Racconto di Fiorile

di Tenar80
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Benvenuti nel multiverso steampunk quantistico de «L’assedio degli angeli».

Detto così è molto più complicato di quanto non sia in realtà. In effetti la definizione «steampunk quantistico» l’ho trovata in un articolo di una rivista scientifica, mi è piaciuta e l’ho rubata, senza troppa cognizione di causa.

Il mondo in cui state per inoltrarvi è dominato da un impero di stampo vittoriano. Il problema è che questa dimensione confina con (almeno) un’altra, abitato da creature alate chiamate angeli e tutt’altro che amichevoli. A difendere l’impero c’è un manipolo di soldati, le Ali Nere, in grado di penetrare nella dimensione angelica grazie a speciali tute. Infine, nella popolazione umana è presente una certa percentuale di individui che presenta tratti angelici o demoniaci, questi sono definiti «impuri» e possono essere solo schiavi.

Come spesso accade, nella mia mente da un’idea ne nascono mille altre quindi, per chi vorrà inoltrarsi, qui inizia una lunga storia. La prima fase di questo progetto prevede quattro racconto. Ciascuno prende il nome dal mese in cui è ambientato e ha per protagonista un personaggio diverso. Loro quattro saranno poi i protagonisti di una fic più lunga che al momento è del tutto plottata ma non non ancora scritta. Per il momento vi presento Victoria, anche se per vedere da vicino un angelo ci sarà da aspettare un po’…

Infine, questo progetto era nato originariamente come AU dell’anime Yuri on Ice, ma visto che alla fine dell’originale sono rimasti due nomi e giusto l’aspetto di alcuni personaggi, ha trovato casa qui. Spero che trovi anche qualche lettore.

 

    Racconto di Fiorile

 

    – Cosa ve ne pare, miss Victoria?

    La ragazza non seppe cosa rispondere, mentre la cameriera che le aveva acconciato i capelli si sistemava dietro di lei con un piccolo specchio portatile in modo che potesse ammirarne l’operato in quello più grande che aveva di fronte.

    – Qualcosa non le piace? – domandò di nuovo la cameriera impura.

    – No… No, davvero – disse Victoria, per tranquillizzarla.

    La pettinatura era splendida. 

    Il problema era che la ragazza dello specchio non era lei. Era una giovane dama pronta a debutta in società. I capelli chiarissimi erano stati arricciati in boccoli morbidi che le incorniciavano l’ovale chiaro del viso, in cui ciglia altrettanto chiare ombreggiavano occhi celesti. Lo stesso colore veniva ripreso dall’abito che stava indossando. Era accollato, come si addiceva a una ragazza che ancora non aveva compiuto quattordici anni, ma minuti ricami blu ne impreziosivano il tessuto. Victoria aveva l’impressione di guardare nello specchio una bambola raffinata a cui qualcuno, per scherzo, aveva dato le sue sembianze. Con un movimento sbagliato avrebbe rotto quell’artificio di porcellana. Poi con i cocci avrebbe finito per tagliarsi anche lei.

    – Victoria Moroziva – mormorò tra sé. 

    Era quello il nome della bambola. Non il suo.

    Il problema era che anche il suo nome, l’unica cosa che aveva davvero posseduto per moltissimo tempo, Victoria Soilbeir, non indicava più davvero lei stessa. 

 

***

 

    Due anni prima Victoria era seduta sulla cima della collina, col proprio cappello di paglia calato sulla testa per non farsi scottare la pelle troppo delicata dal sole già caldo degli ultimi giorni di Fiorile. Non era mai stata tanto arrabbiata con se stessa.

    Una delle cose belle, forse l’unica, della Casa per bambini bisognosi di Santa Prospera, era che si trovava nel punto esatto in cui la capitale da metropoli si faceva campagna. Dalla collina Victoria vedeva le fabbriche e le ciminiere che separavano l’orfanotrofio dal centro cittadino e poi, lontanissima, molto più alta di quella su cui era seduta, l’altura sulla cui sommità stava il palazzo imperiale. Nonostante la foschia perenne creata dal fumo delle industrie, se aguzzava lo sguardo la ragazzina poteva scorgere la cupola bianca e, con un po’ di immaginazione, il riflesso dorato della statua della Vittoria che vi stava in cima. Chissà, se fosse stata davvero fortunata nel giro di qualche decade sarebbe finita a fare la cameriera in una delle ville dalle cui finestre la Vittoria Imperiale si vedeva nitidamente. Chissà, col nome che portava, avrebbe dovuto fare amicizia almeno con la statua.

    Il fatto era che per la prima volta in vita sua il suo corpo l’aveva tradita. Senza alcun segno premonitore, senza che ad esempio i suoi seni si fossero degnati di assumere una forma vagamente femminile, aveva preso a sanguinare. E a Santa Prospera, dove la prosperità stava tutta e solo nel nome della santa, alle ragazze che diventavano donne si faceva una bella festa, le si regalava una gonna, invece che le più pratiche braghe in tela grigia che indossavano tutti, un nastro per acconciare i capelli che finalmente potevano lasciar crescere e le si mandava via il prima possibile «per preservarne la rispettabilità». Che era un modo carino per dire che lì non c’era abbastanza suore e abbastanza spazi per tenere le orfanelle ben separate dagli orfanelli e mandare a servizio una ragazza già incinta, magari di soli tredici o quattordici anni, non era certo una buona pubblicità per le altre. Quindi entro un mese sarebbe finita a fare le pulizie in qualche casa o la sguattera in cucina, perché di diventare sarta non se ne parlava neanche e col suo carattere era assai improbabile che fosse instradata verso una scuola religiosa femminile per diventare un domani istitutrice o segretaria. Sospirò e si strinse con le mani le caviglie che spuntavano dai pantaloni che in pochissimo si erano fatti troppo corti. 

    Quella mattina, quando se n’era accorta, aveva rubato le bende per proteggere la biancheria alla sua vicina di brandina, Anila, che aveva tredici anni e già un contratto firmato come cameriera e avrebbe lasciato l’istituto il primo di Pratile. Ma non era un segreto che si potesse mantenere a lungo. Prese un soffione e lo distrusse nel proprio pugno. Non era pronta. E non era colpa sua. Era il suo corpo che non aveva collaborato. Tara aveva quasi due anni più di lei e ancora non aveva sanguinato. Però aveva le tette, due inequivocabili tette, e quei peli scuri sotto le ascelle. I ragazzi, quando passava, la guardavano in un certo modo, persino Robert, e di colpo anche a lei piaceva farsi guardare. Voleva sempre parlare di ragazzi insieme alle altre e non la seguiva più nelle sue scorribande. Victoria, invece, adesso che era cresciuta di due spanne buone quasi di colpo, poteva passare per un ragazzo ancora più di prima. Ancora più di prima, batteva Robert nella corsa o nell’arrampicata. Non aveva tette, non aveva ciglia, non aveva sedere. Quella subitanea fine dell’infanzia era un tradimento bello e buono.

    Alzò la testa di scatto, sentendo un fruscio diverso dell’erba. C’era Tara che correva ansimando su per la collina e si sbracciava per attirare l’attenzione. Come poteva peggiorare ancora quella giornata? Che cos’è che aveva dimenticato di fare? Era quasi certa di non avere quel pomeriggio il turno in cucina. Aveva pulito lei la camerata quella mattina, giusto? 

 

    – Victoria, ti cercano tutti! – rantolò Tara, quando Victoria l’ebbe raggiunta.

    Con lo spuntare delle tette Tara aveva perso la capacità di correre. Colpa, senza dubbio, di quell’improvviso peso davanti.

    – Non picchio nessuno da quattro giorni, non è colpa mia – Victoria mise le mani davanti.

    Meglio prevenire.

    – No, Victoria, non capisci. Hai passato la selezione! Ti vuole la superiora!

    – Quale selezione?

    – Quella selezione!

    Quella selezione.

    Quella a cui lei non avrebbe dovuto partecipare. Perché le ragazze non partecipano a una selezione annuale per un’accademia militare, certo. Invece ogni Primo di Ventoso i ragazzi di dodici anni più vigorosi di Santa Prospera andavano alla selezione per l’accademia delle Ali Nere. Lei che era nata a fine anno ne aveva ancora undici, ma Robert l’aveva sfidata a farlo. Bisognava pur stabilire in qualche modo chi dei due fosse il migliore. E quindi quella mattina si era presentata come se non avesse avuto sei mesi buoni di svantaggio e un sesso sbagliato e Madre Carola, Victoria non avrebbe saputo dire perché, aveva solo aggiunto il suo nome alla lista, scrivendolo come quello di tutti gli altri, V. Soilber, candidato numero 2835. E solo con quel numero l’aveva chiamata l’ufficiale in divisa nera e oro che per due giorni l’aveva fatta correre, saltare, strisciare, aveva testato la sua resistenza al dolore, la sua capacità di orientarsi ad occhi chiusi e le aveva fatto fare persino dei maledetti esercizi di matematica.

    – Robert è passato? – chiese, inebetita.

    – Victoria! Sono le Ali Nere. Nessuno di Santa Prospera ha mai passato la selezione da, che so, due secoli?

    – Ma era solo una cosa tra me e Robert, mandano sempre la classifica finale…

    – La madre superiora e madre Carola si sono quasi accapigliate. La superiora voleva espellerti per aver partecipato, ma madre Carola ha spulciato non so che documenti. Sono un corpo speciale, le Ali Nere. Pare si siano dimenticati di scrivere da qualche parte che le ragazze non possono partecipare alla selezione.

    Perché, era evidente, a nessuno mai sarebbe venuto in mente di farlo.

 

    Quella sera ci fu un attacco angelico.

    Nulla di così strano. Sulla capitale ce n’era almeno uno ogni due mesi. Quella volta alcuni lampi di energia caddero abbastanza vicini da far decidere alla superiora di far scendere tutti nei rifugi. Come sempre, Victoria fu una delle ultime, insieme a Robert, a mettersi in salvo, dopo aver controllato che nessuno fosse rimasto nelle camerate o nei bagni. Questa volta, però, la ragazzina scese le scale con una calma diversa. Non le piaceva il rifugio. Aveva sempre paura che un crollo ostruisse l’apertura. Rimanere rinchiusi, al buio, con i bambini più piccoli che piangevano fino a che l’aria non si fosse esaurita era stato per anni il suo incubo ricorrente. Quella sera, però, mentre sopra di loro l’edificio tremava, Victoria non poteva che pensare alle Ali Nere, i soldati che in quel momento stavano difendendo la capitale. Fronteggiavano gli angeli nella loro dimensione, con ali di nemici uccisi collegate ai loro corpi e combattevano i mostri da pari. Tutti i bambini, da sempre, nell’Impero giocavano ad Ali Nere contro angeli malvagi e nessuno mai voleva fare l’angelo. Le Ali Nere erano il simbolo dell’Impero. Loro non erano come le nazioni che subivano le devastazioni come un male inevitabile e neppure come Ji’Quin, che immolava cento vite l’anno per alimentare la barriera anti angelo. Loro combattevano. Tutti i bambini sognavano di diventare Ali Nere. Le bambine, al massimo, di essere salvate da un soldato delle Ali Nere. Quella sera Victoria, si concesse due segreti. Non dire a nessuno, ancora, di essere diventata donna e sognare.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Cinque giorni dopo, per la prima volta, Victoria attraversò la città accompagnata da un’entusiasta e ansiosissima Madre Carola per recarsi alla seconda selezione, nel quartier generale delle Ali Nere.

    La suora fu lasciata fuori e lei si inoltrò da sola nel casermone anonimo, una struttura industriale senza ciminiera, dove altri quindici ragazzi aspettavano in piedi al centro di uno spazio vuoto di capire cosa sarebbe capitato. 

