Promessa di sangue

di Alexa_02
(/viewuser.php?uid=850329)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Bottoming Out ***
Capitolo 2: *** Go Unnoticed ***
Capitolo 3: *** First Impressions ***
Capitolo 4: *** Pity Party ***
Capitolo 5: *** So this is the truth? ***
Capitolo 6: *** Like a River ***



Capitolo 1
*** Bottoming Out ***


Chapter 1
 
La bomboletta di vernice spray produce un suono metallico, che riempie il parcheggio buio.
«Muoviti, Evie» sibila Logan, appoggiato alla portiera dell’auto. Uno strano gorgoglio gli scivola fuori dalla bocca, mentre accartoccia un'altra lattina di birra. È almeno la quarta che si scola nel giro di dieci minuti.
Mi è venuto a prendere sotto casa un'ora prima e, dopo le consuete capriole sul sedile posteriore della sua Jeep, gli è venuta voglia di comprare da bere, della vernice e di cercare qualcosa da imbrattare. Non è una delle migliori idee che abbia mai avuto, ma è illegale e divertente, quindi adatto a scacciare la noia.
Trovare modi diversi per combattere la monotonia è diventato il mio pallino fisso ultimamente.
Tolgo il tappo di plastica e continuo a scrivere. «Dai tempo all’artista» ribatto seccata.
Naturalmente, il suo mini-cervello si è già stufato dell’idea precedentemente sviluppata e vuole fare altro. Sbuffa e arranca verso di me, strisciando sull'asfalto. «Mi sono rotto di aspettare». La sua mano umidiccia mi risale sotto la maglietta. «Ho voglia di un altro giro sulla giostra di Evie».
Il tepore della sua pelle si scontra contro il freddo glaciale della mia, facendomi sussultare. È ancora parecchio strano percepire la differenza di temperatura tra me e le altre persone.
Logan ci aveva fatto caso solo la prima volta che ci eravamo rivisti dopo l'incidente, poi non ne aveva fatto più parola. Gli piace il mio corpo, del resto non gli interessa.
«Dai, Evie…». Il suo alito al sapore di birra mi solletica l'orecchio. Il battito del suo cuore mi rimbomba nelle orecchie. È difficile cercare di ignorare qualcuno se i tuoi sensi si sono quadruplicati.
Mi sfiora il bordo del reggiseno e prova a farci scorrere le dita sotto. Per quanto sia divertente il sesso con lui, in questo momento il suo tocco mi dà solo fastidio.
Gli allontano la mano cercando di non risultare astiosa. «Dopo» gli sfioro le labbra con un bacio «Ora voglio finire il lavoro». 
Sbuffa sonoramente, ma si allontana. «Cerca di fare in fretta».
L'ultima volta che ha insistito dopo un deciso no, l'ho spinto così forte che è volato per terra, da allora si ferma alla prima negazione. A mia discolpa, in quel momento, non ero ancora in grado di dosare la mia nuova forza e lui mi ha innervosito, quindi se l'è un po' cercata.
Apre l'ennesima lattina di birra e la tracanna senza prendere fiato. Col cavolo che guida lui al ritorno, sono già quasi morta una volta, non voglio ripetere l'esperienza.
Ignoro la puzza di alcol che emana e mi concentro sul mio capolavoro. La vernice delle volanti della polizia è un'ottima base per i graffiti, non me lo aspettavo. Il dragone rosso sta venendo davvero bene, chissà perché non lo abbiamo fatto prima.
«Eveline, dai, andiamo. Voglio fare altro» farfuglia Logan scuotendo la lattina in cerca delle ultime gocce.
«Ho quasi finito, promesso. Manca l'ultimo tocco» gli faccio un sorrisetto e comincio a scrivere. Muovo velocemente la bomboletta per concludere l'ultima parola, ma il colpo della porta di servizio dell'edificio ci fa sobbalzare entrambi e la A finisce per avere una gamba più lunga dell'altra.
Ci appiattiamo rapidamente contro l'asfalto. Il cuore di Logan accelera come un cavallo vicino al traguardo e inizia a respirare con affanno, saturando l'aria con un misto di birra e cibo del fast food. La puzza del suo alito viene subito sovrastata da un altro odore acre, un aroma che mi fa gorgogliare lo stomaco. La paura che emana mi attira, mi infervora, ma soprattutto mi fa venire una fame del diavolo. Mi guarda spaventato e questo non attenua la voglia incontrollabile di divorarlo che mi ribolle dentro.
Stringo le labbra per nascondere le zanne che si sono risvegliate irrequiete e tengo lo sguardo basso per celare il cambiamento del colore degli occhi.
Due altri battiti cardiaci vengono intercettati dal mio radar sovrannaturale. Dall'effluvio di polvere da sparo e dal tintinnare delle manette, sono sicura che siano due poliziotti. E siccome qui l'unica volante nel parcheggio è quella su cui ho appena disegnato, direi proprio che stanno venendo da questa parte.
«Dobbiamo andarcene» bisbiglio a Logan.
Lui annuisce e comincia a indietreggiare verso la fila opposta di macchine, dov'è parcheggiata la sua jeep. Potrei alzarmi e correre via, nessuno mi vedrebbe e nessuno potrebbe raggiungere la mia velocità, ma non voglio lasciare Logan nella merda e non voglio dovergli spiegare come ho fatto a darmela a gambe così rapidamente.
Strisciamo come due vermi, Logan respira come se avesse un attacco d'asma e io non respiro proprio. I due poliziotti ridacchiano e si avvicinano sempre di più. La mia giacca di pelle preferita si rovina mentre gratto i gomiti con forza contro l'asfalto.
Ci siamo quasi, dobbiamo solo entrare in macchina e nasconderci. Andrà tutto bene. Per una volta deve andare tutto bene, giusto? Insomma, è una questione di percentuale. Su nove volte che ci hanno beccato, la decima deve essere quella in cui riusciamo a svignarcela.
Deve essere così.
Ma forse è solo una questione di culo, perché la situazione si capovolge in un attimo. Logan, non vedendo un cavolo al buio, inciampa in un bottiglia abbandonata e sbatte il suo enorme testone contro una decapottabile, facendo scattare l’antifurto. In meno di un secondo, i poliziotti ci sono addosso e ci puntano le torce contro.
«Beccati» ridacchia uno.
Già, beccati.
Di nuovo.        
 
I due poliziotti gongolano mentre ci spingono all’interno della volante. Accendono la sirena e ci ammanettano, come se la cosa in qualche modo potesse spaventarci. Non è il mio primo rodeo e loro non hanno idea di chi hanno appena arrestato. Devono essere dei novellini.
«Per cosa siamo in arresto esattamente?» domando seccata, verso quello con i baffi che non sta guidando.
Mi lancia un'occhiata divertita. «Non mi sembra di averti dato il permesso di parlare».
«Non ci avete letto i nostri diritti, quindi o siete degli idioti o non siamo in arresto» puntualizzo «In entrambi i casi, tutto questo non è legale. Lasciateci andare, non abbiamo fatto nulla».
Quello biondo alla guida mi squadra attraverso lo specchietto retrovisore. «Abbiamo una saputella a bordo, eh?» ridacchia e stringe con sicurezza il volante «Danni a proprietà pubblica e ubriachezza molesta, per questo siete in arresto. Scommetto che il tuo ragazzo non ha ventun anni, vero?».
«Non sono il suo ragazzo» mette in chiaro Logan, strascicando le parole e ondeggiando pericolosamente.
«Stai zitto» gli bisbiglio spingendolo di nuovo contro il sedile e poi rigirandomi verso gli agenti «In ogni caso, non mi avete letto i miei diritti».
«E chi confermerà questa tua versione?» mi chiede il baffuto «Il tuo non-ragazzo ubriaco fradicio?». Il poliziotto baffuto puzza di marcio, ma proprio di morte, come se dentro di lui qualcosa andasse a male. È lo stesso odore di un'animale malato. «Non avete prove che abbiamo commesso un crimine».
«Il tuo amico puzza come una distilleria» afferma il biondo.
Che argomentazione patetica. «Devi sentire come puzza il tuo di amico» ribatto arricciando il naso.  
Il baffo si china leggermente per annusarsi l'ascella e scuote la testa schifato dall'odore che gli riempie il naso. Il biondo ingrana la marcia e alza un sacchetto delle prove. «Poi abbiamo questa» la bomboletta di vernice rossa ballonzola quando lui scuote la busta.
Merda. «Non è mia».
«Invece scommetto che ci sono le tue belle impronte sopra» insinua il baffone guardandomi male. Il commento sulla puzza deve averlo infastidito parecchio.
«È una prova circostanziale» ribatto piccata «Posso anche averla toccata, ma non significa che l'abbia usata».
Il baffone fischia sarcastico. «Wow, chi è tuo padre? L'ispettore Barnaby?».
Logan si fa avanti muovendo la nuvola alcolica che gli ristagna intorno. «No!» incespica «Suo padre è il sindaco Morgan, vero Evie?».
Gli mollo una gomitata più forte del necessario. «Chiudi quella bocca».
I due sbirri si lanciano un'occhiata e non rispondono più alle mie domande. Per quanto mi lamenti o faccia l'impertinente, loro smettono di calcolarmi.
Ci fanno smontare dalla macchina con un po' troppa irruenza e ci trascinano nel distretto. Lo sceriffo Miller alza lo sguardo dalle sue parole crociate e mi inchioda al linoleum della stazione con il suo cipiglio incazzato. Sbuffa e scuote la testa come un bufalo nervoso. «Eveline. Di nuovo».
«Sceriffo» inclino la testa e gli sorrido beffarda.
Fa un cenno con il suo bel capello verso la sala interrogatori e alza la cornetta del telefono per avvisare il suo vecchio amico di poker, che sua figlia è di nuovo in manette.
Il baffone mi trascina nella stanza e mi fa sedere su un'orrenda seggiolina di metallo. Mi incatena una mano al tavolo e ridacchia, facendo ondeggiare la pancia. «Non vedo l'ora di vedere il tuo paparino che sculaccia quel bel culetto viziato, come si deve».
Gli piacerebbe toccare un culo come il mio una volta nella vita. «Facciamo una scommessa» mi guarda «Scommettiamo che quando il mio papino arriva qui, quello che verrà sculacciato sarai tu e io me ne andrò via come se nulla fosse?».
Il suo sguardo vacilla tra l'incertezza e il fastidio. «Certo, come no» si gratta i baffoni e fa per andarsene.
«Ho sete» gli comunico.
Ride di gusto. «E credi che mi interessi?».
Gli afferro il braccio così in fretta che nemmeno se ne accorge. Mi fissa negli occhi sorpreso e cade alla perfezione nella trappola «Ho. Sete.». Il suo povero cervello sottosviluppato non riesce minimamente a contrastare i miei poteri di persuasione e lo fa annuire come un automa. «Ti porto dell'acqua».
«Thè, per favore» specifico.
Lui agita il capoccione «Ti porto del thè». Si incammina ondeggiando verso la macchinetta delle bevande come un bravo soldatino.
Alcune volte, molto di rado, essere un mostro porta i suoi vantaggi.




Papà varca la soglia della sala interrogatori in vestaglia, babbucce e incazzato come una iena con un petardo nel culo. Mi guarda con così tanta rabbia che potrebbe incenerirmi insieme a tutta la stanza. Il baffone entra dopo di lui e mi libera dalle manette. Gli scocco un sorrisetto presuntuoso che lo fa sbuffare infastidito. Cosa ti avevo detto?
Papà non mi lascia gongolare, fa un rapido gesto con la testa e mi intima di uscire. Lo seguo in silenzio e insieme saliamo in macchina dove ci aspetta la mamma.
Durante il tragitto lei non dice una parola, si limita a fissare la radio e papà fa lo stesso con la strada. Nemmeno una sillaba, niente discorsi sulle responsabilità o sulle proprie scelte. Il loro silenzio è assordante, più pesante di mille parole.
È la sesta volta che mi arrestano, ma grazie alla posizione di papà non succede mai nulla. Il sindaco di questa stupida città può fare tutto quello ciò che vuole, soprattutto nascondere sotto la sabbia i casini della sua problematica figlia adolescente. Ormai è diventato un esperto.
Non c'è più neanche gusto a finire nei guai, non ci sono mai ripercussioni. Sono stufa marcia essere Eveline Morgan, la figlia del grande e carismatico sindaco, Leroy Morgan. È come girare con un cartello appeso al collo. Troppi standard da rispettare e troppe aspettative che alla fine finisco sempre per deludere.
Tutti mi chiedono in continuazione perché non sono come Holly, la mia perfetta sorella maggiore. Perché non sono così educata, così di classe.
Beh, ci sono molte cose che io sono e che lei non è.
Entriamo in casa e mi spediscono in camera mia senza dire una parola. Mi chiudo la porta alle spalle e ci scivolo contro. La pancia mi brontola affamata, infrangendo il silenzio stoico della casa. Mi trascino fino all'armadio, spalanco le ante e afferro la maniglia dell’emoteca. Mio padre l’ha fatta istallare sei mesi fa, dopo la miracolosa guarigione.
Dopo l'incidente, nulla è più stato come prima.
Il sangue di sconosciuti, ignari del fatto che il sindaco abbia pagato un dottore per consegnargli delle sacche sottobanco, mi fissa sfidandomi a mostrarmi perciò che sono veramente.
L'odore pungente di metallo mi fa venire l'acquolina. È come se sentissi di nuovo l'aroma spaventato di Logan. Ne afferrò una e richiudo lo sportello. Mi infilo in bagno e chiudo la porta a chiave. La mia famiglia conosce molto bene la mia condizione, è stato mio padre a trovare un modo di procurami il sangue, ma non voglio che nessuno mi veda mentre mi nutro. Non che ci sia il pericolo che piombino nella mia stanza per vedere come sto, ma preferisco non rischiare.
Mi chino sul lavabo e sguaino le zanne. Mordo la sacca con forza come se fosse il collo di qualche animale ferito. Il sangue freddo mi sgorga in gola facendomi mugolare di piacere. È come se tutti i tessuti del mio corpo si tonificassero, come se il mio cervello ingranasse una marcia in più. Come se finalmente potessi respirare di nuovo.
È la sensazione migliore del pianeta.
Quando la sacca è vuota e il mio stomaco è pieno, mi tiro raddrizzo e mi guardo allo specchio. Il riflesso sbiadito, come se mi osservassi attraverso un velo di nebbia, mi fissa di rimando. Il mento sporco di sangue, i canini retrattili in bella vista e gli occhi solitamente azzurri, neri come l'oscurità più profonda mi ricordano perché ho coperto ogni altro specchio in camera.
Non ho bisogno che qualcosa mi ricordi che sono un mostro.
 
Rientro dalla finestra all’alba, dopo aver passato la notte sul tetto di casa a fissare le stelle. Un altro gioioso lato della mia maledizione, oltre alla continua voglia di sangue, è la mancanza quasi totale di sonno. Il mio corpo non ha più bisogno di dormire, il plasma di cui mi nutro mi tiene sveglia e vigile come dieci tazze di caffè forte.
Mi do una ripulita, infilo dei jeans, una maglia e scendo a controllare la situazione genitori.
La casa è deserta. Non ci suoni e soprattutto non ci sono battiti cardiaci. Mi hanno lasciata da sola a fare i conti con il loro silenzio accusatore.
Meraviglioso.
Non me ne starò di certo seduta qui a fare nulla. Frugo nella borsa alla ricerca del cellulare, ma non c'è. Guardo ovunque, ma non lo trovo. Sono spariti anche il portatile e il tablet. Non ho nessun modo di chiamare Logan o uno dei ragazzi per aiutarmi ad evadere.
Le chiavi della macchina me le hanno tolte due arresti fa e tutti le mie carte di credito sono state bloccate. Sono incastrata qui con i miei pensieri e con questo orrendo silenzio.
Mi raggomitolo ai piedi delle scale e ascolto la paura sussurrarmi apprensiva all'orecchio.
 
Verso mezzogiorno inoltrato, il resto della famiglia varca la soglia avvolta da un pesante odore di fritto.
Rimango rannicchiata sulle scale mentre si inoltrano in casa. Papà ha una macchiolina di salsa sulla cravatta e mamma ha una salviettina per lavarsi le mani che le sbuca dalla tasca. Holly mi passa accanto strizzata nel suo bel vestitino e nelle sue perle ereditate dalla nonna, e mi regala una smorfia schifata. Dura un secondo, ma ormai sono diventata parecchio brava con i dettagli.
Le ho sempre fatto un po' pena e anche un po' schifo, ma da quando sa che non sono più umana mi guarda come se non vedesse sua sorella, ma solo una bestiaccia da spiaccicare. Non la biasimo, la prima persona che ho attaccato in preda alla fame è stata proprio lei. Stava solo controllando che stessi bene e io ho provato a morderla. Capisco perché mi disprezza.
Holly sale verso la sua stanza sbattendo le ballerine di marca sul legno e chiude la porta della sua camera con forza. Sebbene questa sceneggiata così plateale, riesco ancora a sentire un suo respiro condensarsi all'inizio delle scale. Origliare le conversazioni è uno dei suoi migliori talenti.
Mamma mi lancia un'occhiata fugace mentre si torce nervosamente le mani. Brutto segno.
«Avete mangiato senza di me» affermo. Beh, anche io ho già mangiato, ma la cosa è un po' diversa.
I miei genitori mi guardano e poi si scambiano uno sguardo carico di significato. Papà si schiarisce la gola «Sediamoci, Eveline» mormora indicando il divano in soggiorno.
Li seguo e ci sediamo. Papà tiene in braccio un plico bianco con uno strano logo sopra. «Non sappiamo più cosa fare con te, Eveline. Ieri sera ti hanno arrestata per la sesta volta in meno di sei mesi» asserisce papà, burbero «Non abbiamo intenzione di continuare così».
«Noi ti amiamo moltissimo e abbiamo dovuto prendere una decisione per il tuo bene» mormora mamma, cercando di trattenere le lacrime. Papà le stringe la mano con dolcezza «La tua nuova...» corruga la fronte «...situazione ti ha cambiata in un modo che noi non possiamo concepire, perciò abbiamo trovato un posto in cui ti possono aiutare e in cui ti possono capire» infila la mano nel plico e tira fuori una brochure «Un mio contatto conosce una famiglia importante che manda la figlia in questa scuola per persone...particolari, proprio come te». Mi passa i fogli e fisso la locandina.
Accademia Campbell. Istituto per ragazzi speciali.
Sotto la scritta c'è la foto di un gruppo di ragazzi sorridenti e perfetti, infilati in delle divise orrende.
«Non capisco» bofonchio «L'estate è quasi finita, tra poco ritornerò a scuola dai miei amici. Non voglio andare in questa stupida accademia».
Papà sbuffa sonoramente. «È l'unica alternativa, non ti facciamo tornare a scuola tra i ragazzi normali».
«Normali? Pensi che io non sia normale?» guaisco, facendo definitivamente piangere la mamma.
Papà come sempre ignora le mie domande e continua per la sua strada. «Non c'è nulla di cui discutere, la decisione è già stata presa. Parti stasera» asserisce fermo, stringendo la mano di sua moglie con forza.
«Non ci vado in quello stupido collegio! Solo perché ho combinato qualche cazzata decidete di sbarazzarvi di me?» strillo balzando in piedi.
«Qualche?!» tuona papà «Sei arresti, Eveline! Sei arresti che ho dovuto coprire!».
«Nessuno te lo ha chiesto» sbraito.
«L'ho fatto per te, per assicurarti un futuro brillante!».
«No! Lo hai fatto per assicurare a te stesso un futuro brillante» grido. Sento in canini muoversi, sollecitati dalla forte rabbia «La verità è che sono un peso per te e per la tua fottuta campagna elettorale».
«Modera il linguaggio, signorina» ringhia massaggiandosi la fronte.
«A ridosso delle elezioni mi stai scaricando il più lontano possibile dai riflettori, perché hai paura che i tuoi elettori vedano che razza di mostro terrificante è tua figlia!».
«No, Evie...» singhiozza la mamma stropicciandosi la faccia.
«Si, hai ragione» conferma papà «Non voglio che il mondo sappia cosa sei diventata, non lo sopporterei».
Mamma spalanca le labbra più ferita di quanto lo sia io. Ne ero già a conoscenza, ma non credevo che sentirlo ad alta voce potesse fare così male. Caccio via le lacrime sbattendo con forze le palpebre «Va bene» farfuglio «Andrò in questa stupida accademia, tanto qui non sono ben voluta».
«Vai a fare le valige» mi porge il plico «Qui c'è tutto quello che devi sapere».
Lo afferro e mi avvio verso le scale.
«Evie…» singhiozza la mamma.
Papà le sfiora la testa. «Lasciala andare, starà meglio tra persone come lei».
Salgo le scale alla velocità della luce, mi infilo in camera e sbatto la porta con così tanta forza che si crepa a metà, esattamente come il mio cuore.


Infilò tutti i miei vestiti in delle valige, tutti i miei oggetti personali in delle scatole e le cose di prima necessità nella borsa. Essendo ancora troppo presto, mi metto a sfogliare il pacco dell'accademia. Oltre alla brochure c'è una lettera di iscrizione, il libro della storia della scuola e un fascicolo delle regole alto almeno due dita. La collocazione dell'istituto è segreta al resto del mondo per mantenere gli studenti al sicuro. A quanto pare l'accademia raccoglie tutti i tipi di creature più bizzarre del mondo, come streghe, fate e lupi mannari.
Cosa?
Ci deve essere un errore. Insomma, tutta quella roba non esiste, sono solo leggende del folklore. Però, in teoria anche i vampiri non dovrebbero esistere, eppure io sono qui.
Smetto di interrogarmi sull'esistenza dei folletti degli gnomi e mi fiondo nella doccia, mollando i fogli sul letto. Infilo dei jeans, una canottiera, un maglioncino largo e delle sneakers.
Prima di lasciare per sempre la mia stanza le lancio un'ultima occhiata. Sembra tutto così finto, come se questa stanza non fosse mai stata mia, ma di un'altra Eveline.
Forse è meglio se vado via, questo non è più il posto per me.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Go Unnoticed ***


Chapter 2
Mia madre piagnucola.
Sempre.
Piagnucola mentre trascino le valige giù per le scale, mentre l'autista le carica in macchina e soprattutto mentre la abbraccio per salutarla.
«Mi mancherai tantissimo, cucciola» guaisce contro la mia spalla.
«Anche tu» farfuglio in mezzo ai suoi capelli.
Quando finalmente mi lascia andare, mi giro verso mio padre. Ha la solita espressione stoica e fredda, non sembra triste e nemmeno pentito. Non mi abbraccia, si limita ad un cenno del capo molto rapido. È già più di quanto mi aspettassi.
Holly non esce dalla sua camera per salutarmi, ma mi aspettavo anche questo.
«Fai buon viaggio» mugugna mamma stringendosi contro papà. 
«Ciao» sospiro entrando in auto. Spingo con forza la schiena contro il sedile di pelle, inspirando ed espirando, cercando di scacciare il panico. Stringo il ciondolo di Kim e chiudo gli occhi, immaginando di essere altrove. L'autista dell'accademia si siede davanti, nel posto del guidatore, e non dice una parola. Accende il motore e ingrana la marcia. Osservo casa mia scomparire lentamente, insieme a tutta la mia vita e a tutti i miei ricordi. Il dolore mi investe in pieno, come un treno che deraglia e fa strabordare tutto ciò che ho cercato di covare per mesi. Mi raggomitolo in me stessa e cerco di piangere il più silenziosamente possibile, cercando di non far notare allo strano autista che qui dietro mi sto sgretolando gradualmente.



