Castelli di sabbia

di I am on my way
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Un giorno, tre autunni ***
Capitolo 3: *** Tabù ***
Capitolo 4: *** 12 minuti di codardia ***
Capitolo 5: *** Inspira, espira ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Prologo
 
  
Mi guardo allo specchio da almeno dieci minuti. Cerco di imprimermi l'immagine del mio corpo nudo, di adesso, voglio stamparmelo bene in mente, voglio fissare la piccola voglia color caffè-latte a forma di goccia che ho sul basso ventre. Voglio osservarmi di profilo per almeno un'altra ora. Voglio rimanere qui, così, fino a che non mi faranno male le gambe, fino a che non sarò costretta ad afferrare la canottiera crema abbandonata in bilico sul bordo del letto, che sembra quasi si stia disperatamente aggrappando alle lenzuola bordeaux pur di non cadere.
Continuerò a fissare il mio corpo, finché non scoccheranno le diciotto di sera e allora mi avvicinerò alla scrivania, guarderò il passaporto consumato e sbiadito dal tempo e lo infilerò nella tasca leggermente scucita della mia valigia nera.
Ma fino ad allora lascio che il bagaglio resti atterra con la zip aperta, lascio che il mio portafoglio rimanga sulla poltrona color panna, chiuso, a nascondere la nostra foto, quella che non ho mai avuto il coraggio di gettare via, ma che tante volte ho desiderato bruciare.
No, oggi non voglio far altro se non contare i pochi nei che ho sulle gambe o sulle braccia, otto in tutto, o osservare i miei fianchi troppo poco pronunciati per i miei gusti.
Oggi voglio guardarmi un'ultima volta prima che la mia vita cambi definitivamente, voglio scolpirmi questa visione, perchè forse non l'avrò più.

«Non riesco a dondolare» singhiozzo. In realtà sono almeno cinque minuti che mi lamento, e sto per mettere il broncio al mio amico, che invece si sta divertendo sull'altalena mentre canticchia sottovoce la sigla di un cartone animato di cui ora mi sfugge il nome.
Sta solo facendo finta di non sentirmi, lo so.
«Mi ascolti?!» urlo spazientita, sono arrabbiata, insomma, non può ignorarmi, sono a due centimetri da lui.
L'altalena del biondino si blocca e mi guarda per qualche secondo, sorridendomi. Mi piacciono tanto i suoi occhi, sono blu, blu come intorno alle stelle.
Sì, perchè accanto alle stelle il cielo è più chiaro, lo so, ogni anno con mio nonno il nove agosto ci stendiamo sull’amaca dal motivo fiorato, dondoliamo piano piano e lui mi racconta qualche storia su miti greci o romani, mentre attendiamo di esprimere qualche desiderio
E’ lì che ci ho fatto caso, che ho visto che vicino alle stelle il blu è più candido, sembra quasi celeste.
«Che c'è?» mi domanda lui tranquillo, come se non si fosse accorto che lo sto chiamando da diversi minuti.
«Voglio dondolare anche io» piagnucolo tirando su col naso, mentre una coccinella si posa sulla gamba di lui. Cammina per pochi centimetri, poi come è arrivata se ne va, in silenzio.
«E fallo, cosa vuoi da me?» mi risponde malamente, riprendendo a fare su e giù, ignorandomi di nuovo.
Stavolta mi sento seriamente ferita, gli occhi iniziano a bruciarmi e li strofino con forza, perchè non voglio che un bambino più grande di me mi veda piangere, nemmeno se è il mio amico.
«Non posso» sussurro, poi sollevo la caviglia destra fasciata da una garza bianca «mi fa male» e stringo le mani attorno alla catena - spruzzata di ruggine - del dondolo.
Il biondino alza gli occhi al cielo.
«Wendy è solo una distorsione»
«Sì ma è dolorosa!» solo perchè ha tre anni in più di me non vuol dire che sappia quanto male faccia, è una cosa grave, il dottore mi ha anche detto di non sforzarla e di restare a riposo. Nessuno, però, sia dentro casa che fuori, sembra prendere la cosa seriamente.
«Uffa – si lamenta, scuotendo la testa – e va bene ti spingo io.»


Uno sbuffo esce dalle mie labbra screpolate, mentre penso che ci ho messo anni per accettare le mie forme, anni per smettere di criticarmi e iniziare ad amarmi, anni per riuscire a vedermi realmente come sono. Ci ho impiegato fin troppo tempo a capire chi fossi, cosa volessi dalla vita, e come. Ma adesso tutto questo sta per essermi strappato via e… Ho paura.
Nulla di quello che avevo pensato per il mio futuro si sta realizzando: stretta in una vita che non mi appartiene, credevo che peggio di così non potesse andare. E invece eccomi qui, dopo aver toccato il fondo, incapace di lasciar andare quest'immagine di me stessa, incapace di accettare il cambiamento che di qui a breve avverrà, di accettare il matrimonio che mi aspetta il ventisette settembre.
Mi sento come fossi stata condannata a morte.

Finalmente mi sento realizzata, sto andando sull'altalena mentre le mani di Niall mi danno piccole spinte: mi sembra quasi di poter toccare il cielo con un dito. La giornata improvvisamente non è più così afosa e se prima non tirava un filo d'aria, adesso il vento quasi mi fa lacrimare gli occhi.
«Va bene così?» mi domanda paziente. La cosa che mi piace tanto di Niall è che non si arrabbia mai, mi tratta sempre bene e non mi sgrida, a differenza di mia mamma e di mia sorella, lui è gentile con me, anche se ha undici anni.
«Più in alto» dico semplicemente, e lui inizia a farmi dondolare più forte.
Restiamo entrambi in silenzio; solo il cigolio dell'altalena e il mare poco più in là disturbano la calma piatta del parco giochi vuoto a quest'ora, perchè  mentre all'una del pomeriggio gli altri bambini stanno mangiando,  io posso restare fuori casa con il consenso di mamma, che «dato che domani partiremo e quindi rivedrai Niall solo tra nove mesi, puoi restare a giocare con lui tutto il tempo che vuoi, basta che non ti allontani troppo da casa.»
«Ti è caduto qualcosa dalla tasca» la voce di Niall sovrasta il frinire di una cicala e i miei pensieri, mentre d'un tratto la mia altalena si ferma.
«Ehi!» protesto, poi vedo la sua mano raccogliere un  foglietto di carta accanto ai miei piedi.
«Cos'è?» mi domanda curioso, sbirciando il pezzo di carta.
«Ridammelo!» urlo arrabbiata, non può leggerlo, sono cose personali quelle.
«È una lista dei desideri?»
Divento tutta rossa, e senza pensarci due volte scendo dall'altalena tentando di afferrare il mio piccolo segreto «s-sì, però non leggerla!»
Lui non mi ascolta, alza il braccio, togliendo il foglio di quaderno dalla mia portata e sorride, mentre io sto per mettermi a piangere.
«Ridammelo» ripeto stavolta più ad alta voce.
«Posso tenerlo?» chiede riportando il suo sguardo color pervinca su di me.
Io lo guardo sorpresa, sbarrando leggermente gli occhi arrossati.
«Perchè? No! È una cosa personale» ma mentre lo dico mi chiedo se lo sia ancora, lui ormai l'ha letta.

Allora Niall ci pensa su qualche secondo, poi sorridendo mi dice «perchè quando sarò adulto te li realizzerò uno ad uno, d'altronde sono quello più grande, ho delle responsabilità io!»

Mi passo le mani sul volto sospirando, poi con calma, come se avessi tutto il tempo di questo mondo, afferro i jeans neri.
Tempo. Come vorrei che si bloccasse, come vorrei che smettesse di scorrere, anzi, vorrei tornare a quattro anni fa, a quella sera di agosto, a quella notte che ha segnato la mia condanna a morte. E preferirei davvero esserlo, intendo morta, perchè da allora è stato un continuo sbandare, andare alla cieca e non ritrovare più la strada.
È colpa sua se sta accadendo tutto questo.
È colpa sua se io sto tornando.
È colpa sua se tra poco odierò tutti i ventisette settembre che verranno.
È colpa sua e io ho bisogno di poterglielo rinfacciare ora, prima che sia troppo tardi.


 

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Capitolo 2
*** Un giorno, tre autunni ***


Un giorno, tre autunni


Wendy

Un giorno ricordo di aver letto, in un vecchio libro che avevo trovato in cantina, un breve detto cinese che recitava così:一日三 秋
La traduzione sarebbe “un giorno, tre autunni”,  è un proverbio usato quando ti manca qualcuno così tanto, che un giorno pesa come fossero tre anni.
Mi chiedo se chi l'ha scritto avesse la propria amata lontano, perchè certe cose per poterle affermare le si deve provare.
La verità è che da quando ho lasciato Oxford, da quando sono entrata in aeroporto, da quando sono atterrata a Clevedon e ho messo piede nel piccolo taxi nero e macchiato dalla pioggia estiva, non faccio altro che chiedermi perchè questi miei quattro anni mi siano sembrati così lunghi. È come se avessi vissuto centinaia di inverni, migliaia di estati puntellate da infiniti attimi di solitudine.
Sospiro, socchiudendo gli occhi. Ho davvero il diritto di sentirmi sola? Ho davvero il diritto di paragonarmi a chi è solo davvero? Sono quattro anni che mi faccio queste domande, quattro anni che non trovo risposte, e so che oggi non sarà diverso.

