. E poi non era poi così stanca. 

Proprio mentre rifletteva su questo, come chiamato in causa, il motivo per cui probabilmente si era svegliata bussò alla porta.

-Chi è?- chiese Marika, con voce civettuola, sistemandosi la scollatura già pronta ad aprire.

May la tenne ferma dov’era, all’erta.

Era meglio sapere sempre in anticipo cosa aspettarsi dall’altra parte di una porta. Anche se l’unica a conoscenza dell’indirizzo della casa dove alloggiavano era la padrona di casa. Una donna anziana che gestiva con la famiglia un’agenzia apposita. Era stata molto gentile. Soprattutto quando aveva offerto a Maddy un biscotto. A May non sarebbe dispiaciuto se fosse stata lei ad entrare.

Ma non era lei, purtroppo.

-Consegna di fiori per Marika- disse una voce dall’altra parte della porta.

May tirò una leggera pacca sulla spalla della ragazza, che si ritirò infastidita.

-A chi hai dato l’indirizzo?- la rimproverò sottovoce, avvicinandosi lentamente alla porta con circospezione.

-È difficile offrirti una lista completa- ammise lei, senza il minimo accenno di senso di colpa. Davvero una persona così poco attenta pensava che Rachel la considerasse migliore di Margo? Tsk, che ingenua sempliciotta.

Prima che May potesse controllare dallo spioncino, il corriere di fiori parlò: 

-C’è qualcuno in casa? Se c’è qualcuno in casa dite una parola a caso, può essere una qualsiasi, tipo virgulto, rosa, cane o gatto, o ibisco. Magari non le parole “vai via” perché potrei fraintendere. Ma se non c’è nessuno in casa torno più tardi. Purtroppo c’è bisogno di una firma per essere sicuro di aver consegnato i fiori alla persona giusta e ci sono tutte questioni burocratiche. Senza contare che il cliente ha promesso di riammettermi al suo bar se gli porto la prova che li ho consegnati alla persona giusta quindi…- May sobbalzò quando associò la voce al volto al quale sicuramente apparteneva. Non perché avesse riconosciuto la voce, in sé, ma aveva incontrato solo una persona che parlava in maniera così irritante, rapida e sfrenata. Rabbrividì inconsciamente. Tutto voleva fuorché ritrovarsi nuovamente faccia a faccia con il biondo logorroico amante dei fiori.

-Ugh, Sammy…- borbottò tra sé, già pronta a fingere di non esserci per farlo tornare quando ci fosse stata Margo. 

Forse però non avrebbe dovuto rivelare quel nome con Marika presente e pronta a far danni.

-Sexy!- esclamò infatti la ragazza verso la porta, in tono voluttuoso, già affrettandosi ad avvicinarsi per aprire al fioraio.

May le tappò la bocca e la fermò, ma era ormai troppo tardi per andare avanti con il suo piano iniziale.

-Oh…- la voce dall’altra parte della porta si fece silente. Almeno un fattore positivo -…beh, non è esattamente la parola che avrei usato io, ma chi sono per giudicare. Allora aspetto qui per un po’. Nessuna fretta. Finisca pure quello che sta facendo- anche se non per molto.

-No, no, arrivo subito!- provò a dire Marika, ma May questa volta riuscì a zittirla prima che potesse far uscire le parole dalla bocca.

-Ci vado io- borbottò, facendo per prima cosa una tappa verso il suo nascondiglio per prendere la pistola. Non si poteva mai sapere. E non pensava proprio fosse una buona idea che Sammy conoscesse Marika.

-Perché ti becchi sempre tutto il divertimento?- si irritò Marika, restando però da parte. Le armi non la infastidivano quanto infastidivano le altre ragazze, ma cercava comunque di tenercisi alla larga. Erano territorio di May.

Con circospezione, quest’ultima si avvicinò alla porta, e la aprì lentamente, già pronta a sparare se si fosse rivelato necessario. 

Ma il biondo, con un bouquet in una mano e l’altra intenta a battere contro il fianco al ritmo di una canzone che stava fischiettando tra sé, era la persona meno minacciosa che May avesse mai avuto la sfortuna di incontrare due volte nel giro di pochi giorni.

Resosi conto che la porta si era aperta, il ragazzo tornò in sé, e sorrise a May, per poi sobbalzare.

-Margo?- chiese, sorpreso.

-May- lo corresse la ragazza, grugnendo infastidita dall’essere sempre confusa con sua sorella.

-Oh, scusa! Siete due gocce d’acqua. Aspetta, ho sbagliato casa? Mi avevano detto che Marika era all’alloggio Hibiscus Hale Lani, forse ha dato un indirizzo falso- controllò un foglietto con un indirizzo scribacchiato, rischiando di far cadere qualche fiore dal bouquet. 

May alzò gli occhi al cielo, e sperò con tutto il cuore che Marika non intervenisse, ma lei rimase tranquilla, anche se May avvertiva con chiarezza la sua irritazione nel restare in disparte e non essere al centro dell’attenzione.

-No, abita qui, e le darò i fiori. Possiamo fare in fretta, per favore- chiese, con la solita mancanza di tatto e buone maniere. Voleva concludere il prima possibile e tornare a dormire.

-Certo, metti una firma qui- Sammy le porse un registro e una penna ad esso attaccata, e May esitò un po’ prima di firmare.

-“M. Campbell”, anche Margo si firma così. Non confonde un po’ le idee?- chiese, per fare conversazione.

-Abbiamo finito?- tagliò corto la ragazza, già pronta a chiudere la porta.

-Certo, scusa! Ecco i fiori. Un bouquet molto elaborato con le classiche rose, tulipani e alcuni nontiscordardimé che Kenny mi ha richiesto ma che io personalmente non avrei messo perché il significato è più tragico di quanto ci si aspetterebbe dal nome, e non sono poi dei fiori particolarmente positivi da mandare a una ragazza conosciuta in un bar- certo che quel ragazzo era decisamente logorroico. Quasi peggio di Marika. Quasi

-A Marika io darei solo narcisi- commentò May, quasi tra sé prendendo i fiori e cercando di tenerli il più lontani possibile da lei. Era uno dei pochi fiori di cui conosceva il significato, e gli sembrava decisamente appropriato.

Solo che Sammy si mise a urlare.

No, anzi, a… ridere? May era troppo arrugginita nei rapporti con gli altri per esserne del tutto sicura, ma lo lasciò fare, un po’ presa in contropiede.

-Vai al diavolo!- fu invece il commento di Marika, che non si trattenne, irritata.

-Scusa. Sei davvero simpatica- Sammy cercò di trattenere le risate, e fece un pollice in su verso May, che lo squadrò completamente confusa dalla sua reazione. Aveva soltanto fatto un commento degradante verso Marika. Non lo trovava simpatico o divertente. Soprattutto se non si conosceva il soggetto.

Ma quel ragazzo sembrava trovare fascino nei luoghi più strani.

-Beh, grazie per i fiori, Marika li apprezzerà senz’altro- cercò di tagliar corto. Meno tempo passava con quel tipo e meglio era per la sua sanità e serenità mentale.

