Cronache di tutto

di Shireith
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Antichi quadri ***
Capitolo 2: *** Prime volte ***
Capitolo 3: *** Carta ingiallita ***
Capitolo 4: *** Vecchia gioventù ***
Capitolo 5: *** Maschere di creta ***
Capitolo 6: *** Aoyama li fa e Sonoko li accoppia ***
Capitolo 7: *** D’ingiustizie e compromessi ***
Capitolo 8: *** Colleghi atipici ***
Capitolo 9: *** Galeotto fu l’ascensore ***
Capitolo 10: *** Lei per loro ***
Capitolo 11: *** Rossa speranza ***
Capitolo 12: *** In un’altra vita ***
Capitolo 13: *** Ricordi saporiti ***
Capitolo 14: *** Giochi da grandi ***
Capitolo 15: *** Sarà un addio ***
Capitolo 16: *** Incontro fortuito ***
Capitolo 17: *** Sei un pessimo attore, sai? ***
Capitolo 18: *** A piccoli passi ***
Capitolo 19: *** Il tacco ferisce più della spada ***
Capitolo 20: *** Tre finali per un nome ***
Capitolo 21: *** Di padre in padre ***
Capitolo 22: *** Il silenzio di chi urla ***
Capitolo 23: *** Così vicini da esser lontani ***
Capitolo 24: *** Passato che non ha futuro ***
Capitolo 25: *** Sugli effetti collaterali di un drink ***
Capitolo 26: *** Dubbi d’età e film di dubbio gusto ***
Capitolo 27: *** Dove c'è lui ***
Capitolo 28: *** Le colpe dello zero ***
Capitolo 29: *** Inizio e fine ***
Capitolo 30: *** Ridere del pianto ***
Capitolo 31: *** Senza domani ***



Capitolo 1
*** Antichi quadri ***


Prompt: backstory
Personaggi: Elena Miyano,
Atsushi Miyano, altri
Pairing: Elena/Atsushi
Rating: verde

Antichi quadri


 Succedeva spesso, quando Akemi era ancora neonata, che i suoi pianti squarciassero il silenzio che avvolgeva la notte e i suoi lamenti disturbassero il riposo dei suoi genitori. Il loro sonno all’epoca era un quadro colorato in cui il nero appariva sporadico, senza macchiare la tela impregnandola di lugubri pensieri e paure per un futuro incerto; allora uno dei due s’alzava e raggiungeva la piccola nella stanza adiacente.
 Se toccava ad Atsushi, era perché aveva il sonno leggero e non sopportava sentire la sua bambina piangere, le sue lacrime gli davano l’impressione di aver commesso qualche imperdonabile mancanza di padre. Recuperava gli occhiali sul comodino e avanzava silenzioso lungo il corridoio che collegava le due stanze, apprestandosi, una volta varcata la porta, a prendere in braccio Akemi con estrema delicatezza, come fosse di porcellana.
 «Ssh, bambina mia.»
 Se toccava a Elena, era perché suo marito si era coricato a tarda ora e nemmeno i naturali capricci di Akemi potevano restituirlo alla realtà.
 «Vai tu», mormorava lei pigramente, aggrappandosi alla sottile speranza che qualcosa, dentro di lui, si smuovesse e lo inducesse ad alzarsi, risparmiandole quella fatica che, il giorno dopo, si sarebbe manifestata in occhiaie poco estetiche e sonori sbadigli. Lui però mugugnava a stento, lucido forse abbastanza da pensare quanto contraddittoria potesse essere Elena alle volte; e aveva in effetti ragione, perché lei, compresa l’amara sconfitta, gli metteva il broncio mentre scostava le coperte per alzarsi.
 Il freddo l’accoglieva senza che lei l’avesse invitato; inforcava gli occhiali, raccogliendo talvolta i capelli chiari nella prima acconciatura che le risultava più pratica al momento, e stringendosi nella vestaglia da notte compiva piccoli passi verso la camera di Akemi. Entrava senza curarsi di richiudere la porta, covando l’immaturo pensiero che magari, fintanto che Akemi avesse pianto, Atsushi si sarebbe svegliato, alla fine – eccola, una delle sue tante contraddizioni, di quelle che trasformavano la scienziata perspicace in un qualcosa di simile a una bambina capricciosa.
 Mentre cullava Akemi, Elena spesso ci ripensava – ad Atsushi, ai loro modi di fare che agli occhi dei più sarebbero sembrati, forse a ragione, sciocchi e privi d’ogni raziocinio, soprattutto se messi in atto da due menti tanto brillanti. Di questo ci rideva, Elena, considerando inutile preoccuparsi dell’opinione altrui; e forse rideva anche perché Akemi, calmatasi, chiudeva i pugni in aria, come a voler afferrare l’affetto della madre, e sorrideva come solo i bambini sanno fare.
 «Ssh, bambina mia.»
 La prima volta che l’aveva vista sorridere, la prima volta che l’aveva sentita ridere, Elena avrebbe potuto giurare che un fuoco le si fosse acceso in petto. Dapprima scintilla flebile, era diventata poi fiamma che, presto, sarebbe divampata in un incendio controllato, irradiandosi in tutto il corpo, dalla pianta dei piedi alla punta dei capelli.
 
 Con Shiho era tutto diverso. La notizia del suo arrivo era sopraggiunta quando il loro piccolo quadro familiare era armonico e pieno di colori in cui predominavano il giallo della speranza, il rosso dell’amore, il rosa dell’affetto. Il nero era arrivato dopo, mesi dopo, quando Elena e Atsushi avevano capito che errore era l’unica parola che potesse definire la scelta di accettare quella maledetta offerta di lavoro.
 Se n’erano accorti troppo tardi, quando il nero li aveva già avvolti, catturandoli come una bestia fa con le proprie prede e affondando famelica le sue fauci nelle loro carni, da cui, lentamente, avrebbe sottratto loro la vita stessa.
 Con Shiho era tutto diverso perché lei era diversa.
 Le notti erano vittime d’un silenzio che era semplicemente troppo – innaturale, opprimente, che s’attorcigliava attorno all’intera casa come un pesante mantello e le rubava l’ossigeno.
 Shiho piangeva di rado, tanto che, quando lo faceva, era più un sollievo che altro. Quasi sempre era Atsushi ad andare a controllare. Scostava le coperte e si metteva a sedere, il tempo per osservare Elena e chiedersi che cosa vedesse contro le palpebre chiuse, se gli inafferrabili momenti felici del passato o i fantasmi del presente. Probabilmente la seconda, perché poi, il giorno, la vedeva con gli occhi stanchi, alle cui ciglia erano ancorati quegli stessi fantasmi che nemmeno al sole volevano scomparire.
 La osservava sonnecchiare, Atsushi, e poi se ne andava, raggiungendo la camera un tempo di Akemi che ora era anche di Shiho.
 «Papà, papà, Shiho piange! Che cosa devo fare?»
 «Tranquilla, Akemi, ci penso io.»
 La prendeva in braccio, accogliendola come una pietra preziosa, e la stringeva forte, forse anche troppo, per sopperire alla paura costante che da un momento all’altro l’avrebbe persa.
 
E forse tuo padre ha ragione, Shiho. Forse ben presto non ci saremo più. Non potremo vederti crescere; non potremo vederti compiere i primi passi, né potremo insegnarti ad andare in bicicletta. Non sapremo mai che colore ha la tua risata. Di questo, Shiho, la mamma ti chiede scusa.
Ti abbiamo voluto bene, e abbiamo sperato davvero di poter uscire da questo inferno – è troppo tardi.
Buon diciannovesimo compleanno, figlia mia.

 
NOTE ➳ Ed eccomi, per il rotto della cuffia, a pubblicare qualcosa per questo Writober! Sono le 23:51, se qualcuno (ma chi?) se lo stesse chiedendo, e , sono scema. Soprattutto, amo procrastinare.
 Come da titolo, questa sarà una raccolta incentrata su tanti personaggi e pairing diversi. Spero di riuscire a portarla avanti per quasi tutto ottobre; non conto di scrivere tutti i giorni, ma nemmeno di fermarmi troppo presto. Si vedrà!
 Da me potete sicuramente aspettarvi la ShinShiho (avevo in mente qualcosa con il prompt riflesso, ma non ce l’ho fatta), però non vi nascondo che ho in mente accoppiate un po’ strane – parecchio strane, sarebbe meglio dire.
 Le storie saranno tutte scollegate tra loro; nel caso accadesse diversamente, lo segnalerò.

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Capitolo 2
*** Prime volte ***


Prompt: cerchio
Personaggi: Shiho Miyano, Shinichi Kudo, Gin
Pairing: Shinichi/Shiho, Gin/Sherry
Note: lime, what if?
Rating: giallo

Prime volte


 La osserva dormire – è bella.
 Di giorno, i suoi occhi sono aperti, rigorosamente vigili, come se quell’azzurro che ha incastonato nello sguardo temesse ancora che le ombre del passato possano attaccarla alle spalle, distruggendo in un attimo quella parvenza di vita normale che il tempo l’ha aiutata a ricostruire.
 E forse è proprio così, in effetti; gli occhi di Shiho gli parlano di antichi segreti e dolori celati ai più, e Shinichi si sente onorato di sapere che lui, tra tutti, è l’unico a conoscerli.
 
Eppure forse non vorrebbe.
 
 Perché di notte quegli occhi sono chiusi, catturati da un mondo ancora più cattivo di quello illuminato dal sole, un mondo che non perdona perché perdonar non vuole. Nel regno di Morfeo, Shiho rivede tutto, forse anche di più, e Shinichi è lì quando si rigira tra le coperte fino a ridurle a un ammasso informe mentre alle labbra sfuggono parole rubate agl’incubi.
 E allora le sue mani, bollenti (Shiho è fredda, dentro e fuori), cercano il contatto – un tempo era timido, figlio dell’inesperienza e dell’imbarazzo delle prime volte; ora è bello, familiare, forte di quelle prime volte che sono diventate tante.
 Per Shiho, prime volte è un’espressione amica, due parole che associa a un sorriso vanaglorioso che la irrita ma di cui, allo stesso tempo, non può fare a meno.
 
Prime volte, però, un tempo aveva accezione crudele, quattro sillabe pregne di colpe e vergogne. Se fosse una persona romantica,
Shiho direbbe che le prime volte del cuore sono sue, di Shinichi – le prime volte del corpo, però, sono di Gin.
 
 Rabbrividisce.
 «Tutto bene?»
 «Ho un po' freddo.»
 Agguanta il lenzuolo sgualcito, Shinichi, mentre Shiho striscia un poco più su, quel tanto che basta per rimpicciolirsi al suo fianco come un cucciolo di felino spaventato. Le sue dita tracciano piccoli cerchi sugli addominali rilassati di Shinichi, che si contraggono al tatto familiare – soffre il solletico.
 Gli angoli della bocca di Shiho si arcuano all’insù, ma non disegnano un sorriso perfetto, quasi fosse troppo stanca per completare l’opera.
 «Non ridere. Sei fredda.»
 «Tu sei bollente.»
 
Anche la pelle di Gin era fredda – forse perché sono simili, dopotutto, lui e Sherry.
Se così non fosse, se i loro mondi fossero in contrasto, allora lei non saprebbe dire perché aveva accettato di partecipare a quel rituale.
Non saprebbe dire perché le notti in cui si presentava da lui erano sempre più frequenti, portatrici silenziose di un peccato mai confessato e vergognoso che ha segnato anima e corpo.
Gin non era gentile, non lo era mai stato.
Shiho, anzi, ricorda la sua presa forte e priva di un qualsiasi tipo di riguardo nei suoi confronti; ricorda gli occhi, due fessure sul
volto pallido e scavato che la divoravano quasi non fosse nemmeno umana – perché il sentimento che marchiava l’interesse di Gin, dopotutto, era ossessione.
 
 Le dita di Shinichi, invece, sono delicate (e bollenti), i polpastrelli gentili – affamati, , eppur gentili. Quelle prime volte (belle), le era nato in petto il desiderio di scansarsi, perché tanto riguardo le era estraneo e si domandava, dopotutto, se lo meritasse.
 Shinichi è attento, lo è sempre stato.
 Quelle prime volte, le sue mani esploravano e sollecitavano punti precisi con la baldanza di chi capisce di star agendo bene e il piacere di Shiho che catturava l’aria sottoforma di gemiti e mugolii sconnessi la faceva sentire sporca – come se quello stesso piacere fosse un peccato, testimone di carezze e baci che non meritava.
 
Le colpe che le segnano la pelle, invece,
crede di meritarle (sono quelle di Gin).
Su di lui, Shiho non ha mai disegnato cerchi.
Su di lei, Gin ha inciso graffi e morsi.
 
 Disegnare cerchi su Shinichi, però, le piace.
 Non si rende nemmeno conto che, poco dopo, anche le sue dita sono calde.

 
NOTE ➳ Eccomi, di nuovo, a pubblicare un’ora prima della mezzanotte (organizzazione, questa sconosciuta!). Il modo in cui sto affrontando questo Writober è una metafora accuratissima della mia vita. Ergo, completamente casuale. Però, be’, fintanto che scrivo, a me sta bene!
  Avevo detto che avrei scritto qualcosa su Shinichi e Shiho, e infatti eccomi qui! In realtà l’ispirazione è partita da Gin, forse perché proprio oggi ho letto i primi spoiler sul capitolo 1061 e sono al settimo cielo.
  Il mio rapporto con la Gin/Sherry è un odi et amo. Mi affascina molto il loro rapporto (che cosa non mi affascina, d’altronde, di Shiho?), ma non posso dire di shipparli perché… no. Lei si merita di meglio, e l’unico posto in cui lui deve stare è in galera – o sotto venti metri di terra, fate voi.
  Grazie per aver letto fin qui!

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Capitolo 3
*** Carta ingiallita ***


Prompt: POV (first person as letter)
Personaggi: Akemi Miyano,
Shiho Miyano
Pairing: nessuno
Rating: verde

Carta ingiallita


«Non sarebbe successo,
se fosse rimasta buona al suo posto.»
 
27 settembre
 
Cara Shiho,
non è passato molto tempo da quando sei volata oltreoceano, eppure già mi manchi.
È bella, l’America?
Una mia compagna di classe – te la ricordi, Megumi-chan? Te ne ho parlato! – dice che è una domanda superflua. Certo che l’America è bella! Mi piacerebbe visitarla, un giorno. Con te, Shiho. Mi ci porterai, quando sarai tornata?
Con affetto,
Akemi
 
8 ottobre
 
Cara Shiho,
un po’ di vita, su! Non parlarmi come se fossi una vecchia di novant’anni!
Come sarebbe a dire «niente di speciale»? Sei in America! Goditela, finché puoi.
Ti chiederei come vanno le cose a scuola, ma so già che avrai ottenuto il massimo dei voti in tutte le materie. Piuttosto, ti sei fatta qualche amica? Se scopro che ti sei isolata come tuo solito, Shiho, non te la farò passare liscia. Sei giovane, devi pensare a divertirti – e non alzare gli occhi al cielo, ti conosco troppo bene.
Con affetto,
Akemi
 
P.S. Tra poco è Halloween! In America è molto sentito. Hai già dei programmi?
 
 
17 ottobre
 
Cara Shiho,
non lo credevo possibile, ma comincio a sospettare che Megumi-chan sia anche più brontolona di te. Dice che le lettere sono datate e che dovremmo comunicare via mail. Ci avevo già pensato – me l’hai rinfacciato anche tu – ma non ne vedo il motivo. Mi piace scriverti e aspettare una tua risposta, anche se così ci mettiamo più tempo.
A proposito di Megumi-chan… Mi ha fatto notare una cosa importantissima che mi sono dimenticata di chiederti. C’è già un ragazzo che ti piace, lì in America?
Mi vergogno come una matta a scriverti queste righe, ma a te devo proprio dirlo (nemmeno Megumi-chan lo sa!). C’è un ragazzo, nella classe accanto alla mia, che mi piace tantissimo. È nel club di baseball ed è un lanciatore bravissimo. E poi è così intelligente…
Non gli ho ancora rivolto la parola, però. Forse non sa nemmeno che esisto. Sono un disastro.
Con affetto,
Akemi
 
P.S. Guarda che è inutile che cerchi di evitare di rispondere alle mie domande sviando la conversazione.
 
26 ottobre
 
Cara Shiho,
niente scuse! Esci un po’, almeno ad Halloween! Non è difficile farsi degli amici, credimi, e non c’è nulla che tu debba cambiare di te stessa per piacere agli altri. Vai benissimo così come sei. Sorridi un po’, e vedrai che le cose andranno bene. Te lo prometto.
Qui a Tokyo è tutto tranquillo. Le temperature si sono abbassate, comincia a fare davvero freddo. Alcuni ragazzi della nostra classe vogliono organizzare una festa. Io e Megumi-chan ci andremo. Scatteremo un sacco di foto e te le invierò tutte, d’accordo? Vedi di fare lo stesso!
Con affetto,
Akemi
 
1° dicembre
 
Cara Shiho,
siamo finalmente a dicembre! Sento già il profumo del Natale nell’aria.
Tokyo è bellissima. Colorata, caotica, piena di vita. Vorrei che fossi qui con me. So che non puoi tornare nemmeno per Natale, ma non fa niente. Sarà per l’anno prossimo.
Com’è in America, il Natale? Bello? Immagino di sì. Ho visto spesso New York nelle cartoline, è uno spettacolo che ti toglie il fiato. Soprattutto l’albero di Central Park. Un giorno lo andremo a vedere insieme, ci stai?
Mi chiedo se i mercatini in America siano come quelli che ci sono qui a Tokyo.
A proposito, ho già il tuo regalo! È bellissimo, sono sicura che ti piacerà. C’è un oceano a separarci, ma non accetto scuse: me ne aspetto uno anche da parte tua. Intesi?
Con affetto,
Akemi
 
P.S. Fa freddissimo, qui. Copriti bene, mi raccomando!
 
28 dicembre
 
Cara Shiho,
ci credi che manca pochissimo all’inizio del nuovo anno? Non vedo l’ora!
So che, se fossi qui, mi diresti che mi esalto anche per le cose più banali, ma non posso farne a meno. Quest’anno è proprio volato.
È il primo capodanno che passerò senza di te, è un po’ strano a pensarci. Vorrà dire che ci rifaremo l’anno prossimo, tra quattro giorni.
Con affetto,
Akemi
 
P.S. Non fare quella faccia che fai sempre. La mia battuta faceva ridere.
 
 Shiho non ride – non ha mai imparato a farlo.
 Sul calendario, nella stanza in penombra, la timida luce lunare bagna appena gli ultimi giorni di novembre. Sono passati anni, eppure nulla è cambiato – è sola, come lo è sempre stata. America o Giappone, per lei non fa differenza. Non è come Akemi.
 
«Capito, Sherry?
Non sarebbe morta, tua sorella,
se fosse rimasta buona al suo posto.»
 
 Deglutisce. Ha paura di quella donna, tanto che, quando le ha sussurrato quelle parole con tono mellifluo, è rimasta immobile. Non ha trovato la forza di reagire, di far notare a Vermouth che parlava per ignoranza.
 Il posto di Akemi non è mai esistito perché rinchiuderla in gabbia è sempre stato impossibile; appartiene – apparteneva – alla libertà, a quella soltanto. Shiho, invece, ha l’anima di chi non appartiene a niente e a nessuno, nemmeno a se stessa.
 Le lettere di Akemi riposano sul legno scuro della scrivania. In una delle tante, la sorella le raccontava del primo capodanno a Tokyo senza lei.
 Shiho se lo ricorda, quel capodanno – per lei era stato spento, grigio come i nuvoloni che s’erano ammassati in cielo per buona parte della stagione invernale. Aveva però mentito, nelle sue lettere, raccontando ad Akemi di un’amica mai esistita per non farla preoccupare. Ora mentire non serve più, perché in vista dell’imminente capodanno nessuno cercherà la sua presenza, nessuno avvertirà la sua mancanza.
 Le lettere hanno la carta ingiallita, consumata in più punti, forse perché quella ha così tanto da raccontare da non essere riuscita a mantenersi immacolata. Anche la carta ha pianto, lì dove le lacrime di Shiho si sono infrante in piccoli cerchi umidi.
 Ci sono anche ora, quelle lacrime.
 Nessuno le sente, nessuno le asciuga.

 
NOTE ➳ Shiho appare per la prima volta nel volume 18 del manga. In quello successivo, il diciannovesimo, c’è il caso che nell’adattamento italiano dell’anime conosciamo come Minaccia allo stadio, e viene espressamente detto che la data corrisponde al primo gennaio. Poiché, poco dopo la morte di Akemi, Shiho si ribella agli Uomini in Nero e assume l’identità di Ai Haibara, i conti tornano.
 Un’altra volta mi sono complicata la vita per niente; pensavo sarebbe stata una cosa breve («Dai, una flash-fic, ce la posso fare!»), ma ovviamente no.
 Non mi sorprende che finora tra i personaggi trattati figurino soprattutto i Miyano, oltre che Shinichi, Rei e Gin, perché scrivere di loro mi piace tanto. Tuttavia ho iniziato questa raccolta anche con lo scopo di esplorare nuovi orizzonti (leggasi: basta scrivere sulla famiglia Miyano), perciò considero questi primi tentativi una sorta di “riscaldamento”, per così dire: da domani si cambia registro.

