Bentornati in quest'altro inferno

di LeanhaunSidhe
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Bentornati in quest'altro inferno ***
Capitolo 3: *** Il peso del passato ***
Capitolo 4: *** Legami fraterni ***
Capitolo 5: *** Il mistero che viene da Asgard ***
Capitolo 6: *** In viaggio verso nord ***
Capitolo 7: *** Equilibri ***
Capitolo 8: *** Andata e ritorno ***
Capitolo 9: *** Supposizioni ***
Capitolo 10: *** Risvegli ***
Capitolo 11: *** Colpevolezza ***
Capitolo 12: *** Padri e figli - parte 1 ***
Capitolo 13: *** Padri e figli - parte 2 ***
Capitolo 14: *** Prepararsi a proteggere ***
Capitolo 15: *** Protettori e protetti ***
Capitolo 16: *** Primo scontro coi perduti - parte 1 ***
Capitolo 17: *** Primo scontro coi perduti - parte 2 ***
Capitolo 18: *** Convalescenze ***
Capitolo 19: *** Aiutarsi ***
Capitolo 20: *** Prepararsi a tornare ***
Capitolo 21: *** Tre volti del Jamir ***
Capitolo 22: *** A carte scoperte... qualcuna ***
Capitolo 23: *** Incomprensioni ***
Capitolo 24: *** Preparativi e partenze ***
Capitolo 25: *** Riconoscersi ***
Capitolo 26: *** La corte dei miracoli ***
Capitolo 27: *** Il desiderio di due donne ***
Capitolo 28: *** Le vere intenzioni di Haldir - Parte 1 ***
Capitolo 29: *** Le vere intezioni di Haldir – Parte 2 ***
Capitolo 30: *** Senza punti deboli - Parte 1 ***
Capitolo 31: *** Senza punti deboli - Parte 2 ***
Capitolo 32: *** L'arma finale ***
Capitolo 33: *** Prima della battaglia ***
Capitolo 34: *** L'alleanza ***
Capitolo 35: *** Nella tana del nemico ***
Capitolo 36: *** Lo scontro – Parte 1 ***
Capitolo 37: *** Lo scontro – Parte 2 ***
Capitolo 38: *** Fuori dall'abisso - Parte 1 ***
Capitolo 39: *** Fuori dall’abisso – Parte 2 ***
Capitolo 40: *** Un vincolo che non si spezza ***
Capitolo 41: *** Un abbraccio nelle tenebre ***
Capitolo 42: *** Il peso di un rimpianto ***
Capitolo 43: *** Per l’ultima volta ***
Capitolo 44: *** Epilogo - Parte 1 ***
Capitolo 45: *** Epilogo – Parte 2 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prequel: Una sventurata, Mnemosine, si presenta al Grande Tempio di Athene. Il suo villaggio è stato distrutto. Fin da subito mostra di avere poteri particolari (vede fantasmi) ed un certo feeling con Death Mask. Per motivi diversi, i due si troveranno a lottare contro Imuen, domatore delle anime dei morti nonché capostipite della razza della protagonista iniziale. La storia si chiude con la sopravvivenza di Death Mask e il ricongiungimento di Mnemosine con la razza d'origine.
La storia coinvolge il cavaliere di Cancer solamente: per i suoi pari è come se non fosse mai accaduto nulla.
Imuen è un essere a metà tra mondo umano e divino. Non è immortale ma certo parecchio longevo. Anticamente, aiutava Athena donando pace alle anime dei cavalieri che neppure i cavalieri di Cancer riuscivano a placare. Nel corso dei secoli si era innamorato di un'ancella del Santuario e la fanciulla era rimasta incinta. Vedendo nella gravidanza della giovane un grave peccato contro la dea, il padre la uccise. Il gesto scatenò la rabbia di Imuen che uccise diverse persone a Rodorio.
In quell'occasione, alcune divinità olimpiche pensarono bene di prendere la palla al balzo ed imprigionarlo, per assicurarsene i preziosi servigi. Da allora Imuen vive praticamente schiavo.
Haldir, gemello di Imuen, ha la sua stessa longevità ma una poteri opposti. Sta iniziando a muoversi per scongiurare una minaccia in cui la loro razza (sia la sua sia quella di Imuen) è coinvolta. Il male, se non arginato, dilagherebbe su tutta la terra
 
****************
 
Era un susseguirsi di voci nella sua testa: urla, pianti, lamenti, maledizioni, guai.
Era al limite. Sopportava quello strazio da che era bambina, da sempre, da quando aveva iniziato ad avere memoria. Aveva impiegato anni a comprendere che quella non fosse affatto la normalità ed il peso diventava sempre più gravoso sulle sue spalle.
Mille volte sarebbe stato meglio nascere maschio ed impugnare un'arma piuttosto che sopportare quello strazio. Mille volte meglio essere trafitta dalla spada, piuttosto che essere dilaniata da quel dolore: dolore non tuo, di svariate forme e modi, di tutte le maniere più efferate e perverse avesse potuto concepire la mente umana. Non era vita esistere a quel modo.
Seleina era stanca: quel potere, ormai, non era più un dono da poter curare gli altri quanto piuttosto una maledizione rivolta contro se stessa. Tuttavia, non le reggeva il cuore di lasciare la terra in quelle condizioni. Perché lei lo sapeva: per ogni forma di male ve ne era una corrispondente di bene, meravigliosa, pura e semplice come solo un essere umano potrebbe concepirla ma il bene, ahimè, era troppo poco in confronto a tutto quel dolore. Lei lo sapeva, lo sapeva che sarebbe aumentato.
Lo sentiva nelle viscere di Asgard, nelle sue vene di ghiaccio lavico che scorreva anche nel suo corpo e nella testa e nel cuore. Le bruciava nel petto il grido dei Traditori che si risvegliavano. Oh, lei lo comprendeva: la data era vicina e non avrebbe potuto opporsi in alcun modo. Così, quella ennesima notte di incubi, in cui le sozzure che venivano da fuori continuavano ad imbrattarle la mente ed impedirle il riposo, esausta, spalancò le ante della finestra della propria camera da letto. Ormai era decisa.
Il vento di Asgard le sferzava i capelli ma non le tagliava la pelle: lei stessa era il vento di Asgard. Lo era sempre stata. Aprì le braccia al cielo stellato e si lasciò abbracciare dal vuoto. Pochi attimi dopo, o era del tutto già impazzita o stava correndo, senza alcuna difficoltà e dolore, nella neve fresca che le arrivava quasi al ginocchio ed in cui le sue leggere scarpette da notte affondavano appesantite e rovinate.
Quelli dovevano essere i suoi ultimi attimi di lucidità ed i primi di follia vera. Forse era già morta nell'impatto con il suolo o forse no. Percepiva l'energia che aveva sempre sentito nell'ambiente davvero dentro al proprio corpo e l'andatura della sua corsa saliva ancora di velocità: un secondo appena e posò il piede ormai nudo direttamente sul picco ghiacciato. A quel punto, prese un gran respiro. Non era senza fiato ma voleva che la sua voce risuonasse per ogni dove e giungesse fino ai suoi orecchi: il nome di Haldir si librò potente in aria. Era quella la malia, il richiamo: poco dopo, il gigante in armatura bianca l'avvolgeva col suo mantello.
 
Haldir la fissò coi suoi occhi profondi, con quelle iridi azzurre che svelavano sempre ogni segreto. La prese per le spalle e le chiese se fosse sicura di volerlo fare, se fosse conscia del prezzo pattuito.
Seleina disse ancora di sì, si incise i polsi e la neve accolse il suo sangue. Presto, le sue gote rosate impallidirono ancora e le palpebre calarono sui suoi occhi, così simili a quelli di Haldir. La ragazza, per gli altri, bramava la protezione dal male che stava per arrivare, per sé, solamente un po' di pace.
 
 
Haldir l'aveva protetta nel suo abbraccio molto prima che la neve reclamasse la sua tenera figura. Nel suo modo particolare, lui aveva davvero a cuore quella ragazzina: Seleina era nata per sbaglio in quella dinastia ed avrebbe dovuto mutare quasi completamente per vivere una vita degna, una vita normale. Era sbocciato da subito un legame speciale fra loro: erano fratello e sorella, maestro e allieva, padre e figlia. Avrebbe fatto ogni cosa in suo potere per aiutarla. Di solito i Dunedain erano restii a mostrarsi agli uomini ma con lei non era mai stato così. I Perduti stavano per svegliarsi. Molti fra gli umani sarebbero periti. Le difese di Asgard erano sguarnite e, probabilmente, non sarebbero mai state all'altezza di difendere la terra. La folle soluzione che avevano accprdato era di riportare i Dodici Cavalieri d'oro, il gioiello delle truppe ateniesi, nuovamente alla vita.
Riuscire, avrebbe anche significato superare quegli dei odiosi che si proclamavano onnipotenti e con cui i Dunedain avevano da secoli un conto in sospeso. Voleva dire ricucire la famiglia, riabilitare quel fratello senza nerbo che da troppo se ne stava a crogiolarsi per dolore ed inedia.
Il piano era ambizioso: almeno quindici persone sarebbero tornate alla vita. Loro erano Dunedain ma non erano divinità. La loro magia bramava sangue ed avevano avuto quello di Seleina. Ora, bisognava solo metterci la vita.

 
****************
 
Da secoli Haldir non si mostrava mai fuori dai propri domini: più o meno da quando il suo gemello era stato reso schiavo. L'affronto bruciava tremendamente.
Solo il suo amore perduto avrebbe smosso il domatore delle anime dei morti dal suo torpore e, in quella parte di cimitero malmesso e consacrato alle sterpaglie, con unica testimone silente e lontana la luna, Haldir si apprestava a compiere una magia che mai aveva tentato prima di allora.
Pronunciò le parole dell'incantesimo e, lentamente, lo spirito della fanciulla tanto cara al suo gemello apparve e prese forma. I capelli chiarissimi di Haldir saettavano in ogni direzione, vittime di quel vento glaciale ed indomabile che era l'essenza stessa sia di Asgard che sua. Il vento, da freddo, diventò caldo alito di vita. Haldir tese le dita artigliate e semiguantate dal metallo verso la fanciulla che restava immobile ai suoi piedi. Compiaciuto, il Dunedain ne sentiva il cuore battere, il sangue correre nelle vene. Esitante, Eli strinse le dita calde di quella creatura ed un gemito strozzato, di sorpresa più che di paura, sfuggì alle sue labbra esili e rosse.

“Alzati.”

La fanciulla boccheggiò. Credette che quella forse una strana forma di condanna: che senso aveva donarle un corpo se era ancora al cimitero?
Non abituato a ripetersi, Haldir si chinò appena e la sollevò per la vita.

“Sei libera.”

Ripeté confuso, posandole poi la mano sul ventre, soddisfatto di essere riuscito di restituire a quel mondo persino suo nipote.
Mentre prendeva finalmente consapevolezza che quella fosse davvero la libertà che aveva tanto desiderato ma mai osato sperare, Eli lo ringraziò e gli chiese dove fosse il suo amato.
Lei, infatti, era perfettamente conscia dell'essere che aveva davanti e somigliava a Imuen ma Imuen non era.

“Tu sei suo fratello gemello. Che ci fai qui?”

Haldir si privò dell'elmo e le si rivolse col suo viso calmo e senza espressione.

“Imuen è ancora prigioniero. Sai cosa gli è successo dopo la tua dipartita?”

Triste, la ragazza annuì.

“Tu eri la sua ragione di vita. Non sono mai riuscito a convincerlo a liberarsi della condizione odiosa in cui lo tengono, senza di te. Con te, però, tutto potrà essere diverso.”

La giovane lo fissò intimorita coi suoi grandi occhi color miele. Poi, ripensò al fatto che Imuen si fidava ciecamente lui.

“Come posso aiutarlo?”

Haldir non tradì espressione ma il suo cuore esultò. Le poggiò la mano sulla spalla e gli artigli la avvolsero fino all'avambraccio. In pochi attimi la trasportò lontano.
Le aveva ordinato di restare nascosta tra gli scogli. Nei rari attimi in cui Imuen era solo, gli piaceva assistere allo spettacolo di quel mare in tempesta, in una lingua di terra talmente aspra, selvaggia e sporca che gli dei se l'erano dimenticata proprio per quant'era inospitale.

“Che vuoi ancora?”

Come al solito, il comitato di benvenuto non era stato dei migliori per il gigante bianco.

“Voglio che ritorni in te. Ho bisogno di te. I perduti si stanno svegliando. Non posso e non voglio più occuparmene da solo.”

I capelli rossi di Imuen si gonfiavano impazziti. Recalcitravano, come la sua anima.

“Che gli esseri umani si fottano. Il loro benessere non è più un mio problema.”

Haldir sbuffò. Girò il viso verso gli scogli.

“Neppure per questo odore che si mescola nel vento?”

Annoiato, il gemello minore aguzzò l'olfatto. Per una frazione di secondo credette di essere impazzito. Poi si alzò di scatto e corse verso la fonte di quel profumo.
Non fu in grado di emettere un suono. Semplicemente pianse mentre l'abbracciava con forza.

“Tu sei libera.”

Ripeté due o tre volte, imbambolato.

“Tornerò a combattere.”

Lo promise con la mano sul ventre della sua donna, su quelle due vite rinate insieme alla sua, in una sera di tempesta.

 
****************
 
La lama brillava ed era sporca. Imuen girò il taglio della falce verso la luna e ghignò incontrando il proprio riflesso. Si sentiva di nuovo vivo. Non distingueva il rosso dei suoi capelli da quello del sangue dei suoi nemici. Rise. La sua voce si alzò fino a divenire un urlo. Rideva, rinato e folle, verso quel morto vivente che era stato a lungo: per quanto era rimasto lo spettro di se stesso? Voleva gridare alla notte.
Come fosse un infante che emette il suo primo vagito, ringhiò ancora. Euforico, pazzo, con l'anima che ritornava piano piano a far pompare davvero il cuore nel petto. Solo dopo parecchi secondi riuscì a calmarsi. Serrò le iridi verdi dietro lo schermo delle palpebre e prese ad avanzare in mezzo al groviglio di budella opalescenti con cui aveva macchiato il terreno ai propri piedi. Sollevò il trofeo di guerra e incrociò lo sguardo vitreo e assente di quell'ultima testa mozzata.

 
Con disprezzo, la gettò, poi, nella polvere. Si girò e raggiunse quell'immenso obelisco. Sembrava la scultura deforme di un titano impazzito. Haldir gli aveva spiegato che conteneva le anime dei passati difensori della dea della giustizia. Gli aveva chiesto di aiutarlo a liberarli. Gli sembrava sciocco disperdere tante energie per degli umani, ma la sua ricompensa lo ripagava enormemente. Puntò gli occhi su uno di loro, l'unico che conoscesse, tra quelli che emergevano dalla roccia. Gli venne da ridere, al pensiero che tutti i cavalieri avrebbero potuto essere oscuri come Cancer. Allora si, che sarebbe stata possibile un'alleanza tra le loro razze. Srotolò la pergamena con la formula da recitare. Si concentrò sul ritmo della propria voce. Camminando in circolo, non si curava delle ossa che scricchiolavano sotto i suoi calzari metallici. In seguito, li avrebbe ripuliti da tutti quegli umori putrescenti con disprezzo. Riaprì le palpebre, prima di poggiare il palmo aperto sulla pietra grezza. La pergamena che svolazzava finì incenerita dai bagliori sinistri del suo cosmo arcano. Quando le sue unghie si conficcarono nell'obelisco, una raggiera di minuscole crepe si dipartì da esse.
Il guerriero poté sentire il tormento delle anime intrappolate dentro ed istintivamente ringhiò. Era lo stesso a cui gli olimpici obbligavano lui e la sua razza. Lo sdegno, in lui, si propagò come una morsa allo stomaco. Quando le sue mani tornarono inerti, lungo i fianchi, le aperture in quella colonna di morte si allontanarono rapidissime, come le schegge in cui si sgretola il cristallo che impatta sul terreno. Immobile per alcuni secondi, Imuen restò ad assistere all'esito della sua opera. La linfa che usciva dalle fessure soffiava come se fosse vento. Una luce azzurra filtrava attraverso di esse e sarebbe presto esplosa. Solo a quel punto il demone si decise ad infilarsi l'elmo. Gridò al cielo e la sua voce era completamente ferina.
Sulla terra, solo un'altra volta era stato udito quell'urlo. Come allora, gli dei avevano tremato. Quelli perduti reclamavano la loro la libertà offesa. Le teste dei primi immortali erano rotolate via. Non era un problema farne saltare ancora. La falce di Imuen bramava il loro sangue come il naufrago sogna la terraferma. Cinque semidei di cui non importava il nome e un dio di basso lignaggio erano stati fatti fuori nel brevissimo arco di un istante, da uno solo. Zeus avrebbe dovuto inviare avversari migliori in seguito o, meglio, muoversi lui di persona. Se avesse osato tanto, però, non si sarebbe misurato con lui solamente. Lui e Haldir erano insieme. Cosa significava, gli immortali lo avrebbero scoperto a loro spese, sicuramente.
 
 

 

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Capitolo 2
*** Bentornati in quest'altro inferno ***


Saori si rigirò nelle lenzuola profumate di fresco. La stoffa si attorcigliò alla caviglia e iniziò a segnarle la pelle chiara. L'abbraccio del sonno stava diventando una morsa. Provò ad alzarsi da supina che era ma una catena invisibile la tratteneva immobile e distesa.
“Chi sei?”
Chiese con voce calma e decisa. Si era accorta subito della presenza che non si palesava e le impediva il giusto risveglio.
Lentamente, un mantello bianco si mosse nell'indistinto che la racchiudeva e rivelò le sembianze di un uomo altissimo.
“Perché non ti mostri a me? Mi temi, forse, mentre sono bloccata?”
Non ottenne subito una reazione alla sua provocazione. Poi, il gigante portò le mani enormi a ghermire il cappuccio che gli celava il volto.
Solo allora Saori riuscì ad associare i lineamenti al suo amico ed il passato di molti secoli prima: l'operato di Imuen, tornò a farla sentire impotente come allora.
“Tu devi essere Haldir, l'altro gemello.”
Esordì apparentemente sicura. In realtà, un dubbio rovinoso le rosicchiava il cuore.
Mai, fino ad allora, il domatore delle anime dei viventi si era mostrato. Che cosa stava succedendo?
“Mi punisci perché mi ritieni responsabile per ciò che è accaduto a tuo fratello, giusto?”
Il guerriero la fissò coi suoi occhi di zaffiro e la dea della saggezza ancora non sapeva cosa aspettarsi.
“Tu sola fra gli olimpici l'hai sempre rispettato e protetto. Posso scrutare l'anima di ogni essere, compresa la tua. So che eri in buona fede.”
La dea parve tranquillizzarsi ma non capiva ancora il motivo per cui era trattenuta. Si trovò costretta a chiedere ed il gigante rispose piano, con la sua voce profonda.
“Tu devi stare buona qui mentre agisce mio fratello.”
Saori spalancò gli occhi, memore della strage di cui Imuen si era macchiato un tempo ma la mano immensa di Haldir, poggiata sul petto, le impediva di espandere il proprio cosmo. Fu quella la prima volta che iniziò a rendersi conto dei poteri misteriosi di quell'essere e a capire che, forse, non doveva avere paura. Una scossa leggera le raggiunse il cuore e la pace più umana che avesse mai provato fino ad allora placò pure la sua parte di dea.
“Imuen non sta uccidendo nessuno, al contrario: riporta qualcuno alla vita. Riposa tranquilla Athena.”
Saori provò a muoversi ancora ma rimaneva comunque bloccata. Solo dopo altri minuti si placò. Non poteva essere. Davvero, i Dunedain non potevano aver preparato per tutti loro un simile dono.



Era buio e freddo. Dove si trovavano loro non c'erano mai luce e calore. Dove li avevano segregati tempo e spazio non esistevano. Solo dolore e disperazione erano reali. Privi di corpo e di voce, come appendici di un'unica larva, parvenze malriuscite del loro essere stati eroi. Era quella la ricompensa per aver rinnegato tutto in nome della giustizia?
Avevano sacrificato ogni cosa per un ideale, per un'umanità corrotta ma non perduta. Il cosmo di Athena era lontano in quell'atmosfera malata e i globi di luce che pulsavano nel cielo di tenebra dovevano essere l'ennesimo manifestarsi della loro condanna o della loro acquisita follia. Però no, non poteva essere: la pazzia sarebbe stata oblio, sollievo. Dolce e soporifera come il calore che nuovamente li scaldava.

“Ma che accidenti...”

Non capiva: Death Mask non poteva riuscirci. Perchè aveva nuovamente una voce? Tese le braccia contro il suolo. Sentì i muscoli delle braccia contrarsi, i pettorali tirati e la tensione che si spandeva dentro e contro il suo corpo. Respirò l'aria riarsa. Spalancò le palpebre verso l'alto.
Mille globi luminosi turbinavano, squarciando le tenebre. Si ingrandivano e rimpicciolivano, inseguendosi in una repentina corsa nel firmamento nero e azzurro. Il cavaliere si voltò di lato e potè leggere il suo stesso stupore sul viso di Aphrodite e quello di Shion.
Che diavoleria era mai quella? Incitò i compagni ad alzarsi. Stava verificandosi qualcosa di grosso. C'era un'energia prodigiosa che permeava l'aria: allo stesso tempo, era un cosmo e non lo era. Per Cancer aveva il sapore di un passato che aveva conosciuto ma non riusciva ad inquadrare.

Death Mask guardò in alto, col cuore in gola. Quale fonte di luce creava un'ombra così grande, che li occultava tutti e abbracciava l'intero averno? Come boccioli della stessa corolla, richiamati insieme da un unico raggio di sole, tutti i suoi compagni avevano alzato la testa all'unisono e non si erano coperti gli occhi con le mani. Non avevano paura. Se quel globo di luce li avrebbe schiacciati, così sarebbe stato. Avrebbero accettato con sopportazione e forza l'ennesima punizione divina.

Cancer ghignò beffardo, prima di essere inghiottito, insieme agli altri, in quella apparente esplosione di una supernova.

Quando poterono riaprire gli occhi e riabituarsi a vedere, si ritrovarono presso le rovine del vecchio grande tempio. Increduli, si scrutavano l'un l'altro. Si tastavano il corpo, non capendo come era potuto succedere, euforici per un sogno che sembrava troppo bello per essere vero.

“Bentornati in quest'altro inferno.”

Ad aver parlato era stato uno strano individuo seduto a terra, con le gambe incrociate. Indossava un' armatura nera, rilucente, che riverberava ai parchi riflessi lunari. Era in parte coperto da un mantello nero e logoro.
Tutti e quattordici furono colpiti dalla profondità delle iridi di quel personaggio. Di così verde, avevano conosciuto solo le gemme sul culminare della primavera. Egli aveva la pelle chiara, di un pallore irreale. Apparentemente annoiato, poggiava la guancia sulla mano, il gomito sul ginocchio. I capelli, lunghi e mossi, cadevano disordinati sulle spalle come una pioggia di sangue.

“Chi sei tu?”

Imuen rise. Anche se nudo ed indifeso come un verme, Shion dell'Ariete cercava di conservare la sua autorità, riuscendoci benissimo, tra l'altro.

“Come dissi un tempo ad uno di voi, mi hanno dato molti nomi e nessuno vi riguarda.”
Per nulla convinto, l'ex-sacerdote incalzò ancora.

“Perché ci hai ricondotti alla vita?”

Lo stranierò picchiettò la mano libera, artigliata, su di un ginocchio.

“Io non sono misericordioso come Athena, ma questa è un'eccezione. Siete qui per godere di una possibilità che a nessuno oltre voi fu mai data.”
Poi si alzò.

“Noi esigiamo sempre un prezzo per ogni servigio, ma non stavolta.”

Era alto. Poteva guardare Albebaran negli occhi da pari a pari. Si era già girato e se ne stava andando.

“Della vostra nuova vita fate ciò che volete, in totale libertà. Se sarete demoni o paladini, non è affar nostro.”

Colti alla sprovvista, provarono a trattenerlo con le buone. Non riuscendo, tentarono pure le cattive. Certo, però, lo straniero doveva essersela un po' presa per essere stato graffiato al viso dal colpo congiunto di Milo e Aioria. Lo intuirono dal fatto che, all'improvviso, si ritrovarono in mezzo al vociare indistinto di donne isteriche.

Death Mask fu il primo a bestemmiare e appropriarsi di un pezzo di stoffa con cui coprire la vergogna. Quel bastardo li aveva fatti comparire, completamente nudi, in mezzo al campo d'addestramento femminile.

Stava riponendo le ultime ampolle. Sbuffò quando, girandosi, ne trovò altre tre sul tavolo di legno della piccola stanza. Iniziava presto a dimenticarsi le cose importanti o, forse, era solo la stanchezza per la notte insonne, trascorsa tra il lavoro da sbrigare e vecchi incubi di cui credeva di essersi liberato da tempo.
Risistemò il laccio con cui teneva i capelli in una coda bassa e si concesse un attimo di riposo. La sensazione che stesse accadendo qualcosa di male a una persona cara e non vista da tempo, emerse in lui come una scossa leggera lungo la spina dorsale. Si diresse alla finestra con il fiato corto e per un istante sperò di tutto cuore che il suo potere cosmico si fosse guastato.
Si affacciò che le ultime stelle si stavano spegnendo nel cielo infuocato dell'alba. Un ultimo raggio, come un astro cadente che finiva in ritardo la sua corsa, si perse nell'ombra dietro le alte montagne del Jamir, la, dove molto lontano si inerpicava il sentiero nodoso che portava a scendere dalla sua terra desolata per raggiungere il grande tempio.
L'intuizione di prima divenne qualcosa di tangibile, un sospetto che stringeva nervi e cuore. Vide scorrere il rosso del sangue e i suoi occhi si spalancarono di terrore. Poi, una luce calda avvolse la sua anima. Era come se le costellazioni avessero ricominciato a splendere all'improvviso.
Le gambe persero per un istante la capacità di sorreggere il suo peso e dovette aggrapparsi alla seggiola malconcia per non cadere. Si concentrò di nuovo: non poteva essersi sbagliato. Quello era, senza ombra di dubbio, il cosmo di suo fratello. L'urgenza di verificare se fosse vero, animò istantaneamente il suo spirito e si teletrasportò fino ad Atene. Più che nei pressi di Rodorio, per il cosmo di Athena, non poteva andare. Camminò senza farsi riconoscere. Non aveva tempo da perdere rivelando a chicchesia qualcosa che non sapeva ancora per certo.
Le gambe tornarono a farsi pesanti. Più si avvicinava, più si convinceva che si, senza dubbio, quello era davvero il cosmo di suo fratello... e non era solo: dovevano esserci tutti e dodici. Non aveva ancora il coraggio di contattarli telepaticamente. Era giunto a pochi metri dall'accesso che collegava Rodorio al mondo esterno, che si bloccò. Un'essenza sconosciuta testimoniava la presenza di un estraneo. Era un cosmo e non lo era. Questo avrebbe risposto in seguito, a chi gli avesse chiesto cosa fosse.
Avvertì stupore e velata paura nei cosmi dei cavalieri d'oro, ne era certo. Temendo che ci fosse sotto qualcosa di grosso, si decise a penetrare dal passaggio. Entrato nel piccolo borgo, individuò immediatamente la presenza estranea che aveva percepito. Era un cavaliere alto almeno mezzo metro più di lui, che avanzava nella sua direzione con passo spedito. Lo straniero aveva un elmo nero come il metallo dell'armatura che lo celava. Appena questo si era accorto di lui, aveva materializzato un lungo bastone, che terminava in alto con una falce affilata.
Quando incrociò i suoi occhi verdi e accesi, l'unica parte visibile attraverso la copertura dell'elmo, Kiki capì subito che non poteva trattarsi di un essere umano. Era qualcosa al di la della sua esperienza e comprensione. Il giovane lemuriano deglutì ed espanse il proprio cosmo. Si preparava alla battaglia.
A pochi metri da quella singolare presenza, notò che il materiale della stessa corazza gli era sconosciuto. La superficie scura era intarsiata da strani simboli che non conosceva. Li distinse chiaramente, in pochi attimi, pur se confusi dall'orlo del manto lacero con cui l'uomo si abbigliava.
“Chi sei e cosa ci fai nei territori sacri alla dea Athena?”
Forse l'individuo non aveva intenzioni ostili poiché, appena gli furono rivolte quelle parole, poggiò sul terreno la parte terminale della falce che recava sulla spalla.
“A te che sembra? Me ne sto andando.”
Kiki annuì ed assottigliò lo sguardo.
“Non hai risposto ancora alla prima parte della domanda.”
Aveva notato tardi i fuochi fatui che danzavano in circolo, attorno a quella figura.
“Normalmente, ai mortali non dico chi sono...”
Fatta scomparire la falce, lo stranierò portò le mani artigliate ai lati dell'elmo e se lo sfilò piano.
“...ma in onore al fatto che su di te è fortissimo l'odore di uno della mia famiglia, farò un'eccezione.”
Mentre i capelli rossi brillarono appena ai raggi dell'alba, poggiandogli sulle spalle come uno sbuffo di fuoco, egli portò l'elmo sotto il braccio.
“Sono Imuen, uno dei domatori delle anime, di quelle dei morti che vagano sulla terra, ad essere precisi.”
Gli sorrise, con l'espressione di chi ti è palesemente superiore e si mostra garbato per prenderti in giro.
“Tu chi sei, invece: con chi ho l'onore di parlare?”
Kiki cercò di darsi un contegno, mentre la meraviglia e una leggera ansia si facevano strada in lui.
Ripetè il proprio nome, con enfasi e distacco.
“Vivo non l'avevo mai visto un lemuriano... eccezion fatta per quelli che ho riportato in vita poco fa, naturalmente.”
Al giovane mancò la terra sotto i piedi. Balbettando, gli disse di spiegare meglio il senso delle sue parole. Alla conferma che tutto fosse reale, calde lacrime gli rigarono le gote.
“Ti ringrazio infinitamente.”
Si inginocchiò come se fosse innanzi alla stessa Athena. Non si rendeva conto ne del tempo sospeso che lo rendeva invisibile alle persone attorno a lui ne dei cosmi agitati dei sacri guerrieri. Fu una presa decisa sulla spalla che lo distrasse. Con i suoi artigli, Imuen gli sfiorava l'avambraccio.
“Non cedere a chiunque la tua venerazione, umano. Certamente, io non la merito. Non mi è concesso farmene un cruccio, ma quando conoscerai il prezzo di quella rinascita, mi crederai meno magnanimo.”
Quelle parole lo colpirono. Ricordò l'altra parte delle sue percezioni, quel brivido tremendo e i sogni confusi che gli avevano impedito il riposo. Allarmato, gli chiese spiegazioni.
Ormai, il tempo per Imuen era scaduto e lo straniero si avviava per quello stesso passaggio che Kiki stesso aveva percorso. Il cavaliere, meno altero, abbassò gli occhi verdi.
“Non mi intrometto nei contatti di mio fratello, mi spiace.”
Kiki provò a rispondergli, ma la morsa che lo tratteneva, si dissolse solo quando Imuen se ne era già andato. Batté il pugno a terra e si rialzò in piedi, da carponi che era stato costretto. Avrebbe voluto dirgli che non aveva idea di chi fosse suo fratello, ma quell'espressione, guarire l'anima, gli era ancora tremendamente familiare. Che fosse Seleina la persona cara e lontana a cui stava accadendo qualcosa di brutto? Ormai i pezzi di quel puzzle meraviglioso e tremendo stavano combaciando troppo bene.
A passo spedito, prese a dirigersi dove sentiva viva e forte la presenza di Mu e dei suoi compagni. Solo un nuovo dubbio gli sovvenne, mentre si rendeva conto che stava raggiungendo il campo d'allenamento femminile: cos'erano quegli schiamazzi di donna?
La risposta arrivò poco dopo. Un gruppo di dodici uomini, nudi, coperti alla bell'e meglio, gli fecero spalancare gli occhi. Muto e rosso in viso, si accodò ai dodici cavalieri d'oro, che raggiungevano un posto più riparato, in religioso silenzio. L'unico rumore che tagliava quell'atmosfera irreale, era una voce bassa, sibilante e roca: Death Mask. Kiki tratteneva a fatica le risa. Senza ombra di dubbio, quelli erano improperi.

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Capitolo 3
*** Il peso del passato ***


Seleina aveva gli occhi grandi: limpidi, come due diamanti ; azzurri, simili a zaffiri.

Spiccavano con la luce delle stelle su di un viso piccolo e affilato, di bambina.

Era quello il primo ricordo che serbava della sua amica. Nei giorni incerti che seguirono il ritorno alla vita di suo fratello, la vaga sensazione che gli aveva attorcigliato le viscere si era fatta più netta e decisa.

Ciò che più lo feriva era l'incapacità di parlarne. Mu era rimasto la solita persona discreta: pur avendo intuito subito i suoi problemi, non si era mai imposto per esserne messo a parte.

Kiki maneggiava l'armatura dell'Acquario e si era lasciato andare ad un sommesso sospiro nel lucidare la pietra incastonata nell'elmo. Era stato forse il particolare colore di quella gemma o le energie fredde connesse a quella corazza a riportargli alla mente quei pensieri.

Ricordò Cristal quando assomigliava ancora al cavaliere del Cigno e non al reggente di Asgard. Rammentò quella figuretta minuta, dai capelli così biondi che sembravano chiari quanto il sole, mentre si nascondeva dietro le ginocchia del padre e lo osservava attenta, pur tenendo strette nella mano i pantaloni del padre.

“Baderesti a lei per qualche minuto? Dovrei arrivare alla tredicesima.”

Kiki non aveva certo rifiutato ma doveva aver sbuffato. All’epoca, preferiva di gran lunga concentrarsi sugli allenamenti che a far da balia. Tirare pugni contro la nuda pietra era un modo efficace per tenere la mente occupata ed allontanare brutti pensieri. Seleina era una bimbetta minuta e fragile, del tutto estranea a quel mondo di guerrieri. Aveva lasciato andare il padre ed osservava attenta la sua balia temporanea.

Kiki era sporco di sudore, polvere e fango. Immaginò di non essere un bel vedere, di spaventarla.

“Hai paura?”

Le chiese quasi subito.

Lei negò e nel muovere la testa i capelli lunghissimi e sciolti, come quelli della madre, le conferivano un’aria davvero buffa.

La vide avvicinarsi ancora fino a stringergli la mano.

“Ti fa davvero molto male.”

Kiki si osservò il braccio e si rese conto solo allora di essere ferito. Era un taglio superficiale ma che sanguinava copioso, dovuto probabilmente a qualche scheggia di roccia che gli era schizzata addosso mentre si allenava,

Cercò di spiegarglielo ma lei negò di nuovo.

“Ho visto papà allenarsi altre volte. Quella ferita non è niente.”

Gli aveva stretto le dita e lo aveva trascinato verso il basso. Voleva chiaramente che si inginocchiasse. Lui l’assecondò. Anche così era più alto di lei. Presto, si ritrovò il palmo aperto di quella creaturina al centro del petto.

“Questa è la ferita che ti fa tanto tanto male.”

Esterrefatto, aveva provato a rialzarsi ma una strana sensazione l’aveva trattenuto. Si stava ancora dando dello sciocco se perfino una mocciosetta di cinque anni appena riusciva a scorgere il suo turbamento. Poi vide le lacrime bagnare quelle guance piene e rosse. Lentamente, il suo animo stava tornando leggero. Una sensazione che non provava da anni.


 


 

Improvvisamente, si sentì posare una mano sulla spalla e uno sgabello strusciò vicino ai suoi piedi.

Mu aveva pazientato fino a quel momento ma ora preferiva sapere. Lo fissava intensamente e non se ne sarebbe andato senza risposte.

"Non hai niente da dirmi?"

Esordì, infatti, per primo. Kiki si era grattato la testa ed aveva abbassato lo sguardo. Sembrava imbarazzato.

"Sono solo supposizioni. Niente di importante."

Mu sorrise e lo prese in giro.

"Non sono supposizioni da poco conto se ti preoccupano al punto da farti impiegare un'ora solo per lucidare un elmo."

Il più giovane strinse le labbra e strizzò gli occhi. Sarebbe stata terribilmente dura rivelare la verità sulla sua amica. Stava per tradire un segreto: una promessa sì tacita ma anche un patto quasi sacro. Non ci sarebbe riuscito così presto. Consapevole di quel fatto puntò lo sguardo in quello del fratello.

"Ho bisogno che ti fidi di me. Concedimi qualche giorno per... indagare di persona su... alcune cose."

Mu inarcò le sopracciglia, sorpreso. Non si aspettava che Kiki lo escludesse a quel modo dalle sue preoccupazioni. A malincuore, tuttavia, accettò.

"Puoi almeno dirmi come intendi ...procedere in questa tua indagine?"

Non era uno sciocco. Era convinto che suo fratello fosse in pena per qualcuno e che la cosa era legata ad un passato di cui lui non aveva potuto far parte.

“Lascerò per qualche giorno il grande tempio.”

Mu avrebbe voluto obiettare che era rimasto davvero poco in Grecia, in quegli ultimi tempi, che in molti gli avevano riferito e confermato quella cosa. Tuttavia tacque. Annuì semplicemente e non battè ciglio mentre lo vedeva radunare abiti parecchio pesanti in una sacca, pronto a partire.

Per certi versi, suo fratello era diventato un estraneo. Si diceva che doveva dargli tempo ma alcuni cambiamenti gli facevano paura. Aveva lasciato un fanciullo di otto anni devoto e ribelle, con una fiamma che esplodeva gioiosa e contagiava positivamente chi aveva vicino. Quel giovane uomo era invece introverso e taciturno, malato di un silenzio inquieto che non era proprio dell’alleievo dolce e spensierato che ricordava. La fiamma che gli ricordava sembrava alterata a tratti da una rabbia profonda, da qualcosa che lo logorava. Eppure, quando era perso in ricordi che non avevano condiviso, a volte, gli pareva di rivedere il volto disteso di quella peste di otto anni. Accadeva di rado, quando Kiki pensava di essere solo, lontano dalle altre presenze del Grande Tempio.

Con discrezione, Mu aveva provato a chiedere a Shaina ed a Marin. Entrambe, purtroppo, avevano suffragato quell’ipotesi, rivelando che Kiki era cambiato molto dopo la sua precedente dipartita, come se non avesse mai accettato del tutto di essere rimasto solo. Da quando lui era sparito si era concentrato solo negli allenamenti. Aveva raggiunto il settimo senso fin troppo presto ed il suo cosmo era potente, vasto e sconfinato. Shaina, in particolare, aveva azzardato un confronto con Saga e Shaka. Nel suo modo diretto, la sacerdotessa non gli aveva nascosto il sospetto che gli fosse diventato sicuramente superiore. Il prezzo che Kiki aveva dovuto pagare per arrivare a quei livelli era però una profonda solitudine.

Perso in quelle elucubrazioni, Mu pensò che doveva essere un posto parecchio freddo quello dove il giovane Aries era diretto, se uno che, come lui, avrebbe potuto sopportare facilmente le temperature più rigide grazie al cosmo, voleva portarsi appresso un giubbotto di pelliccia.

Aveva provato a chiedere, un po’ per celia e un po’ per curiosità, se fosse potuto esistere un posto addirittura più freddo di Asgard.

Kiki, allora, si era voltato in fretta verso di lui, con una espressione grave.

“Nel cuore vero di Asgard il cosmo dei cavalieri non può nulla.”

Si era poi teletrasportato, lasciandolo con meno certezze ed altre domande.


 


 

Nel posto dove era diretto lui il vento spirava sempre fortissimo. Ululava ed era come se mille aghi gli trafiggessero la pelle. Difficilmente gli esseri umani si avventuravano li e di certo nessuno sano di mente. Persino lui, che pure stava facendo affidamento sulle sue particolari capacità, faticava non poco. Resisteva pochi minuti prima che il fastidio, mai assente, si tramutasse in dolore, per via di quell’aria malata.

Seleina, invece, pur non essendo dotata di un cosmo e non avendo mai affrontato un vero addestramento, pareva non avere problemi a starsene li. Anzi, gli aveva detto che, se avesse avuto bisogno di lei e poco tempo per farle visita, semplicemente, doveva recarsi in quel posto e chiamarla a voce, niente telepatia. Sarebbe subito accorsa. Era accaduto altre volte, negli anni, che si fosse trovato costretto a ricorrere a quello stratagemma per chiederle aiuto nel gestire il dolore che si portava appresso. Non lo faceva mai volentieri, perché significava ammettere chiaramente, una volta di più, la propria debolezza. Ora, però, la questione era un’altra. Temeva per lei. Anzi, era sicuro che avesse fatto qualche grossa sciocchezza solo per renderlo felice o almeno alleviare quel dolore che non era mai riuscita a sottrargli del tutto.

Con un groppo alla gola la chiamò prima piano due o tre volte, senza ottenere risposta. Iniziò a provare dolore ed urlò il nome della piccola amica, invano. Gridò un’ultima volta, disperato, conscio di essere solo. Urlò quasi invocando Seleina ed il ghiaccio, letteralmente, gli tagliò il volto. Poté vedere il proprio sangue colare a terra. Istintivamente si pulì la guancia e trovò le dita rosse. Batté il piede nella neve, con stizza, non riuscendo a restare oltre. Avrebbe impiegato pochi minuti col teletrasporto per raggiungere il centro abitato di Asgard e cercare direttamente Cristal per avere spiegazioni ma l’istinto gli suggeriva di portarsi dietro qualcuno in più che potesse prestargli aiuto. Pensò a Mu e si teletrasportò, sconfitto, di nuovo, in Grecia.

Il santo di Aries stava riparando una cloth di bronzo. Non si aspettava di rivederlo dopo nemmeno un’ora. Era palesemente sorpreso e si agitò nello scorgere l’irrequietezza che si agitava in suo fratello.

“Ho bisogno di aiuto.”

Kiki si era deciso ad ammetterlo. Non si aspettava quel sorriso sincero sul viso di Mur. Si ritrovò con la sua mano sulla spalla, mentre lo spingeva verso la cucina, negli appartamenti privati.

“Raccontami ogni cosa.”

Aveva iniziato Mur, attento, finalmente sollevato nel constatare che il loro rapporto non era andato perduto. Kiki, prima di sederglisi di fronte, si era diretto verso la credenza e si era portato appresso due bicchieri, oltre a qualcosa di forte, che si sarebbe rivelato essere un liquore ad altissima gradazione.

“Non biasimarmi. Quanto saprai tutto, il liquore sarà il rimprovero minore che vorrai muovermi.”

Spiegò Kiki e Mur iniziò prima a stranirsi, poi a sudare freddo.

“Non sono stati affatto facili per me questi anni, il modo in cui ci siamo lasciati...”

Aveva versato un altro bicchiere colmo e Mur aveva afferrato di scatto la bottiglia, per evitare che ne bevesse ancora. Kiki rise a quel gesto protettivo ed involontario. Nonostante tutti gli anni e gli avvenimenti trascorsi Mur si sentiva ancora responsabile come suo mentore. Rise di gusto e per un attimo si sentì di nuovo come quando erano solo loro due, da bambino.

“Credo che il vostro ritorno alla vita sia stato possibile grazie all’intervento di una persona a me molto cara, che mi ha permesso di non diventare matto, senza di te, in questi anni. Temo anche che sia in pericolo.”

Kiki si era portato la mano a coprirsi gli occhi.

“Voglia il cielo che io sia diventato solo paranoico e mi stia sbagliando.”


 


 


 


 


 

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Capitolo 4
*** Legami fraterni ***


Kiki aveva rigirato un paio di volte il bicchiere tra le dita. Cercava parole che facevano fatica ad uscire dalla sua bocca. Poi sospirò, si fece coraggio e puntò gli occhi nello sguardo calmo ed attento di suo fratello.

“Non ho mai accettato come mi hai lasciato, Mur. Persino ora, che ti ho davanti, ho sempre l’impressione che questo sia solo un sogno e mi sveglierò presto in quell’incubo tremendo che era la mia esistenza fino a pochi giorni fa.”

Mu aveva abbassato gli occhi, rattristato.

“Io e te eravamo una famiglia. Tu eri la mia casa, le mie radici. Quando non ho avuto più nulla sono stato sopraffatto dal dolore, poi dalla rabbia. Non avevo più fede in nulla, tanto meno in Athena.”

L’espressione di rimprovero che si aspettava di vedere era invece sostituita da una di comprensione e, se vi era biasimo, il maggiore lo riservava a se stesso.

“Ero solo. Ero l’ultimo. Questa era la mia unica certezza.”

Si era versato un altro mezzo bicchiere ed aveva iniziato a sorbirlo lentamente, come se parte della foga se ne fosse sparita insieme all’inizio del suo racconto.

“Così ho iniziato ad allenarmi… seriamente. Più di quanto non facevo con te, in maniera ossessiva.”

Rise amaramente a quella consapevolezza.

“Ero precoce.”

Scosse il capo, con disprezzo.

“A otto anni ero vecchio per diventare cavaliere. Quando a undici avevo iniziato a padroneggiare il settimo senso iniziarono a considerarmi un bambino prodigio.”

Osservava di tanto in tanto il suo interlocutore e lo ringraziava per il suo silenzio.

“Non era facile instaurare un rapporto con me. Tanto che si stancarono presto di provare. Del resto, anche se undicenne, padroneggiavo il settimo senso, non ero più un bambino. I guerrieri adulti trovano in sé la forza di andare avanti.”

Se non fosse stato per il ritmo regolare del respiro dell’altro, sarebbe stato quasi sicuro di parlare alle pareti.

“Presto me ne feci una ragione.”

Si sentì invischiato in quei pensieri dolorosi ed aspettò che trascorressero di pari passo con i giorni della sua memoria. Presto, in tutto quel buio rivide un flebile spiraglio di luce.

“La vita proseguiva per tutti e anche i cavalieri di Lady Isabel. Cristal, in particolare, si stabilì ad Asgard. Sposò Flare e prese la carica di reggente di Asgard. Ebbe una figlia, Seleina. La incontrai la prima volta che era alta un braccio ed una spanna.”

Mu, all’improvviso, era diventato più attivo. Avrebbe voluto chiedere tante cose ma sperava che parte dei suoi interrogativi stavano per essere sciolti.

Sapeva che c’era un rapporto particolare tra quei due, di cui tanti aspetti non gli tornavano.

“Apparentemente Seleina non ha neanche un cosmo. In realtà, invece, possiede facoltà particolari.”

All’improvviso, Mu non riuscì più a trattenere la voce. Era preoccupato e nel suo invito a spiegarsi tradiva tutta l’ansia che provava. Forse fu quello a far scattare qualcosa in Kiki che, d’un tratto, si alzò, come scottato. Non pareva avere più voglia di continuare. Il silenzio composto, tra loro, sembrò un lontano ricordo.

Mu lo tratteneva per il braccio e lo fissava con un’espressione grave.

“Per gli dei, raccontami quello che ti ha fatto.”

Kiki serrava la mascella.

“Mi ha aiutato. Se non fosse stato per lei, probabilmente sarei impazzito o qualcosa di peggio.”

Suo fratello ancora non lo lasciava. Temeva che, se l’avesse fatto, l’avrebbe perso per sempre. Conscio che la situazione stava prendendo una piega imprevedibile, provò ad avere fiducia nel loro legame e svelare i suoi sospetti.

“La tua amica potrebbe averti plagiato.”

Fu una reazione a catena. Kiki si liberò con uno strattone e interpose una distanza di qualche decina di centimetri da loro. Lo spazio che c’era però tra i loro cuori diventò apparentemente incolmabile.

“La mia amica, che per me è divenuta una sorella, le radici che avevo perso, mi dava la forza per restare in un covo di ipocriti che paravano il sedere a divinità in cui non credo più!”

Lasciò la stanza sbattendo la porta, preda di un malumore che a fatica riconobbe come proprio. Voleva bene alla sua sorellina adottiva e non accettava insinuazioni di sorta su di lei, da nessuno, neppure da parte di Mu.


 


 

Mu era rimasto letteralmente di sasso. Aveva abbassato le spalle, afflitto. Il comportamento che aveva avuto Kiki, le blasfemie che aveva pronunciato, se udite da qualcuno malevolo avrebbero addirittura potuto valergli qualche punizione in un ambiente marziale come il loro. Athena stessa gli aveva riferito che vacillava nelle sue convinzioni e per questo gli aveva spesso concesso di lasciare il Santuario, dal momento che non si era in situazione di emergenza. La dea sperava che, in quel modo, riuscisse a placare i fantasmi che si portava appresso. Purtroppo non era mai accaduto completamente. Era vero, c’erano dei periodi in cui Kiki era più sereno, riappacificato, ma era una calma apparente. Il trauma che aveva subito da bambino l’aveva ferito in profondità. La piaga non si era mai rimarginata completamente. Mu doveva venire a capo di quella situazione.

Aveva provato ad indagare sulle facoltà di quella fantomatica ragazzina ma era come sbattere addosso ad un muro. Girando per Rodorio, casualmente, aveva saputo che Seleina era solita aiutare altre persone. L’avevano definita una sorta di angelo sceso dal cielo, che riusciva a togliere del tutto il dolore nelle anime delle persone. Evidentemente, con suo fratello non ne era stata capace. Aveva però delle informazioni. Contro la sua indole, aveva sfruttato i suoi poteri di cavaliere d’oro. Aveva seguito e spiato nelle menti altrui per conoscere e venire a capo.

Ciò che aveva visto era confuso. Quella giovinetta era davvero una figura positiva che faceva del bene. Però, si chiedeva, perché tanto mistero? Seleina, infatti, non chiedeva alcun compenso per il proprio operato ma imponeva silenzio categorico sulle sue facoltà. Aiutava solo persone senza cosmo. Kiki sembrava essere stata l’unica eccezione. A quanto aveva scoperto, aveva circa cinque anni quando conobbe Kiki. Al momento, avrebbe dovuto avere circa quattrordici anni.

Crescendo, dunque, si era tenuta lontana da persone dotate di cosmo. Perchè? Le temeva forse? Eppure proprio loro avrebbero potuto beneficiare maggiormente dell’effetto benefico sulle loro anime tormentate da tante missioni oscure e da tanto sangue sulle mani. Di cosa aveva paura? Di essere scoperta? Non avrebbe avuto maggior beneficio ad allenarsi come sacerdotessa? Kiki diceva che non era dotata di cosmo. Allora qual era la natura del suo potere?


 

Kiki era letteralemente scappato via, sdegnato. In quale esatto momento della sua vita l’affetto incondizionato che nutriva per Mu era venuto meno? Quando il cambiamento era diventato così devastante? Arrabbiato con se stesso e preoccupato, uscì dal Santuario e raggiunse Rodorio, diretto alla locanda. Un altro bicchiere, forse, gli avrebbe schiarito i pensieri.

Mentre attraversava però la piazza del mercato, incurante del vociare delle persone, si sentì osservato. Si voltò di scatto e notò il paio di occhi azzurri che gli avevano trafitto la schiena. Spuntavano solo quelli dal cappuccio grigio e logoro. Battè le palpebre un paio di volte. Possibile nessuno si accorgesse di quel tizio? Inquieto, si incamminò lentamente verso la persona ammantata in quegli stracci. Dalla lunga manica emerse un bastone nodoso. Quella persona vi si appoggiò e fece leva sul legno, che tremò appena nel sostenere il suo peso. Si portò all’impiedi. Era un uomo alto e magrissimo. Sembrava così vecchio che le sue rughe dovevano aver visto passare gli anni come le stagioni sul viso degli uomini. Puntava lo sguardo grave sul giovane Aries. Aveva capelli lunghi, chiarissimi.

Kiki era come ipnotizzato. Uno dietro l’altro, i suoi passi erano calamitati da quella persona senza tempo. Mur, che lo aveva incrociato per caso, si accorse troppo tardi del braccio teso di quell’essere che lo ammaliava e stendeva la mano guantata in un’armatura bianca. Lanciare la Starlight Extinction in quel frangente significava mettere a repentaglio la vita di troppi innocenti. Tentò di teletrasportarsi alle spalle di Kiki per trascinarlo via ma con orrore realizzò di non essere padrone dei propri pensieri. Provò a gridare ma dalla sua bocca non emerse alcun suono. Aveva i piedi immobilizzati a terra, nel ghiaccio. Riuscì a sfiorare i pantaloni di Kiki, inutilmente. Vide le dita artigliate di quel cavaliere ghermire la spalla di suo fratello. Tra le dita provava ancora la sensazione di stringere la casacca dell’altro, quando questi sparì dalla sua vista con quell’individuo, in un vorticare di leggeri cristalli bianchi.

“Non temere. Te lo riporto presto, sano e salvo.”

Sentì bisbigliare nei recessi della sua mente da una voce di uomo, calda, baritonale e profonda.

“Chi sei?”

Urlò allora, con tutto il fiato che aveva in corpo. Parecchia gente del villaggio si bloccò a quel grido. Lui stesso non aveva mai udito così potente la propria voce. Si alzò in fretta, imbarazzato, ancora incerto se ciò che avesse vissuto fosse sogno o realtà. La mano di Aldebaran sulla spalla e la sua espressione allarmata, tuttavia, erano tremendamente reali.

“Tutto a posto, amico?”

Il cavaliere del Toro lo scrutava, preoccupato, non capendo il motivo di una reazione così strana da parte del suo compagno d’armi, solitamente così pacato.

“L’hai visto?”

Il santo del toro sembrava sorpreso.

“Chi?”

Ritentò poi, grattandosi la testa, leggendo l’amaro sconforto sul viso dell’amico.

“Cosa dovrei aver visto?”

Mu era troppo agitato.

“La persona che ha portato via Kiki, quello che era al suo fianco!”

Aldebaran strinse le labbra, sconcertato.

“Mu, Kiki si era solo.”

Il santo di Aries negò, però, con decisione.

“C’era qualcuno con lui, ti dico. Mi ha bloccato nel ghiaccio. Padroneggiava le energie fredde. Mi chiedo solo chi possa essere...”

Una voce, di nuovo, gli sussurrò nella mente il nome di Haldir. Seppe così di aver incontrato e non essere stato minimamente in graso di contrastare il domatore delle anime viventi.


 

So che questa storia a molti non piace. Me ne rendo conto dal fatto che in pochi si sono presi la briga di leggerla. Oggi provo a chiedere un grosso favore, a chi ha la pazienza di arrivare a fine capitolo: potreste darmi un parere? Ho bisogno di sapere se, davvero, val la pena di continuare con questo mio esperimento, a cui tengo tanto, ma in cui sono, ahimè, tanto arrugginita; se posso provare a correggere il tiro, limando gli errori più grossi o tutto il lavoro è senza speranza. Grazie in anticipo. A chi legge semplicemente, grazie lo stesso e buona lettura


 


 


 

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Capitolo 5
*** Il mistero che viene da Asgard ***


Scorreva la lava sotto il ghiaccio di Asgard e pareva celato lo stesso calore ancestrale nello sguardo apparentemente piatto di quel personaggio.

Kiki sentiva la sua mano sicura e salda sulla spalla. Ne aveva osservato il viso e velocemente le rughe che lo adombravano diventavano via via meno profonde, l'incarnato si ripuliva da piccole escoriazioni e macchie, fino a restituire una pelle alabastrina. All'improvviso avevano smesso di camminare e gli occhi taglienti di quello strano individuo, che lo scrutavano dall'alto del suo mezzo metro in più d'altezza, l'avevano trafitto come il filo di una spada.

Haldir non proferiva parola ma, senza ombra di dubbio, gli stava leggendo dentro. Il leggero vorticare che li aveva avvolti fino a quel momento si era placato e, senza che il lemuriano se ne accorgesse, erano tornati in un posto familiare, dove il bianco del ghiaccio ed il grigio del cielo si confondevano a perdita d'occhio.

Confuso, Kiki si era ritrovato in Asgard, in quel posto isolato dove il vento ululava forte e lui resisteva sempre poco. Doveva aver piegato una qualche reazione strana perchè, senza chiedere nulla, Haldir gli aveva posato un consistente manto di pelliccia sulle spalle, sicuramente una protezione dal freddo. Poi, il cavaliere in armatura bianca aveva si era liberato dei suoi stracci, rivelando un'armatura di un metallo a lui sconosciuto, che non lo copriva però interamente come i guerrieri degli ordini superiori del grande tempio. Era semplice e lineare. L'unica cosa che colpiva di quella corazza erano le numerose scritte che la percorrevano in più punti, salendo dal braccio fino agli spallacci, poi più in la, sulla schiena. Haldir restava silenzioso, come se, pur senza guardarlo, percepisse distintamente il percorso che il suo sguardo attento stava effettuando sulla sua figura.

Al fianco recava non una ma due spade. Parevano affilate, pesanti, potenti. A differenza del metallo della corazza, queste avevano lame di un grigio scuro, a tratti quasi nero, come pietra lavica.

Kiki doveva essere palesemente curioso. Haldir si era seduto a gambe incrociate nella neve. Aveva alzato per un istante lo sguardo al cielo e, come se gli elementi avessero risposto solerti al suo comando, il vento si era placato all'improvviso.

 

"Tu non conosci armi come le mie."

 

Una constatazione secca e sicura. Haldir sapeva quel che diceva e ora che aveva puntato davvero lo sguardo in quello di Kiki, il giovane Aries non ebbe dubbi che aveva le iridi dello stesso identico colore di quelle di Seleina ed una strana sensazione di déjà-vu si impadronì di lui.

 

"Immagini perchè ti ho portato qui?"

 

Kiki esitò un attimo prima di sedersi a sua volta. Quel singolare individuo doveva avergli prestato un proprio indumento, perchè gli arrivava sotto le ginocchia e ci cascava letteralmente dentro. Piegò il qualche modo la pelle ed incrociò le gambe. Stranamente, non sentiva la morsa del gelo pungergli le membra.

 

"Non ho la più pallida idea di ciò che tu voglia."

 

Haldir pareva non muoversi affatto o farlo troppo lentamente. Altre volte si girava con uno scatto improvviso, rendendo quasi insondabile, per certi versi, il comprendere della propria indole.

 

Era come se la sua stessa mole gli fosse di impiccio, quasi non fosse abituato a quelle sembianze, a quella forma.

 

"Eppure non sei così stupido. Forse rammollito per essere un guerriero, ma non certo stupido"

 

Kiki aveva aperto la bocca per controbattere ma non aveva percepito scherno in quelle affermazioni.

 

"Ho bisogno che parli chiaramente con me. Non ti comprendo."

 

Haldir lo guardò di nuovo. Aveva chiuso gli occhi in un accenno di disappunto quasi impercettibile.

 

"Voi umani avete sempre bisogno di tante parole e spesso neppure le ascoltate. Immaginavo che almeno con chi legge la mente fosse diverso."

 

Presto tornò a puntare lo sguardo all'orizzonte. Tuttavia non tacque.

 

"Sbagliavo."

 

Kiki percepì nuovamente la sua mano sulla spalla ed il potere di quella creatura liberarsi. A differenza di prima però non voleva confonderlo. Sembrava invece voler comunicare.

Kiki chiuse gli occhi per concentrarsi meglio e lasciarlo fare. All'inizio fu pervaso da una sensazione di sgomento, paura, confusione, dolore. Sentì lo stomaco torcersi e la mano di Haldir farsi più salda. Aprì gli occhi e notò che l'altro serrava le palpebre ed una goccia di sudore gli colava per la tempia. Impiegò qualche secondo per comprendere che Haldir stava cercando di moderare il proprio potere per comunicargli qualcosa. Forse davvero gli umani avevano bisogno di troppe parole. Forse quelli come Haldir non le sapevano proprio usare.

 

"Non sei rammollito. Hai dentro la potenza delle galassie. E' solo che non vuoi. "

 

Il giovane Aries lo intuì in quel momento: quell'essere stava cercando di diminuire il proprio potere per potersi abbassare al suo. Così cercò di bruciare il cosmo, per venirgli incontro ed aumentare il proprio. Haldir si rilassò all'istante e fu in grado di mostrargli quanto voleva.

 

 

 

Negli appartamenti privati della prima casa, in compagnia di Aldebaran, Mu si ostinava a cercare di capire come solo lui sembrava aver notato quell'intruso quando lo stesso Aldebaran lo aveva avuto sotto il naso. O lui stava diventando pazzo o Aldebaran lo stava diventando Aldebaran. Oppure quell'individuo davvero non era riuscito a sottrarsi solo al suo sguardo o solo dal suo aveva voluto rendersi riconoscibile. E perchè mai lo avrebbe fatto?

 

Aldebaran rimaneva con lui, preoccupato.

 

"Magari potresti chiedere un parere al maestro Sion, prima di saltare a chissà quale conclusione."

 

Provò a tranquillizzarlo scettico, però, per primo.

 

"Dopo tutto, quella persona ha detto che ti avrebbe riportato Kiki presto, sano e salvo."

 

Si rese conto presto di non credere minimante al senso delle proprie parole. Mu, nel frattempo, sembrava aver recuperato lucidità. Dopotutto, era ghiaccio quello che l'aveva bloccato e l'amica di Kiki era asgardiana.

 

"Cristal è più tornato al santuario?"

 

Chiese con una certa apprensione. Nella sua testa iniziava a delinearsi quale fosse una delle prime cose da fare. Doveva raggiungere il palazzo reale di Asgard.

 

Kiki si reggeva la testa dolorante. L'aver visto cosa stava accadendo ad Asgard gli aveva fatto salire la bile allo stomaco. Le sensazioni di tanti innocenti massacrati per il semplice gusto di farlo, il loro terrore, il loro dolore, gli era penetrato attraverso insieme al colore del loro sangue. Lo vedeva denso, salmastro, scuro, mentre imbrattava ogni cosa e finalmente gli fu chiara l'angoscia che invadeva la sua amica da almeno un paio d'anni.

 

Si morse le labbra. D'improvviso non riuscì più a trattenere la rabbia.

 

"Ma dove sono i God Saints di Asgard? Perchè non fermano tutto questo?"

 

Haldir lo squadrò come se avesse detto un'assurdità e non gli fu certo difficile quella volta.

 

"Sono morti e anche se riportati in vita non sarebbero stati abbastanza forti."

 

In quel momento Kiki aveva iniziato a fare due più due.

 

"Dunque è per questo che avete riportato in vita mio fratello ed i suoi compagni?"

 

Haldir annuì.

 

"Noi stiamo facendo tutto il possibile per arginare il male che hai visto. Resta comunque il grave rischio che presto esso valichi i confini di Asgard. A quel punto, ci vorrà poco perchè faccia scempio di tutta la terra. Voi dovete fare tutto il possibile per impedirlo. E' per questo che vi abbiamo riportato alla vita. Della terra fuori dal ghiaccio dovrete occuparvi voi, perchè noi non lo faremo."

 

Kiki spalancò gli occhi. Un sospetto feroce gli attraversò la mente.

 

"Spiegami solo una cosa: non potete o non volete occuparvi di quel male fuori di Asgard?"

 

Haldir lo fronteggiò sicuro. Non ebbe esitazioni nel rispondere.

 

"Non vogliamo. E' già troppo ciò che vi è stato offerto. E' a prezzo di sangue innocente che il tuo adorato fratello e i suoi pari sono tornati alla vita. Quanti sacrifici voi uomini dovete ancora chiedere alla mia razza?"

 

Kiki strinse i pugni.

 

"A prezzo del sangue di chi?"

 

Haldir, repentino, mutò completamente atteggiamento. Lo afferrò per la sciarpa e lo sollevò alla propria altezza.

 

"Hai intuito benissimo di chi! E sappi che avrei preferito mille volte servirmi del sangue della tua cara Athena o di uno dei suoi deplorevoli fratelli, per non parlare di quel vecchio satiro di suo padre, piuttosto che di quello di una mia devota figlia!"

 

Lo lasciò cadere all'improvviso ed il giovane Ariete, benchè certo che non ce l'avesse davvero con lui, ma che piuttosto volesse spaventarlo, sudò parecchio freddo.

Il vento si rialzò all'improvviso in quel posto. Non aveva mai preso ad ululare così forte. Kiki quasi non riusciva a tenere gli occhi aperti. Si teletrasportò lontano, davvero preoccupato. Per prima cosa, voleva accertarsi delle condizioni di Seleina. Doveva raggiungere il palazzo reale di Asgard.

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Capitolo 6
*** In viaggio verso nord ***


Guardie con le armature in parte coperte di pelli e gli elmi ornati da corna appuntite gli bloccarono il passo all'ingresso del palazzo reale. Kiki non era nuovo visitare quel luogo e ormai non gli restituivano più gli sguardi diffidenti che riservavano agli stranieri.

Certo non lo salutavano chiamandolo per nome ma gli Asgardiani non erano noti per essere gente affabile con chi proveniva da fuori. Per cui non si scompose più di tanto quando lo fecero aspettare alla porta. Era la prassi per poter essere annunciati al re e alla principessa.

Solo non si spiegava gli sguardi incuriositi ed il confabulare dei due soldati di guardia e di quelli che passavano a pattugliare un po' tutta la cinta muraria che abbracciava il castello.

Avvertiva inquietudine nelle persone e non se ne spiegava chiaramente il motivo.

Se alla principessa fosse successo qualcosa di brutto, come temeva, tutti sarebbero stati in fermento.

Invece, vi era una strana energia sotterranea che passava attraverso tutte le persone e si fermava per pochi attimi nei cenni di intesa dei servi, nel capo che si abbassava stanco di qualche anziano servitore, nei sospiri infastiditi delle donne. Era come avere sempre puntato addosso lo sguardo furtivo di qualche sinistra preda o di un oscuro predatore.

Negli anni Kiki aveva imparato a distinguere abbastanza bene il dialetto locale e non appena si sentì definire "il secondo in quella giornata" e la sua "somiglianza col primo" la curiosità ebbe il sopravvento.

Si rivolse al soldato che gli stava più vicino e chiese spiegazioni.

Quello lo ricambiò sorpreso. Non era un mistero che lui provenisse dal Santuario di Atene.

 

"E' già venuto stamattina un altro ambasciatore dal grande tempio!"

 

Kiki si grattò la testa. Non percepiva presenze familiari e, davvero, non aveva idea di chi si potesse trattare.

 

"Io non sono qui in veste ufficiale da ambasciatore."

 

Specificò ridendo, indicando i propri semplici abiti da viaggio.

 

"Vorrei solo fare quattro chiacchiere con dei buoni amici."

 

I soldati si guardarono tra loro stralunati, come se non sapessero bene che senso poter dare a quella situazione. Alla fine preferirono tacere e mandarono a chiamare un paggio, perchè annunciasse il nuovo venuto al re.

Mentre aspettava, Kiki percepiva chiaramente di essere oggetto dell'attenzione di due ragazze che passavano li vicino e le riconobbe come dame di compagnia di Seleina. Non ci pensò due volte ad andare nella loro direzione con la scusa di salutarle. Probabilmente il suo aspetto affascinante, per cui qualche volta Seleina lo prendeva in giro che presto avrebbe avuto più ammiratrici ad Asgard che ad Atene, avrebbe potuto tornargli utile.

Anche a loro chiese se ci fossero novità e queste non ebbero remore a raccontargli chi stato il visitatore della mattina. Il giovane Aries non seppe se essere contento o ansioso di quella scoperta: era suo fratello ad averlo preceduto.

 

Quando Mu, di mattina, si era teletrasportato un po' più all'esterno di quello che sapeva essere il centro abitato di Asgard, non si aspettava di trovare quell'atmosfera surreale. Ricordava vagamente che ci fossero fattorie ed un borgo di periferia. Lo scempio palpabile. Le porte delle abitazioni erano praticamente divelte e passando davanti alle case si vedeva chiaramente la furia di chi aveva violato l'intimità delle dimore, distrutto mobili e suppellettili. Le macchie di sangue che c'erano in parecchi punti, le armi spezzate, i diversi fuochi accesi in più punti del paese... Mur non aveva bisogno di chiudere gli occhi per immaginare le persone correre via e chiamare aiuto. Alcune delle abitazioni devastate sembravano invece essere state abbandonate da tempo, a giudicare dalla vegetazione che in parte ricopriva il legno scrostato delle pareti e dallo strato spesso di polvere degli ambienti interni. Chi la abitava sapeva che il nemico stava per arrivare ed aveva preferito, a scopo preventivo, abbandonare quei luoghi?

Presto, si avvide della presenza di qualcuno. Si avvicinò cautamente a due persone. Parevano un uomo all'incirca della sua età ed una ragazza. Lui era in piedi, col viso rivolto ad un punto del terreno. Lei, invece, poggiava proprio la mano sulla neve calpestata che sembrava attirare l'attenzione del primo. Non appena Mur si apprestò nella loro direzione, alzarono all'improvviso lo sguardo verso di lui, muovendosi con una sincronia perfetta che al lemuriano parve quasi innaturale.

Lo scrutavano attenti e le loro iridi, di un azzurro tanto profondo e magnetico quanto improponibile, parevano accomunarli subito ad un legame di sangue stretto, quasi fossero fratelli. Mur sorrise loro, con la chiara intenzione di presentarsi per capire cosa stesse succedendo.

L'uomo non sembrava contento e aveva assunto un'espressione di confusa attesa. La più giovane, benchè sorpresa anche lei, pareva invece più amichevole e ricambiò il sorriso. Si alzò e l'estrema leggiadria di ogni suo movimento faceva già intuire che non erano semplici esseri umani. Solo quando furono distanti meno di un metro, Mur si rese conto che avevano unghie affilate e lunghe che, senza dubbio, potevano essere paragonate a veri e propri artigli. In quel momento realizzò l'estrema somiglianza con Haldir ed iniziò a stare davvero all'erta.

 

"Qual è il vostro nome, cavaliere d'oro del grande tempio di Atene?"

 

Al sentire quella domanda, sia Mur sia l'altro uomo tradirono un moto di sorpresa. La ragazza che l'aveva posta aveva portato le dita a stringere il polso del giovane che la accompagnava, come a volerlo calmare. Per fortuna vi riuscì prontamente.

Il lemuriano, invece, si sentì come messo a nudo. Per un attimo gli sembrò di essere lui quello stretto al polso e di essere calmato in quella singolare maniera. Non gli era sfuggita, infatti, la spada che l'asgardiano teneva al fianco e, se fosse stato solo, avrebbe sicuramente già sguainato.

 

"Sono Mur dell'Ariete, custode della Prima casa."

 

La ragazza annuì, dolce, con un'espressione che sembrava troppo umana su quel viso da creatura che del tutto umana non era.

 

"La Grecia è molto lontana. Non è bene che la Prima Casa resti sguarnita. Perchè siete giunto fino a qui?"

 

Mur si abbassò nella neve, ad osservare quell'orma che aveva attirato prima l'interesse degli altri due. Sembrava l'impronta di un animale, probabilmente un canide .di grossa taglia

 

"La Prima casa non è davvero incustodita e voi qui sembrate aver bisogno di aiuto."

 

Si era rialzato, ben attento a non perdere di vista per un solo istante quei due individui, di cui non si fidava assolutamente.

 

"Cosa è successo alla gente di questo posto?"

 

La ragazza aveva chinato il capo. Pareve affranta e non aver cuore di rispondere. L'uomo, dall'espressione grave, non ebbe problemi a farsi avanti.

 

"Dove passano i perduti non resta nulla, tantomeno miseri umani."

 

Anzi, sguainò la spada ed avanzò minaccioso verso di lui.

 

Gli puntò la lama alla gola.

 

"Se non ti sbrighi ad andartene, sarà la stessa fine che farai tu."

 

A quel punto, la ragazza protestò in una lingua che Mur non comprendeva. Il cavaliere capì che era stato grazie al suo intervento che non erano venuti alle mani. L'uomo era arrabbiato. Aveva alzato la voce quasi ululando . Chiaramente non poteva opporsi per motivi che non gli andavano giù. Aveva pestato forte il piede nella neve, per poi andarsene via borbottando, con l'arma ancora in mano.

 

Mur, per non svelare subito l'esatta entità dei propri poteri ad esseri di cui non sapeva se agissero per il bene o il male, ringraziò semplicemente della cortesia di essere stato protetto.

La ragazza, allora, rise per qualche secondo.

 

"Io volevo proteggere lui da voi..."

 

Disse, accennando la direzione in cui era sparito il suo simile.

 

"...perchè, ammettiamolo, non avrebbe avuto speranza alcuna contro uno psicocineta del vostro calibro."

 

 

Mur si trovava in difficoltà. Non capiva bene quale piega avrebbero potuto prendere gli eventi e preferì prendersi qualche attimo per pensare. Voleva vedere quale sarebbe stato l'evolvere di quel singolare incontro. Quando la ragazza lo salutò con un inchino per poi andarsene, la implorò però di aspettare.

 

"Tu ed il tuo... compagno di viaggio..."

 

Iniziò, sollevato del fatto di essere riuscito a trattenerla.

 

"Siete forse legati a quello che si fa chiamare il Domatore delle anime viventi?"

 

Lei ascoltava con pazienza. Non aveva problemi a rispondere, almeno in apparenza.

 

"Ogni Dunedain è legato al suo signore. Per questo ci facciamo chiamare "figli di Haldir", anche se la parentela è vecchissima, di molte generazioni."

 

Mentre parlava aveva iniziato ad incamminarsi verso il centro abitato e si voltava verso Mur, perchè la seguisse e non sbagliasse il tragitto.

 

"Somigli moltissimo al tuo compagno di viaggio."

 

Lei sembrò ridere di gusto.

 

"Gli dei mi scampino dal diventare tanto irascibile! O in battaglia sarò perduta."

 

Nonostante si trovasse alla presenza di una probabile nemica, Mur non sentiva ostilità provenire da lei. Si trovò anzi costretto ad ammettere con se stesso di essere a proprio agio con quella persona che gli indicava chiaramente il sentiero da seguire per non perdersi ed arricchiva il loro breve tragitto con aneddoti e curiosità tipici di quei luoghi. Di certo lui non si trovava li per turismo ma non gli dava fastidio camminare con calma ed ascoltare. Era come se lo liberasse dal peso di chiedere. Dopo massimo mezz'ora, la ragazza si arrestò, indicando la punta di qualche comignolo che spuntava dal bianco piatto della neve.

 

"Se proseguite tenendo come punto di riferimento il campanile, arriverete in pochi minuti. Chiunque in città saprà indicarvi la strada per il palazzo reale."

 

Il cavaliere la ringraziò e le chiese perchè non lo accompagnasse anche in città.

 

"Si vede bene che conoscete e amate questo posto. Perchè non venite con me?"

 

Il viso della ragazza si adombrò di tristezza. Lei negò senza appello.

 

"Proprio perchè amo Asgard e la sua gente, con queste sembianze, non posso entrare."

 

L'Ariete avrebbe voluto aggiungere altro per convincerla. Potè solo chiederle il nome, per ringraziarla della sua gentilezza.

 

"Io sono Seleina, cavaliere."

 

Mur rimase senza parole e qualcosa, in lui, si spezzò a quella rivelazione. Ebbe la consapevolezza di aver sbagliato ma non capiva il motivo di ciò che l'istinto gli suggeriva a gran voce. Ripensò alla lite che aveva avuto con Kiki e a quanto suo fratello si fosse arrabbiato per le insinuazioni che aveva rivolto verso quella ragazza. Prima che andasse via la afferrò il polso e si rese conto allora delle fasce che sembravano dover medicare delle ferite. Se ne accorse dalle macchie rosse sulla stoffa, senza dubbio sangue rappreso.

 

"Cosa vi è successo in realtà?"

 

La principessa, poichè ormai non c'erano dubbi che si trattava di lei, cercò il giusto modo di esprimersi.

 

"Non mi è accaduto nulla che io non abbia voluto con tutta me stessa cavaliere. Per me, e soprattutto per questa terra e per questa gente che amo di un sentimento che è vivo in ogni parte del mio corpo e della mia anima."

 

Mentre parlava c'era una luce intensa e vivida nel suo sguardo, un sentimento che traspariva dal trasporto della sua espressione e dei suoi gesti.

 

"Ogni decisione porta però con se delle conseguenze e ciò che ho fatto, per gli uomini, non è esente da colpa. C'è una condanna ora sul mio capo e questo non deve ricadere sulla mia famiglia, in nessun caso ed in nessun modo."

 

Aveva liberato il polso dalla stretta gentile ma salda del cavaliere e aveva iniziato a manifestare una singolare energia che sembrava far danzare neve e vento attorno a lei. Conosceva il modo di ragionare dei cavalieri di Athena e intuiva che Mur avrebbe voluto ben precisi chiarimenti, presentati soprattutto davanti alla dea.

 

"Non posso accompagnarvi da mio padre, men che meno conferire con la vostra dea, in questo momento."

 

L'espressione condiscendente di Mur era mutata, sostituita da una più cortese ma decisa.

 

"Percepisco benissimo che non vi fidate di me, cavaliere."

 

Affermò sicura, scrutando nell'anima della persona che aveva vicino come Haldir le aveva insegnato a fare.

 

Mur riconobbe subito il lieve torpore che preannunciava il manifestarsi di quel potere. Haldir l'aveva colto di sorpresa ma quella fanciulla non ci sarebbe riuscita. Richiamò la propria armatura e la sensazione familiare del metallo dorato che fasciava il proprio corpo gli conferì sicurezza.

 

La ragazza di fronte a lui non aveva battuto ciglio mentre il bagliore dell'oro inondava di luce il bianco sporco che li circondava ed aveva innalzato un vento prodigioso, lo stesso di cui Kiki non riusciva mai ad aver ragione. Non voleva fargli del male ma il mantello bianco che ornava l'armatura del cavaliere fu presto ridotto a brandelli da quei cristalli che vorticavano come miriadi di minuscole lame.

Quando iniziò a sentire graffiata addirittura la pelle del viso, l'Ariete si decise ad innalzare il Cristal Wall. Attraverso la superfice trasparente creata dal proprio cosmo distinse chiaramente i grossi lupi dal manto chiaro che circondarono presto la sua avversaria. Ebbe un moto di disgusto quando si rese conto che gli occhi di quegli animali erano identici a quelli della principessa. Le gridò di fermarsi. Invece rimase fermo lui, protetto e bloccato dalla sua stessa barriera, mentre la giovane fuggiva via, scortata da quelle singolari guardie del corpo. Solo quando il vento smise di ululare potè correre nella direzione in cui erano scappati. Si concentrò ma senza ombra di dubbio era rimasto solo. Dispiaciuto per l'esito degli eventi, l'occhio gli cadde sulle orme lasciate dai fuggitivi. Si inginocchiò a terra e toccò le orme con le mani, che la vista lo stava tradendo di certo. Senza dubbio, oltre alle improne della principessa non c'erano segni di tracce di animali, ma dei piedi di uomini più grandi di diversi centimetri dei suoi.


Come sempre, pareri, critiche, commenti sono ben accetti :)

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Capitolo 7
*** Equilibri ***


Per Cristal tornare in Grecia, quella volta, ebbe un sapore nuovo. Gli sembrava diverso il calore del sole, più accogliente l'atmosfera che respirava in quel luogo. Il suo cuore era in subbuglio per lo svolgersi celere degli eventi ma il ritrovare i suoi commilitoni gli conferiva una sicurezza che non provava più da tempo. Stava ritrovando la consapevolezza di non essere più solo a reggere le sorti di un pericolo che minacciava la terra. Era di nuovo sostenuto non solo dalla dea, anche dai suoi compagni.

L'essere divenuto un uomo maturo in un paese diverso non era stato certo un problema per un guerriero suo pari. Tuttavia l'appellativo che gli avevano riconosciuto, di re straniero, testimoniava sia il rispetto per un alleato potente, nato fuori dal ghiaccio di Asgard, sia la non appartenenza a quel legame esclusivo che i fedeli di Odino riservavano sempre, e solamente, a chi era nativo dei loro territori. Nonostante fosse devastato per aver perso sua figlia, Cristal il Cigno, quel giorno, si sentì nuovamente in patria.

Quando furono all'entrata del primo tempio, chiese quale dei due cavalieri d'ariete dovesse concedere il permesso di attraversare la casa e Kiki si girò verso di lui, serio.

"Al solo che porta l'armatura, a quello vero."

Strinse i denti il reggente del nord e capì che molti nodi stavano venendo al pettine: l'appartenenza esclusiva di Kiki ad Athena non era affatto salda. Anzi, il chiarimento che avrebbero avuto di li a poco, alla presenza della dea, correva il rischio di essere decisivo.

Fece cenno a Mu di precederli e l'Ariete li lasciò fare, certo che Cristal lo avrebbe informato in seuguito.

"Avverto gli altri cavalieri d'oro di non farvi perdere tempo in convenevoli."

Prima di lasciarli, rassicurò però l'amico.

"Diremo solo ciò di cui siamo certi. Informazioni non necessarie saranno rimandate ad un secondo momento."

Cristal sospirò, cogliendo l'accenno alla questione di sua figlia e al fatto che Mur, almeno per i primi tempi, avrebbe taciuto.

Non appena furono soli, deciso, arpionò invece Kiki per la spalla.

"Si può sapere che intenzioni hai, ragazzo?"

Il più giovane sembrò cadere dalle nuvole.

"Riguardo a cosa?"

Cristal osservò che non ci fossero occhi o orecchi indiscreti. Sicuro di essere soli, sui gradini tra la prima e la seconda casa, trascinò Kiki per un braccio fino ad un punto riparato all'ombra del fianco dei gradini.

"E' tempo che tu seppellisca una volta per tutte i tuoi fantasmi, ragazzo. Mu è di nuovo in vita e tu non hai più alcun motivo di struggerti."

Duro e diretto, come si confà a un suo pari, Cristal affrontò il più giovane, pronto soprattutto a una sua aspra reazione. Quando si toccava quel tasto, Kiki si chiudeva a riccio ed evitava accurametamente di rispondere. Ora però era solo tempo di crescere e prendere una posizione

Il più giovane boccheggiò. Era la prima volta che non scappava via o rispondeva in malo modo.

"Tu non sai niente di me."

Aveva risposto lentamente, irremovibile.

"Tutto il grande tempio sa che non sei saldo nelle tue convinzioni e non puoi più permettertelo. Probabilmente sta per essere indetto un sunagein. Cosa risponderai, stavolta, alle domande dei tuoi pari e della tua dea?"

Kiki chiuse gli occhi. Una goccia di sudore colò dalla tempia. Cristal aveva perso da tempo il tocco gentile di Mu, nei suoi confronti.

"Non mi curo delle chiacchiere della gente del grande tempio."

Cristal stava iniziando ad alterarsi e non avrebbe mollato l'osso.

"Non stiamo parlando degli abitanti di Rodorio. Cosa risponderai ai cavalieri tuoi pari, ai difensori dorati...? A tuo fratello e alla tua dea?"

Un sorriso amaro tagliò il viso dell'ariete ed un sospetto lacerante lo dilaniò dentro.

"Se mi accusi di aver spinto Seleina a sacrificarsi a causa della mia debolezza...Se credi che lei abbia offerto il suo sangue per riportare alla vita mio fratello e tutti gli altri, fallo apertamente."

Lacrime salate scorrevano dalle sue ciglia e non si curò di nasconderle. Sapeva di essere nel torto.

"Accusami di averla portata a suicidarsi per lenire il mio tormento, perchè sono un moccioso che non ha mai accettato la morte giusta di suo fratello. Accusami di aver spinto a morire una sorella viva per fratello morto."

Erano lacrime trasparenti sulle sue gote ma di sangue nella sua anima e Cristal restò senza fiato. La colpa di cui si credeva reo quel ragazzo era ben maggiore di quella che il re gli stava prospettando. Gli pose repentino le mani sulle spalle e lo scosse. Non era affatto quello il suo intento. Non voleva che si accusasse di nulla ma che tornasse l'astro splendente che era sempre stato.

Non si era mai intromesso nel legame tra lui e Seleina. Sapeva che si volevano bene e si aiutavano, nella loro singolare maniera.

"Non sentirti assolutamente responsabile per le decisioni di Seleina. Se qualcuno lo è, sono io solamente e quelle... creature che me l'hanno portata via."

Espresse con disprezzo, pensando ad Haldir e a se stesso.

"Seleina non è morta. Ha semplicemente scelto un'altra strada, lontano da noi. Io voglio solo che tu riprenda la tua."

Kiki spalancò gli occhi a quella rivelazione.

"Come sai che è viva? Come puoi esserne certo? Se lo è, perchè non torna?"

Cristal negò.

"Fidati di me se ti dico che è viva. Per ora non può tornare. Forse lo farà in futuro o forse mai. Ha scelto liberamente. Fidati di me. Te lo dico io, che sono suo padre."

Lo scosse di nuovo. Poche volte aveva avuto uno sguardo così profondo.

"Haldir mi ha già preso una figlia. Voglio solo che tu sia forte e non ti faccia portare via dalle sue menzogne. Resta con noi ragazzo, qui con noi al grande tempio, al fianco di Atena. Dove sono le tue radici. Dove c'è tuo fratello."

Lo lasciò andare, perchè anche lui aveva il cuore a pezzi e c'erano ancora tanti gradini da salire e nuove sfide da affrontare.

"Reclama una corazza che sia tua di diritto. Le stelle sono potentissime in te. E' tempo che prendi il tuo giusto posto in questa schiera."

Si erano placati entrambi. Si erano riavvicinati ai gradini e ora sembravano solo due persone che parlavano di argomenti delicati ma non necessitavano più di nascondersi.

"Haldir mi ha detto che c'è la potenza delle galassie ma sono io che non voglio. Davvero, non so se voglio essere scelto dalle vestigia dell'ariete."

Cristal si arrestò nuovamente, lo guardò pensieroso.

"Sei davvero certo che sia questo il tuo volere?"

Kiki annuì, convinto.

"Sei dalla parte di Atena o te ne scapperai anche tu dai Dunedain?"

Controbattè allora Cristal, non ancora del tutto convinto e preoccupato. Kiki abbassò le spalle ma era sereno.

"Credo in Athena, cecamente. E non me ne andrò mai da quelle creature. Non ho idea del perchè questo Haldir abbia voluto comunicare proprio con me. Però ti giuro che non abbandonerò mai la nostra causa. Pure se per il momento l'istinto mi dice che non voglio diventare cavaliere, darei la vita per la dea."

Si era di nuovo aperto il cielo e il sole, libero dalle nubi, riscaldò a festa l'aria di Atene.

"Sarà bene. Cammina davanti a me."

Lo canzonò allora il più grande, accennando un sorriso.

"Che se rallenti di un solo passo ti prendo a calci da qui alla tredicesima."

Il vento soffiava forte per le lande ghiacciate e si portava dietro odore di morte. Quello

era il quarto villaggio che visitavano ed il copione era sempre lo stesso. Tutti venivano sistematicamente annientati e ogni cosa distrutta. Certo, ora aveva un corpo abbastanza forte da resistere alle visioni della gente ma il dover assistere impotenti a quello scempio era comunque devastante.

"Possibile che non possiamo davvero far nulla io e te?"

Il suo burbero accompagnatore non la degnò di uno sguardo. Ricambiò solo un leggero ghigno.

"Oltre farci ammazzare? Non credo possiamo fare molto..."

Avevano riunito tutti i corpi delle vittime e li avevano sistemati con la massima cura possibile. Le fu passata una pala, per iniziare a scavare le fosse. Buffo come da vivi umani e dunedain non si potessero vedere, mentre nella morte se ne stavano tutti vicini, zitti e uguali.

Seleina chinò il capo, accingendosi a quella triste impresa. Iniziò a piangere silenziosamente. Stavolta le lacrime erano solo sue, proprio il dolore che le stringeva lo stomaco. Strinse i denti per smettere di piangere e scavò più in fretta. Non avevano tempo nemmeno per una breve cerimonia funebre o un veloce rito di purificazione, perchè i perduti potevano tornare a prendere anche loro.

"Smetti pure di frignare. Ormai sono in pace e se non lo sono ci penseranno quelli di Imuen."

Avrebbe voluto obiettare che il suo compagno di viaggio aveva il cuore più duro della pietra, peggio ancora della testa, ma a che sarebbe servito controbattere? Era la realtà che l'aveva reso così e che avevano fretta era vero. Così annuì semplicemente. Terminò in fretta il lavoro e iniziò a deporre i sacchi di tela che nascondevano quei miseri resti nei posti assegnati. Presto, la neve fresca avrebbe coperto la terra smossa, cadendo lenta, soffice e bianca.

Impiegarono meno di mezz'ora a terminare l'opera. Erano sulla strada del ritorno per l'accampamento. L'avrebbero raggiunto a breve, nel loro habitat. La ragazza se ne stava muta, assorta in cupi pensieri che si stavano velocemente trasformando in propositi.

D'un tratto s'arresto, davanti alle basse mura di cinta. Il mutamento repentino della sua aura attirò il suo accompagnatore.

"Ne sei proprio sicura? Hai appena ricevuto una nuova vita. Perchè vuoi farti ammazzare?"

Seleina non era ancora in grado di innalzare barriere mentali e neppure le interessava imparare. Aveva subito le lamentele dell'altro per l'aiuto che aveva prestato al cavaliere d'oro, perchè ora era una Dunedain e doveva sottostare alle leggi del branco. Lei, però, era nata regnante e a fatica imparava l'obbedienza, prima del comando. Le avevano insegnato a mostrare sempre il proprio parere, specie se l'altro è in difetto. Ad usare la testa per seguire una regola giusta o trasgredirla, quando sbagliata. Così ringraziò il suo accompagnatore e gli sorrise, perchè quel gigante buono, a suo modo, voleva solo proteggerla.

"Questa vita non mi è mai appartenuta: la vita dei Polaris appartiene al popolo. I miei sudditi erano gli umani. I miei simili ora sono i dunedain. Non biasimarmi se voglio combattere per entrambi."

Il compagno annuì. La precedette.

"Se è così, puoi solo chiedere ad Haldir di insegnarti a combattere. Ha un debole per te, anche se non ne ho mai capito il motivo."

Lei rise di gusto. Litigavano sempre per quel motivo, perchè Arkai era invidioso della considerazione che il suo signore aveva per quella ragazzina venuta dal nulla e cresciuta nella bambagia. Perchè gli era stato ordinato di proteggerla ed assecondarla, per quanto possibile, senza mai obiettare.

Entrarono nella piccola cittadella fortificata. Loro non sentivano quasi minimamente il vento che li avvolgeva e li separava dai comuni mortali. Furono risa di cuccioli ad accoglierli ed il vociare di guerrieri. I dunedai erano diversi dagli umani ma non così tanto.

Seleina si diresse, accompagnata, alla tenda di Haldir. Arkai la bloccò poco prima che entrasse.

"Sei sicura? Guarda che non è piacevole l'addestramento!"

Si scoprì il braccio e le mostrò, per l'ennesima volta, le sue numerose cicatrici, quelle che testimoniavano il fatto che ci aveva provato, con tutto se stesso, a superare l'addestramento ma non era mai riuscito. Maneggiava giusto la spada, perchè tra i Dunedai lo facevano tutti, anche vecchi, femmine e cuccioli.

"Te l'ho mai detto che mio padre è guerriero d'alto rango della dea della guerra?"

Arkai sbuffò, contrariato.

"Ci sarai tu, non tuo padre, a farti riempire di botte!"

Seleina riflettè un attimo e pensò che, tutti quegli anni di tormenti mentali, in cui era stata costretta tra lucidità e follia, mentre la testa, le viscere e il senno venivano martoriati, non erano stati un allenamento da cavaliere, certo non erano neppure trascorsi come una passeggiata. Se lo ricordava bene, quel giorno in cui suo padre, impotente, davanti a una delle sue peggiori crisi, aveva imprecato contro Odino ed affermato che se sua figlia doveva patire quel dolore, tanto valeva allora che lo soffrisse per un'armatura. Forse ricordava male o forse no. Era tempo di scoprire se era vero.

Salutò Arkai, con la promessa che non si sarebbe fatta ammazzare, non subito, almeno.

Scostò le pelli che fungevano da entrata alla tenda ed entrò nella dimora di Haldir. Immediatamente il silenzio dell'ambiente la circondò come un abbraccio. Il signore delle anime viventi sedeva a terra, a gambe incrociate, privo dell'armatura e della parte superiore della veste, a capelli sciolti. Sapeva già cosa gli stesse per chiedere e la trafisse col suo sguardo di lama.

"Sei sicura? Qui non ci sono predestinati dalle stelle, solo persone che scelgono."

La giovane si inginocchiò e ricambiò il suo sguardo attento. Haldir le leggeva dentro con la stessa naturalezza in cui lei lo faceva nelle persone. Le piaceva quella sensazione. Entrare in contatto con Haldir era come fondersi e liquefarsi con Asgard stessa, col ghiaccio, il vento ed il fuoco che le scorrevano dentro.

"Io ho scelto."

Haldir annuì. Le ordinò di vestirsi in maniera adeguata: il giorno dopo sarebbero andati a caccia.

"La prima cosa che devi imparare è a provvedere completamente da sola al tuo nutrimento."

Rincuorata e curiosa, lo ringraziò e si apprestò ad uscire dalla tenda. Sapeva che ne avrebbe prese tante, quante il suo corpo avrebbe potuto sopportarne e anche di più. Però, avrebbe potuto fare davvero qualcosa, se fosse riuscita. Forse, presentandosi con una buona tecnica di lotta, avrebbe anche potuto riscattare la sua famiglia dall'onta che aveva causato con il suo allontanamento e che presto i Polaris non avrebbero più potuto nascondere. O morire provandoci, come aveva sempre insegnato suo padre.

 

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Capitolo 8
*** Andata e ritorno ***


Mu raggiunse il palazzo reale pochi minuti dopo essere rimasto senza la compagnia di quella singolare principessa. Era avanzato lentamente fino al portone principale. Non si stupì quando le guardie gli sbarrarono il passo chiedendo chi fosse ed il motivo della sua venuta. Chiaramente, non era nativo di quei luoghi e la diffidenza con cui avevano osservato ogni suo passo non era cambiata minimamente quando aveva detto di provenire dal Grande Tempio di Atene. Allora, l'avevano condotto semplicemente oltre il primo ingresso e fatto aspettare: un messo avrebbe comunicato il suo arrivo al reggente quanto prima.

Presto, voltandosi, Mu si avvide di un uomo che gli veniva incontro e non riconobbe subito, in quel portamento solenne, il giovane russo che padroneggiava le energie fredde. Cristal si era fatto piùsi alto. Aveva le spalle più larghe e lo sguardo fiero. In testa, sotto ai capelli lunghi e la barba che era stata fatta crescere, spuntava a mala pena un diadema intrecciato che doveva essere una corona.

Non si poteva dire che il suo fosse un regno che trasudasse opulenza. Al contrario, la familiarità con cui si rivolgeva a soldati e servitori, in un certo senso, si discostava anche dal rigido protocollo cerimoniale del santuario di Atene. A Mur, sembrò di trovarsi in una novella Sparta immersa nel ghiaccio. Tuttavia, la salda stretta di mano ed il sorriso sincero, accesero nel Saint una nuova speranza. Nonostante tutto, era insieme ad un suo pari. Solo, non riusciva a dare ancora un motivo alla stanchezza che leggeva chiaramente sul viso del re reggente.

 

Cristal ordinò a tutti i suoi servi di lasciarli soli. In uno studio che comunicava con le sue stanze private. Li, avevano accesso solo i membri della famiglia reale. Flare lo aveva accolto gentilmente e la stessa Ilda, benachè sorpresa, sembrò sollevata dal suo arrivo. Nessuno obiettò del massimo riserbo con cui sembrava voler comunicare con lui. Non appena furono soli, infatti, Cristal non gli lasciò neppure il tempo di sedersi.

 

"Per caso, mia figlia si è presentata da Kiki, alla prima casa?"

 

Parte della preoccupazione di Cristal, intuì allora Mur, doveva essere causata da sua figlia. Aries negò. Raccontò del loro curioso ritorno alla vita, dei suoi strani incontri con Haldir, della singolare guida che gli aveva indicato la strada. Per il momento, preferì tralasciare il fatto che quella ragazza si fosse presentata come Seleina. Voleva prima intuire tutti i tasselli di quel quadro. Da che si era risvegliato, la sola presenza familiare e comprensibile che aveva incotrato si era rivelato essere Cristal, con cui, tra l'altro, non aveva mai avuto un rapporto molto stretto. Inoltre, gli sembrava di buttare inutilmente sale sulle sue ferite ancora sanguinanti.

Cristal lo aveva lasciato parlare a ruota libera, attento a non perdersi un solo particolare del asuo racconto. Alla fine, aveva incrociato le mani sul tavolo e lo aveva fissato, sospirando.

 

"E' questo il problema: l'operato dei Dunedain, per gli esseri umani, difficilmente ha un senso. Sono esseri imprevedibili, che non amano intrusioni nei loro affari e di cui si e no gli Asgardiani contemplano l'esistenza. Perfino qui, nelle loro terre, molti li reputano una leggenda."

