Summertime sadness

di lainil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Requiem ***
Capitolo 2: *** Fernweh ***
Capitolo 3: *** Flares ***



Capitolo 1
*** Requiem ***


Buonasera a tutti.
Nonostante la data di iscrizione tradisca un po' le parole che sto per dire, io non sono nuova in questo sito, lo conosco e l'ho frequentato fin dal lontano 2013 con un altro profilo. Ho deciso di ricominciare da capo perché sono maturata e sono pronta per questo nuovo tentativo.
Parlando della storia: ogni One Shot è a sé e verrà introdotta con un piccolo elenco sulla parte destra della pagina che conterrà personaggi, generi, eventuali avvertimenti ecc. In fondo verrà inserito il prompt da cui è nata l'idea.
Vi ringrazio dell'attenzione e vi auguro buona lettura, sperando possa piacervi.
A presto.

 
Titolo: Requiem;
Genere: triste, malinconico;
Rating: giallo;
Personaggi: Vinsmoke Reiju;
Parole: 1663.

 
 
Le sue braccia abbandonano la loro rigidità, rilassandosi dal petto ai fianchi, mentre il vento l’attraversa, senza muoverle i vestiti, senza farle ondeggiare i capelli, senza farle sentire il freddo che la circonda. Avanza senza emozioni in quel grande prato verde del quale ricordava distrattamente i colori, gli odori e la meravigliosa vista che presenta.
È così bella, la natura.
Ed è così bello appartenerle dopo tanti anni di dolori e sofferenze.
Non esiste nulla di più libero della morte, che sia voluta o meno, che sia causata da un suicidio volontario o da un efferato omicidio o, ancora, da un incidente che ti ha coinvolto senza premesse o una malattia che ti ha portato via senza darti scampo.
La morte è tanto misteriosa quanto affascinante.
E lei l’ha provata in tutte le sue sfumature.
È morta tante volte prima di lasciare che anche il corpo accettasse quella fine.
È morta con la mente una, due, cinque, venti volte in così pochi anni di vita.
Ha odiato a morte – ironia della sorte – essere nata con i sentimenti, essere il primo esperimento, che aveva come fine conferirle una grande forza fisica, ma senza privarla di altro.
Ha invidiato, alcune volte, i suoi fratelli, nati quasi tutti come essere perfetti, senza emozioni che li demolissero, ma neanche che permettessero loro di amare la vita.
O di amare qualunque cosa fosse loro permessa.
Una donna, un profumo, una canzone, un paesaggio.
Nulla.
Macchina da guerra, senza pietà, senza freni, senza l’idea del dolore e del limite. Privi della capacità di capire cosa dire e quando farlo, incapaci di provare empatia e di comprendere quando tacere.
Di pazienza, lei, ne ha avuta tanta, troppe volte.
Ha cercato di far maturare e sviluppare in loro una minima emozione, di rivedere nei loro occhi gli occhi della madre tanto amata, eliminando quegli occhi freddi e desiderosi di potere del padre.
Insegnava loro le buone maniere, come approcciarsi a qualcuno, cosa evitare e quando farlo.
Nulla era servito, il tempo era stato sprecato, loro non capivano e lei soffriva anche per loro.
Nessuno di loro voleva imparare e lei sembrava pessima a insegnare loro la vita.
E moriva ogni volta.
Moriva quando Ichiji le urlava di tacere, che era debole, che era donna e le donne, si sa – diceva lui – sono il sesso debole, da lasciare indietro, e che gli anni di differenza non sono nulla, che lui era più grande di lei e l’erede al trono e che lei non valeva nulla con i suoi stupidi insegnamenti, fallita esattamente come il loro fratello.
Moriva quando Niji prendeva il piatto e lo lanciava con forza contro la loro cuoca, insultandola, mettendo i piedi sul tavolo, rovesciando l’acqua, sputando a terra il cibo, umiliandola e coprendola di parole pesanti e indesiderate, contro una persona che non le meritava, che piangeva in cucina, incapace di venire apprezzata per i suoi sforzi.
Moriva quando Yonji, l’unico che un po’ sembrava di apprendere da quei suoi insegnamenti, la guardava negli occhi, allungava le labbra in un ghigno e la prendeva in giro, ridicolizzando quel bene che lei provava per loro, sminuendo la sua forza, criticando la sua incapacità di andare oltre le macchine che erano. La distruggeva il fatto che lo facesse solo quando anche gli altri due c’erano.
Non voleva essere un secondo fallito, non voleva seguire le orme di Sanji.
Allora le missioni le faceva con lei, ascoltandola parlare delle emozioni, ma tornato a castello tornava come i suoi gemelli, era un cambiamento di carattere e modo di fare che la demoliva, più di quanto facessero gli altri due, perché si illudeva che con Yonji qualcosa poteva risolvere, un minimo di umanità la pensava di saperla trarre.
Invece non era servito a nulla.
Non era riuscita a risolvere niente.
Aveva sprecato vent’anni della sua vita a provarci, con la sofferenza di vederli crescere e divenire sempre più privi di emozioni, sempre più vicini al padre, lontano dalla madre.
Le ultime sere ci pensava sempre più spesso all’amata madre, sognava di poterla stringere ancora tra le sue braccia, che lei le raccontasse ancora dei pranzi che tentava di prepararle Sanji e che non smettesse mai di sorriderle.
Si chiedeva se, ovunque lei fosse, li avesse visti crescere i suoi amati figli che aveva cercato di salvare, se avesse sofferto a vederli diventare quelle bambole in mano a quell’uomo che aveva amato, sapendo troppo tardi di non essere ricambiata.