-Lo spero. Alla fine è un bel bouquet, salutami Margo quando la vedi- Sammy intascò il registro e iniziò a salutare la ragazza, che si sentì legittimata a chiudere la porta.

Purtroppo non fu abbastanza veloce, perché Sammy riuscì ad interromperla mettendo una mano sulla porta.

-Un’ultima cosa. Stai davvero benissimo truccata così. Quasi non ti riconoscevo- disse, indicando il volto di May, che dovette trattenersi per non grugnire.

-Non mi hai riconosciuto- gli fece notare, quasi tra sé.

-…Sì, questo è vero, ma intendo che ci ho messo qualche secondo a riconoscere Margo, e voi siete identiche e… insomma, bel trucco, tutto qui- la incoraggiò.

Marika sogghignò soddisfatta e gli fece un occhiolino.

May si prese la testa dolente tra le mani, sempre più ansiosa di terminare la conversazione.

-Grazie!- disse in fretta, chiudendo la porta in faccia a un confuso Sammy, che sembrava sul punto di commentare qualcosa prima di venire brutalmente interrotto.

Una volta al sicuro a casa, May sbatté il piede a terra, irritata.

-Marika!- rimproverò la ragazza, che però era troppo felice per darle peso.

-Sammino bello ha molto più gusto di te, fattene una ragione. Oh, io gli piacerei un sacco!- riprendendo il controllo della situazione, Marika annusò i fiori, e iniziò a zompettare per la casa in cerca di un vaso.

May era troppo stanca, e la testa le faceva troppo male per continuare a dare retta a quella stupida ragazzina.

Riuscì a malapena a posare la pistola, prima di rimettersi a dormire.

***

Sentì uno sparo, limpido e cristallino, e si svegliò di scatto, prendendo la prima cosa abbastanza potente da essere usata come arma che le capitò tra le mani, e alzandosi pronta a difendersi.

Non aveva la più pallida idea di dove fosse e cosa fosse successo, e a mano a mano che la sua vista si faceva più chiara, la sua confusione non fece che aumentare.

Era ora di pranzo, probabilmente, in un ristorante tipico pieno zeppo di turisti che la stavano fissando allarmati, i capelli le ricadevano eleganti davanti agli occhi, coprendole la vista, e indossava un terribile vestito bianco accompagnato a… sandali a zeppa? May odiava i sandali a zeppa quasi quanto i tacchi a stiletto.

Perché era lì, cosa diamine era successo? E chi aveva sparato?

Strinse la presa sul coltello da burro che aveva inconsciamente preso e si guardò attorno con più forza.

Aveva i nervi a fior di pelle, e quando sentì una mano sulla spalla, per poco non accoltellò la persona a cui apparteneva seduta stante.

Per fortuna, riuscì a trattenersi almeno il tempo di girarsi a guardare.

-Ancora tu!- esclamò senza riuscire a trattenersi. Ma perché ogni volta che si svegliava c’era sempre il biondo da qualche parte?! Forse era davvero un tipo pericoloso!

-Tranquilla, è solo caduto un vassoio a un cameriere- la rassicurò Sammy, con gentilezza -Scusatela, gente, la mia amica è un po’ nervosa, ma va tutto bene, non vi preoccupate- si rivolse poi al resto dei clienti, che tornarono quindi ai loro piatti, commentando qualcosa tra loro.

May si risedette cercando di distogliere l’attenzione da sé, ma tenne stretto il coltello, ancora non certa della sicurezza della zona.

Si prese poi la testa, che aveva iniziato a pulsare, e fece dei profondi respiri.

Aveva agito in modo troppo impulsivo, e c’era davvero tantissima gente. Doveva assolutamente darsi una regolata.

Controllò il tavolo dove era seduta. C’era uno smoothie alla pesca, il preferito di Margo. E un pezzo di torta. Ignorò la torta e prese un sorso dallo smoothie, cercando di apparire naturale, e di ignorare il suo vicino di posto, aspettando che fosse lui a parlare, per capire come agire.

-Tutto bene?- chiese Sammy, molto incerto. Era molto meno logorroico del solito, sorprendentemente. A quell’ora May si sarebbe già aspettata qualche aneddoto sui vassoi, un paragone con un fiore a forma di vassoio, o un commento su suo fratello. Invece aveva solo fatto una domanda di due parole.

-Sì, tutto bene- May provò a sorridere, anche se era un po’ arrugginita -Mi ha solo sorpreso parecchio, tutto qui- iniziò a giocherellare con il coltello. Non riusciva ancora a lasciarlo andare, era stata svegliata con un trigger troppo forte e non credeva che si sarebbe calmata e riaddormentata troppo presto.

-Chi sei?- chiese poi Sammy sottovoce, avvicinandosi preoccupato, e agitando ulteriormente la ragazza.

-Di che stai parlando? Sono io!- disse lei con ovvietà, iniziando a grattarsi il retro del collo, sempre più a disagio.

La testa le girava in modo bestiale. Aveva quasi la nausea.

-Io chi? May?- indovinò il ragazzo, mordendosi le unghie nervosamente.

-Sei venuto con May?- chiese lei, sarcastica, ma risultando quasi indagatrice.  Perché Sammy avrebbe dovuto questionare la sua identità? Cosa gli aveva detto Margo?

-Oh, forse dovrei dirti che Margo mi ha confessato che soffre… soffrite… di Disturbo Dissociativo dell’Identità, e che tu sei una personalità, cioè, se sei May. Cioè, non so se sei May, ma sei l’unica altra che conosco oltre Margo e Maddy. E anche Marika, forse, la piccola narciso, che però dovrebbe essere più… insomma… hai capito… cioè… insomma, non mi sembri Marika. Quindi se May? O sei un’altra personalità? Forse Maya? Me l’ha accennato. Puoi dirmelo, sai. Non lo dirò a nessuno- il tono di voce di Sammy era basso, confidenziale, molto stanco, e lento. Sembrava stremato, ma allo stesso tempo cercava di essere il più sensibile e confortante possibile.

Ma May non era confortata, era terrificata. Erano solo due persone a conoscere il suo disturbo, oltre a lei: il suo capo e tutrice, che lo usava per controllarla, e la gemella biologica di Margo, che si era allontanata da anni e ormai non si faceva più vedere in giro, troppo spaventata da loro.

Come aveva osato, Margo, confessare tutto a quel semi-sconosciuto che conosceva solo da qualche settimana?!

Come aveva potuto non dirglielo prima?! Doveva sempre riferire a May ogni volta che faceva dei cambiamenti radicali. E di certo doveva parlarne a Rachel. Era lei che si occupava del corpo, il sistema di Margo apparteneva a lei.

E la prima regola era che nessuno doveva scoprire il loro segreto. 

Strinse la presa sul coltello, allontanandosi leggermente, preoccupata.

-Ti ha detto molto, eh?- commentò a denti stretti, sentendosi tradita.

-Beh, l’ho più o meno indovinato, lo ammetto- confessò Sammy, giocherellando con una ciocca di capelli.

May si aspettava che elaborasse, ma non sembrava in vena di parlare.

-Sono May- confessò quindi, a bassa voce.

-Oh, lieto di rivederti. Scusa se non sono molto…- Sammy si interruppe, troppo stanco per continuare, e appoggiò la testa sulle braccia.

