When the world is running down, you make the best of what's still around

di Soul Mancini
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***



Capitolo 1
*** I ***


I
I
 
 
 
 
Mental wounds not healing
Life's a bitter shame
I'm going off the rails on a crazy train
[Ozzy Osbourne – Crazy Train]
 
 
 
 
“Andiamo, ma che paragone è? I Police sono molto più interessanti e soprattutto innovativi!”
“Sì, ma senza i Pink Floyd non esisterebbero.”
Lanciai un’occhiata in cagnesco a Ethan. “Ma che ragionamento di merda è? Cosa c’entra il sound dei Police con i Pink Floyd?”
Il mio amico ricambiò con uno sguardo di sufficienza. “Lo vedi? È che tu non capisci un cazzo di musica, Ives Mancini!”
“Dici così solo perché tu sei ottuso e ti piacciono solo i Pink Floyd, i Black Sabbath e i Led Zeppelin” lo presi in giro.
“Ma vaffanculo. Allora rendimi il vinile di Outlandos D’Amour che ti ho regalato!”
“Col cazzo!”
Sammy scoppiò a ridere mentre spingeva la pesante porta dell’Alibi; finalmente eravamo giunti a destinazione. “Avete rotto le palle con queste guerre tra band, lo sapete? Piuttosto… sapete come si chiama il gruppo che deve suonare oggi?”
Entrammo nel locale e ci dirigemmo subito verso il bancone per ordinare da bere; come al solito l’aria era vivace, i tavolini, sia all’interno che nella terrazza sul retro, erano gremiti di ragazzi e dalla vecchia radio abbandonata in un angolo si diffondevano le note di un tormentone estivo dei Men At Work.
Salutai un po’ di gente con cenni e sorrisi, poi poggiai i gomiti sul bancone e attesi che arrivasse il nostro turno di ordinare. “No, sinceramente non mi ricordo. Però dev’esserci una locandina appesa da qualche parte…” Affinai lo sguardo per esaminare le pareti del locale, su cui però svettava solo una vasta collezione di vinili e poster.
“A proposito di nomi, la nostra band non ne ha ancora uno” commentò Ethan. “L’abbiamo fondata quattro anni fa e ancora la chiamiamo band.”
“E non abbiamo nemmeno un cantante. Non ci prenderanno mai a suonare in qualche locale, senza nome e senza voce” aggiunse Sammy.
“Perché non ci chiamiamo davvero Band?” proposi con un sorriso divertito.
“Certo, che grande proposta…” mi sbeffeggiò Ethan con un sorrisetto.
“Stavo scherzando.”
“Non riesco a pensare a niente di produttivo da sobrio” affermò il mio amico, attirando l’attenzione del barista.
Dopo aver ordinato da bere – Ethan ovviamente prese il suo adorato Jack Daniel’s, mentre io e Sammy decidemmo di iniziare con una semplice birra – ci andammo a posizionare in un tavolino sulla terrazza, vicino al palchetto allestito per i concerti estivi.
L’Alibi era un pub piuttosto squallido in realtà, ma era il ritrovo di molti ragazzi della nostra età principalmente per due motivi: suonavano un sacco di rock band locali e non chiedevano mai l’età quando ordinavi da bere. Tra il bancone sudicio e appiccicoso d’alcol, il rettangolo spoglio in cemento che ci ostinavamo a chiamare terrazza sul retro e i bagni che non venivano mai puliti, tanti di noi si stavano lasciando l’infanzia alle spalle.
Cominciammo a sbronzarci e a scambiare quattro chiacchiere con i presenti in attesa che il concerto cominciasse; solo quando ero ormai al terzo o al quarto drink, e dopo aver preso svariati tiri d’erba che imi aveva offerto un nostro amico, notai alcuni ragazzi salire sul palco e imbracciare gli strumenti. Erano poco più grandi di me, avranno avuto al massimo sedici anni, e sfoggiavano capelli lunghi e abiti glam.
“Scommetto che questi saranno una fotocopia dei Kiss” commentò Ethan incrociando le braccia al petto ed esaminando i quattro musicisti con le sopracciglia aggrottate.
“Mmh… tu dici?” biascicai con una risatina.
“Ma non lo vedi che sono vestiti come loro? Quanto ci scommetti che aprono lo show con una cover dei Kiss?”
“Ma no, dai, magari gli assomigliano e basta” supposi.
Ethan piegò appena la testa di lato. “Ripeto: quanto scommetti?”
Ci riflettei un attimo su. “Se perdi, voglio il tuo skate col drago.”
Ethan allungò la mano. “Affare fatto. Fanculo, tanto non lo uso più.”
Gliela strinsi per suggellare il patto. “Non ci credo che me lo daresti davvero!”
“Infatti non te lo darò perché sono sicuro di vincere. Li ho inquadrati appena sono saliti sul palco.”
Trascorse giusto una manciata di secondi prima che il gruppo cominciasse a suonare; sgranai gli occhi e subito dopo scoppiai a ridere quando riconobbi le prime note di I Was Made For Lovin’ You dei Kiss.
“Visto? Che ti avevo detto?” si pavoneggiò Ethan.
“Dai, ma come cazzo hai fatto a indovinare?” gli chiesi, dandogli di gomito.
“Vuoi sapere la verità?”
Annuii.
“Prima ho letto la scaletta che aveva in mano il batterista.”
Risi nuovamente e gli diedi una spinta. “Ma che pezzo di merda! A proposito del batterista… non ti sembra fuori tempo?” osservai.
“E il cantante ha sbagliato tutto il testo, credo stia proprio cantando un’altra cosa” aggiunse lui.
“Ehi, dopo il concerto vado a chiedergli se entra nella nostra band!”
“Ma che si fotta.”
Scoppiammo entrambi a ridere e continuammo a commentare il discutibile live di quei quattro, ma alla seconda canzone – che era esattamente uguale alla cover dei Kiss – avevamo già perso la pazienza.
“Che ne dici di andare a prendere un po’ d’aria in strada?” proposi quindi; in quella piccola terrazza eravamo tutti accalcati e non si respirava.
Ethan annuì e poi si guardò attorno, in cerca di qualcosa o qualcuno. “Volevo chiedere a Sammy se gli andava di venire con noi, ma è sparito.”
“Di nuovo” convenni, scorrendo con lo sguardo tra i volti dei presenti, ma dei capelli rosso acceso del nostro amico non c’era traccia. “Non ti sembra un po’ strano che sparisca così spesso?” feci notare al mio amico mentre ci dirigevamo all’esterno.
Lui si strinse nelle spalle, segno che non sapeva bene come commentare.
Il nostro batterista nell’ultimo periodo pareva davvero assente: gli avevamo proposto tante volte di venire sul lungomare con noi durante il giorno, ma aveva sempre declinato l’invito, e quando uscivamo insieme spariva dopo qualche minuto. Ormai riuscivamo a trascorrere un po’ di tempo con lui solo durante le prove della band.
Una volta in strada, recuperai subito accendino e sigarette, ma nel giro di pochi istanti io e Ethan ci rendemmo conto che qualcosa non quadrava: ci fissammo negli occhi con perplessità prima di volgere lo sguardo dall’altro lato della via.
Riconobbi May, una ragazzina mora che frequentava spesso l’Alibi, illuminata dalla fioca luce di un lampione e bloccata al muro da un ragazzo molto più alto e grosso di lei, che le si incollava addosso con prepotenza; la ragazza gridava e lo implorava di lasciarla stare, ma lui non accennava a toglierle le mani di dosso.
Lasciai cadere a terra la sigaretta appena accesa, senza nemmeno preoccuparmi di schiacciarla col piede, mentre sentivo il cuore pulsarmi nelle orecchie e l’adrenalina pomparmi nelle vene.
Nessuno doveva azzardarsi a toccare una ragazza in quel modo contro la sua volontà.
Nessuna doveva subire il trattamento che era stato riservato a mia madre.
Agii d’istinto: prima ancora di rendermene conto, avevo attraversato la strada di corsa e mi ero avventato su quel tipo, strattonandolo via. “Lurido bastardo, lasciala in pace!” strillai, fuori di me dalla rabbia.
Poco prima di trascinarlo via da May, avevo fatto in tempo a vederlo mentre tentava di insinuare le mani sotto la gonna della ragazza e la cosa mi fece ancora più incazzare.
Lo spinsi via e gli mollai un pugno in pieno petto; lui inizialmente parve sorpreso e colto alla sprovvista, ma in pochi secondi si riscosse e ghignò malignamente, afferrandomi per la maglietta e sbattendomi al muro con forza. “Cosa cazzo vuoi, marmocchio?” sputò tra i denti.
Mi piegai in avanti e la vista mi si offuscò per il colpo appena preso, ma prima che potessi riprendermi l’aggressore mi sferrò un pugno in pieno viso, spaccandomi il labbro; il sapore metallico del sangue mi riempì la bocca, ma feci in tempo a gridare: “May, scappa!”.
Era un susseguirsi rapido di fotogrammi: attraverso la cortina di lacrime che mi offuscava lo sguardo per il dolore, notai gli occhi sgranati di May poco prima che fuggisse via. Un attimo dopo misi a fuoco il volto di un altro tizio, forse un amico dell’aggressore, che mi rivolgeva un’occhiata truce.
Oh, bene, arrivano i rinforzi…
Eravamo due contro uno, non potevo niente, mi avrebbero gonfiato di botte. Non ero nemmeno abituato alle risse, non avrei saputo difendermi.
Ma non importava. Avrebbero potuto pestarmi fino a togliermi il respiro, la cosa che contava davvero era che May si fosse salvata.
“Questo è perché non ti fai i cazzi tuoi” disse il primo, colpendomi sullo stomaco. Mi piegai in avanti, in preda a un dolore lancinante e un forte senso di nausea, ma subito il secondo bastardo mi afferrò per i capelli e li tirò con forza per farmi sollevare il capo e guardarmi negli occhi.
Ma la sua stretta ben presto si allentò; sbattei le palpebre, confuso, finché non mi resi conto che alle spalle dell’aggressore si trovava Ethan.
“E così oggi è giornata di pulizia della merda dalle strade! Bene, spero di sistemarvi in tempo per quando passerà il camion della spazzatura” ringhiò il mio amico, cercando di tenere a bada entrambi i nostri avversari.
Mi gettai nuovamente tra di loro senza nemmeno rifletterci, pronto a fiancheggiare il mio amico.
Ci gonfiarono di botte e noi gonfiammo di botte loro; fu un groviglio di corpi, calci, pugni e sangue che sgorgava a fiotti. Durò solo qualche istante, ma a me parvero secoli.
Andò avanti finché i due assalitori non si resero conto che ormai May, l’oggetto del loro interesse, era lontana anni luce da loro e non potevano farci niente, quindi ci lasciarono ad ansimare sul marciapiede mentre correvano via e ci intimavano di andare a farci fottere.
Avevo gli occhi pieni di lacrime, le labbra piene di sangue e provavo un dolore talmente atroce che non sapevo più localizzarlo.
Ethan, in condizioni leggermente migliori rispetto alle mie, mi afferrò per un braccio e mi riportò dall’altro lato della strada, in cui si era radunata una piccola folla di curiosi. Il mio sguardo andò subito a cercare May, che trovai in lacrime poggiata alla parete del locale.
Lottai contro le gambe che tremavano e i dolori alla schiena e mi accostai a lei. Era una ragazzina così carina, con un fisico snello e slanciato e i capelli scuri raccolti in una treccia; non avrei mai permesso che le capitasse qualcosa e che quello stronzo si approfittasse di lei.
Non sapendo che dire, compii l’unico gesto che mi veniva spontaneo in quel momento: la abbracciai con delicatezza e i nostri corpi tremavano insieme, così fragili e provati.
Lei si strinse a me e continuò a piangere. “Grazie Ives, tu… nemmeno mi conosci e te la sei vista brutta per salvarmi.”
“Macché, non mi devi ringraziare. Non potevo mica rimanere a guardare mentre quel pezzo di merda ti metteva le mani addosso! Anzi, vorrei picchiarlo ancora” ammisi, ed era vero: la rabbia che mi era montata dentro non era ancora svanita.
Mentre riempivo di pugni quei tizi, era come se mi fossi sfogato anche sullo stupratore di mia madre.
May sciolse l’abbraccio e tirò su col naso. Ci scambiammo un sorriso – il labbro mi bruciava terribilmente –, poi lei cominciò a guardarsi attorno in cerca di qualcuno. I suoi enormi occhi scuri si illuminarono quando avvistò una figura sulla porta del locale; mi rivolse un’ultima occhiata grata prima di dirigersi verso un ragazzo dalla pelle bruna e i lunghi capelli scuri. Lui la accolse subito tra le braccia, facendole posare la testa sulla sua spalla.
“Carina, vero?”
Sobbalzai e mi voltai di scatto: non mi ero accorto dell’arrivo di Ethan alla mia sinistra, eppure lui era lì.
“Sì, ma… quel tizio chi è?” chiesi.
“Alick Jacobs. Non sapevi che lui e May si frequentano?”
Avvampai. “Ah. Sembrano fratelli, si somigliano un sacco” borbottai, leggermente deluso. May era davvero carina e per un istante avevo sperato che, dopo averla salvata, lei potesse interessarsi a me, ma evidentemente avevo fatto male i calcoli.
Ethan ridacchiò. “Strano, il pettegolo tra i due sei tu.”
“Ma quale pettegolo… sei un coglione! Non ti picchio solo perché ci hanno già pensato quei pezzi di merda.”
“Altrimenti sarei molto preoccupato, sì…” ribatté lui ironico.
Lo fulminai con un’occhiataccia, ma ben presto la mia espressione si addolcì: il mio amico mi aveva aiutato senza esitazioni, si era messo in mezzo alla rissa per difendermi, seppur non fosse tenuto a farlo. Del resto l’iniziativa era partita da me.
Probabilmente non sarei mai stato in grado di esprimere appieno la mia gratitudine nei suoi confronti.
 
 
Presi una boccata dalla mia sigaretta, cercando di reprimere il dolore al labbro, e lanciai un’occhiata fugace a Ethan, che fumava al mio fianco. Dovevo ringraziarlo di cuore per avermi portato fuori da quella situazione, senza di lui non avrei saputo come fare; in realtà non sapevo nemmeno come avevo potuto ficcarmici, non era proprio da me.
Il mio amico aveva un livido violaceo sullo zigomo che spiccava anche nell’oscurità della notte e la maglietta macchiata di sangue – forse mio, forse dei tipi con cui avevamo fatto a botte.
“Quella è la tua maglietta dei Led Zeppelin, quella che ti ha regalato Davi” osservai. “Adesso è rovinata.”
Ethan si strinse nelle spalle mentre sbuffava una nuvola di fumo dalle labbra. “Resiste a tutto, questa t-shirt. Un viaggio in lavatrice e tornerà come nuova.”
Calò nuovamente il silenzio tra noi; distolsi lo sguardo da Ethan e lo posai sulla mezzaluna che brillava in cielo. Mi sentivo un po’ in colpa per ciò che avevo fatto, ma quando avevo visto quel bastardo mettere le mani addosso a May non avevo saputo trattenermi, pur sapendo che ero in netto svantaggio e sarebbe andata a finire male. Non riuscivo proprio a tollerare le mancanze di rispetto nei confronti delle donne, forse perché erano delle creature davvero speciali e che ammiravo tantissimo.
Erano quasi delle supereroine, un po’ come zia Maura.
“Oggi ho picchiato quel tizio perché mi ha fatto pensare alla faccenda di mia madre” ammisi, lo sguardo sempre perso tra le stelle. “Io sono nato per colpa di uno stupro, mia madre ha sofferto tantissimo e alla fine si è suicidata. Non posso sopportare che una ragazza subisca delle violenze perché ogni volta mi ricordo di lei: nessuno merita di vivere quello che ha vissuto lei. Per questo sono partito come un treno in corsa.”
Ethan non ribatté subito, si limitò ad appoggiarsi meglio al muretto basso su cui avevamo preso posto, e fummo nuovamente avvolti dal frinire dei grilli e le voci allegre in lontananza – i classici suoni delle notti d’estate come quella.
Gettai il mozzicone ormai consumato a terra e lo schiacciai con la suola della scarpa. Ero stremato, ma non sarei tornato a casa per niente al mondo.
“Che faresti se tuo padre comparisse all’improvviso e pretendesse di farti da genitore?” chiese Ethan di punto in bianco, rompendo il silenzio.
Mi voltai lentamente verso di lui con gli occhi sgranati, colto alla sprovvista: non era da lui porre delle domande, tanto meno su argomenti così delicati. Lo trovai che mi scrutava con attenzione, gli occhi scuri estremamente seri che luccicavano sotto la luce della luna.
“Ma che cazzo dici? Mio padre si è scopato mia madre ed è sparito nel nulla, nemmeno sa di avere un figlio” gli feci notare, leggermente nervoso. In effetti era una cosa a cui non avevo mai pensato, ma la sola idea di scoprire l’identità dello stronzo che aveva violentato mia madre mi faceva salire il sangue al cervello.
“E che cazzo, lo so, ma lavora di fantasia! Che gli diresti se si presentasse alla tua porta?”
Scrollai le spalle. “Gli direi di dimenticarsi per sempre di avere un figlio e che per quanto mi riguarda potrebbe anche morire. Io non odio nessuno e sono disposto a perdonare tutti, ma non lui; chiunque sia, è la persona peggiore che possa esistere” risposi senza esitazioni, e alla fine la mia voce aveva assunto un tono quasi rabbioso.
Ethan scosse appena il capo, prese una boccata di fumo e smise di guardarmi, perdendo lo sguardo davanti a sé. “A volte un padre è meglio non averlo” sputò tra i denti.
Il mio cuore perse un battito quando udii quelle parole. Non sapevo i dettagli del passato di Ethan, lui preferiva parlarne il meno possibile, ma sapevo per certo che era fuggito dal Brasile con tre dei suoi fratelli perché suo padre era un mostro; non mi aveva mai raccontato cosa facesse di preciso, ma ogni volta che lo nominava il suo sguardo si riempiva d’odio.
Forse ero davvero stato fortunato a non conoscere il mio, l’avrei odiato se possibile ancora più di quanto già non facessi.
“Domani andiamo sul lungomare?” cambiai discorso, forse perché l’atmosfera si era fatta un po’ troppo pesante.
“Va bene, ma prendiamo il pullman delle undici, non ne ho voglia di svegliarmi presto.”
Sorrisi, e non mi importava niente anche se il labbro spaccato tirava e faceva male.
 