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Capitolo 4
*** Vecchia gioventù ***


Prompt: diventare genitore
Personaggi: James Black, Jodie Starling
Pairing: nessuno
Rating: verde

Vecchia gioventù


 La donna che un tempo ha amato non ha nome perché un nome non è importante, un susseguirsi casuale di lettere e sillabe utili alla bocca ma superflui per il cuore. Il volto, però, quello è impresso a fuoco nella mente, che lo proietta contro le palpebre chiuse ogni volta che lui s’addormenta.
 La rivede in sogno, James, e forse è proprio così che sa di averla amata veramente – quando era giovane, inesperto, un po’ folle. Si dice, non a caso, che la giovinezza sia speranza e intraprendenza.
 James era speranzoso quando l’aveva frequentata, immaginando già un futuro che però l’intraprendenza non aveva saputo afferrare; se l’è lasciata sfuggire, alla fine, e ora è troppo tardi.
 Un giorno, forse, un’altra donna arriverà – è giovane, dopotutto.
 
 È giovane, già, ma si tuffa anima e corpo nel suo lavoro, scalando i ranghi dell’FBI come semplici gradini, e gli anni migliori che avrebbe dovuto vivere si sgretolano come foglie secche. Quello che ha sognato – una moglie, una figlia, qualcuno da cui tornare la notte – è, appunto, solo un sogno.
 Non è durato.
 
 Un giorno, quando già lui si sente vecchio (si sbaglia), la vita di James cambia, e con essa la visione che ha del mondo. Accade tutto in fretta, troppo in fretta, quasi come se qualcuno, per dispetto o per noia, avesse accelerato il corso naturale degli eventi.
 La sera, al termine di un’estenuante giornata di lavoro, James si trova di fronte a un compito apparentemente semplice, eppure ingrato.
 Due occhi chiari di bambina lo osservano da sottinsù, ignari delle nuove consapevolezze che presto potrebbero oscurarli per sempre. Eppure, apprende James mentre lentamente le spiega la situazione, la voce segnata da una gentilezza che non credeva di possedere, quella bambina è forte, tanto.
 «Papà e mamma non ci sono più?»
 È una domanda semplice, schietta, posta da chi ancora non ha l’età per comprendere i fili sottili delle complessità umane.
 «No, Jodie», riesce solo a formulare, incapace di articolare rassicurazioni che probabilmente sarebbero vane. Decide, però, che qualcos’altro può farlo – non vuole che quella bambina rimanga sola.
 
 Il cuore di James è a metà, quello della piccola Jodie anche: si sono ritrovati nello stesso posto per una crudele coincidenza, ma forse qualcosa di positivo c’è.
 James li rivede tutti i giorni, quei suoi occhi limpidi come il cielo d’estate, e tutti i giorni si stupisce che l’azzurro non abbia ceduto e resista ancora.
 
 Presto Jodie diventa una bambina grande che frequenta le scuole elementari.
 Il suo primo giorno, James la accompagna di persona, acconsentendo, una volta in macchina, a sintonizzare la radio su quella stazione che lei adora.
 Quando è ora di tornare a casa, pranzano insieme – finalmente serve a qualcosa, quell’enorme tavolo a sei posti – e Jodie gli racconta così tanti dettagli che sembra che di giorni di scuola ne abbia vissuti mille.
 Nel primo pomeriggio crolla sul divano, stanchissima, e James pensa sia meglio per lei riposare nel suo letto – finalmente serve a qualcosa, quella stanza vuota che non ha mai impiegato in alcun modo.
 Dopo averle rimboccato le coperte si ferma a osservarla, rapito da una semplicità che per qualche motivo gli sembra estremamente affascinante. Si siede, addirittura, e con dita incerte, quasi tremanti, le scosta un ciuffo chiaro dalla fronte. Jodie dorme beata.
 Continua a scrutarla attentissimo, quasi vi fosse un importante dettaglio che finora gli è sfuggito, e sorride. Si sente giovane, James, mentre pensa che dopotutto una figlia l’ha sempre voluta.

 
NOTE ➳ Finalmente qualcosa che rasenta la lunghezza di una flash-fic, wow! Vorrei dire a me stessa di continuare così, però mi sono già un pochino portata avanti con le storie dei prossimi giorni e… lasciamo stare.
 Ma torniamo a oggi. Dei prompt di questo quinto giorno, diventare genitore era per me il più palpabile; mi è venuto in mente James perché, a differenza d’altri, diventa “genitore” per caso. Non conosciamo i retroscena della sua vita, ma mi piace pensare che si sia preso cura di Jodie proprio come una figlia. Mi ricordano un po’ Agasa e Ai/Shiho, solo che se avessi scritto un’altra volta su di lei tanto valeva intitolare questa raccolta Cronache della famiglia Miyano.
 Nella prossima storia ci sarà un'accoppiata particolare, se così possiamo definirla; a domani, dunque!

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Capitolo 5
*** Maschere di creta ***


Prompt: scultura
Personaggi: Rei Furuya,
Akemi Miyano
Pairing: Rei/Akemi
Rating: verde

Maschere di creta


 Rei Furuya è un uomo che più uomo non è.
 Sorride – quanta melodrammaticità, per una persona come lui. Non è nelle sue corde essere tanto pessimista.
 Osserva il suo riflesso nello specchio, il volto tagliato da un ghigno finto tanto quanto la sua nuova identità. Tōru Amuro è un nome scomodo, che le labbra avvertono come estraneo e che alle orecchie suona antipatico – eppure è necessario.
 Più che uomo che ha cessato di esistere, riflette, è un uomo che ha tre facce, tre identità, tre scopi. Il cuore, tuttavia, quello è uno soltanto, e le cicatrici che lo segnano (nascoste, e per questo ancor più maligne) sono tante – impossibili da contare, dolorose da ricordare.
 Si guarda allo specchio, Tōru Amuro, e si domanda che cosa sia rimasto di Rei Furuya.
 
Akemi ha le mani e il volto sporchi di creta. Rei sospetta che, una volta tornata a casa, quella sua distrazione le costerà una sgridata da parte di sua madre Elena, che non esita a mettere da parte caldi sorrisi e parole cordiali quando sua figlia le disubbidisce.
Eppure Rei sa che non ci vorrà molto prima che Elena la perdoni, perché il sorriso di Akemi ha qualcosa di magico e resistervi sembra impossibile.
«Dai, Rei, prova anche tu!»
Lui non resiste, infatti. Allarga le labbra in un sorriso luminoso e affonda a sua volta le mani nella creta, aiutandola a dar vita alla sua preziosa scultura. Perché Akemi ci tenga tanto, a quel gioco, Rei non lo sa – non gli importa nemmeno. Vuole solo farla contenta.
 
 Si guarda allo specchio, Rei Furuya, e per un attimo l’uomo vero sembra sovrastare l’uomo fasullo e tornare alla vita. Non può far a meno di piangere, però, perché i ricordi lo investono; gli catturano il cuore, stringendolo fino a stritolarlo, e quello gli esplode in petto in un silenzio che lo lascia solo con le sue lacrime salate.
 Proprio tra quelle le lacrime, Rei riscopre se stesso.
 
Il tempo pare fermarsi – purtroppo solo per finta.
Quel pesce piccolo dell’Organizzazione che gli stava spiegando i dettagli della sua nuova missione sta ancora parlando, ma è come se la sua voce non fosse più così importante da essere ricambiata dall’udito di Rei. Ha occhi solo per una donna, ora, Bourbon – Rei.
Sapeva che i Miyano erano stati catturati dalla rete famelica dell’Organizzazione che li aveva condotti alla morte – che aveva condotto quella donna speciale e la sua piccola figlia lontane da lui. Proprio quella sua piccola figlia, ora donna, non si sarebbe aspettato di vederla lì, in quel posto maledetto dimenticato da tutti.
 Anche nel nero più sporco e maligno, Akemi è un bianco incontrastato, angelo caduto dal cielo che qualcuno, lassù, si è dimenticato di salvare.
Akemi non lo vede, quella sera, e Rei, che sa che dopotutto è meglio così (la sua copertura non può saltare), un po’ se ne dispiace. Vorrebbe parlarle, sentirla ridere mentre lei gli racconta come ha impiegato i suoi ultimi vent’anni di vita – perché l’avrebbe sicuramente fatto, quella chiacchierona.
Sorride a quel pensiero, ore dopo, quando ha ormai lasciato la base dell’Organizzazione e si è rifugiato nel suo modesto appartamento di periferia. Non è importante, dopotutto – un giorno, quando i corvi saranno in gabbia, saranno loro a spiccare il volo. Un giorno, Rei la ritroverà, e parleranno come quando, da bambini, impastavano le mani nella creta del parco per dar vita a quelle piccole sculture che ad Akemi piacevano tanto.
 
 Si guarda allo specchio, Bourbon – stolto.
 Un corvo (finto) importante dovrebbe vergognarsi delle lacrime, ma a lui (Rei Furuya, Tōru Amuro, Bourbon, non lo sa) sembra non importare. Non oggi, non ora.
 La sua missione è chiara e semplice: trovare Sherry e catturarla, viva o morta. Per lui, tuttavia, Sherry è più di un nome cui togliere l’ossigeno. Per lui, Sherry è Shiho Miyano – la figlia di quella dottoressa Miyano che ora non c’è più, la sorella di quella Akemi che ora non c’è più.
 Che razza di uomo è, Bourbon, che ha accettato quell’ingrato compito con tutta la determinazione di tener fede all’impegno?
 «È un’assassina», gli hanno riferito più persone.
 Lo specchio ride, si prende gioco di lui – tu no? Tu non sei un assassino, Rei Furuya?
 La risposta la conosce bene, Bourbon.
 
Mi dispiace.
 
 È in cielo, Elena, e a lei e suo marito si è ricongiunta anche Akemi, morta poco dopo quell’incontro che Rei vorrebbe fosse andato diversamente. La quarta e ultima componente di quella famiglia cui lui ha voluto bene (davvero), presto, salirà su un treno da cui non scenderà mai più.
 Le tre maschere di Rei però ce l’hanno ancora, un cuore, ed è proprio quello a fargli sperare che, in un o modo o nell’altro, quell’Akemi spensierata di un tempo, lassù, sia impegnata nella realizzazione di una preziosissima scultura di creta, forse in attesa che la sua sorellina la raggiunga per aiutarla.
 È una bugia, quella che si racconta.
 
Mi dispiace, dottoressa Miyano.
 
 Però è bella.

 
NOTE ➳ Terzo giorno, terza storia angst. Conoscendomi, la cosa non mi stupisce. Mi stupisce, piuttosto, essere arrivata al terzo giorno. Qualcuno potrebbe dire: «È solo il terzo giorno, non montarti la testa», ma non bisogna mai sottovalutare il potere della procrastinazione.
 Scherzi (mica tanto) a parte, sono contenta di essere riuscita a scrivere qualcosa su Rei/Amuro/Bourbon/Aoyama smettila di dare così tanto nomi allo stesso personaggio.
 Ho un piccolo appunto da fare sulla voce pairing. Ho scritto sia nessuno sia Rei/Akemi perché la coppia (puramente fanon, se non addirittura crack?) mi intriga, ma lascio la libertà a chi legge di scegliere come interpretarla, se in modo romantico o platonico.

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Capitolo 6
*** Aoyama li fa e Sonoko li accoppia ***


Prompt: 1k
Personaggi: Eisuke Hondo,
Masumi Sera, altri (sorpresa!)
Pairing: Masumi/Eisuke
Rating: verde

Aoyama li fa e Sonoko li accoppia


 Era impossibile contare sulle dita di una mano tutte quelle qualità che Masumi apprezzava nel suo fratello più grande. Ricordava, quando l’aveva incontrato per la prima volta, di esserne rimasta affascinata.
 Aveva le spalle larghe, Shuichi, ed era alto e sicuro di sé, gli occhi di chi non si ferma a rimuginare sul passato e vede già al futuro. In lui, forse, aveva colto la scintilla di quel papà che le sue labbra non avevano mai conosciuto.
 Da quel suo fratello maggiore, pedina fondamentale dei federali americani, Masumi si sarebbe aspettata di tutto, o quasi – eppure la vita, si sa, ti sorprende. Forse era meglio così, considerava, perché scoprire lentamente i vari aspetti di Shuichi le aveva permesso di buttarlo giù dal piedistallo sul quale l’aveva posto senza nemmeno rendersene conto, e lo vedeva ora sotto una luce più umana.
 Sapeva, ad esempio, che la madre di Shinichi, ora compagno di classe (una novità per lei, un sollievo per Ran, una seccatura per Sonoko), l’aveva introdotto alla difficile arte della cucina, e da allora suo fratello si dilettava nella preparazione di ricette sempre più complesse, condividendone i risultati con quei simpatici bambini che bazzicavano a casa del professor Agasa.
 Quando, un giorno, l’aveva visto presentarsi sulla soglia con un invitante pentola di curry tra le mani e un sorriso genuino disegnato sulle labbra, aveva pensato che niente più potesse stupirla – si sbagliava. Perché, non molto tempo dopo, Sonoko si sarebbe eletta fiera ambasciatrice di una causa importantissima.
 
 «Sera-chan, credo che tuo fratello abbia una donna!»
 Fu vano, ovviamente, ogni tentativo di Ran di dissuadere l’amica dalle sue bizzarre, eppur inaspettatamente fondate, macchinazioni. Shinichi, per sua fortuna, non era presente, perso a inseguire la risoluzione dell’ennesimo caso; e Masumi, dunque, si trovò sola e disarmata nell’affrontare le insinuazioni di Sonoko.
 «Perché lo pensi?»
 «Be’, ma non è ovvio? Eppure sei una detective! Tuo fratello aveva addosso un inconfondibile profumo femminile. E poi, quel rossetto…»
 «Rossetto?»
 «Ma sì! Non dirmi che non l’hai visto. Aveva una leggera sbavatura di rossetto, proprio qui, sulla guancia», spiegò, pigiando il polpastrello poco più a sinistra del naso, sul punto incriminato.
 «Potrebbe essere stato qualcos’altro.»
 «Tipo cosa?»
 «Be’, non saprei. Però…»
 Razionalmente, aveva riflettuto, non c’erano prove sufficienti che potessero incastrare il fratello. Sonoko, tuttavia, per queste cose aveva occhio, e Masumi non riuscì a scacciare il seme del dubbio che era nato in lei.
 
 Quello stesso pomeriggio, libera d’ogni impegno, a condurla ai piedi dell’edificio in cui risiedeva la base temporanea dell’FBI furono un misto di casualità e volontà di scavare a fondo nella questione. Shuichi le aveva promesso, fintanto che fosse rimasto in Giappone per snellire le ultime faccende, che avrebbe approfittato di ogni ritaglio libero delle sue giornate per ricucire, o meglio approfondire, quel rapporto fraterno che a lungo si erano visti negare.
 Due settimane prima, l’aveva portata al poligono di tiro – Mary non ne sarebbe stata molto contenta, ma non c’era bisogno che sapesse. La settimana seguente era stata protagonista di un’attività più normale, eppur non per questo meno soddisfacente. Masumi sapeva che non poteva riavvolgere il nastro del tempo e desiderare che la sua famiglia, non più frammentata, conducesse un’esistenza serena; poteva, però, raccogliere i cocci del passato e costruire un nuovo presente. Perciò, dopo un salto veloce al negozio più vicino, eccola lì, una busta stretta in una mano dove il commesso aveva sistemato due scatole di dolci che suo fratello avrebbe apprezzato.
 Doveva solo entrare. Sarebbe bastato presentarsi come sorella di Shuichi Akai e chiunque si fosse trovata di fronte l’avrebbe lasciata passare – niente di più semplice.
 «Scusami?»
 «Mh?» Volse lo sguardo, ancorandolo al volto di un giovane che la fissava con due occhi un po’ smarriti. «Ti serve qualcosa?»
 «Ecco…»
 Lui non seppe come proseguire. Il luogo era lì da qualche parte, ne era sicuro – ma dove? Anche se avesse chiesto indicazioni, quel ragazzo cui si era rivolto non avrebbe saputo come aiutarlo. Certo non poteva rivelargli, come se nulla fosse, che in uno di quegli alti palazzi si ritrovavano giornalmente tanti agenti americani.
 «Ti sei perso?» gli chiese Masumi.
 Il ragazzo esibì un sorriso impacciato. «Sì. Mia sorella mi ha dato indicazioni, ma non riesco a orientarmi.» Estrasse il cellulare e le scrisse un messaggio. Con tutte le probabilità, però, lei non l’avrebbe visto prima della fine del suo turno. «Sarà meglio tornare a casa…»
 Masumi lo osservò muovere il collo per studiare l’ambiente e poi, le gote imporporate dall’imbarazzo, tornare a rivolgerle lo sguardo. «Ehm… sai dov’è la metropolitana?»
 Gli sorrise – le faceva quasi tenerezza. Considerando che Shuichi non avrebbe tenuto conto di un ritardo di qualche decina di minuti, sempre ammesso se ne fosse accorto, Masumi si offrì di accompagnarlo.
 «Lo faresti davvero? Grazie! Mi chiamo Eisuke Hondo, comunque. Piacere.»
 «Masumi Sera. Piacere mio.»
Masumi.
 «Ah!» La voce gli uscì rapida, come se la gola non vedesse l’ora di liberarsene, e il tono, troppo alto, attirò su di lui sguardi confusi. L’interesse della gente per la sua esclamazione improvvisa scemò assieme al rossore delle sue guance ed Eisuke tornò a osservare Masumi. «Sei una ragazza, quindi… Scusami, avevo pensato fossi un maschio!»
 Non era molto educato, farle notare quella mancanza di elementi femminili che l’avevano indotto a cadere in errore, ma lei non sembrò risentirsene. Era sul punto di sottolineare, come ogni volta, che non aveva ancora superato l’età dello sviluppo, e che le curve di sua madre promettevano di non tradirla, ma la vista di una cosa, o meglio una persona, le rubò il pensiero.
 «C’è mio fratello.»
 «C’è mia sorella.»
 Si guardarono. Una consapevolezza aleggiò al di sopra delle loro teste e gli ingranaggi della mente ci misero diversi secondi a mettersi in moto per afferrarla.
 «Tua sorella?» pronunciò per prima Masumi, anticipandolo per un soffio. «Non è quell’agente della CIA?»
 Eisuke spalancò così tanto gli occhi che le sopracciglia giocarono a nascondino sotto i ciuffi neri. «Tu come lo sai?» Lo sguardo scattò, tre o quattro volte, da Masumi all’altro capo della strada, dando tempo alla mente di formulare una semplice deduzione. «Ma… tuo fratello è quell’agente dell’FBI! Wow! Certo che il mondo è piccolo…»
 Per Eisuke, quella non fu che una bizzarra coincidenza, un aneddoto simpatico di cui, un giorno, qualcuno avrebbe forse riso. Masumi, tuttavia, avvertì il seme del dubbio instillatole da Sonoko germogliare nello stomaco, come risvegliatosi da un lungo sonno, e non riuscì a ignorarlo.
 «Senti, tua sorella esce con qualcuno, per caso?»
 Il rossore s’impadronì delle guance di Eisuke in un solo istante. Esclamò qualcosa, masticando sillabe sconnesse, finché lo scorrere dei suoi pensieri, provando pietà per lui, non gli suggerì: «Be’, io… io non lo so! Perché? Non dirmi che… tuo fratello…»
 «… esce con tua sorella?»
 «… è interessato a mia sorella?»
 Eisuke impallidì – ancora peggio!
 «Cosa? Ne sei sicura? Te l’ha detto lui?»
 «No, era solo una supposizione», inventò Masumi sul momento, scrollando le spalle. Preferì non raccontargli di quella sua pazza amica che, se la conosceva bene, già sentiva riecheggiare in lontananza le campane del matrimonio.
 Eisuke trasse un sospiro di sollievo. «È colpa nostra se abbiamo pensato subito male. Sono solo colleghi.»
 «Già. Solo colleghi.»
 
 «L’agente Akai con l’agente Hondo? Ma dico, stai scherzando
 «Era solo un’ipotesi! E comunque poteva essere, eh!»
 «Figurati!»
 Ran si abbandonò di schiena contro la spalliera imbottita, lo sguardo arrendevole di chi si domanda, nella vita, che cosa ha sbagliato. Le voci di Shinichi e Sonoko che lei, invano, aveva già tentato di sedare, ora si mescolavano nelle sue orecchie in modo disordinato e fastidioso.
 Vide Eisuke mostrare i palmi, quasi volesse afferrare la tensione con le sue stesse mani e spezzarla per riportare un po’ di pace. «Non credo che l’agente Akai sia il tipo che fa per mia sorella…»
 Sonoko guardò Eisuke e, nel farlo, la scintilla che le baluginava negli occhi ogni qual volta Shinichi la contradicesse si spense. Lo stesso non accadde, però, per le sue convinzioni. Masumi glielo lesse in faccia.
 «E quella traccia di rossetto che aveva sulla guancia come te la spieghi, allora?» incalzò– ma a rispondere non fu Eisuke.
 «Una qualsiasi salsa. Salsa agrodolce, magari, o del sugo. Sempre ammesso che tu non ti sia immaginata tutto.»
 Lo sguardo di Sonoko saettò, feroce e fulmineo, su Shinichi. «Senti, se…»
 «Dai, Sonoko, basta!» intervenne Ran, facendo appello al raziocinio dell’amica – ammesso ne avesse uno, quando si trattava di scovare scandali dove non ce n’era nemmeno l’ombra. «Perché non ci godiamo il gelato, eh?»
 Era successo, per un’incredibile coincidenza, che due dei loro amici, uno dei quali credevano oltreoceano, s’incontrassero in una metropoli vasta come Tokyo. Non potevano cogliere la palla al balzo e approfittare della fortuna, anziché rimuginare su una semplice congettura?
 «Shinichi ha ragione, sarà stata solo un po’ di salsa.»
 E Sonoko, assistendo al tradimento dell’ultima delle sue alleate, accettò di non tornare più sulla questione. Per quanto odiasse ammetterlo, forse Shinichi aveva ragione – che quella macchiolina rossa fosse una semplice rimanenza di condimento?
 Rosso, però, era anche il rossetto di Jodie – e loro non lo sapevano.

