Nearco

di HellWill
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


«Credevamo ci avresti portato anche Saul e Alsan, quando saresti venuto a trovarci. Come stanno?».
«Bene. Sono con Yukab» mormorò Sparviero, pregando che bastasse.
Erik non chiese altro, ma carpì il leggero tono sollevato della frase e gli lanciò un’occhiata, come per dirgli che più in là avrebbero parlato meglio anche di quello. Sparviero smorzò un sospiro e chiuse gli occhi, accomodandosi elegantemente su una sedia vicino il tavolo.
La casa di Erik non era particolarmente grande, ma lo era abbastanza per la sua famiglia: a soli venticinque anni si era sposato e aveva fatto tre figli quasi l’uno di seguito all’altro, molto prima che Sparviero decidesse di avere Alsan e Saul. All’epoca del matrimonio di Erik, questi ultimi non erano nemmeno in programma, in effetti. Erik si era stabilito in una fattoria enorme nel Regno Faël, nel feudo gestito da Ri, suo fratello d’adozione, e in questo modo aveva potuto tenere d’occhio gli altri due figli di Sparviero: Kaleb e Victoria. Era più di quanto Sparviero potesse sperare.
Tornando alla casa, si trattava di un podere in pietra e legno, con il tetto in grandi travi e tegole rosse a far da tetto; era a due piani, e al piano terra c’era la zona giorno, organizzata con un soggiorno riunito attorno al camino, e una cucina che prevedeva una stufa in ghisa con i fornelli e un fuoco al centro della stanza per riscaldare grandi quantità in pentoloni stipati ai limiti della stanza. Il soggiorno era decorato con pelli di animali, palchi di corna e teste impagliate di animali magici e non, nonché con alcuni quadri di piante pressate e riposte accuratamente con appunti sulle loro proprietà.
Sparviero tornò a guardare l’Elfa che stava cucinando del pesce ai fornelli in ghisa, e ne osservò i movimenti con vago interesse mentre Erik apriva la finestra e prendeva delle brocche di vino dalla neve che ricopriva il davanzale.
«Allora, come te la passi?» gli chiese, e Sparviero scosse piano il capo.
«Come al solito. Tu, piuttosto? È da un po’ che non ti fai sentire. Nelle tue lettere sei sempre così vago…».
Erik si strinse nelle spalle, mentre l’Elfa alle sue spalle si irrigidiva un po’. Fu allora che lo sguardo di Sparviero fu attratto da qualcun altro nella stanza con loro, che fino a quel momento non aveva minimamente calcolato: all’altro capo della tavola c’era un ragazzino dalla pelle pallida, magrissimo e dagli enormi occhi verdi, con i capelli neri e ricci dai riflessi blu scuro, appollaiato su di una sedia e con un piatto di verdure davanti. Una spruzzata di efelidi scure gli contornava il naso e si spargeva per tutto il viso, dandogli un’aria innocente che cozzava con l’espressione totalmente furiosa che aveva in quel momento.
«Idha nu, shiain rrerseí ra nu dhuair»[1] disse secca la madre in elfico. Il ragazzino non la degnò neppure di uno sguardo: tutta l’intensità di quegli occhi arrabbiati era per Sparviero, che lo fissava a sua volta senza battere ciglio.
«Nearco, mio figlio di mezzo» presentò Erik, un po’ a disagio. In elfico ribadì ciò che aveva detto la madre, ripetendogli di mangiare le sue verdure, mentre il ragazzino lo ignorava apertamente e fissava Sparviero, che rimandava indietro lo sguardo.
«Sfeshewc, el neaidh raed aiers rushe[2] s’informò Corinne, mettendogliene nel piatto un po’ senza aspettare risposta. Nearco si alzò da tavola e scappò al piano superiore, mentre la madre lo seguiva con gli occhi che mandavano lampi. Erik la seguì solo con lo sguardo, poi sospirò e gli fece cenno di mangiare pure.
«Noi abbiamo già cenato, Nearco fa storie come al solito perché il cibo nel piatto è mescolato o si tocca o qualsiasi altra sia la sua fissazione del momento…» mormorò, e Sparviero si fece attento.
«Sembra quasi…».
«Sì, lo so. Autismo, è così che si chiama, no? Ho provato ad accennarlo a Corinne ma… per la sua cultura la gente come Nearco è solo speciale, ha una connessione più profonda con gli dèi, roba del genere».
«Non sembri rispettare molto il suo punto di vista».
«Si tratta di medicina, non di punti di vista».
«È difficile andare oltre quando ti propongono spiegazioni scientifiche per tutto, non è vero?» chiese Sparviero, sarcastico: entrambi avevano vissuto per tutta l’infanzia e l’adolescenza in un mondo moderno, e se ne erano portati dietro gli strascichi per tutta la vita.
Sparviero scacciò il pensiero e un bimbo, forse nemmeno due anni ma che già camminava svelto, afferrò la coda di Sinjìn, facendo sobbalzare lui e facendo saltar su il gatto, terrorizzato. Erik afferrò il bimbo mentre Sinjìn balzava svelto ed infuriato in grembo a Sparviero, appallottolandosi con propositi di vendetta sulle ginocchia del Menide. Erik sorrise imbarazzato all’espressione irritata dell’amico e presentò il bambino, che lo guardava con la testolina inclinata, incuriosito.
«Mio figlio minore, Vidar. È una piccola adorabile peste…» il bambino per tutta risposta si infilò una mano intera in bocca e offrì l’altra al padre, che sorrise. Aveva gli occhi uguali ad Erik, ma i capelli erano indubbiamente quelli della madre e di Nearco, neri con quegli strani riflessi blu scuro. Nearco rientrò di corsa e saettò attraverso la stanza come impazzito, mentre la madre lo seguiva infuriata.
«Mi ammazzo! Giuro che lo faccio!» urlò in elfico, disperato. Lacrimoni caldi gli scorrevano sulle guance mentre prendeva il coltello da cucina che fino a quel momento era stato usato per il pesce: se lo puntò alla gola, pronto a tagliarsela. La madre lo fissava calma da dietro il tavolo.
«Se avessi una kyka per ogni volta che l’hai detto, sarei ricca» sentenziò l’Elfa, e Sparviero lanciò un’occhiata ad Erik, che era fermo immobile a fissare la moglie, rigido.
«Tu e Arden mi rendete la vita un inferno!» piagnucolò Nearco, premendosi più forte il coltello sulla gola, e Sparviero si alzò con grazia malcelata mentre si avvicinava al ragazzino che, attonito, gli puntò il coltello contro. «Sta’ alla larga!» gli intimò, ma Sparviero gli prese dolcemente l’arma dalle mani e Nearco si ritrasse, spaventato dalla sua vicinanza. Soddisfatto, l’assassino poggiò il coltello sul tavolo e tornò al proprio posto, togliendosi la kway. Corinne distolse lo sguardo da lui non appena la cicatrice fu visibile, e si irrigidì quando Nearco invece lo guardò affascinato. Sparviero iniziò a mangiare, ed Erik guardava il tavolo con interesse, come fosse la cosa più affascinante di questo mondo.
«Il pesce è buonissimo» confermò poi Sparviero, interrompendo il silenzio assurdo che era venuto a crearsi. Vidar si era intanto addormentato fra le braccia del padre, e Corinne si avvicinò a lui per prendere in braccio il bimbo e portarlo al piano superiore nella sua culla. Erik la lasciò fare, e madre e figlio scomparvero dietro il paravento che copriva i gradini.
«Mi dispiace che tu abbia dovuto assistere a questo» mormorò Erik. Sparviero scosse il capo.
«Puoi farlo venire con me. Gli troverei qualcosa da fare, qualcosa che possa occuparlo bene».
«Ha solo dodici anni, non so se…».
«Se?».
Erik esitò, poi scosse il capo. Nearco tacque, sedendosi a tavola e iniziando a separare la sua verdura in maniera che le carote non toccassero le erbette.
«Non so se sopravvivrebbe con te» sorrise Erik, e Sparviero si accigliò.
«Mi stai dando dell’irresponsabile? Ho due figli».
«E sono piccoli. Alsan quanto ha? Sei anni?».
Sparviero inarcò un sopracciglio.
«Non ho bisogno che mi fai la morale. Vorrei solo che il talento di Nearco non vada sprecato. Avrà pure un interesse speciale per qualcosa, no?».
Erik esitò, poi annuì.
«Le piante».
«Le piante?».
Nearco mise in bocca un pezzetto di carota, ignorandoli come se la conversazione non stesse avvenendo nella stessa stanza in cui si trovava lui.
«Sì, ha degli erbari e ogni tanto gli compro un libro nuovo con informazioni aggiuntive riguardo le piante. Gli piace anche sperimentare con gli innesti, abbiamo un melo che produce quattro tipi di mele diverse grazie a lui».
Sparviero sorrise appena, e Nearco lo indicò.
«Come te la sei fatta?».
«La cicatrice?».
Nearco annuì, e nei suoi occhi c’era una parte di malcelata curiosità, oltre che di furia repressa a stento.
«Me la fece mio fratello anni or sono».
«Non andavate d’accordo?» chiese Nearco, come valutando la cosa. Sparviero sorrise.
«È più complicato di così».
Il silenzio riempì la stanza, e Erik scosse il capo.
«Nearco, va’ fuori con Sparviero, o in camera tua. Io e tua madre dobbiamo parlare» disse, sentendo i passi della moglie sulla scala. Nearco defilò verso la porta di casa, senza riuscire a credere di poter avere una scusa per lasciare in pace le povere verdure martoriate sul tavolo. L’assassino e il ragazzino uscirono fuori nella neve, richiudendosi dietro la porta, e Nearco si accovacciò istantaneamente per terra, ricoperto di vestiti di lana e di un mantello di pelliccia ricavato da più pelli di coniglio cucite insieme. Sparviero, che non temeva il freddo, era coperto da un semplice mantello di lana e dai suoi soliti indumenti neri.
«Ir nesú dú, lesh dú[3] gli chiese Nearco, senza guardarlo negli occhi, e Sparviero sorrise appena, rimettendo la kway al suo posto sul proprio volto.
«Irrar. Suler e llieais dú é?».[4]
«Non sono in molti a chiamarsi “Sparviero”, e le leggende su di te bastano e avanzano a capire che non sei un tipo con cui andare a cuor leggero. Perché mi vorresti con te?».
«Penso tu abbia del potenziale».
«Mia madre crede che io comunichi con gli dèi».
«E tu le credi?».
«No. Non esiste alcun dio, secondo me» mormorò Nearco, senza sollevare lo sguardo da lui, e Sparviero si chinò su di lui.
«Qualunque cosa decidano lì dentro, voglio saperlo: tu verresti con me?».
Nearco parve rifletterci. Non esitò, ma non rispose. Poi annuì in silenzio, lentamente.
«L’ho sempre desiderato. Che qualcuno arrivasse e mi portasse via, intendo, con me che ne seguivo l’ombra».
«Non ti importa chi sia quel qualcuno? Che uccida per denaro?».
Nearco scosse il capo.
«Lo voglio fare anch’io».
«Potresti scoprire che non ti piace, che non fa per te. Ci vuole una certa durezza d’animo per fare l’assassino».
«Non mi sembri così duro come dici» scattò Nearco, alzando lo sguardo e fissandolo negli occhi viola di Sparviero. «Hai quattro figli, sicuramente gli vuoi bene. Hai dei punti deboli, non sei così duro come dici» sibilò, e per un attimo l’assassino restò fermo ed immobile a sondarlo in profondità, poi fece schioccare la lingua e si rialzò.
«Spero per te tu abbia ragione. Ho ucciso per molto meno».
Nearco rabbrividì, ma non ribatté. In quel momento Erik uscì dalla cucina e chiamò in casa Sparviero e Nearco.
«Voglio andare con lui» mormorò Nearco non appena fu dentro. Intirizzito, si sfregò le mani fra loro come un topolino, cosa che accentuò per un attimo il fatto che fosse basso e magro.
«Nearco» lo rimproverò la madre, con quella sola parola. Sparviero lo fulminò con lo sguardo, uno sguardo che Nearco non avrebbe più scordato per tutta la vita. Erik esitò, poi si schiarì la voce ed iniziò:
«Di certo stando con te Nearco imparerebbe la disciplina, ma imparerebbe anche altre cose, cose che non sono quel che si dice adatte ad un ragazzino…» disse, grattandosi la nuca in imbarazzo.
Sparviero annuì, poi si strinse nelle spalle.
«È stato un gesto stupido, Erik. Mi è venuto spontaneo chiedertelo, ecco tutto. Mi faceva piacere l’idea di alleviare della sofferenza… in questa casa ce n’è molta».
Corinne si irrigidì, e Erik guardò Sparviero negli occhi, avvilito.
«No, no, hai ragione. Sai, io vorrei tanto concedere a Nearco di venire con te… ma proprio non possiamo. Ha dodici anni, tecnicamente so che per questo pazzo mondo è adulto, ma… proprio non possiamo» si ripeté, e Sparviero annuì in silenzio, lentamente. «A proposito, ti è arrivato un pacchetto».
«Che pacchetto?».
«Non lo so, non l’ho aperto. Tintinna se lo agiti».
«Tanti cari saluti alla collezione di calici di cristallo» ironizzò l’assassino, ed Erik sorrise canzonatorio.
«Te lo vado a prendere».
«Quindi non posso andare con lui?» ringhiò Nearco, e Corinne gli puntò il dito contro.
«Fino a poco fa eri arrabbiato che ci fosse uno straniero in casa, devi solo stare zitto» sibilò, e Nearco corse al piano di sopra mentre Erik tornava dal salotto con un pacchetto di modeste dimensioni. Insieme a lui, entrò in cucina una ragazza, forse sui sedici anni. Si bloccò un attimo, arrossendo per l’inaspettata presenza di Sparviero, e balbettò un timido saluto mentre si avvicinava alla stufa di ghisa per riscaldarsi. Era bella, dai lineamenti simili a quelli di Erik, gli occhi verde acqua limpidi e lunghi e lisci capelli castani. Nel complesso sembrava la versione femminile del padre, somigliandogli in tutto e per tutto, mentre Nearco era la versione maschile della madre. Dal linguaggio corporeo sembrava molto timida, ma per qualche ragione Sparviero non credeva a quella farsa. ßßß ????????
Erik gli presentò la ragazza come Arden, sua figlia maggiore, e la ragazza si sedette all’altro capo del tavolo, vicino la stufa.
«Ha ricominciato a nevicare» esordì Erik, ricadendo sulla sua sedia e facendo scivolare il pacco sul tavolo fino a Sparviero: era qualcosa di morbido avvolto nella carta, su cui era scarabocchiato l’indirizzo e il nome del destinatario, ma non quello del mittente. L’unico indizio era la calligrafia, sottile e allungata, abbastanza ordinata da capire qualcosa ma non sufficientemente da dare un’impressione di ordine. Sparviero si rigirò il pacco fra le mani, poi Erik lo esortò:
«Allora, non lo apri?».
«Mi chiedo chi me l’abbia mandato, e come faceva a sapere che sarei passato di qua».
«Ogni tanto sei sempre qua».
«Ci sono posti che frequento di più, però».
«Non lo nego. Dai, aprilo».
Lentamente Sparviero stracciò un lato della carta ammaccata e lasciò scivolare fuori il contenuto, cauto. Una stoffa liscia come seta scivolò sul tavolo, nera come inchiostro. Sparviero, accigliato, si alzò e la prese in mano, agitandola per spiegarla. Come se non fosse mai stato compresso in una scatola o piegato, liscio come appena stirato, si dispiegò un mantello nero, apparentemente normale se non per la qualità del tessuto e la particolarità del colore pieno, come le ali di un corvo.
«Un mantello?» mormorò Sparviero, stringendo gli occhi come un felino, come per sondare il capo d’abbigliamento. Sinjìn era immobile, con la stessa espressione sul volto, gli occhi socchiusi e sospettosi, concentrato. Avrebbe potuto essere una statua, l’unica cosa che si muoveva, nervosa, era la punta della coda, che oscillava qua e là.
Sparviero sorrise e posò il mantello sul tavolo, piegandolo bene. Agitò poi di nuovo il pacco, e sul tavolo caddero diverse chiavi; Sparviero le contò: erano tredici in tutto, e il loro scopo era a lui sconosciuto. Restò immobile a fissarle, come se guardandole più a lungo potesse spiegare il loro segreto, poi rinunciò e se le infilò in saccoccia, rimandando a dopo gli incantesimi per capire se si trattava di oggetti maledetti. Poi indicò le verdure lasciate sul piatto da Nearco.
«Peccato che non me lo abbiate concesso… Se il ragazzo mangia a quel modo, sicuro che me lo prendevo! Spendo una fortuna perfino per far mangiare il mio cavallo. E lui mangia erba!».
Erik rise di gusto, e scosse il capo.
«È stato un piacere vederti».
«Immagino che ci vedremo fra un altro annetto».
Erik rise di nuovo, stavolta con una risata incrinata di malinconia, e scosse il capo piano.
«Ci si rivede, Sparviero».
L’assassino uscì di casa e si diresse alla stalla, dove recuperò il proprio cavallo; andò verso est a piedi, conducendo Inder nella neve alta per qualche ora, e quando fu buio pesto si rifugiò in un boschetto ai lati della strada. Montò su la tenda e accese un fuoco, spazzando via la neve dalla radura con un piede; mangiò un po’ di carne secca, mentre tirava fuori il mantello fatto di oscurità pura che qualcuno di misterioso gli aveva spedito a casa di Erik, e lo esaminò senza ricorrere ad incantesimi: lo tese e lo strattonò, poi lo gettò per terra e mormorò qualche parola per rivelare la magia; improvvisamente il mantello assunse un alone ancor più nero che nella realtà, rivelando la potenza magica di cui era impregnato. Ma ancora nessun indizio sul fatto che fosse maledetto o meno. Lentamente smise di nevicare e si alzò un vento freddo che gli accoltellava il viso; nonostante il rumore delle frasche, Sparviero sentì la neve scricchiolare piano, come sotto i passi di un gatto.
«Dovresti smetterla di seguirmi».
La voce dell’uomo, gelida, percorse la radura immobile nel cuore della notte; non una foglia si mosse, calmatosi il vento, ma il Menide, spazientito, tirò un sasso verso dei cespugli. Un gemito di dolore si levò dalle frasche, e una testa dai capelli scuri e ricci emerse come un animaletto notturno sorpreso da un predatore: gli occhi verdi erano spalancati, e il viso colmo di lentiggini era congelato in un’espressione impassibile e quasi fredda, asettica.
«Nearco, giusto?» mormorò l’uomo, mentre il fuoco davanti a lui scoppiettava tranquillo.
Il ragazzino titubò, poi annuì alla domanda dell’assassino.
«Perché mi segui?».
«Voglio venire con te» mormorò Nearco, e sembrava vagamente imbarazzato dal tono di voce; ma la sua espressione non era cambiata in modo particolare, e Sparviero scosse il capo.
«Non sai quel che dici. Ti riporterò da tuo padre domattina».
«No!» protestò il ragazzino, e Sparviero si tolse la kway per mangiare un altro pezzo di carne secca, sospirando.
«Non mi assumo la responsabilità delle tue scelte» rispose semplicemente l’assassino, e Nearco annuì.
«Sono un uomo adulto, posso farcela».
«Sei un ragazzino. Ma va bene così. Prima si inizia meglio è».
 

[1] «Ti prego, finisci le tue verdure».
[2] «Sparviero, ti piace il pesce di lago?».
[3] «Sei un assassino, vero?».
[4] «Sì. Come lo hai capito?».

