I Can't Sleep (Until I Feel Your Touch)

di Manto
(/viewuser.php?uid=541466)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Tua Grazia Trepida Guidava a Te… ***
Capitolo 2: *** … L’Anima Mia Perché Non Si Smarrisse ***



Capitolo 1
*** La Tua Grazia Trepida Guidava a Te… ***


DISCLAIMER: Tutti i personaggi qui presenti non mi appartengono.
La storia è stata scritta senza alcun scopo di lucro.

Storia partecipante al contest “Favole di Oggi” indetto da Fiore di Cenere sul forum di EFP

 

 

 

I Can’t Sleep (Until I Feel Your Touch)

 

 

 

 

 

I ♦ La Tua Grazia Trepida Guidava a Te…

 

 

 

Quella sera, la luna era immersa in una quiete che non apparteneva ai mortali — di certo, non a quelli che l’osservavano trasognati dalle grandi vetrate del palazzo o le lanciavano solamente un fuggevole sguardo tra una chiacchiera e l’altra, e si confondevano, respiravano e lasciavano correre il tempo in mezzo alla variopinta folla. La sua luce era debole, come se fosse stata immersa nell’acqua e questa le avesse diluito il colore fino a renderla un’opaca macchia bianca, mentre le stelle che la circondavano erano innumerevoli e brillavano con forza: forse erano state loro a derubarla di tutto lo splendore, o lei stessa a cederlo.
Un simile spettacolo non era comune a Yokohama, là dove solitamente erano ben altri i colori che pulsavano tra le vie e sui palazzi e la notte fuggiva via quasi inosservata; ma a quell’altezza niente poteva competere con la bellezza della volta e i riflessi che l’oceano intrappolava, uno specchio che solo in parte rifletteva la frenesia di quelle ore.
«Uff… sono al limite, grande luna, pieno come te. Ho forse esagerato?»
Chi può sapere se la prima Musa dei poeti ascolta gli uomini, a volte, quando il buio è immobile e nulla giunge a farle compagnia; forse quella notte lo fece, chiamata dai vividi occhi verdi che s’impressero su di lei e nonostante il caos che li circondava.
Distante da quella medesima ridda di persone e parole, Ranpo lasciò andare un secondo sbuffo e si appoggiò con la schiena all’elegante balaustra che cingeva la terrazza dove si era rifugiato, rovesciando la testa in modo che cielo e acqua si scambiassero di posto e la città pendesse dall’alto come un lampadario: la prima cosa interessante della serata — dopo l’enorme buffet a cui aveva reso onore, ovviamente.
Raramente partecipava a eventi del genere; tuttavia, quella era un’occasione speciale. Neanche una settimana prima, infatti, aveva risolto un delicato caso di tentata rapina culminata con un omicidio, dove tutte le prove sembravano incriminare un caro amico del Presidente; ma era bastato molto poco per portare alla luce la verità, rovesciare le evidenze e impedire un processo ingiusto, mentre Yosano e Kunikida avevano fatto in modo che il vero colpevole non ripetesse la sua vergognosa impresa.
Come ringraziamento, l’innocente aveva invitato Fukuzawa e i suoi tre salvatori alla mostra personale che solamente grazie a loro era riuscito a portare a termine e presentare al pubblico; così Edogawa si era ritrovato nel cuore della festa, culmine dell’evento, quasi senza accorgersene, con il Presidente completamente preso dal suo amico, una Yosano divenuta ben presto alticcia e fin troppo sorridente e il povero Kunikida fatto prigioniero dal medico e trascinato in una baraonda tutta al femminile, capace di soffocare le più disperate grida del biondo.
E lui, dopo aver gironzolato per l’intero edificio, essersi trattenuto il più possibile al tavolo del buffet e averlo derubato di tutti i dolci che offriva, aver assistito impotente alla resa di Doppo e aver rischiato una discussione infinita con l’incauta giovane che aveva provato a prendere l’ultima bottiglia di ramune[1] rimasta, alla fine non aveva trovato occupazione migliore che mettersi sotto la protezione della notte e magari farsi un pisolino sulla quieta terrazza, in attesa della chiusura dei festeggiamenti o almeno fino a quando il mondo non si sarebbe calmato un poco.
La brezza che saliva dall’oceano sembrava respingere tutte le voci lontano da lui e questo gli era gradito perché lo aiutava a pensare e rilassarsi, così da farlo concentrare su quello che gli importava; e tra le tante sensazioni che si affacciarono sotto la luna, improvvisamente ne arrivò una che gli colpì i sensi e prevaricò le altre.
Simile a un fumo indistinto e sottile che s’insinuava nel corpo e nei pensieri, appena accennato ma presente, spinse il moro a girarsi, sporgersi oltre la balaustra e guardare verso il basso per cercare la fonte dell’impulso; e qualcosa di più intenso iniziò a raggiungerlo, resistendo qualche attimo prima di svanire completamente come se mai fosse esistito. Eppure non poteva essere stata solamente un’impressione, no, aveva davvero percepito…
«Hey, attento! Ranpo-kun, è un bel salto se si cade da qui.»
Dopo un istante d’immobilità scaturito dalla sorpresa, Ranpo rialzò il viso e guardò nella direzione da dove proveniva la voce; ci mise solamente un secondo a riconoscere la figura con le mani protese verso di lui e l’aria preoccupata, ma impiegò ancor meno tempo ad aprirsi in un sorriso, raddrizzarsi e assumere una posizione più sicura, per poi allargare le braccia con entusiasmo. «Che sorpresa, Poe-kun
Questi accennò un timido sorriso, quindi ritornò serio e si avvicinò di più al giovane. «… Che cosa volevi fare? Saresti potuto precipitare da un momento all’altro.»
«Era tutto sotto controllo! E poi non posso morire così, è da stupidi! E parlando di te, che cosa ci fai qui? Sei stato invitato anche tu? … Hai qualcosa per me, magari un nuovo romanzo?»
Edgar sorrise nuovamente sotto quella sfilza di domande, un moto di orgoglio che gli colorava le guance. «È stato un bene saper del tuo invito alla mostra, così te l’ho potuto portare appena finito», mormorò allungando il bel volume dalla copertina nera che aveva tenuto in mano fino a quel momento, aumentando l’interesse e l’allegria di Edogawa. «Non mi lasci molto tempo per annoiarmi, Poe-kun! Hai fatto in fretta, l’ultimo me l’hai dato solamente quattro giorni fa!»
«È breve, sì, ma questa volta sono sicuro di aver fatto del mio meglio.»
«Diventi sempre più bravo — non al mio livello, certo, ma scopriamo che cosa mi hai riservato…» Il moro si bloccò, per poi allungarsi verso Poe e indicare un libro che compariva da sotto il mantello. «Io vedo un altro volume, però.»
«Oh, questo non credo che t’interesserebbe. Non ci sono misteri qui dentro, è solamente una storia di fantasia che devo ancora finire… mi mancano poche frasi.»

«Non sai proprio staccarti dai libri.»
«Eeeh? Che cosa vuol dire?»
Ranpo rise nello scorgere l’espressione stupita del ragazzo e con uno scatto lo afferrò per la falda del mantello, iniziando a trascinarlo verso la sala più vicina. «Mi è ritornata fame, e non c’è niente di meglio che mangiare qualcosa mentre si legge! Andiamo!»
«Pi-piano, Ranpo-kun, non tirare così, non riesco a respirare! … E poi, e poi io odio trovarmi in mezzo alla confusione… e ci tengo a questo mantello…»
«Che esagerazione, non sto tirando così tanto! Ah, mi è venuta anche sete… hey, giù le mani da quei botamochi[2], li ho visti prima io! Poe-kun, di’ qualcosa anche tu, è un’ingiustizia!»
Di certo sarebbe stata una delle migliori serate che entrambi avrebbero vissuto, sicuramente le ore sarebbero passate ignorate, distanti dalla loro mente; ma all’improvviso le luci si abbassarono e allarmi antincendio iniziarono a suonare ovunque, rompendo l’atmosfera distesa e cristallizzando i gesti nella sorpresa.
I due giovani si azzittirono e alzarono lo sguardo al soffitto, confusi, ma Ranpo fu il primo a riaversi: la sensazione che aveva percepito sulla terrazza era ritornata, questa volta fortissima e ben più persistente. Non era simile a fumo, ma fumo reale: aveva colto il principio di un pericolo che, per qualche motivo, si era affievolito solo per riprendere forza in un secondo tempo e divenire fuori controllo.