Percepiva, nell’aria serale, il profumo di sua mamma come non l’aveva mai sentito e si domandava come avesse fatto a dimenticarsi negli anni quella sensazione scordata negli anni.
Allargava la braccia, come potesse volare, sul terrazzo della loro casa, immaginando di poter avere un paio di ali vere, di volare senza l’aiuto della scienza, di ricongiungersi con la madre, abbracciarla, baciarla, parlarle con gli occhi gonfi e il cuore leggero; dirle che il suo sacrificio non era stato vano, che Sanji aveva ereditato la sua gentilezza, diventando la persone più gentile che esistesse, che la sua volontà continuava a vivere anche se lei non faceva più parte di quel mondo.
Percepiva la voce calda della madre chiamarla nei sogni, farle segno di riposarsi sulle sue gambe e che tutto si sarebbe risolto nei migliori di modi, perché dopo tanto dolore che aveva patito da sola, in una famiglia di uomini, meritava tanto riposo, parole gentile e dolci di una madre, che le erano state negate negli anni più difficili dell’adolescenza, che per lei si erano ampliati, investendo l’infanzia e l’età adulta.
L’aveva salvata, l’aveva portata via una sera di maggio nel sonno e lei non poteva che esserle più grata.
Il caldo l’aveva sempre odiato e morire mentre era cosciente e sveglia non voleva che succedesse.
Sua madre lo sapeva, era pur sempre la sua amata mamma e lei la sua amata bambina abbandonata troppo presto.
Non aveva preteso nulla.
Non sognava un gran funerale, vista la semplicità della tomba della madre, le cui visite erano negate dal padre, per evitare ai suoi figli possibile malinconia o tristezza nell’età più infantile.
Così era stato con lei.
Un funerale che non c’era stato.
Un funerale al quale aveva partecipato solo lei, nel suo silenzio e nel suo essere un fantasma.
Uomini vestiti di nero, non mandati da suo padre, nessuno del suo esercito.
Sconosciuti.
Scavavano nella terra con fretta e in modo casuale, senza calcolare né dare un’effettiva forma.
Con la stessa violenza e menefreghismo, avevano fatto ricadere la bara al suo interno.
Lei aveva aspettato, si era seduta lì, a metri di distanza, sperando che qualcuno arrivasse, alla sua tomba, a salutarla, a soffrire per lei.
Nessuno era venuto.
Non che lei volesse qualcuno.
Non sapeva neanche come suo padre avesse dato la notizia ai fratelli, probabilmente l’aveva sminuita, la sua morte. Immaginava, al contrario, la reazione dei fratelli: Ichiji avrebbe riso, l’avrebbe presa in giro, definita debole, che si erano levati un peso, e gli altri due, sicuramente, gli sarebbero andati dietro a ruota, ridendo per minuti interi. Confidava e sperava che Yonji sì, avrebbe riso, ma dentro qualcosa si sarebbe rotto. Non voleva che soffrisse, ma che capisse che l’unico appiglio ad una vita degna di essere tale, si era staccato, distrutto, era sparito dalle sue mani e ora doveva semplicemente continuare ad essere una macchina, funzionare come desiderava il padre, non come voleva lui.
Sanji, il suo amato fratello, che aveva salvato anni prima, era in un’altra parte del mare e, forse, quella notizia neanche gli sarebbe arrivata, non gli sarebbe giunta in tempo in ogni caso. Lui sognava la libertà, l’All Blue, il Cuore dei Mari e lei sperava che lui mai avrebbe saputo della sua morte, non voleva rovinargli i sogni anche quando questi si sarebbero realizzati. Doveva ignorarla, la sua morte, non meritava di soffrire ancora, aveva già sofferto per la madre, aveva già avuto tempo e modo di piangere su una tomba, un’altra non doveva vederla.
Sorride Reiju al pensiero che almeno lui sia in un posto sicuro e che non abbia avuto bisogno di fuggire al mondo per sentirsi bene. Sorride a immaginarlo felice con quella famiglia che ha trovato per i mari, che non ha mai spento i suoi sogni, che non ha mai sminuito il suo essere così gentile. Sorride al non vedere nessuno al suo funerale, non meritando nulla, assassina com’è stata in vita, non meritando alcun amore né alcuna lacrima. Sentendosi sollevata a non vedere il padre, artefice di una vita rovinata e distrutta fin da piccola, senza vie d’uscita che non fosse la morte.
Non si dispiace di quel silenzio, lo ascolta e se ne bea, stringendosi nelle spalle e avvicinandosi alla tomba, con un movimento sconnesso, quasi fosse una danza, con una musica da lei inventata, su passi che non esistono, con note non ancora inventate.
Chiude gli occhi, alzando il viso verso il cielo e cercando di percepire quel vento che la morte le ha negato di poter sentire.
Non ha più bisogno di ali per volare o di sognare posti incantati e lontani da quel mondo che non ha mai richiesto.
Ora è libera, felice, senza poteri, senza scienza, senza fratelli che non la vogliono, che non possono capire il suo dolore.
Non è più da sola e non lo sarà più.
Lo sa, ne è consapevole quando sente una presenza dietro di lei, sapendo che sì, qualcuno al suo funerale è venuto.
Si gira e la vede, bella come mai, non provata dalla malattia, da stupide medicine, ma con un sorriso sornione e le braccia allargate verso di lei, che la invitano a tornare nel posto dove è sempre stata bene, per quanto poco ci sia potuta rimanere.
E gli occhi di Reiju si riempiono di lacrime di gioia, mentre un sorriso sincero, per la prima volta in tanti anni si allarga sulle labbra:
“Mamma!”
Grida, lasciandosi cadere tra quelle braccia che sanno di casa, di sicurezza e di amore, che le è stato negato per molto tempo.


