Imprinting

di DanceLikeAnHippogriff
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Imprinting ***
Capitolo 2: *** Sotto casa ***



Capitolo 1
*** Imprinting ***


Quando si era alzato quella mattina, la giornata era iniziata come tutte le altre. Aveva spento la sveglia, era scattato a molla giù dal letto per non darsi il tempo di rifugiarsi nel tiepido torpore delle coperte e aveva spalancato gli scuri, riempiendosi gli occhi della luce dei lampioni delle 6:00 del mattino.

Si era sciacquato la faccia, aveva fatto colazione perdendosi nel tepore del suo tè, si era lavato i denti, vestito, ed era uscito per raggiungere l’Università. Pronto ad affrontare un’altra giornata di lavoro a sviluppare la tesi di dottorato insieme ai colleghi.

Quel giorno, però, non ebbe voglia di fermarsi con loro per un aperitivo a fine orario di lavoro. Negli ultimi mesi si sentiva irrequieto, osservato. Preferiva di gran lunga rimanere tra le mura del suo appartamento a leggersi un buon libro o a guardare una serie, lasciando che un dolce senso di sicurezza e relax lo prendesse dalla punta dei piedi fino alle spalle, stanche e curve dopo le giornate passate davanti al computer. Non si era comportato da totale eremita, ma si era accorto anche lui di aver sviluppato questa tendenza che prima non gli apparteneva in modo così viscerale. In parte ne era anche felice perché riusciva ad andare a dormire a un orario decente.

Stiracchiò le spalle e allungò il collo, dando un po’ di sollievo alla schiena indolenzita, e frugò nella tasca dello zaino per trovare le chiavi del portone del condominio. Passò in rassegna il grumo informe di chiavi e portachiavi che era la sua salvezza, orgoglio e dannazione tutte insieme, cercando quella giusta senza fretta. Una macchina passò pigra nella strada alle sue spalle e si allontanò, accompagnata dal tintinnio dei portachiavi che cozzavano tra loro mentre Leo continuava la sua ricerca.

Infilò la chiave nella toppa, diede il colpetto di rito con il pugno vicino alla serratura del portone, e sentì il click metallico dei dentelli che si incastravano fino in fondo. Terribilmente soddisfacente. Fece per entrare, quando sentì un tramestio vicino ai cassonetti della via. Ci rivolse un’occhiata distratta: magari era la gatta dei vicini, non gli sarebbe dispiaciuto fare qualche grattino a quella grassona coccolona. Aprì il portone con una scrollata di spalle; era solo un barbone che faceva un po’ di casino cercando chissà cosa nella spazzatura.

Un’improvvisa sensazione di gelo gli elettrizzò la parte bassa della schiena e si propagò giù, fino alle gambe, nell’interno coscia, spingendolo a lanciarsi un’occhiata alle spalle, per scaramanzia. Il barbone lo stava fissando dalla fine dell’isolato, muovendosi a passi sconnessi, come a volersi avvicinare a lui.

Oh, col cazzo. Col cazzo proprio, pensò Leo, e batté in ritirata con un sorriso nervoso verso la salvezza della tromba delle scale. Lasciò andare la porta e si avviò verso i gradini, sentendosi investire dal dolce tepore che portava con sé il senso di sicurezza; non era sfuggito a chissà quale pericolo, si sentiva terribilmente stupido per aver provato… paura? Disagio? Qualunque cosa fosse, ormai se l’era lasciata alle spalle. Gli dispiaceva non essersi fermato, però… Magari quella persona aveva bisogno di qualcosa?

Scosse la testa con forza. Aveva mille cose da fare e la giornata non era ancora finita, quindi era meglio che si affrettasse a rientrare in casa e a caricare il PC. Però, arrivato alla terza rampa di scale, non riuscì a scrollarsi di dosso la sensazione che qualcosa non andava. Saltellò sul posto e sentì il tintinnio rassicurante delle chiavi nello zaino e il peso del telefono nella tasca. Non si era dimenticato niente, quindi perché…?

Il portone… Non aveva sentito che si chiudeva. Emise un gemito di frustrazione e si avviò mestamente giù per le scale. Il vecchio del piano terra gliene aveva dette di tutti i colori quando si era dimenticato di chiuderlo l’ultima volta; diceva che così entravano “bestie” nel condominio e che i “giovani smidollati” non avevano “le palle” di eliminarli una volta per tutte. E dato che non aveva voglia di beccarsi un’altra ramanzina eterna era meglio che rimediasse subito per non pentirsene il giorno dopo. Quel tipo avrebbe avuto il coraggio di fermarlo anche mentre stava per uscire per lavoro…

“Mi scusi…” Esordì, girando l’angolo e notando una figura sul portone. “Se deve entrare può chiudere lei il portone?”

Non ricevette risposta. Leo aguzzò la vista, cercando di capire se fosse uno degli inquilini del palazzo. “Scusi?” Tentò di nuovo, ma arrivato alla fine della rampa di scale fece uno scatto verso il portone, in panico.

Chiunque fosse, quella persona stava male. Molto male. La afferrò per le spalle, cercando di sorreggerla mentre la figura si afflosciava a peso morto contro di lui. “Ehi?!”

L’odore acre di sangue gli trapanò il cervello. Sentì il respiro incastrarglisi nel petto; per quanto ingoiasse aria, sembrava che i suoi polmoni non riuscissero a mandargli abbastanza ossigeno al cervello. Merda merda merda merda merda, era l’unica parola che continuava a ripetere mentalmente mentre cercava di tenere sveglio quello che capì essere un ragazzo terribilmente malconcio.

“Ci sei? Rimani con me! Ehi!” Gli diede qualche schiaffetto, inutilmente. “Qualcosa, dì qualunque cosa, ma rimani sveglio! Ehi!”

Nel panico più totale, pensò che non poteva certo lasciarlo steso sul pavimento conciato a quel modo. Se lo portava su in casa forse sarebbe riuscito a fare qualcosa fino all’arrivo di un’ambulanza. Se lo issò per bene contro di lui e lo trascinò dentro, verso il gabbiotto dell’ascensore, dove pigiò con furia il tasto del suo piano, pregando che quella macchina infernale si muovesse. Il ronzio dei cavi sembrò ritagliare un momento di pausa innaturale in cui il mondo si era fermato e lui era lì, chiuso in un ascensore con uno sconosciuto reduce da quella che sembrava una brutta rissa. Era ricoperto di sangue, i vestiti ne erano pregni. Sentì un conato di vomito farsi strada su per l’imboccatura dello stomaco. Gli girava la testa. La giornata era iniziata così bene, così bene….

