When the world is running down, you make the best of what's still around di Soul Mancini (/viewuser.php?uid=855959)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 1 *** I ***
I
I
Mental wounds not
healing
Life's a bitter shame
I'm going off the rails on a crazy train
[Ozzy Osbourne – Crazy
Train]
“Andiamo, ma che paragone è? I Police sono molto più
interessanti e soprattutto innovativi!”
“Sì, ma senza i Pink Floyd non esisterebbero.”
Lanciai un’occhiata in cagnesco a Ethan. “Ma che
ragionamento di merda è? Cosa c’entra il sound dei Police con i Pink Floyd?”
Il mio amico ricambiò con uno sguardo di sufficienza. “Lo
vedi? È che tu non capisci un cazzo di musica, Ives Mancini!”
“Dici così solo perché tu sei ottuso e ti piacciono solo i
Pink Floyd, i Black Sabbath e i Led Zeppelin” lo presi in giro.
“Ma vaffanculo. Allora rendimi il vinile di Outlandos
D’Amour che ti ho regalato!”
“Col cazzo!”
Sammy scoppiò a ridere mentre spingeva la pesante porta
dell’Alibi; finalmente eravamo giunti a destinazione. “Avete rotto le palle con
queste guerre tra band, lo sapete? Piuttosto… sapete come si chiama il gruppo
che deve suonare oggi?”
Entrammo nel locale e ci dirigemmo subito verso il bancone
per ordinare da bere; come al solito l’aria era vivace, i tavolini, sia
all’interno che nella terrazza sul retro, erano gremiti di ragazzi e dalla
vecchia radio abbandonata in un angolo si diffondevano le note di un tormentone
estivo dei Men At Work.
Salutai un po’ di gente con cenni e sorrisi, poi poggiai i
gomiti sul bancone e attesi che arrivasse il nostro turno di ordinare. “No,
sinceramente non mi ricordo. Però dev’esserci una locandina appesa da qualche
parte…” Affinai lo sguardo per esaminare le pareti del locale, su cui però
svettava solo una vasta collezione di vinili e poster.
“A proposito di nomi, la nostra band non ne ha ancora uno”
commentò Ethan. “L’abbiamo fondata quattro anni fa e ancora la chiamiamo band.”
“E non abbiamo nemmeno un cantante. Non ci prenderanno mai a
suonare in qualche locale, senza nome e senza voce” aggiunse Sammy.
“Perché non ci chiamiamo davvero Band?” proposi con un
sorriso divertito.
“Certo, che grande proposta…” mi sbeffeggiò Ethan con un
sorrisetto.
“Stavo scherzando.”
“Non riesco a pensare a niente di produttivo da sobrio”
affermò il mio amico, attirando l’attenzione del barista.
Dopo aver ordinato da bere – Ethan ovviamente prese il suo
adorato Jack Daniel’s, mentre io e Sammy decidemmo di iniziare con una semplice
birra – ci andammo a posizionare in un tavolino sulla terrazza, vicino al
palchetto allestito per i concerti estivi.
L’Alibi era un pub piuttosto squallido in realtà, ma era il
ritrovo di molti ragazzi della nostra età principalmente per due motivi: suonavano
un sacco di rock band locali e non chiedevano mai l’età quando ordinavi da
bere. Tra il bancone sudicio e appiccicoso d’alcol, il rettangolo spoglio in
cemento che ci ostinavamo a chiamare terrazza sul retro e i bagni che
non venivano mai puliti, tanti di noi si stavano lasciando l’infanzia alle
spalle.
Cominciammo a sbronzarci e a scambiare quattro chiacchiere
con i presenti in attesa che il concerto cominciasse; solo quando ero ormai al
terzo o al quarto drink, e dopo aver preso svariati tiri d’erba che imi aveva
offerto un nostro amico, notai alcuni ragazzi salire sul palco e imbracciare
gli strumenti. Erano poco più grandi di me, avranno avuto al massimo sedici
anni, e sfoggiavano capelli lunghi e abiti glam.
“Scommetto che questi saranno una fotocopia dei Kiss”
commentò Ethan incrociando le braccia al petto ed esaminando i quattro
musicisti con le sopracciglia aggrottate.
“Mmh… tu dici?” biascicai con una risatina.
“Ma non lo vedi che sono vestiti come loro? Quanto ci
scommetti che aprono lo show con una cover dei Kiss?”
“Ma no, dai, magari gli assomigliano e basta” supposi.
Ethan piegò appena la testa di lato. “Ripeto: quanto
scommetti?”
Ci riflettei un attimo su. “Se perdi, voglio il tuo skate
col drago.”
Ethan allungò la mano. “Affare fatto. Fanculo, tanto non lo
uso più.”
Gliela strinsi per suggellare il patto. “Non ci credo che me
lo daresti davvero!”
“Infatti non te lo darò perché sono sicuro di vincere. Li ho
inquadrati appena sono saliti sul palco.”
Trascorse giusto una manciata di secondi prima che il gruppo
cominciasse a suonare; sgranai gli occhi e subito dopo scoppiai a ridere quando
riconobbi le prime note di I Was Made For Lovin’ You dei Kiss.
“Visto? Che ti avevo detto?” si pavoneggiò Ethan.
“Dai, ma come cazzo hai fatto a indovinare?” gli chiesi,
dandogli di gomito.
“Vuoi sapere la verità?”
Annuii.
“Prima ho letto la scaletta che aveva in mano il
batterista.”
Risi nuovamente e gli diedi una spinta. “Ma che pezzo di
merda! A proposito del batterista… non ti sembra fuori tempo?” osservai.
“E il cantante ha sbagliato tutto il testo, credo stia proprio
cantando un’altra cosa” aggiunse lui.
“Ehi, dopo il concerto vado a chiedergli se entra nella
nostra band!”
“Ma che si fotta.”
Scoppiammo entrambi a ridere e continuammo a commentare il
discutibile live di quei quattro, ma alla seconda canzone – che era esattamente
uguale alla cover dei Kiss – avevamo già perso la pazienza.
“Che ne dici di andare a prendere un po’ d’aria in strada?”
proposi quindi; in quella piccola terrazza eravamo tutti accalcati e non si
respirava.
Ethan annuì e poi si guardò attorno, in cerca di qualcosa o
qualcuno. “Volevo chiedere a Sammy se gli andava di venire con noi, ma è
sparito.”
“Di nuovo” convenni, scorrendo con lo sguardo tra i volti
dei presenti, ma dei capelli rosso acceso del nostro amico non c’era traccia.
“Non ti sembra un po’ strano che sparisca così spesso?” feci notare al mio
amico mentre ci dirigevamo all’esterno.
Lui si strinse nelle spalle, segno che non sapeva bene come
commentare.
Il nostro batterista nell’ultimo periodo pareva davvero assente:
gli avevamo proposto tante volte di venire sul lungomare con noi durante il
giorno, ma aveva sempre declinato l’invito, e quando uscivamo insieme spariva
dopo qualche minuto. Ormai riuscivamo a trascorrere un po’ di tempo con lui
solo durante le prove della band.
Una volta in strada, recuperai subito accendino e sigarette,
ma nel giro di pochi istanti io e Ethan ci rendemmo conto che qualcosa non
quadrava: ci fissammo negli occhi con perplessità prima di volgere lo sguardo
dall’altro lato della via.
Riconobbi May, una ragazzina mora che frequentava spesso
l’Alibi, illuminata dalla fioca luce di un lampione e bloccata al muro da un
ragazzo molto più alto e grosso di lei, che le si incollava addosso con
prepotenza; la ragazza gridava e lo implorava di lasciarla stare, ma lui non
accennava a toglierle le mani di dosso.
Lasciai cadere a terra la sigaretta appena accesa, senza
nemmeno preoccuparmi di schiacciarla col piede, mentre sentivo il cuore
pulsarmi nelle orecchie e l’adrenalina pomparmi nelle vene.
Nessuno doveva azzardarsi a toccare una ragazza in quel
modo contro la sua volontà.
Nessuna doveva subire il trattamento che era stato
riservato a mia madre.
Agii d’istinto: prima ancora di rendermene conto, avevo
attraversato la strada di corsa e mi ero avventato su quel tipo, strattonandolo
via. “Lurido bastardo, lasciala in pace!” strillai, fuori di me dalla rabbia.
Poco prima di trascinarlo via da May, avevo fatto in tempo a
vederlo mentre tentava di insinuare le mani sotto la gonna della ragazza e la
cosa mi fece ancora più incazzare.
Lo spinsi via e gli mollai un pugno in pieno petto; lui
inizialmente parve sorpreso e colto alla sprovvista, ma in pochi secondi si
riscosse e ghignò malignamente, afferrandomi per la maglietta e sbattendomi al
muro con forza. “Cosa cazzo vuoi, marmocchio?” sputò tra i denti.
Mi piegai in avanti e la vista mi si offuscò per il colpo
appena preso, ma prima che potessi riprendermi l’aggressore mi sferrò un pugno
in pieno viso, spaccandomi il labbro; il sapore metallico del sangue mi riempì
la bocca, ma feci in tempo a gridare: “May, scappa!”.
Era un susseguirsi rapido di fotogrammi: attraverso la
cortina di lacrime che mi offuscava lo sguardo per il dolore, notai gli occhi
sgranati di May poco prima che fuggisse via. Un attimo dopo misi a fuoco il
volto di un altro tizio, forse un amico dell’aggressore, che mi rivolgeva
un’occhiata truce.
Oh, bene, arrivano i rinforzi…
Eravamo due contro uno, non potevo niente, mi avrebbero
gonfiato di botte. Non ero nemmeno abituato alle risse, non avrei saputo
difendermi.
Ma non importava. Avrebbero potuto pestarmi fino a togliermi
il respiro, la cosa che contava davvero era che May si fosse salvata.
“Questo è perché non ti fai i cazzi tuoi” disse il primo,
colpendomi sullo stomaco. Mi piegai in avanti, in preda a un dolore lancinante
e un forte senso di nausea, ma subito il secondo bastardo mi afferrò per i
capelli e li tirò con forza per farmi sollevare il capo e guardarmi negli
occhi.
Ma la sua stretta ben presto si allentò; sbattei le
palpebre, confuso, finché non mi resi conto che alle spalle dell’aggressore si
trovava Ethan.
“E così oggi è giornata di pulizia della merda dalle strade!
Bene, spero di sistemarvi in tempo per quando passerà il camion della
spazzatura” ringhiò il mio amico, cercando di tenere a bada entrambi i nostri
avversari.
Mi gettai nuovamente tra di loro senza nemmeno rifletterci,
pronto a fiancheggiare il mio amico.
Ci gonfiarono di botte e noi gonfiammo di botte loro; fu un
groviglio di corpi, calci, pugni e sangue che sgorgava a fiotti. Durò solo
qualche istante, ma a me parvero secoli.
Andò avanti finché i due assalitori non si resero conto che
ormai May, l’oggetto del loro interesse, era lontana anni luce da loro e non
potevano farci niente, quindi ci lasciarono ad ansimare sul marciapiede mentre
correvano via e ci intimavano di andare a farci fottere.
Avevo gli occhi pieni di lacrime, le labbra piene di sangue
e provavo un dolore talmente atroce che non sapevo più localizzarlo.
Ethan, in condizioni leggermente migliori rispetto alle mie,
mi afferrò per un braccio e mi riportò dall’altro lato della strada, in cui si
era radunata una piccola folla di curiosi. Il mio sguardo andò subito a cercare
May, che trovai in lacrime poggiata alla parete del locale.
Lottai contro le gambe che tremavano e i dolori alla schiena
e mi accostai a lei. Era una ragazzina così carina, con un fisico snello e
slanciato e i capelli scuri raccolti in una treccia; non avrei mai permesso che
le capitasse qualcosa e che quello stronzo si approfittasse di lei.
Non sapendo che dire, compii l’unico gesto che mi veniva
spontaneo in quel momento: la abbracciai con delicatezza e i nostri corpi
tremavano insieme, così fragili e provati.
Lei si strinse a me e continuò a piangere. “Grazie Ives, tu…
nemmeno mi conosci e te la sei vista brutta per salvarmi.”
“Macché, non mi devi ringraziare. Non potevo mica rimanere a
guardare mentre quel pezzo di merda ti metteva le mani addosso! Anzi, vorrei
picchiarlo ancora” ammisi, ed era vero: la rabbia che mi era montata dentro non
era ancora svanita.
Mentre riempivo di pugni quei tizi, era come se mi fossi
sfogato anche sullo stupratore di mia madre.
May sciolse l’abbraccio e tirò su col naso. Ci scambiammo un
sorriso – il labbro mi bruciava terribilmente –, poi lei cominciò a guardarsi
attorno in cerca di qualcuno. I suoi enormi occhi scuri si illuminarono quando
avvistò una figura sulla porta del locale; mi rivolse un’ultima occhiata grata
prima di dirigersi verso un ragazzo dalla pelle bruna e i lunghi capelli scuri.
Lui la accolse subito tra le braccia, facendole posare la testa sulla sua
spalla.
“Carina, vero?”
Sobbalzai e mi voltai di scatto: non mi ero accorto dell’arrivo
di Ethan alla mia sinistra, eppure lui era lì.
“Sì, ma… quel tizio chi è?” chiesi.
“Alick Jacobs. Non sapevi che lui e May si frequentano?”
Avvampai. “Ah. Sembrano fratelli, si somigliano un sacco”
borbottai, leggermente deluso. May era davvero carina e per un istante avevo
sperato che, dopo averla salvata, lei potesse interessarsi a me, ma
evidentemente avevo fatto male i calcoli.
Ethan ridacchiò. “Strano, il pettegolo tra i due sei tu.”
“Ma quale pettegolo… sei un coglione! Non ti picchio solo
perché ci hanno già pensato quei pezzi di merda.”
“Altrimenti sarei molto preoccupato, sì…” ribatté lui
ironico.
Lo fulminai con un’occhiataccia, ma ben presto la mia
espressione si addolcì: il mio amico mi aveva aiutato senza esitazioni, si era
messo in mezzo alla rissa per difendermi, seppur non fosse tenuto a farlo. Del
resto l’iniziativa era partita da me.
Probabilmente non sarei mai stato in grado di esprimere
appieno la mia gratitudine nei suoi confronti.
Presi una boccata dalla mia sigaretta, cercando di reprimere
il dolore al labbro, e lanciai un’occhiata fugace a Ethan, che fumava al mio
fianco. Dovevo ringraziarlo di cuore per avermi portato fuori da quella
situazione, senza di lui non avrei saputo come fare; in realtà non sapevo
nemmeno come avevo potuto ficcarmici, non era proprio da me.
Il mio amico aveva un livido violaceo sullo zigomo che
spiccava anche nell’oscurità della notte e la maglietta macchiata di sangue –
forse mio, forse dei tipi con cui avevamo fatto a botte.
“Quella è la tua maglietta dei Led Zeppelin, quella che ti
ha regalato Davi” osservai. “Adesso è rovinata.”
Ethan si strinse nelle spalle mentre sbuffava una nuvola di
fumo dalle labbra. “Resiste a tutto, questa t-shirt. Un viaggio in lavatrice e
tornerà come nuova.”
Calò nuovamente il silenzio tra noi; distolsi lo sguardo da
Ethan e lo posai sulla mezzaluna che brillava in cielo. Mi sentivo un po’ in
colpa per ciò che avevo fatto, ma quando avevo visto quel bastardo mettere le
mani addosso a May non avevo saputo trattenermi, pur sapendo che ero in netto
svantaggio e sarebbe andata a finire male. Non riuscivo proprio a tollerare le
mancanze di rispetto nei confronti delle donne, forse perché erano delle
creature davvero speciali e che ammiravo tantissimo.
Erano quasi delle supereroine, un po’ come zia Maura.
“Oggi ho picchiato quel tizio perché mi ha fatto pensare
alla faccenda di mia madre” ammisi, lo sguardo sempre perso tra le stelle. “Io
sono nato per colpa di uno stupro, mia madre ha sofferto tantissimo e alla fine
si è suicidata. Non posso sopportare che una ragazza subisca delle violenze
perché ogni volta mi ricordo di lei: nessuno merita di vivere quello che ha
vissuto lei. Per questo sono partito come un treno in corsa.”
Ethan non ribatté subito, si limitò ad appoggiarsi meglio al
muretto basso su cui avevamo preso posto, e fummo nuovamente avvolti dal
frinire dei grilli e le voci allegre in lontananza – i classici suoni delle
notti d’estate come quella.
Gettai il mozzicone ormai consumato a terra e lo schiacciai
con la suola della scarpa. Ero stremato, ma non sarei tornato a casa per niente
al mondo.
“Che faresti se tuo padre comparisse all’improvviso e pretendesse
di farti da genitore?” chiese Ethan di punto in bianco, rompendo il silenzio.
Mi voltai lentamente verso di lui con gli occhi sgranati,
colto alla sprovvista: non era da lui porre delle domande, tanto meno su
argomenti così delicati. Lo trovai che mi scrutava con attenzione, gli occhi scuri
estremamente seri che luccicavano sotto la luce della luna.
“Ma che cazzo dici? Mio padre si è scopato mia madre ed è
sparito nel nulla, nemmeno sa di avere un figlio” gli feci notare, leggermente
nervoso. In effetti era una cosa a cui non avevo mai pensato, ma la sola idea
di scoprire l’identità dello stronzo che aveva violentato mia madre mi faceva
salire il sangue al cervello.
“E che cazzo, lo so, ma lavora di fantasia! Che gli diresti
se si presentasse alla tua porta?”