    La cosa davvero strana, in quell’atmosfera vociante di penombra e di attesa, fu scoprire che, nonostante fosse probabilmente la più giovane, era la più alta e quella con i capelli più corti. Madre Carola le aveva fatto infilare un completo alla buona con giacca e pantaloni blu e Victoria avrebbe sfidato chiunque a capire che lei era una ragazza. Anche se non le era del tutto chiaro se era una cosa da nascondere o no. Secondo Madre Carola ciò che non era espressamente vietato era permesso. Victoria si chiedeva se era per suore come lei che la regola dell’ordine era lunga quasi cento pagine.

    – Ehi, attento a dove metti i piedi! – gli si rivolse qualcuno.

    – Scusa, non volevo! 

    Victoria si girò di scatto verso il ragazzo che aveva involontariamente urtato.

    Era un tipetto riccioluto e ora si stava rassettando un vestito che, con ogni probabilità, costava quanto mezzo Santa Prospera.

    – Per entrare nelle Ali Nere dovremmo essere agili come gatti, non pestarci i piedi a vicenda – protestò ancora il ragazzino.

    Aveva degli occhi verdissimi che per la stizza mandavano lampi inquietanti, come quelli delle squame delle lucertole.

    – L’unico gatto che conosca è così grasso che quando si addormenta in cima al muro di cinta poi cade – ribatté Victoria, pensando al persiano della Madre Superiora. – Me la cavo molto meglio di lui.

    – Forse mio padre non si riferiva a quel gatto – concesse il ragazzo. – Sono Chris Jamenson, figlio del colonnello Jamenson della marina. Tu?

    Victoria si morse il labbro inferiore.

    Non solo il suo nome era un problema, ma anche il fatto di non avere un padre noto non sembrava un buon biglietto da visita. Non si era mai sentita in imbarazzo per quello, prima. Tutti i suoi amici erano sempre stati orfani. Sorrise.

    – Io sono 2835 – rispose.

    – Davvero? Ci credi? Io sono il candidato 8986 e qui siamo solo in sedici. E dicono che non prendono mai più di quattro o cinque cadetti all’anno!

    Forse a Chris non importava poi così tanto come si chiamasse.

    – Tu sai cosa dovremo fare oggi? – chiese.

    Il ragazzino scosse il capo.

    – Mio padre deve saperlo per forza, ma non mi ha detto niente. Solo che sarebbe stato fiero in ogni caso. Se non passavo la prima selezione, invece, mi sa che mi diseredava.

    – Beh, lui è in marina. Forse ai suoi tempi ha provato e non è passato.

    Questo fece sorridere improvvisamente Chris.

    – Non ci avevo mai pensato! Sai che sei forte…

    Prima che Chris potesse chiederle nuovamente il nome, la porta in fondo allo stanzone si aprì e entrarono tre uomini in uniforme nera e oro.

    Il primo lo conosceva anche Victoria, perché nessuno nell’Impero ignorava chi fosse il generale Havoc Morozov, comandante in capo delle Ali Nere da oltre trent’anni. Non portava più le ali da quando un Generale Angelico gli aveva staccato di netto la gamba che ora era sostituita da una protesi metallica tutta ingranaggi e stantuffi, ma non si muoveva piuma, lì, che lui non volesse. Alla sua destra c’era un giovane alto con i capelli neri lunghi fino alle spalle e una lunga cicatrice che dal naso gli attraversava la guancia destra. Alla sinistra invece un uomo più basso, sulla trentina, più robusto, con un’uniforme con molte meno decorazioni dorate e una grossa borsa di pelle in mano.

    – Quello alto è il colonnello Vadez, è lui che guida gli uomini nelle azioni – le sussurrò Chirs, che evidentemente aveva capito che necessitava di spiegazioni.

    – L’altro? 

    – Uno dei meccanici, credo.

    Meccanici.

    C’erano una marea di cose che Victoria non sapeva. Le Ali Nere, beh, avevano le ali quando combattevano. E anche alla parata di Nevoso, per la festa delle forze armate, sfilavano con le ali, no? Quindi come si mettevano le ali? Perché era evidente che in quel momento quel tale, Vadez, non le avesse.

    Fu proprio lui a prendere la parola.

    – Sono il colonnello Nero Vadez – esordì. – E mi complimento con voi per essere stati convocati qui. Sono stati dodicimilatrecentosei i ragazzi che hanno partecipato quest’anno alla selezione e voi avete dato prova di avere le caratteristiche fisiche e mentali necessarie a iniziare l’addestramento per entrare nel Corpo Militare Speciale delle Ali Nere. A ognuno di voi verrà rilasciato un attestato con cui potrete avere un accesso preferenziale a qualsiasi accademia militare dell’Impero. Perché c’è una caratteristica unica, una delle tante, nel nostro Corpo Militare: il nostro organismo decide per noi.

    Con un gesto plateale si girò di spalle, mentre con una mano scostava i capelli.

    I ragazzi, in piedi a semicerchio intorno ai tre militari allungarono d’istinto il collo per guardare. Sembrava che alla nuca il colonnello avesse impiantato un bullone. Dalla pelle spuntava un pezzo di metallo ottagonale. Con un movimento della mano libera, così rapido e alla cieca da denunciarne la lunga abitudine, Vadez rimosse la parte centrale, che si rivelò essere un una sorta di tappo. C’era un buco che entrava nel suo collo. Sul fondo si intravedeva qualcosa di umido e vischioso che Victoria suppose essere sangue. Si chiese se dovesse provare nausea o ribrezzo. Sicuramente era quella la reazione adatta a una ragazza, non il suo desiderio di infilarci un dito per capire se poteva toccare il midollo che scorreva all’interno delle vertebre.

    – Per andare nell’altra dimensione noi diventiamo angeli – proseguì Vadez, mentre ritappava quel coso, qualsiasi cosa fosse, e si girava di nuovo verso di loro. – Colleghiamo delle ali d’angelo ai nostri corpi, il loro sangue si mescola al nostro e acquisiamo alcune delle loro capacità. Sfortunatamente, il sangue d’angelo è tossico per oltre metà della popolazione. Quindi il primo passo sarà farvi assaggiare del sangue d’angelo è capire se potrete tollerarlo. Poi bisognerà sottoporvi all’impianto. Come vedete si tratta di un’operazione non banale. In caso di infezione, subentra spesso una febbre celebrale che uccide, o lascia debilitati per sempre. Non ci aspettiamo che più di quattro o cinque di voi possano iniziare l’addestramento. Metà di noi muore in combattimento o rimane mutilata. Quindi, se volete fermarvi qui, nessuno potrà biasimarvi. Non ci sono i vostri genitori, la scelta è vostra. Fuori da qui siete bambini, ragazzini di dodici anni, ma per le Ali Nere le regole sono diverse. Il corpo umano non è fatto per questa vita. Trent’anni è il limite massimo per il servizio attivo. Io sono andato in combattimento per la prima volta a quindici, qualcuno anche prima. Quindi non siete bambini e dovete decidere ora della vostra vita.

    Per quanto impettiti di fronte ai tre militari, Victoria avvertì gli sguardi di sbieco che gli altri si stavano lanciando. Non aveva capito se poteva morire assaggiando il sangue, ma se quello andava bene, le possibilità erano circa una su due. Bene. Lei non era tante cose. Non era diligente. Aveva una pessima memoria. Odiava cucinare e pulire i bagni. Era negata per il cucito. Ma non era stupida. A Santa Prospera si stava bene. Il cibo faceva schifo, nelle camerate d’inverno si gelava e la Madre Superiora aveva la scudisciata facile. Nessuno attentava alla loro virtù, non si moriva di fame e se stavi male ti curavano. Una volta uscite le cose non erano così facili. Le suore cercavano di avere notizie delle ragazze più grandi e ne parlavano tra loro. Chi finiva a battere, chi prendeva la tubercolosi, chi veniva ammazzata di botte. Se non era la metà a morire entro i trent’anni poco ci mancava. Almeno quelle delle Ali Nere erano morti più interessanti.

    Un ragazzo alzò la mano per ritirarsi e, poco dopo, timidamente, anche un secondo. Chris, di fianco a lui, era di colpo pallidissimo, ma non alzò la mano e Victoria, d’istinto, gli sorrise.

    – Molto bene. Ora chiamerò il vostro numero e vi metterete in fila – disse Vadez.

    Victora finì terza, dietro a un ragazzino alto quasi quanto lei, ma largo il doppio, e subito davanti a Chris. Il generale Morozov si era messo di lato, appoggiato a un muro, a osservare con un sigaro in bocca, mentre l’uomo con la sacca ne aveva tirato fuori un calice di legno e una fiaschetta di pelle.

    – Le Ali Nere esistono da cinque secoli – spiegò. – E da cinque secoli questi sono gli oggetti per la prova del sangue.

    Victoria si chiese se non fosse un tocco per metterli ulteriormente a disagio.

    Il primo ragazzo, un tipetto dal naso affilato e dai modi che alla ragazza ricordavano quelli di un topo, bevve dalla coppa e tremò per un istante. Il colonnello Vadez si affrettò a sostenerlo, mentre il ragazzo sembrava essere sul punto di vomitare, ma poi si passò il dorso della mano sulla bocca e scosse il capo.

    – Sto bene – biascicò.

    – Molto bene – lo confortò Vadez. – Adesso vai a sederti tranquillo, se ti senti male chiamaci.

    Il ragazzo annuì e, un po’ barcollante, raggiunse la parete del capannone e vi si appoggiò, lasciandosi scivolare a terra.

    Il secondo era quello davanti a Victoria. Bevve con un gesto deciso. Anche lui, come l’altro, iniziò a tremare, questa volta, però, non smise in pochi istanti. 

    Tra le braccia di Vadez i tremiti divennero un attacco di convulsioni. 

    Victoria fece d’istinto un passo indietro, mentre il ragazzo di dibatteva in modo inconsulto, con gli occhi rovesciati e la bava alla bocca.

    Con calma, l’uomo di cui la ragazza non conosceva il nome estrasse dalla borsa una siringa e, mentre Vadez teneva fermo in qualche modo il ragazzo, riuscì a fargli un’iniezione. Il corpo si afflosciò all’istante nelle braccia del colonnello. Due uomini, sempre in uniforme nera e oro, entrati senza che i ragazzi se ne accorgessero, vennero a prendere il corpo inerte tra le braccia, per trascinarlo via.

    – Starà bene – disse Vadez, come se non fosse accaduto nulla.

    Victoria era la più vicina, sentiva dall’odore che il ragazzo si era urinato addosso e anche lei iniziò a tremare. Di colpo non voleva farsi vedere in quello stato. Non voleva pisciarsi addosso, inconsapevole, davanti a degli sconosciuti. E poi? I soccorritori avrebbero scoperto che era una ragazza…

    – 2835? – la chiamò Vadez. – 2835? Tutto bene?

    – Sì – rispose Victoria, facendo un passo avanti.

    Mise un piede nell’urina del ragazzo e ne sentì il viscido sotto la suola della scarpa. Ritrasse il piede e quasi rovesciò la coppa che l’uomo le stava porgendo.

    Meglio farla breve.

    Anche lei bevve velocemente, per non pensare.

    Faceva schifo, il sangue d’angelo. Una roba calda, vischiosa e salata.

    Rimise la coppa nelle mani dell’uomo che gliela aveva data.

    In quel momento sentì il peso degli sguardi come qualcosa di fisico.

    Non stava tremando. Per niente.

    – Come ti senti? – le chiese Vadez.

    – Non lo so – rispose, sincera.

    Non tremava. Non provava nausea, se non per il sapore. Però aveva una strana sensazione di ondeggiare, come se faticasse a mettere a fuoco gli oggetti.

    – Vai a sederti.

