Pokémon Black and White: Early Summer Girls di Momo Entertainment (/viewuser.php?uid=315437)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Speranze, sogni, scoperte ***
Capitolo 2: *** Quando tutto è nuovo, anche tu ti rinnovererai ***
Capitolo 3: *** Tempesta di sentimenti ***
Capitolo 4: *** Vero amore, falso amore ***
Capitolo 5: *** Una perfetta adulta ***
Capitolo 6: *** Legami attraverso il tempo ***
Capitolo 7: *** Tale la natura degli uomini, quale quella dei Pokémon ***
Capitolo 8: *** Fare la cosa giusta ***
Capitolo 9: *** Nessuno può vedere nel mio cuore, solo tu ***
Capitolo 10: *** La principessa del nulla ***
Capitolo 11: *** La felicità è in una ragazza ***
Capitolo 12: *** Un bacio completamente nudo ***
Capitolo 13: *** La vita non è fatta solo per spettacolo ***
Capitolo 14: *** Noi siamo un po' diverse ***
Capitolo 15: *** La vendetta è un piatto che va servito freddo ***
Capitolo 16: *** Vedete? È sangue umano, non divino ***
Capitolo 17: *** Inseguitrice di sogni senza speranze ***
Capitolo 18: *** Io desidero ***
Capitolo 19: *** Non avere paura delle dissonanze ***
Capitolo 20: *** La vetrina delle vergogne viventi ***
Capitolo 21: *** Le figlie degli altri ***
Capitolo 22: *** Girls' Style ***
Capitolo 1 *** Speranze, sogni, scoperte ***
ESGOTH 3
Early
Summer Girls
❁
Capitolo
1
Speranze,
sogni, scoperte
Estate.
Stagione
di amore, stagione di caldo, ma soprattutto stagione
di lotte Pokémon.
E
Iris non vedeva l'ora di affrontarle tutte.
I
raggi del sole penetravano nella sua stanza e la
illuminavano piacevolmente, fasci di luce sfioravano delicatamente il
viso
color cacao della ragazzina, la quale si era appena svegliata.
Considerò l’essere
riuscita a sciogliere le membra e scacciare lo spettro del sonno senza
nemmeno scagionarlo
con l’acqua gelida una vittoria personale.
«Buongiorno
Unima!
-
avrebbe voluto urlare dalla finestra - Sono l'unica che oggi
ha voglia di
uscire oggi? Non voglio stare a casa con il tempo così
bello...»
Mentre
si pettinava i capelli viola in due codini, osservava
la città di Boreduopoli, ritrovando i suoi palazzi antichi
in armonia con gli
edifici di architettura moderna che avevano fatto innamorare la
ragazzina della
regione di Unima esattamente al loro posto; edifici naturali,
incantevoli e
dalla replicazione inarrestabile come la digitale purpurea, senza che
la mano
dell’architetto sbuchi da dietro lo stelo.
Prima
che potesse scendere le scale per dirigersi a fare
colazione il suo Axew, che la seguiva fedelmente ormai da cinque anni,
le saltò
in braccio, facendole un leggero solletico.
«Mi
chiedo se... Il sole che sorge a Boreduopoli è
lo stesso sole che sorge nelle altre città di Unima? -
Gli
domandò la ragazzina. E quando le pupille del piccolo drago
si dilatarono a tal
punto da farle quasi rimangiare la poeticità di tale
aforismo mattutino – Sì,
okay, vabbè. Ho voglia di succo di Baccamela.
Ah,
e le batterie del Pokédex! Dovevano scaricarsi
proprio all’inizio della stagione…»
La
vita per una giovane Allenatrice di quindici anni è
un'avventura che si viveva ogni giorno, triste o felice che fosse,
proprio come
un viaggio alla scoperta di se stessi. Solo che una volta in cammino
c’è altro
sulla strada, oltre al viaggiare. E quando questi pensieri le passavano
per la
mente era solita condividerli con il suo più caro amico: con
altri si sarebbe
vergognata, ma ai Pokémon si può dire tutto.
Così
il Capopalestra Aristide, suo "nonno", le aveva
insegnato. Poteva averle mica insegnato qualcosa di falso? Impossibile.
Allora,
Iris schioccò le dita senza fare rumore, qual era il suo
ultimo vero bisogno
incombente? Succo.
L'uomo
di mezza età sedeva, come al solito, davanti alla tazza
di caffè fumante. La barba bianca trasmetteva sempre un
atteggiamento severo e
autoritario. Aveva un'aria preoccupata e nello stesso tempo seccata.
Tra le
mani callose stringeva saldamente una lettera con tanto di timbro
ufficiale, aveva
già sviscerato la busta senza pietà.
«Nonno,
stamattina sei tutto il tempo in palestra? Puoi darmi
uno strappo fino ai…» Cercò di
intervenire la ragazzina, ma appena le iridi
gialle dell’uomo le si piantarono addosso con sguardo
inquisitorio, prima le
scivolò dalla mente il resto della sua richiesta, poi si
mise a stilare la
lista delle cose più o meno inerentemente scorrette che
potuto commettere in
quei circa dieci minuti da quando si era alzata.
Ad
allentare la tensione e a concedere alla ragazzina di
prendersi finalmente il suo agognato bicchiere di succo prima che i
sensi di
colpa per chissacché le incenerissero la gola, sua
“nonna”, l’unico essere vivente
immune alle occhiatacce di Aristide, la salutò dolcemente.
«…buongiorno.»
Inspirò dal naso e provò a concentrarsi sul
sapore della bevanda.
«È
sconcertante. Davvero.» Quelle furono le uniche parole che
uscirono dalla bocca del vecchio Capopalestra.
Ad
Iris sembrava che il sole di Unima stesse per spegnersi.
Ma
più che un'ansia di paura, le sembrava che sotto ci fosse
un retrogusto positivo da assaporare. Lo dedusse dal leggero
cambiamento
dell’espressione dell’uomo. Le stava sorridendo,
dietro la barba e dietro
quella severa facciata.
Aristide
passò la lettera alla ragazza, che per non
sovraccaricare ancora di più la sua mente ferma alla
schermata di caricamento,
evitò i paragrafi più lunghi e
più
tronfi.
Stagione
competitiva
201x/201y – 42simo mandato del Campione Nardo
Con
l’approvazione
non-governativa e apolitica dell’Illustre Lega
Pokémon della regione di Unima
Si
avvisa i gentili Allenatori della regione che il ritiro definitivo
di Nardo dal ruolo di Campione della regione di Unima, sarà
imminente.
In
ricorso alla sua sostituzione, sono stati scelti cinque
Allenatori specializzati di sesso femminile che concorreranno in una
serie di
lotte Pokémon per il posto di Campione ufficiale della Lega
Pokémon.
Il
Campione, Nardo.
Iris
non poté fare a meno di sgranare gli occhi leggendo la
lista delle candidate. Le cadde l'annuncio per terra e lo raccolse solo
per
rileggere per la terza volta il suo nome.
Quel
giorno di sole estivo non poteva essere normale. Quegli
interi mesi afosi e intrisi di novità non sarebbero stati
come quelli passati.
«Eh...
Io? Campionessa? Ora?! Ma soprattutto, come fa il
Campione a conoscermi?!»
❁
«Non
ci credo! Non ci credo! Non ci crederai! Dimmi che non
sto sognando!»
Urlava
la ragazza dai capelli rossi che si precipitava lungo
il corridoio di casa.
La
giovane sbatté la lettera firmata dalla Lega
Pokémon sul
tavolo, davanti agli occhi di suo nonno. Il viso di lei dimostrava
sempre un
essere di buonumore, ma quella mattina aveva un’espressione
quasi euforica.
Il
suo Swanna volava libero sopra la sua testa, circondandole
i capelli color rosso fuoco con le sue bianche piume: i suoi occhi
azzurri
esprimevano la stessa felicità della sua Allenatrice che era
ormai al settimo
cielo.
Fino
a quel momento era sempre stata una semplice
Capopalestra. Ricevendo quel pezzo di carta però, le si era
aperta la porta
verso una possibilità che avrebbe potuto cambiarle la vita,
che si prospettava
diventare sempre più ardua.
L'anziano
signore cercava di focalizzare le scritte stampate
sulla carta. Non badò di leggere tutta la lettera, gli
bastarono poche parole:
l'obiettivo, Lega Unima. Il nome di colei che lo avrebbe forse
raggiunto:
Anemone Reyez, Capopalestra di Ponentopoli, sua nipote.
«Nipotina
mia...» Non fece in tempo a terminare la frase che
la ragazza subito lo interruppe.
«È
fantastico. Finalmente l'opportunità che aspettavo, volevo
dire, aspettavamo, è arrivata! Dovrò impegnarmi
un sacco, allenarmi giorno e
notte se voglio vincere il titolo di Campionessa!» Continuava
a ripetere
Anemone, sempre più entusiasta del traguardo raggiunto.
Il
vecchio signore non poté fare a meno di notare che gli
occhi azzurro cielo di sua nipote brillavano come piccole perle.
Riusciva a
vedere nei suoi occhi tutti i sentimenti che in quel momento
assediavano la
mente della sua adorata nipote.
D'un
tratto, smettendo di sorridere, lei si fece seria. Scese
dalle punte dei piedi e piombò con i talloni sul pavimento,
parlando con lo
sguardo basso.
«Se
divento Campionessa... Guadagnerò molti soldi... E forse
ci libereremo dai debiti, finalmente... Dopo, come prima cosa,
rinnoverò tutti
i nostri apparecchi.»
L’uomo
le andò vicino, appoggiandole una mano sulla schiena,
sentendo il tessuto non stirato della t-shirt.
«Certo,
tesoro.»
«Potremmo
acquistare altri A300 più grandi e cominciare a
spedire componenti oversize. O sostituire tutti i motori e le ventole
per fare
tratte più lunghe, anche fuori dalla regione. –
deglutì e la sua voce si
impastò con tremori – E-E… Uh, un
giorno tu potrai andare in pensione… e, oh,
sto piangendo? Ahah.»
Avrebbe
voluto dilungarsi, ma ormai i singhiozzi avevano
soffocato le sue parole e le lacrime già irrigavano il viso
color caramello.
Non
avrebbe partecipato e forse vinto solo per se stessa. Lei
non era nulla senza la sua famiglia, lo sapeva benissimo. Anche se
aveva già
diciassette anni non sentiva alcun desiderio di ribellione, non aveva
senso.
Non si diventa adulti compiendo sciocchezze: per crescere bisogna
assumersi le
proprie responsabilità, che siano leggere o pesanti, e
portarle a termine con
impegno e serietà.
Così
doveva fare una Capopalestra e anche una Campionessa. E
chiunque altro voglia fregiarsi del titolo di “brava
ragazza”.
Le
lacrime si mescolavano sulle guance, un acquerello di
commozione, ansia, felicità, dolore... Ogni goccia salata
sul suo viso
rappresentava una delle mille emozioni che provava in quel momento.
Essere
“brava” è difficile, se non riesci a
fare a meno di
scoppiare a piangere fra le braccia di tuo nonno. Anemone lo aveva
già stretto
fra le sue braccia. Ogni volta che lo faceva si sentiva un po'
più forte, più
pronta ad affrontare le imminenti sfide che la attendevano.
Ormai
non aveva più scelta.
«Vincerò
io, te lo prometto!» Gli disse, con un pianto di
sfogo in sottofondo.
Ora
che lo aveva promesso alla persona a cui era più legata,
Anemone non poteva assolutamente permettersi di perdere. Avrebbe vinto
e basta,
senza alcuna distrazione, senza permettersi neanche un singolo atto di
egoismo.
La
vittoria non apparteneva a lei, dopotutto.
❁
Fra
le concorrenti ne spiccava una sia per la sua bellezza e
soprattutto per il sarcasmo.
La
giovane modella, quando ricevette la lettera non poté
trattenersi una risata che suonava quasi maligna.
«Patetico,
letteralmente! - commentava mentre si rigirava i
capelli nero lucido fra le dita - Davvero Nardo ha esaurito tutta la
sua inventiva?
Scegliere quattro sfigate che si trucidino fino allo stremo solo per
ottenere
un titolo che vale meno di zero?! Povero vecchio idiota...»
Continuava
a fissare la lettera quasi con aria schifata.
Poteva quasi immaginarsele: quattro Allenatrici totalmente incognite
che si
comportavano come dive di un reality, sabotandosi, alleandosi e
pugnalandosi
alle spalle solo per ottenere un minimo di attenzione.
«Non
dovresti parlare così di Nardo. - le disse severamente
Corrado, mentre le accarezzava il viso dalla pelle bianca e perfetta -
Ti
ricordo che lui ti ha...»
«Non
mi interessa. - lo interruppe bruscamente la ragazza, per
evitare che le ricordasse ancora ciò che ormai considerava
"passato"
- L'idea di questo torneo è stupida. Basta.»
Corrado
le si avvicinò ulteriormente. Erano distesi l'una
sopra l'altro, davvero vicini.
Nulla
di speciale, lo aveva fatto un sacco di volte; e in più
si sentiva stressata: tutta colpa del suo lavoro da modella, era solo
una sfida
quotidiana in cui un giorno senza il viso illuminato da un flash
ristagnava
nella sua memoria come un giorno di assoluta e deprimente
oscurità per la
stanchezza e la fatica.
Il
prezzo della fama era quello, alla fine.
«Ti
sbagli. Primo: Nardo non è un idiota. Secondo: le
Allenatrici sono cinque e non...»
Si
ritrovò ad essere nuovamente interrotto mentre cercava di
far ragionare la modella viziata che era distesa sopra di lui.
«Chi
è la quinta?» Gli chiese con disinteresse, alzando
un
sopracciglio nascosto sotto la frangetta.
La
lettera le cadde dalla mano leggendo il nome della
fortunata. Stava per cacciare un urlo dall'umiliazione che si era
procurata
criticando le altre concorrenti, lo soppresse fra i denti e le
uscì solo un
mugolio di discontento. Avrebbe voluto imprecare, ma avrebbe dimostrato
al suo
ragazzo di non avere una delle qualità necessarie per una
modella del suo
calibro: l'autocontrollo.
O
la repressione. Alla fine, si trattava di due nomi diversi
per indicare essenzialmente la stessa cosa, no?
«Calmati,
amore...» Le disse lui, dandole un bacio sulle
labbra. Sopportare le crisi nervose della sua tanto bella quanto
isterica
ragazza per lui era diventata una stressante abitudine.
«Non
desideri diventare una Campionessa, invece che essere solo
una semplice Capopalestra?» Aggiunse con voce calma.
«Semplice?!
- replicò lei seccamente - Sono la top model e la
Capopalestra più famosa di Unima: ho fama, soldi, una vita
sociale e
un'abbondante taglia di reggiseno: non posso desiderare di
più!»
La
risposta della fidanzata lasciò Corrado senza parole. Non
l'aveva mai vista così scettica e stressata da qualcosa che
riguardasse le
lotte Pokémon.
Intanto
lei continuava a tormentarsi nervosamente le unghie
finte coperte di smalto.
Ogni
tanto guardava con i suoi occhi azzurro chiaro quelli di
Corrado, perdendosi nelle sue fantasie erotiche momentanee. Anche lui
sembrava
ricambiare, forse anche lui la amava.
La
modella accennava un sorriso con le sue fini labbra e lui
le accarezzava con il dito i lineamenti perfetti del suo viso
prolungando quel
tocco protraendolo fino alle spalle e al busto.
A
rompere l'atmosfera che si stava scaldando ci pensò la sua
piccola Emolga che si appoggiò sul petto della ragazza,
distraendola dai suoi
pensieri precedenti. Corrado la guardava, seccato dalla sua
disattenzione.
«Forse...
- si convinse lei, mentre coccolava dolcemente il
suo Pokémon - dovrei partecipare. Anzi, devo. Voglio
mostrare io a quelle
perdenti chi comanda e chi si merita quel titolo davvero. Un buon PR
non mi fa
male di certo.»
Intanto
Emolga era atterrata elegantemente sulla sua spalla;
lei, alzandosi, immaginando di fissare il suo pubblico di fans
sfegatati.
«Del
resto, io sono io. – Aggiunse - Io sono la stella
più
brillante di Unima. Elettrizzare chi mi ama è mio
dovere.»
La
modella se ne andò con elegante portamento, pensando e
ripensando alla frase appena detta.
❁
La
notizia della dimissione del Campione aveva sconvolto tutta
Unima, ma quattro persone in particolare ne avrebbero risentito
particolarmente.
La
Lega di Unima in quegli ultimi tempi era in completo
subbuglio: sempre più Allenatori volevano sfidare il
Campione e l'istituzione
più importante della regione ne aveva promesso uno nuovo,
forte e deciso. O
almeno, i tabloid avevano riposto questa aspettativa
nell’istituzione, quindi i
membri stessi l’avevano a loro volta trasferita sulle spalle
di Nardo per non
addossarsi nessuna delusione.
Niente
e nessuno avrebbe distolto i Superquattro dal loro
lavoro di assistenti della personalità più
importante nel circuito pro nella
regione, tre su quattro dei membri si erano accomodati per tempo di
fronte a
bicchieri riciclabili di caffè annacquato e portatili in
bilico fra lo stand-by
e le dieci schede aperte nel browser.
Seduti
ad un tavolo, tre dei quattro Allenatori si passavano
tra le mani la tanto attesa lettera.
«Apri
quella lettera! - ordinò Antemia, la ragazza dai capelli
viola che mordicchiava nervosamente una penna. - Nardo avrà
di certo scelto te.
Sei il suo preferito.» Aggiunse guardando verso il muscoloso
uomo seduto di
fronte a lei.
«Basta
con le tue cavolo di presunzioni!» Disse Marzio,
battendo un pugno sul tavolo.
«Chi
ha contribuito al successo di Nardo? Tu e i tuoi stupidi
libri, genio!»
«Parla
l'allievo, il cocco del maestro...»
«Brutta
stupida...» Marzio non riuscì a finire l'insulto
che
fu interrotto dalle parole pacate e calme di colui che sedeva alla sua
destra.
Era davvero umiliante che la sua collega lo interrompesse, facendolo
passare
sempre per uno scemo.
«Davvero,
siete proprio immaturi. Datemi quel pezzo di carta.
Vi ricordo che non siete solo voi due a concorrere per il posto di
Campione.»
Era la voce calma e pacata dell'affascinante e misterioso Mirton,
membro dei
Superquattro di Unima, specialista di tipo Buio.
Era
abituato ad essere etichettato con quel titolo che
deteneva con disinvoltura.
Non
gli importava nulla dei titoli, ancor meno degli onorifici
e dei fans. Il suo era un lavoro, veniva pagato per vincere.
Nient'altro.
Voleva lottare e diventare forte. Nelle lotte non c'era spazio per le
cose
superflue.
«Ci
siamo anche io e.…» Cercò di
continuare, venendo però
interrotto dalla voce squillante di Antemia.
«Tu?!
Ma se sei diventato Superquattro solo per stare con
lei!»
Ora
i suoi colleghi avevano davvero superato il limite. Non si
consideravano più amici, ma rivali per il posto di Campione,
in modo che il
vincitore avesse la soddisfazione di comandare a bacchetta i suoi
futuri
dipendenti. Ma ciò era comunque superfluo al concetto di
"lotta".
Mirton
aprì la busta, sotto gli occhi dei colleghi che
continuavano a spintonarsi per conoscere il nome del fortunato scelto
proprio
dal loro capo, Nardo.
Un
attimo dopo Antemia mormorava imprecazioni fra i denti
mentre Marzio si scrocchiava frustrato le dita delle mani. Solo Mirton
sembrava
aver accettato con sportività la propria sconfitta.
«Vado
ad avvisare Catlina della sua vittoria. Ne sarà
contenta. O magari le darà così fastidio che non
si presenterà nemmeno
all’incontro. – Si guadagnò
insofferenza, come se quella di rifiutare ed
oltraggiare il buon nome dello staff potesse essere per lei
un’opzione – Ad
ogni modo, è in ritardo per la riunione.»
Alzandosi
con fare rilassato dal tavolo, il giovane uomo si
diresse nella stanza dove la giovane Allenatrice dormiva, come al
solito, persa
nel suo mondo.
Per
Catlina, la più giovane fra i Superquattro (anche se la
differenza di età fra questi era quasi nulla), dormire era
molto più di una
semplice funzione vitale: le bastava chiudere gli occhi per qualche
secondo e
lasciare che la sua mente si obliasse dal mondo terreno, il mondo delle
cose
superflue.
Se
chiudeva gli occhi il suo subconscio, quella parte del
cervello che c'è ma non si fa sentire perché
coperta dalla ragione, le mostrava
le immagini, i ricordi e le sensazioni che credeva aver perduto per
sempre nei
labirinti del tempo: i sogni che le attraversavano la psiche per lei
rappresentavano tutto.
Inutile
dire che Mirton la trovò addormentata quando
entrò per
avvisarla della sua vittoria sugli insopportabili colleghi. Non voleva
svegliarla bruscamente: ci teneva a lei, nonostante le sue manie
disinteressate, ma non poteva dimostrarglielo perché lei
doveva restare solo
un'amica.
Un’amica
che non poteva disfarsi di una delle uniche fonti di
socialità che possedeva in una regione a lei straniera, su
cui quindi aveva
carta bianca per cercare di farla arrossire e protestare come solo un
fiore delicato
privo di più nobili attenzioni sa fare.
Mirton
le infilò una mano nella scollatura del pigiama: Catlina
dormiva di schiena, con i lunghi capelli biondi che le incorniciavano
il viso.
Non aspettava altro per tormentarla, come si fa tra amici, con quei
piccoli
gesti fatti per infastidire l'altro e magari poter ricevere una
risposta.
Le
accarezzava delicatamente il seno, stringendolo leggermente
fra i polpastrelli delle dita, in cerca delle parti più
morbide e sensuali
della giovane addormentata.
Catlina
sfiorava con le labbra il polso di lui, inconscia di
ciò che era intorno a lei. Sentiva solo una dolce sensazione
di solletico e
qualcosa di caldo sul petto.
Ma
le parole di quel principe immaginario spezzarono quel
momento di ipotetico erotismo.
«Svegliati!
Devi svegliarti e vivere
quest'occasione. Sarai Campionessa se ti sveglierai, non puoi vivere
per sempre
di sogni.»
Catlina
aprì gli occhi di colpo.
Con
la fronte sudata, sentiva il suo cervello ripeterle
"Svegliati!" come un forte colpo in testa. Aveva sempre avuto paura
di quella parola, ora più di prima. Ma non ebbe neppure il
tempo di rendersi conto
di ciò, che cacciò un urlo di imbarazzo.
«Ben
svegliata, principessa.» La sbeffeggiò lui.
«Mmh...
– La notizia mancò del tutto il suo entusiasmo, i
capelli avevano preso lo stampo del cuscino e anche la testa
– eh…?»
«Da
oggi sarai la nuova Campionessa della regione.
Complimenti, ce ne vuole per raggiungere il top dei top senza fare
nemmeno la
fatica di alzarsi in tempo per il lavoro.»
«Davvero?
Sono io la Campionessa ora?»
«No.»
«Okay,
allora posso stare a letto almeno altri trenta minuti. Arrivederci
e a dopo.»
Mirton
quasi rise immaginandosi lei a rivestire quel ruolo.
❁
«Unima...
È così piccola vista dall'alto. Anche in mezzo a
una
foresta di grattacieli, prendiamo ad esempio Austropoli, se prendi
l’ascensore
per salire al centesimo piano, ti sembrerà di poter dire
“sembra una
miniatura”. Una grande scacchiera, con i pezzi neri e bianchi
che dalla prima
vila paiono immobili, ma in realtà ci sono delle mani che da
bordocampo
decideranno le sorti del re, della regina, dell’intera
partita.
molte
persone la considerano ancora un impero vasto e
incontaminato. Persone che mirano solo alla grandezza, al desiderio di
arricchirsi, di diventare importanti, non importa se per la via del
bene o del
male.
Porsi
davanti a sé un obiettivo è bene, ma essere
disposti ad
usare qualsiasi metodo, anche il più crudele per portarlo a
termine... Mi
sembra una sciocchezza.
Nessuna
motivazione può mettere in ombra il senso di
responsabilità che un Allenatore ha davanti a
sé... Nessuna. Nemmeno un
desiderio che...»
«Camilla?»
Il richiamo di Nardo riportò la giovane Campionessa
della regione di Sinnoh sulla terra, facendola cadere dalle nuvole e
lasciandola un po' stordita. Le sarebbe servito un bel respiro profondo.
Era
solita fantasticare, ragionare ad alta voce sulle
questioni importanti ma non urgenti per chiarire i suoi pensieri; non
desiderava assolutamente che nessuno, neppure un Campione tanto
rispettato come
lui osasse commentare o giudicare strana questa sua azione insolita.
«Non
parlavo da sola. Stavo solo...» Si scusò, in preda
all'imbarazzo.
«Sembri
agitata. Non è da te.» Cercò di
cambiare argomento
l'uomo, comprendendo il suo disagio.
«Lo
sono. – Controllò l’ora dal cellulare -
Solo un poco
però.» Camilla continuava a fissare lo splendido
panorama che dalla terrazza
più alta della Lega
Unima si apriva.
Infinito.
Era tutto quello che di fronte a lei e alle altre
quattro ragazze restava da vivere.
«Essere
agitati vuol dire essere pronti. Se tu avessi
sottovalutato le tue future avversarie o se avessi rinunciato senza
prima
combattere, ora non saresti pronta.»
«Concordo.»
Rispose ella, pensierosa come sempre.
Un'altra
volta Camilla osservò la regione di Unima che si
estendeva grande e prospera sotto i suoi occhi color platino, dilatati
per
catturare al meglio ogni particolare di quel panorama.
Non
vedeva l'ora di incontrare le sue avversarie, di
combattere contro di loro fino allo stremo delle forze e di stringerci
amicizia
allo stesso tempo.
❁
«Toglimi
una curiosità Nardo: come mai le concorrenti sono tutte
femmine
di età compresa fra i quindici e i vent'anni?»
«Mi
pare ovvio, Camilla.»
«Giusto.
Era una giusta cosa dare una possibilità ad Allenatrici
dotate di così tanto talento...»
«Scherzi!?
Dovrò andare in pensione, ma prima voglio vedere combattere
delle giovani ragazze prosperose, no?!»
«La
vecchiaia non ti giustifica questa visione maschilista...»
«E
la tua giovinezza non giustifica la tua timidezza e la tua mancanza di
voglia di esporti, cara Camilla!»
«Non
cambierà mai questo maniaco...»
❁
Behind
the
Summery Scenery #1
1.
Questa rubrica è Behind the Summery Scenery, la versione
(brutta) degli angoli autore. Qui ci sono curiosità,
riferimenti, spiegazioni ed easter eggs dell'autrice, abbagliata dalla
propria vanità incommensurabile per accorgersi che NO ONE
CARES.
2. La
stesura della fan-fiction direttamente su computer è
cominciata
nell'agosto 2013, anche se il concept e la trama generale erano stati
ideati già nell'aprile di quello stesso anno. Entro il 2015
erano già stati scritti i primi 12 capitoli e pubblicati
insieme, gli altri sono stati scritti e pubblicati uno dopo l'altro,
con in media 6 mesi di distanza l'uno dall'altro.
3. Le
aspiranti Campionesse in origine dovevano essere sei: le ragazze che ci
sono ora a cui si sarebbe dovuta aggiungere Antemia, membro dei
Superquattro di Unima. Avrebbe dovuto avere la stessa età di
Catlina (19 anni) ed indossare uno yukata viola, dato che il colore
iniziale di Iris doveva essere il rosso.
Ho
dovuto
eliminare Antemia dalla storia perché mi sono resa conto di
non
essere in grado di gestire troppi filoni narrativi e perché
lei
non ha molte relazioni canoniche con le altre ragazze (non
fraintendetemi, come personaggio la adoro lo stesso).
4.
La storia era inizialmente pianificata per durare solo 12 capitoli ed
avere un sequel (che avrei voluto chiamare ES2, letto に "ni" come in
giapponese). Idea anch'essa scartata.
5. Questo
capitolo è decisamente il più corto di tutta la
long. Tutta colpa della mia pigrizia.
6. Nonostante
volessi trasmettere un senso di crescita e di leggero cambiamento in
tutte le ragazze, non sono mi sono mai decisa a cambiare la
capigliatura che Iris tiene per tutto il primo videogioco e l'anime:
era una cosa troppo carina da gettare via.
Però ogni tanto le ragazze cambiano pettinatura, lo
specificherò sempre. Mica siamo come nei videogiochi in cui
i
capelli sono di plastica, oh.
7.
Il titolo del capitolo è cambiato: in precedenza era
"Destini,
sogni, obiettivi". Rigiocando a Pokémon Bianco di recente,
ho
rivisto la intro che recita, secondo la stessa fomula del tricolon,
appunto "Speranze, sogni, scoperte".
8.
Ogni anno la grafica della storia cambia. L'anno scorso il tema era il
colore fucsia, e la scritta del titolo era in font Eggs proveniente da
Fontgenerator. Questo perché io e la mia beta abbiamo un
inside
joke basato sul fatto che l'anagramma(?) di ESG sia EGGS e quindi nelle
nostre chat la storia è chiamata con l'emoji dell'uovo.
Ora la
grafica è tutta nera, rosso sangue, è
assolutamente perfetta per tagliarsi le vene sulle note dei MCR e dei
Good Charlotte, assolutamente GOFFIC!
Io ovviamente sono Tara Gillersby e Daisuke è Raven (fangz 4
da help, daiskeyy! E preps stahp flaming)
9.
Anche il divisore dei paragrafi è cambiato; prima erano due
ondine e un fiore. Adesso è il simbolo delle palestre in
Nero e
Bianco.
Update:
il sito di hosting di immagini che usavo ha chiuso. Quindi il simbolo
è stato sostituito con questo altro fiore. Credo sia... un
girasole?
10.
Questo punto è importante. Sto revisionando tutti i capitoli
estensivamente. I capitoli revisionati, ripuliti da vecchi refusi, tell
don't show, aberranti paragoni che sfondano il meta e altre schifezze
accumulate negli anni, sono quelli con un checkmark verde.
Siccome sono al corrente dell'importanza storica e filologica dietro ad
ogni aspetto della internet culture, la "versione brutta"di ESG non
è scomparsa nel nulla: tutti i capitoli con i veecchi errori
sono stati diligentemente archiviati nella Wayback Machine. Basta che
copia-incolliate gli stessi URL ed avrete uno snapshot di come appariva
il capitolo prima della grande riforma dell'inizio del 2021.
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Capitolo 2 *** Quando tutto è nuovo, anche tu ti rinnovererai ***
ESGOTH 2
Early
Summer Girls
❁
Capitolo
2
Quando tutto è
nuovo, anche tu ti rinnoverai
Ed il giorno tanto
atteso finalmente arrivò, con un mattino di sole cocente.
Appoggiata sopra la
scrivania stava la seconda conferma delle cinque prescelte. Leggendola
e
rileggendola tutte le volte che le capitava sotto gli occhi, Iris si
rendeva conto
di aver fatto uno sbaglio.
Sentiva che qualcosa
dovesse andare storto: quando doveva barrare la casella per accettare
la
partecipazione e firmare con la sua calligrafia inclinata non le aveva
lasciato
un tremore alle mani intenso quanto l’afferrare la maniglia
dell’armadio.
E tutto iniziava da
lì, in quella camera: come si sarebbe dovuta vestire?
L'abbigliamento era
il suo ultimo pensiero quotidiano, eppure aveva concepito l'idea che un
Allenatore di successo dovesse vestirsi in una certa maniera, in modo
che tutti
lo riconoscessero in mezzo ad una folla di semplici dilettanti e lo
ricordassero come un modello da imitare.
Il concetto di
basarsi soltanto sull'immagine per dimostrare il suo valore era
un'idiozia, lo
sapeva. E allora lei era la prima degli idioti, quando a tavola
chiamava le
varie personalità del mondo delle lotte “tizio dai
capelli ics” o la “signora
(che era qualsiasi donna oltre i 25 anni) con il vestito ipsilon" in
attesa che fosse suo nonno a ricordarle.
«Quelle diciture
stanno bene nei problemi di
algebra, non per appellare persone con una serie di vittorie il triplo
più
lunga della tua.»
Sicuramente le altre
Allenatrici non si erano poste il suo problema: loro già
avevano un'immagine ed
una carriera, mentre lei era solo una nullità venuta dal
caso.
«Devo
essere me stessa.»
Si ripeteva invano.
Ancora si chiedeva perché Nardo avesse scelto proprio lei.
«Inutile
darsi arie. Sono uno zero, non posso nasconderlo.»
Iris si
lanciò sul
letto, schiacciando il viso contro il cuscino. Sentiva di aver perso. Senza neppure
combattere, senza conoscere le sue avversarie, a dispetto del suo amore
per le
lotte e per le sfide. Non si sentiva degna di essere chiamata
"Allenatrice".
Axew le
saltò fra i
capelli, solleticandole leggermente la testa, come faceva sempre per
consolare
la sua piccola amica; la ragazzina lo abbracciò forte, per
sfogare nel piccolo
draghetto la frustrazione che la stava divorando.
«Andiamo.
Se faccio
tardi farò una figura orribile.»
Si disse, indossando
i suoi abiti casual ai quali non avrebbe rinunciato solo per
trasformare la sua
immagine in quella di un'estranea che contasse solo un poco
più di lei: la
maglia larga di colore giallo pallido, nelle cui maniche aveva lo
spazio per
tenere le sue Poké Ball, la gonna rosa, che le donava un
pizzico di femminilità
e le scarpe da ginnastica preferite sarebbero bastate a farla sentire
chi
voleva essere: se stessa al massimo del proprio potenziale.
«Vado.»
Si limitò a
dire questo per salutare Aristide, presa dalla tensione di quegli
istanti
fatidici.
«Essere
Campioni non
significa solo lottare. Ricordatelo, cara.»
Le rispose l'anziano
Domadraghi, per fornire una perla di saggezza alla sua”
nipotina”, che in quel
momento era più cresciuta che mai.
Iris
sembrò ignorare
quel consiglio; alle sue orecchie pareva insensato e privo di logica.
«Ma
non sarà uno di quei consigli che i vecchi danno per
incasinarti la vita ma che
ti tornano utili quando sei nei guai fino al collo?! Almeno spero che
sia
così...»
❁
Il cammino per la
Lega Unima non era più impervio e difficile: la vecchia Via
Vittoria era stata
chiusa e un passaggio più agevole collegava la
città di Boreduopoli con la
Lega.
In poco tempo Iris,
in tutta la sua piccolezza, si ritrovò davanti l'edificio
più maestoso che
avesse mai visto in vita sua: un'enorme scalinata introduceva gli
sfidanti a un
ampio padiglione dorato, che si ramificava in quattro scalinate
(dovevano
condurre alle stanze dei Superquattro).
Le pareti ritraevano
dipinti con scene di lotte, vittorie e sconfitte di chi aveva lanciato
la
stessa sfida prima di lei e delle altre ragazze, contribuivano a
rendere quel
posto talmente spettacolare che a stento si riusciva a distaccarvi lo
sguardo:
il Campione doveva averla progettata così per far sentire
gli sfidanti che vi
entravano infimi ed insignificanti. E l'effetto aveva rivelato la sua
efficacia
su Iris, che non si era mai sentita così piccola e impotente.
Salita la gradinata,
la ragazzina riprese fiato: stupore, paura e curiosità si
mescolavano nel suo
cuore, sentiva esploderle nel petto. Dopo poco capì di non
essere sola, o
meglio, la sola: due ragazze, sicuramente più grandi di lei
di qualche anno,
erano sedute a ridosso dell'enorme statua che si erigeva nel centro
dell'aurea
sala.
Iris, in silenzio, le
analizzò attentamente, spinta da forte curiosità:
una si mordicchiava
nervosamente le unghie, fissando lo schermo del cellulare; aveva
capelli rosso
fuoco un po' disordinati legati in una coda sul lato, la carnagione
abbronzata
simile alla sua ed uno sguardo preoccupato, che però
lasciava intravedere
un’espressione gentile dietro due grandi occhi azzurro cielo.
Iris aveva voglia di
andarle a parlare, almeno di potersi presentare. Ma dovette resistere,
seppellire la sua indole di bambina curiosa e nascondersi dietro la
freddezza
ed indifferenza di un'Allenatrice adulta.
«Ma
a quindici anni... Si è già adulti?» Pensò.
Cercò di
focalizzarsi
sull'altra, che pareva l'esatto opposto della rossa: capelli neri -
tinti
probabilmente - con una singolare acconciatura che somigliava ad un
semplice
taglio corto, se non per due lunghi ciuffi che le ricadevano lungo le
spalle,
arricciati vagamente come una saetta o un tuono.
Un'altra cosa che
Iris non poté fare a meno di notare era l'abbigliamento
delle due giovani: una
tuta di colore azzurro, molto attillata, che copriva il petto della
rossa,
lasciando scoperta la pancia, e il top color argento della mora, con
una
scollatura che lasciava intravedere il seno in maniera intrigante ed
esibizionista.
La ragazza, dalla
pelle bianca e diafana, continuava a sistemarsi il mascara, guardando
superba
il suo riflesso nello specchietto, come se fosse inconscia del fatto
che
intorno a lei ci fossero altre persone.
«Chissà
perché so già chi non sopporto... Il tipo di
persona che ha almeno due Pokémon
rosa in squadra e si fa insegnare le mosse dal suo fidanzato, ma cosa
ci fa
qua? Almeno non sono io quella presa peggio…»
Pensò
Iris,
continuando a fissarla con aria incuriosita e disgustata allo stesso
tempo.
Ma appena la mora
sentì che qualcuno la fissava con così tanta
presunzione, chiuse violentemente
lo specchietto e fulminò Iris con lo sguardo più
freddo e accusatorio che la
ragazzina avesse mai visto.
Incrociare i suoi
occhi la spaventò a morte.
«La smetti
di
fissarmi, ragazzina?!»
La mora le
graffiò
l'autostima con quelle parole velenose. Le fece stringere le palpebre
per un
attimo, un sollievo nel dischiuderle e ritrovarla impegnata con il suo
trucco,
lontana dalla sua visibile paura.
Iris sentì
il sangue
gelarle nelle vene: sarebbe sopravvissuta contro avversarie che
avrebbero fatto
di tutto pur di metterle i piedi in testa?
Una voce maschile
chiamò le tre ragazze, non per nome, disse semplicemente:
«Entrate».
Un ascensore era
nascosto sotto la statua al centro del padiglione: dopo essere sceso di
un paio
di piani, una grande scalinata di marmo si erigeva di fronte a loro.
Lei e la rossa
continuavano a fissare tutto con immenso stupore; la mora invece,
sembrava del
tutto indifferente, come se avesse visto di meglio nel corso della sua
vita.
«Benvenute,
aspiranti
Campionesse!» Le accolse Nardo, che stava in cima alla
gradinata di fronte a
loro.
Quella scala...
Doveva rappresentare il loro cammino, lungo e impervio per diventare
ciò che
sognavano.
E salire fino in cima... Il privilegio di guardare tutti dall'alto, di
poter
sottovalutare i propri nemici, di potersi sentire grande...
Persa nei suoi
pensieri, Iris notò con sorpresa che a loro tre si era
aggiunta un'altra
ragazza.
Cercò di
non fissarla
a lungo, per evitare di scatenare in ella la stessa reazione della mora
di un
attimo prima: dimostrava più o meno vent'anni. Aveva capelli
mossi e lunghi,
color biondo chiarissimo e il loro dolce profumo di vaniglia li rendeva
i
capelli più belli che Iris avesse mai visto.
Non riuscì
a
guardarle bene tutto il viso, perché la sua attenzione era
stata catturata
dagli occhi di lei: non erano i classici occhi profondi che attirano
l'attenzione
con i loro riflessi di luce, di questi ne aveva visti miriadi nei film
e nelle
pubblicità; erano occhi vitrei e vuoti, che quella teneva
quasi socchiusi, in
un’espressione che non faceva trasparire alcun sentimento.
E Iris ne era
alquanto spaventata, anche se continuava a fingere un atteggiamento
calmo e
rilassato, come le sue avversarie.
A ridestare la sua
attenzione fu la prorompente voce di Nardo.
«Ragazze...
Sono
commosso. Sapevo che nessuna di voi avrebbe rifiutato questa
possibilità. Vi
chiederete perché proprio voi. Ma questa non è la
domanda a cui ho intenzione
di rispondere. Infatti voglio spiegarvi cosa dovrete fare se vorrete
arrivare
quassù, dove sono io...»
«Questi
discorsi non mi fanno paura...» Pensò
Iris, assaporando quel retrogusto di pericolo e di sfida che si celava
dietro a
quelle parole.
Ma le azioni del
vecchio Campione contrastavano totalmente con i pensieri della ragazza:
alle
sue spalle un enorme braciere d'improvviso si accese e la sua ombra era
proiettata
al cospetto delle ragazze: grande, nera e minacciosa danzava tra le
fiamme
rosse al suono di una risata spaventosamente potente.
«Mi
correggo, questo fa paura!» Riuscì
a
ribattere la ragazzina, in preda a quell'improvviso spavento. Tutte le
ragazze
avevano già avvertito che la loro sfida per diventare
Campionesse non sarebbe
stata semplice.
«Non fatevi
alcuna
illusione! - Riprese Nardo - non dovrete combattere l'una contro
l'altra. Non
osate neppure considerarvi "avversarie"!
Le regole sono
semplici:
vi sottoporrò a una serie di prove di lotta di vario genere:
in singolo, in
doppio, multipla... E a prove di altro tipo. Vi insegnerò
tutti i trucchi e le
nozioni per essere in grado di guidare una regione e allo stesso tempo
di
eccellere nella lotta.
Alla fine della
stagione vi scontrerete l'una contro l'altra nel Torneo Regionale di
Unima
Femminile, che per ragioni di tempistica potrete abbreviare con la
sigla TRUF,
e da qui sarà decretata la nuova Campionessa in carica da
quest'anno.
Non conoscerete alcun
risultato dalle
vostre prove e per evitare che tra di voi vi siano contrasti e
rivalità sarò io
stesso giudice e arbitro di ogni prova e siete tutte e cinque molto
belle e
dotate, non farò alcun favoreggiamento.
Detto
questo...»
Nardo si interruppe bruscamente.
A causa della
vecchiaia doveva aver dimenticato cosa dire; è normale,
quando si deve
formulare un accurato discorso d'incitazione o si ha di fronte ben
quattro
ragazze in età prematura.
«Detto
questo...» La
rossa cercò di invitarlo a riprendere il senso della frase.
«Questo lo
ha già
detto.» Ammise con aria sarcastica la mora, che tratteneva a
stento una risata
di commiserazione.
Se è vero
che quattro
secondi bastano a creare imbarazzo, il momento aveva già
perso la sua serietà
da un bel pezzo.
«Nardo, non
mi hai
ancora presentata a queste adorabili ragazze. Mi dispiacerebbe passare
inosservata.»
Una voce femminile,
profonda e dolce ravvivò immediatamente il calore perduto
con il gelarsi
dell'atmosfera.
Più che ad una ragazza sembrava appartenere ad una donna.
L'attenzione delle
quattro ragazze era stata attirata come da una calamita: scendendo la
gradinata
con passo leggero e aggraziato, si avvicinò a loro.
Continuava a
sorridere, scostandosi i lunghi capelli biondi dal viso, con un gesto
perfetto
della mano.
A vederla da vicino
pareva finta; era abbastanza bella da aver attirato l'attenzione di
tutte e
quattro le giovani, che non riuscivano a staccarle gli occhi di dosso.
Iris si
sentì avvolta
dalla sensazione più strana della sua vita, che superava
anche la frustrazione
e l'imbarazzo degli attimi precedenti: sentiva le mani sudarle,
tastando con le
dita gocce calde che scendevano lungo i palmi bagnati.
Avrebbe voluto dirle
qualcosa ma, in quel posto esageratamente grande, di fronte ad una
persona così
importante si sentiva troppo piccola perfino per proferire parola.
Si limitò
a fissare i
suoi occhi: grigio platino, lucenti come gocce di rugiada al sole, dai
lineamenti perfetti e naturali. Sul viso non sembrava
avere make-up, cosa di cui si
compiacque parecchio, dato che neppure lei si truccava.
«Sono
Camilla Kuroi, Campionessa della regione di Sinnoh. Non
parteciperò
effettivamente a questa competizione: semplicemente vi
aiuterò nel vostro
cammino grazie ai miei anni di esperienza. In poche parole
sarò la vostra
leader.
Sarà un piacere per me lavorare con delle ragazze carine
come voi.»
Iris la fissava, come
tutte le altre del resto, ma con la sensazione di aver tralasciato
qualcosa.
Lo sguardo della
ragazzina fu attirato da altro: abbassando il viso, le sue voglie di
bambina
vennero represse da uno stimolo adulto, che la spingeva a non staccare
le
pupille da una visione tanto dolce quanto oscena.
Si sentiva spaventata, non più dalla ragazza che aveva di
fronte, ma da se
stessa e dalle sue voglie irrefrenabili e perverse.
Iris chiuse gli occhi
per un secondo, cercando di dimenticare ciò che aveva fatto,
anche solo
vagamente. Era lì da neanche poco tempo e già si
stava trasformando.
«Cosa
cavolo ho appena fatto? Nulla, ho... solo guardato per un secondo,
senza
toccare. Toccare sarebbe... -
Continuava a bisbigliare agitata nella sua mente, come se le altre la
potessero
sentire e giudicare come perversa. - Eh?! Basta,
basta, basta... Non è
successo niente e non succederà niente.»
Iris tirò
un sospiro
di liberazione, cercando quasi di esalare quegli attimi di paura ed
agitazione.
Con un briciolo di ottimismo, provò a ribaltare la
situazione a suo vantaggio,
per trovare una giustificazione alle sue gesta assolutamente
paranormali.
E ci
riuscì.
«Se
ho sentito il desiderio di vederle il seno... Significa che non sono
più una
bambina... Si! Diventerò più grande.
Diventerò più forte... Diventerò
più
adulta.»
❁
Ed eccolo, il
fatidico momento.
La tensione era
paragonabile a quella di un primo giorno di scuola: nuove compagne,
completamente sconosciute, dalle quali non si poteva prevedere alcun
gesto o
alcuna risposta. Bisognava solo essere se stessi.
Ora che erano sole,
loro cinque, come se il destino avesse voluto far incontrare proprio
lì e
vederle crescere insieme, essere loro stesse sarebbe stato difficile
per tutte.
Infatti nessuna
proferiva parola. Solo un lungo e vuoto silenzio riempiva la sala.
Per un'ultima volta
Iris, confidando in tutto il suo coraggio, cercò di capire
chi avesse di
fronte: una mora sarcastica e viziata, una rossa che sembrava
determinata ma
nascondeva un velo di paura dietro ai suoi occhi azzurri, e due bionde:
una
disinteressata e assorta, ed un'altra che sorrideva con orgoglio alle
sue
apprendiste.
E lei: una ragazzina.
Ma non trovava gli aggettivi adatti a descrivere chi fosse.
«Sono
solo una ragazzina.» Iris giunse
a questa conclusione solo perché
la mora esibizionista le aveva sputato quell'etichetta in viso pochi
minuti
prima.
Ad interrompere le
sue riflessioni fu la voce della ragazza dai capelli rossi che, con
chissà che
coraggio, si era sforzata di sorridere e di presentarsi per sciogliere
quell'atmosfera gelida come il ghiaccio.
«Io mi
chiamo Anemone
Reyez. Ho diciassette anni e sono Capopalestra a Ponentopoli... Se la
conoscete. Piacere.»
Si era limitata
all'essenziale, non avrebbe potuto fare altro.
L'unica che
sembrò
ricambiare la presentazione fu la bionda sorridente che le diede due
baci sulle
guance come atto di gentilezza, ridendo dolcemente per ricambiare il
suo
coraggio.
«Il piacere
è mio.»
La accolse calorosamente.
Ora era il momento di
farsi avanti.
Iris raccolse in un
intrepido respiro tutta la sua audacia, ricordandosi che anche le sue
compagne,
per quanto autoritarie e fredde potessero sembrarle, erano umane e
quindi
potevano, anzi dovevano, serbare un po' di ansia, o la situazione
sarebbe
rimasta bloccata a quel gelido silenzio in eterno.
«Il mio
nome è Iris
Calfuray, piacere di conoscervi. Ho quindici anni e vengo
da...»
Iris si interruppe un
attimo, per decidere che dire, per decidere che impressione dare a
quelle
ragazze. Avrebbe davvero rivelato le sue origini? Voleva che le sue
avversarie
la commiserassero? E se invece di commiserarla se ne fossero altamente
fregate,
o peggio, l'avessero derisa?
Non serviva una
bugia. Una mezza verità sarebbe bastata a coprire quella
parte di lei che
riemergeva con ogni genere di ambiguo pretesto.
«...
Boreduopoli. Non
sono ancora un'Allenatrice qualificata ma - e qui una frase ad effetto
ci stava
proprio bene - spero di diventarlo.»
Ovviamente Camilla la
accolse con i classici baci sulle guance, il premio che Iris si
aspettava dopo
aver dimostrato il proprio coraggio, nel suo piccolo.
«Quindici
anni...
Come sei giovane! Sei la più piccola del gruppo,
sai?»
Iris non riusciva ad
essere sarcastica, a risponderle un secco "grazie,
fin lì c'ero
arrivata anch'io".
Non stava parlando con una ragazzina come lei, ma con una donna bella e
fatta
alla quale poteva solo portare rispetto (e quindi evitare di farsi trip
mentali
in sua presenza).
Ora l'atmosfera era
più calda. Non ancora calda come una coperta di lana, ma non
più fredda di un
blocco di marmo, una situazione già più piacevole.
Camilla la ispirava
davvero
tanto. Se voleva davvero diventare Campionessa lei era il modello
giusto da
seguire. E magari sarebbe potuta perfino diventare sua amica, con un
briciolo
di fortuna.
Ma, come in tutte le
situazioni non totalmente calde, ancora si sentiva un pizzicante
refrigerio
nell'aria.
Infatti la mora e la
bionda spenta non avevano ancora proferito parola, ma non per via
dell'ansia: i
loro volti (uno sorrideva perfidamente, mentre l'altro non lasciava
trasparire
alcuna emozione) non parevano umani. Gli umani percepiscono il caldo ed
il
freddo e la felicità, l'ansia e anche la paura.
Camilla
camminò
davanti ad Iris con il suo passo deciso, porgendo una mano alla ragazza
vuota,
che sembrò stupita e un po' disturbata dal gesto della
Campionessa di Sinnoh.
«Catlina,
dovresti
presentarti anche tu. Sono certa che queste ragazze sarebbero molto
contente di
conoscerti.»
Iris si
sentì un po'
turbata da quell'affermazione. Si sentiva invadente, anche se non
poteva averne
colpa. Del resto, prima o poi avrebbe dovuto conoscerne almeno il nome.
Camilla si rivolse di
nuovo a lei e alle altre due ragazze.
«Io e lei
ci
conosciamo già, veniamo entrambe da Sinnoh. -E sorridendo
alla bionda, che
sembrava innervosita e imbarazzata allo stesso tempo, la
invitò a farsi avanti.
- Siamo amiche d'infanzia.»
«S-Sì...
- la giovane
si bloccò un attimo, per riprendere respiro da quella
situazione snervante -
Sono Yamaguchi-Haato Catlina, lavoro qui alla Lega, piacere di
conoscervi.»
Ancora Iris non aveva
capito.
Non capiva
perché avesse
così tanta paura di presentarsi, perché
continuasse a guardare tutti con quello
sguardo spento e annoiato, perché i suoi capelli
continuassero ad accarezzarle
il naso con quello strano odore di vaniglia.
Non capiva neppure
come facesse una ragazza aperta e gentile come Camilla ad essere stata
amica di
un cadavere parlante del genere...
Ma nessuno
è se
stesso nei momenti gelidi. Se avesse aspettato di vederla in un altro
stato era
sicura che sarebbe stata diversa.
«Hai dei
capelli
bellissimi, Catlina.» Disse la ragazzina, imitando la tattica
che aveva usato
Camilla su di lei.
E quella non si
dimostrò del tutto insensibile, del resto.
Le tornò indietro un "grazie", in un misto fra il nervosismo
e
l'imbarazzo.
Interessante. Iris non poté non pensarlo.
Ora ne mancava una;
mancava la più tosta però.
Iris si sentiva
forte: due su tre già la consideravano una a posto, ed era
un buon risultato
per una che era partita con il presupposto di non potercela fare.
Scambiò
un'occhiata
con Anemone, intendendola al volo (o almeno sperando di avere inteso,
altrimenti avrebbe solo fatto la figura della stupida), e si diresse
davanti
alla ragazza mora, che non smetteva di sorridere nascondendo a fatica
quanto
ritenesse in realtà tutto ciò patetico.
«Vorrei
sapere che ci trova da ridere... Ma del resto il riso abbonda sulla
bocca degli
stolti...»
Pensò
Iris, cercando
forza nella saggezza. Un make-over totale di trucco e capelli non
poteva
arrivarle in dieci secondi, ma era comunque abbastanza tempo per
elevarsi per
intelligenza rispolverando armi usate da generazioni di ragazzine
insicure.
Iris aveva bisogno di
forza morale per affrontare gli occhi di quella ragazza, quegli occhi
che prima
l'avevano trucidata e che continuavano a perforarle la pelle,
paralizzandole le
membra.
Almeno con lei c'era
un'altra, che doveva essere immune alle sue prepotenze, e quindi le
avrebbe
garantito sicurezza, come quando si affronta un bullo non con qualcuno
più
grande, ma uguale all'ostacolo.
Iris provò
ad
attaccare bottone, con la frase più lecita in quel momento.
«Ciao.
– la salutò
dolcemente, cercando di dimostrare una minima felicità nel
conoscerla - Tu
sei...» Cercò di invitarla a risponderle.
Grave errore. Grave,
gravissimo errore.
Tutte le ragazze,
persino Camilla, si erano accorte dello sbaglio enorme, del crimine
contro la
persona, dell'oltraggio al mondo adulto che aveva involontariamente
commesso.
Una ragazza libera e
ribelle come Iris, che viveva le travagliate vicende dell'adolescenza
in bilico
tra una bambina ingenua e un'adulta emancipata non poteva leggere
riviste,
stare sui social network o chattare: ma la mora non sembrava averlo
capito;
come dice il proverbio, non conoscendo poteva solo disprezzare e per
farlo si
sarebbe servita della sua arma migliore: i suoi occhi azzurri.
«Davvero
non sai chi
sono? È un po' strano, vedendo come mi fissavi
prima...»
Ecco che iniziava con
una delle sue freddure, che potevano abbattere anche un muro.
«S-Scusa,
abbiamo
iniziato con il piede sbagliato - cercò di scusarsi chinando
leggermente il
capo la ragazzina, che era tornata a sentirsi piccola ed impotente con
una sola
frase - ti chiedo di perdonarmi. Mi chiamo Iris, piacere.»
«Riesco
quasi a
toccare la paura che provi in questo momento, - rispose guardandola
dritto
negli occhi, fingendo di tastare qualcosa di astratto con la mano - se
fossi
davvero dispiaciuta scoppieresti a piangere. Miliardi di mie fans lo
fanno
quando glielo chiedo. Ma tu sei troppo
piccola e lo considereresti crudele...
...Almeno quanto
detesti il fatto che tutte le ragazze in questa stanza abbiano le tette
più
grandi delle tue.»
Solo sentendo quella
frase, Iris era letteralmente morta nell'animo.
Quelle parole erano state definitivamente crudeli, aveva ragione quella
ragazza, erano così dolorose che stavano per farla piangere.
Quella modella l'avrebbe schiacciata come un Rulloduro.
«Non
è divertente,
smettila di comportarti come se fossi in una anime.» Anemone
si pose con
scioltezza davanti alla modella, come per difendere Iris.
La rossa non avrebbe
permesso che tra le due nascesse un'antipatia che si sarebbe protratta
fino
alla sfida finale: sapeva benissimo che una ragazzina non
può competere contro
le elaborate, spietate e pesanti offese che quella mora sapeva lanciare.
Perché
sì, Anemone
aveva avuto l'occasione di leggere in una rivista di quella ragazza dai
capelli
nero tinto.
Camelia si fece
più
seria. Si avvicinò alla rossa, sorridendole beffarda come se
quella avesse
assestato un colpo assolutamente nullo.
«Sta' zitta
tu. I
tuoi vestiti valgono la metà di te, io mi farei delle
domande.»
Anemone si
paralizzò,
come un Tipo Volante colpito da una forte scarica elettrica... Si
notava così
tanto che i suoi vestiti erano di seconda mano?
Continuò a
fissarla,
sperando di non essersi messa ancora contro la persona sbagliata.
Sarebbe stata una gara di sguardi ed avrebbe vinto chi avesse ridotto
l'altra a
distogliere lo sguardo per l'umiliazione.
Iris però
era stufa.
Non voleva farsi odiare.
Lo aveva detto anche Nardo che non erano avversarie, ma compagne.
E l'intervento
salvatore di Camilla glielo fece ricordare.
«Sei
Camelia Taylor,
la top model più famosa di Unima... Vero? - domanda
retorica, non sapere chi
fosse lei era pari a non sapere chi fosse Arceus - Dovresti accettare
le scuse
di questa ragazzina. Non credo avesse cattive intenzioni, mi sembra
troppo
giovane per pensare a quel genere di cose. Per favore riflettici, non
intendeva
insultarti.»
Iris non aveva
seguito tutto il discorso, si era fermata a "quel genere di cose",
chiedendosi se Camilla fosse troppo ingenua per considerarla una
pervertita o
se fosse lei un'ottima attrice.
Ma era certa di una
cosa: Camilla le aveva salvato la pelle. Ancora.
E spettava a lei completare l'opera, considerandosi definitivamente
un'ottima
attrice.
«Scusami
tanto. Se ti
fissavo - iniziò, con tono adulatore - è
perché sei molto bella... I tuoi fan
te lo avranno già fatto notare, ma io ti ho conosciuta solo
adesso e già ti
ammiro molto. Se sei così attraente d'aspetto, sarai anche
un'Allenatrice
fortissima...»
E lì si
interruppe,
ansiosa di vedere la reazione della tanto divina quanto fredda Camelia.
«E va bene,
ti
perdono. - e sorridendo sarcasticamente ancora una volta - Del resto,
sei più
piccola di tutte noi. In tutti i sensi... - poi si rivolse alle altre
tre
apertamente - non è vero?»
Poi la modella si
girò, accarezzandole con la punta delle dita la guancia:
sentire quel tocco
caldo sul viso la fece leggermente rabbrividire.
Quali
potessero
essere le sue intenzioni, cosa volesse trasmetterle con quel gesto
ancora non
le era chiaro.
❁
Ma l'unico modo per
far svanire tutte le domande, tutti i dubbi e tutte le incertezze di
quel
momento era aspettare: forse in poco tempo si sarebbero rivelate grandi
amiche...
O forse no.
Come
c’è sempre un
lato positivo, in tutto ce n'è anche uno negativo.
Nella vita ci sono
amici e nemici, ed una semplice regola non poteva impedire alle ragazze
di
serbare odio l'una per l'altra; in una competizione ci sono vincitori e
vinti., quindi una vincente
e
ben quattro perdenti. C'era quindi maggiore probabilità di
restare a mani vuote
per lei.
Iris non sapeva
più
che cosa pensare. Voleva andarsene da tutta quella paura e a tutti
quegli
sbalzi d'umore che la stavano portando ad un esaurimento nervoso.
Si era presentata,
aveva rivelato il suo nome, le sue presunte origini ed il suo ruolo
nella
società.
Ora, dicendo
addio,
desiderava sparire nel suo anonimato, nella sua piccolezza ed
insignificanza.
Sicuramente le sue
compagne si sarebbero comportate in maniera più adulta di
lei.
«O
forse no...»
Pensò
Iris,
osservando quelle ragazze che per ragioni a lei ignote non riusciva
ancora a chiamare
"compagne".
❁
«È
incredibile, no, anzi, terribilmente imbarazzante! Com'è
possibile che a io quindici anni non abbia neppure un accenno di seno?!
Ci sono sempre passata sopra, era un dettaglio abbastanza
trascurabile... Finché quella maledetta tettona non me lo ha
rinfacciato!
Su
cinque ragazze quattro - e mi vergogno più ad averlo notato
che a dirlo - hanno le tette incredibilmente grandi! Okay, detto
così non sembra terribile.
Immaginate
di essere completamente piatte... No aspettate, probabilmente chi legge
è un maschio. Quindi, ricominciamo.
Immaginate
di essere una femmina quindicenne completamente piatta, che si ritrova
a dover convivere con delle ragazze con le tette enormi, che solo a
guardarle si sciolgono le palpebre per l'invidia e che tu sogni di
avere da quando sei nata.
Ma così sembra la trama di un manga pornografico...
Immaginate ancora una volta, per favore. Immaginate... le mie compagne
(le chiamo così solo per formalità).
Anemone
(è molto carina secondo me...), capelli rossi, grandi occhi
azzurri e tipico seno da anime-ecchi; ha anche la pelle del mio stesso
colore.
Camelia,
capelli neri, trucco in ogni centimetro della faccia e fisico da
classica modella francese (ma sinceramente, quelle freddure le vengono
al momento o se le fa scrivere?).
Catlina,
con i capelli di una principessa, gli occhi di uno spettro, e il petto
che sembrava esploderle in quel vestito così raffinato
(chissà che shampoo usa...).
E
Camilla... Non so se essere spaventata o incantata da lei. Di solito le
ragazze belle come lei vantano un meraviglioso fidanzato... Come deve
essere fortunata, la nostra leader.
Non vi
chiedo però di immaginare me: dicendo di essere piatta, mi
sono tolta qualsiasi speranza di farmi apprezzare.»
j
❁
Behind
the
Summery Scenery #2
1.
Nelle prime fasi della pubblicazione della storia ho avuto diversi
problemi con l'htlm sopratutto per quanto riguardava le spaziature, il
carattere e la dimensione del font e soprattutto la disposizione delle
frasi. Senza l'aiuto di Barks non
sarei mai riuscita ad impaginare decentemente la storia. Questo
problema penso sia la maggior causa dell'insuccesso della storia
durante i primi momenti della pubblicazione.
2. Il
titolo di questo capitolo è leggermente cambiato ancora:
prima era “Quando tutto è nuovo, anche te
stesso”, poi "Quando tutto è nuovo anche tu lo
sei".
3. Non
capisco perché, ma cliccando sul titolo della storia dal
menù delle ultime aggiornate verrete indirizzati qui al
secondo capitolo invece che al primo, e ancora non riesco a spiegarmi
il perché dopo sei mesi.
Update 2.0: falso allarme, sono riuscita a risolverlo. Mi sento una
hacker, lol.
4. La
scena in cui da un braciere infuocato l'ombra di Nardo si proietta
minacciosa è puramente reale: nella Hall of Fame in
Pokémon Nero e Bianco c'è davvero un braciere,
spento però. Inoltre, riguardandola bene, la struttura
esterna della Lega Unima è tutt'altro che maestosa e
ammaliante: sembra un'aborto figlio di un tempio greco, una ziqqurat e
la Cappella Sistina.
5. Ho
adorato descrivere la scena in cui Camelia rinfaccia ad Iris l'avere un
seno piccolo e ancor di più ho adorato scrivere il monologo
finale: penso che questa insicurezza renda il personaggio di Iris
più sexy dal punto di vista caratteriale. E no, non ho nulla
contro le sue tette, se ve lo stavate chiedendo.
6.
Questo è l'ultimo capitolo in cui le ragazze indossano i
loro vestiti originali del gioco/anime/manga fino alla fine della
storia.
7. Ho
fatto una modifica nella versione 3.0 della storia. "Grazie per aver
avvisato adesso, mongoloide." Sì, grazie.
Parto
dicendo che dare dei cognomi a dei personaggi in un franchise che
dà nomi di persona così eccentrici non
è facile.
Inventi
dei cognomi tu: ti senti un cretino. Scegli dei cognomi preesistenti:
ti senti un cretino poco originale. Mescoli le due opzioni: ti senti un
doppio cretino. E, cosa incredibile, non mi piace sentirmi
più cretina di quello che già sono.
Ora,
prima le ragazze avevano tutte e 5 dei cognomi giapponesi.
Perché, se Unima è ispirata all'America queste 5
whitebeasts devono fare cultural appropriation ed avere dei cognomi che
non rispecchiano la loro nazionalità?
Quindi,
ho detto, proviamo così.
Catlina
e Camilla sono effettivamente giapponesi (Sinnoh = Hokkaido = isola
nord del Giappone. Due giapponesi bionde e tettone, ma pur sempre
giapponesi, lol), quindi i loro di cognomi, Yamaguchi-Haato e Kuroi
rimangono uguali. Guardate, ve li so scrivere anche con i kanji
山口・心音 e 黒井、sono tutti kanji facili da scrivere.
Così sì mi diverto a scrivere 50 e 84 tratti,
giappominchia che non sono altro.
Tornando
a noi: Anemone fa di cognome Reyes ora. In qualche modo
è latina/messicana e questo
cognome me gustava, olé. No, non me ne frega niente se gli
spagnoli nella realtà non dicono olé.
Per
Camelia, un mio amico simpatico e poco razzista, ha scelto Taylor,
perché appena senti Taylor pensi
subito ad una bianca (mep) con gli Ugg ai piedi (che ho anch'io) che
beve un caramel macchiato da Starbucks (come piace a me) e usa "totally
like" ad ogni interiezione (this is like, totally me,
n'stuff).
Per il
Calfuray di Iris ho dovuto fare ricerche, quindi link qui perché
sono stufa di scrivere.
Ancora
scusatemi per aver scombussolato l'ordine del cosmo a metà
storia.
|
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Capitolo 3 *** Tempesta di sentimenti ***
ESGOTH 3
❁
A story
by: Momo
Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing: 🍦
Seguiteci
su instagram: @esg_official_ig
Early
Summer Girls
❁
Capitolo
3
Tempesta di sentimenti
Se
sulle mani della nostra eroina dai capelli viola fosse comparso uno
strumento per riportarla indietro nel tempo, di sicuro ne avrebbe
usufruito senza alcun ripensamento.
Il
tempo, nel quale Iris aveva riposto tutte le sue speranze, in quel
momento la stava tradendo con lo scherzo peggiore che quella mistica
entità potesse giocarle: passare, lasciando le cose
terribilmente invariate.
Scorrendo lento, per farle assaporare ogni istante lungo, pesante ed
infinito, si prendeva gioco dei suoi sentimenti.
Si era
ripromessa che si sarebbe comportata da adulta.
E
fino a quel momento aveva mantenuto alla lettera la sua promessa: da
quando era lì non aveva mai riso, se non per compiacere le
altre
ragazze; si era limitata a sorridere come chiunque fingeva
un'improvvisata spensieratezza d'animo che, giorno per giorno, invece
di giovarle in modo da farla risultare una ragazza simpatica e
amichevole, le si era ritorta contro, ferendola dentro tutte le volte
che le ragazze non la guardavano.
Ecco
ciò che spaventava Iris, che continuava ad essere ignorata,
insieme ai suoi rimorsi i quali parevano invisibili agli occhi altrui.
Parlare
con quelle era difficile non solo poiché erano di almeno due
anni più grandi di lei (la frase di Camilla "sei la
più
piccola del gruppo", aveva perso il suo dolce significato originario,
diventando la palese scusa per isolarsi), ma anche perché
quelle
erano quattro Allenatrici completamente diverse, sia per quanto
riguarda l'aspetto fisico, sia per quello caratteriale.
Sapere cosa dire, parlando con ognuna, le risultava praticamente
impossibile.
Tutto
ciò le pareva strano: Iris Calfuray era sempre stata una
ragazza
aperta, estroversa, socievole. Così la descrivevano gli
altri,
ancora ai tempi in cui era bambina.
Ma
da quando era lì, la paura dei giudizi, il panico che ogni
suo
movimento sbagliato le sarebbe stato rinfacciato a vita e il terrore di
rimanere sempre l'ultima avevano zittito la sua voce squillante e
paralizzato ogni suo movimento.
«Mi
sento un'asociale. E non ha senso cercare di rimediare: le altre sanno
il fatto loro. Sanno di sentirsi apprezzate, io no. Resterò
sola
tutto il tempo, sarà un incubo, io...»
E
si interruppe lì, cercando un pensiero alternativo, o almeno
di
ascoltare le conversazioni per distrarsi da quella depressione che
incombeva su di lei.
Ma non
ci riuscì e, seguendole in silenzio, finse di stropicciarsi
un occhio.
«Sarebbe
davvero umiliante se mi vedessero piangere...»
Si
disse per farsi forza, fallendo miseramente nel tentativo.
❁
Se
Iris non riusciva a distrarsi da sola, il fato aveva svolto il lavoro
sporco per lei: durante l'allenamento era scoppiato un terribile
temporale, conseguente ad un acquazzone che lavava le
impurità
della terra sotto un cielo di nuvole nerissime.
Ormai
era sera. Per ripararsi Nardo aveva proposto loro di ristorarsi in casa
sua e, intuitivamente, avevano tutte accettato (anche se si erano
limitate a seguire il consenso della loro leader, che sembrava gioire
all'idea).
Quindi,
dopo la corsa più disperata sotto la pioggia battente che la
ragazzina (e non solo) avesse affrontato, si era ritrovata
lì,
nella casa del suo mentore.
Nessuna
delle giovani si aspettava un posto così.
Un'enorme
magione, costruita interamente in legno e carta di riso, rispecchiava
l'antico ma mai antiquato stile giapponese, che nella regione di Unima
non sembrava poter in alcun modo dominare sull'architettura tipicamente
occidentale.
Porte
scorrevoli, pavimenti foderati e lampade di carta rendevano
quell'ambiente davvero inusuale ma altrettanto piacevole, con la
sensazione di star camminando tra le stanze e i corridoi di un
misterioso e affascinante passato, che spaziava tra quadri
rappresentanti tipici paesaggi nipponici, come fiumi e montagne,
ideogrammi dipinti raffinatamente con inchiostro nero opaco su porte e
stipiti.
«Ho
sentito dire che nel giardino della casa del Campione sia presente
un onsen, il tipico bagno caldo
giapponese, realizzato interamente in pietra, come uno di quelli
più antichi.»
Aveva detto loro Camilla, per rendere l'atmosfera più
conviviale.
Nonostante
la situazione fosse stata leggermente rovinata dal penoso aspetto delle
ragazze, completamente fradice e spettinate, Nardo cercò di
trattarle con quanta più ospitalità possibile,
per
ottenere la loro fiducia.
Conoscendo
in anticipo le loro intenzioni, porse loro un enorme borsa bianca di
lino.
«Siete
bagnate dalla testa ai piedi. Toglietevi i vestiti, per
favore.»
Subito
però le ragazze, data la loro mente giovane e aperta, furono
in grado di delineare il doppiosenso in quella frase.
«N-Nardo,
non pretenderai che ci spogliamo sotto i tuoi occhi?!»
Disse in rimando Catlina con tono scioccato e imbarazzato, ma pur
sempre contenuto.
L'uomo
scoppiò a ridere fragorosamente, rendendo quella situazione
anche più strana di quanto non fosse. Poi se ne
andò,
lasciando la borsa ai suoi piedi.
Iris
non si chinò a guardare nella borsa, aspettando che fossero
le altre ragazze a scoprirne il contenuto.
«Sono...
kimono?!»
Fu
l'analisi abbastanza stupita di Anemone, che non si aspettava un tale
trattamento da parte di un uomo che conosceva da poco più di
una
settimana.
La
ragazza dai capelli rossi sentì una mano appoggiarsi sulla
sua spalla.
Indubbiamente fu quella di Camilla, che aveva già estratto i
vestiti e li mostrava alle ragazze.
«Più
precisamente sono degli yukata.
Si riconoscono per la particolare fascia sotto il petto che serve a
legarli. Sono anche famosi poiché, a differenza di altri
tipi di
kimono, non necessitano alcuna misurazione per le spalle e il petto.
Quindi non esiste una taglia, ma si possono indossare a proprio
piacimento.»
Quel
bel discorso pronunciato dalla giovane donna fece viaggiare Iris con la
mente, trasportandola in un universo alternativo, reso così
affascinante dall'antichità come un vino che matura il suo
sapore pungente con anni ed anni di quiescenza.