 
 
 
♠ ♠ ♠
 
 
Benvenuti nella mia prima minilong slice of life! Non so nemmeno se possa esistere una cosa del genere, però diciamo che questa è più o meno una raccolta di vari momenti sparsi ma collegati tra di loro, che andranno a formare una trama-non trama… sì, va bene, non so nemmeno io cosa sto dicendo, ma andando avanti con la lettura capirete XD spero!
Era da un sacco di tempo che volevo scrivere questa storia e raccontare un po’ di aneddoti dell’adolescenza di Ives&Ethan! Ho scelto proprio l’estate del 1981 perché all’epoca Ives aveva tredici anni e Ethan ne aveva quattordici; erano quindi in una fase di passaggio molto importante, in cui la crudeltà della vita viene sbattuta loro in faccia con ancora più violenza.
Forse non sono proprio partita col botto con questo capitolo, ma prometto che la storia migliorerà col tempo XD
Piccole notine di spiegazione per chi non conosce la serie ^^
Ives, Ethan e Sammy, rispettivamente basso, chitarra e batteria, ai tempi avevano una band, che però appunto non aveva ancora un nome o un cantante.
L’Alibi è un luogo di mia invenzione; a Los Angeles, la città in cui è ambientata la storia, in realtà era pieno di locali in cui si tenevano dei live e che erano frequentati dai musicisti dell’epoca, ma ho deciso di creare un luogo apposta come “punto d’appoggio” per i miei personaggi, anche perché mi viene più comodo parlare di un posto che non esiste XD
I Men At Work, che nomino a un certo punto nel testo, per chi non lo sapesse sono un gruppo australiano che proprio nel 1981 ottenne un grande successo con due brani molto carini ed estivi (Who Can It Be Now? e Down Under), quindi non ho fatto fatica a immaginarli come tormentone estivo dell’epoca :)
Per chi invece non avesse presente i Kiss e la loro I Was Made For Lovin’ You, ecco il link:
https://www.youtube.com/watch?v=ZhIsAZO5gl0
Zia Maura, che viene citata nei pensieri di Ives e definita una supereroina, è la zia di Ives, sorella della madre suicida, che si è presa cura di lui per tutti questi anni come se fosse un figlio, dividendosi tra lavoro e famiglia.
Infine quando faccio riferimento allo skate col drago di Ethan, parlo di un oggetto tanto caro al nostro chitarrista: quando era piccolo ha decorato lui stesso il suo skateboard con un enorme drago, avvalendosi delle sue capacità nel disegno (ma vabbè, Ethan sa fare tutto XD).
Dovrei aver detto tutto!
Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate! Grazie a chiunque sia giunto fin qui :3
Al prossimo capitolo!!! ♥
 
 

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Capitolo 2
*** II ***


II
 
 
 
 

I won't go down
I'll fight through the pain
I'll be there right by your side
I'll never let them bring you down
[Five Finger Death Punch – When The Seasons Change]
 
 
 
 
Osservai Ethan mentre usciva di casa con un’espressione cupa e corrucciata; mi rivolse appena un cenno di saluto mentre combatteva per chiudere il portoncino, che era difettoso ormai da anni – forse l’avevo sempre conosciuto così.
Dopo aver tentato di chiuderlo diverse volte, sbattendolo con forza e avergli mollato qualche pugno, il mio amico si arrese. “Foda-se” lo sentii borbottare in portoghese mentre si accostava a me. “Andiamo?” mi chiese poi.
“Siamo in ritardo, non faremo mai in tempo a prendere il bus delle undici” lo informai, incamminandomi verso la fermata del pullman più vicina.
“Che si fotta anche l’autobus del cazzo” ringhiò Ethan, arrancando sull’asfalto accanto a me.
Sollevai un sopracciglio e mi voltai appena per rivolgergli un’occhiata interrogativa: quella mattina mi era bastato scorgere la sua espressione cupa e incazzata per capire che qualcosa non andava. Non sapevo se fosse il caso di chiedergli cos’avesse, in genere la nostra amicizia non funzionava con le domande.
“Che cazzo hai da guardare?” sbottò lui dopo qualche istante, palesemente nervoso. Non era da lui reagire così, ennesimo segnale che qualcosa non andava.
Mi strinsi nelle spalle. “Che cazzo hai tu, piuttosto?”
“Niente… stronzate” borbottò, distogliendo lo sguardo e puntandolo dritto davanti a sé.
“Sicuro?” gli chiesi con una punta di preoccupazione. A volte non sapevo proprio come fare con lui, avrei voluto che mi raccontasse quello che gli capitava per poterlo aiutare ma lui si teneva tutto dentro.
“Sì, cazzo!” sbottò, infastidito dalle mie insistenze. Trascorse qualche istante di silenzio, poi Ethan riprese la parola. “Oggi mia sorella se ne va.”
Sgranai gli occhi e dovetti sforzarmi per non immobilizzarmi in mezzo alla strada. “Olivia?”
“Ti pare che io abbia altre sorelle qui?”
“Come mai? Dove va?” domandai, colto alla sprovvista.
Adesso si spiegava come mai il mio amico fosse così nervoso: nonostante fosse solo qualche anno più grande di lui, Olivia aveva rappresentato una madre per Ethan dal momento in cui erano scappati dal Brasile; era l’unica ragazza tra i quattro fuggiaschi ed era stata un punto di riferimento per i suoi fratelli in quegli anni, il mio amico me ne aveva sempre parlato con grande rispetto.
“Qualche tempo fa ha conosciuto un tizio di San Diego e dice di essersi innamorata. Si devono sposare e lei andrà a vivere con lui” spiegò Ethan, passandosi una mano tra i corti capelli scuri già umidi di sudore.
“E tu l’hai conosciuto?” mi informai.
“Sì, sembra un tipo a posto.”
“Quindi non sei preoccupato?”
Ethan si strinse nelle spalle. “Se osa trattare male mia sorella, sarà lui a doversi preoccupare. Comunque se lei è felice così, okay.”
Ma io sapevo che la stava facendo più facile di quanto non fosse: ostentava una certa indifferenza, però lo conoscevo abbastanza bene da notare la sua sofferenza. Doveva essere dura separarsi da una persona a cui si tiene veramente, salutarla prima che andasse a vivere in un’altra città a chilometri di distanza.
Prima se n’era andato Arthur, ora Olivia.
E sarebbero rimasti solo Ethan e Davi.
Lanciai un’occhiata al mio amico e lo trovai con lo sguardo assente, perso in chissà quali pensieri. Ethan sembrava sempre così forte e padrone di sé, ma anche lui, come tutti gli altri, rischiava di crollare quando i suoi punti di riferimento svanivano.
 
 
“Sembro un deficiente, vero?” Volteggiai su me stesso in modo che Ethan potesse vedermi per intero.
“Non è che lo sembri: lo sei” puntualizzò lui con un sorriso ironico, per poi raddrizzarmi sulla punta del naso il paio di occhiali da sole dalla montatura rosso fuoco che avevo indossato per scherzo.
Gettai un’occhiata alla bancarella davanti alla quale ci trovavamo, esaminando con fare critico le decine di occhiali dai colori e modelli bizzarri che vi erano esposte. “Neanche Elton John userebbe questa roba” commentai con una risata.
“Oh, aspetta, manca un piccolo dettaglio per completare l’outfit!” esclamò Ethan, per poi afferrare un improbabile cappello giallo in stile cowboy e ficcarmelo in testa. Mi scrutò per qualche secondo e scoppiò a ridere. “Perfetto!”
“Sei un coglione” lo accusai, scoppiando a ridere a mia volta e levandomi di dosso tutti quegli accessori che mi stavano già facendo sudare e morire di caldo.
Gettammo tutto sui tavoli della bancarella e continuammo la nostra passeggiata nel lungomare in direzione del nostro chiosco di fiducia, gettando di tanto in tanto qualche sguardo al mare che quel giorno ribolliva placido sotto il sole bollente.
Osservai Ethan mentre scambiava cenni di saluto con qualche ragazza che passeggiava sul lungomare e con qualche gruppetto che si era radunato sulla spiaggia e non potei fare a meno di invidiarlo: Ethan non aveva alcuna difficoltà a farsi notare dalle donne, andava a letto con una diversa quasi ogni sera, mentre io…
Io non avevo ancora fatto niente da quel punto di vista. Non che me ne fossi mai interessato, ma ormai avevo tredici anni e il fatto di non essere mai stato con una ragazza mi metteva a disagio.
“Oggi mi fissi tutto il giorno, stai cominciando a essere inquietante” mi fece notare Ethan, dandomi di gomito.
Mi riscossi all’improvviso: non mi ero accorto di starlo ancora guardando mentre riflettevo.
“No, è che… stavo pensando a una cosa…” borbottai, pentendomene subito dopo. Non mi andava affatto di rivelargli quanto mi sentissi patetico, perché non riuscivo mai a frenare la lingua?
Ethan si strinse nelle spalle e non disse niente ma, anche se non fece domande, stava aspettando che parlassi.
Forse avrei potuto dirglielo davvero: essendo molto più esperto di me – e avendo conosciuto la maggior parte delle nostre coetanee anche in intimità – poteva suggerirmi qualche ragazza con cui provarci.
“Stavo pensando…” Abbassai lo sguardo e mi sentii avvampare. “Sono stufo di essere un verginello sfigato” ammisi con un filo di voce.
“Scopa con qualche ragazza, no? Cosa stai aspettando?”
Entrammo nel chiosco e prendemmo posto a un tavolino, già sapendo che sarebbe diventato il ritrovo del nostro gruppo di amici.
Sbuffai e rivolsi un’occhiata al mare. “E con chi potrei provarci? Ho paura di sbagliare o di spaventarle…”
Ethan ci rifletté per qualche secondo, facendo scorrere lo sguardo tra le figure disseminate per la spiaggia; quella parte di lungomare era frequentata dai poveracci della nostra età perché era abbastanza squallida e facile da raggiungere con i mezzi pubblici, era un po’ come andare all’Alibi.
“Perché non ci provi con Bess? Mi sembra abbastanza espansiva e troietta, potrebbe dartela facilmente” commentò, accennando appena verso un punto alle mie spalle.
Mi voltai cautamente e adocchiai Bess Hadley, la ragazza in questione, che chiacchierava con due sue amiche seduta sul suo telo da mare. Qualche volta avevo scambiato due parole con lei, era una tipa tosta e lo si poteva capire anche solo guardandola: a differenza di tutte le altre ragazzine, che sfoggiavano costumi colorati e allegri, lei indossava sempre un bikini nero che contrastava con la sua carnagione chiara. Era esuberante e diretta, si muoveva con disinvoltura e lascivia, come se aspirasse ad attirare su di sé tutti gli sguardi.
Annuii: potevo provarci, Bess mi sembrava la tipa giusta ed era anche molto carina.
“Tu sei già stato con lei?” chiesi a Ethan.
“No. E poi non è il mio tipo, le preferisco più formose.”
“Ehi ragazzi! Ma quanto cazzo ci avete messo ad arrivare?” Una voce ruvida e squillante interruppe la nostra conversazione; ci voltammo e avvistammo le figure di Bogdan, Viktor e Jeff che ci raggiungevano.
Bogdan e Viktor erano due fratelli di origini polacche che vivevano nel nostro quartiere e che riuscivano a procurarsi sempre l’erba più buona, mentre Jeff era il loro migliore amico e li seguiva ovunque. Loro tre erano tra i nostri più cari compagni di avventure.
“Ehilà stronzi, che si dice?” li salutò Ethan mentre prendevano posto attorno al nostro tavolino.
“Che c’è, non sapete divertirvi senza di noi?” li punzecchiai io.
Bogdan – il più grande tra i due fratelli – ci mostrò il dito medio con un sorrisetto e poi lanciò un’occhiata critica al piano del tavolino ancora vuoto. “Non avete ordinato da bere?”
Io e Ethan scuotemmo il capo.
Viktor allora si alzò. “Faccio un giro di birre per tutti?”
Acconsentimmo – io in realtà stavo morendo di fame, ormai era quasi ora di pranzo – e, mentre il nostro amico si avviava verso il bancone, Bogdan si voltò verso Ethan e gli lanciò un’occhiata complice. “Cos’ha tuo fratello in lista in questi giorni?”
Ethan ci rifletté su per un attimo. “Crack, ero, coca, acidi… un po’ di tutto in realtà. Vuoi comprare?”
“Nei prossimi giorni voglio organizzare una serata di sballo all’Alibi, tanto ormai sono amico del proprietario e non avrà niente da ridire” spiegò lui.
Rimasi piuttosto colpito dall’idea di Bogdan: sapevo che spesso all’Alibi si verificavano delle serate all’insegna degli stupefacenti, in cui ci si stonava come se non ci fosse un domani, e qualche volta vi avevo assistito, ma dal canto mio non mi ero mai spinto oltre alcol e marijuana. Non che avessi paura di provare cose nuove, ma le sostanze che assumevo mi erano sempre bastate per uscire di testa e divertirmi; ultimamente però mi stava annoiando assumere sempre le stesse cose.
Sorrisi tra me: quella serata organizzata da Bogdan sarebbe stata l’occasione per assaggiare qualcosa di diverso.
Qualche istante dopo Viktor tornò con le birre – ovviamente al chiosco non facevano il servizio al tavolo – e si aggiunse alla conversazione per pianificare la festa.
Presi a sorseggiare la mia bibita rinfrescante e subito la mia attenzione venne catturata da Bess e le sue amiche che, a qualche metro da noi, stavano riponendo tutti i loro averi nelle borse per lasciare la spiaggia; doveva fare davvero caldo a quell’ora sotto il sole.
Bess si gettò lo zaino in spalla e si diresse a passo svelto proprio verso di noi, per poi salire i gradini in legno e accostarsi al nostro tavolino, seguita poco dopo dalle altre ragazze.
“Ehi, uomini! A me non lo offrite un sorso di birra?” esordì, trascinando una sedia tra me e Viktor e prendendo posto mentre canticchiava la canzone di Bob Marley diffusa da un piccolo giradischi sul bancone.
“Col cazzo” le rispose Viktor, beccandosi un pugno sul braccio dalla ragazza. Lui e Bess erano stati in classe insieme e si conoscevano da una vita, giocavano sempre a punzecchiarsi.
“Prendi un sorso dalla mia” le dissi gentilmente, già pronto a conquistarla – o almeno a provarci –, ma l’ultima parte della frase venne sovrastata da un’imprecazione di Ethan a gran voce.
Mi voltai nella sua direzione e lo trovai con gli occhi sgranati che fissava i bicchieri posati sul tavoo; infatti un’ape doveva essere stata attirata dal loro contenuto e ora ci svolazzava intorno.
Le amiche di Bess gridarono e, sollevandosi di scatto dalle loro sedie, fecero un balzo indietro.
“E dai, è solo un’ape! Se stiamo fermi se ne va da sola” esclamai, per nulla turbato dall’arrivo dell’insetto.
“Io devo proteggere la mia birra, non sia mai che ci si voglia tuffare dentro” affermò Viktor, prendendo il suo bicchiere e spostandosi qualche metro più in là.
“Perché questa bastarda non se ne va?” mugugnò Ethan, impietrito sulla sedia.
Scoppiai a ridere. “Non dirmi che hai paura!”
“Non ho paura…”
“Ho capito, adesso la mando via” affermò Bogdan, per poi sfilarsi la maglietta e cercare di colpire l’ape con l’indumento, ma come unico risultato ottenne di farla incazzare ancora di più.
Scattai in piedi. “Guarda che così peggiori solo la situazione!” cercai di avvertirlo; allungai bruscamente una mano per bloccarlo, ma proprio in quel momento l’ape si trovava nei paraggi e mi conficcò il pungiglione nel braccio.
“Ape del cazzo, brutta bastarda!” gridai, crollando nuovamente sulla sedia e portandomi una mano a coprire laddove mi aveva punto. Il dolore era stato così improvviso, sottile e intenso che gli occhi mi si riempirono di lacrime e digrignai i denti.
“Ma quanto siete ritardati tutti quanti? Stare fermi e aspettare che se ne andasse era troppo difficile, vero?” commentò Bess con un sospiro, poi si voltò verso di me. “Fammi vedere se ti è rimasto dentro il pungiglione.”
“Non faccio vedere niente a nessuno” ribattei irritato, premendo ancora più forte sul braccio nella speranza di alleviare il dolore.
Lei si strinse nelle spalle. “Fai come cazzo vuoi.”
“Prima mi prendevi per il culo e adesso piangi” intervenne Ethan rivolgendomi un sorriso ironico.
“Fottiti, non sto piangendo!” E, giusto per mandare al diavolo la credibilità della mia affermazione, una lacrima mi scivolò lungo la guancia. “Piuttosto, cosa cazzo si deve fare in questi casi?”
“Servirebbe qualcosa di metallico. Oppure dell’aglio” osservò Jeff.
“Oppure potresti disinfettare la ferita con dell’acqua di mare” propose Bogdan con un’espressione per nulla rassicurante; scambiò un’occhiata complice con Viktor e Ethan, poi tutti e tre sorrisero e io cominciai a temere per la mia vita.
“Cosa state architettando?” bofonchiai.
“Uno… due…” cominciò a contare Bogdan, fissando su di me il suo sguardo da rapace.
Mi alzai dalla sedia e cercai di scappare con un grido, ma ormai era troppo tardi: al tre, sentii i miei amici afferrarmi e trascinarmi verso la riva tra risate, grida e imprecazioni varie. Cercai di divincolarmi, ma prima che potessi accorgermene mi ritrovai immerso in acqua con ancora i vestiti addosso; fortunatamente feci appena in tempo a prendere fiato e chiudere gli occhi prima dell’impatto.
Quando riemersi, dovetti levarmi dalla faccia le ciocche corvine e fradicie prima di poter avvistare Ethan, Bogdan e Viktor che ridevano e mi salutavano dal bagnasciuga.
“Siete dei pezzi di merda!” strillai, nuotando verso di loro e lottando contro i vestiti e le scarpe che, inzuppati d’acqua, si erano fatti ancora più pesanti.
“Come va la puntura d’ape?” mi domandò Bogdan con fare ammiccante.
“Brucia tantissimo, porca puttana!” Era come se mi stessero conficcando un ago nel braccio, il sale a contatto col punto infiammato faceva davvero male.
Quando uscii dall’acqua, però, fui quasi grato ai miei amici: ora avevo molto meno caldo di prima.
Mi sfilai la maglietta, la lanciai in faccia a Ethan e poi mi scaraventai prono sulla sabbia, chiudendo gli occhi.
“Guarda che così ti bruci la schiena” mi fece notare Viktor con un sorrisetto divertito.
“Colpa vostra, ora devo stare al sole per asciugarmi.”
“Ah beh, buona fortuna allora” mi liquidò Ethan, tirandomi nuovamente la maglietta e voltandomi le spalle.
Ma prima che potesse muovere un passo, allungai una mano e gli afferrai la caviglia, rischiando di fargli perdere l’equilibrio. “Tu, razza di stronzo, dovrai portarmi il pranzo qui come risarcimento danni!”
Lui sospirò, ma sotto sotto sapevo che stava sorridendo. “Sì, ma molla la presa, altrimenti per pranzo mangerai solo sabbia.”
 
