Tywaz (God Warriors)

di Deliquium
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 - Tyr (Siegfried di Dubhe) ***
Capitolo 2: *** 2 - Bjarkan (Mime di Benetnasch) ***



Capitolo 1
*** 1 - Tyr (Siegfried di Dubhe) ***


Tywaz (God Warriors)

Premessa dell'Autrice

Tywaz fa parte di Sincretismo, il che vuol dire che le storie sono scritte tenendo conto di quell'headcanon. Se non vi trovate con certe cose, è perché c'è un corollario di what if? Sul quale si regge la serie.
Chi ha dimestichezza con l'alfabeto runico, il cosiddetto fuþark, avrà già capito che il titolo della raccolta Tywaz, fa riferimento al terzo aett, “dedicato” al dio della guerra Týr.
Questo aett simboleggia il rapporto dell'uomo con le forze divine e la loro funzione nelle trame del Destino; descrive la condizione umana, gli aspetti sociali e le trasformazioni spirituali.
Il fuþark, l'alfabeto runico, associabile alle antiche popolazioni germaniche, comprendeva 24 rune, suddivise in 3 gruppi da 8, detti Aettir.
Questa raccolta quindi prevederà otto one-shot, tante quante le rune di Tywaz e i guerrieri di Asgard più un nono racconto “The Blank Rune” dedicato a Hilda di Polaris.
Per quanto riguarda il “nome” di ciascuna runa, ho optato per i nomi in norreno.

Tyr (Siegfried di Dubhe)

Impara le rune della vittoria,
se tu desideri vincere,
e scrivi le rune sulla tua elsa;
alcune nel solco,
ed altre nel piatto,
e due volte dovrai invocare Týr.


Edda



Eterno era l'inverno dell'Asgard di mezzo.
La primavera si era ritirata in un anfratto innominabile, protagonista di racconti alla luce delle fiamme in una giornata candida di neve.
Il vento imperversava con la sua voce incomprensibile fatta di centomila voci diverse, sbatacchiava la stoffa rossa di cui era fatta la tenda da campo.
Una chiazza di sangue e tramonto in mezzo a tutto quel bianco.
In lontananza, i rumori degli scontri giungevano attutiti alle orecchie di Hjördís.
La donna sospirò, l'attenzione rivolta interamente all'uomo adagiato su una spessa pila di coltri. I capelli biondi, leggermente mossi, erano sparsi sul cuscino a incoronare un volto segnato dalle cicatrici.
Hjördís prese un panno e allungò una mano, a sforargli la fronte imperlata di sudore.
Si bloccò di colpo, non appena avvertì il tocco deciso di lui.
Lo guardò negli occhi azzurro cielo per un istante, prima che lui scuotesse la testa, quasi a dirle: A che serve?
Già, a che serve?

Hjördís trattenne il respiro, fino a quando lui, non distese il braccio a incontrare le sue bianche dita. Sorrise mesto, mentre con uno sforzo, risaliva lungo le pieghe della veste blu notte, fino a posarsi sulle curve morbide del ventre gravido.
Lei si morse il labbro, nell'udire il suo sospiro. Gli occhi lucidi rivolti al cielo.
«Perché piangi?» chiese lui.
Hjördís distolse lo sguardo.
Troppe cose da dire, altrettante da tacere.
«Rallegrati moglie mia, che il tuo ventre è culla di guerriero.»
«E' troppo presto. Non sono pronta per questo guerriero. Non sono pronta per perdere te.»

Sfiorò con la punta delle dita le estremità della treccia bionda che era solita portare. Di più non poteva fare, non aveva la forza per incontrare il suo volto.
«Lo sarai. Lo sarai.» ripeté rassicurante.
Staccò la mano da lei, e sollevando il braccio puntò il dito verso un angolo della tenda. Hjördís si voltò e vide il suo baule.
«C'è una cosa che devo darti per lui.» disse Sigmundr con fatica.
Lei si alzò.
«Aprilo.» la invitò lui quando la vide appoggiare la mano sul pomello intarsiato.