 
NOTEAoayama li fa e Sonoko li accoppia – o meglio: io li accoppio. Come titolo è imbarazzante, ma anche abbastanza in linea con i toni della storia.
 E a proposito! Finalmente una storia non introspettiva e malinconica, eh? Un po’ di commedia ci voleva, dai. Ammetto che avevo qualche timore (ce l’ho ancora) a pubblicare questa cosa perché non credo sia nelle corde di Detective Conan, ma mi ero ripromessa che avrei approfittato di questo Writober per provare cose nuove – dunque: coppie canon, non vi temo!
 La Eisuke/Masumi può tranquillamente rientrare nella categoria “ma come cavolo ti è saltato in mente?”, descrizione abbastanza accurata dei miei gusti in fatto di sperimentazione con coppie inusuali.
 Il prompt era 1k e io non so se t’imponga di scrivere una storia che s’aggiri sulle mille parole o se il limite basta superarlo. Io ho sforato abbondantemente di 600 parole, quindi facciamo la seconda, va’.
 Domani torna qualcuno di già visto, ma con toni più leggeri!

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Capitolo 7
*** D’ingiustizie e compromessi ***


Prompt: bromance
Personaggi: Heiji Hattori,
Shiho Miyano, Shinichi Kudo
Pairing: Shiho/Shinichi, Heiji/Kazuha
Rating: verde

D’ingiustizie e compromessi


 Compì quei pochi passi che lo separavano dalla porta con una sensazione di sollievo nel petto, conscio di dover ringraziare qualcuno, là fuori, per averlo strappato a una conversazione tanto scomoda. Sì stupì, quando il polso ruotò per schiudere il portone, di trovarsi di fronte due occhi verdi celati per metà da un cappellino da baseball.
 «Hattori?!»
 «Oi, Kudo!»
 Heiji lo salutò, come suo solito, a voce più alta del necessario, e non aspettò che nessun invito a entrare gli fosse rivolto, prima di intrufolarsi all’interno dell’abitazione del professore.
 «Che cosa ci fai qui?» gli chiese Shinichi, richiudendosi la porta alle spalle subito prima di seguirlo.
 Senza fare complimenti, Heiji si lanciò in un racconto che incriminava Kazuha per averlo trascinato a Tokyo – di nuovo – senza apparente motivo se non quello di non affrontare il viaggio da sola, visto che poi, una volta arrivati, l’aveva ignorato in favore di Ran. «E come se non bastasse…!»
 «La passeggiata ti ha schiarito le idee, Kudo?»
 La voce di Heiji cadde nel dimenticatoio. Sorpreso da quella terza presenza femminile spuntata da chissà dove, osservò Shinichi sfoggiare un’espressione seccata mentre lei lo fissava tagliente da dietro una tazza fumante.
 «Il mio no è categorico», sentenziò lui risoluto, ottenendo da parte di Shiho un eloquente arricciamento delle labbra che, tuttavia, non servì né a zittire lei né a far vacillare lui.
 «Yokohama è praticamente dietro l’angolo», gli fece notare ancora una volta, giudicando irrazionale il suo rifiuto.
 «A più di un’ora di macchina.»
 «Non è tanto.»
 «La conferenza ne dura tre.»
 «Due e mezzo.»
 «E ti sembra poco?»
 «Mi pare di ricordare che…»
 «Ragazzi!»
 Il professore era sopraggiunto non appena avevano ripreso a discutere – perché sì, ne avevano discusso – e solo Heiji, ancora confuso, aveva notato la sua presenza.
 «Shiho», proseguì Agasa, lanciandole uno sguardo eloquente, «mi serve una mano di sopra, mi aiuti?»
 «Vengo io, professore», fu la risposta, rapida e inaspettata, di Shinichi, che si propose senza nemmeno dare il tempo a Shiho di aprire bocca. Si guardarono, lui promettendole che non gliel’avrebbe mai data vinta e lei dichiarandogli guerra con uno scatto quasi impercettibile delle sopracciglia, e Shinichi seguì il professore al piano di sopra.
 «Le scale non ti pesa farle, vedo.»
 «Non ci metto mica un’ora.»
 «Ragazzi!»
 Il professore pareva avesse dimenticato le buone maniere dettate dall’ospitalità e Heiji fu abbandonato non solo dal padrone di casa ma dal suo stesso migliore amico, cui si era rivolto in cerca di compagnia e, perché no, una spalla su cui lamentarsi (di Kazuha).
 Guardò Shiho, che non dava segno di voler intavolare una qualsiasi conversazione amica con lui – ma forse era solo la sua normale espressione. Ce l’aveva sempre avuta, da quel che ricordava.
 Appoggiò il gomito sul tavolo per puntellarci il mento. «Tu sei quella bambina imbronciata che era alta poco più di un metro, sbaglio?»
 Lei si limitò a sollevare un sopracciglio. «Perspicace.»
 A scanso di equivoci, Heiji sapeva che lei e Shinichi stavano insieme perché, per quanto sfuggente l’amico potesse essere riguardo certe questioni, lui era di tanto in tanto riuscito a strappargli qualche confessione sporadica. Era però la prima volta che vedeva quella ragazza, come dire?, a grandezza naturale e la sua innata curiosità da detective lo portò a studiarla con fin troppa insistenza. Un fastidioso dettaglio che non mancò di essere notato dal soggetto in questione.
 «Hai qualche problema?» inquisì Shiho.
 «Nessuno.» Heiji sbuffò. «Certo che oggi non è proprio giornata. Prima Kazuha mi trascina qui e mi molla come una zavorra, poi il mio migliore amico mi ignora...»
 «Sta ignorando me, non te.»
 «Perché dovrebbe ignorare te, scusa?»
 La lingua di Shiho indugiò sul palato mentre gli ingranaggi della mente valutavano o meno se rendere Heiji partecipe della recente disputa, né la prima né l’ultima di una lunga serie. Decretò, infine, per un no pacifico, sicura com’era che il ragazzo si sarebbe schierato in difesa dell’amico. «Lascia perdere.»
 Ma Heiji, che tonto non era, assottigliò gli occhi come per rincorrere meglio quel pensiero che gli solleticava la nuca. «Aspetta, è per Yokohama?»
 Shiho fece filtrare un mmh-hmm di assenso tra le labbra socchiuse.
 «Non ho capito quale sia il problema», replicò Heiji, «ma un’ora di viaggio non è tanto, credimi. Sapessi quanto ci mettiamo noi a venire fin qui da Osaka! Anche se comunque Kudo ha accettato senza fare troppe storie.»
 Shiho non permise a quelle parole di sfuggirle. «Accettato cosa?»
 Ed Heiji, che forse un po’ tonto lo era, capì troppo tardi di aver commesso un errore – scusa, Kudo.
 
 «Non trovo il portafoglio!»
 Shiho gli batté due volte sulla spalla, invitandolo a voltarsi. Shinichi ubbidì, rivolgendole un’espressione più seccata che grata quando lei gli porse l’oggetto incriminato. «Divertiti a risolvere quel caso di omicidio a Osaka.»
 Lui ingoiò una risposta che non gli avrebbe permesso di lasciare quell’aeroporto sulle sue gambe. «Lo farò, grazie», disse invece, optando per una pacifica alternativa.
 Mentre Shiho si allontanava, Shinichi non poté ignorare alla sua destra la risata mal soffocata di Heiji.
 «Le donne, eh? Tutte uguali. Pensa che Kazuha…!»
 «Hattori, non m’interessa sapere che cosa è successo tra e te Kazuha. Anzi, sai una cosa? Ti sta bene, visto che mi hai tradito
 «Ehi! Guarda che non è colpa mia.» Forse solo un po’. «Quella ragazza è micidiale, mi ha tirato fuori la verità in cinque minuti!»
 Shinichi sbuffò – tipico di Shiho.
 
 «Il portafoglio ce l’hai, questa volta?»
 «Sì.»
L’unica cosa che non aveva era la voglia di andare fino a Yokohama.
 «Allora, questa conferenza…» pronunciò, osservando un interessantissimo passante attraversare la strada con il cane al guinzaglio.
 Le stava per chiedere, spinto forse dai sensi di colpa, quale fosse l’argomento che gli esperti del campo avrebbero trattato, ma un cambiamento nell’imperturbabilità di Shiho lo fece desistere. Notò gli occhi della compagna rifuggire i suoi e un sentore di pericolo gli gorgogliò nello stomaco.
 «Shiho?»
 «Sì?»
 Shinichi deglutì. «C’è qualcosa che non mi hai detto?»
 «… Forse.»
 Shinichi rabbrividì. «Sarebbe?»
 «La conferenza dura quattro ore.»

 
NOTE ➳ In bocca al lupo, Kudo!
 Mi sono divertita tanto a scrivere su questi tre. Secondo me Heiji e Shiho formerebbero un duo, come dire?, scoppiettante, anche se effettivamente nel canon è già tanto se sanno che l’altro esiste – ma io il canon non lo temo, quindi a posto! Avevo anche detto che avrei scritto su altri, eppure eccomi di nuovo qua. Una storia con Shiho. E altre ne verranno. Già.
 Se c’è qualcuno che ha ancora il fegato di leggere dopo la Eisuke/Masumi, comunque, complimenti! Io non posso che esserne felice, chiunque stia seguendo questa raccolta giorno dopo giorno ha i miei più sinceri ringraziamenti. È già passata una settimana dall’inizio di questo Writober e devo dire che fin qui è andato tutto bene, non ho saltato neanche un giorno. E con i prossimi sono già a un discreto punto. Dai, dai, dai!
 Vi do appuntamento a domani – ergo, tra una decina di minuti, visto che sto pubblicando in ritardo come sempre – con un’altra coppia imprevedibile!

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Capitolo 8
*** Colleghi atipici ***


Prompt: sera
Personaggi: Hidemi Hondo/Kir,
Rei Furuya/Bourbon
Pairing: Kir/Bourbon
Rating: verde

Colleghi atipici


 Il freddo della sera penetrò fin dentro le ossa come un’ospite sgradito, facendola rabbrividire. Era buio, la luce dei lampioni non riusciva a toccare quella zona remota della città, e mentre osservava l'uomo che aveva di fronte dovette concedersi alcuni secondi per confermare i suoi sospetti.
 «Bourbon», sentenziò infine, riconoscendo tra mille quei suoi capelli chiari come il grano e, soprattutto, quel suo sorriso insopportabile. Anche lì, immersi nell’oscurità, gli conferiva un aspetto borioso. Non si erano mai parlati faccia a faccia, soli al mondo, eppure le trasmetteva antipatia, oltre che diffidenza.
 «Kir», ricambiò lui con tono falsamente amichevole, facendosi più vicino di alcuni passi. «Che cosa ci fai qui tutta sola?»
 Fu come se, con una semplice domanda, Bourbon potesse metterla con le spalle al muro. Tranquilla, si disse Hidemi. Non sapeva nulla, quello lì, non poteva sapere. Eppure si sentì minacciata, tanto che le dita, in un gesto automatico, si strinsero attorno alla tasca in cui aveva riposto il cellulare un attimo prima che lui sopraggiungesse.
 «Non mi piace stare là dentro», inventò con un’alzata di spalle, in riferimento alla base dove era costretta a rimanere – e dire che avrebbe voluto essere ovunque tranne che in quel luogo rinnegato dal cielo. «C’è puzza di chiuso, di fumo e di alcol. Non fanno altro che ubriacarsi e urlare, quegli idioti.»
 «Non posso darti torto. Eppure non posso fare a meno di pensare che avresti potuto semplicemente andartene in un’altra stanza. Perché proprio qua fuori, con tutto questo freddo? Quasi come se non volessi che qualcuno origliasse le tue conversazioni segrete.»
 Una scintilla di panico le si accese in petto, e probabilmente sarebbe presto divampata in un incendio se solo non si fosse trattato di lei. Con chi credeva di avere a che fare, Bourbon? Era un’agente addestrata, non una semplice donna che giocava a fare la finta criminale.
 «Volevo solo prendere un po’ d’aria», ribatté. «E comunque potrei dire la stessa cosa di te. Dimmi, Bourbon, perché sei qui? Vedo solo due opzioni valide, al momento. La prima: mi stavi seguendo. La seconda: anche tu preferivi che nessuno origliasse – cito – le tue conversazioni segrete. Dimmi tu quale delle due.»
 Lui la osservò con un’espressione dura e minacciosa in netto contrasto con quella di Kir. Ma poi la fronte corrugata di Bourbon si rilassò e cedette il testimone a un sorriso benevolo, falso, e per questo ancor più irritante.
 «Uno a zero per te, Kir. Anch’io sono venuto qui per prendere un po’ d’aria.»
 «E perché è un problema, se a farlo sono io?»
 «Oh, hai frainteso. Non è mica un problema. Ero solo curioso. Non hai motivo di essere tanto sulla difensiva, non ti pare?»
 Le sue continue allusioni, tanto velate che lei non aveva nemmeno modo di provarle, la stavano gettando in uno stato di rabbia mista a inquietudine. Decise che ne aveva abbastanza. Compì lunghi passi in direzione di Bourbon e lo superò senza degnarlo di una risposta, limitandosi a scoccargli un’occhiata poco amichevole e, anzi, quasi feroce.
 «Kir.»
 Hidemi si fermò solo perché nella voce di Bourbon c’era qualcosa di diverso. Non era più calma, leziosa e bagnata d’una nota di divertimento. La trovò sì tranquilla, ma in un modo che la preoccupava; e poi era dura, schietta. Se prima Bourbon si era comportato come Vermouth, sfoggiando una simpatia che non possedeva, ora le sembrava di essere a faccia a faccia con Gin.
 «Che cosa vuoi?»
 «Quell’infiltrato…» Bourbon le si avvicinò tanto, troppo. Il suo volto era a portata di qualche centimetro e lei poteva sentire il suo respiro solleticarle una guancia. Rabbrividì – era un contatto caldo, rispetto all’aria che la pungeva come tanti piccoli aghi, eppure rabbrividì. «… tu gli hai sparato, vero? Akai, intendo.»
 «Sì.»
 «Alla testa?»
 «Sì.»
 Il ghigno brutto e sporco di Bourbon risvegliò in lei i suoi più antichi timori, che in quell’istante le sembrarono ancora più insostenibili dell’eventualità che la sua copertura potesse saltare.
 «Bene. Ottimo», pronunciò Bourbon, e se ne andò.
 
 Si poteva dire che la sera fosse appena cominciata, considerata l’ora, eppure le sembrava di aver passato un’eternità là dentro, schiacciata tra le risa e gli aneddoti di colleghi che non conosceva davvero. Escluso qualcuno, certo. L’agente Akai era sveglio, pieno di risorse, le piaceva come ragionava. L’agente Starling era una donna straordinaria, piena di speranze per il futuro nonostante il loro passato fosse tragicamente simile, testimone di un padre che non c’era più. Jodie, addirittura, quel padre l'aveva perduto da bambina, e i suoi occhi, chiari ma profondi, ne portavano i segni. Hidemi lo capiva, e forse anche per questo non le era stato difficile rivedere in quella donna un volto familiare e, perché no?, amico.
 E poi c’era lui – pieno di sé, fiero portatore di un sorriso che per qualche ragione le infondeva un forte senso di fastidio.
 Qualcuno, lassù, non doveva provare simpatia per lei, perché fu come se il solo pensare a Bourbon bastasse ad attirarlo fin là.
 L’uomo spuntò da dietro un vicolo e, quando i loro occhi s’incontrarono, nei suoi Hidemi lesse lo stesso stupore che probabilmente manifestava anche lei. Quello di Bourbon, però, parve mutare in divertimento – che cosa aveva da sorridere tanto?
 «Kir. Ah, no, di questi tempi è Hidemi Hondo, giusto? O Rena Mizunashi? Mi confondo sempre.»
 «Da che pulpito, Tōru Amuro.»
 Rei sospirò teatralmente. «Giusto, giusto. Be’, agente Furuya va bene per te. Alcuni amici mi chiamavano Zero, ma direi che è un po’ presto per i soprannomi, considerato che solo fino all’altro giorno ci saremmo uccisi a vicenda.»
 «Potrei ancora farlo, per quel che mi riguarda.»
 Nello sguardo di Rei guizzò una scintilla che lui evidenziò con una celere alzata delle sopracciglia. «Interessante. E dimmi, come avresti intenzione di farlo, agente Hondo? A proposito, va bene agente Hondo, sì?»
 Hidemi scosse il capo, concedendosi parecchi secondi prima di rispondere. Rei Furuya stava giocando col fuoco, non si rendeva conto che una sola parola di troppo poteva tradursi in una violenta litigata, se non peggio – e Hidemi preferiva il peggio. «Se sei venuto qui per prenderti gioco di me puoi anche andartene.»
 «Credi ancora che io ti segua? No, no, è solo un caso.» Il suo sguardo viaggiò in alto, catturato da una sera tiepida il cui cielo era un’esplosione di stelle brillanti. «Non ti riporta alla mente bei ricordi, tutto ciò?»
 «Oh, di ricordi ne ho eccome, ma non li definirei belli, agente Furuya
 Rei sorrise e per una volta Hidemi ebbe l’impressione che fosse un sorriso sincero, non voluto ma spontaneo. «Nemmeno stasera ti piace la puzza di chiuso, fumo e alcol?»
 Lei sbuffò. «No, per fortuna i nostri agenti sono meno dissoluti di quei quattro criminali. Certo, qualcuno che alza il gomito c’è. Però tutto sommato non danno fastidio. Tu, piuttosto? Non riuscivi a sopportare di respirare la stessa aria di Shuichi Akai?»
 Per un attimo temette di aver premuto il tasto sbagliato, ma l’evidente fastidio che scivolò sul volto di Rei denotato da un arricciamento delle narici non aveva prezzo. «Per non respirare la sua stessa aria dovrei spedirlo nello spazio – e non sarebbe una brutta idea. Per il momento mi basterebbe che tornasse in America.»
 «Ci vorrà un po’. Un mese, come minimo.»
 «Oh, be’. Me ne sono fatto una ragione quando ho scoperto che nemmeno un colpo alla testa me l’aveva levato dai piedi. Ottimo lavoro, comunque. Complimenti davvero.»
 Non era mai stato nelle intenzioni di Hidemi uccidere Shuichi Akai, eppure quel complimento che palesemente era un insulto le fece provare, anche se solo per un fugace istante, il desiderio di aver portato a termine la missione. Come si permetteva, quello lì?
 «Anche tu ti sei fatto ingannare, mi pare.»
 «Mh, no, non direi. Ho dovuto indagare un po’, ma alla fine sono arrivato a capire come stavano le cose.»
 «Sì, e ti sei fatto mettere nel sacco come un pollo. Eri convinto di averlo messo con le spalle al muro, e invece Akai era da tutt’altra parte. Complimenti, una mossa da maestro.»
 Rei regalò alcuni secondi al silenzio, il tempo necessario alla mente per suggerirgli una semplice intuizione. «Quell’agente impicciona dell’FBI ha cantato per bene, vedo. Lavorate per agenzie di spionaggio o di gossip?»
 Hidemi sentiva di non poterne proprio più. Tra loro non aleggiava più quell’astio d’un tempo, probabilmente perché avevano più tardi appreso di essere una sorta di colleghi che condividevano lo stesso obiettivo. Eppure l’agente Furuya si comportava come un bambino dispettoso che si divertiva a punzecchiare chi non gli andava a genio. Non che le importasse, comunque, di non suscitargli simpatia. Visto il soggetto in questione, anzi, era a tutti gli effetti un complimento.
 Sospirò, accompagnando il gesto con un movimento delle spalle, e si disse stanca di quella specie di gioco. «Be’, buonanotte.»
 Rei la vide allontanarsi con le mani tuffate nelle tasche del cappotto e capì che era un vero e proprio saluto. «Ma come, già te ne vai?» domandò, seguendo i suoi stessi passi. «Pensavo volessi brindare al lieto evento.»
 «Sono contenta che possiamo finalmente lasciarci l’Organizzazione alle spalle, ma non mi va di festeggiare fino a tarda notte.» Arrestò il passo solo per poterlo guardare dritto negli occhi. «Mi sorprende, piuttosto, che anche tu sembri pensarla così. Ti facevo un tipo festaiolo.»
 Rei si portò una mano al petto con estrema teatralità. «Così mi offendo.»
 Hidemi scosse la testa e, di nuovo, fece per andarsene.
 «No, agente Hondo», soggiunse subito Rei, inducendola a fermarsi. «No, non sono un festaiolo. Nemmeno io sopportavo tutto quel casino, e infatti non ho mai detto di voler rientrare. Ho altri programmi in mente per questa sera.»
 Lei allacciò le braccia al seno e lo trafisse con lo sguardo, gli occhi ridotti a due fessure tanto sottili da sembrare chiusi. «È un modo galante per invitarmi nel tuo letto, agente Furuya? Perché non sono quel tipo di donna.»
 Per la prima volta da quando lo conosceva, uno stupore vero si fece largo sul volto di Rei, impadronendosi completamente di lui. Voce compresa, perché quella gli uscì quasi strozzata. «Eh?»
 La soddisfazione che Hidemi aveva provato fino a un attimo prima si sciolse come neve al sole e fu presto sostituita dall’imbarazzo.
 «Guarda che non sono mica quel tipo di uomo», rettificò Rei. «E poi, se davvero avessi voluto, l’avrei fatto in modo più galante.»
 La sua ultima affermazione smorzò la tensione e restituì un certo contegno alla donna che aveva di fronte. Hidemi decise, per il bene di entrambi (soprattutto il suo), di conferire alla conversazione una piega più matura, per quanto possibile. 
 «Va bene, facciamo che ho capito male io.»
 «Era un modo velato per chiedermi scusa?»
 «No. Allora, che cosa volevi chiedermi?»
 «Niente, in realtà. Volevo solo farti sapere che qui vicino c’è un poligono di tiro e che era lì che avevo intenzione di passare il resto della serata. Ti servirebbe un po’ di allenamento, visto che l’ultima volta che hai sparato ad Akai non sei nemmeno riuscita a… Mh? Che fai, te ne vai?»
 Hidemi lo guardò con due occhi che avrebbero potuto scottarlo, tanto erano infuocati. «Voglio che mi mostri quel poligono di tiro, agente Furuya. Ti straccerò, così almeno per un po’ starai zitto.»
 «Tremo di paura, agente Hondo.»
 Si prospettava una serata molto lunga.