Quando arrivarono al pianerottolo, sentì un flebile gemito vicino all’orecchio. “Scusa… Posso…?” Lo sconosciuto cercò di reggersi in piedi, ma non fece altro che afflosciarsi ancora di più addosso a lui.

Leo lo ignorò, occupato ad armeggiare con il mazzo di chiavi, ma si sentì rincuorato dal fatto che fosse ancora cosciente. Forse non era troppo tardi.

“Posso- entrare?” Ripeté lui con un filo di voce.

“Ehi…!” Entrò e richiuse la porta con il piede. “Pensavo fossi morto… Ti prego, parlami, continua a parlarmi, va bene?” Se lo issò meglio in spalla e si avviò lungo il corridoio, deciso a farlo adagiare sul divano.

Il ragazzo prese a soffiare come un gatto, torcendosi nella sua presa, ignorando le sue ferite come in preda a un dolore inimmaginabile. Nella sua furia, gli artigliò una spalla, costringendolo a guardarlo dritto negli occhi, le pupille ridotte a una fessura, la sclera iniettata di sangue: “Dillo…! Ti prego!”

“Sei in un lago di sangue, porca puttana! Le buone maniere possono aspettare!” Leo era sempre più disorientato, il cervello che lavorava alacremente, e per l’adrenalina non sentì neanche le unghie dello sconosciuto che gli affondavano nei vestiti. Lo tenne stretto, cercando di evitare che aggravasse le sue stesse ferite. “Tu non stai bene, hai bisogno di un medico! Sta’ calmo, ti prometto che andrà tutto bene!” Lo adagiò a fatica sul divano, cercando di essere il più delicato possibile, ma il ragazzo continuava a dibattersi per il dolore, ora inarcando la schiena ora raggomitolandosi su se stesso per poi scalciare di nuovo, ansante.

“Ti prego…” Esalò di nuovo. L’attacco di cui era stato preda sembrava averlo lasciato sfinito. “Brucia…” Cercò di afferrargli il polso, ma il braccio gli ricadde inerte fuori dal divano, penzolante. “Dillo, che posso-” Un attacco di tosse gli mozzò il fiato in gola, lasciandolo boccheggiante.

Leo fece scorrere lo sguardo per la stanza, febbrile, alla ricerca del cellulare; nel mentre, si tastava il corpo con le mani, nella speranza di trovarselo in qualche tasca. “Sì, certo! Tutto quello che vuoi, va bene, va bene! Qualunque cosa sia! Adesso sta’ buono!” Non ci capiva più niente, sentiva solo il sapore acido del vomito e della bile che gli carezzava la gola all’odore sempre più acre e ferrigno del sangue. Stava impregnando ogni cosa, compresi i suoi pensieri. Doveva fare in fretta. Lottò con la fodera della sua tasca, che sembrava non voler lasciare il suo telefono, e digitò più in fretta che poteva il numero del 118, sbagliando un paio di volte per la fretta di pigiare i tasti.

Passarono alcuni secondi in cui sembrò che il mondo si fosse improvvisamente fermato. Dai dai dai. Sentiva solo il petto che si alzava e si abbassava, ritmico, il rumore del sangue che gli ronzava nelle orecchie, il segnale d’attesa del centralino dell’ospedale. Troppo lento, ci stavano mettendo troppo a rispondere. Lanciò un’occhiata alla macchia cremisi che si stava allargando sul divano, a quella già fiorita sul petto del suo ospite inatteso. Trasalì quando incrociò quegli occhi sbarrati, vitrei.

“Leo…” Rantolò. “Niente dottori. Niente ospedale. Ti prego…”

Il biondo proruppe in una breve risatina isterica. “Ah ha, no no, col cavolo. Ne hai bisogno e io non voglio guai.” A ogni intervallo tra gli squilli del telefono, il nodo che aveva in gola aumentava. “Andrà tutto bene, ma hai bisogno di un’ambulanza e ti serve ADESSO.”

Distolse lo sguardo di colpo, sentendo lo scatto alla risposta dall’altro capo del telefono. “Pronto?!” La sua voce si era fatta acuta per il sollievo misto a tensione che gli chiudeva la gola. Si schiarì la voce e riprese subito dopo: “Sono con un ragazzo gravemente ferito, è ricoperto di sangue!” Una pausa. “Sì, è con me, l’ho portato in casa.” Un’altra pausa. L’ospite a cui dava le spalle si trascinò giù dal divano, con un movimento inspiegabilmente felpato. “Lo so, me ne rendo conto... Potrebbe mandare subito un’ambulanza al mio indirizzo?”

“Leo…!” Il moro soppresse un gemito, reggendosi al tavolino da caffè. “Per favore, metti giù il telefono.” La sua voce era suadente, calma. Non c’era traccia di stanchezza né di dolore. Quel suono gli trapanò il cervello, facendo risuonare ogni neurone a una frequenza diversa.

Si fermò, inebetito. Quando aprì la bocca, le sue parole gli sembravano completamente sconnesse dai suoi pensieri, ovattate. “Mi scusi, devo essermi sbagliato.” Fissò fuori dalla finestra senza davvero guardare. Ascoltò parole che non riuscì a registrare. In testa aveva solo quel suono vibrante, intenso; riempiva ogni cosa, i suoi sensi ne erano inebriati. “Me ne rendo conto. Mi dispiace. Buona giornata.” Appena pronunciate queste parole, abbassò il telefono e senza guardarlo premette il pulsante di fine chiamata.

“Scusami…” Rantolò quello cadendo in ginocchio, gli arti ormai inerti.

Leo rimase qualche attimo fermo impalato, senza sbattere le palpebre, sospeso in un sogno. Il telefono gli scivolò lento dalla mano, atterrando di schermo sul pavimento con un sonoro colpo sordo. Leo trasalì, e spostò lo sguardo dalla mano vuota al pavimento. Glissò sul telefono e si soffermò sul grumo di vestiti sanguinolenti che si stava muovendo flebilmente sul tappeto. Sbatté le palpebre. Vestiti semoventi? “Cosa stavo facendo…?” L’odore del sangue lo colpì come uno schiaffo, risvegliandolo completamente dalla sua trance.