Hjördís guardò dentro, ma non vide niente, se non un sacchetto di velluto verde.
«E' quello.» esalò lui, avvertendo la sua titubanza. «Aprilo.» ripeté, non appena lei si fu inginocchiata al suo capezzale.
Hjördís slacciò il cordoncino dorato.
Spalancò gli occhi. Sul velluto scuro splendevano frammenti di acciaio, di argento, di cristallo. Non avrebbe saputo dirlo. Sembravano gemme. Un diamante fatto a pezzi.
Alzò lo sguardo interrogativo verso il marito.
«Una lama.» le spiegò lui. «La mia spada. Dalla a mio figlio, perché io possa riconoscerlo quando varcherà le porte del Valhalla.»

Hjördís strinse i denti.
Non è ancora nato e tu già predisponi tutto perché abbia una morte gloriosa?
Oh, Freiya! Come può il cuore di una madre assorbire tutto il dolore e l'incoscienza dell'uomo?


Hjördís attese. Attese per molto molto tempo. Attese per un tempo che aveva smesso di essere il tempo.
Avvertì la presenza di qualcuno alle sue spalle. Amico o nemico, non le importava.
Le mani giunte, gli occhi fissi sul corpo del marito per scorgere un accenno di movimento che non sarebbe mai più avvenuto.
Álfr rimase immobile. Tacque a lungo. Tacque perché lei prendesse atto di quello che accaduto e si congedasse dallo sposo, dall'amante, dal padre del figlio che portava in grembo.
Perché non riversasse su di lui tutto il suo odio, tutto il disprezzo, tutta la rabbia nei confronti di chi l'aveva abbandonata.
«Ti avevo detto di riportarmelo.» disse con durezza, dopo un tempo che sembrava essersi perso nel susseguirsi degli istanti. «Lo avevi promesso.»
Avrebbe sopportato tutto il suo odio, tutto il disprezzo, tutta la rabbia.
«Tuo marito è morto con onore, Hjordis. Suo è il Valhalla.»
«Onore? Quale onore c'è, nel tradimento?» rise lei nervosamente. «Cosa dirò a Siegfried?»
«La verità. Che suo padre è morto, per proteggere Asgard. E che banchetta con carni di cinghiale e fiumi di idromele.»

Lei non rispose.
Il silenzio impregnava la tenda, teneva lontano il clangore delle armi, le grida di disperazione e le urla di battaglia.
Attendevano il passaggio del tempo, l'accettazione del suo scorrere imperituro.
«Dovremmo togliergli l'armatura. E' venuto il momento che il drago a due teste torni a riposare nel ventre di Asgard.»
La voce di Hjördís era una carezza.
Sfiorò con la punta delle dita l'elmo che aveva protetto Sigmundr nel corso delle battaglie. Le lacrime le segnavano il volto. Scosse la testa, rimproverando sé stessa.
Hjördís, perché piangi? Perché piangi?

«Lascia, faccio io.»
La voce di Álfr era come la fiamma di un focolare che proteggeva e riscaldava. Era ancora presto, ma lei sapeva che un nuovo nodo sarebbe stato presto stretto.
Álfr liberò l'avambraccio di Sigmundr dalla corazza.