Il viaggio in macchina sembra non finire mai. Non ho la più pallida idea di dove siamo o di che ore siano. L'autista non proferisce parola da quando siamo partiti. In più, mi hanno requisito qualsiasi oggetto elettronico, quindi mi sto annoiando a morte.
Giocherello con la collanina con la pietra nera a forma di mezza luna di Kim. Ogni volta che la sfioro risento la sua voce e la sua risata armoniosa. Vorrei terribilmente che fosse qui, lei saprebbe cosa fare per ammazzare il tempo. Mi farebbe il solletico fino a farmi ritrovare il sorriso, cercherebbe di far scomporre l'autista con qualche commento ben assestato, ma soprattutto mi farebbe sentire tranquilla e rilassata. Con lei ogni cosa andava sempre a finire bene.
Beh, a parte l'incidente.
Se chiudo gli occhi riesco ad avvertire il rumore dei vetri che vanno in mille pezzi, le nostre urla terrorizzate e rivedo il sangue che riflette la luce della luna come uno specchio.  
È così ingiusta la vita. L'incidente si è portato via la mia vita e la mia migliore amica nello stesso istante. Alcune volte desidero essere morta con lei, quella notte.
«Siamo pressoché giunti a destinazione, signorina Morgan» asserisce lo strano autista. Ha una voce calda e melodiosa. Nasconde il viso dietro un paio di enormi occhiali da sole, anche se ormai è tramontato, i capelli solo laccati dietro un cappellino da conducente e ha le mani avvolte in dei guanti di pelle.
«Come ti chiami?» chiedo sporgendomi leggermente verso di lui.
«Julian, signorina». Ha uno strano colore di pelle, così bianco da sembrare argentato. 
«Io sono Eveline, non devi darmi della signorina» specifico. Ha un odore strano, come di fiori di campo e arance mature. Non ho mai trovato qualcuno con un così buon odore, alla fine odorano un po' tutti di ascelle.
«Prediligo darle del lei, Eveline» mormora armoniosamente.
«Come preferisci» mi sporgo più in avanti per osservarlo meglio «Come mai fai l'autista per l'accademia?».
«Ho ottenuto il diploma diverse stagioni or sono e la direttrice mi ha offerto questo generoso impiego. Mi è parso sublime e ho immediatamente accettato».
Che modo bizzarro di parlare. «Non volevi fare qualcosa di più? Non lo so, come andare al college e cose così».
«A breve comprenderà, signorina Eveline, che per gli individui come noi il mondo non spalanca nessuna porta» asserisce cupo.
«Individui come noi?» chiedo confusa. 
Lui annuisce e si ferma davanti ad un imponente cancello di ferro battuto. All'inizio, alla prima occhiata, il cancello sembra diroccato e abbandonato, il mio cervello da l'impulso al corpo di girare e tacchi ed andarsene. È come se varcare quella soglia portasse solo guai.
«Perché entriamo lì? Non c'è nulla oltre il cancello» mi giro per guardare alle nostre spalle «Andiamo via. Entrare lì non ha senso».
Julian ridacchia sommessamente. «Non si fermi alle apparenze, signorina Eveline. Esamini la cancellata con i suoi veri occhi» asserisce criptico.
Veri occhi? Pensavo che i miei occhi normali fossero i miei veri occhi.
A quanto pare no.
Respiro lentamente, cercando di concentrarmi solo sugli occhi.
Mi risulta davvero difficile lasciar uscire una parte del mostro, senza farmi trasportare da tutti gli altri aspetti che lo accompagnano.
Quando sono sicura che non perderò il controllo, lascio che le mie iridi diventino nere e poi spalanco le palpebre. Ogni cosa acquista magicamente senso. Il cancello, non più diroccato, si erge imponetene davanti a noi, perfetto e resistente. Ogni punta è affilata e ogni sbarra di metallo è integra e ben salda. Sopra di esso è posizionato un arco d'oro su cui è incisa una scritta in latino.
«Wow» esalo.
«Come sospettavo» asserisce Julian con ammirazione e una punta di stupore «I suoi veri occhi riescono a vedere oltre la magia».
«Cosa c'è scritto sull'arco?».
«È il motto dell'accademia e del mondo magico» spiega Julian «abscondere et tueri».
«Cioè?».
«Nascondere e proteggere. Due vocaboli che schematizzano esattamente la nostra condizione» sospira «Cela la tua natura agli occhi dei mortali e non rischierai di perire».
Mi volto per guardarlo e finalmente lo vedo per quello che è. Sotto la magia Julian è bellissimo. Ha i capelli verdi, lunghi e lisci, gli occhi nascosti sotto gli occhiali sono di un giallo brillante e le orecchie a punta sbucano ai lati del cappello. Non ho mai visto nulla di simile, è stranissimo e al tempo stesso di una bellezza disarmante. I lineamenti delicati e la pelle bianca lo fanno sembrare così delicato e giovane. È magnifico.
«Sbirciare sotto un incantesimo celante non è sinonimo di buone maniere» dice calmo.
Faccio tornare gli occhi del giusto colore «Scusa».
«Non si preoccupi, signorina Eveline» sorride «Contrariamente a quello che pensa, anche il suo aspetto è magnifico».
Arrossisco per quanto sia possibile ad un vampiro senza vita. «Oh, be-eh, gra-azie» balbetto rimettendomi a sedere al mio posto.
Julian alza la mano a mezz'aria e la cancellata si apre cigolando. «Deve sapere che tutti gli allievi di questa accademia posseggono doti magiche o soprannaturali e, essendo ancora giovani, le usano ogni volta che la cosa li diletta» mi spiega, avanzando e oltrepassando il confine dell'accademia «Le suggerisco di fare attenzione a cosa pensa, non c'è molta intimità quando le altre persone possono leggerle nel pensiero».
«Posso sapere quali creature leggono nel pensiero?» chiedo cauta.
Lui sorride mostrandomi due file di denti perfetti. «Le streghe e i maghi con incantesimi potenti e gli elfi».
«Quindi tu sei un elfo?».
«Lo deduce delle orecchie?» ridacchia.
Ricambio il sorriso. «È un po’ tutto».
«Sì, sono un elfo» guida la macchina su una strada cementata avvolta da una foresta fittissima. «Più precisamente un elfo dei boschi».
«Ce ne sono molte specie?».
«Questo lo imparerà molto presto a lezione» mi assicura con un sorriso dolce «Ci siamo». Il bosco si interrompe e la macchina sbuca davanti ad un enorme edifico antico fatto di pietra scura, molto simile ad un castello. Julian procede intorno ad una fontana circondata da fiori e cespugli ben potati e si ferma davanti al portone di legno dell'entrata principale. Davanti ad esso una donna stretta in un tajer corallo ci osserva sorridente.
Julian arresta il motore «Deve smontare dal veicolo» mi informa «Buona fortuna, signorina Eveline, spero di rivederla presto».
Gli sorrido «Anche io, Julian. Grazie del passaggio».
«È stato un onore».
Gli faccio un cenno con la mano e apro la portiera. Il dolce chiarore della luna filtra nella macchina, rinvigorendomi. L’aria fresca mi accarezza la pelle mentre scendo dalla macchina. L’accademia mi si staglia davanti imponente e solida, luci e voci filtrano dalle finestre ad arco acuto. Una strana sensazione mi attanaglia lo stomaco quando la macchina e Julian sgommano via alle mie spalle.
La signora nel tajer scende i gradini di pietra e mi viene incontro. «Eveline Morgan» trilla «Benvenuta all'accademia Campbell!».  
«Salve» ribatto senza entusiasmo.
La donna si fa avanti avvolgendomi con il suo profumo fruttato. «Sono Olivia Sheridan, la preside di questa magnifica struttura» mi porge una mano ben smaltata «Sono davvero felice di conoscerti».
«Salve» ripeto con la stessa tonalità.
Scuote la testa bionda e sorride mostrandomi troppi denti, troppo bianchi. «Com'è andato il viaggio?».
«Bene» rispondo.
«Ho incaricato Julian del tuo trasporto perché il mio autista più fidato» mi posa una mano sulla spalla «Ma non indugiamo oltre, ti faccio fare subito il giro completo della scuola».
«Le mie valige?» domando confusa.
«Ci penserà Julian, ora andiamo» mi tira all'interno e cominciamo il tour della struttura.


La scuola sembra infinita. Ci sono decine di aule, di sale lettura e di stanzette ricreative. La mensa è un enorme salone pieno di finestre e tavoli di legno ricoperti da tovaglie di lino. La biblioteca è più grande di tutta la mia casa e ci sono così tanti libri che una vita sola per leggerli non basterebbe.
Mi mostra le aule di chimica della magia, di matematica e di storia dell'occulto. Descrive ogni angolo della sua preziosa scuola elogiandone i pregi e sminuendone i difetti.
Ad un certo punto, abbiamo girato così tanti angoli che non sono più sicura di dove ci troviamo. Sarà una conquista non perdersi in questo dannato posto.
«Ora ti mostro il dormitorio femminile» asserisce trascinandomi verso una rampa di scale «Qui ragazzi e ragazze dormono in parti dell'edificio completamente separate, per cercare di limitare i possibili danni» ridacchia «Devi sapere, Eveline, che la nostra scuola ospita solo studenti con precise caratteristiche. Proprio come te, ogni alunno ha un dono che il mondo esterno non comprende a pieno. Qui gli viene insegnato l'autocontrollo e la disciplina necessari per padroneggiare il proprio potenziale». Mi scorta lungo il corridoio. «La tua condizione è unica, nessuno studente è come te, ma sono sicura che ti ambienterai subito».
«Sono l'unica...?» domando.
«Vampira?».
Annuisco.
«Sì» sospira drammatica.
«Come mai?».
«Ora non te ne devi preoccupare» agita le mani per aria scacciando la mia domanda «Ti spiegherò ogni cosa a tempo debito, ora devi solo pensare a sistemarti».
«Ma...» provo a ribattere ma lei agita di muovo le mani e mi zittisce.
«Siamo arrivate» annuncia.
Ci fermiamo davanti ad una porta di legno scuro, la preside afferra la maniglia e la apre con un colpo secco. «Questa è la tua camera. Una singola, per il momento».
La camera è angusta e strapiena delle mie valige. Le quattro pareti, ricoperte di una terrificante carta da parati con il logo della scuola stampato sopra, sono quasi completamente nascoste dai mobili di legno e dal letto singolo in ottone. Le lenzuola e il copriletto sono rigorosamente dei colori della scuola, che ho scoperto subito essere il giallo canarino e il grigio spento.
Sui comodini è collocata una lampada di metallo tutta storta e una sveglia preistorica color topo. Sotto l'unica finestra è collocata una scrivania massiccia con numerosi cassetti e una sedia con i braccioli e l'imbottitura gialla. L'armadio ad ante scorrevoli è affiancato da un mobile con diversi ripiani che sfiora il soffitto e da uno specchio antico. Tutto quanto poggia su un vecchio tappetto grigio e peloso.
«Non è meravigliosa?» esala estasiata la preside.
Annuisco lentamente cercando di celare il mio disappunto. Dove sono il pc, lo stereo e il mio stupendo televisore? Cosa dovrei fare chiusa qui dentro per tutto il giorno?
«Non si può nemmeno avere il computer per studiare?» chiedo speranzosa.
Lei scuote la testa agitando la chioma bionda. «Tutti gli oggetti di natura elettronica sono nelle aree ricreative, li potrai usare nei momenti di libertà».
«E sotto stretta sorveglianza scommetto».
Si sistema il tajer con cura e sorride. Se il mio tono di accusa l’ha infastidita, non lo dà a vedere. «La vostra sicurezza è il nostro primo pensiero. Se permettessimo ad ogni studente l’accesso illimitato ad internet, la posizione di questo luogo non sarebbe più un segreto».
So che il suo ragionamento non fa una piega, ma questo non mi rincuora affatto. Questo posto continua a sembrare un manicomio per creature sovrannaturali. Sento l'impulso primordiale di saltare fuori dalla finestra e di scappare il più lontano possibile da qui. Il mio stomaco borbotta, ricordandomi che non andrei lontano senza qualcosa da...beh, mangiare. «C'è qualcosa che manca».
La Sheridan si raddrizza e si guarda intorno «Non mi sembra».
«A casa avevo un’emoteca, sa per il...cibo» bofonchio a disagio.
Spalanca gli occhi e annuisce. «Lo so bene, ma preferiamo essere noi a darti ciò che hai bisogno ad ogni pasto» mi appoggia una mano sulla spalla con aria materna «Per il momento preferiamo che la tua natura rimanga celata, sai per non agitare gli altri studenti».
Al diavolo il computer, datemi la mia dannata emoteca. Mi allontano da lei e dalla sua mano bollente. «Quindi cosa dovrei fingere di essere? Un folletto? Oppure uno gnomo?».
Sembra sorpresa dal mio repentino cambio di tono. «Capisco il tuo disappunto, ma...».
Non capisce assolutamente nulla. «Pensavo avesse detto che qui potevo essere me stessa».
Sospira piano, come se cercasse di non alzare la voce. «È così, ma per il momento preferirei che cercassi di passare inosservata. Solo finché non riusciamo ad avere un quadro più chiaro sulla tua situazione».
«La mia situazione...» biascico. Tutto questo è ridicolo.
«So che è un grosso sacrificio ciò che ti chiedo, ma è per la tua sicurezza. Lo capisci?».
Annuisco lentamente. «Certo. È tutta la vita che mi esercito per passare inosservata».
La preside abbassa lo sguardo cupo verso il pavimento. «È solo per il momento, Eveline. Ti prometto che le cose cambieranno molto presto».
Ho perso il conto di quanti per il momento mi ha rifilato fin ora. La verità è che sono una situazione scomoda indipendentemente da dove vado. «Okay» asserisco appoggiando il sedere sul letto.
Ritrova il sorriso, anche se è un po’ meno luminoso di qualche minuto prima. «Penso di averti detto tutto, tra poco arriverà la capo dormitorio che ti spiegherà le ultime cose» mi dà un buffetto sul braccio «Sono felice di averti qui e ti auguro un felice soggiorno».
Detto ciò, si chiude la porta alle spalle e sparisce lasciandomi finalmente sola.
Sbuffo e mi stendo sul mio nuovo minuscolo letto. È rigido e alquanto bitorzoluto, però le coperte sono soffici.
Fisso il soffitto immaginando che si spacchi a metà, in corrispondenza della crepa che si dirama dal lampadario vintage. Immagino i detriti che mi ricoprono come una valanga e mi oscurano agli occhi del mondo. È quello che vogliono tutti, che io scompaia e che nessuno possa vedere il marcio che mi infetta come un virus.
In ogni caso sarebbe inutile, la valanga di detriti non mi ucciderebbe.
Nulla sembra uccidermi.



Quando la smetto di autocommiserarmi, rotolo giù dal materasso di pietra e mi alzo. Questa situazione di merda non cambierà, quindi è meglio che mi ci abitui fin da subito.
Tiro le valige sul letto e comincio a disfare e a sistemare la mia vita dentro quella minuscola camera.
Mentre ho la testa infilata nell'armadio qualcuno bussa alla porta. «Avanti!» strepito nello spazio angusto.
La porta cigola aprendosi e i passi di uno sconosciuto risuonano sul pavimento. I miei sensi da vampiro ninja si attivano e mi fanno percepire ogni singolo dettaglio. Lo sconosciuto è una ragazza che profuma di oceano, il suo battito cardiaco è normale e ha una cicca o una mentina in bocca. 
«Ciao!» trilla con entusiasmo. «Sono Abigayle Lee, la capo dormitorio».
Il suo tono felice mi fa voltare guardinga. Abigayle è piccola, sottile e con i lineamenti delicati. Indossa la divisa dell'accademia in un modo a dir poco impeccabile. Ha i capelli neri, lunghi e lisci come gli spaghetti e gli occhi color nocciola, leggermente a mandorla.
La cosa che mi lascia letteralmente senza parole è il fatto che da dietro le spalle le spuntino due leggere e luccicanti ali blu. Ogni volta che sbatte le ciglia le ali sfarfallano e producono uno strano suono, che assomiglia al rumore delle onde contro la sabbia.
«Sei Eveline Morgan, giusto?» domanda dalla soglia.
Sono così sorpresa e confusa che l'unica cosa che riesco a fare è annuire come un automa.
«Ottimo! Sono felice di conoscerti finalmente» si sporge in avanti e mi allunga una mano «Sono qui per rispondere alle tue domande e per spiegarti ciò che devi assolutamente sapere sull'accademia».
Non voglio sembrare sgarbata, perciò le stringo la mano velocemente e poi me la infilo in tasca. Non mi piace che la gente senta quanto è fredda la mia pelle.
Abby sembra non notarlo e continua a sorridere. «Come ti ho già detto sono a capo di questa ala del dormitorio femminile, ciò significa che devo fare in modo che tutte le ragazze rispettino le regole e devo essere a disposizione se qualcuno ha bisogno di aiuto. Su questo piano troverai solo ragazze più o meno della tua età, ma di ogni specie. La preside non vuole dividerci in una categoria, ama l’uniformità» fa qualche passo in avanti «All'inizio tutte le nuove arrivate passano i primi mesi nelle camere singole, è una delle regole. Appena avrai il permesso della preside potrai condividere la camera con le altre».
Non sono trepidante all'idea di dormire con una sconosciuta, non mi dispiace stare da sola. «Va bene».
Abby si accarezza la gonna a balze. «Qui alla Campbell portiamo tutti quanti la divisa, è un modo della scuola per farci capire l'importanza dell'uguaglianza. Nel cassetto dell'armadio ne troverai cinque paia complete, indossala sempre durante l’orario di lezione. Durante il week-end e il tempo libero puoi vestirti come vuoi, sempre mantenendo un certo decoro è ovvio».
«Okay».
«Devi essere sempre puntuale per i pasti, per le lezioni e per ogni tipo di attività che verrà messa in calendario. I ritardi sono puniti severamente, fai attenzione. In ogni caso, tutte le regole sono scritte nella guida che è dentro il cassetto della scrivania. Imparale». Annuisco, facendola continuare. «L'orario e la piantina sono anche loro nella scrivania. I tuoi nuovi libri e il materiale scolastico sono nel tuo armadietto al piano terra, vicino alle aule. La mia camera è la prima a destra salendo le scale e il bagno comune è in fondo al corridoio».
«Bagno comune?» chiedo schifata.
Abby fa un'espressione comprensiva e cerca di sorridermi incoraggiante. «All'inizio è difficile abituarsi, ma con il tempo capirai che non è la fine del mondo. Ti do un consiglio: se vuoi andare in bagno senza che nessuno sia lì con te vacci la sera tardi o la mattina presto, io faccio così».
«Grazie della dritta» mormoro.
Lei ridacchia «Ti abituerai a tutto in pochissimo tempo, tranquilla».
Non credo proprio. «Speriamo».
«Certo. Ah, mi stavo dimenticando, c'è un coprifuoco da rispettare durante la settimana. Non farti beccare in giro durante la notte o finirai davvero nei pasticci. E, soprattutto, non farti beccare con un ragazzo in camera durante la notte, quello ti porterebbe all'espulsione assicurata».
Non ci si può proprio divertire in questo posto. «Farò la brava» asserisco con poca convinzione.
Abby non lo nota. «Ottimo. Adorerai stare qui, te lo assicuro».
«Non ne sono così sicura» borbotto, cercando di farle segno di andarsene.
Lei non coglie il segnale e si avvicina toccandomi una spalla. Ma qui nessuno si tiene le mani in tasca? «Non sei sola Eveline, qui siamo tutti diversi e restiamo uniti proprio per questo».
Sì, beh, lo vedremo. «Okay».
Lei sorride e svolazza fuori dalla stanza sbattendo le ali blu. «Ci vediamo a cena, non fare tardi».
«Ciao» le chiudo la porta dietro e mi riprendo il mio spazio personale.
 
Una volta che ho sistemato tutte le mie cose nella stanza, lo spazio per vivere sembra ancora meno. La mia camera era almeno larga il triplo, non so come fanno le altre ragazze a non impazzire in questi cubicoli.
Dal mio orario, la cena si tiene alle otto nella mensa principale. Mi avvicino alla scrivania su cui ho appoggiato la divisa. È composta da una gonna a balze grigia, una camicia bianca con sul taschino ricamato lo stemma della Campbell, un cardigan color topo, una giacca tweed giallo canarino e una cravatta nera.
La scelta delle scarpe e delle calze è dello studente. Almeno quello.
Non ho nessuna intenzione di indossare questo obbrobrio. Dove sono finiti i miei diritti civili? Insomma, ho il sacrosanto diritto di poter indossare ciò che voglio. E poi la preside mi ha pregata di passare inosservata ed è ormai alquanto chiaro che io non ascolto proprio nessuno. Soprattutto se si tratta di un ordine.
Scrollo le spalle e vestita come sono arrivata, mi dirigo verso la mensa.
 