Scrollai le spalle. “Gli direi di dimenticarsi per sempre di
avere un figlio e che per quanto mi riguarda potrebbe anche morire. Io non odio
nessuno e sono disposto a perdonare tutti, ma non lui; chiunque sia, è
la persona peggiore che possa esistere” risposi senza esitazioni, e alla fine
la mia voce aveva assunto un tono quasi rabbioso.
Ethan scosse appena il capo, prese una boccata di fumo e
smise di guardarmi, perdendo lo sguardo davanti a sé. “A volte un padre è
meglio non averlo” sputò tra i denti.
Il mio cuore perse un battito quando udii quelle parole. Non
sapevo i dettagli del passato di Ethan, lui preferiva parlarne il meno
possibile, ma sapevo per certo che era fuggito dal Brasile con tre dei suoi
fratelli perché suo padre era un mostro; non mi aveva mai raccontato cosa
facesse di preciso, ma ogni volta che lo nominava il suo sguardo si riempiva d’odio.
Forse ero davvero stato fortunato a non conoscere il mio,
l’avrei odiato se possibile ancora più di quanto già non facessi.
“Domani andiamo sul lungomare?” cambiai discorso, forse
perché l’atmosfera si era fatta un po’ troppo pesante.
“Va bene, ma prendiamo il pullman delle undici, non ne ho
voglia di svegliarmi presto.”
Sorrisi, e non mi importava niente anche se il labbro
spaccato tirava e faceva male.
♠ ♠
♠
Benvenuti nella mia prima minilong slice of life! Non so
nemmeno se possa esistere una cosa del genere, però diciamo che questa è più o
meno una raccolta di vari momenti sparsi ma collegati tra di loro, che andranno
a formare una trama-non trama… sì, va bene, non so nemmeno io cosa sto dicendo,
ma andando avanti con la lettura capirete XD spero!
Era da un sacco di tempo che volevo scrivere questa storia e
raccontare un po’ di aneddoti dell’adolescenza di Ives&Ethan! Ho scelto
proprio l’estate del 1981 perché all’epoca Ives aveva tredici anni e Ethan ne
aveva quattordici; erano quindi in una fase di passaggio molto importante, in
cui la crudeltà della vita viene sbattuta loro in faccia con ancora più
violenza.
Forse non sono proprio partita col botto con questo
capitolo, ma prometto che la storia migliorerà col tempo XD
Piccole notine di spiegazione per chi non conosce la serie
^^
Ives, Ethan e Sammy, rispettivamente basso, chitarra e
batteria, ai tempi avevano una band, che però appunto non aveva ancora un nome
o un cantante.
L’Alibi è un luogo di mia invenzione; a Los Angeles, la
città in cui è ambientata la storia, in realtà era pieno di locali in cui si
tenevano dei live e che erano frequentati dai musicisti dell’epoca, ma ho
deciso di creare un luogo apposta come “punto d’appoggio” per i miei
personaggi, anche perché mi viene più comodo parlare di un posto che non esiste
XD
I Men At Work, che nomino a un certo punto nel testo, per
chi non lo sapesse sono un gruppo australiano che proprio nel 1981 ottenne un
grande successo con due brani molto carini ed estivi (Who Can It Be Now?
e Down Under), quindi non ho fatto fatica a immaginarli come tormentone
estivo dell’epoca :)
Per chi invece non avesse presente i Kiss e la loro I Was
Made For Lovin’ You, ecco il link:
https://www.youtube.com/watch?v=ZhIsAZO5gl0
Zia Maura, che viene citata nei pensieri di Ives e definita
una supereroina, è la zia di Ives, sorella della madre suicida, che si è presa
cura di lui per tutti questi anni come se fosse un figlio, dividendosi tra
lavoro e famiglia.
Infine quando faccio riferimento allo skate col drago di Ethan,
parlo di un oggetto tanto caro al nostro chitarrista: quando era piccolo ha
decorato lui stesso il suo skateboard con un enorme drago, avvalendosi delle
sue capacità nel disegno (ma vabbè, Ethan sa fare tutto XD).
Dovrei aver detto tutto!
Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate! Grazie a chiunque
sia giunto fin qui :3
Al prossimo capitolo!!! ♥
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Capitolo 2 *** II ***
II
I
won't go down
I'll
fight through the pain
I'll
be there right by your side
I'll
never let them bring you down
[Five
Finger Death
Punch – When The Seasons Change]
Osservai Ethan mentre
usciva di casa con un’espressione cupa
e corrucciata; mi rivolse appena un cenno di saluto mentre combatteva
per
chiudere il portoncino, che era difettoso ormai da anni –
forse l’avevo sempre
conosciuto così.
Dopo aver tentato di
chiuderlo diverse volte, sbattendolo
con forza e avergli mollato qualche pugno, il mio amico si arrese.
“Foda-se”
lo sentii borbottare in portoghese mentre si accostava a me.
“Andiamo?” mi
chiese poi.
“Siamo in
ritardo, non faremo mai in tempo a prendere il bus
delle undici” lo informai, incamminandomi verso la fermata
del pullman più
vicina.
“Che si
fotta anche l’autobus del cazzo” ringhiò
Ethan,
arrancando sull’asfalto accanto a me.
Sollevai un
sopracciglio e mi voltai appena per rivolgergli
un’occhiata interrogativa: quella mattina mi era bastato
scorgere la sua espressione
cupa e incazzata per capire che qualcosa non andava. Non sapevo se
fosse il
caso di chiedergli cos’avesse, in genere la nostra amicizia
non funzionava con
le domande.
“Che cazzo
hai da guardare?” sbottò lui dopo qualche
istante, palesemente nervoso. Non era da lui reagire così,
ennesimo segnale che
qualcosa non andava.
Mi strinsi nelle
spalle. “Che cazzo hai tu,
piuttosto?”
“Niente…
stronzate” borbottò, distogliendo lo sguardo e
puntandolo dritto davanti a sé.
“Sicuro?”
gli chiesi con una punta di preoccupazione. A
volte non sapevo proprio come fare con lui, avrei voluto che mi
raccontasse
quello che gli capitava per poterlo aiutare ma lui si teneva tutto
dentro.
“Sì,
cazzo!” sbottò, infastidito dalle mie insistenze.
Trascorse qualche istante di silenzio, poi Ethan riprese la parola.
“Oggi mia
sorella se ne va.”
Sgranai gli occhi e
dovetti sforzarmi per non immobilizzarmi
in mezzo alla strada. “Olivia?”
“Ti pare che
io abbia altre sorelle qui?”
“Come mai?
Dove va?” domandai, colto alla sprovvista.
Adesso si spiegava
come mai il mio amico fosse così nervoso:
nonostante fosse solo qualche anno più grande di lui, Olivia
aveva
rappresentato una madre per Ethan dal momento in cui erano scappati dal
Brasile; era l’unica ragazza tra i quattro fuggiaschi ed era
stata un punto di
riferimento per i suoi fratelli in quegli anni, il mio amico me ne
aveva sempre
parlato con grande rispetto.
“Qualche
tempo fa ha conosciuto un tizio di San Diego e dice
di essersi innamorata. Si devono sposare e lei andrà a
vivere con lui” spiegò
Ethan, passandosi una mano tra i corti capelli scuri già
umidi di sudore.
“E tu
l’hai conosciuto?” mi informai.
“Sì,
sembra un tipo a posto.”
“Quindi non
sei preoccupato?”
Ethan si strinse nelle
spalle. “Se osa trattare male mia
sorella, sarà lui a doversi preoccupare. Comunque se lei
è felice così, okay.”
Ma io sapevo che la
stava facendo più facile di quanto non
fosse: ostentava una certa indifferenza, però lo conoscevo
abbastanza bene da
notare la sua sofferenza. Doveva essere dura separarsi da una persona a
cui si
tiene veramente, salutarla prima che andasse a vivere in
un’altra città a
chilometri di distanza.
Prima se
n’era andato Arthur, ora Olivia.
E sarebbero rimasti
solo Ethan e Davi.
Lanciai
un’occhiata al mio amico e lo trovai con lo sguardo
assente, perso in chissà quali pensieri. Ethan sembrava
sempre così forte e
padrone di sé, ma anche lui, come tutti gli altri, rischiava
di crollare quando
i suoi punti di riferimento svanivano.
“Sembro un
deficiente, vero?” Volteggiai su me stesso in
modo che Ethan potesse vedermi per intero.
“Non
è che lo sembri: lo sei”
puntualizzò lui con un
sorriso ironico, per poi raddrizzarmi sulla punta del naso il paio di
occhiali
da sole dalla montatura rosso fuoco che avevo indossato per scherzo.
Gettai
un’occhiata alla bancarella davanti alla quale ci
trovavamo, esaminando con fare critico le decine di occhiali dai colori
e
modelli bizzarri che vi erano esposte. “Neanche Elton John
userebbe questa
roba” commentai con una risata.
“Oh,
aspetta, manca un piccolo dettaglio per completare
l’outfit!” esclamò Ethan, per poi
afferrare un improbabile cappello giallo in
stile cowboy e ficcarmelo in testa. Mi scrutò per qualche
secondo e scoppiò a
ridere. “Perfetto!”
“Sei un
coglione” lo accusai, scoppiando a ridere a mia
volta e levandomi di dosso tutti quegli accessori che mi stavano
già facendo
sudare e morire di caldo.
Gettammo tutto sui
tavoli della bancarella e continuammo la
nostra passeggiata nel lungomare in direzione del nostro chiosco di
fiducia,
gettando di tanto in tanto qualche sguardo al mare che quel giorno
ribolliva
placido sotto il sole bollente.
Osservai Ethan mentre
scambiava cenni di saluto con qualche
ragazza che passeggiava sul lungomare e con qualche gruppetto che si
era
radunato sulla spiaggia e non potei fare a meno di invidiarlo: Ethan
non aveva
alcuna difficoltà a farsi notare dalle donne, andava a letto
con una diversa
quasi ogni sera, mentre io…
Io non avevo ancora
fatto niente da quel punto di vista. Non
che me ne fossi mai interessato, ma ormai avevo tredici anni e il fatto
di non
essere mai stato con una ragazza mi metteva a disagio.
“Oggi mi
fissi tutto il giorno, stai cominciando a essere
inquietante” mi fece notare Ethan, dandomi di gomito.
Mi riscossi
all’improvviso: non mi ero accorto di starlo
ancora guardando mentre riflettevo.
“No,
è che… stavo pensando a una
cosa…” borbottai,
pentendomene subito dopo. Non mi andava affatto di rivelargli quanto mi
sentissi patetico, perché non riuscivo mai a frenare la
lingua?
Ethan si strinse nelle
spalle e non disse niente ma, anche
se non fece domande, stava aspettando che parlassi.
Forse avrei potuto
dirglielo davvero: essendo molto più
esperto di me – e avendo conosciuto la maggior parte delle
nostre coetanee
anche in intimità – poteva suggerirmi qualche
ragazza con cui provarci.
“Stavo
pensando…” Abbassai lo sguardo e mi sentii
avvampare.
“Sono stufo di essere un verginello sfigato” ammisi
con un filo di voce.
“Scopa con
qualche ragazza, no? Cosa stai aspettando?”
Entrammo nel chiosco e
prendemmo posto a un tavolino, già
sapendo che sarebbe diventato il ritrovo del nostro gruppo di amici.
Sbuffai e rivolsi
un’occhiata al mare. “E con chi potrei
provarci? Ho paura di sbagliare o di spaventarle…”
Ethan ci
rifletté per qualche secondo, facendo scorrere lo
sguardo tra le figure disseminate per la spiaggia; quella parte di
lungomare
era frequentata dai poveracci della nostra età
perché era abbastanza squallida
e facile da raggiungere con i mezzi pubblici, era un po’ come
andare all’Alibi.
“Perché
non ci provi con Bess? Mi sembra abbastanza
espansiva e troietta, potrebbe dartela facilmente”
commentò, accennando appena
verso un punto alle mie spalle.
Mi voltai cautamente e
adocchiai Bess Hadley, la ragazza in
questione, che chiacchierava con due sue amiche seduta sul suo telo da
mare.
Qualche volta avevo scambiato due parole con lei, era una tipa tosta e
lo si
poteva capire anche solo guardandola: a differenza di tutte le altre
ragazzine,
che sfoggiavano costumi colorati e allegri, lei indossava sempre un
bikini nero
che contrastava con la sua carnagione chiara. Era esuberante e diretta,
si
muoveva con disinvoltura e lascivia, come se aspirasse ad attirare su
di sé
tutti gli sguardi.
Annuii: potevo
provarci, Bess mi sembrava la tipa giusta ed
era anche molto carina.
“Tu sei
già stato con lei?” chiesi a Ethan.
“No. E poi
non è il mio tipo, le preferisco più
formose.”
“Ehi
ragazzi! Ma quanto cazzo ci avete messo ad arrivare?”
Una voce ruvida e squillante interruppe la nostra conversazione; ci
voltammo e
avvistammo le figure di Bogdan, Viktor e Jeff che ci raggiungevano.
Bogdan e Viktor erano
due fratelli di origini polacche che
vivevano nel nostro quartiere e che riuscivano a procurarsi sempre
l’erba più
buona, mentre Jeff era il loro migliore amico e li seguiva ovunque.
Loro tre
erano tra i nostri più cari compagni di avventure.
“Ehilà
stronzi, che si dice?” li salutò Ethan mentre
prendevano
posto attorno al nostro tavolino.
“Che
c’è, non sapete divertirvi senza di
noi?” li
punzecchiai io.
Bogdan – il
più grande tra i due fratelli – ci
mostrò il
dito medio con un sorrisetto e poi lanciò
un’occhiata critica al piano del
tavolino ancora vuoto. “Non avete ordinato da bere?”
Io e Ethan scuotemmo
il capo.
Viktor allora si
alzò. “Faccio un giro di birre per
tutti?”
Acconsentimmo
– io in realtà stavo morendo di fame, ormai
era quasi ora di pranzo – e, mentre il nostro amico si
avviava verso il
bancone, Bogdan si voltò verso Ethan e gli lanciò
un’occhiata complice. “Cos’ha
tuo fratello in lista in questi giorni?”
Ethan ci
rifletté su per un attimo. “Crack, ero, coca,
acidi… un po’ di tutto in realtà. Vuoi
comprare?”
“Nei
prossimi giorni voglio organizzare una serata di sballo
all’Alibi, tanto ormai sono amico del proprietario e non
avrà niente da ridire”
spiegò lui.
Rimasi piuttosto
colpito dall’idea di Bogdan: sapevo che
spesso all’Alibi si verificavano delle serate
all’insegna degli stupefacenti,
in cui ci si stonava come se non ci fosse un domani, e qualche volta vi
avevo
assistito, ma dal canto mio non mi ero mai spinto oltre alcol e
marijuana. Non
che avessi paura di provare cose nuove, ma le sostanze che assumevo mi
erano
sempre bastate per uscire di testa e divertirmi; ultimamente
però mi stava
annoiando assumere sempre le stesse cose.
Sorrisi tra me: quella
serata organizzata da Bogdan sarebbe
stata l’occasione per assaggiare qualcosa di diverso.
Qualche istante dopo
Viktor tornò con le birre – ovviamente
al chiosco non facevano il servizio al tavolo – e si aggiunse
alla
conversazione per pianificare la festa.
Presi a sorseggiare la
mia bibita rinfrescante e subito la
mia attenzione venne catturata da Bess e le sue amiche che, a qualche
metro da
noi, stavano riponendo tutti i loro averi nelle borse per lasciare la
spiaggia;
doveva fare davvero caldo a quell’ora sotto il sole.
Bess si
gettò lo zaino in spalla e si diresse a passo svelto
proprio verso di noi, per poi salire i gradini in legno e accostarsi al
nostro
tavolino, seguita poco dopo dalle altre ragazze.
“Ehi,
uomini! A me non lo offrite un sorso di birra?”
esordì, trascinando una sedia tra me e Viktor e prendendo
posto mentre
canticchiava la canzone di Bob Marley diffusa da un piccolo giradischi
sul
bancone.
“Col
cazzo” le rispose Viktor, beccandosi un pugno sul
braccio dalla ragazza. Lui e Bess erano stati in classe insieme e si
conoscevano da una vita, giocavano sempre a punzecchiarsi.
“Prendi un
sorso dalla mia” le dissi gentilmente, già pronto
a conquistarla – o almeno a provarci –, ma
l’ultima parte della frase venne
sovrastata da un’imprecazione di Ethan a gran voce.
Mi voltai nella sua
direzione e lo trovai con gli occhi
sgranati che fissava i bicchieri posati sul tavoo; infatti
un’ape doveva essere
stata attirata dal loro contenuto e ora ci svolazzava intorno.
Le amiche di Bess
gridarono e, sollevandosi di scatto dalle
loro sedie, fecero un balzo indietro.
“E dai,
è solo un’ape! Se stiamo fermi se ne va da
sola”
esclamai, per nulla turbato dall’arrivo
dell’insetto.
“Io devo
proteggere la mia birra, non sia mai che ci si
voglia tuffare dentro” affermò Viktor, prendendo
il suo bicchiere e spostandosi
qualche metro più in là.
“Perché
questa bastarda non se ne va?” mugugnò Ethan,
impietrito sulla sedia.
Scoppiai a ridere.
“Non dirmi che hai paura!”
“Non ho
paura…”
“Ho capito,
adesso la mando via” affermò Bogdan, per poi
sfilarsi la maglietta e cercare di colpire l’ape con
l’indumento, ma come unico
risultato ottenne di farla incazzare ancora di più.
Scattai in piedi.
