I Can't Sleep (Until I Feel Your Touch) di Manto (/viewuser.php?uid=541466)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Tua Grazia Trepida Guidava a Te… ***
Capitolo 2: *** … L’Anima Mia Perché Non Si Smarrisse ***
Capitolo 1 *** La Tua Grazia Trepida Guidava a Te… ***
DISCLAIMER:
Tutti i personaggi qui presenti non mi appartengono.
La
storia è stata scritta senza alcun scopo di lucro.
♦ Storia
partecipante al contest “Favole di Oggi”
indetto da Fiore di Cenere sul forum di EFP
I
Can’t Sleep (Until I Feel Your Touch)
I
♦ La Tua Grazia Trepida Guidava a Te…
Quella sera, la
luna era
immersa in una quiete che non apparteneva ai mortali — di
certo, non a quelli
che l’osservavano trasognati dalle grandi vetrate del palazzo
o le lanciavano
solamente un fuggevole sguardo tra una chiacchiera e l’altra,
e si confondevano,
respiravano e lasciavano correre il tempo in mezzo alla variopinta
folla. La
sua luce era debole, come se fosse stata immersa nell’acqua e
questa le avesse
diluito il colore fino a renderla un’opaca macchia bianca,
mentre le stelle che
la circondavano erano innumerevoli e brillavano con forza: forse erano
state
loro a derubarla di tutto lo splendore, o lei stessa a cederlo.
Un simile spettacolo non
era comune a Yokohama, là dove solitamente erano ben altri i
colori che
pulsavano tra le vie e sui palazzi e la notte fuggiva via quasi
inosservata; ma
a quell’altezza niente poteva competere con la bellezza della
volta e i
riflessi che l’oceano intrappolava, uno specchio che solo in
parte rifletteva
la frenesia di quelle ore.
«Uff… sono al limite, grande
luna, pieno come te. Ho forse esagerato?»
Chi può sapere se la prima
Musa dei poeti ascolta gli uomini, a volte, quando il buio è
immobile e nulla
giunge a farle compagnia; forse quella notte lo fece, chiamata dai
vividi occhi
verdi che s’impressero su di lei e nonostante il caos che li
circondava.
Distante da quella
medesima ridda di persone e parole, Ranpo lasciò andare un
secondo sbuffo e si
appoggiò con la schiena all’elegante balaustra che
cingeva la terrazza dove si
era rifugiato, rovesciando la testa in modo che cielo e acqua si
scambiassero
di posto e la città pendesse dall’alto come un
lampadario: la prima cosa
interessante della serata — dopo
l’enorme buffet a cui aveva reso onore,
ovviamente.
Raramente partecipava a eventi
del genere; tuttavia, quella era un’occasione speciale.
Neanche una settimana
prima, infatti, aveva risolto un delicato caso di tentata rapina
culminata con
un omicidio, dove tutte le prove sembravano incriminare un caro amico
del Presidente;
ma era bastato molto poco per portare alla luce la verità,
rovesciare le
evidenze e impedire un processo ingiusto, mentre Yosano e Kunikida
avevano fatto
in modo che il vero colpevole non ripetesse la sua vergognosa impresa.
Come ringraziamento, l’innocente
aveva invitato Fukuzawa e i suoi tre salvatori alla mostra personale
che
solamente grazie a loro era riuscito a portare a termine e presentare
al
pubblico; così Edogawa si era ritrovato nel cuore della
festa, culmine
dell’evento, quasi senza accorgersene, con il Presidente
completamente preso
dal suo amico, una Yosano divenuta ben presto alticcia e fin troppo
sorridente e
il povero Kunikida fatto prigioniero dal medico e trascinato in una
baraonda
tutta al femminile, capace di soffocare le più disperate
grida del biondo.
E lui, dopo aver gironzolato
per l’intero edificio, essersi trattenuto il più
possibile al tavolo del buffet
e averlo derubato di tutti i dolci che offriva, aver assistito
impotente alla resa
di Doppo e aver rischiato una discussione infinita con
l’incauta giovane che
aveva provato a prendere l’ultima bottiglia di ramune[1]
rimasta,
alla fine non aveva trovato occupazione migliore che mettersi sotto la
protezione
della notte e magari farsi un pisolino sulla quieta terrazza, in attesa
della
chiusura dei festeggiamenti o almeno fino a quando il mondo non si
sarebbe
calmato un poco.
La brezza che saliva dall’oceano
sembrava respingere tutte le voci lontano da lui e questo gli era
gradito
perché lo aiutava a pensare e rilassarsi, così da
farlo concentrare su quello
che gli importava; e tra le tante sensazioni che si affacciarono sotto
la luna,
improvvisamente ne arrivò una che gli colpì i
sensi e prevaricò le altre.
Simile a un fumo
indistinto e sottile che s’insinuava nel corpo e nei
pensieri, appena accennato
ma presente, spinse il moro a girarsi, sporgersi oltre la balaustra e
guardare
verso il basso per cercare la fonte dell’impulso; e qualcosa
di più intenso
iniziò a raggiungerlo, resistendo qualche attimo prima di
svanire completamente
come se mai fosse esistito. Eppure non poteva essere stata solamente
un’impressione, no, aveva davvero percepito…
«Hey, attento! Ranpo-kun,
è un bel salto se si cade da qui.»
Dopo un istante
d’immobilità scaturito dalla sorpresa, Ranpo
rialzò il viso e guardò nella
direzione da dove proveniva la voce; ci mise solamente un secondo a
riconoscere
la figura con le mani protese verso di lui e l’aria
preoccupata, ma impiegò
ancor meno tempo ad aprirsi in un sorriso, raddrizzarsi e assumere una
posizione più sicura, per poi allargare le braccia con
entusiasmo. «Che
sorpresa, Poe-kun!»
Questi accennò un timido
sorriso, quindi ritornò serio e si avvicinò di
più al giovane. «… Che cosa
volevi fare? Saresti potuto precipitare da un momento
all’altro.»
«Era tutto sotto
controllo! E poi non posso morire così, è da
stupidi! E parlando di te, che
cosa ci fai qui? Sei stato invitato anche tu? … Hai qualcosa
per me, magari un
nuovo romanzo?»
Edgar sorrise nuovamente
sotto quella sfilza di domande, un moto di orgoglio che gli colorava le
guance.
«È stato un bene saper del tuo invito alla mostra,
così te l’ho potuto portare
appena finito», mormorò allungando il bel volume
dalla copertina nera che aveva
tenuto in mano fino a quel momento, aumentando l’interesse e
l’allegria di Edogawa.
«Non mi lasci molto tempo per annoiarmi, Poe-kun!
Hai fatto in fretta,
l’ultimo me l’hai dato solamente quattro giorni
fa!»
«È breve, sì, ma questa
volta sono sicuro di aver fatto del mio meglio.»
«Diventi sempre più bravo
— non al mio livello, certo, ma scopriamo che cosa mi hai
riservato…» Il moro
si bloccò, per poi allungarsi verso Poe e indicare un libro
che compariva da
sotto il mantello. «Io vedo un altro volume,
però.»
«Oh, questo non
credo che t’interesserebbe. Non ci sono misteri qui dentro,
è solamente una storia
di fantasia che devo ancora finire… mi mancano poche
frasi.»
«Non
sai proprio
staccarti dai libri.»
«Eeeh? Che cosa vuol
dire?»
Ranpo rise nello scorgere
l’espressione stupita del ragazzo e con uno scatto lo
afferrò per la falda del
mantello, iniziando a trascinarlo verso la sala più vicina.
«Mi è ritornata
fame, e non c’è niente di meglio che mangiare
qualcosa mentre si legge! Andiamo!»
«Pi-piano, Ranpo-kun,
non tirare così, non riesco a respirare! … E poi,
e poi io odio trovarmi in
mezzo alla confusione… e ci tengo a questo
mantello…»
«Che esagerazione, non
sto tirando così tanto! Ah, mi è venuta anche
sete… hey, giù le mani da quei botamochi[2],
li ho visti prima io! Poe-kun, di’
qualcosa anche tu, è un’ingiustizia!»
Di certo sarebbe stata
una delle migliori serate che entrambi avrebbero vissuto, sicuramente
le ore
sarebbero passate ignorate, distanti dalla loro mente; ma
all’improvviso le
luci si abbassarono e allarmi antincendio iniziarono a suonare ovunque,
rompendo
l’atmosfera distesa e cristallizzando i gesti nella sorpresa.
I due giovani si
azzittirono e alzarono lo sguardo al soffitto, confusi, ma Ranpo fu il
primo a
riaversi: la sensazione che aveva percepito sulla terrazza era
ritornata, questa
volta fortissima e ben più persistente. Non era simile
a fumo, ma fumo reale:
aveva colto il principio di un pericolo che, per qualche motivo, si era
affievolito solo per riprendere forza in un secondo tempo e divenire
fuori
controllo.
Maledizione.
«Vieni,
dobbiamo trovare
gli altri!», gridò il giovane a Poe, infilandosi
con lui in mezzo alla folla
che iniziava a fuggire dalla sala e cercando di guadagnare
l’uscita.
I corridoi che si
trovarono davanti si erano trasformati e da luminosi e risuonanti di
voci erano
divenuti bui e soffocanti, mentre non più persone ma volute
nere e danzanti
ombre rossastre risalivano le scale di marmo come fantasmi; gli
ambienti che si
conoscevano bene si allungavano fino a risultare interminabili e si
tramutavano
in trappole, mentre il ruggito del fuoco si faceva sentire sempre
più forte via
via che l’incendio allungava le mani su tutto ciò
che trovava.
