Promptober 2020 - Qu'ellar Arrd'uis

di NPC_Stories
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** 1. Spider ***
Capitolo 3: *** 2. Mask ***
Capitolo 4: *** 3. Dungeon ***
Capitolo 5: *** 4. Scars ***
Capitolo 6: *** 5. Secret ***
Capitolo 7: *** 6. Faerzress ***
Capitolo 8: *** 7. Chasm ***
Capitolo 9: *** 8. Festivity ***
Capitolo 10: *** 9. Pride ***
Capitolo 11: *** 10. Chapel ***
Capitolo 12: *** 11. Darkness ***
Capitolo 13: *** 12. Dragon ***
Capitolo 14: *** 13. Drider ***
Capitolo 15: *** 14. Braid ***
Capitolo 16: *** 15. Trade ***
Capitolo 17: *** 16. Bazaar ***
Capitolo 18: *** 17. Vision ***
Capitolo 19: *** 18. Abyss ***
Capitolo 20: *** 19. Curse ***
Capitolo 21: *** 20. Illithid ***
Capitolo 22: *** 21. Swordfight ***
Capitolo 23: *** 22. Punishment ***
Capitolo 24: *** 23. Portal ***
Capitolo 25: *** 24. Fairy fire ***
Capitolo 26: *** 25. New moon ***
Capitolo 27: *** 26. Ritual ***
Capitolo 28: *** 27. Trauma ***
Capitolo 29: *** 28. Riding lizard ***
Capitolo 30: *** 29. Necromancer ***
Capitolo 31: *** 30. Ambush ***
Capitolo 32: *** 31. Alliance ***



Capitolo 1
*** Introduzione ***


Promptober 2020 - Qu'ellar Arrd'uis


Questa è una promessa che non so se saprò mantenere. Questo ottobre è veramente delirante per il lavoro, però questa lista di prompt mi piace così tanto che ci voglio provare. Cioè ma guardate che figata:


Se non riesci a leggere clicca qui

Questa lista di prompt è stata ideata dalla pagina Qu'ellar Arrd'uis
man mano che scriverò i capitoli aggiungerò qui sotto un indice con titoli cliccabili e un'indicazione del sottogenere delle varie storie, come ho fatto per Inktober 2019.

1. Spider - drammatico
2. Mask - dark fantasy
3. Dungeon - comico
4. Scars - sentimentale
5. Secret - trash
6. Faerzress - drammatico, angst
7. Chasm - avventura
8. Festivity - comico, lore
9. Pride - cringe
10. Chapel - introspettivo
11. Darkness - triste, introspettivo
12. Dragon - lore
13. Drider - avventura
14. Braid - dark fantasy
15. Trade - fantasy generico
16. Bazaar - fantasy generico
17. Vision - dark fantasy
18. Abyss - epic fantasy
19. Curse - comico
20. Illithid - dark fantasy
21. Swordfight - comico, lore
22. Punishment - introspettivo, sentimentale
23. Portal - lore
24. Fairy fire - comico
25. New moon - comico
26. Ritual - dark fantasy
27. Trauma - avventura, dark fantasy
28. Riding lizard - dark fantasy, fluff
29. Necromancer - lore
30. Ambush - dark fantasy
31. Alliance - dark fantasy

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Capitolo 2
*** 1. Spider ***


1. Spider


1358 DR, città sotterranea di Skullport

Lizy aveva sempre sentito dire che l'amore fa male. Era una cosa che dicevano un po' tutti, o almeno tutti quelli capaci di provare amore; umani, elfi, perfino i pragmatici nani. Non l'aveva mai sentito dire dagli orchi o dai drow, i primi perché di solito parlavano solo di cibo e di razzie, i secondi perché non si degnavano di rivolgerle la parola. E perché avrebbero dovuto? Piccina, pallida, bionda, orecchie tonde: ai loro occhi era chiaramente solo l'ennesima inutile cameriera umana.
Gli elfi scuri sembravano incapaci di vedere la bellezza in razze diverse dalla loro, ma a Lizy non importava affatto: lei aveva qualcuno che la considerava bella. Aveva un innamorato.
E l'amore non faceva male, per niente. L'amore era splendido, era pura gioia.
Lui era umano, anche se dai suoi tratti delicati molti supponevano che avesse anche del sangue elfico nelle vene. Lizy amava il suo aspetto familiare eppure leggermente esotico. Amava la sua risata, il suo carattere aperto e sfacciato, quasi avventuroso. Amava la noncuranza con cui spendeva i suoi giorni con lei, pur consapevole di averne pochi perché la sua razza non viveva a lungo.
Amava soprattutto il fatto che lui avesse un cuore davvero immenso. Un cuore capace di ricambiare i sentimenti di una come lei, un'aranea, un ragno gigante che poteva prendere la forma di una donna umana.
Lui aveva visto il suo vero aspetto e non era fuggito urlando. Si era congelato, ma solo per un momento, poi era riuscito a sorriderle con un'ombra di paura e a dirle che, se lei fosse stata disposta a rimanere in forma umana per tutta la loro vita insieme, lui avrebbe potuto fingere di non aver visto niente. Quella era la più grande prova d'amore che Lizy potesse chiedere. Non si vergognava di quel che era, era fiera di appartenere al popolo delle aranea, ma sapeva di essere ripugnante per qualunque umanoide.

Quello che non aveva mai capito né previsto, mentre canticchiava per la gioia e sparecchiava i tavoli con aria beata, era che il ribrezzo è sempre un'arma a doppio taglio. Certe volte uno spettacolo è così orribile che lo sguardo umano non riesce a staccarsene, come se fosse attratto dall'orrore, e tanto più uno spettacolo è ripugnante tanto più l'occhio se ne vuole saziare.
Cominciò a capirlo quando si presentò all'appuntamento serale con il suo fidanzato e lui le chiese di trasformarsi ancora una volta, solo perché lui potesse dare una seconda occhiata, l'ultima.
Le sembrò una richiesta strana, ma l'accontentò comunque.
Aveva appena terminato la trasformazione quando cinque dardi di balestra la colpirono simultaneamente, riuscendo ad infilarsi nelle pieghe dell'esoscheletro laddove era più vulnerabile.
Nonostante la sua anatomia fosse molto diversa da quella umana, il veleno nei dardi di balestra cominciò ad agire immediatamente, paralizzandole gli arti e rallentando i suoi pensieri. Lizy capì che i dardi non erano pensati per uccidere, ma per catturare una preda viva.
L'ultima cosa che vide prima di perdere i sensi fu il sorriso maligno del suo amato, mentre un altro uomo gli metteva in mano un sacchetto che probabilmente conteneva soldi o gemme preziose.
Forse, dopotutto, l'amore faceva male.



********************
Nota orientativa: Lizy è un personaggio di Lezioni di sopravvivenza - Primo livello. Questa storia rappresenta parte del suo "background" e si svolge circa 5 anni prima di Lezioni di sopravvivenza.
E comunque, le parole del suo innamorato (qualcosa sulla falsariga di "se sei disposta a non assumere più la tua vera forma finché staremo insieme, io sono disposto a fare finta che tu sia normale") non erano certo una prova d'amore. Erano una red flag grande come un palazzo. Ma si sa, l'amore è daltonico.

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Capitolo 3
*** 2. Mask ***


2. Mask


1253 DR, città sotterranea di Skullport

"An'drar Maevret" ricapitolò il drow in piedi davanti a lui. "Confermi che è questo il tuo nome?"
"È il nome con cui sono nato" confermò il mago, senza la minima esitazione.
"Sei disposto a recidere ogni legame con la tua Casata d'origine?" Continuò l'elfo scuro, in tono greve.
"L'ho già fatto. Casa Maevret non è più nulla, per me. Non può darmi nulla."
Era una risposta molto drow, eppure molto sincera, cosa insolita per un elfo scuro. Ciò che An'drar stava dicendo era che avrebbe abbandonato ogni legame con la sua casata nobiliare, non per motivi ideologici ma perché laggiù non aveva più nulla da guadagnare. Né dalla sua famiglia, né dalla città di Menzoberranzan.
"Accetti di vestire la maschera del Signore delle Ombre?"
Quella era una domanda molto importante, gliel'avevano spiegato gli altri accoliti mentre lo preparavano alla dottrina del culto di Vhaeraun. Indossare la maschera, a immagine e somiglianza del dio degli inganni, significava anteporre la fede alla propria individualità. Non si trattava di una fede cieca e folle come quella delle sacerdotesse di Lolth, ma piuttosto di un'idea di comunità. Se tutti i sacerdoti indossavano la maschera, tutti loro accettavano di servire il culto e gli interessi della loro fede clandestina più che gli interessi personali di un'identità a cui stavano rinunciando.
Non rinunciando del tutto, però. Erano pur sempre drow.
E An'drar si trovò a riflettere, mentre si portava quel pezzo di stoffa al viso, che tutto sommato sotto la maschera la sua faccia sarebbe rimasta la stessa. La sua identità non sarebbe stata cancellata, solo nascosta. Avrebbe continuato a fare il proprio interesse, anche se non apertamente, mascherato dietro l'interesse della comunità.
Anche questa voluta ambiguità era qualcosa di puramente drow, e il mago sorrise, pienamente soddisfatto. Finalmente un culto in cui potersi sentire valorizzato.



********************
Nota orientativa: An'drar è un personaggio citato nella storia Ricostruire un ponte, dove viene lasciato intendere che un tempo fosse amico di Daren.

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Capitolo 4
*** 3. Dungeon ***


3. Dungeon


1373 DR, autunno, da qualche parte nelle Marche d'Argento

Avventurieri - dungeon.
Dungeon - avventurieri.
Era una faccenda semplice. Era così che andava il mondo. Era tradizione.
"Non me ne frega un cazzo se è tradizione" il biondo incrociò le braccia, definitivo. "Io lì non mi c'infilo."
I suoi compagni di avventura mugugnarono di fastidio. Quasi tutti.
"Ma Jaime! Nei dungeon ci sono tesori!" Provò a convincerlo l'elfo della luna.
"Fama!" Rincarò il githyanki.
"Il brivido del pericolo" tentò la giovane Daphne, con occhi brillanti.
"Io non entro nei fottuti dungeon. Sono claustrofobico."
Un altro mugugno corale. Solo una voce si erse a difesa del poverino.
"Sono d'accordo con Jaime. Nemmeno io amo i sotterranei."
A parlare era stato uno dei membri più capaci e navigati del gruppo, un elfo scuro con poteri da veggente.
"Ma..." sua sorella lo guardò stranita, perché lei in realtà non vedeva l'ora di infilarsi in un labirinto di cunicoli tutto da scoprire. "Ma come fai ad aver paura dei dungeon, sei un drow!"
"Sì. È proprio per questo che ho paura dei dungeon." Insistette l'altro, senza cedere di un palmo.
"Se ci tenete tanto, potete andare senza di noi" invitò il giovane umano. "Potete anche tenervi i tesori che trovate."
Si alzò un piccolo coro di proteste, chi sosteneva che non si divide il gruppo, mai, non conoscete le terribili leggende sui gruppi che si dividono?, chi sosteneva che semplicemente non è divertente se non andiamo tutti.
Soltanto l'elfo e il githyanki sembravano non avere problemi all'idea di dividere il gruppo. Dopotutto erano un ladro e un mercenario.
Prima che i membri più giovani della squadra avessero finito di discutere, i due avventurieri più anziani e più avidi si erano già introdotti in silenzio oltre l'ingresso naturale della caverna, diretti al dungeon sotterraneo.

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Capitolo 5
*** 4. Scars ***


4. Scars


1361 DR, autunno, città elfica di Myth Dyraalis

L'elfa dei boschi accarezzava con la punta delle dita il torace nero del suo amante, tracciando immaginari arabeschi con i polpastrelli. Si stava godendo quei beati momenti di pace che seguivano la frenesia della passione. Lui la lasciava fare, passivamente; non era abituato ad opporsi a una femmina, e poi quel contatto così delicato era piacevole. Lei non usava mai le unghie, nemmeno quando era eccitata, e dopo aver fatto l'amore diventava particolarmente affettuosa. I movimenti delle sue dita erano quasi ipnotici e l'elfo scuro sapeva che presto sarebbe scivolato nella reverie, accanto a lei.
"Daren? Posso chiederti una cosa, se non sono indelicata?" Lei lo riscosse dai suoi pensieri annebbiati, senza preavviso. Di solito non era una gran chiacchierona dopo il sesso.
"Hm?" Il drow rispose con un verso interrogativo, riscuotendosi dalla sonnolenza.
"Tu… sei un guerriero, ma non hai neanche una cicatrice. Ecco, è un po' strano."
L'elfo scuro appoggiò un gomito sul materasso e fece forza per sollevarsi quel tanto che bastava per guardarla in viso.
"Vorresti che io le avessi? Trovi che siano affascinanti?"
L'elfa chiara spalancò gli occhi, le sue gote si fecero rosse quasi quanto i suoi capelli.
"No! Cioè… né sì né no… non vorrei che ti succedesse qualcosa di male, non penso che le cicatrici siano esteticamente rilevanti, è solo che mi sembrava strano che non ne avessi nessuna."
Il drow si lasciò ricadere sul materasso, sbuffando una risatina.
"Una volta le avevo. Ora sono un guerriero specializzato nell'evitare di farmi colpire, e anche quando vengo ferito sono in grado di curarmi molto in fretta minimizzando il rischio che rimangano dei segni, ma naturalmente non sono sempre stato così bravo. Quando ero giovane avevo le cicatrici dei miei allenamenti con la spada, dei combattimenti a cui sono sopravvissuto a stento, e naturalmente avevo le cicatrici delle frustate delle sacerdotesse di Lolth."
"Ah… e poi hai trovato un prete o un mago che te le facesse sparire con un incantesimo?" Insistette lei. "È stato per una questione estetica?"
Lui sospirò, ma sempre con aria divertita.
"No, Amyl, poi sono morto. Non posso credere che nessuno te lo abbia detto. Sono morto per ben due volte, e per ben due volte hanno dovuto riportarmi in vita ricreando dal nulla un corpo per me."
L'elfa balbettò qualcosa, imbarazzata, afferrò un cuscino e se lo schiacciò sulla faccia.
"Come ho potuto dimenticarlo" giunse un brontolio ovattato da sotto il cuscino, ma il guerriero aveva un ottimo udito. "Naturalmente un corpo creato dal nulla non può avere cicatrici."
"Vero… e falso." Daren le tolse il cuscino dal volto e le regalò un sorriso riconciliatore, per farle capire che non ce l'aveva con lei. "Per qualche motivo ne ho sempre conservate due. Perfino quando ero morto, quando ero un fantasma senza pace, la forma del mio spirito recava su di sé queste due cicatrici. Un piccolo segno sulla tempia destra, ricordo di quando da piccolo battei la testa, e poi la mutilazione che mi ha portato via la punta dell'orecchio sinistro." Così dicendo scostò i capelli d'argento per mostrare alla sua amante l'orecchio che era stato asportato quasi per metà, non un taglio netto ma una ferita frastagliata, chiaramente non causata da una spada o da un coltello.
L'elfa sussultò. Naturalmente aveva già notato quella menomazione ma non aveva mai osato chiedere, e con il tempo si era talmente abituata a vederla che ormai faceva semplicemente parte dell'immagine che aveva di Daren.
"Doveva essere una brutta ferita" azzardò.
"Lo sarebbe stata, se mi avesse preso anche alla testa. Per fortuna ho evitato la maggior parte del colpo. E nonostante tutto devo dire che il mio udito non è stato compromesso."
"Ma perché?" Domandò ancora, dando voce ai suoi dubbi. "Perché queste cicatrici non sono scomparse come le altre?"
L'elfo scuro si strinse nelle spalle.
"Credo che rappresentino dei momenti importanti nella mia vita, dei cambiamenti. Non sono solo cicatrici del mio corpo, fanno parte anche della forma della mia anima."
Amyl spostò lo sguardo verso il soffitto della loro stanza, senza vederlo davvero.
"È una cosa molto profonda. A volte mi chiedo se la vita che ho scelto, così banale e poco rischiosa, non sia anche limitante. Forse non sto vivendo al massimo. Forse mi sto precludendo la possibilità di conoscere me stessa e di cambiare, come tu sei cambiato."
"Non hai bisogno di cambiare" il suo amante le rivolse un sorriso strano, quasi dolce, ma inevitabilmente imbarazzato perché lui non era abituato a fare complimenti. "Certo non posso dirlo io per te, ma secondo me non hai bisogno di cambiare, vai bene così come sei. Senza cicatrici. Senza esperienze traumatiche alle spalle. Non ne vale la pena… non ti piace la vita che hai adesso?"
Amyl sentì una punta di preoccupazione nella voce del compagno e in quel momento capì che avrebbe potuto essere felice, con lui. Anche con una vita banale.
"Sì. Sì, mi piace la vita che ho adesso."



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Nota orientativa: questa storia è un missing moment di Non era amore, ma almeno era Amyl.

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Capitolo 6
*** 5. Secret ***


5. Secret


1284 DR, Silverymoon

"Hai rivelato a tutti il mio segreto!"
Non era la prima volta che Erika alzava la voce, ma non capitava spesso che si lasciasse scappare quella nota acuta, vibrante di tensione. Il suo tono di voce parlava chiaro, rivelando anche dettagli che avrebbe voluto tenere per sé: era spaventata.
"A tutti, che esagerazione. Il mio libro è al vaglio del Magus Anziano del Collegio della Signora. Visto il contenuto esplosivo, sappiamo benissimo entrambi che sarà messo sotto censura. Probabilmente sotto censura eterna. Sarebbe un disastro se la cittadinanza di Silverymoon sapesse che…"
"Ti odio!" Gridò lei, afferrando un oggetto a caso dalla scrivania del mago e tirandoglielo addosso. "Il Magus Anziano lo saprà. Lady Alustriel lo saprà! Sono praticamente già morta!"
"Tu sei tecnicamente già morta" la corresse lui, con un sorriso leggero. "Non è proprio questo il punto?"
La vampira continuò a guardarlo male, ma un velo di lacrime smorzò la sua occhiata assassina.
"Perché? Come hai potuto farmi questo? Che ne è stato del nostro amore?" Mugugnò, passandosi una mano sugli occhi per asciugare le lacrime prima che cadessero.
"Mi dispiace, Erika. Forse non te ne rendi conto, ma mi stai rendendo la vita impossibile. Mi pedini, mi controlli, sei gelosa in modo malsano. Non può andare avanti così! Ho imposto dei limiti e tu li hai superati, ogni volta, fregandotene del mio benessere mentale e fisico. Cosa ne è stato del nostro amore? Non so, mi sembra sia diventato una malattia. Ho provato a fermarti con le buone. Mi hai costretto a forzare la mano. Ora che le autorità sanno cosa sei…"
"Mi distruggeranno" ricapitolò lei, nervosa. Avrebbe voluto controbattere alle tesi del suo amante. Avrebbe voluto dirgli 'Non è vero, se tu mi avessi esposto chiaramente i tuoi limiti li avrei rispettati', oppure avrebbe potuto promettergli di cambiare. Ma la verità è che lei si rendeva conto che non era possibile, e che lui aveva ragione. Negli ultimi anni si era comportata esattamente come una drogata in cerca di una dose. Lui era la sua droga.
"Non lascerò che ti distruggano" il mago allungò una mano e la posò su quella di lei, fredda come il marmo. "In tutti questi anni non hai mai ucciso nessuno. Sai controllarti. Non sei una persona cattiva. Li convincerò a usare altri mezzi per minimizzare il rischio che rappresenti."
"Cosa. Segregazione?"
"Forse. O magari una forma di libertà vigilata."
"Cosa ti fa credere che ti daranno ascolto? In quest'epoca sei un discreto signor nessuno, un professore come tanti. Non sei un mago importante."
L'uomo sorrise, poi si chinò a raccogliere con tutta calma l'oggetto che lei gli aveva tirato contro e che era caduto sul pavimento. Era una tazza orribile a forma di cranio, ma non umanoide. Ricordava la testa di un automa. Per un attimo il mago fissò quella faccia metallica e inespressiva come se cercasse di scorgervi una parvenza di coscienza.
"Bevo il mio té pomeridiano dalla testa mozzata di un Inevitabile del continuum temporale. Credo di saper gestire un paio di maghi umani, tesoro."



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Nota orientativa: Erika è un personaggio già comparso in Dysfunctional Romance. Il tizio con cui parla, chissà? Di sicuro è l'autore di Antiche Contadi di Silverymoon: Casate A-D

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Capitolo 7
*** 6. Faerzress ***


6. Faerzress


1331 DR, da qualche parte sotto il Cormanthor

Il bambino fece scorrere il dito contro le sbarre della sua gabbia, producendo un rumore ticchettante, spezzato. Un rumore che quasi non si sentiva, sovrastato dai ringhi del mostro nella gabbia accanto alla sua.
Avevano fatto esperimenti su quel mostro, un gigante con il corpo più o meno umanoide e la testa dalle fattezze bestiali, con due lunghe corna che spuntavano dal capo. Per quanto ne sapeva il piccolo, forse un tempo il suo compagno di sventure non era un mostro, magari era un elfo scuro come lui. Dopotutto il minotauro era già lì da che ne aveva memoria.
All'inizio quel mostro lo spaventava, muggiva e sbuffava di rabbia, picchiando i pugni contro le sbarre della sua prigione. Il bambino ne aveva terrore, pensava che se fosse riuscito a rompere le sbarre poi avrebbe potuto fare lo stesso con tutte le altre gabbie, e di sicuro si sarebbe mangiato i prigionieri. Compreso un piccolo elfo scuro che doveva essere tenero e fragile, per quelle grosse fauci.
Ma non era mai successo. Anche quando il minotauro era diventato più resistente e tenace grazie agli esperimenti con cui avevano modificato il suo corpo, non era mai riuscito a spezzare il metallo rinforzato con la magia.
E poi qualcosa era cambiato.
Negli ultimi giorni il mostro gli stava facendo paura per una ragione diversa; ormai muggiva soprattutto di dolore. Molte linee di energia luminosa attraversavano il suo corpo, come un reticolo di vene incastonate nella pelle. Pulsavano, bruciavano. Il piccolo poteva sentirlo. Il mostro soffriva. Il suo corpo grosso e resistente stava rigettando il faerzress.
Guardando con preoccupazione le sue stesse braccia, su cui cominciavano a brillare le medesime linee di energia, il bambino si chiese se gli sarebbe toccata la stessa sorte. Per il momento gli incantesimi a cui l’avevano sottoposto avevano operato cambiamenti più lievi, più lenti. Il mago che si occupava di lui gliel’aveva detto, come per rassicurarlo: non avrebbero tentato esperimenti grossolani su un drow, per quello c’erano gli iblith, le creature inferiori, i mostri. Su di lui avrebbero compiuto solo gli esperimenti finali, dopo aver rifinito il procedimento sulla pelle di altre cavie. Perché lui era un bambino, quindi era più fragile ma anche più duttile. Un soggetto perfetto per quell’esperimento, pensato per portare il concetto di creatura infusa di faerzress a tutto un nuovo livello. Per creare un super-soldato con poteri magici innati.
Sì, ci sarebbero andati cauti con lui. Non potevano ripetere gli stessi errori che avevano fatto con gli altri bambini drow. Altrimenti avrebbero dovuto cercare dei nuovi neonati e rifare tutto da capo, gettando al vento sette anni di esperimenti.

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Capitolo 8
*** 7. Chasm ***


7. Chasm


1364 DR, Undermountain

Combattere con un baratro alle spalle non è facile.
Combattere con un baratro alle spalle e contro un avversario che è la tua copia esatta, è ancora meno facile.
Daren non era sicuro di farcela, questa volta. Di solito valutava con cura i suoi avversari, ma in questo caso non avrebbe aiutato, perché il nemico era lui stesso, o meglio, il suo riflesso uscito da uno specchio maledetto. La più infingarda delle trappole, che si adattava all’abilità delle sue vittime.
Conosceva benissimo le sue stesse tattiche, e di conseguenza sapeva che se il suo riflesso avesse scelto una strategia difensiva, non sarebbe riuscito facilmente ad abbatterlo.
E vice versa, naturalmente. Si prospettava un combattimento molto lungo.
La sua compagna d’avventure, una giovane mezza vampira in addestramento, avrebbe voluto aiutarlo ma proprio non sapeva come. Lei non era stata riflessa nello specchio (solo perché lui l’aveva infranto dopo che ne era uscito il primo nemico, non è che lei avesse la fortuna di non riflettersi negli specchi, no, non era abbastanza vampira per quello), però adesso si trovava ad assistere al combattimento da spettatrice, impotente, incapace di riconoscere quale dei due combattenti fosse il suo mentore e quale fosse la copia. Erano identici in tutto, anche nelle movenze.
Poi lo notò. Uno dei due, ogni tanto, le rivolgeva una breve occhiata.
Impossibile dire se fosse il suo amico, preoccupato per la sua incolumità, o l’impostore che pianificava di attaccarla per distrarre e turbare il vero Daren. Ad ogni modo, questo le diede un’idea.

Il drow continuò a combattere, contrapponendo sempre una parata a un attacco, senza tentare nulla di avventato perché aveva anche la responsabilità per la vita di Dee Dee. Non poteva permettersi di morire e di lasciarla sola in un dungeon letale.
Ma lei sembrava non aver afferrato il pericolo, perché si muoveva intorno ai due contendenti come se studiasse le loro mosse, come se cercasse un’apertura per gettarsi nella mischia. Daren le lanciò uno sguardo preoccupato; come poteva distinguerli?
Poi lei fece un passo falso, letteralmente: scartando all’indietro per evitare una falciata del falso drow, mise un piede in fallo e perse l’equilibrio, con solo il baratro alle spalle.
Daren agì d’impulso: alzò una delle spade corte per parare il colpo roverso e con una giravolta si svincolò dal combattimento. Coprì con un balzo la poca distanza che lo separava dal bordo del precipizio, si chinò a terra d’istinto cercando con gli occhi il corpo della sua amica. Al suo posto vide… Dee Dee, che levitava a mezz'aria, la schiena rivolta al terreno e un sorrisetto furbo sul volto pallido. Dee Dee, con una piccola balestra in mano. La dhampir puntò verso la sua testa e sparò senza esitare.
Il dardo di balestra gli passò appena due pollici sopra la testa, sibilando, e andò a conficcarsi in un occhio del suo doppio che stava per trafiggerlo alle spalle con un fendente dall’alto. Un istante dopo, Daren (quello vero) si girò pur rimanendo chinato a terra e alzò una delle sue spade andando a bucare un interstizio dell’armatura, dove era meno resistente, proprio vicino all’inguine. L’idea era bucare l’arteria femorale, ma non era sicuro di esserci riuscito. Il suo doppio fece un passo indietro, sfilandosi in qualche modo dal suo affondo di spada, e si strappò il dardo di balestra dall’occhio - tirandosi dietro anche l’occhio. Sembrava che non gli importasse di morire, e forse era proprio così: non era una persona vera, era solo il fantoccio creato da uno specchio magico.
Così ferito non durò a lungo, e presto il suo cadavere venne scaraventato nel baratro da cui Dee Dee era appena uscita. Il corpo scomparve nel nulla molto prima di toccare terra.

A combattimento finito, il drow si concesse di tirare un sospiro di sollievo.
“Dee Dee, che diamine era quello?” Le chiese dopo un po’, mentre si preparavano a ripartire.
“Quello?”
“Buttarti nel baratro nella sciocca convinzione che io mi muovessi per aiutarti.”
“Ma è proprio quello che hai fatto” gli fece notare lei.
“Non potevi esserne sicura!
“Non l’ho fatto a cuor leggero, avevo un anello magico della levitazione. Ovvio che non ero ficura” spiegò, ricadendo nel suo solito difetto di pronuncia: i canini allungati le impedivano di pronunciare correttamente le s.
Il drow borbottò qualcosa in segno di protesta, ma non erano parole intelligibili. Da questo Dee Dee capì che aveva accettato la sua giustificazione e che, forse per la prima volta da che si conoscevano, lo aveva zittito.
“Sono impressionato per la precisione del tuo colpo” si complimentò, dopo quasi un minuto di silenzio ostinato. “Hai quasi ucciso il mio doppio.”
“Non era il tuo doppio perfetto. Tu non avrefti abbaffato la guardia, nella frenefia di uccidere un nemico. Avrefti tenuto d’occhio anche il contefto, gli altri pericoli, me.”
“Hai ragione” concesse lui, perché il suo riflesso si era dimostrato poco lungimirante e poco attento. Non erano poi così uguali. “Ma la prossima volta, non puoi trovare un modo meno pericoloso per distinguermi da una bruttacopia? Per dire, mi manca mezzo orecchio sinistro, di sicuro a lui mancava mezzo orecchio destro.”
“Fe fmetti di nafconderlo dietro ai capelli, magari.”
Daren decise di cambiare argomento, perché non gli andava proprio di giustificare le sue scelte estetiche.
“Sai cosa mi lascia più perplesso dell’intera vicenda? A parte la tua insperata abilità con la balestra.”
“Devi effere ftronzo anche quando mi fai un complimento?”
“Ah! Parli come se non mi conoscessi.” La schernì lui. “Piacere, mi chiamo Daren, sono uno stronzo.”
“Be’? Qual è la cofa che ti lafha perpleffo?” Riprese lei, che non voleva dargli la soddisfazione di vederla infastidita.
Il drow indicò con il pollice quel baratro che si stavano lasciando alle spalle.
“Sono sicuro che qualche settimana fa non ci fosse. Dev’esserci stato un crollo… o peggio.”
“Peggio? Cofa c’è di peggio di un crollo, in un dungeon?”
Il drow avrebbe potuto rabbrividire, se fosse stato ancora capace di provare paura.
“Peggio di un crollo, ci sarebbe il mago creatore del dungeon che decide di riammodernare. Ogni tanto… gli piace cambiare le cose. E io spero solo che non sia da queste parti, adesso, perché non è un tipo raccomandabile.”
Dee Dee spalancò gli occhi senza nascondere il suo stupore, perché non aveva mai sentito parlare del creatore del dungeon. Pensava che l’Undermountain fosse… sempre esistito, o qualcosa del genere.
“Ma… ma fe arrivaffe, tu… potrefti fconfiggerlo?”
“Non essere ridicola” la freddò il guerriero.
La dhampir si guardò nervosamente alle spalle, verso la preoccupante voragine nel pavimento. Se perfino il suo amico sbruffone aveva timore di quel mago, poteva solo pregare di non incontrarlo mai.



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Nota orientativa: questa storia si svolge un po' di tempo dopo il punto in cui sono arrivata a scrivere in Lezioni di sopravvivenza - Secondo livello, ma non è un gran spoiler.

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Capitolo 9
*** 8. Festivity ***


8. Festivity


1335 DR, nei pressi di Secomber

I canti e le risate che accompagnavano sempre la festa di Pratoverde risuonavano nell’aria da tutto il giorno. Era una ricorrenza molto sentita dalle comunità contadine; quasi tutti gli agricoltori del Faerûn occidentale veneravano Chauntea, la dea della natura, della vita, della fertilità della terra. E non solo della terra…
Uno dei piacevoli effetti secondari di essere devoti a Chauntea era la moralità un po’ lasca quando si trattava di accoppiamenti. Certo, il matrimonio esisteva quasi in ogni società del Faerûn, e in verità molte persone si sarebbero definite monogame senza battere ciglio… ma era comunque confortante sapere che la tua dea non ti giudicava male dovesse capitare che.
In particolare alla festa di Pratoverde. C’era un momento, un giorno all’anno, in cui la gente aveva bisogno di lasciarsi andare agli eccessi, divertirsi, celebrare la generosità della natura. Gli elfi vivevano quel momento a Mezzestate, i contadini umani a Pratoverde, in primavera. Di giorno le comunità in festa potevano ricordare delle normali sagre di paese, con giusto qualche riferimento poco esplicito alla fertilità, ma quando calava il tramonto e i bambini andavano a dormire la musica assumeva altri ritmi, altre armonie. Grandi falò punteggiavano l’aria buia e fresca della notte, nella semioscurità le persone si cercavano e si trovavano, nella danza, nella frenesia dell’amore. Non sempre gli amanti clandestini di Pratoverde si coricavano fra i cespugli con le stesse persone con cui avrebbero dovuto svegliarsi la mattina dopo. Se nove mesi dopo nascevano dei bambini, erano considerati fortunati e nessuno si faceva domande sulla loro paternità: erano una benedizione di Chauntea.
Un altro tratto caratteristico della festa era che nessuno veniva mai allontanato, a meno che non si trattasse di un mostro o di una persona con evidenti cattive intenzioni. Il senso della festa di Pratoverde era celebrare la gioia di essere vivi, pregare perché la dea imprimesse una nuova spinta alla ruota della vita, ma anche ricordarsi che tutte le creature naturali erano figlie della terra ed erano ugualmente benvolute dalla dea.