“Guarda che così peggiori solo la
situazione!” cercai di avvertirlo; allungai bruscamente una
mano per bloccarlo,
ma proprio in quel momento l’ape si trovava nei paraggi e mi
conficcò il
pungiglione nel braccio.
“Ape del
cazzo, brutta bastarda!” gridai, crollando
nuovamente sulla sedia e portandomi una mano a coprire laddove mi aveva
punto.
Il dolore era stato così improvviso, sottile e intenso che
gli occhi mi si
riempirono di lacrime e digrignai i denti.
“Ma quanto
siete ritardati tutti quanti? Stare fermi e
aspettare che se ne andasse era troppo difficile, vero?”
commentò Bess con un
sospiro, poi si voltò verso di me. “Fammi vedere
se ti è rimasto dentro il
pungiglione.”
“Non faccio
vedere niente a nessuno” ribattei irritato,
premendo ancora più forte sul braccio nella speranza di
alleviare il dolore.
Lei si strinse nelle
spalle. “Fai come cazzo vuoi.”
“Prima mi
prendevi per il culo e adesso piangi” intervenne
Ethan rivolgendomi un sorriso ironico.
“Fottiti,
non sto piangendo!” E, giusto per mandare al
diavolo la credibilità della mia affermazione, una lacrima
mi scivolò lungo la
guancia. “Piuttosto, cosa cazzo si deve fare in questi
casi?”
“Servirebbe
qualcosa di metallico. Oppure dell’aglio”
osservò Jeff.
“Oppure
potresti disinfettare la ferita con dell’acqua di
mare” propose Bogdan con un’espressione per nulla
rassicurante; scambiò
un’occhiata complice con Viktor e Ethan, poi tutti e tre
sorrisero e io
cominciai a temere per la mia vita.
“Cosa state
architettando?” bofonchiai.
“Uno…
due…” cominciò a contare Bogdan,
fissando su di me il
suo sguardo da rapace.
Mi alzai dalla sedia e
cercai di scappare con un grido, ma
ormai era troppo tardi: al tre, sentii i miei amici afferrarmi e
trascinarmi
verso la riva tra risate, grida e imprecazioni varie. Cercai di
divincolarmi,
ma prima che potessi accorgermene mi ritrovai immerso in acqua con
ancora i
vestiti addosso; fortunatamente feci appena in tempo a prendere fiato e
chiudere gli occhi prima dell’impatto.
Quando riemersi,
dovetti levarmi dalla faccia le ciocche
corvine e fradicie prima di poter avvistare Ethan, Bogdan e Viktor che
ridevano
e mi salutavano dal bagnasciuga.
“Siete dei
pezzi di merda!” strillai, nuotando verso di loro
e lottando contro i vestiti e le scarpe che, inzuppati
d’acqua, si erano fatti
ancora più pesanti.
“Come va la
puntura d’ape?” mi domandò Bogdan con
fare
ammiccante.
“Brucia
tantissimo, porca puttana!” Era come se mi stessero
conficcando un ago nel braccio, il sale a contatto col punto infiammato
faceva
davvero male.
Quando uscii
dall’acqua, però, fui quasi grato ai miei
amici: ora avevo molto meno caldo di prima.
Mi sfilai la
maglietta, la lanciai in faccia a Ethan e poi
mi scaraventai prono sulla sabbia, chiudendo gli occhi.
“Guarda che
così ti bruci la schiena” mi fece notare Viktor
con un sorrisetto divertito.
“Colpa
vostra, ora devo stare al sole per asciugarmi.”
“Ah beh,
buona fortuna allora” mi liquidò Ethan, tirandomi
nuovamente la maglietta e voltandomi le spalle.
Ma prima che potesse
muovere un passo, allungai una mano e
gli afferrai la caviglia, rischiando di fargli perdere
l’equilibrio. “Tu, razza
di stronzo, dovrai portarmi il pranzo qui come risarcimento
danni!”
Lui
sospirò, ma sotto sotto sapevo che stava sorridendo.
“Sì, ma molla la presa, altrimenti per pranzo
mangerai solo sabbia.”
“Ma ieri
sera dove sei finito?” domandai a Sammy non appena
feci il mio ingresso nel garage di casa sua.
Trovai il mio amico
seduto sullo sgabellino della sua
batteria con lo sguardo assente e le labbra semiaperte; tra le mani
tremanti
stringeva le bacchette, ma pareva che le sue dita potessero mollare la
presa da
un momento all’altro. Sembrava quasi sbiadito, inghiottito
dall’afa estiva e
dalla penombra del garage.
Non appena si accorse
della mia presenza, si voltò a
guardarmi con espressione confusa, sbattendo le palpebre un paio di
volte. “Dov’è
Ethan?”
“Siamo scesi
da poco dal bus ed è andato a prendere la sua
chitarra a casa. È un vero peccato che tu non sia venuto al
mare neanche oggi, è
stato un delirio! Mi ha punto un’ape, mi hanno lanciato in
acqua con tutti i
vestiti… e penso di essermi bruciato la schiena”
raccontai, mentre recuperavo
il basso che era poggiato in un angolo dentro la custodia. Era meglio
se mi
portavo avanti e cominciavo ad accordarlo, almeno quando sarebbe
arrivato Ethan
avremmo potuto cominciare subito con le prove.
“Immagino
che vi siate divertiti” borbottò Sammy in tono
assente.
Mi voltai nuovamente a
guardarlo, sollevando un
sopracciglio: non era da lui essere così giù, in
genere Sammy era un’esplosione
di energia. In realtà era già da qualche tempo
che avevo notato delle stranezze
in lui, spesso spariva dalla circolazione senza dire niente e le poche
volte
che stava con noi sembrava avere la testa da un’altra parte.
Non lo riconoscevo
più.
“Sammy,
perché non vieni mai con noi al mare?”
“No,
è che… a me non piace il mare”
bofonchiò, sistemandosi nervosamente
un boccolo rosso fuoco dietro l’orecchio. Era palesemente a
disagio.
Lasciai perdere basso
e amplificatore e mi accostai a lui,
poggiandomi sul bordo di un tom della sua batteria. Lo scrutai con
attenzione e
solo allora mi accorsi che i suoi occhi chiari erano torbidi, il suo
viso
delicato era più pallido del solito e la maglietta che
indossava stava larga
sul suo corpo troppo magro.
“Ehi, che
cazzo sta succedendo?” gli chiesi allarmato,
sentendo un nodo formarsi in gola. Come potevo non essermi accorto
prima che
qualcosa non andava?
Sammy
abbassò lo sguardo e lasciò cadere le bacchette a
terra. “Niente.”
“Non
è vero! Ti prego, Sammy! Qualsiasi cosa sia, la
affronteremo insieme!” lo supplicai con una vena di isteria
nella voce. Ero
seriamente preoccupato.
Il mio amico
sollevò nuovamente il viso. “Okay, se lo vuoi
sapere seguimi. Ma mi raccomando: acqua in bocca, non lo devi dire a nessuno”
sibilò, per poi alzarsi e dirigersi verso la porta che
collegava il garage al
resto della casa.
Lo seguii con la gola
secca e il cuore che batteva a mille;
all’improvviso il caldo estivo sembrava essere ancora
più opprimente. Lo
sguardo di Sammy, così serio e triste, mi aveva messo un
sacco d’ansia addosso
e ora non sapevo cosa aspettarmi. Però ero anche onorato del
fatto che, di
qualsiasi cosa si trattasse, aveva deciso di confidarla proprio a me.
Salimmo una breve
scalinata che ci portò al piano terra,
percorremmo un piccolo corridoio su cui si affacciavano diverse porte
– da una
di esse, probabilmente la cucina, proveniva il rumore di un rubinetto
aperto,
lo scontrarsi delle stoviglie e la televisione accesa – e
infine Sammy mi
condusse al piano di sopra, in camera sua. Non entravo spesso in casa
sua, ai
suoi genitori non piaceva avere gli amici di loro figlio in mezzo ai
piedi,
quindi se lui aveva deciso di portarmi lì doveva esserci un
motivo serio.
La camera di Sammy era
piccola e ordinata, la finestra era
rivolta verso ovest e la luce arancione del tramonto inondava ogni
angolo.
“Perché
siamo qui?” ebbi finalmente il coraggio di
chiedergli, torcendomi le mani sudaticce.
Il mio amico richiuse
per bene la porta e, con lo sguardo
basso, fece l’ultima cosa che mi sarei aspettato: si
sfilò la maglietta verde
che indossava, gettandola in fretta sul letto, e rimase per qualche
istante
immobile con le guance in fiamme.
Spalancai la bocca
incredulo e feci scorrere lo sguardo sul
corpo esile e pallido di Sammy, su cui spiccavano con disarmante
nitidezza dei
segni violacei e bluastri. Sul petto, sul ventre, sui fianchi, sulle
spalle: la
sua pelle era interamente ricoperta di lividi gonfi e scuri.
“Porca
puttana” riuscii soltanto a sussurrare, portandomi
una mano davanti alla bocca.
Non ero bravo in
queste situazioni, non sapevo mai cosa dire
per non sembrare inopportuno. L’unica cosa di cui ero certo
era che, qualunque
fosse il responsabile che aveva ridotto il mio amico in quelle
condizioni,
volevo trovarlo e spaccargli la faccia immediatamente.
Mi accostai a Sammy
per esaminare meglio quelle contusioni e
rimasi sconcertato nel notare alcuni segni giallognoli, lividi
più vecchi che
si accingevano a sparire, segno che erano lì da tanto tempo.
“Ecco
perché non vengo mai al mare con voi: non posso farmi
vedere in queste condizioni. Non mi tolgo mai la maglietta, tranne
quando sono
da solo” soffiò Sammy con voce roca, senza avere
il coraggio di sollevare lo
sguardo.
“Chi
è stato? Chi è il bastardo?” sbottai
allora, ma il mio
amico mi fece segno di abbassare la voce.
“I miei
genitori non lo devono sapere” spiegò, andando a
sedersi sul letto. Aveva le spalle incurvate e i capelli gli piovevano
attorno
al viso più pesanti del solito.
Presi posto accanto a
lui, cercando di contenere la rabbia e
non esplodere nuovamente. Non ero il tipo che si lasciava andare alle
reazioni
istintive ed esagerate, ma non sopportavo questo genere di ingiustizie
e
violenze, mi facevano incazzare come una belva.
“Sammy,
dimmi chi è stato. Lo risolveremo insieme” tentai
di
rassicurarlo, addolcendo il tono della voce più che potevo.
“È
cominciato tutto qualche mese fa” prese a raccontare con
lo sguardo basso, e la sua voce si incrinò immediatamente
sulle ultime parole;
anche se non mi permetteva di guardarlo negli occhi, avevo intuito che
si
fossero riempiti di lacrime. “Eravamo…
all’Alibi, io son andato in bagno e tre
tizi mi hanno seguito. Hanno aspettato che finissi subito dietro la
porta e
quando sono uscito mi fanno afferrato e sbattuto contro la parete. Mi
hanno
detto che sapevano che ero figlio di due genitori che lavorano, e che
quindi la
mia famiglia stava bene… e mi hanno chiesto dei soldi. Io ho
dato loro tutto
quello che avevo e li ho supplicati di lasciarmi in pace, ma loro mi
hanno riso
in faccia, mi hanno mollato una serie di pugni e mi hanno detto che
dovevo
continuare a dar loro dei soldi. Così hanno iniziato a
seguirmi ovunque e
chiedere sempre di più, e se provo a ribellarmi mi
picchiano. E mi hanno
minacciato che, se dirò qualcosa a qualcuno, faranno sparare
a mio padre… sono
in tre, sono grandi e io…” Un singhiozzo
interruppe il suo sfogo, seguito
subito da un altro e un altro ancora. Ormai Sammy stava piangendo
disperato, si
portava le mani sul viso ad asciugarsi gli occhi e tirava su col naso
in continuazione.
“Dobbiamo
fare qualcosa.” Mi sentivo morire, spostavo lo
sguardo dal viso sconvolto del mio amico al lenzuolo a righine gialle e
arancioni perfettamente steso sul letto, mentre il mio cervello tentava
di
elaborare una soluzione o un piano per affrontare quei bastardi, ma non
mi
veniva in mente niente. “Dobbiamo dirlo a qualcuno”
riuscii soltanto a
proporre.
“No, non
possiamo!” obiettò subito Sammy; ormai il suo
corpo
tremava vistosamente anche se era piena estate. “Non posso
mettere a rischio la
mia famiglia per questa cosa! L’unico modo per tenermi
lontano dai guai sarebbe
smetterla di frequentare voi e l’Alibi, perché
loro ormai sanno che mi possono
trovare lì ed è per quello
che…”
“Ma non dire
stronzate” lo interruppi con rabbia. “Noi abbiamo
una band, Sammy! E sei nostro amico, vuoi davvero perdere tutto e darla
vinta a
questi bastardi?”
Sammy
sollevò lo sguardo su di me e, per la prima volta da
quando eravamo entrati nella sua camera, ci fissammo negli occhi: i
suoi erano di
un celeste acceso, così simili ai miei ma più
tristi e gonfi di lacrime.
“Io non
vorrei allontanarmi da voi, però non so più come
fare. Quei tipi mi hanno preso di mira perché sanno che sono
il più debole, che
non sono cresciuto in strada come voi e vengo da una
famiglia… diversa.
E forse hanno ragione loro, io non sono fatto per
quest’ambiente” disse
mestamente.
Aggrottai le
sopracciglia. “Non stai parlando sul serio,
vero?”
Sammy
abbassò nuovamente lo sguardo. Era la prima volta che
lo vedevo così abbattuto, ormai lo conoscevo da quattro anni
e l’avevo sempre
visto sorridente e allegro; doveva soffrire davvero molto e sentirsi
incredibilmente umiliato per quella faccenda.
“Senti,
facciamo così: lo diciamo a Ethan e cerchiamo una
soluzione insieme” proposi con un sospiro.
“No! Ives,
non dire niente a Ethan!” si affrettò a replicare
lui. “L’ho raccontato a te e solo a te, e non deve
uscire da queste quattro
mura.”
“Perché?
Di lui ci si può fidare, se stiamo uniti possiamo
essere più forti.”
Sammy scosse il capo e
le sue guance andarono a fuoco. “Io
mi… mi vergogno di dirglielo, lui mi prenderebbe in giro
o… non voglio fare la
figura del bambinetto che non si sa difendere” ammise, e un
altro fiume di
lacrime prese a scorrere sul suo viso.
Io intanto non potevo
credere a ciò che stavo sentendo. “Ma
chi, Ethan? Ma stiamo parlando dello stesso Ethan? Lui non ti
prenderebbe mai
per il culo, anzi, sarebbe il primo a difenderti senza pensarci due
volte.”
“Appunto,
farebbe un casino e io non voglio, anzi, non
voglio coinvolgere nessuno. Per favore, non dirglielo, ti
prego… io non l’avrei
dovuto dire a nessuno, ma stavo troppo male e avevo bisogno di sfogarmi
e ho
scelto te perché… tu non giudichi mai nessuno e
sei sempre così comprensivo, ma
per favore, non dirlo a Ethan” mugolò, passandosi
per l’ennesima volta il dorso
della mano sul viso per scacciare le lacrime.
“Sammy”
mormorai soltanto, mentre gli occhi cominciavano a
pizzicarmi. Guardavo quel ragazzo così fragile, che aveva
ancora i tratti e
l’ingenuità di un bambino nonostante avesse quasi
quattordici anni, così
indifeso, tremante e coperto di lividi, e mi veniva una voglia immensa
di
abbracciarlo. Sapevo che non l’avrei mai potuto fare, sarebbe
sembrato un gesto
troppo strano, ma mi faceva così tanta tenerezza e gli ero
infinitamente grato
per essersi confidato proprio con me. Decisi in quel momento che sarei
stato
leale nei suoi confronti e che, se quella era la sua
volontà, avrei mantenuto
il segreto.
Ma cosa potevo fare
per lui? Esisteva un modo per farlo
stare meglio?
Afferrai la maglietta
abbandonata sul materasso e gliela
porsi con gentilezza, sperando che quel gesto bastasse per fargli
capire la mia
volontà di aiutarlo. “Stai tremando,
vestiti” dissi, ma mi parve la frase più
fuori luogo che potessi pronunciare.
Lui tirò su
col naso e si rigirò l’indumento tra le mani.
“Ti fa schifo vedere tutti questi lividi, vero? È
per quello che vuoi che li
nasconda.”
Quella domanda per me
fu come una pugnalata. “No Sammy, non
mi fa schifo. Mi fa male.”
Lui indossò
la maglietta e poi si strinse le braccia attorno
al corpo, ma sul suo viso si dipinse una smorfia di dolore; i lividi
dovevano
fargli molto male anche solo a sfiorarli.
“Ascolta,”
ruppi il silenzio, cercando le parole giuste da
utilizzare e puntando gli occhi in quelli di Sammy, “io non
sono molto bravo in
queste cose, non sono coraggioso e sicuro come sembro, ma ti prometto
che andrà
tutto bene. Possiamo trovare una soluzione, okay? Dato che loro ti
prendono di
mira quando ti trovano da solo, facciamo così: stai sempre
con noi, non
allontanarti mai da me e Ethan. Io farò in modo di tenerti
sempre d’occhio e se
verranno a cercarti li affronteremo insieme. Così, anche se
non abbiamo
speranze, almeno le prendiamo insieme!” Accennai un sorriso
sulle ultime parole,
sperando di alleggerire almeno un pochino l’atmosfera per
quanto fosse
possibile.