Correndo il più veloce possibile
e badando sempre che Edgar fosse almeno vicino a
lui, Edogawa cercò di
filtrare gli stimoli che giungevano da ogni parte — richiami,
boati,
scricchiolii, sensazioni che si mischiavano nella testa e che
rischiavano di
rimanere senza una razionalizzazione — mentre le sale
diventavano tutte uguali
e i minuti a disposizione si riducevano. Non essere rimasto insieme
agli altri,
o almeno a portata d’occhio, improvvisamente gli sembrava un
errore tanto grave
da poterselo difficilmente perdonare, e tanto lo prese il pensiero che
si
accorse di aver incrociato Kunikida solamente quando stava per
superarlo. Fu
infatti l’altro ad afferrarlo per un braccio e trattenerlo,
per poi scuoterlo e
dire qualcosa che lui non comprese subito: era riuscito a trovare il
Presidente
ma era stato diviso da Yosano, che aveva aiutato delle persone a
scappare e si
era persa nella folla.
A rimarcare quelle
parole, Fukuzawa comparve alle sue spalle e, accertandosi che tutti i
presenti stessero
bene, li spinse a lasciare il piano dove erano ormai rimasti i soli.
L’indomabilità del fuoco
era ormai palese nel bollore che percorreva i muri, nella densa
caligine che
occupava ogni spazio e negli scoppi e crolli improvvisi che si
rincorrevano di
struttura in struttura, ostruendo uscite e stravolgendo i percorsi: in
almeno
un paio di casi solamente la prontezza di uno del gruppo
riuscì a evitare che
qualcun altro finisse ustionato dalla caduta di materiale infuocato,
mentre
lentamente i piani diminuivano e l’uscita era sempre
più vicina.
Con l’approssimarsi di
questa, tuttavia, aumentava anche la gente che lì si
accalcava: alcune porte
erano state danneggiate dal calore e non riuscivano ad aprirsi
completamente,
costringendo così a rallentare l’esodo e
aumentando la paura.
Il crepitare delle fiamme
e urla di panico, mille e più voci, spinte e scene che
nessuno dovrebbe mai
vedere li investirono, e per un attimo Ranpo perse la cognizione del
tempo:
destabilizzato, incapace di appigliarsi a qualcosa perché
immerso in un caos
ribollente, cercò almeno di rimanere vicino ai compagni, ma
anche in quello
fallì; infatti, quando si volse intorno, vide che era solo,
senza gli altri al suo fianco. Tuttavia, con la coda
dell’occhio riuscì a
scorgere la figura di Edgar qualche metro dietro di sé,
rivolta verso l’ombra
di Fukuzawa, e allora fece per retrocedere fino a raggiungerli e
accertarsi di
quale fosse la situazione; prima di questo, la voce di Yosano
incontrò la sua
attenzione.
«Ranpo-san! Ranpo-san,
sono qui!»
Un attimo dopo il medico comparve
a poca distanza, ostacolata dalla massa di gente che li divideva, e lui
si
voltò nuovamente per avvertire il gruppo; ma stavolta vide
solamente un enorme
sbuffo di fumo che si allargava nella sua direzione, seguito da un
frastuono e
da una spaventosa vampata di calore che lo costrinsero a tapparsi le
orecchie e
gridare. Udì la voce di Kunikida urlare qualcosa a sua
volta, ma non riuscì a
capire da quale direzione provenisse: sembrava essere davanti, accanto
e dietro
di lui al medesimo tempo, indefinibile.
È
spaventoso, tutto
questo è orrendo. Quando finisce, quando finisce?
Percorso
da un brivido,
il giovane aprì la bocca per dire qualcosa; e in
quell’attimo una nube grigia
gli penetrò dritta in gola, facendolo tossire via via
più forte e respirare
sempre meno. Gli occhi presero a lacrimare e le gambe a cedere, mentre
la gola ardeva:
doveva uscire immediatamente o avrebbe avuto un collasso.
Quando
finisce? Basta,
basta!
Appena
si liberò, Yosano
fu svelta a raggiungerlo e stringerlo a sé, mettendogli il
proprio scialle davanti
alla bocca. «Non ti staccare da me per nulla al mondo,
intesi? Piegati, così»,
gli sussurrò mentre gli premeva gentilmente il capo verso il
basso e quasi
sollevava il suo corpo da terra.
Non erano passati che
pochi attimi — o almeno, così sembrò a
lui — che un soffio d’aria fredda
schiaffeggiò entrambi non appena si lasciarono alle spalle
l’inferno; la notte
li abbracciò e si trovarono a rotolare a terra,
boccheggiando come pesci e
sentendo la pelle bruciare in ogni dove, i sensi inebetiti e il cuore
che
avrebbe potuto benissimo spezzare il petto tanto batteva
forte… ma salvi.
E
gli altri? Gli altri…
Senza
perdere tempo, Akiko
prese una delle bottiglie d’acqua che era riuscita ad
afferrare in fretta e
furia e gliene rovesciò una buona metà sul viso,
quindi lo fece bere finché non
annuì. Solo allora ebbe il coraggio di parlare:
«… Ho perso Kunikida-san nella
folla, e… e non l’ho più trovato.
L’hai visto, per caso? E il Presidente?»
Ranpo deglutì, prese una nuova
boccata d’aria e fissò il palazzo a poca distanza.
Ormai le fiamme erano
ovunque, si dimenavano fuori dalle finestre e ruggivano fin sul tetto;
se
qualcuno era rimasto là dentro…
«Sì, li ho incontrati. L’ultima volta
che li ho
visti erano dietro di me, con Poe-kun.»
Una pausa, intessuta di
pesantissima tensione, e lo sguardo che cercava tra i visi terrorizzati
che li
circondavano. «Nessuno di loro è qui.»
«Non c’erano quando ti ho
trovato… sei sicuro che ti abbiano seguito?»
«Sicuro? Sicurissimo!
Poe-kun era proprio alle mie spalle! Stava dicendo
qualcosa al
Presidente, e poi… poi c’eri tu, e il fumo
tutt’intorno.» Il ragazzo si bloccò,
quindi si alzò con un’espressione seria e
irremovibile a scurirgli gli occhi
smeraldini. Avanzò di qualche passo verso il rogo, ma la
mora lo afferrò per un
polso e lo costrinse a fermarsi, per poi fissarlo così
intensamente da uncinargli
l’anima. «Non perdere la testa e respira, respira:
vedrai che stanno bene, non
li abbiamo ancora visti ma sicuramente sono usciti anche loro, lascia
che tutto
si calmi e—»
«Siamo qui.»
I due giovani si
voltarono all’unisono quando udirono quella voce ferma,
sorpresi, e
immediatamente lasciarono andare tutto il fiato che avevano trattenuto
in
quegli istanti.
Con il volto annerito dal
fumo, la pelle arrossata in più punti a causa del contatto
ravvicinato con il
fuoco e gli abiti bisognosi di una bella pulita — e, nel caso
del Presidente,
un’ustione non grave sul braccio destro — e
aiutandosi a vicenda nel camminare,
Kunikida e Fukuzawa si unirono a loro e subito si sedettero al suolo,
le forze
ormai mancanti. Edgar era distante di qualche passo ma ben
distinguibile, la
sua ombra che scivolava verso il gruppo come una tremolante presenza.
«State tutti bene, vero?
Che cos’è successo?»
Kunikida bevve un lungo
sorso dalla bottiglia che Yosano gli aveva appena porto, quindi prese
un grosso
respiro e corrugò la fronte, parlando lentamente per
scegliere con cura le
parole: «Appena abbiamo raggiunto il corridoio del primo
piano, io e il
Presidente siamo stati fermati dal crollo di alcune travi: ci sono
piombate addosso
e bloccato le gambe, e il fumo ha iniziato a soffocarci. “La
fine è ormai qui”,
così abbiamo pensato… e poi… ecco, non
so come spiegarlo, ma tutto si è fermato
e siamo entrati in una sorta di sogno: niente più fiamme
né fumo, ma un luogo
aperto e immerso nel silenzio, uno scenario incredibile… chi
può sapere che
allucinazione ci ha colto.»
Ranpo spalancò gli occhi.
«Un mondo completamente diverso? Paesaggi
fantastici?»
«Sì, qualcosa del genere;
e improvvisamente tutto è finito e ci siamo ritrovati qui, a
qualche passo da
voi, salvi. Personalmente non so davvero spiegarmelo, e so che sembra
che io sia
impazzito, ma…»
Il ragazzo rimase un
istante immobile, quindi sorrise e annuì. «No, non
sei diventato matto e una
spiegazione c’è», sussurrò,
per poi alzare la voce e avanzare di qualche passo,
«e per questo dobbiamo ringraziare solamente una
perso—»
«Ranpo.» Fukuzawa, che fino
a quel
momento era rimasto in silenzio e aveva concentrato la sua attenzione
altrove,
richiamò il giovane con un’occhiata e si volse in
direzione di Poe; appena
Edogawa lo seguì, comprese che la notte non era ancora
giunta al suo termine.
Edgar non presentava
ustioni, era annerito di fumo e aveva bisogno di un cambio
d’abiti come gli
altri; ma si teneva la testa con entrambe le mani e lo sguardo con cui
fissava
il rogo, dilatato in un’espressione d’orrore, era
semplicemente spaventoso. Non era solo
terrorizzato, ma in uno stato di shock che gli aveva ridotto il respiro
a un
sibilo appena percettibile, quasi gran parte della vita lo avesse
lasciato.
Chinando la testa di lato
e senza mai smettere di guardarlo, Ranpo gli si avvicinò.
«È finita, calmati. Grazie
a te stiamo tutti bene.» Tese una mano, ma Poe
indietreggiò appena venne
sfiorato. Sulla sua pelle correva un brivido gelido che fece
retrocedere
l’altro a sua volta e gli trasmise un sospiro di paura,
com’era accaduto in
passato davanti a ciò che aveva trovato incomprensibile; ma
non era quello il
caso perché riusciva a sentire tutto e a capire che
qualcosa, nell’incubo di
pietra e vetro che avevano innanzi, aveva attaccato Edgar con tale
forza da
penetrargli il cuore.
Il fumo non aveva
soffocato tanto il corpo, quanto denudato una sinistra
realtà.
«Poe-kun… che
cos’è
successo? Parla, di’ qualcosa! Che cosa hai visto?»
Fu il silenzio a
rispondere.