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Dopo tre giorni di viaggio, Sparviero aveva usato una chiave che portava al collo come una collana, aprendo la porta di una catapecchia: essa si era aperta dando su uno studio di pietra, ben illuminato da una finestra che dava su delle torri.
«Sei tornato, finalmente» borbottò Yukab, mentre Alsan e Saul si voltavano di scatto verso Sparviero e gli correvano incontro.
«Papà!!» strillò Alsan, e Yukab si massaggiò le tempie.
«Dio santo se urlano, i tuoi figli. Meno male che ti ho conosciuto da giovane, altrimenti non avrei mai creduto che fossero figli tuoi».
«Li puoi portare a letto? È ben oltre l’orario della nanna» disse severo, e Alsan assunse uno sguardo colpevole.
«Zio Yukab ha detto che potevamo restare alzati fin quando non arrivavi tu!» specificò, e Sparviero sorrise sotto la maschera.
«Bene. Saul sta morendo di sonno, vedo…» osservò il figlio, che si stropicciava gli occhi e sbadigliava mentre gli abbracciava la gamba insieme al fratello. «Per favore, Yukab. E se mi chiamassi Said ti sarei ancor più debitore» mormorò Sparviero, facendo cenno a Nearco di sedersi davanti alla scrivania. L’assassino usò di nuovo la chiave per portare Inder nelle stalle delle Cinque Torri, dopodiché fu di nuovo nello studio, e Said entrò poco dopo. Il maestro era appesantito dalla vecchiaia, essendo umano, ma gli occhi gialli brillavano ancora rapaci.
«Allora, quando parti?» chiese, come se non fosse mai partito o tornato, e Said osservò il ragazzino macilento come se avesse già capito tutto. «Manine da accademia» borbottò, e Sparviero si tolse la kway, sorridendo appena.
«Sono già partito, già tornato. Sai che mi sposto rapidamente. Lui è il mio nuovo allievo… Nearco» lo presentò, e Said lo guardò come fosse matto.
«Hai due figli piccoli! Come credi di poter bilanciare le cose?».
«Oh, ci riuscirò» disse a denti stretti l’assassino.
«Mio padre mi ha insegnato un po’ di scherma e di tiro con l’arco» chiarì Nearco, che non stava seguendo la conversazione. I due uomini lo fissarono per un momento, poi Said sbuffò, sedendosi accanto a Nearco, che si scostò bruscamente.
«Lo devi portare al Patto col Demone, ovvio…» Said ignorò la risposta di Nearco, fissando di nuovo il ragazzino con tutta l’intensità di cui era capace.
«Dopo».
«Dopo quando? Dopo cosa?» protestò il maestro, e Sparviero fece una smorfia.
«Come fa ad andare ad un Patto col Demone così?».
«Anche questo è vero…» borbottò Said, poi fissò l’assassino, notando una scintilla nei suoi occhi che lo fece sorridere. «Dimmi, hai intenzione di tenertelo come animaletto domestico?».
«Che esagerazione!» replicò Sparviero, fissando il vecchio maestro con una scintilla divertita negli occhi.
«Un allievo» continuò stancamente Said. «Se non altro ti terrà occupato. Anche se ricordi com’è andata con Locklin…».
Kame sorrise triste e fece l’errore di stringere una mano sulla spalla di Nearco. Il ragazzino si scostò bruscamente, sibilando di dolore e iniziando a tremare. Said si accigliò.
«Che gli prende?».
«È… un ragazzo particolare. Hai presente, di quelli che allineano gli oggetti e hanno interessi speciali».
«Un ingegnere?» lo sfotté Said, ridendo, e Sparviero rise appena.
«No, no. Diciamo che è diverso. Non per questo lo tratterò con i guanti di velluto, ma… cercherò di rispettarlo».
«Come fai ad addestrarlo senza toccarlo?».
«Sarà una sfida».
Said scosse il capo, e ammiccò.
«Voglio vedere come se la cava in scherma. Ma devi spiegargli come funziona» disse poi Said, indicando Nearco. Sparviero fece un cenno a Nearco, che si voltò verso di lui risentito per essere stato toccato senza permesso; l’assassino si accovacciò per parlare faccia a faccia con il ragazzo e scandì bene le parole:
«Scorda tutto ciò che hai imparato. Sei qui, ora. Non sei a casa, a scuola o in un altro posto, sei solo qui. Non combatti per passione. Non combatti perché te lo dice qualcuno. Combatti per vivere. Combatti per vincere. Combatti per essere il più forte, combatti, se vuoi, per giustizia, combatti per essere l’unico. Combatti per la libertà. Tu sei libero. Sei libero dalle convenzioni, sei libero e combatti per la libertà, la tua, la mia, la sua, la nostra, la loro libertà. Combatti per mondi interi, Nearco. Non ci sono punti, non ci sono arbitri. Solo tu e il tuo avversario, e le vostre spade. È una questione di vita o di morte. Non sei con tuo padre. Non puoi ritentare. C’è un solo tentativo. Solo un istante per decidere: vincere o perdere? Solo un istante per andare all’altro mondo o salvare persone innocenti, con il sacrificio di una sola. Solo… sarai capace di quel sacrificio?» Kame lo fissò serio e concentrato, freddo, con i suoi viola occhi penetranti e Nearco lo fissò, annuendo, cercando di non dare a vedere né la paura né la determinazione che provava.
Sparviero si sollevò e Said si alzò, facendo cenno ai due di seguirlo. Claudicante e con un bastone, il vecchio maestro li guidò in una palestra privata che utilizzava solo Sparviero, e da una rastrelliera diede una spada da allenamento a Nearco, che era teso e carico come una molla.
Né Sparviero né Nearco sprecarono parole a darsi il via. Entrambi studiarono l’avversario, Said guardava Nearco ma sembrava incapace di non guardare l’assassino, notando come la sua guardia fosse ben chiusa e la mano libera dalla spada pronta ad afferrare e ritirarsi al sicuro dietro di essa.
Partì Nearco per primo; Sparviero si limitò a parare e a scansarsi, ma il ragazzino sembrava avere due spade tanto veloce era. L’Assassino dovette darsi un gran daffare per scansare e parare tutto e Nearco si fermò solo ad un certo punto, incredulo, a guardare l’Assassino, che come lui non ansimava ed era velocissimo. Non gli aveva sfiorato neanche il mantello, che era in assoluto la parte più facile da colpire.
«Mi hai rovinato il mantello» il tono dell’Assassino aveva un tono divertito, e si lisciò il lungo drappo nero che gli scendeva sulle spalle «Me l’hai sgualcito».
Nearco sorrise e ritornò all’attacco, stavolta con meno foga e più accuratezza. Kame dovette passare a sua volta all’attacco, trasformando gradualmente le parate in deviazioni dei colpi: invece che dritto al cuore li spostava verso destra o sinistra, dove era più facile scansare. L’Assassino arretrò di alcuni passi e Nearco sorrise leggermente, pregustando la vittoria. Ma Kame saltò oltre di lui e continuò a parare, stavolta scansando in modi più fantasiosi. Improvvisamente colpì e Nearco si rese conto di aver perso la concentrazione a seguire gli spostamenti dell’assassino, perdendo di vista la spada. Infatti quest’ultima, una lama azzurra come uno zaffiro, era stata abbattuta sul suo polso, di piatto, e quella parte del corpo gli dava un pulsare sordo. L’aveva colpito di piatto, ma aveva l’impressione di essersi rotto il polso: aveva mollato la spada, che giaceva ai suoi piedi, e Sparviero gli puntò la spada al petto, lentamente ma senza delicatezza.
«Morto» disse, freddo. Raccolse la spada che Nearco aveva lasciato cadere e la lanciò a Said, che nonostante la vecchiaia aveva ancora i riflessi pronti, e quest’ultimo la ripose nella rastrelliera. Nearco percepì l’occhiata soddisfatta del suo nuovo maestro e vide che Said evitava di guardarlo, irritato da quello stesso sguardo.
«Va bene, tienitelo come allievo. Se muore, tanto, ce l’hai tu sulla coscienza».
Kame non smentì ciò che aveva detto il vecchio per rassicurare Nearco, anzi, lo condusse con sé in una camera comune, dov’erano riunite diverse persone che leggevano, chiacchieravano, o semplicemente si godevano il calore del caminetto. Sparviero si sedette accanto ad un uomo alto, asciutto e ben proporzionato, i cui capelli biondi brillavano dorati alla luce soffusa del camino e delle lampade ad olio. L’uomo li guardò di sfuggita, poi si soffermò su Nearco, indugiando su Sparviero.
«Uno nuovo?» chiese, fissando il falò con gli occhi grigi. Come per avere conferma di qualcosa, l’uomo fissò di nuovo gli occhi dell’assassino, mentre questi annuiva.
«L’hai preso sotto la tua ala? Credevo andassi da quel tuo amico…».
«Infatti ci sono andato, Vex».
«E quindi?».
«È suo figlio. Mi ha voluto seguire».
«Allora non è a conoscenza dei particolari» l’uomo sfoggiò un sorrisetto divertito, sarcastico, e Kame lo fissò, una scintilla di ironia negli occhi.
«Non è a conoscenza dei particolari» confermò, quasi ridacchiando. L’uomo si alzò per non scoppiare a ridere e Nearco, senza più trattenersi, chiese:
«Di cosa parlavate?».
«Della mia vita».
«Ovvero?».
«Tanto sangue, Nearco. Spero tu non ne abbia paura» la frase fu detta tranquillamente, senza il minimo sussiego, semplicemente con una sorda soddisfazione, come se il sangue fosse il premio, e non la pena o il mezzo.
«A te piace il sangue» Nearco ne era in qualche modo stupito, come se non ci avesse minimamente pensato.
«La prima regola quando sei con me, è darmi del lei o del voi, come faresti con un insegnante. Chiaro?» la prima parte della frase era stata detta con lo stesso tono della precedente, ma l’ultima parte aveva assunto un tono apertamente minaccioso.
«Scusatemi» mormorò Nearco.
«Oh, Yukab» Sparviero gli fece posto sul divano, e Nearco restò in piedi al fianco, senza voler essere inavvertitamente toccato da qualcuno. «Questo è Nearco» lo presentò ancora, e Yukab aggrottò la fronte. «Ti ricordi, te ne ho parlato quando io ed Erik ci scrivevamo…».
«Oh, sì. Suo figlio di mezzo, giusto?» chiese, ma non era una vera domanda.
Sparviero annuì.
«È il mio nuovo allievo».
Un silenzio stupefatto e un po’ freddo calò nella saletta: coloro che stavano leggendo sollevarono circospetti gli occhi dai libri, alcuni si scambiarono occhiate, e Yukab commentò:
«Grande idea dirlo davanti a tutti».
«Era quello, il piano».
Lentamente la gente riprese a sussurrare, ma Nearco ebbe come l’impressione che stavolta si parlasse di lui; si rattrappì contro il divano, deglutendo a fatica, e mormorò all’orecchio di Sparviero:
«Maestro, possiamo andare via…?».
«Sei impaziente di cominciare con l’addestramento?».
Nearco scosse il capo, e osservò la saletta a disagio.
«No, è che…».
«Allora non preoccuparti. Nessuno ti farà del male. Siediti, prendi un libro, fai quel che vuoi. Questo è il Clan degli Artisti, ed è la tua nuova casa».
La nottata proseguì senza ulteriori incidenti: Yukab e Sparviero osservarono la saletta riempirsi verso le tre di notte e poi svuotarsi verso le cinque di mattina, finché non rimasero solo loro tre. Nearco si era poggiato al muro, stanco, e si era quasi addormentato quando Sparviero si alzò dandosi una pacca su una gamba e lo chiamò.
«Nearco. Vieni con me».
«Non dormite mai?».
«Solitamente dormo di giorno… di notte lavoro».
«Non vi ho visto lavorare».
Sparviero si accigliò.
«Giudichi un uomo da una sola notte?».
Nearco tacque imbarazzato, senza sapere cosa rispondere.
«Dovrai abituartici, ti addestrerai perlopiù di notte anche tu» gli suggerì, e fece per dargli una pacca sulla spalla, salvo trattenersi all’ultimo e indicandogli la porta con la mano. «Ti faccio vedere le tue stanze» disse, guidandolo fuori dalla saletta. «D’ora in poi la tua vita sarà scandita da orari fissi ed imprescindibili: andrai a letto all’Ora Prima[1] e ti sveglierai all’Ora Nona,[2] avrai un’ora da dedicare a te stesso fra colazione, igiene e vestizione. Il primo periodo sarà improntato ad un’istruzione collettiva con altri ragazzi, un po’ come una scuola; mi assicurerò di sceglierti la classe migliore, e che i tuoi bisogni siano compresi. Quando avrai finito con le lezioni, andrai a procurarti del cibo e avrai un’altra ora per te stesso, poi verrai da me e mi osserverai lavorare. Non temere, potrai farmi tutte le domande che vorrai, e questo vale anche per Yukab» l’uomo annuì al sentirsi nominare, serio, e Nearco non sollevò lo sguardo, preferendo fissarlo su un punto non precisato alla loro destra. «Non m’importa che non mi guardi negli occhi, ma ci sarà a chi importa. Impara dei trucchi per farlo, o ti ritroverai in grossi guai».
«Che trucchi?» chiese Nearco, stupito che fosse così ovvio il fatto che evitava il contatto visivo oltre che quello fisico.
«Guarda nel mezzo della fronte. Un sopracciglio, il naso, qualunque cosa nelle vicinanze degli occhi. Darai l’impressione di stare ascoltando».
Nearco alzò lo sguardo, titubante, e fece come gli era stato suggerito.
«Bene… dove eravamo?».
«Osservare lavorare, domande» borbottò Yukab, stanco.
«Bene. Puoi rifugiarti nelle tue stanze ogni volta che lo vorrai; gli unici che sanno dove sei siamo noi due».
Nearco annuì e deglutì, poi fece un cenno verso la porta davanti alla quale si erano fermati i tre.
«È questa la mia stanza?».
«Sì. Hai delle domande?».
«Devo pulirmi la camera da solo…? Dove trovo la scopa, il secchio, e tutte quelle robe?» chiese Nearco, a disagio, e Yukab sorrise.
«Qui abbiamo delle persone pagate per farlo ogni giorno. Ti consiglio di non tenere in camera nulla di scottante, perché per quanto siano riservati gli inservienti, le notizie circolano in fretta».
Nearco si strinse la borsa al corpo convulsamente, e Sparviero fece finta di averla appena notata.
«Cos’hai là, ad esempio?».
«I miei erbari» mormorò Nearco, abbassando di nuovo lo sguardo, e Sparviero fece un gesto noncurante con la mano.
«Ci penseremo domani. Me li mostrerai?» chiese, e Nearco annuì con foga. «Bene. Buonanotte allora».
Detto ciò, Yukab e Sparviero si avviarono lungo il corridoio, mentre Nearco entrava nella stanza. Era una camera in pietra con soffitto di legno, proprio come casa sua: in qualche modo, ciò lo rinfrancò. Prima di andare a dormire, il ragazzino curiosò in armadi e cassetti: c’erano divise del Clan generiche di non sapeva chi, e la sola idea di indossare quei tessuti morbidi lo fece sentire allettato e sorpreso: quelli che possedeva non erano di fattura così pregiata, tantomeno di velluto o di lana filata in modo così spettacolare. Si tolse la tunica e il mantello di pelliccia di coniglio, deglutendo e infilandosi un maglione di lana nera; poi si raggomitolò sul letto guardando fuori dalla finestra, dove la neve cadeva lenta mostrando un paesaggio immacolato e non toccato dall’uomo, e che riverberava della luce della luna piena. Si addormentò così, in posizione fetale e quasi seduto, estenuato dalla lunga veglia.
 

[1] Corrispondente alle otto del mattino circa.
[2] Corrispondente alle sedici circa.

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


A risvegliarlo fu il bussare di qualcuno alla porta. Dove si trovava? Cosa stava facendo?
«Servizio in camera» annunciò una voce femminile di una certa età, e Nearco si alzò barcollando: si sentiva scombussolato, e un bel po’ affamato.
«Avanti» balbettò, e nella camera entrò una signora che sembrava umana, in età avanzata, armata di scopa. «Che ora è?» chiese il ragazzo, mentre l’inserviente iniziava a spazzare con metodo il pavimento, senza fretta.
«Oh, non temere. Manca poco all’Ora Nona, Sparviero mi ha mandato qui per assicurarsi che tu fossi sveglio in tempo».
«Bene. Anche perché non ho la minima idea di dove andare per fare colazione» ammise il ragazzo, e in fretta si infilò nel bagno attiguo alla camera, dove si sciacquò il viso in fretta.
Uscì dalla camera e quasi si scontrò con Sparviero, che lo attendeva piantato di fronte alla porta; quando lo vide l’occhio viola scoperto brillò divertito.
«Puntuale. Bene. Queste sono le piantine dei piani del Clan» disse, porgendogli dodici pergamene diverse tutte miniate perfettamente in planimetrie. «Noi al momento siamo al sesto piano, qui» gli indicò un punto preciso della mappa, e poi i montacarichi. «Dobbiamo andare sui montacarichi per raggiungere le cucine, e lì far colazione. Per ora tutto chiaro?».
«A che piano sono le cucine?».
«Terzo piano sotterraneo».
Nearco diede un’occhiata ai fogli, poi annuì.
«Ce la posso fare».
«Oggi è il tuo primo giorno al Clan, quindi ti guiderò io. Da domani sei da solo. Chiaro?».
Nearco annuì e si morse le labbra, poi accelerò il passo per saltare sul montacarichi pieno di gente, stando ben attento a non toccare nessuno neanche inavvertitamente.
Una volta raggiunta la Cittadella, Nearco si guardò attorno stupito: lì c’era il distretto alimentare, con tutte le bancarelle del caso a farla da padrone nell’ampio spazio organizzato per corridoi, come una fiera di paese ma più in grande e meglio organizzata.
«Ti sarà data una paga settimanale con la quale potrai comprare vestiti, cibo o libri. Non che non abbiamo una biblioteca, ma alcuni tomi sono abbastanza richiesti… averne una copia personale è più comodo. Puoi anche… possedere delle piante. Ma niente animali» gli raccomandò, e il cuore di Nearco saltò un battito.
«Posso… posso possedere delle piante?».
«Più in là potrai studiarle in serra» Sparviero la buttò lì come se non fosse un’informazione di vitale importanza per Nearco, che si sedette al tavolo indicatogli da Sparviero con un’espressione esterrefatta sul viso.
«Avete delle serre…?» chiese, come se non ci credesse, e l’assassino annuì.
«Certo. Ora mangia» gli ordinò, e mentre a Sparviero fu servito un solo piatto con due fette di pane, del formaggio di capra morbido e del miele, a Nearco ne furono serviti tre diversi, contenenti però le stesse cose separate. Il ragazzino alzò lo sguardo sul maestro, profondamente grato per quella semplice trovata, e si dedicò a mangiare con minuzia ciò che gli stava davanti. Si versò poi un bicchierone d’acqua, e quando anche Sparviero ebbe finito di mangiare i due si avviarono verso i piani della biblioteca, dove si tenevano le lezioni.
«Stanotte andiamo fuori» gli anticipò l’assassino, poi gli fece cenno verso la porta della biblioteca. «Puoi seguire tutte le lezioni che vuoi. Hai cinque ore da spartirti in diverse sale di lettura».
«Che lezioni ci sono?» chiese Nearco, abbagliato dalla biblioteca così grande e ben decorata.
«Ti suggerirei di iniziare con botanica, poi con erboristeria, e anche con antidoti, sonniferi e veleni; puoi scegliere tu due classi a tuo piacimento da frequentare, ma ti suggerisco “Storia dei Tredici Regni” e anche “Lingue”, che dovrebbero essere interessanti. Poi tu sai già l’Elfico Unito, quindi sarai avvantaggiato in quest’ultima classe…».
«Non avete altre persone che sanno più lingue?».
«Oh, sì. In realtà alcuni ne sanno più di tre, come me» mormorò Sparviero, e gli fece cenno di entrare nella saletta di lettura che avevano raggiunto al centro della biblioteca. «Non preoccuparti se non hai i libri: ti saranno forniti».
«Ma avranno già iniziato da un pezzo, no?».
«Le lezioni sono circolari: iniziano dall’inizio del libro e ricominciano quando finisce. Non preoccuparti» lo rassicurò, e detto ciò Nearco imboccò la porta e si sedette ad un tavolino, deglutendo con le orecchie in fiamme.
Le ore passarono veloci: Nearco non si sentiva così stimolato da praticamente mai nella vita, e quando raggiunse Sparviero in cucina lui lo guardò con l’occhio viola che sorrideva.
«Com’è andata?».
«Sono stato sulle mie. Nessuno mi fissava, il che è già di per sé grandioso» mormorò Nearco, contento. Per qualche motivo iniziò a manipolare un angolo del maglione slargato che indossava, deformandolo un po’; Sparviero lo osservò senza commentare, poi arrivò il cibo.
«Non sapendo se ti piaceva la zuppa di carne e legumi tipica del Clan, ho preferito andare sul sicuro con un po’ di riso e della carne, separati» sussurrò l’assassino, e Nearco gli lanciò un’altra occhiata grata, sospirando: finalmente poteva mangiare senza stress.
«Prima di uscire, ti porterò a farti fare dei vestiti su misura. Offro io» disse Sparviero, finendo la zuppa in fretta; Nearco lo seguì, a stento finendo il riso, e entrambi si alzarono come un sol uomo, recandosi al quarto piano sotterraneo, con i negozi della cittadella.
Si recarono da un sarto, e quando uscirono un’oretta dopo Nearco aveva un’uniforme del Clan degli Artisti invernale, con tanto di mantello di lana e cinturone per le armi.
«Ora hai solo bisogno di una spada, dato che per ora è l’unica arma a corto raggio che tu sappia usare, dico bene?».
Nearco annuì e camminò in fretta accanto a Sparviero, deglutendo.
«Maestro… cosa dobbiamo fare stanotte?».
«Oh, nulla. Solo farci un giro. Ho sentito che ci sono delle fate al villaggio ad ovest di Huyton».
«Siamo così a nord?».
«Siamo alle Cinque Torri, ragazzino» ridacchiò Sparviero, sommamente divertito. Nearco lo fissò stupito, poi annuì piano.
«Va bene» mormorò.
Procuratisi una spada da un fabbro che procedette ad affilarla prima di dargliela, Nearco se la allacciò alla vita e Sparviero lo guardò critico.
«Per fortuna te ne ho presa una per bambini, una spada normale è alta quanto te» sorrise, e Nearco lo guardò con rabbia, deglutendo a fatica.
«Ora andiamo» lo esortò il maestro.

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Stavolta era diverso.
Aysel era abituata alla rabbia, al disprezzo, al disgusto e alla paura.
Ma stavolta… probabilmente stavolta l’avrebbero impiccata.
Sapevano dove trovarla. Qualche massaia, di quelle che le portava da mangiare di tanto in tanto dal villaggio nel bosco, probabilmente aveva rivelato al marito dove si trovava.
E ora lei era bloccata su di un albero, il cuore che batteva a mille e soltanto un desiderio: fuggire e vivere.
«Scendi, strega!!».
«Uccidetela!!».
Aysel strinse a sé convulsamente il tronco d’albero e due lacrime le imperlarono le ciglia, mentre gridava:
«Non ho fatto niente! Lasciatemi in pace!!».
Gli uomini ignorarono il grido e ringhiando e ansimando, scuotendo l’albero tutti insieme, imprecarono: «Ti prenderemo, prima o poi!! Scendi!».
«Ragazzi, cerchiamo di ragionare» Aysel sentì chiaramente la voce di un uomo dietro di lei, sul suo ramo, e si voltò di scatto, pronta a colpirlo con uno qualunque dei suoi arti, braccio o gamba non importava, bastava che ne usciva viva. Ma lo sconosciuto non sembrava avercela con lei. Nell’ombra della notte lo distingueva a malapena, e ne dedusse che doveva essere vestito completamente di nero. Percepì che gli uomini di sotto si erano fermati di botto, accigliati, e fissavano la chioma dell’albero confusi.
L’uomo non sembrava nemmeno essere lì, finché non parlò di nuovo, facendo sussultare Aysel.
«Ragioniamo» disse l’uomo, perfettamente calmo, sedendosi comodamente sul ramo con le gambe a penzoloni sulle teste degli uomini. Il suo occhio viola mandò un bagliore e gli uomini arretrarono. «Vi pare giusto prendervela con lei? A me non tanto».
Gli uomini esitarono un istante, poi rabbiosi urlarono:
«Chi se ne importa!».
«Suvvia, miei cari ragazzi. Voi siete sei uomini forzuti, abituati a mangiare in una sera quanto un bue mangia in una settimana, a lavorare nei campi, nei fiumi e nelle miniere, armati di coltelli e seghe; siete in sei contro una piccola fata che oltretutto deve ancora avere le proprie ali, completamente disarmata, abituata a fuggire e a pescare ciò che mangia dai bidoni dei vostri rifiuti, ad elemosinare e fingersi ciò che non è mentre voi bevete e ruttate in compagnia dei vostri amici dall’oste. Perché non ci andate, ora? Siete molto più utili nei campi che non qui».
«Ma… è una strega…» obbiettò il più coraggioso, fattosi circospetto dinanzi all’ombra sul ramo che era accanto alla ragazzina dalla pelle che risplendeva alla luna. L’ombra in questione lo guardò divertita.
«E allora? Anch’io sono un non-umano, un mago. Eppure sto solo parlando con voi, evitando di farvi scoppiare come sacchi di carne putrescente. E poi non vi sembra un po’ eccessivo, come giudizio, “strega”? È solo una fata, per di più piccola, una bambina. Anche io non sono umano, ma non per questo osate attaccarmi o insultarmi senza motivo, o minacciarmi di morte, o intimarmi di scendere dall’albero. Non trovate?».
Il discorso non era particolarmente convincente: l’unico motivo per cui gli uomini non lo attaccavano o insultavano era il sospetto che si trattasse proprio di Sparviero, e che per loro fosse finita lì la propria vita.
«Su, spostiamo tutto ciò che pensate di lei su di me. Rifatela, tutta la scena di forconi e torce» li esortò bonario Sparviero, e un uomo alzò la torcia rabbioso.
«È una sfida?» domandò. L’occhio viola brillò di nuovo nell’oscurità, e gli uomini non osarono più muoversi. Si udì solo un flebile «Scendi, per favore», ma nient’altro.
Nessuno si mosse, e la neve ricominciò a cadere lenta sul sentiero del bosco.
Aysel si morse la lingua per non farlo, ma scoppiò a ridere ugualmente: ciò fece avvampare gli uomini, pur grandi e grossi com’erano.
«Non ve la prendete con qualcuno come lui, eh!? Ma con me va bene?» rise Aysel, asciugandosi le lacrime per le risate. L’ombra indugiò con uno sguardo solidale su di lei e gli uomini approfittarono per fare un passo indietro. Con un movimento solo, di una velocità e di un’agilità disumana, l’ombra fu a terra.
«Ora sono a terra. Mi avere chiesto di scendere per favore e io sono sceso. Volevate qualcosa?» s’informò, sondandoli tutti con lo sguardo: i lunghi capelli blu notte seguivano i movimenti della sua testa, ondeggiandogli sulle spalle, e Aysel lo osservò: sembrava parecchio magro e veloce, ma anche forte: le sue spalle erano larghe ed abituate a combattere. Con un pizzico di piacere osservò che gli uomini erano più bassi di lui, e che gli osservavano le braccia, immaginandole intorno ai loro colli e ai loro toraci, in una stretta che li attanagliava al petto e gli impediva di respirare. Desiderando ardentemente che ciò che avevano immaginato non accadesse mai, gli uomini arretrarono e misero le mani avanti, deglutendo e mormorando:
«Scusa, Sparviero. Scusa. Ce ne andiamo. Non cercare vendetta, ti prego… non si è fatto male nessuno» mormorarono, e detto questo corsero via, lasciandosi dietro solo una lampada che gettava ombre inquiete fra le frasche. Sparviero li lasciò andare e fece cenno ad Aysel di scendere, fissandola divertito.
«Mi chiedo perché abbiano avuto tanta paura di te» disse subito la bambina, guardandolo di rimando. «E come ti hanno chiamato? Sparviero? Ti conoscevano?» chiese, a macchinetta. Sparviero assunse uno sguardo serio, poi scosse la testa.
«So come apparire minaccioso. E poi hanno già sentito parlare di me. Sono abbastanza conosciuto da queste parti e in generale nel Regno».
«Davvero? E perché? Salvi spesso la gente?» s’informò la fata, controllandosi con un’occhiata il bozzolo che aveva dietro la schiena.
«Qualche volta» disse Sparviero, laconico. «Vuoi venire con me?».
«Non ho molte alternative» valutò Aysel, cauta. «Quelli verranno di nuovo, se non vengo con te. A meno che io non sia più in pericolo con te che senza di te» insinuò Aysel, guardandolo di sottecchi. Ma l’ombra non si mosse.
«Ma esattamente chi sei?» chiese la fata, arretrando e rendendosi conto che quello era sì il suo salvatore, ma non lo conosceva, e non aveva affatto un aspetto rassicurante.
«Qualcuno interessato a tenerti in vita, per ora» disse l’uomo nudo e crudo, senza una piega.
«Come posso sapere che mi posso fidare di te?».
«Fidati prima di tutto di te stessa» disse l’ombra chinando un po’ il capo. Aysel ebbe l’impressione che quella scintilla negli occhi dell’uomo avesse generato una perla, e si affrettò a conservarla. Era una frase molto giusta.
«Ti fidi di me?» chiese poi l’uomo, con un tono che assomigliava ad un tono insinuatore, quasi curioso, di sicuro molto strano. Aysel lo valutò e poi valutò le proprie sensazioni: con lui stava bene. Si sentiva sicura, ed era protetta. Notò il pugnale e la spada che portava legati alla cintura. Non aveva notato la spada fino a quel momento, ma ora che era accovacciato per parlarle occhi negli occhi la spada azzurra, bellissima e dai bagliori mortali, si delineava sull’erba blu notte della radura sottostante in tutta la sua terribile bellezza. Al contrario dell’uomo, quella spada la inquietava. Ma percepiva che finché l’avesse impugnata l’ombra, non le avrebbe fatto del male. Improvvisamente notò il silenzio e il freddo che erano calati attorno a lei, e rabbrividì portandosi le manine sulle spalle scoperte: indossava infatti un semplice vestitino di lana da interno, di quelli da tenere dentro casa; nulla a ripararla dal freddo di quella notte invernale. Quell’individuo la inquietava, nonostante si sentisse perfettamente al sicuro. Non aveva ripetuto la domanda, era sicuro che l’avesse sentita, e attendeva in silenzio una risposta.
«Forse» rispose lentamente Aysel, desiderando ardentemente, dispiaciuta, che fosse un sì. L’uomo però parve accontentarsi, anzi, commentò a mezza voce:
«Saggia scelta».
Si alzò e le porse la mano, come fosse un perfetto cavaliere nel mezzo di una sala da ballo che chiede elegantemente l’onore di un ballo ad una dama che fa da tappezzeria, seduta sui bordi della pista, completo d’inchino e di occhiata brillante.
Aysel, incantata dai modi di fare dell’uomo che le stava davanti e dal carisma che emanava, prese delicatamente, timidamente, la mano sottile che le porgeva l’uomo. Alla ragazzina venne voglia di abbracciare l’ombra, chiunque egli fosse, ma ai fianchi sentiva un dolore tremendo, unito ad un freddo terribile.
«Scusami» disse l’ombra, senza un tono particolare, forse quasi riflessivo. Aysel continuò a guardarlo di sottecchi, mentre l’ombra s’addentrava nel sottobosco come un’illusione, senza che i suoi passi toccando terra producessero il benché minimo suono. Perfino le sue orecchie, a punta e lunghissime, dall’udito finissimo, faticavano a seguirlo. Velocemente, prese la lampada ad olio abbandonata sul sentiero e lo seguì di corsa, non volendo restare sola nella neve. I suoi piedini scalzi lasciavano impronte leggerissime sul manto di neve che stava ricoprendo tutto, e l’ombra ora non era più tale dal momento che della neve si era posata sul suo capo e sulle sue spalle. Con un impegno che non aveva mai messo in niente, cercò di seguire l’uomo, e, quando lo perdeva di vista, se lo ritrovava al fianco, che la studiava finemente e attentamente con il suo occhio viola che splendeva come quello di un felino nella notte.
Dopo un po’, Aysel notò una seconda ombra, che li seguiva a distanza.
«C’è un’altra persona che ci segue…» provò a dire, ma la prima ombra le fece segno di non preoccuparsi con un dito affusolato, intimandole il silenzio. La seconda ombra continuò a seguirli in silenzio, poi Sparviero si fermò e la aspettò.
«Sei stato davvero…» mormorò l’ombra, senza trovare le parole, poi scosse il capo e fece un cenno di saluto alla piccola fata. «Io sono Nearco, signorina; onorato» si presentò.
Aysel restò abbagliata da Nearco: era a suo dire più affascinante di Sparviero. Aveva gli occhi verdi come un gatto, grandi ed espressivi, che alla luce della lanterna riflettevano il bagliore della neve che li circondava. Il volto sottile e gentile spruzzato di efelidi era vagamente corrucciato, come sentisse il freddo più di lei che era praticamente mezza nuda. Aveva le labbra rosa, sottili e morbide, mentre le mani erano guantate di nero come quelle della prima ombra, ma più piccole e forse più gentili nell’aspetto, anche se meno affusolate; tutto in lui le diceva che era giovane, forse poco più grande di lei.
Proseguirono con il camminare per tutta la notte, quando Aysel boccheggiante e con i muscoli che le tremavano dallo sforzo, pregò le due instancabili ombre di fermarsi. Sparviero guardò il cielo brunito e commentò che stava per spuntare il sole, per le poche ore di luce che regalava così al nord. Senza dire altro aspettarono l’alba: fortunatamente durante la notte aveva smesso di nevicare, e quando il sole spuntò, Sparviero tese la mano ad Aysel, caricandosela sulla schiena; così la piccola fata si addormentò.
Nearco seguì il maestro fino alla base del Clan degli Artisti, le Cinque Torri, e una volta dentro si diresse in camera propria; quando capì che pur essendo sotto terra le stanze avevano le finestre era già tardi per chiedere spiegazioni, e si rifugiò nel letto sotto la propria finestra, fissando il paesaggio innevato illuminato dall’alba appena visibile come chiarore nel cielo, prima di addormentarsi a propria volta.