Sammy
ricambiò il sorriso, anche se i suoi occhi non
ridevano per niente. “Grazie Ives, sei un amico. Il migliore
che potessi
avere.”
Di nuovo ebbi
l’impulso di abbracciarlo e forse l’avrei
anche fatto, ma la paura di fargli male mi bloccò e
così mi limitai a sorridere
ancora di più, sperando di rassicurarlo ugualmente.
Sammy si
alzò dal letto e si sistemò la cascata di
riccioli
rossi con un gesto frettoloso. “Okay, adesso mi sciacquo gli
occhi e poi
scendiamo, magari Ethan è arrivato e ci sta
aspettando.”
Annuii e lo seguii
fuori dalla camera con un turbinio di
pensieri ad affollarmi la testa e lo stomaco sottosopra. Non sapevo
nemmeno io
come reagire a quello che avevo appena scoperto.
Mentre osservavo Sammy
entrare in bagno per rinfrescarsi il
viso, mi domandai come mai si fosse affidato proprio a me, che su certe
cose
ero così inesperto e insicuro.
Forse esisteva
qualcuno ancora più fragile di me.
♠
♠
♠
Ed eccoci alla fine del secondo capitolo, un po’
più lungo e
succoso del precedente! Volevo inserire qualche scenetta idiota, che
non so se
mi sia venuta bene, ma sono piuttosto soddisfatta dell’ultima
parte ^^
Anche se piango per Sammy, povero piccolo T.T
Piccole notine anche stavolta per spiegare alcune cose!
Foda-se è un’imprecazione in
portoghese (ricordo, per
chi non segue la serie, che Ethan è brasiliano) che vuol
dire letteralmente
“che si fotta”… sì,
è la frase preferita di Ethan in tutte le lingue XD
Olivia è la sorella maggiore di Ethan, ha sei anni
più di
lui (quindi qui ne ha circa una ventina), mentre Davi è il
fratello maggiore,
il primogenito della famiglia AraÚjo,
e
per mantenere se stesso e i suoi fratelli fa lo spacciatore; ecco
perché Bogdan
chiede a Ethan cosa Davi possa vendergli per sballarsi.
Per quanto riguarda
Sammy e la sua famiglia, dice che non è come gli altri
perché effettivamente
viene da un mondo un po’ diverso: anche se ora vive in uno
dei peggiori
quartieri di Los Angeles, i suoi genitori sono persone perbene
– suo padre
aveva una scuola di musica, ed ecco perché ha un sacco di
attrezzatura nel suo
garage e perché Ives e Ethan si appoggiano a lui per le
prove della band.
Perciò, anche se è cresciuto in mezzo a tutti
loro, viene da una famiglia
“normale” e sicuramente non si è fatto
gli anticorpi fin da piccolo come i suoi
amici.
Per quanto riguarda
il lungomare che ho descritto, non so se a Los Angeles esista/sia mai
esistita
una parte di lungomare del genere, ma mi piaceva troppo ricreare
quest’atmosfera e quindi me lo sono inventato, come
l’Alibi XD
In questo capitolo
poi sono apparsi alcuni nuovi personaggi, spero vi siano piaciuti e vi
abbiano
incuriosito!
E infine abbiamo
scoperto la più grande fobia di Ethan XD chi
l’avrebbe mai detto, lui che non
teme mai niente si lascia spaventare da delle dolci apette!
Quanto sono
disagiati i miei figlioletti *_________*
E niente, spero di
aver spiegato tutto e soprattutto spero che questo capitolo vi sia
piaciuto! Io
almeno ho adorato scriverlo, dalla prima all’ultima parola :3
Alla prossimaaaa! ♥
|
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Capitolo 3 *** III ***
III
But
our answer today
Is
to let all our worries
Like
the breeze through our fingers slip away
[Stevie
Wonder – Master
Blaster (Jammin’)]
“Sei sicuro che riesci a guidare
quest’affare?” domandai
dubbioso, stringendo forte la cintura fino a farmi sbiancare le nocche.
Ethan premette sull’acceleratore e scalò la marcia
con
disinvoltura, come se fosse nato al volante di un’auto. Era
incredibile quante
cose sapesse fare il mio amico.
“Certo che sono sicuro, mi ha insegnato Davi un sacco di
tempo fa.”
“Appunto, un sacco di tempo fa: ora sarai
fuori
allenamento” mi allarmai.
“Se dico di saper fare una cosa, è
perché la so fare
davvero.”
“Come quella volta che hai provato ad aggiustare
l’amplificatore e stavi per fulminarci entrambi e far
esplodere la casa di
Sammy?” gli rinfacciai.
“Va bene, di elettricità non ci capisco un cazzo,
ma guidare
è tutta un’altra cosa. Se non ti fidi, puoi sempre
scendere.” Fece per
accostare, ma io scossi il capo.
“E se ci ferma la polizia e ti becca senza
patente?” mi preoccupai
allora.
“I poliziotti si faranno da parte e si tapperanno la bocca
non appena vedranno che la macchina è intestata a Davi AraÚjo. Nessuno osa mettersi contro mio
fratello, nemmeno le autorità.”
Gettai un’occhiata
alla strada che si srotolava quasi deserta davanti a noi, al mare che
si
estendeva alla nostra destra e rifletteva i raggi dorati del tramonto,
e
annuii. “Va bene, ma promettimi che non moriremo.”
“Te l’hanno mai
detto che sei una rottura di cazzo, Ives?” Ethan si
sistemò gli occhiali da sole
sul naso.
Sorrisi. “Sì, me lo
dici tu tutti i giorni.”
“Bene.”
Poggiò
entrambe le mani sul volante e cominciò a prendere
velocità. “Allora giù i
finestrini e su il volume!”
Girai di botto la
manopola del volume dell’autoradio, la quale stava
trasmettendo Message In A
Bottle dei Police, e lanciai un grido sentendo il vento caldo
sferzarmi il
viso e scompigliarmi i capelli. Cantando a squarciagola il testo della
canzone
– io e Ethan avevamo letteralmente consumato insieme la
nostra cassetta di Reggatta
De Blanc, conoscevamo a memoria ogni singolo istante
dell’intero album – e
gettando il braccio fuori dal finestrino, ebbi l’impressione
di poter spiccare
il volo da un momento all’altro.
Il profumo del mare
mi riempiva le narici, la musica mi riempiva le orecchie, mio fratello
era accanto a me e sorrideva, le ruote dell’auto divoravano
l’asfalto di una
strada fatta di sogni, che sembrava volerci condurre ovunque.
E in quel momento
pensai che fosse quello il paradiso, che potevo avere il mondo intero
ai miei
piedi.
Nulla poteva andare
storto.
Io e Ethan non
dicemmo niente, ma le nostre anime vibravano insieme, a ritmo della
musica che
faceva tremare l’intero abitacolo.
Quando il brano dei
Police giunse al termine io, preso dall’entusiasmo, cominciai
a ruotare la
rotella per navigare tra le stazioni radio e cercare qualche altra
canzone
interessante. Avevo il cuore a mille e l’adrenalina che mi
inondava le vene,
volevo solo gridare contro il tramonto e lasciare che il vento estivo
portasse
la mia voce fino al cielo.
“Last Train To
London!” strillai entusiasta non appena riconobbi
le note della famosa
canzone degli Electric Light Orchestra.
Ethan si esibì in
una smorfia disgustata. “Ma vuoi togliere questa
merda?”
“È bellissima questa
canzone!” obiettai indignato.
“Almeno fai un giro
nelle altre radio per vedere se c’è qualcosa di
meglio.”
“Ma io voglio
ascoltare questa!”
“E che cazzo!”
sbottò Ethan, per poi allungare una mano verso
l’autoradio e girare bruscamente
la manopola.
Lanciai un grido
frustrato. “Che stronzo, mi hai fatto perdere il segnale! E
tieni le mani sul
volante, che non si sa mai!” Presi a cercare nuovamente la
frequenza di mio
interesse, ma in mezzo ai vari borbottii provenienti dalle casse
riconobbi una
linea di basso inconfondibile: Another One Bites The Dust.
“Fermo! Lasciala!”
esclamò Ethan entusiasta.
“Certo!” esultai a
mia volta, sollevando ancora di più il volume e prendendo a
muovere la testa a
ritmo di batteria.
Io e Ethan andavamo
fuori di testa per i Queen, John Deacon e Brian May per noi erano delle
specie
di divinità.
Cantai anche quella
canzone senza perdermene nemmeno una parola, la conoscevo a memoria;
Ethan,
accanto a me, mi ascoltava in silenzio mentre premeva
sull’acceleratore.
How do you think I'm gonna get along
Without you when you're gone?
You took me for everything that I had
And kicked me out on my own
Are you happy, are you satisfied?
How long can you stand the heat?
Out of the doorway the bullets rip
To the sound of the beat
Look out!
Another one bites the dust
Another one bites the dust
And another one gone, and another one gone
Another one bites the dust
Hey, I'm gonna get you, too
Another one bites the dust
“Non male”
commentò
Ethan, la voce appena udibile sotto la musica sparata al massimo del
volume.
Mi strinsi nelle
spalle. “Certo, sono i Queen!”
“No, io parlavo di
te.”
Sgranai gli occhi e
mi voltai a guardarlo. “Eh?!”
“Sei intonato.
Perché non diventi tu il cantante della nostra
band?”
Avvampai, totalmente
preso alla sprovvista. “Ma che cazzo dici? Io, cantare?
No no, mi
vergogno!”
“Non dovresti.”
“Io sul palco voglio
solo suonare il basso e concentrarmi su quello. Il canto lasciamolo ai
cantanti” tentai di porre fine a quel discorso che non
sarebbe nemmeno dovuto
nascere.
“Fai come ti
pare…”
“Perché invece non
canti tu?” me ne uscii allora.
Potevo già intuire
quale sarebbe stata la reazione del mio amico: Ethan forse non aveva
mai
cantato in vita sua, nemmeno per sbaglio; non l’avevo mai
sentito canticchiare
a mezza voce.
“Ma vaffanculo!”
brontolò infatti, e immaginai i suoi occhi riempirsi di
imbarazzo sotto le
lenti scure degli occhiali.
Scoppiai a ridere di
gusto. “E dai, perché non provi almeno una volta
nella vita?”
“Perché no, e poi
sono stonato. Piuttosto… la canzone dei Queen è
finita, cerca qualcos’altro”
cambiò subito discorso.
In effetti
nell’abitacolo rimbombava la voce di uno speaker che
pubblicizzava una marca di
detersivo per la lavatrice.
Ripresi a scorrere
le stazioni e, dopo aver saltato diverse canzoni country, discutibili
tormentoni degli ABBA e dei Bee Gees e svariati notiziari, sbuffai e
lancia
un’occhiata a Ethan. “Non è che tuo
fratello ha qualche cassetta qui in macchina?”
“Ce n’è un
pacco sul
sedile posteriore.”
Mi voltai per
afferrare il gruzzolo di audiocassette e cominciai a esaminarle fino a
trovare
qualcosa di mio gradimento: Back In Black degli
AC/DC.
“Con questa voliamo
via!” esclamai mentre inserivo la cassetta
nell’apposito vano.
E forse, in un certo
senso, era come se stessimo volando davvero.
Il sole non era ancora tramontato del tutto quando arrivammo
davanti all’Alibi. C’erano già tutti i
nostri amici, alcuni dei quali si
trovavano sul marciapiede con una sigaretta tra le labbra.
Affilai lo sguardo e avvistai subito l’oggetto del mio
interesse: Bess se ne stava appoggiata alla parete accanto alla porta
d’ingresso e chiacchierava con una sua amica.
Mi voltai per lanciare un’occhiata a Ethan e lui
annuì impercettibilmente,
segno che aveva capito le mie intenzioni. Come sempre, del resto.
Attraversammo la strada, salutammo qualche persona e io mi
fermai davanti all’ingresso proprio accanto a Bess, prendendo
a frugarmi in
tasca per portare fuori il mio pacchetto di sigarette. I miei
polpastrelli
sfiorarono anche l’accendino, ma il piano richiedeva che io
fingessi di non
averlo.
“Bess, hai cambiato look?” attaccò
bottone Ethan, accennando
ai capelli della ragazza; il suo biondo cenere naturale era stato
rimpiazzato
da uno strampalato viola melanzana.
“Ehi” ci salutò lei, per poi prendere
una boccata di fumo
dalla sua sigaretta. “Sì, ma non mi convince. Sto
cercando il mio colore.”
“Stavi benissimo anche bionda” ammiccai con un
sorriso.
Lei si strinse nelle spalle. “È noioso, mi ha
stancato. Dopo
il viola voglio provare il verde.”
Ridacchiai. “Senti, hai da accendere? Devo aver perso
l’accendino.”
Lei sorrise ironica. “Ah, davvero? E l’ha
dimenticato anche
Ethan?”
Con la coda dell’occhio notai il mio amico voltarsi
dall’altra parte per nascondere una risata. Grazie
mille per la solidarietà.
“E dai, era la scusa per fare un po’ di
conversazione”
ammisi con un’alzata di spalle.
Bess sorrise beffarda, passandomi il suo accendino.
“L’avevo
capito, volevo solo prenderti per il culo.”
“Io entro e mi prendo una bottiglia di Jack intanto,
così
occupo pure un tavolino” intervenne Ethan, capendo che volevo
stare da solo con
la ragazza.
“Entro anch’io” affermò anche
l’amica brunetta di Bess, che
fino a quel momento aveva assistito alla conversazione in silenzio.
Doveva
essere molto timida.
I due scomparvero dentro il locale, così mi appoggiai alla
parete accanto a Bess con fare disinvolto e accesi una sigaretta. Non
mi
trovavo particolarmente in imbarazzo, del resto non facevo alcuna
fatica a
stringere amicizia.
Stavo per aprir bocca e dire qualcosa, ma lei mi precedette:
“Come va la puntura d’ape?”.
Ridacchiai. “Sono passati giorni, ormai
non ho
nemmeno più il segno. Senti Bess, non è che per
caso tu sai cantare o hai
qualche amica che sarebbe interessata a entrare nella nostra band come
cantante?” buttai lì. Del resto era vero, stavamo
cercando qualcuno da piazzare
alla voce, tanto valeva portarsi avanti col lavoro.
Il suo viso dolce si contrasse in un’espressione pensosa.
“Mmh… una cantante, eh? Io lo farei volentieri, ma
non becco nemmeno una nota,
farei scappare tutto il pubblico. E così su due piedi non mi
viene in mente
nessuno, ma chiederò in giro. Non avete pensato di appendere
un annuncio qui,
sulla porta dell’Alibi?”
Scossi il capo. “Però è una buona
idea.”
“E dovreste anche farvi conoscere, magari suonando un
po’ in
giro.”
“E chi ci vuole senza un cantante? La musica strumentale
annoia.”
“Beh, in realtà dipende. Un giorno vi vorrei
sentire, dove
avete la sala prove?” si incuriosì.
Risi. “Sala prove… è il garage del
nostro batterista, mica
abbiamo i soldi per permetterci una saletta vera.”
Bess schioccò le dita e il suo sguardo si
illuminò. “Sai
cosa dovreste fare? Suonare in strada. Portare tutto fuori e spaccare
il culo a
tutto il vicinato. Così vi noteranno per forza!”
Sorrisi, già immaginando batteria e amplificatori
sull’asfalto e i passanti che si fermavano, curiosi ed
entusiasti per la nostra
musica. “Ma sai che è una proposta niente male?
Non sarai una brava cantante,
ma potremmo assumerti come manager!”
“Ma scusate, allora siete voi a essere un po’
rincoglioniti:
come avete fatto a non pensarci prima?” se ne uscì
lei con una risata – senza
peli sulla lingua, come sempre. Poi mosse qualche passo avanti e si
sedette sul
gradino del marciapiede, invitandomi a fare lo stesso.
“Comunque se mi volete
assumere a me va bene, magari è la volta buona che guadagno
un po’ di soldi e
smetto di vivere nella merda.”
Mi sistemai accanto a lei e continuai a fumare la mia
sigaretta ormai a metà. Le lanciai un’occhiata in
tralice. “Tutti noi viviamo
nella merda, Bess.”
Lei si strinse nelle spalle, gettò a terra il mozzicone e
prese a parlare mentre si legava i capelli lisci e lunghi in una
disordinata
crocchia. “Tutti i ragazzi che frequentano l’Alibi
hanno qualcosa che non va e
vengono qui a sfogarsi o a dimenticarsi della loro vita patetica, lo
so. Forse
siamo tutti degli illusi e faremo una fine di merda,
chissà.”
Distolsi lo sguardo da lei e mi guardai attorno: il
marciapiede ormai si era quasi svuotato, tutti erano entrati nel pub o
si erano
trasferiti sulla piccola terrazza sul retro, nessuno faceva
più caso a noi.
Tornai a concentrarmi su Bess: era strano sentir parlare a
quel modo una ragazzina di dodici anni, doveva aver vissuto qualcosa di
veramente orribile per esprimersi già con quella freddezza e
con quella
disillusione. Non sembrava nemmeno capace di sognare.
“Facciamo così: io ti racconto il mio demone e tu
mi
racconti il tuo, così ci sfoghiamo” le proposi di
getto. Era la cosa più idiota
che potessi dire e ormai ero ben lontano dal conquistarla, ma forse il
caldo mi
stava dando alla testa. Come potevo farmi gli affari di una persona che
conoscevo poco e niente?
Ma lei non parve affatto turbata e assentì senza fare una
piega. “D’accordo, ma comincia tu, dato che hai
proposto questo gioco.”