 

    Chris tremò parecchio e Vadez dovette sostenerlo per alcuni minuti, ma poi anche lui fu invitato a sedersi.

    – Come va? – gli sussurrò Victoria, quando lui si rannicchiò al suo fianco.

    – Malissimo – biascicò. – Tu?

    – Mi gira un po’ la testa – confessò la ragazza.

    – Però tremi meno di me – si inserì il primo ragazzo.

    Poi furono interrotti dalle grida del quinto ragazzo, che si contorceva stringedosi lo stomaco. Anche in quel caso i due uomini, che Victoria supponeva fossero infermieri, faticarono a fargli l’iniezione e a portarlo via.

    A Victoria parve fosse quella la parte peggiore. Vedere dei ragazzini della sua età stare male sotto lo sguardo impassibile delle Ali Nere. Vadez era gentile e distante con tutti. Morozov imperscrutabile. L’uomo con la sacca e gli infermieri efficienti. Non dicevano una parola. Agivano e basta. Uno dei ragazzi fu portato via che non stava respirando. Poco dopo davanti a loro che erano seduti fu messo un secchio. Chris e poi un altro ragazzo vi vomitarono a ripetizione. L’idea di Victoria di «ingresso in un Corpo Militare Speciale» era una cosa sicuramente meno puzzolente. Forse, tutto sommato, era meglio fare la cameriera.

 

    Lentamente, il mondo smise di ondeggiare intorno a Victoria. Qualcuno doveva aver aperto delle porte o accesso delle lampade, perché lo stanzone era più luminoso. Perfino il pulvisco nell’aria sembrava rilucere, nitidissimo. 

    La ragazzina si passò una mano sugli occhi. I graffi che aveva più o meno sempre sulle dita erano scomparsi. In effetti, si rese conto, ora che l’effetto mal di mare era cessato, si sentiva molto meglio di quando era entrata nel capannone. Nei giorni precedenti aveva preso una mezza storta a una caviglia e si era spezzata un’unghia della mano sinistra. Sembrava che gli effetti di entrambi i piccoli infortuni fossero scomparsi. Con circospezione, si guardò intorno. Erano in cinque seduti addossati alla parete. Da come sembrava intento a osservarsi le mani, anche George sembrava sperimentare gli stessi effetti.

    Il generale Morozov era nella stesso posizione in cui Victoria lo aveva visto prima di bere il sangue, appoggiato alla parete opposta alla loro, in osservazione. Come un avvoltoio, pensò. Vadez e l’altro tizio invece non si vedevano da nessuna parte.

    Con un rumore stridente che Victoria trovò insopportabile, una porta si aprì e Vadez e l’altro militare rientrarono. Avevano un aspetto più rilassato e, nonostante la distanza, la ragazzina si accorse di udire i loro bisbigli.

    – Guarda com’è attento il ragazzetto con i capelli chiarissimi, forse lo abbiamo trovato – stava dicendo quello più basso.

    – Di certo da quando sono qui non c’è nessuno che abbia reagito così bene. Anche l’altro, il primo che ha bevuto, sta andando bene – replicò Vadez.

    L’altro sorrise.

    – Che invidia. Io avevo vomitato per due ore.

    Poi Vadez diede una lieve gomitata al proprio compagno e gli indicò Victoria.

    – Ci sta ascoltando – mormorò. 

    Poi, senza alzare la voce, si rivolse direttamente a lei.

    – Vieni qui.

    Victoria si mise in piedi. 

    Bene, era molto meno instabile sulle gambe di quanto temesse. 

    – Una volta assimilato, il sangue d’angelo accelera i processi di guarigione e migliora i sensi – le disse Vadez, quando lei lo ebbe raggiunto.

    – Quindi posso entrare nelle Ali Nere? – chiese lei.

    – Direi di sì, tutti voi che siete rimasti avete le caratteristiche per diventare dei nostri. Credo, però, che sarò io ad addestra te. Un giorno potresti sostituirmi, portando le Grandi Ali, nel ruolo di comandante in campo delle Ali Nere. A proposito, come ti chiami, ragazzo?

    Victoria deglutì.

    Tanto, prima o poi, sarebbe uscito.

    – Victoria. A proposito, sono una ragazza.

    Con i sensi amplificato dal sangue d’angelo, Victoria udì distintamente il rumore del sigaro del generale Morozov che cadeva dalle sue labbra per finire a terra.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Prendendo un respiro, Victoria si decise a mettere la mano sulla maniglia e ad aprire la porta.

    – Sono pronta – disse.

    Cazzo! C’era anche Chris!

    Non si era aspettata Chris, anche se era ovvio che ci sarebbe stato, dato che stavano per andare alla villa di suo zio. E quindi era lì, nell’uniforme di gala dei cadetti delle Ali Nere, grigia e non nera, con i suoi ricci miele scuro lunghi sulla nuca a coprire l’impianto, appoggiato al pianoforte a coda del salotto dei Morozov. La stava fissando con gli occhi verdi sgranati e solo il fatto di essere paralizzato aveva evitato che il bicchiere che teneva in mano fosse fatto cadere.

    – Non è possibile – boccheggiò il ragazzo.

    – Che vesta d’azzurro? – replicò Victoria.

    Per mascherare il disagio fece un giro su ste stessa, facendo roteare la lunga gonna vaporosa.

    – Che ieri giocando a calcio tu mi abbia fatto tre goal!

    Una volta accettato il fatto che il candidato più promettente degli ultimi anni era una ragazza,  il problema di come dovesse vivere Victoria era stato risolto in modo pratico e radicale. Lei era un cadetto dello Ali Nere. Come tale, aveva la sua stanza al quartier generale, mentre trascorreva l’Ottidì, il Novidì, il Decadì e i periodi di vacanza a casa Morozov. Aveva un guardaroba del tutto simile a quello degli altri e, dal momento che il suo corpo non sembrava intenzionato a produrre delle tette degne di questo nome, ignorare che fosse una femmina era la cosa più semplice. Nei momenti liberi usciva insieme agli altri cadetti dai capelli sempre più lunghi per vagabondare per la città o giocare nei parchi. La maggior parte delle volte la chiamavano col diminutivo «Vic». Chris non l’aveva mai vista in abiti femminili, probabilmente aveva del tutto dimenticato che fosse una ragazza.

    – Se giochiamo adesso te ne faccio anche quattro – replicò Victoria.

    – Quindi, cadetto Chris Jamenson, basta un abito per cambiare la concezione che hai di una persona?

    La voce di Delia Morozov era come lo spezzarsi di un ramo secco. Qualcosa di sgradevole e definitivo. Se c’era stata una cosa davvero sorprendente, nella nuova vita di Victoria, era stato scoprire che nella villa del generale Morozov, comandante in capo delle Ali Nere, eroe dell’Impero, il comando era saldo nelle mani della donna magrissima e altera che stava entrando in quel momento nella stanza. Anche la parte di vita di Victoria che si svolgeva fuori dal quartier generale era finita rapidamente sotto il controllo della moglie del generale. Era stata lei a insistere perché Victoria trascorresse lì il tempo libero. Sotto la sua tutela la ragazza aveva imparato a suonare il piano, aveva letto poesie, era insomma diventata parte di un qualche progetto di Delia Morozov volto a dimostrare la parità delle donne in ogni campo. Era stata di Delia, senza dubbio, l’idea di includere anche Victoria nell’invito ricevuto dal conte Jamenson per un fine decade in campagna. Ed era di Delia l’imposizione che Victoria non vi partecipasse come Vic Soilbeir, cadetto delle Ali Nere, ma come Victoria Moroziva, pupilla del generale. La ragazza pensava che sarebbe stata a suo agio come il proverbiale elefante nel negozio di cristalleria, tuttavia, adesso, nel pavoneggiarsi davanti a Chris nel vestito azzurro, non poteva negare che ci fossero degli aspetti piacevoli. Il cadetto Jamenson, quand’era imbarazzato, era senza alcun dubbio delizioso.

    – Siamo in ritardo, tanto per cambiare! – brontolò il generale Morozov, entrando nella stanza.

    Si sistemò il monocolo e diede uno sguardo torvo ai due ragazzi. Poi sbuffò.

    – Voi due, non mi importa come siete vestiti, cercate di non portare disonore alle Ali Nere – ringhiò. – Niente zuffe. Vale sopratutto per te, Victoria. Nessuno dei ragazzi che incontrerete ha il vostro addestramento, quindi non sarebbe leale battersi con loro.

    – Se se le fanno dare da una ragazzetta così non avranno più il coraggio di guardarsi allo specchio – commentò Chris.

    – La ragazzetta te le dà quando vuoi – replicò Victoria, facendo una linguaccia.

    Il generale la fulminò con lo sguardo, ma poi si limitò a scuotere la testa.

    – Bene, daremo la colpa del tuo comportamento a Delia, che non ti ha saputo educare – sentenziò, strappando un singulto di disapprovazione alla moglie.

    

    Con il vento che le scompigliava i boccoli tanto faticosamente composti, seduta sul sedile posteriore dell’auto a vapore dei Morozov, guidata con la solita scioltezza da Delia, a Victoria parve, per la prima volta, di scoprire il significato della parola «vacanza». Non si era praticamente mai allontanata dalla capitale e quel susseguirsi di colline, boschi e piccoli borghi, sotto un cielo non sporcato dalla perenne fuliggine della metropoli, sembrava quasi il preludio di una fiaba. Non andavano propriamente in un castello, ma in una villa su un lago. La bambina che era stata non avrebbe neanche potuto sognare qualcosa di simile. Chris, però, era silenzioso al suo fianco. Di tanto in tanto la guardava di sottecchi, come a controllare che davvero indossasse ancora quel vestito ridicolo. Per lo più, però, osservava il paesaggio, con la fronte aggrottata e gli occhi verdi assorti.

    – Non sei contento di andare da tuo zio? – chiese Victoria, quando il silenzio iniziò a pesarle.

    – Mio zio è abbastanza a posto. Ci saranno i miei genitori, però – sbuffò Chris.

    – E non va bene? – provò la ragazza.

    Quella delle relazioni famigliari era per lei una terra incognita in cui cercava di addentrarsi il meno possibile.

    – Io non vado bene – precisò il ragazzo. – Anche se il fatto di non essermi ancora fatto espellere dalle Ali Nere sta aiutando.

    Victoria non seppe cosa dire. Chris non reagiva bene quanto lei e George al sangue d’angelo, ma lei e Chris si contendevano la leadership in quasi tutti i corsi. Come questo potesse non andare bene ai suoi genitori restava un mistero che l’amico non aveva intenzione di spiegare.

    – È vero che hai provato la connessione con le Grandi Ali? – chiese infatti Chris, cambiando argomento.

    – Sì.

    Lo aveva fatto in gran segreto, alla presenza del solo Vadez. Pisciarsi addosso davanti agli altri aveva sostituito nei suoi incubi il rimanere a morire soffocata in un rifugio.

    – Com’è stato?  – chiese Chris, avido.

    – Terribile – sospirò Victoria, cercando qualcosa di interessante da guardare nel paesaggio.

    In realtà Vadez aveva detto che era andata bene. Non aveva avuto davvero un rigetto fisico. Era in grado di dominarle. Forse era quella la cosa peggiore.

    – Perché? Cioè, è davvero così diverso dalle ali normali? – chiese ancora Chris.

    Per combattere gli angeli, le Ali Nere si impiantavano temporaneamente ali di nemici uccisi. Finché c’era il collegamento era come avere degli arti in più, potevano davvero volare, oltre che andare nella Dimensione Angelica. Era inebriante. Bastava un minuto di volo per sentirsi ripagati di tutta la fatica dell’addestramento. Vadez, però, usava ali diverse, grosse il doppio, strappate, diceva la leggenda, da Sant’Astulf a un Generale Angelico, cinquecento anni prima.