Prompt: You’re a ghost haunting your own funeral. You see that nobody showed up
(Sei il fantasma che infesta il tuo funerale. Vedi che nessuno si è presentato)
 

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Capitolo 2
*** Fernweh ***



Titolo: Fernweh;
Genere: angst, malinconico, triste;
Rating: giallo;
Personaggi: Eustass Kid, Jewelry Bonney,
Trafalgar Law;
Avvertimenti: AU, possibile OOC
Parole: 1723.

 


Fernweh: si tratta di una parola tedesca che indica una nostalgia di fondo per il viaggio.
O più nello specifico una malinconia per posti in cui non si è mai stati.
 

“Aspetta!”

Aveva messo le mani davanti al corpo, tentando di bloccare l’entrata di Kid in casa loro, cercando di fargli capire con lo sguardo che desiderava, anzi, pretendevia spiegazioni per quel comportamento improvviso e per quella terza figura.

Una donna in casa loro? Ma quando mai era successo? Mai!

Di amici ne avevano, anche in comune, sia bizzarri che non, sia studiosi che lavoratori, ma quella donna, quella donna alta, con degli improponibili capelli rosa, quello strano piercing sotto l’occhio e quell’imbarazzante accozzaglia di vestiti strani, non rientrava nelle amicizie di nessuno di loro due, ma neanche per sogno, era ben lontana dai loro gusti. Quando aveva iniziato a parlare, poi, era arrivato il colpo di grazia: una voce fastidiosa, un accento non comune al loro, parolacce come virgole e mani che gesticolavano fin troppo dal nervoso, mentre accompagnavano lunghi discorsi che Kid neanche seguiva, impegnato com’era a portare da fuori a dentro infiniti scatoloni ben chiusi con lo scotch. Si fosse conclusa lì la situazione, non sarebbe neanche stata così tanto assurda. Di scuse, Kid, poteva trovarne a bizzeffe per spiegare quel tornado che era quella ragazza. Sicuramente – diamine Law era convinto – quella donna aveva una ragione importante per essere lì e anche ben chiara. Ma oltre a non averne, almeno in quel momento, Kid non faceva che ignorarlo. Gli passava vicino, lo sfiorava, quasi lo investiva a causa della poca grazia che aveva, ma non gli parlava, non gli dava spiegazioni. Aiutava la donna e parlava con lei, ma con lui neanche mezza parola, nessun saluto e nemmeno nessun insulto che lo invitasse a levarsi di torno:

“Kid ascoltami per una buona volta nella tua vita!”