 

Si era passato una mano sulla barba ed aveva continuato.

 

"Finchè sono rimasti nell'ombra non sono mai stati un problema. Per me, invece, da quando ho messo piede in queste lande, hanno sempre rappresentato una questione spinosa."

 

Mur, che fino ad allora aveva aspettato, aveva alla fine bisogno di sapere. Gli chiese cosa c'entrasse sua figlia in tutta quella storia, cosa ne sapesse lui del misterioso legame tra Seleina e Kiki.

 

Il re si rabbuiò. Tuttavia si fece coraggio e gli confidò un episodio di parecchi anni prima.

 

Quando Seleina era piccola, era solito portarsela appresso durante i suoi allenamenti. La bambina non era dotata di cosmo ma sembrava comunque avere un interesse particolare per le tecniche di lotta. Probabilmente, non ne avrebbe mai fatta una sacerdotessa ma nulla vietata che imparasse un minimo di rudimenti e divenisse abile a difendersi. Sua figlia era uno spirito libero: le piaceva giocare nella neve, ammirare il ghiaccio. Aveva un'immaginazione fervida e spesso le sembrava di vedere fate e folletti. Sognava di perdersi in mezzo a quegli strani esseri che non esistevano e suo papà non vedeva, ma la sua mente di fanciulla si. Un pomeriggio, si era allontanata, attirata da chissà quale suono il genitore non aveva percepito, concentrato come era in una mossa più complicata. Cristal non se lo perdonò mai. Perse sua figlia per una mezz'ora. Richiamata da chissà cosa, la bambina aveva raggiunto un punto nascosto tra le rocce ed i pini. C'era una tagliola ed un grosso animale con la zampa incastrata. Era un lupo, possente, dal pelo bianco. Un animale maestoso. Giaceva a terra, seduto, intrappolato da uno scherzo crudele di qualche bracconiere. Aveva ringhiato appena a quella piccoletta dagli occhi chiari che lo fissava curiosa e senza paura. Rimase poi in silenzio quando quella, preso un ramo più grosso di lei per altezza e stazza, con una certa fatica, l'aveva infilato tra i due bracci della trappola che lo tratteneva. Immobile, quel lupo immenso aveva atteso che la bambina tentasse. Cristal era arrivato tardi: quando le fauci della tagliola avevano iniziato a cedere e le viti erano saltate. Aveva sentito chiaramente lo scatto metallico con cui la trappola cedeva. Sciocco, invece di accelerare il passo e, alla velocità possibile solo ai suoi pari, sottrarre la figlia dal pericolo di quel grosso animale, era rimasto affascinato ad assistere alla scena. La magia delle stelle, che scorreva in lui, gli suggeriva che quel lupo non avrebbe mai nuociuto alla piccola. Folle, anzi, si era portato al loro fianco, sorridente, fiero che la piccola fosse riuscita nell'impresa titanica di distruggere quello strumento di tortura, che lacerava le carni di una così fiera creatura delle foreste. Si era anche illuso che la sua Seleina avesse un cosmo. Pazzo, non aveva inteso che quella era solo una forma. Il resto, era tanta nebbia nella sua memoria. Presto, la neve aveva ripreso a scendere ed in fretta era diventato tormenta. Invece di allontanarsi, come tutte le fiere normali, il lupo era rimasto li. Cristal non riusciva a muovere un passo. Li, il cavaliere aveva iniziato ad avere paura. Sapeva che Seleina era alle sue spalle e si era messo in posizione di attacco. Una singolare forma di energia aveva avvolto le sembianze del lupo: era un cosmo e non lo era. Ai suoi occhi, l'immagine indistinta dell'animale si allungava. Le zampe divennero braccia e gambe. La schiena si ergeva, ritta e fiera. Le dita mutavano. Con sgomento, davanti a loro, si trovava un uomo che vestiva una corazza. Haldir era un uomo e non lo era. Cristal ebbe paura ma Seleina no. Passò in mezzo alle gambe di suo padre e ridendo, nella sua innocenza, indicò uno dei tanti amici fantastici che avrebbero dovuto popolare solo la sua mente e non la realtà.

"Hai visto papà! E' lui! E' il cavaliere bianco che protegge Asgard! E' forte come te, sai?"

Si, Haldir, il padre di una razza perduta di Dunedain, tanto forte da far tremare col suo solo nome gli dei e tanto debole da poter essere imprigionato da una infima trappola degli uomini. Era lui la presenza che, non percepita, stava corrompendo sua figlia.

Il signore delle energie fredde, il cavaliere di Athena, abbracciò a piccola, deciso a portarla via da li, al sicuro nel suo palazzo, tra le cure di sua madre, tra le mani degli uomini. Ma non tutti gli uomini hanno il potere di intrappolare i Dunedain: Cristal non era mai stato tra quelli e non potè impedire che quell'essere facesse a sua figlia un dono. I doni dei Dunedain, che sono doni, ma anche maledizioni. Fu da quel giorno che le iridi di Seleina mutarono di colore: non più il colore degli occhi di Cristal, suo padre, ma quello dei Dunedain, segno che aveva acquisito un loro potere. La piccola, da allora, riusciva a leggere nelle anime. Un dono troppo forte per un corpo troppo debole. Un dono che suo padre, se fosse stato un po' più attento, avrebbe potuto impedirle di ricevere. Il dono che le aveva rovinato la vita.

 

Mu non riuscì a restare impassibile alle lacrime di quel guerriero, suo pari. Rivelò a quel punto chi fosse stata la sua guida fino al palazzo e ciò non sembrò essere di gran conforto per suo padre.

Mesto, Cristal spiegò che senza dubbio, ormai, la sua più grande paura si era avverata: sua figlia non era più un essere umano. Ormai, aveva accettato di diventare una Dunedain in tutto e per tutto.

Solo, gli chiese di mantenere il massimo riserbo sulla cosa. Non avrebbe mai dovuto parlarne con nessuno, Kiki compreso. Ad Asgard, gli esseri umani che facevano quella fine erano considerati alla stregua di assassini e prostitute. Non avevano più un onore: erano uomini che si abbassavano al livello di animali. Se Mur aveva scorto ancora qualcosa di umano in sua figlia e nel suo agire, per mera pietà nei confronti della creatura che era diventata e per l'aiuto che aveva dato a suo fratello, gli fece promettere di tacere.

 

Quando, nel pomeriggio, Kiki li raggiunse, stavano per dirigersi nelle periferie di Asgard devastate dalle creature che si andavano svegliando. Cristal aveva già indossato l'armatura del Cigno e sembrava esitante ad accogliere il giovane Aries come al solito. Sapeva che aveva avuto un confronto con Haldir ed aveva bisogno di capire cosa gli fosse stato comunicato, se in qualche modo fosse controllato nelle sue decisioni, come accadeva a volte alle menti più deboli.

Tuttavia, quando notò l'imbarazzo con cui gli si rivolgeva e l'esitazione verso suo fratello maggiore, gli sembrò di ritrovare una persona molto più autentica di quella che aveva imparato ad accettare negli ultimi tempi. Quasi, rivide per un attimo l'autenticità di quel bambino che era andata perduta. Anche Mur doveva aver avuto quell'impressione, a giudicare dal modo in cui sembrava aver trattenuto il fiato prima che il nuovo arrivato si rivolgesse loro.

 

"Cristal, la situazione è grave. Haldir mi ha svelato parte dei suoi piani. C'è bisogno che tu ci raggiunga ad Athene. Sta per scatenarsi qualcosa di terribile sulla terra."

 

Forse era stata la percezione del pericolo che si stava scatenando, forse Kiki neppure se ne rendeva conto. All'improvviso pareva rifiorita la sua fede nella dea. Era a lei che il cavaliere voleva fare ritorno. Doveva averlo realizzato lui stesso perchè si fissò le mani come se non gli appartenessero, come se solo allora le avesse riconosciute come proprie. Nel suo sguardo c'era una determinazione nuova. Non tutto era perduto. I tre si scambiarono una rapida occhiata prima di dirigersi all'esterno, congedarsi con Hilda e Flare, raggiungere il grande tempio.

 

Per Cristal l'aria assolata della grecia, negli anni, era diventata qualcosa da cullare nel ricordo. Ripensava alle battaglie, ai trascorsi coi suoi amici. Quella volta, percepire i cosmi dei suoi pari, fu come svegliarsi da un lungo sonno. Rivedere i templi abitati, sapere che i loro custodi, commilitoni di tante battaglie, fossero nuovamente in vita era come sentire la speranza riaccendere il cuore. Non tutto era perduto. Non era più solo.

Celere, iniziò a risalire la scalinata verso il tredicesimo tempio. Solo all'entrata del primo si voltò ridendo verso i custodi, non sapendo bene a chi dei due dover chiedere il permesso di attraversare la prima casa.

Deciso, Kiki indicò il fratello. Per lui, non era ancora destino vestire la corazza dell'ariete. A testa alta, privo di armatura, si era affiancato a Cristal, solo un passo dietro a Mur. Cristal ebbe il tremendo sospetto che anche a lui Haldir avesse lasciato un dono o, semplicemente, era il pericolo che incombeva sulla sua sorellina adottiva, che l'aveva spronato a ritornare se stesso. Tutti i suoi incubi sembravano per incanto spariti. Il cavaliere del cigno assottigliò lo sguardo verso il ragazzo che lo accompagnava, poi lo puntò pensieroso alla schiena del custode della prima casa. Forse aveva capito in cosa consisteva il dono di Kiki e, stavolta, magari tutta colpa di Haldir non era. Se il suo intuito non lo ingannava, non ci sarebbero stati problemi di successione per la custodia dell'armatura della prima casa, non in quella generazione. Pregò solo la dea che, tra le sue fila o quelle dei cavalieri di Odino, non ci verificasse qualche altra defezione.

 

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Capitolo 9
*** Supposizioni ***


Attraversarono le dodici case in fretta. Ritrovarono presto Mu alla tredicesima, che li attendeva all'ingresso dello studio privato della dea, leggermente teso. Probabilmente furono i cosmi più rilassati degli altri due a tranquillizzarlo. Il sorriso che aleggiava sul viso di Mu divenne più aperto ed autentico, privo dell'apparenza di cortesia che riservava agli estranei o usava nei momenti di imbarazzo.

Fu la voce di Saori ad introdurli all'interno come un saluto materno. Gli anni trascorsi sembravano quasi non aver intaccato in nulla il viso umano della dea Atena.

Erano state già predisposte tre sedie dinnanzi alla imponente scrivania di legno intarsiato. Saori fu felice di vedere tutti e tre ma si soffermò principalmente su Kiki. Palesemente, era per il suo ritorno la sua gioia. Traspariva dai gesti controllati ma di affetto che riservò al ragazzo, mentre lo invitava a sedere ed a lui si rivolgeva per prima.

"Stavolta sei tornato al Grande Tempio di tua volontà e te ne sei andato per un po' solo perchè qualcuno ti ha portato via."

Kiki arrossì ma non nascose il suo sguardo. La voce era calma, il tono sicuro.

"Sono tornato per restare, se voi lo permetterete, mia signora."

Mu sbattè appena le palpebre nel rendersi conto di quanto quella risposta suonasse sia come un'ammissione di colpa sia una implicita richiesta di redenzione. Kiki poteva aver imparato da lui la calma ma l'efficacia di quelle poche parole tradivano il carisma di un segno di fuoco. Suo fratello aveva le potenzialità non solo per combattere ma anche per trascinare, perchè non riportava parole sacre imparate da maestri ma fatti reali. Le sue colpe erano state sotto gli occhi di tutti, così come lo sarebbe stato il suo ritorno tra le schiere della dea. Fu orgoglioso del rendersi conto di quanto, per molti versi, gli fosse diventato superiore. Sarebbero bastate le sacre vestigia dell'ariete a contenere uno spirito come quello? Mu taceva ma aveva tante cose da esprimere. Per una cosa sola, sembrava, il suo passato allievo ormai non lo aveva definitivamente surclassato: l'intuito non lo portava a leggere lontano, non gli permetteva di rendersi conto del proprio valore. Nonostante tutto era insicuro. A Kiki non bastava il perdono della dea.

Non appena Athena, infatti, gli concesse di restare, fu a Mu che chiese un ulteriore permesso. Gli fu concesso con sorpresa e trasporto. Forse non sarebbe stato nominato presto un nuovo cavaliere ma due fratelli iniziavano a ritrovarsi.

Cristal non ebbe piacere di darlo a vedere ma si commosse e, senza dubbio, quando avrebbero raccontato quella storia avrebbe preteso che parte del merito di aver fatto riappacificare quei due sarebbe stato suo, grazie ad un certo discorsetto.

 

Seleina si accasciò nella neve, in cerca di refrigerio. Haldir l'aveva fatta correre dalle prime luci dell'alba per tutta la notte e le gambe non la reggevano più. Non avrebbe mai creduto di poter sentire tanto caldo un un posto freddo come Asgard. Si rotolò per portare la schiena a contatto con la neve e riceverne maggior refrigerio. Aveva chiuso gli occhi per contrastare la leggera nausea che le stava salendo, quando l'ombra di Haldir la sovrastò. Si rese conto della presenza del maestro dal suo odore prima ancora che dal cambio di temperatura. Il gigante bianco, con la sua mole, le aveva sottratto l'unico raggio di sole che filtrava in quelle foreste e che le scaldava il viso e la scrutava ombroso. La ragazza si sbrigò a rimettersi in piedi. Di tutto c'era bisogno, fuorchè Haldir si arrabbiasse con lei dopo neppure due giorni di addestramento. Deglutì e ricominciò a correre. Doveva fare fiato per poter reggere il passo del branco al più presto, dal momento che nei primi tempi gli apprendisti non cacciavano mai da soli. Il lato positivo era che non l'avevano gettata subito in un'arena per farla massacrare. Solo, iniziava a chiedersi se era meglio correre ininterrottamente o farsi riempire di botte durante il giorno per poi dormire la notte. Almeno, impegnata sull'esercizio fisico, non aveva tempo per pensare ai problemi causati dai perduti che si andavano svegliando. Kiki faceva più o meno lo stesso per impedirsi di pensare al fratello, negli anni trascorsi, giusto? Solo, lei che possibilità aveva di reggere il passo di un cavaliere d'oro?

Digrignò i denti, iniziando a chiedersi se la sua fosse stata una buona idea. Senza che se ne rendesse conto, dalla sua bocca uscì un ringhio. Di certo, in quelle condizioni, tra gli esseri umani non poteva tornare. Si fece forza ed accelerò nuovamente la corsa. Non aveva più altra strada da poter percorrere.

Saori aveva permesso a Kiki di parlare a ruota libera, facendolo soffermare su tutti i particolari che credeva importati. Aveva raccontato della malia che Haldir aveva esercitato su di lui, di come si fosse sentito una nullità di fronte alla palese superiorità bellica di quell'essere, della sensazione che non fosse del tutto malvagio, del rancore che sembrava covare nei confronti degli olimpi.

Athena soggiunse le mani e sospirò. Non si mostrò sorpresa di apprendere del rancore di Haldir. Sicuramente, egli era astioso per il torto mosso al fratello. Imuen, in effetti, aveva ucciso delle persone a Rodorio e ferito dei cavalieri d'oro, nei tempi andati, ma l'aveva fatto per motivi causati dagli uomini.

"Le persone uccise da Imuen furono solo i carnefici della fanciulla che amava."

Ammise tristemente. Atena rivelò della sua amicizia nelle epoche precendenti con Imuen. Era un essere superiore, appassionato di conoscenza e di guerra, affezionato agli esseri umani. Quale migliore alleato avrebbe potuto cercare? Certo, egli non si era mai intromesso nelle guerre sacre ma, di sicuro, agli esseri umani che glielo chiedevano, non avrebbe mai negato il proprio intervento. Soprattutto, egli era convinto del valore degli uomini. Pur nella loro fragilità, mai li aveva ritenuti esseri inferiori o inutili, sulla scia delle divinità olimpiche. Al contrario, donò il proprio cuore, ricambiato, ad una ancella del santuario. Non una delle sacerdotesse più valenti, o una vestale, una semplice ancella, che doveva restare si pura, ma una figura sicuramente non necessaria per la sopravvivenza del santuario. Imuen non aveva mai nascosto la cosa, ne ad Athena, ne a nessuno al santuario, fosse stato semplice cittadino o guerriero. Esubrante, amava in modo palese la ragazza di cui era innamorato, divertendosi alle reazioni di sconcerto della gente del santuario, per nulla abituata alle effusioni di una giovane coppia in pubblico. Giravano delle voci ma tutti si guardavano dal protestare, data la potenza di Imuen e la tranquillità di Atena sull'argomento. Andava bene a tutti, meno che a qualcuno: al padre ed ai fratelli della ragazza. La uccisero quando scoprirono della prossima gravidanza della fanciulla. Non appena il cuore della ragazza smise di battere, l'urlo di Imuen gelò Rodorio. Egli uccise senza pietà i carnefici della sua donna. Ferì anche i primi due cavalieri d'oro che accorsero. Fu in quei momenti di debolezza e confusione che gli olimpici si mostrarono, congiungendo i loro poteri per intrappolare uno solo, perchè, secondo loro, quella era la prova che l'equilibrio non avrebbe mai dovuto essere sovvertito. Imuen, privato della fanciulla che amava, non oppose la minima resistenza. Fu reso schiavo, lui e la sua razza. Haldir, se già prima si appariva raramente, divenne introvabile, con lui i suoi figli. La prigionia di Imuen causò anche una frattura interna fra i Dunedain: se prima i figli dei due domatori delle anime agivano in sinergia, d'improvviso cominciarono a farsi la guerra. Da alleati degli esseri umani, divennero per loro mostri, da segregare nel mito e nella notte. Si isolarono dagli altri esseri viventi ed inasprirono i cuori. Si diedero leggi tremende e assurde quelli di Imuen, iniziarono a diminuire di numero quelli di Haldir. Cominciarono ad essere loro primi la causa della loro fine. Ma Athena non aveva potuto saperne altro.

Kiki aveva ascoltato assorto, preoccupato.

"Ma allora, i perduti cosa sono?"

La dea parve pensierosa.

"Non appena Imuen venne intrappolato, una parte dei suoi figli si schierò contro gli olimpici e li attaccò. Vennero sconfitti e costretti in una forma tra la vita e la morte. Probabilmente gli dei dell'olimpo avrebbero voluto sigillarli come avevano fatto con voi cavalieri d'oro nella stele ma qualcosa andò storto. Si tramutarono in mostri che distruggono ogni cosa vivente e ne rubano l'energia vitale, come parassiti. Invece degli dei dell'olimpo, fu Haldir a ristabilire l'ordine. Li bloccò con un sigillo che ogni diversi secoli viene sciolto. Da allora sono soggetti ad una sorta di ciclo, come quello della guerra sacra. Di solito Haldir ed i pochi Dunedain che restano se ne occupano nel silenzio delle foreste di Asgard. In quest'epoca deve essersi verificato qualcosa di diverso e per questo Haldir ha messo in moto un piano tanto macchinoso per riportare in vita voi cavalieri d'oro."

Kiki negò.

"Perchè ora e non in un'altra epoca? Cosa può essere accaduto, stavolta, di diverso?"

Atena parve pensarci ma era dubbiosa.

"Forse il numero dei suoi figli che va diminuendo, unito all'ostilità dei figli di Imuen sono tutti fattori che lo stanno indebolendo sempre più. Del resto i Dunedain sono estremamente longevi ma non immortali. Non sono soggetti ad un ciclo di rinascite. Forse le loro forze stanno scemando ed Haldir ha pensato di frenare ogni cosa prima che sia troppo tardi."

Cristal serrò i pugni sopra le gambe piegate ed il solito senso di inadeguatezza ed impotenza si impadronì di lui.

"Sono esseri la cui potenza supera in alcuni casi quella degli dei, eppure per agire hanno bisogno anche dell'aiuto degli uomini."

Saori osservò preoccupata il cavaliere del cigno. Aveva già intuito la parte che aveva avuto Seleina in quella storia.

"Tua figlia ha seguito Haldir, giusto?"

Portò, materna, la propria mano sulla spalla del cavaliere. Tuttavia non riuscì ad essergli di gran conforto. Il silenzio che seguì come risposta affermativa fu grave.

"Per il momento cercheremo di non far uscire questo fatto dalla cerchia dei cavalieri d'oro. Non è necessario che nessun altro lo sappia. Ricordo bene come gli Asgardiani reputano gli esseri umani che seguono i Dunedain. Cercheremo in ogni modo di proteggere Seleina dallo scandalo."

La dea cercava in ogni modo di tutelare il benessere dei suoi sottoposti, per quanto le fosse possibile.

"In ogni caso..."

Sottolineò al cavaliere del Cigno.

"... è grazie alla scarsa considerazione che Seleina ha avuto del suo onore, se tutti noi abbiamo nuovamente tutta la schiera dorata a difesa. In caso di bisogno, il grande Tempio sarà sempre lieto di offrire asilo a tua figlia e le riconoscerà il dovuto merito per il suo sacrificio."

Cristal si concesse di sperare inutilmente che ciò avesse potuto presto realizzarsi e li ringraziò. Di li a poco sarebbe stato indetto un sunagein.

 

Nonostante la sua mole, Haldir era velocissimo. Riusciva ad eguagliare la velocità della luce senza il minimo sforzo. Sembrava un tuono bianco che scivolava rapidissimo sulla coltre ghiacciata o una tormenta che addensa le nubi prima di scatenare il frastuono della tempesta. Seleina riusciva a riprenderlo solo nei brevissimi istanti in cui, probabilmente per pietà, si arrestava all'improvviso, permettendole di individuare la sua posizione. Presto, però, la distanza che si interpose fra loro divenne troppa e si ritrovò sola, nel bel mezzo delle foreste. Leggermente infreddolita, soprattutto affamata, si trovò d'un tratto a fare i conti con quella natura che aveva sempre amato ma di cui, in realtà, mai aveva fatto fisicamente parte. La cosa strana era che non aveva paura. I rumori degli animali notturni che si svegliavano non la turbavano più di tanto. Era un'esperienza nuova, inconsueta, ma che che stuzzicava la sua curiosità come il musicista che pizzica le corde dell'arpa nel tentativo di comporre una nuova melodia. Alcune note erano stonate e non andavano ripeture. Le altre, invece, stavano disegnando un nuovo ritmo. Annusò l'aria. Nella resina e nel vento profumanto di conifere avverti lontano l'odore di Haldir. Non era molto vicino ma era fermo, segno che si era accampato per la notte, facilmente sul fianco della montagna, all'ombra di qualche anfratto. Lei, invece, aveva preferito seguire lo scrosciare dell'acqua. I suoi sensi, molto più acuiti, l'avevano condotta ad individuare il battito del cuore di una creatura che dormiva nell'acqua e lei aveva fame. Sicura, con una velocità che ancora si stupiva di possedere, con un unico tocco afferrò la sua preda. Il pesce, strappato al sicuro delle rocce, si dibatte per qualche attimo tra le sue dita sicure, prima di essere sbattuto sopra le rocce ed adagiato vicino a qualche foglia e ramo secco. Le squame iridescenti della creatura avevano brillato come una cascata di diamanti tra le stelle e la pallida luna. La ragazza aveva acceso un piccolo fuoco. L'intuito di cui la sua nuova natura le aveva fatto dono la rendeva tranquilla sul fatto che quei territori non fossero battuti dai perduti. Aveva fame ma pesce crudo non ne avrebbe mai mangiato. Il suo pasto fu frugale ed insipido ma ben cotto ed abbastanza sostanzioso. Riuscì a trovare riparo in una piccola grotta naturale che individuò nei pressi. Le mancava la sua famiglia ma ogni giorno che passava in quella forma capiva sempre più cosa significasse essere in salute. Non aveva mai chiesto troppi dettagli a suo padre della sua vita di apprendista. Cristal li dipingeva come un periodo di grandi progressi e conquiste ma a tinte davvero fosche. Lei stessa vedeva a quali esperienze sovrumane erano sottoposti gli allievi del santuario di atena o dei god saints di Asgard. Lei non sapeva se avrebbe mai raggiunto un buon livello di combattimento ma le sembrava di avere la consapevolezza, ora dopo ora, che il suo corpo stesse mutando, il proprio potere crescendo. Non si sentiva affatto come gli allievi del santuario, costretti tra un destino di morte assurdo o un ceco fanatismo. A lei pareva che, d'improvviso, le avessero concesso una vita che davvero le apparteneva. Lei, finalmente, era libera.

 

Disteso nel suo letto, Kiki non riusciva a prendere sonno. Si era rigirato un paio di volte tra le lenzuola e alla fine aveva preferito alzarsi. Si era diretto in cucina per prepararsi una bevanda calda da gustare contemplando le stelle. Era certo di non aver fatto baccano ma suo fratello lo raggiunse dopo qualche minuto. Con un cenno del capo gli indicò il pentolino e lo sentì armeggiare con le tazze.

Mu gli si mise di fronte e sorrideva leggermente, osservandolo.

"Credevo bevessi solo liquori ad alta gradazione."

La risata di Kiki era di cuore. Riempiva la stanza.

"Se ne vuoi, li trovi in credenza. Adesso ho voglia di altro."
Specificò levando la tazza verso di lui come si fa con un calice. Sorbì poi qualche sorso lentamente, ad occhi chiusi.

"Scusa se ti ho svegliato."

Mu negò, sistemandosi su una sedia.

"Sei in pena per la tua amica?"

Kiki scrollò le spalle.

"In realtà non so più che devo pensare. I nuovi equilibri che si stanno creando mi stanno confondendo. Ho l'impressione di non saper più distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è."

Mu annuì.

"Io invece solo ora sto riconoscendo mio fratello."

Espose calmo quelle poche parole con tutto il significato recondito che si portavano appresso. Kiki gli afferrò il braccio e lo strinse con forza.

"Forse perchè solo ora mi rendo conto che tu sia davvero qui e non solo nei miei sogni, fratellone."

Mu rimase senza fiato ma era felice. Sentiva di aver ritrovato il suo posto in quel mondo strano.

"Qualche ora di sonno di certo gioverà anche alle tue facoltà mentali. Va a letto ora. Domani parleremo con gli altri. Sarà più facile, vedrai."

Kiki si trovò costretto a concordare. Puntò solo un'altra volta lo sguardo verso la volta celeste, dove le stelle brillavano incontrastate. Sperò che anche Seleina le stesse osservando, al fianco di qualcuno di cui potersi fidare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 10
*** Risvegli ***


Erano una nebbia leggera che penetra nelle ossa e rosicchia piano, un morbo pestilenziale che avanza silenzioso. Il contadino si mosse lentamente, incerto se la figura allampanata e ricurva che gli andava incontro per quella strada fosse reale oppure no. La osservò meglio mentre la bruma mattutina lo avvolgeva e gli faceva provare freddo. Tremò appena. Le sue scarpe lorde di terra affondavano lentamente per il sentiero fangoso. Si stropicciò un occhio mentre gli sembrava che l'immagine di quello sconosciuto ondeggiasse e crescessw in altezza. Rabbrividì osservandone una mano fuoriuscire dalla manica grigia del manto logoro. Spalancò le palpebre nell'accorgersi degli artigli scintillanti che ingrandivano lentamente. Lasciò cadere a terra falce e berretto. Mosse indietro alcuni passi e sarebbe scappato via urlando se quella stessa mano zozza di morte non lo avesse afferrato prontamente per la gola, sollevandolo da terra. I suoi piedi scalciarono nell'aria che mancava ai polmoni. L'immagine spettrale fotoimpressa nella retina portava l'effige del terrore, del grido muto che non avrebbe mai abbanonato le sue labbra.

Seleina si destò all'istante, straziata da quel grido che non aveva suono ma le aveva graffiato il cuore fino a toglierle il respiro. Davvero le mancò l'aria, per qualche istante. Ansimante, annusò gli odori portati dal vento. Impallidì rendendosene conto: uno dei perduti si apprestava. Prese a correre verso il punto in cui aveva scorto l'ultima traccia di Haldir, la sera prima. Non aveva mai corso così veloce nella neve. Non si era ancora resa conto di aver appena raggiunto la velocità del suono.

Kiki si svegliò di soprassalto: la fronte madida di sudore. Mu era accorso immediatamente, richiamato dal cosmo agitato del fratello. Con lo sguardo percorse rapido la stanza, cercando di dare un senso all'emozione di cui era preda l'altro ma corruggò la fronte.

"Kiki..."

Lo scosse per le spalle ma suo fratello pareva assente mentre si stringeva la casacca al centro del petto e respirava a fatica. Il più giovane era letteralmente bloccato dal terrore. Cercò di sottrarlo a quella malia, inutilmente. Risoluto, lo obbligò ad alzarsi, invocando l'aiuto della dea Athena ed implorando il permesso di teletrasportarsi alla tredicesima. Un istante dopo, erano circondati dalla luce divina della dea.

 

Seleina aveva continuato a correre. I rami scricchiolavano rompendosi sotto ai suoi piedi. Era già rotolata due volte e con un balzo si era rimessa impiedi. Voleva vivere: doveva ruscici per salvare tanti altri. Lo desiderava con tutta se stessa. Il dolore che aveva sottratto alle persone e che l'aveva dilaniata da che era bambina doveva averla resa più forte. Doveva, per forza, averle concesso un modo per sfuggire a uno di quegli esseri. Perchè capiva benissimo che era una sciocca superba a crederlo e che senza l'aiuto di Haldir sarebbe morta prestissimo, li, sul posto. Forse era per quello che implorò il nome di suo padre e quello del suo fratellone acquisito, perchè era troppo ingiusto dover finire li, senza aver chiesto perdono al primo ed essersi riempita il cuore del sorriso del secondo, di certo felice, per il ritorno del fratello. Così, disperata e consapevole di conoscere ancora troppo poco delle tecniche di lotta dei Dunedain per avere speranza di vittoria, provò a concentrare la propria energia nel pugno chiuso, sperando che la stella luminosa dei Polaris avesse pietà di lei e le concedesse aiuto.

Lanciò una polvere di diamanti che congelò per qualche istante le vesti logore dell'aguzzino che bramava la sua anima. Riprese a correre e lo sorpassò. Non avrebbe mai più dimenticato per il resto della sua esistenza l'immagine evanescente dell'essere celato da quel cappuccio, la furia rabbiosa che lesse in quelle orbite vuote e nelle fauci spalancate senza suono. Dalle ciglia le sfuggì una lacrima comprendendo che, anche se lei si era salvata, uno era stato ucciso. Pianse lacrime amare per una vita che non conosceva e non aveva potuto salvare. La neve riprese a cadere, anche se il sole avrebbe dovuto essere alto, inghiottito dalle nubi. Rallentò il passo solo quando si avvide della presenza di Haldir, contro cui sbattè letteralmente contro. La ragazza si inginocchiò a terra e scoppiò in lacrime. Il vento nascose i suoi singhiozzi. Haldir non proferì parola e la osservò, muto. Non la lasciò sola nemmeno un istante.

 

Da qualche secondo Kiki aveva ripreso a respirare normalmente. Aveva smesso di sudare ed era decisamente tornato padrone di sè. Non era bastato il cosmo di Athena: erano dovuti intervenire entrambi i cavalieri dei gemelli. Saga e Kanon, per quanto avevano potuto, avevano cercato di mandare via quella presenza nella sua testa. Non erano riusciti ad interpretare bene tutte le immagini che erano scorse nella mente del giovane ma la paura e la presenza di una forte energia negativa erano vivide anche per loro.

Si erano guardati tra loro, tesi, per lunghi minuti, incerti quanto gli altri sullo svolgersi degli eventi. Era una delle poche volte che sembravano non solo simili nell'aspetto ma pure nell'espressione. Saga si accostò maggiormente al ragazzo, attento che la crisi fosse davvero passata. Kanon, diretto come al solito, lo esaminava per cercare di scorgere un qualsiasi indizio potesse spiegare l'origine di tutto quel caos. Si soffermò su Mu, certo che, se la situazione non fosse stata così disperata, lo psicocineta mai si sarebbe rivolto a loro. Interrogò il ragazzo senza attendere che si riprendesse del tutto.

"Hai capito cosa fosse quella specie di volto piangente e muto?"

Saga, preoccupato, lo fissò con una punta di rimprovero. Tuttavia non poteva negare che avevano fatto un'immensa fatica e che le immagini che sconvolgevano Kiki, alla fine, se ne erano andate da sole, rendendo vano il loro intervento. Poterono solo provare a tenere lucida la mente del malcapitato ma sulle sue sensazioni non avevano potuto assolutamente nulla.

Kiki, che si era portato una mano alla tempia, rispose celere.

"Uno dei perduti."

Mu era impallidito. Chiese chi o cosa avesse potuto scatenare quella crisi.

"Era Seleina, ne sono certo."

Kiki pretese un bicchiere d'acqua prima di continuare.

"Da quando mi ha aiutato la prima volta, c'è un collegamento speciale fra le nostre menti."

Ammise il ragazzo, ancora scosso.

"In qualche modo riuscivo sempre a sapere come stesse o cosa provasse. Negli ultimi due anni, però, era come se il vincolo che ci univa si fosse sciolto, fino alla notte prima che voi tornaste alla vita."

Riprese, passando lo sguardo prima su Mu, poi sui cavalieri dei gemelli, sconcertati.

"Ma mai ho provato le sue sensazioni in maniera così netta e mai sono state così vivide e... devastanti."

Strinse i pugni, fino a farsi sbiancare le nocche.

"Cosa accidenti sta facendo Haldir a Seleina?"

 

 

Il gigante bianco la lasciò piangere fino a che si addormentò. Strinse i pugni. Sospirò. Poi, si avvicinò e la prese in braccio. Era arrabbiato, perchè le cose non dovevano andare in quel modo. Era ben diverso il piano che aveva progettato. Ormai non aveva più scelta: riluttante, si trasformò in vento con la ragazzina e raggiunse l'accampamento del fratello. Depositò la sua, ormai definitavamente, nuova allieva su un giaciglio dove riposavano gli altri feriti. Definirla ferita era una presa in giro, visto che dormiva semplicemente. Tuttavia, fu ben lieto quando fu avvicinato da Mnemosine. Quella femmina dal singolare passato era senza ombra di dubbio la migliore guaritrice del suo gemello. La rossa sbattè le palpebre, confusa, rendendosi conto della natura mista della giovane che avrebbe dovuto curare. Probabilmente, teneva il conto di quanti mezzosangue girassero per il campo dato che, compreso suo figlio, il novero era davvero esiguo. Haldir apprezzava quella femmina anche perchè sapeva tenere la lingua a freno, pur non possedendo nessuna facoltà sulle anime dei viventi. Semplicemente, pose un panno fresco sulla fronte di Seleina, le tastò il polso e la lasciò dormire. Haldir era certo di averla lasciata in ottime mani. Senza esitare oltre, si diresse alla tenda di Imuen. Necessitava purtroppo del suo aiuto.

Imuen gli aveva versato del liquore e lo stava obbligando a ripetere l'accaduto per la terza volta. Senza dubbio aveva ritrovato se stesso se aveva la voglia di prenderlo in giro.

"E come accidenti hai fatto a non prevedere che non si sarebbe arresa, tu, che padroneggi le anime dei viventi?"

Haldir lo guardò in cagnesco e stava caricando il pugno. Nessuno come Imuen aveva l'innato potere di farlo arrabbiare.

"La questione non è che non si è arresa a uno dei perduti, è che è riuscita a salvarsi da sola..."

Suo fratello strabuzzò gli occhi e gli pose un dito davanti alla faccia. Solo in quel momento si fece serio e si pose davvero in ascolto. Diede un bacio in fronte alla sua donna e la pregò di lasciarli discutere in privato.

"Tu volevi che si spaventasse per toglierle ogni voglia di seguire l'addestramento, giusto?"

Haldir non rispose a una domanda retorica.

"Solo che la ragazzina ha la testa più dura della tua e qualche brutta stella che la guida..."

Versò altro liquore al gemello, che lo tracannò d'un fiato.

"... ed ha dimostrato di avere le capacità potenziali di un ottimo guerriero dei nostri."

Lo apostrofò, sorridendo mesto.

"Sei stato superficiale: non devi mai sottovalutare un essere umano, specie se femmina."

Indicò col capo la sua, nell'altro ambiente.

"Potevi venire prima a chiedere un consiglio a quello scemo di tuo fratello, che ci è passato prima di te, invece di arroccarti nelle tue irremovibili posizioni."

Haldir non lo prendeva a pugni solo perchè quella ramanzina era meritata, completamente.

"Che poi mi spieghi, come hai fatto a fare una fesseria simile? Conosci ogni intimo recesso delle anime di tutti... Proprio su quella di una femmina che conosci da quando è un cucciolo ti vai a sbagliare?"

Haldir soffiò e rispose alterato.

"Non è sulla sua reazione che mi sono sbagliato ma sul potenziale."

Imuen tacque e ci pensò un attimo.

"Lei che sceglie?"

Haldir fissò combattuto il suo interlocutore.

"Combattere."

Il rosso alzò le spalle.

"Perfetto. Da domani si allena seriamente con tutti gli altri. Ha potenzialità e volontà. Non c'è più niente che tu possa fare."

 

La schiera dorata, al completo, aveva preso posto ad un'ampia tavolata circolare, ognuno su un massiccio trono di legno. Si guardavano l'un altro. Erano un po' più stretti delle altre volte: c'erano due cavalieri d'ariete, benchè uno non ancora investito, due dei gemelli, e li la questione su quello effettivo era ancora più complicata, Sion e Cristal. Death Mask scrutò uno a uno, soffermandosi sul vecchio Sacerdote ed il nuovo reggente di Asgard. C'erano almeno tre diverse generazioni di sacri guerrieri a quella riunione e la situazione tutto suggeriva, meno qualcosa di buono. Per la prima volta dopo tanto tempo ebbe modo di rivedere da vicino la sua dea e sospirò, rincuorato. Non sembrava più la bambolina che piangeva ed aveva lasciato. Senza dubbio era una donna sulla soglia della maturità, di grandi classe e fascino, che, fortunatamente, aveva presso il gusto per i pizzi pomposi del secolo scorso.

"Miei cavalieri..."

La voce della sua signora lo bloccò dalla sua personalissima rassegna dei presenti.

"E' una gioia avervi tutti di nuovo qui, nel posto che giustamente dovete abitare."

Si grattò la tempia, in attesa che venisse sganciata la bomba.

"Dovete sapere che non sono ancora del tutto chiari i motivi del vostro ritorno alla vita."

La dea della guerra la stava prendendo alla larga. Evidentemente, l'abitudine di pensare senza filtrare i propri pensieri con una barriera mentale continuava a causare un certo imbarazzo tra quelli più ligi all'etichetta, fra i suoi pari. Il santo della vergine l'aveva guardato con tremendo fastidio, aggrottando le sopracciglia. L'ariete d'oro, almeno quello della sua epoca, lo aveva scrutato fugacemente, leggermente contrariato. Si aspettava lo stesso trattamento dal minore, che ricordava semplice apprendista e ora, invece, era quasi più alto di Mu. Kiki, invece, lo ricambiò palesemente divertito. Sicuramente gli sarebbe stato più simpatico del suo predecessore. Si sarebbe aspettato un cenno d'intesa ma il ragazzo distolse subito lo sguardo, ben attento a non farsi riprendere ne da Virgo ne dal suo diretto superiore, mostrando immediatamente un'espressione devota ed attenta. L'ariete giovane poteva anche tenere poco alle formalità ma certo non era uno stupido che faceva combriccola coi cattivi della compagnia. Sarebbe stato meglio non averlo come avversario, un tipo così. Se era forte come il fratello e tanto furbo come si mostrava sarebbe stato davvero difficile da battere, quasi al livello dei gemelli.

Milo e Aquarius, seppur seduti distanti per la rispettiva posizione della costellazione, erano entrambi affascinati dal cambiamento di Cristal. Ricordavano un giovane maturo, non un re più vecchio di loro. Aquarius, in particolare, se ne era andato con la consapevolezza di essere inferiore a quell'uomo ed era quasi a disagio di quel cambiamento esteriore. Era come se pure l'aspetto di Cristal ne tradisse la superiorità. Milo invece, forse perchè meno punto sul vivo dalla questione, sembrava aver carpito subito che il re non fosse sereno. Gli sembrava trasparisse dalla leggera impazienza che mostrava in quella occasione.

"Colui che vi ha riportato alla vita non ha chiarito i motivi delle sue azioni. Si sono verificati fatti gravi ed incombe il pericolo di una grave minaccia."

Saori fissò con attenzione ognuno dei suoi paladini e si soffermò su Cristal e Kiki, che presto avrebbero dovuto prendere parola.

"E' per questo che abbiamo ritenuto doveroso mettervi a conoscenza di quanto abbiamo appurato di questa storia, almeno di quanto supponiamo."

Ai cavalieri dei gemelli era stato fatto un veloce riassunto ma non avrebbero mancato di porre altri interrogativi. Non si parlava più di qualche villaggio devastato nelle periferie di Asgard. Quel pericolo, poteva anche dilagare per tutta la terra.

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Capitolo 11
*** Colpevolezza ***


Colpevolezza

Seleina di svegliò la mattina seguente. Una femmina di Imuen le aveva proposto una ciotola con qualche cosa di odoroso e lei aveva ringraziato. Non aveva mai visto nessuna di loro sorridere così: sembrava serena, del tutto diversa dalle altre di quella razza, sempre scontrose e taciturne. Evidentemente, quella capì di essere osservata, perchè si adagiò sul giaciglio su cui lei stava riposando. Sembrava gentile e pronta a rispondere a delle domande.

"Non sei come tutte le altre."

Mnemosine aveva sorriso. Non si aspettava tanti giri di parole da una figlia di Haldir e spiegò di essere cresciuta fra gli esseri umani. Molte delle leggi dei figli di Imuen le aveva conoscite che era già grande e non si era mai sottomessa completamente.

"Forse è per questo che siete così radiosa."

La guaritrice rise di gusto. Non era così da giovane. Lo era diventata dopo la nascita di suo figlio Zalaia che, nella loro lingua, portava il nome di "dono degli dei", anche se il ragazzo era uno che aveva il potere di distruggerli.

"Beh..."

Ammise la rossa.

"...Imuen mi ha accolta tardi e secondo le leggi del clan avrebbe dovuto uccidermi. Invece, non solo mi ha lasciata vivere ma ha pure permesso che mi istruissi."

Seleina sbattè le palpebre, confusa. Non aveva idea che Imuen fosse così diverso dall'immagine che gli umani e molti Dunedain avessero di lui. Nella loro mitologia ufficiosa, i racconti che giravano dipingevano il domatore delle anime dei defunti come un essere cupo, minaccioso, quasi un alter ego della morte. Seleina sentiva chiaramente che quella guaritrice stava ranccontando la verità ed iniziò a chiedersi se, nei miti che si tramamndavano, un gemello non fosse stato confuso con l'altro. Lei non aveva mai visto Haldir combattere sul serio ma non faticava a credere che in battaglia, all'occorrenza, sapesse essere spietato. Tutti i giorni il suo maestro appariva inquieto e taciturno. Condividendo in parte i suoi poteri, Seleina comprendeva bene che Haldir, per comunicare, non avesse affatto bisogno di parole, che ogni cosa da dire, pensare, era già detta, svelata, conosciuta. Lei, a volte, aveva bisogno di tempo per interpretare e comprendere ciò che si celava nelle persone. Per il suo mentore, invece, ogni essere vivente era come immerso in una luce accecante: Haldir poteva vedere dentro gli altri in maniera più immediata di quanto mai avrebbero potuto fare loro stessi. Tuttavia, vivere così generava solitudine: gli altri comunicano a te ogni cosa ma chi, mai, avrebbe potuto comprendere o anche solo provare a comprendere un essere costretto a quella misura dell'esistenza? Chi poteva capire cosa significasse avere ogni minuto, attimo, istante, nella propria testa e nel proprio cuore le sensazioni degli altri, senza mai avere la possibilità di sviscerare in santa pace le proprie? Seleina ricordava esattamente quanto fosse devastante quello stato. Quanti anni aveva, la prima volta che aveva sentito il dolore di una madre che perde il proprio figlio? Era solo una bambina che sapeva si e no cosa fosse una madre... Quanti ne aveva, quando aveva vissuto la vergogna di una donna violata dalle grinfie di un uomo? La sua incapacità di reagire, quando le sue coetanee distinguevano a malapena bambolotti e bambole?

Imparare ad affrontare quelle tremende esperienze non proprie, rendersi conto che provandole regalava sollievo a chi soffriva e poi ne veniva liberata lei stessa, quanto era stato difficile? Quanto era costato al suo corpo di bambina sopravvivere a quello strazio? Quanto alla sua mente di fanciulla, non impazzire? In quel momento, con quel corpo rinnovato, con le unghie più lunghe e la faccia più strana, poteva porre un freno a quella natura e vivere, in qualche modo, come tutti gli altri. Avere sogni, progetti, speranze. Poco importava che la sua vita fosse durata poco. Era comunque una vita più degna di quella che aveva sopportato fino a poco tempo prima. Rimasta sola, in quel letto, in una camerata quasi vuota dell'infermeria, aveva portato le ginocchia al petto e poggiato la fronte su di esse. Chissà se il suo maestro era diventato così cupo, nei millenni, perchè aveva dovuto affrontare tutti quei fantasmi? Anche lei, un giorno, sarebbe diventata così?

Si guardò le mani, rigirando i palmi, ricordando quando aveva le unghie corte come quelle delle altre ragazze ed un corpo troppo debole. Sentì sotto le dita la consistenza della casacca del suo fratellone. Un paio di anni prima aveva dovuto aiutarlo a rimettersi da un momento piuttosto difficile. Kiki era davvero sul punto di abbandonare il santuario, quella volta. Lo aveva bloccato che aveva la borsa pronta negli appartamenti privati della prima casa. Era deciso, fuori di se, e soffriva tanto. Lei, Mu non lo conosceva allora. Non aveva idea neppure di che faccia avesse. Era stato una persona troppo importante se la sua assenza, per Kiki, ogni volta, era così terribile. Prima che Kiki uscisse dalla sua camera, lo aveva preso alla sprovvista ed aperto il palmo sul suo petto, sopra la sua casacca. Non avrebbe dovuto essere peggio delle altre volte. Aveva appena iniziato a liberare il suo potere e la testa le fece subito male, così male che stava quasi per perdere i sensi. Il cosmo di Kiki era diventato smisurato ed era sempre più difficile aiutarlo. Strinse gli occhi con forza e le lacrime di quella volta furono non solo per l'anima del suo fratellone che si liberava ma anche del dolore fisico che quasi non riusciva più a sopportare. Perse i sensi per qualche istante. Kiki non l'aveva lasciata cadere. L'aveva trattenuta per le spalle. Al suo risveglio, Seleina l'aveva ritrovato con lo spirito luminoso di sempre, mentre lei era quasi distrutta.

Quella volta, era stata il vero inizio di tutto. Seleina era consapevole di essere troppo debole per aiutare ancora il suo adorato fratellone. Sentiva il male di Asgard che si svegliava, il corpo che cedeva, il potere che la consumava. Implorare l'intervento di Haldir fu il seguito naturale di tutto. Ciò che era accaduto, l'evoluzione naturale di ogni cosa. Non se ne pentiva. Gli asgardiani tenevano all'onore ma nessuno di loro si era mai trovato in una situazione come la sua. Guardò ancora le proprie mani e le strinse con forza. Voleva impugnare un'arma, anche lei, capire la differenza tra la realtà che si sente nel cuore e nell'anima e quella che si tocca con le mani. Per quanto avesse potuto aver paura nelle notti precedenti, voleva affrontare ancora tutto e sopravvivere. Per lei stessa, per suo padre, per Asgard e l'anima luminosa di suo fratello.

 

 

Prima di continuare, Kiki passò in rassegna il viso di ogni paladino che aveva davanti. Tutti loro, nessuno escluso, aveva trovato in sè la forza di relegare il proprio io per il bene di un ideale più grande. Lui, non era mai riuscito a mettere il proprio dolore davanti alla sofferenza di una amica, che si martoriava, pur di tentare di concedergli un po' di pace. Quante volte aveva visto Seleina piangere a causa sua? Quante volte si rialzava, colpevole però di aver consumato un po' di più il potere ed il corpo di Seleina? Era tempo di fare ammenda e crescere, una volta per tutte.

Le linee principali di quella questione erano state esposte. Si fece coraggio: stava per iniziare a parlare di cosa gli fosse accaduto quella notte. Gli sembrava di tradire entrambi: sua sorella e se stesso. Tuttavia, non aveva altra scelta, se non quella di farsi capire.

Raccontò della sua spiacevole esperienza di quella notte. Il peggio fu assistere, impotente, alla rabbia di Cristal. Era palese che il reggente di Asgard ce l'avesse a morte con Haldir e che, se avesse potuto, l'avrebbe spedito in un'altra dimensione personalmente.

Il giovane Ariete tornò più indietro, a quella notte in cui lui se ne era tornato in Jamir e, dopo un paio d'anni di silenzio, aveva risentito il suo legame con Seleina, il presentimento che le fosse sucesso qualcosa di grave e la corsa verso il Santuario. Le misteriose parole di Imuen, quando l'aveva incrociato a Rodorio, poco prima che si dileguasse. Il Dunedain, infatti, aveva parlato di un prezzo di sangue per quella magia. Haldir, dopo, quando l'aveva portato via per un po' dal santuario, aveva confermato senza dubbio che era stato a prezzo del sangue di Seleina, che tutto si era compiuto.

Cristal, allora, prese parola. Spiegò che, per quel poco che ne sapeva lui, ciò significava che Seleina aveva accettato di diventare una Dunedain. Era uno dei tanti rituali per cui una razza oscura prende un essere umano innocente e lo trasforma in un abominio simile a loro e sua figlia, forse perchè preoccupata per le sorti della terra, forse perchè incosciente, si era prestata a tutto. In ogni caso, concluse, per il momento, la nuova vita dei cavalieri d'oro non era un'illusione destinata a svanire. La loro era nuova vita, che apparteneva ad ognuno di loro, di cui poter disporre a piacimento.

Aquarius, fino ad allora concentrato sulle espressioni di Cristal, gli chiese apertamente il perchè del suo profondo astio verso i Dunedain. Cosa importava a che Seleina avesse cambiato aspetto, se tutti loro stavano bene e mutare era stata una sua scelta?

Il regnante lo trafisse con occhi ardenti. Sbuffò e gli spiegò cosa ne pensasse, lui, del disonore del tradimento.

Aquarius corrugò la fronte. Lui per primo aveva simulato un tradimento schierandosi tra le fila di Hades, nella scorsa guerra sacra, e non se ne era pentito. Diversi, fra i presenti in quella stanza, avevano parecchio da esporre sull'argomento e Death Mask rise di gusto. Diversi, lo guardarono scocertati. Quando l'eco della sua voce si spense, per la sala, si decise a spiegare. Allargò le braccia, in modo teatrale, ad indicare se stesso e buona parte dei presenti.

"Qua tra traditori improvvisati, consapevoli ed inconsapevoli, usurpatori, schizofrenici ed approfittatori, non è che possiamo fare tanto gli schizzinosi sulla questione dell'onore."

Alzò poi le spalle, fregandosene delle occhiatacce dei pochi che potevano definirsi esenti da colpa.

Si rivolse direttamente a Cristal.

"La principessina ci ha ridato una vita senza chiedere niente in cambio, regnante. Non la vogliono ad Asgard? La quarta casa è sempre aperta. Devo più a lei che a molti di voi in questa stanza."

Si inchinò, poi, verso la sua dea.

"Senza offesa, mia signora."

Kiki tirò un sospiro di sollievo. La totale indifferenza di Death Mask per l'etichetta lo stava alleggerendo parecchio, in quell'occasione.

"E' carina almeno?"

Chiese il cancro, con un ghigno divertito, al giovane ariete.

Parte della sala sorrise a quell'affermazione ma fu Kiki, per primo, a tornare serio.

"In ogni caso, se Seleina ha scelto di diventare una Dunedain, in parte potrebbe anche essere colpa mia."

Raccontò delle sue incertezze in quegli anni e di come Seleina lo aiutasse con le sue facoltà. Non nascose quanto la cosa fosse gravosa per lei ed espresse chiaramente il sospetto che, poteri che potavano devastare un corpo umano, potessero invece essere ben tollerati in un corpo Dunedain.

Finalmente, Cristal confermò quei sospetti.

"Per questo, ragazzo, ti dicevo di non sentirti colpevole verso mia figlia. Lei ha scelto da sè il suo strano modo di sopravvivere. Altre, però, sono le mie paure. Mi credete così gretto da preoccuparmi solo della reputazione?"

Il regnante di Asgard sembrava essersi scaldato sulla questione. La dea, allora, gli si fece più vicino. Lo pregò di chiarire.

"Mu mi ha comunicato di aver incontrato, ad Asgard, una Dunedain che gli si è presentata come mia figlia. Gli ha indicato la strada per la città e poi se ne è andata. La cosa è perfettamente plausibile, visto cosa gli Asgardiani pensano dei Dunedain."

Disse Cristal, agitato.

"Va bene che non torni ad Asgard, ma il Santuario, per gli dei, lo conosce da chè è bambina. A Rodorio tutti le vogliono bene e molti li ha anche aiutati, come Kiki. I Dunedain sono una razza insondabile ma non trattengono contro la propria volontà, specie se si parla di persone che non fanno parte delle loro fila guerriere."

Gli occhi di Saori si spalancarono impercettibilmente.

"Tu temi davvero che vogliano Seleina tra i loro guerrieri?"

Anche a lei sembrava poco plausibile. Ricordava chiaramente che i Dunedain affrontassero un allenamento simile a quelli dei cavalieri. Non ci si poteva avvicinare a quelle arti se non si era dotati di facoltà specifiche.

"Ma, Cristal, Seleina ha un cosmo?"

La dea fissò intensamente il rappresentate delle energia fredde e lo vide negare, sconsolato.

"Con me mai lo ha manifestato e Kiki può confermalo."

Il ragazzo, infatti, annuì, deciso. Tuttavia, l'ombra sembrava non aver abbandonato l'anima di Cristal. Infatti continuò a fissare il ragazzo.

"Hai detto che stanotte Seleina ha affrontato uno dei perduti."

Kiki si concentrò, annuì di nuovo, convinto. Cristal si massaggiò le tempie, inquieto.

"Concentrati bene a quanto sto per chiederti: era sola? Mia figlia era sola a fronteggiare quel pericolo? O si è salvata grazie all'intervento di qualcuno?"

Kiki ci pensò qualche istante. Poi rispose, convinto.

"Era sola. E' riuscita a fronteggiare quel nemico solo con le proprie forze."

A quella rivelazione Cristal si lasciò scivolare sulla sedia. La dea, che aveva compreso, si spostò dal suo trono per portargli una mano sulla spalla.

"Imuen era un condottiero valoroso e giusto. Il gemello non può essere diverso da lui. Se è la sua strada, Seleina affronterà con successo tutte le difficoltà che le si pareranno davanti."

Cristal scosse il capo, impotente, con gli occhi velati in parte dalle lacrime e la rabbia a deformargli il viso.

"A quasi quindici anni, senza sapere quasi nulla del cosmo? Che speranze può avere, mia dea? E' follia."

Athena annuì, comprensiva.

"Eppure, a quasi quindici anni, senza sapere nulla del cosmo, ha fronteggiato da sola un nemico che potrebbe essere arduo anche per cavalieri di alto grado. Avresti potuto fare lo stesso, con la tua preparazione di allora, alla sua età?"

Cristal si riebbe, all'improvviso. In fondo, quelle parole non erano distanti dalla realtà.

"No, mia dea."

Ammise, sconfitto, sciogliendo le dita dalla posa dura del pugno. Aquarius, che aveva assistito alla scena in silenzio, non aveva parole per confortare quell'allievo che lo aveva battuto tanto presto e, di nuovo, affrontava una sfida che gli era superiore. Per una parte, però, provò invidia. Di nuovo, lo vedeva vincitore: affrontare la paura e vincerla, per qualcuno che si ama. Cristal era anche riuscito a superare l'amore possessivo che un padre ha verso la sue progenie, con l'intervento della sua dea. In cuor suo, augurò a quella fanciulla di avere la stessa identica tempra di quel ragazzo senza nerbo ne midollo che, un tempo, era stato suo padre.

 

 

 

Note:

La chiusa finale l'ho presa da uno dei rimproveri che Aquarius rivolge a Cristal nella battaglia delle dodici case.

Scusate per il tremendo ritardo ma tra impegni lavorativi e familiari non sono riuscita ad essere più presente. Ho paura che questo capitolo sia un po' più noiso per chi sperava in interventi maggiori da parte dei personaggi canonici ma avevo bisogno di definire meglio i contorni della faccenda. Comunque stiamo per concludere la parte solo riflessiva ed inizieremo presto l'azione.

Spero di non fare casini, nel seguito. Temo non riuscitò a pubblicare se non prima di altre due settimane. Se riesco in anticipo, ve ne accorgerete. A presto, per chi ancora legge. :)

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Capitolo 12
*** Padri e figli - parte 1 ***


In un clan come quello di Imuen, Zalaia era quanto di più distante avrebbe potuto esserci tra i suoi simili. Suonava il violino, appassionato di medicina e di belle donne, con un sorriso sghembo sempre a colorargli il viso. Aveva poco della grazia e della perfezione nei movimenti che caratterizzavano il resto dei suoi fratelli. Allo stesso tempo, era forse l'unico che avesse il privilegio di maneggiare un'arma simile a quella del suo maestro, una falce dello stesso tipo che gli umani attribuivano ai contadini dei secoli scorsi ed all'effige dell'oscura signora.

Seleina ebbe modo di conoscerlo presto: durante i primi tempi dell'addestramento passava più tempo in infermeria a farsi medicare qualche nuova ferita che al fianco di Haldir ed il giovane era il figlio della guaritrice. Mnemosine li presentò volentieri e Zalaia squadrò la nuova arrivata come si osserva uno strano esserino grazioso. Avanzò diretto verso la biblioteca, motivo per cui raggiungeva quasi quotidianamente, anche se per pochi istanti, sua madre. Tirò via un volume sulle arti cerusiche di un qualche popolo di cui si era persa memoria. Stranamente, però, quel giorno si attardava. Cercò più a lungo e prese un altro volume, che poi lanciò alla ragazzina bionda, che lo afferrò sorpresa.

Poiché non era pratica della lingua dei figli di Imuen, lei impiegò troppo tempo per tradurre il titolo e capire cosa fosse. Era un trattato su come venivano composte le salme dei figli di Haldir secondo la tradizione del loro popolo. Parecchio scossa per i risultati non proprio soddisfacenti di quei primi giorni di allenamento, Seleina glielo avrebbe lanciato volentieri in testa, certa che la non proprio velata allusione sulla sua prossima morte, se non avesse smesso di intestardirsi a diventare una loro guerriera. A passo di marcia, ignorando del tutto il richiamo di Mnemosine, che le suggeriva di lasciar perdere, poiché aveva allevato un figlio idiota, aguzzò l'olfatto ed annusando l'aria trovò facilmente la traccia che cercava. Almeno il fiuto era migliorato parecchio in quei giorni. Senza saperlo, arrivò nell'ala del palazzo dedicata alla lettura degli antichi testi. Era vuota e non si fece scrupolo di buttare con malagrazia quel volume sotto al naso del ragazzo più grande.

 

"Se hai problemi con me, dillo apertamente."

 

Esordì con mala grazia, mentre l'altro riponeva gli occhiali in una scatolina di pelle e si alzava dalla sedia, arrivando a sovrastarla del solito mezzo metro e oltre, come tutti i maschi di quella razza.

 

"Avrò problemi con te se non ti sposti immediatamente da qui e non mi lasci tornare alla mia lettura."

 

Zalaia aveva assottigliato lo sguardo e per rendere più chiaro l'intento aveva richiamato qualche fuoco fatuo attorno a sè, a rischiarare di una luce sinistra l'ambiente circostante.

 

La ragazzina, complice il fatto che con quel corpo sentiva meno dolore, aveva preso la pessima abitudine di non sottrarsi mai a nessun duello, senza valutare bene l'esatto potere dell'avversario che aveva davanti. Aveva iniziato a concentrarsi e l'azzurro che caratterizzava le sue iridi era ormai arrivato a coprire per intero la parte bianca dei suoi occhi.

 

Finalmente consapevole del fatto che quella matta, davvero, voleva battersi, Zalaia scoppiò in una risata e si lasciò cadere sulla sedia. Disperse la propria aura e le fece cenno di andar via, ricominciando la propria lettura.

 

Confusa, la giovane esalò un sospiro tremante. Si avvicinò di nuovo e poggiò le mani su quel testo: non se ne sarebbe andata senza una spiegazione.

 

"Pensi che faccio così schifo come avversario che non vale nemmeno la pena di sporcarsi le mani con me, vero?"

 

Zalaia si massaggiò le tempie, irritato.

 

"Hai cominciato l'addestramento da nemmeno un mese e sei in parte umana. Ti aspettavi di diventare superman in quattro e quattr'otto? Io sono per metà umano e mi alleno da quando ne avevo cinque anni. Anche io ho trascorso più tempo in infermeria che sul campo. Da tempo al tempo. Usa il cervello prima che le mani. O morirai prima di aver espresso il tuo vero potenziale."

 

Seleina abbassò le spalle.

 

"Davvero sei per metà umano? Uno forte come te?"

 

Zalaia si gongolò sulla sedia. In pochi non sapevano della cosa, gusto chi non aveva trascorso parecchio tempo al loro villaggio.

 

"Ebbene sì: sono mezzo umano e sono l'allievo più dotato di Imuen. Solo che ci ho messo più tempo degli altri per diventarlo."

 

Poi sorrise e le sue zanne, in lunghezza, non avevano nulla da invidiare a quelle degli altri maschi del clan, anzi.

 

"e adesso godo nel ricordare a tutti gli altri, specie a quelli che mi tormentavano da cucciolo, la mia schiacciante superiorità."

 

Una certa sorpresa aveva invaso l'espressione della più piccola, ora attenta all'odore di quel giovane maschio che, in effetti, un po' di umano aveva.

 

"Anche tuo padre è asgardiano?"

 

A quella domanda, l'atteggiamento di Zalaia mutò all'istante. Chi lo conosceva, sapeva bene che non doveva rivolgergli quelle parole.

Seleina, però, a causa dei propri poteri, era abituata a conoscere e custodire risposte che non le spettavano. Non aveva filtri tra cervello e cuore. Sapeva che si sarebbe arrabbiato ma chiese ugualmente. Era curiosa.

Fu trafitta da occhi ardenti e da quel silenzio arrabbiato si arrese a comprendere. Era qualcuno di cui sarebbe stato meglio non sapere.

 

Sapevano solo che presto i perduti avrebbero lasciato i confini di Asgard. Al grande tempio, per il momento, pensarono di agire su due fronti: mandare a pattugliare quelle zone i più esperti delle energie fredde e cercare nel contempo di documentarsi il più possibile su quanto stesse per verificarsi.

 

Cristal era la guida migliore che potessero trovare per Asgard e Aquarius la migliore guardia che si potesse offrire. Camminavano silenziosi, fianco a fianco, mentre perlustravano le campagne esterne prossime al confine orientale con perizia. Kiki li aveva informati di un luogo in cui il vento era così inteso da non permettere una sosta prolungata neppure ad un cavaliere e si erano avventurati là. Cristal sapeva solo che era uno dei pochi posti di quella terra che i Dunedain avevano tenuto solo per sè. Di sicuro, nessun Asgardiano sano di mente ci si sarebbe diretto, men che meno da solo. Accadevano fatti strani da quelle parti ed il vento, in effetti, non si placava mai, in nessun periodo dell'anno. Apprendere che sua figlia poteva dirigersi la non appena Kiki l'avesse chiamata, avvertita da un semplice richiamo a voce, lo turbò ancora di più. Significava che il legame profondo di sua figlia con Haldir era iniziato molto prima di quanto lui avesse temuto. Seleina possedeva poteri estranei agli uomini ma non a quella razza da troppo tempo. C'era un'energia prodigiosa di cui, con il loro cosmo, riuscirono ad aver ragione per una decina di minuti appena. Poi, i cristalli di ghiaccio che vorticavano, si fecero ancora più freddi delle loro paure, avvicinandosi allo zero assoluto più di quanto loro stessi poterono. Gli anelli del Cigno* con cui Aquarius si proteggeva furono i primi a cedere. Contrariato, Cristal aumentò la dimensione dei propri, per accogliere al loro interno anche colui che fu il suo maestro. Iniziò ad espandere il proprio cosmo, sotto lo sguardo sbigottito del compagno, che quasi stentava a riconoscerlo, in quello sfogo inquieto. Presto, infatti, le minuscole lame che li circondavano cominciarono ad insinuarsi anche nell'ultima barriera. Graffiato in più punti, invece di cedere, Cristal lanciò una polvere di diamanti verso il cielo che, per qualche istante, parve sovrastare l'assurda energia che li opprimeva ed avvolgerli nel silenzio. Furono pochi attimi di calma inquieta. Poi, mentre osservavano attenti, l'uno coprendo le spalle dell'altro, furono scaraventati via, a sbattere vicino alle conifere che si erano lasciati alle spalle parecchi metri prima. Il messaggio era chiaro: chiunque comandasse da quelle parti, li non li voleva.

 

La Casa del Cancro, in teoria, avrebbe dovuto essere stata purificata, dal momento che il custode era stato redento. Per quale assurdo motivo, allora, a lui era impedito il giusto riposo? Death Mask non riusciva a riposare da giorni, più o meno da quanto erano tornati alla vita, eccezion fatta per quell’unica sera che se l’era spassata a Rodorio e, ubriaco, non aveva fatto in tempo a tornare a dormire nel suo letto. Ma erano stati il vino o le grazie della compagnia? Arrabbiato, calciò via lenzuola e coperte. Lanciò il cuscino a terra e, con solo mezzo pigiama in dosso, si era tirato fuori dal frigo una bottiglia di rosso. Era deciso ad attaccarsi direttamente alla bottiglia quando il ricordo di fenomeni a cui non sembrava più abituato, si affacciò come un lieve sentore alla sua mente. Afferrò un calice dalla cucina e puntò lo sguardo su di esso. Per un istante, l’ombra scura di un volto attraversò il cristallo perfetto. Death Mask si accigliò: finalmente iniziava a comprendere che, forse, era qualcuno che voleva comunicare con lui a impedirgli una sana dormita. Impaziente e attento, ripose il bicchiere. Con tutta la calma che riusciva a imporsi, poggiò il vino sul tavolo della cucina, si sedette con malagrazia sulla prima sedia libera, rigorosamente a gambe larghe, braccia conserte, e la rabbia che stava salendo a mille. Riuscì a stare zitto solo per pochi secondi, poi, esasperato dal silenzio, proruppe con rabbia:

 

“Sono qui e sono in ascolto! Che diamine aspetti a dirmi quello che devi?”

 

Batté il piede a terra e stava per lanciare sul pavimento anche la bottiglia. Si fermò solo perché si accorse di un minuscolo fuoco fatuo che si apprestava. Finalmente, avrebbe capito che accidente volesse ed avrebbe potuto dormire.

 

Seleina aveva riflettuto a lungo sulle parole di Zalaia: doveva dare tempo al tempo. Non era semplice imparare. Doveva usare il cervello. L’istinto, invece, suggerendole di buttarsi a capofitto in ogni impresa, la portava a rischiare in maniera sconsiderata. Sbuffò: cosa avrebbe potuto fare se non era ancora abbastanza forte? Le passò davanti un cucciolo che correva via dalla madre, perché stava per prenderle sonoramente. Seleina spalancò gli occhi: forse era una sciocchezza, forse un’intuizione. Se non sarebbe mai diventata forte, poteva comunque provare ad essere veloce. Aveva una corporatura minuta per una Dunedain ma era scappata correndo da uno dei perduti, lanciando un colpo solamente. Poteva provare di assestare numerosi colpi di più lieve entità, lanciati rapidamente. Richiamò alla mente gli insegnamenti che suo padre dava ai suoi allievi più dotati. Come funzionava quella storia di superare la velocità del suono e poi quella della luce?

La sera stessa, dopo essere passata per l’ennesima medicazione in infermeria, corse a letto senza neppure degnare Zalaia di un saluto. Aveva un pensiero fisso in mente. Doveva alzarsi presto. La mattina seguente, avrebbe iniziato a correre. Non si accorse dello sguardo curioso di Mnemosine, che passò da lei a suo figlio.

La guaritrice, infatti, aveva fermato Zalaia prima che sparisse con un altro libro.

 

“Che le hai detto per motivarla così?”

 

Il ragazzo alzò le spalle.

“Quello che è successo a me da cucciolo.”

 

Mnemosine sorrise appena, riponendo le garze. Il figlio le chiese il motivo della sua richiesta e lei si fece nostalgica.

 

“Anche tu avevi quello sguardo, spesso, da piccolo. Non vorrei che abbia imboccato la strada giusta .”

 

Zalaia sfoggiò un’espressione vivace.

 

“Lo spero! Non vedo l’ora che quei cretini del campo inizino a prenderle da un altro mezzosangue: femmina poi, sai che risate!”

 

Mnemosine non poté biasimare l’entusiasmo del figlio. Solo, lo pregò di fare attenzione: non doveva immischiarsi nelle faccende di Haldir, dopotutto la ragazza era sua allieva ed egli sembrava molto geloso in proposito. Zalaia stava per andare via, che quella sera aveva preso impegni con un’altra ragazza, che lo interessava per tutt’altro. Si ricordò che anche Imuen, il suo maestro, aveva notato la stessa cosa e si era definito stufo dei misteri del gemello sull’argomento. Quella era la faccenda da cui doveva stare davvero lontano, perché significava che Imuen ne stava progettando una delle sue e lui, in quella probabile scaramuccia tra fratelli, non ci voleva proprio entrare.

 

Quella notte, Death Mask aveva dormito come un angioletto. La mattina seguente, di buon’ora, si era diretto, nella sua scintillante armatura, verso la biblioteca del grande Tempio. Se le informazioni che aveva ricevuto si fossero rivelate esatte, avrebbe ottenuto più lui con qualche ora di sonno che due cavalieri ben più forti di lui, in ricognizione fuori dalla grecia a nome del grande tempio. La cosa non gli dispiaceva affatto, doveva ammetterlo. Durante la scalata, i compagni delle case superiori gli diedero il permesso senza obiettare, certamente uno più curioso dell’altro. L’espressione più divertente, benché più accennata, fu senza dubbio quella di Virgo che, mai, probabilmente, avrebbe associato un libro alla sua persona. Quella più teatrale, di sicuro la ebbe Pisces, che restò dapprima in silenzio e poi, dopo averlo tempestato di domande, lo seguì ridendo, sempre a bassa voce, perché è più educato, dall’inizio fino alla fine del dodicesimo tempio.

Arrivato alla biblioteca, con mano sicura, aveva estratto un tomo da uno degli scaffali più impolverati ed era rimasto in contemplazione di quelle pagine, rigirandole in fretta, per delle ore. Nessuno oltre a Death Mask, in quell’epoca, aveva il potere di interpretare il volere degli spiriti e, ad occhio esterno, era visibile solo una tenue luce verdina che rischiarava la lettura del tenebroso custode, danzandogli ora sulla spalla, ora sul mantello, ora davanti al naso. Saga, la cui probabile nuova carica sarebbe stata quella di gran sacerdote, l’aveva raggiunto con la scusa di avere ragguagli sulla situazione. Nella penombra dell’ala più vecchia di quelle stanze, gli era sembrato di scorgere il profilo evanescente di un vecchio che indicava a Death Mask ora questa ora quella pagina ed il cavaliere che, attento, non perdeva neppure una sillaba di quelle indicazioni.

Incerto se stesse avendo nuove pericolose allucinazioni o se ci fosse qualcosa di temibile sotto, Gemini provò a sedersi allo stesso tavolo del compagno d’armi. Cancer ripeteva a bassa voce una nenia: pareva in trans. Era del tutto incosciente della sua presenza. Per sincerarsene, Saga gli posò la mano sulla spalla. Provò a scuoterlo appena ed una leggera scarica elettrica gli comunicò che, per il momento, già l’osservazione del singolare fenomeno era troppo. Puntò lo sguardo sul fuoco fatuo che passava in circolo attorno al quarto custode. Il vecchio che vedeva e non vedeva, d’un tratto, si fissò su di lui. Saga si alzò all’istante, sbattendo la sedia a terra. Sudò freddo, col respiro corto. Fu sicuro, per una frazione di secondo, di aver avuto di fronte lo stesso Imuen, che lo fissava deridendolo. Il rumore che causò distrasse finalmente Cancer che, con la sua vera espressione strafottente, lo guardava stralunato.

 

“Che ci fai, qui?”

 

Gli chiese infatti, senza tante cerimonie. Saga, riavutosi, gli pose poche domande, per cercare di capire cosa lui, invece, stesse facendo, e sotto l’influsso di cosa. Death Mask, compiaciuto, aveva però chiuso il libro con un tonfo e glielo aveva posto tra le mani.

 

“Ho appreso cose interessanti. Di sicuro, il cavaliere del Cigno e dell’Acquario avranno scoperto più di me. Non sono ancora rientrati?”

 

Poi lo aveva sorpassato, diretto di nuovo alla quarta casa, che era ormai sera. Appena possibile, sarebbe passato a fare rapporto dalla dea. Aveva da raccontare cosa aveva imparato dei perduti. Saga lo tenne d’occhio finché non si fu allontanato. Il fuoco fatuo che lo circondava e pareva controllarlo era sparito.

Quando fu solo, il cavaliere dei gemelli aprì il libro. Era scritto in una lingua che non conosceva.

 

Seleina aveva corso per tante mattine. Aveva esaurito il fiato che aveva e anche di più. Prendeva sempre il solito passaggio, quello dove gli spiriti dei maggiori fra gli antichi dunedain alzavano il vento e nascondevano i loro discendenti. Tutto si sarebbe aspettata, fuorché di percepire il cosmo di suo padre e di uno degli altri cavalieri. In teoria, avrebbe dovuto andarsene ma c’era stato troppo di non detto nella sua fuga, troppo di non spiegato. Suo padre non le avrebbe mai fatto del male o imposto nulla e lei aveva bisogno di capire quanto fosse diventata veloce, di spiegare le sue ragioni, prima di proseguire per la strada che aveva scelto.

Percependo l’odore marcato dei due uomini, si rese conto che non era la prima volta che venivano da quelle parti. Ormai aveva imparato a nascondere la propria aura. Se voleva palesarsi, doveva farlo a voce. Si avvicinò fino a distare pochi passi da loro. Si schiarì la voce. La prima parola che riuscì ad esalare, fu solo “papà”.

Incerto se fosse realtà o sogno, Cristal la ghermì per le spalle. L’attirò a sé e l’abbracciò forte. Solo così si rese conto che fosse già diventata più alta di qualche centimetro e la sua fisionomia avesse iniziato a cambiare. Lentamente l’allontanò da sé, osservato a poca distanza anche dal suo vecchio maestro.

 

“Stai bene, figlia mia?”

 

La vide annuire, come se si vergognasse. Si nascondeva le mani e ne intuiva chiaramente il motivo.

 

“Non sono mai stata meglio. Da quando è avvenuto… non ho più avuto una sola crisi.”

 

Cristal strizzò gli occhi, come se si fosse tolto un enorme peso dal cuore.

 

“Davvero nessuna?”

 

La ragazza negò di nuovo, fissando il terreno.

 

“Neppure una. Ci sono solo io nella mia testa ora!”

 

Si sentì sollevare per il mento. Si vide osservata con attenzione.

 

“In effetti, non hai occhiaie e pare che tu abbia messo su peso.”

 

Ne osservò compiaciuto le forme più generose ma non gli sfuggirono i tagli sulle braccia e i lividi.

 

“Hai un cosmo, Seleina?”

 

La ragazza lo ricambiò, confusa.

 

“Non ne ho idea padre, io… corro soltanto.”

 

Cristal non riusciva a lasciarla andare.

 

“Corri veloce… così veloce da sfuggire anche ai perduti.”

 

La ragazza boccheggiò. Non aveva idea di come ne fossero al corrente. Quando apprese della nottataccia di Kiki, ne fu dispiaciuta. Presto, però, l’ululato di un enorme lupo squarciò. Fece per allontanarsi ed Aquarius, fino ad allora mero spettatore, si palesò.

Di nuovo, lei precisò di non poter restare.

 

“Verrò, ma non ora. C’è ancora molto che debbo imparare.”

 

Fu un saluto sussurrato nel vento: l’arrivederci a presto, prima di una nuova battaglia.

Note:
1 - Solitamente, gli Anelli del Cigno servono ad immobilizzare l'avversario, qui ho ipotizzato che servissero come barriera difensiva.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 13
*** Padri e figli - parte 2 ***


Padri e figli – parte 2

 

Death Mask raggiunse le stanze private di Lady Isabel alle prime luci dell’alba. Del resto era stato lui a chiedere un colloquio il prima possibile. Era la seconda volta che risaliva verso i piani alti in poco tempo e il singolare avvenimento aveva causato l’improvvisa loquacità di persone che mai, in circostanze normali, si sarebbero sognate di porgere parola a lui. Virgo, in particolare, dopo un veloce saluto, si congratulò per la devozione che dimostrava in quella loro rinnovata esistenza, segno che la sua redenzione era piena, rispetto alla scorsa guerra sacra. Cancer avrebbe preferito rispondere male ma si morse la lingua. Di tutto c’era bisogno, meno che di alterare quello che, probabilmente, era il suo parigrado più influente e temibile. Anzi, anticipò pochi dettagli di quella che sarebbe stata la sua conversazione con la dea.

Death Mask sorrise a denti stretti e specificò di aver conosciuto qualche particolare in più sull’origine dei perduti: come erano diventati quello che erano, chi erano un tempo, cosa li spingeva, come agivano…

Virgo era guardiano delle porte del paradiso dei cavalieri. Death Mask, invece, poteva conversare con i trapassati, se questi volevano. Ne aveva incontrato uno piuttosto loquace.

Teso come una corda di violino, con occhi e orecchi bene aperti, Saga aveva fatto in modo di essere presente a quel colloquio. Sapeva di avere avuto problemi per la sua singolare patologia ma doveva avere la certezza che la sua allucinazione in biblioteca fosse solo un suo timore e non la realtà. Fece accomodare il cavaliere di Cancer di fronte alla dea. Lui, invece, attendeva in piedi, al fianco della loro scrivania.

 

“Il maggiordomo non siede?”

 

Aveva espresso ad un certo punto il quarto custode, col suo solito pessimo savoir-fare.

 

“Sto meglio così.”

 

Precisò spiccio Saga, con una asciuttezza dei modi che quasi mai aveva mostrato.

 

Cancer accavallò una gamba sull’altra. Raccontò brevemente del fantasma che lo aveva assillato nei giorni scorsi. Finora, da che ricordasse lui, mai uno spirito si era rivolto a lui in qualità di medium, ma chi era lui per negare una consulenza?

 

Saga ripensò alle facce con cui decorava la casa nei tempi passati e gli venne in mente una battuta che era meglio tacere.

 

Ad ogni modo, ad aver voluto un suo consulto, era l’anziano bibliotecario, passato a miglior vita da almeno una ventina d’anni. Cancer non aveva la minima conoscenza di lui, quando era in vita, eppure ora era stato cercato. Quel vecchio gli aveva impedito di dormire per giorni. Glielo aveva lasciato fare solo quando gli aveva promesso che avrebbero fatto insieme un giro in biblioteca, a vedere un antico volume che a loro interessava in quel periodo.

 

Saga posò il tomo sul tavolo. Lo aprì e, girati i fogli, gli chiese in che lingua fosse scritto.

 

Cancer fece spallucce, non ne aveva la minima idea: a lui era stato tradotto in simultanea mentre lo leggeva, in compagnia.

Athena, invece, chiuse gli occhi, con aria grave. Non aveva dubbi che quella forse la lingua dei figli di Imuen. Non la sapeva leggere ma la riconosceva sicuramente.

A quel punto, l’allucinazione di Saga acquistava senso e la dea confermò: Imuen era imprevedibile. Poteva benissimo star fornendo loro un minimo aiuto, una spiegazione, forse per la loro passata amicizia.

 

“Imuen è sempre stato benevolo con gli esseri umani, prima che gli olimpici lo imprigionassero. O meglio..."

 

Precisò la dea, incrociando le dita e portando le mani giunte davanti alla fronte.

 

"... indifferente con tutti gli esseri umani, benevolo verso alcuni, interessato ad altri."

 

Si rivolse a Saga.

 

"Con te si è palesemente divertito. E' esattamente come lo ricordavo: gli piace prendere in giro gli esseri umani che reputa più intelligenti. Per lui è una sfida interessante. Gli da più soddisfazione che sconfiggere gli dei. Diceva che era il suo modo di onorare e giocare con la vita. Prendilo come un complimento da parte sua: ti reputa superiore a molti."

 

Saga avrebbe voluto controbattere che ne avrebbe fatto volentieri a meno. Poi ricordò lo scherzo che aveva tirato a tutti loro appena riportati alla vita, quando li aveva trasportati completamente nudi al campo di addestramento femminile. C'era ancora qualche sacerdotessa che davanti gli si inchinava e alle loro spalle se ne usciva con ambigui apprezzamenti sulla prestanza della loro virile virtù guerriera. Si fosse trattato di semplici commenti sulle loro capacità belliche, difficilmente uno come Mu dell'ariete sarebbe arrossito, imbarazzato.

 

"Per cui, io che sono stato guidato, agli occhi di questo Imuen sarei un coglione?"

 

La dea aveva stretto le labbra. Non nè aveva smentito nè confermato le supposizioni di Cancer. Al contrario, lo esortò a raccontare quanto avesse appreso.

Saga aveva gurdato in terra, trattendendo un sorriso. Ottenere una reazione del genere per uno col passato di Saga, per Athena, fu già molto. Lei aveva perdonato quel cavaliere. Imuen gli aveva ricordato la leggerezza di essere umano.

 

Risentito, il cavaliere di Cancer, aveva iniziato dicendo che i perduti, per la maggior parte, non erano figli di Imuen, ma solo figli di Haldir. In passato, si trattava dei soli domatori delle anime dei viventi. Le famiglie dei due gemelli, prima che Imuen fossero reso schiavo, erano unitissime. Mentre i figli del domatore delle anime dei defunti si gettarono nello sconforto, colpiti per la sorte del loro progenitore, quelli delle anime dei viventi montarono in grande collera. Il libro spiegava che erano più irascibili e il loro signore, a differenza del gemello, non era prostrato. Insomma, lo stato d'animo del padre, in qualche modo, influenzava fortemente i sentimenti dei figli. Anzi, era una relazione a senso doppio. La collera dei figli lo infiammò ancora di più. Fu lui a guidare la spedizione che avrebbe dovuto rimettere le cose in pari con gli altri olimpi. Inizialmente fu una strage di divinità minori. Ad Athena i conti tornavano perchè, in quel periodo, molti dei suoi fratelli concentrarono nelle proprie mani poteri prima assegnato a ninfe e divinità di rango più basso. Che motivo avrebbero avuto, se non quello della scomparsa dei custodi designati di quelle precise forze? Quasi tutti gli olimpici si unirono per contrastare quell'esercito di creature soprannaturali. Fu una chiamata volontaria e gli dei esclusi avrebbero dovuto saperne il meno possibile, come era stato per la stessa Athena. Ci fu una battaglia poderosa. Haldir si era scagliato immediatamente contro lo stesso Zeus e lo tenne impegnato per giorni. Lui era quasi un immortale. Tenne testa a lungo ma i suoi figli, lentamente, si fiaccarono. Stretto in quell'assedio, Haldir, che era potente ma non aveva la facoltà di trasferire le proprie energie ai suoi sottoposti come faceva Athena col cosmo, si trovò costretto a scegliere: uccidere il padre degli dei per vendicare il fratello o battere in ritirata per salvare i propri figli. Era stato superficiale e quella che poteva diventare una schiacciante vittoria, invece, si rivelò una penosa sconfitta. Esortò i suoi figli a scappare, perchè avrebbe protetto ad ogni costo la loro fuga ma quelli, folli, non lo ascoltarono. Gli olimpici rimasti, fiaccati loro stessi, ma immortali, unirono le poche energie rimaste. Provarono a lanciare un colpo congiunto che avrebbe dovuto bloccare tutte quelle creature. Qualcosa andò storto. Probabilmente li sottovalutarono. Volevano imprigionarli, senza corpo, tra la vita e la morte. Impedirono si loro la pace del riposo eterno ma non riuscirono a domare quella potenza animale che avevano ereditato dal loro sangue: la capacità di manipolare le anime dei vivi fu trasformata nel perverso bisogno di nutrirsene per non sparire, prede di un richiamo inesauribile.

Per Haldir, fu un colpo più terribile della morte stessa: aveva perduto, per uno stupido duello, le uniche due cose che lo tenevano in quel mondo, suo fratello e i suoi sottoposti. Si manifestò nella sua forma ferina più terribile e, se in quelle sembianze lui Imuen uccise pochi umani, lui azzannò con la sola forza delle sue fauci la folgore del padre di tutti gli dei. Sputò sangue e ne uscì quasi ammazzato ma ancora respirava mentre brandiva denti anneriti ma integri col chiaro intento di puntare alla gola di Zeus. Costretto, il signore degli olimpi ne riconobbe il valore e fermò quell'assurdo duello. Sapeva di essere comunque vincitore, perchè il suo avversario non avrebbe mai avuto pace. Placò con un sigillo i figli rovinati del suo contendente e lo lasciò, afflitto, a sfogare la sua impotenza. Perchè ogni volta che quel sigillo si sarebbe sciolto, ogni volta che uno dei perduti sarebbe stato ricacciato, Haldir avrebbe sentito il dolore di un figlio perduto e dell'anima di cui questo si sarebbe nutrito , in una condanna destinata a non avere fine e a consumare lentamente un essere che, una volta, era quasi eterno come una divinità.

 

Se quei racconti erano verità, Athena si vergognò delle sue origini. Una volta di più si convinse nelle sue posizioni contro Hades. Era sdegnata ed ordinò a Cancer di continuare. C'era, però, poco altro da sapere: i perduti erano come fantasmi inquieti che vagavano sulla terra in cerca di anime viventi di cui cibarsi. In loro, restavano solo i sentimenti peggiori che avevano avuto in vita. I Dunedain che restavano, in ogni caso, riuscivano a sigillarli o a sfuggirgli, mai a sconfiggerli completamente.

 

La dea congedò in fretta i suoi sottoposti, preda di un profondo malumore. Se quelle parole erano vere, quali e quante sofferenze erano state causate a quella razza? Davvero poteva essere così alto il prezzo dell'invidia e del sospetto? Come potevano esseri che si proclamavano superiori, che si facevano venerare col titolo di divinità, abbassarsi a simili sentimenti meschini ed agire in maniera tanto nefanda? Quanto era costato, ad Haldir, sopportare quello strazio? Come aveva fatto a non impazzire?

 

Lo avrebbe aiutato certamente contro i perduti, nella sua epoca. Se l'avesse contattata prima, mai si sarebbe sottratta, neppure nelle epoche precedenti. Perchè non faticava a credere che quelle parole fossero verità, conoscendo la propria famiglia di origine.

 

"E se ci fosse addirittura un modo per riportare i perduti nella loro forma originaria?"

 

Riflettè addirittura fra sè, a voce alta, rimasta sola.

Il fuoco fatuo che aveva accompagnato Cancer, lentamente, aveva ripreso a brillare a intermittenza, come una lucciola dispettosa. La dea riconobbe presto di chi si trattasse e salutò l'amico tendendogli la mano.

 

"Se ci fosse stato un modo per riportare i perduti nella loro forma originaria, fidati che Haldir avrebbe aiutato loro, piuttosto che la tua schiera."

 

Athena sorrise. Non era mai riuscita ad impedire ad Imuen di arrivare dovunque volesse e quando volesse, all'interno del suo santuario, soprattutto nelle camere private della sua servitù.

 

"Non mi fai offrire neanche una tazza di the?"

 

Chiese, apparentemente allegro, come lo ricordava da sempre. Divertita, Isabel riempì personalmente una tazza pulita e gliela porse. Era piacevole vedere come riuscisse ad infilare le dita nell'asola della tazza con quegli artigli così lunghi. C'era un non so che di buffo nel modo in cui se la portava alle labbra e la riposava poi nel piattino.

 

"La gravidanza di tua moglie come procede?"

 

Imuen sfoggiò un sorriso a trentadue denti, con canini piuttosto evidenti.

 

"Magnificamente. Non ringrazierò mai abbastanza mio fratello... e quei due o tre matti che gli sono rimasti."

 

La dea, si sedette al suo fianco, confusa sul fatto che fosse solo.

 

"Come mai ci hai rivelato tutte queste informazioni? Anche in passato, non parlavi mai del tuo gemello."

 

Il rosso sospirò.

 

"Anche ora molto del suo agire, per me, è un mistero. Viviamo in mondi separati, noi due."

 

Portò le mani a due livelli diversi, ad indicare il proprio, in cielo, e quello di Haldir, in terra.

 

Athena spalancò gli occhi. A conoscerli, sembrava che Imuen avesse invertito le rispettive ubicazioni ma, riflettendoci, era esattamente come il rosso diceva.

 

"Lo sai..."

 

Ammise il rosso, alzando le spalle.

 

"... Io fingo di inebriarmi di vita per esorcizzare la morte."

 

Sembrava serio, quasi stanco.

 

"Haldir, invece, è talmente immerso nella vita che a volte mi pare desiderare la morte per avere un po' di pace."

 

Athena scosse il capo, confusa.

 

"Perchè sei qui? Come vuoi che ti aiuti?"

 

Imuen la trapassò coi suoi occhi verdi. Le afferrò le mani, insignificanti, in confronto alla mole delle proprie. Aveva le dita estremamente calde, come di una persona preda di una forte febbre.

 

"Mio fratello si è caricato di troppe colpe che a causa delle mie mancanze. Abbiamo sempre aiutato i tuoi protetti, quando potevamo."

 

La sua presa era salda, accorata, sicura. Aveva sottinteso che le sue azioni passate fossero state compite in sinergia col gemello e che, ora, stava agendo invece di testa propria.

 

"Ho bisogno che ricambi il favore, amica mia."

 

Si trattava della stessa persona carismatica che la dea ricordava.

 

Athena annuì decisa, non gli avrebbe negato il proprio appoggio.

 

"Naturalmente Haldir non sa nulla di questa tua iniziativa..."

 

Imuen sorrise e mostrò le sue zanne affilate, in quell'espressione che con un sorriso normale sarebbe stata di bell'aspetto ma che, sulla loro razza, spesso era inquietante.

 

"Haldir mi prenderebbe a botte, nella migliore delle ipotesi.., nella peggiore mi getterebbe tra i perduti, orgoglioso come è. I panni sporchi si lavano in casa."

 

Si alzò e la guardò serio.

 

"Ai tuoi paladini avevo promesso una vita che sarebbe stata solo loro. Eppure, ora mi rendo conto di avere bisogno anche della loro forza, non solo per difendere gli esseri umani. Tra loro, ne vanti alcuni a dir poco notevoli."

 

Si stava rimettendo l'elmo, pronto a sparire.

 

"Fate attenzione a oriente, più che a nord. La i sigilli sono più deboli e si stanno spezzando. Ci sono anime che si credono perdute e che lo diventeranno veramente, se non protette a dovere."

 

La dea avrebbe dovuto chiedergli più chiarimenti ma ormai era quasi il tramonto ed in quelle ore il suo amico diventava davvero operativo. Per Imuen, era tempo di andare.

 

"Fa attenzione al giovane ariete. Fino a che non si decide, può essere un pericolo. Se un'anima come la sua finisse ai perduti, sarebbe un casino."

 

 

Ad aver lasciato turbata Saori furono soprattutto le ultime parole di Imuen. Ormai tutti i suoi dubbi su Kiki si erano diradati. Era certa che fosse saldo nelle sue convinzioni, eppure lo spavento che avevano provato notti prima, in cui non riuscivano a liberarlo dal legame con Seleina, era tremendamente vivo. E l'interesse di Haldir nei confronti di quel ragazzo... Rimasta sola, informò una guardia. Ovunque fosse, Kiki doveva rientrare.

 

Seleina aveva ripensato molto al fugace incontro con suo padre. Erano state poche parole, ma erano state chiare. Aveva comunicato di stare bene, lo aveva fatto vedere. Che così, suo padre, forse, avrebbe avuto finalmente pace. Aveva visto il viso tremante del genitore mentre le sollevava il mento ed il sospiro esalato nell'osservare il suo aspetto più vigoroso. Da quanto non sembrava sana?

Da quanto non lo era davvero?

Aveva capito chiaramente chi fosse il giovane cavaliere dai capelli scuri che accompagnava suo padre. Lo aveva riconosciuto subito per la descrizione che ne aveva avuto da piccola. Ciò che aveva immaginato dell'indole di quelle persona corrispondeva esattamente a realtà. Se avesse avuto più tempo, si sarebbe inchinata e presentata a dovere al vecchio maestro di suo padre, a Camus dell'Acquario.

 

Presto, però, i suoi pensieri corsero al suo fratellone acquisito. Come mai il legame mentale con Kiki restava così forte? Non avrebbe dovuto sciogliersi la notte stessa della sua trasformazione? Si guardò le mani artigliate. Kiki non era mai stato un normale essere umano. Era vero, lei manteneva sempre un legame con le persone che aiutava. Lo aveva con molta gente di Asgard, con diversi di Rodorio. Una volta che le anime erano alleviate era sempre lei a decidere chi sentire e quando. Ormai, Kiki aveva riavuto suo fratello. Era in pace anche lui. Perchè dunque non riusciva a staccarsi? Dopotutto, il fisico di un Dunedain era superiore a quello di un essere umano, così come la sua mente. Che fosse il cosmo smisurato di Kiki a renderla sottoposta, in quel caso? Perchè, allora, lui non la lasciava andare e basta? Se avesse voluto, probabilmente, Kiki ne avrebbe avuto la piena facoltà. La sua andatura, ormai, superava di molto la velocità del suono. Spiccò un balzo e superò le basse mura di cinta. Aveva imparato in fretta, dopotutto. L'incoraggiamento di Zalaia, doveva ammetterlo, si stava dimostrando per lei vitale. Forse, non sarebbe stata poi un'idea così assurda una chiacchierata con il suo amico.

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Capitolo 14
*** Prepararsi a proteggere ***


Non era mai stato difficile trovare Kiki. Ora che aveva la possibilità di localizzarlo col fiuto, era stato davvero semplicissimo. Si domandò se fosse stato il caso di mostrarsi in quelle sembianze. Si guardò le mani, incerta, come faceva da tanto tempo a quella parte.

Le strinse e si decise a proseguire. Suo fratello era uno dei pochi di cui non doveva temere il giudizio. Dopotutto, non l'aveva giudicata neppure suo padre. Sospirò. Era certa che fosse solo. Per quale assurdo motivo si trovava in Jamir invece che al Santuario, privo della compagnia di suo fratello? Non era bastato riportare Mu alla vita per liberarlo dalle incertezze, dai sensi di colpa. Neppure se era un guerriero capace di far tremare le galassie. La volontà umana era qualcosa di tremendamente potente ed altrettanto inperscrutabile.

 

Seleina arrivò con un solo balzo alla balaustra del terzo piano della loro pagoda. Era da li che l'odore del suo amico proveniva. Posò piano i piedi a terra, dal ballatoio, dove era atterrata. Era incerta se chiamarlo o meno ma tanto, senza essersi premurata di nascondere la propria aura, sarebbe stata intercettata nel giro di pochi secondi. A meno che Kiki si sentisse male o avesse qualche altro problema. Trascorso ormai mezzo minuto, incerta e vagamente preoccupata, si decise a parlare per manifestare la propria presenza. Kiki le andò incontro solo in quel momento, con gli occhi sgranati.

Aveva ancora in mano gli attrezzi con cui era solito riparare i danni più lievi delle armature. Li appoggiò esterrefatto su di un tavolo e le corse incontro, per abbracciarla con forza. Non la ricordava così alta. Mu le aveva descritto una persona diversa da quella che ricordava e ora, che l'aveva davanti, vedeva chiaramente veritiere quelle sue supposizioni.

 

"Cielo, quanto sei cambiata!"

 

Gli superava la spalla, mentre prima la raggiungeva a malapena. Aveva braccia più vigorose. Non l'aveva mai vista con abiti tanto leggeri, priva di occhiaie. La carnagione chiara, le gote rosate. Per la prima volta da che la conosceva, era certo di avere davanti una ragazza sana.