In un moto impulsivo e
prima che uno degli altri lo potesse trattenere, Ranpo
scattò in avanti fino a
coprire i pochi metri che lo dividevano dal ragazzo e gli
afferrò i polsi,
scuotendolo con forza. «Dimmi che cos’è
successo, EDGAR!»
Quel gesto e il suono del
suo nome riscossero Poe, che abbassò gli occhi e li
ancorò in quelli di Edogawa.
Oltre a tutto ciò che questi aveva intuito, dentro di essi
si muoveva una
tristezza immensa, pulsante, e una richiesta di perdono.
Non
la sta implorando da
me… ma da sé stesso.
«Mi dispiace… mi dispiace
davvero.»
«Perché ti stai scusando,
che cosa hai visto? Rispondimi!»
Lentamente, scuotendo il
capo, Edgar si liberò dalla presa di Ranpo e
indietreggiò ancora. I riflessi
dell’incendio s’insinuarono tra loro per tutto il
tempo in cui silenziosamente
si guardarono, poi si moltiplicarono mentre Poe si voltava per
andarsene ed Edogawa
rimaneva fermo dov’era, la voglia di urlare e chiedere e
correre messa a tacere
dalla consapevolezza che niente sarebbe cambiato, che l’altro
non si sarebbe
girato né avrebbe smesso di allontanarsi da lì e
da lui.
Nell’eco dei passi via
via più distanti, un buio che nemmeno la danza del fuoco
sapeva rischiarare.
Ormai nessuno
avrebbe più
dormito dopo quegli eventi, e le ore successive non si prospettavano
meno
impegnative.
Raggiunta l’Agenzia, Yosano
visitò immediatamente sia Kunikida che Fukuzawa per
accertarsi della loro
situazione ed evitare spiacevoli sorprese o ricadute, e per tutto il
tempo Ranpo
rimase ad aspettare accanto a loro, senza rispondere a chi lo
interpellava
perché la sua mente era altrove, fissata sempre nello stesso
posto e momento. Si
animò un poco quando dovette spiegare al Presidente e a
Doppo chi e come li
avesse salvati da una fine orrenda, e per tutto il tempo in cui lo fece
tenne
lo sguardo fisso sul volume che Akiko aveva rinvenuto poco lontano dal
luogo
dove si erano ritrovati: il racconto di fantasia che Edgar aveva
ultimato con una
sola frase, ciò che li aveva strappati al fuoco. Pur nel
mezzo del disastro,
con le speranze ormai ridotte al limite, il ragazzo aveva impiegato le
sue
capacità per lottare contro le unghie della Morte, uscendone
vincitore; era
rimasto nell’incendio finché non aveva compiuto un
piccolo, grande miracolo e
tutti, tutti loro dovevano almeno dei ringraziamenti a Poe…
e Poe, qualunque
cosa avesse vissuto in quei minuti in cui si era trovato faccia a
faccia con il
tempo che correva spietato, non era lì ad ascoltarli.
Il silenzio ritornò
insieme a tali pensieri, e quando Yosano ebbe visitato anche Ranpo,
nessuno fra
loro oppose resistenza appena il ragazzo afferrò il proprio
cappello e lasciò
l’Agenzia per scomparire in ciò che restava della
notte, diretto solo lui
sapeva dove.
Era appena sorta una
pallida alba quando il medico lo vide fare ritorno con
l’umore leggermente
mutato e lo sguardo percorso da una luce diversa da quella di poche ore
prima:
aveva qualcosa in mente, presto lo avrebbe mostrato.
«Non l’hai trovato, vero?»,
chiese la mora appena lo vide sedersi alla sua scrivania e rovesciare
la testa all’indietro.
In lontananza, oltre le distese di edifici, l’oceano si
animava sotto il sole.
«No, infatti: Poe-kun
non è uno stupido, non voleva essere trovato e ha fatto la
mossa più naturale
del caso, ovvero andarsene dalla città.»
«Così, dal nulla?»
«E non per un breve
viaggio. Sono andato a dare un’occhiata alla sua villa, ma
non c’è più nessuno:
stanotte vi è tornato il tempo necessario per prendere il
suo amico Karl e liberare
tutto lo studio — dalle finestre ho visto solo una stanza
completamente vuota.
È chiaro che non ha
intenzione di far ritorno tanto presto, altrimenti avrebbe lasciato la
scrivania pronta per quel momento. Non sono entrato in casa, ma sono
sicuro che
siano scomparsi anche i documenti che gli permetteranno di andare negli
unici
due posti che conosca bene: Boston e Richmond [3],
dov’è nato e
cresciuto.»
«Quindi ha fatto ritorno
in America…»
«A Richmond, decisamente.»
Kunikida lasciò il proprio posto e mostrò ad
Akiko dei documenti. «Ho appena
chiamato l’aeroporto: mi hanno confermato che nemmeno tre ore
fa il signor Edgar
Allan Poe si è imbarcato su un aereo diretto proprio
là.»
Yosano annuì, facendosi
più seria. «Ho saputo che ci sono state delle
vittime, ma nessuna di queste è
morta nel palazzo: i soccorritori hanno riferito di non aver trovato
alcuna
traccia di corpi o indizi che possano rimandare alla loro presenza.
È impossibile che Poe-san
abbia assistito a qualcosa tale da esserne traumatizzato…
quindi, che cosa l’ha
spinto a lasciare il Giappone?»
«Un motivo c’è»,
intervenne Ranpo, mettendosi seduto composto e spalancando gli occhi,
«è limpido
nella mia mente; mi mancano alcuni dettagli, certo, ma in queste ore ho
capito
che cosa sia accaduto. La prima domanda a cui devo dare risposta
è…» Una breve
pausa. «Come si prende un aereo?»
Kunikida e il medico
rimasero senza parole per qualche attimo, quindi si guardarono e poi
ritornarono a fissare Edogawa. Yosano, allora, fece un piccolo sorriso.
«Hai
intenzione di andare a prenderlo e sei ritornato qui per chiedere un
piccolo
aiuto…», mormorò, mentre Doppo
assottigliava gli occhi e rimaneva in silenzio.
«Ovviamente, e intendo
anche andare a fondo nel mistero. Ma Poe-kun si
è portato via una parte
della soluzione — o meglio, è in una delle due
città che la nasconde, a sua
insaputa.» Facendosi pensieroso, quasi le sue stesse parole
avessero illuminato
un angolo fino a quel momento oscuro, il moro trasse da sotto la
mantella i due
volumi di Edgar e li appoggiò sulla scrivania,
accarezzandone poi le splendide
copertine. Il sopralluogo alla villa gli aveva permesso di trovare una
pista da
seguire, pur senza alcuni tasselli, e ormai era alla fine; ma
nonostante ciò
continuava a provare sulla lingua un’amarezza pungente e
difficile da
tralasciare…
… Perché, quando aveva
detto “mi dispiace”, Poe si era sentito solo e sbagliato.
Nel giro di
pochi attimi, non appena il cuore aveva portato alla luce una
verità terribile,
il mondo gli era divenuto nemico e a sua volta lui
si era scoperto un
pericolo per gli altri, un maledetto; e si era visto solo, indifeso e
indifendibile, per una causa dalle radici profondissime, che unicamente
la sua
anima poteva sapere.
Il malessere di Edogawa
aveva più fonti: non solo la visione di una simile
sofferenza, ma anche il
riflesso di quel Ranpo di tredici anni prima[4]
— senza aiuto e
convinto di essere un tremendo errore, un mostro al quale la
felicità non
avrebbe mai sorriso — che le parole prive di speranza avevano
fatto riemergere.
Mi
dispiace. Anche io
avevo detto così…
Allora,
l’incontro con Fukuzawa
lo aveva salvato e, da quell’istante, con lui aveva protetto
e difeso chi non
ce l’avrebbe fatta con le proprie forze, portando alla luce
la verità e la
giustizia che in essa albergava; non aveva mai mancato di farlo. Poteva
allora
tirarsi indietro davanti a quello che stava accadendo, contando che era
coinvolto
non uno sconosciuto, ma qualcuno a lui vicino?
Mi
dispiace davvero.
«È
curioso: Poe-kun
si considera il mio rivale, ma da quando ci siamo ritrovati non ha
fatto altro
che essere al mio fianco come un amico; vi ha salvato la vita e non ha
temuto
di mettere a repentaglio la sua nel farlo.» Nessuno
merita di rimanere
smarrito; ognuno deve sapere di non essere solo. «Eeeeh
sì, ha davvero
bisogno di me.» Si alzò e raggiunse Yosano e
Kunikida, per poi prendere dalle
mani di questi i documenti che aveva stampato e guardarli con
attenzione.
«Nonostante lui stia andando a Richmond, io devo andare prima
a Boston. Sono lì
le risposte che mi servono.»
Doppo e Akiko assentirono
davanti alla determinazione che vedevano riflessa nel volto del
più grande detective
tra loro, contro il quale niente e nessuno avrebbe potuto resistere.
Edgar non
poteva saperlo, ma stava per arrivare un vento che avrebbe purificato
il suo
cielo: se Edogawa aveva una speranza, allora niente era perduto. Mai.
«Quindi hai già deciso
ogni cosa, Ranpo?»
Il ragazzo annuì a
Fukuzawa, apparso in quell’attimo sulla porta
dell’ufficio.
«Fai quello che è giusto,
allora. L’Agenzia saprà cavarsela»,
assentì a propria volta l’uomo, dopo averlo
osservato fin dentro l’anima.
«Non so per quanto ci
riuscirà, ma farò del mio meglio per ritornare
presto», rispose Edogawa, per
poi allargare le braccia, cambiare espressione e rivoluzionare tutta la
sede
nel giro di un secondo. «E quindi, chi di voi mi aiuta?
Andiamo, non abbiamo
tempo da perdere, devo partire immediatamente! Non posso più
aspettare!»