 
NOTEMolto lunga è la storia perché continuo a ripetermi di contenermi e invece va sempre peggio (è un riferimento alla storia di domani? Assolutamente sì). Comunque… già. Ho davvero scritto questa cosa. Non so se ho avuto un colpo di genio o un colpo di follia. Probabilmente la seconda. Ero partita con un intento del tutto diverso, dovevano esserci buone dosi di angst, e invece ho scritto qualcosa che rasenta il trash.
 Un appunto veloce prima di lasciarvi – anche perché se mi trattengo un altro po’ rischio di sforare la mezzanotte. Alla voce pairing ho scritto direttamente Kir/Bourbon senza aggiungere nessuno, che avevo inserito (ora l’ho tolto) già in due storie. Ve lo spiego qui nelle note così non devo ripeterlo. Pairing si riferisce alla coppia protagonista della storia, accompagnata talvolta da altre sullo sfondo, come ad esempio la Heiji/Kazuha di ieri. La coppia in questione, a meno che non sia esplicito, non va intesa in senso strettamente romantico. Shippate i due? Bene! Non li shippate? Va bene comunque. Insomma, a libera interpretazione. Poi se volete prendere esempio da Hidemi e pensare che Rei abbia in mente cose sconce, be’…!
 

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Capitolo 9
*** Galeotto fu l’ascensore ***


Prompt: rare ship
Personaggi: Shiho Miyano,
Ryūsuke Higo
Pairing: Shiho/Higo
Rating: verde

Galeotto fu l’ascensore


 Era abituata a nascondersi dietro l’armatura che aveva fieramente modellato nel corso degli anni a causa loro e, per quanto l’avesse aiutata quand’era ancora tra il nero, ora le risultava spesso d’intralcio. Una parte di sé, seppur in svantaggio, desiderava poter essere come gli altri: sorridere delle piccolezze della vita, suscitare la simpatia di coloro che incrociavano il suo camino – essere, insomma, normale. La normalità, tuttavia, non era mai stata sua amica, né in un tempo passato né in quello presente; e forse, aveva riflettuto e rifletteva ancora Shiho, non era destino che subentrasse nel futuro.
 Destino – rivolse un sorriso ironico, quasi arrendevole, a quella parola che riecheggiò nella sua mente come una nota sgradita. Se esisteva, il destino, perché la odiava tanto?
 «Stai ridendo di me?»
 Per l’appunto.
 Shiho scosse il capo, le parole del suo compagno d’ascensore che l’avevano appena restituita alla realtà con una domanda che le fece conoscere l’imbarazzo come raramente accadeva. Un conto era affrontare Shinichi Kudo, un detective le cui manie di grandezza superavano in abbondanza l’interesse che Shiho nutriva per lui. Era intelligente, , e possedeva un certo fascino, vero (non che lei l’avrebbe mai ammesso ad alta voce), eppure i suoi tanti difetti bilanciavano la ricetta e lo rendevano, se non sopportabile, gestibile.
 Higo era tutt’un altro caso. Era prestante; possedeva un fascino naturale e modesto, tipico di un individuo ch’è conscio del suo aspetto – come poteva non esserlo? – ma che non ne fa un vanto. E Shiho, ponderata da che ne aveva memoria, questo lo apprezzava. Così come apprezzava, del resto, tutto ciò che d’apprezzabile c’era in Higo – gentilezza, sorriso, affabilità.
 E lei non s’era mai sentita così.
Stupida.
 Perché, per quanto atipica, nemmeno Shiho possedeva una qualche immunità ai sentimenti; forse era solo capace di dosarli meglio. Un limite, però, ce l’hanno tutti.
 Così si trovò, per qualche attimo, con la bocca povera di parole. La lucidità rimasta impose al cervello di mettersi in moto e quello, ubbidendo, suggerì finalmente un’articolazione sensata.
 Sorrise appena, come testimoniato dall’angolo destro della bocca che viaggiò timidamente all’insù. «No, non sto ridendo di te. Pensavo ad altro.»
 Bugia bianca – aveva sorriso a causa di Higo, ma non di Higo. E di lui, in effetti, forse un po’ c’era da ridere: era corso in direzione dell’ascensore in maniera goffa, rischiando di inciampare sui lacci sgrovigliati della scarpa sinistra, e aveva esclamato un sonoro: «Ferma l’ascensore, ti prego!»
 Shiho, colta alla sprovvista, aveva ubbidito, impedendo la chiusura delle porte metalliche con il piede. L’attimo dopo era entrato lui, che Shiho aveva riconosciuto come Higo solo quando, a seguito di un sospiro pregno di sollievo, si era tolto gli occhiali da sole e il cappello.
 Se fosse stato possibile, lei sarebbe sbiancata ancora di più di quanto il suo colorito chiaro non permettesse.
 Higo accennò un sorriso timido. «Scusami per il… contrattempo.»
 Non chiese, probabilmente per discrezione, cosa fosse l’altro a cui pensava Shiho; da come aveva impostato la sua ultima affermazione, tuttavia, era evidente che non volesse permettere a un silenzio scomodo e imbarazzante d’intrattenerli mentre erano ancora bloccati in ascensore. Perché , erano bloccati. Poco dopo l’entrata di Higo, infatti, la luce era saltata, abbandonandoli per venti secondi buoni. Ora era tornata, ma nessuno dei due sapeva quanto ci avrebbe impiegato l’ascensore a tornare in funzione.
 «Ryūsuke Higo, piacere», pronunciò affabilmente, tendendole una mano. «Anche se penso che tu già lo sappia.»
 «Non è difficile riconoscerti», rispose infatti lei. Accettò poi la sua mano, umettandosi le labbra nel formulare: «Shiho Miyano.» E gliela strinse, ritraendola poco dopo.
 Le parole le scapparono come sempre: calme, neutre, ben dosate; c’era solo un accenno di cordialità che stupì lei e ridiede un barlume di speranza a lui, perché nel vederla tanto composta aveva per un attimo temuto d’essersi imbattuto in tutto l’opposto di una fan.
 «Piacere, Miyano-san
 Shiho si trovò a domandarsi come apparisse ai suoi occhi, se sostenuta o aperta a un dialogo che avrebbe potuto scacciare la noia e, soprattutto, l’imbarazzo. Non le importava mai l’opinione degli altri, in genere – però Higo era Higo.
 E lei, rifletté tacciandosi di stupidità, era Shiho. Ai Haibara l’aveva aiutata, i bambini l’avevano aiutata. Figli dell’innocenza della loro età, un’età che lei non aveva mai avuto (né come Shiho, né come Ai), non avevano visto l’armatura che la difendeva, spacciandola per semplice timidezza, ed erano riusciti a scalfirla meglio di molti altri. Armati di pazienza, che spesso in realtà era testardaggine, avevano inciso piccoli solchi, uno dopo l’altro, che ben presto erano diventati crepe. Shiho la indossava ancora, quell’armatura difettosa che ora sentiva più leggera – però Shiho era Shiho e quell’armatura non l’avrebbe mai abbandonata. L’armatura era sua amica così come i misteri e gli intrighi erano amici di Shinichi.
 Tornò a osservare Higo, rivolgendogli due occhi carichi d’un azzurro di cui lui non seppe decifrare nemmeno una sfumatura. «Perché scappavi?» inquisì.
 Il sorriso tenue in cui si schiusero le labbra di Higo le provocò una sensazione strana allo stomaco e le suggerì che era sulla giusta strada.
 «I paparazzi mi stanno col fiato sul collo. Di solito cerco di stare al gioco, non voglio apparire sfuggente, ma oggi non è proprio giornata. C’è questa ragazza – questa modella – con cui mi hanno visto qualche giorno fa e hanno subito iniziato a fare insinuazioni.»
 «E sono fondate?»
 «No.»
 Un’unica sillaba che fu per lei di un sollievo non indifferente.
 Higo cercò, e trovò, il suo sguardo: nella chiarezza dei suoi occhi Shiho lesse una trasparenza che la scombussolò; lui, invece, nei suoi non riusciva a entrare: li trovò chiusi, sbarrati, come due porte che vietano l’accesso al mondo che si cela al loro interno. E – Higo non seppe dire perché – voleva conoscerlo, quel mondo.
 Non si scoraggiò: non c’era motivo, a suo dire, di aspettare l’apertura delle porte nel silenzio.
 «Ero qui per fare shopping», esordì nuovamente, sollevando un braccio per mostrare alcune buste. «Tu?»
 «Stessa ragione, più o meno. Dopodomani è il compleanno di una persona molto importante.»
 Higo reclinò la testa e il suo sorriso divenne più marcato, ma anche diverso – quasi triste. «Fidanzato?»
 «No», negò subito Shiho, come se quel pensiero le provocasse fastidio. «Il mio patrigno.»
 Il professore non era, ovviamente, il suo patrigno. Non poté tuttavia esporre la realtà dei fatti, né desiderava perdersi in complesse macchinazioni quando poteva sviare la domanda con una semplice bugia – bugia che, con sua stessa sorpresa, era una mezza verità.
 Perché quando patrigno vibrò nell’aria, Shiho non avvertì nessuna forzatura; la parola non l’era rimasta sulle labbra, fastidiosa e innaturale, come tutte quelle bugie di cui ormai aveva perso il conto.
 «E che cosa gli hai preso?»
 Scrollò le spalle e il volto si contrasse in una smorfia che sapeva di rimprovero verso se stessa. «Niente, in realtà. Ho girato per mezz’ora, per poi accorgermi che avevo dimenticato il portafoglio. Sono tornata a casa a prenderlo, e poi…» L’allargamento delle braccia nell’aria terminò la frase senza il bisogno di altre parole e Higo annuì in assenso.
 «Mi dispiace.»
 «Ho ancora tutto il pomeriggio.» Storse le labbra. «Metà, in realtà.»
 «Qualcosa mi dice che tu non ne sia molto contenta», ridacchiò Higo. «Studio?»
 Shiho lo guardò sbattendo più volte le ciglia. Higo comprese i suoi dubbi, perché spiegò: «A occhio e croce avrai la mia età. Studi all’università, no?»
 Il velo di sorpresa le scivolò giù dal viso come lavato via dall’acqua mentre confermava: «Sì, primo anno.» Aveva passato mesi a stretto contatto con un detective – tra i più sgradevoli della piazza, per giunta – e si sarebbe dovuta aspettare una tale deduzione, soprattutto se tanto ovvia.
 Higo si abbandonò a un lungo sospiro. «Speriamo che queste porte si aprano presto! Il tuo patrigno si merita un bel regalo.»
 «Ho tutto il tempo del mondo, un’ora in più o in meno non fa differenza.»
 «Certo», convenne Higo, annuendo alla sua considerazione. «È bello, però, celebrare il compleanno dei nostri cari. Dovresti farlo ogni anno, finché puoi.»
 Shiho inarcò un sopracciglio e una ruga si formò, incastonandosi tra gli occhi chiari, e un piccolo solco veniva intanto inciso nell’armatura. Nessuno dei due lo notò – non Higo, smarrito nel rincorrere un ricordo doloroso; non Shiho, troppo impegnata a formulare: «Sembra quasi una minaccia.»
 Higo rise piano; ed era un suono dolce, soave, che suscitò in lei una reazione simile. Quello di Shiho, però, fu solo un sorriso – un sorriso importante e pieno di cicatrici che l’avevano segnata lungo un cammino di cui Higo aveva intuito solo un barlume.
 «Non una minaccia, più una raccomandazione.» D’improvviso il suo sguardo mutò, salutando l’innocenza e dando il benvenuto a una malinconia che Shiho non gli avrebbe attribuito e che, sul momento, non seppe spiegarsi. «Sai, quasi un anno fa… mio padre è venuto a mancare. Avrebbe compiuto gli anni tra meno di un mese e questo sarà il suo primo compleanno da quando non c’è più.»
 Shiho avvertì le parole di Higo pesarle come un macigno sul cuore; le sue, di parole, vennero a mancare, la lingua improvvisamente arida. Dovette riflettere un attimo, prima di articolare una frase. Avrebbe dovuto essere facile, per una come lei che i genitori li aveva persi prima ancora che volto e voce degli stessi potessero imprimersi nella sua mente, e lo sarebbe stato, facile, se solo qualcuno, una volta tanto, le avesse rivolto un mi dispiace sincero per quei mamma e papà rubatigli prima del tempo. Solo che nessuno si era mai interessato a lei in quel senso; e nemmeno Shinichi e il professore, che sapevano, avevano mai detto qualcosa – perché ormai era grande.
 Eppure si sentiva piccola.
 Insignificante.
 «Che cosa gli avresti regalato, quest’anno?»
 L’empatia sapeva che cos’era, Shiho. Agli occhi dei più pareva di no perché nei suoi, di occhi, c’era tutto e niente, e tentare di decifrarli era come partire alla ricerca di un’isola sperduta nel bel mezzo d’un oceano.
 Higo era forse sulla buona strada quando, incontrando quegl’occhi con i suoi, rispose: «Un vinile. Mio padre aveva un vecchio giradischi che si portava dietro dall’adolescenza e ogni anno gli regalavo un vinile diverso. Lui se l’aspettava, ovviamente, ma ogni volta era come se fosse la prima. E io…»
 Un leggero tremolio li restituì alla realtà che li aveva costretti in quell’ascensore; l’istante dopo, un tintinnio familiare riecheggiò tra le strette pareti e le porte s’aprirono con un rumore metallico.
 Si guardarono. Shiho sentì un saluto pruderle sulla lingua, pronto a uscire anche se una parte di lei non voleva – Higo, tuttavia, parve avesse altro in mente.
 Scosse il capo, allontanando il pensiero interrotto a metà di poco prima quando un altro, bello e gradito, si presentò alla sua mente. Non si lasciò sfuggire l’occasione. «Sei stata gentile a non lasciare che la porta si chiudesse, prima, Miyano-san: mi hai letteralmente salvato. Ti va se ti accompagno a comprare il regalo per il tuo patrigno? Per sdebitarmi.»
 E Shiho non seppe – non volle – rispondere no.
 
 «Non era necessario, Shiho…»
 Abbandonando su un tavolo i rimasugli di carta regalo, il professore estrasse dalla scatola un pesante manuale d’ingegneria che aveva tutte le carte in regola per spacciarsi come dizionario di almeno due lingue, tanto era enorme. Agasa lo studiò, rigirandolo tra le mani, con occhi carichi di meraviglia; li rivolse poi a Shiho, che ricambiò con timido affetto, e questo bastò a invitarlo ad avvolgerla in un caldo abbraccio. La colse di sorpresa, ma, dopo un attimo d’incertezza in cui aveva acquisito rigidità, la ragazza si rilassò tra le braccia dell’uomo che ormai, a conti fatti, era per lei un padre.
 «Shiho-san si è impegnata davvero tanto, Shinichi-niichan
 Uno sbuffo rumoroso gli sfuggì dalle narici nel cogliere quella che era un evidente, seppur involontaria, frecciatina da parte di Ayumi, cui lui decise di non ribattere. Invece, si concentrò con lo sguardo sul triste maglione che aveva acquistato qualche giorno prima, gli occhi vaganti alla ricerca disperata di un dettaglio che potesse salvarlo in corner e dimostrare che quel regalo era bello, a modo suo. Pensò di essere al sicuro quando si ricordò che il blu, colore del maglione, era il preferito del professore, ma a scacciare quel misero barlume di speranza ci pensò Ran.
 «Ti saresti potuto impegnare di più, Shinichi…» osservò infatti lei, accompagnando tali parole con una leggera dose di rimprovero. «Anche l’anno scorso gli hai regalato un maglione. Insomma, il professore è tuo amico, ti conosce da quando sei nato!»
 A sua discolpa, Shinichi poteva dire che Shiho era stata ben quattro – quattro! – ore fuori casa, passando, di fatto, tutto il pomeriggio alla ricerca del regalo perfetto. Lui era stato impegnato in altro.
 «Omicidi?»
 «No, Sonoko», ribatté piccato, tuffandosi subito in una lite piuttosto accesa con la stessa.
 Appurato, dopo un paio di tentativi mal riusciti, che non c’era modo di quietare gli animi, Ran li lasciò ai propri capricci e si avvicinò al tavolo della cucina, dove Shiho era alle prese con uno dei suoi intimi pensieri. Molti non avrebbero tentato, né tantomeno voluto, conoscerne i dettagli – ma Ran non era molti e, se c’era una cosa che la vita le aveva insegnato, era che una semplice domanda, se posta nel modo giusto, può abbattere muri che sembrano invalicabili.
 «Al professore è piaciuto molto il tuo regalo!» esclamò con naturalezza, a pochi passi da lei, mentre con una mano afferrava una tazza sporca di residui di tè per riporla nel lavabo.
 Shiho dovette riflettere un attimo, prima di rispondere, quasi come se Ran le avesse posto un’importante domanda da cui sarebbe dipeso il suo intero futuro.
 Faticava a comprenderla, quella ragazza tanto solare e spensierata. Somigliava molto ad Akemi, eppure non era lei. Si sentiva sempre soffocare, Shiho, in mezzo alle persone che la vita la prendevano con spontaneità, senza soffermarsi sui particolari insignificanti e invisibili agli occhi dei più. Si chiedeva che cosa vedesse, in lei, Ran, se non l’artefice dei mali che avevano afflitto Shinichi e, indirettamente, anche lei e la sua famiglia.
 «Ho avuto un ottimo consigliere», si arrese ad ammettere, sperando che quello scambio di convenevoli non richiesto potesse terminare presto.
 Ma, inconsapevolmente, la sua osservazione accese l’interesse di Ran – e non solo.
 «Un consigliere? E chi?»
 Esitò. «Higo-san
 La voce annoiata di Shinichi si spense nell’aria quando Sonoko schioccò due dita a pochi centimetri dal suo naso, mettendolo a tacere. Ignorandolo come se non fosse più nemmeno lì, chiuse gli occhi fino a ridurli a due piccole fessure e li posò su di lei.
 «Tu hai incontrato Higo?» chiese tutto d’un fiato, quasi le parole avessero così tanta fretta di uscire da scivolarle sulla lingua.
 Opposta alla sorpresa di Sonoko fu la reazione di Shiho, che ricambiò l’occhiata con estrema calma, come se nella sua affermazione non vi fosse nulla per cui agitarsi. Fu un atteggiamento forse ipocrita, perché anche lei, quando aveva incontrato Higo, si era sentita strana.
 «Sì», confermò, tuttavia, con finta naturalezza, «ma è stato solo un caso. L’ho aiutato a sfuggire ad alcuni paparazzi e ha voluto sdebitarsi con me.»
 Fu allora che Sonoko si trovò di fronte a un bivio: una delle due strade, poco importante se la destra o la sinistra, la portava a rimanere fedele all’antipatia che sentiva di provare per quella ragazza; la seconda strada, invece, le suggeriva di accantonarla, quell’antipatia, e abbandonarsi all’interesse puramente professionale (era fidanzata!) che nutriva per Higo.
 Optò per la seconda.
 Motivo per cui, con uno sguardo di chi non prometteva nulla di buono, s’allontanò da Shinichi a grandi falcate e zittì ogni tentativo d’aprir bocca delle tre pesti, concentrandosi solo e soltanto su Shiho.
 «Raccontami tutto

 
NOTE ➳ Quasi 3000 parole, olé! Follia? Probabilmente sì. Però sono contenta, sono finalmente riuscita a scrivere su Shiho e Higo! Rimarrò sempre fedele alla ShinShiho, canon o meno che sia, ma allo stesso tempo trovo molto dolce l’interesse di Shiho per Higo, il fatto che lei lo ammiri per una decisione di vita che in un certo senso li rende simili. Ormai lo sanno pure i sassi che amo Shiho alla follia e sono del parere che un ragazzo che s’interessi genuinamente a lei se lo merita proprio. Mi piace Shiho e a Shiho piace Higo, perciò vado dove va lei.
 Mi perdoni Higo, cui ho ucciso il padre. Che nemmeno esiste, in effetti. Si sa così poco, su di lui, che se lo si cerca su Google si trovano due immagini in croce (personaggi popolari? Che cosa sono?).
 Potevo rendermi le cose facili e fermarmi alla scena in cui Shiho e Higo escono dall’ascensore, come infatti avevo in programma di fare… ma come ho già detto più volte, questo Writober è all’insegna della casualità. Ho pensato a Sonoko e ho dovuto infilarcela. Per una volta, perlomeno, non è lei a suggerire accoppiate strane.
 