-A dire il vero, lo preferisco- ammise May, prendendo un altro sorso di smoothie e sperando di lasciare posto a un altra coinquilina per tornare a dormire.

Possibilmente Margo e non Marika… o Maya. Maya era meglio lasciarla dormire il più possibile. 

Sammy ridacchiò leggermente, e lanciò a May un’occhiata grata.

-Sei davvero simpatica, sai?- commentò.

May continuava a non capire.

-Cosa ci trovi di simpatico in me?- indagò, quasi offesa, ma soprattutto indebolita dal mal di testa per frenare la lingua e restare in silenzio.

Preferiva il silenzio, adorava il silenzio, ma Maya stava cercando di svegliarsi e prendere il comando, e la rendeva sempre particolarmente sensibile.

-Beh… sei onesta, e mi piacciono le persone oneste. Cioè, più che onesta, sei… senza peli sulla lingua. Un po’ come me- provò a spiegarsi lui, riacquistando un po’ di vitalità, ma parlando sempre molto lentamente, e incerto, come se non riuscisse a tirare fuori le parole.

Sembrava un’altra persona.

-Non credo proprio. Siamo due poli opposti- May si permetteva di dissentire. Non era associabile a una persona chiassosa come Sammy… o almeno il Sammy che aveva conosciuto fino a quel momento, e inquadrato come chiassoso, nevrotico e logorroico. Ma in realtà neanche il Sammy di quel giorno, debole e sconsolato, che le ricordava molto più Maya, di lei.

-Sì, forse, ma beh, quello lo abbiamo in comune. Diciamo la prima cosa che ci passa per la testa. A volte anche senza tatto, probabilmente- approfondì lui, con enorme fatica.

May non era ancora convinta.

-Se è così significa che non ho molto nella mente- scosse la testa, posando il coltello, e legandosi i capelli in una coda con l’elastico che teneva sempre al posto proprio per occasioni del genere.

-Sei silenziosa, ma non c’è nulla di male in questo- obiettò Sammy. May iniziò a capire perché Margo passava così tanto tempo con quel tipo. In qualche modo, la stava rassicurando. Stava rassicurando lei, la tipa più tosta e con meno bisogno di rassicurazioni dell’universo. E la stava mettendo a suo agio, facendo tornare Maya addormentata.

Nessuno ci era mai riuscito.

Non che May avesse assistito a molte prove.

Ma solo il fatto che le stesse parlando normalmente, senza essere ancora scappato via o averla guardata con paura, era davvero strano, e confortante.

Anche se si comportava comunque in modo strano.

-Sei meno logorroico del solito. C’è qualche motivo?- chiese. Strano, lei non era mai curiosa, e di certo non faceva domande indagatrici, ma voleva essere sicura che il suo comportamento non avesse nulla a che fare con il proprio segreto. Aveva bisogno di capire se poteva davvero fidarsi di lui.

-Scusa, episodio depressivo, e non ho le medicine. Mio fratello non è ancora tornato- spiegò lui, con occhi lucidi, ma cercando di accennare un sorriso.

A May venne un flash, alla loro prima conversazione. Lui aveva accennato di avere un disturbo bipolare. All’epoca non ci aveva dato troppo peso, ma ora iniziava a collegare i puntini. Era ben lungi dall’essere esperta al riguardo, era Margo quella che studiava psicologia, ma aveva qualche piccola nozione.

Fasi esuberanti alternate a momenti di depressione.

Non sembrava una passeggiata, questo era certo.

-Sai…- continuò Sammy, abbassando lo sguardo colto da un pensiero improvviso -…Margo mi ha convinto a uscire e prendere qualcosa da bere. È la prima persona che mi tratta davvero bene, oltre mio fratello. Tutti quelli che scoprono il mio disturbo mi evitano e pensano che sia un pazzo assassino- si asciugò una lacrima che aveva avuto l’ardire di uscire dai suoi occhi, mentre la voce gli si spezzava.

May provò un improvviso moto di empatia. Non gli era mai successo verso un’altra persona. L’empatia era debolezza, e si metteva in mezzo al suo ruolo di protettrice.

Ma si ritrovò ad annuire.

-Lo stigma sulle malattie mentali è terribile- ammise. Era uno dei motivi per cui il suo sistema aveva imposto la regola di non dirlo mai a nessuno. Le poche persone a saperlo l’avevano ripudiata o la trattavano come se fosse un’arma. E i film, le serie TV, persino i giornali non facevano altro che trattare il disturbo dissociativo di identità come uno spettacolo horror. Personaggi malati sempre nel ruolo del cattivo.

Ma c’erano tantissime persone affette da DDI che erano tutto fuorché cattive.  Erano le vittime, dopotutto, non i carnefici. Una volta May era uscita fuori mentre Maya scriveva su un blog anonimo con altre persone con la loro stessa patologia, e aveva letto di sfuggita storie di una tristezza infinita, e tanta, troppa discriminazione.

-Deve essere ancora peggio, per te. Ho incontrato Maddy, ed è così piccola, e gentile. E Margo, siamo ormai migliori amici. E anche tu…- Sammy esitò, May ebbe un po’ paura di come avrebbe continuato la frase.

Certo, era facile apprezzare Maddy, l’alter bambina. Era esuberante, tenerissima, e l’unica che May apprezzava davvero. E Margo era Margo, era quasi perfetta. Nessuno odiava Margo.

Ma lei… lei non era minimamente alla loro altezza.

Era scontrosa, irascibile, a tratti violenta. Ed era la responsabile di aver distrutto le loro vite, le vite di tutte quante, nel goffo e folle tentativo di proteggerle.

-…sei davvero un’ortensia- concluse Sammy, sorprendendo non poco la ragazza, che si aspettava tutto fuorché quel paragone.

-Ortensia? Non ero un biancospino- chiese, confusa.

Sammy ridacchiò leggermente tra sé.

-Siamo troppo sfaccettati per essere un solo fiore. È vero che a prima vista sembri un biancospino, ma conoscendoti meglio direi più un’ortensia. Distaccata e fredda, ma bellissima. E necessita di molte attenzioni e affetto- spiegò lui, guardandola negli occhi.

Probabilmente May non era abituata a parlare così a lungo con qualcuno, per questo si ritrovò ad arrossire, e a distogliere lo sguardo.

Avrebbe voluto ribattere, ma fu fermata dall’arrivo di una nuova persona al suo tavolo. Una persona che May non si sarebbe mai immaginata di incontrare in un luogo del genere.

-Sammy, finalmente! Ti ho cercato dappertutto!- esclamò il nuovo venuto, posando una mano sulla spalla del biondo, che sobbalzò e alzò la testa per guardarlo.

-Drav! Mi sei mancato un sacco!- Sammy scattò in piedi e lo abbracciò di scatto, venendo ricambiato da una risatina.

May riprese inconsciamente il coltello, e sgranò gli occhi, mentre il cuore iniziava a battere con fin troppa forza.

Ecco perché Sammy aveva qualcosa di familiare. Ecco perché Rachel le aveva mandate lì. Tutto iniziava a riordinarsi nella sua mente. Non era una vacanza per Margo, o una missione per Marika. Era proprio May ad essere necessaria.