Il cumulo si mosse, gemendo. “Scusami… Colpa mia…”

“Porca merda, ma cosa-?!” Si precipitò al fianco dello sconosciuto, cercando di metterlo supino. “Ehi! Ehi! Merda…! Hai bisogno di un medico!”

“Ci siamo già incontrati…” Continuò l’altro con un filo di voce, cercando di mettere a fuoco il volto del biondo.

“Tu stai male, non sforzarti.” Si guardò intorno, facendo scattare lo sguardo in ogni angolo; poi si ricordò del telefono sul pavimento e si sporse per afferrarlo, sbloccando lo schermo nel mentre, pronto a digitare il numero del 118. “Tranquillo, ci penso io…!”

“Leo… Non puoi chiamare un’ambulanza. Non per me… Scusami… Ci siamo- già incontrati.” Il suo petto si alzava e si abbassava a un ritmo irregolare, preoccupante.

Il biondo esitò, il pollice pronto a premere il pulsante di chiamata. “…non ricordo di averti mai visto. Ma tu sai chi sono…?” Fece scivolare lo sguardo dal telefono al ragazzo quasi esanime davanti a lui un paio di volte, poi si decise a malincuore. “Va bene. Niente ambulanza.” Deglutì, sforzandosi di non strozzarsi con la saliva che non riusciva a passare oltre il nodo che aveva in gola. “Niente dottori. Quindi? Cosa ti serve?”

Il moro si rilassò visibilmente alle sue parole, come se fino a quel momento fosse rimasto teso come una corda di violino senza saperlo. “Riposo…” Come a voler rispondere al suo sguardo scettico e interrogativo, aggiunse: “Una stanza. Buia. Dovrei riprendermi…”

“Riposo?” Sbottò il biondo, tremando, quasi sul punto di vomitare da quanto quella situazione era diventata assurda. “Entri in casa mia ricoperto di sangue e- e- e vuoi farti un riposino?! Tutto qui?!” Sobbalzò all’improvviso attacco di tosse che colpì il ragazzo. Aveva un che di… bagnato, liquido. Spiacevole. Il suo cervello entrò automaticamente in panico. “Va bene, okay…!”

Cercò di sollevarlo facendo attenzione, sorreggendolo, e iniziò a farsi strada verso la camera da letto. “Ti porto in camera mia e chiuderò le tapparelle. Dovrebbe andare bene…”

Il ragazzo rimase in silenzio e non oppose alcuna resistenza, lasciando che l’altro lo adagiasse sulle coperte. Leo si precipitò a chiudere le tapparelle, facendo sprofondare la stanza nell’oscurità, fesa solo dalla lama di luce che entrava dalla porta. Solo allora il moro si lasciò sfuggire un gemito sommesso, un suono pieno di dolore, ma anche sollievo. “Scusa… Le lenzuola…”

Leo fece spallucce. “Quelle le posso lavare, la mia coscienza no.” Si diede mentalmente dello stupido per la sua mania di voler fare dello spirito anche in situazioni di merda. “No, okay, scusa, lascia stare. Riposa quanto vuoi, verrò a controllare più tardi. Va bene?”

Non ricevette alcuna risposta. Il ragazzo era già caduto in un sonno profondo, immobile, così come l’aveva appoggiato sul letto.

 


 

Note dell'autrice: Smetterò mai di usare gli stessi due personaggi per mille storie e universi diversi? Ai posteri l'ardua sentenza. Per ora: NO. E sono anche scesa nel girone dell'inferno riservato a chi si infila troppo a fondo nel mondo delle storie di vampiri.

CrispyGarden, ti ritengo personalmente responsabile per il dettagliatissimo universo che stiamo costruendo per questa storia.

 

 

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Capitolo 2
*** Sotto casa ***


Note dell’autrice: Negherei l’evidenza se dicessi che non ho scritto questo pezzo ascoltando a ripetizione “Sotto casa” di Max Gazzè. Il delirio che ha dato origine a questa breve storia è nato da questo prompt (non mio) e dalla fervida immaginazione mia e di CrispyGarden, che ci ha permesso di ricamarci sopra non poco.

Se siete confusi dalla linea temporale di questo breve racconto a due capitoli, sappiate che questo capitolo avviene prima di Imprinting e spiega come si sono incontrati Leo e Andrew.

 


 

Due mesi prima

 

 

Leo si picchiettò nervosamente la coscia con le dita, studiando i due uomini che aveva fatto accomodare in soggiorno. I suoi occhi saettavano senza posa dal primo al secondo. Non si sentiva per niente rassicurato dai sorrisi serafici che capeggiavano sui loro visi né dalla loro postura rilassata e gioviale mentre si guardavano intorno, facendo educati commenti sul suo mobilio o sulla meravigliosa luce naturale che entrava dalle finestre.

Quell’assolata domenica mattina si erano presentati davanti alla porta del suo appartamento al terzo piano e avevano suonato con garbo il campanello. Avevano aspettato pazienti che il padrone di casa avvicinasse l’occhio allo spioncino, senza mettergli alcuna fretta con un secondo snervante scampanellio, e avevano esibito un sorriso smagliante, fin troppo perfetto. Quando Leo aveva aperto la porta con una mezza smorfia sulle labbra che comunicava un inequivocabile Ma chi vi ha fatti entrare nel palazzo a voi?, l’uomo dai capelli biondo cenere e dagli zigomi affilati si era toccato la falda del cappello con grazia, dicendo qualcosa che già non riusciva più a richiamare dalla memoria.

Era innegabile che, però, in qualche modo ci erano arrivati nel salotto di casa sua. Forse gli avevano solo chiesto il permesso di entrare. In realtà, non ricordava bene neanche cosa stava facendo prima di venire interrotto dal campanello, anche se una rapida occhiata al cursore che lampeggiava sulla pagina Word dello schermo del PC era un indizio più che sufficiente. La scadenza inderogabile dell’articolo che gli avevano chiesto di scrivere per il tirocinio era fissata per quel tardo pomeriggio e ogni secondo che passava senza che le sue dita si muovessero rapide sui tasti significava allontanarsi sempre di più dalla meta. Il solo pensiero lo indispose non poco nei confronti dei suoi inaspettati ospiti, che sembravano perfettamente a loro agio.