Mi rigiro il solitario d'oro bianco che porto all'anulare, mentre il tassista canticchia sottovoce un motivetto che mi è sconosciuto.
Fidanzata. È questo quello che sono.
Sposata. È quello che sarò presto.
Al solo pensiero una fitta allo stomaco mi fa quasi piegare in due.
Da bambina, in verità, non vedevo l'ora di legarmi a qualcuno per tutta la vita, perchè ho sempre avuto paura di invecchiare senza nessuno accanto, paura di trovarmi in un appartamento vuoto, in una stanza d'albergo sola. Mi piaceva l'idea di avere una persona che si prendesse cura di me.
Ne ho sempre avuto bisogno, intendo che qualcuno si preoccupasse per me. Ma invece ora sono qui, in un taxi, affranta, svuotata, stanca. Sì, perchè questo matrimonio io non lo voglio. Mi spaventa più dei ragni, più del buio, più di invecchiare in un letto freddo senza nessuno vicino.
Mi spaventa almeno quanto mi spaventa ciò che mi porto dentro.
Quando sei ragazzina fai mille progetti, hai centinaia di sogni e speranze, li porti avanti con cura e gelosia, cerchi di conservarli e preservarli intatti.
«Credici» mi hanno detto fin da subito, quando avevo ancora cinque anni ed ero debole, pronta a cadere nella trappola delle parole, «credi nei tuoi sogni, e allora nessuno ti potrà fermare».
La verità è che mi hanno insegnato a sognare, a farlo in grande, ma non mi hanno insegnato come affrontare una scommessa persa, una porta sbattuta in faccia; nessuno mi ha detto come comportarmi dopo aver visto il mio sogno in mille pezzi davanti a me, non mi hanno spiegato come ricostruirlo pian piano, nessuno mi ha avvertita di quanto potesse fare male averlo là, in frantumi.
E ora io non so cosa fare, non so se sia la cosa giusta riporre l'anello di fidanzamento nella tasca dei miei jeans, né se sia giusto che il mio cuore stia battendo all'impazzata al solo pensiero di tornare a Clevedon. Ma il mio anulare sinistro adesso è vuoto e il mio respiro è accelerato, agitato. Non mi sento neanche in colpa per tutto ciò, l'emozione sta avendo la megli, e io voglio solo dimenticare la data del ventisette settembre, Jared, e ciò che mi porto dietro.
E allora, mentre osservo le vallate inglesi piegate dal temporale e ascolto il tassista continuare a fischiettare quel motivetto irritante, mentre inizio ad intravedere il mare, laggiù, poco dietro quelle colline, mi ritorna in mente la mia voce acuta, squillante, di quando avevo nove anni e l'immagine di me da bambina prende il posto delle spiagge, le onde che si infrangono sostituiscono il ticchettio della pioggia e io sono di nuovo bambina.

«Guarda che quella parte sta crollando» lo ammonisco, puntando l'indice contro il lato sinistro del castello di sabbia.
I miei piedi nudi sono zuppi delle onde che ritmicamente ricoprono il bagnasciuga, i capelli biondi e umidi di Niall sono incollati alla sua fronte, le nostre mani continuano a scavare buche per ricreare il fossato attorno al castello. Lui è più veloce di me ad intaccare la sabbia, i suoi polpastrelli si muovono rapidi, le sue braccia da dodicenne hanno più forza delle mie.
«Meglio, così sarà una fortezza diroccata» dice, sorridendo trionfante di quell'affermazione.
Io alzo gli occhi al cielo. Maschi, hanno la passione per le cose rotte, distrutte, rovinate e macabre. Mentre mi chiedo il perchè, mi siedo sui talloni, stanca di continuare a togliere o mettere sabbia e guardo Niall finire il lavoro al posto mio.
Lo osservo mentre rifinisce le guglie del castello o rende più profondo il fossato, è bravo. Lui è il fratello che non ho, penso.
«Direi che è perfetto» sorrido compiaciuta «sembra un castello incantato».
Entrambi lo guardiamo e a me sembra un piccolo capolavoro, altro che i lavoretti che facciamo a scuola.
«Detto così sembra una cosa da femminucce» si lamenta Niall, lasciandosi cadere sulla sabbia.
Io lo imito, pensando se sia il caso che gli risponda o meno, ma una domanda preme sulle mie labbra e io non riesco a trattenerla, quasi fosse questione di vita o di morte.
Allora glielo chiedo, curiosa come sempre «Niall, se tu potessi scegliere, che super-potere vorresti avere?»
«Mmh» temporeggia «vorrei poter essere invisibile! Così potrei intrufolarmi in cucina ogni volta che voglio e mangiarmi tutti i biscotti nella credenza» lancia un sasso nel mare «e tu?» mi chiede poi.
Io poggio il mento sulle mie ginocchia e, mentre guardo un gabbiano planare sull'acqua, dico «io vorrei avere le ali per volare».


Mi sposto una ciocca di capelli che mi è finita davanti gli occhi.
È incredibile come certi particolari si imprimano nella nostra memoria e non si riesca a cacciarli via neanche dopo anni. Mi rendo conto che, ultimamente, sono diventata un magazzino di immagini e conversazioni che dovrebbero essere sepolte in qualche angolo del mio cervello, ma che invece sono qui, esattamente al centro.
«Le dispiace proseguire per quella via?» gli domando indicando con il dito la strada alla nostra sinistra.
«Ma così allunghiamo» obietta.
«Non importa» dico senza aggiungere altro.
E lui esegue, va avanti e lascia che i pini della riserva poco più in là vengano sostituiti da un muro in pietra di guano. Una costruzione grande, forse troppo per essere definita casa, inizia a  comparire da dietro le alte palme del giardino: è esattamente come la ricordavo, con le pareti in stucco bianco, il tetto grigio fumo e le ampie vetrate del salone che si affacciano verso la strada. È immensa e bellissima.


 
Niall



«Niall, dove stai andando?».
Mia madre mi sta guardando da in cima alla scalinata di mogano, appoggiata alla ringhiera in ottone d'orata e nera. Tiene le mani posate in grembo e indossa un vestito bianco a fiori rossi che le mette in risalto l'esile figura; i capelli, neri come la pece, sono raccolti in uno chignon ordinato, le labbra color fuoco socchiuse e gli occhi azzurri che mi squadrano. Potrebbe benissimo essere uscita da un film degli anni '50. Un film di quelli in cui la protagonista è una donna sulla quarantina, frustrata perchè il suo ricco marito la trascura, passando più ore a lavoro che in casa e dove magari il figlio fa di tutto per deluderla. Sì, potrebbe essere uno di quei film in bianco e nero che andavano in onda più di sessant' anni fa.
«Allora?» mi ripete, picchiettando con l'indice smaltato di bordeaux sulla ringhiera. Indugia con lo sguardo sui miei jeans sbiaditi e la maglietta nera un po’ stropicciata, poi guarda le chiavi della macchina che tengo nell'anulare sinistro.
«Mi vedo con gli altri al bar, in piazza» dico facendo spallucce, mentre mi accingo a uscire di casa velocemente.
So che avrà da ridire ma forse, se scappo prima che parli, me la potrei cavare semplicemente con una sua occhiata minacciosa e ammonitrice.
Ma no, le sue labbra sono più veloci della mia mano e non mi lascia il tempo neanche di aprire la porta, che la sua voce rimbomba nell'immenso salone, troppo grande per tre persone.
«Non avevi detto che avresti controllato gli opuscoli delle università? Quelli che ti avevo lasciato sulla scrivania l'altro giorno?»
Mi volto di nuovo verso di lei. È scesa di un gradino e la luce, che filtra dalla tenda scura della grande vetrata che dà sul retro del nostro giardino, le disegna parte dello zigomo.
Improvvisamente mi rendo conto di quanto sia invecchiata, lo capisco dalle rughe intorno alla bocca e agli occhi che ha cercato di nascondere col trucco.
«Lo farò stasera quando torno» mormoro tagliando corto. So che sto mentendo, so benissimo che, salito in camera mia questa sera, prenderò quegli stupidi volantini e li getterò nel secchio accanto alla mia scrivania, perchè io la mia domanda già l'ho mandata, sto solo aspettando una risposta.
«Basta rimandare, Niall. Abbiamo già fatto questo discorso più volte, anche con tuo padre».
«Proprio perchè ne abbiamo già parlato, dovresti aver capito che non ho nessuna intenzione di frequentare delle stupide università di economia, o architettura» rispondo, trattenendo a stento la rabbia.
Ne abbiamo discusso così tante volte, che dovrebbe essergli entrato in testa: non voglio diventare un economista, né un manager e nè un architetto. Non voglio entrare in azienda con mio padre, né stare per tutta la vita seduto in un ufficio, davanti ad un computer.
«Ah no?» scende qualche altro scalino, mentre mi guarda con aria di sfida «e allora che vorresti fare? Continuare ad andare in giro a bighellonare con i tuoi amici a fare.. Cosa? - la sua bocca si trasforma in una smorfia di disgusto  - Inizi ad essere grande, dovresti sapere che non si vive di sogni».
Stringo la presa sulle chiavi della macchina, trattenendo per un attimo il respiro. Cerco di trovare qualcosa da ribattere, per poter fare una di quelle uscite da film un po’ plateali, un po’ drammatiche, ma la verità è che contro di lei non si vince, mai.
«Hai ragione» le dico «mi morirò di fame probabilmente. Ma indovina? I soldi non sono tutto nella vita».
Mia madre termina di scendere la scalinata, fissandomi dritto negli occhi.
«I soldi, che tu dici non essere indispensabili, recitandomi qualche stupida frase fatta, ti permettono di girare con la tua bellissima auto nuova, di uscire tutte le sere con quei malfamati dei tuoi amici-».
«Non parlare così di loro!» la aggredisco improvvisamente. Sono migliori di tanta altra gente che sta intorno a te o a papà» sputo fra i denti.
«Gente che potrebbe garantirti un futuro migliore di quello che avresti facendo qualsiasi altra cretinata tu voglia fare!» i suoi occhi sono spalancati dalla rabbia «e modera i toni, non ti permetto di parlarmi a questo modo!».
Beh, mi sembra giusto, io non posso denigrare i suoi 'amici', ma lei può farlo con i miei.
«Non guarderò quei cazzo di volantini, rassegnati - dico infine con aria di sfida - continua pure a poggiarmeli sulla scrivania, perderai solo tempo».
«Basta! Non accetto questo linguaggio, né tantomeno questo comportamento!» mi rimprovera con un'espressione sdegnata in volto, la stessa che avrebbe se avesse appena visto un uomo commettere un omicidio.
«Chiedo venia, madre» ironizzo «ha ragione. La prego di permettermi di rettificare la mia risposta» mi schiarisco la voce «Non, cazzo, guarderò, cazzo, quei, cazzo, di, cazzo, volantini, cazzo, rassegnati, cazzo» le sorrido beffardo e forse anche compiaciuto nel vedere la sua faccia sconvolta «ora, se non le dispiace, esco. Buona giornata» uno, due, tre «Cazzo!» urlo infine, sbattendo con forza la porta alle mie spalle e sentendo le finestre del salone tremare poco più in là.
Perché non mi lasciando fare quello che mi pare? Perché sono così ossessionati da questa faccenda dell'università? Perché non si rassegnano?
Certe volte mi sembra di parlare contro un muro. Gli avrò detto un centinaio di volte le mie intenzioni, ma a loro non interessa ciò che voglio io.
Fisso l'Audi r8 parcheggiata nel viale di casa e una smorfia mi si disegna sul volto. Ricordo che me l'hanno regalata per il mio diciottesimo compleanno, quando anche io credevo che i soldi avrebbero potuto davvero rendermi felice, o almeno avrebbero potuto farmi stare in pace con me stesso, ma poi è morto Timothy e allora ho capito tutto.
Quando due persone importanti lasciano la tua vita, le tue priorità diventano altre, ogni cosa sembra sfaldarsi e perdere importanza.