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


Si risvegliò otto ore dopo precise, riposato ma in qualche modo fisicamente stanco; prese i libri e li infilò nell’unica borsa che si era portato, poi si lavò e si vestì, e infine si recò a fare colazione nelle cucine. Lì gli fu servita la stessa pietanza del giorno prima, tutta separata in piattini diversi, e Nearco mangiò in fretta per poi avviarsi in biblioteca a seguire le lezioni. Quando uscì da queste ultime, Sparviero lo attendeva in una poltroncina vicino l’ingresso, a leggere un libro di gesta cavalleresche.
«Oggi cosa si fa?» chiese Nearco, smanioso di imparare.
«Oggi ti insegno ad andare a cavallo».
Nearco scosse veementemente il capo, e Sparviero si accigliò.
«Perché no?».
«Ho… Ho paura di quei cosi. Dei cavalli» mormorò, abbassando il capo in imbarazzo.
«Devi imparare» tagliò corto il maestro.
Si diressero alle stalle, prendendo un montacarichi e facendo un paio di piani di scale; una volta raggiunta la torre sud, Sparviero gli mostrò le stalle dei cavalli a disposizione del Clan, che non avevano proprietari.
«Avvicinati lentamente, e non aver paura. Loro la fiutano, e si spaventano più di te. Sono animali da preda, tu sei un predatore».
«Ma sono enormi» mormorò Nearco, deglutendo a fatica. Sparviero scosse il capo.
«Concentrati. Cerca di legare con qualcuno di loro, ogni cavallo ha il suo carattere e sicuramente per iniziare ce ne vorrà uno paziente e dolce, che ti prenda sotto la propria ala».
«I cavalli non hanno le ali» obiettò Nearco, e Sparviero si tolse la kway, dato che erano soli. Nearco poté vedere un sorriso irregolare increspargli il viso.
«Dai, prova ad accarezzarne uno».
Nearco sospirò e allungò rigidamente una mano, con il cuore a mille, verso una giumenta che aveva gli occhi vagamente più dolci degli altri cavalli. Si fece accarezzare, poi sbuffò e Nearco fece un salto all’indietro, scuotendo la testa.
«No, no. Vi prego maestro».
«Ce la puoi fare» lo incoraggiò, e detto questo prese delle redini da un chiodo vicino l’abitacolo della giumenta, sistemandole sull’animale in modo da poterla condurre fuori dal suo abitacolo. La sellò, mentre Nearco tremava, e la condusse fuori: c’era un metro di neve fuori dalle torri, e Sparviero aiutò Nearco a salire in sella, attento a non toccare altro che le sue scarpe. Nearco si aggrappò alla criniera della giumenta, che lo guardò con occhi dolci come per rassicurarlo, e insieme i due si avviarono al passo nella neve, per prendere confidenza.
Furono delle ore intense, per quanto silenziose: Nearco imparò a non temere l’animale in questione, e Sparviero li seguì nella neve con Inder al passo, in silenzio, osservando il suo nuovo allievo acquisire sicurezza.
Giorni dopo passati al passo sui cavalli, Sparviero non fu più così gentile. Visto che Nearco aveva sconfitto la sua paura, si concentrarono sul cavalcare per davvero, al trotto e al galoppo, cosa più complessa vista la neve alta.
«Chinati in avanti per contrastare il vento!».
Nearco ubbidì a fatica. Il vento gli sferzava il viso, simile a miliardi di piccoli aghi, che gli pungevano la pelle scoperta di volto e mani. Nearco digrignò i denti e si protese in avanti, come se fosse lui il cavallo. La giumenta senza nome protestò: stringeva troppo le ginocchia sui suoi fianchi. Improvvisamente deviò e Nearco precipitò rovinosamente nella neve. Come gli aveva insegnato Sparviero, ancora prima di cadere rotolò, e s’alzò con una capriola. Il dolore per la caduta nella neve ghiacciata arrivò immediatamente, ma rimase fermo come un palo. Sparviero, su Inder, arrivò subito e lo guardò freddo.
«Come fai a fuggire a cavallo da qualcuno? Ti fai uccidere? Fuggi a piedi? Sparisci nelle ombre? Ti nascondi? Ragguagliami, cosa fai, se sei in una simile landa desolata solo con un cavallo, e all’improvviso ti inseguono? Li ammazzi? E se sono troppi? Cosa fai? Ti mangi il cavallo?».
La sottile vena di ironia spariva sotto il tono duro e perentorio. Nearco abbassò la testa, cercando di ignorare il dolore alle gambe. Sparviero s’allontanò e chiamò la giumenta con un fischio, che arrivò subito al trotto.
«Sali di nuovo».
La giumenta, paziente, si lasciò montare, poi Sparviero s’alzò sulla groppa nuda di Inder con un salto. Ordinò a Nearco di fare lo stesso. Il ragazzo, nonostante tutta la stima e l’ammirazione che aveva per quell’uomo, lo guardò come fosse matto.
«Non ne sono capace».
«Se lo dici allora dev’essere vero».
L’insinuazione alla sua incapacità di fare quello che l’assassino gli chiedeva gli fece montare su una rabbia fredda e cieca. In silenzio, cercò un punto fermo sulla groppa della giumenta. Con successo, s’alzò subito, crollando a terra pochi secondi dopo aver mantenuto a stento l’equilibrio tra mosse esagerate per non cadere. Sparviero seguì tutto freddo e impassibile, spietato.
«Sali di nuovo» ripeté, imperterrito, senza ammettere repliche. Nearco montò come gli aveva insegnato, dandosi la spinta con la pianta del piede destro, e Sparviero gli ordinò di nuovo di alzarsi in piedi. Poi, da dove si trovava, fece avvicinare la giumenta ad Inder e sistemò le braccia di Nearco in un modo particolare, chinandosi poi ad aggiustargli la posizione dei piedi. Poi raccomandò ad Inder di seguire perfettamente tutto ciò che faceva la giumenta. Lentamente, i cavalli indietreggiarono al passo. Nearco fu più d’una volta in procinto di cadere, ma Sparviero lo guardava scettico e Nearco riacquistava l’equilibrio, digrignando i denti. Quegli sguardi erano sfide alla sua intelligenza. Sfide che intendeva accogliere. Così, in piedi sui cavalli, raggiunsero i margini della foresta. Il sole era appena spuntato tutto dall’orizzonte. Lavoravano solo da un paio d’ore, senza aver cenato. Kame frugò nella borsa, ancora in equilibrio su Inder, poi mostrò a Nearco una frittella, forse trafugata dalle cucine. Nearco guardò la frittella, evidentemente confuso.
«Prendila. È tua».
«Come?».
«Sbizzarrisciti con la fantasia. Mangerai solo se la prenderai».
Nearco non si perse d’animo e cercò stupidamente di afferrarla, ma Kame, impassibile, si scansò.
«Ma cosa dovrei fare?».
«Ah, non so. Io ho già mangiato la mia…».
Nearco, sbigottito, lo guardò, e Kame alzò le sopracciglia, facendo danzare il cibo davanti agli occhi del ragazzo, che di nuovo tentò di afferrarla. Frustrato, sbottò:
«Ma che razza di terribile incubo hai fatto stanotte, per torturarmi così!?».
Ancora prima che potesse rendersene conto, era con un coltello puntato alla gola, nella neve. Un dolore sordo alla nuca lo avvertì che Kame lo aveva spinto a terra. Un odore dolce si diffuse nelle sue narici e le sue dita toccarono la frittella che Kame aveva lasciato andare. Alzò un sopracciglio, lo sguardo furbo, e, come incurante della lama alla gola e del dolore alla nuca, sorrise astuto e si portò un boccone della colazione in bocca. Per reggersi il gioco, mormorò, divertito: «Però… ha funzionato…».
Kame rinfoderò il pugnale e si sollevò da terra in un’unica sovraumana mossa. Nearco si sedette nella neve e finì la merenda, mentre l’assassino lo guardava.
«Spirito d’osservazione, maestro».
Kame sorrise brevemente, da lupo, e Nearco rispose al sorriso nello stesso identico modo. Kame gli fece cenno di salire a cavallo, poi di alzarsi in piedi.
«Il trucco sta nel pensiero, come sempre» rivelò l’assassino «Se continui a pensare che cadi, cadi».
«Non provate a dirmi che basta pensare che non cado per non cadere».
«Non ci provo. Perché non è così. Se lo pensi e basta, cadi, naturalmente. E ti fai anche male, salvo rari casi. Ma prima di tutto la convinzione di farcela, in ogni caso. Sarà sempre presente il dubbio, e poi il terrore di farsi talmente male da non riuscire più a camminare. Il dubbio ci sarà sempre. Ma per il resto, devi solo avere fiducia nelle tue capacità. Ti fidi di te stesso?».
«Certo» rispose Nearco senza pensarci. Kame lo fissò, capendo che l’aveva detto istintivamente.
«Allora cavalca in piedi».
«È impossibile!» Sbottò il ragazzo, arrabbiato con se stesso e con il maestro. Kame, senza fiatare, spinse Inder al galoppo nella neve, e si mantenne in piedi, ondeggiando come una vela cambia di direzione a seconda del vento. Poi tornò dall’allievo.
«Non è impossibile» disse, freddo e conciso. Nearco deglutì e condusse timidamente con il filo dei pensieri la giumenta al galoppo, ma il cavallo s’inceppò più volte a causa della paura del cavaliere. Andò male. I primi dieci secondi Nearco non fece neanche in tempo a compierli che cadde al suolo. Sparviero chiuse gli occhi e quando li riaprì Nearco era già di nuovo sulla sella. Kame lo guardò con uno sguardo indeciso che Nearco seppe interpretare come una delusione per l’assassino e digrignò i denti.
No.
Niente delusioni.
Aveva già deluso abbastanza gente.
Non anche l’unica persona che era disposta a fare di lui ciò che aveva sempre desiderato, non anche colui che voleva renderlo il proprio erede.
Non poteva accettarlo.
Spinse la giumenta al galoppo sfrenato e il cavallo eseguì, riluttante. Non era abituato a quel genere di sforzi, anche considerata la sua giovane età, ma lo fece lo stesso. Sparviero lo fissò a lungo, e il suo sguardo rinacque, pur restando impassibile. Seppe di aver fatto centro e quando Nearco saltò giù mentre ancora la giumenta andava al trotto sorrise ambiguo. Non soddisfatto. Non dispiaciuto. Poteva andare, come prima volta. Ma Nearco seppe di essere andato abbastanza bene, nonostante il maestro non si prodigasse in complimenti e lodi all’allievo. Semplicemente era così, e basta. Chiedere non serviva.
Giorni dopo, nelle cucine dopo le lezioni in biblioteca, Nearco era stanco e dolorante; raggiunse il solito tavolo dove mangiava con Sparviero, e insieme allievo e maestro consumarono il proprio pasto.
«Ora» Sparviero aspettò che Nearco finisse anche l’ultimo boccone per parlare. «Ci occuperemo del discorso di abbiamo fatto qualche tempo fa: prevedere il futuro senza la magia».
Avevano passato i giorni precedenti a migliorare l’equilibrio, e a Nearco ormai facevano male anche i singoli capelli; chi per le cadute, chi per l’allenamento, i suoi muscoli si lamentavano tutti, e simultaneamente. Sparviero, nonostante tutto abbastanza comprensivo, aveva diviso i giorni dell’addestramento in tre tipologie: il primo giorno, allenamento fisico; il secondo giorno, allenamento mentale; il terzo giorno, allenamento magico. Dopodiché, il tutto si ripeteva. Nearco aveva accettato senza pensarci su due volte. Non che avesse molto altro da contrattare: si fidava ciecamente del suo maestro. Quindi andava bene ad entrambi, ed ora stavano nello studio di Sparviero, seduti sulle poltrone di fronte al caminetto, pronti al primo giorno di allenamento mentale.
«Il discorso dei piani che variano» mormorò Nearco, concentrato.
«Precisamente. Ti sei mai chiesto come fa un animale a sopravvivere? Sopravvivono tranquillamente, anche in ambienti estremi ed ostili. Sai dirmi come mai?».
«Istinto, sicuramente. E riflessi pronti. Conoscono i pericoli. E se non li conoscono sono cauti e li prevedono».
«Precisamente. Prevedere. E prevenire. Fare in modo che accada precisamente ciò che tu vuoi che accada».
«Ma come? Un animale non processa pensieri così complessi» protestò l’allievo.
«Precedendo gli accadimenti. Essere sempre un secondo prima che accada qualcosa. E avere i riflessi pronti per accogliere ciò che succederà o, se la cosa non ci è proprio gradita, fermarla in tempo. Si è sempre in tempo. Ma ricorda, prevedere, non vivere nel futuro prossimo. Credi di aver capito?».
«Sarò sincero: no. Non ho capito cosa si deve fare».
«Prevedere. Prevenire».
«In che modo?».
«Qual è l’unico modo che conosci?».
«Non ne conosco».
«Pensare, Nearco. Pensa a tutte le eventualità derivanti da un’azione, e poi tutti i casi possibili derivanti da quelle eventualità. Ricorda che solo una accadrà davvero. Bisogna prima di tutto escludere quelle meno possibili. Per esempio, se c’è uno scoiattolo che rosicchia la ghianda, puoi prevedere per esempio tre cose – anche se ne potrebbero accadere infinite –: che rosicchi la ghianda, che sia colpito da una freccia vagante, che fugga perché ti ha sentito. Tu sei rumoroso. Qual è la cosa più probabile?».
«Che scappi».
«Esatto».
«Ma allora si parla di probabilità logica».
«Sì, ma tra miliardi di possibilità. Forse…» Kame si arrestò e abbassò lo sguardo, come colto da un atroce dubbio. Il volto impassibile non lasciava trasparire nulla, poi sollevò la testa e la scosse, ritornando al discorso di prima: «Nulla, scusami. Sì, in effetti si tratta di probabilità logica. Ricordi cosa ti ho detto ieri notte?».
«Sì. Di non smettere mai di pormi domande».
«No, non quella. La seconda».
«Il caso non esiste».
«Esattamente. Ogni cosa dipende da un’altra, cosicché non esisterà mai una casualità. Quindi, devi prevedere anche la catena di eventi che ti porta ad una conclusione. Ma non hai tempo di svilupparle tutte una alla volta. La tua testa deve lavorare a più ipotesi, e, se può e ne è capace, tutte, simultaneamente. Riesci a comprendere?».
«Le vertigini sono comprese?».
«Sì, decisamente».
«Allucinante. Ma affascinante. L’avete ideato voi?».
«Lo usano gli assassini. É chiamato diagramma dell’assassino. Ma non tutti gli assassini sono capaci ci produrlo come me. Anzi, nessuno. Simultaneamente, come ho detto».
«Ma allora perché cerca di insegnarmelo?».
«Perché credo che tu lo possa imparare. Sei un ragazzino. Hai una mente elastica, facilmente adattabile, pressoché vuota, e giovane. Potresti imparare miliardi di cose e la tua mente risulterebbe ancora vuota. Come se la tua mente fosse una spugna. Due otri d’acqua e quella non aumenta nemmeno di un millimetro. Nemmeno sembra bagnata».
Nearco si rese conto che era un complimento dopo, quando Sparviero gli entrò nella testa, senza trovare opposizione. Improvvisamente gli venne un gran mal di testa, ma lui gli disse soltanto: «Osserva».
Nearco, cercando di ignorare la sensazione di avere qualcun altro dentro di sé, osservò il maestro. Anzi, la mente del maestro. Miliardi di numeri vorticarono improvvisamente davanti a lui e il maestro li tradusse in parole, ipotesi, come minuscole storie ridotte ai minimi termini. Lui, Nearco, se faceva una data cosa e non la faceva, cambiava tutta la storia della sua vita. A Nearco parve di scorgere la conoscenza del mistero della vita, ma tutto finì improvvisamente, così com’era iniziato. E Nearco comprese su cosa si basavano i mondi e le Dimensioni, come ne nasceva una ogni miliardesimo di secondo. A seconda anche di un capello che cadeva cambiava il corso delle cose. Il caso non esiste, rammentò il ragazzo. Il Menide si ritirò dalla sua mente e Nearco ebbe subito una immediata sensazione di sollievo.
Ciò che aveva visto lo aveva turbato. Non confuso, perché aveva straordinariamente capito tutto. No, semplicemente turbato. Aveva l’impressione di essere venuto a conoscenza dell’unico grande mistero della vita, e del suo maestro. Quell’unico tramite che lo faceva essere al posto giusto nel momento giusto, con le persone giuste che avevano le cose giuste con sé. Quell’unico mezzo che lo faceva sembrare un dio, onnisciente e onnipresente su tutto ciò che c’era di conosciuto e sconosciuto ai mondi.
«Te la senti di provarci?».
Nearco guardò di sfuggita il maestro, poi tornò a fissarsi le ginocchia.
«Non lo so».
«Lo prendo per un no. Ti eserciterai ad utilizzare il diagramma in questi giorni, ma prima… dobbiamo sistemare la tua abilità mentale nella resistenza agli accessi».
«Non capisco» ammise Nearco, e Sparviero storse le labbra: quando erano soli, si toglieva sempre la kway, e Nearco ne era da una parte onorato, ma dall’altra un po’ inquietato: non era facile guardare quel volto martoriato dalla cicatrice, e non era facile nemmeno guardarlo negli occhi con i trucchetti che gli aveva rivelato il primo giorno, perché nulla nella sua fisionomia era “comune”, e fissarlo lo metteva a disagio.
«Devi abituarti a tenere la tua mente in continuo stato protettivo, come se in qualunque momento qualcuno cercasse di entrarti nella testa».
«Perché?».
«Perché le informazioni qui hanno un valore altissimo, e tu sei mio allievo. Se la tua mente vagasse liberamente, c’è chi se ne approfitterebbe in men che non si dica, soprattutto man mano che il tuo addestramento andrà avanti».
Nearco annuì, poi si strinse nelle spalle.
«Bene, come si fa allora?».
«Immagina di erigere un muro attorno alla tua mente. Concentrati su una cosa in particolare che non dipende da te: una roccia, un filo d’erba, l’alfabeto… qualunque cosa va bene».
«Le classificazioni delle piante» sussurrò Nearco, e Sparviero sorrise sghembo.
«Le piante, bravissimo» confermò Sparviero, e tentò di testare delicatamente la mente di Nearco: in quel momento era inespugnabile. Sparviero annuì e osservò Nearco: aveva la mascella contratta e lo sguardo furioso, così il maestro strinse appena gli occhi e lo richiamò all’ordine:
«Nearco».
Il ragazzino tirò un sospiro, e Sparviero poté quasi percepire il suo muro sfaldarsi.
«Dovrai stare molto più rilassato e naturale, in futuro: sembrava stesse per venirti un colpo».