Percorro i corridoi a passo lento, seguendo la massa di gente che si muove. Scendo due rampe di scale e mi ritrovo immersa nella calca degli studenti affamati, che aspetta l'apertura delle porte. Ci sono così tanti odori diversi che il mio naso non riesce a percepirne nessuno in particolare. L'unica cosa che distinguo con chiarezza è il rumore di centinaia di cuori che battono con forza.
Mi sembra di essere al ristorante e di avere davanti il mio piatto preferito, pronto per essere divorato. La salivazione aumenta e i canini spingono ansiosi di affondare in qualcosa di morbido. Devo assolutamente bere del sangue.
Sono così frastornata che non mi accorgo di un ragazzo poco aggraziato e del suo enorme braccio che mi colpisce. Barcollo e inciampo, finendo contro la schiena di qualcuno. Il colpo che gli do lo fa ondeggiare e deve avergli fatto anche parecchio male, perché si gira sorpreso massaggiandosi il fianco.
«Ehi, hermosa, attenta a dove vai» ridacchia il ragazzo, con un leggero accento spagnolo.
«Scusa, mi hanno spinta» mi giustifico.
Lancia uno sguardo alle mie spalle e annuisce comprensivo. «Licantropi. Sono delle vere bestie certe volte» mi allunga la mano «Leo Gutierrez, encantado».
Leo è molto alto, con gli occhi color nocciola, i capelli castani scompigliati e ribelli. Porta la divisa, che differisce da quella femminile solo per un orrendo paio di pantaloni con le pence, tutta stropicciata e di almeno una taglia in più. Sul mento ha una piccola macchiolina di grasso per motori.
Gli fisso la mano, indecisa se ho voglia che qualcun altro mi tocchi. Odio il contatto fisico, tutti gli altri sono così caldi e colorati, soprattutto Leo. Infilo le mani nelle tasche e gli faccio un cenno con la testa «Eveline. Evie, se vuoi». 
Mi fissa per un secondo, indeciso se sono stramba oppure no. Fa cadere la mano lungo in fianco e sorride. «Ho sentito delle voci che dicevano che sarebbe arrivata una nuova studentessa, ma non ti immaginavo così».
Lo osservo mentre mi studia. «Così come?».
La matassa di gente si muove e lentamente varca la soglia della mensa. Noi seguiamo in flusso.
«Così incredibilmente...normale». Mi acciglio confusa e Leo agita le mani con furia «Non dico che sei banale o altro, anzi sei stupenda» arrossisce e si gratta il gomito a disagio mentre sediamo ad un tavolo vuoto «...voglio dire...io... la preside era tutta agitata e c'è stato un gran trambusto quando i docenti hanno saputo che saresti arrivata. Ha scombinato orari, camere e programmi per farti arrivare qui. Oltretutto tutti gli studenti arrivano nello stesso momento, cioè tre giorni fa, le lezioni cominciano domani e tu non hai la più pallida idea di come sia questo posto. Perciò, sì, mi aspettavo qualcuno di assurdo, come non so, un drago con tre teste».
«Ci sono draghi qui?» chiedo sorpresa.
Lui ridacchia e scuote la testa. «No, i draghi sono estinti da diversi secoli».
«Oh» sospiro «Peccato». Davvero c’erano i draghi? Questa situazione diventa sempre più assurda ogni momento che passa.
Leo inclina la testa e mi guarda in modo strano.
«Cosa c'è?» chiedo infastidita.
«Cosa sai del mondo sovrannaturale?» domanda curioso, giocherellando con il tovagliolo giallo.
«Assolutamente nulla, fino a stamattina nemmeno sapevo esistesse un mondo sovrannaturale».
«Oh, sei una novizia» fa di nuovo quella sua faccia comprensiva «Ti hanno morsa di recente? Hai subito un maleficio? Oppure sei una strega tardiva?».
Direi che per il momento non c'è bisogno che Leo sappia cosa sono, sembra simpatico e non voglio che scappi via. «Tu quale diresti?».
Sorride facendo spuntare un bel paio di fossette. «Allora, scarterai l'opzione lupo mannaro perché sei troppo pulita e spelacchiata. Hai l'aria da fata e forse un po' da strega. Non saprei proprio dirlo».
«Allora per il momento resterà un mistero» borbotto, cercando di sembrare criptica e sperando che lui abbocchi.
«Come desideri» sorride leggermente a disagio «Alcune volte mi scordo che è una domanda inopportuna».
«Tranquillo».
«Tra l’altro sono l'ultimo che dovrebbe impicciarsi».
Mi acciglio perplessa. «Che significa?».
«Qui dentro sono quello che stona di più» asserisce guardandosi intorno «Non ho nulla di particolare, sono un umano vecchio stile».
Prima che possa reagire all’affermazione di Leo, la sala si fa di colpo silenziosa e la preside fa il suo ingresso. Sorride all’oceano di studenti che la fissano. «Benvenuti e bentornati all’accademia Campbell. So che solitamente il discorso inaugurale lo faccio il primo giorno, ma volevo che fossimo al completo prima di dare inizio al nuovo anno» mi lancia un’occhiata veloce «Sono felice di rivedere ognuno di voi e di dare il benvenuto a tutti i nuovi studenti. Ci aspettano mesi meravigliosi e ricchi di eventi e spero che ognuno di voi spenda questo tempo prezioso al meglio delle sue possibilità. Sono grata che possiamo ritrovarci qui, insieme e al sicuro». Ogni parola che le esce dalla bocca sembra avvolta nella melassa. «Non voglio tediarvi troppo, ma spero vi ricordiate le regole e le buone maniere che gli studenti di questa accademia devono assolutamente rispettare. Mi raccomando, cerchiamo di non ripetere gli errori dello scorso anno». Un mormorio leggero si alza dagli studenti. «Detto ciò, diamo inizio alla cena e buona continuazione».
Gli studenti intorno a noi sorrido e ringraziano prima di ricominciare a chiacchierare.  La preside si allontana. «Dove va?» chiedo curiosa.
«I professori mangiano nella loro sala» spiega Leo per poi indicare un uomo grigio e cupo, appoggiato al muro della mensa «Ha lasciato il suo braccio destro a tenere ogni cosa sotto controllo»
«Quello chi è?».
«Lui è Kester, il vicepreside. Anche noto come l'impianto di sicurezza della scuola, lui vede tutto e tutti. È uno stregone. Ti consiglio di stargli alla larga, è parecchio sadico per quanto riguarda le punizioni». Non me lo farò certo ripetere due volte.
I camerieri cominciano a servire i pasti ai tavoli girando tra le sedie e collocando davanti agli studenti scodelle di minestra verde. I piatti di porcellana risplendono in contrasto con la tovaglia nera e i candelabri illuminano la stanza conferendogli una strana atmosfera macabra.
Giocherello con il mio cibo, questa zuppa non mi ispira per nulla. «Se sei un umano significa che non fai parte del mondo dei mostri». Annuisce facendomi continuare. «Allora perché sei qui?»
Sul suo viso appare un’ombra scura che non gli dona. «Sono più o meno obbligato a vivere qui».
So che non affari miei, ma non riesco a resistere. «Come mai?».
Un uomo alto e robusto, strizzato in una divisa da cameriere si avvicina al nostro tavolo. «Signorina Morgan?».
Per poco non sobbalzo giù dalla sedia. «Sì?».
Mi porge una grossa borraccia metallica con un beccuccio. «La preside mi ha chiesto di consegnarle questo. Se non è sufficiente venga pure in cucina e gliene darò altro. Chieda solo a me se ha bisogno. Mi chiamo Harris».
«Grazie» asserisco confusa mentre l’uomo si allontana in fretta.
Tiro il tappo e dal contenitore cilindrico si alza nell’aria un profumo paradisiaco, che mi fa brontolare la pancia con forza. Trangugio una generosa sorsata di sangue e sospiro soddisfatta. Non c'è nulla di più buono del sangue ancora caldo. Leo mi osserva attraverso il ciuffo di capelli castani ma non dice nulla e di ciò gli sono molto grata. Bevo dal mio contenitore cercando di non farmi notare e di non sporcarmi la bocca di sangue. Sento i canini contro il labbro inferiore e mi costringo a non aprire troppo la bocca.
Guardandomi intorno mi rendo conto di una differenza sostanziale tra il nostro tavolo e quello degli altri. Al nostro ci siamo solo noi due, mentre gli altri sono tutti strapieni. Una ragazza in particolare mi osserva con insistenza, da un tavolo non molto lontano. Ridacchia, agita i capelli biondo paglia e mi fa una radiografia glaciale con i suoi occhi verdi. Si china verso le amiche, borbotta qualcosa e loro ridono in coro in modo automatico.
Leo segue il mio sguardo e sbuffa. «Streghe».
So che non è un insulto ma un dato di fatto. Sono le prime streghe che vedo e non hanno affatto l'aria amichevole.  
«Quella che ti fissa come se volesse farti un buco in testa è Natalie» mi spiega Leo masticando un po’ di pane «Quelle accanto sono le sue amiche senza cervello. Ignorale, gli piace trattare male gli altri e poi se la tirano da morire perché gli basta schioccare le dita per combinare un putiferio».
Concentro l'udito fino a riuscire ad origliare il loro tavolo. La voce di Natalie è anche più sgradevole di quanto immaginassi. «Avete visto che la nuova si è seduta con lo strambo. Vi avevo detto che non era giusta per il nostro gruppo. Insieme fanno una coppia perfetta» scuote la coda di cavallo e sbuffa infastidita «Ormai fanno entrare cani e porci in questa stupida accademia».
Una delle sue amiche si sporge in avanti. «Lo avete visto quanto è ridico con quella macchia di unto sul viso! Anche sua madre non lo ha voluto».
Smetto di ascoltare e di guardarle. Tutto in loro mi spaventa a morte, hanno dei poteri che immagino siano sconfinati e allo stesso tempo sono cattive e senza cuore. È l'accoppiata perfetta per creare un dittatore.
«Stai bene?» chiede Leo con dolcezza.
Senza pensare gli avvicino il pollice al mento e con delicatezza elimino la macchiolina che le fa tanto ridere. È un gesto intimo e personale, assolutamente non da me. Arrossirei se ne fossi capace, ma c'è già Leo che è diventato paonazzo per entrambi. «Grazie» sussurra tingendosi di una sfumatura di rosso ancora più acceso. Mi piacerebbe diventare di nuovo di quel colore ogni tanto. «Caspita, hai le mani freddissime».
Gli sorrido e mi sfrego inutilmente le dita sui jeans, cercando di renderle un po' più calde. «Se non fai parte del team dei mostri come mai sei in questa strana accademia?».
Lui addenta il pollo che ci hanno appena portato. «Mia madre mi ha avuto da giovane e mi ha lasciato davanti all'entrata dell'accademia. La preside che c'era a quei tempi si è presa cura di me e mi ha cresciuto come se fossi suo figlio. Posso frequentare la scuola solo perché lei lo ha messo tra le sue volontà quando si è ritirata e perché ogni tanto faccio qualche lavoretto, come aggiustare le auto o sistemare il prato».
Predo una lunga sorsata di sangue. «È stata davvero carina ad occuparsi di te. Ora dove si trova?».
Abbassa lo sguardo sulla coscia e sospira «È morta un paio di anni fa».
Gli passo una mano sul braccio «Mi dispiace davvero tanto».
Sorride tristemente «Anche a me».
Ad interrompere il momento imbarazzante ci pensa la sedia accanto a Leo, quando qualcuno la fa strisciare contro il pavimento. Un ragazzo ci si appollaia sopra. «Ehi, Leo, non puoi capire che razza di giro assurdo ho dovuto fare per non farmi beccare dall'avvoltoio. Ho trovato un nuovo passaggio pazzesco, dopo te lo mostro» inforca un po' di carne e la trangugia come un'animale affamato. Si blocca con il boccone ancora in bocca, mi fissa e mi punta la forchetta sporca contro. «E lei chi cavolo è?». 
I suoi modi da animale delle caverne stonano terribilmente con il suo aspetto assolutamente meraviglioso. Mi scruta dall'alto al basso con due enormi occhi neri da cucciolo, i capelli biondo chiaro, spettinati e un fastidioso quanto sexy sorriso sbilenco. 
Leo da una pacca sulla spalla dell'amico «Nate, lei è Eveline, la nuova ragazza» poi si volta verso di me «Evie, lui è Nathan Rover, il mio migliore amico».
Nate mi fissa e io fisso lui. Ci studiamo nei dettagli per alcuni minuti, poi l'imbecille apre la bocca «Perché l'hai lasciata sedere al nostro tavolo?».
Corrugo la fronte, innervosita. Perché diavolo mi guarda in quel modo? Così irritato dalla mia presenza.
Leo si spazientisce e si agita sulla sedia. «È a posto, tranquillo».
Nathan morde il pollo con forza. «Secondo me ha l'aria da oca, in stile Natalie. Cos'è una strega o una volgare fatina dei boschi?» mi guarda dall'alto al basso e mastica con la bocca aperta.
«Sai, imbecille, che ti sento?» mormoro astiosa. Sento l'impulso di mordergli il collo e di vederlo sanguinare copiosamente sul pavimento.
«Lo so, tesoro, che sei qui. Non c’è bisogno che smani alla ricerca di attenzione» mi comunica con un sorrisetto maleducato.
Mi scappa un ringhio sordo. «Io non smanio, razza di villano!».
«Villano? Sul serio? È il miglior insulto che hai trovato?» ribatte ridendo.
Okay, non è l’offesa migliore che colleziono nel mio repertorio, ma in mia difesa il cretino mi ha colta di sorpresa e in più sono nel bel mezzo di un pasto, quindi non sono molto lucida.
L’imbecille riapre le fauci graziandomi della vista del pollo mezzo masticato. «Senti, principessa, perché non alzi il tuo bel culetto e non vai a sederti con le oche senza cervello insieme a Natalie?».
In effetti mi alzo in piedi, ma solo per prendere lo slancio per saltargli alla gola. Prima che riesca a scavalcare il tavolo con un unico salto, una mano affilata e dura come il marmo mi artiglia la spalla. Mi volto di scatto pronta ad attaccare chiunque provi a toccarmi e mi ritrovo davanti l’avvoltoio che mi fissa arcigno. Kester è lo stereotipo vivente di come chiunque si immaginerebbe uno stregone. Alto, sottile, lunghi capelli ispidi e bianchi, barba altrettanto lunga e ispida e un’orrenda toga nera piena di bruciature e si strappi. Se gli spuntasse un bastone nodoso da sotto il mantello sarebbe assolutamente perfetto. «Qualsiasi scontro di tipo fisico al di fuori della palestra è severamente vietato» mormora cupo «È riportato sul libro delle regola signorina Morgan, dovrebbe proprio leggerlo». Il suo noto ammonitore da professore spazientito non spegne la rabbia che mi brucia dentro. Provo a rispondere ma mi punta un dito nodoso e grigiastro in faccia. «Se fossi in lei non proverei a ribattere». Si volta verso Nate «Signor Rover, so che crede di essere un fenomenale mago dell’entrate ad effetto, ma le assicuro che l’ho vista arrivare in ritardo e soprattutto dopo il meraviglioso discorso della preside». Nathan si sgonfia come un palloncino. Kester ci porge due oggetti scintillanti. «Una volta che sarà terminata la cena, la preside vi aspetta entrambi nel suo ufficio».
Mi spinge sulla sedia e come è apparso, scompare.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** First Impressions ***


Chapter 3
 
 
Mi rigiro tra le dita l’oggetto luccicante che Kester ci ha dato. «Cos’è?» domando verso Leo.
«È il corrispettivo di una nota nel mondo sovrannaturale» mi spiega «Lo chiamano Fagiolo Inseguitore».
«Perché non ci ha dato un foglietto come fanno i professori normali?».
Nathan sbuffa e si rimette a mangiare. «Perché è Kester ed un dannato sadico».
Leo mi prende il fagiolo dalla mano. «È incantato in modo che tu non possa fare altro che scontare la tua ramanzina».
Glielo tolgo di mano e lo appoggio sul tavolo. «Che gran perdita di tempo».
Il fagiolo tremola e con un sonoro fischio si duplica. «Ma che diavolo?».
Leo stringe i denti. «Non hai intenzione di andare dalla preside, vero?».
«Come lo sai?». Il dannato fagiolo fischia di nuovo e si duplica ancora. E poi di nuovo. «Perché il tavolo si sta riempiendo di fagioli?».
«Continuerà così finché non deciderai che andrai dalla preside» mormora Leo «Te l’ho detto, è fatto in modo che tu non possa fare altrimenti. Verrai sommersa se non ci vai».
«D’accordo. D’accordo, ci vado». Alla mia sincera ammissione, il fagiolo smette di figliare. Tutti quelli che si sono formati si uniscono, formandone uno grosso come un pugno.
Leo mi guarda dispiaciuto. «Così la preside sa quanto ci hai messo a fare la cosa giusta». Carino. Davvero carino. Questo posto diventa ogni secondo sempre di più una pagliacciata con i fiocchi.
Nate giocherella con il suo minuscolo fagiolo. «Ho sentito che un ragazzo è stato sommerso fino a soffocare nella sua stanza».
Leo scuote la testa. «Questa è una leggenda bella e buona».
Non sento il loro dibattito sul tipo finito sotto la valanga di Fagioli Inseguitori, perché il mio cervello si ingrippa su un altro pensiero.
Un pensiero che mi scava un buco enorme in mezzo al petto.
Sono sola e in trappola.
 
L’ufficio della preside è sontuoso e ricco di ninnoli. Lei siede corrucciata su una poltrona di pelle verde scuro, davanti ad una scrivania di legno di cedro. Il pavimento fatto di parquet è parzialmente coperto da tappeti color avorio, le librerie che appoggiano contro i muri sembrano infinite e sono piene di volumi spessi e polverosi. Un centinaio di palle di vetro con la neve sono sparse per tutta la stanza ed ognuna raffigura una scena differente.
Kester ci deposita davanti alla preside con una sonora spinta. Lei alza lo sguardo dai fogli su cui sta scrivendo e ci osserva sorpresa. «A cosa devo questo onore?» domanda guardando l’uomo. Lui fa schioccare la lingua schifato. «La signorina Morgan non indossa la divisa, mentre il signor Rover si è seduto a tavola nel bel mezzo del secondo» lui scuote la testa «E successivamente hanno quasi scatenato una rissa».
«Non è assolutamente vero» sospiro.
La preside alza la mano «Eveline, per favore, parla quando interpellata».
Sbuffo con forza e mi agito dondolandomi da un piede all’altro. Tutta questa storia è ridicola. Questo stupido posto è ridicolo. Così come le sue stupide regole. La rabbia e la tristezza si mescolano facendomi tremolare. Tengo le redini con due mani, cercando di non lasciare che le sensazioni che mi scorrono dentro liberino il mostro.
Nate mi lancia un’occhiata da sopra la spalla e scuote la testa.
«La nostra meravigliosa accademia ha delle precise regole per una ragione: mantenere l’armonia e l’efficienza. Infrangerle significa creare il caos e questa è una cosa che non posso sopportare» raddrizza una delle sue palle di vetro «Nathan ormai sei abbonato al mio ufficio, ma da te Eveline mi aspettavo molto di più. Nathan sai gli orari da anni e non hai nessuna giustificazione per il tuo ritardo». Lui apre la bocca per ribattere ma la Sheridan alza di nuovo la mano per zittirlo. «Sono sicura che Abigayle ti abbia detto di mettere la divisa, Eveline, perché non la indossi?» provo a parlare ma zittisce anche me «Domani pomeriggio, dopo le lezioni, vi aspetto entrambi in punizione» scribacchia su un paio di fogli e ce li passa «Ora fuori di qui, ho un sacco di cose da fare».
Ci liquida con un gesto della mano e Kester ci sbatte letteralmente fuori dalla porta.
In corridoio stringo i fogli tra le mani che non smettono di tremare. Controllati, Evie. Non possiamo perdere la calma davanti a lui. 
«Non dirmi che non sei mai stata nei guai prima» borbotta Nathan guardandomi le mani. Sento la testa sempre più in fiamme e la sua voce irritante non mi sta aiutando. «Ti muovi con quest’aria di sufficienza e snob e poi tremi come una foglia dopo una leggera ramanzina. Davvero patetico».
Bastano due parole a farmi perdere la testa. Il mostro spinge la ragazzina impaurita nell’armadio e prende il controllo del corpo. Ringhio con forza e prima che lui se ne renda conto gli salto addosso facendolo cadere rovinosamente a terra. Gli siedo sull’addome e gli afferro il bavero della camicia. Nathan spalanca gli occhi spaventato e deglutisce a vuoto. Dal suo corpo si alza una nuvola di paura, che mi fa venire l’acquolina. Sento il battito della sua giugulare nelle orecchie.
So dove mordere per ottenere lo spruzzo di sangue migliore.
So dove la pelle è meno spessa e dove le vene sono più grandi.
So dove si trova il punto esatto che devo tranciare per ucciderlo.
Mi basterebbe affondare i denti nella sua carne e questa sensazione di bruciore sparirebbe all’istante. La voglia di sangue batte qualsiasi istinto umano mi si scateni dentro.
Nathan è del tutto congelato, mi fissa senza fiato e non prova nemmeno a lottare. Non farebbe differenza, non potrebbe spostarmi neanche se ci provasse. Una volta che perdo il controllo, solo io posso fermarmi. È successo lo stesso subito dopo il mio risveglio dall'incidente e la sera che sono tornata a casa. Serve tutta la forza di volontà che ho in corpo per farmi smettere o semplicemente qualcosa che mi ricordi che quello che sto per fare è disumano.
Il terrore che gli leggo in faccia funziona come una doccia fredda. Devo sembrargli un mostro orrendo e quando vedo il mio riflesso specchiato nelle sue pupille dilatate ne ho la conferma. Vedo una pazza che mi guarda di rimando con i canini sguainati e gli occhi completamente neri. Mi rendo conto di ciò che sto facendo e riesco finalmente a riafferrare il timone di questa barca di pazzi. Rotolo sul pavimento di marmo e mi allontano il più possibile da lui strisciando contro il tappeto antico. Scappo lungo il corridoio, lasciando Nate sbigottito e ancora steso per terra.
Una volta in camera, spalanco la finestra e salto giù verso il bosco che circonda l’accademia.
 
 
Vago per la vegetazione fitta e rigogliosa finché il sole non comincia a levarsi a fianco delle montagne. Passare la notte all’aperto è sempre meraviglioso, soprattutto se ti trovi in un bosco pieno di bestiole spaventate che scappano se provi ad inseguirle. L’odore della selvaggina mi rende decisamente euforica. La prima cosa che ho fatto dopo essere saltata giù dalla finestra è stata la ricerca di qualcosa da sbranare. Un povero cervo, ignaro del nuovo predatore arrivato nel suo territorio, non ha avuto scampo. Bere sangue caldo e ancora vivo è una sensazione completamente diversa rispetto a quella che mi scatena il sangue dell’ospedale. Il sangue umano però ha una marcia in più, riesce a saziarmi a livelli che il sangue animale non raggiungerà mai. Mi dispiace ma non ho intenzione di uccidere nessuno. Anche se sono diventata un mostro non significa che mi debba comportare come tale.  
Dopo la nottata tra gli arbusti e il fango sono completamente sporca. Ho foglie e rametti tra i capelli e i vestiti pieni di macchie di terra e sangue. Mi arrampico con agilità lungo la parete dell’edificio e con una spinta mi infilo nella mia camera attraverso la finestra. Appoggio il sedere sulla scrivania e chiudo gli infissi. Mi stiracchio come un gatto e massaggio i muscoli delle gambe.
Mi rendo conto in che stato pietoso mi trovo e decido di darmi una ripulita. Appoggio l’orecchio contro la porta di legno e chiudo gli occhi. Non percepisco rumori ne voci. Via libera. Afferro l’accappatoio grigio dato dall’accademia, il beauty e zampetto fino ai bagni. I servizi in comune per le donne sono di un terrificante rosa porcellino. I muri e i pavimenti sono ricoperti di piastrelle lisce e sul soffitto bianco sono appese delle luci al neon che sfarfallano leggermente. La stanza è molto ampia, sulla parete di sinistra sono posizionati diversi lavandini di ceramica bianca e degli specchietti quadrati. Sulla parete di destra sono collocate dieci docce fatte di piastrelle chiuse da delle porte di plastica con la serratura. Sull’ultima parete libera sono disposti sette cubicoli contenenti dei water.
Scelgo l’ultima doccia, quella più piccola e meno luminosa, e mi ci infilo dentro. Appendo l’asciugamano al gancio sulla porta insieme al beauty e apro il getto d’acqua. Sciacquo via il sangue secco, le foglie e tutte le macchie fango. Lavo via le tracce del mio lato selvaggio e torno pulita e profumata come prima. Mi avvolgo nell’accappatoio, mi fermo davanti ad un lavandino per lavarmi i denti e poi me ne torno in camera.
Asciugo i capelli e controvoglia indosso l’uniforme. La gonna è un po’ troppo lunga per i miei gusti, la camicia mi stringe nella zona seno e la cravatta è molto più scomoda di quello che sembra. Infilo gli anfibi, butto la giacca gialla nello zaino e mi avvio verso la mensa.
Mi sento così stupida vestita come la massa che un paio di volte mi giro per tornare in camera, ma poi ripenso alla punizione che mi sono beccata e quindi mi costringo ad arrivare alla mensa.
Appoggiato di fianco alla porta a doppio battente vedo Leo che giocherella con collanina di metallo che gli spunta dalla camicia. La noto prima che possa rinfilarla sotto la stoffa. È un’ovale d’argento decorato con un basso rilievo, quel tipo di collana in cui puoi infilarci una foto minuscola. Appena mi vede, si stacca dal muro e mi regala un sorrisone, mostrando le fossette ai lati del sorriso. «Buongiorno, hermosa» apre la porta e mi fa segno di entrare.
Gli sorrido «Buongiorno, Leo». Entriamo insieme nella stanza e raggiungiamo il tavolo della sera precedente. Appena appoggio il sedere sulla sedia, lo stesso cameriere del giorno prima mi appoggia davanti la borraccia nera piena di sangue. Gli faccio un sorriso per ringraziarlo e lui annuisce e si dilegua. Leo spalma su un panino del burro e della marmellata di more e lo addenta con gusto. «So cos’è successo ieri sera» mormora con la bocca piena. Mi irrigidisco di colpo e smetto di bere. Nathan ha fatto la spia? Ha raccontato a Leo che razza di mostro sono? Lo fisso aspettando che continui ma lui si limita a masticare la colazione con aria assonnata. Gli afferro il braccio con un po’ troppa irruenza «Cosa ti ha detto Nathan?».
Mi guarda confuso e scuote la testa «Nulla, solo che la preside vi ha puniti entrambi per una stupidaggine e che non vi ha lasciato aprire bocca. Tutto qui». Allento la presa e gli lascio andare il braccio. Leo se lo massaggia «Ahi, sei davvero forte».
«Scusa» bofonchio e ricomincio a bere la mia colazione.
«È successo qualcos’altro?» domanda «Sai, Nate sa essere parecchio scorbutico quando vuole». 
Scuoto la testa. Non voglio che Leo sappia cosa sono. Quando i miei genitori hanno capito cosa fossi diventata, lo sguardo con cui mi hanno sempre guardata è cambiato irrimediabilmente. Ora vedono solo il mostro e un mostro non può avere amici.
Presa dall’ansia, mi metto a spalmare della marmellata sul pane e a spiluccarne qualche pezzetto. Tanto per dare l’idea di stare mangiando, come ieri sera.
Nathan balza sulla sedia accanto a Leo e gli dà una pacca sulla spalla. «Ehi, amico» afferra una mela e la addenta con irruenza. Non mi saluta e non mi rivolge nemmeno uno sguardo. Non ha detto nulla a Leo e non riesco a capire se è un buon segno o uno brutto. Forse vuole sganciare la bomba nel momento migliore. 
Leo nota la tensione tra di noi e comincia ad agitarsi sulla sedia e a puzzare. Tentando di smorzare l’atmosfera, Leo azzarda un discorso leggero «Allora, Evie, in che corsi ti hanno messa?».
Mi acciglio, tiro fuori il foglio degli orari e glielo passo. Lui lo scruta con attenzione e poi sorride «Hai i corsi umani praticamente quasi tutti avanzati, come me. Mentre i corsi speciali sono gli stessi di quelli di Nate».
Lui sospira sonoramente e molto platealmente.
«Hai qualcosa da dire?» chiedo piccata.
«No, tesoro» ribatte con ancora la bocca piena.  
«Sei sempre così maleducato o devo sentirmi onorata per questo trattamento di favore?».
Si pulisce la bocca con la mano. «Non ti agitare dolcezza, io sono sempre così».
«Lo sospettavo» mormoro.
«Lo stereotipo che i mannari siamo incivili e animaleschi è completamente errato. Molti di loro sono molto educati» si intromette Leo, estremamente a disagio.
«Mannari?» chiedo confusa. «Come lupi mannari?».
«Sei proprio una novellina» ribatte Nate schifato.
Leo mi tira per il braccio facendomi girare «Vedi, gli scimmioni della squadra di football e di hockey sono dei lupi mannari, così come quasi ogni giocatore di una qualsiasi squadra. Sono molto fisici e rumorosi, ma soprattutto agiscono in branco. Un lupo è forte quanto il suo branco».
Guardo Nate che mastica. «Tu cosa sei? Un porco mannaro?».
«Divertente» mugugna sarcastico Nathan «Per tua informazione, tesoro, sono un lupo mannaro».
«E come mai non sei con il tuo branco?» chiedo.
Lui sussulta e abbassa lo sguardo sul piatto. Capisco di aver toccato un nervo scoperto perché la sua espressione strafottente è scomparsa e non sembra in vena di ribattere. Mi sento subito in colpa, quell’espressione triste non gli dona proprio.
Leo da una pacca sulla spalla dell’amico e gli sorride affettuoso. «Ti accorgerai presto, Evie, che se non sei fatto con lo stampino qui non hai molti amici. Nate e io formiamo un branco a parte».
Chissà come mai lo sospettavo. «Le cose omologate non sono mai state il mio genere» asserisco tornando a concentrandomi sulla mia borraccia.
Al suono della campanella, Nate sparisce e Leo e io ci dirigiamo in classe insieme.
 