Mi massaggio distrattamente il collo, mentre sento il cellulare vibrarmi nella tasca destra dei pantaloni; lo afferro e rispondo, sapendo già chi è che mi sta chiamando.
«Harry?»
«Niall, si può sapere dove sei?» la musica in sottofondo che sento provenire dal cellulare, mi suggerisce che o è già arrivato al bar, o è in macchina.
«Sono ancora a casa» dico, mentre esco dal grande cancello in ferro battuto «sto venendo a piedi».
«Perchè?».
«Perchè cosa?».
«Perchè stai venendo a piedi?»
Resto in silenzio, sa bene i rapporti che ho con mia madre, quindi gli lascio immaginare la discussione e il mio inutile gesto di ribellione, rinnegando la macchina
Posso quasi immaginarlo alzare gli occhi al cielo, mentre lo sento sbuffare non appena intuisce il problema. Sorrido.
«Fossi al tuo posto userei quella macchina per fare colpo su tutte le ragazze di Clevedon».
«Non ho certo bisogno di una macchina» scherzo, inspirando a pieni polmoni l'aria salina del mare.
«Mi piaci quando sei intraprendente Styles, fossi una donna ti sposerei.»
«E non saresti il solo.»
«Speravo dicessi 'anche io ti sposerei', mi sento ferito. Comunque aspettami là, sto passando a prenderti» e senza aspettare una mia risposta, attacca.
Sorrido, scuotendo la testa, poi infilo le chiavi nella mia tasca sinistra e mi siedo sul ciglio della strada.
Harry arriverà tra circa un quarto d'ora, ma non mi va di rientrare a casa, così aspettare qui diventa l'alternativa più valida.

 

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Capitolo 3
*** Tabù ***


Tabù

Wendy

 
Poso le valigie a terra, guardandomi attorno e respirando l'odore familiare della casa mischiato a quello del mare.
Il pavimento in granito rosa è proprio come lo ricordavo: lucido, più scuro in alcuni punti, più chiaro in altri. La crepa fatta sei anni prima, quando per sbaglio avevamo fatto cadere il vaso in ceramica della nonna, è ancora là, accanto al mobile in legno bianco, nascosta in parte dal tappeto color avorio.
Le  foto delle nostra famiglia sono nella stessa posizione dell'ultima volta in cui ho messo piede qua dentro, leggermente oblique, girate verso la porta a vetri d'entrata.
Mi avvicino osservandone una e per qualche attimo mi concentro sul mio volto riflesso nella cornice.
Ho gli occhi gonfi e stanchi per il viaggio in questo momento, ma per il resto sono molto simile alla ragazzina dai capelli castani, con l'apparecchio ai denti e il vestito rosa a pois impressa nella foto.
È come se dentro questa casa il tempo si fosse fermato, come se nulla fosse cambiato, mi sembra di rivedere la me bambina, quella che aveva dieci anni ed era convinta di poter diventare la più grande pianista dell'universo.
Le urla mia e di Niall mentre corriamo per questi corridoi mi martellano la mente, riesco quasi a vederci mentre giochiamo ad acchiapparella e mia nonna ci grida di stare attenti e di non rompere nulla.

«Presa!» urla Niall con un sorriso.
I suoi grandi occhi blu mi scrutano divertiti, mentre io tento di divincolarmi dalla sua presa.
«Ma non vale! Tu sei più veloce perché sei un maschio» dico incrociando le braccia al petto «e poi sei anche più grande!»
Mi rendo conto di aver messo il broncio, ma è la quarta volta che giochiamo e la quarta che perdo. Questa è pura ingiustizia, con Harry o Liam vinco sempre, e sono quasi sicura che non mi lascino vincere apposta.
Niall sogghigna «avanti Wendy, sai che ti voglio bene, ma sei una lumaca»
Gli faccio la linguaccia, mentre sento gli occhi pizzicarmi.
Lui sbuffa rumorosamente, prendendomi la mano «avanti, non piangere, se la smetti andiamo a prendere un gelato, e magari ti faccio mettere anche la doppia panna»
Lo guardo, tirando su col naso. Mamma dice sempre che per avere tredici anni sembra molto più maturo, e non riesco mai a capire cosa voglia dire. Forse dato che ha una paghetta e può offrirmi tanti gelati, lo considera grande.
Quand'è che diventerò matura anche io? Mi domando se ci sia un età, o se è una cosa che viene col tempo.
Lui non piange mai, forse vuol dire questo essere adulti.
Ma i grandi che non piangono sono noiosi, sembra sempre che gli vada tutto bene e poi, invece, iniziano ad urlare perché sono tristi o arrabbiati.
Non sono meglio le lacrime? Io sto molto meglio dopo aver pianto un po', almeno poi sono in pace col mondo intero.
«Davvero mi compri il gelato?» domando in un sussurro.
Allora lui mi sorride e io mi sento improvvisamente meglio.


Uno sbuffo lascia le mie labbra quando faccio un passo salendo le scale e il legno scricchiola sotto i miei piedi.
Mi chiedo se sia stata una buona idea decidere di tornare in questa casa, tornare da mia sorella.
Sono anni che non la vedo e, per la verità, non ho molta voglia di rompere questa mia “astinenza'.
Eppure i rumori che provengono dal piano di sopra mi suggeriscono che ormai l'attesa è finita, che entro pochi secondi capiremo se stanotte dormirò in una stanza d'albergo o nella mia vecchia stanza.
Chissà se continua ad avere le pareti lilla, se sull'armadio c'è ancora attaccata la foto che scattai cinque anni fa in spiaggia e se nessuno ha toccato il piccolo braccialetto della fortuna che avevo lasciato sul fondo del cassetto sinistro della mia scrivania.
«Ehi» una voce orma non troppo familiare, mi sorride da in cima alle scale.
Mia sorella, Mare, tiene le mani poggiate in grembo, i capelli neri sono raccolti in una coda disordinata e il mascara sui suoi occhi così simili ai miei è sbafato, mentre il rossetto fucsia sembra applicato con fin troppa cura.
La ricordavo diversa.
«Ehi» rispondo semplicemente.
Non so se si aspettasse un abbraccio, o che ricambiassi il sorriso, ma sono sicura che sia rimasta delusa dalla mia reazione.
«Come-come stai?» mi chiede massaggiandosi il braccio destro con la mano opposta.
«Bene» taglio corto, accorciando la distanza fra noi.
Probabilmente dovrei continuare con un «e tu?» ma non lo faccio, non mi interessa. L'unica cosa che voglio fare è entrare nella mia stanza, disfare la valigia e uscire a prendere una boccata d'aria.
«Ho saputo da mamma che s-»
«Questo argomento è tabù, chiaro?» la interrompo bruscamente, sapendo già ciò che vuole dirmi «anzi, qualsiasi argomento è tabù. Non devi rivolgermi parola - dico serrando la mascella - sono tornata qua semplicemente perchè non ho abbastanza soldi per pagarmi due mesi di hotel, non perchè voglia riallacciare i rapporti con te» affermo tutto d'un fiato, fissandola in volto.
Mare mi guarda con le labbra socchiuse dalla sorpresa e gli occhi leggermente sgranati, mentre resta impalata accanto alla ringhiera delle scale, incapace di muoversi.
«Pensavo che-che l'avessi superato..» dice in un sussurro, alludendo a ciò che mi ha portato a scappare da Clevedon.
Nel momento in cui pronuncia queste parole, una miriade di immagini, sensazioni e voci mi ritornano alla mente, facendomi quasi rivoltare lo stomaco.
Piego leggermente il capo verso destra, aggrottando la fronte «No, non l'ho superato. Non lo supererò mai. Tu hai rovinato la mia vita, Mare».
Posso vedere chiaramente i suoi occhi arrossarsi e restringersi, nel tentativo di trattenere le lacrime.
«Ero una ragazzina, Eirwen».
«Io! - dico alzando leggermente la voce - Io ero una ragazzina! Tu avevi venti anni. Sapevi perfettamente cosa stavi combinando» sibilo fra i denti.
Lei scuote la testa, con un'espressione addolorata in volto «No, non lo sapevo. Se anche solo avessi immaginato che ti saresti allontanata così da me, non avrei mai fatto.. - ci pensa su - quel che ho fatto» conclude poi in un sospiro.
Stringo gli occhi in una fessura «direi che ormai è troppo tardi» mormoro serrando la mascella «ah, e ti sarei grata se non mi rivolgessi più la parola, fa come se non ci fossi.»
La sorpasso trascinando la valigia sulla moquette color sabbia, dirigendomi verso quella che un tempo consideravo il mio rifugio e che oggi invece non mi provoca altro che ribrezzo.
Ma devo farlo, devo tornarci.
«Eirwen» mi chiama, con voce bassa, carica di sensi di colpa e forse macchiata da un pizzico di rabbia.
Io non mi volto nemmeno, mi blocco semplicemente, col respiro corto e il cuore pesante.
«Lui non ti ha mai dimenticata».
Un senso di nausea mi afferra lo stomaco e mi fa girare la testa. Ingoio la saliva, improvvisamente amara.
Vorrei urlarle che non è vero. Che lei non è nessuno per dirmi queste cose, che non sa nulla, che mai ha saputo nulla. Che deve stare fuori dalla mia vita, ora più che mai. Perché se sta accadendo tutto questo è anche colpa sua e io non posso perdonarglielo. Non ci riesco.
Scuoto la testa, non riesco neanche a dire una parola, e dalla bocca altro non mi esce che un respiro spezzato.
«Non rivolgermi più parola» ribadisco infine e, prima che possa dire altro, scappo nella stanza che ho di fronte e mi chiudo di scatto la porta dietro le spalle.
Poggio la schiena contro la parete di cemento, socchiudendo gli occhi e prendendo profondi respiri.
L'immagine di Niall da bambino continua a tormentarmi
Mi chiedo se sia cambiato, se il bambino dall'apparecchio e i capelli ordinati, che portava pantaloni larghi e polo rosse o blu, abbia lasciato spazio ad un ragazzo dai capelli biondo cenere, magari più corti, con un sorriso ordinato, e con un abbigliamento più maturo.
Mi piacerebbe rivedere quei suoi occhi blu.
Blu come intorno alle stelle, mi ripeto nella mia testa.
Chissà se sono ancora così belli, o se nella testa ho creato un'immagine tutta mia, che riflette poco o niente la realtà.
Mi domando se sono davvero pronta a rincontrarlo.
Forse dopo che l'avrò visto da lontano, scapperò, di nuovo, come quattro anni fa, o forse no.
Forse sarà tutto troppo diverso e magari neanche riusciremo a riconoscerci nei nostri caratteri.
Forse lui mi guarderà con indifferenza e magari anche rabbia.
Forse ho sbagliato a tornare.
Forse.
Mi prendo il volto fra le mani, massaggiandomi le tempie.
Ho solo due mesi di tempo, due mesi e non potrò più scappare, mi dico.
Già mi sembra di sentirlo, il cambiamento.
Lo sento e mi spaventa.