…
Probabilmente, Poe ultimò
il suo viaggio quando Ranpo iniziò il proprio. Mancavano
ancora parecchie ore
prima che la luna si sollevasse nuovamente sopra l’oceano,
eppure la sua ombra
era già visibile nell’angolo di cielo che il moro
poteva scorgere dal
finestrino dell’aereo; e lui ne fissò la forma
incompleta, in mutamento, fino a
quando le luci del giorno iniziarono a trasformarsi insieme a lei.
Seduto al suo fianco,
Kunikida non mancava di osservarlo e prestare attenzione a qualsiasi
cosa
dicesse. Fukuzawa non avrebbe potuto lasciare l’Agenzia,
così, mentre Yosano e
Ranpo si erano trovati impegnati a preparare il necessario per il
viaggio, aveva
chiesto a Doppo di accompagnare il giovane; richiesta immediatamente
accettata,
visto che così avrebbe potuto sdebitarsi per essere stato
salvato.
Le parole che Ranpo
riversava erano infinite, come suo solito, ma il biondo non
mancò di notare che
spesso il ragazzo abbassava la voce di qualche tono e il suo sguardo
diveniva
più profondo, quasi scorgesse la meta ogni istante
più chiaramente e si preparasse
di conseguenza. Edogawa era estremamente orgoglioso, sapeva essere
infantile e
non nascondeva di pensare in primo luogo a sé stesso; ma
questo non voleva dire
che non tenesse agli altri o non avesse un cuore.
Doppo accennò un sorriso,
lanciando un’altra occhiata al moro: quando questi era andato
a salutare
Fukuzawa, Yosano gli aveva riferito come Ranpo stimasse Poe e quanto la
vicenda
lo stesse coinvolgendo, nonostante ostentasse il comportamento di
sempre. Tra
quei due c’era un legame sorto anni prima tramite una
competizione, un rapporto
che si caricava e trasformava a ogni contatto e andava a mettere radice
in
entrambi, portando a un luogo che solo loro potevano scoprire: ma se
Edogawa
era salito su quell’aereo, se nulla nelle sue decisioni era
mai mutato e la
luce che gli ravvivava lo sguardo non aveva vacillato un attimo, questo
poteva
essere già un indizio sul percorso insieme. Edgar era stato
parecchio fortunato
ad aver incontrato una persona simile — e probabilmente la
fortuna era
vicendevole.
Kunikida lo aveva appena
pensato che fu Ranpo a sorridere, come se avesse letto nella mente del
compagno
e si fosse trovato d’accordo, quindi non parlò
più e mantenne il silenzio per
tutto il tempo in cui il buio scese e rimase nel mondo. Ora dopo ora,
un
respiro e un altro ancora, Boston si avvicinava pari a un’eco
che diveniva
lentamente viva voce, udibile solamente da Edogawa.
Consapevole di ciò, Doppo
non si stupì affatto di come, quando furono atterrati e
appena fuori
dall’aeroporto, il giovane sapesse già dove
andare; e la sua guida sicura
spinse entrambi a ignorare la città aperta per concentrarsi
sui fantasmi che
dormivano negli angoli dimenticati, là dove il tempo si era
fermato per non
fluire più.
Questo fu l’esatto
pensiero di Kunikida quando Ranpo imboccò
l’ennesima via più buia delle sue
sorelle e si bloccò davanti a un alto edificio che sembrava
sul punto di
scomparire, tanto era stretto tra le strutture adiacenti, e
così danneggiato e annerito che perfino il numero civico era
illeggibile. Era una zona a sé,
svincolata dalla certezza[5], e dalle sue
prossimità Edogawa non
accennava ad allontanarsi: taceva la sirena che aveva cantato per lui
fino a pochi
attimi prima, avendolo condotto a sé e quindi portato a
termine il proprio
compito.
«Spero che la casa riesca
a resistere ancora un po’», commentò
Kunikida mentre incrociava le braccia e fissava
lo sguardo sul tetto malandato.
«Resisterà», mormorò
l’altro
appena inforcò i suoi preziosi occhiali, per poi avvicinarsi
a ciò che rimaneva
della porta e guardare attraverso i pertugi che offriva,
«anche lei vuole che
questa storia abbia la fine che merita.»
NOTE
[1]
Il ramune è una bibita gassata dal
sapore di limone, venduta in una
caratteristica bottiglia di vetro che presenta sul tappo una biglia.
Nell’opera
si vede spesso Ranpo con questa bevanda, e la wikia
la riporta come una
delle sue preferite.
[2] Mochi
guarniti con pasta di fagioli rossi.
[3] Boston,
in Massachusetts, e Richmond, in Virginia, furono due città
importanti per il
reale Edgar Allan Poe: la prima è dove nacque e
pubblicò molte sue opere, la
seconda dove visse insieme alla famiglia adottiva e, per un certo
periodo, con
la moglie.
[4]
Riferimento alla light novel “The Untold
Origins of the Detective
Agency”, incentrata sul momento in cui Ranpo e Fukuzawa
s’incontrano per la
prima volta. Viene mostrato chiaramente come il ragazzino, dopo una
serie di
eventi di cui non farò spoiler, trovi il suo posto nel mondo
grazie a Fukuzawa
e smetta di sentirsi solo, abbandonato da tutti e rigettato da una
realtà che,
prima di conoscere l’uomo, non comprendeva.
[5] Riferimento
alla vera casa dei Poe, che ora non esiste più ma di cui si
conosce la
posizione.
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Capitolo 2 *** … L’Anima Mia Perché Non Si Smarrisse ***
II
♦ … L’Anima Mia Perché Non Si
Smarrisse
Richmond,
Virginia.
Villa degli Allan.
Quella casa era
sempre
uguale: vuota, solitaria e in qualche modo lontana dal resto della
realtà, come
congelata nel momento in cui le aveva dato le spalle per unirsi alla
Gilda. Da
una parte, non poteva che ringraziare la sua immobilità
— gli regalava un
accenno di menzogna, e se avesse potuto lui se la
sarebbe presa intera;
dall’altra, ogni istante che passava lo rendeva consapevole
del perché tra
quelle pareti si fosse sempre sentito un estraneo, un irrisolvibile
mistero con
un cuore che chiedeva affetto.
Il fatto che gli Allan
non lo avessero mai visto e trattato come un altro figlio —
solamente più
sfortunato e ombroso —, le continue discussioni con i
fratelli adottivi e il
silenzio raramente spezzato erano mere conseguenze della colpa che
era la
sua vera eredità, il marchio impresso con le proprie azioni.
Ma la villa aveva avuto anche
malinconia di lui, o non lo avrebbe riaccolto: invece ogni pietra che
la
componeva aveva cercato lo sguardo del giovane per poi riaprirgli le
braccia,
mentre John Allan, dal piano superiore della medesima struttura, non
aveva
fatto altro che osservarlo avanzare sul viale d’accesso,
troppo distante per guardarlo
davvero. Nei due giorni che aveva già passato
lì non era comparso davanti a
lui nemmeno per sbaglio; Poe era re e fantasma in un regno di penombra
e
assenza, dove niente che fosse esterno alla villa resisteva per molto.
Il muoversi irrequieto di
Karl e il suo saltare in braccio all’amico per osservarne il
volto o fargli il
solletico erano l’unico mutamento che coinvolgeva
l’ambiente, una pallida
rimanenza dei giorni di sole durati troppo a lungo per non far male.
Ma era quello il suo
posto: la solitudine, la lontananza,
l’impossibilità di uscire dal labirinto di
pensieri e perdonarsi. Per tanto, tantissimo tempo l’oblio di
quanto aveva
fatto lo aveva allontanato dalla responsabilità, ma alla
fine la verità era
ritornata a galla; e non rimanevano che pochi istanti da passare nella
casa
dov’era cresciuto solo ma protetto, un
ultimo attimo di respiro e una
preparazione al dopo, prima che John lo mettesse
alla porta e il suo futuro
divenisse puro vuoto.
Non avrebbe implorato l’uomo,
ma accettato ogni sua decisione: aveva già avuto molto senza
averne diritto,
non era così che vivevano i mostri.
Che cosa poteva
aspettarsi? Aveva compiuto un crimine e questi non era ancora stato
espiato,
non poteva pretendere di dimenticare di nuovo: la sua ombra gridava, lei
che
riposava sotto la fredda terra faceva lo stesso, e dopo aver
corso a lungo
era arrivato il momento di raggiungere la meta finale, lasciando andare
tutto
il resto.
Solamente una domanda attendeva
risposta: dove lei fosse sepolta per
causa sua, dove si trovasse
quella che sarebbe divenuta l’ultima casa.
Dopo di questo, ciò che
la vita e la morte avrebbero deciso.
«Perdonami, Karl: a John
sei sempre piaciuto, quindi di certo acconsentirà a tenerti
con sé. Non puoi
venire con me, non lo posso permettere… ma tu te la
caverai.»
In risposta, il procione
gli morse un dito e saltò a terra; poi gli si
riavvicinò e si appoggiò contro
il fianco, guardandolo come se gli rimproverasse ogni parola.
Donandogli un triste
sorriso, Edgar prese in braccio il caro amico e affondò il
viso nel suo pelo, per
poi rannicchiarsi sul pavimento dell’andito e chiudere gli
occhi. Presto le
stelle sarebbero giunte a fargli da coperta e compagnia, e dopo qualche
settimana la luna sarebbe cresciuta nuovamente; forse sarebbe riuscito
a
vederla, con niente sopra di sé se non il cielo, e a
salutare anche lei.
Un
addio, già… molti non
li hai neppure detti. Continua a non pensare a chi hai lasciato
indietro, non
cedere: ormai non ha più senso.
Era
tutto come sei anni
prima, quando a causa di un fallimento il mondo era crollato e poi
risorto su nuove
basi; ma a differenza di allora, non sarebbe giunta quella forza che
gli aveva
consentito di superare il buio — a differenza di allora, si
era ritirato dalla
realtà per proteggere, non per
proteggersi. Nessuna energia, nessun
spirito di rivalsa: contro chi si doveva battere? Le colpe andavano
accettate e
purificate, non ci si opponeva a esse; si seguivano fino a quando
queste non ne
avrebbero avuto abbastanza.