Abbassai lo sguardo e lo fissai sulle scarpe in tela
consumate e sudicie che indossavo. “Mia madre è
stata stuprata ed è rimasta
incinta del suo aggressore. Ha deciso comunque di tenermi con
sé, ma quando
sono nato non sopportava di vedermi ogni giorno perché le
ricordavo lo stupro e
una settimana dopo si è suicidata. Io sono cresciuto insieme
a zia Maura, che è
sua sorella, a mia cugina e al marito di mia zia. Fine.”
Decisi di omettere il fatto che Stan, il compagno di zia
Maura, mi picchiava e maltrattava quand’ero piccolo, e che
mia cugina Maggie mi
odiava e mi ripeteva in continuazione che ero in più nella
famiglia. Non che
non mi fidassi di Bess, ma erano fatti troppo dolorosi per ammetterli
ad alta
voce.
“Porca troia” commentò lei con gli occhi
sgranati. “Beh,
almeno hai trovato una famiglia alla fine.”
“Già” risposi evasivo, con una scrollata
di spalle. “Tu
invece?”
Lei si esibì in un gesto con la mano, come a sminuire
ciò
che stava per dire. “Una trama molto classica in
realtà, quasi banale. La madre
che muore, il padre che entra in depressione e beve come un disperato,
le
figlie abbandonate al loro destino. Mia sorella Yelena, che ha
diciott’anni, fa
il possibile per portare avanti i resti della famiglia, anche se questo
significa andare a battere.”
Mi morsi il labbro inferiore, davvero scioccato da quella
storia. Non erano state tanto le vicende della famiglia di Bess a
lasciarmi
senza parole, ma il tono distaccato, quasi annoiato, con cui ne
parlava.
Probabilmente soffriva tantissimo per ciò che stava vivendo,
ma non voleva
darlo a vedere.
“Ma è una cosa tremenda. Quando…
è successo?” azzardai, avvampando
subito dopo. Certe volte invidiavo Ethan per essere sempre
così controllato.
“Mia madre è morta più o meno un anno
fa. Mi manca in ogni
singolo momento della mia vita, porca puttana. E sono incazzata a morte
con mio
padre perché non ha capito che dopotutto è ancora
nostro padre e che io e mia
sorella così abbiamo perso due genitori, non uno.”
“Mi dispiace tantissimo” riuscii soltanto a dire.
“Anche a me” ribatté Bess con un sorriso
mesto. “Chissà come
mai ti ho confidato tutte queste cose, nemmeno ti conosco.”
Sfoggiai un sorriso luminoso, deciso a cogliere l’occasione
per cambiare discorso e lasciarci alle spalle quella triste parentesi.
“Perché
sono una persona molto affascinante e che ispira fiducia!”
Bess ridacchiò e mi arruffò i capelli con un
gesto fulmineo.
“Sei tenerissimo. Ma in quanto a fascino, scusa se te lo
dico, Ethan ti batte a
occhi chiusi.”
Inarcai un sopracciglio. “Ti piace Ethan?”
“Credo che sarebbe una bella scopata.”
Ecco, dovevo aspettarmelo. Tutte le volte che cercavo di avvicinarmi
a una ragazza, questa mostrava interesse per qualcun altro.
Mi strinsi nelle spalle: potevo farmene una ragione. In
realtà non è che avessi un obiettivo ben preciso
o aspirassi all’amore eterno
con Bess, ero soltanto stanco di essere un verginello sfigato. Ma ci
sarebbero
state altre ragazze, altre occasioni.
Mi alzai e tentai di sistemare i capelli che Bess mi aveva
scompigliato. “Beh, buona fortuna con lui.”
Lei mi imitò e mi strizzò l’occhio con
un sorrisetto
complice. “Non ne ho bisogno, ho già capito come
farlo cedere. Vuoi vedere come
lo conquisto?”
Scoppiai a ridere. “Sono troppo curioso di vederti
all’azione” mi entusiasmai, battendole una leggera
pacca sul braccio.
“Ah, comunque ora che ci penso…” disse
mentre entravamo nel
locale. “C’è una mia amica, Emily, che
potrebbe essere interessata al ruolo di
cantante. Se c’è oggi, te la presento
subito.”
Annuii e le sorrisi. “Grazie, manager!”
Emily spostava in continuazione lo sguardo da noi al foglio
col testo della canzone – al momento l’unico della
nostra band, l’aveva scritto
Ethan qualche anno prima.
Era stupenda: capelli biondi e lunghi, viso d’angelo, enormi
occhi verdi, fisico da urlo. E da quando era entrata nella nostra
saletta prove
non aveva fatto che scrutarmi.
“Avete già pensato a come potrebbe essere la linea
vocale?”
domandò, sventolando appena le pagine che stringeva tra le
mani.
Io, Ethan e Sammy ci scambiammo occhiate spaesate.
“Queste cose in genere non le fanno i cantanti?”
sibilai,
temendo di fare qualche gaffe. Io suonavo il basso e basta, non avevo
idea di
quale fosse il processo creativo per la parte canora.
“Ah, non guardate me, io di note non me ne
intendo!” se ne
tirò fuori Sammy, alzando le mani in segno di resa.
“Suppongo che la linea vocale te la debba inventare
tu” chiarì
infine Ethan rivolto a Emily.
Lei si imbronciò. “E come faccio? Io non sono
brava in
queste cose, canto solo canzoni già pronte.”
“Possiamo fare così: ti facciamo sentire lo
strumentale di
alcune canzoni che abbiamo composto su cui potrebbe star bene questo
testo, tu
ne scegli una e poi provi a metterci sopra le parole”
proposi, accostandomi
appena a lei.
Lei mi rivolse un sorriso smagliante. “Possiamo provare,
certo!”
Ci mettemmo ai nostri posti e imbracciammo gli strumenti,
pronti a dare il meglio di noi. Sammy batté il tempo con le
bacchette e
cominciammo a eseguire il brano che al momento chiamavamo June
1980,
perché l’avevamo composta appunto a giugno
dell’anno precedente. Era difficile
dare un titolo alle nostre creazioni dato che non avevano un testo,
così li
definivamo con la data di creazione o col nome del compositore.
Dopo l’energica e rapida June 1980,
infatti, seguì Ethan&Ives5,
brano dalle sonorità più aspre e pesanti che io e
il chitarrista avevamo
composto e perfezionato insieme qualche mese prima.
Emily ascoltò in silenzio la manciata di basi che avevamo da
proporle e nel frattempo non faceva che mangiarmi con gli occhi,
seguendo con
attenzione il movimento delle mie dita che danzavano sulle corde del
basso e le
ciocche scure che mi scivolavano di tanto in tanto sul viso. Se da una
parte mi
sentivo leggermente a disagio ad avere uno sguardo fisso su di me, non
potevo
negare che tutte quelle attenzioni mi stessero onorando parecchio: in
genere
non venivo mai notato da nessuna ragazza, forse perché
dimostravo meno dei miei
tredici anni e tutte mi vedevano ancora come un bambino, invece Emily
non aveva
occhi che per me. Poteva essere lei quella giusta,
l’occasione che stavo
aspettando, la ragazza che mi avrebbe portato fuori
dall’infanzia per sempre.
Poi Emily aveva da poco compiuto quindici anni, era più
grande e sicuramente più esperta di me, se avessi commesso
qualche errore non
ci sarebbe rimasta male.
“Mi piace la terza” affermò non appena
io, Ethan e Sammy
concludemmo le quattro canzoni che avevamo deciso di proporle.
“Che era… Hamburger Ice Cream,
giusto?” chiese
conferma Ethan, voltandosi verso di noi.
Emily scoppiò a ridere. “Ma che titolo
è?”
Le sorrisi. “Tranquilla, è provvisorio. E comunque
è colpa
mia, praticamente è ciò che stavo mangiando
mentre componevamo la canzone.”
“Hamburger e gelato?” chiese conferma, la
curiosità dipinta
sul volto.
“Hamburger e gelato contemporaneamente” rivelai con
una
risatina.
Sammy si batté una mano sulla fronte. “Mio dio,
che schifo,
non me lo ricordare!”
“Okay.” Emily riprese i fogli in mano e lesse per
l’ennesima
volta i versi che Ethan vi aveva scarabocchiato. “Da if
today I scream a
I’ll be there è il ritornello,
giusto? Magari proviamo prima questo…”
Non sembrava affatto sicura di sé e in cuor mio cominciavo a
dubitare che potesse diventare la nostra cantante; inoltre, come mi
aveva fatto
notare Ethan quando Bess ce l’aveva presentata, aveva una
voce dolce e delicata
e un aspetto per niente rock, sembrava più adatta a cantare
in un musical che
in una band come la nostra. Tuttavia avevamo deciso di darle una
possibilità.
Le fornimmo un microfono – uno dei tanti articoli superstiti
della scuola di musica del padre di Sammy – e suonammo il
ritornello di Hamburger
Ice Cream un paio di volte in modo che lei potesse
memorizzarlo e farsi
venire qualche idea. La terza volta Emily si arrischiò a
cantare qualche
parola, cercando un’intonazione e una metrica che potessero
starci bene, ma fu
subito chiaro che la sua voce non aveva il giusto mordente e quasi
scompariva
sotto la potenza dei nostri strumenti.
Ci serviva qualcuno più… incazzato.
Dopo un’altra mezz’oretta di prove, in cui Emily
riuscì
quantomeno a trovare una linea vocale interessante, la ragazza
lanciò
un’occhiata al suo orologio da polso e sgranò
appena gli occhi. “Non mi ero
accorta che fosse così tardi! Scusatemi ma devo scappare,
altrimenti i miei
genitori mi uccideranno.”
Quella era un’occasione imperdibile, dovevo assolutamente
approfittarne; poggiai il basso da una parte senza nemmeno preoccuparmi
di
staccarlo dall’amplificatore e le sorrisi, passandomi una
mano tra i capelli.
“Devi prendere il bus, giusto?”
Lei annuì.
“Se vuoi ti posso accompagnare fino alla fermata. Sai
com’è,
questa non è proprio una zona tranquilla ed è
meglio che tu non rimanga da
sola.”
Una scintilla si accese nelle sue iridi verdi.
“D’accordo,
grazie!”
Senza pensarci due volte, corsi subito fuori dal garage
insieme a lei; non mi pareva vero che stesse accadendo, ero al settimo
cielo.
Chiacchierammo tantissimo mentre ci dirigevamo verso la
fermata: le raccontai il modo in cui avevo cominciato a suonare il
basso e come
ero entrato nella band, lei mi raccontò della sua passione
per le pietre e il
loro significato, mostrandomi il ciondolo di giada
che aveva appeso al
collo – perfettamente abbinato al colore dei suoi occhi.
“È stato mio nonno a spiegarmi queste cose: ogni
persona ha
un colore e una pietra affine al suo carattere” mi
raccontò.
“E io che pietra sono secondo te?” le domandai,
sinceramente
affascinato.
Lei ci rifletté su per qualche istante, scrutandomi con
attenzione. “Sicuramente qualcosa di azzurro. Tu sei una
persona acquamarina.”
Risi. “Lo dici solo perché ho gli occhi
azzurri!”
“No, tu hai proprio l’anima azzurra.”
Quando infine il suo autobus comparve arrancando all’inizio
della via, Emily si voltò per l’ultima volta verso
di me. “Ci rivedremo
all’Alibi nei prossimi giorni, vero?”
“Io praticamente vivo
all’Alibi” commentai con una
risata.
“Bene, ti aspetto. Ciao Ives, a presto!” Detto
questo, mi sorrise
maliziosa e mi lasciò un veloce bacio a fior di labbra prima
di correre verso
le porte del bus, che si stavano aprendo proprio in quel momento.
Rimasi per qualche istante imbambolato e la fissai mentre
scompariva all’interno del mezzo pubblico.
Era successo davvero. Emily era mia!
♠
♠
♠
Terzo capitolo e continua la disperata ricerca di un
cantante per la band di Ives, Ethan e Sammy!
Il nostro duo di amici preferito stavolta è sfociato nella
più totale illegalità, prendendo in prestito
l’auto di Davi senza avere la
patente XD
Stavolta non ho tanto da spiegare, vi lascio soltanto i link
delle canzoni che i due hanno ascoltato in macchina!
Message In A Bottle dei Police (come accennato da
Ives, fa parte dell’album Reggatta De Blanc, uno dei
preferiti di loro due):
https://www.youtube.com/watch?v=MbXWrmQW-OE
Last Train To London degli Electric Light Orchestra:
https://www.youtube.com/watch?v=Up4WjdabA2c
Another One Bites The Dust dei Queen:
https://www.youtube.com/watch?v=rY0WxgSXdEE
Ovviamente ho controllato e tutti questi brani (incluso
anche l’album degli AC/DC che ho menzionato) sono usciti
prima dell’estate 1981
– ci tengo troppo alla coerenza ^^
Per quanto riguarda la parte in cui Emily legge i pezzetti
di testo scritto da Ethan… eheheh, ho grandi cose in serbo
per voi XD sto
davvero scrivendo il testo della canzone, mi rendo conto di essere
totalmente
fulminata AHAHAHAH! Un giorno ve lo farò leggere tutto in
qualche storia, ma
per il momento ci sto ancora lavorando :P
Grazie a tutti coloro che sono giunti fin qui e preparatevi:
il prossimo capitolo sarà piuttosto pieno ;)
Alla prossima!!! ♥
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Capitolo 4 *** IV ***
IV
Tonight
I'm
gonna have myself a real good time
I
feel alive
And
the world, I'll turn it inside out
Yeah!
I'm
floating around
In
ecstasy
[Queen
– Don’t Stop Me
Now]
Quando io, Ethan e Sammy entrammo all’Alibi, Bogdan ci venne
subito incontro e mollò una pacca sulla spalla a tutti e
tre. “La serata sballo
è fissata per dopodomani, okay?” ci
comunicò.
Annuii distrattamente, ma in realtà non lo stavo nemmeno
ascoltando: i miei occhi erano subito partiti alla ricerca di Emily.
Dentro il
locale non la trovai, così decisi di andare a cercarla nella
terrazza sul
retro.
Mi voltai verso i miei amici e incrociai lo sguardo torbido
di Sammy, che mi ricordò la promessa che gli avevo fatto. In
realtà in quei
giorni non stavo riuscendo a mantenerla del tutto: quando lui decideva
di
uscire con noi, per un motivo o per un altro mi distraevo e lo perdevo
di
vista, non riuscivo a essere sempre con lui. Non mi rimproverava mai
per
questo, ma al contempo non mi raccontava mai niente e non sapevo se
quei tipi
stessero continuando a perseguitarlo.
“Sammy, vieni fuori con me a controllare se
c’è qualche
tavolino libero?” gli domandai, scoccandogli
un’occhiata complice.
Lui si limitò ad annuire e mi seguì mentre mi
dirigevo sul
retro.
Una volta che ci trovammo all’aria aperta, non ebbi nemmeno
bisogno di guardarmi attorno perché Emily, seduta in un
angolo insieme a Bess e
la loro solita amica moretta, attirò la mia attenzione e mi
fece cenno di
raggiungerla.
Io e Sammy ci dirigemmo nella loro direzione e, prima ancora
che potessi prendere posto, Emily si alzò e mi strinse in un
breve abbraccio,
stampandomi un bacio sulla guancia. “Ti stavo
aspettando” mormorò con la sua
voce vellutata e dolce.
Le lasciai una carezza tra i capelli. “Addirittura? Che
tenera!” Poi presi a squadrarla da capo a piedi: indossava un
abitino azzurro
che le aderiva perfettamente al corpo, mettendo in risalto le sue forme
piccole
e morbide, e le svolazzava leggero attorno alle cosce. “Sei
incantevole”
mormorai, sinceramente colpito.
Davvero una creatura così bella poteva provare interesse per
me?
“Oggi ho il vestito intonato ai tuoi occhi e alla tua
anima”
soffiò lei, regalandomi un sorriso radioso.
Un fischio proveniente dalla nostra destra ci fece voltare:
capii subito che si trattava di Bess, che ci osservava con sguardo
malizioso. “Piccioncini,
se volete fare porcate prendetevi una stanza stanotte!”
esclamò, strizzandoci
l’occhio e facendo scoppiare a ridere Sammy.
Scossi il capo, piuttosto imbarazzato, e io ed Emily
prendemmo posto sulle nostre sedie.
Ordinammo da bere e chiacchierammo del più e del meno tutti
assieme, finché Bess non decise che doveva andare
a cercare il suo uomo
– ovvero Ethan, che non era ancora riuscita a conquistare, ma
ero certo che
ormai ci fosse vicina – e non rientrò nel locale
portandosi appresso Fanny, la
sua amica moretta.
Restammo solo io, Emily e Sammy. Se non fosse stato per
quest’ultimo, avrei potuto approfittare senza esitazioni
della situazione e provarci
apertamente con Emily – io e lei non avevamo fatto che
mangiarci con lo sguardo
da quando ero arrivato all’Alibi – e, nonostante
avessi promesso al mio amico
che sarei stato con lui per tutto il tempo, in cuor mio sperai che se
andasse e
ci lasciasse in pace.
Mi odiavo tremendamente per quei pensieri così egoisti, ma
non ne potevo più di stare lontano dalla ragazza dei miei
sogni.
“Ehi, non l’avevo mai notato prima” stavo
dicendo a Emily a
un certo punto, accennando alla piccola farfalla colorata che aveva
tatuata
sulla spalla. “È stupenda. Ha qualche significato
particolare?” D’istinto presi
a tracciarne i contorni col polpastrello ed Emily rabbrividì
sotto il mio
tocco.