«Non… non so se riesco a concentrarmi in questo modo a lungo».
«Forse lo fai nella maniera sbagliata. Devi mandare quei pensieri di muri nella tua mente come pensieri di fondo, onnipresenti. Riprovaci, e intanto intrattieni conversazione con me» lo esortò, e Nearco deglutì: quell’allenamento era quasi più duro di quello fisico, e quasi desiderava, appunto, tornare a stare in piedi a cavallo.
«Cosa… cosa dovrei dirvi?».
Sparviero si strinse nelle spalle.
«Prima di tutto, come gradisci il thè? Non c’è mai un momento sbagliato per una buona tazza di thè» gli dispensò quella perla di saggezza come se non l’avesse mai detto a nessuno, e intanto saggiò la mente dell’allievo, che rimaneva impenetrabile.
«Con un pizzico di limone e molto miele» mormorò Nearco, e Sparviero si alzò per prendere da una credenza stipata di libri una teiera con delle scatoline di metallo. Si allontanò dallo studio e andò nella propria camera da letto, dove c’era la stanza da bagno, e riempì la teiera d’acqua, poi diede a Nearco tre scatoline di metallo.
«Annusa, dimmi quale ti piacerebbe provare. Li conosco tutti, sono thè che provengono da tutti gli angoli di questo mondo, ne ho una decina dentro la credenza».
Nearco annusò interessato le fragranze degli infusi, poi ne scelse uno fruttato con dei fiori visibili fra le foglie essiccate.
«Ottima scelta, thè eweryndiano» commentò Sparviero, e ne prese due cucchiaini per tazza, infilandoli in degli infusori. Mise la teiera sul fuoco e, mentre attendevano che l’acqua si riscaldasse, Sparviero saggiò ancora la mente di Nearco: inamovibile. Annuì soddisfatto, e Nearco non si sfaldò come aveva fatto in precedenza, bensì rimase fermo sulle proprie muraglie.
«Ottimo lavoro. Più lo fai, meno ci sarà fatica. Ora passiamo ad altro. In vista di domani, vorrei capire cosa sai fare… riguardo la magia».
Nearco scrollò le spalle.
«Beh, mio padre non ci ha mai fatto studiare molta magia… credo, nel timore che ne abusassimo. Mia sorella l’ha studiata da sé, ma non mi ha mai voluto dare i suoi libri. Che ovviamente non ho trovato altrove. A scuola ci hanno insegnato poco e nulla, perché i corsi avanzati erano a pagamento e ovviamente mio padre non volendo non ci ha iscritti ad essi».
«Quindi non sai usare la magia?» Sparviero pareva pensieroso, e Nearco si affrettò a smentire.
«Qualcosa la so» disse in fretta. «So fare piccole cose, me le ha insegnate il mio maestro elementare, era un mago».
«Quindi sai usare la magia, anche se non sai gli incantesimi».
«Beh… sì. Con le parole in Deniwa che conosco riesco a fare qualche piccola magia, come colpire qualcuno o un preciso punto con un sassolino, oppure far rifluire l’acqua dal terreno per bere, e cose piccole così».
«Diventerai un grande mago» disse Sparviero sarcastico. Poi sorrise sincero «Anch’io ho iniziato così, sai. Si inizia sempre con le piccole cose. Ti costano molta fatica quei semplici incantesimi?».
«No, ormai mi ci sono abituato».
Kame non disse più niente e si diresse alla scrivania, dove prese una tavoletta di legno per gli appunti, una piccola boccetta d’inchiostro, un pennino di legno con la punta di metallo a forma di goccia e un foglio di pergamena, ingiallito ma senza una piega. Nearco guardò sorpreso gli oggetti, curioso.
«Scrivimi tutte le parole che conosci; io vado a prendere delle cose».
Nearco si chiese quando il suo maestro trovasse il tempo di stare con i propri figli, e si disse che probabilmente dormiva molto meno di lui – nonostante non sapesse come facesse. Poi scosse la testa e si concentrò sul suo compito.
Quando Sparviero arrivò mezz’ora dopo, le parole che aveva scritto Nearco stentavano a riempire la pagina, con la calligrafia minuta ed elegante del ragazzo in alfabeto runico Deniwa. Sparviero prese immediatamente in mano il foglio e, senza distogliere lo sguardo da esso, consegnò a Nearco dieci monete e un piccolo libro, che Nearco intuì essere un manuale.
«I soldi per cosa sono?».
«Reddito di cittadinanza. Sei parte del popolo del Clan, ora, e in quanto tale hai diritto a dieci beret a settimana».
«Sono un sacco di soldi… quasi tre corone».
Sparviero sorrise appena.
«Perché sei un allievo Artista. Dovrai comprarti libri, equipaggiamento, armi… dovrai iniziare a tenerteli da parte».
Nearco annuì.
«Non avevo intenzione di spenderli comunque, non ho mai avuto soldi miei… li voglio conservare» disse cauto, e Sparviero annuì.
«Saggia scelta».
Nearco si rigirò il libretto tra le mani. Non era lungo nemmeno una mano, era logoro e la rilegatura in cuoio scuro era consumata, come sfogliata da innumerevoli mani; le pagine erano lisce ma ingiallite, e qua e là c’era una macchia scura di qualche liquido. Nearco sapeva che i liquidi e i libri non andavano molto d’accordo, ma quello in questione sembrava particolare. La macchia che aveva lasciato sulla prima pagina era scura e di un rosso cupo e scuro, quasi marrone. Senza un’inflessione particolare nella voce, constatò:
«C’è del sangue, sulla prima pagina».
«C’è del sangue su quasi ogni pagina. Dovrai mettere anche il tuo quando l’avrai finito di leggere».
«Perché?».
«Così dichiarerai di averlo letto. É l’unico Codice che tutti gli Artisti abbiano mai avuto. Vedi un po’, verso le ultime pagine dovresti trovare le pagine pulite».
«Chi l’ha scritto?».
«È stato scritto in collegio con tutti i primi membri del Clan degli Artisti, e da allora continuiamo ad aggiungere o togliere regole al bisogno. Alcune infatti le troverai cancellate, in quanto non sono più di valore, altre le troverai aggiunte alla fine. Ogni tipo di Artista ha la sua speciale sezione con le norme di comportamento all’interno ed all’esterno del Clan» spiegò paziente l’assassino, e Nearco annuì.
Sparviero, pensieroso, diede un’ultima occhiata al foglio che teneva in mano e poi lo posò sulla scrivania.
«Sono parole abbastanza elementari. Vanno bene per gli incantesimi. Te ne insegnerò delle altre, ma quello» indicò il libricino. «è molto più importante».
«È la tua unica copia?».
«Certo che no, sciocco. È soltanto la prima edizione, con le mie note a margine e quelle di Yukab di contorno. Reputati fortunato, l’ho scritto e letto da grande… Se l’avessi pensato da ragazzino come te, mi sarei risparmiato un sacco di guai» rispose Sparviero. Nearco iniziò a leggere la prima pagina, dove c’era anche la macchia di sangue.
«Il Codice degli Artisti» lesse interessato, poi aggrottò la fronte. «Perché a scuola nessuno mi ha informato su quali libri ci sono da comprare o studiare? Incluso questo?».
Sparviero lo guardò con un briciolo di compassione negli occhi che altrimenti sarebbero sembrati freddi.
«Se non parli con i tuoi compagni, perché ti aspetti che loro parlino con te?».
Nearco aprì la bocca, poi la richiuse. Stava per parlare, aprendo la bocca di nuovo, quando Sparviero prese ancora parola.
«Era un problema che avevi anche nel Regno Faël, vero? Non avevi molti amici».
Nearco non abbassò lo sguardo, nonostante si sentisse un po’ umiliato da quelle parole; si limitò ad irrigidirsi e le mani cercarono automaticamente qualcosa da fare, per cui si mise a giocherellare con l’orlo del maglione sformato che continuava ad indossare nonostante ora avesse abiti della sua taglia. Sparviero notò il suo disagio, e inclinò il capo di lato.
«Non ne avevo nessuno» ammise finalmente Nearco, freddo. «Gli amici sono una perdita di tempo, tanto» borbottò, e Sparviero sorrise sincero, mentre la teiera fischiava.
«Gli amici giusti non sono mai una perdita di tempo».
Detto questo, l’assassino preparò il thè per entrambi e tolse l’infusore dopo pochi minuti, così che la bevanda non diventasse troppo amara. Ci mise del miele e si scusò:
«Non ho il limone, me lo procurerò per la prossima volta» disse, come se non si vedessero tutti i giorni.
«Insomma, mi hai detto che il Codice è stato scritto da te in collegio con i primi membri del Clan?».
«Sì, è così».
«Sapevano tutti leggere e scrivere?».
«Inizialmente no. Poi abbiamo istituito lezioni cicliche e in breve hanno imparato tutti».
«Hai detto anche che ogni tipo di Artista ha la sua sezione… ma quanti tipi di Artisti ci sono?».
Sparviero contò sulle dita delle mani: «Sicari, mercenari, banditi, ladri, pirati, spacciatori, truffatori».
«Perché Assassini e Sicari hanno due sezioni separate?».
Nearco tacque e lesse la premessa del libro, lapidaria e concisa. Gli piacque quel parlare stretto e breve, comunicando subito tutto senza giri di parole. Si augurò che fosse così l’intero libro. Chiaro e limpido, senza fraintendimenti.
Dopo un po’ di pagine, Nearco si stropicciò gli occhi e sbadigliò: erano cose interessanti, certamente, ma allo stesso tempo abbastanza noiose: la maggior parte delle norme di comportamento aveva toni paternalistici che non gli piacevano molto, ma considerando che erano state scritte almeno vent’anni prima… assumeva tutto un senso. Sparviero stava sfogliando dei documenti alla scrivania, sorseggiando ogni tanto il suo thè caldo, e Nearco chiese curioso:
«Cosa sono i segni dell’assassino?» poi indicò il libricino. «Ne fate menzione e dite come nasconderli, ma non c’è scritto cosa siano».
«Sono… una cosa che ti impongono solo se ti prendono» disse Sparviero, senza sollevare lo sguardo né interrompere la conta. Nearco aggrottò la fronte.
«Ovvero?» insistette. Sparviero interruppe la lettura e lo guardò penetrante e freddo.
«I simboli che ti fanno riconoscere in tutti i mondi per aver commesso un atto omicida, che sia stato intenzionale o meno, e che sei stato perdonato – o sei scappato. Se sei stato perdonato, avrai delle cicatrici sulle tempie, sui polsi, sulle caviglie e sul cuore, sette segni per marcare il tuo peccato. Anche un bambino appena nato con la madre morta di parto è un assassino, secondo la religione del Fratello Sconosciuto. Se sei un condannato a morte, invece, ti marchiano a fuoco con il simbolo di una clessidra… è raro vederne in giro perché bisogna poter scappare per raccontarlo».
Sparviero ritornò ad esaminare il documento, e Nearco lo guardò indecifrabile. Poi si umettò le labbra.
«Non lavorate in questo periodo?» chiese curioso, e Sparviero sbuffò.
«Sto lavorando anche ora».
«Intendo… sapete… roba da assassini» e fece il gesto di accoltellare qualcuno. Sparviero trattenne a stento una risata.
«Non lo faccio da un po’ di tempo. Un po’ mi manca andare sul campo, ma quando si gestisce un Clan così grande e si hanno due figli piccoli… diciamo che le priorità diventano altre. Anche contando che non ho granché bisogno di soldi, negli ultimi anni, e il Clan mi garantisce tutta la protezione di cui ho bisogno».
«Quanto avete guadagnato con l’ultimo lavoro?» chiese curioso, e Sparviero si strinse nelle spalle.
«Cinquecento corone. È uno dei prezzi standard per lavori che valgono poco, piccola nobiltà o giù di lì».
«Però cinquecento corone non è che sono poco» osservò Nearco, facendo a mente i calcoli: si trattava di… quante kyka? Circa cinquemila, sì.
«Infatti è uno dei prezzi standard. Bisogna essere ricchi per permettersi un sicario, no?».
«Ma voi non siete l’eccezione?».
«Ragazzo, non faccio mica beneficenza» Sparviero scosse la testa. «No, in realtà cinquecento corone vanno benissimo. Ci puoi fare tante cose, tra cui comprare silenzi. Oh, sapessi quanti silenzi ho comprato in questi anni» sorrise appena.
Nearco chiuse il libretto; aveva letto già una ventina di pagine.
«Posso chiedervi un’altra cosa?».
«Di’ pure».
«A quanto ammontano precisamente le vostre ricchezze?».
«Tanto denaro. Qualche fattoria. Un feudo nel Regno Faël».
Nearco lo guardò a bocca aperta.
«Che feudo?».
«Quello in cui vivevi».
«È vostro?» chiese il ragazzino, stupefatto.
«Perché credi che Erik si sia trasferito lì?».
«Mio padre… credevo…».
«Ho anche altri due figli, Kaleb e Victoria».
«Oh… I due fratelli che siedono al consiglio cittadino?» chiese, ancora più stupito.
«Sì, sono figli miei».
«Non ti somigliano molto».
«L’altro genitore era… molto diverso da me. Victoria però è una Etrays, proprio come me».
Seguì un breve silenzio, mentre Nearco assimilava la notizia, dunque Sparviero si rimise a studiare i documenti che teneva alzati e il ragazzino riprese, interrompendolo di nuovo:
«Quindi quanto denaro avete a disposizione?».
«Oh, tanto. Non immagini nemmeno quanto. Ti dico solo che se fossi un nobile, sarei uno dei più ricchi del Regno di Mame».
Nearco inarcò le sopracciglia, scettico.
«E dove sono tutti questi soldi?».
«Perlopiù nella tesoreria del Clan. Vedi, si è andati avanti perlopiù grazie ai miei liquidi di scorta, soprattutto all’inizio del Clan; poi man mano che abbiamo acquisito membri abbiamo imparato a tenerci in equilibrio, com’è giusto che sia».
«Ma perché lo fa? E quella fata che abbiamo salvato l’altra notte? Qual è il punto?» chiese Nearco, un po’ esasperato.
Sparviero sollevò lo sguardo e Nearco lo vide smarrito, per un attimo. Piano, l’assassino abbassò lo sguardo. Poi, come furioso, prese a mettere i soldi nel sacchetto da cui li aveva tolti per contarli. Nearco attese la risposta, che non arrivò.
«Maestro?» chiese cauto.
«Ma che cosa t’importa, perché lo faccio?» ringhiò Sparviero. «Risponditi da solo. Perché mai potrei farlo?» Nearco non rispose, incredulo, così Kame sbottò, irritato: «Per il mio tornaconto personale, ecco per cosa! Sempre per interessi miei che curo io!».
Nearco scosse la testa.
«Non è così, lo so».
«E invece è così!» Kame si volse di scatto verso di lui, inchiodandolo con gli occhi viola. «In fondo, è sempre così. Dimmi una cosa che non hai fatto per te stesso».
Nearco ci pensò su e, stupito, si accorse di non aver mai fatto nulla che alla fine non mirasse ad un proprio vantaggio. Kame sorrise cinico, e gli mise una mano sulla spalla.
«Benvenuto nel mio mondo di terrore e crudeltà, ragazzo. Spero ti ci troverai meglio di me» detto questo, Kame s’alzò silenzioso e sparì nella stanza accanto. E a Nearco restò solo uno strano sapore amaro sulla lingua, a metà tra la soddisfazione di una vittoria e la delusione di una sconfitta.
Lentamente, raccolse la propria borsa con dentro l’unico libro che gli aveva consegnato l’insegnante in biblioteca e il Codice degli Artisti, e si avviò verso la propria camera: non si era mai sentito così solo, ed era lì da più di una settimana. Lentamente i suoi passi lo condussero altrove: prese il montacarichi e scese al piano di sotto, l’ottavo, e girò in tondo nei corridoi fin quando non riuscì ad identificare le stanze luminose fatte interamente di finestre che davano su altri regni. Le serre erano infatti costituite da piccoli portali vetrati, da cui entrava la luce notturna che rischiarava pallidamente le piante presenti sul terreno, che altro non era che terra battuta, almeno in quella stanza. Dal momento che alle mani aveva dei guanti di lana, poggiò una mano sul vetro della serra: faceva un freddo cane, per far sì che le piante non risentissero degli sbalzi termici durante le stagioni probabilmente.
Si sedette su uno degli alti sgabelli che percorrevano le pareti: c’erano dei tavolini su cui prendere appunti, e Nearco tirò fuori lapis e un foglio di pergamena mentre osservava la pianta magica più vicina a lui. Iniziò a disegnarla, con tratti leggeri e precisi, senza calcare, e non si rese conto di essere osservato.
«Orario curioso per dedicarti a questo» disse una voce, soffice e profonda, e Nearco alzò la testa: di fronte a lui c’era semplicemente un gatto. Si guardò intorno, ma vista l’ora di notte non c’era proprio nessuno nella stanza oltre a lui e all’animale.
«Tu… parli?» chiese Nearco, esitante e un po’ a disagio. Il gatto annuì.
«Ma certo. Sono Sinjìn, l’Angeron di Kame» si presentò, e detto questo mutò in un uccellino che andò a posarsi sulla sua spalla, mentre lui lo guardava a bocca aperta. «Non ti dà fastidio il mio contatto fisico, vero?» chiese il passerotto, e Nearco scosse piano il capo.
«Gli animali non mi provocano nulla. Come mai sei qui?».
«Di solito vengo a fare i miei bisogni nelle serre. Sai, fertilizzano» ridacchiò Sinjìn, e osservò il disegno della pianta che stava raffigurando Nearco. «Sei molto bravo».
Nearco arrossì appena.
«Grazie» mormorò, e restò immobile, a disagio. «Si narra che tu e Kame siate connessi mentalmente… è vero?».
«Oh, sì. Ma possiamo scegliere cosa condividere, come in una sorta di legame a due sensi, non come se avessimo un’unica mente».
«Quindi… se ti chiedessi di non rivelargli cosa ci diciamo…».
«Sta’ tranquillo: starò muto come una tomba. Piuttosto… non dovresti andare a dormire?».
Nearco si strinse nelle spalle.
«Non ho molto sonno. Sono stanco, ma sonno… proprio zero».
Sinjìn rimase in attesa, poi saltò giù dalla sua spalla e, in volo, si trasformò nuovamente in un gatto nero.
«Se ti può essere d’aiuto, posso dormire con te» si propose, e Nearco sorrise appena.
«Grazie. Volentieri» mormorò il ragazzino, riponendo gli strumenti per disegnare e dirigendosi – stavolta per davvero – in camera. Una volta arrivati, Nearco si spogliò e restò con il solo maglione slargato e i calzoni intimi di lana indosso, con Sinjìn accoccolato in grembo mentre cercava di addormentarsi.