L’uomo più giovane, seduto sulla poltrona, vestiva un raffinato completo che lo faceva sembrare più a un giovane imprenditore che a un venditore porta a porta. Si schiarì la voce per richiamare la sua attenzione.

“Signor Evrard?” Esordì, con una voce che gli lambì le orecchie come miele. “Le ruberemo solo qualche minuto, non si preoccupi.” Intrecciò le mani in grembo e lanciò un’occhiata eloquente al computer aperto sul tavolino da caffè che li separava, le labbra rilassate in un impeccabile sorriso di repertorio. “Innanzitutto, volevo comunque ringraziarla per averci permesso di entrare. È sempre un piacere per noi avere l’occasione di poter ampliare la nostra organizzazione.”

Leo esitò, richiamando alla memoria qualche frammento di conversazione perduto. “… Credevo che alla porta aveste parlato di adepti? Siete un’organizzazione religiosa?” Inarcò un sopracciglio di riflesso, drizzando le spalle. “No, perché se è così non vi faccio neanche sprecare il vostro tempo.”

La risata appena accennata del ragazzo lo fece desistere dall’alzarsi dal divano per indicare loro la porta. Quello gli puntò gli occhi nocciola in volto, scostando la mano dalle labbra leggermente arricciate a rivelare un accenno di bianco abbacinante.

“Nient’affatto. Ci ha già chiarito la sua posizione in merito prima di farci entrare, signor Evrard. Il mio collega e io non siamo qui per proferirci in sermoni e lodare l’onnipotenza del Signore, né tantomeno per ricondurre una pecorella smarrita all’ovile.”

Se non fosse stato per i suoi modi affabili, Leo avrebbe potuto giurare che il sorriso di quell’uomo avesse un che di sarcastico. Rimase in silenzio, la fronte aggrottata nello sforzo di ricavare un minimo indizio dalle parole del suo ospite che lo avrebbero aiutato a ricollegare i puntini nebulosi che aveva in mente.

“Ha mai sentito parlare di Dracula?” Si intromise l’uomo dagli occhi di ghiaccio, ritraendo la mano che aveva usato per scostare la tenda. La stoffa gli sfiorò le dita e tornò alla sua posizione originaria, donando a quel gesto un tocco quasi poetico. Leo rabbrividì. Ora che i suoi occhi erano concentrati su di lui, poteva percepirne tutto il peso. Avevano un colore quasi innaturale, in netto contrasto col nero pece della pupilla.

“È un acronimo di qualche progetto, per caso? Di una qualche organizzazione?” Domandò, confuso.

“No, signor Evrard. Mi scusi, posso chiamarla Leo?” Riprese la parola l’altro, sporgendosi leggermente in avanti. I suoi ricci castani gli incorniciarono morbidi il volto, come la perfetta fotografia di una scena da film. Come se fosse stata una mossa studiata, calcolata.

“Nessun problema, certo. Può anche darmi del tu, mi sembra che abbiamo anche circa la stessa età.”

“In apparenza, non ti sbagli.” Rispose lui, annuendo al suo invito. “Ma il personaggio a cui si riferiva il mio collega era, senza ombra di dubbio, Dracula in persona. Il primo vampiro, se così lo si vuole chiamare.”

“Scusate.” Lo interruppe Leo, sentendo l’inizio di una risata di scherno che gli affiorava sulle labbra. “Mi state dicendo che voi girate per le case chiedendo alla gente se vuole unirsi a un’organizzazione di vampiristi?” Li indicò entrambi col dito, scettico. “E che c’è gente che vi dice ?”

Il moro mantenne la sua maschera di perfetta compostezza. “Se per vampiristi, parola che non credo esista, intendi persone interessate a fenomeni di vampirismo o fanatici di vampiri, allora la mia risposta è no. La nostra è un’organizzazione che si fregia di accettare tra le sue fila solo vampiri autentici.”

Leo sbatté le palpebre, istupidito. “Scusa, ma mi sembra che mi stiate prendendo in giro. Se questo è uno scherzo, vi chiederei cortesemente di uscire da casa mia, ché sono parecchio occupato.” Calcò le ultime parole con stizza, non curandosi di lasciar trapelare quanto quello scherzo di cattivo gusto lo stesse facendo innervosire. Forse, se non avesse avuto la spada di Damocle dell’articolo accademico a carezzargli il collo, si sarebbe anche trattenuto volentieri a fare quattro chiacchiere con quei due squinternati. Ma aveva fin troppo da fare e, in tutta onestà, non aveva voglia di perdere tempo a farsi prendere per il culo.

“Comprendo il tuo scetticismo, davvero, ma posso assicurarti che la nostra organizzazione è seria e professionale in merito. Sia io che il mio collega siamo un esempio vivente dell’accurata selezione che viene effettuata per ottenere lo status di membro.”

“Certo, siete dei vampiri, come no.” Sbuffò, seccato, e si abbandonò sul divano con pesantezza.

“Se è di prove concrete che hai bisogno, te le possiamo fornire senza alcun problema.” Continuò pacato lui.

Come a voler sottolineare le sue parole, l’uomo vicino alla finestra si spostò alle sue spalle, poggiando una mano sullo schienale della poltrona, e dopo poco aggiunse con una punta di gelo: “Ovviamente, dipende da cosa vuoi vedere.” E schiuse le labbra in un sorriso, rivelando un paio di grossi canini sovrasviluppati.

Leo rabbrividì e si sentì all’improvviso infinitamente piccolo su un divano a tre posti troppo grande. Piccolo e scoperto, come una preda ben visibile tra l’erba della prateria. Suonava in tutto e per tutto come una minaccia. Forse non avrebbe dovuto far entrare due perfetti sconosciuti in casa. “Un paio di bei canini non provano niente.” Si sorprese a dire, ricacciando indietro lo smarrimento. “Chiunque potrebbe sottoporsi a un intervento per farli assomigliare a quelli di un vampiro delle leggende. Era perfino diventata una moda, anni fa.” Incrociò le braccia al petto, cercando di darsi un contegno, e si dipinse un cipiglio duro sul volto.