    – Sì – rispose Victoria, cercando le parole. – Le ali normali… Non sono angeli, più di quanto un cappotto bordato di pelliccia non sia una volpe. Le Grandi Ali… Loro si ricordano di appartenere a un angelo. Forse sono ancora quel Generale Angelico e cercano di sopraffarti.

    Era stata investita da… Forse dalla memoria della morte che era rimasta impressa in quel corpo. Un dolore subitaneo e imprevisto al petto. la sensazione che tutta l’aria uscisse di colpo dai polmoni, mentre lei bruciava dentro. Poi era riuscita a respirare di nuovo e a riprendere il controllo di se stessa. Ma lui, l’angelo, era lì, in qualche modo. Lo sentiva premere. Era stato come… Indossare un fantasma malevolo.

    – Adesso mi addestrerò da sola con Vadez qualche ora ogni giorno – concluse.

    Le Grandi Ali facevano molto più che permettere di raggiungere e muoversi nella Dimensione Angelica. Erano quasi indistruttibili, resistenti persino all’energia degli angeli. Permettevano inoltre di trasmettere il proprio pensiero agli altri e di pilotare gli spostamenti attraverso le dimensioni. Per coordinare un’azione era indispensabili, il fatto che al momento non ci fosse un valido sostituto di Vadez era la preoccupazione principale dei soldati.

    – Forte! – commentò Chris, con quella sua genuina capacità di gioire per i successi altrui.

    Come sempre quando non sapeva cosa dire, Victoria si limitò a sorridere.

    Le odiava già, le Grandi Ali. Il fatto che tra tutti i membri effettivi e i cadetti delle Ali Nere al momento solo lei e Vadez riuscissero a portarle segnava un’altra differenza tra lei e gli altri, un altro sottile solco di isolamento. 

    Negli ultimi mesi Victoria si era resa conto sempre più di quanto fosse fittizia quella sensazione di uguaglianza, di appartenere a un gruppo. Le Ali Nere erano un corpo speciale sotto molti aspetti. Erano talmente poche i candidati in grado di sostenere la connessione con le ali ed era così alta la possibilità di morire in combattimento che molti aspetti diventavano secondari. Le Ali Nere portavano orgogliosi i capelli lunghi, per nascondere l’impianto alla nuca e allo stesso tempo rimarcare la propria alterità. Non c’erano classi sociali, c’erano nobili come Chris e figli di bottegai come George. C’era persino uno degli ufficiali in servizio attivo che prediligeva senza nasconderlo troppo i ragazzi, una cosa che lo avrebbe fatto radiare, o peggio, da qualsiasi altro corpo militare. Ma non c’erano altri orfani. E non c’erano ragazze. Ogni mese Victoria doveva ripiegare con cura le bende perché non si notassero indossando i pantaloni dell’uniforme da cadetto. Si sforzava di ignorare il mal di testa e i crampi, per essere performante come gli altri. Un domani, in combattimento, la sopravvivenza dei suoi compagni non poteva dipendere dai suoi mal di testa da donna. E poi c’erano le altre questioni. Le infinite volte che erano andati in un certo caffè del centro perché Chris faceva gli occhi dolci alla cameriera sedicenne. Poi avevano smesso di andarci di colpo. Il perché Victoria lo aveva scoperto quattro sere prima, proprio dopo aver provato le Grandi Ali. Era uscita dal quartier generale da sola, molto più tardi degli altri, con l’idea di sciogliere in una passeggiata quel ricordo fantasma che le aleggiava dentro. Con i sensi ancora acuiti dal sangue d’angelo che le correva nelle vene, aveva sentito i gemiti provenienti da dietro uno dei capannoni vicini al quartier generale, usato come rimessa per veicoli. Chris e la cameriera erano addossati a una parete, intenti in qualcosa che più che un bacio sembrava una reciproca invasione dell’apparato laringeo. E Victoria aveva sentito una fitta improvvisa allo stomaco, qualcosa di sgradevole quasi quanto i ricordi dell’angelo morto. In che modo mai una ragazza che girava per la città in uniforme militare avrebbe potuto trovarsi in una circostanza simile? Che sensazione si poteva provare nel trovarsi premuta contro un muro, con gli occhi verdi di Chris puntati contro e poi le sue labbra contro le proprie?

 

    Forse non era un castello quello a cui arrivarono, ma poco ci mancava. La villa del conte Jamenson era  un enorme edificio grigio, con tanto di torrette decorative che si stagliava sullo sfondo di un lago incastonate tra le colline. Probabilmente era tutto parte della proprietà, il lago e anche le colline. Ad attenderli era schierato un intero stormo di servitori in livrea nera e bianca. La maggior parte era impura, selezionata secondo il gusto della casa, perché tutti avevano piccole corna ritorte che spuntavano dai capelli e gambe che terminavano in zoccoli caprini. Victoria aveva ancora quella curiosità che Delia definiva «campagnola» nei confronti degli impuri, anche se ormai si era abituata a quelli che servivano al quartier generale o a villa Morozov, e, mentre trotterellava dietro alla cameriera che aveva preso in carico la sua valigia, cercò di capire se avesse anche una coda, nascosta dentro la gonna.

    – Questa è la sua camera, miss. Per qualsiasi cosa basta suonare il campanello.

    Victoria ci mise dieci secondi buoni a capacitarsi che «miss» era rivolto a lei. Poi si rese conto che per la prima volta entrava in una camera appositamente allestita per ospitare una ragazza. C’era un quantitativo imbarazzante di fiocchetti. Fiocchetti a fermare la trapunta alle gambe del letto. Fiocchetti come decorazione ricamata sul cuscino. Fiocchetti a tenere aperte le tende del baldacchino. Fiocchetti sulle boccette posate sulla toeletta. E poi la toeletta stessa, con tre spazzole diverse, due pettini, cinque tipi di nastro, due ciprie, quattro profumi e altri aggeggi che non seppe identificare. Che cosa si intendeva per «darsi una rinfrescata prima di incontrare il conte»? Poteva cavarsela con una sciacquata alla faccia e un colpo di spazzola? Possibile che non fosse ancora iniziato niente e già si sentisse così inadatta? Aprì la finestra. Dava verso il prato che digradava nel lago. I rami di albero di noce arrivavano quasi a lambirla e la ragazza pensò che forse poteva scappare da lì, arrampicandosi sull’albero e poi nascondersi da qualche parte. Ma no, ovviamente. Delia era già sul prato a parlare con un’altra sessantenne alta e distinta. Non c’era proprio modo di fuggire alle sue buone intenzioni.

 

    – Ed ecco la nostra piccola protegée, Victoria Moroziva – fu quindi presentata, circa un quarto d’ora dopo.

    La ragazza si inchinò cercando di fare come le era stato insegnato, alzando appena la gonna ai lati con le mani, mentre si piegava. Non aveva pensato alla quantità di gente che sarebbe stati invitata insieme a loro, né alla quantità di ragazzi. I figli del conte Jamenson erano già adulti e affaccendati in altro, ma la sorella della moglie del conte aveva due figlie Marina e Gloria, evidenti segnali dei frustrati desideri di un rampollo da instradare nell’esercito. C’era Thérese, la sorella minore di Chris. E infine Theo e Maurice, i gemelli quattordicenni del terzo dei Jamenson, virtualmente indistinguibili. Tutti la guardavano come se fosse una strana creatura che non sapevano bene come trattare. I ragazzi, però, almeno fino a che venne servito il the, portato in giardino in leziose tazze bordate d’oro, si astennero dal fare domande. Cosa che invece non fecero gli adulti.

    – Delia, cara, questo sì che è inaspettato, questa deliziosa ragazza è una tua parente? Mi pare che ti somigli, già alta com’è – cinguettò la contessa.

    – A un certo punto la casa si sente il bisogno di riempirla – replicò Delia, con un delizioso tono da «fatevi i fatti vostri». – Non siamo parenti diretti, che io sappia. Però suona il piano in modo passabile.

    Victoria cercò di guardare con attenzione il proprio the e di definirle l’esatta tonalità. Delia era stata da giovane una famosa pianista. Le aveva insegnato a strimpellare. Ci mancava solo che le chiedessero di suonare e facessero il confronto.

    – Quindi pensate di adottarla a tutti gli effetti? – chiese la madre dei gemelli.

    Victoria si obbligò a deglutire il the senza strozzarsi. Quella era sicuramente una domanda a fini patrimoniali. I Morozov erano ricchi e potenti, Delia frequentava addirittura l’Imperatrice Madre e non avevano figli. La loro erede sarebbe di sicuro stata contesa da tutti i rampolli dell’impero. Ci mancava solo di essere scambiata per una merce in vendita al mercato delle doti.

    – Non ci abbiamo pensato, ancora – tagliò corto Delia Morozov. – I tuoi ragazzi, invece, sono fidanzati?

    – Non ancora – fu l’eloquente risposta.

    A salvarla intervenne Chris.

    – L’anno scorso in questo periodo c’erano i cigni con i loro pulcini – disse. – Mia sorella vorrebbe vederli, noi ragazzi possiamo andare?

    Un cenno di approvazione da parte del conte decretò il via libera.

    Il gruppo era abbastanza giovane, numeroso e ben assortito da essere lasciato scorrazzare senza timore che accadesse qualcosa di sconveniente.

 

    Quasi subito a Victoria si accostò Marina. Doveva essere sui quattordici anni e alla ragazza parve una versione più intensa ed esuberante sé stessa. I capelli non erano quasi bianchi, ma di un bel biondo dorato, gli occhi splendevano di un blu intenso nel volto rosato e la natura le aveva elargito attributi che rendessero chiaro il suo sesso di appartenenza. Infine, il vestito della stessa tonalità azzurra, accentuava la somiglianza e, di conseguenza, le differenze.

    – Credo che ci siamo serviti nella stessa sartoria – esordì Marina. – Non possiamo assolutamente indossare un abito simile anche a cena. Tu cosa metterai?

    Victoria sbatté le palpebre, nel tentativo di ricordare la successione concordata di vestiti. Per stare via due giorni ne aveva otto, quando per una decade di addestramento le bastavano due uniformi e un completo civile.

    – Bianco con ricami blu, credo.

    – Bene, io vesto in rosa antico, anche se secondo me in bianco e blu sembrerai un po’ slavata, meglio un grigio argento.

    Victoria annuì, fingendo interesse.

    – Da quanto vivi a casa Morozov? – si intromise Gloria, una versione di circa un anno più giovane e di una tonalità più scura della sorella.

    – Due anni.

    – E sono così terribili? Chris da quanto scrive ne è terrorizzato! – questa era Thérese, di un’ottava più amichevole.

    – Ma no. Il generale abbaia ma non morde. Delia… Ha la sicurezza di chi è convinto di essere nel giusto.

    La ragazzina, una dodicenne tutta ricci castani e lentiggini, le rivolse il primo vero sorriso che avesse visto a villa Jamenson.

    – E mio fratello, si caccia sempre nei guai anche lì? – chiese, a voce più bassa.

    – Non che mi risulti, ne parlano bene.

    Che grado di confidenza era lecito che avesse con Chris?

    – Hai molte occasioni per frequentarlo? – chiese subito Marina.

    Doveva trovare in fretta una risposta.

    – Il decadì spesso il generale invita a cena qualcuno dei cadetti o degli ufficiali – rimase sul vago.

    – Quindi vedi un sacco di ragazzi! – sospirò Gloria. – E tutti delle Ali Nere! È vero che sono tutti così lugubri?

    – Da che vivo dai Morozov sono morti cinque di loro e tre sono rimasti feriti gravemente. Forse non sono tra i più allegri al mondo.