 

L'agguantò per il braccio, prima che scappasse.

 

"Devi raccontarmi ogni cosa."

 

L'espressione della sua amica, però, non era serena. Il rimprovero, infatti, non si fece attendere.

 

"Sai benissimo che mi è successo. Mio padre avrà raccontato già tutto alla tua schiera. Tu piuttosto..."

 

Gli puntò il dito al petto e lo spinse leggermente indietro. Aveva anche la forza per riuscirci, ora, constatò Kiki, sorridendo.

 

"Perchè accidenti sei qui e non al santuario? Perchè non hai reclamato la tua armatura?"

 

Il giovane ariete le riavviò i capelli dietro l'orecchio, mostrandolo a punta. Lei, stizzita, lo allontanò di qualche passo per ricoprirlo di nuovo, sotto la fascia con cui teneva indietro i capelli ormai troppo lunghi e mossi.

 

"Sono felice anche io di vederti, sorellina."

 

La prese in giro, si disse, almeno finchè poteva. Aveva la sensazione che la forza della ragazza sarebbe aumentata presto, impedendogli quegli scherzi semplici e quelle confidenze che, negli anni, avevano costituito, per lui, un abbozzo di "casa".

Sapeva che Seleina si vergognava di quel cambiamento fisico così evidente ma non poteva biasimarla per aver voluto cambiare.

 

"Adesso stai bene, vero?"

 

Lei sembrava essersi arresa. Era diventata seria ed aveva annuito, semplicemente.

Si era portata l'indice alla tempia.

 

"Adesso sento solo chi voglio, quando e come voglio. Nessuno può più sopraffarmi."

 

Poi, fissò Kiki con quelle iridi profonde che non avevano ancora cambiato colore.

 

"Nessuno, eccetto te."

 

Sorrise in quel modo dolce che riservava a lui e a pochi altri che avevano modo di conoscerla intimanente.

 

"Perchè non sei ancora in pace, fratello?"

 

Aveva posato il palmo aperto al centro del suo petto come era solita fare fin da bambina e lui le aveva stretto la mano con la propria, che non riusciva più a contenere la sua, per via delle unghie ormai sproporzionate. Quella volta non le avrebbe permesso di stare male per causa sua.

 

"Kiki, tu non mi hai mai fatto del male."

 

Affermò allora lei, resa incerta dal fatto che la allontanasse.

 

"E' per questo che hai paura?"

 

Kiki negò, serio, sincero.

 

"Non è per te. Sento che vestire quella corazza non è il mio ruolo, per lo meno, non ora."

 

Seleina si era decisa a lasciarlo stare, aveva abbassato il capo. Finalmente, pareva aver compreso.

 

"Non farti portare via da Haldir, fratello mio. Seguirlo non è per tutti."

 

Gli aveva carezzato la guancia e sembrava essere diventata triste.

 

"Io ho scelto l'unica strada che mi sia stata possibile ma non deve essere la tua. Haldir lo sa e non ti porterebbe ma via con sè ma lo farà di certo se tu glielo chiederai."

 

Kiki aveva provato a controbattere ma si era ritrovato davanti un'opposizione che non si aspettava.

 

"Non provare a dire che non c'è disonore in ciò che ho fatto! Perchè ce n'è, fratello, e tanto."

 

Seleina si era indicata e urlava.

 

"Io ero destinata a diventare così, per sopravvivere. Tu no! Tu non seguirai Haldir, mai!"

 

Aveva urlato troppo forte e presto non furono più soli. Mu li trovò così, arrabbiati, che si fronteggiavano l'un l'altro.

La ragazza non sembrò turbata dalla presenza del nuovo arrivato. Al contrario, si rivolse a lui.

"Non permettere che questo scellerato segua Haldir! Il signore delle energie fredde ha bisogno di guerrieri potenti in questa epoca e se Kiki offrirà il suo aiuto, lui lo prenderà certamente fra le sue schiere!"

 

Seleina avanzò decisa verso Mu. L'altro Ariete era più basso e riusciva meglio a tenergli testa. Lo afferrò per le maniche della casacca ed era molto diversa dalla ragazza delicata che era parsa la prima volta.

 

"Tu non devi permettere che Kiki diventi come me!"

 

Mu si lasciò scuotere così, anche per vedere dove sarebbe andata a parare.

 

"Lui non deve morire in questa battaglia tra Dunedain."

 

A differenza di lui, quella ragazzina non si curava di nascondere paure e lacrime.

 

"Lui deve vivere con te, per Athena."

 

Mu aveva temuto di dover fronteggiare qualcuno con poteri enormi, che cercava di portargli via, in tutti i modi, suo fratello. Qualcosa si rasserenò, in lui, rendendosi conto che, in larga parte, quella fanciulla era solo qualcuno che condivideva una sua paura.

 

"Ti prometto che non lascerò andare Kiki facilmente."

 

Forse fu il suo tono pacato, che era lo stesso con cui rassicurava Kiki da bambino, forse era perchè davvero credeva in quelle parole, la principessa ne parve rincuorata e si calmò in fretta. Lo lasciò andare, annuì ed accettò una bevanda calda.

 

Non furono meravigliati di sapere che avesse iniziato un allenamento per un'investitura. Non erano sciocchi. Avevano riconosciuto benissimo le cicatrici. Chiesero invece del suo incontro con uno dei perduti. Domandarono perchè Haldir l'avesse permesso. Dopotutto, ad un maestro è anche affidata la custodia di una allieva.

 

Allora, la giovane aveva sorriso sorniona, mostrando i canini affilati.

 

"Haldir sperava che la paura mi togliesse ogni velleità sull'arte bellica. In realtà, il fatto che io sia in qualche modo sfuggiata a quella creatura da sola, ha segnato per sempre il mio destino."

 

A Mu quella storia non tornava.

 

"In che senso? Chi è predestinato, ha sempre un destino segnato, a meno che chi comanda non condeda riposo."

 

Specificò con una punta di disappunto, accennando a suo fratello.

 

Seleina soffiò sulla tazza calda. Doveva aver usato il cosmo senza pensarci, perchè il liquido raffreddò all'istante.

 

"I cavalieri sono predestinati. I dunedain scelgono. In quella razza i cuccioli sono avviati tutti ad una sorta di addestramento, sia per le specifiche qualità fisiche, sia per proteggersi dai nemici."

 

Chiarì a Mu, incerto.

"Purtroppo, qualche perduto dilaga sempre, anche quando il sigillo è attivo. I guerrieri sono pochi e non possono proteggere tutti, sempre."

 

Specificò, addentando uno dei biscotti che le erano stati posti davanti.

 

"Verso i tredici anni si fa una scelta. Poi quella strada si percorre tutta la vita. Solo allora si diventa guerrieri effettivi o si prova a diventarlo."

 

Kiki aveva inarcato un sopracciglio.

 

"E se fallisci?"

 

Seleina l'aveva ricambiato sarcastica.

 

"A voi cavalieri che succede, se fallite?"

 

Mu si era messo in mezzo ed aveva riempito la tazza ad entrambi, con il chiaro pensiero che si riempissero la bocca e non pensassero neppure di iniziare a battibeccare.

 

La principessa, che chiaramente era quella che più di tutti voleva evitare l'argomento, tirò un sospiro di sollievo. Lo ringraziò mentalmente e cercò un altro argomento di conversazione.

 

"Piuttosto, dovreste cercare di proteggere meglio il villaggio ad est di queste montagne."

 

Entrambi i lemuriani impallidirono, mentre lei consumava un altro biscotto.

 

"Quale villaggio?"

 

Cercò di tergiversare il più giovane che, chiaramente, si stava arrampicando sugli specchi.

 

Seleina percepì dai loro animi di aver toccato decisamente l'argomento sbagliato, benchè le loro facce si dimostravano più che sufficienti, in quel senso. Ormai era fatta.

 

"Quello le cui aure degli abitanti voi tenete nascoste da sempre, per altro riuscendoci benissimo."

 

Concesse, poco convinta, perchè se lo aveva localizzato lei, che ancora stava imparando, per uno più esperto sarebbe stata una bazzecola.

 

"... ma i Dunedain hanno il naso, i perduti lo stesso, anche se voi lo ignorate."

 

Poi diventò seria.

 

"Il confine li è debole. La vostra razza è in pericolo. Li dovete proteggere. "

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 15
*** Protettori e protetti ***


All'improvviso Seleina si era bloccata. Aveva stravolto lo sguardo e l'azzurro delle sue iridi si era espanso fino a coprire tutta la parte bianca degli occhi. La tazza che reggeva in mano, spaccata in mille pezzi dall'impatto col terreno, era un mero ricordo della calma familiare che si respirava fino a poco prima. La ragazza si era alzata lentamente, diretta alla balaustra. Aveva ben poco di umano in quel momento. Stranamente, fu proprio Kiki il meno sconvolto da quel cambiamento. Al contrario, per la prima volta da quando la conosceva, gli sembrava davvero completa, come se quell'aspetto inquietante fosse sempre stato parte della sua natura.
La sua amica avanzava come se si muovesse in quella stanza ma la sua testa fosse altrove.

"Sangue."

Disse, infatti, semplicemente. Entrambi i lemuriani la ascoltarono impietriti.

"Dove?"

Domandò allora Mu, allarmato.

Lei aveva serrato le palpebre e si era portata le mani alle tempie. Aveva ringiato. Si era accartocciata su se stessa. Con un certo sforzo aveva indicato una direzione chiara.

"Il vostro villaggio. Due perduti. Dovete correre."

Mu aveva potuto solo osservare. Per Kiki era stato diverso. Lui era ancora in collegamento con Seleina e le immagini che aveva carpito a lei gli avevano fatto accapponare la pelle. Erano un misto di rabbia, ferocia, fame, di un'avidità che gli tolse il fiato: l'espressione di un desiderio che sentiva insaziabile, quasi ferino.
Seleina si era alzata boccheggiando. Ansimava forte. Solo Mu aveva la possibilità di indossare un'armatura ed aveva raccomandato a lei di restare al sicuro. Invece, la ragazza si era riportata in piedi. Si era asciugata il sudore e gli aveva messo la mano sul braccio.


"Tu mi teletrasporti con te. O verrò da sola. Quella è la tua gente ma quelle... cose... appartengono alla mia razza."


Forse fu l'orgoglio con cui gli fu detto, forse la principessina, nel suo slancio, fu davvero convincente. Il cavaliere d'ariete annuì. La luce del suo cosmo li avvolse tutti e tre. Nel breve arco di un istante furono esattamente dove la ragazza aveva detto.


Non appena arrivarono però al villaggio, contro ogni aspettativa, trovarono la calma più piatta ad accoglierli. L'unica cosa che faceva paura era Seleina, per via di quel suo singolare aspetto, che la faceva assomigliare più ad una fata poco benevola uscita da qualche racconto di genti dimenticate, piuttosto che ad una persona vera. Doveva essersi calmata: le sue iridi erano tornate normali. Tuttavia, il suo atteggiamento la rendeva ancora come una persona fisicamente presente ma con la testa in un'altra dimensione.
Si erano avvicinate alcune donne, alcune più giovani, una più anziana, che pareva essere, tra tutte, quella più autorevole. La poverina doveva aspettarsi una qualche risposta da quella straniera. Quando, però, Seleina la superò senza degnarla di uno sguardo, un sospetto sembrò pungere anche lei. Si rivolse silenziosamente ai due guerrieri, che sapeva essere, da sempre, nella casta dei loro protettori. Il fatto che la lasciassero andare così doveva essere un motivo sufficiente per lasciar fare quella straniera senza porre domande.

Domande se ne stava però ponendo Mu che, guardandosi attorno, non riusciva proprio a percepire nulla di strano. Kiki, invece, aveva seguito Seleina con una faccia scura, tanto che nessuno dei presenti, a differenza dal solito, tentò neppure di rivolgergli il saluto.

Seleina aveva raggiunto un banco con della frutta. Quello doveva essere giorno di mercato. Strinse tra due dita un lembo della stoffa dove le merci erano adagiate.

"Dove hai preso questo panno?"

Il venditore sembrava confuso. Già rispondeva male ad un estraneo alla loro razza, figurarsi ad una donna e per giunta una donna come quella. Ma Kiki era con lei e gli faceva cenno di rispnondere.

"L'ho trovata nel mio magazzino."

Rispose allora l'uomo, semplicemente.

"Prendi con te tua figlia e allontanati."

Confuso, rivolse uno sguardo fugace alla ragazzina che gli era vicino, poi di nuovo al suo capovillaggio. Non capiva per quale motivo dovesse abbandonare le merci che aveva coltivato con tanta fatica nei loro climi ostili.

"Senti un po', tu..."

Aveva iniziato, parlando a lei, ma rivolto all'accompagnatore di quella strana fanciulla.

D'un tratto, però, un'ombra gli oscurò la visuale. Si voltò verso Seleina e non ci capì più niente.
Kiki, con un balzo, l'aveva spinto dietro al suo banco, facendo scudo, con le spalle, a lui e a sua figlia. Mu aveva aperto le labbra, sconcertato. Il panno che Seleina aveva preso tra le dita si era mosso all'improvviso, come se una persona nascosta sotto si fosse alzata repentinamente. Per quanto era accorso, suo fratello era già entrato in azione. Lo aveva visto gettarsi verso un muro per far proteggere delle persone. Eppure, non percepiva nessun cosmo.

Entrambi i fratelli si erano posti davanti a Seleina, per fronteggiare quell'essere apparso da chissà dove.

"Fa scappare la gente del nostro villaggio."

Ordinò, infatti, asciutto Kiki. Seleina annuì controvoglia.

"Non fatevi toccare da quella cosa. Non guardatela negli occhi. Potete solo allontanarla. Ce ne sono più di due."

Mu si voltò verso di lei.

"Quanti? Sai indicarceli?"

La ragazza gli corse vicino.

"Almeno cinque e uno si è nutrito. Sono forti ora. Non posso localizzarli. Non fate peccato a scappare anche voi per proteggere la fuga della vostra gente."

Si scambiarono uno sguardo rapido. Mu lesse in lei la stessa apprensione che le persone care gli rivolgevano quando sapeva che andava in battaglia.

"Sai che non possiamo."

Le sorrise, celere. Ormai, avevano nella mente solo la battaglia.

Seleina strinse le nocche. Aveva pochi attimi per decidere. Conosceva la loro lingua, almeno le sembrava, per quel poco che aveva carpito in quei pochi minuti. Si diresse al centro della piazza, o a quella che immaginava essere tale. Alzò la voce e non bastò. Alzò il vento del suo cosmo e congelò qualche piede, fino a che non fu certa di avere l'attenzione di ogni persona.

"Bisogna fuggire."

Stavano già obiettando che non sapevano lei chi fosse, che non sembrava esserci pericolo. La principessa, però, era arrivata tardi troppe volte ed aveva visto troppi morti ad Asgard per opera dei perduti per non aver la forza di controbattere.

"Sono la principessa Seleina di Polaris e conosco quanto si sta per scatenare, perchè ha già fatto scempio della mia Asgard."

Pronunciò decisa. In quel momento, il suo aspetto diverso sembrava non differenziarla minimamente. Nessuno, vedendola, ebbe dubbi sull'autorità del suo ruolo. Traspariva dalla sua sicurezza, dal suo portamento.

"Un terzo degli uomini armati in marcia alla testa del gruppo. Donne, bambini e vecchi al centro. Il resto a progettere fianchi e retrovie."

Un ragazzo, più sfrontato, le fece presente che non avevano armi con loro.
Seleina, allora, si morse il labbro. Ripensò a come erano soliti agire i Dunedain in certi frangenti. Materializzò qualche dalla forma rozza composta di ghiaccio. Come figlia di Asgard, aveva il potere della sua terra natale.

"Ve le dovrete far bastare allora. In marcia, se tenete alla vita."

Detto ciò, prese in braccio un bimbetto che restava, da solo, li nei pressi. Nell'altra mano afferrò una spada dal mucchio che aveva creato.

"In marcia."

Ripetè con un tono che passava dall'avvertimento alla minaccia. I presenti si guardarono tra loro, perplessi e svogliati. La giovane, però, era arrivata accompagnata da due autorità e Kiki sembrava fidarsene ciecamente. Alla fine, si risolsero a seguirla.


Velocemente, quel panno scuro, lievitando dal banco, era svolazzato attorno a loro come un semplice pezzo di stoffa sospinto dal vento. Kiki non ci pensò a lungo. Lanciò un'onda d'urto stellare e, nella luce del suo cosmo che si riplacava, apparvero le sembianze scure di quell'essere privo di volto.
Non era servito a niente. Un colpo dei più potenti non era servito a nulla. Abitutati a fronteggiare avversari singoli, Mu in particolare non si avvide subito dello strano tremolio della sua ombra allungata dalle luci del tramonto. Per Kiki, invece, fu un brivido. Repentino, afferrò il polso del fratello e lo lanciò via. Si trovò accerchiato da tre perduti, due alle spalle e uno davanti.
Temendo per la posizione di svantaggio del fratello, anche Mu cercò di usare il cosmo. All'erta, stava concentrando il suo potere nelle mani. Non era però facile avvedersi di quegli esseri. Due alle spalle non li aveva proprio sentiti. Il loro tocco, alla schiena, spense all'improvviso, in lui, ogni velleità bellica, come se tutta la costellazione dell'ariete fosse stata assorbita in un buco nero. Aveva il nome di Kiki sulle labbra. La luce del cosmo dell'altro Ariete, allora, esplose come una supernova. Non era uno dei suoi soliti colpi. Mai la pioggia delle stelle era stata tanto spaventosa, così accecante da trasportare lontano, in un istante, tutti i nemici che li avevano accerchiati.
Quando la luce si estinse, Kiki normalizzò il proprio respiro. Raggiunse suo fratello ed impallidì. Senza dubbio, Mu era stato colpito.


"Per quanto ancora dobbiamo camminare e dove siamo diretti?"

Seleina avanzava troppo spedita per quel gruppo così assortito.

"Al cimitero delle armature, signora."

Aveva risposto, secca, all'anziana che cercava stentoreamente di starle appresso. Senza pensarci, se l'era caricata in spalla, come erano soliti fare i Dunedain coi più lenti per risparmiare tempo. In realtà, aveva fretta di raggiungere quel posto perchè aveva contattato telepaticamente Zalaia e l'amico gli aveva consigliato di andare avanti nel frattempo, lenti come sarebbero stati. Lì nei pressi, la principessa confidava potesse esserci qualche anima errante di cui il suo amico avesse potuto servirsi, in caso ci fosse stato bisogno di ingaggiare battaglia contro i perduti. Nella più rosea delle ipotesi, invece, avrebbe purificato le anime di quei disgraziati che ancora ci giravano una volta per tutte. Come sperava, Zalaia li stava precedendo. Ne sentiva l'odore ed ad ampi balzi raggiunse il punto in cui lui si trovava. Il ragazzo indossava già l'armatura e sembrava anche essersi portato appresso dei medicamenti.
Non appena la vide, le riconfermò quanto fosse pazza ed aiutò la signora che Seleina aveva fatto saltellare per parecchi metri a riabbracciare la terra ferma.

"Sta bene? Cosa ha osato trattarla questa sciagurata?"

Espresse, infatti, in tono melodrammatico, spolverando le spalle della poveretta, come se ce ne fosse bisogno. Seleina inarcò un sopracciglio ma non gli rispose male, come al solito. In quel frangente, non era il caso.

"L'uomo che hanno ferito dove è?"

Gridò Zalaia, al resto del gruppo, che ormai li aveva raggiunti. Come suo solito, si diresse al centro, dove si trovavano le donne, specie quelle più giovani. Elargì i suoi complimenti ad una particolarmente carina di cui finse di non apprezzare il compagno, che in realtà sapeva essere la persona ferita di cui Seleina aveva sentito all'inizio il sangue.

Quando gli scoprì il braccio, non fu sorpreso di sapere che credeva di essersi tagliato con un vecchio pezzo di stoffa che nascondeva una cassa di legno da cui sporgevano dei chiodi. Esaminò la ferita e confermò sospirando la versione in cui l'uomo credeva. Non gli rivelò quanto sfacciatamente fortunato era stato, ad essere ferito da uno dei perduti ma a non aver avuto alcun bisogno di cure particolari, come quelle che poteva elargire sua madre. Gli spalmò un unguento e dispose una fasciatura, poi torno dalla sua giovane amica. A lei non poteva nascondere, purtroppo, la verità, nel tentativo di farla stare traquilla.

"Sperò i tuoi amici siano fortunati come quello la."

D'un tratto, avvertirono la potenza delle stelle esplodere. Si guardarono l'un l'altra. Seleina riconobbe al volo il cosmo smisurato di Kiki.

"Li ha davvero allontanati?"

Espresse, infatti, esterrefatta. Zalaia annuì, ammirato. Annusò però l'aria.

"L'altro, però, è stato colpito."

Seleina impallidì, preoccupata sia per Mu sia per le reazioni di Kiki all'evento. Afferrò Zalaia per le spalle e lo scosse.

"Va ad aiutarlo, ti prego! Loro non sanno dove siamo!"

Zalaia era incerto.

"Tu non riuscirai a proteggere tutti questi da sola, in caso di bisogno. E sai che nessun altro dei nostri accetterà di correre rischi per degli umani."

"Vado io allora. Li porto da te."

Zalaia, allora, le afferrò la mano. La strinse per lunghi istanti, senza dire niente.

"Non mi piace che vai da sola. Loro sono guerrieri esperti. Tu non ancora."

Seleina era confusa, forse ancora troppo ingenua per capire.

"Non lascio mio fratello a rischiare da solo."

Zalaia capì subito che questo Kiki, per lui, sarebbe stato un rivale.

"Non è giusto che tu corra un rischio simile per loro. Resta. Ci troveranno."

Seleina, però, allontanò le dita dalle sue. Non poteva leggere nel cuore e nella mente dei figli di Imuen.

"Io vado."

Zalaia si fece nervoso. Probabilmente era triste.

"Non farti ammazzare."

Sapeva che una come lei andava conquistata, non obbligata. Sarebbe stata la mossa più stupida.
Potè solo seguirla col cosmo, nervoso.

L'uomo che aveva curato, che aveva assistito a tutta la scena, gli chiese se fossero una coppia, vista l'evidente familiarità. Zalaia negò, nervoso.

"Tu con tua moglie quanto hai insistito affinchè ti sposasse?"

Forse era per cameratismo, perchè, davvero, lo aveva curato bene.

"Parecchio."

Zalaia storse il naso.
"Io non ho mai dovuto pregare tanto, per una donna."

Il lemuriano, visto il tipo, gli aveva messo la mano sulla spalla.

"Io neppure. Solo con mia moglie ho fatto un'eccezione."

Zalaia, capito l'andazzo, rise.

"Allora, se ci riesco, ti vengo a trovare e mi porto una bottiglia di vino. Festeggiamo. Sempre che nel frattempo tu non diventi nonno."
 

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Capitolo 16
*** Primo scontro coi perduti - parte 1 ***


Kiki sospirò portandosi al fianco di suo fratello, stordito ma ancora abbastanza vigile. L'armatura doveva avergli attutito il colpo, anche se non gli sembrava più tutto libero nei movimenti. Sulla schiena, in particolare, spiccava una macchia scura che adombrava la lucentezza dell'oro. Iniziò a chiedersi se avessero fatto meglio ad allontanarsi anche loro, privi come erano della necessaria conoscenza su come affrontare quelle creature. Pronto a dar battaglia, espanse nuovamente il cosmo. Non sarebbe finita li, così velocemente, in quel modo assurdo. Nell'aria iniziò a diffondersi una leggera nebbia che sembrava impedire la visuale ed ottenebrare i sensi. La temperatura stava calando. Non andava bene. Scagliò un'altra onda di luce ed il suo tentativo ebbe il solo effetto di illuminarli maggiormente per brevi secondi. Inquieto, controllò di nuovo suo fratello. Deglutendo, girò su se stesso, preoccupato. Lo chiamò a voce: con la telecinesi era silenzio piatto. Non riusciva a spiegarsi il motivo: Mu l’aveva lasciato solo.


 

Mu barcollò appena. In quella nebbia gli venivano in fretta a mancare le forze. Dentro di sé, capiva che qualcosa non tornava. Gli sembrava che le mani pulsassero e vedeva ad intermittenza le proprie unghie crescere. Qualcosa, in lui, mutava. Una, due e mille voci si sovrastavano nella sua testa. Non riusciva assolutamente a scacciarle. Parlavano di sangue, di emozioni che lui non conosceva ed incutevano ribrezzo. Erano ringhi di belva che lo avvertivano che era più semplice arrendersi ed inutile opporsi, perché quando uno dei perduti ti tocca sei segnato. Il marchio non si può togliere e lui c’era cascato. Poteva diventare uno di loro. Temeva che, presto, sarebbe diventato lui il peggior pericolo per suo fratello. Forse, abbattere o per lo meno allontanare una delle creature che lo avevano colpito poteva rendere la loro azione meno efficace. Gli cantavano di vite recise e cadaveri massacrati nel sangue. Una rabbia furiosa gli cresceva dentro. Decise che a farne le spese sarebbe stato uno dei suoi aguzzini. Qualcuno arrivava verso di lui, neppure troppo velocemente. Era rallentato a causa di quella malia ma si disse che non importava. Se ne sarebbe andato o, nella peggiore delle ipotesi tramutato in uno di quegli esseri immondi. Sicuramente. Ma mai si sarebbe spento senza lottare. Il suo pugno, caricato di cosmo, aveva tagliato la nebbia. Poi, però, vide la verità e la volontà di rivalsa si trasformò terrore, sul suo viso. Non c’era nessun nemico. Gli sfuggì un gemito dalle labbra nel rendersi conto che non aveva di fronte nessuno dei perduti ma solo un'altra vittima. Nella follia che gli avevano instillato nella testa, aveva attaccato la principessina.

Forse, fu per la pesantezza che ghermiva il suo corpo o solo per la fortuna sfacciata: la ragazza riuscì a spostarsi prima dell'arrivo del suo attacco. Lo fissò, tremante, per qualche istante, cercando di calmarsi e normalizzare il respiro. Aveva poi teso la mano verso di lui, che gli gridava invece di scappare, poiché, presto non sarebbe più stato padrone delle sue azioni. Seleina, però, aveva negato, fino ad arrivare a pochi passi. Gli spiegò che, se lui fosse già diventato come i perduti, per lei non ci sarebbe stato scampo alcuno e non poteva assolutamente permettere che un uomo con un cosmo sconfinato come il suo si unisse ai nemici. Poi, sarebbero stati ancora più difficili, da ricacciare.

“Vieni con me.”

Lo aveva invece invitato. La voce gentile che più che un richiamo dolce ebbe il potere di un obbligo. Perché Seleina aveva implorato Haldir ed il suo signore concedeva sempre appoggio ai suoi figli più devoti e quando il domatore delle anime esercita il suo potere non c’è anima vivente che possa opporsi, neppure un dio, figurarsi un uomo.

“Vieni con me e presto sarai di nuovo padrone di te, salvo.”

La sua mano tesa fu afferrata esitante e lei, ringraziando gli dei, l’aveva accolta. Non l’avrebbe più lasciata andare. Finalmente, poteva anche avvertire Kiki che tutto era finito e poteva raggiungere Zalaia. Ora, non le restava che raggiungere insieme a Mu il campo.


 

****************


 


 

 

Zalaia aveva iniziato a contare i minuti da che la sua amica era partita. Non ascoltava minimamente le chiacchiere delle persone vicino a sè e stava richiamando diversi fuochi fatui. Un bambino si era accucciato alla spalla della madre ed aveva iniziato a tremare, nell'osservare quel giovane cavaliere in armatura nera dal viso pallido, che bisbigliava parole sinistre a cose che lui non vedeva. Zalaia era concentrato. Minuscole fiamme chiare iniziarono ad addensarsi attorno a lui ed il loro lieve bagliore iniziava ad essere più evidente, nella luce del giorno che andava morendo. D'un tratto evanescenti figure umane presero lentamente forma attorno a lui. Un'anziana credette di impazzire: l'uomo che era apparso nella realtà viveva ormai da molto tempo solo nei suoi ricordi.

Zalaia, infatti, stava diventando nervoso: il pensiero della sua amica, rimasta sola, gli mordeva le viscere. Ringhiò sommessamente: probabilmente si trattava di gelosia. Forse, semplicemente non voleva. Non poteva accettare che un'altra della sua razza perisse per degli esseri umani. Anche lui era umano per metà e si era sempre vergognato delle sue origini: troppo oscuro il passato di suo padre, troppo macchiato il suo nome. Così come sua madre era stata rovinata da un cavaliere del Grande Tempio, la femmina per cui stava iniziando a provare dei sentimenti rischiava di perire a causa di due di loro.

Da tempo i lemuriani che il giovane Dunedain proteggeva, accorgendosi del cambiamento della sua indole, si erano allontanati e ritirati fra loro.

Ai loro occhi, ora, quel cavaliere nero dai capelli color sangue era del tutto simile agli spettri che padroneggiava. Nel momento in cui videro la falce, sua tradizionale arma, comparire nella sua mano sicura, il loro cuore martellò violento nel petto. Sembrava apparsa la morte a pretendere il suo bottino di anime. Invece, i fuochi fatui si erano distanziati tra loro, circondandoli tutti. Zalaia si stava concentrando più intensamente. Dalle tenebre erano apparsi altri lemuriani, che solo qualcuno dei presenti aveva riconosciuto, o quasi. Il loro sguardo, però, era spento, lontano. Quando riconobbero le persone del villaggio, l'anziana che ne riconobbe uno lo chiamò per nome. Poichè l'età aveva annebbiato le sue pupille ma non la sua memoria, non aveva mai dimenticato il viso di suo marito, perito tanti anni prima. Anche lui la riconobbe, ne fu certa, nel momento esatto in cui si incrociarono i loro sguardi. La paura, allora, non potè più nulla contro la curiosità ed il bisogno di sapere. L'anziana corse verso quel giovane che aveva le sembianze di un angelo maledetto e lo chiamò forte. Zalaia, che un po' umano lo era ancora, ne ebbe pietà.

"Ho richiamato qualcuno che conoscevi?"

Era in quei momenti che si rendeva conto di quanto il potere dei domatori delle anime dei viventi poteva essere efficace.

Presto, apparve il lemuriano più giovane: era stato avvertito da Seleina che suo fratello era con lui e poteva raggiungere il resto della sua gente.

Zalaia, finalmente libero da quell’obbligo fastidioso, interruppe la concentrazione. Si destò, come se uscisse da uno stato di trance. Non si curò minimamente dei presenti che gli domandavano quale sarebbe stato il suo agire. Mostrò la falce. Si apprestava a rimandare quei perduti nel buco da cui erano usciti. Doveva fare in fretta. Voleva tornare al campo per controllare coi propri occhi la situazione della sua amica e di quel fesso che si stava portando appresso.


 

Note: ho fatto una piccola revisione del testo, dove mi sembrava poco chiaro. Ho preferito, tuttavia, lasciare il capitolo breve, come era inizialmente. Sperando che ancora ci sia qualcuno che passa di qua, buona lettura.

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Capitolo 17
*** Primo scontro coi perduti - parte 2 ***


Cercava di aiutare Mu si rivelò più impegnativo di quanto immaginasse: benché il suo cosmo fosse meno vasto di quello di Kiki, si stava comunque rivelando sconfinato rispetto alle sue possibilità. Da sola non sarebbe mai riuscita a purificarlo dalla mole di oscurità che aveva dentro. Poteva solo mantenerlo lucido lungo il tragitto dal Jamir al campo dei Dunedain, cercando di non restare contaminata lei stessa. Mu era più alto di lei. Si era fatta passare il suo braccio sopra la spalla. Lo sorreggeva a fatica e la loro andatura iniziava ad essere claudicante. Si accorgeva anche che l'odore del cavaliere andava mutando: iniziava ad assumere una nota di quello dei perduti. Aveva bisogno di mantenere il contatto fisico per tenere attivo il suo potere. Non poteva permettersi di cedere. Aveva troppo da perdere.

Mu stava sviluppando troppa rabbia, persino contro di lei. Ingegnò uno stratagemma sciocco per guadagnare tempo. Doveva comunque tentare. Si schiarì la voce per richiamare la sua attenzione e lo vide girare il viso sudato.

"Quando gli dei ti tormentavano..."

Iniziò titubante, non avendo in mente altro argomento di conversazione, in quel momento.

"..pensavi mai a tuo fratello?"

Il cavaliere, affaticato, sorrise. Capì subito l'intento e, invece di spronarla ad andarsene, si concesse di assecondarla per qualche minuto. Deglutì. La fissò con occhi profondi.

"Ci pensavo in ogni momento."

Nonostante tutto, la perfezione dei suoi lineamenti non era ancora stravolta. Riprese fiato, cercando di emulare l'andatura della ragazzina, per non sbilanciarla ulteriormente.

"Mio fratello è cambiato molto da quando era piccolo. Ma immagino tu ne sappia più di me."

Seleina titubò appena. Per un istante, la presa sul braccio di Mu fu meno salda. Era stata lei ad iniziare il discorso e doveva aspettarsi, da parte di una persona intuitiva quale sapeva essere il cavaliere d'ariete, una affermazione come quella.

"Io l'ho incontrato che era già cambiato. Il dolore muta tutti, in un modo o nell'altro."

Poi gli afferrò nuovamente il polso. Non lo avrebbe più lasciato. Unì le dita attorno di esso e gli artigli le graffiarono il palmo, che sanguinò appena.

Mu l'aveva guardata ancora. Nelle difese mentali abbassate della ragazza scorse sensazioni che avrebbe preferito non vedere.

"Hai una certa esperienza. Non ti riferisci solo a Kiki."

Lei scosse il capo. Un po' tacque. Era cosciente di avere al fianco un potente psicocineta. Non avrebbe potuto isolare i propri pensieri neppure se avesse voluto.

"Affrontare il dolore di tutti mi ha fortificato e mi avrebbe ucciso; affrontare quello di Kiki mi ha permesso di sopravvivere."

Ormai la superficie era stata grattata. Mu voleva sapere.

"Spiegati, per favore."

La vide cercare parole che faticava a trovare. Fu preso in giro che, come telecineta, qualcosa avrebbe potuto leggere già da sé. Era piacevole averla accanto, in quella difficile situazione.

“Io non vedo, Grande Mu. Io sento: voci e sensazioni che non mi è sempre stato possibile scegliere di ignorare. Cose che sai perfettamente non tue ma che ti feriscono esattamente come le persone a cui appartengono.”

I loro passi procedevano lenti ma costanti e, metro dopo metro, il campo di avvicinava.

“Chi sta male ti chiama: ti reclama a sé come la pace di cui ha bisogno e tu puoi solo obbedire. Non hai altra scelta se non cancellare quel dolore, vivendolo come fosse tuo, mentre lo purifichi. E’ di una bellezza sconvolgente un’anima che torna libera ma è anche una cosa che ti consuma.”

Seleina gesticolava mentre raccontava e metteva una certa enfasi in ogni parola.

“All’inizio ero costretta in ogni caso. Poi sono diventata abbastanza forte da oppormi qualche volta. Abbastanza brava da capire che, come le anime tormentate mi distruggevano, quelle luminose come quella di Kiki potevano rinvigorirmi.”

Aveva una voce melodiosa e vibrante, che sembrava appartenere ad una persona ben più matura.

“In teoria non facevo niente di sbagliato: avevo solo bisogno di percepire che ci fossero persone che stessero e facessero del bene, a questo mondo. Per questo, mi facevo portare spesso al Grande Tempio. Li ci sono molte persone buone.”

Seleina aveva rallentato: si era quasi bloccata.

“Il problema è che con persone senza cosmo comando io. Sono sicura di non mostrare niente delle cattive percezioni che ho ricevuto da altri. Con chi è dotato di cosmo, la musica cambia: comanda lui. E se non sto attenta, è facile che passo qualche... schifezza. ”

Per un attimo era calato il silenzio. Il controllo che aveva di se stessa aveva preservato Mu dal provare davvero ciò che aveva paventato, fino ad allora. Quando poi lui si scusò, lei si sentì in dovere di chiarire.

“Anche ora, per isolarmi da voi, sto facendo una fatica assurda. Voi cavalieri d’oro siete davvero potenti.”

Ammise chiaramente.

D'un tratto, il legame che Seleina e Kiki avevano, prese più forma nella mente dell'interlocutore.

"Intendi dire che Kiki ha provato qualcosa delle tue... percezioni?"

Seleina sospirò. Temette una reazione da parte dell'altro. Se si fosse arrabbiato in quel momento sarebbe stata perduta. Del resto, mentire le era impossibile.

"A volte."

Aveva trattenuto il fiato e non era stata ancora azzannata. Anzi, percepiva Mu curioso più che collerico.

"Kiki è stato l'unica persona dotata di cosmo che ho aiutato. E' stato il primo. Ne avessi saputo prima gli effetti non lo avrei mai fatto."

Puntò il viso a terra, colpevole.

"Ero troppo piccola per capire."

Mu, invece, sospirò. Alleggerito, improvvisamente, di quella preoccupazione enorme, stava ritrovando anche la forza di contrastare gli effetti dell'oscurità che aveva dentro.

"Allora, è anche colpa tua se Kiki è stato così lunatico negli anni?"

Seleina si bloccò di colpo, sorpresa. Si sarebbe sentita anche leggermente offesa, se non si fossero trovati in quella situazione.

"Certo non gli ho reso la vita più facile ma lui era affranto per la vostra dipartita anche prima conoscere me, sia chiaro. Ad ognuno le sue colpe, Grande Mu."

La risata gli uscì leggera, di cuore. Le vene del collo che pulsavano, scure, quasi bruciavano meno. Le avrebbe scompigliato i capelli, se avesse potuto. Kiki allora non si era così indebolito negli anni solo per propria colpa. Quella ragazzina, inconsapevolmente, ci aveva messo del suo.

"L'averci riportati alla vita, quindi, non è solo il tuo modo di chiedere ad Atena di proteggere Asgard dai perduti e diventare più forte. E' anche per fare ammenda?"

Seleina era rimasta a bocca aperta, sbalordita. Era la prima volta che rivoltavano lei come un calzino e non le era affatto dispiaciuto. Non se lo sarebbe mai aspettata, soprattutto da un uomo, specie da un cavaliere nato e cresciuto nei confini del santuario, in una società avvezza solo alla giustizia senza storture. Senza dubbio Mu era parecchio più furbo del fratello minore. Guardò il cavaliere, si soffermò sul sorriso delicato e compiaciuto. Annuì, arresa. Poi rise lei stessa, complice.

"Che dite? Se riesco a salvare anche il futuro gran sacerdote il debito sarà del tutto saldato?"


 


 




 

Zalaia era furioso. Se avesse avuto tra le mani, in quell'istante, lo smidollato che Seleina, con tanto sforzo, al loro accampamento, l'avrebbe volentieri dilaniato. Ad ogni suo passo, il rumore del metallo dell'armatura vibrava, ritmico. Avanzò attraverso la cortina di nebbia prodotta dai perduti come se non esistesse. Raggiunse il centro del villaggio deserto e, alzato il palmp libero al cielo, richiamò a sè la miriade di fuochi fatui. Mano a mano che questi si ridistribuivano in cerchio attorno a lui, come minuscole sfere luminose nel panno lattigginoso della notte, la nebbia si diradava celere. Presto, fu accolto dalle sembianze deformi dei perduti, mentre le sue fiammelle lo circondavano della loro luce fioca. Zalaia ringhiò di nuovo ed impugnò la falce con entrambe le mani. Spiccò un balzo, rapidissimo. Un attimo dopo, la testa del primo nemico rotolava a terra. Lui non era come i cavalieri di Atena. Non perdeva tempo in chiacchiere. Si scaraventò addosso al secondo e dove non arrivò con la falce maciullò con gli artigli. Sapeva che quelle cose non avevano un cuore ma controllò comunque. Nell'estrarre il pugno vuoto dal centro del petto, fu colpito da un puzzo nauseabondo. Mentre un corpo decapitato si afflosciava come un sacco mezzo vuoto, fece roteare la falce con la mano pulita e raschiò il terreno. Quei due cadaveri appestavano ed erano pericolosi: dovevano sparire, prima che i proprietari si ricomponessero. Il vento che trasportava quei due perduti alla dimensione a cui essi appartenevano sembrò purificare anche l'aria. Mentre altri perduti tentavano di sorprenderlo alle spalle, Zalaia si girò su se stesso. Ne eliminò due con un fendente solo. Fermandosi al centro della piccola piazza, riattivò il vortice completamente, piantando la false, salda, a terra. Presto, verso di lui venne risucchiata la mole di oggetti più disparata: cesti, stoffe, ortaggi. Tutte le merci esposte in quella tranquilla giornata di mercato gli passarono vicino senza sfiorarlo. Il tuonare del vento era potente ma era sovrastato dai versi dei perduti rimasti che conficcavano gli artigli nel terreno, si arpionavano a bancherelle, muri delle case, inutilmente. I capelli rossi di Zalaia saettavano in ogni direzione, coprendo il suo viso pallido. Dopo lunghi minuti era finito tutto. Il guerriero non si curò di spostare gli oggetti di intralcio che incrociò andandosene. Aveva perso fin troppo tempo. Una luce scura lo avvolse per restituirlo nelle sue sembianze animali. I lemuriani seppero che tutto era finito quando videro un immenso lupo nero correre via nel cielo lontano.

 

 

 

Contro ogni suo presentimento, Mu si svegliò su una superfice morbida. Non appena erano arrivati in prossimità del campo, Seleina lo aveva lasciato andare, si era lasciata scivolare sulle ginocchia ed era praticamente svenuta. Aveva provato ad impedirle di battere la testa. Riuscì a sfiorarle i capelli e rendersi conto che, dal respiro, fosse letteralmente piombata nel sonno. Nel frattempo, due uomini parecchio più alti di lui, coperti di armature di pelli, si erano fatti avanti, saltati giù da mura di legno alte qualche decina di metri. Dalle sembianze, non aveva dubbi che si trattassero di Dunedain. Seleina, poco prima di arrivare, gli aveva fatto memorizzare il nome di una certa Mnemosine, la guaritrice. Per sicurezza, aveva detto la ragazza. Riuscì giusto a pronunciare quel nome, prima di essere afferrato per il braccio, sollevato come un fuscello e trasportato come un sacco di patate dentro il loro centro abitato. Era troppo stanco per opporsi. Notò che alla ragazza avevano riservato un trattamento di poco migliore. Senza parlare, li avevano poi scaricati davanti ad una capanna che sembrava un po' più grande delle altre. Ad accoglierli, aveva trovato una donna dai capelli rossi e di grande fascino. I due soldati che li avevano portati avevano parlato con lei. Doveva avere una certa autorità. Sembrava averli sgridati per qualcosa. Doveva essere stato così, perchè avevano preso Seleina in braccio invece di lanciarla, quasi, come prima.

"Io sono Mnemosine, la guaritrice di questo villaggio. Tu chi sei, straniero?"

Si presentò ma all'improvviso fu tutto buio. Gli dissero dopo, che aveva dormito per quasi due giorni.


Note: ho modificato leggermente una piccola parte del testo, che risultava un po’ fumosa, almeno, spero di aver fatto meglio. Nel caso, se vi va, chiedete. Altrimenti: buona lettura.

 

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Capitolo 18
*** Convalescenze ***


Mnemosine gli pose una ciotola con qualcosa di caldo. Si scusò se la zuppa non fosse stata di suo gradimento ma si sarebbe dovuto adattare. Non cucinava spesso per gli esseri umani e non poteva lasciarlo andare, fino a che non fossero stati sicuri che fosse del tutto fuori pericolo. Mu accettò di buon grado. Capiva perfettamente di essere sorvegliato a vista e si stupì, anzi, di essere tenuto in un letto comodo dell'infermeria, piuttosto che in una branda dentro una cella, messo ai ceppi.

"Sei sempre così silenzioso o qui ti annoi?"

Gli domandò quella mattina Mnemosine, dopo avergli cambiatole bende alla schiena ed aver predisposto rotoli di garza sopra un tavolo. Li per li non Mu non capì se la domanda avesse un che di retorico o fosse una affermazione. Poi riflettè su come avrebbe dovuto essere schietto il carattere della guaritrice, per quel poco che avesse avuto modo di conoscerla. Optò decisamente per la seconda possibilità. Rispose perciò gentilmente.

"Vi vedo sempre impegnata. Non vorrei disturbare."

Mnemosine lo guardò in tralce.

"Beh, se ti annoi, mi potresti dare una mano. Così posso controllare meglio se ti riprendi e mi togli una parte di lavoro, se te la senti."

Mu annuì, cortese, e la udì sospirare, mentre gli dava le spalle per sistemare delle ampolle con unguenti dalle note balsamiche.

"Voi cavalieri di rango superiore potete curare le ferite da taglio col cosmo, giusto?"

Mu confermò, confuso.

"La stazza di chi curi può essere un problema?"

Capì poco il senso della domanda. Poi realizzò che, mediamente, i guerrieri Dunedain fossero più alti di lui e più robusti.

"Affatto, e neppure il numero dei feriti conta per me"

La vide rasserenarsi parecchio. Lei gli raccomandò di riposarsi nel frattempo, perchè avrebbero avuto parecchio da fare nel pomeriggio.

La prima a bussare alla porta, poche ore dopo, fu proprio Seleina, che lo scrutò perplessa. Prima ancora che la giovane potesse chiedere perchè si trovava fuori dal letto, Mnemosine, agitata, la indirizzò subito verso Mu.

Seleina si rabbuiò all'istante. Si reggeva il braccio offeso da un taglio profondo ma non era certo quello il motivo del suo malumore.

"Zalaia aveva da fare in città e non è qui a darle una mano. La ricognizione di Sire Haldir e Sire Imuen deve essere andata male parecchio se Mnemosine si aspetta un numero tale di feriti da mettere in moto persino voi."

Si rivolse, desolata, a Mu, mostrandole il braccio che le sanguinava.

"Mi aiutate voi?"

Iniziado a comprendere la reale difficoltà in cui versavano, Mu cercò di rendersi utile più che poteva.

"Almeno oggi, avrei potuto cercare di non farmi ammazzare agli allenamenti come gli altri giorni."

Borbottò Seleina, più per se stessa che per il cavaliere che la curava. Mu concentrò la luce del suo cosmo pensieroso, attento a carpire ogni singolo particolare degli eventi. Di sicuro, Kiki sarebbe stato più efficace nel consolare la ragazza. Lui era sempre stato impacciato nei rapporti umani, nonostante il grande intuito. Non appena ebbe risanato il taglio al braccio, pose la mano sulla spalla di Seleina.

"Vedi di tenere a mente il proposito di poco fa, invece!"

La rimproverò, al contrario una voce maschile. Seleina incassò la testa tra le spalle, riconoscendo Zalaia,rientrato all'improvviso. Il ragazzo aveva buttato il mantello fradicio di pioggia in un angolo e si stava lavando con energia le mani, consumando una saponetta bianca dall'odore pungente. Da un cassetto, aveva estratto un grembiule bianco che svolse ed indossò in pochi gesti. Li aveva squadrati in fretta, palesemente seccato. Aver visto Seleina che condivideva un gesto che gli sembrò così intimo con quel cavaliere era l'ultima cosa di cui aveva bisogno in quel momento. Si legò i capelli, imponendosi freddezza.

"Ti hanno ferito anche oggi, agli allenamenti?"

Chiese poi, scettico, non sentendo odore di sangue.

"Mi ha guarita Mu."

Gli spiegò l'amica, colpevole, mentre lui cercava di domare la chioma immensa fino a sistemarla sotto la cuffia. Il giovane si rese allora conto di doversi mordere la lingua e dover ringraziare quello smidollato.

"Hai doti di guaritore?"

Mu, sorpreso, spiegò anche a lui che sapeva fare.

"Dacci una mano, per favore!"

Zalaia si era portato due dita alla base del naso. Stava implorando la persona che, fino ad un attimo prima, avrebbe voluto maciullare.

"Mia madre non ha la resistenza fisica necessaria a gestire da sola tutto il casino che si scatenerà qui tra poco."

A quella richiesta accorata, Mu si rese disponibile in tutto e per tutto. Avrebbe anche potuto richiamare aiuti dal santuario, in caso di bisogno. Pure se quel ragazzo non lo ringraziò, più di tutti intuì quanto di non detto c'era, nella sua salda stretta di mano.

"Sel, tu fuori dai piedi."

Zalaia aveva poi spinto fuori dall'infermieria la ragazzina, anche se, più di tutto, gli avrebbe giovato l'incoraggiamento di lei soltanto. La principessina, inconsapevole, gli fece solo promettere di mandarla a chiamare, se ne avessero avuto bisogno. Concentrato, Zalaia aveva confermato, prima di sbatterle la porta in faccia. Mu, confuso, non capì perchè l'aveva mandata via, se poteva essere utile.

"I figli di Haldir curano solo la psiche. Intervengono in pochi casi: i malati a cui dobbiamo somministrare cure dolorose non riescono a star tranquilli, ed è raro, o si tratta di agonizzanti che non trovano pace ad un passo dalla morte, ed è la norma."

Il cavaliere d'ariete comprese.

"Se interviene Seleina, è perchè tu e tua madre avete fallito."

Zalaia trapassò Mu col suo sguardo tagliente. Il cavaliere d'ariete capì di aver fatto centro e di essersi guadagnato il suo rispetto. Per il resto delle ombre che il ragazzo aveva nei suoi confronti, ci sarebbe stato tempo.

Zalaia aveva modi bruschi ma si vedeva che era dovuto più allo stato dall'erta in cui si trovava che al suo carattere. Indicò a Mu uno zainetto che aveva lasciato vicino al mantello, poco prima. Lo invitò a servirsi delle provviste che avrebbe trovato dentro. Si trattava dell'unico pasto che potevano fornirgli in quel momento. Il cavaliere riconobbe l'odore di cibi confezionati in città popolose, proprie dell'epoca moderna e si stupì non poco di aprire una confezione d'asporto di cibo vagamene asiatico.

"Lo fanno passare per cinese. Te lo devi far piacere"

Mnemosine era rietrata in quel frangente ed aveva storto il naso notando il contenitore che Mu aveva in mano.

"Possibile che mangi solo quello schifo quando vai in città?"

Zalaia, dandole le spalle, aveva roteato gli occhi.

"Meglio quattro piccioni crudi con la fionda dal parco dell'università?"

Non era nè il tempo nè il luogo per terminare la discussione e la madre brontolò che sarebbe stato un problema se fossero stati stanchi perchè non nutriti a sufficienza. Poi uscì per sistemare altre brande nelle stanze attigue e Mu udì sospirare il giovane. Mai avrebbe immaginato di assistere ad una scena del genere. Non seppe se ridere od essere compiaciuto della familiarità con cui comunicavano tra loro esseri che credeva tanto diversi.

"Non mi farai la morale perchè ho risposto male a mia madre, spero?"

In realtà, era basito del fatto che uno grande e grosso come lui, decantato braccio destro d Imuen, potesse essere messo in riga con quella facilià da una donna. Perchè una cosa era conoscere i luoghi comuni della gente, un altro vederli coi propri occhi. Forse, in un ambiente maschile come quello del grande Tempio, certe scene erano piuttosto rare.

"Noi non abbiamo bisogno di costringere le nostre femmine ad indossare maschere per riconoscerne il valore."

Ammise Zalaia, alzando le spalle.

"A ovest, poi, c'è un villaggio di sole femmine che vanta guerriere così potenti che perfino parecchi dei tuoi pari farebbero bene a guardarsi dal far arrabbiare. Anzi, alcune di loro sono solo da amare."

Mu scosse il capo: tutto si aspettava, fuorchè finire a parlare di donne, poco prima che si scatenasse il putiferio.

"Parli per esperienza diretta?"

Il ragazzo, un po' per darsi arie, un po' perchè aveva bisogno di credersi superiore a lui, e poi perchè era vero, sorrise a trentadue denti, più le zanne.

"Più di una, caro mio."

Si scoprì il collo per mostrare una cicatrice di artigli.

"Me la sono sudata ma accidenti se la valeva."

Mu arrossì, lievemente in imbarazzo. Gli avevano detto che, per certi versi, anche Kiki aveva assunto comportamenti simili.

"Sicuro di non essere tu a mancare di rispetto alle... femmine, saltando così, di fiore in fiore?"

Zalaia, serio, si voltò verso di lui.

"Io non gualcisco i fiorellini che collezionate voi cavalieri del Grande Tempio. Non per fare accuse, ma si sa che voi ve la spassate con le ancelle. Io tratto alla pari con guerriere. Hai visto donne che avessero in mano solo una ramazza in questo villaggio o facessero solo gli angioletti del focolare? Le nostre donne hanno quasi tutte in mano una spada, si difendono e sanno difendere. Non sono oche ammaliate dall'oro. Sono donne di sangue, che amano e odiano uomini che gli sanno tenere testa."

Mu aveva notato l'occhiata che Zalaia aveva lanciato, di sfuggita, fuori dalla finestra dove, in un mucchio di polvere, Seleina era caduta, l'ennesima volta, a terra contro un suo avversario.

"Donne come quella là?"

Lo prese in giro, delicato ma deciso.

"Anche. Perchè quella è molto più Dunedain di tante che lo sono per nascita. Seleina traccerà la sua strada e andrà lontano. Non ha niente a che vedere con le vostre femmine con la maschera o con la ramazza."

All'ariete, finalmente, fu chiara una bella parte del malumore del suo interlocutore. Si sbrigò a cambiar discorso, visto che avevano parecchio da fare. Aprì il contenitore e mandò giù, con poco entusiasmo, il cibo che vi era dentro, o ciò che facevano passare per tale. Donne di sangue, aveva detto Zalaia, riferendosi alla principessina, che già aveva due o tre tagli che sanguinavano copiosi alle braccia. Non aveva controbattuto tanto al discorso del giovane, sulle mansioni ed il rispetto che avevano loro per le donne del santuario. Non poteva negare che il loro ambiente fosse prettamente maschile, come del resto era anche Asgard. Si era fatto fare un bel discorsetto sulla parià dei sessi da un ragazzetto per metà animale. Che Seleina, in un certo senso, cercasse solo un suo posto nel mondo e quella società di uomini selvaggi metà lupi fosse un posto migliore per ottenerlo? La osservò prendere tante di quelle legnate da chiedersi che senso avesse, farla allenare. Eppure la piccola non cedeva. La stessa testa dura di Cristal contro Scorpio. Il boccone che aveva sollevato con le bacchette rimase sollevato a mezz'aria. Seleina lo guardava, perplessa, in un attimo di pausa, non capendo che volesse da lei, per fissarla. Gli aveva agitato la mano in segno di saluto. Suo malgrado, Mu arrossì e rispose al gesto, finendo il cibo restante in fretta e silenzio. Donna di sangue anche lei, che le stava prendendo da un'altra donna altrettanto sanguigna che la sovrastava. Seleina si abbassò su se stessa, afferrò a palmi uniti la spada dell'avversaria. Si lasciò scivolare in terra, rotolando sulla schiena. Coun una capriola,veva sbilanciato l'avversaria e le era atterrata sul bacino. Le aveva tolto di mano la spada e gliela restituiva puntata alla gola. La strada da percorrere era un po' più breve. Ansimavano entrambe quando il cielo si fece scuro. I dunedain rientravano in branco. Era finita la pausa.

 

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Capitolo 19
*** Aiutarsi ***


Una forte energia si era manifestata all'improvviso. Una miriade di macchie, chiare e scure, erano apparse all'orizzonte. Sembravano uccelli che volavano in un poderoso stormo e lottavano contro un vento impetuoso. Poi, le macchie avevano cambiato forma, ingrandendosi, allungandosi, mostrando le sembianze di animali che mai gli uomini erano avvezzi a scorgere in cielo. Quando gli immensi e numerosi lupi arrivarono sopra al villaggio, le luci che segnalavano i quattro angoli dell'accampamento si spensero all'istante. Mnemosine e Zalaia si bloccarono di scatto, come se i loro corpi fosseo stati percorsi da una scossa.

All'unisono, si avvicinarono alla porta. Zalaia corse fuori, gridando al cielo. I più inesperti, che si allenavano in una piccola arena di terra battuta, erano rientrati in fretta nei loro alloggi. Mu aveva trattenuto il fiato mentre Zalaia aveva alzato le braccia al cielo e veniva coperto da una pioggia di sangue, insieme a lui, capanne e terreno. I Dunedain, ormai a una decina di metri da terra, latravano furiosi nelle loro forme animali. Solo allora, quando avevano occupato tutto lo spazio visibile, Mu si rese conto che quel sangue, in realtà, colava dalle ferite profonde inferte alle loro forme animali. Mnemosine l'aveva spinto da una parte, per lasciare libero il passaggio. I primi a trasformarsi, furono i due esemplari più magnifici, identici in tutto, tranne che nel colore delle iridi e del manto, bianco sporco uno, nero come la pece l'altro. Una donna, umana, minuta, in mezzo a quel pandemonio, era uscita da chissà dove e si reggeva un neonato al petto. Mu, tremando, era deciso ad andarle incontro per bloccarla e portarla al sicuro. Invece, fu trattenuto da Zalaia, che lo aveva afferrato e lo bloccava coi suoi fuochi fatui, come a dirgli "sta tranquillo. E' tutto a posto. E se intervieni ti sbrano."

 

Solo quando quella fragile creatura raggiunse i piedi del lupo nero e lui si accuciò quatto al tocco della sua mano, Mu capì che il mito prendeva vita sotto ai suoi occhi. Una luce potente avvolse l'animale, alto una decina di metri, restituendo poi le sembianze del cavaliere in armatura scura che aveva riportato alla vita tutti i cavalieri d'oro. Allora, Mu realizzò che doveva essere l'ancella per cui, secoli prima, Imuen era impazzito di dolore e aveva trucidato diverse persone a Rodorio. Era lo stesso essere che in quel momento stringeva a sè quelle creature fragilissime come le due uniche cose importanti e preziose. Mu si rese allora conto della reale fascino quei singolari esseri potessero esercitare sugli umani, se erano davvero disposti ad amare, perdersi ed odiare come solo i mortali sono capaci. Non faticava a credere che le divinità potessero temere i Dunedain: loro erano la testimonianza vivente che la potenza degli dei poteva essere convivere tranquillamente con la mortalità, acquistare senso da essa, essere superiore alla perfezione divina, fino a distruggerla.

Era perso in quei pensieri quando Dunedain dai capelli chiari e le iridi azzure avevano raggiunto invece Haldiar. Il viso del cavaliere bianco era teso in un'espressione altera, del tutto diversa dal sollievo che si leggeva sul viso del gemello. Si faticava a credere che fosse Haldir a domare le anime dei viventi. Tra il gruppo che lo aveva raggiunto, persa perchè più piccola, c'era anche Seleina. A Mu sembrò di scorgere un baluginio particolare nelle iridi del gigante bianco quando quella sua figlia mal riuscita si inchinò davanti a lui, a differenza degli altri, che si erano avvicinati per sostenerlo, nel caso ce ne fosse stato bisogno. Seleina restava un passo indietro rispetto agli ai compagni. Haldir fissò i suoi figli uno a uno, principessina compresa. Forse, per lei ebbe un'attenzione particolare. Mu lo ravvisò nel cenno di alzarsi che le fece. Nell'elmo che le pose tra le mani ed il cenno col capo che le fece, superando tutti i presenti. Mnemosine, a quella scena, chinò il capo.

"A quanto pare i figli di Haldir devono intevenire senza passare per l'infermeria."

Spiegò a Mu Mnemosine, serrando i pugni. Mu ripenso alle parole di Zalaia e capì che c'erano state vittime. D'altra parte non ebbe molto tempo per dispiacersi per loro: presto, l'infermeria fu riempita fino a scoppiare di feriti: tutte le brande e gli spazi disponibili erano stati occupati, parecchi distesi a terra. Era stato lasciato solo un passaggio per loro tre. Non era semplice, con quella carenza di guaritori.

Il primo che portarono a Mu fu un omore che aveva una gamba trapassata da quella che doveva essere una freccia. L'infortunato lo annusò appena e ringhiò, non seppe se più per lui, che riconobbe umano, o perchè, adagiandolo sulla branda, gli avevano fatto sbattere la gamba. Zalaia, allora, che non perdeva di vista nessun angolo dell'infermeria, l'aveva scansato in fretta, poggiato un panno con una sostanza odorosa a coprire la bocca ed il naso dell'infortunato ed estratto con una maestria che lo lasciò basito l'oggetto conficcato nelle carni di quel poveretto, senza svegliarlo.

"Vedi se puoi sanarlo."

Gli aveva quasi ordinato il ragazzo, tornando poi a svolgere un compito simile su almeno altri tre. Mu si concentrò e finì in fretta, esterrefatto. Mentre Mnemosine poteva contare su poteri simili ai suoi ma si affaticava in fretta, Zalaia era instancabile, ma poteva curare solo con pozioni, medicamenti, aghi e bende. Il dubbio che avesse sviluppato quella maestria nelle arti cerusiche fra gli uomini lo toccò parecchie volte, soprattutto quando lo vedeva fasciare e mettere punti come uno dei tanti chirurghi che operavano nelle prestigiose cliniche su cui poteva contare la reincarnazione di Athena della sua epoca. Dovette ammettere a se stesso che era bravo ed era strano sapere che fosse anche un guerriero di quel livello. Dopo circa tre ore, Mnemosine era ormai al lumicino. Si era seduta su una sedia in una stanza attigua. Mu e Zalaia la guardarono nello stesso momento. Fu allora che Imuen, abbassando la testa per entrare, perchè era troppo alto, si presentò da loro.

Senza dire nulla, mesto, aveva raggiunto Mnemosine nell'altra stanza e chiuso la porta.

Zalaia aveva sospirato.

"Se non altro, mia madre riprenderà un po' le forze grazie a Sire Imuen."

Mu non ci aveva capito molto. Aveva sentito il l'aura potente di Imuen esplodere e poi chetarsi. Lui e la guaritrice erano usciti insieme, pronti il primo a riprendere la sua strada e la seconda a terminare il suo lavoro.

 

Il gigante in nero, poi, si era rivolto a Mu. Gli aveva poggiato la mano sulla spalla. Guardandolo negli occhi, l'aveva ringraziato per l'aiuto che stava prestando.

"Se puoi, controllami quella testa calda."

Gli comunicò telepaticamente, prima di andare. Si riferiva chiaramente a Zalaia. Doveva tenere molto anche a quel ragazzo, si disse il cavaliere d'ariete, non solo come allievo e doveva riporre parecchia fiducia in lui, probabilmente perchè cavaliere di una dea che il capo dei Dunedain chiaramente rispettava e a cui voleva bene.

 

Imuen si era fatto forza, prima di avvicinarsi alla casa del villaggio che avevano preposto alla cura, se così si poteva definire, di coloro che stavano per passare a miglior vita.

La maggior parte dei figli di Haldir, rigorosamente tutti con gli occhi rossi e le guance rigate, iniziavano a dare segni di cedimento. Per celia o segno del destino, l'unica che ancora non cedeva era il loro ultimo acquisto, che agli allenamenti era leggermente sopra il livello di guardia, ma in quell'aspetto si poteva apertamente definire un portento. Il gemello gli aveva spiegato che la cosa fosse dovuta al fatto che si era allenata, se così si poteva dire, per anni, con quel cavaliere lemuriano potentissimo che si rifiutava ancora di vestire un'armatura. Seleina stava aiutando un suo guerriero ferito mortalmente, la cui piaga aperta si infettava rapidamente. Era già un miracolo che Haldir fosse riuscito a purificarlo perchè non si unisse ai perduti, che li avevano praticamente maciullati, in quello scontro. La principessa aveva aperto le mani ai lati delle tempie di quel disgraziato e piangeva silenziosa, rivivendo, certamente, più e più volte, il colpo mortale che quel poveretto aveva ricevuto. Non sapeva, fino a che punto, i figli di Haldir sentissero anche il dolore dei loro "protetti", ma certo in una gran bella misura. Difficilmente, altrimenti, si spiegava la resistenza al dolore fisico di quella scriteriata. Perchè bisognava essere matti parecchio per cercare rogna come la cercava lei, con avversari così oltre la propria portata. Poi, osservò il modo attento in cui Haldir la studiava minuziosamente, come quando erano cuccioli, e Haldir era meno il domatore delle anime dei viventi e solo una mente vivace e brillante che studiava la natura e ne carpiva gli intimi segreti. Suo fratello sapeva qualcosa che gli aveva taciuto, qualcosa che aveva accettato a fatica, perchè non lo sopportava, ma che aveva già trasformato in un vantaggio, invece che in una sconfitta. Glielo leggeva nelle palpebre abbassate, le gote rigate anche lui, le lacrime a perdersi nella barba che era ora di tagliare. Perchè se Haldir leniva più persone alla volta, i suoi figli uno solamente. Haldir che aveva mutato zanne e artigli nella durezza del diamante per non essere contaminato lui stesso dall'oscurità che dissolveva ed era diventato così duro anche nell'animo, apparentemente, da non essere più in grado di ridere di una battuta o legarsi neppure ad una persona, per non essere schiacciato dal suo potere, poichè, se ti leghi a uno, poi ti leghi a tutti, e sei perduto.

 

C'era stato, nelle ere passate, solo un attimo in cui Haldir si era permesso di essere un folle, prima ancora che un emarginato? Dopotutto, emarginato o no, lui era stato liberato, la sua donna riportata alla vita, perchè suo fratello l'aveva voluto.

Si destò dai suoi pensieri, rendendosi conto che Haldir lo fissava cupamente. I fuochi fatui delle anime dei suoi figli caduti reclamavano la pace che gli spettava. Imuen si sbrigò ad espandere la propria aura ed indicare loro la strada da seguire. Presto, in quella stanza ci fu solo silenzio.

Vennero fatte entrare delle femmine anziane che recavano vasi con sostanze odorose, per comporre i corpi. I figli di Haldir che avevano aiutato furono condotti anche loro in infermeria. Avevano tutti più o meno bisogno di un tonico per riprendere le forze.

 

Imuen, invece, volle restare da solo con suo fratello. Dopotutto avevano un legame di sangue. Era ora che gli spiegasse qualcosa, o provarci, almeno.

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Capitolo 20
*** Prepararsi a tornare ***


Le fiamme delle pire che lambivano i corpi dei loro compagni arrivavano al cielo. Cirri di denso fumo scuro adombravano le stelle. Erano passati altri due giorni e ormai Mu iniziava a chiedersi dopo quanto lo avrebbero lasciato andare, se davvero avessero intenzione di farlo.

Fu Haldir, quella sera, a fissarlo coi suoi occhi profondi ed obbligarlo con una malia a seguirlo, perchè se Seleina poteva alleggerire le pene di chi volesse, Haldir aveva doti ben maggiori e più segrete.

Il gigante bianco lo aspettava dentro una delle tante case anonime, semplici ed in muratura, che i Dunedain edificavano in pochi giorni e buttavano giù con un soffio, perchè erano più le notti che preferivano dormire avvolti dalle stelle piuttosto che da quattro strette mura.

Il gigante bianco lo accolse seduto su di un alto tavolo, senza armatura. Semplicemente, lo invitava a sedere. Non aveva indosso nulla che potesse far dedurre il suo rango superiore. Fumava erbe secche ed odorose. Il fumo abbandonava la pipa dal lungo boccaglio in ampie volute. Una casacca chiara, aperta sul petto e tenuta insieme sul collo da pochi lacci, trattenevano a fatica muscoli e cicatrici di un essere che sembrava semplicemente un cavaliere. Aveva pantaloni larghi dello stesso colore ed ai piedi scarpe leggere. Mu l'aveva visto poco per il villaggio e sapeva che preferiva camminare scalzo. Quasi si chiese perchè portasse calzature.

"Perchè a volte anche gli animali come me hanno bisogno del calore."

Lo prevenì allora il gigante, fissandolo, mettendolo a disagio.

"Come avrai capito, per me non fa differenza se ho di fronte un dio o un uomo, o tutto ciò che c'è in mezzo, come il più potente telecineta del mondo. Io sento ogni cosa degli esseri viventi, cavaliere. Poichè in te c'è vita, non puoi sottrarti al mio volere."

Si alzò e gli spostò la sedia, invitandolo a sedere. Mu si chiese se avrebbe staccato la testa o volesse altro.

Haldir, per tutta risposta, versò del liquore in un bicchiere e glielo fece scivolare sul tavolo.

"Se devo uccidere, lo faccio in fretta. Ho meglio da fare che giocare con una preda."

Mu, allora, poichè non erano ad armi pari, si decise a parlare, prendendo tra le dita, scettico, il liquido che gli era stato versato.

"Dunque, perchè mi avete condotto qui?"

Haldir annuì. Aveva gradito che si fosse deciso a gettare la maschera.

"Ormai è lampante che non sei un pericolo, te ne puoi andare quando vuoi."

Mu sbattè le palpebre, confuso.

"Prima però..."

A quelle parole, invece, i conti gli tornarono, perchè sarebbe stato tutto troppo facile altrimenti.

"Ho bisogno che ascolti un messaggio che devi riferire ad Athena. Prometti che ne parlerai alla tua dea?"

L'Ariete celeste acconsentì, senz'altro. Per quanto gli riguardava, era stato trattato fin troppo bene.

Haldir rigirò tra le dita un bicchiere dal liquido ambrato.

"Preferirei cacciarmi un ferro rovente in gola piuttosto che chiedere una cosa del genere alla tua dea ma siamo messi male."

Ammise semplicemente.

"Abbiamo provato a sistemare il problema dei perduti con le forze che avevamo disponibili ed hai appurato da te, in che modo miserabile siamo stati ridotti. Non siamo riusciti neppure a proteggere le nostre terre. Ci aiuterete a battere i perduti?"

Mu rimase sbalordito a quella richiesta. Ricordava chiaramente che con Kiki il Dunedain aveva recitato un'altra parte, mostrandosi per un demone superiore, iroso e dalle intensioni confuse.

"Prima che inizi a prendermi in giro, umano..."

Lo precedette però l'altro, dopo aver tracannato un altro bicchiere pieno.

"Ricorda che se i perduti escono dal nostro territorio, semplicemente voi morite prima."

Mu alzò le mani, in segno di resa. Al suo villaggio, però, Zalaia ne aveva facilmente sconfitti una decina da solo. Possibile non fossero in grado di sistemare la faccenda da soli? Cosa c'era realmente sotto?

"Anche tra i perduti ci sono specifiche gerarchie. Zalaia ha sistemato quelli che definire pesci piccoli sarebbe una enorme esagerazione. Io e Imuen abbiamo attaccato in forze quelli che erano i migliori capi guerrieri delle mie fila, prima di tramutarsi, in quelle cose."

Nel precisarlo, Haldir arricciò il naso e tese le labbra in una piega amara. Poi tornò altero come suo solito.

"Prima di mutarsi in quegli esseri riprovevoli, erano macchine da guerra."

Mu capiva poco allora, cosa c'entrasse l'allenamento della principessa che, senza offesa, non sembrava troppo tagliata per l'arena.

Haldir si lisciò la barba.

"I miei figli imparano il corpo a corpo da piccoli, poi sviluppano le altre... facoltà."

Gli spiegò il gigante bianco.

"Il fatto che Seleina, negli anni, abbia imparato a gestire i problemi di Kiki, forse avrà reso lunatico qualche volta tuo fratello, ma ha permesso a mia figlia di imparare a tenere testa a quello che, probabilmente, è il cavaliere più forte di cui disponete. Il problema è che Seleina non poteva esercitarsi prima nella lotta, con quel corpo malconcio che si ritrovava. Quello che a voi sembra follia nel suo esercitarsi, e forse un po' follia lo è, è l'unico modo che quella ragazza ha per potenziare il fisico. Se riesce in quello, sarà quasi al pari di Zalaia. Le mie fila sono sguarnite. Non posso permettermi di perdere neppure un elemento."

Mu non poteva controbattere su ciò che a pieno non conosceva. Annuì semplicemente.

"Anche Cristal, forse, vorrebbe chiamare Seleina sua figlia."

Haldir, all'improvviso, si rivelò meno sicuro di sè.

"Credi che io non lo sappia e goda di come siano andati gli eventi?"

Aveva tuonato allora, il gigante bianco e Mu, di riflesso, si era posto in posizione di difesa. Non era ciò che il Dunedain bramava.

"Cavaliere, Seleina ha Asgard nelle vene e nel sangue. Nè io, nè Cristal nè tanto meno quel frignone di tuo fratello minore possiamo cambiare questa situazione. Semplicemente, quella ragazza è nata così e sta scegliendo da sè la sua strada. La sua scelta non mi entusiasma. Ma se renderla capace di difendersi è l'unica cosa che posso fare per lei, sta certo che lo farò."

Poi, stanco, non tanto nel fisico quanto nella psiche, Haldir si versò il tezo bicchiere, mentre Mu ancora non si decideva ad abbassare la guardia.

"Non lo bevi?"

Gli indicò, allora, il suo bicchiere, ancora pieno. Mu, confuso tra il fatto con volesse ucciderlo davvero e si stesse dimostrando così umile rispetto a come si aspettava, stupefatto, ammise che non era solito consumare alchool.

Haldir, inarcando un sopracciglio, terminò la bottiglia e confermò che, se voleva, poteva andarsene in qualsiasi momento.

"La scorta di liquori che tieni nel mobiletto bianco, dentro la cucina, alla prima casa del santuario, è li solo per bellezza o a uso esclusivo di tuo fratello? Perchè mi pare che la fornitura cambia in fretta e non sia mai sguarnita."

Lo punzecchiò, alzando il bicchiere che aveva preso dalla sua parte del tavolo e terminandolo in un attimo.

Kiki gliel'avrebbe pagata salata, non appena fosse rientrato. Haldir, che forse il sorriso non lo aveva perso del tutto, lo prese in giro un altro po'.

"Avvertilo prima che torni, il tuo pupillo, che forse ha qualcuno che gli scalda il letto o è in giro a scaldarne qualcuno."

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Capitolo 21
*** Tre volti del Jamir ***


Mu quasi non riusciva a credere di essere sulla via del ritorno. Persino l'aria sembrava avere un odore diverso, in mezzo alle persone che conosceva. Il confronto che aveva avuto con Haldir gli aveva fugato ogni inquietudine, donandogli una strana sensazione di empatia, verso quell'essere. Si era preoccupato moltissimo per l'atteggiamento che Kiki aveva assunto negli anni, mentre lui era stato lontano: il suo rifiuto dell'armatura, con tutto ciò che ne era seguito. Mentre attraversava velocemente gli ultimi metri che lo separavano dalla prima casa, ripensò alla tranquilla familiarità con cui Mnemosine aveva cresciuto suo figlio. Aveva potuto solo intuire dalle parole sussurrate dagli altri Dunedain del campo che Zalaia aveva un padre di cui non parlava volentieri ed attaccava apertamente briga con chiunque domandasse troppo. Simili distrazioni non sarebbero mai state concesse a chi avesse vestito un'armatura nella casta di Athena. Per loro, sentimenti come l'amore verso un'altra persona, una famiglia, erano ritenuti debolezze. I Dunedain, invece, non solo contraddicevano apertamente quel proposito. Gli sembrava, piuttosto, che ne facessero motivo di forza.

Era un metodo diverso da quello con cui venivano educati gli allievi del Grande Tempio. In questo, Kiki non aveva fatto differenza. Lui e Seleina erano diventati amici perchè quella ragazzina non aveva avuto motivo di negare la comprensione e l'affetto che ad Athene e presso le altre divinità erano ritenuti i punti deboli di un guerriero. Era davvero quello il modo giusto, per tutti? Arrivato all'ingresso della dimora del montone bianco, con suo fratello che gli correva incontro e se ne fregava apertamente dell'etichetta, abbracciandolo forte quasi a stritolarlo, il dubbio diventava sempre più legittimo. Dopotuto, Kiki era più alto e robusto di lui, immaturo certamente. Anche Zalaia lo era, eppure era il braccio destro del suo signore. L'agire folle di Seleina stessa, che si faceva massacrare, rispecchiava qualcosa di completamente alieno alla sua formazione e sentimento. Eppure, uno che aveva parecchi millenni come Haldir accettava quella strategia.

Che, in fin dei conti, lasciare libere le persone di esprimere a pieno la loro personalità, anche a discapito di un'armatura, le portasse a realizzarsi pienamente? Restò qualche secondo interdetto, stretto nell'abbraccio di suo fratello, prima di rispondere con slancio. Perchè se Kiki era fuoco in ogni azione della sua vita, a lui occorreva più tempo. Decise che era arrivato il momento di passare il testimone e considerare davvero Kiki suo pari. Cosa ne avrebbe fatto dell'armatura e dell'investitura non importava più così tanto. Erano cavalieri ma erano anche fratelli. Per il momento, sarebbe contato solo quello.

Kiki, non appena si rese conto del cosmo di Mu che si avvicinava, fu preda di una strana sensazione di deja-vù. Ripensò ad una notte, poco tempo prima in Jamir, in cui era ancora solo e aveva sentito spegnersi prima un'amica. Suo fratello gli sembrava sicuro di sé come al solito ma davvero sereno. Parte della maschera che indossava sempre, persino di fronte a lui, non c'era più. Mu gli si pose al fianco e gli comunicò la sua prossima destinazione: la tredicesima casa. Per le scale, gli avrebbe raccontato quanto gli era accaduto nei giorni appena passati.

Era trascorsa letteralmente una vita da quando Mu gli aveva tenuto un discorso così lungo e, davvero, si riscoprì allievo per l'ennesima volta. Perchè non poteva credere verità le cose che stava apprendendo. Seleina era per lui ancora una ragazzina che tossiva forte, sveniva troppo spesso, preda di dolori lancinanti alla testa. Non riusciva nemmeno ad immaginarla nella recluta testarda e sconsiderata che suo fratello gli stava delineando. Apprendere poi di Haldir, dei Dunedain tutti, gli risultò sorprendente, quasi come stesse ascoltando un racconto per bambini. Zalaia, Imuen, Haldir in particolare, parevano due figure mitologiche ai suoi orecchi. In quell'accozzaglia di nomi dai suoni duri, poi, un nome greco stonò apertamente.

"Mnemosine? C'è davvero una sottoposta di Imuen che si chiama così?"

In quei giorni pieni di informazioni da vagliare, a Mu era sfuggito quel particolare. Si era concentrato su fin troppe cose che non c'entravano con la nuova minaccia che si andava delineando. Era tempo di fare rapporto alla dea.

Il sunagein che ne era seguito, organizzato in fretta e senza tanti fronzoli, aveva esposto chiaramente la situazione: i Dunedain avevano bisogno di aiuto per fronteggiare i perduti. Perfino il più orgoglioso fra i due gemelli si era trovato costretto ad ammettere la cosa. I particolari del racconto di Mu mettevano in luce una società diversa dalla loro, a cui non erano abituati, personaggi con cui non sarebbe stato tanto semplice interagire. Un po' tutti erano anche preoccupati della facilità con cui Imuen sembrava entrare ed uscire a proprio piacimento dal grande tempio. Certamente, le truppe di Atene avrebbero prestato il loro aiuto. In cambio, però, avrebbero preteso chiarezza. Per il momento, avrebbero dovuto prendere per buone le informazioni avute: i perduti avrebbero attaccato probabilmente da est. L'assalto al villaggio dei lemuriani era solo il manifestarsi di quell'avvertimento.

 

Per Shion, sapere che il suo luogo d'origine era stato attaccato non era stato piacevole. Soprattutto, rendersi conto che ben pochi, tra i Dunedain, si preoccupavano della cosa. Probabilmente solo quella strana principessina. Aveva indagato, rientrando al villaggio, e le conferme che aveva avuto dalle persone che avevano interagito con Zalaia, non gli erano piaciute molto. Doveva trattarsi di un guerriero potente ma umorale, soggetto ad emozioni che lo rendevano poco lucido. Uno così, quanto ci avrebbe messo a cambiare idea e lasciar morire tutti, se c'era da scegliere tra la salvezza della ragazzina che gli piaceva e quella di una moltitudine di innocenti? I suoi superiori, del resto, sarebbero stati migliori? Mu, al contrario, sembrava essere discorde in quel punto. L'aver trascorso pochi giorni in compagnia di quegli esseri l'aveva cambiato parecchio, sencondo lui non proprio in meglio.

Se all'inizio, infatti, era solo Kiki ad essere singolare nei suoi comportamenti, ora anche Mu ci metteva del suo. A fatica riconosceva il suo allievo, mentre questi gli diceva che era diventato consapevole del perchè della stranezza di Kiki e che, almeno, provava a comprenderla, che aveva fiducia in lui e certe cose, semplicemente, dovevano essere lasciare libere di svilupparsi. Shion si chiedeva se forse segno di una maggiore maturità o inizio di pazzia. Per quanto stava vedendo, i Dunedain avevano fin troppo ascendente su loro lemuriani e la cosa lo disturbava parecchio. Per qualche giorno, preferì isolarsi lui stesso nelle sue terre natali. Se i perduti avessero dovuto risvegliarsi, all'inizio poteva anche bastare l'intervento di un guerriero esperto come era lui.

 

 

 

 

A differenza da tutti quelli del suo rango, a Kiki non dispiaceva bere un bicchiere in compagnia a Rodorio. La fuga di Shion in Jamir, in quel frangente, gli era risultata strana ma lui conosceva così poco il maestro da non poter fare congetture sull'argomento. Certo, anche uno poco sveglio si sarebbe accorto facilmente che lo scambio di battute che c'era stato tra lui e Mu non era stato proprio calmissimo. L'ex-sacerdote, anzi, aveva citato proprio lui come esempio non proprio di virtù ed aderenza ai modelli dei loro avi. Kiki non poteva dare torto a Shion sull'argomento, visto che era il secondo bicchiere che si riempiva nel giro di pochi minuti e tra i valori cari al maestro c'era anche la moderazione nell'uso degli alcolici. Schierarsi contro Mu era però alienante.

Mano a mano che lui stesso e suo fratello si riavvicinavano, il legame tra Mu ed il suo maestro si sgretolava. Mu gli aveva raccontato senza filtri come si era sentito al campo, dell'impressione forte che aveva avuto su di lui conoscere Mnemosine e Zalaia, il loro essere madre e figlio, Imuen e sua moglie, un'ancella che correva tra le braccia di un mostro, il loro legame inscindibile, impossibile da consumare persino per i secoli, Haldir, tanto ostinato ed orgoglioso, quanto umile come un uomo. Rimasto a contatto con loro, si sentiva più affine persino ad Aioria. Gli era rimasto più semplice comprendere perchè suo fratello minore aveva avuto bisogno di Seleina, perchè Seleina avesse riposto una fiducia cieca in Haldir. I Dunedain erano per metà animali e questo era un enorme problema. Ma erano anche umani, e poteva essere la loro forza. Tra loro, non aveva visto nessuno che si allontava dal mondo come asceta. Era una via diversa che, comunque, dava dei frutti.

Pensieroso, Kiki aveva rigirato il bicchiere mezzo vuoto tra le mani. Ci mancava solo che Mu si mettesse a bere con lui e cercare insieme una ragazza con cui divertirsi. Poi, sarebbe stato certo che il mondo era perduto. Invece, si sentì picchiettare un dito sopra una spalla.

Era un tocco troppo delicato per essere suo fratello e quando, voltandosi, incontrò la maschera di quella sacerdotessa bruna che conosceva, ne fu certo più contento.

"Come mai quel muso lungo?"

Le chiese, infatti, lei, fissandolo confusa da sotto la sua maschera.

Kiki, mostrando subito il suo sorriso migliore, perse ogni apparente malinconia.

"Riflettevo sulla tua mancanza."

Le rispose, fingendo uno sguardo a metà tra il latin lover incallito ed un cucciolo abbattuto, strappandole una sonora risata. Lei gli pose la mano sulla spalla.

"Intanto puoi venire ad allenarti con me. Poi posso provare a tirarti su il morale."

Kiki vuotò il bicchiere in fretta e si alzò deciso, mimando un inchino ed un cenno a precederlo all'uscita della spartana osteria. Fece più fatica a trattenere il proprio cosmo per evitare di colpirla troppo forte che ad evitare gli sguardi stupiti di Milo, Ioria ed Aldebaran. Secondo il primo, in particolare, Kiki era un po' troppo abile a farsi scegliere come compagno di lotta dalle sacerdotesse più carine. Era la terza con cui lo vedeva misurarsi all'arena nel giro di una settimana ed iniziava ad essere invidioso.

La mattina dopo, se riusciva a passare la serata nel modo che sperava, se Milo ancora ne aveva bisogno, poteva anche suggerirgli qualche consiglio interessante su come scegliere un diverso tipo di donzelle, rispetto alle ancelle che cambiava un giorno sì e l'altro pure.

 

 

Kiki rietrò la mattina seguente alla prima casa e si stiracchiò come un gatto mentre Mu gli porgeva una tazza di caffè fumante, storcendo il naso. Non gli aveva posto domande su dove avesse trascorso la notte ma il fatto che non si fosse allontanato dal santuario era motivo sufficente per evitare rimproveri importanti.

"Ti sarai divertito, immagino."

Esordì infatti per primo Mu, infastidito.

"Sì. Non solo io."

Cercò di tagliare corto ed alleggerire, fallendo miseramente.

"Non è che mi rendi semplice difenderti col maestro Shion, se ti comporti così."

Kiki strabuzzò gli occhi, seccato.

"Non sono io a cercarle e non prendo in giro nessuna."

Mu aveva soffiato, scettico, sopra la propria tazza di the fumante.

"Di certo non ti tiri indietro, però."

Il giovane si grattò la testa, seccato. Non gli risultava che a Milo o a Death Mask fosse mai stato fatto quel discorso.

"Come cavaliere, se sbaglio, hai tutto il diritto di riprendermi. Su come passo la serata, se permetti, sono fatti miei. Non faccio male a nessuno."

Si stava alzando, deciso a troncare il discorso. La mensione a Seleina, però, stonava parecchio.

"Lei cosa pensa di questo aspetto del tuo carattere?"

La domanda lo punse appena ma non lo infastidì come l'altro si aspettava.

"Di solito si divertiva ad indovinare quella che mi interessava un preciso giorno e capire se fossi ricambiato."

Mu, sperando certo nel contrario, era arrossito vistosamente.

"Pensavo avessi altri interessi nei suoi confronti."

Diventò ancora più rosso, trovandosi lo sguardo accusatore del fratello puntato addosso.

"Ma sei scemo? E' una bambina."

Mu annuì, poco convinto, finendo il the.

"Eppure ha già chi non la considera più tale. Un tipo... disinvolto, come te."

Ormai la bomba era sganciata.

"Che intendi per disinvolto? Parla chiaro!"

Come Mu immaginava, suo fratello teneva parecchio alla principessina, nel modo in cui credeva, come si fosse trattato di una sorella minore.

"Uno come te, che non fa male a nessuno, che quindi non ne farà neppure a lei. Dunque, perchè ti scaldi tanto?"

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Capitolo 22
*** A carte scoperte... qualcuna ***


Era intento nella lettura di vecchi testi sacri sparsi sull'ampia scrivania degli studi privati. Saga era entrato senza annunciarsi, con una faccia talmente scura da risultare quasi truce. Per un attimo, Shion ebbe il terrore che la mente del cavaliere di Gemini fosse tornata preda del suo passato demone ed il riflesso di mettersi sulla difensiva fu così naturale da destabilizzare persino lui. Il sacerdote lesse il rimorso sul volto di Gemini e si sentì in colpa, quasi. Dopotutto un pugnale conficcato in pieno petto a tradimento non si dimentica a comando, nonostante il perdono. Saga aveva abbassato le spalle, mortificato. Aveva rallentato il passo, da che era entrato che sembrava sul piede di guerra. Fece un inchino ed aspettò un cenno per proseguire. Quando gli fu concesso, adagiò sulla scrivania del superiore un'altra pila di carte, come se non ce ne fossero già abbastanza.

Al sospiro seccato di Shion, seguito all'obiezione che di roba da visionare ce ne fosse già troppa, Saga si rivelò però deciso, mostrando documenti di natura del tutto diversa da quelli che erano stati analizzati fino a quel momento.

"Questi sono quotidiani, Gran Sacerdote."

Shion, infatti, vagamente sconcertato, aveva iniziato a sfogliare le varie testate, scritte in diverse lingue moderne. Ne padroneggiava solo alcune.

"E quindi?"

Chiese confuso a Saga. Non era talmente lontano dal mondo moderno da non informarsi sulle notizie odierne ma non era mai stato interessato a politica e sport. Aveva inarcato un sopracciglio, per quanto ne aveva, confuso, mentre il cavaliere più giovane gli indicava qualche titolo in inglese, un altro in greco. Francese e tedesco non li padroneggiava a dovere.

"Si parla di omicidi, commessi tutte con le stesse modalità. Gente sgozzata, grossi animali. Sempre lontano dai centri abitati."

Fu quando però riconobbe le stesse notizie anche per testate indiane ed asiatiche, che iniziò a preoccuparsi maggiormente. Lì, il numero delle vittime figurava essere molto maggiore. Il pensiero corse di nuovo ai suoi luoghi natali ed al primo attacco che era stato sedato senza troppe difficoltà, alla fine. Il novero dei morti riportati dalle due testate cinesi ammontava all'esatto numero attuale di abitanti del suo villaggio.

"Imuen aveva detto che i sigilli avrebbero iniziato a rompersi da est."

La voce baritonale di Saga aveva dato in tutto e per tutto voce ai suoi pensieri.

"Sarà il caso di mandare qualcuno in ricognizione? Almeno per sincerarsi che non scoppi il pandemonio tutto assieme, da un minuto all'altro."

Shion aveva riflettuto solo un istante, su chi potesse andare . C'erano due cavalieri d'ariete, si sperava, due di Gemini. Per il resto, la schiera dorata era al completo. Tuttavia, sarebbe stato sciocco inviare guerrieri sia poco preparati, che sarebbero potuti perire subito, sia troppo, col rischio di sprecare risorse preziose in caso di reale pericolo.

"Ci vado io."

Concluse, dopo una rapida analisi. A differenza di tutti gli altri cavalieri d'oro, infatti, lui era stato riportato alla vita col suo corpo non certo da diciottenne. Sorpreso, Saga aveva provato ad obiettare che non sarebbe stato una scelta saggia.

"Mi credi troppo vecchio?"

Gli chiese, infatti, a bruciapelo. Saga era rimasto in silenzio, aveva negato. Al suo posto, probabilmente, avrebbe optato per la stessa scelta.

"Potrei benissimo prendere io il suo posto, per una semplice missione di ricognizione. Kanon vestirebbe la mia armatura senza problemi, come è già accaduto in passato, se dovesse accadermi qualcosa."

Shion aveva negato.

"Se i perduti prendono te, avrebbero a disposizione un guerriero troppo forte. Se prendessero me... sono pur sempre un vecchio."

Aveva intrecciato le dita sul tavolo e si era sistemato meglio sull'ampio schienale.

"Mu mi ha raccontato come annebbiano la mente, caricandola di oscurità, poco a poco. Ti sei liberato da poco di Arles. A che pro farti correre il rischio di svegliarlo ancora?"

Gemini avrebbe voluto controbattere altro. La voglia di riscattarsi dal suo passato troppo forte. Shion, però, fu irremovibile. Disse che aveva anche voglia di sentire nuovamente il profumo dell'aria di casa.

 

 

 

Kiki non era riuscito a cavare altre informazioni a Mu, sul presunto spasimante della sua amica e dopo un po' aveva smesso di pensarci. Conosceva bene Seleina. Per frangenti così sciocchi era perfettamente in grado di difendersi da sola. La battuta di Mu sulla sua condotta, però, l'aveva portato a riflettere sul suo comportamento. Non sul cambiarlo. Dava a quell'eventualità lo stesso peso di Seleina importunata da un ammiratore troppo insistente. Gli dispiaceva invece degli screzi tra suo fratello ed il suo antico maestro. Era inutile cercare di sentire la versione di Mu sulla questione, visto che con lui aveva iniziato a riappacificarsi. Voleva invece discuterne con Shion. E si era promesso che, non appena sarebbe stato ricevuto, avrebbe ben tenuto presente tutti i titoli onorifici, visto che il maestro sembrava tenerci così tanto. Seleina gli rimproverava che quando partiva in quarta, col tatto che si ritrovava, era più facile che facesse arrabbiare le persone, invece che disporle al meglio, pure se si scusava. Temeva che con Shion sarebbe finita esattamente a quel modo. Tuttavia, preferiva sapere il maestro ancora più arrabbiato con lui, piuttosto che con Mu. Salì le scale verso la tredicesima come una furia e dispensò rapidissimi saluti ai suoi compagni. Aveva già iniziato a battibeccare con le guardie all'ingresso, che non volevano lasciarlo passare, quando Saga gli si fece incontro, deciso a mettere fine a quel siparietto. Quando, però, trovò Kiki talmente deciso a parlare con Shion, intuendo di aver di fronte qualcuno testardo come lo stesso sacerdote, non potè fare altro che introdurlo al cospetto dello stesso. O sarebbe scoppiata una guerra nuova guerra dei mille giorni, oppure uno dei due avrebbe ceduto. In ogni caso, sarebbe stato meglio non farsi trovare nelle vicinanze. Per cui, Saga disturbò nuovamente Shion, introdusse il ragazzo e si dileguò. Era stufo solo del ricordo dei suoi battibecchi mentali con Arles. Tutto aveva voglia, fuorchè ascoltare quello di due generazioni contrapposte di cavalieri d'Ariete.

 

Nella sua lunga età Shion aveva avuto di fronte una miriade di allievi, tutti diversi tra loro. Kiki, anche solo nell'aspetto, ai suoi occhi era unico. Era più alto e robusto di Mu. Eppure, gli sembrava conservasse un viso quasi di fanciullo. Forse era la sua espressione solare, vivace, a ricordargli quella di un ragazzo e non un uomo. Laddove Mu aveva però certezze, Kiki era ancora un insicuro. Sperava fosse soprattutto quella la causa della sua condotta. Curioso, ne saggiò le difese mentali, trovandole impenetrabili. Quando il sorriso del suo interlocutore, da vivace, si fece malizioso, il giovane si inchinò al suo cospetto.

"Sono qui per chiedervi di non litigare più con Mu a causa mia. Se avete problemi col mio modo di fare, è con me che dovete risolverli."

Shion, un po' in contropiede perchè gli avevano detto che era forte, ma non si immaginava così forte da resistere con quella estrema facilità alle sue capacità di telecinesi consolidate negli anni, non si concentrò subito sul senso delle sue parole. Lo stava ancora testando come guerriero. Era sbalordito del fatto che, coi pochi ridumenti che poteva avergli lasciato Mu quando era ancora un bambino, da semplice autodidatta, avesse potuto raggiungere simili livelli. Laddove Mu arrossiva quando si provava a penetrare la sua mente, Kiki se ne fregava bellamente e chiudeva la sua mente solo per dimostrare le proprie abilità. Peccato che avesse anche la soglia di attenzione di una mosca. Invece di aspettare la sua risposta, infatti, il ragazzo era stato colpito dai giornali ancora sparsi sulla sua scrivania. Ne aveva tirati su un paio, poi, preoccupato, aveva preso a fissare lui, come in cerca di una rassicurazione ad un enorme timore.

"I perduti stanno iniziando a far vittime vicino casa nostra?"

Shion annuì, semplicemente.

"Vengo con voi, allora."

Il sacerdote, per qualche istante, rimase sbalordito. Erano stati penetrati i suoi pensieri con una velocità ed una precisione tale da impedirgli, addirittura, di alzare una solida barriera. O, invece, quel ragazzo aveva penetrato le sue difese con una facilità inaudita, senza il benchè minimo sforzo.

"Come vuoi, figliolo. Allora spetterà a Mu la difesa del primo tempio."

Perchè, con un potenziale del genere, non si poteva certo dire di no ad un cavaliere, se non altro per testarlo a dovere, perchè da insegnargli, oltre le buone maniere, c'era ben poco.

 

 

 

"Da quanto tempo non tornavate al villaggio, maestro?"

Shion si era lasciato teletrasportare dal più giovne e, mentre percorrevano i sentieri che lo separavano dalla loro meta, non gli riuscì di mantenere il silenzio. Con quel ragazzo era partita persa.

"Di sicuro da prima che tu nascessi."

Kiki aveva calciato un sasso in terra, prima di fermarsi li nei pressi. Aveva sentito un cosmo familiare ed in effetti non erano soli. Si era grattato la testa, che la cosa non gli tornava. Poi si era rivolto a Shion.

"Mi pare Seleina ma non ho la minima idea di cosa ci faccia qui."

Shion, curioso, aveva alzato le spalle, a significare che lui non l'aveva mai conosciuta e non poteva essergli di alcun aiuto in quello. Si rese però conto che si andava allontanando in fretta.