La prima lezione della giornata è letteratura e la passerò insieme a Leo. Non mi dispiace affatto, sono sempre stata brava con le parole, sempre se si tratta di letteratura delle persone normali.
Leo mi guida fino agli armadietti e mi aiuta a cercare il mio. Sorprendentemente, lo troviamo subito. Inserisco la combinazione e tiro fuori i libri che mi servono per la giornata. All'interno sono collocati anche diversi raccoglitori, quaderni e materiale vario di cancelleria.
«Puoi decorare l'interno come preferisci, l'importante è che fuori resti uguale a tutti gli altri» spiega mentre riempio l'astuccio grigio dell'accademia con penne e matite «Stai attenta a non tentare di aprirne un altro pensando che sia il tuo, le streghe ci fanno sempre degli incantesimi di protezione» si gratta la nuca con aria sofferente «Credimi, fanno davvero male».
Una volta che ho riempito lo zaino, anche quello grigio, ci dirigiamo verso l'aula di letteratura. «All'accademia ti insegnano le principali materie umane, come matematica e letteratura, e le materie che ti serviranno per sopravvivere alla tua vita soprannaturale» mi informa mentre camminiamo.
«Speravo di potermi liberare di matematica» borbotto.
Leo ridacchia «No, mi dispiace, quella c'è in qualsiasi scuola. Però la professoressa Ruben è davvero simpatica, è una fata del fuoco».
«Anche tu segui le strane materie soprannaturali?» domando mentre ci accomodiamo al banco.
Leo annuisce «Alcune sì, quelle specifiche per ogni creatura non le faccio. Nel mentre mi occupo dei lavoretti che questa vecchia accademia richiede».
Ci zittiamo nel momento in cui il professore entra in classe avvolto da una strana nuvola di fumo. Fa una bizzarra piroetta facendo volteggiare la tunica color salmone e si accomoda alla cattedra. «Buongiorno, classe» trilla con allegria «Benvenuti al corso avanzato di letteratura. Molti di voi già mi conoscono, ma per quelli nuovi, io sono il professor Felix Norton» fa una specie di inchino e sorride mostrando troppi denti. Ha i capelli biondo chiaro lunghi fino alle spalle e con le punte nere arricciolate. Ha gli occhi verde smeraldo incorniciate da lunghe ciglia dorate. È assolutamente e completamente assurdo, ma allo stesso tempo quello strano stile gli sta molto bene.
«Per quelli di voi che non lo sanno, io sono uno stregone e durante la mia lezione vige la regola che nessuno può usare i proprio poteri» mette in chiaro «Qui impariamo la letteratura come in ogni parte del mondo ed l'unica cosa su cui dovrete concentrarvi» si arrotola intorno ad un dito una ciocca di capelli «Ogni settimana affronteremo un testo diverso ed esigo che voi lo leggiate e che facciate gli esercizi che vi assegno. Non accetto giustificazioni» si alza in piedi e comincia a scrivere sulla lavagna «Inizieremo il programma da Sir Walter Scott e da una delle sue opere più famose, Ivanhoe. Qualcuno sa dirmi qualcosa a riguardo?».
L'ora di letteratura vola. Il professor Norton è incoraggiante e molto interessato al parere dei suoi studenti. Non rimprovera mai chi azzarda una risposta e aiuta tutti a riflettere sul testo in modi completamente diversi da quelli a cui ero abituata. A fine lezione distribuisce delle fotocopie del libro che dobbiamo analizzare e ci assegna i compiti per la lezione successiva. 
Leo mi scorta fino all'aula di biologia delle creature sovrannaturali che è la seconda lezione della giornata. Davanti alla porta mi fa un cenno con la mano. «Ti vengo a prendere a lezione finita» mi comunica.
La paura mi stringe le viscere. «Aspetta, non segui questo corso?».
Mi guarda dispiaciuto «Seguo quello avanzato, però in classe troverai Nate».
E questo dovrebbe essere un punto a favore? «Non credo di voler entrare».
Leo mi accarezza la spalla comprensivo. «Non ti preoccupare, è una delle lezioni più interessanti e il professor Coren è veramente bravo. Ti passerà in un attimo».
Annuisco con poca convinzione. Leo sorride. «Ci vediamo dopo». Si allontana lungo il corridoio lasciandomi sola e indifesa. Il mio primo istinto è quello di scappare. Potrei correre di nuovo nel bosco, nessuno se ne accorgerebbe, ma la vocina testarda nella mia testa mi dice di entrare in classe. Se posso aprire una macchina come una scatoletta di tonno posso anche sopravvivere ad una lezione da sola.
Varco velocemente la soglia e mi siedo al primo banco vuoto che vedo. Tiro fuori il mio libro e aspetto l'arrivo del professore fissando l'immagine in copertina. Uno strano odore di cane bagnato mi avvolge e la sedia accanto alla mia si muove, quando qualcuno ci si accomoda sopra. Mi giro lentamente e un energumeno avvolto da una giacca da football entra nel mio campo visivo. Il ragazzo si passa una mano tra i capelli castani, strategicamente spettinati, e mi lancia un'occhiata allusiva con gli occhi color erba. La giacca della squadra gli fascia le spalle enormi e lo fa sembrare più grosso di quanto non sia già. Stira le lunghe gambe verso di me e inclina la testa «Sono Raymond Maxwell» si passa la lingua sui denti perfetti «Ma tu puoi chiamarmi Ray, dolcezza» si inclina verso di me e l'odore di cane bagnato si intensifica «E tu chi sei splendore?».
I suoi modi da dongiovanni mi fanno ridere, vorrei dirgli che i tipi come lui me li mangio a colazione ma questa sua pagliacciata mi sta divertendo da morire.
«Davvero non sai chi sono io?» chiedo avvicinando la mia faccia alla sua. Ray si muove impercettibilmente in avanti, il suo battito cardiaco aumenta e l'odore di cane si mischia all'odore di sudore. «Un po' mi deludi, Raymond Maxwell».
Non avendo più la situazione in pugno, la sicurezza di Ray vacilla e l'aria da tipaccio spavaldo si opacizza. «Beh, certo che lo so. Sei la ragazza nuova».
Patetico. «Ah, sì? E qual è il mio nome?».
Vedo il vuoto nei suoi occhi. «Ecco...».
«Eveline. Si chiama Eveline. Ora che il tuo patetico tentativo di approccio si è dissolto perché non ti alzi, Maxwell, quella è la mia sedia» la voce infastidita di Nate rimbomba alle spalle di Ray. L'energumeno si gira con rabbia e fulmina Nathan con lo sguardo. «Cosa ti fa pensare che questa sia la tua sedia, Rover?».
Nate ringhia, letteralmente. «Forse perché io so il suo nome e perché lei di sicuro non vuole sedere di fianco ad un imbecille».
Ray si alza e sovrasta Nathan di almeno dieci centimetri in altezza e di venti in larghezza. «E cosa ti fa pensare che lei voglia sedere con una mezzasega senza branco come te?».
L'odore che emanano mi fa venire fame. È come se sapessi che dalla lotta uno dei due rimarrebbe ferito e indifeso e io potessi approfittarne. È una sensazione sgradevole.
Gli occhi di Nate passano dal marrone caldo e dolce, al giallo freddo e rabbioso nel giro di un secondo. I due cominciano a ringhiare come due lupi affamati e la classe intera si zittisce in attesa della rissa.
«Smettetela subito!» strepita il professor Coren dalla soglia della porta «Signor Maxwell si vada a sedere vicino al signor White». Ray prova a protestare ma il professore gli lancia un'occhiataccia che lo fa ubbidire. «Signor Rover si sieda vicino alla signorina Morgan ed eviti di creare guai. Se vi becco di nuovo pronti per una rissa, vi faccio stare in punizione per un mese». Il professore ha i capelli scuri un po' brizzolati, gli occhi nocciola gentili e un paio di occhiali scuri che gli danno l'aria di uno che sa ogni cosa. 
Nate si siede sulla sedia accanto alla mia e tira fuori il suo libro. Il suo odore è molto diverso rispetto a quello di Raymond. Sa di bosco e di qualcosa di speziato. Stranamente, mi piace un sacco.
Il professore Coren appoggia le sue cose sulla cattedra e si presenta alla classe. «Sono il professor Isaia Coren e sono qui per insegnarvi la biologia di tutte le creature sovrannaturali che abitano o hanno abitato questa terra» si sistema la camicia bianca «Le regole della scuola valgono anche nella mia aula. Parlate solo se interpellati, non disturbate e non usate le vostre abilità durante le mie ore. Il vostro compagno di banco sarà anche il vostro compagno nei progetti di studio, quindi spero abbiate scelto con cura». Oh, diamine. Non l'ho scelto io il mio compagno, posso cambiare?
«Niente cambi e niente scambi. Le decisioni che prendete nella vita spesso sono definitive, quindi dovete fare i conti con le conseguenze». La veridicità in questa frase mi colpisce in faccia. È proprio vero che una decisione possa cambiarti completamente la vita, io ne sono la prova vivente. Beh, più o meno vivente. 


L'ora del professor Coren passa veloce come mi aveva detto Leo. La materia è incredibilmente interessante e lui è molto bravo a spiegare. Nathan si distrae per tutto il tempo. Tamburella con la penna, mordicchia la matita e sbatacchia il piede contro la gamba del tavolo. Tutti i suoni che produce mi fanno impazzire e mi distraggono dalla lezione. Vorrei incollargli le mani al banco, oppure dargli un bel pugno in faccia, qualsiasi cosa lo faccia smettere.
L'ora successiva di matematica scorre rapida e Leo mi tiene molta più compagnia di Nate. La professoressa Ruben è una fata del fuoco davvero bellissima. Ha i capelli color borgogna, gli occhi quasi arancioni e delle enormi e luminose ali rosse. Ogni volta che le muove mi sembra di sentire lo scoppiettio di un falò.
Leo mi accompagna a storia dell'occulto e mi abbandona di nuovo. Questa volta entro in classe senza pensarci due volte e cerco di nuovo un banco libero. Appoggio lo zaino sulla sedia per evitare che qualcuno ripeta la scenetta di due ore prima. Evidentemente, la mia tattica non funziona, perché Nate lo tira su, lo butta a terra e si stravacca sulla sedia come se nulla fosse.
«Accomodati pure» borbotto sarcastica.
«Già fatto, tesoro, grazie» ribatte con un sorrisino.
Sistemo lo zaino che lui ha maltrattato. «Non sembra di averti invitato a sederti».
«Infatti non lo hai fatto».
«Allora perché ti sei seduto qui?». Non lo voglio di nuovo vicino, fa troppi rumori che mi infastidiscono.
«Perché mi andava» ribatte piatto, alzando le spalle.
«Senti, non c'è bisogno che ti siedi qui perché ti senti in qualche modo costretto. Noi non ci piacciamo e va bene così, perciò perché non cambi sedia?». Spero di essere stata abbastanza chiara, non lo voglio qui, soprattutto se lo fa per carità.
Appoggia una mano sullo schienale della mia sedia e una sul banco davanti al mio petto. Si china in avanti, sovrastandomi con il suo corpo, di punto in bianco stranamente imponente. «Ascoltami attentamente, tesoro». Il suo profumo muschiato mi avvolge e l'odore di menta che arriva dalla sua cicca mi fa concentrare sulla sua bocca. «Non mi siedo qui perché mi fai pena o per chissà quale altra ragione». È così vicino che un ciuffo ribelle dei suoi capelli mi sfiora la fronte. «Leo è il mio migliore amico, mi ha chiesto di farti compagnia e così sto facendo. Quando ti troverai nuovi amici e capirai che noi non facciamo per te, sparirò, promesso». Si fa più vicino e il mio organismo si infiamma. La sensazione che percepisco quando un bel ragazzo si avvicina viene moltiplicata per cento. Ma il problema è che non so se il mio corpo fa così perché Nate è oggettivamente attraente o perché il mostro vorrebbe mangiarlo. «Però fino a quel momento dovrai sopportarmi». Un brivido mi attraversa e meccanicamente mi sporgo in avanti verso le sue labbra. Nathan nota il movimento e si mette a ridacchiare ritornando verso la sua parte di banco. Gongola del fatto che ero pronta a baciarlo. Non credo però che sarebbe contento di sapere che una parte di me si è fatta avanti per mordere, non per baciare.
La professoressa entra in aula sbattendo la porta e chiudendo contemporaneamente tutte le finestre. La classe cala nel buio più totale e alcune ragazze si lasciano scappare degli squittii spaventati. Personalmente l'oscurità non mi spaventa, i miei occhi da mostro vedono benissimo al buio. La professoressa muove le mani a scatti e un proiettore sgangherato cigola fino al centro della stanza e un telo bianco si srotola contro la lavagna. Sono sbucati completamente dal nulla, prima dell'arrivo della professoressa non c'erano.
La donna muove di nuovo le mani e il proiettore si accende con uno strano scoppiettio. La luce giallognola illumina il corridoio tra i banchi e la lavagna davanti alla quale si è posizionata lei. Quando viene irradiata dalla luce capisco che forse era meglio se rimanevamo al buio. La professoressa Wright è proprio orrenda. Ha i capelli bianchi e pagliosi legati alla base della nuca in uno chignon, gli occhi marroni, freddi e aggressivi circondati da un ventaglio di rughe. Ha un vestito verde e pesante sovrastato da una mantella più scura. Mi sorprende non vederle indossare uno strano capello a punta. Sembra la versione femminile di Kester.
«Questo è il corso di storia dell'occulto» la sua voce sembra il suono delle unghie contro la lavagna «Io sono la professoressa Wright e sono qui per condividere con voi il mio immenso sapere. Se non vi interessa potete andarvene, se avente intenzione di dormire sulla sedia potete andarvene». Si muove per la stanza, rigida e con le mani sui fianchi. «Se pensate di essere obbligati a restare vi sbagliate di grosso». I suoi occhi glaciali mi si inchiodano addosso e lei mi si pianta davanti. «Se pensate di essere minimamente speciali e che per voi le regole non valgono, avete proprio sbagliato a capire». Mi guarda con disprezzo arricciando il naso. So che sta fissando me, il banco dietro è vuoto. «Qui dovrete faticare come tutti, nessuno escluso». Se crede di intimidirmi ha sbagliato a capire. Non è la prima volta che qualcuno mi guarda in quel modo e non sarà di certo l'ultima. Mi lancia un'ultima occhiataccia di disdegno e finalmente torna alla cattedra. Batte le mani due volte e sui nostri banchi appare un volume pesante e polveroso. «Questo è il testo che dovrete studiare come se fosse sacro, assimilate ciò che vi insegno e potrete dire di sapere veramente qualcosa di importante». Fa ondeggiare le dita della mano destra e il proiettore mostra la prima immagine. «Come avrete capito, io non disdegno l'utilizzo delle abilità durante le ore di lezione. Sentitevi liberi di usare ciò che il mondo vi ha donato, non nascondete le vostre capacità, almeno non qui». La classe borbotta eccitata. «Bene. Aprite il libro a pagina otto e cominciamo».  
 
La lezione è lunga, pesante e satura di argomenti di cui non ho mai sentito parlare. Dovrei alzare la mano e chiedere dei chiarimenti, ma ogni volta che mi muovo la professoressa mi guarda disgustata. Quindi fingo di capire e resto in silenzio. Al suono della campanella mi alzo velocemente e raduno le mie cose. Quando faccio per andarmene la strega mi chiama. «Morgan. Signorina Morgan». Mi fermo in mezzo alla classe e lentamente mi giro. La donna mi fa segno di avvicinarmi muovendo l'indice. «Venga qui». La raggiungo lentamente e tenendomi ad una certa distanza. La professoressa si alza, gira intorno alla cattedra e mi sovrasta con la sua figura snella e slanciata. «Mi sembrava alquanto distratta durante la lezione, signorina Morgan. Come ho detto all'inizio, i fannulloni non sono bene accetti nella mia classe».
Stringo le mani intorno al libro per evitare di mettergliele addosso. «Ero molto attenta, signora, ma non avendo mai trattato questi argomenti mi sono trovata un po' spaesata in alcuni punti».
Schiocca la lingua e sbuffa spazientita. «E di chi è la colpa?».
Sospetto vivamente che sia mia, ma non ho intenzione di darle questa soddisfazione.
Lei prende il mio silenzio come un'ammissione di colpa. «Senta, signorina Morgan, quando la preside ha deciso di ammetterla all'accademia non ha chiesto minimamente il nostro parere e questa cosa non mi va affatto giù». Giocherella con gli anelli e mi fissa dritta negli occhi. «Non credo che farla venire qui sia stata un'idea intelligente. È una bestia pericolosa, aggressiva e senza umanità che porterà solo guai, così come hanno fatto i suoi predecessori». Stringo i denti con forza e i canini mi graffiano le gengive. «Non mi interessa cosa dice la preside, molto presto capirà che questo non è il luogo adatto a lei e andrà tra la sua sporca gente». La mia gente? Cosa diavolo significa? La professoressa interpreta la mia espressione confusa. «Non lo sa. Ovviamente non lo sa, la preside non glielo avrà detto per paura di farla scappare a gambe levate. Sono contenta che viva nell'ignoranza e quello che si merita». Stringo così forte il libro che inizia a scricchiolare. Mi osserva inclinando la testa come se si aspettasse di vedere saltare fuori la bestia. Mi dispiace, non le darò questo piacere.
Sbuffa delusa. «In ogni caso, finché resterà qui, esigo che stia attenta durante le mie lezione». Schiocca le dita e dei tomi compaiono sul tavolo «Legga questi per la prossima lezione, così potrà mettersi almeno un po' in pari». Mi scaccia come se fossi una mosca. «Ora vada via, la sua presenza mi sta infastidendo».
Esco dalla classe praticamente volando e mi chiudo la porta alle spalle con un botto. Lancio i suoi stupidi tomi contro il muro, insieme allo zaino e a tutto il suo contenuto. Un ringhio di frustrazione mi nasce dalla base della gola e si irradia per il corridoio. La parete contro cui ho lanciato le mie cose si crepa e l'intonaco si stacca.
Che giornata infernale.
«Evie?» la voce di Leo vacilla «Stai bene? Cosa voleva?». Mi giro e lui e Nate mi fissano confusi e preoccupati. Bene, ho appena fatto la pazza davanti agli unici amici che mi sono fatta.
Leo si avvicina, si china e raccoglie i libri che ho scaraventato al suolo. «La Wright sa essere un osso duro alcune volte, ma è una donna brillante e molto colta». Non mi è sembrata molto colta mentre mi dava della bestia. «Qualsiasi cosa ti abbia detto sono sicuro che non fosse stimolato dalla cattiveria».
Nate sbuffa. «Sei troppo gentile con le persone, Leo. Non sempre sono quello che sembrano». Il suo sguardo stranamente comprensivo mi sorprende. Che abbia sentito? Ma come? Probabilmente i lupi mannari hanno un super udito, come il mio.
Leo è gentile perché lui è solo un umano e cerca sempre di vedere il buono nelle persone.
«Stai bene?» mi domanda dolcemente mentre cerca di radunare le mie cose.
«Alla grande» mento «Andate in classe, non voglio che facciate tardi».
«Non se ne parla» ribatte Leo.
«Leo vai in classe» si intromette Nate «Se fai tardi ad un corso finisci nei guai e tu non ci finisci mai. La aiuto io, tanto abbiamo un'altra lezione insieme». Si china anche lui sul pavimento e comincia a raccogliere dei fogli. Gli dà un colpetto sulla spalla «Vai, tranquillo».
Leo mi guarda in attesa di una risposta e io annuisco d'accordo. Non voglio che faccia tardi. «Va bene» acconsente «Ci vediamo a pranzo».
Si allontana lasciandoci in ginocchio sul pavimento di marmo e completamente soli.
«Mi dispiace» borbotta infilando i fogli nel mio zaino «Per quello che ha detto».
«Hai sentito» esalo.
«Era difficile da ignorare, il rumore dei tuoi denti che scricchiolavano dalla rabbia ha attirato la mia attenzione» mormora.
Raccolgo i tomi e mi alzo insieme a Nate. «Non importa».
Ci dirigiamo verso l'aula a passo svelto. «Dovrebbe invece».
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Pity Party ***


Chapter 4
 
Nate ed io entriamo in classe di chimica della magia leggermente in ritardo beccandoci un richiamo verbale. La professoressa Brooks sembra uscita da una pubblicità di qualche parco dei divertimenti. Ha i capelli blu, corti e riccioli, Gli occhi neri circondati da delle lunghissime ciglia verdi e indossa un camice bianco, che le fascia le curve alla perfezione. Se non fossi circondata da bestie ed esseri sovrannaturali molto probabilmente mi metterei anche a ridere, ma lei sembra perfettamente a suo agio ed esattamente nel suo ambiente. Ci assegna l'ultimo banco rimasto in prima fila e naturalmente ci mette in coppia insieme per il laboratorio.
«Come stavo dicendo prima di essere interrotta, io sono la professoressa Ivory Brooks e vi insegnerò a creare e utilizzare rimedi magici e pozioni di ogni tipo». Fisso le provette che ho davanti con aria confusa. La chimica che facevo al liceo ora mi sembra inutile. «L'utilizzo delle pozioni e degli incantesimi base è un'ottima arma per ogni essere, anche per chi non è una strega o un mago. Le nostre lezioni sono strettamente legate a quelle di Botanica e piante magiche. Tutti sapete che i corsi pomeridiani cominceranno la settimana prossima, così da avere il tempo di preparare le basi per poter collegare i due corsi». Batte le mani allegra. «Bene, ora cominceremo con qualche nozione di base».
Chimica della magia è molto più rilassante e meno incomprensibile di storia dell'occulto. La professoressa è più dolce e paziente e alla fine la materia è molto più simile alla chimica degli umani di quanto pensassi.
Nathan ed io ci dirigiamo verso la sala da pranzo in un religioso silenzio. Dopo il suo commento molto comprensivo ed empatico, ha smesso di parlarmi e di calcolarmi. Sembra completamente nel suo mondo e forse è meglio così, è dalla colazione che non mi lancia una frecciatina o un insulto.
Ci sediamo al nostro tavolo e ai lati di Leo.
«Come ti è sembrata la mattinata?» mi domanda frizzante.
Come mi è sembrata? La mia vita è un casino, sono bloccata in questo posto e non sembro essere la benvenuta e non capisco nulla di quello che i professori spiegano. «È andata bene» mormoro.
Lui sorride «Il primo giorno è duro per tutti, tra una settimana ti sembrerà tutto molto meno pesante».
Sto perdendo la mia bravura nel mentire. «È così evidente?».
«Hai l'aria di chi sta combattendo una battaglia interiore».
Oh, non ne hai idea. «Ho solo fame». Sì, questa non è una bugia.
Leo smette di farmi domande e si gira verso Nate. «Dicono che hai quasi fatto a botte con Maxwell stamattina per sederti vicino a Evie».
Lui sbuffa dal naso mentre mastica la pasta. «Lei non c'entra nulla» ribatte brusco «Lui faceva lo stronzo e sai quanto mi dà fastidio la sua faccia. Comunque, non ci siamo nemmeno sfiorati, solo qualche ringhio».
Leo scuote la testa scettico. «Per i corridoi dicono che vi siete battuti per stare con lei e che tu hai vinto».
«La gente dice un sacco di cazzate, Leo, dovresti saperlo. E poi perché mai mi sarei dovuto battere per lei?».
Il modo in cui pronuncia lei, come se fossi uno scarafaggio, mi fa arrabbiare e riapre una ferita fresca.
Una bestia pericolosa, aggressiva e senza umanità che porterà solo guai.
È tutto quello che ho sempre sospettato. Tutto quello che i miei genitori si sono sussurrati mentre pensavano che dormissi. È quello che sono, perché cercare di cambiare la realtà.
Quando il cameriere mi dà la mia borraccia piena di sangue, mi alzo e punto all'uscita della mensa.
«Evie?» mi chiama Leo «Dove vai? Eveline?».
Fingo di non sentire. Fingo che non importi. E me ne vado. Salgo di corsa fino alla mia stanza e mi ci chiudo dentro, sperando che la porta di legno lasci fuori le voci.