 
“Ma ieri sera dove sei finito?” domandai a Sammy non appena feci il mio ingresso nel garage di casa sua.
Trovai il mio amico seduto sullo sgabellino della sua batteria con lo sguardo assente e le labbra semiaperte; tra le mani tremanti stringeva le bacchette, ma pareva che le sue dita potessero mollare la presa da un momento all’altro. Sembrava quasi sbiadito, inghiottito dall’afa estiva e dalla penombra del garage.
Non appena si accorse della mia presenza, si voltò a guardarmi con espressione confusa, sbattendo le palpebre un paio di volte. “Dov’è Ethan?”
“Siamo scesi da poco dal bus ed è andato a prendere la sua chitarra a casa. È un vero peccato che tu non sia venuto al mare neanche oggi, è stato un delirio! Mi ha punto un’ape, mi hanno lanciato in acqua con tutti i vestiti… e penso di essermi bruciato la schiena” raccontai, mentre recuperavo il basso che era poggiato in un angolo dentro la custodia. Era meglio se mi portavo avanti e cominciavo ad accordarlo, almeno quando sarebbe arrivato Ethan avremmo potuto cominciare subito con le prove.
“Immagino che vi siate divertiti” borbottò Sammy in tono assente.
Mi voltai nuovamente a guardarlo, sollevando un sopracciglio: non era da lui essere così giù, in genere Sammy era un’esplosione di energia. In realtà era già da qualche tempo che avevo notato delle stranezze in lui, spesso spariva dalla circolazione senza dire niente e le poche volte che stava con noi sembrava avere la testa da un’altra parte. Non lo riconoscevo più.
“Sammy, perché non vieni mai con noi al mare?”
“No, è che… a me non piace il mare” bofonchiò, sistemandosi nervosamente un boccolo rosso fuoco dietro l’orecchio. Era palesemente a disagio.
Lasciai perdere basso e amplificatore e mi accostai a lui, poggiandomi sul bordo di un tom della sua batteria. Lo scrutai con attenzione e solo allora mi accorsi che i suoi occhi chiari erano torbidi, il suo viso delicato era più pallido del solito e la maglietta che indossava stava larga sul suo corpo troppo magro.
“Ehi, che cazzo sta succedendo?” gli chiesi allarmato, sentendo un nodo formarsi in gola. Come potevo non essermi accorto prima che qualcosa non andava?
Sammy abbassò lo sguardo e lasciò cadere le bacchette a terra. “Niente.”
“Non è vero! Ti prego, Sammy! Qualsiasi cosa sia, la affronteremo insieme!” lo supplicai con una vena di isteria nella voce. Ero seriamente preoccupato.
Il mio amico sollevò nuovamente il viso. “Okay, se lo vuoi sapere seguimi. Ma mi raccomando: acqua in bocca, non lo devi dire a nessuno” sibilò, per poi alzarsi e dirigersi verso la porta che collegava il garage al resto della casa.
Lo seguii con la gola secca e il cuore che batteva a mille; all’improvviso il caldo estivo sembrava essere ancora più opprimente. Lo sguardo di Sammy, così serio e triste, mi aveva messo un sacco d’ansia addosso e ora non sapevo cosa aspettarmi. Però ero anche onorato del fatto che, di qualsiasi cosa si trattasse, aveva deciso di confidarla proprio a me.
Salimmo una breve scalinata che ci portò al piano terra, percorremmo un piccolo corridoio su cui si affacciavano diverse porte – da una di esse, probabilmente la cucina, proveniva il rumore di un rubinetto aperto, lo scontrarsi delle stoviglie e la televisione accesa – e infine Sammy mi condusse al piano di sopra, in camera sua. Non entravo spesso in casa sua, ai suoi genitori non piaceva avere gli amici di loro figlio in mezzo ai piedi, quindi se lui aveva deciso di portarmi lì doveva esserci un motivo serio.
La camera di Sammy era piccola e ordinata, la finestra era rivolta verso ovest e la luce arancione del tramonto inondava ogni angolo.
“Perché siamo qui?” ebbi finalmente il coraggio di chiedergli, torcendomi le mani sudaticce.
Il mio amico richiuse per bene la porta e, con lo sguardo basso, fece l’ultima cosa che mi sarei aspettato: si sfilò la maglietta verde che indossava, gettandola in fretta sul letto, e rimase per qualche istante immobile con le guance in fiamme.
Spalancai la bocca incredulo e feci scorrere lo sguardo sul corpo esile e pallido di Sammy, su cui spiccavano con disarmante nitidezza dei segni violacei e bluastri. Sul petto, sul ventre, sui fianchi, sulle spalle: la sua pelle era interamente ricoperta di lividi gonfi e scuri.
“Porca puttana” riuscii soltanto a sussurrare, portandomi una mano davanti alla bocca.
Non ero bravo in queste situazioni, non sapevo mai cosa dire per non sembrare inopportuno. L’unica cosa di cui ero certo era che, qualunque fosse il responsabile che aveva ridotto il mio amico in quelle condizioni, volevo trovarlo e spaccargli la faccia immediatamente.
Mi accostai a Sammy per esaminare meglio quelle contusioni e rimasi sconcertato nel notare alcuni segni giallognoli, lividi più vecchi che si accingevano a sparire, segno che erano lì da tanto tempo.
“Ecco perché non vengo mai al mare con voi: non posso farmi vedere in queste condizioni. Non mi tolgo mai la maglietta, tranne quando sono da solo” soffiò Sammy con voce roca, senza avere il coraggio di sollevare lo sguardo.
“Chi è stato? Chi è il bastardo?” sbottai allora, ma il mio amico mi fece segno di abbassare la voce.
“I miei genitori non lo devono sapere” spiegò, andando a sedersi sul letto. Aveva le spalle incurvate e i capelli gli piovevano attorno al viso più pesanti del solito.
Presi posto accanto a lui, cercando di contenere la rabbia e non esplodere nuovamente. Non ero il tipo che si lasciava andare alle reazioni istintive ed esagerate, ma non sopportavo questo genere di ingiustizie e violenze, mi facevano incazzare come una belva.
“Sammy, dimmi chi è stato. Lo risolveremo insieme” tentai di rassicurarlo, addolcendo il tono della voce più che potevo.
“È cominciato tutto qualche mese fa” prese a raccontare con lo sguardo basso, e la sua voce si incrinò immediatamente sulle ultime parole; anche se non mi permetteva di guardarlo negli occhi, avevo intuito che si fossero riempiti di lacrime. “Eravamo… all’Alibi, io son andato in bagno e tre tizi mi hanno seguito. Hanno aspettato che finissi subito dietro la porta e quando sono uscito mi fanno afferrato e sbattuto contro la parete. Mi hanno detto che sapevano che ero figlio di due genitori che lavorano, e che quindi la mia famiglia stava bene… e mi hanno chiesto dei soldi. Io ho dato loro tutto quello che avevo e li ho supplicati di lasciarmi in pace, ma loro mi hanno riso in faccia, mi hanno mollato una serie di pugni e mi hanno detto che dovevo continuare a dar loro dei soldi. Così hanno iniziato a seguirmi ovunque e chiedere sempre di più, e se provo a ribellarmi mi picchiano. E mi hanno minacciato che, se dirò qualcosa a qualcuno, faranno sparare a mio padre… sono in tre, sono grandi e io…” Un singhiozzo interruppe il suo sfogo, seguito subito da un altro e un altro ancora. Ormai Sammy stava piangendo disperato, si portava le mani sul viso ad asciugarsi gli occhi e tirava su col naso in continuazione.
“Dobbiamo fare qualcosa.” Mi sentivo morire, spostavo lo sguardo dal viso sconvolto del mio amico al lenzuolo a righine gialle e arancioni perfettamente steso sul letto, mentre il mio cervello tentava di elaborare una soluzione o un piano per affrontare quei bastardi, ma non mi veniva in mente niente. “Dobbiamo dirlo a qualcuno” riuscii soltanto a proporre.
“No, non possiamo!” obiettò subito Sammy; ormai il suo corpo tremava vistosamente anche se era piena estate. “Non posso mettere a rischio la mia famiglia per questa cosa! L’unico modo per tenermi lontano dai guai sarebbe smetterla di frequentare voi e l’Alibi, perché loro ormai sanno che mi possono trovare lì ed è per quello che…”
“Ma non dire stronzate” lo interruppi con rabbia. “Noi abbiamo una band, Sammy! E sei nostro amico, vuoi davvero perdere tutto e darla vinta a questi bastardi?”
Sammy sollevò lo sguardo su di me e, per la prima volta da quando eravamo entrati nella sua camera, ci fissammo negli occhi: i suoi erano di un celeste acceso, così simili ai miei ma più tristi e gonfi di lacrime.
“Io non vorrei allontanarmi da voi, però non so più come fare. Quei tipi mi hanno preso di mira perché sanno che sono il più debole, che non sono cresciuto in strada come voi e vengo da una famiglia… diversa. E forse hanno ragione loro, io non sono fatto per quest’ambiente” disse mestamente.
Aggrottai le sopracciglia. “Non stai parlando sul serio, vero?”
Sammy abbassò nuovamente lo sguardo. Era la prima volta che lo vedevo così abbattuto, ormai lo conoscevo da quattro anni e l’avevo sempre visto sorridente e allegro; doveva soffrire davvero molto e sentirsi incredibilmente umiliato per quella faccenda.
“Senti, facciamo così: lo diciamo a Ethan e cerchiamo una soluzione insieme” proposi con un sospiro.
“No! Ives, non dire niente a Ethan!” si affrettò a replicare lui. “L’ho raccontato a te e solo a te, e non deve uscire da queste quattro mura.”
“Perché? Di lui ci si può fidare, se stiamo uniti possiamo essere più forti.”
Sammy scosse il capo e le sue guance andarono a fuoco. “Io mi… mi vergogno di dirglielo, lui mi prenderebbe in giro o… non voglio fare la figura del bambinetto che non si sa difendere” ammise, e un altro fiume di lacrime prese a scorrere sul suo viso.
Io intanto non potevo credere a ciò che stavo sentendo. “Ma chi, Ethan? Ma stiamo parlando dello stesso Ethan? Lui non ti prenderebbe mai per il culo, anzi, sarebbe il primo a difenderti senza pensarci due volte.”
“Appunto, farebbe un casino e io non voglio, anzi, non voglio coinvolgere nessuno. Per favore, non dirglielo, ti prego… io non l’avrei dovuto dire a nessuno, ma stavo troppo male e avevo bisogno di sfogarmi e ho scelto te perché… tu non giudichi mai nessuno e sei sempre così comprensivo, ma per favore, non dirlo a Ethan” mugolò, passandosi per l’ennesima volta il dorso della mano sul viso per scacciare le lacrime.
“Sammy” mormorai soltanto, mentre gli occhi cominciavano a pizzicarmi. Guardavo quel ragazzo così fragile, che aveva ancora i tratti e l’ingenuità di un bambino nonostante avesse quasi quattordici anni, così indifeso, tremante e coperto di lividi, e mi veniva una voglia immensa di abbracciarlo. Sapevo che non l’avrei mai potuto fare, sarebbe sembrato un gesto troppo strano, ma mi faceva così tanta tenerezza e gli ero infinitamente grato per essersi confidato proprio con me. Decisi in quel momento che sarei stato leale nei suoi confronti e che, se quella era la sua volontà, avrei mantenuto il segreto.
Ma cosa potevo fare per lui? Esisteva un modo per farlo stare meglio?
Afferrai la maglietta abbandonata sul materasso e gliela porsi con gentilezza, sperando che quel gesto bastasse per fargli capire la mia volontà di aiutarlo. “Stai tremando, vestiti” dissi, ma mi parve la frase più fuori luogo che potessi pronunciare.
Lui tirò su col naso e si rigirò l’indumento tra le mani. “Ti fa schifo vedere tutti questi lividi, vero? È per quello che vuoi che li nasconda.”
Quella domanda per me fu come una pugnalata. “No Sammy, non mi fa schifo. Mi fa male.”
Lui indossò la maglietta e poi si strinse le braccia attorno al corpo, ma sul suo viso si dipinse una smorfia di dolore; i lividi dovevano fargli molto male anche solo a sfiorarli.
“Ascolta,” ruppi il silenzio, cercando le parole giuste da utilizzare e puntando gli occhi in quelli di Sammy, “io non sono molto bravo in queste cose, non sono coraggioso e sicuro come sembro, ma ti prometto che andrà tutto bene. Possiamo trovare una soluzione, okay? Dato che loro ti prendono di mira quando ti trovano da solo, facciamo così: stai sempre con noi, non allontanarti mai da me e Ethan. Io farò in modo di tenerti sempre d’occhio e se verranno a cercarti li affronteremo insieme. Così, anche se non abbiamo speranze, almeno le prendiamo insieme!” Accennai un sorriso sulle ultime parole, sperando di alleggerire almeno un pochino l’atmosfera per quanto fosse possibile.
Sammy ricambiò il sorriso, anche se i suoi occhi non ridevano per niente. “Grazie Ives, sei un amico. Il migliore che potessi avere.”
Di nuovo ebbi l’impulso di abbracciarlo e forse l’avrei anche fatto, ma la paura di fargli male mi bloccò e così mi limitai a sorridere ancora di più, sperando di rassicurarlo ugualmente.
Sammy si alzò dal letto e si sistemò la cascata di riccioli rossi con un gesto frettoloso. “Okay, adesso mi sciacquo gli occhi e poi scendiamo, magari Ethan è arrivato e ci sta aspettando.”
Annuii e lo seguii fuori dalla camera con un turbinio di pensieri ad affollarmi la testa e lo stomaco sottosopra. Non sapevo nemmeno io come reagire a quello che avevo appena scoperto.
Mentre osservavo Sammy entrare in bagno per rinfrescarsi il viso, mi domandai come mai si fosse affidato proprio a me, che su certe cose ero così inesperto e insicuro.
Forse esisteva qualcuno ancora più fragile di me.
 