Gli aveva urlato contro, consapevole di star perdendo, poco a poco, la pazienza di non venire ascoltato. Non che fosse una cosa mai successa, anzi, al contrario, ma l’ignoramento aveva sempre una ragione di base, che fosse un’arrabbiatura, una gelosia, una distrazione causata da altro. Lì, ora, in quel momento, di ragioni non ne esistevano.

E, se già questo non fosse considerabile un problema, quella sconosciuta faceva avanti e indietro da giorni, con queste maledette scatole che riempivano il soggiorno, il bagno, la camera da letto che condividevano. Potevano essere utilizzate come tavolo talmente si trovavano ovunque ti girassi.

E, più i giorni passavano, meno Law ci capiva qualcosa.

Si sedeva sul letto, osservava i due aprire le scatole, per poi richiuderle, annotarsi cose sul foglio, cancellarne altre, stracciare pagine e buttarle a terra, calciate da una parte all’altra:

“Kid, ma che vuole questa? Almeno puoi rispondere a questa mia domanda? Kid, diamine, guardami!”

Niente, ancora nessuna risposta, nessuno sguardo. Non faceva che trapassarlo quando lo fissava. Era come se lui non esistesse. I pensieri gli riempivano la mente, gli gonfiavano il cervello, gli facevano male alla testa.

Perché questa donna rimane come se fosse casa sua? Perché consiglia cambiamenti al bagno e Kid non dice nulla, ma ascolta? Perché gli ha permesso di gettare via le decorazioni preferite di Law da sopra il caminetto?

Ed è proprio quest’ultimo dettaglio a fargli notare una cosa. Le decorazioni sul caminetto (ma anche sui comodini, sui mobili in soggiorno, sul frigo in cucina) appartengono solo a Kid, non c’è nulla di Law, è tutto rosso, punk, meccanico. Non c’è nulla di serio, nero, elegante e raffinato. È la casa di un adolescente, senza un dottore al suo interno.

La rabbia cresce nelle mani di Law, mentre inizia a sbraitare in faccia a Kid, domandandogli dove diavolo siano finiti i suoi oggetti, perché li abbia gettati via senza il suo consenso, cosa ci trovasse di sbagliato visto che li ha sempre accettati di buon grado? E vuole risposte, le pretende. Vorrebbe afferrare il colletto di Kid, ma questo si sposta per l’ennesima volta, gli sfugge dalle mani, per dedicarsi ad una nuova stanza, ad un nuovo dettaglio consigliato dalla donna, che ora ha iniziato a mangiare anche da loro, ordinando pizza e quantità industriali di altro cibo, con i piatti che riempiono il lavandino, ma che nessuno ha voglia di lavare.

Law vorrebbe farlo, sul serio, ha sempre apprezzato l’ordine, la pulizia, il profumo, ma non riesce, non vuole, deve trovare risposte e non andrà a mettere le mani in oggetti che non sente più essere suoi.

È infastidito, arrabbiato dal fatto che quella donna non voglia, che sta prendendo sempre più potere, che molti oggetti di Kid sono finiti nella spazzatura per metterne dei suoi.

Non capisce davvero, Law, perché il suo ragazzo la lasci fare, lamentandosi solo inizialmente, per poi scrollare le spalle e lasciarla divertire a ordinare le cose.

E poi una mattina succede.

L’impensabile e l’inimmaginabile.

La mattina in cui Law pensava tutto fosse finito, con la donna, Bonney a quanto ha capito, che lascia la casa, senza proferire parola sul luogo in cui si recherà, e con Law che confida non torni più, sperando che tutto riprenda il suo corso, che Kid possa guardarlo ancora negli occhi e amarlo come sempre ha fatto, scoprendo che tutto fosse frutto di uno scherzo di pessimo gusto, fatto in occasione di qualche data che si è dimenticato.

E invece no.

È il contrario e l’inizio della fine.

Bonney torna, ma non è da sola. Ha una mano attorno ad un bicchiere, riempito fino a quasi l’orlo di frappè alla fragola, mentre anche l’altra mano è occupata, ma non stringe un altro oggetto, come un paio di chiavi o l’ennesima decorazione, no, stringe una mano, una piccola mano di una bambina.

Law si alza in piedi, ha gli occhi sbarrati e la bocca aperta e si avvicina, piano piano, alla porta, allungando una mano verso la piccola bambina. La bambina assomiglia incredibilmente a Kid. Ha i suoi capelli, i suoi occhi e quel suo sorriso maledetto, oltre che un viso che assume le espressioni infastidite di Kid quando si guarda attorno, studiando la casa:

“Doruya!”

La voce di Kid gli trapassa le orecchie e un senso di vuoto gli perfora il cuore.

Il suo respiro si fa pesante e la sua vista si annebbia, nel momento in cui la bimba sorride a trentadue denti, lasciando la mano di Bonney:

“Dove sei?”