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Capitolo 10
*** Lei per loro ***


Prompt: lingua
Personaggi: Vermouth, altri
Pairing: nessuno
Rating: verde

Lei per loro


 Sapeva usare la lingua, Vermouth.
 Sapeva muoverla in modo sempre diverso, spesso imprevedibile, conferendo a ogni piccola sfumatura quel dettaglio che sfuggiva all’attenzione dei più. La sua lingua era tagliente, lusinghiera, pericolosa, passionale. La sua lingua era tutto e niente e risultava perciò indecifrabile.
 
 Con Sherry era fredda, dura, cattiva.
 Quando la sentiva parlare – quando Vermouth le si avvicinava, accostava le labbra al suo orecchio e le sussurrava parole segrete – Sherry, piccola e fragile, avvertiva la sua voce penetrarle fin dentro le ossa, incidere solchi sulla carne morbida per insinuarsi fin dentro le vene e, da lì, irradiarsi in tutto il corpo.
 «Sei speciale, tu, per Gin. Lo sai, Sherry?»
, avrebbe suo malgrado risposto – non lo faceva perché Vermouth una risposta non la voleva davvero.
 Le bastava, anzi, che la sua lingua continuasse il suo operato, riposando di tanto in tanto sul palato o indugiando sugli incisivi per conferire a ogni sillaba la giusta cadenza, una cadenza lenta, estenuante.
 Sherry tremava.
 Vermouth ghignava.
 
 Con Gin quella lingua era tagliente, sensuale, fastidiosa.
 Non gli piaceva quella donna, non gli era mai piaciuta. Forse per la sua posizione privilegiata, seconda solo a quella di Rum, o forse perché sulla punta delle sue labbra s’annidavano segreti che lei sfruttava per tenerlo in pugno, per mettere in chiaro che lui poteva sentirsi superiore con tutti meno che con lei.
 E forse quella lingua Gin un po’ la temeva perché l’aveva conosciuta nelle notti buie e fredde, quando gli unici testimoni erano il silenzio, la noia e, in un certo senso, la solitudine d’entrambi, soli anche se in compagnia. Compagnia che, in ogni caso, non aveva significato nulla, né per lei né per lui.
 
 Con Bourbon quella lingua giocava, si divertiva, sperimentava.
 Si era premurata di fargli sapere per tempo con chi avesse a che fare, di fargli capire che se il segreto che lui conosceva e che la riconduceva al Boss avesse mai lasciato le sue labbra, quelle molto presto avrebbero smesso di respirare.
 E Bourbon, che sconsiderato non lo era fino a quel punto, stava al gioco; persino un individuo tanto sbruffone e incline alle provocazioni sapeva stare al suo posto, con Vermouth. Ciò lo rendeva un collega gestibile, a suo modo sopportabile, e certamente ben più utile e capace di tanti altri che Vermouth aveva conosciuto prima di lui.  

 Con gli altri quella lingua era distante, inaccessibile, apparteneva a un mondo che non potevano toccare né raggiungere. Molti la temevano, altri la bramavano, nessuno la conosceva veramente – forse nemmeno Vermouth.

 
NOTE ➳ Finalmente qualcosa di breve. Al decimo giorno la “stanchezza” comincia a farsi sentire e io devo ridimensionarmi, altrimenti non ne uscirò più; spero di farcela, dato che ho il vizio di scrivere cose chilometriche.
 Bando alle ciance, questa flash-fic nasce dal desiderio di scavare un pochino nella psicologia di Vermouth, altro personaggio che io trovo molto affascinante ma di cui, purtroppo, conosciamo poco. Inizialmente lingua mi suggeriva le lingue parlate e avevo intenzione di trattare due personaggi completamente diversi, però poi ho pensato a Vermouth e mi sembrava un approccio più interessante. Sarò riuscita a renderle giustizia almeno un po’? Spero di sì!

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Capitolo 11
*** Rossa speranza ***


Prompt: favola
Personaggi: Akemi Miyano,
Shiho Miyano
Pairing: nessuno
Rating: verde

Rossa speranza


 La prima volta che l’aveva presa in braccio c’era stata solo delicatezza, forse anche troppa. Le piccole dita di Akemi, tremolanti e incerte, avevano temuto di romperla, tanto Shiho appariva fragile in quella coperta giallognola che Elena aveva raccattato chissà dove.
 «Ti presento tua sorella, Akemi», le aveva sussurrato Atsushi.
 Akemi aveva udito appena le parole di suo padre, gli occhi brillanti fissi sulla neonata che sonnecchiava con tranquillità, primissimo sintomo della ragazza schiva che sarebbe un giorno stata.
 Era bastato un attimo – Akemi l’aveva vista e aveva capito che l’avrebbe protetta, a qualunque costo.
 
 E di protezione Shiho ne aveva bisogno come i polmoni necessitano l’ossigeno perché molto presto, troppo presto, Elena e Atsushi erano scomparsi e di loro rimaneva solo un vago e doloroso ricordo che lei, bambina, ancora non sapeva come processare. Dovette farlo da sola, assumendo intanto il ruolo di angelo custode di Shiho, che cresceva a vista d’occhio.
 Era una bambina particolare, sua sorella – silenziosa, perspicace. Quei suoi occhi chiari già osservavano il mondo con inusuale flemma e sembravano capirlo davvero, più di quanto non lo capissero gli adulti. Eppure era così piccola, Shiho, e nemmeno la mente poteva sopperire alla sua fragilità.
 La notte s’infilava nel letto di Akemi (o Akemi s’infilava nel letto di Shiho) e lasciava che la voce calda e familiare della sorella maggiore le conciliasse il sonno rincorrendo le gesta di personaggi tanto cari ai bambini. Oltre alle favole orientali tra le più tradizionali, un tempo Elena – testarda, irremovibile, quasi infantile – aveva insistito con Atsushi affinché, di tanto in tanto, la scelta ricadesse anche sulle favole occidentali. C’erano dunque Cappuccetto Rosso, Biancaneve, Hänsel e Gretel, e tutti quegli eroi che accomunavano l’infanzia dei più in giro per tutto il globo.
 Shiho aveva ancora l’innocenza di chi non s’è arreso alla cattiveria del mondo perché quella cattiveria non la conosce; sperava, anzi, ignara di tutto. E infatti, una sera come tante, proprio quando era sul punto di addormentarsi, quel poco di lucidità rimastole la portò a confessare alla sorella che la sua preferita era, tra tutti, Cappuccetto Rosso.
 Akemi rise piano. «Cappuccetto Rosso? E perché?»
 Shiho le spiegò, allora, che il motivo era semplice. Cappuccetto Rosso, una bambina come tante, si trovava per errore nel posto sbagliato al momento sbagliato, e per un attimo temeva il peggio; proprio quando meno se lo aspettava, però, ecco che il peggio svaniva e l’intreccio si risolveva – Cappuccetto Rosso sfuggiva al lupo cattivo dal pelo nero e poteva tornare dalla sua mamma.
 Credeva, ingenuamente, che per lei sarebbe stato lo stesso – ma la vita, non una favola, l’avrebbe contraddetta con una violenza tale da disintegrare la voglia stessa di sperare.  

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Capitolo 12
*** In un’altra vita ***


***Presenti SPOILER dal volume 92 in poi!***
Prompt: angst ending
Personaggi: Mary Sera,
Elena Miyano
Pairing: nessuno
Rating: verde

In un’altra vita


 «So che cosa stai per dire. Non farlo.»
 Mary agguantò la bottiglia di whisky e ne versò una generosa dose in un bicchiere. Elena ebbe appena il tempo di studiare il colore ambrato del liquido prima di vederlo scomparire giù per la gola di sua sorella.
Non si beve di prima mattina.
 Sorrise a un pensiero tanto sobrio, in netto contrasto con quella che ormai era la sua vita. Una vita che aveva scelto per errore e che le stava scomoda, una sorta di vestito stretto a tal punto da soffocarla.
 Mandò al diavolo le raccomandazioni e imitò Mary, che sorrise con un certo divertimento nel vedere Elena ingollare tutto il contenuto del bicchiere in un colpo secco come aveva fatto lei poco prima. E dire che su certi aspetti erano sempre state diverse.
 «Chi sei tu e cosa ne hai fatto di mia sorella?»
 Elena sbuffò. Ruotò il polso, disegnando con il bicchiere linee casuali in aria, per poi poggiarlo sul tavolino basso del salotto. «Un po’ di whisky la mattina è l’ultimo dei miei problemi, al momento.»
 «Non sei più incinta di Shiho, ti puoi sbizzarrire.»
 Quella che avrebbe dovuto essere una battuta da parte di Mary riecheggiò come una consapevolezza che rischiava di schiacciare entrambe. C’erano tante, troppe cose non dette, ma nemmeno le parole sembravano essere tanto potenti da esprimerle a dovere.
 «Come sta la piccola?» riuscì a formulare Mary dopo un attimo, osservando con attenzione Elena per cogliere in lei il minimo accenno di un cambiamento nello sguardo.
 «Bene. È tranquilla, anche troppo. Non è com’era Akemi alla sua età.»
 «Non a caso ti somiglia.»
 «Comincio a credere che meno mi somiglierà e meglio sarà per lei.»
 «Sei esagerata.»
 «Realista.»
 Elena cercò di ignorare il peso dello sguardo di Mary su di lei mentre annotava su un foglio alcune formule che agli occhi di molti non avrebbero avuto alcun significato. Per Elena ne avevano anche troppo. Presto Pisco sarebbe tornato, esigendo risultati impossibili che lei e Atsushi ancora non avevano.
 «Ordini dall’alto», ripeteva ogni volta, sorridendo come se tutto ciò lo divertisse – e in effetti sembrava essere così. Elena si morse l’interno della guancia e soffocò un’imprecazione.
 «Hai intenzione di ignorarmi ancora per molto?»
 «Scusami. Lavoro.»
 Mary non replicò. Non lo fece per quelle scuse ben poco convincenti, piuttosto perché nel tono di Elena avvertì la pesantezza di tutti quegli sbagli di cui lei s’addossava la colpa nonostante colpe non ne avesse.
 Sospirò, lasciando la sorella libera di concentrarsi sul suo lavoro fino a perdersi tra tutti quei numeri che per lei invece erano solo confusione.
 «La supererete, Elena – tu, Atsushi e le bambine.»
 Ne era davvero convinta, Mary.
 
 Sfiorò la pancia con una mano, abbozzando un sorriso al pensiero di quello che l’attendeva a distanza di alcuni mesi. L’avrebbe chiamata Masumi, se fosse stata una femmina. Doveva essere una femmina. Non voleva un quarto maschio che gironzolava per casa.
Terzo – terzo maschio. Tsutomu non c’era più.
 Il sorriso le cadde dalle labbra, ma Mary non permise a quella consapevolezza improvvisa di oscurarle il cuore. Eppure non poté far a meno di pensare a lui, a Elena, a tutto; a come, se solo le cose fossero andate diversamente, un tale scempio si sarebbe potuto evitare – in un’altra vita, forse.

 
NOTE ➳ Posso dire, a mia discolpa, che è più forte di me leggere angst ending e buttarci dentro questa famiglia? Perché, insomma, per quanto all’inizio questa parentela mi abbia fatto storcere il naso, da una parte sono anche curiosa di conoscere i retroscena – se mai li avremo, già.
 Avrei evitato di scrivere queste note, se non fosse che ci tengo a fare una piccola precisazione. L’Elena Miyano di questa storia è volutamente più pessimista di quella che vediamo nei flashback di Rei perché lei e Atsushi lavorano già per l’Organizzazione e sanno che potrebbero non uscirne vivi, basti pensare alle cassette che Elena lascia a Shiho. Cose di questo tipo ti segnano, ecco perché Elena è diversa dalla donna allegra e spensierata di quel flashback (sia sempre lodato).

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Capitolo 13
*** Ricordi saporiti ***


Prompt: piatto preferito
Personaggi: Shuichi Akai,
Yukiko Kudo, altri
Pairing: nessuno
Rating: verde

Ricordi saporiti


 Se qualcuno, mesi prima, gli avesse chiesto a che cosa servivano tutti quegli oggetti, la sua risposta sarebbe stata semplice e certamente non la più intelligente del repertorio – boh! I vari coltelli gli sarebbero tornati utili contro qualche criminale, ma di tutto il resto non avrebbe saputo cosa farsene. Se ora era capace di recitare a menadito il nome e la funzione di ognuno di quegli arnesi da cucina era solo merito di Yukiko.
 Fiero di mostrare alla sua insegnante i progressi delle ultime settimane, Shuichi indossò un guanto per non ustionarsi ed estrasse dal forno un danubio ben lievitato dalla superficie dorata. La ricetta – un piatto tipico italiano, stando alle parole di Yukiko – era tra le più complesse che avesse mai avuto tra le mani, ma la soddisfazione che lesse nel volto della donna lo ripagò di tutti i suoi sforzi.
 «Non è più un pasticcio informe e bruciacchiato, Subaru!» esclamò infatti Yukiko, rivolgendosi a lui senza troppe formalità, pur evitando di ricorrere al suo vero nome.
 Shuichi incassò il colpo a cuor leggero. Ricordava il risultato scadente della prima volta, un ammasso irregolare un po’ crudo e un po’ cotto dall’aspetto discutibile. Quel fallimento, però, non lo disturbava più, anzi lo rendeva fiero perché provava inconfutabilmente la sua dedizione ai fornelli.
 «La ringrazio, Yukiko.»
 Yukiko annuì fiera. Affascinante, intelligente, dedito alla giustizia, abile ai fornelli – che cosa non aveva, quell’Akai?!
 Si portò una mano al viso, una guancia poggiata sul palmo. «Di niente, di niente. Hai altre richieste, prima che io vada via?»
 Shuichi dovette rifletterci un attimo. Era sul punto di rispondere no, quando un’idea bussò alla sua mente e lui non ebbe la forza di ignorarla.
 
 «Quefto omurice è buoniffimo!»
 «Genta, non si parla con la bocca piena!»
 «Certo che il signor Subaru è proprio bravo a cucinare!» esclamò Ayumi, ignorando l’innocuo battibecco nato tra Genta e Mitsuhiko perché il secondo, a detta del primo, era fin troppo bacchettone. Chiunque sarebbe stato dello stesso avviso di Mitsuhiko e Conan era tra questi, ma il suo spirito di diciassettenne che ancora non si era arreso alla vita monotona di un bambino gli suggerì saggiamente di lasciar correre. Rivolse invece le sue attenzioni al professore quando udì Ai porgli una semplice domanda.
 «Davvero li ha cucinati lui, questi omurice?» inquisì infatti lei, lanciando un’occhiata diffidente alla villa dei Kudo.
 «Sì, me li ha portati proprio stamattina», spiegò Agasa. «Ha detto che voleva esercitarsi, ma poi ha finito per cucinarne troppi e, siccome da solo non sarebbe mai riuscito a mangiarli tutti, ha pensato a noi. Un bel gesto, eh?»
 «Mh, sì», mormorò distrattamente Ai, gli occhi fissi sulla sua porzione, quasi temesse che Subaru l’avesse avvelenata.
 Conan conosceva le sue perplessità su Okiya e, in realtà, non poteva darle torto, visti i loro trascorsi; decise tuttavia di aggrapparsi alle bugie e fece finta di nulla, un atteggiamento che sorprendentemente rispecchiava la realtà.
 «Qualche problema, Haibara?»
 «No.»
Sì.
 Perché a sorprenderla non era stato il gesto in sé, che da parte di Subaru Okiya era anzi prevedibile, piuttosto la coincidenza che, tra tutti, lui avesse preparato proprio quel piatto. Poteva essere solo questo, però – una coincidenza.

«L’omurice è buonissimo, Shiho!
Esci un po’ da quel laboratorio e
vieni a cena con me, stasera!»


 Per quale altra ragione, altrimenti, Subaru avrebbe dovuto cucinare il piatto preferito di sua sorella?

 
NOTE ➳ Fluff? Be’, sì – però vuoi che non ci sia almeno un pochino di angst!
 Qualcuno potrebbe chiedersi, forse anche a ragione, perché ho scelto il danubio e l’omurice. La risposta è semplice: sono stati la prima cosa a venirmi in mente. Cioè, il danubio lo conosco perché va be’, è un piatto tipico napoletano, e non è impossibile supporre che una persona appassionata di cucina possa conoscerne la ricetta anche al di fuori dell'Italia. E poi Yukiko è una donna di mondo, quindi mi avvalgo delle sue conoscenze. L’omurice, invece, l’ho assaggiato l’anno scorso e penso che sia davvero buono. Tutto qui.
 

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Capitolo 14
*** Giochi da grandi ***


Prompt: carte
Personaggi: Kaito Kuroba,
Aoko Nakamori
Pairing: Kaito/Aoko
Rating: verde

Giochi da grandi


 Le aveva posto quella domanda spinto dal senso di colpa, ancora convinto di non aver fatto nulla di male – era solo una stupida partita a carte! La bambina dall’altro capo del tavolo, tuttavia, non sembrava essere dello stesso avviso.
 «Mi perdoni?» ripeté Kaito.
 Aoko lo osservò con gli occhi bagnati da alcune lacrime e il labbro inferiore catturato a stento dai denti. «Sei cattivo.»
 Lo sguardo di Kaito cadde in basso, sul full di carte che gli aveva permesso, poco prima, di dichiarare la sua vittoria con tutto l’orgoglio di cui era capace. Non aveva messo in conto che Aoko ci sarebbe rimasta tanto male.
 Va bene, forse qualche colpa ce l’aveva. Forse avrebbe potuto darsi meno arie. Non che fosse abituato a vincere, comunque. Suo padre era sempre stato un mostro nel gioco del poker e Kaito non era mai riuscito a strappargli una vittoria. Né a lui, né a sua madre. E Chikage sapeva essere davvero insopportabile quando vinceva.
 Kaito sbuffò. «Mi perdoni se ti insegno a giocare bene?»
 Le lacrime di Aoko parvero svanire come neve al sole mentre gli angoli della bocca viaggiavano velocemente all’insù per disegnare un ampio sorriso. «Davvero?»
 Kaito distolse lo sguardo e lo puntò sul tavolo nel tentativo di celare il rossore delle guance e iniziò a mischiare le carte.
 Era un – dopotutto era solo un gioco e loro erano solo bambini.
 
 Le aveva posto quella domanda spinto da un senso di colpa crescente eppure inutile, perché nemmeno quello era stato capace di fargli vedere i suoi errori e indurlo ad agire per tempo.
Mi perdoni? avrebbe ripetuto Kaito se solo ne avesse avuto il coraggio. Ma quel coraggio gli mancava perché ora erano lì, le conseguenze dei suoi errori, le leggeva in due occhi bagnati dalle lacrime e carichi di delusione che lui non riusciva a sopportare.
 Lo sguardo gli cadde sull’asfalto, lì dove il cilindro bianco giaceva sudicio a pochi passi dal monocolo rotto.
Sei cattivo – Aoko non lo disse, ma lui avrebbe voluto. Avrebbe voluto tornare a quel pomeriggio della loro infanzia, quando ancora un sorriso bastava, quando le parole non erano importanti perché i bambini, si sa, sono creature semplici.
 «Non sai perché l’ho fatto, Aoko. Lascia che ti spieghi.»
Mi perdoneresti se ti spiegassi le mie ragioni?
 Le lacrime di Aoko non scomparvero, nessun sorriso le scacciò. C’era solo dolore sul suo volto, e Kaito non poté scrollarsi di dosso la sensazione di vuoto nel petto nemmeno dopo che lei si fu voltata per andarsene.
 Era un no – dopotutto non era solo un gioco e loro bambini non lo erano più.