Era già stato un errore
ritornare alla villa e credere di potervi trovare un estremo alito di
pace: ma
quello sarebbe stato l’ultimo, e poi…
… E poi, finalmente
avrebbe reso giustizia, ristabilendo l’equilibrio che aveva
spezzato anni prima.
In quello stesso attimo,
il placido pomeriggio aveva già disperso molte delle sue
energie, e il vento
che giunse si prese tutte quelle che rimanevano.
Alle orecchie di Poe giunse
il suono di un lieve respiro, come se per un secondo qualcuno gli fosse
stato accanto;
ma niente e nessuno incontrò il suo sguardo grigio[1]
quando sollevò
le palpebre, passando da un fantasma all’altro.
Tutt’intorno
s’inseguivano suoni smorzati, echi e richiami più
frequenti di quelli che aveva
udito nelle ore precedenti; forse John Allan stava venendo a chiarire
le cose,
forse voleva dargli solamente uno sguardo di pena prima di condensare
la loro
disconnessione in poche frasi, forse…
I rumori divennero più
nitidi e si rivelarono passi veloci e leggeri, molto diversi da quelli
dell’uomo;
Edgar alzò appena il capo per capire che cosa stesse
accadendo, e dopo alcuni momenti
la porta d’ingresso venne scossa da un sonoro bussare.
Il ragazzo rimase
immobile, senza rispondere, e dall’esterno provenne una voce
squillante che gli
fece correre un brivido lungo tutta la schiena. «Mi aspettavo
che andasse così…
chiedo permesso ai signori ed entro!»
L’uscio si spalancò
dietro all’eco di tali parole, inondando tutta la villa di
aria fresca.
«… Non pensavo tu fossi
in grado di ridurti così. Cos’è tutto
questo buio? Dico, come fai anche solo a
pensare di respirare, chiuso qua dentro?»
Poe si portò una mano
davanti agli occhi, colpito in pieno dal sole ruggente che aveva
riempito l’andito.
A qualche passo al di qua della soglia, ritto in mezzo alla luce, si
ergeva una
figura smilza che avanzava fino a lui. «Te la stai passando
veramente male, e
per cosa? Prova ad alzarti, avanti, lo so che sei più forte
di così.»
Il giovane si mise in
ginocchio appena prima che una mano gli si avvicinasse per
allontanargli i
capelli dal viso, ritraendosi come scottato quando dita altrui gli
toccarono la
fronte. «Le tue occhiaie sono ancora più scure! Se
non riesci a dormire bene nell’oscurità,
prova a utilizzare una luce artificiale[2]. Con
me funziona!»
Edgar prese un grosso respiro.
Ogni parte del suo corpo tremava, lo percepiva, e non poteva farci
niente. «Ra…
Ranpo-kun», sussurrò agli occhi
che lo osservavano con una nota di disappunto.
«E chi, se no? Almeno mi
hai riconosciuto, anche se faccio fatica a fare lo stesso con
te… Oh, ciao
Karl, stai bene? Lo so, il tuo padrone ha fatto una sciocchezza ed
eccoci qui,
ma un modo per fargliela pagare si trova…»
«Ranpo-kun…»
«Per esempio potremmo
prenderlo per i capelli e trascinarlo per la città fino a
quando non si decide
a camminare con le proprie gambe e ci chiede scusa,
e…»
«Hey.»
«Pensa se gli portiamo
via tutti i suoi preziosi volumi e lo lasciamo gridare un po’
mentre minacciamo
di bruciarli, quindi…»
«Dimmi perché sei qui.»
Edogawa smise di
interessarsi a Karl e si voltò verso l’amico,
guardandolo con gli occhi
sbarrati per la sorpresa. «Mi pare ovvio: sono venuto per
riportarti in
Giappone, a casa. Sei diventato stupido, forse?»
Lo
vorrei; forse le cose
andrebbero meglio. «Ti
ringrazio per lo sforzo e mi dispiace,
ma non tornerò in Giappone. Ora lascia la villa, per favore;
non saresti dovuto
nemmeno entrare.»
«Da quando usi questo
tono verso gli altri? Andiamo nel parco, il sole ti farà
bene.»
«Io non vado da nessuna
parte; sei tu quello che se ne andrà.» La voce di
Poe si faceva più agitata a
mano a mano che i secondi passavano, così come lo sguardo di
Ranpo si
assottigliava e acquistava vivida luce. «Non hai pensato
nemmeno per un istante
che potessi venire da te? Davvero?», disse questi dopo un
pesante silenzio.
Edgar abbassò il capo.
Per qualche attimo ci aveva pensato, lo aveva sperato
e quasi sentito;
ma… ma ormai può bastare. Quel tempo
è finito.
«Sei pallido.»
«Ti prego, vattene.»
Senza rispondere né
ubbidire, Edogawa si avvicinò di più, e a quel
punto Poe balzò in piedi. Karl
gli saltò sulle spalle mentre retrocedeva, gli occhi
stravolti da una paura che
poteva sfociare in pazzia, mentre la testa si popolava di troppi
pensieri e
voci.
Che
cosa vuole fare?
Non sperare più.
Devi pagare.
Devi chiedere scusa.
Mandalo via.
Non puoi permetterti di
cedere.
Non…
«Non
scappare più.»
«Lasciami solo!»
Ranpo avanzò verso di
lui.
«Stammi lontano, Ranpo-kun!»
Nessuno lo ascoltò.
«Ho detto di… di…
LASCIARMI SOLO! TUTTI QUANTI, ANDATEVENE VIA!» Prendendosi la
testa tra le
mani, Poe crollò in ginocchio sul pavimento e chiuse gli
occhi con tale forza
da non essere più sicuro di poterli riaprire. Il mondo
tacque, dalle persone a
ciò che udiva nella mente, e solamente allora gli parve di
poter riprendere a
respirare. Quando ritrovò la forza di sollevare le palpebre,
Ranpo gli era
seduto davanti ma a una distanza tale da permettergli di ascoltare
senza opprimerlo,
in attesa.
Tutto, nel detective, era
silenzio: non era il suo turno per parlare. Gli stava dando la
possibilità di liberare
i tremiti che si erano presi la veglia e il sonno, e anche se niente
sarebbe
cambiato perché il passato non poteva disfarsi come i
desideri avrebbero voluto,
il giovane era venuto per ascoltare — era così, no?
«Mi devi una risposta»,
lo incitò poi Ranpo, «è da ore che
l’attendo. Mi hai lasciato davanti a un
palazzo in fiamme, sei scappato senza nemmeno salutarmi; per quanto sia
arrabbiato, potrei perdonarti… al prezzo di una storia. Ci
siamo solamente noi,
io e te, e ciò che ti tormenta.»
Arrendendosi, Edgar si
sedette a propria volta e sospirò. Con sua sorpresa,
iniziare a raccontare non
fu così difficile. «Lo so che sai già
ogni cosa che dirò, quindi mi chiedo
perché tu voglia ascoltarmi. Conosci il motivo per cui
l’incendio che ci ha
quasi ucciso mi ha spaventato talmente tanto da lasciare Yokohama: ha
risvegliato
una realtà che mi porto dentro da tempo.» Una
breve pausa. «Quando abitavo qui
la vedevo sempre: chiamala ombra, sensazione o come vuoi, ma quella
era
sempre presente, in tutto ciò che mi circondava. Rimaneva
tacita negli sguardi
degli Allan o scivolava in qualche discorso che sfuggiva a tavola, si
addormentava nel mio letto per svegliarsi insieme a me,
s’intrufolava dietro ai
mobili e tra i quadri per corrermi davanti quando il vento faceva
danzare il
fuoco dei camini e io vedevo qualcosa, in esso, che non riuscivo a
trattenere —
è per il tuo bene, sussurrava.
Quando iniziai a scrivere
e la mia abilità si manifestò, quella presenza
cambiò mondo per infilarsi nei
primi racconti che creai: storie dove membri di una famiglia
svaniscono,
persone care non ritornano più ed è tutta colpa
di chi è loro vicino, rimorsi e
accuse che hanno radici antiche, discese nell’animo di un
inconsapevole
criminale… lavori che ho sempre considerato come primi passi
di uno scrittore
che sa esprimere le proprie capacità solo costruendo misteri
e rompicapi, ma
senza vedervi la verità che declamavano con disperazione. La
definii una
sensibilità anormale, un diverso modo di leggere la
realtà e cercarla; ed era unicamente
cecità.
Intanto, il silenzio degli
Allan continuava a tenermi lontano dal mio passato, gli scontri tra noi
non
scalfivano la superficie sotto il quale esso riposava: probabilmente
questo era
il loro modo di volermi bene.
La mia vita avrebbe
potuto svolgersi così per sempre, inconsapevole e ignara di
cosa portasse nelle
radici; ma l’incendio a Yokohama ha messo a nudo ogni singolo
atto della
tragedia che ho portato sulla mia famiglia naturale.
Non ricordo nemmeno
quanti anni avessi in quel momento, ma ero tanto piccolo da non
trattenere
molti ricordi; eppure ciò che accadde in quelle
ore… ecco, ora lo vedo bene
davanti a me.» Un secondo silenzio; il ragazzo strinse appena
i denti e Ranpo
rimase immobile, senza forzare né le parole né la
tenebra che le accompagnava.
«Era una notte così
tranquilla da sembrare irreale: i miei — nostri
— genitori erano ancora intenti
a discutere faccende da adulti, mentre io, mio fratello e mia sorella
ci
eravamo rintanati nel loro letto, a contare le stelle e leggerci
qualcosa a
vicenda mentre attendevamo il sonno. Io fui l’ultimo a
prendere in mano il
libro che avevamo scelto; e mentre la mia voce inseguiva le lettere, il
tempo
iniziò a correre più veloce, così che
neanche mi accorsi che gli altri dormivano
da parecchi minuti.
Lessi per forse due ore,
incantato e desideroso di non fermarmi; ma anche per me c’era
in attesa la pace,
che calò improvvisa e prima che ebbi il tempo di sistemarmi.
