I Pompuledii

di Genziana_91
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: La foresta degli spiriti inquieti ***
Capitolo 2: *** 1. Nevio, figlio di Pompo ***
Capitolo 3: *** 2. Vesullia, figlia di Pompo ***
Capitolo 4: *** 3. I tumuli di Incerulae ***
Capitolo 5: *** 4. I Pompuledii non hanno paura ***
Capitolo 6: *** 5. Imboscata ***
Capitolo 7: *** 6. L'albero della Morte ***
Capitolo 8: *** 7. Un buon capo ***



Capitolo 1
*** Prologo: La foresta degli spiriti inquieti ***


La Foresta degli Spiriti Inquieti 
 
Il vento gelido cessò la sua furia e l’ultimo uomo del manipolo esplorativo esalò. Su un tappeto di foglie morte e coperte di brina, il sangue dei guerrieri fumava, ancora caldo, ancora rosso, mentre il silenzio calava, profondo ed inespugnabile, sulla foresta. La luna, nascosta da un cielo carico di neve, diffondeva un pallore ineffabile, ignaro della furia che pochi istanti prima si era scatenata tra gli alberi e le rocce spoglie di quella gola nascosta tra le montagne. Una decina di uomini giaceva senza vita, trafitti da frecce e lance: non un colpo di spada, non uno scudo ammaccato. 

La morte era piombata dal folto del bosco, senza grida, senza volti, senza preavviso e allo stesso modo se n’era andata, lasciando una scia di sangue e cadaveri a macchiare il bianco immacolato dell’inverno.
I morti insepolti generano spiriti inquieti, incattiviti dal diritto negato di banchettare con i propri avi nelle sale oltre il sole. Le loro anime già si ammassavano sulle sponde dell’esistenza per rendersi presto conto che nessuna nave li avrebbe traghettati dai loro antenati. La loro rabbia già ribolliva tra i sussurri del bosco, si annidava negli anfratti oscuri tra le rocce e le foglie morte. A casa, le loro donne avrebbero intonato un canto funebre e lamenti, ma nessuna si sarebbe avventurata in quella gola stretta, pavimentata di ossa e guardata da spiriti maledetti.

Solo un pazzo avrebbe sfidato i morti.

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Capitolo 2
*** 1. Nevio, figlio di Pompo ***


1. Nevio, figlio di Pompo
 
Il corno suonò due volte, poi tacque. I volti degli uomini e delle donne del villaggio erano grigi e pallidi nel nevischio mattutino di inizio inverno, il vento era l’unico suono.

Nevio rabbrividì e si allacciò ancora una volta i nodi della sottile corazza di pelle che gli copriva il busto: le mani erano gelide e rigide, nonostante nel grande braciere al centro del piazzale ardesse un fuoco alto e brillante. Il suo calore, tuttavia, non penetrava nei cuori affranti degli abitanti di Aufino, il grande forte ai piedi delle montagne. Quella mattina, la neve immacolata della fattoria dei Sekii era stata sciolta e macchiata dal sangue di tre dei suoi cinque abitanti, lasciando una vedova e il maggiore dei figli a piangere sui corpi dilaniati della loro famiglia. Nevio conosceva bene Sekus, l’unico maschio sopravvissuto e il più vicino dei suoi fratelli in arme, e non riusciva a capacitarsi che Vetilla non fosse ormai altro che una sagoma avvolta in un panno bianco su uno dei catafalchi davanti a lui, fredda e immobile come le rocce delle grandi montagne attorno al villaggio. Un peso allo stomaco gli tolse il respiro. Non l’avrebbe più sentita ridere, né vista scendere a valle a prendere l’acqua con sua sorella Vesullia. Non si sarebbe più dovuto lamentare dei dispetti di quelle due, né del loro interminabile chiacchiericcio. Sbirciò di soppiatto nella direzione di Vesullia. Chiunque, vedendoli, avrebbe indovinato che erano gemelli, due immagini speculari dello stesso viso. Un viso che ora era una maschera immobile di ghiaccio.

La mano di suo padre Pompo, il saggio e valoroso capo villaggio, si posò pesantemente sulla spalla di Nevio e lo indusse a ricacciare indietro il groppo che gli stringeva la gola. A suo padre non sarebbe piaciuto vederlo versare lacrime. Lo avrebbe ritenuto debole, poco degno di un guerriero. Eppure, chi aveva ucciso Vetilla, suo padre e il più giovane dei suoi fratelli, si definiva guerriero. Pompo stesso, li aveva definiti tali. Non aveva importanza che avessero massacrato un’intera famiglia nell’ora più buia della notte solo per rubare delle pecore. Quello era il gioco letale a cui i guerrieri Vestini giocavano da secoli, senza esclusione di colpi. Quello era il gioco a cui Pompo si aspettava che Nevio giocasse e suo figlio non lo avrebbe deluso, non quella mattina.

Il corno suonò di nuovo e i giovani guerrieri si radunarono davanti all’anziana sacerdotessa. Aveva la pelle scura e rugosa come il guscio delle noci ed era avvolta in pelli di bue e vesti blu. La donna intonò una litania bassa e gutturale, un muggito selvaggio di un toro pronto a caricare, poi spalancò le braccia invocando il grande Padre Fiscu e la grande madre Maja. Chiese loro di guidare i giovani tori nella loro spedizione, poi estrasse un sacchetto da sotto le vesti e lo aprì sul terreno davanti a lei. Le falangi di pecora rotolarono a terra in un disegno misterioso, che solo la vecchia poteva vedere. Annuì, poi posò i suoi occhi antichi su Nevio e disse con voce ultraterrena:
Gli dei vi sorridono, giovane Nevio, rispettane la voce.” Poi tacque e si ritirò dalla folla.