 
Niall

Harry sta guidando la sua vecchia Chrysler in silenzio, mentre muove il capo al ritmo della musica che esce dalla radio. Per la precisione il brano che stanno mandando in onda è 'Closer to the edge' dei 3o second to mars e io non posso fare a meno di pensare che il volume sia decisamente troppo alto.
Cambio stazione, alla ricerca di qualcosa di più tranquillo, che mi rilassi, perchè in questo momento ho i nervi a fior di pelle e una strana sensazione mi preme sul petto e sembra non volermi più lasciare andare.
«Perchè hai cambiato? Mi piaceva quella canzone» protesta il riccio, guardandomi mentre il semaforo rosso tarda a cambiare colore.
«Era troppo rumorosa, ho mal di testa» mi giustifico facendo spallucce.
Il verde del semaforo capeggia sopra di noi e la macchina fa un breve ruggito prima di partire.
È mezzogiorno, le strade sono più deserte del solito. La tranquillità di Clevedon, oggi, sembra quasi beffarsi del tumulto che invece c'è dentro di me, un chiasso assordante che non fa altro che farmi aumentare l'emicrania.
«Harry» lo chiamo, consapevole di avere già la sua attenzione nel momento in cui ho cambiato nuovamente stazione.
«Sì?»
Lancio un'occhiata alle mie spalle, guardando la via di casa mia diventare sempre più piccola.
«Ti capita mai di avere una strana sensazione alla bocca dello stomaco? Tipo..» ci ragiono su qualche momento «come se dovesse accadere qualcosa, ecco.»
Il riccio solleva un sopracciglio «secondo me sono stati i gamberetti di ieri, ne hai mangiati troppi»
Sorrido e lui anche.
«Beh, se avessi cucinato io probabilmente ora Liam non starebbe chiuso al bagno da questa mattina» lo stuzzico.
Harry si rabbuia, ma un sorriso aleggia ancora sulle sue labbra «vorresti dire che non sono un bravo cuoco?»
«Voglio dire che io sono un cuoco migliore di te»
Picchietta con le dita sul volante «non eri tu quello che l'ultima volta ha quasi incendiato casa di Zayn cercando di preparare un semplice sugo?»
Ricordo ancora quel giorno, quando, al compleanno di Liam, avevamo deciso di fargli una festa a sorpresa da Zayn e io mi ero offerto come cuoco. Dopo quella volta non ho più preso una pentola in mano.
«Dettagli» borbotto. Colpito e affondato.
Ridiamo entrambi, mentre osservo il riverbero della luce del sole sul mare che si sta costeggiando.
«Comunque» riprende Harry «riguardo a ciò che mi hai detto prima, spiegati meglio».
Prendo un bel respiro e «non c'è molto da spiegare» dico «dopo la discussione con mia madre, mentre ti aspettavo, mi..» temporeggio, non so come continuare senza sembrare pazzo o simili, anzi, non so come continuare o basta.
«Ascoltami Niall, devo dirti una cosa» improvvisamente si fa serio, e un Harry serio è una cosa più unica che rara. Devo preoccuparmi?
«Cosa?» lo incito.
«Ho sentito Liam poco fa» dice, mentre cambia la marcia scalando alla seconda «stava tornando dal mare, ed è passato davanti casa dei Bennet.»
Mi irrigidisco sentendo quel cognome e Harry lo nota perchè si fa anche lui più nervoso.
«E quindi?»
Sto tenendo la mascella serrata. Penso che mi voglia dire qualcosa su Mare, ma io non voglio avere più nulla a che fare con lei e mi sto quasi arrabbiando col riccio per aver tirato fuori questo argomento.
«Aspetta» continuo «dove stiamo andando?».
Questa non è la strada per il bar, ne sono più che certo. Sebbene io abbia un pessimo senso dell'orientamento, dopo ventitrè anni passati in questo noioso paesino credo di aver imparato almeno le vie principali e i soliti tragitti che percorro quasi quotidianamente.
«Liam ha visto Eirwen, Niall» dice tutto d'un fiato, mentre la macchina rallenta.
Ora ho capito dove siamo.
«Non può essere. Se è un cazzo di scherzo, non è divertente, Harry.»
«Sono serissimo» e sebbene la sua espressione confermi le sue parole, io ancora stento a credergli.
«Sono quattro anni che non torna, quattro!» mi rendo conto che sto urlando, così abbasso la voce «Liam si deve essere sbagliat-»
«Liam è sicuro di quello che ha visto, Niall».
Fisso il riccio davanti a me, cercando una traccia che possa svelarmi che in realtà stia scherzando. Ma lui sa quanto sia tabù per me quest'argomento e l'espressione seria e corrucciata mi suggerisce che ciò che mi sta dicendo altro non è che la verità.
Mi volto verso il finestrino, osservando il vialetto sterrato che si estende davanti a noi. Non ci mettevo piede da secoli.
«Ho pensato che volessi vederla, ma se vuoi possiamo tornare al bar» mi dice con voce pacata.
Un attacco di panico mi fa accelerare il battito cardiaco. Cosa dovrei fare? Cosa dovrei dirle? Come sarà diventata?
Mille dubbi, mille paure, mille domande iniziano ad assalirmi. Il mio cervello comincia a lavorare alla velocità della luce mentre cerca di riportare a galla la sua voce o il colore dei suoi occhi verdi come la Malachite. Ricordi che credevo ormai perduti o dimenticati tornano a reclamare la mia attenzione.
Sono davvero pronto a rivederla?
Improvvisamente ho paura mentre poggio la mano malferma sullo sportello.
Me la sento? E se non mi avesse ancora perdonato?
E se mi avesse dimenticato?
«Non ce la faccio Harry, non posso» dico infine in un sussurro.
«Niall, sei sicuro che non vuoi vederla?» mi domanda di nuovo Harry, paziente.
Siamo ancora fermi infondo al vialetto della casa di Wendy, ormai sono circa dieci minuti, e per tutto il tempo non ho fatto altro che stringere la maniglia dello sportello fra le mani, talmente forte da aver fatto diventare le nocche bianche.
La verità è che ho paura. Ho il terrore di sentirmi dire le stesse cose che mi aveva sputato contro la notte del sedici agosto, so che non potrei sopportarle una seconda volta, non da lei.
Scommetto che i suoi occhi sono ancora di quel colore cacao, tonalità che lei odiava così tanto: «sono banali» diceva, ma per me non era vero. Erano cioccolato fuso e alla luce del sole diventavano quasi caramello, con mille pagliuzze colorate di giallo ocra. Erano bellissimi. Se solo avessi saputo che non li avrei più rivisti per tutto questo tempo, ne avrei abusato allora.
Avrei fatto un po' come un ubriaco che decide di sbronzarsi un'ultima volta prima di smettere di bere: avrei guardato quei suoi occhi, leggermente a mandorla, fino a che non me ne sarebbe venuta la nausea. E posso affermare, quasi con sicurezza, che, allora, avrei potuto osservarli per tutta la vita.
«Non lo so Harry, io ho sbagliato su tutta la linea con lei» dico in un soffio, fissando dritto davanti a me.
«Ascoltami, d'accordo? Tutti sbagLiamo e magari lei ce l'avrà ancora con te. Anzi, è sicuro, lasciatelo dire, amico, sei stato un vero coglione.»
«Grazie» bofonchio, sentendo come se tanti piccoli aghi mi stessero torturando il cuore.
«Sì, ma non è questo il punto» mi riprende severo «avete lasciato troppe cose in sospeso. Tutto quello che eravate e che avevate è ancora là a tormentarti e lo so, Niall, non dire che non è vero, ti conosco fin troppo bene.»
Ingoio la saliva improvvisamente amara. Harry ha ragione, non c'è parte di me che non senta la sua mancanza, che non si domandi cosa saremmo potuti diventare ora, se non mi fossi comportato a quel modo. Non c'è giorno in cui il suo sorriso non mi perseguiti. Lo ricordo ancora quel suono cristallino, forse un po' acuto, quella risata da bambina che mi faceva impazzire.
«Hai finalmente l'opportunità che hai aspettato per quattro anni, puoi farti dare una seconda chance.»
Il riccio mi sta fissando, mi guarda e spera che con quelle sue parole sia riuscito a smuovermi qualcosa. E sebbene io sia fermo, immobile, il volto tirato e inespressivo, dentro di me ho in atto una guerra che mi sta facendo impazzire.
«Non mi darà mai una seconda possibilità» espiro profondamente, aggrottando le sopracciglia.
«Sicuramente quando ti vedrà non correrà ad abbracciarti in stile “Via col vento”. Ma sono sicuro che se è tornata c'è un motivo» sblocca le portiere «e tu puoi scoprirlo e tentare di parlarle, o angosciarti per tutta la sua permanenza qua, guardarla da lontano e chiederti se mai ti avrebbe perdonato.»
«Ti odio, Harry» dico, fissandomi le mani.
Lui sorride, perchè sa che mi ha convinto, sa che tra dodici secondi io scenderò da questa macchina, busserò alla sua porta e mi maledirò per avergli dato ascolto.
Prendo un respiro lungo, quasi a voler ritardare la mia decisione, quasi a..
«Wendy» sussurro, strozzandomi con le mie stesse parole.
Harry mi guarda confuso e accigliato, poi segue il mio sguardo, si volta e la vede.
E la nostra reazione è la stessa: rimaniamo entrambi con la bocca semiaperta, gli occhi sgranati, e incapaci di dire nulla.
La osserviamo mentre apre il cancelletto del suo giardino, quello che da direttamente sulla spiaggia, non ci ha visti, o forse non ha fatto caso alla macchina, forse è troppo lontana: una punta di delusione mi lascia a bocca asciutta.
Ha ancora il volto da bambina, dalle linee delicate e pulite. I capelli sono molto più lunghi rispetto a quattro anni fa, quando li aveva tagliati fin sopra le spalle. Ricordo che in quell'occasione non le parlai per almeno dodici ore.
La maglietta larga le nasconde le forme, ma posso affermare con sicurezza che è ancora minuta, che probabilmente non si è alzata di un centimetro dall'ultima volta che la vidi.
Le osservo il polso stretto attorno al cancelletto in legno bianco ed è spoglio, un dolore acuto dilaga nel mio petto.
Ha un paio di shorts color jeans, mostrano le sue gambe pallide, la sua pelle diafana e io non riesco a far altro che pensare che sia bellissima, che mi manca.
La guardo fino alla fine, fino a quando non scompare oltre la siepe, oltre il cancello, oltre la mia visuale.
«Allora?» la voce di Harry un po' più roca «andrai?»
Ma sappiamo entrambi che, oramai, non c'è più neanche bisogno che io gli risponda.