Draven il disertore. Rachel aveva messo una taglia davvero pesante sulla sua testa, dopo che aveva tradito l’organizzazione di cui era a capo, e probabilmente era riuscita a trovare una traccia.

-Oh, ti presento Margo, una mia amica. Margo, lui è mio fratello, Draven- Sammy le fece un cenno di scusa mentre la chiamava con il nome del suo corpo, ma lei fu felice che avesse usato quello. Lei aveva visto Draven un sacco di volte, ma lui conosceva solo il suo nome, quello dell’arma segreta del grande capo. Non quello delle sue sorelle e coinquiline mentali.

Sorrise, nella sua migliore imitazione di Margo, e si alzò per porgere la mano all’uomo più grande con gli occhiali da sole e i capelli tinti di nero che comunque May avrebbe riconosciuto ovunque.

-Piacere, Draven, Sammy mi ha parlato molto di te- si strinsero la mano. Il sorriso dell’obiettivo era tirato e diffidente. May non lo biasimò.

Dopotutto, anche se non lo sapeva ancora, era appena finito in trappola.

L’ordine di Rachel su di lui era quello di uccidere a vista. 

Ma May non aveva la pistola, con sé, e il bar era troppo pieno.

Aveva solo guadagnato qualche ora, però. Niente di più. Perché se anche avesse chiamato Rachel per chiedere indicazioni per sicurezza, sapeva già quale sarebbe stato il suo compito.

L’assassina di Los Angeles stava per diventare internazionale.

Il terrore criminale della costa sud-ovest stava per mietere un’altra vittima.

In fondo era davvero un’ortensia.

Una comprensione immeritata.

Perché per quanto odiasse lo stigma e la generalizzazione, May era davvero diventata il mostro che tutti credevano che fosse.

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Capitolo 3
*** Anemone ***


Anemone

 

 

May era riuscita a svegliarsi e tornare in possesso del corpo solo due giorni dopo aver riconosciuto Draven. Margo le aveva preso il posto quasi subito dopo le presentazioni, e May aveva cercato di riprendere il comando per chiamare Rachel, ma non ci era riuscita subito. 

Alla fine però ritornava sempre, era la sua natura di protettrice principale, e al momento stava aspettando che il capo le rispondesse per essere sicura sul da farsi. Non era stata informata precedentemente di essere in missione, e le dava fastidio che Rachel non l’avesse avvertita.

Nell’attesa, leggeva un biglietto di Sammy che era arrivato a Margo nel lasso di tempo che aveva passato addormentata, accompagnato da un enorme bouquet di fiori.

A May non stava simpatico il biondo, sia chiaro, ma aveva iniziato a considerarlo, questo sì. Un po’ come considerava Marika, Margo e le altre. Non è che avesse o volesse un rapporto stretto con loro, ma esistevano e avevano un contatto con lei, ed erano poche le persone ad essere arrivate a tanto. E la maggior parte di queste persone le considerava principalmente per necessità, e lavoro, perché erano un pericolo o un obiettivo.

Sammy era l’unica, oltre alle sue personalità, a Rachel e a sua sorella Martha, che considerasse in maniera non necessariamente negativa.

Sammy era quindi una peculiarità. Anche vagamente gradevole, a dirla tutta. Non le accadeva da molto tempo.

Era una delle poche persone che sembravano sorridere intendendolo davvero, non salutava solo perché era educato farlo, e parlava in un modo che non rendeva necessario anche agire. Una persona, quindi, affidabile, che forse non l’avrebbe pugnalata alle spalle. E molto ingenua, quindi per niente pericolosa.

-Margo, a cosa devo questa costosa chiamata internazionale?- la voce melliflua dall’altra parte del telefono che teneva appoggiato all’orecchio distolse May dai suoi pensieri, e la ragazza mise il biglietto in tasca, tornando concentrata sulla missione.

-Sono May, ho chiamato per chiederti informazioni- spiegò, prendendo in mano la pistola che aveva deciso di tenere accanto a sé almeno per un po’, e che l’aiutava sempre a restare del tutto concentrata. Era abituata a sentirsi chiamare Margo, ma non ne era una grande fan. Avrebbe voluto avere un telefono tutto suo così che Rachel esordisse con il suo vero nome, quando la chiamava. Ma sapeva che fosse un pensiero decisamente frivolo.

-Informazioni? Da quando sei così curiosa?- Rachel ridacchiò. Rideva spesso, quella donna. E sorrideva costantemente, anche nelle situazioni peggiori. May non la capiva, a volte la detestava pure, ma la ammirava, questo sì. Era una donna temibile, potente e carismatica. E le aveva salvato la vita, quindi non poteva che essere in debito con lei per il resto dei suoi giorni.

-Ho visto Draven il disertore- le comunicò, semplicemente.

La linea si fece per un attimo silenziosa.

-Quando?- chiese poi Rachel, ad un tratto con voce molto più seria.

-Due giorni fa, in un bar. È venuto a trovare il fratello minore, a quanto pare- May era ancora irritata per come era venuta a sapere di tutto quanto. Certo, lei non doveva avvicinarsi a Sammy in generale. Ma sapere che il tipo con il quale accidentalmente era entrata in contatto fosse una marionetta nelle mani di Rachel e Margo non la faceva impazzire. E non sapeva bene il perché.

-Strano, Margo non mi ha informata- commentò Rachel, sospettosa.

-Sono stata io a vederlo, non lei. E poi non mi sono più svegliata fino ad ora- May cercò di difendere la personalità dominante, pur consapevole che Margo aveva visto benissimo Draven. Chissà perché non aveva informato Rachel. Non importava, in fondo. L’importante era che Rachel non la punisse.

-Capisco. Sono felice che si sia presentato. Iniziavo a temere che aveste fatto un viaggio a vuoto. Dovevi restare ancora qualche giorno, ma occupati del disertore oggi stesso e prendi il primo volo per Los Angeles. Ti attenderò lì- ordinò Rachel, secca e decisa.

-Check in, lavoro e aereo, come al solito?- chiese May, segnando mentalmente di ricordarsi di far hackerare da Margo l’ora del check in per crearsi un buon alibi.

-Sì, come sempre- il tono di Rachel era di congedo, ma May non aveva ancora finito.

-Perché non mi hai informata prima di partire?- chiese in fretta, prima di pentirsi della propria domanda, e prima che Rachel chiudesse la chiamata.

La donna fu presa in contropiede. Non si aspettava che May continuasse la conversazione.

-Non ero certa che avresti lavorato, non pensavo fosse importante- disse con semplicità. Lei aveva sempre una risposta pronta. E nessuno doveva permettersi di mettere in dubbio i suoi piani.

-Vuoi forse dirmi che è stato solo un caso?- May era scettica. Aveva imparato in fretta che le coincidenze non esistevano. 

-Stai questionando i miei metodi?- il tono di Rachel si fece pericoloso. Non conveniva contraddirla.

-Dico solo che dovrei essere informata su ogni missione, tutto qui- era sempre stato così. Era anomalo che Rachel avesse cambiato il modus operandi.