Le
donne dovevano essere piuttosto importanti, realizzò, in
quella
società così lontana dalla sua; le femmine
lì
meritavano lunghe maniche, una copertura decorosa abbinata ad un
tessuto morbido e confortevole adornato da motivi colorati e
fantasiosi: un capolavoro di vestiario.
La
moda della regione di Unima di certo non poteva vantare nulla di
così raffinato, anche se si sforzava non riusciva a
proiettare
la stessa idea di dignità e bellezza espressa da un
tradizionale
kimono su cose furiosamente occidentali come jeans stretti e maglie
attillate.
«Capito?
- Iris sprofondò nella vergogna quando Camelia le rivolse
uno
sguardo di commiserazione - Fanno addirittura dei kimono per le sfigate
come te. Che pena, scommetto che non ti servirà neanche la
cintura...»
E
terminò con il classico tono derisorio.
Iris
sospirò. Ignorare era così difficile se si
metteva in
ballo il suo orgoglio. Avrebbe voluto controbattere, o almeno poter
ordinare al suo Axew di tagliarle la gola e sentire che commenti
quell'insensibile aveva al riguardo...
«Aspetta,
da quando mi interessa possedere un paio di tette?!»
...e
realizzò quanto fosse caduta in basso.
Si
allontanò da Camelia che si godeva soddisfatta la
frustrazione crescente.
La
spiegazione semplice e professionale della leader aveva catturato
l'attenzione di Iris, la quale desiderava indossarne uno più
che
mai, dato che, non avendo taglie, il problema di essere la
più
piccola sperava che non sarebbe riemerso, in teoria.
Lei
e le altre Allenatrici li osservarono uno per uno, scambiandosi qualche
volta dei consigli, per far sì che anche una banale
situazione
come quella divenisse un momento per socializzare, come delle "amiche"
farebbero.
A
favorire tutto ciò fu proprio il carattere così
dolce e aperto di Camilla.
«Anemone
- attirò la sua attenzione con successo - dovresti prendere
questo azzurro. Si intona perfettamente con i tuoi occhi.»
Lei si
girò, un po' confusa per l'affermazione e per il fatto
che... Avesse notato i suoi occhi.
«Sì…
Hai ragione. Grazie!»
Le sorrise la giovane, rispondendo, un poco imbarazzata alla gentilezza
dell'amica, che glielo stava infilando partendo dalle braccia.
Intanto
Iris e Catlina continuavano a guardare gli altri abiti, passandosi fra
le dita quel tessuto morbido e delicato, come fosse fatto di petali di
rosa.
Gli yukata rimasti
erano tre: uno bianco latte, uno rosa pesco molto tenue e uno viola
chiaro, quasi lilla. Quello attirava maggiormente la ragazzina.
Il
colore si abbinava perfettamente ai suoi capelli e, mentre si rigirava
il kimono violetto fra le mani, si chiedeva chi potesse aver cucito o
dove Nardo avesse comprato quegli indumenti.
«A
proposito, perché Nardo dovrebbe possedere degli abiti
femminili?»
Domandò a Catlina, che sembrava indecisa su quale dei due
vestiti scegliere.
«Forse
perché non sono suoi.» Le rispose con tono calmo
la ragazza.
«Cosa
intendi?» Insistette la ragazzina in viola.
Le
mostrò chiaramente lo sguardo più perplesso che
riusciva a fare.
«Che
non appartengono a lui, forse.»
«Grazie
genio, ti farò un monumento per questa risposta illuminante!» Si
disse Iris sottovoce.
Poi,
sapendo benissimo di non sapersi comportare da ragazzina sarcastica,
cercò di immaginare come mai le risposte di quella giovane
dagli
occhi spenti fossero così vaghe.
Iris
non fece in tempo a girarsi che vicino a lei era apparsa Camilla.
«Non
dovresti giudicare Catlina così presto.»
Beccata.
Una ragazza più grande di lei aveva sentito le sue private
osservazioni, facendola sentire talmente in imbarazzo, che non
riuscì a trattenere la sua indole repressa di bambina
imbarazzata e dispiaciuta allo stesso tempo.
«Scusa,
io... Non intendevo offenderla, per favore, dimentica ciò
che ho detto... Scusa, scusa ancora!»
«Stai
calma, non hai offeso nessuno... Catlina è una brava
ragazza. Ti
basterà poco tempo per accorgertene.»
E, come
al solito, le sorrise con aria gentile, dimostrandole di averla
perdonata.
Iris
continuava a rimuginare se fidarsi o no dell'affermazione di Camilla.
Sperava, in cuor suo, che Catlina fosse davvero una brava ragazza, ma
che prima dimostrasse di provare emozioni, come una vera ragazza.
Era
rimasta in piedi, tenendo in mano l'ultimo kimono rimasto: era viola.
Questo colore, come si può evidentemente notare, sembrava
essere
stato dipinto da Dio sulla tela del mondo solo per rappresentare quella
ragazza, l'innocenza e il fiore dal quale aveva preso il nome: l'iris;
la fascia che lo legava presentava dei piccoli e raffinati disegni di
fiori dai petali piccoli come chicchi di riso.
Si
chiedeva se il più brutto fosse stato lasciato a lei, dato
che
era rimasto per ultimo, per via della sua lentezza nello scegliere un
colore.
Era
quello il suo colore? Il colore dell'abbandono? Un colore ormai
sfiorito ed ignorato?
Lo
guardò un attimo come fosse un dono intoccabile,
irreprensibile.
Avrebbe
voluto rimanere lì ad ammirarlo e basta, solo toccarlo
sembrava
darle l'impressione di scombussolare un qualche equilibrio antico, il
primo yukata che vedeva in vita
sua.
«Non
vi spogliate?»
Queste
parole scossero la psiche di Iris.
Le parve uno scherzo sporco al sentirlo così d'improvviso.
Ma dopo essersi voltata capì che era davvero un incito.
Tenendo
fra le gambe lo yukata giallo
acceso, abbagliante come un lampo, Camelia si era già tolta
i
vestiti bagnati di pioggia; indossava solo l'intimo, che si stringeva
contro il suo corpo umido e perfetto.
Il
resto delle ragazze la guardarono sbigottite: dovevano ammirare il suo
coraggio o vergognarsi della sua impudicizia?
Non
dissero nulla. L'ennesimo loro silenzio, l'ennesima nuvola sotto quella
pioggia battente. Si limitarono a seguirla.
Iris
le guardò sfilarsi i pantaloni, togliersi gli indumenti fino
alla semi nudità, nei loro occhi increduli e vuoti.
Lei si sarebbe chiaramente rifiutata, se solo avesse avuto un briciolo
di autorità. Si conoscevano da poco e non ancora non avevano
avuto una vera conversazione.
Quando
comprese che anche lei avrebbe dovuto mostrare a quelle donne il suo
corpo di bambina provò il più forte imbarazzo
della sua
vita.
Qualcosa
violava la sua dignità, e le pareva di sentire le risate
commiserevoli e crudeli di Camilla, Anemone e Camelia alla vista del
suo corpo: Iris ripensò ai loro grandi seni, alle loro curve
perfette e alla loro pelle diafana. Loro non si vergognavano di certo.
Aveva
quindici anni, quest'ambizione non l'aveva mai sfiorata, ma volle porsi
un obiettivo ulteriore alla vincita del titolo di Campione:
«Quest'estate
voglio diventare sexy.» Bisbigliò
a se stessa, mentre si infilava lo yukata.
Camilla
capì, e le sorrise.
❁
L'ospitalità
di Nardo non aveva più freno: l'uomo si era offerto di
preparare
loro una cena speciale, per premiarle della pazienza e tolleranza
dimostrata in quei giorni, soprattutto durante gli ardui allenamenti a
cui le sottoponeva.
A
vedere il risultato di quell'atmosfera eccessivamente forzata,
Iris si sentì come estranea a quel posto, a quella regione o
anche all'intero universo.
L'uomo
fece accomodare le ragazze, che dimostravano parecchio entusiaste in
quell'aria nuova ed estranea.
La
cena era in perfetta sintonia con l'ambiente tipico orientale. Un buon
assortimento di piatti deliziosi, non esageratamente ricchi o pesanti,
era imbandito su un tavolo a gambe basse, con cinque cuscini disposti
intorno.
Con gli
occhi bassi ed un falso sorriso sulle labbra Iris si arrese al suo
stesso isolamento.
Aveva mangiato poco, il suo stomaco le sembrava essersi riempito e poi
svuotato più volte durante quella lunga serata.
Era
seduta accanto alle sue compagne, ma nonostante ciò
percepiva
un'inviolabile distanza fra se stessa e tutto quello che in quel
momento la riguardava.
Era
zitta, immobile. Si limitava ad ascoltare Anemone, Camelia, Catlina e
Camilla conversare; parlavano del loro lavoro di Allenatrici
professioniste, delle loro lotte, delle loro vittorie, ridendo e
interagendo senza alcuna difficoltà l'una con l'altra,
mentre
lei, inabile di intromettersi in una semplice conversazione per via
dell'infinita paura che provava, contribuiva al suo stesso isolamento.
Inginocchiata
lì, in quel posto che le pareva alieno, indossando abiti non
suoi, Iris si sentiva bloccata dal terrore inconfondibile della
solitudine.
Continuava
a guardarsi intorno, cercando un'ipotetica via d'uscita da quell'incubo
di volti sconosciuti ed orribili sensazioni che trasalivano lungo il
suo corpo.
«Voglio
morire...» Si
ripeteva nella sua testa, quasi pensando che le altre la potessero
leggere nel pensiero in quella situazione terribilmente imbarazzante.
Ma non sarebbe successo, si augurò in maniera pessimistica.
A
quelle ragazze non importava minimamente di lei, non vedevano quanto
lei stesse soffrendo a causa loro e della loro indifferenza: come tutti
i vincenti, dovevano essere spietate ed egoiste, ignorando chi era
inferiore a loro.
Ancora
Iris le vedeva ridere, scherzare e, ormai del tutto disinteressata alla
loro conversazione, nutriva un misto di odio e disprezzo nei loro
confronti, il quale si mescolava alla sua tristezza e vuotezza
interiore.
E
mentre il mondo girava vorticosamente, andava avanti, lei era
paralizzata in quegli istanti infiniti, dolorosi come se li stesse
passando all'inferno, sentendo la solitudine roderle le viscere e
spaccarle il cuore, lei... Si sentiva sola.
Per una
delle poche volte in tutta la sua vita Iris provava un sentimento
maggiore del suo precedente orgoglio.
Voleva
sparire da quel mondo, sparire e tornare a casa, per non commettere
quel suo fatalissimo errore: di aver creduto in sé stessa in
maniera così tracotante.
❁
La
notte era giunta portando con sé, oltre ad un cielo nero e
tetro, ancora un terribile acquazzone, che continuava a scagliare le
gocce di pioggia contro i vetri con il tipico frusciare sordo e
gemente, mentre i tuoni irrompevano nel silenzio con i loro frastuoni.
Cinque
stuoie, tipiche nei dormitori d'oriente, erano state stese sul
pavimento di una grande stanza da Nardo, per dare un posto in cui
dormire alle sue ospiti.
La
stanza non era del tutto buia: dalla finestra penetrava la luce dei
lampi che illuminava per pochi istanti le pareti e poi scompariva
nell'oscurità.
Uno
di quei bagliori fulminei aveva raggiunto il viso di Iris, rivelando
delicati riflessi bianchi lungo la sua pelle: la ragazza sentiva il
cuscino bagnarsi sulla guance, mentre la sua mente era caduta nel
baratro della tristezza; e dopo che un altro tuono aveva scatenato il
suo poderoso boato, a stento aveva trattenuto un grido di disperazione.
Non ce
la faceva più.
Sentiva
che il momento di mollare tutto e tornare sui propri passi era giunto,
anche se ormai si sarebbe dovuta rassegnare agli scherzi sadici del
tempo.
«Essere
un Campione non significa solo lottare...»
Lei
aveva provato a lottare, con tutto il suo impegno e tutte le sue forze.
Ma aveva perso. Aveva perso sia le lotte Pokémon che quelle
della sua vita: non c'era più speranza che una come lei
potesse
diventare Campionessa.
A quel
punto ad Iris Calfuray non restò che piangere.
Mentre
le lacrime scendevano leggere e allo stesso tempo dolorose lungo i suoi
occhi presi dallo sconforto, le capitò di sentire una strana
sensazione: non era una bella sensazione, ma le impresse uno stimolo
per distrarla da questa depressione.
E
appunto in quel momento Iris sentì qualcosa sfiorarle, anzi
battere, sulla sua mano.
Girandosi
si accorse che i suoi non erano gli unici occhi a brillare alla luce
dei lampi nel buio di quella stanza: un paio di occhi grandi, color
azzurro cielo, la fissavano con un'espressione sorridente, contrapposta
al suo viso angosciato e depresso.
Le
ci volle poco per realizzare chi avesse di fronte, nonostante la
sorpresa iniziale. Le fu comunque gradito incontrare occhi del colore
di cielo limpido in una notte di pioggia battente.
«Non
riesci a dormire, vero?»
Le
domandò sottovoce Anemone, avvicinandosi a lei.
«N-No...»
Si limitò a risponderle la ragazzina, che cercava di
nascondere,
per ragioni di integrità, le lacrime che poco prima
scendevano
copiose sul suo viso.
«Neanche
io.» Le arrivò in risposta.
Iris
si sentì sorpresa a sentire ciò, ma non aveva
alcuna
intenzione di auto-illudersi e ferirsi involontariamente come aveva
fatto fino a quel momento.
O forse
sarebbe stato meglio... parlare? Finché stava zitta Iris si
era procurata solo dolore.
“Chi
tace acconsente, sorridi e stai zitta, fai come fanno gli
altri”
erano diventati i suoi nuovi precetti e non le procuravano altro che
dolore - se proprio doveva andarle bene anche umiliazione - e solo in
quel momento aveva finalmente capito che continuare a sorridere
innocentemente e ad assecondare tutti riusciva solo a far si che tutti
ignorassero i suoi veri sentimenti.
Non
era felice, era depressa e disperata, odiava quel posto e desiderava
soltanto tornare a casa, in un'atmosfera che non fosse gelida come il
ghiaccio e tra volti amici, che avrebbero certamente dato importanza ai
suoi stati d'animo silenziati dall'imbarazzo.
Ora
che sapeva ciò che voleva, le serviva un modo per sfogare
tutta
quella frustrazione su quella ragazza che aveva osato rivolgerle la
parola.
«A
te piace stare qui?»
Sì,
così poteva funzionare. Era casuale e niente favorisce il
discorso più del caso.
La
ragazza tirò un mezzo sospiro e si lasciò andare
con la testa contro il cuscino.
«Diciamo
che mi ci devo abituare. Mi piacciono le novità, anche se ce
sono tante in poco tempo. Gli allenamenti... Sì, sono un po'
duri, ma penso di cavarmela.»
Iris
non sapeva cosa rispondere anche se dopo qualche secondo Anemone
ricominciò a parlare.
«Tu?»
Glielo chiese come una domanda qualsiasi, ma Iris era comunque zitta,
senza alcuna parola da proferire.
Quella
domanda le aveva ridato la sensazione di piangere.
«E’
difficile da spiegare... N-Nel senso che... N-Non sono brava a
socializzare con persone più grandi di me, scusa.»
E si
voltò dall'altro lato, per nascondere il pianto che stava
sfogando su di lei, senza farglielo però capire.
«Lo
so, ho visto che sei un po' timida... Ma mica tutti possono essere
socievoli ed aperti, è questione di personalità.
- La
rossa si scostò i lunghi ciuffi ribelli e spettinati che
continuavano a caderle sul viso ogni volta che si distendeva. - Esempio
pratico: sono ancora arrabbiata con Camelia per avermi dato della
stracciona. Ci sono rimasta male, devo averla presa sul
personale...»
«Non
dovresti lasciarti insultare così...» Le rispose
lei, a bassa voce.
Senti
chi parla, la ragazza che aveva subito passivamente tutti gli insulti
fino a quel momento di pianto, si commiserò lei stessa.
«Ho
intenzione di perdonarla.»
Anemone
esibì un flebile sorriso. Incredibile.
Iris
sapeva che non lo avrebbe mai fatto. Se la sarebbe legata al dito, se
lo sarebbe ricordato per sempre, avrebbe aspettato paziente la sua
vendetta, lasciandosi rodere dall'interno.
Non
farlo era puro scandalo, a suo parere.
Che
razza di problemi aveva quella là, quella che prima le
parlava solo per poi farle la morale.
«Perdoneresti
qualcuno che ti ferisce e ti fa sentire sola?»
La
ragazzina si domandò se stesse parlando della sua situazione
o di quella della compagna.
«Tra
compagne si fa così. È difficile, ma io vorrei
avere tutte voi come amiche. Non so tu.»
A
quel punto Iris aveva capito che anche Anemone, sebbene fosse
circondata dalle attenzione delle altre, si sentiva un po' sola, di
quella solitudine che si prova quando ci si sforza di compiacere gli
altri, risultando estranei perfino a se stessi.
Doveva
pensarci lei a tirarla su, nel suo piccolo poteva farlo.
«Ho
solo tolto il sorriso falso dal viso, tanto non è
più
carino. Non ho ragione di tenerlo segreto. Non farmi sentire triste e
ridammi le mie lacrime...»
La rossa fissava il soffitto, concentrata in ciò che diceva.
Iris
non poté trattenere un sorriso.
«Anemone?»
Attirò la sua attenzione
«Sì?»
La ragazza si girò verso di lei.
«Perché
il tuo serissimo monologo è il testo di una
canzone?» Iris sogghignò.
«O-Oh
mio Dio, la conosci anche tu?!» Anemone si
illuminò
d'improvviso, spaventando quasi la sua interlocutrice.
Non
credeva davvero di avere gli stessi gusti musicali di qualcuno, e
ciò la rese felice.
Non
doveva farsi manipolare come una marionetta vuota, per una volta:
essere se stessa era il premio più grande che il suo
interesse
nei confronti della ragazzina poteva darle.
Entrambe
scoppiarono a ridere: con una risata, condividendo per pochi istanti la
felicità di un'intera vita, era possibile avvicinare una
persona
lontana mille metri, superare qualsiasi ostacolo e gettare le basi per
una solida amicizia.
«Zitta,
che se le altre ci beccano, ci ammazzano!»
La cercò di zittire la rossa, che a stento si tratteneva.
«E
come pensi che lo facciano?! Sono in coma totale, non mi sorprenderei
se domani non si svegliassero.» Le ribatté Iris.
«Ti
sfido a toccare Camilla senza che si svegli.»
«Okay,
ci proverò nella mia prossima vita!»
Dopo un
poco la loro conversazione volse disinibita mente su altro.
«Secondo
te chi di noi è fidanzata? Me lo chiedevo poco
fa.» Sussurrò la più giovane.
«Iris,
è mezzanotte passata e abbiamo parlato fino ad adesso di
anime,
manga, idol, che taglia di reggiseno possa portare Camilla e che cosa
mangeremo domani per pranzo. Davvero c'è bisogno di
chiederselo?»
«Lo
sapevo. Ma magari, non è che tu stai con...»
Cominciò lei, per scusarsi di aver fatto una domanda
così sciocca solo perché aveva esaurito gli
argomenti.
«Non
mi interessano i maschi.»
Le rispose con tono serio e pacato Anemone, scostandosi un altro ciuffo
rosso dal viso.
Si
stupì di aver detto ad alta voce una cosa del genere.
«Devo
averla spaventata... - pensò
silenziosamente - lei non è come
me.»
E
Anemone infine scoppiò a ridere, anche se Iris la
fissò incerta.
Ma ben
presto la sua simpatia e la sua dolcezza la catturarono in quella
risata.
Le
due passarono una buona oretta a chiacchierare, a ridere, e perfino a
confidarsi in quella stanza scura, in quella notte tetra, in quel mondo
turbolento.
«Anemone.»
Iris
attirò sottovoce la sua attenzione; la ragazza era distesa
sul
fianco sinistro, con una mano sotto i capelli rossi che li scostava dal
cuscino. Il kimono le si era tutto stropicciato e il nastro che glielo
legava in vita si era snodato, mostrando la scollatura ed il reggipetto
che stringeva il seno della ragazza.
«Tu
hai un obiettivo in particolare? Se capisci... Un qualcosa in cui...
credi fermamente e faresti di tutto per realizzare.»
Iris si
distaccò un attimo da quella confessione azzardata.
Pensava che lei non capisse. Ma il risultato fu contrario: Anemone si
avvicinò a lei e le accarezzò i capelli.
Una
ragazza più grande di lei di due anni, a cui aveva
attribuito i
peggiori pregiudizi, che aveva giudicato crudele e insensibile ed
escluso dalla sua vita senza alcuno scrupolo, le accarezzava i capelli
e stava per confidarsi con lei pur conoscendola da pochi giorni.
Iris
sentì il cuore spezzarsi nello stomaco e le lacrime che
prima
aveva versate per via della solitudine adesso voleva destinarle al
rimpianto del suo egoismo.
Dopotutto
non era lei la vittima.
«Sì.
Penso che tutti ne abbiano uno. - Le sussurrò Anemone, con
tono
di assoluta fiducia - Io però non sto lottando per un
qualcosa
destinato a me. A me non spetta niente»
Iris a
quelle parole si sconvolse a tal punto da interrompere la ragazza nel
mezzo del parlare.
«Ma
che dici?! Sei un'Allenatrice bravissima, bellissima e molto dolce... -
e, sentendo il rimorso della sua crudeltà, aggiunse quasi in
lacrime - tu ti meriteresti molto più di tutti...»
Anemone
le sorrise compassionevole e si alzò per abbracciarla.
La ragazza dai capelli rosso scarlatto non si era mai sentita tanto
compresa.
Le
pareva strano: nessuno, nessuno tranne quella bambina aveva mai
apprezzato il suo altruismo; forse la sua indole gentile non le aveva
solo arrecato danni incurabili, forse un giorno le avrebbe giovato
più sull'animo che in senso materiale.
Tutto
ora pareva più chiaro anche a lei: quella ragazzina dalla
pelle
caramello come la sua era speciale. Non in senso di forza o di talento.
Speciale
perché sapeva vedere il mondo con gli occhi più
puri che
il cielo avesse mai aperto: gli occhi di una bambina timida e sensibile.
«Vedi
cara, - le sembrò opportuno approfondire la faccenda - mio
nonno
gestisce da tempo una piccola compagnia aerea, ma ora sta fallendo.
Siamo pieni di cambiabili non pagate e di debiti che crescono come
montagne ogni giorno. Se diventassi Campionessa... Con tutti i soldi
che guadagnerei riuscirei non solo a pagarli... Ma anche a trovare una
pensione adeguata per il nonno.»
Iris
provava un misto di comprensione e tristezza pensando alle nobilissime
intenzioni di Anemone.
«Lo
spero tanto! S-Se non dovessimo essere una contro l'altra farei il tifo
per te di sicuro!»
Le disse sorridendole, asciugandosi con la manica del kimono due
lacrime che le erano uscite dall'occhio sinistro.
«Vuoi
molto bene a tuo nonno, vero?» Aggiunse Iris, essendo curiosa
a proposito delle origini della pilota rossa.
«Ovvio.
È parte della mia famiglia. Credo che tu possa capire
comunque,
è lo stesso bene che puoi volere tu a tua mamma e tuo
papà, no?»
Le rispose, poi chiuse gli occhi, per cercare di addormentarsi.
«S-Sì,
ma credo sia un po' diverso...» Ma lasciò perdere,
visto
che l'altra non la stava più ascoltando.
Iris,
prima di decidersi finalmente a dormire, rifletté un attimo:
come si spiegava la gentilezza di Anemone? Davvero ha obiettivi
così toccanti?
Non la
stava forse illudendo con parole dolci per poi attaccarla alle spalle?
Che c'entrava suo nonno?
Iris non lo sapeva.
L'ultima
ed unica certezza che ebbe modo di constatare prima di cadere fra le
soporifere braccia di Morfeo fu che la pioggia stava ancora scrosciando
rumorosa, disegnando nervature cristalline sui vetri.
Sapeva
inoltre di essere stanca, di aver un serio bisogno di dormire e di aver
provato troppe, troppe emozioni diverse in un giorno solo.
❁
«Iris,
forza, svegliati!»
«...Che
ore sono?»
«Le
dieci!»
«Non
possiamo stare a letto altri cinque minuti?»
«Se
magari moltiplichiamo un paio di volte il cinque arriviamo fino a
mezzogiorno? Siamo in terribile ritardo! Alzati, scansafatiche! Nardo
ci pesta...»
«Anemone...
hai l'orologio al contrario.»
«Ah,
scusa. Oh, guarda, sono le... Quattro e mezzo di notte...»
«Dimmi
subito: "Scusa, torna pure a dormire" e ti perdono.»
«Sì.
Scusa, torna a dormire e ripetimi che sono bellissima.»
«Ma
c'era proprio bisogno di lanciarmi un cuscino in faccia?!»
«"Scusa,
torna a dormire" non l'ho ancora sentito.»
❁
Behind the
Summery Scenery #3
1.
Inizialmente i capitoli avrebbero dovuto avere dei titoli in inglese
basati su giochi di parole ed allusioni, come succede nei titoli per
versione anglo-americana nell'anime Pokémon:
1) Destinies,
dreams and desires (tutti e tre i nomi iniziano con la lettera D)
2) When
everything is new, even yourself (il verso di una canzone riadattato)
3) Feelingstorming
(inserendo la parola inglese per "sentimenti" nella parola
"brainstorming", si crea la vera e letterale 'tempesta di sentimenti').
Ho
dovuto cambiare i miei piani ed utilizzare titoli in lingua italiana
dopo la scioccante scoperta che ora l'inglese non fa più
così tanto figo. Come cambiano le mode, eh?
2.
Inizialmente Camelia non ci sarebbe dovuta essere in questo capitolo,
per seguire la sotto-trama che la lega con Corrado. Ho voluto inserirla
per darle l'ulteriore possibilità di prendere Iris in giro,
posticipando così il proseguire di quel filone narrativo che
interessa la mora.
3.
L'idea di riunire le ragazze sotto un solo tetto mi è stata
dettata dai numerosi anime ecchi-harem che ho visto: ho notato che le
ragazze si trovano più volentieri a conoscersi meglio se
sono
costrette a vedersi sempre più spesso.
4.
Penso sia utile ricordare che questo microcosmo pseudo-giapponese in
cui le ragazze si ritrovano a vivere sia una specie di metafora per
indicare un distacco dalla fremente e intricata società
anglo-americana che si fa sempre più padrona del mondo, un
distacco che porta le ragazze in un ambiente più semplice e
umile, in cui sono i valori morali e non quegli estetici a far da
padroni.
E, seconda ragione, non vorrete dirmi che ho studiato il giapponese per
niente!
5.
Uno degli antichi valori orientali a cui accennavo prima è
il
rispetto reciproco che è bene intercorra fra giovani ed
anziani,
ma anche fra persone di età leggermente differenti.
Anemone
ed Iris dovrebbero rappresentare questo perfetto equilibrio.
La loro
"coppia" ho deciso di denominarla ChocolatShipping per
il fatto che si tratti di un'amicizia basata sul rispetto e gentilezza
reciproca ma comunque aperta onestà, rispecchiando la
dolcezza
del cioccolato al latte e l'amarezza di quello fondente, vista dal lato
simbolico. Dal lato pratico siccome Iris ed Anemone sono le uniche
allenatrici di colore del gruppo, trovo un modo molto più
carino
e decisamente meno equivoco descriverle come “le ragazze
dalla
pelle color cioccolato”.
8.
Il nuovo spaziatore fra i vari paragrafi è, oltre alla
nostra
beneamata ondina e la sua gemella perduta, un fiore. Come mai? Sono
sicura che potete arrivarci, è una questione etimologica...
okay, nell'update 3.5 i fiori se ne sono andati, quindi ve la posso
pure spoonfeedare io la spiegazione, pikoly angyely miei owo.
I nomi
delle ragazze sono actually tutti nomi di fiori! Abbiamo l'iris, la
camelia e l'anemone, l'orchidea del tipo cattleya e
i fiori della shirona, o
white-fruited nandina. Grazie Wikipedia!
|
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Capitolo 4 *** Vero amore, falso amore ***
ESGOTH 4
❁
A story
by: Momo
Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing: 🍦
Seguiteci
su instagram: @esg_ official_ ig
Early
Summer Girls
❁
Capitolo
4
Vero amore, falso amore
Aria
di sfida.
Aria
torbida, pungente, di chiuso e di umido, un'aria soffocante, calda e
forte traspirava dalle pareti di quel vecchio capannone abbandonato,
uno di quelli nati dalla ruggine e dall'incuranza.
La
dotazione era sorprendente; in poco tempo era stato montato tutto
l'occorrente per le ricerche necessarie allo sviluppo dei piani
prescritti: un computer dallo schermo ultrapiatto, radar per la
segnalazione a distanza, videocamere minuscole, sonde ed attrezzature
di altissima tecnologia.
Ma
ciò che rendeva quel laboratorio davvero inquietante erano
le
cinque ragazze, nelle loro uniformi nero lucido, che osservavano come
vipere assetate di prede il monitor del computer.
«Hai
i dati?» Partì la domanda.
«Ovvio.
Quelle cretine non si sono neppure accorte che le spiavamo.»
Le rispose una voce subdola, che si passava altezzosamente la mano sui
lunghi capelli blu notte.
Lo
schermo immediatamente si riempì di numeri, codici e cifre
che
si sovrapponevano; bastò premere un tasto che quel intricato
gorgo di numeri si dileguò nella scritta "Accesso
Consentito".
Gli
occhi delle cinque ragazze si fissarono allo schermo come assorbite.
«Vediamo
la prima.»
Un'immagine,
prima sfocata, poi resa più che visibile, quasi
tridimensionale,
era apparsa. Poi una tabella, in cui numeri e scritte ripagavano il
duro lavoro di giorni e giorni di spionaggio.
Una
voce robotica, metallica ed inquietante, si levò dagli
altoparlanti, che riecheggiava lungo le pareti di ferro del capannone.
«Taylor
Camelia.
Diciassette anni. Nata il 31 luglio.
Provenienza: Unima, Sciroccopoli.
Occupazione:
top model, vincitrice di numerosi premi e concorsi di
bellezza...»
Mentre
l'automa parlava, venne interrotto da una voce che rompeva quel momento
di assoluta serietà.
«Bravo,
genio di un computer, questa la conoscono tutti. È la
modella
più famosa di Unima. La gente la considera "l'astro
più
brillante"; è il sogno erotico di tutti i maschi e la
masturbazione di tutti i depravati. Se c'era bisogno che questa
macchina me lo spiegasse...»
La
ragazza non fece in tempo a finire la frase che la compagna a lei
vicina la schiaffeggiò con forza, per farla tacere. Ma la
giovane non si arrese, e riprese la frase.
«E
pensate che quella è pure fidanzata... Con... - e qui si
fermò, guardando con astio il monitor che mostrava il
bellissimo
corpo della modella - il mio ex...»
«Lo
hai detto Jasmine, ex. Il mondo non gira intorno a te.»
La
interruppe ancora la leader che si era spazientita, non sopportando che
una ragazza più grande di lei agisse in maniera
così
immatura di fronte ad un compito così serio.
«Petto:
novantatre centimetri; busto: sessanta centimetri; vita: novanta
centimetri...»
Continuava la voce robotica, illustrando in tre dimensioni il corpo
della ragazza, arricchito di minuziosi particolari che rendevano la sua
perfezione quasi simile all'originale.
Jasmine
finse di sputare contro lo schermo. Gliel'avrebbe fatta pagare a quella
modella così perfetta e vanesia. Anche se al momento non
sapeva
precisamente come.
«Andiamo
avanti.»
Propose
la ragazza dai capelli mori, che mostravano riflessi biondi alla luce
dell'apparecchio.
Non riusciva a sopportarla, anche senza conoscerla davvero Odiare i
propri nemici faceva parte del loro lavoro.
«Reyes
Anemone.
Diciassette anni. Nata il 6 agosto.
Provenienza: Unima.
Occupazione: pilota semi-professionista...
...Petto: novantadue centimetri; busto: cinquantotto centimetri; vita:
novanta centimetri...»
«Mi
sorprende che la rossa non sia ancora sul lastrico... Quella compagnia
aerea è in crisi da quasi quattro anni ed i piloti che ci
lavorano hanno uno stipendio da far la fame. Se perdesse quella
competizione non mi stupirei nel vederla disoccupata a vendersi per
strada pur di guadagnare qualche spicciolo!»
«Come
sei sadica Alice... - la interruppe Lucinda, la ragazza dai capelli blu
cobalto - Non tutti hanno successo come te nella vita...»
«Non
me ne importa. Il mondo non è fatto per le perdenti come
lei. Lo
rovinano e basta. Ora toglietemi questo rifiuto umano da davanti agli
occhi o vomito.»
Senza
opporsi alla capricciosa richiesta della giovane, una delle cinque si
affrettò a selezionare con il mouse un'altra delle
sventurate
ragazze finite sotto il loro mirino.
«Yamaguchi-Haato
Catlina.
Diciannove anni. Nata il 13 dicembre.
Provenienza: Sinnoh, Memoride...
...Petto: novanta centimetri; busto: sessanta centimetri; vita:
novantuno centimetri...»
Unica
erede legittima dell'intero patrimonio monetario e terriero della
famiglia aristocratica degli Hato, una delle più ricche
famiglie
della regione di Sinnoh...»
Il
marchingegno esponeva i dati raccolti sulla terza componente del
gruppo, come aveva fatto per le prime due.
Questa
volta però non si levò alcuna parola, alcun
commento sgradito e irrilevante o alcuna critica.
Forse
l'appartenere ad una classe sociale così elevata era
riuscito a
far tacere le loro inutili chiacchiere, o forse tutte e cinque le spie
si erano già stancate di interrompere ogni volta quel
delicatissimo lavoro di stalking con le loro battute demotivanti e
sciocche: le cinque Allenatrici erano modelli tridimensionali dentro ad
un monitor.
Non
potevano sentirle o sentirsi offese.
Solo
Sabrina ebbe il coraggio di inquadrare il viso della giovane ereditiera
bionda.
«Ha
un viso completamente inespressivo. Sembra un morto vivente.»
Esaurite
le informazioni su Catlina, la leader, nominata così
nonostante
fosse la più giovane, si alzò in piedi: le
bruciavano gli
occhi per via del fissare uno schermo al buio completo; aveva le mani e
il petto sudati in quell'uniforme nera; ma sopratutto, non aveva
riscontrato alcun soggetto pericoloso all'interno di quel team.
Le
pareva anormale che nessuna delle cinque prescelte determinasse un
pericolo per la riuscita del piano centrale, e che tutto quello che le
prime tre ragazze avevano causato era astio, ribrezzo e addirittura
indifferenza.
Non
poteva essere così. Così terribilmente semplice.
Una di
quelle sgualdrine sarebbe diventata Campionessa, se loro non avessero
avuto l'incarico appunto prescritto.
«Non
riesco davvero a capire quanto Nardo sia stupido! Ma lo sa che una di
quelle stupide ragazzine dovrà guidare l'intera regione in
futuro?
Mi sono rotta, se queste sciaquette saranno davvero capaci di crearci
problemi io...»
Ma
non riuscì a terminare la frase, quando ad esserle
presentata
dal computer fu l'inevitabile causa del fallimento della loro
importantissima missione.
«Nome:
Kuroi Camilla.
Età: vent'anni, Nata il 15 aprile.
Provenienza: Sinnoh, Memoride...»
E il
silenzio fu subito infranto dalla voce di Lucinda, che si teneva il
collo dell'uniforme stretto nella mano tremante.
«La
Kuroi! Maledizione a te Georgia e alla tua sete di rissa! - e alzandosi
anche lei in preda all'ira, spinse forte la leader contro il muro di
ferro arrugginito, che risuonò all'impatto della giovane -
sai
che quella è già Campionessa di una Lega da
quando aveva
quindici anni?!»
Le
altre tre ragazze la degnarono di una modesta attenzione, che Lucinda
si era procurata con il gesto più azzardato e deplorevole
che un
semplice membro potesse fare.
Questa
intanto faceva risuonare il metallo battendoci contro l'intero palmo
della mano più volte.
«A
Sinnoh si bacia la terra dove lei cammina. Si dice che in dieci anni
non sia mai stata sconfitta e non penso che all'undicesimo ci basti un
po' di fortuna per rovinarle il record. E poi...
Altro che masturbazioni, quella non la vogliono solo i ragazzi, anche
moltissime ragazze se la sognano nuda!»
«Ragazze,
guardate che misure...»
Disse incantata, ma con una triste preoccupazione in volto Alice.
«Perché,
le altre ti parevano normali?! Sembravano uscite da un hentai
giapponese!»
Le rimandò Jasmine.
«Secondo
gli standard di qui, io direi di sì. - Alice rispose alla
domanda sul se fossero normali con una certa delusione - Da quanto ho
capito alle persone di Unima piace proprio chi ha un bel visino da
verginella innocente accompagnato dai due bei meloni
enormi...»
«Che
schifo assurdo.» Fece per concludere l'altra.
«Attualmente
molte delle entrate monetarie nelle casse della regione derivano dalla
mercificazione della bellezza, basti pensare a posti come il centro
della regione, sono praticamente dei bordelli a cielo aperto... Che le
abbiano tirate fuori da qui, queste "belle" ragazze?»
Prima
che quella conversazione venisse catalogata nell'assurdo e cadesse nel
dimenticatoio, Jasmine provò ad immaginare le quattro
Allenatrici che aveva appena visto con addosso una provocante lingerie
di pizzo più a scopo di esposizione che di occultamento, a
notte
fonda le giovani ragazze in bella esposizione su una vetrina che
tentavano di accattivare i passanti con frasi di spudorata e falsa
innocenza, sorridendo senza motivo, tutte orgogliose del loro
rivoltante mestiere.
«Hey...
Questa notte posso essere io il tuo Pokémon e tu il mio
"padrone", conosco tante "mosse", perché non ci "alleniamo"
insieme, sarà una "lotta" indimenticabile, però
ha il suo
prezzo...
Ma
questo non è un problema per te, uh?»
«Jas,
che stai blaterando?» Le domandò sempre Alice, non
ancora del tutto interessata.
«Eh?!
No, aspetta, l'ho davvero detto ad alta voce? Mi auguro che le nostre
reclute siano tutte etero o avranno seri problemi a confrontarsi con
delle oche del genere...»
Era
vero: le nostre eroine erano abbondantemente sviluppate, come ogni
fiera donna merita di essere.
«Petto:
novantanove centimetri; busto: sessantadue centimetri; vita: ottantotto
centimetri...»
Tutte
le maligne spie, dalla sadica Alice, all'invidiosa Jasmine, fino
all'inerte Sabrina fissavano il modello che rappresentava Camilla in
ogni minuzioso dettaglio, talvolta ingrandendo la visuale per osservare
meglio le parti più belle e straordinarie della giovane dea
delle battaglie.
Lucinda
intanto nutriva un terribile rimorso per il gesto compiuto contro il
suo capitano, non tanto per il valore morale del far del male ad una
compagna, ma per l'imbarazzo che avrebbe avuto ricevendo una punizione
da parte dei suoi superiori.
Non le
andava di umiliarsi di fronte a quelle vipere delle sue compagne.
Sapeva che non avrebbero avuto alcuna pietà per lei.
I loro cuori erano freddi e rugginosi come le pareti di quello sporco
magazzino, nella periferia malfamata della città di
Sciroccopoli.
«Zitte,
lesbiche schifose! - Le richiamò all'ordine la leader - il
quartiere generale ci sta contattando.»
Tutte
le spie si ricomposero a malincuore, cercando però di
nascondere
il dispiacere dietro un'aria sicura e seria davanti ai loro superiori.
La
videochiamata si avviò. Lo schermo di colore nero opaco
cominciò ad emettere una roca voce maschile.
«Avete
ispezionato le informazioni sulle cinque Campionesse?»
«Sissignore.»
Risposero in coro.
«Ci
sono particolari segnalazioni?»
«Sissignore.
La loro leader è Campionessa di Sinnoh, Kuroi Camilla, un
evidente ostacolo se si considera la sua esperienza in battaglia. Per
il resto del gruppo, non costituiscono alcun problema: se le
affrontiamo singolarmente, con degli incontri uno contro uno riusciremo
a sconfiggerle.»
Disse
la leader, in tono sicuro.
Le
altre quattro ragazze si guardarono con aria dubbiosa riguardo la
precedente affermazione.
«Se
è solo la loro leader a causarvi problemi la soluzione
è
più che ovvia: attaccatela in gruppo. Non
riuscirà mai a
sostenere una battaglia violenta cinque contro uno.»
«Sissignore.»
Risposero
ancora in coro, per dimostrare di essere disposte ad eseguire l'ordine,
qualsiasi cosa esso richiedesse.
Prima
di chiudere la chiamata, l'entità di fronte a loro le
esortò a ripetere il loro motto.
«Chi
siete voi?»
Le
ragazze risposero più determinate che mai, come se nessun
sentimento di paura avesse mai attraversato i loro cuori.
«Il
Neo Team Plasma.»
La voce
si fece più minuziosa e provocativa.
«E il vostro scopo?»
«Individuare
le possibili future Campionesse ed eliminarle, affinché
l'organizzazione Plasma possa riottenere, dopo i precedenti fallimenti,
il monopolio su tutta la regione di Unima!»
«E
ovviamente... Farete tutto per eseguire questa missione?»
«Ovvio...»
Partì con sottigliezza Alice.
«Senza
dubbio!» La susseguì Jasmine.
«Lo
faremo...» Si aggiunse Sabrina.
«...e
con ogni mezzo adempiremo alla missione...» Ammise Lucinda
con orgoglio.
«...senza
alcun risentimento.» Completò la leader Georgia.
«Bene
- completò la voce maligna - buona fortuna. Sarà
meglio
per voi averne. In caso contrario... - e cominciò a
sogghignare
in maniera feroce e terrificante - sapete cosa vi aspetta.»
La
chiamata si chiuse e lo schermo divenne nero.
Piombò ancora l'oscurità totale in freddo posto,
in cui
altrettanto fredde ragazze sorridevano come vipere assetate di sangue.
Prima
di abbandonare la base, Lucinda si rivolse a Georgia, a bassa voce, per
evitare che le altre la sentissero.
«Ne
manca una. Se sono cinque una l'abbiamo saltata forse...»
Cercò
di spiegare la ragazza dai capelli cobalto, in modo da ragionare con
lei, ma il suo discorso fu troncato già all'inizio da una
risposta aspra e disinteressata.
«Lascia
stare, quella non rappresenta un problema, non rappresenta
nulla.»
Poi,
girandosi verso Lucinda, la ragazza le strinse forte il braccio,
facendoglielo girare intorno alla schiena, tenendolo fermo, piegato in
una straziante posizione contorta. Poi aggiunse, prima di liberarla da
quel dolore.
«Prova
solo a toccarmi un'altra volta e... Sei fuori dal team.»
Georgia
si liberò della compagna con una spinta.
Lei era
la leader. Lei decideva chi poteva vivere e chi no.
❁
«Camelia
scusami!»
Anemone si morse il labbro come una bimba che per sbaglio combina un
malanno.
Non lo
aveva certamente fatto di proposito, di rovesciare quel flacone di
tinta per capelli nera sul braccio della compagna.
Si
assicurò che lo yukata giallo che
indossava fosse intatto.
Lo era, ma restava il fatto di aver sprecato più di
metà
di quel liquido, e quindi metà dei soldi spesi per comprarlo.
«Te
ne comprerò una bottiglietta nuova, promesso!»
Cercò di rimediare al suo errore.
Intanto
la modella cercava di ripulirsi il braccio destro coperto di quel
liquido appiccicoso e nero.
Certamente
la irritava, ma stranamente non se la sentiva di commentare: quella
ragazza imbranata si era scusata almeno una trentina di volte a dieci
secondi dall'accaduto e le aveva perfino promesso di ricomprarle un
flacone nuovo.
Incredibile,
Camelia al suo posto le avrebbe semplicemente ricordato come
funzionasse la forza di gravità e le avrebbe versato il poco
rimasto sulla testa.
Per un
attimo, la seducente e aggressiva ragazza sentì uno strano
peso sullo stomaco.
Pesante, lamentevole e doloroso che il suo corpo pregava di rimuovere.
Poteva essere... Rimorso?! Cos'è il rimorso? Cosa poteva
saperne lei di rimorso?
«N-Non
è nulla. Tanto quella tinta da quattro soldi mi lascia
sempre
delusa. - e si sforzò di sorridere forzatamente - I miei
capelli
sembrano comunque plastica sporca.»
Camelia
si stupì di aver insultato una parte del suo prezioso e
amato corpo.
Amava i suoi capelli. Fino a poco tempo fa erano biondi, un biondo
acceso e uniforme.
Aveva
ereditato quel colore perfetto dai suoi genitori... credeva. Almeno da
uno dei due, ne era sicura... Poi capì, in un certo senso,
di
non avere neppure il sangue dell'unica persona per lei rimasta.
E di punto in bianco aveva cambiato look, come se una tinta potesse
mascherare tutti gli anni in cui i suoi capelli biondi erano stati
scossi dal vento.
D'un
tratto la modella ebbe l'impulso di afferrare irrazionalmente i capelli
di Anemone, prendendo fra le dita una ciocca rosso fuoco, trattenendo
la ragazza, che protestò per il dolore.
«Invece
guarda che ben steso il tuo colore... Nessun segno di ricrescita e
nessun uso di riflessante... Questa tinta ti sta davvero bene,
sai?»
Ammise compiaciuta. Non aveva mai fatto un complimento prima d'ora.
Anemone
rimase sbigottita.
Esisteva.
L'altra faccia di quella modella crudele e meschina c'era e premeva per
farsi sentire. La rossa però dovette smentirla su un solo
particolare.
«I
miei capelli sono rosso naturale. Non me li tingo.»
«...Scusami.»
Le arrivò in risposta.
«Stai
tranquilla, me lo chiedono ogni tanto...»
Ma Anemone fu troncata sul dire.
«No,
scusa se ho detto che ti vesti male appena ci siamo incontrate.
Bel modo di presentarci, eh? Sembra impossibile, ma ero
davvero
nervosa.»
Camelia
provò un gran sollievo nel dirlo. Ma sentiva che c'era
ancora del marcio.
Dubitò
però che Anemone credesse ad una cosa così
patetica: si
chiedeva quando avrebbe potuto smettere di giocare la parte
dell'antipatica.
«Oh...
- missione compiuta, Anemone si sentì toccata - sei
perdonata, senza problemi.»
Le rispose in modo piuttosto solare.
Le due
ragazze si scambiarono un sorriso contemporaneamente.
Anemone
aveva mantenuto la parola data la sera precedente concedendo il suo
inestimabile perdono a colei che l'aveva così pesantemente
offesa, e aveva addirittura fatto trasparire il lato amichevole di
quella ragazza.
Già aveva visto Camelia, aveva riconosciuto quell'icona di
ragazza perfetta, di idolo dei giovani e modello da imitare per avere
successo nella vita.
Le
due diciassettenni provarono ad abbozzare una piccola conversazione
quando una voce acuta e totalmente fuori luogo irruppe nella
stanza.
Le due
si voltarono di scatto.
«Anemone,
dobbiamo andare...»
La
voce di Iris si abbassò gradualmente, appena vide l'unica
ragazza di cui si fidava con l'unica persona da cui voleva stesse
lontana.
Non
riteneva affatto che il veleno che scorresse nelle vene di quella
vipera con i capelli colorati potesse in qualche modo contagiare la
purezza di quella creatura che le pareva discesa in Terra per lei dal
paradiso terrestre o che costei mangiasse volontariamente il frutto
proibito pieno del degrado morale e comportamentale di cui la modella
si faceva portavoce.
Eppure
nutriva questo istinto protettivo nei confronti della rossa da un po'.
A
volte questo istinto le piaceva un sacco, altre volte le sembrava la
cosa più disgustosa del mondo. Ma alla fine sapeva che era
tutto
per il suo bene, per il bene della sua fragilità interiore.
Non la
definì gelosia, ma una sorpresa sgradevole.
Era il
momento di vendicarsi, pensò.
«Così
impara anche ad insultare il mio seno!»
Iris
pose
sulle sue spalle il dovere di vendicare tutte le ragazze vittime di
pregiudizi riguardo alle loro taglie; il coraggio che ci mise era lo
stesso.
Passò
davanti a Camelia con nonchalance e prese la mano di Anemone nella sua,
trascinandola fuori, senza che lei ponesse resistenza ed evitando
spudoratamente la tentazione di godersi gli occhi iniettati di invidia
dell'altra.
Sentì
completo il suo piano di vendetta degno di una tragedia shakespeariana
appena percepì le forti mani della rossa stringere a loro
volta
le sue.
Le batté il cuore, sapeva bene di non aver mai tenuto per
mano una sua amica.
Per
sciogliersi da quella tensione cominciò uno dei soliti
discorsi
che faceva con la ragazza rossa, che innocentemente la seguiva, da
brava amica che dimostrava di essere.
«Sai
che alla fine io e Camelia abbiamo fatto pace?» Le disse
Anemone, con dolcezza.
«Non
mi interessa, - rispose lei - mi fai vedere le immagini che hai nel
cellulare?»
«...okay,
ma non scioccare.» Che bello, la sua preziosa amica aveva
già dimenticato quel rifiuto umano con cui aveva parlato
pochi
secondi prima, pensò all'apice della sua più
euforica
crudeltà.
Iris
aveva vinto una battaglia, mentre teneva stretto con la mano il suo
unico e prezioso premio.
❁
Camelia
rimase a fissare un punto per un poco.
Cercò
di figurarsi come mai fosse svanito tutto così in fretta,
come
in un sogno, e a malapena ricordava ciò che le era accaduto
dopo
essere ritornata alla realtà.
Poi
si sbloccò. Alla ricerca di uno spiraglio di
normalità
per recuperare se stessa dal coma che l'aveva strappata così
violentemente all'ordine naturale delle cose, prese il rossetto e
cominciò a bearsi dell'effetto delle labbra pallide che
diventano spesse e vistose come quelle di una cortigiana di fine
settecento.
Notò
che il rosso acceso faceva un forte contrasto con la sua pelle bianca e
limpida.
Era
sempre troppo facile trovare mille difetti con un solo sguardo nel
piccolo specchio portatile.
Camelia
ormai era talmente abituata alla sensazione del trucco sul viso che le
bastarono pochi secondi per tracciare due linee nere come la pece a
cerchiarle gli occhi, anche se la pressione fatta con l'eye-liner le
aveva causato una piccola lacrima di fastidio sospesa a metà
occhio.
Dopo
aver aggiunto ombretto e abbondante mascara le sembrò
abbastanza
per convincersi a non riconoscersi più e una rabbia
improvvisa
si trasformò in un brivido lungo tutto il suo corpo,
paralizzandola.
Camelia
chiuse con tale violenza quello specchietto portatile da frantumare il
vetro tra le sue stesse mani.
Non era
possibile; quella stupida ragazzina gliela stava portando via.
Le
voleva portare via l'unica ragazza che le sembrava a posto in quella
gabbia di matti, l'unica che avrebbe mai accettato le sue scuse e che
non la obbligava a farsi odiare per ottenere rispetto.
Si
fissò interdetta le unghie coperte di smalto lucente, senza
il
coraggio di aprire il suo specchio ed osservare la sua immagine rotta
in mille pezzi e sfigurata del tutto.
"Non
ci credo... Mi faccio portare via l'unica amica che portò
mai
avere senza far nulla? Quella ragazza, non voglio che nessuno
me
la rubi. Oddio. Suonano come le parole di una fidanzata
gelosa...»
La
ragazza si alzò in piedi, uscendo dalla stanza, e fece
cadere dalla mano l'oggetto.
«Gliela
farò pagare a quella mocciosa... Non deve proprio
capire
come ci si senta ad essere completamente soli.»
La
mora sorrise perfidamente al destino: più nella vita si
arrivava
in alto, più si faceva carriera e si guadagnava rispetto,
più ci si rendeva conto di non aver mai avuto nulla.
Le
venne il terrore di diventare questo tipo di Campionessa.
❁
Mentre
innumerevoli disgrazie e calunnie erano imminenti, le nostre eroine
erano talmente occupate ad allenarsi che a malapena ricordavano di
essere avversarie e di doversi combattere a vicenda.
Si
limitavano a sostenersi per il momento, per cercare di rendere
quell'atmosfera di insopportabile competizione più vivibile,
altrimenti sarebbero rimaste esauste durante le vere sfide, quelle che
le attendevano al Torneo Nazionale Femminile di Unima.
Quella
che si stava impegnando al massimo per la vittoria, ma anche per
socializzare al meglio, era sicuramente Iris che, memore di quella sera
di temporale interiore, si era sentita talmente in colpa per aver
pensato malamente della ragazza che l'aveva consolata ed apprezzata
nella sua piccolezza.
Da
quella sera, Iris seguiva Anemone in qualsiasi cosa, ponendosela come
unica guida e punto di riferimento: se Anemone l'avesse d'improvviso
lasciata sola, lei sarebbe di nuovo caduta in quella depressione, resa
ancora più pesante dal rifiuto da parte di colei che poteva
considerare la sua unica amica.
Tutto
quello che la rossa faceva lo faceva anche lei, ciecamente, come se
glielo stesse ordinando; se le dava un consiglio in lotta, Iris si
imponeva il rigore morale di seguirlo; se le chiedeva qualcosa, lei lo
faceva senza discutere, senza porle alcuna domanda; e quando si
trovavano in spogliatoio si prendeva la libertà di guardarla
cambiarsi, fingendo di continuare innocentemente le loro conversazioni.
Ogni
tanto però, le veniva voglia di avvicinarsi a lei, di poter
sentirle la pelle con il dito indice, di vederla sorridere e di
realizzare pienamente che Anemone per lei c'era, che lei meritava il
suo amore, che la distingueva dall'indifferenza di tutte le altre.
«Hai
un filo che ti scende dal reggiseno» o «hai un
capello sul
collo» o ancora «ti tolgo una cosa dai
capelli» erano
le frasi con cui era solita esordire per entrare in contatto, ricevere
un "grazie" e un bacio sulla guancia.
In
quei momenti la sua coscienza le stringeva lo stomaco, ricordandole
amaramente cosa le fosse successo di fronte a Camilla il primo giorno.
Non
doveva eccedere ne' nella timidezza, ne' nell'estroversione.
"Nulla di troppo", come dicevano gli antichi Greci.
Eccedere...
In quella competizione, come una mossa spropositata e irragionata
poteva mandare a monte l'intero esito di una lotta, una parola
altrettanto inadeguata sarebbe riuscita a scaturire un tale attrito che
in pochi secondi si sarebbe trasformato in un incendio divampante.
Ma
questa, come altre preoccupazioni, non sfioravano neppure la mente
della giovane aspirante Campionessa.
Iris
era rimasta sola, quel giorno, nella loro stanza da letto.
Si era solo trattenuta più del previsto, quindi il pensiero
di solitudine non avrebbe potuto fare la sua comparsa.
Silenziosamente
stava piegando le sue cose, mentre canticchiava a tratti le parole
della canzone che aveva ascoltato proprio prima degli allenamenti sul
suo mp3: non ricordava le parole esatte, ma ripeteva quelle essenziali
per il significato della canzone a voce bassa, imitando la voce della
cantante.
In
questo sottofondo, Iris cominciava a conversare con se stessa, per
chiarire leggermente di più quello che le passava per la
mente,
come se ci fosse stata solo lei nel mondo in quell'istante.
«Devo
muovermi, se Anemone mi sta aspettando.»
«Le
voglio bene, è davvero gentile, e simpatica, e pure
bella.»
«Che
peccato essere in competizione.»
«Ed
è la prima diciassettenne che legge manga. Brava ragazza, ha
una
cultura rispetto a tutte le snob esibizioniste che alla sua
età
pensano solo al sesso. Chissà se ha letto...»
E si
bloccò. La sensazione che le paralizzava la schiena come una
scossa le pareva familiare.
Il
cuore le finiva di nuovo in gola, arrestando ogni suo movimento,
gelandola nel bel mezzo dei suoi pensieri con quel presentimento di
essere osservata, di aver compiuto qualcosa di sbagliato senza neppure
saperlo.
Iris si
sentiva talmente a disagio che non voleva assolutamente sapere che cosa
sarebbe dovuto succederle.
Desiderava solo non doversi trovare ad essere in quella sgradevole
sensazione di colpa.
Alla
fine le tocco girarsi, sapendo che evitare il destino era praticamente
impossibile.
Lo fece e se li ritrovò ancora davanti, gli stessi occhi
freddi,
blu, chiari, che il primo giorno l'avevano tramortita e spaventata
nella stessa maniera.
Li
temeva proprio, gli occhi di Camelia.
Iris,
in tutta quell'ansia, si era interdetta per un secondo sull'espressione
della ragazza che era stata dietro di lei fino a quel momento.
Sembrava
stressata.
L'eye-liner nero che le segnava il contorno delle palpebre le dava
un'aria più cupa, più devastata e vissuta.
Il
trucco era leggermente sbavato sull'occhio sinistro; quel nero comunque
faceva risaltare l'iride azzurro chiarissimo, che tendeva quasi al blu
platino, data la lucentezza dei riflessi che parevano quasi specchi.
Non
riusciva proprio a capire cosa si celasse sotto quelle maschere. Per
quel che le risultò, la ragazzina si mosse indietro, presa
dallo
spavento e capace solo un ansimo, espirando ed inspirando l'aria dalla
bocca, come se fosse davvero morta.
«Tu
e la rossa mi considerate stupida solo perché sono una
modella, vero?»
Lei
rimase zitta. Non aveva idea di come controbatterla.
Quella
ragazzina, dai capelli viola e la pelle abbronzata, dimostrava meno di
quindici anni.
Le pareva troppo innocente per meritarsi di essere attaccata dalla sua
ira più spietata.
Ma
Camelia aveva imparato dalla vita che ogni cosa è costruita
su
due lati: un lato buono, debole e apparentemente fragile che si mostra
rivolto all'esterno in modo che tutti lo vedano e ne siano ingannati
dall'apparenza.
Ma
quando la situazione comincia a farsi complicata e la paura di
soccombere aumenta, il lato nascosto si mostra alla luce, capovolgendo
quella medaglia forgiata dalla crudeltà.
Allora
quel lato, spietato, meschino e subdolo prende il sopravvento.
E da lì non resta che soffrire, magari dovendolo fare pure
in silenzio, per evitare la vergogna.
«Non
fingere di aver ragione. Sembri solo più patetica di quanto
tu non sia già.»
A quel
punto non le restava che continuare a difendersi attaccando.
Sapeva
che c'era qualcosa sotto, che, come lei, chiunque era capace di
prenderla alle spalle.
Infatti
Iris aveva trovato il coraggio di risponderle.
«Cosa
vuoi?»
La
giovane dai capelli mori urtò la ragazzina con la spalla per
provocarla.
Poi le
tenne fermo il collo con la mano, facendo attenzione a non spezzarsi le
unghie finemente ornate di smalto.
A
seguire emise una risata nasale di un istante, come era sua abitudine
fare per commiserare tutto ciò che le pareva falso,
insignificante e non meritevole di esistere.
«Faccio
la top model. So che ad ogni bacio corrisponde uno schiaffo e ad ogni
amicizia corrisponde un tradimento. Quindi so come funzionano queste
cose. Ho idea di quello che vuoi fare. Ah, ovviamente non ti
lascerò farlo...»
"«Cosa...
Io...» Riusciva a vedere Iris sconvolta, e non lo sopportava.
Sapeva
riconoscere la verità dalle menzogne, sapeva vedere il male
nella più pura delle innocenze.
Camelia aveva capito di essere davvero sola in quel mondo di falsari.
«Sei
così falsa che ti leggo in faccia quello che pensi - poi, in
preda alla rabbia cieca, alzò il volume della voce -
davvero,
chi vuoi prendere in giro? Idiota, il mondo è pieno di gente
come te!»
«Smettila
di fare così, non capisco...»
Cercò
di ribellarsi Iris, ma la giovane Capopalestra la troncò sul
dire con un grido scomposto.
Si rese conto di essere davvero un'isterica. E che l'isteria fosse
davvero un disturbo della personalità.
Poi la
spinse lontano da sé.
Sentiva
la sua voce diventare rauca e affievolita, mentre il trucco cominciava
ad inumidirsi sotto gli occhi.
Davvero vergognoso per una ragazza di diciassette anni del suo conto.
Deglutì
l'insulto più grande alla sua dignità.
«Tu
credi di poter convincere Anemone ad odiarmi, credi di poterla
convincere che il bene che le voglio è falso, stupida! Non
conosci la vita, Iris... non sai davvero cosa significhi soffrire! E
questo non ti autorizza a usare un altra persona per i tuoi
interessi!»
A quel
punto Camelia non aveva più un filo di voce per continuare,
si sentiva esausta solo stando in piedi.
Ansimava
piano, e sentiva sulla guancia il calore di una lacrima che scorreva
giù lenta rigandole la pelle di quelle scintille delicate.
Non
si sentiva sfogata, perché il dolore che portava dentro le
pareva ingigantito, ed era pronto a divorare i suo bellissimo corpo,
partendo dalle parti più sensibili del suo subconscio.
Ormai
era decisa ad abbandonare quella competizione, di gettare tutto
all'aria.
Sarebbe
tornata al suo lavoro di modella, tra le persone che si limitavano a
guardare il suo aspetto e non si preoccupavano di capire i suoi veri
sentimenti.
Ma si
era accorta che a vederla umiliarsi in quel tormento non c'era solo
Iris, che la guardava sconvolta, ma anche... Anemone.
Forse
aveva sentito tutto, e ora la odiava per aver insultato la sua amica.
O
forse era appena giunta lì e si chiedeva perché
la
Capopalestra tanto orgogliosa e meschina ora piangesse come una bambina
isterica.
Camelia
si bloccò per un istante, mentre Iris diceva qualcosa che
non aveva capito ad Anemone.
A quel punto non le rimase altro che scappare.
Si
voltò di scatto, coprendosi il viso con la mano e corse
fuori.
Sentiva
il bisogno di fuggire dal mondo, da tutta quella gente incomprensiva e
insulsa, che sembrava vedere ogni cosa solo come appariva.
La
giovane, disperata, si sedette al centro di un enorme stanzone, che
pareva trascurato da tempo. Nardo era troppo eccentrico e ricco per
curarsi di un posto così rovinato della sua infinita magione.
Doveva
essere un vecchio garage, che si era trasformato con il tempo in un
ripostiglio per i vecchi mobili, per poi mutare ancora in un luogo in
cui il nulla predominava insieme al disordine e all'abbandono.
Si
sedette su una vecchia poltrona, per cercare di riordinare i suoi
pensieri.
Si
appoggiò la mano sul viso, notando che tutto il trucco nero
era
colato, disegnandole un alone scuro sotto gli occhi, e il mascara
viscoso e appiccicoso si mischiava con il sudore che aveva sulle mani.
Le
pareti erano ricoperte di muffa odorosa, che colorava il luogo di
grigio fumo.
Dalle
finestre, dai vetri sporchi e rotti, trasparivano fasci di luce, che
riflettevano meste ombre sul pavimento spoglio e costellato di
calcinacci e sporcizia.
Il
mondo non le era mai parso così freddo, inospitale e finto.
Mai fino a quella sera.
«Non ho
mai conosciuto mia madre. Non so se sia morta, o cosa le sia capitato.
So solo di non averla mai conosciuta. Per tutta la mia infanzia ho
vissuto con mio padre.
Nonostante questo però, è stato il periodo
più felice della mia intera vita.
Non
eravamo ricchi, anzi. Abitavamo nella periferia di Sciroccopoli.
Anche se non avevamo molti soldi, ogni tanto riuscivamo a permetterci
dei piccoli lussi: papà mi portava al luna park, e mi faceva
salire sulla ruota panoramica.
Da
lassù ogni cosa, ogni persona e perfino ogni paura spariva
nel
nulla, lasciando solo una grande immensità nera, e si
vedevano
migliaia di luci colorare il vuoto... Vorrei rivedere quelle luci,
qualche volta.
Mio
padre era un uomo che sembrava onesto e sincero.
Lavorava
molto duramente per mantenerci entrambe, ma non rinunciava mai a darmi
tutte le attenzioni e tutto l'affetto che meritavo. Gli sono sempre
stata grata per tante cose, e tutt'ora mi sembra di non avergli
mostrato tutta la gratitudine di cui era degno.
Non mi
sono goduta l'infanzia fino alla fine perché credevo fosse
infinita, che nulla sarebbe mai andato storto.
La vita
per una bambina della mia età era così bella che
sembrava quasi vera.
Ma poi,
crescendo, ho scoperto che non c'era mai stato nulla di vero.
Tutto
quello che mi pareva chiaro e cristallino era avvolto in una polvere
soffocante e allusiva, a partire dalle certezze principali di una
qualsiasi bambina: la propria famiglia.
«Camelia
cara, sei davvero bellissima, come la stella più luminosa
del cielo.»
Me lo ripeteva tutte le sere prima di addormentarmi, anche se io mi
mettevo a ridere: ma se lui non me lo avesse ripetuto così
tante
volte io non me ne sarei mai convinta, perché per amare
bisogna
essere in due.
Solo in
due.
Avevo
più o meno dieci anni, facevo ancora le medie.
Una notte papà era molto stanco. Mi ha mandato subito a
dormire, con gran fretta, mi sembrava quasi scocciato.
Si era perfino dimenticato di augurarmi la buona notte, e di
ripetermi ancora quanto fossi importante per lui.
Così
non riuscivo a dormire: continuavo a rigirarmi nel mio letto,
chiedendomi come mai papà avesse deciso di interrompere
proprio
ora l'amore che prova un genitore per la figlia.
Mi sono
alzata per controllare. Ero troppo in pensiero per lui, che aveva
pensato solo a me in tutta la sua vita.
Forse era solo stanco... No, non era vero.
A
questo punto credo che la mia infanzia, così come la mia
felicità si sia fermata.
Sul
divano, a torso nudo, c'era mio padre; era disteso, ma appena mi ha
vista si è rialzato. Sopra di lui c'era una donna. Nuda, non
indossava nulla, e gli teneva i polsi. Non ho idea di chi fosse o se la
conoscessi. Ma a prima vista era talmente brutta che ancora oggi mi
pare la donna più brutta che abbia mai visto.
Eccessivamente
corpulenta, mi osservava con gli occhi di una vipera, trafiggendomi
l'anima nel modo più doloroso possibile.
Cercavo
di liberarmi da quello sguardo terrorizzante, ma l'immagine che avevo
davanti mi schifava e spaventava allo stesso tempo...
Ne
ricordo i particolari, perché non me la sono mai
dimenticata,
così crescendo e comprendendo la parte più orrida
e
crudele del mondo, la me stessa adulta è riuscita a fornirsi
le
spiegazioni che quella bambina tanto ingenua e fragile non
riusciva a capire.
Quella
donna doveva essere una prostituta. Credo che sia così
perché dopo di quella ce ne sono state molte altre: more,
bionde, magre, alte... Io le trovavo tutte bruttissime.
Ogni notte papà si lasciava sedurre a mia insaputa, cercando
di
ridar vita all'eccitazione e la passione che il dover badare una figlia
gli aveva tolto.
Poi
c'è stato l'alcol.
Quando
papà era solo o depresso l'aria aveva un odore pesante e
dolciastro, diventando un veleno irrespirabile. Il pavimento si
riempiva di rifiuti, sporcizia e vetri rotti, che a furia di pestare mi
hanno fatto versare un bel po' di lacrime e di sangue.
La
nostra casa, la nostra vita ed il nostro rapporto, tutto era diventato
invivibile.
Poco
a poco ho smesso di spaventarmi nel vedere quelle scene; abitando nella
periferia malfamata e regredita ne avevo già sentito parlare
tante volte dalle mie compagne di scuola più grandi.
Ma
nel mio cuore di ragazzina mi sentivo devastare da una tristezza
interminabile, che è finita per sfociare in una rabbia
repressa,
che ancora oggi tento invano di soffocare. È ben risaputo
che la
tristezza porta la rabbia e viceversa.
La
persona di cui mi fidavo ciecamente, che tanto ammiravo ed amavo mi ha
abbandonato per quei vizi disperati, che sembravano ignorare che mio
padre una ragione di vita ce l'aveva già: ero io l'unica che
poteva abbracciarlo, baciarlo e passare le serate con lui.
Ho
taciuto per quasi sei mesi.
Ho capito che la sua vita privata non è affar mio. Ma per me
era impossibile ignorare.
Allora di notte mi affacciavo dalla mia camera e vedevo mio padre
ridere, piangere, bere, o bestemmiare mentre ero indecisa se
nascondermi sotto le coperte o restare li a guardare.
Provo
odio per chiunque osi far soffrire una persona con una bugia e farei
assistere a quelle scene tutte le persone false, ipocrite e bugiarde di
questo universo.
E poi
mi sono stancata, perché se io non avessi detto la
verità non l'avrebbe detta neanche lui.
«Chi
era quella che ti sei portato a letto ieri sera?»
Papà mi ha cominciato a fissare male. Non si aspettava tale
impertinenza. Non se l’aspettava da me, almeno.
«E
quella dell'altra sera, e quella di due giorni fa?»
Poi
silenzio. Chissà se si sentiva imbarazzato o era
semplicemente stressato.
«So
tutto, non provare a difenderti. Ora dimmi la
verità...»
A quel
punto mio padre mi ha tirato uno schiaffo, anche se sono fermamente
convinta che non me lo meritassi.
Per
fargli capire la sua stupidità, per provare soltanto a
fargli
riflettere su ciò che faceva ho imparato a rispondere con
sarcasmo, dato che lo avrei ferito di più io con le parole
che
lui con un colpo della mano.
«Chissà
cosa hai toccato con quella mano...»
Ci
siamo guardati negli occhi. Un'ultima volta negli occhi.
E poi sono scappata, perché avevo paura.
Mio
padre ha alzato la mano, ma non capivo cosa volesse fare.
Nel mio inconscio pensavo che mi volesse picchiare: me lo meritavo.
Gli
avevo dato del porco senza alcun pudore, e mi ero permessa di
intromettermi nella sua vita pensando di essere il suo unico interesse.
Ci si
merita davvero uno schiaffo perché si vuole proteggere una
persona?
Tanto
ormai ero già uscita di casa ed ora non c'è
più
tempo per un ripensamento riguardo ad una situazione di sei anni fa.
Sono corsa via pensando solo una cosa.
«Ti
odio, ti odio. Io odio tutti i maschi.»
Ero furiosa. Paragonati a quel momento i miei precedenti attacchi
isterici non sono nulla.
Ma
dato che la rabbia non nutre il corpo mi sono stancata subito. Mi sono
distesa sulla panchina del parco, perché se fossi tornata a
casa
avrei rivisto papà farsi una prostituta, mi avrebbe presa a
schiaffi e non mi avrebbe voluta più.
Bene
per lui, neanche io lo volevo più, che se ne restasse nel
suo
mondo fatto di sesso a pagamento e menzogne altrettanto pagate.
Però
volevo il mio letto, perché faceva un freddo terribile
lì fuori.
Poco dopo comunque ho chiuso gli occhi e mi sono addormentata.
Non ho
idea se quella sera mio padre mi avesse cercata, non mi sarei fatta
trovare da quel bugiardo.
La mattina dopo mi sono risvegliata sulla stessa panchina.
Ancora mi domando come abbia fatto ad addormentarmi con quel gelo.
Di fronte a me stava un uomo alto. Aveva la pelle rugosa ed indossava
al collo sei Pokéball.
In quel
parco desolato mi trovavo di fronte a Nardo, Campione della regione di
Unima.
Ero troppo stanca e non capivo che cosa stesse succedendo.
Ma
l'uomo mi si è seduto accanto, mettendo sulle mie spalle
infreddolite un mantello color porpora. Non sapevo se ringraziare o
meno.
«Perché
sei scappata?» Mi ha chiesto, come se sapesse già
cosa mi fosse successo.
«Perché
il mondo è pieno di gente falsa e bugiarda.»
Come facessi a rispondere tal cosa a dieci anni? Allora non c'era
sempre e sopratutto solo sarcasmo nel mio cuore.
Nardo
mi ha guardata negli occhi.
«Sei
una ragazzina determinata, testarda e soprattutto molto bella: potresti
diventare una Capopalestra in futuro. Continua sempre a cercare la
verità, come l'Eroe Bianco del mito della fondazione di
Unima.