 
 

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Capitolo 4
*** 12 minuti di codardia ***


12 minuti di codardia

Eirwen


Sento la sabbia fra le dita dei piedi, il mare mi bagna ritmicamente le caviglie, quasi in sincronia col mio respiro zoppicante.
L'odore di salsedine è forte, mi fa pizzicare il naso, l'acqua fredda ogni tanto mi fa trasalire e il verso dei gabbiani mi costringe a cercarli con lo sguardo non appena li sento gridare in cielo, un cielo grigio, compagno del mio umore.
Mentre sono seduta qua sulla spiaggia, con le ginocchia piegate, il mento poggiatovi sopra e le braccia strette attorno alle gambe, penso che faccia davvero caldo e che ci sia una certa di malinconia nel ritrovarmi qui, sola, dopo ben quattro anni.
Non è cambiato nulla dall'ultima volta, un po' come dentro quella vecchia casa che mi sono lasciata alle spalle qualche minuto fa.
Sembra come se il tempo avesse conservato tutto questo per me, per ferirmi gli occhi una volta che sarei tornata. Perchè sapevo anche io, ancor prima di andarmene, che prima o poi avrei fatto ritorno.
Ricordo che nel momento in cui avevo afferrato le mie valigie tra le lacrime, arrabbiata e frustrata, la sera del sedici agosto di quattro anni fa, avevo gridato tutto il mio odio verso questo posto, l'avevo urlato così forte che persino Harry che mi aspettava fuori, nella sua vecchia auto che io amavo tanto, era corso dentro a vedere cosa fosse successo.
Quel giorno avevo giurato, nel silenzio della notte, che non avrei fatto ritorno. In un respiro strozzato avevo gettato il piccolo braccialetto dell'amicizia in mare e al vento avevo sussurrato il mio dolore.
Ma come si può dire addio al luogo dove hai lasciato la parte più importante di te stessa?
Non si può, semplice.
Ed infatti eccomi qui, con le infradito abbandonate accanto a me, la canottiera improvvisamente troppo stretta, i granelli di sabbia intrappolati fra i capelli e il desiderio che questo posto mi diventi estraneo. Vorrei non sentirlo più mio, non sentirlo come fosse parte di me, ma non ci riesco: si è incastrato nella mia anima e non vuole più lasciarmi libera.
È frustrante, è come se cercassi di andare avanti ma avessi una catena a tenermi ancorata a questa stupida cittadina e fa male, perchè mi stringe i polsi, perchè dopo anni inizia a corrodermi la pelle e io vorrei solo trovare la chiave e finalmente avere sollievo.
Harlan Ellison diceva: “dodici minuti [...] corrispondono all'effettiva durata verificata del dolore genuino. Qualsiasi cosa oltre i dodici minuti è autocommiserazione, e tentativi inutili di far sembrare più importanti i primi dodici minuti.”
Quindi questi ultimi miei quattro anni non sono stati altri che giorni, mesi, minuti, costellati di autocommiserazione? Nulla di più?
No, non ci credo, quello che sento nel petto è dolore. Dolore per aver perso tutto quello che avevo, in una notte. Dolore per aver perso lui e me stessa.
È dolore mischiato a paura. Paura del matrimonio, paura di quello che mi porto tutti i giorni dietro.
Stringo le gambe al petto. Vorrei rimanere qui per sempre. Vorrei vedere mille tramonti, mille albe e mille inverni, senza dover pensare ad altro.
Ma so che ,anche allora, non sarei in pace con me stessa.
Centinaia di voci che mi fanno diventare pazza, centinaia di volti che hanno tutti gli stessi occhi, stessi capelli, stesso sorriso. E ancora prima di socchiudere gli occhi so che lottare contro quell'immagine di noi due, di circa dieci anni fa, è inutile, allora mi lascio andare e improvvisamente le urla dei gabbiani scompaiono.

«Niall, che stai facendo?» gli domando, mentre lo osservo curiosa.
È poggiato contro il tronco di un pino, il volto nascosto in parte dai capelli biondi, in parte dall'ombra e sta armeggiando con qualcosa.
Mi avvicino, mentre attendo che mi risponda, ma so già che dovrò ripetergli la domanda e che probabilmente non mi ha sentito, concentrato com'è.
«Allora?» lo incito, sedendomi a gambe incrociate accanto a lui, sull'erba umida.
Niall alza finalmente lo sguardo, e i suoi occhi blu mi fanno sorridere, mi ricordano il mare in un giorno di pioggia.
«Tentavo di costruire questo stupido aeroplanino, ma le istruzioni sono sbagliate» dice frustrato, osservando il foglietto delle spiegazioni scritto fittissimo.
«Vuoi una mano?»
Lui annuisce «grazie Wendy.»
Mi blocco ancora prima di prendere in mano l'ala del modellino.
«Wendy? Perchè mi hai chiamata Wendy?» gli domando perplessa.
Lui attacca l'elica a quello che dovrebbe essere il sopra dell'aeroplano, mentre cerca le parole giuste «beh, l'altro giorno mi hai detto che se potessi scegliere un super potere, vorresti poter volare» dice sorridendomi «Wendy, in peter pan, volava. E i vostri nomi hanno le lettere simili: Eirwen, Wendy» dichiara, fiero del ragionamento che l'ha portato a notare quel piccolo dettaglio.
Rido, mordendomi il labbro «mi piace Wendy».
«Anche a me.»
Restiamo in silenzio, io mentre ripenso al mio nuovo soprannome, lui mentre lancia occhiate furiose al modellino ancora incompleto.
Sembra più un aereo che si è appena schiantato.
«Sai una cosa?» mi domanda Niall, spezzando quella quiete e tornandomi a guardare «un giorno, quando sarò grande ti porterò su un aereo, di quelli enormi. Voleremo insieme io e te. Te lo prometto.»


Ma le promesse sono il rifugio dei temporeggiatori. Questo l'ho imparato solo adesso, a venti anni e cinque mesi. Se solo l'avessi saputo prima, non avrei mai dato ascolto a tutte quelle parole, quegli sguardi e quegli abbracci che sembravano giurarmi che un giorno mi avrebbe regalato persino la luna.
Il problema è che ci affidiamo alle persone, scarichiamo il peso delle nostre vite sulle loro spalle, preghiamo affinchè ci aiutino ad andare avanti. Ma di spalle forti ce ne sono poche e questo non potevo saperlo.
Mi alzo in piedi scuotendo la testa e cercando di togliermi la sabbia dalle cosce e dalle mani, graffiandomi con i granelli, irritandomi  la pelle.
Sapevo che tornare qui, cercarlo, rivederlo, mi avrebbe fatto male, ma non pensavo così tanto, non credevo che mi avrebbe fatto tremare le gambe anche solo rivedere questi posti, sembra quasi di scavare in una grotta pregna di ricordi, frasi perdute e parole dimenticate.
Non sono pronta a risentire la sua voce e so già che rientrata dentro casa, prenderò nuovamente in mano la mia valigia ancora per nulla disfatta e scapperò prima che lui possa sapere di me.
Perchè scappare è la cosa che mi riesce meglio.