Il giovane si voltò verso i suoi, un pugno di ragazzi poco più adulti della prima rasatura, e sentì addosso tutto il peso del compito affidatogli. Che l’uccisione dei Sekii fosse stata accidentale o parte di un piano più strutturato, il punto era uno e uno soltanto: sangue chiamava sangue. Si scambiarono un cenno di intesa e la piccola folla si aprì davanti a loro, verso la porta del villaggio, verso la valle imbiancata e verso la foresta, minacciosa e oscura.

Nevio gridò. Un ruggito di battaglia si alzò dal villaggio, riecheggiò nella valle, rimbombò tra le tombe degli avi fino a giungere, simile ad un sussurro, alle orecchie di Anco e dei suoi uomini, ormai lontani ma con le mani ancora sporche del sangue dei Sekii.

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Capitolo 3
*** 2. Vesullia, figlia di Pompo ***


Un ululato riecheggiò nel grigiore della valle, si insinuò con il vento freddo tra i tumuli coperti di erba secca e nevischio e giunse a Vesullia. Il funerale era finito da un po’, ma la ragazza continuava a fissare il cippo innalzato di fresco sulla tomba di Vetilla. La terra bianca e appena smossa la ipnotizzava, un doloroso promemoria dal quale non riusciva a staccare lo sguardo. Dopo un’eternità, chiuse gli occhi e lo sentì. Chiaro come una voce, il gorgoglio sommesso del fiume Ombro la chiamò a sé. Lo seguì ancora più a valle, tra le basse colline e i rivoli di acqua che sgorgavano ovunque ai piedi di Aufino. Si inoltrò nel bosco, tra le querce sacre al fiume e agli spiriti che lo abitavano, e li sentì radunarsi attorno a sé. Le chiome brune degli alberi la proteggevano dal nevischio mentre il sentiero la portava sempre più giù, dove le acque si stringevano in una piccola gola.

Da piccoli, lei e Nevio avevano giocato spesso in quei boschi, ma solo una volta si erano spinti fino a quella strettoia, dove l’acqua ribolliva bianca e creava nuvole di goccioline. Era stato qualche settimana dopo la morte della madre. Che le persone morissero non era strano. La morte era sempre agli angoli del visibile, un’ombra che colpiva senza preavviso e senza uno schema: non aveva senso temerla né considerarla ingiusta. La morte di Statia era stata improvvisa e senza una causa evidente, aveva semplicemente smesso di respirare. Quel giorno nella gola, però, i due bambini se l’erano trovata di fronte, giovane e austera come l’avevano vista sul letto funebre. La collana di ambra e vetro le cadeva elegante sul petto, proprio come Vesullia stessa l’aveva disposta qualche settimana prima. La donna aveva solo sorriso, agitando lieve la mano, poi era scomparsa. Da allora né Vesullia né il gemello avevano più messo piede tra quelle rocce chiare e levigate dall’acqua.
 
Quella mattina di inizio inverno, però, la ragazza aveva sentito di nuovo gli spiriti chiamare. L’anziana sacerdotessa l’avrebbe messa in guardia e forse le avrebbe impedito si seguirli, ma Vesullia non poteva ignorarli, lo sapeva visceralmente. Giunse infine sulle rive dell’Ombro, largo meno di tre passi in quel punto, e si inginocchiò sulla terra bruna e scivolosa. Allora, il vento soffiò più forte tra gli alberi e il fruscio delle foglie secche cantò la sua oscura canzone.
Vesullia lo vide con la chiarezza della mente, mentre le mani affondavano disperate nel muschio morbido e umido: un giovane toro bicefalo in una lotta furiosa con un toro adulto, corna contro corna in una battaglia primordiale e senza tempo. Poteva sentire vividamente i tonfi dei palchi incastrati l’uno a l’altro, i muggiti feroci, gli zoccoli impetuosi al suolo. Poi all’improvviso un’ombra scura li avvolse in un abbraccio freddo e soffocante, una stretta letale che li costrinse avvinghiati. Quando l’oscurità davanti a lei si dipanò, il toro bicefalo giaceva a terra ferito e morente, le sue teste divise, il corpo tranciato a metà.
Aprì gli occhi con foga e sentì il cuore battere furioso contro il petto. Attorno a lei, il gorgoglio del fiume e il mormorio del vento la rassicurarono ma non cancellarono quell’opprimente sensazione di angoscia avvinghiata allo stomaco. Guardò il cielo e oltre la corona dei rami vide grandi nuvole cariche di neve traboccare dalle creste dei monti al limitare della valle. Il cuore le si strinse. Inspirò l’odore del sottobosco gelato, del muschio e della neve che da qualche parte più a monte già scendeva copiosa, e prese la sua decisione.