Una di quelle creature naturali stava muovendo i suoi passi verso la gioiosa confusione di una locanda in festa. Sia il cortile interno alle mura che il prato in dolce declivio antistante la locanda erano affollati di gente, soprattutto umani vestiti di colori smorti ma con volti rubizzi e felici.
Dùghall pizzicò le corde del suo violino, che fremettero sotto il suo tocco come lui fremeva d’impazienza. Il viaggiatore si considerava un vero esperto di feste, anzi, pensava di essere l’anima di qualunque festa, che non poteva essere la stessa senza di lui. Con il suo potere soprannaturale sapeva convincere le persone a danzare in estasi per ore, trascinando anche un intero villaggio in bagordi senza fine. Però gli piaceva di più quando gli umani erano già nell’ottica di festeggiare. Riuscivano a divertirsi senza che i loro pensieri venissero sporcati dal senso di colpa inconscio, la loro danza ne risultava più libera. Quando raggiunse i primi capannelli di gente, qualcuno gli rivolse un saluto alticcio e allegro, ma molti lo ignorarono, continuando a ballare o a intrattenersi a vicenda.

Dùghall non era una persona cattiva, il problema è che tecnicamente non era una persona. Era un danzatore del crepuscolo, una fata che con gli esseri umani aveva solo una somiglianza superficiale. Alto e sottile, con la pelle scura e setosi capelli neri, poteva quasi sembrare una persona normale. Erano gli occhi a tradirlo: completamente neri, senza iride né sclera, eppure non avevano nulla di spaventoso perché brillavano di entusiasmo e gioia, riflettendo ogni colore come specchi. A prima vista poteva sembrare che un lucore arcobaleno aleggiasse sempre intorno a quegli occhi.
Se il suo aspetto esotico non fosse bastato, appena Dùghall apriva bocca nessuno poteva più dubitare che fosse…
“Ma siete matto?” sbottò un contadino, che Dùghall aveva interrotto proprio mentre sbaciucchiava una ragazza. “Vi pare che possa essere mia figlia? Mi avete preso per un pervertito?”
Dùghall capì che aveva insultato l’umano in qualche modo, ma non capiva come. Non conosceva il concetto di incesto, ma intuì di aver appena sfondato un tabù culturale. Sorrise, intrigato. Gli umani e la loro cultura erano così interessanti. Uno come lui, un danzatore del crepuscolo, era attratto per sua natura dalle organizzazioni sociali strutturate: città, villaggi, clan, famiglie, tutto ciò che riguardava una collettività normata da leggi scritte o implicite. Le fate avevano regole molto più lasche, quindi per Dùghall era tutto una novità.
Si scusò con il contadino, ma ormai quello non lo stava più ascoltando, molto più interessato alla giovane donna che aveva fra le braccia.
Dùghall si mosse verso la locanda dove sembrava essersi radunata la maggior parte della gente. Tremava dalla voglia di suonare il suo violino, per unire la sua musica a quella suonata dagli umani sempre più ubriachi. Avrebbe trasformato quella festicciola di paese in un turbine di estasi che sarebbe stato ricordato per decenni.
Arrivato ormai in prossimità del grande cortile esterno della locanda sollevò l'archetto e lo mise in posizione sulle corde tese del violino, strappando un suono sommesso anche solo con quella carezza leggera. D'improvviso, senza alcun passaggio graduale, cominciò a far scorrere l'archetto avanti e indietro. I suoi movimenti potevano sembrare frenetici ma in realtà erano precisi, la sua passione era un fuoco controllato. L'archetto sfregava con forza le corde ad altezze diverse mentre le sue dita danzavano su quella parte del manico opportunamente chiamata tastiera. Il modo in cui tormentava lo strumento non aveva nulla a che fare con l'idea elegante del suonatore che sfiora le corde, Dùghall strappava melodie dal suo strumento con l'energia e l'abbandono di chi cerca un amplesso. La sua musica sembrava riflettere quell'irruenza: trascinante come la corrente di un fiume, coinvolgente, andava a far risuonare certe corde anche nell'animo umano. Intorno a lui tutti cominciarono a muoversi a ritmo, poi a danzare come usavano fare di solito, ma con sempre maggiore frenesia… e dopo pochi minuti il ballo si era trasformato in uno scatenato vortice di salti e piroette e abbracci, le persone si strattonavano e si sostenevano a vicenda come se fosse impensabile e blasfemo permettere a qualcuno di fermarsi. Il divertimento e la gioia sembravano emanare da ogni persona ed entrare in risonanza con le emozioni degli altri, trasformando l'intera zona della festa in una gigantesca bolla di frenesia e ilarità. Alcune persone scoppiavano a ridere senza motivo, altre prendevano sottobraccio perfino gente con cui avevano malumori vecchi di decenni e insieme si lanciavano in una danza scatenata. Dùghall si stava lasciando contagiare dal clima di gioia che lui stesso aveva portato all'eccesso; la felicità delle persone intorno a lui lo rendeva veramente felice, e non solo perché fosse fiero di un lavoro ben fatto. Gli piaceva portare allegria, lo faceva sentire parte di quella società che non comprendeva davvero.
Le persone vorticavano intorno a lui e il danzatore del crepuscolo ballava con loro, non poteva smettere di suonare ma le sue gambe imitavano i passi di danza che aveva appena visto fare agli umani, non poteva liberarsi le mani per prendere qualcuno fra le braccia ma spesso intrecciava lo sguardo con quello di qualche ragazza o di qualche giovanotto e per alcuni momenti ballavano uno di fronte all'altro come se fosse un'antica danza di corteggiamento. Poi quei momenti passavano e la gente intorno a lui tornava ad essere un'unica entità, caotica e multiforme.
Finché non vide lei.
L'unica persona che sembrava veramente stonare in mezzo a quei contadini. Non erano davvero tutti umani, c'erano anche alcuni piccoletti - halfling, Dùghall li aveva sentiti chiamare in quel modo - ma lei era diversa da tutti: più esile dei contadini ma non tanto eterea quanto una fata, magra ma non androgina come certe elfe che aveva visto, i capelli bianchi come la neve che però non sembravano accompagnarsi alla vecchiaia, e per finire la pelle perfettamente nera, perfino più scura di quella di Dùghall. Il danzatore del crepuscolo non aveva mai conosciuto nessuno con un aspetto più esotico di lui, a parte alcuni altri membri del popolo fatato. Di sicuro nessuno in mezzo agli umani.
La donna stava ballando con la stessa foga e lo stesso abbandono degli altri, ma quando per caso se la trovò davanti lei riuscì a trovare il tempo per rallentare i suoi movimenti e fargli l'occhiolino. Fu solo per un istante, poi sparì tra la folla, ma quel gesto voleva dire molto: Dùghall comprese che lei non era schiava del suo incantesimo come gli altri. La donna avrebbe potuto fermarsi in ogni momento, solo che non voleva farlo. Anzi, dal sorriso complice che gli aveva rivolto sembrava quasi che lo stesse ringraziando per la sua musica e per la brusca accelerata che aveva dato alla festa. Un pensiero attraversò la mente del bardo come una folata di vento, senza controllo: lei gli stava consentendo di coinvolgere gli umani nel suo incantesimo. Lei aveva capito che lui non voleva fare niente di male, che poteva far parte dello spirito della festa.
Dùghall per un momento quasi perse il ritmo della sua musica e il violino vibrò come un carro senza controllo, come se stesse protestando per quel calo di attenzione. Recuperò subito la melodia, con la scioltezza di un suonatore provetto, ma adesso non era più coinvolto come prima dalla festa e dalla folla. Riusciva solo a pensare che voleva ritrovare quella ragazza prima che sorgesse l'alba, e onorare la dea della vita insieme a lei.



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Nota orientativa: considerando che Ruprecht si svolge otto anni più tardi e lì viene detto che Luel ha sette anni, è facile capire chi possa essere questo tizio.

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Capitolo 10
*** 9. Pride ***


9. Pride

1372 DR, Undermountain

“Dove stiamo andando, dro?”
L’elfo scuro fermò i suoi passi, prese un profondo respiro e contò lentamente fino a dieci.
“La pianti, stupido darthiiri, di chiamarmi dro? Se proprio non vuoi usare il mio nome, la pronuncia corretta per il nome della mia razza è draw. Al massimo drow. Solo un suino ignorante come te potrebbe chiamarci dro, per tutti i Seldarine Oscuri, suona come il nome di un villaggio.”
L’elfo dei boschi inclinò la testa di lato e fece per grattarsi il capo, finendo però per grattarsi l’elmo di metallo.
Non che Gym Naral, prode guerriero della Grande Foresta, fosse stupido. Solo che non gli interessava memorizzare simili dettagli.
“Piantala di fare tante storie, Darén” intervenne la mezzelfa del gruppo, una ragazza giovane e solitamente timida, ma che sapeva raccogliere una certa sicurezza di sé quando si trattava di prendere in giro la loro guida drow.
“Il mio nome è Dàren” l’esploratore di dungeon calcò l’accento sulla vocale giusta. “La pronuncia corretta… oh, ma andatavene affanculo, tutti quanti” s’arrese, notando lo sguardo divertito della mezzelfa che continuava a sbagliare il suo nome di proposito.
Con quel gruppetto, a quanto pare, andava così. L’elfo, la mezzelfa, l’umana, e in misura minore i loro compagni, sembravano divertirsi fin troppo in quel dungeon potenzialmente letale.
Forse in realtà scherzavano fra loro (e lo prendevano in giro) solo per alleviare la tensione, ma l’elfo scuro non ne era molto convinto. Secondo lui, erano semplicemente pazzi e stavano sottovalutando il pericolo.
Per esempio, cosa sarebbe successo a quei dissennati se lui se ne fosse semplicemente andato, interrompendo il loro contratto come guida e lasciandoli a cavarsela da soli nel dungeon labirintico dell’Undermountain?
Ne era stato tentato. Oh, quante volte.
Sospirò di nuovo, ripetendo a se stesso che non poteva mollarli e basta, non senza un valido motivo, ne andava del suo orgoglio professionale.
“Va bene, ma dove stiamo andando, dro?” Ripeté l’elfo dei boschi.
“A sbatterci tua madre!” Sbottò Daren, al colmo della pazienza.
Orgoglio professionale, sì. Ma non significava che si sarebbe comportato in modo professionale. Solo che avrebbe portato a termine il loro contratto.
E dopo, avrebbero potuto andarsene dove già li aveva mandati.



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Nota orientativa: Gym Naral è l'unico personaggio che viene citato per nome (a parte Daren), ma lui e i suoi compagni alcuni anni dopo fanno ritorno nella storia Senza motivo.
Il titolo di questa storia, il capitolo 8 di L'amicizia non genera debiti, Senza Motivo e il capitolo 4 di Ricostruire un ponte costituiscono quattro indizi che insieme fanno uno spoiler.

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Capitolo 11
*** 10. Chapel ***


10. Chapel


1367 DR, città di Memnon

“Non posso pagare” l’uomo fissò il chierico con sguardo implorante. “Vi prego, sto morendo. Farò qualunque cosa!”
Il sacerdote trasse un profondo sospiro. Non era tagliato per quel lavoro, non per come era strutturato nella città di Memnon. Lui avrebbe aiutato quest’uomo, potendo li avrebbe aiutati tutti.
“La Dea richiede delle offerte, non dei pagamenti” rispose secco il suo collega, un prete più anziano e con più pelo sullo stomaco - o forse semplicemente con meno empatia. “Se la tua salute per te ha valore, dimostralo. Apri il tuo borsellino e offri quello che puoi al tempio.”
Fratello Furaij assistette con un misto di disagio e dispiacere alla profonda umiliazione dell’uomo che dovette aprire il suo misero borsello e mostrare poche monete di rame e una d’argento. Il prete allungò la mano e l’uomo con estrema riluttanza gli donò la moneta più preziosa.
“Pregheremo per te” assicurò il prete, riponendo la moneta al sicuro in uno scrigno di metallo intarsiato di madreperla. Furaij pensò fra sé e sé che quello scrigno valeva molto più del suo contenuto, forse più dell’intero quartiere di baracche in cui viveva quel malato.
Il supplicante rimase inginocchiato ancora un momento, come se fosse in attesa di qualcosa, poi capì che non avrebbe ottenuto null’altro.
Abbassò la testa, prese un profondo respiro, e quando la rialzò i suoi occhi erano velati di lacrime. Che fossero di disperazione, di frustrazione o di rabbia, il giovane chierico non avrebbe saputo dirlo.
L’uomo venne congedato con un gesto brusco del suo superiore.
Mentre usciva, il sacerdote anziano si voltò verso il suo collega neofita.
“Non guardarlo in quel modo. Non starebbe male se non si bevesse tutti i soldi in qualche bettola. Anche solo togliendogli quella moneta e ponendola a migliore uso, gli stiamo facendo un favore.”
A migliore uso, pensò Furaij un po’ scoraggiato.
“Hai ragione, fratello Haseid, ma nei bassifondi l’acqua pulita è più rara dell’alcol, e molto più costosa.”
Il chierico più anziano gli scoccò un’occhiataccia a quell’obiezione, ma non disse nulla. Si limitò a far cenno al servitore che stazionava alla porta, indicandogli di far entrare il prossimo questuante.
A migliore uso, si ripetè Furaij, cercando di estraniarsi il più possibile da quello che stava succedendo. La fila di poveri fuori dalla porta sembrava infinita e lui non aveva la forza morale di ascoltare ogni supplica e ogni cinica risposta. Il mio salario viene dalle casse del tempio, quindi posso rendermi parte attiva di questo migliore uso…?

Quella sera, fratello Furaij andò a pregare nella cappella pubblica, nella parte più esterna del tempio. Era il luogo in cui si recavano i cittadini comuni, i poveri. La maggior parte dei chierici preferiva pregare nel tempio principale, una struttura maestosa che veniva aperta al pubblico solo per le grandi occasioni, o in altre cappelle più private. I sacerdoti di rango più alto avevano simili luoghi di raccoglimento - sfarzosi come e più che nel resto del tempio - direttamente confinanti con le loro stanze. Lui scelse di recarsi lì, in quel luogo leggermente meno sfarzoso ma comunque ricco di decorazioni d’argento e d’oro, perché bisognava impressionare le masse con la grandezza della Dea. Eppure il suo sguardo non si soffermò su quelle bellezze terrene, ma si alzò a fissare il buco circolare nel tetto che lasciava entrare la luce della luna. Quella notte era quasi piena, e suo malgrado Furaij si trovò a riflettere a lungo, più che pregare. La luna gli sembrava così lontana.
Se ne andò ore dopo, senza alcuna risposta. La Dea era silente, o forse non parlava ai semplici accoliti come lui.

Qualche sera dopo, con passo più sicuro, il giovane chierico tornò nella cappella. Svolgere il servizio di preghiera in quella saletta aperta al pubblico era un compito poco ambito, relegato ai nuovi arrivati. Furaij fece una sorpresa molto gradita al suo giovane confratello Khalid quando si offrì di sostituirlo nei suoi doveri.
Quella notte Fratello Furaij fece un discorso incoraggiante, accogliente, sul ruolo di Selûne nel prestare aiuto e conforto a chi si trovava in difficoltà sotto la luce della luna. Non era ancora capace di raggiungere la Dea con la sua coscienza o con la sua fede e chiederle di infondergli la sua magia, non poteva guarire i malati e nemmeno creare acqua dal nulla per gli assetati, ma aveva comprato di tasca sua un barile d’acqua fresca e l’aveva usato per farne un infuso nutriente, che distribuì ai poveri con la benedizione di Selûne. Molte di quelle persone non avevano la possibilità di procurarsi della frutta o spezie, i più mangiavano pane e verdura mezza marcia, quella che non si poteva portare al mercato, e bevevano vino di infima qualità che faceva più male che bene.
Furaij cercò di placare la loro sete e di dar loro qualche nutrimento, ma più importante ancora, prestò davvero orecchio alla gente comune e ai suoi problemi. A volte sentirsi ascoltati e considerati poteva essere utile quasi quanto trovare una soluzione, e il giovane lo sapeva bene perché i suoi superiori non lo ascoltavano mai. Non poteva riproporre quel modello sbagliato. I suoi fratelli neofiti stavano iniziando a farlo, riservando ai contadini e ai mendicanti lo stesso sdegno che gli alti chierici riservavano a loro. Furaij ricordava che anche loro avevano buone intenzioni, all’inizio, quando avevano iniziato l’addestramento al sacerdozio insieme a lui. Che ne era stato di quelle buone intenzioni?

“Mia figlia ha una malattia della pelle, ma non so cosa…”
“Mio marito sta perdendo la vista da un occhio”
“I miei figli hanno fame e non so cosa fare”
“Mia moglie ha dovuto darsi a uno di voialtri perché era malata, ma poi è morta comunque”
“I campi quest’anno danno pochi frutti, per noi non resterà niente"

Furaij ascoltò. Si prese carico di quelle lamentazioni, delle domande, del sospetto, delle parole di odio e rancore. Non poteva offrire soluzioni, lui era un uomo solo, ma si impose almeno di restare lì e ascoltarli tutti, finché anche l’ultimo poveraccio fosse uscito dalle porte di legno e argento, sparendo nella notte.
Poi sprangò l’uscio, tornò al centro della cappella dove c’era l’altare proprio sotto al buco nel tetto, e pregò. Questa volta riuscì a pregare davvero. Si rivolse alla Dea e le chiese di benedire i suoi fedeli, i loro campi, le chiese di alleviare le loro pene e le malattie. Aveva un po’ la sensazione che quelle parole cadessero nel nulla, eppure sapeva che Selûne era reale, tutti lo sapevano. Le parlò a cuore aperto, chiedendole quale fosse il ruolo sociale di preti come lui, a che cosa serviva che se ne stessero asserragliati in un tempio dorato, in una città dove i poveri morivano di stenti.
“Perché, Selûne?” Domandò con voce spezzata, fissando la luna che stava per scomparire oltre il bordo del foro nel tetto. “Perché permetti tutto questo? Perché i miei superiori non compiono qualche miracolo per la gente? O forse… non possono? Forse tu hai ritirato la tua benedizione già da tempo, e questo luogo non è che un guscio vuoto? Forse tenere le distanze dalla gente serve a non far capire quanto siamo inutili?” Fratello Furaij era stanco, anzi esausto, nel corpo e nell’anima. Aveva ascoltato così tante storie miserabili, e dall’altra parte c’era un muro di disinteresse e silenzio. Da parte dei suoi superiori, da parte della Dea.
“Maledizione, dimmelo!” Sbottò, gridando verso il cielo. “Devi dirmelo! A che cosa diavolo servo in questo mondo?! Tu te ne stai lì, silenziosa e noncurante, a guardare la gente che soffre e… cosa dicono i miti? Che porti sollievo al popolo! Sono forse menzogne?” La sua voce risuonava roca, aliena, gli tornava indietro distorta a causa dell’eco. Questo acuiva la sensazione di essere completamente solo.
Furaij gridò fino a che cadde a terra, spossato, senza voce. I suoi occhi erano velati di lacrime e si portò le mani al viso, per asciugarsi le guance.
Per poco non soffocò.
Allontanò le mani dal volto, che ora era bagnato come se l’avesse appena immerso in un secchio. Anche le sue mani erano bagnate. Le lacrime da sole non potevano aver creato tanta acqua. Provò di nuovo a portarsi i palmi al volto, ma bastò unire le mani a coppa perché si ripetesse il miracolo: fra le sue mani si era appena materializzata dell’acqua. Furaij le separò bruscamente e l’acqua cadde a terra bagnando gli splendidi marmi del pavimento.
“Ma cosa…” sussurrò, meravigliato. Ripeté l’esperimento. Una, due, tre volte. Stava continuando a succedere. Immancabilmente, ogni volta che metteva le mani a coppa, cominciava a formarsi acqua fresca e limpida che sembrava apparire dal nulla. E non solo quel tanto che bastava per riempirgli le mani, no: quando il processo veniva innescato, continuava a far sgorgare il prezioso liquido fino a farlo ruscellare per terra. Furaij corse alla porta esterna e si caracollò sul cortile davanti al tempio, perché non voleva inondare la cappella. Provò di nuovo a unire le mani a coppa. L’acqua iniziò a sgorgare subito, e in effetti non si fermava. La terra arida beveva avidamente, quindi non era facile stabilire quanta acqua stesse producendo, ma così a spanne gli sembrava… troppa. Non era come un normale incantesimo, lui aveva studiato che creare acqua con la magia era possibile (be’, per i chierici esperti, non per lui), ma quel sortilegio doveva essere svolto volontariamente e aveva dei limiti. Non si poteva creare più di qualche gallone d’acqua. Furaij invece aveva ormai la tunica fradicia e le scarpe inzaccherate, e stava creando una grande macchia di terreno umido sotto di sé.
Chiuse di scatto le mani a pugno, interrompendo il miracolo. Una folata di aria gelida lo riportò alla realtà, ricordandogli che di notte il clima del Calimshan non era così clemente. Erano troppo vicini al deserto.
Sollevò il viso cercando la luna in cielo, perplesso. Aveva avuto un chiarissimo segno dell’esistenza della Dea, del fatto che lo stesse ascoltando. Ma cosa voleva dire quello stranissimo fenomeno? Era una punizione o una benedizione?
O entrambe le cose?
Se la sua condizione fosse perdurata, avrebbe potuto irrigare personalmente i campi secchi che stavano morendo sotto il sole torrido della primavera. Per contro, non aveva alcun controllo su quel potere e avrebbe dovuto stare sempre attento alla posizione delle sue mani.
Forse era davvero sia un dono che una maledizione, e non c’era modo di dire se sarebbe durato per sempre o per poche ore.
Furaij riuscì alla fine a trovare la luna in cielo. Stava calando dietro alla cupola a bulbo di una delle torrette del tempio. Da quella angolazione, sembrava quasi un sorriso sghembo.



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Nota orientativa: questa storia non è legata alle mie altre storie. Per la descrizione del tempio di Selûne mi sono basata sul romanzo di R. A. Salvatore "La strada del patriarca", i cui eventi avranno luogo l'anno seguente rispetto a questa storia.

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Capitolo 12
*** 11. Darkness ***


11. Darkness


1370 DR, città di Waterdeep

La donna vestita di nero intinse il pennino nell'inchiostro, poi picchiettò due volte la punta contro il bordo del calamaio lasciando cadere l'inchiostro in eccesso. Rimase per un momento con la penna sollevata a mezz'aria, il suo sguardo deviò automaticamente verso la finestra del suo studio oltre la quale si vedeva l'enorme cimitero di Waterdeep. Era talmente grande che molte persone lo chiamavano Città dei morti, e la cosa poteva avere un senso visto che anche quel quartiere aveva i suoi cittadini.
Julie piegò le labbra in una smorfia disgustata. Poi si concentrò nuovamente sui fogli di carta sparpagliati sulla sua scrivania e cominciò a scrivere.

Cara Anne,
Padre Meridon della chiesa di Kelemvor mi ha consigliato di gestire il mio lutto scrivendoti una lettera come se potessi davvero ancora parlarti. Io non credo che questa pratica mi aiuterà, ma si suppone che un sacerdote del dio dei morti sia abituato a consigliare le persone che hanno perso qualcuno, quindi ho concluso che valesse la pena tentare.
Cosa darei per poter davvero piegare questa lettera, inserirla in una busta, consegnarla a un fattorino e sapere che ti arriverà.
I nostri fratelli non capiscono. Cercano di starmi vicino, ma non sanno come sia perdere la propria gemella, sentirsi dimezzati. Non hanno mai capito il nostro legame. Quando sei morta l'ho sentito dentro di me, l'ho saputo subito. Ripensare a quel giorno


Julie prese un profondo respiro e si voltò di nuovo verso la finestra, ostinandosi a tenere gli occhi aperti perché se avesse sbattuto le palpebre allora le lacrime che tratteneva sarebbero cadute. Era una figlia di Casa Domedias, e i Domedias non piangono, nemmeno per i morti.
Afferrò a tentoni il foglio che stava scrivendo, senza guardarlo. I suoi polpastrelli si macchiarono d'inchiostro, ma non le importava. Appallottò il foglio di carta, si avvicinò al caminetto e lo lanciò nelle fiamme. Rimase per un attimo lì in piedi a guardarlo bruciare, registrando in un angolo della sua mente che nemmeno il tepore del fuoco riusciva davvero a scaldare il freddo che sentiva sempre su di sé, come se avesse una patina di ghiaccio avvinghiata alla pelle.
La luce del sole ormai stava svanendo. Presto suo fratello Alec sarebbe uscito con la sua balestra e le sue ampolle di Acquasanta, addentrandosi nel cimitero per dare la caccia ai non morti più pericolosi. Un tempo Anne sarebbe andata con lui, armata di un arsenale di bacchette magiche. Ma poi Anne era morta cercando di recuperare un potente artefatto che era finito nelle pericolose mani di un vampiro, e da quel giorno la vita di Julie era stata solo oscurità.
La gemella sopravvissuta si guardò intorno come se vedesse il suo studio per la prima volta. Anche al tramonto quel luogo non le era mai sembrato così buio. Una volta il camino rischiarava il piccolo ambiente e le candele sulla scrivania sembravano riprendere quella luce e rifletterla una decina di volte. Adesso sembrava solo una stanza triste e mezza vuota che veniva rischiarata a malapena. Forse prima era la presenza di Anne a portare luce. Era sempre stata una ragazza solare, così inusuale per una Domedias. Julie si risedette alla sua scrivania e afferrò un altro foglio. Questa volta non era una pagina bianca di carta da lettere, era una pergamena con un modulo dell'anagrafe cittadina. Un modulo per richiedere di cambiare il proprio nome.
Non posso evitare di portarti sempre con me. Siamo state insieme da ancora prima di nascere. Ora che non ci sei più, non posso evitare di portare nel mio cuore questa oscurità. Forse non riesco a gestire il mio lutto perché in realtà non voglio farlo, non voglio passare oltre, non posso farti questo.
Con questi foschi pensieri, Julie intinse nuovamente il pennino nel calamaio e scrisse due parole sul modulo. Non era una decisione che aveva preso a cuor leggero e sapeva che Alec e Herz non avrebbero approvato.

Julienne Domedias

Rimise a posto la penna e lesse il suo nuovo nome, rigirandoselo nella mente, sentendone il suono, come se stesse cercando di andare oltre il triste significato.
Non poteva lasciare andare sua sorella Anne. Erano sempre state una cosa sola. E se questo voleva dire che una parte di lei sarebbe stata per sempre oscurità, allora che così fosse. Non poteva farci niente in ogni caso.

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Capitolo 13
*** 12. Dragon ***


12. Dragon


1320 DR, pianure dello Shaar occidentale

Le vaste lande dello Shaar potevano sembrare brulle e poco adatte a sostenere la vita, ma questo sarebbe stato vero solo dal punto di vista di un umano, anche se qualche testarda e coriacea tribù umana riusciva a vivere in quelle lande. Molte altre creature intelligenti in realtà vivevano e prosperavano in quell'ambiente simile a una savana. Lì vivevano i possenti wemic, simili a centauri ma con la parte inferiore del corpo uguale a quella di un leone, per non parlare degli ancor più pericolosi thri-kreen, umanoidi simili a grosse mantidi religiose che avevano uno stile di combattimento e di vita molto più furtivo e ingannatore degli onorevoli wemic; qualche tribù di loxo, uomini-elefante, aveva fatto dello Shaar la propria casa, e… come non citare altre creature più mostruose come viverne, manticore e draghi?

Proprio uno di questi ultimi giganteschi bestioni negli ultimi tempi aveva turbato gli equilibri dello Shaar occidentale. Un drago blu di ragguardevoli dimensioni si era trasferito in una caverna sotterranea e aveva eletto un certo territorio dello Shaar occidentale a suo terreno di caccia. Questo aveva naturalmente causato migrazioni da parte di qualunque creatura un minimo intelligente, con una sola notevole eccezione: i thri-kreen. Loro non si spaventavano nemmeno davanti a un drago. Erano convinti di poter sfuggire perfino all'acuta vista del più potente fra i mostri, a patto di saper sfruttare al meglio le proprie capacità per nascondersi in mezzo all'erba. E se qualcuno veniva trovato e mangiato, be', così è la vita.
In realtà ai thri-kreen non dispiaceva poi tanto la convivenza con il drago: aveva scacciato tutti i loro contendenti per il cibo e in cambio si mangiava gli individui inutili della loro razza… e dal momento che non avevano alcuna struttura sociale al di fuori di piccole squadre di cacciatori che si alleavano in un legame strettissimo, era inevitabile che i thri-kreen vedessero anche gli altri gruppetti di thri-kreen più come contendenti che come alleati.

Poi, un giorno, il drago smise di andare a caccia. I thri-kreen avrebbero potuto rimanere confusi, curiosi, chiedersi che fine avesse fatto, ma in realtà erano creature troppo istintive e troppo semplici per farsi queste domande. Il drago non c'era più, fine della storia, presto individui di altre razze sarebbero tornati a reclamare i territori che avevano lasciato.

Un singolo gruppetto di cacciatori thri-kreen scoprì per caso che cosa fosse successo al drago; lo scoprì trovando il suo cadavere.
I guerrieri-mantide erano cacciatori, non saprofagi. A differenza di moltissime altre razze senzienti non erano neanche interessati ai tesori che potevano nascondersi nella tana di un drago, quindi non si disturbarono nemmeno a cercarla.
Cosa ne sia stato alla fine del cadavere del drago, nessuno lo sa. Nessuno si avventura volentieri nel territorio di caccia thri-kreen.

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Capitolo 14
*** 13. Drider ***


13. Drider


1256 DR, Buio Profondo vicino a Eryndlyn

La creatura maledetta si muoveva in modo caotico, sconclusionato, correndo lungo i cunicoli come se andare abbastanza lontano avesse potuto dargli pace. I suoi pensieri erano confusi, frammenti di ricordi recenti si mescolavano a istinti bestiali.
Presto la maledizione avrebbe distorto del tutto anche la sua mente, conferendogli quell’intelligenza acuta e subdola che è propria dei drider, quell’intelligenza che però serviva solo a tendere imboscate, catturare prede, uccidere, nutrirsi… ed essere consapevoli della propria vita miserabile.
Per un drow, un elfo scuro che viveva di inganni stratificati e di fragili alleanze, una simile vita bestiale e lineare appariva intollerabile… come se non bastasse la deturpazione fisica, il ritrovarsi con la parte inferiore del corpo trasformata in quella di un ragno gigante.
“Mi hai messa in imbarazzo per l’ultima volta”, aveva detto la sacerdotessa, e il drider sapeva che avrebbe dovuto ricordare chi fosse quell’elfa scura, ma non lo ricordava. Lo aveva punito… per qualcosa… che ora però sembrava così irrilevante.
La creatura mostruosa, mezza ragno e mezza drow, si rintanò in una caverna stretta e difendibile. Sentire le pareti di roccia intorno a sé lo fece sentire un po’ più al sicuro, e si accucciò cercando di raccogliere le idee. In quel momento avrebbe voluto avere con sé un’arma, ma aveva perso il suo pugnale quando la trasformazione aveva ingigantito il suo corpo, distruggendo i suoi abiti. Non che un piccolo pugnale fosse poi così utile, per una creatura così grande…
Man mano che la sua mente si adeguava alla nuova struttura del suo cervello, il drider ricordò che un tempo la sua arma principale era un’altra: la magia. Era ancora in grado di fare ricorso alle forze arcane? E poi, aveva senso farlo? Perché lottare per sopravvivere, se la sua esistenza disgraziata non era degna di essere chiamata vita?
Un ricordo recente gli attraversò la mente come un flash: la sacerdotessa rideva mentre lo guardava contorcersi, sopraffatto dall’orrore per il suo corpo che mutava.
Sì, forse aveva un senso cercare di capire come usare ancora i suoi poteri magici. Forse non valeva la pena vivere, ma sarebbe stato felice di poter mettere le mani - o le zampe - su qualsiasi drow gli capitasse sotto tiro, e squarciare quei piccoli corpi fragili che ora invidiava così tanto.