    – Ma gli uomini più vicini alla morte sono più vicini anche all’amore, si dice – commentò Marina.

    – Non so. Non parlo d’amore con loro.

    Ma li ascolto, pensò, mentre parlano del bordello della Rosa Bianca, o di questa o di quella ragazza. Persino di ragazzi, nel caso del tenente Ciner. 

    Intanto erano arrivati al lago, ma non c’era nessun cigno in vista.

    – Vado a chiamare il garzone, lui saprà come richiamarli si offrì uno dei gemelli, correndo verso un capanno di legno poco distante.

    Una manciata di minuti dopo ne uscì seguito da un ragazzo dalle spalle larghe, più o meno della loro età che reggeva un sacco di granaglie.

    – Quei fannulloni vengono solo per mangiare – borbottò il ragazzo. – Dovete chiamarli e buttare loro il cibo. Ma sconsiglio le ragazze di farli mangiare dalle mani. Beccano.

    Mise una mano dentro un sacco e iniziò a fare uno strano richiamo gorgogliante, mentre gettava frammenti di mais verso l’acqua.

    Poi si girò per distribuire il mangime e Victoria poté vederlo in faccia.

    – Robert! – esclamò.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Lui aprì la mano, lasciando cadere i chicchi che vi teneva, e se la passò sugli occhi.

    – Victoria… – emise, a metà tra un sospiro e un grido strozzato.

    Era cambiato, pensò la ragazza. Si era fatto muscoloso e tarchiato, scurito dal lavoro all’aperto. Lei, di sicuro, era cambiata di più.

    – Come fate a conoscervi? – chiese Thérese.

    Il suo tonto era genuinamente perplesso, ma di certo stava dando voce al pensiero di tutti.

    – Da bambini ogni tanto ci siamo incrociati – rispose Robert, veloce. – Guardate, stanno arrivando i cigni.

    Aveva ragione, quattro grossi uccelli bianchi stavano nuotando verso di loro attraverso lo specchio d’acqua e il garzone cercava di metterci tutto il suo impegno nel richiamarli.

    Thérese e Gloria furono immediatamente distratte dall’arrivo degli animali, ma Victoria era ben conscia di essere diventata molto più interessante agli occhi degli altri. La pupilla dei Morozov che da bambina giocava con il garzone dei Jamenson, quello preso dall’orfanatrofio.

    Di colpo, a Victoria parve molto più chiaro perché il generale le avesse raccomandato di non azzuffarsi. La tentazione di convincere a schiaffoni tutti quanti a farsi i fatti propri era controbilanciata solo dal desiderio di parlare da sola con Robert. Mentre si sforzava di imitare i gesti con cui le altre ragazze si contendevano le attenzioni dei pennuti, sentiva i caldi occhi castani dell’amico accarezzarla. Fu colta da una subitanea e assurda felicità al pensiero che l’avesse re incontrato proprio in quel momento, quando aveva i capelli ben pettinati e lo scomodo abito azzurra a fasciarla. E subito dopo pensò che avrebbe dovuto mentirgli, in qualche modo. Non lo aveva mai fatto. Da che aveva memoria, Robert era il suo miglior amico e l’unico degno rivale. 

    Anche Chris, si rese conto, la stava guardando, uno sguardo che Victoria non seppe interpretare e di cui, per una volta, non le importava molto.

 

    Marina aveva ragione. Nell’abito bianco dai ricami blu Victoria più che un’invitata si sentiva un fantasma che aleggiava alla cena e alla festa. Come ogni fantasma che si rispettasse, era oggetto di occhiate furtive e inquiete e come presumibilmente accadeva ai fantasmi la gente parlava come se lei non esistesse. Il fatto che conoscesse il garzone, il garzone che veniva da Santa Prospera, era un’informazione percolata dai ragazzi agli adulti.

    – Delia, tesoro, sono sicura che tu stia cercando di dimostrare qualcosa e la ragazza sembra davvero deliziosa – sussurrò la contessa alla signora Morozov. – Ma davvero sei tranquilla con i casa con una ragazzina che chissà cos’ha vissuto, che cosa ha visto, che cosa ha fatto…

    Delia la beneficiò di una delle sue migliori occhiate raggelanti.

    – Mio marito ha ucciso angeli per una vita. La villa è adiacente al quartier generale delle Ali Nere. E dovrei avere paura di una tredicenne?

    Se non altro, nessuno le chiese di suonare. Lo fece Marina, esibendosi in un impeccabile Notturno e catalizzando gli sguardi di tutti. Quando poi cedette il piano a Delia, Chris le chiese di ballare. Victoria si chiese se fossero fidanzati. Di certo le rispettive madri gongolavano nel vederli volteggiare. E erano una bella coppia, così come dovrebbero essere le coppie. Lui di una decina di centimetri più alto, affascinante nella divisa dalle decorazioni dorate, lei morbida tra le sue braccia, docile nel farsi guidare tra le note. Chris sembrava del tutto a suo agio nel suo ruolo di cavaliere, senza alcun motivo per il malumore che aveva esibito durante il viaggio. Probabilmente, era lei che non riusciva a capire. Quel mondo non le apparteneva. Lo osservava, come osservava certi quadri d’avanguardia che le aveva mostrato una volta Delia, in cui tutte le figure si mescolavano fino a diventare mere macchie di colore. Li aveva trovati belli, ma non aveva la più pallida idea di cosa rappresentassero. 

 

    Nonostante tutta quella massa di fiocchi, tornare alla propria stanza fu rassicurante.

    – Ti stai divertendo? – le aveva chiesto Delia, riaccompagnandola in camera.

    – È interessante – aveva risposto lei, sincera.

    La donna aveva fatto uno di quei suoi sorrisi, benevoli più o meno come quelli di una mantide in caccia, come se tutto sommato quella fosse la risposta che si era aspettata.

    Victoria finì di infilarsi la camicia da notte in raso di seta bianco, il suo unico abituale tocco di femminilità, quando sentì qualcosa raschiare alla finestra.

    – Robert! – esclamò, scostando la tenda.

    Ci aveva pensato, in effetti, senza sperarci davvero.

    Si affrettò ad aprire la finestra per farlo entrare.

    Lui scavalcò il davanzale e poi si guardò intorno un poco perplesso, mentre sotto le sue scarpe dalla suola grossa si allargava una macchia sul tappeto bianco che ricopriva il pavimento.

    – Si è messo a piovigginare – commentò. – Sarà meglio che le tolga, prima di inzaccherarti tutto… Non sono mai stato in una stanza tanto…

    – Stucchevole? – completò Victoria. – Neppure io.

    – Ti tengono in una cantina i Morozov? – chiese Robert, mentre armeggiava con le scarpe.

    – No. Ma non ci sono tutti questi fiocchi. 

    Lo invitò a sedersi accanto a sé, sul letto.

    Non lo avevano mai fatto da bambini. Dormendo in camerate era impossibile infilarsi l’una in quella dell’altro o viceversa senza scatenare un putiferio. Neppure loro avevano mai osato. Adesso, di colpo, divenne consapevole di quello che indossava, di come le ricadeva addosso segnando le curve, o l’assenza di curve, del suo corpo. E la presenza di Robert era qualcosa che sovraccaricava i suoi sensi ipersensibili. La pioviggine gli aveva inumidito i capelli e ora odorava di muschio, corteccia e un poco di imbarazzo. Sentiva persino il calore del suo corpo, seduto a qualche centimetro dal suo. Si morse il labbro. Era innaturale sentirsi a disagio con Robert.

    – Raccontami come sei finito qui – disse.

    – Eh, no. Sei tu quella che ha la storia più interessante – protestò Robert. – Pupilla dei Morozov, niente di meno! Ce l’aveva detto madre Carola che ti avevano preso in simpatia per esserti infiltrata alla selezione delle Ali Nere. Ma non pensavamo al punto da trasformarti in una damigella di corte.

    Quindi era quella la versione diffusa a Santa Prospera. 

    Sarebbe stato bello se almeno lì avessero saputo che ne era stato di lei.

    – Non sono mai stata a corte – precisò.

    – Potresti? – domandò Robert, sgranando gli occhi.

    Gli stavano quasi spuntando i baffetti, notò Victoria. Proprio come Chris, Robert, pur essendo suo coscritto, aveva quasi un anno in più. In autunno, appena dopo i suoi quattordici anni, lui ne avrebbe compiuti quindici.

    – Delia Morozov ci va, quando non finisce nei guai per qualche manifestazione per i diritti delle donne. Ma non mi porta mai, né a corte né alle manifestazioni.

    Sarebbe stato surreale in entrambi i casi.

    Poi si rese conto che come lei aveva guardato le labbra di Robert e notato i baffi nascenti, lui stava guardando le sue di labbra. Meglio aggiungere qualcosa.

    – Penso che le sia piaciuto questo, che mi sono infiltrata in una selezione per ragazzi e me la sia cavata – disse, cercando di parlare per riempire il silenzio. – Trasformare un’orfana di Santa Prospera in una dama dell’alta società sarebbe un altro punto a favore dell’uguaglianza delle classi. Non sono molto sicura che ci riesca, però.

    – Quindi sei una sorta di esperimento di una donna ricca? – domandò Robert.

    Il disprezzo per la donna ricca la ferì.

    – No, non hanno figli, i Morozov.

    Da quel che ne sapeva nessuna delle gravidanze di Delia era andata molto avanti. Deformazioni non compatibili con la vita. Una cosa che capitava spesso a quelli delle Ali Nere che riuscivano a lasciare  il servizio attivo e mettere su famiglia. Troppo sangue d’angelo. Un’altra simpatica cosa da tenere a mente, in futuro.

    – Credo che, potendo scegliere, le sarebbe piaciuta una figlia in grado di battere i ragazzi sul loro terreno.

    – Sei stata fortunata – commentò Robert.

    – Sì.

    Se i Morozov non fossero stati, beh, i Morozov la cosa avrebbe potuto evolvere in maniera molto più sgradevole.

    – Tu come ti trovi qui? – chiese.

    La mano di Robert era vicinissima alla sua. Si sfioravano, quasi. Era grande, larga tre volte la sua, abbronzata. Di sicuro sul palmo e le nocche c’erano dei calli da lavoro. La mano di Victoria era bianca e sottile. Del suo corpo, le mani le erano sempre piaciute più di tutto i resto. Erano sottili, con dita che potevano correre sui tasti di un pianoforte o impugnare con sicurezza un’arma. Ne teneva le unghie curate, anche se lunghe non sarebbero state comode, e di tanto in tanto ci metteva dello smalto trasparente. Viste da sopra erano in tutto e per tutto delle mani di ragazza, ma  il costante esercizio con le armi le aveva segnate con dei calli. Se Robert si fosse azzardato a prendergliela, se ne sarebbe accorto?

    Robert, però, non osò e si limitò a sospirare.

    – Lavorare in una grande tenuta dà delle opportunità – disse. – Quindi, rispetto agli altri, anch’io sono stato fortunato.

    – Perché, cos’è successo agli altri? – chiese Victoria, spostando lo sguardo di scatto dalle mani al viso di Robert.

    – Avrai saputo di Tara…

    – No.

    Non sapeva nulla di Tara o di Robert o di chiunque altro da due anni.

    Erano stati la sua vita. Lei, Tara e Robert erano stati inseparabili per tutta l’infanzia. E poi se n’era semplicemente andata. Non era mai tornata a Santa Prospera dopo la prova del sangue. Avevano mandato a prendere le sue cose e le avevano portate a Villa Morozov. Una minuscola sacca che spariva a confronto con il baule che si era portata dietro per quei due giorni di fine decade in cui erano racchiusi undici anni di vita. Anche gli affetti erano rimasti fuori. Aveva scritto un volta, un paio di mesi dopo, le aveva risposto Madre Carola. Sia Robert che Tara se ne erano andati, aveva aggiunto gli indirizzi, ma Victoria non aveva mai scritto. Per la fine dell’anno mandava un biglietto di auguri e una donazione dato che perfino come cadetto riceveva uno stipendio, ma non aveva ricevuto in cambio se non un generico ringraziamento. Perché non aveva scritto ai suoi amici?