“In realtà no, ma le farfalle sono i miei animali
preferiti”
spiegò, poi mi afferrò la mano con cui la stavo
sfiorando e prese a esaminarla,
mentre un sorrisetto le si dipingeva sulle labbra. “Pensavo
che chi suona gli
strumenti a corda avesse le dita piene di calli, invece hai la pelle
morbidissima.”
Ridacchiai. “È perché quella
è la mano destra, con cui tengo
il plettro. Qui la situazione è decisamente
diversa” le dissi, mostrandole le
dita della sinistra che erano piene di segni rossi.
“Oh, adesso ho capito.” Lasciò andare la
mia mano, ma prima
di mollare la presa la condusse studiatamente all’altezza del
suo seno in modo
che lo potessi sfiorare; nel contempo mi lanciò
un’occhiata languida ed
eloquente.
Mi morsi il labbro.
Mio dio, quanto faceva caldo.
Mio dio, quanto mi sentivo eccitato…
“Io… vado in bagno, a dopo”
borbottò Sammy, alzandosi di
scatto dalla sua sedia.
Mi morsi ancora il labbro inferiore; cazzo, lui era ancora
lì e noi lo stavamo sicuramente mettendo in imbarazzo. Gli
lanciai un’occhiata
dubbiosa, ma lui si limitò a rivolgermi un sorriso tirato
prima di dirigersi
verso l’ingresso con le guance in fiamme.
Che amico pessimo che ero.
“Senti… che ne dici di andare a prendere un
po’ d’aria
dall’altra parte? Qui si muore di caldo e
c’è così tanto casino”
propose Emily,
accennando all’ambiente circostante.
Non aveva tutti i torti: dal pavimento in cemento si
sprigionava l’afa accumulata durante l’arco della
giornata; acconsentii e ci
dirigemmo fuori, sulla strada, ma scoprii che il calore che sentivo in
tutto il
corpo non era scomparso, anzi.
Ora che mi trovavo praticamente solo con Emily, era
aumentato.
Le sorrisi e mi infilai una mano in tasca con l’intento di
prendere sigarette e accendino, ma la biondina non me ne diede modo: mi
spinse
gentilmente verso la parete alle mie spalle e si avvinghiò a
me, premendo con
forza le sue labbra sulle mie.
Non me lo feci ripetere due volte e ricambiai subito il
gesto, esplorando la sua bocca come mai avevo fatto prima.
Quando ero più piccolo era capitato di scambiare degli
innocenti baci a fior di labbra con qualche bambina, ma nulla era
paragonabile
a quello; non avevo mai vissuto un momento del genere, non sapevo quale
fosse
il comportamento giusto da attuare, tuttavia mi lasciai guidare
dall’istinto e
le posai le mani sui fianchi, attirandola ancora di più a
me. Starle così
vicino mi faceva andare fuori di testa, era un mix di sensazioni
incredibili
che mi annebbiavano la mente.
Era un po’ come ubriacarsi.
Emily si staccò da me e si passò la lingua sulle
labbra. “Era
da un sacco di tempo che volevo farlo.”
Avevo il fiato corto e il folle desiderio di baciarla di
nuovo. Le sorrisi. “Spero che la voglia non ti sia
già passata dopo un solo
bacio” sussurrai, facendo scorrere le dita sul suo fianco
fino a sfiorarle il
gluteo.
Ci scambiammo un altro bacio, poi Emily si staccò da me, si
guardò attorno e infine mi prese per mano.
“Andiamo in un posto più tranquillo”
affermò, conducendomi in uno dei tanti vicoletti ciechi
caratteristici del
quartiere; era un luogo piuttosto squallido e per niente romantico, ma
almeno
lì ce la saremmo potuta spassare senza essere disturbati.
Fu il mio turno di bloccarla contro il muro e baciarla,
prendendo a esplorare ogni parte di lei con le labbra e con le dita: il
viso,
il collo, le spalle, i seni, il ventre…
Lei era in estasi e io lo ero insieme a lei. Certo, c’era
sempre quel pizzico di tensione, del resto ero alle prime armi e avevo
una
paura folle di sbagliare e deluderla, ma lei sapeva come farmi
rilassare e come
farmi impazzire. Ed ero così curioso, volevo scoprire tutto
di quella ragazza,
capire quanto fosse bello amarsi in quel modo tutto nuovo e,
chissà, magari
regalare a Emily una bella e dolce nottata.
Non le avrei mai voluto fare del male. Forse era per quello
che avevo così tanta paura.
“È la tua prima volta?” mi
domandò mentre carezzava piano il
mio inguine e poi poggiava con decisione le dita sul cavallo dei miei
pantaloni.
Mi morsi il labbro inferiore nel tentativo di trattenere un
gemito e gettai il capo all’indietro – i miei occhi
si scontrarono con le
stelle che brillavano in cielo, ancora più luminose del
solito. “Sì” ammisi tra
i sospiri.
“E hai paura?” soffiò con le labbra a
pochi centimetri dal mio
collo.
“Io… io…” La attirai ancora
più vicino a me. “Voglio che
anche tu stia bene…”
Emily fu paziente con me quella sera: mi fece sperimentare
tutto ciò su cui avevo qualche dubbio o
curiosità, mi lasciò libero di
prendermi i miei tempi, si concesse a me completamente e io cercai di
prendermene cura nel modo migliore che conoscessi. Non avevo voglia di
correre
o di essere troppo irruento, ero fatto così: la conobbi pian
piano, la esplorai,
mi assicurai che stesse bene e che non stessi sbagliando qualcosa.
E quando finalmente affondai in lei per la prima volta e la
sentii impazzire dal piacere, capii che non avevo sbagliato.
Fu davvero strano. Ero talmente preso a domandarmi se stessi
facendo la cosa giusta che quasi non pensai a me; non sapevo se fosse
una cosa
normale perché non avevo mai parlato con nessuno di
quell’argomento, ma alla
fine giunsi alla conclusione che era maledettamente bello morire di
piacere e
desiderio in due, l’uno tra le braccia dell’altra.
“L’azzurro, tra le altre cose, è un
colore che simboleggia
purezza e pace” mormorò Emily mentre, con la
guancia che aderiva alla mia
spalla, riprendeva fiato. Io, ancora col cuore che batteva a mille, le
accarezzavo piano i capelli.
Lei sollevò il capo in modo da potermi guardare negli occhi.
“È proprio vero che hai l’anima azzurra,
Ives. Non ho mai conosciuto un ragazzo
più trasparente e delicato di te.”
Sorrisi, profondamente colpito da quelle parole, e la
strinsi forte a me.
Forse quella notte di passione non ci avrebbe portato da
nessuna parte, ma in quel momento non importava: era la nostra
notte e
tutto il tempo sembrava essersi fermato solo per noi.
“Tu ne sapevi qualcosa?” Ethan mi raggiunse e si
sedette sul
gradino accanto a me, i suoi occhi neri erano ancora più
cupi e tempestosi del
solito.
Presi una boccata di fumo dalla mia sigaretta e gli lanciai
un’occhiata interrogativa.
“Ho appena parlato con Sammy: lascia la band. E senza darmi
una fottutissima spiegazione” disse lui nervosamente mentre
si accendeva una
sigaretta a sua volta.
Sgranai gli occhi e sentii il sangue defluire dal viso.
Alla fine Sammy non ce l’aveva fatta, aveva deciso di
arrendersi. Era tutta colpa mia, ne ero certo: non gli avevo guardato
abbastanza le spalle, l’avevo perso di vista troppe volte,
non ero stato in
grado di dargli il giusto supporto per affrontare quella situazione.
Ero un
pessimo amico, gli avevo fatto una promessa che non ero riuscito a
mantenere,
soltanto perché ero estremamente egoista.
Mi sentivo morire. Chissà cosa aveva dovuto subire Sammy per
arrivare a prendere una decisione così drastica.
“Hai… provato a chiedergli
perché?” balbettai, la gola secca
per l’agitazione e il fumo.
“Certo! Ma lui ha cominciato a piagnucolare che questo
non è l’ambiente adatto a lui e che è
il caso che inizi a frequentare
altra gente e altri posti. Chi cazzo gli ha messo in testa
queste
stronzate?” sbottò Ethan, sempre più
incazzato e confuso.
Mi tremavano le mani. In quel momento dipendeva tutto da me:
potevo rivelare la verità a Ethan in modo che lui potesse
aiutarci a
fronteggiare i bastardi che perseguitavano Sammy, ma questo avrebbe
significato
tradire il mio amico e lui non mi avrebbe mai potuto perdonare.
Tuttavia se avessi tenuto la bocca chiusa avremmo comunque
perso Sammy, dal momento che voleva lasciare la band e smettere di
frequentarci.
Cosa era meglio fare? Qual era la decisione più giusta? Non
ero affatto bravo a districarmi in queste situazioni contorte.
Furono istanti lunghissimi, in cui mi fissai le punte delle
scarpe e lasciai che la sigaretta mi si consumasse tra le dita.
No, non ero un traditore. Avevo dato la mia parola a Sammy,
lui si fidava di me.
“Io non ne so niente” borbottai infine, e mentre
pronunciavo
quelle parole mi sentii sprofondare.
“E allora perché fai quella faccia?
Perché non sembri
affatto sorpreso?” mi accusò Ethan in tono
tagliente.
Ci conoscevamo da cinque anni e non ero mai riuscito a
tenergli nascosto niente, mai.
“E che faccia dovrei avere, scusa? Dovrei essere
contento?”
mi rivoltai, alzandomi di scatto dal gradino e facendo qualche passo
avanti in
modo da dargli le spalle – poco importava che mi trovassi in
mezzo alla strada,
non avevo neanche controllato se stesse per passare qualche auto.
“Sai com’è,
Sammy ha lasciato la band, ho tutti i motivi di essere incazzato! E ora
non
abbiamo né un cantante né un batterista, e il
nostro gruppo sta andando a
puttane, come pensi che debba essere la mia faccia?”
E sono un amico di merda, perché al posto di stare
accanto a Sammy mi sono fatto i cazzi miei. Perché non so
mai come fare davanti
alle difficoltà, perché non sono in grado di
aiutare nessuno, nemmeno me
stesso. E mi sento tremendamente in colpa, Sammy se ne va a causa mia.
Gli occhi mi bruciavano, ma mi convinsi che era per il fumo
della sigaretta che mi svolazzava attorno al viso.
Gettai il mozzicone a terra, lo schiacciai con rabbia e,
senza voltarmi a guardare Ethan, affermai: “Vado a parlarci
io”.
Corsi verso casa di Sammy, su quella strada che ormai
conoscevo a memoria e che forse non avrei percorso mai più.
Il caldo prendeva a
schiaffi la mia pelle, il sudore mi appiccicava i vestiti e i capelli
addosso,
ma in quel momento nemmeno me ne accorgevo, tanto ero preso dai miei
pensieri.
Non ero stato in grado di aiutare Sammy. Questa
consapevolezza mi rimbombava nel cervello, facendomi sentire sempre
più inutile
e insignificante passo dopo passo, respiro dopo respiro.
Bell’amico ero stato.
Quando giunsi davanti a casa sua, bussai direttamente alla
porta di casa invece di passare per il garage – tanto non ci
avrei trovato
nessuno, era tutto finito.
Attesi per qualche istante, spostando nervosamente il peso
da un piede all’altro, finché non fu proprio Sammy
ad aprirmi la porta: aveva
gli occhi gonfi di pianto e il labbro inferiore gli tremava appena.
Presi fiato, ma lui parlò prima di me, interrompendomi:
“Ti
prego, Ives, non dire niente. Ormai non cambierò
più idea”.
Presi coraggio e, infischiandomene di cosa fosse giusto o
sbagliato, strano o normale, lo abbracciai. Volevo fargli capire quanto
mi
dispiacesse, quanto stessi male all’idea che se ne sarebbe
andato, quanto mi
sentissi in colpa per non essergli stato accanto quanto meritava.
Ma la verità era che tutti noi eravamo dei ragazzi
distrutti, alle prese con i loro demoni e con le loro debolezze, che
lottavano
per ritagliarsi uno spazio nel mondo e capire se stessi. Come potevamo
fare gli
eroi per chi ci stava attorno, se già ci sentivamo disarmati
davanti a noi
stessi?
Sammy lo sapeva e non me ne aveva mai fatto una colpa. Anche
in quel momento, mentre piangeva sulla mia spalla, mi ripeté
tra i singhiozzi
che non era colpa mia.
L’avevamo perso per sempre.
“Devono essere bravi davvero: suonano al Whisky A Go Go e al
Rainbow, hanno già parecchia
visibilità” raccontava Viktor con entusiasmo,
mentre sorseggiava la sua birra.
“Wow, addirittura al Whisky? Come si chiamano?” mi
incuriosii.
“Hell Night o qualcosa del
genere” ribatté lui con
un’alzata di spalle.
“Però io ho sentito dire che sono in
difficoltà, nel senso
che ci sono delle tensioni interne alla band. Si vocifera che non
dureranno a
lungo” si intromise Jeff.
“Ah, li conosci?” gli domandai.
“Mio fratello era in classe col bassista.”
“Ehilà, stronzi!” ci salutò
Bogdan, prendendo posto
direttamente sul piano del tavolino sudicio. “Siete pronti
alla vera
festa? Tra un po’ arriva la roba e ci sarà da
divertirsi!”
Gli sorrisi. “Non vedo l’ora!”
Bogdan mi scompigliò appena i capelli – era una
cosa che
faceva sempre, solo perché ero tra i più piccoli
della nostra cerchia e mi
vedeva ancora come un bambino. “Cosa vuole provare oggi il
nostro bimbo?”
“La coca” risposi senza esitazioni, incrociando le
braccia
al petto.
“Ottima scelta, la coca di Davi è tra le
più buone in
circolazione” osservò il polacco, per poi scoccare
un sorriso complice a Ethan.
“Ehi, sbaglio o Bess ha cambiato di nuovo colore di
capelli?” commentai, avvistando la ragazza dentro il locale
nei pressi del bancone:
i suoi capelli avevano ora assunto una tonalità blu scuro
che, bisognava
ammetterlo, le stava davvero bene. “Ma non aveva detto di
voler provare il
verde?”
“L’ho dissuasa io” spiegò
Ethan.
Mi voltai a osservarlo con perplessità e una punta di
malizia.
“Mmh… e da quando sei diventato il suo consigliere
di stile?”
Lui scrollò le spalle. “Ne stavamo parlando il
giorno che me
l’ha data. Le ho consigliato il blu e lei ancora mi ringrazia
ogni volta che mi
incrocia perché l’ho aiutata a trovare il suo
colore.”
Sgranai gli occhi e mi sporsi verso di lui con un sorriso da
un orecchio all’altro. “Tu e Bess avete
scopato?!”
“Non mi sembra un evento tanto straordinario”
borbottò lui
in risposta.
In quel momento una voce esplose al microfono e tutti noi ci
voltammo verso il palchetto; mi accorsi solo in quel momento che la
band aveva
preso posto e il concerto stava per cominciare.
“Buonasera a tutti, noi siamo gli Hell Night
e
stasera abbiamo tutte le intenzione di incendiarvi con un po’
di sano
rock’n’roll!” strepitò il
frontman della band, un ragazzo dai corti capelli
biondicci e i lineamenti affilati.
Tutti esultarono e alcune ragazze cominciarono a radunarsi
sotto il palco, pronte a scatenarsi a ritmo di musica.
Rimasi subito impressionato dall’energia e dalla potenza di
quella band: fu subito chiaro dalle prime note che quelli erano dei
professionisti, che avevano tanti live alle spalle e sapevano come
coinvolgere
il loro pubblico.
“Ma il cantante?!” esclamai estasiato, dando di
gomito a Ethan.
“È una fottutissima bomba! Hai sentito dove arriva
la sua
voce?”
Ci scambiammo un’occhiata entusiasta: quello era in assoluto
uno dei migliori cantanti che ci fosse capitato di sentire. Il suo
timbro acuto
e graffiante era energia pura, gli acuti che eseguiva erano in grado di
far
tremare l’intero locale e si muoveva sul palco con una
naturalezza e una
sfrontatezza allucinanti.
“Dobbiamo assolutamente andare a parlare con lui e scoprire
chi è” affermai.
Ethan annuì. “E dato che questa band è
allo sfascio,
possiamo pure chiedergli se gli va di entrare nella nostra.”
“Sarebbe davvero una figata averlo come cantante!”
Detto
questo, mi alzai e mi accostai al palco per poter seguire meglio lo
show. Ero
talmente preso da quel rock così energico e coinvolgente che
non feci nemmeno
caso a Emily, la quale ballava a qualche metro da me insieme ad alcune
sue
amiche. Da quando eravamo andati a letto insieme, aveva perso
totalmente
interesse nei miei confronti e verso la band, ma io ben presto me
n’ero fatto
una ragione: era stato bello, ma era ovvio che non sarebbe durata e
dopotutto
io e lei non avevamo quasi niente in comune.
Non mi resi conto del tempo che passava e dei brani che si
susseguivano uno dietro l’altro, finché non sentii
qualcuno che mi mollava un
piccolo pugno sulla spalla; mi voltai e mi ritrovai faccia a faccia con
Bogdan,
che sfoggiava un sorriso complice. “È arrivata la
roba, vieni dentro!” gridò
affinché potessi sentirlo sulla musica ad alto volume.
Ricambiai il sorriso e lo seguii dentro l’Alibi, il cuore
che mi batteva a mille. Ero sempre abbastanza agitato quando dovevo
provare
qualche nuova sostanza, non tanto perché avessi paura, ma
non sapevo cosa
aspettarmi ed ero emozionato. La prima volta aveva sempre un gusto
speciale,
nuovo, esaltante.