C'era un'atmosfera strana a palazzo e non si trattava solo del vociferare delle sguattere e degli stallieri; non era nemmeno quel cielo plumbeo che da una settimana circa teneva la città sotto una cupola nefasta.
Era una sensazione, un prurito alla base del collo, un voltarsi indietro a cercare tra le ombre un nemico immaginario.
Aggrottò le sopracciglia non appena scorse la figura tarchiata di Reginn venirgli incontro. «Guarda guarda chi ho il piacere di incontrare!» ghignò l'uomo.
Il panciotto scuro tirato sul ventre prominente. Un paio di occhialetti montati d'argento dietro i quali guizzavano due occhi porcini e avidi.
«Da quando la nobile Hilda ti ha chiamato a sé, è impossibile riuscire a incontrarti.» dichiarò teatralmente. Poi, con tono più cattivo, aggiunse: «Non ti sarai mica montato la testa?»
«Non … »
Reginn scoppiò a ridere.
«Scherzavo, ragazzo. Scherzavo.»
Siegfried non era affatto sicuro che il suo tutore scherzasse. Lo conosceva, aveva avuto anni per farlo. Da quando sua madre Hjördís e suo marito, il jarl Álfr lo avevano mandato presso Reginn. Non aveva mai più parlato con sua madre, anzi, non era nemmeno certo di averlo mai fatto. Ha incontrato Hjördís, certo che l'ha incontrata!
Le ha sellato il cavallo, e le ha spiegato come fare per farsi ubbidire. Lei ha ascoltato con gli occhi azzurri fissi sull'orizzonte.
Ha ascoltato. Non ha mai parlato.
Capitava, a volte, che una madre rinunciasse volontariamente al figlio, lo liberasse dal vincolo del sangue, perché potesse crescere come uomo e come guerriero.
Ma Reginn era tutto fuorché un creatore di onore e gloria. Un uomo infimo, basso, accecato dall'ingordigia. Misurava il valore delle persone dal quantitativo di monete d'oro che potevano ottenere in cambio dei loro averi.
Aveva un fratello, Fafnir. Un folle che Siegfried aveva incontrato una sola volta e c'era rimasto quasi secco.
«E così, i Greci minacciano di invaderci...»
Aggrottò perplesso le sottili sopracciglia. Quanto sapeva Reginn? Quanto il popolo di Asgard? «La nostra alleanza con i Greci risale a oltre tremila anni fa. Non è mai stata infranta.» ribatté deciso.
Reginn assottigliò gli occhi, un ghigno fiorì sulle sue labbra a significare che per quante parole lui avrebbe usato, non vi avrebbe creduto.
«Quindi, è solo un caso, Siegfried di Dubhe se tu mi stai parlando indossando l'armatura che un tempo fu di tuo padre?» insinuò mellifluo.
Doveva allontanarsi da quell'uomo che lo aveva cresciuto al posto di suo padre e di sua madre, che aveva cercato di impiantare in lui il seme della malvagità e che lo guardava con il disprezzo di chi sdegna un grappolo d'uva.
Ogni istante accanto a lui, era una partecipazione all'inferno.
«Come vedi, mio caro Siegfried, ciò che è nato quadrato non diventa tondo.»
«Cosa intendi dire, Reginn?»
Lui piegò le labbra in una smorfia.
«Quella che indossi è una corazza. In te alberga l'antica forza del drago a due teste.» Poi, simulando sorpresa aggiunse: «Non dirmi che speri ancora che non vi siano vittime?»
«Non è ancora scoppiata alcuna guerra, Reginn e Hilda farà di tutto perché non accada!»
Questa volta Reginn non si impedì di ridere.
«Hilda?» balbettò impossibilitato a fermarsi. «La stessa donna che ha sciolto il Gran Consiglio e ha richiamato alle armi voi guerrieri divini?! Oh, sono proprio curioso di sapere quale pace proporrà, la nostra amata Hilda di Polaris.»

 

Note dell'Autrice - Tyr è la runa del guerriero, associata al dio Týr; tutti i nomi e i riferimenti presenti nella storia sono presi dalla mitologia norrena. Questi fatti, si svolgono poco prima della serie di Asgard dell'anime, che io rivedrò quando mi deciderò – un giorno! - a pubblicare la storia finale di Sincretismo.

 

 

Questa è opera di fantasia.
Saint Seiya, i suoi personaggi e ogni richiamo alla serie citata appartengono a Masami Kuramada. Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro, ma solo come omaggio da parte di un fan. Tutti i personaggi, gli episodi e le battute di dialogo sono immaginari, e non vanno riferiti ad alcuna persona vivente né intesi come denigratori. In particolare, i personaggi, le ambientazioni e le situazioni da me create, mi appartengono; per poterli utilizzare altrove, o per riprodurre questa storia o parti di essa è necessario il mio consenso.

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Capitolo 2
*** 2 - Bjarkan (Mime di Benetnasch) ***


Tywaz (God Warriors)

Bjarkan (Mime di Benetnasch)

Bjarkan er laufgrønstr líma;
Loki bar flærða tíma.