Poche ore dopo, quando la luce del giorno era ormai morente dietro le cime più alte, Vesullia sgusciò tra le prime ombre. Indossava abiti comodi e un occhio disattento avrebbe potuto scambiarla per una versione sbarbata di suo fratello. Non si diede pena di avvertire suo padre. Non avrebbe capito. Scese a valle, mimetizzandosi fra gli ultimi aufinati che si attardavano a casa, poi prese il sentiero che portava a nord, verso le grandi montagne. Sentì su di sé lo sguardo severo del Padre Fiscu e quello preoccupato della Madre Maja e chiese agli spiriti che proteggessero Nevio e che lo tenessero lontano dalla foresta.

Rabbrividì, sapendo in cuor suo che le sue preghiere erano vane.

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Capitolo 4
*** 3. I tumuli di Incerulae ***


3. I tumuli di Incerulae
 
Nevio era consapevole dei compagni attorno a lui. Poteva sentire la rabbiosa impazienza di Seku, l’eccitazione della caccia di Vetio, la pacata furia di Stetio e la cieca fiducia che tutti gli altri nutrivano per lui. Ne sentiva il peso addosso, come se portasse i suoi uomini sulle spalle, uno per uno. Attio, Decio, Nerio, Vibio, Minio: ragazzi più che uomini, giovani mastini alla loro prima caccia, assetati di sangue e ubriachi di storie. Avrebbero avuto sangue e Nevio sperava solo che non fosse il loro.
Avevano tenuto un passo sostenuto per gran parte della giornata precedente, quando le tracce di Anco e dei suoi erano ancora fresche. Le avevano seguite senza sosta anche quando erano uscite dal sentiero, quando la neve le aveva in parte coperte, persino quando l’acqua semi-congelata di qualche ruscello avrebbe potuto fuorviare un cacciatore meno abile di Vetio. Avevano attraversato valli e scalato colline, su erba e rocce e per un breve momento li avevano avvistati mentre scendevano, quasi correndo, un crinale.

A sera, quando ormai non era più possibile distinguere gli spiriti dai vivi e quando la neve aveva cominciato a coprire ogni cosa, Nevio aveva ordinato, a malincuore, ai suoi di fermarsi. Fecero campo nei pressi di un piccolo tumulo, riutilizzato di recente, non più di un mese prima a giudicare dalla terra smossa. Con una fitta di preoccupazione, si resero conto che si trovavano al limitare del territorio degli Incerulani, una tribù con cui troppo spesso Pompo era arrivato ai ferri corti. L’ultima volta era stata solo l’anno scorso, quando l’anziano capo di Incerulae era morto e suo figlio aveva indetto una spedizione.
La scusa era stata uno scambio di formaggio che si era guastato troppo presto, ma la verità era che il neo-capo non aspettava altro per suggellare la sua carica che un nemico contro cui scatenare gli animi irrequieti dei suoi guerrieri. E così, in un caldo mattino di metà estate, quando il bosco è secco e il legno brucia rapidamente, gli Incerulani avevano appiccato le fiamme ad una delle fattorie al margine della valle. Il fuoco aveva divampato rapidamente e aveva presto attecchito nel sottobosco, fino a divorare, per giorni, ogni cosa che si parasse sul suo cammino. Vi erano volute dieci notti e due piogge torrenziali per spegnere l’ultimo tizzone. La risposta di Pompo non aveva tardato ad arrivare. Per mesi si erano susseguite imboscate e scaramucce che avevano impedito al ricco commercio costiero di grano e oggetti di pregio di penetrare fino alle valli interne di Incerulae. Allo strenuo e ormai preoccupati  di non avere abbastanza provviste per affrontare l’inverno, questi ultimi avevano ceduto ad una pace svantaggiosa quanto precaria.

Ed ora, qualche mese dopo, Nevio era in procinto di addentrarsi tra quei boschi nemici che non aspettavano altro che un gruppetto sparuto di inesperti guerrieri per prendersi la loro vendetta. Così, davanti ad un fuoco troppo fumoso per scaldare, Nevio e i suoi si consultarono sul da farsi.
  “Per ogni momento che passiamo oltre questi tumuli, il rischio di un attacco aumenta a dismisura. Non possiamo permettercelo, non siamo equipaggiati contro gli Incerulani.” Stetio era un ragazzo alto e grosso come un giovane toro, con un tono di voce che difficilmente si alzava.
  “Stai suggerendo di rinunciare, Stetio?” Seku aveva parlato molto poco dalla notte precedente, covando in silenzio una furia omicida che gli illuminava lo sguardo.
  “No, non sta suggerendo questo. Sta solo illustrando i fatti. Ha ragione, una volta dentro i confini Anco per noi diventerà l’ultimo dei nostri pensieri, dobbiamo inventarci qualcosa.” Intervenne Nevio.
I giovani guerrieri rimasero a fissare le fiamme che sibilavano dal legno umido. Alla fine, Vetio si alzò, il viso illuminato di una nuova eccitazione:
  “Ce l’ho.”

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Capitolo 5
*** 4. I Pompuledii non hanno paura ***


‘I Pompuledii non hanno paura’
 
I menhir degli antichi tumuli si stagliavano dritti come guerrieri. Alti e impassibili, guardavano il paesaggio attorno a loro mutare stagione dopo stagione, orgogliosi mementi di qualche antica impresa. Lì, tra quelle antiche pietre e nel turbinio del nevischio, gli spiriti degli antenati si aggiravano, inquieti. Ultime ombre di un passato dimenticato, guardavano i confini e segnavano la terra dei loro figli, la rendevano inalienabile. I confini appartenevano ai morti e nessuno era pazzo a sufficienza da sfidarli, tranne Nevio.