Resto sdraiata sul pavimento per diverse ore. Resto immobile e senza respirare, tanto non ne ho bisogno. Fisso la crepa sul soffitto e conto. Conto i secondi che riesco a far scorrere senza respirare, verso i duemila smetto di contare e chiudo gli occhi.
Verso le quattro mi rendo conto che ho una punizione da scontare e che sono anche un po' in ritardo. Scendo di corsa le scale e raggiungo il giardino dell'accademia. Cammino nell'erba, contro il vento freddo e verso il gruppo di ragazzi che si è radunato intorno al professor Coren. Lui alza la voce per sovrastare il soffiare del vento. «Oggi ci occupiamo del confine tra il nostro prato e il bosco. Se non lo sistemiamo regolarmente il bosco finirà per arrivare fino agli edifici. Vi dividerete a coppie e vi occuperete di una zona da sistemare, taglierete i rami secchi e strapperete le erbacce. Formate le coppie».
Resto ferma infondo al gruppo, se sono fortuna e siamo dispari riuscirò a stare sola.
Preferisco stare per conto mio.
Quando ognuno ha il suo compagno e si sta dirigendo verso una zona da bonificare, il professor Coren mi affianca. «Signorina Morgan, giusto?». Annuisco e afferro i guanti rovinati che mi sta porgendo. «Lei sistemerà le erbacce selvatiche insieme al signor Rover».
Mi irrigidisco e trattengo a stento un'imprecazione. Mi ero scordata di Nathan.
Mi rendo conto che è molto vicino quando il suo profumo viene trasportato dal vento verso di me. Odio terribilmente che al mio corpo piaccia.
Nate mi spunta vicino, afferra i guanti da lavoro e senza dire una parola si dirige verso una zona del bosco che sfiora il prato perfetto dell'accademia. Sbuffo sonoramente e lo seguo maledicendo la mia testardaggine.
Si accuccia vicino ad un albero secco, proprio come aveva fatto in corridoio, e comincia a strappare l'erba selvatica. Scivolo al suolo senza opporre resistenza, spero di farmi male ma l'unica cosa che sento è la solidità della terra contro i miei muscoli.
Delle risatine idiote attirano la mia attenzione. Due ragazze ridacchiano poco distanti da noi e ci fissano con insistenza. L'occhiataccia che gli regalo le fa smettere di ridere.
Mi metto a strappare l'erba con forza e velocità, voglio finire il prima possibile. Nathan fa lo stesso dalla sua parte dell'albero e ogni tanto mi osserva attraverso il ciuffo biondo.
Questa punizione è ridicola. Questo stupido posto è ridicolo. Voglio andarmene. Voglio che le cose cambino. Voglio...Cosa voglio?
«Evie». La voce di Nate mi arriva da molto lontano. «Così fai solo danni».
C'è qualcosa che non va, lo sento nell'aria e lo percepisco contro la pelle. È una sensazione sgradevole. Un presentimento che mi annuncia una catastrofe. Come se percepissi l'arrivo di uno tsunami, ma questo non è uno tsunami, è qualcosa di completamente diverso. Il vento soffia forte contro di noi. Troppo forte.
La sua mano bollente mi afferra il braccio gelido «Eveline».
Sobbalzo rientrando nella realtà e mi scontro con lo sguardo preoccupato di Nate. Dove la nostra pelle entra in contatto sento uno strano bruciore. Non provoca dolore. È come se le nostre cellule fossero entrate in contatto per la prima volta e stessero impazzendo. Il pizzicore mi risale il braccio come un serpente fino ad arrivare al petto. Una sensazione calda e rassicurante mi riempie il cuore facendomi tremare.
Nathan fissa il punto in cui la sua mano tocca il mio braccio sperduto come non mai. Sembra confuso e allo stesso tempo davanti alla realizzazione della sua vita. Vorrei che mi spiegasse ma quando mi guarda l’intensità nei suoi occhi mi fa allontanare con uno scatto. 
La sensazione si dissolve ma il vigore nel suo sguardo non sparisce. «Scusa» esala, facendosi ancora più distante.
Vorrei fermarlo e chiedere delle spiegazioni, ma sono troppo occupata ad origliare un'altra conversazione. Le due ragazze che prima ridacchiavano, bisbigliano e parlottano a voce bassissima. Se non avessi il super udito probabilmente non mi renderei nemmeno conto che sono circondata da altre persone, tanto il vento soffia forte. Ma quando percepisco le loro voci mi rendo conto che c'è una ragione a tutto questo vento: loro.
Le due streghe stanno facendo qualche sorta di incantesimo e lo stanno facendo a causa della presenza di Nate. Le loro voci mi risuonano nella scatola cranica come se avessero usato un megafono. «Ora vedrai che scena epica» sussurra una delle due «Dicono che quando si arrabbia cambia forma completamente».
«Muoviti con questo incantesimo, ci vuole più potenza se vuoi sradicare l'albero» le squittisce contro l'altra «Non vorrai far arrabbiare Natalie?».
A quella minaccia, la prima strega aumenta l'energia e la forza, il suo battito cardiaco aumenta con la stessa irruenza del vento. L'enorme albero sotto cui siamo accucciati scricchiola pericolosamente. I fogli nelle mani del professore si librano nell'aria e i guanti abbandonati nell'erba rotolano via. Branchi di nuvole si condensano sopra il bosco e nel cielo esplode un tuono assordante.
«Cosa...?» la voce di Nate sovrasta il vento.
La sensazione di una catastrofe imminente ricompare e questa volta è più intensa di prima. So che cosa succederà, devo solo impedire che accada.
Il secondo lampo colpisce in pieno il grosso albero e, prima che se ne renda conto, colpisco con forza il petto di Nate per allontanarlo e finisco nella traiettoria dell'arbusto sradicato. Copro istintivamente la testa e chiudo gli occhi. Il dolore è intenso e lancinante, ma è anche alquanto piacevole. Provare male mi ricorda che in qualche modo sono ancora viva, che posso ancora sentire. Non importa come, qualsiasi sensazione eviti la totale apatia è ben accetta.
L'enorme arbusto viene sbalzato via da una forza estranea e il mio corpo viene raccolto da terra. «Evie?» la voce di Nate è preoccupata e ansiosa. Le sue braccia mi stringono la schiena e le sue dita mi sfiorano la testa. È molto piacevole, molto più piacevole del dolore.
«Signorina Morgan, mi sente?» la voce del professor Coren mi riscuote. 
Apri gli occhi, Evie.
Non morirai oggi, non se io sono qui con te.

La voce che mi rimbomba in testa non è la mia, è famigliare ma non mi appartiene. È come un ricordo sbiadito di una vita passata. Cerco di ricordare, ma proprio non riesco a collocarlo.
Apri gli occhi, Eveline, ora.
Dischiudo le palpebre e la luce fioca mi infastidisce le iridi. La prima cosa che vedo sono gli occhi castani e preoccupati di Nate che mi fissano. Quando vede che sono sveglia e viva, si lascia scappare un sospiro di sollievo. È leggero e quasi impercettibile, ma io lo noto lo stesso. 
«Stai bene?» domanda. Ha una macchia di sangue sulla camicia, proprio vicino al colletto della divisa. 
«È la domanda più stupida del pianeta. Mi è appena caduto un albero enorme sulla testa, direi che benissimo non sto» mormoro infastidita.
Il professor Coren si sporge da dietro la spalla di Nathan. «Direi che il sarcasmo è rimasto completamente intatto» ridacchia «Signor Rover le dispiace accompagnare la signorina Morgan in infermeria, io devo scambiare due parole con la signorina Hill e la signorina Harrison» mormora lanciando un'occhiata di rimprovero verso le due streghe. Loro impallidiscono.
«Certo, professore» assicura Nate. Si alza di slancio e mi tiene stretta tra le braccia come se fossi una sposa o una principessa. Il cielo è tornato tranquillo e grigio come prima e gli studenti che si sono radunati intorno alla scena, ci guardano mentre ci dirigiamo verso la scuola.
 
 
«Perché lo hai fatto?» mi domanda Nate appoggiato al bordo del letto dell'infermeria con le braccia strette contro il petto muscoloso. Dopo avermi depositata sul lettino di carta con delicatezza si è subito posto ad una certa distanza. Mi fissa come un gufo imbronciato. «Perché mi hai spinto via?».
«Un grazie basterebbe» ribatto tamponando il taglio sulla fronte con un po’ di cotone.
«Grazie» mormora con forza «Ora dimmi il perché».
Sbuffo. «Non c'è nessun perché, ora smettila». Dove diavolo è finita l'infermiera?
Nate si avvicina lentamente, osservandomi con insistenza. «Chiunque si sarebbe fatto da parte, tu invece mi hai spinto via e ti sei presa il colpo».
«Senti» non ho la forza mentale per spiegargli i miei ragionamenti «Ho capito cosa stesse succedendo e ti ho tolto di mezzo, tutto qui. Dimenticalo».
«Non lo farò» sospira.
Prima che possa ribattere, l'infermiera entra nella stanza con un fascicolo con sopra il mio nome «Allora, Eveline Ruby Morgan. Diciassette anni, femmina, specialità...oh!» alza lo sguardo dal fascicolo e mi fissa impressionata «Non ho mai avuto nessuno come te, Eveline, quindi mi scuso per la mia ignoranza in merito alle tue capacità».
«Non importa» borbotto a disagio.
«Sono l'infermiera, Darleen» I suoi occhi viola mi ispezionano con cura «Hai preso una bella botta, caspita e pensare che le sessioni di lotta non sono ancora iniziate».
«Sessioni di lotta?».
Nate annuisce. «È una delle attività pomeridiane che comincia la prossima settimana. Li si combatte e si impara a difendersi».
«Barbarico» squittisce Darleen agitando le trecce grigie «Una lezione futile e disumana». Si allunga verso un carrellino di metallo e se lo tira vicino. Sopra ad esso sono depositati una serie di strumenti chirurgici e di liquidi colorati. «Allora cara, forse devo metterti dei punti sulla fronte. I lividi guariranno da soli e i graffi vanno disinfettati. Molto probabilmente hai il braccio rotto. Con cosa hai lottato?».
«Un albero molto grande» ribatto e alzo la mano quando afferra ago e filo «I punti non servono, le ferite si chiudono da sole. Cucirle fa solo fissare la cicatrice».
Lei li riappoggia sul carrellino. «Oh, certo, ne sai più tu di me sull'argomento. Di cosa hai bisogno per guarire?».
Merda. Come glielo dico senza che Nate lo senta? «Può chiedere in mensa, loro sanno cosa portarmi. Chieda di Harris» sussurro.
Lei annuisce con forza. «Vado subito. Nate, caro, tu disinfettale i tagli, sai come fare».
Darleen sparisce oltre la porta e Nathan si avvicina, prende un cotoncino e lo inzuppa di disinfettante. Con delicatezza, mi tampona i tagli e i graffi sul viso e sul collo. È la prima volta che mi sta così vicino di sua spontanea volontà. Con la mano sinistra mi inclina la testa secondo l'angolazione che gli è più comoda, mentre con la mano destra mi pulisce le ferite. Da vicino è anche più bello che da lontano. Gli occhi che mi erano sembrati neri, sono di un caldissimo color cioccolato e sul naso ha una spruzzata di lentiggini. Sul labbro inferiore ha una piccola cicatrice bianca che ha l'aria di essere il ricordo di una scazzottata.
Il suo corpo, così vicino al mio, mi rende nervosa. Chiudo gli occhi nel tentativo di pensare a qualcos’altro, ma faccio solo peggio. Il suo odore si mescola tra noi e il battito regolare del suo cuore mi rimbomba nelle orecchie. Dovrei dirgli di allontanarsi, che se mi sta così vicino mentre sono ferita e affamata potrebbe farsi male, ma proprio non ci riesco. Mi piace la sua vicinanza. 
«Scusa se ti sto facendo male, è più facile quando mi medico da solo» mormora di punto in bianco.
Non è per il dolore che ho chiuso gli occhi. «Non importa» farfuglio.
«Quando cominciano le lotte questo posto brulica di persone malconce» spiega «Non so di chi sia stata l'idea di farci combattere fra di noi, non è mai un bello spettacolo soprattutto se uno dei due non ha forza fisica».
Mi tremano le mani, la gola brucia e ho la testa che scoppia. Sento il mostro che spinge per uscire, ha fame ed è ferito, una combinazione assolutamente letale. I canini sbucano fuori, gli occhi cambiano colore e lo stomaco borbotta con forza. Allontano Nathan con una spinta vigorosa facendolo inciampare all'indietro. Si aggrappa alla scrivania dell'infermeria per non cadere e mi guarda confuso.
Il dolore mi si propaga attraverso la pelle, nelle ossa e nella testa. Lotto contro gli istinti più micidiali, lotto con tutte le mie forze perché la bestia non esca dall'armadio.
Darleen entra nell'ambulatorio come una furia tenendo in mano una grossa sacca di sangue. L'odore mi fa perdere completamente la testa. Gliele strappo di mano con forza e ci affondo i denti senza pensare. Lascio che il liquido caldo mi si riversi in gola e che il dolore che mi attraversa ogni nervo del corpo sparisca.
Ritrovo il controllo quando la sacca è vuota e il mio organismo comincia a guarire. Seduta sul pavimento di piastrelle bianche e completamente macchiata di sangue, ho paura di guardarli. Ho paura dei loro sguardi schifati. Ho paura di un ulteriore rifiuto. Lentamente alzo lo sguardo e incrocio il loro. Darleen mi osserva preoccupata, come per essere sicura che io stia bene. Nate invece sembra confuso e anche molto sorpreso. Non ha paura e questo mi dà la forza di alzarmi. Quando provo ad issarmi sulle braccia, il dolore lancinante dell'osso spezzato mi fa guaire. Entrambi si muovono prontamente per aiutarmi e riesco a tornare seduta sul lettino.
«Devo rimettere l'osso in asse per farlo guarire» mi comunica Darleen «Sei pronta?». Annuisco. «Nate, caro, aiutami a tenerla ferma». Nate mi tiene saldamente per le spalle mentre Darleen tira con forza il polso. Uno schiocco, seguito da un mio urlo e l'osso è di nuovo a posto.
Tra un'ora sarà già guarito.
«Bene, tesoro, abbiamo finito» mi accarezza i capelli «Ti consiglio di riposare. Quando starai bene e avrai voglia, vorrei farti alcune domande personali».
«Va bene» mugugno. Lei mi passa un fazzolettino umido indicandosi il mento. Devo essere tutta sporca di sangue, meraviglioso. Pulisco la bocca e tutto ciò che mi sembra appiccicoso, peccato non possa eliminare questa orribile sensazione di vulnerabilità che mi attanaglia lo stomaco.
 
Percorro il tragitto verso la mia stanza di corsa. Ignoro qualsiasi figura sfuocata entri nel mio campo visivo e punto al mio spazio personale. Mi richiudo la porta alle spalle e mi abbandono sul materasso.
Il mio segreto è andato.
Sfumato.
Sparito.
Nate ha messo in ordine i puntini e ha capito la verità. Dopo che mi ha aiutata a scendere dal lettino dell'infermeria, si è dileguato come se gli andassero a fuoco i vestiti. Quando lo dirà a Leo perderò l'unico amico che ero riuscita a farmi e mi ritroverò di nuovo sola. È una situazione a cui sto cercando di abituarmi, resterò sola per l'eternità, credo che sia questo il succo della mia maledizione. Bellezza, velocità, forza ma al prezzo di una vita spesa nella più totale solitudine. Lamentarsi non cambia la situazione, ma non mi sono cercata tutto questo, non l'ho chiesto io. Vorrei sapere chi ha deciso per me. Chi si è preso il diritto di decidere come avrei passato il resto della mia esistenza?
 
Spendo il resto del pomeriggio e della sera a crogiolarmi nell'autocommiserazione e nel mare di domande, che mi infesta la testa ormai da mesi. Mi infilo una tuta e mi raggomitolo nel letto. Chiudo gli occhi e aspetto che tutta questa ansia fluisca fuori dal mio corpo.
Un rimbombo assordante si dirama dal vetro della finestra. Salto così in alto che probabilmente sfioro il lampadario con la testa. La figura poco illuminata di Nate mi fissa mortificata da dietro il vetro. Scivolo fuori dal letto, spalanco le ante e lascio che l'aroma di bosco invada la stanza.
«Scusa» bisbiglia reggendosi contro la cornice «Non volevo spaventarti».
Lascio che scivoli all'interno e che si sieda sulla scrivania sgombra. «Cosa fai qui? Come sei arrivato?».
«Sono venuto a vedere come stavi, Leo era parecchio preoccupato. Mi ha assillato tutta la cena perché venissi a vedere se stavi bene» si sistema i capelli spettinati dal vento «Dopo le nove non ci è concesso di entrare nei dormitori delle ragazze e viceversa, così abbiamo scoperto che passando dal tetto puoi arrivare in qualsiasi stanza, ovviamente se sai dove vai». Fa un sorrisetto malizioso. «Leo non è molto atletico e per nulla sovrannaturale, così sono venuto io».
La sua figura così vicina mi rende nervosa, indietreggio e cerco un po' di spazio personale «Sto bene, ora puoi tornare in camera tua».
Sospira silenziosamente, come se si fosse aspettato una frase completamente diversa. «Sono anche venuto a portarti questo». Infila la mano nella tasca della giacca e tira fuori la borraccia nera. «Non sei venuta a cena, così ho...abbiamo chiesto al cameriere se potessimo portartelo noi. Sembra che tu ne abbia molto bisogno...».
La paura mi si riversa nello stomaco. Striscia. Mi paralizza. Nate regge una bottigliata di sangue tra le mani come se fosse del semplice caffè. Ha il mio segreto davanti al naso e non sembra minimamente schifato o spaventato.
Comprensione, vedo solo quella nel suo sguardo.
«Qualcosa non va?» chiede accigliato.
Scuoto la testa e afferro il contenitore. «No, tutto bene. Ora puoi andare». Non capisco perché non ha paura. Gli ho mostrato il mostro due volte e lui mi sta ancora a meno di un metro di distanza. O ha tendenze suicide o non ha ancora capito cosa ha davanti. In ogni caso non voglio saperlo, prima lo faccio uscire dalla mia vita, meglio è.
«Evie». Dice il mio nome in modo armonioso. «Non hai nulla di cui vergognarti».
«Pensi che mi vergogni? Davvero?». Mi scappa una risata strana. «La vergogna è l'ultimo dei sentimenti che provo in questo momento».
«Qual è il primo?».
«Paura e disgusto, un misto dei due».
Inclina la testa. «Hai paura di me?».
Stropiccio le maniche della maglietta, cercando di non perdere il controllo. «Paura di te? Oh no, credimi. L'unico che dovrebbe avere paura qui sei tu».
«Allora di cosa ti spaventa?».
Un trilione di cose. «Quello sguardo» lo indico «Quella curiosità che cerchi di celare, la voglia irrefrenabile di sapere. Forse non hai ancora capito o forse lo hai capito già da un pezzo, ma l'unica cosa che vuoi in questo momento è sapere se le tue ipotesi sono fondate e vuoi che sia io a confutarle».
Aggrotta la fronte visibilmente arrabbiato e i suoi occhi scuri brillano di un giallo radioso nella penombra della stanza. «È questo che pensi di me? Credi veramente che sia qui per giudicarti? Diavolo, Evie, sono esattamente come te! Non lo vedi?». Agli occhi gialli si uniscono delle lunghe zanne affilate, più peli di quanti qualcuno ne vorrebbe e delle aguzze unghie scure. Una persona normale indietreggerebbe davanti ad uno spettacolo simile, io invece sento l'impulso interiore di toccarlo. Allungo la mano verso il suo viso da mostro e Nate si scosta leggermente. La sensazione che provo quando mi guardo allo specchio non è la stessa che provo mentre guardo il vero viso di Nate. Lui è perfetto, lo era anche prima ma ora è come se fosse realmente lui. Non è un mostro, è semplicemente sé stesso. Bellissimo. 
«Ora lo vedi?» mormora «Siamo della stessa pasta, solo con qualche differenza». 
No, non siamo affatto uguali ma non voglio contestarlo, perciò annuisco. Lui torna il Nate senza peluria e scivola giù dal tavolo. Mi sfiora con incertezza la guancia, spostando una ciocca corvina. «Andiamo benissimo così come siamo, non hai nulla di cui vergognarti». I suoi capelli mi sfiorano la fronte mentre si avvicina. «Sei…tu sei…».
L’attrazione mi stringe le interiora e mi tira nella sua direzione. La pelle mi formicola tutta, ho lo stomaco sottosopra e, se non fossi sicura di essere morta, direi che il mio cuore sta battendo all'impazzata. Il mio sguardo viene attirato verso le sue labbra, come posseduto. Carnose, rosee e perfette. Succederebbe qualcosa di male se provassi a sentire di cosa sanno? Probabilmente lui si scanserebbe. Senza ombra di dubbio. Ma anche lui mi sta guardando e mi sta guardando affamato. Il suo battito cardiaco è accelerato, ne sono sicura, lo sento chiaramente. Però nel momento in cui prendo coraggio e mi sporgo verso di lui, qualcuno bussa alla porta. Ero così concentrata su Nathan che non l'ho sentito arrivare. Entrambi ci scostiamo rapidamente e Nate salta di nuovo fuori dalla finestra. Raggiungo la porta, dopo aver chiuso gli infissi, e la spalanco.
La preside Sheridan mi fissa radiosa e sorridente, come sempre. «Signorina Morgan» cinguetta. Non mi chiede di entrare, fa un passo in avanti e mi costringe ad indietreggiare. «Ho saputo della vicenda che è accaduta oggi durante la punizione e me ne rammarico» inclina la testa in una strana espressione dispiaciuta «È un fatto che le assicuro non si ripeterà, qui prendiamo molto seriamente il bullismo».
«Grazie, ma non c'è biso...».
«È d'obbligo invece! Il suo soggiorno qui deve essere il più piacevole possibile, quindi ho preso provvedimenti» spalanca leggermente gli occhi come se mi avesse vista veramente solo in quel momento «È andata in infermeria?». Annuisco. «Ottimo, spero si riprenda presto».
«Grazie» borbotto.
Lei sorride meccanica ed esce dalla stanza così com'è entrata.