Grida lei, guardandosi intorno e avanzando un po’ nella casa, intimorita da quelle scatole e da quei mobili che non ha mai visto. I passi di Kid si fanno pesanti alle spalle di Law, che non ha il coraggio di girare lo sguardo, di scoprire la realtà, di mettere insieme i pezzi. A farlo ci pensa però la bambina che, non smettendo di sorridere, allarga le braccia, iniziando a correre verso il ragazzo, che si trova dietro a Law, distanziandolo di alcuni passi:

“Vieni qua!”

La richiama felice lui, accovacciandosi a terra con un ginocchio, pronto ad afferrarla:

“Papà, mi sei mancato tanto!”

E non sono solo queste parole a trafiggere il cuore di Law, ma è anche la realtà a farlo, realtà che si mostra in tutta la sua violenza quando la bambina non gli gira attorno, ma gli passa attraverso, e nessuno dei due sente nulla, perché la bambina continua la sua corsa, venendo afferrata dalle braccia possenti del padre, e Law crolla a terra con le ginocchia, con lo sguardo perso nel vuoto che non realizza.

Stringe le mani a pugno, cercando di chiuderle sul tappeto, ma la stoffa non la percepisce, non la sente, gli passa attraverso, è solo aria per lui.

Law non capisce, non vuole capire, non vuole elaborare o comprendere, vuole che tutto sia un brutto sogno, vuole risvegliarsi la mattina dopo e trovarsi a fianco Kid che ancora dorme, attaccato a lui, invadendo il suo spazio personale nel letto.

Vuole vederlo girare per casa mezzo nudo, fregandosene di tutto e facendolo sorridere, felice di far parte della sua quotidianità.

Vuole sentirlo arrabbiato con il suo capo, mentre si sfoga con Killer seduto a capotavola, che cerca in Law un supporto.

Desidera che Bonney riprenda quella maledetta creatura che osa chiamare Kid “papà”, e se ne tornino da dove sono arrivate, senza farsi vedere mai più dal ragazzo.

Eppure Law realizza, piano piano, che non è Bonney l’intrusa, non è la bambina quella fuori luogo e Kid non sta inscenando nessuna scenetta divertente come sorta di vendetta per qualcosa che lui gli ha fatto.

Non esiste nulla di divertente o su cui scherzare in quel momento, perché nulla è finto e tutto è così spaventosamente reale.

Le sente, Law, le lacrime rigargli il viso e cadere sul suo pugno, realizzando cosa davvero stia succedendo.

È lui l’intruso in quella casa, è lui a non essere capito e a non avere senso di esistere.

Quella casa non è sua, è di Kid e ora della sua piccola famiglia, creata e cresciuta con amore e pazienza.

La famiglia che anche lui desiderava, con Kid, anni prima. Quella famiglia, quella casa, quei mobili e quei colori. È tutto così simile ai loro sogni, che Law è stato convinto che appartenesse davvero a loro e non fosse solo una speranza chiusa in un cassetto in attesa dei soldi necessari.

Soldi che ora Kid finalmente ha, anche se ciò che gli manca, pensa Law, è proprio lui.

Ma nella risata di Kid non c’è tristezza, né malinconia, c’è la fierezza e la felicità di essere padre e di venire chiamato “papà” da quella piccola creatura che ama.

Law si sente morire una seconda volta, come tanti anni prima, come quando quei progetti sono sfumati dalle mani di due giovani innamorati nel momento in cui un incidente lo ha rapito negli anni più belli. Un incidente avvenuto non per causa sua, ma per altri, ma la vita l’ha rimessa lui, non i colpevoli. La vita gli è stata strappata di dosso, così come la felicità da Kid.

Non sa spiegare cosa sia successo al rosso, non sa se lo shock sia stato tale da causargli una sorta di amnesia, neanche sa se sia possibile un cosa del genere. Non è neanche sicuro di averle vissute, certe emozioni, convincendosi sempre di più che Kid e la loro storia, siano solo frutto di una mente creativa che, in quel periodo di morte eterno, abbia potuto vagare e illuderlo di essere stato tanto amato quando era in vita.

Non sa più niente Law, chiude gli occhi, lasciandosi cadere sul pavimento freddo di quella casa dove l’unico intruso è lui.


Prompt: What are these strangers doing in your house?
You're confused and angry, it's been a week and it seems like they're not leaving, they're not even paying attention to you.
You're the ghost haunting your house without knowing it.