 

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


Le parole di Kame sull’egoismo lo accompagnarono in un sonno agitato e leggero, al punto che quando si svegliò si sentiva come se non avesse dormito affatto ed era di umore ballerino.
Sinjìn, sentendolo muoversi per scendere dal letto, si stiracchiò e continuò a fare le fusa in forma di gatto, guardandolo con gli occhi verdi socchiusi.
«Sai che ore sono?» bofonchiò Nearco stropicciandosi gli occhi, e Sinjìn diede un’occhiata all’orologio appeso sopra la scrivania.
«Non lo sai leggere?» gli chiese scettico, e Nearco arrossì.
«Non l’avevo notato» si scusò, e consultò anch’egli l’orologio. Appurato di essere in anticipo, si dedicò ad esplorare la stanza da bagno: c’era una vasca interrata ben lucida in ceramica, degna di un principe, e Nearco si morse le labbra al pensiero di farsi finalmente un bagno caldo. Ma come fare? Si guardò un po’ intorno: oltre alle bottigliette di sapone liquido – com’era possibile che fosse liquido? – c’erano un paio di leve: su una era scritto “acqua calda”, sull’altra “acqua fredda”. Decidendo di tentare, tirò la leva per l’acqua calda: la vasca iniziò a riempirsi dal nulla di acqua fumante, al punto che Nearco la fermò prima che superasse la metà. Poi la mescolò con l’acqua fredda, e infine si spogliò, nudo come un vermiciattolo, e si immerse nell’acqua calda con un sospiro. Sinjìn entrò nella stanza da bagno, osservandolo con i suoi occhi di gatto, e iniziò a pulirsi leccandosi il pelo. Nearco si lavò in fretta, con la schiuma che galleggiava nella vasca, e pescò un morbido asciugamano dall’armadietto del bagno vicino alla vasca ed uscì dall’acqua, mentre Sinjìn lo osservava ancora di sottecchi.
«Sai cosa starebbe bene sulla tua pelle nuda?» chiese, pensieroso. Nearco si voltò interrogativo, e un po’ imbarazzato.
«Cosa?».
«Un tatuaggio».
«Risparmio anche per quelli» disse saggiamente, e andò in camera a vestirsi.
Una volta pronto, con gli abiti che gli aveva fatto confezionare Sparviero e il maglione slabbrato di sopra, si diresse alle cucine e con suo sommo stupore la colazione stavolta era diversa: latte di capra, pane, marmellata e burro, tutto in piattini diversi come al solito. Nearco mangiò in silenzio, senza la compagnia di Sparviero da ormai due giorni, e subito dopo si diresse in biblioteca, dove seguì le lezioni.
Sparviero come al solito lo attendeva in biblioteca, vicino l’entrata, a braccia incrociate sul petto e la kway a coprirgli la cicatrice che gli attraversava il viso. Si diressero nello studio di Sparviero, e una volta lì l’assassino mise su la teiera per il thè, stavolta con un cesto di limoni sul davanzale della finestra, al freddo.
«Dimmi a cosa pensi».
Sparviero lo guardò, togliendosi la kway lentamente, e Nearco sostenne il suo sguardo senza battere ciglio.
«Ah, perché, c’è bisogno di dirvelo?» rispose Nearco, fissandolo ora sarcastico. A Sparviero balenarono gli occhi e Nearco scosse la testa, osservandolo di sottecchi.
«A nulla. Cerco di non pensare a nulla. Penso che oggi mi torturerete con l’addestramento, come i giorni precedenti».
L’assassino sorrise sornione, come un lupo dai denti affilati, e dall’altra parte della stanza gli lanciò una pergamena arrotolata e un pugnale in un fodero, che Nearco afferrò al volo.
«Taci e leggi».
Nearco aprì la pergamena, impassibile, e la lesse.
«Cos’è? Siamo stati invitati ad un ballo in maschera?» chiese sorpreso, una volta srotolata e letta la pergamena.
«Esattamente».
«Ah sì?» Nearco era genuinamente sorpreso. «Come vi vestirete?».
«Abiti eleganti… neri, intessuti di fili d’oro. Tu avrai un completo che ti ho fatto realizzare, praticamente identico, ma intessuto di fili d’argento» gli anticipò, e Nearco inarcò le sopracciglia.
«Qual è l’occasione per questo ballo?».
«Oh, il compleanno di una nobildonna. Farò il baciamano a tutte le lady che incontrerò… naturalmente cariche di gioielli».
«Ma non facevate l’assassino?» ribatté Nearco a denti stretti.
Sparviero non si scompose e rispose, senza sorridere:
«Quando si può approfittare è sempre meglio farlo… Cos’è, hai due occasioni in contemporanea, e ne cogli solo una? Mi pare un po’… stupido» commentò, semplicemente. Nearco tornò ad analizzare l’invito.
«Sembra vero…».
«Ovvio che sembra vero. Perché lo è».
«Siete… stato invitato al compleanno di una nobildonna?» chiese Nearco, scettico.
«Ma certamente. Vuole ingraziarsi il Clan degli Artisti, ed ha invitato me e un mio ospite.
«Ancora non capisco che c’entro io».
«Non andiamo lì solo per divertirci. Siamo lì in quanto invitati per contratto».
Nearco si fece attento.
«Cosa vuol dire?».
«Siamo stati invitati per questioni politiche, e dobbiamo assicurarci che un ospite muoia. È un contratto abbastanza semplice. L’omicidio è per te».
Nearco restò senza fiato a quell’improvvisa consapevolezza, e Sparviero lo osservò attentamente con gli occhi viola che scintillavano quieti.
«Per questo sono così interessato ai gioielli» l’assassino si guardò le unghie con noncuranza. «Io mi prenderò la mia quota in quanto tuo accompagnatore, ma dovrai fare tutto da solo. Abbiamo tre giorni per creare e rivedere un piano».
Sparviero si alzò e versò l’acqua nelle tazze con gli infusori, porgendogli un coltello e un limone e mettendo il barattolo del miele sul tavolino di fronte al camino. Nearco si servì e sorseggiò il thè, attento a non macchiare l’invito in alcun modo. Per essere sicuro, lo ripose in borsa e si rigirò il pugnale fra le mani che tremavano un po’.
«Dovrò… dovrò pugnalare qualcuno?» chiese, e Sparviero ridacchiò.
«No, non siamo ancora arrivati a quei livelli. Ti addestro da quanto? Due settimane? È ancora presto per quel tipo di omicidio».
«Secondo voi quindi sono pronto per… un contratto?» chiese a disagio, e Sparviero fece un cenno affermativo.
«Prima ci togliamo il pensiero, meglio è».
«Quindi il pugnale per cosa è?».
«È un regalo. Si regala sempre un’arma ad un allievo che ha rimediato il primo contratto».
Nearco sospirò.
Sparviero prese dalla scrivania una matita e un foglio di pergamena, appoggiandoli poi sul tavolino e prendendo la propria tazza di thè, sorseggiandola con calma.
«Sarà un contratto abbastanza complesso. Ti dovrò aiutare, probabilmente, soprattutto per la preparazione del veleno».
Lo disse con un tono quasi dispiaciuto, come Nearco fosse incapace. Il ragazzo digrignò i denti.
«Non ho bisogno del vostro aiuto. Facciamo insieme il piano, ma faccio tutto io. È il mio momento di gloria».
Kame sorrise senza che Nearco lo vedesse e delineò una piantina approssimata della villa dove si sarebbe tenuta la festa, compresi i giardini.
«Questa è la casa. Ho fatto un sopralluogo quando ho ritirato gli inviti, guidato dalla festeggiata».
Nearco annuì, concentrato, ed indicò un punto della casa separato dal resto.
«Il giardino?».
«Precisamente. È lì che saranno le vittime, molto probabilmente. Non amano ballare né stare in mezzo alla confusione».
«Come me» sorrise Nearco, teso.
«Sono ex-sicari inseguiti da un mandante: due imbroglioni, si sono presi i soldi e si sono sistemati in città. Erano sicari. Ora non più, hanno perso lo smalto. Ci potresti riuscire».
«E come dovrei ucciderli? Che veleno devo usare? Come glielo darò?».
Kame mostrò una boccetta vuota, comparsa chissà come nelle sue mani.
«Sintetizzeremo un veleno che agisca nella notte, ore dopo che glielo abbiamo somministrato».
«Come facciamo ad assicurarci che siano morti?».
«Oh, non temere: la festa non dura mica una sola ora» Sparviero sorrise, e sospirò. «Ho già comprato la collaborazione di un servo che porterà i drink ai nostri obiettivi».
«E se qualcun altro prende i bicchieri?».
«Dirà che sono stati ordinati appositamente da quei signori».
«E se loro non vogliono da bere?».
«Chiamerò la padrona di casa che li costringerà ad accettare. Nulla di più semplice».
«Fino a due settimane fa non avrei mai immaginato di potermi trovare al Clan degli Artisti, con Kame in persona, a progettare un omicidio che dovrei compiere io. Ma ne sarò davvero capace?».
«Ho scelto il veleno perché è il meno cruento. Il più facile da usare».
«Allora, cosa dovrei fare?».
«Metterai tu il veleno nei bicchieri di quei due sir. Dopodiché ci assicureremo che giunga a destinazione, e intratterremo conversazione con loro finché il veleno non farà effetto».
«E quando farà effetto?».
«Dopo circa un paio d’ore».
«E dovremmo parlare per due ore?».
«Ovviamente no. Li intercetteremo dopo un paio d’ore e parleremo con loro per la loro ultima conversazione».
Nearco annuì concentrato, e l’assassino lo osservò.
«Sei nervoso?».
Il ragazzino sorrise esitante.
«Non sto nella pelle» confessò.
«Cosa succede se ci scoprono?» chiese Sparviero, sorseggiando il proprio thè, particolarmente interessato alla risposta dell’allievo.
«Scappo».
«No. Al contrario: insegui. Sei tu l’assassino, sei tu che uccidi la gente… Non il contrario. Non devi avere paura di loro. Solo pietà. Non sanno a cosa vanno incontro se ti ostacolano».
Nearco aprì la bocca stupito, poi la richiuse e annuì in silenzio.
«Ora ti farò un paio di regali, nel caso le cose dovessero mettersi male per entrambi» disse l’assassino, prudente, e penetrò nella mente di Nearco con la facilità con cui avrebbe ficcato un’unghia in una fragola, facendo pressione nei muri che l’allievo aveva eretto attorno ai propri pensieri. Ciò significò per Nearco un atroce mal di testa, ma Sparviero agì tutto sommato indisturbato e impresse nella memoria un incantesimo. Le parole vennero spontanee sulle labbra di Nearco, che subito chiese:
«Cos’è?».
«La formula per l’invisibilità. Con quella puoi andare dovunque senza che nessuno ti veda, e così salvarti la vita. L’altro regalo è questa» e detto ciò Sparviero tirò fuori da una tasca una chiave con un laccetto, che gli porse.
«E questa?» chiese, ancor più curioso. Sparviero si strinse nelle spalle.
«È una precauzione ben ponderata: è una chiave per ogni dove. Basta ficcarla in una porta e ti conduce in un luogo che conosci. Insieme all’incantesimo per l’invisibilità, ti concede una via di fuga rapida ed indolore».
Nearco non parlò per un po’, ripassando il piano a mente, sempre meno nervoso e sempre più freddo. Sorseggiò il thè, poi gli venne in mente qualcosa.
«Abbiamo delle maschere?».
«Io andrò senza maschera. Nessuno conosce il viso di Kame l’assassino, e vado lì in quanto ospite… Ci vorrà tutto il mio fascino per distrarli da te» gli fece questo complimento un po’ sottile, al punto che Nearco non lo colse.
«E io?».
«Tu avrai una maschera di tessuto argento e verde, per richiamare i tuoi occhi».
«Sopraffino» commentò Nearco, e rimuginò ancora un po’. «Nomi? Siamo invitati con i nostri nomi?».
«Non essere sciocco, non potrei mai presentarmi con il mio nome. Le guardie mi arresterebbero all’istante».
Nearco ripescò l’invito dalla borsa, e lesse il nome inciso a lettere dorate sulla pergamena.
«Ma qui c’è scritto il mio».
«Dopotutto chi ti conosce?».
Nearco sbuffò.
«Beh, tutti dopo che sarà annunciato il mio nome, no?».
«Sarai uno fra i tanti».
«Nearco, del feudo di Feirmeoir. Apprendista stregone di… Ri, Curatore del feudo di Feirmeoir?» chiese stupito. «Ma il Curator Ri è nel Regno Faël…».
«Siamo pressoché identici, l’hai mai visto?».
«Ma lui non ha la cicatrice».
«A questo proposito…» mormorò Sparviero, pensieroso. Si alzò dalla poltroncina, posò il thè ormai tiepido sul tavolino, e si diresse alla scrivania. Da un cassetto estrasse dei bracciali maschili di ottima fattura, di quello che sembrava oro, e li soppesò in mano. «Sono un prototipo, sono stati fusi degli incantesimi insieme all’oro, e dovrebbero… far sparire la cicatrice».
Nearco aprì la bocca, stupito.
«E come funzionano?».
«Devo semplicemente indossarli».
Restarono in silenzio a fissare i bracciali per un po’, poi Nearco esitò.
«Beh… provateli, no?».
Sparviero annuì greve, e si pose i bracciali sui polsi dopo che si fu alzato le maniche fino al gomito. Lentamente la cicatrice iniziò ad essere riassorbita dal viso come un vecchio dipinto che perdeva colore, e le irregolarità corrose della carne furono nuovamente riempite o distese, a seconda di come il viso sarebbe dovuto apparire. Nearco lo osservò stupefatto: il suo maestro era splendido, e sprizzava fascino da tutti i pori.
«Chi ha fatto quei bracciali, delle fate?» chiese sospettoso, e Sparviero annuì.
«C’è troppa polvere di fata?» scherzò nervosamente, e andò a specchiarsi nella credenza dai battenti di vetro. «Wow» commentò asciutto, deglutendo a fatica. Nearco lo guardò senza capire.
«Non siete soddisfatto?».
«…non riesco a spiegarlo. Mi mancano le parole» mormorò colpito, e si sfilò i bracciali, gettandoli nel cassetto e riabbassandosi le maniche con calma, vagamente stizzoso nei gesti. Nearco lo osservò in silenzio, poi azzardò cauto.
«Cosa c’è che non va?».
«Ho questa cicatrice da quando avevo diciannove anni, Nearco. Ne sono passati diciassette da allora. Liberarmene…» scosse il capo. «Ho ucciso colui che me l’ha inflitta, e me ne sono pentito. La cicatrice mi ricorda quest’errore ogni volta che mi specchio. Liberarmene… non è auspicabile».
«Non sia mai che dimentichi un suo errore» commentò Nearco, vagamente incredulo. «Non credevo lei fosse capace di sbagliare».
«Tutti commettiamo degli errori, Nearco. E uccidere mio fratello è la cosa più difficile che io abbia mai dovuto fare».
Nearco restò senza fiato: Kame aveva ucciso il suo stesso fratello? Non sapeva neanche da dove iniziare con le domande.
«Com’è successo?» chiese invece, semplicemente, e Sparviero sospirò.
«Non credo sia una storia adatta ai ragazzini. Piuttosto, va’ a dormire: domani ci impegneremo sui veleni e vedremo se le classi che stai frequentando in biblioteca stanno dando i loro frutti».
Nearco si imbronciò.
«Perché non è adatta ai ragazzini?».
«È una storia lunga e non abbiamo il tempo. In più, è abbastanza cruenta. Va’ a dormire» ripeté il maestro, mentre Nearco riponeva il pugnale nella borsa insieme all’invito e borbottava:
«Come volete».
Si diresse alle sue stanze, e nel farlo incontrò Yukab che si dirigeva verso l’ufficio di Kame; l’uomo lo fermò, e sorridendo gli chiese:
«Allora, come procede?».
«Bene» rispose Nearco, fissando un punto sulla sua fronte per sostenere il suo sguardo.
«E la scuola?».
«Sto imparando» Nearco spostò il peso da un piede all’altro, a disagio, e Yukab lo notò.
«Hai fatto nuove conoscenze?».
«No» Nearco si strinse nelle spalle, impacciato. «Nessuno sembra interessato a me».
«Forse la voce che sei l’allievo di Kame non si è ancora sparsa fra i ragazzini. Non temere, avrai di che spartirti fra quelli interessati alla tua amicizia, molto presto».
«Le mie classi sono classi per adulti, però» gli fece notare Nearco, stupito. «Ci sono anche quelle per ragazzi?».
«Certamente! Si tengono di giorno, però…».
Nearco ci rifletté un momento, poi scosse il capo.
«Non importa. Ho orari precisi da rispettare. Vi ringrazio» disse, e alzando impacciato la mano per salutarlo, si diresse nuovamente verso la propria camera, dove trovò Sinjìn appollaiato sul davanzale della finestra in forma di gatto.
«Se vuoi posso raccontartela io la storia della cicatrice di Sparviero» disse subito l’animaletto, e Nearco inarcò le sopracciglia sorpreso.
«Davvero?».
Il gatto annuì.
«Suo fratello è stato cresciuto con il complesso di essere un eroe destinato a sconfiggere una famigerata Bestia che portava discordia e calamità nel mondo. Per influenza di una nobile dell’epoca, si convinse che quella Bestia fosse Kame».
«Kame è il suo vero nome?».
«Oh, no. Ma ormai nessuno conosce più il suo vero nome, e quindi Kame lo è diventato… Sparviero è il soprannome, ora».
«Cosa successe?».
Sinjìn si prese il tempo per leccarsi la schiena, così Nearco si spogliò e prese un maglione largo e pulito dall’armadio, che infilò prima di rifugiarsi nel letto, dove Sinjìn gli si accoccolò in grembo a fare le fusa.
«Oh, successe che quel fratello stava per sconfiggere Kame, all’epoca diciannovenne, perché era stato addestrato molto più di lui e sin dalla più tenera età. Tuttavia intervennero Ri e Yukab che portarono via Kame dopo che il fratello gli aveva inferto la ferita al viso. La sua arma era intinta di veleno di Fajh».
«Cosa… cosa fa?».
«Gli danneggiò il viso e le corde vocali, nonché gli mangiò quasi la totalità dell’occhio sinistro, che recuperò solo grazie alla magia dei maghi della Resistenza».
Nearco aprì la bocca, incredulo.
«Kame faceva parte della Resistenza?».
«Oh, sì. Certamente. Anche tuo padre, se non erro, prima di sposarsi».
«Non me ne ha mai parlato».
«Certo, perché è reato».
Nearco tacque.
«In ogni caso, dopo cinque anni di tira e molla, Kame è riuscito a sconfiggere ed uccidere suo fratello».
«Ha detto che se ne è pentito».
«Oh, si è pentito di molte cose nella sua vita».
«Sembrava molto serio».
Sinjìn tacque, continuando a fare le fusa. Nearco si addormentò, pensando che fortunatamente sua sorella gli aveva solo reso la vita impossibile prendendolo in giro continuamente, e non aveva attivamente cercato di ucciderlo. No, ci aveva pensato la sua mania suicidaria a fare da contorno alle sue prese in giro. Si addormentò cullato dal pensiero di sua sorella morta in un fosso, per mano sua, con il pugnale che gli era appena stato regalato.

 

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Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