«Ora
portami via da qua, prima che mio padre mi trovi.» Gli ho
risposto.
E dopo
tre anni sono riuscita ad essere come volevo: la stella più
brillante della regione di Unima.
Lavorare
come modella mi piace.
Posso
proporre il mio concetto di bellezza alle persone che sono stanche
delle solite donne finte ed amorfe. Farei di tutto per i miei fans.
La
bellezza finta è solo uno spreco.
Se
si desidera davvero essere belli bisogna considerare la bellezza come
una cosa pura, vera, un dono speciale della propria vita che nessun
tipo di trucco o ricostruzione può portare.
Se
fosse così non esisterebbero cose orribili come le bugie e
l'inganno.»
❁
Camelia
aveva smesso di piangere.
Sotto
gli occhi l'alone di trucco si era seccato, facendoglieli bruciare
leggermente.
Non si sentiva sfogata, provava solo più incomprensione.
Ma
almeno, rimuginando il passato aveva trovato la forza di uscire e
affrontare le conseguenze della sua scenata, pronta a subire a testa
bassa insulti e polemiche.
Si
sentiva davvero stupida ad aver fatto ciò.Se quella
ragazzina avesse sabotato Anemone... fatti suoi.
Lei doveva solo vincere la competizione, mica proteggere le sue
avversarie.
Mentre
si alzava da quella poltrona lercia, Camelia sentì un
brivido
lungo la gamba, come se fosse uno stimolo a non arrendersi ora.
Non fece in tempo a muovere un secondo passo che il brivido si faceva
più insistente. Si fermò a riflettere un attimo.
«Ah,
è il cellulare che vibra...» Si
rese conto a malincuore.
«Ciao
amore, come va, stai massacrando quelle ragazzine?»
Sentire
la voce del suo amore, che sembrava aver percepito da lontano la sua
tristezza, fu quasi capace di strapparle un sorriso dalle quelle labbra
che avevano lo stesso sapore delle lacrime salate.
«Corrado,
sto male, per favore...» lo riprese lei, tornando alla cruda
realtà.
«Ti
si è spezzata un'unghia o ti è calato il seno di
due
centimetri?» Scherzò maliziosamente lui.
Questo
era davvero troppo. Alla ragazza venne voglia di buttare giù
il
telefono gridandogli che era un insensibile; il fatto che lei stessa
avesse disfatto con le sue lacrime il suo raffinato ed elaborato
make-up era il suo ultimo problema.
E dover
spiegare al suo ragazzo un giorno o l'altro di essere la figlia di un
alcolista donnaiolo era il penultimo.
«Calma.
Ti volevo dire che questa settimana mi fermo ad Unima e se
volevi...» Qui il tono del ragazzo si fece allusivo,
ottenendo
l'interesse sperato della sua ragazza.
«Volevo?»
Camelia si fece interessata.
«Potevo
fermarmi da te per vedere quanto sei diventata forte...»
«In
lotta o a letto?» lo interruppe, questa volta ridendo.
«Secondo
te? Ho voglia di vederti e sopratutto di toccarti, amore.»
Camelia stava già eccitandosi all'idea serata.
Sapeva
che si sarebbe sentita meglio, tra le braccia della persona che era
capace di sopportare sia le sue battute sia le sue crisi.
Corrado era l'unico uomo che non riteneva di dover per forza odiare.
«Anche
io. Mi vesto sexy, promesso.»
Dando un bacio all'aria come se potesse raggiungerlo, la ragazza chiuse
la telefonata.
Si
sentiva più sollevata e, per risolvere la questione, era
pronta
ad affrontare le sgridate delle sue compagne, anche se non sapeva
esattamente che spiegazioni dar loro: terzultimo problema.
«Ehi,
sei qui!»
Era la
voce di Iris, la riconosceva.
Ma non
c'era solo lei. C'erano anche Anemone, Camilla e Catlina.
Camelia
si chiedeva se si fossero scomodate per cercarla. Il semplice fatto che
fossero lì in quel momento rendeva tutto più
imbarazzante.
Iris
le prese la mano con delicatezza: gliela lasciò andare quasi
subito ma la modella la strinse a sé, in gesto di scusa.
D'improvviso
sentì le braccia calde di Anemone in torno al collo.
Non
erano sicuramente arrabbiate con lei. Cercavano solo di consolarla.
«Sei
gentile a preoccuparti per me. Grazie... E, uhm, perdonami se ho fatto
la doppia spola fra te ed Iris.
Ma il problema è che siete entrambe adorabili, non saprei
davvero chi di voi due...»
Le sussurrò la rossa, prima di interrompersi per l'imbarazzo
dell'ultima affermazione.
Intanto
tutte continuavano a domandarle come si sentisse, a darle baci, a
cercare di compatirla.
Non
ce la faceva più ad odiarle, e per sfogarsi, Camelia si
lasciò a qualche risata, dal sapore più dolce
delle
precedenti.
Poi
tirò a se Iris, che già era un po' frastornata, e
le stampò un bacio sulla guancia.
«Scusa.
D'ora in poi vi tratterò un po' meglio dato che siete delle
vere amiche.«
«Amiche!?
Quando mai io e te siamo state amiche? Toglimi le mani di
dosso!»
Le urlò la ragazzina dai capelli viola.
Non
se l'aspettava, eppure non esitò al sfoggiare tutta la sua
abilità nel controbattere alle compagne. Amava quel suo
talento
dopotutto, anche se non c'era molto da inorgoglirsi nel saper
rispondere per le righe solo per far ammattire gli altri.
«Iris
è un'antipatica, stava per farmi piangere prima. Dovreste
evitarla, è proprio una cattiva ragazza.» Le venne
il
terrore di aver offeso la diretta interessata però.
Ma
dopo poco la mora riuscì a vedere come Iris sorridesse, fino
a
scoppiare in una risata, alla quale si unirono tutte, lei compresa.
Condividere
gioie e dolori senza nascondere il proprio lato più
sensibile,
questo era il significato dell'amicizia che le nostre eroine stavano a
poco a poco capendo, trovandosi ad essere insieme, anche solo per pura
casualità nelle situazioni belle e brutte in modo da rendere
il
dolore, che provato in solitudine diventa insopportabile, quasi simile
alla felicità.
«Forza
ragazze, abbracciamoci, non resta altro - disse raggiante Camilla -
è più bello abbracciarsi solo quando si hanno
sentimenti
da condividere che ripetere a caso questo gesto per nulla.
Forze
di odio e amore ci uniscono e dividono, ma torneremo tutte insieme ad
essere un gruppo, prima o poi.»
Lo
aveva detto in tono più serio, guardando un punto lontano,
come
se in quell'esatto punto ci fosse stato lo sbocco per riuscire a
trasformare loro, cinque ragazze in una cosa sola.
«Ma...
queste citazioni filosofiche ti vengono così o te le prepari
di notte?»
Le rispose Camelia sorridendole.
Una
risata si levò dal gruppo.
Tutte
si abbracciarono intorno al corpo di Camelia, che sembrava sentire su
di esso di aver trovato delle amiche vere, quelle che con gli occhi non
vedono il colore del trucco o il modello dei vestiti, ma riescono a
scoprire e rendere loro ogni parte del suo inconscio, che invece di
offenderla e vendicarsi delle sue prese in giro avevano preferito farle
capire che non aveva bisogno di fingere per sopravvivere nel mondo.
Lei non
era sola, come nessuna tra loro doveva essere.
❁
«Ragazze,
una di voi mi ricorda perché Nardo ci ha messe in
punizione?»
Domandò
stressata Iris, mentre strappava a mani nude una delle tante tracce di
muffa dalle pareti di quella stanza.
«Abbiamo
saltato gli allenamenti di questo pomeriggio.»
Le
rispose Anemone ansimando, mentre cercava di ripulire il pavimento da
tutta quella sporcizia, dovendosi spesso chinare per raccogliere i
calcinacci.
Per
quanto Nardo fosse buono e comprensivo era ben risaputo in tutta Unima
che il Campione era solito punire i suoi allievi con punizioni
esemplari, tanto da meritarsi il rispetto di tutti i maestri della
regione.
«Aspettate,
non è possibile per me essere in punizione stasera - si
lamentò Camelia agitata, ricordandosi che cosa quella sera
la
aspettasse - io ed il mio ragazzo dobbiamo...»
La
mora si interruppe prima di rivelare al gruppo la sua più
intima
vita sentimentale con tanta sfacciataggine, lasciando la frase a
metà.
Ciò
che naturalmente seguì fu un silenzio di imbarazzo, mentre
le
altre la fissavano con sguardo incredulo, sperando che Camelia non
intendesse continuare la frase con il pensiero sconcio che
avevano
intuito.
Purtroppo
il senso era esattamente quello: se fosse rimasta lì a
ripulire
quel posto, non avrebbe potuto godere della notte d'amore che tanto
desiderava.
In queste situazioni chiunque è solito pensare quanto sia
ingiusta la vita.
«Voi
non potete capire, siete ancora single... E vergini,
probabilmente.»
Si
giustificò Camelia, per cambiare discorso e togliersi dalla
precedente situazione di imbarazzo con più scioltezza
possibile.
Intanto si era resa conto che ormai tutte le unghie finte le si erano
spezzate con tutto lo sporco scrostato dai pavimenti e dalle pareti.
La
punizione era tanto faticosa quanto umiliante, un ottimo esempio per
riflettere sulle proprie azioni, degno di un uomo saggio.
«Ehi,
signorina dalle grandi esperienze amorose, io alle scuole medie avevo
un ragazzo! L'ho anche baciato in bocca una volta!»
Le
rispose Anemone con tono infastidito, anche se tratteneva a stento una
risata.
Poi,
per farle capire l'errore che la mora aveva commesso, prese un grosso
pennello ancora imbevuto di colla e, con un gesto rapido del polso,
riuscì a sporcarle di quel fluido appiccicoso gran parte del
viso, rendendolo lucido di quel miscuglio marrone chiaro.
La
rossa, per quanto infantile fosse quel gesto, voleva entrare in
confidenza anche con colei che prima le pareva la più
antipatica; cercare di andare d'accordo con tutte, come aveva fatto
anche con la timida Iris, era parte del suo carattere solare ed aperto.
«E
quanto siete stati insieme?»
La
provocò ancora Camelia, rispondendo nella stessa maniera con
cui
era stata imbrattata lei prima. Cercò solo di mirare
ironicamente verso la bocca, per far assaggiare ad Anemone il gusto
amaro e indigesto del suo fantomatico bacio in bocca.
La
rossa a quel punto dovette tirarsi indietro, dato che la risposta a
quella domanda era in grado di sminuire tutto l'orgoglio di cui prima
si era vantata.
Si
limitò a rispondere a malincuore.
«Due
settimane... Poi mi ha lasciato.»
Partì
un finto applauso di incoraggiamento per la rossa e il suo
più
che patetico record, ed a dare il definitivo segnale per dar inizio
alla battaglia fu Iris gridando «Rissa! Rissa!»
più
che entusiasta.
Le
due continuarono a sporcarsi di colla e vernice a vicenda, come due
ingenue bambine che portano avanti uno dei loro soliti litigi,
dimenticandosi chi avesse iniziato e chi avesse continuato.
Fare
amicizia poteva essere ridere anche di quello.
«Siete
davvero immature.»
Tentò
di riportarle alla realtà, con tono fermo e contenuto
Catlina,
la quale mai aveva provato tanta stanchezza in vita sua; il dolore alle
ossa la stava consumando, ed ogni singolo rumore la infastidiva.
A
quel punto fu compito della leader riportare le due ragazze sudate e
sporche di colla appiccicosa e polvere bianca al loro dovere, con il
suo solito ottimismo.
«Ragazze,
tornate al lavoro. La fatica serve a fortificarvi.»
«La
dici facile tu che devi solo sorvegliarci!»
Le
rispose Iris, che davvero non capiva perché dovesse essere
punita per aver cercato di fare del bene ad una compagna.
Forse
quello che stava facendo serviva davvero a fortificare.
E a far sudare. Sopratutto a quello, a suo parere.
«In
realtà sono contenta perché che ha deciso di
premiarci
per il lavoro svolto in questi ultimi giorni: vuole trasformare questo
vecchio garage abbandonato in una sauna a nostra disposizione. Pensate:
potremmo rilassarci in una nube di intenso vapore caldo dopo aver
finito gli allenamenti.»
Camilla
era davvero eccitata all'idea di poter entrare in stretto contatto con
le sue nuove apprendiste Campionesse mediante la condivisione di un
momento privato come una sauna.
«E
quindi noi dobbiamo lavorare come degli operai clandestini per ottenere
qualcosa che già ci spetta a prescindere?!»
Le
ribatté Iris, ormai stufa di tutto quel lavoro pesante.
«Esattamente.»
Rispose a quella domanda retorica così impudente una voce
profonda.
Nardo
si era materializzato nella stanza, come se fosse apparso dal nulla:
aveva pianificato di spaventare le ragazze, in modo da verificare il
lavoro svolto fino a quel momento; un vero maestro è capace
anche di cogliere alle spalle i propri allievi.
Lo
stupore delle giovani fu più che evidente. A quel punto
l'uomo si espresse.
«Ho
visto con i miei stessi occhi chi merita questo premio, nonostante la
vostra pessima condotta di oggi: avete saltato il vostro allenamento,
atto davvero disonorevole per un allenatore, non solo del vostro
calibro, ma di qualsiasi genere. Spero che questi straordinari vi
abbiano aiutato a riflettere sulle vostre precedenti azioni.
Iris,
Camilla, Catlina, siete libere di andare; avete riflettuto abbastanza e
il vostro lavoro ha sostituito gli allenamenti mancati di oggi: potete
cambiarvi e servirvi a cena.»
Dopo
aver ringraziato Nardo (Iris non aveva capito neppure la ragione di
quel castigo, figurarsi se in cuor suo si sarebbe degnata di
ringraziarlo veramente...), le tre volsero le spalle all'uscita, come
prigionieri appena scarcerati. Anemone e Camelia si guardarono con
preoccupazione, mentre Nardo lanciò loro un'occhiata severa.
«Voi
due - disse, guardandole negli occhi - avete bisogno di comprendere
più a fondo i vostri errori.
Resterete qui, finché non avrete completato anche il lavoro
delle vostre compagne. - Poi analizzò le due ragazze,
aggiungendo - E per favore, evitate di aggravare ancora di
più la vostra posizione... Avete lo stesso odore di una
fabbrica
di vernice.»
L'uomo
se ne andò, per raggiungere le tre che aveva deciso di
aggraziare.
Guardandola
bene, Camelia si era resa conto che quella ragazza rossa di capelli
accanto a lei le somigliava parecchio: il viso appiccicoso e lucido,
sporco di polvere biancastra, mista al sudore e allo sporco di quel
posto orrido era identico al suo.
Era
impossibile: la pelle bianca e diafana della modella aveva
conformazione e colore totalmente diversi da quella abbronzata e spessa
della pilota sua compagna di sventura.
Dovevano
essere i suoi occhi.
Chissà
perché Anemone doveva avere gli occhi del suo stesso colore.
E
i lineamenti del suo viso le piacevano: le linee morbide e non troppo
marcate riuscivano a tacere il suo senso critico riguardo alla bellezza.
La
ragazza mora non voleva perdere l'occasione di avere un'amica che fosse
così piacevole avere accanto.
Era
giunto il momento di gettare via tutti i vecchi pregiudizi e mostrare
ad Anemone quanto la faccia nascosta di se stessa fosse generosa e ben
disposta nei suoi confronti.
Rivolgendosi un sorriso a vicenda e incrociando i loro sguardi, alle
due ragazze, sole, sporche e miserabili venne contemporaneamente da
ridere.
Camelia
riteneva davvero indimenticabile potersi mettere a ridere senza dover
pensare che in futuro quella stessa persona l'avrebbe fatta piangere.
❁
«Camelia,
scusami tanto... È colpa mia se stasera non potrai vedere il
tuo ragazzo.»
«Non
preoccuparti, sono così stanca che non le ho neppure le
forze per odiarti...»
«Mi
parli un po' del tuo ragazzo? Insomma... Com'è?»
«Come
te lo immagini? Deve essere il mio ragazzo, non può essere
altro se non perfetto.»
«Allora
è vero che gli opposti si attraggono!»
«Allora
è vero che una relazione con te non può durare
più di due settimane!»
«Scusa.
Se davvero è così...
Non
è che daresti una mano a... Farmi piacere un ragazzo? Vorrei
un
fidanzato che sia fighissimo ma che mi tratti in modo dolce, e che sia
anche sexy...»
«Credimi...
Potresti trovarne uno, se curassi un po' di più l'aspetto,
ti
vestissi decentemente e ti comportassi in modo più sensuale.
Saresti la ragazza dei sogni di tutti, secondo me.»
«Ehi,
se vuoi saperlo io ho ben presente il genere di ragazza che intendi!
Ragazze che appena le vedi ti sanguina il naso da quanto sono belle e
carismatiche.»
«Davvero?
Sono idol, attrici, modelle come me?»
"In
un sacco di manga che ho letto il protagonista maschile seduce la
protagonista femminile rivelando di essere il ragazzo dei suoi sogni...
A volta la stupra perfino, ma farebbe di tutto pur di avverare il sogno
d'amore della sua amata..."
«Cosa?!»
«No-Non
sono una perversa! È vero, ogni tanto ho letto qualche manga
hentai per maggiori di diciotto anni, ma il protagonista era di una
bellezza assoluta! Poi io preferisco il genere ecchi, specie se oltre a
dei bei ragazzi ci sono anche delle ragazze molto dotate...»
«Cara
Anemone, hai molto da imparare in materia di amore.»
❁
Behind the
Summery Scenery #4
1.
Per i "vecchi" lettori, che seguivano la storia già da
prima:
questo capitolo comprende anche, come potete vedere, quello che era il
4(1), ossia il sub-capitolo "Le ragazze del crimine/Gelosia",
ed
il contenuto del 4(2), omonimo di questo.
R.I.P.
Sub-capitoli: 2013-2017
2. Sto
editando e ho notato che c'era una sequenza separata dai divisori per
nulla. Fixato nel 3.5
3.
Per scegliere le cinque antagoniste da contrapporre alle ragazze, ho
dovuto tenere una specie di "audizione", basandomi sulle opposizioni e
somiglianze con le personalità delle protagoniste: ho letto
in
un giorno più di venti pagine di personaggi femminili della
serie Pokémon su Wikipedia e siti annessi, e casualmente
tutte
le ragazze che ho scelto provenivano da regioni diverse. Non posso
assicurare che tutte siano le mie bias.
4.
"Neo Team Plasma" non è un nome ufficiale. Lo ho scelto io,
nel
caso vi sembrasse di averlo già sentito nei sequel di
Pokémon Nero e Bianco.
5.
Per il cosiddetto effetto Mandela, durante tutta la storia mi riferisco
ai membri del Team Plasma come "reclute". Rigicando ai giochi tuttavia
, mi sono accorta che i membri si chiamano in realtà
"seguaci",
visto che il Team Plasma non era ancora un'istituzione al tempo, ma un
gruppo ideologico.
6.
L'idea di assegnare a ciascuna delle ragazze un passato triste o
difficile è nata in primo luogo dal mio interesse implicito
per
la psicanalisi freudiana, in secondo luogo dalla visione di alcune
opere (fra cui molti anime) in cui in base a diverse esperienze passate
delle protagoniste si ricavano effetti e conseguenze nel loro agire
presente e si offre buono spunto per una crescita futura.
7.
La storia di Camelia è ispirata a quella di Cosette de "I
Miserabili" di Victor Hugo anche se all'inizio avrebbe dovuto essere
completamente diversa: si sarebbe comunque dovuta ambientare nella
periferia della sua città nella stessa situazione di
malessere e
degrado, ma doveva essere sua madre in persona a disilluderla
rivelandole di mantenere lei e sua figlia lavorando come prostituta,
siccome suo padre l'aveva abbandonata ancora quando era piccola
lasciandola senza sostanze.
8.
La scena iniziale in cui Iris e Camelia litigano l'avevo pensata molto
più violenta: Camelia avrebbe dovuto spingere Iris contro il
muro per prenderla a schiaffi, lei per difendersi le avrebbe tirato un
calcio sulla pancia e abrebbe ricevutoin risposta una ginocchiata
sull'inguine e per liberarsi avrebbe dovuto, ehm, stritolare il seno
dell'altra. Prospettive dolorose, insomma.
9.
Se siete interessati a scoprire come la storia della stanza malandata
con la poltrona sporcasia nata perché non date
un'occhiata qui e qui?
10.
Scommetto che non ve lo ricordate, ma nel Percorso 4 di
Pokémon
Nero 2/Bianco 2 potete notare una zona antecedente alla
città di
Sciroccopoli costituita da degli edifici prefabbricati con dei graffiti
sui muri e tantissime allenatrici femmine sulla strada; la stessa zona
viene chiamata "Villaggio di Sciroccopoli" nell'anime, "Nimbasa Town"
in inglese.
|
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Capitolo 5 *** Una perfetta adulta ***
❁
A story
by: Momo
Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing: 🍦
Seguiteci
su instagram: @esg_ offical_ ig
Early Summer Girls
❁
Capitolo 5
Una perfetta
adulta
Per le
nostre ragazze oltre al dovere veniva, gratificandole, anche il piacere.
La
ragazza dai lunghi capelli dal profumo di vaniglia levò
nell'aria di quel pomeriggio estivo un grande sospiro.
L'aria
espirata si unì al vapore denso e caldo della grande vasca
di pietra circondata da bellissime statue e colorate aiuole, ricadendo
silenziosamente in minuscole goccioline nell'acqua calda.
Non era
un sospiro arreso o annoiato: era un sospiro di sollievo.
La
giovane si lasciava avvolgere dalla gradevole sensazione dell'acqua
calda che le accarezzava la pelle chiara, infondendo una forza
rigenerante nelle sue membra affaticate; il liquido alla temperatura
perfetta sembrava farla rinascere dalle sue ceneri, in un corpo
più forte e in un animo più nuovo di quello che
aveva.
Catlina
aveva sempre desiderato poter cambiare tutto di se stessa, bruciando il
suo ego precedente senza lasciarne alcuna traccia. Desiderava questo,
spesso.
L'acqua
nell'onsen del giardino di Nardo
raggiungeva il livello del suo petto e sulla superficie il suo viso si
rifletteva tremolante, come uno spettro che la fissava con espressione
incerta: lei e lo spettro si guardavano negli occhi, come in attesa di
dirsi qualcosa; ma quando capì che lei e l'anima racchiusa
in quello specchio erano la stessa persona, con un gesto violento della
mano sconvolse la superficie dell'acqua, facendo sparire nella luce da
cui era venuto quello spirito nefasto e morente.
Ma lei
non poteva sparire, lo sapeva benissimo.
Catlina
stuzzicava con le dita il laccio del costume che indossava.
Non si
ricordava dove lo avesse comprato, quindi doveva essere un regalo dei
suoi genitori; così costoso, finemente ricamato, degno di
una principessa, si chiedeva perché dovesse stare sul suo
corpo.
La
prima cosa che non sopportava di se' era sicuramente la pelle: il
pallore dava l'idea di una persona morta, di un cadavere.
Se poi
guardava il suo corpo nei punti meno visibili, come le braccia, le
gambe, la schiena, ma anche un sacco di altri posti, notava che i segni
della sua tristezza non sparivano: aprendole la pelle, sollevando i
lembi della cute, sporcate di sangue seccato, pelle morta o da punti di
sutura, numerose cicatrici erano ancora lì, costringendola a
nascondere la maggior parte del suo corpo agli altri.
Ma
lì era sola, quindi poteva permettersi di stare semi nuda
senza creare scalpore.
Detestava
inoltre il suo viso. Quello le faceva quasi paura.
A
partire dai quindici anni, all'inizio dell'adolescenza, i suoi occhi
avevano cominciato a subire una deformazione troppo evidente.
Le
palpebre diventavano pesanti, sotto l'occhio erano comparsi i segni di
occhiaie e borse, i contorni si erano smorzati: era quello il risultato
ottenuto, dopo tutte quelle notti insonni, e dopo tutto quello che
aveva sopportato negli anni.
Il
corpo cambia nel tempo, a seconda delle cure fisiche e psicologiche che
una persona vi presta.
Se una persona si trova ad essere felice, l'aspetto fisico rispecchia
questa condizione interiore.
Il risultato della situazione interiore instabile della ragazza aveva
così portato i suoi occhi a svuotarsi ed intristirsi tanto
da non poterne sopportare la vista.
Poi si
contava tutto quello che la sua autostima aveva cancellato: voleva
tagliarsi i lunghi capelli biondo chiaro perché credeva di
averli troppo disordinati, dimagrire fino a che non le si vedessero le
costole, ricorrere alla chirurgia estetica per ogni dettaglio
imperfetto, anche se sarebbe stato inutile.
Perché
ciò che devastava davvero era l'orribile impressione che
l'animo morto che infestava il suo corpo aveva dato alle sue nuove
compagne.
Vedendola
così pallida e inespressiva dovevano aver pensato che lei
fosse una persona malata, antipatica e asociale, che non merita alcun
tipo di affetto o attenzione.
Forse
il rispetto che le riservavano nasceva solo dal fatto che fosse
più vecchia di loro, non sicuramente dalla
vitalità e dall'energia dei suoi gesti...
Ma era
meglio così. Meglio essere priva di sentimenti che ferire le
persone.
Mentre
lo pensava Catlina aveva tirato troppo l'elastico del pezzo inferiore
del bikini, che aveva finito per slegarsi sotto la tensione procurata
dal nervosismo; i lacci ondeggiavano elegantemente nell'acqua come
alche mosse lentamente dalle onde, rivelando con grazia il fianco
candido della ragazza.
Lei
però era assorta, raccolta in un isolamento forzato dalla
sua mente, che la designava dal prestare attenzione alle cose del mondo
reale.
Chiuse
gli occhi, in modo che la luce non la infastidisse, e iniziò
a concentrarsi fermamente su quel silenzio di primo pomeriggio.
Provò
a concentrare le forze sulla sua pelle macerata dalle cicatrici,
facendo traspirare l'acqua calda per lavarla e purificarla: ora che il
suo corpo aveva raggiunto quello stato di piacere che un bagno caldo sa
dare, il suo cervello si era chiuso in una profonda meditazione, uno
stato di concentrazione in grado di riportarle l'equilibrio perduto.
A prima
vista sembrava che stesse innocentemente dormendo.
Una tecnica imparata dopo anni di allenamento di Pokemon di tipo Psico.
«Potrei
essere diversa... Sarebbe bello se riuscissi a guadagnarmi il rispetto
e l'ammirazione delle altre ragazze - parlava da sola, nella sua mente
riempita di mille pensieri, avvolta nel dolce e rilassante vuoto di
quel silenzio - così vitali, così energiche...
così... sono così carine...»
Il
pensiero di non riuscire ad abbattere il suo carattere chiuso e isolato
disturbava Catlina nel profondo.
Non
desiderava veramente restare sempre sola; sapeva inconsciamente che in
qualche modo avrebbe dovuto comunicare con qualcuno, rivelare i suoi
pensieri.
Non
poteva continuare a riempirsi di indifferenza... O sarebbe esplosa in
una reazione rovinosa.
Ci
teneva tanto a risultare calma e composta e forse preferiva davvero che
a sentirsi vuota dentro fosse lei e non gli altri.
Il
corpo della ragazza era sempre lo stesso, anche dopo quel bagno
purificante.
La
frustrazione comportata dai quei pensieri tanto deludenti sulla sua
persona aveva portato Catlina a stuzzicare con le dita anche l'altra
estremità del costume: quel gesto non le rendeva giustizia,
ma almeno frenava i suoi impulsi di alzarsi e sfogarsiqualche
sciocchezza.
Continuandolo
a tirare però, anche il secondo laccio finì per
slegarsi.
La
pelle dei fianchi chiari e ben delineati veniva mostrata quasi argentea
e limpida sotto la superficie dell'acqua: il movimento della corrente
faceva scivolare con eleganza le mutandine di quel bikini rosa e
bianco, semplice e raffinato.
La
natura giocava uno scherzo a suo favore, rivelando silenziosamente
quanto il suo corpo potesse risultare grazioso e puro in una innocente
semi nudità, accarezzandola con l'acqua per calmare i suoi
tormenti interiori.
Non si
era accorta però di essere osservata, in quella sua trance
di piacere.
Chi la
guardava non si sentiva imbarazzato ne' per lei, che veniva guardata,
ne' per sé stesso, che assisteva ad una scena tanto sublime
quanto oscena.
Non si
era posto neppure il problema di sapere perché la ragazza si
fosse chiusa in sé stessa (aveva ben capito che non stava
dormendo) o perché si fosse slegata il pezzo inferiore del
costume, se fosse semplicemente esausta per gli allenamenti o se avesse
solo bisogno di un momento per sé.
Ciò
che desiderava sapere era bensì a cosa pensasse.
Per ora
si limitava a guardarla, pensando se fosse opportuno disturbarla; poi
giunse alla conclusione che sicuramente non le sarebbe dispiaciuto
così tanto se qualcuno le dedicava un po' di attenzione.
E
andò da lei.
«Come ai vecchi tempi.» Pensò
Camilla, sorridendo amaramente.
La
giovane Campionessa si tolse delicatamente il kimono bianco, mostrando
il suo corpo scolpito da Dio con la massima perfezione; esibiva un
costume due pezzi nero, il colore che le donava una certa
autorità e maturità, sposandosi perfettamente con
i suoi occhi grigio platino.
Il
costume che indossava non poteva certamente nascondere le curve che la
giovane donna aveva formato crescendo: il seno si protraeva in avanti,
rigonfio e sviluppato a dovere in modo provocante e sensuale, raccolto
a malapena nel reggipetto nero decorato di pizzo.
La
parte inferiore del corpo presentava ancora due prosperose curve che
delineavano il bacino, disegnandole la carne delle cosce in modo
impeccabile.
Il sedere è argomento a parte, che merita comunque menzione
per la sua rara bellezza.
Camilla
fece attenzione ad entrare nell'onsen senza distrarre Catlina dalla sua
meditazione.
Le si
sedette accanto, non troppo vicino però.
La
guardava in silenzio, osservando come il suo viso fosse cambiato.
Erano passati ben dodici anni dall'ultima volta in cui si erano viste,
era ovvio che lei fosse cambiata.
Le
persone non cambiano da sole, è il tempo che modella la vita
di ciascuno secondo le imprecise e varie regole del destino; le loro
vite avevano preso strade diverse e appena si erano rincontrate per
un'altra casualità non aveva saputo davvero come dovesse
comportarsi: era certo sorpresa di rivedere un'amica di così
lunga data.
Ma
rivederla così diversa... Camilla non se lo aspettava.
«Così
calma, così riflessiva...» Si
ripeteva.
Ma del
resto anche la giovane donna da quando era bambina era cambiata
moltissimo, non solo nell'aspetto fisico, ma anche nel carattere.
Era
certa di una cosa: entrambe erano cambiate in meglio.
Lei era
diventata la figura di maggior rilievo nella sua regione natale.
Il suo volto ora era conosciuto a tutti, il suo nome famoso quasi
più di quello di Camelia.
Camilla
Kuroi sapeva ormai di essere ammirata ed amata da migliaia di
Allenatori suoi fans, ma aveva deciso di non assumere alcun
atteggiamento che potesse risultare superbo o esibizionista agli occhi
altrui.
Era bella d'aspetto, forte in lotta e buona di cuore. Per questo la
Campionessa di Sinnoh veniva adorata da tutti.
A quel
punto a Catlina capitò di accorgersi di qualcosa.
Sentiva
vicino a sé una presenza familiare, che non le dava
eccessivo sospetto.
Forse era solo una sua impressione, ma per lei valeva davvero la pena
di interrompere per un poco la sua meditazione e scoprire chi fosse
accanto a lei.
Tirò
un forte sospiro seccato e con fatica riaprì gli occhi
spenti, i quali provavano fastidio alla visione della luce solare, che
le faceva lacrimare le pupille.
Non le
servì molto tempo per voltarsi e capire che Camilla era
seduta esattamente alla sua destra.
La
Campionessa non stava guardando lei, sembrava piuttosto concentrata sul
suo riflesso sull'acqua.
Ma
appena si rese conto che si era svegliata si girò verso di
lei, sorridendole gentilmente.
Le
emozioni che in quel momento nacquero nel cuore della giovane
senz'anima furono innumerevoli.
Prima
di tutte si pose l'imbarazzo dello scoprire che le mutandine del suo
costume bianco si erano slegate e avevano mostrato per tutto il tempo
in cui Camilla era stata presente lì il suo girovita nudo.
Non
erano scese fino a scoprirle le parti intime, ma era comunque
imbarazzatissima.
Per un momento Catlina sentì le guance scaldarsi, ed in
breve queste diventarono di un rosso pallido.
Con
fretta e quasi maldestramente si sbrigò ad allacciarsi il
costume.
Che
orribile figura aveva fatto, proprio davanti ad una persona che era
diventata così importante...
Desiderava sparire. Doveva essere apparsa agli occhi della bionda una
buona a nulla che si da solo un sacco di arie.
Non si
sarebbe più dimenticata di quel momento.
«Non
preoccuparti, non è successo nulla, non c'è
nessuno nelle vicinanze.»
Le
disse Camilla con voce pacata: non voleva metterla assolutamente a
disagio.
Catlina
si ricompose in fretta, respirando però sempre
più nervosamente.
«Si...
È stato solo un incidente.»
Poi rimasero in silenzio per qualche secondo.
Camilla
doveva sfruttare il suo carattere dolce e aperto in quell'esatta
occasione.
«È
passato molto tempo dall'ultima volta in cui abbiamo fatto un bagno
insieme - portarle alla mente vecchi ricordi forse sarebbe stata la
strategia giusta - te lo ricordi? In quei momenti c'eravamo solo noi.
Senza alcuna vergogna...»
«Avevamo
sei anni; non sapevamo cosa fosse la vergogna.» Rispose lei,
totalmente scettica.
Al
pronunciare quella frase, nella mente di Catlina era affiorato un
ricordo.
Non era
un ricordo concreto.
Le era
parso di vedere nella sua testa un'immagine, una vecchia fotografia
della sua memoria che credeva di avere smarrito nelle viscere del tempo.
Si
ricordava vagamente dei corpi magri e pallidi che lei e Camilla avevano
da bambine: entrambe bionde, i loro genitori che continuavano a
ripetere che sembravano due sorelline, più che altro
perché non riuscivano mai a fare a meno l'una dell'altra.
E si
ritrovavano a condividere inconsapevolmente anche un bagno.
A godersi la loro infanzia giocando nude nella vasca da bagno calda
riempita di soffice schiuma bianca, nella residenza a Memoride della
famiglia Hāto.
Le fece
tristezza. Inoltre si ritrovava ancora più imbarazzata di
prima, paragonando il loro rapporto di allora con la convivenza forzata
di quel momento.
Catlina
cercò quindi di svuotarsi per l'ennesima volta, esprimendo
tutta la sua indifferenza e apatia in uno sguardo composto; voleva bene
a Camilla, davvero.
Non voleva ricordarle che quei giorni di spensieratezza non sarebbero
tornati mai più.
Camilla
le rispose, per confrontare la sua indifferenza.
«Che
strano, mi chiedo cosa stiano facendo le altre ragazze...»
Sarebbe
stata la Campionessa in grado di toccare con le sue parole il cuore
freddo, apatico e chiuso dell'Allenatrice al suo fianco?
Parlarono
per un po', le due ragazze.
Ma la loro attenzione fu subito attratta da altro. Qualcosa di davvero
insolito.
Di
fronte a loro, nel bordo opposto dell'onsen, una
figura piccola e gracile stava seduta, con i piedi immersi nell'acqua.
Una
bambina. Non serviva occhio esperto nel capirlo.
Le due
Allenatrici continuarono a conversare, fingendo di non averla notata;
ogni tanto le gettavano un'occhiata per capire che cosa stesse facendo,
e sopratutto chi fosse.
Quella
indossava un costume rosa: era abbastanza piccola per non avere
l'obbligo di indossare il pezzo superiore.
Aveva i
capelli dello stesso colore di una buccia di un mandarino maturo;
tagliati corti fino al collo, due treccine ai lati del viso impedivano
alle ciocche ribelli di caderle sugli occhi. La pelle era leggermente
abbronzata.
La
bambina nuotava nell'onsen per i fatti
suoi, immergendosi nell'acqua come in una piscina.
Ogni tanto si voltava verso le due ragazze. Non le aveva mai viste.
Facendo
attenzione che le due bionde non la notassero si avvicinava
sospettosamente, immergendosi poi improvvisamente, pensando che le due
sconosciute non la vedessero.
Ma alla
fine la sua innocente curiosità la spinse ad avvicinarsi a
Camilla e Catlina, che si erano già accorte che la bambina
dai capelli vermigli dimostrava un certo interesse nei loro confronti.
«Ciao,
come vi chiamate?»
Domandò
lei, nuotando tranquillamente, dato che l'acqua le arrivava oltre il
petto solo se stava in piedi. Ciò era considerato un gesto
di maleducazione nella cultura del bagno giapponese, se entrambe
ricordavano bene.
«Io
mi chiamo Camilla.» Le rispose dolcemente la Campionessa.
Molti
suoi fans erano anche bambini, quindi sapeva più o meno come
trattare questa piccola curiosa.
Catlina
invece non aveva idea di come comportarsi con una persona
così piccola: la dolcezza non era il suo punto forte, e in
quella situazione così snervante le riusciva difficile
perfino sorridere.
Ma si
era decisa a non voler più dare l'impressione di essere
un'apatica a nessuno, specialmente ad una bambina che invece di
allontanarla semplicemente avrebbe rischiato di spaventarsi.
Ai
bambini non piacciono le cose vuote, tanto meno le persone vuote.
«Io,
Catlina.» Glielo disse imitando dolce e zuccherato il tono di
Camilla.
Se si
impegnava poteva davvero farcela.
La
piccola continuava a scrutarle con i suoi piccoli occhi.
«Io
mi chiamo Giulietta. Quanti anni avete? Io: così.»
E mostrò la mano aperta alle due ragazze, per indicare la
sua età. Cinque anni, come le cinque piccole dita della sua
mano.
Catlina,
per rispondere al suo gioco, fece segno a Camilla di mostrarle entrambe
le mani aperte. La Campionessa lo fece subito, poiché voleva
davvero vedere quanto la sua vecchia amica fosse cambiata in meglio.
Lei poi
aggiunse le sue di mani, nascondendo il pollice: cinque, cinque,
cinque, e poi quattro.
Giulietta
contò ad alta voce le loro dita, toccando la punta con un
colpetto del suo indice.
«Diciannove?»
Catlina
annuì, sorridendo.
«Davvero?
Quanti... - poi si rivolse a Camilla - tu?»
Alla
bionda bastò aprire il pollice per rivelare alla piccola
l'età dell'amica.
«Venti!
Siete grandi allora...» Esclamò contenta.
Doveva
essere davvero soddisfatta di aver contato giusto.
Poi
Giulietta smorzò il suo entusiasmo. Rimase a guardarle per
un po'.
Per una bambina che vede ogni cosa come se fosse la prima volta, vedere
due ragazze molto più vecchie di lei in un posto
così familiare era un evento incredibile.
Sentiva
nel suo cuore una forza, quella forza che solo i più giovani
hanno, di farsi avanti nei momenti più rigidi, discernendo
senza indugi le persone di cui ci si può fidare.
Le
bastava guardare gli occhi delle due giovani donne per sentirsi a suo
agio. Si andò a sedere vicino a loro, che la accolsero senza
pretesti.
«Conoscete
il nonno?»
Le due
bionde si scambiarono un'occhiata perplessa.
Forse
sapevano esattamente di chi parlava, ma pareva loro troppo strano per
essere possibile.
«Chi
è tuo nonno?» Le domandò Camilla con
tono interrogativo.
Necessitava
solo una conferma: la risposta la conosceva bene.
«È
Nardo il mio nonnino! È anche il Campione della Lega, anche
se non so cosa significa.» Esclamò la piccola.
Se lo
aspettavano, Catlina e Camilla.
La
bionda calma e riflessiva ragionò un momento: lavorava alle
Lega di Unima da quattro anni, ma ne' lei ne' i suoi colleghi avevano
mai sentito menzionare una nipote. Forse non le dava importanza, forse
era di lontana parentela... Ma significava una cosa, un'implicazione
che la logica non sembrava spiegare. Catlina smentì la sua
presunta apatia pronunciando ad alta voce il suo sgomento.
«Ma
quindi... Nardo... Ha dei figli?!»
Il
vecchio Campione serbava ancora dei segreti, a quanto pareva.
Ma alla
piccola Giulietta sembrò un dettaglio più che
marginale.
«Che
belle che siete... Voglio essere come voi quando sono
grande.» Disse.
Guardando
i lineamenti del viso di Camilla, il fisico perfetto e la sua dolce
indole era normale per una bambina provare ammirazione, una piccola
invidia per il fatto di essere piccola davanti a due ragazze mature,
sviluppate e cresciute.
L'ammirazione
e l'invidia parevano lo stesso sentimento, ma nessuna delle due
sembrava fermare la determinata Giulietta dal conoscere le sue nuove
amiche.
E, come
tutti i bimbi, sfruttava la sua innocenza.
«Mi
prendi in braccio?»
Lo
domandò a Catlina, che si sentì pervasa da una
sensazione mista di spavento e sfida.
Le
pareva davvero insolito che qualcuno di avvicinasse a lei con
così tanta scioltezza, senza qualche dubbio o sospetto sulla
sua personalità.
Se una
persona tanto fragile come una bambina di cinque anni si aspettava da
lei amore, lei gliene avrebbe dato.
Catlina
guardò un'ultima volta lo spettro dell'acqua: non lo avrebbe
scacciato.
Se le due figure dovevano perfettamente combaciarsi, voleva che il
sorriso timido e abbozzato che mostrava sulle labbra candide in quel
momento lo riproducesse anche lo spettro morto e privo di anima, senza
alcuna paura.
«Basta
con i muri interiori, e basta chiudersi in se stessa. Ho finito di
comportarmi come una bimba viziata che pensa che tutto il mondo sia
contro di lei.
Non so accettare me stessa, non so accettare gli altri, non so
accettare nulla com'è.
Non sono cambiata per nulla. Ma adesso voglio diventare adulta. Una
perfetta adulta.»
La
bionda si alzò in piedi e accolse Giulietta a braccia
aperte: lei le saltò in braccio ridendo.
Le sue
braccia bianche si erano indebolite con il tempo, ma quello spirito di
gentilezza le ridava la forza di tenere in braccio una creatura
così leggera.
A
vederla da vicino Giulietta sembrava persino carina.
Di
certo più carina di lei, pensò rammaricata la
ragazza.
La
piccola non le aveva chiesto un abbraccio per nulla comunque.
Per quanto sembrasse ingenua all'apparenza, aveva progettato tutto nei
minimi dettagli, come un esperto Allenatore prepara la strategia
vincente per una lotta complicata.
Ne
aveva visti tanti di tagli nella sua vita, ma quello che Catlina aveva
sul petto era davvero strano.
Voleva saperne di più, perché non è
giusto che gli adulti non dicano mai i loro segreti ai piccoli.
«Come
ti sei fatta questo?» Sussurrò sul suo orecchio.
Indicò
con l'indice una cicatrice sul corpo pallido della giovane.
Una
cicatrice profonda, di color fosco correva sul petto della giovane,
segnando una linea che partiva da poco sotto il collo e scendendo verso
il basso si immergeva nella carne, scomparendo nell'insenatura del suo
seno. Davvero inusuale.
Catlina
si spaventò a quella domanda.
Non voleva rispondere.
Una domanda così fastidiosa suonava più come un
rinfacciarle un'imperfezione fisica che semplice curiosità.
Sapeva
anche in cuor suo che è tipico per i bambini fare domande
irriverenti, e aveva idea di quanto sarebbe stato antipatico zittirla
con un "non sono affari tuoi" o altro.
Sicuramente Camilla avrebbe trovato un modo di risponderle senza
violare la propria dignità.
«Me
lo sono fatto quando ero piccola... - mormorò imbarazzata -
non mi ricordo bene...»
Era ovvio che se lo ricordasse, che domande.
«Ti
ha fatto tanto male?»
«Si,
abbastanza.» Così almeno non mentiva, e se ne
sentiva quasi sollevata.
«Ti
fa ancora male?»
«No...
Non mi fa più male da un po'...»
«Sei
forte, è per questo che non ti fa male.»
Catlina
le sorrise, imbarazzata.
La
stava ancora tenendo in braccio, e le sue braccia la stringevano sempre
più stretta.
Le batteva il cuore, mentre abbassava gli occhi per la timidezza.
La
piccola aveva cominciato a toccarle la cicatrice, accarezzandola con i
polpastrelli: si trovava in un punto molto delicato, uno di quei punti
in cui la pelle si fa più sensibile, liscia al tatto,
tiepida.
Quel
taglio percorreva tutto il contorno del seno destro della ragazza, a
tratti profondo e scavato, a tratti leggero, in una parte del derma che
si teneva nascosta per puro imbarazzo.
Giulietta
se ne era accorta però.
«Continua!»
Appena
lo esclamò infilò il dito nel reggiseno della
ragazza, cercando di seguire quella linea sconosciuta, per sapere dove
andasse a finire.
Facendo
pressione con la mano, le abbassava il costume, mentre rideva
innocentemente, nonostante non avesse mai visto il petto di una
più grande di lei.
Era solo curiosa, la sua tenera età non serbava alcun
intento secondario, ovvio.
Catlina
non poteva neppure fermarla poiché, se avesse liberato una
delle mani l'altra non avrebbe retto il peso della bambina.
In viso
era arrossita di nuovo, contraendo il viso in un'espressione
imbarazzata.
Giulietta
le stava togliendo il reggiseno, mostrando la parte più
bella e sublime della bionda: di forma rotonda, le linee costituivano
due sfere perfette che si protraevano in avanti; la pelle pallida
raccoglieva elegantemente i seni alla giusta consistenza,
gonfi e arrotondati in maniera graziosa ed esuberante
contemporaneamente.
Novanta
centimetri sposavano perfettamente il suo corpo, gonfiandole a dovere
il petto, rendendo le sue doti degne di nota.
Camilla
assisteva a tale meravigliosa scena sorridendo in silenzio.
Aveva notato che anche Catlina continuava a sorridere, nonostante
lottasse a stento per recuperare la dignità di donna che il
reggiseno del costume rappresentava per lei e stesse perdendo, a
giudicare dalla situazione.
«Un
bambino può insegnare tante cose ad un adulto. A sorridere
senza motivo, per esempio.» Pensò.
In
seguito Giulietta si avvicinò a lei.
«Vieni
anche tu!» Disse.
E la
trascinò per mano, per inviarla a unirsi a loro.
❁
Camilla
sentì qualcosa di freddo sfiorarle il braccio.
Doveva
essere il vento, o una goccia di acqua che scendeva dalla sua spalla.
Non ci
prestò molta attenzione.
Dopo
qualche minuto però si toccò la spalla destra.
Sulle dita una sensazione di appiccicoso, di denso.
E ancora il freddo.
Non
aveva idea di cosa fosse e la questione le pareva sospetta.
Poi
Giulietta le puntò l'indice contro, spaventata.
«Camilla, hai sangue!»
A quel
punto la giovane si guardò: una scaglia affilata di ghiaccio
trasparente si era conficcata nella sua pelle, praticandovi un foro.
Da lì una grossa goccia di sangue rosso cremisi scivolava
lungo la sua pelle bagnata.
Nello
stesso momento le parve di sentirne un'altra di quelle gocce, che
cadeva nell'acqua.
Poi un altra che le colpì la fronte. E ancora e ancora.
E non si fermarono, ma continuarono a cadere più veloci e
affilate.
L'istante
dopo una pioggia di schegge ghiacciate si era infittita moltissimo.
Zampillavano
come frecce nell'acqua dell'onsen, creando un secondo di scompiglio,
che non lasciò il tempo a nessuna delle tre di fiatare.
Camilla
si guardò intorno. Nulla. Solo quell'atmosfera tagliente.
La
ragazza si concentrò al massimo, e dopo pochi secondi si
diede all'allerta immediata.
"Uscite
dall'onsen, veloci!"
La
piccola e Catlina uscirono confusamente con uno scatto, seguendo
l'ordine alla cieca, prese dal terrore.
E lei
non si era sbagliata: una potentissima scarica elettrica invase
l'acqua, ottimo conduttore d'elettricità, provocando un
fragore spaventoso accompagnato da un bagliore di luce accecante. Poi
l'acqua si smosse, esaurendo la sua furia improvvisa.
Una
scarica del genere era talmente micidiale che avrebbe potuto mandare
K.O. un Pokemon anche di tipo non eccessivamente debole all'elettro, e
una persona umana quindi ne sarebbe stata letteralmente fritta.
Le tre
stavano distese a terra, atterrite da quell'uragano di lampi.
La
paura nei loro cuori si percepiva nell'aria che odorava di bruciato.
Una voce di vipera ruppe poi il silenzio.
«Che
riflessi, mi aspettavo che la Scarica del mio Ampharos vi friggesse
come tempura!»
Una
ragazza era apparsa sull'altro lato della vasca, di fronte a loro:
indossava un'uniforme nero scurissimo, riconoscibile era solo uno
strano disegno tribale bianco stampato sul tessuto.
Nonostante il design dark appariva a tratti abbastanza femminile.
Non si
riusciva a distinguere alcun viso da quella voce, dato che un
passamontagna nero avvolgeva il volto della ragazza; solo gli occhi e i
capelli marroni chiaro venivano lasciati fuori, per terrorizzare al
massimo le loro prede.
«Non
scherzare, non dobbiamo perdere tempo.»
Le
rispose un'altra donna nell'ombra con i capelli azzurro chiaro raccolti
in una coda, che era apparsa poco distante dalla prima.
Questa,
alzando il braccio, chiamò a sé uno Skarmory dal
piumaggio argentato, che rispose con uno stridio acuto al suo richiamo.
Le due
si guardarono per accertarsi un'ultima volta. Era il segnale di
battaglia.
In
preda alla confusione la giovane Campionessa raccolse tutto il suo
coraggio: era solita riflettere molto, ma se si trattava di una lotta
non poteva essere impreparata; dopotutto, se queste l'avevano attaccata
non poteva che contrattaccare.
Ma per
lottare le serviva almeno un Pokémon. E lei lo aveva.
Sfilandosi
leggermente il reggipetto del costume l'astuta Allenatrice teneva
nascosta nel bel mezzo del seno una Poké Ball: una tattica
sicuramente originale e pratica, per avere a propria disposizione i
suoi fedeli compagni nei momenti più impensabili.
«Ma
questa tiene le Poké Ball nelle tette?!»
Domandò la prima avversaria.
«Immagino
che in questa regione sia normale...» Ma la seconda non ebbe
tempo di controbattere.
«Allora
volete lottare? Bastava chiederlo, no?» Rispose sarcastica la
Campionessa.
«Ma
sei stupida?» Si sentì dire per la sua uscita.
Camilla
mandò in campo la sua Milotic, che con grazia ed eleganza si
immerse nell'acqua. Una creatura acquatica davvero eccellente, famosa
in tutta Sinnoh per la sua bellezza e potenza in lotta.
E la
battaglia cominciò, sotto gli occhi sconcertati di Catlina e
Giulietta.
La
battaglia si presentava fin troppo facile per le due vipere: davvero
una Campionessa che Lucinda aveva definito tanto terribile era in grado
di schierare un Milotic, tipo Acqua contro un Ampharos, che con un paio
di mosse superefficaci lo avrebbe mandato al tappeto?
«Wow,
è proprio vero che quelli di Sinnoh sono tutti imbecilli.
Ampharos, usa Tuonopugno, alla stessa potenza di prima!»
Urlò, fiera della sua strategia.
Jasmine
veniva dalla regione di Johto, ed era Capopalestra nella
città di Olivinipoli. Sebbene privilegiasse i tipi forti in
resistenza come Acciaio e Roccia, si era spinta fino ad allenare anche
tipi forti in attacco.
Quell'Ampharos
rappresentava il perfetto equilibrio tra i due.
Il
pugno del Pokémon Elettro stava per colpire fatidicamente il
lungo serpente marino, quando Camilla decise di dimostrare a quelle
villane contro di chi si erano poste.
«Milotic,
Geloraggio! Salta e colpisci l'acqua!»
Lo
ordinò con una tale disinvoltura che il Pokemon Acquatico
eseguì l'ordine all'unisono: si dimenò un poco e
poi spiccò un balzo abbastanza alto da uscire dall'acqua
dell'onsen.
Volteggiando
in aria, il raggio gelato colpì l'acqua che finì
per congelarsi solo in superficie, come un laghetto ghiacciato
d'inverno.
Esattamente
al momento giusto.
Il
pugno caricato di elettricità da Ampharos fu assorbito dalla
massa crescente di ghiaccio, rimanendovi intrappolato; non fu in grado
di colpire Milotic, che era riatterrato sulla superficie ghiacciata
leggiadro come una foglia, per evitare di rompere il sottile strato di
ghiaccio.
La
Campionessa si sentiva quasi euforica quando lottava.
Con il
tempo la voglia di vincere ad ogni costo si era sostituita con il
semplice godersi le lotte fino alla fine, come se si trattasse di una
questione personale.
Quando lottava sorrideva, il suo sguardo seducente traspirava una forza
incredibile temperata da anni di allenamento.
La
situazione si era fatta pesante per la compagna, tanto che Alice prese
il controllo, per soccorrerla.
Quella
era la Capopalestra dalla città di Forestopoli, che volando
in alto come un Pokémon tipo Volante riusciva a guardare
tutti con sdegno, data la sua vanità, conosciuta in tutta
Hoenn. Lei era cento metri su nel cielo, mentre il mondo sotto di lei
era piccolo e insignificante come un puntino; lei poteva solo guardare
le nuvole avanti a sé, testimoni del suo orgoglio.
Alice
mandò il suo Skarmory a tutta velocità contro il
ghiaccio. La mossa Alacciaio avrebbe frantumato il ghiaccio di sicuro,
dato che il tipo Acciaio era adattissimo a ridurre materiali
all'apparenza resistenti, come Roccia e Ghiaccio, in polvere.
O
almeno così sperava.
L'intrappolare
Ampharos nel ghiaccio era solo il primo passo della strategia di
Camilla.
Pazientemente,
ma con l'adrenalina alle stelle, aspettava che l'uccello fosse alla
giusta distanza.
Milotic
si ritrovò il Pokémon avversario davanti agli
occhi, ma non fu un problema, poiché Camilla gli aveva
già ordinato di utilizzare Surf.
La
mossa, per quanto innocua potesse sembrare ebbe un effetto devastante
sul campo ghiacciato: l'acqua della vasca si riversò in
superficie, rompendo la lastra in mille frammenti taglienti come
schegge.
Un'onda
altissima si formò in breve. L'acqua e il ghiaccio non
potevano ferire il piumaggio d'acciaio di Skarmory, ma erano solo un
astuto diversivo, dato che nel ghiaccio stava ancora il corpo di
Ampharos congelato.
Lanciando
con l'onda d'acqua tra il Pokémon elettrico e l'avversario
avvenne uno scontro violentissimo, data l'alta potenza con cui la mossa
era stata effettuata; entrambe i Pokémon nemici caddero
rovinosamente sul ghiaccio.
Esausti.
Ampharos e Skarmory erano stati stremati dalla potenza della giovane
bionda.
Camilla
aveva guadagnato un'altra vittoria, che avrebbe per sempre tenuto come
ricordo.
Ma le
insidie non sarebbero finite.
Jasmine
e Alice avevano mandato in campo i loro Pokemon più forti,
tentare l'impresa con il resto del loro team sarebbe stato
pressoché inutile, data la potenza e l'astuzia della loro
avversaria.
«Passiamo
alle maniere forti. Facciamola fuori ora, o ce la ritroveremo fra le
scatole a vita.»
«Raduno
il resto.»
Le due
ragazze, che erano allo stremo dopo quella battaglia, fecero cenno ai
tre membri mancanti di intervenire.
In un
istante altre tre ragazze in nero si materializzarono, seguendo un
piano molto più semplice di quello proposto.
La
prima spia, che aveva i capelli rosa scuro, quasi fucsia, si
schierò di fronte alla Campionessa, mandando in campo un
Pokémon.
Era la
leader. Si riconosceva per via di uno strano oggetto cubico che aveva
legato sulla cintura, non si capiva bene se le servisse per la lotta, a
dire la verità la Campionessa non riusciva proprio a
figurarsi cosa fosse, ma stava di fatto che era l'unica nel gruppo a
possederlo.
E per
l'onore di quella fascia Georgia non poteva permettersi di perdere.
Se
fosse riuscita in quella missione tanto particolare, superare le altre
sarebbe stato semplice.
Con un
po' di fatica sarebbe riuscita a soddisfare i desideri
dell'organizzazione per cui si era prestata, e avrebbe finalmente
ottenuto ciò che desiderava lei.
Perché
per lei combattere lì contro la Campionessa di un'altra
regione era insignificante.
I suoi
desideri e quelli del team non coincidevano.
Non
pensava che uccidere la Campionessa Camilla di Sinnoh gli sarebbe stato
utile in qualche modo.
Ma doveva farlo, e lo avrebbe fatto.
«Se
falliamo ora siamo dannate. Vai Beartic, per l'orgoglio del Neo Team
Plasma!»
Gridò agguerrita il nome dell'organizzazione per la quale
operava, riempiendo i suoi occhi di determinazione e aspra cupidigia di
sangue.
Altre
due reclute del team, una dai capelli cobalto ed una dai capelli neri e
lunghi la assistevano.
«Al
vincitore la prima mossa - affermò la bionda, ansimando -
Milotic, Pietrataglio!»
Eseguendo
l'ordine con diligenza, Milotic rilasciò la schiera di
pietre taglienti come rasoi contro il Pokémon tipo Ghiaccio,
pensando che la semplice efficacia della mossa servisse a risolvere
velocemente il conflitto.
Ma
Sabrina, la prima delle due reclute, scostandosi i capelli neri con un
gesto nervoso della mano, comunicò telepaticamente con uno
dei suoi Pokémon: la psiche della ragazza era dotata di
questo potere soprannaturale da sempre, tanto che si diceva che da
piccola piegava i cucchiai con la semplice forza del pensiero.
La
Capopalestra di Zafferanopoli era l'entità mistica di Kanto;
nessuno aveva mai capito se il suo fosse un potere soprannaturale o se
fosse un trucco. L'alone di mistero che la circondava incuteva paura a
qualsiasi allenatore.
Il
Pokémon scelto da Sabrina fu ovviamente il più
forte della sua squadra, Alakazam, che subito entrò in
contatto con la psiche della sua Allenatrice.
Il
Pokémon psichico deviò una ad una le pietre
scagliate, riversandole confusamente, in base al piacere sadico della
sua Allenatrice.
Uno di
quei proiettili vaganti colpì in pieno la piccola Giulietta,
sfrecciandole vicino come una freccia che non centra il bersaglio in
pieno, ma lo sfiora con invisibile grazia.
La
bambina si accasciò a terra per un dolore ben superiore di
quello che aveva provato nella sua relativamente breve esistenza. Il
petto della piccola grondava di sangue, mentre lei lo copriva con la
mano: piangeva e gridava. Aveva troppa paura in quel momento, come ogni
bambino chiudeva gli occhi sperando che fosse solo un brutto sogno.
Camilla
resse la piccola sul suo corpo, abbracciandola con tutta la sua forza:
se la forza di un Campione non aveva limiti allora la cosa
più nobile che potesse fare era cederne a chi la necessitava
di più.
Se a
Giulietta fosse successo qualcosa se ne sarebbe sporcata la coscienza a
vita.
«Camilla,
anche tu sei forte... Io non voglio morire!»
Lo disse in lacrime, attaccandosi al corpo della giovane. Il dolore la
trafiggeva e quell'enorme ferita sembrava divorarle gli organi.
Gli
innocenti non dovrebbero patire certe sofferenze, riservate solo ai
peggiori malfattori.
«Mocciosa
schifosa... Vedi tu se mi devo preoccupare di un essere insignificante
come te!»
Le gridò seccata Georgia. Non c'era tempo per commuoversi
durante le missioni.
Camilla
invece ne restò toccata. E, ormai stremata, decise di
condurre la lotta fino alla fine.
Ordinò
a Milotic di usare Gigaimpatto, ma fu inutile.
Erano
in cinque contro una, tre molto allenate, preparate a quella lotta.
Aveva capito di essere il loro bersaglio.
A quel
ritmo infernale si unì l'ultima recluta.
Una ragazza giovane, dai capelli azzurro intenso. Non aveva occhi
cattivi, ma si sforzava di serbare lo stesso odio delle sue compagne.
Si
vedeva però che non se la sentiva di affrontare una
Campionessa.
Camilla la trovava commiserevole, in un certo senso.
Lucinda
allora si strinse il cuore e lanciò in campo la
Poké Ball il suo Pokémon più fidato:
Empoleon. Il suo Piplup si era evoluto fino allo stato finale, o
meglio, l'evoluzione gli era stata imposta dalla sua Allenatrice, che
desiderava la sua forza e la velocità per affrontare
avversari che da sola l'avrebbero sottovalutata.
Lucinda
si sarebbe sentita forte, se avesse sconfitto la ragazza bionda. E
decise per questo di azzardare un colpo cieco, con una mossa
così potente che non aveva idea di come controllare. Doveva
farlo però, adesso.
«Empoleon
usa Idrocannone!»
La
rinomatissima mossa. Si dice sia la più potente di tutte le
mosse d'acqua, che solo certi tipi Pokémon davvero legati ai
propri Allenatori possono imparare.
Camilla
non perse la calma.
Una
mossa di Tipo Acqua contro un Tipo Acqua... Era una scelta
azzardata, da principiante.
E lei con i principianti non voleva avere a che fare.
«Schiva
Milotic!» Gli ordinò pacatamente.
Troppo facile però.
Il
serpente acquatico schivò la mossa brillantemente, ma
qualcosa andò storto.
Il
getto d'acqua alla massima pressione non seguì la
traiettoria calcolata. Milotic eseguì il gesto di schivata,
ma il flusso fu deviato nella direzione opposta, rendendo questa azione
inutile.
La Campionessa cercò di capire l'intento di una mossa
così potente, ma non si spiegava dove volesse andare a
parare, o meglio, che cosa volesse colpire. Non se lo sapeva spiegare.
Camilla
notò poi che il getto andava nella sua direzione...
Verso
di lei... Con irrefrenabile e incredibile potenza distruttiva... Contro
di lei.
Un fragore enorme si sentì e poco dopo Camilla si
ritrovò a terra, bagnata fradicia, piena di sbucciature e
lividi su tutto il corpo e il costume a brandelli.
Sulle
labbra sentiva il sapore del suo sudore, del suo sangue, del fango...
La sconfitta era davvero disgustosa.
Ma la
Campionessa desiderava troppo godersi la sua giovinezza per arrendersi
così.
«Non
perderò contro nessuno!» Si
ripeteva quando era ancora un'Allenatrice in armi.
Il suo
amore per la lotta era nato in gioventù, ed era cresciuto
come un fiore di loto nel suo animo: lentamente, ogni germoglio si era
schiuso, rivelando verdi foglie giovani pronte ad essere inondate di
linfa vitale.
Passo
per passo era migliorata, senza dover chinare il capo alle sconfitte ma
alzandolo orgogliosamente puntando verso le future vittorie.
Il loto
aveva fatto sbocciare il suo ultimo petalo quando cinque anni prima era
stato annunciato il Campione della regione di Sinnoh: Camilla Kuroi,
quindici anni, dalla città di Memoride, dove vigeva un
antico detto, nato dalla speranza che gli Allenatori riponevano nella
figura del mentore supremo che un giorno avrebbe guidato la regione:
«Essere
un Campione non significa solo lottare...
...significa anche proteggere.»
Camilla
pronunciò quelle parole a denti stretti, rialzandosi da
terra.
Non
percepiva più sulla pelle lo sporco, il sudore e la fatica
degli attimi precedenti, anche se effettivamente erano ancora
lì presenti.
I
capelli biondo platino della giovane donna brillavano fulgidi ed il
ciuffo ribelle che le copriva l'occhio sinistro rifletteva i raggi del
sole come foglie d'oro.
Le
ferite, grondanti di sangue, rosse, dolorose come spade per la mente e
pungenti come spine per il cuore c'erano ancora...
Come
quelle di Catlina.
Aveva
visto che teneva ancora le cicatrici di quel triste evento che aveva
tristemente segnato la sua infanzia, ma ormai i tagli si erano riempiti
di una nuova forza, e il sangue si era trasformato in un fluido vitale
pronto a nutrire il suo corpo.
Quegli
occhi maturi e profondi, che potevano parere inespressivi, erano
cambiati nel tempo, come aveva sospettato all'inizio: la sua migliore
amica d'infanzia, che aveva dovuto abbandonare per via delle
ingiustizie del destino era diventata una donna determinata, viva e
matura; ma sopratutto gentile e generosa.
Diventare
migliore e diventare più forte. Quello sarebbe stato il suo
obiettivo d'ora in poi.
«Camilla!»
Si sentì chiamare.
Indubbiamente
era Catlina.
Sotto il suo braccio teneva la piccola Giulietta, che esibiva ancora lo
sguardo sconcertato e spaventato di prima.
La bambina le stringeva il braccio con forza, come una figlia alla
madre. Davvero ammirevole.
«Prendi!»
Catlina glielo disse quasi sorridendo, per incitarla a vincere quella
battaglia in onore della giustizia e della prevalenza degli innocenti
sui malfattori.
La
ragazza le lanciò una Poké Ball, quela del suo
tanto fidato quanto potente Garchomp, il mitico drago che rispecchiava
a fondo il suo animo rinato dalle ceneri dopo innumerevoli sofferenze.
Ora
Camilla era pronta per far valere i suoi ideali e cambiare, come aveva
fatto la sua compagna.
A gran
voce chiamò il nome del suo Pokémon, che si
mostrò alle nemiche in tutto il suo vigore fisico.
Le
grandi mandibole, gli artigli affilati, il poderoso corpo e la coda
lunga rendevano quel Garchomp un nemico temibile per qualsiasi
avversario, anche per un Pokémon Ghiaccio.
«Garchomp,
Dragobolide, ora!»
Gridò
con tutto il fiato che le rimaneva in gola e tutto l'orgoglio che
conservava nel cuore.
Dalla
bocca del drago si levarono migliaia di meteore blu metallico, dalle
scie brillanti e luminose.
Dividendosi per tutto il campo di battaglia, coloravano il cielo come
fuochi d'artificio, rendendo spettacolare l'effetto di quando esse
prendono fuoco a contatto con l'attrito dell'aria.
La luce
illuminò la bellissima Campionessa che sotto quella luce,
con il corpo lacerato dalle ferite per l'orgoglio, sporco di sangue
versato per la giustizia e bagnato dal sudore di chi non si vuole
arrendere per nessuna ragione al mondo, e il costume ormai strappato in
molti punti ricordava più che similmente l'aspetto di una
leggendaria eroina dei libri antichi nella sua fulgida armatura,
tornata per salvare la sua patria in difesa dei più deboli
e, mostrando il proprio corpo in tutta la sua bellezza e potenza.
Non
aveva perso, sicuramente.
Il Neo
Team Plasma ne fu ovviamente sconcertato: dopo che i meteoriti lanciati
da Garchomp si erano schiantati a grandissima velocità al
suolo, colpendo i tre Pokémon rimasti in campo avevano
annunciato la ritirata generale.
Avevano
calcolato che i Punti Potenza della mossa Dragobolide, la mossa di tipo
Drago più potente al mondo e che solo i veri Allenatori dal
cuore puro meritano di padroneggiare, erano addirittura cinque, un
altro solo utilizzo avrebbe potuto disintegrare non solo le loro intere
squadre di Pokémon, ma anche loro in persona.
Per
evitare di morire in tali umilianti circostanze le cinque, ormai
distrutte, sconfitte e lacerate fino all'ultimo dovettero sospendere la
loro missione di tentato assassinio.
«Voglio
lottare... Con lei... Ancora...» Disse Lucinda, ansimando sia
per la stanchezza, sia per la preoccupazione di venire punita per non
aver portato a termine un incarico talmente importante.
Che
Georgia si fosse davvero arresa però lo dubitava.
Sapeva
che quella ragazza avrebbe addirittura ucciso e commesso atti immorali
pur di guadagnarsi il suo ambito premio.
Così
il Neo Team Plasma ricevette la sua prima sconfitta, grazie al coraggio
di una giovane donna bionda, e sparì, alla luce de tramonto,
tornando ai suoi quartieri sudici e malfamati.
❁
Camilla
a quel punto desiderava solo lavarsi decentemente e fasciarsi le ferite.
Era il minimo che potesse desiderare.
Poi
ripensò a Giulietta e alla terribile lesione che quelle
pietre maledette le avevano procurato.
Si
precipitò in casa del Campione, sperando che le non fosse
successo nulla di grave.
«Alza
il braccio.» Sentì la voce di Catlina, ferma e
composta.
La
stava guardando da non troppo vicino, e lei non doveva aver percepito
la sua presenza. Giulietta aveva eseguito l'ordine: la bionda
senz'anima le aveva bendato con bianche fasce le ferite, stringendole
le garze intorno al petto.
Catlina
osservava bene se il suo operato era stato fatto adeguatamente, per
evitare ascessi o lesioni sul corpo della piccola. Ne aveva abbastanza
di sentire e vedere sangue, lacrime e ferite; vederne e rivederne
avevano inclinato il suo cuore ad un sentimento di ribrezzo e pesante
indifferenza, togliendole in apparenza tutta la compassione.
Non
è che non provasse alcun sentimento: non desiderava
semplicemente dare a vedere ciò che provava. Era inutile,
secondo lei.
«Mi
fa malissimo...» Le disse Giulietta, con un tono
più di lamento che di sofferenza.
«Scusa,
cerca di sopportare.» Le rispose lei.
Le tremavano le mani all'idea di starle facendo del male, anche
involontariamente
Camilla
si fece avanti, in silenzio, attirando però la loro
attenzione.
Con uno
straccio bagnato si lavò il bacino imbrattato di fango e
acqua, pulendolo da tutto quello sporco; dopo di che ci
passò sopra del cotone imbevuto di disinfettante: il
bruciore era davvero fastidioso, ma cercò di nascondere quel
fastidio.
Giulietta
poi la chiamò, e le andò vicino, aggrappandosi al
suo costume, se tale si poteva ancora definire.
«Io
lo sapevo che eri forte! Le hai sconfitte, brava!»
Le disse contenta, come se avesse subito dimenticato tutto.
E la
abbracciò.
In
seguito però, come ogni bambino preso dal tipico rimorso di
aver escluso qualcuno dal proprio affetto, prese la mano a Catlina, che
ancora seguiva confusamente le sue imprevedibili mosse, e
abbracciò anche lei, con le sue piccole braccia, sfiorando
le loro pelli dolcemente.
Per
quanto le due ragazze fossero diverse di aspetto, comportamento,
personalità e carattere, erano riuscite a provare in
un'involontaria sincronia lo stesso, strano sentore: non sempre i
bambini sono dolci e affettuosi, ma non sono neanche sempre cattivi, a
volte sono imprevedibili, altre volte le loro azioni sono
più che scontate, mai troppo coraggiosi, ma neppure troppo
codardi...
Se
Catlina e Camilla avessero vissuto più a fondo la loro
infanzia forse avrebbero compreso quel sentimento fugace e indistinto.
«Giulietta!»
A
chiamare la piccola era una voce femminile, ma non apparteneva alle
nostre protagoniste.
Era più matura, ma non profonda, quasi melodiosa e piacevole
all'udito.
La voce
si fece volto. Una donna, che donna non sembrava, prese la piccola per
mano.
Giulietta
lasciò le due ragazze e si ricongiunse di malavoglia a lei.
Una
persona mediamente alta: aveva gli stessi capelli vermiglio di
Giulietta, ma li teneva lunghi, sciolti lungo le spalle.
Vestiva con un vestito ocra, sembrava quasi cucito a mano.
Non era per nulla vecchia; dimostrava solo trent'anni o più,
e il sorriso rassicurante e sereno rendeva quella donna affascinante.
La
donna si fece più cupa quando notò la fasciatura
della bambina.
«...Cos'è
successo?» Le domandò preoccupata.