 
NOTE ➳ Pubblico e fuggo via perché sono in super ritardo e temevo di non farcela, ma in qualche modo sono riuscita a combinare qualcosa. Tra i prompt di oggi mi ispirava molto tomba con l’ennesimo sviluppo angst ma non mi dire, ma un po’ per la mancanza di tempo, un po’ perché anche carte mi piaceva molto, mi sono fiondata su quello. L’idea che avevo per tomba credo di sapere già come utilizzarla con un altro prompt. Si tratta di una coppia che mi piace molto, eppure stranamente qui non è ancora comparsa.
 Volevo anche avvisarvi che ho tolto dallo specchietto in alto il parametro generi perché iniziava a diventare superfluo; le altre voci le lascio perché, essendo una raccolta piena di personaggi e coppie diverse, facilita la navigazione da una storia all’altra.
 È tutto. Spero che quest’esperimento con Kaito e Aoko vi sia piaciuto e vi ringrazio molto per aver letto fin qui. A domani!

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Capitolo 15
*** Sarà un addio ***


Prompt: scuola
Personaggi: Detective Boys
Pairing: nessuno
Rating: verde

Sarà un addio


 Li rivedevano ogni mattina in classe, dove il loro ricordo strisciava tra i banchi come un’ombra inafferrabile che voleva burlarsi di loro.
 Genta non sopportava Conan all’inizio, lo riteneva un saputello che si dava tante arie perché era un po’ più sveglio degli altri; presto però aveva imparato a conoscerlo e aveva capito che di cervello ne aveva da vendere. Non glielo aveva mai detto probabilmente per orgoglio, ma era convinto che sarebbe diventato un grande detective – in America, forse.
 Avrebbe continuato per la sua strada, com’era giusto che fosse, mentre in Genta si sgretolavano le speranze future di rendere illustre il nome dei Detective Boys – altro che Shinichi Kudo o Heiji Hattori! Gli avrebbero fatto un baffo, loro cinque.
 E avrebbero potuto, loro cinque, se cinque fossero stati – invece erano solo in tre.
 Conan e Ai non c’erano più.
 
«Kojima, Genta.»
«Presente.»
 
 Mitsuhiko l’aveva invidiato spesso, Conan, domandandosi come un bambino della sua età potesse essere tanto intelligente da farlo sembrare uno stupido a confronto; eppure il vuoto che quell’addio gli aveva scavato in petto non accennava a riempirsi e, anzi, minacciava di allargarsi ancora di più al ricordo di Ai.
 Anche lei era intelligente, sicuramente più di lui, e Mitsuhiko aveva sempre creduto che l’avrebbe vista crescere con lui a Beika, che insieme loro cinque avrebbero riscritto la storia.
 
«Tsuburaya, Mitsuhiko.»
«Presente.»
 
 Ayumi aveva trovato in Ai la sua prima vera amica femmina – ma Ai ora non c’era più. Era tornata in America, dove probabilmente ne aveva già incontrate altre, forse anche più carine e simpatiche di lei.
 Chissà se Conan, invece, ne aveva incontrate, di bambine carine e simpatiche che si erano prese una cotta per lui e che a differenza di Ayumi avrebbero avuto più fortuna. Chissà se lui e Ai, sotto quello stesso cielo, si fermavano a osservarne l’azzurro e a riflettere, con la loro innocenza di bambini, su quello che loro cinque non sarebbero mai stati.
 
«Yoshida, Ayumi.»
«Presente.»
 
 Nessun «Edogawa, Conan» e nessuna «Haibara, Ai» vennero chiamati dalla voce della maestra; né quel giorno, né mai più.

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Capitolo 16
*** Incontro fortuito ***


Prompt: passato
Personaggi: Rei Furuya,
Shiho Miyano
Pairing: Shiho/Rei
Rating: verde

Incontro fortuito


 «Capisco che per te sia uno shock, ma ti dispiacerebbe fissarmi un po’ più in là? Mi blocchi il passaggio.»
 Shiho sbatté più volte le ciglia, un’espressione ben poco intelligente dipinta in volto – ed era strano, per lei, essere quella a corto di parole. Ma d’altronde non capita tutti i giorni d’imbattersi per puro caso in una persona che ha cercato di farti saltare in aria su un treno – gliel’avrebbe potuto rinfacciare, in effetti.
 Ma non lo fece, probabilmente perché la situazione era già fin troppo assurda. Invece, decise di esaudire la sua richiesta e si spostò sul margine sinistro della stradina in pietra, liberandogli la via.
 «Grazie mille», disse Rei con un sorriso che Shiho non seppe come decifrare, se come presa in giro o sincera gratitudine. Considerato il soggetto in questione, forse la prima. Di nuovo però Shiho non parlò, preferendo il silenzio a tutte quelle parole che loro due avrebbero potuto scambiare.
 Mentre Rei la superava e si allontanava di alcuni passi, Shiho era già pronta a catalogare quell’incontro come una coincidenza che non aveva portato a nulla e che presto avrebbe dimenticato. Dando per scontato che lui fosse della stessa idea, si stupì quando tornò a rivolgerle la parola.
 «Akemi non è da quella parte.»
 Il cuore parve fermarsi in petto – aveva sentito bene?
 «Co… sa?» farfugliò Shiho, scrutandolo con genuino stupore.
 «Cerchi tua sorella, giusto? Non è da quella parte, ma da questa. È la prima volta che vieni a farle visita?»
 Sì, era la prima volta. La morte di sua sorella era accaduta all’improvviso, travolgendola come un treno in corsa, e tutto ciò che era conseguito l’aveva lasciata senza fiato, impedendole di fermarsi a elaborare il lutto. Era riuscita a farlo davvero nei panni di Ai Haibara, al sicuro da ogni pericolo imminente; ma proprio perché quel pericolo era sempre dietro l’angolo, Shiho, prudente come non mai, non s’era nemmeno azzardata a bazzicare nei luoghi che la ricollegavano al suo passato e dove l’Organizzazione avrebbe potuto rintracciarla.
 Non fu questo che disse, tuttavia.
 Recuperò l’usuale grinta e lo sguardo sembrò cedere sotto il suo stesso peso perché quello divenne duro, diffidente, persino macchiato d’astio.
 «E tu come lo sai?» domandò.
 Rei non si stupì di un cambiamento tanto drastico. Shiho e l’Organizzazione avevano trascorsi tutt’altro che allegri, senza contare che lui aveva rischiato di ucciderla – non che fosse stata una sua idea. Tutto era partito da Vermouth e Shiho ne era ormai al corrente, ma anche alla luce di questo Rei comprendeva la sua diffidenza. Motivo per cui optò per una risposta semplice, pulita.
 «Io e Akemi eravamo amici da bambini. Venirle a fare visita è il minimo. Tranquilla, non ci sono esplosivi vicino alla sua tomba.»
 Temette di aver fatto il passo più lungo della gamba con l’ultima frase, ma i secondi passarono e Shiho non aprì bocca. Rimase a osservarlo nel silenzio, rincorrendo chissà quali pensieri. Rei era ormai convinto che non sarebbe riuscito a scucirle una parola di più quando lei gli fece notare: «Tu venivi dalla parte opposta. Se mia sorella è a destra, perché tu venivi da sinistra?»
 «Ho altre persone a cui fare visita quando vengo qui. Ho tanti amici morti, sai.»
 Fu colta di sorpresa dalla sua schiettezza. «Era una battuta?»
 Rei scrollò le spalle e sorrise. «Diciamo di sì. Niente e nessuno può riportare indietro i miei amici, quindi tanto vale scherzarci sopra. Non sei d’accordo?»
 Shiho si stupì di un ragionamento tanto asciutto e proprio per questo sorprendente perché, si sa, i sentimenti son tutto fuorché semplici da gestire. Nemmeno lei era capace di analizzare i propri come avrebbe fatto in laboratorio con una formula chimica, né riusciva a esternare con leggerezza tutte quelle parole che pesavano sul cuore.
 «È un modo diverso di affrontare le cose, suppongo.»
 «Una volta che impari a farlo è tutto un po’ più semplice – non rivangare il passato, e anzi vivere nel presente», ribatté Rei, e Shiho non seppe dire se fosse un consiglio. Qualcosa le fece pensare di sì.
 «Be’», proseguì l’altro, «per me è ora di andare. Ah, sì. Non sapevo quali fiori piacessero a tua sorella da adulta, perciò non gliene ho mai portati. Ti dispiacerebbe farmelo sapere, la prossima volta? Mi trovi al Poirot, se hai bisogno.»
 Per la seconda volta nell’arco di poco tempo, un’espressione intontita le scivolò sul volto e Shiho rimase a osservarlo mentre si allontanava con mille domande e perplessità a vorticarle nella mente.
Era davvero successo quello che era appena successo?
 Non che lei avrebbe mai accettato di stare al gioco, comunque – per il momento.

 
NOTETra i prompt di oggi mi ispirava molto tomba con l’ennesimo sviluppo angst, dissi io due giorni fa – e sì, parlavo proprio di questo! L’angst in realtà è pochissimo e di questo ne sono contenta, anche perché questi due ne hanno fin troppo senza che mi ci metta pure io.
 La coppia che non era ancora comparsa era proprio la Shiho/Rei, a questo punto direi che è evidente. Il tassello che li unisce non è tanto l’Organizzazione, piuttosto la famiglia Miyano: Elena, ovviamente, ma anche la stessa Akemi. Se ripenso al flashback divento una valle di lacrime
 Non vi nascondo – per amore di chiacchiere? – che la parte più difficile nella stesura di questa OS è stato evitare di scopiazzare l’idea di base di una mini-long che giace tra i meandri del mio PC giudicandomi con severità (leggasi: mi servirebbe più tempo per scrivere tutte le scemenze che mi frullano per la testa). E direi di esserci riuscita, sì, visto che là le premesse sono diverse.
 Il titolo fa un po’ pena; non me ne vogliate, sono pessima alle volte con i titoli. Credo che lo cambierò, se me ne verrà in mente uno migliore.
 Va be’, basta tergiversare. Vi ringrazio di aver letto fin qui, a domani!

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Capitolo 17
*** Sei un pessimo attore, sai? ***


Prompt: matrimonio
Personaggi: Miwako Sato,
Wataru Takagi
Pairing: Takagi/Sato
Rating: verde

Sei un pessimo attore, sai?


 «Agente Sato…!»
 «Abbassa la voce, Takagi! E non chiamarmi agente, o ci scoprirà. Reggimi il gioco e basta.»
 Le deboli proteste di Takagi si spensero quando l’uomo tornò a rivolgere loro le sue attenzioni, non prima che Sato afferrasse la mano di Takagi per guidarla attorno al suo collo – troppo vicini.
 Takagi cercò di dissimulare il disagio, ma ogni centimetro del suo corpo era in netto disaccordo con le sue buone intenzioni e il suo colorito prometteva brutte sorprese.
 «Tutto bene, signore?»
 «Eh? Ah! Sì, sì!»
 «Lo perdoni, mio marito è timido», fu la risposta, veloce e incredibilmente spontanea, che Sato rifilò all’uomo.
L’uomo in questione era all’apparenza normale, un bravo cittadino che lavorava come gestore presso un motel e svolgeva le sue mansioni senza disturbare la quiete pubblica. Nessuno, o quasi, avrebbe sospettato di lui. Sato però sentiva di potersi fidare dell’intuizione del piccolo Conan ed era disposta a dare il tutto per tutto pur di comprovare le sue teorie – anche rischiare un rimprovero coi fiocchi da parte di Megure e uno svenimento del povero Takagi. Il quale, scoprì Sato a sue spese, era un pessimo bugiardo.
 Doveva essere lei a prendere in mano la situazione, o non ne sarebbero usciti vittoriosi.
 «Per quella stanza non si può fare proprio niente, quindi?» domandò.
 L’esitazione dell’uomo e la scintilla di panico che Sato vide baluginare nei suoi occhi promettevano bene.
 «No, mi dispiace, signora. Vede…»
 «Oh, che peccato! Nostro figlio» – il cuore di Takagi accarezzò l’idea di un infarto – «rimarrà molto deluso.»
 «Vostro figlio?»
 Sato annuì convinta. «Sì, quel bambino laggiù, quello con gli occhiali. Era così contento di pernottare in questo motel per poter giocare anche domani con i bambini con cui ha fatto amicizia.»
 «Capisco, ma…»
 «Wataru!» Takagi vide le porte del paradiso – o dell’inferno – spalancarsi appositamente per lui. «Vai tu da nostro figlio a dargli la brutta notizia? E digli di non piangere, ha ancora tutto il tempo del mondo per giocare con i suoi amici. Anche se…» Finse di asciugarsi una lacrima inesistente, come inesistente era la comprensione che Takagi aveva dell’intera questione – che cosa diavolo aveva in mente, Sato?
 «No, non ci voglio pensare – non oggi», concluse la donna tra sé. «Vai, Wataru. Io intanto ringrazio il signore per la disponibilità.»
 Osservando Takagi allontanarsi con espressione cadaverica, fattore che lui attribuì alla causa sbagliata, l’uomo non poté che porgere una semplice domanda.
 «Mi scusi, perché suo marito ha la faccia di uno che sta per andare all’altro mondo?»
 «Vede, nostro figlio… è molto malato.»
 
 Il finto trio familiare riuscì a fare breccia nel cuore del gestore tanto da ottenere, in via del tutto eccezionale, una stanza in cui passare la notte. In un primo momento l’uomo aveva sostenuto di aver chiuso i battenti per un paio di giorni in vista di alcuni lavori di ristrutturazione, ma Conan aveva subito fiutato l’olezzo della menzogna e una perquisizione attenta da parte di un’insospettabile famiglia gli permise, due ore dopo, di concretizzare ogni suo dubbio.
 «… E questo è tutto. Come vedete le prove sono schiaccianti, il gestore del motel ha confessato di aver ucciso il signor Takeda.»
 Una ruga si formò tra le sopracciglia di Shiratori, che parve riflettere molto attentamente prima di formulare un intelligentissimo mh di assenso cui non seguì nient’altro.
 Megure fu più esaustivo. «Una copertura particolare¸ se posso dirlo, ma fintanto che funziona… Ottimo lavoro, agenti.»
 «È stata un’idea tua, Takagi?»
 Alla domanda di Shiratori, Takagi poté solo scuotere il capo in segno di diniego.
 «No, mia», spiegò Sato, trovando le parole che mancavano al collega. «E il piccolo Conan è stato molto d’aiuto», concluse con un’occhiata al suddetto bambino, che ricambiò annuendo. «Ora che il matrimonio è finito, Takagi, puoi anche smetterla di fare quella faccia. Sei un pessimo attore, sai?»
Lo sapeva.
 
 «Ti sei trovato due nuovi genitori.»
 Conan sbuffò al suo sarcasmo, reputando assurdo che, dopo una spiegazione tanto avvincente su come lui era giunto alla soluzione del caso, Ai non avesse di meglio da commentare.
 «Era solo un pretesto per persuadere l’uomo ad affidarci una stanza», replicò. «Trovandosi di fronte una coppietta sposata e un bambino malato» – quale macabra fantasia, l’agente Sato! – «ha abbassato la guardia e noi ne abbiamo approfittato. Be’, io e l’agente Sato, perlomeno. L’agente Takagi era un po’… fuori forma.»
 Conan si chiese se un giorno Takagi sarebbe mai riuscito a dire alla collega ciò che provava – .

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Capitolo 18
*** A piccoli passi ***


Prompt: amicizia
Personaggi: Ayumi Yoshida,
Ai Haibara/Shiho Miyano
Pairing: nessuno
Rating: verde

Storia collegata a
Galeotto fu l’ascensore.

A piccoli passi


 «Che cosa?»
 Ayumi sentì le parole morirle in gola non appena i suoi occhi, brillanti e innocenti, si scontrarono con quelli di Ai, calmi e pieni di cose di cui lei, bambina, nemmeno sospettava l’esistenza. Si sentiva piccola e fragile sotto lo sguardo attento di Ai, ma non ne capiva il motivo – forse le stava antipatica?
 Non voleva, non era giusto. Avrebbe fatto di tutto pur di avere finalmente un’amica femmina ed essere lei a dover compiere il primo passo non era un problema.
 «Uhm...» Sì umettò le labbra povere di parole, giocherellando per un attimo con un bottone del cappotto. «Ho detto... chi è il tuo cantante preferito, Haibara?»
 Era una domanda semplice, banale, eppure Ayumi si era impegnata davvero tanto nella ricerca di un argomento che potesse solleticare l’interesse della nuova compagna di classe. Ai non sembrava appassionata di sport, videogiochi o programmi televisivi – la musica, però, a chi non piaceva?
 «Non ne ho uno. Non mi piace la musica.»
Ad Ai Haibara, ecco a chi.
 
 «Pensavo non ti piacesse la musica!»
 Ai si sarebbe indispettita di una tale osservazione se non l’avesse pronunciata la voce allegra e squillante di Ayumi, la cui spontaneità di bambina non le permetteva di sfoderare quella malizia che Ai conosceva fin troppo bene. Ayumi non sapeva cosa fosse la cattiveria. Ayumi non aveva secondi fini. Ayumi era speciale.
 «È una canzone uscita da poco», le spiegò Ai, senza premurarsi di specificare il cantante perché in realtà non lo conosceva nemmeno lei. Il brano piaceva molto a Higo: le bastava questo.
 «La vuoi ascoltare?»
 Era una domanda semplice, banale, eppure Ayumi la sentì esplodere in petto come mille coriandoli colorati ed espandersi in tutto il corpo fino a irradiare ogni centimetro di pelle.
 «Sì!» esclamò all’istante, quasi temesse che l’invito di Ai potesse sfuggirle da un momento all’altro. Con un sorriso che s’allargava su tutto il viso, Ayumi si fece più vicina e infilò in un orecchio la cuffia che l’amica le porgeva.
 
«Perché non i ragazzi? Non vuoi invitarli?»
«Non ho detto questo, Kudo.»
«Che cosa, allora?»
«Gli stiamo mentendo spudoratamente. Non se lo meritano.»
«No. Ma sono piccoli, non capirebbero. Possiamo dirglielo quando saranno
più grandi.»
 
 Non riusciva a reggere lo sguardo di Ayumi, Shiho. Non riusciva a osservare i suoi occhi gentili senza sentirsi schiacciata da tutte le bugie degli ultimi mesi, senza che la vocina fastidiosa nella sua testa le rinfacciasse tutte le colpe di cui si era macchiata. L’affetto dei bambini è pulito, un sentimento limpido e potente perché viene direttamente dal cuore, e Shiho non credeva di meritarlo – non più.
 «Davvero hai incontrato Higo, Shiho-san
 Il mezzo sorriso che Shiho sfoggiò richiese uno sforzo incredibile. «Sì, ma è stato solo un caso.» Evitò di raccontarle che Higo le aveva confessato che sarebbe stato bello poterla rivedere, un dettaglio che nemmeno quell’impicciona di Sonoko era riuscita a scucirle.
 Ad Ayumi avrebbe potuto dirlo, però. E l’avrebbe fatto, se tutto fosse stato come prima – quando lei era solo una bambina (finta) e chiunque la guardasse in quel corpicino minuto non aveva aspettative, non le addossava colpe.
 «È proprio come in televisione?»
 Alto, affascinante, con la voce profonda?
 «Gentile?»
 Shiho si tacciò di stupidità – cos’altro avrebbe potuto domandarle, una bambina? Ayumi era piccola, inesperta, non pensava mica ai ragazzi come un’adolescente. Era proprio questo che aveva aiutato Ai a uscire dal guscio, proprio questo che ricordò a Shiho che quel guscio andava rompendosi sempre più man mano che qualcuno, là fuori, lo scalfiva.
 Le sorrise – non faticò. «Sì, è molto gentile.»
 «Di che cosa avete parlato mentre sceglievate il regalo per il professore?»
 A Shiho non pesò dover rispondere alla domanda – eccolo, il primo passo lungo un sentiero che aveva ingenuamente creduto di non poter percorrere mai più. La sua piccola amica non se n’era andata, non se ne sarebbe mai andata.

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Capitolo 19
*** Il tacco ferisce più della spada ***


Prompt: vestiti
Personaggi: Shinichi Kudo,
Sonoko Suzuki
Pairing: Shinichi/Ran
Rating: verde

Il tacco ferisce più della spada


 A sua discolpa, la prima persona cui si era rivolto non era Sonoko, nossignore. Resosi conto, tra un crimine e l’altro, che quella data era pericolosamente vicina, Shinichi aveva indirizzato le sue preghiere a Shiho. La quale, osservandolo da dietro una fumante tazza di tè (nero, senza zucchero!), aveva risposto con un secco e categorico no.
 «Perché non chiedi a quella tua amica?»
 Aveva capito che l’amica in questione era Sonoko solo dopo vari secondi di complesse macchinazioni e, sbuffando, aveva scartato l’idea senza esitazione – allora perché era , con le mani strette attorno a dieci buste e l’orgoglio ridotto in piccoli cocci? Bella domanda.
 Una domanda cui lui non sapeva rispondere.
 «Quel vestito ti fa più grassa del solito.»
 «Detto da te non può che essere un complimento.»
 Shinichi sbuffò ancora una volta, osservando con disperazione le lancette dell’orologio che proprio non volevano saperne di scandire il tempo con più velocità.
 «Senti, Sonoko, ti avevo chiesto di aiutarmi a scegliere un regalo adatto per il compleanno di Ran, non di portarmi in giro per negozi come un cagnolino.»
 «È il prezzo da pagare per il mio silenzio», ribatté la voce di Sonoko dall’altra parte del camerino. «Non ci perdo nulla a dire a Ran che ti sei ridotto all’ultima settimana. Sei un ingrato, lo sai? Lei si è mossa un mese prima per te.»
 Shinichi rimase in silenzio ad ascoltare gli epiteti poco lusinghieri che Sonoko associava al suo nome, intervallati da pause in cui la ragazza scostava la tenda giallina e si mostrava a lui in abiti sempre diversi. Il primo era stato il rosso, poi il verde, poi il rosa, e ne erano seguiti tanti altri di cui Shinichi non aveva tenuto il conto. Il suo infallibile intuito da detective era tuttavia rimasto vigile tutto il tempo e, se non lo ingannava, Sonoko aveva provato in totale dodici vestiti. E non sembrava accusare minimamente la stanchezza.
 A un certo punto, spinto dall’istinto di sopravvivenza insito in ogni essere umano, qualcosa in Shinichi si smosse e lui tentò di fingere sinceramente che tutto ciò gli interessasse. Si complimentò con Sonoko per come quella scollatura e quella gonna viola enfatizzassero la sua bellezza e questo bastò a farle scartare l’abito nel giro di mezzo secondo.
 «Pensavo avessi detto di volere un consiglio!»
 «Si fa per dire! Mica voglio consigli da te.»
 «Allora cosa sono qui a fare?»
 «Perché sei un pessimo fidanzato per la mia migliore amica.»
 E il pessimo fidanzato non replicò.
 