"Mi sa che se vuoi raggiungerla, devi muoverti però."

Invce, Kiki restò fermo, espanse il proprio cosmo e presto fu la sua amica ad andare da loro. A giudicare dal tempo che aveva impiegato e dalla distanza da cui secondo loro era partita, dedussero che la velocità del suono l'avesse superata da un pezzo. Seleina apparve alle spalle di Kiki e si inchinò non appena si rese conto del calibro di chi lo accompagnava. In ginocchio, attendeva infatti un cenno per rialzarsi, in religioso silenzio.

"A me tante cerimonie non le hai mai fatte."

Shion le aveva permesso di alzarsi e alla risposta che a Kiki non doveva rispetto ma spaccargli la testa, in realtà, trattenne una risata.

"Perchè non hai ancora l'armatura dell'ariete addosso?"

In effetti, era la domanda che anche lui doveva porgli, per cui non trovò di meglio da fare che attendere la risposta del ragazzo. Era certo che, se fossero stati soli, si sarebbe cavato di impaccio con una battuta ma la sua presenza gli rendeva quello stratagemma impossibile.

"Ti starai prendendo troppe libertà con me, Sel?"

Rispose, infatti, con tono troppo astioso per quel che avrebbe voluto.

"Sai bene che chi è come me prende solo le libertà che gli sono concesse. La nostra natura non ci concede di fare altrimenti. Tu lo sai meglio di molti."

Voleva scherzosamente rimetterla in riga ma la battuta gli era uscita male. Se Seleina non fosse stata perfettamente in grado di cogliere ogni singolo moto del suo animo, probabilmente avrebbe finito per litigare con un'altra persona cara.

"Ad ogni modo, non sembrate in visita di cortesia. C'è troppa ansia in voi. Ispezionate qua attorno per i perduti?"

Dal tono di domanda, diverso dalle sicure affermazioni con cui la ragazza si rivolgeva a Kiki, Shion ebbe chiaro che Seleina percepiva le emozioni e non c'era alcun modo di precluderle la cosa. I pensieri, esatti, però, erano un'altra storia. Del resto, lei non aveva alcuna difesa mentale ed era semplicissimo leggere in lei.

Shion ammise di sì.

"Anche tu, a quanto sembra."

Le disse a sua volta. La ragazza annuì e spiegò di aver perlustrato i confini.

"Per ora posso assicurarvi che è tutto tranquillo. Almeno, per quanto possa essere valida la parola di una recluta."

Il sacerdote capì che era sola a fare quella pattuglia. Non doveva essere semplice, schierarsi contro la razza con cui doveva vivere per forza e di cui condivideva i poteri.

"Ti offriamo qualcosa di caldo. Almeno per ripagarti del disturbo. Quante volte hai controllato questo perimetro?"

Seleina era arrossita. Shion non ebbe dubbi che avesse girato per i loro territori tutti i giorni da quello successivo all'attacco dei perduti. Fece strada ai più giovani verso la pagoda. Si chiese se fosse un bene, per quella ragazzina, rimanere al fianco dei Dunedain.

 

Seleina aveva preso la tazza dalle mani di Shion con un certo imbarazzo. Temava di essere giudicata, biasimata. Percepiva che il maestro non era a proprio agio ed iniziava a convincersi di essere lei la causa. Non aveva declinato la sua offerta per paura di offenderlo ma iniziava a chiedersi perchè non avesse optato per una scusa, come la caccia per il pasto serale, che era una scusa fino ad un certo punto. Con il fratello maggiore di Kiki non aveva mai avuto quell'impressione. Se c'era stata diffidenza verso di lei era scemata in fretta, come la spuma di un'onda che si infrange contro la risacca. Aiutarlo era stato naturale, gradevole, scontato. Col gran sacerdote era stato subito diverso. Aveva specchiato i megnetici occhi azzurri nel liquido ambrato che rigirava pensierosa tra le dita. Poi aveva fissato Shion, ben consapevole di quanto fosse esposta ogni sua considerazione. Il maestro era rimasto leggermente turbato da quello sguardo, come ogni persona che puntasse gli occhi in quelli di un figlio di Haldir, la prima volta. La giovane aveva posato lentamente la tazza sul tavolo, attenta a non imprimere troppa forza in ogni minimo gesto, fosse mai che venisse giudicata male anche per quello. Si era alzata ed, inchinatasi di nuovo, senza aspettare quella seconda volta un invito a rialzarsi, salutò e fece per andarsene.

"Il maestro è infastidito da me. Preferisco andare."

Shion provò a fugare la strana sensazione dovuta alla sua presenza, inutilmente. Non era semplice confrontarsi quando tutti percepivano aspetti che era meglio tener celati agli altri.

"Cercherò di convincere qualche figlio di Imuen a svolgere il compito, se per voi è più semplice averli intorno."

Shion non era sciocco.

"Non troveresti nessuno disposto ad ascoltarti."

Seleina annuì, mesta.

"Un uomo di grande esperienza come voi riuscirà comunque a pattugliare la terra che ama senza che io mi intrometta ulteriormente."

Kiki aveva provato a trattenerla. Non si era sottratta al suo tocco, mostrandosene invece riuncuorata. Quando fu però Shion a cercare di metterle la mano sulla spalla si era tirata indietro repentinamente.

Se fosse stata paura o rifiuto non era semplice da capire. La sua mente era vuota. La sua anima, solo istinto. Un vento gelido l'aveva avvolta ed era sparita all'istante, per poi ricomparire in un baleno accovacciata sulla balaustra, pronta a saltare di sotto. Quando lasciava la mente del tutto libera, era tremendamente veloce.

Kiki tacque, riconoscendo l'inesperienza acerba di chi si avvicina alla velocità della luce, la prima volta. Per ogni persona è diverso. Lui c'era arrivato con la rabbia e si era placato mano a mano. Cristal c'era riuscito spinto dalle necessità della battaglia. Seleina sembrava esserci giunta con la naturalezza di chi, semplicemente, voleva. Non si era minimamente accorta dell'ammirazione con cui la guardava, colui che reputava un fratello, in quel momento. Era troppo piena di confusione ed insicurezza. Poi, l'ululato di un lupo lontano, come a rassicurarla dallo stato in cui si trovava, l'aveva attirata a sè.

"Sire Haldir mi chiama."

Comunicò semplicemente a Kiki, che la scrutava ancora silenzioso e meravigliato. Lo salutò con un sorriso, lo stesso che gli riservava sempre, da che era piccola. Lo stesso con cui era stata capace di rivolgersi anche a Mu, già dalla prima volta. Certe cose, evidentemente, non erano proprio possibili da cambiare.

 

 

Kiki aveva lasciato il Jamir molto presto, più preoccupato da ciò che accadeva nel continente asiatico. Shion aveva invece preferito trattanersi ancora. Non aveva del tutto mentito, quando affermava di voler riassaporare casa. La facilità con cui aveva appreso informazioni sulla principessina da un lato lo aveva rincuorato. Dall'altro, la semplicità con cui lei intuiva ogni sua sensazione lo turbava. Alla sua veneranda età, si vergognava. Perchè una maschera di protegge meglio di una corazza e anche quella della solennità spesso aiuta. Si domandò quante risate si fosse fatto Haldir con tutti i cavalieri d'oro, perchè se una sua recluta era così capace, figurarsi cosa poteva il capostipite. Eppure Cristal aveva raccontato che, a volte, bastava una trappola degli uomini, per mettere in seria difficoltà un essere come Haldir. Era anche vero che la principessina aveva anche avuto paura, in un certo momento. Aveva percepito chiaramente che, al dispiacere di non essere stata compresa, lei avesse sostituito la paura. Cosa che non c'era quasi per nulla stata, col suo allievo. Cosa avesse Mu, per mettere così a proprio agio le persone più controverse, pur essendo tanto timido, Shion doveva ancora impararlo. A conti fatti, anche Mu sembrava avere una buona impressione di quella ragazzina, quasi quanto Kiki. Glielo doveva: lei aveva rischiato parecchio per salvarlo, quando era stato ferito. Shion sospirò. Poteva solo aspettare e vedere come sarebbero evoluti gli eventi.

 

Quella volta non fu richiamato al grande tempio per il suo girovagare in città. Gli articoli che aveva letto sulla scrivania del gran sacerdote lo avevano fatto preoccupare parecchio. Aveva memorizzato il nome di una località di campagna e aveva tutta l'intensione di prelustrarla, in lungo ed in largo. Non era esattamente il piano del maestro, quello, ma un giro immerso nell'aria buona che male avrebbe potuto fargli? Del resto, se ci giravano anche i perduti, era perchè la zona meritava parecchio! Aveva percorso almeno una decina di chilometri in tutta calma, come qualsiasi turista europeo che amasse fotografare panda e bambù, in un clima esotico. Di rado, ai raggi che filtravano attraverso la vegetazione rigogliosa si univano gli uccellini che salutavano tranquilli. Aveva sbadigliato, deciso quasi a tornarsene da dove era venuto, che per quella giornata non sarebbe certamente accaduto altro. Lentamente, senza capire come gli fosse successo, si era ritrovato circondato da una nebbia sottile. All'inizio si chiese, semplicemente, se non fosse dovuto all'aria satura di umidità e dal fiume che scorreva lento, aprendosi poi verso la pianura, li vicino. Poi, la temperatura aveva cominciato a scendere. Lui, a darsi dell'idiota. Iniziava a riconoscere la nota particolare che preannunciava l'apparizione di quelle creature. La ricordava nel sinistro sogno che aveva condiviso con Seleina. La riconosceva nelle ferite che erano state inferte a suo fratello, prima che fosse trasportato al campo dei Dunedain, per essere curato. A proposito di suo fratello, gli chiese telepaticamente se poteva prendere in presto l'armatura. Come si aspettava, Mu non fece obiezioni ed agì in fretta. Se fosse stato però presente, di sicuro lo avrebbe preso a calci fino a riportarlo alla prima. Per fortuna o forse no, suo fratello non c'era e non poneva, stranamente, obiezioni di sorta.

Non appena una luce dorata tagliò per un minuto l'aria che si faceva più densa e difficile a penetrarsi con la vista, Kiki richiamò la corazza a sè. Le vestigia dell'ariete lo accolsero e gli donarono vigore. Mosse alcuni passi, il metallo che cadenzavano ogni suo movimento. Distinse chiaramente tre o quattro figure filiformi e scure che gli si avvicinavano, circondandolo. Erano alte, all'inizio poteva vedere la nebbia sbuffare, attraverso i loro mantelli che svolazzavano sospinti da un vento che non muoveva nè un filo d'erba ne una sola delle ciocche dei suoi capelli. Iniziava ad accrescere il cosmo, concentrandone il potere nei palmi delle mani. Vide che i mantelli si avvicinavano e diventavano più consistenti, la nebbia non vi passava più attraverso. La sua mente divenne pietra. Lo starlight extinction partì come un fuoco di luce dalle sue dita congiunte, colpendo quello che gli sembrava l'avversario più vicino e massiccio in piena testa, o almeno a quello che Kiki si aspettava essere tale, a giudicare dalla posizione del cappuccio. Per un istante, vi fu solo silenzio. Una testa doveva rotolare via.

In realtà, quell'essere non schivò: allargò le braccia, rivelandole mezze decomposte, sotto il mantello che scivolava violentemente via. Aveva aperto gli occhi, rivelandoli dello stesso identico colore di quelli di Seleina. Fu letteralmente bloccato sul posto, mentre la luce del suo colpo rinvigoriva il suo avversario, invece di distruggerlo. Vedeva il suo corpo putrefatto rinascere, i muscoli cadenti ricomporsi, una corazza simile a quella di Haldir avvolgerli. L'espressione, però, non aveva nulla di simile a quella del suo progenitore o a quella della sua sorellina adottiva. Le zanne erano troppo lunghe, oblunche, deformi. Scaturivano dalla bocca semichiusa, che ringhiava, come fauci. Mentre, incapace di scappare, si rendeva conto che quella cosa si avvicinava e desiderava voracemente conficcargliele nella carne, si rivide preda dell'incubo di Seleina, diverse notti prima. Per quanto ci provasse, la malia era troppo forte. I mantelli degli altri, ormai, erano a pochi passi. Li sentiva camminare, come se avessero davvero un peso. Sentiva colare il sudore lungo la tempia ma la volontà di vivere era troppo barbarica, troppo forte, troppo esplosiva in lui. All'improvviso riuscì a muoversi. Afferrò a mani piene la testa del suo avversario, che fino ad allora lo aveva bloccato e si era fatto vicino, troppo. Di nuovo, aveva concentrato il cosmo nelle mani. La temperatura aveva iniziato a salire e ad essere sprigionata dalle sue dita. Le iridi di quell'essere, che fino ad un attimo prima erano azzurre come zaffiri, iniziarono a schiarire, virare sul giallo, verso la fiamma. La temperatura si alzò fino a che quella maschera di zanne non divenne tutta fiamma. L'aria, carica di elettricità, sfrigolò, mentre uno dei perduti rimaneva ai suoi piedi come un mucchietto di cenere fumante. Kiki ansimò appena, per riprendersi dallo sforzo subito nel liberare quella immensa mole di energia in un lasso di tempo e di spazio così ridotto. La nebbia, attorno a lui, si era dispersa in fretta e lui si allontanò rapidamente, con una leggera corsa. Fuori dalla foresta, riprese un attimo aria, prima di teletrasportarsi di nuovo al santuario.

 

 

Imuen, protetto dalla penombra, aveva riposto la falce. Aveva assistito alla scena, pronto ad intervenire solo se ce ne fosse stato davvero bisogno. Esterrefatto, aveva lasciato Kiki ad agire da solo, per poi rivolgersi al fratello.

"E' forte da far paura quel moccioso! Ma anche gli altri sono così?"

Dei fuochi fatui che lo circondavano sempre, due si erano scontrati tra loro, per poi invertire subito la traiettoria. Haldir l'aveva fissato con la sua solita espressione spenta.

"Non hanno tutti quel potenziale ma messi insieme all'inizio e con un po' di pratica ci dovrebbero arrivare."

Imuen si era scaldato come al solito.

"Come accidenti facevi a sapere le loro esatte capacità contro i perduti?"

Haldir, che non gli rispondeva sempre subito, aveva annusato l'aria, più interessato alla cena che a lui.

"Lo immaginavo."

Imuen era impallidito, più di quanto gli conferisse il suo incarnato.

"Intendi dire che hai architettato tutto questo pandemonio col sangue di quella ragazzina, riportato alla vita mia moglie e usato me per liberare i cavalieri d'oro di Athena dalla loro prigione eterna, senza essere sicuro dell'esito delle tue azioni?"

Più il rosso si scaldava, più l'altro sembrava fregarsene.

"Sì."

Per la prima volta da che lo conosceva, Imuen ebbe quasi paura della follia di suo fratello.

"E che sarebbe successo se la tua immaginazione avesse fallito? Ti sei mai fermato a pensarci almeno una frazione di secondo?"

Haldir sbuffò, inziando ad essere contrariato.

"Alla peggio sarei finito a frignare come te, quando eri senza tua moglie e tuo figlio."

Incassando il colpo, Imuen aveva taciuto. Si convinse di dover continuare a sperare nell'intelligenza di suo fratello. Iniziava a capire sempre di più perchè ad Haldir andasse così a genio quella principessina che si faceva massacrare sull'arena: condivideva la stessa logica assurda di quel cretino del suo maestro. Chi era più pazzo? Il suo gemello o lui, che lo assecondava? Perchè, se fosse stato per lui, Haldir avrebbe spiegato la cosa ad Atena negli stessi identici termini. Non era che i Dunedain si sarebbero trovati anche le truppe di Athene, come nemici, oltre i perduti?

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Capitolo 23
*** Incomprensioni ***


Seleina ne aveva prese tante, come al solito troppe. Diverso era però il calibro degli avversari con cui si misurava. Zalaia non le aveva staccato gli occhi di dosso: migliorava in fretta, anche troppo. Per certi versi era invidioso. Lui aveva dovuto penare più a lungo. Forse era perchè lei aveva ereditato un sangue Dunedain più puro, essendo stata trasformata da Haldir in persona. Forse era perchè la parte umana che le restava era di ben altro calibro rispetto alla sua: il padre di Seleina era un cavaliere giusto, che aveva vestito un'armatura divina e si adoperava come reggente di Asgard. Il suo era quella carogna di Cancer, che faceva ribrezzo solo a sentirlo nominare, l'infame. Di certo non c'era paragone.

L'aveva seguita con lo sguardo da quando era rientrata. Per l'ennesima volta era stata a perdere tempo al villaggio di quegli stupidi muriani per paura che si rifacessero vivi i perduti. Addirittura aveva addosso l'odore di quello che chiamava suo fratello, che, poi, cosa avevano in comune per chiamarlo tale? Era sollevato dal fatto che non sentisse su di lei anche l'odore di quello che aveva curato sua madre. Era quello che detestava maggiormente. Perchè con Mu lei era in confidenza come con quello più forte ma non lo chiamava mai fratello.

Li aveva visti insieme, in infermeria. Aveva visto come si guardavano e non gli era piaciuto per niente. Ora però c'era altro: Seleina aveva addosso l'odore di un altro ancora di quella etnia, che di sicuro lui non aveva ancora mai incontrato. Ed era furiosa.

Glielo leggeva nei gesti nervosi con cui riponeva le spade e si tergeva il sudore. Se si arrabbiava un altro po' avrebbe finito per trasformarsi in lupo. Provò ad andarle vicino per distrarla o almeno provarci. Chiedere cosa era capitato era fuori discussione. Non erano abbastanza in confidenza.

Per quanto ci provasse, non era mai riuscito ad abbattere del tutto il muro che c'era tra loro due. Gli rodeva terribilmente. Quel Mu, invece, c'era riuscito subito. A lui aveva sorriso come sorrideva ai cuccioli che la cercavano durante i giochi ed i pasti. Seleina era per lui una conquista più difficile. Non aveva mai avuto tanta difficoltà a farsi scegliere da una femmina.

Si era fatto vicino e l'aveva invitata a sentirlo suonare. Magari la musica l'avrebbe distratta ma lei non cantava volentieri. Non era abbastanza intonata come le femmine del clan. Non le piaceva bere e certe volte, la sera, fissava le stelle, malinconica. Era interessata alle tattiche di battaglia, ai giochi di abilità dei figli di Haldir più anziani ma nel fragore chiassoso delle feste, lei sembrava perdersi. Era come se non le avessero insegnato ad essere solo una ragazza e divertirsi, semplicemente. Quella volta, però, non gli aveva detto di no. Aveva annuito e l'aveva seguito, accettando addirittura un bicchiere di idromele. Ma quel sorriso che bramava, che lei a Mu aveva rivolto, proprio non riusciva a strapparglielo dalle labbra.

 

 

 

Kiki era rientrato in fretta al Santuario. Non si era minimamente accorto di essere stato sotto l'osservazione dei gemelli Dunedain e, con la coda tra le gambe, rientrava semplicemente a fare rapporto per una passeggiata di troppo in Cina. L'ordine del maestro Shion di non indagare subito era stato chiaro e lui aveva disobbedito. Tuttavia, le informazioni raccolte durante quello scontro erano preziose. Forse potevano sollevarlo da una giusta punizione. Mu lo aveva accolto un po' agitato.

Non era però per la bravata di cui si era reso protagonista ma per il messaggio giunto nei brevi giorni della sua assenza. Di lì ad un paio di settimane Imuen ed Haldir, insieme ad un manipolo dei loro, sarebbero venuti in visita al santuario, per conferire con Athena in persona. Si sperava che venissero a chiarire i punti oscuri, spiegare una volta per tutte, in maniera chiara, come fronteggiare la minaccia.

Mu era stato abbastanza asciutto nel suo resoconto. Allo stesso modo Kiki lo fu nel suo. Chiaramente tutto il grande tempio sapeva del suo scontro coi perduti per le campagne cinesi, vista l'immensa quantità di energia che era stato costretto a liberare.

"Te la sei cavata senza ombra di dubbio molto meglio di me."

Ammise con orgoglio suo fratello, felice di aver contribuito a creare un allievo che gli era diventato superiore. Kiki però non riusciva a gioire a pieno di quel traguardo.

"Il maestro ti ha raccontato del Jamir?"

Gli chiese, infatti, ad un certo punto, bloccando l'inizio dei complimenti. Anche li, Mu gli era un passo avanti.

"E' felice anche lui dei tuoi progressi. Ne era sbalordito, in verità."

Kiki aveva annuito, massaggiandosi il collo. Era un po' che lo chiamavano prodigio, senza che loro ci mettessero il carico. Faceva parte del suo fascino col gentil sesso.

"Sì ma di Sel ti ha detto nulla?"

Suo fratello gli si era fatto più vicino.

"Qualcosa. Ne è rimasto... confuso. Non ha gradito molto il fatto che è praticamente impossibile nascondere ogni minima sensazione alla tua amica. Alla sua età è scomodo. Sono state le sue parole esatte..."

Kiki aveva provato a controbattere. Lui a quell'aspetto era abituato. Non era mai stato un problema. Era parte del motivo per cui era tanto legato con Seleina.

"Ma a te ha mai dato fastidio?"

Mu aveva sbattuto le palpebre, colto in castagna. Suo malgrado aveva risposto di no.

"Per me è diverso: si è sempre dimostrata gentile e premurosa; l'ultima volta ha rischiato parecchio per aiutarmi. E' ovvio salvarsi la vita tra commilitoni ma a lei non era affatto richiesto. Anche fosse stato solo per risparmiare un dolore a te, quando una persona compie un gesto così nei tuoi confronti è naturale affezionarsi, non credi?"

Kiki aveva abbassato le spalle sconsolato.

"E non puoi farlo capire al maestro, tutto questo?"

Mu aveva inarcato le sopracciglia, incerto. Non ci sarebbe stato verso di fargli perdere altro tempo con quella questione. Rendendosene conto, il minore aveva capitolato. Era tempo di occuparsi di altro.

"Fammi capire bene la questione della visita di Imuen ed Haldir."

Mu gli sembrava stanco, come se le questioni più leggere di poco prima l'avesse inquietato.

"Il maestro ti ha convocato per un colloquio privato. Potrai chiedergli tutto da te."

Gli pose la mano sulla spalla e raggiunse la sua camera. Si buttò sul letto a quattro di spade che, dopotutto, un po' stanco anche lui della faccenda lo era davvero.





"Che ne pensi di tutta questa storia?"

Zalaia l'aveva osservata sorseggiare distrattamente il suo bicchiere. Aveva scherzato fino ad allora con alcuni compagni della prossima visita al Santuario dei loro signori e di sicuro lui era nel novero che li avrebbero scortati.

Seleina aveva inarcato un sopracciglio.

"Non è che mi riguardi molto in verità. Sire Haldir per la nostra parte porta i migliori, non certo me."

Zalaia aveva afferato una bottiglia mezza vuota dal tavolo. La guardava cercando di capire davvero cosa pensasse, per quanto gli fosse possibile.

"Beh ci sono tutti i paladini della tua infanzia al completo, c'è il tuo adorato fratellone acquisito..."

Il suo tono stava virando verso lo scherzo e voleva anche approfittare per cercare di inquadrare meglio gli affari privati di chi gli interessava.

"Non è per Kiki..."

Chiarì lei, appoggiando il mento sulle braccia conserte.

"Il gran sacerdote non mi vuole tra i piedi."

Zalaia era confuso, non riuscendo ancora ad inquadrare il problema. Solo quando lei gli spiegò che anche quello fosse lemuriano e maestro del maestro di Kiki fece due più due.

"Sei triste per il parere negativo di un singolo uomo?"

Dal sospiro tipicamente femminile che le aveva strappato, intuì di aver fatto centro. Dal canto suo, era felice che tra lei e quella razza ci fosse stata una rottura ma gli spiaceva comunque saperla in quella disposizione d'animo. In fin dei conti, di Kiki non aveva motivo di essere geloso.

"Ma tuo ... fratello... è influenzato da quel trombone nel suo rapporto con te?"

Senza alzare la testa da sopra i palmi, Seleina negò, precisando anche che aveva intuito attriti tra Kiki e Shion, probabilmente per la condotta disinvolta del primo.

Zalaia rise e allargò le braccia e parte del liquore schizzò dal bicchiere, bagnando un compagno che gli grugnì dietro, strappando almeno un mezzo sorriso, come sperava.

"Sei una Dunedain ora. Del parere degli uomini te ne devi fregare. Ma se proprio hai considerazione di ciò che pensano, sia per qualcuno che vale. Se con tuo fratello vai d'accordo, brinda con me alla salute del vecchio trombone... e mandalo al diavolo!"

Le aveva passato il braccio sulla spalla opposta, tirandosela addosso, con il più vecchio sistema del mondo per averla vicino. Era partita persa, scherzarono insieme e per un attimo la vide rasserenata. Ma sul farle capire dei suoi sentimenti era tutt'altra storia.

Presto, infatti, fu chiamata da qualche altra femmina per delle questioni loro. Rimasto solo, chiaramente infastidito, non diede neppure corda a una delle tante che ci provava, e con cui, a volte, si era anche divertito. Sperò solo che, alla fine della fiera, ne valesse davvero la pena.

Aveva sentito dire da sire Imuen che il suo gemello, con la scusa della visita in Grecia, avrebbe richiamato anche i suoi sottoposti più diretti. Imuen aveva solo lui, come braccio destro e tutti conoscevano il suo potenziale, il suo viso. Sire Haldir era tutt'altra storia. Esternava pochissimo di sè ed anche dei suoi migliori allievi si sapeva poco. Doveva trattarsi di tre elementi, compresa una femmina che veniva dal clan a ovest. Di quello non si meravigliava. Uscivano sempre guerriere potenti da quel clan. Doveva essere brava con l'ascia. Gli altri due forse erano spadaccini. Era ovvio che Seleina ne sapesse di più. Avrebbe dovuto insistere. Se Sire Haldir la voleva potenziare sulla velocità, era di sicuro per farla allenare con quei due. Gli spadaccini devono essere più agili di quelli che manovrano asce. Scelta ponderata, essendo Seleina più minuta della maggior parte di loro. Avrebbe dovuto informarsi di quello, invece che perdere tempo dietro alle paturnie causate da un vecchio trombone.

 

 

Shion starnutì sopra le carte che stava esaminando. Si era preso un bello spavento quando aveva precepito il cosmo di Kiki esplodere a quel modo. Appurato che non c'era poi bisogno che restasse in Jamir, aveva perciò preferito tornare al Santuario. Si diceva che il naso prudesse a quel modo quando qualcuno parla male di te. Lo stava facendo la sorellina adottiva di Kiki o lui in persona?

Come evocato nei suoi pensieri, il ragazzo gli fu annunciato dopo poco. Voleva il resoconto della sua gita campestre. Non aveva mandato aiuti. Non avrebbero fatto in tempo. Se ne erano accorti che era già tardi. Il giovane Ariete aveva liberato da solo una quantità di energia cosmica impressionante, confermando le aspettative sul suo potenziale. Non era da tutti scatenare un mezzo big bang da soli. Se era stato però costretto a tanto, gli avversari che aveva affrontato dovevano essere di ben altro calibro rispetto a quelli degli attacchi trascorsi.

Introdotto nelle sue stanze, Kiki si inginocchiò senza attendere oltre. Evidentemente si aspettava anche una punizione.

"Spiegami dei nemici che hai affrontato, cavaliere."

Kiki omise apertamente della trasgressione al suo ordine. Raccontò della nebbia e della temperatura che scendeva, dei perduti che si erano manifestati simili a panni lattigginosi immersi nel bianco, che mano a mano prendevano consistenza. Il fatto che uno stesse praticamente tornando vivo, da mezzo decomposto che era, non piacque per nulla al sacerdote. A suo parere era il sigillo di Haldir che perdeva via via potenza e permetteva ai perduti di recuperare l'aspetto originario, anche se quelle fauci a dismisura, fino a quel momento, nessuno di loro le aveva mai visto sul volto di un Dunedain.

"Credo che il calibro dei nemici che dovremo affrontare sia molto più simile a quello che hai affrontato tu, rispetto a quelli che abbiamo incontrato finora. Quando Haldir verrà, ci dovrà chiarire anche sul numero esatto."

Perchè un conto era affrontarne dieci, un conto qualche centinaio.

"L'armatura dell'Ariete ti ha fatto comodo, però, in quel frangente."

Insistette Shion, sorridendo, ergendosi meglio sulla sedia della scrivania come su uno scranno.

Lo vide passarsi una mano nei capelli, come un ragazzino colto in castagna, che non sa bene che pesci prendere.

"E Mu?"

Espose il ragazzo, con un candore disarmante che non si aspettava.

"Le armature non sono abiti che possiamo scambiarci a nostro piacimento. Vero gran sacerdote?"

Shion fu costretto ad ammettere che era realtà. Ripensò a quando lui era giovane e c'erano stati due gemelli della sua razza, parimenti dotati nel cosmo, ma uno era cavaliere d'oro e l'altro d'argento.

"Di questo non ti devi preoccupare. Per esperienza, credo che a te starà meglio un altro vestito."

Kiki sorrise a sua volta, intuendo più o meno e idee del sacerdote sul proprio conto. Era chiaro che stava per essere congedato, visto che non avevano altro su cui aggiornarsi. Prima che lo mandasse via, voleva comunque provare a spezzare una lancia verso Seleina. Gli spiaceva parecchio che persone che reputava tanto importanti non si potessero proprio soffrire.

"Ed in base alla vostra esperienza, di una come Seleina, non vi potete fidare proprio?"

Shion si aspettava anche quella domanda. Non pensava però di essere stato frainteso a quel modo.

"Mi fido di lei! Ma devi ammettere che è snervante sapere di dover controllare ogni minima emozione perchè viene percepita e può essere male interpretata."

Nel frattempo lo aveva fatto alzare.

"Ma non può evitare di intrufolarsi nelle anime della gente? Mi sarebbe bastato non essere spiato ogni secondo."

Kiki si morse il labbro.

"Beh mi aveva detto che adesso riusciva ad impedire che le emozioni delle persone la sopraffacessero. Fa fatica con chi è dotato di cosmo. Probabilmente era anche intimorita da voi. Sa della vostra autorità e lei non è come me. Tiene alla considerazione dei superiori, anche se si vergogna ad ammetterlo."

Shion prese la palla al volo.

"Capisco. Il tuo esatto contrario, insomma."

Kiki aveva pensato bene di inginocchiarsi di nuovo ed abbassare il viso, che stavolta la lavata di capo non gliela risparmiava nessuno. Invece, fu congedato in fretta, sicuro di essere riuscito a mettere una pezza tra Seleina e Shion, che erano invece partiti col piede sbagliato.

 

 

Brunilde, in tutto e per tutto, sembrava uscita da una leggenda sulle valchirie. Aveva le spalle larghe e la vita sottile, ed era più alta delle altre femmine, quasi quanto un maschio. Erano rare le femmine con l'ascia, ma lei, un po' per la stazza e un po' per la sua tremenda forza, aveva imparato anche per vocazione. Aveva gli occhi verdi di sua madre e i capelli di un castano scuro, cosa rarissima per una Dunedain. Qualcuno, però, ipotizzava che fosse figlia di sangue di Haldir, visto il mestiere antico che svolgeva la madre e le sue caratteristiche così peculiari. Non aveva ereditato, infatti, nè le capacità dei figli di Imuen nè quelle dei figli di Haldir. Ma armaiolo più dotato di lei, fra i Dunedain, era difficile trovarlo. Era la terza che il domatore delle anime viventi aveva richiamato.

I primi due, invece, erano quelli che più avevano sbuffato. Amavano così tanto perdersi nella natura che quasi facevano fatica a fermarsi al campo e camminare su due zampe, talmente abituati come erano alla loro forma animale.

Loro, invece, erano tra i figli di Haldir più autentici, in tutto e per tutto identificabili come al seguito del loro signore. Si muovevano affini, come due braccia dello stesso corpo o due occhi dello stesso sguardo. A tratti, sembravano anche aver dimenticato l'uso delle parole, tanto era affinato l'uso della percezione delle anime.

Imuen aveva accolto tutti e tre i ragazzi facendo strada nella propria tenda. Con Brunilde era più facile avere un rapporto, perchè per lo meno parlava, anche se conservava in ogni minuto l'espressione che Haldir metteva su persino nei giorni di festa. Una volta che si trovavano gli argomenti giusti, diventava una compagnia davvero piacevole. Contava anzi di sfruttare il figlio piccolo, appena nato, per addolcirla un attimo. Come infatti la gigantessa si apriva coi cuccioli era un miracolo, passava da essere un cerbero ad una donna vera con l'istinto innato della madre in una frazione di secondo.

Come interagire invece con quegli altri due attrezzi, era una questione particolare. Ciotola, crocchette? Probabilmente, quelli si cibavano solo di animali vivi. E non sarebbe stato certo piacevole per la sua donna vederli mangiare. Seleina, però, gli sovvenne, condivideva i loro poteri. Presto o tardi avrebbe dovuto conoscerli. Tanto valeva portare anche lei e vedere che sarebbe successo. La principessina ancora parlava. Magari conosceva anche il comando per farli mettere a cuccia. L'unico normale, nel drappello di matti che stavano andando a formare, era forse Zalaia, il che era tutto un dire.

 

NOTE: Per quei pochi che ancora ci sono, grazie ragazzi! Mi sto rendendo conto che non mi è semplice mettere su carta (o html che dir si voglia) il marasma di idee che ho dentro. Ne è uscito un lavoro per certi versi un po' confuso. Forse ho preteso di mettere in gioco troppi personaggi e con caratteristiche troppo peculiari. Ad ogni modo, ammetto che mi sto divertendo, per cui, almeno per un altro po', continuerò... Anche perchè, ormai non sono troppo lontana dalla fine. Mi piacerebbe essere più capace con combattimenti e battaglie ma: 
1 - mai informata seriamente sulla lotta
2 - scrivere scene che richiedono quella velocità di espressione non è da tutti, di certo, io che sono dilettante, faccio una certa fatica.
Alla fine di tutto, è stato divertente, un esperimento con quel che si può provare a creare con dei rating più semplici. Come al solito, commenti e critiche, soprattutto costruttive, fanno sempre piacere. A presto

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Capitolo 24
*** Preparativi e partenze ***


Quando seppe che a convocarla era stato Imuen, Seleina si stupì parecchio. Aveva sempre avuto mezza giornata libera per allenarsi come preferiva e mezza sull'arena. Sapeva che in quei giorni stavano organizzando la visita al Santuario e, che Zalaia fosse davanti alla tenda di Imuen era perfettamente plausibile. Si domandava però, a che pro, convocare anche lei. Era migliorata ma sarebbe stato un po' patetico portarsi dietro una recluta che aveva sì e no raggiunto da una settimana un livello di lotta a mala pena passabile. Imuen le corse incontro e la arpionò non appena individuò il suo odore sulla soglia. La fece sedere al fianco di una femmina altissima che la squadrò, in un mezzo secondo, con una certa aria di sufficienza. Seleina cercò di non farci caso ma il fatto che riuscì ad interpretare le sue emozioni senza troppa difficoltà le fece capire al volo che c'era qualcosa di oltermodo singolare nella sua genetica. I capelli troppo scuri, i lineamenti troppo delicati. Non ne aveva vista quasi nessuna con labbra tanto carnose. Le ricordavano umani delle terre del sud. Vista la distanza per cui viaggiavano i Dunedain, tutto poteva essere. Decisamente, capiva che era meglio tacere. Sul viso di quella ragazza, che ad occhio aveva pochi anni più di lei, c'era un'espressione altera, di una solennità imposta e che stonava. Era un muro tirato su sicuramente per allontanare le persone. Per proteggere se stessa o forse qualcuno che amava? Vide come osservava di tanto in tanto il cucciolo di Imuen e percepì la dolcezza estrema che aveva nei suoi confronti. Nascondeva un'indole di una bontà innata, sotto quelle mani piene di calli e bruciature, strette sopra le ginocchia.

Senza ombra di dubbio una persona interessante.

Quelli che aveva dall'altra parte, invece, erano tutta un'altra storia. Figli di Haldir, in tutto e per tutto. Nei gesti, nelle emozioni, nelle parole che non avevano. Le sorrisero insieme, stupiti. Non c'era alcuna sorta di filtro nei loro cuori ed esternavano con un candore pazzesco la loro contentezza di ritrovare un'altra della loro razza.

Se non altro ridevano. Si trovò a pensare Seleina, facendo un istintivo confronto col suo maestro. Li vide sistemare le spade alla vita e ne contò due per ciascuno. Solo osservandoli bene si vedeva che lentamente, andava scemando la loro sincronia in ogni azione. Evidentemente, si stavano riabituando ad essere due individui diversi, non solo due membri dello stesso branco. Come lei, anche loro avevano le braccia coperte di cicatrici e notarono subito la sua curiosità, afferrando anche lei per un braccio, costringendola a mostrare le proprie. A quella breve distanza, riconobbe il loro odore, non era la prima volta che li incontrava. Tremando, inziando a ricordare, portò invece le mani aperte al centro del loro petto, una per ognuno, in una manifestazione istintiva che per loro tre era del tutto naturale ma che lasciò per qualche secondo interdetti gli altri presenti.

Poi, tracciò il percorso preciso di due solchi profondi, speculari, sulle loro braccia. Il tremore divenne singhiozzò. Li abbracciò di scatto, con slancio. Singhiozzò forte. Strappò una lacrima nascosta anche a loro, mentre li ringraziava e benediceva i loro nomi. Perchè non aveva mai conosciuto prima il loro aspetto umano, ma sapeva benissimo che nella loro forma di lupi avevano difeso tante volte i villaggi di Asgard mentre lei era troppo piccola per capire cosa fossero i perduti, stava male ed era troppo fragile per convincere suo padre. Loro erano già due ed un branco. Aveva riconosciuto la cicatrice, seppure l'avesse vista infierire loro dai perduti solo nei suoi incubi di bambina. Sapeva quanto dolore era costato ai due ragazzi che le sorridevano davanti. Quelle tremende cicatrici ne erano la prova.

Imuen non lo avrebbe mai dato a vedere ma anche lui si era commosso. Nell'agire di quei tre aveva ritrovato l'essenza più autentica del suo gemello, che era appena entrato e sembrava aver ignorato del tutto la cosa. Da quanto Haldir non godeva anche lui di un po' della pace che poteva venire dal benessere dei suoi figli?

Zalaia, invece, capiva solo che Seleina non era avvinghiata non ad uno bensì ad altri due maschi. Aveva appena aperto bocca. Imuen gli tirò una gomitata al fianco e gli sibilò di non azzardarsi ad emettere nemmeno un suono.

 

Contro le sue più rosee aspettative, Imuen si trovò costretto ad ammettere che forse, se si fossero presentati in quel gruppo assortito ad Athene, forse la dea non si sarebbe rivoltata contro di loro. Temeva di poter presentare solo Zalaia come un guerriero degno ma anche i suoi figli che Haldir aveva scelto, guardati sotto la giusta angolazione, non erano affatto male. Soprattutto, non si aspettava che si iniziasse a ricomporre anche un po' del tessuto dei domatori delle anime dei viventi. Gona e Tabe erano un branco errante, solo loro due, da secoli, tanto che qualche lingua lunga li chiamava addirittura coppia. Lui non si era mai pronunciato, non gli importava. Aver visto però il peso che Seleina aveva dato alle loro passate azioni, lo aveva fatto ricredere sulle avventure ed il dolore che quei due dovevano aver affrontato insieme, in solitudine rispetto a tutto il clan. Era palese che ora il branco aveva un terzo elemento. In quel senso, le dinamiche della casta guerriera passavano in second'ordine. In ogni caso, per Seleina era una grossa occasione. Quei due erano senza dubbio eccentrici ma erano anche due guerrieri abilissimi, della vecchia guardia di Haldir. L'ipotesi che potesse avvicinarsi al livello di lotta di Zalaia sarebbe potuta diventare realtà, se la piccola giocava bene le sue carte. Brunilde, invece, si era ritagliata da sempre un ruolo solo suo, con le sue capacità di creare e riparare armi. In cuor suo, Imuen iniziava davvero a credere che, se Athena fosse stata di parola coi suoi cavalieri d'oro, quella sarebbe stata davvero l'epoca in cui tutto avrebbe potuto essere risolto.

 

 

Due settimane passarono in fretta e partire con un drappello poco numeroso non è mai problematico. Quella volta, però, si sarebbero presentati tutti insieme ai piedi delle dodici case. Non appena le stelle sbiadirono nella volta celeste per far posto al sole, Imuen ed Haldir rilasciarono quel tanto del loro cosmo che bastava per manifestarsi. Apparirono in cielo tutti insieme, nella loro forma animale. Imuen ed Haldir correvano pari, davanti; Zalaia e gli altri quattro di Haldir sulla stessa fila, dietro di loro. Mu aveva già avuto modo di assistere ad una scena simile quando i Dunedain erano rientrati insieme dal loro attacco finito male. Era l'unico a non essere troppo sorpreso. Aveva riconosciuto subito i gemelli. Sugli altri, però, non riusciva a pronunciarsi. Aveva capito che erano piuttosto giovani. Uno, addirittura, aveva un pelo fulvo che non gli era mai capitato di vedere. Un altro, invece, era piuttosto piccolo rispetto agli altri. Magari era una femmina. Quando la luce li avvolse e tramutarono nelle loro forme umane, si stupì di trovare non una femmina ma addirittura due. Una era alta quanto Aldebaran e fu certo di non averne mai conosciute così. L'altra, invece, con sua somma sorpresa, la conosceva eccome. Kiki gli aveva detto che Seleina aveva raggiunto il settimo senso ma non credeva che Haldir ritenesse addirittura necessaria la sua presenza in quella circonstanza.. Mu si fece loro incontro. Seleina, soprattutto, gli sembrava diversa. Fisicamente non c'erano stati grandi mutamenti. Tuttavia, i ragazzi che le camminavano al fianco lo colpirono. Somigliavano tantissimo a lei e si capiva ad occhio che erano un gruppo affiatato. Traspariva dagli sguardi e dai leggeri gesti che si scambiavano, difficili da scorgere per chi non sa cogliere i particolari. Mu non aveva dubbi che tutti e tre comunicavano senza parole. Del resto, erano o no figli di Haldir? A differenza del loro progenitore, tuttavia, avevano un'espressione distesa, a tratti vivace, segno di un'intelligenza particolare. Al fianco portavano due spade, esattamente come il loro signore. Mu notò, non seppe dire se con gioia o dispiacere, che Seleina recava con sè le stesse armi. Anche lei sembrava serena, benchè mostrasse anche quella dolcezza con cui lo aveva guidato per le strade di Asgard, la prima volta che si erano incontrati, e lui ancora non sapeva chi lei fosse. Aveva di fronte una donna completa, conscia di chi fosse, che attirava lo sguardo come il luccicare di una pietra rara.

Con l'armatura d'oro, il primo custode si fece loro incontro. Si inchinò per un attimo ai gemelli e poi fece strada verso la casa successiva.

Haldir avrebbe scommesso che, alla tredicesima, sarebbero arrivati scortati da tutti e tredici i cavalieri d'oro. Pensavano forse di mettergli paura costringendoli inferiorità numerica? Il domatore delle anime viventi aveva spostato la mano verso una spada, carezzandone l'elsa. Seleina e gli altri due si scambiarono un'occhiata fugace, prima di proseguire. Mu teneva sotto stretto controllo Haldir in particolare. Studiava la sua disposizione d'animo scrutando quei tre. C'era un filo che univa i loro cuori ed era una cartina al tornasole su cosa il gigante bianco pensasse. Aveva imposto un passo marziale ma non troppo veloce per la risalita lungo i dodici templi e più o meno tutti i Dunedain cominciarono a mostrare segni di impazienza. Probabilmente il caldo del sole che stava iniziando a salire a picco non era propriamente di loro gradimento. La gigantessa fu una tra le prime ad appropriarsi di uno sprazzo d'ombra all'entrata della casa del toro, tirando un breve sospiro per la lieve frescura che vi penetrava. Aldebaran si fece loro incontro gioviale, come si trattasse di un qualsiasi gradito visitatore. Le presentazioni erano state veloci. Soprattutto aveva apprezzato la stretta di mano decisa della ragazza più alta. C'era qualcosa, nel suo modo diretto di mostrarsi alle persone, che gli piaceva davvero. Per il momento, non era necessario che sapesse di essere stato ricambiato ed in maniera ben più definita. Brunilde gli lanciò una fugace occhiata, poco prima che sparisse dal suo campo visivo. Quando però capì che anche lui avrebbe fatto parte della scorta fino alla dea, tutto era, fuorchè preoccupata dell'inferiorità numerica.

L'unica altra casa in cui accadde forse qualcosa degno di nota, fu la quarta, dove Zalaia fu braccato stretto dal suo diretto superiore e si cucì la bocca per principio, deciso ad uscire il prima possibile da un posto che, già prima di entrarci, detestava.

Sarebbe stato naturale che Cancer si unisse alla schiera al loro fianco, vista la natura simile dei loro poteri. Invece, Death Mask preferì di getto accostarsi alla principessina, che quel ragazzo che gli somigliava e avrebbe preferito sbranarlo, aveva un non so che istintivamente gli suggeriva di darsi alla macchia.

Con quel passo, arrivarono alla tredicesima nel giro di un'ora. Più che stremati dal caldo, i loro ospiti sembravano seccati. L'unica che pareva tranquilla era la principessina, ma lei il numero delle scale già lo conosceva. Arrivati alla sala del trono, i dodici cavalieri d'oro, che li avevano seguiti e praticamente scortati per tutto il tragitto, si disposero a cerchio, circondando la loro dea ed il gran Sacerdote, che gli sedeva al fianco. Imuen sembrava aver sorvolato apertamente sul comitato d'accoglienza ma Haldir pareva dell'avviso contrario. Non nascose di trovare ridicole certe precauzioni, quando avevano dimostrato già altre volte di poter penetrare a piacimento le loro difese.

Athena in persona si era alzata dal suo trono e, nella tensione generale dei suoi cavalieri, aveva raggiunto Haldir e gli aveva allungato la mano, in un chiaro invito a stringerla, come saluto.

"E' un onore incontrarti da sveglia."

Haldir gradì la presa di posizione di quella dea coraggiosa e le strinse la mano, abbandonando definitivamente l'elsa della spada. L'aveva sentita priva di paura ma non aveva mai gradito molto il fatto che mandasse avanti semplici esseri umani, lei che era una creatura superiore, ad ogni guerra sacra. Poi, aveva compreso che lei proteggeva gli uomini e la maggior parte di essa era infinitamente più debole dei Dunedain. Morta lei, il genere umano avrebbe perso per sempre una guida. In un certo senso era una scelta obbligata servirsi di quei cavalieri. Anche se lui avrebbe preso per le corna Hades una volta per tutte e da solo. Ma lui non era un dio e la faccenda non gli importava.

"Onore mio, signora della saggezza e della guerra."

Aveva poi girato passato in rassegna tutti i presenti, alla chiara ricerca di qualcuno che conosceva e non trovava. Era certo di averne percepito l'odore.

"E il vostro guerriero migliore dove l'avete nascosto?"

"Kiki veste ora un'armatura d'argento e come tale non fa parte della schiera dorata. Avrete modo di salutarlo più tardi, al banchetto che seguirà questo sunagein."

Nel rispondergli, la reincarnazione della dea gli aveva indicato diversi scranni liberi davanti a sè, sulla stessa tavola circolare attorno a cui si sarebbero seduti tutti gli altri.

I più giovani del gruppo si guardarono scettici, tra loro. Zalaia, in particolare, aveva sussurrato qualcosa all'orecchio del suo maestro.

"Scherzano, vero? I nostri non accetteranno mai il loro cibo."

A denti stretti, Imuen gli aveva fatto cenno di tacere di nuovo. Per una volta si sarebbero dovuti adattare a mangiare carne cotta.

Ad un estremo del tavolo circolare vennero fatti accomodare tutti i Dunedain, i più potenti al centro. I ragazzi di Haldir sembrarono dapprima guardare le sedie senza capire cosa fossero e copiarono Seleina in modo automatico, come spaesati.

Shion li aveva esaminati uno ad uno e non aveva avuto modo di capire molto di loro, eccezion fatta per l'indole, che gli sembrava fondamentalmente buona. Si chiese se Kiki, in qualche modo, avesse comunicato con Seleina. La ragazza sembrava essere del tutto distante dalle sue emozioni come da quelle di chiunque altro in quella sala. Ed aveva anche imparato ad alzare barriere mentali, perchè nella sua testa non riusciva più ad entrare in alcun modo, nella sua, come in quella di chiunque altro di quel gruppo stranamente assortito. Avevano predisposto degli scranni abbastanza alti ma era come ficcarci Aldebaran dentro. Come li mettevi li mettevi: ci stavano scomodi. Erano buffe le due ragazze, vicine, artigli e zanne a parte. Sembravano di due razze diverse se affiancate, vista la differenza della stazza. La principessina di Asgard in particolare pareva fin troppo umana.Aveva cercato con lo sguardo Mu, non troppo felice di vedere la sua attenzione focalizzata su quella della figlia di Cristal. Probabilmente condivideva la sua impressione, che non fosse li per meriti in battaglia, quanto piuttosto per un certo ruolo di mediazione, non sapeva ancora se tran Dunedain e cavalieri di Athena o solo tra i Dunedain stessi.

Presto, però fu la dea a prendere parola e ad attirare su di sè l'interesse di tutti. Si fece silenzio tra i cavalieri d'oro come tra i loro ospiti. Un incontro con entrambi i gemelli che domano le anime, nel santuario di Athena, come in quello di ogni altra divinità, non si era mai visto.

"Sono felice che siamo tutti qui, riuniti, e che abbiamo l'occasione di ringraziarvi di persona. Perchè al di là del pericolo che si profila, è un dono inaspettato e troppo prezioso quello che ci avete elargito."

Spiegò per prima la reincarnazione della dea, allargando le braccia ad indicare tutti i suoi paladini che vestivano le armature dorate, sottintendendo anche Kanon, assente in quel frangente.

Imuen scrutò Milo e Ioria, indicandoli apertamente e chiedendo i loro nomi.

"Ricordo bene che siete riusciti a colpirmi, insieme. Sarebbe divertente misurarmi ancora con voi."

Data l'indole sanguigna, entrambi accettarono l'offerta di buon grado.

Haldir, più spiccio nei modi, aveva invece fretta di arrivare al sodo.

"Il vostro cavaliere d'Ariete vi ha anche spiegato che non si tratta di un dono gratuito, dea della guerra."

Athena aveva acconsentito. Quel punto era fin troppo palese. I Dunedain si sarebbero occupati dei perduti di Asgard, a loro sarebbe spettata la rogna fuori da quei confini.

"Sarebbe il caso che ci spiegaste che tipo di avversari ci troveremo ad affrontare allora, e soprattutto il loro numero esatto."

Shion non era abituato, esattamente come Haldir, a girare tanto attorno alle questioni.

"Il vostro ragazzo, Kiki, vi ha raccontato dell'ultimo scontro che ha avuto coi perduti. Il mio sigillo si va esaurendo. Torneranno quelli che erano. Non saranno più mere ombre ma esseri di carne. Anche il loro potere aumenterà a dismisura. Torneranno ad essere, in potenza, i figli che ho forgiato. Ma le loro anime, le avete viste."

Era la prima volta che Haldir tradiva un sentimento, mentre parlava. Si era rivolto a Mu.

"Tu hai provato in parte cosa sentono. Tuo fratello ha intravisto cosa sono. Quelle non sono le anime dei miei figli. Non lo sono più."

La barriera che avvolgeva la mente di Haldir, per una frazione di secondo era caduta. Di nuovo, Mu provò per lui una pena profonda, perchè quel guerriero parlava davvero come se avesse perso non solo degli amici ma davvero qualcuno con cui condivideva ogni cosa. Se lui aveva con i figli che aveva perduto lo stesso vincolo che Seleina aveva con quei due ragazzi che le somigliavano, allora era anche comprensibile perchè fosse così cupo. Cosa si provava quando il dolore di perdere una persona cara si moltiplica a dismisura? Anche Shion, in un certo senso, aveva compreso.

"Di quanti guerrieri parliamo, sire Haldir?"

Lo interrogò, ricordando l'appellativo con cui lo nominavano i suoi.

"Solo Haldir. All'inizio circa cento. Il problema grosso è dato da quelli che si sono aggiunti poi."

Shion corse con la mente al rischio corso da Mu e comprese. Non sapevano esattamente quante volte i sigilli ai perduti fossero stati rimessi, ma doveva trattarsi di parecchie.

"Non sappiamo esattamente quanti sono. Certamente sono aumentati ogni volta che la mia magia si rompeva. La prigionia del mio gemello ha decretato la fine della nostra razza. Noi Dunedain esistevamo solo liberi."

Imuen si era morso il labbro. Quel punto avrebbero dovuto chiarirlo prima tra loro, non in piazza in mezzo ad estranei. Haldir, però, era di altro avviso. Lo aveva ricambiato come se non ci fosse stato nulla da chiarire ed aveva alzato la voce.

"I tuoi simili, Athena, sono stati la rovina dei miei! La loro invidia e paura ci ha rovinati. Se tutto questo avrà fine, ti giuro che ti porterò in dono la testa di Ade, di Poseidone, o di qualsiasi altra divinità si opporrà al tuo passo. Solo questo voglio. Lavare le mie lame col loro sangue!"

Atena stessa aveva sempre pensato di sigillare ma mai di uccidere, perchè era estraneo alla sua natura, perchè credeva che non potesse essere fatto. In realtà, parte del timore che le divinità nutrivano nei confronti dei Dunedain erano dovute anche alle loro capacità di poterli distruggere. Imuen, del resto, non era stato imprigionato anche per quello? Rendere inoffensivo il gemello doveva essere l'altro passo ma Haldir era stato più scaltro e non aveva mai dimenticato.

La dea, tuttavia, sembrava titubante.

"Credi davvero che ai tuoi fratelli importi degli umani, che tu difendi ed ami? Per loro, i primi a morire dobbiamo essere io ed Imuen. Tu dopo di noi. Non ti faranno sconti. Lo vedi ad ogni guerra sacra. Non sei stufa di mandare a morire i tuoi paladini come carne da macello? Quanti sacrifici vuoi ancora chiedere alle persone che ami? Perchè io lo so, che tu li ami."

La voce di Haldir era calda, vibrante, viva. Il gigante bianco aveva posato le mani aperte sul tavolo e per un momento temettero che il legno non regesse il suo peso. O forse era l'imponenza della sua figura.

A Imuen sembrarono essere passate ere da che l'aveva sentito tanto coinvolto. Era tornato per un attimo il condottiero che aveva guidato un esercito per cercare di liberarlo, non la maschera apatica che a cui si era abituato negli ultimi secoli. Aveva riconosciuto il suo gemello. Imuen si era alzato al fianco di Haldir. Erano pari in altezza.

"Atena, tu c'eri quando mi hanno condotto via in catene. Tu sai della schiavitù che hanno gettato sui miei figli. Sai a cosa i tuoi simili ci costringevano: eravamo solo burattini. Divinità che non avevano i poteri di Hades ci manovravano come marionette, per obbligarci ai loro voleri scellerati. Non mentire. Anche tu ne eri sdegnata, amica mia."

Consci di avere l'attenzione di tutti i presenti, Haldir incalzò ancora.

"Voi tutti: dimenticate da cosa vi abbiamo liberati? Non era certo un sereno oblio quello a cui vi obbligavano. Non sareste felici, liberarvi di Hades una volta per tutti: nessuno dei vostri figli dovrebbe più conoscere il dolore di dover allenarsi per guadagnarsi l'investitura."

Haldir si placò all'improvviso, il viso girato verso la principessina: dal disappunto di lei, intuì di aver toccato il tasto sbagliato per convincerli. C'erano pur sempre questioni che riguardavano ogni razza per conto proprio. Come ottenere l'investitura per un cavaliere di Athena, evidentemente, doveva riguardare solo loro. Anche se, onestamente, a giudicare da come li sentiva scossi, ne aveva convinti parecchi.

"Per tornare alla tua domanda, Shion."

E già era tanto che non lo aveva chiamato umano o, per essere precisi, lemuriano.

"Non ho idea di quanti siano attualmente i perduti. So solo che sono troppi. Traggono energia divorando esseri umani di livello basso, non dotati di cosmo, per capirci. Ma se riescono a catturare anche solo uno col vostro potenziale, state certi che non solo sarete cibo ma finirete per diventare come loro. Negli anni ho perso altri dei miei figli in questo modo e temo che ci siano anche diversi cavalieri, tuoi o di altre divinità, insieme a loro. Quando si ha fame come ne hanno loro, si divora tutto."

Shion, con lui, non poteva optare per nessun tipo di richiamo all'etichetta, per cui controbattè e basta.

"Quindi, Haldir, è perchè sono aumentati di numero, mentre voi siete diminuiti parecchio, che non riuscite più ad apporre i sigilli da soli."

Semplicemente, il gigante bianco, confermò. Pattuirono anche di mostrare quanto potevano delle tecniche di attacco dei nemici che sarebbero stati costretti ad affrontare, per provare ad approntare insieme un piano di difesa.

Era la prima volta che dei Dunedain entravano nel santuario di una divinità. Ciò che gli olimpici bramavano con le catene, la dea della guerra lo stava ottenendo con l'amore più scontato, che aveva imparato dall'umanità.

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Capitolo 25
*** Riconoscersi ***


Alla fine della fiera, il banchetto c'era stato davvero. Imuen aveva fissato sconsolato la miriade di forchette che costellavano il piatto davanti a cui l'avevano fatto accomodare. Era certo, nelle ere passate, di aver rivelato ad Athena che la loro dieta non fosse propriamente simile a quella umana.

Che mangiavano solo roba cruda appena dopo averla uccisa e non tutti tra loro avevano bene idea di cosa potesse essere un piatto. Si consolò, convinto che il gemello si trovasse sulla sua stessa barca. Quando lo vide, invece, usare le posate disinvolto, sciolto nello scegliere quella adatta tra le sedici in base alla pietanza, ebbe quasi voglia di prenderlo a sberle.

"Dove accidenti hai imparato?"

Serafico, gli era stato risposto che mentre lui aveva scelto un'ancella, senza offese per la sua donna, lui aveva gusti più sofisticati. Imuen intuì che erano vere le voci per cui quel bastardo del suo gemello ogni tanto facesse visita a qualche nobile ben disposta di Asgard e gli era bastato per apprendere. Si girò verso Zalaia, che evidentemente era stato educato a dovere da sua madre. Seleina doveva saper mangiare in quel modo assurdo per forza, vista la sua infanzia. Brunilde, Gona e Tabe erano un'altra storia. La valchiria copiava tranquilla tutti i gesti dell'amica che, a rapidi cenni, cercando di non farsi intendere dagli nessuno tra i commensali, le indicava esattamente cosa, come e quando prenderlo. Gli altri due era già tanto se non avevano buttato le forchette in terra per mangiare con le mani. Tra loro, Seleina si rifiutava categoricamente di consumare cibi crudi, se non costretta, e Zalaia, abituato alla città per via delle lezioni universitarie, qualcosa che gli facesse meno schifo del cibo umano, certo l'aveva trovato. Per sua moglie faceva sempre servire cibo umano di un certo pregio ma lui, di provare le loro pietanze, faceva volentieri a meno. Sospirò e bevve. A quel banchetto giravano pochi alcolici. Gli odori, in quell'ambiente così stretto e ricco di persone, iniziavano ad essere fastidiosi, per non parlare dei rumori. Tamburellò le dita sul tavolo, desideroso che quella pantomima terminasse in fretta. Se non altro, dopo vegetali di vario genere a cui in vita sua non si sarebbe mai avvicinato, Atena, appositamente per loro, aveva fatto servire portate di carne molto abbondanti e molto poco cotte. Non erano appena cacciati ma di certo erano più gradevoli dei cibi che i cavalieri e gli altri umani stanno finendo nei loro piatti.

Imuen centellinava i secondi che lo separavano dal dolce come se fossero ore. Aveva iniziato a battere il piede a terra ed Athena pensò che si stesse annoiando. Propose quindi della musica per intrattenerlo e lui avrebbe voluto letteralmente sbattere la testa contro al muro. Si girò verso il gemello, come ad implorare il suo aiuto ed il bastardo, invece di trovare delle belle parole, come era stato in grado durante il sunagein, se ne uscì con la strabiliante idea che Zalaia avrebbe potuto suonare per loro, visto che era anche uno dei musici più capaci.

Il ragazzo, sconcertato, raggiungeva il centro della sala, facendo sparire l'armatura e materializzando il violino. Aveva schioccato le dita nella solita maniera elegante con cui caratterizzava ogni sua esibizione e scelse la musica che gli sembrava più classica e delicata, tra quelle che conoscesse. Le note plasmate dalle sue dita, come al solito, erano sublimi. In un ambiente così ristretto, però, avrebbero dovuto rimbombare come boati agli orecchi dei Dunedain, che amavano si quei suoni, ma in locali più ampi e con meno persone. Li in mezzo sarebbe stato come avere petardi a due centimentri dai timpani. Haldir, non ancora soddisfatto, rincarò pure la dose, ordinando addirittura a Brunilde di cantare. Imuen iniziava ad essere davvero stufo. Non riusciva a capire come gli altri suoi simili riuscissero a sopportare quello strazio di baccano ed odori. Poi, si accorse che tutti si erano passati una boccetta con la mistura che i ragazzi usavano per inibire olfatto ed udito, se dovevano esercitarsi nelle tecniche speciali. Haldir, tranquillo, girò il flacone senza tappo, mostrandoglielo vuoto, sorridendogli, prendendolo apertamente per i fondelli. Era il suo modo di ringraziarlo per averlo lasciato solo, in tutti quei secoli. Imuen incassò il colpo, comprendendo. Dopotutto, se la sarebbe cavata solo con un forte mal di testa. Conoscendo Haldir ed il suo destro, gli andava davvero di lusso.

 

Non appena fu certa che i suoi compagni avevano più o meno chiaro come usare le posate, Seleina, col cuore in gola, percorse con lo sguardo l'intera stanza. La sostanza che inibiva l'olfatto la obbligava a servirsi solo della vista e non riusciva a trovare suo padre. Non appena lo localizzò, al fianco di quello che aveva intravisto tempo prima ad Asgard e conosciuto come Acquarius, lo raggiunse. Non aveva molto da dire ai cavalieri. Desiderava solo chiarirsi definitivamente con suo padre.

Da parte sua, Cristal l'aveva individuata immediatamente ma non si era mostrato. Non sapeva bene come l'avrebbero presa i suoi attuali compagni e averla vista serena ed in salute, era per lui più che sufficiente. Certo, non gli piaceva rendersi conto dei pericoli che avrebbe corso, se Haldir l'aveva messa tra i suoi allievi. Ma era una situazione su cui non aveva potere. Quando ne udì però la voce, chiamarlo bassa nadecisa, si girò di scatto. Si alzò e l'abbracciò forte. Non riusciva ancora a credere che fosse diventata così alta e robusta. Ora, la superava di pochi centimetri in altezza, mentre prima, quando sua figlia stava per svenire, gli poggiava la testa sul braccio ed arrivava a malapena alla spalla. Seleina, certo non era più la ragazzina che aveva lasciato. Cristal le pose le mani ai lati del viso e specchiò gli occhi in quelli di sua figlia che, nonostante tutto, non erano affatto cambiati.

"Quante volte mi hai rimproverato che dovevo imbracciare le armi contro il male dilagava ad Asgard, che se avessi potuto l'avresti fatto da sola?"

Nonostante tutto, anche se ad Asgard le avrebbero rimproverato come un disonore aver seguito quella razza, in sua figlia, lui tutto vedeva meno che quello.

"Sei nella loro guardia ora?"

Kiki gli aveva detto che Seleina aveva raggiunto il settimo senso. Cristal ne era orgoglioso, anche se non era da lui che avrebbe imparato a difendersi. Seleina non aveva colto il senso profondo della domanda di suo padre.

"No. Mi ci alleno solo."

Aveva impugnato la spada e Cristal aveva scorso tantissime cicatrici, su una pelle prima intatta.

"Sto migliorando."

Il cavaliere del Cigno avrebbe sempre distrutto volentieri Haldir, ma una cosa doveva riconoscerla. Era grazie a lui che sua figlia era in salute e poteva provare a realizzare il suo desiderio.

L'altra persona che Seleina voleva vedere era seduta poco più in là, allo stesso tavolo. Si portò le mani alla bocca che quasi non riusciva a crederci. Kiki aveva spalancato le braccia ad accoglierla e gli era volata letteralmente addosso. Non poteva farle fare un paio di giri in aria come quando era bambina, ma la voglia c'era tutta.

"Cavaliere d'Argento? Tu?"

Incerta, aveva toccato lo stemma sul pettorale, non capendo bene la costellazione.

"Altare?"

"Pare che sia già appartenuta ad uno della mia terra."

Kiki si era passato la mano tra i capelli, vagamente in imbarazzo.

"Così non litigherai con Mu per l'armatura d'Oro!"

Kiki le aveva offerto una sedia vicino a sè e lei l'aveva occupata senza nemmeno pensarci, sedendosi scomposta, appoggiando le mani e la testa sopra lo schienale, in una posa che assomigliava a quella di una bambina e poco a quella di una principessa.

"Litigare? Io e Mu? Due paladini della dea Athena?"

Dondolava una gamba e ridevano insieme, quando già qualche ancella iniziava ad invidiarla per quella confidenza con un cavaliere di alto rango, senza che lei ci prestasse troppo caso. Non era la prima volta.

"Due? Uno e mezzo."

Fu Kiki che trascinò in mezzo suo fratello, con la scusa che dovesse smentire un'accusa infamante nei suoi confronti. Perchè se lo difendeva il suo maestro e mentore, la parola di chiunque altro sarebbe stata vana.

Mu non partecipava volentieri a lazzi con persone che non conosceva ma l'ilarità di Kiki e la naturalezza con cui l'altra lo ricambiava, stavano sciogliendo in lui ogni riserva. Un po' perchè gli erano mancati davvero tantissimo i momenti spensierati con suo fratello, un po' perchè iniziava ad averne voglia, si lasciò coinvolgere dall'entusiasmo degli altri due. Tanto che ci passò volentieri mezza serata.

 

 

 

La visita al Grande Tempio aveva smosso correnti silenziose anche all'interno dei Dunedain. Seleina aveva iniziato ad allenarsi coi due spadaccini di Haldir, Brunilde aveva preso una pausa dagli allenamenti con l'ascia per documentarsi su testi alchemici che non si sapeva dove avesse reperito ed in che modo avrebbero potuto rivelarsi utili in quel frangente. Zalaia, dal canto suo, continuava a disciplinare gli allievi più giovani e tenersi attivo lui stesso. Vedeva il suo signore inquieto, più del solito. Se ripensava al gemello del suo signore, invece, non poteva fare a meno di notare un cambiamento potente ma inarrestabile che lo stava modificando profondamente, per quel poco che avesse avuto modo di sentire e conoscere su di lui. Anche al suagein, immaginava che a parlare sarebbe stato soprattutto sire Imuen, invece sire Haldir era stato travolgente, per certi versi. Aveva visto chiaramente lo sconcerto di diversi tra i cavalieri d'oro. Che la promessa della testa di Ade fosse un dono allettante, per gente che vive ogni attimo della propria esistenza solo per opporsi a quella divinità? Sua madre gli aveva raccontato qualcosa in proposito ma lui non si era mai curato di capire davvero a fondo. Gli ripeteva che, mentre un Dunedain ha scelta, fino a che non decida come tracciare la sua strada, per i cavalieri di Atena era diverso, loro erano destinati dalle stelle e non c'era assolutamente modo di scampare a quella cosa. Forse era per quel motivo che vivevano arroccati nella loro torre d'avorio, avulsi dal pulsare del mondo. Come se avessero dovuto tenersi lontani dalla tentezione di poter decidere della propria vita. Forse, incosciamente, cercava di giustificare quella carogna di suo padre, perchè è sempre comodo l'alibi che si è costretti ed in guerra non ci si può basare sul libero arbitrio. Peccato che lui fosse nato per desiderio di una scelta, di suo madre di farlo nascere, del suo signore di crescerlo qualc suo erede, suo di sfruttare il potere che aveva ricevuto in dono, per allenarsi e metterlo a servizio della sua gente. Aveva sbuffato. Non riusciva a giustificare suo padre e quella gente. Lui era la prova vivente della forza inarrestabile di una scelta voluta con tutti se stessi. Arrendersi ad un destino designato? Troppo comodo.

Si liberò del mantello ed attirò l'attenzione degli spadaccini di Haldir. Come si aspettava, da nessuno dei due ottenne parola. Gli chiese comunque se poteva allenarsi con loro nel corpo a corpo. Era troppo che non si misurava con un avversario degno e francamente si era un po' stancato di lottare solo con sire Imuen. Come si aspettava, stavano insegnando a Seleina una tecnica precisa mostrandola direttamente. Difficile per loro riappropriarsi delle parole. Quella mattina Zalaia non la degnò di uno sguardo. Aveva bisogno di adrenalina, per schiarirsi i pensieri. Quale modo migliore che menare le mani con uno della vecchia guardia? Quello leggermente più alto, gli sorrise e si fece incontro. Espressione ben diversa di quella che aveva con i cuccioli o Seleina. Quando guardava lui, riconosceva infatti un suo pari, qualcuno di pericoloso. Si indicò gli occhi, come a chiedere se avrebbero dovuto usare anche i loro poteri di Dunedain o solo forza ed armi. Zalaia negò, gettò la falce sul bordo dell'arena e si tolse la parte superiore dell'uniforme, facendo schioccare le dita. Gona annuì, serio, aveva compreso. Sciolse la cinta che teneva in vita e ripose con cura le spade che si portava sempre appresso, nella polvere, al fianco della falce del suo avversario. Aveva iniziato a precederlo al centro dell'arena. Poi si era voltato, silenzioso, in attesa. I capelli, ricci, pieni di nodi, nascosero per un attimo gli zigomi pronunciati. Schioccò le dita anche lui, leggermente piegato in avanti,

Come si immaginava, cercare anche solo di sfiorare Gona si stava rivelando quasi impossibile. Era veloce come lui ma imprevedibile, anticipare le sue mosse pressochè impossibile. Quando sembrava che stesse per scattare in una direzione, che l'evoluzione naturale ed instintiva di una tecnica avrebbe dovuto essere quella, ecco che quello scartava nella direzione opposta, o faceva un passo indietro o si bloccava di scatto, strappandogli qualche imprecazione. Gona giocava e studiava.

Non parlava ma, pure senza usare i suoi poteri di figlio di Haldir, entrava nella sua mente, nei suoi piedi, nelle sue dita. Lo sfuggiva come il ballerino evita il passo di danza scomodo e coinvolge lo spettatore nei movimenti che più gli aggrada. Pian piano, lo spadaccino smise di schivare, allungò il braccio per colpirgli il viso ed il graffio del suo artiglio gli segnò la guancia. Ormai lo aveva analizzato a sufficienza. Aveva imparato il suo stile ed immaginava bene come metterlo in difficoltà. Gona spostava veloce il peso da un piede all'altro, pur restando sul posto. Zalaia non aveva dubbi che, presto, gli si sarebbe scaraventato addosso. Una frazione di secondo dopo, scansò il suo attacco diretto quasi per miracolo. Il suo oppontente era formidabile, ben più di quanto si potesse immaginare dal fisico asciutto. Zalaia ne osservò i muscoli tesi mentre le loro dita si incrociavano e provavano a ferirsi a vicenda. Aveva puintato i piedi a terra ma presto si ritrovò comunque a perdere terreno: l'altro lo stava letteralmente spingendo fuori dall'arena. Poi però doveva essersi stancato. Gli assestò all'improvviso un calcio allo stomaco, facendolo volare fuori dal quadrato che designava il perimetro da combattimento. Quando fu fuori, il rosso si vergognò di se stesso. Erano anni che non faceva una figura barbina come quella. Un altro maschio si sarebbe avvicinato per deriderlo. Gona, invece, gli allungò la mano, amichevole, tirandolo verso di sè, nuovamente sul campo. Lo avrebbe lasciato andare solo dopo mezzo pomeriggio, quando sarebbe riuscito ad assestargli un pugno al mento, guadagnandosi anche agli occhi di tutti il rispetto che quel figlio di Haldir gli aveva riconosciuto prima ancora di metterlo alla prova.

L'allievo di Imuen aveva provato a chiedere al suo maestro se era quel guerriero formidabile o lui stesso che si era rammollito.

Nei giorni seguenti, Imuen aveva notato il malumore non proprio velato di Zalaia. La sconfitta iniziale contro Gona non poteva certo esserne il motivo. Non aveva tirato su un guerriero così immaturo. Conoscendolo, però, sapeva di dovergli un modo per menar le mani contro chi avrebbe voluto. Del resto, lui stesso si era già misurato contro quel cavaliere. Sapeva benissimo del risentimento che l'allievo aveva verso suo padre. L'aveva sperimentato esacerbare negli anni, nella solitudine auto imposta di Mnemosine, e nell'impotenza di suo figlio di lenirla del tutto. Quel ragazzo era venuto su con la certezza che fosse solo colpa di Cancer. Non l'avrebbe mai convinto del contrario. Sospirando, che tanto al Santuario di Atene avrebbero dovuto presto tornarci, propose al fratello di recarcisi per primo, da solo, in modo che lui potesse preparare a dovere anche la recluta più inesperta. La verità era che voleva ridurre al minimo gli spettatori di quella che sapeva sarebbe stata una sfida plateale. Perchè Zalaia, appena entrato nel santuario, avrebbe preteso di misurarsi contro qualcuno e non sarebbe bastato, una seconda volta, l'ordine di star fermo impartito dal suo signore. O meglio, sarebbe stato sufficiente, ma si sarebbe anche trattato di una cattiveria inutile. Avvertì Athena con un semplice messaggio telepatico: di tanti fronzoli non c'era più bisogno. Si sarebbe presentato con Zalaia la mattina seguente, direttamente all'arena del santuario, per aiutare i cavalieri d'oro a prepararsi contro i perduti, anche se, in realtà, le sue tecniche erano diverse da quelle dei figli di Haldir. Non appena comunicò la cosa al suo allievo, lo vide sorridere in maniera che, addirittura per lui, si sarebbe potuta definire sinistra, mentre accarezzava la parte tagliente della propria arma, che brillava come una falce dell'astro lunare nel cielo scuro.

"Converrai, però, di non dover uccidere nessuno. Siamo troppo pochi per permettercelo."

Iniziò a dire, un po' per celia poi come un ordine, per comunicargli i limiti entro cui scatenare la sua furia. Dal momento che non cambiava faccia, intuì che non era affatto riuscito a convincerlo.

"Poi non credo che Seleina apprezzerebbe il fatto che tu faccia fuori uno dei cavalieri che è tornato in vita a prezzo del suo sangue."

Come sperava, la carta del malumore di quella recluta sembrò ristabilire un po' la calma. Imuen ringraziò il minuto in cui si era accorto di quell'infatuazione, che altrimenti avrebbe avuto vita ben più difficile a tener a bada quello scriteriato. Erano miracoli, come ripeteva spesso il suo gemello, che poteva solo una femmina. Effetto opposto, invece, avrebbe ottenuto nominandogli la madre.

 

 

Non appena si era levato il sole, erano apparsi nel cielo luminoso del mattino. Il loro manto riberverava appena, lucido, qualche raggio più insistente. Imuen atterrò per primo al centro dell'arena, sollevano una nube di polvere. Zalaia gli era al seguito, leggermente più piccolo del suo signore. Non appena fu li, indagò uno a uno i presenti, pronti nelle loro luccicanti corazze dorate. La sua, nera come il suo manto, riluceva di bagliori scuri, simili a quelle degli specter. Il suo colorito più pallido, i capelli del rosso tipico della sua razza, lo rendevano anche del tutto diverso da loro. Perchè gli specter, semplicemente, erano uomini. Nessuno, invece, avendo di fronte lui, avrebbe dubitato che fosse qualcosa d'altro. Al chiarore del giorno, i fuochi fatui che lo accompagnavano, schiarivano lattigginosi e spenti. Sorrise, mostrando le zanne, in quel modo che gli umani gradivano poco, perchè sembravano più fiere che mostravano le fauci, rispetto a persone felici. Era esattamente l'effetto che cercava, mentre girava, lentamente, il viso verso suo padre.

Shion, vedendolo, ebbe modo di ricredersi, sul fatto che l'amica di Kiki lo infastidisse. Perchè se quella si vergognava della diversità delle sue facoltà ed aspetto, quel giovane ne faceva una mostra ossessiva, col chiaro intento di stupire ed intimorire. Pensò che fosse una manifestrazione di superiorità, nei confronti di tutti loro. Poi, un pensiero gli balenò nella mente, osservandolo meglio, che non poteva essere per davvero. Senza dubbio, in lui, qualcosa stonava. Come la principessina, anche lui aveva qualcosa di umano, nei lineamenti, nella goffaggine in cui sperava, in quel modo, di rendere nota la sua maggiore capacità. L'allievo di Imuen aveva reso più visibili i fuochi fatui che lo circondavano, spegnendo, in qualche modo, i i colori del mattino. Era giovane. Bramava un conto da saldare. Mentre passava in rassegna ognuno di loro, senza vederli. Imuen sembrava deciso a non curarsi dell'atteggiamento dell'allievo, della strafottenza silenziosa che ostentava. Shion osservò il giovane avvicinarsi come un cacciatore spietato verso la preda a cui dare il colpo di grazia, mentre il manico della falce prendeva forma dalle sue mani e la lama brillava accecando. Aveva superato i custodi delle ultime case e si apprestava a quelli delle prime. Istintivamente pensò a Mu, come uno sciocco, alla sua incolumità. Zalaia, invece, si bloccò davanti a Cancer.

"Voglio giocare con te, umano."

Era palese che tra quei due ci fosse una questione in sospeso. Conoscendo il passato di Cancer, c'era da appurare bene chi dei due avesse ragione e chi torto. Death Mask pareva esitare, forse spaventato, incerto. Per una volta, pareva inconsapevole dell'astio del suo avversario. Tuttavia, anche solo per non perdere la faccia, si esibì nel suo ghigno migliore.

"A disposizione, moccios."

Era palese chi dei due fosse più incauto, dubbio, tuttavia, l'esito della battaglia. L'unica cosa chiara, era di non dover andare per il sottile.

Shion li scrutò entrambi. Stessa altezza, stesso modo di camminare, identica aria spavalda mentre raggiungevano il centro dell'arena. Deciso, si portò al fianco di Imuen.

"Quale mistero nasconde il tuo allievo?"

Imuen, dal suo mezzo metro in più d'altezza, sembrò deriderlo in maniera bonaria.

"Starete correndo troppo con la fantasia, Gran Sacerdote?"

Gli rispose, infatti, per nulla credibile, chiaro come il sole che non lo aveva affatto convinto.

Imuen controllava attentamente il discepolo, che allargava le braccia a richiamare quanti più fuochi fatui poteva. Presto, questi scurirono galleggiando, nell'aria satura del mattino. Confondendosi nella caligine, ingrandirono in ovali, fino a mostrare delle maschere, in una rappresentazione feroce di ciò che tanti anni prima deturpava la quarta casa. Zalaia piegò il viso di lato, in una smorfia che mimava il domatore compiaciuto che mostra i suoi leoni ammaestrati. Stuzzicava l'avversario, che fino ad allora non sembrava essersi scandalizzato troppo, ad imbastire una scena migliore della sua.

Cancer, che fino ad allora era rimasto a braccia conserte, dovette ammettere che l'effetto finale non era affatto male, ma era tempo di finire i giochi. Unì i palmi sopra la testa, richiamando l'energia della sua costellazione, pronto a scagliare subito il suo colpo migliore. Soddisfatto, notò subito che il ragazzo iniziava ad essere trascinato verso il vortice che si apriva alle sue spalle. Senza scomporsi, Zalaia aveva materializzato la falce, alzandola, con un solo braccio, fino a portarla parallela al terreno, sopra la testa. Impresse poca pressione all'arma, lasciandola poi andare verso Cancer. Si accorsero che non era un gesto casuale, quando notarono che la traiettoria del lancio non era dritta, verso il vortice della costellazione di Praesepe, ma circolare, come se non venisse affatto risucchiata. Improvvisamente, la falce scomparì. Zalaia sorrise. Death Mask fu abile a scartare all'ultimo secondo. Una ciocca dei suoi capelli scivoloìò a terra, mentre l'azione del Sacro Cancer si estingueva. La falce era apparsa a pochi centimetri dal suo collo e terminava il mezzo giro che aveva compiuto, tornando esattamente nelle mani del legittimo proprietario.

"A quanto pare il mio spettacolo è più divertente del tuo, vecchio."

Lo prese a quel punto in giro il rosso, dando infine forma agli esseri che erano, inerti, vicino a lui, senza essere risucchiati. Doveva essere ancora abbastanza scosso perchè, invece delle solite sembianze umane, quella volta, Zalaia aveva dato forma a zombie. Aveva voglia di misurarsi nel corpo a corpo. Si lanciò come una furia addosso al padre. Sarebbe stata una sfida a chi picchiava più duro. Solo che lui aveva anche una moltitudine di non morti dalla sua.

 

Per un po' Imuen aveva deciso che lo avrebbe lasciato sfogare. Non era un caso che Cancer non avesse capito nulla della persona che aveva di fronte e ardeva dalla voglia di gonfiarlo come una zampogna. Imuen stesso aveva imposto un sigillo alla mente del cavaliere, per evitare che cercasse Mnemosine dopo la loro breve avventura. Era stato un periodo in cui tutto si sarebbe potuto permettere, meno che occuparsi dei capricci di un umano, specie oscuro come Cancer, quando era talmente concentrato sulle proprie sventure da abbandonare a loro stessi persino i suoi figli. In quegli anni difficili, Mnemosine e quel suo cucciolo inaspettato, erano stati l'unico motivo per cui non era impazzito del tutto.

Forgiare Zalaia quale suo migliore allievo era l'unica azione del suo recente passato di cui andava fiero, tanto che, nonostante il suo primogenito fosse nato, mai per un secondo aveva pensato di mutare il suo rapporto con quel ragazzo per cui, più che un maestro, era quasi diventato un padre adottivo. Ne era orgoglioso. Del guerriero potente che era, della persona eccezionale che stava diventando. Vedendolo, però, vicino a Cancer, si sentì come se avesse rubato qualcosa di prezioso, quasi sacro. Non aveva mai biasimato Death Mask di fronte al ragazzo, anzi, aveva provato anche simpatia nei confronti del cavaliere della quarta casa. Al campo, però, i pettegolezzi correvano veloci come al Santuario. Non era bastato provare a convincerlo a non ascoltarli. Perchè le lacrime di Mnemosine ad ognuna di quelle parole perfide, versate nella solitudine e nel silenzio, Zalaia le conosceva una per una. Una per una le avrebbe fatte pagare a Cancer, salate come era costato piangerle. Perchè per Zalaia, un guerriero del livello di Cancer, se avesse amato sua madre la decima parte di quanto lei aveva amato lui, mai sarebbe stato soggiogato da un tranello puerile come poteva essere un sigillo. Il ragazzo ne era incrollabilmente convinto, mentre rispondeva ai pugni di suo padre con una rabbia che ancora non scemava. Poichè quando si sceglie di amare, non può essere un sigillo a darti la scusa per dimenticare. Aveva il labbro spaccato ed un livido allo zigomo quando sollevava Cancer, con una mano, tenendolo per il collo. Il primo richiamo di Imuen non sortì effetto. Il secondo, più forte e deciso, fu l'ordine di cui il seguace aveva bisogno per non macchiarsi di un delitto che, in tutto e per tutto, l'avrebbe reso simile al suo genitore, prima che si redimesse.

Rimettendosi in piedi e toccandosi il collo, Cancer si trovò costretto a complimentarsi con quello sbarbatello che non lo degnò neppure di risposta.
Imuen, con un cenno, comunicò a Zalaia di ritirarsi. Questi non se lo fece ripetere due volte e, trasformatosi, aveva ripreso la via del campo. Tutto aveva voglia, fuorchè restare più a lungo in quel posto. Il gigante in nero, invece, tese la mano a Cancer, convinto che fosse ora di rimediare ad un madornale errore del passato. Era il gesto di scuse di un maestro che avrebbe dovuto trattenere un allievo indisciplinato e aveva fallito ma anche il modo di sciogliere una volta per tutte il sigillo che aveva imposto, rendendo i ricordi di Death Mask con Mnemosine, fino ad allora poco più che mero sogno. Mentre il cavaliere, immobile e sbalordito, riprendeva coscienza di quei giorni perduti del suo passato, Imuen si chinò fino al suo orecchio. Gli sussurrò chi fosse quel ragazzo, scusandosi.

Non si oppose al destro che gli arrivò in pieno viso, che se l'era meritato tutto. Alla giusta pretesa di delucidazioni di Death Mask, che sarebbe venuto con lui al campo dei Dunedain in ogni caso, per chiarire subito quella situazione, negò però, inflessibile.

"Se torni oggi, corri il rischio di essere sbranato."

Gli chiarì, semplicemente.

"Athena ti ha perdonato ma Mnemosine e Zalaia hanno dovuto dimostrare molte volte, più di tutti, quanto valevano, per non essere accomunati alle nefandezze che tu hai compiuto in passato. Non ti permetterò di avvicinarti a loro, finchè non dimostrerai di essere diventato davvero l'uomo che meritano. "

Fra tutti i presenti, l'unico a rendersi conto di tutto fu Shion. Egli, infatti, avrebbe voluto interventire prima a bloccare quello che si stava dimostrando uno scontro impari ed inutilmente feroce. Poi, appurati i fatti, preferì tacere. Semplicemente, salutò Imuen, permettendogli di andare, ed ordinò agli altri cavalieri d'oro di ritirarsi. C'erano modi migliori di gestire situazioni delicate come quella. Ma che diritto aveva, lui, di metterci bocca, quando non aveva mai avuto modo di misurarsi con situazioni anche lontanamente simili? Riguardava Cancer, suo figlio, la donna con cui l'aveva concepito e forse Imuen che ci si era messo in mezzo. Se tutta la rabbia di Zalaia nasceva da sciocche chiacchiere, non aveva senso alimentarne altre. Era tempo di rientrare alle rispettive case.

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Capitolo 26
*** La corte dei miracoli ***


Quando Gona incrociò il pupillo di Imuen di ritorno dal Santuario di Atene, solo, con quella faccia, con l'odore del sangue di quel personaggio addosso, ci mise un attimo a realizzare che la scena madre si era svolta esattamente secondo copione.

Aveva seguito il compagno d'armi fino alla radura dove era arrivato e si era portato al suo fianco, silenzioso. Lo aveva squadrato senza emettere un fiato e, quando il giovane gli ringhiò addosso, gli lanciò un'ampolla con un sapone speciale per togliere gli odori. Aveva maturato subito una simpatia per quel guerriero così collerico. Ne aveva intuito il potenziale, nonostante ci si fosse battuto per poco tempo. Gli ricordava Tabe, per molti versi. Sapeva che non gli avrebbe chiesto aiuto, benchè gli avrebbe fatto comodo. Del resto, erano secoli che non agivano più in sinergia, tra figli dei domatori di anime. Erano cose che rammentava vagamente, di centinaia d'anni prima, quando era stato cucciolo. Lo fissò per qualche istante, mentre tornava dal fiume dopo essersi lavato ed aver usato tutto l'unguento. Almeno, quello non puzzava più del sangue di suo padre.

Sentendosi oggetto di quella minuziosa osservazione, Zalaia si imbestialì immediatamente. Gli urlò contro di parlare chiaro, di specificare che problemi avesse con lui. Si diede poi dello sciocco, ricordando che Gona e le parole non si incontravano facilmente.

"Vuoi ... aiuto?"

Il suo simile aveva una voce bassa, stentorea. Non era da poco lo sforzo che stava compiendo, con quelle poche sillabe. Colpito dal gesto, Zalaia negò. Forse, quel guerriero antico aveva bisogno di qualcuno con la pazienza di ascoltare quel poco che avesse avuto da dire.

"Chiamo Seleina?"

Inteso che lo stava prendendo in giro, la tensione del rosso si frantumò in una fragorosa risata. Non si rese conto se Gona lo avesse privato del suo dolore senza versare lacrime. A quanto sapeva lui, per riuscirci, i figli di Haldir dovevano toccare una persona e la loro azione era visibile dal fatto che piangessero, oltre che dal sollievo che davano.

"Risolvo da solo i miei problemi... ma grazie comunque del bagnoschiuma."

Rispose calmo, al suo interlocutore, sdraiandosi nell'erba. Era più che sufficiente che sua madre non avrebbe saputo niente della sua scaramuccia col padre, fiutandogliene il sangue addosso.

Stirò le braccia, prima di incrociarle sotto la testa. Divenne serio.

"Perchè vuoi aiutarmi? Al campo mi temono ma nessuno si è mai occupato del mio benessere."

Aveva alzato le spalle.

"E' sempre stato così."

Si sentì guardato ancora da Gona, dal suo viso sereno.

"Siamo un branco. Ci si aiuta."

Si portò allora a sedere, stralunato, confuso dal senso di quelle parole. Un po' ne fu commosso. Poi, come suo solito, la buttò sullo scherzo.

"O sarà che il branco è forte quanto il suo elemento più debole? E tu ne sei il capo."

Gona, soddisfatto, confermò con un cenno. Il più giovane stava meglio. Aveva raggunto l'obiettivo prefisso.

"Non hai paura che un giorno possa soffiarti il tuo ruolo di prestigio, capo?"

Gona, allora, si alzò in piedi. Perchè un conto era essere gentili, un altro passare da fessi.

"Diventa più forte qui, allora."

Lo schernì, spingendolo di nuovo a terra, con la punta della spada calzata nel fodero, puntandogliela al petto.

"Perchè in un duello serio, io combatto con ogni mezzo."

Zalaia lo scambiò con aria di sfida. Non aveva velleità di comando ma possedere il pungolo di un avversario così stimolante, lo eccitava.

"Stanne certo, diventerò molto più forte, capo branco."

Scansata la spada del più maturo da sè, tornò eretto con un colpo di reni.

"Solo per farti contento."

Gona, inarcando le sopracciglia, gli aveva scompigliato la chioma immensa, come faceva con i cuccioli, approfittando dei suoi dieci centimetri in più d'altezza e di qualche secolo sulle spalle.

"Intanto impegnati."

Lo canzonò di nuovo, prima di trasformarsi e sparire.

 


Imuen era tornato al campo piuttosto teso. Istintivamente aveva annusato l'aria in cerca di Zalaia. Apprendere che fosse in compagnia di Gona e non puzzasse più del sangue di Cancer lo lasciò perplesso. Il cosmo dell'allievo era pacato. Aveva sempre considerato eccentrici i sottoposti del gemello. Se, però, Gona era riuscito così facilmente a tranquillizzare un tipo turbolento come Zalaia, evidentemente era molto più intelligente di quanto immaginasse.

Come richiamato dai suoi pensieri, Gona era atterrato poco dopo di lui. Imuen gli si fece incontro. Non ebbe bisogno di chiedergli nulla, come accadeva spesso per il gemello. Da solo, l'altro gli riferì che Zalaia era sereno. Il problema, era invece il messaggio da parte di Haldir. Sua signoria mandava, infatti, a riferire che aveva da fare, non si sapeva cosa o dove, per qualche giorno. Nel frattempo, erano stati invitati il Gran Sacerdote e chiunque egli avrebbe voluto portarsi dietro, dei cavalieri del Grande Tempio, a visitare il loro campo. Gona, da capo branco, avrebbe diretto i suoi ragazzi. Per il resto, Imuen era libero di agire come più gli aggradava. Gli suggeriva solo di indagare bene la questione di Zalaia e di sua madre. Questo, almeno, fu ciò che Imuen riuscì ad interpretare, nei monosillabi strozzati di Gona che, per quanto si impegnasse, faticava ancora parecchio a rendersi comprensibile per discorsi di una certa lunghezza. Congedò allora il sottoposto, ringraziandolo di nuovo per l'aiuto con Zalaia.

Raggiunse l'infermeria. Voleva approfittare del fatto che Mnemosine fosse sola, senza il figlio, per informare anche lei. Era deciso ad affrontare una rogna per volta. Quando, però, stava per spalancare la porta della piccola struttura, percepì l'odore di un seguace di Haldir, dentro. Stupito, trovò dentro Tabe, con la bocca spalancata, che sanguinava davanti. Si girò verso Mnemosine, in cerca di chiarimenti. Gona non poteva essere stato e la botta sembrava fresca.

"Che gli è successo?"

Mnemosine, disinfettando veloce la ferita, prima che le zanne ricominciassero a crescere, rispose vaga.

"Solo un pugno ben assestato."

Tabe, ridendo vivace, aveva chiuso la bocca per qualche istante, sputando un grumo di sangue. Si era sgranchito la mandibola, prima di aprire la bocca di nuovo.

"Gli hanno fatto saltare due denti ma ora il taglio è pulito."

Mnemosine aveva dato allo spadaccino un balsamo medicamentoso.

"Nel giro di un'ora sarà come nuovo."

Compreso il tutto, Tabe era uscito dall'infermeria, a godersi gli ultimi raggi del sole. Il domatore delle anime dei morti, sospettoso, aveva preteso chiarimenti, prima di continuare.

"E' stato Zalaia?"

Aveva indagato, temendo il peggio. Mnemosine, sorpresa ma non troppo del quesito, vista l'indole del figlio, aveva negato.

"Allora chi?"

La guaritrice non amava i pettegolezzi. Quella volta non faceva eccezione. Rispose a malincuore.

"Una figlia di Haldir che non ha gradito le sue attenzioni, sull'arena."

Imuen si consolò col fatto che dovevano avere qualche altra femmina di tutto rispetto se, in ogni caso, era riuscita a sorprendere quell'impiastro. Cosa sarebbe accaduto, però, se certe scene si fossero verificate durante la visita degli ateniesi? Era certo che Haldir, ovunque fosse finito, gli augurava che succedesse.

 

 

Haldir aveva annusato l'aria, ringhiando. Il vento sferzava il suo manto pallido, mentre ululava alla luna. Aveva perlustrato il perimetro di tutti i villaggi umani di Asgard, in attesa. C'era sempre meno tempo. Il suo sigillo scemava. Presto, avrebbe rivisto i suoi figli perduti, per l'ennesima volta. Si leccò il naso, scansando qualche cristallo di neve, che ci si era posato sopra. Nervoso, ululò ancora. Sentiva che, in mezzo a quel male, stava mutando qualcosa. Attirato dal branco che si riformava, l'aura di Gona ne aveva attirato qualcuno, dimenticato. Ornan si apprestava al suo signore, ringhiando anche lui. Emergeva dagli abissi delle foreste. C'er aun cucciolo che sonnecchiava, stretto alla sua pelliccia chiara. Haldir lo annusò distratto. La sua progenie proseguiva anche senza di lui, dopotutto, nascosta agli umani ed altri dunedain. Era ancora presto per rientrare al campo. Precedeva un altro suo figlio al villaggio natale di Brunilde. Doveva aveva ancora finire di creare, là.

 

Con la sua box d'argento sulle spalle, Kiki aveva raggiunto Mu, alla prima casa. Anche se, alla fine, gli era stata assegnata una cloth di livello inferiore, non erano cambiate di molto le sua mansioni di riparatore. Per il momento, il lavoro era poco ed erano in due a dividerselo.

Era parecchio seccato dal fatto che solo i cavalieri d'oro fossero stati ammessi alla prima visita di Imuen. Avrebbe assistito allo scontro tra Cancer e l'allievo del domatore dei morti volentieri.

Mu, in quel caso, era stato molto avaro nei particolari e Kiki lo scrutava attento, convinto che lui e Shion gli nascondessero qualcosa. D'un tratto, stizzito, aveva agguantato l'orialco prima che il fratello se ne servisse, deciso a farsi dare i chiarimenti che desiderava. Costrinse Mu a fissarlo. Se non avesse parlato, gli avrebbe cavato le informazioni che voleva leggendogli la mente. Dopotutto, avevano entrambi il fuoco dell'ariete nelle vene, solo che Mu lo liberava da costretto.

"Perchè tanto mistero con me?"

Sospirando, per il momento determinato ad evitare lo scontro, il cavaliere d'ariete gli aveva spiegato, per l'ennesima volta, che non c'era nessun mistero di cui veniva tenuto all'oscuro. Kiki, però, non era affatto convinto. Tirò di nuovo fuori l'assurda questione della diversità di trattamento per la differenza di casta. Non appena si rese conto dell'ingerenza del fratello nella sua mente, però, il fastidio montò in rabbia: Mu spinse indietro l'altro con la telecinesi, facendolo ruzzolare a terra. A quanto sembrava, almeno in quello era ancora superiore.