«Delle
ragazze vestite di nero mi hanno colpita con delle pietre che facevano
malissimo, ma lei - e indicò Catlina - mi ha curato e lei -
indicando Camilla frettolosamente - le ha sconfitte con i suoi
Pokémon!»
Le due
Allenatrici non sapevano cosa rispondere.
La
donna in fronte a loro doveva pensare che si trattasse di uno scherzo,
ma guardando poi i tagli presenti sul corpo di Camilla (che ancora
sanguinavano e le bruciavano) e rendendosi conto che la fasciatura di
Giulietta era effettivamente vera si zittì.
Guardò
invece le due, che erano lì immobili, pervase da un leggero
nervosismo.
«Siete
due delle cinque Allenatrici scelte per il titolo di Campione,
giusto?» Domandò in tono serio.
«Sì.»
Risposero in coro.
«Ho
capito, - poi chiamò a sé Giulietta - andiamo,
tuo fratello e il nonno ci aspettano.»
«Ma
mamma... Posso restare con loro a giocare un altro po', per
favore...» Supplicò lei.
«No.
Saluta le tue amiche, vi incontrerete un'altra volta» Le
rispose con tono fermo, ma gentile.
Le due
si fermarono a riflettere.
Era
incredibile che da quel dialogo semplice fossero emerse così
tante verità: quella donna era la madre di Giulietta, che
era la nipote di Nardo e che aveva un fratello.
Nessuna
di queste parentele era a loro nota, ma non ne avrebbero proferito
parola né con le altre ragazze, né con Nardo
stesso. Era preferibile il silenzio ad un'inutile confusione.
La
donna si rivolse ancora a loro.
«Scusatemi,
se non mi sono presentata; sono Marina, la figlia di Nardo.
Grazie per aver badato e protetto la mia piccola. Siete davvero
onorabili.»
E sorridendo se ne andò.
Nei
loro cuori, in quello puro e determinato di Camilla e in quello calmo e
riflessivo di Catlina si era anteposto un desiderio: se avessero avuto
ancora l'occasione di incontrare quella bambina ne avrebbero fatto
tesoro.
Non era
nulla di speciale quella piccola, era semplicemente stata la prima
bambina ad aver insegnato qualcosa a due ragazze che stavano lottando
con le loro stesse mani contro il destino, la solitudine e il tempo.
E anche
se avessero dovuto versare litri sangue, di sudore e lacrime non di
sarebbero fermate, perché finché loro non si
sarebbero stancate di combattere, gli innocenti e i puri di cuore non
sarebbero più stati oppressi, sia da altri essere umani che
dalla vita stessa.
Dovevano
di nuovo crescere insieme, la bionda sorridente e la bionda apatica, e
partire dagli albori di un'infanzia mai vissuta, per percorrere la
strada della giustizia mano nella mano, come avevano sempre desiderato
fare le due fanciulle.
Giulietta,
prima di andare seguendo la sua mamma, si rivolse alle sue nuove amiche
con entusiasmo.
«Da
grande voglio diventare forte e bella come voi!»
E non
vedeva l'ora di crescere, nei suoi occhi di bambina.
❁
«Sono
davvero indecisa... Che costume dovrei indossare, Catlina?»
«Non
lo so. Camilla... Io penso che tu stia bene con tutto.»
«Non
possiamo ridurci a questo: indossare un costume è molto
più che...»
«...Indossare
un costume?»
«Stavo
per dire la stessa cosa. Intendo... Scegliere il taglio, la scollatura,
gli attacchi e il colore... È una scelta difficile per una
ragazza.»
«Continuo
a non capire di cosa ti preoccupi. Hai un bellissimo fisico,
è questo il punto. Nessun costume può farlo
passare inosservato.»
«Mmmh...
E se non indossassi un costume?»
«C-Cosa?!»
«Se
non indossassi un costume il mio fisico sarebbe senz'altro valorizzato!
La bellezza è naturale, no? Non è questione di
taglie, ma di coraggio!»
«C-Camilla
non puoi andare in giro nuda! È imbarazzante!»
«Ma...
Io intendevo l'usare un bikini al posto di un costume vero e
proprio...»
«...Scusa...»
❁
Behind the
Summery Scenery #5
1. Siccome ho bisogno di tempo
(e righe, molte righe) per sviluppare a dovere la
personalità di Catlina, ho pensato di dedicare i capitoli
multipli di cinque per intero a lei.
Update: non so la matematica, quindi dopo questo e il capitolo 10 me ne
sono sbattuta di questa regola. Fuck the system. Fuck you.
2.
L'idea delle cicatrici si ricollega ad una rivelazione che lei stessa
lascia in Pokémon Platino e trova conferma in Nero/Bianco.
Provate a parlarle dopo averla sconfitta alla Lega.
3.
L'ambientare questa e numerose altre scene in una piscina giapponese e
lo stesso atto di inserirne una nella storia deriva dalla concezione
nipponica del bagno, in cui le persone condividono un momento di pace e
profonda intimità insieme.
4.
Però, essendo Unima una regione fortemente americanizzata,
anche alle ragazze sembra piuttosto strano. Inserire un posto in cui il
fanservice faccia da padrone era lo scopo vero e proprio, se devo
essere sincera...
5. Sia
Catlina, che Camilla provengono dalla città di Memoride,
hanno la stessa età e ammettono di conoscersi a vicenda da
quando erano piccole. Tutto è canonico e confermato nei
giochi e nell'episodio dell'anime in cui si scontrano (che ho visto
ventordicimila volte).
6. Ho
scritto questo capitolo tutto in una notte per far sì che il
mio vecchio correttore di bozze lo trovasse pronto dal sabato per la
domenica: a mezzanotte meno un quarto ero così fusa dallo
scrivere che avevo perfino pensato di far perdere Camilla. Mi sono
corretta prima di commettere una blasfemia colossale nei confronti
della santa leader, tranquilli.
7. Per
editare questo capitolo sto usando Open Office perché in 7
miliardi di computer al mondo quello di mia zia è l'unico a
non avere Word. Credeteci. Oh, e caro HTLM di Efp: ti odio. Ti auguro
un parto doloroso plurigemellare con Jack lo Squartatore come
assistente di maternità.
Update: ho un computer nuovo ancora e il mio papà, a cui
piace troppo la legalità, ha pagato euri in più
per il pack di Windows.
Grazie papi, ma stavolta non serivia.
8.
Sebbene io sia apertamente contro gli OC (= original characters,
personaggi creati dai fan e poi inseriti nei vari fandom), i personaggi
di Giulietta e Marina mi erano utili per lo sviluppo caratteriale di
Catlina e Camilla. (insomma, non prendetemi per ipocrita, ma non potevo
costituire i capitoli in cui appaiono come infiniti monologhi
interiori, capitemi...)
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Capitolo 6 *** Legami attraverso il tempo ***
ESGOTH 5
❁
A story
by: Momo
Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing: 🍦
Seguiteci
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Early
Summer Girls
❁
Capitolo
6
Legami
attraverso il tempo
«Ma
siete serie?!»
Reagì Iris di impulso, non credendo a tali parole.
«Ma
che cosa...»
La ripresero Anemone e Camelia, esibendo uno sguardo sconcertato e
incredulo in perfetta sincronia.
«Se
ve lo stiamo dicendo in prima persona non possiamo che essere
serie.»
Le rispose Catlina con il dire più rilassato e calmo che
aveva.
I suoi occhi però trapelavano un alone di inquietudine e
preoccupazione.
C'era
chi voleva lei e Camilla morte. Proprio loro, in tutta la regione, in
tutto l'universo.
Dalla
disfatta nell'onsen, le due bionde avevano
riflettuto a lungo sull'accaduto, senza però mai menzionarlo
direttamente, come un grosso nodo alla gola che le stava strangolando
con il terrore di venire di nuovo attaccate. Per scioglierlo avevano
deciso di riferire tutto sia a Nardo, sia alle loro compagne
più giovani.
«Allora
cosa dobbiamo fare? E perché vi hanno attaccate?
Ma sopratutto... Come avete fatto a combattere senza
Pokémon? Nardo non ci autorizza a tenere con noi i nostri
Pokémon quando non stiamo lottando...»
Domandò
Iris sospettosa, per distrarsi dal pericolo e per colmare questo dubbio
che sembrava insignificante, ma costituiva un vero e proprio buco nel
senso dell'accaduto (la ragazzina effettivamente non era a conoscenza
del "posto nascosto" in cui la Campionessa di Sinnoh nascondeva le sue
Poké Ball...).
Tutte
si guardarono un attimo intorno. Da dove nascesse tutta quell'ansia era
un mistero.
Camilla
aveva parlato di ragazze vestite di nero che l'avevano attaccata, di
una lotta abbastanza straziante, di mosse potenti, di una vittoria
inaspettata... Una favola al vento.
Eppure
tutte e cinque le ragazze si sentivano a disagio, come se si trovassero
nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Iris
aveva notato la loro ansia dal fatto che tutte avevano gli occhi bassi.
Non aveva idea se dovesse abbassarli anche lei in compatimento.
«Nardo
che cosa ha detto?» Domandò.
Le
dolevano i muscoli dall'ingiustificata tensione.
«Dobbiamo
parlare con una persona riguardo ciò.» Le rispose
secca Catlina.
«Ci
deve informare sul da farsi. Non vorrebbe che accadesse nulla alle
future Campionesse.»
La ammonì Camilla.
«Davvero
strano: detta così sembra la trama di qualche anime di
seconda categoria...»
Fu Anemone a commentare a bassa voce, rigirandosi tra le dita una
ciocca dei suoi capelli rossi.
Poi
rimasero ancora in silenzio, come quando si erano conosciute.
Era
da quasi mezz'ora che continuavano a discutere davanti a bicchieri di
bevande gasate svuotati senza trarre conclusioni. Come se scagliassero
colpi senza una meta precisa, che inevitabilmente finivano per fallire.
Precedentemente
le cinque ragazze avessero imparato a ridere all'unisono; ora si
ritrovavano sedute in cerchio, a condividere inconsciamente quella
preoccupazione ed estenuante ansia.
Quanti
brutti sentimenti restavano ancora, prima di poter ritornare a
condividere quelli belli con quelle ragazze? Se lo domandava la
ragazzina dai capelli violetto, mentre si osservava dubbiosa le maniche
dello yukata,
che lei e le altre indossavano ormai come una seconda pelle.
Si
consolò, pensando che non era sola in quella sventura
immonda. Doveva infatti dividere tutto quel suo stress per altre
quattro persone. Più coloro che si occupavano di proteggerle.
«Ragazze,
la Professoressa vi aspetta.» Era la voce di Nardo.
Le
cinque Allenatrici si alzarono, sospirando ancora aria pesante.
A passi lenti seguivano Camilla attraverso la casa del Campione, verso
la sala principale.
«Però...
Certo che siete davvero delle brave compagne... - pensò bene
di dire Camelia per smorzare la situazione - andate a fare un bagno e
non ci invitate! Quando non vi inviterò alla mia prossima
sfilata mi inventerò una storia credibile quanto quelle dei
cartoni che guarda Anemone!»
E diede una leggera spinta con le dita alla spalla di Catlina, ridendo.
La
ragazza bionda la guardò come per rimproverarla, ma decise
di non risponderle, per evitare di sembrare una suscettibile e
permalosa.
«Certo
che voi modelle siete proprio ignoranti... Si chiamano a-ni-me!»
Le ribatté Anemone, infastidita dal fatto che una sua amica
avesse preso in giro la sua più grande passione.
Infine
Iris rise piano. Era contenta che in quei momenti ansiosi e seri ci
fosse qualcuno così disposto a tirarla su di morale.
❁
Le
cinque si inginocchiarono rispettosamente su dei cuscini adibiti
nell'atrio. La stanza era abbastanza larga e luminosa che la atmosfera
da claustrofobia precedente si era dissolta come neve sotto i raggi del
sole primaverile.
Iris
si sentiva quasi un peso levato di dosso in quell'ambiente.
Finché il sole splendeva fuori abbattersi alle paure del
futuro le era impossibile.
Ma
quel senso di libertà se lo tenne dentro, stretto stretto:
in quella circostanza doveva far la parte della rispettosa, lasciar
parlare le sue compagne e ascoltare diligentemente, o la vita di
qualcuno sarebbe stata messa in pericolo.
Si
continuava a fissare le maniche decorate dell'abito: le decorazioni
variopinte ricamate sull'abito catturavano la sua attenzione qualora
non sapesse dove guardare.
Dalla
luminosa porta finestra si intromise tra i suoi pensieri una donna;
alta, dai capelli raccolti ordinatamente sopra la testa, con addosso un
elegante camice azzurro.
Un esemplare di Minccino osservava le cinque ragazze con occhietti
curiosi.
Una buona prospettiva, per colei che avrebbe dovuto guidare le ragazze
in quel difficile momento.
Tutte
le giovani Allenatrici abbassarono il capo in segno di rispetto.
«Calfuray,
Reyes, Taylor, Yamaguchi, Kuroi.»
Ciascuna
di loro trasalì sentendo il proprio cognome pronunciato con
quella risolutezza.
La donna le guardò serie.
Poco dopo però i suoi zigomi si rilassarono in un radiante
sorriso.
«È
molto strano chiamare delle ragazze della vostra età in
maniera così formale, non credete? Lasciate che mi presenti.
Sono
la Professoressa Aralia Juniper. Lavoro per il centro di ricerche di
Soffiolieve, e mi occupo dello studio dei Pokémon,
specialmente limitato a quelli della regione di Unima.
Di
solito sono sempre occupata all'iniziazione degli Allenatori, sapete
com'è, consegnare loro il Pokédex, lo starter...
Ma Nardo ha richiesto la mia presenza.
Mi
ha già riferito tutto a proposito dell'attacco, ha ripetuto
esattamente le vostre stesse parole.
Me lo confermereste un'ultima volta, come
formalità?»
Camilla
e Catlina si guardarono confuse, per poi ricomporsi subito, evitando di
esitare nella confermazione di una cosa così seria, che non
poteva assolutamente avere un margine di falsità.
«Si.»
Risposero in coro. Rispondere in perfetta sincronia dava alle due la
sensazione di una impercettibile unione: in fondo, le loro voci
suonavano bene insieme.
«Ci
sono particolari che non mi sono stati riferiti?» Le
interrogò di nuovo.
Dopo
un secondo di silenzio, la leader si fece avanti con voce sicura, come
sempre.
Iris
non riusciva davvero a concepire che esistesse gente come Camilla
Kuroi, così incredibilmente priva di difetti, o
così tanto brava nel nasconderli e simulare quell'immacolata
perfezione morale.
«In
effetti sì. Durante la lotta una delle avversarie, aveva i
capelli blu se non mi sbaglio, ha ordinato al suo Empoleon di usare
Idrocannone.»
«Nardo
me lo ha riferito, - la interruppe la professoressa, con tono
sospettoso - continua.»
«La
mossa avrebbe dovuto colpire il mio Pokémon, ovviamente. Ma
il getto è stato lanciato in modo che non lo sfiorasse
nemmeno: infatti ha colpito me, in pieno.
Io mi chiedo - Camilla fece una pausa, per riflettere -
perché una mossa così potente non è
stata usata per colpire il Pokémon ma l'Allenatore in
persona?»
Iris,
Camelia, Anemone e Catlina la fissavano impietrite da un'osservazione
tanto arguta. Un dettaglio così strano poteva davvero avere
un peso. Erano davvero preoccupate, ma non potevano non ammirare che
quella ventenne da Sinnoh fosse geniale.
La
professoressa la guardò meravigliata, nonostante pochi
secondi dopo si fece cupa in viso, riflettendo silenziosamente, con un
ansia crescente nel profondo.
Se
durante una lotta un Allenatore ordinava al proprio Pokémon
di attaccare l'Allenatore avversario, era una colpa pari ad
un'aggressione volontaria.
I
Pokémon e gli umani erano stati designati per la convivenza
pacifica e la collaborazione reciproca: attaccare e ferire un proprio
simile, anche fosse un nemico, era considerato reato dalla legge di
ogni regione.
E quindi, chi metteva in atto tale crimine non era altro che un
criminale.
Così diceva la legge: a Kanto, a Johto, a Hoenn, a Sinnoh e
ovviamente anche a Unima.
«Se
vi avesse colpite secondo la volontà
dell'Allenatore...»
Cominciò
la professoressa.
Era
ovvio. Una mossa tanto potente quanto precisa come Idrocannone non
poteva permettersi di fallire un colpo per sbaglio, specie a
così ravvicinata distanza.
E il dolore provato sulla pelle e il colore del sangue perso in
quell'impatto Camilla non li avrebbe mai associati al caso.
La
professoressa riprese, con tono teso e basso, come si trattasse di una
nefasta predizione.
«...
Sareste state testimoni di una battaglia violenta.»
In
quel preciso istante, con quelle taglienti parole un pezzo di cuore fu
reciso a ciascuna delle innocenti ragazze che, indossando i
loro yukata, avevano sempre considerato
la lotta, un legame profondo che legava gli umani ai Pokémon
e viceversa.
Era
piuttosto deludente, anche se necessitavano chiarimenti.
Battaglia
violenta...
Il solo sentirlo menzionare aveva richiamato nella mente di Iris una
delle tante parole, forse un vero e proprio insegnamento di suo nonno
Aristide.
Quando
si è ancora bambini la capacità di ascoltare e
accogliere ogni nuovo concetto come utile sia nel presente che nel
futuro è davvero alta: involontariamente nella mente della
ragazzina si era cristallizzato il ricordo di molte conversazioni, di
discorsi non immediati, ma abbastanza nitidi per essere rievocati con
una parola chiave.
Aristide,
come Capopalestra, aveva accumulato talmente tanta esperienza a
proposito di Unima, la sua regione natale, che non trasmetterla ad una
creatura a lui cara sarebbe stato egoista.
Iris
era quindi cresciuta sotto discorsi, leggende e storie che le
generazioni di Unima si tramandavano, anche inconsciamente.
La
regione infatti, vantava di una storia culturale che non si limitava ad
una cronologia di eventi in successione, ma il tempo aveva fondato
radici mitiche sul suo suolo, dandole quasi un'origine attribuita a
Pokémon Leggendari e a bellicosi popoli.
La
giovane ricordava che alla dichiarazione della costituzione della
regione era stato stabilito che la lotta, al di fuori degli scopi
pacifici, era illegale.
«Ma
questo tipo di lotte non era stato dichiarato illegale, se non sbaglio,
dopo la fine della guerra che ha interessato Unima?»
Domandò ad alta voce, in preda alla curiosità e
al timore allo stesso tempo, in cerca di conferma da parte di qualcuno
più esperto di lei.
«Esattamente.
Ma a quanto pare esistono ancora organizzazioni criminali che ne fanno
uso...»
Le
rispose la professoressa Aralia, con tono deluso.
«Organizzazioni
criminali, dice?» Fioccò un'altra domanda, questa
volta di Anemone.
«Ragazze,
vi ricordate?» Iris si illuminò.
La
sua memoria selettiva, che ricordava solo le cose più
importanti, era il suo asso nella manica.
«...ricordare
cosa?» Le arrivò in risposta, con tono acido.
Ovvia
confusione generale, mista ad occhiate interrogatorie che sembravano
dirle di tacere e non aprire più bocca per sparare
sciocchezze a vanvera.
Finché la ragazzina dai capelli violetto non avrebbe
completato la frase, nessuno avrebbe capito nulla, come da
cliché.
Camilla
le rivolse uno sguardo comprensivo; aveva capito che Iris non avrebbe
parlato sotto tutta quella tensione.
"Continua." Le disse, poggiandole delicatamente la mano sulla spalla.
Così
Iris fece un respiro.
«Tutte
voi l'anno scorso ricoprivate il titolo che avevate prima di arrivare
qui?
Nel senso, eravate tutte Capopalestra, o Superquattro, o no?»
Eppure
ogni minimo dettaglio lei lo ricordava.
«Sì,
era un anno fa. In estate, una delle tante estati che ho passato a
Boreduopoli, con mio nonno.
Eravamo
usciti per una passeggiata, quando in mezzo alla piazza si era radunata
una grande folla. Una folla trepidante, sottovoce si faceva domande,
scambiava commenti silenziosi e osservazioni sarcastiche.
E
a parlare lì in mezzo c'era un tipo dai capelli verdi, molto
alto, per mia opinione... affascinante. Come molti vociferavano si
faceva chiamare N.
Così, con una semplice consonante, e si diceva fosse il capo
di un'organizzazione misteriosa chiamata "Team Plasma".
«I
Pokémon sono compagni insostituibili per gli umani... Il
loro abuso è contro la legge che dai tempi remoti controlla
questa regione... Il nostro legame non dipende dalla forza, ma
dall'amicizia... Nessuno deve lottare per i propri fini, o a danno del
prossimo...»
Come un profeta predicava queste parole.
Io
ne ero rimasta persuasa in qualche modo... La giustizia mi sta molto a
cuore e credo che nessuno sia mai riuscito a capire questo concetto
più dei Pokémon con cui ho passato molta della
mia vita.
Qualche
mese dopo quell'incontro nella piazza le cose sono cambiate.
Aristide,
un giorno, è stato chiamato insieme ad altri Capipalestra
per una missione davvero importante, di cui però ha dato
vagamente il resoconto: ha detto solo che nell'organizzazione aveva
preso il comando un uomo scellerato, che ha trasformato gli scopi
pacifici in un piano di conquista e sottomissione dell'intera regione,
causando distruzione e rovina all'interno della nostra cara Unima.
E
da quel giorno non si è più parlato di
ciò, non si è più parlato di N e di
cose come la libertà e la giustizia; tutti hanno finto di
dimenticare un pezzo di storia, come se tutto quel disastro non fosse
accaduto se non pochi giorni prima.
Team
Plasma... Non so se si tratti della stessa organizzazione che ha
aggredito Catlina e Camilla... Ma credo che quelle divise non me le
scorderò mai più.»
«Aspetta...
- la fermò Anemone - anche a Boreduopoli ci sono state? Me
le ricordo anche io! A Ponentopoli, anche nella nostra piazza, lo
stesso N con le stesse reclute! So che era un anno fa perché
ho ricevuto la stessa chiamata degli altri Capipalestra!»
Le rispose, entusiasmata da una preoccupazione nascosta.
«La
stessa chiamata al castello di N? Strano, non ti ho riconosciuta quando
eravamo lì. E dire che dovremmo aver lottato insieme...
Certo che mi ricordo quel giorno, ero a letto con il mio ragazzo quando
ci hanno chiamati.»
Si
intromise anche Camelia, sorridendo a quelle combinazioni del fato.
«Cosa
c'entra il tuo ragazzo ed i vostri, come dire, "affari privati" in
tutto questo?» Le domandò la rossa.
«Tu
invece cosa stavi facendo in quel momento? Qualcosa di
meglio?» Controbatté Camelia, con apparenza
velenosa.
«Beh,
vediamo... Ah, sì che mi ricordo! Ero nella mia stanza che...
Leggevo
un manga in cui il protagonista doveva risvegliare un drago da una
pietra per salvare il destino del suo paese e sconfiggere i cattivi ma
poi rimane bloccato nella trasformazione e rischia di sparire lasciando
la protagonista femminile che è segretamente innamorata di
lui...
...Ma mi state ascoltando?!»
La
ragazza interruppe il suo farneticare da fanatica sfegatata.
«Allora
lo vedi come c'entra anche la tua noiosa e tristissima vita da nerd,
Anemone?»
La modella le diede il colpo di grazia.
«Oddio.»
Ad Iris venne un mezzo attacco di cuore.
«Cosa
c'è?» Le domandò la compagna
più grande, leggermente preoccupata.
«Ho
letto anche io quel manga.» Ammise lei, fiera di se stessa.
«Ho
assoluto bisogno di persone normali con cui conversare, ora.»
La mora fece finta di essere sull'orlo della disperazione, coprendosi
il viso con le mani completamente sconcertata.
«Parla
quella che cambia fidanzato come ci si cambia i vestiti!»
Iris
si accorse di aver esageratamente alzato la voce facendo la classica
figura della bambina irascibile, ma non poteva farne a meno: sentire la
compagna dai capelli neri che parlava incessantemente di tutti i suoi
moroso occasionali e delle loro caratteristiche come se elencasse i
Pokémon del Pokédex Nazionale la irritava
parecchio, visto che non ci voleva molto a capire che lo faceva per
vantarsene.
Prima
che potesse almeno avere un secondo per respirare, percepì
alle sue spalle un:
«Se non vuoi sentire tappati le orecchie, questi non sono
discorsi per bambine.»
Ed
in risposta anche il fatidico: «Aspetta, ma era rivolto a me
o a Iris?» della rossa.
Le
tre ragazze più giovani partirono d'improvviso in una feroce
litigata, che consisteva pragmaticamente parlando nella sovrapposizione
tutt'altro che soave dell'esposizione dei loro punti di vita gridati a
squarciagola pur di sovrastare le altre tutt'altro che calme
interlocutrici.
«Possiamo
far passare dieci minuti senza che una di noi non parli ad alta voce
dei propri fatti personali e concentrarci sul problema in
se'?»
Chiese
Catlina che ormai era esasperata da tutta quella confusione.
Le ragazze ad Unima, a suo parere, erano decisamente molto rumorose
nell'indole.
«Tu
che stavi facendo durante il momento dell'attacco alla Lega,
Catlina?»
Le fu chiesto in modo piuttosto impertinente da Camelia, che sembrava
avere intenzioni tutt'altro che benevole nei suoi confronti.
Decise
di non risponderle, vista la sua spudorata mancanza di rispetto, ma
fece l'errore di voltare la testa troppo velocemente, dando
l'impressione di voler evitare apposta la domanda.
«Oh,
- Anemone la osservò stupita, poi si rivolse visibilmente
stizzito - siete davvero crudeli, la continuate a mettere in
imbarazzo...»
Iris
volle farsi avanti, sentendo il suo cuore bucarsi a quelle parole
così accusatorie. Sapeva che ormai non avrebbe
più sopportato osservare sugli altri la sofferenza che aveva
provato lei nell'essere ignorata.
«Mi dispiace tanto... Forse stavi passando un momento
difficile...» Ma fu interrotta.
«Ma
se stavo semplicemente dormendo!»
Fu una rara occasione assistere alla composta biondina che scomponeva
improvvisamente il suo carattere.
«Erano
le tre di notte quando l'attacco del Team Plasma è avvenuto,
voi non avete seriamente nulla di meglio da fare a notte fonda, se non
dormire?!»
Cercò dopo poco le sue dovute spiegazioni più
civilmente, con un leggero sconforto nella voce.
«Evidentemente
tutte voi non avete niente di meglio da fare, sfigate che non siete
altro.»
Camelia scoppiò visibilmente a ridere, mentre Anemone si
lasciò cadere letteralmente all'indietro affogando tutta la
serietà di quella discussione a cui era appeso il destino
della regione.
E
poco dopo perfino le due ragazze più anziane decisero di
rompere quella scena di serietà forzata.
Solo
i supereroi, i guerrieri e i duri a sangue freddo sanno affrontare le
situazioni di massima difficoltà senza piangere e ridere,
guardando sempre dritto, senza fermarsi o indugiare.
Ma
loro erano comunque ragazze, dopotutto.
Affrontare
la realtà con quello stoicismo spaventoso non faceva per
loro, assolutamente no.
Il
passato, ovvero gli eventi trascorsi e non più modificabili,
non è una via stretta e individuale, propria di ciascuna
persona. Il passato è più definibile come un
enorme labirinto dove nessuna curva, nessun sentiero e nessun muro
è uguale e dove ogni minuscolo essere umano dissemina le
proprie esperienze di vita.
Basta
solo però che due persone si incontrino per pura
casualità nel medesimo punto per ritrovare quell'unico
sentiero fatto di ricordi comuni ed esperienze vissute
contemporaneamente per ripercorrere una strada di stadi e conseguenze
che si ripercuotono nel presente.
Il
destino, invece, subentra solo nella parte in cui le due o
più persone si rincontrano, chissà dove e
chissà quando, per ricordare il loro passato insieme.
Iris,
Camelia ed Anemone avevano avuto come punto comune la stessa origine,
l'essere state presenti nella stessa regione nello stesso predestinato
momento, ed aver vissuto insieme la sciagura del Team Plasma.
Mentre
le tre ragazze stavano cercando di chiarire, di esporre e mettere
insieme il poco che sapevano alla professoressa sorse un dubbio.
«Se
tutte e tre siete a conoscenza di questo "Team Plasma", è
possibile che i delinquenti che hanno aggredito le vostre compagne
siano la stessa organizzazione?»
La
domanda necessitava davvero di una lunga riflessione.
Calò il silenzio, per facilitarla.
Con
il coraggio di un legame dal passato Iris provò a
rispondere, con la stessa concentrazione necessaria per un difficile
compito in classe.
«Beh,
sappiamo entrambe che erano vestiti di scuro... È
qualcosa.»
«Tutti
i membri di organizzazioni criminali si vestono con colori scuri.
È troppo vaga come ipotesi.
Anche il Team Galassia che aveva creato tutto quella confusione a
Sinnoh qualche anno fa era perennemente vestito di nero, e con
questo?»
La contraddisse Catlina, in modo fermo. Sperava con tutto il cuore che
lei e Camilla non fossero le vittime di gente tanto infame.
«Non
c'è qualcosa di più distintivo? Non lo so... Tipo
un accessorio, un simbolo, una scritta... Insomma, qualcosa che nel
giro di un anno non sia cambiato...»
La incitò Anemone, che si stava davvero interessando alla
faccenda, ed aggiungendo:
«Oddio, mi sento troppo in una di quelle serie lunghissime ed
intricatissime sui detective.»
E
ancora, fu Camilla a dare prova della sua intelligenza, che non
riusciva a far tacere, anche se la sua ipotesi potesse essere
sbagliata. Prima si prova, poi si cambia idea.
"Potrebbe
essere qualcosa come una Spugna di Menger sul fianco sinistro?"
Disse
con tono profondo, attirando l'attenzione di tutto il gruppo, come
faceva sempre grazie al suo carisma.
Si
riferiva allo strano accessorio di Georgia, che doveva aver ereditato
dal leader precedente.
«Una
che cosa?!» Partì acida come un pompelmo la
domanda di Camelia.
«La
Spugna di Menger, frattale tridimensionale derivato dal tappeto di
Sierpiski e dimostrazione topologica del teorema di Cantor;
definizione: il cubo unitario è uguale alle tre dimensioni
del cubo ovvero altezza, larghezza e profondità
rappresentate da tre numeri sottratte ai tre enti geometrici basilari
cioè punto, linea e piano a cui si aggiunge il solido
completo che appartengono all'insieme erre dei numeri reali e si
rappresentano rispettivamente con zero, uno, due e tre; e dal teorema
di Heine-Borel scopriamo che possiamo ricavare il suo spazio
frattale...»
«Anemone,
ma ti sembra vagamente una spiegazione comprensibile ad un essere umano
dotato di intelligenza, diciamo, normale e vita sociale?!»
«Si
chiama, diciamo, - caricò particolarmente tale espressione,
pur di farla pesare alla compagna il più possibile -
"matematica" e la insegnano a scuola, certo che Camelia, a volte sei
proprio bionda dentro!»
«...era
un insulto a noi ragazze bionde?» Domandò
timidamente Catlina, che si osservò i lunghi capelli simili
a fili di seta con un certo disgusto apparente.
A
quel punto la ragazzina dal kimono viola si rese finalmente conto di
non sapere più che discorso stessero seguendo la sua mente e
le sue orecchie (che non si era tappata, nonostante il presagio nefasto
dei precedenti ed innumerevoli fidanzati di Camelia come principale
argomento di conversazione). Si sentiva severamente confusa.
E
piuttosto inutile, sebbene non ritenesse altrettanto necessari tutti
quegli scambi di battute dai quali si era volontariamente distaccata
non comprendendone ne' la causa ne' le conseguenze.
Serviva
davvero un moderatore in quei momenti, come nei simposi greci era
sempre il padrone di casa a destare gli ospiti ubriachi e furibondi
dalle loro ciance per indirizzarli verso argomenti di conversazione
più seri ed utili.
Tale ruolo fu impersonato, senza farla aspettare troppo dalla leader in
persona.
«Ragazze.»
Disse
con assoluta calma e gentilezza, al contrario dell'urlo poderoso ed
intimidatorio che Iris si sarebbe augurata di sentire.
Tuttavia l'effetto fu lo stesso ma senza perdite inutili di voce, con
le tre giovani litiganti che si girarono diligentemente verso la
bionda, ammutolite di colpo.
«Immaginate
un cubo.» Esortò il gruppo Camilla, figurando un
cubo immaginario con le dita.
Siccome
ciò che la ragazzina aveva chiesto interiormente con
particolare ardore era una spiegazione facile da seguire e poco
confusionaria iniziò subito il ragionamento, immaginando
prima un cubetto di ghiaccio, una zolletta di zucchero e infine un
banalissimo ed astratto cubo di legno, come trasportando il mondo delle
idee dentro quello delle cose concrete, nel suo cervello.
«Ora
immaginate di tagliare questo cubo in ventisette cubi più
piccoli, come un cubo di Rubik.
Ora
viene il bello: bisogna rimuovere il cubo centrale di ogni faccia e in
più quello più nascosto al centro. E poi fate la
stessa cosa con i cubi che sono rimasti.
E
andate avanti su tutti gli altri, sempre più piccoli, fino
ad arrivare ad ottenere cubi di dimensioni infinitesimali.»
Tutte
e cinque seguirono attente quel ragionamento.
«Ma
sapete cos'è davvero interessante della Spugna di
Menger?»
Qui Camilla lasciò trapelare decisamente molto
più entusiasmo e senza indugio riprese a parlare.
«Il
fatto che contemporaneamente esista e non esista.
Certo,
la sua area frattale si può calcolare tranquillamente con la
formula che Anemone aveva accennato, è un numero che va via
via diminuendo in base ai cubi che si rimuovono fino ad essere
infinitamente piccolo, ma il rapporto dell'area totale e del numero di
cubi creati è un numero reale: il numero uno.
Però
tutto questo non sarebbe mai possibile nella realtà.
Se togliamo tutti quei blocchi, quell'oggetto finisce per scomparire,
no?
Che
paradosso, la sua area è zero ed uno contemporaneamente.
È materia ed antimateria, ente e nulla allo stesso tempo.
Credete che sia un caso il fatto che...»
Iris
stava davvero per gridare dalla sorpresa.
Lo
sapeva: quella... Cosa, per cui Camilla si era disturbata a trovare un
nome, la indossava anche il tizio dai capelli verdi! Non ricordava
precisamente se la portasse sul fianco destro o sinistro, ma il fatto
che quella Campionessa avesse intuito il suo stesso ragionamento la
sbalordiva.
Non
poteva essere telepatica quella ragazza... Ma a lei non importava.
Iris
scusava la sua inferiorità semplicemente con il fatto che
Camilla fosse perfetta, e che le persone perfette facciano le cose
perfettamente nel momento perfetto, grazie alla loro perfezione:
l'anafora delle scuse palesi, insomma.
«Si!
Esatto. Me la ricordo perfettamente: aveva detto, intendo, N aveva
detto che era una metafora di un mondo infinito, una specie di utopia
che c'è ma non è realizzabile e che nasce dai tre
fattori di collaborazione, lealtà ed empatia...
Più o meno come Anemone ha detto.»
«Che
dolce, hai davvero ascoltato il mio discorso?» Le chiese la
diretta interessata.
«A-A
dire la verità ho capito solo che hai detto qualcosa sul tre
e... poi mi sono persa. Sono una frana in matematica. E in scienze. E
in letteratura.
Però non sono bionda.»
Ammise
Iris, conscia di star causando chissà che danni psicologici
all'amica rossa.
Tuttavia
Camelia strofinò affettuosamente la testa color scarlatto
della pilota, che le sorrise.
A quest'ultima faceva davvero piacere che fosse proprio Camelia ad
apprezzare il suo ragionamento, le sorse persino la speranza
di poter ricambiare con delle lezioni accelerate di matematica
topologica a tutte le volte Camelia le stava dando una solida
istruzione nella materia in cui era sicura di avere un profitto
piuttosto carente, l'amore.
La
professoressa si riprese dallo stupore di vedere un gruppo di
avversarie così unito e annunciò ciò
che ormai era ovvio, distraendo le cinque da quell'apparente
tranquillità.
«Allora
è confermato? Team Plasma, giusto? Credo che vista la
ferocia delle sue reclute avrete del filo da torcere.»
Per
confermare la loro ipotesi, la professoressa avrebbe ovviamente svolto
adeguate ricerche una volta ritornata al suo laboratorio.
Era
davvero preoccupata per quelle giovani Allenatrici: era un vero peccato
che dovessero affrontare una serie di torture dalle quali erano
totalmente innocenti.
Certo
che la giustizia non è proprio di questo mondo.
«Abbiate
cura di voi stesse. La regione di Unima ha fiducia in voi.»
La professoressa se ne andò, lasciando le ragazze con ancora
dei dubbi.
❁
I
silenzi non erano più così frequenti per le
ragazze. Avevano capito che la comunicazione fra di loro era tutto,
dato che non sapevano ancora intendersi al volo.
Cercarono
tutte per l'ennesima volta l'aiuto di Camilla, che sembrava
già avere la risposta.
Iris
si domandò un attimo se Camilla non si sentisse esaurita da
tutta la fiducia che veniva riposta in lei.
Doveva avere abbastanza sicurezza di non deludere nessuno in quel suo
cuore gentile e coraggioso.
Intravedeva
attraverso la stoffa bianca del suo yukata le fasce che racchiudevano
le ferite, e avrebbe fatto, nel suo piccolo, qualsiasi cosa
affinché avesse avuto vendetta.
«L'unica
cosa che possiamo fare è stare in guardia. Non abbiamo
informazioni in merito a tutto questo, ma se continuiamo ad allenarci
saremo in grado di evitare altri attacchi a sorpresa.»
Concluse la Campionessa, sistemandosi il ciuffo biondo sull'occhio
sinistro.
«Si,
ma tu hai idea di come funzioni una lotta violenta? Io, personalmente,
non ho mai lottato per uccidere un Allenatore.» Le
ricordò Camelia.
Nessuna
di loro cinque aveva nel cuore talmente tanto odio e mania di sangue
per uccidere. Erano tutte troppo innocenti, troppo immotivate.
La
Campionessa rifletté un attimo.
«Sarei davvero curiosa di sapere da dove sono nate queste
lotte violente...»
Ancora,
Iris si ricordò di qualcosa.
La
sua mente aveva viaggiato nel tempo per la seconda volta e aveva
riportato alla luce un tesoro che all'apparenza pareva una vecchia
cianfrusaglia senza valore.
Una
canzone.
Una canzone che ricordava intonare con la sua voce acuta e nasale
quando era bambina.
Quando
era piccola non faceva caso al significato delle parole, ma ora che ci
rifletteva, prendendo singolarmente ogni frase si componeva il vero
senso della storia.
Se
la ripeteva in mente, avendo capito perché da generazioni e
generazioni i bambini della regione di Unima la cantassero e
ripetessero come un gioco.
In
qualche modo i legami del tempo erano stati capaci di connettere la
ragazzina ad un passato lontano e dimenticato... E di disconnetterla
dal mondo reale.
Iris
infatti non si era accorta di stare canticchiando a bassa voce,
finché non si sentì scrollare con forza le spalle.
Appena
riprese conoscenza non poté fare a meno di sprofondare in un
intuitivo imbarazzo.
Eppure nessuno la stava deridendo. Un vero e proprio miracolo?
No.
Iris doveva togliersi dalla testa che quelle cinque fossero ragazze
normali, disposte a prendere in giro qualsiasi gesto di cui non
conoscevano la motivazione.
Come lei, volevano la giustizia.
«La
canzone che stavi cantando... La conoscete anche a Boreduopoli? Non lo
sapevo! Credevo che l'avessero inventata a Ponentopoli.»
«Non
credetevi unici, la sappiamo anche noi del centro di Unima.»
«Ehi,
voi di Sinnoh la conoscete?»
«Si,
è abbastanza famosa anche nella nostra regione.»
«Se
una canzone è un grande pezzo di storia non può
passare inosservata, giusto?»
Le
ragazze si guardarono e sorrisero.
Lo sapevano che in un modo o nell'altro condividevano tutte lo stesso
passato.
"Uno,
due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci,
La Pokéball dove andrà sei io la
lancerò?
Nella
regione viveva un vecchio e saggio re, padre di due giovani cavalieri:
Uno era bianco come la verità, l'altro nero come gli ideali,
Tra i due una guerra scoppiò, e... e... Un Drago si
risvegliò.
Fuoco,
lampi, venti, fulmini,
La terra si copre di rosso sangue, mentre il Drago brucia tutte le
città.
Il
Cavaliere Bianco era forte e gentile, voleva per tutti una sola
verità,
Il Cavaliere Nero era un vero uomo che combatteva per le proprie idee.
È un vero peccato che... alla fine... Morirono
entrambe.
Si
corre, si scappa, ma tutti vedono che la regione è morta
insieme a loro.
Un Allenatore piange sotto la luna.
Uno,
due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci,
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci,
Lanciamo la Pokéball verso la libertà!"
«Ora
capisco...» Sospirò Camilla.
❁
La
giornata era ancora lunga, ma dopo tutti quei discorsi Iris non aveva
la minima voglia di cominciare gli allenamenti pomeridiani.
Quello
che la aspettava lo sapeva: lotte per incrementare l'attacco, la
difesa, la velocità, la resistenza... E poi sempre contro le
sue quattro compagne, le stesse di ogni giorno, sempre bravissime,
sempre fortissime.
Da
quando era lì e Nardo aveva insistito affinché le
ragazze lottassero una contro una, Iris non aveva vinto una sfida.
Anche
se si impegnava non poteva certamente confrontare la propria
abilità in lotta con quella di due Capopalestra, una
Superquattro e perfino una Campionessa, come una formica non
può assolutamente misurarsi contro un elefante.
A
dire la verità il problema erano lei e la sua eccessiva
competitività: questo è uno dei peggiori veleni
che possono intossicare il cuore di un Allenatore.
Come
in ogni competizione, in lotta si vince e si perde.
Accettare
l'esito di una lotta significa trattenere una parte di sé,
in modo che i propri sentimenti non feriscano in nessun modo l'animo
del proprio avversario: se si vince si trattiene l'orgoglio e la
vanità, se si perde si trattiene la rabbia e la delusione,
se si pareggia la frustrazione e l'indifferenza.
Ciò
che rende una lotta indimenticabile (che si tratti di
Pokémon o di vita) non sono le mosse o l'esito, ma i
sentimenti trattenuti nel proprio cuore, che si imprimono nella memoria
come un ricordo eterno: se però questo ricordo diventa
pesante, aspro, pieno di rimorsi e di umiliazione si desidera poterlo
modificare.
La
ragazzina di soli quindici anni riteneva di aver ricevuto
più sconfitte che vittorie nel corso della sua vita.
Ognuna
di queste sconfitte si era impressa in lei e gli errori
involontari che l'avevano portata al fallimento non smettevano
di tormentarla neppure fuori dalla lotta.
Era
un comportamento davvero infantile, lo sapeva, ma Iris non sapeva
perdere.
Eppure veniva sempre descritta come una ragazzina solare, gentile,
altruista... ma che odiava che le sue debolezze fossero mostrate agli
altri.
Nessuno doveva avere accesso al suo dolore, e finché gli
altri non lo vedevano neppure lei lo vedeva.
Eppure
il suo rifiuto di lottare era ingiustificato dal momento che le quattro
ragazze si dimostravano abbastanza gentili e comprensive nei suoi
confronti, senza prenderla in giro o commiserarla (ad eccezione di
Camelia che ormai traeva un sadico divertimento dal suo bullismo contro
di lei).
Ma
Iris voleva di più, spinta dalla sua stessa
curiosità.
Davvero
la potenza che Anemone, Camelia, Catlina e Camilla utilizzavano nello
sconfiggere lei e la sua squadra era sufficiente a vincere una vera
lotta?
Iris
voleva vedere quelle giovani nel pieno delle loro forze, utilizzare i
loro Pokémon più potenti e mettere in atto le
strategie che rivelassero la loro astuzia e bravura in lotta.
Sapeva
che le ragazze fanno di tutto per abbattere i loro rivali, e qualora le
fosse capitato di vedere Allenatrici professioniste affrontarsi in
delle lotte in cui la vittoria e la sconfitta sono ad un passo l'una
dall'altra ne avrebbe tratto insegnamento.
«Le
mie compagne... Come si comporterebbero in una battaglia
violenta?»
Si
chiese fra sé e sé.
Ogni
passo della ragazza risuonava nel terreno in un calpestio di erba
frusciante e foglie cadute.
Il sole era alto nel cielo: non aveva idea di come passare qual
pomeriggio.
Aspettava solamente che quel sole calasse e mettesse a tacere tutti gli
impicci della giornata nell'oscurità della notte.
Fare
la strada più lunga, quella che attraversava il piccolo
bosco, era una buona idea per perdere tempo.
Ma
un rumore imprevisto mise all'erta la ragazza.
Da
quando aveva sentito dell'attacco nell'onsen Iris
non riusciva a liberarsi dalla preoccupazione di venire attaccata dal
Team Plasma e di restarci secca.
Le
pareva ingiusto che dovessero uccidere proprio lei, trucidandola poi
per mezzo dei loro Pokémon.
Perché quell'organizzazione aveva rinunciato al suo
obiettivo di pace e unione per darsi alla fantomatica e banale
"conquista del mondo"?
Iris
però era già pronta per combattere, con la
Pokéball in mano.
Se
doveva morire voleva almeno lottare con tutte le sue forze la sua
ultima lotta, perché anche se fosse stata sconfitta il suo
cuore morto non avrebbe ricordato alcuna frustrazione: solo l'ultimo e
preziosissimo orgoglio di essere morta per una giusta causa.
Si
mosse con cautela, la massima attenzione a non cadere in un imboscata,
l'adrenalina alle stelle. E riecco, il rumore che prima aveva
riecheggiato attraverso la foresta.
Era
simile ad un ruggito.
Iris
sentì un brivido lungo la schiena e nello stomaco una
crescente ansia.
Sul
suolo avvertì un fortissimo tonfo, mente ciottoli, terra,
rami e foglie si alzavano dal terreno di alcuni centimetri
costringendola a gettarsi a terra, senza neppure il tempo di gridare.
«Mi
hanno trovata, mi hanno presa, ora mi uccideranno.»
Pensò, con una lacrima sospesa a metà dell'occhio.
❁
«Però...
Certo che siamo davvero intonate! Noi cinque dovremmo creare un gruppo
di idol.»
«Iris,
con le tue steccate sulle note alte? Neppure il sintetizzatore ci
potrebbe salvare.»
«Se
dovessimo creare un gruppo io sarei comunque la prima a
lasciarlo.»
«E
che scusa ti inventeresti?»
«Bullismo
da parte delle compagne!»
«Credimi,
sei io fossi la solista del gruppo venderemmo talmente tante copie da
costringerti a chiudere la bocca e farti cantare solo con i microfoni
spenti!»
«Camelia,
i fan ti apprezzerebbero di più se ti limitassi a sorridere,
annuire e mostrare le tue tette ad una massa di pervertiti.»
«Appunto.
A differenza tua a me non serve saper cantare finché ho la
bellezza per guadagnarmi i fan. Quindi direi che mi accontento del
ruolo di faccia-carina del gruppo.»
«Parli
come se in campo musicale constasse solo essere belli per avere
successo...»
«Dai,
non essere così pessimista: anche in campo politico,
artistico, personale e del marketing conta solo la bellezza, davvero
credevi che cose come il talento e la passione possano rimediare la
mancanza totale di tette e carisma?»
«Ma
certo, come puoi provare che non è
così?»
«Le
vendite, tesoro, dai un'occhiata agli indici di vendite dei miei
photobook!»
«Ritiro
tutto, meglio una carriera da solista!»
«Certo
che è davvero divertente prenderti in giro!»
❁
La
canzone è un fandub ispirato alla canzone tradizionale
giapponese "Edo no Temari Uta" ("La canzone della palla del periodo
Edo" letteralmente).
La
canzone, un ritornello pensato per i bambini, racconta sinteticamente
degli eventi storici più importanti del periodo Edo, che si
può collocare nel periodo storico in cui il Giappone era un
impero feudale. Ho utilizzato la base della canzone sostituendo le
parole riferendole al mondo dei Pokémon. (Per
chi volesse ascoltare la canzone originale, consiglio vivamente la
versione del gruppo °C-ute).
Lo
scopo era di evitare un lungo flashback per raccontare la storia della
regione di Unima, ma nel caso ci fossero incongruenze o incomprensioni
vi prego di segnalarle.
❁
Behind
the Summery Scenery #6
1.
L'idea delle "battaglie violente" nasce dal fatto che
Pokémon è una serie davvero troppo poco violenta,
e mi serviva il fattore "violenza e sangue a caso che fanno proprio
figo e attirano il pubblico, e poi posso strappare i vestiti delle
ragazze con le mosse e lasciarle in intimo - ok, dimenticate l'ultima
cosa che ho detto...
2.
Anche qui sono stati aggiunti dei piccoli siparietti fatti a dialogo
fra le ragazze.
3.
Il manga a cui fa riferimento Anemone è ovviamente quello di
Pokémon Adventures Nero e Bianco. Quindi su, non fate i
tirchi, andate in edicola e dategli una letta, o dico alla vostra mamma
che avete salvate nel telefono le doujinshi hentai di qualche ecchi di
seconda serie - cosa?! Ancora riferimenti impliciti alle abitudini poco
ortodosse dell'autrice?!
4.
La storia della Spugna di Menger che indossa N e le nozioni di
matematica sui frattali topologici sono in parte corretti, in parte
scopiazzati da Wikipedia. Sinceramente, questo serviva a farvi capire
che Camilla non è scema. Lo avete capito alla fine, mi
auguro.
5.
Il "flashback" che ha avuto Iris è uno scorcio aggiuntivo
che avranno tutte le protagoniste oltre alla vera e propria backstory,
che si focalizza su eventi più recenti e connessi ad una
specifica situazione canonica.
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Capitolo 7 *** Tale la natura degli uomini, quale quella dei Pokémon ***
ESGOTH 5
❁
A story
by: Momo
Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
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❁
Capitolo
7
Tale
la natura degli uomini, quale quella dei Pokémon
Un
boato, un ruggito, e un tonfo si mescolarono insieme, creando un
frastuono assordante, abbastanza forte da impedire ad Iris di sentire
il suo stesso urlo.
Un
polverone color ocra si era alzato e l'odore di terra calda inebriava
l'aria. Per la ragazzina dai capelli viola alzarsi e riprendersi dalla
confusione pareva impossibile.
Mosse leggermente braccia e gambe: nulla di rotto, per fortuna.
Allora
si rialzò in piedi, tremando come una foglia in preda al
panico.
Dove poteva scappare se ormai si sentiva già morta?
Tutto
le sembrò normale apparentemente, e si sentì
proprio
stupida per aver davvero pensato di essere in pericolo di vita. Poi si
accorse di ciò che era effettivamente accaduto.
«Un...
Dragonite?» Sussurrò piano, in preda alla paura.
Le
era noto che spesso i Pokémon tipo Drago si affrontavano per
la
conquista del territorio in battaglie molto cruente e che il perdente
spesso veniva scaraventato a terra dal vincitore, in segno di
sconfitta. La natura è molto crudele, ma il suo ciclo
è
inevitabile.
Il
drago, dalle squame color ambra, che riflettevano l'arancio acceso
sotto il sole, giaceva a terra, struggendosi in un'agonia spaventosa.
Pareva
piuttosto indebolito... Abbastanza da essere catturato.
Dopo
aver avuto la grazia di essere ancora viva dopo quell'impatto, Iris
pensò che incontrare per caso un esemplare così
raro e
potente e non catturarlo sarebbe stato un vero e proprio spreco di
tempo.
«Una
vera macchina da guerra mi capita davanti e io non ne
approfitto?»
Davvero,
l'eccitazione di allenare un Dragonite le dava alla testa.
Tutta
la potenza e l'agilità le poteva sfruttare senz'altro per
sconfiggere le sue compagne e guadagnarsi la loro ammirazione. Non era
motivata da alcun odio, ma Iris desiderava talmente tanto vincere ameno
una lotta da essere disposta a tradire i suoi vecchi precetti di
allenamento ed impegno.
«E
poi dicono che la vittoria non ti piove dal cielo... Axew,
vai!»
Ce
la poteva fare: Dragonite era già più che
indebolito e
per catturarlo sarebbero bastati tre o quattro leggeri attacchi da
parte del piccolo draghetto verde della ragazza.
«Dragospiro!»
Il suo Pokémon eseguì l'ordine alla perfezione.
Se
era un ordine della sua Allenatrice non poteva farsi intimidire da
nulla; nonostante la sua stazza, quel piccolo Axew aveva affrontato
tutte le lotte senza mai arrendersi, senza mai pensare di doverne per
forza uscire sconfitto.
Certe volte anche gli Allenatori dovrebbero imparare dai loro
Pokémon.
Il
Dragonite dalle squame dorate invece appariva sempre più
innocuo e calmo.
«Pokéball,
vai!» Gridò eccitata.
Già
era curiosa di conoscere le sue mosse in lotta.
La
sfera rossa colpì il corpo del Dragonite, ma non fece il suo
dovere, rimbalzando senza eseguire alcuna cattura.
Iris esitò, trattenendo un respiro nei polmoni. Come poteva
essere?
«Maledette
sfere ultra-commerciali da quattro soldi... Perché non posso
permettermi delle Ultra Ball, ugh.» Pensò
stringendo i denti.
La
belva dalle squame color ambra si alzò lentamente dal
terreno,
sollevando ancora una polvere terrosa, muovendo il fogliame fitto di
quel bosco. Si mise con un po' di fatica in piedi, e con un ruggito
disperato mostrò alla ragazzina il corpo pieno di ferite e
lercio di terra.
Aveva
sentito la cattura, aveva percepito la sfida: e come ogni
Pokémon selvatico aveva l'istinto di difendere la propria
libertà lottando.
Emise
ancora il suo verso, più agguerrito e inferocito di prima.
Axew tornò diretto sulle spalle della sua Allenatrice, che
lo strinse al petto per proteggerlo.
Iris
non aveva la minima idea di che cosa fare: non aveva il tempo per
rimpiangere di aver tentato una cattura così azzardata, o di
aver saltato gli allenamenti, o il classico rimpianto dell'essere
semplicemente lì in quel momento.
La paura la costrinse però ad un attacco forzato, pensato
solo a scopo di difesa in quel momento disperato.
«Axew,
Ira di Drago, presto!» Gridò spaventata.
Il
suo Pokémon eseguì l'attacco, ma la potenza di
quel
Dragonite si alimentava con la frustrazione della sconfitta precedente.
Avanzava
minaccioso e Iris non aveva la minima speranza di sconfiggerlo, o di
come fuggire lo scontro.
Lo sentiva attaccare ed il suo cuore scandiva un ritmo improponibile
per mantenere la calma.
Il
peso della sua tracotanza lo sentiva, la paura ormai l'aveva catturata
come se quel momento sarebbe dovuto durare a vita; indietreggiando
aveva cacciato diversi urli confusi e strazianti.
"Aiutatemi!"... A
chi poteva gridarlo in quel momento?
E soffocò le sue lacrime, come una bambina.
Una
voce ruppe la paura. Una voce sicura. Seria. Adulta.
«Garchomp,
Pietrataglio!»
Iris
si era già gettata in ginocchio, sotto la polvere e i sassi
che il drago arancio aveva alzato con la sua ira.
Sotto
i suoi occhi una pioggia di pietre si era scagliata contro il Dragonite
iracondo, che cadde violentemente sulla terra, spargendo altro fumo
caldo e soffocante nell'aria.
L'ennesimo impatto, l'ennesimo attacco di cuore per Iris.
La
presenza che l'aveva salvata pareva irriconoscibile in quell'istante
travagliato.
Ma la voce la conosceva, continuava solo ad ignorarla presa
dall'imbarazzo.
Strizzò
le palpebre, chiudendo gli occhi a forza e tese una mano. Non aveva
più desiderio di difendere alcun orgoglio, voleva solo far
passare quel momento di puro terror.
Ed
ecco. La mano piccola e tremante della ragazzina dai capelli viola fu
catturata da un arto più forte, più deciso e
leggermente
sudato, ma dal tocco delicato e generoso. Iris si sentì
trarre,
come se quella salvezza divina la trascinasse verso l'alto per salvarla
dall'annegare in un ipotetico oceano di disperazione.
Tirò
un sospiro di sollievo. Poi sentì il contatto di un corpo e
delle braccia avvolgere la sua schiena. Riaprì gli occhi a
fatica e la situazione le parve tanto strana quanto banale, come se si
trattasse della classica scena di un manga.
Lei.
impaurita, rigida come un giunco, che stava fra le sue braccia forti e
protettive, e la guardava fissa negli occhi, in cerca di fiducia e
aiuto.
E...
Lei. Che la teneva stretta al petto e le sorrideva gentilmente, come
sempre.
«Camilla...
- Con
una carezza, la Campionessa la scostò da sé - ...sei
così calda... Non mollarmi, ti prego.»
La
giovane donna si sistemò il ciuffo biondo sull'occhio
sinistro,
il ciuffo ribelle che non riusciva mai a pettinare in linea con gli
altri e che finiva sempre per ricaderle sul viso; invece i capelli di
Iris stavano sempre ben ordinati e raccolti.
Sulla
terra umida e smossa, notò una Pokéball rossa, e
la raccolse.
Ora
aveva capito le vere intenzioni di Iris. E le avrebbe assecondate, se
lo meritava.
Aveva
intuitivamente capito che aveva tentato una cattura, nonostante fosse
al di fuori della sua portata. Ma nonostante questo, chiunque tenti un
impresa per confrontare i propri limiti secondo lei meritava un premio:
del resto anche lei era solita fare così, quando aveva
qualche
anno in meno.
Dragonite
ora era davvero allo stremo: l'attacco Pietrataglio era super efficace
contro un Pokémon tipo Volante e Drago e doveva per forza
averlo
privato di tutta l'energia di cui disponeva.
Gettò
la Pokéball in silenzio, esibendo un fiero sorriso.
Questa
si mosse un poco. Poi uno schiocco sordo, e lo catturò.
Raccogliendo la sfera, la nube di polvere e terriccio si
diradò.
La
giovane donna dopo aver ritirato il suo fidato Garchomp dalla
battaglia, si avvicinò alla ragazzina, la trovò
in
ginocchio; le accarezzò la testa e le porse la
Pokéball,
contenente il suo ambito premio. Si guardarono un attimo negli occhi.
Ma
Iris sospirò, chinando il capo.
«Camilla...
Non posso accettarlo. - e le tese il maledetto Pomo della Discordia,
che non era assolutamente degna di tenere in mano - Perché
sei
venuta fin qui... A, uhm, salvarmi?»
Non
valeva la pena porsi domande sulla ragione per cui si fosse scomodata
nel cercarla. Non erano avversarie? Non combattevano entrambe per lo
stesso titolo di Campione? Lei al suo posto non avrebbe approfittato di
avere come compagna una debole di cuore?
Camilla
le porse la mano per rialzars, e le appoggiò la
Pokéball di Dragonite sulle mani per la seconda volta.
«Ho
riconosciuto la tua voce. Ma per trovarti sono andata ad
istinto.»
Ad
istinto... Non aveva senso. Perfino Camilla lo aveva capito.
Eppure non aveva ancora focalizzato ancora il perché avesse
interrotto l'allenamento così, di punto in bianco, per
andare a
soccorrerla.
«Questo
Pokémon è tuo. Prendilo, lo hai catturato
tu.» Le ripeté la giovane Campionessa.
Iris
rifletté un attimo. Si sforzò di sorridere e di
fare la persona matura.
«Starebbe meglio nella tua squadra, fra altri esemplari
forti.»
«Nessun
Pokémon è forte per natura; i Pokémon
sono
obbligati combattere per rinforzarsi ed evolversi. Come si fa a
diventare forti senza prima aver sperimentato la debolezza? - la
ragazza levò un respiro profondo - E se non esistesse la
frustrazione, come potresti gioire di una vittoria?
Bisogna
guardare al futuro, cercare i propri errori e sfruttare i punti di
forza.
Vivere nel passato e nelle sconfitte passate significa serbare rancore
verso se stessi e verso gli altri.
Sorridere al domani, anche se si ha pianto lacrime amare la sera
prima... è così che si cresce.»
Camilla
si era lasciata troppo andare, per l'ennesima volta. Quelle riflessioni
le faceva da sola nella sua mente, ma la sua bocca le ripeteva ad alta
voce, per convincerla pienamente di ciò che stava dicendo.
Era un brutto vizio il suo, un'imperfezione nel suo carattere. Non
poteva farne a meno però.
«Scusami,
certe volte dico tutto quello che mi passa per la testa...»
Disse, ridendo.
Non se ne vergognava affatto. Nessuno è perfetto, neppure
Camilla Kuroi.
Iris
era rimasta davvero affascinata da quel dolce difetto.
Le parole di Camilla la facevano riflettere, il tono di voce profondo
penetrava nei suoi pensieri.
Ripensò istintivamente a tutte le volte che si sentiva
frustrata, inferiore e oppressa dalle sue sconfitte e alla reazione che
aveva nei loro confronti.
Poi
riguardò per l'ennesima volta il sorriso di Camilla.
«Capisco...
Io sto facendo del mio meglio.» Disse un po' intimidita.
«Lo
vedo. Nardo ha detto che sei davvero migliorata in queste settimane. -
a quel punto Iris si stupì di quante inutili storie
sull'essere
una nullità aveva inventato invece di impegnarsi per davvero
-
anche le altre continuano a ripeterlo... Parlavano giusto di te mentre
me ne sono andata, dicono che sono contente del tuo impegno e della tua
simpatia. Ti considerano fortunata.»
Disse gentilmente.
Iris
subito si illuminò, come una lucciola appena cala il sole.
«Dici davvero?» Le rispose tutta eccitata.
Camilla
le sorrise annuendo. Poi le venne un'idea, per convincere la sua
piccola apprendista di essere davvero dotata di un certo talento.
Fece uscire Dragonite dalla Pokéball. Il drago, le cui
condizioni erano leggermente migliorate, si guardò intorno
sbigottito.
Fece segno ad Iris di posizionarsi esattamente di fronte a lei,
allontanandosi di un po' di passi. La ragazzina eseguì
l'ordine,
senza contestare.
«Allora
Dragonite, adesso devi scegliere chi di noi due sarà la tua
Allenatrice. Scegli: preferisci stare in una squadra dove vincerai o in
una squadra dove migliorerai?»
Camilla
si sedette a terra, in silenzio. Iris fece lo stesso.
La
ragazzina fissava il terreno, ed ogni tanto alzava lo sguardo verso la
giovane donna.
Il
suo yukata bianco
aveva dei fiori ricamati; cercava di evitare lo sguardo verso la
scollatura, ma non ci riuscì: si ricordò del
primo
giorno, di come i suoi occhi avessero fissato vogliosamente il seno
della ragazza.
Ora invece vedeva che in quel corpo divino risiedeva anche lo spirito
più dolce che avesse mai riscontrato in una ragazza
più
vecchia di lei: nessuna presunzione o lamentela, solo un cuore
altruista e aperto.
«Va'
da lei Dragonite, per favore.» Pensò.
Ma
il Pokémon era ormai diretto verso di lei.
Istintivamente si rammaricò, poi rilassò il suo
corpo irrigidito e cominciò ad accarezzargli il muso.
Non
era spaventata: nella Palestra di suo nonno aveva accarezzato
più volte i suoi Pokémon di tipo Drago, per
quanto
sembrassero grandi o minacciosi.
La conoscevano da tanto tempo, sapevano quanto fosse pura di cuore
quella ragazza.
Intanto
un sorriso si era formato sulle sue labbra. Un nuovo membro per la sua
squadra, un nuovo amico con cui condividere emozioni ed esperienze.
❁
Il
pomeriggio in cui la giovane Campionessa aveva aiutato la sua
apprendista a ritrovare la fiducia in se stessa non era ancora finito:
infatti se si sbrigavano, potevano ancora concludere con la parte
finale dell'allenamento senza che Nardo notasse la loro negligenza per
la seconda volta.
Nessuna
delle due aveva voglia di tornare in quel buio garage che le aveva
tenute in punizione per una causa ingiusta.
Mentre
camminava nella foresta, Iris poteva abbozzare delle conversazioni con
la ragazza. Con lei poteva davvero parlare di cose serie, di
ciò
che la preoccupava, di ciò che desiderava nel profondo del
cuore, di tutto quello che una quindicenne poteva serbare nel suo cuore
adolescente.
Era
felice che le sue compagne fossero così diverse
caratterialmente: con ognuna poteva volgere le sue conversazioni dove
voleva, dandole un'elasticità di personalità la
quale
procurava un vero sollievo al suo animo.
Finalmente
cominciava a sentire quei legami. Lo disse a Camilla, aggrappandosi al
suo braccio.
Questa
le rispose mettendole la mano sulla spalla.
«Ho sempre pensato che noi fossimo destinate a diventare un
gruppo.»
Prima
di giungere a casa di Nardo, Iris si distaccò un secondo
dalla ragazza.
«Camilla,
posso mostrare a Dragonite le nostre compagne?»
Pareva una richiesta un po' strana, ma ora la Campionessa aveva piena
fiducia in lei.
«Certo,
vado ad avvisare il resto.» E la lasciò.
Iris
fece uscire Dragonite dalla Pokéball.
Questo si dimostrò subito mansueto e continuò a
lasciarsi accarezzare dalla ragazzina.
Iris
indicò con l'indice il campo di battaglia dove le sue tre
compagne si erano allenate fino ad ora. E decise di confidarsi con il
nuovo membro della sua squadra.
«Guarda,
quelle sono le mie compagne. Camilla, Anemone, Camelia e
Catlina.»
Subito
Dragonite la guardò impietrito. Cinque nomi erano tanti da
ricordare per una creatura così bruta. Con un verso confuso
fece
capire alla sua Allenatrice la sua incomprensione.
Iris sospirò, e cercò di spiegare a quel
Pokémon
ciò che il Pokémon conosceva fin dalla nascita:
la natura.
«Allora...
Capelli neri, yukata giallo,
Camelia.
Un po' come i tuoni, di notte.
Appaiono durante i temporali ed illuminano con un bagliore luminoso,
accecante e bellissimo la terra, prima di colpire il suolo con la loro
potente scarica elettrica.
Poi però svaniscono nell'oscurità, sotto la
pioggia...
Per rimostrarsi qualche secondo dopo, ancora più potenti di
prima.»
«Capelli
rossi, yukata azzurro, Anemone.
Lei è più come il vento.
Una brezza leggera che smuove le fronde degli alberi assonnati, o un
tifone che agita le onde del mare o un uragano che sconvolge gli
animi... Ma ciò che importa è che questo soffio
di vita
sia libero, senza che nessun otre lo contenga, come nel mito di
Odisseo.»
«Poi...
Ah, Catlina! Capelli biondi, yukata rosa.
Ricorda molto i fiori di sakura.
Infatti i germogli di ciliegio si mostrano timidamente durante
l'inverno e nessuno li considera, poiché sembrano privi di
colore e profumo. Ma quando i petali sbocciano in primavera... La
grazia, la bellezza e l'eleganza del fiore di sakura sono
ammirate da tutti.»
«Infine...
Camilla. Yukata bianco...
Io penso che lei meriti un colore ancora più puro, quasi
trasparente, come quello di un diamante.
Un diamante preziosissimo, brillante e cristallino ma allo stesso tempo
duro e resistente. Chiunque trovi quel diamante si sente ricco, si
sente fortunato, ma sopratutto protetto...
Io
devo ancora decidere cosa voglio essere.»
Iris
finì di parlare. Era fiera del gioco che aveva inventato: le
ricordava quelli che faceva da bambina e così dei bei
ricordi
affioravano.
Inoltre
Dragonite sembrava aver capito chi fosse chi, associando le ragazze ai
colori e alle immagini suggestive che la sua nuova Allenatrice aveva
creato.
«Andiamo
ora, voglio che le altre ti vedano!»
E di corsa si precipitò sul campo di battaglia.
«Hey,
eccomi!» Chiamò Iris, per attirare l'attenzione di
tutte.
«Non
sapevi che scusa inventare per marinare gli allenamenti, eh?»
Le rise dietro Camelia, prendendole la testa e strofinandogliela per
prenderla in giro affettuosamente, come aveva preso l'abitudine di fare.
«Ma
se non si fosse allontanata adesso non avrebbe catturato un Dragonite!
- La riprese Anemone - un Pokémon di tipo sia Drago che
Volante,
è ufficiale, sono la tua Capopalestra preferita!»
«Anemone...
No.» Rispose secca la modella.
Tutto quell'entusiasmo per una cattura lo trovava ridicolo.
«Semplicemente,
un Pokémon del genere serve solo a raccattare Medaglie e
rubare
a noi Capipalestra il lavoro... - Camelia contorse il viso in uno
sguardo falsamente deluso - se vuoi ottenere la mia Medaglia, un
giorno, dovrai sudare parecchio.»
«In
realtà avevo già tutte e otto le medaglie prima
di venire qui.» Le rispose Iris.
La
ragazzina si voltò e diede il cinque ad Anemone. Era
contenta che la rossa apprezzasse il suo supporto.
«Ah,
chissà che Capipalestra sfigati devi aver
sfidato...» Scherzò ancora Camelia.
Le
tre poi si voltarono, vedendo Camilla che parlava a bassa voce con
Catlina, un po' più distante da loro. Le trovavano davvero
mature e alquanto strane.
«Cosa
stanno complottando quelle due?» Domandò Iris a
bassa voce.
«Secondo
me Catlina le starà chiedendo se prima voi due non steste
facendo nulla di strano...»
Le rispose maliziosamente Anemone.
Iris
storse il naso invece; non si aspettava queste cose da una ragazza che
aveva descritto come "elegante" e "aggraziata".
«E
perché dovrebbe? Lei e Camilla sono amiche e
basta.»
«Ma
se lei non ha fatto altro che ripetere fino ad adesso cose come "spero
che Camilla stia bene’" o "mi chiedo perché ci
metta
così tanto" o "se le fosse capitato qualcosa" o anche
"perché si è allontanata senza avvisare" e
Camilla,
Camilla, Camilla... Caspita, se è ossessionata!»
Le rispose con tono concitato Camelia.
Aveva
imitato ironicamente il tono preoccupato di Catlina, soffocando un po'
la voce come questa di solito faceva, smorzandola infine per
sottolineare la frivolezza delle sue preoccupazioni.
«Beh,
è normale che si preoccupi per noi...»
Cercò di
difenderla Iris, anche se aveva riso anche lei a quella presa in giro.
«Non
lo ha mica detto il tuo nome.» Le rispose acidamente Anemone.
A
quel punto Iris vacillò leggermente nei suoi pensieri:
davvero
una ragazza diciannovenne poteva provare gelosia nei suoi confronti? La
disprezzava in qualche modo? Era per quello che con lei e le altre si
comportava così freddamente e distaccatamente? Non sapeva
spiegarselo.
Intanto
le due ragazze più grandi e stavano riavvicinando a loro.
Avevano uno sguardo più che soddisfatto.
«Ragazze,
io e Catlina abbiamo avuto un'idea - disse entusiasta Camilla - per
favore, digliela tu.» E fece segno alla sua compagna dal
kimono
rosa chiaro di parlare.
Questa
fece un respiro, per calmarsi dalla tensione.
«Visto
che sono ormai tre settimane che lavoriamo duramente e Nardo ha notato
in noi molti miglioramenti, sopratutto in una persona in particolare -
si riferiva ad Iris, sebbene indirettamente, come su richiesta di
Camilla - io e Camilla abbiamo pensato di farci concedere a nome di
tutte un "giorno di vacanza". In pratica un giorno in cui possiamo
svagarci liberamente per conto nostro, per goderci l'estate. Cosa ne
pensate?»
Tutte
sorrisero un attimo.
Divertirsi
e riposarsi d'estate sembra una cosa tanto lecita quanto banale, ma da
quando le cinque avevano fatto il loro ingresso nella competizione non
si erano mai concesse un vero giorno di pausa; un giorno in cui
potessero tornare dai loro parenti e riabbracciarli, uscire con le
amiche e vantarsi della loro fortuna o semplicemente dormire
più
del dovuto, senza dover sopportare la severissima sveglia delle sette
meno un quarto.