(Cosa stanno facendo questi sconosciuti a casa tua?
Sei confuso e arrabbiato, è passata una settimana e sembra che non se ne vogliano andare, non ti prestano nemmeno attenzione.
Sei il fantasma che infesta la tua casa senza saperlo
)

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Capitolo 3
*** Flares ***




Titolo: Flares;
Genere: triste, malinconico;
Rating: giallo;
Personaggi: Portgas D. Ace, Marco;
Avvertimenti: leggeri riferimenti a
una possibile !Depressione;
Parole: 2037.



 
Marco stringe l’ombrello che lo copre e lo protegge dalla pioggia incessante che ha investito l’isola da diverse ore. Il cielo non accenna a volersi liberare da quelle nuvole per dare spazio al sole. Una giornata triste e grigia, esattamente come la loro vita da un paio di giorni.
Il biondo abbassa lo sguardo, mantenendo la sua espressione neutra e insofferente di fronte ad un avvenimento distruttivo come la morte. La morte del suo migliore amico. Ammazzato da colui che quasi tutti consideravano un fratello, anche se a lui, in realtà, non era mai andato completamente a genio, ma Barbabianca lo aveva sempre accettato senza troppe lamentele e lui non era nessuno per dubitare delle parole del padre. Era un uomo intelligente, il vecchio, e Marco era convinto fosse in grado di capire, solo da uno sguardo, se qualcuno valesse la pena o meno di entrare a far parte della sua famiglia.

Ebbene, in tanti anni di servizio in quella ciurma, Barbabianca aveva sbagliato solo una volta: esattamente quella.

Thatch, il suo migliore amico, fratello, complice e compagno di tante avventure, era stato tolto di mezzo senza alcuna pietà da Teach, in una notte di pioggia, esattamente come quel pomeriggio. L’unica ragione era stata l’astuzia e la cultura che possedeva Thatch, la capacità di riconoscere un frutto del diavolo superiore a molti altri e rubarlo, mostrandolo fieramente ai compagni, senza intenzione alcuna di cibarsene.
Non riesce a immaginare, Marco, il dolore che debba aver patito l’uomo, con un animo tanto buono e puro con il suo, a trovarsi a lottare con un tale mostro che, per molto tempo, aveva definito un fratello fidato e un “bravo ragazzo”, come gli raccontava le poche volte che lo aiutava in cucina.

La fronte di Marco si appoggia al manico dell’ombrello e i suoi occhi si chiudono, lasciando che la mente vaghi libera per i ricordi con l’amico, perdendosi in quei bei momenti che non rivivrà, parlando con quella voce che non sentirà più e udendo, per l’ultima volta, quei dialoghi avuti qualche giorno prima, parlando del cibo e di nuove ricette che Thatch gli avrebbe assolutamente voluto far provare. Chissà che piatti sarebbero stati se li avesse messi in tavola, buoni sicuramente, forse leggermente speziati, come piaceva a lui, in razioni esagerate, come avveniva sempre.
Tutti li avrebbero amati, tutti amavano la cucina di Thatch, tutti amavano Thatch come persona e compagno.

E, forse, al livello di Marco solo un’altra persona.

Un’altra persona che Marco vede quando riapre gli occhi, una persona il cui corpo trema, bagnato dall’acqua, privo di un ombrello che non ha voluto avere, mentre le lacrime si confondono alle gocce di pioggia e la bocca è aperta, ma non fa uscire alcun urlo di disperazione.
È l’unica persona, insieme al biondo, a rimanere anche quando il funerale è finito e la tomba di Thatch si erge davanti a loro.
Tutti hanno preferito ritornare alle loro mansioni, cercando una libertà di cui sono stati privati e una tranquillità che difficilmente si potrà riavere.
Marco sospira e si avvicina al piccolo corpo tremante, allungando l’ombrello e fingendo di non sentire la pioggia che, lentamente, lo bagna.
Ace ha più muscoli di lui, ma risulta così piccolo sotto quell’ombrello che ormai si rivela inutile, essendosi bagnato per minuti, se non ore, interi:

“Torniamo alla nave.”

Consiglia Marco, senza muovere però un passo, aspettando che l’altro faccia qualcosa o parli, facendogli capire come è meglio proseguire. Ace non si muove, rimane lì a fissare la piccola tomba dell’amico, ignorando le parole dell’altro:

“Ace…”
Cerca di convincerlo:

“Lasciami stare.” Ottiene come risposta: “Voglio rimanere qua con lui.”

“Non possiamo Ace, devi mangiare qualcosa, sono giorni che non mangi e il tuo corpo ti sta chiedendo pietà. Non lo vedi?”

Nulla.