Rialzatosi, Kiki pareva in imbarazzo. Aveva balbettato delle scuse, per il suo modo di fare irruento. Il maggiore aveva annuito, considerando chiuso il discorso.

"E' palese però che il maestro Shion sappia qualcosa."

Evidentemente, aveva sperato a vuoto.

"Come hai appurato da te, intrufolandoti tra i miei pensieri, con me non ne ha fatto cenno."

Doveva aver usato un tono palesemente nervoso, perchè Kiki aveva alzato le mani in segno di resa e lo rimproverava di essere un po' troppo permaloso. Lo avrebbe volentieri punito, se non fosse che, ormai, il minore era più alto e robusto di lui.

"Certo che tu ed il tuo maestro parlate poco."

Quell'affermazione, pero, un po' stonava. Diede tempo, al più giovane, di terminare il discorso.

"Io e te eravamo in confidenza mille volte più di te e Shoin, dai. Fa strano, sapervi così, tu ed il tuo maestro."

Riflettendoci, forse in parte era vero.

"Ti faccio notare che quella che tu scambiavi per confidenza, era in realtà affetto fraterno; io e Shion siamo prima di tutto maestro ed allievo. E' diverso."

Kiki lo aveva guardato da sotto in sù, con quei modi un po' da bambino, che non aveva ancora abbandonato del tutto.

"Bella fregatura hai avuto da piccolo, fratellone."

Mu scosse il capo. Forse, se in passato avesse trattato Kiki più come un allievo, invece che come un fratello, gli avrebbe risparmiato la sua mancanza e dell'aiuto di Seleina, lui non avrebbe mai avuto bisogno.

Kiki, invece, si era alzato di scatto. Lo aveva costretto ad esprimere a parole quel concetto assurdo.

"Io sono più felice di aver avuto un fratello a crescermi e non un maestro. Ti faccio notare che, con questo metodo, sono venuto su più potente di te."

"E più indisciplinato."

Lo corresse, alla fine, Mu, più leggero nell'anima. Sapeva benissimo, cosa se ne facesse il minore, della disciplina.

Completamente dimenticati litigi e cattivi pensieri, gli parlò invece dell'imminente visita al campo dei Dunedain, che Shion doveva ancora scegliere chi mandare, se qualcuno o tutti. Come si aspettava, Kiki non si sarebbe mai perso l'occasione di vedere all'opera i Dunedain e rivedere la sorellina adottiva, tanto più che era riuscito a cavargli il particolare di chi fosse il farfallone come lui che gli ronzava attorno.

 

 

Come Imuen si aspettava, il Gran Sacerdote ed i cavalieri di Athena giungevano prima del suo adorato gemello, disperso ancora chissà dove per chissà quando.

Imuen aveva fatto accendere uno dei fuochi ai vertici dell'accampamento, pronto a far alimentare in rapida sequenza i restanti tre, appena i loro ospiti fossero stati visibili. Li attendeva alla porta principale. Era un bene che Cancer non fosse presente. Aveva informato Mnemosine di aver liberato il cavaliere del suo sigillo ma non si poteva sapere se Zalaia sarebbe ripartito subito alla carica, avendolo di fronte. Per fortuna, Shion aveva compreso ed aveva adattato la sua linea, di affrontare un rischio per volta. Se aveva fatto bene i conti, azzardò che il Gran Sacerdote di fosse portato appresso cinque cavalieri d'oro più l'amico della recluta. Si trattava di troppi psicocineti secondo lui, ma quel Kiki sapeva essere indisponente come Zalaia, ci scommetteva. Meglio averli vicino, a tiro di schiaffoni, tipi così, invece che a causar danni al campo base. Altro punto a favore dell'intelligenza del vecchio lemuriano. Ci dovevano essere poi Virgo e Kanon dei Gemelli. Si erano portati dietro l'artiglieria pesante. Sugli ultimi due non era certo. Leo e Scorpio? Quando li aveva affrontati, li aveva trovati interessanti.

Arrivati ad essere individuabili col fiuto, che le coordinate esatte del loro accampamento le avevano confuse pure per Mu dell'ariete, che già c'era stato, Imuen ordinò di essere pronti ad aprire il portone principale.

Alle sue spalle, Gona e Zalaia marciavano affiancati. Seleina e Tabe, invece, si mantenevano a breve distanza, scura in viso la prima, che quasi scoppiava a ridere il secondo. Fingendo di non farci caso, speranzoso di aver placato animi e bollenti spiriti con le minacce efficaci che aveva affinato nel tempo, mentre si occupava di Zalaia, Imuen raggiunse i suoi ospiti.

Spalancò le braccia. Poi, con un lieve inchino, gli fece strada oltre l'accesso che separava il loro campo dal mondo esterno. Con soddisfazione, notò che non si era sbagliato sull'identità degli invitati.

"Benvenuti alla Corte dei Miracoli."

Esordì, teatrale, cercando di darsi un contegno. Voleva illudersi che quei quattro non gli avrebbero fatto fare la figura dello scemo, per non dire di peggio. Aveva agguantato Seleina appena Gona gli era arrivato vicino, che traducesse alla gente di Athena ogni parola, al bisogno.

"La valchiria dov'è?"

Grugnì poi sottovoce, seccato. Gona aveva biascicato che fosse con Haldir. Imuen, invece di imprecare, si impose di restare calmo. Ne avrebbero visti, i loro ospiti, di miracoli, alla loro corte.

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Capitolo 27
*** Il desiderio di due donne ***


Per amore di un figlio

 

Mnemosine si era affacciata alla finestra. Spiava i nuovi arrivati. Attenta, osservava suo figlio, concentrato. Dopo la rivelazione di Imuen, quel tarlo le aveva roso la testa ogni momento. Se voleva parlare con Cancer senza che Zalaia se ne accorgesse, aveva solo quella manciata di ore. Recuperò il mantello e guadagnò l'uscita. Sperava solo di ricordare bene la strada per Rodorio. Per sua fortuna, la memoria non la ingannava. Aveva anche imboccato il sentiero che costeggiava le dodici case. Il primo tempio ed il terzo tempio erano vuoti. Il secondo, presieduto da un custode così di buon cuore da salutarla, addirittura, con un cenno del capo, credendola un'ancella. Si era sentita a disagio a prenderlo in giro ma il tempo a sua disposizione era poco. Non poteva sprecarlo in sensi di colpa. Giunta alla soglia della quarta casa, vacillò appena. Aprì il palmo della mano ad accogliere un paio di fuochi fatui, che le rischiarassero l'ambiente tetro, circostante. Il tempio era stato sì purificato ma non era poi migliorato molto. Era evidente il lungo stato di abbandono. Probabilmente la servitù aveva paura a farsi avanti, visto il carattere minaccioso del quarto custode e la sua sinistra fama. Tentennò di nuovo. Fosse stato per lei, mai si sarebbe abbassata a tanto ma, per suo figlio, era disposta a tutto. Zalaia necessitava dell'aiuto di suo padre per eliminare quell'unico punto debole che ancora restava a renderlo vulnerabile, nella guerra che si profilava. Lei era sempre stata una di quelle madri disposte a tutto, per la salvezza di un figlio, anche ad offrire l'anima al diavolo, se necessario. Strinse i pugni, decisa ad incatenare il proprio cuore in una corazza più resistente di un'armatura. Doveva riuscire per forza, davanti a quella persona. Strinse i pugni. Calmò il proprio respiro e palesò finalmente la sua presenza. Solo dopo qualche minuto, colui che aspettava si sarebbe fatto avanti.

 

 

Era ancora impegnato a fasciarsi le ferite, furioso per l'affronto subito. Non sapeva se era stato peggio essere stato sconfitto da un ragazzino o apprendere che quel moccioso che pestava come un ossesso era sangue del suo sangue. Si guardava allo specchio. Mai come in quel momento aveva provato disgusto verso se stesso. Come aveva potuto dimenticare quella donna e ciò che c'era stato? In realtà, la rimembrava perfettamente ma era stato portato a convincersi che lei era solo frutto di un sogno, l'attività onirica della sua mente perversa alla disperata ricerca di un briciolo di pace. Chi l'aveva ferito più di tutti, però, non era stato Imuen ma se stesso. Il momento esatto in cui, ripreso a respirare, si era complimentato con Zalaia e lui l'aveva ricambiato con un attimo di puro odio e poi spietata indifferenza. Si era specchiato in suo figlio e lui l'aveva ricambiato con la ripugnanza peggiore che si poteva provare nei confronti di una creatura vivente. Si alzò e raggiunse lo specchio. Guardava se stesso e vedeva Zalaia. Avevano entrambi la stessa espressione. Detestavano Death Mask nella stessa rabbiosa maniera.

Le vibrazioni che avvertì provenire dall'entrata del suo tempio, tuttavia, interruppero quel pastoso groviglio di pensieri. Non ebbe dubbi su chi lo cercava. Lei veniva come un sogno a portare un altro pezzo di realtà. Non indossò l'armatura per andarle incontro. Voleva vedere se anche lei detestasse non Cancer ma Death Mask allo stesso modo.

 

Nella penombra silenziosa della quarta casa, Mnemosine riconobbe subito chi si apprestava. Ebbe un sussulto ed i fuochi fatui che l'accompagnavano si allontanarono subito, come in risposta al suo scatto ansioso. Death Mask arrivava come uno dei fantasmi che domava Zalaia. Quando, però, l'ebbe davanti, sentì il suo cuore battere, il suo odore da vivo. Istintivamente, si portò le mani alla bocca, vedendo le tumefazioni, i graffi, i lividi. Inorridì al pensiero che fosse stato suo figlio e, per un attimo, sentì quasi le gambe cedere. Incerta, provò a toccare un segno più evidente allo zigomo dell'uomo. Questi non si sottrasse alle sue dita leggere. Mnemosine, sul corpo del cavaliere, sentiva forte l'odore del sangue di Zalaia. Aveva visto tanti feriti in condizioni peggiori ma allora, ad essere conciato in quel modo, era l'uomo che aveva amato e ad avercelo ridotto era lo scopo della sua vita. Iniziò a temere che la sua visita si sarebbe trasformata in un doloroso buco nell'acqua. Doveva rischiare.

"Perdonerai mai tuo figlio?"

Per un attimo, Death Mask credette di non aver bene inteso il senso di quell'assurda domanda. Ripensò a come era conciato. Un allievo capace di ridurre così il proprio padre sarebbe stato la gioia del maestro che aveva allevato lui e anche del vecchio Cancer. Spiegare, tuttavia, una cosa del genere ad una come Mnemosine, certamente estranea a simili regole di battaglia, non era semplice. Significava poterla allontanare prima ancora di riavvicinarsi. Si aspettava il rimprovero astioso per essere stata dimenticata, uno schiaffo che ci stava tutto. Invece, le prime parole che gli furono offerte erano la preghiera accorata di una madre.

"Non devo perdonare nulla a nessuno."

Rispose, infine, asciutto. Non si mosse quando lei lo abbracciò con slancio, ripetendo mille volte un grazie che non meritava. Il dolore alle costole lo trafisse. Il suo adorato bambino doveva avergliene fratturata qualcuna. Il perdono ci stava tutto ma anche quattro o cinque calci nel sedere. Lei doveva essersene accorta, perchè si era slacciata da lui e gli guardava il busto.

"Perchè non ti sei fatto curare?"

Incerto, aveva spiegato di non averne bisogno. Lei, allora, aveva inarcato le sopracciglia. L'aveva preso per mano ed era stata lasciata fare.

 

Era lesta Mnemosine. Lo aveva rimesso a nuovo nel giro di pochi minuti. Le sue dita correvano celeri sulla sua pelle e l'azione di un cosmo particolare sanava in pochi momenti le ferite più difficili. Death Mask l'aveva osservata fare un fagotto di cerotti e bende insanguinati, da gettare nella spazzatura. Evidentemente, lei ricordava bene come erano disposti i suoi appartamenti privati e ci si muoveva agilmente.

"Al tuo compagno sta bene saperti qui? O sei venuta senza dire nulla?"

Le chiese il cavaliere all'improvviso, mentre era di spalle. La domanda, tuttavia, l'aveva colpita. Si era girata lentamente.

"Non ho un compagno a cui rendere conto e non ti cerco per passare qualche ora in compagnia, se è ciò che temi. Ruberò ancora poco del tuo prezioso tempo. Poi potrai tornare a sollazzarti con la femmina che più ti aggrada, in questo momento."

Bella, dolce e battagliera. Tale e quale a come la ricordava.

"Magari ho una compagna."

Lei aveva scosso il capo. Lo conosceva troppo bene.

"Tu una compagna fissa? L'unica cosa simile ad una donna stabile che ti gira per casa sarà il cavaliere dei Pesci."

Poi, però, era tornata seria. Si era sedua vicino a lui, sul letto. Lo fissò intensamente.

"Se però il sentimento che ci ha uniti una volta, anche per te valeva qualcosa, devi concedergli il tuo aiuto."

Quel gli, agli orecchi di Death Mask, aveva stonato subito.

"Chi diamine vuoi che aiuti?"

Chiese, sconfitto, immaginandosi già il patetico terzo incomodo nella nuova famiglia della sua ex.

"Tuo figlio."

Il cavaliere si girò di scatto. Sentì di nuovo, tutte insieme, le botte che quell'angelo gli aveva regalato.

"A fare che? Ad ammazzarmi del tutto? Non lo voglio vedere neppure in cartolina senza museruola!"

A quelle insinuazioni, Mnemosine avrebbe dovuto schiaffeggiarlo. Invece, sorrise intenerita. Qualcosa, in lei, si sciolse e non era un bene. In quella battuta infelice, padre e figlio tradivano la stessa ironia.

"Non è colpa sua se ha ripreso il tuo caratteraccio."

Rispose piccata.

"Non può occuparsene il suo maestro?"

In quel tergiversare, però, Mnemosine non vedeva codardia ma la vergogna di porre una domanda precisa, su come se la fossero cavata senza di lui, se per lui ci fosse almeno un piccolo posto. La donna sospirò, che per certe sfumature non aveva tempo.

"Per gestire questa cosa c'è bisogno di suo padre, quello biologico."

Death Mask la trapassò coi suoi occhi scuri. L'aveva convinto.

"Che vuoi che faccia per lui?"

La rossa, sollevata, lo ringraziò.

"Insegnargli ad unsare il cosmo di Cancer da umano."

Death Mask si chiese se aveva inteso bene o si burlasse di lui. Apprese così che i Dumedain, se metà umani come suo figlio, potevano perdere per poco tempo i poteri della razza superiore, in determinati periodi. Poichè il ragazzo, senza le facoltà del sangue di Imuen, aveva un cosmo del tutto simile a quello di Cancer, era un misfatto lasciarlo con quell'unico punto debole.

"Io voglio che mio figlio sopravviva a questa battaglia."

Il cavaliere del Cancro, scettico, annuì, dimostrandosi molto più disponibile di quello che ci si sarebbe potuto aspettare da uno della sua indole.

"Immagino che da umano sia più gestibile che da Dunedain."

Affermò, pregustando il momento in cui gli avrebbe restituito, almeno in parte, le carezze del loro primo incontro.

"Sì. Ma non pensare di poter fare i tuoi comodi con lui. Mio figlio è parte del branco. Il branco protegge i suoi membri. Ognuno sa cosa accade all'altro."

Sorrise a quel punto sua madre. Death Mask notò allora, per la prima volta, le zanne addirittura su quella bocca, che un tempo aveva baciato, inconsapevole. Lo capì allora. Quella perla di ragazzo, sarebbe sopravvissuto sicuramente, in un modo o nell'altro, esattamente come sua madre desiderava.

 

 

 

 

Per amore di un fratello

 

Seleina aveva un'ombra scura sul cuore e in quel momento, in cui presto avrebbe avuto davanti il suo fratellone acquisito, il cuore le sanguinava. Perchè le parole di Haldir, nei giorni scorsi, erano state chiare ed intollerabili.

Il domatore delle anime dei viventi, prima di partire, l'aveva presa da parte. Le aveva spiegato, una volta per tutte, che il legame mentale che condivideva con Kiki non sarebbe stato possibile da spezzare e lei avrebbe dovuto farsene una ragione.

I Dunedain apprendevano in un'età ben maggiore di quando aveva iniziato a servirsene lei, come usare correttamente le facoltà che gli derivavano dal sangue, senza esserne dominati. Lei aveva iniziato che era troppo piccola. Certe regole di base non le erano state insegnate.

Se tra loro si facevano chiamare domatori e non signori c'era un motivo. Se entravano in contatto con qualcuno che gli era superiore, finivano per esserne schiacciati, invece di aiutarlo, in un circolo vizioso che terminava una volta per tutte solo quando cedeva uno dei due: l'anima vivente o chi la dominava. Kiki, quando la faccenda era iniziata, le era tremendamente superiore, come lo era ancora.

Al punto in cui erano arrivati, la sua unica scelta sarebbe stata diventare più forte del cavaliere, per recidere quel legame lei stessa. Ma lei, così forte, ancora in parte umana, mai e poi mai ci sarebbe diventata. Di sicuro, quando avrebbero affrontato i perduti, tutte le paure, le emozioni negative, le debolezze da guerriera inferiore che lei si sarebbe portata inevitabilmente appresso, avrebbero destabilizzato Kiki al punto da renderderlo debole preda di ciò che si stava per scatenare. Lei, però, aveva il branco a proteggerla. Sarebbe sopravvissuta. Per il lemuriano era tutta un'altra storia.

 

A quelle rivelazioni, Seleina aveva smesso di respirare. Si era sentita morta in un corpo con un cuore che batteva. Aveva fissato Haldir e, per la prima volta, aveva avuto la certezza che mai e poi mai avrebbe dovuto fidarsi di lui come, sciocca, aveva sempre fatto. Per l'ennesima volta aveva perso ogni punto di riferimento. Tutti, eccetto uno. E la sola cosa da fare le era apparsa chiara.

"Per vivere, insomma, dovrei lasciarlo morire?"

Haldir spietato, senza parole, aveva confermato. Lei aveva smesso di guardare il maestro, per vedere il boia.

Ci aveva pensato a lungo, Seleina, a come risolvere quella questione. Più ci rifletteva e più si sentiva presa in giro: nell'anima, nel corpo, nelle ossa. Perchè Haldir lo sapeva cosa sarebbe diventata, donandole il suo sangue. Lo sapeva cosa sarebbe accaduto a Kiki, in quel caso. Ed era anche consapevole, lui che conosceva le anime di tutto e tutti, che lei mai e poi mai lo avrebbe accettato.

Aveva rubato quella boccetta di veleno dall'infermeria per uno scopo preciso, perchè era inodore, e nessuno dei Dunedain se ne sarebbe accorto.

La probabile fine del giovane lemuriano, aveva concluso Haldir, prima di lasciare il campo per i suoi peregrinaggi, sarebbe stata solo un inconveniente di guerra. Succedeva. Lei non poteva farci niente. Se non accettare e continuare a combattere.

Seleina rigirò il liquido nero tra le dita. Strinse forte il cristallo nella mano, nascondendolo in una tasca interna della casacca. Ormai, i cavalieri d'oro erano tornati in vita. Ciò che poteva fare per aiutare la terra, come principessa, come essere umano diviso a metà col mondo dei Dunedain, lei l'aveva già compiuto.

Allora avrebbe combattuto, sicuramente, anche se non sarebbe mai e poi mai diventata abbastanza forte. Ma una soluzione l'avrebbe trovata, una volta per tutte. Mai. Mai per mano sua ci sarebbe stato un inconveniente di guerra.

Lo sapeva nelle ossa, nel corpo, nell'anima. Lei una scelta l'aveva trovata. Kiki avrebbe vissuto. Semplicemente perchè lei lo desiderava.

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Capitolo 28
*** Le vere intenzioni di Haldir - Parte 1 ***


Nell'eccitazione generale di quel loro singolare viaggio, Mu fu il primo ad accorgersi che qualcosa non quadrava. Lo vide nello sguardo di Seleina che evitava, stranamente scontrosa, quello di suo fratello. La ragazza fissava il terreno, inquieta. Non era la solita ritrosia per la diversità di aspetto. Gli sembrò il disagio di chi sa di dover eseguire un ordine che lo ripugna ma non può in nessun modo sottrarsi. Interpretare che la cosa avesse potuto coinvolgere Kiki fu un attimo.
Mu non prestò attenzione ai convenevoli di Imuen e diede una rapida occhiata all’arena, decisamente più piccola di quella del Santuario. La spiegazione sulla modalità dello scontro arrivò ai suoi orecchi come un discorso lontano e di scarsa importanza. Apprese di sfuggita che sarebbe stato ricreato il modo di agire dei perduti ed i ragazzi di Haldir avrebbero combattuto tutti insieme, in branco. Di fatto, i Dunedain li costringevano quindi ad agire in gruppo. Alcuni dei suoi compagni avevano borbottato: era un modo poco onorevole, diverso dal duello singolo. Il cavaliere studiò ancora la tensione di Seleina, per lui ancora più palese. Il sospetto che qualcosa di grave stesse per scatenarsi lo mise decisamente all’erta. Bloccò Kiki con la psicocinesi, per obbligarlo a restare fuori. Per il momento, decise che suo fratello sarebbe rimasto un mero spettatore.

All’inizio, Kiki aveva sbuffato. Li per li avrebbe voluto opporsi all’iniziativa del fratello. Poi, convinto sia dalle battute del maestro Shion che, neppure troppo velatamente, gli aveva ricordato che non sarebbe stato affatto male, per lui, imparare a coltivare la pazienza, si era arreso ad incrociare le braccia e, impotente, attendere l’evolvere degli eventi. Stava ancora immaginando i motivi di quell’assurda imposizione nei propri confronti, quando per il quadrato di combattimento si era alzata la nebbia. Non gli fu difficile indovinare che persino la temperatura, in quel piccolo spazio, fosse scesa velocemente. Era come se gli elementi si fossero scatenati in quei pochi metri quadrati. Percepiva le voci dei presenti ed i rumori dei colpi giungere ovattati ed alterati. Non faticava a credere che si trattasse anche di una battaglia di illusioni mentali. Del resto, parte dei poteri di Seleina avevano una natura simile. Aveva provato a concentrarsi, per spingersi a vedere oltre la cortina bianca ma era come se una barriera impenetrabile gli impedisse ogni intromissione. Sbuffando, aveva incrociato le braccia al petto. Gli sarebbe anche piaciuto assistere ai progressi di Seleina, sapere come se la cavasse con quei suoi nuovi e singolari compagni di lotta. Avvertì i cosmi di Ioria e Scorpio vibrare poderosi. Non immaginava che, presto, parte della sua curiosità avrebbe potuto essere placata: aveva visto i due cavalieri venire letteralmente sbalzati fuori dal perimetro e rialzarsi sbuffando, più per la pessima figura che per la botta presa. Li raggiunse, calmo, con le mani dietro la schiena, mentre si scrollavano la polvere di dosso. Li per lì ebbe addirittura l’impressione che lo avrebbero mandato subito al diavolo, se gli avesse domandato come e perché erano finiti a tappeto nel giro di pochi minuti.

 

Alla fine non aveva resistito alla tentazione di chiedere cosa era gli accaduto la dentro e, prima di ottenere una risposta, era stato trapassato da uno sguardo di biasimo del maestro Shion e dall’espressione a dir poco seccata dei commilitoni. Gli fu poi raccontato che non erano stati in grado di vedere quasi nulla, eccezion fatta per gli occhi dei ragazzi di Haldir, che sembravano paia di punti azzurri che galleggiassero ad altezza uomo, nell’aria rarefatta. Nel bianco, infatti, quelli si confondevano, sia per le uniformi chiare che per l’incarnato. I cavalieri avevano sentito il ghiaccio salire dai piedi alle gambe, immobilizzarli per impedire ogni movimento. Una tensione che non era mai appartenuta a nessuno di loro si era insinuata subdola, negativa, estranea e fastidiosa. Come la malia di una creatura che sussurri all’orecchio di sangue e morte, tentando. Spaventati, come se ne stessero per diventare preda, avevano cercato di contrattaccare, addirittura congiuntamente. Avevano sentito parole bisbigliate, lo scintillio di una lama nell’indistinto, il vento che diventava bufera come in risposta ad comando. Una tempesta tanto impetuosa e caotica quanto precisa, chirurgica, nello sbatterli fuori. Doveva essere il potere dei figli di Haldir che si univa, come se invece di tre fossero stati un unico guerriero. Probabilmente, il modo esatto di reagire sarebbe stato cercare di colpire l’unico punto in cui si ravvisava una minore concentrazione di energia avversaria. Peccato, tuttavia, che l’informazione era ormai inservibile per loro e comunicare con i compagni all’interno pareva impossibile. Kiki era rimasto attento, per certi versi col fiato sospeso a quelle supposizioni. Quando aveva rialzato il viso, non si riusciva ancora a scorgere nulla degli avversari. Tuttavia, piccole saette azzurre sfrigolavano veloci per l’arena. Una, in particolare, catturò la sua attenzione prima che il respiro si facesse più affannoso e la voce preoccupata di Shion gli giungesse in soccorso.
Fu solo in grado di spiegare che qualcosa gli tremava dentro, all’altezza dello sterno, sbalordito lui per primo, mentre le forze lo abbandonavano in fretta. Imuen che si avvicinava insieme a Zalaia erano un groviglio di immagini indistinte che sfocava nella sua retina. Non si oppose: lo trasportavano di peso in infermeria.

 

***

 

Dello scontro all’esterno, ormai, gli importava poco: Zalaia aveva disteso il lemuriano su un giaciglio e lo teneva sotto osservazione, nell’attesa che migliorasse.
Imuen gli aveva svelato pochi e vaghi particolari sul fatto che, quando Seleina avesse cominciato a servirsi dei suoi poteri in combattimento, probabilmente l’Altare ne avrebbe risentito, secondo le ancora più scarne informazioni ricevute da Haldir. L’unica cosa chiara era che i loro signori gemelli comunicassero pochissimo e per l’Altare stesse cominciando a tirare una brutta aria. Più che tamponargli la fronte con una pezza fredda e monitorare battito e respiro nell’attesa che si riprendesse, il giovane poteva poco altro. Aveva continuato a domandarsi dove fosse sua madre che, senza dubbio, con le sue facoltà avrebbe potuto recargli maggior sollievo. Il sospetto che solo Haldir avrebbe potuto salvarlo del tutto gettava ombre non proprio chiare sul destino di quel cavaliere. A peggiorare la situazione giungeva l’odore di Seleina, agitata, probabilmente sbattuta fuori dallo scontro simulato con un po’ troppa veemenza.
La osservò trattenendo il fiato, mentre zoppicava fino a dove era disteso l’Altare. Notò l’estrema delicatezza con cui gli aveva scostato poche ciocche sudate dalla fronte, come non staccasse

gli occhi da quelli di lui, quasi fossero stati calamitati gli uni negli altri da un legame che non conosceva e non gli era dato comprendere, nato in un periodo in cui c’erano solo quei due, senza il minimo spiraglio per nessun altro. Udì la preghiera di Seleina, sussurrata e tremante, che presto lui sarebbe stato di nuovo bene, una promessa sancita dal sorriso stentato del cavaliere.
A quella scena, Zalaia aveva sentito sottopelle la puntura della gelosia. La mascella si era contratta senza che lo volesse. Alzato di scatto, si era sbattuto la porta alle spalle con la scusa di dover prendere dei medicamenti nella stanza adiacente. Nel nuovo ambiente, le assi di un tavolo avevano sussultato alla rabbia del suo pugno, in un tintinnare di ampolle e di carte che scivolavano via dalle pile ordinate. Poi si era riavviato i capelli, prima di imporsi calma e dirigersi nuovamente alla porta. Tutto si aspettava, meno che Seleina lo raggiungesse con urgenza, spingendolo indietro di un paio di passi e facendo scattare la chiave dietro di sé. Fu agguantato per le spalle e spinto indietro, come se non bastassero a destabilizzarlo le emozioni che tratteneva a fatica dentro di sé.

***


“Tu lo sai come sta Kiki!”


Seleina aveva afferrato Zalaia per le spalle. Nonostante fosse più bassa, riusciva ad imprimere ai suoi gesti una forza tale da mozzare il respiro in gola. L’aveva costretto a indietreggiare fino a toccare la schiena contro la parete, senza possibilità di scampo se non la nuda verità, ad incatenarlo col mistero dei suoi occhi, a pretendere una risposta che non ammetteva di essere trattenuta.


“Sta male per colpa mia?”


Aveva insistito, scuotendolo leggermente, stringendolo più salda con la sua malia, del tutto incurante del fatto che non ne avrebbe avuto bisogno, non con lui. In quell’attimo, troppo concentrata su Kiki, non se ne rendeva assolutamente conto. Le lacrime erano sfuggite con più rabbia mentre attendeva di sapere cosa davvero stava accadendo a Kiki. Le parole di Zalaia, la conferma a quella domanda, spezzarono qualcosa in lei, completamente. I polpastrelli annichilirono mentre liberavano del tutto l’amico ed il capo si abbassava verso terra. Fu come se le pietre dell’argine franassero sotto il peso dei ricordi e della realtà. L’acqua aveva travolto ogni barriera della sua anima mentre le dita scivolarono lungo le spalle del ragazzo più alto, a disegnare tremanti il contorno delle sue braccia, dalle spalle ai polsi, senza intrecciarsi mai alle sue mani, solo al vuoto.
Seleina aveva capito cosa fare. Se ci fosse stata una sola minuscola possibilità di agire diversamente, essa era morta in quell’istante, trafitta dalla consapevolezza dell’unica cosa da fare. Da sola, l’avrebbe compiuta.
Aveva lasciato Zalaia da solo in quella stanza. Aveva percorso il tragitto verso l’arena a ritroso, del tutto incurante di Kiki che riusciva a mettersi seduto, del tutto all’oscuro del discorso che c’era stato poco prima, vicino a lui.
Seleina aveva sorpassato anche l’arena senza essere fermata, dove il confronto tra Dunedain e cavalieri di Atene continuava in perfetta parità. Lo spostamento d’aria causato da qualche sfera di energia le aveva scompigliato vesti e capelli. Senza essere fermata, quasi che nessuno si accorgesse del suo allontanamento, aveva continuato la sua strada, decisa a raggiungere il punto dove Haldir sarebbe atterrato. La mano che reggeva l’ampolla col veleno tremava sotto la casacca mentre la rabbia iniziava a crescere dentro di lei.
Quando era piccola, tante volte le avevano detto che era strana, poco intelligente, inquietante. Il vincolo che la univa ad Haldir la costringeva a servirsi dei suoi poteri ma pure al silenzio, ostinato, perfetto, implacabile. A sentire quelle infamie sul proprio conto ed a tacere. Era stata obbligata ad allontanarsi persino dalla sua famiglia, da ognuno dei suoi cari, pur vivendoci fianco a fianco. Era un marchio sugli occhi quello che la rendeva diversa. Lo aveva sempre accettato con sopportazione e coraggio: perché era necessario, perché così era giusto. La colpa di una antenata aveva condannato lei ed il gigante bianco. La vita di Kiki, però, no, era troppo. Ci dovevano per forza essere segreti che il gigante bianco sapeva e le aveva nascosto. Qualcosa con cui irretirla, tenerla in scacco, renderla la pedina utile e necessaria di un piano scellerato ed architettato ad arte. Ciò che pensava Haldir, ormai, non le importava più. I suoi disegni, le sue battaglie, erano fumo per lei. Ogni verità con cui l’aveva plasmata, pura menzogna. Strinse più salda la boccetta col veleno sotto la casacca, decisa a farla finita e ristabilire l’ordine. In qualche modo, poi, avrebbe chiesto perdono persino a suo padre ed a tutta la sua famiglia, dall’altra parte. Sorpresa, però, negò col capo mentre il fiato le si mozzava in gola. Qualcuno arrivava troppo presto ed era la persona sbagliata.

 

***

 

Zalaia era apparso all’improvviso. Le era letteralmente piombato addosso. Le chiedeva allarmato dove fosse la boccetta col veleno mentre lei fingeva di non capire. Sordo alle suppliche di andarsene, prima che fosse tardi, che quella faccenda non lo riguardava minimamente. Testardo, ripeteva che il liquido era inodore ed aveva bisogno di un’indicazione per rintracciarlo. Poi, avrebbe sistemato ogni cosa, rimettendo l’ampolla in infermeria. Una scusa l’avrebbe trovata per spiegare l’accaduto, per placare ogni accusa, ammansire persino Sire Haldir che mai avrebbe tollerato una diserzione del genere.
Nella concitazione del litigio, non si accorse che chi temeva era ormai li ed aveva già compreso. Zalaia era stato spaventato dal suo ringhiare ma non si era dileguato come i vigliacchi che lo accompagnavano, atterriti dalla quantità di energia che emanava e da quanto fosse oscura.
Avrebbe voluto intercedere ma fu bloccato dal volere di un essere infinitamente più potente di lui. Il giovane poté osservare il mistero celato nelle sue iridi profonde, incatenato da quel personaggio che assomigliava in tutto e per tutto al suo maestro ma era anche così diverso da scuoterlo fin nelle ossa. Anche se provò ad opporsi in tutti i modi, non riuscì a muoversi di un passo. Gli fu ordinato di tornare dal suo signore. Lui, costretto, eseguì. Voleva urlare, strepitare, tagliare con la falce. Invece, fu libero solo quando gli fu permesso. Si ritrovò padrone di sé davanti al suo maestro, che lo ricambiava affranto.

***


"Non c'è più nulla da fare. Non ci riguarda."


Con un montante allo stomaco, Imuen aveva privato l’allievo di coscienza e fiato. Con un viso per la prima volta nero come la sua armatura, l'aveva sorretto, impedendogli di cadere. L'aveva disteso lentamente a terra. La sua aura era spezzata a metà, offesa da un dolore sordo, feroce. Alla domanda del Gran Sacerdote su cosa stesse succedendo, rispose con occhi furenti.


"Gioisci. Il tuo prezioso cavaliere dell'altare sarò presto guarito."


Aveva bloccato all'istante gli spadaccini del gemello, terminando in malo modo i contendenti sull'arena.


"Andate via."


Ringhiò, d'un tratto, con astio, rivolto agli ateniesi. Gli spadaccini e Brunilde, arrivata poco prima insieme ad Haldir, si erano avvicendati al suo fianco. Di nuovo, ordinò agli estranei che se ne andassero, con un'urgenza apparentemente ingiustificata.
Quando pure l’Altare espanse il cosmo e pretese di sapere, la sua voce divenne ferina.


"Il tuo legame con la principessa di Asgard sta per sciogliersi."


Le sue iridi verdi, lontane, avevano richiamato un'immensa quantità di fuochi fatui, una moltitudine che cresceva ed abbracciava tutti.


"Appena l'anima della tua amica, per mano di Haldir, si aggiungerà a queste, sarai libero per davvero"


Alla minaccia di quel bamboccio che mai l’avrebbe permesso, Imuen si trasformò. Gli ricordò di essere un misero umano, poco più di un ragazzino. I fuochi fatui divennero persone, altri guerrieri. Fu intimato ancora di andarsene, se tenevano alla loro rinnovata esistenza: altro non sarebbe stato concesso. Oltre la sua cortina di fantasmi, stava per scatenarsi una condanna.


Note: ho provato a revisionare un po' nella speranza che il tutto fosse meno confusionario... ma non ho idea del risultato finale onestamente, se è meglio, uguale o peggio...

 

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Capitolo 29
*** Le vere intezioni di Haldir – Parte 2 ***


Seleina aveva paura e non la aveva. Aveva scelto la sua strada in ogni cosa. Morire ingerendo un veleno o per mano del suo maestro non era poi tanto differente. Era tempo che tutto terminasse.

Era stata usata, umiliata e tradita dall'essere in cui aveva creduto ciecamente, fino a rinnegare se stessa, la sua famiglia, il suo onore. Ma la vita delle persone che amava era un prezzo troppo alto. Un sacrificio troppo grande da chiedere alla sua anima sfinita. Aveva estratto la boccetta dalla manica.

"Tu mi hai tradito."

Aveva risposto allo sguardo fermo del suo signore.

"Mi hai tradito dal primo giorno che ci siamo incontrati."

Aveva fatto saltare il tappo della boccetta.

"Tu non sei l'essenza della vita, solo la falsità ed il dolore."

Aveva vomitato quelle parole addosso al suo maestro che la ricambiava, sempre più iroso.

"Sia maledetto il giorno che bambina ti liberai da quella tagliola. Sia maledetto il mostro che mi hai fatto diventare."

Haldir, fermo, aveva ribattuto che non l'aveva affatto resa un mostro. Era solo diventata in grado di realizzare un desiderio: usare le sue mani per proteggere chi amava.

L'aura di Seleina, allora, era esplosa. Il ghiaccio vorticava, impazzito, attorno a lei.

"La notte in cui riportasti i cavalieri d'oro alla vita ero pronta a morire e soprattutto lo voglio ora, che conosco il prezzo della sopravvivenza. "

Portò il flacone alle labbra. Non aveva però fatto bene i conti perchè qualcuno, più potente di lei, non era d'accordo. La boccetta andò in frantumi tra le sue dita, in polvere di cristallo. Il veleno le bagnò la pelle ma non sortì alcun effetto. Haldir, ringhiando, l'aveva fatto esplodere.

"Io ti ho offerto il mio sangue e la vita."

Non accettava quell'ingratitudine da parte di un'umana, nata per sbaglio nella sua terra. La vita aveva strade misteriose, effetti collaterali. Terribile, le rammentò che lui aveva potere sulle anime viventi, compresa quella del suo amato fratello adottivo.

"Tu vivrai, invece, ragazzina, perchè io lo comando."

Poi, aveva spalancato la mano verso il campo, iniziando a concentrare una spaventosa quantità di energia, che fece brillare, ancora più pallido, il suo viso perfetto ed inespressivo.

"Tu vivrai a prezzo della vita che io esigerò."

Il fascio scaturì dalle sue dita, diretto verso Kiki, come una cometa. Urlando, Seleina lo vide schiantarsi, rilasciando un'esplosione incredibile. Il suo no si perse nel boato, inghiottito dal fumo. Distrutta, si accasciò nella polvere.

 

Quando si avvide di quella bomba cosmica diretta contro di lui, Kiki si teletrasportò, evitando del tutto la deflagrazione. Il suo cosmo brillò, intatto, potente. Urlò il nome di Seleina, che se ne stava immobile, in ginocchio. Quel richiamo, per la ragazza, fu una scarica di adrenalina pura. La rabbia si era fatta strada repentina, implacabile. Si era alzata, materializzando le spade. Non aveva esitato un istante a lanciarsi all'attacco. Haldir, però, afferrò al volo una delle sue lame, frantumandola. Con un altro globò di energia la scaraventò lontano.

 

I burattini di Imuen non riuscirono ad arrestare Kiki, che si liberò di loro in pochi secondi. Un attimo dopo era di fronte ad Haldir, al fianco di Seleina, pronto a darle man forte.

Imuen aveva soffiato, avanzò ringhiando ancora verso i cavalieri. Il piano del gemello sembrava stesse per realizzarsi alla perfezione. Avrebbe dovuto reggere il gioco, se tutto andava bene, solo per poco. Non avrebbe saputo dire, però, cosa andò storto. Ai suoi burattini ne sfuggì un altro e la voce di Haldir, nella sua testa, che gli dava del coglione, risuonò netta. Osservò il secondo lemuriano apparire nei pressi del più giovane. Dopotutto, per Haldir, uno in più non poteva essere una gran differenza.

 

 

Quando vide Kiki al suo fianco, Seleina perse un battito. Non riuscì neppure ad implorarlo di andarsene, che in quel confronto non c'entrava nulla. L'azione dell'avversario fu precisa e diretta. Kiki fu subito costretto a tenere immediatamente testa ad un flusso continuo e devastante di energia. Non riuscì neppure ad improvvisare una barriera difensiva. Rispose con un'emissione di cosmo altrettanto luminosa e devastante, tale a quella che Haldir sprigionava da una mano. Per un po', sembrarono pari.

Seleina, ancora offesa da quello che sembrava un tradimento terribile impugnò l'unica spada che le restava ed osò di nuovo. Forse, Kiki avrebbe potuto approfittare dell'istante in cui avrebbe distratto Haldir. Si fece forza. Attaccò.

Con la mano che non usava, Haldir le ghermì il braccio privo di arma. Una scossa elettrica devastante le percorse il corpo, lasciandola tramortita per un attimo. Con immane sorpresa, non aveva trovato la durezza del terreno a frenare il suo impatto ma una superfice solida, calda, rassicurante. Ad impedirle di massacrarsi subito, era stato quello che credeva il fratello di sangue di Kiki, l'ariete d'oro. Si scambiò con questo uno sguardo intenso, d'un istante che sembrò un secolo, chiedendosi lei perchè mai non uno ma addirittura due volessero morire li, inutilmente, e lui da cosa potesse nascere un sentimento così folle e puro da spingere a sfidare quasi una divinità solo per il benessere di una persona per molti versi estranea.

Haldir, che non aveva mai smesso di tenere occupato Kiki, lanciò con la mano libera una scarica di colpi anche contro di loro. Mu si portò avanti. La tela di cristallo a difendere se stesso e quella ragazza, che lo guardava incredula e si teneva un braccio mezzo bruciato. La sua barriera iniziò a vacillare presto sotto quella gragnola di sfere cosmiche. Si metteva male per loro: lui e Kiki cominciavano ad essere stanchi, il loro opponente inesauribile. Presto, si alzò il vento, aria fredda e cristalli che tagliavano, ad unirsi alla sua tela. Solo pochi attimi in più per la sua barriera, rinviorita.

"E' l'unica cosa che posso fare, se mai servisse a qualcosa."

Mu sorrise, intenerito da quella testa, più dura della sua, che si ostinava a pensare a loro due, nonostante tutto. Avvolto dall'aura di lei, ebbe accesso a tutti i dubbi e le incertezze che avevano portato quella ragazzina fino a quel momento. Per la sola colpa di aver tenuto a Kiki come lui avrebbe fatto al suo posto. Quella condanna a morte era un insulto a ciò che è giusto. Come non era giusto che perisse suo fratello. Risoluto, le ordinò di andarsene, prima che la tela di cristallo fosse venuta meno. Perchè lui avrebbe attaccato Haldir e l'avrebbe sconfitto per lei, insieme a Kiki. Ma lei aveva obiettato. Lo aveva supplicato di capire. Era la vita di Kiki per quella di lei. Nel cosmo di Mu passò solo un secondo di incertezza. Poi, il no risuonò di nuovo, ineludibile, nel suo cuore, che una maniera di venirne a capo l'avrebbero trovata.

"Scappa."

L'onda di luce stellare nacque dalla sue mani per sbocciare, implacabile, come una supernova. Il vento, però, che fino ad allora aveva rinvigorito la sua barriera mutava forma e diveniva gorgo, circondandoli, proteggendoli. Mu si girò verso quella giovane che, ormai era chiaro, non avrebbe mai lasciato Kiki e, ci scommetteva, anche lui. Contattò telepaticamente il fratello, di nuovo libero dalla lotta, stanco anche lui.

"Non ve ne potevate stare da parte e basta."

Li richiamò lei. Entrambi negarono.

"Sel, io sono sicuro che da quando Haldir ti ha colpito al braccio sto bene. Sono libero."

In due, scettici, si girarono allora verso di lui, che stava in mezzo. A quella rivelazione, il cosmo in Seleina riprese a crescere ed era forte. Per un attimo, assomigliò al loro.

"Se non ve ne andate, allora, attaccherò con voi."

Mu aveva notato che la bruciatura al braccio della ragazza era strana: si muoveva, ed il suo potere cresceva, non sapeva se in bene o in male. Dovevano agire in fretta. Tanto più che Haldir non era avversario da lasciare ai nemici tempo per congetture.

Kiki avanzò per primo. Accumulò l'energia per l'onda di luce stellare ed aprì la strada al fratello che, pur meno efficace, si unì a lui nello stesso colpo. Il lampo sembrò così accecante da dover distruggere il cielo.

Haldir, però, seppur in lieve difficoltà, aveva incrociato le spade per difendersi ed attendeva. L'arma che le era destinata apparve nel momento esatto in cui la sua allieva liberò il proprio cosmo insieme a quello dei lemuriani.

Il gigante bianco sorrise. Impugnò più saldo le else e si preparò a controbattere il colpo, in attesa

 

 

Per una frazione di secondo, tutti e tre osarono sperare di averla fatta franca. Haldir sembrava sparito, inghiottito in un bagliore accecante, bianco come lui, tale e quale il sole.

Erano stati in grado di creare qualcosa che mai avrebbero creduto possibile.

Poi, era accaduto. La loro stella non avanzava più. Si era bloccata: rovinosa, tornava indietro.

Mu e Kiki lo capirono per primi che sarebbe finita. Mu non avrebbe mai voluto portare suo fratello con sè, negli inferi. Non dopo aver lottato così strenuamente, fianco a fianco. Lentamente, aveva stretto tra le braccia quella ostinata ragazza, per cui tutto era cominciato. Deciso ad impedirle la visuale, l'aveva guidata a poggiare gli occhi, chiusi, sulla spalla della sua armatura. Salutò, grato, con lo sguardo, suo fratello, che sapeva cosa stava per arrivare e lo ricambiava sereno.

Nella fulgore abbacinante che iniziava a divorarli, Mu percepì la presa di Kiki sulla spalla, le braccia esitanti di Seleina che gli cingevano il busto, come a supplicarlo di non lasciarla andare. Pregò solo che, per il fratello e la fanciulla che li accompagnava, dall'altra parte, non fosse mai stato duro come per lui, la prima volta.

 

 

Fu il freddo del metallo su una guancia a far aprire gli occhi a Mu, per primo.

"Adesso che abbiamo finito, la lasci andare?"

Il cavaliere d'Ariete, sbalordito, aveva visto Haldir rinfoderare la seconda spada, con cui gli aveva toccato la faccia.

Il domatore delle anime viventi lo studiava, tranquillissimo, aspettando che si decidesse a mollarla dalla sua presa. Mu aveva controllato Kiki e Seleina. Erano tutti vivi e stavano bene.

Kiki, confuso, chiese cosa stesse accadendo.

"Avevo bisogno che la mia allieva completasse l'addestramento per reclamare la sua arma."

Specificò il gigante bianco, indicando il braccio di Seleina, avvolto in un singolare guanto chiodato.

"Visto che è un tipo che combatte seriamente solo se le tocchi le persone care e volevo testarti, ho pensato di prendere due piccioni con una fava."

Haldir, con lui, aveva concluso. Non lo degnò di altra attenzione. Si era rivolto, invece, a Seleina, che iniziava a vergognarsi come una ladra, prendendo consapevolezza di come avesse insultato il proprio maestro.

Kiki, invece, insistette per capire il ruolo di Mu, in quella che, a tutti gli effetti, era stata una prova ed uno scherzo crudele.

"Mu è solo l'ennesimo segno della forza dei sentimenti umani e di quanto sia coglione il mio gemello, a cui avevo affidato il semplice compito di non far intromettere nessuno oltre te e Seleina."

Poi, Haldir fissò di nuovo il cavaliere d'ariete, più rosso che bianco, per la battuta che gli era stata rivolta prima e quello dell'altare, sollevato, a conversare con gli altri due, come se, apparentemente, niente fosse avvenuto. Gli conveniva andare dagli altri umani, che quei tre se ne restavano li, immobili, a perdere tempo. Lui, invece, iniziava letteralmente a cascare dal sonno.

 

 

Cercando di metabolizzare la mole di sentimenti che l'avevano sconvolta in quegli ultimi giorni, Seleina aveva chiuso gli occhi, dimentica di dove e con chi fosse. Poi, il battito forsennato di un cuore accanto all'orecchio, l'odore di una persona che non sapesse che pesci prendere in quella situazione, l'aveva riportata prepotente alla realtà, ricordandole cosa fosse appena accaduto e svelando l'imbarazzo totale di chi aveva vicino. Perchè se Kiki la considerava una sorella, poichè si conoscevano da che erano praticamente bambini, per l'altro era diverso. Lo allontanò lentamente, poggiando la mano aperta sul suo torace, faticando a riconoscere come proprie dita ornate da un tatuaggio che non aveva mai avuto addosso e non se ne sarebbe più andato. Privata del sostegno del cavaliere d'ariete, si sentì come una bussola privata dell'ago principale, senza direzione, senza un polo magnetico da seguire. Ogni sua certezza era svanita e faticava a ricomporsi. Aveva bisogno di qualcosa di tangibile per non confondersi del tutto.

"Siamo vivi."

Aveva espresso in un soffio, vacillando, come se i suoi stessi piedi non la reggessero, reagendo alle sensazioni dello spirito. Lei era nata sana, anche se riusciva a vedere cose che ai più erano inaccessibili. Poi, era arrivato Haldir ed il suo mondo era stato sconvolto. Il male degli uomini le entrava nella testa e non riusciva cacciarlo. Ne era attirata come una falena. Ci viveva in mezzo. Lo purificava. Ma aveva significato perdere quasi il contatto con la realtà. Kiki era stato l'unica fonte di luce in mezzo a quel buio. Fino a quando il male era diventato troppo, anche per cercare di brillare un po' accanto a lui. Ed Haldir era tornato, ad aprirla un po' di più su quel mondo che non avrebbe dovuto vedere, a riportare quei paladini alla vita, a scombussolare ancora precari equilibri, mutando quel suo corpo fragile che si consumava al ritmo in cui cresceva la sua mente. Poi, di nuovo Kiki a far da ago della bilancia della sua singolare esistenza, perchè quando la sofferenza del suo amico era diventata reale aveva trovato la forza di reagire, una volta per tutti, non solo di subire eventi che la schiacciassero. Prendendolo ad esempio, aveva trovato la forza di brillare da sola. Era tornata ad essere la bambina che era stata, nel corpo di una donna.

Haldir le aveva detto, una volta, che gli esseri umani avevano sia il potere di distruggere che salvare quelli come loro. Allora, la sua nuova arma pulsava sul suo braccio, viveva nella sua mano. L'aveva richiamata ed ebbe l'assoluta incrollabile certezza che d'ora in avanti sarebbe stato davvero diverso, una volta per tutte, come avrebbe dovuto dopo la sua prima trasformazione, da umana a Dunedain. Quella era l'ultima volta che il suo corpo doveva mutare per permetterle di stare bene. Non avrebbe più danneggiato Kiki. Nessuno avrebbe più potuto farle del male, a meno che non fosse stata una sua scelta. Non sarebbe più dovuta essere il relitto di una nave sbattuta dalla tempesta. Senza saperlo, Kiki e Mu l'avevano salvata. Sarebbero stati pronti a farlo fino alla fine.

Agguantò entrambi i lemuriani con un unico abbraccio e, se uno si fosse imbarazzato, non sarebbe stato un problema. Furono le prime vere lacrime che pianse di gioia, per se stessa, per la fiducia che in lei era stata riposta. Quelli come lei faticavano a farsi comprendere con le parole. In questo, lei non era troppo diversa. Sperò che, con quel gesto istintivo, fosse almeno in parte riuscita a spiegare.


 

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Capitolo 30
*** Senza punti deboli - Parte 1 ***


I burattini del domatore dei morti si bloccarono lentamente, lasciando andare i presenti. Sbiadirono. Disparvero del tutto. L’aria si stava placando in fretta dell’energia satura di ostilità. Il corpo di Imuen, avvolto dalla sua aura scura, tornava eretto e privo di peli: alla pelliccia si sostituiva la corazza. Il suo viso era tirato ma decisamente meno minaccioso, mentre si rivolgeva a Shion ed al resto degli ospiti.

“Vi avevo avvertiti, al vostro arrivo: questa è la corte dei miracoli.”

Osservava Zalaia che, sconcertato, si stava svegliando in fretta, ancora non del tutto cosciente di quanto fosse realmente accaduto. Come temeva, gli ateniesi non avevano gradito quella messa in scena ma Haldir era stato chiaro: voleva testare il lemuriano più giovane e, per risparmiare tempo, avrebbe sottoposto anche l’allieva all’ultima prova. La ragazza necessitava per forza di un’arma che ne esaltasse il potere ma le permettesse di controllare anche la sua natura ibrida. Seleina non era Zalaia. Per lei non andava bene un’armatura. Era necessario qualcosa che, quando fosse tornata umana, avrebbe funzionato come sigillo, altrimenti sarebbe sempre stata in balia del sangue che aveva ereditato dal gemello ed inconvenienti come quello con Kiki avrebbero potuto ripetersi. Teneva d’occhio proprio il cavaliere dell’altare. Il suo potere, in effetti, si era dimostrato quasi smisurato. In ogni attimo, Haldir aveva dovuto impiegare quasi la metà delle proprie energie per tenergli testa. Certo, il gemello non era in piena forma ma restava comunque un essere superiore. I fatti l’avevano dimostrato: quel ragazzo era tremendamente potente.
Individuò il gemello che precedeva quei tre che, ancora, si attardavano, confusi da quanto era appena successo. Lo trovò stanco, spossato. Le sue peregrinazioni e l’ultimo scontro, dopotutto, l’avevano indebolito. Glielo leggeva nel viso torvo che avrebbe voluto solo riposare, invece che perdere tempo in convenevoli, lì con loro. Raccomandò a tutti che, se ci tenevano alla vita, lo lasciassero passare senza disturbarlo. Ci scambiò un rapido cenno: era quanto di più simile il suo consanguineo avesse per esprimere un grazie. Bloccò il Gran Sacerdote, prima che lo intercettasse.

“Alle tue domande, umano, posso rispondere io.”

Sicuramente, Shion non percepiva un pericolo in loro ma il loro modo di agire, subdolo ed imprevedibile, era inammissibile. Fu l’intuito, però, più che le parole a suggerirgli di dover e poter attendere. Ordinò a Kanon e Shaka di stare tranquilli e farsi da parte. Non obiettò, quando gli fu chiesto di conferire in privato. Mentre veniva guidato in un posto più riparato, visibili ma lontani da orecchi indiscreti, il domatore delle anime dei morti aveva fatto un cenno a Zalaia, perché li raggiungesse. Poco prima che questo giungesse, gli era stato fatto giurare che, su quanto stavano per discutere, avrebbe dovuto essere mantenuto il più stretto riserbo. Quando il giovane gli fu di fronte, Shion si convinse una volta di più di aver fatto centro. C’era troppo, in lui, del cavaliere della quarta casa. Vide il Dunedain poggiargli la mano sulla spalla, in un modo che sembrava ben più paterno che da maestro, come se avesse voluto placarlo o proteggerlo da quel che, presto, ci sarebbe stato.

“La prima volta che ci siamo incontrati, mi hai chiesto che segreto nascondesse il mio allievo. Non ho intenzione di confermare ciò che già sai per certo. Voglio solo
chiederti che possa allenarsi per qualche giorno con chi ha un cosmo simile al suo.”

Come c’era da aspettarsi, il giovane, che non aveva battuto ciglio per aver ricevuto un pugno ingiustificato in pieno stomaco, essere stato manipolato come gli altri durante la prova dell’allieva di Haldir, aveva iniziato subito ad alterarsi. Era scattato verso il maestro, inviperito, immediatamente combattivo. Era ovvio che non avrebbe mai accettato una situazione del genere. Aveva alzato la voce.

“Preferisco cacciarmi un ferro rovente in gola piuttosto che vedere ancora la faccia di quella carogna.”

Imuen aveva cercato in tutti i modi di fargli cenno di star calmo, che si erano allontanati proprio per non far sapere gli affari propri a tutti.

“Quella carogna è e resta tuo padre.”

Quelle parole lo colpirono come la più dura delle accuse. Purtroppo, però, erano la verità.

“Padre non è chi ti dà i natali ma chi ti cresce. Se non fosse per la differenza di rango, chiamerei voi padre senza vergognarmene. Insieme a mia madre, voi mi avete cresciuto ed educato ad essere quello che sono. Quella carogna, quando io e mia madre ne avevamo bisogno, non l’ho mai vista.”

Stava per rispondere Imuen ma fu Shion a precederlo. Gli ricordò che, fino a poco tempo prima, erano tutti intrappolati, Death Mask compreso. Zalaia si era infuriato ancora di più. Non voleva sentirne nominare neppure il nome.

“Quella carogna ammazzava bambini! Forse tra voi simili elementi sono tenuti in considerazione, visto che vi siete fatti comandare a bacchetta per tredici anni da un assassino sadico e schizofrenico. Ma da noi no.”

Si era scaldato ancora di più, battendo il piede a terra.

“Come avrete notato, non ci sono ricchezze tra i Dunedain. L’unica cosa che conta, per noi, sono i nostri cuccioli, la nostra gente. Voi esaltate demoni come Kanon, Saga e Death Mask. Combatteremo fianco a fianco in questa battaglia. Basta. Non voglio altri legami con ipocriti ed assassini come voi.”

Non era facile controbattere a tutte le accuse, perché, in parte, erano basate sulla realtà. Shion, però, non era disposto ad accettare che si facesse di ogni erba un fascio.

“Non siamo tutti come ci accusi di essere, ragazzo. Anche al Grande Tempio esistono pene per chi compie abomini come quelli che hai citato. E’ vero, nelle nostre fila si era infiltrato il male ma è stato respinto. Noi sappiamo cosa è il perdono.”

Più aveva davanti quel giovane, più aveva l’impressione che fosse solo un’anima che avesse sofferto e necessitasse di sicurezze.

“La dea Athena non offre perdono se non c’è redenzione. Mai nessuno fra noi ti assocerebbe al male che ha compiuto in passato tuo padre. Perché sul tuo agire c’è solo onore. Non hai nessuna colpa per il sangue che hai ereditato.”

Lo vide negare, sputare in terra, disprezzare le sue belle parole.

“Che ne sapete, voi, dell’eredità del sangue? Strappate anche i figli alle madri con la scusa che sono predestinati: quanti non diventano cavalieri, li lasciate morire. Non osare parlare ad un Dunedain dell’eredità del sangue, quando vi trincerate dietro agli ideali e ve ne fregate apertamente di tutto ciò che è famiglia.”

Zalaia aveva materializzato la falce e la impugnò, fiero, sbattendogliela davanti.

“Le persone non sono ideali, Gran Sacerdote, sono persone vere. Quando noi imbracciamo un’arma, lo facciamo solo per proteggerci e proteggere. Noi difendiamo persone reali, con un cuore che batte..”

Shion aveva sorriso, chinando il capo.

“Allora, il desiderio di tua madre, di volerti ad ogni costo in vita, puoi ben capirlo.”

Fu afferrato per il collo, che aveva nominato chi non avrebbe mai dovuto osare. Prima che iniziasse a stringere, Imuen lo aveva bloccato. Gli rivelò della passeggiata di Mnemosine per il Santuario di Atene, della sua richiesta a Death Mask, trattenendolo a fatica.

“Sarebbero pochi giorni, ragazzo. Sei già molto forte. Si tratta semplicemente di affinare la tecnica.”

Lentamente, tremando, Zalaia era riuscito a placare la rabbia. Aveva lasciato andare con uno scatto stizzoso l’uomo che ghermiva. Aveva accettato. Solo per sua madre.
Il discorso del suo maestro e quell’odioso sacerdote, per quanto sgradevole, era stato cristallino e lui, messo alle strette per via di sua madre, aveva accettato. Se proprio doveva lasciare il campo, pretendeva però di chiarire, una volta per tutte, le questioni in sospeso. Aveva raggiunto Seleina che ancora si attardava con quei lemuriani. Al malumore che già aveva, si aggiunse pure quel fastidio.

“Devo parlarti un attimo.”

Aveva comunicato alla ragazza, senza degnare quei due di attenzione. Aveva avuto modo di conoscere entrambi, poiché tutti e due avevano transitato nella loro infermeria. Quello vestito d’oro, appena l’aveva conosciuto, gli era andato sulle scatole per l’intimità con cui gli sembrava di averlo visto con Seleina; quello vestito d’argento, di cui all’inizio credeva di non doversi preoccupare, forse aveva un rapporto addirittura più stretto con la ragazza che gli piaceva, in quel momento. Al Gran Sacerdote aveva già messo le mani addosso. Evidentemente, lui, con i lemuriani, era destinato a non andare d’accordo. Li salutò comunque a denti stretti, giusto per non indispettire lei, che gli stava davanti. Prima che potesse continuare, tuttavia, Seleina si era inchinata, in segno di scuse, per come l’aveva trattato, sia in infermeria, sia poco prima che la sua prova iniziasse. Zalaia aveva in mente di porle una specifica domanda, invece, preso alla sprovvista da un atteggiamento così formale, balbettò che non c’era tra loro quella differenza di rango per cui doveva essere trattato con tanta deferenza, che lui non era certo ne Sire Imuen ne Sire Haldir.
Senza tanti giri di parole, chiese chi tra i due che le erano vicino fosse il suo uomo. Seguì un momento di silenzio. Il cavaliere d’argento era rimasto muto, chiaramente stupito, quello d’oro, rosso come un pomodoro maturo, sembrava preda di una subitanea forma di paralisi. Seleina virava ad una tonalità di rosso giusto un po’ meno accesa a ma, almeno, respirava. Aveva sostenuto per un istante il suo sguardo, poi, invece di usare il tono formale di poco prima, gli aveva chiesto se fosse diventato scemo.
Zalaia aveva tanti pregi ma certo, tatto e discrezione, non erano tra questi.

“Allora, se stasera ti invito a ballare, non hai scuse rifiutare.”

Aveva proseguito, poi, con la leggerezza che lo caratterizzava perché, per lui, quel nodo era definitivamente sciolto. La razza del Jamir, improvvisamente, gli risultava molto più facile da digerire. Aggiunse che, se volevano venire, due femmine da far danzare si sarebbero rimediate anche per loro.
Poi, si era diretto in infermeria: doveva assolutamente chiarire con sua madre. L’unica cosa certa era che, per quella sera, visto il programma, mai e poi mai avrebbe lasciato il campo per il santuario di Atene. Anche se, ad essere precisi, Seleina non gli aveva proprio risposto di sì. Aveva più che altro farfugliato qualcosa, cercando di contenere l’imbarazzo. Gli era bastato sapere che fosse libera. Convincerla, sarebbe stato solo un dettaglio.




“Non azzardarti a prendermi in giro.”

Kiki aveva alzato le mani in segno di resa ma si vedeva da lontano che la tratteneva a fatica. La guardò di nuovo, ancora rossa. Scoppiò in una fragorosa risata. Fu lasciato lì, a tenersi la pancia. Poi, asciugandosi gli occhi, si rivolse al fratello.

“Perché non andiamo davvero a ballare con loro? Fosse mai che quel tipo ti rimedia una carina.”

Restò solo: Mu aveva affrettato il passo verso gli altri cavalieri d’oro. Dopotutto, gli era piaciuto Zalaia: chissà che sarebbe stato la persona adatta a far svegliare persino il fratello, quanto a donne.





Era entrato lentamente in infermeria, annunciandosi. Come se ce ne fosse stato bisogno e sua madre non avesse percepito che si avvicinava, semplicemente dall’odore e dall’aura. Quelli che stava compiendo, erano passi che gli pesavano. La raggiunse che gli era di spalle, attese che si voltasse, aspettando parole di rimprovero o conforto, in un silenzio colpevole.

“Così, madre, hai rivisto quell’uomo…”

Non riusciva a chiamarlo padre. Per lui era e restava una carogna. Vide sua madre annuire, semplicemente. Era da tanto che non la vedeva così stanca. L’ultima volta, era accaduto quando era cucciolo, troppo debole per proteggerla come avrebbe fatto un guerriero adulto e renderla orgogliosa di lui.

“Lo ami ancora?”

Osservò sua madre, incerta, trascinare una seggiola e accennargli di prendere posto vicino a lei.

“E’ passato tanto tempo. So solo che lui è l’unico che può aiutarti a superare l’ultimo ostacolo che ti resta per diventare quasi invincibile. Ed io voglio che tu abbia tutti i mezzi per riuscirci.”

Era tanto più alto di lei. Sapeva di essere già molto forte. Sua madre era l’unica femmina di cui, davvero, fino ad allora, avesse tenuto in conto il parere, anche su questioni che, probabilmente, non le competevano.

“Sire Imuen non è che abbia battuto molto questo chiodo, con me, in verità.”

“Se te l’avesse detto, tu l’avresti ascoltato?”

Sconfitto, il ragazzo negò. Avrebbe pagato oro per trovare qualsiasi altra persona, sulla terra, da cui poter ricevere quegli insegnamenti.

“I guerrieri hanno esistenze fuggevoli. Potrebbe anche essere l’unica opportunità che hai di conoscere tuo padre e lui di conoscere te.”

Il ragazzo negò convinto. Tra tutti i rimpianti che avrebbe potuto avere, quello sarebbe certo mancato.

“Quell’uomo non vale la milionesima parte dell’amore che gli hai sempre riservato, madre. I sigilli di Sire Imuen non sono potenti come quelli di Sire Haldir sulla mente dei viventi. Lui ha impiegato pochi istanti per dimenticarvi. Non vi merita e lo sapete.”

Sentì la mano di sua madre, scaldargli la guancia, come quando era piccolo e cercava di minimizzare qualche botta di troppo presa dagli altri cuccioli.

“Non curarti di chi egli sia per me. Concentrati solo su ciò che può essere per te. Condannalo, se lo meriterà, dopo che l’avrai davvero conosciuto e solo per il rapporto che avrai con lui.”

Su quel punto, la trovò irremovibile.

“Non ho cresciuto un figlio che non sappia distinguere giusto e sbagliato.”

Era più alto e potente di lei ma riuscì solo ad obbedire. Forse, in una remota parte di sé, sapeva che sua madre aveva ragione.


Riuscì ad ingoiare completamente la bile ed a partire verso il Santuario solo dopo un paio di giorni. Il suo maestro aveva preso accordi con il gran sacerdote, perché fosse libero di raggiungere la quarta casa e nessuno avrebbe dovuto far domande sulla sua reale identità e motivo della permanenza in quel luogo. L’aveva accompagnato Gona, silenzioso ed evasivo come sempre. In realtà, fu sollevato di averlo vicino. Perchè sapeva che era un buon amico. Nei suoi gesti, gli sembrò di ravvedere la preoccupazione del capo branco che tiene d’occhio i sottoposti, pronto ad intervenire appena ce ne fosse stato bisogno. Era comunque utile. Lui ed il guerriero più potente di Haldir avanzavano sempre fianco a fianco. Avevano raggiunto la casa di Cancer per lo stesso sentiero che gli aveva indicato sua madre. Terminata la salita infinita di gradini, arrivarono in vista dell’ingresso. Il cavaliere d’oro li attendeva esattamente all’ingresso del colonnato, col solito ghigno che lo aveva sempre caratterizzato.
Death Mask aveva trattenuto per un secondo il fiato mentre lo aveva percepito avvicinarsi. Incontrare Zalaia, era come incontrare se stessi e poteva impaurire. Aveva percepito un’altra presenza insieme al ragazzo e non aveva ben capito chi fosse. Non appena ebbe di fronte quella che era quasi la copia di lui ma coi colori di Mnemosine, la cosa più intelligente e più stupida che gli chiese per prima, fu l’identità di quell’altro e che ci facesse lì con lui. Gli fu risposto che era il guerriero più potente tra i figli di Haldir, dei più antichi, nonché capo del branco a cui, a tutti gli effetti, partecipava anche Zalaia ed era libero di andare e venire, compiere ciò che più gli aggradasse. Nelle iridi penetranti e taglienti di quel personaggio, che sembrava poco più anziano di quello che accompagnava, in effetti, sembrava esserci la saggezza di chi ha camminato sulla terra parecchi secoli. Si sentì indagato a fondo, nell’intimo della propria natura. Non era semplice da accettare.
Death Mask ricordò allora le parole con cui Mnemosine l’aveva avvertito, che suo figlio era parte del branco e non lo avrebbero lasciato mai solo, in sua balia. Realizzò allora di non avere la piena fiducia dei Dunedain e, probabilmente neppure di lei. Strinse il pugno ma sciolse presto la mano. Non volle mostrarsi debole. Non si era mai sentito così preda di futili sentimenti umani. Era destabilizzante. Nella sua memoria, riaffioravano sprazzi della sua vita passata, di quando aveva affrontato Imuen. Il domatore delle anime dei morti era balia dei sentimenti e ne ricavava forza. Gli fu impossibile batterlo anche per quello.

“E’ venuto a supervisionare, insomma. Il biondo ha paura che io ti colpisca troppo forte?”

Del tutto impermeabile a quel commento, Gona non aveva smesso per un secondo di avere impresso in viso il suo sorriso gentile. Al cavaliere del cancro sembrò una maschera, come l’apparente tranquillità del cavaliere della prima casa o di quello della sesta. Questo, però, lo trattava col massimo dell’indifferenza possibile.

“Forse.O forse è venuto a controllare che io non colpisca troppo forte te.”

Dopo quella risposta diversa dall’insulto che si aspettava da parte di Zalaia, suo figlio aveva rivolto uno sguardo di intesa a Gona, che aveva dato loro le spalle ed iniziato a percorrere la strada al contrario, lasciandoli ai loro affari. In realtà, li teneva davvero d’occhio entrambi.
Zalaia s’era portato appresso un borsone con pochi oggetti: qualche straccio da addestramento e pochi libri per l’università. Se non avesse avuto tempo per studiare, potevano sempre essere impiegati come armi da lancio. Avrebbe avuto bisogno di poco altro. Era quasi sera e lui si era già cibato. Non aveva voglia di perdere tempo a spiegare ad un uomo quale che fosse la sua dieta. Seguì quell’individuo che non sapeva ancora se avesse dovuto chiamare maestro o padre, per il poco tempo che avrebbero condiviso. Non fosse stato per la promessa a sua madre, l’avrebbe appellato semplicemente carogna.
Evidentemente non lo aspettava, del resto lui non aveva avvertito. Gli fu fatta strada, in religioso silenzio, negli appartamenti privati. Si aspettava di trovare parecchia sporcizia in più, visti gli indizi che sua madre gli aveva fornito su quell’ambiente.
Gli fu assegnata una stanza spartana ma pulita e con tutto il necessario. Gettò il borsone sul letto. Si aspettava che l’avrebbe lasciato li a perdere tempo da solo. Invece, gli fu chiesto se volesse cenare con lui. Non era solo. C’era un suo compagno d’armi, che se ne stava andando.
La tensione, tra loro, era palpabile. Erano praticamente incapaci di intavolare un discorso.
Semplicemente, raggiunsero soggiorno e cucina. Zalaia aveva arricciato immediatamente il naso e ringhiato sommessamente, appena gli arrivò quel profumo così penetrante di rose.
Death Mask, sorpreso, si era già messo sulla difensiva, certo che stesse per attaccarlo. Quando lo vide, invece, estrarre un fazzoletto per coprirsi bocca e naso, restò perplesso.

“Ma sei scemo a tenere un veleno così pestilenziale come deodorante per ambienti? Io la dentro non entro manco morto. Dà il voltastomaco.”

Lui stesso aveva appellato Aphrodite in molti modi, spesso poco lusinghieri, per via del suo aspetto ambiguo. Quello però, gli mancava proprio. Poi, realizzò che suo figlio, per forza di cose, dovesse avere un fiuto piuttosto sviluppato. Certo, però, Mnemosine non aveva mai avuto quei problemi col cavaliere dei pesci.

“Sei già stato alla presenza del cavaliere dei pesci, eppure tante scene non le hai fatte.”

Stizzito, gli fu chiarito che al banchetto avevano usato una pozione per inibire udito ed olfatto, proprio per evitare problemi. Quando, invece, aveva affrontato lui, era concentrato solo sulla battaglia e quell’odore nauseabondo era passato in secondo piano. Ci metteva un attimo ad arrabbiarsi di nuovo.
Litigando, erano infine arrivati al soggiorno. Il motivo della disputa era seduto con la gamba accavallata sul divano, intento a guardarli curioso. Gli era sembrato di avere davanti una copia del suo amico a tinte diverse. Quando, però, il ragazzo gli aveva ringhiato addosso di smetterla di fissarlo e farsi gli affari propri, assottigliò lo sguardo. Già era difficile sopportarne uno con quei modi da buzzurro. Due era troppo perfino per lui, che ci era abituato.
 

 

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Capitolo 31
*** Senza punti deboli - Parte 2 ***


Appena aveva visto Aphrodite materializzare la rosa rossa tra le mani e suo figlio mettersi in posizione d’attacco nel suo soggiorno, Deth Mask aveva capito di dover intervenire in fretta. Aveva arpionato l’amico per la spalla e lo spinse, letteralmente, fuori dai suoi appartamenti privati, del tutto incurante delle sue lamentele. Al ragazzo aveva intimato di non azzardarsi ad emettere un fiato e sperò davvero che, Atena, gli concedesse che il suo comando fosse stato eseguito. Non era mai stato un maestro di buone maniere ma quel comportamento risultava strano persino per uno come lui. Gli fu chiesto cosa ci facesse a casa sua un seguace di Imuen e che accidenti avesse questo contro di lui. Avrebbe voluto, davvero, mettere l’amico a parte di quei segreti perché era una magagna grossa da gestire da soli. Se lo avesse fatto, però, avrebbe certo perso in un colpo solo quel poco di fiducia che Mnemosine gli aveva accordato e probabilmente l’unica occasione della vita per intavolare una sorta di rapporto col figlio. Tra la valanga di improperi che l’amico gli rovesciò addosso, l’insinuazione che erano cafoni allo stesso modo e condividessero anche la stessa faccia da schiaffi, ebbe per il cavaliere del cancro il suono non di un campanello d’allarme ma di una sirena. Riuscì a catapultare l’amico fuori dal quarto tempio e chiudersi la porta alle spalle. Inquieto, si avviò in fretta nuovamente verso la cucina. Libero dall’armatura, aveva fatto presente al ragazzo che avrebbe potuto anche avvertire, invece di presentarsi a quell’ora ed in quel modo. Lo ritrovò, almeno, senza fazzoletto davanti alla faccia ma con un’espressione nera come la sua. Gli buttò davanti una pizza mezza scongelata. Non aveva da offrirgli altro come cena.

“Ai miei pasti provvedo da solo.”

Si era buttato, già stanco, dal capo opposto del divano.

“Hai il palato troppo fino?”

Zalaia l’aveva fissato come si guarda un ebete. Poi doveva aver cambiato parere. Per una volta, evidentemente, non lo rimproverava di qualcosa.

“Mangio cibo umano solo quando sono umano. Quella, a me, adesso non basterebbe.”

Si era portato due dita alla base del naso, nervoso come doveva essere il genitore. Iniziava a capire un po’ del disagio che Seleina provava quando si ritrovava in mezzo agli umani. Di tutto aveva voglia, fuorchè di specificare certe cose con quello.

“Noi mangiamo cose appena abbattute. Non saremmo abbastanza in forze per combattere, altrimenti.”

Alla domanda esatta di cose, alzò le spalle. Specificò che poteva essere carne o pesce, indifferentemente. Loro, zanne ed artigli non li avevano per bellezza. Se ne servivano anche per cacciare un pasto.

“Quando l’ho conosciuta io, tua madre non aveva artigli o zanne.”

Fu trapassato da quelle iridi verdi che richiamavano fantasmi, così diverse dalle proprie. Si sentì quasi un fantasma lui stesso, a sentire certi argomenti, del tutto estranei alla sua sensibilità che, pure, di cose strane ne aveva vissute tante.

“Non li aveva perché non le servivano all’epoca. E’ come per olfatto ed udito. Li sviluppi se li usi, se cacci e combatti.”

Avrebbe voluto fargli un sacco di domande ma non era facile.  Era stizzoso come lui e non riusciva a trovare le parole giuste. Per quella sera, riuscì solo a fargli accettare una birra e stabilire l’ora in cui, il giorno dopo, avrebbero iniziato ad allenarsi. Se non altro, non erano finiti a legnate già la prima sera.

Quando, all’alba della mattina seguente, si ritrovò davanti quel ragazzo alto quanto lui, dalla carnagione alabastrina e coi capelli rossi, ma che era del tutto un semplice umano, la sua prima reazione fu quella si guardarsi attorno, chiedendosi dove fosse finito, in realtà, quell’animale di suo figlio. Zalaia, in quella forma, non era poi molto diverso da prima. Solo, l’assenza dei tratti animaleschi, la pelle più scura, lo rendevano in tutto e per tutto simile al genitore e differente da prima. In particolare, Death Mask fu colpito da quegli occhi scuri, penetranti probabilmente come i suoi, che ribollivano ma non solo di rabbia. C’era un disagio profondo a mostrarsi in quella forma, la consapevolezza di essere esposto, vulnerabile. Di solito, quando era così, il ragazzo se ne stava nella città umana vicina, in mezzo al mondo caotico e fresco dell’università. Sfruttava la testa e non le mani. Nascondersi li, non gli pesava, perché era esattamente come tutti gli altri. Avere di fronte però quell’uomo che, in quel momento, era in una chiara condizione di superiorità, lo esponeva al pericolo pesante non tanto di essere pestato e provare dolore, quanto di manifestare la propria debolezza. Non gli piaceva. Sapeva che quelli del branco avrebbero protetto il suo segreto e non avrebbero permesso che Cancer lo conciasse troppo male. Era però qualcosa di più subdolo. Un conto erra farsi vedere da Imuen, in quello stato. Ben diversa faccenda, era avere di fronte Cancer.

“Beh, che ti aspettavi? Mia madre ti aveva avvertito, mi pare.”

Mnemosine, in quel poco tempo che si erano rivisti, gli aveva rivelato molte cose. Un conto era però ascoltare, un altro vedere. Death Mask ebbe la chiara consapevolezza che, se avesse voluto ridargli con gli interessi tutte le botte ricevute, quello era il momento adatto. La certezza, però, che il biondo che aveva accompagnato il ragazzo vigilasse su ogni sua mossa e che suo figlio non si sarebbe mai piegato al dolore, pur di non dargli soddisfazione, gli fecero abbandonare presto quel pensiero. In fin dei conti, non era divertente prendersela con uno del tutto inerme. Non bisognava essere maestri di telepatia per capire quanto costasse a quel moccioso mostrarsi, a lui, in quelle sembianze. Era a disagio almeno quanto lui, ad averlo davanti. Semplicemente, lo condusse al cortile interno del quarto tempio.

“Se sai già come evocare il cosmo, al lavoro. Mostra quel che sai fare.”

Qualche fuoco fatuo che girava, da quelle parti, si trovava sempre. Zalaia, con la stessa naturalezza con cui muoveva l’archetto del violino, aveva accolto una fiamma sbiadita nel palmo della mano. Alle proprie spalle aveva iniziato ad aprire un passaggio verso quel mondo dove, come Dunedain, poteva spedire parecchi, ma non raggiungeva mai. L’apertura era piccola ed informe. Impiegò almeno mezzo minuto per ingrandirsi abbastanza da permettere ad entrambi il passaggio. Erano tempi troppo lunghi per essere efficaci in battaglia ma non si trattava di nulla di insuperabile. Lo seguì e restò affascinato dalla disinvoltura con cui suo figlio si muoveva in quel mondo oscuro e parallelo. Di lui, le anime parevano aver rispetto. Evidentemente, percepivano che, da lui, potevano avere pace. Qualcosa, però, non lo convinceva. Era come se a suo figlio pesasse usare quelle tecniche. Lo tenne d’occhio, attento, fino a che non rientrarono per lo stesso passaggio creato dal giovane, dentro alla quarta casa. Non era la riuscita dell’impresa, che preoccupava Death Mask, ma l’animo con cui Zalaia ci si avvicinava. Non era sereno. Evocava le tecniche di Cancer come se ne avesse fastidio. Di solito, il cosmo era una forza che rinvigoriva ed esaltava chi lo usasse. Suo figlio, invece, se ne serviva con disagio, come se ne provasse vergogna.

“In che circostanze ti sei accorto di avere un cosmo?”

Doveva aver fatto centro. Zalaia gli si era rivolto, all’improvviso, con l’odio con cui l’aveva attaccato, la prima volta.

“Non ti riguarda.”

Death Mask, però, una seconda volta non ci stava.

“Non posso aiutarti, moccioso, se non mi fai capire perché usi il cosmo così. Come fai ora, ti blocchi da solo. E’ palese che sei dotato ma servirsi del cosmo della costellazione di Praesepe come fai tu, significa tagliarsi le gambe da soli, in battaglia. Devi essere saldo, affinchè la tua azione sia efficace.”

Contro ogni aspettativa, gli fu data ragione.

“Il cosmo non è una forza di cui mi servo volentieri. Vedrò di farmela passare.”

Era palese che, senza superare quell’aspetto, era inutile andare avanti.

“Detesti servirtene perché ti ricorda di essere mio figlio?”

Prima o poi avrebbero dovuto affrontare quell’argomento. Ci sperava. Sperava che anche Mnemosine, nella sua preghiera, avesse a cuore che ricucissero un rapporto. Attendere la risposta era come aprirsi con un coltello la pancia da soli. Lo prese come il conto per tutte le nefandezze di cui si era macchiato un tempo. Iniziava a non aver più paura di perdere quel ragazzo: voleva solo provare ad avvicinarcisi. Avrebbe tentato nei soli modi di cui sarebbe stato capace. Poi, le cose sarebbero andate semplicemente nel modo in cui dovevano.

“Non è per te. Non mi piace servirmi del cosmo perché mi ricorda di quando ero debole. Di quando non ero capace di difendere mia madre.”

Ebbe la sensazione che il ragazzo faticasse a reggere il suo sguardo. Dovette impegnarsi parecchio per capire che non mentiva, che era il caso di insistere, perché un altro momento in cui suo figlio gli avrebbe parlato della sua infanzia, difficilmente l’avrebbe trovato.

“Da piccolo non eri un bambino prodigio?”

“Da piccolo facevo schifo.”

Gli fu spiegato che i cuccioli nati da un genitore umano nascevano con caratteristiche fisiche inferiori rispetto a chi aveva padre e madre Dunedain. I mezzosangue dovevano allenarsi parecchio di più per superare la differenza di capacità. Era questione di anni. Solo una volta raggiunto un certo livello potevano considerarsi pari agli altri, come nel suo caso addirittura superiori. Ma erano comunque pochi. Al campo, lui e Seleina erano le sole eccezioni. Anche se Seleina sembrava un discorso a parte, li ci capiva poco. Erano bizzarrie che poteva solo Sire Haldir.

Quando era più calmo e raccontava  più a lungo, suo figlio aveva il vizio di muovere le mani. Aveva la grazia innata del violinista ma in certi momenti si soffermava in delle pose delle dita che ne esaltavano anche la virilità, come quando chiudeva il pugno e si poteva immaginare l’impatto che avrebbe potuto produrre sulla mascella. Erano gli stessi scatti in cui il medico poteva scegliere di visitare leggero il paziente e poi bloccarlo all’improvviso, se avesse dovuto eseguire una terapia dolorosa. Zalaia era cresciuto tra l’infermeria ed il campo di battaglia. La prontezza di decisione, in lui, traspariva anche dai gesti.

“Eppure, se non avessi ereditato il cosmo da te, quella volta, non avrei potuto difendere mia madre.”

La capacità di far scemare la rabbia, di sicuro, faceva parte del patrimonio genetico della madre.

Death Mask, una volta per tutte, gli chiese dell’occasione in cui si era accorto di avere un cosmo. Più o meno ci era arrivato, che qualcuno aveva cercato di mettere le mani addosso a Mnemosine in un modo che non doveva e suo figlio si era arrabbiato come una bestia. Sapere che il bastardo che aveva osato era stato mandato a morire da vivo direttamente nell’averno, fu un sollievo che provò soprattutto la sua parte sadica. Aveva anche significato, però, rendersi conto di quanto fosse stato difficile i primi tempi, senza difese, per il ragazzo e la sua donna.

“Hai sempre affermato che Imuen è stato come un padre per te. Dove era allora?”

Zalaia aveva alzato le spalle. Il loro signore non se ne era accorto prima. Sembrò rendersi conto della situazione solo a fatto compiuto. Aveva preso provvedimenti solo allora. Allontanando madre e figlio dal campo principale, per condurli in un villaggio dei loro più segreto, composto solo da femmine e cuccioli. Li, Mnemosine aveva potuto perfezionare le arti cerusiche, lui allenarsi coi suoi tempi, sviluppando le capacità che gli sarebbero servite poi. Solo dopo erano tornati al capo principale, lui come allievo diretto di Imuen e Mnemosine come guaritrice.

“Ma una femmina senza legami e suo figlio mezzosangue bastardo, restano sempre due da emarginare, anche se sono la guaritrice più dotata ed il guerriero più potente a difendere il clan, dopo i nostri signori.”

Certe ipocrisie, evidentemente, erano uguali sia tra i Dunedain che tra gli esseri umani. Death Mask aveva guardato ancora suo figlio. Gli chiese scusa per non esserci stato, nel momento in cui avrebbero davvero avuto bisogno del suo aiuto. Suo figlio, però, non gli rimproverava l’assenza: lui era un guerriero, avrebbe potuto morire comunque in ogni momento. Di orfani era pieno anche il loro campo. Della sua esistenza, non era mai stato messo al corrente. Ciò che Zalaia non accettava però da lui, era che avesse dimenticato sua madre. Quello, davvero, non riusciva a perdonarglielo.

“I sigilli di Sire Imuen sbiadiscono in fretta, come foglie morte. Non accampare scuse: ammetti semplicemente che mia madre per te è stato un passatempo ed hai esaudito la sua preghiera di allenarmi solo per alleggerirti la coscienza.Succede. Basta essere sinceri.”

Se doveva essere sincero, però, Death Mask non avrebbe mai potuto ammettere una cosa del genere.

“Io non ho mai dimenticato tua madre ed ho anche provato a cercarla. Alla fine, ho capito che Imuen non mi avrebbe mai permesso di trovarla, che senza uno come me sarebbe stata meglio. Io e Mnemosine ci siamo conosciuti quando Imuen doveva uccidermi per una condanna. Il tuo signore, allora, era ancora schiavo. Avevo capito che, allontanandola da me, la proteggeva.

Sono stato manipolato fino a credere che lei fosse stata un mio sogno. Ma mai l’ho dimenticata. Lei non è mai stata un passatempo ragazzo, così come tu non sei un errore. Saresti stato una sorpresa, certo, ma un errore mai. Se avessi solo immaginato che aspettava te, mi sarei dannato l’anima fino a che non vi avessi rivisto. Ma voi dunedain siete impossibili da raggiungere, quando lo volete e Imuen aveva voluto questo. Poi è iniziata la guerra sacra e la mia esistenza è stata votata solo a questo, come era mio dovere. Il resto lo sai.”

Per un secondo, riuscì a credere addirittura di averlo convinto. Le sue speranze si infransero in fretta.

“Tu? Che ammazzavi bambini perché stavano per sbaglio sulla traiettoria dei tuoi colpi? Magari Sire Imuen ha agito come ha agito per impedire che ci finissi anche io, su quella traiettoria.”

Lo schiaffo gli partì diretto, senza che riuscisse a trattenerlo. Perché che era stato un assassino era vero ma anche lui aveva dei limiti. Poteva accettare tutto ma non simili insinuazioni da parte di suo figlio.

“Credi quello che ti pare, bamboccio, ma mettiti al lavoro. Non altro da dire ne altro tempo da perdere con le parole, con te,”

 

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Capitolo 32
*** L'arma finale ***


Ringhiava. La folgore, ghermita dalle sue fauci, sfrigolava: gli bruciava la carne della bocca, lo corrodeva, elettricità fin dentro le ossa. Il suo grido di belva, però, non cedeva, pur se il dolore lo stava dilaniando. L'offesa del fuoco era nulla in confronto a quella causata dall'affronto al suo gemello. La pietà odiosa del vecchio satiro ed il suo viso perfetto lo fiaccavano più della lotta mentre lui, coperto di fumo e sangue, diventava solo uno sconfitto. Aveva ululato, serrando le fauci, disperdendo la folgore tra i denti ormai anneriti, con la bocca fumante, mentre sputava saliva e plasma. Eppure, aveva ancora la forza per affondare le zanne nella carne di Zeus. Ne bramava il fluido vitale. Ebbro della battaglia, folle, perso nella furia: se si fosse placato prima, quell'orrore non sarebbe avvenuto. Se, invece di soccombere all'odio, si fosse fermato a pensare, voltato indietro, concetrato su ciò che era davvero importante! Avrebbe udito le anime stanche dei suoi figli, la loro disperata richiesta di aiuto. Avrebbe scorto l'ombra della fine sui loro visi diafani. Aveva ancora la forza per azzannare, la avrebbe avuta anche per salvarli. Sordo, invece, aveva ignorato, lucido solo nel voler distruggere il proprio nemico. Gli mancava così poco, un attimo, un alito, per annientarlo! In un momento, invece, perse tutto.

Il colpo scagliato dagli altri olimpici uniti, aveva accecato nel suo sfavillare, travolgendo il suo esercito, la sua progenie. Aveva spalancato gli occhi, ammutolito, finalmente consapevole che non avrebbe più fatto in tempo. Diede le spalle a Zeus, incurante della poca onestà dell'avversario, perchè era ai suoi figli che stavano promettendo la fine dell'esistenza. Si gettò nella luce, per raggiungerli, ma era tardi. Fu scaraventato indietro. Quando si diradò il bagliore, tra le macerie fumanti, i suoi domatori erano ancora in piedi. Puntò lo sguardo in quello di Arkai, il più vigoroso, il più potente, e quelle orbite vacue lo atterrirono. Non avevano più nulla: solo odio, lo stesso per cui lui li aveva abbandonati. Dalle fauci smisurate, che crescevano in altezza e sfiguravano il volto del suo guerriero migliore, si alzò uno stridio che gli perforò timpani e cuore. Lo vide sciogliersi, liquefarsi, la sua pelle alabastrina tingersi di cenere. Corse per sorreggerlo, impotente, mentre Arkai tremava convulso ed il suo corpo prodigioso appassiva velocemente, come un fiore seccato dall'arsura. Le vene che pulsavano come torrenti impetuosi sui muscoli delle gambe e delle braccia inaridivano, sabbia riarsa di deserto. Haldir si inginocchiò, mentre tra le dita fasciate dal metallo, presto, invece delle spoglie del suo guerriero ritrovava solo polvere che scivolava via. Si girò di scatto, quando udì il suo nome associato alla colpa, ululato che, quanto era successo, era solo il suo peccato.

Arkai non c'era più: al suo posto, solo quel fantasma deforme, col cuore fermo ed avido, che non batteva ed avrebbe rintoccato solo dopo aver privato l'esistenza di altri. Guardandosi intorno, il gigante bianco si ritrovò circondato: quella orrenda trasformazione era toccata a ciascuno dei suoi figli. Non si spostò di un millimetro, appena capì che l'avrebbero attaccato. Della sua forza pareva non esserci più nulla, mentre offriva spontaneamente il corpo a quelle belve. Zeus era intervenuto, trasportandolo via, permettendogli di aver salva la vita, per continuare per un tempo quasi eterno il peso di quella condanna.

Haldir fissò il viso proprio vuoto, che da allora non avrebbe mai più avuto espressione, in quello del suo acerrimo nemico: a testimoniare la sua passata forza, solo l'azzurro impenetrabile e tagliente del suo sguardo. Se davvero fosse stato il dio giusto che veneravano gli uomini, semplicemente, Zeus lo avrebbe ucciso, concedendogli requie. Invece, lo lasciò li, a riflettere sulla propria azione scellerata. Gli olimpi avevano annientato il domatore della vita approfittando del suo legame inscindibile con la famiglia. L'avevano offeso, ritorcendogli contro l'oggetto del suo amore.

 

Haldir cacciò le dita artigliate tra i capelli lunghi, ad intrecciarle con le ciocche, tirare quasi a strapparle, prima di coprirsi gli occhi e scoppiare in un urlo isterico, piangendo, ringhiando ancora. Poi, scemata la rabbia, aveva portato la mano fasciata ad carezzare quella stele immonda in cui li aveva rinchiusi tutti, che si stava per sgretolare, come ogni era. Se avesse potuto tornare indietro, avrebbe dato ogni cosa per rimediare. La pietra bianca, levigata, era fredda al suo tocco, come l'aria percorsa dai fuochi fatui di suo fratello. Battè ancora, tante volte, il pugno chiuso su quella stelle, perchè avrebbe dovuto esserci solo lui, imprigionato e torturato all'interno, solo lui, per l'odio a cui si era abbandonato. Perchè ad imprigionare Imuen erano stati gli olimpi, ma a dannare i suoi discendenti, lui stesso. Aveva gridato, lasciandosi cadere a terra, con un tonfo pesante, nel ghiaccio perenne che mai avrebbe ceduto. Erano le voci alterate dei suoi perduti, che lo chiamavano padre ed insieme demonio. Ed era vero, perchè era stato così sciocco e folle da barattare l'amore più magnifico per il miraggio di uno scampolo di vittoria. Voleva sentire di nuovo il vento, correrci in mezzo, insieme coi suoi figli, vivi, salvi, perchè solo così era felice. Di quanti ne aveva, quanti ne restavano? Gona e Tabe, Brunilde, Seleina. I più forti, che educava in maniera ossessiva, quasi morbosa. Degli altri, più deboli, si era imposto di non ricordare neppure il nome, altrimenti, nelle secoli che scivolavano via, sarebbe impazzito. Stanco, coi capelli sparsi tutt'attorno, steso a perdersi nel ghiaccio che brillava quasi dello stesso colore per i riflessi della sua nuova arma: l'ultima speranza folle che si era concesso di forgiare. Ci aveva infuso zanne e sangue, potere e vita. L'ultima cosa che gli restava, prima di annullarsi. Seleina l'avrebbe odiato per quanto stava per chiedere a quel giovane lemuriano, ma lui non aveva più scelta. Un'altra volta, aveva bisogno dell'aiuto degli uomini. Inforcò il pugnale d'argento nella cintola, prima di rivestire la corazza sui muscoli pieni di cicatrici, nascondere le braccia sotto il metallo, diretto al Grande Tempio.

Avrebbe fatto un giro per il Santuario di Athena in sembianze umane, diretto alla prima casa, o ovunque si fosse trovato il cavaliere d'Altare.

Erano passi pesanti quelli che stava compiendo. Come si aspettava, trovò entrambi quei due lemuriani insieme, negli appartamenti privati. Lo fissarono stralunati, del tutto sorpresi della sua venuta. Di tutti quelli del suo clan che sarebbero potuti venire in visita, certo non si aspettavano lui.

 

"Devo parlare con te."

Esordì asciutto, indicando Kiki. Ormai abituato ai singolari modi di quel personaggio, Mu non ci aveva fatto troppo caso, mentre Haldir entrava dentro. In qualche modo, aver partecipato alla prova di Seleina aveva fugato in lui tanta della diffidenza verso i Dunedain. Probabilmente, addirittura troppa. Quando, poi, il gigante bianco estrasse quel pugnale d'argento dalla cintura, lo pose sul loro tavolo e lo allungò verso di loro, la curiosità si accese repentina.

Kiki non era uno sciocco: si era reso conto all'istante del potere intrinseco e spaventoso di quell'arma. La sentiva pulsare, gli parve viva, inadatta ad un mortale. Forse solo un dio avrebbe potuto maneggiarla. C'era così tanta energia in un oggetto così piccolo che ebbe paura di passarci le dita sopra.

"Questo è il motivo per cui, quando mi sono misurato con te, ero debole. C'è molta della mia energia, qui."

Haldir aveva poggiato la mano su quel pugnale affilato, dalla lama dritta e lucente, percorso da segni che assomigliavano ai simboli delle rune e componevano singolari enigmi.

"Avresti il coraggio di usarlo?"

Kiki sbattè le palpebre un paio di volte, confuso.

"Perchè vuoi che lo usi io?"

Il gigante bianco aveva annuito. Era la domanda giusta.

"Perchè hai il cosmo per dominarlo ed un'anima che può capire, a differenza di molti dei tuoi compagni."

Haldir si girò un secondo verso Mu, prima di tornare a concentrarsi sul minore.

"Voi cavalieri vivete solo per Athena, sacrificate ogni cosa per lei, anche l'amore per una femmina, per un fratello, per la famiglia. Tu no. Per questo puoi capire. Tu sai cosa significa sporcarsi nell'odio dopo aver perso chi si ama."

Kiki sentì le vestigia pesanti, sulle spalle.

"La mia fede in Athena è salda ora."

Haldir lo ricambiò con occhi ardenti.

"E' salda perchè è temprata. Tu, a differenza dei tuoi pari, ti sei immerso nel mondo degli uomini e sei tornato dalla tua dea. Quanti tra i tuoi pari lo fanno per davvero? Più facile ritirarsi in Jamir..."