Mi inumidisco le labbra, mentre con l'indice destro mi porto una ciocca dietro l'orecchio, ho sempre odiato tenere i capelli sciolti al mare.
Inspiro e mi volto lentamente, come se una mano mi tirasse indietro, cercando di fermarmi e di farmi restare qui; come se inconsciamente volessi prendermi del tempo per riflettere o semplicemente per rimanere seduta in riva al mare a ricordare.
Ma io infondo sono sempre stata una codarda e allora mi scrollo via quella presa e decido che scappare è la soluzione migliore.
Finisco di girarmi con un sospiro, mentre alzo gli occhi da una conchiglia bianca, di quelle piccole, lisce.
Sposto lo sguardo oltre i miei piedi e prima che io possa ripensarci, è troppo tardi: lui è davanti a me, qualche metro più in là.
Mi sta guardando con le mani infilate nelle tasche, le infradito ai piedi e i capelli scompigliati.
Ha un'espressione afflitta, preoccupata, speranzosa e forse sorpresa. Una miriade di emozioni sono esplose sul suo volto e sono convinta che lo stesso valga per me.
«Wendy» mi chiama, trovando coraggio. La sua voce è.. Così diversa.
Ora che è più vicino riesco a cogliere ogni suo aspetto, lineamento, dettaglio, posso osservare con calma le sue mani dalle dita affusolate, le sue braccia allenate, le sue spalle più ampie rispetto a quattro anni fa. E soprattutto, riesco a vedere i suoi occhi, quelli blu come intorno alle stelle, blu come il mare in tempesta, blu come quelli di nessun altro.
«Wendy, sono io Niall» ripete, vedendo che non riesco a dire una parola.
Ma ho le gambe bloccate, il respiro spezzato e scommetto che se solo aprissi bocca scoppierei a piangere. Come posso muovermi? Come si fa a respirare? Come è che si parla?
Ho passo quattro anni a pensare a come avrei reagito alla sua vista, quattro anni a pensare alle parole che gli avrei detto o urlato contro. Ho pensato e mi sono preparata prima di partire.
Avevo pianificato tutto.
Avevo... Sapevo cosa-cosa fare.
E invece eccomi qui, incapace di compiere qualsiasi gesto; e lui è così bello, così simile al mio Niall, così reale e diverso dai miei ricordi. Lui è qui.
«Wendy, ti prego dimmi qualcosa» sussurra, facendo un passo verso di me, tentando di sorridere. Mi era mancato il suo sorriso, mi era mancata la sua voce.
Sento la rabbia montarmi dentro e non so nemmeno perchè, o forse sì.
«Non chiamarmi così» sibilo fra i denti, sorprendendomi di me stessa.
Niall sgrana leggermente gli occhi, che diventano ancora più grandi, ancora più belli. Poi la sua espressione si fa addolorata, colpevole.
«Eirwen» tenta sconsolato, facendo un altro passo verso di me «mi dispiace per tutto, lo sai io-»
«E me lo dici dopo quattro anni?» lo interrompo, senza riuscire a guardarlo negli occhi «mi dici che ti dispiace adesso?» la mia voce è malferma, bassa, non la riconosco nemmeno e mi maledico per questo.
«Io ho sbagliato, Wen-Eirwen. Lo so, d'accordo? Ma tu sei scappata, non mi hai dato il tempo di spiegarti, mi hai urlato di stare fuori dalla tua vita, cosa dovevo fare?» mi domanda, sempre più vicino.
Improvvisamente è come se non fossimo più in spiaggia, non sento più il rumore del mare o il verso dei gabbiani, non sento più nulla, solo il battito sordo del mio cuore e la sua voce che è più simile ad una pugnalata alle spalle che ad altro.
«Potevi chiamarmi!» grido, indietreggiando di un passo, allontanandomi da lui, dalle sue mani e dal suo petto che mi chiamano.
«Ho provato a farlo!» allarga le braccia, fissandomi e facendomi venire la pelle d'oca. Il suo timbro è più alto, è arrabbiato, mi mette soggezione «Ti ho chiamata, ma non mi hai mai risposto! Come potevo rimediare?! Non me ne hai mai dato la possibilità!»
«Non te la meritavi» sussurro, sentendo gli occhi pizzicarmi.
Mi scruta sotto quelle sue lunghe ciglia «è stato un incidente, Eirwen.»
Basta, quel nome sulle sue labbra non lo sopporto, mi fa male, vorrei urlargli di stare zitto.
«Ti avevo detto che ti amavo» dico in un singhiozzo, mentre lui continua ad avvicinarsi verso di me, con il petto fasciato da una canottiera bianca, che lo rende così odiosamente perfetto.
«Ti scongiuro non continuare» mi prega, perchè quella verità fa male ad entrambi.
«Ti avevo detto che ti amavo e tu te ne sei andato via, senza dire nulla» sussurro.
«Wendy» mi supplica, è troppo vicino «non volevo-»
«Ti ho trovato a letto con mia sorella, la sera stessa!» urlo con tutto il fiato che ho in corpo «nel mio letto! Nella mia stanza!»
E un senso di nausea mi afferra lo stomaco, mi sento le gambe molli, come svuotata di ogni energia.
Erano anni che non ne parlavo, che non pronunciavo quelle parole, che tentavo di scacciare quel pensiero.
Erano anni che mi rifiutavo di parlarne.
Niall si blocca, mi guarda come se lo avessi preso a pugni, ma sono quasi sicura di avere il suo stesso aspetto.
Ci guardiamo, incapaci di fare nulla.
Quattro anni di silenzi iniziano a pesare sulle nostre spalle e io non riesco più a trattenermi, a fare finta che lui non sia qui, non riesco, la sua presenza mi fa male.
Così vicino, ma allo stesso tempo lontano, troppo.
Una consapevolezza che tento di far tacere nella mia testa continua a urlarmi contro: questi non siamo noi, siamo il riflesso di una vecchia amicizia, lo scarto di una storia andata a male. Siamo l'eco di ciò che eravamo.
E fa male, questa verità mi uccide, soprattutto ora che lui è davanti a me.
Siamo a due passi di distanza, ma lontani anni luce, ecco cosa.
«Mi dispiace» dice in un soffio.
«Anche a me» la mia voce esce spezzata, malferma, trema come la foglia trasportata dal vento che ci passa vicino.
Vorrei abbracciarlo: mentre la mia testa mi urla di mandarlo via, il mio cuore richiama la mia attenzione. Mi dice che gli manca Niall, che è così bello, che i miei ricordi non gli avevano mai reso giustizia. Mi dice che vuole sentire il suo profumo, si chiede se è sempre lo stesso.
Il mio cuore sa cosa vuole, ma non posso darglielo, non sarebbe giusto.
Lui mi ha fatto male, mi ha ferita.
«Per favore» e per un attimo penso che sarebbe capace anche di mettersi in ginocchio davanti a me «Wendy, mi sei mancata così tanto»
Il respiro mi si blocca. Non doveva dirmelo.
Come ha potuto pronunciare quelle parole?
E sono quasi sicura di aver sentito qualcosa rompersi nel mio petto, un piccolo “crac” che mi ha causato una fitta atroce, facendomi venire il voltastomaco.
Vorrei chiedergli di smetterla di guardarmi, con quei suoi occhi, quelle labbra, quel volto, quelle braccia.
«Io-io devo andare», il pianto bloccato in gola.
Mi muovo in fretta, sorpassandolo, sfiorandogli la spalla. Quel tocco mi fa rabbrividire e per un attimo mi sembra di poter cogliere il suo profumo, è sempre lo stesso: sa di casa, sa di Niall, sa di noi due, del passato. Sa di ricordi.
«Ti supplico» mi richiama da dietro «Wendy per favore!»
Ma prima che possa raggiungermi io corro via. Perchè sono sempre stata una codarda, perchè scappare, a differenza di amare, mi riesce bene.

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Capitolo 5
*** Inspira, espira ***


Inspira, espira.


Eirwen

Inspira.
Durante l'inspirazione l'aria ricca di ossigeno entra attivamente nei polmoni grazie ad un movimento di espansione della cassa toracica, la quale aumenta di volume. A questo scopo il diaframma, si appiattisce e contemporaneamente i muscoli intercostali si contraggono e spingono in alto e in fuori la cassa toracica. Insieme a questa si espandono anche i polmoni.
Più intensa è l'azione dei muscoli intercostali più aria entra nei polmoni.

Espira.
L'espirazione, durante la quale l'aria povera d'ossigeno viene espulsa passivamente, avviene quando i muscoli e il diaframma, che hanno provocato l'inspirazione, si rilasciano. Ciò determina una costrizione della gabbia toracica e una contrazione dei polmoni che, essendo molto elastici, espellono l'aria.