Il mio amico mi condusse presso il bancone, davanti a cui
stazionavano Ethan e Viktor con alcune banconote strette tra le dita.
Mi guardai attorno dubbioso, notando che il barista era
scomparso, poi posai lo sguardo sui miei amici. “Lo dobbiamo
fare qui, davanti
a tutti?”
“Qual è il problema? Ci serve un piano liscio,
no?” ribatté
Bogdan con semplicità, facendo un ampio cenno verso la
sudicia lastra su cui
avevo appoggiato i gomiti. “Non ci romperà il
cazzo nessuno, tranquillo.”
Osservai Ethan mentre creava, con l’aiuto della banconota,
due strisce di polverina bianca sul piano liscio, una per lui e una per
me; si
muoveva con naturalezza e maestria, come se avesse già
svolto quell’operazione
un sacco di volte.
“Tu l’hai già provata?” gli
chiesi.
“Sì, qualche volta.” Arrotolò
una delle due banconote che
aveva in mano e me la passò. “Potrebbe darti
fastidio all’inizio, cerca di non
soffocare.”
Afferrai l’oggetto e scrutai la pista bianca che avevo di
fronte. Sapevo già cos’avrei dovuto fare,
l’avevo visto tante volte e sperai di
non fare qualche figuraccia da inesperto.
Tirai su la striscia tutta in una volta, e la polvere mi
mandò subito a fuoco i polmoni e la gola; presi a tossire,
gli occhi mi si
riempirono di lacrime, ma dopo qualche istante cercai di darmi un
contegno e
cominciai a guardarmi attorno spaesato; mi sentivo strano, era come se
tutto
attorno a me fosse più… vivo,
forte.
“Hai bevuto prima?” mi domandò Viktor,
picchiettandomi
appena sulla spalla.
Mi voltai verso di lui e annuii.
“Ancora meglio: la coca farà effetto
più rapidamente!”
In effetti stavo già cominciando a percepire delle
sensazioni nuove: era come se per la prima volta sentissi nitidamente
ogni
parte del mio corpo, come se potessi vedere e sentire ogni singolo
dettaglio di
ciò che mi circondava, avevo solamente voglia di ridere e
divertirmi e andare
dalla gente a dire tutto ciò che mi passava per la testa.
Mi sentivo euforico, invincibile, come una specie di
supereroe.
E la sensazione aumentava di intensità secondo dopo secondo.
“Ehi, è una figata!” strillai.
“È uno sballo, cazzo!”
Ethan, accanto a me, ridacchiò. “È roba
di mio fratello, tra
la migliore in circolazione.”
“Fantastico!” mi entusiasmai, ed ero talmente
contento ed
euforico che scoppiai a ridere.
Fu in quell’esatto istante che mi innamorai della cocaina:
all’improvviso era come se tutti i miei problemi fossero
spariti, mi sentivo il
padrone del mondo, ero indistruttibile e avevo
soltanto voglia di
divertirmi e immergermi in tutte le sensazioni amplificate che sentivo.
Afferrai Ethan per un polso – e in quel momento non me ne
importava niente se detestava essere toccato – e lo trascinai
nella terrazza
sul retro: volevo schiantarmi contro la musica,
gridare fino a perdere
la voce, ridere fino a svenire.
Mi sentivo un re.
Mi sentii scuotere per una spalla e aprii a fatica le
palpebre; le sentivo estremamente pesanti, come se non volessero
rispondere ai
comandi. Le pupille subito mi bruciarono quando vennero investite dalla
luce
del sole già alto in cielo e impiegai qualche istante per
mettere a fuoco la
figura che mi stava davanti: il volto non mi diceva niente, ma
riconobbi subito
la divisa da poliziotto che indossava.
Cazzo.
Quando anche le orecchie ricominciarono a funzionare
normalmente, seppur sentissi i suoni ovattati e distanti, mi resi conto
che
l’agente mi stava ponendo una domanda: “Sei tu Ives
Mancini?”.
Mi portai lentamente una mano sulla fronte e tentai di
sollevarmi, ma la testa mi girava e mi pulsava terribilmente.
“Credo di sì…”
biascicai con la gola secca.
“Mettiti in piedi, forza” ordinò il
poliziotto in tono
severo, scrollandomi nuovamente per la spalla.
Mi sforzai di sollevarmi sui gomiti; mi faceva male tutto,
era come se mi fossi addormentato su una lastra di marmo. E forse non
era del
tutto falso, infatti mi trovavo su un marciapiede sudicio e disseminato
di
bottiglie vuote di alcolici. Come ci ero finito lì? Ero
svenuto o mi ero
semplicemente addormentato?
“Cos’ho fatto?” domandai mentre mi
mettevo in piedi a
fatica; fui costretto a sorreggermi a una parete per non rovinare di
nuovo a
terra, il mondo intero sembrava ruotarmi attorno e sentivo lo stomaco
sottosopra.
“Non fare tante storie e sali in macchina”
sbottò l’agente,
afferrandomi per un braccio e trascinandomi fino allo sportello
posteriore
della volante. Mi spinse sul sedile e io non fui in grado di obiettare
e
opporre resistenza, tanto ero stordito e confuso.
L’uomo circumnavigò l’auto e si
posizionò sul sedile del
passeggero; accanto a lui, alla guida, si trovava già un suo
collega.
Mi guardai attorno per cercare di capire dove mi trovassi:
sicuramente nei pressi dell’Alibi. L’unica cosa
certa che riuscii a capire fu
che, a giudicare dal caldo asfissiante e dal sole che bruciava quasi al
centro
del cielo, doveva essere circa mezzogiorno. Non ricordavo quasi niente
della
sera precedente, né tantomeno come fossi finito in mezzo
alla strada.
Avevo provato la cocaina per la prima volta, questo lo
ricordavo.
Il poliziotto al volante mise in moto e partimmo, diretti
chissà dove.
Ero sempre più allarmato: perché la polizia era
venuta a
cercarmi?
“Dove mi state portando? Non ho fatto niente”
spezzai il
silenzio con una punta di isteria nella voce.
C’era da dire che non mi avevano ammanettato, quindi potevo
sperare di non essere in stato d’arresto.
“Già, non hai fatto niente,”
ribatté l’agente che mi aveva
svegliato, “a parte scomparire per tutta la notte e far
venire un colpo a tua
zia. È stata lei a chiederci di venire a cercarti,
ragazzino.”
Il mio cuore perse un battito. Già, zia Maura…
Non volevo farla preoccupare, non era mia intenzione, ma al
contempo non mi piaceva che mi stesse così addosso e
mandasse addirittura la
polizia a cercarmi. Insomma, ormai ero grande e sapevo badare a me
stesso.
O forse non ero abituato all’idea che qualcuno si
preoccupasse tanto per me.
Mentre osservavo le strade semideserte del quartiere
scorrere fuori dal finestrino, mi domandai come avrei fatto ad
affrontarla.
♠
♠
♠
Ed eccomi qua, come promesso, con un capitolo abbastanza
denso di avvenimenti ^^
Vediamo qui due prime volte di Ives: la prima notte con una
ragazza e la prima volta che ha assaggiato la cocaina. Se la prima
esperienza può
essere considerata positiva, non si può dire lo stesso della
seconda: anche se
Ives in quel momento si sentiva un re, certamente la cocaina non
è una sostanza
salutare…
Per quanto riguarda la prima parte del capitolo, ho deciso
apposta di non entrare troppo nel dettaglio perché non avevo
in progetto di
scrivere una storia a rating rosso, volevo concentrarmi più
sulle sensazioni e
il valore “simbolico” della prima volta piuttosto
che descrivere ogni minimo
loro gesto. Spero di non aver deluso le aspettative ^^
Mentre per quanto riguarda la faccenda di Sammy… alla fine
Ives ha deciso di non tradire il suo amico, anche se il prezzo da
pagare è
stato molto alto. Voi siete d’accordo con la scelta di Ives?
Piccolissima noticina: il Whisky A Go Go e il Rainbow sono
due locali di Los Angeles molto famosi e importanti per lo sviluppo
della scena
locale rock; negli anni Ottanta hanno visto la nascita e la crescita di
band
importanti come i Guns N’ Roses e i Mötley
Crüe, ma erano attivi e famosi già
da decenni ^^
Il prossimo capitolo sarà l’ultimo e
già mi piange il cuore
T___T ci sto mettendo l’anima in questa storia e per me
è un bellissimo viaggio,
sono tristissima all’idea che si debba già
concludere, ma ahimè, la storia era
pensata per avere solo cinque capitoli!
Bando alle ciance, alla malinconia di fine storia ci
penseremo la prossima volta XD
Intanto vi ringrazio di cuore per essere giunti fin qui,
spero che questo capitolo vi sia piaciuto! :3
Alla prossima!!! ♥
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Capitolo 5 *** V ***
V
It's
times like these
you learn to live again
It's
times like these you give and give again
It's
times like these you learn to love again
It's
times like these time and time again
[Foo
Fighters – Times
Like These]
Non appena l’auto della polizia accostò, notai
subito la
figura di zia Maura ferma sulla soglia: aveva le braccia incrociate
sull’ampio
petto e i capelli scuri raccolti in un disordinato chignon, che
lasciavano
libero il volto dai lineamenti marcati e induriti dalla rabbia.
Sospirai. Non sarebbe stato facile affrontarla.
Il poliziotto che stava sul sedile del passeggero scese,
venne ad aprirmi la portiera e mi scortò fin davanti alla
porta di casa; prima
di andarsene, mi assestò una forte pacca sulla schiena e
salutò brevemente mia
zia.
Rimanemmo solo io e lei.
Entrammo in casa in un silenzio tombale, ma zia Maura si
piazzò sulla soglia che separava il piccolo ingresso dal
resto della casa,
segno che non mi avrebbe lasciato andare così facilmente. Mi
scrutò con i suoi
occhi scuri e io ebbi l’impressione che le sue iridi colme
d’ira potessero
trapassarmi come un coltello affilato. Ancora non aveva aperto bocca,
sicuramente stava cercando di trattenersi perché, se si
fosse lasciata andare,
mi avrebbe demolito.
Decisi di affrontarla, tanto ormai il danno era fatto;
incrociai le braccia sul petto a mia volta e le lanciai
un’occhiata offesa.
“Hai mandato la polizia a
cercarmi?”
“Non ti azzardare! Quella arrabbiata tra i due dovrei essere
io” ribatté, e la sua voce profonda
risultò ancora più cupa e glaciale del
solito. Si interruppe, ma dal suo volto che si faceva paonazzo
immaginai che
stava lottando con l’impulso di urlarmi contro.
Zia Maura spesso aveva paura di ferirmi, lo sapevo: mi aveva
visto crescere, piangere, tremare e avere paura, sapeva quanto fossi
vulnerabile. Ma non aveva ancora capito che ormai non ero
più quel bambino che
correva tra le sue braccia a farsi consolare non appena riceveva un
pugno dalla
vita, ormai ero diventato grande ed erano poche le cose in grado di
sconvolgermi.
“Non dovresti essere al lavoro a
quest’ora?” improvvisai,
ostentando una certa indifferenza.
“È domenica, Ives”
mi gelò lei prima di avvicinarsi a
me e immobilizzarmi per una spalla. “Te lo dico per
l’ennesima e ultima volta:
togliti subito questo vizio di non tornare a casa, altrimenti ti
impedisco di
uscire per il resto della tua vita. È chiaro?”
Sapevo che non sarebbe mai stata capace di farlo, anche
perché per tutta la settimana lavorava e non mi poteva
controllare, ma il suo
tono minaccioso mi fece comunque rabbrividire.
“E dai, è la prima volta che passo la notte
fuori…” cercai
di sminuire la faccenda, abbozzando un sorriso.
“Non è normale che tu passi la notte fuori a tredici
anni! E non è normale che tu stia in giro fino a tardi tutti
i giorni!”
sbraitò, il suo vocione rimbombò spaventosamente
tra le pareti dell’ingresso.
“Beh, scusa, tu non me l’hai mai
impedito” ribattei, anche
se sapevo di starmi addentrando in argomentazioni che non era il caso
di
portare fuori.
Zia Maura non riusciva a starmi appresso perché era da sola
a crescere me e Maggie, si spaccava la schiena ogni giorno dividendosi
tra
mille lavori per non farci mancare niente e per permettere a mia cugina
di
studiare all’università; sapevo di passare per
ingrato, ma non importava, io
volevo solo uscire con i miei amici e divertirmi come mi pareva.
“Vuoi che te lo impedisca, eh? Me lo stai chiedendo? Se vuoi
ti accontento subito!” ruggì lei, scuotendomi
violentemente per la spalla per
poi lasciarmi andare bruscamente. Mi incenerì con lo
sguardo, ma notai
ugualmente la nota di preoccupazione in fondo a quegli occhi
così severi. “Io
ti ho sempre lasciato libero per non tarparti le ali, nella speranza
che
riuscissi a capire da solo cosa fosse giusto o sbagliato, ma a quanto
pare ti
ho dato troppa fiducia. Da quanti giorni non ti fai una doccia,
eh?”
Mi afferrò una ciocca di capelli unti e ispidi, ma io scossi
il capo e mi scrollai le sue mani di dosso. “Sono abbastanza
grande per
prendermi cura di me stesso.”
“Non sei grande per niente, Ives!” esplose
nuovamente lei.
“Tu ti senti grande, ma hai soltanto
tredici anni, sei un bambino
ingenuo e del mondo non hai ancora capito nulla! Vuoi rovinarti la
vita? Non lo
capisci che la gente che frequenti, le cose che fai, ti fanno
male?”
“Non conosci la gente che frequento” replicai,
fingendomi
per niente colpito dalle sue parole – in realtà
sotto sotto sapevo che non
aveva tutti i torti, spesso avevo l’impressione di
impigliarmi in situazioni
per cui non ero ancora pronto e mi sentivo inadeguato.
“Adesso mi fai passare?
Così vado a farmi la doccia e ti faccio contenta.”
“Ma hai almeno ascoltato quello che ti ho detto?”
Zia Maura
si portò una mano sulla fronte, esasperata. “Dove
sei stato stanotte? Cos’hai
fatto?” incalzò, inchiodandomi nuovamente con lo
sguardo.
Se solo me lo ricordassi…
“Ero con i miei amici, non abbiamo fatto niente di
che”
abbozzai – almeno la prima parte della storia era vera.
Lei sospirò, cercando le parole giuste con cui ribattere.
“Pensavo fossi preoccupata per me, invece mi hai aggredito
non appena mi hai visto” borbottai io abbassando lo sguardo.
“Ma io sono preoccupata, è
proprio per quello che mi
arrabbio! Non so più come dirtelo!”
Sbuffai. “Adesso posso andare in camera mia? Sono
stanco…”
“Vai. Tanto, qualsiasi cosa io ti dica, ti entra da un
orecchio e ti esce dall’altro.”
Trattenni un sospiro di sollievo mentre mi dirigevo in
camera mia e mi ci chiudevo dentro; misi su uno dei miei vinili dei
Clash e mi
buttai sul letto, esausto. Per l’ennesima volta avevo
risposto male a zia
Maura, che era sempre così paziente, e una parte di me mi
suggeriva che mi
sarei dovuto sentire in colpa, ma non avevo nessuna voglia di pensarci:
volevo
solo dormire per ore e ore, sentivo addosso una spossatezza incredibile.
Prima che potessi accorgermene, ero già sprofondato nel
sonno.
A ridestarmi fu lo squillo acuto del telefono in corridoio;
aprii gli occhi e il sole del tardo pomeriggio me li riempì.
Il telefono smise di trillare e qualche istante dopo sentii
bussare alla porta di camera mia; mi alzai a fatica e andai ad aprire,
ritrovandomi davanti il viso contratto di zia Maura. “Ti
vogliono al telefono”
mi comunicò in tono piatto, prima di scomparire velocemente
in cucina.
Mi accostai al tavolino su cui era posato l’apparecchio e
afferrai la cornetta. “Chi è?”
“Mick Jagger” rispose la voce di Ethan
dall’altro capo.
“Spiritoso. Come mai mi hai chiamato? Non sapevo nemmeno che
avessi il mio numero di casa.” In effetti quella era forse la
prima volta che
Ethan mi telefonava, le cose ce le dicevamo sempre di persona.
“Dato che oggi non ti ho visto in giro, volevo solo dirti
che ho parlato col tizio degli Hell Night…”
“Il cantante! Cazzo, ieri me ne sono dimenticato!”
sbottai,
portandomi una mano davanti alla bocca.
“Ci ho pensato io. Si chiama Oliver, comunque. Ha detto che
stava pensando già da tempo di lasciare la sua band e ha
accettato di provare
con noi: abbiamo appuntamento in sala prove domani sera. Ecco, volevo
avvisarti
per essere sicuro che non mancassi.”
Aggrottai le sopracciglia. “Quale sala prove? Ti ricordo che
Sammy non fa più parte della band.”
“Ho risolto anche quel problema: ho parlato con Sammy e ci
ha concesso di incontrare Oliver nel suo garage, almeno
finché non troveremo
una nuova saletta e della nuova attrezzatura.”
“Già. Peccato che non abbiamo un batterista con
cui
provare…”
“Ah, a proposito di questo: ho appeso un fottuto annuncio
sulla porta dell’Alibi, speriamo che qualcuno
risponda.”
Sbattei le palpebre un paio di volte. “Che
efficienza!”
“Io mi do da fare mentre tu sei impegnato a collassare,
sai?”
Risi. “Grazie Ethan. Ci vediamo domani, okay?”
“Non mancare, mi raccomando.”