“Ah sì, ricordo bene.” Sospirò l’uomo, facendo ondeggiare appena i suoi ricci, e allungò un braccio per toccare lievemente la mano del suo compagno, quasi come a voler rabbonire una bestia selvaggia. “In tal caso, passerò subito a una dimostrazione più pratica.” Nel mentre, aveva preso a sbottonare i polsini di giacca e camicia, arrotolandone meticolosamente le maniche fin quasi al gomito. “Spero che la vista del sangue non ti scandalizzi.”

Leo non fece neanche in tempo a formulare una risposta. Uno squarcio rosso cremisi si aprì lungo l’avambraccio del suo ospite e il sangue prese a gocciolare denso, raccogliendosi sul polso e poi a terra in grumi nerastri. L’uomo dagli occhi nocciola non sembrava per nulla turbato da quella vista né tantomeno interessato a mostrare un minimo segno di dolore. Si grattò con noncuranza vicino alla ferita con l’indice, come se l’unico fastidio che sentiva fosse prurito. La sua unghia era diventata improvvisamente lunga, affilata come un artiglio.

Rimasero tutti e tre a fissare quel lento stillicidio come in trance. Leo perlomeno si sentiva come trasportato in un angolo al di fuori del tempo e dello spazio, non provava più niente, il suo cervello aveva smesso di funzionare, non sapeva neanche più come entrare in modalità panico. L’unica cosa a cui riusciva a pensare era che si trovava in soggiorno con due pazzi autolesionisti che blateravano di sette vampiriche. Forse l’avrebbero costretto a bere quel sangue e poi l’avrebbero ucciso, nutrendosi di lui. O forse lo avrebbero semplicemente ucciso e buonanotte. L’avrebbero trovato già cadavere e la sua morte sarebbe stata archiviata come uno strano caso degli X-files.

Preso com’era dal suo delirio, gli ci volle un momento per accorgersene. Sbatté le palpebre. No. Sbatté di nuovo le palpebre. Okay, no. Andava contro tutte le leggi della biologia. Contro tutto ciò che aveva studiato a scuola. All’università. Nel suo cazzo di dottorato. Andava contro le leggi umane.

Sotto ai suoi occhi increduli, lo squarcio sanguinolento si stava lentamente cicatrizzando. Non a una velocità straordinaria, certo, ma un taglio del genere di norma sarebbe guarito in una settimana minimo. E avrebbe comunque lasciato il segno. Una crosta. Una linea rossastra. Qualunque cosa.

Eppure, con suo sommo stupore, l’uomo si passò il fazzoletto del taschino sull’avambraccio e, con un unico gesto preciso, ripulì il sangue rivelando la pelle intonsa.

Sentì la voce grattargli la gola improvvisamente secca. “Okay…” Deglutì a fatica. “Vi ascolto.”

***

Dopo un primo attimo di smarrimento, un attimo che si protrasse molto a lungo nel corso della successiva chiacchierata, Leo si limitò ad ascoltare le parole sempre più entusiaste dell’uomo sulla poltrona, che si presentò con il nome di Andrew Miot, porgendogli una mano dall’impeccabile manicure. Degli artigli ricurvi e nerastri che erano comparsi poco prima sembrava non essere rimasta traccia.

“Quindi…” Esordì Leo, esalando involontariamente un sospiro pesante. “Quanti- quanti adepti hai detto che riuscite a raccogliere con i vostri giri porta a porta?”

Il moro incontrò il suo sguardo vacuo con un entusiasmo scoppiettante, e poggiò i palmi sulle cosce, drizzando la schiena con orgoglio. “Oh! Molti!” Il sorriso sicuro che aveva stampato sulle labbra perse di poco la sua luminosità prima che aprisse la bocca per aggiungere: “Beh, perlomeno un tempo. Ultimamente il nostro lavoro si sta facendo sempre più difficile.” Lanciò un’occhiata melodrammatica al suo compare, che si era presentato come Ivan Siskovich, che si limitò ad annuire con raccoglimento.

L’immagine dei suoi canini gli danzò davanti agli occhi, e Leo si massaggiò involontariamente il lato del collo. Deglutì. “E… come mai, se posso chiedere?”

“Per citare solo qualche esempio potrei nominare le truffe online – non hai neanche idea di quanti cerchino di imitarci offrendo la vita eterna con rituali di dubbia qualità –, la cattiva pubblicità che viene fatta a noi vampiri, cose così. Mentirei se dicessi che non stiamo passando un periodo di crisi.”

“Capisco.” Leo si limitò a battere le palpebre, non sapendo cos’altro aggiungere. “Uhm… Mi- dispiace?” Continuò a torturare la stoffa dei pantaloni della tuta, cercando in tutti i modi di evitare gli occhi di Ivan. Se li sentiva sempre addosso, perforanti, e il suo senso di disagio aumentava in maniera esponenziale. Come pure la sua curiosità. “Scusate, ma chi vorrebbe vivere come un vampiro poi?”

“Beh, essere un vampiro comporta molti vantaggi e abilità sovrannaturali. La longevità è un altro tratto che spesso attrae potenziali membri.” Si poggiò allo schienale della poltrona, rilassando le spalle, le mani posate in grembo. “Anche se ognuno di noi ha le proprie ragioni personali per accettare.”

Leo annuì, anche se continuava a non comprendere appieno le parole del suo ospite. “Ma che mi dici della questione del, sai, del succhiare sangue?”

L’uomo sorrise e abbassò appena lo sguardo in una sorta di educata versione di un’alzata di occhi al cielo. Probabilmente la domanda che gli aveva posto era terribilmente inflazionata.

Leo alzò le mani, facendo subito un passo indietro. “Non volevo risultare scortese…! Se è una questione privata, puoi non rispondere, la mia era solo curiosità…”

Il moro scosse il capo, mantenendo il sorriso sulle labbra, e si schiarì la voce. “Figurati, è una domanda più che lecita. Non preoccuparti.”

“Ehm, prima di rispondere non è che vorreste qualcosa da bere?” Lo anticipò Leo, alzandosi in piedi. Si sentiva stordito da tutte quelle chiacchiere e, se voleva sperare di ritenere qualche informazione nel suo cervello già provato, aveva un bisogno disperato di una pausa.

Si diede mentalmente dello stupido quando due paia di occhi lo fissarono intensamente alla parola bere, e decise di battere in ritirata in cucina. “Insomma,” ridacchiò, nervoso, aprendo la portella della sua fornitissima collezione di tè e tisane, “potete bere altro che non sia sangue, vero?” Il suo tono di voce si incrinò leggermente sull’ultima parola, e strinse le dita sulla tazza che aveva appena preso.