Maledizione.
«Vieni, dobbiamo trovare gli altri!», gridò il giovane a Poe, infilandosi con lui in mezzo alla folla che iniziava a fuggire dalla sala e cercando di guadagnare l’uscita.
I corridoi che si trovarono davanti si erano trasformati e da luminosi e risuonanti di voci erano divenuti bui e soffocanti, mentre non più persone ma volute nere e danzanti ombre rossastre risalivano le scale di marmo come fantasmi; gli ambienti che si conoscevano bene si allungavano fino a risultare interminabili e si tramutavano in trappole, mentre il ruggito del fuoco si faceva sentire sempre più forte via via che l’incendio allungava le mani su tutto ciò che trovava.
Correndo il più veloce possibile e badando sempre che Edgar fosse almeno vicino a lui, Edogawa cercò di filtrare gli stimoli che giungevano da ogni parte — richiami, boati, scricchiolii, sensazioni che si mischiavano nella testa e che rischiavano di rimanere senza una razionalizzazione — mentre le sale diventavano tutte uguali e i minuti a disposizione si riducevano. Non essere rimasto insieme agli altri, o almeno a portata d’occhio, improvvisamente gli sembrava un errore tanto grave da poterselo difficilmente perdonare, e tanto lo prese il pensiero che si accorse di aver incrociato Kunikida solamente quando stava per superarlo. Fu infatti l’altro ad afferrarlo per un braccio e trattenerlo, per poi scuoterlo e dire qualcosa che lui non comprese subito: era riuscito a trovare il Presidente ma era stato diviso da Yosano, che aveva aiutato delle persone a scappare e si era persa nella folla.
A rimarcare quelle parole, Fukuzawa comparve alle sue spalle e, accertandosi che tutti i presenti stessero bene, li spinse a lasciare il piano dove erano ormai rimasti i soli.
L’indomabilità del fuoco era ormai palese nel bollore che percorreva i muri, nella densa caligine che occupava ogni spazio e negli scoppi e crolli improvvisi che si rincorrevano di struttura in struttura, ostruendo uscite e stravolgendo i percorsi: in almeno un paio di casi solamente la prontezza di uno del gruppo riuscì a evitare che qualcun altro finisse ustionato dalla caduta di materiale infuocato, mentre lentamente i piani diminuivano e l’uscita era sempre più vicina.
Con l’approssimarsi di questa, tuttavia, aumentava anche la gente che lì si accalcava: alcune porte erano state danneggiate dal calore e non riuscivano ad aprirsi completamente, costringendo così a rallentare l’esodo e aumentando la paura.
Il crepitare delle fiamme e urla di panico, mille e più voci, spinte e scene che nessuno dovrebbe mai vedere li investirono, e per un attimo Ranpo perse la cognizione del tempo: destabilizzato, incapace di appigliarsi a qualcosa perché immerso in un caos ribollente, cercò almeno di rimanere vicino ai compagni, ma anche in quello fallì; infatti, quando si volse intorno, vide che era solo, senza gli altri al suo fianco. Tuttavia, con la coda dell’occhio riuscì a scorgere la figura di Edgar qualche metro dietro di sé, rivolta verso l’ombra di Fukuzawa, e allora fece per retrocedere fino a raggiungerli e accertarsi di quale fosse la situazione; prima di questo, la voce di Yosano incontrò la sua attenzione.
«Ranpo-san! Ranpo-san, sono qui!»
Un attimo dopo il medico comparve a poca distanza, ostacolata dalla massa di gente che li divideva, e lui si voltò nuovamente per avvertire il gruppo; ma stavolta vide solamente un enorme sbuffo di fumo che si allargava nella sua direzione, seguito da un frastuono e da una spaventosa vampata di calore che lo costrinsero a tapparsi le orecchie e gridare. Udì la voce di Kunikida urlare qualcosa a sua volta, ma non riuscì a capire da quale direzione provenisse: sembrava essere davanti, accanto e dietro di lui al medesimo tempo, indefinibile.

È spaventoso, tutto questo è orrendo. Quando finisce, quando finisce?
Percorso da un brivido, il giovane aprì la bocca per dire qualcosa; e in quell’attimo una nube grigia gli penetrò dritta in gola, facendolo tossire via via più forte e respirare sempre meno. Gli occhi presero a lacrimare e le gambe a cedere, mentre la gola ardeva: doveva uscire immediatamente o avrebbe avuto un collasso.
Quando finisce? Basta, basta!
Appena si liberò, Yosano fu svelta a raggiungerlo e stringerlo a sé, mettendogli il proprio scialle davanti alla bocca. «Non ti staccare da me per nulla al mondo, intesi? Piegati, così», gli sussurrò mentre gli premeva gentilmente il capo verso il basso e quasi sollevava il suo corpo da terra.
Non erano passati che pochi attimi — o almeno, così sembrò a lui — che un soffio d’aria fredda schiaffeggiò entrambi non appena si lasciarono alle spalle l’inferno; la notte li abbracciò e si trovarono a rotolare a terra, boccheggiando come pesci e sentendo la pelle bruciare in ogni dove, i sensi inebetiti e il cuore che avrebbe potuto benissimo spezzare il petto tanto batteva forte… ma salvi.

E gli altri? Gli altri…
Senza perdere tempo, Akiko prese una delle bottiglie d’acqua che era riuscita ad afferrare in fretta e furia e gliene rovesciò una buona metà sul viso, quindi lo fece bere finché non annuì. Solo allora ebbe il coraggio di parlare: «… Ho perso Kunikida-san nella folla, e… e non l’ho più trovato. L’hai visto, per caso? E il Presidente?»
Ranpo deglutì, prese una nuova boccata d’aria e fissò il palazzo a poca distanza. Ormai le fiamme erano ovunque, si dimenavano fuori dalle finestre e ruggivano fin sul tetto; se qualcuno era rimasto là dentro… «Sì, li ho incontrati. L’ultima volta che li ho visti erano dietro di me, con Poe-kun.» Una pausa, intessuta di pesantissima tensione, e lo sguardo che cercava tra i visi terrorizzati che li circondavano. «Nessuno di loro è qui.»
«Non c’erano quando ti ho trovato… sei sicuro che ti abbiano seguito?»
«Sicuro? Sicurissimo! Poe-kun era proprio alle mie spalle! Stava dicendo qualcosa al Presidente, e poi… poi c’eri tu, e il fumo tutt’intorno.» Il ragazzo si bloccò, quindi si alzò con un’espressione seria e irremovibile a scurirgli gli occhi smeraldini. Avanzò di qualche passo verso il rogo, ma la mora lo afferrò per un polso e lo costrinse a fermarsi, per poi fissarlo così intensamente da uncinargli l’anima. «Non perdere la testa e respira, respira: vedrai che stanno bene, non li abbiamo ancora visti ma sicuramente sono usciti anche loro, lascia che tutto si calmi e—»
«Siamo qui.»
I due giovani si voltarono all’unisono quando udirono quella voce ferma, sorpresi, e immediatamente lasciarono andare tutto il fiato che avevano trattenuto in quegli istanti.
Con il volto annerito dal fumo, la pelle arrossata in più punti a causa del contatto ravvicinato con il fuoco e gli abiti bisognosi di una bella pulita — e, nel caso del Presidente, un’ustione non grave sul braccio destro — e aiutandosi a vicenda nel camminare, Kunikida e Fukuzawa si unirono a loro e subito si sedettero al suolo, le forze ormai mancanti. Edgar era distante di qualche passo ma ben distinguibile, la sua ombra che scivolava verso il gruppo come una tremolante presenza.
«State tutti bene, vero? Che cos’è successo?»
Kunikida bevve un lungo sorso dalla bottiglia che Yosano gli aveva appena porto, quindi prese un grosso respiro e corrugò la fronte, parlando lentamente per scegliere con cura le parole: «Appena abbiamo raggiunto il corridoio del primo piano, io e il Presidente siamo stati fermati dal crollo di alcune travi: ci sono piombate addosso e bloccato le gambe, e il fumo ha iniziato a soffocarci. “La fine è ormai qui”, così abbiamo pensato… e poi… ecco, non so come spiegarlo, ma tutto si è fermato e siamo entrati in una sorta di sogno: niente più fiamme né fumo, ma un luogo aperto e immerso nel silenzio, uno scenario incredibile… chi può sapere che allucinazione ci ha colto.»
Ranpo spalancò gli occhi. «Un mondo completamente diverso? Paesaggi fantastici?»
«Sì, qualcosa del genere; e improvvisamente tutto è finito e ci siamo ritrovati qui, a qualche passo da voi, salvi. Personalmente non so davvero spiegarmelo, e so che sembra che io sia impazzito, ma…»
Il ragazzo rimase un istante immobile, quindi sorrise e annuì. «No, non sei diventato matto e una spiegazione c’è», sussurrò, per poi alzare la voce e avanzare di qualche passo, «e per questo dobbiamo ringraziare solamente una perso—»
«Ranpo.» Fukuzawa, che fino a quel momento era rimasto in silenzio e aveva concentrato la sua attenzione altrove, richiamò il giovane con un’occhiata e si volse in direzione di Poe; appena Edogawa lo seguì, comprese che la notte non era ancora giunta al suo termine.
Edgar non presentava ustioni, era annerito di fumo e aveva bisogno di un cambio d’abiti come gli altri; ma si teneva la testa con entrambe le mani e lo sguardo con cui fissava il rogo, dilatato in un’espressione d’orrore, era semplicemente spaventoso. Non era solo terrorizzato, ma in uno stato di shock che gli aveva ridotto il respiro a un sibilo appena percettibile, quasi gran parte della vita lo avesse lasciato.
Chinando la testa di lato e senza mai smettere di guardarlo, Ranpo gli si avvicinò. «È finita, calmati. Grazie a te stiamo tutti bene.» Tese una mano, ma Poe indietreggiò appena venne sfiorato. Sulla sua pelle correva un brivido gelido che fece retrocedere l’altro a sua volta e gli trasmise un sospiro di paura, com’era accaduto in passato davanti a ciò che aveva trovato incomprensibile; ma non era quello il caso perché riusciva a sentire tutto e a capire che qualcosa, nell’incubo di pietra e vetro che avevano innanzi, aveva attaccato Edgar con tale forza da penetrargli il cuore.
Il fumo non aveva soffocato tanto il corpo, quanto denudato una sinistra realtà.
«Poe-kun… che cos’è successo? Parla, di’ qualcosa! Che cosa hai visto?»
Fu il silenzio a rispondere.
In un moto impulsivo e prima che uno degli altri lo potesse trattenere, Ranpo scattò in avanti fino a coprire i pochi metri che lo dividevano dal ragazzo e gli afferrò i polsi, scuotendolo con forza. «Dimmi che cos’è successo, EDGAR!»
Quel gesto e il suono del suo nome riscossero Poe, che abbassò gli occhi e li ancorò in quelli di Edogawa. Oltre a tutto ciò che questi aveva intuito, dentro di essi si muoveva una tristezza immensa, pulsante, e una richiesta di perdono.