La betulla ha le foglie più verdi di qualsiasi arboscello;
Loki fu fortunato nel suo inganno.




antico norvegese



La sala del trono era bagnata dalla luce crepuscolare dei ventiquattro candelabri a sette braccia. Dodici per lato, lungo le pareti di pietra, segnavano il cammino dalla porta al Trono di Odino, l'Hliðskjálf.
Benché fosse solo una copia dell'originale presente nel palazzo d'argento del dio, il Válaskjálf, era ugualmente imponente e ravvivato da un buon numero di leggende che avevano contribuito ad alimentare una fama riflessa.
Da quel che ricordava, Folken non lo aveva mai visto occupato e nemmeno suo padre, Jonas, e il padre di suo padre.
Avanzò lentamente. Gli stivali inzuppati di pioggia lasciavano alle sue spalle impronte bagnate e contrassegnavano il silenzio con fastidiosi marchi sonori.
Björn lo attendeva in piedi alla destra del trono.
Le ombre avevano celato la sua figura fino a quando, fatti alcuni passi avanti, non aveva consentito al chiarore delle candele di gettare pennellate di luce sul suo profilo.
«Alzati Folken.»
Era invecchiato.
Folken se ne accorse dalla voce, ancor prima di vedere il candore dei capelli che gli ricadevano sulle spalle e il fitto reticolato di rughe a increspargli il contorno degli occhi e delle labbra.
Il Celebrante tese le braccia e Folken sentì la presa incerta delle lunghe dita deformate dall'artrite e dal tempo.
Lo fissò per un lungo istante con gli occhi lucidi.
«Quanto tempo, amico mio.»
«Molto tempo.» sussurrò Folken distogliendo lo sguardo.
«Vieni, vieni.» disse l'anziano Celebrante prendendolo per un braccio e conducendolo verso una piccola porta a lato del trono. «Hai molte cose da raccontarmi e non c'è modo migliore di ascoltare una buona storia bevendo idromele e mangiando carne salata di cervo.»
La stanza dove Björn lo condusse era piuttosto piccola e arredata in maniera frugale: sul tavolo erano appoggiati un piatto di carne, un'anfora di ferro e due calici anch'essi di ferro; le pareti erano nude e una piccola finestra si apriva su un corridoio interno immerso nell'oscurità.
Björn fece segno a Folken di sedere e prese posto dall'altro lato del tavolo. Sollevò l'anfora: il profumo d'idromele si diffuse immediatamente tra le strette mura e Folken lo inspirò chiudendo gli occhi.
Quanto gli era mancata la sua terra: gli odori, i colori, l'onnipresente gelo. I sapori. Una cascata di ricordi s'inseguirono nella sua mente, mentre la sua gola ardeva bagnata dal nettare dei divini .
Appoggiò lentamente il calice sul tavolo e aprì gli occhi.
Björn sorrideva, ma Folken non poté fare a meno di notare la mestizia che adombrava il suo sguardo e corrugava le bianche sopracciglia.

Parlarono un'ora intera. Le candele si consumarono e con esse la carne e l'idromele. Folken gli raccontò del mondo che Björn aveva visto solo nelle parole di coloro che vi si recavano. E Björn ascoltava, poneva domande. A interessarlo non erano le cose importanti, ma i riflessi cangianti delle pozzanghere, le sfumature delle foreste, il canto degli uccelli, la forma delle nuvole.
Cose che Folken non aveva mai visto davvero, impegnato com'era nel discernere l'utile dal superfluo.
La loro era un'amicizia improbabile, non solo per l'ampia differenza di età, ma anche per le loro persone, così diverse eppure allo stesso tempo convergenti. Folken non sapeva nulla di musica e se ricordava i versi della Vǫluspá era solo perché suo padre gli aveva inciso la schiena a bastonate, mentre Björn non aveva alcun interesse per lo spirito guerriero dei vichinghi.
«Il Valhalla? Oh, che i divini Asi possano risparmiarmi una simile tortura. Chi vorrebbe trascorrere il resto dell'eternità in una guerra senza fine?» amava ripetere spesso, ben sapendo di quanto quelle parole infastidissero Folken.
«Un vero vichingo!» era solito rispondere lui, a sua volta, con il furore negli occhi e nelle parole; ma tutto quello che riusciva a guadagnare era uno sguardo divertito dell'uomo e un mite sorriso che dissipava ogni sentimento di offesa o ira.