«Per
me va più che bene.» Approvò Anemone.
«Anche
per me, ottima idea!» Le rispose subito dopo Iris in preda
all'eccitazione.
«Fantastico,
la nostra leader ha scoperto l'estate! Un applauso!»
Incitò tutto il gruppo Camelia, la regina del sarcasmo.
Tutte la assecondarono, ma Camilla non se la prese.
Ad
Iris venne un idea. Era l'idea giusta per prolungare quel momento di
comune felicità ancora per un po'.
«Tutte
voi domani sapete esattamente cosa fare?»
«Non
ancora... Per una volta che siamo libere non sappiamo cosa
fare...»
Ragionò la rossa. Il resto del gruppo annuì alla
sua protesta.
Iris
poté finalmente esporre le sue intenzioni.
«Che
ne dite di andare in spiaggia a Spiraria? Siamo ancora a giugno, non ci
saranno troppi turisti...»
Si
sentiva un poco imbarazzata da quella proposta. Loro erano ragazze
grandi, piene di impegni, amici, feste, incontri... E ragazzi.
Molti dovevano essere i ragazzi, per quelle giovani prosperose.
E
subito Anemone, Camelia, Camilla e Catlina le diedero la risposta.
«Spero
che l'acqua del mare sia abbastanza calda per farci il bagno, io odio
l'acqua gelida...»
«E
che qualche pervertito non continui a provarci con la top model
più famosa della regione...»
«Ho
bisogno di un costume nuovo... Che non mi faccia sembrare
grassa...»
«Ricordatevi
la crema solare, o finiremo per scottarci sotto il sole, ed io ho la
pelle delicata...»
Non
si era ricordata ancora che ormai con loro non doveva avere paura.
In
quel piccolo gruppo ogni idea era ben accetta, senza pregiudizi o
lamentele.
Quelle risposte affermative così spontanee non le sembravano
quasi reali: quale ragazza poteva davvero rinunciare ai divertimenti
della vita adulta?
Quelle
quattro, evidentemente.
«Ok,
è confermato!» Ammise convinta.
«Ultima
cosa... - Affermò Catlina in tono serio e risoluto, prima
che
tutte ritornassero ad allenarsi - se proprio dovete prendermi in giro,
la prossima volta fatelo ad bassa voce. Non sopporto le persone
rumorose.»
A
tutte si gelò il sangue per un attimo.
Il tono di voce di quella ragazza senz'anima era flebile come un
sussurro, ma abbastanza risoluto da far sembrare serio anche uno
scherzo.
Le
altre lo avevano più o meno dedotto ma Iris non
notò
alcuna differenza istantaneamente. Catlina era davvero una maestra nel
nascondere i suoi sentimenti.
«Altrimenti
cosa fai, lo dici a Nardo?»
Da qualche tempo Camelia aveva preso di mira con le sue battute anche
la ragazza bionda, per smorzare un po' quell'aura gelida che la
circondava. Lo faceva per il suo bene, anche se questa non le dava peso.
Catlina
rifletté un attimo.
«Parlando seriamente, davvero potrei?» Si rivolse a
Camilla.
«Dato
che sei la seconda più vecchia in ordine di età e
lavorando alla Lega hai una posizione di vantaggio... Non vedo
perché Nardo non potrebbe ritenere adeguato punirle per la
loro
mancanza di rispetto.»
Le rispose pacificamente la Campionessa.
«Ah...
Capisco.» Annuì la ragazza, cercando gli occhi
complici della leader.
«Simpatiche
insomma! Ci rispedite a costruire la sauna, mentre voi vi fate un bagno
e ve la ridete, giusto?» Ribatté seccata Anemone.
Lei
e Camelia sapevano meglio di tutte quanto fosse faticoso, stressante e
umiliante quel lavoro. Avevano passato un intera serata in quel posto
chiuso e afoso, un'esperienza che si erano ripromesse di non ripetere
mai più.
«Ritiro
tutto quello che ho detto: sei una leader orribile, tornatevene
entrambe dalla regione da cui siete venute e non rimettete piede nel
suolo di Unima neanche per allacciarvi una scarpa."» Aggiunse
la
mora, seccata come l'amica.
Catlina
invece era davvero soddisfatta: si era guadagnata il rispetto che
desiderava. Era ormai di autorità quasi pari a Camilla, il
suo
braccio destro.e
"Sub-leader", come si dice in linguaggio tecnico.
Decise quindi di sbandierare un poco di quel rispetto ottenuto con una
minaccia alquanto efficace.
«Oggi
mi sento buona e chiuderò un occhio su tutto questo. Quindi
torniamo pure ad allenarci, prima che Nardo pensi che non stiamo ancora
facendo nulla.»
Tutte
la seguirono, Iris per prima si avvicinò a lei.
Le
parlò a bassa voce, per evitare di irritarla.
«Dicevi
sul serio, prima?» Chiese la ragazzina, con tono preoccupato.
Catlina
si sentì sconfortata da quella domanda.
Era
davvero così incapace di esprimersi, tanto da far sembrare
uno
scherzo innocente una vera e propria tortura? Pochi secondi le erano
già bastati per farle desiderare di non aver mai compiuto
una
sciocchezza del genere.
Si girò verso di Iris, sforzando la voce verso il tono
più dolce che avesse in gola.
«No,
stavo solo scherzando... Non preoccuparti, non farei mai una cosa del
genere...»
Iris
aveva notato quanto quella voce fosse falsa ed improvvisata.
Ma resistette all'impulso di commiserarla e si unì al resto
del gruppo.
Decise
di sua spontanea volontà di offrirsi come avversaria per
delle lotte di allenamento.
Anche
se quelle lotte le avrebbe certamente perse, si sarebbe comunque
impegnata ora; avrebbe combattuto senza lamentarsi e allo stesso tempo
si sarebbe goduta l'amicizia che tra lei, i suoi Pokémon e
le
sue compagne continuava ad intensificarsi sempre più.
Aveva
detto a Camilla che avrebbe fatto del suo meglio.
E
Iris aveva giurato a se stessa di mantenere la parola data.
❁
«Si!
Non potevo avere fortuna più grande!
Chi
lo avrebbe mai detto che proprio quella piatta fra le Allenatrici
avrebbe catturato un Dragonite?
Ok, non l'ho esattamente catturato io, ma non penso che Camilla si
offenda se mi prendo parte del merito...
Pubblicando un po' di foto sul mio blog! Con modestia, ragazzi.
Ed
ora la descrizione:
Pokémon raro e potente, ottimo offensive-sweaper,
IV
perfetti, EV abbastanza alti e bilanciati, moveset completo di
Dragofuria, Lanciafiamme e Terremoto, catturato con una semplice
Pokéball...
Cosa
sto scrivendo? Non ne ho idea, ma gli Allenatori esperti usano sempre
una terminologia incomprensibile riguardante le lotte. Nonostante siano
parole a caso, fanno sembrare tutto più figo, come quando
nelle
interrogazioni a scuola non sai neanche cosa stai dicendo e prendi un
bel voto.
Non
vedo l'ora di leggere i commenti positivi, di ricevere lodi e "Mi
Piace", di sentire tutti incoraggiarmi...
"I
Dragonite non si trovano allo stato selvaggio, genio!"
Se
è per quello nemmeno i vostri Arceus cromatici al livello
diceci
si trovano allo stato selvaggio, ma non mi metto a chiamare la polizia
per questo.
"Ma
lo sai che le difese di quel Pokémon sono misere contro i
tipi Ghiaccio, Roccia, e Drago? Sei fregata, cara."
Okay,
ma io non ti conosco, quindi me ne frego.
"Chi
è la maggiorata sullo sfondo? Per essere una foto a
tradimento
potevi aumentare lo zoom... Quella bionda sexy sì che
vincerebbe
contro chiunque!"
Ma
perché i fan mi detestano così tanto!? Li
capisco, sono
solo gelosi, se non lo so cosa io cosa si prova in questi momenti...
(E che razza di gente frequenta la mia pagina... Devo guardarmi dai
pedofili...)»
❁
Behind
the Summery Scenery #7
1. I
team di Pokémon delle varie ragazze sono uno degli aspetti
più complicati da gestire in una fanfiction a tema
Pokémon: all'inizio volevo basarmi canonicamente solo sul
videogioco, ma dopo aver ripensato al fatto che esistono tipo, cinque o
sei versioni di ciascun team a seconda della difficoltà in
cui
si imposta il gioco e che i programmatori si sono a dir poco sprecati
nel scegliere i Pokémon e le mosse, ho pensato di
ricollegarmi
all'anime sopratutto per quanto concerne discorsi come l'allenamento,
l'acquisizione di nuove mosse e tecniche di lotta, il legame con il
proprio allenatore. Per dirla breve, i Pokémon si comportano
con
il sentimentalismo e la caratterizzazione dell'anime ma non faranno le
mezze seghe.
2.
Il discorso che Camilla fa ad Iris si ispira al filosofo Eraclito, che
basa la sua dottrina su uno scontrarsi di forze contrarie che a loro
volta generano l'equilibrio del nostro mondo, un po' lo stesso concetto
dello Yin e lo Yang dei taoisti.
3.
Il titolo di questo capitolo è una parodia della famosa
frase
che Glauco dice a Diomede durante il loro incontro nell'Iliade: "Tale
è la generazione delle foglie quale quella degli uomini."
4.
Siccome questo in numero di BTSS non ho molto da dire, vi racconto
questa. Mentre scrivevo questo ed il capitolo precedente a casa mia
c'era molta confusione per via di esami, lavori di manutenzione e
cugini molesti, e allora per aiutare a conciliarmi la scrittura ho
voluto provare anche io a scrivere con le cuffie e la musica sulle
orecchie, sapendo che ormai è una pratica diffusa fra molti
scrittori. Per quanto io ami la musica, il risultato che ne era uscito
era qualcosa di scioccante. Ancora non mi capacito di credere che
scrivere, leggere o studiare siano attività fattibili con la
musica.
In questo momento, mentre scrivo, sto ascoltando la musica. Non
assicuro la correttezza ne' la coerenza di queste parole e ora tutti
zitti, che è arrivata la parte della mia oshi.
5.
Dite che nell'universo Pokémon esista facebook?
Perché se
fosse così, vi autorizzo a spammare immagini kek e a
shitpostare
come se fosse la meme war di due anni fa. FUCKING NORMIES
REEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE.
|
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Capitolo 8 *** Fare la cosa giusta ***
ESGOTH 5
❁
A story
by: Momo
Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing: 🍦
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Early
Summer Girls
❁
Capitolo
8
Fare
la cosa giusta
«Buongiorno!»
Disse Iris sorridendo.
Si
era presentata puntualissima, e già indossava il costume:
non si era posta troppi problemi nella scelta di quest'ultimo, non
aveva alcuna intenzione di attirare l'attenzione sul suo corpo: avrebbe
fallito miseramente contro le sue compagne e le loro curve prosperose e
sensuali.
Inoltre rabbrividiva al pensiero che qualche ragazzo menzionasse il suo
corpo senza badare al suo carattere, come se lei fosse solo un oggetto.
«Buongiorno.»
Le risposero in coro Anemone, Camelia e Camilla.
Le
loro voci erano rilassate e serene, come la sua.
Finalmente era arrivato. Un vero e proprio "giorno d'estate".
«Catlina?»
Domandò la ragazzina, sedendosi a fare colazione con loro.
«Aspettiamola
cinque minuti. Non è abituata a svegliarsi presto. In
realtà non lo è mai stata.»
Le rispose Camilla.
«Perché?»
Iris si incuriosì leggermente.
«Catlina
viene da una delle famiglie più abbienti di Sinnoh, gli Hāto.
Sono un clan aristocratico molto antico con un vasto impero finanziario
alle spalle, e lei quindi non ha mai avuto necessità di
svolgere altri lavori oltre a quello di Allenatrice.»
Le spiegò la giovane Campionessa.
«Una
principessa viziata che non ha mai alzato un dito, in poche
parole.»
Puntualizzò Anemone, con una certa stizza nella voce.
Avrebbe preferito non sapere quel dettaglio su Catlina.
Nonostante
tutto, con il sole alto, l'acqua cristallina e cinque bellissimi corpi
in costume da bagno, quella sembrava essere una bella giornata.
Le
restanti ragazze stavano per andarsi a cambiare finché non
bastò un suono a spezzare quella felicità.
La
suoneria di un cellulare. Iris riconosceva il ritornello della canzone
pop-rock.
«È
il mio.» Camelia aveva già allungato la mano per
rispondere; esitò un attimo però.
La
ragazzina dai capelli viola aveva capito che della vita privata della
ragazza mora non doveva impicciarsi. Non le aveva neppure chiesto
perché quel giorno l'avesse aggredita con parole
così violente e perché poi fosse scoppiata a
piangere.
Era
leggermente curiosa di sapere le sue ansie e preoccupazioni in modo da
poterla capire meglio e perfino consolare, ma invadere la sua privacy
significava entrare in un luogo che Iris temeva di più
dell'inferno dantesco: il mondo degli adulti.
Quella
diciassettenne modella doveva essere cresciuta troppo in fretta, si
disse.
«Si?
Dimmi...»
Da fuori si sentiva parlare una voce maschile, le parole non erano
chiare.
Iris,
Anemone e perfino Camilla stavano cercando di origliare almeno il
nocciolo di quella chiamata, anche se ascoltare solamente la parte del
destinatario in una conversazione non era per nulla utile.
Tutte
cercavano di sembrare disinteressate, tendendo l'orecchio spinte dalla
curiosità, fingendo che le relazioni della ragazza non
interessassero loro.
«Corrado...
Aspetta...»
Ad
un certo punto però Iris vide Camelia dilatare i suoi occhi
azzurri, esibendo un'espressione mista fra lo stupore e la delusione.
Si preoccupò allora per la ragazza.
La
mora si alzò, e cominciò ad allontanarsi dal
resto del gruppo, in modo che non sentissero il contenuto di quella
conversazione: aveva tenuto il cellulare spento per quasi tre giorni,
non aveva controllato alcun sito per vedere se era ancora popolare e
neppure aggiornato il suo stato sui social network.
Era
certa che prima o poi la sua negligenza verso il suo lavoro e lo stile
di vita eccentrico e maturo che aveva scelto sarebbe emersa a galla.
«Sono
sola, dimmi.»
Disse, con un accenno di ansia.
«Ti
ho chiamato almeno dieci volte in questi tre giorni, lo senti il
telefono o sei diventata troppo figa persino per rispondere?»
La stessa voce maschile, profonda e attraente.
«Scusami
amore, ho spento il cellulare e...»
Venne troncata lei, mentre spiegava le sue ragioni nella maniera
più sincera.
«Smettila
con queste scemenze, devi aver bevuto forte in questi giorni. Vuoi che
ti creda?»
Le veniva risposto, con tono sempre più annoiato ed acido.
«Dovresti,
sei il mio ragazzo. Poi sai che l'alcool non lo sopporto.»
Ammise Camelia, stroncando l'ingiustizia ricevuta. Desiderava chiudere
quella chiamata in fretta.
La
modella aveva bevuto solamente una volta, ad una festa, sotto
costrizione del suo stesso fidanzato e delle sue stesse amiche. Era la
prima volta, non conosceva il suo limite e per questo aveva esagerato:
ricordava solo un caldo pazzesco, gente che rideva, la sua testa che
pensava a mille cose in un secondo e il suo corpo che cedeva
lentamente, l'aria, dal soffocante odore di vomito, alcool e sudore.
Da
quel giorno non aveva più bevuto una singola goccia di birra
o vino, guadagnandosi addirittura fama (e altrettanto scherno) per la
sua sobrietà.
Ora
che si sentiva una ragazza libera parlare così con il suo
fidanzato le faceva ripensare a tutte quelle loro conversazioni, tutte
avevano lo stesso suono: scambi di risposte sarcastiche, battute
sporche, freddure anche offensive finivano sempre con il ribadirle la
ragione per cui era disposta a sopportare tutto quel dolore: l'amore.
«Perché
mi hai chiamato?» Gli disse, dopo un paio di insulti
reciproci.
Voleva
andare dritta al punto.
Corrado
respirò, focalizzandosi sull'obiettivo di quella chiamata,
ben più importante di quei litigi. Neppure lui li
sopportava, ma assecondare la sua ragazza gli sembrava umiliante.
«Ho
sentito che sei libera tutta oggi...»
No.
Non era vero.
Camelia
quel giorno voleva passarlo con le stesse ragazze che non l'avevano
derisa quando potevano.
Per
lei, quelle quattro, rappresentavano un genere di persona davvero raro,
quasi paranormale: ridevano se si doveva ridere, piangevano se si
dovesse piangere: mai il contrario.
E
a tutta la sua diffidenza si era sostituita la voglia di amarle come
vere amiche e di vedere i loro sorrisi, molto più dolci e
gradevoli di quelli che era costretta a mostrare lei per avere in
grazia l'odio degli altri.
Quel
giorno doveva essere perfetto, sia per lei, sia per chi lei amava.
In quel momento però amava più loro che Corrado.
«Quindi?»
Camelia fece finta di non capire.
«Sei
stata dolce a darmi buca, due settimane fa. Non me ne frega di cosa
avessi combinato per farti "punire", ma da quel giorno hai preferito
nasconderti che chiedermi una seconda occasione.»
«Te
l'avrei chiesta se l'avessi voluta, ma come vedi non sento ancora
l'astinenza.»
Formulo
ciò come risposta nella sua testa, sorridendo al suo stesso
sarcasmo.
Non
gli rispose così, però.
«Allora
te la dovrei concedere...?» Socchiuse gli occhi.
«Hai
capito, allora. Vieni con me oggi. Ho bisogno di stare con te; ho
bisogno di farlo con te.»
Camelia
a quel punto si accorse che i suoi occhi azzurri diventarono lucidi,
nel suo cuore non riusciva a fermare le lacrime.
Fu
il suo inconscio a parlare, con voce soffocata ed insicura.
«Anche io.»
«Vediamoci
oggi che sei libera. - prima di chiudere la chiamata, Corrado aggiunse
soddisfatto della sua ingannevole persuasione - ti amo.»
La
giovane dai capelli mori respirò piano, attraverso le labbra
dolci leggermente socchiuse. In mano le rimaneva il cellulare, nella
sua mente nulla.
Non
era riuscita ad esprimere ciò che voleva, la sua
volontà si era piagata al peso delle sue ultime parole: ti
amo.
Come
poteva essere sarcastica, se per una volta qualcuno la apprezzava?
Camelia
non avrebbe gettato via il suo amore: lo necessitava.
E l'amore le chiedeva di rinunciare ai suoi principi di
verità, di lasciarsi sedurre da carezze e lusinghe, di
mettere in secondo piano i suoi desideri egoisti.
Perché
in quei giorni avesse deciso di farne a meno, si chiedeva.
Perché
sentiva il dolore di dover dare buca alle sue compagne, anche se quel
dolore poteva essere anche il rimpianto di non poter andare con loro in
spiaggia.
Amicizia
o amore? Si chiese inutilmente lei. La risposta l'aveva già
data.
«Se
non mi amasse... Ma per fortuna mi ama. Ed io amo Corrado?
I giornali parlano così bene di noi...
Se mi lasciasse... Sarei ancora sola.»
Camelia
si scostò subito da quell'orribile pensiero.
Finché avrebbe continuato ad assecondarlo, sia di fronte
alla gente sia a letto, lui non si sarebbe stancato di lei, giusto?
Le
ragazze chiedono amore in cambio di sesso, i ragazzi vogliono sesso ed
in cambio danno amore.
I maschi per quella ragazza avevano tutti la stessa psicologia.
Si
mise tanto trucco, quel giorno.
«Iris,
ragazze, scusatemi, oggi non posso venire con voi... Esco con il mio
ragazzo.»
E
a quelle parole il sorriso di tutte si smorzò. Iris si morse
il labbro, abbassando gli occhi come una bimba delusa. Ci
restò davvero male.
Camelia
evitò i suoi occhi tristi, la facevano sentire una patetica
egoista, e morse anche il lucidalabbra amaro insieme al suo labbro.
Chissà
cosa stessero pensando Camilla ed Anemone...
Un'approfittatrice, una leccapiedi, una doppiogiochista, una top model
sesso-dipendente.
Eppure
lei non poteva odiarle per averle rinfacciato la verità.
Lei
le desiderava come amiche, e sarebbe andata in spiaggia con loro se non
si fosse fatta sottomettere dal sentimento di appartenenza totale al
suo fidanzato.
La
giovane si sfilò l'intimo di fronte allo specchio, per
indossarne uno che attirasse di più l'attenzione
di lui: con le dita sfiorò il corpo diafano della bellissima
fanciulla riflessa; d'improvviso il suo polso si irrigidì:
le venne voglia di prenderla a schiaffi.
«Sei
una falsa schifosa. Se non sei sincera neanche con te stessa come
pretendi che qualcuno sia sincero con te?!»
❁
Iris
si guardò le mani in silenzio: forse non era intenzione di
Camelia ferirla, forse era il suo carattere permaloso ed infantile a
farla sentire così.
Si
convinse infine a lasciar perdere.
Lei
non aveva mai avuto un ragazzo, non poteva capire cosa significasse
“fare qualsiasi cosa per amore”.
Si sentiva comunque scaricata. Immaginò che parole avrebbe
usato lei per lasciare il suo futuro fidanzato senza ferirlo (nel caso
non fosse il vero amore), ma non ci riuscì.
«Uh?!
Un altro cellulare che suona?»
Iris
si era già accorta che il cellulare di Anemone stesse
suonando, non appena riconobbe la canzone che con lei ascoltava sempre.
La
password la conosceva, ma chiese alla sua coscienza se fosse giusto
rispondere in sua assenza.
Magari
era urgente... Magari aveva tutte le possibilità di non
esserlo.
Anemone
non era popolare come Camelia, non aveva un ragazzo ed era stata la
prima a confermare: non poteva darle buca in nessuna maniera.
Con
una certa leggerezza, Iris rispose al telefono, mentre l'amica si stava
cambiando.
«Pronto?»
Una
voce maschile, di uomo anziano le rispose senza pensare che non si
trattasse della rossa.
«Anemone, non capisco questo tuo comportamento: ho chiamato
tre o quattro volte questa mattina, cosa ti è
preso?»
Le disse, con tono calmo, ma molto intimidatorio.
«Eh...»
Iris si stupì che non avesse riconosciuto che a parlare non
fosse chi si aspettava.
«Lascia
perdere, faremo i conti dopo. Nardo me lo ha riferito che oggi non ti
devi allenare - Iris fu presa da un terribile presentimento.
Sperò solo che si accorgesse che non stava parlando con
Anemone - sei di turno oggi. Anche se oggi sei in vacanza abbiamo
bisogno di uno stipendio per tirare avanti fino a fine mese, e non puoi
permetterti di saltare nemmeno un giorno lavorativo o se ti
licenzieranno ci ritroveremo a vivere per strada.»
Alla
ragazzina dai capelli viola tornò in mente, come in
un'illuminazione, il proposito per cui la dolce e amorevole pilota dai
capelli scarlatto fosse con lei in competizione: vincere (nella
possibilità che aveva nel riuscirci) non per lei, ma per la
sua famiglia.
E
lo stomaco di Iris si contorceva atrocemente, se doveva immaginare la
sua amica più cara ridotta sul lastrico.
Trovava
in un certo senso ingiusto che suo nonno la caricasse così
severamente di lavoro per racimolare un magro stipendio a soli
diciassette anni, quando alla sua età si vorrebbe pensare
alle lotte, ai festival, ad uscire nei giorni di sole e leggere in
quelli di pioggia, ai ragazzi...
«Ah,
giusto. Ad Anemone non interessano i ragazzi...» Puntualizzò.
Si
ricordò poi di avvisare l'anziano signore, anche se costui
aveva ripreso ad ammonirla.
«Il
tuo turno dura tutta la giornata, non distrarti mentre sei in
volo...»
«Scusi,
non sta parlando con sua nipote. Sono un'amica di Anemone, gliela passo
immediatamente.» Lo interruppe lei, con tutto il suo coraggio.
Le
avevano insegnato a rispettare gli anziani: è uno dei
principi base per l'educazione dei giovani.
Si
staccò il telefono dall'orecchio.
Avrebbe
aspettato che la sua compagna finisse di cambiarsi, ma Anemone si era
già precipitata giù. Era ancora in costume, e
teneva i lacci del pezzo superiore con la mano; era corsa appena aveva
sentito il cellulare suonare, ma doveva almeno coprirsi minimamente per
riprenderselo.
«Iris,
non rispondere, per favore!»
Era
troppo tardi per augurarsi che lei la assecondasse. I piani della rossa
andarono in fumo. Non aveva certamente predetto quella chiamata
improvvisa, ma si era talmente convinta che non sarebbe avvenuta che al
bruciarsi delle sue speranze le ribollì il sangue nelle vene.
Iris
le consegnò il cellulare, e desiderò che le mani
le venissero immediatamente mozzate.
Si
sentì la colpevole di quel misfatto anche se non ne aveva
alcun motivo. Cercò di capire se il suo danno fosse davvero
così grande.
Quella
conversazione era più semplice da capire di quella avvenuta
poco prima da Camelia e il suo ragazzo: suo nonno le doveva star
ripetendo ciò che aveva detto a lei.
«Si,
capisco. Io però avevo altri impegni oggi.» Ammise
Anemone con una certa frustrazione.
Iris
fu rincuorata dal fatto che perlomeno si lamentasse con lui e non fosse
accondiscendente e menefreghista come Camelia.
Purtroppo
alla ragazzina non era noto che anche quest'ultima preferiva la loro
compagnia a quella del suo superficiale fidanzato.
La
ragazza rossa richiuse la chiamata. Dal suo sguardo Iris
capì che ora erano in due a darle buca. Finse di non saperne
nulla, però.
«Iris...
- abbassò gli occhi, e cercò di smorzare un
sorriso - oggi io non posso venire, devo lavorare, hanno bisogno di me.
Mi ha chiamato mio nonno d'improvviso, scusami davvero tanto. Non ti
dico di non restarci male, ma solo di capire che non è colpa
mia.»
Il suo tono era rilassato, ma triste e flebile. Il suo cuore desiderava
gridare, invece.
Ascoltò
Iris risponderle con la voce più calma che aveva.
«Lo so. Voi ragazze avete le vostre
responsabilità.»
Anemone
sospirò. Questa frase le martellò il cervello e
le graffiò il cuore.
Non
lo faceva certo con piacere, di dover abbandonare il resto del gruppo,
rinunciare a divertirsi solo perché glielo imponeva suo
nonno. E la sua condizione economica. E la sua coscienza.
Anemone
sentiva, giorno per giorno, che il peso delle sue
responsabilità cresceva, e si ritrovava sempre
più sola nell'affrontarle: spesso si domandava se valesse
davvero la pena di dedicare sempre tutti i suoi sforzi al prossimo e
non guadagnare assolutamente nulla per se stessa; non si consolava
più neanche nel vedere il sorriso degli altri, le procurava
un invidia tale da farle desiderare in un secondo di diventare egoista.
Poi
il senso di colpa la divorava, e il baratro di frustrazione, rabbia e
tristezza diventava sempre più profondo. E lei precipitava
in esso all'infinito.
La
nostra povera Anemone somiglia quasi ad un uccellino, che per la
penuria di procurare il cibo per il suo nido si sporca le piume e si
lacera il becco, rovinando il suo fulgido piumaggio.
Quando
l'uccellino vede infine i suoi piccoli gioire alla vista del pasto,
desidera in cuor suo che un cacciatore gli spari alle ali e smetta
così di farlo soffrire e faticare solo per il vantaggio
altrui. Poi però si rimette subito in volo, o i rapaci lo
scoveranno di notte.
Erano
già trascorsi diciassette anni della sua vita, eppure nulla
era cambiato, nessuno sembrava davvero tenerci alla sua
felicità...
Non
si potevano dedurre quei pensieri da lei, dato che il dolce sorriso di
Anemone nascondeva brillantemente tutta la frustrazione per il
divertimento negato e l'indifferenza di chi la circondava.
Ogni
giorno, ogni volta che il sole sorgeva il suo subconscio le sussurrava
"oggi non vivrai per te stessa, ma per qualcun altro".
«Quanto
odio la mia vita...» Mormorò la sfortunata.
In
un attacco di cieca rabbia, Anemone scagliò con forza il suo
cellulare per terra, sperando di distruggere tutto quel cosmo di
soffocanti responsabilità insieme all'aggeggio.
Il
telefono emise un tonfo sordo, e lo schermo si crepò,
frammentandosi in mille pezzi di frustrazione accumulata nel tempo.
Le parve di sentire in gola un grido soffocato, poi lasciò
la casa di Nardo il più in fretta possibile.
Testimone
di ormai troppa rabbia, troppa tristezza e troppe, davvero troppe
ingiustificate lacrime, Iris raccolse il cellulare della rossa.
«Ma
come farà a comprarsi un cellulare
nuovo?» Si chiese.
❁
Ora
che Camelia ed Anemone non sarebbero venute, ad Iris sembrò
superfluo disturbare Catlina e supplicarla.
Rinunciò al suo piano di poter passare una giornata in
spiaggia con le sue compagne in modo abbastanza maturo, ripetendosi un
"almeno questa volta non è colpa tua".
La
prese alla leggera.
Ma solo perché si era presa un altro impegno nel frattempo.
Un
misto fra il destino, la sua inventiva e la collaborazione forzata di
una cara amica.
«Camilla,
io esco. Vado a fare shopping con un'amica.»
Annunciò.
Le pareva quasi stano indossare dei vestiti casual dopo aver portato
per quasi un mese quel kimono di colore viola.
«Davvero?
Vai ai Magazzini Nove?» Le domandò la
giovane.
Iris annuì.
Davvero
sbalorditivo: Camilla conosceva a menadito ogni città e
angolo di Unima, pur essendo originaria di un'altra regione. Si
ricordò inoltre che Camilla era l'unica e sola a non averle
dato buca all'ultimo minuto, sperò che in qualche modo anche
lei trovasse altro da fare quel pomeriggio.
«Stai
tranquilla, rimarrò qui con Catlina. Non voglio che passi
tutta la giornata a dormire.»
Si
congedò infine, contraccambiando gentilmente il sorriso che
la Campionessa le dedicava sempre.
Quel
giorno di vacanza, per la ragazzina si era trasformato in una specie di
"missione".
«Oggi
voglio restituire il sorriso a tutte... Le mie compagne. No, le mie
amiche.»
E
per cominciare al meglio le sue labbra ne esibirono uno per prime.
❁
«Velia
ti adoro! Sono così felice che tu sia venuta che ti
abbraccerei!»
Esultò
Iris, aggregandosi alla ragazza della sua stessa età, dai
capelli argento platino e l'abbigliamento punk-rock che aveva
cominciato ad indossare per rispecchiare il suo carattere ribelle e
perennemente disinteressato alla banalità della loro
generazione.
«Iris,
da quando tu fai shopping? Preferiresti tagliarti i capelli piuttosto
che venire qui, che cosa cavolo ti è passato per la
testa?»
Le domandò Velia acida.
«Ho
detto che ti avrei abbracciata, non che ti avrei dato spiegazioni...
chi sei, mio nonno?»
Le rispose la ragazzina, per sbarazzarsi dei suoi commenti pesanti ed
inutili.
«Almeno
dimmi a che ti servo io, altrimenti potevi portarti una delle tue
compagne maggiorate.»
La persuase a darle un indizio Velia.
Sapeva
che la sua amica difendeva le sue idee ad ogni costo, per quanto
assurde fossero.
La ammirava per quello.
Dopo
essersi astutamente guadagnata la sua curiosità, Iris
illustrò il suo piano a Velia, mettendoci tutto l'entusiasmo
che aveva.
«Non
siamo qui per fare shopping, ma mi sento in dovere di comprare dei
piccoli regali per le mie quattro compagne. Alcune di loro stanno
attraversando un brutto periodo... - ripensò in un secondo
al cellulare di Anemone, agli occhi spenti e vuoti di Catlina che la
portarono a ricordare come Camelia fosse scoppiata a piangere in sua
presenza, finendo con le ferite che Camilla portava sul petto, come
testimoni di quella lotta mortale - e vorrei tirarle su, nel mio
piccolo...»
Velia
le sorrise. Le due quindicenni cominciarono ad avviarsi attraverso
l'ampio e luminoso centro commerciale.
«Ma
sei sicura che le tue compagne non abbiano semplicemente il ciclo?"
Le domandò Velia sarcasticamente.
Iris
le aveva parlato di quell'esperienza che stava vivendo per diventare
Campionessa e in cuor suo sperava davvero che la ragazzina dai capelli
viola vincesse, anche se la divertiva assai prendere in giro il suo
entusiasmo.
«Non
dire scemenze!»
Iris non voleva permetterle di scherzare su di loro, per qualche
ragione.
«Solo
perché ci troviamo nel mondo dei Pokémon non
significa che ne siano esonerate.» Le ribatté
secca.
«Cambiando
argomento, come sta andando?» Domandò Iris,
salendo le scale mobili.
«Che
cosa?» Le rispose l'altra, cercando di nascondere un velato
imbarazzo guardando altrove.
«Il
tuo singolo. Avevi detto che quest'estate tu e la tua band avreste
debuttato nella scena musicale di Unima con la canzone che hai scritto.
Allora?» Insistette.
«Ci
sto lavorando, cara. - La giovane Velia aveva il talento per le lotte,
ma anche per la musica - Però, ultimamente la musica rap sta
diventando sempre più popolare qui ad Unima. Penso che il
mio stile indie-rock-idol avrebbe comunque poco successo.»
«Non
ho la minima idea di cosa siano quelle tre parole inglesi in mezzo alla
frase, ma dovresti smetterla di trovare sempre tutte queste scuse.
È
un po' di tempo che rimandi il tuo progetto. Comincio ad essere stanca
di aspettare.»
Già
da tenera età aveva imparato a cantare e suonare il basso e
da un anno era la leader del suo gruppo. Per quanto negligente e
ribelle potesse sembrare, Velia era una ragazza determinata e
concentrata nel suo lavoro.
Purtroppo,
a causa di incidenti, aveva perso la madre qualche mese prima.
Iris
ne era a conoscenza, ovviamente.
«Ci
lavori da troppo. Io voglio sentirla quella canzone...»
Cercò di incitarla.
Non voleva che il dolore imperversasse sui suoi sogni, come era
successo a lei più volte.
Quella
tenerezza in effetti toccò la giovane ribelle.
«Se riuscissi a farla diventare un CD, la
compreresti?»
La sottopose ad una prova di amicizia.
«Certo
che no. Tanto io posso averlo gratis, in edizione limitata e anche con
autografo!»
Ed Iris la abbracciò, anche se l'amica cercava di scacciarla
agitando le spalle.
«Sbaglio
o sei davvero diventata brava a ribattere?»
«Non
ti sbagli, mi sono allenata con Camelia Taylor.»
«La
modella? Sei seria?!»
«No,
guarda, la mia fidanzata...»
«Iris,
piantala, ero ironica, non sei divertente e nemmeno brava con il
sarcasmo.»
«Ma
perché non posso avere almeno un giorno di pausa da insulti
e commenti acidi quest'estate?!»
❁
In
effetti lo shopping di quel giorno d'estate stava piacendo alle due
ragazze: di solito avevano sempre avuto di meglio da fare che sprecare
tempo e denaro, ma girare per negozi senza alcuna preoccupazione dava
loro uno strano senso di libertà e di autostima.
Era
forte fingere di essere adulte solo perché potevano davvero
spendere soldi a loro piacimento, anche se Iris aveva dovuto ripetere a
Velia almeno un centinaio di volte che erano lì per la sua
"missione".
Dopo
aver camminato a lungo, per negozi dal buon profumo, giardini interni e
corridoi illuminati dalla luce del sole, Iris decise che ormai era ora
di rivelare a Velia che sapeva benissimo cosa comprare, smettendo di
perdere tempo.
In
realtà, la ragazzina dai capelli viola aveva in mente il
regalo per le sue compagne già prima di proferire l'idea
concreta di comprarlo, ma l'aveva gelosamente tenuta per sé
in modo da dare una sfumatura di casualità e gentilezza ad
un pensiero che sembrava altrimenti troppo calcolato ed elaborato.
Cosa
si macchinasse nel cervello di quella ragazza è davvero un
enigma, specie se si trattava di come attuare le sue idee nel modo
più indiretto (ma perfetto) possibile.
«Andiamo.»
Incitò Velia con tono rilassato.
Iris
conosceva quel negozio, c'era entrata abbastanza volte per rifornirsi
durante il suo precedente viaggio, e sapeva ancora meglio che quello
era il negozio più apprezzato dagli Allenatori per articoli
riguardanti gli strumenti di lotta.
Esattamente.
Sebbene Camelia, Anemone, Catlina e Camilla fossero completamente
diverse sotto qualsiasi punto di vista, convergevano tutte in un unica
caratteristica inevitabilmente comune (ad eccezione dell'avere un seno
particolarmente pronunciato): erano Allenatrici.
Non
importa se fossero qualificate, o avessero una loro Palestra o se
addirittura occupassero un posto alla Lega: tutte loro erano accomunate
dalla passione per le lotte Pokémon, una passione che aveva
permesso che il gruppo evolvesse dal suo stadio di freddezza e
diffidenza originale.
Una
risposta elementare alla domanda iniziale era "uno strumento per la
lotta".
«Guarda.»
Le mostrò Iris.
Prese
sulla mano quattro piccole pietre, grandi quanto una noce: i piccoli
cristalli emanavano sottili ed eleganti fasci di luce che striavano di
quattro colori la mano della ragazzina: giallo, azzurro, rosa e blu;
Iris non li aveva scelti a caso.
«Sono
rispettivamente un Bijou Elettro, Volante, Psico e Drago» Le
illustrò, facendo riferimento ai tipi favoriti delle
compagne.
«Aumentano
al massimo la potenza di una mossa del rispettivo tipo un'unica ed
indimenticabile volta... - Velia ne conosceva l'uso. Sorrise,
compiaciuta dell'originalità dell'amica - bell'idea. Te ne
saranno grate. Attenta però che non le usino contro di
te.»
Iris
provò una felicità davvero piacevole, come se
già vedesse i loro sorrisi aprirsi e percepisse sulle guance
baci e carezze.
Regalare
le dava più felicità del ricevere e se la
ricompensa per il suo altruismo era amore senza alcun imbroglio non
avrebbe esitato a far loro altri pensierini, a dedicar loro
più tempo e impegno.
Persa
nelle sue fantasie, Velia dovette riportarla nella realtà.
Ciò non le fece affatto piacere.
«Iris,
guarda il prezzo: se uno viene 15 Pokédollari e te ne
servono quattro, fai il conto...»
«Io
ne ho 50, e sono tutti; se mi anticipi qualcosa ti restituisco
tutto...» La supplicò.
«Ne
ho solo 10 e non ci stiamo comunque: te ne vengono 3
però.»
O
tutte o nessuna. Iris si era prefissata quello e non riteneva che
nessuna di loro meritasse di essere esclusa da una tale gentilezza in
modo così cattivo.
Quelle
erano ragazze particolarmente sensibili.
«Mi
arrendo. Andiamo, allora.»
Iris lo disse piano, e pensava di lamentarsi lungo tutta la strada di
quanto i prezzi fossero pensati solo per gli Allenatori abbienti e
fortunati, come se le lotte Pokémon se le potessero
permettere solo i ricchi.
La
vita costa troppo certe volte.
Mentre
ogni passo si faceva più pesante e strascicato, una mano
toccò leggermente ma con insistenza la spalla della ragazza,
ed un sibilo le giunse all'orecchio, come un "hey" appena
pronunciato.
Alla
sua attenzione non restò che farsi catturare.
«Sono
bellissimi, vero? Ma mi sembra di aver capito che i soldi non ti
bastino...»
Quell'ombra
aveva l'aspetto di una ragazza giovane, probabilmente della sua stessa
età, con i capelli color fucsia acceso tagliati non troppo
corti, davvero alla moda.
Anche i vestiti erano quelli di una ragazza perbene, anche se il fatto
che le sussurrasse all'orecchio senza nemmeno conoscerla rendeva Iris
nervosa.
Uno
strano presagio erano i suoi due occhi azzurro chiarissimo, lo stesso
colore del ghiaccio riflesso al sole.
«Questi
prezzi sono davvero esagerati... Ho sentito che queste pietre
sono un regalo per delle persone a te speciali... Che sfortuna.
Non le potrai vedere sorridere neanche questa volta...»
Concluse la misteriosa giovane, con tono falsamente dispiaciuto.
Il
fatto che costei "avesse sentito" troppe cose dava alla ragazzina dai
capelli viola un grande fastidio: una maniera davvero maleducata di
prenderla in giro. Iris avrebbe voluto assestarle uno schiaffo sonoro
per aver origliato gli affari suoi (sopratutto la parte in cui nominava
le sue compagne come persone speciali: era davvero capace di intendere
che ci fosse qualcosa sotto?).
Si
trattenne dal picchiarla. Non voleva sconvolgere la quiete pubblica, ma
neppure perdere contro quella mocciosa viziata.
«La
vita è così, non si può avere
tutto.» Le rispose pacatamente.
Iris
stava per alzare i tacchi definitivamente, quando la giovane le
afferrò il collo della maglia di prepotenza:
sentì come se la stessero strangolando unito ciò
ad una rabbia crescente.
«Senti,
mi sei simpatica, ho un piano per te.»
La ragazza dai capelli fucsia e gli occhi freddi come il ghiaccio
sorrise in modo sinistro.
Traendola
a sé, le indicò con il dito una giovane dai
capelli marroni, con un elaborato vestito bianco, con degli occhiali da
sole scurissimi.
Quest'ultima li abbassò sul naso, contraccambiano con un
sorriso di complicità quello della ragazza misteriosa.
«Vedi
quella con il vestito bianco? È una mia compagna.
Ha appena disattivato il sistema di sicurezza e l'anti-taccheggio...
Una cosa semplice.
Ci
basterà distrarre i presenti, ma a questo ci penso io: un
rumore forte li sconvolgerà per un attimo, tanto per stare
sicure. Poi è il tuo turno - e la ragazza fissò
Iris con quegli occhi taglienti come una bufera di ghiaccio - di
giocare sporco. Infila velocemente le quattro pietre da qualche parte,
non importa dove, l'importante è che non si vedano ed esci
subito.
Non sono ammessi errori.»
Sottolineò
in modo tremendamente serio.
Poi le fece l'occhiolino e si allontanò, come se Iris avesse
acconsentito di sua spontanea volontà.
Ci
pensò un attimo la nostra eroina, non si sarebbe data ad un
furto così inconsciamente.
La
giustizia era ciò che le stava a cuore, e per quanto rubare
in un negozio sembrasse una sciocchezza dettata dall'adolescenza non le
andava di violare l'ideale con cui suo nonno l'aveva fatta crescere.
Immaginò che sopportare il peso di un crimine non sia una
cosa semplice; solo le persone spietate ci riescono senza rimorsi.
Tutto
quel ragionamento fu vano: subito un forte boato riecheggiò
per tutta l'area e, come aveva previsto la ragazza dai capelli fucsia
tutti i presenti, clienti e commessi, si erano distratti in preda alla
confusione.
«Lo
faccio per le mie amiche...» Si
rassegnò Iris.
Infilò
velocemente i quattro bijou nella scollatura della maglia e li spinse
fin dentro il reggiseno, in modo che non si vedessero (a mali estremi,
estremi rimedi). Senza pensare uscì dal negozio, ora che la
sua prima missione da ladra era stata completata magnificamente.
Ora
aveva qualcosa su cui riflettere a lungo.
❁
«Ottimo
lavoro!» Si sentì applaudire con voce compiaciuta.
Era
ancora la giovane dagli occhi di ghiaccio e i capelli corti fucsia
acceso, che continuava a sorridere con falsa innocenza.
Accanto
a lei c'era anche Velia, uscita prima di lei. Iris sperò con
tutto il cuore che la vipera non le avesse rivelato nulla: quell'accusa
sarebbe stata perfetta in qualsiasi litigio o disaccordo per sbatterla
in prigione, portarla dalla parte del torto o ricattarla.
Però aveva seri dubbi che Velia se ne sarebbe mai servita.
«Incredibile,
sei riuscita a convincerli a scontartele? Iris, sei un mostro di
persuasione, ti userò come negoziatrice d'ora in
poi!» La lodò questa.
Velia non ne sa nulla, allora.
Iris
lanciò un'occhiata stupita alla giovane misteriosa: quindi
si era inventata una scusa al posto suo per coprirla da un crimine, che
non era un crimine perché era compiuto a fin di bene?
Iris doveva assecondare la sua montatura, per dimostrarle riconoscenza.
«È
stata questa ragazza a convincermi a contrattare con i commessi,
altrimenti sarei a mani vuote ora - e sfilò il bottino del
furto con delicatezza dal suo minuto seno - grazie.»
«Di
nulla.» La giovane era sempre rilassata, aveva ormai disteso
la tensione iniziale. Poi aggiunse.
«Se
è per qualcosa o qualcuno che ti sta a cuore bisogna sempre
osare, non importa cosa comporti o se sia un bene o un male.»
Dopo
quella frase calò un leggero silenzio fra le tre.
«Mi
piace come pensi.» Ammise Iris.
Era
davvero colpita da quella filosofia di vita: se hai la motivazione per
fare qualsiasi cosa, buona o cattiva che sia, non potrai mai fallire.
Il ragionamento non faceva una piega ed in più, come
sappiamo, la ragazza dai capelli viola detestava perdere.
«Sembra
il modo di pensare di una vincente.» Aggiunse Velia.
«Ma
sai, non ci vuole molto ad applicarlo... Per esempio, - prese le mani
di Velia, inquietandola leggermente - se non temi di ferire alcun
Pokémon in lotta potresti arrivare a diventare qualcuno,
tipo una Capopalestra.»
Quella ragazza era sicuramente ispirata.
«Io?!
Una Capopalestra? Pensi in grande, sicuramente.» Ammise Velia
in modo sarcastico.
Questa affermazione non sembra del tutto impossibile: quella ragazza
ribelle ha talento per le lotte, ricordiamolo.
«O
una Superquattro della Lega, o perfino il Campione della regione, che
ne so...» Si ripeté costei.
«Perfino...
il Campione?!» Quelle parole toccarono Iris.
Le
diedero altro su cui riflettere.
Le
tre ragazze chiacchierarono un pochino, ma Iris si astenne dal nominare
la competizione alla quale aveva preso parte: non voleva tradire gli
ideali di quella ragazza determinata e carismatica dagli occhi di
ghiaccio.
Ecco,
quella giovane dai capelli e l'aspetto alla moda vedeva bene come
Campione.
«Allora,
andiamo?»
Era
giunto ormai un tramonto color arancio, che colorava il luogo con un
gioco di luce che solo quell'estate sembrava aver mai regalato agli
occhi delle tre.
Mentre
le ragazze si separavano, alla giovane sorse un ultimo dubbio, da
colmare all'ultimo momento.
Non era un dubbio però, era semplicemente una conferma.
«Scusa,
non mi hai ancora detto il tuo nome!»
Le gridò, e la sua voce riecheggiò attraverso
l'atrio semivuoto del centro commerciale.
«Eh?!
Il mio nome? Calfuray Iris! - Cercò di enfatizzarlo, in modo
che quella capisse - E il tuo?»
La
ragazza misteriosa ora, potrà essere finalmente nominata.
«Georgia.
Georgia Lang.»
❁
«Perché
hai deciso tutto di un tratto di farle commettere un furto?
Dovevamo solo raccogliere le informazioni mancanti, non farci
amicizia!»
«Jasmine,
zitta. Prendi carta e penna, piuttosto.
Calfuray Iris. Quindici anni, come me. Nata il 4 marzo. Provenienza:
Villaggio dei Draghi...»
«Dove?!»
«Un
misero paese al confine di Unima, ma è legalmente adottata a
Boreduopoli.
...Petto: settantatre centimetri. Busto: cinquantadue centimetri. Vita:
settanta centimetri.
Comparate con quelle delle altre... Mi viene da ridere.»
«Già,
ti divertirai molto nel farla fuori. È proprio vero che non
significa nulla.
A proposito, non dirmi che ti ci è voluto un pomeriggio
intero solo per ricavare queste quattro informazioni...»
«C-Certo
che no, ho avuto anche altro da fare, ovviamente. Impegni da leader,
cose del genere...»
«Ah
sì, e cosa avresti scoperto? Un cavolo, penso.»
«Beh,
non posso dire di non aver fatto nulla; noi tre siamo andate al
karaoke, e devo ammettere che la ragazzina se la cavi bene con le parti
rap nelle canzoni anche se i suoi acuti sono insopportabili,
è del tutto negata con i giochi spara-a-tutto ma spacca di
brutto in quelli ritmici, (ha fatto un nuovo record al primo tentativo)
e mi ha stracciata due o tre volte, poi... Ah, il suo gusto preferito
di gelato è alla frutta e...»
«...Ti
diverte prendermi in giro, vero?»
«Mi
dispiace, ma voglio vivere la mia vita prima di diventare come i
cattivi dei manga, non so tu.»
❁
Behind
the Summery Scenery #8
1.
Per quanto possa sembrare così, questo capitolo non
è il frutto della cancellazione all'ultimo momento di un
ipotetico capitolo in cui le ragazze sarebbero dovute andare in
spiaggia per fare fanservice gratuito, avevo già pensato a
questo sviluppo della trama ancora verso i primi capitoli della storia
2.
Un particolare che pare stupidissimo e su cui invece mi sono ritrovata
a ripensare molte volte è l'ambiguità che il
mondo Pokémon serba nei confronti del reparto telefonia: nei
videogiochi si usano i Pokédex o altri aggeggi strani per
comunicare a distanza, ma ogni tanto nell'anime sbuca fuori qualche
cellulare selvatico. Non ho mai capito come mai il perché.
Quindi
ho scelto di rendere il tutto più realistico divulgando
l'uso dei telefoni portatili per un semplice motivo: questa storia
parla di adolescenti (più o meno), inutile mentirsi non
ammettendo che il telefonino è parte integrante della
gioventù di oggi.
3.
In tutta la long le ragazze usano ed useranno molto, moltissimo i
telefonini, per ragioni dell'intreccio, più che altro.
Dunque, per far sì che voi lettori entriate al massimo nel
vivo della vicenda, ecco che sono felicissima di annunciarvi che
modello di cellulare hanno le diverse ragazze e qualche particolare IC
riguardo l'utilizzo di esso:
-
Iris possiede un Samsung Galaxy 4 Mini nero, rivestito da una cover
rigida viola con il simbolo dell'infinito. Il suo sfondo è
un collage di foto dei suoi Pokémon. Anche la tastiera e le
icone del menù principale sono di colori sui toni del viola
per abbinarsi alla cover. Siccome ha corta memoria, sua password
è la sua data di nascita. Ciò permette a chiunque
(soprattutto alle sue compagne e soprattutto a Camelia) di spiarne
facilmente il contenuto.
-
Camelia ha un iPhone 5s nero come la cover, che ha in aggiunta delle
paillette dorate che formano un tuono. Da quando ha cominciato a
lavorare come modella, scarica ogni giorno nuovi brani nel lettore
musicale dimenticando però di cancellare quelli vecchi: le
sue playlist prendono il nome dell'umore che ha quando le ascolta.
-
Viste le sue modiche risorse economiche, il cellulare di Anemone
è un apri-e-chiudi LG. Ciò non la fa sentire in
imbarazzo con le amiche tanto quanto la rattrista il non poter andare
su internet o scaricare applicazioni per fare i selfie. Sta comunque
risparmiando per comprarsene uno nuovo entro la fine dell'estate.
-
Il cellulare di Catlina è un Samsung Galaxy S6, con una
cover gommosa rosa e dei brillantini bianchi. Cambia spesso telefonino
visto che i suoi genitori gliene comprano uno ogni volta che esce un
nuovo modello. Tuttavia lei lo tiene sempre in modalità
silenziosa e non è raro che debba utilizzare tutto il suo
credito telefonico per richiamare le persone a cui non ha risposto.
-
Infine, Camilla ha ancora il suo iPhone 4s, sebbene lo schermo sia
pieno di graffi e di crepe e non abbia ancora cambiato lo sfondo
pre-impostato. Le capita spesso questa stressante situazione: scrivere
messaggi chilometrici rifiutandosi categoricamente di utilizzare le
abbreviazioni e ricevere risposte a monosillabi. È inoltre
una maniaca delle visualizzazioni e dell'ultimo accesso.
4.
Mi era passata per la testa la mezza idea di inserire anche Velia fra
le protagoniste assegnandole il colore fucsia, ma avevamo
già la ragazza con le tette piccole nel gruppo. Comunque
sappiate che la adoro, e la shippo con la protagonista di
Pokémon Nero2/Bianco2 (Mei o Rosa o Rina) per colpa della
doujinshi "Sweet Collapse".
5.
Allo stesso modo ho amato Georgia nell'anime, a mio parere la rivale
delle compagne di Ash meglio riuscita, avrei sperato in un
approfondimento migliore su di lei, ma pazienza. Mi piace di lei quella
determinazione che mantiene anche sapendo che ciò che
andrà a fare è qualcosa di scorretto, seppur
necessario.
Ma
chi voglio prendere in giro. Sbatte del character developement. A me
piacciono le stronze e basta.
Se le stronze hanno le tette poi, meglio ancora.
6.
Okay. Sicome Unima è basata sull'America e in America si
usano i dollari, evitiamo ulteriori casini e non utilizziamo il sistema
dei giochi: ora i soldi funzionano come gli $$$, boyz.
MONEY
MONEY MONEYYYYY okay Army adesso mi volete bene, no?
|
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Capitolo 9 *** Nessuno può vedere nel mio cuore, solo tu ***
ESGOTH 5
❁
A story
by: Momo
Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing: 🍦
Seguiteci
su instagram: @esg_ offical_ ig
Early
Summer Girls
❁
Capitolo
9
Nessuno
può vedere nel mio cuore, solo tu
Mentre
guardava lo scorrere veloce e sfocato del paesaggio dal finestrino del
treno di ritorno, Iris non poté fare a meno di
sorridere.
Sorridere al nulla era diventato un gesto così naturale e
frequente che voleva assolutamente far notare al mondo l'esistere ed il
manifestarsi della felicità.
Ricordò
d'improvviso le parole di Nardo, di quattro settimane prima.
Il Torneo... Femminile... Regionale...
Insomma,
il TRUF (le "ragioni di tempo" si erano trasformate in "ragioni di
memoria" nel giro di poco tempo).
Nel
suo precedente viaggio Iris aveva partecipato a diversi tornei di lotta
Pokémon, a lotte nelle Palestre e sfide per vari altri
propositi: alcune le aveva vinte, altre le aveva perse.
Si
domandò ancora perché Nardo avesse tanto
insistito affinché le future Campionesse vivessero tutte
insieme nella sua tanto grande quanto bellissima residenza,
condividessero ogni momento della loro giornata, dagli allenamenti ai
pranzi e alle cene, perché ora si ritrovassero a combattere
la minaccia del Neo Team Plasma insieme.
Insieme.
Non
sarebbe stato più semplice organizzare un torneo immediato e
decidere il futuro Campione per eliminazione? Il vincente
prende tutto, alla vecchia maniera.
Iris
riguardò i quattro bijou colorati, che riflettevano la luce
del sole fra le sue dita.
Giallo, azzurro, rosa, blu...
Ormai quei colori li sapeva a memoria, come la frase che più
di una volta le era tornata in mente.
"Essere
Campione non significa solo lottare..."
Aveva
sentito suo nonno Aristide sussurrargliela nella sua testa ogni volta
che il suo cuore era dubbioso, quando la sua mente era in cerca di
distrazione dalla tristezza o quando nella sua vita incrociava gli
occhi di qualcuno che forse sapeva darle la risposta.
La
giovane immaginò che la frase non si potesse completare solo
con un semplice verbo.
❁
Il
fruscio delle foglie ed il canto dei Pokémon selvatici
creavano la colonna sonora di quel giorno di fine giugno. Inclinandosi
leggermente, l'erba verde smeraldo accarezzava i piedi della ragazzina,
che non aveva esitato nel rimettersi il suo adorato yukata
viola.
Il
sole, prima arancione e rosso come una palla di fuoco, si stava
spegnendo poco a poco mentre le nuvole velavano il cielo come coperte
di seta.
Era
tardi, ma Iris non si preoccupò di guardare l'ora: era fiera
di essere probabilmente l'ultima ad arrivare in quel giorno di agognata
vacanza, così avrebbe avuto l'occasione di sembrare una
ragazza impegnata agli occhi delle sue care compagne...
Anche
se ormai tutti i suoi tentativi di risultare impegnata fino ad ora
erano falliti miseramente. La vita di chi è popolare non
faceva per lei o per la sua personalità.
«Ragazze,
sono tornata! - Chiamò, esagerando un po' nell'alzare la
voce - Ragazze...?!»
Ci
fu solo silenzio. Nessuna risposta.
Solo
la brezza le ricordò che doveva arrendersi ed accettare il
fatto che a nessuno interessasse la sua vita sociale o la sua presenza
nel gruppo fosse un qualcosa di assolutamente bypassabile.
Sospirò, ma l'impazienza nel consegnare gli agognati regali
alle sue compagne la struggeva.
«Andiamo,
forza!»
D'un
tratto Iris sentì una voce, delle urla di incitamento per la
precisione. Serie e profonde.
Aveva già capito a chi apparteneva, ed infatti si
precipitò sul campo di lotta.
La
visione della Campionessa di Sinnoh che lottava faceva battere il cuore
della nostra eroina ogni volta, ogni singola volta.
Lo
stile di lotta di Camilla Kuroi viene descritto dagli sfidanti di tutte
le regioni come "impeccabile": ogni mossa era destinata ad andare a
segno, il danno inflitto non eccedeva o diminuiva mai della potenza
desiderata, e la vittoria della giovane era sempre ottenuta in maniera
schiacciante.
Il
suo cuore desiderava vacillare ogni tanto, giusto per sentire
l'adrenalina nelle vene. Il gusto che provava nel lottare le regalava
un'energia inesauribile.
Chissà
se per la Campionessa lottare era qualcosa di naturale come respirare o
era frutto di miriadi di macchinazioni e sforzi fisici e mentali.
«Focalcolpo,
preciso ma potente, ricorda!» Gridava la bionda, con il suo
sorriso agguerrito.
Inoltre
quel Garchomp della regione di Sinnoh incuriosiva davvero tanto Iris:
chissà se avesse avuto bisogno di anni per allenarlo ed
evolverlo dal suo stadio evolutivo iniziale o lo avesse catturato
direttamente in natura, come aveva fatto con il suo Dragonite.
Aveva fatto bene a scegliere un Bijou Drago per lei.
Rimase
in silenzio, a contemplare il suo allenamento privato.
Sul
campo di battaglia vi era dei bersagli bianchi, con i classici cerchi
interni che denotano l'accuratezza del lanciatore. Quei bersagli
però non era in plastica o carta, altrimenti sarebbe stato
troppo facile per un'Allenatrice del suo rango: un disco di pietra
spesso quasi mezzo metro doveva testare anche la potenza di colui che
si cimentava nella sfida.
Inutile
dire che lo scopo era ovviamente concentrare potenza e precisione per
rompere il bersaglio e fare centro nel cerchio più
interno.
Camilla
non si sarebbe arresa finché il suo obbiettivo non sarebbe
stato completato.
Il
suo Pokémon lanciò la sfera di energia
concentrata a tutta velocità, non appena la giovane donna
pose di fronte a sé il braccio con estrema concentrazione.
Un
leggero vento provocato dall'impatto contro la roccia scosse i suoi
lunghi capelli biondi.
Dopo
che si alzarono alcuni ciottoli da terra e il bersaglio fu rotto, Iris
decise di farsi notare.
«Sei
bravissima!» La lodò.
Camilla
le rivolse lo sguardo in risposta, accennando un leggero inchino.
La
pietra era stata frantumata dal Focalcolpo quasi del tutto, ma una
piccola metà dipinta di bianco era ancora stabile: un errore
minimo nella mira aveva portato la giovane ed il suo Garchomp al
fallimento.
Incredibilmente
vero, ma Iris fece finta di non averlo notato.
«Sei
tornata presto.» Le disse Camilla.
Iris si domandò seriamente se "tardi" per le persone adulte
significasse orari improponibili per il corpo quali le quattro del
mattino o le undici di sera.
«Dove
sono tutte?» Le chiese.
«Hanno
i loro impegni, lo sai. Anche tu oggi dovevi andare a fare shopping,
giusto? Hai trovato ciò che cercavi?» Si
interessò la bionda dallo yukata bianco.
«Certo.»
Iris sorrise al suo stesso ingegno.
Poi
le venne in mente che oggi doveva essere il loro "giorno di vacanza"...
allora perché Camilla si stava allenando?
«Tu
oggi ti sei allentata?» Chiese rispettosamente.
La
giovane donna annuì.
«Mi
pare ovvio. Avevo bisogno di insegnare e rinforzare una mossa di tipo
Lotta. Se non ricordi la leader del Neo Team Plasma usa
Pokémon di Tipo Ghiaccio.
Non ci si allena mai abbastanza in questi casi.»
Ghiaccio...
La connessione per noi è immediata ma la mostra eroina dai
capelli viola avrà bisogno di ancora un po' di tempo per
rendersene conto.
Ciò
di cui si accorse in quel momento fu di quanta dedizione Camilla poneva
nella lotta. Una Campionessa, la più forte del gruppo, la
leader, che rinunciava a divertirsi per dedicarsi ad un allenamento,
perfino senza rimorsi. Aveva davvero tutto quel bisogno di
allenarsi?
Iris
non sapeva come reagire. Decise di non essere guastafeste, magari la
giovane donna ci teneva davvero che le sue vittorie fossero perfette e
calcolate (e non azzardate e sofferte come le sue). Ci sono modi e modi
di vincere.
«Hai
fatto bene... che mossa era quella?» Domandò con
falsa curiosità.
Lo
sapeva bene che mossa fosse quella. Ma ormai la parte della ragazzina
innocua ed innocente era la facciata che più amava mostrare
alle sue compagne, specialmente alla bionda.
"Focalcolpo.
È un genere di mossa che necessita sia precisione sia
potenza, dato che ha il settanta percento di possibilità di
fallire, o mancando il bersaglio o esagerando nel rilascio della
sfera.»
La
spiegazione fu davvero breve.
La
giovane dai capelli viola decise così di accettare quella
sfida complicata con animo fiducioso. Dopo tutto ciò che
quel giorno aveva fatto il suo cuore le ripeteva "posso farcela" come
un ritornello.
«Mmm...
magari anche Dragonite potrebbe impararla... Tanto vale
provare.»
«È
una cosa complicata - la ammonì Camilla - non sono neppure
in grado di fornirti una spiegazione precisa sul come attuare la mossa.
Ma tu prova, se vuoi.»
Lo
aveva detto come se il non riuscirci di Camilla implicasse il
fallimento di chiunque altro per puro dogmatismo. Però
c'è da dire che quelle parole erano tutto sommato veritiere.
La
donna non voleva assolutamente tradire il principio di impegno e
fiducia che aveva infuso in quella sua piccola apprendista, ma avrebbe
bilanciato quella commiserazione con altrettanta gentilezza. Era il
modo più giusto per non ferire il suo orgoglio.
«Quindi
anche Camilla dovrebbe affidarsi solo alla fortuna per riuscire nella
mossa? Davvero ciò non richiede talento, abilità
o esperienza? Davvero io ed una Campionessa pluripremiata siamo alla
pari in questa sfida?» Si
domandò Iris.
Come
al solito, il suo nuovo Pokémon di Tipo Drago brillava di
fresco orgoglio. Dopo che la sua Allenatrice gli ebbe accarezzato
affettuosamente il muso, si schierò di fronte ad uno di quei
dischi bianchi di pietra.
Iris
allora, come ogni Allenatore, chiuse gli occhi e concentrò
la sua precisione e la sua potenza nel braccio sinistro, ponendolo
avanti a sé, spingendo anche lei una metaforica sfera.
«Dragonite,
Focalcolpo.»
Con
grande concentrazione, lasciò che il cuore di Allenatore e
Pokémon si combinassero.
Dopo
un boato e l'alzarsi di un turbine di polvere, Camilla le
appoggiò le mani sulle spalle distraendola dalla sua
profonda concentrazione.
«Sei
proprio un prodigio della lotta, sai? Più Nardo me lo ripete
e più io me ne convinco. - E Iris si
ritrovò catturata per l'ennesima volta dal suo accattivante
sorriso. - Ora perché non andiamo a farci un bagno nell'onsen per
riposarci?»
La
ragazzina capì che il suo sforzo le aveva giovato
all'autostima, quindi il risultato non contava.
Lasciò
che la giovane Campionessa le prendesse la mano per accompagnarla nella
bellissima vasca di pietra sul retro del giardino.
Prima
però Camilla voltò lo sguardo indietro.
Il
bersaglio che lei non era riuscita ad abbattere in precedenza,
nonostante tutto il suo impegno, la sua esperienza e la sua buona
volontà, quella ragazzina lo aveva letteralmente raso al
suolo.
All'inizio
non ci credette, ma la cruda realtà la convinse a
dimenticarsi della sua idea di perfezione.
Le
strinse più forte la mano e camminò il
più velocemente possibile, presa da un certo fastidio. Si
ricordò della voce che correva su di lei e sul fatto che
davvero fosse rimasta imbattuta per cinque, o forse più anni.
Ma
andava bene così.
Finché
Iris non si accorgeva di aver vinto, lei non aveva perso.
Finché nessuno vedeva i suoi fallimenti, neppure lei li
avrebbe visti.
Del
resto Camilla Kuroi è una Campionessa che non può
assolutamente permettersi di perdere.
❁
«Senti,
mi aspetteresti? Devo mettermi il costume...»
Accennò Iris, guardando il suo riflesso sull'acqua del tardo
tramonto, somigliante a succo d'arancia.
«Non
te l'ho detto che le altre ragazze faranno tardi e che Nardo
è uscito? Ci siamo solo noi due,
ora.»
Le rispose Camilla, sorridendo.
Iris
si fermò a riflettere totalmente basita. Cosa intendeva per
"solo noi due"?
«N-Nel
senso che...» Cercò di spiegarle la
ragazzina.
Un senso forse lo aveva trovato, ma le parve troppo irreale.
Camilla
le prese le mani ed in quel momento il cuore le scivolò in
gola.
«Iris,
mi slacceresti l'obi? La cintura dello yukata,
intendo.»
Iris,
ancora più confusa di prima, le sciolse la cintura, facendo
scivolare il nastro sul pavimento. Perché stesse obbedendo
così ciecamente, si chiedeva.
Camilla
fece lo stesso con lei.
«Lo
sapevi? Nella cultura tradizionale orientale farsi il bagno con
un'altra persona significa condividere un momento di profonda
intimità e rispetto. È un'ottima
occasione per conoscersi a vicenda.
Può sembrare una cosa un po' strana, ma questa tradizione
risale ancora alla Grande Guerra, non ha limitazioni di sesso ed
età e porta solo benefici al corpo ed alla mente.»
Osservando
un punto a terra, Iris ascoltò passivamente quelle parole
senza averne decifrato neppure il senso da quanto si sentiva scossa
dalla confusione.
E
scossa anche dall'emozione, perché nel punto che stava
ossessivamente fissando si erano accumulati, cadendo dolcemente come
leggeri petali in primavera, prima lo yukata bianco, poi un
reggiseno dalle coppe piuttosto ampie e dulcis in fundo, un paio di
mutandine abbinate alla parte superiore dell'intimo.
La
giovane donna intanto si era completamente spogliata, sotto gli occhi
sconcertati e allo stesso tempo incantati della nostra eroina.
Le
fantasie di Iris non furono mai così vivide: mentre quella
pelle bianca come il latte si immergeva con grazia nell'acqua calda
dell'onsen, i suoi occhi grigio platino
scintillavano come perle di mari lontani.
Un
sorriso dolce la invitava ad abbandonarsi a quelle attenzioni
amorevoli: era il suo cuore o il suo corpo a desiderare
Camilla?
Doveva
ricompensare quell'apertura, quel desiderio di amicizia che una ragazza
più grande le stava offrendo.
Ma per farlo non poteva continuare a fissarla. Almeno non indossando
ancora lo yukata e quel pesante imbarazzo.
In
silenzio, Iris si sfilò l'intimo, respirando piano
quell'aria densa e dolciastra e le si sedette accanto, facendo
attenzione a non sfiorarla.
Eppure
Camilla le pareva davvero vicina.
Cercò
di non farsi prendere da strane fantasie, anche se i suoi occhi non si
staccavano più da quella pelle chiara, in perfetto contrasto
con la sua: ogni particolare di quella ragazza, anzi, di quella donna,
era semplicemente perfetto.
Come
già abbiamo accennato il corpo della Campionessa di Sinnoh
non era eccessivamente magro e la carne si concentrava nelle zone
esatte, facendo risultare il suo fisico simile ad una clessidra: i seni
fuoriuscivano leggermente dall'acqua e la loro forma rotonda li rendeva
davvero invitanti.
Camilla
aveva visto il suo corpo cambiare drasticamente con il passare del
tempo e soprattutto il suo petto crescere notevolmente, fino a
raggiungere la misura della quale era più che modesta.
Secondo
lei il seno non deteneva il vero valore di donna, provava solo un
grande piacere nel mostrarsi e farsi apprezzare per com'era, senza
alcuna presunzione: anche se era una vergine, la nostra Camilla
desiderava terribilmente essere toccata, abbracciata e amata.
Scendendo
verso il basso, la pancia e i fianchi avevano la forma di un imbuto,
contendo perfettamente la tenera carne della giovane, che terminava
nelle sue natiche lisce e rotonde, appoggiate contro la superficie
della vasca,:schiacciate dal peso del suo corpo.
Ma
per discutere della bellezza delle nostre protagoniste e lodare i loro
meravigliosi corpi, ci saranno molti altri momenti in cui potremo
ammirare la beltà delle ragazze della regione di Unima.
La
giovane bionda si sistemò il ciuffo biondo sull'occhio
sinistro, per poi appoggiarsi con i gomiti al bordo della vasca;
rivolse uno sguardo di interesse a Iris.
«Dato
che abbiamo l'occasione di conoscerci, chiedimi ciò che vuoi
sapere di me. Anche cose banali, tanto per chiacchierare un
po'.» Le disse.
La
ragazzina si chiese se ci fosse davvero qualcosa che desiderava sapere
su di lei.
Non voleva scadere in una domanda scontata, o il contrario, sembrarle
invadente.
Dovette
pensare in fretta però. Dovette giocare una carta ad occhi
chiusi.
«È
vero che non sei mai stata sconfitta?»
Questa
domanda in effetti necessitava dei chiarimenti: Camilla non aveva mai
perso una lotta da quando era diventata Campionessa? Non aveva mai
perso una lotta ufficiale? O davvero non aveva mai ricevuto una
sconfitta in tutta la sua vita?
La
nostra eroina, come noi, fu curiosa di saperlo.
«Sai,
sono diventata la Campionessa della Lega Pokémon di Sinnoh a
quindici anni, alla tua stessa età. È stato
difficile arrivare fin lì.
Se
avessi "perso" come dici tu, anche una sola volta, dove pensi che sarei
ancora ferma? A rimpiangere la mia sfortuna? A cercare la motivazione
nei beni materiali? - la donna sorrise, con sguardo vincente - Certo
che no.
Non ho mai "perso" una lotta.
Suppongo sia un bene: spinge a migliorare, ad evitare gli errori e
ricercare la perfezione. Può sembrare assurdo, ma il mondo
è pieno di assurdità, giusto?»
Dopo
queste parole, l'ammirazione di Iris nei confronti di quella ragazza
crebbe alle stelle.
Le
precedenti parole di Georgia, che garantivano la vittoria a chi ha uno
scopo da raggiungere, erano state smentite da quella teoria della
soddisfazione.
E
aveva più fiducia nella sua leader che ammetteva
modestamente la sua stessa invincibilità, che in un'estranea
che l'aveva costretta a commettere un furto (ancora ne sentiva il
rimorso).
«E
non hai un obiettivo in particolare? Insomma, un qualcosa che desideri
con tutto il tuo cuore e per cui faresti di tutto...»
Iris si ricordò di aver già posto questa domanda
ad Anemone.
Camilla
la interruppe però, mettendole l'indice davanti alla bocca.
«Shh,
tu mi hai già chiesto quello che volevi. Ora anche
io voglio sapere una cosa su di te.»