 Gli sembrò di tornare a vivere quando Sonoko osservò nello specchio la sua figura e si dichiarò soddisfatta. A quel punto Shinichi non aveva nemmeno la forza mentale di farle notare che la sua scelta era ricaduta tra i primissimi abiti che aveva provato e si limitò, sfinito, a seguirla fuori come un vagabondo in fin di vita.
 Quel pomeriggio gli sarebbe servito da lezione per eventuali ritardi futuri, e gli aveva anche insegnato che il tacco ferisce più della spada – era così, giusto?
 «Ora…»
… si torna a casa?
 «… il regalo per Ran!»
 
 
NOTE ➳ Uno dei prompt di oggi era hurt/comfort e giuro che mi stava chiamando fin dal primo giorno e mi stupisco di me stessa per aver spostato le mie attenzioni su vestiti, vista la mia inclinazione ai personaggi che soffrono. Meglio così. Un po’ di delirio con cui alternare l’angst serviva proprio – forse.
  Comunque… ho scritto su una coppia canon, wow! Una data da segnare sul calendario.
  Scherzi a parte, non sono molto fan della ShinRan, ma non a caso queste sono cronache di tutto. E poi, be’, esplorare nuovi orizzonti non guasta. Incredibile ma vero, scrivere di coppie di cui di norma non scriverei ha i suoi benefici, anche se qui alla fine la coppia è sullo sfondo e il focus è Sonoko. La quale, per inciso, si sposa benissimo con il genere commedia – o forse sono io che penso che qualsiasi personaggio abbia un potenziale comico?
  Sperando di aver strappato almeno un sorriso, vi ringrazio di aver letto fin qui e vi do appuntamento a domani, se vorrete!

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Capitolo 20
*** Tre finali per un nome ***


Prompt: credo
Personaggi: sorpresa
Pairing: nessuno
Rating: verde

Tre finali per un nome


 È strano come, un giorno come tanti, il sottile filo del destino scopra modi impensabili per
collegare le vite di tre persone distanti, diverse, eppure vicine e simili. Si ritrovano, senza volerlo
né chiederlo, nella morte di una donna che quella morte non la meritava.
 
La prima è una bambina mai esistita, una ragazzina dall’età perduta che sfoga il dolore in una stanza piccola e buia dimenticata da tutti.
Nulla le appartiene, nemmeno la sua stessa volontà, e l’unica cosa e persona che le abbia mai fatto credere in un avvenire migliore non c’è più.
Non ci crede più, in quell’avvenire, non può.
 
Il secondo è un uomo che si è tuffato anima e corpo nella sua missione e che la vedeva, appunto, solo come una missione, finché tutto
non è cambiato ed è subentrato l’amore. Ci aveva creduto davvero – in quei baci spontanei, in quelle carezze nelle notti più fredde.
Non ci crede più, in quell’amore, non può.
 
Il terzo è un giovane spensierato per cui sconfitta è un termine nuovo a cui le labbra non
sono ancora abituate – lo masticano come un boccone amaro mentre lo stomaco si attorciglia più e più volte e gli ruba l’ossigeno.
Con le ginocchia premute sull’asfalto duro e sporco osserva ciò che rimane della prima persona che non è riuscito a salvare e capisce
che , la giustizia esiste, ma, a differenza di quel che ha sempre creduto, non è assoluta né infallibile.
Non ci crede più, in quella giustizia, non può.
 
Un giorno come tanti,
in tre soffrono la stessa perdita,
condividono lo stesso vuoto,
versano le stesse lacrime.

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Capitolo 21
*** Di padre in padre ***


Prompt: ruolo
Personaggi: Shiho Miyano,
Hiroshi Agasa
Pairing: nessuno
Rating: verde

Di padre in padre


 Due – ne mancavano solo due.
 Sua madre le aveva lasciato in totale venti cassette e Shiho avrebbe finito di ascoltarle l’anno prossimo, al compiere dei suoi vent’anni – non credeva nemmeno che ci sarebbe mai arrivata. C’era stato un periodo in cui aveva accarezzato l’idea della morte come mai una ragazza dovrebbe fare, convinta che solo in quella avrebbe trovato la pace che non aveva mai conosciuto.
 Ora il solo pensiero di perdere tutto la spaventava e il timore di vedere sgretolarsi la piccola realtà che si era costruita non l’abbandonava mai, si nascondeva dietro l’angolo come una belva in agguato pronta a saltarle addosso.
 Sapere che le mancavano solo due cassette era strano – triste, in un certo senso. Le avrebbe ascoltate all’infinito, lasciandosi cullare dalla voce di quella madre che mai aveva conosciuto e che ogni giorno le mancava; ma allo stesso tempo non voleva che finissero, perché avrebbe significato allora che di quella madre non le rimaneva niente.
 Tornò a osservare la diciannovesima cassetta poggiata sul tavolo, sfiorandone la superficie con polpastrelli delicati, quasi timidi, come se temesse di romperla. Si ricordò che il professore era uscito di prima mattina e, sapendo che non sarebbe tornato prima di pranzo, decise che non poteva aspettare oltre.
 In cucina andava bene, non c’era nessuno.
 Inserì la cassetta nello stereo che il professore teneva su uno scaffale per ascoltare musica mentre cucinava – aveva abitudini strane – e, con un attimo di incertezza, premette il tasto play.
 A parlare fu una voce diversa, profonda, maschile – non Elena.
 
Ciao, figlia mia.
 
 Il tempo parve fermarsi, congelarsi, mentre il cuore era indeciso se imitarlo o iniziare a battere all’impazzata – scelse la seconda. Shiho lo sentì premere contro il petto come un tamburo mentre lentamente arrivava a una semplice quanto spiazzante deduzione.
Papà?
 La voce proseguì, rivolgendole parole che a Shiho arrivarono confuse e vaghe. Riuscì a riacquistare lucidità solo dopo vari secondi e ascoltò il padre che si lamentava perché Elena l’aveva costretto a registrarsi.
 Atsushi rise – Shiho rise con lui.
 
È strano, Shiho, parlarti come se avessi già diciannove anni. Per me sei solo la neonata che sta dormendo nell’altra stanza. Sei così piccola, così fragile.
Tua madre, sai… è un po’ pessimista.
 
 Shiho avvertì subito l’esitazione nella sua voce, la nota bugiarda che la macchiò. Le tremarono le labbra.
 
Teme che tutto andrà per il verso sbagliato. Ma forse ce la faremo. Ci proveremo, quantomeno. Per te, per Akemi, per noi.
 
 Atsushi continuò a parlare, ma di nuovo Shiho faticava ad ascoltare: la mente si annebbiò e la realtà la colpì come uno schiaffo in pieno volto, rubandole quel poco di conforto che per un attimo l’aveva avvolta come una calda coperta.
 Della voce di suo padre avrebbe dovuto riconoscere ogni sfumatura, ogni intonazione, e invece era nuova, quasi strana – non l’aveva riconosciuta, non aveva potuto.
 Odiava quella cassetta. Non voleva più ascoltarla, no – le aveva raccontato di quel padre che aveva sempre voluto, che non c’era mai stato, che sempre avrebbe pianto.
 La mente catturata da pensieri neri e maligni, Shiho non seppe nemmeno dire il momento esatto in cui la cassetta terminò. Rimase immobile a osservare il vuoto, il groppo alla gola tanto ingombrante da poterla quasi strozzare, e così come non aveva sentito più nulla delle parole del padre non sentì nemmeno la porta di casa aprirsi e richiudersi.
 Il professore entrò e si diresse da lei con un sorriso che gli catturava mezza faccia. Era già pronto a stupirla con la notizia della festa che lui e Shinichi le avevano organizzato – mai le avrebbero permesso di sottrarsi all’importante tradizione dei compleanni! – ma quello che vide lo spiazzò.
 «Shiho?»
 Lei si voltò e parve sinceramente accorgersi solo in quel momento della sua presenza. Aveva gli occhi lucidi, il labbro inferiore stretto tra i denti, e le dita sottili si stringevano disperatamente attorno alla carne fino a renderla bianchissima. Agasa poté giurare di sentire mille lame trafiggergli il petto solo nel guardarla.
 Poggiò le buste sul tavolo e le si avvicinò di alcuni passi, lasciandola fare quando Shiho, senza chiedere, si buttò tra le sue braccia e scoppiò in un pianto trattenuto tanto a lungo da far male.
 «Shh, shh», fu tutto quello che il professore riuscì a formulare, picchiettando una mano sulla sua schiena.
 Non aveva un padre, Shiho, non l’aveva mai avuto – eppure non si era nemmeno accorta che già da un po’ qualcun altro ricopriva quel ruolo.

 
NOTE ➳ Mi è piaciuto scrivere ogni singola storia di questa raccolta (sto ancora pensando a quella Kir/Bourbon e aaah!), però un po’ mi viene da pensare che fare uno Shiho!october (o un Miyano!october) non sarebbe stata una cattiva idea. Quant’è bello questo personaggio, quanto? Scriverei di lei all'infinito.
 Purtroppo non sono sicura che la storia sia venuta un granché bene, c’è qualcosa che non mi convince, ma non posso farci niente.
 Come sempre vi ringrazio per aver letto; a domani!

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Capitolo 22
*** Il silenzio di chi urla ***


Prompt: sentimento
Personaggi: Yukiko Kudo,
Ai Haibara, altri
Pairing: Conan/Ai
Rating: verde

Il silenzio di chi urla


 Yukiko non si stupisce di come, ancora una volta, suo figlio sia in grado di zittire tutti con le sue incredibili e accurate deduzioni.
 Mitsuhiko e Genta lo sgridano, gli dicono di non darsi troppe arie. Yukiko sorride – capisce che a spingerli a parlare è l’invidia, un sentimento che però non è cattivo ma solo umano e anzi veste i panni dell’amicizia. Sono gelosi dell’intuito infallibile del loro piccolo amico perché come suo solito quello gli permette di fare bella figura e di attirare l’attenzione delle ragazze, una in particolare.
 Lo sguardo di Yukiko si sposta su Ayumi e nei suoi occhi legge una sincera ammirazione per suo figlio. Le fa tenerezza, le ricorda Ran quando Shinichi aveva davvero sette anni. È un sentimento acerbo, però, quello di Ayumi, che potrà fiorire solo nel tempo, quando la bambina diventerà ragazza e potrà comprendere davvero che cosa vuol dire amare.
 È solo una cotta, per il momento – passerà.
 «Si può sapere perché si scaldano tanto, quei due?»
 «Davvero non l’hai capito?»
 Lo sguardo di Conan si posa su Ai e si fa più seccato, adulto – è l’espressione tipica di Shinichi che Yukiko gli ha visto indossare innumerevoli volte. «Dovrei?»
 Ai scuote il capo. «Sei proprio senza speranze.»
 Gli rivolge un sorriso sardonico e allora Conan rifugge i suoi occhi, decretando che ne ha abbastanza delle solite frecciatine di Ai. Quegli occhi però rimangono fissi su Conan anche quando lui ha già voltato pagina e Yukiko, osservandoli, capisce.
 Sono occhi da adulta, occhi che l’innocenza l’hanno persa senza mai conoscerla davvero. Yukiko non li paragona a occhi già visti, non può farlo perché di così profondi e tormentati non ne ha mai conosciuti. Sono calmi, silenti, eppure urlano.
 Non smette di osservarli. Non prova tenerezza, né riesce a sorridere – le dispiace, anzi, che un sentimento tanto potente come quello che ha appena individuato sia destinato a vivere e consumarsi nel silenzio.

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Capitolo 23
*** Così vicini da esser lontani ***


Prompt: abitudine
Personaggi: Ran Mori,
Shinichi Kudo
Pairing: Shinichi/Ran
Rating: verde

Così vicini da esser lontani


 Andava tutto bene – prima.
 Ti ripetevi che non c’era nulla di cui preoccuparsi, che probabilmente Shinichi si era solo lanciato a capofitto in uno dei suoi soliti casi e che uno di quei giorni l’avresti visto rispuntare sfoggiando il suo fastidioso sorriso.
 A scuola Sonoko ti aveva chiesto dove fosse il tuo ragazzo e tu, arrossendo, non avevi nemmeno pensato a rispondere alla sua domanda, troppo impegnata ad arrossire e dissuaderla dalle sue strane macchinazioni. Eri sicura che fosse tutto temporaneo.
 
Illusa.
 
 I giorni passavano, passavano, passavano – Shinichi non c’era.
 Le domande dei professori erano sempre più frequenti mentre tu, impotente, vedevi sbriciolarsi tutt’intorno a te la tua semplice eppur cara quotidianità.
 Ogni mattina tu e Shinichi avevate l’abitudine di trovarvi in un punto prestabilito – a volte casa sua, altre casa tua – e di percorrere insieme la strada per scuola. Quasi sempre Shinichi ti parlava dell’ultimo caso che aveva risolto e tu facevi finta di non essere interessata, ma dentro di te il cuore esplodeva d’orgoglio. Ora, se solo potessi tornare indietro, saresti disposta a ripetergli ogni singolo giorno quant’è intelligente, pur di riaverlo indietro.
 
Perché ora le tue mattine sono solitarie, spente; non c’è
nessuno ad aspettarti, nessuno ad annoiarti con
lunghi e interminabili resoconti sull’ultimo
omicidio avvenuto nei paraggi.
 
 C’è Conan, ma non è la stessa cosa – nemmeno lui può sostituire Shinichi.
 
E invece sì.
 
Il fratellino cui vuoi un bene dell’anima è il ragazzo che ami.
Di mattina vi svegliate e uscite insieme,
di pomeriggio ripercorrete la stessa strada,
 di sera cenate tra una chiacchiera e una risata.
Shinichi è qui, sarà sempre qui.
 
E tu nemmeno lo sai.
 
 

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Capitolo 24
*** Passato che non ha futuro ***


Prompt: occhiali
Personaggi: Ai Haibara,
Conan Edogawa
Pairing: Conan/Ai
Rating: verde

Passato che non ha futuro


 «Davvero hai deciso di non portarli più, Conan?»
 Fece finta di non notare che, di nuovo, il professore non lo aveva chiamato Shinichi, nonostante fossero soli. Sapeva benissimo quando Agasa aveva smesso di farlo e non glielo rinfacciava – forse glien’era grato.
 Gli occhiali erano poggiati sul tavolino di fronte al divano. Era la solita montatura di sempre, quella che un tempo s’era illuso di dover indossare per poco; le lenti erano invase da decine di graffietti, le stanghette erano sbiadite. Un tempo quegli occhiali erano tanto larghi da ricadergli sul naso, ora non più (l’ennesima sconfitta).
 «Mi danno un po’ fastidio.»
 «Ma note…»
 «Non noteranno nessuna somiglianza.»
 Conan lesse nello sguardo del professore la stessa indecisione che c’era stata negli occhi di Heiji quando anche l’amico gli aveva fatto presente la stessa cosa.
 «Shinichi Kudo è morto, ricorda?»
 E nello sguardo del professore lesse anche lo stesso dolore che c’era stato negli occhi di Heiji quando Conan gli aveva risposto, secco, che nessuno (nemmeno Ran, soprattutto Ran) aveva ragione di credere che Shinichi Kudo fosse ancora vivo e si nascondesse nei panni di un adolescente.
 Si era sentito perfido a usare pochi riguardi nei confronti di due delle persone che l’avevano sempre aiutato, ma la verità faceva male, feriva, e Conan era quello che più di tutti sanguinava.
 
Lui, e poi lei – loro.
 
 «Tu l’avresti preso, l’antidoto?» chiese ad Ai una mattina, quando gli adolescenti veri non c’erano e quelli falsi potevano palesare tutte le bugie fatte di rimpianti (lui) e di colpe (lei).
 Ai lo osservò assottigliando lo sguardo, come a voler individuare quel particolare che le avrebbe permesso di dedurre i pensieri di Conan prim’ancora che lui li esprimesse ad alta voce. La conosceva da anni e, se non fosse stato tanto razionale, si sarebbe convinto che Ai fosse in possesso di qualche superpotere che glielo permetteva.
 «Perché me lo chiedi?»
 Lo sguardo gli cadde in basso e Conan lo fissò su un interessantissimo sasso. «Morivo dalla voglia di tornare a essere Shinichi Kudo ogni volta che mi si presentava l’occasione. Tu, al contrario… non hai mai voluto tornare a essere te stessa. È capitato solo due volte e in entrambe le occasioni sei stata costretta.»
 Ai si umettò le labbra, rincorrendo con la mente le ombre del passato di cui avrebbe tanto voluto liberarsi ma che, invece, erano sempre più pesanti. Ripensò a Shiho Miyano e tutto quello che poté dire fu la verità.
 «Tu avevi tutto quello che desideravi – io non avevo nulla, né desideravo qualcosa in particolare.»
Aveva smesso di vivere.
 Conan piegò le labbra all’insù, disegnando un sorriso incompleto perché troppo stanco per realizzarne uno perfetto: possibile che Ai fosse sempre tanto melodrammatica?
 «Quindi non l’avresti preso in ogni caso», concluse, sicuro della sua affermazione. «Nemmeno se avessimo vinto.»
 «L’avrei preso, invece.»
 Riuscire a stupire Shinichi Kudo era un’impresa e, in un modo o nell’altro, Ai ci riusciva sempre. Osservò per un attimo le labbra dischiuse di Conan, prima di proseguire: «Ho pensato tante volte di rimanere Ai Haibara volontariamente, di crescere di nuovo con i ragazzi. L’ho fatto, lo stiamo facendo, e ogni giorno è una bugia.»
 Doveva fingersi meravigliata quando Ayumi scopriva volti sempre nuovi dell’adolescenza, fingersi interessata quando le parlava di prime cotte, della magia del primo bacio.
 La grandezza di Shinichi Kudo era ormai lontana, tanto lontana che Conan non poteva più riacciuffarla. Né lei, Shiho, poteva riappropriarsi del relativo concetto di normalità perché dopotutto non era mai stato suo.
 Vivevano una menzogna, lei e lui, senza più nemmeno cercare risposte a domande che risposte non ne avevano.
 «Conan, Ai! Ecco dov’eravate!»
 Conan alzò lo sguardo appena in tempo per vedere Ayumi correre nella loro direzione; Genta e Mitsuhiko le stavano dietro, il primo con più fatica del secondo. Quando i tre li raggiunsero presero a parlare, ma Conan non colse una sillaba.
 Tornò alla realtà solo quando, in un gesto che lei catalogò come innocuo, Ayumi estrasse gli occhiali dal taschino della sua giacca e glieli sistemò sul viso.
 «È strano vederti senza!» esclamò ridendo.
 Conan sfoggiò il sorriso più falso che le sue labbra conoscessero. Poco dopo, i tre ragazzi si mossero e lui e Ai li seguirono senza una parola, senza uno sguardo – iniziava un’altra bugia.

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Capitolo 25
*** Sugli effetti collaterali di un drink ***


Prompt: posto preferito
Personaggi: Rei Furuya,
Hidemi Hondo
Pairing: Rei/Hidemi
Rating: verde

Storia collegata a
Colleghi atipici.