Inspira, espira. Inspira, espira. Inspira, Espira.
Sono due semplici processi che quasi ci vengono naturali, non ci si deve neanche prestare troppa attenzione, ci vengono così, un po' come amare.
Eppure sono tre giorni, da quando l'ho rivisto, che mi sembra come di essere sempre a corto di ossigeno, come se l'aria attorno a me fosse rarefatta, carica solo di anidride carbonica.
I polmoni quasi mi fanno male.
Sembrava così simile al Niall dei miei ricordi, con quei capelli biondi, gli occhi azzurri a cui nemmeno il colore del cielo renderebbe giustizia, le dita delle sue mani affusolate e rosa pallide. Tutto in lui richiamava a galla vecchie sensazioni assopite che non ricordavo nemmeno di aver provato.
Eppure, nel momento in cui aveva parlato qualcosa era andato storto: la voce non era più quella di un ragazzino, era forte ora, simile a quella di un uomo e quegli occhi che prima tanto veneravo, ad un tratto si erano tramutati in angoli d'oceano che mi avevano messa in soggezione, fatta vacillare e forse anche indietreggiare. Mai, in passato, mi aveva fatto questo effetto.
Ma d'altronde si sa, il rischio di aggrapparsi ai ricordi è questo, quando ti scontri con la realtà, l'effetto è simile a quello di una porta presa in pieno volto: doloroso e inaspettato.
Inspira, espira.
L' odore di caffè mi invade le narici dandomi un leggero sollievo. Ho sempre odiato il suo sapore, ma amo il suo profumo, soprattutto quello che ha quando si posa sulle labbra delle persone. Un po' come la sigaretta.
Quando avevo quindici anni avevo provato a fumare e mi era anche piaciuto, a differenza di molte persone adoravo l'odore che mi lasciava la cicca consumata sui polpastrelli.
Ma non appena Niall era venuto a sapere del mio non-ancora-vizio si era arrabbiato talmente tanto che per un attimo avevo pensato avrebbe mobilitato l'esercito per rimuovere dalla circolazione ogni singolo pacchetto di sigarette pur di farmi smettere.
Perlomeno non lo aveva detto ai miei.
Inspira, espira.
È assurdo come tutti i miei ricordi siano legati a lui, come se per una gran parte della mia infanzia o adolescenza io avessi fatto affidamento solo su di lui, come se Niall fosse stato il mio intero mondo e universo.
Probabilmente è così.
Inspira, espira.
Accogliamo le persone nelle nostre vite come se dovessero poi restarvi per sempre, organizziamo le nostre giornate in loro funzione, ma il problema è che nella maggior parte dei casi sono solo di passaggio e non siamo mai pronti a vederle andare via.
Ogni volta è una sorpresa e un dolore che non siamo in grado di affrontare.
Dovrebbero inventare una guida “Vivi solo in funzione di te stesso”, sarebbe un successo, o perlomeno io la comprerei sicuro.
Inspira, espira.
Sollevo un sopracciglio non appena vedo un bambino, forse di cinque anni, rovesciare il frullato,  comprato dal papà, sul tavolo. Immediatamente la superficie di legno diventa un acquitrino e la bevanda oramai si trova ovunque eccetto che nel bicchiere di plastica.
L'uomo sulla trentina inizia ad asciugare il liquido giallastro, tentando di arginare i danni, mentre il ragazzino comincia a piangere, come se fosse accaduto qualcosa di gravissimo, come se un tornado avesse appena spazzato via la sua intera famiglia.
Una cameriera accorre con uno straccio, sorridendo cordialmente all'uomo che non sa più se prestare attenzione al figlio che urla e scalcia o alla bevanda che ora gli è finita anche sui pantaloni beige.
Una smorfia mi si disegna sul volto, questa scena mi sta dando il voltastomaco.
Inspira, espira.
Decido di concentrarmi su altro. Il bar a quest'ora del pomeriggio è gremito di gente e ho l'imbarazzo della scelta: in fondo, all'angolo a destra, c'è un gruppo di dodicenni che si diverte a prendere in giro la signora alla cassa, che probabilmente si è accorta da diversi minuti che si stanno beffando di lei, ma che ha troppa pazienza per dargliela vinta.
Accanto alla porta d'entrata rosso vermiglio, c'è una ragazza forse della mia età che si specchia ogni trenta secondi nella vetrina del negozio, controllando se ha qualche capello fuori posto e puntualmente si infila la ciocca corvina dietro l'orecchio sinistro, mentre quello che dovrebbe essere il suo fidanzato smista nel suo portafogli per pagare il conto.
Sembrano tutti così presi dalle loro vite, appagati e.. Rassegnati.
E io? Mi sono rassegnata anche io?
Non lo so, non ne ho la più pallida idea.
L'unica cosa che non faccio altro che ripetermi è la domanda di Robert Musil “È questa dunque la vita che diventerà mia?”
Sarò come quel papà disperato dai pantaloni sporchi di frappè, o quel fidanzato che guarda sconsolato il portafogli o quella vecchietta che siede sola ad un angolo del bar, sorseggiando un tè verde e guardando con aria di sufficienza chiunque osi compatirla?
Di nuovo un senso di nausea viene a farmi compagnia e non sono sicura se devo dare la colpa ai miei pensieri o al cappuccino che sto sorseggiando, nonostante la mia intolleranza al latte.

«Hai sempre avuto il vizio di bere il cappuccino a qualsiasi ora del giorno»
Una voce mi fa sussultare mentre il mio cuore inizia a battere un po' più velocemente. Alzo la testa di scatto e ci metto qualche secondo a mettere a fuoco la figura che ho davanti.
Le mie labbra si muovono da sole e un sorriso fa capolino sul mio volto «Zayn.»
«Eirwen» e mentre lo dice allarga le braccia, sorridendo e studiandomi, come io sto facendo con lui.
Non è più il ragazzino di sedici anni, dai capelli ordinati e dalle braccia pulite, con il fisico esile e alto poco più di un metro e sessanta. Non è più lo Zayn dal sorriso timido, diligente e dalle mille insicurezze.
È cresciuto, cambiato. Le sue braccia sono nascoste da tatuaggi e mi chiedo cosa significhino, forse un giorno glielo chiederò.
È alto, i capelli sono scompigliati e nella sua posa sembra quasi strafottente, consapevole di quei suoi grandi occhi nocciola e di quel sorriso un po’ prepotente.
La voce è ancora più bassa, forse una, due tonalità.
Il volto velato da un lieve strato di barba. Ha grandi mani ed è vestito completamente di nero. Forse lo sto fissando da troppo tempo.
Fa uno strano effetto rivederlo dopo tutti questi anni.
Inspira, espira.
Mi alzo dalla poltrona in pelle verde e aggiro il tavolo, con una lentezza che mi sembra quasi disumana poi, in pochi secondi, trovo conforto nell'abbraccio di Zayn e per un attimo mi sembra di tornare a respirare.
Finalmente, da quando sono qui, non mi sento poi così estranea o sbagliata.
Inspira, espira.
Ha un profumo pungente forte, che si mischia all'odore di sigarette che impregna la sua giacca scura in eco-pelle.
«Da quanto tempo» sussurra contro i miei capelli «troppo tempo.»
Sento quasi le sue labbra sfiorare il mio orecchio. Rabbrividisco.
Ricordo ancora l'ultima volta che mi era stato così vicino, lo ricordo come fosse ieri. Perchè alle volte anche se a dividerci da una persona ci sono ore, giorni, mesi o anni, basta un momento, uno sguardo o un tocco per annullare qualsiasi distanza, che sia temporale o mentale.
Ero davanti casa sua quel giorno, con le valigie in mano e voglia di scappare.

«Dove stai andando?» mi domanda Zayn, stringendo la sigaretta fra l'indice e l'anulare medio, scruta i bagagli che ho accanto e quelli che mi aspettano nel taxi.
Ha un aspetto tirato, stanco, forse queste notti non ha dormito. Anche il suo abbigliamento urla che qualcosa non va: indossa una maglietta grigia, logora, bucata sulla manica sinistra, e i pantaloni neri sono strappati sui bordi, all'altezza dei piedi nudi.
La figura scura di Zayn contrasta con il cancello bianco pallido di casa sua, quasi stonano.
Mi mancherà.
«Torno a casa» rispondo e sono sicura di avere gli occhi arrossati, pensati e gonfi.
Lui getta la cicca a terra, rilasciando una nuvola di fumo dalle sue labbra sottili.
«È presto, siamo solo al diciassette agosto, l'estate finisce tra tre settimane» mi fa notare accigliato, come se non lo sapessi.
Fa strano anche a me tornare così presto, è da quando avevo pochi anni  che passo tutte le mie estati qui, fino al primo di settembre.
Un rito che dura sedici anni, da prima che la mia memoria abbia ricordi. Un rito che so sto per spezzare.
«Che succede?» le sue mani si posano sulle mie spalle, con un movimento lento e calcolato che mi fa venire la pelle d'oca. Mi sta scrutando, alla ricerca di un segnale, qualcosa che gli possa rivelare cosa mi stia succedendo.
Inspiro.
«Nulla» rispondo incerta, forse troppo «ho solo bisogno di tornare a casa» ed è la verità, so che non sarei mai in grado di mentire a Zayn; in dieci anni che lo conosco è sempre riuscito a capire se quella che dicevo fosse la verità o meno. Basta un suo sguardo, un suo sorriso ed ecco che riesce a smascherare ogni mia singola bugia.
Espiro.
«Avanti Eirwen, che è successo? Ieri alla festa eri così allegra, forse anche troppo» sorride, si sta riferendo al fatto che fossi un po' brilla.
Non mi ubriacherò mai più.
«Non è successo nulla» liquido la frase con un gesto della mano, abbassando gli occhi sulle punte delle mie superga segnate dal tempo.
«Stronzate» infila una mano nella tasca sinistra: altra sigaretta.
«Ti fa male fumare così tanto» cerco di sviare il discorso, ma so già che non funzionerà.
«Grazie per il suggerimento mamma, adesso dimmi chi devo andare a menare.»
Rido.
«Non è succes-»
«Facciamo così» mi interrompe, prendendo un'altra boccata di nicotina «puoi dirmi tutto subito e magari farla finita, o restare qui per altre tre ore e dirmi tutto comunque. Ovviamente il processo sarà più lungo e noioso» mi scruta da sotto le sue lunghe ciglia nere e «quale opzione scegli?»
Zayn non è mai stato un tipo paziente, non gli piace dover cavare le cose di bocca a qualcuno, soprattutto se si tratta di me, perchè in quei casi, sa che gli sto nascondendo qualcosa. E la sua impazienza sprizza da tutti i pori, lo vedo dal fatto che in due minuti si è fumato due sigarette, da come tamburella le dita sui suoi pantaloni sgualciti, o da come batte meno frequentemente le ciglia.
Temporeggio, mi raccolgo i capelli in una coda provvisoria, poi li rilascio cadere sulle spalle. Mi gratto il polso e sposto il peso da un piede ad un altro.
«Ieri sera ti ho vista al faro, eri con Niall.»
Sussulto leggermente a quel nome e lui lo percepisce.
«Te ne sei andata poco dopo, che è successo?» Fa un passo verso di me.
So che non desisterà, Zayn è così: insistente, testardo, alle volte un po' brusco e di poche parole. È cosi differente da Niall.
«Gli ho detto che sono innamorata di lui» dico d'un fiato «in tutta risposta l'ho trovato a letto con mia sorella.» Distolgo lo sguardo da lui, spostando l'attenzione su un aquilone a forma di farfalla poco oltre le villette color sabbia, quelle che amavo tanto perché a sei anni quando passavo davanti alle mura allora ancora in costruzione, mi sembrava sempre di trovarmi tra le rovine di un castello.
Inspira, espira.
«Mi dispiace» e sebbene non dica altro so che è davvero dispiaciuto.
«Potresti restare comunque» aggiunge poi, gettando il secondo mozzicone spento oltre la siepe.
Mi mancherà.
«Ho bisogno di andarmene per un po', tu sai quanto ci tenessi a..» lascio la frase in sospesa perchè la mia voce inizia ad essere irriconoscibile.
«Puoi rimanere qui per me.»
Inspira, espira.
Siamo vicini, così vicini che ho quasi paura possa sentire il mio cuore battere all'impazzata.
Mi chiedo come sarebbe una vita con Zayn, con lo stesso ragazzino che mi aveva regalato il suo palloncino quando il mio mi era scivolato via di mano, diventando un puntino blu nel cielo, o quel ragazzo che mi aveva dato ripetizioni di matematica alle medie.
Per un attimo la mia sicurezza vacilla, forse a causa del suo sguardo ipnotico, o delle sue mani che si sono appena poggiate sui miei avambracci.
«Non posso» sussurro, più a me stessa che a lui.
Vedo sul suo volto un accenno di delusione, rabbia e forse tristezza, poi la maschera impassibile ritorna; l'unico accenno di nervosismo è dato dalla mascella contratta.
«Non vuoi» mi corregge brusco, c'è risentimento nelle sue parole, collera e io sento il mio cuore incrinarsi «sei così concentrata sulla tua infatuazione per Niall che non vedi nessun altro.»
Spalanco gli occhi, perchè il discorso sta prendendo questa piega?
«Non è vero» tento di giustificarmi.
«Sì, invece! Non ti interessa nient'altro che lui, sei ossessionata solo perchè da piccolo si è mostrato gentile con te! Ma indovina? Niall è gentile con tutti! Non sei speciale per lui, ma non te ne accorgi!» Perchè ora sta urlando? La sua voce stona con il volto calmo imperturbabile, stona un po' come un si bemolle suonato al posto di un do.
Le sue parole mi feriscono, si insinuano lente sottopelle, come un veleno letale e so che se potessero mi ucciderebbero anche. Forse lo stanno già facendo.
«Io sono sempre stato qui! Ad aspettarti, sperando che ti accorgessi di me, ma è impossibile! Anche ora che ti sto pregando di restare per me! Tu non lo capisci! È più importante Niall, non è vero? Nessuno sarà mai alla sua altezza.
Io non sarò mai alla sua altezza.»
«Zayn, ti prego, sai che ti voglio bene, ma-»
«Ma cosa?»
Le sue mani mi stringono sempre di più, ora fa quasi male la sua presa, mentre il suo volto è vicino al mio, troppo, mi mette soggezione.
«Ma sei innamorata di lui, giusto?» sorride amaramente scuotendo la testa «vattene.»
Spalanco gli occhi «che cosa?» e spero di aver davvero capito male.
«Vattene, Eirwen. Magari quando tornerai capirai  che c'è tutto un mondo oltre Niall»
E detto questo mi volta le spalle; nonostante le sue parole è lui ad andarsene.
L'ultima cosa che sento è il suo profumo di muschio mischiato all'odore di sigaretta.
Inspira, espira.