 
 
 
♠ ♠ ♠
 
 
Ed eccoci alla fine del secondo capitolo, un po’ più lungo e succoso del precedente! Volevo inserire qualche scenetta idiota, che non so se mi sia venuta bene, ma sono piuttosto soddisfatta dell’ultima parte ^^
Anche se piango per Sammy, povero piccolo T.T
Piccole notine anche stavolta per spiegare alcune cose!
Foda-se è un’imprecazione in portoghese (ricordo, per chi non segue la serie, che Ethan è brasiliano) che vuol dire letteralmente “che si fotta”… sì, è la frase preferita di Ethan in tutte le lingue XD
Olivia è la sorella maggiore di Ethan, ha sei anni più di lui (quindi qui ne ha circa una ventina), mentre Davi è il fratello maggiore, il primogenito della famiglia AraÚjo, e per mantenere se stesso e i suoi fratelli fa lo spacciatore; ecco perché Bogdan chiede a Ethan cosa Davi possa vendergli per sballarsi.
Per quanto riguarda Sammy e la sua famiglia, dice che non è come gli altri perché effettivamente viene da un mondo un po’ diverso: anche se ora vive in uno dei peggiori quartieri di Los Angeles, i suoi genitori sono persone perbene – suo padre aveva una scuola di musica, ed ecco perché ha un sacco di attrezzatura nel suo garage e perché Ives e Ethan si appoggiano a lui per le prove della band. Perciò, anche se è cresciuto in mezzo a tutti loro, viene da una famiglia “normale” e sicuramente non si è fatto gli anticorpi fin da piccolo come i suoi amici.
Per quanto riguarda il lungomare che ho descritto, non so se a Los Angeles esista/sia mai esistita una parte di lungomare del genere, ma mi piaceva troppo ricreare quest’atmosfera e quindi me lo sono inventato, come l’Alibi XD
In questo capitolo poi sono apparsi alcuni nuovi personaggi, spero vi siano piaciuti e vi abbiano incuriosito!
E infine abbiamo scoperto la più grande fobia di Ethan XD chi l’avrebbe mai detto, lui che non teme mai niente si lascia spaventare da delle dolci apette!
Quanto sono disagiati i miei figlioletti *_________*
E niente, spero di aver spiegato tutto e soprattutto spero che questo capitolo vi sia piaciuto! Io almeno ho adorato scriverlo, dalla prima all’ultima parola :3
Alla prossimaaaa!
 
 

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Capitolo 3
*** III ***


III
 
 
 
 
But our answer today
Is to let all our worries
Like the breeze through our fingers slip away
[Stevie Wonder – Master Blaster (Jammin’)]
 
 
 
 
“Sei sicuro che riesci a guidare quest’affare?” domandai dubbioso, stringendo forte la cintura fino a farmi sbiancare le nocche.
Ethan premette sull’acceleratore e scalò la marcia con disinvoltura, come se fosse nato al volante di un’auto. Era incredibile quante cose sapesse fare il mio amico.
“Certo che sono sicuro, mi ha insegnato Davi un sacco di tempo fa.”
“Appunto, un sacco di tempo fa: ora sarai fuori allenamento” mi allarmai.
“Se dico di saper fare una cosa, è perché la so fare davvero.”
“Come quella volta che hai provato ad aggiustare l’amplificatore e stavi per fulminarci entrambi e far esplodere la casa di Sammy?” gli rinfacciai.
“Va bene, di elettricità non ci capisco un cazzo, ma guidare è tutta un’altra cosa. Se non ti fidi, puoi sempre scendere.” Fece per accostare, ma io scossi il capo.
“E se ci ferma la polizia e ti becca senza patente?” mi preoccupai allora.
“I poliziotti si faranno da parte e si tapperanno la bocca non appena vedranno che la macchina è intestata a Davi AraÚjo. Nessuno osa mettersi contro mio fratello, nemmeno le autorità.”
Gettai un’occhiata alla strada che si srotolava quasi deserta davanti a noi, al mare che si estendeva alla nostra destra e rifletteva i raggi dorati del tramonto, e annuii. “Va bene, ma promettimi che non moriremo.”
“Te l’hanno mai detto che sei una rottura di cazzo, Ives?” Ethan si sistemò gli occhiali da sole sul naso.
Sorrisi. “Sì, me lo dici tu tutti i giorni.”
“Bene.” Poggiò entrambe le mani sul volante e cominciò a prendere velocità. “Allora giù i finestrini e su il volume!”
Girai di botto la manopola del volume dell’autoradio, la quale stava trasmettendo Message In A Bottle dei Police, e lanciai un grido sentendo il vento caldo sferzarmi il viso e scompigliarmi i capelli. Cantando a squarciagola il testo della canzone – io e Ethan avevamo letteralmente consumato insieme la nostra cassetta di Reggatta De Blanc, conoscevamo a memoria ogni singolo istante dell’intero album – e gettando il braccio fuori dal finestrino, ebbi l’impressione di poter spiccare il volo da un momento all’altro.
Il profumo del mare mi riempiva le narici, la musica mi riempiva le orecchie, mio fratello era accanto a me e sorrideva, le ruote dell’auto divoravano l’asfalto di una strada fatta di sogni, che sembrava volerci condurre ovunque.
E in quel momento pensai che fosse quello il paradiso, che potevo avere il mondo intero ai miei piedi.
Nulla poteva andare storto.
Io e Ethan non dicemmo niente, ma le nostre anime vibravano insieme, a ritmo della musica che faceva tremare l’intero abitacolo.
Quando il brano dei Police giunse al termine io, preso dall’entusiasmo, cominciai a ruotare la rotella per navigare tra le stazioni radio e cercare qualche altra canzone interessante. Avevo il cuore a mille e l’adrenalina che mi inondava le vene, volevo solo gridare contro il tramonto e lasciare che il vento estivo portasse la mia voce fino al cielo.
Last Train To London!” strillai entusiasta non appena riconobbi le note della famosa canzone degli Electric Light Orchestra.
Ethan si esibì in una smorfia disgustata. “Ma vuoi togliere questa merda?”
“È bellissima questa canzone!” obiettai indignato.
“Almeno fai un giro nelle altre radio per vedere se c’è qualcosa di meglio.”
“Ma io voglio ascoltare questa!”
“E che cazzo!” sbottò Ethan, per poi allungare una mano verso l’autoradio e girare bruscamente la manopola.
Lanciai un grido frustrato. “Che stronzo, mi hai fatto perdere il segnale! E tieni le mani sul volante, che non si sa mai!” Presi a cercare nuovamente la frequenza di mio interesse, ma in mezzo ai vari borbottii provenienti dalle casse riconobbi una linea di basso inconfondibile: Another One Bites The Dust.
“Fermo! Lasciala!” esclamò Ethan entusiasta.
“Certo!” esultai a mia volta, sollevando ancora di più il volume e prendendo a muovere la testa a ritmo di batteria.
Io e Ethan andavamo fuori di testa per i Queen, John Deacon e Brian May per noi erano delle specie di divinità.
Cantai anche quella canzone senza perdermene nemmeno una parola, la conoscevo a memoria; Ethan, accanto a me, mi ascoltava in silenzio mentre premeva sull’acceleratore.
 
How do you think I'm gonna get along
Without you when you're gone?
You took me for everything that I had
And kicked me out on my own

Are you happy, are you satisfied?
How long can you stand the heat?
Out of the doorway the bullets rip
To the sound of the beat

Look out!

Another one bites the dust
Another one bites the dust
And another one gone, and another one gone
Another one bites the dust
Hey, I'm gonna get you, too
Another one bites the dust
 
“Non male” commentò Ethan, la voce appena udibile sotto la musica sparata al massimo del volume.
Mi strinsi nelle spalle. “Certo, sono i Queen!”
“No, io parlavo di te.”
Sgranai gli occhi e mi voltai a guardarlo. “Eh?!”
“Sei intonato. Perché non diventi tu il cantante della nostra band?”
Avvampai, totalmente preso alla sprovvista. “Ma che cazzo dici? Io, cantare? No no, mi vergogno!”
“Non dovresti.”
“Io sul palco voglio solo suonare il basso e concentrarmi su quello. Il canto lasciamolo ai cantanti” tentai di porre fine a quel discorso che non sarebbe nemmeno dovuto nascere.
“Fai come ti pare…”
“Perché invece non canti tu?” me ne uscii allora.
Potevo già intuire quale sarebbe stata la reazione del mio amico: Ethan forse non aveva mai cantato in vita sua, nemmeno per sbaglio; non l’avevo mai sentito canticchiare a mezza voce.
“Ma vaffanculo!” brontolò infatti, e immaginai i suoi occhi riempirsi di imbarazzo sotto le lenti scure degli occhiali.
Scoppiai a ridere di gusto. “E dai, perché non provi almeno una volta nella vita?”
“Perché no, e poi sono stonato. Piuttosto… la canzone dei Queen è finita, cerca qualcos’altro” cambiò subito discorso.
In effetti nell’abitacolo rimbombava la voce di uno speaker che pubblicizzava una marca di detersivo per la lavatrice.
Ripresi a scorrere le stazioni e, dopo aver saltato diverse canzoni country, discutibili tormentoni degli ABBA e dei Bee Gees e svariati notiziari, sbuffai e lancia un’occhiata a Ethan. “Non è che tuo fratello ha qualche cassetta qui in macchina?”
“Ce n’è un pacco sul sedile posteriore.”
Mi voltai per afferrare il gruzzolo di audiocassette e cominciai a esaminarle fino a trovare qualcosa di mio gradimento: Back In Black degli AC/DC.
“Con questa voliamo via!” esclamai mentre inserivo la cassetta nell’apposito vano.
E forse, in un certo senso, era come se stessimo volando davvero.
 
 
Il sole non era ancora tramontato del tutto quando arrivammo davanti all’Alibi. C’erano già tutti i nostri amici, alcuni dei quali si trovavano sul marciapiede con una sigaretta tra le labbra.
Affilai lo sguardo e avvistai subito l’oggetto del mio interesse: Bess se ne stava appoggiata alla parete accanto alla porta d’ingresso e chiacchierava con una sua amica.
Mi voltai per lanciare un’occhiata a Ethan e lui annuì impercettibilmente, segno che aveva capito le mie intenzioni. Come sempre, del resto.
Attraversammo la strada, salutammo qualche persona e io mi fermai davanti all’ingresso proprio accanto a Bess, prendendo a frugarmi in tasca per portare fuori il mio pacchetto di sigarette. I miei polpastrelli sfiorarono anche l’accendino, ma il piano richiedeva che io fingessi di non averlo.
“Bess, hai cambiato look?” attaccò bottone Ethan, accennando ai capelli della ragazza; il suo biondo cenere naturale era stato rimpiazzato da uno strampalato viola melanzana.
“Ehi” ci salutò lei, per poi prendere una boccata di fumo dalla sua sigaretta. “Sì, ma non mi convince. Sto cercando il mio colore.”
“Stavi benissimo anche bionda” ammiccai con un sorriso.
Lei si strinse nelle spalle. “È noioso, mi ha stancato. Dopo il viola voglio provare il verde.”
Ridacchiai. “Senti, hai da accendere? Devo aver perso l’accendino.”
Lei sorrise ironica. “Ah, davvero? E l’ha dimenticato anche Ethan?”
Con la coda dell’occhio notai il mio amico voltarsi dall’altra parte per nascondere una risata. Grazie mille per la solidarietà.
“E dai, era la scusa per fare un po’ di conversazione” ammisi con un’alzata di spalle.
Bess sorrise beffarda, passandomi il suo accendino. “L’avevo capito, volevo solo prenderti per il culo.”
“Io entro e mi prendo una bottiglia di Jack intanto, così occupo pure un tavolino” intervenne Ethan, capendo che volevo stare da solo con la ragazza.
“Entro anch’io” affermò anche l’amica brunetta di Bess, che fino a quel momento aveva assistito alla conversazione in silenzio. Doveva essere molto timida.
I due scomparvero dentro il locale, così mi appoggiai alla parete accanto a Bess con fare disinvolto e accesi una sigaretta. Non mi trovavo particolarmente in imbarazzo, del resto non facevo alcuna fatica a stringere amicizia.
Stavo per aprir bocca e dire qualcosa, ma lei mi precedette: “Come va la puntura d’ape?”.
Ridacchiai. “Sono passati giorni, ormai non ho nemmeno più il segno. Senti Bess, non è che per caso tu sai cantare o hai qualche amica che sarebbe interessata a entrare nella nostra band come cantante?” buttai lì. Del resto era vero, stavamo cercando qualcuno da piazzare alla voce, tanto valeva portarsi avanti col lavoro.
Il suo viso dolce si contrasse in un’espressione pensosa. “Mmh… una cantante, eh? Io lo farei volentieri, ma non becco nemmeno una nota, farei scappare tutto il pubblico. E così su due piedi non mi viene in mente nessuno, ma chiederò in giro. Non avete pensato di appendere un annuncio qui, sulla porta dell’Alibi?”
Scossi il capo. “Però è una buona idea.”
“E dovreste anche farvi conoscere, magari suonando un po’ in giro.”
“E chi ci vuole senza un cantante? La musica strumentale annoia.”
“Beh, in realtà dipende. Un giorno vi vorrei sentire, dove avete la sala prove?” si incuriosì.
Risi. “Sala prove… è il garage del nostro batterista, mica abbiamo i soldi per permetterci una saletta vera.”
Bess schioccò le dita e il suo sguardo si illuminò. “Sai cosa dovreste fare? Suonare in strada. Portare tutto fuori e spaccare il culo a tutto il vicinato. Così vi noteranno per forza!”
Sorrisi, già immaginando batteria e amplificatori sull’asfalto e i passanti che si fermavano, curiosi ed entusiasti per la nostra musica. “Ma sai che è una proposta niente male? Non sarai una brava cantante, ma potremmo assumerti come manager!”
“Ma scusate, allora siete voi a essere un po’ rincoglioniti: come avete fatto a non pensarci prima?” se ne uscì lei con una risata – senza peli sulla lingua, come sempre. Poi mosse qualche passo avanti e si sedette sul gradino del marciapiede, invitandomi a fare lo stesso. “Comunque se mi volete assumere a me va bene, magari è la volta buona che guadagno un po’ di soldi e smetto di vivere nella merda.”
Mi sistemai accanto a lei e continuai a fumare la mia sigaretta ormai a metà. Le lanciai un’occhiata in tralice. “Tutti noi viviamo nella merda, Bess.”
Lei si strinse nelle spalle, gettò a terra il mozzicone e prese a parlare mentre si legava i capelli lisci e lunghi in una disordinata crocchia. “Tutti i ragazzi che frequentano l’Alibi hanno qualcosa che non va e vengono qui a sfogarsi o a dimenticarsi della loro vita patetica, lo so. Forse siamo tutti degli illusi e faremo una fine di merda, chissà.”
Distolsi lo sguardo da lei e mi guardai attorno: il marciapiede ormai si era quasi svuotato, tutti erano entrati nel pub o si erano trasferiti sulla piccola terrazza sul retro, nessuno faceva più caso a noi.
Tornai a concentrarmi su Bess: era strano sentir parlare a quel modo una ragazzina di dodici anni, doveva aver vissuto qualcosa di veramente orribile per esprimersi già con quella freddezza e con quella disillusione. Non sembrava nemmeno capace di sognare.
“Facciamo così: io ti racconto il mio demone e tu mi racconti il tuo, così ci sfoghiamo” le proposi di getto. Era la cosa più idiota che potessi dire e ormai ero ben lontano dal conquistarla, ma forse il caldo mi stava dando alla testa. Come potevo farmi gli affari di una persona che conoscevo poco e niente?
Ma lei non parve affatto turbata e assentì senza fare una piega. “D’accordo, ma comincia tu, dato che hai proposto questo gioco.”
Abbassai lo sguardo e lo fissai sulle scarpe in tela consumate e sudicie che indossavo. “Mia madre è stata stuprata ed è rimasta incinta del suo aggressore. Ha deciso comunque di tenermi con sé, ma quando sono nato non sopportava di vedermi ogni giorno perché le ricordavo lo stupro e una settimana dopo si è suicidata. Io sono cresciuto insieme a zia Maura, che è sua sorella, a mia cugina e al marito di mia zia. Fine.”
Decisi di omettere il fatto che Stan, il compagno di zia Maura, mi picchiava e maltrattava quand’ero piccolo, e che mia cugina Maggie mi odiava e mi ripeteva in continuazione che ero in più nella famiglia. Non che non mi fidassi di Bess, ma erano fatti troppo dolorosi per ammetterli ad alta voce.
“Porca troia” commentò lei con gli occhi sgranati. “Beh, almeno hai trovato una famiglia alla fine.”
“Già” risposi evasivo, con una scrollata di spalle. “Tu invece?”
Lei si esibì in un gesto con la mano, come a sminuire ciò che stava per dire. “Una trama molto classica in realtà, quasi banale. La madre che muore, il padre che entra in depressione e beve come un disperato, le figlie abbandonate al loro destino. Mia sorella Yelena, che ha diciott’anni, fa il possibile per portare avanti i resti della famiglia, anche se questo significa andare a battere.”
Mi morsi il labbro inferiore, davvero scioccato da quella storia. Non erano state tanto le vicende della famiglia di Bess a lasciarmi senza parole, ma il tono distaccato, quasi annoiato, con cui ne parlava. Probabilmente soffriva tantissimo per ciò che stava vivendo, ma non voleva darlo a vedere.
“Ma è una cosa tremenda. Quando… è successo?” azzardai, avvampando subito dopo. Certe volte invidiavo Ethan per essere sempre così controllato.
“Mia madre è morta più o meno un anno fa. Mi manca in ogni singolo momento della mia vita, porca puttana. E sono incazzata a morte con mio padre perché non ha capito che dopotutto è ancora nostro padre e che io e mia sorella così abbiamo perso due genitori, non uno.”
“Mi dispiace tantissimo” riuscii soltanto a dire.
“Anche a me” ribatté Bess con un sorriso mesto. “Chissà come mai ti ho confidato tutte queste cose, nemmeno ti conosco.”
Sfoggiai un sorriso luminoso, deciso a cogliere l’occasione per cambiare discorso e lasciarci alle spalle quella triste parentesi. “Perché sono una persona molto affascinante e che ispira fiducia!”
Bess ridacchiò e mi arruffò i capelli con un gesto fulmineo. “Sei tenerissimo. Ma in quanto a fascino, scusa se te lo dico, Ethan ti batte a occhi chiusi.”
Inarcai un sopracciglio. “Ti piace Ethan?”
“Credo che sarebbe una bella scopata.”
Ecco, dovevo aspettarmelo. Tutte le volte che cercavo di avvicinarmi a una ragazza, questa mostrava interesse per qualcun altro.
Mi strinsi nelle spalle: potevo farmene una ragione. In realtà non è che avessi un obiettivo ben preciso o aspirassi all’amore eterno con Bess, ero soltanto stanco di essere un verginello sfigato. Ma ci sarebbero state altre ragazze, altre occasioni.
Mi alzai e tentai di sistemare i capelli che Bess mi aveva scompigliato. “Beh, buona fortuna con lui.”
Lei mi imitò e mi strizzò l’occhio con un sorrisetto complice. “Non ne ho bisogno, ho già capito come farlo cedere. Vuoi vedere come lo conquisto?”
Scoppiai a ridere. “Sono troppo curioso di vederti all’azione” mi entusiasmai, battendole una leggera pacca sul braccio.
“Ah, comunque ora che ci penso…” disse mentre entravamo nel locale. “C’è una mia amica, Emily, che potrebbe essere interessata al ruolo di cantante. Se c’è oggi, te la presento subito.”
Annuii e le sorrisi. “Grazie, manager!”
 