«Teoricamente una goccia in più o in meno non dovrebbe fare differenza» mormorò Nearco, concentrato. Sparviero, che lo osservava di sottecchi, annuì appena. L’allievo versò con un contagocce dell’infuso di belladonna nella boccetta, e per mascherarne il sapore versò ancora qualche goccia di estratto d’agrumi che, fondendosi al sapore del vino fruttato che avrebbero servito alla festa, non avrebbe destato sospetti. Tentennando e non riuscendo a credere di aver già messo a punto il suo primo veleno, Nearco prese la boccetta e la chiuse, porgendola poi al maestro: «Ne volete un po’?» scherzò, e Sparviero sorrise tranquillo.
«No grazie, ho le mie scorte. Speriamo funzioni, no?» disse, guardandolo fisso, e Nearco sentì una stretta alla gola.
«E se non funziona?».
«Li colpiremo in altro modo. Non temere, c’è una prima volta per tutto… anche per i fallimenti».
Nearco abbassò lo sguardo e ripose la bottiglietta nella borsa; si rese conto solo in quel momento che tutti gli altri presenti li guardavano di sottecchi, e avvampò: e così si sarebbe sparsa la voce dell’allievo di Kame… Ancor più che per sola voce. Sparviero lo guidò nuovamente nel suo ufficio, e si allenarono mentalmente a tener su la barriera di Nearco; giorno dopo giorno si sentiva più forte, ma contro Kame sembrava che i risultati non fossero mai buoni abbastanza.
Come sempre, Kame preparò il thè. Ogni giorno era una fragranza diversa, e Nearco beveva senza fiatare. Ma quel giorno in particolare, frustrato, Nearco sbottò:
«Perché fate sempre il thè? Credevo che ci saremmo concentrati molto di più sul piano fisico, e non su quello mentale. Perché mi date sempre degli infusi? Non mi sembra una sala da thè, questa».
Sparviero inarcò il sopracciglio buono, quello sopra l’occhio intatto, e chiese asciutto:
«Vuoi un allenamento più duro?».
«Non sto dicendo questo».
«Vuoi che non faccia più il thè?».
«Nemmeno questo».
«Allora parla. Cos’è che vuoi?».
«Diventare un assassino. Come voi».
«Non si diventa tali in due giorni, Nearco. E neanche in due settimane».
«Voi quanto ci avete messo?».
«Cinque anni. E avevo ancora tanto da imparare».
Nearco strabuzzò gli occhi.
«Cinque anni?».
Sparviero assentì.
«Per diventare quello che sono ora, ci ho messo quasi vent’anni. È un cammino lungo e pieno di sangue e veleno, e non privo di sudore. Se sei disposto a farlo, rimani qui. Altrimenti ti riaccompagno a casa».
Nearco scosse veementemente il capo.
«No, a casa non ci torno. Qui mi sento solo come lì, ma qui sto meglio. Non so se mi spiego» disse impacciato.
«Capisco» annuì il maestro, poi sollevò la propria tazza. «Il thè lo preparo perché fa bene all’anima. Rilassa il corpo e sbroglia la mente. Non ti senti meglio, davanti ad una tazza di thè?».
«Sì» ammise l’allievo, controvoglia. «Non ho ancora visto il vestito che indosserò alla festa».
«Ti sarà consegnato in camera stasera: quando tornerai dovrebbe essere già lì».
Nearco tacque, e Sparviero gli fece un cenno.
«Perché indossi questi maglioni enormi sopra i vestiti che ti ho fatto confezionare?».
Nearco abbassò lo sguardo sul maglione nero, in cui avrebbero potuto starci tranquillamente altri due Nearco.
«Mi fanno sentire al sicuro» disse impacciato, e Sparviero annuì.
«Capisco».
Nearco chiuse gli occhi, stanco della continua rappresaglia mentale che stava subendo, e implorò pietà:
«Per favore, potremmo fermarci un attimo?».
Sparviero si ritirò nella propria quiete, e Nearco tirò un sospiro di sollievo.
«So che Sinjìn passa molto tempo con te. Ti dà conforto?».
«Mi impedisce di impazzire, questo è certo» borbottò il mezz’elfo, e l’assassino sorrise sincero.
«Ne sono lieto. È stato la mia unica compagnia per anni».
«Davvero?» chiese curioso.
«Oh, sì. Giravo perlopiù da solo, ed è lui che mi ha fatto guadagnare il mio soprannome, perché prendeva spesso la forma di un falchetto».
Nearco tacque, non sapendo cosa rispondere, poi sorrise appena.
«Allora mi chiameranno “il gatto nero”, dato che con me assume praticamente solo quella forma».
«Oh, si è impigrito un po’, complice la vecchiaia. Non dubito che quando sarai sul campo ti seguirà in forme più fantasiose».
«Ma è legato a voi, no?».
«Certo. Ma ha una sua coscienza, e può fare quel che gli pare».
«Ha detto che è vecchio?».
«Ha almeno vent’anni… che è notevole, per uno della sua specie. Ha ancora degli assi nella manica, ma non è più un giovinastro come quando ci siamo trovati».
Nearco tacque, sorseggiò un po’ di thè, e sospirò. Sparviero lo osservò, poi mormorò cauto:
«Sei nervoso per il contratto?».
«Un po’. Non posso fare a meno di pensare che qualcosa andrà storto e potrebbe essere la fine della mia brevissima carriera. Se non mi reputate pronto, perché farmi approcciare all’omicidio così presto?».
«Perché concentrarsi troppo sulla teoria e per nulla sulla pratica è deleterio. Inoltre, non possiamo sapere se ti tirerai indietro all’ultimo istante oppure no, e meglio che tu te ne tiri fuori dopo un mese di addestramento che dopo un anno, o cinque anni. Riesci a seguirmi?».
Nearco annuì, un po’ ferito dalle sue parole.
«Quindi credete che mi tirerò indietro?».
«Le tue aspettative sono alte. Potrebbe farti schifo l’idea di uccidere qualcuno per davvero».
«Io smanio per l’uccidere qualcuno per davvero» ribatté il mezz’elfo, e a Sparviero baluginarono gli occhi in maniera spaventosa.
«Il che è anche peggio, credimi» disse piano l’assassino. «Ora facciamo pratica per quell’incantesimo che ti ho insegnato».
Nearco annuì e insieme provarono quell’incantesimo più volte fino a che Nearco non lo perfezionò, dopodiché esausto scherzò con Sparviero:
«E dire che a lezione mi basta stare zitto per restare invisibile…».
Kame ridacchiò e scosse piano la testa, poi si schiarì la voce e si sedette sulla poltrona di fronte a lui, con una gamba rannicchiata contro il petto e l’altra stesa mollemente con il tallone sul pavimento.
«C’è una cosa importante che devo dirti. Se mi vedi in difficoltà, vattene. In realtà io non sarò in difficoltà e tu starai rischiando la tua vita inutilmente. Non intervenire. Avrò un piano nel miliardesimo di secondo che tu impieghi per dire una cosa fuori posto che fa precipitare tutto».
«Capito» mormorò Nearco, vagamente deluso dalle basse aspettative di Sparviero.
«Cosa farai se qualcuno ti metterà alle strette per capire cosa ci fa un ragazzino ad un ricevimento così elegante?».
«Non sembro un ragazzino. Sono già alto oltre una iarda e mezza» protestò, e Sparviero inarcò un sopracciglio. Nearco sospirò.
«Adocchierò una ragazza e la inviterò a ballare» borbottò, nonostante la cosa lo mettesse a disagio. Ballare presumeva toccarsi, non è vero?
«Risposta corretta. Spera in un sì».
«Chi è che potrebbe resistermi?» disse sarcastico il ragazzo, e Kame lo fissò in un modo che costrinse Nearco a ricredersi: il mezz’elfo spostò lo sguardo da un’altra parte. Kame alzò un sopracciglio e s’alzò.
«Usa un linguaggio forbito, movenze semplici ed eleganti, che incantino gli interlocutori, che siano uomini o donne. Sii sempre cortese fino all’eccesso, a costo di diventare freddo non sbilanciarti mai. Usa verbi eleganti e affronta argomenti raffinati e difficili. Usa un linguaggio ricercato, anche vetusto se necessario. Molti “lei” e pochi “voi”. Parla poco di cose che non conosci, e se ti ci trascinano dentro vattene nel modo più elegante possibile. Non metterti nei guai. Mangia poco, sarai ammirato. Bevi poco, ti ammirerò» Kame fece un breve illuminante sorriso, poi continuò, serio: «Se mi vedi parlare con qualcuno, non interrompermi per alcuna ragione. È al limite della maleducazione, ed è solo ciò che ci manca. Al massimo contattami mentalmente, e sempre quando mi vedi poco concentrato».
«È impossibile contattarvi mentalmente, avete barriere molto più forti delle mie» obiettò Nearco.
«Sarò teso allo spasimo per sentire qualsiasi tuo sussurro, Nearco. Sarà facile» disse freddo Kame. Ancora, continuò: «Verso l’Ora Quattordicesima ci allontaneremo con la scusa di dover usufruire dei bagni, e ci recheremo in una nicchia dei corridoi dei servi, dove ci attenderà il nostro complice. Io mi allontanerò diretto al giardino e poco dopo arriverà il nostro servo complice, che servirà ai nostri obiettivi le bevande avvelenate. Quando sarà il momento, un paio d’ore dopo, mi unirò al gruppo con cui stai parlando o, se sei solo, ti raggiungerò e ti offrirò un bicchiere di qualcosa. Tu rifiuterai cortesemente e un minuto dopo dirai che hai bisogno di un po’ d’aria fresca, oppure che hai visto una tua conoscenza in giardino. Ti distaccherai dal gruppo o dalla persona con cui stavi interloquendo e affronterai la missione».
«Qui non ci ascolta nessuno?» chiese nervosamente Nearco.
«Nearco, non fare lo stupido. Sei nel mio ufficio» obiettò Sparviero, e Nearco sospirò, passandosi la mano libera sul viso come per schiarirsi le idee.
«Sono nervoso» si scusò.
«Bene. Andiamo alle terme, ti aiuterà a rilassarti. Da quanto non fai un bagno?».
«Un po’. Ma questo cosa c’entra?».
«È ora che anche tu conosca il mio piccolo segreto» sorrise misteriosamente Sparviero, allacciandosi la kway sul viso.
Insieme i due si diressero ai piani alti della Cittadella del Clan e si infilarono in una camera colma di vapore: degli Artisti stavano lì a godersi il calore delle acque termali in quel gelido inverno, e sia il maestro che l’allievo si tolsero le scarpe per dirigersi ad una stanza separata dalla piscina principale, in cui ve ne era un’altra più piccola e contenuta, tutta a disposizione di Sparviero, Yukab e Nearco.
«Puoi venire qui ogni volta che vuoi» gli disse Kame, e Nearco annuì imbarazzato. Ora gli sarebbe toccato vedere il suo maestro nudo? E farsi vedere nudo da lui? Dèi… stava per morire d’imbarazzo.
Senza alcun pudore, Kame iniziò a calarsi i pantaloni e Nearco boccheggiò. Mai viste gambe più delicate e forti di quelle; sembravano di gazzella, o di cervo, abituate a correre e saltare fino allo spasimo, tese e scattanti, ma allo stesso tempo delicate e aggraziate. Nearco si chiese dove altro potesse trovare un esempio tanto elegante di uomo e percepì un’invidia fortissima… Peccato che, quando si calò i calzoni intimi, Nearco scoprì che il suo maestro era una donna. Lisci peli blu ne coprivano l’inguine privo di pene, e Kame ghignò.
«Sorpreso, ometto? Il più temuto e rispettato assassino dei Tredici Regni è una donna».
Nearco boccheggiò.
«Ma è assurdo!» sbottò. «Perché non lo sa nessuno?» sibilò, sentendosi un po’ tradito da quella rivelazione tardiva, e al tempo stesso temendo di rivelarlo ad altri se l’avesse detto ad alta voce. Kame si strinse nelle spalle, spogliandosi completamente e riponendo i propri vestiti in una nicchia della parete rocciosa. Il suo petto era muscoloso e privo di seno, proprio come quello di un uomo ben allenato.
«Perché rischierei ancora di più la mia vita, e vista la forte componente maschilista di questo Regno… beh, rischierei di perdere il mio potere. Un uomo, sfortunatamente, ottiene molto più rispetto di una donna».
«Ma voi… vi sentite uomo o donna?» chiese Nearco, confuso.
«Né l’uno né l’altra. Mi sento niente».
Nearco tacque e si spogliò; per qualche motivo ora trovava meno strano spogliarsi di fronte al suo maestro, come se lo scoglio iniziale fosse stato superato: non aveva nulla da temere, non c’era più nulla di segreto – più o meno.
Sparviero lo invitò ad entrare in acqua, mentre si toglieva anche la kway. Nearco sospirò tuffandosi, e riemerse che anche Kame si stava tuffando. Lo fece nel più elegante dei modi, come un pesce che non ha mai lasciato il suo elemento, e anche lui riemerse con un sospiro di sollievo. Riguardo al resto del suo corpo, era del tutto mascolino: Nearco quasi si scordò nell’acqua nebulosa che al maestro mancava giusto un qualcosa. La porta si aprì in quel momento ed entrò Yukab a piedi nudi, e parve sorpreso di trovarli lì.
«Oh, nuotatina di gruppo oggi, vedo» commentò, iniziando a spogliarsi. «Come procedono gli studi?».
«Fra due giorni Nearco ha il suo primo contratto» accennò Sparviero, compiaciuto, e Yukab fischiò.
«Addirittura? Da quanto si allena, un mesetto? Sarà pronto?».
«Lo scopriremo, direi».
Nearco immerse le spalle nell’acqua, desiderando scomparire, e quasi fu tentato di usare l’incantesimo che gli aveva insegnato il maestro. Sparviero non si curò del suo imbarazzo, e quando Yukab si immerse iniziarono a far conversazione senza di lui.
«Come vanno le cose in ufficio?».
«Ah, il solito: gli esploratori di contratti tornano con contratti sempre freschi, il che è anche sorprendente dato che a quest’ora dubitavo che ci fossero ancora nobili da ammazzare in questo regno».
«Come va l’espansione verso gli altri regni?».
«Non male. Zashat sta installando portali per il Regno di Isarnon e il Regno di Ewerynd proprio mentre parliamo. Quelli per i Regni Orientali sono già attivi, così come quelli per i Regni Gemelli».
Kame annuì e si rilassò nell’acqua, chiudendo gli occhi.
«Ottimo» mormorò. «Così possiamo avere il monopolio dei contratti e assorbire le altre organizzazioni… che a loro piaccia o no».
«A proposito di ciò… pare che il Loto Nero non sia molto d’accordo all’annessione. Abbiamo incontrato difficoltà nel farci strada nel Regno di Swit per questo motivo… Oltre al fatto che il Loto Nero ha molte più radici di noi nella guerra secolare fra il Regno e l’Impero…».
«Noi dovremmo schierarci o, come loro, accettare i contratti dell’una e dell’altra parte?».
«Credo che l’unico schieramento possibile per noi sia favorire la pace».
«Ah, cosa che i Tredici Regni non vogliono».
Yukab si allungò per prendere dalla borsa una bottiglia di vino, e la aprì stappandola con i denti. Ne prese una buona sorsata e ne offrì un po’ anche a Sparviero, che bevve a sua volta. Il maestro la porse poi a Nearco, che decise di provare la bevanda. Aveva un gusto fruttato, e già Nearco si stava arrovellando sulla conversazione che improvvisamente i suoi sensi furono presi dal decifrare il codice del vino: c’era del lampone, sicuramente, della mela, del ginepro… forse del mirto selvatico? Non aveva assaggiato tutti gli ingredienti, di questo ne era certo, ma ne conosceva abbastanza per dire che era un vino ottimo. Ne prese un altro generoso sorso e Kame ridacchiò.
«Vacci piano, ragazzino» e gliela tirò via dalle mani, restituendola a Yukab.
«Da quando ci interessa cosa vogliono i Tredici Regni? Abbiamo già messo un non-umano sul trono del Regno di Mame, benché nessuno ne sappia nulla. Cosa può essere mai far finire una guerra che dura da più di centocinquant’anni?» ironizzò Yukab, e Sparviero diede un pugno alla superficie dell’acqua, con sentimento.
«È deciso. Faremo finire quella guerra. E non mi interessa se il Regno di Isarnon vende armi ad entrambe le parti, o se il Regno di Ewerynd sfrutta gli esodi a proprio favore, o se il Regno Sayn… beh, cosa fa il Regno Sayn?» chiese Sparviero, genuinamente perplesso.
«Niente, come al solito» Yukab scrollò le spalle e rise.
A Nearco girava un po’ la testa. Non perdeva d’occhio la bottiglia nemmeno per un istante, e in qualche modo Kame lo notò.
«A Nearco piace il vino» fece un cenno a Yukab, e l’uomo lo guardò ridacchiando.
«Eh, a chi non piace questo vino?» chiese, e lesse l’etichetta: «Vinfrutto delle grotte di Ewerynd. Pestato a piedi da bambini, fatto a mano da vecchietti, invecchiato in botti di rovere e imbottigliato in vetro magico per oltre vent’anni. Questa roba non è niente male».
Kame rise di gusto alla scintilla che passò per gli occhi di Nearco.
«Posso averne un altro pochino?».
«Ma certo. Tutto tuo, se riesci a finirlo» lo sfidò Yukab, che in fondo era rimasto un ragazzino. Sparviero però gli ringhiò contro:
«Sei pazzo? È soltanto un ragazzino. Passi il farglielo assaggiare e gustare, ma non lo faremo ubriacare».
«Oh, che guastafeste» borbottò Yukab, porgendo la bottiglia a Nearco. «Non esagerare, o il tuo maestro mi pesta».
Nearco sorrise accondiscendente, non credendo nemmeno per sbaglio alle parole dell’uomo, e Sparviero lo fulminò con lo sguardo; Nearco capì che invece diceva il vero, e prese un altro sorso di vino senza fiatare, sperando di non ubriacarsi. Dopo altri due o tre sorsi, restituì la bottiglia a Kame, che bevve un po’ e poi restituì la bottiglia al legittimo proprietario.
«Quindi ricapitolando: andremo contro tutti i Clan Reali, tutti i Tredici Regni… e faremo finire la guerra» Sparviero annuì veementemente, e Nearco sorrise: lo trovava oltremodo buffo, in quel momento.
«Oh, quanti guai che prevedo arrivare» disse Yukab alzando gli occhi al cielo, divertito. Anche lui era improvvisamente molto buffo. Ridacchiò senza rendersene conto, sollevando una mano bagnata a coprirsi il viso per non farsi vedere, ma Sparviero se ne accorse ugualmente.
«Ecco, l’hai fatto ubriacare».
«È sotto la tua tutela, mica la mia» rise Yukab, e Nearco scoppiò a ridere.
«Tutela» ripeté: come suonava strana quella parola. Sparviero si avvicinò a lui e Nearco ridacchiò. «Maestro, sembri un’anguilla» disse, dandogli del tu perché si era dimenticato di dargli del voi. Kame sorrise come uno squalo, e scosse il capo.
«Ora io e te andiamo nella tua stanza e ti faccio dormire un po’. Che ne dici? Buona idea».
«No! Riprendete a parlare del Clan, mi piaceva quel discorso» disse, facendo un cenno anche a Yukab, che alzò le mani e prese un altro sorso di vino.
«È tardi, e devi andare a dormire. Dopodomani ti aspetta una serata impegnativa».
La realizzazione colpì Nearco come un mattone dietro la nuca, e boccheggiò proprio come se il colpo fosse stato reale.
«Dopodomani» farfugliò, e Kame sorrise gentile, forse troppo.
«Dopodomani. Ma domani è un altro giorno. Se non altro, eviterai di ubriacarti alla festa» sospirò, e Nearco si appoggiò alla parete di roccia della vasca, cercandone il sostegno: oh, se il mondo girava!
«Lascia che ti aiuti ad uscire dalla vasca: l’equilibrio non è dei migliori, da brilli» propose Kame, e fece l’errore di prenderlo per un braccio. Nearco urlò di dolore e si ritrasse bruscamente, ma la mano di Sparviero non lo mollò e lo aiutò a risalire gli scalini che conducevano alla vasca, mentre il ragazzino scalciava ed ansimava come stesse avendo un attacco di panico. Quando furono fuori dalla vasca, Nearco si appoggiò al muro e tentò di respirare di nuovo normalmente, con il braccio che ancora gli formicolava e la pelle che gli pizzicava per il contatto non richiesto.
«Ti prego di non vomitare qui, e neanche nei corridoi. Vomita nella tua stanza da bagno se proprio devi, e ti prego… ti prego, non urlare più» sibilò Sparviero, portandosi due dita alle tempie e rivestendosi poi in fretta. Yukab li guardava impassibile, poi chiese:
«Va tutto bene?».
«Non c’è un nome per questa condizione, qui nel vostro mondo?» chiese a denti stretti Sparviero, porgendo un asciugamano a Nearco, che lo prese lentamente.
«Di solito se è sin da bambini, li chiamiamo Tramiti. Si dice possano parlare con gli dèi nel sonno».
«Simile alle culture elfiche, quindi» mormorò Sparviero. Nearco si asciugò con lentezza, ma di rivestirsi non era esattamente in grado quindi Sparviero lo aiutò, attento a non sfiorarlo, dopodiché senza troppe cerimonie gli porse la mano. Nearco esitò prima di afferrarla, ma lo fece ugualmente perché sentiva di non reggersi in piedi. Un dolore cocente gli si diffuse sulla mano, come stesse mettendo la mano nel fuoco, nonostante le mani di Sparviero fossero fredde come quelle di un cadavere.
Uscirono dalle terme a piedi nudi e Sparviero si reinfilò gli stivali, mentre Nearco lo guardava appoggiato alla parete e sentendo su di sé come spilli le occhiate degli Artisti nella vasca grande che lo avevano sentito urlare. Una volta rimesse le scarpe, Sparviero lo accompagnò in camera sua, stavolta tenendolo per un braccio, e una volta dentro Nearco si divincolò e gli tirò un pugno, prontamente scansato dall’assassino. Con le lacrime agli occhi per il dolore, il ragazzino si raggomitolò sul pavimento, con le mani sulle orecchie e le ginocchia praticamente in bocca da tanto era magro. Sparviero lo guardava glaciale, e nella fretta neanche si era rimesso la kway.
Come doveva essere sembrato agli occhi degli Artisti? Un ragazzino pazzo e ubriaco che veniva trascinato per il Clan dal suo maestro con la furia negli occhi, perché neanche si reggeva in piedi. Questo non fece che aumentare il suo panico, a stento respirava. Stava per morire? Quella era la morte?
«Non stai per morire» lo rassicurò Sparviero, e scoprì il letto da lenzuola e coperte di lana. Aprì la finestra per lasciar arieggiare la stanza, mentre fuori mostrava la neve che cadeva lenta sul paesaggio già pesantemente innevato, con in lontananza un villaggio. Sparviero accese una lampada ad olio, fino a quel momento mai usata da Nearco che si muoveva solitamente al buio, e tornò dall’allievo steso sul pavimento in posizione fetale.
Se non stava per morire, perché non riusciva a respirare? Le immagini di lui trascinato per il Clan assunsero dimensioni grottesche, si sentiva soffocare, stava rendendosi ridicolo di fronte al suo maestro, stava piangendo come un bambino, non sarebbe mai stato un grande assassino, come poteva dopotutto? Non riusciva neanche a toccare o ad essere toccato da qualcun altro, come avrebbe mai potuto ucciderlo?
«Nearco, stai avendo un attacco di panico» gli spiegò lentamente Sparviero, ma Nearco si limitò a singhiozzare. Era ridicolo, semplicemente ridicolo. Arden aveva ragione a torturarlo, Arden aveva ragione a prenderlo in giro, a dire che era pazzo, a toccarlo senza permesso. «Andrà tutto bene» mormorò Sparviero, e in un unico fluido gesto si chinò su di lui e lo prese in braccio, portandolo a letto. Gli tolse le scarpe e i vestiti, e si sedette sul letto insieme a lui mentre l’allievo ancora faticava a respirare.
Ma non aveva sentito dolore quando l’aveva preso in braccio, forse per la prima volta in vita sua.
«Respira più lentamente» sussurrò Sparviero, chinandosi su di lui per carezzargli i capelli, e ancora Nearco non sentì dolore. Persino sua madre non poteva accarezzarlo, poiché sentiva fastidio… e ora quel praticamente sconosciuto poteva? Come funzionava? Pianse più forte, e Sparviero sorrise triste.
«L’alcol acuisce tutto, purtroppo. Sono lieto che tu fossi con me e non con qualcun altro» gli disse dolcemente, continuando ad accarezzargli i capelli.
Nearco si addormentò piangendo, con il cuscino colmo di lacrime e saliva, e Sinjìn a fargli le fusa proprio sul petto.

 