La giovane bionda le si avvicinò parecchio, tanto che ormai
le loro cosce erano le une a contatto con le altre.
Se
si fosse girata di qualche centimetro, il suo seno avrebbe
inevitabilmente toccato quello di Iris... Ma andava bene anche
così.
«La
tua pelle color caramello... Il colore scuro dei tuoi
occhi... Il tono della tua voce... La forma del tuo
corpo...»
Sussurrò Camilla, mentre con le dita percorreva dolcemente
il corpo della ragazzina.
Solo
in quell'istante il cervello di Iris la informò con secco
realismo di essere nuda, di essere più giovane e accusandola
con noioso moralismo di starsi facendo viziare da quelle coccole
seducenti. Ma la ragazzina lo ignorò palesemente.
Quando
il dito della Campionessa arrivò ad accarezzarle la punta
del mento e la costrinse ad alzare lo sguardo per guardare direttamente
quegli occhi color platino, Camilla arrivò al punto del
discorso.
«Non
provieni da Boreduopoli come ci hai detto, vero?»
Quell'atteggiamento
da serpe maledetta che attraversa lentamente il corpo della sua preda
per giungere infine a morderne il collo, spaventò
Iris.
Per
una seconda volta, la Campionessa l'aveva smascherata.
In
effetti, si era chiesta tante volte fino a quanto la farsa della sua
presunta origine detta al momento del loro incontro sarebbe andata
avanti.
Sperava davvero che le altre ci cascassero, che non le chiedessero
spiegazioni o scoprissero di lei e il suo passato.
Mordendosi
il labbro, decise di rimediare a quell'insulto non solo
all'intelligenza di Camilla, ma anche a quella delle sue compagne,
qualora lo avessero capito anche loro.
«Non
sono proprio brava a mentire.» Ammise, imbarazzata.
«Credevo
ti fidassi di me...» Le ribatté Camilla, con tono
di ironico dispiacere.
«N-Non
sono nata a Boreduopoli, ecco tutto. Ma ci vivo da quasi dieci
anni, e per me è come una casa.
Ma anche se ti spiego... Non capiresti...»
«Io
non voglio capire. Voglio sapere. Puoi raccontarmi qualsiasi
cosa, sta a me capire se stai mentendo o sei sincera.»
Un
leggero silenzio inebriò l'atmosfera a quella risposta assai
intelligente.
«...
Sono stata adottata. Punto e basta. Mio nonno Aristide... Non
è mio nonno naturale.
Lo so, avrei dovuto dirlo subito, ma non mi piace venire
commiserata.
Anche se sono la più piccola, la più inesperta o
la più debole voglio che voi siate sempre voi stesse. Non
voglio trattamenti speciali e non vi devo deprimere con le mie
storie.»
Iris
respirò profondamente. Si sentì libera da un
peso, appena Camilla le prese la mano.
«Capisco...
Esattamente come mi ha detto Nardo.»
«Eh?!»
«Scusa,
devo perdere l'abitudine di pensare ad alta voce - Iris credette di
aver capito male. Subito la giovane donna riprese. - E allora da dove
vieni?»
«Una
domanda ciascuna, avevamo detto questo!» La riprese Iris,
scherzando.
«No.»
Fu la risposta pacata di Camilla.
«Come
"no"?!» Iris si stava spaventando, rilassando ed eccitando
tutto allo stesso momento.
«No.
Non ho un obiettivo materiale. Lotto perché mi
piace, mi soddisfa e mi sfoga. Non mi interessa altro, non desidero
altro dalla vita.»
La giovane rispose alla domanda che Iris le aveva posto prima.
Le
due teorie sul senso della lotta, quella di Georgia e quella di
Camilla, saranno una calda questione per un dibattito. Entrambe, per
ora, sono valutabili corrette.
Iris
volle contraccambiare: raccolse il suo coraggio, per svelare il suo
segreto.
«Conosci
il "Villaggio dei Draghi"? È un piccolo paese al confine di
Unima. Io... Vengo da lì. N-Non me lo sto inventando, esiste
davvero!»
Cercò di spiegarsi velocemente la ragazzina. Si
sentì per un attimo patetica.
Ma
solo per poco, data la vasta conoscenza della sua interlocutrice.
«Si,
lo conosco. Ma sei stata fortunata, lasciatelo dire.»
E mentre lo disse, Camilla ebbe l'istinto improvviso di spingere Iris
contro il suo corpo.
Allargando
le gambe, le avvinghiò alla vita della ragazza, traendola
verso di sé.
Circondò il suo viso con le braccia, spingendo il suo volto
contro il suo stesso grande seno.
In
quella posizione Iris non seppe più come reagire: non era
mai stata così vicina a qualcuno. Non era mai stata nuda fra
le braccia di qualcuno, di una ragazza più grande di lei,
perlopiù.
Decise
di arrendersi, lasciare che il desiderio di godersi l'amicizia di
quella Campionessa imperversasse su ogni convinzione.
Appoggiò
il viso contro il suo seno bianco, sentendo sulla guancia la sua pelle
liscia come la seta, la morbidezza e il calore della sua carne. Con
delicatezza, appoggiò la mano sulla spalla di Camilla:
l'umidità del vapore però la fece scivolare piano
e, con una carezza, arrivò a toccarle il seno sinistro senza
premerlo per paura di farle male.
Iris
riuscì a sentire il battito del cuore di quella vergine.
D'un
tratto sentì sussurrarle all'orecchio.
«Stai crescendo cara. Stai diventando bellissima...»
Detto
ciò, Camilla le stampò un bacio sulla guancia e
la strinse ancora più forte.
Forse
è stato un errore da parte nostra non rivelare che
anche Iris, sebbene sia la più giovane fra le
ragazze, avesse comunque un corpo decisamente apprezzabile.
I
suoi quindici anni li dimostrava solo in altezza: non aveva mai dato
valore al suo aspetto fisico fino a quelle fatidiche parole.
Alta,
snella e longilinea, la sua pelle dall'abbronzatura uniforme color
caramello non si schiariva nelle parti intime, sul sedere e sul seno,
confermandone la naturalezza.
E
anche se più volte è stato ripetuto che le sue
misure non fossero sviluppate come quelle delle altre ragazze, il
destino doveva stare giocando il suo asso nella manica, un imbroglio
alla visione comune di un'estetica esageratamente ingiusta.
Forse
era ancora giovane, non sapeva se fosse stato temporaneo, forse davvero
la sua bellezza risiedeva in piccoli particolari, come la silhouette
perfettamente bilanciata ed armoniosa che il suo corpo disegnava,
quella propria di un'innocente fanciulla nata dalle ceneri degli
stereotipi comuni, bruciati dalla semplicità e dalla
purezza, come se si trattasse di una statua greca.
Doveva
avere più fiducia in se stessa, la nostra eroina.
E quella posizione ravvicinata ed intima la ispirava.
Le
due ragazze avevano sempre più una più voglia
dell'altra, separarsi da quell'abbraccio vitale pareva
impossibile.
Se
l'amicizia, il rispetto e la fiducia siano forme d'amore possiamo
domandarlo solo a Dio.
«Camilla,
- sussurrò Iris piano, schiacciando la guancia contro quel
morbido seno - grazie.»
«Di
cosa?» Le domandò la donna, leggermente curiosa.
«Di...
Tutto. Di proteggerci, di incitarci, di aiutarci, di volerci
bene... A nome di noi quattro siamo felici che tu sia la
nostra leader.
Più che una leader per noi sei... Come una sorella
maggiore.»
A
quel punto Camilla non seppe come reagire.
Davvero,
la spaventava leggermente tutta la fiducia che non solo la sua Iris, ma
anche le sue tre restanti ragazze avevano posto in lei. Non poteva
permettere che qualche desiderio o qualche ricatto strappasse quella
fiducia, o avrebbe rischiato che una di loro finisse per perdere
quell'agognato sorriso che aveva cercato di donare a quelle quattro
ragazze già dal momento in cui le aveva viste dall'alto
della Lega di Unima.
Infatti,
Camilla conosceva cosa si nascondesse sotto ogni sorriso di Anemone,
Camelia, Catlina ed ora anche dietro quello radioso ed innocente di
Iris.
Aveva chiesto di approfondire a Nardo, prima.
Non
poteva perdere, mai più, neanche per sbaglio, che si
trattasse di lotte o di vita.
Per
un po' Camilla si ritrovò a baciare inconsapevolmente la
ragazzina fra le sue braccia, con baci leggeri e trasparenti, ma con un
ritmo abbastanza regolare.
«No...
Grazie a voi. I vostri sorrisi sono ciò che più
mi interessa.
Anche se un giorno finirete per scontrarvi per il titolo di Campione,
non smettete mai di comportarvi come ora.»
Le sussurrò, respirando l'aria calda che traspariva dalla
vasca.
Ormai
il sole era calato ed un tappeto di stelle illuminava il cielo nero,
come i brillanti di una corona.
Per le due fu il momento di sciogliersi; Iris però non volle
mollare la mano della Campionessa.
«Questa
sera ci sarà un festival in città; potremmo
andare a mangiare fuori, e magari guardare i fuochi
d'artificio...»
«Non
potrei essere più d'accordo.»
E sorrisero insieme, all'unisono.
Quell'estate,
il sogno di ogni ragazza di quindici anni.
❁
D'estate
le notti si allungano. Diventano più luminose,
più colorate, più rumorose. E la leggera afa
scalda l'atmosfera, rendendo le notti ancora più calde.
Ancora
più vive. E anche più romantiche, se il sesso di
tarda serata in un parco completamente deserto alla periferia di
Sciroccopoli si può considerare "romanticismo".
Evitare
i paparazzi doveva essere la priorità, ma era una
priorità così effimera che entrambe se ne
dimenticarono subito, non appena la ragazza sentì il seno
libero dal reggiseno sganciato, ma comunque coperto dal top che
indossava.
«Ho
bisogno di stare con te; ho bisogno di farlo con te.»
Corrado
aveva mantenuto quella promessa, era riuscito ad ottenere
brillantemente ciò che voleva, soddisfatto della sua
abilità persuasiva: doveva ritenersi il ragazzo
più fortunato del mondo, se la nostra modella dai capelli
nero come la notte e gli occhi lucenti come l'alba gli stava baciando
il collo, e seduta fra le sue braccia gli donasse il piacere tanto
desiderato.
Camelia
aveva notato come quella giornata si fosse consumata lentamente, come
la cera di una candela accesa, silenziosamente, finché la
fiamma non arriva ad arrostire anche la sua stessa base.
Neanche
una parola da colui che amava, neanche un segno d'affetto fino a quel
momento in cui lei passava le sue umide labbra sulla sua pelle,
ruotando la lingua con movimenti circolari, ispirando l'odore della sua
carne ed il suo leggero sudore.
Davvero
esilarante: lei non voleva neanche essere lì quel giorno.
Camelia
era brava ad assecondare, a fare ciò che gli altri
desiderano; in verità era a scopo di difesa, per non dover
sentire il resto del mondo continuare a ripeterle che è ad
essere sbagliata era lei e non la loro inutile opinione.
Si
chiedeva se Corrado sapesse leggere il suo cuore, se capisse quanta
paura ci fosse dietro il suo falso sarcasmo e la sua falsa sicurezza.
Sperò
di no, che anche lui avesse bevuto la storia della modella orgogliosa,
bella, dalla lingua tagliente e il fisico di una dea; sperò
che la ragazza fragile e ferita, che piange in solitudine ripensando ai
rifiuti subiti nel suo orrido passato non l'avesse mai conosciuta.
Ed
intanto, mentre l'animo vacillava, le loro labbra si toccarono, la sua
lingua spinta contro quella di lui, per spegnere il mondo intorno a
loro non appena Corrado chiuse gli occhi, per assaporare quel momento
di intensa passione.
Se
la bocca della giovane non fosse stata occupata gli avrebbe chiesto:
"Mi ami?"
Ed una voce dentro al suo cuore avrebbe aggiunto: "Mi ami veramente?"
I
suoi occhi si alzarono al cielo per un momento: quella distesa vuota si
era coperta di stelle per lei, proprio in quella notte buia. Ognuno di
quei punti lucenti vegliava su di lei, perforando
quell'oscurità crescente.
Non
era uno spettacolo da film, ma la sicurezza che quegli astri le
infondevano le giovava particolarmente; era capace di apprezzare quella
scena, decisamente più gradevole della sua snervante ed
insapore giornata...
Si
chiese se anche Camilla, Catlina, Iris ed Anemone le stessero guardando.
Se
solo avesse rifiutato quell'appuntamento, il suo corpo non si sarebbe
riempito di tanto dolore.
Non
le era chiaro se stesse odiando di più se stessa, il suo
ragazzo, o il loro amore.
E
mentre fissava il cielo, Camelia desiderò più
luce per la sua giovinezza; anche se, quella terra non era il luogo
esatto in cui andarla a cercare.
Le stelle non cadono a terra, non cadono mai così in basso,
neanche per far avverare i desideri.
«Sei
distratta stasera... Lascia che ti riporti alla
realtà.»
Quella voce era di Corrado, proprio quella voce le fece cadere l'intera
volta celeste sulla testa.
La
sua mano le circondò la testa, infilandosi fra i suoi
capelli nero tinto, esercitando pressione, con quella forza che solo il
desiderio di lussuria sa dare.
Il
ragazzo spinse la testa di Camelia verso il basso, mentre le mani di
questa cercavano appoggio: la destinazione di quel gesto
sarà un deplorevole cliché, abbastanza adeguato a
quell'atmosfera però.
Possedendo
letteralmente la ragazza più sexy di Unima sulle sue
ginocchia, non poteva che desiderare di ridurla schiava di ogni suo
piacere, ignorando totalmente la sua dignità.
Quella
muta notte di periferia sarebbe stata testimone delle voglie sessuali
di un ventenne da lungo tempo astinentw se la nostra eroina non avesse
finalmente detto la verità.
Senza
mezzi termini, senza contare su quelle inutili battute che rendevano il
suo dolore interiore simile ad uno scherzo.
Si
stupì di quanto fosse facile dire “no”,
di quanto il suo suono, detto con convinzione fosse tanto potente da
fermare tutte le torture a cui le sue stesse bugie la stavano
sottoponendo.
Troppo
semplice ed indolore, per essere reale.
Il
suo fidanzato infatti la scortò con occhi truci: quanto deve
essere frustrante non riuscire ad ottenere il sesso orale tanto
agognato...
«Che
ti prende? Seriamente, stai diventando davvero stupida in questi
giorni.»
La aggredì lui. Non doveva aver considerato di sembrare
più aggressivo che mai.
«Amore,
non ho voglia stasera, - cercò di difendersi la ragazza,
suonando davvero patetica - non muori se per una sera non te lo
succhio.»
Lui
accese svogliatamente una sigaretta, la cui cenere brillava di un rosso
acceso.
Tenendola con l'indice ed il medio la passò alla giovane.
«Fai
un tiro, se sei nervosa.»
Per lui questo metodo funzionava, e non aveva voglia di trovare
un'alternativa per convincere la sua ragazza a calmarsi.
«È
inutile. - lo fermò lei, gettando il mozzicone acceso a
terra - lo sai che...»
Stava per cominciare un discorso che ripeteva da quando lei e Corrado
si erano appena conosciuti, e così le loro voci si unirono
svogliatamente in un coro per nulla sincronizzato.
«Ah...
Se fumi le tette ti si ammosciscono, perché il fumo
distrugge l'elastina, una proteina che rende la pelle
tonica...»
La giovane aveva ripetuto in modo convinto la sua teoria per la quale
si teneva lontana non solo dagli alcolici, ma anche dal
tabacco.
Corrado
invece dopo averla presa in giro ripetendo le sue stesse chiacchiere,
si zittì.
Del resto, era l'ultimo a poter commentare, se per primo aveva messo le
mani dentro il reggipetto di Camelia, toccando insieme ai suoi morbidi
seni un pezzo di paradiso.
La
ragazza scese dalle sue ginocchia: si sentiva violentata dentro.
A quel punto Corrado sospirò: un sospiro troppo breve e
sonoro per sembrare involontario o dispiaciuto.
Camelia
si rese conto che stava per cominciare un lungo discorso.
«Il
nostro amore non ha senso. Tu non hai assolutamente voglia di
impegnarti in una relazione seria.» Ammise, rilassando il
corpo in una posizione più comoda.
«Credevo
che il nostro amore avesse senso finché nelle foto
sorridevamo e io ti lasciassi insultarmi, sfruttarmi e sopratutto
toccarmi senza pretesti...»
Dopo
aver realizzato ciò che aveva detto, a Camelia venne voglia
di prendersi a schiaffi, questa volta più forte, magari
perfino offendendosi da sola. La sua mente aveva tradotto quella
freddura con un "sei un egoista che mi toglie la libertà di
scegliere, sono io la vittima qui, non obbligarmi a fingere di essere
interessata a te".
Lo
aveva ferito in pieno; ma quel ragazzo non sarebbe scoppiato a
piangere, come avrebbe fatto lei.
Si ricordò di essere lei ad avere bisogno di lui, non il
contrario.
Il
giovane dai capelli biondo saetta volle segnare la sua stoccata
finale.
Era inutile. Le ragazze viziate, che pretendevano
così tanto “rispetto” non gli
piacevano.
Chissà
se quella modella falsa come i suoi capelli tinti avrebbe imparato
a vivere nel mondo prima o poi, o si sarebbe convinta fino in
fondo che il cosmo girasse intorno a lei.
Corrado
estrasse il cellulare, quel maledetto cellulare dalla tasca,
illuminando lo schermo in mezzo a quella notte buia: i suoi occhi
funsero da magnete contro quelli di lei, attratti
più che altro dallo sfondo del telefono; l'ennesima foto di
loro due che sorridevano.
Con
nonchalance lo pose sulla mano della ragazza, con un sorriso ambiguo
sul viso.
«Camelia, sei una ragazza tosta, lasciatelo dire.»
Dopo
questa confessione, la ragazza si decise a guardare lo schermo di quel
cellulare. Ma se ne pentì amaramente.
«Quando
ti deciderai a lasciare quella modella schifosa? È quasi un
anno che io e te ci facciamo in segreto.
Non voglio essere la tua amante. Voglio essere la tua fidanzata.
Wow,
che delusionali le tue ammiratrici. Neanche un cuoricino o un'emoji
hanno messo.»
«Vai
avanti senza commentare, puoi farcela se ti impeegni.»
«Il
più presto possibile amore mio...? Poi la tizia risponde a
te: quella stupida montata non ti merita. Io non sono come
lei, lo sai.
Non hai bisogno di fingere come lei. Hai proprio sprecato il tuo tempo
con quella scema...»
Lo
shock fu tale per Camelia che non riuscì ad emettere neanche
una frase sensata per chiedere spiegazioni, anche se, cosa c'era da
spiegarle?
Tutto
era stato pianificato a sua insaputa, quella relazione clandestina
procedeva da abbastanza tempo, e ora che ne era venuta a conoscenza
desiderò staccarsi i bulbi oculari.
La
ragazza trattenne l'istinto di cacciare un grido isterico, mentre il
trucco pesante cominciava ad irritarle gli occhi.
Incredibile.
Il suo stesso fidanzato, la persona che lei amava e forse l'unico uomo
della sua vita di cui si fidava, le aveva sbriciolato davanti agli
occhi la sua maschera di sicurezza, solo per divertirsi nel guardare il
viso che nascondeva sotto.
«Miyagi
Jasmine, viene da Johto. Ha la tua stessa età ed
è anche lei una Capopalestra. Uscivo con lei prima
di conoscerti.
Dovresti incontrarla, è così una brava ragazza...
- disse il giovane, con tono sadico - Esattamente il tuo
opposto, direi.»
«Mi
stai tradendo, vero?»
Camelia lo disse piano, quasi sussurrandolo.
Come
un deserto a corto di pioggia i suoi occhi le proibivano di
piangere.
A
lui non poteva fregare di meno se la sua fragile ex si fosse sentita
ferita, ormai quella “Jasmine” deteneva il posto di
priorità nella vita di Corrado, un tatuaggio indelebile sul
suo cuore.
Il
ragazzo annuì. Il suo precedente comportamento
fuori dal normale era solo la fine del loro amore.
Questo
stava per andarsene, lasciandola lì, in quel parco, in
quella notte desolata, in quel mondo marcio e meschino. Era il suo "a
mai più".
«Non
mi puoi lasciare così! Non anche tu!»
Camelia gridò allungando un braccio per fermare
quell'istante d'inferno, per riportare indietro quella persona che
stava svanendo nell'oscurità.
Aveva
capito che la sua vita si stava ripetendo, ogni cosa ritornava a galla,
come se non fosse più stata in grado di soffocare il suo
miserabile passato.
Ancora
però nessuna lacrima era scesa.
Un
rumore sordo, appena la mano di lui le colpì con violenza il
viso, due volte.
Un istante dopo la ragazza si ritrovò a terra, sorreggendosi
su un ginocchio.
Non
le venne spontaneo rialzarsi, ma posarsi una mano sulle guance,
percependo la sua pelle tremare per il dolore, il suo animo per
l'umiliazione.
Non
era possibile, un altro schiaffo solo per aver detto come stavano le
cose.
Non le restò che farsi dare il colpo di grazia, mentre
Corrado si era già allontanato.
«Non
hai bisogno di nessuno, eh? - e con tono sarcastico, la
guardò un ultima volta negli occhi - come sei falsa... E
stupida.»
Dopo
qualche minuto, solo il silenzio della notte si abbinava alla sua
vuotezza interiore.
Per
qualche ragione Camelia non volle sfogare i suoi sentimenti, anche se
la sua snella e bellissima figura era l'unica rimasta in quell'angolo
di nulla.
Decise
di andarsene.
Finalmente,
di lasciare il parco della periferia della città natale.
Correre via, una volta per tutte, dal flashback lungo e doloroso che la
sua mente le propinava da quando aveva messo piede
lì.
Ingiusto.
Era come tenere un aspro limone stretto fra le labbra, l'essere tradita
e rifiutata da colui che lei aveva provato ad amare con tutto il suo
cuore e la sua forza.
Le
parve ironico ed umiliante. Non sapeva se ridere o piangere di tutto
ciò.
Del resto, non era la prima volta per lei.
«Questo
posto... Fa schifo come sempre. Sono venuta qui un po' di
anni fa, una notte.
La notte in cui proprio mio padre mi ha tradito, umiliato e dato della
falsa per aver detto la verità.
Come farò a dimenticare? Lasciamo perdere...»
Mentre
la ragazza camminava nella notte, sentì ancora il freddo
sulle spalle.
La
solitudine spirava da un vento leggero, ma abbastanza tagliente da
lacerarle il cuore.
Sorrise
amaramente, passandosi una mano sui capelli, mentre, con le cuffie alle
orecchie, ripeteva una triste canzone d'amore, e la periferia si faceva
sempre più una lontana illusione.
«Gli
uomini non fanno per me, ma io... Vorrei amare, un giorno.»
Prima
di preoccuparsi dello scandalo che i giornali avrebbero tratto dalla
sua falsità inconscia, Camelia si sforzò di
accettare il volere del fato: che sia Corrado che suo padre dovessero
avere entrambe gli occhi azzurri.
❁
«Abbastanza
penoso come giorno di vacanza.»
Il
cigolio della suola di scarpa che striscia fastidiosamente sull'asfalto
era solo la melodia, mentre una pioggia battente accompagnava i respiri
infreddoliti e seccati di una giovane.
«Perché
a Ponentopoli piova sempre, mi chiedo. E perché la pioggia e
i miei impegni siano sempre sincronizzati.»
Lanciò
un'occhiata all'orologio, inevitabilmente preciso nel segnalare il
ritardo capitale della sfortunata.
Il
paradosso del dover lavorare a tempo pieno proprio nell'unico giorno di
vacanza che avrebbe mai potuto ottenere fece gridare di rabbia
l'inconscio di Anemone.
Quella
era stata una giornata pesante e sgradevole, talmente tanto che le fece
quasi rimpiangere di aver abbandonato il liceo per dedicarsi
esclusivamente al suo lavoro. Si ricordò di quanto
fosse divertente in confronto scarabocchiare sul quaderno di
matematica, anche quando il sole alto nel cielo la invitava a disfarsi
di quelle preoccupazioni.
La
strada non si vedeva quasi sotto la luce fioca di lampioni, che
illuminavano solamente gocce di pioggia grandi come secchiate.
Anemone
non aveva neanche più voglia di tenere le braccia sopra la
testa per ripararsi.
Voleva
gettarsi seduta lì in mezzo al nulla, solo per non pensare
un attimo a quanto si sentisse presa in giro dal mondo: non avrebbe mai
mostrato quella tristezza a nessuno.
Ma
si trovò costretta a camminare, ripensando ai soldi che il
suo sudore amaro aveva portato a casa. Ora avrebbe potuto sfamare se
stessa e suo nonno.
Poi il cibo sarebbe inevitabilmente finito. E avrebbe dovuto sudare
ancora. E così all'infinito.
L'unica
via che l'avrebbe estratta da questo baratro pauroso era il pensiero
che il cielo non resta grigio per sempre, e che la notte è
composta da un limitato numero di ore. C'era il domani per Anemone,
completamente gratis.
E i pranzi e le cene che Nardo preparava a lei e le sue adorate
compagne.
La
ragazza si sentiva davvero imbarazzata pensando di essere l'unica che
desiderava diventare Campione solo per i soldi.
La faceva sentire egoista, lei che egoista non era.
Un
grido irruppe fra i suoi pensieri, riportandola alla
realtà.
«Hey
tu, spostati, idiota!»
Anemone
si voltò di scatto.
Aveva
ottimi riflessi, un fisico molto elastico ed era assolutamente conscia
di essere la più agile e veloce fra tutte le sue sfidanti
nella competizione. ma la tristezza e la stanchezza le appesantivano le
gambe.
Rimase a guardare i fari accecanti di un auto, una bellissima auto, per
qualche secondo, prima che questa le venisse quasi addosso.
Socchiuse
gli occhi, sotto quella pioggia.
«Fa
che mi sia rotta le gambe... Io... Non ce la faccio più
così...»
Sperò inconsciamente.
Anemone
si accorse subito di non aver perso i sensi come desiderava, di essere
ancora nel bel mezzo della strada e di essersi solo sporcata come un
gabbiano caduto in una chiazza di petrolio.
Rimase
zitta però.
«Avevi
intenzione di suicidarti? Perché hai aspettato l'auto
sbagliata - e sottovoce una voce femminile aggiunse - sporcare questo
gioiellino con il suo sangue sarebbe assolutamente
vergognoso...»
La
giovane dai capelli rossi alzò lo sguardo, come se il mondo
si fosse d'improvviso ingigantito: una ragazza era lì in
piedi.
Aveva
i capelli di un violetto chiarissimo, totalmente diverso da quello dei
capelli di Iris; erano raccolti in una coda, sistemati
ordinatamente.
Riuscì a notare nella foga come il suo trucco fosse
impeccabile anche sotto la pioggia battente, per poi abbassare gli
occhi e notare le scarpe di marca.
Non
le piaceva il suo sguardo.
Doveva davvero essere seccata dal loro incontro, sebbene lo avesse
deciso il caso.
«S-Scusami.»
Balbettò Anemone, cercando di rialzarsi.
Accennò un leggero inchino; doveva trattarsi di qualcuno
più importante di lei, anche se cosa ci facesse una giovane
riccona in giro a quell'ora le era ignoto. I ragazzi non
frequentavano quelle vie.
«Ma
almeno ce l'hai un ombrello?» La riprese la giovane riccona
con tono acido.
La ragazza scosse la testa. La proprietaria dell'auto
sbuffò, seccata.
Ma
poco dopo le labbra di quest'ultima si contorsero in un sorriso
forzato, come quello di una vipera.
«Allora
posso darti un passaggio. Ma attenta a non sporcarmi i sedili in
pelle.»
Anemone
tirò un sospiro di sollievo. Le disse a bassa voce la
destinazione.
Non era aveva mai visto un auto così lussuosa.
Con
la coda dei suoi occhi azzurri riuscì a spiare una
targhetta, attaccata ad una specie di uniforme che la ragazza dai
capelli azzurri indossava: Ogawa Alice, cognome e nome.
«Hai
una bella uniforme, Alice.» Le disse con un sorriso.
Voleva
solo conversare, almeno per distrarsi.
Quell'uniforme
effettivamente le piaceva. Così attillata, dal colore blu
scuro, ispirava una certa serietà. Aveva perfino un
distintivo dorato sul petto, raffigurante un'ala.
«Uh?!
- Alice si stupì che un'estranea (se così si
può dire) le rivolgesse la parola. - È l'uniforme
che a Hoenn viene data ai piloti che conseguono il rango più
alto. Sottufficiale pluripremiato, dopo aver conseguito quattro
brevetti. Diciamo che sono soddisfatta.»
Lo disse con molta sufficienza. Non la guardò neppure negli
occhi.
«Allora
anche tu lavori nell'aviazione? - La nostra eroina non perse la
speranza nell'attaccare bottone - Che coincidenza, anche io! Diciamo
che... Non sono al tuo stesso livello. Ho iniziato da poco e sono
ancora semi-professionista. E i nostri salari sono incomparabili,
immagino che neanche lavorando una vita riuscirei a permettermi un auto
bella come la tua.»
«Che
ingiustizia» voleva
aggiungere, mentre rideva innocentemente di quel pesante dato di
fatto.
Incredibile
che quel cielo verso cui spesso alzava gli occhi per cercare calma e
pace si fosse trasformato in un business perfido e selettivo, in cui
c'è chi fatica ad arrivare a fine mese per sfamare la sua
stessa famiglia, e chi ha abbastanza soldi da possedere un auto con i
sedili in pelle e un'uniforme che sembri davvero un'uniforme (Anemone
non vedeva l'ora di tornare a casa di Nardo e rimettersi il suo yukata
azzurro, odiava la sensazione dei vestiti bagnati e freddi che si
appiccicano alla pelle).
Ma
mentre la nostra eroina si struggeva riguardo le ingiustizie della
società, Alice esibì un ghigno quasi
sadico.
Per
lei era divertente quella storia, talmente penosa che suonava come uno
scherzo.
Quella sfortunata desiderava essere commiserata; ma lei avrebbe fatto
totalmente l'opposto.
Cominciò
a forzare una risata sarcastica, che spaventò Anemone.
«Davvero
lavori?! Quindi non sei disoccupata come credevo!»
Lo
sguardo di Anemone si mescolò fra lo stupore e
l'indignazione.
Non
reagì ancora.
«Beh?!
Che c'è da stupirsi? Una con i capelli tinti di rosso e
così spettinati non può assolutamente far parte
di una compagnia aerea...» Aggiunse con tono derisorio.
«I
miei capelli sono rosso naturale.» Le spiegò con
pacatezza.
Non
ci credette: Camelia non era l'unica ad aver creduto che lei avesse sia
i soldi che il tempo per colorarsi i capelli, quando a malapena si
comprava dei nuovi vestiti.
E
il fatto che i suoi ciuffi fossero sempre così ribelli e
sregolati era affar suo, non credeva?
Ma
quel demone in vesti umane non si diede pace. Volle continuare,
sadicamente.
«Che scempio... Se non usi i soldi per comprarti vestiti e
trucchi, per cosa li sprechi? Manga, anime, CD, inutili merchandise e
schifezze?! Sembri il genere di persona capace di farlo.»
Possiamo
immaginare che colpo duro sia stato per la nostra Anemone. Non
rientrerà perfettamente nello stereotipo della sfigata, ma
come sappiamo, la sua passione per i prodotti d'intrattenimento
giapponesi la portò a considerarsi sbagliata agli occhi
della società.
Lei
lavorava seriamente, leggeva e si svagava solo nel poco tempo
libero.
E inoltre la sua dieta si basava sul prezzo, mica sulle
calorie.
Normalmente
non avrebbe badato all'opinione di altri ma... Se glielo diceva una
vincente, una che nella vita ha successo e non deve vergognarsi della
sua condizione economica e sociale, quell'insulto la
devastava.
Il sangue le ribollì nelle vene, ma ancora una volta rimase
passiva, guardando quel mostro di ragazza con gli occhi di un bimbo
maltrattato.
Con
l'animo e il corpo a pezzi, Anemone giunse a destinazione.
Era
pur sempre in ritardo.
Dove
quella Alice avesse trovato il coraggio di distruggere ogni valore
morale, calpestando la sua dignità di essere umano, specie
nella condizione misera e deplorabile in cui era ed ancora si
ritrovava, si chiese a malincuore la giovane dai capelli rossi.
Sbatté
la portiera di quella macchina in faccia a quella lurida viziata.
«Che
maleducata... Pensi che ringraziarmi urti ancora il tuo orgoglio
inesistente?!»
Gridò quella giovane, fingendosi nauseata.
«Che
perdente. Un rifiuto umano. Il mondo è pieno di gente
povera, miserabile e abbandonata a se stessa come
lei.» Si
disse Alice fra sé e sé.
«Zitta
stupida. O il mio Swanna traforerà la tua testa con il
becco.»
Pensò
a denti stretti Anemone. Ma non fece nulla di quanto aveva
minacciato.
E
la pioggia cadeva ancora più forte sulla sua testa.
Sfilandosi
le scarpe zuppe con i piedi, Anemone ascoltava a tratti le sgridate che
suo nonno le affibbiava sempre più spesso, tanto che ormai
si era presa il privilegio di ignorarle.
Ormai
venire sgridata per aver fatto ritardo da suo nonno a diciassette anni
aveva cominciato a diventare umiliante.
Forse
senza che qualcuno glielo ricordasse avrebbe agito da
irresponsabile.
Ma l'essere senza responsabilità era il lusso più
grande che la ragazza non poteva permettersi.
Mentre
si asciugava svogliatamente i capelli dalle ciocche ribelli con un
asciugamano, le capitò di connettersi per un attimo alla
terra e di sentire qualche parola di quella filippica, che non fosse
stata coperta da un "si, lo so", "scusa" o "non succederà
più".
«Hai
perso forse l'abitudine di rispondere al telefono signorina?»
Le domandò l'uomo.
«Caspita,
io non ho più un cellulare.» Realizzò
concretamente Anemone.
Dopo
tutto quello che aveva passato in quel giorno d'inferno, l'aver
frantumato in mille pezzi l'unico cellulare che aveva mai avuto era il
suo ultimo problema.
Si
preoccupò di più delle spiegazioni che l'indomani
avrebbe dovuto dare a Iris, testimone del suo attacco d'ira.
«Devo
averla spaventata a morte...» Si
disse.
Ma
la sua bocca era già intenta a difenderla in un'ennesima
causa persa.
«Si
è rotto.»
No, non l'avrebbe bevuta.
Non
era stupido. Gliene importava di quell'aggeggio.
Non gliene poteva mica comprare un altro. Lei non era ricca sfondata
come Alice.
Tutti
quei pensieri si aggrovigliarono nella mente di Anemone, ripetendole
ancora, come se non ne avesse già abbastanza, quanto la sua
vita e la sua felicità stessero toccando il fondo, in una
tristezza inevitabile.
Ormai
quell'uccellino che la rappresentava era caduto in un cespuglio di
rovi, con le piume sporche e il becco lacerato, ed ogni tentativo di
liberarsi da quell'intrigo di spine e di dolore era vano, sempre
più sofferto.
Sarebbe
stata solo colpa sua se non fosse giunto alcun cibo al nido, se i suoi
piccoli fossero morti di fame.
«Ma
tanto, chi se ne frega.»
Anemone troncò suo nonno prima che le potesse
ribattere.
Di
ribelle era solo il suo aspetto, perché quell'uomo, che si
era preso l'impegno di crescere una bambina talmente problematica, non
si sarebbe mai aspettato una risposta del genere da lei.
La
rossa sentì di essere stata una ragazza obbediente, dedita
al lavoro e alla sua famiglia per troppo tempo.
«Chi
se ne frega se non ho una vita sociale, se non posso comprarmi vestiti
decenti, se non posso divertirmi per una sola volta con le mie uniche
amiche. Tanto io servo solo a tirare avanti qui, come se non fossi
neanche tua nipote...»
L'uomo
stava per zittirla.
Ma
lei ormai se ne era già andata, si era già chiusa
in quella camera che rappresentava il suo cuore, come una bambina
viziata dopo un litigio.
«Io
non sono per davvero sua nipote... Ho sprecato la mia vita.»
E
dopo quel pensiero Anemone si abbandonò al pianto,
accettando passivamente la sua condizione di schiava del suo stesso
altruismo.
Non
voleva scusarsi con nessuno. Non voleva mostrare quella sua depressione
a nessuno. Non poteva contare sull'aiuto di nessuno.
C'era solo lei in quel mondo.
Ma
poco dopo capì che così nessuno si sarebbe mai
interessato alla sua felicità.
❁
«Ragazze,
per favore ascoltatemi.»
Era
abbastanza inutile che Camilla chiedesse "per favore" per essere
ascoltata, ma ciò la faceva una leader più
amichevole.
«Spero
che la giornata di vacanza di ieri sia stata gradevole per tutte voi -
e rivolse uno sguardo ad Iris, per ringraziarla della serata "molto
intima" che le due avevano trascorso all'onsen -
ma oggi Nardo mi ha specificatamente chiesto di ammazzarvi di
lavoro.»
Anche
mentre aveva formulato quelle parole alquanto inquietanti, la giovane
Campionessa non aveva smesso di sorridere.
Le
quattro ragazze non ne furono stupite: quell'uomo si divertiva troppo
nel maltrattarle.
«Allora
- riprese Camilla - voglio che facciate del vostro meglio, come se
proprio oggi vi doveste scontrare nel TRUF.»
Ad
Iris venne spontaneo pensare "Io adoro questa ragazza".
Quando
si trattava di fare del proprio meglio era molto più
piacevole lottare, giocare solo per vincere era davvero noioso e
stressante.
E lei si era appena riposata, le serviva tempo per rimettersi al passo,
come quando finisce l'estate e il pensiero della scuola si fa sempre
più vicino.
Poi
la Campionessa di Sinnoh si rivolse a Catlina, che si
ritrovò un po' sbigottita dall'attenzione ricevuta, nello
stesso modo in cui il primo giorno l'aveva invitata ad uscire dal suo
silenzio e presentarsi.
«Catlina,
ti dispiacerebbe lottare contro sia Anemone che Camelia
contemporaneamente?»
Quella
richiesta lasciò le quattro Allenatrici senza parole.
«M-Ma,
due contro una è un po' sleale...»
Cercò di spiegarsi la rossa.
Solo per il fatto che si trattava di un membro dei Superquattro
necessitare l'aiuto di un'altra persona la metteva a disagio.
Chissà
cosa doveva pensarne Camelia.
«Ah...
Una specie di lotta in doppio?» Iris voleva chiarire.
Di
punto in bianco, Camilla scoppiò a ridere, sotto gli sguardi
interrogatori delle altre.
«Ho
detto che avrebbero lottato contemporaneamente, non insieme. - si
spiegò finalmente - Camelia, fingi che Anemone non ci sia, e
tu Anemone fai la stessa cosa. Lottate distintamente, insomma.
Catlina schiererà due Pokémon, voi fate del
vostro meglio per mandarli K.O. - E girandosi verso la ragazza dallo yukata rosa
- Va bene per te?»
«Certo.»
Gli angoli della bocca della bionda apatica si sollevarono per un
secondo in un flebile sorriso.
Che
divertente. Camilla davvero si aspettava che si sarebbe arresa solo
perché era da sola contro due Capopalestra. Non la conosceva
proprio.
«Ok,
cominciate!»
Dopo
aver dato il via alla lotta, Camilla si sedette accanto ad Iris.
La
ragazzina dai capelli viola fu molto fortunata, poiché le
tre giovani schierarono proprio i loro Pokémon migliori,
proprio secondo ordine della loro leader.
Brillante
come il sole, quella zebra dalla velocità e potenza
abbagliante di una saetta, Camelia aveva schierato la sua fidata
Zebstrika, già elettrizzata al pensiero di lottare.
Un
cigno dal bianco piumaggio si era librata in aria sopra la testa di
Anemone.
Quel suo Swanna stava per mostrarle il vero significato della parola
"volare".
Catlina
doveva giocare il ruolo sporco, ma si sarebbe affidata alla psiche,
come sempre.
In campo, il suo Reuniclus e il suo Musharna non sfioravano neppure il
campo di lotta, fluttuando in uno stato di trance.
Prima
di cominciare, gli occhi di Camelia e Anemone si incontrarono per un
secondo.
Nessuno dei due sguardi però ispirava sicurezza.
I
loro corpi erano ancora fermi, del resto.
Fermi nella notte precedente, a quel 'giorno di vacanza' che vacanza
non era stata, uno degli ieri più dolorosi per la vita di
entrambe.
Il
loro contatto visivo si staccò non appena si resero conto di
dover lottare da sole, contro nemici diversi, senza contare l'una
sull'altra.
Ma quello non era il momento giusto, quello non era il luogo giusto.
Camelia
sentì un leggero mal di testa, strofinandosi gli occhi.
Anemone invece capì che sulla sua gamba sinistra ancora
doleva un livido.
Nonostante ciò, il dolore fisico era mille volte migliore di
quel vuoto sanguinante e marcio che divorava il cuore.
La
battaglia cominciò secondo un ritmo regolare, con la prima
mossa alla mora e alla rossa.
Iris
si accorse che però Catlina sembrava impassibile.
Stava ragionando troppo nel scegliere il contrattacco e la sua
strategia di lotta non si basava assolutamente sulla
passività.
La
sua teoria fu contraddetta dalle azioni dei due Pokémon, che
già avevano eseguito la mossa Psichico in perfetta
sincronia, in una difesa perfetta.
In
effetti, Reuniclus si muoveva seguendo il ritmo incalzante della
Zebstrika di Camelia, schivando gli attacchi ripetuti; nel frattempo
Musharna doveva star cercando il modo con cui sbattere il
Pokémon Volante a terra, per ridurre la differenza di
agilità.
Spaventoso. I
Pokémon di Catlina si muovevano senza ricevere ordine.
«Stupefacente.»
Puntualizzò Camilla.
«Catlina
riesce a tenere testa a due lotte allo stesso momento, controllando due
Pokémon diversi secondo piani diversi... E tutto questo
nella sua mente.»
«D-Davvero?!
- Iris non credette alle sue orecchie - Quindi sta, tipo, usando la
telepatia?»
Esatto.
A lei il rumore non piaceva, lo aveva espressamente detto e per rumore
doveva intendere anche l'urlare i comandi in battaglia ai
Pokémon.
«Catlina
può agire con tutta la calma che le serve, dato che nessuno
può predire la sua prossima mossa e l'avversario
può contrattaccare solo una volta che la mossa è
stata effettuata. Solo gli Allenatori di Pokémon
Psico di livello altissimo possono destreggiarsi in questa maestria,
Allenatori che hanno capacità intellettive superiori a
quelle fisiche.»
Guardandola
bene, Iris vide che gli occhi spenti della bionda fissavano un punto
lontano, come se non guardasse neppure il campo di lotta.
Aveva un'aria concentratissima. Non si sarebbe mai aspettata che quel
cadavere fosse un'avversaria tanto temibile.
Intanto
Camilla gettava l'occhio sul come lottassero le tre Allenatrici, fiera
di quella specie di gioco che si era inventata.
Le sue ragazze dovevano innanzitutto divertirsi, poi fortificarsi e
infine preoccuparsi di sconfiggersi.
Per
un secondo si domandò sarcasticamente come fosse possibile
che la sua cara amica di Sinnoh non l'avesse sconfitta nemmeno una
volta.
Era una ragazza piena di volontà, nonostante la sua
espressione perennemente stanca.
Anche quando erano piccole, sei anni appena, quando le mosse dei
Pokémon presi in prestito dai genitori di lei erano innocue
e leggere, quando il famoso stile e le spudorate tecniche erano
limitate ad un mero attacca-e-schiva.
La
giovane donna chiuse gli occhi e scosse la testa: un ricordo triste era
imperversato.
Un ricordo che connetteva l'amore per le lotte e la loro amicizia con
un filo sporco di sangue.
❁
Dallo
sguardo incerto che le due sfortunate Capopalestra si erano scambiate,
la situazione era solamente precipitata.
Si
chiarirono le idee: quella non doveva essere la loro giornata, era
tutta sfortuna.
Ma per un Campione non dovrebbero esistere le brutte giornate e la
sfortuna.
Solo
l'inettitudine giustificava il fatto che Zebstrika e Swanna a malapena
sopravvivessero fuori dalla Pokéball: attaccare era una
rarissima chance, la quale finiva inevitabilmente sprecata; schivare
era una fuga stancante, che invece non sarebbe più finita.
«Catlina
mi deve odiare tanto... Sarà perché io a
differenza sua mi prendo cura della mia pelle... Guardala, è
pallida da far paura e tutte quelle borse sotto gli occhi non
passeranno con qualche goccia di crema...»
Camelia
non era nella posizione di distrarsi e fare una battuta scontata, lo
faceva tanto per prendersi in giro.
Gli avversari tosti vanno mandati giù in un colpo, le
avevano insegnato.
Ma
se le era difficile perfino realizzare le mosse di Catlina, quanto
avrebbe dovuto aspettare prima di trovarsi faccia a faccia con quel
Pokémon Cellula, e sopratutto, quante gliene avrebbe suonate
se Zebstrika se lo ritrovava di fronte?
A
Camelia toccò giocare uno svogliato asso nella manica, gli
occhi le bruciavano troppo.
«Scarica!»
Un'onda
luminosa di pura elettricità si spanse in tutte le
direzioni, creando un campo di luce che avrebbe prima o poi urtato
tutti gli ostacoli presenti nel campo di lotta.
«Porca
miseria! Ho colpito anche lo Swanna di Anemone...»
Camelia lasciò scappare un sospiro ansimante, coprendosi la
bocca con le mani. Non si era accorta di aver commesso un grave
errore.
Le
venne per l'ennesima volta voglia di picchiarsi con violenza.
Solo per la sua brama di liberarsi da quella lotta stressante aveva
inconsciamente causato la sconfitta per quella ragazza.
Si morse il labbro, che fremeva dal bisogno di chiederle sinceramente
scusa.
«A-Anemone,
scusami, non avevo considerato che Scarica colpisse tutti i
Pokémon in campo...»
Si degnò finalmente di rivolgerle la parola, se non altro
anche la sua voce era del tutto rotta.
«Tranquilla,
non fa nulla.» Anemone cercò di
tranquillizzarla.
La sua compagna non meritava di essere insultata, lo meritava meno di
chiunque altro.
«Non
fa nulla?! Il tuo Swanna è allo stremo delle forze, hai
praticamente perso a causa mia.»
«Vero.
Ma... - La rossa si interruppe e diede una forte scossa alla spalla di
Camelia - Lo sai che stiamo ancora lottando?!» Le
gridò.
«Pensi
che me ne freghi ancora di questa stupida lotta? - E si
voltò verso Catlina, che non aveva rotto per un secondo la
sua concentrazione - Mi arrendo.»
Una
Capopalestra che si arrende ancora prima di aver perso... Davvero
deplorevole.
Camelia
non ci badò molto, e si avvicinò all'orecchio
della ragazza che si era degnata di perdonarla.
Com'era dolce poter dire le cose come sono... Senza essere odiata.
Indicò
Swanna, la cui energia era sull'orlo dell'esaurimento.
«Conosce
una mossa che sia potente? Non importa di che tipo sia, ma la tua
squadra è veloce, più della mia. Usala ora e
finiamo questo strazio.» Le sussurrò.
Quell'alleanza
improvvisata (e fuori dalle regole) fu accolta da Anemone, ormai senza
speranze. Come una luce nel buio, quella modella buona solo ad
insultare stava cercando di aiutarla a modo suo.
Non
ci credette, ma annuì al suo piano.
«Baldeali!»
E in quell'ultima mossa ci mise tutta la sua fiducia.
Tutte
le ragazze incollarono gli occhi a quella che sembrava la mossa
decisiva. O la va o la spacca, come si suol dire...
«Ma
Baldeali non fa subire al Pokémon che la usa un contraccolpo
pari a un terzo del danno inflitto?»
Iris espresse quel dato di fatto ad alta voce.
Era
vero, in effetti. Bisogna sempre considerare i contraccolpi, non si
può uscire da uno scontro diretto senza neanche un graffio,
specie a quella velocità.
«Oh
diamine, me ne sono totalmente dimenticata!»
Anemone si batté fortissimo la fronte.
Sia
lei che Camelia avevano fatto la loro becera figura.
Desiderò sparire dalla vergogna.
«Iris,
perché non impari a stare zitta?!» Le
gridò Camelia.
«Scusami
se non ho inventato io le dinamiche di lotta. Poi non avevi detto che
ti arrendevi e che non te ne fregava niente?»
La ragazzina alzò le mani aperte in segno di
moderazione.
Trovò
divertente come neppure la modella sapesse reagire ad una sconfitta.
«A
me no, ma a lei penso che importasse! Mi dispiace per te Iris, hai
perso l'unica amica che avrai mai qui.»
Camelia indicò Anemone, che la fissava frastornata. La rossa
aveva avuto una brutta serata, e davvero non le andava che si
scatenasse qualche litigio, un altro litigio, l'ennesimo fra Camelia ed
Iris.
Inoltre
era la sua stessa dimenticanza a procurarle la sconfitta, la mora aveva
solo cercato di darle un consiglio per evitare il suo stesso errore. Il
fallimento infine era pura sfortuna.
«Basta.»
La
voce era quella di Nardo che fece trasalire le cinque, cancellando
completamente la discussione precedente. Un vero dilemma è
da dove fosse uscito ed in che modo avesse assistito alla lotta, se per
tutto il tempo non si era visto.
I
segreti alquanto equivoci, ma in un certo senso comprensibili di un
Campione che desidera che i suoi successori siano allenati al meglio.
«Catlina,
- La giovane bionda non reagì alla voce tanto risoluta
dell'uomo, essendoci abituata - ottimo lavoro, controlli con sempre
più maestria le tue abilità psichiche. Se
mettessi tutta questa energia anche durante le lotte alla Lega invece
di dormire in piedi... letteralmente...»
Lo
aveva detto in senso affettuoso, tanto per non dare troppe arie alla
sua dipendente. Catlina invece non batté ciglio.
Non poteva negare di preferire l'ozio sopra ogni cosa.
Nardo
rivolse poi il suo sguardo verso le due Capopalestra.
Uno sguardo davvero truce, quasi volesse dannarle solo con gli occhi;
fece rabbrividire sia la mora che la rossa.
«Per
quanto riguarda voi due - Stava per cominciare la predica - "penoso"
è l'unica parola che mi viene in mente per descrivere questo
scempio di lotta. Sarò dritto al punto: sembravate ubriache,
senza alcuna coscienza delle mosse che steste usando... Fino a tal
punto da ignorare le regole che la vostra leader vi ha posto.
Vergognoso.»
Essere
sgridati da Nardo faceva sempre un certo effetto: perfino Camelia si
ritrovò ad abbassare leggermente gli occhi. Anemone non
riusciva nemmeno a guardarlo.
Che
situazione imbarazzante e le situazioni imbarazzanti sono le
più difficili da scordare.
«Esattamente.
Siete state smascherate.
Ero certo che lasciarvi un giorno di vacanza non era una buona idea:
voi adolescenti siete davvero prevedibili. - E rivolgendosi a Catlina,
Camilla e Iris aggiunse - Questo vi insegni a tenervi lontane dagli
alcolici, ragazze.»
La
teoria di Nardo era una buona supposizione: secondo lui le due dovevano
aver trascorso la giornata precedente fra feste e cocktail, ignorando
gli effetti che questi danno al cervello (se una vodka rende quasi
impossibile camminare, pensiamo al lottare).
Ma
in verità, l'unica nube che annebbiava la mente di Camelia
ed Anemone era un dolore interminabile, che non riuscivano ad ignorare
per pensare alla vittoria.
Non erano loro stesse quel giorno, ma nessuna di loro due era conscia
che la sua compagna stesse condividendo i suoi stessi sentimenti.
Le
loro obiezioni si mescolarono in un tartagliare di parole insensate,
l'uomo non voleva sentire scuse.
«Avete
bisogno di riflettere. E conosco già il modo in cui potrete
dimenticarvi delle vostre serate hard...»
No.
Non poteva davvero intenderlo.
«Tutto
- Si dissero le due sfortunate Capopalestra con gli occhi -
tutto ma non... Quello.»
«Magari
la prossima volta dovrebbero lottare in doppio. Da sole sono proprio
spacciate.»
Si disse Camilla.
❁
Il
vecchio garage che si trovava sul retro dell'abitazione del Campione
non somigliava minimamente ad una sauna, se non per il fatto che il
caldo insopportabile già aveva lo stesso effetto di vapore
professionale.
Perlomeno
il lavoro di Camelia ed Anemone nella loro precedente punizione aveva
ripulito il pavimento dai calcinacci e dalla muffa.
E se avessero utilizzato la colla per i rivestimenti delle pareti
invece che per tirarsela addosso avrebbero anche potuto evitare di
venire punite ancora.
Anemone
si era domandata se la sua impegnatissima compagna avesse davvero
passato la serata precedente a calarsi alcolici ad una di quelle feste
per celebrità riccone.
Non
se la sentiva di chiarirsi il dubbio però. L'aveva vista
diversa. Era pura intuizione.
Entrambe
lavoravano per conto proprio, anche se evitare di guardarsi in pochi
metri quadrati di spazio era impossibile.
Osservandosi
a vicenda, Camelia aspettava impazientemente che la rossa tirasse fuori
uno dei suoi sorrisi venuti dal nulla, facesse un commento o una
battuta per nulla divertente, così lei avrebbe potuto
prenderla in giro; scherzare; magari ridere.
Camelia
si stava macerando le labbra a morsi e la sua bocca aveva il sapore del
sangue.
I suoi occhi invece pregavano per essere ripuliti da quel trucco
pesante e fastidioso ed infine essere chiusi in un sonno profondo.
Passare
il resto della nottata precedente sdraiata sul suo letto, leggendo e
rileggendo vecchi messaggi, ad ingrandire i sorrisi che nelle foto
apparivano reali ed immacolati, ascoltando a ripetizione la stessa
canzone le cui parole descrivevano la sua vita l'aveva distrutta
fisicamente e psicologicamente.
Senza
accorgersene, per la seconda volta la ragazza dallo yukata giallo
lasciò che le lacrime le facessero sfogare la sua
frustrazione.
«Ma
che ho fatto di male per meritarmi di essere tradita...
Corrado...»
La sua voce aveva cambiato totalmente tono, diventando più
sottile e piacevole.
Ed
Anemone lo notò subito.
Non
vedeva l'ora di poter finalmente rivedere quel lato di Camelia che le
piaceva, che le provava quanto fosse fragile.
Non ci credeva all'incarnazione dell'egoismo in lei, quale persona
egoista si comporterebbe in maniera gelosa e protettiva, com'era stata
nei suoi confronti la prima volta?
La
rossa sorrise al pensiero di poter essere solo lei l'unica a
consolarla, l'unica di cui avesse bisogno in quel momento.
Le appoggiò la mano sul viso e fece incontrare i loro occhi,
sperando di non venire scacciata.
«Camelia,
stai bene?»
Non
era riuscita a trovare parole più originali, il suo cervello
era troppo occupato a seguire la direzione in cui sue lacrime le
scorrevano lungo il viso.
Per
essere una modella, era ovvio che dovesse possedere occhi
così belli, azzurro chiaro.
Anemone si augurò che la sua fosse solo ammirazione.
Tuttavia
la mora non le rispose.
La
modella si ripeteva per l'ennesima volta quanto i suoi sentimenti
fossero patetici e vecchi. Si sarebbe auto-minacciata di picchiarsi, ma
avrebbe solo pianto di più.
Perché
Anemone non la lasciasse sola e non continuasse il suo lavoro evitando
che Nardo la potesse punire per la terza volta, si chiedeva.
Alcune
parole le giunsero alle orecchie, come una melodia curativa.
«Se
continui a stare zitta finirai per riempirti di tristezza e continuerai
a piangere la stessa cosa per sempre... Per quel poco che posso fare
vorrei sapere che cosa è successo. Se non me lo
vuoi dire significa solo che è una cosa che puoi risolvere
da sola.
M-Ma ricordati che io ci sono sempre per te!»
E
vide Anemone arrossire spaventosamente, coprendosi la bocca
dall'imbarazzo per quelle parole.
Incredibile,
esistono davvero le persone altruiste, sebbene sotto forma di
Capopalestra rosse con evidenti problemi di schizofrenia, disposte a
trasformarsi in psicologhe solo per fare un bel monologo profondo ed
intelligente. Ma senza alcuna ipocrisia.
Il
rosso sul viso di Anemone diventò intenso quasi quanto
quello dei suoi capelli appena Camelia appoggiò la testa
sulla sua spalla: non poteva risolvere tutti quei problemi da sola, ne
aveva avuto la prova la sera precedente.
Alla
rossa venne l'impulso di accarezzarle i capelli neri, sperando che ora
le avrebbe aperto il suo cuore chiuso con mille lucchetti di ferro.
«Anemone...
- Glielo sussurrò con una voce limpida, come se avesse
ingoiato le sue stesse lacrime salate - ti ha mai lasciato un
ragazzo?»
«No.
Non mi è mai capitato.» Le rispose piano.
«Stai
mentendo. - La sua voce era ancora vellutata - Mi avevi detto che avevi
un ragazzo alle medie, che ti ha lasciato...»
Camelia si ricordava il divertimento che aveva provato nel prenderla in
giro quella volta, e ripescarlo dai suoi ricordi la fece sentire
leggermente meglio.
«Me
lo sono inventata, lo ammetto. Figuriamoci. Alle medie i maschi non mi
lasciavano giocare con loro perché li picchiavo.
In diciassette anni di vita non ho mai baciato nessuno, vergogna cada
su di me... Ti ha fatto tanto male? Come succede nei film o
nei libri?»
La rossa aveva cominciato ad accarezzarle anche la guancia umida, come
se si trattasse di un'amica cara.
Sperò
tanto che le amiche si comportassero così anche nella
realtà, non solo negli anime per ragazzine. La mora infatti
la strinse più forte, affondando gli occhi nella sua spalla.
«Peggio.
Mi sento la persona più stupida del mondo.
Non riesco a dimenticarlo. Io lo amavo, e lui mi ha tradita... Non puoi
capire quanto faccia male... Non riesco ad odiarlo... Ma tanto
è solo colpa mia... Non tornerà mai
più...
Alla faccia dell'amore che vince sopra ogni cosa.»
Tutte
quelle parole miste a singhiozzi silenziosi fecero dimenticare ad
Anemone della classica storia d'amore infranta da un tradimento. C'era
qualcosa sotto.
«Non
mi sembra la prima volta che ti lasci con un ragazzo, che hai quel
genere di rapporti ... Non avevi altri fidanzati
prima? Hai reagito così anche per loro?»
Alla rossa parve giusto domandare.
«No...
sono stata con molti altri, alcuni li ho anche lasciati io, ma lui...
Lo amavo davvero. Significa che lui era davvero la persona
più importante per me.» Si convinse ad ammettere
Camelia.
«No,
idiota. - Anemone le rispose secca, ma con un sorriso sulle labbra. -
Significa che hai perso fin troppo tempo a cercare qualcuno a cui
appenderti. Hai intenzione di concederti ogni ragazzo della Terra
finché non ti rimarrà neanche un pezzo di cuore
nel petto?
Io ci tengo a te, e non ti serve un uomo per essere felice.»
Camelia
non aveva idea di cosa pensare dopo quel discorso.
Non
ci poteva credere, ma quella logica femminista e alquanto ambigua aveva
un senso.
Ogni
ragazzo con cui si metteva e lasciava le portava via tempo, consumando
la sua giovinezza come aveva fatto prima con la sua innocenza, poi con
la sua verginità.
Camelia
non beveva o fumava ma era riuscita comunque a rovinarsi da sola nel
corpo e nello spirito: e sperava che qualcosa sarebbe pure cambiato
continuando così.
«E
quindi?» Le domandò con lo stesso tono.
«Dammi
il tuo telefono.» Le sorrise la rossa.
Pochi
secondi dopo la sua disperazione per l'essere stata brutalmente
scaricata si era trasformata nel rimorso per aver ciecamente affidato
il suo cellulare a quella pazza.
«Cancella,
cancella, cancella, cancella...» Ripeteva Anemone come una
cantilena.
«Ma
che stai facendo?»
«Ti
riporto nel presente, mia cara. Il tuo telefono è in diretta
connessione con il tuo cervello: quindi ci basta cancellare tutto
ciò che ti ricorda le tue vecchie delusioni d'amore. - E
continuando a spiare innocentemente la vita privata della modella,
Anemone non si risparmiò qualche commento. - Q-Questa foto
avrei fatto meglio a non vederla, immagino...»
«Non
toccare i numeri in rubrica...» Camelia fu interrotta, mentre
cercava di togliere il cellulare dalla stretta di ferro di quella
ragazza.
«Salvi
troppe persone con il nome "amore"... Di questo passo la prossima
sarò io...»
«A
proposito, dolcezza, tu non mi hai ancora dato il tuo numero di
cellulare...» La investigò la mora.
«Ti
prego, non voglio sentire parlare di telefoni almeno finché
non me ne pioverà dal cielo uno nuovo. E più
resistente alle cadute.»
Le
due risero per un po' e provarono a loro stesse che il dolore non
è invincibile, fa solo più paura quando si
è soli.
❁
«Non
è possibile Camelia, hai avuto più fidanzati tu
che delusioni io...»
«Anemone,
non ti capisco: dici che si può essere felici anche senza un
fidanzato e continui a lamentarti di essere sola, triste e ancora
vergine...»
«Non
mi sono mai lamentata di essere ancora vergine!»
«Ma
i tuoi paradossi confondono me e i lettori, devi spiegarti
meglio.»
«Come
posso spiegartelo... È una cosa complicata... Aspetta, siamo
alle battute di fine capitolo, non possiamo dilungarci! Mi risparmio un
monologo.»
«Aspetta!
Che significa?!»
«C'è
un luogo e un tempo per ogni cosa, ma non è qui e
ora.»
«C'è
sempre quella persona che riesce a farti sentire meglio con la sua
simpatia e le sue battute divertenti e ironiche, anche qui ed ora... Ma
non sei tu, questo di certo.»
«...allora
fai solo finta di diventare dolce e gentile, sotto sotto rimani sempre
la solita Camelia antipatica, prepotente e con manie di bullismo
seriale.»
«E
tu rimani sempre la solita noiosa, asociale, bisbetica e vergine di
sempre, allora...»
«Perché
adesso torna in ballo il fatto che io sia vergine?!»
«Vedi
che allora te ne vergogni, solo un pochino?»
«...Ti
voglio bene, ma ti detesto a morte quando fai
così...»
«E
un'altra vittoria per la Dea del Sarcasmo, con la "S"
maiuscola.»
❁
Behind
the Summery Scenery #9
1.
Per quanto a noi occidentali possa sembrare strano, la cultura
giapponese del bagno è ancora diffusissima tutt'oggi, se
desiderate approfondire vi manderei su wikipedia senza problemi. Oppure
guardatevi una VA di Anri Okita e Kaho Shibuya, due esperte nella
questione. Eheh.
Update:
Kaho-chan si è ritirata. Raga, cosa devo fare io della mia
vita di merda ora?
2.
A Unima c'è o non c'è un servizio ferroviario per
i poveracci senza Pokémon Volante? Dove porta il treno che
passa sotto il Ponte Propulsione? Quando gli headcanon incontrano la
fantasia.
3.
Tuttavia nuotare, lavarsi e sopratutto amoreggiare negli onsen
è maleducazione, sappiatelo bene. Solo che Camilla se ne
frega perché ho scoperto che la gente dell'Hokkaido
è vista dai giapponesi delle altre regioni come cocciuta e
individualista. Ma a noi gli stereotipi non piacciono, no?
4.
I sub-capitoli servono molto allo scopo di fanservice. Non
sempre, ma spesso.
Update:
i sub-capitoli non ci sono più, quindi il fanservice
dilagherà anche nelle sezioni che servirebbero a portare
avanti la trama principale e voi ne sarete felici.
5.
Se pensate che la coppia Camilla X Iris sia del tutto campata in aria,
vi suggerirei di guardare i primi episodi della serie Best Wishes 2
dell'anime e di ascoltare bene che cosa dice Camilla quando la si sfida
in Nero/Bianco.
Anche
per la loro coppia ho trovato un nome totalmente originale, SecretTimeShipping,
visto che (quasi) tutte le interazioni amorose fra la Campionessa e la
sua eramene avvengono all'insaputa delle altre tre e quindi in segreto.
Si tratta di una relazione basata sul forte senso di ammirazione di
Iris ed il desiderio di Camilla di amare ed essere riamata, con
l'aggiunta di barriere congetturali quali i loro ruoli e la loro
età... O forse è qualcosa di più?
6.
I due "notturni" descritti nelle prime due scene altro non sono che un
ammasso di pretesti che dovevano essere comuni sia a Camelia che ad
Anemone (incontrare indirettamente le cattive, subire un rifiuto,
scontrarsi con un personaggio maschile, ecc.) per deprimerle.
7.
La scena della lotta, ho notato, prende seriamente troppo spazio nel
capitolo, ma d'altro canto, sono quasi tre capitoli che Catlina se ne
sta con le mani in mano...
8.
Dopo il dialogo finale fra Camelia ed Anemone doveva esserci una scena
per risollevare lo spirito dopo tutta questa spirale di tristezza e
depressione, ma per motivi d'intreccio è stata spostata al
capitolo 13. Spoileratevela, provateci, su, io sto qui ad aspettarvi.
9.
Se le due ragazze vi sono sembrate decisamente OOC in questo capitolo,
beh, dovreste continuare a leggere: le vostre aspettative non verranno
deluse. L'avvertimento è lì apposta.
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Capitolo 10 *** La principessa del nulla ***
ESGOTH 5
❁
A story
by: Momo
Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing: 🍦
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Early
Summer Girls
❁
Capitolo
10
La
principessa del nulla
La
luce del sole mattiniero prometteva una giornata di "vacanza"
abbastanza buona, anche se Catlina non riuscì ad evitare di
coprirsi la testa con le mani, senza neppure fare lo sforzo di alzarsi
dalla stuoia in carta di riso su cui lei e le sue compagne dormivano.
Era
sveglia, anche se il desiderio di richiudere gli occhi la
struggeva.
Poco
dopo si accorse che le altre si dovevano essere già alzate;
fece lo sforzo di unirsi anche lei al gruppo.
Non
poteva proprio passare quel giorno di vacanza da sola, nel suo mondo di
vividi sogni?
«Buongiorno.»
Salutò educatamente.
Camilla
le stava sorridendo gentilmente, inginocchiata vicino al
tavolo.
Dal
delizioso aroma zuccherino presente nella stanza la ragazza dedusse che
stava preparando del tè, proprio come l'antica tradizione di
Unima proponeva.
«È
un po' tardi ora per un "buongiorno"; è l'una di
pomeriggio.»
Le disse Camilla scherzando.
«Eh?!»
Catlina tirò un respiro sorpreso, lasciando l'aria a
metà fra i polmoni e la gola.
No,
per lei era normalissimo dormire così tanto, era reduce di
giornate intere passate senza neppure alzarsi dal letto o aprire gli
occhi, quando i suoi genitori si domandavano se le fossero venute le
piaghe da decubito.
Si
ricordò invece dell'invito di Iris. Oggi si doveva andare in
spiaggia, a Spiraria.
Aveva confermato anche lei, e la sua dimenticanza aveva rovinato
tutto.
Non
si sarebbe stupita se l'avessero definita un'asociale, ma quella volta
le fece peso sul cuore, per una volta che desiderava aprirsi e
condividere un'esperienza di svago con qualcuno.
La
sua preoccupazione fu smentita dalla risata dolce di Camilla.
«Tranquilla.
Abbiamo dovuto annullare, causa: i soliti impegni dell'ultimo minuto. E
non sapevamo se tu saresti venuta o no... Lasciamo stare. - la
Campionessa decise di cambiare argomento - hai dormito bene?»
«Potevo
rimanere a dormire allora...» Pensò
la biondina, seccata e imbarazzata.
Catlina
non sapeva come rispondere a quella domanda.
Avrebbe
dovuto raccontarle di aver fatto un sogno, quella notte. Dirle che per
fortuna era un bel sogno.
Ripensava
da tutta la mattina (o i pochi istanti passati fra quel momento
d'imbarazzo e l'istante in cui aveva maledetto il mondo per il semplice
fatto di esistere) a quel sogno.
Un
sogno così dolce, carino e perfetto che sembrava
più che
un sogno un'illusione: una specie di primo appuntamento.
La ragazza sospirò, quel pensiero le gravava sopra la testa
come la lama di una ghigliottina.
Ciò
la imbarazzava. Parlare con Camilla dopo dodici anni la
imbarazzava sempre; si limitò ad annuire, arrossendo
leggermente.
Rimase
intanto ad osservare la sua compagna, rigirandosi una ciocca dei suoi
lunghi capelli profumati alla vaniglia fra le dita, domandandosi come
passare la restante metà di quella giornata.
Il
silenzio di quella mattina fu improvvisamente rotto da un voce davvero
armoniosa, e davvero familiare.
«Papà,
sei in casa? Sono venuta a lasciarti la bambina.»
Si
sentì un ritmo scandito da due passi incrociati: una corsa
scalpitante e dei passi lenti e rilassati sul pavimento in tatami. E in
più il cuore di Catlina, che aveva ricominciato ad agitarsi,
mentre lei cercava di sopprimere tutta quella preoccupazione.
No,
non poteva essere lei. Ancora.
«Buongiorno,
Marina.»
Troppo tardi: Camilla le aveva già rivolto un rispettoso
inchino per salutarla.
La
giovane donna dai lunghi capelli rosso vermiglione appariva raggiante,
contraccambiando l'inchino.
Dopo
alcuni convenevoli (a cui solo Camilla rispose) sul come procedessero
gli allenamenti e se si trovassero a loro agio nella casa di suo padre,
la donna cominciò a guardarsi intorno.
«Ragazze,
avete per caso visto Nardo? Oggi sono occupata e mi aveva promesso di
badare a mia figlia almeno fino a stasera... Ecco, deve essersene
dimenticato...»
Era davvero strano come Marina somigliasse ad una donna moderna,
precisa ed impegnata, mentre suo padre Nardo aveva tutt'altra filosofia
di vita.
«È
uscito un'ora fa. Non me ne stupisco comunque, da quando noi cinque
ragazze conviviamo con lui il Campione ha altri pensieri per la
testa...» Ammise Camilla.
Ma
una voce di bambina superò in acutezza la sua, echeggiando
per
tutta la stanza. Quella dolce voce aveva lo stesso volto di Marina, i
suoi stessi occhi, i suoi stessi capelli arancio acceso.
E
perfino la stessa sorpresa e felicità che aveva avuto
nell'incontrare le due ragazze la prima volta.
«Mamma,
ci sono le mie amiche Campionesse!»
Detto ciò la piccola Giulietta esultò, correndo
ad inginocchiarsi vicino a Camilla.
Catlina
si scostò leggermente. Quella situazione era davvero
snervante;
sperò che la bambina di soli cinque anni sarebbe rimasta
lì ancora per poco.
«Giulietta,
non dare di nuovo fastidio alle ragazze. Il nonno ha detto che oggi
loro sono in vacanza.» Sua madre la rimproverò.
«Non
sta dando alcun fastidio, non preoccuparti. - Camilla si era alzata,
rassicurando la donna - Anzi, se Nardo non ha intenzione di tornare
presto possiamo pensare io e Catlina alla piccola. Spero che tu abbia
fiducia in noi.»
A
quel punto la ragazza dallo yukata rosa
pesco lasciò trapelare dalle labbra pallide un'esclamazione
sorpresa: si chiedeva se il mondo si divertisse a metterla a disagio
ultimamente.
La
giovane si era imposta di combattere la sua sociopatia, ma dopo che
quella bimba le aveva quasi tolto di dosso il costume la prima volta,
sentiva che una crisi di nervi era imminente. Solo il pensiero di
rovinare il suo modo di fare composto e sicuro fece rallentare il
battito cardiaco, cancellando tutta quell'ansia: era solo una bambina,
del resto.
Anche Catlina lo era stata.
Allora
perché sentiva come se si fosse persa quella fase
spensierata
della sua vita? Perché non ricordava di essere stata felice
per
piccole cose? Perché la sua visione del mondo e quella di
Giulietta non coincidevano?