***


“Oggi ho visto uno strano mostro” affermò il ragazzo, in tono curioso e fin troppo noncurante.
“Hm? Che tipo di mostro, Duv?” chiese sua madre, intenta a raccogliere certe spore da un muschio fosforescente che cresceva sulla parete della caverna.
“Era una specie di centauro, ma la parte di sotto era quella di un ragno” continuò il giovane, cercando di scendere nei particolari. “La parte di sopra… non ho visto bene perché era lontano, ma aveva i capelli bianchi come i drow.”
La donna, che era drow, interruppe il suo lavoro e guardò con curiosità il figlio. Duvainion era entusiasta di quell’escursione nel Buio Profondo, nei suoi venticinque anni di vita fino a quel momento aveva conosciuto solo la Superficie, le sue foreste e i territori umani fatti di campi coltivati e ampi pascoli. Non aveva esperienza dell’ambiente naturale del sottosuolo, ma sembrava che lo trovasse molto affascinante. Sicuramente una parte di quel fascino era dovuta alla curiosità verso metà della sua eredità, il popolo di sua madre.
“Non riesco a immaginare che creatura possa essere” la drow si strinse nelle spalle, come in gesto di scusa. “Non ho mai sentito parlare di centauri del Buio Profondo.”
“Un drider” intervenne il guerriero, il drow che diceva di essere suo fratello. La sua espressione era scura quanto la sua pelle, Krystel lo aveva visto raramente così corrucciato. “Duvainion, è molto importante che tu mi dica dove l’hai visto. I drider sono assassini letali.”
Il giovane mezzelfo spalancò gli occhi, rendendosi conto del pericolo che aveva corso.
“Ero in quella caverna con le stalagmiti e le stalattiti che si toccano formando come delle gigantesche clessidre di pietra. Quella con il fiumiciattolo. Volevo andare a prendere dell’acqua ma c’era quella creatura, non mi sono arrischiato ad avvicinarmi.”
“Hai fatto bene!” Suo zio gli puntò contro un dito come se lo stesse accusando di qualcosa. “Tu non ti muoverai più da questa grotta finché non avrò indagato meglio gli spostamenti di quella creatura."
"Ma… non ti sembra eccessivo confinarmi qui dentro? Non sono un bambino!"
Il drow si irriggidì, mostrando un'espressione severa. Il figlio di sua sorella non avrebbe dovuto controbattere ai suoi ordini, secondo la sua concezione del mondo Duvainion era un maschio che gli era inferiore di rango. Eppure Krystel non lo stava rimproverando per il suo atteggiamento di ribellione.
Gli venne naturale rivolgersi direttamente alla sorella anziché rispondere al nipote.
"È necessario che tu e tuo figlio capiate il pericolo che un drider rappresenta. Quella cosa una volta era come noi, era un drow, ma qualcuno lo ha trasformato in un mostro, forse per punirlo per qualcosa. Adesso è impossibile ragionare con quella creatura, cercherebbe di ucciderci a vista perché è risaputo che i drider invidiano e odiano gli elfi scuri."
Daren non poteva saperlo ma quella non era l'argomentazione più saggia da portare avanti con Krystel. Se ne rese conto subito dopo.
"È stato trasformato? Quindi non è una creatura naturale?"
"Direi di no. Che io sappia, i drider non possono riprodursi."
"Ma allora…" Daren osservò con curiosità l'espressione orripilata di sua sorella. Non era abituato a vedere tanto turbamento sul volto di una femmina. "Dobbiamo aiutarlo!"

Nella piccola caverna protetta cadde il silenzio. Daren non sapeva davvero cosa dire. Gli veniva naturale interpretare le parole di sua sorella come un ordine, ma era un ordine che non capiva come portare a termine.
"Sorella, se mi ordini di ucciderlo, prometto che farò del mio meglio" disse infine.
L'idea non lo faceva brillare di gioia perché non aveva ancora informazioni sulle capacità di quel drider in particolare. Avrebbe preferito non fare promesse che non sapeva se avrebbe potuto mantenere, ma Krystel lo aveva messo alle strette.
Lei sbatté le palpebre un paio di volte, mostrandosi ancora più sconcertata. "No! Quando mai ti avrei chiesto di ucciderlo?" Sbottò, perché più passava il tempo e meno riusciva a capire questo fratello sbucato all'improvviso da una cultura così aliena e distorta.
"Perdonami se ho interpretato male le tue parole" Daren resistette a fatica all'istinto di inchinarsi, perché Krystel gli aveva già chiesto diverse volte di non farlo più. "Per un drider la morte è una benedizione, l'unica cosa che posso fare per lui è liberarlo dalla sua vita miserabile."
"Perdonami per essermi espressa male" ribatté lei. "Non intendevo dire che tu dovessi prendertene carico da solo. Voglio tentare di farlo tornare a essere ciò che era prima. Se è davvero così pericoloso mi servirà il tuo aiuto per tenerlo a bada mentre svolgo il rituale, però preferirei che tu non lo uccidessi."
Daren spalancò gli occhi, incredulo.
"Esiste un rituale per fare una cosa del genere?"
La drow si strinse nelle spalle, ma mostrando una certa sicurezza di sé. "Ho intenzione di consultare tutti i miei grimori, ma se non esiste vorrà dire che dovrò inventarlo."
Il modo in cui l'aveva detto, come se fosse normale inventare rituali nuovi, fece correre un brivido lungo la schiena di suo fratello. Non aveva molta fiducia in tradizioni magiche che non erano già state abbondantemente sperimentate.



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Nota orientativa: come si può intuire dall'atteggiamento di Daren che trova ancora un po' alieno il comportamento di Krystel, e dalla poca confidenza fra i due, questa storia si svolge solo pochi mesi dopo il loro primo incontro.

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Capitolo 15
*** 14. Braid ***


Questa storia è il seguito di Blind e di Invisible, e potrebbe essere poco chiara senza aver letto quelle.

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14. Braid


1324 DR, città sotterranea di Eryndlyn

S’lolath Del Neantaken si fregiava di essere uno dei drow più potenti di Eryndlyn, anche se non molti l’avrebbero riconosciuto come tale. Nominalmente un mago senza affiliazioni, come lui, sarebbe stato inferiore in rango a… be’, dipendeva molto dal quartiere in cui si trovava. Nella zona della città assoggettata al culto di Lolth, sarebbe stato inferiore a qualsiasi femmina. Anche se. A conti fatti, nessuna drow artigiana o mercante si sarebbe nemmeno azzardata a mettersi sullo stesso piano di un potente mago. Perfino le sacerdotesse giovani o poco esperte l’avrebbero rispettato. Ma le nobili no, si sarebbero sentite superiori a lui, dalla prima delle Matrone all’ultima delle figlie cadette di una Casa minore. Nel quartiere di Ghaunadaur sarebbe stato considerato inferiore ai preti, che si davano una grandissima importanza sebbene il loro stesso dio non sembrasse condividere quell’opinione. Invece, sulla piattaforma della città che era abitata dai fedeli di Vhaeraun, il suo valore sarebbe stato riconosciuto un po’ di più.
Il che rendeva il quartiere dei vhaerauniti il più soddisfacente ma anche il più pericoloso in cui muoversi. A S’lolath non dispiaceva essere sottovalutato. Lui conosceva la verità, era consapevole del potere che aveva fra le mani, non gli serviva il riconoscimento altrui.
Non era lui a capo della gilda, dopotutto. Non voleva attirare troppo l’attenzione.

I suoi colleghi e i sottoposti conoscevano il suo ruolo e intuivano il suo potere, questo gli bastava. Quando c’erano alcune particolari questioni da dirimere, questioni interne alla gilda, i maghi di rango inferiore andavano a rivolgersi a lui.
S’lolath gestiva un esercizio commerciale che era la copertura perfetta per giustificare il via-vai di maghi che venivano a trovarlo: una libreria. Molti dei suoi tomi trattavano teorie arcane e vecchie scoperte, istruzioni procedurali per esperimenti magici, frammenti di conoscenze alchemiche, informazioni strappate alle tradizioni esoteriche di ogni razza e di ogni angolo del mondo. Naturalmente i libri davvero utili e potenti li teneva per sé, per il suo capogilda e ogni tanto per una ristretta cerchia di clienti, ma nessuno si sarebbe aspettato diversamente.

Quando qualcuno aprì la porta del suo negozio in pieno giorno (o quello che a Eryndlyn passava per giorno), S’lolath non ne fu sorpreso; il cartello sul portone annunciava che la libreria era aperta. Era chino su un registro, quindi si limitò a salutare con un educato cenno del capo i due drow che erano appena entrati nel negozio; uno dei due indossava le vesti di un mago, ma S’lolath non lo riconobbe.
Strano, pensò, credevo di conoscere tutti i maghi di Eryndlyn. Forse è uno straniero?
Non degnò l’altro di una seconda occhiata; giovane, forse appena alle soglie dell’età adulta, camminava con aria sottomessa accanto al mago - ma non dietro, quindi non era un garzone, era un figlio o un apprendista. O entrambe le cose.
S’lolath però era decisamente più interessato al mago più anziano, almeno finché non si accorse che aveva una vaga aura di magia di illusione intorno a sé. Interessante. L’elfo scuro indossò un paio di occhiali e finse di studiare con più attenzione il registro che aveva davanti, ma alla prima occasione lanciò uno sguardo al mago che si aggirava fra gli scaffali. Le lenti magiche gli permisero di vedere la vera forma del drow al di là di ogni incantesimo per mutare sembianze. L’oggetto del suo interesse era ammantato di un sottile velo di illusione che alterava un poco le sue fattezze, ma sotto quell’inganno si celava Seldphyn di Casa Daevossz, un incantatore talentuoso che faceva parte della sua gilda.
S’lolath sollevò un sopracciglio, come se avesse trovato un’irregolarità nel registro che stava sfogliando. Dentro di sé invece si stava chiedendo il motivo per cui uno dei suoi sottoposti più capaci si fosse recato da lui anziché inviare un messaggio magico. Da quando era diventato il mago principale di Casa Daevossz, Seldphyn si era fatto arrogante e spesso si limitava a inviare messaggi anziché rispondere alle convocazioni. Eppure ora era lì? Perché?
Il luogotenente della gilda si rigirò la domanda nella mente, con oziosa curiosità. L’idea più sensata era che Seldphyn fosse lì per tentare di ucciderlo e prendere il suo posto. Ma in quel caso, perché usare un incantesimo di illusione così debole e facilmente scopribile?
Ebbe la sua risposta quando l’apprendista uscì da dietro uno scaffale, rivelandosi alla sua vista: non era affatto un giovane drow, era un bambino.
S’lolath cominciò a mettere insieme i pezzi: il fatto che il bambino camminasse accanto a Seldphyn e non dietro, condotta inusuale perfino per un apprendista, il fatto che Seldphyn non avrebbe mai assunto un apprendista in primo luogo, perché troppo geloso dei suoi segreti… e la diceria mai confermata che l’ultimo nobile nato in casa Daevossz mostrasse una particolare propensione per le arti arcane.
Mi ha portato un nobile?, si chiese, intrigato. Mi domando il perché.
Si tolse gli occhiali e osservò il ragazzino da lontano, facendo affidamento solo su un semplice incantesimo per individuare aure magiche. Di primo acchito non ne vide nessuna e rimase interdetto. Poi comprese. Seldphyn aveva utilizzato una leggera illusione per mascherare se stesso, ma si era impegnato molto di più per il ragazzino. Aveva usato qualcosa per mascherarlo, un’illusione o forse addirittura una trasmutazione, e poi aveva coperto il misfatto con un incantesimo che nasconde le aure magiche. Quest’ultimo era un incanto basilare che anche gli apprendisti conoscevano, perché non l’aveva usato anche su se stesso? Voleva forse attirare tutta la curiosità su di sé, perché nessuno badasse al giovane apprendista?
Perché? Il piccolo Daevossz era così importante da dover essere protetto dagli sguardi della città? Era lì per ordine della sua Matrona, o…?
S’lolath faticò a sopprimere un ghigno. Gli piacevano gli enigmi. Fino a quel momento la sua giornata era stata insolitamente noiosa.

Per non destare alcun sospetto, lasciò che i due strani visitatori si aggirassero con calma fra i libri di magia; nel frattempo andò avanti con il suo lavoro di facciata, prestò orecchio ad altre richieste, riuscì a concludere una vendita, mise in ordine sugli scaffali alcuni tomi che erano rimasti sulla sua scrivania, e infine accompagnò alla porta gli ultimi clienti.
Solo allora girò il cartello sulla porta indicando che il negozio era chiuso.
Richiuse la porta e la sigillò con un catenaccio e un incantesimo.
“Che gioia vederti, mio vecchio amico” salutò infine, stirando le labbra in quel sorriso sarcastico che aveva trattenuto per tanto tempo. Aveva del tutto abbandonato il tono ossequioso che rivolgeva ai clienti, e allo stesso tempo aveva rivelato a Seldphyn che aveva visto oltre la sua illusione. Per il momento non fece menzione al ragazzo; non aveva senso scoprire subito tutte le sue carte.
"Signore" Seldphyn scattò come un soldatino, e il suo capo faticò a riconoscere in quell'atteggiamento il mago altezzoso e arrogante che ricordava. Forse era davvero lì per ucciderlo, dopotutto, e il bambino costituiva solo un depistaggio. O forse aveva bisogno di un favore bello grosso.
"Quale sorpresa! Non riesco proprio a immaginare cosa possa portarti qui dopo così tanto tempo che non ci vediamo."
"Sarei volentieri venuto prima, ma i miei impegni al servizio di Matrona Daevossz…" l'altro mago abbozzò un tentativo di giustificazione.
S'lolath agitò una mano come per dirgli che tutto questo non aveva più importanza. "Sono più interessato al motivo per cui ti trovi qui adesso."
Il mago spostò nervosamente il peso da un piede all'altro, poi con un gesto teatrale si fece da parte, lasciando spazio al ragazzino camuffato da adulto. "Signore, costui è…" esitò, sulle spine. "Preferirei non pronunciare il nome di un morto. Il ragazzo voleva parlarvi, e le sue argomentazioni sono state… convincenti."
S'lolath si appoggiò tranquillamente con la schiena al portone del negozio. "Convincenti per te, suppongo, ma per quale motivo pensi che dovrebbero interessare anche a me?"
"La mia posizione come mago di Casa Daevossz rafforza la nostra gilda" rivendicò "pertanto ciò che rappresenta una minaccia per me rappresenta una minaccia per gli interessi…"
"Tutti sono utili, Seldphyn. Ma devo proprio ricordarti che nessuno è insostituibile?"
"Ma da chi sarei stato sostituito?" Insistette il mago, con una nota acuta nella voce che tradiva la sua paura. "Da un altro di noi, o da un mago estremamente fedele alla sua Casata e alla Regina Ragno? Se il ragazzo un giorno fosse diventato Maestro Arcano di Casa Daevossz, la nostra organizzazione sarebbe stata tagliata fuori dagli affari di quella famiglia. Matrona Mayquarra avrebbe tenuto in pugno sia il potere Divino che il potere Arcano all'interno della sua Casata e avrebbe potuto portare uno squilibrio all'interno del quartiere occidentale."
"Un ragazzo tanto fedele alla sua famiglia da esserne letteralmente fuggito. Non è per questo che si trova qui?" S'lolath espresse la sua perplessità in tono di provocazione. "Cosa ti fa pensare che, una volta che ti avesse sostituito, non sarebbe stato corruttibile? Perfino il Maestro Arcano di una casata nobile può desiderare una vita migliore. Noi avremmo potuto offrirgliela."
"Signore" il ragazzino si fece avanti, coraggiosamente. "Non avrei mai potuto fare una libera scelta, signore. Mia madre, Matrona Mayquarra Daevossz, aveva intenzione di impormi un marchio magico che mi avrebbe per sempre legato alla fede in Lolth, un marchio che mi avrebbe ucciso al primo pensiero eretico. Non avrei mai potuto ribellarmi alla mia famiglia."
Il ragazzo non rivelò come facesse a saperlo, in qualche modo lasciò intendere che la Matrona glielo avesse detto personalmente. S'lolath continuò a mantenere i suoi dubbi su questo, sia sul fatto che la Matrona avesse rivelato i suoi piani così facilmente, sia sul fatto che la minaccia del marchio potesse essere realistica. Purtroppo non era un esperto di magia clericale, quindi non poteva nemmeno additare la cosa come un inganno. Prese nota però del fatto che il ragazzino sembrasse crederci veramente. Non stava mentendo. Il suo sguardo atterrito parlava chiaro.
"Quindi ho indovinato il motivo della tua presenza qui, giovane Daevossz? Sei scappato di casa? Pensi forse che potrei trovarti un posto all'interno della mia Gilda?"
Il bambino cominciò a scuotere la testa prima ancora che il pericoloso drow avesse finito di parlare.
"È vero che sono scappato di casa, con l'aiuto del Maestro Arcano. Però so una cosa: per me non c'è posto in questa città. So che devo scappare. E so anche che la mia unica possibilità era trovare voi, il drow con le treccine."
S'lolath non riuscì a trattenere un'espressione perplessa. Non era famoso per il suo buon cuore e soprattutto non era famoso per essere una persona che faceva favori in cambio di nulla. Con tutta calma prese fra le dita una manciata di treccine, che adornavano tutta la parte sinistra della sua testa, e cominciò a giocherellarci mentre vagliava le parole del suo visitatore inatteso.
"Sai a cosa servono le mie treccine, ragazzino?"
"Io… in verità non me lo sono mai chiesto, signore" ammise il piccolo, timidamente.
L'adulto si annotò mentalmente anche il fatto che avesse risposto senza davvero rispondere.
C'erano molte leggende sulle treccine di S'lolath ma la più gettonata era che ne facesse una per ogni nemico che uccideva. La verità era ben diversa: a ogni treccia corrispondeva un ricordo che l'intrigante elfo scuro aveva dovuto legare, rinchiudere, nascondere perfino a se stesso.
Ho come la sensazione che questo ragazzino stia per costringermi a creare una nuova treccia, pensò S'lolath, prudentemente.
"Seldphyn, sei congedato." Annunciò all'improvviso. "Lasciaci soli. Torna pure alla magione dei Daevossz, e rallegrati: vada come vada, il tuo pericoloso rivale non vedrà mai più la casa della sua Matrona."
Poi sorrise al piccolo, e quel ghigno non era per niente rassicurante.
Tek'ryn Daevossz fu attraversato da un tremito, ma non arretrò di un passo. Sapeva fin dall'inizio che la sua fuga non era un successo assicurato, ma sapeva anche che questo drow era la sua unica possibilità di lasciare la città.

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Capitolo 16
*** 15. Trade ***


15. Trade


1302 DR, città sotterranea di Skullport

Murghol Hammerhand era un onesto mercante duergar, se mai si può dire di un duergar (o di un mercante) che sia onesto.
Ne vedeva tanti di clienti: c'erano quelli che tiravano sul prezzo, quelli che cercavano di fregarlo, quelli che gli facevano grossi ordini e poi sparivano, ma naturalmente c'era anche qualche persona decente che comprava e pagava. Murghol era un nano grigio, quindi di base odiava tutti, ma questi clienti li odiava un pochino meno.

Ogni tanto veniva a trovarlo un drow. Per Murghol, tutti gli elfi scuri erano assolutamente identici, ma questo era riconoscibile più che altro dall'atteggiamento. Non era snob e razzista come altri della sua razza, si limitava a venire lì e condurre i suoi affari, ma non era discreto; anzi, era quello che in gergo lì a Skullport veniva definito uno sparone: un fanfarone, uno che le sparava grosse.

"Siete in grado di produrre un oggetto magico che mi metta al riparo da incantesimi di divinazione potenti come quello che rivela la vera forma delle cose?” gli chiese un giorno proprio quel drow che un onesto mercante non sapeva mai se prendere sul serio o no.
“Posso procurarvi l’oggetto, ma mi serviranno alcuni giorni... e un pezzetto di demone.”
“Questo mi porta alla seconda richiesta.” Annunciò l'altro senza battere ciglio. “Potete trovarmi un oggetto che mi permetta di recarmi su altri Piani?”
Il duergar sollevò un sopracciglio. Da come lo squinternato aveva messo giù la frase, sembrava proprio che volesse procurarsi quel pezzetto di demone andandoselo a prendere nell'Abisso.
Che sparone.
Ad ogni modo Murghol era un mercante serio, quindi non commentò. Si lanciò in una dissertazione su vari tipi di oggetti per raggiungere lo scopo richiesto.
“Un Amuleto dei Piani mi sembra la soluzione giusta.” Decise infine il drow. “Non ho certo desiderio di percorrere il mondo in cerca di Portali altrui.”
“Il suo utilizzo è rischioso.” Avvertì il bottegaio, ombrandosi.
“È un problema mio.”
“E vi costerà più di qualcosina!”
“Anche quello è un problema mio.” Rispose l'elfo scuro, sempre con la solita flemma.
“Inoltre vi sarà del tutto inutile qui, dove il viaggio planare è interdetto.”
“Vorrà dire che non lo userò qui. Se non sbaglio le politiche del negozio sono... un quarto alla commessa, tre quarti a lavoro concluso?” chiese conferma, per mettere a tacere le obiezioni.
Borbottando la sua perplessità, Murghol prese il sacchetto di monete e chiamò suo figlio Bruthwol, che lavorava in negozio con lui, per fargliele contare.
Il giovane duergar afferrò la borsa e sparì nel retrobottega, da cui presto si sentì un rumore di monete tintinnanti. Quando Bruthwol tornò con il sacchetto vuoto e fece un cenno di assenso. Restituì il sacchetto, che era una piccola Borsa Conservante. Certo, altrimenti non avrebbe potuto contenere tutte quelle monete.
“Per quanto riguarda l’altro oggetto?” indagò il pragmatico mercante.
“Rimandate la sua produzione a quando vi avrò portato il focus necessario. Se dovessi morire nel tentativo sarebbe una spesa inutile.”
“Bah! Se doveste morire nel tentativo non credo v’importerebbe dei soldi!”
Il drow rise alla battuta, sicuro di sé.

Quando se ne fu andato, Bruthwol si avvicinò discretamente a suo padre.
“Ma faceva sul serio, secondo te?”
Una scintilla di insofferenza brillò negli occhi del vecchio duergar. Senza preavviso, si girò verso il ragazzo e gli mollò un pugno in faccia. Non troppo forte, era pur sempre suo figlio.
“Chi se ne frega! Noi siamo mercanti, Bruthwol. Hai visto come faccio coi clienti? Sempre disponibile, sempre gentile” Murghol non era gentile per niente, ma lo era per gli standard dei nani grigi “e soprattutto noi non dobbiamo esprimere giudizi. Nemmeno quando il cliente è chiaramente un cazzaro” spiegò, utilizzando un'altra espressione gergale del posto. “Imparalo adesso, se un giorno vorrai prendere il mio posto. È così che funziona il commercio.”



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Nota orientativa: questa scena si svolge nel capitolo 4 di Jolly Adventures, è solo raccontata dal punto di vista del mercante.

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Capitolo 17
*** 16. Bazaar ***


16. Bazaar


1371 DR, Silverymoon, Marche d'Argento

Silverymoon era una città cosmopolita, ma questa definizione si applicava soprattutto alla quantità di razze che la popolavano: umani, elfi, mezzelfi, nani, gnomi e halfling. Perfino qualche mezzorco, che riusciva a condurre una vita pacifica in un clima di mutua tolleranza.
Quello che era meno comune vedere erano umani di altre etnie, anche se qualcuno giurava che all'università ci fosse una ragazza umana dalla pelle scura. Ogni tanto giungevano mercanti da sud, con i loro visi abbronzati, ma non erano molto diversi dalla gente delle Marche d'Argento.

Taman Riverson faceva decisamente eccezione. La sua pelle aveva un colorito leggermente diverso, anche se la gente non avrebbe saputo descriverlo con esattezza; chi lo vedeva per la prima volta spesso gli chiedeva se fosse in salute. Ma la cosa che lo identificava immediatamente come straniero erano i tratti del viso, gli occhi più sottili e allungati, il naso più piatto e più piccolo. Le persone più colte avrebbero saputo puntare il dito facilmente verso la sua provenienza geografica: est, l'esotico continente di Kara-tur.
Quale regione esattamente era più difficile da stabilire, anche perché lui stesso non lo sapeva. Era cresciuto in un orfanotrofio a Silverymoon e non sapeva come ci fosse arrivato, sembrava che fosse comparso letteralmente sotto un cavolo, come raccontavano i genitori ai figli piccoli quando chiedevano da dove venissero i bambini.
Taman aveva avuto una vita tranquilla, senza grandi sconvolgimenti. Quando era stato abbastanza grande per lasciare l'orfanotrofio, un ragazzo gentile aveva creduto in lui e nella sua professionalità e gli aveva affidato la gestione di un negozio.
Bazaar delle seconde occasioni, così si chiamava. Era esattamente ciò che il nome suggeriva: un robivecchi. La gente portava le sue vecchie carabattole, i vestiti di seconda mano, perfino oggetti rotti. Taman aveva il mandato di non rifiutare mai nulla, poco importava quanto gli oggetti che gli venivano venduti dai cittadini potessero sembrare pronti per la discarica più che per una nuova vita.
Il proprietario del negozio credeva nelle seconde occasioni. Era assolutamente un mago nel rimettere a posto gli oggetti rovinati o perfino rotti. Talvolta Taman si chiedeva se non fosse per davvero un mago.
Una volta che la nomea del negozio aveva cominciato a spargersi, la gente aveva cominciato a ricomprare i suoi stessi oggetti, e da lì a negozio di riparazioni il passo era stato breve. Ora il bazaar non era più solo una rivendita ma anche un aggiustatutto, una sartoria, una lavanderia capace di rimuovere le macchie più eterne. Taman aveva cominciato presto ad amare genuinamente il suo lavoro, ad amare l'espressione felice delle persone che si vedevano restituire gli oggetti di una vita, a cui erano affezionati, tornati quasi come nuovi. Aveva chiesto al suo datore di lavoro di insegnargli ma lui aveva sempre affermato di non poterlo fare, quindi Taman, anche se aveva aspirazioni da artigiano, era rimasto un semplice mercante.
Gli anni passarono tranquilli al Bazaar e lentamente si trasformarono in decenni.
Taman, ormai un vecchio canuto, apriva tutti i giorni il negozio alle otto del mattino, regolandosi grazie a un vecchio orologio ad acqua che se ne stava appollaiato in un angolo del negozio da più di cinquant'anni. C'era stato qualcuno che aveva espresso il desiderio di comprarlo, ma Taman era particolarmente affezionato a quell'oggetto e aveva mentito dicendo che faceva parte dell'arredamento del negozio.
Mentre ascoltava il familiare e confortante e ticchettio delle gocce d'acqua, che lo aveva accompagnato per decenni nella sua routine, Taman Riverson si soffermò ancora una volta a pensare alla caducità della vita. Nutriva una segreta speranza, che non osava rivelare a nessuno. Forse era il negozio stesso a ringiovanire gli oggetti in qualche modo. Forse, lui che amava così tanto il Bazaar, sarebbe stato benedetto da una seconda occasione.
Era un sogno sciocco, ma al vecchietto piaceva indulgervi.
Peccato che non ricordasse di avere già avuto la sua seconda occasione.



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Capitolo 18
*** 17. Vision ***


Nota: questa storia è il sequel di 14. Braid

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17. Vision


1324 DR, città sotterranea di Eryndlyn

S’lolath non ci capiva nulla di bambini. Per lui erano solo futuri adulti, e questa sua incapacità di comprensione perdurava caparbiamente nonostante lui avesse avuto ben due figlie.
C’era qualcosa che gli impediva di provare empatia e senso di protezione verso quegli elfi scuri di recente produzione e di taglia ridotta: principalmente, era il fatto che fossero comunque elfi scuri. S’lolath era un perfetto figlio di Eryndlyn e sapeva che non era una buona idea provare compassione per qualcuno. Per questo, guardando il piccolo Tek’ryn Daevossz, in quel momento non riusciva a provare altro che un cauto interesse… come avrebbe fatto nei confronti di chiunque si fosse presentato al suo cospetto dopo aver sostanzialmente ricattato uno dei suoi sottoposti più promettenti.
Erano rimasti soli, quindi lo aveva invitato nel salottino privato in cui solo lui e i clienti più prestigiosi della sua libreria potevano mettere piede.


Tek’ryn si era arrampicato su una poltroncina che sarebbe stata molto comoda, se i suoi piedi avessero potuto toccare terra. Invece era troppo basso per quel privilegio, e lottava per stare in equilibrio su quei cuscini che - ne era certo - dovevano essere fatti di melme cucite in foderi di tessuto impermeabile. Era troppo strano il modo in cui ci stava affondando dentro.
Il fatto di non sentirsi stabile e di non avere contatto con il terreno stava mandando messaggi di allarme alla sua mente istintiva, perché in caso di pericolo non sarebbe riuscito a reagire prontamente e scappare.
Il drow con le treccine in qualche modo doveva averlo capito, perché il suo sorriso affilato sembrava aver preso una piega di derisione.
Anche l’adulto era seduto su una poltroncina simile, ma sembrava trovarcisi a suo agio. Li separava un basso tavolino fatto con un gambo di fungo segato a metà e poi coperto da una sottile lastra di vetro, modellata per seguire la circonferenza irregolare della base. Su quel tavolino aveva appoggiato due bicchieri pieni quasi fino a metà, con dentro un liquido verdastro.


“Ho sentito delle voci sul tuo conto, giovane Daevossz” cominciò S’lolath, spostando i due bicchieri in centro al ripiano. “Alcune persone dicono che tu abbia poteri di preveggenza.”
“Lo dice Seldphyn” lo corresse il ragazzino. “Solo qualcuno che appartiene a Casa Deavossz potrebbe saperlo. La Matrona non permetterebbe all’informazione di circolare.”
S’lolath sorrise per quell’intuizione ben argomentata, ma non del tutto corretta.
“Forse tua madre non è poi così onnisciente quanto crede. Ci sono molti modi in cui un’informazione può trapelare” spiegò, ma senza sbilanciarsi. “Vorrei capire se le parole dei miei informatori sono vere. In uno di questi due bicchieri, il vino è stato contaminato con un liquido incolore, quasi inodore, ma mortale. Sapresti dirmi in quale bicchiere c’è il veleno?”
Domandò con un sorriso di incoraggiamento. O di minaccia. Insomma, la linea fra le due cose era sottile.
Il bambino non si scompose per nulla. Si aggrappò ai bracciali e si sporse in avanti, per arrivare ai bicchieri. Ne prese uno, semplicemente il più vicino alla sua mano; con attenzione e grande cura, rovesciò il suo contenuto nell’altro bicchiere. Poi riappoggiò il bicchiere vuoto sul ripiano di vetro e fissò S’lolath negli occhi con uno sguardo fermo, adulto.
“In quello pieno” affermò semplicemente.
Il mago drow rimase spiazzato per un attimo; non era colpito dalla soluzione intelligente all’enigma, ma dal fatto che venisse da un ragazzino di nove o dieci anni. Anche la sua calma era del tutto innaturale per un drow così giovane e inesperto; avrebbe dovuto tremare di nervosismo e paura davanti a un mago potente come lui.
La risposta di Tek’ryn Daevossz fu seguita da un lungo momento di silenzio, poi S’lolath si sentì scuotere da un fremito. Una risata. Decise che poteva concedersi di ridere davanti a quella creatura, perché dopotutto Tek’ryn era lì per chiedere il suo aiuto, non era una minaccia.
E poi, era davvero soddisfatto dalla sua risposta. Per ora.