Idiota, pensò Vesullia.

Le tracce del bivacco erano chiare come le acque dell’Ombro. Persino un cieco le avrebbe viste da lontano. I resti di un fuoco erano stati dissimulati da terra smossa e neve, ma le impronte a terra tradivano fino all’ultimo uomo del gruppo. I giovani guerrieri erano sempre i più incauti. Credevano di essere immortali, ma le donne a casa sapevano la verità. Nel sudore degli allenamenti e nella grande sala di Pompo si narravano leggende di eroi valorosi che avevano sfidato gli spiriti e il fato. Ma tra le donne, nelle lunghe ore al telaio, le leggende diventavano storie di uomini e troppo spesso gli uomini muoiono.

Nevio e i suoi non potevano aver lasciato quel posto all’ombra dei tumuli di Incerulae prima di quella mattina. Vesullia si aggirò tra le tombe, cercando di non lasciare tracce, il più possibile leggera sui sassi e sulla neve fresca. Vetio non avrà avuto problemi a seguire Anco e i suoi, sorrise la ragazza mentre tra le impronte più recenti dei suoi compaesani intravedeva a tratti i segni di un passaggio precedente. Vetio era bravo a leggere le piste, ma a quanto pare non altrettanto a coprirle. Vesullia era stata in grado di seguirle fino a lì senza problemi, nonostante non fosse una cacciatrice, tra vallate e pendii. Per fortuna la neve aveva cominciato a cadere sostenuta e a piccoli fiocchi compatti solo dopo il sorgere del sole.
Tuttavia, qualcosa in quel disordine di terra, neve e rami spezzati la mise in allarme.

Fu forse un fruscio tra gli alberi circostanti, uno svolazzo improvviso, un fremito eccitato tra gli spiriti di quel luogo. Vesullia li poteva sentire radunarsi attorno a lei, ma non ne comprendeva il motivo. Si guardò attorno inquieta, cercando un segno che le dicesse cosa stesse accadendo, ma il silenzio immacolato del bosco fu l’unica risposta. Poi lo sentì: minuscolo, impercettibile, un fiato nel gelo mattutino.

Scattò. Cominciò a correre come se gli spiriti stessi le stessero addosso e li vide chiaramente: cinque, forse sei uomini uscirono allo scoperto cercando di chiuderle le vie di uscita. La ragazza balzò in avanti con il cuore che le pompava feroce contro il petto, la neve gelida che le pungeva il viso e la vista ormai ridotta ad un’unica imperativa necessità: evitare di cadere. Saltò tra rocce e tronchi, a mala pena consapevole delle urla e dei richiami degli uomini attorno a lei. Si aspettava delle frecce che non arrivarono, ma non si fermò. Continuò a correre senza pensare, senza fermarsi, finchè non sentì le gambe bruciare come ciocchi nel fuoco e allora si infilò in una cavità sotto un grande albero morto. Sta per collassare, pensò con distacco. Le radici, ormai quasi del tutto sradicate, creavano un riparo dalla vista e dalla neve, mentre il tronco e i rami pendevano ormai senza vita verso il declivio roccioso.
Attorno a lei il bosco era di nuovo silenzioso. Respirò e si vergognò di aver avuto paura. I Populedii non hanno paura, le sembrò di sentire suo padre lì in quel momento. Rimase lì a prendere fiato per un po’, nascosta tra i rami morti e i viticci di rampicanti parassiti. Ascoltò il bosco, il rumore della neve che cadeva, gli animali alle prese con la loro lotta quotidiana alla sopravvivenza. Si era quasi decisa a lasciare il suo nascondiglio, quando udì delle voci maschili attutite dalla nevicata farsi sempre più vicine. Non capiva cosa dicessero, troppo lontani e il loro dialetto troppo stretto perché potesse comprenderli chiaramente, ma capì che si lanciavano richiami: stavano battendo il bosco, cercandola. La neve, una cortina di sfumature di bianco e grigio, riempiva l’aria, sempre più fitta e intensa.

Si azzardò a lasciare il proprio nascondiglio, sperando di confondersi tra le ombre del bosco e seppe subito che era stato un errore. Dopo qualche momento le voci si fecero più concitate e vicine. Il cerchio di uomini le si stava progressivamente stringendo attorno, chiudendola verso il declivio, ma il vento freddo le pungeva la pelle scoperta e la neve in faccia le impediva di vedere con chiarezza. Cercò di correre, ma le folate di vento facevano troppa resistenza. Sentì lo stomaco chiudersi in una morsa di angoscia. Era stata sciocca, come suo fratello. Come aveva potuto essere così sciocca? Gli uomini erano sempre più vicini, li sentiva chiuderle la fuga da ogni lato. Il respiro le si fece corto mentre cercava di scacciare la morsa alla gola che le impediva di respirare, di pensare, di muoversi. Si accasciò a terra. Sentì la neve bagnarle i primi strati delle braghe, il gelo infilarsi tra le pieghe dei vestiti. Le voci erano ormai sopra di lei ma la ragazza non sentiva più nulla. Le mancava l’aria e il petto bruciava nonostante il vento gelido.