“Ci lamentavamo del garage di Sammy, che era gratis, e
adesso ci fanno pagare per questa merda” constatai,
osservando le macchie di
umidità sulla parete che un tempo doveva essere stata
bianca. Qualche giorno
prima c’era stato un piccolo temporale estivo ed era
così che avevamo scoperto
le terrificanti infiltrazioni d’acqua all’interno
della nostra nuova saletta.
“Non so come fosse questo garage di Sammy, ma sappi che
questo buco è un luogo di lusso rispetto alla sala prove
degli Hell Night”
commentò Oliver.
Lo osservai mentre era alle prese col mixer nel tentativo di
regolare il volume del microfono: da minuti interi non faceva che
bestemmiare
contro quell’aggeggio, prima perché non riusciva a
capire come collegare il
cavo del microfono e ora perché il volume era troppo basso.
Ormai cantava nella nostra band da qualche settimana, ci
eravamo trovati subito in sintonia con lui e averlo alla voce era un
vero
sogno, sprigionava esattamente quell’energia a cui
aspiravamo. Oltre ad avere
già dei testi pronti per le nostre canzoni, era finalmente
riuscito a mettere
in musica quello di Ethan, dando vita alla prima vera canzone della
nostra
band.
Caratterialmente era esplosivo come quando stava sul palco,
io e Ethan lo adoravamo.
Eravamo sulla buona strada per diventare la band che avremmo
sempre voluto essere, mancava solo il batterista.
Mi alzai, camminai avanti e indietro per lo stanzino con
fare annoiato, poi mi affacciai alla porta e sbuffai. “Ma
Ethan quanto ci
mette?”
“Magari il tizio è in ritardo. A proposito: sai
per caso chi
è?” mi chiese Oliver, per poi lasciarsi sfuggire
un’imprecazione tra i denti e
mollare un pugno al mixer.
“Ora che ci penso non mi ha detto nessun nome, solo che un
tizio aveva risposto all’annuncio.”
“Speriamo sia la volta buona che troviamo un batterista, non
ho nessuna intenzione di diventare una specie di Phil
Collins” commentò Oliver,
poi lanciò un’occhiata alla batteria stipata in un
angolo.
Risi, poi mi accostai a lui. “Hai mai provato a suonare la
batteria?”
“Sinceramente no… ma lo farò
oggi” affermò, mentre i suoi
occhi venivano attraversati da una scintilla.
Sorrisi divertito mentre Oliver si posizionava goffamente
dietro la batteria. “Spacca tutto!” lo esortai.
“Tanto penso di aver già distrutto il mixer, danno
più o
danno meno non farà differenza”
scherzò, impugnando un paio di bacchette
abbandonate sul timpano. “Allora…
com’era quel passaggio? Qualcosa del genere,
vero?” chiese conferma, mentre cercava di eseguire
l’entrata di batteria di In
The Air Tonight, ma il risultato fu piuttosto sbilenco e non
potei evitare
di ridere.
“Che cazzo ridi, marmocchio? Tu sapresti fare di
meglio?” mi
punzecchiò, sfidandomi con lo sguardo.
“Sta’ a vedere!”
Ci scambiammo di posto e, dopo aver eseguito il medesimo
passaggio in maniera più o meno riconoscibile, tentai di
capire come si
suonasse la restante parte di batteria del brano di Phil Collins, con
scarsi
risultati e mentre Oliver mi rideva in faccia e mi dava inutili
suggerimenti.
Infine fu lui a riprendere posto sullo sgabellino, sostenendo di aver
capito
perfettamente come si doveva suonare, ma ridevamo
così tanto che lui non
riusciva nemmeno a tenere le bacchette in mano.
Eravamo talmente presi da quell’attività idiota
che ci
accorgemmo a malapena dell’arrivo di Ethan e il nostro nuovo
potenziale
batterista.
Ma quando mi voltai, mi trovai davanti l’ultima persona che
mi sarei aspettato di vedere: Alick Jacobs, il tipo dai capelli lunghi
da cui
May era corsa dopo che l’avevo salvata dal suo aggressore.
“Lui è Alick, il nuovo candidato” lo
presentò brevemente
Ethan, mentre Alick rivolgeva un sorriso amichevole a me e Oliver.
Sicuramente ero sbiancato e avevo sgranato gli occhi, ma mi
sforzai comunque di ricambiare il sorriso. Ma che situazione surreale
era mai
quella?
“Ehi amico, scusa se ti ho rubato il posto, in
realtà sono
il cantante!” lo salutò Oliver.
“No, no, resta pure!” lo rassicurò
l’altro, avvicinandosi a
lui. “Anzi, ho sentito che stavi provando a suonare qualcosa,
di cosa si
trattava?”
Cantante e batterista cominciarono a parlare tra loro, così
ne approfittai per affiancare Ethan e dargli di gomito.
“Potevi almeno
avvisarmi…”
“Di cosa?”
“Come sarebbe a dire? Quello è il tizio a cui ho
cercato di
fregare la ragazza” sibilai. Ero parecchio imbarazzato da
questa coincidenza.
Ethan si strinse nelle spalle. “E chi cazzo se lo ricorda
più?”
“Me lo ricordo io.” A quel
punto fui costretto a
zittirmi perché Oliver e Alick si trovavano nei paraggi: si
erano avvicinati al
mixer e il moro lo stava esaminando con occhio critico.
“Credo che per regolare il volume sia questa levetta.
L’hai
già provata?” disse, indicando un punto accanto
all’entrata del cavo.
Oliver strabuzzò gli occhi. “E chi cazzo
l’aveva vista
quella?”
Scoppiai a ridere di gusto, ripensando a quanto il cantante
avesse perso la testa per cercare il problema, poi mi voltai verso
Ethan.
“Finalmente abbiamo trovato qualcuno in grado di risolvere
questi problemi
senza fulminarci tutti!”
“Fottiti.”
“Ah, Ives, ti volevo dire…” Alick mosse
qualche passo verso
di me e io mi morsi il labbro inferiore, non sapendo cosa aspettarmi.
“Grazie
ancora per aver salvato May, se l’è vista davvero
brutta quella volta. Meno
male che c’eri tu nei paraggi!”
Sorrisi, indeciso se sentirmi una specie di eroe o
sotterrarmi immediatamente. E meno male che non se lo
ricordava…
“Non ho fatto nulla di che, insomma, non sarei mai rimasto a
guardare mentre quel bastardo metteva le mani addosso a una
ragazza” biascicai.
“Possiamo cominciare le prove” intervenne Ethan,
salvandomi
dal momento di estremo imbarazzo.
Alick non esitò un attimo e corse dietro la batteria, mentre
io, Ethan e Oliver collegavamo i nostri strumenti e discutevamo sulle
canzoni
che avremmo potuto usare per testare il nuovo membro della band. Era
meglio
cominciare da qualcosa che fosse noto a tutti per capire se potevamo
entrare in
sintonia.
“Come sei messo coi Led Zeppelin?”
domandò Oliver ad Alick.
Lui annuì mentre giocherellava con una bacchetta.
“A cosa
stavate pensando?”
“Whole Lotta Love, ci stai?”
Alick annuì nuovamente. “Dovrei ricordarla a
memoria.
Perfetto.”
Fu chiaro a tutti, ancora prima di arrivare al primo
ritornello, che avevamo trovato il batterista giusto per noi: Alick si
incastrava perfettamente nel nostro sound, era creativo e pulito, ma
soprattutto era come se avesse suonato insieme a noi da sempre; il
risultato
finale era un sound compatto e coordinato.
Suonavamo già come una band.
Eseguimmo un sacco di cover e, brano dopo brano, eravamo
sempre più entusiasti e soddisfatti; alla fine gli facemmo
sentire qualche
nostro inedito – inclusa Don’t Care,
la canzone col testo di Ethan – e Alick
trovò sempre il modo più congeniale di inserire
la batteria e dare ai brani
quel tocco di classe ed energia in più.
“Wow, con questa roba andremo al Whisky e al Rainbow nel
giro di un mese!” esultò Oliver al termine delle
prove, carico ed euforico.
“E chi ha voglia di aspettare un mese?” fece notare
Ethan
mentre riponeva la sua chitarra nella custodia.
Mi illuminai e schioccai le dita. “E chi ci dice che
dobbiamo aspettare?”
Tre paia di occhi si posarono su di me, incitandomi a
continuare.
Sorrisi. “Uno di questi giorni perché non suoniamo
in
strada, proprio qui di fronte? Portiamo tutto fuori e spacchiamo il
culo al
vicinato, così sarà impossibile non notarci! In
fondo attirare la gente tramite
la nostra musica è il modo migliore per farci conoscere,
no?”
Ethan, Oliver e Alick si scambiarono occhiate complici, poi
il chitarrista posò lo sguardo su di me e si
lasciò sfuggire un sorrisetto
ironico. “Da quando ti vengono in mente idee intelligenti,
Ives?”
“Infatti l’idea non è mia, me
l’ha suggerito Bess qualche
tempo fa” ammisi.
Oliver scoppiò a ridere, poi sollevò il pollice
in alto. “Io
ci sto!”
“Ci vorranno un bel po’ di prolunghe e cavi, ma si
può fare”
concordò Ethan, mentre Alick si limitò ad annuire
in silenzio.
“Magari aspettiamo qualche giorno in modo da spargere la
voce e invitare più gente possibile, poi abbatteremo
l’intera città con la
nostra musica!” propose Oliver, già carico e
pronto.
Abbattere…
“Sperando che non si scateni una tempesta come quella dei
giorni scorsi” aggiunse Alick mentre si alzava dal seggiolino
della batteria.
Tempesta…
“Storm It Down! Che ne dite, non
è fantastico?”
saltai su.
Gli altri tre si voltarono a guardarmi interrogativamente.
“Per il nome della band, intendo! Storm It Down mi sembra
carino: forte, d’impatto, orecchiabile. E stavolta
l’idea è davvero mia!”
precisai, strizzando l’occhio ai miei amici.
“Mi piace” affermò Alick abbozzando un
sorriso.
“Grandioso!” concordò Oliver.
“Piace anche a me” acconsentì infine
Ethan.
Li fissai negli occhi uno per uno, leggendo il loro entusiasmo
e quasi tremando per l’emozione.
Eravamo ufficialmente gli Storm It Down. Eravamo parte di
qualcosa e, anche se non ci conoscevamo ancora benissimo e non sapevamo
dove il
destino e la passione ci avrebbero portato, in cuor mio sapevo che da
quel momento
ci saremmo sempre stati l’uno per l’altro.
“Ehi ehi ehi, ragazzi! Chi vuole fare la conoscenza degli
Storm It Down?”
Era veramente surreale: il sole era basso nel cielo e
proiettava i suoi raggi arancioni, noi ci trovavano in mezzo alla
strada e, con
amplificatori e batteria sull’asfalto, stavamo per suonare
per la prima volta
davanti a un pubblico.
C’erano tutti: Sammy, Viktor, Bogdan, Jeff, May, Bess con le
sue amiche – compresa Emily – e tutti i nostri
amici abituali. Perfino
Mitchell, l’ex compagno di scuola di Ethan con cui
bighellonavamo sempre da
piccoli, era ricomparso apposta per assistere al nostro show,
nonostante
frequentasse sempre più di rado la nostra cerchia.
E poi c’erano tanti volti nuovi, persone che si erano
incuriosite vedendoci lavorare fin dal primo pomeriggio per portare il
nostro
live in strada; qualcuno poteva pensare che fossimo pazzi ad ammazzarci
al
caldo per eseguire solo quattro canzoni – due inediti e due
cover –, ma mentre
stringevo il mio basso tra le braccia e facevo scorrere lo sguardo tra
i volti
sorridenti dei nostri ascoltatori, capii che ne era valsa la pena.
Per la musica ne valeva sempre la pena.
“Okay, per scaldare un po’ i motori facciamo
qualcosa che
conoscono tutti. Chi la sa, la canti!” spiegò
Oliver al microfono, attirando su
di sé gli sguardi curiosi degli spettatori.
C’era chi strillava, chi gridava a gran voce i nomi dei vari
componenti della band, chi si era accomodato in un angolo e chi invece
stava in
piedi accanto a noi per manifestarci il suo entusiasmo.
Il nostro piccolo pubblico impazzì letteralmente quando
eseguii le prime note di Crazy Train; avevamo
deciso di proporre la
cover del brano di Ozzy perché piaceva a tutti, era stato il
tormentone
dell’ultimo periodo… e poi ci veniva davvero bene.
Mentre suonavo, non riuscivo a levarmi il sorriso dalle
labbra: tutti cantavano, gridavano, ballavano, applaudivano, salutavano
le
poche auto che passavano da quelle parti, in quell’angolo di
mondo dimenticato.
Mental
wounds not
healing
Life's
a bitter shame
I'm
goin' off the rails on a crazy train
I'm
goin' off the rails on a crazy train
Mentre un coro di voci ci investiva, cantando insieme a
Oliver il ritornello, mi domandai se un giorno i nostri spettatori
avrebbero
intonato con la stessa foga e la stessa gioia anche i testi delle
nostre
canzoni.
Chissà dove ci avrebbe condotto quello strano viaggio.
Un moto d’affetto improvviso mi riempì il cuore ed
ebbi
l’impulso di mollare il basso e correre ad abbracciare una
per una le persone
che mi stavano attorno.
Eravamo ragazzi strani e bizzarri, bambini cresciuti troppo
in fretta e pieni di lividi che la vita ci aveva lasciato
sull’anima; ci
trovavamo in mezzo a una strada squallida e sudicia, in un quartiere
malfamato,
con degli amplificatori da quattro soldi e i vestiti incollati alla
pelle
sudata. Eravamo poveri, distrutti, dimenticati e senza futuro, ma
eravamo una
grande famiglia che non aveva mai perso la voglia di vivere,
emozionarsi e
divertirsi.
E soprattutto sognare.
Gettai un’occhiata alla mia sinistra, dove si trovavano
Ethan, Oliver e Alick: i miei compagni d’avventura.
Qualunque fossero le difficoltà davanti a cui ci avrebbe
messo la vita, noi avremmo imbracciato i nostri strumenti e le avremmo
riso in
faccia.
♠
♠
♠
Okay, sono emozionata. Sappiate che ho quasi le lacrime agli
occhi per questo finale, segno che ancora una volta questi ragazzi sono
stati
in grado di rubarmi il cuore e l’anima.
Ma ormai di che mi sorprendo? Ives, Ethan e tutto il loro
universo sono diventati la mia ragione di vita *_________*
Ma bando alle ciance, passo alle note veramente utili XD
Vi lascio qui i link delle canzoni che ho nominato!
In The Air Tonight di Phil Collins, che guarda caso
è
uscita proprio nel gennaio dell’81:
https://www.youtube.com/watch?v=YkADj0TPrJA
L’entrata di batteria che Ives e Oliver stavano provando a
fare si trova al minuto 3:15 del video che ho linkato ^^
Ah, per chi non lo sapesse: Phil Collins, ex componente dei
Genesis, è appunto cantante e batterista!
Poi…
Whole Lotta Love dei Led Zeppelin:
https://www.youtube.com/watch?v=HQmmM_qwG4k
Crazy Train di Ozzy Osbourne:
https://www.youtube.com/watch?v=RMR5zf1J1Hs
Curiosità su quest’ultima: è uscita nel
1980, quindi ci sta
che fosse stata un tormentone dei mesi precedenti a questa storia
– almeno per
questi ragazzi amanti del rock ^^
In questo capitolo conclusivo vediamo la nascita ufficiale
degli Storm It Down, con la formazione che rimarrà invariata
fino alla fine
della loro carriera!
Chi conosce già la serie sapeva che Alick sarebbe diventato
il batterista; per chi invece non ne aveva idea, vi aspettavate il
ritorno di
questo personaggio?
E conosciamo anche Oliver, l’ormai ex cantante degli Hell
Night, talentuosissimo! Immagino il suo timbro vocale un po’
come quello di
Jared Leto dei Thirty Seconds To Mars, per darvi un’idea ^^
Devono essere davvero una bellissima band, io li voglio
sentire *_______*
Non credo ci sia altro da aggiungere per quanto riguarda le
note tecniche!
E ora passiamo ai ringraziamenti!
GRAZIE GRAZIE GRAZIE LETTORI, per aver tanto apprezzato
questa storia e avermi dimostrato un entusiasmo che mai e poi mai mi
sarei
aspettata! Sono davvero legatissima a questa minilong, la sua stesura
sono stati
cinque giorni di febbrile scrittura e profondo delirio mentale, mi ha
completamente rapito e mi ha dato modo di rappresentare ancora una
volta il
mondo meravigliosamente doloroso di questi ragazzi. Sapere che
è stata
apprezzata, sapere che il mio impegno e la mia passione traspaiono da
queste righe,
mi rende l’autrice più felice del mondo.
GRAZIE a Kim WinterNight, evelyn80, alessandroago_94, Sabriel_Little
Storm e KUBA, perché le vostre parole mi hanno riempito il
cuore di gioia. Grazie
ai lettori silenziosi e grazie a tutti coloro che giungeranno qui in
seguito.
GRAZIE per amare i miei personaggi insieme a me!
E grazie ad Ives, Ethan, Sammy, Bess e tutti i personaggi di
questa serie, per essere le mie ancore di salvezza, le mie rocce, i
figlioletti
da amare incondizionatamente e gli amici con cui condividere tutto.
GRAZIE!
Alla prossima avventura – nel caso ve lo stiate chiedendo,
lettori: ho una marea di storie per questa serie pronte da pubblicare
prossimamente
*______*
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