-Era una semplice missione alla ricerca di informazioni. Margo era l’unica a conoscenza dei dettagli, dato che l’avevo messa a fraternizzare con il fratello dell’obiettivo. Non mi sembrava il caso di coinvolgere anche te, fine della storia- la donna dall’altra parte usò un tono freddo e di congedo. Non sarebbe stata indulgente ancora per molto.

Ma May aveva altre domande. Di solito era Marika a cercare informazioni. Seduceva gli uomini e si faceva dire tutto quello che sapeva. Margo si occupava di ricerca informatica, non sul campo. E May era il braccio violento che si occupava del lavoro sporco. Insieme erano il pacchetto completo per ogni organizzazione criminale. Tre in una, un vero affare. Un’ottima arma.

May combatté con forza l’istinto di chiedere perché Marika non fosse scesa in campo, perché sapeva che se l’avesse fatto sarebbe stato pericoloso, ma ci pensò la diretta interessata a chiederlo per lei.

Era quasi sveglia da un po’, e probabilmente aveva sentito gran parte della conversazione. La voce di Rachel era un trigger per lei. Tendeva sempre a venire fuori o essere almeno in co-coscienza quando la sentiva. May non capiva perché le fosse così devota. Ma bisognava ammettere che May non sapeva quasi nulla del rapporto di Marika e Rachel. Non era presente, dopotutto, alla maggior parte delle loro conversazioni.

-Racchy! Perché non hai chiesto a me?! Avrei ottenuto tantissime informazioni!- obiettò, prendendo il controllo, e spingendo May nel sedile del passeggero della loro mente.

-Marika, cara. Non ne dubito, ma Margo ha un approccio più discreto. Dovevamo cuocerlo a fuoco lento, non spremerlo in una notte- spiegò Rachel, facendosi leggermente più comprensiva, ma ancora parecchio irritata.

Marika non apprezzò particolarmente quello che sentì.

-Sono capace di cuocere un uomo a fuoco lento. Devi solo darmene l’occasione!- obiettò, facendo il muso, e allontanando da sé la pistola, per evitare che May prendesse il controllo. May non ne aveva la minima intenzione, anche se era sempre pronta a farlo.

Rachel scoppiò a ridere, fredda e spietata. Marika si strinse nelle spalle, un po’ a disagio.

-Tesoro, di questo dubito fortemente- il tono era crudele e malevolmente divertito -Il giorno in cui non salterai addosso alla prima persona che vedi sarà lo stesso in cui gli asini inizieranno a volare- aggiunse poi, molto più tra sé, ma facendosi comunque udire.

“Beh, non ha torto” commentò May, rivolgendosi però solo a Marika, e non facendosi sentire da Rachel. 

-Io sono in gamba…- sussurrò Marika, iniziando a giocherellare con un fiore dorato presente nel bouquet di Sammy.

-Certo, cara. In gamba nel conquistare le persone. In questo sei perfetta, lo sai. Ma necessitavo di un approccio più delicato, e sai bene che Margo è perfetta in questo- Rachel tornò più comprensiva, e Marika si risollevò leggermente.

-Certamente, ma, visto che siamo in argomento, posso rendermi utile in altri modi, sai? Hai detto che sono aggressiva, posso esserlo anche in ambiti diversi. Perché non affidi a me il disertore? Non ti deluderei, e May si è affezionata al fratello, è diventata inaffidabile!- Marika cercò di conquistarsi ulteriore favore dalla donna, che però iniziò ad irritarsi sul serio.

-Non è il tuo compito, Marika. Una volta a casa ci saranno altre missioni più adatte a te. Ora lascia le redini a May e torna a dormire- ordinò, in tono fermo che non ammetteva repliche.

E lentamente May sentì Marika farsi da parte.

Finalmente.

-Concludo la missione- disse a Rachel, dopo qualche secondo speso a prendere del tutto il controllo, professionale nonostante il mal di testa. Era sfiancante girare nella mente in modo così mutevole. Come se ci fosse un tornado interno.

-Bene. Non lasciare tracce- concluse Rachel, chiudendo la chiamata senza salutare.

May intascò il telefono, facendo cadere inavvertitamente il biglietto di Sammy, poi iniziò a preparare l’occorrente, sperando di togliersi dai piedi il lavoro il prima possibile. Almeno poteva tornare a casa. Improvvisamente era più concentrata, e anche più indispettita, anche se non ne sapeva il motivo. Probabilmente non le piaceva assistere alle diatribe tra Rachel e Marika, perché non amava le diatribe in generale soprattutto quando coinvolgevano due persone che sotto sotto detestava. 

“Io non sono una prostituta” sentì una lamentela nella testa, e sbuffò, seccata.

-Certo che non lo sei- disse sarcastica, per niente decisa ad avere una conversazione mentale con Marika in quello stato e con quello che doveva fare. 

“No, non lo sono! Essere un alter sessuale non mi rende una prostituta. Voglio solo…” Marika si interruppe, e May sperò non continuasse. Speranza vana “…Io sono più di questo. E voglio solo che, una volta tanto, mi venga riconosciuto”.

-Marika, siamo nate per uno scopo, e il tuo scopo è impedire che Margo viva momenti traumatizzanti di genere sessuale. E il pacchetto sembra comprendere anche essere fin troppo piena di te e non accorgerti di non essere altro che un oggetto creato per uno scopo- May iniziava a non sopportare più le uscite esagerate e melodrammatiche di Marika. E sperava che si arrabbiasse al punto da tornare per un po’ a dormire nel palazzo mentale.

-Io non sono un oggetto!- esclamò invece Marika, fisicamente, e facendo piangere il corpo.

May riuscì a prendere la pistola e tornò in pieno controllo.

-Puoi avere una crisi esistenziale nel bagno dell’aereo, nel palazzo mentale o che so io e lasciarmi lavorare, adesso?!- chiese, sbattendo il pugno contro il tavolo.

Marika si ritirò suo malgrado.

“Vorrei che tu non fossi mai nata” disse a denti stretti. Erano in due a pensarla così, ma May non le avrebbe mai dato la soddisfazione di ammetterlo. May era una combattente, una che sopravviveva ad ogni costo, e non poteva permettersi di apparire debole e incerta sulla propria vita. 

-Sareste morte, probabilmente- le fece notare. 

Era la protettrice, dopotutto. Era il suo preciso dovere mantenerle in vita.

“Meglio morta che invisibile” borbottò Marika, facendo fare al corpo una linguaccia.

-Melodrammatica-

“Assassina”

May sospirò, e prese la testa tra le mani, aspettando che se ne andasse prima di continuare con i preparativi. 

Sapeva che il commento di Marika era serio. Avrebbe preferito morire che essere invisibile, ma non voleva soltanto attirare l’attenzione. Voleva l’unica cosa che mai aveva potuto avere: essere libera. Unica, non vincolata in un corpo che possedeva solo qualche ora al giorno, se tutto andava bene. Dove era mora anziché bionda, dove era costretta a tenere i capelli lunghi perché Margo voleva così, e dove doveva sempre fingere di essere un’altra persona per non essere vista in modo diverso. 

Era un desiderio che tutte loro, almeno una volta nella vita, avevano avuto.