***


Tek’ryn avrebbe voluto poter lasciare la città subito, ma le sue visioni l’avevano condotto solo fino a questo mago. Sapeva, grazie alla divinazione, che il drow con le treccine era la sua unica speranza di lasciare la città di Eryndlyn, ma da quando l’aveva raggiunto i suoi poteri di preveggenza non erano più stati di alcun aiuto. Era come se ci fossero troppe variabili; Tek’ryn fu colto da quel pensiero che spiegava l’improvvisa defezione delle sue visioni, e come al solito si stupì di averlo concepito. Era sicuro che non avrebbe dovuto sapere cosa fossero le variabili. Gli capitava sempre più spesso di fare pensieri che non potevano essere normali per un drow della sua età; fino ad allora era sempre vissuto lontano dagli intrighi e dai giochi di potere. Aveva passato l’infanzia a pulire e lucidare ogni angolo della cappella della sua Casa, senza interazioni sociali o quasi.
Perché all’improvviso sapeva come parlare agli adulti? Perché sapeva sostenere il loro sguardo e contrattare? Non se lo spiegava, ma forse la risposta era nascosta negli strani sogni che faceva, in cui gli sembrava di ricordare vite passate.
Di sicuro, per il momento aveva ottenuto una specie di tregua. Il mago aveva deciso di ospitarlo nei suoi appartamenti privati, a quanto pare segretissimi e ben mascherati con la magia, finché non avesse deciso cosa fare di lui.
Nel frattempo sua madre, Matrona Mayquarra, doveva aver trovato il suo piccolo cadavere nella cappella di Casa Daevossz… ma si trattava di un depistaggio, un corpo fasullo che il Maestro Arcano Seldphyn aveva preparato con cura per coprire la sua fuga.
Tek’ryn sapeva che la Matrona avrebbe aperto un’inchiesta. Non avrebbe accettato facilmente la morte del suo ultimogenito, il ragazzo dotato nelle arti arcane che sperava di poter trasformare nel nuovo mago della Casata.
Avrebbe davvero voluto essere già in viaggio per qualche luogo lontano, ma doveva convincere il suo ospite a farlo fuggire.

Da come il mago lo aveva mollato in una stanza spoglia, con solo un letto e un baule, Tek’ryn aveva la sensazione di essere più un prigioniero che un ospite.
Quasi ogni giorno il suo anfitrione - S’lolath, infine si era presentato - veniva a trovarlo e gli chiedeva di raccontargli dettagli sulla sua vita a Casa Daevossz. Erano dettagli noiosi, inutili, e secondo Tek’ryn si trattava solo di un depistaggio. Una tecnica per cominciare a farlo parlare, metterlo a suo agio, e nel tempo riuscire a portare il discorso dove voleva l’adulto.
Non gli aveva chiesto più nulla sul suo potere, sul suo presunto talento per la magia arcana. Ma di certo prima o poi lo avrebbe fatto.
Tek’ryn era terrorizzato, non voleva rivelargli che il suo potere risiedeva nei suoi occhi. Le sue capacità di divinazione si manifestavano solo attraverso la vista, aveva delle premonizioni sul futuro e rivelazioni sul presente. Una delle sue capacità era quella di vedere la forma dell’anima delle persone, un potere orrendo in un posto come Eryndlyn; all’apparenza i drow erano bellissimi e perfetti, ma nell’intimo erano creature aberranti e spietate, con artigli al posto delle mani, denti lunghi come quelli dei vampiri, occhi di brace, corna da demoni o altre orrende deformazioni che riflettevano l’orrore dei loro cuori. Tek’ryn non si era mai azzardato a guardare S’lolath con quel suo potere. Aveva paura di vedere la forma della sua anima. Aveva paura di vedere dita adunche protese verso i suoi occhi, desiderose di strapparli e prenderli per sé.
Perché lo stava trattenendo così a lungo? Cosa poteva volere da lui?
Sperava di farlo impazzire con la prigionia e l’isolamento?
A Tek’ryn non dava fastidio, per niente. A volte sognava enormi spazi aperti, con solo il bianco intorno a sé, una landa perlacea senza terreno, senza alto né basso, come se fosse sospeso nel nulla. E intorno a sé, in effetti, non c’era nulla. Era un sogno abbastanza ricorrente, negli ultimi mesi. Se quello non lo disturbava, non l’avrebbe certamente fatto una stanza scarnamente arredata. L’unica cosa che lo tormentava era l’incertezza sul suo futuro.

Un mattino, sempre che fosse mattino, si svegliò da un incubo particolarmente agitato: aveva sognato di essere ancora in seno alla sua famiglia, con sua madre che lo indottrinava al culto di Lolth, le sue sorelle che lo guardavano con odio… e tutte loro mostravano la loro vera forma, quella che lui poteva sbirciare con i suoi occhi magici.
Si svegliò di colpo, con il fiato corto. E incontrò lo sguardo concentrato di S’lolath Del Neantaken.
“Fai sogni davvero strani” commentò il drow, scrutando il ragazzino dall’alto in basso.
Tek’ryn aveva la pelle nera come l’ebano, ma di sicuro in quel momento impallidì fino a sembrare grigio cenere.
“Sono… solo incubi. La mia mente inventa figure mostruose per… per spiegare…”
“No” lo interruppe l’altro. “Non pensare di mentirmi così facilmente. Non sono solo incubi, sono ricordi. So riconoscere la differenza, ho sentito tutta la tua paura.”
Una strana scelta di parole, ma Tek’ryn era troppo spaventato per farsi domande. Ormai era stato scoperto. Il suo asso nella manica era stato rivelato.
Perché i suoi poteri non gli stavano venendo in aiuto? Di solito, quando si trovava in una situazione pericolosa, i suoi occhi vedevano il corso di azioni che avrebbe dovuto prendere per salvarsi la pelle. Questa volta, invece, le premonizioni non si stavano mostrando.
“È… è vero.” Ammise, deglutendo per il nervosismo. C’era una linea oltre la quale mentire diventava controproducente. “In effetti non sono sogni. Sono visioni. Quello è ciò che vedo quando… guardo qualcuno. Succede come che… ciò che le persone sono davvero, non me lo possono nascondere. Vedo cosa c’è nei loro animi. Ma mi fa venire solo paura, disperazione. Perché se tutti sono così, io come… come potrei sopravvivere? Sono qui, in questa città, circondato solo da mostri e io non… io non so…”
Tek’ryn sentì gli occhi che gli si riempivano di lacrime.
No.
No!
Era stato forte fino ad ora. Perché doveva cedere quando ormai era quasi riuscito a sfuggire alle grinfie di sua madre? Perché doveva crollare proprio adesso?

Contro ogni sua aspettativa, S’lolath gli poggiò una mano sulla testa. Tek’ryn non aveva esperienza di gesti affettuosi, altrimenti avrebbe potuto pensare ‘questa è la carezza di qualcuno che non sa come si fa’.
“Tua madre ha assunto un mago investigatore per indagare la tua morte. A quanto pare non vuole proprio lasciar perdere, stupida sacerdotessa testarda! Anche quel mago fa parte della mia gilda, quindi l’ho saputo subito. Ma preferirei che non mi trovassero implicato nella tua morte.”
Tek’ryn raggelò. Era giunto alla fine, dunque?
S’lolath si chinò accanto al letto per essere alla stessa altezza del suo interlocutore. Il discorso che voleva fargli richiedeva un contatto visivo.
“Ora ho tre scelte davanti a me, ragazzo. Ucciderti, uccidere tua madre, oppure farti sparire. La seconda non è praticabile, abbiamo degli affari con Casa Daevossz. E tra ucciderti o farti sparire, capisci, non c’è poi molta differenza.”
Il bambino rimase immobile, sentendo tutto il peso di quella mano sulla sua testa, sapendo che poteva scaturirne un incantesimo mortale da un secondo all’altro.
“Tuttavia, se qualcuno un domani mi interrogasse… o peggio, interrogasse la Regina Ragno stessa per chiedere conto delle mie azioni, la domanda che farebbero è ‘S’lolath è coinvolto nella morte di Tek’ryn Daevossz?’. E lo farebbero perché ti credono morto, non fuggiasco. Mi farebbe molto comodo che la risposta a quella domanda continuasse ad essere no. La cosa migliore che posso fare per me stesso e per te, è farti uscire dalla città di nascosto.”
Il ragazzino alzò la testa di scatto, fissando il volto di S’lolath, senza parole. Stava dicendo la verità? Non era solo un crudele trucco?
“In cambio di cosa?” Chiese subito, perché conosceva i drow e conosceva i mercenari.
Il mago sorrise, soddisfatto ancora una volta dalla sua maturità.
“Tranquillo. Non dimenticherò che mi devi un favore, e farò in modo che non lo dimentichi nemmeno tu. Sei un ragazzino promettente, se solo ti allontanerai un po’ da Eryndlyn. Qui non potresti sopravvivere. A differenza mia, hai a malapena il controllo sulle tue visioni.”
Tek’ryn si chiese per un momento cosa avesse voluto dire con ‘a differenza mia’, ma poi scartò quel pensiero. Non aveva importanza. S’lolath lo avrebbe aiutato a fuggire! In uno slancio emotivo molto inopportuno, ma tristemente tipico per la sua età, Tek’ryn si sporse in avanti e abbracciò brevemente le spalle del mago mercenario. S’lolath lo allontanò subito, sulla difensiva, quasi che avesse temuto una trappola.
“Non toccarmi con le tue manine da moccioso, mi scompigli i capelli” lo redarguì, un po’ schifato.
Tek’ryn si fece subito indietro, con un’espressione di scuse, e in effetti notò per la prima volta che i capelli di S’lolath erano sciolti dietro la schiena, senza più treccine.
“Scusa. Scusa. Non lo faccio più” promise, abbassando lo sguardo in segno di sottomissione.
Il drow se ne andò in tutta fretta dalla sua stanza, sibilando come un serpente velenoso, ma prima di uscire si girò per lanciargli l’ultima occhiataccia e abbaiare un ordine.
“Muoviti a vestirti, ce ne stiamo andando adesso.”
Tek’ryn rimase un attimo stranito, a fissare l’uscio che il drow aveva lasciato aperto. Poi si alzò dal letto in tutta fretta e recuperò i suoi abiti, vestendosi mentre usciva di corsa.

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Capitolo 19
*** 18. Abyss ***


18. Abyss


1373 DR, Corte delle Stelle

C’era un luogo, nell’Abisso, che non era abitato solo da demoni.
Il 471° strato dell’Abisso in effetti era teatro di una millenaria guerra fra demoni ed eladrin celestiali, creature simili agli elfi e alle fate ma per natura più vicini agli angeli.
Quale celestiale, è lecito chiedersi, vorrebbe mai scendere nelle profondità dell’Abisso? Combattere demoni è una nobile occupazione, ma perché farlo proprio nel loro territorio?
In realtà non si trattava di una scelta.
Questa è una triste storia di inganno e prigionia, che risale ai tempi remotissimi in cui gli eladrin combattevano contro gli obyrith, un'antica razza di demoni che aveva preceduto perfino i più comuni tanar'ri.
All’epoca la malvagia Pallida Notte[1], la Madre dei Demoni, era riuscita con un inganno a soggiogare e imprigionare un’intera generazione di eladrin, rinchiudendoli nel suo personale strato dell’Abisso: il 471°, noto anche come Androlynne.
La storia di come riuscì a mettere le mani su quelle creature innocenti ha del paradossale: era stato proprio il loro signore, Ascodel, a segnare la loro condanna. Egli era il consorte della Regina Morwel, signora degli eladrin, regina della Corte delle Stelle… e come ogni buon sovrano aveva a cuore solo il benessere del suo popolo.
Pallida Notte si accorse di questa sua ‘debolezza’ e la sfruttò a suo vantaggio, stringendo con lui un accordo che avrebbe dovuto tenere al sicuro i suoi eladrin… ma nascondeva un inganno dalle conseguenze disastrose, proprio l’opposto di quel che Ascodel voleva. Molti dei suoi sudditi, e cosa ancor più crudele si trattava di bambini, furono imprigionati e deportati ad Androlynne, solo per diventare giocattoli e prede di caccia per il divertimento di Pallida Notte e dei suoi demoni.
Se non fosse che… le cose non andarono proprio così, e anche Pallida Notte ebbe una brutta sorpresa: in qualche modo, i celestiali riuscirono ad aprire dei Portali per arrivare ad Androlynne, dando il via a una guerra millenaria per la salvaguardia degli eladrin imprigionati.
Non c’era speranza per loro di fuggire, i Portali non potevano essere usati per riportarli a casa, o forse era la natura stessa dell’accordo con Ascodel ad impedirlo. Anche quando Ascodel morì sul campo di battaglia, per proteggere i suoi eladrin e riscattare il suo onore, l’accordo rimase in piedi. E così anche la guerra.
Ormai, a distanza di millenni, lo strato abissale di Androlynne si è profondamente trasformato a causa della presenza di tante creature celestiali e delle loro influenze positive. Quella che un tempo era una distesa incolore e desolata sotto il giogo di Pallida Notte è diventata una specie di giungla lussureggiante e aliena, non completamente corrotta e non completamente sacra, inquietante ma vibrante di vita.

Ed era proprio lì che Faerinaal voleva andare. Proprio come Ascodel millenni prima, Faerinaal era il consorte della Regina Morwel e aveva giurato a se stesso di porre rimedio all’errore del suo predecessore. Dentro di sé non provava alcun rispetto per Ascodel e per la stupidità che aveva mostrato, fidandosi delle promesse di un demone. Il fatto che l’antico Consorte Reale fosse morto per riparare ai suoi sbagli, ai suoi occhi non era sufficiente: gli eladrin erano ancora prigionieri. Nulla era stato riparato.
E anche se negli anni, anzi nei secoli, lui stesso aveva inviato molte truppe a difesa dei loro bimbi sperduti… era stato sufficiente? No, nemmeno quello aveva risolto nulla.
Doveva andare di persona.
Doveva tentare… e riuscire o morire. Faerinaal aveva la fama di essere saggio, un accorto stratega, ma c’era un limite a quel che poteva fare restandosene al sicuro nella Corte delle Stelle. Era necessario che partisse, per salvare quelle vite e per ripulire per sempre la reputazione del suo predecessore. Per restaurare la fiducia della Corte delle Stelle nella figura del Consorte Reale, che dai tempi di Ascodel non era mai più stata presa davvero sul serio.
Questo aveva deciso, e non esitò davanti al Portale che si era aperto per lui e per l’ennesimo squadrone di celestiali pronti ad andare in soccorso dei loro simili.
Questa era la volta buona, se lo sentiva. Questa volta sarebbe stato diverso perché lui avrebbe partecipato allo scontro, senza restare nelle retrovie, senza dare ordini a distanza.
Questa volta sarebbe sceso direttamente nell’Abisso.



********************
[1] Sì, la potente demone Pale Night è stata davvero tradotta come Pallida Notte in italiano. L'unico materiale in italiano su cui compare è il Codex Immondo 1 - Orde dell'Abisso, un manuale 3.5 che non si trova in pdf. Sono fiera di possederne una copia cartacea, non è molto comune.
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Capitolo 20
*** 19. Curse ***


19. Curse


1364 DR, Undermountain

“Vuoi un biscotto?” L’elfo scuro porse un piccolo sacchetto di tela alla sua compagna di avventure, offrendole quella che era ormai la sua colazione tipica. Biscotti e acqua.
“Grazie” rispose la ragazza, allungando una mano in risposta.
Lui però non completò il gesto, non colmò la distanza fra loro per passarle il sacchetto.
“Non ho capito se lo vuoi o no, era un sì grazie oppure un no grazie?”
“Accetto la tua gentile offerta. Ripeto, grazie.” Confermò lei, avvicinandosi un pochino a lui e cercando di afferrare l’oggetto. Lui però ritrasse la mano, portando la piccola busta fuori dalla sua portata.
“Scusami, sono proprio un po’ tonto. Cos'è che vuoi?”
“Un dolcetto, per favore.”
“Dolcetto? Non direi che questi biscotti siano proprio dei dolci, mi sembrano ben bilanciati.”
“Vorrei uno dei prodotti da forno che la tua congiunta ti ha regalato, a mio parere immeritatamente.” Lo fulminò con lo sguardo. “È mia convinzione che mi fornirebbe un corretto apporto di nutrienti, per cominciare al meglio la giornata” si sforzò di dire, con un lungo giro di parole.
Daren sorrise ancora, sempre con quella faccia da schiaffi, come se la stesse provocando.
“Perdonami cara, ma ora parli in modo troppo forbito. Non ti seguo. Vuoi un biscotto sì o no?”
“Certo!”
“Certo che sì o certo che no?”
Dee Dee ringhiò, spazientita.
“Dammi un maledetto bifcotto o ti falto alla gola e faccio colazione con il tuo fangue, brutto ftronzo, e poi ti prendo a calci per efferti prefo gioco della mia maledizione!
Il drow le rivolse un sorriso a trentadue denti. Un po’ perché il difetto di pronuncia di lei, dovuto ai canini sproporzionati, secondo lui era divertente… e un po’ perché era contento di averle strappato una reazione di qualche tipo.
“Questa è la mia Dee Dee!” Scherzò, lanciandole in mano il sacchetto. “Perché vergognarti di essere una mezza vampira, quando puoi spaccare la faccia a chi ti vuole discriminare? Mi sembra un inutile spreco di energie.”
“Butto via le mie energie come voglio” mugugnò lei, tornando a sforzarsi di non pronunciare parole con la s. “A differenza tua, non ho rinunciato all’idea di vivere nella civiltà.”
Lui si strinse nelle spalle e decise di mollare il colpo. Quando lei si mostrava così testarda, aveva imparato che c’era poco da fare. Anche quella, secondo lui, era un po’ una maledizione.

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Capitolo 21
*** 20. Illithid ***


20. Illithid


1362 DR, da qualche parte non lontano da Ch'chitl

Lorne guardava quella creatura e riusciva a provare solo disgusto. Come poteva esistere una razza di esseri tanto esteticamente aberranti?
Non erano solo i tentacoli. Non erano solo le teste bulbose dall'aspetto molliccio. Erano soprattutto gli occhi. Gli occhi degli illithid erano rivoltanti, vedere in loro la scintilla dell'intelligenza sembrava una crudele beffa.
Eppure, gli affari erano affari. E Lorne non poteva dire onestamente di odiare gli illithid, anche se provava verso di loro una giusta cautela che sapeva un po' di paura. Decisamente invece odiava il suo stesso popolo, i gloura, i folletti del Buio Profondo.
Dopo la sua miserabile sconfitta per mano della Regina della Corte Unseelie, che aveva rifiutato di diventare sua moglie e l'aveva umiliato davanti a tutta la corte, Lorne aveva preferito allontanarsi da Phlegethon e tornare sul Piano Materiale, dove moltissimi dei suoi simili vivevano. C'era andato solo perché non sapeva dove altro andare, si era anche unito a una tribù che l'aveva accettato con la classica gioia innocente dei gloura, ma il desiderio di integrazione di Lorne era solo una facciata. In realtà non provava alcun senso di appartenenza verso il suo popolo.
Poi alcuni gloura della sua tribù avevano iniziato a scomparire nel nulla. Lorne si era offerto eroicamente di indagare e in quel modo aveva scoperto che erano stati degli illithid a rapirli.
A quel punto, anziché mettere in allarme la sua nuova tribù, aveva scelto una strada molto più corrotta: aveva preso contatto con gli illithid.
Ora ne aveva uno davanti a sé, ma non credeva veramente che fosse venuto al loro incontro da solo. Lorne invece era solo, come era sempre stato. Non provava altro che disprezzo per tutto il resto del mondo.
"Non so che cosa vogliate dai miei simili, ma posso aiutarvi a ottenerlo" affermò con sicurezza. Dentro di sé covava una malsana curiosità, perché c'erano molte cose che chiunque avrebbe potuto volere dai gloura: le ali da falena, che avevano un alto valore di mercato; le loro capacità magiche e di guarigione, che potevano essere messe a buon uso; perfino la loro voce, capace di raggiungere un ampio spettro di sonorità. Un gloura sarebbe stato uno schiavo molto decorativo da tenere in casa, dopo avergli strappato le ali.
Lorne si lasciò sfuggire un ghigno.
L'illithid colse quell'immagine chiara e cristallina nella mente del suo interlocutore, e mosse i tentacoli che aveva intorno alla bocca, come se stesse ridendo.
"Avete una mente perversa, offuscata da odio e avidità" commentò, parlando attraverso i suoi poteri telepatici.
Lorne lo guardò male e si affrettò a mascherare i suoi pensieri per come poteva, un tentativo goffo che fece ridere l'illithid ancora di più.
"Ero dubbioso in principio, ma ora so che faremo buoni affari" riprese il mind flayer, lasciando trasparire la sua soddisfazione attraverso il contatto telepatico. "Un gloura corrotto può esserci molto utile. Dopo che ci avrete consegnato questa tribù di fate, ne troverete altre. Verrete sempre pagato per il disturbo. Ma non pensate di poterci tradire" minacciò, mettendo subito le carte in tavola.
Lorne per la prima volta cominciò a dubitare della sua saggezza nel cercare quell'alleanza, ma poi scartò quel pensiero con una scrollata di spalle.
Aveva dedicato quasi tutta la sua vita ad addestrarsi per superare le prove che lo avrebbero fatto diventare Re Consorte della Corte Unseelie. E infine, nonostante avesse superato quelle prove, la Regina Mab lo aveva scartato. In quel momento la sua intera vita gli era sembrata così inutile, tanto che unirsi ad una tribù di allegri e fastidiosissimi gloura per lui rappresentava la giusta punizione per i suoi fallimenti.
Ma come aveva vissuto i suoi ultimi anni? Nell'indolenza, nella noia, senza mai un vero stimolo.
Ora si stava imbarcando in una pericolosissima alleanza che avrebbe portato questa tribù e forse anche altre alla rovina.
"Va bene. Accetto le condizioni" declamò con sicurezza.
Alla fine, non è che avesse di meglio da fare.



********************
Nota orientativa: Lorne è il protagonista di Unseelie King, questa storia si svolge fra Unseelie King e Lezioni di sopravvivenza - Primo livello.

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Capitolo 22
*** 21. Swordfight ***


21. Swordfight


1333 DR, vicinanze di Elventree, Cormanthor

Daren non amava le missioni in luoghi troppo lontani da casa, o meglio, lontani dalle zone che di solito erano teatro dei suoi vagabondaggi. Non che l’elfo scuro avesse una vera e propria casa.
Il suo amico Johel, invece, una casa ce l’aveva. E al contrario di Daren amava viaggiare in posti nuovi e mai visti prima.
Semplicemente insopportabile.
“Sai dove dovrebbero essere le tizie che stiamo cercando?” Gli chiese l’elfo dei boschi, guardandosi intorno.
Il panorama era piacevole, per il ranger: una foresta. Questo era anche il motivo per cui Daren aveva accettato la sua compagnia per quella missione, il drow non era esperto di foreste e avrebbe rischiato di girare in tondo per giorni.
“Non lo so con esattezza. Da qualche parte vicino a Elventree, che dovrebbe essere… boh, qui nei dintorni. Forse. Dovremmo essere più o meno nella giusta zona della foresta.”
“Possibile che non ci sia una strada che ci arriva?”
“Sì, da Hillsfar” confermò Daren “o così dicono le mappe. Ma noi venivamo da Westgate, e quindi avevamo due scelte: arrivare in nave fino a Hillsfar, ma qualcuno ha posto un veto… oppure fermarci a Harrowdale e prendere il Sentiero Halfaxe, ma ha la nomea di essere poco manutenuto e in certi tratti quasi scomparso, quindi il nostro cammino sarebbe stato molto lento.”[1]
“Il tuo cammino” puntualizzò Johel. “Io sono un ranger delle foreste, sono abituato a camminare nel sottobosco.”
“Bla bla bla” gli fece eco il guerriero “la nostra marcia è lenta quanto il più lento di noi.”
“Cioè tu” insistette l’elfo chiaro.
“Ti stai vendicando per il viaggio in nave?”
L’elfo ramato assunse un colorito verdognolo, alla sola menzione del viaggio in nave attraverso il Mare delle Stelle Cadute, poi nel Golfo del Drago, poi la risalita del limaccioso Fiume Lis su una chiatta mercantile. Era previsto un altro tratto in nave lungo le coste del Mare della Luna fino a Hillsfar, ma Johel stava ormai così male che avevano dovuto chiedere al capitano di fare una sosta supplementare al villaggio di Elmwood.
"E abbiamo dovuto risalire il maledettissimo Duathamper perché è impossibile da guadare nella stagione delle piogge, non so nemmeno quante miglia abbiamo fatto prima di trovare un ponte, quindi ora… boh, credo che proseguendo a ovest prima o poi dovremmo arrivare dalle parti di Elventree. Contavo su di te per orientarci nel bosco, ma se ti sembra troppo difficile possiamo puntare a nord e ritrovare la costa. Elventree non è troppo lontana dal mare, mi hanno detto.”
[2] “Troppo difficile?” Johel storse il naso. “Troverò quella città e la troverò a occhi chiusi” promise, punto nell’orgoglio.

Stabilirono presto una routine: Johel, che era più veloce, andava in avanscoperta in cerca di sentieri elfici, difficili da individuare per qualunque altra razza, o magari perfino tracce di passi. In quest’ultima possibilità non riponeva molte speranze: la pioggia ammorbidiva il terreno, costringendo perfino i leggeri elfi a lasciare qualche impronta di stivale, ma a distanza di poche ore l’acqua aveva già lavato via ogni traccia.
Daren restava più indietro e procedeva al suo passo, sempre puntando verso ovest, spesso bestemmiando Talos quando la pioggia diventava temporale.

L’elfo dei boschi continuò le sue esplorazioni per ore, fidandosi del fatto che il suo amico avrebbe saputo cavarsela da solo. Dopotutto, non aveva avuto bisogno delle sue frecce quando erano stati attaccati da strani animali volanti che sembravano un incrocio fra un pipistrello e una gigantesca zanzara. Li aveva fatti a fette con la sua spada bastarda non appena si erano avvicinati abbastanza, dando vita a una scena che sembrava un macabrissimo gioco della pentolaccia.
Vivono strane creature in questa foresta, valutò, sbirciando i dintorni da sopra un ramo di un albero. La fauna era tipica dei boschi caduci; la pioggia limitava il volo degli uccelli, ma Johel aveva individuato tane di gufi sugli alberi e di porcospino fra i tronchi caduti. Aveva visto passare qualche cervo, cautamente a distanza, e su una roccia uno strato di muschio era stato grattato via da quella che sembrava la zampata di un lupo molto grosso. A parte questi normalissimi abitanti delle selve, però, aveva anche trovato tracce della presenza di un drago verde (grande abbastanza da aver perso una scaglia grande quanto il suo palmo) e aveva sentito voci, per ora non confermate da esperienza diretta, sulla presenza di aurumvorax da qualche parte nel Cormanthor.
La cosa più particolare però era la vegetazione. Accanto ad alberi di olmo e abete bianco crescevano piante che l’elfo dei boschi non aveva mai visto: funghi viola muniti di tentacoli velenosi, che usavano per uccidere piccole prede; licheni cremisi che crescevano sui tronchi marcescenti e, se sfiorati, emanavano odore di limone; grossi ammassi sferici di colore blu che secondo Johel potevano essere fiori in bocciolo, se fosse stato normale avere fiori in bocciolo in estate e soprattutto alti quasi tre metri. Ma le piante più strane in assoluto che avesse visto in quella regione erano delle querce in tutto e per tutto normali per forma e dimensione, ma che parevano fatte di vetro. Uno spettacolo magnifico che si era fermato a guardare da lontano, ascoltando rapito il rumore tintinnante delle foglie mosse dal vento. Era rimasto a guardare con sgomento finché non aveva visto un basilisco aggirarsi nel boschetto di querce vitree. Allora aveva deciso di andarsene e tornare alla sua missione.
Questo luogo è veramente pieno di meraviglie. Mi piacerebbe poterci restare più a lungo, magari qualche anno. L’elfo dei boschi ormai sempre più spesso indulgeva in questi pensieri, ammirato da quella natura così diversa dalla sua foresta natìa.

Ad un certo punto, le sue esplorazioni vennero interrotte da un altro suono tintinnante, per certi versi simile al frusciare delle foglie di vetro ma più stridente, più metallico.
Il rumore proveniva da sud-est… Johel chiuse gli occhi e pregò silenziosamente che non fosse Daren.