 
Resto sdraiata sul pavimento circondata dai libri e dagli appunti. Cerco il più possibile di mettermi in pari e di approfondire la storia della mia specie. Quando mi scoppia la testa e sono stufa di ordinamenti e norme del sovrannaturale, decido che è ora di una pausa. Una doccia mi farà sentire di sicuro meglio. Raccolgo le cose che mi servono e zampetto fino al bagno delle donne. La porta è chiusa e quando provo ad abbassare la maniglia non si muove. La scuoto un paio di volte cercando di capire se è chiusa a chiave o se è semplicemente incastrata. Quando provo a tirare con più forza, la maniglia passa da color ferro a rosso acceso e diventa incandescente. Trattengo un gemito e la lascio andare di scatto. Sul palmo mi si forma una lunga bruciatura rossastra e terribilmente dolorosa. Come se non fossi già abbastanza malconcia. La maniglia torna lentamente del suo colore normale anche se non sono molto sicura di volerla toccare di nuovo. Sto per andarmene quando un piagnucolio sommesso mi attraversa la testa. Sospiri e singhiozzi mi arrivano dall'interno della stanza. Siccome adoro non farmi mai i fatti miei, afferro di nuovo la maglia ignorando il dolore lancinante e con una spallata finalmente riesco ad aprire la porta. Il trambusto interrompe il piagnucolio. Infilo la mano sotto l'acqua gelata e stringo i denti ingoiando il dolore. «C'è qualcuno?». Un respiro strozzato e un espiro agitato vengono prodotti all'interno di una delle docce centrali. Mi avvicino alla porta della doccia e aguzzo l'udito. «È tutto okay?».
La ragazza tira su con il naso e balbetta a bassa voce. «S-Sì».
Ci sono numerose ragioni per cui una ragazza si potrebbe chiudere nel bagno a piangere, non avendo voglia di indovinare vado subito al sodo. «Come mai sei chiusa qui dentro?». La risposta della ragazza è un silenzio misto ad un tenue pianto. «Non sono arrabbiata, davvero. Il tuo incantesimo, al meno credo sia un incantesimo, fa un male cane. Questa bruciatura sparirà, vero?». 
«Sei Eveline?» chiede in un sussurro.
«Sì» aggrotto la fronte. «Come lo sai?».
«Nessuno avrebbe aperto la porta, disobbedendo al regime di Natalie» mugola.
Ora è tutto più chiaro. Non si è nascosta, è stata chiusa dentro. Beh, potevo arrivarci. Nessuno l'avrebbe aiutata se non fossi arrivata io ad impicciarmi. L'empatia mi si diffonde dentro come un virus e mi fa fare domande stupide. «Come ti chiami?».
Lei tira su con il naso «Dhatri. Dhatri Kapoor».
«Perché non esci, Dhatri?».
Fa un sospiro. «Non ho nulla addosso».
Le faccio scivolare sopra la porta il mio accappatoio e il mio asciugamano. Dhatri sospira di piacere e smette di piangere. Quando è coperta apre lentamente la porta ed esce dal cubicolo della doccia. Si guarda intorno guardinga e cerca di sorridere. È più alta di me, ha la pelle color caramello, i capelli neri tagliati molto corti e due enormi e umidi occhi tra il marrone e il verde. È infreddolita e con le labbra che tendono al blu.
«Da quanto sei lì dentro?».
Si stringe nel mio accappatoio. «Che ore sono?».
«Le quattro e mezza».
Annuisce «cinque ore e mezza».
La rabbia mi risale le ossa e stuzzica il mostro. Nessuno può essere così cattivo. Vorrei mordere Natalie fino a farla dissanguare. «In quasi sei ore non sei riuscita ad asciugarti?».
Scuote la testa. «Hanno messo un incantesimo sul bagno, finché resto qui non riesco ad asciugarmi».
La rabbia monta come una meringa. Respiro con calma e cerco di non sguainare i canini. «Ti accompagno in camera, ti va?».
La scorto lungo il corridoio e fino alla porta. Prima di entrare, Dhatri mi stritola in un abbraccio da orso facendomi irrigidire. Ricambio in modo goffo e percependo ogni vena e ogni arteria sotto la sua pelle. Mi sussurra un grazie a mezza voce e poi entra in camera.   
 
 
Amo tremendamente osservare il sole che sorge lungo l'orizzonte. Il modo in cui il cielo si tinge di colore partendo dal nero più assoluto è assolutamente mozzafiato. In particolare, amo quel rosa chiaro che colora le nuvole poco prima che appaia il sole. Mi mette di ottimo umore e al contempo mi ricorda dolorosamente di Kim. Ogni volta che dormivamo insieme, lei mi faceva svegliare prima dell'alba solo per osservare il cielo. Ci sedevamo sul tetto di casa mia, lei scrutava in alto e io guardavo lei. I suoi capelli rosso fuoco mossi dal vento, il modo in cui mi sorrideva ogni volta che il sole faceva capolino tra le montagne e il modo in cui si mordeva il labbro ogni volta che ricambiavo il sorriso.
Kim.   
Il solo mi infastidisce nell'istante in cui mi colpisce il viso, socchiudo gli occhi e scivolo di nuovo nella mia stanza. Mentre indosso la mia divisa pruriginosa, un leggero trambusto attira l'attenzione del super udito. Finisco di abbottonare la camicia e spalanco la porta. Mi sporgo oltre lo stipite e sbircio in corridoio. La voce imbufalita di Natalie risale verso di me come una folata di vento tempestoso. «Come diavolo ha fatto ad uscire dal bagno!?».
Scivolo lungo le pareti e osservo la strega mentre si muove agitata e gesticola contro le sue amiche.
La coda di cavallo bionda si agita nervosa e gli occhi verdi scansionano le sue amiche con ferocia. «Come avete potuto commettere un errore simile?».
Le due ragazze, che ora riconosco come le due streghe che mi hanno tirato un albero addosso, si fanno più piccole e indietreggiano. La più minuta, quella con il caschetto biondo cenere, apre la bocca barcamenando una scusa. «La porta era sigillata da un incantesimo molto potente, nessuno avrebbe tenuto in mano la maniglia abbastanza a lungo da riuscire ad aprire la porta. Nemmeno un mannaro».   
Natalie scuote la mano rabbiosa e le ragazze saltano indietro. «Solo questo, Rosalyn? Avete messo un patetico blocco di fuoco sulla maniglia? Tamsin?».
L'altra strega, quella con la pelle color ebano e i lunghi capelli ricci, scuote rapidamente la testa. «Abbiamo anche impedito che si asciugasse, come hai detto tu».
Le luci al neon sfarfallano e un pungente odore di plastica bruciata si alza nell'aria. «Vediamo se il concetto entra finalmente in quelle vostre testoline bacate» fa un passo avanti in modo felino «Lo scopo della mia vita è fare in modo che ogni perdente capisca finalmente qual è il suo posto nel mondo. Quella sfigata è la prima della mia lista nera e se non volete finirci anche voi, andate a scoprire come diavolo ha fatto ad uscire dal bagno!». Le luci sfarfallano con più imponenza e l'odore di plastica bruciata si intensifica. «Sapete cosa succede quando mi arrabbio».
L'odore della paura delle due streghe mi arriva pungente alle narici e la pancia comincia a brontolare. Torno in camera prima che loro escano dal bagno. Finisco di indossare la divisa e scendo verso la mensa.
 
Trovo Leo ad aspettarmi al solito posto, sempre perso nei suoi pensieri. «Buongiorno» saluto affiancandolo contro la parete. Lui sobbalza e si stringe il petto. «Caspita se sei silenziosa!».
Ridacchio. «Sei tu che sei sul tuo pianeta, Leo».
«Mi hai beccato» ride arricciando il naso. «Comunque, buongiorno, hermosa». Camminiamo insieme all'interno della mensa e raggiungiamo il nostro tavolo. Quando siamo seduti, Leo si avventa sul pane imburrato come se non mangiasse da mesi. Notando la mia espressione preoccupata, cerca di sorridere e fa spallucce «Ho la fame nervosa».
«Cosa ti affligge?».
Lui spalma marmellata sopra il burro. «Ieri ho combinato un casino».
Ringrazio il cameriere che mi porge la mia borraccia di sangue. «Spiegati».
Prima che possa parlare, Nathan gli molla una pacca sonora sulla schiena e gli siede accanto. A Leo va di traverso il tramezzino e inizia tossire. «Oddio, amico, scusa» Nate gli passa il succo di frutta «Sai che non devi parlare con la bocca piena».
Smette di tossire e si pulisce la bocca sporca di marmellata. «Mi hai quasi spaccato due costole, altro che parlare con la bocca piena!».
Nata ridacchia. «Allora sei pronto per oggi pomeriggio?».
Leo sbianca e appoggia il panino sul piatto con aria afflitta. «Dovevi proprio ricordarmelo?».
«Cosa succede?» domando aspirando con forza dal beccuccio e giocherellando con dei cereali.
«Ti stavo dicendo che ieri ho fatto un casino». Annuisco. «TK Reed mi ha chiesto di aiutarlo con chimica della magia» butta fuori di colpo.
Lo osservo aspettando una spiegazione ulteriore ma lui mi fissa disperato. «Sai che sono una novellina, come mai questa cosa è così terrificante?».
Lui spalanca le braccia. «Perché io ho accettato!».
«Continuo a non capire».
Nathan gesticola addentando la mela. «TK è la cotta segreta, anche se non molto segreta, di Leo».
Annuisco. «Ora capisco. Perché hai accettato?».
Leo sbatte le mani sul tavolo «Lui se ne stava lì bello come il sole e parlava e io non stavo ascoltando nulla di quello che stava dicendo. Alla fine, mi ha detto: accetti?» si infila le dita tra i capelli spettinati «E se una ragazzo così ti fa una proposta tu non puoi non accettare!».
Nate annuisce. «Sono d'accordo, anche se non è affatto il mio tipo».
«Aspetta, se non lo stavi ascoltando come sai che gli devi dare ripetizioni?».
«Quando ho accettato, ha sorriso e ha detto che ci vedevamo oggi pomeriggio per cominciare le ripetizioni» spiega. «Ora cosa faccio?».
Inclino il sopracciglio. «Gli dai ripetizioni magari?».
Mi afferra il braccio e mi scuote. «Non posso! Proprio non posso!».
Respingo l'istinto di strattonare il braccio. «Perché no? Sei un genio in certe cose, di sicuro nei sai più di tutti noi messi insieme».
Mi scuote con più energia «Per te sembra una sciocchezza perché sei uno schianto e non ti agiti davanti alle persone belle. Lui è oltre la mia portata, è stupendo e ogni volta che lo guardo mi va in pappa il cervello».
Filo il braccio prima che mi scappi un morso. «Dagli buca».
Lui sospira. «Non dai buca all’uomo della tua vita».
Nathan trattiene il fiato. «Non ci credo». Lo scrutiamo e il suo sguardo è fisso oltre le nostre spalle. Ci giriamo verso l'entrata della mensa. Sulla soglia Dhatri fissa terrorizzata la mensa e la mensa fissa senza fiato lei.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** So this is the truth? ***


Chapter 5 
 
Il silenzio calato sulla mensa è del tutto innaturale. Il corpo studentesco fissa Dhatri come se avesse in testa un alieno verde e ballerino.
«Perché la fissano tutti?» domando a bassa voce ai ragazzi.
Leo si avvicina al mio orecchio, facendomi il solletico. «Quella è Dhatri Kapoor, non viene in mensa a mangiare da quasi un anno».
Nate sbuffa dal naso. «Per colpa di Natalie, naturalmente. Dopo l'incidente la preside le ha dato il permesso di pranzare nella sua stanza o in cucina».
«Quale incidente?».
Leo ammorbidisce il viso in un'espressione triste. «Un anno fa più o meno, Natalie era nel suo periodo più sadico e la sua vittima preferita, come sempre, era Dhatri. Durante un pranzo, nessuno sa come ma il suo tavolo è andato a fuoco e lei con esso. Ci sono voluti tre stregoni potentissimi per spegnere le fiamme che l'avvolgevano».
Trattengo il fiato e una secchiata di dolore e comprensione mi si riversa nell'addome. Ne so qualcosa di fuoco ed ustioni. Una volta mi sono avvicinata alla finestra senza la collana di Kim e il sole mi ha bruciata con così tanta intensità che ci è voluto più di un mese a far passere le bruciature. Le cicatrici sono svanite così lentamente che avevo paura che non sarebbero mai passate. Il dolore da bruciature da luce solare è nulla in confronto a qualsiasi dolore abbia mai provato.
Nate mi guarda con gli occhi pieni di rabbia nera. «L'infermiera Darleen ci ha messo due mesi ha curarla. Nonostante le magie e le pozioni che hanno usato, ha ancora molte cicatrici terribili sul corpo».
Il mondo fa schifo. Non importa se umano o sovrannaturale, le persone fanno pena in ogni caso. «Hanno preso la colpevole?».
Leo scuote la testa. «Non c'erano prove contro Natalie, ma tutta la scuola sa che è stata lei».
«Siccome hanno tutti paura, nessuno si è più avvicinato a Dhatri da allora e lei si è tenuta a distanza da tutti» spiega Nate.
Il dolore e la comprensione mi riempiono. Sento il bisogno di giustizia, per lei e per ogni vittima di Natalie. Voglio che la strega riceva una bella lezione e voglio cominciare da subito. Alzo il culo dalla sedia e, davanti ad una folla di codardi, raggiungo Dhatri. Sfoggio il sorriso migliore e le porgo la mano. «Vuoi sederti con me?».
Lei è titubante e guardinga. Ha paura e lo capisco, ne avrei anch'io. «Ti assicuro che non mordo e che non sto con loro». Beh, forse sul mordere sto dicendo una bugia ma non importa.
Dhatri fissa Natalie seduta dall'altro lato della stanza e il suo odore impaurito si intensifica. Se è venuta fin qui ci sarà una ragione e sono sicura di essere io. «Non le permetterò di farti nulla, è una promessa».
Dhatri finalmente mi guarda e afferra la mano che le sto porgendo. Insieme raggiungiamo il tavolo e ci sediamo insieme ai ragazzi. Il puzzo di plastica bruciata mi raggiunge come una nuvola tossica e da lì capisco che sto facendo la cosa giusta.  
«Ragazzi, lei è Dhatri» la guardo «Dhatri, loro sono Nate e Leo. Ora che ci penso, però, dovreste già conoscervi, sono io quella nuova qui».
Loro ridacchiano e Dhatri accenna ad un sorriso.



A colazione conclusa ci dirigiamo verso le nostre aule. Con mio grande sconforto, la prima lezione della giornata è storia dell'occulto. La professoressa Wright mi odia, mi disprezza e preferirebbe di gran lunga che non ci fossi. I tre tomi che mi ha dato da leggere erano così noiosi che non sono riuscita a finirli. Se mi farà qualche domanda probabilmente improvviserò come sempre, sperando di non ricevere una ramanzina davanti a tutta la classe.
Dhatri ci segue verso la classe e scopro con piacere che segue molte delle mie lezioni. Nathan le cede il posto accanto al mio e si siede dietro di noi. Il gesto la fa arrossire fino alle orecchie e mi ricorda che lui sotto la spavalderia nasconde un cuore buono. Quando lo guardo mi ricordo del gesto della sera precedente e lo stormo di pipistrelli che ho nell'addome si agita senza sosta.
La porta sbatte facendo scoppiare il palloncino pieno delle mie fantasie. La professoressa avanza più brutta di quanto mi ricordassi e con un abito ancora più lungo e impolverato del giorno prima. Si siede alla cattedra e punta i suoi occhi assassini verso di me. «Signorina Morgan». Oh, diamine. «Spero si sia messa in pari con il programma come le avevo assegnato».
Okay, stai calma, menti. «Sì». Risposta molto articolata, Evie, complimenti. 
Arriccia il naso. «Allora sono sicura potrà spiegarci le ragioni umanitarie alla base delle rivolte elfiche del '52».
Elfi, sì. Sono sicura di aver letto qualcosa a proposito di una rivolta. Ma le ragioni? Non c'erano ragioni.
«La rivolta è stata capeggiata da Baldric Horton e si svolse davanti al parlamento sovrannaturale di Londra e...».
Agita la mano scacciando una mosca immaginaria. «Sappiamo tutti la storia, la domanda che le ho fatto è completamente diversa».
Perché ho chiuso quello stupido libro proprio in mezzo al capitolo sulla rivolta elfica?
«Per quanto mi piaccia vedere annaspare uno studente mediocre, sono stufa della sua ignoranza e della suo poco rispetto verso i miei ordini» sbuffa e scribacchia su un foglietto «Un'ora in punizione la aiuterà a capire che deve seguire i compiti che le vengono assegnati». Agita le dita e il foglio mi si materializza davanti. La sua brutta calligrafia mi assegna un'ora di punizione nel pomeriggio.
Potrebbe andare peggio di così? La risposta è: naturalmente sì.
Mentre raggiungiamo la lezione successiva, Dhatri ed io subiamo un'imboscata da parte del gruppo delle streghe. Scendiamo la scala verso il primo piano e quando appoggiamo i piedi sul quinto gradino, il marmo viene sostituito da gelatina molle e scivolosa. I riflessi da vampiro mi impediscono di dare una facciata al pavimento e impediscono che Dhatri ruzzoli giù. Afferro il corrimano con così tanta forza che sento il metallo piegarsi sotto le mie dita. Spero di non aver usato la stessa forza sul braccio di Dhatri.
 Quando siamo di nuovo diritte, la aiuto a scendere gli ultimi gradini e ad appoggiare i piedi saldamente a terra. Lei si massaggia il braccio che le ho afferrato e osserva la scala di gelatina.
«Hai dei riflessi paurosi» sospira «E una presa di ferro».
«Scusa se ti ho fatto male».
Lei sorride. «Mi ha salvato da un ruzzolone imbarazzante e doloroso, non devi scusarti di nulla». 
Infilo un dito nella gelatina viola e la guardo ondeggiare. «Che razza di incantesimo è questo?».
«Trasfigurazione di materia, nulla di complicato. Molto efficace se vuoi far scivolare qualcuno» spiega Dhatri guardandosi intorno. «Meglio se andiamo via».
«Questa sì che è un'ottima idea» afferma Natalie dall'inizio della scala. Schiocca le dita e la scala torna di marmo. Scende gli ultimi gradini come una leonessa a caccia. «Questo posto non fa per te, quanto ancora dovrò ripetertelo?».
Il suo tono altezzoso fa venir voglia di ringhiare. «E tu chi sei per decidere chi merita di stare qui? Sei stata eletta presidentessa del mondo sovrannaturale e hanno dimenticato di mandarci il memo?». Natalie mi incenerisce «Non è nemmeno il tuo posto» mi guarda dall'alto al basso «Non importa cosa sei, se ti accomuni alla spazzatura significa che ne fai parte». Appoggia una manina perfettamente curata sulla spalla di Dhatri. «L'ultima volta ci sono andata leggera con te, non farmi ripetere e stai fuori dalla mia vista».
Sparisce lungo il corridoio in una nuvola di presunzione e ondeggiare di capelli.
«Quella ragazza ha proprio bisogno di una lezione» mormoro.
Dhatri si agita e comincia a spiegazzarsi il maglioncino. «L'hai sentita, dobbiamo starle alla larga. È cattiva, Evie» sbatte le palpebre terrorizzata «Non cattiva da liceo umano, lei è un vero mostro e possiede poteri che io posso solo sognarmi». Si passa le dita sulla cicatrice che le spunta dalla camicia. Stamattina quando si è seduta in mensa, ho notato le bruciature che le spuntavano dai vestiti e non ho smesso di pensarci nemmeno un secondo. «Ho sbagliato a venire in mensa, mangerò di nuovo in camera e tutto tornerà a posto. Sì, faremo così. E tu starai con i tuoi amici e faremo finta di non conoscerti. Sì, è un ottimo piano». 
Le afferro l’avanbraccio interrompendo i vaneggiamenti. «Smettila. Non ci nasconderemo e non faremo nemmeno finta di non conoscerti. Non è lei a decidere come devi vivere».
Scuote la testa. «Tu non capisci, è un mostro».
«Nessuno è un mostro come lo sono io, credimi. Non hai nulla di cui preoccuparti».
 
Accompagno Dhatri in ogni classe, le cammino vicino nei corridoi e scruto la folla con i super sensi per fermare possibili attacchi sul nascere. Le ore successive passano tranquille, fino alla fine della lezione di biologia delle creature sovrannaturali. Il professor Coren cammina davanti alla lavagna agitando le mani e parlando con voce ferma. «Le lezioni di questa settimana sono finite e noi ci rivedremo la settimana prossima. Vorrei che per allora ogni coppia prepari una ricerca ben articolata sul Diavolo del Jersey». Alza le mani per fermare il brusio che ha scatenato. «Per chi non lo sapesse, in questo corso si affrontano molte ricerche e lavori extracurricolari. Come vi ho detto alla prima lezione, le coppie sono formate da chi avete al vostro fianco in banco». Lancio un'occhiata verso Nate che fissa il professore inespressivo. «Quindi per lunedì prossimo voglio le ricerche sulla mia cattedra, non si accettano scuse di nessun tipo». Batte le mani e ci congeda.
Nel corridoio, fermo Nate prima che possa dileguarsi. «Come ci organizziamo per la ricerca?».
Abbozza un sorrisetto sbilenco. «Che ne dici se ce ne occupiamo nel weekend?».
Annuisco. «Va bene».
Dondola in avanti, come se volesse fare qualcosa ma poi cambiasse idea all’ultimo momento. Sorride di nuovo e si allontana lungo il corridoio, lasciandomi a fissargli la schiena come un’imbecille.
 
Il giorno successivo mi rendo conto che qualcosa nel mio orario non va. Ho due ore di lezione che nessuno dei miei amici segue e non ho la più pallida idea di dove andare. Dopo matematica fermo Leo prima che vada a lezione e gli mostro il mio orario. «Oh!» annuisce «Ovvio che nessuno di noi li segua, sono i tuoi corsi personali».
«I miei corsi personali?».
Lui picchietta sul foglio. «Ogni settimana devi seguire delle lezioni che trattano la storia specifica della tua specie e delle lezioni che ti spiegano come controllare i poteri» osserva il foglio «Devi andare nell'edificio cinque, è fuori» mi indica un corridoio «Vicino alla palestra, segui le indicazioni».
«Grazie, ci vediamo dopo a dibattito».
Mi fa l'occhiolino. «A dopo, hermosa».
Raggiungo l'edificio praticamente correndo ed entro sbattendo la porta. La stanza in cui mi trovo dà i brividi, sembra lo studio di uno vecchio pazzo. Ci sono barattoli e recipienti ovunque, foto che sembrano avere almeno cinquant’anni e ragnatele lunghissime. La stanza è completamente avvolta nella penombra. Un solo banco è posizionato davanti alla cattedra polverosa. Appoggio lo zaino a terra e lentamente mi siedo.
«Ai miei tempi, gli studenti restavano in piedi finché il professore non diceva loro di sedersi» Kester salta fuori dall'ombra facendomi venire un infarto. «L'educazione è proprio estinta». Si aggiusta la barba e si accomoda sul trono dietro la scrivania. «Morgan. Eveline Morgan».
Annuisco. «Presente». Non capisco perché faccia l'appello, ci sono solo io qui.
«Ai miei tempi gli studenti parlavano quando interpellati».
Aggrotto la fronte. «Ha detto il mio nome».
«Non mi sembra di averle chiesto di rispondere» borbotta. Sbuffo e mi accascio sulla sedia, saranno due ore lunghissime. Batte le mani e le candele nella stanza si illuminano. «Bene, ora che siamo tutti possiamo cominciare» si china in avanti e mi guarda. «Sa perché è qui?».
«Perché sono costretta?».
Lui scuote la testa e il capello appuntito ondeggia «Lei è qui perché ha un dono».
Sbuffo. «I regali dovrebbero poter essere restituiti».
«Il suo è un dono nello stesso modo in cui è una maledizione» allarga le braccia «Ogni essere in questa scuola vive nelle sue stesse condizioni».
Oh, ma per favore. «Non penso proprio».
Afferra la punta del baffo e comincia ad arricciarla. «Perché pensa di essere diversa?».
«Nessuno di voi beve sangue per rimanere in vita e per non fare del male».
Si inclina verso di me. «Ha mai visto un lupo mannaro perdere il controllo e trasformarsi?» scuoto la testa. «Ha mai visto una strega che sbaglia un incantesimo e che uccide qualcuno? Ha mai visto i cacciatori inseguire una fata per poterle strappare le ali? Ha mai visto un elfo impiccato o bruciato vivo perché ritenuto eretico?». Scuoto la testa con più forza e lui sbatte la mano sul tavolo. «Allora la smetta di compatirsi come una bambina e cominci ad abbracciare i lati orrendi della sua maledizione, sono loro che la terranno in vita in questo mondo malato». Si alza e mi si piazza davanti. «Sa perché è l'unica in quest'aula? È consapevole del fatto che se cerca tra ogni studente non troverà nessuno come lei?».
«Sì, l'ho notato e no, non so il perché» ribatto con astio.
«I vampiri sono pericolosi per natura» afferma «Sa del suo potenziale, cosa può fare ad una persona? Le sue capacità le conosce tutte?».
Alzo le spalle. «Credo di sì».
Incarna le sopracciglia «Crede? No, signorina Morgan. Lei ha così tanto potere da spaventare il resto del mondo sovrannaturale e ne deve essere cosciente, perché è l'unico modo in cui si salverà e l'unico modo in cui eviteremo che lei faccia del male a qualcuno di innocente».
Odio il suo tono saccente ma tutto quello che sta dicendo ha completamente senso. «Va bene».
«In queste ore che passerà con me, le insegnerò la sua storia e come controllare ogni sua singola abilità alla perfezione» torna alla sua sedia «Di norma ci dovrebbe essere qualcuno come lei a spiegarglielo, ma qui non c'è nessun professore vampiro».
«Perché non c'è nessuno come me qui?» chiedo.
Congiunge le mani davanti al petto. «I vampiri sono ricercati dalla legge».
La mascella mi sbatte contro il banco scarabocchiato. «Cosa?».
Lui si gratta il mento e annuisce con lentezza. «La preside mi ha pregato di non parlargliene ma non sopporto l'ignoranza, soprattutto se rischia di esserle dannosa».
Ci deve essere un errore. «Sono una ricercata?».
Lui scuote la testa «Il Consiglio non sa che lei è qui, quindi no».
Mi sembra di essere tornata a Storia dell’occulto. «Cos'è il Consiglio?».
Sbuffa. «Partiamo dalle basi» si mette comodo «Il Consiglio è una delle istituzioni che controlla e regola il mondo sovrannaturale. È composto da quattrocento membri, cento per ogni classe forte».
Arriccio il naso. «Classi forti?».
«Sì, streghe, lupi mannari, elfi e fate» spiega contando sulle dita «Poi c'è un capo per ogni classe, denominato come Capo della fazione».
«I vampiri non ci sono nel Consiglio?» domando.
Mi ignora platealmente. «Poi c'è il capo del Consiglio che viene eletto dai quattrocento ogni quattro anni, la sua decisione vale più di quella di tutti i membri messi insieme» sospira «È quasi sempre o una strega o uno stregone, da pochi considerata la classe dominante» agita un indice lunghissimo in aria «Il che non è affatto vero, tutte le creature sono uguali, se lo ricordi sempre».
«Ha ignorato la mia domanda» puntualizzo.
«Quale era?» chiede aggrottando le sopracciglia cespugliose. Ora che lo guardo meglio, non è così spaventoso come mi era sembrato all'inizio. Da vicino ha l'aria di un vecchietto cupo e un po' svampito. «Ah, sì. I vampiri non ci sono più nel consiglio da dopo la Grande Guerra Fredda».
«Che cos'è?».
Kester si incupisce «Venti anni fa, il Consiglio era composto da cinquecento membri e comprendeva i vampiri. Le streghe, di natura altezzose, si sono sempre credute superiori a tutti. Come le ho detto, il capo del Consiglio ha più potere di tutti, quindi le streghe capeggiavano su tutti. I vampiri, di natura molto irascibili, si erano stufati di questa situazione e stabilirono di volere un cambiamento. Decisero di eliminare la posizione di capo del Consiglio. Le streghe si sono impuntate, ci sono state proteste e rivolte e alla fine il capo del Consiglio in carica ha cacciato i vampiri dal Consiglio» mi guarda comprensivo «Come avrà ormai capito non è una scelta saggia far arrabbiare un vampiro, figuriamoci un'intera specie. Il Capo della fazione dei vampiri ha dato l'ordine di uccidere il Capo del Consiglio e da lì è scoppiata la guerra».
«Perché Grande Guerra Fredda?» chiedo.
«Dopo l'assassinio, le streghe hanno dichiarato guerra ai vampiri ed essendo molto potenti si sono portate dietro il resto del mondo soprannaturale. Non è comunque bastato, i vampiri sono una razza con dei poteri inimmaginabili e con più forza di qualsiasi licantropo. Le morti sono state così tante, il nostro mondo non ha mai visto così tanto sangue come in quel periodo. Alla fine, dopo moltissimi sacrifici da entrambe le parti, i vampiri sono stati sconfitti e uccisi tutti. Guerra fredda perché un dispregiativo per chiamare un vampiro è freddo».
Il dolore mi stringe il cuore morto e immobile. «Non si è arrivati ad una pace?».
«Purtroppo no. Le streghe erano così arrabbiate, hanno condannato a morte tutti i superstiti che si sono arresi e cercano tutti quelli che sono sopravvissuti e che si nascondevano nell'ombra. Dopo la fine della guerra, il nuovo capo del consiglio ha istituito i Paletti D'argento, un gruppo di cacciatori di ogni razza che viaggia per il mondo alla ricerca dei vampiri rimasti».
Il sudore mi si ghiaccia lungo la schiena. «Sta dicendo che là fuori c'è uno squadrone di assassini che mi cerca per uccidermi?!».
Lui scuote la testa «Oddio, no. Il Consiglio non è a conoscenza della sua esistenza, quindi non è in pericolo».
Spalanco la bocca. «Sta scherzando? Come posso non essere in pericolo, sono una ricercata!».
Kester si tira su. «I Paletti D'argento non hanno giurisdizione nelle scuole, qui non la possono toccare. Per questo la preside ha insistito con i suoi genitori a finché la facessero venire a vivere qui».
Ho la testa che mi scoppia. «Non riesco a capire, la preside quando pensavi di dirmi tutte queste cose?». Ora comprendo perché devo tenere un profilo basso, sono una rifugiata. 
«Non voleva spaventarla e indurla a scappare, l’unico posto davvero sicuro per lei è questo» afferma.
Mi passo le dita tra i capelli «Sono una ricercata».
Kester si siede sul bordo della cattedra e mi guarda fissa negli occhi. «Forse non se ne rende ancora conto, ma lei è l'essere più forte e temibile in questa scuola. Non appena avrà imparato ogni sua abilità, nessuno potrà farle del male».
Paura, dolore e rabbia mi si rimescolano nel petto. Vorrei urlare, colpire qualcosa e andarmene. Pensavo di essere rinchiusa in una prigione per mostri, invece sono un’esiliata e il mondo esterno è più terrificante di quanto potessi immaginare. Pensavo che dovermi cibare delle persone fosse la mia maledizione, invece tutta la mia esistenza è una trappola. Devo imparare a difendermi. Devo imparare a sopravvivere. «Mi insegni» affermo «Voglio sapermi proteggere».
Lui inclina la bocca in quello che sembra un minuscolo sorriso «Cominciamo allora».
 