Il gigante bianco indicò Mu, che si sentì punto sul vivo.

"... o chiudersi nella meditazione, come quello della sesta casa. O soccombere ai fantasmi della mente, come quello della terza. Di ciò che vuoi, ragazzo. Tu sei diverso. Che tu ne sia consapevole o no, il fatto non cambia. Ed è per questo che ho bisogno di te e non di un tuo pari. Le armi Dunedain hanno bisogno di uno spirito affine per poter essere usate, e di un cosmo potente. Ho testato quanto vali. Tu puoi riuscire."

Kiki si grattò la testa, non ancora convinto.

"Ammettiamo che io sia in grado di usare la tua arma, che vuoi che ne faccia?"

"Voglio che la pianti nel petto del capo dei perduti. Sconfitto lui, fermare gli altri sarà più semplice."

Mu, fino ad allora in silenzio, conscio della portata dei poteri in gioco, chiese se quella era la strategia di cui si serviva ogni volta che il suo sigillo veniva meno. Gli fu spiegato che le magie dei Dunedain, per riuscire, avevano bisogno degli uomini, come era stato fatto per riportare in vita loro.

Senza il l'appoggio folle di Seleina, loro, di certo, sarebbero rimasti ancora in quella stele. Sorpreso, apprese che quella era la prima in assoluto che veniva tentata una mossa del genere. Perchè Haldir era sfinito di quel ciclico logorarsi e cavalieri come Kiki non nascevano a tutte le generazioni. Soprattutto, quel pugnale aveva il potere di uccidere definitivamente i perduti, se usato a dovere. Era la possibilità di concedere pace alla sua progenie rovinata, una volta per tutte. Terminare tutto sarebbe stato compito di Zalaia ed Imuen. Ovviamente, i Dunedain avrebbero fornito tutto l'appoggio necessario. Era una decisione solo di Kiki.

"Ma ti sia anche chiara una cosa, ragazzo: se usi male la mia arma, rischi di lasciarci la pelle. Con noi si sceglie. Quando si sceglie, poi non si torna più indietro. Per cui, prenditi un attimo per riflettere. Tornerò presto, per conoscere la tua risposta."

Poi, non ci fu verso di trattenerlo. Come era entrato, lasciò quelle stanze e sparì.

 

 

Imuen aveva lasciato andare il suo gemello alla prima. Lui era diretto alla quarta. Gona gli aveva riferito che Death Mask e Zalaia non si erano ancora ammazzati. Si chiedeva per quanto sarebbero riusciti a mantenere lo stato delle cose. Sentiva il ragazzo palesemente agitato ma meno di come si aspettava. Evidentemente, l'allievo aveva raggiunto una sorta di equilibrio con quel suo singolare genitore. Si avviò dove percepì rumori di colpi, a passo lento. Non aveva fatto caso che anche il timbro vocale di padre e figlio si assomigliasse. Alcuni degli improperi che udì quel giorno però, erano del tutto nuovi per lui che, pure, non era una verginella ed aveva passeggiato sulla terra per secoli e secoli. Rassegnato, alla fine, a mostrarsi, si palesò nell'ambiente scuro del tempio di Cancer. A giudicare dagli odori che gli arrivarono al naso, quel posto necessitava di una vigorosa ripulita. Poichè erano impegnati nella lotta e non si avvidero di lui, già torvo, materializzò la falce e ne battè il manico sul pavimento lastricato e polveroso, con energia. Il suono, enfatizzato dal suo essere seccato, sortì l'effetto desiderato, di rendere chiaro ad entrambi chi fosse giunto.

Zalaia, come suo solito, aveva lasciato andare la maglia lorda del padre con uno strattone, spingendolo indietro. Aveva abbassato l'altro braccio con cui caricava il pugno. Se non altro, aveva solo sbilanciato il suo avversario.

"Vi misurate nel corpo a corpo perchè col cosmo avete già finito?"

Colto alla sprovvista da quella visita, si aspettava il rimprovero del maestro, per star perdendo in quel modo indegno il poco tempo che avevano a disposizione. Inaspettatamente, fu la risposta di suo padre a trarlo d'impaccio, che rassicurava Imuen sul fatto che sulle tecniche di Cancer fossero a posto, visto che l'allenatore provvisorio era eccezionale e l'alunno più o meno passabile. Sconcertato, fissò suo padre, che aveva ridotto poco meglio della prima volta, pesto come un sacco da box. Non riusciva a credere che quell'individio stesse davvero tentando di aiutarlo ad evitare la lavata di capo. Rimasto, come poche volte in vita sua, senza una risposta sagace pronta, aveva semplicemente confermato le parole del padre, prima di fissarlo in modo strano. Se fossero stati due persone normali, probabilmente, una volta soli, l'avrebbe ringraziato.

Imuen, però, non era certo in visita di cortesia o per impicciarsi di affari di famiglia che gli competevano fino ad un certo punto. Gli chiese, infatti, di poter parlare in privato. Vide un'urgenza che non si aspettava nel suo maestro. Quell'atteggiamento non gli piacque per niente. Lo seguì fino al colonnato antistante il tempio, attenti a non mostrarsi però fuori. Si appoggiò ad una colonna. Imuen era titubante. Lo vide tergiversare troppo, per come aveva imparato a conoscerlo.

"Haldir ed io, in questa era, abbiamo pensato di cambiare strategia."

Imuen, a differenza sua, era eretto e fiero, mentre parlava. Fissava un punto lontano ed il suo sguardo era fermo.

"Mio fratello ha pensato di avvalersi dell'aiuto di un combattente del Grande Tempio, perchè usi una nostra arma. Haldir vuole farla finita una volta per tutte e pensa che la battaglia di questa epoca possa essere risolutiva."

Era raro che si sentisse così insignificante nei confronti del proprio maestro. Intuì che faceva fatica a chiedergli quanto doveva.

"E' un'arma che purifica. Se si avvicina un sangue puro, avrà problemi. Se si avvicina un mezzo sangue come te, beh, diventa semplicemente umano."

Lo vide trattenersi con un certo disgusto. Ormai, però, gli era più chiaro dove volesse andare a parare.

"Quel cavaliere d'argento deve arrivare a colpire al cuore il capo dell'esercito nemico. Tu lo sai come funziona la formazione dei perduti. Significa buttarcisi dentro, arrivare al centro. Aumentare enormemente i rischi che si corrono. Quel cavaliere è forte ma da solo sarebbe spacciato. Te la sentiresti di accompagnarlo?"

Zalaia ci aveva pensato solo una frazione di secondo, prima di accettare, perchè le sfide impegnative erano sempre state uno stimolo incontenibile, paragonabile solo al piacere di una donna.

Imuen, invece, impassibile, aveva tremato. Tutto avrebbe voluto, fuorchè sottoporre l'allievo ad un azzardo simile. Ormai, però, ne aveva fatto un guerriero. L'aveva gettato in mezzo all'arena che era cucciolo. Si chiese se non fosse stato meglio insegnargli meno dei suoi segreti, quel tanto che gli fosse servito per proteggere sua madre. La parte peggiore, poi, sarebbe stata informare Mnemosine. L'unica cosa che poteva fare era cercare di proteggerlo al meglio durante lo scatenarsi della battaglia. Lo guardò ancora e ne fu orgoglioso. Era certo che padroneggiasse già a dovere ognuna delle tecniche di Cancer. Provò di nuovo quel soffocante senso di colpa, alzando lo sguardo verso il custode della quarta casa, sicuro che, da lontano, li stesse osservando.

"Perdonerai mai quel povero diavolo?"

Accennò col capo, infatti, poco dopo, verso le proprie spalle, nelle viscere di quel tempio.

"Per quel che può, ce la sta mettendo tutta mi pare."

Zalaia, infastidito, aveva annuito. Era già tanto che non avesse sputato in terra o sbuffato. Fu congedato poco dopo.

 

 

Death Mask non aveva idea di cosa quei due si fossero raccontati. Era palese, tuttavia, l'affiatamento che c'era tra Imuen e suo figlio. Per quanto quei due fossero diversi fisicamente, eccezion fatta per colore di occhi, carnagione e capelli, erano molto più simili di quanto lui stesso e Zalaia sarebbero mai diventati. Come avrebbero potuto, pochi giorni insieme, ricucire anni di lontananza? Anni di bestemmie sul suo conto e di malumore verso di lui... Rientrò, stizzito, nell'antro che chiamava casa. Era piobato in cucina, deciso a far fuori mezza bottiglia di vino, quando fu raggiunto da suo figlio. Per quanto ce la mettesse, ogni sforzo si stava rivelando inutile. Non capiva il senso di continuare quella farsa. Il ragazzo ormai era pronto. Poteva sloggiare tranquillamente, per quanto lo riguardava. Come a conferma di quello scomodo pensiero, la voce monocorde del ragazzo esprimeva a parole che se ne andava a radunare le sue cose. Per lui, era tempo di rientrare al campo principale. Furioso, gli aveva ringhiato che poteva fare come gli pareva. Chi era, in fondo, lui per sindacare? Zalaia aveva impiegato pochi minuti per radunare i quattro oggetti e stracci che si era portato appresso. Si attardava, stranamente, sulla soglia della cucina. Il cavaliere ne vedeva l'ombra allungarsi sul tavolo: non si spostava. L'impeto fu quasi quello di lanciargli la bottiglia in testa. Quando, però, udì la domanda del ragazzo, il vino che stava bevendo gli andò di traverso. Ammutolito, gli fece ripetere due volte quanto aveva appena detto. Non riuscì a credere che lo invitava con lui al campo dei Dunedain.

Visto che tardava a rispondere, il suo angelo specificò, nuovamente arrabbiato, che non era un obbligo. Poteva restarsene benissimo dove si trovava. Probabilmente, il ragazzo aveva anche voglia di spaccare sulla sua, di testa, la bottiglia di rosso che stava ancora tracannando.

"Certo che voglio venire, animale! Dammi solo qualche minuto per avvertire il Gran Sacerdote."

Il problema non fu tanto ottenere il permesso di Shion che, certo, tutto si aspettava, meno che riuscisse nel miracolo di sistemare le cose col suo pargolo. Fu attraversare la dodicesima ed affrontare Aphrodite, che ce l'aveva ancora con lui per essere stato sbattuto fuori dal quarto tempio in malo modo, giorni prima. A nulla valse svelargli, ormai che era chiaro che ne aveva il permesso, la verità. Perchè che Zalaia fosse figlio suo era assurdo da concepire anche per il suo migliore amico.

 

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Capitolo 33
*** Prima della battaglia ***


Appena aveva appreso la notizia, non aveva potuto credere che fosse vero. Senza minimamente pensare, era corsa fuori dal campo. Se Zalaia era appena rientrato dal Grande Tempio, lei ci stava andando. Era notte. Pioveva a dirotto. Trafelata, era arrivata ai piedi della prima casa, fradicia. Aveva iniziato a salire pochi gradini, quando le si fece incontro il legittimo custode.

Era palese che Mu non si aspettasse la sua venuta. Indossava l'armatura. Temeva un nemico. Quando se la trovò dinnanzi senza fiato per la corsa, con la pioggia che le appiccicava capelli e stoffa alla pelle, trattenne per un istante il fiato. Si confondeva nella notte, tanto era pallida. La invitò ad entrare, perchè non si bagnasse di più, nel freddo pungente che saliva, dispiaciuto per averla scambiata per chi, certamente, non era.

Non aveva mai fatto caso, per davvero, a quanto potesse essere penetrante lo sguardo di quella ragazza. Per la prima volta, l'azzurro delle sue iridi lo colpì, l'urgenza della sua voce gli fece una profonda pena. Aveva sempre eretto un muro di fronte alla maggior parte delle persone. Davanti a lei che, sicuramente, era così sconvolta per paure che attanagliavano anche lui circa la sorte del fratello, semplicemente, non riusciva.

"Non voglio entrare nel tuo tempio. Voglio sapere se è vero: Kiki, il pugnale di Haldir!"

Rispose di sì. La vide spalancare appena gli occhi, assimilando il senso delle sue parole. Dargli le spalle e coprisi il volto con le mani, mentre si sedeva sui gradini a metà della scalinata, incurante dell'acqua che tracciava il contorno della sua figura. Vista l'affinità con le energie fredde, probabilmente, le gocce che la bagnavano non erano affatto il fastidio che lui temeva. Lentamente, il cavaliere la raggiunse. La convinse ad alzarsi e ripararsi sotto al colonnato. Quello di lei era un pianto silenzioso, lieve, che si confondeva del tutto nella pioggia che arrivava dall'alto e li circondava. Portò entrambe le mani ai lati del viso di quella giovane, a nascondere con le dita semicoperte dall'oro lacrime che erano pure le sue, perchè anche lui temeva per Kiki, ma non poteva, per l'uomo ed il guerriero che era, permettersi di versarle. Nuovamente l'aveva stretta a sè, offrendo la spalla per darle appoggio, come durante la prova ordita da Haldir, quando credevano tutto perduto. Non era arrossito. Non aveva provato vergogna. Non doveva essercene a condividere un dolore silenzioso, protetto nel seno della notte.

 

 

Dopo che aveva smesso di piovere, le stelle brillavano alte, libere dalle nubi. Le ultime gocce colavano dal porticato, sparivano nella vegetazione bassa e mediterranea, circostante. Il profumo del mirto e della terra bagnata arrivò per un attimo alle narici di Seleina. Era così diverso dall'odore del ghiaccio, della neve e del gelo. L'acqua, quando congela, cambia profumo. Era lo stesso odore di Haldir, di Tabe e di Gona. Selvaggio, si mescolava a quello del sangue. Era placata da quell'abbraccio che non le apparteneva. Aveva alzato lo sguardo lentamente, specchiandosi in occhi diversi da quelli di Kiki e dai propri, che erano identici a quelli di Haldir. Le sembrava di conoscerli da sempre. Mu aveva il potere di calmarla con una naturalezza disarmante. La prima volta che l'aveva stretta, persino la morte era sembrata meno cupa e minacciosa. Arresa, si era lasciata guidare dalla pace del cosmo dell'Ariete. Quella notte, però, si disse che non era giusto. Non era un suo diritto, mentre i compagni si preparavano allo scontro. Ripensò alle parole con cui il suo maestro l'aveva informata, al suo turbamento, che tanto l'avevano sconvolta. Per la prima volta da quando aveva conosciuto il gigante bianco, aveva avuto l'impressione che non si preparasse a combattere ma a morire, tanto grande era il peccato che egli infliggeva al proprio animo. Aveva percepito chiaramente, nella vicinanza dell'uomo che aveva di fronte, la stessa preoccupazione per Kiki che adombrava anche lei. Lei, però, aveva anche altri dubbi, altre spade conficcate nel cuore. Aveva poggiato le mani su quelle di Mu, attardandosi un poco. Con estrema fatica si era privata del calore di quel contatto. Poi, l'aveva fissato, decisa. Aveva chiesto dove fosse custodita quell'arma: doveva assolutamente vederla. Dopo pochi attimi di incertezza da parte del primo custode, fu guidata fino al cuore di quel tempio dove, in uno scrigno intarsiato, era custodito il pugnale. Le fu aperto il coperchio di legno e già ai riflessi dell'argento percepì la debolezza ghermirla mano mano. Si concentrò sul metallo lavorato di quella lama. C'era così tanta dell'essenza di Haldir su quell'argento, da chiedersi come egli riuscisse ancora a camminare su quella terra senza vacillare ad ogni passo. Pose le dita saldamente sull'elsa e le fu chiaro. Rivide la scena dell'origine dei perduti, come se ne fosse protagonista lei stessa. Ogni emozione di Haldir le fu manifesta. Non si rese conto del braccio che le tremava e della mano che le mutava. Le unghie accorciavano, la carnagione prendeva colore. Lentamente, stava tornando umana. Poi, non seppe dire cosa avvenne. Non riusciva più a contenere l'arma, che pulsava e pretendeva di essere rimessa nel proprio scrigno. Lasciò la presa ed inspirò appena. D'improvviso, la preoccupazione per Kiki, per Haldir, ogni cosa, passò in secondo piano. Perchè se Haldir aveva la forza di continuare, nonostante tutto, lei doveva averla per combattere. Il tatuaggio al braccio, che serpeggiava come una spirale azzurra dalle dita alla spalla, era più leggero.

"C'è la protezione di Sire Haldir li sopra. Kiki non sarà mai lasciato solo."

Mu, però, l'aveva osservata attento. Non capiva, allora, il motivo del suo precedente turbamento. Gli fu svelato quel penoso sospetto, che per mettere fine a tutto, Haldir si preparasse non tanto a combattere quanto a sacrificarsi. Fu pregato di tacere quella supposizione, del tutto da verificare. Non era necessario che altri sapessero, perchè non significava alterare le sorti della battaglia, solo di una persona in gioco. Il cavaliere aveva esitato, conscio dalla profondità di quei sentimenti, tanto viscerali da far male. Perchè Seleina, quando amava qualcosa o qualcuno, non lo faceva mai a metà. Ammutolì, al pensiero che anche Haldir avesse potuto essere così, visto quanto quei due sembrassero condividere. Probabilmente, parte dell'attrattiva che i Dunedain esercitavano sugli esseri umani derivava anche da quello.

 

Le chiese quanto fosse importante, per lei, la sopravvivenza del suo maestro, di qualcuno che l'aveva sì portata a piena realizzazione ma anche ingannata profondamente, non lei soltanto. L'essere caduto completamente nell'inganno di Haldir, lui che era uno dei più intuitivi tra le forze della dea Athena ed era noto per usare il cervello prima delle mani, era stato uno smacco al suo orgoglio. Allora, la vide sorridere dolce, con un atteggiamento che aveva mostrato molte volte nei suoi confronti. In quel caso, gli parve come chi dovesse spiegare una lezione scomoda ad una persona che non ha voglia di ascoltare.

"Il mio maestro non è cattivo. Ha solo il modo sbagliato di comunicare. Succede, con tanti secoli sulle spalle e le sue facoltà. Nonostante ciò mi fido cecamente di lui, come di Kiki e di voi."

Non ebbe il tempo di interrogarsi sui sentimenti che quelle parole causarano in lui. Di sicuro fu felice di essere ritenuto tra le persone più importanti per quella giovane, a cui ormai era affezionato.

Presto la vide voltarsi: la sua attenzione catturata da chi stava arrivando.

 

Alle prime luci dell'alba, infatti, Kiki si apprestava alla prima casa con l'intenzione di fare colazione insieme al fratello. Tutto si aspettava, meno di trovarla li così presto, prima di lui. Il sospetto che fosse da loro per l'iniziativa di Haldir nei suoi confronti fu quasi scontato. La salutò e si avviò verso la cucina, a preparare del caffè per tutti e tre. Non aveva bisogno di aggiungere altro. L'affermazione diretta, come si aspettava, arrivò immediatamente. Solo, non era stata posta con la reazione che sospettava.

"Hai deciso di accettare in fretta."

La sua amica aveva un tono calmo, rassegnato. Traspariva la sua preoccupazione ma pure una maturità che non le ricordava. Fino a poco tempo prima, l'avrebbe probabilmente attaccato in malo modo per averla estromessa del tutto da quella questione dove lei, evidentemente, era invischiata parecchio. Il sospetto che fosse merito del fratello non l'aveva neppure sfiorato.

Kiki aveva sospirato, poggiando tre tazze di caffè sul tavolo. Dopotutto, Haldir che alternative gli aveva lasciato? Fu stupito di apprendere che, ad accompagnarlo, sarebbe stato l'esuberante allievo di Imuen. Si trattava di qualcuno di estremamente forte, ma dalla parte di Imuen. Visto chi aveva chiesto il suo aiuto, si aspettava che fossero mobilitati dei seguaci di Haldir.

"I miei compagni sono tutti purosangue. Non sopporterebbero la vicinanza di quell'arma. Zalaia, invece, è un mezzosangue, visto che suo padre è umano: corre meno rischi."

Seleina aveva soffiato, pratica, sopra la tazza di caffè che le aveva offerto.

"Alla peggio, Zalaia perde per un po' i poteri da Dunedain."

Spiegò, portando la tazza alle labbra, tesa.

"Come te."

La voce di Mu, così preziosa, graffiò come uno stridio agli orecchi della ragazza. Per un attimo, ella non aveva saputo cosa rispondere al primo custode che, innocentemente, aveva ripensato a lei, mentre aveva preso in mano il pugnale di Haldir. Provò a tergiversare, nel tentativo di non cominciare affatto quel discorso.

"In ogni caso, Zalaia è dotato di un cosmo potente anche da umano. Senza ombra di dubbio, sarà di grande aiuto. Quanto a me, non credo che sire Haldir mi permetterà di venire. Non gli piacciono le tecniche di cui mi posso servire io, quando non sono Dunedain."

Aveva abbassato il capo verso un punto imprecisato del pavimento di marmo lastricato, stranamente attenta alla levigatura perfetta della pietra, piuttosto che ai presenti.

Kiki conosceva quell'atteggiamento. Seleina faceva sempre così per evitare di rispondere a domande indesiderate sulla natura dei propri poteri. L'aveva imparato negli anni che non avrebbe avuto senso chiedere. Con lei, o ti fidavi oppure no. Lui aveva sempre scelto di fidarsi, cecamente. Accennò al fratello, stupito, di non insistere. Gli passò un veloce messaggio telepatico sull'argomento, trovandolo stranamente d'accordo. Evidentemente, nel poco tempo che quei due avevano passato da soli, avevano trovato il loro modo di comprendersi a vicenda. Le pose la mano sulla spalla, confermando che, con loro, poteva sentirsi tranquilla, su ogni cosa. La vide sospirare, grata e rabbuiarsi solo mentre gli raccomandava di stare attento ogni momento, in quella battaglia. Presto, però, si fece per lei il momento di andare. La seguì con lo sguardo mentre si alzava. La accompagnò fuori. Era cambiata tanto esteriormente. Lo vedeva nella chioma mossa e lunga, che faceva fatica a contenere in una treccia spettinata, così diversa dalle acconciature elaborate con cui le costringevano i capelli da principessa. Soprattutto, era più selvaggia per quel tatuaggio che correva sulla pelle scoperta, marchiandola ed armonizzandosi in quel suo mutato stato. Più ripensava a come fosse fragile prima, più si rendeva conto di quanto fosse diventata libera, in quella natura che le era sempre appartenuta ma di cui fantasticava soltanto. Non faticava più a credere che ci fosse qualcuno che palpitava per lei, che la trovasse bella, nonostante le imperfezioni fisiche e la mole di segreti che si portasse appresso. Era un sacrificio che si poteva accettare, un rischio che si doveva correre. Sperò che l'allievo di Imuen avrebbe avuto la testardaggine per riuscirci. Gli piaceva quel ragazzo. Come lei, gli sembrava qualcuno che meritasse un po' di felicità.

Mentre si allontanava dopo averla salutata, notò che Seleina si terse una guancia col dorso della mano. Forse era una lacrima o solo una goccia di pioggia. Rientrando sovrappensiero, infilò il piede in una pozzanghera su un gradino. Ormai solo sulla gradinata, alzò lo sguardo al cielo, sgombro di nubi. Aveva smesso di piovere da ore. Tutto il percorso tra le dodici case era asciutto. Un presentimento strano si impadronì di lui: era o non era quello il punto in cui l'amica aveva poggiato il piede, attardandosi nel congedarsi? Gli sembrava che le orme che aveva lasciato brillassero ai raggi del sole mattutino: acqua che li rifletteva. Un nuovo segreto di quelli di lei? Scosse il capo, che non poteva essere. Gettò un'ultima occhiata alle scale, dove la poca acqua che c'era o credeva di aver visto era ormai del tutto evaporata. Si sarebbe preparato un'altra tazza di caffè, bollente.

 

 

 

Non appena Death Mask fu in groppa a suo figlio, letteralmente, si diede dello sciocco. Aveva osato pensare che, visto l'invito che aveva ricevuto, ormai fosse quasi riuscito nel ricucire il loro rapporto. Quell'animale, poichè tale era in quella forma, era balzato in aria con un salto sconnesso, di cavallo imbizzarrito. A nulla era valso tirargli la pelliccia, per provare a calmarlo. Con ogni probabilità, una volta a terra, se si trovava con qualche ciocca in meno di capelli, poi gliela avrebbe fatta pagare salata. Cercò di reggersi meglio che poteva, con la box dorata assicurata alle spalle e la sacca che rischiava di cadergli di sotto ad ogni scossone che, senza dubbio, quel disgraziato sotto di lui gli provocava di proposito. A nulla valse richiamarlo. Del resto era un lupo, non un cane al guinzaglio. Senza dubbio, un carattere impetuoso come quello si apprezzava meglio da lontano. Gli fece sudare come secoli quella scarsa mezz'ora di volo, tanto da chiedersi come aveva potuto essere così superficiale da accettare di essere trasportato, piuttosto che usare la velocità della luce a piedi, come aveva sempre fatto. Li per li era stato persuaso dal fatto che si sarebbe trovato in un ambiente nuovo, ostile, e l'appoggio di quel debosciato di suo figlio gli sarebbe stato vitale, soprattutto per non iniziare col piede sbagliato con Mnemosine che, di certo, non si aspettava di ritrovarselo davanti in quel modo.

All'altezza a cui si trovavano la temperatura si abbassava parecchio. Le nuvole erano tremendamente vicine. Fu costretto a bruciare il cosmo, seccato. Se non altro, la vista era magnifica. Si dirigevano verso una catena montuosa piuttosto impervia. I fianchi dei rilievi erano scivolosi. Si impennavano in ripidi strapiombi ed una rigogliosa vegetazione si inerpicava dai piedi fino al fianco poi alla cima dei monti. Lì, al verde accesso di arbusti dalle foglie aghiformi e bassi tronchi si sostutuiva il bianco rilucente dei ghiacciai. Scorreva un torrente impetuoso che partiva dalla neve mai del tutto sciolta e si ingorgava nei pressi un sentiero simile ad una cicatrice che tagliasse la roccia orizzontalmente per un lungo tratto. Proseguendo oltre, si vedeva rosseggiare la fiamma di una lanterna. All'ululato di suo figlio, le lanterne crebbero in numero, a disegnare un quadrato. Comparve l'unico altopiano protetto tra due cime adiacenti, gemelle. Era lì, che, celati dalla loro magia, si nascondevano provvisoriamente i Dunedain. Se non fosse in vista una guerra, sarebbero spariti al prossimo cambiare del vento, sempre in pellegrinaggio su quella strana terra.

Conscio che, senza l'intervento di suo figlio, quella malia non gli avrebbe mai permesso di trovare quel posto, Death Mask ingoiò sentimenti e bile. Vedeva muoversi parecchie teste sotto di lui. Pochi sembravano raccomandabili.

Zalaia era planato con un balzo leggero, prima di scuotere la schiena per disarcionarlo. Si era rialzato lentamente, mentre la pelliccia perdeva colore e riprendeva la sua altra forma.

"Siamo arrivati."

Spiegò, con un atteggiamento diverso da quello dimesso che aveva mostrato alla quarta casa. Aveva materializzato la corazza addosso ed aveva un portamento fiero, mentre si muoveva tra i suoi simili.

"Fossi in te, indosserei l'armatura."

Suggerì al genitore, con un ghigno simile al suo.

"Fino a qualche secolo fa, qua qualcuno li divorava anche, gli umani."

L'avvertimento fu più che sufficiente per spingerlo a seguire il consiglio. Death Mask si guardò attorno, studiando quegli strani individui più alti di lui, massicci e scuri in viso. Molti non sembravano avere poteri particolari, mole a parte. Quasi nessuno si curava di lui. Non doveva essere poi questa grande attrattiva. Nello sguardo di qualcuno chiaramente più anziano, trovò però una scintilla di sadismo tale da fargli domandare se le parole di suo figlio non fossero state veritiere. Si sentì davvero una bistecca su un piatto da portata.

"In quanti seguono ancora questa dieta, qui?"

Zalaia aveva alzato le spalle.

"In tempo di carestia va bene ogni cosa. Ma qui c'è parecchia selvaggina. Dicono sia carne più saporita in cui affondare i denti."

Poi, aveva sorriso, con la sua poco rassicurante dendatura perfetta. Voleva davvero vedere fino a quando sarebbe restato suo padre, con quelle premesse. Del resto non si trattava di bugie, solo di verità tenute nascoste.

"Ma i Dunedain non erano benigni nei confronti degli esseri umani?"

"Quelli che con gli esseri umani hanno rapporti, sì. Altrimenti non esisterebbero mezzosangue come me. Ma la nostra società è variegata. Ci sono cose che devi sapere, se vuoi restare anche solo per poche ore."

Si era girato verso suo padre, che pendeva, teso, dalle sue labbra.

"Ci sono quelli come mia madre e la figlia di Cristal, che si dannebbero anche l'anima, per gli umani e sono rare eccezioni. Ci sono quelli come me a cui, onestamente, frega davvero poco, anche se sono umano per metà. Pensano così la maggior parte. A lungo anche Sire Imuen è stato in questo modo, per non parlare di Sire Haldir. Poi ci sono Dunedain che detestano proprio gli umani, perchè possono danneggiarci, anche se sono esseri inferiori. Li annienterebbero tutti, volendo. Sono più di quanti si possa pensare. In quest'epoca sono a bada perchè la nostra razza vive nell'ombra ed i nostri signori hanno stretto un'alleanza con voi. Solo dei pazzi trasgredirebbero gli ordini. Senza contare il branco. Io che sono figlio di Imuen sono dentro come guerriero ma sono escluso dal vincolo che unisce menti e cuore dei figli di Haldir più puri: Gona, Tabe, ed in virtù del sangue del loro signore anche Seleina. Quelli pensano e si muovono come una sola entità, per molti versi. In qualche modo, il fatto che Seleina tenga così tanto agli umani, dispone meglio verso di loro anche gli altri due, che sono due guerrieri formidabili, della vecchia guardia di Haldir. Senza di lei, nella migliore delle ipotesi sarebbero indifferenti, come me, credo. Anzi, su uno sono certo, dell'altro non lo so. Tabe gira sempre con la faccia da ebete ma tutto è fuorchè sciocco. In ogni caso, se resti, li conoscerai tutti. Qui non si muove niente senza che loro sappiano.

Questa è la realtà dove sono nato e cresciuto, oltre la bella apparenza che ha vissuto il cavaliere d'Ariete, quando è stato curato da noi, e gli altri che erano venuti insieme al Gran Sacerdote, per allenarci insieme. E' diversa da ciò che Sire Imuen aveva paura di mostrare per timore che i tuoi simili se la dessero a gambe. E' più nera: più vera. Ora che sai, vuoi davvero restare?"

Dopo aver finito, posò lo sguardo, fermo, verso suo padre. Un secondo, senza capirne bene il motivo, vacillò. Death Mask gli somigliava davvero tanto, nell'aspetto, nelle espressioni, nei modi. Era come guardarsi allo specchio. Quando era ragazzino, spesso osservava il proprio riflesso. Lo immaginava di un uomo più grande e forte, quel padre che non aveva mai conosciuto e per cui sua madre piangeva tanto. Gli poneva la stessa domanda se, saputa la realtà, fosse voluto restare. La risposta che stava per udire in quel momento sarebbe stata del tutto diversa da quella, oscena, che rimbombava a quel tempo, nei recessi della sua mente di fanciullo.

Death Mask riflettè solo un minuto. Sorpassò suo figlio e gli chiese quale fosse l'infermeria, se fosse li sua madre. Per la prima volta, Zalaia non si vergognò di suo padre.

 

 

 

Quando Mnemosine, che stava riponendo garze arrotolate in un sacchetto, se li vide entrambi davanti, stava per lanciare un urlo. Credeva di essere impazzita, ad aver di fronte passato e presente.

Poi, comprese la realtà ed ebbe bisogno di sedersi. Era divisa tra l'insultare suo figlio per l'iniziativa e salutare quel cavaliere. Se erano tornati insieme, era sottinteso che Zalaia fosse riuscito a padroneggiare il cosmo. Suo figlio, però, sembrava aver perso la risposta pronta che lo aveva sempre caratterizzato. Privo del suo sorriso solare, aveva guardato entrambi i genitori. Poi, si era soffermato su sua madre.
"Diglielo: quante volte hai pianto per causa sua, perchè le sue azioni orribili hanno macchiato entrambi."
Mnemosine si era sentita morire. Non era mai riuscita a nascondersi dallo sguardo attento di suo figlio, pure quando era piccolo. Ci aveva provato sempre, strenuamente, negli anni. Aveva deglutito, con la gola riarsa. Faticava a reggere la tristezza di Zalaia. Era sempre stato così, con suo figlio che la supplicava di dimenticare quell'uomo e lei che non c'era mai riuscita veramente.

"Non posso negare il passato."

Esalò alla fine, tremante. Era dura ammettere certe cose, dopo tanti anni.

Death Mask, stringendo il pugno, aveva afferrato l'altra sedia libera, l'unica. Aveva approfittato di non essere stato bloccato per porsi davanti a Mnemosine, ad incatenarla coi suoi occhi neri come l'abisso. Pregò suo figlio di lasciarli soli, con una voce bassa che non gli si era mai udita prima.

"In qualche modo, io e te forse ci siamo chiariti, ragazzo. Lascia che adesso lo faccia con tua madre. Da a me la possibilità di chiedere perdono e a lei di prendermi a schiaffi."

 

Zalaia annuì. Aveva accumulato troppa tensione. Uscì sbattendo la porta ed allontanandosi ad ampie falcate. Aveva sopportato suo padre per una settimana ed era già troppo. Nessuno lo aveva fermato mentre si dirigeva in una radura appena fuori le mura di cinta. Voleva sbollire da solo.

Presto, però, udì la vegetazione muoversi, i passi lievi di qualcuno avvicinarsi. Non seppe se essere sollevato o meno che a raggiungerlo fosse Seleina. L'unica sera che era riuscito a passarla solo con lei aveva rimediato uno schiaffo, cercando di baciarla. Lei gli aveva detto che, con la battaglia che si apprestava e la totale inesperienza in materia che aveva, non era affatto certa dei suoi sentimenti. Avrebbe avuto bisogno di tranquillità e tempo, cose che senza dubbio non avevano in quel frangente. Se non altro, era stata sincera.

"Tregua?"

Gli aveva domandato lei, esitante, cercando di capire se potesse andargli al fianco oppure no.

Visto che Zalaia aveva alzato le spalle e sbuffato molto meno di quanto lei temesse, decise di sedersi al suo fianco, impacciata.

Aveva incrociato le gambe e l'aveva guardato di sfuggita.

"Sei stato bravo. Io non sarei mai riuscita a raccontare tutte quelle cose del campo, a mio padre."

Zalaia s'era girato di scatto, sorpreso ed anche un po' stizzito. Avrebbe voluto domandare come era venuta a conoscenza di certi particolari, prima di ricordare le facoltà di chi aveva davanti.

"Non mi piace che voi tre vi impicciate così nelle mie faccende private."

Sbottò, riferito anche a Gona e Tabe. Non riuscì ad intimorirla. Al contrario, gli sorrise. Forse era già qualcosa visto che, solitamente, quell'espressione la riservava ai lemuriani e mai a lui.

"Mi sono impicciata, io sola, perchè ho percepito che ne hai bisogno."

Già era tanto che non avesse usato il vincolo mentale per aggiornare pure gli altri.

"Vuoi che ti aiuti?"

Sollevato, le rispose che gli sarebbe stata molto più utile se l'avesse aiutato in ben altro modo, rispetto ad usare le sue facoltà di figlia di Haldir. Alla minaccia di un altro schiaffo, capì che non era aria di insistere. Era convinto che, a quel punto, l'avrebbe lasciato solo. Inaspettatamente, invece, si ritrovò circondato da un abbraccio goffo ma sincero, col chiaro tentativo di consolarlo. Non avrebbe saputo dire che piega avrebbe preso quel loro singolare rapporto. In quel momento, aveva deciso per prendere le cose come sarebbero venute, senza imposizioni, almeno per un po'. Del resto, una come Seleina, se avesse forzato la mano, l'avrebbe allontanato senza dubbio a morsi o in qualche altro modo, per scappare in quella natura fuori dal campo e dalle città degli uomini dove si sentiva libera. Quando si sentì la testa bagnata, dalla parte dove era poggiata lei, le chiese dove mai si fosse tuffata, a quell'ora del primo pomeriggio. Non c'erano fiumi tanto profondi, li vicino.

"Ho preso la via dell'acqua."

Spiegò allora lei, con quelle poche parole enigmatiche che adoperavano i figli di Haldir, quando volevano informare senza svelare del tutto il loro operato. Le cinse la spalla e l'attirò a sè, il profumo di lei era alterato da tutte quelle gocce.

"La prossima volta, magari, portati un asciugamano."

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Capitolo 34
*** L'alleanza ***


Note: Non so se è noiso, se manca il punto di vista di qualche personaggio, se è verisimile o se fa schifo... so solo che a questo punto la voglio finire. Poi vi saluto. :)

 

Le parole che suo figlio aveva pronunciato poco prima di uscire di scena gli avevano reso la vita difficile. Zalaia, nonostante tutto, era venuto bene. Chi lo aveva cresciuto al posto suo era riuscito egregiamente. Aveva tirato su un guerriero forte, consapevole, non uno squilibrato come era stato in passato lui.

Che fosse stato Imuen o un altro poco importava. Quando vedeva suo figlio, gli sembrava di aver davanti il se stesso che avrebbe potuto diventare, se avesse avuto guide migliori, più degne e, perchè no, anche un potenziale maggiore. La donna che aveva di fronte, però, a cosa aveva dovuto rinunciare per diventare parte di quell'impresa? Zalaia, alla fine dei conti, gli rimproverava la sofferenza di sua madre: nient'altro. Possibile nessuno si fosse mai fatto avanti per starle vicino in qualche modo? Suo figlio aveva parlato di un infame che aveva provato ad approfittarsi di lei ma si trattava comunque di una donna bella, intelligente, dotata di abilità uniche. Gli risultava impossibile credere che nessuno avesse mai provato ad avvicinarsi a lei con buone intenzioni. Il dubbio che fosse stato Imuen a ricoprire quel ruolo, in sua assenza, gli procurò una gelosia feroce, una stretta alle viscere che contorse il viso ad un'espressione rabbiosa. Del resto, lui non c'era e la credeva un sogno. Non avrebbe potuto farci nulla, neppure volendo. Se voleva ristabilire davvero un rapporto, nel poco tempo che aveva, la rabbia era l'ultima cosa di cui aveva bisogno.

"Non ti ho dimenticata."

Buttò fuori alla fine, quasi ringhiando. Anche se, inconsapevole, per parecchio tempo se l'era comunque spassata.

"Nessuno ti accusa di nulla."

Mnemosine era una corda di violino dinnanzi a lui: le braccia tese sopra le ginocchia, il capo verso il pavimento di pietra grezza, la voce fioca. Se fosse stata davvero sincera, non avrebbe dovuto essere così.

"Se non mi accusi di nulla, spiegami allora le parole di tuo figlio poco fa. Tanto astio nei miei confronti non può nascere solo da due sberle quando era piccolo e quattro chiacchiere nei miei confronti da parte di imbecilli."

Death Mask aveva alzato la voce. La vide incassare la testa tra le spalle poi, d'improvviso, alzarsi risoluta, lo sguardo acceso, ordinandogli di andarsene. Gli aveva detto che era un essere spregevole anche quando si erano conosciuti, egocentrico ed intrattabile. Era conscia di quanto fossero assurdi i suoi sentimenti ed era doloroso dargli voce, rendendoli tangibili. Le lacrime avevano iniziato a lambirle le ciglia ma non c'era alcuna remissività o calma mentre le versava. Il cavaliere si era posto in piedi anche lui, fronteggiandola. Doveva conoscere ogni cosa. Solo dopo se ne sarebbe andato.

"Dimmi perchè piangi."

Aveva abbassato il tono di voce, scandendo bene ogni parola che sapeva non gli sarebbe stato permesso ripetere.

"Piango perchè ho continuato ad amarti da quando ci siamo lasciati. Ho sofferto per lo stato in cui eri costretto."

Poi, Mnemosine si era asciugata gli occhi col dorso della mano, con una grazia nel gesto che stonò con l'aggressività che stava dimostrando. Ripensava a poco dopo che lo aveva conosciuto, a quando si era accorta che qualcosa, nel suo corpo, stava mutando. Con un ventre troppo gonfio per quanto era magra aveva provato ad avvicinarsi al Grande Tempio. Ad aspettarla, aveva trovato la scultura dove erano trattenuti i cavalieri d'Oro.

"Quando ho scoperto che ero incinta ho provato a cercarti ma non c'eri già più."

Ricordò il momento esatto in cui comprese che non avrebbe avuto nessuno ad aiutarla nei mesi a venire: istintivamente aveva portato le mani a proteggersi la pancia. Quella vita, di cui era diventata appena cosciente ma che ancora non percepiva muoversi in lei, era diventata l'unica cosa che contasse davvero. Di reale c'era solo quello. Davanti a lei c'era un santuario distrutto, una stele deforme ed oscura da cui spuntavano le sembianze di uomini a perdersi in un cielo malato e nero: il vuoto del cosmo, il nulla.

"Allora, ho scelto che l'avrei chiamato Zalaia. Nella lingua della mia gente significa dono degli dei: per tenere a mente che tra gli dei ce ne sono anche come la tua e non solo come quelli che hanno offeso la mia razza. Ed era un dono, ultimo ed unico che mi avevi lasciato, il solo che importasse."

Poi, rassegnata e spenta, l'aveva guardato con occhi liquidi, in attesa di un rinnovato scatto d'ira o una parola. Death Mask, invece, aveva chinato il capo. Dopo quella spiegazione aveva davvero compreso l'entità di ciò che gli avevano sottratto nella sua vita precedente e quanto dovesse ringraziare, in realtà, i Dunedain per averlo riportato su quella terra. Morse il labbro così forte da spaccarlo coi denti, fino a sentire il sapore del sangue in bocca.

"Io stavolta resto con voi e nè tu nè quell'animale di nostro figlio potete fare niente per impedirmelo."

Strinse per non permetterle di scappare quella donna pallida, così simile e diversa da sè. Il suo profumo non era un ricordo lontano, era presente. La sentiva sotto le dita, contro la pelle, cuore che batteva ed alito che respirava. Se fosse stato capace, le avrebbe detto semplicemente grazie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ad interromperli bruscamente fu un bussare insistente e la voce poco aggraziata di suo figlio che, pronti o meno, avvertiva che stava per entrare.

Zalaia era piombato dentro come una furia, accompagnato da una ragazza bionda. Entrambi erano all'erta. Comunicarono che avevano ricevuto ordini. C'era da muoversi.

Seleina si era inchinata, riconoscendo immediatamente il cavaliere che aveva davanti. Per il branco non era un mistero il segreto che c'era dietro.

Si rivolse poi a Mnemosine. C'erano problemi ad Asgard e bisognava prepararsi ad evacuare il campo principale: femmine, cuccioli, maschi non in grado di combattere andavano dirottati nel villaggio ad ovest, più protetto.

"Io e Brunilde faremo da scorta per tutto il tragitto, poi ci ricongiungeremo al resto dei guerrieri. Devi aiutarci ad organizzare il gruppo."

Aveva spiegato la ragazza, con voce chiara ma che non ammetteva perdite di tempo. La guaritrice aveva annuito. Un solo cenno al cavaliere del Cancro, prima di sparire all'esterno.

Death Mask aveva notato l'occhiata che il figlio aveva lanciato verso la madre e la ragazzina, uscita per ultima. Notava Zalaia inquieto.

"Tu invece che ordini hai?"

Lo richiamò, trascinato anche lui dall'atmosfera tesa che si stava respirando.

"Riaccompagnarti al Santuario. Mobilitare i tuoi pari e raggiungere insieme i nostri signori. Sempre che i cavalieri di Athena non si tirino indietro con la scusa di dover proteggere la vostra sedicente dea della guerra. Della guerra a tavolino, magari..."

Stava per rimproverarlo per la battuta infelice, quando uno dei signori di quel luogo si fece loro incontro, spalancando la porta di legno e sbattendola alla parete con un tonfo sordo. Imuen tolse l'elmo scuro, tenendolo con una mano.

Sorrideva beffardo, mentre metteva ogni braccio sopra le spalle di ciascuno di loro e li guidava in una direzione precisa.

"Così non sei scappato quando hai scoperto meglio cosa siamo."

Aveva specificato a quel cavaliere dalla fama controversa con cui aveva sempre avuto una affinità. Si apprestava a tornare al Grande Tempio, con una delle sue entrate migliori. Pregustava già lo sconcerto che avrebbe causato, presentandosi accompagnato da quei due, trascinandoli letteralmente e togliendo ad entrambi ogni possibilità di obiettare. Pochi istanti dopo erano riapparsi ai piedi della scalinata che univa le dodici case, preannunciati da sbuffo di luce scura ed un'aura poco rassicurante. Aveva già poggiato il piede col primo gradino ed enfatizzato la propria fretta con un cenno del capo ai suoi compagni di viaggio, quando il primo custode si affacciò a controllare i visitatori. Li aspettavano presto ma non così tanto. Alterato dalla possibilità di perdere secondi preziosi in inutili formalismi, torvo, il domatore dei morti era arrivato con un unico balzo davanti al cavaliere d'Ariete. Si era abbassato, per fare in modo che i loro sguardi si incrociassero perfettamente allo stesso livello e rendere manifeste le proprie intenzioni. Ammirò il fatto che l'umano cercasse di mantenere l'autocontrollo, riuscendoci anche, all'apparenza, se non fosse stato per il battito cardiaco accellerato e l'odore della paura che si mescolava a quello del coraggio, di chi sa che può dover combattere all'improvviso per la sopravvivenza ed è pronto a farlo.

"Hai un baleno per avvertire la tua dea che siamo qui, perchè se uno solo di voi custodi dorati mi fa perdere tempo per questa interminabile scalinata giuro che uso la sua testa per ricominciare la collezione che abbelliva la Quarta Casa. Siamo intesi?"

Mu aveva miracolosamente ottenuto il potere di teletrasportarsi fino alla dea ed era tornato dopo pochi minuti col permesso di raggiungere subito la tredicesima.

"Che tuo fratello si tenga pronto. Partiamo presto."

Istintivamente Mu si era inginocchiato. Non era tanto per il timore verso quell'individuo, che pure gli stava facendo fare la figura del novellino che non sa muoversi in caso di emergenza, tanto per il carisma che esercitava, se pur nel suo singolare modo. La mensione a Kiki, come da accordi, lo allertò comunque. Suo malgrado, non poteva far altro che eseguire, vista l'alleanza stretta con la sua dea. Si chiese solo per una frazione di secondo come mai Cancer fosse tornato insieme a loro. Non gli era sfuggito il ghigno sarcastico del cavaliere della quarta, quando Imuen aveva usato come minaccia il suo vecchio e disonorevole modo di fare con le proprie vittime. Si chiese come fosse riuscito, un uomo ambiguo come quello, ad entrare nei favori di un essere potente ed imperscrutabile, ma che aveva imparato a ritenere giusto, più lineare negli intenti rispetto al gemello. Ripensò a Seleina, a come si fidava cecamente di Haldir ed iniziò ad arrendersi al fatto che, probabilmente, certe cose non sarebbero mai state completamente chiare. Bene e male si mescolavano nei due domatori e non c'era verso di sapere chi dei due fosse del tutto bianco o nero: se uno, nessuno o entrambi. Mentre si rialzava, notò la complicità tra Cancer e l'allievo di Imuen, lo stesso che, quando ne aveva avuto la possibilità, aveva quasi ucciso quello stesso cavaliere. Troppi dubbi e cose non dette. Poi, Zalaia, beffardo, s'era rivolto a Cancer. Mu fu certo d'aver udito la parola che aveva rivolto al suo compagno d'armi: padre. Sgranò gli occhi, impietrito. Alla sorpresa si sostituì poi lo sconcerto. Gli era sembrato un gesto non tanto per richiamare davvero l'attenzione del genitore quanto piuttosto per intimorire, rivelando la verità sulle proprie oscure origini ed il modo di combattere che lo avrebbe caratterizzato e di cui, tra l'altro, aveva già dato prova. Assottigliò lo sguardo, focalizzandolo sulle spalle di quello strano trio malamente assortito. Zalaia non era per lui l'alleato a cui poter affidare unicamente l'incolumità di Kiki, in quella battaglia. Per non parlare del benessere di Seleina stessa, verso cui quel giovane aveva manifestato un chiaro interesse. Se di quella ragazza aveva appurato di potersi fidare cecamente, quel guerriero senza controllo era tutta un'altra faccenda. La questione andava appurata immediatamente. Prima che potesse teletrasportarsi, fu agguantato per il braccio e materializzato, insieme a tutti gli altri, all'ingresso della tredicesima. A dispetto dei modi burberi, Imuen non l'aveva nè lasciato indietro nè insultato ulteriormente. Gli sembrò più l'atteggiamento di chi è abituato ad essere superiore ed occuparsi di chi dipende da lui, senza chiedere ed in fretta, semplicemente perchè si deve.

 

Il gigante nero li precedette. Le guardie all'ingresso si inchinarono appena, spaventate dall'espressione accesa e la falce che quell'individuo stringeva. Col mantello nero sembrava davvero che la morte stesse arrivando a chiedere udienza alla dea. A Shion, rivedendolo, venne naturale il confronto con Hades che, soprattutto quando indossava la sua armatura divina, era un dio in tutto e per tutto, bardato nell'opulenza del metallo pregiato.

La corazza di Imuen, lineare, priva di spuntoni e fregi, era del tutto diversa. Non era preziosa: nascondeva i punti vitali, copriva ciò che di un corpo andava protetto, senza offrire modo alle armi di incastarsi lacerando la carne sotto. Non era fatta per essere contenuta in una box, a rappresentare la forma di un segno zodiacale. Gli antichi simboli incisi sopra, tuttavia, che brillavano appena di una luce fredda, verde e scintillante, simile agli occhi di quell'essere millenario, sembravano celare segreti antichi, potenti incantesimi di protezione. Gli stessi che ornavano la parte sopra il tagliente della falce. Nonostante tutto, armi e corazza erano vive.

Diversa era poi l'espressione. Hades, quando li guardava, aveva dipinto sul viso perfetto il disgusto per creature di infimo livello. Imuen no. Era venuto per Athena ma esaminava anche loro uno per uno, con attenzione. Era qualcuno che era giunto conoscendo bene il prezzo di quanto stava per chiedere. Il secondo in più, di muto rispetto, che aveva riservato a Mu e Kiki era stato palese. Poi, si era rivolto ad Athena e non c'era stato più spazio per tergiversare.

"I sigilli cedono prima. Abbiamo bisogno di guerrieri validi, ora. Mio fratello è allo stremo. Non posso lasciarlo solo a lungo. Offrite il vostro appoggio come d'accordo o vi tirate indietro?"

Athena, fino ad allora in silenzio, si era alzata. In quel momento era solo la dea. Sapeva che Haldir aveva speso troppe energie per creare l'artefatto che aveva fornito a Kiki e la sua azione nei sigilli era meno efficace anche per quel motivo.

"Nessuno si tira indietro. Oltre al cavaliere d'Altare, offriremo un valido numero di volontari fra le nostre forze migliori."

Il primo ad avanzare di un passo, proponendosi per l'incarico, era stato Death Mask, tra lo stupore di qualcuno ma non di tutti.

"La tua dea ha specificato tra le forze migliori. Oltre che vecchio stai diventando pure sordo?"

Nella luce soffusa dei bracieri che spargevano la loro ombra tenue e rossastra sui muri di marmo levigato, si era alzata qualche risata leggera. Nei riflessi dorati delle armature che riverberavano sul muro e si confondevano nel bianco delle pareti ed il rosso dei finimenti, Imuen, torvo, aveva incenerito con lo sguardo l'allievo, che aveva risposto con un'alzata di spalle. Zalaia giocava a dadi con la morte da quando era fanciullo. Non sarebbe stata la minaccia di una punizione marziale quando non c'era tempo per eseguirla ad intimorirlo. Si era comunque scusato, garantendo il suo futuro silenzio.

Aphrodite, intesa invece la familiarità recondita della battuta, era rimasto imbambolato a quella scena. Nel rivoltarsi repentino verso quel ragazzo del tutto privo di buone maniere, secondo lui, Death Mask tradiva l'imbarazzo che non riusciva a contentere ed anche una certa confidenza. Il sospetto che la verità che gli aveva rivelato poco prima di lasciare il Santuario fosse effettiva e non uno scherzo si fece certezza. In effetti, oltre al caratteraccio, c'era anche una certa somiglianza fisica, colore di capelli e carnagione a parte. Zalaia aveva un diverso taglio d'occhi: i suoi erano più affilati ed allungati. Ma la forma del viso e delle spalle, per non parlare di altezza e portamento, quando Death Mask si ricordava di essere un cavaliere d'oro e non un buzzurro, erano pressochè identici. Osservò sottecchi Shion che, sicuramente, era l'unico ad aver appreso quella notizia, mantenendo stretto riserbo. Si chiese quanto dovesse essere stato difficile, per l'amico, affrontare una situazione del genere, dal momento che l'allievo di Imuen l'aveva quasi ucciso, nei precedenti incontri. Riflettè pochi attimi. Dopotutto, se Death Mask l'aveva messo tardi a conoscenza di quel segreto, doveva aver avuto i suoi motivi. Vista l'indole del figlio, dovevano essere tanti e validi. Il cavaliere della quarta casa era uno dei pochi di cui sentiva di potersi definire amico. Fece un passo avanti. Anche lui fu reclutato tra i volontari. La prima cosa che gli avrebbe chiesto, però, appena avrebbe potuto, sarebbe stata chi mai fosse la madre di quel tempestoso ragazzo e la storia, sicuramente interessante, che c'era dietro.

 

Quando si propose volontario per l'impresa anche il cavaliere d'Ariete, a Zalaia fu chiaro che non solo non l'aveva spaventato anzi, l'aveva proprio fatto arrabbiare. Avrebbe voluto portarlo a riflettere sul fatto che Kiki gli era superiore e ben supportato. Lui sarebbe tranquillamente potuto rimanere a proteggere il loro prezioso santuario. L'aveva di nuovo guardato di sfuggita, con sufficienza. Non si aspettava che Mu lo chiamasse in causa.

"Zalaia, da te voglio una coferma: combatterai al fianco del cavaliere d'Altare per aiutarlo o ti comporterai come nel duello contro il cavaliere di Cancer?"

A quella insinuazione, invece di scaldarsi, il diretto interessato era esploso in una risata.

"Che motivo avrei di non aiutare tuo fratello? Tanto più che ho promesso alla mia donna che non gli avrebbero torto neppure un capello."

Se Mu, da una parte, era stato rincuorato dal senso di quelle parole per Kiki, non aveva pure potuto impedire al rossore di colorargli appena il viso ed una vaga sensazione di fastidio di impossessarsi di lui. Perchè, nella notte in cui l'aveva stretta a sè, su Seleina tutto aveva percepito meno il legame esclusivo con un'altra persona. Fu un po' come sentirsi preso in giro per qualcosa di non detto, il violare una promessa di purezza non mantenuta. Tuttavia, la sua risposta l'aveva avuta. Aveva incassato il colpo e si era messo da parte.

"Se proprio lo vuoi sapere, con Death Mask avevo da sistemare questioni di famiglia."

Zalaia aveva guardato lui che lo aveva interpellato per poi godersi lo sconcerto che avrebbe causato in tutti i presenti.

"Ormai dovreste averlo capito: Death Mask è mio padre."

Per un attimo, si udì addirittura lo sfrigolare delle fiamme delle lampade ad olio. Nessuno aveva osato fiatare, più per lo stupore che per altro. Il pensiero generale fu che padre e figlio si somigliassero troppo e per aver pestato Death Mask a quel modo, certamente il ragazzo aveva le sue buone ragioni. Poi, anche il pettegolezzo era passato in secondo piano.

Aldebaran aveva osservato attentamente ogni singola espressione di Mu, uno dei pochi che non era sembrato sorpreso alla notizia. Doveva essersene accorto anche Shaka della Vergine che qualcosa, nel compagno d'armi, non andava. L'Ariete era turbato. Visto che molto della sorte di quello scontro sarebbe dovuto dipendere dall'allievo di Imuen, i sospetti non del tutto diradati dell'amico potevano essere fondati. Forse fu per dargli coraggio, ricordandogli che non era solo. Forse per amicizia. Avanzò anche lui e poco dopo si udì la voce chiara della Vergine che si esprimeva allo stesso scopo. Altri due avevano deciso.

Camus dell'Acquario, invece, era tentato di accettare non per le reazioni dei presenti, ma per il legame che sentiva con il vecchio allievo. Era tanto che non aveva notizie di Cristal. Lo sapeva tremendamente preoccupato per quella situazione, tanto più che non avrebbe potuto essere presente allo scontro, dovendo occuparsi della situazione nella città di Asgard in qualità di regnante. Sapeva che era in pena per la figlia. Dopotutto, anche lui doveva la sua nuova vita a quella ragazzina. Il campo di battaglia sarebbe stato congeniale ai suoi poteri. Voleva accettare. Qualcuno, però, sorridendo, lo aveva preceduto. Milo lo salutava, con l'espressione di chi non si tira certo indietro quando la situazione si fa complicata. Del resto, alla battaglia delle dodici case aveva maturato un certo rispetto per Cristal pure lui.

Raggiunto il numero di sei cavalieri d'Oro più l'Altare, fu Imuen stesso a suggerire di lasciare il resto del loro esercito al Santuario, pronto ad intervenire se qualcosa fosse andato storto. Non potevano garantire, infatti, la sopravvivenza di nessuno, Athena compresa.

"Tuttavia, non si dica che la mia razza viene solo a pretendere. Se i tuoi guerrieri torneranno sulle loro gambe, garantiremo la nostra alleanza per le generazioni future, se ancora i Dunedain esisteranno. Altrimenti, vi lasceremo il pugnale del mio gemello. Dentro, c'è quasi tutta l'essenza di Haldir. E' un'arma in grado di uccidere una divinità, se troverete gente in grado di brandierla, nelle vostre prossime guerre sacre."

Poi, il gigante nero aveva ricalzato l'elmo, invitando chi aveva acconsentito a raggiungerlo, al centro di quella sala. Un saluto silenzioso ad Athena, solo un cenno, fu il suo segno di rispetto, mentre nel vortice oscuro della sua aura una danza di fuochi fatui, sempre più vorticosa, li avvolgeva tutti. Un istante dopo furono tagliati dall'aria pesante delle viscere malate di Asgard.

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Capitolo 35
*** Nella tana del nemico ***


Note: Premesso che non so un piffero di tattiche belliche ma sono una scema che ci prova lo stesso, se avete pietà e voglia di dare una possibilità, ciò che segue è quanto ho immaginato di sana pianta. Magari ha anche una sua logica...

Se volete chiarimenti, chiedete.

 

Nonostante fosse gelida, l'aria bruciava i polmoni. Respirare era doloroso. I cavalieri d'oro, abituandosi a vedere nella penombra di quell'ambiente, riuscirono a distinguere le fattezze del domatore delle anime dei vivi. Aveva il viso immobile, una mano aperta, il braccio teso innanzi a sè. Controllava qualcosa. Ampliando lo sguardo, una immensa voragine si apriva davanti a loro. Una stele di pietra affondava la base nella roccia profonda, parecchi metri sotto ai loro piedi, quasi ci fosse stata conficcata a forza dalla mano di un titano. Svettava poi fino al soffitto di quella grotta scavata che li aveva fagocitati come il ventre di una belva. In alto, l'occhio si perdeva nel profilo di stalattiti scure ed irregolari, simili ai denti marci e sbeccati di giganti dalla bocca spalancata. In lontananza, ruggiva ancora il rumore dell'acqua, insieme a quello del vento, come se una tempesta fosse trattenuta nel profondo della terra. Haldir mosse le labbra senza degnarli di uno sguardo. Pochi attimi dopo, al suo comando, i cristalli di ghiaccio che vorticavano si erano placati leggermente, l'aria diventava più respirabile. Concendendo ossigeno ai polmoni, i cavalieri del Grande Tempio riuscirono a captare di non essere soli, almeno quattro persone li circondavano. Erano vestiti in uniformi chiare, poco più che tute da addestramento. Calzari leggeri abbracciavano i piedi coi legacci fino al ginocchio. Casacche senza maniche nascondevano muscoli scolpiti ma non la miriade di cicatrici. Riconobbero i due seguaci di Haldir dalla coppia di spade legate ai fianchi. Se almeno uno aveva un'espressione rilassata, a tratti simile a quella del cavaliere della vergine, l'altro, meno alto, dal fisico scattante e nervoso, sembrava avere una scintilla nello sguardo acceso. Gona e Tabe furono i primi ad emergere dall'ombra. Si mossero in sincrono, uno a destra e l'altro a sinistra. Gli sfregi speculari sulle braccia opposte, uno che iniziava dove finiva l'altro, testimoniavano battaglie vissute fianco a fianco, quasi fossero stati un unico guerriero a vestire la stessa corazza. Poi, Gona, più alto, aveva girato il viso verso la loro amazzone statuaria dai capelli fulvi che li scrutava altera e carezzava il manico corto della sua ascia, gli occhi castani che li fissavano lontani senza davvero capirli, rivolti al suo signore, ad altri pensieri. Brunilde li degnò di attenzione per pochi istanti.

Lo spadaccino più magro, invece, curioso ed attento, li aveva passati in rassegna uno per uno. Un attimo in più i lemuriani, Mu in particolare, prima di strizzare appena gli occhi e cercare l'ultimo membro del branco. Seleina era emersa lentamente. Il tatuaggio al braccio il primo segno che chiunque avrebbe notato sulla pelle diafana, al fianco una spada sola. Non li aveva ringraziati per essere arrivati li ma c'era qualcosa nella sua espressione che mostrava chiaramente quanto fosse riconoscente, pur senza esprimere, neppure lei, una sola parola. Tutti, però, notarono che a Mu e Kiki avrebbe voluto dire qualcosa in più, di diverso. Invece, anche lei in attesa, rivolse il viso al suo signore, più avanti, sul pennacolo più proteso ed impervio di quel crepaccio naturale che accerchiava l'immensa stele nera, costretto a consumare ogni stilla dell'energia restante.

Shaka della Vergine aveva notato la pietra scura e scheggiata di quella specie di mausoleo, che doveva essere naturale fino ad un certo punto. C'era una moltitudine di anime racchiuse dentro. Gli sembrava che volti ed arti, braccia e gambe, emergessero per poi essere nuovamente risucchiate nella roccia. Il vento che li aveva quasi soffocati prima doveva provenire da li. Tra le mani artigliate che ogni tanto sfuggivano semitrasparenti alla pietra riuscì a riconoscere anche dita e teste chiaramente umane. Il sibilo che in rari momenti si alzava come uno stridio penetrante aveva l'eco di un ringhio soffuso.

Imuen gli si era avvicinato, interrompendo la sua analisi della situazione. Il nero scintillante della sua corazza si sostituì al grigio della pietra, impedendogli la visuale. Gli aveva spiegato di aver ben compreso la realtà dei fatti. Quelli che loro chiamavano perduti erano intrappolati esattamente li dentro. Ogni volta che li sconfiggevano non riuscivano mai a distruggerli, solo a sigillarli li un altro poco. La forma di demoni rabbiosi in cui gli dei li avevano confinati era praticamente impossibile da annientare. Il pugnale di Haldir aveva proprio quello scopo: ucciderli davvero, creando la possibilità di restituire la pace di una morte completa a tutte quelle anime tormentate.

Al prossimo cenno di Haldir la stele sarebbe crollata, liberando tutti insieme coloro che intrappolava. I cavalieri d'oro avrebbero dovuto cercare di bloccarne il maggior numero possibile mentre venivano esattamente verso di loro. Alcuni dei Dunedain avrebbero bucato la formazione con un colpo solo.

Si trattava di raggiungerne il centro dello schieramento avversario, per dare la possibilità a Kiki e Zalaia di buttarcisi in mezzo, con lo scopo di individuare il capo e piantargli quel pugnale nel petto. Era una questione di potenza e velocità: potenza perchè c'era bisogno di una quantità spropositata di cosmo per attivare il pugnale, di velocità perchè, sferrato il colpo, bisognava immediatamente fuggire. Caduto il comandante, gli altri avrebbero iniziato a fuggire alla rinfusa, come qualsiasi esercito indisciplinato privato del suo capo. A quel punto, bisognava solo fermare chi scappava e la dipartita di quegli esseri, allora, sarebbe stata definitiva. Li sarebbe stato compito di Imuen ed Haldir personalmente. A quel punto, tutti gli altri avrebbero dovuto già essersi fatti da parte, fuori da quella grotta.

Svelando i segreti del pugnale che avevano forgiato, Imuen si era concentrato soprattutto su Kiki.

"Estrai il pugnale dallo scrigno solo quando sarete al centro. Se lo facessi ora, i nostri guerrieri ne sarebbero annientati e voi vi ritrovreste da soli ad affrontare all'improvviso tutto. Non avreste scampo."

Aveva raccomandato, catturando l'attenzione generale.

"Aspetta un attimo."

Era intervenuto, a quel punto, Aphrodite.

"Appena quella stele sarà distrutta noi ci troveremo di fronte ad una moltitudine di nemici, in questa grotta scavata che, per quanto grande, non ha vie di fuga? Saremo come topi in trappola."

Il gigante in armatura nera l'aveva allora degnato di uno sguardo. Gli aveva confermato che quell'ambiente, per quanto grande, era comunque privo di aperture verso l'esterno. Loro, durante l'inizio dello scontro, sarebbero comunque stati protetti dalle barriere dei guerrieri di Haldir. Aveva accennato a Tabe e Seleina.

"Se qualcosa va storto, potrete fuggire sfruttando il teletrasporto dei vostri compagni psicocineti. La
protezione sul pugnale del mio gemello permetterà loro di usare i propri poteri. Avrete una via sicura fino al vostro Santuario."

Quell'avvertimento, per Kiki ebbe anche un suono sinistro. Ricordò che, allora, tutti loro avrebbero potuto seguirli fino ad Athene, senza problemi. Per lui e Mu, senza contare anche Cancer, capace di teletrasportarsi, poche persone in più non sarebbero stata una gran difficoltà. Però, dopo l'attimo di silenzio di Imuen, che gli aveva consigliato di non preoccuparsi per loro, ma solo per sè ed i suoi compagni, il presentimento si fece certezza. Cercò lo sguardo di Seleina, a chiedere conferma. L'amica, allora, gli aveva ricordato che i Dunedain non potevano avvicinarsi a quel pugnale in nessun modo. Loro avrebbero dovuto servirsi delle loro vie.

 

Prima che si scaldassero però gli animi, Cancer in particolare, che si stava riscoprendo padre nel momento peggiore, Imuen le poggiò la mano sulla spalla. Guardò lei, che lo fissava confusa, così simile nell'incertezza alle espressioni del suo gemello, poi di nuovo il cavaliere d'Altare.

"In realtà, un altro modo ci sarebbe."

Sfidò il ragazzo del Jamir con un ghigno.

"Se tu che sei il custode, accetti di distruggere quel pugnale, dopo che lo avrai usato, anche noi possiamo essere teletrasportati senza problemi. Dovrai però rinunciare a tutto il potere che è racchiuso in esso, la tua dea con te."

Kiki, per nulla sedotto da deliri di potenza, scrutò l'espressione dell'amica, che sembrava pendere dalle sue labbra. In quel momento, evitò accuratamente di valutare l'evenienza di porre fine più facilemente alle future guerre sacre. Gli sembrò che Seleina lo supplicasse di accettare. Disse di sì. Al sospiro di sollievo dell'amica, capì di aver compiuto la giusta scelta. Lesse chiaramente il sollievo sul viso della ragazza e fu certo di aver scelto l'opzione migliore.

 

 

A quel punto, accordati i piani di fuga, dovevano rifinire quelli di attacco.

Gettando una veloce occhiata alle condizioni del gemello, che sembrava amcora resistere, Imuen aveva ripreso.

"A sferrare il colpo capace di penetrare la formazione penseremo io, Haldir e Gona."

Aveva indicato lo spadaccino più alto e pacato.

"Dovrete sfruttare il passaggio che creeremo. Dentro vi troverete come nell'occhio di un ciclone. Li, Zalaia individuerà il tuo bersaglio. Libera il cosmo nella mano, nel modo più repentino ed energico che ti riesce, vibra il fendente con forza. Poi tirati indietro portando con te l'arma. Non lasciarla conficcata nel corpo del nemico. La rimetti nello scrigno e tornate. Noi vi riapriremo una via."

Aveva atteso che Kiki ponesse domande. Visto che non ne aveva, si rivolse agli altri.

"Voi dovete supportarci quando saremo impegnati tra il passaggio da riaprire e le barriere da mantenere alzate. In caso contrario, non riusciremo mai a fermarli tutti in quei momenti. Il vostro aiuto sarà fondamentale. Dovete falciare il maggior numero possibile dei mostri che usciranno da quella stele: prima, durante e dopo l'intervento di Kiki."

Aveva osservato i cavalieri d'oro, trovandoli pronti, attenti.

Pochi attimi dopo, al richiamo di Imuen, Seleina e Tabe iniziavano a concentrarsi.

 

 

 

 

 

 

 

Erano arretrati di pochi passi rispetto al gruppo. Seleina aveva richiamato la propria arma nella mano e Tabe impugnato una delle sue spade. Entrambi muovevano le labbra e, chiaramente, recitavano qualcosa. Tuttavia, non era possibile capire se fossero le stesse parole pronunciate in sincrono o, per ognuno di loro, una sequenza completamente diversa. Il vento, attorno a loro, si era placato all'improvviso, creando un silenzio artificiale, sospeso, che ebbe il solo effetto di inquietare leggermente. Presto, ai loro piedi, comparirono poche gocce d'acqua che si riunirono in piccole pozze. Queste crebbero di dimensione, fino ad allargare di diametro per almeno un metro. Le pozze brillarono, come se ci fossero esseri scintillanti che vi si riflettessero ed un soffio invisibile che ne increspasse in piccoli smerigli la superfice.

Tabe, col sorriso malevolo di chi vuole intimorire e stupire, aveva battuto il piede al centro della pozza. Non appena aveva allontanato la scarpa, l'acqua si era alzata in una muro liquido e trasparente, cangiante, che lo sovrastava. Aveva appuntato la mano al fianco, con le sue movenze guizzanti. Con la spada aveva indicato lo spazio circostante, intorno a sè. Aveva ringhiato, come ad impartire un ordine ad un soldato recalcitrante. Pochi attimi dopo, l'acqua spariva da davanti a lui e si muoveva, come una barriera sottile che lasciasse scorgere, confuso alla vista, ciò che c'era all'sterno di tutta l'area che loro avrebbero occupato.

Esterrefatto, Kiki aveva posato lo sguardo sull'amica. Lei non aveva ripetuto le stesse movenze dello spadaccino ma l'effetto si stava dimostrando simile. La prima colonna d'acqua che aveva richiamato lei aveva però una forma allungata e dai contorni vagamente umani. Era rimasta pochi sencondi davanti a lei, come in ascolto dei suoi comandi, prima di staccare dal resto del corpo un braccio e porgere ciò che sembrava una mano. A quel punto, l'espressione tranquilla di Seleina era cambiata, mostrandosi arrabbiata e decisa. Aveva schioccato le dita guantate nella sua arma ed il rumore del metallo aveva avuto l'eco di una minaccia per l'essere incorporeo che aveva davanti. Silenziosa, pure lei aveva impartito un comando spalancando il braccio ad abbracciare lo spazio circostante. La barriera già esistente era diventata più solida.

 

 

Fu in quel momento che Kiki la ricordò piccola, quando si ostinava a seguirlo dappertutto quando Cristal la portava con sè al Grande Tempio.

Seleina trotterellava fin quasi a correre per mantenere la sua andatura, che pure se camminava lentamente era molto più alto di lei e due delle sue falcate erano troppi dei passi di lei. La sua testa era rivolta solo agli allenamenti per diventare sempre più forte, quella di Seleina persa tra fate e folletti, esseri nati nella natura ma che dimoravano solo nella sua mente di bambina. Lei glieli raccontava e li apprendeva chissà dove o, forse, li immaginava solamente.

All'epoca, non ci aveva fatto caso. Pensava parlasse degli spiriti della natura. Qualche cavaliere di Asgard ci comunicava, se ne serviva in battaglia. Qualcosa doveva averle risposto.

Allora, lei, aveva saltellato battendo le mani. Gli aveva spiegato che no, non c'entrava niente. Lei vedeva altre fate ed altri folletti, non quelli degli uomini: quelli che il gigante bianco poteva domare. Perchè tra la famiglia della sua mamma ed il gigante bianco c'era un patto antico che non si poteva svelare fuori da Asgard, che il gigante bianco era stato costretto a concedere ad alcuni di loro un dono: di poter vedere ciò che lui vedeva.

Quella volta, Kiki s'era bloccato. L'aveva guardata, inquieto, per la prima volta sfiorato dal dubbio che quelle di Seleina non fossero solo fantasie di bambina. Lei, piccola, aveva capito. Si era portata le mani a tappare la bocca, spalancando gli occhi azzurri, come se così avesse potuto tornare indietro e rimangiarsi le parole appena pronunciate. Perchè il gigante bianco l'avrebbe sgridata, se avesse saputo che aveva parlato. Allora, rivolta a lui, che ancora la fissava stupito, aveva portato l'indice davanti al naso e alla bocca, facendo cenno di dover mantenere un segreto: il primo ed unico che gli avrebbe mai svelato. Lui, un po' per celia un po' perchè sapeva che la piccola era bizzarra e diversi la prendevano in giro per la caratteristica, le aveva regalato uno dei suoi rari sorrisi di allora. Aveva detto sì, sicuro che s'era sbagliato, era uno scherzo o solo fantasie. Poi l'aveva presa in braccio per tornare alla prima, altrimenti ci si sarebbero rimasti tutto il giorno, su quelle scale.

 

 

Guardò ancora Seleina. Finalmente poteva vedere anche lui le fantasie di quando era piccola, che avevano preso forma ore prima in poche gocce d'acqua sugli scalini della prima casa e consistenza, in quel momento, davanti a lui.

Si diede ancora dello sciocco perchè lui, tra tutti, era forse il solo a sapere qualcosa di più e se ne era completamente dimenticato.

"Perchè queste cose divertenti non le mostrate mai al campo, voi tre?"

Aveva a quel punto chiesto Zalaia allo spadaccino più alto, che li guidava, separandosi per un momento dal gruppo dei cavalieri.

"E' pericoloso per quelli che non si difendono: le anime dell'acqua e dell'aria sono infide. Possono sfuggire al controllo dei domatori."

Kiki, che non aveva staccato per un attimo gli occhi dall'amica, finalmente conscio di quanto il cambiamento, in lei, fosse stato grande, chiese a quel figlio di Haldir se fosse per quello che Seleina e Tabe brandissero le armi: per difendersi. Alla conferma, iniziò a rendersi conto del pericolo che lei corresse.

"E che succede ai vostri domatori se quelle anime sfuggono al loro controllo?"

Il capobranco l'aveva esaminato con attenzione.

"Gli umani come te normalmente non possono neanche vedere queste anime dell'acqua e dell'aria, che sono diverse da quelle che voi chiamate spiriti della natura. Ci riuscite, ora, solo perchè siete qui e noi vogliamo che ne siate coscienti. Quindi non hai bisogno di sapere cosa accade ai miei simili, se falliscono."

Le spiegazioni non gli erano piaciute per niente. Ripensò a poche ore prima, quando l'amica aveva accennato qualcosa sul fatto che ad Haldir non piacesse qualcosa delle sue tecniche. Il sospetto che fosse in pericolo usandole lo mise in guardia. Si girò verso Zalaia: l'unico che, forse, tenesse davvero a lei, tanto da aiutarla in caso di bisogno e si sarebbe allontanato con lui. Cercò allora il supporto del fratello, raccomandandogli telepaticamente di cercare di darle una mano, se ce ne fosse stato bisogno. Vide Mu accennare leggermente un sì, che poteva stare tranquillo, anche se era certo che chiunque dei suoi compagni sarebbe stato utile in quel ruolo.

 

 

 

Ormai la barriera composta da quelle mura d'acqua era solida. Imuen richiamò l'attenzione di tutti. Avvertì che Haldir stava per lasciare la presa sui sigilli. Iniziò ad espandere la sua aura. La luce, nera, potente, lo avvolse. Il mantello alle sue spalle si torceva in repentine volute, simile ad una preda vittima di un veleno mortifero che ne bruciasse le carni dall'interno. Raccomandò a tutti di tenersi pronti, impugnando saldo la falce e gridando verso il fratello, la sua voce quella di una belva. Il cosmo dei custodi dorati aveva brillato all'improvviso, come un piccolo sole, in quell'antro oscuro. Haldir puntò lo sguardo verso di loro. Chiuse la mano. Gridò lo stesso urlo di guerra, rispondendo al richiamo del suo gemello. Aveva impugnato le sue armi. Mentre la terra iniziava a tremare e schegge di roccia a staccarsi dall'alto, con un unico balzo, dando le spalle alla stele, raggiunse i suoi. Beffardo, fu lui a servirsi della telepatia, verso il cavaliere che aveva scelto di eleggere a suo aiutante.

"Io non lascio nessuno dei miei figli a morire, Seleina compresa."

La sua voce, come già altre volte, risuonò nella testa di Kiki, mentre si portava al suo fianco e, in quella concentrazione di pura luce, la stele alle loro spalle si sgretolava in un'esplosione di schegge, simili a stelle cadenti nere su un cielo così bianco da accecare. I gemelli, più massicci tra i presenti, si erano portati davanti a tutti. Quando la polvere iniziò a chetarsi, l'oscurità del crepaccio fu rischiarata da una moltitudine di fiammelle. I contorni, via via più definiti, tracciavano figure umane a tratti evanescenti, a tratti corporee. Ogni viso nemico si alzò, all'instante, verso di loro.

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Capitolo 36
*** Lo scontro – Parte 1 ***


Note: il pezzo in corsivo in mezzo è un flash-back. Non so se stona in mezzo ad una scena di battaglia... Ci ho provato comunque.Non so poi se come scena di guerra sia almeno lontanamente passabile. Avverto fin d'ora che, se i casini saranno troppo grossi, il capitolo potrebbe anche essere rivisto in seguito. Per chi legge: abbiate pietà.

 

Erano stati sbilanciati dal tremore del terreno che franava sotto ai loro piedi. Il boato della stele che si sgretolava vibrava nello stomaco e nelle tempie. Le schegge che si erano staccate durante l'esplosione li avrebbero scarnificati vivi, come un vortice di aghi e lame, se la barriera non fosse stata innalzata a dovere. Seleina e Tabe avevano aumentato il controllo su quelle creature, che loro chiamavano anime dell'acqua, e non cra stato possibile ad uno solo di quei frammenti carichi di malvagità passarci in mezzo. Venivano arrestati nella loro corsa, dispersi nel liquido, congelati. Allora, ricadevano come piccoli pezzi di ghiaccio inerti attorno ad ognuno di loro.

 

Haldir aveva attraversato il turbinare della pietra con un balzo, come un lampo che saetta nel temporale notturno. Il liquido trasparente che circondava tutti si aprì permettendogli di atterrare vicino al gemello e si richiuse appena dopo il suo passaggio. Si era alzato lentamente, da chino che era sceso. Le gocce disegnavano il profilo della sua corazza e si incanalavano nelle incisioni runiche lungo i bordi, celate dalla fioca luce azzurra che queste emettevano.

Aveva iniziato immediatamente ad accumulare gran parte del potere nelle mani e, da li, a farlo fluire nelle lame che impugnava. Le sue spade brillavano. Dalle aure congiunte dei gemelli e del seguace di Haldir scaturì allora un colpo prodigioso, che rischiarò per lunghi secondi l'ambiente circostante, rivelando la pietra bianca e scintillante di cui erano composte molte delle stalattiti ormai rovinate. Un attimo solamente, prima che Zalaia accennasse all'Altare di seguirlo e si tuffassero nella scia di quel fulmine. Appena la luce si disperse, anche loro sembravano spariti con essa.

 

Tra i cavalieri d'Oro, Aphrodite stringeva tra le dita una rosa bianca. Spostò lo sguardo alla moltitudine di avversari che prendeva forma davanti ai suoi occhi. Si chiedeva di che colore sarebbero diventati i petali del suo fiore, appena l'avrebbe infilzato nel petto di uno di quegli esseri. Strizzò le palpebre, riabituandosi a vedere in quella penombra, mentre la polvere si placava e le ultime schegge rotolavano più lente, col rumore della pietra che batte sopra altra pietra.

Le fiammelle semoventi che fluttuavano nell'indistinto iniziavano a tremolare in visi deformi, in parte decomposti, che ringhiavano e ed erano calamitati verso di loro, come la spuma che costeggia l'avanzare dell'onda fino a che muore sulla battigia. Dall'alto, le orbite vacue dei demoni che li studiavano sembravano formare nastri laceri che nascevano dalla base della stele distrutta per infrangersi all'origine dello spuntone che ospitava gli alleati e li separava dagli oppositori, come il mare quando sbatte su una scogliera a picco e non può raggiungere la riva. Poi, il moto apparentemente scoordinato dei piccoli gruppi di quella moltitudine aveva iniziato a prendere ordine, per tornare ad essere uno. Era stato un grido sibilante, crescente in intensità, che aveva atterrito ognuno di loro, anche il più sprezzante. Era l'urlo di guerra dei Dunedain perduti ormai svegli. Lo scrosciare dell'acqua risuonò come un boato. La barriera che li aveva protetti durante l'esplosione cadeva, lasciandoli apparentemente inermi. Imuen roteò su se stesso brandendo la falce. Il sangue marcio di cinque avversari gli colorò fronte e gote, mentre il mantello finiva la giravolta. Aveva aperto le danze.

 

 

In mezzo a quel pandemonio di metallo che cozzava e grida di guerra, Seleina aveva indietreggiato istintivamente di un passo, provando l'impulso di tapparsi gli orecchi e fuggire via.

Appena l'aveva vista atterrita, Mu aveva realizzato che non era pronta. Non ci aveva nemmeno pensato, prima di correre in suo aiuto. Aveva evitato che le nuocessero facilmente. Appena aveva scansato l'arma diretta alla testa di lei, si era reso conto che era cambiato qualcosa nella ragazza. In qualche modo, era come se le avesse donato il coraggio di cui avesse avuto bisogno.

Il clangore della lama disarcionata al volo dalla sua mano aveva fatto scattare qualcosa in lei. L'odore del suo sangue l'aveva trasportata in uno stato di trance. Lei aveva inspirato. Un attimo dopo la sua spada saettava nella mischia. Come quelle di Tabe, ne aveva atterrati quattro. Coperta di sangue come chiunque altro, bianca e rossa come la spada. In pochi attimi, non c'era più differenza tra la ragazzina ed un altro guerriero.

 

 

 

Trovandosi accerchiato da troppe di quelle figure, Death Mask impiegò meno di un secondo a lanciare la sua tecnica migliore e spedirle lontano da sè, in un posto da cui non sarebbero potute tornare facilmente. Compiaciuto, aveva teso le labbra nel suo sorriso migliore, prima che gli ricomparissero davanti dopo pochi minuti. Iniziando a rendersi conto della reale necessità della loro presenza in quella situazione, si apprestava a ripetere la stessa operazione di poco prima, quando fu costretto a scartare di lato: Tabe aveva rischiato di essere risucchiato verso la costellazione di Presepe, nel suo precedente intervento, vista breve distanza a cui si trovavano ad agire. Lo spadaccino, stizzoso, aveva estratto dal suolo le spade a cui era stato costretto a trattenersi come appiglio di fortuna. Gli aveva sibilato di stare più attento a dove direzionava i suoi colpi, se non voleva finire sotto la traiettoria dei suoi. Era una delle tante questioni che dovevano affrontare: dosare la potenza per essere efficaci senza nuocere i vicini. Era un modo diverso dallo duello in campo aperto. Sbuffando, il cavaliere del Cancro diede le spalle a tutti i suoi compagni, umani e non. Lanciò nuovamente gli Strati di Spirito alla maggiore potenza che riusciva. Per un po', davanti a lui si creò il vuoto. Si guardò attorno. Tutti i cavalieri d'Oro erano impegnati in modo simile a lui: a cercare di annientare quelle cose che puntavano ad ucciderli e rivivevano in fretta, senza nuocere a chi era prossimo. Si chiese quanto avrebbero potuto resistere a quel modo. L'Altare e suo figlio avrebbero dovuto fare in fretta. Quelli che comunque ne abbattevano di più e con minor fatica erano i domatori gemelli, che sembravano distruggerne una gran quantità ad ogni minimo movimento. Il gigante bianco, in particolare, si muoveva il meno possibile ma, quando lo faceva, era per infliggere il maggior danno. Era come se potesse scatenare gli elementi con un gesto. Al suo comando, infatti, acqua ed aria rispondevano impetuose, come vortici che si liberassero dal palmo delle sue dita e morissero nel vuoto, portandosi dietro decine di oppositori. Nessuno riusciva ad avvicinarsi a lui, soprattutto quando univa l'azione di quei turbini al taglio delle sue spade. Doveva trattarsi di un potere simile a quello che i suoi seguaci avevano usato per erigere la barriera. Semplicemente, lui se ne serviva anche per attaccare.

 

Troppo impegnato con tre decisamente più veloci degli altri e non avevano sentito il dolore causato dal primo scarlett needle ma si erano arrestati solo dopo averne ricevute almeno cinque a testa, Milo di Scorpio teneva il conto di quanti ne avesse abbattuti fino a quel momento: era a quota trenta. Peccato si rialzassero quasi subito. Con Camus si erano già aiutati a vicenda un paio di volte, abbattendo i rispettivi avversari perchè in posizioni più favorevoli. Tra cavalieri d'oro avevano iniziato a disporsi ognuno alle spalle dell'altro, a formare quasi un cerchio, non troppo vicini da infastidirsi a vicenda, ne troppo lontani da permettere ai nemici di infilarcisi dentro e coglierli alla sprovvista. Soprattutto, gli spadaccini di Haldir, velocissimi ma dotati di colpi meno efficaci, si intrufolavano in mezzo a loro, calcolando l'attimo esatto in cui scattare o attaccare sulla corta distanza. Camus gli sembrava attento al loro stile, per quanto gli fosse concesso in un frangente del genere.

 

 

Per Camus, maestro delle energie fredde, le tecniche della figlia di Cristal erano assurde. Perchè con la spada era agilissima ma era una continuo rigirarsi, una sequenza forsennata di salti acrobatici e passi di danza che avrebbe dovuto condurre al capogiro un ballerino piuttosto che ad atterrare un avversario. Non c'era niente dell'arte nitida e precisa di Capricorn con Excalibur.

Nei momenti invece in cui avrebbe dovuto correre, la ragazza rimaneva immobile, scartando all'ultimo istante prima di prendere in pieno il colpo dell'avversario. Camus non riusciva a credere che riuscisse comunque a salvarsi ogni volta ed aver avuto la meglio parecchi nemici. Si chiedeva se fosse qualcosa di studiato per essere imprevedibili o semplicemente fortuna. Quando la giovane si trovò davanti uno più alto di lei di almeno un metro e la vide letteralmente usare il ginocchio piegato di quello come appiglio per saltare e conficcargli la spada nella giugulare con una capriola al volo, si rassegnò al fatto che non fosse caso. Il corpo mezzo congelato del nemico era caduto in pezzi prima di sparire e poi rianimarsi.

Le si era avvicinato, a chiederle da chi mai avesse imparato a battersi in quel modo. La ragazza sembrava non aver colto il senso di leggero scherno e preoccupazione celato dalla sua domanda od ignorarlo apertamente, come un avvenimento di scarsa importanza. Aveva indicato l'altro spadaccino magro. Camus vide quell'individuo rimanere fermo davanti ad uno che gli ruggiva addosso. Sbadigliare, girarsi e, con un ghigno malevolo, far scattare indietro una spada, a conficcarglierla nello stomaco, atterrandolo all'istante. Perchè oltre che matto e veloce, all'occorrenza Tabe era pure vigoroso. In quel momento, come maestro, aveva preso una decisione: se mai fosse uscito vivo da quella situazione e Seleina con lui, avrebbe intimato a Cristal di insegnarle o insegnargli lui stesso, nel modo più tradizionale, da cavaliere del Grande Tempio.

Aveva lanciato un'altra polvere di diamanti, andando a segno. Aveva perso di vista gli spadaccini, di nuovo.

 

 

Dopo aver fatto saltare parecchie teste, Imuen aveva sbuffato osservando Tabe, che saltava a destra e a manca come un grillo ed usava la sua agilità per sferrare fendenti apparentemente a caso. Ormai, quello era circondato da quasi una decina di quelle creature. Chiese ad Haldir, esasperato, cosa accidenti aspettasse a terminare l'opera. Addirittura, aveva cercato un cenno di rimprovero verso quell'allievo indisciplinato nello sguardo assorto del fratello.

"Cosa diamine sta aspettando quel cretino?"

Gli aveva infatti rinfacciato, ringhiandogli a due passi dal viso. Per tutta risposta, Haldir lo aveva scansato, con la sua solita espressione evasiva. Gli aveva risposto che Tabe cercava il momento adatto, gli piaceva giocare.

Un istante dopo, con un solo giro completo e lo sferragliare delle spade, l'oggetto del litigio aveva trucidato tutti quelli che gli erano attorno. Ad un paio alle spalle, però, aveva riservato un trattamento diverso, recidendo arterie che schizzarono copiose dietro di lui. Erano seguite le rimostranze di qualcuno. Il cavaliere dei Pesci non aveva gradito di essere stato colto da una doccia inattesa, i capelli lordi del plasma marcio dei perduti. Aphrodite era scattato inviperito verso lo spadaccino, brandendo la rosa rossa in mano. Alla sua collera, Tabe aveva risposto con un inchino, prima di gettarsi di nuovo nella mischia, ridendo. Perchè i più onorevoli bramavano una morte gloriosa. Lui, però, non aveva mai temuto la nera signora: le sarebbe andato incontro beffandola, sprezzante.

Gli unici che sembravano non curarsi troppo di quelle stranezze, restavano l'Ariete, la Vergine ed il Toro, troppo ponderati i primi due, serio il secondo. Tra lo sfavillare del loro cosmo, non c'era spazio per una sola traccia di oscurità.

 

 

 

 

Zalaia era rimasto sorpreso che fosse stata lei a ricercare un contatto, dopo che era stato allontanato ogni volta che aveva cercato di avvicinarsi un po' di più. Con quella ragazza, lui ci capiva sempre poco.

"Ma tu ricambi davvero i miei sentimenti o no?"

Seleina si era girata verso di lui, senza allontanarsi. Sembrava contrariata a quella domanda.

"Sai che hai una bella faccia di bronzo, a chiederlo, dopo che ti sei comportato in quella maniera odiosa, l'altra sera?"

Confuso, che i conti non gli tornavano, l'aveva obbligata a spiegarsi. L'aveva vista arrossire,

"Prima mi inviti a ballare davanti due cari amici, facendomi fare una figura barbina con loro. Lo sai che a differenza tua mi vergogno..."

Poi, il tono di voce era cambiato, risentito, più deciso.

"Mi fai credere di essere importante per te. Invece passi metà della serata a fare il cretino con le tue... ammiratrici."

Seleina aveva cercato qualche secondo il termine più adatto con cui etichettare le sue ex. Di sicuro, se non le avessero insegnato ad essere educata, avrebbe usato altri termini.

"Te la sei presa per così poco? Allora eri davvero gelosa!"

La ragazza aveva appuntato le mani ai fianchi. Se l'era presa eccome.

"Io non sono l'ultima della tua collezione di conquiste. Se pensi di divertirti con me come fai con loro, cercatene un'altra."

Se ne stava andando e Zalaia l'aveva trattenuta per il polso, prima che scappasse ancora. Sapeva di aver esagerato un po', quella sera, ma non aveva resistito a stuzzicarla. Seleina non lo aveva mai considerato in quel modo, prima di allora. Aveva avuto bisogno di sentirsi importante per lei, anche se, probabilmente, aveva scelto il modo meno adatto.

"E' che... per te sono sempre stato invisibile. Avevo bisogno di sapere che anche ai tuoi occhi valgo qualcosa. E' stato bello vedere che tenevi a me."

Poi, le aveva chiesto perchè non avesse usato le sue facoltà per leggere in lui, se non si fidava, invece di prenderlo a schiaffi per un bacio rubato. Seleina aveva obiettato che aveva bisogno di fidarsi di una persona indipendentemente dalle sue facoltà. Era stressante essere sempre sul chi vive. Specie se doveva scegliere qualcuno da poter tenere al proprio fianco. Poi, sembrava essersi calmata. Lui aveva sorriso, sornione, certo di aver scalfito un po' la corazza di lei. L'aveva guardata di nuovo, trovandola ancora inquieta.

"Allora, per farmi perdonare, ti prometto che d'ora in poi mi comporterò da bravo ragazzo e proteggerò al meglio delle mie possibilità quel lemuriano a cui tieni così tanto."

Seleina, inteso il tono, l'aveva ricambiato divertita. Sapeva che lui e Kiki erano entrambi guerrieri potenti e valorosi.

"Promettimi invece che tornerai. Quando questa storia sarà finita, mi inviterai ancora a danzare con te. Ma se farai ancora lo stupido con le altre, con me avrai chiuso ancora prima di iniziare."

 

 

Benchè a certe stupidaggini non avrebbe dovuto pensare, Zalaia aveva dato davvero la sua parola. Ci teneva a riscattarsi ed avrebbe fatto del suo meglio per riuscire. Anche se, a conti fatti, il suo non era stato poi chissà quale misfatto. Non aveva avuto bisogno di indicare al suo alleato qualc che fosse il momento migliore per saltare, quando Haldir ed Imuen avevano aperto loro una via. Col lemuriano, avevano seguito la traiettoria di quel raggio poderoso in sincronia perfetta. Avevano descritto una parabola perfetta sopra le teste dei loro nemici. Poi, poco prima di atterrare al centro della formazione nemica, aveva lanciato la falce davanti a sè, sprigionando una sfera di energia. Quelli che si trovavano immediatamente sotto erano stati letteralmente polverizzati in un istante. Furono accerchiati immediatamente. Ingaggiarono battaglia contro quelli che gli si lanciarono addosso. Zalaia aveva iniziato subito a guardarsi intorno, intento a cercare quello tirava le fila ed avrebbero dovuto abbattere. Quell'analisi però gli sottraeva concentrazione per combattere e gli avversari erano più agguerriti rispetto a quelli che fronteggiavano il resto del gruppo, fuori. Aveva saettato lo sguardo in ogni direzione. Nessuno degli oppositori gli sfuggiva ma era come se non ci fosse. L'Altare, invece di mettergli fretta, gli copriva le spalle al meglio delle sue possibilità. Lo ringraziò a denti stretti, rendendosi finalmente conto che stavano nascondendo la loro vittima. L'aria, già rarefatta, stava diventando irrespirabile. Anche Kiki, ad un certo punto, si era passato la mano sugli occhi. Perchè avevano ricordato tardi che erano stati figli di Haldir e parte del loro potere si manifestava grazie agli occhi.

Zalaia riuscì a lanciare la falce tagliando letteralmente a metà la faccia odiosa di quello che lo fissava più da vicino e stava iniziando a controllarlo. Imuen lo aveva avvisato: li si sarebbero misurati con avversari più subdoli. Avvertì il compagno d'armi di stare all'erta, mentre vedeva armi simili a spade iniziare a sfavillare in mezzo alla nebbia, ghermite dalle dita di quelle cose. Avevano fatto male i conti. Non sarebbe stato così facile stanare quello che cercavano.

 

Notando la difficoltà di Zalaia, Kiki gli si era fatto più prossimo. Sapeva di dover sprecare la minore quantità di energia possibile prima di usare il pugnale di Haldir ma, certo, non poteva lasciare scoperto un suo pari. Appena si era alzata la nebbia, aveva ripensato alla loro visita al campo Dunedain. Perchè gli allievi di Haldir, in mezzo al caos che avevano creato, quella volta, gli avevano in parte anche mostrato una via. Erano illusioni, potenti, ma restavano in prima battuta quello. Kanon, quella volta, era riuscito ad avere la meglio colpendo Seleina, che in quel momento era l'elemento più vulnerabile del branco avversario. Tentando, Kiki cercò di capire dove fosse l'anello debole della catena che iniziava a stringerli. Non era semplice, tra il ghiaccio che tagliava ed il vento che, se abbassavi la guardia, ti spingeva indietro. Poi, il lemuriano si accorse che c'era qualcuno disperso nella nebbia, che lo scrutava più subdolo in mezzo ad altri. Se non era quello meno pericoloso, certo era meno temibile. Lanciò lo Stardust Revolution in quel punto esatto. Per un momento, l'aria si era fatta più respirabile. Veloce a proteggere se stesso e l'allievo di Imuen sotto la Tela di Cristallo, chiese al ragazzo come stesse. Senza dubbio, gli era sembrato più arrabbiato che malconcio. Zalaia, infatti, si era alzato, attento a non sporgersi oltre il raggio d'azione della sua tela.