Era Daren.
Johel dovette camminare più del previsto per raggiungere la fonte del rumore, che aveva viaggiato lontano echeggiando fra gli alberi nell’aria umida. La pioggia aveva lasciato il posto a una fastidiosa foschia, che non limitava la visuale nella breve distanza ma impediva all’elfo di fare pieno uso della sua vista acuta.
Quando infine riuscì a trovare il suo amico, i rumori metallici erano cessati, e anche le grida.
Johel sentì un brivido quando lo vide circondato di persone svenute e malamente acciaccate. Solo uno di loro era ancora cosciente, un mezzelfo, mentre un elfo e tre umani erano riversi a terra. Non sembravano feriti, ma Johel sapeva che i lividi sarebbero apparsi presto.
Il mezzelfo era stato disarmato e aveva in mano un blocco di fogli e un carboncino. Il drow gli stava dettando qualcosa.
“Scrivi esattamente questo, mezzumano. Nota: un drow mi tiene una spada puntata contro il viso eppure le mie mani non tremano. Però tremavano mentre dovevo prendere la mira con arco e frecce. Il mio problema non è la gestione dello stress. Devo rinunciare all’idea di fare l’arciere, anche se questo è il modo in cui speravo di dimostrare qualcosa al mio genitore elfo verso cui provo un evidente sentimento di inadeguatezza.” Dettò, in lingua Comune.
“Perché devo scrivere questo? Mi rifiuto! Uccidimi e basta, non giocare con me!” Scattò il mezzelfo, rosso di rabbia. Anche Johel, dalla sua posizione ancora nascosta, notò che il ragazzo sembrava più offeso che spaventato. Interessante.
“Non ti ucciderò, non ho ucciso nemmeno gli altri. Mi avete attaccato e mi sono difeso. Ora mi sto degnando di lasciarvi un commento costruttivo, quindi scrivi.”
Il mezzelfo parve sconcertato per un attimo, ma poi poggiò il carboncino sul foglio e cominciò effettivamente a scrivere. Soddisfatto, Daren ricominciò a dettare.
È necessario che ciascuno di noi valorizzi i suoi veri talenti. Io non sono un arciere, sono un tattico. I comandi che ho gridato avrebbero aiutato molto, se gli altri avessero dato ascolto a me anziché all’elfo del sole. L’elfo è un idiota borioso pieno di sé come tutti quelli della sua razza e dovrebbe fare lui l’arciere se solo il pensiero di stare nelle retrovie non gli fosse intollerabile.
Il giovane stava scrivendo ma si interruppe a metà, mordendosi un labbro per la vergogna. “Non posso scrivere una cosa così offensiva! Quello è il mio capopattuglia.”
“In questo momento è un capopattuglia morto, o lo sarebbe se avessi deciso di ucciderlo” gli ricordò il drow. “Ho scelto te come scribacchino perché ho stimato che fossi quello con più cervello, per cui non deludermi, scrivi e basta. Attualmente non siamo ottimizzati nei nostri ruoli. L’umano con i capelli rossi: sono certo che possa fare quello che vuole nella vita, come il ciabattino o l’intagliatore di legno, ma non il guerriero da prima linea. È stato nientemeno che imbarazzante. Il mingherlino che usa i pugnali è stato abbastanza decente, ha buone potenzialità, ma è il classico caso da 'cresci bene che ne riparliamo'. L’unico guerriero che ha messo in difficoltà il drow è stato quello con l’elmo buffo, principalmente perché il suo elmo buffo era una distrazione, ma la sua tecnica non era male. Nota: una pattuglia di cinque persone è troppo piccola. Si consiglia di raddoppiare il numero.
“Non possiamo raddoppiare il numero, siamo troppo pochi…”
Nota: non rivelerò dettagli sulle nostre forze e sui nostri numeri a potenziali nemici della mia gente.
Il ragazzo arrossì furiosamente e abbassò la mano che reggeva il carboncino.
“Ma tu chi diavolo sei? Che cosa vuoi?”
Il drow sorrise, i suoi denti bianchi spiccarono in contrasto con la pelle nera in un modo che era quasi minaccioso.
“Sebbene io sia d’accordo in generale con la tecnica di attaccare prima e fare domande poi, quando si tratta di drow, sono costretto a puntualizzare che avrebbe funzionato meglio se aveste vinto voi.”
“Non credo, se avessimo vinto tu saresti morto” ribatté prontamente il giovane, alzando il mento con orgoglio.
“Hm. Allora scrivi: nota: uccideremo solo intrusi da cui non vogliamo informazioni.” Aggiunse Daren, diligente.
Il mezzelfo gettò a terra fogli e carboncino, con rabbia.
Il drow sorrise di nuovo e si tirò su il cappuccio del mantello, che era caduto durante lo scontro. Stava ricominciando a piovere.
“Su, su, alzati e recupera i tuoi amici. Voglio sapere solo una cosa: dove posso trovare il tempio di Eilistraee? Mi hanno detto che si trova vicino a un posto chiamato… Elvenwood? Elventree?”
“Elventree” confermò l’altro. “Stai dicendo che sei un seguace della Fanciulla Oscura?”
Daren rinfoderò la spada corta.
“Perché quell’aria sorpresa? Il fatto che siate tutti ancora vivi dopo avermi attaccato non è una prova sufficiente?”
Il mezzelfo restò senza parole per qualche secondo.
“Non assomigli ai tuoi simili. Le sacerdotesse sono più gentili.”
“Oh, sì, vedi, è il dogma: 'siate sempre gentili, meno che in combattimento'.” Recitò l’elfo scuro, come se fosse una lezioncina che aveva imparato a memoria. “Noi stavamo combattendo.”
“Ma… abbiamo finito di combattere e tu hai continuato a non essere per niente gentile.”
Johel, che ancora non era stato visto dai due, si passò una mano sul viso e sospirò. Era un errore che facevano in molti.
“Sto ancora combattendo, contro la vostra inadeguatezza” ribatté subito il guerriero, senza smentirsi. “Non tutte le battaglie si combattono con la spada.”
Seguì un lungo momento di silenzio, in cui il mezzelfo abbassò gli occhi sulle pagine che aveva gettato a terra e che ormai si erano impregnate di umidità. Forse era meglio così. Nessuno avrebbe dovuto leggerle.
“Il santuario che cerchi si trova due giorni di cammino a nord” sibilò alla fine. “Ma non ti avvicinare ad Elventree. Non sei persona gradita.”
L’elfo scuro si portò una mano all’altezza del cuore, sussultando come se fosse stato appena colpito.
“Oh, cielo! Be’, me ne farò una ragione.”
Si allontanò dal ragazzo, dandogli le spalle tranquillamente, e si inoltrò nella foresta verso nord. Poco dopo incontrò Johel fra gli alberi.

“Ah, sei qui” disse in tono leggero, come se non avesse appena combattuto contro i difensori di Elventree. “Che cosa hai visto?”
Il ranger elfo si strinse nelle spalle. “Quanto basta. Due giorni di cammino a nord, pensi di farcela da solo?”
“Ho una bussola” gli ricordò il drow. Non aveva mai neanche tentato di orientarsi basandosi sul muschio, visto che cresceva su ogni lato dei tronchi. Troppa umidità, troppa ombra in quella foresta.
“Allora hai qualcosa in contrario se scorto i tuoi nuovi nemici a Elventree?”
“No, anzi, ti prego di farlo. Non credo che sia saggio lasciarli andare da soli, non mi sembrano in grado” il drow scosse la testa, di fatto riconoscendo la superiore abilità del suo amico Johel.
L’elfo dei boschi rispose solo con un cenno del capo e mosse qualche passo nella direzione da cui veniva il drow.
“Ah, Daren, toglimi una curiosità” gli chiese, prima di allontanarsi. “Tu te lo ricordi, vero, che in ogni momento puoi pronunciare la frase che ti identifica come Amico degli Elfi, e qualsiasi elfo capirà all’istante che non sei un nemico?”
“Oh, sì, me lo ricordo” ammise tranquillamente l’altro, “ma non sarebbe divertente. Preferisco conoscere le persone incrociando le spade.”



********************
Nota: per l'ecologia del Cormanthor mi sono basata su questa fonte

[1] In realtà non è vero che il Sentiero Halfaxe è in cattivo stato di manutenzione, anzi tutt'altro, ma i marinai raccontano questa frottola perché altrimenti chi pagherebbe un passaggio in nave per aggirare mezzo regno, se sapesse di poter tagliare per un sentiero?
[2] Ad oggi c'è un ponte alla foce del fiume Duathamper, ma evidentemente alla loro epoca non c'era oppure era inagibile al momento.

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Capitolo 23
*** 22. Punishment ***


22. Punishment


1325 DR, primavera, in una locanda vicino a Secomber

I due bambini fissarono con orrore la tragica caduta del barattolo, che ruotò su se stesso per quasi un intero giro prima di impattare rovinosamente al suolo. Ogni speranza che potesse non rompersi andò in frantumi insieme al vetro sottile di cui era fatto. Il suo contenuto, una specie di polvere gialla, si sparse sul pavimento di legno come se fosse esplosa una bomba.
“Oh, merda secca” sussurrò Amber, con un filo di voce.
Cercò con lo sguardo suo fratello Tek’ryn, corresponsabile di quel disastro. I suoi occhi azzurri, identici a quelli di Amber, erano colmi di paura viscerale. Non rispose all’esclamazione della sorella, si limitò a guardarla come un cerbiatto davanti alla balestra del cacciatore, aspettando inconsciamente che lei gli desse un ordine. In una situazione di crisi, lei era la femmina, lei avrebbe saputo cosa fare.
“Questa è colpa tua che ti sei venuto a nascondere nel laboratorio di Tinefein” recriminò la piccola drow, mettendosi subito sulla difensiva. “Non so cos’è questo coso che abbiamo rotto, ma nostra sorella sarà arrabbiatissima.
Tek’ryn si sentì mancare il respiro. Krystel lo aveva adottato e l’aveva portato a casa sua, in Superficie, permettendogli di vivere accanto alle sue vere figlie. Non aveva mai osato parlare per primo alle sue nuove sorelle, le femmine non reagivano mai bene quando un maschio prendeva la parola per primo, ma loro erano state gentili con lui. Non lo avevano mai picchiato, né gli avevano gridato contro. Per di più Amber, che era quasi sua coetanea e anche sua sorella da parte di padre, aveva subito cercato la sua amicizia e complicità. In soli pochi mesi erano diventati inseparabili e con lei si era permesso di abbassare la guardia, di giocare, una cosa che nella sua precedente famiglia drow non gli era mai stato permesso di fare. Adesso quei loro giochi li avevano messi nei guai, e tanto.
“Che… che cosa facciamo?” Sussurrò Tek’ryn, terrorizzato.
“Tinefein scoprirà che sei andato a sbattere contro il suo mobiletto” insistette Amber, che era troppo giovane e immatura per capire il trauma che stava risvegliando nel fratello. Lei aveva avuto un’infanzia normale, dove la peggior punizione per una marachella era una sgridata o al massimo gli arresti domiciliari in camera sua. Quindi, com’era normale per una bambina di otto anni e mezzo, stava cercando di scaricare la colpa su qualcun altro. “Io al posto tuo mi nasconderei da qualche parte finché non è tutto dimenticato!”

Tek’ryn aveva un’idea molto drow di che cosa fosse una punizione.
Sua sorella Tinefein non si era mai mostrata violenta, ma era sempre così seria. Non gli aveva mai rivolto un sorriso, a differenza di Krystel e dell’altra sorella, Hilda. Tinefein si aggirava per la casa come un fantasma silenzioso e passava tutto il tempo nell’infermeria, quasi che lo volesse evitare.
Ora lui non solo aveva fatto irruzione nel suo piccolo mondo mentre lei era via, per un motivo futile come giocare a nascondino, ma aveva anche rotto uno dei suoi preziosi barattoli.
Non aveva modo di sapere come avrebbe reagito, ma era chiaro che la sorella maggiore lo sopportava a stento. Se avesse fatto un simile screzio a una delle sue sorelle naturali, quando viveva a Eryndlyn, loro gli avrebbero fatto passare ogni voglia di giocare, a suon di frustate. Possibile che anche Tinefein potesse fare una cosa del genere?
Tek’ryn avrebbe avuto i mezzi per scoprirlo. Poteva fare affidamento sui suoi poteri da veggente se sentiva minacciata la sua sicurezza. Però in quel momento aveva paura di farlo. Aveva una paura viscerale di scoprire che la sua nuova famiglia sotto sotto non fosse diversa da quella vecchia, che la maledizione di essere drow l’avesse seguito anche in Superficie, e che per tutti quei mesi si fosse fidato delle persone sbagliate.
Era stato così dannatamente difficile cominciare ad aprire il suo cuore a quelle persone, se adesso sua sorella gli avesse fatto del male… il dolore fisico sarebbe stato il minore dei problemi.
Dopo aver finalmente abbassato la guardia, dopo essersi convinto che aveva il permesso di essere solo un bambino, dopo aver decostruito almeno in parte la sua armatura, sarebbe stato troppo crudele dover soffrire di nuovo.
Tek’ryn non poteva accettare di aver commesso un simile sbaglio di valutazione, non aveva il coraggio di sbirciare cosa gli riservasse il futuro.
Fece quello che qualunque bambino di dieci anni avrebbe fatto: scappò fuori dall’infermeria e corse a perdifiato attraverso il cortile, andando a cercare un posto dove nascondersi.

Nessun adulto si accorse della sua assenza, fino a quella sera. Il sole stava ormai calando e Krystel suonò la campana della cucina per richiamare la famiglia a cena. Si era impegnata molto, perché non era facile cucinare qualcosa di buono con le provviste rimaste all’inizio della primavera. Era troppo presto per avere già un nuovo raccolto e ci si doveva arrangiare con i rimasugli di magazzino dell’autunno precedente, sempre che fosse sopravvissuto qualcosa all’inverno. Quell’anno era stato particolarmente magro e il pranzo dell'equinozio di primavera aveva esaurito le scorte di granaglie, zucchero e marmellate. Negli ultimi tempi Krystel aveva dovuto usare la magia sempre più spesso, per creare cibo dal nulla, ma quella pappetta insapore non poteva essere definita davvero cibo e andava integrata con altri alimenti e spezie per darle una consistenza e un sapore. Era sempre più difficile inventarsi qualcosa ma la strega non avrebbe mai permesso che la sua famiglia soffrisse la fame.
Così, quando suonò la campana, le sue tre figlie arrivarono a raccolta fiduciose e affamate. Tek’ryn spiccava per la sua assenza.
Krystel sollevò un sopracciglio, perplessa.
“Amber? Dov’è tuo fratello?”
La bambina si mise le mani dietro la schiena e ondeggiò leggermente sui talloni, cercando di assumere un’aria innocente.
“Non lo so, mamma” recitò, e non era del tutto una bugia. Tecnicamente non sapeva dove fosse andato quando era corso via. Aveva provato a seguirlo, ma a quell’età un anno di differenza si faceva sentire, lui aveva le gambe più lunghe ed era scappato come se avesse un mastino infernale alle calcagna. “Prima giocavamo a nascondino. Ma si è nascosto così bene che non l’ho più trovato.”
Krystel sentì un brivido lungo la schiena. Qualcosa non quadrava. Tek’ryn non si sarebbe nascosto così a lungo, non avrebbe saltato la cena. Le sue fini orecchie elfiche sicuramente avevano sentito il richiamo della campana.
“Le sere di primavera sono ancora fredde. Vado a cercarlo” decise la strega di punto in bianco.
Le sue figlie si scambiarono uno sguardo e decisero di aiutarla, sparpagliandosi per cercarlo meglio.

Un’ora di ricerca non produsse alcun risultato. A questo punto perfino Amber cominciava ad essere preoccupata, soprattutto in reazione agli atteggiamenti di sua madre e delle sue sorelle.
Krystel era sempre più in ansia, tanto che alla fine si risolse a usare un piccolo rituale per trovare il bambino scomparso. Solo che per farlo le serviva una componente che non aveva. Sarebbe stato più facile se Tek’ryn fosse stato il suo figlio naturale.
Si armò di pazienza e mise entrambe le mani sulle spalle di Amber.
“Piccola, voglio fare una magia per trovare tuo fratello. Ma per farlo, devo individuarlo attraverso il suo sangue.”
Amber la guardò senza capire. Si fidava di sua madre, ma non aveva alcuna esperienza di rituali. Non le era mai stato permesso di assistere mentre sua madre compieva magie complesse.
“Se io e lui fossimo davvero imparentati, potrei usare il mio sangue per trovare il suo. Ma non posso. L’unica che condivide il suo sangue qui sei tu, perché siete figli dello stesso padre. Mi permetterai di pungerti un dito? Me ne basta soltanto una goccia, tesoro mio, prometto che non farà male.”
Una bambina normale avrebbe avuto paura degli aghi, ma Amber conviveva con graffi, tagli e punture fin da quando aveva imparato a camminare. Da piccola si buttava nei cespugli di more del tutto incurante delle spine, correva a piedi nudi anche sui sassi e non le importava di dover sopportare un po’ di dolore per arrivare dove voleva. Per lei era un inconveniente temporaneo, perché sua madre era sempre pronta a guarirla. Per questo si fissò per un momento le dita nere come se volesse sceglierne una, poi porse una mano a Krystel senza la minima esitazione.
Krystel frugò nella sua scarsella, cercando un astuccio che portava sempre con sé: conteneva un piccolo kit per il cucito. Nel frattempo si fece portare dalle sue figlie una ciotolina con dentro dell’olio.
“Pronta, piccola?” Chiese, prendendo la manina di Amber nella sua.
Amber annuì, con espressione coraggiosa. Krystel le punse un dito.
La bimba aveva un modo tutto suo di dimostrare dolore, era così fin da quando era piccolissima. Il suo volto rimaneva impassibile, non le sfuggiva nemmeno un gridolino, era come se incamerasse il suo desiderio di gridare solo per poi esprimerlo, con tutta la dignità di una principessa, attraverso un’imprecazione sboccata. Tanto più forte il dolore, tanto più grave l’imprecazione.
Krystel fu lieta di constatare che era riuscita a non farle troppo male, perché Amber sbottò “porca paletta!”, che era un po’ come indicare che su una scala da uno a dieci, quel dolore non arrivava nemmeno a uno. Quella volta in cui si era rotta una caviglia inciampando nella tana di un coniglio erano quasi scesi i santi dal cielo per invitarla a moderarsi.
La strega spinse l’ago appena sotto la barriera della pelle, poi lo estrasse e schiacciò con delicatezza il polpastrello, lasciando cadere una goccia di sangue nella ciotola. Il sangue rimase ben separato dall’olio, senza amalgamarsi. Fece ondeggiare leggermente la ciotola, mentre Amber si metteva il dito in bocca per fermare la piccola emorragia.
Bastò una breve formula magica e la goccia di sangue si spostò di un terzo di giro lungo la circonferenza della ciotola, indicando la direzione in cui si trovava la persona il cui nome Krystel aveva appena sussurrato: Tek’ryn.
È una fortuna conoscere il suo vero nome, altrimenti sarebbe molto più difficile, pensò Krystel. Senza un nome specifico, quell’incantesimo avrebbe semplicemente indicato Amber, o in sua assenza il suo parente più prossimo nel raggio di alcune miglia. Un vero problema se a tenere in mano la ciotola era sua madre.

Alla fine riuscirono a trovarlo. Si era allontanato più del previsto, andando a nascondersi in un vecchio capanno abbandonato e fatiscente.
“Tek’ryn!” Appena l’ebbe individuato, Krystel poggiò a terra la ciotola e si sporse per prenderlo fra le braccia. Il ragazzino all’inizio cercò di tirarsi indietro, ma non appena la madre adottiva riuscì ad acchiapparlo, si arrese e si lasciò tirare fuori. Venne subito stritolato in un abbraccio che sapeva di sollievo e di paura.
Tek’ryn ricambiò debolmente l’abbraccio, ma il suo sguardo terrorizzato rimaneva fisso su Tinefein. Lei però non sembrava seria e greve come al solito; sembrava preoccupata, come Krystel, come Hilda.
§Stai bene, piccolo?§ Gli chiese lei, muovendo le mani nel codice gestuale drow.
Il ragazzino si divincolò dall’abbraccio e si avvicinò a Tinefein, a testa bassa.
“Mi dispiace” mormorò “ho rotto il tuo barattolo. Sono scappato perché avevo paura della punizione.”
Tinefein rispose solo con il silenzio, come sempre. Poi fece una cosa inaspettata: si accovacciò per essere alla sua stessa altezza e gli afferrò il mento in una mano, delicatamente, per costringerlo ad alzare la testa.
§Devi guardarmi in faccia mentre parli, piccolo, perché devo leggere le tue labbra. Non posso sentirti.§
Il giovanissimo drow rimase spiazzato a questa rivelazione, e all’improvviso tutti i pezzi del puzzle andarono al loro posto. Tinefein non parlava mai, non si girava se chiamata da lontano, non perché fosse superba e altezzosa ma perché il suo mondo era immerso nel silenzio.
“Oh, no” mormorò, impallidendo. “Tu non ci senti, sorella? Per questo mi parli solo a gesti? Non è perché io non ti piaccio? Eppure tu… non ho mai percepito un benvenuto da parte tua, e pensavo che mi odiassi.”
Tinefein rimase un momento confusa, ma poi scosse la testa. C’era ancora un’ombra di tristezza nei suoi occhi.
§Parlo a gesti con tutti, perché non posso parlare a voce. Ma hai ragione. Io non ti ho mai dato il benvenuto. E non posso farlo ancora, non sono pronta.§
Nonostante le sue parole criptiche, i suoi gesti non avevano la scattosità di chi è nervoso o arrabbiato. Tinefein prese il viso di Tek’ryn fra le mani e lo guardò negli occhi, stabilendo un qualche tipo di contatto con lui.
E lui, che per natura aveva poteri psionici che manifestava attraverso la vista, per la prima volta in vita sua vide un pezzettino di passato.
Vide Krystel pesantemente incinta, seduta accanto al camino con gli occhi colmi di lacrime. Vide di nuovo Krystel ma questa volta con un fagottino in braccio, le spalle che tremavano sotto il peso di emozioni contrastanti. Vide Tinefein da piccola, più piccola di lui, che inseguiva Krystel dappertutto e si appendeva alla sua gonna chiedendole attenzioni con il suo atteggiamento, perché non poteva parlare, non l’aveva mai fatto.
E poi, per la prima volta, percepì i sentimenti di Tinefein direttamente come se fossero i suoi, senza passare per la vista.
Capì, in quel momento, che sua sorella sapeva di non essere stata voluta. Aveva vissuto per tutta la vita con quella tremenda consapevolezza. E poi era arrivato lui, che era stato voluto così tanto da essere stato adottato, anche se era il figlio di un’altra donna.
Tinefein era rimasta così scioccata dal suo arrivo che a distanza di mesi ancora non sapeva come gestire i suoi sentimenti. Lo invidiava, come non aveva mai invidiato i suoi fratelli naturali, e non riusciva ad amarlo. Una parte di lei si sentiva una persona orribile per questo, sentiva di essere immatura e senza cuore, e quindi l’unica cosa che riusciva a fare era mantenere le distanze.
Poi la giovane donna interruppe il contatto, staccando le mani dal piccolo volto del fratello.

§Mi dispiace§, segnalò, con il codice gestuale. Tek’ryn era talmente sconcertato che ormai aveva dimenticato anche la paura di essere punito. §Mi dispiace, non dovrei caricare un bambino di simili problemi.§
“No… non preoccuparti” sussurrò, senza sapere bene cosa dire. “Non voglio starti fra i piedi se non mi vuoi. Non entrerò più nella tua infermeria.”
§Puoi entrarci se sei malato o ferito, sciocchino§, lei trovò la forza di sorridergli. §Ma non combinare più guai. Lo so che hai fatto cadere il mio barattolo.§
“Sc… scusa. Se mi devi punire… va bene…” accettò, coraggiosamente.
§No, non ti voglio punire, non proprio. Ma hai distrutto la mia riserva di camomilla in polvere. Quando crescerà di nuovo, andrai a raccoglierla tu. Insieme ad Amber, perché ci scommetto che è anche colpa sua. Così vedrete quanto lavoro comporta, e imparerete a rispettare le cose degli altri.§
Tek’ryn riuscì a capire tutto di quel discorso, tranne camomilla che era una parola che nel codice gestuale drow ovviamente non esisteva, e Tinefein aveva dovuto inventarla. Ma immaginò che, al momento giusto, gli sarebbe stato spiegato cosa fare.
E quella punizione era giusta ma molto più leggera di quanto avesse temuto, soprattutto considerando che quella sorella non lo amava particolarmente.
Forse, dopotutto, non aveva sbagliato a fidarsi di questa nuova famiglia.
E forse dover lavorare agli ordini di Tinefein avrebbe costretto entrambi a far evolvere il loro rapporto.



********************
Nota orientativa: questa storia si svolge alcuni mesi dopo Trauma e pochi giorni dopo Fey Day. In questa storia Tek'ryn ha dieci anni e Tinefein ne ha circa ventotto, è un'adolescente emotiva per gli standard elfici, per questo non controlla le sue emozioni come vorrebbe. Tek'ryn e Tine hanno entrambi dei traumi irrisolti, sebbene per motivi diversi.

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Capitolo 24
*** 23. Portal ***


23. Portal


Molto, molto tempo fa, da qualche parte nel Feywild

"Padre, che cos'è?" Domandò il giovane ranger, indicando due menhir quasi paralleli fra cui aleggiava una strana foschia.
L'elfo del sole si avvicinò con cautela, spiando l'insolito fenomeno.
"Non posso esserne sicuro, ma si direbbe un Portale morente."
Il figlio sussultò, perché naturalmente sapeva che cos'era un Portale, ma non pensava che potessero morire.
"Ah! Forse ho capito: era un portale temporaneo? Qualche incantatore potente è passato di qui e…?"
"No" il padre scosse la testa, pensieroso. "Questo portale esisteva da molto tempo. Io non l'ho mai usato ma ne avevo sentito parlare. Dunque le voci sono vere."
Il giovane deglutì a vuoto, perché ora ricordava anche lui le voci.
"Il nostro mondo si sta allontanando dal Piano Materiale" sussurrò. "È proprio vero, quindi?"
"Le prime avvisaglie si erano già mostrate in seguito all'Ever'Sakkatien, il terribile rituale di alta magia elfica che ha devastato il mondo di Toril" raccontò in tono greve. "Credo che quell'esplosione di magia sia responsabile anche di questa separazione fra i due Piani."
"Oh" sussultò il ragazzo. "Ma non è quello il motivo per cui sei venuto a Faerie, padre? Perché disapprovavi quel rituale?"
Gli occhi seri dell'elfo dorato furono attraversati da un lampo di dolore.
"Sì, infatti. Gran parte del mio popolo approvava quella decisione. Creare un'isola che fosse un rifugio per i Tel'Quessir, anche a costo di devastare il mondo con ondate di energia magica. Ma con che diritto? Quanti Tel'Quessir sono morti perché una piccola élite potesse ottenere quel privilegio? E quante altre creature innocenti? Tu riesci ad averne idea, Raerlan?"
"No" ammise, spostando lo sguardo sulla nebbia che aleggiava fra i due menhir. "No, ma posso immaginare quale disastro sarebbe se una cosa del genere avvenisse qui. Quante creature fatate perderebbero la vita! Mia madre non ne sarebbe per niente contenta."
"Né lei, né la regina Titania" confermò l'elfo, facendo riferimento alla potente regina della Corte Seelie. "Saresti in grado di trovare tua madre, Raerlan? È necessario che tu le comunichi un messaggio. Devi dirle che il Piano Materiale si sta allontanando. Se lei ha degli interessi laggiù, a breve dovrà compiere una scelta."
"Ha degli interessi anche qui" ragionò il giovane. "È pur sempre una Arcifey, una nobile della Corte Seelie. Dici che potrebbe volersene andare?"
"Non siamo più vicini come lo eravamo un tempo, quindi non lo so" ammise l'elfo, e per un momento il suo tono tradí una nota di nostalgia, di dolcezza. "Però lei a te darà sempre retta, anche se è incostante e volubile. L'amore per un figlio è sempre più duraturo."
Raerlan restò in silenzio a riflettere, per un lungo momento.
"Andrò da lei" decise infine. "Magari con un nuovo poema dedicato alla sua grazia. Non è stata felice quando ho abbandonato i miei studi bardici per seguirti e diventare un ranger."
"Io sono stato felice" ribatté il vecchio elfo, strizzando un occhio al figlio con un sorrisetto complice. "Sei un bravo ragazzo, Raerlan. So che a volte non sono stato gentile con te, ma in realtà sono molto fiero che tu abbia seguito le mie orme. Ho sempre avuto un po' paura che la tua natura di alicorn ti rendesse scostante e selvaggio, ma non è successo."
Raerlan, che non era per niente abituato a ricevere tante parole gentili da suo padre, cominciò a sudare freddo.
"Aspetta, perché all'improvviso mi parli in questo modo? Oh cielo, stai morendo?"
Suo padre indurí lo sguardo, atteggiando il viso in un'espressione che l'alicorn trovò subito più familiare.
"No, menagramo, non sto morendo. Ma sono preoccupato che anche tu possa decidere di andartene. Mi hai chiesto così spesso di raccontarti del Piano Materiale, e adesso ho paura che tu decida di imboccare uno dei pochi portali rimasti e trasferirti in quel luogo di miseria."
Raerlan arrossì, perché in effetti più di una volta aveva pensato che gli sarebbe piaciuto esplorare il luogo da cui veniva suo padre. Anche se il suo genitore non aveva nessuna intenzione di tornarci.
"Non posso prometterti che non lo farò" ammise controvoglia. "Però anche se dovessi andare, io sono sicuro che riuscirei a trovare il modo di tornare. Non importa cosa dovrò inventarmi."

E l'alicorn in quel momento non lo sapeva, ma per tornare avrebbe dovuto davvero ingegnarsi parecchio.



********************
Nota orientativa: questa storia si svolge molti millenni fa, in un momento imprecisato dopo l'Ever'Sakkatien (il modo in cui gli elfi chiamano il First Sundering) ma prima delle Guerre della Corona, quindi in un momento compreso fra il -17.600 e il -12.000 DR circa. Uno dei protagonisti è Raerlan, personaggio secondario in L'amicizia non genera debiti. In questa breve storia viene rivelato qualcosa di più sul suo conto: che è figlio di una Arcifey, che suo padre è un elfo del sole (per la verità questa informazione era già nota), quindi siccome lui è un mezzo unicorno, il suo genitore unicorno può essere solo la madre. L'unica Arcifey che ha forma di unicorno (anche se può prendere pure forma umanoide) è Lurue, semidea degli unicorni e delle bestie senzienti buone.
In questa storia viene anche citato il fatto che il piano di Feywild (dai suoi abitanti talvolta chiamato Faerie) un tempo fosse attiguo al Piano Materiale, ma se ne sia separato "molto tempo fa", solo per poi tornare a causa della Spellplague nel 1385 DR. Siccome io considero molto logico che la Corte Seelie e la Corte Unseelie si trovassero inizialmente a Faerie, ho voluto inserire in questa storia il motivo per cui poi nella seconda edizione di AD&D siano locate rispettivamente a Ysgard/Arborea/Beastlands (Corte Seelie, anche se Lurue nello specifico ha eletto il Piano Materiale a sua dimora) e nel Pandemonium (Corte Unseelie, cfr. la mia storia Unseelie King).

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Capitolo 25
*** 24. Fairy fire ***


24. Fairy fire


1342 DR, Elventree, Cormanthor settentrionale

“Sei sicuro di potercela fare, Deef? L’ultima volta non è andata molto bene.”
Il drow corrugò la fronte, cercando di spingere da parte le obiezioni della sua amica.
“Ho qualche speranza di farcela se stai zitta e non mi deconcentri. Abbi un po’ di fiducia in me, Iole.”
Inriohlay, per gli amici Iole, fece un cauto passo indietro mentre il giovane si preparava a fare il suo trucchetto magico.
“Illuminerò quel fantoccio di paglia con un incantesimo di Luminescenza. Creerà un effetto di fiamme blu, ma non lo brucerà davvero. Non è un potere che danneggia, ma può essere molto utile in supporto agli arcieri, perché impedisce ai nemici di nascondersi o di rendersi invisibili. Non dovrò recitare alcuna formula però, questa è una capacità che alla mia razza viene spontanea. Non si tratta di un vero e proprio incantesimo, quindi questa volta non farò esplodere niente” promise, molto sicuro di sé.

Il fantoccio, che di solito veniva usato come bersaglio per le lezioni di tiro con l’arco dei bambini, era abituato ad essere maltrattato. Spesso veniva sforacchiato, strappato, sfilacciato. Ma quando Randeef, per gli amici Deef, cercò di circondarlo di innocue fiamme fatate, il povero omino di paglia saltò in aria come un petardo.
Questo era un po’ troppo, anche per un oggetto da addestramento. Mentre una fiammata di fuoco fin troppo reale distruggeva il suo sorriso di iuta e carboncino, il povero fantoccio non potè fare altro che contemplare la propria fine, dopo una vita di sevizie. O lo avrebbe fatto, se fosse stato senziente.

“Ah” commentò Randeef, abbassando lentamente le mani. Scintille colorate gli sfrecciarono lungo le braccia, disegnando un reticolo sulla sua pelle. Pizzicavano, come sempre. “Bene, sembra proprio che io fossi in errore.”
“Hai distrutto il nemico molto più efficientemente degli arcieri!” Si complimentò la giovane elfa dei boschi, cercando di vedere il lato positivo.
“Sì, ma non è l’unico scopo della luminescenza. È un potere molto apprezzato dalle sacerdotesse di Eilistraee, per le sue potenzialità decorative. Avrei voluto contribuire a illuminare il nostro piccolo tempio.”
“Capisco. Ma mi permetto di suggerirti di non farlo.”
“Non mi sei utile, Iole.”
“Deef, sono tua amica. Il mio compito non è esserti utile. È prenderti in giro.” Affermò, con aria di fargli un favore.
“Lo sai, forse la guerra fra le nostre razze è cominciata proprio così. Con una fastidiosa elfa chiara che prendeva in giro un elfo scuro.”
“Nah, io non credo” ribatté lei.
“Non lo puoi sapere.”
“Mi sembra una cazzabubbola che ti sei appena inventato.”
“No, davvero, io scommetto che è andata così. E poi l’elfo scuro si è rotto le scatole e l’ha fatta esplodere.”
“Guarda che lo dico alle tue sacerdotesse, che mi tratti male e mi minacci di morte” lo minacciò lei, per scherzo.
“E io dico al tuo ranger istruttore che non mi lasci concentrare mentre cerco di non far esplodere le cose.”