Non la sta implorando da me… ma da sé stesso.
«Mi dispiace… mi dispiace davvero.»
«Perché ti stai scusando, che cosa hai visto? Rispondimi!»
Lentamente, scuotendo il capo, Edgar si liberò dalla presa di Ranpo e indietreggiò ancora. I riflessi dell’incendio s’insinuarono tra loro per tutto il tempo in cui silenziosamente si guardarono, poi si moltiplicarono mentre Poe si voltava per andarsene ed Edogawa rimaneva fermo dov’era, la voglia di urlare e chiedere e correre messa a tacere dalla consapevolezza che niente sarebbe cambiato, che l’altro non si sarebbe girato né avrebbe smesso di allontanarsi da lì e da lui.
Nell’eco dei passi via via più distanti, un buio che nemmeno la danza del fuoco sapeva rischiarare.

 

 

Ormai nessuno avrebbe più dormito dopo quegli eventi, e le ore successive non si prospettavano meno impegnative.
Raggiunta l’Agenzia, Yosano visitò immediatamente sia Kunikida che Fukuzawa per accertarsi della loro situazione ed evitare spiacevoli sorprese o ricadute, e per tutto il tempo Ranpo rimase ad aspettare accanto a loro, senza rispondere a chi lo interpellava perché la sua mente era altrove, fissata sempre nello stesso posto e momento. Si animò un poco quando dovette spiegare al Presidente e a Doppo chi e come li avesse salvati da una fine orrenda, e per tutto il tempo in cui lo fece tenne lo sguardo fisso sul volume che Akiko aveva rinvenuto poco lontano dal luogo dove si erano ritrovati: il racconto di fantasia che Edgar aveva ultimato con una sola frase, ciò che li aveva strappati al fuoco. Pur nel mezzo del disastro, con le speranze ormai ridotte al limite, il ragazzo aveva impiegato le sue capacità per lottare contro le unghie della Morte, uscendone vincitore; era rimasto nell’incendio finché non aveva compiuto un piccolo, grande miracolo e tutti, tutti loro dovevano almeno dei ringraziamenti a Poe… e Poe, qualunque cosa avesse vissuto in quei minuti in cui si era trovato faccia a faccia con il tempo che correva spietato, non era lì ad ascoltarli.
Il silenzio ritornò insieme a tali pensieri, e quando Yosano ebbe visitato anche Ranpo, nessuno fra loro oppose resistenza appena il ragazzo afferrò il proprio cappello e lasciò l’Agenzia per scomparire in ciò che restava della notte, diretto solo lui sapeva dove.
Era appena sorta una pallida alba quando il medico lo vide fare ritorno con l’umore leggermente mutato e lo sguardo percorso da una luce diversa da quella di poche ore prima: aveva qualcosa in mente, presto lo avrebbe mostrato.
«Non l’hai trovato, vero?», chiese la mora appena lo vide sedersi alla sua scrivania e rovesciare la testa all’indietro. In lontananza, oltre le distese di edifici, l’oceano si animava sotto il sole.
«No, infatti: Poe-kun non è uno stupido, non voleva essere trovato e ha fatto la mossa più naturale del caso, ovvero andarsene dalla città.»
«Così, dal nulla?»
«E non per un breve viaggio. Sono andato a dare un’occhiata alla sua villa, ma non c’è più nessuno: stanotte vi è tornato il tempo necessario per prendere il suo amico Karl e liberare tutto lo studio — dalle finestre ho visto solo una stanza completamente vuota.
È chiaro che non ha intenzione di far ritorno tanto presto, altrimenti avrebbe lasciato la scrivania pronta per quel momento. Non sono entrato in casa, ma sono sicuro che siano scomparsi anche i documenti che gli permetteranno di andare negli unici due posti che conosca bene: Boston e Richmond [3], dov’è nato e cresciuto.»
«Quindi ha fatto ritorno in America…»
«A Richmond, decisamente.» Kunikida lasciò il proprio posto e mostrò ad Akiko dei documenti. «Ho appena chiamato l’aeroporto: mi hanno confermato che nemmeno tre ore fa il signor Edgar Allan Poe si è imbarcato su un aereo diretto proprio là.»
Yosano annuì, facendosi più seria. «Ho saputo che ci sono state delle vittime, ma nessuna di queste è morta nel palazzo: i soccorritori hanno riferito di non aver trovato alcuna traccia di corpi o indizi che possano rimandare alla loro presenza.
È impossibile che Poe-san abbia assistito a qualcosa tale da esserne traumatizzato… quindi, che cosa l’ha spinto a lasciare il Giappone?»
«Un motivo c’è», intervenne Ranpo, mettendosi seduto composto e spalancando gli occhi, «è limpido nella mia mente; mi mancano alcuni dettagli, certo, ma in queste ore ho capito che cosa sia accaduto. La prima domanda a cui devo dare risposta è…» Una breve pausa. «Come si prende un aereo?»
Kunikida e il medico rimasero senza parole per qualche attimo, quindi si guardarono e poi ritornarono a fissare Edogawa. Yosano, allora, fece un piccolo sorriso. «Hai intenzione di andare a prenderlo e sei ritornato qui per chiedere un piccolo aiuto…», mormorò, mentre Doppo assottigliava gli occhi e rimaneva in silenzio.
«Ovviamente, e intendo anche andare a fondo nel mistero. Ma Poe-kun si è portato via una parte della soluzione — o meglio, è in una delle due città che la nasconde, a sua insaputa.» Facendosi pensieroso, quasi le sue stesse parole avessero illuminato un angolo fino a quel momento oscuro, il moro trasse da sotto la mantella i due volumi di Edgar e li appoggiò sulla scrivania, accarezzandone poi le splendide copertine. Il sopralluogo alla villa gli aveva permesso di trovare una pista da seguire, pur senza alcuni tasselli, e ormai era alla fine; ma nonostante ciò continuava a provare sulla lingua un’amarezza pungente e difficile da tralasciare…
… Perché, quando aveva detto “mi dispiace”, Poe si era sentito solo e sbagliato. Nel giro di pochi attimi, non appena il cuore aveva portato alla luce una verità terribile, il mondo gli era divenuto nemico e a sua volta lui si era scoperto un pericolo per gli altri, un maledetto; e si era visto solo, indifeso e indifendibile, per una causa dalle radici profondissime, che unicamente la sua anima poteva sapere.
Il malessere di Edogawa aveva più fonti: non solo la visione di una simile sofferenza, ma anche il riflesso di quel Ranpo di tredici anni prima[4] — senza aiuto e convinto di essere un tremendo errore, un mostro al quale la felicità non avrebbe mai sorriso — che le parole prive di speranza avevano fatto riemergere.

Mi dispiace. Anche io avevo detto così…
Allora, l’incontro con Fukuzawa lo aveva salvato e, da quell’istante, con lui aveva protetto e difeso chi non ce l’avrebbe fatta con le proprie forze, portando alla luce la verità e la giustizia che in essa albergava; non aveva mai mancato di farlo. Poteva allora tirarsi indietro davanti a quello che stava accadendo, contando che era coinvolto non uno sconosciuto, ma qualcuno a lui vicino?
Mi dispiace davvero.
«È curioso: Poe-kun si considera il mio rivale, ma da quando ci siamo ritrovati non ha fatto altro che essere al mio fianco come un amico; vi ha salvato la vita e non ha temuto di mettere a repentaglio la sua nel farlo.» Nessuno merita di rimanere smarrito; ognuno deve sapere di non essere solo. «Eeeeh sì, ha davvero bisogno di me.» Si alzò e raggiunse Yosano e Kunikida, per poi prendere dalle mani di questi i documenti che aveva stampato e guardarli con attenzione. «Nonostante lui stia andando a Richmond, io devo andare prima a Boston. Sono lì le risposte che mi servono.»
Doppo e Akiko assentirono davanti alla determinazione che vedevano riflessa nel volto del più grande detective tra loro, contro il quale niente e nessuno avrebbe potuto resistere. Edgar non poteva saperlo, ma stava per arrivare un vento che avrebbe purificato il suo cielo: se Edogawa aveva una speranza, allora niente era perduto. Mai.
«Quindi hai già deciso ogni cosa, Ranpo?»
Il ragazzo annuì a Fukuzawa, apparso in quell’attimo sulla porta dell’ufficio.
«Fai quello che è giusto, allora. L’Agenzia saprà cavarsela», assentì a propria volta l’uomo, dopo averlo osservato fin dentro l’anima.
«Non so per quanto ci riuscirà, ma farò del mio meglio per ritornare presto», rispose Edogawa, per poi allargare le braccia, cambiare espressione e rivoluzionare tutta la sede nel giro di un secondo. «E quindi, chi di voi mi aiuta? Andiamo, non abbiamo tempo da perdere, devo partire immediatamente! Non posso più aspettare!»