Tranne forse Margo, perché era l’unica ad avere controllo quasi totale su tutto. L’unica che era una persona vera, e non un semplice frammento. Non un riflesso incompleto di uno specchio spezzato.

Marika se ne andò. Il mal di testa stava diventando lancinante, e May sentiva che anche qualcun altro stava cercando di prendere il controllo. Margo, probabilmente. 

“…May…” la persona a prendere il posto di Marika, però, fu l’ultima che la citata si sarebbe aspettata.

-Maya?- chiese, sorpresa.

La personalità traumatizzata. Colei che viveva per prendere tutto il dolore che la vita buttava addosso a Margo, senza battere ciglio.

Lei e May erano i due poli opposti della protezione: quella che si arrendeva per attutire le conseguenze e quella che combatteva fino alla fine. 

Sebbene Maya fosse nata molto prima di May, aveva ancora l’età di una giovane adolescente. Era rimasta la piccola Margo che ogni giorno subiva le percosse del padre, cercando di evitare che la gemella subisse altrettanto. Quella Margo cresciuta troppo in fretta. Erano però lontani i giorni in cui era la più grande del sistema.

E dopo la nascita di May, raramente usciva fuori. Non era necessario, e si trovava molto meglio nel palazzo mentale, addormentata o a prendersi cura di Maddy e giocare con lei. Al sicuro dal pericoloso mondo esterno.

Se era in co-coscienza con May significava che la faccenda era molto seria, per lei.

“Non ucciderlo” sussurrò Maya con voce piccola e sfuggente.

May ormai era così abituata alle urla di Marika, che ci mise parecchio a decifrare quelle due parole.

-È il mio lavoro- obiettò, addolcendo però il tono. Era inconscio, ma non riusciva ad essere brusca con Maya e Maddy. Beh, non aveva mai parlato con Maddy se non di sfuggita, ma era una bambina. Non si poteva essere bruschi con i bambini. Neanche May era così crudele.

“Ti prego, non uccidere Sammy” la supplicò Maya. May la sentì un po’ meglio, ma non capì il motivo di quella richiesta. Non era Sammy l’obiettivo, ma suo fratello. Non aveva motivo di uccidere anche lui. 

…A meno che non si fosse messo in mezzo, o non avesse scoperto la faccenda. Cosa probabile effettivamente.

Finché Maya non gliel’aveva fatto notare, non aveva proprio pensato a Sammy. Esitò, e Maya continuò.

“Lui è gentile con noi. È l’unico ad esserlo. Ti prego, non ucciderlo. Non lo merita” la voce iniziava a farsi più forte, e May le lasciò più spazio, mentre la sua mente iniziava a preoccuparsi di qualcosa che non credeva avrebbe mai dovuto affrontare: tenere in vita qualcuno fuori dal sistema.

Maya aveva ragione, Sammy non meritava di morire. Era irritante, ma era degno di nota. Ed era la prima persona che non si era spaventato di loro. 

Lo sguardo di May tornò sul biglietto a terra, e fece per prenderlo, rendendosi conto però che le mani erano impegnate a graffiarle le braccia.

-Smettila, Maya!- si affrettò a prendere il controllo del suo corpo, e prese di nuovo in mano la pistola, per allontanarla dal sedile del guidatore.

“Scusa, ma, non…” Maya odiava le armi, ma non erano efficaci a scacciarla. Doveva uscire lei se veniva minacciata da esse, dopotutto. Anche se May usciva molto più spesso.

-Non ucciderò Sammy! Non è nel mio interesse- la rassicurò, pianificando nella sua mente come tenerlo lontano.

Iniziava davvero a stancarsi. Non era abituata a stare così tanto sveglia con così tante persone che cercavano di prenderle il controllo dalle mani.

Chiuse gli occhi, e cercò di liberare la mente.

Il biglietto di Sammy restò a terra, mentre Maya tornava dentro e May riprendeva con difficoltà il controllo esclusivo. 

Il mal di testa diminuì di intensità.

May si alzò, preparò le valige e elaborò un piano per finire il lavoro senza toccare Sammy, almeno non fisicamente.

Era la migliore assassina di Los Angeles. Doveva essere un gioco da ragazzi, per lei.

***

Draven si era rivelato molto più determinato di quanto May si aspettasse. Ma almeno la sua paranoia aveva aiutato molto la ragazza a non avere testimoni.

Evidentemente l’aveva riconosciuta, o aveva sospettato il suo coinvolgimento con la gang di Rachel, e aveva cercato di coglierla in un’imboscata.

La conseguenza era che ora May aveva una ferita al braccio, e Draven aveva sporcato quel vicolo e i suoi vestiti di sangue.

May ne era piuttosto infastidita, quella era una delle magliette più comode che aveva per i lavoretti di Rachel, e ora era diventata inutilizzabile. 

…Cavolo, stava parlando come Marika.

Forse perché Marika aveva provato a interferire durante la colluttazione facendole perdere la concentrazione ed era poi scappata in un angolo remoto della mente di May quando si era resa conto del rumore assordante, del sangue e dell’adrenalina che quella situazione stava causando.

May non la biasimava per la sua codardia. Marika era nata per stare in compagnia, non per ucciderla.

Non era durato molto, massimo due minuti, ma poteva essere abbastanza per attirare l’attenzione di qualche curioso, anche se la zona era decisamente isolata, quindi doveva fare in fretta a nascondere il corpo, darsi una ripulita, e scappare.

Tolse dei ciuffi vaganti che le erano scesi sul viso, e si alzò per guardare meglio l’uomo supino a terra, affondato in un mare di sangue che si espandeva intorno a lui. 

Di solito preferiva attendere le vittime in un luogo perfetto, finirle con un singolo colpo in testa e sistemarle in modo che non perdessero troppo sangue. Un lavoro pulito e veloce.

Ma Draven l’aveva anticipata, purtroppo. E aveva trovato la sua fine in modo molto più lento e doloroso.

May lo guardò per essere sicura che non facesse altre sorprese, con la pistola pronta a sparare, ma gli occhi vitrei confermarono la sua dipartita, e la ragazza decise che non avrebbe sprecato l’ultimo colpo che le era rimasto in canna per esserne certa. 

Mise la pistola dietro la schiena e si piegò su Draven, per prenderlo in braccio e spostarlo nel cestino dei rifiuti. Non aveva intenzione di farlo sparire, solo di nasconderlo abbastanza a lungo da andare via dalla città e crearsi un alibi per non destare sospetti. Ogni sua vittima era un monito per gli altri membri dell’organizzazione. Se provavano a scappare, sarebbero finiti così.

E poi tutti, anche le persone peggiori, meritavano di essere trovate, e rimpiante da coloro che le amavano. Sapere che qualcuno fosse morto era molto meglio di non averne la certezza.

E Sammy voleva così bene a suo fratello…

No, May, concentrata. Doveva pensare alla missione, non a Sammy!

Purtroppo per tutto il mese di Maggio la ragazza era sempre distratta e incline a sentimentalismi. Maledetto mese di nascita!