A una certa distanza, due persone osservavano il loro battibecco. Una delle due era un’elfa scura, giovane ma dall’aria sempre molto seria; l’altra era un mezzelfo dal portamento autoritario che indossava un’armatura dorata.
“Non vi conviene contare su di lui per le decorazioni del tempio” suggerì il mezzelfo, dopo un lungo momento di silenzio.
“Per carità. Fosse per me non lo farei neanche avvicinare” lei si dichiarò subito d’accordo. “Sei proprio sicuro di volere che rimanga, Dessaer? Temo che possa dare più problemi che altro.”
“Non possiamo cacciarlo via, dove mai potrebbe andare? E poi, hai visto i suoi poteri; non li controlla, ma non vorrei trovarlo schierato con i miei nemici.”
“Non tradirà, ci è troppo grato per averlo salvato” spiegò la drow.
Rimasero a guardare la scena ancora per qualche minuto, sorridendo all’unisono quando al terzo tentativo il ragazzo riuscì davvero a produrre del fuoco illusorio. La sua percentuale di fallimenti esplosivi stava lentamente iniziando a diminuire.



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Nota: l'incantesimo che Randeef cerca di usare, Luminescenza, in inglese si chiama Faerie Fire.

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Capitolo 26
*** 25. New moon ***


25. New moon

Autunno 1375 DR, Wealdath orientale

Quello che più di due anni prima aveva lasciato Silverymoon in fretta e furia era un gruppetto piccolo e malassortito: un elfo della luna, un githyanki, due drow (uno dei quali, in una vita precedente che ricordava benissimo, era stato un githzerai) e una coppia di giovani umani freschi di matrimonio combinato.
Nessuno avrebbe scommesso una moneta di rame sulla coesione di quel circo di freak. Invece, a distanza di due anni, si erano spostati di centinaia di miglia a sud e avevano incluso nel loro gruppo un ragazzino atomie e un'elfa lythari, che per qualche strano gioco del destino era una lontana cugina di uno dei due umani (be', di entrambi, visto che erano sposati).
Nonostante i lythari di solito fossero creature schive e guardinghe verso i non-elfi, Adarivael aveva dovuto collaborare con questo gruppo per indagare quando un'intera area della foresta aveva iniziato a seccarsi e morire apparentemente senza ragione; da allora, un po' per curiosità e un po' per gratitudine, era rimasta con loro.
Questo non significava che fossero perfettamente in sintonia, però.

"È la luna nuova" mentí Adarivael, con quel colorito pallido e smorto perfino per gli standard lythari. "Sto sempre male con la luna nuova."
Amber le credette. A volte era davvero troppo naive per essere una drow, ma non aveva motivo di dubitare. Aveva senso, per lei, che una licantropa si sentisse debole e abbacchiata con la luna nuova.
Daphne invece era una donna di mondo.
"Sai cosa faccio io, quando c'è la luna nuova?" Sussurrò all'elfa, non appena trovò l'occasione di parlarle da sola. "Riempio il mio otre di acqua calda e lo tengo premuto sul ventre. È confortante."
Adarivael le rivolse un fragile sorriso.
"Sembra un'idea eccellente. Non sai quanto vorrei potermi trasformare in lupa, in quel caso non avrei problemi. Purtroppo è sempre più difficile quando c'è… la luna nuova, intendo, quella vera."
"Bella sfortuna che la luna nuova per te coincida con… la luna nuova. Non avevo idea che anche le elfe fossero soggette a questo tipo di ciclicità."
"Oh, sì. Anche le lupe, in realtà" Adarivael si sedette per terra, la schiena poggiata contro un albero, mentre gli altri preparavano il campo per la notte. Nessuno venne a disturbarla per chiederle di rendersi utile. "Non c'è scampo, la natura dà e la natura toglie."
"Immagino che tu non possa, diciamo… mangiare cioccolato?" Propose Daphne.
Adarivael, che non era una nobile cresciuta in una città dal fiorente commercio, ma una licantropa che apparteneva alle profondità della foresta, rispose nell'unico modo possibile: "Che cos'è questo cioccolato?"
L'espressione sconcertata di Daphne fu così esagerata e genuina che la lythari scoppiò a ridere, nonostante il disagio fisico.
Gli umani non erano poi così orribili, dopotutto.

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Capitolo 27
*** 26. Ritual ***


Questa storia è il sequel di 13. Drider

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26. Ritual


1256 DR, Buio Profondo vicino a Eryndlyn

Krystel aveva spulciato tutti i suoi libri, ma non aveva trovato niente di così specifico come un rituale per riportare alla sua vera forma qualcuno che era stato trasformato in un drider. Naturalmente, come avrebbero potuto le streghe di Superficie inventarsi un modo per ribaltare una condizione innaturale che esisteva solo nel Buio Profondo, e solo presso un popolo in particolare?
Allora aveva cominciato a fare ricerche su come mettere insieme un rituale che avesse tutti gli elementi giusti; si stava concentrando in particolare sulla guarigione e sull’invertire una condizione innaturale.
“Posso legare il concetto di guarigione a quello di memoria, per ancorare la mente e l’anima a quello che erano prima e guidare il processo di inversione… uhm… quarzo trasparente, aiuta sia la guarigione che la memoria, serve anche a bilanciare. Ma da solo? Della pietra di sangue mi sarebbe utile, ma non ne ho più. Quarzo affumicato, sì, perfetto. E ambra per la memoria.”
Suo figlio, che le faceva compagnia spulciando i preziosi grimori, non si perdeva una parola perché anche lui era estremamente interessato alla magia naturale.
“Come mai l’ambra per la memoria?”
“È considerata una pietra, ma in realtà non è altro che resina degli alberi che è stata seccata e solidificata dal passare del tempo. Può essere usata in incantesimi legati alla memoria perché un tempo era una sostanza organica ed è rimasta intatta nei secoli. Funziona ancora meglio se dentro l’ambra c’è intrappolato un insetto o un ragno. È un collegamento diretto con il passato, ce lo racconta.”
“Quindi è così che funziona la magia? Sulla base di… collegamenti logici?”
“In parte” mormorò Krystel, sfogliando velocemente alcune pagine. “Alcune altre sostanze sembrano avere poteri la cui origine è tutto fuorché intuitiva.”
“E cosa facciamo se incontriamo quel drider? Gli vuoi lanciare queste pietre in testa?”
Krystel si poggiò il grimorio sulle gambe incrociate e spostò lo sguardo sul ragazzo, sconcertata. Poi scoppiò a ridere.
“No! Saranno un focus, come per gli incantesimi. Le userò per dare potere al mio rituale e per dargli una particolare inflessione; oltre a precisi gesti e parole e alla forza della mia volontà, aggiungerò le specifiche energie di queste pietre e di altre cose che devo ancora individuare, per direzionare contro il drider esattamente il tipo di magia che voglio.”
“Sembra… complicato” azzardò il giovane mezzodrow.
“È un rituale” Krystel si strinse nelle spalle “con questo sistema si possono creare praticamente degli incantesimi su misura, ma il tempo di esecuzione è molto più lungo e non c’è assoluta certezza di successo; la versatilità ha un prezzo.”
“E intendi usare anche componenti vegetali? Hanno effetto qui nel sottosuolo?”
“Non posso dire di aver mai provato… ma sì, dovrebbero avere effetto. Contavo di bruciare della corteccia di cedro in polvere, sempre per la guarigione. A differenza della materia dura come le pietre, le sostanze organiche di solito vengono consumate nei rituali, quindi è meglio usarle solo se si è sicuri di volere proprio quelle. La corteccia di cedro è comune e non costa nulla raccoglierla, in Superficie, ma finché restiamo quaggiù non possiamo rimpinguare le nostre scorte.”
Duvainion annuì e prese altri appunti su un blocco di carta. Per ora stavano ancora dirimendo la parte facile, sarebbe stato più complesso decidere le parole e i gesti.

Daren osservava il drider da lontano. Non era sicuro di essere riuscito a non farsi individuare, ma l’abominio non l’aveva ancora attaccato; conoscendo l’odio feroce dei drider nei confronti dei drow, evidentemente non l’aveva ancora visto.
Il mostro sembrava essersi stabilito nei pressi del ‘loro’ territorio, o quello che ormai Daren considerava tale: una zona non tanto distante da Eryndlyn, ma fuori dalle rotte commerciali. Forse si era fermato lì perché aveva trovato acqua e cibo. Molte creature fungivore e lichenivore vivevano in quelle grotte e costituivano delle prede decenti per un mostro che mangiava animali vivi. Daren lo aveva osservato cacciare, una volta. Rivoltante.
Aspettava con un misto di angoscia e trepidazione il momento in cui Krystel gli avrebbe ordinato di attaccare. Non era ansioso di avvicinarsi a quel mezzo-ragno che sputava veleno paralizzante, ma l’attesa forse era la cosa peggiore.

Krystel però non si limitò a dargli un comando. Lei e Daren si misero a studiare insieme un piano. Il guerriero era piacevolmente colpito dal fatto che la sorella avesse chiesto la sua consulenza. Era una femmina davvero assennata, rispetto a quelle a cui era abituato; aveva capito che le sarebbero servite le sue competenze tattiche. Molte sacerdotesse della sua età, non più pungolate dall’insicurezza delle novizie ma non ancora guidate dalla saggezza della vecchiaia, partivano semplicemente dal presupposto di essere infallibili. E poi morivano.
“La parte più difficile sarà tenerlo impegnato mentre svolgo il rituale. Non deve accorgersi di quello che sto facendo, perché altrimenti cercherebbe di resistere. La cosa migliore in assoluto sarebbe poter agire mentre è privo di sensi.”
“Non sono sicuro di poterlo abbattere senza ucciderlo” ammise Daren. “Ma è pur sempre una creatura vivente. Ha bisogno di dormire. Ha bisogno di mangiare e respirare. Penso che sia difficile sorprenderlo mentre dorme perché avrà una tana ben difesa da qualche parte, ma se riuscissimo a fargli mangiare o respirare qualcosa di avvelenato? Non per ucciderlo, ma per paralizzarlo o per farlo dormire…”
“Non pensi che un mezzo-ragno, capace di produrre veleno esso stesso, sia anche immune o resistente ai veleni?” Ipotizzò Krystel.
“Potrebbe, ma di solito un ragno è resistente solo al suo stesso veleno, non a quello di altre creature.”
I due fratelli continuarono a pianificare la non-uccisione del drider ancora per molto tempo, studiando anche la conformazione del territorio e cercando di ipotizzare dove potesse essere la tana del drider.
Era questione di pochi giorni, poi avrebbero fatto la loro mossa.

Il drider si lanciò con tutto il suo peso contro la parete di roccia, il rumore dei suoi colpi rimbombava lungo le gallerie vuote.
"Non mi sembra che abbia funzionato!" Sibilò Daren, appoggiato stancamente contro quella protezione che li separava dal pericoloso mostro. C’era una crepa nella roccia, abbastanza larga da lasciar passare due esili elfi ma non un gigantesco mostro aracniforme.
Krystel afferrò un braccio del guerriero e cominciò ad infondergli incantesimi di cura, guarendo prima i tagli più gravi e poi un'ustione superficiale alla mano sinistra.
“Il rituale era corretto” insistette Krystel, “ma è vero che non ha funzionato. Dev’esserci un altro motivo.”
Un’esplosione fece tremare la parete alle loro spalle. Avevano scoperto che il drider era un mago, e a quanto pare era abbastanza intelligente da sapersi procurare le componenti materiali per gli incantesimi anche nella sua nuova forma.
“Dovremmo allontanarci” propose Daren.
“Non intendo lasciar perdere!”
L’elfo scuro contrasse la bocca in un guizzo di fastidio, indugiando solo per un attimo in considerazioni pericolose su quanto potessero essere testarde le femmine della sua razza.
“No, ma ora siamo in una caverna sconosciuta senza una chiara idea su cosa fare” puntualizzò, pragmatico. “Propongo una ritirata temporanea per motivi tattici.”
Nemmeno Krystel poteva ribattere a questo.
Cominciarono ad allontanarsi, con una camminata veloce che era quasi una corsa.
“Pensi che potremmo tornare alla nostra grotta?” domandò lei, pensando agli strumenti e alle componenti magiche che aveva lasciato lì, per non parlare di suo figlio che aspettava il loro ritorno.
“Mi preoccupa più come riuscire a farlo senza lasciare tracce; ora che sa della nostra esistenza, non voglio che ci segua lì.”
La strega rifletté con serietà sulle parole del drow che diceva di essere suo fratello. Lui aveva ragione, senza dubbio, eppure c’era qualcosa in quell’affermazione che le suggeriva un’idea.
“Seguirci… giusto, lui ci seguirebbe. Ci ha puntati e vuole ucciderci. Siamo nella condizione migliore per attirarlo in una trappola.”
“Uh? Pensavo avessi detto di non volerlo uccidere” le ricordò Daren, perplesso.
“Il mio rituale stava funzionando. Lo so, l’ho sentito.”
Il guerriero esitò un attimo, incerto se dire la verità o stroncare quelle pretese che li avrebbero condotti forse a un’altra rovinosa disfatta. Questa volta si erano salvati per un pelo. Eppure…
“Sì, l’ho sentito anch’io” mormorò “il drider si comportava in modo strano. Ci sono stati dei momenti in cui si è mosso a scatti, come se qualcosa lo disturbasse, e almeno un paio di volte ha perso l’occasione per colpirmi. Era come se una forza magica stesse riuscendo a intaccare la sua concentrazione. Quando ha lanciato quella palla di fuoco, è rimasto coinvolto nella sua stessa esplosione. Scommetto che non era quello il risultato in cui sperava, quindi… il tuo rituale ha fatto qualcosa. Ma, sorella, faccio appello al tuo buonsenso: ti sembra che abbia funzionato abbastanza? Volevi farlo tornare a essere un drow, sei riuscita a malapena a fargli venire qualche dubbio. Ora che ci hai provato, non hai il sospetto che ciò che vuoi fare sia impossibile? Diventare un drider è una punizione inflitta in nome di Lolth!”
Krystel per istinto stava per ribattere, ma qualcosa nelle parole del fratello la colpì come una rivelazione.
“Ma certo! Questo è il problema, ecco cosa ha bloccato il mio rituale. Mi sono preparata a invertire un incantesimo come se qualcuno l’avesse lanciato e poi se ne fosse disinteressato. Invece non è una semplice trasformazione, è una maledizione attiva. Qualcuno vuole che quel drow rimanga un drider. Forse non direttamente la dea… non è detto che si curi di questi dettagli… ma è una maledizione che è stata fatta in suo nome, quindi è sostenuta dal suo potere. O da una piccola parte di esso.”
“E quindi?” Daren impallidì, per quanto possibile per una creatura dalla pelle nera. “Come si spezza una maledizione inflitta con magia divina?”
Krystel cominciò a pensarci, ma prima che potesse rispondere sentì un’esplosione echeggiare alle loro spalle.
Il drider non intendeva lasciarsi fermare da una strettoia nella parete di pietra, a quanto pare. Era ancora al loro inseguimento.

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Capitolo 28
*** 27. Trauma ***


27. Trauma


1324 DR, Buio Profondo vicino a Eryndlyn

Tek’ryn non sapeva dove il mago lo stesse portando, ma erano usciti dalla città. Questo era un gran passo avanti, dal suo punto di vista, ma aveva sperato che S’lolath lo portasse lontano usando un teletrasporto, un portale, o qualche altro mezzo magico simile. Non perché fosse pigro, anzi tutt’altro, ma perché la magia avrebbe potuto portarli più lontano e più velocemente.
Per di più, non poteva esserne certo perché non aveva mai messo alla prova il suo senso dell'orientamento fino ad allora, ma aveva quasi la sensazione che stessero girando in tondo. Camminarono per ore, il mago con passo dritto e spedito per quanto possibile sulla superficie accidentata delle gallerie, il ragazzino faticando un sacco per stargli dietro a causa delle sue gambe più corte e della sua andatura claudicante. Quando aveva permesso al mago della sua Casa di tagliargli un dito del piede, per poter creare magicamente un corpo che potesse apparire come il suo cadavere e depistare le indagini, non aveva pensato che la mancanza di un dito si sarebbe sentita così tanto. All'epoca era abituato a camminare su pavimenti perfettamente dritti e tirati a lucido.
Dopo un tempo che gli parve infinito il mago si fermò permettendogli di riposare per qualche minuto. Gli diede anche un po' di carne secca e funghi secchi da mangiare. Il pranzo al sacco fece sospettare a Tek'ryn che avessero ancora molto cammino davanti a loro, e quell'intuizione si rivelò giusta. Presto ricominciarono a camminare, in cunicoli che sembravano tutti uguali. Tek'ryn era stanco, ma non preoccupato: sapeva che il mago era perfettamente in grado di polverizzare qualunque mostro del Buio Profondo che si fosse parato davanti a loro.

Dopo altre ore di cammino sfiancante, S’lolath si fermò in una zona apparentemente non diversa dalle altre. Tek'ryn sentì un rumore schioccante provenire da una caverna laterale e un brivido gli attraversò la schiena, incontrollato. Il rumore si ripeté, ma da un altro punto della caverna. Poi, come un eco incontrollato, il rumore rimbalzò e venne ripreso da altri cunicoli laterali, molti cunicoli laterali. Tek’ryn capì all’istante che l’eco non c’entrava niente.
“È una colonia di orrori uncinati” spiegò il mago, perfettamente padrone di sé. “Forse una trentina. Spero di più.”
Tek’ryn non fece nemmeno in tempo a chiedersi cosa volesse dire l’adulto con ‘spero di più’, perché un istante dopo quello gli afferrò una spalla e recitò velocemente una formula magica.
Il bambino si sentì come afferrare e trascinare in avanti per una lunghissima distanza, ma in appena una frazione di secondo. Un attimo dopo era di nuovo perfettamente fermo, in piedi, con un leggero senso di nausea. Intorno a loro il panorama era cambiato.
“Se devi vomitare, voltati dall’altra parte” commentò S’lolath senza fare una piega.
Tek’ryn scosse la testa debolmente. L’incantesimo l’aveva colto di sorpresa, ma non stava male fino a quel punto. In realtà, dopo quel momento straniamento iniziale, la sensazione aveva un che di familiare.
“Siamo arrivati?”
“No. Se qualcuno da Eryndlyn provasse a seguire le mie tracce, arriverebbe nel bel mezzo del territorio di un branco di orrori uncinati e avrebbe ben poco tempo per rintracciare la destinazione del mio teletrasporto, con quelle bestiacce pronte a saltargli alla gola. Ma non giudico che sia sufficiente. Avanziamo ancora, c’è una caverna infestata da uno pseudosoffitto[1]. Sarà divertente.”
Il ragazzino non aveva idea di cosa fosse uno pseudosoffitto, ma qualcosa gli suggeriva che S’lolath avesse un’idea molto deviata di divertimento.

Molte ore dopo Tek’ryn si era ricreduto: S’lolath non aveva solo un pessimo senso dell’umorismo, aveva di sicuro anche qualche rotella fuori posto. Prima si erano diretti verso una grotta dove l’intero soffitto aveva cercato di calare su di loro e mangiarli. Poi il teletrasporto istantaneo del mago li aveva portati appena sotto la volta di pietra di un’altra caverna, solo che al posto del pavimento c’era un burrone. Tek’ryn sapeva che in teoria i nobili drow possono levitare, ma purtroppo nessuno glielo aveva ancora insegnato, quindi si ritrovò a cadere a capofitto. S’lolath, anche se sicuramente aveva i mezzi magici per salvarsi, si lasciò cadere accanto a lui.
A poche decine di metri dal fondo, il mago lo attirò a sé con un incantesimo e teletrasportò entrambi, di nuovo. La forza cinetica della loro caduta venne fermata da qualcosa di morbido, accogliente. Soffocante. Una gigantesca ragnatela. Tek’ryn ne rimase invischiato senza speranza, intrappolato in quei fili collosi. Immediatamente cadde nel panico, sentendosi mancare l’aria: la sensazione di non poter muovere le braccia e le gambe, di essere incatenato, lo paralizzava sempre come se ne avesse la fobia. S’lolath invece non sembrava essere limitato nei movimenti, doveva essersi protetto con la magia. L’incantatore non perse il suo sangue freddo nemmeno quando un mostruoso ragno gigante cominciò a zampettare verso di loro.
S’lolath sfoderò il suo sorriso più affascinante.
“Ciao, bellezza. Non resterò a giocare con te, oggi” annunciò, in tono di scuse.
Tek’ryn si accorse in quel momento che il ragno aveva una testa da drow, anzi, da femmina drow. Era l’incarnazione di un incubo. Una diretta emanazione di Lolth? Oppure un mostro creato da lei?
Per fortuna S’lolath non gli lasciò il tempo di indulgere in quelle paranoie. Il provvidenziale teletrasporto li salvò ancora una volta.
Tek’ryn fu assurdamente felice di ritrovarsi ancora una volta sulla fredda roccia, anche se ci era caduto di schiena. Non gli importava del dolore, finché significava che era ancora vivo.
“Teletrasporti infiniti?” Riuscì a mormorare, pallido per la nausea.
“No. Ma ho un oggetto magico che me ne regala cinque al giorno. Non è male, vero?” Rispose il mago, tutto garulo.
“Penso che accetterò quell’offerta di vomitare.”
S’lolath lo lasciò fare, con calma. Ora che aveva messo molte miglia e molti pericoli letali fra sé e la città di Eryndlyn, si sentiva di animo più generoso. Soprattutto perché, dopo un lungo e inutile giro, stavano finalmente per arrivare a destinazione.
“È davvero necessaria tutta questa paranoia? Non c’era già un incantesimo contro le divinazioni, a proteggerci? Avevi detto che c’era.” Recriminò Tek’ryn, rialzandosi finalmente in piedi.
“Sì, ma potrebbe non essere sufficiente se qualcuno decidesse di seguirmi con mezzi mondani, anziché con la chiaroveggenza.”
“Davvero i nostri concittadini sono più pericolosi di tutti quei mostri?”
“Sì” ribatté il mago con assoluta sicurezza. “E poi non è solo noi due che sto proteggendo. Il posto dove stiamo andando, non voglio che nessun altro lo trovi.”
È mio, pensò l’arcanista, sentendo una fitta di gelosia e preoccupazione. È solo mio.

Dopo un giorno di cammino estenuante, questa era la stima di Tek’ryn, finalmente S’lolath gli fece cenno di fermarsi. Davanti a loro c’era una parete di roccia uguale a tutte le altre. Tek’ryn avrebbe potuto cercare di capirci qualcosa usando i suoi poteri di veggenza, ma era così stanco, gli facevano male tutte le ossa, l’adrenalina dei pericoli della giornata stava lasciando il passo alla spossatezza.
Quasi non si accorse quando S’lolath lo afferrò per l’ennesima volta e se lo trascinò dietro, attraversando la parete come se fosse fatta di nebbia.
Dall’altra parte, in una grotta invasa di muschio luminescente, c’era una creatura che fece immediatamente raggelare il sangue a Tek’ryn: una femmina drow.
Dopo tutta quella strada, stava per finire tra le mani di un’altra femmina drow, una come sua madre?

“Krystel, Daren, sono felice di vedervi” cominciò S’lolath rivolgendosi alla strega e a suo fratello, che come sempre l’accompagnava per proteggerla. Con una mossa studiata da grande attore, ammorbidì la sua espressione lasciando calare un pochino la maschera, per far vedere alla sua amante quanto fosse stanco fisicamente ed emotivamente. “Mia cara, ho un favore enorme da chiederti.”
La donna si protese subito verso di lui, incuriosita non tanto da S’lolath - si aspettava una sua visita da un giorno all’altro - quanto dal suo giovanissimo compagno di viaggio.
“Questo ragazzino si chiama Tek’ryn, ed è… mio figlio.” Il mago occhieggiò con prudenza l’espressione della strega, ma lei non si scompose di una virgola. “Spero non ti dia fastidio che io l’abbia portato qui.”
Krystel continuò a guardarlo come se non capisse il punto.
“Sì? Voglio dire, no. Perché dovrebbe darmi fastidio? Anche io ho dei figli che non sono tuoi” gli ricordò, molto pragmatica.
“In realtà… è questo il favore.” S’lolath si asciugò le mani sui pantaloni, fingendo che fossero sudate, come se avesse dei dubbi sulla reazione di Krystel. “Come ogni altra persona a Eryndlyn, Tek’ryn non ha una famiglia amorevole. Chiariamoci: me ne frega il giusto, è solo normale, ma purtroppo per lui ha ereditato la mia maledizione, e di questo mi sento un po’ responsabile. Il ragazzo sente le intenzioni di chi gli sta intorno, ed è troppo piccolo per poter gestire tutto questo. La brama, la corruzione e la spregiudicatezza sono ottime qualità, perfino negli altri, rendono le persone prevedibili, ma la società drow è qualcosa a cui si dev’essere educati… no, addestrati, un po’ alla volta. Lui ha sbirciato dietro le quinte un po’ troppo presto, per così dire, quindi dovevo portarlo via da Eryndlyn o ne sarebbe stato schiacciato. Ha bisogno di un ambiente più blando, più molle.”
“Più sano?” Lo aiutò Krystel, imboccandolo con le parole giuste.
S’lolath agitò una mano come per scacciare quell’obiezione.
“Più infantile. Questo cosetto non sarà mai un buon giocatore di Sava.” Spiegò, usando il nome di un gioco drow simile agli scacchi come metafora dei giochi di potere e di morte.
“E mi stai chiedendo di adottarlo, in pratica?”
S’lolath sfoderò il suo miglior sguardo da drow malvagio ma con un pizzico di cuore, che funzionava sempre con Krystel perché lei era bella e potente e brava a letto, ma era anche tanto ingenua e manipolabile.
“So che ti chiedo molto, ma tu sei l’unica persona al mondo di cui sia giunto a fidarmi almeno un poco” sganciò la bomba.
Come previsto, lo sguardo di Krystel si addolcì all’istante. Alle spalle di lei, suo fratello Daren strinse le labbra e oscillò in avanti come se stesse trattenendo a fatica una risata, poi fece il gesto di voler vomitare. Per S’lolath fu difficilissimo rimanere serio. Il guerriero aveva un modo irresistibile di suscitare cameratismo, quando voleva farlo.
“Non devi neanche chiederlo, nella mia casa c’è sempre spazio per un bambino in più. E anche nel mio cuore.”
La dichiarazione era così sdolcinata che S’lolath si sentì quasi preso in giro, se fosse stata una vera drow a dire una cosa del genere avrebbe pensato che fosse sarcasmo, pazzia o pessimo umorismo. Krystel però era seria, quelle cose le pensava davvero. Con pazienza, S’lolath ricordò a se stesso che lei aveva anche un sacco di qualità.
La sua diversità è una cosa utile, pensò, valutando il vantaggio tattico in quella situazione perché concentrarsi su pensieri utilitaristici l’avrebbe aiutato a riportare la glicemia nel suo animo a livelli tollerabili; è un bene che io conosca qualcuno come lei. Altrimenti a chi avrei potuto affidare Tek’ryn?

S’lolath e la donna continuarono per un po’ a confabulare fra loro, ma Tek’ryn non riusciva a distinguere le parole. Tutto quello che udiva era il rimbombo del sangue che gli scorreva nelle orecchie, che creava un fruscio assordante simile allo scroscio di una cascata.
Poi il mago lo richiamò all’ordine, scuotendogli una spalla con malagrazia.
“Ehi, mi ascolti? Questa donna ha accettato di diventare tua madre. Ora starai con lei e ti porterà lontano da Eryndlyn” gli spiegò, forse non per la prima volta.
Lontano da Eryndlyn, si ripeté il ragazzino, e nella sua mente quelle parole stridevano come se fosse tutto uno scherzo crudele. A lui importa solo di mandarmi lontano da Eryndlyn, per non far scoprire che è coinvolto nella mia sparizione. Ma non sarò lontano da Lolth, o dalla cultura drow. Mi aspetta lo stesso destino, ma in una città diversa? Non c’è proprio scampo per me?
Il piccolo drow sentì la presenza della donna che si avvicinava e cadde in ginocchio, un po’ per la disperazione e un po’ per evitare punizioni. I suoi occhi erano colmi di lacrime ma sapeva di non doversi far vedere mentre piangeva. Dopo tutto quello che aveva affrontato quel giorno, dopo che aveva trovato la forza di mettere un passo davanti all’altro solo grazie alla promessa della libertà, l’ultima cosa che ci mancava era solo di essere frustato per comportamento irrispettoso verso la sua nuova madre.
Avrebbe voluto continuare a fissare il suolo della grotta per il resto della sua vita, per non dover mai guardare quella donna, per non essere costretto a prendere coscienza della realtà. Lei però fece qualcosa che non si sarebbe aspettato: si chinò al suo livello, una cosa che nessun adulto aveva mai fatto, e inclinò la testa fino a incrociare il suo sguardo.
Questa fu la prima immagine che Tek’ryn colse della sua nuova madre, la persona che sarebbe diventata il suo punto di riferimento nei prossimi decenni. Una drow quasi prostrata a terra e con il volto girato in un’angolazione strana per poterlo guardare in faccia.
“Buongiorno, giovanotto” lo salutò, con un sorriso dolce e confortante.
Solo che Tek’ryn non aveva idea di cosa fosse un sorriso dolce e confortante, qualsiasi sorriso nella sua esperienza era un’espressione di minaccia. Questa era solo una minaccia più strana, più indiretta.
Per quanto aveva capito Tek'ryn c’era una sorta di codice non scritto, fra i maschi e le femmine drow, nella società lolthiana: i maschi si inchinavano, e le femmine in cambio non pretendevano di guardarli in faccia. C’era una sorta di confortante privacy nel tenere il volto girato verso terra. C’era la libertà di poter considerare per un momento i propri sentimenti, di dolore o di disappunto o di paura, una sorta di momento catartico in cui si poteva maledire il mondo in una conversazione silenziosa con sé stessi. Di solito le femmine davano per scontati quei sentimenti negativi e non se ne curavano, finché i maschi continuavano a mostrarsi sottomessi. Al contrario, le donne dovevano sempre camminare a testa alta, quindi i loro sentimenti non potevano mostrarli proprio mai, né esitazione né paura, né dubbi né pensieri eretici; era il prezzo da pagare per essere al centro del potere.
Il fatto che la sua nuova madre avesse voluto guardarlo in faccia dopo che lui si era già inchinato e sottomesso a lei, per Tek’ryn fu come un pugno nello stomaco. Cominciò a tremare violentemente, senza controllo.

Krystel sentì una stretta al cuore vedendo quella reazione. Suo fratello Daren le sfiorò un braccio per attirare la sua attenzione e poi la tirò leggermente per aiutarla a sollevarsi. I due si scambiarono uno sguardo e lui scosse la testa, rispondendo alla muta domanda della strega. Era chiaro che lei non capiva cosa avesse fatto di sbagliato.
“Perdonami sorella, ma questo non è un ragazzino umano. È un drow. È abituato a ricevere solo dolore dalle femmine. In questo momento per lui sei la cosa più spaventosa nel raggio di cinquanta miglia.”
La donna sussultò e spalancò gli occhi con evidente orrore.
“Non ho alcuna intenzione di fargli del male!”
“Lo so, ma non ti crederebbe. Volerti prendere cura di lui ti fa onore, ma per ora siete su due mondi diversi. Qualunque gesto gentile da parte tua sarebbe interpretato come un inganno o un test. Ti prego, lasciagli i suoi spazi e i suoi tempi. Lascia che lo avvicini prima io. Non posso promettere nulla, ma è più facile stringere un legame fra maschi.”
“Santo cielo, questo bambino è traumatizzato fino al midollo” sussurrò Krystel, sopprimendo un brivido.
“È un bambino drow” intervenne S’lolath, senza alcuna inflessione. “Si è preso le sue frustate, come tutti. Ma se perfino io mi sono abituato al tuo modo di fare, penso che un bambino traumatizzato nel giro di qualche mese si appiccicherà a te come un lichene alla roccia.”
Krystel si concentrò di nuovo sulla figuretta tremante del suo nuovo figlio adottivo. Vederlo in quello stato le faceva una tale pena. Avrebbe voluto abbracciarlo, ma non osava immaginare le conseguenze.
“Io… non so come comportarmi, con lui.” Ammise. “Posso dargli spazio, posso dargli tempo, ma che cosa devo fare?
“Secondo me devi solo essere te stessa” suggerì Daren. “Sii una buona madre per Amber, lascia che lui vi veda interagire e ne tragga le sue considerazioni. Le madri drow sono meno crudeli con le figlie femmine, ma non sono certo amorevoli. E poi, credo che capirà molto di te anche dal modo in cui ti comporti con me, che sono un maschio, tuo fratello, quindi ai suoi occhi un tuo sottoposto.”
Krystel ci rifletté per un lungo momento, infine annuì.
“Allora vado a controllare Amber, spero che i nostri discorsi non l’abbiano svegliata. Vi lascio da soli con il piccolo, penso che si sentirà più a suo agio se… la creatura più terrificante nel raggio di cinquanta miglia andrà a dedicare la sua attenzione altrove.”