 
Emily spostava in continuazione lo sguardo da noi al foglio col testo della canzone – al momento l’unico della nostra band, l’aveva scritto Ethan qualche anno prima.
Era stupenda: capelli biondi e lunghi, viso d’angelo, enormi occhi verdi, fisico da urlo. E da quando era entrata nella nostra saletta prove non aveva fatto che scrutarmi.
“Avete già pensato a come potrebbe essere la linea vocale?” domandò, sventolando appena le pagine che stringeva tra le mani.
Io, Ethan e Sammy ci scambiammo occhiate spaesate.
“Queste cose in genere non le fanno i cantanti?” sibilai, temendo di fare qualche gaffe. Io suonavo il basso e basta, non avevo idea di quale fosse il processo creativo per la parte canora.
“Ah, non guardate me, io di note non me ne intendo!” se ne tirò fuori Sammy, alzando le mani in segno di resa.
“Suppongo che la linea vocale te la debba inventare tu” chiarì infine Ethan rivolto a Emily.
Lei si imbronciò. “E come faccio? Io non sono brava in queste cose, canto solo canzoni già pronte.”
“Possiamo fare così: ti facciamo sentire lo strumentale di alcune canzoni che abbiamo composto su cui potrebbe star bene questo testo, tu ne scegli una e poi provi a metterci sopra le parole” proposi, accostandomi appena a lei.
Lei mi rivolse un sorriso smagliante. “Possiamo provare, certo!”
Ci mettemmo ai nostri posti e imbracciammo gli strumenti, pronti a dare il meglio di noi. Sammy batté il tempo con le bacchette e cominciammo a eseguire il brano che al momento chiamavamo June 1980, perché l’avevamo composta appunto a giugno dell’anno precedente. Era difficile dare un titolo alle nostre creazioni dato che non avevano un testo, così li definivamo con la data di creazione o col nome del compositore.
Dopo l’energica e rapida June 1980, infatti, seguì Ethan&Ives5, brano dalle sonorità più aspre e pesanti che io e il chitarrista avevamo composto e perfezionato insieme qualche mese prima.
Emily ascoltò in silenzio la manciata di basi che avevamo da proporle e nel frattempo non faceva che mangiarmi con gli occhi, seguendo con attenzione il movimento delle mie dita che danzavano sulle corde del basso e le ciocche scure che mi scivolavano di tanto in tanto sul viso. Se da una parte mi sentivo leggermente a disagio ad avere uno sguardo fisso su di me, non potevo negare che tutte quelle attenzioni mi stessero onorando parecchio: in genere non venivo mai notato da nessuna ragazza, forse perché dimostravo meno dei miei tredici anni e tutte mi vedevano ancora come un bambino, invece Emily non aveva occhi che per me. Poteva essere lei quella giusta, l’occasione che stavo aspettando, la ragazza che mi avrebbe portato fuori dall’infanzia per sempre.
Poi Emily aveva da poco compiuto quindici anni, era più grande e sicuramente più esperta di me, se avessi commesso qualche errore non ci sarebbe rimasta male.
“Mi piace la terza” affermò non appena io, Ethan e Sammy concludemmo le quattro canzoni che avevamo deciso di proporle.
“Che era… Hamburger Ice Cream, giusto?” chiese conferma Ethan, voltandosi verso di noi.
Emily scoppiò a ridere. “Ma che titolo è?”
Le sorrisi. “Tranquilla, è provvisorio. E comunque è colpa mia, praticamente è ciò che stavo mangiando mentre componevamo la canzone.”
“Hamburger e gelato?” chiese conferma, la curiosità dipinta sul volto.
“Hamburger e gelato contemporaneamente” rivelai con una risatina.
Sammy si batté una mano sulla fronte. “Mio dio, che schifo, non me lo ricordare!”
“Okay.” Emily riprese i fogli in mano e lesse per l’ennesima volta i versi che Ethan vi aveva scarabocchiato. “Da if today I scream a I’ll be there è il ritornello, giusto? Magari proviamo prima questo…”
Non sembrava affatto sicura di sé e in cuor mio cominciavo a dubitare che potesse diventare la nostra cantante; inoltre, come mi aveva fatto notare Ethan quando Bess ce l’aveva presentata, aveva una voce dolce e delicata e un aspetto per niente rock, sembrava più adatta a cantare in un musical che in una band come la nostra. Tuttavia avevamo deciso di darle una possibilità.
Le fornimmo un microfono – uno dei tanti articoli superstiti della scuola di musica del padre di Sammy – e suonammo il ritornello di Hamburger Ice Cream un paio di volte in modo che lei potesse memorizzarlo e farsi venire qualche idea. La terza volta Emily si arrischiò a cantare qualche parola, cercando un’intonazione e una metrica che potessero starci bene, ma fu subito chiaro che la sua voce non aveva il giusto mordente e quasi scompariva sotto la potenza dei nostri strumenti.
Ci serviva qualcuno più… incazzato.
Dopo un’altra mezz’oretta di prove, in cui Emily riuscì quantomeno a trovare una linea vocale interessante, la ragazza lanciò un’occhiata al suo orologio da polso e sgranò appena gli occhi. “Non mi ero accorta che fosse così tardi! Scusatemi ma devo scappare, altrimenti i miei genitori mi uccideranno.”
Quella era un’occasione imperdibile, dovevo assolutamente approfittarne; poggiai il basso da una parte senza nemmeno preoccuparmi di staccarlo dall’amplificatore e le sorrisi, passandomi una mano tra i capelli. “Devi prendere il bus, giusto?”
Lei annuì.
“Se vuoi ti posso accompagnare fino alla fermata. Sai com’è, questa non è proprio una zona tranquilla ed è meglio che tu non rimanga da sola.”
Una scintilla si accese nelle sue iridi verdi. “D’accordo, grazie!”
Senza pensarci due volte, corsi subito fuori dal garage insieme a lei; non mi pareva vero che stesse accadendo, ero al settimo cielo.
Chiacchierammo tantissimo mentre ci dirigevamo verso la fermata: le raccontai il modo in cui avevo cominciato a suonare il basso e come ero entrato nella band, lei mi raccontò della sua passione per le pietre e il loro significato, mostrandomi il ciondolo di giada che aveva appeso al collo – perfettamente abbinato al colore dei suoi occhi.
“È stato mio nonno a spiegarmi queste cose: ogni persona ha un colore e una pietra affine al suo carattere” mi raccontò.
“E io che pietra sono secondo te?” le domandai, sinceramente affascinato.
Lei ci rifletté su per qualche istante, scrutandomi con attenzione. “Sicuramente qualcosa di azzurro. Tu sei una persona acquamarina.”
Risi. “Lo dici solo perché ho gli occhi azzurri!”
“No, tu hai proprio l’anima azzurra.”
Quando infine il suo autobus comparve arrancando all’inizio della via, Emily si voltò per l’ultima volta verso di me. “Ci rivedremo all’Alibi nei prossimi giorni, vero?”
“Io praticamente vivo all’Alibi” commentai con una risata.
“Bene, ti aspetto. Ciao Ives, a presto!” Detto questo, mi sorrise maliziosa e mi lasciò un veloce bacio a fior di labbra prima di correre verso le porte del bus, che si stavano aprendo proprio in quel momento.
Rimasi per qualche istante imbambolato e la fissai mentre scompariva all’interno del mezzo pubblico.
Era successo davvero. Emily era mia!
 
 
 
 
♠ ♠ ♠
 
 
Terzo capitolo e continua la disperata ricerca di un cantante per la band di Ives, Ethan e Sammy!
Il nostro duo di amici preferito stavolta è sfociato nella più totale illegalità, prendendo in prestito l’auto di Davi senza avere la patente XD
Stavolta non ho tanto da spiegare, vi lascio soltanto i link delle canzoni che i due hanno ascoltato in macchina!
Message In A Bottle dei Police (come accennato da Ives, fa parte dell’album Reggatta De Blanc, uno dei preferiti di loro due):
https://www.youtube.com/watch?v=MbXWrmQW-OE
Last Train To London degli Electric Light Orchestra:
https://www.youtube.com/watch?v=Up4WjdabA2c
Another One Bites The Dust dei Queen:
https://www.youtube.com/watch?v=rY0WxgSXdEE
Ovviamente ho controllato e tutti questi brani (incluso anche l’album degli AC/DC che ho menzionato) sono usciti prima dell’estate 1981 – ci tengo troppo alla coerenza ^^
Per quanto riguarda la parte in cui Emily legge i pezzetti di testo scritto da Ethan… eheheh, ho grandi cose in serbo per voi XD sto davvero scrivendo il testo della canzone, mi rendo conto di essere totalmente fulminata AHAHAHAH! Un giorno ve lo farò leggere tutto in qualche storia, ma per il momento ci sto ancora lavorando :P
Grazie a tutti coloro che sono giunti fin qui e preparatevi: il prossimo capitolo sarà piuttosto pieno ;)
Alla prossima!!! ♥
 
 

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Capitolo 4
*** IV ***


IV
 
 
 
 
Tonight
I'm gonna have myself a real good time
I feel alive
And the world, I'll turn it inside out
Yeah!
I'm floating around
In ecstasy
[Queen – Don’t Stop Me Now]
 
 
 