Boccheggiò, poi venne il buio.

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Capitolo 6
*** 5. Imboscata ***


5. Imboscata
 
Attesero. Mentre il nevischio cadeva sempre più fitto, Nevio e i suoi aspettavano accucciati tra i bassi arbusti lungo il pendio. Vetio aveva avuto una buona intuizione e la strettoia sul sentiero avrebbe fatto al caso loro. Non avevano avuto molto tempo per organizzarsi, ma era bastato perché potessero dividersi in due squadre, una all’imbocco e una all’uscita di quella piccola valle lunga  e stretta, quasi una gola. Da una parte era chiusa da un ripido versante coperto di bassi arbusti, dall’altra, a circa cento passi dal sentiero, incombevano le ombre della Foresta degli Spiriti. Un uomo sarebbe morto prima di avventurarsi tra quegli alberi.

La neve aveva ormai coperto il sentiero, quando infine Anco e i suoi uomini comparvero a sud. Nevio sentì accanto a lui Minio, il più giovane del gruppo, agitarsi. Scambiò uno sguardo d’intesa con Vetio e Decio, poi incoccarono le frecce. I lunghi archi in solido legno frusciarono contro i rami secchi e per un momento i ragazzi si immobilizzarono. Poco dopo, i loro bersagli entrarono nella valle. Nevio ne contò quattordici e lanciò un’occhiata preoccupata a Vetio. Più di quanti ne avessero ipotizzati. Più di loro. Caricarono gli archi. Il legno scricchiolò e si oppose allo sforzo dei guerrieri. Attesero ancora un istante, poi, ad un segnale impercettibile, scoccarono.

Dalla valle sottostante, oltre la cortina di neve, giunsero grida di sorpresa e allarme. Nevio e i suoi caricarono e scoccarono di nuovo. Il vento sempre più intenso si infilava nella stretta valle, turbinando e alzando sbuffate di neve fresca. Anco diede un ordine che venne inghiottito dalla neve, mentre gli attaccanti tiravano una nuova ondata di frecce. Un grido agonizzante disse loro che almeno una era arrivata al bersaglio. Nevio diede il segnale altre due volte e il fruscio letale degli archi venne coperto dalle urla sottostanti di Anco che organizzava i suoi per coprire il fianco, mentre si affrettavano verso nord, dritti verso l’uscita della valle. Dritti verso Seku.

Fu questione di istanti, poi le grida si fecero più forti e l’inconfondibile rumore della battaglia riempì la gola. Nevio e gli altri tre si mossero rapidi in orizzontale lungo il pendio e sottovento. Ormai lo scontro era troppo intenso perché si potessero scoccare frecce senza il rischio di colpire i loro compagni, perciò Nevio diede il segnale e caricarono dall’alto. L’odore del sangue e del sudore aggredì le narici gelate di Nevio quando uno degli uomini avversari si voltò verso di lui. Il giovane sollevò il piccolo scudo in pelle per parare un colpo e nello stesso movimento aprì la guardia dell’avversario. Svantaggiato dal dislivello, l’uomo non riuscì a parare in tempo e la spada di Nevio trovò il morbido tra le placche di cuoio bollito e infine la carne del collo. Quando Nevio estrasse la lama, uno schizzo di sangue bollente gli sporcò il viso, ma il ragazzo lo sentì a mala pena. Attorno a lui, grida e sangue macchiavano la neve. Cercò Anco e si fece strada verso di lui. Si sentiva intoccabile, il tempo infinitamente lento mentre schivava, parava, contrattaccava, a volte feriva, forse uccideva. Sapeva di essere coperto di sangue e non era sicuro che non fosse il suo. Il cuore impazzito sotto la corazza, infine raggiunse il suo avversario. Anco stava ordinando ai suoi di compattarsi, gli scudi affiancati in una linea serrata.

Nevio richiamò Seku e gli altri e li sentì allinearsi accanto a lui in una formazione simile. Vide alcuni dei suoi feriti e coperti di sangue, altri non li vide affatto. Ne contò sette e gli si strinse il cuore. Dall’altra parte, tuttavia, gli avversari sembravano aver perso più uomini. Nevio e Seku, spalla a spalla, avanzarono in una linea compatta. Gli avversari arretrarono, le propaggini della Foresta sempre più vicine. Un fremito attraversò gli uomini di Anco, poi urlarono e caricarono. Gli Aufinati non si scomposero e assorbirono il colpo, e la battaglia ricominciò con lo stesso furore di prima. Nevio si trovò schiena contro schiena con Stetio mentre attorno a loro gli attaccanti si facevano sempre più numerosi. Da qualche parte oltre la linea nemica, Seku aveva ingaggiato lo scontro con Anco.