«Certo
che mi fido di voi ragazze. - A quel punto Marina si ricordò
che
sua figlia era sopravvissuta all'attacco del Neo Team Plasma solo
grazie al loro intervento - So che mia figlia è in buone
mani.
Allora ci vediamo stasera. Giulietta, tesoro, fa' la brava.»
E
dopo aver baciato sulle guance la sua bambina, Marina uscì
da casa di Nardo.
Le
due ragazze bionde e la piccola e vivace nipotina di Nardo avevano
avuto la loro seconda occasione di rincontrarsi ed imparare a vicenda
ancora qualcosa di nuovo.
«Stai
preparando il tè? - La bambina si era inginocchiata vicino
alla
Campionessa di Sinnoh, osservando attentamente i gesti delle sue mani -
Anche io lo so fare.»
Camilla
le sorrise, fingendosi stupita. «Davvero? Prendi
già lezioni alla tua età?»
«Si!
Me lo ha insegnato un po' la nonna. Solo che adesso ho dovuto
smettere.»
Entrambe
le ragazze si guardarono dubbiose. Catlina in effetti si era domandata
chi fosse la madre di Marina. Lei e Camilla sapevano talmente poco
della vita privata del vecchio Campione da aver scoperto una settimana
prima che costui avesse una figlia e due nipoti, un maschio ed una
femmina.
«Tua
nonna ti dava lezione di cerimonia del tè?» Le
domandò la ragazza.
Tutto
d'un tratto la piccola Giulietta prese sulla sua piccola mano una
ciotola: i suoi occhi lucenti scortavano attenti tutte le foglie di
tè, scegliendo la giusta miscela con la stessa attenzione e
raffinatezza di un intenditore di alto livello.
Fiori
d'arancio, estratto di vaniglia, frutti di bosco, bacche selvatiche...
Giulietta ne scelse una precisa quantità di ognuna,
pestandole
con un mastello, combinando potenza e delicatezza per evitare che le
foglie perdessero l'aroma.
Versato
il miscuglio di polveri in acqua, lasciò bollire il tutto,
mescolandolo e ripulendo il recipiente dai fondi. Scelte le giuste
misure di zucchero e limone, la piccola ne porse due bicchieri alle
ragazze.
Camilla
e Catlina si guardarono felicemente stupefatte: a soli cinque anni
conoscere il procedimento tradizionale per preparare il tè
è difficile.
Sua
nonna deve averle insegnato ogni passaggio con molta pazienza e
precisione.
Simulando
un brindisi con le tazze di ceramica le due lo assaggiarono.
«Delizioso.
Meglio di quelli che servono ai tea party dei miei genitori.» Pensò
la bionda senz'anima.
Catlina
per un secondo rimpianse di non essere nata ad Unima: la sua infanzia
avrebbe potuto avere molto più colore e felicità,
se solo
l'avesse impiegata per qualcosa di originale, qualcosa di creativo,
qualcosa che le piaceva.
Rimpianse di aver sprecato troppo tempo a dormire, di aver realizzato
qualcosa solo nei suoi sogni.
Nel mondo reale non le era rimasto nulla, solo un enorme vuoto d'animo
che a diciannove anni era troppo tardi per riempire.
D'un
tratto la bambina fece cadere dalla mano una piccola tazza rotonda che
si frantumò in mille schegge di vetro colorato.
Il rumore risuonò fra i pensieri della ragazza, riportandola
alla realtà.
«Io
volevo bene alla nonna. Solo che poi è... N-Non abbiamo
più potuto fare il tè insieme, o cucire o
dipingere...»
Giulietta
aveva esordito con tono davvero rattristato.
Appena
Catlina la vide stropicciarsi uno dei suoi grandi occhi non
poté trattenere la sua compassione.
Anche
una bambina così allegra e spensierata poteva essere triste,
evidentemente: non servono devastanti traumi infantili o eventi
sconvolgenti, ad un bambino basta solo sapere che alcune esperienze
felici non torneranno più per sentire il dolore di mille
spade
conficcate sul cuore.
Le
venne voglia di consolarla: ma la sua indole schiva la
trattenne contro la sua volontà.
Tuttavia
si rallegrò, vedendo che Camilla già l'aveva
fatta sedere sulle due ginocchia.
«Sì,
invece. Puoi farlo con la tua mamma, il tuo papà e tuo
fratello... Scommetto che non ti direbbero di no. - La consolava,
mentre accarezzava i suoi capelli arancio. - Quando io e Camilla
eravamo piccole ci allenavamo per lottare con i nostri
Pokémon,
sempre insieme, e anche se non eravamo le migliori abbiamo continuato
ad allenarci... Anche se dopo ci siamo separate non abbiamo smesso di
dedicarci con tutto il nostro impegno ed ora guarda... Camilla
è
la Campionessa della nostra regione natale.»
La
ragazza senz'anima sentì il respiro tremare:
sperò che
quelle parole raggiungessero il cuore di quella bimba, o non avrebbe
avuto senso trovare il coraggio per dirle.
«E
Catlina lavora alla Lega Pokémon di tuo nonno.»
Aggiunse Camilla.
Ancora
le due sentivano la loro forte connessione: erano diverse, opposte, un
libro aperto ed uno scrigno chiuso, eppure avevano per davvero passato
il loro tempo insieme, volevano definirsi "amiche" anche se addirittura
si facevano il bagno insieme, facendosi il solletico sulla pancia e
slacciandosi il costume per gioco.
«Dice
sul serio, non eravamo per nulla brave a lottare, giusto? - Camilla le
rispose ridendo - Una volta sono svenuta, o meglio mi sono
addormentata, perché non avevamo idea di come funzionasse la
mossa Ipnosi...» Giulietta scoppiò a ridere.
«E
dato che il mio Gible non aveva senso di orientamento ho quasi colpito
Catlina utilizzando Fossa...» Continuò la giovane
Campionessa.
Le
mancavano quei giorni.
«Non
mi sono fatta niente - continuò a raccontarle la bionda
introversa - ma Camilla ha sporcato di fango il mio vestito.»
«E
allora?» Giulietta era sempre più interessata alle
disavventure che le due ragazze avevano vissuto da piccole, solo che se
le immaginava un po' più basse.
«Era
un vestito da 270 Pokédollari.» E scoppiarono
tutte a ridere.
Camilla
non ricordava che la risata della sua amica d'infanzia avesse un suono
così gradevole e leggero. Catlina invece pensò a
come
lavarsi via quel sorriso da ebete dalla faccia.
Poteva un sorriso far apparire il suo volto spento e vitreo
più bello?
«Okay,
continuerò anche senza la nonna, io voglio essere come
voi!»
Giulietta si alzò in piedi e gettò le sue braccia
attorno al collo delle ragazze.
Voleva
che quei momenti non finissero più.
Sapeva che avrebbe imparato qualcosa dalle sue protettrici, dalle sue
consigliere e amiche.
Voleva farne tesoro e rendere suo nonno, sua madre e suo fratello
orgogliosi di lei, come sua nonna probabilmente sarebbe stata.
Camilla
si alzò in piedi, allontanandosi da loro.
Giulietta le corse incontro, preoccupata.
«Dove
vai?» Le chiese.
«Ad
allenarmi. Ho bisogno di insegnare al mio Pokémon una nuova
mossa.»
«Aspetta...
- Giulietta si alzò in punta dei piedi e raggiunse la fronte
di
Camilla cosparsa di ciocche bionde. Con un leggero solletico, la
bambina le stampò un bacio - i baci così li
dò
solo alla mia mamma... Ma tu sei speciale! Tu li davi i baci
così a Catlina?»
«Certo.
Ma non gliene ho mai dati abbastanza... - Camilla le
sussurrò
sull'orecchio. Poi la Campionessa socchiuse gli occhi - tu invece pensa
a darne tanti alla tua famiglia: sicuramente, hai una mamma e un
fratello fantastici, ricordatelo sempre.»
Catlina
era ancora lì, a fissarla piena di dubbi e
curiosità, con
le stesse cicatrici nascoste e gli stessi sentimenti repressi nel suo
cuore.
Poteva ancora provare a riportarla indietro, a non far svanire nel
tempo la loro amicizia.
«La
affido a te intanto, va bene?» Domandò all'amica.
«C-Cosa?
Camilla, non puoi lasciarmi da sola con...» La ragazza era
già andata in panico.
Che
cosa doveva fare con lei? Cosa doveva aspettarsi da lei?
Lei non era aperta come Camilla, non aveva la sua stessa inventiva o il
suo stesso carisma. Lei no, almeno.
Dopo
che la Campionessa se ne andò, Catlina sorrise al suo fato.
«Giulietta,
vuoi visitare un bel posto?»
«Sì!
Dove andiamo?» La bimba era già al settimo cielo,
saltando e battendo le mani.
«Promettimi
una cosa però: - e si fece seria, come se fosse stata sua
madre
- quando sarai lì incontrerai tre persone.
Ecco, queste persone sono molto... Eccentriche. E chiassose. E
rompiscatole. E strane, molto strane.
Quindi, te lo chiedo per favore, non mettermi in imbarazzo davanti a
loro, va bene?»
«Catlina...
Sembrano persone fantastiche! Va bene, lo giuro!»
E strinse il mignolo della ragazza.
La
bionda si tolse lo yukata,
per vestirsi con qualcosa di meno appariscente e nel frattempo
pensò, incerta se riderne o piangerne:
«Oh, passaci quattro anni insieme e cambierai
idea...»
Era
passato davvero velocemente il tempo da quando, a quindici anni, era
diventata un membro dei Superquattro della Lega di una regione che non
era nemmeno la sua regione natale.
«Ho
cominciato il mio lavoro di Superquattro alla Lega Pokémon
di Unima quattro anni fa.
Non
è stato affatto semplice.
Il
mio corpo era davvero debole, mi sentivo come un bambino che non ha mai
camminato con le sue gambe, dovrei incolpare i miei genitori di avermi
viziata troppo.
Ho lottato tanto per diventare più forte, ma il mio cuore
rimaneva sempre debole ed impaurito dal contatto altrui.
Quando
sono arrivata lì ho vissuto nella mia timidezza maniacale,
in un silenzio spaventoso...
«Nessuno
mi vorrà vicino. Nessuno mi vorrà bene. Nessuno
mi capirà.» Mi
ripetevo.
«Hai
davvero dei bellissimi capelli.»
A
proferire quelle parole è stato Mirton, il candidato come
maestro di Tipi Buio.
E da quando ho cominciato a lavorare qui ad Unima mi sono sentita nel
mio mondo ideale.
Piano
piano ho cominciato a sentirmi sollevata da tutta quell'ansia di
rimanere sola ed isolata, e passo per passo ho cominciato ad abbozzare
delle conversazioni, a parlare di me, ad aprire il mio cuore. Credevo
di essere l'unica ad essere fuggita da qualcosa.
Ma
l'ho fatto perché mi sentivo in debito: quando Mirton mi ha
rivelato che i suoi genitori persero tutta la loro fortuna al gioco
d'azzardo e che è stato costretto a vivere per strada tutta
la
sua giovinezza ho quasi pianto per davvero.
Così
gli ho chiesto di seguirmi dove non ci avrebbero visto e mi sono tolta
i vestiti; ho mostrato a quel ragazzo le mie cicatrici, tremando come
se fossi stata nuda di fronte al mondo.
«Spariranno
- mi disse - e potrai rinascere più bella, forte e dolce di
quello che ora sei.»
Anche
adesso sto lottando.
Vorrei
riuscire un giorno a distruggere la me stessa apatica ed introversa.
Per Mirton, per Camilla, per coloro che hanno voluto che la mia vita
continuasse nonostante le cicatrici.»
❁
«Però
non è giusto.» Mugugnò Giulietta.
Il
sole caldo di piena estate copriva la fronte della bambina con piccole
gocce di sudore, brillanti come perline di un diadema.
La
piccola stringeva solo il medio e l'indice della mano scarna ed esile
di Catlina, dondolandola avanti e indietro con un ritmo altalenante.
«Che
cosa?» Si fece coraggio di chiedere la bionda.
Era
sola con lei ora, non poteva tirarsi indietro dal conversarci (se con
una bimba di prima elementare sia davvero possibile
conversare).
Intanto
una leggera brezza dovuta all'altitudine dei rilievi accarezzava il suo
vestito traboccante di trine e pizzi che ondeggiavano fra le sue snelle
e bianche gambe.
«Che
il nonno non mi ha mai portato qui.» Le rispose la piccola.
«È
strano... Sei la nipote del Campione di Unima e non hai mai visitato la
Lega Pokémon?»
Giulietta annuì, cambiando la sua espressione in un sorriso
eccitato.
Catlina
era fiera della sua idea, anche se l'ultima cosa che voleva fare era
visitare il suo posto di lavoro in vacanza.
La
ragazza bloccò il suo passo davanti all'enorme scalinata,
che
conduceva al padiglione centrale dove aveva incontrato le sue compagne
la prima volta.
Giulietta intanto aveva sgranato le sue iridi verde smeraldo,
osservando la magnificenza della potenza rendere stupefatto ed
impotente ogni avversario che osava sfidare il Campione e i suoi
più fedeli assistenti e consiglieri: i Superquattro.
«È...
Bellissimo... - la piccola correva con lo sguardo alto al soffitto,
seguendo per filo e per segno ogni ornamento in stucco per capire dove
terminava, come aveva fatto in precedenza con le cicatrici della
ragazza - Mi fai vedere dove lotti? Posso andare dove si sfida il
nonno? Ti prego, ti prego...» La supplicò,
tirandole le
balze della gonna.
Catlina
sorrise, curvando le sue labbra frigide e perennemente bloccate in
quell'espressione di indifferenza e dilatando i suoi occhi chiari: che
bella sensazione.
Avrebbe
voluto portare in quel posto ogni persona triste della terra e fargli
sperimentare la stessa felicità che Giulietta stava
provando.
Pensava
genericamente ad un Allenatore che entra in quel luogo pieno di
orgoglio e spavalderia, pronto a sconfiggere ogni avversario e
rovesciare il Campione dal suo titolo con arroganza e sicurezza, per
guardare Unima dal suo apice, contemplandone la piccolezza.
Invece
l'immagine di una bimba che mette i piedi in paradiso solamente
ammirando ogni dettaglio dell'imponente edificio rispecchiava l'idea di
purezza e innocenza che lo sfidante ideale deve avere, oltre alla forza
fisica.
«Certo.
Vieni tesoro.»
La ragazza arrossì pensando a come aveva chiamato quella
bimba,
che continuava a farsi spazio fra le macerie della sua introversione
distrutta.
I
loro passi riecheggiavano, scandendo un ritmo uniforme all'interno del
vasto corridoio.
Giulietta
d'un tratto rallentò il passo, notando una strana figura
lungo la sua via.
Catlina sentì la piccola aggrapparsi alla sua gonna per
attirare
la sua l'attenzione; subito dopo la piccola vi ci si nascose dietro.
Le
sembrava che quella figura ignota la scrutasse, come se l'avesse
già vista e sfortunatamente riconosciuta.
«Catlina
chi è quella ragazza?»
E
con l'indice mostrò tutto il suo disinteresse per la privacy
che una bambina possa avere.
La giovane le abbassò il braccio, con discrezione.
Poco
prima che potesse spiegarle che indicare la gente con il dito
è
maleducazione, la giovane che continuava a scrutare le si
avvicinò: e sorridendo, si scostò i lunghi
capelli nero
notte dal collo.
«Siete
la signorina Yamaguchi Hāto, dico bene?» Chiese educatamente.
Sia
lei che Giulietta si guardarono sconcertate: come aveva fatto ad
entrare alla Lega?
Non
c'erano altre entrate, oltre a quella principale... Doveva averle
precedute, precedute in un agghiacciante silenzio, come se
già
avesse saputo che le due si sarebbero recate lì in quel
preciso
istante.
Quasi
come se le avesse lette nel pensiero.
«S-Sì...
- balbettò la bionda - se era tua intenzione sfidarmi ti
devo
informare che noi Superquattro non possiamo accettare sfide fino alla
nomina del nuovo Campione...»
«Non
sono qui per questo.» La ragazza dai capelli neri la
contraddisse in fretta.
E
subito, estraendolo da chissà dove, mostrò alla
ragazza
ed alla piccola un biglietto color rosso cremisi, con i bordi dorati,
un tipo di carta molto raffinato.
Dopodiché
la ragazza dai capelli neri e quegli strani poteri psichici
girò
i tacchi, e svanì come se il loro incontro fosse stato solo
un
miraggio.
Catlina
diede una veloce occhiata a quel biglietto, per accorgersi che nello
specifico si trattava più che altro di un invito: non sapeva
che
proprio quella sera a Libecciopoli sarebbe stato aperto un
casinò. Ma se ne curò poco, presa com'era da
altri
pensieri.
«Che
strana quella tizia.» Commentò
la bimba ad alta voce.
«Catlina.»
Una voce maschile, calma e seducente giunse al suo orecchio.
La
ragazza ebbe l'ennesimo sussulto. Quella giornata la stava davvero
esaurendo.
«Avevo
voglia di vederti.»
Quella
voce si fece volto, stupendola ulteriormente.
Ma
non si lasciò incantare: si ricordava che Mirton le aveva
fatto
un torto, proprio il giorno in cui era stata avvisata della
competizione, e se lo era saldamente legata al dito.
«S-Strano
tu non abbia anche voglia di molestarmi e toccarmi il seno.»
Logicamente,
Catlina ricordava ancora la sorpresa e l'imbarazzo provati mentre il
ragazzo affondava le mani nel suo morbido e sviluppato seno, mentre lei
fantasticava innocentemente nei suoi sogni.
Non
era giusto che il suo collega abusasse della suoi desideri per
divertimento.
Voleva solo una leggera vendetta, fatta per amicizia.
Ci
fu un breve silenzio fra i due.
Abbastanza
breve da permettere alla piccola di scrutare il ragazzo con occhi
curiosi: capelli neri, occhi scuri, un sorriso accattivante, quel
giovane le piaceva.
«Anche
tu hai visto che ha delle cicatrici da tutte le parti, anche sulle
tette?»
La
ragazza bionda percepì l'inutilità di averla
ammonita
riguardo al metterla in imbarazzo di fronte ai suoi colleghi,
arrossendo di colpo, mentre Mirton continuava a sorriderle con sguardo
vendicativo.
«Certo,
la conosco molto bene - rispose, senza perdere il controllo - ma lei
chi sarebbe?»
E
si chinò per osservare quella bimba senza peli sulla
lingua.
Strano: era uguale identica a Nardo, la sua fotocopia in forma ridotta
e femminile.
«Mi
chiamo Giulietta!» Squittì la piccola.
«È
la nipotina di Nardo, non chiedermi come l'ho conosciuta... - gli rese
noto la bionda - piccola, lui è la disgrazia più
grande
capitata a questa Lega, Mirton.»
«Hai
gli stessi occhi di tuo nonno.»
Il
ragazzo le scompigliò i capelli color arancio, mentre la
piccola
non smetteva di raccontargli del primo incontro con Catlina avvenuto
nell'onsen e di come l'avesse difesa coraggiosamente insieme alla
Campionessa di Sinnoh durante l'attacco del Neo Team Plasma.
«Catlina?»
Mirton attirò la sua attenzione.
La
ragazza si voltò verso di lui, fissandolo con i suoi soliti
occhi spenti e vitrei, testimoni di chissà che
orrori.
Anche se erano davvero due occhi bellissimi, a suo parere.
«Sei
libera stasera? Vorresti venire al casinò di Libecciopoli
con me?»
Lo
domandò con calma e nonchalance, come se si trattasse di una
ragazza qualunque.
Ma
nonostante tutto era davvero strano.
Mirton
fece mente locale e non ricordò di aver mai invitato la sua
collega ad uscire da soli per qualcosa che non riguardasse il lavoro.
Le
parole di una frase che probabilmente non avrebbe avuto senso si
bloccarono a metà della gola di Catlina, lasciandola con il
viso
più stupito che avesse mai mostrato in vita sua.
Sperò
stesse scherzando, proprio il posto che le aveva indicato quella strana
persona poco prima, sperò si trattasse di una semplice
coincidenza.
Non
era abituata ad uscire inoltre, sopratutto con i maschi.
Un
altro silenzio brevissimo, prima che a Giulietta si illuminassero gli
occhi.
«Un
appuntamento! Catlina è stata invitata ad un appuntamento
romantico!» Esultò.
Quella
bambina aveva lasciato la sua mente farneticare e aveva alterato
completamente il senso dell'intera frase, come aveva abitudine di fare
anche suo nonno.
«Finalmente.
Ti ci sono voluti quasi cinque anni per dichiararti.»
Una
voce femminile, più profonda e rilassata si aggiunse nel bel
mezzo del discorso. Apparteneva ad una bella ragazza della stessa
età di Catlina: portava i capelli viola scuri tagliati
corti, e
con un dito si sistemava un paio di spessi occhiali da vista sul naso.
«Nei
romanzi per ragazzine ci mettono molto di meno.»
Commentò ridendo, mentre accarezzava i capelli biondi di
Catlina, rigirandoli fra le dita come se fossero suoi.
«N-Non
era una confessione... Vero?»
La biondina si rivolse a Mirton, arrossendo più che mai,
come se un bullo si stesse prendendo gioco di lei.
Le
ricordava le inutili battute di Camelia, in un certo senso, anche se
quelle della mora erano in genere peggiori.
«Certo
che no. - il ragazzo cercò di calmarla. Poi si rivolse alla
collega - Cosa c'è Antemia, sei gelosa?»
Aguzzò il suo sguardo penetrante, facendole assaggiare la
sua stessa medicina.
«Ti
chiami Antemia? Perché sei gelosa di Mirton? Puoi trovarti
un
altro ragazzo, scusa... A lui già piace Catlina!»
Mirton
ed Antemia fissarono la bambina interdetti.
La seconda, in particolare, si chiese come avesse fatto a non notarla
prima.
«So
cosa stai per dire: - Catlina aveva già intuito - si chiama
Giulietta ed è la nipote di Nardo. E sì, dice
sempre cose
di questo tipo.»
La
piccola si trovava ancora a studiare queste persone, sempre
più incuriosita.
Si
domandò perché sua madre non l'aveva mai portata
in quel
posto meraviglioso, pieno di persone altrettanto fantastiche. Si
ripromise che ci sarebbe tornata un giorno.
«Allora
Giulietta, che genere di fidanzato dovrei trovarmi?» Antemia
si
era chinata in direzione della bambina, accarezzandole la guancia.
Ormai l'avevano inclusa nell'atmosfera, rifiutare una bimba
così
carina era una cosa impossibile.
«Mmmh...
- finse una profonda riflessione - lui può andare!»
Ed
indicò l'ultimo membro dei Superquattro rimasto, un ragazzo
dalla potente muscolatura e la pelle color cuoio.
Scoppiò
una risata generale quando Marzio, il maestro dei Pokémon
Lotta
scoprì che la bambina era più che seria nel suo
abbinamento.
«Però
siete strani...» Aggiunse, tra uno dei suoi commenti.
E
mostrando alla dolce nipote di Nardo quel piccolo nucleo costruito
grazie al percorso di apertura sociale e psicologica così
lungo
e delicato, Catlina si sentì fortunata ad aver avuto
quell'occasione: sentiva le sue barriere cedere, il suo cuore aprirsi
ed attirare dentro di se' ogni lato positivo di quel mondo
così
confuso e movimentato dalla quale voleva stare lontana.
Dopo
aver visto lottare, parlare e ridere i cosiddetti "quattro re celesti"
secondo l'antica denominazione Giulietta attirò l'attenzione
della sua amica dai capelli biondi.
«Catlina.»
«Dimmi.»
Prima che potesse finire di pronunciare la breve parola, Giulietta
l'aveva trascinata di fronte a Mirton, prendendole la mano con foga.
Il
ragazzo le mostrò il suo sorriso più calmo e
rilassato,
chiudendo le sue dita nella mano come se si trattasse di una
principessa.
La
guardò negli occhi un'altro secondo.
Mirton
non poteva perdere quegli occhi, lo sentiva dentro.
«Allora, per stasera?»
Ci
fu un breve silenzio, in cui sia Giulietta che Antemia e Marzio
osservarono la biondina con un sorriso d'incitamento.
Chissà
se vedevano davvero quella innocente vergine e quel mago della
seduzione insieme, come una coppia.
Dopo
aver sospirato, la ragazza rilassò le labbra in un lieve
sorriso lusingato.
«...Sì.»
E
lì cominciò un applauso, tanto ironico quanto
veritiero:
finalmente, in cinque anni che i Superquattro della Lega si conoscevano
la loro collega più timida e taciturna aveva chiaramente
espresso la sua volontà a pieno tono e forse lo avrebbe
fatto
anche in futuro.
«È
meglio se noi andiamo - Catlina si congedò - salutali
Giulietta.»
La
piccola non esitò ad abbracciare teneramente tutte quelle
persone che conosceva da un giorno ma che eppure le ispiravano lo
stesso calore e la stessa fiducia di una famiglia.
«Buona
fortuna. La Lega di Unima ripone tutte le sue speranze nella futura
Campionessa.»
A quelle parole anche Catlina accettò un abbraccio, senza
sentirsi a disagio vicino a qualcuno.
Ed
intanto la strada di ritorno si colorava dello stesso arancione dei
capelli di Giulietta.
Piano
piano la ragazza apatica stava schiudendo le catene che bloccavano
l'accesso al suo cuore, disfacendosi di un anello di chiusura
caratteriale ogni volta che la nipote di Nardo le rivolgeva i suoi
dolci e vispi occhi.
La
ragazza si sentiva felice, sorridendo senza un apparente motivo, come
se fosse diventa la principessa del nulla, delle cose che il denaro non
le poteva comprare.
❁
«Quando
l'innocente principessa e l'astuto giocatore d'azzardo si
incontreranno...
Il loro non sarà un appuntamento normale...
Non terminerà con un bacio...
Il casinò di Libecciopoli è un luogo per persone
avare,
capaci di dare ad una persona lo stesso valore di un soldo d'oro...
Fin dove arriverà la loro fiducia? E fin dove arriveranno le
grida della ragazza?»
Le
amicizie, le confidenze, i dolori, e gli avvenimenti che le ragazze
avevano dovuto sopportare in quel giorno che ormai non è
più definibile di svago o vacanza le avevano portate faccia
a
faccia con le loro rispettive assassine, le complici dei loro stessi
problemi: per tutto quel giorno i cinque membri scelti del Neo Team
Plasma non avevano fatto altro che pedinarle.
Ma
non avevano alcuna intenzione di agire nell'ombra.
Era
passato un anno da quando i piani dell'organizzazione segreta erano
stati mandati in fumo da un coraggioso ragazzo che aveva avuto dalla
sua parte sia il Drago Nero che il Drago Bianco.
Se
le cinque aspiranti Campionesse fossero morte in circostanze
sconosciute i sospetti sarebbero ovviamente rinati.
Ma
chi avrebbe mai potuto sospettare di una quindicenne che passa per caso
in un negozio, di un'ex fidanzata o di una passante dall'auto
lussuosa?
Tieniti
stretti i nemici ancor più degli amici.
Quella regola vigeva in quella compagnia di vipere assetate di sangue,
che non esitavano a rinfacciare anche ai loro colleghi di rango
inferiore.
«Vedi
di non combinare nulla fuori dai piani.»
La
voce profonda ma allo stesso minacciosa di Sabrina aveva appena
lasciato le sue labbra, mentre ripuliva con nonchalance un cucchiaio
arrugginito con un panno.
Un'occhiata
scocciata da parte della ragazzina dai capelli azzurro volò
al cielo.
«Il
tuo piano è lungo e stupido. - e le lanciò uno
sguardo
ancora più stizzita - hai dei poteri psichici dalla potenza
paranormale e ti affidi ad un "piano"... Sabrina, certo che ti piace
proprio complicarti la vita.»
Ma
non appena Lucinda finì di parlare si sentì il
rumore tipico del tessuto che si strappa.
La
giovane fissò impaurita l'uniforme viola-nero che indossava,
notando che strappi sempre più grandi si formavano senza che
alcuna mano o lama toccasse la stoffa.
Cercò
di trattenerla con le mani, ma la potenza esercitata
dall'entità
invisibile era mille volte superiore alla sua.
Il
potere della mente, di ignorare il mondo materiale e creare una
dimensione in cui ogni ordine e desiderio imposto dal cervello si attua
in un inquietante silenzio era il potere di quella Capopalestra dalla
regione di Kanto.
Non
lo aveva ereditato da nessuno, poteva vantare i suoi poteri psichici
come una maestria acquisita, che la rendeva una temibile avversaria.
Sabrina
non poté trattenere un ghigno, mentre mostrava alla sua
compagna
più giovane che anche quel vecchio cucchiaio era stato
piegato
almeno dieci volte su sé stesso, facendogli perdere
addirittura
le sembianze di un cucchiaio, sfigurandolo atrocemente in una
tridimensionale figura indistinta metallica.
«Non
ho detto che non li avrei inclusi nel piano.»
La diciannovenne rise divertita, al pensiero della sua apatica e
composta nemica che gridava agonizzante, con le lacrime agli occhi.
Intanto
il piano del Neo Team Plasma era già entrato in fase di
esecuzione. Tutto il loro imbroglio si basava su un semplice punto
cardine: la psiche.
Avrebbe
giocato un gioco ingiusto, un gioco un cui esistono solo due
alternative: una tradisce gli ideali di una persona, una tradisce la
dignità dell'altra, una garantisce un centesimo in
più,
una garantisce un grido in meno.
«Se
hai intenzione di includerli nel piano...»
Prima
di poterla dar vinta alla compagna più anziana, Lucinda si
fece
pronta a ribattere, mostrandole un oggetto agitandolo leggermente
piegando il polso in verticale.
«...
Questa a che ti serve?»
❁
Nell'attesa
che precedeva quell'appuntamento (suonava eccessivamente commerciale,
detto così) il giovane ed attraente maestro di Tipi Buio era
intento a pensare, osservando la cenere dell'ennesima sigaretta
consumarsi lentamente.
Si
era deciso a presentarsi sobrio, ma l'idea del sapore amarognolo del
whisky in bocca aveva reso impotente la sua forza di volontà.
«Tsk...
L'uomo incapace di controllare i suoi istinti non è un
gentiluomo, dicono.
E un gentiluomo soltanto può infilare la mano
contemporaneamente
nell'intimo e nel portafogli di una riccona. Giusto?»
Mirton
aveva pensato spesso a Catlina, da quando lei era stata scelta per
guadagnarsi la possibilità di diventare il suo futuro capo,
un
giorno.
Si
domandava se quella ragazza, così introversa e silenziosa
avrebbe avuto la forza di affrontare sfide fuori dalla sua portata, se
il suo cuore fragile e il suo corpo altrettanto delicato stessero
sopportando indenni tutti tormenti a cui Nardo la sottoponeva.
Ma
il suo dilemma più grande era sopratutto perché
continuasse a preoccuparsi per una ragazza che non aveva nulla da
offrirgli: lo attraeva la ricchezza di quella principessa di un'altra
regione, ma amare solo i suoi soldi significava rinunciare alla sua
bellezza.
Per
quanto timida, asociale, taciturna ed inesperta in quel senso Catlina
fosse, lui ne era sempre stato affascinato.
Mirton
vedeva le sue precedenti fidanzate come rose: quelle rose rosso sangue,
rosso intenso come la passione, fanno a gara per farsi notare,
distendono i loro petali e aguzzano le loro spine dalla brama di
attenzione.
La
giovane aristocratica che aveva incontrato almeno cinque anni prima
invece, era una rosa di color pallido, un rosa spento, che si nasconde
fra i cespugli, lontana dalla luce del sole e dall'occhio umano: eppure
i suoi petali sono delicati come seta, il suo stelo nudo e privo di
spine adatto ad essere dolcemente accarezzato.
«Basta
con queste idiozie, - si decise il ragazzo - è solo una
collega.»
Spense
la sigaretta, schiacciando il filtro consumato sotto il tacco della
scarpa.
Era
certo che il suo era amore non corrisposto. L'amore non faceva
corrispondere i loro status sociali, le loro filosofie di vita, i loro
gusti sessuali, i loro progetti per il futuro.
Ma
era anche certo che un tentativo, fatto per divertimento, di scuotere
l'animo teso della sua collega poteva farlo: scommise con se stesso se
sarebbe stato in grado di portarsela a letto almeno entro fine estate.
La
posta in palio, del resto, era assai degna di un qualche rischio.
❁
L'unica
preoccupazione della ragazza dai capelli biondi in quel momento era
cosa indossare.
Se
solo lui le avesse dato un po' più di tempo per prepararsi
avrebbe potuto chiedere ai suoi genitori di spedirle direttamente da
Sinnoh uno dei suoi bellissimi e costosissimi vestiti da sera.
Non
traeva nessun piacere nel possederli, ma l'erede della famiglia
aristocratica Hāto doveva per forza vestirsi al pari di una principessa.
«Non
sei felice che hai un appuntamento?»
Le domandò Giulietta, che continuava a dondolare le gambe
aspettando che la sua amica finisse di farsi una doccia.
Catlina
intanto si era arresa nel ripeterle che il loro non era un appuntamento
romantico.
Per
i bambini il concetto di amore è tanto semplice quanto
meraviglioso: un ragazzo ed una ragazza possono amarsi sempre,
nonostante la loro differenza d'età, la loro classe sociale,
le
loro personalità e qualsiasi altro pretesto che nella mondo
dei
grandi serve ad allontanare le persone dall'amore.
Mica
ci voleva una guastafeste come lei a rovinarle quel mondo.
Catlina era ancora vergine a diciannove anni... Che ne sapeva lei di
amore?
«Certo.
Stavo solo pensando a come mi dovrei vestire, truccare e
pettinare...»
Le rispose pacatamente.
«Devi
essere bellissima, ti serve un vestito che ti fa essere come una
principessa.»
Affermò la bimba, convinta e determinata.
Poi
Giulietta sparì per qualche secondo, mossa da un'idea che
poteva funzionare.
Catlina
sorrise, mentre si apprestava ad indossare l'intimo, accarezzandosi la
pelle bianca.
«Il
primo appuntamento... Quante cose mi sono persa fin ora...» Pensò
amaramente.
Ritornò alla realtà, sentendo i piedini della
bambina scandire un ritmo frettoloso.
«Per
te. Un vestito degno di una principessa.»
La
ragazza non poté credere ai suoi occhi.
Quello
che Giulietta teneva fra le sue piccole braccia doveva essere un
vestito di alta sartoria, cucito con una stoffa quasi simile alla seta:
il tessuto rosa chiaro, lo stesso colore dei ciliegi in fiore, aveva un
taglio semplice e raffinato, con dei pizzi di colore nero che
decoravano l'orlo gonna, lungo fino alle ginocchia, e anche la parte
superiore.
Quest'ultima
si riduceva a due sensuali coppe di pizzo rosato e solo due sottili
lembi di stoffa nera univano l'ampio spacco sulla schiena alla
scollatura sul petto.
Quando
se lo portò all'altezza delle spalle, per vedere se si
adattava
al suo corpo, sentì il mondo caderle addosso.
Essere
riportata alla realtà faceva sempre arrossire e scaldare le
sue guance pallide.
«Giulietta,
mi dispiace, ma non posso indossarlo.»
Disse
la timida giovane con un filo di voce, come paralizzata.
«Perché
no? Ti sta benissimo, dai, mettilo!» La piccola dimostrava
già impazienza premendoglielo contro il petto per voglia di
vederglielo addosso.
«Vedi...
- Catlina cercò di farla ragionare - le scollature mostrano
troppa pelle, è un po' troppo provocante per essere
indossato
davanti ad un ragazzo...»
Se
immaginava la reazione di Mirton che la vedeva indossare quei quattro
pezzi di stoffa cuciti insieme le veniva voglia di cancellarsi dal
mondo: proprio lei che voleva passare inosservata agli occhi altrui
veniva costretta a mettere in mostra quel corpo che più
volte
aveva desiderato cambiare drasticamente.
Era
un paradosso davvero ingiusto.
«Davanti
ad un ragazzo - la riprese la piccola - che ha già visto che
hai le cicatrici?»
La
biondina si chiese se 'le cicatrici' ora fossero diventate delle
signore aristocratiche di alta classe sociale citabili addirittura con
l'articolo davanti.
Giulietta
aveva percepito l'imbarazzo della sua amica più grande, ed
era
diventato da poco un suo interesse aiutarla ad essere più
libera
e felice.
In
effetti aveva assolutamente ed indiscutibilmente ragione.
Senza
altra scelta, Catlina provò ad infilarsi quel capolavoro di
alta sartoria.
«A
proposito Giulietta, dove lo hai preso?» Le
domandò.
«È
un segreto.» La bambina si portò il dito indice
alla bocca con massima serietà.
Dopo
qualche minuto passato a litigare con la cerniera posteriore, la
biondina osservò incerta il suo riflesso allo specchio.
«Ti
sta benissimo, sembra fatto per apposta per te.» Giulietta
parlò per lei.
Pensò
in cuor suo che mai nessun vestito avesse calzato così
perfettamente le curve del suo corpo e messo in risalto il suo seno
come quel gioiello color rosa pesco.
Rilassando
le mani, Catlina le spostò dall'avvolgerle il petto per
l'imbarazzo al sollevarle i lembi della gonna con un leggero ma
elegante inchino, come se stesse ringraziando la natura di averla resa
così bella, così bella come spesso aveva ignorato
d'essere.
«Per
rendere ancora più appariscente il tuo corpo dovresti
toglierti il reggiseno.
È
brutto a vedersi.» Questa voce profonda e delicata non
apparteneva certamente a Giulietta.
Appena
Catlina si voltò poté riconoscere il sorriso
radioso della sua amica d'infanzia.
Giulietta
intanto si era già gettata fra le braccia di Camilla,
raccontandole per filo e per segno ogni dettaglio sull'appuntamento
dell'amica, talvolta inventando le parti che non ricordava bene.
«Che
fortunata sei stata - Camilla glielo disse mentre cercava di sfilarle
il reggiseno senza che si dovesse togliere il vestito - anche io
stasera ho un appuntamento.»
«Eh?!
- Giulietta le schizzò vicino, tutta eccitata - con
chi?»
«Con
una delle nostre compagne, Sakimura Iris. Abbiamo deciso di andare a
cena fuori insieme oggi.» Fu la risposta dolce e gentile
della
Campionessa.
Intanto
sia Giulietta che Catlina si guardarono incerte.
Dal
tono con cui lo aveva detto sembrava seria... Ma che cosa
intendeva?
Giulietta
esordì con tono più che deluso.
«Camilla, non puoi avere un appuntamento con un'altra
ragazza.»
«Perché?»
Le rispose questa, con tono falsamente abbattuto.
«Perché...
- Giulietta si sforzò di trovare una ragione plausibile -
perché no!»
La
mamma ed il papà le avevano sempre insegnato che sono sempre
un
uomo ed una donna a volersi tanto bene, solo un uomo ed una donna
possono fare le cose romantiche insieme, tutto questo senza una vera e
propria ragione.
La
giovane donna scoppiò a ridere, accarezzando la guancia
dorata della bambina.
«Sì che posso, invece.» Le
sussurrò all'orecchio.
In
certi momenti l'estroversione e l'amorevolezza di Camilla erano
leggermente inquietanti.
Ma
del resto non potevano certamente sapere che ormai quella donna aveva
già acquisito una certa intimità con la ragazzina
dai
capelli viola.
Per
ora l'unica cosa che contava era rendere Catlina ancora più
bella, mentre Giulietta passava la spazzola attraverso i suoi lunghi
capelli biondi e Camilla si era concentrata sul limare e poi dipingerle
le unghie dello stesso colore del suo vestito.
Per
quella ragazza quella serata doveva essere indimenticabile.
Una ragazza nell'età in cui il corpo ha sete di forti
sentimenti.
Dopo
che Camilla se ne era andata al suo 'appuntamento' (Catlina si
domandò ancora perché lo avesse chiamato
così) lei
rimase ad attendere qualche minuto il ritorno di Marina. Quella donna
doveva essere davvero impegnata.
Appena
la figlia di Nardo si ripresentò per portare a casa sua
figlia
non poté evitare di notare come Catlina fosse davvero tirata
al
lucido. Con un particolare davvero curioso.
Giulietta
aveva ripetuto anche a sua madre la storia del famosissimo appuntamento
della sua amica, dicendo di averla aiutata per il trucco e
l'acconciatura in gran misura.
«Lo
vedo amore, - Marina esibì uno dei suoi sguardi solari e
armoniosi - ma perché indossa il vestito che la nonna aveva
fatto per il mio matrimonio?»
Inutile
dire che saputa questa cosa a Catlina era già venuto
un'attacco di cuore.
Si
sentì davvero stupida ad essersi fidata di una bambina di
cinque
anni, che l'aveva già messa nei guai una volta per
altro.
Ma
sopratutto pensò a quanto doveva essere prezioso quel
vestito se
era stato cucito a mano dalla madre di Marina per il suo matrimonio,
forse il giorno più speciale della vita di quella donna.
Non si sentì più degna di indossarlo e stava per
scusarsi
a capo chinato, quando Marina appoggiò le sue calde mani
sulle
spalle della biondina.
«Ma
sta molto bene anche a te: il rosa è davvero il tuo
colore.»
Prima
di lasciare la casa di Nardo per raggiungere Mirton, Catlina non
dimenticò di lasciare un bacio sulla guancia di Giulietta,
per
la prima volta di sua spontanea volontà.
«Sei
una vera peste... Ma mi sei stata di grande aiuto.» Le
sussurrò dolcemente.
«Buona
fortuna con lui.» Si limitò a rispondere la
piccola.
E
mentre i tacchi alti battevano il ritmo del suo cuore eccitato, Catlina
provò la stessa sensazione di una ragazzina ansiosa di
incontrare il suo fidanzato per il loro primo
“appuntamento”.
❁
«T-Ti
prego, non guardarmi così...»
La
voce della biondina si mescolava alle chiacchiere delle persone
all'interno di quel luogo, dall'inconfondibile profumo di legno
verniciato e tappezzerie esotiche.
«Questo
vestito ti sta benissimo, stasera sei davvero... Diversa? Cosa devo
dirti per toglierti quella faccia da trauma di dosso?»
Mirton
le aveva già posato una mano sulla spalla nuda: aveva
pensato a
quelle parole solo per confortarla e infonderle più fiducia
in
se' stessa ma, guardandola bene, Catlina non era mai stata
così
bella e seducente.
Perfino
quel fiore così chiuso e delicato poteva apparire
spettacolare,
una volta schiusi i suoi petali e liberato il suo dolce profumo.
La
ragazza abbassò gli occhi, sentendo le guance
scaldarsi.
Non
era abituata a quel genere di complimenti.
Camminando
al fianco del suo collega, Catlina non poté fare a meno di
notare una strana sensazione nell'atmosfera di quel casinò
appena aperto (a differenza delle altre regioni, Unima non ne aveva mai
posseduto uno, se ricordava bene).
Non
ci volle occhio esperto per notare come tutti i tavoli da gioco fossero
deserti, come tutti i presenti si concentrassero di fronte ad un tavolo
più lungo come mosche attratte dal miele.
Non
le diedero il tempo di fare altri ragionamenti che una voce femminile
chiamò Catlina e Mirton per nome, con voce pacata e cordiale.
«Gentili
presenti, vi chiedo di rivolgere la vostra attenzione a due ospiti di
molto riguardo presenti stasera nel nostro casinò di
Libecciopoli: il maestro di Pokémon Tipo Buio Polensky
Mirton e
la maestra di Pokémon Tipo Psico Yamaguchi-Hāto Catlina, la
sua
adorabile fidanzata.»
I
due ragazzi si guardarono perplessi.
A
Catlina parve davvero esagerato essere accolta in modo così
eclatante: essere un membro dei Superquattro era un onore, certo, ma
non meritava che l'attenzione di quasi cinquanta persone fosse attirata
su di lei e...
«Mirton,
perché mi stai tenendo la mano?» Gli
sussurrò.
Il
giovane ruppe per un secondo il suo fare rilassato e indifferente,
notando che effettivamente aveva catturato la mano della sua collega
inconsapevolmente e si schiarì subito la voce.
«Sei
o non sei la mia adorabile fidanzata?» Le domandò,
scherzando maliziosamente.
Traeva un certo piacere dallo stuzzicarla, l'espressione imbarazzata di
Catlina era insostituibile.
«Sono
una collega che ti crede un esibizionista perso.» Ammise
secca la ragazza.
E
camminando attraverso la lussuosa ed elegante sala per farsi avanti
verso la donna che l'aveva chiamata, Catlina si compiacque dell'aver
pareggiato i conti con lui, facendo sempre attenzione a non slogarsi
una caviglia sui tacchi alti.
Mirton
la seguì, e anche se il suo viso era quello di un uomo
calmo,
continuava a chiedersi se portare l'innocente ragazza in un luogo di
gioco d'azzardo fosse stata la cosa giusta, se non nutrisse solo una
forte invidia per l'agiata condizione economica della bionda.
Quando
tutti gli ospiti in vestito elegante si scostarono per far spazio alla
coppia, il giovane dal sangue freddo analizzò a che gioco
quella
massa di giocatori d'azzardo giocassero: un tavolo rettangolare
ricoperto di spesso tessuto verde scuro recava trentasette caselle,
numerate da zero a trentasei, di colori rispettivamente rosso e nero.
Invece
di fronte ad un cilindro che recava le stesse caselle disposte in
cerchio, una ragazza giovane e bella, dai capelli lunghi e neri teneva
con grazia una pallina fra l'indice ed il medio della mano.
Doveva
trattarsi della croupier, assistita da un esemplare di Alakazam.
«Benvenuto,
speranzoso giocatore. Vedo che hai portato la tua fidanzata, come avevo
previsto.»
Mirton
percepì nella sua mente una voce.
Doveva
essere la mossa Telepatia, perché la stessa figura femminile
che
non si degnava di aprir bocca stava davanti a lui: la croupier dai
capelli nero notte, solo per il divertimento provato nello spaventare
le persone non muoveva le labbra, ma parlava.
Rimase
calmo, mentre controllava con la coda dell'occhio Catlina che osservava
attenta il gioco.
«È
inutile che ti spieghi le regole: sai giocare meglio di chiunque altro
alla roulette francese. Ma per essere sicura di vincere... diciamo che
ho modificato leggermente le regole del gioco.»
Mirton
volle approfondire quell'ultima espressione, troppo vaga per sembrare
un minimo di inquietante.
Gli
bastò guardare il tavolo delle puntate per capirne la
ragione.
Le
persone invitate in quel casinò dovevano essere ricconi
andati
in bancarotta, nobili caduti in disgrazia o gente di mala conoscenza,
abbastanza dipendenti dal gioco da tentare di arricchirsi girando una
ruota in balia del caso. Fra bicchieri di vino pregiato e puntate alla
cieca dovevano tenere assai al denaro, ritenendolo l'unica cosa
importante al mondo.
Mirton
non poté evitare di commiserarli: in passato i suoi genitori
dovevano essere stati o troppo stupidi, o troppo disperati.
Lui preferì di gran lunga la seconda opzione.
«Scusate
gente, ma utilizzare soldi veri per le puntate è
illegale.» Disse con tono secco, a nessuno in particolare.
«Ma
così è più divertente, non
è vero? -
Rispose ad alta voce la croupier, sventolando i suoi capelli nero notte
con la mano e ricevendo il consenso della massa di dipendenti
patologici - prova tu stesso.»
E,
invitando il giovane a puntare, lo ammonì telepaticamente.
«O tu o la tua innocente ragazza: scegli.»
Senza
esitare, l'astuto giovane scelse di puntare su una vincita semplice.
«Settanta PokéDollari sul nero.»
Catlina
osservava il collega in silenzio.
Si
fece spiegare che il giovane avrebbe vinto se la pallina si fosse
fermata su una casella di colore nero e che la posta in palio era il
doppio della puntata.
Mentre
la ruota girava e la croupier lasciava cadere la pallina con un
semplice movimento dell'indice, la ragazza dai capelli biondi rimase
quasi incantata: quel gioco, per quanto basato sulla mera fortuna,
necessitava di uno spiccato autocontrollo, di buon intuito e sopratutto
molta risolutezza.
E
Mirton possedeva tutto, con l'aggiunta di un certo fascino misterioso.
«Complimenti,
il numero uscito è otto nero. La vincita è pari
al
doppio, quindi centoquaranta PokéDollari(*).»
Annunciò la giovane, che indossava un raffinato smoking
viola
scuro, una tenuta maschile che le conferiva autorità ed
eleganza.
Una
ragazzina più giovane servì la piccola ricompensa
in un piatto d'argento.
«Allora,
rilanci?» Domandò la croupier. La risposta la
sapeva.
«Certo.»
Il
ragazzo aveva realizzato molti anni prima che il denaro può
essere ed è solo e sempre denaro. Non ha valori come la
felicità o la soddisfazione, è solo metallo e
carta.
I
soldi sembravano la metafora della superficialità, almeno
quanto
lo sguardo di Catlina: diceva solo "Yamaguchi-Hato", uno degli imperi
economici più ricchi della regione di Sinnoh.
Mirton
sorrise al fato. Qualche puntata fatta con cervello, buon fiuto, i
numeri giusti e quei soldi sarebbero stati suoi.
on poteva comprarsi l'amore, ma almeno apparire all'altezza di quella
principessa dal vestito rosa.
Si
rese finalmente e amaramente conto che a Catlina probabilmente non
sarebbe mai interessato uno squattrinato, figlio di prodighi smoderati,
della strada e della miseria... Se ne accorse in quel momento, dopo
quasi quattro anni.
Sarebbe
diventato ricco. Miliardario, schifosamente benestante per la
sua dama dagli occhi spenti.
Quella
di pochi istanti prima non era una vincita prodigiosa, il ragazzo lo
sapeva benissimo.
Nonostante
questo gli occhi spenti e vuoti di Catlina lasciavano trapelare un velo
di ammirazione mentre le sue labbra candide avevano abbozzato un
sorriso.
Eppure
quei sorrisi rappresentavano una sorta di maledizione interiore.
Senza
alcun preavviso la ragazza dai capelli biondi si chinò a
terra,
come se l'avesse presa un dolore alla gamba destra, emettendo un debole
spasimo.
«Catlina,
stai bene?» Il ragazzo la soccorse gentilmente, prendendole
la
mano per aiutarla ad alzarsi. La giovane intanto aveva ripreso il suo
portamento pacato.
«Non
preoccuparti, devo aver storto la caviglia... Sono troppo alti per me
questi tacchi...»
Ammise imbarazzata.
E
dopo aver stretto la ragazza a se', come per invitarla con nonchalance
a giocare con lui, Mirton le accarezzò la schiena, non
intenzionato ad abbassare la guardia.
«La
sua prossima puntata?» Domandò la croupier.
«Possiamo
scommettere di più questa volta? - Chiese Catlina, in cerca
del
consenso del collega - o magari provare una combinazione
diversa?»
Il
giovane acconsentì, ma con cautela pensò a cosa
sarebbe
successo se la pallina non avesse centrato il numero o il colore
desiderato: davvero in quell'ambiguo casinò era tutto in
mano al
destino? Il gioco era davvero così pulito e casuale come
sembrava?
«Ho
cambiato le regole del gioco, o non sarei riuscita a vincere.»
Ma
ancora, dopo altre sei o sette puntate era sempre la coppia formata
dalla fragile principessa e l'astuto giocatore d'azzardo a continuare
ad arricchirsi in modo perpetuo e fruttuoso, sotto gli sguardi
sconcertati dei presenti.
❁
«Questa
sera sembrate molto fortunati, voi due. - ammise la croupier dai
capelli neri - signorina Yamaguchi, se posso suggerirle, potrebbe
alzare la puntata fino ad un cavallo o ad un pieno, dato che, se
permette, lei ed il suo fidanzato sembrate una perfetta
coppia.»
In
effetti la biondina sentiva davvero che il legame fra lei ed il suo
collega che conosceva da ormai quattro anni si stava modificando:
diventava più forte ed intenso, ed una piacevole sensazione
d'affetto rappacificava la sua mente.
«Non
riesco a muovermi. E mi fa male. Tutto il corpo mi fa davvero male...
Proprio nella serata più speciale della mia vita... No, non
può succedermi adesso...»
Se
doveva essere sincera con se' stessa, la sua mente era l'unica parte
del suo corpo che un dolore atroce non stava divorando.
Erano
passati più meno tre quarti d'ora dal loro ingresso nel
casinò e la giovane sentiva un dolore trafiggerle gli arti,
la
schiena e le interiora come mille frecce appuntite.
Quel
dolore improvviso alla caviglia aveva segnato l'inizio di queste ferite
invisibili, che non squarciavano la pelle e non emettevano sangue.
Ricordava
di aver provato solo una volta nella sua vita un dolore simile a
quello: la volta in cui quell'incidente le aveva rovinato la vita e
coperto il corpo con quelle orribili cicatrici, i memoriali per non
farle dimenticare mai la sofferenza provata.
«La
mia salute non ha fatto progressi da quel giorno...»
Corpo
e psiche erano due universi distaccati, che agivano indipendentemente
l'uno dall'altro: con questo semplice precetto Catlina continuava ad
essere calma e posata, come al solito, trovando come unico sostegno il
braccio di Mirton che le avvolgeva i sensuali fianchi.
«Possiamo
provare?» Sussurrò la biondina al
ragazzo.
Questo
si trovò costretto ad accettare.
«Un
cavallo credo sia più appropriato. Scegli tu i due numeri,
basta che siano vicini.»
Mirton
le accarezzò la schiena che tremava leggermente, avvolta nel
meraviglioso vestito rosa: quella sarebbe stata l'ultima puntata,
percepiva che qualcosa in Catlina era strano, anche se era l'unico in
tutta la sala. Ad eccezione di un'altra persona.
La
ragazza apatica gli si avvicinò all'orecchio, mettendogli le
mani intorno alla vita.
«Dodici
e tredici.»
Il
ragazzo non poté fare a meno di sorriderle.
«Tredici
dicembre. Il tuo compleanno?»
«Ti
porterà fortuna, vedrai.»
E
dopo quest'affermazione, Catlina appoggiò sul bancone delle
puntate una mazzetta di banconote, che doveva superare i diecimila
PokéDollari.
Quella
ragazza davvero desiderava un futuro di ricchezza e benessere per lo
sfortunato collega, magari un futuro che includesse loro due, insieme.
«Che
carina... Fossi in te la bacerei prima che sia troppo tardi.»
La
voce femminile si ripresentò nella mente di Mirton, ma egli
non cadde nella tentazione.
«Dodici
e tredici, ed una puntata di centosessantamila PokéDollari
totali.» Annunciò la croupier.
E
mentre il cilindro girava e la pallina si mimetizzava nel movimento
circolare, l'attenzione di tutti i presenti fu attirata verso la
coppia.
Il
ragazzo però continuava a chiedersi dove fosse il
cambiamento
alle regole, se questo si limitasse all'utilizzo dei soldi al posto di
un'unità monetaria provvisoria come le fiches.
La
pallina, con generale sorpresa, cadde proprio dove non sarebbe dovuta
cadere, paradossalmente.
«Il
numero uscito è tredici. La vincita è pari a
diciassette volte la posta.»
Detto
ciò la croupier mostrò un sinistro sorriso, che
pochi tra i presenti dovevano aver notato.
«Addio,
signorina Yamaguchi, ora è troppo tardi.»
E
con quelle parole Catlina si paralizzò, come se il suo
fragile
corpo si fosse crepato in mille pezzi di un dolore interiore. Una
lacrima luccicante a metà dell'occhio provò che
era
ancora viva.
Le
regole lo avevano reso un gioco di vita e di morte, una dipendenza
dalla speranza e da sogni illusori, un intricato enigma irrisolvibile
dalla psiche umana.
E
una giovane ragazza innocente avrebbe pagato con la vita il prezzo del
peccato più antico del mondo, con una morte lenta, dolorosa
e
misera per una gentildonna del suo rango.
«Cosa
ho fatto...»
Il
coraggioso ed astuto giovane sarebbe esploso in una violenta reazione,
se solo la sua unica vera dipendenza, la droga dei suoi occhi non fosse
ancora lì.
In
piedi, ferma; con il suo fare riservato e composto, mostrando sul viso
pallido la solita espressione indifferente a tutto e a tutti,
accompagnata dagli stessi occhi vuoti, verdi ed inespressivi.
Neanche
un lacrima o un grido: solo uno stupore ed una meraviglia potevano
farsi spazio nel cuore di Mirton nel vedere Catlina ancora viva, ancora
inerte a tutto quel dolore che devastava ogni nervo del suo
già
fragile corpo.
E
la ragazza senz'anima sottoposta alla peggiore fra le torture,
riuscì a proferire delle parole.
«Questo
gioco è truccato.»
Tutti
i presenti la guardarono stupiti e sconcertati. Quella ragazza dai seni
troppo grandi per sembrare reali doveva essere munita di uno straccio
di prova altrettanto reale per contestare la loro insana cupidigia,
paragonabile solo a quella della lupa dell'Inferno dantesco.
Eppure
a Catlina non poteva importare di meno dell'opinione altrui, del
pericolo e del dolore.
Poteva
solo reprimerli, come faceva con il desiderio di scoppiare a piangere e
gridare: non poteva dare quelle soddisfazioni a certa gentaglia.
«Se
non sbaglio, la pallina va gettata in senso opposto a quello in cui
gira la ruota. Per le nostre puntate avete sempre girato la ruota in
senso antiorario, e la pallina in senso orario.»
«Quindi,
cosa intendete dire, signorina Yamaguchi?» Sabrina
cominciò a sentirsi nervosa.
Che
anche quella giovane figlia di papà sapesse leggere nel
pensiero come lei?
«Se
fosse avvenuto così, la pallina si sarebbe fermata nelle
caselle
cadendoci dentro nel senso in cui gira la ruota, secondo i
più
banali principi fisici.
Quindi
in senso antiorario.
Eppure
ogni volta si è fermata dal verso opposto, in senso orario,
come
se avesse cambiato il senso del giro o avesse seguito una direzione
opposta in partenza, violando palesemente le leggi del moto
circolare.»
Prima
di continuare quell'accusa pubblica, Catlina sorrise leggermente in
mezzo a quel sentore che i muscoli, la pelle e i nervi le si stessero
strappando.
Incrociò
gli occhi di Sabrina, che cercò di rimanere inutilmente
calma, e si rivolse a lei.
«Vedo
che anche tu sei esperta in Pokémon Tipo Psico: la mente
umana
è prodigiosa, certo, ma non ha tale potenza da influenzare
l'ambiente esterno e di usare abilità come la telecinesi. Ma
i
Pokémon, sopratutto alcuni Pokémon ne sono capaci.
Lasciami
dire che, in nome di Maestra di Tipi Psico, il tuo esemplare di
Alakazam è davvero bravo ad ammaestrare la mossa Psichico...
Ma non altrettanto a celarla.»
Appena
Catlina finì di parlare, tutta la folla di giocatori
d'azzardo ammutolì, in quella sala vuota.
Il
più lieve ed inopportuno dei sorrisi vagheggiò
sulle labbra della bionda.
«Sembra
che non mostrare la paura sia sinonimo di coraggio...»
Eppure
nel silenzio irruppe la voce di uno di quei vecchi giocatori
incalliti.
«Se il gioco è stato truccato fin dall'inizio ci
avete solo rubato dei soldi!»
E
gli altri fecero eco.
«Tutta
colpa di una croupier così affascinante... Come fidarsi
delle dea della tentazione!»
Mentre
tutte le menti ritardate dei presenti avevano realizzato quanto la sete
di guadagno aveva fatto loro smarrire l'intelletto e la percezione
dell'eccesso, Sabrina non riusciva più a reggere tutta
quella
pressione: il suo piano era stato sventato con una tesi, una
confutazione e un'arringa pari a quella dell'oratore romano Cicerone
quando sventò la congiura contro il bene comune della
patria.
E
come se non bastasse, quella ragazza, che a chiunque sarebbe apparsa
come una figlia di miliardari annoiata dal suo stesso benessere,
presentava forse una psicologia, qualche tratto che non la rendesse
simile ad una bambola di cera, bellissima ma abbastanza fragile da
spezzarsi con un tocco.
«Riesci
ancora a parlare, anche dopo che ti ho quasi strappato le labbra? - si
riferì a Catlina, con un accenno di ansia - lo fai per
amore,
vero? Credo che lui - ed osservò Mirton come se si trattasse
dell'indegnità impersonata - non sia abbastanza ricco,
influente
e meritevole di rispetto per poter comprarti quello che tu chiami amore.
Vorrei
sapere tu faccia a sopravvivere senza sentimenti o emozioni, sei solo
un'apatica ragazzina viziata.»
E
pronunciando queste ultime parole Sabrina rivelò sotto lo
smoking ben curato (riuscì a sfilarlo senza problemi, come
se
non avesse nemmeno le cuciture) la stessa uniforme scura che Catlina
aveva visto nell'onsen, quando lei e Camilla erano state attaccate.
Neo
Team Plasma.
Il
punto cardine del ragionamento che la giovane aveva iniziato osservando
gli spostamenti forzati con la mossa Psichico della pallina e che si
concludeva con un retrogusto stantio e pietoso, che le ricordava come
fosse realmente tramontata l'organizzazione dalle divise scure.
La
falsa croupier dai capelli scuri estrasse con un gesto attento una
pistola, la puntò contro di lei e di Mirton, che ancora
reggeva
il suo corpo tremante.
Due
colpi risuonarono violenti, mirati con un'allegoria veramente
sarcastica: non doveva aver senso puntare al cuore inesistente di
Catlina; per ucciderla con sadismo voleva aspettare di far esplodere
quel suo cervello, quell'ammasso informe di sogni irrealizzabili e
teorie macchinose che già era corroso dal dolore
più
insopportabile.
Catlina
poi sentì i sensi venirle meno, le membra più
deboli che
mai, la forza vitale che la lasciava; chiuse gli occhi per non vedere
oltre.
«Noi
siamo il Team Plasma. Il nostro nuovo obiettivo è
l'annientamento totale delle cinque candidate al posto di Campione. I
dettagli sono strettamente riservati.»
Sabrina
formulò nella sua mente di chiromante, macchinatrice di
sadici
inganni, ma dall'impulso di una ragazza impaziente e violenta.
Non
era pronta a subire lo scherno di tutta di tutte le reclute, delle sue
compagne scelte, di tutta l'organizzazione per aver avuto bisogno di
una pistola...
...E
non aver ucciso il suo obbiettivo.
❁
«Svegliati!
Devi svegliarti e vivere quest'occasione.
Sarai Campionessa se ti sveglierai, non puoi vivere per sempre di
sogni.»
Una
voce eterea, vuota sussurrò. Non era riconducibile a nessuno
in particolare.
«Quella
persona a te molto speciale ricambierà il tuo amore se ti
aprirai, non puoi vivere per sempre senza sentimenti.»
Per
quanto la ragazza senz'anima fosse inconscia, rifiutò ancora.
«Ma...
Se mi sveglio il dolore può uccidermi.
La solitudine può uccidermi.
Le illusioni possono uccidermi.
E io posso fare agli altri lo stesso male che ho provato io.»
«Svegliati,
Catlina, per favore.»
Una
voce profonda e gentile, ma allo stesso tempo preoccupata
richiamò la ragazza alla realtà.
Catlina
aprì poco a poco gli occhi: realizzò subito che
tutto il dolore era sparito.
Poi
un senso di preoccupazione, di terrore e panico la spinse a guardarsi
il prosperoso petto, sollevando la scollatura del vestito rosa: niente
ferite. Niente colpi o segni.
Solo
le cicatrici di anni passati segnavano una traccia permanente sulla sua
pelle bianca.
Quindi non era morta, o peggio era rimasta viva dopo due colpi di
pistola dritti nel cuore.
Era
solo svenuta, come stanca di vivere quella snervante situazione.
Però
si ricordò di non trovarsi nel suo mondo di sogni caduchi,
ma in
una realtà permanente e terribile, una realtà che
incorporava la persona che ora a lei sentiva più mancare.
«D-Dov'è
Mirton?»
La voce soffice e fioca di Catlina suonava esattamente come quella con
cui si svegliava ogni mattina.
«Il
Neo Team Plasma aveva architettato un piano non solo per attirarti ed
eliminarti quella sera, ma anche per guadagnare numerosi finanziamenti
illeciti per le loro attività.
Hanno allestito un falso casinò a Libecciopoli con la scusa
che Unima è l'unica regione a non possederne uno.
La croupier è la stessa persona che ci ha attaccate, un
membro del Neo Team Plasma, ma non la leader.»
«Non
mi interessa, voglio solo sapere cosa sia capitato a Mirton.»
Catlina
rispose pacata, ma comunque seria.
«Per
essersi intromesso nella traiettoria dei colpi destinati ad ucciderti,
è stato colpito da due proiettili in pieno petto, gli hanno
quasi sfiorato il cuore.
È stato ricoverato, ed è vivo. Ma immagino che
ciò
che conti è che ti abbia protetta con il suo stesso corpo...
Lo
ha fatto per te.
Deve tenerci davvero a te.»
Dopo
aver ascoltato queste parole, i pensieri confusi di Catlina si
bloccarono un secondo sul fatto che perfino mentre le veniva riferita
tale notizia, Camilla le sorrideva teneramente, tenendo ancora la testa
della biondina appoggiata sulle sue ginocchia.
Inoltre
realizzò di trovarsi a casa di Nardo, e di indossare ancora
l'abito di Marina.
Il
cuore che per Catlina doveva essere inesistente cominciò a
farle male.
La
mente della giovane non sapeva più nemmeno che cause
associare
all'estremo atto di altruismo del il suo "collega", o forse amico o
forse qualcosa che non le era chiaro: Mirton doveva trovare davvero
umiliante e ironicamente pietoso che proprio la ragazza segnata da
tristi eventi, che non può mostrare ne' il suo vero corpo
ne' il
suo vero animo a causa di profonde, dolorose e incancellabili
cicatrici, venisse ferita per la seconda volta, magari
mortalmente.
Erano
solo un forte pietismo e una lacrimevole commiserazione a muoverlo?
Eppure
Catlina si sentì pressoché soddisfatta di questa
deludente supposizione: finché il sogno che coltivava
inconsciamente da quando lo aveva conosciuto era presente, per lei era
pure abbastanza.
Riuscì
quasi ad immaginare il sangue sgorgargli copioso dal petto, poteva
quasi percepire il suo stesso dolore.
Volle
per un secondo poter dividerlo con lui, ma si accorse che non ce
l'avrebbe fatta: stava quasi per piangere come una bambina quando poche
ore prima aveva percepito quei dolori localizzati su di
sé.
«Camilla,
- la chiamò a bassa voce - ho bisogno di dormire.»
La
giovane poi abbracciò la Campionessa di Sinnoh, percependo
sulle
guance i suoi lunghi e morbidi capelli biondi, sentendosi un po' a
disagio.
Camilla
aveva ricambiato il suo gesto senza esitazione, ma ovviamente,
dall'apatica amica d'infanzia a cui si era abituata non se lo sarebbe
aspettato.
«Certo.
Hai bisogno di riposarti. Mi dispiace soltanto che il tuo primo
appuntamento sia andato male...» Le rispose quella.
«Tranquilla.
Cose come i "primi appuntamenti" esistono solo nelle favole e nei
sogni.»
Mentre la giovane senz'anima si coricava e chiudeva gli occhi,
pensò a lui, ancora.
Avrebbe
sognato Mirton inevitabilmente, avrebbe sperato che fosse lui ad
accarezzarla, solo lui a vedere quelle parti di lei come la pelle e le
lacrime che teneva celate a tutti, voleva sapere che dolcezza le sue
labbra emanassero.
Per
ora poteva solo immaginarlo. Ma le andava comunque bene.
❁
«Oh...
Camilla.»
«Cosa
c'è Catlina?»
«Nulla...
Mi è solo venuto un dubbio sul come tu abbia fatto a sapere
dove
mi trovavo per poi riuscire a riportarmi qui, proprio al momento giusto
e senza che io me ne accorgessi, è strano...»
«Tranquilla,
è stato un dovere più che altro: non appena ho
sentito
che il Team Plasma aveva creato tutto quel disastro il mio primo
pensiero è andato a te, ho seriamente temuto per la tua
sicurezza, e così sono corsa a salvarti...»
«In
piena notte, facendo la strada da Ventura a Libecciopoli da sola e al
buio?»
«E
va bene, ho usato il telefonino per rintracciarti visto che era tardi e
domani dobbiamo allenarci ma tu non hai risposto, sai che mi sono
davvero preoccupata.
C-Certo che la tecnologia fa miracoli al giorno d'oggi, eh? Anche
quando ti ho trovata, eri ancora perfettamente intatta, trucco e
capelli compresi.»
«Certo,
ti do ragione... A Sinnoh poche persone usano cellulari così
sofisticati.»
«Ti
ricordi? Cinque o sei anni fa usavamo le mail al posto dei messaggi,
tenevi sempre sotto controllo il credito telefonico, avere la
fotocamera era un privilegio e come se non bastasse...»
«...i
telefonini avevano addirittura più di un tasto! Che bei
tempi...»
«Quanto
hai ragione, pensa che adesso perfino i ragazzini di dieci anni
possiedono smartphone ultra-tecnologici di ultima generazione e li
sanno usare meglio di me! Avrei voluto vederli a duellare contro i
tasti per scrivere gli sms... Ah.»
«Tutto
a posto, Camilla?»
«Catlina,
a rimpiangere i bei vecchi tempi... comincio a sentirmi davvero
vecchia.»
«Non
hai tutti i torti...»
❁
Behind
the Summery Scenery #10
1.
Visto che voglio evitare ogni genere di fraintendimento: questo
capitolo (ed anche il prossimo) sono ambientati nello stesso giorno di
vacanza in cui Camelia ed Anemone hanno avuto i loro disastri interiori
ed Iris e Camilla ci danno la ragione per cui tutti siamo qui, lo yuri.
Il salto temporale che viene fatto nel capitolo precedente dall'oggi al
"domani" (il giorno dopo quello di presunta vacanza) include solo la
lotta delle tre ragazze e la scena fra le due Capopalestra. Tutti
questi capitoli si svolgono in concomitanza con gli eventi del
sub-capitolo e della prima parte del nono capitolo, in sintesi.
2.
Ho sempre nutrito una certa simpatia per la Lega di Unima: insomma,
sono tutti e quattro giovani (in tutte le altre regioni gli Elite Four
sono quasi ultrasessantenni, se ci pensiamo), il chara-design
è
ottimo e diamine, they're f***ing hot. Come se non bastasse, ho
recentemente scoperto che questi quattro simpaticoni sono anche
ispirati a personaggi della letteratura internazionale di grande
successo! Quindi, scrittori di Efp: abbiate pietà di queste
quattro anime in pena. Non basate tutto il loro IC sulle quattro
informazioni che vi danno nel gioco, quando scrivete di loro.
3.
Mi dispiace che Antemia qui faccia solo un cameo per fare battute. Ho
intenzione di inserirla al più presto in un capitolo
prossimo,
fidatevi.
4.
Avete mai provato a parlare con Mirton dopo averlo sconfitto? Dice una
frase che ha a che fare con il fatto che non esistano solo il nero ed
il bianco, ma numerose variazioni. Questa frase mi ha fatto pensare a
"Cinquanta Sfumature di Grigio", perdonatemi. Ecco qui il suo IC! E poi
la gente si limita a paragonarlo ad un vampiro... Provate ad
immaginarlo mentre dice "Io non faccio l'amore, io scopo forte" (mai
vista traduzione migliore di "f**k hard", ma dettagli...).
Update:
okay, faccio un breve appello alle ragazze etero che leggono. Mi potete
riferire se 50 Sfumature sia ancora una saga rilevante o sia caduta nel
dimenticatoio insieme a Twilight, Moccia e Francesco Sole? Voglio
sapere se sfottere ancora la James mi faccia guadagnare punti simpatia
o no.
5.
Anche l'interazione fra Catlina e Camilla è piuttosto
limitata
in questi due capitoli... Dovrei smetterla di procrastinare le
sottotrame che non ho voglia di scrivere per concentrarmi sul
fanservice.
6.
La stesura originale prevedeva un piano del Team Plasma
super-ultracomplicato in cui c'entravano i numeri totalizzati, il
sistema limbico, la neurosi, ed un sacco di altre scemenze che sono
state rimosse a favore di un semplice e cristallino "ora vi ammazzo
tutti".