Sugli effetti collaterali di un drink


 «Il poligono di tiro è il tuo posto preferito in assoluto?»
 Rei trovò divertente lo stupore che le lesse in faccia. «Almeno io ne ho uno», osservò con un sorriso che tuttavia non la infastidì per nulla – strano ma vero, Hidemi stava iniziando a capire come ragionasse quell’uomo.
 Lei alzò le spalle. «Non ci avevo mai riflettuto finora. Se proprio dovessi sceglierne uno, sarebbe… il mare.»
 «Il mare?»
 «Il mare.»
 «Sarò anche strano, ma tu sei proprio scontata, agente Hondo.»
 Hidemi scosse il capo, lasciando che quella specie di insulto le scivolasse addosso come lavato via dall’acqua. Ruotò lentamente il polso e per un attimo si perse a osservare le luci che si riflettevano sul liquido scarlatto.
 Rei Furuya, dopo una sfida a suon di spari conclusasi in un dignitoso pareggio, l’aveva stupita ancora una volta invitandola a bere qualcosa – Hidemi aveva accettato. Né a lei né a lui piaceva festeggiare fino a tarda sera, eppure eccoli lì, seduti allo stesso tavolo di un locale intimo lontano dallo schiamazzo dei loro colleghi.
 Hidemi si concesse un altro sorso di vino. «Quando ero piccola, tutte le estati mio padre portava me e mio fratello nello stesso villaggio vacanze», spiegò. «C’era un mare bellissimo e ho tanti ricordi legati a quel posto.»
 «Hai un fratello?»
 «Sì, più piccolo di me.» Poggiò il bicchiere sul tavolino in un gesto secco, deciso, e lo squadrò con occhi brillanti di sfida. «Tocca a te, Furuya. Mi devi due confessioni.»
 «Due? E perché mai? Il gioco prevedeva di parlare del nostro luogo preferito, non delle nostre parentele.» Hidemi continuò a fissarlo. Rei alzò le mani in segno di resa. «Va bene, va bene. Da dove iniziare? Non ho fratelli né sorelle, sono orfano, e il poligono di tiro è il mio posto preferito perché mi ricorda dei bei tempi passati insieme ai miei compagni quando frequentavo ancora l’accademia.»
 Hidemi stette in silenzio per alcuni attimi. «Mi dispiace per i tuoi», sentenziò infine, conferendo alla conversazione una serietà che Rei preferiva evitare. Infatti lo vide alzare le spalle, senza mai perdere il sorriso.
 «Cose che capitano.»
 La donna credette di cogliere quali fossero le sue vere intenzioni e stette al gioco. «Hai passato tanto tempo al poligono?»
 «Sì.»
 «E sei così scarso?»
 Rei rischiò di strozzarsi con una nocciolina. «Prego
 «Credo di ricordare, appena arrivati, che tu mi abbia detto qualcosa come: non hai speranze
 «Tu avevi promesso di stracciarmi.»
 Si fissarono per lunghi istanti e nessuno dei due sembrava disposto a cedere, come se farlo significasse ammettere una pesante e vergognosa sconfitta. Fu Rei, infine, a ritrarsi per primo.
 Si rilassò contro la spalliera della sedia, liberando un sospiro. «Lasciamo perdere. Un altro giro, che ne dici? Tocca a te.»
 Hidemi accettò – l’ultimo, si disse.
 
 «Agente Hondo! Ecco dov’eri!»
 Erano poche le cose al mondo che Hidemi odiava visceralmente. Aveva appena scoperto che tra queste rientrava un collega impiccione che ti urla nei timpani alle sei del mattino. Si aggiungano a ciò fin troppi drink, i nervi necessari a gestire Rei Furuya per tutta la notte, la speranza che nessuno scoprisse quello che era accaduto…
 «Agente Johnson, buongiorno.»
 «Dove sei stata?»
 «Nella… mia camera d’albergo. Ero stanchissima ieri, perciò mi sono ritirata presto.»
 Johnson rise. «Sarai fresca come una rosa, a differenza nostra.»
Assolutamente no.
 «Certo che sì.»
 Hidemi vide, in lontananza, le figure di Jodie e Akai spuntare da dietro una porta, e comprese che anche loro dovevano essersi trattenuti fino a tarda sera, per quanto sicura che non avessero alzato il gomito come altri.
 Tornò a guardare Johnson. «Sono qui solo per…»
 «Perso qualcosa, agente Hondo?»
Ovviamente.
 Hidemi volse la testa di scatto, guidata più dall’istinto che dalla ragione, e vide Rei Furuya raggiungerla con un sorriso tranquillo disegnato in faccia. Nella mano destra stringeva un oggetto dall’inequivocabile appartenenza che le porse non appena l’ebbe raggiunta.
 «L’hai dimenticata al locale», spiegò impassibile, restituendole la borsetta senza curarsi dell’improvvisa tensione. «Bella festa, eh?» aggiunse rivolto a Johnson, ignorando invece Akai e Jodie anche quando li ebbero raggiunti. Se ne andò, senza degnarli di uno sguardo né di un saluto.
 Hidemi prima sospirò, poi imprecò mentalmente, infine girò sui tacchi e si dileguò con la promessa che la prossima volta l’avrebbe davvero stracciato, l’agente Furuya.


NOTE ➳ Si riconferma il fatto che ci sono tre cose su cui adoro scrivere: angst, la famiglia Miyano, e le ship crack che rasentano il trash.
 Mi è concesso dire che non avevo mai preso in considerazione Rei e Hidemi in termini, come dire?, seri – per quanto “seria” sia questa storia – e che ora mi sto divertendo tantissimo a immaginare le loro dinamiche? Pensavo che sarebbe stato un esperimento isolato – e invece!
 Spero di non star combinando casini con la loro caratterizzazione, ma penso che mentre Rei sia il tipo da “sfottere”, allo stesso tempo Hidemi non vorrebbe dargliela vinta tanto facilmente e tenterebbe di tutto pur di stare al gioco.
 Per quanto riguarda Rei, comunque, ci tengo a precisare che non è canonicamente orfano. È un’informazione che mi sono inventata io sul momento, prendetelo come un headcanon (giusto perché questo personaggio non ha già abbastanza angst di suo, no?).
 Come sempre, grazie per aver letto fin qui. A domani con… non lo so nemmeno io, visto che mi riduco a scrivere all’ultimo. Va be’, a domani e basta!

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Capitolo 26
*** Dubbi d’età e film di dubbio gusto ***


Prompt: mutual pining
Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano,
Conan Edogawa/Shinichi Kudo
Pairing: CoAi/ShinShiho
Rating: verde

Dubbi d’età e film di dubbio gusto


 «La prego, professore, non possiamo vedere qualcos’altro? Un programma che non sia del secolo scorso, magari.»
 Agasa scoccò un’occhiata furtiva al televisore. «Mh? Ah, sì. Non stavo nemmeno guardando, fai pure», acconsentì, per poi tornare con lo sguardo sul computer. Si reimmerse subito nei dati a cui stava lavorando e questo lo portò a trasalire sul posto quando Ai gli apparve alle spalle come un’ombra.
 «Non dovrebbe tenere gli occhi così vicini allo schermo, fa male alla vista», commentò in tono neutro. «Soprattutto alla sua età.»
 Non era passato molto tempo da quando Ai era diventata a tutti gli effetti sua coinquilina e il professore non si era ancora accostumato alla sua presenza né, tantomeno, alla sua assoluta mancanza di peli sulla lingua. Le parole le uscivano senza filtri e parevano macchiate di antipatia e supponenza; eppure Agasa, che quella ragazzina l’aveva accolta senza troppi indugi, già sospettava vi fosse dell’altro sotto e registrò la sua raccomandazione senza risentirsene – gli fece addirittura tenerezza, in un certo senso.
 Molto diverso fu l’approccio di Conan.
 «Lo dici per esperienza?» commentò infatti con ironia quando Ai superò il professore e raggiunse il tavolo della cucina. La vide salire con una certa difficoltà su una sedia fin troppo alta per loro e sorrise divertito.
 «Maleducato, oltre che cafone», fu la risposta, schietta e pacata, che ricevette in cambio, a riprova che doveva impegnarsi di più se sperava di lasciare Ai a corto di parole. «Comunque», proseguì lei, accavallando le gambe mentre soffiava sul tè bollente, «a me questo programma piace.»
 «Come vuoi tu, nonna
 
Conan si assicurò che un chiaro aggrottamento delle sopracciglia enfatizzasse tutto il suo dissenso – tutto ciò era inaccettabile, semplicemente inaccettabile!
 «Non hai mai visto Psycho?» pronunciò piano, indignato.
 «No.»
 «Ma è un cult!»
 «Sì, degli anni Sessanta. Chi è la nonna, ora?»
 
 Le labbra del professore si schiusero in un largo sorriso non appena vide Shinichi spuntare in cucina. «L’antidoto ha funzionato?» domandò.
 «Parrebbe di sì.» Si massaggiò una tempia: accusava leggere fitte alla testa, ma a parte questo si sentiva in ottima forma. Ai aveva avuto ragione. «Dov’è Hai…?»
 «Dietro di te.»
 Shinichi fece appena a tempo a voltarsi per vederla mentre lo superava e raggiungeva il tavolo. Shiho agguantò una tazza di tè fumante, non stupendosi di trovarla lì – il professore conosceva ormai a memoria le sue abitudini – e si sedette al suo solito posto senza nessuna difficoltà.
 «Sta vedendo la televisione, professore?»
 Le sorrise. «No, puoi girare.»
 Shinichi costeggiò il tavolo e vi poggiò il gomito, il palmo ben aperto per puntellarci il mento. «Ti prego, non di nuovo quel noiosissimo programma scientifico…»
 Shiho lo squadrò con la coda dell’occhio, decretando che le sue parole non le causavano abbastanza fastidio per formulare una risposta degna di questo nome. Shinichi, ovviamente, non si arrese.
 «Persino il presentatore è decrepito, sembra stia per collassare da un momento all’altro. Non mi stupirei se gli spettatori fossero tutti ultracentenari.»
 «Ti sembra che abbia più di cent’anni?»
 Shinichi si volse: non si stupì dell’imperturbabilità del suo sguardo, ma ne rimase comunque deluso. Sentì la lingua fremere di parole ed era pronto a farle uscire tutte quante, ma si soffermò troppo sugli occhi attentissimi di Shiho e perse il filo del discorso. Decretò, infine, che poteva salvare l’orgoglio solo distogliendo le sue attenzioni e far finta di nulla.
 «Mentalmente sì, sei vecchia.»
Fisicamente no.
 
«Per mettere Psycho dovrai passare sul mio cadavere – non che sia difficile, per uno come te.»
Shinichi dovette ricorrere a tutta la pazienza di questo mondo per rimanere calmo. «Tranquilla», pronunciò con un fintissimo sorriso che prometteva molto male, «è un altro film.»
«Giallo?»
«Sì.»
«Di quale anno?»
«’55.»
«Kudo!»

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Capitolo 27
*** Dove c'è lui ***


Prompt: sogni
Personaggi: Gin,
Ai Haibara/Shiho Miyano
Pairing: Gin/Sherry
Rating: verde

Dove c'è lui


«Vieni, Ai!»
 
Di giorno le risate sono vicine, le alleggeriscono
il cuore e la accompagnano per mano in una vita
che finalmente sembra sorriderle.
Di giorno c’è il sole, ci sono i bambini – non lui.
 
«Vieni, Sherry.»
 
Di notte le risate sono lontane, le picchiano il
cuore e deridono le sue giornate ricordandole
che l’idillio non è destinato a durare.
Di notte c’è il buio, non ci sono i bambini – solo lui.
 
Lo rivede in sogno, Shiho, giorno dopo giorno,
notte dopo notte, ed è come se volesse ricordare
a se stessa che il passato è incancellabile
e l’ha marchiata a vita.
 
Sherry?
Sherry.
Puoi scappare,
nasconderti,
ma non mi sfuggirai.
Ti troverò, prima o poi.
 
Un uomo qualsiasi ama una donna qualsiasi.
Gin non è un uomo qualsiasi e
non ama – insegue, stana, uccide.
 
La neve che scende danzando nel buio,
il sangue rosso che la tinge:
questo è un ottimo posto per
ammazzare una traditrice.
Non credi, Sherry? 1
 
Si sveglia di soprassalto, la pelle imperlata
di sudore e il cuore che martella in petto tanto
da far male: è in un corpo di bambina, ma
le lacrime che versa sono lacrime adulte,
troppo mature persino per lei.
 
1 Incontro indesiderato, episodi 176-178; volume 24, file 7-11.

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Capitolo 28
*** Le colpe dello zero ***


Prompt: treno
Personaggi: Vermouth,
Rei Furuya/Bourbon
Pairing: nessuno
Rating: verde

Storia collegata a
Maschere di creta.

Le colpe dello zero


 «Non dovresti parlare così, Bourbon, o qualcuno potrebbe pensare che tu avessi altro in mente.»
 Le dita di Rei, in un gesto involontario, si stringono attorno allo sterzo. «Altro? Tipo cosa?»
 Vermouth piega le labbra all’insù per disegnare un sorriso carico di malizia. «Non so, dimmelo tu. Mi sembra strano che ti dispiaccia tanto che Sherry sia saltata in aria su quel treno.»
 Rimane in silenzio per alcuni attimi, Rei, ingoiando come un boccone amaro tutte le parole che non può dire. «Il che non era necessario, oltre a non essere nemmeno nei nostri piani – ma come sempre tu fai di testa tua.»
 «L’importante è che quella traditrice non sia più un pericolo per la nostra organizzazione.»
Falso – le sorti dell’Organizzazione non le stanno davvero a cuore. Vuole uccidere Sherry, ma i motivi sono altri e Bourbon non capirebbe – non sono affari suoi.
 «Ci sarebbe tornata molto più utile da viva», osserva lui.
 Vermouth sbuffa. «Così Gin poteva divertirsi un altro po’ con lei prima di spedirla all’altro mondo?»
 Rei tenta di non dar peso alle sue parole, tenta di ignorare il significato del divertimento di Gin. Non vuole più replicare, forse perché non ci riesce; lascia, semplicemente, che l’allusione poco velata di Vermouth si disperda nell’aria.
 Ripensa all’incontro con Sherry (Shiho), tanto bramata nonostante la giovane età; ripensa a quanto somigliasse a Elena, la donna che da bambino ha significato tanto per lui e che, forse per la prima volta, l’ha fatto sentire parte di un Giappone che spesso l’ha deriso per una mera diversità fisica.
 Ripensa, infine, a quel maledetto treno, e la memoria corre ancora una volta alla donna, alla sua famiglia; una famiglia di cui non rimane nulla, se non il ricordo, raro, che alcune persone portano nel cuore – lui è tra questi.
 Ma ricordare non serve: non cancella le sue colpe, né gli pulisce la coscienza.

 
NOTE ➳ Mancano solo tre storie alla fine di questo Writober e io già mi sento di tirare un profondo sospiro di sollievo – finalmente sta per finire!
 Detto questo, riconosco che il prompt di oggi l’ho usato malissimo, ma facciamo finta di nulla. Quanto a Rei, invece, penso sia meglio spiegare che questa flash nasce da un mio headcanon.
 Nel caso del Mystery Train, Bourbon non vuole uccidere Sherry, bensì dice di volerla riportare viva all’Organizzazione. Da quando sappiamo che è un NOC, e soprattutto da quando sappiamo dei suoi trascorsi con i Miyano non devo piangere, alcuni fan hanno iniziato a speculare su quali fossero le sue vere intenzioni. Avrebbe davvero consegnato Shiho all’Organizzazione, magari per scalare i ranghi, o aveva in mente altro, in nome della buona memoria di Elena? Sinceramente non so; non mi pare sia mai stato detto qualcosa a riguardo, anche se potrei essermi persa un pezzo per strada.
 Comunque, qui, come d’altronde nella storia del terzo giorno (questa si può considerare un seguito), ho preso in considerazione la possibilità che Rei sia disposto a tutto pur di portare a termine la sua missione, anche uccidere chi non vorrebbe.

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Capitolo 29
*** Inizio e fine ***


Prompt: relazione
Personaggi: Heiji Hattori,
Kazuha Toyama
Pairing: Heiji/Kazuha
Rating: verde

Inizio e fine


 Quando bacia Kazuha per la prima volta ha l’impressione che diciassette anni della sua vita non siano serviti ad altro che per prepararlo a questo momento. L’ha bramato per tanto tempo – in sogno, nelle sue fantasie, nei suoi piani per il futuro.
 È l’inizio della loro relazione ed Heiji la difenderà con le unghie e con i denti.
 
Shinichi rifugge i suoi occhi ed è proprio così che Heiji ha la certezza che gli sta nascondendo qualcosa.
«Dimmi la verità, Kudo.»
Nella sua voce non c’è quella spensieratezza tipica del suo carattere, e anzi alle sue parole si aggrappano ansie e preoccupazioni. L’amicizia con Shinichi però è forte, li unisce un cameratismo che si è solidificato nel tempo e li ha portati a questo.
Shinichi non può più mentirgli – anche se una parte di lui vorrebbe, sa che Heiji è troppo sveglio per farsi ingannare tanto facilmente.
«Io e l’agente Akai abbiamo un piano. Un ottimo piano. Mi serve il tuo aiuto, ma lo capirei se…»
«Accetto.»
 
 Kazuha arrossisce. «Quante storie, Heiji! Siamo o non siamo fidanzati? Ho… solo detto che voglio baciarti.»
 In altri frangenti, Heiji troverebbe adorabile la sua reazione spontanea ma, troppo imbarazzato per ammetterlo, la prenderebbe in giro.
 Non è tempo degli scherzi, però.
 Deglutisce, mordicchiandosi appena il labbro inferiore. «Dobbiamo parlare, Kazuha.»
Devo mettere fine a questa relazione.

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Capitolo 30
*** Ridere del pianto ***


Prompt: pianto
Personaggi: Gin
Pairing: nessuno
Rating: giallo

Ridere del pianto


 L’uomo inginocchiato sull’asfalto sporco a pochi passi da lui ha lo sguardo macchiato di terrore. Piange, si dispera; lo prega di perdonarlo, di dargli un’ultima occasione.
 Ma Gin non perdona, non offre seconde occasioni.
 Preme il grilletto, la linea dritta della bocca catturata da un ghigno brutto e storto non appena vede l’uomo accasciarsi al suolo mentre il sangue zampilla in modo irregolare.
 
Non prova pietà – ride.
 
 La donna, infreddolita e con le ginocchia sbucciate per via della caduta, non riesce nemmeno a urlare: trema e basta, scuotendo freneticamente il capo in un’implorazione silenziosa. La paura che le oscura gli occhi vale più di mille parole.
 Il bambino che stringe forte a sé non ha la stessa paura in volto – non ce l’ha perché è piccolo, ingenuo, non capisce. Piange e basta, interpretando come meglio può una situazione per lui nuova e strana.
 «Capo, è solo un bambino…»
 Gin non degna il collega di uno sguardo né di una risposta. Ignora le suppliche della donna, il pianto del bambino, e preme il grilletto due volte.
 
Non prova rimorso – ride.

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Capitolo 31
*** Senza domani ***


Prompt: futuro
Personaggi: Elena Miyano,
Atsushi Miyano
Pairing: Elena/Atsushi
Rating: verde

Senza domani


 Dovrebbe passare più tempo con le bambine e meno a lavorare su quegli stupidi dati: lo sa bene, ma non ci riesce. Forse perché le incertezze sul futuro sono tanto grandi che non riesce nemmeno a guardare in faccia le sue figlie, forse perché spera che portando a termine il lavoro qualcosa si smuova e lei e Atsushi possano fuggire lontano – ovunque, purché il nero non li insegua.
 È una speranza vana, questo Elena lo sa; non dovrebbe nemmeno maturare certi pensieri, la illudono e basta.
  Una donna di scienza come lei non si è mai fatta guidare solo dalla logica e ha maturato spesso fantasie irrazionali – non ci riesce più. Non può pensare al futuro colorato che c’era prima, quello dove lei e Atsushi avrebbero visto le bambine crescere tra sorrisi e risate. Il loro futuro ora è nerissimo e presto non sarà più nemmeno futuro perché entrambi cesseranno di esistere.
 Elena lo sa, Atsushi lo sa – lo sanno entrambi, ma non lo dicono, come se tenere a freno le parole potesse cambiare la realtà.
 
 Quando Atsushi entra nel laboratorio, nessuno dei due pronuncia una sillaba.
 Lui striscia alle spalle di Elena come un’ombra, poggiandole una mano sulla spalla quando la raggiunge, e lei ricambia il gesto nel silenzio, senza alzare lo sguardo dal microscopio che la sta aiutando nel suo lavoro. Rimangono così per un po’, finché Atsushi non si allontana per pensare al suo, di lavoro.
 Avvolti da un silenzio opprimente, schiacciati da troppi pensieri, comincia per loro un altro giorno – potrebbe essere l’ultimo.

 
  NOTE ➳ Ho iniziato questa raccolta con Elena e Atsushi e ho deciso di terminarla con Elena e Atsushi. Inutile ribadire quanto mi affascinino come personaggi. Come ormai avranno capito pure i muri, mi piace la famiglia Miyano in generale e mi sono fermata più volte a pensare che avrei potuto concentrarmi su una sorta di Shiho!october con altri personaggi secondari (Elena, Atsushi, Akemi, Rei, Shinichi, Gin, Akai), ma anche così va bene.
 Comunque! Finalmente, dopo ben trentuno giorni, la raccolta può considerarsi conclusa. Devo ammettere che le ultime storie non sono granché – sono quelle scritte “a risparmio tempo”, diciamo così – ma sono comunque contenta di essere riuscita a combinare qualcosa ogni giorno del mese. Nelle note della prima storia avevo scritto non conto di scrivere tutti i giorni ed ero infatti sicura che non ce l’avrei fatta: felice di essermi sbagliata.
 Bene, è tutto; ringrazio chiunque abbia seguito la raccolta fin qui e vi saluto!
 

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