Nevio e Stetio, ormai accerchiati, lottarono come cinghiali messi all’angolo. Con il favore degli spiriti, quella sera avrebbero banchettato nelle sale oltre il sole, in compagnia degli antenati. Non avrebbero sfigurato. Nevio parò un colpo con la spada, ma si scoprì troppo e un colpo di taglio avversario colpì sull’avambraccio destro, rallentandolo. Arretrò cercando di coprirsi con il piccolo scudo in pelle e legno. Sul fianco sinistro un altro approfittò della guardia aperta e, colpito da un bruciore improvviso e lancinante, Nevio si accasciò a terra. La neve era ormai ridotta ad una poltiglia di fango e sangue. Sopra di lui, come un gigante delle leggende, Stetio torreggiava. Aveva perso lo scudo e ora nella mano sinistra impugnava un corto coltello con cui parava e affondava in disperata sincronia con la spada. Nevio premette una mano sul fianco, caldo e bagnato, nonostante il freddo pungente. L’altra mano era aggrappata alla spada. Da qualche parte oltre la selva impazzita di gambe e urla, Anco gridò qualcosa e i suoi uomini si ritirarono verso ovest, verso il margine della Foresta. Afferrando la mano tesa di Stetio, Nevio si alzò e gli parve che qualcuno gli avesse immerso del tizzoni ardenti nel fianco. Diede l’ordine di inseguire i nemici. Vide Anco voltarsi e sparire nel folto degli alberi. I suoi uomini esitarono, poi, incalzati da Seku, Vetio e Decio, seguirono il loro capo.

Nel giro di pochi istanti, le lunghe ombre della Foresta degli Spiriti inghiottirono ogni traccia di Anco e dei suoi. Che genere di capo porta i suoi compagni ad un destino peggiore della morte? Eppure, sul viso di Seku, Nevio poteva leggere la furia e l’indecisione.
“Seguiamoli, Nevio!” disse dopo un istante, incurante dei compagni caduti e feriti.
Nevio lo guardò, ormai completamente appoggiato a Stetio, a stento in grado di articolare pensieri “Ti rendi conto di dove siamo?”I contorni della realtà si facevano sempre più labili, le sue stesse parole gli arrivavano remote. Si sforzò di rimanere lucido, si aggrappò a quella discussione.
“Vorresti privarmi della mia vendetta?” Seku era una maschera animalesca.
“Gli spiriti di questo luogo maledetto si vendicheranno per te. Sii ragionevole”
“Lo sai che non è così che deve andare.” Seku si voltò verso la Foresta, pronto a versare con le sue stesse mani il sangue di Anco.

Dal nulla, un’unica freccia sibilò alle spalle del gruppo e si conficcò a terra, a pochi passi da Nevio e a tutti si gelò il sangue nelle vene.

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Capitolo 7
*** 6. L'albero della Morte ***


6. L'albero della Morte
 
Da qualche parte verso ovest, la Foresta ribolliva, rabbiosa. Vesullia sentì gli spiriti di quel luogo fremere come vipere infuriate, potenze antiche ed incattivite, una nube temporalesca che si preparava a scatenare la sua furia. Non aprì gli occhi. Il vento agitava con ferocia le cime più alte degli alberi, portando con sé grida di dolore e rabbia. Si concentrò sui suoni e le sensazioni intorno a lei: il freddo della neve le impregnava i vestiti, una striscia di stoffa ruvida le teneva insieme i polsi, voci maschili. Parlavano con un accento diverso dal suo, ma poteva capire gran parte delle frasi.
Tu rimani con lei. Noi attacchiamo alle spalle. Una lamentela, poi un ordine secco o qualcosa del genere. Le voci sembravano tante, troppe. Più degli uomini che aveva contato prima di svenire nel bosco.

Si concentrò sul suo respiro. Regolare e sommesso, dovevano credere che fosse ancora incosciente. Si immaginò tutt’uno con il vento, si vide con l’occhio dell’immaginazione stesa a terra, un groviglio di capelli scuri e vesti bagnate contro il grigio della terra gelata, e attese. I Pompuledii non hanno paura. Se lo ripeté due, tre, quattro volte, finché il ritmo di quella frase non si trasformò in certezza. Dopo un tempo infinito, gli uomini si allontanarono. Sentì le loro voci farsi sempre più attutite, mentre il bosco ne inghiottiva il suono e allora si azzardò socchiudere, poco alla volta, gli occhi.

L’avevano lasciata con un solo uomo, un’imprudenza che forse con suo fratello non avrebbero commesso. Ma d’altra parte, come biasimarli. Ai loro occhi non era che una ragazzetta arruffata e tutto naso. L’uomo non sembrava contento di stare lì seduto. Giocherellava insistente con il bordo della veste, di tanto in tanto tracciava segni per terra con un bastoncino. Vesullia si prese tempo per studiarlo. Era un uomo di corporatura imponente, i capelli e la barba biondicci erano ben curati secondo la moda dei Vestini. Non doveva aver superato di molto i venti inverni. Se non avesse saputo con certezza del contrario, Vesullia avrebbe potuto scambiarlo per un Aufinate. Vagliò le sue possibilità. I rumori di uno scontro più a valle le suggerivano che presto il resto degli uomini sarebbe tornato. Con un po’ di fortuna sarebbero stati meno di quanti erano partiti, ma la sua occasione di fuggire era adesso. Aprì del tutto gli occhi.

“Ben svegliata, ragazza.” L’uomo le lanciò un’occhiata senza muoversi dalla roccia su cui era seduto e le riservò un lieve sorriso.

Vesullia non rispose, si limitò a guardarlo di rimando, studiando con la coda dell’occhio i dintorni. Si trovavano da qualche parte a mezza costa sul colle che si affacciava ad ovest, verso la Foresta degli Spiriti. Non le era capitato spesso di avventurarsi tanto lontano da Aufinum, se non per qualche rara volta. Il sentiero su cui si trovavano scendeva scosceso verso sud e saliva altrettanto ripido verso nord. La vetta, da qualche parte sopra le loro teste, non doveva essere distante. Se Vesullia si fosse messa a correre ora, non sarebbe andata lontana.