    – Cos’è successo a Tara? – domandò, sentendo la propria voce tremare.

    Robert si strinse nelle spalle.

    – Pensavo lo sapessi… Non si è parlato d’altro a Santa Prospera negli ultimi mesi.

    – Tu ci vai?

    – Ogni tanto, nei giorni liberi. I ragazzini più piccoli sono ancora là e è bello vedere che per loro sono ancora un eroe.

    Lo era stato, molto più di Victoria. Lei era l’ultima della classe in cucito e cultura generale, pessima nei turni di cucina, si accapigliava, graffiava e mordeva. Robert era il migliore in tutto quello che faceva, l’ultimo a entrare nei rifugi, il ragazzo che tutti i bambini volevano essere.

    – Dimmi di Tara – sussurrò.

    Fu lei a prendergli la mano. Non voleva addentrarsi da sola in quella storia. Robert mise anche l’altra mano sulla sua e la strinse appena.

    – È stata presa a lavorare in un grande albergo del centro, proprio in Piazza della Virtù. Faceva la cameriera, i turni erano lunghi ma le piaceva.

    Victoria chiuse per un istante gli occhi. Gli alberghi di Piazza della Virtù. La sartoria dove aveva fatto fare i vestiti che indossava, la preferita di Delia, era in Piazza della Virtù. Nei giorni di vacanza a volte ci andavano insieme, Delia e lei. Victoria indossava un abito femminile anonimo e pregava sempre di non incontrare altri cadetti. A volte si fermavano a bere una cioccolata in una sala da the. Sarebbe stato così facile fare una deviazione e vedere Tara. Lo avrebbe fatto, se lo avesse saputo?

    – Poi, un anno fa circa, è rimasta incinta – continuò Robert, senza guardarla. – Non mi ha mai detto chi fosse il padre… Comunque, è una cosa che capita. Aveva risparmiato. Forse l’avrebbero ripresa a lavorare. In qualche modo sarebbe riuscita a tirare avanti, o almeno così diceva… Ma quando è nato il bambino lei lo ha portato a Santa Prospera. Aveva piume nere sulla schiena e sulle braccia.

    Victoria trattenne il fiato. 

    Gli impuri primari, figli di genitori umani, erano rari. Sempre che l’amante di Tara non fosse stato un impuro. In ogni caso gli impuri potevano essere solo schiavi. I bambini nati con tratti angelici o demoniaci andavano consegnati alla nascita o poco dopo. Le madri di solito venivano pagare. Per una ragazza nelle condizioni di Tara poteva essere quasi un vantaggio, se non si aveva il carattere di Tara. Aveva sempre desiderato in modo spasmodico qualcosa di suo. Una sorellina o un fratellino, quando erano molto piccoli, poi aveva iniziato a fantasticare di diventare madre.

    – Le suore non possono accogliere impuri – sussurrò.

    – No. L’hanno convinta a consegnarlo… Era la fine di Piovoso. Il dieci di Ventoso si è gettata in un canale con le tasche piene di sassi e al collo tutto il denaro che le avevano dato per il bambino.    

    Il singhiozzo che uscì dalla gola di Victoria stupì in primo luogo lei. Non piangeva mai. Piangere non era ben visto a Santa Prospera. Una cosa inutile, per bambini piccoli o ragazzini deboli. Eppure adesso le lacrime le uscirono senza che potesse fermarle. Robert le passò un braccio intorno alle spalle e poi le adagiò con delicatezza la testa sul suo petto. Odorava di umidità, erba e sudore. Non c’era luogo migliore in cui piangere.

    – Non è stata l’unica a morire – continuò Robert, sommesso. – Marcus è andato a lavorare in fabbrica. Una pressa si è portata via la sua mano e poi l’infezione tutto il resto. Adelide è andata a fare la lavandaia e ha preso una malattia polmonare e se n’è andata in due decadi. Ma Tara era l’unica che poteva essere salvata.

    Poteva essere salvata…

    Non aveva cercato la sua amica. Perché? Se solo lo avesse fatto… Eppure, anche mentre singhiozzava nella casacca di Robert, Victoria stava piangendo l’amica che aveva perso. La ragazzina dai seni grossi che correva su per la collina, con indosso gli abiti di tela grigia di Santa Prospera. Non riusciva neppure a immaginarla diversa, con i capelli lunghi, vestita da cameriera, incinta… Tara avrebbe compiuto quel Fiorile sedici anni… In quei due anni, Victoria era stata a cinque funerali di Ali Nere, morti in combattimento o per le ferite. Nessuno di loro aveva meno di diciotto anni.

    Robert le stava accarezzando i capelli, piano.

    – Non potevi fare nulla – le sussurrò, chinandosi nei suo capelli.

    Adesso Victoria era di colpo consapevole del proprio corpo, vestito solo della camicia da notte, premuto contro quello di lui.

    – Non lo saprò mai se potevo fare qualcosa – mormorò. – Non ero lì.

    – No. Ma sono contento che tu sia qui, adesso.

    La stanza era buia, ma Victoria ci vedeva abbastanza da vedere gli occhi di Robert, così vicini, con le pupille dilatate al massimo. Sentiva il suo fiato sul viso, caldo, odoroso di tutto ciò che lei non conosceva. Rompere la distanza fu l’unica cosa possibile. Lasciare che le labbra si incontrassero, si toccassero. 

    Quello non era il primo bacio di Robert. Sapeva come cambiare le posizione delle mani in un abbraccio del tutto diverso. Sapeva come premere le sue labbra per schiuderle. Di colpo, Victoria non era sicura che fosse quello che volesse. Ma c’era un’urgenza, nel bacio all’improvviso avido di Robert, che non si poteva ignorare.

    Si irrigidì, quando la mano di lui le cercò i seni attraverso la veste da notte. Non era sicura di voler essere toccata in quel modo. Ma se non lo accettava da Robert, da chi altro?

    Con fermezza, lui la spinse con la schiena sul letto, ma il movimento lo sbilanciò. Urtò con un piede il mobiletto accanto, da cui cadde la lampada spenta, ornata dall’immancabile fiocchetto.

    Il rumore paralizzò entrambi.

    – Cazzo – mormorò Robert, a mezza voce.

    Un istante dopo, sentirono qualcosa che si muoveva nella stanza accanto.

    – Chi ci dorme di lì? – sussurrò il ragazzo.

    – Delia Morozov.

    – Cazzo!

    – Vai sotto il letto, presto! – gli ordinò Victoria.

    Nell’aria pesante dei loro respiri, i due ragazzi seguirono l’aggirarsi di Delia Morozov nella stanza accanto. Sarebbe venuta a controllare cos’era accaduto? Victoria cercò di immaginarsi le reazioni della donna. Non pensava che sarebbe davvero inorridita. Forse avrebbe fatto finta. Forse neppure. Ma in un qualche modo le era grata per quell’interruzione. Ritrovare Robert era stata una gioia così inattesa che tutto aveva preso a turbinare troppo in fretta. Troppo facile finirne risucchiata. Senza capire davvero cosa desiderasse da quell’incontro. Con il sospetto che i suoi desideri e quelli del ragazzo non collimassero fino in fondo.

    Dopo qualche minuto i rumori cessarono e il viso di Robert riemerse da sotto il letto.

    – Forse è meglio che tu vada. Non sono sicura che si sia riaddormentata – gli sussurrò Victoria.

    Lui rimase un istante a guardarla.

    – Forse sì – ammise. – Tu sei qui anche domani notte, vero?

    Victoria annuì, senza sapere con certezza se fosse una semplice risposta o un invito.

 

    Il mattino seguente i ragazzi furono invitati a fare un giro in barca del lago. Victoria, tuttavia, non riuscì davvero a godersi il paesaggio, o a irritarsi per le battutine di Marina.

    – Qualcosa non va? – le chiese Chris, mentre si dirigevano verso il prato dove era stato allestito un picnic.

    – No – mentì.

    Chissà. In un altro momento, con altri abiti, magari avrebbe potuto raccontargli di Robert, così come lui aveva spiegato perché bisognasse andare proprio in quel caffè e non in un altro. Ma non nell’abito color limone dalla gonna a balze, mentre indossava un ridicolo cappello dotato di una decorazione a fiori ancora più ridicola e di un lungo nastro giallo. In quell’abito si poteva parlare solo di fragole, di limonata troppo calda e di spettacoli con cani ammaestrati, a giudicare dai discorsi delle altre.

    – Ogni volta che mi rivolgi parola, Marina sembra che debba bere una sorsata di aceto – aggiunse.

    Chris sogghignò.

    – Allora sappi che non ti darò pace per tutta la giornata.

    Victoria distolse lo sguardo. 

    Con altri abiti, in un altro momento, avrebbe risposto con una qualche battuta. Ma all’ombra del cappello, trafitta dallo sguardo verde di Chris, rischiava di arrossire.

    – È successo qualcosa – disse invece, guardando gli adulti che avevano già raggiunto il pic-nic.

    La posa di Morozov aveva quella sua tipica rigidità di quand’era all’erta, con il bastone puntato a terra come se fosse un’arma con cui pugnalare a morte il suolo. Con la mano libera stava leggendo un foglio e tutti gli sguardi dei presenti erano rivolti verso di lui, in attesa. D’istinto, Victoria lo avrebbe raggiunto con tre falcate, mettendosi sull’attenti, anch’essa pronta all’azione. Dovette mordersi le labbra fino quasi a farle sanguinare per imporsi di continuare a camminare a piccoli passetti che non mettessero in difficoltà le scarpette di raso che racchiudevano i suoi piedi.

    – Un attacco angelico questa mattina all’alba a Merwick, un distretto industriale quindici chilometri a nord della capitale – stava dicendo Havoc Morozov, quando finalmente lo raggiunsero.

    – Danni? – chiese il colonnello Jamenson.

    – Feriti tra i nostri? – chiese in contemporanea suo figlio.

    Il generale sospirò.

    – Una fabbrica pesantemente danneggiata, tre operai feriti nei crolli. Due dei nostri feriti, uno pare sia grave, e l’altro è Vadez. Lo hanno preso a una gamba, ne avrà per un paio di settimane e questo è un problema.

    Lo sguardo di Morozov si spostò un istante su Victoria, prima di tornare a rivolgersi al colonnello e al conte.

    – Ancora nessun sostituto? – chiese quest’ultimo.

    – Abbiamo un ragazzo in addestramento e un altro con cui potremmo provare.

    – Non mio figlio – puntualizzò il colonnello, con tono piatto.

    – Non è una cosa che dipenda dai ragazzi, il sostenere le Grandi Ali – ringhiò Morozov. – E, credimi, io le ho portate per dodici anni. Non lo vorrei per mio figlio. 

    – Voi certamente lo sapete – si inserì la contessa, per deviare una conversazione che andava facendosi glaciale. – Perché hanno attaccato Mervick? Ci deve pure essere uno schema…

    – Volete saperlo? – borbottò il generale – Secondo me si divertono. Se volessero distruggerci lo avrebbero già fatto. Invece si limitano a fare danni un po’ qua e un po’ là, secondo l’umore.

    – Non capisco – mormorò la madre di Chris.

    – Pensate a una caccia alla volpe. Arriviamo un mattino con i cani e cavalli, uccidiamo tre volpi e lasciamo stare le altre. Magari in un mese in una zona ci sono tre cacce e poi nulla fino all’anno dopo. Cosa devono pensare le volpi? Il nostro mondo è la loro riserva di caccia, né più né meno.