 
Quando io, Ethan e Sammy entrammo all’Alibi, Bogdan ci venne subito incontro e mollò una pacca sulla spalla a tutti e tre. “La serata sballo è fissata per dopodomani, okay?” ci comunicò.
Annuii distrattamente, ma in realtà non lo stavo nemmeno ascoltando: i miei occhi erano subito partiti alla ricerca di Emily. Dentro il locale non la trovai, così decisi di andare a cercarla nella terrazza sul retro.
Mi voltai verso i miei amici e incrociai lo sguardo torbido di Sammy, che mi ricordò la promessa che gli avevo fatto. In realtà in quei giorni non stavo riuscendo a mantenerla del tutto: quando lui decideva di uscire con noi, per un motivo o per un altro mi distraevo e lo perdevo di vista, non riuscivo a essere sempre con lui. Non mi rimproverava mai per questo, ma al contempo non mi raccontava mai niente e non sapevo se quei tipi stessero continuando a perseguitarlo.
“Sammy, vieni fuori con me a controllare se c’è qualche tavolino libero?” gli domandai, scoccandogli un’occhiata complice.
Lui si limitò ad annuire e mi seguì mentre mi dirigevo sul retro.
Una volta che ci trovammo all’aria aperta, non ebbi nemmeno bisogno di guardarmi attorno perché Emily, seduta in un angolo insieme a Bess e la loro solita amica moretta, attirò la mia attenzione e mi fece cenno di raggiungerla.
Io e Sammy ci dirigemmo nella loro direzione e, prima ancora che potessi prendere posto, Emily si alzò e mi strinse in un breve abbraccio, stampandomi un bacio sulla guancia. “Ti stavo aspettando” mormorò con la sua voce vellutata e dolce.
Le lasciai una carezza tra i capelli. “Addirittura? Che tenera!” Poi presi a squadrarla da capo a piedi: indossava un abitino azzurro che le aderiva perfettamente al corpo, mettendo in risalto le sue forme piccole e morbide, e le svolazzava leggero attorno alle cosce. “Sei incantevole” mormorai, sinceramente colpito.
Davvero una creatura così bella poteva provare interesse per me?
“Oggi ho il vestito intonato ai tuoi occhi e alla tua anima” soffiò lei, regalandomi un sorriso radioso.
Un fischio proveniente dalla nostra destra ci fece voltare: capii subito che si trattava di Bess, che ci osservava con sguardo malizioso. “Piccioncini, se volete fare porcate prendetevi una stanza stanotte!” esclamò, strizzandoci l’occhio e facendo scoppiare a ridere Sammy.
Scossi il capo, piuttosto imbarazzato, e io ed Emily prendemmo posto sulle nostre sedie.
Ordinammo da bere e chiacchierammo del più e del meno tutti assieme, finché Bess non decise che doveva andare a cercare il suo uomo – ovvero Ethan, che non era ancora riuscita a conquistare, ma ero certo che ormai ci fosse vicina – e non rientrò nel locale portandosi appresso Fanny, la sua amica moretta.
Restammo solo io, Emily e Sammy. Se non fosse stato per quest’ultimo, avrei potuto approfittare senza esitazioni della situazione e provarci apertamente con Emily – io e lei non avevamo fatto che mangiarci con lo sguardo da quando ero arrivato all’Alibi – e, nonostante avessi promesso al mio amico che sarei stato con lui per tutto il tempo, in cuor mio sperai che se andasse e ci lasciasse in pace.
Mi odiavo tremendamente per quei pensieri così egoisti, ma non ne potevo più di stare lontano dalla ragazza dei miei sogni.
“Ehi, non l’avevo mai notato prima” stavo dicendo a Emily a un certo punto, accennando alla piccola farfalla colorata che aveva tatuata sulla spalla. “È stupenda. Ha qualche significato particolare?” D’istinto presi a tracciarne i contorni col polpastrello ed Emily rabbrividì sotto il mio tocco.
“In realtà no, ma le farfalle sono i miei animali preferiti” spiegò, poi mi afferrò la mano con cui la stavo sfiorando e prese a esaminarla, mentre un sorrisetto le si dipingeva sulle labbra. “Pensavo che chi suona gli strumenti a corda avesse le dita piene di calli, invece hai la pelle morbidissima.”
Ridacchiai. “È perché quella è la mano destra, con cui tengo il plettro. Qui la situazione è decisamente diversa” le dissi, mostrandole le dita della sinistra che erano piene di segni rossi.
“Oh, adesso ho capito.” Lasciò andare la mia mano, ma prima di mollare la presa la condusse studiatamente all’altezza del suo seno in modo che lo potessi sfiorare; nel contempo mi lanciò un’occhiata languida ed eloquente.
Mi morsi il labbro.
Mio dio, quanto faceva caldo.
Mio dio, quanto mi sentivo eccitato…
“Io… vado in bagno, a dopo” borbottò Sammy, alzandosi di scatto dalla sua sedia.
Mi morsi ancora il labbro inferiore; cazzo, lui era ancora lì e noi lo stavamo sicuramente mettendo in imbarazzo. Gli lanciai un’occhiata dubbiosa, ma lui si limitò a rivolgermi un sorriso tirato prima di dirigersi verso l’ingresso con le guance in fiamme.
Che amico pessimo che ero.
“Senti… che ne dici di andare a prendere un po’ d’aria dall’altra parte? Qui si muore di caldo e c’è così tanto casino” propose Emily, accennando all’ambiente circostante.
Non aveva tutti i torti: dal pavimento in cemento si sprigionava l’afa accumulata durante l’arco della giornata; acconsentii e ci dirigemmo fuori, sulla strada, ma scoprii che il calore che sentivo in tutto il corpo non era scomparso, anzi.
Ora che mi trovavo praticamente solo con Emily, era aumentato.
Le sorrisi e mi infilai una mano in tasca con l’intento di prendere sigarette e accendino, ma la biondina non me ne diede modo: mi spinse gentilmente verso la parete alle mie spalle e si avvinghiò a me, premendo con forza le sue labbra sulle mie.
Non me lo feci ripetere due volte e ricambiai subito il gesto, esplorando la sua bocca come mai avevo fatto prima.
Quando ero più piccolo era capitato di scambiare degli innocenti baci a fior di labbra con qualche bambina, ma nulla era paragonabile a quello; non avevo mai vissuto un momento del genere, non sapevo quale fosse il comportamento giusto da attuare, tuttavia mi lasciai guidare dall’istinto e le posai le mani sui fianchi, attirandola ancora di più a me. Starle così vicino mi faceva andare fuori di testa, era un mix di sensazioni incredibili che mi annebbiavano la mente.
Era un po’ come ubriacarsi.
Emily si staccò da me e si passò la lingua sulle labbra. “Era da un sacco di tempo che volevo farlo.”
Avevo il fiato corto e il folle desiderio di baciarla di nuovo. Le sorrisi. “Spero che la voglia non ti sia già passata dopo un solo bacio” sussurrai, facendo scorrere le dita sul suo fianco fino a sfiorarle il gluteo.
Ci scambiammo un altro bacio, poi Emily si staccò da me, si guardò attorno e infine mi prese per mano. “Andiamo in un posto più tranquillo” affermò, conducendomi in uno dei tanti vicoletti ciechi caratteristici del quartiere; era un luogo piuttosto squallido e per niente romantico, ma almeno lì ce la saremmo potuta spassare senza essere disturbati.
Fu il mio turno di bloccarla contro il muro e baciarla, prendendo a esplorare ogni parte di lei con le labbra e con le dita: il viso, il collo, le spalle, i seni, il ventre…
Lei era in estasi e io lo ero insieme a lei. Certo, c’era sempre quel pizzico di tensione, del resto ero alle prime armi e avevo una paura folle di sbagliare e deluderla, ma lei sapeva come farmi rilassare e come farmi impazzire. Ed ero così curioso, volevo scoprire tutto di quella ragazza, capire quanto fosse bello amarsi in quel modo tutto nuovo e, chissà, magari regalare a Emily una bella e dolce nottata.
Non le avrei mai voluto fare del male. Forse era per quello che avevo così tanta paura.
“È la tua prima volta?” mi domandò mentre carezzava piano il mio inguine e poi poggiava con decisione le dita sul cavallo dei miei pantaloni.
Mi morsi il labbro inferiore nel tentativo di trattenere un gemito e gettai il capo all’indietro – i miei occhi si scontrarono con le stelle che brillavano in cielo, ancora più luminose del solito. “Sì” ammisi tra i sospiri.
“E hai paura?” soffiò con le labbra a pochi centimetri dal mio collo.
“Io… io…” La attirai ancora più vicino a me. “Voglio che anche tu stia bene…”
Emily fu paziente con me quella sera: mi fece sperimentare tutto ciò su cui avevo qualche dubbio o curiosità, mi lasciò libero di prendermi i miei tempi, si concesse a me completamente e io cercai di prendermene cura nel modo migliore che conoscessi. Non avevo voglia di correre o di essere troppo irruento, ero fatto così: la conobbi pian piano, la esplorai, mi assicurai che stesse bene e che non stessi sbagliando qualcosa.
E quando finalmente affondai in lei per la prima volta e la sentii impazzire dal piacere, capii che non avevo sbagliato.
Fu davvero strano. Ero talmente preso a domandarmi se stessi facendo la cosa giusta che quasi non pensai a me; non sapevo se fosse una cosa normale perché non avevo mai parlato con nessuno di quell’argomento, ma alla fine giunsi alla conclusione che era maledettamente bello morire di piacere e desiderio in due, l’uno tra le braccia dell’altra.
“L’azzurro, tra le altre cose, è un colore che simboleggia purezza e pace” mormorò Emily mentre, con la guancia che aderiva alla mia spalla, riprendeva fiato. Io, ancora col cuore che batteva a mille, le accarezzavo piano i capelli.
Lei sollevò il capo in modo da potermi guardare negli occhi. “È proprio vero che hai l’anima azzurra, Ives. Non ho mai conosciuto un ragazzo più trasparente e delicato di te.”
Sorrisi, profondamente colpito da quelle parole, e la strinsi forte a me.
Forse quella notte di passione non ci avrebbe portato da nessuna parte, ma in quel momento non importava: era la nostra notte e tutto il tempo sembrava essersi fermato solo per noi.
 
 
“Tu ne sapevi qualcosa?” Ethan mi raggiunse e si sedette sul gradino accanto a me, i suoi occhi neri erano ancora più cupi e tempestosi del solito.
Presi una boccata di fumo dalla mia sigaretta e gli lanciai un’occhiata interrogativa.
“Ho appena parlato con Sammy: lascia la band. E senza darmi una fottutissima spiegazione” disse lui nervosamente mentre si accendeva una sigaretta a sua volta.
Sgranai gli occhi e sentii il sangue defluire dal viso.
Alla fine Sammy non ce l’aveva fatta, aveva deciso di arrendersi. Era tutta colpa mia, ne ero certo: non gli avevo guardato abbastanza le spalle, l’avevo perso di vista troppe volte, non ero stato in grado di dargli il giusto supporto per affrontare quella situazione. Ero un pessimo amico, gli avevo fatto una promessa che non ero riuscito a mantenere, soltanto perché ero estremamente egoista.
Mi sentivo morire. Chissà cosa aveva dovuto subire Sammy per arrivare a prendere una decisione così drastica.
“Hai… provato a chiedergli perché?” balbettai, la gola secca per l’agitazione e il fumo.
“Certo! Ma lui ha cominciato a piagnucolare che questo non è l’ambiente adatto a lui e che è il caso che inizi a frequentare altra gente e altri posti. Chi cazzo gli ha messo in testa queste stronzate?” sbottò Ethan, sempre più incazzato e confuso.
Mi tremavano le mani. In quel momento dipendeva tutto da me: potevo rivelare la verità a Ethan in modo che lui potesse aiutarci a fronteggiare i bastardi che perseguitavano Sammy, ma questo avrebbe significato tradire il mio amico e lui non mi avrebbe mai potuto perdonare.
Tuttavia se avessi tenuto la bocca chiusa avremmo comunque perso Sammy, dal momento che voleva lasciare la band e smettere di frequentarci.
Cosa era meglio fare? Qual era la decisione più giusta? Non ero affatto bravo a districarmi in queste situazioni contorte.
Furono istanti lunghissimi, in cui mi fissai le punte delle scarpe e lasciai che la sigaretta mi si consumasse tra le dita.
No, non ero un traditore. Avevo dato la mia parola a Sammy, lui si fidava di me.
“Io non ne so niente” borbottai infine, e mentre pronunciavo quelle parole mi sentii sprofondare.
“E allora perché fai quella faccia? Perché non sembri affatto sorpreso?” mi accusò Ethan in tono tagliente.
Ci conoscevamo da cinque anni e non ero mai riuscito a tenergli nascosto niente, mai.
“E che faccia dovrei avere, scusa? Dovrei essere contento?” mi rivoltai, alzandomi di scatto dal gradino e facendo qualche passo avanti in modo da dargli le spalle – poco importava che mi trovassi in mezzo alla strada, non avevo neanche controllato se stesse per passare qualche auto. “Sai com’è, Sammy ha lasciato la band, ho tutti i motivi di essere incazzato! E ora non abbiamo né un cantante né un batterista, e il nostro gruppo sta andando a puttane, come pensi che debba essere la mia faccia?”
E sono un amico di merda, perché al posto di stare accanto a Sammy mi sono fatto i cazzi miei. Perché non so mai come fare davanti alle difficoltà, perché non sono in grado di aiutare nessuno, nemmeno me stesso. E mi sento tremendamente in colpa, Sammy se ne va a causa mia.
Gli occhi mi bruciavano, ma mi convinsi che era per il fumo della sigaretta che mi svolazzava attorno al viso.
Gettai il mozzicone a terra, lo schiacciai con rabbia e, senza voltarmi a guardare Ethan, affermai: “Vado a parlarci io”.
Corsi verso casa di Sammy, su quella strada che ormai conoscevo a memoria e che forse non avrei percorso mai più. Il caldo prendeva a schiaffi la mia pelle, il sudore mi appiccicava i vestiti e i capelli addosso, ma in quel momento nemmeno me ne accorgevo, tanto ero preso dai miei pensieri.
Non ero stato in grado di aiutare Sammy. Questa consapevolezza mi rimbombava nel cervello, facendomi sentire sempre più inutile e insignificante passo dopo passo, respiro dopo respiro.
Bell’amico ero stato.
Quando giunsi davanti a casa sua, bussai direttamente alla porta di casa invece di passare per il garage – tanto non ci avrei trovato nessuno, era tutto finito.
Attesi per qualche istante, spostando nervosamente il peso da un piede all’altro, finché non fu proprio Sammy ad aprirmi la porta: aveva gli occhi gonfi di pianto e il labbro inferiore gli tremava appena.
Presi fiato, ma lui parlò prima di me, interrompendomi: “Ti prego, Ives, non dire niente. Ormai non cambierò più idea”.
Presi coraggio e, infischiandomene di cosa fosse giusto o sbagliato, strano o normale, lo abbracciai. Volevo fargli capire quanto mi dispiacesse, quanto stessi male all’idea che se ne sarebbe andato, quanto mi sentissi in colpa per non essergli stato accanto quanto meritava.
Ma la verità era che tutti noi eravamo dei ragazzi distrutti, alle prese con i loro demoni e con le loro debolezze, che lottavano per ritagliarsi uno spazio nel mondo e capire se stessi. Come potevamo fare gli eroi per chi ci stava attorno, se già ci sentivamo disarmati davanti a noi stessi?
Sammy lo sapeva e non me ne aveva mai fatto una colpa. Anche in quel momento, mentre piangeva sulla mia spalla, mi ripeté tra i singhiozzi che non era colpa mia.
L’avevamo perso per sempre.
 
 
“Devono essere bravi davvero: suonano al Whisky A Go Go e al Rainbow, hanno già parecchia visibilità” raccontava Viktor con entusiasmo, mentre sorseggiava la sua birra.
“Wow, addirittura al Whisky? Come si chiamano?” mi incuriosii.
Hell Night o qualcosa del genere” ribatté lui con un’alzata di spalle.
“Però io ho sentito dire che sono in difficoltà, nel senso che ci sono delle tensioni interne alla band. Si vocifera che non dureranno a lungo” si intromise Jeff.
“Ah, li conosci?” gli domandai.
“Mio fratello era in classe col bassista.”
“Ehilà, stronzi!” ci salutò Bogdan, prendendo posto direttamente sul piano del tavolino sudicio. “Siete pronti alla vera festa? Tra un po’ arriva la roba e ci sarà da divertirsi!”
Gli sorrisi. “Non vedo l’ora!”
Bogdan mi scompigliò appena i capelli – era una cosa che faceva sempre, solo perché ero tra i più piccoli della nostra cerchia e mi vedeva ancora come un bambino. “Cosa vuole provare oggi il nostro bimbo?”
“La coca” risposi senza esitazioni, incrociando le braccia al petto.
“Ottima scelta, la coca di Davi è tra le più buone in circolazione” osservò il polacco, per poi scoccare un sorriso complice a Ethan.
“Ehi, sbaglio o Bess ha cambiato di nuovo colore di capelli?” commentai, avvistando la ragazza dentro il locale nei pressi del bancone: i suoi capelli avevano ora assunto una tonalità blu scuro che, bisognava ammetterlo, le stava davvero bene. “Ma non aveva detto di voler provare il verde?”
“L’ho dissuasa io” spiegò Ethan.
Mi voltai a osservarlo con perplessità e una punta di malizia. “Mmh… e da quando sei diventato il suo consigliere di stile?”
Lui scrollò le spalle. “Ne stavamo parlando il giorno che me l’ha data. Le ho consigliato il blu e lei ancora mi ringrazia ogni volta che mi incrocia perché l’ho aiutata a trovare il suo colore.”
Sgranai gli occhi e mi sporsi verso di lui con un sorriso da un orecchio all’altro. “Tu e Bess avete scopato?!”
“Non mi sembra un evento tanto straordinario” borbottò lui in risposta.
In quel momento una voce esplose al microfono e tutti noi ci voltammo verso il palchetto; mi accorsi solo in quel momento che la band aveva preso posto e il concerto stava per cominciare.
“Buonasera a tutti, noi siamo gli Hell Night e stasera abbiamo tutte le intenzione di incendiarvi con un po’ di sano rock’n’roll!” strepitò il frontman della band, un ragazzo dai corti capelli biondicci e i lineamenti affilati.
Tutti esultarono e alcune ragazze cominciarono a radunarsi sotto il palco, pronte a scatenarsi a ritmo di musica.
Rimasi subito impressionato dall’energia e dalla potenza di quella band: fu subito chiaro dalle prime note che quelli erano dei professionisti, che avevano tanti live alle spalle e sapevano come coinvolgere il loro pubblico.
“Ma il cantante?!” esclamai estasiato, dando di gomito a Ethan.
“È una fottutissima bomba! Hai sentito dove arriva la sua voce?”
Ci scambiammo un’occhiata entusiasta: quello era in assoluto uno dei migliori cantanti che ci fosse capitato di sentire. Il suo timbro acuto e graffiante era energia pura, gli acuti che eseguiva erano in grado di far tremare l’intero locale e si muoveva sul palco con una naturalezza e una sfrontatezza allucinanti.
“Dobbiamo assolutamente andare a parlare con lui e scoprire chi è” affermai.
Ethan annuì. “E dato che questa band è allo sfascio, possiamo pure chiedergli se gli va di entrare nella nostra.”
“Sarebbe davvero una figata averlo come cantante!” Detto questo, mi alzai e mi accostai al palco per poter seguire meglio lo show. Ero talmente preso da quel rock così energico e coinvolgente che non feci nemmeno caso a Emily, la quale ballava a qualche metro da me insieme ad alcune sue amiche. Da quando eravamo andati a letto insieme, aveva perso totalmente interesse nei miei confronti e verso la band, ma io ben presto me n’ero fatto una ragione: era stato bello, ma era ovvio che non sarebbe durata e dopotutto io e lei non avevamo quasi niente in comune.
Non mi resi conto del tempo che passava e dei brani che si susseguivano uno dietro l’altro, finché non sentii qualcuno che mi mollava un piccolo pugno sulla spalla; mi voltai e mi ritrovai faccia a faccia con Bogdan, che sfoggiava un sorriso complice. “È arrivata la roba, vieni dentro!” gridò affinché potessi sentirlo sulla musica ad alto volume.
Ricambiai il sorriso e lo seguii dentro l’Alibi, il cuore che mi batteva a mille. Ero sempre abbastanza agitato quando dovevo provare qualche nuova sostanza, non tanto perché avessi paura, ma non sapevo cosa aspettarmi ed ero emozionato. La prima volta aveva sempre un gusto speciale, nuovo, esaltante.
Il mio amico mi condusse presso il bancone, davanti a cui stazionavano Ethan e Viktor con alcune banconote strette tra le dita.
Mi guardai attorno dubbioso, notando che il barista era scomparso, poi posai lo sguardo sui miei amici. “Lo dobbiamo fare qui, davanti a tutti?”
“Qual è il problema? Ci serve un piano liscio, no?” ribatté Bogdan con semplicità, facendo un ampio cenno verso la sudicia lastra su cui avevo appoggiato i gomiti. “Non ci romperà il cazzo nessuno, tranquillo.”
Osservai Ethan mentre creava, con l’aiuto della banconota, due strisce di polverina bianca sul piano liscio, una per lui e una per me; si muoveva con naturalezza e maestria, come se avesse già svolto quell’operazione un sacco di volte.
“Tu l’hai già provata?” gli chiesi.
“Sì, qualche volta.” Arrotolò una delle due banconote che aveva in mano e me la passò. “Potrebbe darti fastidio all’inizio, cerca di non soffocare.”
Afferrai l’oggetto e scrutai la pista bianca che avevo di fronte. Sapevo già cos’avrei dovuto fare, l’avevo visto tante volte e sperai di non fare qualche figuraccia da inesperto.
Tirai su la striscia tutta in una volta, e la polvere mi mandò subito a fuoco i polmoni e la gola; presi a tossire, gli occhi mi si riempirono di lacrime, ma dopo qualche istante cercai di darmi un contegno e cominciai a guardarmi attorno spaesato; mi sentivo strano, era come se tutto attorno a me fosse più… vivo, forte.
“Hai bevuto prima?” mi domandò Viktor, picchiettandomi appena sulla spalla.
Mi voltai verso di lui e annuii.
“Ancora meglio: la coca farà effetto più rapidamente!”
In effetti stavo già cominciando a percepire delle sensazioni nuove: era come se per la prima volta sentissi nitidamente ogni parte del mio corpo, come se potessi vedere e sentire ogni singolo dettaglio di ciò che mi circondava, avevo solamente voglia di ridere e divertirmi e andare dalla gente a dire tutto ciò che mi passava per la testa.
Mi sentivo euforico, invincibile, come una specie di supereroe.
E la sensazione aumentava di intensità secondo dopo secondo.
“Ehi, è una figata!” strillai. “È uno sballo, cazzo!”
Ethan, accanto a me, ridacchiò. “È roba di mio fratello, tra la migliore in circolazione.”
“Fantastico!” mi entusiasmai, ed ero talmente contento ed euforico che scoppiai a ridere.
Fu in quell’esatto istante che mi innamorai della cocaina: all’improvviso era come se tutti i miei problemi fossero spariti, mi sentivo il padrone del mondo, ero indistruttibile e avevo soltanto voglia di divertirmi e immergermi in tutte le sensazioni amplificate che sentivo.
Afferrai Ethan per un polso – e in quel momento non me ne importava niente se detestava essere toccato – e lo trascinai nella terrazza sul retro: volevo schiantarmi contro la musica, gridare fino a perdere la voce, ridere fino a svenire.
Mi sentivo un re.
 