Si alzò lentamente, sotto lo sguardo indagatore dell’uomo. Non sembrava allarmato, piuttosto, incuriosito. Forse sperava in un po’ di azione. Vesullia si guardò attorno e la vide, seminascosta sotto un garbuglio di neve e rami ingrigiti: una minuscola macchia rosso acceso spiccava sul pallore del sottobosco.

“Ti puoi girare?” Disse alla fine con voce roca.

Lui la studiò ancora un po’, poi ridacchiò e si voltò di spalle. “Lo sai vero, che non andresti lontano?”

Vesullia grugnì di rimando, si avvicinò alla macchia e la osservò da vicino. Esultò tra sé e sé. Svuotò la vescica e raccolse la bacca e una manciata di foglioline lunghe e ancora verdi attaccate al ramo. Le nascose nella manica.

“Ho fatto. Hai dell’acqua?”
“Quante pretese” sorrise e Vesullia si accorse che aveva gli occhi azzurri. Non aveva mai visto nessuno con degli occhi così chiari. “Tieni.” L’uomo le allungò la fiasca di pelle.
Vesullia bevve senza staccare lo sguardo dall’uomo, poi pulì con la manica l’orlo della fiasca, lasciando cadere le foglie e la bacca schiacciata al suo interno.

Non la richiuse e gliela porse.

L’uomo la prese e tirò giù una bella sorsata, prima di rimetterle il tappo e fare una piccola smorfia.

Vesullia sentiva il cuore batterle all’impazzata contro lo sterno, ma ora c’era solo da aspettare.

Intanto, più a valle, i suoni dello scontro si erano fatti più pacati, doveva essere quasi finito. Presto il resto del gruppo sarebbe tornato. Vesullia stimò di avere ancora poco più di mezzora, forse un’ora, se gli uomini se la prendevano comoda a risalire.

“Contro chi combattono?” Vesullia si sedette accanto all’uomo e questi le fece un po’ di spazio.
“Non dovrei dirtelo.”
“Non c’è molta scelta, in effetti.”
“Sei sveglia. Tuo padre non dovrebbe lasciarti scorrazzare per le montagne incustodita.” Ancora una volta, sorrise. Doveva essere un uomo buono, tutto sommato. Vesullia si sentì stringere lo stomaco.
“Mio padre non ha idea di dove sia.”
“Presto lo saprà. Sono certo che pagherà il tuo riscatto prima che tu te ne accorga.”
Vesullia esplose in una risata breve e amara. “È ovvio che non lo conosci.”
“No, non lo conosco. Me ne vuoi parlare tu?” Perché doveva essere così gentile?

No, Vesullia non voleva. Si chiuse in un gelido silenzio.
Le voci a valle erano ormai un chiacchiericcio confuso ed eccitato, troppo lontano perché si potessero distinguere le parole, meno che mai l’accento. Vesullia si sporse per guardare verso ovest e vide la colonna di uomini risalire. Più oltre, quasi con la stessa chiarezza, percepì gli spiriti della Foresta gonfiarsi e ringhiare come un branco di lupi pronti a sbranare la preda. Dove sei, Nevio? Aggrottò la fronte, ma un tonfo dietro di lei la strappò ai suoi pensieri. L’uomo era a terra carponi, bianco come un panno di lana e con lo sguardo allucinato. Continuava a fissarla, gli occhi chiarissimi ormai dilatati le gridavano addosso una feroce accusa. L’uomo cercò di alzarsi, ma una vertigine lo ributtò a terra mentre brividi sempre più forti lo scuotevano. Chiese aiuto, ma la ragazza rimase immobile, tutt’uno con il gelo della neve che aveva ripreso a cadere.

Le voci dal sentiero cominciavano a farsi vicine.

L’uomo si contorceva, devastato da convulsioni sempre più frequenti, e si teneva il petto mentre un grido gli rimaneva bloccato in gola. Vesullia lo ignorò, gli occhi puntati sul fodero che portava al fianco. Con la coda dell’occhio lo vedeva agitarsi, i lamenti sempre più disperati, sempre più deboli ad ogni ondata. Trovò un corto pugnale e tagliò la stoffa che le teneva insieme i polsi. L’uomo le afferrò il braccio, rabbia e supplica in un’ultima presa, ferrea e disperata. Gli occhi chiarissimi, ormai allucinati, non la vedevano più. La ragazza si divincolò, gli uomini sempre più vicini. Con uno strattone, si liberò dalla presa e corse giù per il declivio, fuori dal sentiero. Corse rotolando tra sassi e rami, portandosi dietro neve e terra, mentre le voci si facevano sempre più concitate e lontane.

Quando arrivò a fondo valle, ormai lontana dagli Incerulani, un pensiero agghiacciante le si fece strada in petto: Cosa ho fatto?
 