Si caricò in spalla il cadavere e aprì con difficoltà il bidone dell’indifferenziata, il luogo migliore dove nascondere un cadavere. Era semplice muovere la spazzatura per metterlo sul fondo, ed era difficile che qualcuno armeggiasse tra i rifiuti e lo trovasse accidentalmente. Quella zona era davvero simile a Los Angeles. Quasi sembrava di essere a casa. Era assurdo pensare che fosse a migliaia di chilometri di distanza.

Buttò con poca eleganza il corpo nel cassonetto e si guardò intorno per controllare che non ci fossero oggetti personali nascosti dal sangue.

Diamine se odiava quell’odore metallico.

Il suono di passi lungo il vicolo la fece sobbalzare, e serrò la mano intorno alla pistola, cercando un nascondiglio.

-Allora, Drav, dove sei? Dove sei? Uffa, vieni ogni morte di papa e mi abbandoni a caso? Ah, ma io ti trovo con il telefono, così non puoi ignorarmi, brutto puzzone- sentì una voce familiare commentare tra sé a voce alta mentre passava davanti al vicolo, e il cuore di May sembrò smettere di battere per un secondo quando vide la figura di Sammy, i capelli dorati scompigliati dal vento e il sorriso onnipresente sul suo volto, che camminava con il volto piegato verso il proprio telefono proprio davanti al vicolo, concentrato e molto più allegro rispetto a come la ragazza lo aveva visto due giorni prima.

si nascose in fretta dietro il cassonetto con il cadavere, e sperò davvero, con tutto il cuore, che Sammy continuasse per la sua strada e non si fermasse. Le doveva concedere solo un minuto. Sarebbe scappata dal luogo del delitto e sparita dalla sua vita. Non le importava lasciare tutto così, senza pulire il sangue. Avrebbe avuto meno tempo per lasciare il paese, ma sarebbe comunque riuscita a scappare e a salvarsi.

Ma non voleva essere costretta a uccidere Sammy. Non poteva fare quel torto a Maya. E poi lui non se lo meritava.

“Nessuno se lo merita davvero, forse solo noi” commentò una sottile voce nella sua testa.

-Non adesso- non si trattenne dal sussurrare, stringendo la presa sulla pistola fino a farsi quasi male, e lanciando una veloce occhiata oltre il cassonetto.

Sammy si era fermato proprio davanti al vicolo, e guardava confuso il telefono.

-Che ci fa qui?- chiese, guardandosi intorno, e sgranando gli occhi quando raggiunse con lo sguardo il lago di sangue.

-Scappa- gli suggerì May, a voce così bassa che neanche lei si sentì, ma Sammy iniziò ad avanzare, più confuso che spaventato, come se non capisse cosa fosse quella enorme macchia a terra.

Succo di ciliegia, forse, o salsa di pomodoro.

-Draven!- May sentì chiamare, e si nascose maggiormente, restando più immobile possibile nella speranza di non essere vista.

Stava andando sempre peggio, e non aveva idea di come tirarsi fuori dalla situazione senza testimoni.

Il cassonetto era ancora aperto, e iniziavano ad entrare parecchie mosche.

-Draven, spero davvero che sia solo uno scherzo, ma sappi che non è divertente- la voce di Sammy era tremante, e sempre più vicina.

May portò istintivamente la pistola al petto, pronta a mirare e sparare, ma trattenendosi dal farlo.

Non si sentivano altri passi, o voci. Erano gli unici nel raggio di parecchie centinaia di metri, nel luogo più isolato e lontano dalla spiaggia di Anahola.

I passi si fecero sempre più vicini, May trattenne il respiro.

Poi sentì un’esclamazione strozzata, e qualcuno cadere a terra dopo essere indietreggiato leggermente.

E nello stesso istante, qualcosa, forse il vento, un gatto, o il karma, fece cadere una pila di immondizia, che per poco non seppellì May, che fu costretta a scansarsi, diventando visibile.

Ci fu un momento in cui l’aria sembrò farsi solida, mentre i due si guardavano. May con la pistola nascosta ma ancora coperta di sangue, Sammy a terra, tremante e sconvolto.

-M…May?- chiese poi Sammy, con un filo di voce e la gola serrata, ad occhi sgranati.

Per un attimo May si sentì riscaldare il petto. Era la prima volta che qualcuno la chiamava con il suo nome fin da subito. Non era mai accaduto che qualcuno la riconoscesse. Esordivano sempre con “Margo”. Margo qui, Margo lì, sempre, sempre Margo.

Poi si rese conto del motivo.

Era coperta di sangue, con una pistola in mano, nascosta dietro il cestino dove aveva trovato un cadavere. Il cadavere di suo fratello, a dirla tutta.

Era ovvio che non potesse essere Margo. Margo era perfetta, pura e dolcissima. May era la protettrice, scorbutica, offensiva, schizoide. Delle due, era May quella che sicuramente andava in giro con una pistola in mano ad uccidere le persone.

E ciò che ferì di più May fu che non poteva neanche biasimare Sammy, perché, in fin dei conti, era vero.

Ma non riuscì a trattenere le sue mani, che con furia improvvisa e istinto protettivo, si sollevarono verso di lui, puntandogli la pistola contro.

Sammy la fissava, il respiro pesante, gemiti terrorizzati che gli uscivano dalla gola mentre cercava di parlare, o muoversi, o capire cosa stesse succedendo, impietrito, congelato, dal terrore ma soprattutto dalla confusione che provava in quel momento.

May doveva ucciderlo, approfittare adesso che era sconvolto e ancora non si rendeva conto di cose stesse succedendo. Non poteva tenerlo in vita. Sapeva troppo, quindi ormai era un danno collaterale. Fine della storia.

Ma esitò, non riusciva a pensare lucidamente. E per la prima volta aveva paura. Non del resto del mondo, ma di sé stessa. Di quello che poteva fare, di quello che faceva quotidianamente, e dell’impatto che dava sul mondo.

Non voleva uccidere Sammy. Poteva benissimo, doveva assolutamente, ma non voleva. Ma lo doveva fare.

-Mi dispiace, Sammy- sussurrò, freddamente. Avrebbe voluto dissociarsi, ma sapeva di essere l’unica a poter premere il grilletto. Era lei quella che si sporcava le mani.

Solo che, proprio mentre stava per concludere il lavoro una volta per tutte, Sammy la lasciò di stucco.

La confusione che per tutto il tempo aveva aleggiato sul suo volto mutò in fretta in consapevolezza, incredulità, e poi terrore.

Indietreggiò in fretta, andando a sbattere contro il muro alle sue spalle.

E urlò.

E la mano di May tremò, mentre un flashback completamente fuori luogo la riportava al giorno della sua nascita, agli occhi di sua sorella, e all’urlo che aveva cacciato quel giorno.

Una terribile fitta alla testa per poco non le fece mollare la pistola e rannicchiarsi a terra.

Era sopraffatta dal dolore, dall’incertezza, dai ricordi che le salivano alla mente facendole venire la nausea.

Mentre Sammy provava ad alzarsi e a scappare, bloccato dalle proprie ginocchia di gelatina, May affrontava i suoi demoni interiori, immobile e minacciosa davanti a lui, l’unico segno del suo conflitto mentale dato dalle braccia tremanti, e gli occhi vitrei, dissociati, spaventosi.