 
Mi sentii scuotere per una spalla e aprii a fatica le palpebre; le sentivo estremamente pesanti, come se non volessero rispondere ai comandi. Le pupille subito mi bruciarono quando vennero investite dalla luce del sole già alto in cielo e impiegai qualche istante per mettere a fuoco la figura che mi stava davanti: il volto non mi diceva niente, ma riconobbi subito la divisa da poliziotto che indossava.
Cazzo.
Quando anche le orecchie ricominciarono a funzionare normalmente, seppur sentissi i suoni ovattati e distanti, mi resi conto che l’agente mi stava ponendo una domanda: “Sei tu Ives Mancini?”.
Mi portai lentamente una mano sulla fronte e tentai di sollevarmi, ma la testa mi girava e mi pulsava terribilmente. “Credo di sì…” biascicai con la gola secca.
“Mettiti in piedi, forza” ordinò il poliziotto in tono severo, scrollandomi nuovamente per la spalla.
Mi sforzai di sollevarmi sui gomiti; mi faceva male tutto, era come se mi fossi addormentato su una lastra di marmo. E forse non era del tutto falso, infatti mi trovavo su un marciapiede sudicio e disseminato di bottiglie vuote di alcolici. Come ci ero finito lì? Ero svenuto o mi ero semplicemente addormentato?
“Cos’ho fatto?” domandai mentre mi mettevo in piedi a fatica; fui costretto a sorreggermi a una parete per non rovinare di nuovo a terra, il mondo intero sembrava ruotarmi attorno e sentivo lo stomaco sottosopra.
“Non fare tante storie e sali in macchina” sbottò l’agente, afferrandomi per un braccio e trascinandomi fino allo sportello posteriore della volante. Mi spinse sul sedile e io non fui in grado di obiettare e opporre resistenza, tanto ero stordito e confuso.
L’uomo circumnavigò l’auto e si posizionò sul sedile del passeggero; accanto a lui, alla guida, si trovava già un suo collega.
Mi guardai attorno per cercare di capire dove mi trovassi: sicuramente nei pressi dell’Alibi. L’unica cosa certa che riuscii a capire fu che, a giudicare dal caldo asfissiante e dal sole che bruciava quasi al centro del cielo, doveva essere circa mezzogiorno. Non ricordavo quasi niente della sera precedente, né tantomeno come fossi finito in mezzo alla strada.
Avevo provato la cocaina per la prima volta, questo lo ricordavo.
Il poliziotto al volante mise in moto e partimmo, diretti chissà dove.
Ero sempre più allarmato: perché la polizia era venuta a cercarmi?
“Dove mi state portando? Non ho fatto niente” spezzai il silenzio con una punta di isteria nella voce.
C’era da dire che non mi avevano ammanettato, quindi potevo sperare di non essere in stato d’arresto.
“Già, non hai fatto niente,” ribatté l’agente che mi aveva svegliato, “a parte scomparire per tutta la notte e far venire un colpo a tua zia. È stata lei a chiederci di venire a cercarti, ragazzino.”
Il mio cuore perse un battito. Già, zia Maura…
Non volevo farla preoccupare, non era mia intenzione, ma al contempo non mi piaceva che mi stesse così addosso e mandasse addirittura la polizia a cercarmi. Insomma, ormai ero grande e sapevo badare a me stesso.
O forse non ero abituato all’idea che qualcuno si preoccupasse tanto per me.
Mentre osservavo le strade semideserte del quartiere scorrere fuori dal finestrino, mi domandai come avrei fatto ad affrontarla.
 
 
 
 
♠ ♠ ♠
 
 
Ed eccomi qua, come promesso, con un capitolo abbastanza denso di avvenimenti ^^
Vediamo qui due prime volte di Ives: la prima notte con una ragazza e la prima volta che ha assaggiato la cocaina. Se la prima esperienza può essere considerata positiva, non si può dire lo stesso della seconda: anche se Ives in quel momento si sentiva un re, certamente la cocaina non è una sostanza salutare…
Per quanto riguarda la prima parte del capitolo, ho deciso apposta di non entrare troppo nel dettaglio perché non avevo in progetto di scrivere una storia a rating rosso, volevo concentrarmi più sulle sensazioni e il valore “simbolico” della prima volta piuttosto che descrivere ogni minimo loro gesto. Spero di non aver deluso le aspettative ^^
Mentre per quanto riguarda la faccenda di Sammy… alla fine Ives ha deciso di non tradire il suo amico, anche se il prezzo da pagare è stato molto alto. Voi siete d’accordo con la scelta di Ives?
Piccolissima noticina: il Whisky A Go Go e il Rainbow sono due locali di Los Angeles molto famosi e importanti per lo sviluppo della scena locale rock; negli anni Ottanta hanno visto la nascita e la crescita di band importanti come i Guns N’ Roses e i Mötley Crüe, ma erano attivi e famosi già da decenni ^^
Il prossimo capitolo sarà l’ultimo e già mi piange il cuore T___T ci sto mettendo l’anima in questa storia e per me è un bellissimo viaggio, sono tristissima all’idea che si debba già concludere, ma ahimè, la storia era pensata per avere solo cinque capitoli!
Bando alle ciance, alla malinconia di fine storia ci penseremo la prossima volta XD
Intanto vi ringrazio di cuore per essere giunti fin qui, spero che questo capitolo vi sia piaciuto! :3
Alla prossima!!! ♥
 
 

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Capitolo 5
*** V ***


V
 
 
 
 
It's times like these you learn to live again
It's times like these you give and give again
It's times like these you learn to love again
It's times like these time and time again
[Foo Fighters – Times Like These]
 
 
 
 
Non appena l’auto della polizia accostò, notai subito la figura di zia Maura ferma sulla soglia: aveva le braccia incrociate sull’ampio petto e i capelli scuri raccolti in un disordinato chignon, che lasciavano libero il volto dai lineamenti marcati e induriti dalla rabbia.
Sospirai. Non sarebbe stato facile affrontarla.
Il poliziotto che stava sul sedile del passeggero scese, venne ad aprirmi la portiera e mi scortò fin davanti alla porta di casa; prima di andarsene, mi assestò una forte pacca sulla schiena e salutò brevemente mia zia.
Rimanemmo solo io e lei.
Entrammo in casa in un silenzio tombale, ma zia Maura si piazzò sulla soglia che separava il piccolo ingresso dal resto della casa, segno che non mi avrebbe lasciato andare così facilmente. Mi scrutò con i suoi occhi scuri e io ebbi l’impressione che le sue iridi colme d’ira potessero trapassarmi come un coltello affilato. Ancora non aveva aperto bocca, sicuramente stava cercando di trattenersi perché, se si fosse lasciata andare, mi avrebbe demolito.
Decisi di affrontarla, tanto ormai il danno era fatto; incrociai le braccia sul petto a mia volta e le lanciai un’occhiata offesa. “Hai mandato la polizia a cercarmi?”
“Non ti azzardare! Quella arrabbiata tra i due dovrei essere io” ribatté, e la sua voce profonda risultò ancora più cupa e glaciale del solito. Si interruppe, ma dal suo volto che si faceva paonazzo immaginai che stava lottando con l’impulso di urlarmi contro.
Zia Maura spesso aveva paura di ferirmi, lo sapevo: mi aveva visto crescere, piangere, tremare e avere paura, sapeva quanto fossi vulnerabile. Ma non aveva ancora capito che ormai non ero più quel bambino che correva tra le sue braccia a farsi consolare non appena riceveva un pugno dalla vita, ormai ero diventato grande ed erano poche le cose in grado di sconvolgermi.
“Non dovresti essere al lavoro a quest’ora?” improvvisai, ostentando una certa indifferenza.
“È domenica, Ives” mi gelò lei prima di avvicinarsi a me e immobilizzarmi per una spalla. “Te lo dico per l’ennesima e ultima volta: togliti subito questo vizio di non tornare a casa, altrimenti ti impedisco di uscire per il resto della tua vita. È chiaro?”
Sapevo che non sarebbe mai stata capace di farlo, anche perché per tutta la settimana lavorava e non mi poteva controllare, ma il suo tono minaccioso mi fece comunque rabbrividire.
“E dai, è la prima volta che passo la notte fuori…” cercai di sminuire la faccenda, abbozzando un sorriso.
“Non è normale che tu passi la notte fuori a tredici anni! E non è normale che tu stia in giro fino a tardi tutti i giorni!” sbraitò, il suo vocione rimbombò spaventosamente tra le pareti dell’ingresso.
“Beh, scusa, tu non me l’hai mai impedito” ribattei, anche se sapevo di starmi addentrando in argomentazioni che non era il caso di portare fuori.
Zia Maura non riusciva a starmi appresso perché era da sola a crescere me e Maggie, si spaccava la schiena ogni giorno dividendosi tra mille lavori per non farci mancare niente e per permettere a mia cugina di studiare all’università; sapevo di passare per ingrato, ma non importava, io volevo solo uscire con i miei amici e divertirmi come mi pareva.
“Vuoi che te lo impedisca, eh? Me lo stai chiedendo? Se vuoi ti accontento subito!” ruggì lei, scuotendomi violentemente per la spalla per poi lasciarmi andare bruscamente. Mi incenerì con lo sguardo, ma notai ugualmente la nota di preoccupazione in fondo a quegli occhi così severi. “Io ti ho sempre lasciato libero per non tarparti le ali, nella speranza che riuscissi a capire da solo cosa fosse giusto o sbagliato, ma a quanto pare ti ho dato troppa fiducia. Da quanti giorni non ti fai una doccia, eh?”
Mi afferrò una ciocca di capelli unti e ispidi, ma io scossi il capo e mi scrollai le sue mani di dosso. “Sono abbastanza grande per prendermi cura di me stesso.”
“Non sei grande per niente, Ives!” esplose nuovamente lei. “Tu ti senti grande, ma hai soltanto tredici anni, sei un bambino ingenuo e del mondo non hai ancora capito nulla! Vuoi rovinarti la vita? Non lo capisci che la gente che frequenti, le cose che fai, ti fanno male?”
“Non conosci la gente che frequento” replicai, fingendomi per niente colpito dalle sue parole – in realtà sotto sotto sapevo che non aveva tutti i torti, spesso avevo l’impressione di impigliarmi in situazioni per cui non ero ancora pronto e mi sentivo inadeguato. “Adesso mi fai passare? Così vado a farmi la doccia e ti faccio contenta.”
“Ma hai almeno ascoltato quello che ti ho detto?” Zia Maura si portò una mano sulla fronte, esasperata. “Dove sei stato stanotte? Cos’hai fatto?” incalzò, inchiodandomi nuovamente con lo sguardo.
Se solo me lo ricordassi…
“Ero con i miei amici, non abbiamo fatto niente di che” abbozzai – almeno la prima parte della storia era vera.
Lei sospirò, cercando le parole giuste con cui ribattere.
“Pensavo fossi preoccupata per me, invece mi hai aggredito non appena mi hai visto” borbottai io abbassando lo sguardo.
“Ma io sono preoccupata, è proprio per quello che mi arrabbio! Non so più come dirtelo!”
Sbuffai. “Adesso posso andare in camera mia? Sono stanco…”
“Vai. Tanto, qualsiasi cosa io ti dica, ti entra da un orecchio e ti esce dall’altro.”
Trattenni un sospiro di sollievo mentre mi dirigevo in camera mia e mi ci chiudevo dentro; misi su uno dei miei vinili dei Clash e mi buttai sul letto, esausto. Per l’ennesima volta avevo risposto male a zia Maura, che era sempre così paziente, e una parte di me mi suggeriva che mi sarei dovuto sentire in colpa, ma non avevo nessuna voglia di pensarci: volevo solo dormire per ore e ore, sentivo addosso una spossatezza incredibile.
Prima che potessi accorgermene, ero già sprofondato nel sonno.
 
 
A ridestarmi fu lo squillo acuto del telefono in corridoio; aprii gli occhi e il sole del tardo pomeriggio me li riempì.
Il telefono smise di trillare e qualche istante dopo sentii bussare alla porta di camera mia; mi alzai a fatica e andai ad aprire, ritrovandomi davanti il viso contratto di zia Maura. “Ti vogliono al telefono” mi comunicò in tono piatto, prima di scomparire velocemente in cucina.
Mi accostai al tavolino su cui era posato l’apparecchio e afferrai la cornetta. “Chi è?”
“Mick Jagger” rispose la voce di Ethan dall’altro capo.
“Spiritoso. Come mai mi hai chiamato? Non sapevo nemmeno che avessi il mio numero di casa.” In effetti quella era forse la prima volta che Ethan mi telefonava, le cose ce le dicevamo sempre di persona.
“Dato che oggi non ti ho visto in giro, volevo solo dirti che ho parlato col tizio degli Hell Night…”
“Il cantante! Cazzo, ieri me ne sono dimenticato!” sbottai, portandomi una mano davanti alla bocca.
“Ci ho pensato io. Si chiama Oliver, comunque. Ha detto che stava pensando già da tempo di lasciare la sua band e ha accettato di provare con noi: abbiamo appuntamento in sala prove domani sera. Ecco, volevo avvisarti per essere sicuro che non mancassi.”
Aggrottai le sopracciglia. “Quale sala prove? Ti ricordo che Sammy non fa più parte della band.”
“Ho risolto anche quel problema: ho parlato con Sammy e ci ha concesso di incontrare Oliver nel suo garage, almeno finché non troveremo una nuova saletta e della nuova attrezzatura.”
“Già. Peccato che non abbiamo un batterista con cui provare…”
“Ah, a proposito di questo: ho appeso un fottuto annuncio sulla porta dell’Alibi, speriamo che qualcuno risponda.”
Sbattei le palpebre un paio di volte. “Che efficienza!”
“Io mi do da fare mentre tu sei impegnato a collassare, sai?”
Risi. “Grazie Ethan. Ci vediamo domani, okay?”
“Non mancare, mi raccomando.”
 