Successe questo: mi
addormentai di colpo e con ancora il lume stretto tra le dita.
Sì, a causa di
un piccolo guasto elettrico era ormai da una settimana che al piano
superiore
non andava più alcuna luce e dovevamo orientarci nel buio
con delle candele.
Papà ci aveva
raccomandato di non portarle nel letto con noi, ma quella volta
disubbidii per
poter leggere più chiaramente… e ciò
scatenò quanto accadde dopo.
Il lume, infatti, seguì il
mio corpo e si rovesciò: la fiamma non ci mise che pochi
attimi a scivolare su
lenzuola e coperte, iniziando a crearci una trappola mortale.
Fu nostra madre a
scoprire il disastro, allarmata dal fumo che invadeva la stanza e
fuggiva nel
corridoio: le sue urla penetrarono l’incoscienza fino a farmi
svegliare e comprendere
con orrore che il letto stava andando a fuoco.
Mio fratello fu lesto a
buttarsi a terra e a lasciare la stanza; la mia sorellina,
invece… lei non si
mosse. Prima che mamma mi gridasse di correre fuori, la vidi sollevare
quel
corpicino da bambola e scuoterlo, ripetendo il nome della sua bambina
come una
nenia.
Nostro padre mi prese in
braccio mentre ero impietrito a fissare
l’immobilità di Rosalie, mi salvò
coprendomi il viso e portandomi fuori dalla casa: le fiamme avevano
raggiunto
anche il piano inferiore e rosseggiavano attraverso le imposte delle
finestre,
la via era tutta in allarme.
Un buio caritatevole calò
su di me, impedendomi di vedere e sentire oltre; ma la colpa si era
ormai
impressa nel cuore, così che quando mi riebbi sentii la mia
stessa voce
chiamare Rosalie. Ero in una macchina che non riconobbi insieme al
resto della
famiglia; o quasi, perché di mia sorella non c’era
traccia.
Quando chiesi dove fosse,
mamma abbassò lo sguardo per fissarmi e contrasse la bocca
in una smorfia di
dolore. Non parlare più di lei,
ordinò, per nessuna ragione. È
andata.
Dato che persi nuovamente
conoscenza, il resto mi venne riferito dagli Allan: il mattino dopo
tali
eventi, nello studio di John giunse una chiamata anonima che lo
informava della
presenza di un bambino nelle vecchie scuderie della villa.
Lui le raggiunse e trovò
me: ero avvolto in una coperta con appuntata sopra una lettera da parte
dei nostri
genitori, i quali pregavano il loro amico di prendermi in casa sua e
dicevano
di avermi abbandonato a causa di un “incidente che
nessuno deve sapere”.
Come biasimare la loro
azione? Rosalie era morta per colpa mia, avevo rischiato di mandare
anche il
resto della famiglia nella tomba e la nostra casa era bruciata
completamente; mamma
e papà erano rimasti senza mezzi e non potevano
più occuparsi di noi, era
normale che mi avessero lasciato indietro — pur implorando
gli Allan di
prendersi cura di me.
Dopo tali eventi e
passati altri due giorni, mi risvegliai in quella che per anni sarebbe
stata la
mia camera; ero affamato, triste e incapace di ricordare cosa fosse
successo tre
notti prima. Il dolore e il rimorso si erano talmente espansi che la
lucidità,
per salvarmi, aveva imprigionato l’incidente, il fuoco e il
corpo di mia
sorella lontano dalla coscienza, lasciandoli echeggiare solamente in
idee
passeggere e invenzioni letterarie.
Gli Allan, che pur
dovettero venire a conoscenza di quanto successo, mi spiegarono che da
quel
momento avrei vissuto con loro per via della povertà dei
nostri genitori, che
li aveva costretti ad abbandonarci presso famiglie in grado di poterci
dare un
futuro; io accettai la mia sorte e loro non mi chiesero mai nulla dei
Poe, né osai
farlo io.
Come ho detto, se non
fosse stato per l’incendio di Yokohama forse sarei arrivato
fino alla morte
senza conoscere il mio segreto; ora che ne sono consapevole,
però, non riesco a
sottrarmi al senso di colpa, a pensare che se solamente avessi dato
retta a
nostro padre e fatto attenzione con quel lume, Rosalie sarebbe ancora
in vita e
io avrei vissuto… diversamente. Il pensiero di
ciò che ho fatto non mi lascia
in pace, so che non riuscirei a resistere per molto con tale peso; la
morte
avrebbe dovuto prendere me, dovevo essere io a pagare per il mio errore.
La più innocente tra noi
ha avuto la sorte peggiore: nessun altro può darle
giustizia, se non il
colpevole stesso… anche se questi ha paura e non vorrebbe
che finisse così.»
Edgar tacque, esausto:
aveva espresso il suo tormento e dato voce al caos che si agitava
nell’anima, la
storia poteva definirsi conclusa. Che cosa doveva aggiungere, quando
nemmeno
lui sapeva ciò che sarebbe accaduto da lì in poi?
Serioso, Ranpo annuì. «Sì,
è così.»
L’altro rispose a sua
volta con un assenso. «Sono un mostro,
sì… la morte conosce già il mio
nome.»
Edogawa guardò l’amico
per un altro attimo, poi abbassò il capo come se stesse
pensando; quindi
accennò un sorriso che via via si allargò nel
volto.
«Ranpo-kun…?», lo
chiamò Poe, fissandolo, ma l’amico si espresse
prima di lui. «Non hai capito
nulla, Poe-kun: non ti stavo dando ragione, ma
parlando a me stesso.
Ero
sicuro che tu credessi
a questa versione della storia.»
Edgar si sporse verso il
detective, confuso. «Che cosa… che cosa stai
dicendo?»
Balzando in piedi, Ranpo
iniziò a stirarsi le braccia senza perdere il sorriso.
«Aaaaah! È un bel
pavimento, sì, ma preferisco il parco! Però
questa è casa tua — di John Allan,
scusa. Beh, finché non ti caccia definitivamente
è anche tua —, quindi mi
adatto all’altrui volere. Non credo che il tuo padre adottivo
si sia
preoccupato di renderti la permanenza piacevole, così evito
di chiederti dove
siano le cucine… e, da bravo ospite, ti dono io
qualcosa.»
Poe non seppe come
rispondere allo sguardo smeraldino che luccicava poco lontano da
sé, quindi
attese.
Da parte sua, Edogawa
iniziò a girovagare per l’andito e a curiosare tra
quello che presentava, per
poi iniziare: «Questa villa è quasi bella quanto
quella che ti sei fatto
costruire a Yokohama, e che io preferisco: là
c’è ancora più spazio e tanta
luce, è raffinata ed elegante, oltre che silenziosa. Ma
anche il silenzio sa
parlare, se gli si domanda a modo ti può rivelare tutto
ciò che trattiene, e
nel tuo caso non ha fatto eccezione, quando gli ho chiesto che cosa
fosse
successo nell’incendio.
Mi ha detto che nella tua
casa ci sono alcuni oggetti che portano il nome di John Allan, ma senza
essere
seguiti da un Poe; e mi ha fatto capire che porti due cognomi diversi,
non uno
doppio. Mi ha detto che sei partito per non tornare, perché
tra quelle mura non
è rimasto niente da cui non ti separeresti mai; e che una
persona che teme le
grandi altezze ha preso un aereo, perché spinto da una
motivazione più forte della
paura.
Chiaramente tu sei stato
turbato dall’incendio per una causa profonda —
qualcosa vissuto durante
l’infanzia o la prima giovinezza, per esempio, magari legato
a uno dei due
cognomi che porti: sono vari i motivi che spingono una persona ad
abbandonare
un luogo tanto in fretta, ma quelli famigliari sono tra i
più importanti.
Quando ho dedotto questo,
si è posto il problema di dove tu fossi andato: se a Boston
o Richmond, le due
città in cui hai dei legami fin da piccolo… e la
soluzione è stata raggiungere
entrambe e ascoltarle.
La tua casa di Boston mi
ha confermato quello che avevo già intuito e tu stesso mi
hai raccontato:
l’incendio di Yokohama ha fatto riaffiorare il ricordo
dell’incidente in cui tu
e la tua famiglia avete perso ogni cosa. Ora l’edificio
è completamente
abbandonato perché la vicenda non gli ha portato di certo
fortuna, quindi tutto
ciò che il fuoco ha risparmiato è rimasto al suo
posto, così come è stato lasciato;
ed è per questo che ora ti posso raccontare la vera
storia su cosa
accadde quella notte.» Piantandosi ben davanti a Poe, Edogawa
gli puntò un dito
contro con fare teatrale e sorrise di nuovo. «Signorino Poe,
stia tranquillo:
non la considero uno stupido nonostante la banalità di un
mistero che mistero
non è mai stato, perché, se lei potesse ritornare
alla sua vecchia dimora e avere il
coraggio di entrarvi, certamente giungerebbe alle mie stesse
conclusioni.
Concorderai con me che
dopo aver incendiato il letto dei tuoi genitori, le fiamme avrebbero
dovuto
allargarsi al resto della camera e, in seguito, all’intera
struttura: mi hai detto
di aver visto il fuoco attraverso le imposte delle finestre del piano
inferiore,
e infatti questo risulta devastato… ma né le
scale che collegano i due piani,
il corridoio a cui giungono e la camera da letto dei bambini,
antistante a
quella dei coniugi Poe, sono così danneggiate.
Avrebbe dovuto essere il
contrario: il piano superiore distrutto e quello inferiore o
completamente
bruciato anch’esso, o in maniera parziale. Perché,
invece, la situazione si
mostra così? Perché quella notte fu
più movimentata di quanto tu possa
immaginare e ci fu una tremenda coincidenza.»
Ranpo fece una piccola
pausa, il tempo necessario per frugare nelle tasche dei pantaloni e
porgere,
infine, un piccolo involto a Poe. «I tuoi genitori erano
degli attori, e anche
parecchio famosi: a Boston ci sono vari teatri che riportano targhe con
i nomi
di David Poe Jr. e di sua moglie Elizabeth, e i libri che li citano non
sono in
numero minore.