«Björn, non credo che tu mi abbia richiamato perché ti raccontassi dei miei viaggi.»
Folken aveva parlato dopo che il silenzio aveva scacciato via le futili parole che – lo sapeva – avevano solo lo scopo di ritardare l'inevitabile.
Parlare di altro, perché nessuno vuole parlare di quello di cui si dovrebbe parlare.
Björn distolse lo sguardo. I suoi occhi si fissarono sul quadrato scuro della piccola finestra.
«Ti ricordi di Karl, il figlio di Erik?» chiese dopo un po', senza guardarlo.
«Sì, certo. Gli è accaduto qualcosa?»
«Oh, no. Si è sposato con Helga e hanno avuto un bambino.»
Folken si limitò ad annuire, sebbene Björn continuasse a guardare l'oscurità. Il sorriso era sparito dal suo volto e le sue parole avevano iniziato a pesare come pietre.
L'ultima volta che lo aveva incontrato, prima di partire per Londra, Karl era un ragazzino di dodici anni e ora – scosse la testa, un sorriso mesto sul volto – eccolo sposato e padre di un bambino.
«Si chiama Emil.»
«Björn perché mi hai richiamato?» chiese nuovamente.
L'uomo tornò a fissarlo: nei suoi occhi danzavano le fiamme e Folken avrebbe voluto alzarsi, lasciare quella stanza e l'espressione rassegnata di Björn.
Nessuno aveva scommesso su di lui, quando era stato designato come trentaseiesimo Celebrante di Odino. È un debole!, dicevano.
Uno che non sa far altro che strimpellare e cantare.
Quante volte Folken aveva difeso il suo onore e il suo nome. Quante ossa rotte e malelingue si era lasciato alle spalle.
«Karl e Helga hanno lasciato Asgard poco prima della nascita del bambino. Ci abbiamo messo quasi due anni a scoprire dove si trovano.»
Björn si inchinò e sollevò una busta di pelle. La spinse lungo il tavolo, verso Folken.
«Hanno cambiato nome, naturalmente.»
Folken sollevò il lembo della busta. Vi erano alcuni fogli dattiloscritti e una foto di Karl Eriksson in bianco e nero.
«New Iberia?»
«È una cittadina della Louisiana, poco distante da New Orleans.»
«È piuttosto lontano.»
Björn annuì.
«Te l'ho detto che abbiamo impiegato quasi due anni a trovarli.»
Folken alzò la testa a incontrare gli occhi di Björn.
«Il bambino è un prescelto. Sua è la veste di Benetnasch.»
«Bene. Quale splendida notizia. Dopo il figlio di Sigmundr, Asgard è stata benedetta dall'avvento di un secondo guerriero di Odino. Dobbiamo brindare.»
Folken inclinò l'anfora di ferro, la tristezza del suo sorriso era mascherata da un'eccitazione che fingeva di provare.
«Oh. A quanto pare non è rimasto più nulla.» aggiunse mesto, quando vide che nessuna goccia di idromele scendeva a riempire il bicchiere.
«Domani, hai un volo alle quindici e quarantacinque da Bergen per Lafayette. Lì dentro troverai i biglietti aerei e il tuo nuovo passaporto, oltre a tutto quello che potrà servirti per il viaggio.»
«Simon Cleave?»
«Non dovresti avere alcun problema con il tuo accento. Hai una doppia al Baton Rouge.»
«Sembra che abbiate deciso di non badare a spese.» gli fece notare Folken quando vide il costo di una notte.
«Quello è il minimo che bisogna pagare perché non facciano troppe domande.»
Dopo un po', Folken chiuse la cartelletta e si alzò. Aveva imparato ormai da tempo a dare significati ai silenzi di Björn: gli bastava guardarlo per capire e aveva capito.