 

 

… Probabilmente, Poe ultimò il suo viaggio quando Ranpo iniziò il proprio. Mancavano ancora parecchie ore prima che la luna si sollevasse nuovamente sopra l’oceano, eppure la sua ombra era già visibile nell’angolo di cielo che il moro poteva scorgere dal finestrino dell’aereo; e lui ne fissò la forma incompleta, in mutamento, fino a quando le luci del giorno iniziarono a trasformarsi insieme a lei.
Seduto al suo fianco, Kunikida non mancava di osservarlo e prestare attenzione a qualsiasi cosa dicesse. Fukuzawa non avrebbe potuto lasciare l’Agenzia, così, mentre Yosano e Ranpo si erano trovati impegnati a preparare il necessario per il viaggio, aveva chiesto a Doppo di accompagnare il giovane; richiesta immediatamente accettata, visto che così avrebbe potuto sdebitarsi per essere stato salvato.
Le parole che Ranpo riversava erano infinite, come suo solito, ma il biondo non mancò di notare che spesso il ragazzo abbassava la voce di qualche tono e il suo sguardo diveniva più profondo, quasi scorgesse la meta ogni istante più chiaramente e si preparasse di conseguenza. Edogawa era estremamente orgoglioso, sapeva essere infantile e non nascondeva di pensare in primo luogo a sé stesso; ma questo non voleva dire che non tenesse agli altri o non avesse un cuore.
Doppo accennò un sorriso, lanciando un’altra occhiata al moro: quando questi era andato a salutare Fukuzawa, Yosano gli aveva riferito come Ranpo stimasse Poe e quanto la vicenda lo stesse coinvolgendo, nonostante ostentasse il comportamento di sempre. Tra quei due c’era un legame sorto anni prima tramite una competizione, un rapporto che si caricava e trasformava a ogni contatto e andava a mettere radice in entrambi, portando a un luogo che solo loro potevano scoprire: ma se Edogawa era salito su quell’aereo, se nulla nelle sue decisioni era mai mutato e la luce che gli ravvivava lo sguardo non aveva vacillato un attimo, questo poteva essere già un indizio sul percorso insieme. Edgar era stato parecchio fortunato ad aver incontrato una persona simile — e probabilmente la fortuna era vicendevole.
Kunikida lo aveva appena pensato che fu Ranpo a sorridere, come se avesse letto nella mente del compagno e si fosse trovato d’accordo, quindi non parlò più e mantenne il silenzio per tutto il tempo in cui il buio scese e rimase nel mondo. Ora dopo ora, un respiro e un altro ancora, Boston si avvicinava pari a un’eco che diveniva lentamente viva voce, udibile solamente da Edogawa.
Consapevole di ciò, Doppo non si stupì affatto di come, quando furono atterrati e appena fuori dall’aeroporto, il giovane sapesse già dove andare; e la sua guida sicura spinse entrambi a ignorare la città aperta per concentrarsi sui fantasmi che dormivano negli angoli dimenticati, là dove il tempo si era fermato per non fluire più.
Questo fu l’esatto pensiero di Kunikida quando Ranpo imboccò l’ennesima via più buia delle sue sorelle e si bloccò davanti a un alto edificio che sembrava sul punto di scomparire, tanto era stretto tra le strutture adiacenti, e così danneggiato e annerito che perfino il numero civico era illeggibile. Era una zona a sé, svincolata dalla certezza[5], e dalle sue prossimità Edogawa non accennava ad allontanarsi: taceva la sirena che aveva cantato per lui fino a pochi attimi prima, avendolo condotto a sé e quindi portato a termine il proprio compito.
«Spero che la casa riesca a resistere ancora un po’», commentò Kunikida mentre incrociava le braccia e fissava lo sguardo sul tetto malandato.
«Resisterà», mormorò l’altro appena inforcò i suoi preziosi occhiali, per poi avvicinarsi a ciò che rimaneva della porta e guardare attraverso i pertugi che offriva, «anche lei vuole che questa storia abbia la fine che merita.»

 

 

 

 

NOTE

 

[1] Il ramune è una bibita gassata dal sapore di limone, venduta in una caratteristica bottiglia di vetro che presenta sul tappo una biglia. Nell’opera si vede spesso Ranpo con questa bevanda, e la wikia la riporta come una delle sue preferite.

 

[2] Mochi guarniti con pasta di fagioli rossi.

 

[3] Boston, in Massachusetts, e Richmond, in Virginia, furono due città importanti per il reale Edgar Allan Poe: la prima è dove nacque e pubblicò molte sue opere, la seconda dove visse insieme alla famiglia adottiva e, per un certo periodo, con la moglie.

 

[4] Riferimento alla light novel “The Untold Origins of the Detective Agency”, incentrata sul momento in cui Ranpo e Fukuzawa s’incontrano per la prima volta. Viene mostrato chiaramente come il ragazzino, dopo una serie di eventi di cui non farò spoiler, trovi il suo posto nel mondo grazie a Fukuzawa e smetta di sentirsi solo, abbandonato da tutti e rigettato da una realtà che, prima di conoscere l’uomo, non comprendeva.

 

[5] Riferimento alla vera casa dei Poe, che ora non esiste più ma di cui si conosce la posizione.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** … L’Anima Mia Perché Non Si Smarrisse ***


II ♦ … L’Anima Mia Perché Non Si Smarrisse

 

 

Richmond, Virginia.
Villa degli Allan.

 

Quella casa era sempre uguale: vuota, solitaria e in qualche modo lontana dal resto della realtà, come congelata nel momento in cui le aveva dato le spalle per unirsi alla Gilda. Da una parte, non poteva che ringraziare la sua immobilità — gli regalava un accenno di menzogna, e se avesse potuto lui se la sarebbe presa intera; dall’altra, ogni istante che passava lo rendeva consapevole del perché tra quelle pareti si fosse sempre sentito un estraneo, un irrisolvibile mistero con un cuore che chiedeva affetto.
Il fatto che gli Allan non lo avessero mai visto e trattato come un altro figlio — solamente più sfortunato e ombroso —, le continue discussioni con i fratelli adottivi e il silenzio raramente spezzato erano mere conseguenze della colpa che era la sua vera eredità, il marchio impresso con le proprie azioni.
Ma la villa aveva avuto anche malinconia di lui, o non lo avrebbe riaccolto: invece ogni pietra che la componeva aveva cercato lo sguardo del giovane per poi riaprirgli le braccia, mentre John Allan, dal piano superiore della medesima struttura, non aveva fatto altro che osservarlo avanzare sul viale d’accesso, troppo distante per guardarlo davvero. Nei due giorni che aveva già passato lì non era comparso davanti a lui nemmeno per sbaglio; Poe era re e fantasma in un regno di penombra e assenza, dove niente che fosse esterno alla villa resisteva per molto.
Il muoversi irrequieto di Karl e il suo saltare in braccio all’amico per osservarne il volto o fargli il solletico erano l’unico mutamento che coinvolgeva l’ambiente, una pallida rimanenza dei giorni di sole durati troppo a lungo per non far male.
Ma era quello il suo posto: la solitudine, la lontananza, l’impossibilità di uscire dal labirinto di pensieri e perdonarsi. Per tanto, tantissimo tempo l’oblio di quanto aveva fatto lo aveva allontanato dalla responsabilità, ma alla fine la verità era ritornata a galla; e non rimanevano che pochi istanti da passare nella casa dov’era cresciuto solo ma protetto, un ultimo attimo di respiro e una preparazione al dopo, prima che John lo mettesse alla porta e il suo futuro divenisse puro vuoto.
Non avrebbe implorato l’uomo, ma accettato ogni sua decisione: aveva già avuto molto senza averne diritto, non era così che vivevano i mostri.
Che cosa poteva aspettarsi? Aveva compiuto un crimine e questi non era ancora stato espiato, non poteva pretendere di dimenticare di nuovo: la sua ombra gridava, lei che riposava sotto la fredda terra faceva lo stesso, e dopo aver corso a lungo era arrivato il momento di raggiungere la meta finale, lasciando andare tutto il resto.
Solamente una domanda attendeva risposta: dove lei fosse sepolta per causa sua, dove si trovasse quella che sarebbe divenuta l’ultima casa.
Dopo di questo, ciò che la vita e la morte avrebbero deciso.
«Perdonami, Karl: a John sei sempre piaciuto, quindi di certo acconsentirà a tenerti con sé. Non puoi venire con me, non lo posso permettere… ma tu te la caverai.»
In risposta, il procione gli morse un dito e saltò a terra; poi gli si riavvicinò e si appoggiò contro il fianco, guardandolo come se gli rimproverasse ogni parola.
Donandogli un triste sorriso, Edgar prese in braccio il caro amico e affondò il viso nel suo pelo, per poi rannicchiarsi sul pavimento dell’andito e chiudere gli occhi. Presto le stelle sarebbero giunte a fargli da coperta e compagnia, e dopo qualche settimana la luna sarebbe cresciuta nuovamente; forse sarebbe riuscito a vederla, con niente sopra di sé se non il cielo, e a salutare anche lei.