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII ***


Quando si svegliò, Kame era ancora lì, o forse di nuovo lì. Leggeva uno dei suoi erbari, con occhio critico, e aveva tutta l’aria di essere di pessimo umore per la nottata insonne. Sulla scrivania c’erano una tazza fumante di thè e una tazza vuota. Nearco si stropicciò gli occhi, troppo imbarazzato per poter parlare senza che Sparviero iniziasse una conversazione.
«Come ti senti?» grugnì infatti, senza alzare gli occhi dall’erbario. Nearco deglutì a fatica.
«Di merda» disse senza troppi francesismi.
«Un linguaggio simile non è tollerato alla festa di domani» gli ricordò il maestro, e Nearco annuì appena, mentre un fiotto di senso di colpa gli invadeva il petto.
«Mi dispiace avervi fatto vergognare» sussurrò, con la voce che tremava. Sparviero sollevò lo sguardo dall’erbario: Nearco stava per piangere di nuovo, così si premette le mani sugli occhi e singhiozzò: «Sono un vero disastro».
Sparviero scosse piano il capo.
«Avrei dovuto proteggerti, e ho fallito. Mi dispiace» si scusò, e Nearco sollevò gli occhi verdi su di lui, stupito. Perché si scusava?
«A proposito: mi dispiace averti toccato senza permesso ieri, ma era necessario o non l’avrei fatto».
Nearco tacque, tirando su con il naso, cercando di capire cosa stava succedendo. Ma la mente gli ronzava di pensieri intrusivi, che non facevano che ripetergli che era un fallimento e un pazzo, un ridicolo ragazzino ubriaco trascinato per il Clan degli Artisti alla mercé degli sguardi altrui,
«Non capisco» mormorò, con voce rotta.
Sparviero si alzò con un unico fluido movimento e posò l’erbario sul tavolo con delicatezza, poi si sedette sul letto di Nearco, accanto a lui, attento a non sfiorarlo.
«Potete toccarmi, maestro. Dico davvero» mormorò il ragazzino, e Sparviero scosse il capo. «Ieri notte… mentre mi carezzavate i capelli… non ho sentito alcun dolore. Solo lieve fastidio, ma nessun dolore» ammise impacciato, e Sparviero parve riflettere sulla rivelazione. Poi sorrise appena.
«Ne sono lieto. Mi è venuto naturale, non volevo farti del male. Ho quattro figli, Nearco… se credi che non abbia mai affrontato una crisi di pianto ti sbagli di grosso» ridacchiò, e Nearco incurvò a malapena le labbra.
«Sono così stanco di essere un fallimento».
«Hai dodici anni. Non si è un fallimento a nessuna età, ma specialmente a dodici anni. Hai tutta la vita davanti… una vita lunga e longeva, secondo i tuoi antenati di sangue» sorrise Sparviero, cercando di essere incoraggiante, ma per qualche motivo quella considerazione scavò un fosso profondo nel cuore di Nearco. Una lunga vita davanti… Oh, non la desiderava. Per la prima volta da quando era al Clan, si ritrovò a voler sprofondare nel terreno e scomparire, morire, dormire per anni e svegliarsi quando fosse andato tutto a posto. Quando era a casa quel sentimento lo accompagnava a tutte le ore del giorno e della notte, ma al Clan… lì aveva trovato un po’ di respiro. Si era sentito rinato. Ed ora… aveva rovinato nuovamente tutto.
Non espresse neanche uno di quei pensieri al suo maestro: si limitò a spostare Sinjìn dal proprio grembo e a raggomitolarsi con le ginocchia al petto, sospirando. Si sentiva solo più che mai.
«So che ti sembra impossibile, ma… le cose migliorano. Dico davvero» cercò di incoraggiarlo Kame, gentilmente, ed esitante gli poggiò una mano sulla spalla. Nearco si tese, pronto a sentire dolore, ma non provava che un lieve pizzicore alla pelle, più simile ad un prurito che a vera e propria sofferenza. Così, lentamente, si rilassò e alzò gli occhi su Sparviero, che lo guardava incoraggiante.
«Mi credete davvero in grado di uccidere qualcuno? Mi sono ubriacato con tre sorsi di vino. E se mi costringessero a brindare? Più e più volte? Non sarei in grado di far nulla».
«Ora che sappiamo che non reggi per niente l’alcol, prenderemo degli accorgimenti».
«Cosa sarebbe accaduto se non mi fossi ubriacato ieri?» scattò Nearco, allarmato. «Quegli accorgimenti non sarebbero stati presi?» chiese, con gli occhi verdi spalancati nella poca luce pomeridiana che filtrava dalla finestra, e Sparviero scosse il capo.
«Li avremmo presi comunque. Nearco, faccio questo lavoro da una vita. Ho aiutato più apprendisti di quanti ne possa contare sulle dita delle mani, in dieci anni che gestisco gli esami del Clan degli Artisti, e tu non sei il primo e non sarai l’ultimo. Credimi: il Patto con il Demone è un po’ sopravvalutato, soprattutto nelle modalità in cui andiamo ad operare noi».
«Perché si chiama Patto con il Demone?» chiese confuso Nearco, asciugandosi in fretta una guancia ed augurandosi che il maestro non lo vedesse piangere di nuovo. Kame gli lasciò la spalla, e si alzò, misurando a grandi passi la stanza in penombra: il sole stava calando presto, essendo inverno.
«Perché si dice che dopo il primo omicidio si stringa un patto con il Demone del Sangue, un’entità che secondo i creduloni rende più facili gli omicidi seguenti».
«Wow» mormorò Nearco. «Ed è vero?» chiese, nonostante l’opinione del maestro fosse ben stata riassunta in quelle due frasi.
«No» disse semplicemente, e si chinò su di lui. «Non diventa mai più facile uccidere qualcuno. C’è chi si arrende subito, chi lotterà, chi ti tenderà trappole nella paura di morire; ogni omicidio è un mondo a parte, bisogna studiare la casa, la famiglia, le abitudini, i vizi di un uomo per poterlo uccidere. Questo lavoro l’ho fatto io per te per il tuo Patto col Demone, ma dopo che il tuo vero addestramento sarà iniziato dovrai farlo insieme a me. Ti insegnerò tutto, non temere, ma voglio che tu lo sappia: va bene se, dopo che avrai visto qualcuno morire con i tuoi occhi e per mano tua, ti sentirai male e vorrai vomitare o piangere. Lo fanno tutti, anche i più duri».
«L’avete fatto anche voi?» mormorò Nearco, e Sparviero contrasse un angolo delle labbra.
«Il mio è un caso particolare. Ho ucciso spesso per necessità e pericolo prima ancora che iniziassi a fare il sicario. Dovevo salvarmi la vita? Si combatteva, e se uccidevo voleva dire che sopravvivevo. Non ne vado fiero. Le prime volte non ho neanche realizzato cos’avevo fatto, nella fretta di fuggire dal luogo del delitto».
«E al vostro primo contratto?».
«Il mio primo contratto è arrivato dopo la cicatrice. Il mio cuore era duro come pietra e valutavo la vita altrui degna di meno rispetto di quanto ne meritasse un’unghia di topo. Ho portato a termine un contratto dopo l’altro senza pensarci nemmeno. Per me era tutta feccia da eliminare».
Nearco lo guardò ad occhi spalancati, colpito.
«La trovo molto intenerito rispetto a quell’epoca» disse cauto, e Sparviero sorrise come se la sapesse lunga.
«Si cresce, Nearco. Si cresce, si portano avanti progetti per salvare i bambini da guerre e strada, si fanno altri due figli, si conoscono persone… che fanno la differenza. Bisogna sapere quando essere pietra e quando essere fiore, nella vita, Nearco».
Il ragazzino deglutì a fatica, poi rabbrividì, coprendosi con la trapunta di lana pesante.
«Mi dispiace avervi causato tutti questi problemi» mormorò.
Sparviero scosse il capo.
«Smettila. Non mi hai causato alcun problema».
«Ci ha visti qualcuno?».
«No. Sono stato attento… a quell’ora di mattina la gente dorme, o è al lavoro».
Un fiotto di sollievo invase il petto di Nearco, facendolo rabbrividire.
«Quel che conta è che tu ti senta meglio».
«Oh, allora non ci sperate: mi sento uno schifo».
«Ti ho preparato un thè».
Nearco giocò nervosamente con il lenzuolo di lino che lo separava dalla trapunta: era un tic che gli veniva spesso quando era teso, ma non ci fece caso come invece fece Kame.
«Non ti dirò di smettere di farlo perché so che può essere complicato… ma ti prego di non farlo almeno al ricevimento» disse, vagamente severo, e Nearco annuì.
«Ma certo. Sarà tutto perfetto» abbozzò un sorriso, deglutendo con difficoltà, poi un luccichio che rifletteva il tramonto lo attrasse. «Quello è il mio vestito per la festa?» chiese stupito, indicandolo: era appeso al manichino vicino l’armadio. Era un abito di pregevole qualità, con bottoni e catenine per chiudere la giacca, e fili d’argento intessuti nella maglia nera della stessa, a formare volute che riflettevano il minimo bagliore.
«È splendido, non trovi?» chiese Sparviero, porgendogli la tazza di the ancora caldo. Nearco ne prese subito un sorso, sospirando.
«Sì, è davvero meraviglioso» ammise, e notò solo in quel momento di essere nudo come un verme sotto le coperte. «Mi avete spogliato voi?».
«Non c’è di che».
«È stato… inopportuno» gli fece notare Nearco, e Sparviero inarcò un sopracciglio.
«Volevi andare a letto con i vestiti che usi tutti i giorni per rotolarti nella neve e nella polvere della palestra?».
«No, ma…».
«Allora niente storie».
Nearco lo guardò rabbioso, e Sparviero accennò un sorriso. Sinjìn si stiracchiò.
«Posso venire anch’io al ricevimento?» s’informò, e Sparviero scosse piano la testa.
«No, temo di no».
«Bene. Tanto non ne avevo voglia» Sinjìn si leccò il pelo con fare annoiato, e Nearco sorrise carezzandolo dolcemente.
«Te la senti di andare a lezione?».
Nearco annuì.
«Non sono in ritardo?».
«Solo per Storia dei Tredici Regni. Hai ancora quattro classi da poter seguire».
Nearco annuì di nuovo e si precipitò giù dal letto, andando a lavarsi e poi vestendosi in fretta.
Si precipitò a lezione mentre Sparviero tornava nel suo ufficio con calma; il ragazzo notò un paio di facce nuove nell’aula che si stava svuotando, ma non vi diede peso se non quando una di esse gli si approcciò con un sorriso.
«Tu devi essere l’allievo di Kame, dico bene?» chiese vellutato il ragazzino che gli stava di fronte. Era un mezz’elfo dalla carnagione chiara e i capelli scuri, con gli occhi neri che sembravano pozzi senza fondo. Nearco annuì in fretta, sostenendo il suo sguardo, e chiese a disagio:
«Sì, ma ora ho un’altra lezione… se mi vuoi scusare…».
«Erboristeria? Oh, ci vado anch’io. Che coincidenza» disse casualmente lo sconosciuto senza ancora un nome, così Nearco fece il primo passo.
«Mi chiamo Nearco».
«E io Seifer. Allora, com’è allenarsi con una leggenda come Kame?».
Nearco valutò se essere sincero o darsi delle arie, e scosse il capo.
«Meraviglioso. Rispetta molto i miei tempi, mi sprona sempre a fare di meglio» disse, senza sbilanciarsi troppo. Il suo interlocutore, per quanto giovane quanto lui o di poco più grande d’età, non sembrò molto soddisfatto dalla risposta. Nearco innalzò le proprie barriere mentali quasi d’istinto, per cui quando sentì il tocco delicato della mente flautata di Seifer digrignò i denti e gli scoccò un’occhiata furiosa, al punto che Seifer arretrò.
«Scusa. Volevo solo…».
«Cosa? Curiosare? Non sono affari tuoi quel che Kame mi insegna» ribatté Nearco, ferito: e così veniva approcciato solo perché era l’allievo del capo del Clan, e non perché fosse una persona interessante. Al mal di testa per il dopo sbornia si aggiunse anche quello del tenere le protezioni mentali alzate per la lezione intera, e quando la lezione finì Nearco fu il primo ad alzarsi e uscire, scontrandosi così con una ragazzina che stava rimettendo ancora le sue cose nella borsa. Quando sollevarono gli sguardi, Nearco la fissò a lungo negli occhi castani prima di borbottare:
«Prima le signore».
«Galantuomo» cercò di recuperare Seifer, dandogli una gomitata, ma Nearco gli mollò un pugno d’istinto, sbattendolo contro una scrivania. «MA CHE CAZZO TI PRENDE?» strillò il ragazzino, e Nearco gli sibilò inviperito:
«Non. Toccarmi».
La ragazzina si portò le mani alla bocca, scioccata, e guardò Nearco uscire dall’aula rosso di rabbia sotto le lentiggini.
Una volta fuori, Nearco si massaggiò con stizza il punto in cui era avvenuto il contatto con la gomitata e poi la mano, che aveva toccato la faccia del ragazzino che ora perdeva sangue dal naso. Che nottata! Poteva solo migliorare.
Si diresse ad un’altra aula studio, stavolta per botanica, e tirò fuori con calma il proprio blocco degli appunti e quello per disegno; la ragazzina che aveva assistito alla scena corse dentro prima che la porta si chiudesse del tutto, e si sedette nella stessa scrivania a due posti, vicino a lui.
«Perché l’hai fatto?» sussurrò, e Nearco quasi dubitò di averla sentita per davvero.
«Mi dava fastidio».
«Che succede se qualcuno ti tocca?».
«Provo dolore».
Lo ammise così, candidamente, senza pensare alle conseguenze. La ragazzina inarcò un sopracciglio e Nearco ne studiò i tratti: era raro vedere qualcuno dei Regni Orientali lì nel Regno Faël o nel Regno di Mame; i suoi occhi a mandorla erano scuri e caldi, come se al contrario degli occhi di Seifer promettessero solo cose buone. I capelli lisci e neri le arrivavano ben oltre la vita, e li teneva legati con un laccio di quella che sembrava seta rossa.
Era vestita, come tutti al Clan, con gli abiti standard che davano all’ingresso al Clan: tunica nera, calzoni di lana marrone, e stivali. Portava una cintura alla vita a cui aveva legato delle boccette multicolore che rilucevano appena, forse colme di liquidi magici.
«Come ti chiami?» bisbigliò ancora la ragazzina, mentre l’insegnante iniziava a spiegare come effettuare un innesto.
«Nearco. E tu?».
«Xieren Shi, piacere. Per gli amici, Xieren».
«Ma io non sono tuo amico» sussurrò Nearco, confuso. Lei ridacchiò piano.
«Non ancora» promise, e passarono il resto della lezione a scambiarsi occhiate curiose, anche se Nearco era troppo focalizzato su ciò che l’insegnante diceva, affascinato dagli innesti, per intavolare una conversazione clandestina con Xieren.
«Te la faccio pagare, Nearco» ringhiò Seifer non appena fu uscito dall’aula studio. Accanto a lui, c’era un uomo alto e biondo, con dei capelli scintillanti che gli arrivavano al sedere.
«Ti sei fatto prendere a pugni da questo magrolino qui? Che vergogna» commentò l’uomo, studiando Nearco. Lui si mise sulla difensiva.
«Quando vuoi, Seifer» cercò di utilizzare lo stesso tono sul suo nome, come se fosse un insulto, e Seifer si passò una mano sotto il naso, macchiandosela di sangue.
«Vex».
Il tono neutrale di Kame era riuscito a zittire tutti anche se non aveva minimamente alzato la voce. L’uomo biondo si voltò lentamente, alzando gli occhi al cielo.
«Il tuo allievo ha dato un pugno al mio allievo» spiegò Vex, calmo.
«Ne sono a conoscenza. Nearco, come sono andate le cose?».
«Prima di tutto, mi ha approcciato con il solo intento di rubarmi informazioni tramite la telepatia. Poi mi ha dato una gomitata e mi ha toccato senza permesso» disse Nearco senza esitare, sentendo fissi su di sé gli occhi di tutti i presenti, compreso l’insegnante.
«Tutto qui?» Vex rise di gusto. «Gli dèi ce ne scampino».
Kame tacque, ma a Nearco sembrava tranquillo. Sicuramente lo avrebbe difeso, vero?
«Tutto qui, Vex. Nulla di più e nulla di meno: il tuo allievo non ha rispettato il mio, e il mio allievo gli ha dato un pugno. Direi che se l’è meritato. Oh, e la prossima volta che cerchi di carpire informazioni su di me tramite i nostri allievi… ti spello vivo e ti do in pasto alle formiche» disse tranquillamente, facendo cenno a Nearco di andare con lui mentre si voltava e imboccava l’uscita della biblioteca. Xieren, non vista e non sentita, li seguì in silenzio.
«Maestro, io…».
«Non ora, Nearco. Sono incazzato come una biscia».
«Con me?» chiese a disagio.
«No, con Vex» lo tranquillizzò Kame, poi fece un cenno verso la ragazzina che li seguiva silenziosi. «È una tua amica?».
Nearco si riscosse dai propri pensieri, voltandosi, e Xieren assunse un’espressione colpevole, come colta in fallo.
«Forse» disse Nearco. «Non ancora» si corresse, e lei sorrise appena.
«Venite entrambi nel mio ufficio, allora».
Xieren sbiancò.
«Ho… Ho fatto qualcosa di male?».
«Preferisco tenerti sott’occhio piuttosto che coglierti ad origliare».
«Ho da studiare un sacco di roba per l’esame della settimana prossima» si lamentò Nearco, e Xieren annuì.
«Io sono arrivata solo ieri al Clan» ammise, e Sparviero annuì.
«Lo so. Ho delle domande da porti».
I tre si infilarono nell’ufficio di Kame, e quest’ultimo iniziò a preparare un thè. Xieren parve stupita dalla cosa, ma non commentò. Nearco prese posto nella sua solita poltrona e Xieren si sedette sul divano, posando la borsa per terra.
«Vieni dai Regni Orientali, non è così?» chiese Sparviero, e Xieren annuì suo malgrado, intimidita.
«Sì, vengo dal Regno di Swit».
«Hai affiliazioni con il Loto Nero?».
«Sono… sono un’allieva druida. Non ho affiliazioni con nessuno».
«Sei qui da sola?».
«Con mio padre e mia madre. Stanno cercando lavoro nel Clan in questo momento» disse a disagio.
«Cosa facevano prima?».
«Mia madre faceva la sarta, mio padre il fabbro. Vi prego, non ci cacci via» supplicò Xieren, chinando il capo. Sparviero, ancora con la kway indosso, aggrottò il sopracciglio visibile.
«Perché dovrei?».
«So che il Loto Nero è un pericolo per voi, ma noi ne siamo estranei. Vi prego» ripeté, e Sparviero ribatté tranquillamente:
«Il Loto Nero non è mai stato un pericolo per noi. Siamo più potenti, e possiamo contare su migliaia di criminali. Il Loto Nero è un’organizzazione esclusivista, invece, e può contare solo su decine di sicari».
«Sono pericolosi, però» obiettò Xieren, spaventata. «Non li sottovalutate, ve ne prego».
Sparviero tacque.
«Hai informazioni su di loro?».
«Nulla più che leggende. Dicono che colpiscano nella notte più nera, e non lascino tracce del proprio passaggio se non un fiore di loto bianco sulla vittima».
«Dovrebbero chiamarsi il Loto Bianco, allora» scherzò Nearco, a disagio. Xieren lo fissò per qualche secondo, senza sapere cosa ribattere alla battuta, e il ragazzino tacque.
«Capisco» disse Kame, atono. Xieren si raggomitolò sul divano, deglutendo a fatica.
«Qui al Clan siamo al sicuro, vero?».
«Vi cerca qualcuno?».
«Nel nostro Regno è proibito seguire le discipline occidentali come il druidismo. Per cui sì, cercano me e tutti quelli come me».
«Sai usare la magia?».
Xieren annuì, ma si affrettò a specificare:
«Sì, ma sono una Strenna, un essere umano con poteri magici. Non sono una creatura non-umana di qualche tipo. Sono solo… nata così, con questi poteri».
Sparviero annuì.
«Siete al sicuro qui. Siete nel Regno di Mame, dopotutto… gli Strenna non sono più perseguitati come un tempo».
«Nemmeno da noi lo sarebbero. Sono solo le discipline occidentali il problema» chiarì la ragazzina, e Sparviero chiese curioso, appollaiandosi sulla poltroncina di fronte a Nearco:
«Quanti anni hai? E qual è il tuo nome?».
«Mi chiamo Xieren, ed ho tredici anni».
«Sei molto giovane. Hai fratelli o sorelle?».
«No, sono figlia unica».
Sparviero annuì greve, e Nearco tirò fuori il libro di botanica che avrebbe dovuto studiare per intero per l’esame; iniziò a leggerlo, mentre Kame e Xieren parlavano ancora, e la sua concentrazione era tale che non si rese conto che Sparviero lo stava chiamando fin quando non sollevò lo sguardo per errore dal libro e si accorse che il maestro lo fissava.
«Nearco, com’è andata con l’allievo di Vex? Ho bisogno dei dettagli».
«Contattatemi mentalmente e frugate fra i miei ricordi» borbottò, seccato dall’interruzione. «Vi ho raccontato già tutto».
Sparviero non si fece pregare: frugò fra i suoi ricordi della giornata come fossero un archivio, e rivisse la scena dal punto di vista di Nearco, compreso il momento in cui gli aveva dato un pugno. Apprese che l’allievo di Vex si chiamava Seifer, e si ritirò dal contatto mentale.
«Vex non è nuovo a questo tipo di sotterfugi per scoprire più cose su di me» gli spiegò, e Nearco scosse il capo.
«Non saprà nulla da me».
«Ne sono lieto. Ti ho insegnato bene» l’occhio visibile scintillò di qualcosa di simile all’orgoglio, e Nearco mal celò un sorriso. Xieren si agitò sul divano, a disagio per il lungo silenzio che era seguito a quello scambio.
«Vogliamo studiare insieme?» chiese a Nearco, e Sparviero fece cenno loro di andarsene.
«Se studiate insieme è meglio che andiate in biblioteca o in una sala comune. Qui ho da lavorare» disse, e Nearco annuì prendendo borsa e libro, guidando Xieren in una sala comune che aveva scoperto di recente: aveva ben due finestroni di cui uno rotto: non si chiudeva, per cui la stanza era sempre deserta per via del freddo… deserta a parte lui e Sinjìn ovviamente. Xieren si strinse addosso la casacca di lana e rabbrividì.
«Qui fa freddo. Perché non andiamo in un altro posto?».
«Mal sopporto le folle, e la confusione mi dà noia» rispose Nearco calmo. «Qui non ci viene mai nessuno, quindi possiamo stare tranquilli a studiare».
«Io vengo dal sud, sai? Non credo di aver mai visto la neve prima di arrivare qui» confessò, affacciandosi alla finestra rotta e rimirando il paesaggio innevato che si estendeva sotto i suoi occhi scuri.
«È fredda. Da noi nevica ogni inverno, siamo abbastanza a nord» Nearco si strinse nelle spalle. «Nulla di speciale».
Xieren allungò una mano per toccare la neve sul davanzale, e sorrise in modo un po’ buffo.
«È fredda!».
«Certo, è ghiaccio» ribatté il ragazzino, divertito. Si mise su una poltrona, aprì il libro sulle prime pagine che aveva studiato mentre lei e Sparviero parlavano, e le confessò: «Non ho mai studiato con qualcuno».
«Neanch’io».
Entrambi tacquero imbarazzati.
«Non ho ancora studiato» si scusò poi Xieren. Nearco scosse il capo.
«Non fa niente. Dai, mettiamoci a studiare ognuno per conto proprio, e se abbiamo delle domande ce le poniamo a vicenda e vediamo se riusciamo a venirci a capo».
Xieran annuì, prendendo dalla borsa lo stesso libro di Nearco e iniziando a leggerlo.
Le ore passarono silenziose, con qualche scambio di domande ogni tanto, finché Nearco non guardò l’ora e borbottò:
«Devo andare a dormire. Domani mi aspetta una giornata impegnativa».
«Cosa farai?».
«Ho il mio primo contratto».
«Sei… sei un sicario?» chiese Xieren, esitante, e Nearco fece una smorfia.
«Ho appena iniziato. Non mi definirei proprio un sicario».
«Eppure vai ad ammazzare una persona, domani».
«A dire il vero… due. Ma non importa, questo non mi rende un vero sicario. Metà del lavoro l’ha già fatto Sparviero».
«Com’è allenarsi con lui?» chiese curiosa, e Nearco si strinse nelle spalle sospirando.
«Sfiancante. L’allenamento fisico mi distrugge fisicamente, quello mentale mentalmente, e quello magico mi prosciuga di ogni energia. Ma potrebbe andare peggio… potrei essere allievo di Vex» ridacchiò, e Xieren sorrise appena.
«Allora buonanotte… o meglio, buongiorno» disse, stiracchiandosi. Nearco la guardò confuso.
«Come mai tu frequenti le lezioni notturne?».
«Di giorno aiuto mia madre con la confezione di vestiti, dormo il pomeriggio» sorrise appena la ragazzina, e Nearco sorrise a propria volta, salutandola mentre metteva i libri in borsa. Prima di andarsene si voltò, come per dire qualcosa, poi esitò e disse semplicemente:
«A domani notte, allora».
«A domani notte» sorrise Xieren, e Nearco se ne andò in camera sua con una strana sensazione nel petto.

 

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Capitolo 9
*** Capitolo IX ***