    – Ma noi contrattacchiamo! Li uccidiamo! – protestò uno dei gemelli, forse Theo.

    – Certo. E ogni anno qualcuno muore in incidenti di caccia. Questo non scoraggia gli altri cacciatori, né mette al sicuro le volpi. Anzi, le prede pericolose sono da sempre le più ambite.

    Mentre gli adulti discutevano, Marina si era impossessata della caraffa di limonata e ora veniva a porgerne un bicchiere a Chris.

    – Quando ucciderai un angelo, mi regalerai due delle sue piume? – chiese.

    Il ragazzo bevve la limonata senza risponderle. Di certo, come stava facendo Victoria, si stava chiedendo chi fosse l’altro ferito, se se la sarebbe cavata e come si sarebbero organizzati senza Vadez. 

    – Hai sentito? – le disse poi, restituendo il bicchiere. – Siamo noi le prede, non il contrario.

    – Sei già stato lassù, nella Dimensione Angelica? – gli chiese Gloria.

    – Sì – replicò Chris, scontroso. – È buio, freddo. Non è fatto per gli uomini. È un lavoro brutale quello delle Ali Nere, non è cosa fatta per far piacere alle ragazzine.

    Ignorata da tutti, Victoria si sedette sull’erba.

    Di solito i cadetti terminavano l’addestramento a quindici o sedici anni, ma Vadez aveva un disperato bisogno di un sostituto. Lui non poteva prendersi giorni di riposo in campagna, non aveva licenze e neppure serate libere. Doveva essere pronto all’azione in qualsiasi momento. Da cinque anni, da quando era morto quello che era stato in suo sostituto, non si allontanava mai più di un chilometro o due dal quartier generale. Non aveva diritto neppure ad ammalarsi. Appena possibile Victoria sarebbe stata mandata in battaglia. Entro sei mesi, le era stato prospettato. Con la responsabilità di gestire il collegamento di tutti gli altri, di poterne controllare gli spostamenti. Per la prima volta si chiese davvero se ci sarebbe stato un altro Fiorile, per lei. Ora che sapeva che Tara era morta, anche la prospettiva di una sua scomparsa era più concreta. Qualcosa di possibile. Persino naturale. Come le aveva detto Robert, Tara non era stata l’unica ad essersene già andata. Forse era per questo che Robert baciava in quel modo, per prendersi tutto dalla vita prima che fosse tardi. Forse anche lei doveva rassegnarsi a fare altrettanto.

    – È Andali, il ferito.

    La voce di Chirs la distolse dai suoi pensieri.

    Andali. Aveva diciannove anni, capelli rosso fuoco e anche gli occhi quasi rossi, tanto che veniva preso in giro e chiamato mezzo impuro, dato che gli occhi rossi erano spesso associati agli impuri con le corna. Rideva sempre e spesso, se non era di turno, veniva a giocare a pallone con loro. La sua era una famiglia di operai, era il primo di cinque fratelli, e mandava tutti i soldi della paga a casa.

    – Se la caverà? – chiese.

    Chris si strinse nelle spalle.

    – Pare che la ferita sia brutta. Lo stanno curando col sangue d’angelo concentrato, quindi chissà, se non si avvelena magari ce la fa.

    – Almeno, quando toccherà a me, non lascerò nessuno a casa a piangere – mormorò Victoria.

    – Io penserò intensamente a mio padre che vuole farmi sposare Marina e accetterò il mio fato –sogghignò Chris.

    Nonostante tutto, Victoria si trovò a sorridere.

    – Non può essere così terribile – disse.

    – Scherzi? Tutta la mattina a sentire delle gare di balli per cani a cui ha iscritto il suo bassotto! – disse Chris, con fare tragico. Poi le prese la mano. – Vieni, c’è da provare un nuovo gioco, magari riesco a batterti. Non puoi essere sempre la migliore in tutto!

    Victoria si rassegnò ad alzarsi.

    – Prova con il cucito, se vuoi battermi. O domande di storia – disse.

    – Storia? Bleah! Potresti battermi persino lì – fece Chris, con una smorfia.

    Non era vero. Chris aveva un’ottima memoria. Era il migliore tra i cadetti quando si trattava di studiare. Lo stava dicendo solo per farla sentire meglio.

 

    Il nuovo gioco consisteva nel prendere una palla al volo con una racchetta, distanziati dall’avversario da una rete. Vista l’assenza di contatto, era considerato un gioco adatto anche alle ragazze che, tuttavia, ostacolate com’erano da abiti, corpetti e scarpe da tortura, finivano per essere stracciate dagli scattanti ragazzi in pantaloni e calzature sportive. A Victoria parve una bella metafora di come andava il mondo, una finta concessione di parità per sancire poi l’apparente superiorità maschile già decisa a tavolino.

    Victoria finse di giocare, aggirandosi per il proprio campo curando di copiare la goffaggine degli altri nel muovere la racchetta, fino a che un movimento tra gli alberi oltre la zona di gioco attrasse la sua attenzione. Ne emerse Robert, intento a spingere un carretto carico dei rami fatti cadere dal temporale della notte. Lei gli sorrise e poi si portò un dito alle labbra, incerta. Stava giocando contro Theo, perdendo per quattro punti, ed era comunque la migliore tra le ragazze. Theo tutto sommato non era stato malaccio con lei. Nessuna battuta maliziosa per la sua conoscenza con il garzone o le sue incerte origini, si era limitato a quei discorsi vacui, piacevoli ma senza sostanza, come il cinguettio degli uccelli, che un ragazzo di buona famiglia può intessere con una ragazza. D’altro canto Robert la stava guardando. E anche Chris, anche se in teoria stava spiegando a Marina e Gloria quali fossero i modi migliori per colpire la palla. 

    Dieci minuti dopo, Theo abbandonava il campo, sconfitto con un distacco di tre punti.

    Robert era ancora là, dietro al tronco di una quercia, dove probabilmente solo lei l’aveva visto, del tutto dimentico dei rami caduti o di qualsiasi altra cosa dovesse fare.

    Forse, pensò Victoria, quella era l’ultima volta che lasciava la capitale. Chissà se Vadez se n’era accorto, di quando la sua libertà stava per finire? Si chiese cosa avesse fatto l’ultima licenza, se aveva assaporato l’ultimo bicchiere bevuto con la sicurezza di non essere interrotto. Come dovesse sembrargli la prospettiva di terminare una partita a un gioco ozioso, a tre ore d’auto dalla città, dove persino un attacco angelico non era un problema suo. I Morozov dovevano averci pensato, ed era per quello che l’avevano portata. Decise che si sarebbe goduta tutto. Lo sguardo incredulo di Theo, che adesso andava blaterando di una scarpa scomoda che gli tagliava il tallone, quello di vaga ammirazione di Thérese, quelli acidi di Marina e Gloria, quello aggrottato di Chris e quello nascosto, così difficile da ignorare e da decifrare, di Robert.

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Capitolo 5
*** Epilogo ***


Quando infine si apprestò ad aprire la porta della camera per entrarci per la notte, Victoria scoprì che la sua mano tremava.

    Aveva ballato. Per la serata finale aveva indossato un abito blu notte dal taglio più adulto, con le maniche che terminavano ai gomiti e un accenno di scollatura. Una delle cameriere dalle corna ritorte l’aveva aiutata a truccarsi. Il risultato finale non l’aveva resa uguale alle altre ragazze e alle loro bellezze rassicuranti. Lei era stata resa una creatura del gelo, vestita del colore del mistero. Era proprio, in tutto e per tutto, come quelle fanciulle delle fiabe, destinata a dissolversi al mattino. Bene, si disse, anche quelle fiabe da qualche parte erano nate. E non raccontavano sempre che un principe se ne innamorasse alla follia? 

    Aprì la porta.

    

    Robert arrivò attraverso la finestra aperta che era già passata la mezzanotte, anche se Victoria lo aveva atteso senza togliersi neppure un nastro dai capelli.

    Aveva portato una rosa blu che posò accanto alla lampada del comodino, che questa volta era accesa.

    – Per te – disse. – A quanto pare ho azzeccato il colore.

    Lei fece un giro su se stessa, per pavoneggiarsi e riempire l’imbarazzo.

    Al contrario della sera prima, questa volta non sapeva cosa dire.

    – Sei bellissima – mormorò Robert. – E pensare che sembravi un maschio, con quei capelli corti.

    Questo strappò una mezza risata a Victoria.

    – Sono i capelli che fanno la differenza. Senza dubbio – disse.

    – Vieni qui – la chiamò Robert.

    Aveva pensato quasi tutto il giorno a quello che sarebbe accaduto. A quello che lei voleva che accadesse. Adesso, di nuovo, non lo sapeva. Era diverso pensare di avere una sera soltanto da passare col ragazzo di cui forse era innamorata da sempre e trovarsi davvero, con i suoi quasi quattordici anni, un vestito che non sapeva portare e il buio tutto intorno.

    Lui, invece, sapeva esattamente cosa voleva.

    La prese con sicurezza, una mano dietro la sua schiena e l’altra a stringere la sua, e se la portò vicino. Prima ancora di essere baciata, Victoria sentì l’odore di vino che il ragazzo si portava addosso, che le lasciò una zaffata di inquietudine. Ne sentì il sapore quando le loro labbra si unirono e di nuovo Robert reclamò uno spazio per sé. Il bacio, in sé, però, fu migliore. Victoria aveva avuto tutto il giorno per prepararsi, lasciò semplicemente che avvenisse, accettando di essere baciata, più che baciare. Ma non era male. Poteva abbandonarsi contro di lui, sentire il calore nuovo che pian piano l’avvolgeva e quella sensazione di terreno che mancava sotto i piedi, come la prima volta che era tornata dalla dimensione angelica e si era resa conto di cadere dal cielo.

    Si trovarono seduti sul letto e poi Robert le mise una mano sulla nuca e l’accompagnò a scendere sui cuscini, mentre continuava a baciarla. Victoria aveva stabilito che i baci andavano bene. Le piacevano, anche se forse avrebbe preferito ribaltare la situazione, ma non osò. A Robert piaceva condurre il gioco. Poi lui iniziò ad accarezzarla, come aveva fatto la sera prima, cercandone i seni attraverso il tessuto. La sua bocca si spostò dalle labbra al collo e poi verso la scollatura, mentre le mani cercavano di allentare i lacci del corpetto.

    – Aspetta… – mormorò Victoria.

    – Te ne andrai domani – rispose Robert.

    – E preferirei non giustificare a Delia Morozov un vestito rotto – scherzò Victoria.

    Non era spiacevole, quello che stava succedendo. Non del tutto. Ma rimaneva quella sensazione che avrebbe potuto anche diventarlo.

    Lui le diede un leggero morso alla base del collo e poi si fermò per guardarla.

    – Hai paura? – chiese.

    – Dipende da quello che vuoi fare – rispose Victoria, obbligandosi all’onestà.

    – L’ho già fatto, sai? So come… Non ti lascio nei guai… Come Tara.

    Victoria si sforzò di prendere un respiro per regolarizzare i battiti del cuore. Ci doveva riuscire in battaglia. Doveva riuscirci anche adesso.

    – Non possiamo limitarci… A questo? Non è male… – provò.

    Lui scosse il capo, sorridendo. Alla luce della lampada, vide il riflesso giallastro dei suoi denti.

    – Troppo tardi. Non devi preoccuparti. Sarà bello.

    Come se quello chiudesse la questione, le chiuse la bocca con un bacio, mentre una mano si era infilata sotto i suoi vestiti e dalla schiena cercava di scendere verso la coscia.

    Victoria chiuse gli occhi, cercando di sentire il proprio respiro.