Tanta gente se li ricorda
ancora, così come parla della loro ultima comparsa sulle
scene: una tragedia
che aveva smosso gli animi e portato molti alla commozione, infiammando
la
città per vari giorni, ma che non era stata pensata per
attirare minacce o
pericoli. Si dice, però, che spesso le doti artistiche e il
genio di chi le
mostra sappiano anticipare i tempi o penetrare a fondo la
realtà e svelare,
anche inconsapevolmente, quello che non si dovrebbe: ed ecco che
un’innocente
battuta o dialogo assume una luce sinistra, uno sguardo o
un’intonazione
particolare si carica di un significato completamente opposto a quello
originario, e a un uomo carico di ombre si ghiaccia il sangue nelle
vene per il
terrore che improvvisamente tutti sappiano quanto doveva rimanere
nascosto.
Nell’ultimo spettacolo,
il teatro era gremito delle più alte autorità
della città; tra queste vi era
una persona del genere, pericolosa e dai mille volti e segreti, potente.
Elizabeth, per pura
fatalità, pronunciò una frase davanti a tale
figura, guardandola con un
sorriso; e mentre il pubblico rumoreggiava d’entusiasmo e si
apriva in applausi
per la bravura della donna, nell’animo di chi le stava
innanzi si scatenava
l’inferno. Come aveva fatto, quell’attrice, a sapere?
Chi l’aveva
informata, chi le aveva detto di esporre la verità
all’intera città? E di certo
anche suo marito ne era al corrente!
Quindi, nel giro di un
attimo i coniugi Poe divennero persone scomode, che dovevano essere
eliminate a
ogni costo per coprire i segreti di qualcuno più in alto di
loro; e quale
momento migliore per aggredirle, se non durante la notte?»
Edgar spalancò gli occhi,
mentre il fiato gli si mozzava in gola via via che comprendeva dove
Ranpo
volesse giungere.
«Parliamo un attimo delle
finestre del piano inferiore: sono tutte danneggiate e le imposte sono
rovinate,
di certo il fuoco fece un ottimo lavoro con loro… ma in due
casi restarono delle
tracce parecchio interessanti: ho trovato frammenti di vetro vicino
alla parete
opposta alle finestre, come se fossero stati proiettati
dall’esterno verso l’interno
a causa dell’impatto con qualcosa di pesante. Non conosco i
gusti artistici dei
tuoi genitori, ma dubito che si tenessero come soprammobile una grossa
pietra;
è più facile che questa aprì la via,
rompendo i vetri e spalancando le imposte,
a qualcosa di ben più pericoloso… una bottiglia
incendiaria potrebbe essere
un’idea, il che porta direttamente a un’altra
evidenza: la tua famiglia venne
attaccata.
Ecco la coincidenza che
ti ha dannato fino a ora: la stessa notte in cui il letto prese fuoco,
non
tanto tempo dopo qualcuno venne mandato a uccidere i Poe.
Le fiamme che divampavano
al piano inferiore non erano le stesse che divoravano la camera dei
tuoi
genitori, ma le aveva portate una mano molto più spietata.
Già in allarme per quello
che avevi causato, i Poe riuscirono a salvare te e gli altri da
entrambi i
pericoli; una volta abbandonata la casa, però, i problemi
non finirono. Ci fu
una seconda aggressione, al quale tuo padre rispose; e mentre Elizabeth
scappava con i figli, David si macchiò di omicidio.
Nessuno sapeva che la vittima
di tale gesto era stata mandata per portare la morte; agli occhi degli
ignari
testimoni, quindi, tuo padre era impazzito per l’incendio
della propria casa e
aveva ucciso un innocente. In poco tempo l’uomo si
trovò contro due figure: chi
voleva la sua testa e la polizia di Boston, entrambe sulle sue tracce.
Dopo essersi riuniti, marito
e moglie presero una decisione sofferta: separarsi dai propri
bambini
affidandoli a delle famiglie che potessero proteggerli, e solamente
allora
accettare quello che il destino avrebbe scelto per loro.
Ricercati dalla polizia e
braccati dagli assassini, i Poe non sapevano da chi dovessero guardarsi
le
spalle, ma solamente che qualcuno voleva la loro rovina: era allora
necessario
dividervi e nascondervi fino a quando la situazione non fosse mutata,
in un
modo o nell’altro. Perciò cambiarono stato e, nel
tuo caso, ti portarono dagli
Allan, commettendo pure una violazione di domicilio pur di porti sotto
la loro
protezione.»
«I miei genitori non mi
hanno abbandonato per quello che ho causato, dunque, ma per
salvarmi», sussurrò
Poe appena Ranpo fece una pausa. Rimase un attimo come trasognato,
quindi il
volto si coprì nuovamente di un’ombra.
«Però ciò non cambia il fatto che abbia
causato la morte di Rosalie, e—»
«Baam, errore! Grosso
sbaglio pensarlo!» Facendo sobbalzare l’amico,
Edogawa gli si avvicinò e gli
prese di mano l’involto che gli aveva consegnato, aprendolo
per lui e
mostrandogli ciò che conteneva.
Edgar rimase immobile,
quindi dilatò gli occhi nella sorpresa e afferrò
l’oggetto con dita tremanti:
un elegante fermaglio a forma di rosa, che sul lato interno portava
inciso un
nome: Rosalie Mackenzie Poe.
«Questo l’ho trovato a
Boston, poco oltre la porta della vostra casa: era appoggiato al suolo
e
spiccava in mezzo alla desolazione come un faro nella notte.
Trovare il numero dei
Mackenzie non è stato difficile, né cercare una
scusa per chiedere di Rosalie;
ha una voce dolce e ride spesso, è piacevole da
ascoltare.»
«Ma… ma quindi…»
«Ma quindi devi
perdonarti, Poe-kun; smetterla di darti la colpa per
qualcosa che non
hai fatto e ascoltare l’ultima parte del racconto.
Rosalie non è morta
nell’incendio: ci ho parlato per quasi un’ora
mentre venivo qui! E mi ha
raccontato che cosa successe mentre tu eri incosciente.
Fu la prima a essere
affidata, proprio ai Mackenzie; ed ecco perché non era in
macchina con voi
quando tu ti svegliasti. Anche a lei venne detto di non nominare
più i suoi
fratelli, di fare come se non fossero mai esistiti: dovevate
proteggervi a
vicenda ed evitare che chi inseguiva i coniugi Poe arrivasse anche a
voi.
Potevate essere prede ed
esche perfette, ma con il vostro silenzio e la protezione delle
famiglie
adottive non sarebbe accaduto nulla. “L’incidente
di cui nessuno deve parlare”
è l’attacco alla vostra casa, non la morte di
Rosalie.» Ranpo emise uno sbuffo,
quindi si sedette a terra. «È dura parlare tanto a
lungo con lo stomaco vuoto!
Anche se è stato sorprendentemente facile risolvere il
mistero, mi sento
esausto.»
Edgar non rispose subito,
ma prima si rigirò tra le mani il fermaglio di Rosalie.
«Queste notizie su ciò
che accadde davvero quella notte… tutto ciò che
mi hai detto… sarei riuscito a
scoprirlo anche io, vero?»
«Certo che sì: per molte
cose è bastato fare una piccola ricerca in rete, tra
giornali e archivi, anche
se il grosso del lavoro lo ha fatto Kuniki—»
«Quindi avrei potuto farcela
da solo.»
«Ovvio, a patto di
risvegliare quei ricordi assopiti. Lo hai detto tu stesso: la mente ha
attivato
un meccanismo di rimozione per proteggerti dalla follia che il dolore
avrebbe
causato, e tutto per una colpa che non ha mai visto la luce: il mistero
era dentro di
te, non fuori.
Sapevo che eri stato
accecato da una falsa certezza e che la fatalità aveva
voluto unire due eventi
che non sarebbero mai dovuti andare insieme, ed ero determinato a
mostrare la
verità a una persona capace di fronteggiare un palazzo in
fiamme per salvare
delle vite, donando speranza ad altri e perdendo la propria…
e a dirgli che la
sua adorata sorellina lo sta attendendo a non tanta distanza da qui,
viva e non
dentro una fossa.» Edogawa si alzò nuovamente in
piedi e andò alla porta,
guardò il sole che scendeva verso le cime degli alberi e poi
si girò e rivolse
all’amico con tono posato. «Pensavi di ucciderti su
una tomba vuota, espiare la
colpa morendo d’inedia; una fine insensata.
Tu non porti la morte,
Poe-kun; tu non distruggi, crei.
Qualunque cosa tu faccia, questa
dà la vita: alle tue storie, al mondo che ti circonda, a chi
t’incontra. Non
dimenticarlo mai, è il tuo vero dono.
Le nostre colpe, i nostri
errori non ci devono annientare: è solamente vivendo che ci
possiamo redimere,
è insieme agli altri che impariamo a perdonarci. Tu vali
più di un rimorso, non
sei mai stato quella voce che ti chiamava mostro: intelligenza e cuore
ti
proteggeranno sempre, e se ciò non
bastasse…» Un largo sorriso, contenente ogni
bellezza, tutto per Edgar. «… hai un amico in
me.» Senza dare tempo all’altro
di replicare, Ranpo corse fuori. «Da qui in poi tocca a te:
alzati e vai a
trovare Rosalie, poi cercate insieme la vostra famiglia, intrecciate le
vite
l’uno con l’altra e recuperate gli anni perduti;
per voi nessuna storia buia
all’orizzonte… meritate ben altro.»
Silenzioso, discreto, fu solo
un bagliore quello che scivolò lungo una guancia di Poe, la
cortina dei capelli
che impediva di scorgere quante scintille fossero pronte a liberarsi.
«Ah, però non credere che
mi dimenticherò del modo in cui te ne sei andato! Non si
trattano così i propri
rivali! E per questo…»
«Ranpo-san!»