Kester è un sadico. Non un vecchietto rimbambito e nemmeno un vecchietto e basta. È un sadico. Urla, mi rimprovera e continua a farmi male. Mi dice di sentire il mio potere interiore ma io sento solo il mio culo che sbatte sul pavimento ogni volta che mi scaglia in aria con un incantesimo. La sua prima lezione è stata quella di insegnarmi ad affrontare degli incantesimi di movimento. Avrei dovuto saltare, schivare e correre, ma l'unica cosa che ho fatto è stata cadere.
«È un vampiro scadente» brontola quando sbatto la schiena contro il muro e scivolo a terra. «Ho conosciuto vampiri che sapevano fermare un incantesimo solo con la forza del pensiero. È davvero pessima. Per oggi basta così, sono stanco».
Oh, lui è stanco. Mi tiro in piedi mugolando e cercando di rimettere in fila le vertebre. 
«La prossima lezione è domani, non si azzardi a tardare» brontola, per poi sparire in una nuvola di vapori sinistri.
Raggiungo l'aula di dibattito gemendo e imprecando. Mi siedo al fianco di Leo e cerco di rimanere immobile.
L'ora di arte successiva è una tortura. Muovere le braccia per dipingere mi fa venir voglia di urlare. Penso che mi abbia rotto tutte le ossa della schiena.
Quando appoggio il sedere sulla sedia della mensa, mi lascio scappare un sospiro di sollievo.
Leo mi guarda preoccupato. «Evie stai bene?».
Annuisco cercando di non muovermi troppo. «Alla grande».
Dhatri mi guarda. «Sei un po' pallida».
Mugolo. «Quello è il mio colorito naturale».
Nate mastica la pasta con gusto. «Hai iniziato le lezioni di specie?».
«Già».
Annuiscono tutti comprensivi.
Quando arriva il mio pranzo, mi ci avvento sopra come un rapace affamato. Il sangue aiuta a calmare i dolori e a far guarire i lividi.
Nathan pungola la spalla di Leo con insistenza. «Avanti, vuoi dirmi com'è andata la sessione di studio con TK?».
Leo affonda il naso nella pasta e non guarda nessuno negli occhi. «Ti ho già detto di no».
«É andata così male? Cosa hai fatto?» ridacchio.
Lui sbuffa. «Non voglio parlarne».
Gli appoggio una mano sul braccio nudo. «Forza, Leo, dicci cos'è successo».
«Mi è scappato un rutto mentre parlavamo e sono scappato» butta fuori senza controllo. Si tappa la bocca e sgrana gli occhi. Ha la faccia di chi non voleva dire nulla, non di sua volontà almeno. Credo sia colpa mia e della costrizione. Non l'ho fatto di proposito, non sapevo nemmeno di esserne capace. Di solito mi serve il contatto visivo per usarla su qualcuno. Non stavo guardando Leo, l'ho solo toccato. Allontano velocemente la mano e la infilo sotto le gambe.
«Perché l'ho detto? Non volevo dirlo» mormora confuso.
Nate comincia a sghignazzare con forza e tenendosi la pancia. «Hai fatto un rutto?! Terribile».
Leo arrossisce e si fa più piccolo nel maglione. «Non c'è nulla da ridere, è stato l'evento più imbarazzante della mia vita».
Dhatri inclina la testa e lo guarda comprensiva. «Non devi vergognarti».
Gli mollo un colpetto affettuoso. «Non ascoltare il cretino mannaro, può capitare di fare un ruttino, è naturale. Perché sei scappato?».
Leo sbuffa e mugola insieme. «Gli è scappata una risatina e mi sono sentito un cretino atomico, quindi sono corso via. Poi mi sono reso conto che la fuga mi ha fatto sembrare ancora più scemo e mi sono nascosto in camera anche quando è venuto a cercarmi».
Nate sghignazza. «Devo farti un corso intensivo di rimorchio, amico mio».
Leo fa un verso così sconsolato e tragico che riesce a far ridere l’intero tavolo e a rendere la giornata meno pesante e dolorosa.
 
Passo il pomeriggio nella mia stanza, insieme a Dhatri. Lei mi aiuta a recuperare un po' di studio arretrato e io evito che finisca in qualche agguato di streghe.
Afferro i libri di storia dell'occulto. «Oggi la Wright si è divertita a torturarmi, ma non succederà più. Leggerò ogni singola pagina di questi stupidi libri».
«Sembri non piacerle molto» nota.
Rido sprezzante. «Quella mi odia proprio».
Lei annuisce e torna a sfogliare il libro di incantesimi. Apro il tomo che mi ha dato la professoressa e scorro alla pagina che avevo chiuso. Leggo la prima parola e poi richiudo il volume. Mi alzo per riporlo. «Non hai detto che volevi leggerlo» mi fa notare Dhatri.
Mi rendo conto di quello che sto facendo e riprovo a leggerlo. Inizio con la prima riga e la mia mano lo richiude in automatico. La guardo. «Anche a te sembra strano?».
Lei spalanca gli occhioni da cerbiatto. «È incantato!».
«Prego?».
Mi prende il tomo dalle mani e prova a leggerlo. Arrivata alla pagina che stavo guardando io lo richiude anche lei. Annuisce convinta. «È incantato, ne sono sicura!».
«Ancora non ho capito».
«Ha messo un incantesimo sul libro in modo che tu non possa leggere oltre una determinata pagina» schiocca le dita «Si sarà preparata delle domande sulla parte che non hai letto, così da farti una domanda a cui di sicuro non avresti saputo rispondere».
Spalanco la bocca. «Ma che stronza!».
Lei arrossisce. «Ti odia davvero».
Sbuffo frustrata. «Puoi disincantarlo? Voglio fargliela pagare».
Si fa minuscola e molla il libro di colpo. «Non posso».
Mi siedo sul letto con lei e incrocio le gambe sotto il sedere «Come non puoi? Perché? Sei una strega».
Si morde l'interno della guancia e fissa il pavimento. «Non posso e basta».
Annuso l'aria e l’odore della sua paura mista all'ansia mi accende una lampadina nel cervello. «Non devi preoccuparti, non saprà mai che sei stata tu».
Sbianca. «Non è questo...».
«Allora cosa c'è?» domando.
Mugugna massaggiandosi la faccia e poi sospira. «Non ne sono in grado. Lei è una strega potentissima e io lo sono a malapena».
Sono sempre più confusa. «Che significa?».
«Ci sono vari tipi di streghe, come per ogni specie. Se vieni da una dinastia di sole streghe, sei molto più potente e con più talento naturale di una strega che nasce dall'unione casuale di una strega e un umano».
«Pensavo che la magia fosse qualcosa da imparare» commento.
Lei scuote la testa. «Tecnicamente sì, anche una mezza strega può arrivare a padroneggiare gli incantesimi più potenti, ma mai con la sicurezza e la bravura di una strega di dinastia» fa un sospiro lungo un chilometro «E io naturalmente sono solo una mezza strega».
L'odore della sua tristezza mi fa prudere il naso. «Non devi abbatterti, sono sicura che sei bravissima come le altre. Quante streghe di dinastia ci saranno qui dentro? Cinque al massimo?».
Dhatri si accartoccia su sé stessa. «Natalie e la sua cerchia sono tutte streghe di dinastia. Secondo te perché se la prendono con me? Sono una frana. La strega più negata del pianeta».
Credevo di essere l'unica che non riusciva a raccapezzarsi nel mondo del sovrannaturale, come sempre mi sbagliavo. «Sono sicura che non è vero. Comunque non importa, cercherò le informazioni da un'altra parte».
Sospira guaendo. «No, no» si passa le dita tra i capelli con forza «Ci provo».
La paura che la nostra amicizia neonata si possa rovinare sovrasta quella di fallire. «Tree non sei obbligata».
Scuote la testa. «Lo faccio». Prende il volume tra le mani e lo stringe. Chiude gli occhi, si irrigidisce e l'aria che la circonda si condensa. L'energia scivola lungo l'intonaco, contro i mobili e filtra verso di lei. Una strana luce calda la circonda e, per la prima volta da quando l'ho incontrata, non sembra per nulla spaventata. Il libro le tremola nelle mani con lo stesso ritmo dello sfarfallio delle luci.
Sembra andare tutto bene finché la carta di colpo prende fuoco e il tomo si incendia. Dhatri scatta, lanciandolo via con uno strillo acuto. Afferro la bibita alla frutta che stava bevendo e la verso sopra le fiamme. Il tomo si spegne in uno sbuffo di fumo puzzolente e in un mucchietto di carta carbonizzata. Dhatri mi fissa dalla testata del letto con l'aria terrorizzata. Negli occhi le si riflette la paura più profonda che abbia mai visto nello sguardo di qualcuno. Mi sento improvvisamente in colpa e anche molto egoista. «Scusa, non dovevo fartelo fare» borbotto cercando di raccogliere il libro.
Si stringe le ginocchia al petto. «Te l'ho detto che sono una frana».
«No, non lo sei. Ti serve solo un po' più di pratica, come a tutti» affermo. Poso il tomo sulla scrivania e un pezzo di copertina si sbriciola. «Credi che mi ucciderà quando glielo ridarò?».
Alza le spalle. «Suppongo che non possa odiarti più di così».
Già, lo credo anche io. 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Like a River ***


Chapter 6
Nonostante abbia tenuto le finestre spalancate tutta la notte, la mia camera puzza ancora di bruciato. Me lo sento anche addosso. Forse è solo colpa del super fiuto, in ogni caso sono stufa marcia di questo odore. Sa di fallimento misto a sconfitta. Afferro dal beauty il profumo che indosso di solito e lo spruzzo in aria. Il tanfo di bruciato si mischia all'odore di vaniglia e la combinazione mi dà la nausea.
Infilo la divisa alla velocità della luce e schizzo verso la mensa. Mi siedo al tavolo prima di tutti e mi godo la mia borraccia di sangue senza che nessuno possa infastidirmi. La giornata sembra cominciare bene.
O forse ho parlato troppo presto.
Mi irrigidisco nell'istante in cui Natalie mi passa alle spalle e si accomoda sulla sedia accanto alla mia. Percepisco il pericolo come se fosse tangibile a mani nude. Non le conviene darmi fastidio mentre mangio, è come stuzzicare una leonessa che sta divorando un bufalo.
Lei accavalla le gambe lunghe un chilometro e sorride come una volpe affamata. «Non so quale sia il tuo scopo nella vita, Evie, ma se punti in alto stai sbagliando tutto» arriccia il naso perfetto «Forse sono stata un po' sgarbata con te all'inizio e sono qui apposta per rimediare».
Giocherello con la cannuccia. «Cosa significa?».
«Ti propongo di fare parte della mia cerchia ristretta di amiche» si liscia una ciocca dorata «Non importa se sei una strega o meno, ho capito che hai la stoffa per essere una di noi».
Non cadrei in questa patetica trappola nemmeno da umana. «Ah, sì? E di che stoffa sarei fatta?».
Ridacchia. «Della mia ovviamente». Si china verso di me con un sorriso felino. «Riconosco del potenziale quando lo vedo e sono sicura che potremmo essere ottime amiche. Cosa ne dici, Evie?».
Essere sua amica renderebbe ogni cosa molto meno complicata. Potrei adattarmi al suo mondo, fingere di essere una di loro e scomparire tra la folla. La preside andrebbe in brodo di giuggiole se diventassi completamente invisibile e poi sarebbe un toccasana per la storia della ricercata. Sarebbe tutto più facile, ma sarebbe migliore? Ne varrebbe la pena? Qualcuno ha deciso chi dovrò essere per il resto della mia esistenza, il come la vivrò è ancora nelle mie mani.
«Grazie dell’offerta, Nat» ribatto «Ma di pessime decisioni ne ho prese parecchie, preferisco evitare di aggiungere questa alla lista».
Il suo sguardo si incendia. La finta cordialità brucia e viene sostituita da una freddezza assassina. Allunga una mano e mi accarezza una ciocca scura. «Ci perdi tu, Eveline».
Una vibrazione bassa e sottile mi risale il corpo. L'immagine di Kim si sovrappone a quella di Natalie. Stessa corporatura, colore degli occhi e stesso modo di inclinare la testa. Il dolore mi colpisce in faccia. Mi stringe lo stomaco. La maniera in cui si pone, in cui si muove e come parla, troppi ricordi amari. È una versione sbiadita di Kimberly e il mio corpo non può reggerlo. Non posso sopportare questo tipo di dolore, non di nuovo.
«Evie? Va tutto bene?». La voce di Leo mi desta.
«Benissimo» sospiro a mezza voce «Natalie se ne stava andando».
«Spero tu abbia scelto bene, Eveline». Mi fa l'occhiolino, si alza e si allontana.
La pelle mi brucia come se fosse percorsa da mille aghi incandescenti. Vorrei strapparmi via di dosso questa sensazione dolorosa ma proprio non ci riesco. Natalie ha fatto riaffiorare i ricordi di Kim che nascondevo nel profondo della mia testa e ora non riesco a gestirli. La sua mancanza è più dolorosa di tutte le ossa rotte del mondo.
«Devo andare» sbuffo alzandomi e correndo fuori dalla mensa. Le voci dei miei amici mi seguono, ma le ignoro e mi precipito verso il bosco. Mi inoltro tra i rami e gli arbusti finché non inciampo e ruzzolo a terra. Il dolore della caduta non è nulla in confronto a quello che provo dentro. Il ricordo della nostra ultima notte insieme mi trafigge il cervello come una freccia di ferro bollente.

«Sei uno splendore» asserisce Kim osservandomi attraverso lo specchio. I suoi incredibili occhi verdi mi squadrano, facendomi arrossire. Il vestito borgogna che indosso mi fa sentire troppo scoperta e in mostra. «Forse dovrei indossare dei semplici jeans» sospiro «Questo è un po' troppo per me. Io sono ordinaria».
Si alza con lentezza e inclinando la testa da un lato. I capelli rosso sangue le scivolano lungo le spalle nude. Mi raggiunge e mi cinge la vita con le braccia. «Sei la donna più bella che abbia mai visto. Ordinaria non è assolutamente il primo aggettivo che ho pensato quando ti ho vista per la prima volta» mormora roca. Il suo corpo mi trasmette elettricità, facendomi tremare le ginocchia. Non credo di aver mai provato un sentimento simile per nessuno. È come se avessi trovato la mia casa, la persona con cui vorrei svegliarmi ogni mattina e con cui vorrei finire ogni giornata. Kim mi fa sentire protetta e bellissima come mai prima d'ora. Occupa il mio cuore come un residente abusivo che non ha nessuna intenzione di levare le tende.
«A cosa pensi?» domanda facendo scorrere le dita sulla stoffa leggera.
Mi giro con lentezza, restando stretta lei. Sospiro e raccolgo coraggio. «Penso proprio di amarti».
Mi fissa con la bocca socchiusa e lo sguardo sorpreso. Dura un secondo, anche se mi sembra un'eternità, poi si china verso le mie labbra e mi bacia. Intensità. Passione. Desiderio. Kim mi fa ardere con un carbone ardente. Mi accarezza le labbra con le sue. Mi sembra di volare. Comincia lentamente, con delicatezza, studiando la mia bocca nei dettagli. Quando intensifica il bacio, i suoi capelli mi solleticano le guance. Mi tira per i fianchi verso il mio letto e finisco distesa sopra di lei. Si allontana e mi accarezza la bocca con il pollice. «Penso proprio di amarti anche io».
Ci perdiamo e ci ritroviamo più volte.
Non ho bisogno di altro quando ho lei.