"Quei bastardi ci confondono. Ci sono caduto in mezzo come un fesso. Non sarà immediato stanare quello giusto."

Presto, sentirono il ghiaccio salire sotto ai piedi e cercare di bloccare le gambe. Zalaia, allora, aveva conficcato la falce nel terreno, spaccandolo in più punti. Era vero che era caduto nella loro azione ma non si sarebbe mai piegato senza combattere. Doveva tornare e proteggere anche quell'altro: l'aveva promesso.

 

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Capitolo 37
*** Lo scontro – Parte 2 ***


Note: Premetto che non ho la minima idea del fatto se la battaglia faccia schifo o meno. Credo comunque di aver capito di non essere portata per le long, soprattutto se hanno troppi personaggi. Come al solito, pietà, consigli… poi, quel che vi pare. Siamo agli sgoccioli, stavolta davvero.
Punti che credo saranno forse oscuri: anime dell’acqua. Trovate la nota e fine capitolo. Se volete saperlo prima, scorrete subito sotto, altrimenti lo leggete dentro il capitolo. Ciao


Kiki aveva cercato di divincolarsi dal ghiaccio che saliva dal piede alla gamba con uno scatto del busto, inutilmente. La falce conficcata nel terreno dal suo accompagnatore liberò entrambi. Scartò di lato ed aguzzò lo sguardo verso gli esseri che li circondavano. Anche qui l’aria era tesa e si respirava a fatica. La vista era messa a dura prova dall’ambiente opaco ed una nebbia satura appesantiva i polmoni. I loro nemici apparivano simili a fantasmi dai passi silenziosi che sollevavano rade e nebulose tracce di pulviscolo. Erano simili eppure diversi a quelli con cui si stavano misurando gli altri, fuori. Apparivano più tangibili e fermi, determinati: dentro gli bruciava una scintilla ferina.

In mezzo a loro, il viso malinconico di una ragazza prossima alla maturità attirava come la luce fa con la falena. Pochi anni meno di lui o più di Seleina. Magnifica, protendeva la mano verso di loro, in una tacita richiesta di aiuto. Istintivamente, il cavaliere aveva serrato il pugno. Il piede sollevato sulla punta, pronto per muovere un passo verso di lei. Conscio poi della superficialità del gesto che stava per compiere, si era bloccato, mentre lei aveva piegato la schiena all'indietro con un'angolazione talmente eccezionale che avrebbe dovuto spezzarsi in due. Si udì solo il rumore di ossa che scricchiolano ed urla soffocate. Rialzata, repentina, aveva mostrato lo stesso odio rabbioso degli altri, contro di loro ed i suoi pari o, forse, semplicemente se stessa, il viso deformato in una maschera demoniaca: avida, preda di una fame insaziabile, che logorava e non concedeva requie. Kiki aveva negato appena, a quella scena, conscio che ciò che aveva scambiato per una futile illusione per irretirlo fosse davvero una innocente che aveva implorato aiuto.

“Perché la torturano?”

Zalaia si era portato alla sua destra. Sul viso l’espressione più dura che gli avesse mai visto.

“Sono esseri che esistono per soffrire e far soffrire. Se davvero hai pietà, puoi solo portare a termine la missione assegnata. Nient’altro.”

Il figlio di Cancer era intento a ben altre analisi che, a certe scene, era già abituato. Si sforzò per arrivare con lo sguardo nel punto esatto dove avvertiva la maggior concentrazione di energia negativa. Stava per alzare la falce per indicare la direzione quando i mantelli sporchi dei nemici si separarono in due metà per aprire un varco la cui fine si perdeva nel buio.

Dalle tenebre era emerso qualcuno: più altero, più folle, accompagnato da due che gli camminavano dietro di pochi passi, affiancati. Un refolo d’aria gli aveva sfilato il cappuccio, mostrandone il volto decomposto sulla guancia, la pelle rovinata come sottile carta bruciata dai bordi frastagliati. Sotto appariva chiaro l’osso della mandibola e parte delle zanne. L’altra metà del viso, intatta, tradiva invece la sua passata bellezza. Pur se decomposto, lui era la testimonianza della vita che non si arrende alla morte. La sua voce, distorta, aveva l’eco di punte acuminate che graffiano la roccia.

“Ecco i cuccioli da compagnia di Haldir: un mezzosangue che puzza di latte ed un umano che non capisce neppure perché va a morire.”

Colui che aveva parlato li aveva squadrati dall’alto in basso.

“Voi non avete capito nulla della nostra natura e condanna. Non riuscirete mai a servirvi di quell’arma.”

Aveva allungato il dito verso il pettorale dell’armatura del lemuriano, nel punto esatto dove era custodito lo scrigno.

“Sono io quello che cercate. Cosa aspettate ad estrarre il pugnale?”

Prima di essere centrato dalla falce, fu però costretto ad arretrare di un passo. L’effetto della telecinesi fece aderire il mantello rivelando le fattezze del corpo massiccio ma non lo spostò di un millimetro. Invece, i sottoposti erano stati ricacciati nel gruppo. Dal confabulare dei due sprovveduti che aveva davanti fu chiaro che l’avevano identificato per colui che comandava davvero quell’esercito. Se il primo doveva colpirlo, il secondo doveva tenere occupato il resto dell’esercito. Strategia semplice, sciocca, ovvia. Al cenno del suo capo si scatenarono le creature dell’aria in turbinare di vento e cristalli. Non si aspettava che il lemuriano ci passasse attraverso con quella facilità. Lo vide saettare come un fulmine, troppo vicino per allontanarsi e tentare la fuga. La lama arrivò diretta a conficcarsi nella sua carne, spegnendo del tutto il battito irregolare del suo cuore quasi morto. Il nome di Haldir sfuggì dalle sue labbra, riconoscendo, finalmente, la pace che il suo signore sapeva donare e da secoli gli era preclusa. Ormai, poteva diventare cenere. Dal sollievo, si spense in un pianto liberatorio, disperdendosi nel gorgo del vento che ancora ululava come polvere d’argento, liberato. Davvero, quei due non avevano capito minimamente come servirsi di quel pugnale.


 

Ipnotizzato dall’eco del proprio battito cardiaco che galoppava per l’adrenalina in circolo e dal rumore del suo respiro, Kiki si era girato trionfante verso Zalaia, che continuava a spedire nell’aldilà parte della moltitudine che provava a catturarlo, inutilmente. Non era stato neppure troppo difficile. Presto, però, la figura del compagno d’armi si confuse nel bianco fino a sparire, la sua voce sovrastata dal turbinare del ghiaccio che iniziava a ghermirli di nuovo, stavolta senza possibilità di scampo, indebolendo persino la mente. Era stato abbattuto quello sbagliato.


 

Conscio che erano finiti entrambi sotto l’effetto della magia dei perduti, separato dall’Altare, Zalaia imprecò impugnando stizzito la falce. Chiamò per voce il cavaliere ma, esattamente come si aspettava, la cosa si rivelò del tutto inutile. Prese a guardarsi intorno. Vicino a lui, ovunque si girasse, solo nebbia ed altri nemici che si apprestavano. Poco abituato alla forma umana, si rese conto della spada diretta alla testa quando era già tardi. Scartò di lato e gli centrarono la spalla. Il sangue colò lungo il metallo che copriva il braccio fino a terra. Non indugiò neppure per un attimo all’ipotesi di mollare la sua arma per tamponare la ferita. Non era per lui dichiarare la resa solo per il dolore. Ghignò beffardo, scoprendosi circondato da un numero maggiore di nemici di quello che si aspettava. Anche se era più debole in quella forma, non aveva bisogno di due braccia per aprire di nuovo il passaggio per l’altro mondo.

****************

Distruggendo con rapidi movimenti chiunque fra i nemici osasse disturbare il suo passaggio, Haldir aveva raggiunto il pinnacolo più proteso di fronte a cui si apriva il burrone. Aveva richiamato le anime dell’aria e quelle dell’acqua, perché rivelassero, attraverso le loro sorelle costrette dai suoi figli perduti, cosa stava accadendo ai giovani che si attardavano. Aveva spalancato impercettibilmente gli occhi ed abbassato la spada di pochi millimetri. Non aveva potuto nascondere al gemello che il giovane lemuriano ed il suo allievo prediletto fossero in difficoltà. Imuen aveva ringhiato, furioso al pensiero, mentre lui chinava il capo. Gli aveva rinfacciato di mandargli uno dei suoi, che li sostenesse o, almeno, allentasse un po’ la morsa dei perduti, perché quei ragazzi potessero riaversi e reagire. Haldir aveva annuito. L’unica che poteva mandare era quell’ultima figlia riuscita per metà, che mai avrebbe voluto mettere in pericolo. Poiché era in parte umana, era la sola a resistere alla vicinanza del pugnale. Probabilmente, anche la sola a poter convincere quel guerriero ateniese a fidarsi. Non ebbe neanche bisogno di impartirle l’ordine.


 

Appena aveva visto Seleina smettere di danzare con le sue armi sguainate, Mu aveva subito intuito che qualcosa non andava. I suoi capelli non saettavano più scossi dal vento e l’acqua non la occultava coi suoi gorghi scintillanti. La bloccò per il polso quando gli passò al fianco. In mezzo all’inferno che gli si scatenava attorno, le chiese cosa stesse succedendo. Dovette insistere un attimo di più, rispondere a degli attacchi che li disturbavano, prima che lei gli spiegasse, affranta, che Zalaia e Kiki avevano problemi: per quel motivo Haldir la chiamava. Invece di lasciarla andare, istintivamente, Mu rinforzò la presa, diviso tra l’impotenza per non poter far nulla e rischiare di perdere sia lei sia suo fratello. Avrebbe voluto dire tante cose ma il tempo e l’occasione non erano propizi. Strizzò un momento gli occhi, volgendoli altrove. Seleina, pur senza armatura, era parte di una casta guerriera ed un superiore aveva dato ordini. Riuscì nello sforzo immane di scostare le dita, rendendole la libertà di cui aveva bisogno, anche se poteva essere l’ultimo istante che gli sarebbe stato concesso, con lei. Non poté impedirsi una carezza fugace sulla sua guancia, tergendo la pelle da quel sangue sporco che, per lui, stonava irrimediabilmente su un viso che sapeva anche sorridere con tanta dolcezza.
“Torna.”
Le disse solo, certo che lei, sicuramente, avesse colto il senso profondo del suo messaggio. Glielo lesse negli occhi chiari che si erano attardati nei suoi mentre lei si abbandonava a quell’unico gesto gentile, cullata dal tepore della sua mano. Seleina aveva annuito e l’aveva fissato intensamente, prima di proseguire. Era certo che, anche per lei, non era stato facile lasciarlo andare.


Haldir, però, vedeva lontano. Una volta in più non avrebbe voluto vedere. Veniva costretto a sciogliere un legame non nato e strappare probabilmente un’altra figlia a qualcuno. Seleina si era inginocchiata, come a tranquillizzarlo, che aveva scelto spontaneamente di seguirlo. Sull’inutilità di certi rimorsi erano d’accordo. Invece, aveva atteso il suo comando. Il gigante bianco la osservò gettarsi di sotto con una rapida rincorsa, il suo corpo sparire in un barluginare di gocce d'acqua molto prima di perdersi nell'abisso.

****************

Liquefarsi con le creature dell’acqua e viaggiare per le loro vie significava perdere la consistenza del proprio corpo, della propria coscienza, di se stessi: era passare da uno stato di aggregazione ad un altro; osservare uno per uno i volti di creature che i Dunedain chiamavano semplicemente anime ma in realtà erano esseri viventi, incorporei o meglio, non dotati di sembianze nel senso più comune del termine. Erano acqua, nella loro linfa vitale trasparente, erano acqua nella pelle che avvolgeva tendini, muscoli e ossa. Erano gorgo nella loro furia, ghiaccio nella rabbia feroce. Non erano troppo diverse dai fantasmi a cui Zalaia concedeva una forma fisica. I domatori di Haldir se ne servivano pure per erigere barriere o attaccare. Dominarle non era semplice perché avevano menti a volte perverse, superstiziose e testarde ma erano anche fonte di grande potere e, sulla vasta terra, pochi erano i posti che non si potevano raggiungere, grazie a loro. Significava però essere sempre all’erta, pronti ad essere rivoltati nei propri intimi pensieri, perché l’acqua raggiunge ogni punto e non può essere facilmente arginata. Quando straborda, abbatte ogni diga, ogni remora, sentimento e pensiero. Se non si possiede abbastanza energia, è facile essere trasportati via, disciolti nelle onde, sedotti dalle loro voci. Seleina ormai non si stupiva più di nessuna delle parole che le dicevano o delle immagini che le mostravano. Semplicemente, non le ascoltava. Cantava la propria melodia interiore, calma, pacata ed ordinata. Mantenere l’ordine e le sue ferree regole era sempre stato il suo modo per non impazzire. Fingeva che non ci fosse nessuno, oltre se stessa. Quella volta, però, era accaduto qualcosa di diverso. Partita tranquilla, quasi incurante, come tutte le altre volte, un rumore aveva presto intaccato il suo autocontrollo. Era stata la preghiera di Mu, accorata, perché fosse prudente e non le accadesse niente di male. Erano state le sue dita sul viso, che tergevano dal sangue e la portavano lontano dalla battaglia, asciugando lacrime, concedendo un coraggio tale da poter spazzare via anche il terrore della morte. Aveva provato calore sul viso, pur se la temperatura era sempre bassa, sfilando tra i volti alieni di quelle creature, che sfioravano con tocchi inconsistenti ed in mezzo a cui i pesci passavano sospesi, nuotandoci attraverso. Ogni tanto, qualche sasso scendeva, posandosi dall’alto verso il fondo argilloso. Era caldo sul viso e sulle labbra, dove si erano adagiate quelle di Zalaia con un tocco inatteso e dolce, a tratti sfrontato, quando la musica era salita di intensità e lo schiaffo era partito senza che lei lo volesse davvero, lo schiocco delle sue dita sulla sua guancia perso tra l’incredulità nei loro sguardi ed il cadenzare ritmico del tamburello, che pareva un cuore che battesse nel frullare delle note. Le mani sulla bocca, ad implorare una scusa per un gesto che non si voleva compiere davvero ma era partito lo stesso. La vergogna, lo smarrimento, fino ad una breve corsa lontano dal fuoco, all’ombra di un albero per riordinare le idee. Ed essere raggiunti li, nella notte stellata, sotto le fronde, tra un sorriso imbarazzato a rassicurarla che sì, un po’ lui se l’era presa ma era stato anche inopportuno, e, se lei voleva, quello schiaffo si poteva anche cancellare, mai esistito, come se non valesse nulla. Zalaia che aveva sempre la risposta pronta e quella sera non trovava le parole per la sua reazione. Preso per mano, sorpreso alla richiesta di sedere vicino a lei, a parlare e basta, conoscersi un attimo, di darle un po’ di tempo che, davvero, l’amore positivo fra due amanti lei non sapeva neppure cosa fosse. Ed il suo viso solare di lui, un po’ incerto ma sollevato, che per rapidissimi secondi si confondeva appena con quello di Mu, anche se non si somigliavano per niente. Seleina cacciò quei ricordi nervosa. Non era il momento per tergiversare e perdere inutili energie. Alzò lo sguardo verso la roccia, che quasi le sfiorava la testa. Era arrivata.

****************

Richiamato dal rumore dell’acqua, Zalaia s’era girato in fretta. Sotto il suo sguardo sorpreso, il liquido era salito di livello concentrato in un unico spazio, come se si stesse riempiendo un contenitore trasparente e cilindrico. Poi, la colonna era diventata figura di donna. Non si stupì troppo che fosse Seleina. Accovacciata, era l'unica, come lui, a poter resistere alla vicinanza del pugnale. Attese i pochi istanti che la separavano dalla forma umana. Anche lei faceva fatica, probabilmente per la vicinanza con l'arma. Le pose la mano per rialzarsi. Quando la ebbe davanti, per un istante trattenne il fiato. Egli conosceva benissimo la propria immagine riflessa. Incredulo, le chiese perché lei no: non si capacitava del fatto che lei avesse ancora gli occhi dello stesso colore di quelli di Haldir, invece di quelli di chi l’aveva generata. Lui aveva i pozzi profondi di Cancer a dannargli il viso. Lei, quel legame coi Dunedain che, almeno in sembianze umane, avrebbe dovuto essere reciso. Le riavviò i capelli dietro l'orecchio non più a punta, confuso, per un attimo lontano dal frastuono della battaglia, attorno a loro.

"Che mistero che sei."

Le soffiò sul viso, teso a non sciupare i pochi secondi che aveva ancora per osservarla, mentre lei, arrossendo, gli svelava che qualcuno della sua famiglia materna s'era divertito a stringere singolari patti con Haldir, molto prima che lei nascesse.

Scoprendo il taglio tra lo spallaccio e l’inizio del pettorale, lei era poi impallidita. Ingenuamente, aveva toccato il suo braccio. Strappandogli un moto di dolore, scostò leggera le dita rosse di sangue, affranta. Quasi tremando al pensiero di causargli altra sofferenza, gli aveva posato la mano sul petto, in modo da rendere lucida almeno la mente. Zalaia aveva chiuso un attimo le palpebre alle sue lacrime. Sentì la pace impadronirsi di lui e trasportarlo lontano, a quando era piccolo e correva tra le braccia di Mnemosine, se ne aveva combinata una. Il rancore dei perduti, che fino a poco fa lo alterava, rallentandolo persino nei movimenti, spariti in un soffio. Cinse le dita che sostavano ancora sul pettorale della sua armatura con le proprie, nel tentativo di scostarle, senza riuscirci. Era la prima volta che provava davvero l'effetto di quel potere, su di sé. Deglutì, al pensiero che anche Gona e pure quel matto di Tabe ne fossero capaci. Si vergognò: se ne aveva avuto bisogno, era perché da solo non era riuscito. Finalmente affrancato da ogni malia, si avvide della barriera d’acqua che li separava dal resto di quella distesa brulla, dove anche il più debole voleva fargli la pelle. Aguzzò allora lo sguardo di fronte a sé, deciso a riabilitarsi. Nella nebbia però era difficile orientarsi. Urlò a Seleina di far sparire anche quell’impedimento. Come desiderava, le anime dell’aria si chetarono al comando della ragazza: la coltre che impediva la vista fu dissolta.

Individuarono subito, a quel punto, la chioma castana dai riflessi rossi dell’Altare che, coperto di lividi, teneva testa ai suoi oppositori. Per fortuna, i perduti avevano paura della sua arma e non si avvicinavano volentieri. Il cavaliere li allontanava con la lama, descrivendo scie di cometa che si spegnevano celeri nell’indistinto. In parte, si difendeva col cosmo ed allora pareva tremare tutto, attorno a lui. Diradata la nebbia si era diradata, aveva localizzato subito Zalaia e Seleina, raggiungendoli in un baleno dentro le mura d’acqua che li difendevano provvisoriamente.


 

La contentezza per averli ritrovati si spense però all’istante: Seleina era stanca, già ansimante e sudata. Zalaia, pallido e ferito, di certo un braccio inutilizzabile ma almeno lucido, con lo sguardo pronto di chi voleva combattere e vincere. Kiki si propose di guarire il taglio alla spalla ma non gli fu permesso: doveva conservare le energie per l’assalto finale. Invece, gli fu chiesto di supportare Seleina per qualche altro momento. Il tempo per concentrarsi ed individuare davvero il capo dell’esercito rivale: era una questione di onore oltre che di sopravvivenza. Allora, si era fatto momentaneamente da parte, la tela di cristallo a supportare la barriera d’acqua. Aveva osservato il ragazzo sedersi a gambe incrociate a terra. Il manico della falce, stretto nella mano sana, a contatto col terreno. Il cosmo di Zalaia era esploso in un vortice rosso, la lama guidata sopra la sua testa, poi lasciata libera di colpire, oltre la barriera, a distruggere ogni essere ne impedisse il passaggio. Continuando a girare, la punta della lama si conficcò in un elmo.

Quello che era stato colpito non l’aveva minimamente bloccata. Senza battere ciglio, l’aveva estratta con un rumore sinistro. Poche stille di sangue scuro e denso gocciolavano dalla punta della lama ricurva. Aveva studiato con noncuranza l’arma per pochi secondi, prima di decidere di restituirla al mittente con un impeto tale da distruggere tutti quegli scocciatori in un’occasione sola. Osservò l’arma tornare fulminea nella direzione opposta, ghignando.

 

Pronti ad intercettare l’arma ricacciata indietro, Kiki e Zalaia afferrarono il manico nello stesso istante, uno a destra e l’altro a sinistra, spinti entrambi qualche centimetro indietro dall’intensità del colpo. Si scambiarono uno sguardo di muto ringraziamento reciproco, sollevati, mentre Seleina li fissava con gli occhi sgranati, che a certe scene non si assisteva spesso. Se non altro, avevano parato la prima offesa. Poi, l’Altare aveva restituito l’arma al legittimo proprietario, fissando serio l’avversario oltre la barriera. Preoccupato per le condizioni fisiche non proprio ottimali dei ragazzi, Kiki si augurò che riuscissero comunque a cavarsela, in qualche modo. Se non concludevano in fretta, non era solo la loro e la sua sopravvivenza ad essere dubbia. Richiamando il cosmo, pugnale alla mano, si lanciò nuovamente all’assalto, lasciandoli soli.

Nella sua corsa, vedeva solo la figura imponente che lo aspettava a braccia aperte, pronto a ghermirlo. Riuscì a non interrompere mai il contatto visivo, neppure quando stavano per bloccarlo a morsi, coi pugni, le spade o le mani. Ogni tanto, le scie nere delle fiamme scure di Zalaia e le correnti ghiacciate di Seleina gli aprivano la strada o lo proteggevano da seccatori troppo insistenti. Non avrebbe saputo ridire dopo quanto tempo arrivò di fronte al suo legittimo opponente. Era un avversario maestoso, che lo scrutava apparentemente calmo, girando in circolo, curioso. Poi, qualcosa era cambiato, ghignando, l’essere dannato che aveva davanti aveva lasciato le sue sembianze di quasi uomo per tramutarsi in gigantesca belva, a sfidarlo di centrargli il cuore con un misero pugnale, in quello stato. Gli si scagliò addosso ringhiando, le fauci schiumose e le zanne scintillanti. Sorpreso, sulle prime Kiki riuscì solo a teletrasportarsi ed evitare parecchie volte i suoi denti. Gli aveva giusto tagliato qualche pelo del manto sporco ed a tratti rado. I muscoli sotto, però, erano tesi e compatti pure dove mancava la pelle. Attorno alle pupille azzurre ed immense, prive di pupilla, rosseggiavano vene rosse tortuose che spezzavano il bianco dell’orbita. A differenza sua, l’avversario non necessitava di riprendere fiato e si divertiva a sfinirlo, interrogandosi su quale pezzo staccargli per primo. Doveva aver deciso perché all’improvviso cercò di azzannargli la gamba. Il cavaliere non seppe neppure come riuscì a teletrasportarsi via, incolume. Tra le fauci della bestia solo sangue ed il pezzo della sua armatura invece della sua carne. Ansante e stupito, si ritrovò con una protezione in meno ma l’avversario dava cenno di essere stato danneggiato dall’aver assaggiato la sua corazza: abbassava le orecchie e soffiava astioso, il pelo irto sopra la schiena. Si dimenava in rapidi balzi a destra e sinistra, scuotendo il muso in scatti circolari. Schioccando la lingua, aveva vomitato l’argento che masticava ancora. Circondato da scariche elettriche, stava anche diventando più piccolo, fino alle dimensioni di un lupo normale.

Kiki osservò confuso il gambale sputato a terra, lordo di plasma marcio e saliva, ridotto ad un pezzo maciullato privo di forma. Zalaia provò a spiegarglielo a distanza che l’argento funzionava meglio dell’oro, contro certe creature ed il pugnale di Haldir non era di quel metallo per caso. Rincuorato da quell’inaspettato motivo di vantaggio, il cavaliere osò ancora. Se anche non avesse centrato il cuore, certo il pugnale qualche effetto l’avrebbe avuto. Dopo una serie di affondi andati a vuoto, mentre il grosso lupo si spostava in circolo o si alzava su due zampe per atterrarlo nell’unico momento in cui lui era vulnerabile, Kiki riuscì a centrarlo vicino al collo. Affondò la lama in profondità, mentre l’animale latrava. Approfittò del momento in cui barcollava per fare leva col piede ed estrarla, tenendo fede alle raccomandazioni di Imuen. La lama era rossa fino all’impugnatura. Lui, sporco di sangue fino al braccio. Non vedeva il proprio viso ma credeva di assomigliare più ad un macellaio che ad un cavaliere di Athena. Non aveva bisogno del fiuto dei Dunedain per riconoscere l’odore ferrigno del sangue. Esausto, si era inginocchiato per il colpo di grazia a quel poderoso esemplare. Solo per un attimo, si concesse di esplorare le iridi profonde di quell’animale, come a scusarsi del gesto che lo ripugnava ma a cui era costretto. Altro sudore, come lacrime, come se non ne avesse versato abbastanza, scesero sul suo corpo freddo nonostante l’eccitazione della lotta. Implorò il suo nemico di perdonarlo: era solo per donargli pace. Prima però che potesse vibrare il colpo, l’animale si era rivoltato a mordergli la gamba nuda dall’armatura. Più veloce della voce di Seleina che gridava il suo nome fu il suo braccio ad offendere ancora, secco, a segno. Il dolore lancinante arrivò solo dopo, togliendogli il fiato. Le punte acuminate si conficcarono con ancora più violenza alla sua gamba per un istante, nell’ultimo rantolo prima della morte, per poi di lasciarla andare definitivamente. Il lupo dal manto bianco sporco aveva riverso le iridi all’indietro. Era caduto di lato con un tonfo secco, la lingua ciondoloni dalla bocca spalancata.

La terra aveva iniziato a tremare pochi istanti dopo, mentre la gamba pulsava atroce e gli impediva di camminare. Con gli occhi ottenebrati dalle fitte che non lasciavano scampo, il cavaliere riuscì solo a vedere il lupo che spariva in polvere, mentre Zalaia lo trascinava via di peso e Seleina gli prendeva dalla mano il pugnale. Doveva aver perso i sensi. Nonostante tutto dovesse essere finito, Zalaia ripeteva che, se da fuori non si sbrigavano a recuperarli, erano spacciati.


 


 

Post Scriptum: allora, anime dell’acqua. Per come le ho concepite io, esseri viventi composti essenzialmente d’acqua. Li controllano, per tradizione, i figli di Haldir, sfruttandone i poteri. Sempre gli stessi le chiamano anime, perché gli manca un corpo fisico nel senso normale del termine. Sono efficaci per erigere barriere o lanciare getti potenti contro gli avversari, a varie temperature, fino ad arrivare al ghiaccio, oltre a spostarsi sulla terra. Nella mia mente contorta esistono pure le anime dell’aria. Non sono fatte proprio d’aria ma in questo capitolo non ho bisogno di farle “vedere" e non ho intenzione di descriverle qui. Sono le responsabili di nebbia e getti d’aria fredda, per chi le sa dominare. Normalmente, gli uomini non possono né vederle né si curano della loro esistenza. Se ne hanno bisogno e ne sono capaci, usano il cosmo. Se mai servisse altro, chiedete. Anche se vorrei sapere chi arriverà a leggerle, ste note. :) Ciao

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Capitolo 38
*** Fuori dall'abisso - Parte 1 ***


Ho provato a sistemare il capitolo ma, davvero, meglio di così non viene. Per me la stesura definitiva resta questa. Sarà noioso perché manca il solito intermezzo per spezzare un po’ ma, a questo punto, non riuscivo proprio ad inserirlo. Mi stonava e basta.

Immagino ci saranno dei punti oscuri sulle anime dell’aria. Se volete la spiegazione prima, correte subito alle note a fine capitolo. Le ho messe dopo perché mi sembrava di mantenere un po’ più … l’atmosfera, gusti. Spero i vari cambi di soggetto e situazioni non rendano pesante o poco comprensibile la prosa. Nel caso, a chi chiede, spiegherò.


 

Dicono che sia il giorno della morte a dare alla vita il suo valore. Per qualcuno contano anche le lacrime ed i sorrisi che ci lasciamo dietro


Haldir aveva alzato il braccio con un movimento verticale, scindendo in due metà perfette il guerriero che gli piombava davanti. Attendeva il secondo esatto in cui quello si sarebbe ricomposto, ricucendo con subdoli tentacoli scuri le parti putrescenti in cui era stato ridotto. Contava fremente uno ad uno gli attimi sospesi in cui non accadeva nulla. Spalancò le palpebre, finalmente consapevole. Trattenne il respiro fino a quando non assistette allo spettacolo del cadavere maciullato che scompariva in polvere, mentre una fiamma tenue, lieve e sinistra, si librava da quelle spoglie definitivamente morte. Aveva abbassato lentamente la spada, prima di esplodere in un grido inaspettato che i più vicini non sapevano minimamente interpretare, se fosse semplice ferocia, follia o altro. Aveva afferrato l’elmo bianco sfilandoselo con foga da sopra la testa, gettandolo con uno scatto a terra. Si era passato la mano artigliata tra i capelli chiari, come se gli impedissero la visuale e tremava leggermente, per le spalle, mentre i suoi occhi erano calamitati verso il terreno. Imuen, non sapendo dare un senso alla sua reazione, gli si era avvicinato lentamente, preoccupato. Era certo che, prima o poi, il suo gemello sarebbe impazzito. Era nell’aria da generazioni. Mai, però, si sarebbe aspettato che succedesse al culminare di una battaglia. Gli era arrivato a meno di un metro di distanza, quando fu agguantato dal braccio possente dell’altro. Haldir lo obbligava, piegato, trattenendogli il collo sotto al gomito. Lo costrinse a girarsi, fino a scorgere il punto che lui stesso stava fissando.

Usò la mano libera per la seconda spada, a tagliare ancora uno dei perduti e costringere Imuen ad aspettare.

“Guarda!”

Aveva detto ed il domatore dei morti lo vide, strabiliato: il fuoco fatuo che si librava dal petto squarciato. Lo obbligò a lasciarlo, soffiando, richiamando la luce verde e scintillante nella trappola delle sue dita, portarsele vicino alle palpebre, a rischiarare le sue guance pallide, e capire, realizzare che stava per compiersi tutto quanto.

Solo allora Imuen si arrese a crederci. Sul suo viso millenario si accese la meraviglia. Haldir non tremava di follia o rabbia: stava ridendo.

“Ci sono riusciti.”

Aveva spiegato il gigante bianco, mentre le catene della condanna atroce che torturava lui ed i suoi figli perduti stavano iniziando a sgretolarsi. Era come sentirne il metallo pesante scricchiolare ed iniziare a cedere. Si avvicinava il momento esatto in cui farle saltare. Haldir aveva riso più forte, per poi tornare apparentemente calmo: le anime dell’aria iniziavano a volare in maniera meno caotica. Le anime dell’acqua si placavano. Gorgogliavano meno ed i loro sguardi erano meno furtivi.

Descriveva accorato tutto ciò al gemello che, per l’ennesima volta, gli ricordava che per lui erano parole senza senso, dal momento che non poteva né vedere né sentire, neppure accorgersi di quelle creature.

“Pensi ancora che sono matto?”

Gli aveva poi chiesto, ironico, quando ormai era chiaro che il suo piano assurdo era riuscito. Allora, aveva espanso maggiormente la propria aura, pronto a spiccare il volo nella forma animale. Come al suo solito, se ne andava senza spiegare il fine delle proprie azioni.

“Dove accidenti vai, ora?”

Gli aveva rinfacciato, sfinito più da lui che dalla lotta, il gemello.

“A recuperare i cuccioli. Sono messi male.”

Haldir aveva risposto con una nota nuova, di un calore acceso, nella voce. Era poi sparito all’improvviso, come un fulmine bianco.

Impugnando saldo la falce, invece, Imuen s’era portato alle spalle del cavaliere d’Ariete, facendolo sussultare. Lo avvertiva di tenersi pronto. Ormai era questione di poco tempo. Dovevano prepararsi ad uscire da quel posto. Non era detto che il cavaliere d’Altare tornasse abbastanza in forze da supportarlo, in quel compito.

Il domatore dei morti si era poi allontanato dal gruppo, ricoprendo la postazione che era stata del gemello, sul punto più esposto del crepaccio naturale. Tutti quelli che abbattevano, ormai, si stavano trasformando in una miriade di fuochi fatui che rischiaravano l’aria con la loro luce verde, mentre l’atmosfera diventava via via più respirabile. Tra tutti i guerrieri serpeggiava l’entusiasmo per la fine prossima dello scontro.

A Death Mask, tuttavia, qualche conto non tornava. Aveva raggiunto Imuen, falciando con una freddezza che non gli apparteneva più da tempo i disgraziati che incontrava lungo la strada, con fretta e disprezzo. Un’urgenza violenta lo spingeva a voler sapere, perché quel ragazzo a cui si era promesso di non affezionarsi troppo era invece diventato tremendamente importante e non avrebbe retto alla reazione della madre, se glielo avesse riportato indietro con qualche pezzo in meno rispetto a come era partito, pure se con un guerriero certi rischi bisognava metterli in conto.

Aveva arpionato Imuen, che lo ricambiò apparentemente seccato. Non gli importava nulla se, quella volta, lo aveva scambiato davvero per una nullità.

“Come sta il mio ragazzo?”

Aveva osservato ogni singola espressione del suo interlocutore, che aveva sussurrato in modo che solo lui udisse.

“Tuo figlio è l’unico che probabilmente tornerà senza aiuti sulle sue gambe.”

Non gli era sfuggita l’occhiata fugace al cavaliere d’Ariete.

“A posto tuo, ringrazierei la tua Athena di non trovarmi invece nei panni di quel poveraccio: se Haldir non fa in tempo dovrà portare fuori tutti voi vivi ed i cadaveri di suo fratello e della ragazzina di Asgard.”

Sbalordito, il cavaliere aveva continuato ad ammazzare il maggior numero possibile dei perduti che restavano.

“Quei due iniziano a puzzare di morte.”

Aveva ribadito, torvo, il gigante nero.

****************

Seleina aveva gettato lo sguardo verso Zalaia. Lo vedeva trafiggere e distruggere con inaudita ferocia chiunque cercasse di penetrare la sua fragile barriera d’acqua, solo per dare a Kiki e lei un po’ di respiro. Di tanto in tanto, attraverso il muro trasparente che perdeva spessore, riuscivano ad infilarsi braccia artigliate che tentavano disperatamente di ghermirli o corpi deformi che vi impattavano proprio contro, nella confusa e rabbiosa corsa in cerca di una salvezza che non ci sarebbe stata. Era stanca. La mano col pugnale pulsava per spasmi che non riusciva a controllare. La teneva salda nell’altra, incrociate davanti al collo di Kiki: il cavaliere restava seduto perché impossibilitato a camminare, per via della gamba ormai inutilizzabile. Seleina si ripeteva come un mantra che c’era la protezione di Sire Haldir per suo fratello sopra quell’arma e non poteva abbandonarla assolutamente. Poiché lei non riusciva più ad attaccare, cercava almeno di lenire a lui il dolore alla gamba. Doveva essere stata una mossa saggia dal momento che il cavaliere aveva già aiutato Zalaia un paio di volte nel difendere tutti e tre con la telecinesi. Era forte Kiki, tanto da far tremare le stelle. Seleina sorrise al pensiero, anche se le scendevano le lacrime. Si strinse più forte alla sua schiena che, oltre alla propria vicinanza, presto, non avrebbe potuto dare altro. Sapeva fin da bambina che la sua vita sarebbe terminata presto. Era uno dei tanti segreti che Haldir le aveva rivelato. Per quel motivo aveva sempre cercato disperatamente di concentrare il maggior numero di esperienze possibili nel poco tempo a disposizione, alla ricerca forsennata di un senso da lasciare alle persone che amava, quando non ci sarebbe più stata. Per un istante, aveva alzato gli occhi al cielo. Li spalancò appena, rendendosi conto di quanto le era dato vedere. Era da quando era piccola che non ne scorgeva più una: le anime dell’aria avevano cominciato ad apparire con le ali del loro colore naturale. Ce n’erano poche che volavano via, farfalle dalle ali blu e dorate. Ricordò quando, piccolissima, Haldir aveva iniziato a raccontarle cosa fossero, la prima volta, mentre i perduti ancora dormivano assopiti dai sigilli e la natura di Asgard era bella e selvaggia, come avrebbe dovuto essere sempre. Il sapore del sangue che iniziava ad ammassarsi in bocca le parve meno ferrigno mentre l’aria diventava leggermente più respirabile ed il cielo confinato dell’abisso assumeva quelle rare tracce di luce. Non aveva bisogno di concentrarsi per percepire le catene che imbrigliavano il suo signore sciogliersi. I poteri che le derivavano da Haldir stavano aumentando, anche se ciò avrebbe significato che il suo corpo umano avrebbe ceduto più velocemente..

“Seleina, che succede?”

Kiki, nonostante la concentrazione e la battaglia, era riuscito a scorgere qualcosa in lei. Si era voltato e l’aveva vista negare, fissare il soffitto, persa in ricordi e considerazioni che lei non gli svelava mai completamente e la rendevano speciale.

Gli sembrava che, da qualche minuto, respirare stesse diventando meno gravoso. Fissò anche lui il punto che sembrava aver interessato prima l’amica. Qualche sprazzo di luce sembrava rischiarare il nero del soffitto che inghiottiva la vista.

“Niente.”

Seleina si era inumidita le labbra, guardando Zalaia continuare ad attaccare, ostinato.

“Temo solo che ci saranno delle promesse a due persone importanti che non riuscirò a mantenere.”

Kiki l’aveva osservata ancora, intuendo stavolta in parte i suoi pensieri.

“Stai per cedere, vero?”

Il silenzio sorpreso e colpevole era stato una risposta sufficiente, le mani intrecciate sul suo torace avevano esitato. La ricambiò mesto: poteva solo concederle la sicurezza che non l’avrebbe abbandonata mai.

“Anche io.”

Una lacrima di lei, a quel punto impossibile da trattenere, gli era scivolata sulla spalla. Nonostante l’armatura, l’aveva percepita.

“Bel servizio ti ho reso, riportando in vita Mu e coinvolgendoti in questa storia.”

Le aveva stretto nella propria le mani con cui ancora lo stringeva, prima di ammirare anche lui l’ostinata freddezza del figlio di Cancer, che combatteva come un titano, alla disperata ricerca di una speranza. Magari, per lui ancora c’era.

Non ebbe bisogno di chiedere nulla a Seleina: avevano avuto lo stesso pensiero. Almeno per lui, avrebbero continuato a resistere. Quel tanto che fosse bastato, fino a che qualcuno non avesse aperto una via. A differenza loro, non era per Zalaia finire in quello scontro. La sopravvivenza di quel giovane sarebbe stato il loro lascito.

Come richiamato dai loro pensieri, lui si era voltato verso di loro, a chiedere come se la cavassero.

“Sta tranquillo. Resistiamo.”

Gli aveva urlato allora l’Altare, rincuorandolo. Per fortuna, era riuscito nel compito di nascondere il loro reale stato: Seleina non ne sarebbe mai stata capace di ingannarlo. Kiki aveva accettato il ringraziamento sussurrato di lei per averla sottratta a quel compito. Si stupì di quanto una come la sua sorellina adottiva fosse riuscita a legarsi a quel ragazzo, dopo così poco tempo, lei che lesinava il suo cuore a poche persone fidate, dopo tanto, troppo tempo. Quanto era gravoso, per lei, andarsene con la certezza di doverlo abbandonare così presto?

Doveva aver pensato troppo forte perché lei aveva sorriso ancora, ad abbracciare con lo sguardo quel mezzosangue caparbio vestito di nero, in quello che, chiaramente, aveva il sapore di un addio. C’era però pure dell’altro in lei, una tristezza che non riuscì subito ad identificare. Per qualcosa o per qualcuno. Se c’era stata, tuttavia, lei l’aveva scacciata in fretta. Kiki, fra tutti, avrebbe voluto naturalmente salutare suo fratello. Se non altro, nel breve tempo che avevano nuovamente trascorso insieme, si erano ritrovati.

Dopotutto, la morte era facile da incontrare per chi percorre la via della guerra. Faceva parte del gioco che lui e Seleina avevano accettato. Le strinse ancora più forte le mani, diverse per carnagione, per quegli artigli. Poi, espanse il cosmo. Nell’ultima impresa, avrebbero davvero lottato come se fossero stati due fratelli. Il muro di cristallo rinvigorì la barriera d’acqua. Fin quando avrebbero avuto respiro, insieme.

****************

Haldir distruggeva con le fauci spalancate quanti gli si parassero davanti. Le anime dell’aria, dominate dai perduti, apparivano come farfalle dalle ali bruciacchiate e scure, dietro al cui volo si perdeva la nebbia malata che bloccava respiro e vista. Il loro volo incessante e caotico diveniva però più lineare ed ordinato, come doveva essere fuori dall’abisso. I suoi figli perduti avevano iniziato ad allontanarsi al suo passaggio come un cielo squarciato a metà da una saetta, consci che la loro esistenza stava per volgere finalmente al termine. Il loro potere sulle anime della terra, di acqua ed aria, scemava velocemente: presto, quell’anfratto naturale sarebbe crollato, restituendo la libertà a tutte le anime della natura costrette all’interno, quale che fosse stato l'elemento di cui erano composte. Le anime dell’acqua e dell’aria non tolleravano più di essere soggiogate, ora che il potere dei domatori perduti non era sufficiente a possederle. Quelle della terra iniziavano a svegliarsi, attirate dal loro richiamo: l’equilibrio naturale stava per ristabilirsi. L’avrebbe fatto con un terremoto violento, coperto di lava e pietra. Non sarebbe rimasto nulla degli artefici di quel miracolo, se lui non avesse fatto in fretta. Haldir doveva raggiungerli subito, riprendersi la propria energia racchiusa nel pugnale, per salvarli.

La prima cosa che Haldir vide fu la falce di Zalaia che saettava peggio della folgore e distruggeva quasi quanto quella del suo maestro. Era potente quel ragazzo. Sarebbe stato il degno successore di Imuen, se qualcosa fosse andato storto. Grande e fiero combattente ma così giovane ed ingenuo, facile da ingannare. Non aveva capito nulla del proposito degli altri due.

Quando si rese conto di lui, infatti, il ragazzo si era girato verso i compagni trionfante. Non appena li vide però bianchi come petali appassiti, completamente immobili, il suo volto sporco di guerra era divenuto improvvisamente pallido, il manico della falce posato a terra lentamente. Le lacrime erano esplose dalle sue ciglia con un grido di rabbia mentre ignorava del tutto il gigante bianco e lo superava quasi spingendolo via, a correre da chi lo aveva ingannato per salvargli la vita, a bestemmiare il nome di entrambi. Si era buttato in ginocchio accanto a loro, all’inizio senza sapere cosa fare, le mani alzate in una muta preghiera, che si svegliassero da quell’incubo o qualcuno gli svelasse cosa fare. Aveva battuto i pugni sulle ginocchia piegate mentre le lacrime precipitavano rabbiose lungo le guance

Li aveva scossi violento, senza avere il coraggio di sciogliere però l’abbraccio che ancora li univa. Aveva visto la morte tante volte ma mai di chi aveva amato così tanto. Dei sentimenti verso Seleina, Zalaia era perfettamente consapevole ma anche quel lemuriano aveva imparato a chiamarlo amico durante il corso di quella battaglia, lui che, di amici fidati, non ne mai aveva avuti davvero.

“Spostati, ragazzo.”

Toccandogli la spalla, Haldir l’aveva sanata in un attimo.

“Spostati, finché il loro cuore, seppur debole, batte ancora. Io posso agire solo finché c’è vita.”

Abituato solo alla morte, Zalaia non si era arreso subito a comprendere il senso lampante di quelle parole. Con la voce esitante di chi non crede, lo aveva supplicato di riportarli indietro, implorandolo come se fosse davvero un dio. Tutti avevano un prezzo per non impazzire. Quelle vite erano il suo.

Zalaia si era seduto al fianco di Haldir, immobile, con un tonfo sordo, di sacco afflosciato, mentre il domatore delle anime viventi sottraeva il pugnale dalle dita troppo fredde di Seleina e lo distruggeva per riappropriarsi di ciò che gli apparteneva. La lama sparì in una bolla dorata. Seleina riprendeva le sembianze proprie della sua razza mentre fasci di tendini, muscoli ed ossa ricoprivano la gamba maciullata dell’ateniese, fino ad avvolgere nuovamente l’arto con la pelle sana.

Haldir aveva ringhiato mentre la corazza si dissolveva dal suo corpo, per restituirlo con la semplice maglia di cotta. Egli ne aveva rovinate tante di cose sacre nella sua lunga esistenza. Non esitò nel separare l’abbraccio di quei due. Caricandosi in spalla l’Altare, ordinò a Zalaia di seguirlo.

Il ragazzo aveva preso in braccio Seleina lentamente, come se temesse di farle male, seppur addormentata. Di nuovo Dunedain pure lui, doveva percepire il battito cardiaco debolissimo, di entrambi.

“Non sono ancora salvi, vero?”

Il gemello del suo maestro non era mai stato capace di tante raccomandazioni. Lo avvertì che doveva tenersi anche pronto a perdere entrambi, se quello sarebbe stato il loro fato.

“Ora tocca a Taka e tua madre. L’unica cosa che puoi fare è portarli da loro in fretta.”

****************

Mu aveva alzato la fronte alle stalattiti che li circondavano. Era stato attirato da fugaci apparizioni luminose della cui esistenza tramite la vista non poteva essere certo. Tuttavia, gli sembrò qualcosa di tremendamente reale. Aveva passato in rassegna tutti i suoi compagni, prima di soffermarsi su Imuen e gli spadaccini in particolare. I loro colpi, lentamente ma inesorabilmente, si erano fatti più efficaci. Mano a mano che i minuti scivolavano via dopo la partenza di Kiki e Zalaia prima, di Seleina poi, era sicuramente accaduto qualcosa di prodigioso. Aveva osservato la valchiria, che Aldebaran aveva supportato in un paio di frangenti, sussurrare qualcosa al resto dei figli di Haldir. Nelle sue labbra carnose e rosse aveva svelato di terra e di fuoco. Le scosse di terremoto erano iniziate subito dopo, prima come tenui e rade onde sussultorie che infastidivano leggermente i piedi. Poi, piccoli granelli di roccia avevano cozzato con l’oro degli elmi di alcuni di loro, rivelando che il soffitto iniziava a cedere.

Aveva visto Death Mask confabulare qualcosa con Imuen. L’attenzione che gli rivolsero gli gelò la spina dorsale. I suoi piedi si mossero verso di loro senza che se ne rendesse conto. Doveva sincerarsi che quel sospetto tremendo non fosse realtà. Fino a quando il rumore di un metallo sconosciuto non urtò contro il suo calzare e si arrese a prendere in mano un elmo che non apparteneva a qualcuno che conoscesse. Il suo bracciò saettò a distruggere qualcuno che lo attaccava. Non si rese conto che i resti del cadavere non si rianimavano. Era interessato a quel pezzo di metallo che sembrava argento e non lo era. Le incisioni sopra, sicuramente, lo classificavano quale copricapo di Haldir. Lo strinse con forza con entrambe le mani, mentre le dita annichilivano tremanti. L’urlo rabbioso e disperato di Zalaia gli graffiò i timpani, mentre l’immagine dei visi bianchi ed immoti di Kiki e Seleina gli riempirono la vista. Rimase immobile pochi istanti, riuscendo a respirare solo dopo. All’improvviso l’elmo gli scomparì tra le dita, privandolo della conoscenza su quanto stesse realmente accadendo dall’altra parte.

Un fascio di luce dorata distrusse però un nuovo nemico che puntava alla sua testa. Avvicinandosi, apparentemente minaccioso, Death Mask gli chiese se si fosse addormentato, che rimaneva imbambolato li in mezzo. Il cavaliere del Cancro lo aveva squadrato ombroso e non si allontanava. Lo difese ancora, in attesa che si svegliasse sul serio.

Certo che l’Ariete avesse ormai compreso come se la passavano dall’altra parte, convinto che solo uno peggio di una carogna avrebbe avuto il fegato di abbandonarlo, lo trattenne per la spalla. Occhieggiò verso lo spadaccino magro che aveva litigato sia con lui che Aphrodite.

“Quello scemo ha detto che comunque Zalaia e gli altri ci sono riusciti. Haldir sta tentando qualche diavoleria per salvare tuo fratello e la principessina.”

Poi lo aveva strattonato appena, non troppo forte.

“Finché c’è anche solo un briciolo di speranza, bisogna continuare a combattere.”

Si allontanò, persuaso di essere riuscito a sollevare uno dei cavalieri d’oro che, fino a pochi anni prima, lo aveva voluto personalmente morto. Lo controllò mentre sembrava ricominciare a difendersi da sé. Continuò a camminare fino a riavvicinarsi ad Aphrodite.

Intanto, il terreno si costellava di crepe fini e tortuose. Sotto, il fumo iniziava a sbuffare adagio. Annunciava lava dal colore del sangue.

 

Note: Qui ho introdotto le anime dell’aria. Hanno la forma di farfalle. Finché sono state libere avevano ali blu dai riflessi dorati. Appaiono per pochi secondi per poi scomparire, mentre volano. Poiché la maggior parte dei perduti erano figli di Haldir, potevano essere dominate da questi ultimi. In quel caso, le ali delle farfalle diventano scure, come bruciate. Il loro volo è caotico, mentre allo stato normale si presenta lineare ed ordinato. Sotto il dominio dei perduti, le anime dell’aria creano la nebbia e rendono l’aria meno respirabile. In questo capitolo, ho immaginato che Kiki e Mu non riuscissero a vederle, quanto a percepirle come piccoli lampi di luce.

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Capitolo 39
*** Fuori dall’abisso – Parte 2 ***


Nessuna vita dovrebbe valere più delle altre. Eppure, solo alcune danno senso al nostro essere, al nostro agire, vivere e morire, alla nostra follia...

 

La terra si ribellava: ribolliva e le scosse erano diventate rapide, imprevedibili. Ovunque si posasse il piede c’era il rischio di perdere l’equilibrio dopo poco. Avevano iniziato a spostarsi in fretta, chiedendosi dove mai avrebbero potuto trovare un punto stabile. Ormai, era chiaro che non sarebbero potuti restare li ancora per molto. La pietra si sgretolava pure dall’alto e minuscole crepe serpeggiavano sotto i piedi. Pezzi sempre più grandi di stalattiti rovinavano dal soffitto ed un leggero odore di zolfo permeava dal basso. A qualcuno, parve addirittura di percepire il calore ed il colore del fuoco. Poi, una luce chiara accecò il centro del gruppo per pochi istanti, restituendo le sembianze di Haldir e Zalaia.

Un masso che si era staccato dal soffitto e piombava a filo sopra le loro teste fu distrutto da un semplice gesto della falce. In quel momento, chiunque avesse incontrato il viso del figlio di Cancer avrebbe voluto distogliere lo sguardo, che dardeggiava ed era affranto: c’era dentro il dolore di un affronto feroce, subito, come se fosse stato ingannato nel profondo. Death Mask aveva provato a ricambiarlo e suo figlio aveva abbassato il capo, come se si vergognasse o, semplicemente, fosse più interessato alla persona che stringeva convulsamente al petto. Poi, Zalaia aveva afferrato delicatamente la mano di lei che era scivolata oltre il busto, prima che terminasse l’ultima oscillazione e si fermasse priva di peso, svelando completamente la totale incoscienza in cui la ragazza versava.

Suo padre, allora, aveva teso le labbra, conscio del senso di colpa che avvertiva in suo figlio. Death Mask ricordava chiaramente la sfacciataggine con il suo ragazzo aveva esibito la promessa che avrebbe protetto a tutti i costi l’Altare solo per far piacere a lei.(1) Zalaia era vivo e riportava indietro quasi due cadaveri, uno era della persona che amava. Sulle spalle, sicuramente, si sentiva il peso per aver fallito su molti fronti.

 

Nel momento in cui Haldir e Zalaia si erano materializzati davanti ai suoi occhi, Mu aveva compreso cosa si provasse ad avere l’anima spaccata: una parte tra gli artigli del gigante bianco ed una tra le braccia del figlio di Cancer. Era come sentire il cuore smettere di pulsare mentre nella testa si scatena il blackout. Ogni cosa ti attraversa come se non ti appartenesse. Neppure i tuoi passi, i tuoi battiti, i tuoi respiri. L’Ariete non sapeva se le lacrime gli stessero bagnando le guance mentre raggiungeva suo fratello. Sincerarsi di come stesse Seleina, invece, capì a malincuore che non era un suo diritto.

“Non sono ancora morti.”

Le parole di Haldir avevano preceduto le sue dita nel tentare di sfiorare la fronte di Kiki: suo fratello era troppo pallido per avere ancora una speranza. Eppure, da lui proveniva una forza che non gli era mai appartenuta: qualcosa di più antico e sotterraneo, che riusciva ad avvertire chiaramente ma non ad inquadrare.

“Cosa gli è successo?”

Haldir lo aveva ricambiato col suo volto impassibile. Per la prima volta, però, gli era sembrato di scorgerci una traccia di espressione: un rimorso di cui non lo avrebbe mai reputato capace.

“Ho cercato di rimediare.”

Mentre gli restituiva Kiki, notò finalmente il corpo del gigante privo della corazza. Spalancò gli occhi verdi, rendendosi conto che l’aveva in qualche modo sacrificata a quello scopo. Anche Seleina pareva ancorata tenacemente in quel mondo dalla stessa energia.

“Sbrigatevi ad uscire.”

Aveva ribadito ancora Haldir, rimarcando il valore ed il senso del proprio gesto. Nel suo tono che non ammetteva repliche o incertezze, Mu ritrovò la lucidità per eseguire quell’ordine. Mostrare loro la meta, toccava a Zalaia. Il cavaliere d’Ariete aveva annuito. Nonostante tutto, avrebbe voluto cancellare per sempre quegli attimi concitati dalla sua memoria. Avrebbe ricordato solo i comandi secchi dei domatori gemelli, impartiti sia ai cavalieri d’oro e sia ai sottoposti. Imuen ed Haldir li avevano letteralmente cacciati via tutti: purificare del tutto quel posto era il loro ultimo compito. Il nero ed il bianco delle loro aure li racchiusero, confondendosi, circondandoli nel buio.

 

****************

Apparvero in una radura coperta di verde, dove alti arbusti celavano macerie di un antico castello incrostate di rampicanti e licheni. Mantenendo il silenzio, si poteva addirittura udire il ronzare delle api e le ali degli uccelli che frullavano veloci a sperdersi tra le fronde. I cavalieri si guardarono attorno confusi, certi di essere soli.

Zalaia, però, aveva messo la mano a coppa attorno alla bocca, a gridare a pieni polmoni un nome. Poi, aveva controllato ancora Seleina, ansioso.

“Eccomi. Chi mi chiama?”

Sorpresi da una voce femminile e suadente che li aveva colti alle spalle, i cavalieri si girarono verso chi aveva risposto, scoprendo una donna di rara bellezza. Zalaia, però, aveva sbuffato. Le aveva spiegato che avevano feriti gravi e poco tempo. Lei, allora, aveva riso, portandosi aggraziata la mano alla bocca, a nascondere le labbra sottili e rosate.

“Perché non lasci mai divertire un po’ questa povera vecchia, bambino dalle dita di miele? Non c'è fretta. Lo sai che qui il tempo si dilata e si accorcia a nostro piacere.”

Poi, quella aveva steso il braccio con un movimento elegante alla propria destra, mentre la pelle raggrinziva e copriva di rughe. Gli occhi glauchi e lucenti si adombravano di un velo opalescente e spento. I capelli dalle morbide onde sbiadivano crespi, dall’ebano all’argento. Le mura sbeccate alle sue spalle si innalzavano fino a possenti blocchi murari squadrati, poggiati l’uno sull’altro a coprire qualche decina di metri. L’espressione serena dell’inizio era diventata sicura e rapace. Li squadrava uno a uno, anche se all’apparenza sembrava ceca.

“Come mai tanti estranei? Non bastavano vecchie e sgradite conoscenze?”

Del tutto diversa nelle sembianze e nelle vesti, la strega delle fiabe aveva indicato Tabe, che l’aveva ricambiata con un inchino di scherno. Zalaia, però, aveva ribadito che stavano solo eseguendo ordini ed avevano fretta.

“Gli ordini di Haldir, il domatore della vita su questa terra.”

L’anziana aveva masticato le parole a denti stretti, prima di terminare la sua considerazione astiosa.

“Si spera li abbia ponderati a dovere, stavolta.”

Aveva assottigliato lo sguardo verso Seleina, come se in lei avesse riconosciuto qualcosa. Prima di rivolgersi a Gona, pretendendo da lui ogni conferma, quale più alto in grado, ribadì però di non capire la necessità della presenza di tutti quegli estranei nel loro villaggio.

“Passi per il lemuriano che ha compiuto il miracolo e pure quello che dicono essere suo fratello. Passi addirittura tuo padre. Ma gli altri potrebbero benissimo tornare da dove sono venuti. Troppi conosceranno il posto dove nascondiamo quelli che vanno protetti!”

Zalaia, allora, aveva cercato di rassicurarla. Erano tutte persone fidate. La vecchia, però, prima di dar loro le spalle ed appoggiarsi al suo bastone, aveva tirato le labbra sottili in un sorriso sardonico.

“Bambino dalle dita di miele, sei tanto bravo col violino e con la falce quanto ingenuo. E’ dei guerrieri come te proteggere con le armi, delle vecchie come me usando il cervello.”

Poi, aveva riposto, rapidissima, lo sguardo sui cavalieri, scatenando in loro una singolare situazione di disagio.

“Haldir abbai come vuole: se uno solo di voi danneggia, mette in pericolo o offende in qualche modo quelli che vanno protetti, tutti rimpiangerete la condanna divina a cui vi hanno sottratti come il giorno più lieto della vostra miserabile esistenza. Siete avvertiti.”

Li aveva indicati uno per uno col dito artigliato e scarno, Cancer per ultimo ed un attimo in più, prima di riporre la mano ed inforcare un sentiero in mezzo al verde che si delineava per incanto mano a mano che lei ci poggiava il piede malfermo. L’erba ingialliva sotto la suola della sua scarpa per far largo alla terra battuta. Ad osservare meglio il tracciato, si sarebbero potute rintracciare le orme di molta gente. Erano piedi piccoli: impronte poco profonde, di bambini che pesavano poco e correvano veloci. Poi, mentre faceva strada, la vegliarda aveva girato di poco il viso verso uno degli ateniesi.

“Tu, che sei talmente bello da sembrare divino: come mai puzzi così tanto?”

Aphrodite, dalla direzione in cui si era girata l’anziana, non poteva aver dubbi che ce l’avesse con lui. Meravigliato, rispose che non era colpa sua se si presentava in quel modo indegno, lordo del sangue dei loro nemici. La vecchia, però, aveva schioccato la lingua. Precisò che non si riferiva alla puzza del sangue dei perduti, che conosceva troppo bene, ma a quella del veleno alle rose. Tabe, allora, fino a quel momento silenzioso spettatore, s’era fatto avanti, a scimmiottarla nel suo incedere claudicante. Intrecciate le mani dietro la schiena, si era poi chinato al suo orecchio, per salutarla. Precisò di essere stato lui a coprire di quel sangue marcio l’ateniese, proprio per camuffare un po’ l’aroma pungente e fastidioso del veleno che il cavaliere si portava appresso.

“Non basta uno stratagemma futile dei miei ad ingannare il tuo fiuto efficace. Resti sempre la migliore, madre.”

Aveva portato il peso del corpo ora sulla punta dei piedi ora sul tallone, a far dondolare, avanti ed indietro, il corpo asciutto, mentre lei lo scrutava infastidita.

“Altrimenti, riconoscendo me e sentendo del veleno, ci avresti uccisi per proteggerli ancora prima di farci spiegare.”

La vecchia aveva sbuffato, maledicendo tra i denti ancora perfetti ed aguzzi il giorno esatto in cui l’aveva generato.

“Anche tu non sei cambiato: sempre come acqua di mare su una ferita aperta.”

Alla fine, aveva accettato il braccio che le era stato offerto per rendere più celere l’andatura.

“Beh, con me la ferita brucia ma almeno cicatrizza prima.”

Lo aveva guardato in tralice, per niente convinta. Quel debosciato si faceva vivo fugacemente una volta ogni dieci anni in media, sempre con nuove esperienze e viaggi, magie e pensieri. Senza dubbio, le somigliava troppo.

 

****************
 

Milo aveva osservato la schiena di quella singolare coppia stranamente assortita. Più che madre e figlio, sembravano nipote e trisavola. C’era però qualcosa nello sguardo lattiginoso di quella che non avrebbe saputo come definire, forse maga, che pareva tremendamente veloce e vivo. Era lo stesso guizzo imprevedibile che saettava nelle spade del presunto figlio, nelle sue azioni imperscrutabili, veloci ed altalenanti ma che, come lui stesso aveva appena spiegato, forse avevano sempre un fine. La minaccia che era stata rivolta loro all’inizio, tuttavia, non sembrava essere stata pronunciata a vanvera. Che lo spadaccino avesse davvero usato una specie di precauzione, nei loro confronti? Se quella maga avesse sentito un odore pericoloso addosso al loro compagno d’armi li avrebbe attaccati tutti, per difendere quelli che andavano protetti? Sarebbe stato anche interessante scoprire cosa o chi fossero, dopotutto, quegli individui.

Quando entrarono all’interno delle mura, l’anziana si ritrovò circondata da un capannello di ragazzini urlanti. Lo spadaccino al suo fianco se ne mise in spalla un paio che gli si stavano letteralmente arrampicando addosso. All’improvviso, i Dunedain parevano aver perso quella loro aria guardinga e minacciosa. Nelle loro espressioni finalmente più comprensibili, sembravano quasi umani. Quello che era stato un dubbio, in Milo di Scorpio, si radicò come una certezza: che fossero semplicemente quei bambini quelli che andavano protetti?

C’era stata la carezza docile da parte di quell’anziana, le cui le dita nodose si erano soffermate sul braccio di Zalaia, dal momento che, tremule, mai sarebbero arrivate alla sua guancia. Milo avrebbe scommesso che, un tempo, persino Zalaia era stato in quel prezioso gruppo di ragazzini. Ebbe la sensazione di scoprirlo nella familiarità tra il figlio di Cancer e quella donna che, davvero, sembrava volesse consolarlo.

Taka aveva sussurrato qualcosa al giovane ed il suo viso offeso da tante righe non era più ostile. Aveva aperto una porta, permettendo solo a Zalaia, Mu e Death Mask di entrare. A loro, invece, aveva ribadito ancora una volta di comportarsi a dovere. Milo, stiracchiandosi appena, onestamente sfinito, aveva deciso che avrebbe iniziato a non curarsene troppo.

Invece, si era rivolto allo spadaccino magro, curioso.

“Davvero sei il figlio di quella donna?”

Gli chiese, vedendolo inarcare un sopracciglio. Dalla reazione che aveva suscitato, non era sicuramente il primo a porgere quel genere di domanda.

****************

Death Mask aveva atteso che entrassero Mu e Zalaia, per poi gettare un’occhiata all’interno del piccolo ambiente. Aveva scorto Mnemosine in un angolo, con le mani intrecciate, strette in grembo, mentre attendeva che si avvicinassero coi feriti sui giacigli e si era fatta piccola, per permettere di eseguire i comandi svelti di Taka senza rubare spazio. L’aveva vista fissarlo intensamente, a mimare un grazie commosso con le labbra, senza voce. Gli aveva fatto cenno di aspettare.

Stupito, si posizionò allora in un angolo, osservandola mentre aiutava ad allungare Seleina tenendola per la testa, per poi ripetere un’azione simile anche con l’Altare. C’era un silenzio quasi assoluto in quella stanza, rotto solo dai sussurri veloci tra le due guaritrici: Taka ordinava e Mnemosine eseguiva. Si udirono poche battute tra Zalaia, e l’Ariete, i passi metallici di questo verso l’esterno e la porta cigolare intanto che usciva. Per qualche minuto, il cavaliere del Cancro si chiese se aveva interpretato male il volere della donna che aveva amato. Poi, al cenno delle iridi verdi di lei, che si erano alzate nelle sue e poi puntate alle spalle di Zalaia, aveva compreso. Lo supplicava di portare ancora un po’ di pazienza. Di perdonarla se non poteva ringraziarlo come si deve e stare vicino a suo figlio. Prima che Death Mask si avviasse per accontentarla, Mnemosine gli aveva sorriso.

 

****************

Tornare libero era esaltante: Haldir non si curava della pelle scoperta sotto la maglia di cotta mentre continuava a tagliare. Mano a mano che trafiggeva quei fantocci a metà tra la vita e la morte ricordava di più, attimo dopo attimo, cosa significasse sentirsi completi, essere un tutt’uno con le proprie origini: come quando i perduti non esistevano ancora. Si era girato verso il gemello, euforico, contando quanti Imuen ne purificasse, spedendoli direttamente all’altro mondo, col movimento della sua falce. Sparendo nemici e fuochi fatui, attorno a loro, le tenebre si facevano via via più fitte, se non fosse stato per i cirri rossi che avevano iniziato a schizzare da bocche di fuoco aperte improvvise nel terreno. Erano come scintille aghiformi coniate dalla mano del fuochista, che vivevano nel firmamento petrolio per morire in pochi istanti. C’era sempre meno tempo: quell’antro di pietra sarebbe crollato una volta per tutte, lasciando solo un cumulo di rocce fumanti.

Haldir saettò in mezzo ai rivoli di lava per tagliare anche una degli ultimi. Poiché riviveva la storia di ognuno di loro mentre ci interagiva, riconobbe la paura ed il viso delicato di quella giovane, che somigliava tanto a Seleina ma non era certo lei. Apprese chiaramente come, con quelle sembianze piacevoli, avesse cercato inutilmente di ingannare, poco tempo prima, persino il cavaliere d’Altare.(2) Nella mente di Haldir, per un attimo, la morte si confuse con la vita vera. La coltre del passato tagliò i suoi ricordi. La vide viva, sorridente, compagna del suo attuale guerriero più forte, prima che la furia dei perduti la strappasse via e Gona, disperato per il dolore, si allontanasse dai suoi simili per restare un animale solamente, con l’espressione dell’asceta e lo spirito dilaniato, per molti anni. Rivisse il sangue e l’oscurità che la avvolgevano, corpo ed anima, per restituirla nel demone odioso che era diventata, ad accusarlo di averla abbandonata, persino lei, esattamente come tutti gli altri. Gli sembrò davvero che fosse Seleina a rivolgergli quell’accusa che lo torturava. (3) Fiaccato dal rimorso, Haldir esitò per una manciata di secondi prima di trapassarle il petto e permetterle di morire davvero, ansante. La punta della sua spada era emersa dietro alla schiena ed al costato della fanciulla perduta, mentre lei si accasciava per spegnersi. Una lacrima che non gli apparteneva strisciò sul viso del gigante bianco, mentre davanti a lui si riapriva, per l’ennesima volta, il vuoto dell’oscurità. Si sbagliava: neppure lui, dopo tutto ciò che era accaduto, sarebbe più riuscito a tornare se stesso. Aveva ricominciato a mulinare le armi e quel clangore, quel rosso che le sporcavano, era fetido. Gridò di impotenza, rabbia e dolore mentre terminava l’opera. Davvero, quella era stata una degli ultimi. Ne rimanevano una manciata. Ringhiando, sibilò i loro nomi, uno per uno, di quella decina scarsa che restava. Alla fine, aveva terminato il fiato. Insieme a loro, aveva trafitto con centinaia di colpi pure se stesso. Era stato alto il prezzo della libertà.

 

Imuen non si accorse del suo esitare, preso solo dal terminare quell’impresa, per uscire al più presto possibile da quella fogna, insieme. Gli sembrava reattivo, potente, come era sempre stato. Aveva capito che non c’erano altri nemici da uccidere, ma solo fantasmi a cui concedere finalmente pace. Concludere tutto e vivere. Non voleva nient’altro. Appena aveva purificato anche l’ultimo fuoco fatuo, il rosso delle fiamme disegnò la sua umbra sul terreno frastagliato. Balzò indietro, richiamando il gemello. Spalancò gli occhi, soffiando: la lava, come la mano aperta di un titano, andava a stringere le dita attorno al corpo accasciato del fratello. Imuen gridò il nome di Haldir, mentre lo vedeva solo espandere la propria aura prima che il magma lo avvolgesse, trascinandolo via, come un’onda. Alla fine, il manto rosso iridescente s’era abbattuto sul terreno, piatto: del gigante bianco non vi era più traccia. Solo l’eco dell’ultima parola a suo fratello, compagno di tante battaglie. Scappa. Sconfitto, del tutto certo di essere rimasto solo, Imuen non attese che il terremoto diventasse più impetuoso, prima di servirsi delle sue facoltà per riemergere da quella grotta senza sbocchi.

 

L’aria fresca gli solleticò le narici mentre riusciva a distinguere chiaramente fuliggine e terra, sulla pelle delle mani. Avrebbe dovuto tornare al campo. Sua moglie lo attendeva trepidante, con suo figlio in braccio. Doveva istruire Zalaia sulla protezione del campo, che non fosse sopraffatto dall’autorità ingombrante ed autoacquisita di Taka. Doveva concludere gli accordi diplomatici con gli ateniesi. Di sicuro quelli stavano avendo problemi con i Dunedain, per via delle diversità fra le loro razze. Poi, doveva informare Gona che avrebbe dovuto sbrigarsi a prendere il posto di Haldir. I Dunedain non potevano restare senza uno dei capi. La sua mente corse a riempirsi di tutti i pensieri più inutili ed assurdi. Qualsiasi cosa, meno che accettare che Haldir non sarebbe tornato insieme a lui. Imuen tese le labbra, sfilandosi l’elmo. Mosse qualche passo e si sedette nell’erba. Poche lacrime lambirono silenziose gli occhi verdi. Tutto era finito. Haldir era stato trascinato via e lui non aveva capito bene neppure il motivo. Perché Halrdir da troppo tempo taceva i dettagli dei suoi piani, i pensieri che tormentavano la sua psiche. Eppure, nell’ultimo momento, prima di andarsene, il suo viso sfinito era sereno, del tutto diverso dalla maschera apatica che aveva conosciuto negli ultimi secoli. Per una frazione di secondo, era diventato di nuovo la mente acuta, sorridente e vivace, che carpiva i segreti della natura aspra che li aveva generati. C’era stato un tempo in cui comunicavano, svelandosi i rispettivi segreti del mondo dei morti e di quello dei vivi, quando tutti e due avevano spalle abbastanza larghe da sopportarne i rispettivi dolori, prima che gli dei ci infilassero naso ed artigli. Artigli ben più affilati ed oscuri dei loro. Più sporchi di sangue innocente. Imuen deglutì. Persino la sua corazza era opera della magia di suo fratello. Il lascito del suo gemello non sarebbe appartenuto alle parole ma alle azioni che si era abbandonato dietro. L’ultimo era nelle vite che aveva protetto a prezzo così caro. Ebbe il dubbio che, se avesse mantenuto intatta la sua corazza, forse la principessina ed il lemuriano non si sarebbero salvati ma Haldir sì. Decise che avrebbe protetto per sé quel segreto. Come, sicuramente, suo fratello avrebbe desiderato. Del resto, lui stesso non aveva ancora una moglie ed un figlio solo per capriccio o dono di Haldir? Rigirò l’elmo scuro tra le dita, sfiorando le incisioni a protezione del metallo. Haldir aveva scoperto quelle magie con impegno e dedizione. Da cuccioli, lo aveva canzonato, una volta, domandandogli se non fosse stato meglio smettere di voler a tutti i costi scomodare certe forze, solo per piegarne la potenza. Haldir, cocciuto, aveva ribattuto che il suo non era una frivolezza, semplicemente la sua natura.

“Siamo una famiglia. Abbiamo lo stesso sangue. E’ nella nostra natura proteggere. Serve per sopravvivere.”

Haldir era diventato ciò che era per tenere fede a quel proposito. Ci aveva creduto ciecamente, tanto da disperdersi nel fuoco o restarci secco in mezzo. Si persuase che non avrebbe ritrovato facilmente neppure le sue spoglie. Lui, invece, tornava vivo al campo, per merito di quel desiderio. Vivo, signore, marito e padre. Ultimo dei domatori delle anime più potenti. Solo.

 

Note:

(1)Cap 34: L’alleanza: la promessa baldanzosa che Zalaia fa di fronte a tutto il concilio dorato, quando Imuen è andato ad arruolare aiuti al Grande Tempio, prima che inizino le botte date con vero sentimento.

(2) Cap 37: Lo scontro – Parte 2. La stessa che sta per attirare Kiki nella primissima parte del capitolo. Però il cavaliere è troppo furbo e non ci casca.

(3)Cap 32: L’arma finale. Nella parte iniziale del capitolo, viene svelato che è una delle accuse con cui i perduti chiamano in causa e tormentano Haldir

Siamo quasi alle battute quasi di chiusura. Come al solito, non ho idea della qualità del risultato finale. Volevo concludere la battaglia includendo tutti i personaggi. Seguiranno uno al massimo due capitoli, per chiarire le ultime questioni lasciate in sospeso. Poi ci salutiamo definitivamente. In ogni caso, ringrazio fatina78. Senza il suo supporto, di sicuro non sarei mai arrivata a questo capitolo. Mi sarei bloccata parecchio prima e questa sarebbe diventata una delle tante storie da cassetto, magari lo diventerà presto ma non qui e ora. Se e quando leggerà, fatina78 sappia che le dico grazie. Davvero tanto.

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Capitolo 40
*** Un vincolo che non si spezza ***


Note: premetto che questo capitolo sarà davvero uno degli ultimi di passaggio. Ho provato a spiegare la vera origine del legame tra Seleina ed Haldir. E' qualcosa che affonda le radici nel passato, che non sono sicura di essere riuscita a chiarire perfettamente. Poi, ci sarà davvero l'azione finale. Avevo promesso altri due capitoli. Non so se riuscirò a restare in questo limite, per cui evito nuove promesse. Diciamo che comunque siamo alla fine. Ecco, posso riassumere il concetto così: tenterò.

La prima parte è un flash back. Quella che segue poco dopo, coi dialoghi in corsivo, spero si capisca che è una sorta di dialogo a due. Qualcosa che riguarda Seleina e Taka.

Se ci fossero punti oscuri, a chi chiede, spiegherò.

Senza grandi pretese...

 

❄️❄️❄️


Così, alla fine sei riuscita a rendermi tuo schiavo.”

Haldir aveva riso amaramente, incrociando il viso nel suo. Il muro trasparente che lo bloccava non impediva la vista attraverso. Ci aveva poggiato le dita sopra e tenui riflessi di luce avevano riverberato sulla superficie cangiante. Lei era bella anche con le lacrime e gli occhi segnati da profonde occhiaie, fiera e solenne, eppure effimera.

Conoscevi i miei intenti. Ti sei lasciato ingannare.”

La frase le era morta sulle labbra, impastata sulla lingua. Haldir aveva scioccato le dita, mentre il muro di cristallo che li separava crollava via come un castello di carte per uno sbuffo di vento. Non aveva risposto. Non era da lui sprecare fiato in vane parole. La verità era che aveva avuto bisogno di illudersi e fidarsi ancora di qualcuno: di lei. Era debole anche lui da quando era stato privato dell’appoggio di suo fratello. Cercava il ristoro di un’altra persona, un posto dove poter essere se stesso. Lui era il bagatto che tentava le mille possibilità e desideri, sempre inquieto. Disposto a ferirsi pure a morte, a fermarsi mai. Era come la vita e la vita non ammette di restare immobile, mentre il tempo scivola via. Non importava quante volte avesse potuto fallire, quanto devastante il contraccolpo.

Ti consumerai. Il potere che viene da me è troppo per un corpo umano. Morirai presto e soffrendo, tu (1) e tutte le tue discendenti che risponderanno al patto.”

Aveva intrecciato le dita alle onde ribelli dei suoi capelli, risalendo dalla spalla alla nuca, tirandoli,obbligandola a mescolare lo sguardo col suo. Due sfumature diverse di blu, neppure troppo distanti.

Per gli esseri umani sono deleteri i vincoli coi Dunedain.”

Sollevata sulle punte, le mani esitanti di fanciulla erano arrivate alle sue spalle, mentre smetteva di piangere ed univa le labbra alle sue.

La più dolorosa delle morti è comunque più vera della prigione dorata a cui costringono quelle come me, per tutta una futile ed interminabile vita.”

Loro erano due anime orgogliose, incapaci di chiedere aiuto, schiacciati lui dal senso di colpa per i suoi figli perduti e lei da una società oppressiva che la obbligava ad essere qualcos’altro e di meno, perché nata donna. Erano due sciocchi, disillusi dallo stesso miraggio: la libertà di poter diventare ciò che si desidera.

 

❄️❄️❄️

 

Le anime del fuoco avevano la forma di giganti liquidi di puro magma, ammassati gli uni sugli altri, addormentati nella lava che vorticava nel ventre dei vulcani. I corpi poderosi e dalla vaga forma umanoide diventavano distinguibili solo le rare volte che uscivano all’aria, durante le eruzioni. Erano entità potenti, preposte alla purificazione ed alla rinascita. Haldir se ne era servito ad ogni epoca per mantenere attivi i sigilli dei perduti. Le anime del fuoco erano vendicative e non tolleravano più di essere dominate aspramente ed a lungo, come aveva osato lui. Ad ogni epoca le sentiva gorgogliare più insofferenti, volitive e rabbiose. Sapeva che non avrebbe mai dovuto abbassare la guardia, che quegli esseri avrebbero tentato in ogni modo di pareggiare il conto. Lo sapeva ed aveva fallito.

Era bastato un attimo: aveva spalancato gli occhi, sorpreso dalla sua stessa debolezza ed il nemico ne aveva approfittato per strapparlo via, ghermirlo lontano. Aveva avuto la salvezza vicina, a pochi centimetri dalle dita e se l’era lasciata rubare per un solo ed insulso istante di esitazione.

Appena aveva visto il fuoco circondarlo si era girato verso il gemello, a gridargli di scappare via. L’istinto di sopravvivenza era esploso dopo, nella sua barriera di ghiaccio e vento ad opporsi alla lava, quando questa l’aveva accerchiato con la volontà di ucciderlo, portandolo con sé sotto la superfice dell’abisso.

La barriera di cui si circondava continuava a cedere, erosa millimetro per millimetro dalla lava tutta intorno.

La cotta di maglia, a contatto coi muscoli, scottava. Il metallo sembrava incandescente, tanto era caldo.

Iniziava a segnare la carne. Il gigante bianco si decise a privarsene, prima di scottarsi. Che la sua agonia fosse prolungata di una manciata di minuti ancora.

Aveva abbassato il viso, le ciocche chiare appiccicate per il sudore alla fronte ed alle guance. I capelli sgualciti sul viso segnato. Ansimante, aveva iniziato a rannicchiarsi su se stesso. Persino mantenere la barriera estesa su uno spazio maggiore diventava gravoso. Era vero. Ormai la sua mente era libera. Non c’era più nessuno a ricordargli della sua colpa. Sorrise. Nonostante tutto non sarebbe mai riuscito a perdonare se stesso. Allungò un braccio, liberando le dita dalla presa della spada, perché si disperdesse per prima nel rosso che, poi, presto, sarebbe stato il turno del legittimo proprietario. Pochi istanti di dolore atroce, prima di estinguersi del tutto.

Ogni piano, tuttavia, era stato realizzato. Tutte le persone a cui teneva erano salve. Poteva abbandonare quel mondo privo di rimpianti. Con Gona sarebbe proseguita tutta la stirpe. Si preparava a raggiungere i figli a cui aveva concesso la pace poco prima, abbandonando persino la seconda arma.

Cominciò a pensare di disfare la barriera. Si sarebbe sciolto nel rosso anche lui, come le sue armi. Nella mente preannunciò il dolore lancinante nel fuoco e la quiete, per accettarli. Non aveva mai avuto paura di sfidare faccia a faccia i propri demoni interiori. Non l’avrebbe fatto neppure con la morte. Chiuse gli occhi, pronto a soffrire per l’ultima volta, rassegnato e sconfitto. Costretto, li riaprì di scatto: nel buio, qualcuno lo chiamava.

❄️❄️❄️

Perché il mio signore non risponde alla mia voce?”

C’era il fuoco nella sua mente ed il protestare di creature che non riusciva ad inquadrare, rosso, semovente, scuro… vivo.

Perché il mio signore non risponde alla mia voce?”

Seleina aveva sussurrato più forte, nella penombra accogliente dell’infermeria. Frasi apparentemente sconnesse e prive di senso iniziavano ad attirare l’interesse di qualcuno. Non era semplice delirio dovuto alla febbre. Taka aveva girato su di lei il viso rugoso.

Il nostro signore non risponde alla tua voce perché non può, bambina”

Seleina aveva dischiuso a malapena le palpebre. Una goccia di sudore era colata dalla fronte imperlata. Quella risposta distorta di donna arrivava ai suoi orecchi quasi graffiandoli. Non sapeva neppure se fosse stata reale o no.

Sciocchezze. Lui ha sempre risposto e continuerà a farlo. Così è da generazioni: è il patto. Ancora non è giunto il momento di scioglierlo.”

Aveva ansimato, cercando di alzarsi ma il corpo non le rispondeva: era un macigno, trattenuto supino da una forza opprimente di cui non riusciva ad avere ragione.

Lasciami andare, chiunque tu sia. Non senti che il mio signore grida nel fuoco? Se non può venire lui, devo essere io a raggiungerlo.”

La voce dell’anziana, pietosa, aveva riso amaramente, poi negato.

Cosa mai potresti fare tu, per lui, bambina?”

Seleina si era divincolata, prima di ricadere con un tonfo su quel letto improvvisato, impotente. Non voleva dormire. Non ci riusciva. Non sarebbe bastata a placarla la malia di una sconosciuta. Haldir lottava tra le fiamme, lo sentiva urlare, mentre il calore saliva di intensità. Non c’era più la terra sotto di lui ma era ancora vivo. Sarebbe bastato dargli il comando, affinché la sua forza si scatenasse davvero, ruggisse un’ultima volta. Forse, quella era per lui anche l’unica possibilità di salvarsi. Erano poche parole che dovevano uscire dalla sua bocca. Un bisbiglio, poco più. Raccolse le energie, stremata. Cercò disperatamente di parlare, dalle sue labbra, però, solo silenzio. Provò a muoversi ancora, invano.

Sarebbe più semplice se tu ti arrendessi al sonno, bambina. Da sveglia, saresti solo partecipe della sua dipartita. Non infliggerti e non infliggergli anche questo dolore. Concedi a te stessa riposo e ad Haldir una morte serena.”

La ragazza aveva percepito discorsi dei cavalieri alleati ed i loro cosmi, le aure rassicuranti dei compagni Dunedain, decisa al risveglio. L’energia del gigante bianco scemava: ormai solo un lumicino. Aveva negato, non seppe se col capo o con la bocca. Ecco, finalmente riusciva a contrastare quell’azione che detestava.

Taka, però, tento l’ultima carta che aveva: la verità.

Non senti che Sire Imuen torna disperato e solo? Se ha accettato lui, devi anche tu.”

Vide la ragazza negare ancora e, a quella ostinazione, fu lei, sfiorata dal dubbio e mossa a compassione, ad arrendersi e chiedere.

Così tanto gli vuoi bene, bambina…”

Le sfiorò la fronte, scostando i capelli bagnati. Tra quella ragazzina ed Haldir il legame era potente. Si cercavano in un modo che trascendeva carne e sangue. Erano padre e figlia, fratello e sorella, maestro ed allieva.

Allora, parla: cosa vorresti mai tentare?”

Taka, finalmente, allentò la presa su di lei, concedendole requie ed un libero respiro. Lesse in lei e scoprì i termini esatti di quel patto che Haldir, con tanto impegno, aveva sempre celato. Apprese che esisteva una parola, concessa solo alle primogenite dei Polaris, che serviva a scatenarlo, come una bestia priva di senno. Un essere senza volontà, se non quella di uccidere. Forse, però, quando non c’erano più vittime, poteva anche significare concedergli la spinta per salvarsi davvero, poiché gli era venuta a mancare la forza per riuscirci da sé.


 

❄️❄️❄️


 

Haldir comprese che qualcuno aveva ancora la cocciutaggine per richiamarlo indietro, a mostrargli un senso, lottare per esso.

Il nome di Seleina gli sfuggì dalle labbra. Mentalmente, aveva supplicato Taka di zittirla, separarla da lui, almeno per quegli ultimi attimi. Sapeva che la ragazzina sarebbe sopravvissuta. Doveva assolutamente. Imprecò mentalmente contro quella vecchia compagna incapace che doveva riuscire a strapparla da lui. Taka aveva sempre avuto l’ostinazione necessaria per riuscire a proteggere tutti i cuccioli del clan, anche se non era mai stata una guerriera. Era o non era per quello che da ere puntava il dito artigliato contro ogni straniero, avvertendolo di non torcere neppure un capello a nessuno dei suoi adorati cuccioli? A quelli che vanno protetti. Come chiamava, con quel suo modo eccentrico, tutti i piccoli che le si facevano incontro. Quello che non poteva in arte bellica lo compensava in tranelli e magie. Se aveva fallito nel bloccare Seleina, era perché quella sua allieva ostinata l’aveva mossa a pietà. Forse, neppure Taka voleva arrendersi a lasciarlo morire in santa pace. L’avevano già invocato insieme quante volte: una, due… tre? A ripetere il suo nome, quello più antico, con cui le primogenite dei Polaris lo obbligavano ad arrivare, come un fedele servitore o un cane da guardia. Seleina, però, aveva fatto male i conti, quella volta: suo padre non era un Asgardiano di nascita. Per lei, l’efficacia del patto era dimezzata. Ormai, quelle due stavano per terminare la serie di inviti a destarsi da quel torpore. Se la immaginava, Taka, a carezzare la fronte di quella sua nuova bambina e a berciare contro di lui, che era un idiota. La conosceva: per risparmiare sofferenza a lei, dove Seleina non sarebbe arrivata da sola, le avrebbe concesso i suoi poteri, per obbligarlo. Quella vecchia maledetta aveva i suoi personalissimi modi per strappargli i segreti che custodiva senza mai chiederglieli apertamente, figurarsi i dettagli del patto da una ragazzina delirante.

Le loro voci, una dolce, d’invito, una gracchiante, che aveva la presunzione del comando, erano fuse insieme, a ripetere le stesse parole, come una nenia, una malia. Haldir sentiva la mente annebbiarsi; il torpore farsi strada lungo vene e muscoli. Quelle due ci stavano riuscendo per merito di quella bastarda, a strappargli coscienza e senno. Haldir strinse le palpebre. Le sue mani stavano per mutare in zampe. Si sarebbe addormentato nel fuoco. Annientando la sua volontà, volevano ad ogni costo concedergli una possibilità di salvarsi, una bambina ed una vecchia decrepita. Imuen era stato messo al guinzaglio da una femmina umana dagli oscuri natali che gli aveva donato un figlio. Lui da una che puzzava di latte e da un’altra che, con un solo calcio, sarebbe potuta scivolare in un attimo nella fossa. Due femmine insulse che, nonostante tutto, lottavano accanite per urlargli di perdonarsi e tornare: non era solo.

“Chi devo sbranare, per te, padrona?”

Domandò beffardo. Sapeva che a gestire il gioco, a quel punto, era solo Taka.

“Distruggi chiunque ostacoli il tuo ritorno da noi, mio signore. ”

Si sbagliava. L’ultima battuta era stata di Seleina. Dopotutto, la piccola non era venuta meno alla sua promessa: fino alla fine non lo aveva chiamato servo ma signore.

(1) Cap 37: Lo scontro – Parte 2. Si tratta di un particolare che credo sia passato inosservato. Seleina aveva svelato qui a Zalaia che una sua antenata aveva stretto un patto con Haldir. In pratica, in questo flash back è presente una sua antenata... L'effetto del patto sarà invece svelato nel prossimo capitolo, almeno ciò che esso comporta per Seleina...

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Capitolo 41
*** Un abbraccio nelle tenebre ***


A causa nostra ogni cosa è iniziata. A causa nostra ogni cosa finirà.

Taka si era portata la mano tremante alla tempia, mentre stirava le labbra e pazientava finché tutto attorno a lei smettesse di girare. Aveva impiegato una quantità spropositata di energia per supportare quella ragazzina. Iniziava ad essere troppo vecchia per determinati giochi. Se mai Haldir fosse ritornato, gliela avrebbe pagata salata. Per aver taciuto sortilegi così pericolosi per mero orgoglio. Non l’aveva sfiorata il sospetto che ci fosse sotto anche dell’altro. Del resto, quanti tra loro potevano definirsi puri, esenti da colpe? Aveva scioccato la lingua. Da tempo aveva perso il conto dei propri peccati… e dei successivi tentativi di espiazione. Se ci annoverava gli errori di suo figlio, le colpe di cui lui stesso si era macchiato, il conto avrebbe superato la miriade. Oltre il novero delle stelle che rischiaravano il firmamento. C’era chi come lei peccava per arroganza, chi come suo figlio per mala fede. Alcuni, semplicemente, perché erano marci dentro. Eppure, quasi a tutti era stata concessa una seconda opportunità. La verità forse era che pure Haldir era invecchiato, anche se conservava il corpo giovane della prima maturità, a differenza sua. Del resto, la natura era stata matrigna ostile e beffarda, coi Dunedain. C’era chi desiderava vivere, come lei, e non poteva. Chi bramava la morte, come Haldir, e non gli era concessa. Semplicemente, dovevano percorrere ognuno la propria ingrata strada.
Lamenti sommessi dal giaciglio su cui era sdraiata quella ragazzina ne annunciavano il prossimo risveglio. Attirata dal suono, si alzò barcollando, iniziando ad avvicinarsi. Presto, si sarebbe destato anche l’altro umano… A qualsiasi etnia egli appartenesse. Tastò appena la fronte madida di Seleina, prima di darle le spalle e dirigersi verso Mnemosine. Per il momento, ogni cosa sembrava procedere per il verso giusto.

“Fa pure entrare quel bambolotto dorato del Jamir. Suo fratello è chiaramente fuori pericolo.”

Specificò, roteando la mano come se stesse sottolineando un particolare che sapeva per certo falso ma di scarsa importanza.

“La ragazzina, invece...”

Accennò alzando il viso verso la direzione di Mnemosine, come se avesse potuto vederla,

“… meglio che dorma ancora un po’. Somministrale il sonnifero più efficace.”

La guaritrice aveva provato a chiedere il motivo di quella singolare terapia. Taka, però, aveva raggiunto con fatica la soglia e sembrava più intenzionata al letto comodo che l’attendeva, piuttosto che a fornire spiegazioni.

“A volte la magia costringe a realtà più spaventose di incubi. Lasciala dormire, pure se il suo sonno sarà agitato. Meglio incubi per lei che la realtà che la attende.”

Mnemosine aveva osservato la capigliatura canuta e scomposta di Taka sparire oltre l’uscio. Se l’anziana non voleva fornire spiegazioni, non ne avrebbe date. Tese le labbra. Era consapevole che Zalaia avrebbe accettato malvolentieri quello stato di cose. Sospirando, scoccando un’ultima occhiata ai feriti, ormai decisamente salvi, strofinò le mani dal poco sangue secco che rimaneva sopra. Aveva dovuto mettere solo qualche punto alla gamba dell’ateniese.

 
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Zalaia aveva alzato la testa per primo, parecchi secondi prima che la porta dell’infermeria si aprisse rivelando la figura slanciata di Mnemosine. La guaritrice camminava verso di loro con passo sicuro. Erano abiti semplici i suoi. Un peplo dal modello neppure differente da quello delle ancelle del santuario. La tinta scura che fasciava il corpo snello contrastava però col pallore dell’incarnato, col rosso acceso dei capelli. Simile alle femmine della sua razza. Diversa per la consapevolezza che traspariva dal suo incedere. Qualcosa che nasceva da un’autorità che poco aveva a che fare col suo stato di donna. Lei era qualcuno dalle cui cure poteva dipendere la sopravvivenza o la morte. Qualcuno di importante e difficilmente sostituibile in una società come la loro. Allo stesso tempo, una persona abituata ad essere messaggera di vita e di morte, semplicemente perché entrambe potevano accadere.
Mu aveva trattenuto il fiato mentre si apprestava verso di loro: aveva letto un’ombra su quel viso schietto ed affabile. Come temeva, la donna aveva esitato prima di rivolgere parola a tutti loro. Aveva cercato lo sguardo di suo figlio e Mu respirò all’improvviso più lentamente. L’istinto gli suggerì che fosse una questione che non lo riguardava.

“L’Altare riprende coscienza. Puoi raggiungerlo, se lo desideri.”

Notò che quell’ombra ancora non passava.

“Zoppicherà certamente per qualche giorno. Ma il danno non sarà permanente. Lo riavrete presto in perfetta salute tra le vostre fila.”

L’attenzione della donna, infatti, pareva rivolta soprattutto a Zalaia, ad una domanda che si aspettava ed alla risposta che colse il ragazzo di sorpresa. Mu osservò il giovane ed il veloce scambio di battute con la madre. Avevano comunicato nella loro lingua e il figlio di Cancer non era rimasto affatto soddisfatto dalle risposte. L’Ariete lo osservò precederlo verso l’infermeria. C’era stato qualcosa, riguardo Seleina, che lo aveva alterato, anche se avevano detto che pure la ragazza migliorava in fretta. Al cavaliere bastò apprendere che anche la principessina fosse fuori pericolo. I pochi passi che lo separavano da Kiki gli sembrarono quasi alieni, scombussolato come era dall’adrenalina della battaglia e sentimenti che non riusciva bene ad indentificare. Persino lui aveva bisogno di qualche attimo di calma, per tornare in sé. Sospirò piano mentre poggiava la mano sulla porta, scostandola per entrare. Decisamente, i cardini avrebbero necessitato di una passata d’olio. Faticò per abituare la vista alla penombra dell’ambiente. Il cosmo di suo fratello, però, emanava una luce inconfondibile. Pochi metri e gli fu vicino.
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Death Mask era inizialmente rimasto in disparte. Aveva controllato con la coda dell’occhio lo scambio di battute tra suo figlio e Mnemosine. Che far arrabbiare Zalaia fosse una faccenda piuttosto semplice non era mistero per nessuno. Che potesse però avere reazioni del genere persino in un frangente simile, lo aveva spiazzato. Si domandò se, dopotutto, si sarebbe comportato diversamente alla presenza di Imuen. Se avesse agito diversamente con lui, se il loro rapporto fosse stato diverso, più saldo. Una parola più piccata da parte di Mnemosine, tuttavia, confermò in lui il dubbio che neppure ad Imuen suo figlio si sarebbe mai sottomesso. Poiché Zalaia era tempesta e quando si scatenava era impossibile placarlo. Apparentemente indifferente, il cavaliere della quarta casa aveva comunque aguzzato gli orecchi ed una parola ripetuta più volte gli si scolpì nella mente. Taka per lui poteva significare tutto e niente. Presto avrebbe chiesto lumi a Mnemosine, appena si sarebbe presentata l’occasione propizia. Per sua fortuna, questa arrivò presto. Suo figlio doveva comunque aver ricevuto le informazioni che pretendeva. Aveva sbuffato e imboccato la medesima direzione dell’Ariete, lasciando la madre imbarazzata a fare gli onori di casa. Imbarazzo momentaneo, celato in uno sguardo provato ma vivace, che aveva comunque cercato di sdrammatizzare ed accoglierli tutti. Come meglio poteva, Mnemosine aveva sorriso, iniziando all’improvviso a rivolgersi a loro in terza persona, a differenza di poco prima. Come se solo in quel momento avesse ricordato delle convenzioni di Grecia ed, in qualche modo, cercasse di metterli a loro agio. Li pregò ancora di avere pazienza. Indicò dove riposarsi, come chiedere cibo. Erano liberi di andarsene ma, usciti dal campo, non sarebbero potuti rientrare. Consigliava comunque loro di restare ancora qualche ora, fino a quando i loro signori non fossero rientrati o fatto pervenire notizie. Si era allontanata dopo averli salutati, quando Death Mask decise di raggiungerla e trattenerla. Troppi tasselli non tornavano ed aveva avuto la chiara impressione che lei non fosse serena. Nessuno obiettò quando le chiese di parlare in privato. Anche se si sentiva l’attenzione di Aphrodite attaccata addosso. Lui però era un amico e non aveva da temere. Era un amico. All’occorrenza, sarebbe potuto essere pure un alleato.
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Mnemosine lo aveva condotto in una delle loro case anonime, non troppo lontane dalle altre. Death Mask si era guardato attorno curioso, anche se non c’era poi così tanto da scoprire in quel piccolo ambiente. Pochi mobili in ordine, tanti libri sparsi. Alcuni in lingue che non conosceva, altri di cui comprendeva benissimo il titolo. Non era troppo stupito che si trattasse di volumi di medicina. Quando la donna gli pose davanti un bicchiere e del liquore, afferrò la bottiglia senza pensarci. L’odore era pungente, il sapore forte e lo terminò in fretta. Lei gli si era seduta a breve distanza, imitandolo.