Non che ci credesse al fatto che erano vampiri… Non era ancora del tutto convinto del fatto che quei due stessero dicendo la verità, e poi la situazione in sé era decisamente assurda. Insomma, due “evangelizzatori” itineranti che bussano alle porte per diffondere il verbo di Dracula, raccogliendo fedeli adepti per una setta od organizzazione che fosse per fare chissà cosa poi. Era una storia ridicola.

La voce dell’uomo dagli occhi di ghiaccio arrivò chiara dall’altra stanza: “Certamente, possiamo mangiare e bere qualunque cosa ci aggradi, senza che il sapore venga pregiudicato in alcun modo.” Poi, aggiunse, mellifluo: “Non ci forniscono i nutrienti di cui abbiamo bisogno per sopravvivere, però, se era questo che ti domandavi.”

“Speriamo che abbiate già mangiato, allora.” Ridacchiò Leo, cercando di spezzare la tensione che gli stava stritolando l’imboccatura dello stomaco.

Accese il fuoco sotto il bollitore, prendendo un respiro profondo, e lanciò uno sguardo all’angolo di soggiorno che si intravedeva dalla cucina. Da lì, nessuno di quei due poteva vederlo, come lui non poteva vedere loro. Prese un altro respiro, cercando di calmarsi, e pian piano gli sembrò che il nodo allo stomaco si stesse allentando. Si impose di mettere un freno alla fantasia e di adottare un approccio più scientifico. Se dicevano di essere dei veri e propri succhiasangue, bene. Avrebbe accettato quella prima ipotesi e avrebbe raccolto informazioni fino a quando non sarebbe riuscito a provare il contrario. O a confermare le loro parole.

“Vi porto anche qualche biscotto al burro, li ho sfornati proprio ieri.” Annunciò, sistemando il tutto su un vassoio.

“Gentilissimo.” Trillò Andrew.

Lanciò un’occhiata al piano della cucina. Il bollitore era sul fuoco, i biscotti erano ben disposti in un piattino, le tazze erano pronte. Non aveva altre scuse per trattenersi e di certo non poteva lasciare due sconosciuti nel suo soggiorno da soli fino a quando l’acqua non sarebbe stata pronta. Sospirò e si incamminò verso il soggiorno.

Per buona misura, afferrò una testa d’aglio e se la ficcò in tasca.

E tanti cari saluti al metodo scientifico.

***

Se sperava che una tazza di tè bollente e dei biscotti l’avrebbero aiutato a mascherare il suo disagio, si era sbagliato di grosso. Era continuamente indeciso se tenere quel cilindro di lava in mano, passandoselo da un palmo all’altro per non ustionarsi, fingere di bere qualche sorso rischiando l’annientamento delle sue papille gustative, o posare la tazza sul tavolino ritrovandosi senza niente tra le mani con cui sfogare l’iperattività che si era impossessata di lui.

Quando si decise a prendere un biscotto al burro, notò con orrore che Ivan si era impossessato dell’intero piattino, tenendoselo ben stretto, e che Andrew aveva sul palmo un paio di biscotti, sgranocchiandone un terzo con faccia deliziata. Rimase a fissarli a bocca asciutta, e si rassegnò a riprendere in mano la tazza, riprendendo il suo ping pong silenzioso.

“Complimenti, sono deliziosi.” Disse Ivan, piegando leggermente il capo in un mezzo cenno di apprezzamento.

Leo si profuse in un sorriso tirato e bevve un sorso di liquido rovente, cosa che rese il suo sorriso ancora più tirato e sofferente. “Spero che vi piaccia il tè. Ne ho di diversi tipi, ci metto un niente a prepararne un altro in caso. Oppure, dell’acqua, se preferite. O succo.”

“Non scomodarti, siamo apposto così.” Sorrise Andrew, e quelle parole furono come un balsamo per i nervi tesi di Leo. I due dovettero accorgersi del suo improvviso mutamento d’umore perché si scambiarono un’occhiata divertita.

Saltò subito su, punto sul vivo. “No, è che- Insomma, avete camminato tutta la mattina sotto il sole, immagino che siate stanchi. Il sole non vi fa male, tra l’altro?” Tentò di giustificarsi, posando la tazza sul tavolino e pentendosi subito dopo di non avere più nulla tra le mani.

“La luce del sole ci affatica, ma non a livelli insostenibili. Siamo pur sempre creature prevalentemente notturne, il picco della nostra produttività lo raggiungiamo quando cala la notte. Questo però non esclude che possiamo vivere di giorno proprio come un normalissimo essere umano.” Spiegò Andrew con naturalezza, sorbendo il suo tè, per niente disturbato dalla temperatura della bevanda. “Ad esempio, un gatto è classificato come un animale notturno, ma è comunque attivo durante il giorno. Certo, sarà ben più attivo la notte. Anche per noi vampiri è lo stesso. Ci vorrebbe molto più della luce del sole per farci del male.”

“Però, stando alle leggende, dovrebbe ferirvi o addirittura uccidervi…”

“Non tutto quello che dicono le leggende su di noi è vero. Alcune parti, come spesso accade nel corso della storia, vengono romanzate col tempo, abbellite, come un quadro a olio. La base su cui si lavora rimane la stessa, ma i dettagli si aggiungono e modificano a seconda della pennellata e della volontà dell’artista. Alcuni dettagli si asciugano e rimangono quindi immutati, perfetti. Belli da vedere, ma non per questo necessariamente veri. Potrebbe esserci dell’altro sotto agli strati di pittura.”

Alle sue spalle, Ivan divorò l’ultimo biscotto e riappoggiò il piattino sul vassoio, ripulendosi con garbo le briciole dalle dita. Girò la sua tazza, ancora intonsa e fumante, e la prese per il manico senza fretta, sorridendo alla spiegazione del suo compagno. “Ti si legge in faccia che ci trovi meno somiglianti a un vampiro di quanto la narrativa ci dipinga.”

Leo schiuse le labbra, preso in contropiede. “Beh, ecco, sì…”

“Visto? Era proprio questo a cui mi riferivo quando parlavo di cattiva pubblicità.” Sospirò Andrew, prendendo un altro sorso di tè con aria afflitta. “Non siamo dei mostri sanguinari.”