Daren e S’lolath rimasero soli, insieme a un ragazzino terrorizzato che stava appena ricominciando a respirare normalmente.
“Lo sai che sei proprio un pezzo di merda?” Cominciò Daren in tono colloquiale, parlando sottovoce e in lingua drow. “Krystel avrebbe accettato di adottarlo comunque, non serviva tutta quella messinscena.”
“Che posso dirti, la manipolazione è la mia seconda natura” S’lolath si strinse nelle spalle, come per scusarsi, cosa che ovviamente non intendeva fare davvero.
“Ah sì? E qual è la tua prima natura?” Ribatté il guerriero, sinceramente curioso.
S’lolath ne fu preso in contropiede, per un momento. Ci dovette pensare per qualche secondo.
“Lo studio, direi. Sono prima di tutto un mago, e solo in secondo luogo un manipolatore. E in terzo luogo un assassino.”
“La tua scala di priorità è ammirevole, sei un esempio di virtù” scherzò il guerriero. In realtà, un pochino lo pensava anche. S’lolath era un bastardo, ma non era il bastardo peggiore che avesse conosciuto. “Provi almeno un po’ di rispetto per mia sorella?”
“La rispetto come strega. Non dubito del suo potere. E in un certo modo la rispetto come madre, le sto affidando mio figlio, no?”
“Ma se non te ne frega niente” sbuffò in tono esasperato.
“Me ne frega quanto basta da portarlo qui anziché lasciarlo morire” il mago sentiva di doverlo puntualizzare. “La rispetto come madre, ma non come madre drow. O come drow in generale.”
Daren si strinse nelle spalle, perché non poteva davvero obiettare a questo. Anche secondo lui Krystel non era una vera drow. Anzi, il fatto stesso che S’lolath la rispettasse per qualcosa nonostante non la considerasse drow, deponeva decisamente a favore del mago. Era di vedute meno ristrette, rispetto ai suoi simili.
“Vedo i suoi pregi, credimi” continuò S’lolath “e vedo anche i tuoi. Dimmi, saresti interessato a una collaborazione?”
“Non vivo a Eryndlyn e non ci vivrò mai” gli ricordò l’altro. “Che puoi mai volere da me? E perché dovrei fare qualcosa per te?”
“Ma come, ti ho appena donato un nuovo nipote.” S’lolath incrociò lo sguardo di Daren e lo guidò verso Tek’ryn, che in assenza della pericolosa madre adottiva era andato a rannicchiarsi in una alcova nella roccia.
“Sì. Carino. Ma non ti devo niente per questo.”
A Daren, in realtà, non piacevano molto i bambini. Ma purtroppo per lui, se ne affezionava molto in fretta. Non aveva intenzione di ammetterlo, però.
S’lolath gli rivolse uno dei suoi soliti sorrisi affilati, quelli che non lasciava mai vedere a Krystel.
Sta manipolando solo lei?, si chiese Daren all’improvviso, O sta manipolando anche me? Sa che la furbizia drow è quello che mi aspetto da lui, e quindi mi sta dando quello che sa che posso gestire?
“Mi fregio di essere bravo a riconoscere i talenti delle persone. Apprezzo tua sorella come strega e come madre, ma apprezzo te come drow. Ho intenzione di uccidere un mago, e pensavo che potessi sentire la mancanza di un po’ di azione.”
Daren stava ancora fissando il piccolo Tek’ryn, rannicchiato per terra e stretto nel suo piccolo mantello; sembrava sulla soglia del sonno a causa delle emozioni e delle fatiche del giorno. La proposta di S’lolath però ribaltò immediatamente la sua scala di priorità.
“Scusami? Vuoi che io faccia cosa?” Sollevò un sopracciglio, guardandolo come se avesse perso il senno.
S’lolath sorrise. Era venuto il momento di fare qualcosa che lo divertiva sempre molto: contrattare.



********************
Nota orientativa: la storia continua, per quanto riguarda Daren e S'lolath, con Redemption Demotion e nella storia immediatamente dopo, Three is the magic number. Tek'ryn invece ricompare qualche mese dopo in Fey Day e poi in Punishment.


[1] Pseudosoffitto è un'arcaica traduzione in italiano del lurker above. Le prime edizioni di D&D lo traducevano così. D&D 3.5 in Sottosuolo di Faerûn lo traduce come ascoso e Pathfinder e D&D 5 lo chiamano appostato, un tipo di razza predatrice. Ho deciso di mantenere la traduzione vecchia perché secondo me il lurker above delle prime edizioni spaccava di più rispetto al misero GS 3 di D&D 3.5, o GS 7 di Pathdinder e di D&D 5: era un mostro del tutto diverso, l'ascoso ricorda un pesce raiforme, l'appostato sembra una stalattite con denti e tentacoli, lo pseudosoffitto era un mostro "a lenzuolo" che copriva un intero soffitto mimetizzandosi con esso ed era più grande e più inevitabile.

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Capitolo 29
*** 28. Riding lizard ***


28. Riding lizard


1268 DR, Underdark vicino a Eryndlyn

"Che cos'è?" Domandò la bambina, alzando un dito per indicare la grossa lucertola che zampettava sul soffitto della caverna. "Perché sta a testa in giù?"
"Si direbbe un rettile di qualche tipo, ma non sono sicura di cosa sia" spiegò sua madre, senza sbilanciarsi.
"Quella è una lucertola gigante, Kore." Intervenne suo padre. "Credo sia selvatica, ma in città questi animali vengono addestrati e usati come cavalcature."
La piccola drow spalancò gli occhi, colma di meraviglia.
"Oooh! E quindi cavalcate a testa in giù?"
"Non solo. Può anche camminare per terra, oppure sulle pareti."
Kore afferrò il polso di sua madre con la mano destra e quello di suo padre con la sinistra. Capitava così raramente che potesse stare con entrambi i suoi genitori.
"Mamma, posso averne una?"
"Scherzi? Una lucertola gigante? E dove vorresti tenerla?"
"Uhm… nella stalla?"
"No, spaventerebbe a morte gli altri animali… e forse se li mangerebbe… e poi è troppo grande per stare nella stalla."
La bambina mugugnò qualcosa per la delusione.
"Allora nella mia camera?"
"Non se ne parla proprio!"
Kore spostò lo sguardo su suo padre, in una muta supplica. La sua espressione era così tenera che S'lolath si sentì quasi mosso a pietà. Quasi.
Distolse lo sguardo dagli occhioni imploranti della figlia, riflettendo su quella tecnica di persuasione così poco drow eppure così efficace in altri contesti.
"Una lucertola addestrata male potrebbe rivoltarsi contro i suoi padroni" rispose, schierandosi con la madre della piccola. "Mi spiace darti una delusione, principessa, ma dovresti pensare a un animaletto meno problematico."
"Quando torniamo a casa puoi avere un nuovo animaletto, un altro gatto o una capretta… o perfino un asinello tutto tuo" la tentò Krystel, sperando di farla contenta.
Kore abbassò lo sguardo, fissando il pavimento di pietra con rancore.
"Ma perché devo tornare a casa? Perché non posso stare qui con papà?"
I due drow adulti si scambiarono uno sguardo preoccupato, anche un po' impanicato. Krystel sapeva che se avesse negato quel desiderio alla bambina avrebbe fatto solo la parte della cattiva, doveva essere S'lolath a convincere la figlia, in quanto diretto interessato.
"Se tu vivessi qui, figlia mia, saresti costantemente in pericolo" le spiegò.
"Ma tu papà non potresti proteggermi?"
S'lolath spostò il peso da un piede all'altro, a disagio. Non era facile spiegare alla propria figlia che sarebbe stata un fardello.
"Non posso promettere di riuscirci. Io sono un mago potente, ma ci sono molte altre persone in città che sono pericolose quanto me. Se dovessi dedicare parte delle mie energie e delle mie attenzioni a proteggerti, rischierei che i miei nemici trovassero il mio punto debole… tu."
Kore sgranò gli occhi, incerta se sentirsi ferita o lusingata. Era una bambina molto giovane, ma era in grado di capire che se suo padre definiva qualcuno 'punto debole' quello era da intendersi come un complimento. In un certo senso.
"Non voglio che i cattivi ti facciano qualcosa per colpa mia" piagnucolò, abbracciando suo padre alla vita.
S'lolath fece un passettino indietro, preso alla sprovvista da tanto slancio emotivo. Capì che aveva esagerato, non poteva caricare una bambina di nove anni dei suoi problemi. Non se voleva che lei avesse una vita protetta.
"Questa è la mia vita, Kore. Sono sempre in pericolo. Non voglio che sia anche la tua vita. Restare qui con me, in questa città, ti cambierebbe. Ti trasformerebbe in una persona diversa, più fredda e calcolatrice, e smetteresti di volermi bene. A quel punto… anch'io forse smetterei di volerti bene, perché non saresti più la mia Kore."
S'lolath cercò di tenere aperti i propri canali empatici mentre le parlava, per monitorare le sue reazioni emotive. Non era abituato a usare i suoi poteri in questo modo, non era sicuro di riuscirci, ma le emozioni dei bambini sono assolute e inarrestabili e quando Kore realizzò quello che lui le aveva detto, S'lolath lo sentì. Un terremoto di paura, sconcerto, disperazione.
"Papà! Non voglio che tu smetta di volermi bene" la bimba lo strinse ancora più forte nel suo abbraccio. "Io non diventerò diversa!"
"Temo che invece lo faresti, piccola. Dovresti farlo per sopravvivere. Io invece voglio che tu rimanga così come sei, la mia bambina libera, intelligente, curiosa, ma non manipolatrice, non crudele. Non come me."
"Ma papà" Kore alzò il visetto per guardarlo in faccia "tu non sei…"
"Sì, lo sono" l'interruppe lui. Avrebbe voluto aggiungere altro, forse avrebbe dovuto. Sì, forse avrebbe dovuto dirle che gli era capitato di uccidere bambini della sua stessa età, e che l'aveva fatto senza esitazione perché tanto erano solo futuri adulti drow. Non aveva senso fare distinzioni fra adulti e bambini, l'unica differenza era che i primi erano una minaccia attuale e i secondi erano una minaccia futura.
Non voleva pensare in quel modo a sua figlia. Non voleva guardarla e sapere che il suo destino era già scritto.
"Sono spietato, se tu non fossi mia figlia mi definiresti cattivo, proprio come tutti gli altri drow. Per questo non mi piace nessuno in città. Non come mi piace la tua mamma. E non voglio bene a nessuno in città, mentre voglio bene a te. Solo perché tu sei diversa. Tu e tua madre siete fuori da quei giochi di potere."
"Ma allora, papà" osò chiedere Kore "perché non vieni a vivere con me e la mamma?"
S'lolath s'irrigidì. Era una domanda che temeva prima o poi sarebbe arrivata.
"Perché… questa è la mia vita. Non sarei capace di adattarmi a uno stile di vita tranquillo come il vostro. Non sarei capace di adattarmi a una cultura diversa dalla mia. Vivere nella città di Eryndlyn vuol dire essere trascinati in un gioco mortale per il potere… ma è un gioco che sto vincendo. Dopo una vita intera dedicata a diventare uno dei migliori, sto vincendo. Capisci che cosa vuol dire?"
La bambina abbassò lo sguardo a terra e lentamente sciolse l'abbraccio. Le sue emozioni erano un groviglio confuso, del tutto incomprensibili per il drow.
Poi sua figlia alzò la testa, con la fierezza che la caratterizzava e che lui apprezzava così tanto.
"Sì che capisco" decise, guardandolo male. "Sono come… una lucertola" affermò, indicando quel punto della volta rocciosa dove il rettile gigante zampettava in cerca di cibo. "Mi vuoi bene forse, come io voglio bene al mio gatto."
S'lolath rimase molto colpito da questa affermazione; ogni tanto Kore tirava fuori delle intuizioni così adulte. Ma nonostante questo, sentì anche una ventata di rabbia.
"Ti sto dando tutto quello che posso, signorina! Tu pensi forse che agli altri genitori importi qualcosa dei propri figli? Vuoi davvero venire a Eryndlyn e vedere come vengono trattati i bambini?"
"S'lolath" Krystel lo richiamò, con voce tranquilla ma decisa. "Ti prego di non parlare in questo modo a nostra figlia."
"Oh certo, perché lei è una figlia della Superficie, cresciuta nella bambagia. Tu ci tieni tanto, Krystel, che i tuoi figli considerino l'affetto come qualcosa che gli è dovuto. Be' forse non avresti dovuto fare una figlia con un vero drow, perché per me niente è dovuto! E c'è un limite alle cose che posso fare per affetto. Non rinuncerò al mio stile di vita, non per Kore, non per te, non per qualunque altra prole che potremmo generare insieme. Pensavo che questo fosse chiaro."
"È chiarissimo, per me" sibilò l'elfa scura. "Non ti ho mai chiesto di farlo. Ti chiedo solo di avere un po' più di tatto mentre lo spieghi alla nostra bambina di nove anni."
"Be', ormai dovrebbe avere ben chiaro il motivo per cui non potrei più amarla se lei diventasse come me." Ritorse lui, rigirando il discorso come se avesse scelto di esprimersi in quel modo impietoso solo per dimostrare qualcosa.
Kore lo guardò con un certo risentimento, esprimendo attraverso gli occhi quelle sue emozioni confuse e incomprensibili.
Poi fece un passo indietro e, in modo del tutto imprevedibile, gli diede un calcio su una gamba. Non troppo forte, ma abbastanza per dimostrare qualcosa.
"E io ti voglio bene lo stesso, così impari!" Sbottò, furiosa.
S'lolath rimase talmente scioccato da quella reazione che, per la prima volta in vita sua, non riuscì a trovare niente da ribattere.

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Capitolo 30
*** 29. Necromancer ***


29. Necromancer


Waterdeep, estate 1373 DR

La necromanzia non era una pratica ben vista, ma secondo la famiglia Domedias questo pregiudizio era figlio di una visione miope e di una pessima rappresentazione mediatica. Certo, era anche colpa dei necromanti che facevano effettivamente delle stronzate moralmente questionabili come rianimare scheletri e lanciarli contro gli onesti cittadini, evocare potenze oscure per trasformarsi in lich o rubare energia vitale a vittime innocenti. E sì, forse a ben guardare la maggior parte dei necromanti era così. Ma era poi vero? Fa più rumore un albero che cade, che una foresta che cresce.
Ad ogni modo, secondo la famiglia Domedias, tutto questo non inficiava la validità e la nobiltà degli studi sulla necromanzia in sé. Il misterioso confine fra la vita e la morte era oggetto di curiosità per tutte le creature mortali, era perfettamente logico che fosse così, e nel tempo decine e centinaia di menti illuminate erano riuscite a piegare le energie della magia per poter pizzicare quel confine, per poterlo attraversare indenni, o addirittura per renderlo sfumato.
Non tutti ad esempio sapevano che secondo alcune scuole di pensiero anche gli incantesimi di guarigione rientravano sotto il cappello della necromanzia, in quanto magie che manipolavano le energie vitali[1]. Ma oltre a questo, c’erano altri usi per la necromanzia che potevano essere utili al bene comune: ad esempio, distruggere i non morti. In condizioni di necessità, perfino interrogare i cadaveri poteva essere una pratica accettabile, utilizzata anche dalla Guardia Cittadina per risolvere omicidi. Era praticamente divinazione, solo con i defunti. Anche proiettare il proprio spirito nel Piano Astrale era necromanzia, e chi aveva mai detto che fosse una cosa malvagia?
Comunque, lasciando da parte le considerazioni sui vari e poliedrici usi della necromanzia, quello su cui la famiglia Domedias era particolarmente specializzata era lo studio e il contenimento dei non morti pericolosi. Herz Domedias, il più anziano membro della famiglia ancora in vita, era uno studioso di magia divina. Sua sorella Julienne, la più giovane, si occupava dell’altra metà del cielo: la magia arcana. Alec, il loro fratello di mezzo, preferiva tenere in mano una balestra o una spada anziché un libro. Aveva una collezione di balestre, a dirla tutta: vecchie, nuove, consacrate, perfino una balestra infusa di potere maligno che non usava mai ma che teneva come trofeo; l’aveva strappata alle dita fredde e due volte morte di uno scheletro senziente che aveva distrutto. Alec era un po’ troppo spericolato, secondo i suoi fratelli; un tempo aveva la sorella Anne a dargli manforte, gli copriva le spalle con le sue bacchette, ma poi era stata uccisa da un vampiro e lui era diventato se possibile ancor più spericolato, anziché imparare un po’ di sana prudenza.[2]
Da qualche tempo anzi era diventato ancor più pericoloso aggirarsi nel cimitero, un lich fuori di testa fissato con la magia del tempo aveva iniziato a far esperimenti sulla gente, quindi l’accesso al cimitero era stato proibito o contingentato il più possibile. Quanto a distruggere il lich o cacciarlo via, si era dimostrata un’impresa molto ardua, perfino per i tre fratelli esperti nella caccia ai non morti. Dopo mesi di stallo, la cosa poteva ormai definirsi una difficile e tesa convivenza.

Herz Domedias era impegnato nello studio della manipolazione dell’energia positiva, un’arte molto delicata che di solito i chierici approcciavano con la guida della fede, ma uno studioso come lui non poteva accontentarsi di risposte raffazzonate. I chierici sapevano canalizzare l’energia della vita per tenere a distanza i non morti, e lui non si capacitava del fatto che questo potere non fosse replicabile tramite lo studio e la puntuale sperimentazione. Possibile che fosse davvero una concessione divina? Ma come faceva la gente a vivere senza certezze matematiche, solo sulla spinta di parametri non misurabili? La cosa lo faceva diventare matto.[3]
“Fratello” una voce femminile lo chiamò da dietro la porta chiusa del suo studio, accompagnata da un discreto bussare. “La Civilar Dee è venuta a trovarci. Con un… visitatore.”
Herz poggiò le mani sulla scrivania, ai lati del tomo che stava leggendo, e si diede una leggera spinta per allontanare la sedia dal tavolo. Di norma non avrebbe interrotto la sua routine per un visitatore, ma la Civilar Dee era una persona interessante. Era un ufficiale di medio livello della guardia cittadina, una Civilar appunto, un rango simile al luogotenente: meno di un capitano e più di un sergente. Non era questo a renderla interessante, però: la ragazza era anche una mezza-vampira. Lei e la famiglia Domedias avevano una storia, recente ma movimentata, di collaborazione nei casi più strani.

Nel frattempo, fuori dal portone del palazzo dei Domedias, la Civilar Dee e un visitatore incappucciato attendevano il ritorno di Julienne.
“Sentì un po’, mi spieghi com’è che ti chiamano Dee?” Domandò lui dopo un po’, per rompere il silenzio.
La dhampir si guardò le punte delle scarpe, un po’ a disagio.
“Quando fono andata a regiftrarmi all’anagrafe di Waterdeep” raccontò, controvoglia “ho trovato un impiegato un po’ duro d’orecchi. Non riufhiva a capire che il mio nome è Dee Dee e non ho un cognome. Quindi ha decifo che Dee era il nome e l’altro Dee era il cognome.”
L’uomo, che si comportava come se avesse una certa confidenza con lei, sbuffò una risata prima di riuscire a controllarsi.
“Vaffanculo?” La giovane sibilò fra i denti.
Questo lo fece solo ridere di più.

Pochi minuti dopo Julienne tornò alla porta con suo fratello Herz, e i due vennero scortati in un salottino. Era una delle poche stanze della casa effettivamente pulita e tirata a lucido; per il resto, la magione dei Domedias sembrava produrre polvere perfino dalle pareti. Era chiaro che la famiglia non navigava nell’oro, i pavimenti di legno scricchiolavano ad ogni passo e le candele avevano il cattivo odore del sego vecchio. Un tempo doveva essere stata una famiglia ricca, prestigiosa. Forse era la loro professione a renderli poco popolari.
Herz Domedias si sedette su una poltrona e indicò a Dee Dee e al visitatore di fare lo stesso. Julienne rimase in piedi.
“Vi posso offrire una tazza di tè” propose, con una strana inflessione nella voce “ma se ricordo bene, a te non piace, vero Dee Dee?”
“No, infatti” confermò la dhampir. “Apprezzo il pensiero, ma no grazie.”
“E immagino che i morti non bevano” continuò la donna, occhieggiando l’incappucciato.
L’uomo allargò le braccia, come per scusarsi. Le sue mani erano coperte da guanti neri, sembrava che cercasse di nascondere ogni centimetro della sua pelle.
“Purtroppo no. Ma ditemi, è così evidente?”
I due fratelli necromanti si scambiarono uno sguardo.
“No” rispose Herz, dopo un momento di riflessione. “A dire il vero, no. Niente freddo innaturale, niente aura di terrore, niente puzza di decomposizione, non corrompete le cose che toccate e non avete cercato di risucchiare la vita a nessuno. Per di più, è pieno giorno e non temete il sole. Se gli allarmi magici di questa casa non ci avessero avvisati, non avremmo avuto modo di sospettare… anche se, finora, non ci avete mostrato il vostro volto. C’è forse qualche orrendo dettaglio rivelatore che state cercando di nascondere?”
L’incappucciato sorrise, ma loro non potevano vederlo.
“Niente che non nasconderei anche se fossi vivo” annunciò, facendo scivolare il cappuccio dietro le spalle e abbassando la sciarpa leggera che gli copriva la parte inferiore del volto.
I due fratelli capirono all’istante il motivo per cui si era camuffato in quel modo: era un elfo scuro, un drow. Non sarebbe stato ben accolto a Waterdeep, né vivo né morto.
A parte la pelle nera e i capelli argentei, però, il suo aspetto non presentava altre minacce. Niente occhi iniettati di sangue o completamente cavi, niente denti appuntiti, né carne marcescente.
“Un drow” ricapitolò Herz, senza scomporsi. Nemmeno Julienne sembrava turbata, anzi, si sporse verso di lui con maggiore curiosità. “Però nulla nel vostro aspetto suggerisce che tipo di non morto siate. Una bella sfida!” Il negromante sorrise, come se fosse compiaciuto per quella novità.
“Un lich sotto l’effetto di un incantesimo che preserva il vostro corpo” ipotizzò Julienne.
“Ho avuto il piacere di conoscerne una” il drow sorrise, amabile. “Sembrava morta un minuto prima, davvero! Poteva quasi apparire viva. Ma nei suoi occhi ogni tanto si vedevano delle scintille di magia, un riflesso del potere che senza dubbio la teneva in… vita” raccontò, ricordando un incontro di molti decenni prima.[4]
“Un vampiro che ha trovato il modo di resistere alla luce del sole?” Tentò Herz, anche se era un’ipotesi azzardata.
L’elfo scuro scosse la testa e sorrise apertamente, per mostrare i canini. Erano normali.
“Forse non appartenete ad alcuna specie nota di non morti” continuò il fratello maggiore, perché non intendeva desistere “ma siete un negromante che si è immerso nella sua arte fino al punto da passare dalla vita alla non morte, senza soluzione di continuità?”
“Oh, no, io non sono un mago” il drow si schernì “sono un umile guerriero.”
“Uno zombie” riprovò Julienne “il cui cadavere è stato preservato dalla putrefazione e in cui è stata risvegliata artificialmente l’intelligenza.”
“Ora mi ferite profondamente” il guerriero si mise una mano sul cuore, che tanto non batteva. “Io ho ancora la mia anima, grazie tante. Non sono un fantoccio con un’intelligenza artificiale!”
Herz si prese il mento fra due dita, giocherellando con la barba corta mentre rifletteva su quell’indovinello non vivente.
“Ci sono molti tipi di non morti, eppure così su due piedi non mi sovviene cosa possiate essere. Se potessi consultare i miei tomi per qualche giorno, sono certo che ne verrei a capo.”
“Vi prego, permettetemi di farvi risparmiare tempo. Sono un fantasma” l’elfo scuro gettò la maschera, rivelandosi con un gesto accomodante della mano.
Herz sembrò sinceramente sorpreso da quella notizia.
“Capisco il vostro stupore, ma permettetemi di chiarire un malinteso secolare. I fantasmi non sono davvero incorporei. Sono perfettamente solidi, sul Piano Etereo. È solo la manifestazione sul Piano Materiale che ci rende trasparenti e intangibili, ma se riusciamo a venire da questa parte grazie a un Portale o a un incantesimo, manteniamo la nostra corporeità.”[5]
Nel silenzio completo che seguì questa spiegazione, Julienne s’illuminò e alzò un pugno al cielo, piegando le labbra in un sorriso appena visibile. Non era tipa da sorridere con gioia, mai. “Lo sapevo!” Annunciò. “Avevo teorizzato da tempo che in realtà i fantasmi fossero corporei! Lo studio del Piano Etereo mi ha portato a questa conclusione, e le mie teorie sul confine poco netto fra necromanzia ed evocazione…”
“Sì, grazie, sorella. Non annoiamo i nostri ospiti con dettagli tecnici.” La invitò Herz, lanciandole un’occhiata seria. Come ogni studioso, non voleva divulgare i segreti di famiglia.
“In verità, la speranza di annoiarmi con dettagli tecnici è proprio il motivo che mi porta qui” il fantasma li prese in contropiede. “Come tutti gli spiriti senza pace, anche io ho una missione che devo compiere prima di poter… andare oltre. La mia missione però è a più ampio respiro; io ero… io sono un seguace di Eilistraee. So che la mia dea non mi ha abbandonato solo perché sono morto, io sono ancora un utile strumento per Lei. Dovete capire che la mia gente ha degli obiettivi, fra cui rivalutare la nostra razza e portare aiuto a chi ne ha bisogno. Le ragioni che mi hanno portato a scegliere questa vita e questi valori sono… personali, diciamo così. Forse è per questo che sono rimasto come fantasma. Le ragioni personali sono sempre le più forti, le meno sane. Le mie, in particolare, sono ossessive. Non posso lasciare questo mondo finché c’è ancora bisogno di me. Non posso concedermi la pace finché non avrò fatto abbastanza per bilanciare il male che ho fatto in gioventù.”
I due fratelli si scambiarono un’altra occhiata. Era vero che loro si occupavano di non morti, ma di solito lo facevano con la violenza. Non avevano idea di come aiutare un fantasma, qualcuno che avrebbe potuto cessare di essere un non morto solo quando avesse risolto le sue questioni in sospeso.
“E quando potrete onestamente dire di aver controbilanciato il male che avete fatto?” Domandò Julienne, facendo un’osservazione molto puntuale. “Esiste un’unità di misura per il male fatto, o per il bene?”
“No” il drow sorrise tristemente, ma la ricompensò con un leggero cenno del capo per aver centrato il punto. “Immagino che sarò libero quando il mio senso di colpa si affievolirà, ma il senso di colpa è ciò che alimenta il mio senso del dovere, quindi in definitiva è quello che mi tiene in vita. O in non-vita. Non ho veramente la certezza che sarò mai libero. Forse rimarrò un fantasma per sempre.”
“E come sperate che possiamo aiutarvi?” Herz prese la parola, cercando di non suonare troppo brusco. Non voleva far arrabbiare il loro ospite, i fantasmi non sono forze con cui scherzare.
“Non mi aspetto che possiate aiutarmi ad andare oltre,” ammise, “non sono qui per questo.”
“Il mio amico non è un fentimentale” confermò Dee Dee. “È un guerriero. Un guerriero con un obiettivo.”
“Un obiettivo che è anche un’ossessione” rincarò lui. “Non sono qui perché mi aiutiate a smettere di essere un fantasma. Sono qui per proporvi uno scambio. Voi studiate i non morti, vero? Avete mai studiato uno come me? Sapete cosa può fare esattamente un fantasma? Non uno che va in giro intrappolato nei suoi stessi gorghi mentali, non uno che usa i suoi poteri in modo istintivo e casuale per abbattere i viventi per invidia, ma un fantasma lucido e competente che conosce i suoi punti di forza e sa sfruttarli?”
Herz Domedias si sentì all’improvviso la gola secca.
“No” ammise, in tono un po’ gracchiante. “Nessuno ha mai messo davvero le mani su un fantasma.”
“Io vi offro la possibilità di farlo” propose il drow. “Sarò un soggetto di studio efficiente e collaborativo, se in cambio voi mi aiuterete a diventare ancora più performante, a sfruttare al meglio la mia natura e i miei poteri. Vi posso giurare che le mie intenzioni sono buone, ma non ho problemi a sottopormi a incantesimi che attestino la verità. E siccome sono virtualmente immortale, non c’è limite agli esperimenti che potreste fare.”
Julienne, già pallida di suo, sbiancò e finalmente si sedette. Herz al contrario aveva uno scintillio esaltato negli occhi.
“Dovremo verificare le vostre parole” annunciò, contenendo a stento l’entusiasmo. “Ma di certo, il fatto che la Civilar Dee abbia parlato in vostro favore è una buona cosa. Per quanto a lungo potete trattenervi?”
Il drow scrollò le spalle. “Per il tempo che vi occorrerà, suppongo. Gli elfi non hanno mai fretta, i morti ancora meno.”
Lui era, dopotutto, uno spirito molto ragionevole. Non era consumato dalla frenesia degli spettri vendicativi o dall’autocommiserazione dei fantasmi che si trascinavano per il mondo per raccontare a tutti le loro disgrazie. La sua faccenda in sospeso era un obiettivo, non molto concreto, ma pur sempre un obiettivo. A lunghissimo termine.



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Note:
[1] In effetti gli incantesimi di guarigione appartengono alla scuola Necromanzia in AD&D seconda edizione e in D&D quinta edizione, mentre nelle mie storie, che ricordo sono basate sulle regole di D&D 3.5, la guarigione rientra nella scuola di evocazione perché l'idea è che si evochi l'energia positiva per infonderla nelle persone e curarle.
[2] La morte di Anne Domedias è già citata nella storia 11. Darkness.
[3] Herz Domedias non è un chierico, ma un Archivista, una persona che studia le tradizioni di magia divina ma senza essere fedele a un dio in particolare.
[4] Sta parlando degli eventi riportati nell'ultimo arco narrativo di Jolly Adventures.
[5] Vi giuro, è così, è confermato in questo articolo. Ed ecco il motivo per cui D&D 3.5 è la mia edizione preferita. Il livello di dettagli, in questa e altre cose. Questa è l'unica edizione in cui i fantasmi siano descritti fino all'ultimo pelo del corporeo culo e non "sono spettri intangibili, fanno uuuuuh, sono legati al mondo da questioni in sospeso". Nope. In 3.5 te li potevi pure giocare. In teoria anche in Pathfinder 1, ma in D&D 3.5 sono meglio supportati dalle regole (e non solo da quelle relative a loro, ma anche dalle regole di contorno).