«Wen, ci sei?»
Zayn richiama la mia attenzione, agitando una mano davanti al mio volto e io scuoto la testa, cercando di scrollarmi un senso di inquietudine da dosso.
«Sì, sì scusami» sorrido imbarazzata «ero un attimo sovrappensiero, cosa mi hai chiesto?»
«Ti ho chiesto se potevo sedermi al tavolo con te»
Sono quasi sicura di aver già vissuto una scena simile.
«Certo.»

«Sai Wen, mi sei mancata, ti ho aspettata ogni estate.»
Inspira, espira.
 
Niall

«Avanti Niall! Non puoi stare col muso tutto il pomeriggio, sembra che ti abbiano ucciso il gatto» mi sfotte Liam.
«Non ho un gatto» bofonchio e in ogni caso, penso, sarebbe stato meno doloroso che vedere Wendy là davanti a me, guardarmi come fossi un mostro.
«E per fortuna, i gatti sono menefreghisti e ti guardano con quegli occhi  quasi stessero architettando un modo per distruggerti, sono inquietanti» interviene Harry. Sta stappando una lattina di pepsi, mentre si lascia cadere sul divano in stoffa di Liam.
Mi è sempre piaciuta questa casa, così piccola, raccolta, sembra.. Umana. I mobili in legno chiaro, i quadri di artisti sconosciuti, magari di strada, l'ambiente spartano, i modellini di navi in miniatura poggiati sugli scaffali color sabbia, tutto sembra gridare normalità, cosa che a casa mia manca.
«Ehi, Mr. Cookie si offende, non dire queste cose.»
«Ti prego Liam, taci» dice Harry in un mezzo sorriso, roteando gli occhi al cielo «e tieni quel coso peloso, figlio del demonio, lontano da me» e indica il gatto del moro appollaiato ai piedi della tv.
In tutta risposta Mr. Cookie fa uno sbadiglio,  stiracchia le zampe posteriori e poi si rimette a dormire. Sembra quasi disinteressato a tutto quello che gli sta accadendo intorno, se esplodesse una bomba probabilmente resterebbe là.
Odio i gatti.
«Allora Niall, vuoi dirci una volta per tutte cosa vi siete detti tu ed Eirwen?»
La domanda di Liam mi lascia spiazzato, in questi giorni nessuno di loro ha osato chiedermi nulla, Harry si è limitato a fare qualche battuta per tirarmi su il morale e Zayn invece ha evitato qualsiasi tipo battuta, frase, o mugolio.
In realtà, ora che ci penso, non ricordo abbia parlato chissà quanto.
«Non molto» mormoro afferrando il telecomando alla mia sinistra «mi ha rinfacciato ciò che le ho fatto, ha detto che mi meritavo il suo silenzio e poi se n'è andata.»
Inizio a cambiare compulsivamente canale, senza prestare troppa attenzione ai canali che mi passano davanti agli occhi, tutto quello che vedo è un programma per bambini sui dinosauri, un telegiornale,, una donna che mostra una selezione di coltelli e un film degli anni ’70.
«E tu che le hai detto?» Liam sembra una macchina divoratrice di informazioni, è sempre stato un suo difetto quello di essere curioso.
«Che mi dispiaceva» e che mi era mancata, ma questo lo tengo per me.
«Solo? Amico, non basta! Insomma, devi darti più da fare, l'hai combinata grossa all'epoca» mi riprende il padrone di casa.
Io gli lancio un'occhiataccia e sto per rispondergli, ma Harry mi precede.
«Direi che l'hai combinata enorme»
«Siete qui per aiutarmi o infierire?» mi sto davvero irritando.
Liam si siede a gambe incrociate sul tappeto dalla stampa astratta, davanti a me. Lo strappo che ha sui jeans chiari sul ginocchio sinistro si accentua, mostrando un pezzo di pelle nuda.
«Beh non puoi negare che sei stato uno stupido.»
Il riccio si sistema accanto a me e «stupido è troppo leggero, io direi più “coglione” anzi, “stronzo” secondo me gli si addice di più.»
Mi arrendo e smetto di fare zapping: il film anni ’70 ha vinto su tutti.
«Harry, entro trenta secondi ti tiro Mr. Cookie appresso. Avete dei consigli o continuerete ad insultarmi tutto il tempo? Perchè se così fosse me ne torno a casa.»
So che stanno cercando di tirarmi su il morale, che stanno facendo del loro meglio, ma io non sono per nulla in vena di stargli dietro. L'unica cosa che vorrei fare è andare a cercare Wendy e costringerla a starmi ad ascoltare, perchè forse, una volta ascoltato quello che ho da dirle tornerebbe da me e allora stavolta farei davvero funzionare la nostra relazione, stavolta non rovinerei tutto.
«Ok» sospira Harry alzando le mani in segno di resa «hai ragione, abbiamo esagerato, ma resta il fatto che se vuoi avere un'altra chance con Eirwen ammettere che sei stato uno stronzo o scusarti non basta, devi fare qualcosa di più.»
«Qualcosa di più? Del tipo?» gli chiedo, dando voce alla mia confusione mentale.
«Ehi, io ti ho dato lo spunto, l'idea la devi sviluppare tu. Liam aiutami.»
Payne si gratta il capo pensieroso «un mazzo di fiori?» domanda accigliato.
Scuoto la testa sconsolato, chiedere consiglio a questi due è come gettarsi in una guerra disarmati.
«Fino a prova contraria non è la mia ragazza» bofonchio «e no, Liam, neanche una scatola di cioccolatini sarebbe opportuna.»
«D'accordo, d'accordo» traccia il contorno di uno dei cerchi del tappetto bordeaux «entrambi?»
«Fottiti, grazie» il riccio viene a darmi manforte «avanti ragazzi, spremiamoci le meningi, ci sarà qualcosa che possa aiutare Niall.»
In questo momento l'unica cosa che potrebbe aiutarmi è una spinta giù per un dirupo, penso, avrei più probabilità di sopravvivere che ad un secondo incontro con Wendy.
Wendy, Wendy, Wendy.
Ho quasi la nausea a forza di pronunciare questo nome, sono giorni che non faccio altro che riportarlo alla memoria insieme alla sua immagine, sono ore che rivedo quei suoi occhi da cerbiatto che adesso sono diventati ancora più belli, più grandi, ore che accarezzo con lo sguardo il suo volto mentre mi rinfaccia il passato e corre via.
Mi chiedo come io abbia fatto a farmela scappare.
«Comprale un pony» propone Liam.
Mi inizio a domandare sei stia facendo sul serio o meno. Spero per lui di no.
«Si e magari arriva sotto casa sua cavalcando un unicorno» ironizza il riccio.
«Bell'idea» gli fa notare «sono sicuro che suo padre non avrebbe problemi a procurargliene uno.»
«Payne, gli unicorni non esistono» sussurra Harry mentre si passa una mano sul volto, la demenza di Liam alle volte stupisce anche lui.
«Lo so» mormora offeso «alle volte desidererei che non mi prendeste così sul serio.»
Desidererei.
«Che hai detto?» chiedo improvvisamente a Liam.
Lui mi guarda senza capire «che..» tentenna «desidererei che non mi prend-»
«Desideri» e stavolta lo mormoro sottovoce.
Harry dice qualcosa, ma io ormai non li sto più ascoltando. Immagini di me e Wendy da bambini, lei sull'altalena, io che la spingo.
 
«Ti è caduto qualcosa dalla tasca» la mia voce sovrasta il frinire di una cicala e smetto di far dondolare Eirwen, troppo occupato a fissare l'oggetto non identificato ai suoi piedi.
«Ehi!» protesta, scocciata, ma io non le bado e raccoglio il  foglietto poco più in là.
«Cos'è?» le domando curioso, sbirciando il pezzo di carta.
«Ridammelo!» urla arrabbiata, non vuole che lo legga, continua a saltare a destra e sinistra tentando di riprenderselo.
«È una lista dei desideri?»


Ormai le voci dei miei due amici non sono altro che un mormorio indistinto.

 «[...] quando sarò adulto te li realizzerò uno ad uno, d'altronde sono quello più grande, ho delle responsabilità io!»

E prima che possa rendermene conto, urlo «So cosa devo fare!»



 

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