«Allora, come sto?» chiese Sparviero: il suo vestito era pressoché identico a quello di Nearco, solo che i fili, i bottoni e le catenine per chiuderli erano d’oro invece che d’argento. I lunghi capelli blu erano raccolti in una crocchia di fili d’oro e perle grige, in modo mascolino, e gli occhi viola rilucevano tranquilli e fiduciosi nell’allievo.
«Molto bene. Vi sta d’incanto» annuì Nearco, poi si passò una mano fra i capelli che aveva bagnato per portarli all’indietro: erano ricci ed indomabili, e stavano rapidamente tornando naturali.
«Anche tu stai molto bene… sembri quasi rispettabile come un adulto» lo prese in giro, e Nearco sorrise timidamente.
«Non ho mai avuto un vestito così costoso».
«Lo puoi tenere, dopo la festa. Spero sarà il primo di una lunga serie».
Sparviero si allacciò il bracciale che gli modificava il viso per far sparire la cicatrice che lo solcava, e rapidamente il volto assunse anche un filo di barba pulita e regolare. Nel notarlo, Nearco aprì la bocca e Sparviero disse, senza lasciargli il tempo di parlare:
«L’ho fatto modificare un tantino. Ho sempre voluto la barba, ora vedremo un po’» disse critico, e mentre lo osservava Nearco ne notò l’eleganza in tutti i gesti, come se avesse indossato una personalità diversa, in qualche modo più nobile. Il ragazzino si disse che un giorno, qualunque cosa accadesse, voleva diventare così; e non sarebbe mai più tornato a casa, perché semplicemente qualsiasi altro luogo era casa sua… che non fosse quella da cui era fuggito. Voleva essere libero, veloce, invisibile.
«Un giorno» mormorò Sparviero, come avesse sentito tutti i suoi pensieri. E probabilmente era così. Il viso del maestro s’addolcì un po’. Nearco aveva paura di essere scoperto, pur sentendosi assolutamente al sicuro per la presenza del maestro, così innalzò le barriere mentali e misurò l’ufficio a grandi passi.
«È quasi ora. Ripassa a mente per due minuti» gli consigliò Sparviero.
«Preferisco non ripassare» disse Nearco a disagio.
«Allora passiamo direttamente alla meditazione. Siediti».
«E se si sporca il vestito?» chiese nervosamente l’allievo.
«Siediti» ordinò perentorio Kame.
Nearco alzò un sopracciglio, tuttavia obbedì e imitò Sparviero, che si era seduto a propria volta ed aveva chiuso gli occhi.
«Ti hanno insegnato a meditare, quando vivevi ancora nel Regno Faël?».
«Non proprio?».
«Spiegati».
«Non lo so. Non ho mai fatto molta meditazione. Forse quando ero più piccolo e mio padre doveva calmare le mie crisi».
Sparviero tacque per qualche secondo, poi mormorò:
«Ti hanno insegnato qualcosa di particolare?».
Nearco annuì impercettibilmente, non sapendo nemmeno se lui lo vedesse. Avrebbe dato non sapeva cosa per poter vedere il maestro in quel momento, ma rimase con gli occhi chiusi.
«Allora lasciati scivolare nella coscienza, lentamente. Svuota la testa, non pensare assolutamente a nulla. Percepisciti».
Il resto venne da sé. Conosceva – più o meno – la procedura.
Lentamente i pensieri si annullarono, scivolarono nel dimenticatoio; e prese piede, al posto di essi, una curiosa sensazione di vuoto e soddisfazione al tempo stesso. Percepì ogni angolo di sé, e lentamente anche quella sensazione svanì lasciando il posto ad una percezione più ampia, più universale, come se riuscisse ad immaginarsi al posto di formiche e draghi al tempo stesso. E comprese che il suo posto nell’universo non era che minuscolo, infimo, in confronto a tutto il resto. Uscì da quella specie di trance senza pensieri, riposato, concentrato, pronto a tutto, e non appena Nearco aprì gli occhi capì perché Sparviero l’aveva fatto e gliel’aveva fatto fare.
Entrambi aprirono gli occhi e restarono qualche minuto in silenzio, fissando il vuoto come per riprendersi dalle sensazioni assolute che avevano appena provato.
«Prima di ogni missione» disse semplicemente Kame, e Nearco annuì.
Sparviero s’alzò in una sola fluida mossa, subito seguito da Nearco. L’allievo lasciò perdere le domande, chiedendosi poi perché tendesse sempre a complicarsi la vita, e si accorse che Sparviero, muto e immobile, fissava il sole che scendeva inesorabilmente sull’orizzonte ma ancora lontano dalla sottile linea bianca che segnava il confine dell’ignoto all’occhio, con Sinjìn al fianco in forma di lupo. Nearco si chiese se stavano parlando mentalmente, così restò zitto. Avevano tutto un pomeriggio davanti e già erano pronti… Dopotutto il ballo iniziava piuttosto presto, prima ancora che tramontasse il sole, verso l’Ora Nona. Ormai era fine inverno, e anche se faceva ancora freddo nelle altre parti del Regno più a sud, nelle Terre delle Tenebre la neve era quasi perenne.
«Non fidarti mai troppo di nessuno, Nearco» mormorò Sparviero a quel punto, e Nearco inarcò le sopracciglia.
«È un avvertimento?».
Sparviero non rispose, ma si limitò a fissarlo impassibile, con negli occhi una scintilla che l’allievo non seppe interpretare.
«Domani affronteremo le illusioni magiche: sono troppi quelli che sanno farle e troppo pochi quelli che sanno distinguerle. Devi essere uno di quei pochi».
Un bussare alla porta li interruppe.
«Oh, siete pronti» disse Vex non appena Nearco aprì la porta; quando l’uomo vide Sparviero senza la cicatrice, fece un fischio basso e lungo.
«Stai proprio bene. Una faccia intatta ti dona alquanto» ghignò.
«Vex ci accompagnerà alla festa in quanto spia. Si assicurerà che tutto vada per il verso giusto».
«Nonostante le minacce, ho comunque un debito verso di te» Vex fece l’accenno di un inchino con un sorriso di sfottò, e Nearco inclinò la testa di lato.
«Viene anche il vostro allievo?» chiese, per essere cortese, ma Vex scosse il capo.
«Non è ancora minimamente pronto per un ricevimento del genere. Anzi, mi stupisce che Sparviero ti porti con sé».
Nearco si chiese se Vex sapesse che quello sarebbe stato il suo primo contratto, ma cogliendo un’occhiata di Kame si decise a non dire nulla.
«Forse perché al contrario del vostro allievo io so cosa sia il rispetto per l’altrui persona» insinuò gelido, e Vex sorrise affettato.
«Pungente, il ragazzino. Sembra ignorare che potrei sgozzarlo con una mano sola mentre bevo una pinta di birra».
«Non ho problemi a prendere a pugni anche voi, se doveste toccarmi».
«Oh, credigli. Ha preso a pugni anche me» disse Sparviero, profondamente divertito dallo scambio fra i due, e Vex inarcò le sopracciglia.
«Ed è ancora vivo?».
«Lo vedi davanti a te, no? Direi che è vivissimo».
Vex arretrò di un passo, leggermente inquietato dalla faccenda, e Nearco sorrise in modo canzonatorio.
«Non male per uno magrolino come me, no?» chiese feroce. Sparviero gli pose una mano sulla spalla come per dirgli “basta così”; il solito pizzicore gliela rese insensibile, ma non si scostò.
Vex scosse il capo, e si lisciò l’abito: era vestito completamente di bianco, con una camicia nera sotto la giacca bianca dai bottoni dorati; le scarpe erano stivali neri che richiamavano camicia e bottoni con inserti dorati e la fibbia d’oro. Alla cintura portava una spada ed un pugnale, e Nearco posò la mano sulla propria spada, pur corta, e sul proprio pugnale. Sparviero aveva alla cintura anche lui spada e coltello, e altri due stiletti negli stivali.
«Dove andiamo di bello?».
«In uno dei Portali che ha costruito Zashat. Quello di Ther, in particolare» disse Sparviero, prendendo la propria cappa nera e chiudendola con una spilla a forma di clessidra. Anche Vex si allacciò il mantello con la stessa spilla dorata, e l’assassino porse un mantello su misura a Nearco, con la stessa spilla sulla sommità.
Nearco se lo allacciò e i tre attraversarono i corridoi luminosi del Clan, diretti al tredicesimo piano sotterraneo con il montacarichi, e una volta lì camminarono fino al portale per Ther: Vex andò per primo, Kame per secondo, e Nearco li seguì. Fu come uscire all’esterno tutto d’un botto dall’ambiente caldo del Clan: la neve scricchiolava sotto i loro stivali mentre si lasciavano alle spalle la casa vuota che fungeva da tramite e da cui erano usciti. Le strade erano silenziose e deserte, e le poche finestre illuminate si spegnevano una ad una come una lenta processione. Superarono la seconda cinta muraria di Ther, capitale del Regno di Mame, e si diressero alla sommità della collina, dove c’erano le case dei nobili più importanti e ricchi della capitale. Lì, al contrario, le luci ad olio erano tutte spente, poiché era scortese non invitare gli altri nobili ad un ricevimento: Sparviero ghignò:
«Non invidio chi aveva contratti di furto questa sera» commentò, e Vex ridacchiò.
«Già… case vuote, ma piene di insidie proprio per questo».
I tre percorsero le strade dritte e regolari del quartiere ricco di Ther fino ad arrivare ad una villa perfettamente illuminata: i cancelli del giardino erano spalancati e una successione di carrozze ne occupava l’ingresso. I tre si infilarono fra il cancello e una carrozza, camminando sul sentiero di pietre levigate perfettamente sgombro da neve e ghiaccio, mentre le carrozze sfilavano lentamente davanti ai loro occhi.
«Perché non siamo venuti in carrozza?» chiese Nearco a quel punto.
«Perché siamo non-umani, Nearco. I non-umani non vanno in carrozza».
«Ho gli stivali sporchi» borbottò il ragazzino, e Sparviero gli sorrise appena.
«Non temere, ci sarà da pulirseli».
Una volta di fronte l’ingresso della villa, i tre presentarono i propri inviti al maggiordomo, che annuì e li lasciò entrare.
Una volta dentro, Vex finse di non conoscerli e fu annunciato:
«Vex Del Crepuscolo, Ambasciatore del Clan degli Artisti».
Una serie di sussurri concitati si levarono nell’ampio salone mentre Vex scendeva le scale, e i suoi capelli dorati rilucevano alla luce delle lanterne come fossero fatti d’oro puro. I visi erano ancora voltati verso di lui con sospetto e preoccupazione quando furono annunciati gli altri due.
«Ri Syltris, Curatore del Feudo Feirmeoir, e il suo apprendista Nearco Erikson».
Si levò un timido ed educato applauso, poi gli invitati continuarono a discorrere mentre l’orchestra di orchi accordava gli strumenti in un angolo della sala.
Il sole era già tramontato da un pezzo visto che era inverno, e loro come tutti gli altri si erano presentati con un elegante ritardo di un’ora.
Kame si tenne stretto a Nearco, che era disorientato dalla folla che gli si era parata di fronte una volta scese le scale per la sala da ballo, e lo guidò fino alla padrona di casa.
«Onorati di aver ricevuto il vostro invito, milady» si presentò Kame dolcemente, con un sorriso affascinante. La lady sorrise e entrambi si inchinarono.
«Questo giovanotto dev’essere il vostro allievo, non è così?» chiese la padrona di casa, e Nearco annuì sorridendo. «Che carino. Quanti anni hai, tesoro?» chiese, allungando una mano per strizzargli una guancia, ma Sparviero rispose al suo posto:
«Dodici anni. È un uomo, ormai».
In qualche modo, la frase fece ritirare la mano alla signora, che annuì dispiaciuta.
«È così, non è vero? Ah, crescono così in fretta!».
Sparviero sorrise e Nearco sospirò, lieto di aver evitato un altro contatto indesiderato. I due si allontanarono con un leggero inchino dalla signora, e si guardarono intorno: Vex stava intrattenendo conversazione con dei dignitari che provenivano dai Regni Orientali, e loro due dovevano darsi da fare.
«Hai con te la boccetta?» chiese Sparviero, scorrendo con gli occhi sulla folla. Nearco annuì. «Bene. Va’ in bagno e incontra il nostro uomo. Ha una spilla a forma di ape sulla blusa. Fa’ presto».
Nearco annuì di nuovo e, con il cuore in gola, scivolò fra la folla come gli aveva insegnato Sparviero: seguiva il flusso di gente in una direzione e nell’altra, fino a che non arrivò ai limiti nord della sala, dove c’erano i corridoi da cui arrivavano i servi e il corridoio che conduceva ad una stanza da bagno di elegante marmo bianco e piena di decori dorati sul soffitto. Vi entrò, chiudendo a chiave la porta, e una voce gli sibilò:
«Sei tu?».
Nearco fissò lo sconosciuto: al petto portava una spilla a forma d’insetto, un’ape come gli aveva detto Sparviero. Nearco fece un cenno affermativo e tirò fuori la boccetta di veleno mentre il servo gli indicava il vassoio posato sul lavabo: c’erano solo due bicchieri, due flûte che contenevano per poco meno di metà un liquido chiaro e dall’odore fruttato.
«Il piano è questo: tu vai da loro e porti da bere. Al resto penso io» gli disse Nearco, a disagio, versando mezza boccetta in ogni bicchiere: questi si rabboccarono fino a raggiungere la pienezza per tre quarti tipica dei bicchieri che aveva visto fino a quel momento.
«Spero per te che ci sia anche il tuo maestro con te, altrimenti sei fottuto, amico» mormorò il servo, asciugandosi il sudore dalla fronte.
«Non vorrai tirarti indietro, spero» sibilò a denti stretti Nearco, minaccioso. Il servo scosse il capo.
«La mia padrona mi ammazza se scopre che ho fallito. C’è dentro anche lei con tutte le scarpe, cosa credi?».
Nearco finse di averlo sempre saputo, e annuì.
«Immaginavo che ci sarebbero state conseguenze per te. Vai, e sii coraggioso».
A quell’ora Sparviero doveva aver già raggiunto i due obiettivi… probabilmente stava intavolando un’amabile conversazione su come le mele stessero germogliando quell’anno, o qualcosa del genere. No, che stupido che era: quella era una conversazione che avrebbe potuto fare lui. Solo uno fissato con le piante avrebbe saputo che i semi di mela germogliano in inverno invece che in primavera, e quello era lui. Probabilmente Sparviero stava parlando di politica.
Si aggiustò la giacca ed uscì dal bagno, mentre il servo prendeva il vassoio e si dirigeva verso il corridoio dei servi.
«Quanto mi hai aspettato?».
«Oh, il necessario. Forse quasi un’ora».
Nearco fece un cenno affermativo e i due si separarono. Il ragazzino percorse la sala evitando le danze che si erano aperte nel frattempo e si diresse in giardino per una boccata d’aria. Senza il mantello faceva un gran freddo, nonostante il porticato li coprisse dalla neve che aveva ricominciato a cadere; più in là, dove le lampade ad olio rischiaravano appena l’oscurità notturna, c’era un gruppetto di quattro o cinque uomini adulti, fra cui Sparviero. Tutti lo fissavano in maniera sospettosa per via dei capelli blu e degli occhi viola, ma nessuno sembrava abbastanza maleducato da lasciare la conversazione per quel motivo. Nearco si avvicinò a loro e studiò i quattro uomini: due erano in carne, probabilmente nobili, e gli altri due seppur magri sembravano rilassati e molli nei modi almeno quanto i primi.
«Com’è il Regno Faël in questa stagione? Ho una casa di villeggiatura sul lago di Aror… in estate è magnifico poter fare il bagno al lago, dà una frescura meravigliosa» commentò uno dei due nobili, quello con gli occhi castani. Sparviero sorrise affabile e commentò:
«Oh, il Regno Faël è meraviglioso in questa stagione. I bambini giocano con la neve e i nomadi sono ben accolti dal popolo, che provvede a fornir loro legna da ardere in cambio di ninnoli e pentolame».
«Che adorabile scena bucolica» sorrise uno dei due uomini magri, e in quel momento arrivò il cameriere che Nearco aveva incontrato in bagno: portava due vassoi, uno con quattro bicchieri e l’altro con i due avvelenati. Al ragazzo balzò il cuore in petto: eccoli alla resa dei conti, dunque. Dal momento che Nearco, Sparviero e i due nobili erano i più vicini all’entrata, furono serviti per primi dal vassoio con quattro bicchieri; e ai restanti due ospiti non restò che accettare il loro destino già segnato.
Tutti sollevarono i propri flûte per brindare, senza farli toccare fra loro.
«Alla festeggiata» propose Sparviero, tranquillamente, e gli altri annuirono.
«E all’alcol» disse l’altro uomo magro, che fino a quel momento non aveva parlato. «Causa di e soluzione a tutti i problemi» rise, e insieme tutti bevvero.
Sparviero prese a discutere di politica estera con i nobili in modo affabile e sempre con il sorriso sulle labbra, cortese ma non del tutto, un po’ tagliente nelle risposte per via del vago velo di disprezzo che avevano i due umani negli occhi.
Alcune dame si avvicinarono al porticato, nascoste sotto dei copri-spalle di pelliccia per combattere il freddo; la musica era appena finita e Nearco si fece coraggio: avrebbe chiesto a qualcuna di ballare, così da far trascorrere in fretta il paio d’ore che ci avrebbe messo il veleno a fare effetto. Sparviero parve avere la stessa idea quando vide le dame.
Entrambi si avvicinarono al gruppetto e Sparviero si inchinò di fronte alla più bella, una ragazza che sembrava avesse circa vent’anni, con i capelli raccolti in morbidi riccioli; vedendo che le veniva richiesto un ballo da un non-umano storse un po’ il naso, ma accettò ugualmente per non risultare scortese. Nearco allora si avvicinò alla più più piccola del gruppo, forse di tredici o quattordici anni, e si inchinò.
«Milady, potete concedermi questo ballo?» chiese educatamente, e la ragazzina sbirciò timidamente le sue orecchie a punta prima di acconsentire.
Le due coppie così formate si andarono a posizionare nella sala, e quando iniziò la musica cominciarono anche le danze. Sparviero sorrise in un modo che fece pensare ad un qualche predatore, e la sua compagna di ballo arrossì fino a diventare quasi fucsia; Nearco li osservò, cercando di non pensare al dolore che sentiva alle mani a contatto con la ragazzina di cui non conosceva il nome.
Lentamente, Sparviero portò le mani sulle braccia della ragazza, baciandole con dolcezza il collo. In mezzo alle danze nessuno notò il gesto, e in un attimo i pendenti alle orecchie della ragazza furono nelle tasche del principe, seguiti subito dopo dalla collana e dai bracciali. Nearco batté le palpebre, stupefatto: come aveva fatto? E soprattutto, come poteva la ragazza non essersene accorta?
La ragazza non si era ancora accorta di nulla, ma sul finire del ballo iniziò a girarle la testa, così Sparviero, pieno di premure, la accompagnò al tavolo delle vivande e le diede da bere un flûte di quell’alcol fruttato; lei accettò volentieri e in breve lui si procurò un’altra dama con cui ballare e da ripulire. Andò avanti per un po’, finché la musica durava, approfittando del fatto che fossero tutti abbastanza alticci da non notare più l’assenza o la presenza della maggior parte dei ninnoli che avevano portato alla festa.
Interrompendo le danze e lasciando la propria dama ad un altro cavaliere, Sparviero si procurò da bere e si tenne vicino all’ingresso del giardino, tenendo d’occhio gli obiettivi. Educatamente, finse di partecipare ad una discussione sui migliori cavalli dei Tredici Regni che stava avvenendo lì vicino, senza dire veramente qualcosa di significativo, e diede una scorsa alla sala.
Nearco, accompagnato ad una piccola lady dai capelli biondi, discuteva con alcuni ragazzi di poco più grandi di lui, probabilmente anche lui di cavalli. Sparviero si avvicinò lentamente, senza entrare nella conversazione, e la discussione si perse sulle varie razze di cavalli, quelle che ognuno di loro riteneva le migliori: i cavalli isarniani erano i migliori velocisti, quelli mamiani erano i migliori per i lavori nei campi, quelli di Ewerynd avevano poteri magici… Sparviero scoccò un’occhiata all’orologio che campeggiava sulle scale della sala, vagamente annoiato, e il servo loro complice si avvicinò offrendo un drink a Nearco e Sparviero, ultimi due bicchieri del vassoio.
Nearco diede un’occhiata all’orologio e poi vagò con lo sguardo per il salone, come cercando qualcuno; scusandosi cortesemente, disse di aver visto una propria conoscenza dirigersi in giardino. Sparviero continuò a discorrere con il gruppo di giovani, poi si allontanò scusandosi per parlare nuovamente con la festeggiata che si stava avvicinando al giardino come Nearco.
«Le ho già detto che lei è incantevole stasera? Più del solito, intendo» la adulò Kame, sorridendo, e la signora arrossì pur sotto il pesante trucco di cipria che le impolverava il viso.
«Oh, Sir Ri, non esageri».
«Questa festa è meravigliosa. I miei complimenti anche per essa» sorrise, aprendole le porte del giardino. La signora uscì fuori, poi alzò le mani e scosse il capo.
«No, no. Fa troppo freddo. Io entro. Lei resta fuori?».
«Oh, sì. È meglio così. Mi trovo a mio agio nel freddo e nel gelo» disse, e un bagliore inquietante gli passò negli occhi viola. La nobildonna rabbrividì.
«Buona continuazione allora» gli fece un sorriso educato, e Sparviero si avvicinò a Nearco e ai loro due obiettivi. Entrambi non sembravano star molto bene.
«Signori, va tutto bene? Vi vedo un po’… scossi» mormorò Sparviero, come in confidenza.
«Ma certo» abbozzarono un sorriso, e quello con gli occhi scuri si schiarì la voce. «Allora, ragazzo… cosa hai detto che studi?».
«Oh, in generale magia. Sono un mezz’elfo».
«Capisco» disse. «Che branca?».
«Di tutto: illusione, attacco, difesa…» rispose Nearco, impacciato. I due uomini si guardarono intorno e trovarono un posto in cui sedersi. Gli tremavano le mani, avevano le pupille estremamente dilatate, e respiravano a fatica, come avessero un macigno sul petto. Nearco li guardò affascinato, cercando di non lasciar trasparire nulla di ciò che provava all’esterno.
«Signori, sicuri che vada tutto bene?» chiese Sparviero, inquieto.
«Certo» rispose quello dagli occhi grigi, e l’altro tentò di far continuare la conversazione.
«Che ne pensate del Clan degli Artisti? Di quell’ambasciatore che ha fatto il suo ingresso in maniera così teatrale…».
«Non mi è parso un ingresso diverso dagli altri. È stato annunciato, ha sceso le scale» obiettò Nearco, non capendo.
«Parlavano tutti» commentò quello dagli occhi scuri. «come fosse sceso il Re in persona per questa festicciola da due soldi».
«Questo è molto scortese da parte vostra» fece notare Sparviero, con un leggero sorriso sulle labbra.
«Vi rendete conto che Kame ha fatto non meno di mille vittime in vent’anni?» l’uomo dagli occhi scuri sputò il suo disprezzo in una sputacchiera.
«Sono certo che è soltanto uno qualunque» disse Nearco, cortese. «Uno come me e voi, che però si è fatto strada nelle tenebre».
«Ve lo immaginate? Nient’altro che un uomo. Solo un uomo» commentò quello dagli occhi grigi.
«Si dice sia un non-umano, però» osservò Sparviero.
«Sì, d’accordo, un non-umano… ma comunque un uomo. Solo un uomo, eppure con così tanto potere da poter annientare un paese… un Regno. Incredibile. Un assassino a capo di un Clan Reale. Inaudito» commentò l’uomo dagli occhi scuri. Nearco spostò il peso da un piede all’altro, a disagio. Quand’è che sarebbero morti?
Un cameriere si avvicinò a loro e offrì loro ancora da bere; Sparviero prese il calice, ma Nearco rifiutò gentilmente: non poteva permettersi di ubriacarsi, e a poco valeva contro la sua paura la rassicurazione della spugnetta magica che avevano ingoiato prima di recarsi alla festa.
«Dèi se fa caldo… non sentite caldo anche voi?» mormorò a denti stretti l’uomo dagli occhi chiari, e Sparviero li guardò stupito: erano effettivamente madidi di sudore, con le pupille dilatatissime nonostante le luci della sala che penetravano dalle enormi vetrate.
«Ho anche l’impressione di vedere meno» sussurrò il suo compare, e Sparviero riprese la conversazione, con un sorrisetto soddisfatto.
«Secondo me, quando Kame era solo un bambino, nemmeno immaginava tutto ciò… Ve lo immaginate? Un potente assassino come quello, un tempo era solo un ragazzino con amici e sogni e giochi» commentò Sparviero, e i due uomini lo fissarono senza capire. «Certo è che ora è qui…» mormorò, bevendo dal proprio calice.
«Qui, in quest’epoca… qui in questo tempo. Qui in senso figurato…?» mormorò uno dei due, e Sparviero sorrise come un lupo, in maniera del tutto inquietante. I due uomini parvero avere un istante di intuizione, perché si sollevarono di scatto come per iniziare a correre, ma persero l’equilibrio e riprecipitarono seduti scompostamente, come bambole di pezza.
«Sei tu!» sibilò uno dei due ex-sicari.
«Non siete voluti entrare nel Clan degli Artisti quando ne avete avuta l’occasione… vi avremmo protetti dalle ritorsioni dei vostri vecchi mandanti» commentò Sparviero, finendo il contenuto del bicchiere. Nearco fissò i due in modo morboso, non voleva perdersi nemmeno un attimo di quella condanna a morte. I due stavano cominciando ad avere degli spasmi che gli muovevano involontariamente le mani, e i visi erano paonazzi mentre il fiato era sempre più corto, come avessero un peso sul petto. Il primo a irrigidirsi e poi mollare la presa sulla vita fu quello con gli occhi chiari: la vita lo lasciò soffice e cadde all’indietro senza appoggio, oltre il muretto, nel giardino. Il secondo gettò uno sguardo al primo, con gli occhi colmi di tristezza, e lo seguì, appoggiato alla colonna come se dormisse ad occhi chiusi e bocca aperta, con il labbro penzoloni non più vivo. Sparviero lo spinse delicatamente per farlo stare assieme al suo compagno, non visti dal resto degli ospiti.
Il resto della serata trascorse tutto sommato piacevolmente, e quando fu ora di andarsene Sparviero, Vex e Nearco furono gli ultimi a salutare la padrona di casa.
«Spero la serata sia stata fruttuosa» sorrise la donna, accettando il baciamano di Spaviero, e lui sorrise in modo inquietante.
«Oh, ma certamente milady. Non vedo l’ora di rivederla il prossimo anno. Vi consiglio una pulizia accurata del giardino» scoccò un’occhiata all’entrata dello stesso, e lei annuì, stringendo appena le labbra: ai nobili non piaceva parlare d’omicidio, li faceva sentire sporchi; per questo assumevano altre persone per farlo al posto loro.
Insieme, i tre si dileguarono nell’ombra, tornando al Clan degli Artisti.
Vex chiese freddamente, una volta lì:
«Allora, com’è andato il Patto col Demone?».
«Domani ci pagano… prima paga per lui, prima tassa da pagare, prime emozioni» commentò Sparviero cauto, studiando l’allievo: era pallido e taciturno, forse scioccato dalle implicazioni di ciò che aveva fatto. O forse si stava immaginando le cose. In ogni caso i due si separarono da Vex e andarono nella stanza di Nearco, dove il ragazzino si spogliò con calma, mentre Sparviero si sedeva alla scrivania e lo fissava in silenzio, chiedendosi se dovesse aspettare una reazione o se dovesse scatenarla lui.
«Cosa provi, ora che hai ucciso ben due persone?» si decise a chiedere, una volta che Nearco fu in mutande e con il maglione largo e nero indosso. Il ragazzino si strinse nelle spalle.
«Nulla. Non provo nulla. Credevo… sarebbe stato diverso. Credevo che sarei stato felice di avercela fatta, e invece… non provo niente di niente».
«Credevi che saresti stato felice?» chiese Sparviero, scettico. Poi scosse la testa. «Uccidere non è un giochetto, e non è qualcosa su cui smaniare. Te l’avrò ripetuto una decina di volte. “Ti spaventerai e te ne andrai”. È questo che provi? Sei spaventato, ora?».
«No!» esclamò Nearco, sulla difensiva.
«Per gli dèi, dovrai pur provare qualcosa!» esclamò Sparviero di rimando, quasi ringhiando. Il suo bel volto era sfigurato dalla collera, e Nearco notò che non si era ancora tolto i bracciali.
«Non provo assolutamente nulla» disse, e Sparviero sospirò.
«Facciamo così. Ti racconto le informazioni che so sugli obiettivi. È naturale che non provi nulla per persone che non conosci, ma sono certo che la cosa cambierà quando saprai la loro storia».
Nearco lo guardò scettico, ma non fiatò. Si sedette sul letto e si predispose all’ascolto.
«Non conosci neanche i loro nomi. Frank Samson e Gerald Grimes sono stati degli assassini brillanti, ai loro tempi. Purtroppo avevano la nomea di truffatori, perché ogni dieci colpi buoni ne accettavano uno impossibile da compiere e prendevano la prima metà della somma pattuita sparendo senza lasciar traccia, e senza compiere l’omicidio prestabilito. Dalle ricerche che ho fatto, ho potuto notare quanto quei due avessero un rapporto che rasentava l’amore, più che l’amicizia o la mera collaborazione in affari».
Nearco lo fissò stupito.
«Si amavano?».
«Oh, sì. Più di ogni altra cosa al mondo. Si sono ritirati due anni fa in una fattoria vicino Ther, dove conducevano un’esistenza semplice per far calmare le acque dopo il loro ultimo colpo truffaldino. Poi hanno voluto strafare: si sono comprati una carta nobiliare e una casa in città, frequentando feste e facendosi notare… i mandanti non erano molto contenti di scoprire che erano ancora vivi, e così hanno voluto rimediare».
«Non provo ancora nulla».
«Non ho finito».
Nearco tacque, contrariato.
«Insieme, avevano adottato tre bambini. Uno più bello dell’altro: Anna, Jamie, e Todd. Boccoli biondi, occhi azzurri e guance morbide. Ora sono soli, ad aspettare i loro papà, che non torneranno mai più. Per mano tua, Nearco, sono morte delle persone vere, che amavano, vivevano fino a poche ore prima. Sei sicuro che questo non ti causi nulla?».
A Nearco si torse qualcosa nello stomaco.
«Cosa ne sarà dei bambini…?» chiese, con un filo di voce.
«Beh, non hanno altri parenti… finiranno in mezzo ad una strada, maltrattati da chiunque passi. O potrebbero finire al Clan, fra qualche anno, quando si procureranno da mangiare topi di fogna e carne di drago e sarà la loro unica via per avere una vita dignitosa. Le possibilità sono infinite».
Nearco si chinò in avanti e chiuse gli occhi. Cercò di sopprimere la sensazione di oppressione al petto che gli aveva provocato quella storia, più sui bambini che altro, e mormorò:
«Penso di stare per vomitare».
«Per carità, fallo nel vaso da notte» disse Sparviero con calma, e Nearco si diresse in bagno di corsa, vomitando tutto ciò che aveva mangiato e bevuto alla festa, compresa la spugnetta magica. Sparviero lo seguì e gli pose gentilmente una mano sulla schiena, mentre Nearco singhiozzava.
Per la prima volta, il contatto non gli causò dolore né pizzicore né fastidio. Semplicemente un contatto della mano calda di Sparviero sulla sua schiena, nulla di più e nulla di meno. Grato per quella presenza nella sua vita, si asciugò il naso con la manica del maglione, singhiozzando, e Sparviero chiese esitante:
«Posso darti un abbraccio? Sembri averne un gran bisogno».
Nearco annuì appena e Sparviero lo avvolse fra le braccia. Nearco premette la guancia sul suo petto, ascoltando il suo cuore calmo, e pianse un altro po’.
«Ma non vorranno vendicarsi? A che pro farli entrare al Clan?» chiese il ragazzino poi, con voce tremante.
«Oh, la faccenda verrà insabbiata molto presto. Abbiamo dalla nostra i nobili, che faranno in modo di spargere la voce che è stata una reazione avversa a qualche cibo particolare servito alla festa».
Nearco annuì appena e sciolse l’abbraccio, sospirando.
«Grazie, maestro» mormorò, tirando su con il naso. «Queste cose le avrei scoperte io facendo quella parte di lavoro al contratto che avete fatto voi?».
Kame annuì.
«Ora riposa. Domani ti darò la tua paga» promise, e detto ciò uscì dalla stanza con uno svolazzo di mantello, lasciando Nearco solo con Sinjìn. Il gatto, per essere di conforto, si raggomitolò su di lui facendo le fusa non appena si mise sul letto, e insieme si addormentarono.

 

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