Ace non gli risponde, è seduto di fronte alla lapide e la guarda privo di emozioni.
Marco sospira e si sistema al suo fianco, continuando a coprirlo con l’ombrello:

“Non doveva morire. Non meritava di morire così giovane.”
Commenta, privo di emozioni, Ace, iniziando a strappare fili d’erba, passandoseli tra le dita e rompendoli ulteriormente, lasciandone piccoli pezzettini.
Marco non dice nulla, non sapendo cosa dire per consolarlo un minimo. Ace sta male, ma lui non è da meno, semplicemente, con l’esperienza di una vita di perdite e con vent’anni in più del minore, di cose e avvenimenti ne ha visti e subiti di più e, di piangere, ne ha perso la voglia. Lo farà, se le emozioni avranno il sopravvento su di lui, nella sua stanza, nel silenzio notturno, lasciando che il cuscino attutisca il suo dolore. Non piangerà di certo davanti a quel ragazzo, mostrando una debolezza che non dovrebbe poter avere.
Thatch era il suo migliore amico e sì, probabilmente sta sentendo più dolore lui che Ace, ma non vuole fare a gara a chi voglia urlare più forte, si trattiene per una forma di rispetto verso la tomba e quella figura, ormai non più nel loro stesso mondo, del ragazzo che se ne è andato troppo presto, lasciando la loro realtà in anticipo rispetto al suo effettivo destino:

“Quell’uomo maledetto che lo ha ucciso fa parte della mia divisione. Lo ha ammazzato ed è fuggito.” Alza lentamente la voce Ace, mentre Marco lo guarda con la coda dell’occhio: “Non può restare impunito. Ripagherò il dolore di Thatch consegnando all’oceano il cadavere di Teach.”

Marco sbarra gli occhi all’udire quelle parole, vedendo il corpo di Ace irrigidirsi per la rabbia. Di riflesso gli afferra il polso della mano chiusa a pugno, cercando non solo di rilassarlo, ma anche di fermarlo da quei brutti pensieri:

“Non dire stronzate, Ace. Ora sei stanco, esausto e distrutto da questo avvenimento. Devi stare tranquillo, quando tutto si sarà sistemato penseremo a come procedere. Anche il babbo ha detto di non reagire in modo esagerato.”

“Come fate a restare così insofferenti davanti ad un avvenimento del genere? Marco, è morto il tuo migliore amico e sembra non te ne freghi nulla.”

Gli urla contro, guardandolo negli occhi e alzandosi, mettendosi all’incirca alla sua altezza, seppur Marco si presenti più alto di lui di diversi centimetri:

“Come fai a mantenerti così serio di fronte alla tomba di un qualcuno che hai avuto attorno per mesi, anni interi e che è stato ammazzato praticamente davanti a te? Non provi il minimo dolore, il minimo dispiacere, perché non piangi?”

È arrabbiato Ace, è nervoso, incredulo, afferra la camicia di Marco, facendogli quasi scivolare l’ombrello, per poi spingerlo indietro e portarsi le mani sul viso, trattenendo la rabbia e le lacrime che gli escono dagli occhi, andando a mischiarsi con la pioggia:

“Perché non riesco.”

Gli risponde semplicemente Marco, mantenendo lo sguardo su di lui:

“Cosa significa che non riesci?”

Urla, alza la voce ancora Ace, incapace di dare un senso a quelle parole: come può mai Marco non provare niente, rimanere serio, con quella sua classica espressione di impassibilità? Non lo capisce, non lo comprende, per lui è inammissibile una cosa del genere. Solleva le mani, pronto a colpire nuovamente Marco, ma lui, più veloce e lucido del ragazzo, gli blocca entrambi i polsi. L’ombrello gli scivola dalle mani, lasciando che entrambi si scoprano completamente all’acqua.
Ace respira pesantemente, è esausto e mentalmente a pezzi, oltre che stanco e affamato, incapace di dormire o mangiare, con la mente piena di allucinazioni di giorno e di brutti sogni la notte, quelle rare volte che tenta di dormire:

“Piangi!”

“Ace… Smettila.”

Cerca di tranquillizzarlo, guardandolo privo di emozioni, sospirando per sottolineare il suo fastidio di sentirlo piangere.
Ace lo fissa profondamente con gli occhi rossi e gonfi per quelle lacrime:

“Guardami e dimmi che di quell’uomo non ti è mai fregato nulla, non ti frega niente dei tuoi compagni di ciurma.”

“Ace!”

Lo rimprovera con più decisione e pesantezza Marco, innervosito da quella frase che odia sentire e che non permetterebbe a nessuno di dire. Possono dirgli di tutto, davvero, ma non che non vuole bene alla sua amata famiglia e vorrebbe ricordare ad Ace che è uno degli ultimi arrivati e, di quella famiglia, non ne sa nulla. Ma tace, riassume la neutralità sul viso e rilassa l’espressione. Non deve mai dimenticare che Ace è più giovane, troppo giovane per aver sofferto davvero tanto nella vita. Non lo vuole sminuire, ma per arrivare alla sua realtà deve ancora passare più di vent’anni di dolori e sofferenze:

“Smettila di piangere… Tanto Thatch non tornerà.”