Il cielo sopra Lafayette era spruzzato da una raffica di nuvole che gli donavano l'aspetto pittoresco di un quadro rinascimentale.
Folken si tolse gli occhiali da sole e con un secco movimento del polso li chiuse e infilò nel vano portaoggetti alla sua sinistra.
«Signore, ci stiamo preparando per il decollo.» aveva sussurrato l'hostess.
Lui annuì. Tra le sue braccia, Emil dormiva profondamente, con il rosso capo ricciuto, premuto contro la sua giacca di pelle.
Controllò che la cintura non infastidisse il bambino e chiuse gli occhi.
La casa gli aveva subito dato l'impressione di esser stata costruita per qualcuno che non sarebbe restato a lungo.
È per via degli uragani, gli aveva detto una volta, un suo contatto della Louisiana e Folken non aveva mai capito che senso avesse costruire una casa che il vento potesse spazzare via.
Tu non conosci il vento, Folken, altrimenti non parleresti così.
Non c'erano cancelli e un vialetto curvava nell'erba tagliata fino al garage sul lato. Folken aveva visto un pick-up Ford parcheggiato fuori dalla porta del garage.
Aveva percorso la scala che portava all'ingresso e aveva bussato. La porta a vetri restituiva l'immagine di un uomo di quarant'anni: i capelli tagliati corti, jeans e giubbotto di pelle, un paio di occhiali scuri a nascondergli gli occhi.
«Arrivo.»
La donna che gli aveva aperto la porta aveva i capelli rossi tagliati corti e un radioso sorriso che si era spento nell'istante stesso in cui lo riconobbe.
Tra le sue braccia Emil gli aveva lanciato una breve occhiata privo d'interesse, prima di tornare ad appoggiare la testa ricciuta al petto della madre.
«Helga, non inviti ad entrare un vecchio amico?»
«Sì. Sì, certo.» aveva balbettato lei, mentre si faceva da parte.
Una casa semplice, priva di un qualsiasi tocco personale. L'impressione che aveva avuto era stata la stessa che lo aveva colpito all'esterno: una casa per chi sa già che non sarebbe potuto rimanere.
Erik si era alzato di scatto, non appena lo aveva visto.
Per un lungo istante, la voce proveniente dal televisore acceso era l'unica cosa che impediva al silenzio di causare vittime.
«Vi siete ambientati bene. È una casa molto bella.»
«Che cosa ci fai qui Folken?»
«L'ho detto ad Helga, poco fa. Sono venuto a trovare due vecchi amici.» gli aveva risposto quasi con noncuranza.
Si era guardato attorno, per non dover incontrare il suo sguardo. Su una sedia appoggiata alla parete faceva bella mostra di sé la custodia chiusa di un violino. A terra, giochi sparsi: forme parziali che creano nuove forme, palle di stoffa variopinta.
Helga si era affrettata a raccogliere i giocattoli e a gettarli in una cesta, come se quel disordine avesse potuto essere la prova della sua negligenza in quanto madre e moglie.
«Non vi dispiace se mi siedo, vero?» aveva chiesto lui, senza badare al loro nervosismo. Si era accomodato al tavolo, ancor prima che potessero rispondergli: «E, Helga, se potessi prepararmi una tazza di caffè, te ne sarei grato.»
Lei lo aveva lo aveva fissato stringendo la palla di stoffa, mentre teneva Emil con l'altro braccio.
Per un istante, Folken aveva creduto che avrebbe urlato e che tutto si sarebbe compiuto in un attimo, ma la voce di Erik – «Lascia, Helga, vado io.» – stanca, rassegnata, aveva sgonfiato quell'istante.

«Come vi trovate?» aveva domandato mentre sorseggiava il caffè caldo.
Nei suoi viaggi, in giro per il mondo, il caffè aveva ben presto assunto il ruolo del simbolo di una terra. Lo si poteva trovare quasi dappertutto, ma non era mai lo stesso.
Accompagnato sovente da un goccio di latte nella sognante Parigi; ristretto e nero da sorseggiare velocemente nei ritagli di tempo nella frenetica Milano; lo aveva bevuto speziato in tazze di argento e fine porcellana a Istanbul e in alti bicchieri di carta marchiati da una nota catena mentre balzava tra le porte di un treno della metropolitana di Londra.
Negli States il caffè non lo aveva mai entusiasmato. Era come bere dell'idromele senza alcol: nient'altro che acqua al sapore di miele.
«Non è male. È tranquillo.» aveva riso. «Mi chiedo se la polizia da queste parti abbia dovuto occuparsi di qualcosa di più di un gatto su un albero.»
Loro non dissero nulla.