Un addio, già… molti non li hai neppure detti. Continua a non pensare a chi hai lasciato indietro, non cedere: ormai non ha più senso.
Era tutto come sei anni prima, quando a causa di un fallimento il mondo era crollato e poi risorto su nuove basi; ma a differenza di allora, non sarebbe giunta quella forza che gli aveva consentito di superare il buio — a differenza di allora, si era ritirato dalla realtà per proteggere, non per proteggersi. Nessuna energia, nessun spirito di rivalsa: contro chi si doveva battere? Le colpe andavano accettate e purificate, non ci si opponeva a esse; si seguivano fino a quando queste non ne avrebbero avuto abbastanza.
Era già stato un errore ritornare alla villa e credere di potervi trovare un estremo alito di pace: ma quello sarebbe stato l’ultimo, e poi…
… E poi, finalmente avrebbe reso giustizia, ristabilendo l’equilibrio che aveva spezzato anni prima.
In quello stesso attimo, il placido pomeriggio aveva già disperso molte delle sue energie, e il vento che giunse si prese tutte quelle che rimanevano.
Alle orecchie di Poe giunse il suono di un lieve respiro, come se per un secondo qualcuno gli fosse stato accanto; ma niente e nessuno incontrò il suo sguardo grigio[1] quando sollevò le palpebre, passando da un fantasma all’altro.
Tutt’intorno s’inseguivano suoni smorzati, echi e richiami più frequenti di quelli che aveva udito nelle ore precedenti; forse John Allan stava venendo a chiarire le cose, forse voleva dargli solamente uno sguardo di pena prima di condensare la loro disconnessione in poche frasi, forse…
I rumori divennero più nitidi e si rivelarono passi veloci e leggeri, molto diversi da quelli dell’uomo; Edgar alzò appena il capo per capire che cosa stesse accadendo, e dopo alcuni momenti la porta d’ingresso venne scossa da un sonoro bussare.
Il ragazzo rimase immobile, senza rispondere, e dall’esterno provenne una voce squillante che gli fece correre un brivido lungo tutta la schiena. «Mi aspettavo che andasse così… chiedo permesso ai signori ed entro!»
L’uscio si spalancò dietro all’eco di tali parole, inondando tutta la villa di aria fresca.
«… Non pensavo tu fossi in grado di ridurti così. Cos’è tutto questo buio? Dico, come fai anche solo a pensare di respirare, chiuso qua dentro?»
Poe si portò una mano davanti agli occhi, colpito in pieno dal sole ruggente che aveva riempito l’andito. A qualche passo al di qua della soglia, ritto in mezzo alla luce, si ergeva una figura smilza che avanzava fino a lui. «Te la stai passando veramente male, e per cosa? Prova ad alzarti, avanti, lo so che sei più forte di così.»
Il giovane si mise in ginocchio appena prima che una mano gli si avvicinasse per allontanargli i capelli dal viso, ritraendosi come scottato quando dita altrui gli toccarono la fronte. «Le tue occhiaie sono ancora più scure! Se non riesci a dormire bene nell’oscurità, prova a utilizzare una luce artificiale[2]. Con me funziona!»
Edgar prese un grosso respiro. Ogni parte del suo corpo tremava, lo percepiva, e non poteva farci niente. «Ra… Ranpo-kun», sussurrò agli occhi che lo osservavano con una nota di disappunto.
«E chi, se no? Almeno mi hai riconosciuto, anche se faccio fatica a fare lo stesso con te… Oh, ciao Karl, stai bene? Lo so, il tuo padrone ha fatto una sciocchezza ed eccoci qui, ma un modo per fargliela pagare si trova…»
«Ranpo-kun…»
«Per esempio potremmo prenderlo per i capelli e trascinarlo per la città fino a quando non si decide a camminare con le proprie gambe e ci chiede scusa, e…»
«Hey.»
«Pensa se gli portiamo via tutti i suoi preziosi volumi e lo lasciamo gridare un po’ mentre minacciamo di bruciarli, quindi…»
«Dimmi perché sei qui.»
Edogawa smise di interessarsi a Karl e si voltò verso l’amico, guardandolo con gli occhi sbarrati per la sorpresa. «Mi pare ovvio: sono venuto per riportarti in Giappone, a casa. Sei diventato stupido, forse?»

Lo vorrei; forse le cose andrebbero meglio. «Ti ringrazio per lo sforzo e mi dispiace, ma non tornerò in Giappone. Ora lascia la villa, per favore; non saresti dovuto nemmeno entrare.»
«Da quando usi questo tono verso gli altri? Andiamo nel parco, il sole ti farà bene.»
«Io non vado da nessuna parte; sei tu quello che se ne andrà.» La voce di Poe si faceva più agitata a mano a mano che i secondi passavano, così come lo sguardo di Ranpo si assottigliava e acquistava vivida luce. «Non hai pensato nemmeno per un istante che potessi venire da te? Davvero?», disse questi dopo un pesante silenzio.
Edgar abbassò il capo. Per qualche attimo ci aveva pensato, lo aveva sperato e quasi sentito; ma… ma ormai può bastare. Quel tempo è finito.
«Sei pallido.»
«Ti prego, vattene.»
Senza rispondere né ubbidire, Edogawa si avvicinò di più, e a quel punto Poe balzò in piedi. Karl gli saltò sulle spalle mentre retrocedeva, gli occhi stravolti da una paura che poteva sfociare in pazzia, mentre la testa si popolava di troppi pensieri e voci.

Che cosa vuole fare?
Non sperare più.
Devi pagare.
Devi chiedere scusa.
Mandalo via.
Non puoi permetterti di cedere.
Non…