“In alcune culture eravamo addirittura considerati delle divinità.” Aggiunse Ivan, accompagnato dal tintinnio del cucchiaio nella sua tazza. “Eravamo considerati portatori di vita dopo la morte, dei traghettatori di anime.”

“Quindi la luce del sole non vi disintegra come nei film, ma bevete sangue per sopravvivere, quindi questa parte della storia è vera. E guarite velocemente dalle ferite fisiche e siete immortali.”

“Esatto.” Confermò Ivan, e Andrew annuì alle sue parole. “Anche se ci si addice di più la parola longevi.”

“E che mi dite della vista notturna, della super forza, e- Che altro? Vi potete anche trasformare in pipistrelli o-?” Chiese, con una punta di ironia.

“Prima che tu ce lo chieda, no, non brilliamo come i vampiri di Twilight.” Ridacchiò Andrew, sollevando una mano come a voler arrestare ulteriori domande. “Anche se quello è stato un periodo meraviglioso per la nostra organizzazione. Tutti erano improvvisamente interessati ai vampiri, anche se forse erano più intrigati dall’idea di una relazione con un vampiro che di essere un vampiro vero e proprio…”

“Tra l’altro, non vi credono dei bu- giardi quando raccontate di Dracula e di essere dei vampiri?” Trattenne un sospiro di sollievo per essersi fermato poco prima di dire buffoni.

“Oh, certo, molti ci accolgono in casa dicendosi apertamente scettici e semplicemente desiderosi di farsi quattro risate e quando ce ne andiamo rimangono della loro idea. Ma è anche divertente ascoltare le spiegazioni che cercano di darsi davanti ai fenomeni paranormali che gli presentiamo come prove. Certo, molti non ci danno neanche il permesso di entrare troncando il tutto sul nascere.” Allargò le braccia e fece spallucce. “Tornando alla tua domanda sui pipistrelli, alcuni vampiri sono anche dei mutaforma, ma sono estremamente rari. Ognuno di noi manifesta dei poteri diversi al proprio risveglio; alcuni sono comuni a tutti i vampiri, delle sorta di abilità di base come una forza sovrumana e i sensi ipersviluppati, altre invece sono addizionali e sono più o meno rare. Il ventaglio delle possibilità spazia da quelle fisiche a quelle psichiche. Stando ai dati raccolti dalla nostra organizzazione, non siamo ancora a conoscenza di vampiri che siano in grado di controllare la mente, sempre che ne esistano, ma di certo molti poteri psichici manifesti possono essere ricondotti a un’alta capacità persuasiva o di manipolazione.”

“Se sei interessato a sapere altro, non esitare a chiedere.” Aggiunse Ivan, senza particolare enfasi.

“No, cioè… Sì, in realtà avrei moltissime domande, ma non vorrei che scambiaste la mia curiosità per interesse.” Li guardò entrambi, cercando di suonare il più sicuro e convincente possibile. “Non sono interessato alla vostra organizzazione né al diventare un vampiro. Mi piace vivere così e non ho alcun motivo che mi spingerebbe a voler cambiare.”

“Ehi, non preoccuparti.” Sorrise Andrew, spostando il peso in avanti e puntellando i gomiti sulle ginocchia. Con quell’accenno di canini, ricordava vagamente un grosso felino pronto a balzare sulla preda. Intrecciò le dita e poggiò il mento sulle mani, guardando Leo con un’intensità nuova. “La vita è la tua, dopotutto.”

“Bene.” Sospirò Leo, sollevato. “Ci tenevo molto a chiarirlo… Ecco, se posso azzardare un altro paio di domande, però, sarebbe di estremo aiuto alla scienza se si potesse studiare il meccanismo che regola la vostra abilità rigenerativa…! Se penso a quanti passi avanti si potrebbero fare in campo medico… Non so se la vostra organizzazione ci ha mai pensato, ma potrebbe essere un primo passo verso una collaborazione fruttuosa.” Riprese, anche se meno convinto, sentendosi scrutato da due paia di occhi confusi. “E non mi riesco a spiegare come mai nessuno abbia mai parlato di una setta di vampiri che va per le case a raccogliere adepti. Insomma, mi sembra assurdo che la voce non sia circolata e mi immagino che siate presenti da anni, o secoli, sul territorio, forse non solo qui, e-”

Andrew alzò una mano per zittirlo, esibendo un sorriso genuinamente divertito. “Ehi, frena. Vorremmo davvero rispondere a tutte le tue domande, Leo, di certo sarebbe una piacevole chiacchierata. Però…”

“Però?” Ripeté Leo, non capendo.

“Sarebbe una perdita di tempo per noi e per te.” Sorrise Ivan, facendo spallucce con le mani ficcate in tasca.

Andrew lo inchiodò sul posto con i suoi occhi nocciola, che ora rilucevano di una torbida sfumatura viola. La sua voce si era fatta improvvisamente calda e languida, e Leo se la sentiva addosso come se l’uomo gli stesse sussurrando all’orecchio, alitandogli sul collo. “Dato che non sei interessato alla nostra offerta, ti chiederei gentilmente di dimenticare questa nostra breve chiacchierata.”

Leo sbatté le palpebre, sentendole inspiegabilmente pesanti. La testa gli girava e sentiva un principio di nausea. “Aspetta… Cosa-? Dimenticare? No, ma- Non voglio…”

“Oh?” Sogghignò Ivan, le pupille leggermente più dilatate per la sorpresa. “Ma guarda, è la prima volta che incontri così tanta resistenza, Andrew.”

Il ragazzo crollò in avanti, piantando i palmi delle mani sul vetro del tavolino, e inspirò a fondo, cercando di calmarsi. Quando riaprì gli occhi, il mondo vorticava e l’unico punto fisso erano le sue mani. Dopo poco, iniziarono a vorticare pure quelle. Trattenne un conato e cercò di incontrare lo sguardo di quegli innaturali occhi viola. “Non ti- vedrò più?”

Andrew scrollò appena il capo, confuso, e le sue iridi si fecero leggermente più limpide. “Vorresti vedermi di nuovo?”

Ivan gli assestò un pugno sulla spalla, alzando gli occhi al cielo. “Non farti fregare da un ragazzo carino, dai. Non sarebbe neanche la prima volta. Ti ho portato con me perché mi avevi promesso che avresti fatto bene il tuo lavoro.”