Singhiozzo stringendomi il petto. Non ho mai provato tanto dolore in vita mia, nemmeno durante la trasformazione, quando morivo per avere una goccia di sangue. Non avevo mai pianto per lei dall'incidente e ora ne pago le conseguenze. Il vaso si è rovesciato e il dolore mi trapassa come un fiume in piena. Le lacrime che mi solcano le guance sono ustionanti in confronto al freddo della mia pelle. Vorrei che qualcuno mi schiaffeggiasse, così potrei ritrovare in controllo di me stessa.
Quando non resisto più, colpisco la rocca più grossa che trovo con il pugno chiuso e aspetto che il dolore fisico sovrasti quello mentale. Il piano funziona. La roccia va in mille pezzi così come le ossa della mia mano. Mi asciugo il viso con la manica della camicia e zoppico fino alla struttura scolastica. Nella corsa spasmodica verso il bosco devo essermi storta la caviglia e ora ogni passo è una tortura. I due dolori insieme coprono del tutto i miei sentimenti e non ne potrei essere più felice.
Raggiungo l'aula come una reduce di guerra e mi siedo curva al banco, ignorando tutti e tutto. Spingo il piede contro le mattonelle e mi godo l'abbraccio caloroso del dolore. Trattengo il fiato, ascolto il ronzio sordo che mi rimbomba nelle orecchie e supero l'ora.
Durante chimica della magia, Nate prova a parlarmi ma lo ignoro. Resto in silenzio chiusa tra i muri e le sensazioni infauste dei miei migliori ricordi.   
Dopo spagnolo zoppico fino all'aula in cui faccio lezione con Kester e mi ci barrico dentro. Mi stravacco sul banco con un gemito sonoro e sospiro.
«Cos'ha combinato?» brontola lanciandomi un'occhiataccia e facendo il suo ingresso dall'ombra.
Tiro l'indice finché non si rimette in asse con uno schiocco. «Sono scivolata mentre facevo una corsetta» alzo le spalle «Nulla di preoccupante».
Lui aggrotta i cespugli bianchi che gli adornano gli occhi e fa un passo verso di me. «Mi faccia vedere».
Mi ritraggo. «No».
Si arruffa contrariato. «Mi dia una spiegazione vera, signorina Morgan, solo così posso aiutarla».
«Ha mai amato qualcuno?» domando di getto.
Mi osserva sorpreso e poi si lascia trasportare debolmente da un sorriso. «Ovviamente».
Mi sporgo in avanti. «Intendo l'amore che ti fa perdere la testa e che ti marchia a fuoco con il suo segno. L'amore che ti impedisce di respirare ma tu non ne hai bisogno perché hai tutto ciò che ti serve in...quella persona».
Sbuffa dal naso. «Sì, signorina Morgan, so di cosa parla. Lo so bene».
Il dolore mi attanaglia di nuovo il petto. «Ha mai perso quell'amore per colpa di qualcun altro?».
Si siede sul bordo della cattedra. «Mia moglie. Marianne» sospira con angoscia «È morta prima della Guerra Fredda, una malattia incurabile l'ha strappata a me e a questo mondo infausto».
«Mi dispiace» sospiro.
Stringe il bastone con forza sbiancando le nocche. «E lei? Ha mai perso qualcuno?» domanda con rammarico.
Non voglio parlargli di Kim, non credo che capirebbe la nostra relazione, perciò vado sul vago. «Un incidente d'auto» mugugno «Ho perso l'amore, la felicità e il mio essere umana».
Si acciglia. «Si è trasformata dopo l'incidente?».
Annuisco. «Mi sono svegliata in ospedale ed ero viva ma non del tutto».
Si irrigidisce e mi guarda torvo. «Ha mai conosciuto un vampiro?».
Cosa c'entra ora? «No, ovvio che no. Non sapevo nemmeno che esistessero».
«Ha idea di come si diventi un vampiro?» chiede.
Sbuffo. «Ovviamente non basta un morso o l'infermiera dell'ospedale sarebbe già nella mia stessa situazione».
Annuisce agitando il cappello. «I morsi non servono, ma sono utili a formare dei succubi».
«Dei cosa?» domando confusa.
Sospira della mia ignoranza e si prepara a colmare le mie lacune. «Partiamo dalle basi. Per diventare vampiro ci sono due modi diversi. Il primo, in cui devi diventare succube di un vampiro e prendere una vita umana come tributo». Spalanco la bocca schifata e lui continua. «Si diventa succubi facendo da sacche umane per un vampiro abbastanza forte da potersi fermare quando si nutre. Se non si ferma sei morto. Il morso da dipendenza e rilascia nella vittima enormi quantità di endorfina. In poche parole, è una droga».
«E come è possibile?».
«Queste proprietà sono contenute nella saliva che si forma quando è affamata» mi osserva «Lo ha mai notato?».
Annuisco a disagio. «Quando ho fame sbavo, me ne sono accorta».
«Quella bava è in grado di soggiogare anche il più forte e temprato degli uomini» afferma risoluto.
«Solo con un morso? Uno solo causa così tanta dipendenza?».
«Esattamente. Ma non solo un morso, le basta contaminare l'altra persona con la saliva in modo che entri nell'organismo» spiega.
Oddio. Oddio no. «Intende anche, per esempio, con un...».
«... un bacio? Ovviamente».
Mi stropiccio la faccia con le mani. Ecco perché Logan era sempre più appiccicoso ed euforico. Qualcuno avrebbe dovuto dirmelo prima.
«Ha dato luce ad alcuni dubbi?» chiede arricciando i baffi divertito.
Non può essere vero. «Vuol dire che non avrò mai una relazione normale? Chiunque baci sarà soggiogato dal mostro?».
Sbuffa. «Le ho già detto di non riferirsi all'altra parte di sé stessa in quel modo. Comunque, no. Col tempo imparerà a controllare quando secernere certi fluidi». Sembra la lezione sulle api e sui fiori. «Per ora è molto giovane e le risulterà molto difficile controllarsi, soprattutto se la persona con cui sta le piace alquanto».
Ottimo, sono ufficialmente schifata e imbarazzata. «Bene» mugugno fissando il pavimento. «Quindi come si diventa vampiri oltre alla necessità di un anima, che oltretutto non ho capito».
«Dopo che si è diventati succubi, alla maturazione dell'eletto il vampiro maestro gli ordina di uccidere qualcuno e di berne il sangue. Successivamente, l'eletto muore e risorge come vampiro neonato».
Sono sempre più confusa. «Eletto? Vampiro maestro?».
«L'eletto è il futuro vampiro scelto da il vampiro maestro, cioè chi gli ordina di uccidere e che gli beve il sangue».
«Sembra orribile» commento.
«Il processo che le ho appena spiegato è barbarico e veniva usato solo dai vampiri che non seguivano le regole».
«Il secondo processo?» chiedo.
«È quello che avviene secondo la legge ed è anche il più lungo. Il maestro e l'eletto devono stringere un legame profondo e invalicabile, devono diventare parte l'uno dell'altro. Quando la sintonia e l'unione sono completate, l'eletto comincia a nutrirsi solo del sangue del maestro. Il legame che si forma tra i due è più resistente di qualsiasi incantesimo. Una volta che l'eletto ha raggiunto l'età prestabilita deve morire, così che possa rinascere».
«Deve morire?» domando cauta. Ho una strana sensazione che mi ribolle nello stomaco. Un sentimento di dejà vu che non riesco a scacciare.
«Proprio così. Dopo la morte, il sangue del maestro che gli circola nel corpo lo fa risorgere come vampiro» mi osserva accigliato «Dopo la rinascita, il neonato deve nutrirsi, essere guidato dal suo maestro attraverso il cambiamento e deve imparare tutto ciò che gli servirà per sopravvivere».
«Secondo lei quale processo ho subito?» chiedo cauta.
«Il secondo, senza dubbio. Il primo processo porta ad un vampiro instabile e pericoloso, un mostro senza anima».
«Non vedo molta differenza con me» mormoro.
Si avvicina di colpo, invadendo il mio spazio. «La smetta! Non capisco come non faccia rendersene conto, ma lei è la neonata più equilibrata e umana che abbia mai conosciuto» mi lancia una lunga occhiata «Qual è il nome della prima persona che ha ucciso dopo la trasformazione?».
È impazzito? «Io non ho ucciso nessuno».
Mi guarda stralunato. «Come?».
Scuoto la testa. «Non ho ucciso nessuno. Ho aggredito l'infermiera e mia sorella, ma sono entrambe vive e vegete».
Mi fissa a lungo e in silenzio, poi apre la bocca con un tono grave. «Voglio vedere i suoi occhi».
«La sto guardando» brontolo.
Sbuffa. «Quegli altri. Quelli veri».
Sospiro infastidita ma chiudo le palpebre. Mi concentro sull'altra personalità, sull'altra ragazza che abita nella mia testa. Apro lentamente gli occhi e lo osservo. Agli occhi del mostro, Kester è identico a quello che vedo normalmente.
Inspira tra i denti. «Non è possibile...».
Torno normale. «Ho fatto qualcosa di male?».
Mi afferra il viso con le dita affilate. «I suoi occhi sono completamente neri, non bianchi».
Cerco di ritrarmi. «Perché dovrebbero essere bianchi?». 
Mi lascia andare, si volta e rufola nella scrivania. Afferra un libro enorme e me lo sbatte su banco. Fa girare le pagine con uno sfarfallare di dita, fino al punto che desidera. «Guardi». Punta l'indice su una figura cupa e ricurva. L'uomo ha le zanne sguainate, il sangue che gli cola lungo il collo e i bulbi oculari completamente opachi.
Mi sporgo verso la figura. «Questo è un vampiro».
Fa schioccare la lingua. «Ovviamente».
«Perché i miei occhi non sono così?» domando preoccupata. Non che voglia cambiarli, sono già inquietanti così.
Si gratta il mento assorto. «Non ne sono sicuro...farò delle ricerche a riguardo e le spiegherò quello che ho scoperto». Richiude il tomo e lo allontana. «Fino ad allora non faccia vedere la sua vera forma a nessuno, per nessuna ragione».
Ora ho molti buoni motivi per non farlo. «Non succederà, promesso».
«Bene» tuba. Batte le mani due volte e un boccale di sangue mi compare davanti. «Lo beva, così guarirà e potremo iniziare ad esercitarci sui suoi poteri».
Arriccio il naso contrariata. «Potremmo saltarle. Solo per oggi» mormoro allontanando il bicchiere.
Mi fissa stralunato così a lungo che penso di averlo rotto. Prima che possa festeggiare e darmela a gambe, lui si ridesta. «Rifiuta del sangue? Sangue gratis e fuori pasto? L'equivalente di una torta al cioccolato per un goloso?». Scatta veloce e mi afferra la mano fratturata. Guaisco come un cucciolo ferito e, allo stesso tempo, mi godo il dolore. «Non è caduta. Si è fatta male di proposito».
«Sono caduta davvero» pigolo. Non è una bugia, nel bosco sono ruzzolata.
Stringe più forte stuzzicando il mostro. «Mi dica il perché. Subito» esige.
«Il dolore fisico cancella i pensieri» sospiro e lui mi lascia andare.
«La consideravo forte e determinata» mormora deluso «Invece sta reagendo alle sofferenze che il mondo le causa come una codarda».
«Non sono una codarda!» rombo alzandomi in piedi.
Mi punta il bastone contro «Lo è invece! Accolga i sentimenti, signorina Morgan, se no non sopravviverà mai».
«Fa male» ribatto a denti stretti.
«E lo farà per l’eternità. Pensa davvero che rompersi qualche osso funzionerà per sempre?».
Mi sento stupida e indifesa. Due sensazioni che detesto. «Non so come fare altrimenti».
Si china verso di me e mi guarda negli occhi con apprensione. «Ha la perennità dinanzi a sé, si innamorerà altre mille volte e dovrà sopportare questa sensazione tutte le volte. Sa cosa farà?».
«No» pigolo stringendomi le braccia intorno al corpo.
«Userà il dolore come carburante e diventerà la vampira più forte e tenace che abbia mai camminato su questa terra. Sarà sempre tre gradini sopra gli altri, perché nel profondo capisce davvero cosa significa soffrire» asserisce serio.
Le sue parole mi spronano, mi fanno sentire meno spaventata e sola. Mi danno la speranza che tutto questo sia successo per una ragione e che io la troverò. «Va bene».
Sorride a bocca chiusa. «Ottimo». Spinge il boccale verso di me. «Ora beva e cominciamo».
Afferro il manico di vetro e trangugio il sangue tutto d'un fiato. Bastano pochi minuti e mi sento già meglio. Riesco a muovere di nuovo le dita della mano e quando appoggio il piede a terra per alzarmi non sento dolore. Senza la sofferenza fisica i sentimenti angoscianti mi offuscano la mente e mi stringono le budella. Però ora ho una luce che illumina l'oscurità e le parole di Kester mi risuonano in testa come un mantra. Sarò forte. Starò bene
«Sono pronta» annuncio.
«Oggi continueremo ad imparare a bloccare un incantesimo» batte le mani e il mobilio scopare «Iniziamo».
 
 
«Lo deve bloccare!» brontola Kester dopo la ventesima volta che sbatto contro il muro «Non andrà da nessuna parte se continua così!».
L'uomo comprensivo e stimolante di qualche mezz’ora fa si è dileguato e ha lasciato spazio al pazzo invasato che mi urla rimproveri.
«Si concentri, signorina Morgan» tuona «Tiri fuori la rabbia! Dov'è il dolore di cui parlava prima?». Alza la mano nodosa e un'onda di energia scura mi investe. Volo indietro e sbatto il fianco contro uno spigolo. Sento un paio di costole che si spezzano, mozzandomi il respiro. Gemo di dolore, stringendo i denti. Mi puntello sui gomiti e cerco di alzarmi. Il dolore è lancinante, come una spada che mi trapassa il costato.
«Si alzi!» strepita «La vita la colpirà più duramente di così».
Barcollo, quasi in piedi, e lui mi colpisce con un'altra onda di energia. Volo contro il muro sbattendo la testa contro il legno. Mi mordo la lingua e il sapore metallico e acido del mio sangue mi invade la bocca. È completamente diverso dal sapore di quello che bevo normalmente, sembra marcio e stantio. Il retrogusto è terribile e mi scatena dolorosi flashback dell'incidente. «Basta!» grido con impeto. Un getto di forza dal colore scarlatto si alza dal mio corpo e investe l'insegnante in pieno petto. Kester viene sbalzato in dietro e atterra con il culo sul pavimento, dall'altro lato della stanza. Sembra confuso e disorientato, come se lo avessi colto di sorpresa. «Impressionante...» sospira compiaciuto «È davvero impressionante!». Batte le mani estasiato. «Ottimo passo avanti». Non sembra turbato dal fatto che l'ho appena buttato a terra. 
Mi asciugo il sangue che mi cola dalla bocca con la manica della camicia. «Possiamo fare una pausa, ora?» mugugno cercando di alzarmi. Guaisco ma riesco a tirarmi in piedi. Lo raggiungo ondeggiando e mi lascio cadere al suo fianco. «Sta bene? Le ho fatto male?».
Sorride leggermente. «Sto benissimo». Cerca il mio sguardo con il suo. «È stata molto brava, se ne rende conto?».
Alzo le spalle. «Non ho idea di cosa ho fatto».
«Quella si chiama Viribus» spiega «È la sua energia vitale. Con un po' di esercizio imparerà ad utilizzarla per difendersi dalla magia e per bloccare le letture della mente».
Sospiro. «Forte».
Batte le mani e una brocca di sangue mi appare davanti. «Per oggi basta così, si rifocilli e vada dai suoi amici». Si puntella con il bastone e cerca di rimettersi in piedi. Scricchiola come una porta vecchia, ma riesce comunque ad alzarsi. «Domani andremo avanti con l'allenamento».


Salto il pranzo, restando nascosta tra la boscaglia rigogliosa che circonda l'accademia. Mi sdraio sull'erba soffice e osservo il cielo grigio attraverso le fronde degli alberi. Sento ogni rumore e ogni odore. Percepisco la corsa rapida degli scoiattoli tra le foglie, lo svolazzare degli uccelli e lo scrosciare le ruscello. L'odore delle primule che ondeggiano al vento, la linfa che cola lungo le cortecce e l'odore umido dei sassi baciati dall'acqua. Non riesco a capirne la ragione ma ogni sensazione mi scatena una serie di ricordi dolorosi legati a Kim. Qualsiasi cosa me la ricorda. È come se la scatola in cui avevo nascosto la sua esistenza si fosse rovesciata e tutto fosse ormai sparso sul pavimento, in piena vista. 
Resto immobile così a lungo che un paio di uccellini mi utilizzano come trespolo, per prendere fiato da un lungo volo. Mi ridesto solo quando il suono di dei passi in lontananza mi fa spalancare gli occhi. Tre paia gambe diverse frusciano tra le foglie secche e i rametti. Riconosco il loro odore e richiudo gli occhi.
«Ve l'ho detto che l'avrei trovata» gongola Nate avvicinandosi.
Leo sbuffa. «L'hai trovata solo perché ha lasciato che lo facessi».
Nate schiocca la lingua «Non credo proprio».
Leo sospira e si avvicina calpestando il muschio su cui sono sdraiata. «Evie...» esalata chinandosi verso di me «Cosa succede?».
«Nulla» brontolo «Andate via».
Dei passi risuonano alle mie spalle e il rumore di una mano che cozza contro il petto di qualcuno rimbomba nel bosco silenzioso. «Vuole restare sola» si giustifica Nate «Se non vuole compagnia dobbiamo rispettare il suo volere».
Leo scuote la testa «Non andiamo via finché non siamo sicuri che sta bene».
«Sto bene» dichiaro con poca convinzione. Anche alle mie orecchie sembra una bugia.
«Evie» la vocina debole di Dhatri mi scivola contro, mentre si china al mio fianco. «Cos'è successo?».
«Nulla» sospiro.
Lei mi sfiora la mano con le dita «Sei strana».
«Sono sempre così» mi giustifico.
«Non è vero». Nate stringe i denti, come se si sforzasse. «Hai anche un odore diverso».
Infilo le unghie nel muschio umido. «Grazie tante».
«Che odore ha?» domanda Dhatri.
«Vi dispiace smetterla?» sbotto in imbarazzo. Il mio odore corporeo non li riguarda.
«Non è come al solito» asserisce Nate «Sa di garofani e fiori morti».
Dhatri sobbalza e si tappa la bocca con la mano. «Ve ne andate adesso?» strepito tirandomi seduta.
Lei mi artiglia il braccio. «Qualche strega ti ha toccata?».
«No». Cerco di liberarmi ma lei stringe più forte. «Non penso. Ho evitato tutti oggi».
Leo si avvicina «Stamattina hai parlato con Natalie. È da allora che sei strana».
«Sono strana da molto prima, credimi» brontolo.
Dhatri mi tira nel suo campo visivo. «Natalie ti ha toccata?».
«No» Scuoto la testa. «Perché è così importante?».
«Hai addosso un incantesimo. Garofani e fiori morti significa che è qualcosa di potente e di molto pericoloso» mi fissa con terrore «Concentrati, Evie. Ti hai mai toccata stamattina?».
Ripenso alla colazione. Al momento in cui mi ha messa alle strette al tavolo. Alla sua stupida proposta finta. E al secondo in cui si è sporta per toccarmi i capelli.
«Mi ha sfiorato una ciocca...» sospiro.
Dhatri sgrana gli occhi. «Oddio. Dobbiamo togliertelo, qualsiasi cosa sia».
Riesco a sfilare il braccio dalle sue mani terrorizzate. «Dovete calmarvi, io mi sento bene».
«No che non stai bene» tuona Dhatri alzando una folata di vento gelido «Quella strega ti ha incantata e non sappiamo che cosa sia, quindi ora ti alzi e ti fai aiutare!».
La sua determinazione mi coglie di sorpresa e mi fa ubbidire come un cagnolino. «Va bene, mi alzo». Appoggio le mani sui fianchi e aspetto. «Toglimelo».
Lo sguardo spavaldo di Tree si offusca e la ragazza timida esce dall'armadio. «I-io n-non posso».
Non ci credo. «Mi hai urlato di alzarmi e non puoi aiutarmi?».
Arrossisce come un peperone maturo. «L'i-incantesimo è troppo potente, rischierei di fare solo danni» sospira «Dobbiamo portarti da una strega più forte».
«Non andremo dalla preside» metto in chiaro.
Leo e Dhatri sbuffano in contemporanea. «È la strega più potente, non abbiamo scelta».
Agito la testa con convinzione. «Vorrà sapere chi è stato e non ho intenzione di creare altri drammi» mi avvio verso la scuola indicandogli di seguirmi «Andremo da un'altra persona, fidatevi».
 
Kester ci scruta con astio e con il naso aquilino completamente arricciato. Tiene una mano ferma sullo stipite e con l'altra stringe la porta del suo studio. «Non ho ben chiaro perché siete qui».
Sbuffo. «Natalie mi ha incantata con qualche tipo di sortilegio e abbiamo bisogno del suo aiuto per toglierlo».
Stringe il legno. «Questo l'ho capito, vorrei sapere perché siete qui e non dalla preside».
«La preside farebbe un sacco di domande e vorrebbe sapere il nome del colpevole» spiego.
Scrolla le spalle e lascia andare la porta. «E perché io non dovrei fare domande?».
Nate, Leo e Dhatri varcano la soglia ed entrano nella stanza. Avanzo attraverso l'arco della porta e una forza magnetica mi trattiene in corridoio. Il mio corpo sbatte contro un muro invisibile e si paralizza. Kester inclina un sopracciglio «Qualche problema?» domanda con sarcasmo.
Stupida legge vampiresca. «Mi può invitare ad entrare?» mormoro tra i denti.
Sogghigna. «Entri pure, signorina Morgan».
La forza invisibile smette di spingermi e finalmente entro nello studio. Kester mi fa sdraiare su un tavolo di pietra pieno di incisioni e candele. «Come fate ad essere sicuri che sia un incantesimo?».
«Nate ha detto che odora di garofani e fiori morti» spiega Leo.
Kester si acciglia «Non è un buon pronostico».
Alzo la testa. «Perché?».
Lui mi spinge di nuovo contro la pietra. «Quell'odore in particolare indica incantesimi potenti e relativi alla memoria» sospira «Ho bisogno che mi dica tutto quello che ha sentito oggi. Tutte le emozioni che l'hanno invasa diverse dal solito».
Fisso il muro muffoso. «Ho avuto dei flashback di una persona che ho perso».
Mi osserva concentrato. «Erano ricordi dolorosi? Parlo di sofferenza allo stato puro, non di qualche rimorso».
«È stato più doloroso della prima trasformazione» ribatto a denti stretti.
Kester rimane immobile a lungo, poi alza le mani accendendo le candele intorno sul tavolo e spegnendo quelle della stanza. «Ho capito di cosa si tratta e sarà doloroso».
Annuisco «Va bene».
Cerca il mio sguardo. «No, signorina Morgan, sarà più doloroso di quello che ha sentito oggi».
«Posso gestirlo» affermo «Lo faccia».
Schiocca le dita e un tomo di pelle nera gli compare in mano. «Cercate di tenerla ferma, soprattutto lei, signor Rover».
Dhatri e Leo mi afferrano le gambe e Nate mi appoggia un braccio all'altezza delle clavicole. «Ottimo» mormora Kester «Cominciamo». Chiude gli occhi e si concentra, con il tomo aperto in una mano e l'altra che si agita in aria con eleganza. Borbotta frasi incomprensibili e l'aria nella stanza comincia a condensarsi. Percepisco l'energia che scivola contro le pareti e confluisce verso di lui. Quando la sua mano si avvicina al mio corpo disteso, mi irrigidisco di colpo. Il dolore mi risale lungo le ossa delle gambe e si propaga verso l'alto. È strisciante, pesante e sordo. Mi stringe le budella in una morsa lancinante, facendomi divampare in un urlo sovrumano. Infilzo le unghie nella pietra e cerco di non dibattermi quando le mani dei miei amici mi spingono giù. Il dolore mi attraversa le costole come una serie di pugnali incandescenti. Urlo con più forza scalciando Leo e Dhatri il più lontano possibile. I canini mi si infilzano nel labbro mentre lo stringo con forza.
Il dolore risale lungo il collo e si espande nella testa come una bomba nucleare. La vista mi si appanna e i suoni mi arrivano ovattati. L'unico oggetto solido che riesco a percepire è il braccio muscoloso di Nathan che mi tiene saldamente contro il tavolo. Mi concentro su di lui. Sulla sua pelle premuta contro la mia, sul suo calore e sul suo odore finché il dolore non comincia a sciamare. Quando è finalmente scomparso, sono esausta e senza fiato. Il braccio caldo di Nate si allontana lasciandomi infreddolita. Kester entra nel mio campo visivo e mi appoggia una mano sulla spalla. «È stata molto brava. Provi a mettersi seduta, lentamente».
Faccio come dice e mi tiro su. Dhatri e Leo mi osservano preoccupati. «Scusate se vi ho fatto male».
Leo scuote la testa. «Non ci hai fatto male, è che sei troppo forte per noi».
Guardo Nate. «Grazie dell’aiuto».
I suoi occhi scuri sono pieni di dolore e di paura, le mani gli tremano leggermente lungo i fianchi. «Nulla...» bofonchia allontanandosi.
Kester mi porge un fazzolettino. «La sua forza mi stupisce ogni giorno di più».
Mi tampono il labbro spaccato e asciugo il mento sporco di sangue. «È stato peggio di quello che mi aspettavo».
Lui si adombra «L'incantesimo che aveva addosso si chiama Homicida non recordabor».
Dhatri sobbalza squittendo «Oddio...».
Osservo Kester confusa «Che cos’è?».
La sua faccia grigia si raggrinzisce ulteriormente «È un incantesimo di morte. La vittima rivive i ricordi più dolorosi della sua vita finché la sua mente non riesce più a reggere e lo spinge al suicidio» sospira «La poca esperienza della signorina Wood con l'incantesimo e la sua incredibile forza mentale l'hanno salvata da morte certa».
Dhatri si stringe nelle braccia. «Per controllare un incantesimo del genere ci voglio almeno vent'anni di esperienza, come ha fatto Natalie ad eseguirlo?».
Kester si accomoda su una sedia impolverata. «Non lo ha eseguito da sola, questo è ovvio».
Leo mi appoggia una mano sul braccio. «Lo devi comunicare alla preside, Evie. Quell'incantesimo fa parte del lato della magia oscura».
Scendo dal tavolo sentendo i muscoli urlare ad ogni movimento. «La magia oscura?».
Dhatri mi aiuta a restare in piedi offrendomi un braccio. «La magia si dive in due, come ogni cosa del resto. C'è la magia bianca, quelle che è insegnata a scuola e che i bravi maghi devono sempre utilizzare. È sicura, utile e non è in grado di fare danni».
Kester arriccia le labbra facendo ondeggiare i baffi. «Invece la Magia oscura è pericolosa, usata solo per scopi malvagi e una buona parte di essa è severamente proibita».
Dhatri si accarezza la cicatrice lungo il collo. «La magia oscura è potente e serve solo a fare del male».
La sua sofferenza mi investe come uno tsunami, non ci voglio certo dei poteri sovrannaturali per capire che Natalie ha usato la magia oscura per farle del male. «Non ho prove contro di lei» affermo.
Kester fa schioccare la lingua. «Non ha importanza, lo riferirò io alla preside e ci penserà lei».
Nathan lascia il suo strano silenzio e ringhia «Sì certo, come ha sistemato la faccenda per Dhatri. Natalie le ha dato fuoco e invece di essere punita, se ne va in giro come se fosse la regina del mondo».
Tree sussulta e abbassa lo sguardo per terra. Il suo odore terrorizzato e disperato si intensifica. 
«Signor Rover» lo rimprovera Kester «Pensi prima di aprire la bocca». Nate sbuffa e si ritira di nuovo nel suo silenzio. «Ora tornate nei dormitori, abbiamo finito».
Dhatri sgambetta fuori velocemente seguita da Leo. Nate cammina lentamente fuori dall'edificio e attraverso il cortile. Lo sguardo ombroso non ha ancora lasciato il suo bel viso. Lo affianco e gli mollo un colpetto con la spalla. «Ho di nuovo il mio odore, ora?».
Mi lancia un'occhiata e poi annusa l'aria che mi circonda. «Sì, sai di nuovo di Evie».
«Cioè?» chiedo curiosa.
«È particolare, un misto di sangue e vaniglia» afferma.
Mi si secca la bocca. «Non deve essere piacevole da annusare» borbotto. 
Si ferma e cerca il mio sguardo «Credimi, è tremendamente piacevole». Mi regala un sorrisino sghembo e ricomincia a camminare lasciandomi a fare i conti con i pipistrelli nell'addome.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3940525