 
“Ci lamentavamo del garage di Sammy, che era gratis, e adesso ci fanno pagare per questa merda” constatai, osservando le macchie di umidità sulla parete che un tempo doveva essere stata bianca. Qualche giorno prima c’era stato un piccolo temporale estivo ed era così che avevamo scoperto le terrificanti infiltrazioni d’acqua all’interno della nostra nuova saletta.
“Non so come fosse questo garage di Sammy, ma sappi che questo buco è un luogo di lusso rispetto alla sala prove degli Hell Night” commentò Oliver.
Lo osservai mentre era alle prese col mixer nel tentativo di regolare il volume del microfono: da minuti interi non faceva che bestemmiare contro quell’aggeggio, prima perché non riusciva a capire come collegare il cavo del microfono e ora perché il volume era troppo basso.
Ormai cantava nella nostra band da qualche settimana, ci eravamo trovati subito in sintonia con lui e averlo alla voce era un vero sogno, sprigionava esattamente quell’energia a cui aspiravamo. Oltre ad avere già dei testi pronti per le nostre canzoni, era finalmente riuscito a mettere in musica quello di Ethan, dando vita alla prima vera canzone della nostra band.
Caratterialmente era esplosivo come quando stava sul palco, io e Ethan lo adoravamo.
Eravamo sulla buona strada per diventare la band che avremmo sempre voluto essere, mancava solo il batterista.
Mi alzai, camminai avanti e indietro per lo stanzino con fare annoiato, poi mi affacciai alla porta e sbuffai. “Ma Ethan quanto ci mette?”
“Magari il tizio è in ritardo. A proposito: sai per caso chi è?” mi chiese Oliver, per poi lasciarsi sfuggire un’imprecazione tra i denti e mollare un pugno al mixer.
“Ora che ci penso non mi ha detto nessun nome, solo che un tizio aveva risposto all’annuncio.”
“Speriamo sia la volta buona che troviamo un batterista, non ho nessuna intenzione di diventare una specie di Phil Collins” commentò Oliver, poi lanciò un’occhiata alla batteria stipata in un angolo.
Risi, poi mi accostai a lui. “Hai mai provato a suonare la batteria?”
“Sinceramente no… ma lo farò oggi” affermò, mentre i suoi occhi venivano attraversati da una scintilla.
Sorrisi divertito mentre Oliver si posizionava goffamente dietro la batteria. “Spacca tutto!” lo esortai.
“Tanto penso di aver già distrutto il mixer, danno più o danno meno non farà differenza” scherzò, impugnando un paio di bacchette abbandonate sul timpano. “Allora… com’era quel passaggio? Qualcosa del genere, vero?” chiese conferma, mentre cercava di eseguire l’entrata di batteria di In The Air Tonight, ma il risultato fu piuttosto sbilenco e non potei evitare di ridere.
“Che cazzo ridi, marmocchio? Tu sapresti fare di meglio?” mi punzecchiò, sfidandomi con lo sguardo.
“Sta’ a vedere!”
Ci scambiammo di posto e, dopo aver eseguito il medesimo passaggio in maniera più o meno riconoscibile, tentai di capire come si suonasse la restante parte di batteria del brano di Phil Collins, con scarsi risultati e mentre Oliver mi rideva in faccia e mi dava inutili suggerimenti. Infine fu lui a riprendere posto sullo sgabellino, sostenendo di aver capito perfettamente come si doveva suonare, ma ridevamo così tanto che lui non riusciva nemmeno a tenere le bacchette in mano.
Eravamo talmente presi da quell’attività idiota che ci accorgemmo a malapena dell’arrivo di Ethan e il nostro nuovo potenziale batterista.
Ma quando mi voltai, mi trovai davanti l’ultima persona che mi sarei aspettato di vedere: Alick Jacobs, il tipo dai capelli lunghi da cui May era corsa dopo che l’avevo salvata dal suo aggressore.
“Lui è Alick, il nuovo candidato” lo presentò brevemente Ethan, mentre Alick rivolgeva un sorriso amichevole a me e Oliver.
Sicuramente ero sbiancato e avevo sgranato gli occhi, ma mi sforzai comunque di ricambiare il sorriso. Ma che situazione surreale era mai quella?
“Ehi amico, scusa se ti ho rubato il posto, in realtà sono il cantante!” lo salutò Oliver.
“No, no, resta pure!” lo rassicurò l’altro, avvicinandosi a lui. “Anzi, ho sentito che stavi provando a suonare qualcosa, di cosa si trattava?”
Cantante e batterista cominciarono a parlare tra loro, così ne approfittai per affiancare Ethan e dargli di gomito. “Potevi almeno avvisarmi…”
“Di cosa?”
“Come sarebbe a dire? Quello è il tizio a cui ho cercato di fregare la ragazza” sibilai. Ero parecchio imbarazzato da questa coincidenza.
Ethan si strinse nelle spalle. “E chi cazzo se lo ricorda più?”
“Me lo ricordo io.” A quel punto fui costretto a zittirmi perché Oliver e Alick si trovavano nei paraggi: si erano avvicinati al mixer e il moro lo stava esaminando con occhio critico.
“Credo che per regolare il volume sia questa levetta. L’hai già provata?” disse, indicando un punto accanto all’entrata del cavo.
Oliver strabuzzò gli occhi. “E chi cazzo l’aveva vista quella?”
Scoppiai a ridere di gusto, ripensando a quanto il cantante avesse perso la testa per cercare il problema, poi mi voltai verso Ethan. “Finalmente abbiamo trovato qualcuno in grado di risolvere questi problemi senza fulminarci tutti!”
“Fottiti.”
“Ah, Ives, ti volevo dire…” Alick mosse qualche passo verso di me e io mi morsi il labbro inferiore, non sapendo cosa aspettarmi. “Grazie ancora per aver salvato May, se l’è vista davvero brutta quella volta. Meno male che c’eri tu nei paraggi!”
Sorrisi, indeciso se sentirmi una specie di eroe o sotterrarmi immediatamente. E meno male che non se lo ricordava…
“Non ho fatto nulla di che, insomma, non sarei mai rimasto a guardare mentre quel bastardo metteva le mani addosso a una ragazza” biascicai.
“Possiamo cominciare le prove” intervenne Ethan, salvandomi dal momento di estremo imbarazzo.
Alick non esitò un attimo e corse dietro la batteria, mentre io, Ethan e Oliver collegavamo i nostri strumenti e discutevamo sulle canzoni che avremmo potuto usare per testare il nuovo membro della band. Era meglio cominciare da qualcosa che fosse noto a tutti per capire se potevamo entrare in sintonia.
“Come sei messo coi Led Zeppelin?” domandò Oliver ad Alick.
Lui annuì mentre giocherellava con una bacchetta. “A cosa stavate pensando?”
Whole Lotta Love, ci stai?”
Alick annuì nuovamente. “Dovrei ricordarla a memoria. Perfetto.”
Fu chiaro a tutti, ancora prima di arrivare al primo ritornello, che avevamo trovato il batterista giusto per noi: Alick si incastrava perfettamente nel nostro sound, era creativo e pulito, ma soprattutto era come se avesse suonato insieme a noi da sempre; il risultato finale era un sound compatto e coordinato.
Suonavamo già come una band.
Eseguimmo un sacco di cover e, brano dopo brano, eravamo sempre più entusiasti e soddisfatti; alla fine gli facemmo sentire qualche nostro inedito – inclusa Don’t Care, la canzone col testo di Ethan – e Alick trovò sempre il modo più congeniale di inserire la batteria e dare ai brani quel tocco di classe ed energia in più.
“Wow, con questa roba andremo al Whisky e al Rainbow nel giro di un mese!” esultò Oliver al termine delle prove, carico ed euforico.
“E chi ha voglia di aspettare un mese?” fece notare Ethan mentre riponeva la sua chitarra nella custodia.
Mi illuminai e schioccai le dita. “E chi ci dice che dobbiamo aspettare?”
Tre paia di occhi si posarono su di me, incitandomi a continuare.
Sorrisi. “Uno di questi giorni perché non suoniamo in strada, proprio qui di fronte? Portiamo tutto fuori e spacchiamo il culo al vicinato, così sarà impossibile non notarci! In fondo attirare la gente tramite la nostra musica è il modo migliore per farci conoscere, no?”
Ethan, Oliver e Alick si scambiarono occhiate complici, poi il chitarrista posò lo sguardo su di me e si lasciò sfuggire un sorrisetto ironico. “Da quando ti vengono in mente idee intelligenti, Ives?”
“Infatti l’idea non è mia, me l’ha suggerito Bess qualche tempo fa” ammisi.
Oliver scoppiò a ridere, poi sollevò il pollice in alto. “Io ci sto!”
“Ci vorranno un bel po’ di prolunghe e cavi, ma si può fare” concordò Ethan, mentre Alick si limitò ad annuire in silenzio.
“Magari aspettiamo qualche giorno in modo da spargere la voce e invitare più gente possibile, poi abbatteremo l’intera città con la nostra musica!” propose Oliver, già carico e pronto.
Abbattere…
“Sperando che non si scateni una tempesta come quella dei giorni scorsi” aggiunse Alick mentre si alzava dal seggiolino della batteria.
Tempesta…
Storm It Down! Che ne dite, non è fantastico?” saltai su.
Gli altri tre si voltarono a guardarmi interrogativamente.
“Per il nome della band, intendo! Storm It Down mi sembra carino: forte, d’impatto, orecchiabile. E stavolta l’idea è davvero mia!” precisai, strizzando l’occhio ai miei amici.
“Mi piace” affermò Alick abbozzando un sorriso.
“Grandioso!” concordò Oliver.
“Piace anche a me” acconsentì infine Ethan.
Li fissai negli occhi uno per uno, leggendo il loro entusiasmo e quasi tremando per l’emozione.
Eravamo ufficialmente gli Storm It Down. Eravamo parte di qualcosa e, anche se non ci conoscevamo ancora benissimo e non sapevamo dove il destino e la passione ci avrebbero portato, in cuor mio sapevo che da quel momento ci saremmo sempre stati l’uno per l’altro.
 
 
“Ehi ehi ehi, ragazzi! Chi vuole fare la conoscenza degli Storm It Down?”
Era veramente surreale: il sole era basso nel cielo e proiettava i suoi raggi arancioni, noi ci trovavano in mezzo alla strada e, con amplificatori e batteria sull’asfalto, stavamo per suonare per la prima volta davanti a un pubblico.
C’erano tutti: Sammy, Viktor, Bogdan, Jeff, May, Bess con le sue amiche – compresa Emily – e tutti i nostri amici abituali. Perfino Mitchell, l’ex compagno di scuola di Ethan con cui bighellonavamo sempre da piccoli, era ricomparso apposta per assistere al nostro show, nonostante frequentasse sempre più di rado la nostra cerchia.
E poi c’erano tanti volti nuovi, persone che si erano incuriosite vedendoci lavorare fin dal primo pomeriggio per portare il nostro live in strada; qualcuno poteva pensare che fossimo pazzi ad ammazzarci al caldo per eseguire solo quattro canzoni – due inediti e due cover –, ma mentre stringevo il mio basso tra le braccia e facevo scorrere lo sguardo tra i volti sorridenti dei nostri ascoltatori, capii che ne era valsa la pena.
Per la musica ne valeva sempre la pena.
“Okay, per scaldare un po’ i motori facciamo qualcosa che conoscono tutti. Chi la sa, la canti!” spiegò Oliver al microfono, attirando su di sé gli sguardi curiosi degli spettatori.
C’era chi strillava, chi gridava a gran voce i nomi dei vari componenti della band, chi si era accomodato in un angolo e chi invece stava in piedi accanto a noi per manifestarci il suo entusiasmo.
Il nostro piccolo pubblico impazzì letteralmente quando eseguii le prime note di Crazy Train; avevamo deciso di proporre la cover del brano di Ozzy perché piaceva a tutti, era stato il tormentone dell’ultimo periodo… e poi ci veniva davvero bene.
Mentre suonavo, non riuscivo a levarmi il sorriso dalle labbra: tutti cantavano, gridavano, ballavano, applaudivano, salutavano le poche auto che passavano da quelle parti, in quell’angolo di mondo dimenticato.
 
Mental wounds not healing
Life's a bitter shame
I'm goin' off the rails on a crazy train
I'm goin' off the rails on a crazy train
 
Mentre un coro di voci ci investiva, cantando insieme a Oliver il ritornello, mi domandai se un giorno i nostri spettatori avrebbero intonato con la stessa foga e la stessa gioia anche i testi delle nostre canzoni.
Chissà dove ci avrebbe condotto quello strano viaggio.
Un moto d’affetto improvviso mi riempì il cuore ed ebbi l’impulso di mollare il basso e correre ad abbracciare una per una le persone che mi stavano attorno.
Eravamo ragazzi strani e bizzarri, bambini cresciuti troppo in fretta e pieni di lividi che la vita ci aveva lasciato sull’anima; ci trovavamo in mezzo a una strada squallida e sudicia, in un quartiere malfamato, con degli amplificatori da quattro soldi e i vestiti incollati alla pelle sudata. Eravamo poveri, distrutti, dimenticati e senza futuro, ma eravamo una grande famiglia che non aveva mai perso la voglia di vivere, emozionarsi e divertirsi.
E soprattutto sognare.
Gettai un’occhiata alla mia sinistra, dove si trovavano Ethan, Oliver e Alick: i miei compagni d’avventura.
Qualunque fossero le difficoltà davanti a cui ci avrebbe messo la vita, noi avremmo imbracciato i nostri strumenti e le avremmo riso in faccia.
 
 
 
 
♠ ♠ ♠
 
 
Okay, sono emozionata. Sappiate che ho quasi le lacrime agli occhi per questo finale, segno che ancora una volta questi ragazzi sono stati in grado di rubarmi il cuore e l’anima.
Ma ormai di che mi sorprendo? Ives, Ethan e tutto il loro universo sono diventati la mia ragione di vita *_________*
Ma bando alle ciance, passo alle note veramente utili XD
Vi lascio qui i link delle canzoni che ho nominato!
In The Air Tonight di Phil Collins, che guarda caso è uscita proprio nel gennaio dell’81:
https://www.youtube.com/watch?v=YkADj0TPrJA
L’entrata di batteria che Ives e Oliver stavano provando a fare si trova al minuto 3:15 del video che ho linkato ^^
Ah, per chi non lo sapesse: Phil Collins, ex componente dei Genesis, è appunto cantante e batterista!
Poi…
Whole Lotta Love dei Led Zeppelin:
https://www.youtube.com/watch?v=HQmmM_qwG4k
Crazy Train di Ozzy Osbourne:
https://www.youtube.com/watch?v=RMR5zf1J1Hs
Curiosità su quest’ultima: è uscita nel 1980, quindi ci sta che fosse stata un tormentone dei mesi precedenti a questa storia – almeno per questi ragazzi amanti del rock ^^
In questo capitolo conclusivo vediamo la nascita ufficiale degli Storm It Down, con la formazione che rimarrà invariata fino alla fine della loro carriera!
Chi conosce già la serie sapeva che Alick sarebbe diventato il batterista; per chi invece non ne aveva idea, vi aspettavate il ritorno di questo personaggio?
E conosciamo anche Oliver, l’ormai ex cantante degli Hell Night, talentuosissimo! Immagino il suo timbro vocale un po’ come quello di Jared Leto dei Thirty Seconds To Mars, per darvi un’idea ^^
Devono essere davvero una bellissima band, io li voglio sentire *_______*
Non credo ci sia altro da aggiungere per quanto riguarda le note tecniche!
E ora passiamo ai ringraziamenti!
GRAZIE GRAZIE GRAZIE LETTORI, per aver tanto apprezzato questa storia e avermi dimostrato un entusiasmo che mai e poi mai mi sarei aspettata! Sono davvero legatissima a questa minilong, la sua stesura sono stati cinque giorni di febbrile scrittura e profondo delirio mentale, mi ha completamente rapito e mi ha dato modo di rappresentare ancora una volta il mondo meravigliosamente doloroso di questi ragazzi. Sapere che è stata apprezzata, sapere che il mio impegno e la mia passione traspaiono da queste righe, mi rende l’autrice più felice del mondo.
GRAZIE a Kim WinterNight, evelyn80, alessandroago_94, Sabriel_Little Storm e KUBA, perché le vostre parole mi hanno riempito il cuore di gioia. Grazie ai lettori silenziosi e grazie a tutti coloro che giungeranno qui in seguito. GRAZIE per amare i miei personaggi insieme a me!
E grazie ad Ives, Ethan, Sammy, Bess e tutti i personaggi di questa serie, per essere le mie ancore di salvezza, le mie rocce, i figlioletti da amare incondizionatamente e gli amici con cui condividere tutto.
GRAZIE!
Alla prossima avventura – nel caso ve lo stiate chiedendo, lettori: ho una marea di storie per questa serie pronte da pubblicare prossimamente *______*
 
 

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