«Non scappare più.»
«Lasciami solo!»
Ranpo avanzò verso di lui.
«Stammi lontano, Ranpo-kun
Nessuno lo ascoltò.
«Ho detto di… di… LASCIARMI SOLO! TUTTI QUANTI, ANDATEVENE VIA!» Prendendosi la testa tra le mani, Poe crollò in ginocchio sul pavimento e chiuse gli occhi con tale forza da non essere più sicuro di poterli riaprire. Il mondo tacque, dalle persone a ciò che udiva nella mente, e solamente allora gli parve di poter riprendere a respirare. Quando ritrovò la forza di sollevare le palpebre, Ranpo gli era seduto davanti ma a una distanza tale da permettergli di ascoltare senza opprimerlo, in attesa.
Tutto, nel detective, era silenzio: non era il suo turno per parlare. Gli stava dando la possibilità di liberare i tremiti che si erano presi la veglia e il sonno, e anche se niente sarebbe cambiato perché il passato non poteva disfarsi come i desideri avrebbero voluto, il giovane era venuto per ascoltare — era così, no?
«Mi devi una risposta», lo incitò poi Ranpo, «è da ore che l’attendo. Mi hai lasciato davanti a un palazzo in fiamme, sei scappato senza nemmeno salutarmi; per quanto sia arrabbiato, potrei perdonarti… al prezzo di una storia. Ci siamo solamente noi, io e te, e ciò che ti tormenta.»
Arrendendosi, Edgar si sedette a propria volta e sospirò. Con sua sorpresa, iniziare a raccontare non fu così difficile. «Lo so che sai già ogni cosa che dirò, quindi mi chiedo perché tu voglia ascoltarmi. Conosci il motivo per cui l’incendio che ci ha quasi ucciso mi ha spaventato talmente tanto da lasciare Yokohama: ha risvegliato una realtà che mi porto dentro da tempo.» Una breve pausa. «Quando abitavo qui la vedevo sempre: chiamala ombra, sensazione o come vuoi, ma quella era sempre presente, in tutto ciò che mi circondava. Rimaneva tacita negli sguardi degli Allan o scivolava in qualche discorso che sfuggiva a tavola, si addormentava nel mio letto per svegliarsi insieme a me, s’intrufolava dietro ai mobili e tra i quadri per corrermi davanti quando il vento faceva danzare il fuoco dei camini e io vedevo qualcosa, in esso, che non riuscivo a trattenere — è per il tuo bene, sussurrava.
Quando iniziai a scrivere e la mia abilità si manifestò, quella presenza cambiò mondo per infilarsi nei primi racconti che creai: storie dove membri di una famiglia svaniscono, persone care non ritornano più ed è tutta colpa di chi è loro vicino, rimorsi e accuse che hanno radici antiche, discese nell’animo di un inconsapevole criminale… lavori che ho sempre considerato come primi passi di uno scrittore che sa esprimere le proprie capacità solo costruendo misteri e rompicapi, ma senza vedervi la verità che declamavano con disperazione. La definii una sensibilità anormale, un diverso modo di leggere la realtà e cercarla; ed era unicamente cecità.
Intanto, il silenzio degli Allan continuava a tenermi lontano dal mio passato, gli scontri tra noi non scalfivano la superficie sotto il quale esso riposava: probabilmente questo era il loro modo di volermi bene.
La mia vita avrebbe potuto svolgersi così per sempre, inconsapevole e ignara di cosa portasse nelle radici; ma l’incendio a Yokohama ha messo a nudo ogni singolo atto della tragedia che ho portato sulla mia famiglia naturale.
Non ricordo nemmeno quanti anni avessi in quel momento, ma ero tanto piccolo da non trattenere molti ricordi; eppure ciò che accadde in quelle ore… ecco, ora lo vedo bene davanti a me.» Un secondo silenzio; il ragazzo strinse appena i denti e Ranpo rimase immobile, senza forzare né le parole né la tenebra che le accompagnava.
«Era una notte così tranquilla da sembrare irreale: i miei — nostri — genitori erano ancora intenti a discutere faccende da adulti, mentre io, mio fratello e mia sorella ci eravamo rintanati nel loro letto, a contare le stelle e leggerci qualcosa a vicenda mentre attendevamo il sonno. Io fui l’ultimo a prendere in mano il libro che avevamo scelto; e mentre la mia voce inseguiva le lettere, il tempo iniziò a correre più veloce, così che neanche mi accorsi che gli altri dormivano da parecchi minuti.
Lessi per forse due ore, incantato e desideroso di non fermarmi; ma anche per me c’era in attesa la pace, che calò improvvisa e prima che ebbi il tempo di sistemarmi.
Successe questo: mi addormentai di colpo e con ancora il lume stretto tra le dita. Sì, a causa di un piccolo guasto elettrico era ormai da una settimana che al piano superiore non andava più alcuna luce e dovevamo orientarci nel buio con delle candele.
Papà ci aveva raccomandato di non portarle nel letto con noi, ma quella volta disubbidii per poter leggere più chiaramente… e ciò scatenò quanto accadde dopo.
Il lume, infatti, seguì il mio corpo e si rovesciò: la fiamma non ci mise che pochi attimi a scivolare su lenzuola e coperte, iniziando a crearci una trappola mortale.
Fu nostra madre a scoprire il disastro, allarmata dal fumo che invadeva la stanza e fuggiva nel corridoio: le sue urla penetrarono l’incoscienza fino a farmi svegliare e comprendere con orrore che il letto stava andando a fuoco.
Mio fratello fu lesto a buttarsi a terra e a lasciare la stanza; la mia sorellina, invece… lei non si mosse. Prima che mamma mi gridasse di correre fuori, la vidi sollevare quel corpicino da bambola e scuoterlo, ripetendo il nome della sua bambina come una nenia.
Nostro padre mi prese in braccio mentre ero impietrito a fissare l’immobilità di Rosalie, mi salvò coprendomi il viso e portandomi fuori dalla casa: le fiamme avevano raggiunto anche il piano inferiore e rosseggiavano attraverso le imposte delle finestre, la via era tutta in allarme.
Un buio caritatevole calò su di me, impedendomi di vedere e sentire oltre; ma la colpa si era ormai impressa nel cuore, così che quando mi riebbi sentii la mia stessa voce chiamare Rosalie. Ero in una macchina che non riconobbi insieme al resto della famiglia; o quasi, perché di mia sorella non c’era traccia.
Quando chiesi dove fosse, mamma abbassò lo sguardo per fissarmi e contrasse la bocca in una smorfia di dolore. Non parlare più di lei, ordinò, per nessuna ragione. È andata.
Dato che persi nuovamente conoscenza, il resto mi venne riferito dagli Allan: il mattino dopo tali eventi, nello studio di John giunse una chiamata anonima che lo informava della presenza di un bambino nelle vecchie scuderie della villa.
Lui le raggiunse e trovò me: ero avvolto in una coperta con appuntata sopra una lettera da parte dei nostri genitori, i quali pregavano il loro amico di prendermi in casa sua e dicevano di avermi abbandonato a causa di un “incidente che nessuno deve sapere”.
Come biasimare la loro azione? Rosalie era morta per colpa mia, avevo rischiato di mandare anche il resto della famiglia nella tomba e la nostra casa era bruciata completamente; mamma e papà erano rimasti senza mezzi e non potevano più occuparsi di noi, era normale che mi avessero lasciato indietro — pur implorando gli Allan di prendersi cura di me.
Dopo tali eventi e passati altri due giorni, mi risvegliai in quella che per anni sarebbe stata la mia camera; ero affamato, triste e incapace di ricordare cosa fosse successo tre notti prima. Il dolore e il rimorso si erano talmente espansi che la lucidità, per salvarmi, aveva imprigionato l’incidente, il fuoco e il corpo di mia sorella lontano dalla coscienza, lasciandoli echeggiare solamente in idee passeggere e invenzioni letterarie.
Gli Allan, che pur dovettero venire a conoscenza di quanto successo, mi spiegarono che da quel momento avrei vissuto con loro per via della povertà dei nostri genitori, che li aveva costretti ad abbandonarci presso famiglie in grado di poterci dare un futuro; io accettai la mia sorte e loro non mi chiesero mai nulla dei Poe, né osai farlo io.
Come ho detto, se non fosse stato per l’incendio di Yokohama forse sarei arrivato fino alla morte senza conoscere il mio segreto; ora che ne sono consapevole, però, non riesco a sottrarmi al senso di colpa, a pensare che se solamente avessi dato retta a nostro padre e fatto attenzione con quel lume, Rosalie sarebbe ancora in vita e io avrei vissuto… diversamente. Il pensiero di ciò che ho fatto non mi lascia in pace, so che non riuscirei a resistere per molto con tale peso; la morte avrebbe dovuto prendere me, dovevo essere io a pagare per il mio errore.
La più innocente tra noi ha avuto la sorte peggiore: nessun altro può darle giustizia, se non il colpevole stesso… anche se questi ha paura e non vorrebbe che finisse così.»
Edgar tacque, esausto: aveva espresso il suo tormento e dato voce al caos che si agitava nell’anima, la storia poteva definirsi conclusa. Che cosa doveva aggiungere, quando nemmeno lui sapeva ciò che sarebbe accaduto da lì in poi?
Serioso, Ranpo annuì. «Sì, è così.»
L’altro rispose a sua volta con un assenso. «Sono un mostro, sì… la morte conosce già il mio nome.»
Edogawa guardò l’amico per un altro attimo, poi abbassò il capo come se stesse pensando; quindi accennò un sorriso che via via si allargò nel volto.
«Ranpo-kun…?», lo chiamò Poe, fissandolo, ma l’amico si espresse prima di lui. «Non hai capito nulla, Poe-kun: non ti stavo dando ragione, ma parlando a me stesso.