“Bevi per farmi compagnia o per scaricare la tensione?”

Mnemosine si era morsa le labbra prima di terminare l’azione.

“Entrambe.”

Ammise infine, mentre il liquido raggiungeva di nuovo il livello desiderato nel bicchiere, pulito ma mezzo sbeccato.

“Che ti succede?”

Lei aveva inchiodato le iridi verdi alle sue, prima di sorridere impercettibilmente.

“Solo che tuo figlio è uno sfacciato. Non è la prima volta che mi obbliga ad una figuraccia. Non sarà l’ultima.”

Gli aveva rimboccato di nuovo il boccale, prima di fare altrettanto col proprio.

“Taka che significa, nella vostra lingua?”

Di nuovo, la bottiglia restò sollevata a mezz’aria, mentre lei spiegava che era il nome della loro sciamana. Della maga, insomma, che li aveva accolti e la cui azione proteggeva tutte le persone con loro, in quel momento. Spiegò che Zalaia aveva preteso lumi sulle condizioni di Seleina ed era rimasto turbato del fatto che Taka obbligasse la principessina a restare sedata.

“Lui vuole conoscere i motivi di quella scelta. Secondo lui non ha senso somministrare un sedativo tanto potente in assenza di ferite che provochino dolore. Si rischia solo di indebolire ulteriormente un fisico già provato. Seleina non è ferita. Non gli tornano i conti e non accetta di non capire.”

Si specchiò appena nel liquore ambrato, prima di continuare, inquieta.

“Zalaia è giovane ed impaziente. Dimentica che non sempre è lecito comprendere tutto.”

Death Mask aveva taciuto, cercando di arrivare a tutti i sensi nascosti di quelle frasi. Aveva assottigliato lo sguardo, arrendendosi al fatto che se non lo sapevano loro, che li ci vivevano da anni, lui cosa avrebbe mai potuto tirarci fuori? Più la osservava, più riusciva a recuperare tasselli di quel passato sottratto, ad incastrare nei suoi ricordi la donna che gli stava davanti. Per lei sembravano essere trascorsi solo pochi anni. Anche per lui, del resto, a guardarlo, non sembravano certo passati quasi vent’anni. Era assurdo rendersi conto che suo figlio aveva già quell’età, quasi la stessa in cui lui aveva conosciuto sua madre. Si chiese cosa sarebbe potuto diventare se il fato, per loro, avesse decretato altrimenti. Era assurdo ma si era scoperto a desiderare un ruolo che mai aveva ricoperto. Se aveva chiesto quella vicinanza, era perché forse voleva sentire cosa si provasse.

“Di che cosa hai paura? Anche uno scemo si renderebbe conto che sei turbata.”

Mnemosine avevataciuto. Ne Zalaia ne suo padre erano tipi da accontentarsi di allusioni o frasi a metà. Si morse di nuovo il labbro, in un gesto che la rendeva quasi una ragazzina nei modi. Chissà che forse, nonostante tutto, per certi versi non lo fosse ancora.

“Taka non è solo una guaritrice: è pure una maga.”

Si era riavviata una ciocca di capelli dietro l’orecchio, prima di continuare. Fece giurare a Death Mask che quanto stava per apprendere, avrebbe dovuto tacerlo con chiunque, cavaliere soprattutto. Sapeva di chiedere tanto ma, davvero, aveva pochi altri a cui potersi affidare. Gli afferrò una mano con le proprie. Di nuovo si trovò a supplicarlo e riuscì a strappargli un consenso.
Capiva benissimo che, messo alle strette, con Atena o un superiore, Death Mask, come cavaliere, avrebbe parlato. Ma non le importava. Suo figlio era più importante delle convenzioni dei Dunedain, delle punizioni che potevano esistere per quanti le trasgredivano.

“Taka è esperta nella nostra magia. Si tratta di una forza che dovrebbe appartenere solo ai Dunedain, per lo più ai figli di Haldir. Se si hanno le capacità per dominarla, si viene istruiti ad usarla. E’ fonte di potere, ma pure una energia che ti consuma. Altrimenti, pericolosa come è, viene solo insegnato ad evitarla, in ogni sua forma. Io, col cosmo che ho ereditato, posso riconoscerla e tenermi al sicuro. Mio figlio invece non possiede questa capacità. Ed è cocciuto. Non mi ascolta quando gli raccomando di farci attenzione. Sono certa che Seleina possieda le facoltà dei maghi in qualche modo. Ma non capisco perché, Haldir non le ha insegnato bene. Seleina deve aver usato la magia in modo sbagliato. Ha scatenato qualcosa. Qualcosa che coinvolge Haldir e in cui Taka s’è dovuta mettere in mezzo per correre ai ripari.”

Aveva negato, sconsolata, spostando il viso da quello del cavaliere, per poi stringergli di nuovo il polso muscoloso, per quanto potesse. Si stupì di quella intimità, tra loro, tanto semplice e naturale. Opposta alla passione di poche ore che si erano strappati da giovani.

“Qualcosa che potrebbe coinvolgere Zalaia. Non mi piace quella principessa, DeathMask. Ha troppi segreti. Sicuramente ha un cuore buono e si è ritrovata coinvolta in faccende più grandi di lei e non vuole fare del male a nessuno. Temo si porti dietro una magia che la logora. Qualcosa che, consumata lei, potrebbe travolgere mio figlio, che si ostina a restarle così vicino.”

Aveva stretto quel braccio con quanta più forza le consentisse la sua mano esile.

“Tu mi devi fare una promessa su nostro figlio.”

E quel nostro uscì dalle sue labbra senza che lei avesse il minimo risentimento, verso quell’uomo.

“Se mai avessi ragione e qui accadesse qualcosa di strano, voi cavalieri dovete andare via subito. Allora, prendi Zalaia con te e conducilo al Grande Tempio, lontano da me, da quella ragazzina e dai Dunedain tutti. Colpiscilo di sorpresa, tramortiscilo. Fa come ti riesce ma portalo via. Poi, gli svelerai che l’hai fatto solo perché ti ho supplicato io.”

Accorata, lo pregò ancora, leggendo l’incertezza del suo sguardo. Quando questa si sciolse in un cenno affermativo e poco convinto del capo, poggiò per prima la bocca su quella del cavaliere. A cercare un contatto che conosceva, a rinnovare un sentimento che sapeva mai sopito. Si persenel viso di quel guerriero che, nelle notti solitarie, aveva ricostruito pennellata per pennellata, a cesellare col tocco dell’artista nella perfezione di un ritratto terribile e caro insieme. Ne morse appena le labbra carnose, ricordandone la consistenza, prima che le lacrime lasciassero docili le sue ciglia. Poggiò la fronte su quella di lui, massaggiandone le guance con i polpastrelli. Appena, come se ad un tocco troppo deciso gli potesse sfuggire dalle dita, simile al sogno che costellava notti solitarie. L’ardore con cui l’aveva appena ricambiata, però, era reale. Lo lesse nei pozzi neri e profondi che rendevano il suo viso magnetico, nella mascella volitiva di cui aveva tracciato il contorno col palmo aperto, a catturarlo, stringerlo a sé. Catturata per prima. Solo per poche ore. Una manciata di minuti. Con buona pace del mondo contorto, di fuori.
❄️❄️❄️
 
Zalaia era entrato in infermeria apparentemente scocciato. Aveva gettato un’occhiata distratta verso l’Altare, socchiudendo però appena le palpebre. A giudicare dal ritmo del respiro, era davvero prossimo al risveglio. Dell’Altare tutto si poteva dire meno che avesse avuto una bella cera. A braccia conserte, aspettò comunque che l’Ariete arrivasse, tenendogli la porta dell’infermeria aperta, invece si sbattergliela addosso. Il cavaliere gli era parso stupito di quella apparente gentilezza, mentre gli comunicava pure che, secondo lui, Kiki sarebbe stato sveglio davvero da li a poco.
La verità era che esitava. Temeva davvero che Seleina non ce l’avesse fatta e la singolare cura di Taka fosse solo un palliativo in attesa di una morte annunciata. Titubante, con un atteggiamento del tutto diverso dal suo solito, aveva raggiunto il punto dove riposava lei. Riavviandosi i capelli all’indietro, come se lei avesse potuto vederlo mentre stupidamente cercava di rendersi quasi presentabile, cercò di ascoltarne battito cardiaco e ritmo respiratorio. Non ebbe dubbi che davvero la ragazza fosse sedata. Liberando le dita dalla consistenza delle proprie ciocche ribelli, si avvicinò di più, come se le tenebre potessero davvero costituire un impaccio, per la sua vista da predatore. Studiò Seleina più con l’occhio del medico che avrebbe potuto diventare ed aveva scelto di non essere, prima di soffermarsi sul suo viso e scostarle appena una ciocca sudata dalla fronte. Seleina ansimava ed il suo non era un sonno sereno, privo di sogni, come avrebbe dovuto essere con la droga che le avevano somministrato. Ne riconosceva chiaramente l’odore. A renderlo incerto, soprattutto, furono le parole che la udì pronunciare, nella lingua antica dei figli di Haldir, che a malapena Taka borbottava qualche volta di nascosto. Respirando più a fondo, si chiese dove e come avesse potuto apprenderle Seleina, che era più giovane di lui e si ritrovò a negare col capo, intuendo che Taka aveva preso una precauzione, semplicemente. Seleina delirava di ghiaccio e fuoco, di zanne e sangue, di qualcuno che la chiamava e che non poteva abbandonare assolutamente. Qualche termine Zalaia l’aveva intuito con chiarezza. Lei aveva sollevato il braccio a ghermire il nulla e prima che ricadesse nel vuoto, lui l’aveva afferrato d’istinto. Era la mano di una persona febbricitante. Sbalordito, sbatté un paio di volte le palpebre quando Seleina ripeté due volte il suo nome, sussurrandolo sillaba per sillaba. Incapace di allontanarsi, mentre lei, alla fine, sonnifero o no, si era destata addirittura prima dell’ateniese. Sorrise, quando lei gli chiese se fosse davvero li o solo un’illusione. Alto come era, non fu semplice trovare posto per sedere su quel piccolo giaciglio improvvisato, come lei lo aveva implorato, spostandosi di fianco per fargli spazio. Un po’ di energie, in realtà, lei doveva averle, perché aveva stretto le braccia al suo busto con uno scatto repentino, affondando il viso nel suo torace, singhiozzando piano. Era una situazione nuova per lui, abituato alle femmine che lo cercavano per un amplesso, per godere nel piacere e del riflesso della sua fama. Mai in cerca di conforto o di una forza che non avevano.

“Sei viva. Ed è tutto finito.”

Cercò di rassicurarla, sollevandole il mento con due dita, appena si fu calmata un poco.
Seleina aveva gli occhi cerchiati. Le guance pallide. Gli aveva sorriso, stringendosi ancora a lui, come una bambina. C’era rimasto poco o nulla della guerriera.

“Siamo vivi. E’ tutto finito.”

Le ripeté ancora, massaggiandole la schiena. Quell’abbraccio, per lui, aveva il sapore di un nuovo inizio. Era troppo giovane ed ingenuo, come gli rimproverava Taka. Non si era accorto che sotto, nel profondo, poteva avere il sentore di un addio.

Note: Niente, ci avviciniamo alla fine. Ancora un po' di pazienza, per chi ancora legge. Che ci crediate o no, ho in mente una trama e poco tempo per finirla. Per cui, chissà, magari i capitoli andrebbero rifiniti meglio (spero che nonostante tutto si comprendano. Ormai non posso fare tante cesellature) ma conto di non metterci più tanto per terminare...

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Capitolo 42
*** Il peso di un rimpianto ***


L’abbraccio di Zalaia aveva il sapore delle cose non dette, di promesse importanti che forse non avrebbero potuto essere mantenute. Quando lui aveva provato ad allontanarsi, Seleina aveva rinforzato la presa. Non riusciva a staccarsi dal suo torace ampio, dove le parole di lui erano vibrate calde, rendendo ancora più rassicurante la sua voce. Con la guancia premuta sul suo petto, aveva alzato finalmente lo sguardo, a mostrare il volto perso di bambina che troppo a lungo aveva giocato ad essere combattiva: una guerriera.

Docile, aveva sollevato il mento sotto la guida delle sue dita.

“Siamo vivi.”

Aveva ribadito Zalaia. Era vero. Era un fatto importante ma non l’unico degno di nota.

Seleina si cullò nel suo tepore. Ritornò a poche ore prima quando, incapace di muoversi, Zalaia l’aveva abbracciata e condotta fuori da quell’abisso. Allora, aveva percepito chiaramente le sue sensazioni e pensieri, anche se debole ed impossibilitata a rispondere. Lo aveva sentito offeso, disperato, distrutto. Contro di lei e contro Kiki. Zalaia aveva compreso che gli avevano mentito per proteggerlo ma non poteva sopportarlo. L’aveva giurato a se stesso: avrebbe spalancato le porte dell’inferno, se glielo avessero chiesto. Ci sarebbero entrati tutti e tre insieme: lui, la persona che amava ed al cui cenno sarebbe stato pronto a smarrirsi, un alleato che ormai aveva imparato a chiamare amico, volentieri pure fratello.

A quella consapevolezza, dura come il diamante, Seleina non era riuscita a frenare le lacrime. Non gli aveva permesso di aggiungere altro. Non una parola o un fiato. Mai nessuno l’aveva amata così tanto. Non suo padre, con cui si era dovuta scontrare per l’infanzia e l’adolescenza. Non Kiki, con cui aveva condiviso moltissimo ma a cui aveva dovuto nascondere quel suo legame con una natura quasi immortale. Non Mu, che le aveva offerto supporto, ogni volta che a causa della propria debolezza ne aveva avuto bisogno. Zalaia aveva conosciuto ogni parte di lei, anche i segreti che per ordine di Haldir non poteva svelare e le aveva comunque regalato una fiducia incondizionata. Il dono più grande per lei abituata solo ad essere messa in discussione sulla bontà del suo agire. La amava così tanto che avrebbe rischiato di perdersi, se avesse significato renderla felice. Per lei, che aveva conosciuto la cattiveria e l’odio in molte sue forme, quel sentimento era ancora più potente, impossibile da ignorare. Zalaia ci teneva fino al punto da farle dimenticare tutti i problemi che si trascinava dietro. La illudeva di essere come tutte. Degna di essere amata, al di la delle sue scelte, della natura ambigua dei suoi poteri.

L’unico modo in cui Zalaia le chiedeva di guarire la sua anima non era purificandola, causandole dolore. Solo ricambiarlo. Con pari intensità ed ardore. Allora, l’aveva baciato impacciata. A nessun altro decise che avrebbe mai donato quella parte di se. Si era staccata dopo lunghi secondi, con le guance rosse ed un fragile sorriso.

Nel fuoco qualcuno bruciava e reclamava il suo intervento. Prima, però, sarebbe venuto Zalaia. Poggiò la fronte bollente sullo spallaccio freddo della sua corazza. Dopo un iniziale sbigottimento, l’aveva sentito ridere. Una risata liberatoria delle sue: di stomaco e di cuore. Forse di vittoria verso qualcun altro. Per un po’, prima di Haldir, ci sarebbe stato solo Zalaia.

❄️❄️❄️

Mu aveva visto e finto di non vedere. Aveva celato il sussulto dell’animo in un battito impercettibile delle ciglia, le iridi abbassate solo verso suo fratello, che dormiva un sonno sereno ma era pallido come una statua di sale. Aveva dato le spalle a Seleina e Zalaia, al significato dei loro gesti, così palese. Pochi rapidi istanti erano passati nell’imbarazzo della sua mente e si era sentito uno sciocco, preso in giro da sentimenti che non conosceva ed avrebbe dovuto sapere interpretare, vista la sua maggiore età, rispetto a quei due.

In fin dei conti, cosa erano Zalaia e Seleina al suo confronto? Il primo circa un coetaneo di suo fratello, la seconda poco più di una bambina. Anche se in rari momenti aveva mostrato la fragilità di una donna, il fascino del fiore in boccio. In lei aveva visto una persona che non c’era e non avrebbe dovuto mai vedere: non la realtà ma un desiderio dell’animo, una proiezione della propria mente. Una fanciulla inerme da proteggere. Una guerriera che come lui rifiutava di combattere per la sua indole, capace di condividere i suoi sentimenti, affezionata a Kiki quanto lui. Qualcuno che aveva scelto di vivere le emozioni liberamente, nel modo che lui, cavaliere della dea, si era sempre precluso. Perché prima doveva venire la dea, poi l’ideale, in seguito tutto il resto. Seleina era stata probabilmente il miraggio del proprio rimpianto giovanile, piegato sotto il peso e la luce accecante della cloth dell’Ariete.

Aveva intuito un sentimento che non c’era nell’abbraccio in cui l’aveva protetta da se stessa e dalle proprie lacrime, nello sguardo che si erano scambiati in una notte di pioggia, quando avevano specchiato gli occhi dell’uno in quelli dell’altra (1). Aveva nutrito quell’infatuazione puerile nel tepore della propria mano, dove aveva cullato la sua guancia, togliendole dalla pelle quel sangue marcio e rappreso che non poteva e non doveva assolutamente appartenerle (2). Si era illuso, semplicemente ed irrimediabilmente.

L’intuito gli suggeriva che qualcosa fosse accaduto nelle tenebre di quell’abisso. Era un mistero custodito nell’oscurità di quel posto, che gli aveva quasi strappato nuovamente suo fratello. I figli di Haldir non rivelavano i loro segreti. Quello l’aveva chiaramente compreso. Per interagire con loro bisognava accettarlo. Kiki l’aveva fatto e ci aveva guadagnato l’affetto incrollabile di Seleina. Zalaia, testardo e possessivo come era, l’aveva accettato anche lui sicuramente. Il grande Mu dell’Ariete, però, era un cavaliere d’Atena. Il suo affetto e volontà dovevano convergere unicamente nella dea ed in ciò che essa incarnava.

Nonostante ciò, nel bacio esitante dei giovani amanti che gli stavano al fianco e si sforzava di ignorare, per una frazione di secondo, si convinse di scorgere il proprio, quello che avrebbe potuto concedersi con la stessa persona in una notte di pioggia, protetto nell’intimità del primo tempio (3), se fosse stato prima Mu e solo dopo il santo. Se avesse tenuto fede per primo a quel sentimento che era desiderio ed illusione. Eppure, tra le sue dita premute su quella guancia, per pochi momenti ed occasioni, quel sentimento era stato reale.

❄️❄️❄️

Percependo quelle vibrazioni, Imuen si era fermato immediatamente. Aveva annusato l’aria, perplesso. Quell’energia era familiare, troppo, ed era strana, alterata. Sconcertato, non riusciva in nessun modo a credere che si trattasse del gemello. Era ormai in vista delle mura, in prossimità del campo. Una volta rientrato, avrebbe potuto chiedere lumi a Taka, forse pure a quello scellerato di suo figlio che, senza dubbio, qualcosa della magia comprendeva sicuramente.

Era un cosmo potente, troppo sconfinato per appartenere ad un dio, troppo ferino per un uomo. Tremò riconoscendolo. Volse le spalle al campo, ai suoi figli di rimasti ed a quelli di Haldir, tutti quanti da proteggere. Al suo cucciolo, che lo attendeva tra le braccia della sua donna. Avvertì mentalmente Zalaia di organizzare subito la difesa e non lasciar uscire nessuno assolutamente.

Si scatenava qualcosa di impossibile. Non era ancora finita.

❄️❄️❄️

Seleina avvertì immediatamente l’approssimarsi di Sire Imuen. Ancora stretta a Zalaia, aveva avuto un lieve sussulto, prima di usare istintivamente le sue facoltà per confonderlo.

Al suo scatto, Zalaia aveva pensato che stesse di nuovo male. Si era preoccupato, iniziando a parlarle in un modo tanto pacato da risultargli del tutto alieno. Accolse la mano che lo rassicurava, sostando sulla sua guancia, la barba troppo lunga che iniziava a pungere appena al tocco delle dita umide di sudore. Seleina l’aveva rassicurato con un sorriso. Con quei modi lievi che avevano solo le femmine nell’intimità coi loro cari, silenziose, preziose nei loro gesti. Nei ricordi della sua infanzia, Mnemosine era solito placare il suo animo tumultuoso in maniera non troppo diversa. Per lui, aveva significato tornare un po’ cucciolo, a quando le cose erano più complicate e semplici assieme. Non indossava un’armatura ma invece di un clan aveva solo sua madre da proteggere ed i calci di Taka da evitare. Reso sordo agli ordini del suo maestro, aveva abbandonato quella stanza sollevato, seguito presto persino dall’Ariete. Convinti a lasciare per un po’ i feriti da soli a riposare. Del resto l’Altare dormiva ma era un riposo ristoratore e sereno.

❄️❄️❄️

Mu si era attardato un attimo di più sulla soglia. Aveva guardato Seleina un’ultima volta pensieroso prima di lasciarla andare definitivamente. A Seleina parve di scorgere un impercettibile sospiro lasciare le sue labbra. Probabilmente, anche a lui avrebbe dovuto qualcosa: poche parole di chiarimento o di commiato. Anche solo per mettere una pietra sopra neppure lei capiva cosa. Ad un’infatuazione veloce che si era spezzata davanti alla potenza di un sentimento vero. Ad un pezzo della sua anima che scivolava via, insieme a Zalaia.

Lei aveva scelto di essere una Dunedain, come Mu cavaliere della dea.

Attese che tutti fossero fuori, che Mu sbattesse appena più forte la porta. Ormai, ciò che pensasse di lei il cavaliere non le importava. Rimasta sola, rivolse un saluto mentale pure a suo fratello, prima di puntare lo sguardo deciso verso la finestra. Pochi granelli di pulviscolo nuotavano nei raggi del sole del tramonto che filtrava, rosso e sonnacchioso. Scrutò le proprie mani. Il potere di Haldir, in lei, cresceva. Lo sentiva pulsare nelle vene, insieme al sangue che ribolliva e cominciava a scottare nelle vene.

Il patto ci consuma ma rende potenti. Aveva lasciato scritto la sua antenata, per quante delle sue discendenti avrebbero risposto a quella chiamata. Il destino beffardo a lei non aveva concesso scelta alcuna. Quel potere aveva dovuto accettarlo per forza. Il cosmo di suo padre, che in qualche modo aveva ereditato, era risuonato come le corde dell’arpa pizzicate da un abile bardo, insieme a quell’unica stilla di magia che aveva ereditato da Haldir. A tessere una melodia profumata di neve e ghiaccio, costellata di sangue. Tale era stata la sua vita da quando era nata, dal primo istante che le facoltà di Haldir avevano cominciato a renderla diversa e debole, eppure potente, da alcuni temuta per le sue unicità.

Era tempo che tutto terminasse, che il potere di Haldir facesse ritorno nelle mani del legittimo proprietario, che sia lei sia il suo maestro fossero liberi per davvero. Avvertì invece Tabe di approntare la difesa. Poté vederlo chiaramente nella mente il ghigno beffardo di quel suo fratello acquisito, che si era rivelato ben presto opposto alla figura positiva che aveva immaginato. Tabe era fumo e nebbia, come le droghe che era stato solito consumare nei secoli passati in cui si nascondeva tra gli umani. A sfidare la sorte e la vergogna. Lo spadaccino, ma anche mago. Che aveva bestemmiato su leggi troppo sacre e per un lungo periodo era stato bandito. Poi tornato al suo signore, con una macchia mai cancellata del tutto, solo occultata dalla sua abile madre. Ma Seleina aveva scoperto, accettato, taciuto. Come voleva Haldir: i panni sporchi si lavano in famiglia.

Tabe era quello di cui si fidava meno ma da cui aveva imparato meglio: con la spada, come confondere nemici ed amici.

Seleina sospirò. Implorò tutti gli dei e tutte le stelle di concederle non tanto il ritorno quanto la forza. Era sola. Da sola avrebbe dovuto combattere.

Note

(1) Cap 33: mi riferisco al momento in cui Seleina e Mu trascorrono da soli al primo tempio, prima che li raggiunga anche Kiki. Li non avevo chiarito. Qui si

(2) Cap 37: L’attimo prima che Seleina vada in supporto a Kiki e Zalaia. Anche qui ha un fugace scambio di battute con Mu

(3) Stesso capitolo e momento della Nota 1


Insomma, ci avviciniamo alla fine. Se non altro, credo di aver sciolto la questione del triangolo tra Seleina e Zalaia o Mu. Adesso mi resta il meglio. Per chi legge, ci si ritrova qui, spero il prima possibile. Ce la metterò tutta. Ormai è un percorso, tortuoso si, ma che voglio finire... Spero

 

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Capitolo 43
*** Per l’ultima volta ***


In quante parti può spezzarsi un cuore?”

Per quante sono, deve continuare a battere.”

❄️❄️❄️

Seleina aveva trattenuto il fiato mentre Zalaia usciva, chiudendosi la porta dell’infermeria alle spalle. Aveva abbassato il viso al giaciglio di Kiki. Il respiro del cavaliere era flebile e stanco ma si stava mano a mano regolarizzando. Ne strinse appena la mano. Fino alla fine, suo fratello aveva tenuto fede al proposito di non lasciarla sola. Anche se non erano legati per sangue, nessuno avrebbe potuto spezzare il vincolo che li univa. Sarebbero stati fratello e sorella per sempre, anche se guerrieri di due caste tanto diverse. Ne abbandonò le dita gelide dopo averle strette un po’ più forte.

C’era però un altro legame che non si poteva spezzare e reclamava il suo intervento. Serrò le palpebre, con la consapevolezza che, quando le avrebbe riaperte, non avrebbe più avuto neppure un istante per esitare. Respirò imponendosi calma. Nella sua mente il rosso e nero luminosi della lava presero forma. Haldir ululava. Bestia senza senno, non avrebbe atteso a lungo il suo intervento. Ovunque si fosse nascosta, lui l’avrebbe trovata.

Uscì da quella stanza silenziosa come un’ombra. Non avrebbe messo in pericolo anche altri. Quella questione riguardava solo i Polaris ed Haldir. Aveva imparato i percorsi secondari già dalla prima volta che aveva messo piede in quel villaggio. Si allontanò celere, non vista. Dopo poco, era già lontana.

❄️❄️❄️

Come era lei?”

Era solo una bambina col naso rivolto alla volta celeste, persa a cercare le stelle di suo padre o ammirarle tutte. Meravigliose, che brillavano alla stessa maniera. Come tutti i cuccioli, però, era curiosa. Sentimento giusto, visto che quel patto includeva una sua antenata. Haldir sbuffò, richiamandone i dettagli alla memoria.

Aveva i capelli neri, gli occhi grigi.”

Il gigante bianco aveva osservato la sua delusione. Una risposta anticipa però una nuova domanda, poi un’altra ancora. Era ovvio che non le interessasse l’aspetto fisico della sua antenata. Non solamente almeno.

Ed era bella? Più di mia zia e di mia mamma?”

Aveva inarcato un sopracciglio, seccato.

Per me lo era. Soprattutto quando stava da sola con me, senza tutti quegli orpelli con cui quella della tua razza obbligano le femmine d’alto rango. Come se fosse un vestito o un’acconciatura a stabilire il valore di una persona. Per tacere delle convenzioni sociali.”

Si stupiva sempre di se stesso,di quanto fosse naturale conversare con quella creatura. Lui, che due parole di fila erano già troppe. Come se lei poi, dal basso dei suoi pochi anni, potesse davvero comprendere. Avrebbe dovuto però ricredersi. I cuccioli, a qualsiasi razza appartenessero, avevano sempre il loro personalissimo ed istintivo modo di comprendere.

Si vede che le volevi tanto bene.”

Seleina aveva stiracchiato le gambe, intorpidite per il lungo tempo in cui le aveva tenute incrociate. Aveva taciuto per un attimo. Sicuramente ci aveva pensato su.

Ma lei ti voleva bene quanto tu ne volevi a lei?”

Apparentemente impassibile, anche Haldir aveva scrutato le stelle, prima di rivolgersi alla bambina.

All’inizio sì. Mi amava così come io amavo lei. Ma era giovane e fragile. I suoi e tuoi simili l’hanno portata a dubitare del nostro sentimento. Lei ha ingannato me per proteggersi ed io ho ingannato lei, per l’affronto subito. Ci siamo amati ed odiati con la stessa intensità.”

Non erano discorsi che un essere umano avrebbe mai affrontato con un cucciolo ma i Dunedain, specie i suoi figli, per natura leggevano le anime e giocavano coi sentimenti. Capivano prima certe cose, anche troppo presto. Era nella loro natura. Ancora non immaginava che presto, anche per quella bambina a cui si era affezionato, sarebbe stato così.

Seleina aveva assottigliato lo sguardo e piegato le labbra, scrutandolo. Chiaramente non era convinta.

A me sembra invece che tu la ami ancora molto. Altrimenti, grande come sei, l’avresti trovato da tempo un modo per liberarti del patto.”

Haldir era rimasto senza parole. Semplicemente perché, forse, era vero. Un modo c’era. Gli era bastato aspettare che la genia dei Polari si mescolasse a sangue non asgardiano. Gli sarebbe bastato prendersi la sua vita per distruggere quel patto che lo obbligava a presentarsi agli ordini dell’ultima Polaris di turno. Lui però era troppo affezionato a quella ragazzina per osare anche solo pensarla una cosa del genere.

La lasciò avvicinare, che gli tirasse con la mano troppo piccola la stoffa dei pantaloni.

Io però te lo prometto. Non ti ordinerò mai niente e non ti obbligherò mai a nulla. Anzi, se ci sarà un modo per liberarci del patto, acconsentirò.”

Haldir aveva riso. Ne aveva sentite tante di stupidaggine nella sua lunga esistenza. Si concesse di leggere in quell’anima piccola ed innocente che tante volte gli aveva offerto ristoro. Per celia, perché non poteva assolutamente crederci neppure lei ad una cosa del genere. Invece, colpito, tacque. Quando aveva pronunciato quelle parole, lei era sincera.

❄️❄️❄️

Taka aveva grugnito e si era scossa sulla sedia. Il suo russare era diventato subito meno rumoroso. Il respiro si era placato, con la pigrizia di un’onda che digrada lenta verso la battigia. Repentine, le rughe della fronte si erano arricciate, a segnare solchi profondi che accartocciavano di più la pelle. Aveva spalancato le iridi lattiginose. Nel profondo della mente e del cuore solo nebbia.

Presente e passato di confusero illusori nella sua mente. Al bianco caliginoso della sua anima bistrattata si sostituì il rosso. Del sangue che aveva versato, per difendere suo figlio. Schizzi vermigli e vivi su gote rigate di cucciolo indifeso. Il pianto sottile e confuso di Tabe mentre lo allontanava dal corpo sgozzato del suo amante. Di nuovo giovane, aveva preso in braccio il suo piccolo e sorpassato quel morto esangue con un solo salto, senza voltarsi indietro. Aveva lasciato scivolare l’arma sporca dal proprio braccio inerte, mentre ripiegava le dita ossute e le racchiudeva dietro la testa del figlio, spingendolo sulla propria spalla, perché non posasse più lo sguardo su quell’orrore. I suoi passi erano agili e silenti. La sua voce bassa e tagliente mentre intonava la ninna nanna di quando era appena nato, per calmarlo.

Quando quello scellerato del suo amante aveva parlato male di lei aveva sopportato: in fondo era vero che era quasi una vecchia con un moccioso nato per caso, rispettata solo in virtù dei suoi poteri. Aveva taciuto persino gli schiaffi, poiché aveva ritenuto fondata pure l’accusa di essere una di costumi piuttosto liberi, visto il gran numero di compagni che cambiava dalla morte prematura di quello legittimo, tutti giovani ed affascinanti, lei avanti negli anni e brutta come era.

Ma che qualcuno osasse anche solo pensare di levare un dito su suo figlio, quello no, non avrebbe mai potuto tollerarlo. Ed il falcetto aveva reciso la giugulare con la stessa maestria con cui tagliava le erbe mediche nei prati isolati. Inesorabile. Come le gocce di sangue che colavano dalla lama ricurva, disegnando uno spicchio di luna e lasciando tracce rosse sul pavimento o sull’ordito scuro della sua veste.

C’era sempre stato il rosso nella vita e nella mente di Taka, in ogni istante. Persino in quello in cui aveva smesso di essere la madre solo di Tabe, quando quel maledetto era stato esiliato per la malvagità estrema delle sue azioni. Quel giorno, quando Haldir lo condannava, aveva sputato in faccia al suo erede, prima di essere la prima ad allontanarlo.

Il sangue e il fuoco erano ragione e scopo della sua esistenza, da sempre. Da quando aveva maledetto il suo ruolo di genitrice per quel disgraziato. Da quando aveva smesso di essere la madre di uno. Per lavare la colpa, aveva deciso di diventare la nonna di tutti. Nel suo abbraccio stretto e rapace aveva deciso che avrebbe difeso tutto il clan, dopo Haldir. Lei aveva sempre saputo quanto era importante preservare quelli che andavano protetti. I cuccioli erano da sempre linfa, vita. Vicina alla vecchiaia, era diventata davvero Taka. Nel sangue e nel fuoco era rinata e vissuta ogni volta. Sangue e fuoco, reclamavano di nuovo il suo interesse, ancora. Li sentiva gorgogliare ed ululare insieme.

Spalancati gli occhi lattiginosi, impugnò il suo bastone ricurvo, prima di raggiungere l’esterno con quanta più velocità il suo corpo malconcio le concedesse. Zoppicava ma coprì in pochi minuti la distanza che la separava da suo figlio e quell’altro incapace. Degni eredi del cane da guardia balordo che Haldir si era abbassato a diventare.

❄️❄️❄️

Quando gli aveva chiesto se fosse davvero il figlio di Taka, Tabe aveva inarcato un sopracciglio. Poi, alla curiosità di quell’umano, si era fermato a rivangare il suo passato di salsedine e correnti. Il cavaliere dello Scorpione aveva la pelle dorata degli uomini nati in terra di Grecia e l’interesse genuino delle persone senza malizia, dotate sì di intuito ma poco avvezze ad impostare trame machiavelliche. Un guerriero abituato ad eseguire ordini, non interrogarsi sui motivi che c’erano dietro, Uno che, almeno la prima volta, sarebbe stato semplice ingannare.

Tabe sorrise con quell’espressione malinconica che sfoderava di rado, quando la stanchezza aveva il sopravvento e non gli permetteva di essere lucido e del tutto presente. Rare occasioni in cui posava le vesti del folletto malevolo per vestire quelle di ciò che era stato. Si era seduto incrociando le gambe a terra. Stirate schiena e braccia, aveva portato le mani sotto le cosce. Aveva tanto da rievocare. Agli angoli della mente, pizzicava anche qualcosa da nascondere.

“Sono davvero il figlio di quella donna. Sono nato molti secoli fa.”

Ammise suo malgrado. Lo sguardo perso lontano, nei colori accesi del mondo che a lui, a differenza di sua madre, non erano mai stati preclusi.

“Così tanti che chissà… forse chi ha forgiato la tua armatura era ancora in fasce in quei giorni.”

Aveva iniziato a dondolare la schiena, nel modo solito di ogni volta che era stanco, avanti ed indietro, come l’eterno andirivieni delle onde. Si era sempre sentito composto d’acqua, malleabile e senza forma come le anime (1) di quell’elemento. Capace di scavare in profondità e rendere folli tale e quale quelle creature. Sapeva che spossato non avrebbe potuto nascondere a lungo quella sua particolarità. Del resto, non si era mai vergognato di essere un po’ matto. Perdere in alcuni frangenti il contatto con la realtà era lo scotto che aveva accettato per divenire così abile nel manovrare quelle creature. La loro magia era tutta un dare ed avere. Per entrare in sintonia con la terra, sua madre aveva finito per diventare ceca. Bisognava avere molto da offrire per giocare con quella magia e riceverne il potere. Per diventare grandi.

Tabe sospirò. Quella sua nuova mezza sorella aveva ben poco da concedere in cambio per sciogliere il legame col loro mondo magico, oltre alla vita. Lo aveva però supplicato di coprire la sua fuga. Tabe allora si era concentrato immediatamente per inibire i poteri di sua madre e le capacità più particolari di quegli umani. Leggendo in loro, aveva intuito immediatamente pure della delusione dell’Ariete. Ma non era quello che importava. Fissò il cielo beffardo del tramonto e le sue dita rosse che ghermivano le nubi. Rise forte, squillante. Che lo definissero strano pure gli ateniesi oltre agli altri Dunedain, ma ne catturasse pure del tutto l’attenzione. Certo di esserci riuscito, aveva appena iniziato a raccontare delle peregrinazioni di sua madre. La più lunga per mare, quella di quando era nato. Taka si stava svegliando, e giungeva da loro, più veloce che poteva, arrabbiata. Aveva capito presto per l’intervento di chi aveva perso il controllo su quella ragazzina. Presto ma non subito. Se la ritrovò davanti che aveva strattonato lo Scorpione, ben più alto di lui.

Taka aveva affrontato suo figlio ringhiando, dirigendo il bastone dritto sopra la sua testa, prima che lui si liquefacesse in gocce scintillanti che bagnavano il legno ed i piedi di una vecchia. Tabe le era ricomparso alle spalle, a privarla dell’arma improvvisata, nonché appoggio.

“Innalza di nuovo la barriera prima che si scateni il finimondo.”

Intimò alla madre, mentre questa ancora berciava.

Poco abituati a quel sipario, gli ateniesi si erano ritirati in disparte, fra loro.

A Zalaia, però, non sarebbe riuscito a mentire. Non poté nascondere che stava per scatenarsi qualcosa.

Gli batté la mano sulla spalla, prima di incamminarsi verso sua madre, sul punto più alto delle mura: forse non sarebbero bastate le anime della terra a difenderli tutti, quella volta.

“La padrona ha scatenato il cane da guardia e noi dobbiamo proteggerci, bambino dalla dita di miele. Organizza la difesa, che se lei non riesce a richiamare la sua bestiola qua finisce male tutto.”

❄️❄️❄️

A Seleina sembrava di avanzare sospesa tra il sonno e la veglia. Le sembrava assurdo che quella in cui si fosse cacciata fosse effettivamente la sua realtà. Eppure, era reale in sapore del sangue che le si spandeva in bocca. Esattamente come l’energia che le scorreva sotto pelle, nelle vene delle braccia e delle gambe. Nei suoi piedi che, mai, erano stati così veloci. Davvero, il potere di Haldir, che la consumava, la stava pure rendendo ricettacolo di un potere spropositato. Per un attimo, la testa prese a girare. I muscoli a tirare. Eppure, non sarebbe riuscita ad arrestare la sua corsa.

Nella sua mente, l’ululato di Haldir era risuonato feroce. Anche la coscienza del suo signore era distante, sopita. L’aveva visto ringhiare e dimenare il capo. Distruggere il ghiaccio che lo circondava per tuffarsi nel rosso bollente della lava. Aveva ringhiato di nuovo Haldir. L’ululato, per un attimo, era divenuto guaito, grido di atroce dolore. Il fuoco aveva circondato la sua mole mastodontica e il pelo sfrigolava nell’abbraccio ruggente della lava.

Ma la forza della vita non si arresta. Quando vuole sopravvivere è più atavica della morte. Si era fermata Seleina. Aveva tremato, trattenendo il fiato. Haldir aveva urlato. Il suo lamento di bestia graffiava quanto uno umano. La terra sopra di lui, però, esplose all’istante. Il gigante bianco, col manto in alcuni punti bruciato, era emerso dall’abisso. Neppure il fuoco l’aveva trattenuto.

Zoppicava appena per una scottatura più evidente alla zampa anteriore destra. C’era la pelle bruciata sotto il pelo scarmigliato. Eppure, il suo sguardo allucinato era lucido. La bava colava dalle zanne affilate mentre la lingua inumidiva il naso.

Seleina deglutì, prima di riprendere la sua corsa. Tra i pochi comandi che il patto le concedeva, ce n’era uno per condurre il cane da guardia a sé. La voce uscì bassa e chiara dalle sue labbra screpolate mentre lo ammaliava. Ricominciò a correre. L’uno verso l’altra. Come la magia li obbligava.

❄️❄️❄️

Camminando lentamente nell’erba alta, cadenzando i passi per ritardare il più possibile il rientro al campo ed il dover annunciare di essere rientrato solo, Imuen era ormai giunto in vista dalle mura di cinta. Torvo come era non aveva alzato subito lo sguardo verso gli angoli fortificati dove i bracieri accesi svettavano nel cielo dalle tinte cremisi del tramonto. Li contò tutti e quattro e si chiese se la dentro fossero ammattiti. In quel modo tenevano sì tutti al sicuro all’interno ma rendevano anche impossibile sia entrare sia uscire dal perimetro abitativo. Lui, che ne era uno dei signori, sarebbe stato obbligato a chiedere il permesso di accedervi, come qualsiasi estraneo. Il fastidio, però, iniziava a montare in rabbia.

Sbuffando, non aveva proseguito di nemmeno un metro, quando un’aura spaventosa catturò la sua attenzione. Concentrato, non seppe dare un senso al fatto che si trattava senza dubbio di Haldir. Il suo gemello, anche nei momenti disperati, aveva la capacità di mantenere la calma. In quel frangente, invece, percepiva solo furia. Una rabbia feroce e priva di senno di cui mai lo avrebbe creduto capace. Stava per andargli incontro e dare un senso all’assurdità di quella situazione quando, si accorse di una nuova persona che si avvicinava. L’odore di quella ragazzina gli saettò alle narici. Un attimo dopo, arrestava la fuga di Seleina, ponendolesi davanti. Lei era scartata indietro, allerta. Aveva spalancato gli occhi chiari, cerchiati da profonde occhiaie, come se non avesse capito bene chi avesse di fronte. Era pallida come un cencio e correva davvero come se avesse il diavolo alle calcagna. Lei l’aveva fissato stralunata, per poi precedere ogni interrogativo e spiegare che doveva distanziarsi il prima possibile da tutti, per non metterli in pericolo.

“Il pericolo di cosa?”

Iniziò allora a chiedere Imuen, spazientito, strattonandola per un braccio. La ragazzina si era sottratta con uno scatto dalla sua presa, del tutto indifferente alla sua autorità.

“Di Sire Haldir.”

Scuotendo in fretta la chioma chiara ed arruffata, gesticolando invasata, aveva specificato di non avere tempo di rivangare tutta la storia, che molti dettagli neppure li conosceva.

“Sta per arrivare e voi non avrete il potere di placare la sua furia.”

Continuava a battersi il pugno sul petto, ad indicarsi e piangere, tra la paura ed un lucido delirio.

“Io, invece, come primogenita dei Polaris a questa generazione, posso sia scatenarlo che placarlo.”

Mentre avanzava verso di lui, il sospetto che non fossero solo fantasie iniziava ad attanagliare Imuen.

Un cenno ed ascolterà, una parola ed arriverà, un comando e sbranerà (2). Conoscete il verso della filastrocca, giusto?”

Il gigante nero aveva negato nel suo cuore, mentre lei ribadiva di aver solo tentato di aiutarlo. Seleina aveva battuto il piede a terra mentre le lacrime avevano iniziato a scendere decise sulle guance ancora sporche di polvere e sangue, specchio della tempesta di emozioni che la sconvolgevano. Solo di una cosa, tuttavia, era sicura.

“Io non lascio morire il mio signore. Quel maledetto comando di sbranare era l’unico modo che avevo per provare a salvarlo e l’ho usato.”

Poi, aveva puntato il viso in una direzione precisa. Stava per scattare ancora, ricominciare a correre. Imuen, però, l’aveva sollevata di peso, quasi fosse stata un fuscello, tenendola per la vita.

“Sei fiacca e lenta.”

Gli aveva chiarito, prendendo la direzione verso cui lei stessa sarebbe scappata. L’aveva convinto, se non per il senso delle sue parole, per l’aura minacciosa di Haldir che si apprestava. In vita sua, mai Imuen aveva percepito suo fratello in quello stato. Non ne discerneva la volontà. Solo la brama di sangue. Lui non mai era così, neppure al culminare della lotta. Che senso avrebbero avuto poi quei sentimenti, allora che l’impresa era stata compiuta.

“Come sai che ti seguirà?”

Chiese nuovamente, attento ad ogni vibrazione che proveniva dall’ambiente circostante, mentre il verde della vegetazione si adombrava del grigio della sera.

“Gli ho comandato di raggiungermi.”

Seleina, in parte più calma, l’aveva guardato per un istante, rincuorata dal suo appoggio. Dopotutto, si trattava del maestro di Zalaia, della persona che nell’arco della sua breve esistenza le era rimasta più vicina in modo disinteressato.

Conscio del rischio che si era caricata addosso, Imuen l’aveva guardata di sfuggita, vergognandosi in parte. Forse, quella era davvero l’epoca in cui le femmine si incaricavano delle mancanze dei guerrieri, per il bene della razza.

“Gli vuoi bene davvero.”

Constatò, attento a non lasciarla cadere e stringendosela maggiormente addosso.

“La sua è una vita per cui val la pena rischiare tutto, signore.”

Imuen aveva annuito. Il senso di colpa cominciava ad essere una sensazione un po’ troppo familiare, per lui. Il tarlo che, se non avesse lasciato solo Haldir per tutti quei secoli, lui non si sarebbe trovato costretto a dipendere per la propria salvezza da una ragazzina, era davvero molesto da sopportare. A giudicare dalla quantità di energia negativa che si andava accumulando nel punto in cui stava per arrivare, intuì che avrebbe avuto modo ben presto di riscattarsi per le sue colpe, vere o presunte che fossero.

Il cielo si era addensato in fretta. Le nuvole lo avevano annerito prima delle sfumature della sera. La temperatura si era abbassata di colpo. Un vento che penetrava sottile nelle ossa aveva scosso i fili d’erba confusi in un tappeto unico e scuro. Le fronde sibilavano, mosse leggermente. Era come se ogni elemento del paesaggio fosse narcotizzato in un sonno poco sereno, simile ad una vittima costretta ad un torpore senza sogni, mentre l’ombra di una mannaia si alzava leggera ed implacabile sopra la testa.

❄️❄️❄️

Allerta, Imuen aveva riconosciuto subito l’apprestarsi del suo gemello. Scrutò teso ogni particolare del mondo attorno a sé, dal respiro degli animali vicini fino al battito accelerato della ragazzina che ancora teneva arpionata. Lo preoccupavano soprattutto gli alberi, che avrebbero potuto occultare la mole del gemello, nel caso egli avesse scelto di palesarsi nella sua forma animale. Avvertiva però chiaramente che non c’era più tempo. Lo percepiva in ogni fibra del suo essere. Posò lentamente Seleina a terra, accennandole di star ferma, di non muoversi più del necessario. Doveva tentare di salvarla, anche se si era immolata a vittima sacrificale per un mostro di cui, probabilmente, si sarebbe resa davvero conto solo avendolo di fronte. O forse qualcosa immaginava. L’aveva udita mormorare: probabilmente una preghiera di supplica ad Odino per farsi forza o un commiato alle persone care. Era pallida e fiaccata. Sarebbe stata facile da uccidere. Non avrebbe fatto mai in tempo ad impartire al gemello l’ordine per placarsi, se mai ne fosse stata davvero capace. Almeno, questo era ciò che lui temeva e credeva. Materializzò la falce, continuando ad ispezionare li intorno.

Lo scricchiolare di un ramo, istintivamente, lo portò a spostarsi verso destra. Le zanne di Haldir, però, erano apparse scintillando per un secondo nella direzione opposta. Fece appena in tempo ad afferrare la ragazzina per un braccio e lanciarla via di qualche metro, mentre ingaggiava battaglia contro il sul avversario.

❄️❄️❄️

Seleina era rotolata su un fianco prima di riuscire a rialzarsi. Doveva essere la stanchezza ad aver confuso ogni cosa ai suoi occhi. Doveva star sognando. Non poteva essere altrimenti. La falce di Imuen saettava in rapidi lampi che lei distingueva a malapena. All’improvviso, approfittando di un tentativo di taglio più in basso, Haldir aveva sbattuto contro il terreno l’arma del gemello, bloccandola con la zampa. Aveva cercato di morderlo ed Imuen, disarmato, era stato costretto a spostarsi.

Del tutto immobile, tremando, Seleina non era riuscita a seguire il consiglio del gigante nero, che le urlava di andarsene. Era del tutto sorda al suo ringhiare, mentre Imuen si trasformava a sua volta. Non riusciva a muovere un muscolo. Era come se, davanti a se, riuscisse a vedere solo Haldir o ciò che di lui restava. Il suo signore non era uscito indenne da quell’abisso ed una vistosa scottatura deturpava la pelliccia su parte della schiena ed una spalla. Eppure, avanzava ed attaccava del tutto sordo al dolore che doveva pulsare sulla pelle ed i muscoli. Quella scintilla di volontà che era possibile rintracciare sempre, in ogni istante, nel suo sguardo, era però spenta, lontana. Aveva preso a ringhiare piano mentre la saliva colava dalle zanne sotto le labbra arricciate.

Seleina spostò per un attimo lo sguardo oltre la mole del suo signore. Vide Imuen pronto ad attaccare ed i riflessi reagirono più repentini della ragione. Una sola parola le sfuggiva dalle labbra mentre correva incontro al suo signore, dove arrivava arrivava. Aveva chiuso gli occhi, per non vedere nulla oltre il buio sotto le proprie palpebre. L’adrenalina arrestò ogni suono ai suoi orecchi. Poté percepire la pelliccia soffice e calda di Haldir contro il corpo, sotto alle dita. La strinse tremando, in attesa che il dolore dei suoi morsi la dilaniasse, prima che la morte, feroce e pietosa assieme, la strappasse del tutto alla vita.


 


 

Note

(1) anime per come le intendono i Dunedain, creature incorporee (proprie del mio immaginario) dei cui poteri si servono specie in battaglia. Non nel senso normale del termine

(2) verso che mi sono inventata di sana pianta. L’ho già usato in “Cane da guardia”. E’ una frase particolare che richiama il patto tra i Polaris ed Haldir, che ne riassume all’osso le conseguenze.


 

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Capitolo 44
*** Epilogo - Parte 1 ***


Non avrebbe saputo dire quanti secondi, esattamente, fossero trascorsi. Qualcosa di caldo inzuppava celere i suoi vestiti. L’odore ferrigno del sangue che le aveva disgustato le narici spariva in fretta. Le dita stringevano forsennate la pelliccia di Haldir. Confusa, non sentiva il dolore delle zanne che affondavano nella carne.

Poi, però, il mutare della consistenza del manto soffice sotto ai polpastrelli, l’impressione che dimensioni e forme si modificassero repentini sotto al suo tocco, la costrinsero ad aprire gli occhi. Doveva sapere. Conoscere cosa stesse davvero accadendo. Lentamente schiuse le palpebre, incrociando le iridi del suo signore. Non c’era più la furia nella mente di Haldir. Nella sua, per la prima volta dopo un tempo apparentemente infinito, rimaneva solo silenzio. Spalancò la bocca, prima che le braccia tentassero disperatamente di avvolgere il suo torace ampio. Avrebbe dato qualsiasi cosa per riuscire a sostenere il suo signore ma la debolezza si impadronì di lei. Le gambe cedettero sotto un peso che avrebbe dovuto essere in grado di sostenere, seppur fiaccata dalla battaglia. Credeva di possedere il corpo di una Dunedain, dopotutto. Con orrore, si rese conto di essere umana.

Haldir, allora, aveva disteso le labbra in un modo che non gli aveva mai visto fare prima: sorrideva. Seleina non poteva leggere nella sua anima. In quegli attimi, si rese conto, non ci sarebbe riuscita con nessuno. Aveva inarcato le sopracciglia mentre Imuen arrivava a sottrargli il suo gemello, a pretendere di onorare quel vincolo di sangue che per troppi secoli si era ostinato a dimenticare. Haldir le aveva passato la mano sopra la testa, sporca di sangue. In una carezza che da molto non concedeva neppure a se stesso.

“Finalmente è come avrebbe dovuto essere. Sei una normale mezzosangue, ora, come quel ragazzo che ti sei scelta. Apprenderai da lui ciò che non potrò più insegnarti. Sei libera dal patto. Sono libero. Sei stata brava. Hai sciolto un vincolo che opprimeva entrambi.”

Seleina aveva negato, con quanta più decisione le forze che calanti le consentissero. A ripetere un no che non voleva assolutamente accettare. Ma Imuen era arrivato, ineluttabile, e aveva preteso che l’ultimo istante su quella terra di Haldir appartenesse a lui e lui soltanto. Le ribadì di tornare al campo, che era un ordine che non ammetteva repliche. Il gigante nero si caricò tra le braccia il fratello ed iniziò ad allontanarsi lentamente da quel luogo, lasciandola sola, con troppe lacrime e la consapevolezza di aver fallito. Il suo signore l’aveva guardata un’ultima volta, prima di posare poi lo sguardo sul cielo di fiamma e alla fine sul viso terreo del gemello. Era davvero andato tutto come doveva. Nel verde scintillante delle iridi di Imuen, finalmente ricongiunto col proprio sangue, avrebbe trovato riposo.

❄️❄️❄️

Aveva sempre avuto poche e scarne certezze nella sua lunga esistenza. Una era quella di conoscere perfettamente suo fratello. Quando si era ritrovato davanti quella specie di demonio, puro istinto, qualcosa in lui si era spezzato. Era dovuto arrivare quel mostro furioso, privo di senno, con le sembianze animale ed i poteri di Haldir a svelargli che, persino lui, uno dei signori dei Dunedain, era stato un idiota. Aveva sempre creduto che Haldir fosse incrollabile.

Per quello, per troppi secoli, aveva lasciato a lui il dominio completo della razza. Non aveva pensato che la perdita dei suoi figli poteva averlo fiaccato talmente tanto. Aveva dimenticato quanto logorante poteva essere, per il proprio gemello, servirsi delle facoltà che la sua natura gli concedeva. Quante vite che amava, spezzate, aveva rivissuto Haldir nel momento stesso in cui erano stati generati i perduti e poi ogni volta che si svegliavano? Lui aveva subito la perdita della donna che amava. Ma era una. Non si era mai neppure fermato a riflettere sul fatto che persino Haldir potesse aver affrontato un dolore altrettanto devastante. Anestetizzato al male. Tale definivano Haldir. Insensibile, crudele, spietato. In realtà solo incapace di comunicare. C’erano stati i rimproveri inascoltati di Taka, che definiva sciocco Haldir e menefreghista lui. Che quella dannata vecchia per certe cose ceca ci vedeva fin troppo bene, con la testa e col cuore. Se mai ne avesse avuto uno.

Si era ritrovato davanti quel demonio e per la sorpresa aveva esitato. Cosa che quella assurda ragazzina, invece, non si era concessa. Era scivolata via dal suo braccio saldo come piccole gocce di pioggia. Sorda e incurante all’orrore dell’ignoto. A differenza sua, la principessina aveva ritenuto Haldir troppo importante. Ne aveva compreso a pieno la debolezza. Ma non l’orrore che era diventato. Non la furia che gli dilaniava il petto ed il senno. Non c’era più nulla del gemello che rispettava, del condottiero che infiammava con pochi parole e gesti tutta la sua razza. Non sarebbe rimasto nulla persino di quella ragazzina per cui tutto era iniziato. A cui, invece, Haldir voleva bene.

Nel momento esatto in cui levò la falce su quella belva dalle fauci spalancate ed il manto bruciato Imuen decise che no, quello non poteva essere il suo gemello. Per onorarlo, avrebbe difeso lui una dei piccoli del clan, di quelli che andavano protetti. Le nuove generazioni. La vita che perpetua oltre la morte. Per proteggere qualcuno che Haldir amava ed onorarne la memoria. Perché quel mostro non poteva, davvero, essere il suo valoroso gemello perduto sotto alle fiamme. Calò la falce su quel demonio che però era anche la sua famiglia, le sue radici. Ne trafisse due con un colpo: lui e se stesso.

Era possente Haldir da trasportare. Avevano lo stesso peso. Due giganti identici persino negli ultimi attimi. Pallidi entrambi alla stessa maniera. Imuen aveva allontanato quella ragazzina. Troppo dolore c’era stato a causa di quella magia che aveva compreso poco. Se avessero avuto più tempo, avrebbe trascinato suo fratello in una delle tante bettole degli uomini, a travestirsi e prenderli in giro. Bere il loro sidro alla loro faccia e farsi spiegare ogni cosa. Come tanti secoli fa, quando erano ancora uniti ed il loro nome sconosciuto agli uomini, indifferente agli dei.

Haldir gli avrebbe spiegato anche lui aveva provato interesse per una mortale. Una capace di padroneggiare la loro magia, che i suoi simili consideravano una strega. Più vicina nell’animo alle femmine libere ed intelligenti dei Dunedain invece che a quelle sottomesse ed ignoranti degli esseri umani. Una che avrebbe voluto far diventare come loro, da tenere al proprio fianco. Ma gli esseri umani erano deboli, nel corpo e nella volontà. Era bastato che i suoi la spaventassero per mutarne gli intenti. L’amore tra loro era diventato odio, l’affetto inganno. Se avessero avuto tempo, ne avrebbero parlato davanti a del liquore scadente neppure lontanamente capace di ottenebrare la mente. Figurarsi strappare un sorriso.

Il suo gemello diventava sempre più debole via via che raccontava. Gli aveva chiesto di trasportarlo ad Asgard, la dove ghiaccio e fuoco si univano. Li dove era nato voleva pure terminare il suo viaggio. Haldir raschiò la voce. Tra i denti sputò le ultime parole. Gli raccontò di un patto che doveva servire solo ad unirlo a quella Polaris, antenata di Seleina. Invece, l’aveva solo reso schiavo per generazioni. Non aveva svelato nulla perché non era importante. Imuen sentì le viscere attorcigliarsi. Adesso che poteva osservarlo senza filtri, per lui era semplice orgoglio, mera vergogna.

Mano a mano che i suoi passi lo portavano più prossimo a quella grotta e la luce digradava fin quasi a spegnersi nelle viscere della terra, anche i pensieri diventavano più cupi. Imuen capiva solo di aver perso definitivamente suo fratello e di essere stato un egoista, del tutto sordo ai problemi palesi dell’altro. Mentre Haldir aveva sempre cercato di sistemare le cose, anche senza il suo aiuto.

“Che vuoi che faccia ora?”

Stravolto, con le palpebre mezze abbassate, Haldir gli aveva spiegato di portarlo più vicino possibile al punto dove si apriva un lago di lava. Di lasciarlo li e poi andarsene fuori. Come sarebbe finito poi non doveva interessargli.

Imuen aveva negato. Gli aveva dato del pazzo, imprecando mentre lo obbligava a svelargli che intenzioni avesse. Haldir però aveva sorriso, in un modo che non gli aveva mai conosciuto. Con un gesto della mano che poteva essere un addio o un arrivederci, aveva richiamato a sé un vento gelido. Sicuramente, le ultime energie rimaste. La nebbia aveva avvolto l’ambiente, mascherato il calore opprimente della grotta. Imuen era stato solo in grado di distinguere la sua ombra che si gettava nel fuoco. Aveva provato ad afferrare il gemello ma non strinse mai il suo braccio. Solo aria. Presto, la nebbia sparì. La stessa leggerezza di un sogno. Eppure il gorgogliare della lava era reale mentre gli disturbava gli orecchi. Di Haldir, ormai, più nessuna traccia. Il gigante nero restò in ascolto per qualche secondo, se fosse stato in grado di percepire qualche minimo indizio della presenza del fratello, fosse anche solo un osso sfuggito alla morsa della lava. Alzò il viso verso il soffitto ricco di stalattiti che pendevano grige dal soffitto. Sospirando, si avviò all’esterno. Persino nella morte Haldir non aveva rinunciato ad essere incomprensibile.

❄️❄️❄️

Alla danza delle dita di Taka, la terra aveva risposto scuotendosi vigorosa. I cavalieri si erano fissati sconcertati l’un l’altro. Le rocce erano emerse dal suolo a circondare nuovamente il villaggio. Veloci, quasi fossero state lance che spuntavano dal terreno ad abbracciare il perimetro del campo, rendendolo inaccessibile. Il verde rigoglioso della vegetazione era sbocciato tutt’intorno, ad occultare i Dunedain tutti col fascino selvaggio della sua bellezza.

Taka aveva abbassato le braccia, sfinita, prima di puntare il viso grinzoso verso suo figlio.

“Comanda alle anime dell’acqua e speriamo che basti a difenderci tutti.”

Lo Scorpione, in particolare, incuriosito già prima da Tabe, lo aveva studiato mentre superava la madre di pochi passi e batteva il piede a terra, per poi poggiare la mano sul fianco inarcando la schiena dal lato corrispondente. Sottile, sciolto, come le creature d’acqua che sbucarono dal terreno, oltre la vegetazione creata da Taka, a disegnare un torrente impetuoso che avesse trascinato nelle sue viscere chiunque avesse osato attraversarlo.

Poi, si era girato beffardo verso il suo più attento spettatore.

“Ereditiamo le caratteristiche delle anime della natura con cui siamo più affini. Gli occhi di mia madre non distinguono più la luce perché la terra è potente nel suo ventre buio. Così, nell’imparare a dominarla, ha perso la vista. Io sono simile all’acqua, al suo essere mutevole e senza forma. Così, anche la mia mente ha perso ogni argine. Ora mi definiscono matto.”

Del tutto indifferente al fatto che Tabe stesse spifferando amabilmente i segreti di casa loro, Taka aveva ricominciato a vagare lontana con la mente. Divenuta finalmente consapevole degli eventi all’esterno, sorrise beffarda e scosse il capo.

“Tutta fatica inutile: la profezia di questa vecchia petulante è diventata realtà.”

Ammise, rivolta a se stessa. Si sbrigò ad allontanarsi da quel gruppo. Non le importava degli stranieri. Era offesa e stanca. Sbatté la porta dell’infermeria alle proprie spalle mentre il cicaleccio cresceva di intensità per il campo. Ormai, anche gli ultimi figli di Haldir iniziavano a rendersi conto che non sarebbe tornato più indietro il loro signore. Negò col capo, afflosciando le spalle. Non si era mai sentita così decrepita. Era caduto anche l’ultimo amico della sua lunga esistenza. Lei c’era quando Haldir era giovane ed incosciente, quando era il condottiero ed il bagatto. Era rimasta al suo fianco quando si era dannato e poi abbassato ad essere il cane da guardia delle Polaris, anche se aveva scoperto quel fatto da pochissimo. Si sentì per la prima volta come il retaggio di un’epoca ormai perduta.

Quando il suo udito fine percepì i passi di Zalaia vicini, si asciugò in fretta gli occhi da lacrime che non credeva fosse più capace di versare e cercò di portarsi eretta, per quanto possibile.

Il suo bambino dalle dita di miele arrivava per chiedere chiarimenti. Le aveva sempre dato soddisfazioni, insieme a Mnemosine. Loro erano sempre stati tra i pochi ad ascoltare i suoi consigli. Appena fu dentro, gli fece cenno di prendere una sedia e portarla vicino.

“Vuoi sapere della principessina, vero?”

Il ragazzo aveva annuito. Era certo che pure Imuen fosse ormai sulla via del ritorno.

“Lei ora soffre e il suo nuovo stato la confonde: ecco cosa le impedisce di tornare.”

Zalaia si era allarmato immediatamente. Cuore impetuoso ed affezionato. A volte troppo, per un guerriero del suo rango.

“Sciolto il patto, è rimasta una semplice mezzosangue. E’ umana in questo momento. Umana e basta. Per quelli come voi è così: una settimana da umani e tutto il resto del mese da Dunedain. Adesso è confusa. Non sa bene se tornare o no. Non ha voglia di vedere i cavalieri della dea bambina in quello stato. Troppe domande di cui neppure lei conosce le risposte. Da sola non rientrerà fino a quando non riprenderà le sembianze dei Dunedain. Se vuoi vederla, valle incontro. Avvicinati piano: si sente come se le avessero strappato un pezzo d’anima. Io lo so bene ...”

Aveva chiosato Taka, occultando il profilo adunco nella matassa grigia dei capelli, mano a mano che le sue spalle si curvavano ancora, per il peso degli eventi, degli anni.

“So bene come ci si sente.”

Aveva fatto leva sulle ginocchia, per alzarsi con una certa fatica. Voleva restare sola. Anche lei aveva dovuto abbandonare persone amate, amici, affetti. Davvero, comprendeva bene cosa provasse quella ragazzina.

❄️❄️❄️

Il cavaliere dello Scorpione aveva osservato il rapido succedersi degli eventi e aveva dedotto che, sicuramente, l’organizzazione dei Dunedain era carente quanto a gerarchia. L’anziana che sembrava avere un ruolo di comando in assenza dei signori gemelli li aveva lasciati praticamente da soli, dopo aver dato sfoggio di abilità sorprendenti. Probabilmente aveva di meglio da fare che ritenerli una minaccia. Gli spadaccini di Haldir se ne stavano uno in disparte a passeggiare per le mura di cinta e l’altro a raccontare qualche aneddoto nella loro lingua ad un gruppetto di ragazzini. Zalaia aveva seguito la vecchia maga abbandonandoli a loro stessi.

Quell’atmosfera strana, in un certo senso pareva aver contagiato persino i suoi compagni: l’Ariete se ne restava più silenzioso del solito, di sicuro sollevato ma sempre allerta per le condizioni del fratello. Aldebaran, non immaginava neppure come, stava avendo una sorta di dialogo con quell’amazzone statuaria che li squadrava tutti da capo a piedi. Anche se sembrava che il Toro parlasse e l’altra rispondesse si e no a monosillabi. Il cavaliere dei Pesci rigirava distratto lo stelo di una delle sue rose tra le dita. Probabilmente non vedeva l’ora di darsi una lavata. Fu il fatto di vederlo da solo che colpì lo Scorpione. Di solito il Cancro era sempre li nei pressi. Notando anche l’assenza della madre di Zalaia, alzò gli occhi al cielo. Ovvio che il cavaliere della quarta casa cercasse di ritagliarsi più tempo possibile con quella donna, prima di partire.

Sconsolato, sospirò incrociando lo sguardo di Camus. Gli chiese come, secondo lui, potevano organizzarsi su come rientrare visto che, ormai, la loro presenza sembrava essere diventata all’improvviso del tutto inutile. Si rese immediatamente conto che l’amico condivideva perfettamente le sue considerazioni.

“Credo ci convenga rientrare al Grande Tempio.”

Aveva espresso la voce raffinata di Camus, dando senso compiuto anche al suo pensiero.

“Almeno chi di noi non ha questioni da sistemare in questo posto.”

Ovvio che Death Mask avrebbe appeso la faccia di chiunque osasse disturbarlo fino a che non avesse terminato di sistemare i fatti propri.

Battendosi le mani sulle ginocchia, il cavaliere dello Scorpione risolse che lui apparteneva sicuramente al gruppo di quelli che se ne sarebbero andati via per primi. Allora, Tabe li aveva raggiunti, con l’espressione di chi la sa lunga.

“Siete liberi di andarvene in qualsiasi momento. Siete sicuri però di essere in grado di ritrovare la strada?”

Quando gli fu a pochi passi, ricordò loro che erano in grado di sondare ogni recesso della loro anima.

“Saremo anche disorganizzati ma qui non si muove paglia se noi non lo permettiamo. “

Precisò, indicando l’ingresso principale del villaggio.

“Decidete chi e quando ve ne volete andare. Vi accompagno io. E’ da un po’ che non vedo i territori degli umani.”

Lo scorpione ci avrebbe sarebbe stato anche felice della compagnia se non che, per sua esplicita ammissione, a quel guerriero mancava qualche venerdì.

❄️❄️❄️

Aveva percepito il suo odore nei pressi di un corso d’acqua. L’istinto gli suggeriva di avvicinarsi lentamente e palesare la propria presenza.

Come Taka gli aveva indicato, Seleina se ne stava ferma sulla riva, seduta con la fronte poggiata sulle ginocchia. Del tutto concentrata su se stessa, non si era minimamente accorta del suo arrivo. Al suo richiamo si era stretta nelle spalle, alzando la fronte solo di pochi centimetri. Zalaia si portò a pochi passi da lei. Sedendosi silenzioso al suo fianco, la studiava con attenzione, non capendo bene perché si ostinasse a rimanere in quella posizione assurda, come se si vergognasse non tanto di lui, quanto di se stessa. Attese che i minuti diventassero una buona mezz’ora, prima di iniziare a strappare i fili d’erba e contare i sassi li vicino. Probabilmente, fosse stato un lago avrebbe passato il tempo facendoli rimbalzare sul pelo dell’acqua. La pazienza non era certo una virtù che gli appartenesse. Non fosse stato per il respiro della ragazza, sarebbe stato certo di essere solo. L’aveva osservata ancora. Gli era sembrata ancora più magra, pallida e provata come era dallo scontro.

“Hai fame?”

Le chiese all’improvviso, senza comprenderne bene neppure lui il motivo, solo perché gli era uscito. Seleina aveva finalmente alzato del tutto il viso, anche se ancora non si girava. Si era asciugata gli occhi col dorso della mano. Pareva esitare. Con la voce di chi aveva pianto troppo e finito pure le lacrime, aveva ammesso di sì, annuendo appena. Aveva sospirato impercettibilmente e si era morsa il labbra, prima di voltarsi verso la persona che l’aveva cercata e di cui, in quel momento, aveva davvero bisogno. Mostrarsi con quel piccolo e nuovo particolare avrebbe significato rendere reale una volta per tutte l’ultimo cambiamento che era toccato al suo corpo, la testimonianza che, davvero, il suo vincolo con Haldir era sciolto e lei ed il suo signore erano entrambi liberi, uno nella morte e lei nella vita. Si fece coraggio, perché la reazione di Zalaia, per lei, voleva dire davvero tanto. Troppo in un colpo solo. Si era riavviata i capelli dietro all’orecchio e, smettendo di esitare, finalmente si era girata. Aveva incrociato il suo viso rilassato che le sorrideva, davvero in attesa di una sua qualsiasi reazione. Aveva temuto curiosità, domande. Zalaia, invece, aveva solo insistito sul chiederle se preferiva carne o pesce, glissando completamente su quel particolare che temeva essere tremendamente evidente. Si lasciò abbracciare, ricambiando il gesto. Aveva finto di ignorare per farle piacere. In quel momento, la sua vicinanza solare e discreta era tutto ciò di cui aveva bisogno. Lacrime per Haldir ne avrebbe piante ancora tante. Al fianco di Zalaia, tuttavia, quel vuoto che aveva nell’anima forse sarebbe stato più semplice da riempire.

❄️❄️❄️

Non era ceco e neppure sciocco. Si era accorto perfettamente che il colore degli occhi di Seleina, adesso che era umana, erano diversi dalla prima volta che l’aveva vista umana, in quell’abisso. Non somigliavano più a quelli di Haldir. Erano di un bell’azzurro carico, profondo. Ma chiaramente umani. Li per li si chiese da quale dei genitori Seleina li avesse ereditati. Di certo non doveva vergognarsi come lui, se anche si fosse trattato del padre. Aveva ricambiato il suo abbracciato, contando una per una le vertebre della sua schiena con le dita, causandole forse un brivido. Se era eccitazione o fame poco importava. Bastava che non fosse scappata via. Forse era perché non aveva più molte cose da nascondere.

“Senti ma...”

Iniziò titubante, prendendola alla larga. Sapeva che era meglio star zitto ma lo doveva sapere.

“Quel patto che la tua famiglia aveva con Haldir… Da umana non gli somigli più perché è sciolto?”

L’aveva vista annuire e ricominciare a piangere per qualche istante, prima di darsi dell’idiota.

“Quel patto si sarebbe sciolto solo con la mia morte o con quella del nostro signore. Non me n’ero mai servita. Lo consideravo un abominio. L’ho usato solo oggi, per spronarlo a salvarsi ma poi non sono riuscita ad aiutarlo davvero. Era una magia troppo potente per me.”

Zalaia aveva teso le labbra, intuendo quanto era stato taciuto: che Haldir aveva preferito morire lui piuttosto che sacrificare lei.

“Capisco. E’ per questo che Sire Imuen sta così male.”

Aveva chiosato, osservando una fila di formiche che si confondeva nel terreno.

“Tu ci hai provato. Hai fatto quanto hai potuto.”

Ribadì carezzandole i capelli.

A volte bisognava arrendersi al fatto che non si possono controllare gli eventi e la nostra volontà, per quanto salda, non è abbastanza.


 


 

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Capitolo 45
*** Epilogo – Parte 2 ***


Nel ghiaccio e nel fuoco tutto è iniziato. Nel ghiaccio e nel fuoco cambierà

❄️❄️❄️

Seleina aveva socchiuso il libro tenendo l’indice come segno. Aveva sospirato, prima di indossare nuovamente la maschera. Suo padre aveva preteso che trascorresse quei pochi giorni al mese in cui doveva convivere con il suo corpo umano al Grande Tempio, quale allieva di Aquarius.

Non era l’ingombro di quella copertura sul viso, che pure reputava inutile e sciocca. Neppure la permanenza forzata nel gineceo, così fastidiosa ora che si era abituata a dormire sotto le stelle, mai più in un letto. Per quanto ampie avessero potuto essere le pareti di un palazzo, costituivano sempre uno spazio troppo ristretto. Non c’erano il firmamento o le nubi per tetto. Le persone erano sempre troppo vicine, tutte ammassate. Aveva vissuto fino a poco prima con gli esseri umani. Eppure, in quei pochi giorni in cui ne condivideva ancora l’aspetto, la stare con loro diventava sempre più gravoso. Mal tollerava le apprendiste più fanatiche, che la sfidavano alla lotta provando a far leva sul suo scarso coraggio e senso dell’onore. Sopportava poco anche quelle più amichevoli, che cercavano ad ogni costo di instaurare un rapporto ed impicciarsi negli affari suoi. Soprattutto non riusciva ad accettare di dover chiamare qualcun altro maestro. Tale, per luei, restava solo Haldir. Il suo signore che non era riuscita a strappare al fuoco. Ogni volta che le insegnava Aquarius lo ringraziava col suo titolo. Lo fissava negli occhi da pari a pari, senza paura, con la sua maschera di porcellana bianca, senza espressione. Seleina aveva esplorato a fondo la sua anima, nei giorni in cui era una Dunedain. Ed era un’anima che non le bastava, da cui non voleva imparare. Aquarius era un uomo, retto, ligio alle regole, un perfetto paladino della dea. Qualcuno che non sarebbe mai riuscito ad abbracciare e comprendere neppure la milionesima parte del mistero che era Haldir e di cui lei, indissolubilmente, era ormai parte.

Per l’ennesima volta aveva risposto ad una compagna di addestramento che non era interessata ad un allenamento supplementare. Non aveva battuto ciglio mentre quella le dava della codarda. Aveva riabbassato il viso sul libro che si era portata dietro dal campo, che Taka le aveva prestato dalla sua raccolta personale, con un’occhiata poco convinta ed il ghigno di chi sapeva già tutto, pure troppo. Nessuno poteva permettersi di anche solo di sfiorare col pensiero quel manoscritto. Era lingua antica, dei figli di Haldir, vergata forse dal suo maestro in persona, l’unico: quello vero. Il gigante bianco nel suo lungo peregrinare aveva accumulato poche ricchezze ma tante conoscenze. Alcune la interessavano proprio. Era da quando Imuen aveva raccontato affranto di come si era spento il suo gemello che i conti non le erano mai tornati. Dal primo istante, quando era stato svelato che il gigante bianco aveva preteso di essere portato nella grotta dove era nato, gettandosi poi nella lava.

Durante il resoconto del gigante nero davanti all’assemblea di guerrieri ed anziani, Seleina non si era vergognata di non riuscire a trattenere le lacrime. Aveva scorto la stessa commozione silenziosa in Gona, mentre Imuen pronunciava la formula con cui lo eleggeva erede del gemello, suo pari. Lei però aveva posato lo sguardo sulle fiamme della pira che rischiarava il ristretto circolo di presenti, spargendo riflessi rossi che spezzavano le tenebre e coloravano le sembianze di tutti loro. Il sospetto si era materializzato nella sua mente immediatamente, dapprima come un sogno, poi come l’eco di una voce, un tarlo che non se ne sarebbe più andato dalla sua testa. Si era specchiata nelle iridi vacue di Taka ed al suo sorriso sardonico aveva compreso che anche la vegliarda aveva avuto il medesimo pensiero. Haldir si era gettato tra le fiamme per un motivo preciso. Il loro progenitore non avrebbe sacrificato l’ultimo alito vitale in maniera scenica, inutilmente. Tabe, accanto a lei, aveva dondolato il peso tra i talloni e le punte dei piedi, come una vela ancorata all’albero della nave quando il vento passa dalla bonaccia alla prima tempesta. Aveva intonato il ritmo di canzoni antiche, di genti magari umane, perse sul mare. E pure il suo occhio vivace le aveva confermato lo stesso proposito, vagando tra lei e la cecità di Taka. Lo spadaccino aveva mostrato le zanne scintillanti per un istante ed il suo essere ferino era apparso fugace, confuso dalla schiuma delle onde, prima di scivolare sul fondo del mare, ancora.

Dopo che l’assemblea si era sciolta, Taka aveva cercato Seleina. Le aveva messo la mano sulla spalla e condotta nel piccolo ambiente dove riposava e custodiva la sua biblioteca personale. Sicura, le aveva passato quel tomo, spiegandole poco e niente.

“Leggilo.”

Le aveva detto solamente. Senza chiederle se comprendeva la lingua, dando per scontato che ne sarebbe stata capace. Così, Seleina aveva iniziato ad apprendere delle anime del fuoco e ci si dedicava in ogni momento libero, che non fosse occupato dai noiosi allenamenti di Aquarius o dalla presenza imprescindibile di Zalaia.

Aveva inarcato un sopracciglio, dopo essersi sfilata la maschera. Solo una volta ribadì alla giunonica compagna di addestramento di allontanare le dita da quel libro ed allenarsi con chiunque altra avesse voluto.

Quella aveva riso sguaiatamente, sfiorandole sfacciata i capelli, con un chiaro intento di minaccia. La accusò di sentirsi superiore a loro, solo perché aveva l’attenzione del figlio di Cancer, che pendeva dalle sue labbra e le scaldava il letto di tanto in tanto. Puntava al monile con cui raccoglieva i capelli ed il giovane le aveva regalato in un momento di pausa.

Seleina aveva spalancato impercettibilmente le palpebre, prima di afferrare fulminea il fermaglio. Estratto dalla chioma, lo rivelò per il piccolo pugnale affilato che era e ne portò la punta alla giugulare dell’altra. Incurante allo stupore dell’avversaria, mentre un rivolo di sangue scendeva lungo il collo abbronzato.

“Quelli della mia casta combattono con qualunque arma. Uccidiamo silenziosi come spettri, spettri noi stessi. Così sono addestrate le guerriere dei giganti gemelli.”

Ormai, era umana e non lo era. La sua voce diveniva ringhio senza che lo volesse davvero. Più piccola, aveva liberato la ragazza più alta dalla minaccia dell’arma e l’aveva obbligata ad indietreggiare con due o tre fendenti del pugnale, prima di riporlo tra i capelli.

“Sono lenta ad usare il mio cosmo, è vero. Ma sono abbastanza veloce con le lame da aprirti il collo prima che tu abbia richiamato il tuo.”

Aveva poi ripreso il libro, ponendoselo in una tasca sotto al corpetto, prima di rivolgersi ancora a lei, che stava rallentando il respiro prima accelerato per via della sorpresa. Le aveva ribadito di restare lontana dalle sue cose e dalle sue questioni private. Fossero stati un libro o il suo rapporto con Zalaia. Seleina aveva raggiunto stizzita un punto più riparato fra gli alberi, lontana da chiunque, amico o nemico che fosse. Finalmente sola, aveva dato libero sfogo alle lacrime. Aveva troppe poche certezze in quel momento: una era di aver miseramente fallito nell’aiutare il suo signore, che le mancava terribilmente, l’altra di non doversi far vedere assolutamente in quello stato da Zalaia, che ci stava mettendo tutto il cuore per starle vicino e tirarle su il morale. Provò a tergersi le palpebre e rimettere quella stupida maschera, che almeno celasse le sue emozioni. Partita persa, le lacrime colavano anche sotto quel pezzo di vetro opaco, inutilmente. La sfilò ancora, arrendendosi al fatto che non sarebbe riuscita a calmarsi tanto presto. Lasciò scivolare la schiena al tronco di un albero, coprendosi la bocca con la mano. Doveva essere solo il vento a raccogliere i suoi singhiozzi.

❄️❄️❄️

Ogni volta che la osservava allenarsi nell’arena con gli allievi di Aquarius, Zalaia aveva l’impressione che quella non fosse affatto Seleina ma solo una persona che le somigliasse. Poi, però, ne aveva davanti le movenze, la grazia che stonava con i modi rudi degli altri allievi, addestrati per essere solo soldati. Loro due conservavano comunque la leggiadria dei Dunedain, anche quando affondavano in attacco. Nessuno avrebbe potuto privarli di quella caratteristica. Seleina, in particolare, non sfigurava in quell’aspetto, neppure se paragonata alle femmine più graziose del clan, addirittura quando quelle erano impegnate nella danza.

Ogni movimento di Seleina, esattamente come quelli di Tabe, era l’esprimersi di una nota insieme a molte altre, fino a creare una melodia. Puliti, armonici, perfetti. Lui stesso da cucciolo aveva preso un numero imprecisato di legnate da Taka per imparare quella leggerezza prima ancora di essere iniziato all’addestramento, quando nessuno immaginava minimamente chi avrebbe potuto diventare. Taka, però, aveva visto lontano e prima degli altri. Sapeva che prima di tentare di essere un guerriero, doveva diventare simile ad ogni Dunedain. Allora, lo aveva preso sotto la sua ala, con la scusa di badare a lui per permettere a sua madre di studiare gli antichi testi su cui poi era diventata la guaritrice portentosa che era. Gli aveva messo in mano il violino e. a forza di calci nel sedere, gli aveva raddrizzato la schiena. Lo rimproverava che doveva stare dritto, sentire la musica e liquefarsi con essa. Come i Dunedain quando ebbri si perdevano nella danza. Lo sapeva Taka che la battaglia, poi, per lui, sarebbe stata poco più in la. Mentre imparava a suonare ed evitare le sue punizioni, tra un salto, un calcio mancato ed uno sberleffo, Taka l’aveva plasmato agile e scattante, lontano dai limiti di un rozzo mezzo sangue. Quando era diventato davvero simile ad un Dunedain, gli aveva insegnato come sfuggire nei giorni mensili della debolezza, nascondendosi tra gli esseri umani, succhiandone la conoscenza, imparando quanto più poteva da loro, senza mai diventarne schiavo. Così, nessuno tra gli umani aveva idea di chi fosse davvero. Eppure, con molti scherzava, con alcuni trascorreva anche del tempo insieme.

Seleina, invece, era il contrario. Allontanava apertamente chiunque le arrivasse troppo vicino. Fosse stato un avversario che la infastidiva o una persona buona che cercava di difenderla. Aquarius era la stessa cosa.

Zalaia aveva teso le labbra. Attese che terminassero la lezione, prima di chiamarla e proporle di allenarsi con lui. Aveva visto Seleina spaesata, girare il viso a destra e manca per l’arena, come a chiedergli il perché del luogo, che avrebbero potuto allenarsi liberamente un paio di giorni dopo al campo. Alla sua insistenza, però, non aveva obiettato. Non rifiutava mai una sua richiesta, neppure quella di provare ad usare il cosmo, in quel duello contro di lui. Perché tutti gli umani del santuario dovevano comprendere quanto fosse bella e forte in realtà la sua donna. Così, senza concederle il tempo, aveva centrato subito la maschera, con un pugno intriso di cosmo.

I presenti, gelati per quanto quel gesto significasse nella loro società, si erano focalizzati sulla maschera che lasciava il viso, non sulla mano che rapidissima l’aveva raccolta prima che sfiorasse terra. In ginocchio, Seleina se l’era riposta sul viso senza che nessuno potesse scorgere le sue sembianze. Aveva promesso il cosmo a Zalaia e non si sarebbe tirata indietro. Si era alzata lentamente, procedendo di pochi passi verso di lui. Agli umani sembrava così leggera che quasi il piede non le sfiorava terra. Nonostante indossasse gli stessi identici abiti di tutte le apprendiste, un vento leggero avvolgeva solo lei e smuoveva la stoffa che le copriva il corpo. Al cenno della sua mano si era intensificato come una corrente fredda che aveva lasciato le sue dita in un manto bianco e scintillante. Il ghiaccio, ad ogni suo passo, si era allargato a coprire superfici via via più ampie, fino a tutta l’arena. Qualcuno starnutì, a sentire il ghiaccio sotto i piedi.

Zalaia, invece, sorrise dello stupore della gente di Grecia. Era esattamente quello l’effetto che voleva: che tutti potessero ammirarla per la guerriera che era davvero, come l’aveva conosciuta lui ed ogni componente del branco. Col cosmo, lei non avrebbe mai raggiunto il livello di un cavaliere d’oro come lui, era palese. Ma nessuno del grande tempio, neppure il più esperto e potente tra quei guerrieri, avrebbe mai potuto abbassare la guardia di fronte a lei. Davanti ad una mezzosangue come lui, fragile come gli umani, terribile come i Dunedain.

❄️❄️❄️

Quando Zalaia gli aveva rivelato la scarsa stima della principessina nei confronti di Aquarius, DeathMask non ci aveva creduto minimamente. Soprattutto quando il suo ragazzo aveva rincarato la dose, adducendo che avesse molta più considerazione di lui che non del francese. Li per li si era chiesto il motivo dello scherzo. Poi, fregandosene, aveva iniziato a litigare col figlio per un diverso motivo e lasciato correre. Vedendola però battersi all’arena, di fronte allo stupore dei presenti ed al divertimento manifesto di quel debosciato di suo figlio, iniziò a rivalutare quelle parole, rendendosi conto che, sotto sotto, non erano affatto prive di fondamento.

Erano già mesi che la ragazzina di Asgard passava quelle settimane ogni tanto al grande tempio e non c’era stato verso di migliorare neppure un poco col cosmo. Non era certamente dotata come il suo ragazzo ma certo qualcosa doveva saperla fare se aveva scalato in fretta la gerarchia dei Dunedain. Haldir tutto gli era sembrato, fuorché tipo da favoritismi.

Notando lo stile, la velocità, la tecnica con cui quella contrattaccava, la cosa fu palese a lui come a chiunque del suo grado. Quella non apprendeva le tecniche di Aquarius semplicemente perché non ne voleva sapere. Usava si il cosmo delle energie fredde e margini di miglioramento ce n’erano eccome. Se ne serviva però con il modo tipico dei Dunedain. C’erano i salti acrobatici ed imprevedibili dello spadaccino matto nel modo in cui evitava le botte di suo figlio e l’incedere misterioso ed affascinante di Haldir, nel mescolare ghiaccio e vento per ricavarne colpi efficaci. La ragazzina aveva fatto suoi i rudimenti base del cosmo, che qualunque cavaliere avrebbe potuto impartirle. Ma tecniche e colpi segreti, lei aveva i suoi e di quelli dei cavalieri d’Atena non ne voleva sentire.

Cancer si incuriosì. Quanto avrebbe sopportato Aquarius quella situazione? Istintivamente rise. Uno dei cavalieri più eroici e blasonati agli occhi della principessina era solo un ipocrita. Le sue opere, l’onore che suo padre gli accreditava, valevano nulla. Aveva osservato lo Scorpione pregare nel frattempo Zalaia di andarci piano. Gli ultimi due sganassoni che il suo ragazzo aveva rifilato alla principessina non erano certamente colpi adatti ad un avversario meno potente. Figurarsi la donna che si ama.

Ma Zalaia non risparmiava la forza quando era convinto del valore dell’opponente. Suo figlio fu obbligato a saltare via per evitare un getto freddo che aveva congelato l’aria in uno sfavillare di cristalli. Aveva i suoi stessi modi animaleschi. Ma aveva ottenuto più lui da quella ragazzina in dieci minuti di duello che Aquarius in tre mesi suonati di insegnamento. Zalaia voleva che ognuno vedesse, si rendesse conto, temesse. Forse che pure lo invidiasse, perché quella di cui stava dimostrando il valore era la sua donna, che gli apparteneva ed a cui apparteneva.

Per un po’, in effetti, lo invidiò persino lui: Zalaia riusciva comunque ad avere un rapporto strettissimo con la donna che si era scelto e che, di sicuro, non avrebbe mai dimenticato per via di un sigillo. A differenza sua, Zalaia non avrebbe mai amato la sua compagna a metà.

❄️❄️❄️

“Te ne vai di già?”

Mnemosine aveva sussultato nell’aria fresca della mattina, mentre le mani del cavaliere disegnavano il contorno delle sue spalle e le sue labbra le si posavano sulla nuca, scostati i capelli. Aveva reclinato appena la testa all’indietro, respirandone il profumo, prima di riprendere possesso di se stessa e ricordare che tutto quel tempo, lontano dal campo, non le era concesso.

“Ne abbiamo già parlato. Sono una delle poche guaritrici. Non posso sparire a lungo. La mia presenza è indispensabile.”

Cancer l’aveva avviluppata a se, nella morsa delle sue braccia serrate, prima di sfiorarle il collo con la punta del naso e sciogliere le mani, permettendole di alzarsi. Con pochi e fluidi gesti, Mnemosine aveva recuperato i vestiti sparsi, indossandoli. Lo aveva abbandonato mezzo nudo, sul letto sfatto. Nella mente, le raccomandazioni di Taka a non lasciarsi abbindolare da un uomo incostante come quello, che dimentica la donna che ama troppo presto e non è capace di legarsi per davvero a qualcuno. Zalaia aveva ripreso da lei. DeathMask, invece, era solo DeathMask. Lei era partita serva tra i Dunedain. Era arrivata ad essere una figura autorevole, quasi di comando. Cosa ne sarebbe stato di lei, dell’indipendenza ottenuta e degli sforzi compiuti, se avesse scelto di restare al fianco di quel guerriero mortale? Sarebbe tornata ad essere una serva. Nulla più. Ed era offensivo per lei stessa. Per quel che aveva sofferto Zalaia.

Mnemosine lo baciò a fior di labbra. Non voleva udire le sue frasi spezzate di disappunto. Lo baciò ancora, prima di sorridergli e dirigersi in cucina. Tra i pochi aspetti umani che non aveva mai dimenticato c’era l’aroma del caffè al mattino. Ne preparò due tazzine. Una per sé, l’altra per Cancer, che all’inizio restava sempre un po’ titubante, di spalle.

“Un giorno resterò più a lungo ma non oggi. Rientrano i guerrieri da una missione. Siamo vivi ed in pace. C’è tempo ora. Puoi anche venire tu da noi, qualche volta.”

DeathMask aveva accettato la tazzina apparentemente di malavoglia. Aveva biascicato qualcosa sul fatto che Zalaia sarebbe stato felicissimo di trascorrere del tempo con suo padre, a giocare alla famigliola perfetta, soprattutto alla presenza di altri Dunedain. Mnemosine, allora, aveva sbattuto le lunghe ciglia sopra gli smeraldi che aveva al posto degli occhi, prima di coprire la chioma sotto al velo.

“Se non mi ami a metà, dimostramelo. Resta tu da me, qualche volta”

Gli aveva ribattuto fiera, anche se, in realtà, lo stava quasi supplicando. Ci sperava e lo sapeva, che la sua preghiera sarebbe stata ascoltata.

❄️❄️❄️

Shion si recava spesso alla prima casa. Un po’ troppo se considerava i suoi impegni istituzionali. Tuttavia, la presenza dell’antico allievo e del nuovo Altare avevano per lui una apparenza di familiarità che era troppo dolce da evitare, troppo invitante. Amava prendere il the insieme a loro, farsi raccontare della vita di Rodorio dal più giovane. Difficilmente l’avrebbe ammesso ma per certi versi Kiki aveva l’irruenza della sua gioventù e lo divertiva averlo intorno, ora che aveva avuto modo di conoscerlo meglio.

“Come va la gamba?”

Gli aveva chiesto, in quel pomeriggio sonnacchioso di fine settembre.

Kiki ci aveva battuto la mano sopra, assicurando che fosse come nuovo, cicatrice a parte. La magia dei Dunedain era efficace a guarire le ferite, non ad abbellire il corpo. Poi, il discorso era virato sulla ragazzina di Asgard. Shion fu quasi sollevato di sapere che, al Grande Tempio, quella preferiva restarci il meno possibile. Un po’ perché si era accorto dei sentimenti di Mu per lei ed una sana lontananza era il modo migliore per togliersi certi pensieri dalla testa. Un po’ perché i pettegolezzi delle ancelle parlavano di un fidanzamento ufficiale col rampollo di Cancer e forse era meglio non diffonderle troppo presto certe voci per il benessere di qualcuno.

Aveva osservato Mu continuare a riparare un elmo tranquillo ed aveva chiesto se avevano notato qualcosa di strano sui loro nuovi e singolari alleati.

“Seleina è convinta che la fine che Haldir ha preteso per sé abbia delle ragioni particolari.”

Aveva espresso asciutto Mu, posando finalmente un elmo per iniziare a lavorare un nuovo pezzo della medesima corazza. Aveva esitato un attimo prima di selezionare lo strumento adatto con cui continuare il proprio lavoro, tra quanti erano posti sul banco da lavoro. Il manico del martello oscillò tra pollice ed indice, prima di essere afferrato saldamente da tutta la mano.

Shion aveva insistito nel farsi spiegare il senso della frase ma alla risposta ulteriore dell’allievo comprese che si trattava per lo più di supposizioni. Assottigliò lo sguardo e distese le labbra. Tra loro, Mu era certamente il più intuitivo.

“E’ tenace la ragazzina. Non si rassegna ancora alla morte del suo maestro.”

Mu, misurando lo spessore del metallo alla luce diretta della stanza, si concentrò poi sul suo interlocutore.

“Forse.”

Ammise, scuotendo il capo. Aveva parlato con Seleina ma certo non c’era la confidenza che si era permesso tempo addietro.

“E’ come se, in cuor suo, lei credesse che non sia mai morto davvero.”

Concluse, poggiando anche l’ultima parte dell’armatura, prima di cominciare a riporre tutto ed avviarsi per la cena.

“Tu cosa ne pensi?”

Si bloccò, alla curiosità di Shion. Sospirò un attimo, ammettendo che non ne aveva idea.

“Se i suoi figli saranno in pericolo, sicuramente, se vivo, in qualche modo Haldir si paleserà. Chissà, forse, allora, anche noi lo rincotreremo.”

Kiki si era grattato il naso, scettico. Si era accorto che, nonostante si vedessero poco e comunicassero meno, Mu e Seleina si comprendevano in una maniera talmente profonda che neppure lui stesso o Zalaia ci sarebbero mai riusciti. In ogni caso,se suo fratello aveva quel pensiero, forse non erano idee campate in aria. Rise. Gli avrebbe fatto piacere rivedere Haldir dopotutto, una volta ancora.


 


 

NOTE: è una conclusione che arriva forse troppo in fretta ma a breve non avrò più tempo. Se mai riuscirò a rivedere la storia, lo leggerete su Efp. Mi piacerebbe riuscire a pubblicare ogni tanto una one shot per riempire i molti punti Oscuri. Anche qui, non so il se e il quando. Avrei voluto dare più spazio ai personaggi del fandom ma, mano a mano, gli originali diventavano sempre più ingombranti. Per questo non so se eventuali lavori collegati a questa fic staranno sul fandom di Saint Seiya o meno. Nel caso, deciderò di volta in volta. Per ora, grazie a chi letto e soprattutto ha chi ha lasciato un parere, permettendomi davvero di comprendere come migliorare. Alla prossima :)

 

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