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Capitolo 31
*** 30. Ambush ***


Questa storia è il sequel di 13. Drider e di 26. Ritual

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30. Ambush


1256 DR, Buio Profondo vicino a Eryndlyn

Krystel e Daren stavano correndo ormai da una ventina di minuti, anche se correre non è proprio il termine adatto. Non puoi muoverti in velocità su terreno accidentato, nemmeno se sei un elfo, e le caverne naturali non sono famose per l’uniformità del suolo. Il drider, invece, con le sue otto lunghe zampe da ragno non aveva alcun problema a muoversi rapidamente sulle pareti sconnesse, sembrava volare accarezzando appena le concrezioni rocciose. Era come essere inseguiti da un incubo.
L’unico escamotage a cui i due elfi scuri erano riusciti a pensare era infilarsi più spesso possibile in cunicoli stretti e serpeggianti, in modo da sfruttare la loro stazza più minuta. Purtroppo non avevano una vera idea di dove andare, e sapevano entrambi che si sarebbero stancati prima del drider. Krystel avrebbe voluto tirare fuori qualche trucco da strega, ma il mostro non le stava lasciando nemmeno il tempo di pensare, se si fosse fermata per provare a lanciargli un incantesimo probabilmente lui l’avrebbe raggiunta e uccisa prima che riuscisse a farsi venire in mente qualcosa. E c’era comunque un’alta probabilità che la magia gli rimbalzasse addosso, sembrava estremamente coriaceo.
La drow sapeva di essere stata, tecnicamente, in situazioni peggiori. Una volta si era trovata faccia a faccia con un demone. Eppure quella volta era stata troppo arrabbiata per sentire paura, invece adesso non riusciva a provare altro che sgomento e desolazione.
Aveva trascinato suo fratello verso la rovina. Avrebbe lasciato suo figlio orfano, sperduto nel pericoloso Buio Profondo a decine di miglia da casa. Non si era mai sentita così disperata…
Anzi, no.
Una volta si era già sentita così.
All’epoca i suoi piedi affondavano nel terreno limaccioso anziché scivolare sulla roccia bagnata, ma anche allora lei aveva continuato a muoversi, sempre avanti, solo nella speranza di non essere risucchiata dalla palude.
La drow si chiese brevemente perché le fosse venuto in mente proprio adesso, le due situazioni non avevano nulla in comune a parte la costernazione e il dolore di avere abbandonato ogni speranza.
Ma forse fu proprio quello a mettere in moto gli eventi che ne seguirono.

Mentre correva, con i rumori raschianti delle zampe del drider sempre più vicini, Krystel vide una luce davanti a sé. Non poteva essere la Superficie, si trovavano a miglia di profondità e dall'inizio dell'inseguimento avevano corso solo in discesa.
"Cos'è quella luce?" Domandò a suo fratello, con il fiato corto. Lui era più esperto di lei quando si trattava delle stranezze del Buio Profondo.
"Quale luce?" Chiese invece Daren, confuso.
Krystel per un attimo fu presa in contropiede dalla risposta, poi però quel puntino luminoso in lontananza cominciò ad assumere una forma e all'improvviso fu tutto chiaro. La strega sorrise, sentendosi inondare di sollievo.
Lui era tornato. Lo stesso spirito che era venuto in suo soccorso quando da bambina si era persa nella palude, circondata da liane assassine e troll che avrebbero potuto ucciderla in un secondo. Lo spirito era apparso quella notte di moltissimi anni prima per guidarla su un sentiero di terreno solido, poi non si era più fatto vedere per decenni, perché lei non era mai più stata minacciata da un pericolo che non potesse affrontare.
Adesso era tornato, e questo significava due cose: che lei era davvero nei guai, e che la sua dea non l'aveva abbandonata. Man mano che si avvicinava allo spirito luminoso quello diventava sempre più nitido nei contorni, rivelando la sua vera forma: un orso gigantesco. Krystel non ricordava nemmeno che fosse così grande. Forse erano le pareti della caverna a farlo sembrare ancora più imponente. Lo spirito dell'Orso era uno dei tanti servitori della dea della natura, e Krystel non sapeva come mai proprio quello spirito avesse scelto lei, ma gli era profondamente grata. L'orso rimase fermo per il tempo sufficiente per accertarsi che la strega lo avesse visto e lo stesse seguendo, poi si incamminò; anche se non stava correndo riusciva a muoversi molto velocemente. La drow afferrò suo fratello per un polso e lo invitò a correre più veloce, anche se lui fece resistenza per un momento quando lei ignorò un cunicolo stretto per proseguire la corsa nella galleria più larga.
“Seguimi!” Lo rimbeccò, perché non aveva tempo per spiegare oltre. Lui, abituato a obbedire ai comandi delle femmine drow, la seguì.

Krystel continuò a tallonare quello spirito che poteva vedere solo lei, finché alla fine non li condusse a una caverna stretta e in ripida discesa. Ad un certo punto l’orso si fermò di colpo e la strega capì che dovevano fare la stessa cosa: si fermò, appena prima di una parete completamente coperta da strane liane fosforescenti, e individuò un’alcova in una parete. Trascinò suo fratello lì, un attimo prima che il drider passasse accanto ai due a tutta velocità. Li aveva visti, ma era troppo grosso e pesante per fermare la sua corsa. Andò a sbattere contro la parete coperta di liane… e la sfondò, perché non c’era nessuna parete, solo una coltre molto spessa di quegli strani vegetali. Dall’altra parte, apparentemente, c’era una caverna… ma dopo un salto verso il basso di qualche decina di metri.
Le liane cercarono di avvilupparsi attorno al corpo di quella grossa preda, ma il drider in caduta libera fece strage di quei tentacoli vegetali senza neanche farlo apposta: il suo peso strappò le liane dalla roccia, trascinandole giù con sé.
Krystel si precipitò sul bordo del piccolo baratro, per vedere cosa ne fosse stato della creatura; le poche liane rimaste si agitavano e vibravano per il dolore, temporaneamente innocue. Circa trenta metri sotto di lei, il drider aveva accusato la caduta ma era ancora vivo. Si divincolava per liberarsi dalle liane morenti, ma con gesti goffi, deboli. Aveva un braccio spezzato e anche alcune zampe erano piegate in modo innaturale. Krystel capì che era il momento di agire, spinse i palmi delle mani contro la roccia e fece appello a uno dei suoi incantesimi da strega per entrare in contatto con l’essenza della pietra.
Non le piaceva alterare la natura, ma era solo per un breve momento, e per un bene superiore. Entrò in contatto con la pietra e le chiese di cambiare.
E la pietra cambiò, ma non quella immediatamente in contatto con le sue mani; la pietra sotto il drider. Si fece malleabile, poi semi-solida, trasformandosi in fango. Uno strato di roccia alto quasi quanto un drow si trasformò in fango e il drider ci affondò dentro per metà, sollevando ondate di mota ai lati del suo corpo. La cosa sembrò lasciarlo stranito, ma stava lottando su troppi fronti: le liane che nonostante fossero state strappate cercavano ancora di soffocarlo, le zampe che non si muovevano come voleva lui… riuscì a lanciare via le liane ma alla fine affondò nel fango con mezzo corpo, tre zampe e il braccio ancora sano, su cui aveva cercato inutilmente di puntellarsi.
Krystel scelse proprio quel momento per recitare l’incantesimo inverso e ritrasformare il fango in roccia, bloccando il mostro in una morsa di pietra molto più efficace di qualunque catena.
Finalmente si permise di tirare un sospiro di sollievo, ma ci sarebbe voluto più di questo per scacciare i tremori che ancora le squassavano il corpo.
Daren intanto si era portato accanto a lei e stava tagliando con la spada le poche liane rimaste, che avevano iniziato a protendersi verso la strega inginocchiata a terra.
“Bel lavoro” commentò il drow, sinceramente colpito. “Lo hai davvero condotto in una trappola. Come sapevi che qui c’era questo precipizio?”
“Io non lo sapevo. Il mio spirito protettore mi ha aiutato a guidare il drider qui, in una trappola… anzi, in un’imboscata” si corresse, guardando con più attenzione le pareti dell’enorme grotta.
Daren sollevò un sopracciglio e si sporse per cercare di vedere quello che stava vedendo lei.
“Imboscata? Non mi sembra che sia circondato di nemici.”
La drow stese un braccio, indicandogli con un gesto l’intera grotta.
“Lo è. Questa pietra…” si slacciò in tutta fretta il nastro che teneva i suoi capelli legati in una coda, recitò un breve incantesimo e il nastro si accese di luce magica. Poi lo lasciò cadere lungo la parete del dirupo, in modo che illuminasse la roccia mentre scivolava lentamente verso terra. Daren si sporse per vedere meglio: la parete era punteggiata di macchie viola.
“Che cos’è?” Chiese, perplesso. “Il segno del passaggio di qualche mostro? Oppure un fungo infestante?”
“No, è una pietra” spiegò lei. “L’ho riconosciuta dalle sue vibrazioni energetiche. Ha un colore simile all’ametista, ma più opaca, e a livello magico ci sarà più utile. Sugilite.”
Il guerriero non conosceva le proprietà magiche delle pietre, ma sapeva che a volte i maghi usavano le gemme preziose per gli incantesimi più potenti.
“Pensi di poter usare questa… suggellite come focus per riprovare il rituale?”
“Sì… e no. Il mio errore è stato affrontare la condizione del drider come se fosse un semplice incantesimo di metamorfosi da invertire, senza prima attaccare e rimuovere la maledizione che ha addosso. La maledizione agisce come un sigillo, che devo spezzare prima di poter andare oltre e invertire la trasmutazione. La sugilite aiuta le persone a ricordare la propria vera natura, a riallinearsi con sé stesse, a ritrovare il proprio centro. Inoltre porta a bilanciarsi e rafforza l’autocontrollo. Sono sicura che il solo passare un po’ di tempo circondato da queste pietre sarebbe già utile, ma io le userò in un rituale per far recuperare al drider la sua memoria e la sua lucidità. Questo aiuterà a rompere la maledizione perché a quel punto potremo agire su due fronti. È infinitamente più efficace aiutare qualcuno che vuole essere aiutato.”
“Quindi stai pensando a un rituale… in tre parti? Prima fargli recuperare il senno, poi rimuovere la maledizione con il suo aiuto, e infine ritrasformarlo in drow?”
“Sì, esattamente” confermò lei, soddisfatta.
“Vuoi scendere adesso? Ti ricordo che quella cosa può sputare veleno.”
“Lo so. E credo che al momento ci attaccherebbe a vista. No, lasciamolo qui per qualche giorno. Le pietre inizieranno ad agire sulla sua psiche e nel frattempo il suo corpo si indebolirà per la fame. Non sarebbe un male, anche se mi dispiace lasciarlo lì affamato e dolorante e in una posizione in cui sicuramente non può…”
“Non mi interessa minimamente cosa può o non può fare in quella posizione” Daren tagliò corto. “Ti sei già esposta a molti pericoli, sorella, non rischiare ancora. Non morirà se rimane incastrato lì per qualche giorno e non è così indifeso da diventare una facile preda per altri mostri.”
Krystel aveva qualche dubbio, ma suo fratello aveva delle valide argomentazioni. Il terrore che aveva provato quando si era sentita condannata, la disperazione per suo figlio che rischiava di rimanere orfano e solo, di sicuro per lei valevano di più del benessere di un completo sconosciuto che aveva cercato di ucciderla.
“Un paio di giorni” accettò. “Però teniamo d’occhio la grotta. Non mi piace lasciarlo del tutto indifeso, in questo momento non è in sé.”
“Krystel, se fosse in sé sarebbe un drow. È molto probabile che avrebbe cercato di ucciderti comunque.”
Daren l'aveva detto in tono da umorismo nero, ma sua sorella sapeva che le sue parole avevano un fondo di verità. E questo la fece dubitare, per un momento: se fosse riuscita a liberare quel drider dalla maledizione, se fosse riuscita a farlo tornare quello di un tempo… sarebbe riuscita a non farlo diventare un nemico?

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Capitolo 32
*** 31. Alliance ***


Questa storia è il sequel di 13. Drider, di 26. Ritual e di 30. Ambush

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31. Alliance


1256 DR, Buio Profondo vicino a Eryndlyn

Krystel aveva un po' perso il conto dei giorni da quando lei, suo fratello e suo figlio erano scesi per esplorare il Buio Profondo abbandonando la relativa sicurezza della Superficie. Sapeva solo che era inverno, ma non aveva modo di calcolare con precisione i giorni e se ne rammaricava. Scegliere il giorno giusto e perfino l'ora giusta poteva essere importante nella pianificazione di un rituale. Però forse il tempo aveva un senso solo presso quei popoli che avevano medoti precisi per misurarlo. Lei non aveva idea se i drow del sottosuolo avessero qualche concetto analogo alla ciclicità dell'anno, ma propendeva per il no; le stagioni non esistevano nel Buio Profondo. Con queste premesse, calcolare il giorno giusto e l'ora giusta per fare un rituale aveva senso laggiù? Forse era una pretesa insensata, tanto quanto quella di aspettarsi che le stelle avessero una qualche influenza sulla magia del sottosuolo. Per questo lei non lo sapeva, ma il giorno in cui decise di recarsi di nuovo nella caverna del drider per vedere se fosse giunto a più miti consigli, era effettivamente l'ultimo giorno dell'anno del Trono Polveroso, il 1256 secondo il Calendario delle Valli. E forse anche quello influenzò il rituale in qualche modo, perché anche se il passaggio al nuovo anno non era una celebrazione considerata sacra né una festa molto importante per il ciclo dell'anno secondo le streghe, quello tradizionalmente era un giorno che portava con sé delle riflessioni, momenti in cui le persone vagliavano l'anno appena passato per giudicare le proprie azioni e capire come potersi comportare meglio nel nuovo anno (meglio, s'intende, secondo i propri valori). Insomma era un giorno in cui l'attenzione della gente era molto il centrata su se stessa e sul proprio passato.

Quando Krystel tornò alla cava dove il drider era imprigionato, lo trovò molto più lucido e collaborativo. Non era ancora completamente in sé, ma non cercò nemmeno di ucciderla a vista e questo era un gran passo avanti.
"Elgg usstan" fu la prima cosa che le disse. Era un sussurro, ma riverberò nella grotta vuota e sembrò rimbalzarle addosso come un'accusa, da mille direzioni.
Daren era andato con lei, come sempre, quindi fu molto solerte nel tradurre quelle parole della lingua drow.
"Ti sta chiedendo di ucciderlo" le riferì.
"Lo avevo capito. Credo di avere imparato le parole di base ormai" replicò, senza preoccuparsi di trattenere una smorfia. Forse in un'altra lingua 'uccidere' non sarebbe stata una parola di base, ma una lingua è sempre legata alla cultura che l'ha prodotta.
"Dos zhaun dosstan?" Chiese Krystel, nel suo drowish un po' zoppicante. Voleva chiedergli 'sai chi sei?' ma le era uscita una frase un po' più filosofica, 'conosci te stesso?'. Il drider infatti, insieme all'espressione ancora dolorante, le rivolse uno sguardo confuso.
"Dos zhaun vel'uss dos tlu?" Corresse Daren, riformulando la domanda in modo più diretto.
La creatura scosse la testa e rispose qualcosa in drowish, un fiume di parole troppo veloce perché Krystel potesse capire.
"Che cosa ha detto?" Domandò a suo fratello, usando la lingua comune degli umani. Si sentiva inadeguata per non essere riuscita a tradurre a mente la risposta.
"Ha detto che non ricorda chi fosse, ma è consapevole di essere stato un drow. Sa di essere stato maledetto. Dice che la sua vita è miserabile e ignominiosa, e vuole morire."
"Digli che se avessimo voluto ucciderlo avremmo potuto già farlo. Digli che voglio provare a farlo tornare ciò che era un tempo, e se non ci riuscirò allora esaudiremo il suo desiderio."
Daren obbedì alla richiesta della sorella, anche se dentro di sé sapeva che il drider avrebbe interpretato quella promessa a modo suo. Se gli era rimasta un po' di intelligenza drow, di sicuro si sarebbe chiesto perché un'elfa scura sconosciuta volesse aiutarlo, o meglio, che cosa gli avrebbe chiesto in cambio.
Il mostro rispose con altre parole che avevano l'inflessione di una domanda. Prima che gli fosse richiesto, Daren tradusse: "Chiede se sei così tanto nelle grazie della Regina Ragno da poterle chiedere di disfare quello che un'altra sacerdotessa ha fatto con la sua benedizione. Ma se fossi in te non risponderei a questa domanda, sorella. Se gli dirai di no, potrebbe perdere fiducia nei tuoi poteri e forse il tuo rituale non funzionerebbe altrettanto bene. Se gli dirai di sì, credo che prima o poi cercherà di ucciderti; è stato trasformato in drider da una sacerdotessa e questa di solito è una punizione per qualche atto blasfemo, oppure per non essersi dimostrato abbastanza forte nella sua fede."
"Digli che gli darò spiegazioni solo quando sarò riuscita a farlo tornare com'era prima" decise la drow, e Daren ubbidì riferendo puntualmente le sue parole.
Il drider continuò a guardarla con sospetto, ma era chiaro a tutti che non avesse niente da perdere. Annuì.
"Bene, questo è un bel passo avanti rispetto a quando cercava di ucciderci" constatò la strega con sollievo. "Avrò ancora bisogno di te come interprete, fratello. Voglio spiegargli che cosa mi appresto a fare, almeno a grandi linee. La mia priorità adesso è che lui recuperi il più possibile la padronanza sulla sua mente. L'ideale sarebbe che riuscisse a ricordare chi era, avrà bisogno di aggrapparsi a quel pensiero per rompere la maledizione."

Krystel e Daren rimasero a lungo in quella grotta con il drider. Lei gli spiegò le tre fasi del rituale che avrebbe compiuto e soprattutto il suo ruolo in esse, ovviamente lui non poteva capire tutto nel suo stato confusionale però lei sapeva che quando avesse recuperato la lucidità, avrebbe anche ricordato le sue parole e a quel punto le avrebbe capite.
La prima parte filò liscia, il drider aveva già cominciato a recuperare ricordi della sua identità grazie alla semplice prossimità con la sugilite, ma essere sottoposto ad una magia che doveva servire a velocizzare il processo lo aiutò moltissimo a strappare via le ragnatele che celavano i suoi ricordi e i suoi pensieri. A questo punto lei si sentì abbastanza sicura da trasformare di nuovo la pietra in fango per permettergli di muoversi più liberamente; avrebbe avuto bisogno di lui per il rituale e lui doveva poter muovere almeno un braccio.
Per la seconda parte del sortilegio lei gli chiese di concentrarsi sulla sua forza di volontà, di convincersi di voler a tutti i costi infrangere la maledizione. Il drider non aveva bisogno di essere convinto: avrebbe davvero fatto qualsiasi cosa pur di spezzare quelle catene e liberarsi dal giogo del maleficio. Krystel estrasse dalla borsa una candela nera lunga e sottile, ma con lo stoppino che fuoriusciva da entrambe le estremità. Chiese al drider di spalmare un po' del suo sangue su quella candela, cosa che lui fece mordendosi un dito fino a farlo sanguinare. Poi la drow afferrò la candela con due dita, reggendola più o meno in centro, e la porse verso il mostro tenendola in orizzontale.
"Metti le dita accanto alle mie, anche tu devi reggerla in centro. Accenderemo entrambi gli stoppini e terremo in mano la candela finché non si sarà consumata. Per tutto questo tempo io reciterò delle formule magiche e tu dovrai concentrarti sulla tua volontà di spezzare la maledizione. È possibile che della cera bollente ci cada sulle braccia, e di sicuro quando la candela avrà quasi finito di bruciare ci ustionerà le dita, ma è un piccolo prezzo da pagare. La capacità di sopportare il dolore è un'espressione di forza di volontà, lo capisci vero?"
Daren tradusse le istruzioni e il drider per poco non sbuffò in segno di derisione, dopotutto aveva un braccio e almeno tre zampe spezzati, senza contare altre fratture all'esoscheletro che avvolgeva la parte inferiore del suo corpo. E poi era stato un drow; gli elfi scuri imparavano molto presto a convivere con il dolore.
La seconda parte del rituale fu più difficile e più faticosa di quanto entrambi avessero immaginato. La fiamma della candela minacciò più volte di spegnersi come se lo stoppino fosse imbevuto d'acqua, cosa che non era, e la cera sembrava rifiutare di sciogliersi… ma il drider immaginava che fosse la maledizione stessa a opporre resistenza e scalciare. Non poteva essere semplice, rimuovere una maledizione che era stata apposta con l'approvazione di Lolth; anche se questa drow aveva scelto di non dire nulla in merito, era piuttosto evidente che non fosse una sacerdotessa della Regina Ragno. Il drider concentrò il più possibile la sua forza di volontà come se questa potesse tenere accese le fiamme, e forse lo stava davvero facendo. Si sforzò di riportare a mente tutti i ricordi della sua vita da elfo scuro, desiderando con tutte le sue forze di tornare a quella vita. Ogni tanto l'identità che aveva appena recuperato sembrava tremare e cercare di allontanarsi di nuovo da lui, ma ogni volta che se ne accorgeva lui si aggrappava ai suoi ricordi come un disperato. Era solo vagamente cosciente del rumore dei cristalli di sugilite che si frantumavano e si sbriciolavano sulle pareti della caverna, cominciando a ruscellare a terra come la sabbia di una clessidra. La strega continuava a salmodiare le sue formule in una lingua a lui sconosciuta. Non si chiese che cosa lei stesse dicendo, non si chiese se stesse funzionando. In quel momento era fondamentale avere fede, credere di poterci riuscire.
E alla fine, dopo un tempo che gli sembrò lunghissimo, il fuoco della candela arrivò a lambire le sue dita. Scottava, come prevedibile, e per istinto si sarebbe ritratto da quel dolore, ma ricordava bene le parole della drow: attraverso il dolore manifestava la sua forza di volontà. Lei mosse leggermente le dita in modo da tenere la candela solo con la punta dei polpastrelli, per non scottarsi troppo, e lui pensò che fosse sicuro seguire il suo esempio; era anche il modo migliore per far sì che lo stoppino continuasse a bruciare. Poi, senza preavviso, le due fiammelle arrivarono così vicine da consumare del tutto lo stoppino all'interno della candela, anche senza aver sciolto tutta la cera. I due fuochi diventarono uno e si spensero in un piccolo sbuffo che lui avrebbe giurato puzzasse di zolfo.
La strega fu lesta a chiudere la mano intorno alla cera calda, anzi bollente, e la manipolò con poche brevi mosse facendone prima una pallina e poi una specie di ovale un po' allungato. Le sue agili dita nere lavoravano con solerzia mentre continuava a sciorinare una litania, un po' diversa da prima. L'ovale di cera morbida divenne una figuretta antropomorfe.
Poi, senza una parola di preavviso, fece un passo avanti annullando la distanza fra loro e gli schiacciò quella figurina sulla fronte, con un colpo secco e deciso. L'omino di cera si spappolò all'istante, ma fu come se avesse trasmesso la sua forma al drider per proprietà transitiva. Il mostro si sentì attraversare da un brivido e il suo corpo cedette come se il suo cervello non avesse più il diritto di controllarlo. Ogni singolo muscolo smise di obbedirgli e il drider collassò a terra.

"È iniziata la parte difficile… per lui" mormorò Krystel, parlando a Daren. "Cerchiamo di tenerlo fermo quando cominceranno le convulsioni. Potrebbe mordersi la lingua e soffocare."
Come se fossero state chiamate, le convulsioni iniziarono poco dopo. Un corpo enorme che si riaggiusta nella forma e nelle dimensioni di un minuto elfo scuro non è mai una cosa semplice, lo è ancor meno se gli strascichi di una maledizione si mettono a remare contro.
Krystel non era sicura al cento per cento che avrebbe funzionato, ma era ottimista e credeva di avere buone ragioni per esserlo. Mentre aiutava a tenere aperta la bocca del drider (stando attenta a non farsi mordere), vide che i cheliceri da cui secerneva veleno si stavano riducendo fino a ritrasformarsi in normali denti.
Il drider sembrò dapprima accartocciarsi su se stesso come se stesse soffrendo, poi la parte alta del corpo venne risucchiata all'interno del bacino da ragno, ma era solo un effetto dovuto alla riduzione delle dimensioni del poveretto. Presto del corpo da ragno non rimase altro che un esoscheletro ovoidale con un buco dove prima spuntava il torso da drow. All'interno di quel nido fatto di chitina c'era un elfo scuro maschio, ancora rannicchiato e tremante per gli ultimi spasmi.
"Ottimo! C'è l'hai fatta!" Esclamò Krystel, con genuino entusiasmo. Poi si accorse di aver parlato in lingua Comune e cercò le parole corrispondenti in drowish. "Bwael! Dos xun!"
"Xunus. Dillo al passato, o non ha senso." La corresse Daren discretamente.
"Grazie. Dos xunus!" Ripeté lei senza scomporsi, riproponendo lo stesso tono soddisfatto.

Il drow all'interno dell'esoscheletro non si sentiva altrettanto in vena di festeggiare. Era piegato dalla nausea e il suo corpo ancora non rispondeva per bene ai suoi comandi. Sentiva il dolore delle ossa rotte, non solo il braccio, probabilmente anche il bacino e una gamba. Era nudo, senza difese, senza componenti magiche e senza il suo prezioso grimorio. Se questa strana femmina avesse preteso di prenderlo come schiavo, lui non avrebbe potuto fare niente per impedirlo.
Anzi, in quel momento si sentiva così debole che non era neanche sicuro di saper uscire da quel disgustoso residuato. Ringraziò la sua buona sorte solo per il fatto di non essere stato in grado di mangiare nulla negli ultimi due giorni: l'ultima cosa che voleva era ritrovarsi nello stomaco qualcosa che per un drider era commestibile e per un elfo no.
I due strani drow parlavano fra loro in una lingua sconosciuta, e dopo qualche battuta lui finalmente riuscì a fare il collegamento: era la lingua comune della Superficie. Forse parlavano così soltanto nella speranza che lui non li capisse, ma il suo istinto gli diceva che c'era di più: la femmina non sembrava capace di esprimersi in drowish come avrebbe dovuto, lo parlava come se fosse una lingua che aveva imparato solo di recente.
Lei si aggrappò all'apertura nell'esoscheletro e si sollevò in punta di piedi, per sbirciare dentro. Il drow malconcio e preoccupato riuscì a vedere solo i suoi occhi, perché la parte inferiore del suo volto era ancora nascosta dalla barriera di chitina.
"Usstan tlu Krystel" si presentò.
Il mago si chiese come mai lei gli stesse dicendo il suo nome. Rimase in silenzio, aspettando che lei estrapolasse.
Lei per un momento sembrò a disagio, poi riprese a parlare con lo stesso tono noncurante.
"Usstan lueth dos… abban?"
Il drow ferito non riuscì a trattenere la sua espressione stupita. Adesso lei gli stava chiedendo se voleva essere suo alleato? Anziché semplicemente reclamarlo per sé?
"Abban ulu ilindith? Abban nau-ogglin?" Domandò, per cercare di capire in che cosa si stava cacciando.
La donna sembrò molto confusa e si lasciò ricadere a terra, sparendo alla sua vista. La senti parlare di nuovo con il suo servitore, sempre in lingua umana. Ricordava di avere studiato quella lingua ma il rituale era stato davvero pesante e sentiva di non avere ancora il pieno controllo della propria mente e dei propri ricordi.

"Daren, che cosa mi ha chiesto?" Inquisì Krystel, un po' mortificata per non essere ancora indipendente nella comprensione della lingua.
"Ti ha chiesto se vuoi che sia tuo alleato per raggiungere un obiettivo specifico, oppure se vuoi genericamente che non siate nemici."
Krystel sollevò un sopracciglio. Non era abituata a pensare in termini di obiettivi. Non era una gran pianificatrice, anzi, era il tipo di persona il cui motto poteva essere 'non ti puoi perdere, se non ti importa di dove stai andando'. Prendeva la vita un giorno alla volta e vedeva il mondo come un'immensa meraviglia da esplorare. Alla fine quello era il motivo per cui si trovava nel sottosuolo: semplice curiosità verso lo stile di vita dei suoi simili.
"Senti, non puoi parlarci tu? Digli che pretendo da lui solo la comune decenza di non tagliare la gola a qualcuno che ti ha appena salvato la vita."
Daren rispose con una breve risata perché gli standard di sua sorella per ciò che era comune decenza non si allineavano molto bene con gli standard drow.
"Abban nau-ogglin" rispose, a voce abbastanza alta perché l'altro drow sentisse. Poi si avvicinò all'esoscheletro del ragno e fece quello che aveva fatto Krystel poco prima: si aggrappò e si sollevò in punta di piedi per poter guardare in faccia il suo interlocutore. Gli spiegò il più dettagliatamente possibile quello che Krystel si aspettava da lui, e non fu per niente facile. L'ex-drider sembrava non riuscire a capire come mai i suoi salvatori non volessero prenderlo come schiavo, che sarebbe stata la cosa più semplice; perché pretendevano da lui una promessa di comportamento corretto, anziché legarlo e tenerlo lontano dalle armi?
"Ah, un'ultima cosa" pretese Krystel, prima che Daren si mettesse all'opera per fare a pezzi l'esoscheletro e liberare il suo contenuto. "Fatti dire il suo nome. Non mi fido delle promesse di qualcuno che non rivela nemmeno il suo nome. Digli che non lo guarirò se non si presenta."
Daren non si curò di nascondere la sua espressione stupefatta. "Sorella! Ora mi sorprendi, il tuo cuore si è improvvisamente indurito?" Le domandò, in tono scherzoso. Lui aveva sempre avuto una sorta di timore reverenziale verso Krystel, ma soprattutto per abitudine culturale. Dopo averla vista rischiare la vita per salvare un perfetto sconosciuto, aveva smesso di camminare sulle uova davanti a lei. Alla fine si era reso conto che sua sorella non era una vera drow, non nel modo in cui la cultura lolthiana in cui era cresciuto intendeva i drow.
"No, sappiamo benissimo che lo farò lo stesso, ma tu sai bluffare meglio di me" ammise lei con una scrollata di spalle.
Daren sorrise, soddisfatto dalla risposta. Era bello sentirsi apprezzati.
Tornò a parlare con l'altro drow riferendogli la nuova richiesta che sapeva di ricatto.
"Ha detto di chiamarsi S'lolath. Non mi ha fornito un cognome, forse non ce l'ha."
Krystel si strinse nelle spalle.
"Va bene così. Tiralo fuori, voglio solo tornare nella nostra caverna e riprendere fiato."

Mentre Daren spaccava la barriera di chitina a colpi di spada, Krystel si guardò intorno, facendo la cernita delle conseguenze del loro rituale. Tutta la sugilite era andata distrutta, polverizzata, come se la sua energia fosse stata completamente prosciugata. E quella non era certo una pietra facile da prosciugare! Anzi, era famosa per essere troppo energetica, troppo instabile per certi incantesimi. Questo le fece correre un brivido lungo la schiena: la maledizione che aveva colpito quel drow non era una cosa da poco, di sicuro ce l'avevano fatta per un pelo, e se fosse successo di nuovo lei non avrebbe potuto fare nulla per aiutarlo. Quanto spesso poteva capitare di imbattersi in una caverna ricoperta di una pietra semipreziosa altamente energetica e in quantità così grandi? Forse c'era un altro modo per spezzare la maledizione dei drider, ma quale? Fare appello a divinità più potenti di Lolth? Ricorrere a un incantesimo arcano che poteva essere alla portata solo dei migliori arcimaghi?
La strega si sentì molto sollevata che avesse funzionato. Altrimenti non avrebbe saputo cosa fare. Avrebbe potuto chiedere aiuto a Chauntea, la sua dea, ma si sarebbe davvero intromessa nelle questioni private fra un'altra dea e i suoi fedeli?
"Possiamo andare" la voce di Daren la riscosse dalle sue elucubrazioni. Aveva estratto l'altro drow dalla sua prigione di chitina e gli aveva prestato il suo mantello per coprire la sua nudità.
"Lui ce la fa a camminare?" Domandò, indicando il loro nuovo alleato. O non-nemico, insomma.
"Può appoggiarsi a me, ma se tu avessi modo di guarirgli la gamba di sicuro potrebbe camminare meglio."
Krystel annuì. Non aveva preparato molti incantesimi di cura per quel giorno, perché il Buio Profondo le aveva insegnato a dare la precedenza agli incantesimi di protezione. Però aveva ancora abbastanza magia per aggiustare un osso se necessario.
I drow risalirono senza fretta la scala di corda che i due fratelli avevano appeso per tornare alla galleria sovrastante, S'lolath con speciale cautela perché aveva ancora un braccio rotto. Né Krystel né Daren si accorsero che prima di cominciare la risalita lui si era chinato un istante a raccogliere il nastro per capelli che la strega aveva lasciato cadere proprio lì, qualche giorno prima.

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