Ero sicuro che tu credessi a questa versione della storia.»
Edgar si sporse verso il detective, confuso. «Che cosa… che cosa stai dicendo?»
Balzando in piedi, Ranpo iniziò a stirarsi le braccia senza perdere il sorriso. «Aaaaah! È un bel pavimento, sì, ma preferisco il parco! Però questa è casa tua — di John Allan, scusa. Beh, finché non ti caccia definitivamente è anche tua —, quindi mi adatto all’altrui volere. Non credo che il tuo padre adottivo si sia preoccupato di renderti la permanenza piacevole, così evito di chiederti dove siano le cucine… e, da bravo ospite, ti dono io qualcosa.»
Poe non seppe come rispondere allo sguardo smeraldino che luccicava poco lontano da sé, quindi attese.
Da parte sua, Edogawa iniziò a girovagare per l’andito e a curiosare tra quello che presentava, per poi iniziare: «Questa villa è quasi bella quanto quella che ti sei fatto costruire a Yokohama, e che io preferisco: là c’è ancora più spazio e tanta luce, è raffinata ed elegante, oltre che silenziosa. Ma anche il silenzio sa parlare, se gli si domanda a modo ti può rivelare tutto ciò che trattiene, e nel tuo caso non ha fatto eccezione, quando gli ho chiesto che cosa fosse successo nell’incendio.
Mi ha detto che nella tua casa ci sono alcuni oggetti che portano il nome di John Allan, ma senza essere seguiti da un Poe; e mi ha fatto capire che porti due cognomi diversi, non uno doppio. Mi ha detto che sei partito per non tornare, perché tra quelle mura non è rimasto niente da cui non ti separeresti mai; e che una persona che teme le grandi altezze ha preso un aereo, perché spinto da una motivazione più forte della paura.
Chiaramente tu sei stato turbato dall’incendio per una causa profonda — qualcosa vissuto durante l’infanzia o la prima giovinezza, per esempio, magari legato a uno dei due cognomi che porti: sono vari i motivi che spingono una persona ad abbandonare un luogo tanto in fretta, ma quelli famigliari sono tra i più importanti.
Quando ho dedotto questo, si è posto il problema di dove tu fossi andato: se a Boston o Richmond, le due città in cui hai dei legami fin da piccolo… e la soluzione è stata raggiungere entrambe e ascoltarle.
La tua casa di Boston mi ha confermato quello che avevo già intuito e tu stesso mi hai raccontato: l’incendio di Yokohama ha fatto riaffiorare il ricordo dell’incidente in cui tu e la tua famiglia avete perso ogni cosa. Ora l’edificio è completamente abbandonato perché la vicenda non gli ha portato di certo fortuna, quindi tutto ciò che il fuoco ha risparmiato è rimasto al suo posto, così come è stato lasciato; ed è per questo che ora ti posso raccontare la vera storia su cosa accadde quella notte.» Piantandosi ben davanti a Poe, Edogawa gli puntò un dito contro con fare teatrale e sorrise di nuovo. «Signorino Poe, stia tranquillo: non la considero uno stupido nonostante la banalità di un mistero che mistero non è mai stato, perché, se lei potesse ritornare alla sua vecchia dimora e avere il coraggio di entrarvi, certamente giungerebbe alle mie stesse conclusioni.
Concorderai con me che dopo aver incendiato il letto dei tuoi genitori, le fiamme avrebbero dovuto allargarsi al resto della camera e, in seguito, all’intera struttura: mi hai detto di aver visto il fuoco attraverso le imposte delle finestre del piano inferiore, e infatti questo risulta devastato… ma né le scale che collegano i due piani, il corridoio a cui giungono e la camera da letto dei bambini, antistante a quella dei coniugi Poe, sono così danneggiate.
Avrebbe dovuto essere il contrario: il piano superiore distrutto e quello inferiore o completamente bruciato anch’esso, o in maniera parziale. Perché, invece, la situazione si mostra così? Perché quella notte fu più movimentata di quanto tu possa immaginare e ci fu una tremenda coincidenza.»
Ranpo fece una piccola pausa, il tempo necessario per frugare nelle tasche dei pantaloni e porgere, infine, un piccolo involto a Poe. «I tuoi genitori erano degli attori, e anche parecchio famosi: a Boston ci sono vari teatri che riportano targhe con i nomi di David Poe Jr. e di sua moglie Elizabeth, e i libri che li citano non sono in numero minore.
Tanta gente se li ricorda ancora, così come parla della loro ultima comparsa sulle scene: una tragedia che aveva smosso gli animi e portato molti alla commozione, infiammando la città per vari giorni, ma che non era stata pensata per attirare minacce o pericoli. Si dice, però, che spesso le doti artistiche e il genio di chi le mostra sappiano anticipare i tempi o penetrare a fondo la realtà e svelare, anche inconsapevolmente, quello che non si dovrebbe: ed ecco che un’innocente battuta o dialogo assume una luce sinistra, uno sguardo o un’intonazione particolare si carica di un significato completamente opposto a quello originario, e a un uomo carico di ombre si ghiaccia il sangue nelle vene per il terrore che improvvisamente tutti sappiano quanto doveva rimanere nascosto.
Nell’ultimo spettacolo, il teatro era gremito delle più alte autorità della città; tra queste vi era una persona del genere, pericolosa e dai mille volti e segreti, potente.
Elizabeth, per pura fatalità, pronunciò una frase davanti a tale figura, guardandola con un sorriso; e mentre il pubblico rumoreggiava d’entusiasmo e si apriva in applausi per la bravura della donna, nell’animo di chi le stava innanzi si scatenava l’inferno. Come aveva fatto, quell’attrice, a sapere? Chi l’aveva informata, chi le aveva detto di esporre la verità all’intera città? E di certo anche suo marito ne era al corrente!
Quindi, nel giro di un attimo i coniugi Poe divennero persone scomode, che dovevano essere eliminate a ogni costo per coprire i segreti di qualcuno più in alto di loro; e quale momento migliore per aggredirle, se non durante la notte?»
Edgar spalancò gli occhi, mentre il fiato gli si mozzava in gola via via che comprendeva dove Ranpo volesse giungere.
«Parliamo un attimo delle finestre del piano inferiore: sono tutte danneggiate e le imposte sono rovinate, di certo il fuoco fece un ottimo lavoro con loro… ma in due casi restarono delle tracce parecchio interessanti: ho trovato frammenti di vetro vicino alla parete opposta alle finestre, come se fossero stati proiettati dall’esterno verso l’interno a causa dell’impatto con qualcosa di pesante. Non conosco i gusti artistici dei tuoi genitori, ma dubito che si tenessero come soprammobile una grossa pietra; è più facile che questa aprì la via, rompendo i vetri e spalancando le imposte, a qualcosa di ben più pericoloso… una bottiglia incendiaria potrebbe essere un’idea, il che porta direttamente a un’altra evidenza: la tua famiglia venne attaccata.
Ecco la coincidenza che ti ha dannato fino a ora: la stessa notte in cui il letto prese fuoco, non tanto tempo dopo qualcuno venne mandato a uccidere i Poe.
Le fiamme che divampavano al piano inferiore non erano le stesse che divoravano la camera dei tuoi genitori, ma le aveva portate una mano molto più spietata.
Già in allarme per quello che avevi causato, i Poe riuscirono a salvare te e gli altri da entrambi i pericoli; una volta abbandonata la casa, però, i problemi non finirono. Ci fu una seconda aggressione, al quale tuo padre rispose; e mentre Elizabeth scappava con i figli, David si macchiò di omicidio.
Nessuno sapeva che la vittima di tale gesto era stata mandata per portare la morte; agli occhi degli ignari testimoni, quindi, tuo padre era impazzito per l’incendio della propria casa e aveva ucciso un innocente. In poco tempo l’uomo si trovò contro due figure: chi voleva la sua testa e la polizia di Boston, entrambe sulle sue tracce.
Dopo essersi riuniti, marito e moglie presero una decisione sofferta: separarsi dai propri bambini affidandoli a delle famiglie che potessero proteggerli, e solamente allora accettare quello che il destino avrebbe scelto per loro.
Ricercati dalla polizia e braccati dagli assassini, i Poe non sapevano da chi dovessero guardarsi le spalle, ma solamente che qualcuno voleva la loro rovina: era allora necessario dividervi e nascondervi fino a quando la situazione non fosse mutata, in un modo o nell’altro. Perciò cambiarono stato e, nel tuo caso, ti portarono dagli Allan, commettendo pure una violazione di domicilio pur di porti sotto la loro protezione.»
«I miei genitori non mi hanno abbandonato per quello che ho causato, dunque, ma per salvarmi», sussurrò Poe appena Ranpo fece una pausa. Rimase un attimo come trasognato, quindi il volto si coprì nuovamente di un’ombra. «Però ciò non cambia il fatto che abbia causato la morte di Rosalie, e—»
«Baam, errore! Grosso sbaglio pensarlo!» Facendo sobbalzare l’amico, Edogawa gli si avvicinò e gli prese di mano l’involto che gli aveva consegnato, aprendolo per lui e mostrandogli ciò che conteneva.
Edgar rimase immobile, quindi dilatò gli occhi nella sorpresa e afferrò l’oggetto con dita tremanti: un elegante fermaglio a forma di rosa, che sul lato interno portava inciso un nome: Rosalie Mackenzie Poe.
«Questo l’ho trovato a Boston, poco oltre la porta della vostra casa: era appoggiato al suolo e spiccava in mezzo alla desolazione come un faro nella notte.
Trovare il numero dei Mackenzie non è stato difficile, né cercare una scusa per chiedere di Rosalie; ha una voce dolce e ride spesso, è piacevole da ascoltare.»
«Ma… ma quindi…»
«Ma quindi devi perdonarti, Poe-kun; smetterla di darti la colpa per qualcosa che non hai fatto e ascoltare l’ultima parte del racconto.
Rosalie non è morta nell’incendio: ci ho parlato per quasi un’ora mentre venivo qui! E mi ha raccontato che cosa successe mentre tu eri incosciente.
Fu la prima a essere affidata, proprio ai Mackenzie; ed ecco perché non era in macchina con voi quando tu ti svegliasti. Anche a lei venne detto di non nominare più i suoi fratelli, di fare come se non fossero mai esistiti: dovevate proteggervi a vicenda ed evitare che chi inseguiva i coniugi Poe arrivasse anche a voi.
Potevate essere prede ed esche perfette, ma con il vostro silenzio e la protezione delle famiglie adottive non sarebbe accaduto nulla. “L’incidente di cui nessuno deve parlare” è l’attacco alla vostra casa, non la morte di Rosalie.» Ranpo emise uno sbuffo, quindi si sedette a terra. «È dura parlare tanto a lungo con lo stomaco vuoto! Anche se è stato sorprendentemente facile risolvere il mistero, mi sento esausto.»
Edgar non rispose subito, ma prima si rigirò tra le mani il fermaglio di Rosalie. «Queste notizie su ciò che accadde davvero quella notte… tutto ciò che mi hai detto… sarei riuscito a scoprirlo anche io, vero?»
«Certo che sì: per molte cose è bastato fare una piccola ricerca in rete, tra giornali e archivi, anche se il grosso del lavoro lo ha fatto Kuniki—»
«Quindi avrei potuto farcela da solo.»
«Ovvio, a patto di risvegliare quei ricordi assopiti. Lo hai detto tu stesso: la mente ha attivato un meccanismo di rimozione per proteggerti dalla follia che il dolore avrebbe causato, e tutto per una colpa che non ha mai visto la luce: il mistero era dentro di te, non fuori.
Sapevo che eri stato accecato da una falsa certezza e che la fatalità aveva voluto unire due eventi che non sarebbero mai dovuti andare insieme, ed ero determinato a mostrare la verità a una persona capace di fronteggiare un palazzo in fiamme per salvare delle vite, donando speranza ad altri e perdendo la propria… e a dirgli che la sua adorata sorellina lo sta attendendo a non tanta distanza da qui, viva e non dentro una fossa.» Edogawa si alzò nuovamente in piedi e andò alla porta, guardò il sole che scendeva verso le cime degli alberi e poi si girò e rivolse all’amico con tono posato. «Pensavi di ucciderti su una tomba vuota, espiare la colpa morendo d’inedia; una fine insensata.
Tu non porti la morte, Poe-kun; tu non distruggi, crei. Qualunque cosa tu faccia, questa dà la vita: alle tue storie, al mondo che ti circonda, a chi t’incontra.  Non dimenticarlo mai, è il tuo vero dono.
Le nostre colpe, i nostri errori non ci devono annientare: è solamente vivendo che ci possiamo redimere, è insieme agli altri che impariamo a perdonarci. Tu vali più di un rimorso, non sei mai stato quella voce che ti chiamava mostro: intelligenza e cuore ti proteggeranno sempre, e se ciò non bastasse…» Un largo sorriso, contenente ogni bellezza, tutto per Edgar. «… hai un amico in me.» Senza dare tempo all’altro di replicare, Ranpo corse fuori. «Da qui in poi tocca a te: alzati e vai a trovare Rosalie, poi cercate insieme la vostra famiglia, intrecciate le vite l’uno con l’altra e recuperate gli anni perduti; per voi nessuna storia buia all’orizzonte… meritate ben altro.»
Silenzioso, discreto, fu solo un bagliore quello che scivolò lungo una guancia di Poe, la cortina dei capelli che impediva di scorgere quante scintille fossero pronte a liberarsi.
«Ah, però non credere che mi dimenticherò del modo in cui te ne sei andato! Non si trattano così i propri rivali! E per questo…»
«Ranpo-san
Edogawa si voltò verso il cancello della villa, stupito; al di là di esso, Kunikida si sbracciava per avere la sua attenzione, visibilmente stremato.
«Oh, Kunikida! Sei qui, finalmente!»
«Dopo essere rimasto due ore in un ingorgo! … Come hai fatto ad arrivare prima di me? Hai preso anche l’autobus sbagliato!»
«Ho convinto il conducente a cambiare percorso e a portarmi qui.»
«Convinto?»
«Sì, minacciando di rivelare a tutti i passeggeri, tra cui la moglie, delle sue tre amanti.»
«Ma… ma non è questo il modo di comportarsi!»
«Non ho fatto del male a nessuno! E poi avevo già perso troppo tempo!»