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NOTA AL TESTO
La pianta in questione è il Tasso (Taxus baccata), famoso nel medioevo per l'ottima qualità del legno, da cui si ricavavano i letalissimi long bow o archi gallesi. Al di là del tronco, tuttavia, il tasso è una pianta letale in quasi tutte le sue parti: se ingerite, le sue foglie provocano crampi addominali, vertigini, scompensi cardiaci e convulsioni che finiscono il più delle volte per essere letali. Lo stesso vale per i suoi semi, che hanno un'azione ancora più rapida e mortale. La pianta raggiunge il picco di tossicità in inverno, quando gli effetti possono colpire entro ca. 30 minuti dall'ingestione. Per quanto oggi il tasso sia una pianta protetta e in via d'estinzione, al tempo in cui si svolge questa storia, esso doveva essere largamente diffuso nell'area Appenninica pedemontana, in un range di altitudine tra i 600 e i 1000 metri sopra il livello del mare. Nella cultura popolare, il tasso è spesso chiamato "l'albero della morte" (da cui il titolo), essendo altamente letale sia per l'uomo che per gli animali.

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Capitolo 8
*** 7. Un buon capo ***


7. Un buon capo
 
Nevio alzò lo sguardo sulla cresta al di sopra la valle e per un momento il coraggio venne meno. Ovunque guardasse, da nord a sud, uomini armati di archi li sovrastavano. Il vento si fermò e il solido sostegno di Stetio oscillò per un istante. Erano circondati. Gli Incerulani occupavano ogni sperone visibile e li tenevano sotto tiro da ogni angolazione possibile.

Erano in trappola.

Nevio non riusciva a pensare, il fianco aveva smesso di bruciare e ora era diventato un dolore sordo e costante che gli annebbiava le idee e rendeva gli angoli della visuale sfumati, sempre più incoerenti. Le voci dei compagni gli arrivavano lontane, ma si sforzò di mettere insieme i pensieri.
“Se corriamo abbastanza veloce possiamo farcela.” Stetio aveva ripreso stabilità e ora stringeva Nevio in una presa ferrea per tenerlo più o meno in piedi.
“Sei pazzo, la Foresta è un passo da noi, gli alberi ci copriranno.” Seku continuava a lanciare occhiate dietro di loro, verso la scia tra gli alberi lasciata pochi istanti prima da Anco.

Un segnale invisibile, poi per un momento il cielo grigio e carico di neve si macchiò di decine di frecce scagliate con micidiale precisione. Stetio, Seku, Vetio e gli altri alzarono i piccoli scudi per proteggersi come potevano. Un grugnito strozzato da qualche parte tra i suoi uomini disse a Nevio che qualcuno era stato colpito, forse più di uno. Come era potuto cadere in una trappola così stupida? Immagini reali e scenari possibili si affastellavano senza ordine, riusciva a stento a distinguerli e a tenerli separati, mentre i suoi compagni discutevano sul da farsi. Ci stavano mettendo troppo. Stetio si era impuntato a voler uscire dalla valle, Seku non ne voleva sapere di cedere e Vetio si era proposto di fare da esca per coprire la fuga degli altri. Decio, da qualche parte più in là gridava ordini scomposti al resto dei sopravvissuti, mentre un’altra tornata di frecce si abbatteva impietosa sugli scudi e sugli angoli scoperti. Nevio si fece forza, mise in ordine le parole e parlò con tutta la fermezza che era capace di racimolare:
“Verso l’uscita. Andiamo verso l’uscita, ora.”

Stetio non se lo fece ripetere, se lo caricò e proteggendolo con lo scudo e con il proprio corpo guidò gli altri verso la strettoia. Una nuova ondata di frecce coprì il cielo e colpì qualcuno dei ragazzi. Nevio sperò che nessuna fosse stata letale. Non ci volle molto per arrivare alla strettoia dove la cresta su cu si trovavano gli Incerulani e il banco di roccia su cui cresceva la Foresta si incontravano, lasciando un passaggio di una manciata di passi che non lasciava camminare affiancati più di due uomini. In quel momento, tuttavia, ce ne erano molti di più, armati di lance e pronti alla battaglia. Stetio imprecò e dietro di lui Seku lo imitò. Non c’era via di uscita.

Nevio sentiva la speranza farsi sempre più sottile. Non sapeva cosa fare. I suoi uomini sarebbero morti in trappola, trafitti da frecce incerulane e senza un capo a guidarli. Tutto questo perché lui era stato stupido ed ingenuo. Cosa avrebbe detto suo padre? Poteva quasi sentire su di sé lo sguardo deluso di Pompo, la sottile linea delle labbra serrarsi e piegarsi leggermente all’ingiù. Lacrime traditrici gli punsero gli occhi. Lontano, da qualche parte nel mondo reale, Seku e Stetio stavano abbaiando ordini uno in contraddizione con l’altro, incastrando gli uomini in un’indecisione fatale. L’umiliazione bruciava più della ferita, ma Nevio seppe subito che era la cosa giusta da fare. Si aggrappò al braccio di Stetio e gli sussurrò:
“Seguite Seku. È il capo ora.”
Sentì l’amico irrigidirsi un attimo, poi riferire ad alta voce l’ordine, mentre il cielo grigio e cupo diventava sempre più buio. Altre grida, altre frecce, forse altri morti. Forse lui era fra questi, forse no. Una fitta di tristezza lo assalì per un momento al pensiero di Vesullia, sarebbe stato bello dirle addio.

Poi tutto si fece buio e Nevio sperò di rivedere Vetilla nelle sale degli antenati.

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