“Uno studio-? Un’intervista… Dei campioni- Ti prego…” Bofonchiò Leo, sentendosi al limite. “Non lo dirò a nessuno…”

“No, Leo. Dimenticherai tutto. Ti sei semplicemente addormentato mentre scrivevi il tuo articolo.” Sorrise Andrew, posandogli una mano sul capo. “Non ci vedremo mai più.”

Non aveva neanche finito di pronunciare quelle parole che il ragazzo crollò di peso sul tavolino da caffè, evitando il vassoio e le tazze per un pelo. A giudicare dall’espressione pacifica e beota che aveva in volto, era palesemente fuori gioco.

Andrew si sistemò il colletto della camicia e deglutì lentamente, sentendo la saliva che si sforzava di oltrepassare il nodo che aveva in gola. Poi, esalò, rilassando le spalle. “Perfetto…” Disse, a nessuno in particolare.

Leo era spalmato sul tavolino e il suo peso, unito alla forza di gravità, lo stava lentamente trascinando verso il pavimento. In quell’inesorabile e snervante smottamento, il suo braccio toccò il vassoio, trascinandolo con sé verso una promessa di oblio.

Ivan si chinò su di lui e lo afferrò per il cappuccio della felpa, premendogli due dita sulla carotide con fare pratico. “Sta bene, si riprenderà senza problemi.” Poi lo riadagiò sul tavolino. Il corpo di Leo e il vassoio ripresero il loro lento viaggio verso il pavimento. “Mi sa che si sveglierà con un brutto mal di testa. L’hai proprio steso.” Scoccò un’occhiata divertita al suo compare.

“Scusa, ero in panico, okay? Non è normale che uno si impunti così, soprattutto se lo si coglie di sorpresa!” Borbottò Andrew, decisamente contrariato, e incrociò le braccia al petto, risentito. “Ho esagerato solo un pochino… Non gli ho fatto male…”

Ivan gli lanciò un’occhiata eloquente e il silenzio venne riempito dallo stridio acuto della guancia di Leo a contatto col vetro del tavolino. Si stava lasciando dietro una sottile scia di bava che riluceva nella luce di mezzogiorno.

Andrew lo fulminò con lo sguardo, poi squadrò Leo, di nuovo Ivan, e poi Leo di nuovo.

Nessuno dei due si mosse.

Tranne Leo.

Lo stridio continuò.

Ivan sostenne il suo sguardo con un sorriso beffardo, e afferrò il vassoio appena in tempo, mantenendo in equilibrio tazze e piattini. Leo si spiattellò per terra con un tonfo sordo, riverso su un fianco, la sua espressione beata per niente scalfita. Ora aveva gli occhi semichiusi e sembrava lo stereotipo sputato di un fattone.

Andrew osservò confuso una testa d'aglio rotolare fuori dalla tasca del ragazzo. Dopo un breve attimo di smarrimento, smorzò una risata in un piccolo sbuffo di scherno, e raccolse quell'amuleto improvvisato senza tante cerimonie. Rigirandoselo in mano, pensò con una punta di divertimento che, nonostante la testardaggine che aveva dimostrato, alla fin fine il dubbio sulla loro natura ce l'aveva avuto eccome.

Nel frattempo, Ivan si era diretto in cucina e aveva aperto il rubinetto dell’acquaio, lasciando scorrere l’acqua. A giudicare dal rumore di ceramica, si era già messo a lavare il tutto. Canticchiava beato.

Andrew imbronciò le labbra e aggrottò le sopracciglia, studiando il volto del ragazzo, il suo respiro regolare, il suo sorriso idiota. Si ficcò l'aglio in tasca con stizza. “Va bene. Va bene.” Ringhiò, alzando le braccia al cielo per la frustrazione. “Me ne occupo io della sorveglianza nelle prossime settimane, contento?”

Ivan fece un verso falsamente stupito. “Lo dici come se mi stessi facendo un favore…!” Rise, trafficando in cucina per sistemare le stoviglie e ristabilire l’ordine. “Ti sto concedendo di vedere il suo bel faccino per i prossimi giorni, so che non ti dispiace.”

“Fanculo.” Borbottò Andrew, sentendo le guance arrossate, e si chinò per sollevare Leo di peso. “Senti, lo lascio sul divano…! Direi che può andare, non abbiamo fatto grandi casini questa volta.”

“No, siamo stati bravi.” Rispose Ivan, riapparso sulla porta della cucina sbocconcellando un altro biscotto al burro con aria soddisfatta. “Un lavoro decisamente pulito.”

Dopo qualche altro piccolo accorgimento – Ivan sprimacciò per bene i cuscini della poltrona e si assicurò ancora una volta che tutto in cucina fosse al suo posto, tornando con delle briciole sospette sulle labbra – i due si diressero alla porta. Andrew lanciò un’ultima occhiata al ragazzo disteso sul divano che se la dormiva beato.

“Sarebbe stato interessante conoscerlo…” Disse, abbassando la maniglia. “Ma forse è meglio così.”

“Per lui ma non per noi.” Disse Ivan, infilando la porta e aspettandolo in corridoio. “Dai, dobbiamo finire il giro del condominio e poi abbiamo pausa pranzo.” Si stiracchiò, scrocchiandosi la schiena e le spalle.

Andrew annuì e si chiuse la porta alle spalle. La segretezza dell’organizzazione prima di tutto, come gli avevano intimato dal primo giorno in cui aveva iniziato a farne parte, e lui l’aveva accettato come un dogma. Leo non sarebbe stata l’unica persona a dimenticarsi di lui in tutti quegli anni. Una in più o in meno, non faceva di certo la differenza.

Scrollò le spalle e scosse la testa, liberandosi di quella strana esitazione passeggera, e si avviò per raggiungere Ivan.

La lasciò lì, quell’esitazione, sullo zerbino dell’ennesimo appartamento in cui era convinto che non avrebbe mai più rimesso piede. Sicuro che il volto di quel ragazzo sarebbe diventato l'ennesimo che avrebbe notato nella folla, senza che nei suoi occhi si accendesse alcuna scintilla per averlo riconosciuto. Ma gli andava bene.

E, d'altronde, in due secoli non c'era mai stato niente che fosse riuscito a intaccare la perfetta routine delle sue giornate. Nemmeno un bel paio di occhi verdi affamati di risposte.

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