Mentre la sempre più assurda discussione risuonava ovunque, Edgar si alzò e uscì dalla villa, si avvicinò ai due detective e li superò. Tutto ciò che lo circondava stava riprendendo colore, caricandosi di luce e riflettendola ovunque.
Per un tempo infinito si era tormentato, coscientemente e non, e aveva sofferto, incapace di scappare dalla gabbia del trauma; si era creduto finito, mentre era stato solo vittima di uno spettro. Sembrava destinato a cadere… e invece si stava rialzando ancora, questa volta senza dolore.
Il nero velo dell’annientamento scivolava via da lui mentre un lento tramonto gli scaldava il volto e le lacrime si fermarono ancor prima di cadere, per lasciar spazio unicamente al sorriso. I pensieri si trasformavano, non era più il tempo di trattenersi nei freddi abbracci del vuoto: c’era qualcuno che lo aspettava al di là della paura.
Era questo ciò che lo chiamava; ed era la vita che, legandolo a doppio filo con il soffio della morte, lo aveva cambiato ancora, insegnandogli la dura lezione della solitudine e la sottile arte del perdono — specialmente verso sé stesso.
Ma non era più solo, non così lontano da casa; questa era venuta da lui per prenderlo per mano e risvegliare la sua anima, per scacciare da lei tutti i demoni e condurlo là dove i sogni potevano abitare. La tempesta era passata grazie alla mente più geniale che avesse mai incontrato e alla grande persona che tramite essa proteggeva i tristi e gli abbandonati: da Ranpo aveva imparato ancora una volta, nuovamente il detective gli aveva cambiato l’esistenza in meglio, strappandolo al baratro.
«Grazie, Ranpo-kun», mormorò con tutto sé stesso mentre si fermava sui gradini davanti all’ingresso e chiudeva gli occhi sotto la benedizione del cielo, lasciando che Karl gli abbandonasse la spalla per rannicchiarsi nel suo grembo e trovare la quiete insieme a lui, «per merito tuo, la mezzanotte è ormai lontana… amico mio.»

 

 

 

 

 

C’era pace nel cielo, e così sulla terra.
Era ormai sera quando Edgar raggiunse la casa che sorgeva vicino a un ampio prato ricolmo di fiori e profumi, là dove il viola della volta celeste si fondeva con il verdeggiante mare ai suoi piedi. Il vento correva senza gridare e lo guidava avanti, un altro passo ancora, mentre il cuore aumentava i battiti.
La dimora era completamente illuminata, chi l’abitava era già tra le sue stanze; e come se fosse stata evocata, un’esile figura chiara come un’alba apparve sulla porta a guardare la luna, per poi abbassare il capo.
Lui la vide bloccarsi un attimo, quindi muoversi e avanzare verso la sua direzione, e il ragazzo strinse a sé Karl mentre accelerava il passo e quella iniziava a correre.

Sempre più lontano dal buio.
«Edgar, sei tu… Edgar!»
«Rosalie… Rose! Sorellina!»
La bella Rosalie era più piccola di lui e gli arrivava appena al mento con la testa, tuttavia quasi lo gettò al suolo quando gli saltò tra le braccia.
Edgar la strinse immediatamente a sé con ogni forza che aveva, senza lasciare che nemmeno una stella si frapponesse tra loro, e la udì ridere così come gli aveva detto Ranpo: con dolcezza, con il trasporto che lui ricordava. Ed era tutto così perfetto, delicato, giusto per entrambi.
«Santo cielo… non sei cambiato affatto, neanche in tutti questi anni! Sempre magro e con i capelli troppo lunghi! E che carino il tuo piccolo amico!», disse lei mentre gli riempiva il viso di baci e gli scostava i capelli per ammirargli quegli occhi uguali ai suoi, per poi stringerlo ancora.
«Io… io ti chiedo scusa, Rose», mormorò il ragazzo mentre affondava il volto nella chioma della sorella, «non pensavo che ti avrei mai più rivisto, non in questa vita. Sei sempre stata così vicina a me… e io ero ignaro di tutto.»
«Io invece sapevo che un giorno ti avrei rincontrato», rispose la giovane, «ho lasciato indietro il mio fermaglio apposta. È stato il primo regalo della signora Mackenzie, e quando me lo ha dato mi ha detto: Ti guiderà da loro, bambina… un giorno ti riunirà alla tua famiglia. Mi ha già riportato te… è un ottimo inizio.»
Edgar non disse più nulla; chiuse gli occhi e si lasciò cadere in ginocchio, senza staccarsi da quel corpo tanto chiamato e pianto.
«Ben ritornato, fratellone», mormorò lei mentre si metteva nella stessa posizione del ragazzo e questi le appoggiava la testa sul cuore, «ti stavo aspettando.»
Era la sera; ed era il tempo delle lacrime mai versate, delle preghiere esaudite e promesse mantenute, di curarsi a vicenda e camminare insieme.
«Stai bene, Ed?»
«Sì.» Un sorriso, sul volto l’espressione che racchiudeva la serenità di una vita ritrovata; era la sera, ma, sotto la sorveglianza di due verdi gemme che osservavano tutto con discrezione, il buio non sarebbe calato. «Ora sì.»

 

 

 

 

 

NOTE

 

[1] Più precisamente, la sfumatura sarebbe “lavanda grigia”. Nelle immagini Poe viene presentato spesso con gli occhi grigi, ma al buio questi risultano viola.

 

[2] Nella pagina wikia che tratta il personaggio di Ranpo, viene detto che questi non riesce a dormire se è buio pesto.

 

 

 

 

ANGOLO DI MANTO

 

Non è stato affatto facile scrivere questa storia, inutile dire il contrario: rendere non dico alla perfezione, ma almeno in maniera coerente al canon due personaggi che amo visceralmente (esatte parole della mia anima gemella: “Penso potresti sederti in poltrona a vedere un’intera serie TV su di loro e non stancarti”) e a cui tengo veramente tanto.
Piccola confessione: la fic è il risultato dell’amarezza nata da varie discussioni in giro per il web, dove si dice che Ranpo non sia capace di provare dei sentimenti e sia solamente un egoista e borioso, e che, con tutto quello che Poe ha fatto per lui, almeno nei confronti di questi dovrebbe mostrare un po’ di riconoscenza.
Personalmente mi trovo molto in disaccordo con tale affermazione: Edogawa può reputarsi il più grande detective del mondo, non mostrare spesso le sue emozioni o farlo solo quando è al limite (come nell’avventura con Yosano all’interno del romanzo di Edgar), ma lui tiene alle persone (anche a chi ha appena incontrato, come Oda) e le salva anche: lo ha fatto con Fukuzawa (nella light novel), con una giovanissima Akiko, con lo stesso Poe quando gli ha confessato tutta la sua ammirazione per l’unica persona tanto valida e intelligente da non dargli facile gioco… e questi sono solo alcuni esempi. Ranpo avrebbe la possibilità di rovinare le vite di tutti scoprendo e rivelando segreti e debolezze, giocando con gli uni e le altre senza ritegno; ma non lo fa, perché il suo grande genio non è mai staccato dal cuore né non sa riconoscere, o dare, gentilezza e speranza.
A mio parere, quindi, se si supera un’analisi tristemente superficiale e incompleta del personaggio e si prosegue con l’opera si vede come questo ragazzo sia un dono per tutti; e riguardo al fatto che Poe sia un tesoro altrettanto prezioso e meriti solo coccole, infinito amore e ammirazione, non penso ci siano dubbi (no, non ho una crush pazzesca per lui, che cosa ve lo fa pensare ♥).
Detto ciò, fremevo dalla voglia d’inserire riferimenti biografici al vero Edgar Allan Poe, l’autore che mi ha accompagnato per tutta l’adolescenza e che avrà sempre un posto speciale nel mio cuore (anche se ho iniziato a leggere BSD perché mi avevano riferito che ci fosse Lovecraft e non sapevo affatto della presenza di Edgar, quindi SORPRESA!); il pacchetto che ho scelto per il contest mi ha dato l’opportunità per farlo, anche se con delle variazioni: è infatti vero che lui non si trovò mai in sintonia con gli Allan ed ebbe grossi scontri con John, mentre è inventato che i coniugi Poe siano ancora vivi quando Edgar è adulto, perché morirono nei primi anni di vita dei figli, i quali furono davvero separati l’uno dall’altro e crebbero in famiglie differenti.
Il titolo dei capitoli compone un unico verso facente parte della poesia Inno, del nostro caro Poe; quello della storia riprende il testo di Blinding Lights, di Weeknd, perché non riesco affatto a tenere la musica lontana da qualsiasi cosa faccia, mai.
Sperando di non avervi tediato, scusandomi per l’angolo autore lungo quasi quanto la fic e ringraziando Flos Ignis per avermi permesso di scrivere su questo splendido duo, vi porgo un saluto e un abbraccio *^*

 

Manto

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3925898