Nel silenzio che persisteva, Folken si era soffermato per un istante ad udire i suoni: il vento che con la delicatezza di un timido amante scuoteva i rami di betulla che poteva scorgere dalla finestra priva di tende; il televisore acceso sul notiziario; il suo respiro.
… ancora non si fermano, i violenti scontri tra i manifestanti e la polizia. Il presidente Geōrgios Papadopoulos ha dichiarato … stava ascoltando distrattamente prima che Erik gli aveva chiesto nuovamente: «Perché sei qui, Folken?»
«Voi lo sapete perché sono qui.» aveva appoggiato la tazza di caffè sul tavolo. I suoi occhi ora erano incatenati a quelli di Erik. «Per la vostra stessa ragione.»
Helga si era avvicinata al marito; teneva tra le braccia il piccolo Emil che seguitava a guardarsi attorno, incurante di tutto quello che stava per accadere.
«Non ti permetterò mai di portarti via nostro figlio.» gli aveva detto Helga e gli occhi di quella strana e singolare sfumatura rossastra per un istante a Folken erano parsi pieni di fiamma.
«Helga, sai che non sono venuto qui con l'intento di chiedervi il permesso.»
«Anche se riuscissi a portarci via il bambino, sai benissimo che io e Helga faremmo di tutto per riprendercelo.»
Erik aveva ragione e Folken lo aveva saputo fin dall'inizio, fin da quando aveva incrociato la tristezza nello sguardo di Björn.
Le sue mani grondavano sangue e con il passare del tempo si era accorto che i volti avevano smesso di avere importanza. Björn era il suo unico legame con il mondo degli uomini, eppure, Folken non era mai stato fiero di sé stesso.
Aveva sempre saputo che le porte del Valhalla sarebbero sempre restate chiuse per uno come lui.




La sala del trono era bagnata dalla luce crepuscolare dei ventiquattro candelabri a sette braccia. Dodici per lato, lungo le pareti di pietra, segnavano il cammino dalla porta al Trono di Odino, l'Hliðskjálf.
Benché fosse solo una copia dell'originale presente nel palazzo d'argento del dio, il Válaskjálf, era ugualmente imponente, soprattutto se messo a confronto con l'esile figura di Hilda di Polaris, trentasettesima Celebrante di Odino.
Sembrava quasi che la pietra stesse per inghiottirla.
Non era quello il luogo in cui Mime di Benetnasch avrebbe voluto trovarsi.
«Benvenuto, Mime Folkensson, God Warrior di Beneatnasch.» lo salutò la Sacerdotessa di Odino.
«Vi ringrazio, nobile Hilda di Polaris.» Un'impercettibile contrazione muscolare gli attraversò la mascella: «Ma vi pregherei di chiamarmi semplicemente Mime di Beneatnsch.» aggiunse sollevando il capo e guardando dritto negli occhi la Sacerdotessa di Odino.
Hilda lo fissò in silenzio per qualche istante, le lunghe dita premute sui braccioli di pietra del trono e una inclinazione crudele a deturparle la bella bocca.
Fu solo un istante, poi la sacerdotessa si lasciò andare in una risata che riempì l'intera sala del trono.
«Ti chiamerò come desideri Mime di Beneatnasch. Cos'è in fondo un nome se non un legame con un passato sul quale non abbiamo alcun potere o un vincolo che ci impedisce di essere quello che dovremmo essere veramente?»
La sua voce era ferma, dura come il ghiaccio. Le parole sembravano voler deridere ogni cosa. Era sempre stata così, Hilda di Polaris?
Non vi badò e si limitò a ricevere gli ordini in silenzio: parole che si infrangevano contro la sua indifferenza. Avrebbe protetto Asgard, sacrificando la sua stessa volontà al destino che gli era stato riservato.
Quando lasciò la sala del trono, la notte si era già volta al mattino, ma Mime non se n'era accorto, perduto nel ricordo dimenticato di una canzone che gli era fiorita sulle labbra.

 

Note dell'Autrice - Berkanan (Bjarkan) è la runa associata alla femminilità, alla crescita, alla sicurezza ed è considerata la runa degli inizi.
L'uccisione dei genitori di Mime avviene tra il 17 e il 25 novembre 1973 quando con un golpe militare, Dimitrios Ioannides rimuove Papadopoulos.

 

 

Questa è opera di fantasia.
Saint Seiya, i suoi personaggi e ogni richiamo alla serie citata appartengono a Masami Kuramada. Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro, ma solo come omaggio da parte di un fan. Tutti i personaggi, gli episodi e le battute di dialogo sono immaginari, e non vanno riferiti ad alcuna persona vivente né intesi come denigratori. In particolare, i personaggi, le ambientazioni e le situazioni da me create, mi appartengono; per poterli utilizzare altrove, o per riprodurre questa storia o parti di essa è necessario il mio consenso.

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