“Uccidilo, Rachel ha detto nessun testimone” sentì la voce di Marika, spaventata, incoraggiarla a premere il grilletto.

Aveva ragione, doveva farlo. Ormai era tardi, e lei era una combattente.

“No, ti prego. Mi avevi promesso di no” la supplicò la voce leggera di Maya, distrutta, stanca, pronta ad arrendersi.

C’erano due modi in cui la situazione poteva concludersi, May lo sapeva. E in ogni caso, solo una persona sarebbe uscita da quel vicolo completamente libera.

“Non possiamo finire in prigione! May uccidilo e torniamo a casa” anche Marika era supplicante, e spaventata. La prigione la terrorizzava. Aveva bisogno di uscire, esplorare il mondo, incontrare le persone. Non poteva restare chiusa in cella.

E poi la prigione non era un’opzione. Rachel non poteva permettersi che qualcuno dei suoi uomini finisse dietro le sbarre.

“Davvero non c’è possibilità per entrambi di essere liberi?” suggerì Maya, facendo scendere per un attimo il silenzio nel sistema di Margo.

No, May si rifiutava di cedere.

Lei era una protettrice. Lei combatteva per sopravvivere, a qualsiasi costo. Era contro la sua natura arrendersi.

Era nata per questo, mentre suo padre la soffocava, dopo aver assassinato sua madre, prima che uccidesse anche sua sorella. 

La sorella che poi l’aveva ripudiata, che non vedeva da anni. L’unica che avrebbe voluto vedere. 

E che un giorno avrebbe rivisto.

Sì! Lei l’avrebbe rivista, doveva sopravvivere anche per lei!

Si avvicinò, bloccando ogni via di fuga a Sammy, e la presa sulla pistola si fece più ferma.

-Sei… sei… un’anemone- sentì Sammy sussurrare, con voce spezzata, mentre chiudeva gli occhi preparandosi al peggio, tra le lacrime salate che da un po’ iniziavano a scavargli il volto.

May non sapeva cosa significasse.

“Tradimento” le venne in aiuto Maya.

Appropriato, davvero appropriato.

Il dito sul grilletto tremava, rischiava quasi di farlo partire accidentalmente, e forse sarebbe stato meglio.

Era l’ultimo proiettile, dopotutto, perderlo avrebbe aperto nuove strade.

Ma non poteva permetterselo.

Prese un profondo respiro, cercando di liberare la mente.

Si avvicinò un po’ di più.

“May…” la voce di Margo, chiara, imponente, indecifrabile ma allo stesso tempo chiarissima, le risuonò in testa. Era un avvertimento, che May avrebbe potuto interpretare in tutti i modi, ma le portò alla mente solo una inoppugnabile verità.

Lei era un’ospite. Un oggetto, che doveva solo eseguire gli ordini e proteggere il corpo. Margo doveva decidere. E May doveva servirla. Nulla di più.

Questa era la sua vita.

…ma valeva davvero la pena viverla così?

Uno sparo.

 

***

 

Hey, Margo, ti scrivo questo biglietto per ringraziarti per avermi sostenuto durante la mia frase depressiva. E per avermi rivelato il tuo segreto, non deve essere stato facile ma prometto che non dirò mai niente a nessuno. Sei in buone mani. Per ringraziarti meglio ho realizzato questo bouquet con tutti i fiori che dai tuoi racconti mi sembra possano rappresentare le tue personalità. Purtroppo non conosco Maya e Marika di persona, ma spero di aver comunque scelto fiori di loro gradimento. Ho messo i gigli, che sono i tuoi preferiti. Per Maddy ho scelto il più grande girasole del negozio. È una bambina splendida e solare. Mer Maya dai tuoi racconti ho pensato che il bucaneve potesse essere il suo preferito, il più forte nei periodi più difficili. Avevo pensato di mettere un narciso per Marika visto il commento di May, ma mi sono astenuto perché non penso le piacerebbe molto. Così ho deciso di Alstroemeria, il giglio del Perù, perché mi da l’idea di una persona devota ed esotica. Infine per May ho avuto un po’ di difficoltà a scegliere il fiore giusto, ma alla fine ho optato per l’ortensia. Non mi hai dato indicazioni su altre eventuali personalità, quindi questi sono gli unici fiori che ho utilizzato.

Oltre all’ibisco, al centro della composizione. Quello rappresenta l’intero sistema, più o meno.

Sono fiori di vita breve, come i vostri momenti di lucidità, ma sono anche meravigliosi.

Una bellezza fugace, l’incanto di un istante

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note d’autrice: Ho amato scrivere questa storia, anche se ho paura che il finale sia troppo rapido, forse, perché in mancanza di tempo non ho avuto tempo di controllarlo troppe volte e aggiungere tutto quello che volevo scrivere. All’inizio volevo dare i punti di vista di tutte le personalità, ma poi ho preferito concentrarmi su May, la più “cattiva” per certi versi, e una delle personalità più semplici e allo stesso tempo complesse. Ho deliberatamente escluso delle conversazioni con Maddy e Margo per due motivi diversi: Maddy ha un ruolo troppo diverso da May, ed è impossibile che le due parlino, ed è anzi probabile che Maddy non sappia neanche dell’esistenza di May. Mentre Margo è il mito, l’essere perfetto, quella che controlla tutto, e volevo farla restare un mito anche per i lettori, per farla percepire come la percepisce May.

Ho fatto una grande ricerca sul disturbo dissociativo dell’identità, e spero di averlo reso nel modo migliore, con i momenti di co-coscienza, i mal di testa e la dissociazione. Un po’ mi dispiace aver resto May la cattiva perché è una malattia molto stigmatizzata, ma spero che si sia capito che è anche una vittima. Ogni personalità è studiata per essere necessaria al sistema e alle esperienze di Margo. Probabilmente Margo ne ha anche altre, ma molto più nascoste o inattive. 

Anche tutti i nomi della storia hanno dei significati particolari: 

May: mese di maggio, quando è nata, e biancospino, pianta che significa protezione dagli spiriti maligni. Indica il suo ruolo di protettrice.

Maya: Illusione, incertezza, magia. Indica il suo essere volubile, stanca, quasi evanescente nella mente di Margo. La somiglianza con il nome May è per sottolineare quanto sono simili e allo stesso tempo opposte.

Marika: Donna ribelle. Esplicativo. Vuole essere libera e sé stessa. Si ribella alle regole del sistema.

Margo: Perla. Perfetta, come tutti la vedono.

Maddy: Giovane. È una bambina.

Anche Samson e Draven hanno un significato opposto. Samson rappresenta il sole, come i suoi capelli biondi. La sua allegria e il suo ottimismo, mentre Draven significa ombre, come i suoi capelli neri. Mostra il suo agire nell’oscurità, prima nell’organizzazione e poi come disertore.

I significati dei fiori sono spiegati nella storia.

Spero davvero di aver fatto un buon lavoro, anche con i bonus. Il disturbo istrionico della personalità è quello di Marika, forse più narcisistico, ma mi sono informata e sono molto simili, però dato che la protagonista indiscussa è May, non sono del tutto certa che valga.

Probabilmente ci sono un sacco di altre cose da dire ma scriverei un papiro più lungo della storia stessa quindi mi fermo qui.

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