Edogawa si voltò verso il
cancello della villa, stupito; al di là di esso, Kunikida si
sbracciava per
avere la sua attenzione, visibilmente stremato.
«Oh, Kunikida! Sei qui,
finalmente!»
«Dopo essere rimasto due
ore in un ingorgo! … Come hai fatto ad arrivare prima di me?
Hai preso anche
l’autobus sbagliato!»
«Ho convinto il
conducente a cambiare percorso e a portarmi qui.»
«Convinto?»
«Sì, minacciando di
rivelare a tutti i passeggeri, tra cui la moglie, delle sue tre
amanti.»
«Ma… ma non è questo il
modo di comportarsi!»
«Non ho fatto del male a
nessuno! E poi avevo già perso troppo tempo!»
Mentre
la sempre più assurda
discussione risuonava ovunque, Edgar si alzò e
uscì dalla villa, si avvicinò ai
due detective e li superò. Tutto ciò che lo
circondava stava riprendendo
colore, caricandosi di luce e riflettendola ovunque.
Per un tempo infinito si
era tormentato, coscientemente e non, e aveva sofferto, incapace di
scappare
dalla gabbia del trauma; si era creduto finito, mentre era stato solo
vittima
di uno spettro. Sembrava destinato a cadere… e invece si
stava rialzando
ancora, questa volta senza dolore.
Il nero velo dell’annientamento
scivolava via da lui mentre un lento tramonto gli scaldava il volto e
le
lacrime si fermarono ancor prima di cadere, per lasciar spazio
unicamente al
sorriso. I pensieri si trasformavano, non era più il tempo
di trattenersi nei
freddi abbracci del vuoto: c’era qualcuno che lo aspettava al
di là della paura.
Era questo ciò che lo
chiamava; ed era la vita che, legandolo a doppio filo con il soffio
della
morte, lo aveva cambiato ancora, insegnandogli la dura lezione della
solitudine
e la sottile arte del perdono — specialmente verso
sé stesso.
Ma non era più
solo, non così lontano da casa; questa era venuta da lui per
prenderlo per mano
e risvegliare la sua anima, per scacciare da lei tutti i demoni e
condurlo là
dove i sogni potevano abitare. La tempesta era passata grazie alla
mente più
geniale che avesse mai incontrato e alla grande persona che tramite
essa
proteggeva i tristi e gli abbandonati: da Ranpo aveva imparato ancora
una volta,
nuovamente il detective gli aveva cambiato l’esistenza in
meglio, strappandolo
al baratro.
«Grazie, Ranpo-kun»,
mormorò con tutto sé stesso mentre si fermava sui
gradini davanti all’ingresso
e chiudeva gli occhi sotto la benedizione del cielo, lasciando che Karl
gli
abbandonasse la spalla per rannicchiarsi nel suo grembo e trovare la
quiete
insieme a lui, «per merito tuo, la mezzanotte è
ormai lontana… amico mio.»
♦
C’era
pace nel cielo, e
così sulla terra.
Era ormai sera quando
Edgar raggiunse la casa che sorgeva vicino a un ampio prato ricolmo di
fiori e
profumi, là dove il viola della volta celeste si fondeva con
il verdeggiante
mare ai suoi piedi. Il vento correva senza gridare e lo guidava avanti,
un
altro passo ancora, mentre il cuore aumentava i battiti.
La dimora era
completamente illuminata, chi l’abitava era già
tra le sue stanze; e come se
fosse stata evocata, un’esile figura chiara come
un’alba apparve sulla porta a
guardare la luna, per poi abbassare il capo.
Lui la vide bloccarsi un
attimo, quindi muoversi e avanzare verso la sua direzione, e il ragazzo
strinse
a sé Karl mentre accelerava il passo e quella iniziava a
correre.
Sempre
più lontano dal
buio.
«Edgar,
sei tu… Edgar!»
«Rosalie… Rose!
Sorellina!»
La bella Rosalie era più
piccola di lui e gli arrivava appena al mento con la testa, tuttavia
quasi lo
gettò al suolo quando gli saltò tra le braccia.
Edgar la strinse
immediatamente a sé con ogni forza che aveva, senza lasciare
che nemmeno una
stella si frapponesse tra loro, e la udì ridere
così come gli aveva detto
Ranpo: con dolcezza, con il trasporto che lui ricordava. Ed era tutto
così
perfetto, delicato, giusto per entrambi.
«Santo cielo… non
sei cambiato affatto, neanche in tutti questi anni! Sempre magro e con
i
capelli troppo lunghi! E che carino il tuo piccolo amico!»,
disse lei mentre
gli riempiva il viso di baci e gli scostava i capelli per ammirargli
quegli
occhi uguali ai suoi, per poi stringerlo ancora.
«Io… io ti chiedo scusa,
Rose», mormorò il ragazzo mentre affondava il
volto nella chioma della sorella,
«non pensavo che ti avrei mai più rivisto, non in
questa vita. Sei sempre stata
così vicina a me… e io ero ignaro di
tutto.»
«Io invece sapevo che un
giorno ti avrei rincontrato», rispose la giovane,
«ho lasciato indietro il mio
fermaglio apposta. È stato il primo regalo della signora
Mackenzie, e quando me
lo ha dato mi ha detto: Ti guiderà da loro,
bambina… un giorno ti
riunirà alla tua famiglia. Mi ha già
riportato te… è un ottimo inizio.»
Edgar non disse più
nulla; chiuse gli occhi e si lasciò cadere in ginocchio,
senza staccarsi da
quel corpo tanto chiamato e pianto.
«Ben ritornato,
fratellone», mormorò lei mentre si metteva nella
stessa posizione del ragazzo e
questi le appoggiava la testa sul cuore, «ti stavo
aspettando.»
Era la sera; ed era il
tempo delle lacrime mai versate, delle preghiere esaudite e promesse
mantenute,
di curarsi a vicenda e camminare insieme.
«Stai bene, Ed?»
«Sì.» Un sorriso, sul
volto l’espressione che racchiudeva la serenità di
una vita ritrovata; era la
sera, ma, sotto la sorveglianza di due verdi gemme che osservavano
tutto con
discrezione, il buio non sarebbe calato. «Ora
sì.»
NOTE
[1] Più
precisamente, la sfumatura sarebbe “lavanda
grigia”. Nelle immagini Poe viene presentato
spesso con gli occhi grigi, ma al buio questi risultano viola.
[2] Nella
pagina wikia che tratta il personaggio di Ranpo,
viene detto che questi
non riesce a dormire se è buio pesto.
ANGOLO
DI MANTO
Non è
stato affatto
facile scrivere questa storia, inutile dire il contrario: rendere non
dico alla
perfezione, ma almeno in maniera coerente al canon due personaggi che
amo
visceralmente (esatte parole della mia anima gemella: “Penso
potresti sederti
in poltrona a vedere un’intera serie TV su di loro e non
stancarti”) e a cui
tengo veramente tanto.
Piccola confessione: la
fic è il risultato dell’amarezza nata da varie
discussioni in giro per il web,
dove si dice che Ranpo non sia capace di provare dei sentimenti e sia
solamente
un egoista e borioso, e che, con tutto quello che Poe ha fatto per lui,
almeno nei
confronti di questi dovrebbe mostrare un po’ di riconoscenza.
Personalmente mi trovo
molto in disaccordo con tale affermazione: Edogawa può
reputarsi il più grande
detective del mondo, non mostrare spesso le sue emozioni o farlo solo
quando è
al limite (come nell’avventura con Yosano
all’interno del romanzo di Edgar), ma
lui tiene alle persone (anche a chi ha appena incontrato, come Oda) e
le salva
anche: lo ha fatto con Fukuzawa (nella light novel),
con una
giovanissima Akiko, con lo stesso Poe quando gli ha confessato tutta la
sua
ammirazione per l’unica persona tanto valida e intelligente
da non dargli facile
gioco… e questi sono solo alcuni esempi. Ranpo avrebbe la
possibilità di
rovinare le vite di tutti scoprendo e rivelando segreti e debolezze,
giocando
con gli uni e le altre senza ritegno; ma non lo fa, perché
il suo grande genio
non è mai staccato dal cuore né non sa
riconoscere, o dare, gentilezza e
speranza.
A mio parere, quindi, se
si supera un’analisi tristemente superficiale e incompleta
del personaggio e si
prosegue con l’opera si vede come questo ragazzo sia un dono
per tutti; e riguardo
al fatto che Poe sia un tesoro altrettanto prezioso e meriti solo
coccole,
infinito amore e ammirazione, non penso ci siano dubbi (no, non ho una
crush
pazzesca per lui, che cosa ve lo fa pensare ♥).
Detto ciò, fremevo dalla
voglia d’inserire riferimenti biografici al vero Edgar Allan
Poe, l’autore che
mi ha accompagnato per tutta l’adolescenza e che
avrà sempre un posto speciale
nel mio cuore (anche se ho iniziato a leggere BSD perché mi
avevano riferito
che ci fosse Lovecraft e non sapevo affatto della presenza di Edgar,
quindi SORPRESA!);
il pacchetto che ho scelto per il contest mi ha dato
l’opportunità per farlo,
anche se con delle variazioni: è infatti vero che lui non si
trovò mai in
sintonia con gli Allan ed ebbe grossi scontri con John, mentre
è inventato che i
coniugi Poe siano ancora vivi quando Edgar è adulto,
perché morirono nei primi
anni di vita dei figli, i quali furono davvero separati l’uno
dall’altro e crebbero
in famiglie differenti.
Il titolo dei capitoli
compone un unico verso facente parte della poesia Inno,
del nostro caro
Poe; quello della storia riprende il testo di Blinding Lights,
di Weeknd,
perché non riesco affatto a tenere la musica lontana da
qualsiasi cosa faccia,
mai.
Sperando di non avervi
tediato, scusandomi per l’angolo autore lungo quasi quanto la
fic e
ringraziando Flos Ignis per avermi permesso di
scrivere su questo
splendido duo, vi porgo un saluto e un abbraccio *^*
Manto
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