E chiede scusa al suo amico defunto per quella frase così priva di emozione, che fa serrare le labbra con rabbia a Ace che lo guarda, scuotendo la testa, pieno di rabbia per quelle frasi, per quella frase in particolare, che lo ha completamente spiazzato. Non pensava che a Marco potesse fregare davvero così poco:

“E smettila di frignare, chissà quanta gente perderai in tutti i tuoi anni di vita.”

“Come se non mi fosse già successo.”

Trema Ace a dire quelle parole. Proprio a lui lo sta dicendo Marco, lui che, oltre al padre e alla madre, ha perso anche uno dei suoi preziosi fratelli, senza potergli dare l’ultimo saluto, l’ultimo abbraccio, senza averci potuto fare l’ultima risata:

“Ma che cosa ne sai?” Lo guarda, scuotendo la testa e deglutendo con forza: “Cosa ne sai te del fatto che io abbia sofferto o meno per una morte? Tu non sai niente di me, Marco. Non sai cosa significhi essere me. Non hai idea. Non puoi capire come ci si senta a sentirsi così inutili. Voglio solo che tutto questo scompaia! Voglio che tutto finisca! Non voglio più soffrire per una morte, per qualcuno che non sono stato in grado di salvare in tempo. Non voglio più vivere queste sofferenze!”

Gli grida, disperato, ma Marco non cambia espressione, non allevia la stretta, mantiene la presa salda sui polsi del ragazzo, guardandolo piangere e continuare ad urlare. Fa un lungo respiro, per poi avvicinare con decisione verso di sé le proprie mani, tirando dietro anche Ace che finisce per sbattere contro di lui, impedendogli qualsiasi desiderio di fuga, legandogli le braccia attorno al corpo e tenendolo lì.

Ace respira, fa lunghi, incessanti respiri, ma non si muove dal petto dell’uomo, rimane lì. Rimane lì e continua a piangere, non essendo in grado di smettere:

“Thatch è morto, Marco. Thatch è morto e nessuno ce lo riporterà mai più indietro. Se ne è andato per sempre.”

E nuovamente scoppia a piangere, stringendosi a Marco, cercando una sorta di supporto.
Marco non dice nulla, lo stringe più forte e lo lascia sfogare, tornando a guardare la tomba che giace ai loro piedi e sentendo gli occhi pizzicargli un minimo, distrutto da tutte quelle urla e da quel dolore di un ragazzo così giovane rispetto a lui. Si augura, in cuor suo, che Ace non debba mai soffrire come lui, che rimanga meno nella Ciurma di Barbabianca, che ricominci a vagare da solo senza affezionarsi a nessuno, tutto per non farlo diventare come lui. Nemmeno lui riesce più, nemmeno lui reggerebbe ad un‘ennesima morte e proprio a causa di questa costante paura si è ritrovato a dover costantemente non dimenticare di vivere ogni momento con ogni persona come se fosse l’ultimo, preferendo sedersi spesso vicino a Barbabianca, guardare gli altri gioire e festeggiare e mantenersi distaccato, imprimendo ben nella mente quei momenti, temendo che il giorno dopo non tutti siano più lì a festeggiare.

Fa male, perché nonostante spesso si sia sentito un idiota a fare queste cose – che si vergogna di raccontare a chiunque –, quell’ultima sera è servito farlo, è servito per vedere un’ultima volta Thatch felice, ridere, scherzare, prenderlo in giro per non aggiungersi agli altri.
Ha fermato quella scena e la ha ben stampata nella mente.
Thatch esisterà sempre, non importa quanto tempo possa passare, e sarà sempre sorridente e spensierato, com’è giusto che sia.

Chiude gli occhi Marco, raccogliendo l’ombrello e prendendo per mano Ace, che non ha ancora smesso di piangere, pronto a tornare sulla nave, diversi minuti dopo quello scambio di battute.

Riserva un ultimo sguardo alla tomba, pronto a lasciarsela dietro per sempre, sorridendo malinconicamente al suo migliore amico sperando che, ovunque sia, lui sia felice e continui a festeggiare e a brindare alla famiglia che ha lasciato indietro.



Prompt: “You can’t understand how it is to feel this worthless. I just want it all to go away! I want it all to STOP!”
("Non puoi capire come ci si sente a sentirsi così inutili. Voglio solo che tutto vada via! Voglio che tutto finisca! ")

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