    Più che accarezzarla, ora Robert la stringeva e la palpava. Non era spiacevole o doloroso. Ma neppure piacevole com’erano stati i semplici baci. Non aveva un’altra sera con lui. Non aveva il tempo per capire cosa volesse davvero. In compenso, lui aveva ben chiari i propri desideri. Lei lo aveva fatto entrare, si era lasciata baciare. Ovvio che lui non pensasse che si volesse tirare indietro. Voleva farlo? Le mani di Robert adesso erano frenetiche, le stringevano le cosce fino a farle male.

    Lui si scostò di colpo e iniziò ad armeggiare con i propri vestiti.

    Rapida, Victoria si mise a sedere e gli posò una mano sulla sua.

    – Fermiamoci qui.

    Fu lui adesso a prendere un respiro.

    – È la prima volta? – chiese.

    Le si concesse un sorriso storto.

    – Non ho neanche quattordici anni e sono la pupilla dei Morozov.

    – Hai paura, ma non ti faccio male, forse un po’ all’inizio, ma poi ti piace. Lo so.

    Non aveva dubbi che le avrebbe fatto male, con la delicatezza di cui aveva dato prova. Cazzo. Non era come se l’era immaginato nel pomeriggio. E non voleva che la sua prima volta, la sua unica volta con ogni probabilità, fosse una cosa dolorosa e affrettata.

    – Te lo aspettavi. Mi spiace. È colpa mia. Non mi va – disse, in fretta.

    Non voleva ferirlo.

    Lo fece lo stesso.

    – Non puoi dirmi di no adesso. Poi ti piace.

    Come se questo chiedesse la questione, le fu subito di nuovo addosso, sbilanciandola col proprio peso. Ormai le aveva slacciato il corpetto e la sue mani arrivavano ovunque. Forse, pensò Victoria, aveva ragione. A un certo punto avrebbe ripreso a essere piacevole. Robert trovò il suo seno e lo strinse fino a strizzarlo, mentre un gorgoglio di piacere gli saliva dalla gola. No, pensò Victoria, non migliorava. 

    Approfittò di un nuovo armeggiare di Robert con i propri vestiti per scivolare di lato.

    – No, mi spiace. Non questa sera – disse, cercando di risistemarsi il vestito.

    Di colpo si sentiva sgualcita, fuori posto. Non le andava di essere vista da nessuno, neppure da Robert.

    Lui di certo non era più ordinato, con le bretelle che reggevano i pantaloni mezze slacciate. La guardò con la fronte aggrottata, come se davvero non riuscisse a capire.

    – Certo, tu sei Victoria, per te le regole sono sempre differenti – sibilò. – Pensi che le altre ragazze abbiano potuto fare tutti questi capricci? Il padrone, il capo turno, un ragazzo più grande. Mica hanno potuto scegliere. Nessuno ha portalo loro una rosa.

    Victoria si sentì all’improvviso le lacrime agli occhi.

    – Mi hai comprato con una rosa? – mormorò, desolata.

    Lui sospirò, frustrato da una situazione che non capiva fino in fondo.

    – Non puoi invitarmi nella tua camera, lasciarti baciare e rinunciare adesso – riprese. – Poi ti piace. Non costringermi a farti male.

    – Vuoi costringermi? – non poteva davvero essere arrivata a quel punto con Robert. – Devo urlare?

    Lui fece un mezzo ghigno.

    – La finestra l’hai aperta tu, dall’interno. Io rischio il posto, tu rischi tutto – poi sospirò. – Non voglio essere cattivo, succede a tutte, la prima volta, hai solo paura.

    Robert si mise in piedi e, con un movimento deciso, le afferrò il polso per a tirarla verso di sé.

    Sbilanciato com’era per l’eccitazione e per l’alcol, fare leva e torcergli il braccio fu fin troppo semplice. Mentre Robert ricadeva sul letto, con la mano libera Victoria afferrò il cuscino e glielo premette sulla bocca per impedirgli di urlare.

    – Hai ragione, le mie regole sono differenti – disse, con un ginocchio sul petto di lui per bloccarlo. – Non costringermi a farti del male, vattene.

    Chissà se se n’era accorto che adesso le lacrime le scorrevano dagli occhi fino al mento?

    – Non urlare – gli sussurrò, mentre lo liberava.

    Robert si prese il braccio con la mano sana. Se non altro, ora lo sguardo era molto più lucido. Aprì la bocca per parlare, ma poi scosse il capo.

    – Mi spiace – mormorò ancora Victoria, a voce così bassa che il ragazzo probabilmente non sentì.

    Arretrò verso la finestra, senza darle le spalle, con ancora lo sguardo spaesato.

    Era stato il suo migliore amico.

    Ne ascoltò la discesa lungo l’albero e solo quando fu certa che fosse arrivato a terra abbracciò il cuscino per soffocare i singhiozzi.

 

    L’alba sul lago era bellissima. 

    La brezza del mattino ne increspava appena le onde. Sulle acque scure si specchiavano ancora le  tre lune, la più grande quasi piena e due piccoli falci, destinate a svanire con l’avanzare del giorno. 

    Victoria osservava il paesaggio da uno dei rami più alti del noce, all’incirca altezza della sommità del tetto. A un punto indefinito della notte insonne, la stanza piena di fiocchi era diventata intollerabile. La ragazza si era infilata le scarpe più comode che avesse portato e l’abito meno pretenzioso ed era andata a cercare un posto che sentisse più suo.

    Il movimento delle fronde l’avvisò che qualcun altro stava salendo. Un istante dopo la testa ricciuta di Chris emerse tra le foglie.

    – Cosa ci fai qui? – chiese Victoria, ostile.

    – Dovrei farti io questa domanda. Mi arrampico su quest’albero da quando avevo cinque anni.

    Chris era alloggiato proprio sopra di lei. Chissà, con il suo udito da Ali Nere, cosa aveva sentito dei fatti della notte? Di certo, Victoria non aveva intenzione di dargli spiegazioni.

    – Ho pensato che poteva essere l’ultima occasione per farlo – continuò il ragazzo, sedendosi accanto a lei con fare casuale.

    Il mondo era molto più in basso. Chiunque, vedendoli dal prato, si sarebbe allarmato. Se il ramo si fosse spezzato, Victoria aveva almeno tre piani d’azione per arrivare a terra senza danni. Chris era più bravo di lei in quelle cose e probabilmente ne aveva cinque o sei.

    – Che cos’ha che non va la tua famiglia? – chiese Victoria, quando il silenzio iniziò a pesarle.

    – Mio padre deve controllare tutto, come mi vesto, come parlo, chi frequento, cosa leggo – rispose Chris, senza guardando i propri piedi che ondeggiavano nel vuoto. – Nulla di che, ma è snervante… Forse, però, scampo Marina.

    – Le spezzerai il cuore – commentò Victoria, con una smorfia.

    Anche lei era molto interessata ai propri piedi.

    – Al contrario. Romperà lei il fidanzamento. Morozov non vuole che i suoi uomini si sposino mentre sono in servizio attivo. Non ha intenzione di aspettarmi per altri quindici anni. Pericolo scampato.

    Victoria si chiese se ci si doveva nascere o se era un’attitudine che si poteva imparare, il prendere tutto con quella leggerezza.

    – Quindi via libera alla cameriera – buttò lì, spiandolo con la coda dell’occhio.

    – Naa… Non so più come liberarmi di lei. All’inizio era divertente. Ma vuole ogni volta un regalo nuovo. Per pagare, tanto vale andare alla Rosa Bianca, appena ne avrò l’età. Lì c’è molta più scelta.

    In posizione strategica entro in chilometro di reperibilità dal quartier generale, il bordello faceva buoni affari con i generosi stipendi delle Ali Nere.

    Qualcosa fece ridere Chris.

    – Non avrei mai immaginato di raccontare queste cose a una ragazza! – esclamò, voltandosi a guardarla. Poi tornò serio. – Il tuo garzone?

    – Che ne sai del garzone?

    Lui gli fece una perfetta imitazione dello sguardo di Vadez, quando rispondevano male a una domanda elementare sulle manovre con le ali.

    – Lo conoscevo quando ero un’altra persona. Ma adesso siamo cambiati.

    – Lo hai baciato e non ti è piaciuto – riassunse Chris.

    Victoria valutò se valesse la pena di sbilanciarsi per schiaffeggiarlo. Avrebbero fatto cadere foglie e rametti. Forse qualcuno se ne sarebbe accorto.

    – Può essere – si limitò a dire, guardando il cielo.

    Le lune non si vedevano più.

    – Volevo essere io il primo a baciarti – se ne uscì Chris, ostentando serietà.

    Victoria si concesse un sorriso.

    – Neanche ti eri accorto che ero una ragazza!

    Azzardò una spinta amichevole alla sua spalla.

    – E allora? Volevo baciarti comunque – fece Chris, sornione.

    Victoria scoppiò a ridere.

    – Mentre eri impegnato a slinguazzarti la cameriera?

    Lui si strinse nelle spalle.

    – A volte si sceglie quello che è più accessibile.

    – Invece che lottare per ciò che è degno? – lo punzecchiò Victoria.

    – Se avessi lottato, sarei diventato il primo a baciarti?

    – Chissà… – rispose Victoria, portandosi un dito alle labbra, in una posa fintamente pensierosa.

    – Posso baciarti ora? Ho scalato l’albero per venire da te.

    Non era facile capire se Chris parlava sul serio oppure no.

    – Non voglio essere baciata da uno che si è accorto dopo due anni che sono una ragazza – decise.

    – Non mi importava. Mi piaci ancora di più vestita normalmente. 

    – Slinguazzare la cameriera era un modo per corteggiarmi? – lo provocò.

    – Era un modo per passare il tempo nel tentativo di capire come corteggiarti.

    – Le fai così le strategie tattiche per le battaglie?

    Risero entrambi. Chris poi tornò serio.

    – Non sto scherzando. Sei il migliore amico che abbia tra i cadetti e mi piaci, anche se non penso a te come una ragazza. Siamo Ali Nere. Le nostre regole le facciamo noi. Solo che non sapevo come fare… Posso baciarti ora?

    Lei scosse la testa, per cercare di non ridergli in faccia.

    – No, ma puoi ritentarci, in futuro, a corteggiarmi.

    Chris sbuffò.

    Poi si buttò all’indietro, reggendosi al ramo solo con le gambe.

    – Se lo fai tu, ti si vedono le mutande – la canzonò.

    – Le nostre regole le facciamo noi – replicò Victoria. – E non c’è nessuno a guardarci.

    Ma non si buttò all’indietro. 

    Rimase a guardare Chris che si dondolava a testa in giù.

    Doveva imparare a fare come lui, godersi gli attimi di libertà che la vita regalava. Farsi le proprie regole. Ma almeno lì, in cima all’albero, indecisa se buttarsi anche lei all’indietro, mostrando le mutande al cielo, si sentiva se stessa, qualsiasi cosa fosse. Tutta intera e non frammentata in diverse identità fatte tutte in parte di menzogne. Si chiese se ci fossero altri posti al mondo, altri momenti in cui si sarebbe sentita di nuovo integra. Per il momento, si disse, poteva almeno cercarne un riflesso negli occhi ridenti di Chris. Considerando quello che era accaduto a Tara, già quello era un privilegio.    

Eccoci arrivato in fondo a questo primo assaggio con il mondo de "L'assedio degli angeli".
Spero che vi abbia incuriosito e che vi siate affezionati almeno un po' a Victoria.
La ritroveremo presto (pandemia permettendo) nel prossimo racconto, ambientato una decina di anni dopo, in cui inizieremo a scoprire qualcosa (poco) sugli angeli.
Grazie a tutti coloro che sono arrivati fin qui.
Tenar

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