7. L'idea
del casinò è una specie di desiderio represso
personale,
sapete, ho sempre sognato di andare a Las Vegas e fare su un bel
malloppo fra roulette, slot machines e blackjack, anche se la fortuna
non è quasi mai dalla mia parte.
8.
Ho dovuto anche eliminare un trafiletto finale in favore di un qualcosa
di più sbrigativo, una parte in cui Mirton e Sabrina
dialogavano
con la telepatia ed una scena sul Team Plasma. Fra tagli netti e
riscrivere tali parti questo si è rivelato uno dei capitoli
più difficili da scrivere.
9.
Effettivamente Unima non ha un casinò, quello che ho
immaginato
si trova nella zone di Libecciopoli in cui nel primo gioco sorgeva il
Deposito Frigo, nei sequel il Pokémon World Tournament.
10.
Chiedo venia a tutte le persone che sono venute qui per leggere di yuri
e si ritrovano questo capitolo con forti accenni Mirton X Catlina. Non
fatevi ingannare dall'apparenza.
|
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Capitolo 11 *** La felicità è in una ragazza ***
ESGOTH 5
❁
A story
by: Momo
Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing: 🍦
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Early
Summer Girls
❁
Capitolo
11
La
felicità è in una ragazza
«Ah,
capisco.»
La
voce della ragazza dallo yukata azzurro e i capelli rossi venne
trasportata dal vento leggero che rinfrescava anche quell'ennesima
giornata di allenamenti.
Mentre
lei e Camilla osservavano le loro tre restanti compagne allenarsi (la
leader aveva riproposto loro il precedente esercizio del "combattere
contemporaneamente, non insieme" contro Catlina, con l'unica differenza
che ora al posto di Anemone c'era Iris a doversi scervellare per capire
le mosse della bionda) loro due avevano avuto l'occasione di conversare.
«Ma
dimmi, - aveva ripreso Camilla - come mai ti interessava saperne di
più sul passato di Camelia? Siete già
così
amiche?»
In
effetti, più che una conversazione, la giovane aveva chiesto
direttamente a Camilla di parlarle della sua sarcastica, orgogliosa e
allo stesso tempo fragile compagna.
Se
avesse voluto informazioni su di lei le sarebbe bastato cercare il suo
nome su internet e leggere i commenti nei blog idolatranti la modella;
ma non era quello che Anemone desiderava sapere.
Voleva
conoscere quella ragazza vedendola senza trucco o tinte, senza il
bisogno di fingere o recitare.
Quelle
lacrime che Camelia aveva mostrato solo ed esclusivamente a lei
manifestavano il ricomparire di fantasmi del passato che la
traumatizzavano ogni volta, come se rivedesse quell'attimo in cui
quella bambina più o meno dieci anni veniva illusa, derisa e
scandalizzata a vita dall'unica persona di cui si fidava.
Era
una cosa triste, ma probabilmente tutti i fan che dicevano di amare la
modella non ne erano mai giunti a conoscenza.
«N-No...
Però ultimamente è un po' depressa, capiscila: il
suo
ragazzo l'ha lasciata, ha certi sbalzi d'umore ed è
diventata
anche più gentile... Per i suoi standard di
gentilezza.»
«E
pensi che tutto questo sia legato al fatto che quando era piccola suo
padre si desse all'alcool e andasse a prostitute?»
Le
domandò infine la giovane donna.
Seguì
un certo silenzio, in cui Anemone guardò con un certo
sconforto la sua compagna mora.
Stava
lottando a fianco di Iris e probabilmente, se avesse prestato
più attenzione alle loro parole, stava sgridando e deridendo
la
ragazzina per qualche errore di lotta.
Per
essere bella, Camelia lo era fin troppo.
Non
lo aveva stabilito certamente Anemone, ma se una ragazza, nell'era dei
mass media e dei conflitti estetici, riusciva a mantenere un
espressione naturale e seducente perfino quando piangeva con il mascara
colato di sicuro era degna di essere definita bella.
E
intelligente, se riusciva a capire quando le persone dicevano il falso
o non avevano i soldi per vestirsi decentemente.
Inoltre
era forte e sagace: la rossa si immaginò cosa Camelia
avrebbe
risposto al suo posto agli insulti che Alice, la riccona incontrata
sotto la pioggia la sera prima, aveva gettato contro la sua sfortunata
condizione sociale, mentre lei era rimasta muta e passiva come un
Pokémon bastonato.
«Ah...
Iris, lasciatelo dire, non hai proprio il senso
dell'orientamento...»
Aveva
esordito la mora, con tono di estrema commiserazione, come faceva da
sempre.
«I-Io?!
È colpa dell'abilità Statico che paralizza tutti
i
Pokémon in campo, dovresti ragionare sulle cariche prima di
scaricare la colpa sugli altri!»
Tentò
di difendersi la ragazzina, che si sentiva davvero vulnerabile a quelle
prese in giro. Tentò anche lei una battuta.
La
mora però la fulminò con una sguardo di gelida
disapprovazione.
«...E
nemmeno senso dell'umorismo... Sei davvero inutile, insomma. Pensa se
ci trovassimo nel bel mezzo di una battaglia violenta... Non potrei
utilizzarti neppure come scudo umano, dato che gli attacchi ti
trapasserebbero il petto con estrema facilità...»
La
voce della modella aveva quel tono tagliente e sarcastico che poteva
abbattere persino una montagna, unito al suo solito sorrisetto maligno.
«A-Aspetta,
cosa c'entra il fatto che io sia piatta in questo momento?!»
«Nulla,
ma sappi che non è buona cosa farsi prendere dall'invidia
nel
mezzo di una battaglia violenta. Rischi di essere distratta e venire
uccisa dall'invidia e non dagli attacchi.»
«Camelia,
tu e le tue lezioni di vita...» Concluse Iris, stizzita ed
umiliata.
«Ho
vinto ancora. Dovreste prestare più attenzione.»
Catlina
aveva appena ritirato il suo Musharna dal campo di lotta, fissando i
corpi esausti degli altri due Pokémon con indifferenza.
«Bene
ragazze, continuate così: se ci trovassimo nel mezzo di una
battaglia violenta verremo ancora tutte morte trucidate, ma
è un
buon inizio.»
Camilla
sorrideva mentre lo diceva e non si capiva se stesse scherzando,
rimproverandole o incitandole ambiguamente.
Anemone
scoppiò a ridere sonoramente, rivelando un sorriso
naturalissimo
e il suono della sua risata mentre il resto delle ragazze la fissavano
stranite.
«Scusatemi,
ma non rinuncerei a voi per un miliardo di
Pokédollari!»
E
mentre la sua mente razionalizzava per quanti anni un miliardo di
Pokédollari avrebbero risolto i suoi ingenti problemi
finanziari, il suo cuore le ricordò che quelle erano le sue
uniche amiche.
Disfarsene
era impossibile.
Anche
se si ricordò che ancora doveva ricomprarsi sia un cellulare
sia la tinta che aveva promesso a Camelia.
❁
«Ragazze,
- era la voce di Nardo, con un'insolita profondità e
serietà - degli uomini chiedono di...»
Ma
l'uomo fu interrotto prima di completare la frase, dall'entrata di
alcuni individui.
Per
incutere un certo timore avevano abiti scuri, eleganti, tipici di
quegli uomini di malafede che si vedono nei film. Sembravano piuttosto
ricchi inoltre.
Scostarono
dal loro cammino il Campione, ignorandone totalmente
l'autorità
e si scambiarono uno sguardo: le ragazze ormai tacevano tutte, davvero
inquietate.
Iris
sentiva le gambe dolerle dalla tensione, mentre cercava uno spiraglio
di sicurezza negli occhi delle sue compagne.
Ma
le loro espressioni erano tutte uguali, sottomesse e silenti. Fece
anche lei lo stesso, temendo comunque il peggio.
«Tranquille,
giovani aspiranti Campionesse - parlò uno di loro (dovevano
essere cinque o sei) - non siamo qui per voi quattro.»
Quattro
non è cinque.
Quindi
qualcuna di loro c'entrava in quel losco affare perché
quattro non è cinque.
E
le ragazze caddero ancora di più nel panico.
Chi
potevano cercare costoro, se nessuna di loro si sentiva personalmente
presa in causa?
La
paura era tangibile nell'atmosfera.
La
sfortunata tra loro ne avrebbe sicuramente saputo qualcosa, ma taceva
per rallentare inutilmente lo svolgersi del fato.
«Siamo
dei Servizi Sociali della regione. - uno parlò, rivolgendosi
a Nardo - sono fatti estremamente riservati.»
Con
quelle parole il Campione fu costretto ad andarsene, mentre le cinque
erano ancora lì, ancora più confuse dalla
rivelazione.
Cosa
c'entravano i servizi sociali? Iris si escluse a priori, con un leggero
sollievo.
Ma
essere sole con quegli uomini in nero rimaneva comunque inquietante.
Uno
di quei tizi tutti uguali di apparenza si mosse e camminò
pacatamente verso una di loro.
Non
servì seguire la traiettoria completa della camminata, a
tutte
le "quattro innocenti" bastò vedere il viso di Anemone
abbassarsi e nascondere l'espressione più addolorata che la
rossa avesse mai mostrato loro.
Nessuna
ebbe nulla da dire.
Invece
di parlare con la diretta interessata, uno cominciò a
parlare ad
alta voce quasi a schernirla, rivolgendosi a tutte loro che erano
rimaste incredule.
«Questa
ragazza non ha i genitori.
È
stata sotto tutela della famiglia Ayamoto per quasi dieci anni,
all'insaputa della nostra organizzazione.
Un'adozione
non accettabile dalla legge, dato che il cosiddetto "padre adottivo" o
come lo chiama lei, "nonno" non ha assolutamente le risorse fisiche e
sopratutto economiche per crescere una ragazzina.
Inoltre,
come se non bastasse, l'uomo in questione non ha nemmeno una consorte,
il che comporta un deviamento psicologico nei rapporti di relazione del
soggetto interessato.
Hanno
cercato di depistare la legge e i codici di adozione per un bel po', ma
ora che la questione è venuta a galla, la signorina, in
quanto
minorenne, deve essere ricondotta in un istituto dove ci si prenda
adeguatamente cura di lei.»
Finito
di parlare, mentre Iris ad ogni frase si era morsa un pezzo di labbro,
e tutte quante esibivano un'espressione scioccata e incredula, Anemone
rimase in piedi, come paralizzata.
Per
un secondo si pentì di essere nata.
I
suoi occhi azzurro cielo si colorarono di scintillanti sfumature
lucide, mentre le guance ormai erano già rigate di lacrime,
che
le cadevano copiose sui piedi.
Nessuna
parlò, in preda allo sconforto: il cinque che diventava
quattro.
L'uomo
che aveva parlato si posizionò alle spalle della sfortunata,
tenendole ferme le mani: riuscì a snodare la cintura del suo
yukata, facendola cadere a terra.
I
lembi di stoffa scivolarono verso il basso e rivelarono l'insenatura
del seno di Anemone: coperto da un reggiseno piuttosto semplice,
mostrava due abbondanti rigonfiature dove la pelle abbronzata della
giovane si schiariva leggermente, diventando color dell'ambra.
Quel
losco individuo prese sul palmo della mano uno dei due tesori della
ragazza, schiacciandole la carne con le dita, mentre la ragazza si
dimenava inerme nell'umiliazione, senza fare un vero e proprio
tentativo di liberarsi.
La
passività e l'impossibilità di reclamare una
dignità non di donna, ma di essere umano, fece rabbrividire
la
pelle della rossa che si sentì sussurrare all'orecchio.
«Guarda
come sei diventata bella e sexy... Fa' la brava ragazza e ti tratteremo
bene, questa volta.»
E
con la mano scese ad accarezzare anche i suoi perfetti fianchi
arrotondati.
«La
smetta! Questa è molestia sessuale, razza di maniaco
pedofilo!»
Iris
si fece avanti: non poteva sopportare oltre quello spettacolo orrido,
la sua più cara amica umiliata e delle autorità
abusare
del loro potere.
Si
stupì che dovesse essere lei ad interrompere quella tortura,
ma
non pensò assolutamente di accusare le altre,
provò
bensì fierezza del suo stesso coraggio e del suo senso di
giustizia.
Tutti
quanti si meravigliarono di come quelle parole violente pronunciate
anche dalla più piccola del gruppo potessero suonare
accusatorie
e salvatrici.
Ma
comunque Camilla trattenne la ragazzina dai capelli viola per il
braccio dal fare qualche sciocchezza: si trattava comunque di
autorità.
Con
uno spintone l'uomo liberò la ragazza, che finì
per
scivolare a terra con il kimono ancora slegato ed occhi e viso bagnati.
Non fece in tempo a rialzarsi che il suo molestatore in abiti eleganti
la fulminò con lo sguardo, facendola sentire un'ameba.
«Lascerai
la competizione per il titolo di Campione oggi stesso, capito
ragazza?»
Anemone
annuì, in preda alla paura.
Miserabile.
Non
riuscì a definirsi altro agli occhi delle sue compagne.
Era
pienamente cosciente del fatto che suo nonno non avesse mai avuto alcun
diritto di occuparsi di lei, ma era lei a lavorare, a occuparsi di se
stessa e della sua famiglia senza diritti o dignità.
Le
cose continuavano ad andare sempre peggio... Ma almeno potevano
continuare, prima che tutti i suoi sogni venissero distrutti dai
servizi sociali della regione.
La
storia l'avrebbe ricordata come uno di quegli aspiranti Campioni che
nonostante i loro sogni e il loro talento sono costretti a rinunciare e
a vivere di rimorso.
Ecco
come Camilla, Iris, Camelia e Catlina l'avrebbero ricordata.
Un'avversaria
in meno, una minaccia al loro successo eliminata.
Appena
quei demoni in vesti umane se ne furono andati, Camilla non
esitò a porre una mano alla rossa per aiutarla a rialzarsi;
questa la scacciò con uno schiaffo, e si rialzò
da sola,
tenendo stretto il tessuto dello yukata come se rappresentasse la sua
morale violentata, poi si allontanò il più
velocemente
possibile.
«Anemone...»
Iris
riuscì a pronunciare il suo nome solo a bassa voce,
chiamarla indietro non sarebbe servito a nulla.
«Ha
bisogno di stare sola per qualche minuto.»
Cercò
di tranquillizzarla la leader, mettendole una mano sulla spalla.
Intanto
il vento soffiava più forte, più violento.
«La
zona ad ovest di Unima è rinomata per le sue miniere: la
Cava
Pietraelettrica, il Monte Vite, la Cava Ponentopoli... Luoghi che
impiegano lavoratori da tutta la regione.
Purtroppo
molti di essi perdono lì la vita per i più tristi
motivi
e in moltissimi casi queste sfortunate anime possiedono perfino dei
figli: per questo proprio a Ponentopoli è stato istituito un
centro di accoglienza ed educazione per i molti bambini che rimangono
orfani.
Deve
essere stata questa la sorte dei miei genitori naturali,
perché
ho scoperto di mia personale esperienza che più che "centro
di
accoglienza ed educazione" basterebbe il nome "orfanotrofio" per
descrivere la solitudine opprimente che più volte ho provato.
L'unico
modo per uscirne, per varcare i cancelli che separavano noi bimbi
esclusi dal diritto naturale di avere una famiglia era, come ci
ripetevano fino alla nausea gli istitutori, "essere buoni,
così
qualche mamma o papà vi vorrà adottare".
Ora,
nessuno potrebbe dire che esistono i bambini buoni e i bambini cattivi.
Ma
io ho imparato a mie spese che la vita sa essere assai crudele ed
invece di assicurare a tutte le sue creature il calore di una famiglia,
preferisce etichettarci già dalla nascita e identificarci
fino
alla morte con i nostri peggiori difetti e con le nostre paure.
Ricordo
che la prima volta che venni punita corporalmente fu quando picchiai
furiosamente uno degli altri bambini perché mi aveva
offesa.
Mi
aveva presa in giro per via dei miei capelli e non ne aveva motivo.
I
miei capelli rossi, di cui non vado assolutamente fiera, che mi fanno
sembrare uno scherzo della natura, sono comunque un prezioso dono delle
sante anime dei miei genitori defunti.
«Cos'hanno
i miei capelli di sbagliato? Cos'ho io di
sbagliato?»
Mi
chiedevo, mentre uno dei maestri mi trascinava per i capelli (li
portavo lunghi, una volta) ed io, in lacrime, cercavo di giustificare
il mio operato manesco; questo riuscì a spogliarmi dei
vestiti
con la forza e percepivo il suo vigliacco senso di potenza nel riuscire
a denudare una bambina indifesa.
E
poi il colpo di grazia. Sempre reggendomi per i capelli come una bestia
nuda ed inumana permise che tutti i bambini potessero ridere
spudoratamente di me, perché ero stata cattiva.
Sopratutto
i maschi ridevano di me, si prendevano gioco del mio piccolo corpo
ambrato di bambina, ed ora mi chiedo se una volta cresciuti ancora
ridono quando vedono delle belle ragazze prosperose, questi bastardi.
Nonostante
l'incancellabile umiliazione, il mio animo trovò il modo di
reprimere la voglia di gridare e di piangere. Feci ciò che
faccio anche adesso, ciò che mi aiuta ad essere forte.
Da
quel giorno, ero molto, molto piccola quando successe, smisi di parlare
per difendermi e per ogni altra ragione. Non mi avrebbero mai ascoltata.
Smisi
di piangere, visto che non mi avrebbero nemmeno mai consolata.
Evitavo
anche di guardarli negli occhi, tutti quegli individui che desideravano
schiavizzarmi ai loro interessi perversi, le cause nobili sono sempre
così poche che si contano sulle dita di una mano.
Preferivo
guardare il cielo, cercavo di volare via da tutto ciò.
Per
questo nessuno ha mai avuto la vaga idea di adottarmi; ho accettato di
essere destinata a marcire in quell'orfanotrofio, di aspettare la
maggiore età per farmi cacciare via da lì
definitivamente, continuando a fissare il cielo come un'idiota,
sperando di raggiungere quella libertà che non avevo mai
ricevuto.
Poi
non avrei trovato lavoro e sarei morta per la strada o di fame o di
freddo, come le maestre e anche i bambini mi ripetevano da sempre.
Sarei
mai cresciuta, diventata una ragazza normale, una di quelle che pensa
ai ragazzi, al suo futuro, a divertirsi e ad innamorarsi?
Certo.
Se non mi fossi chiamata Ayamoto Anemone.
Era
sicuramente scritto nel mio destino che la mia specializzazione sarebbe
avvenuta con i Pokémon Tipo Volante; nel momento in cui sono
stata strappata al futuro che gli istitutori mi avevano imposto fissavo
un cielo azzurrissimo, che mi donava una certa pace interiore.
«Sei
felice qui?»
Una
voce anziana aveva rotto la mia "profonda meditazione".
Felicità?
Davvero
a qualcuno poteva importare se un rifiuto della società era
felice, con tutti i problemi che ci sono nel mondo?
Io
sono rimasta zitta, non avevo la risposta.
Non
avrei parlato comunque, il mio mutismo era solo peggiorato col tempo,
portando via con sé la capacità di relazionarmi e
di
intraprendere rapporti con il sesso opposto.
Inoltre
gli adulti mi facevano paura. Un po' come succede ora.
«Certo.
Perché dovresti rispondermi? - D'un tratto l'uomo mi
accarezzò il viso e strofinò i capelli
affettuosamente -
Il Campione della Lega di Unima ha chiesto personalmente di te per
allenarti nelle lotte e farti diventare una Capopalestra, ma tu stavi
osservando un meraviglioso cielo infinito, la tua piccola mente
spiegava le ali verso orizzonti illimitati... E io ti ho
distratta.
Ti
chiedo assoluto perdono.»
Esisteva
gente così pazza da nutrire speranze per me, effettivamente.
Ciò
mi lusingava e allo stesso tempo spaventava mortalmente.
Avevo
davvero paura di immaginare qualcuno subire i miei stessi dolori ed
accettare passivamente ogni insulto e ingiustizia mi stava trasformando
nell'incarnazione della pietà.
Il
corpo ha sete di amore, ed assecondare una misericordia invisibile la
quale speravo atrocemente venisse prima o poi a salvarmi dalla
sofferenza, rendeva il mio cuore ancora più arido; volevo
che
quell'uomo mi mostrasse i sentimenti che non avevo mai provato ma che
desideravo inconsciamente.
«Portami
via con te... Qui... Mi sgridano, mi picchiano e io non posso nemmeno
dire cosa penso...
Ti
prego... Portami via...»
Mio
nonno (nome che preferisco di gran lunga a "padre" che mi rifiuto di
dimenticare) invece di compilare le carte di adozione e di pagare
l'affidamento, mi ha proposto di gridare forte cosa ne pensassi di
quell'orfanotrofio, degli istitutori, dei bambini che ridevano del mio
piccolo gracile corpo dal color dell'ambra.
Tanto
non sarei mai più ritornata lì... In teoria.
«Stupidi,
morite tutti, brutti stupidi, vi odio, non vi perdonerò
mai!»
Quelle
parole gridate da una bambina di sette anni con il cervello di una di
tre sono state la mia più grande ribellione.
Poi
ho dimenticato.
Cosa
il Campione mi aveva insegnato, a ribellarmi ad ogni abuso della mia
pazienza e dignità, ho eliminato, e poi ho ripreso con la
mia
dipendenza.
Ripreso
a farmi mettere i piedi in testa dalla società, dal mondo,
dalla mia "famiglia".
Ho
pensato di ripagare la pietà che mio nonno ha avuto di me
prendendomi sulle spalle tutte le responsabilità, come se la
mia
esistenza fosse stata una colpa da espiare.
Anche
se ho sempre sognato di poter solcare il cielo infinito che tanto
adoravo da piccola, io continuo a sperare che mi venisse alzato lo
stipendio, magari di avere più tempo libero per compensare
la
mia mancanza di vita sociale, qualche volta vorrei perfino liberarmi
una volta per tutte di mio nonno, la persona che mi ha strappato
dall'inferno, pur di non doverlo più mantenere.
Io
per ora sopporto per contrappasso la pena di dovermi mascherare con un
sorriso per nulla naturale, di cercare l'ottimismo che non esiste in
nessun aspetto della mia inutile vita.
Il
mio futuro è stato disegnato dalla mia nascita:
povertà,
solitudine, depressione, responsabilità e colpe che mi
perseguiteranno a vita, nessuno che mi capisca.
Potrei
gridare all'infinito e non sfogarmi, piangere e nulla cambierebbe, e
adesso che anche il mio sogno precipita dal paradiso in una fossa
oscura ed infinita mi piacerebbe davvero che qualcuno me lo
richiedesse...
Se
mi sento libera... Se mi sento
importante...
Ma
sopratutto, se mi sento felice, ma ho paura di rimanere di nuovo zitta.»
Mentre
Anemone ripensò piano piano al percorso che il suo
inesorabile
destino aveva compiuto per condurla lì dov'era, si rese
conto di
aver avuto sotto gli occhi i suoi ciuffi rossi spettinati tutto il
tempo, si intromettevano nel suo campo visivo, ondeggiando trasportati
dalla brezza estiva.
La
facevano sembrare una ribelle, rappresentavano l'ossimoro con la sua
personalità.
Davvero
era tutto finito?
Avrebbe
almeno voluto chiamare suo nonno, mentirgli per l'ultima volta
dicendogli che lei sarebbe stata bene, che non doveva preoccuparsi, che
si dispiaceva di essere stata una nipote (o una figlia, o una
Capopalestra o qualsiasi cosa fosse stata per quell'uomo che non aveva
nemmeno il suo sangue) sempre e comunque pessima.
Rimpianse
di non avere più un telefono.
Ricordare
come da brava adolescente nel pieno di una crisi di nervi lo aveva
scagliato a terra la fece sorridere, quasi illudere di essere un po'
normale nel profondo.
Trovò
ingiusto inoltre non poter rivelare a Camelia che le aveva detto una
bugia: non si sarebbe mai trovata un fidanzato, perché non
voleva e basta. Glielo
aveva promesso solo per farle piacere, e rimpianse ancora di essere
così perdutamente buona e gentile solo per non ferire gli
altri.
E
ora avrebbe dovuto subire, ironicamente, i desideri carnali di quegli
uomini schifosi e perversi, come tutte le ragazze della sua
età
che, suo nonno le raccontava, negli orfanotrofi più
degradati
venivano veramente usate come oggetti da sesso, non avendo altre doti o
capacità nella vita se non il loro corpo.
Prima
di andarsene definitivamente, la rossa si vide costretta a togliersi
con dispiacere quello yukata azzurro intenso, che rappresentava ormai
tutto l'orgoglio che aveva, come se la sua pelle fosse diventata aria,
come se avesse indossato fino al fatidico momento del suo ritiro dalla
competizione l'intera volta celeste sul suo corpo giovane e formoso.
Per
la prima volta, il suo destino le sembrò troppo lontano e
nefasto per potersene preoccupare al momento.
❁
Quando
la competizione al titolo di Campione era cominciata, Iris non aveva
mai immaginato di vedersi dispiaciuta della perdita di un'avversaria:
ma come poteva gioire del fatto che la sua prima amica la stesse
abbandonando perfino contro la sua volontà?
Quell'estate
la stava struggendo, troppe cose brutte capitavano una dopo l'altra.
Da
quando si era mostrato il suo innato senso di giustizia nel difendere
la rossa da quelle molestie vere e proprie, Iris aveva pensato ad oltre
mille frasi da dire nel loro ultimo secondo insieme.
Ed
aveva finito per scegliere quella che fra le mille suonava come la
più egoista.
«Per
favore, non dimenticarmi...»
Le
aveva detto mentre la abbracciava in lacrime, per la prima e ultima
volta.
Eppure
non era lei ad avere il diritto di piangere, lo sapeva.
«Ma
certo che non ti dimenticherò. - Anemone aveva un tono di
voce
dolce mentre sorrideva amareggiata - Se ti capita di sentirti di nuovo
sola parla con le altre, sono sicura che ti ascolteranno.»
Con
la coscienza che quella frase non l'avrebbe tirata su di morale, la
ragazzina annuì e poco dopo, troppo poco dopo, si
trovò
costretta a rompere l'abbraccio e, strofinandosi gli occhi bagnati, si
allontanò pensando come se fosse stato un funerale "era una
brava ragazza".
Dopo
di lei la rossa fece un leggero inchino di riconoscenza verso le
compagne più grandi, per poi abbracciare prima Catlina e poi
anche Camilla.
Iris
notò come le parole di Camilla fossero cento volte
più rassicuranti delle sue.
Camelia
invece non pareva particolarmente scossa; era perfino truccata, quasi a
dire che non avrebbe pianto neanche per farle un piacere.
Sembrava
soltanto assorta, in un certo senso.
Iris
se lo aspettava in fondo, ma le parve comunque scortese da parte della
modella comportarsi così. Le idol non piangono sempre, al
ritiro
delle loro colleghe? O fingono di piangere e basta?
I
loschi uomini nei loro eleganti vestiti fecero voltare la ragazza
rossa, che rivolse, al limite del suo devasto emotivo, l'ultimo amaro
sorriso alle sue più fortunate avversarie.
«Vi
auguro tutto il meglio per il vostro futuro. Mi mancherete.»
E
con quelle parole la giovane dai capelli ribelli, gli occhi profondi
come il mare e il cuore violentato dall'indifferenza altrui
lasciò quella che poteva essere la sua salvezza, la sua
unica
realizzazione nella vita, senza potersi voltare indietro.
«Che
scemenza... Hey, voi, sottospecie di stupratori pagati,
aspettate!»
Quel
tono aggressivo, fermo e provocatorio, di una donna indipendente e
spudorata, riuscì non solo a scuotere per la seconda volta
il
cuore di Iris, ma anche di Catlina, Camilla e perfino degli "assistenti
sociali".
Gli
occhi della ragazza di quell'azzurro freddo e cristallino erano
veramente spaventosi al solo contatto visivo: erano determinati.
«Ma
quella non è una di quelle stupide modelle onnipresenti
nelle riviste?»
Uno
di quei malviventi tutti uguali si fece identificare solo per
quell'insulto.
«No,
questa è anche una Capopalestra... - poi si rivolse alla
mora, o
al suo prominente petto, quasi lo avesse personificato - E dimmi, la
medaglia la dai a chi ha le Pokéball grandi? E poi che cosa
gli
fai, un'Idropompa?»
Un'altro
si distinse, facendo ridere fragorosamente il gruppo.
Le
tre ragazze si guardarono schifate, Anemone si sentì
inconsciamente in colpa, anche se non ne aveva motivo.
Eppure,
dal punto di vista della modella la situazione era esilarante.
Talmente
esilarante che individui grandi e grossi, che si sentivano potenti
traumatizzando e poi abusando di un'innocente fanciulla, non le
dicevano di tacere o di spostarsi, ma rimanevano in attesa di una sua
risposta: tipico degli uomini abbastanza perversi da sottomettersi ad
una ragazza...
Forse
non era davvero esilarante, pensò infine.
Sollevando
un lembo del tessuto dello yukata giallo come il sole a
mezzodì,
Camelia scoprì seducentemente la scollatura, rivelando
un'accenno del suo orgoglio più grande, dando a quegli
idioti
una preview del suo ampio seno.
Qualche
secondo dopo l'atmosfera di paradiso terrestre si tramutò in
quella dalla schiera dell'inferno in cui i rei dei sette peccati
capitali messi insieme scontavano la loro pena.
Un
bagliore talmente forte ed improvviso costrinse tutti, anche le quattro
ragazze, a coprirsi gli occhi: un Tuono scagliato a chissà
quale
voltaggio, dal boato devastante, sembrava troppo potente e fiero per
essere visto da occhi umani.
Camelia
invece osservò tutto il processo, senza problemi.
Un
esemplare di Emolga si appoggiò con delicatezza sulla spalla
della giovane dal paralizzante sarcasmo.
Era
incredibile come quell'esserino così piccolo e delicato
potesse
usare una mossa potente come Tuono solo per mero divertimento.
Avrebbe
voluto incitare la sua Allenatrice a ripetere la mossa fulminando a
morte quei rifiuti umani, ma si limitò a fissare incuriosita
le
altre ragazze: sorridevano quindi dovevano avere fiducia in quella sua
allenatrice un po' superba.
«La
medaglia la do agli allenatori abbastanza intelligenti da sapere che
una di tipo Acqua come Idropompa non verrà mai eseguita da
un
tipo Elettro.»
Ribatté
Camelia con chiarezza quasi spaventosa.
«Camilla,
questa idea delle Pokéball nascoste nel reggiseno mi
comincia a infastidire.»
Iris
sussurrò all'orecchio della leader in totale
sincerità.
«Come
mai? È una tecnica utile e semplice, e anche pratica per
tenere
le proprie Pokéball sempre a portata di mano...»
Le
rispose l'inventrice di quel trucco in persona.
«È
immorale. - la riprese Catlina, davvero seria - E smettiamola di
parlare di queste cose nel mezzo di una questione di tale
importanza...»
Iris
la interruppe.
«Tu
almeno hai lo spazio per mettercele le Pokéball!»
La
ragazzina era ancora stizzita dal commento precedente (e da tutte le
dozzine che aveva ricevuto nei giorni precedenti) riguardanti il
proprio seno.
Gli
uomini neri intanto erano zitti.
Erano
stati sconfitti dal logos, l'arte di volgere un intera questione a
proprio favore, come degli ignoranti; e da tali, uno sollevò
una
Pokéball, ma fu fermato nell'atto di mandare in campo il
Pokémon.
«Non
me ne importa niente se sapete gridare quattro mosse a caso. -
facendosi spazio fra quei colossi, Camelia si trovò faccia a
faccia con la rossa, che la fissava intimorita. Si perse un secondo in
quegli occhi azzurri, ma fu solo un secondo - voglio scontrarmi con
lei.»
La
modella indicò Anemone con il dito indice, con l'unghia
coperta di fine smalto.
Seguì
un silenzio dietro quell'azzardata sfida.
«Se
vinco io ve la portate via e potete anche sverginarla per quanto mi
riguarda.
Se
vince lei invece, ce la trascineremo dietro fino al TRUF.
Se
i giornali dicessero che la Campionessa di Unima ha vinto il suo titolo
a tavolino sarebbe penoso. Dico bene?»
Iris
si chiese se Camelia fosse seria: non volle crederci, ma dal come aveva
contrapposto quell'"io" ad uno sdegnoso "lei" sembrava di sì.
«Quindi
voi cinque non siete così amiche come dice il
Campione?» Si stupì uno di loro.
Camelia
scoppiò forzatamente a ridere, con un pesante sarcasmo,
gelando la situazione.
Poi
si rifece seria, fulminando quegli idioti con gli occhi.
«Ve
lo deve spiegare una stupida modella che questa è una
competizione?
Il
titolo di Campione è uno solo, stiamo combattendo tutte per
quello. Levarci un'avversaria di torno fa sempre comodo, anche se vi
dovete portare via questa sfigata perché non ha i soldi per
mantenere lei e la sua stupida famiglia o qualsiasi cosa ci vada di
mezzo... Non me ne frega.
Qui
ognuna combatte per sé, non siamo "amiche" o
altro.»
Catlina,
Camilla e Iris la fissarono sconcertate.
Bugiarda.
Bugiarda,
approfittatrice.
Bugiarda,
approfittatrice, egocentrica, falsa.
«Bugiarda,
approfittatrice, egocentrica, falsa, dal seno di morbidissimi
novantadue centimetri.»
Pensò
Iris in bilico fra ira e invidia.
Camelia
aveva davvero finto di essere ferita nell'animo, di essere qualcosa di
più di un'acida divinità della discordia, aveva
finto
perfino di voler bene a lei e alle altre?
Si
poteva essere così bravi e simulare l'amore e la fiducia?
Rimase
ancora devastata. Ora il suo tifo era tutto per la rossa.
«Accetto.»
Anemone
si posizionò davanti alla modella.
Solo
fissandola, con tutto il dispiacere che aveva nell'aver perso la
ragazza dolce e simpatica che credeva di aver spremuto fuori da
quell'ammasso di tinte per capelli e make-up, dichiarò a
Camelia
guerra.
Non
sarebbe rimasta a guardare quella volta.
«Ma
se vinco io, Camelia, lasciati tirare due begli schiaffi, te li
meriti.»
Aggiunse
la rossa alla sua posta in palio.
❁
«La
odio, quanto la odio, non mi è mai stata simpatica, lo
sapevo
che di lei non dovevamo fidarci; e che meschina, sfidare un'Allenatrice
di Pokémon volanti solo per avere il vantaggio del tipo!
Fossi
in Camelia mi farei fare una plastica facciale... A suon di calci in
faccia.»
Iris
era perfettamente conscia che quella battaglia non stabiliva solo se la
rossa sarebbe rimasta: era una prova per testare l'autorità
che
le due diciassettenni contendevano, per capire chi delle due avrebbe
continuato la sua strada di gloria e successo mettendo i piedi in testa
all'altra.
Ovviamente,
qualsiasi risvolto avesse avuto la lotta, il legame di amicizia che
avevano cercato di stabilire da almeno un mese si sarebbe rotto
definitivamente, trasformandosi in assoluta diffidenza e sospetti
reciproci in tutto il gruppo.
Per
quanto le dispiacesse, la ragazzina era ancora sconvolta, e non si
sarebbe trattenuta alcun insulto.
Camilla
intanto discuteva con Catlina sul fatto che ad Unima le lotte
sembrassero sempre accese, cariche di pathos e adrenalina, un vero test
di ideali e verità contrapposte: l'altra annuiva, cercando
di
seguire l'ingiustificata eccitazione dell'amica.
Calato
un brevissimo silenzio, su quel campo che da loro era usato per
allenarsi le due ragazze presero posizione, guardandosi dirette negli
occhi.
Allo
sfidato la scelta del genere di sfida.
«Hai
presente come funziona una lotta aerea? È un tipo di lotta
abbastanza popolare nella regione di Kalos: si usano solo
Pokémon di Tipo Volante e l'intera battaglia si svolge in
aria.
Vince
il primo che fa toccare terra al Pokémon avversario.
Semplice,
ma vediamo se riesci a starci dietro.»
Anemone
liberò dalla Pokéball Swanna, il cigno dalle
candide ali.
Sia
la giovane sia il suo Pokémon non avevano mai considerato il
filo a cui era appeso il loro destino tanto fragile e sottile: non era
assolutamente il momento di indietreggiare, ma di dimostrare a se
stessa come dovrebbe sempre essere, sia nelle lotte, sia nella vita.
«Non
perderò, non darò la soddisfazione a quella
stupida di vedermi sconfitta...
Non
darò il dispiacere al nonno di vedermi sconfitta... Non
tradirò i miei ideali.»
Mentre
pensò queste parole, Anemone sentì lo spirito di
un'innata ribelle dai capelli rosso naturale che si risvegliava: una
sensazione fantastica.
«Va
bene. Vado per questa lotta aerea.
Emolga,
per favore, vai avanti tu: sei l'unico Pokémon Volante che
possiedo, del resto.»
La
modella sembrava piuttosto calma, scostando il piccolo
Pokémon dal suo braccio.
Prima
però Camelia sussurrò al suo compagno.
Fu
parecchio concisa.
«Ricorda:
dobbiamo perdere con dignità. Okay?» E fece
l'occhiolino.
Quando
Swanna ed Emolga si schierarono a più o meno sei metri da
terra,
l'ultima voce a gridare prima che si scatenasse la lotta decisiva fu un
ovvio incito.
«Anemone,
fai del tuo meglio!»
Iris
incrociò le dita, mentre nella sua testa macchinava tutti i
meccanismi di lotta possibili.
«Che
la lotta cominci!»
Catlina
si trovò costretta a fare da arbitro, dando il segno
d'inizio della lotta decisiva.
«Swanna,
Eterelama!»
La
rossa dilatò le pupille azzurre verso il cielo, focalizzando
la
vista fra le nuvole e quel blu immenso: era lì che da
piccola
cercava la pace da quel mondo spietato e crudele in cui si ritrovava a
vivere; in quel momento però la sua attenzione era rivolta
agli
spostamenti aerei più che al Pokémon in
sé:
svolazzare e fuggire a caso era inutile.
«Mancato,
maledizione!»
Era
il momento di attaccare, di farsi valere, di dimostrare a Camelia che
anche lei era una Capopalestra degna di quel nome, quel nome che che
avrebbe mantenuto ad ogni costo.
Sapeva
che la sua avversaria aveva il vantaggio del Tipo, ma non quello del
luogo, almeno erano pari in questo campo.
Ma
non solo.
«Segui
Emolga, cerca di superarla in velocità!»
Le
due diciassettenni si stavano sfidando a una corsa ai limiti delle
leggi fisiche, raggiungendo velocità talmente assurde che
non
permettevano un attimo di respiro o di deconcentrazione né
al
Pokémon, né allo stesso Allenatore.
Uno
sbaglio minimo e il secondo dopo si sarebbe ritrovata a terra, a
mangiare la polvere.
«Che
illusa, davvero credevo che Camelia volesse essere mia amica?
Di
potermi fidare di lei? Sono troppo buona.
Perché
non riesco ad essere anch'io egoista, opportunista e
menefreghista?!
Basta.
Lo hanno voluto loro.»
Anemone
strinse i pugni.
Era
consapevole che quei tizi in nero la osservavano ancora, scambiandosi
qualche commento, qualche battuta infame su di lei.
Ma
al momento non erano importanti quanto la rabbia crescente in lei.
Doveva
farci qualcosa con quel furore, non poteva affievolirsi, dimenticato
nelle viscere del suo corpo.
«Swanna,
usa Pioggiadanza!»
Il
cielo, da azzurro limpido che era, si ingrigì tanto da
ricordare
vagamente quella sera di temporale estivo in cui Anemone ed Iris erano
diventate amiche.
E
grosse gocce d'acqua cominciarono a rovesciarsi a ritmo sempre
più intenso.
Anemone
era lì per vincere, ma nessun perdente può
vincere senza una strategia.
❁
«Attacco
Rapido. Guadagnamo un po' di vantaggio così.»
«Wow,
Anemone vuole davvero vincere.
Immagino
che questi colossi foderati di soldi vogliano davvero
sverginarla...
Davvero
gli orfanotrofi in questa regione fanno così
schifo?
Pensavo
che in materia di prostituzione minorile la periferia di Sciroccopoli
toccasse davvero il fondo...»
Camelia
non si sarebbe mai imposta di evitare i commenti durante le lotte.
Le
infondevano fiducia, finché non perdeva il suo orgoglio
personale andava tutto bene, secondo lei.
Probabilmente
la rossa non aveva mai avuto questo genere di problemi,
perché
forse non conosceva alcun concetto di "orgoglio".
Secondo
una certa etica morale se non si conosce qualcosa lo si tende a
disprezzare e a scegliere la strada opposta a ciò pur di
evitarlo.
«Emolga
non lasciarti prendere alle spalle!»
La
giovane pensò e ripensò alla situazione di
Anemone, ma finì per rimuginare su sé stessa.
Di
certo, da quando aveva incontrato la rossa, qualcosa in lei era
cambiato.
Si
chiese solo se una top model incapace di esprimere le sue
volontà, isterica e problematica come lei riuscisse davvero
a
far diventare migliore una persona a sua volta.
Almeno
che diventasse migliore di lei.
Si
ricordò che ora Camilla, Catlina e sopratutto Iris la
odiavano per il suo precedente doppiogioco.
Ma
non ne avevano motivo.
«Eh?!
Piove ora?! No... Le mosse di stato si usavano nelle lotte qualcosa
come sei anni fa!»
La
mora si sentì scossa.
Non
andava bene. Non andava affatto bene per il suo piano.
Se
avesse voluto farla finita subito alla modella sarebbe bastato, come
visto in precedenza, usare la mossa Tuono, dalla potenza talmente
elevata da trasformare qualsiasi Pokémon Volante in arrosto
con
un solo colpo.
Ma
alla potenza non corrisponde certo la precisione: Tuono aveva
addirittura la probabilità del settanta percento di fallire
e i
tentativi a disposizione erano pochi.
Una
buona scusa per non usarla.
Però
l'acqua è un ottimo conduttore di elettricità,
questo è risaputo da tutti.
E
con la pioggia la mossa Tuono, di Tipo Elettro, diventa infallibile.
«Camilla,
come mai la traditrice non usa Tuono ora che può? Abbiamo
visto
prima che Emolga riesce ad usarla perfettamente... Perché
non ne
approfitta?!
È
stupida per caso? Le tette le otturano il cervello?!»
Iris
domandò all'amica, mentre da bordo campo osservavano lo
spettacolo.
«Credevo
che tu tifassi per Anemone...» Le rispose la donna.
La
ragazzina ammutolì. Tutte e tre però avevano quel
dubbio esistenziale.
Intanto
la ragazza dai capelli neri e gli occhi azzurro chiaro cercò
di
ignorare meglio che poté tutte quelle critiche.
Le
ricordavano i commenti negativi e le prese in giro che i suoi fan
avrebbero potuto scambiarsi nel caso non avesse mostrato loro la se
stessa creata apposta per apparire nelle sfilate, nei servizi
fotografici o nelle interviste.
Non
le restò che fregarsene e seguire le sue vere intenzioni.
«Anemone,
ti prego, capisci dove voglio arrivare... So che non sei
così stupida...
E
che le tette non ti otturano il cervello.»
Camelia
baciò la Pokéball di Emolga.
«Emolga,
segui Swanna e vai più in alto che puoi. - E abbassando la
voce
aggiunse - fai in modo che non cambi traiettoria. Mi dispiace piccola
mia, ma devi sacrificarti per la tua Allenatrice ora.»
Senza
dubitare neanche per un secondo della fiducia che aveva nella modella,
Emolga volò spedita, scagliata in linea retta come un
proiettile, puntando verso un punto indefinito del cielo piovoso,
bagnandosi il pelo e il muso di pioggia battente.
Anemone
percepì le sue mani tremare, non ricordò di
essersi mai
agitata tanto per una lotta. Si sforzava di tenere gli occhi fissi in
alto, richiudendoli ogni volta che una goccia d'acqua le finiva
nell'occhio, facendoglielo bruciare.
«Swanna
cerca di schivare tutto quello che puoi e continua a salire fin dove
trovi bassa pressione dell'aria! Veloce!»
Dopo
l'esperienza avuta qualche settimana prima, in aggiunta a questa,
qualsiasi finale avesse concluso la lotta, si ripromise di cancellare
Pioggiadanza dalla sua lista di mosse.
Ne
aveva davvero abbastanza di pioggia.
La
rossa aveva momentaneamente dimenticato che non solo Emolga le aveva
palesemente mostrato di conoscere Tuono pochi minuti prima, ma anche
che, qualora fosse anche riuscita ad approfittare della pioggia per
potenziare le mosse Tipo Acqua di Swanna, sarebbe stato comunque tutto
inutile: il vantaggio del Tipo era di Camelia e lo erano anche le
resistenze che ne conseguivano.
«Che
faccio? È ovvio che stia cercando di portarci il
più in
alto possibile per scagliare un Tuono micidiale... Ci schianteremo a
terra... Sono spacciata.
Cosa
posso fare?
Niente,
è finita.»
Anemone
chiuse un secondo gli occhi, sentendo la pioggia flagellarle le spalle.
Riusciva
già a immaginarsi giacere nuda, dopo essere stata stuprata e
psicologicamente rovinata da quegli aguzzini maledetti.
Le
venne in mente un'ultima cosa.
«Essere
il Campione non significa solo combattere. Significa anche...»
E
la frase si completò per lei.
«Credere.»
«Se
non credo io in me stessa nessuno lo farà mai al posto
mio.»
La
rossa alzò lo sguardo, come se avesse intravisto una luce
salvatrice in quel cielo di nuvole tetre.
«Continua
a salire, non fare in modo che Emolga ti raggiunga!»
Mentre
il cigno dalle ali bianchissime si sforzava di raggiungere il paradiso
sfrecciando attraverso l'aere come una freccia, Anemone si ricompose.
«Uno.
Due. Tre. Quattro. Cinque. Sei...»
«Cosa
sta contando Anemone?» Iris domandò sconcertata,
quasi gridando.
Ora
sapeva che la rossa aveva in mente qualcosa.
«Siamo
partite da 6 metri da terra, in stato di quiete. Swanna sale verso
l'alto di 4 metri e mezzo ogni 2 secondi circa. Sono circa 2 metri al
secondo per ogni tratto.»
«Nove.
Dieci. Undici. Dodici...»
«Swanna
è già a velocità 27 metri al secondo,
ci vuole più potenza...»
«Sedici.
Diciassette, sali sempre più in alto, più veloce,
Venti...»
«Se
ogni tratto vale 2 virgola 25, dovremmo essere a 100 metri da terra
ormai.
100
è uguale 6 più un mezzo dell'accelerazione
moltiplicata
per il tempo, 25 alla seconda... Facendo i calcoli, 94 sta a 625 mezzi
con... Caspita, siamo quasi a 200 chilometri orari!»
Prima
di attuare la mossa decisiva, la ragazza osservò Camelia
negli
occhi, come per farle notare di non essersi arresa neanche un secondo.
Infine
benedì la legge oraria del moto rettilineo uniformemente
accelerato e la bassa pressione della pioggia che annichiliva l'attrito
presente nell'aria.
«Ora!
Sbatti Emolga al suolo con tutta la potenza che hai!»
Gridò
a pieni polmoni.
Swanna
calò in picchiata verso terra e, da un puntino bianco che
viaggiava a chissà che velocità dalle cifre
esorbitanti,
diventava un corpo sempre più distinto.
Emolga,
come previsto, fu costretta a fuggire da quel proiettile vagante, che
presto o tardi si sarebbe abbattuto su di lei.
Seguì
un attimo di stupore da parte di tutti, gli uomini in nero e la stessa
Camelia compresi.
Solo
un enorme boato segnalò una caduta assai violenta.
Seguì
un breve silenzio.
Pochi
secondi dopo il braccio di Catlina, che faceva da arbitro, si
alzò finalmente verso il cielo, puntando definitivamente da
una
sola parte.
«Emolga
non è più in grado di lottare. Il vincitore
è...» Ma fu interrotta.
«Anemone,
Anemone ha vinto! E quindi significa che resta,
sì!»
Iris
aveva addirittura fatto un salto di gioia, dopo aver abbracciato
Camilla e aver gridato un paio di volte, dimenticandosi di essere
ancora in dovere di dimostrare un minimo di maturità.
Ma
era troppo felice.
La
sua amica più cara non avrebbe dovuto rinunciare al suo
sogno,
non avrebbe dovuto vivere il resto della sua vita in modo vergognoso e
disdicevole.
Il
fatto più importante restava comunque che la rossa sarebbe
rimasta ancora con lei.
«Come
pensavo: Anemone stava contando i secondi che il suo Pokémon
impiegava per salire verso l'altro ed applicarli alla formula...
Ah,
voi ragazze di Unima siete belle ed intelligenti allo stesso tempo, che
invidia!»
Ammise
Camilla, sorridendo e rivolgendosi effettivamente solo a se stessa.
Lei,
Catlina e Iris si erano radunate intorno alla ragazza, e nonostante
fosse completamente fradicia di pioggia non esitarono ad abbracciarla.
Anemone
si sentì la ragazza più felice del mondo.
Ora
le nuvole nere cariche di pioggia che oscuravano il suo futuro si
stavano dissipando e lasciavano spazio ad un nuovo ed abbagliante sole,
esattamente come stava avvenendo nel cielo in quel momento, un cielo
che diventava di nuovo azzurro dopo che l'effetto sul campo di
Pioggiadanza si era esaurito.
«Voi
altri; - Anemone si avvicinò al gruppetto degli "assistenti
sociali" con un'aria di superbia mai vista prima - questa formula per
l'accelerazione in aria non l'ho imparata a scuola: me l'ha insegnata
mio nonno, serve a non far precipitare gli aerei.
Se
proprio volete una ragazza con cui fare sesso, almeno pretendete che
sia abbastanza stupida da farlo con voi.»
Tutte
le ragazze la applaudirono, Iris le diede il cinque in segno di
rispetto.
La
rossa sentì rinata, con gli stessi occhi azzurri, gli stessi
capelli rossi ma con un animo nuovo di zecca, senza più
rimpianti per il passato o pessimismi per il futuro.
❁
Ora
che la sera stava calando, l'atmosfera si fece più calma.
«Hey
ribelle, hai dimenticato la seconda parte della tua
ricompensa?»
La
rossa era rimasta ancora sul campo di lotta, a rilassarsi osservando
delle nuvolette chiare striare il cielo blu terso.
Non
si era aspettata che Camelia sarebbe giunta da lei di sua spontanea
volontà a reclamarle ciò che avevano pattuito in
caso di
vittoria per la giovane di Ponentopoli.
Aveva
sperato che se ne fosse dimenticata, ora che le cose si erano
più o meno sistemate.
«Lo
hai detto tu: potevi tirarmi due schiaffi se vincevi.
Ed
è andata così... Sono qui, e se non lo hai ancora
capito mantengo tutte le promesse che faccio.»
Gli
occhi di Camelia non sembravano per nulla turbati, ma non apparivano
neppure dispiaciuti o scocciati; la rossa capì in un secondo
come mai la ragazza di fronte a lei non sentisse la pesantezza del
rimorso o la rabbia della sconfitta: non ne aveva motivo.
Però
Anemone si sentì solo più in dubbio,
tentò di
sollevare una mano rigida, ma non riuscì a compiere il
movimento
fluido e veloce che precede l'urto violento della mano contro il volto,
quasi come se lo schiaffo lo avesse subito lei stessa.
«Camelia...
Perché hai fatto finta di... H-Hai messo in scena tutta la
storia della lotta, del fatto che ci odiassimo, e mi hai lasciato
vincere...
Insomma,
perché hai fatto tutto questo, voglio sapere.»
La
giovane aveva cercato di formulare la frase il più decisa
possibile, ma aveva finito per rispecchiare con le parole il caos che
aveva dentro.
Non
si era aspettata nulla di tutto ciò, e aveva capito che si
trattava di una finzione solo alla fine della lotta, quando la rabbia
che aveva dentro si era calmata ed aveva visto le cose con
lucidità: un'allenatrice del rango della compagna che non
colpisce al momento dell'attacco... Come aveva potuto non notarlo prima?
«Ah...
Quindi hai capito perché non ho usato Tuono e approfittato
della
tua stupidità... - Camelia sembrava aver riflettuto su ogni
singola parola - ma non è ovvio, scusa?»
«No,
certo che non è ovvio! Non hai ripetuto almeno un miliardo
di
volte che tu non menti mai, che sei sempre piena di orgoglio, che non
sei una doppiogiochista?!»
Dopo
aver respirato affannosamente la ragazza rossa si sentì
tremendamente in colpa, dato che provò a mettersi nei panni
della sua avversaria, come da sempre faceva e non poteva fare
più a meno.
Dopo
tutto quello che Camelia aveva fatto per lei, fra cui rinunciare al suo
orgoglio personale e attirare su di sé l'odio delle altre
ragazze passando per una adulatrice della peggior specie,
ciò
con cui Anemone voleva ricompensarla erano due schiaffi, che
pensò di meritarsi più di lei.
Ed
invece all'improvviso la rossa si ritrovò a contatto con la
pelle liscia e bianca delle braccia della top model, che rideva
dolcemente, come se si fosse trattato solo di un equivoco poco
importante.
Rimpianse
ogni cattivo pensiero, anche se le era stato dettato dalla
disperazione: si sentì un'ipocrita, che parla del perdonare
e
compatire le persone quando lei stessa aveva meditato i peggiori
insulti nei confronti della compagna.
«Anemone
cara... Ti hanno mai spiegato come funziona l'amicizia?
Non
l'ho inventata io, dai... Se qualcuno ti fa un favore, o si risparmia
di odiarti quando te lo meriti, sarebbe una cosa, diciamo, "umana" se
si potesse ricambiare quella gentilezza, anche se va contro la propria
morale o contro la propria personalità.
Tu
non hai riso di me tutte le volte in cui ho fatto le mie scenate da
bambina isterica.
Anzi.
Sei quasi riuscita a consolarmi, e di questo ti sono grata.
Se
io non ti avessi aiutata ora, che ne avevi bisogno... ah, i monologhi
filosofici preferisco lasciarli a Camilla.
L'importante
è che tu sei qui, e lo sarai per... altri tre
mesi.»
Le
due diciassettenni si strinsero abbracciate per un paio di secondi che
diventarono minuti, respirando all'unisono, come se si sentissero
sollevate dalle loro colpe.
In
effetti, Camelia si era domandata spesso quando si sarebbe decisa a
ringraziare degnamente la compagna di sopportarla durante i suoi
periodi bui, di ascoltare ogni cosa dicesse, fra le sue inutili battute
e le sue crisi isteriche, e di essere semplicemente diversa da quella
massa di fantocci di trucco e bugie che costituivano la restante parte
dei suoi amici.
Non
fu mai così contenta di aver perso una lotta: poter vedere
il
viso di Anemone da quella distanza era un vero privilegio.
«Camelia,
ti prego, voglio diventare tua amica.
Davvero.
Sei semplicemente perfetta, sei anche bella e intelligente...
N-Nel
senso, sei fortunata perché lo sei, n-non l'ho deciso io, da
sola... - la stretta delle braccia di Anemone si fece più
forte,
schiacciando il suo seno contro quello dell'altra - Prometto che non ti
minaccerò mai più con gli schiaffi,
giuro.»
Sorridendole
dolcemente, la mora spinse la ragazza via da sé, godendosi
l'espressione delusa della pilota.
«Mi
pare il minimo che tu non mi prenda a schiaffi dopo che ti ho evitato
uno stupro! - ma dato che non avrebbe sopportato per molto il pensiero
di essere detestata da lei, le abbracciò le spalle - Ora
però torniamo dalle altre, così spieghi anche a
loro
quanto io sia perfetta, bella e intelligente, okay?»
Finita
quella giornata estenuante, Anemone ringraziò il cielo di
averle
dato una vita così, non bella, ma particolare:
ringraziò
di avere così tante persone fantastiche intorno a lei, una
famiglia che l'aveva valorizzata per i suoi difetti, di avere perfino
una libertà nel cuore che nessuno mai le avrebbe potuto
togliere.
❁
«Wow
Anemone, sei stata grande con quella... cosa di matematica durante la
lotta.»
«Iris,
quella non è una "cosa di matematica", ma una legge fisica
vera e propria.»
«Oh,
allora bisogna portare assoluto rispetto, mi inchino al cospetto alle
leggi fisiche vere e proprie!»
«Non
credevo mi toccasse fare la figura della secchiona qui, ma lascia che
ti illumini:
Uno
Swanna, nel salire verso l'alto in volo, parte da 6 metri da terra in
stato di quiete. Percorre in volo 100 metri in 20 secondi.
Calcola l'accelerazione
raggiunta al
momento e il tempo necessario a raggiungere una velocità
superiore ai 200 chilometri orari.
Iris, mi
hai ascoltata?»
«Scusa,
ma ho appena saputo che il prossimo capitolo sarà pieno di
contenuti sexy... Sono così contenta!
E
comunque credo che neppure i lettori abbiano capito ciò che
hai
detto: rimane il fatto che hai usato una mossa di Tipo Volante su un
Tipo Elettro e ti consideri un genio...»
«Avevi
per caso un'idea migliore? Non credo.
Comunque il fatto che il prossimo capitolo sia davvero ammiccante mi
rende curiosa...
H-Ho detto curiosa, n-non eccitata!»
❁
Behind
the Summery Scenery #11
1.
Il flashback di Anemone? Un parto. Inizialmente volevo farle fare
l'acab ribelle trasgressiva e sarebbe dovuta scappare
dall'orfanotrofio ed incontrare suo nonno per caso... so che non ha
senso, per fortuna me ne sono resa conto prima di pubblicare.
2.
In effetti, Anemone non somiglia neanche lontanamente a suo nonno
(quello che appare nell'anime). Ora, so che ci sono diverse versioni,
fra cui quella in cui Anemone è bianca come un lenzuolo (che
io
amo definire la "versione
razzista"),
io mi sono basata su questa per scrivere il suo personaggio come
un'orfanella bisognosa d'amore. Viva l'abbronzatura sexy.
3.
Io amo la fisica e, quando non è spiegata con i piedi, anche
la
matematica. I calcoli che la rossa fa durante la lotta sono tutti
reali, mentre scrivevo li ho fatti su un foglio a parte, comprendono
solo le formule delle leggi orarie del moto rettilineo uniforme ed
uniformemente accelerato.
4.
La battuta sull'Idropompa fatta contro Camelia l'ho trovata in un sito
di frasi da rimorchio a tema esclusivamente Pokémon. Ah
internet, non sai più come stuprimi!
5. Qui una
bella canzone che mi ha aiutata nelle scene finali. Qui una
che si chiama come il titolo del capitolo.
7. L'idea
del casinò è una specie di desiderio represso
personale,
sapete, ho sempre sognato di andare a Las Vegas e fare su un bel
malloppo fra roulette, slot machines e blackjack, anche se la fortuna
non è quasi mai dalla mia parte.
8.
Ho dovuto anche eliminare un trafiletto finale in favore di un qualcosa
di più sbrigativo, una parte in cui Mirton e Sabrina
dialogavano
con la telepatia ed una scena sul Team Plasma. Fra tagli netti e
riscrivere tali parti questo si è rivelato uno dei capitoli
più difficili da scrivere.
9.
Effettivamente Unima non ha un casinò, quello che ho
immaginato
si trova nella zone di Libecciopoli in cui nel primo gioco sorgeva il
Deposito Frigo, nei sequel il Pokémon World Tournament.
10.
Chiedo venia a tutte le persone che sono venute qui per leggere di yuri
e si ritrovano questo capitolo con forti accenni Mirton X Catlina. Non
fatevi ingannare dall'apparenza.
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Capitolo 12 *** Un bacio completamente nudo ***
ESGOTH 5
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by: Momo
Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
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Summer Girls
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Capitolo
12
Un
bacio completamente nudo
Una
sirena d'allarme risuonò nella silenziosa notte estiva,
emettendo una luce rossa che girava a vuoto su se stessa illuminando
con striature dello stesso colore i muri delle case intorno al museo
della città di Zefiropoli: qualcuno o qualcosa doveva aver
fatto
irruzione nel museo, luogo di raccoglimento e studio di reperti rari e
antichi.
«Polizia,
polizia, presto, il Team Plasma ha colpito ancora!
Stanno
saccheggiando il museo e hanno messo K.O. tutti i Pokémon
posti come sicurezza!»
Si
sentiva gridare, e altre voci di civili spaventati si univano a quella
baraonda notturna.
Giovani
di svariate età, tutti vestiti di nero come le tenebre della
notte, entravano ed uscivano dal museo come una colonia di formiche,
trasportando oggetti più o meno utili allo scopo originale,
senza un obiettivo preci
In
quel momento di tensione e panico, che di sicuro al mostrarsi della
mattina sarebbe finito su tutti i telegiornali della regione, una
figura femminile snella e giovane sedeva solitaria sul tetto di un
edificio in lamiera, abbastanza alto da permetterle di osservare il
cielo: sapeva di non potersi permettere di snobbare le operazioni del
Team Plasma come se non la riguardassero, ma era quasi sicura della sua
intoccabilità di membro scelto.
La
ragazza, la cui uniforme si mimetizzava nell'oscurità,
sorrideva maliziosamente.
«Jasmine,
cosa stai facendo qui? Perché non stai seguendo le reclute
nel museo?»
Una voce un po' annoiata, ma comunque superba era comparsa alle sue
spalle.
«Se
non ti rispondo cosa fai, lo dici alla leader?
Alice,
tanto non importa nemmeno a te se anche una di quelle stupide reclute
di basso rango viene catturata dalla polizia...
Piuttosto,
siediti qui anche tu... Non mi vuoi proprio parlare?»
La ragazza le aveva fatto cenno di sedersi.
Non lo aveva fatto certo per amicizia, ma per un disperato bisogno di
qualcuno con cui vantarsi della felicità per cui sorrideva.
Era divertente sbattere in faccia la propria fortuna agli altri, faceva
aumentare la soddisfazione, secondo Jasmine.
Era
come un antidepressivo preso in stato di totale felicità, un
vera droga dell'anima.
«Senti,
non istigarmi come fai sempre - Alice lo aveva detto, più
che
come un rimprovero, quasi come una supplica - ho avuto una brutta
giornata.»
La
giovane pilota della regione di Hoenn aveva comunque finito per sedersi
accanto alla compagna, a discapito del suo forte orgoglio. Non era lei
stessa quel giorno, si vedeva.
«Non
mi dire... Il tuo piano di eliminazione per... - Jasmine
schioccò le dita, come per far apparire in quell'istante il
nome
che non ricordava - per... la tipa che dicevi che era un "rifiuto della
società", con i capelli rosso tinto... Com'è che
si
chiamava?»
Alice
sospirò. Si pentì di essersi fatta coinvolgere in
quella conversazione.
«Anemone.
E ho scoperto che quei capelli rossi sono naturali.
Sì,
il piano che avevo pensato per toglierla dalla competizione una volta
per tutte è fallito. Avevi bisogno che te lo dicessi io
quando
già lo sapevi?»
Alice
le rispose pacatamente, leggermente umiliata, aggiungendo un tono
aggressivo solo alla fine, per evitare di ritrovarsi la
dignità
sotto i piedi.
Ma
la compagna non ne ebbe abbastanza, e si lasciò andare ad
una forzatissima risata di commiserazione.
«Davvero?!
Davvero credevi che la storia degli 'assistenti sociali' che hai pagato
per portarsela via avrebbe funzionato?! E adesso non solo sei senza
soldi, ma quando il capo lo saprà... Sei proprio sfortunata,
cara mia.
Avresti
dovuto fare come Sabrina, che almeno si è divertita un po' a
torturare con quel cadavere biondo foderato di soldi... Ed aveva anche
uno smoking bellissimo, chissà chi glielo ha...»
«Non
mi sembra che il tuo piano stia andando così bene.»
«Oh,
ma il mio piano per sbarazzarmi di quella stupida modella opportunista
ha bisogno di tempo.
Lo
sai che cosa fanno tutte le celebrità, una volta toccato il
fondo della depressione con le tragedie private, sopratutto quelle
amorose?»
Le
domandò Jasmine, con aria piuttosto perfida.
«Che
ne so, ci vanno giù pesante con alcol e droga?»
Domandò
Alice, senza sprecarsi troppo.
«Si
suicidano.»
Concluse
soddisfatta la vipera con lo sguardo di un'innocente
teen-ager.
Alice
invece rimase a fissarla, domandandosi se fosse lei la stupida che non
ci arrivava o Jasmine che era già entrata nella parte
dell'assassina psicopatica.
«Corrado
era il mio ragazzo, ci sono stata insieme quasi due anni. Due
anni...
Poi
arriva questa Camelia che lo 'costringe a ripensare alla nostra
relazione', e una notte, ti dico che in quel momento ero felicissima
perché presto sarebbe stato il nostro terzo
anniversario...
Mi
arriva un messaggio. Guardo il telefono... E lui mi dice che fra noi
è finita...»
Jasmine
si coprì il viso, aveva il presagio di scoppiare a piangere
in
breve, come aveva fatto per qualche mese dopo che il Capopalestra di
Sinnoh l'aveva lasciata.
Aveva
sperato a lungo di avere una vendetta tanto dolorosa quanto ironica nei
confronti della bellezza che le aveva rubato il fidanzato.
Sapere
che Corrado non era più interessato a Camelia l'aveva fatta
gioire, quasi come se la nuova fidanzata di lui avesse avuto
il
prezzo di una sigaretta e lei quello di un diamante, e l'idea di farle
assaggiare la sua stessa medicina l'aveva resa euforica.
La
notte in cui la modella era stata scaricata e tradita per la seconda
dolorosissima volta, Jasmine sentiva l'amore del suo ex rinascere, come
se in un bosco completamente distrutto da un incendio potessero
sbocciare ancora fiori da sotto la cenere.
«Che
storia triste, - Alice snobbò altamente tutta quella
commiserazione forzata - ho letto manga anche più deprimenti.
Comunque,
tanto per cambiare discorso...
Ma
lo sapevi che ora la tua cara arcinemica e la rossa sono diventate
amiche?
Fanno
di quei discorsi da far cariare i denti; mi dico, possiamo smettere di
spiarle in tutto e per tutto? Mi fanno troppo schifo.»
E
verso la fine Alice abbozzò un sorriso, tanto per distrarsi
dal
fallimento del suo piano e dalla ingente perdita di denaro che aveva
subito.
«Vero!
- asserì la brunetta - quelle cinque dovrebbero odiarsi a
morte,
non è difficile, sono una più insopportabile
dell'altra,
e invece ho sentito che due di loro si sono fatte perfino il bagno
insieme... Nude.
Ti
prego, dimmi se le ragazze a Unima sono tutte Allenatrici o
spogliarelliste...»
«Non
ho parole, solo insulti!»
Le
due ex-Capopalestra, ora membri scelti del Neo Team Plasma risero
insieme, dimenticando un attimo di fingere di odiarsi a vicenda.
Improvvisamente,
il suono delle sirene e delle auto della polizia si era stabilizzato di
fronte al museo, mentre le reclute del Team correvano in tutte le
direzioni, tenendo saldamente tutti i tesori che avevano sgraffignato,
non curandosi più dei loro compagni.
Le
reclute rimaste indietro sarebbero state catturate dalle forze
dell'ordine, ma poco importava: la regola imponeva ai membri
dell'organizzazione il silenzio assoluto, anche sotto interrogatorio da
parte di autorità.
Chi
osava trasgredire diventava un traditore, e solo chi avrebbe mai osato
tradire il clan avrebbe saputo cosa gli sarebbe spettato.
Nel
Neo Team Plasma non sembrava più esserci rimasta traccia di
pietà.
Né
nei confronti dei compagni, né tanto meno dei nemici.
«Vedrai...
Sarà divertente come andrà avanti questa
storia...» Concluse Jasmine.
«Quella
del Neo Team Plasma?» Domandò confusa Alice, come
non
riuscisse mai a capire dove la compagna volesse andare a parare.
«No,
la storia tra la rossa e la modella.»
Contando
tutti i minuti, le ore e i giorni di quell'estate, contando tutte le
lotte, gli affanni, le risate e i sogni che erano emersi fra
allenamenti durissimi e momenti di assoluto svago, un'equazione
composta da numerosi addendi infinitesimali chiamata "giovinezza"
riusciva a risolversi con un risultato semplice e netto: cinque.
Come
le dita di una mano, come le cinque regioni, le cinque statistiche di
un Pokémon.
Il
mese di giugno aveva velocemente consumato i suoi giorni, ed ora le
cinque ragazze stavano cenando a casa del Campione, come avevano
già fatto per trenta serate circa.
Ma
dalla prima alla trentunesima l'atmosfera era cambiata, si era scaldata
e raddolcita notevolmente: era il momento giusto per Iris per conferire
alle sue quattro compagne quei regali che rappresentavano i premi per
averle concesso la loro amicizia.
Effettivamente
tutte se lo meritavano.
«Ragazze,
potreste ascoltarmi un secondo, per favore?»
Le
altre ragazze stavano parlando fra loro, con una certa disinvoltura.
«Sono
l'unica che ha notato che oggi Camelia è senza
trucco?» Anemone se ne uscì.
«Ho
deciso di smettere di farmi il make-up finché sono qui, ogni
volta mi finisce colato per ragioni "incognite"... Fra cui un'imbecille
che insegna mosse altrettanto imbecilli come Pioggiadanza ai suoi
Pokémon.»
Rispose
la diretta interessata, come se non fosse una cosa di cui
meravigliarsi.
Pensò
a quanti trucchi costosi aveva sprecato fra pianti e pioggia.
«Stai
molto bene al naturale, hai un bel viso e la pelle pulitissima, non
capisco a cosa ti serva mettere così tanto
illuminante...»
Si aggiunse Camilla.
«Camilla,
l'illuminante si mette solo sotto gli occhi, non su tutto viso, quello
è il fondotinta.»
La
modella restò un po' scandalizzata, come quando Iris aveva
osato ammettere di non aver mai sentito parlare di lei.
«Beh,
devi fare comunque attenzione che non sia troppo scuro, è
proprio difficile da mettere...»
Ribatté
la Campionessa di Sinnoh, imbarazzata.
«Quello
è il bronzer...» La
corresse ancora Camelia, assai innervosita.
Iris
si domandò se scherzasse: in effetti Camilla non necessitava
di
make-up per essere sempre bellissima e radiosa, le era sufficiente
sorridere.
«Dai,
lasciatemi parlare un secondo... » Supplicò la
ragazzina.
Ma
non fu ascoltata. Odiava che Camelia fosse sempre al centro
dell'attenzione, neanche fosse già lei la Campionessa: con
un
po' di maschilismo Iris preferiva lei e tutte le modelle in generale
quando stavano zitte e sorridevano come bambole di plastica.
Camilla
intanto continuava il discorso.
«Bisogna
dire che i canoni di bellezza qui ad Unima sono piuttosto
restrittivi.»
«O
semplicemente vogliono preservare l'umanità da catastrofi
estetiche.» Continuò la mora.
«Per
esempio?»
«Ah,
ne so qualcosa. Le tette ricostruite, le plastiche facciali, i tatuaggi
permanenti, i piercing dove non dovrebbero starci, le occhiaie di
Catlina...»
La
biondina sollevò leggermente confusa i suoi vitrei occhi
verdi
al sentir pronunciare il suo nome: era rimasta in silenzio fino a quel
momento, come se stesse consumando la cena in una dimensione tutta
sua.
In
realtà aveva seguito tutto il discorso, aspettando il
momento
perfetto per vendicarsi della modella che da un mese continuava a farsi
beffe di lei, non rispettando la sua "autorità" di
"seconda-più-vecchia-del-gruppo":
la Yamaguchi era una ragazza abbastanza aristocratica che pretendeva
serietà anche nei suoi scherzi.
«E
qual è il migliore esempio di bellezza naturale -
iniziò
a bassa voce, pacatamente - se non i tuoi capelli che tre mesi fa erano
biondi e invece ora svuotano bottiglie su bottiglie di tinta
nera?»
Seguì
un silenzio imbarazzante.
«Dimmi
Catlina, che Pokémon selvatici abitano nella tua folta
chioma indistinta?»
Il
sarcasmo della mora era preciso e distruttivo come un cecchino esperto.
Iris
fu lì per lì per afferrare l'occasione di
parlare, ma le
voci delle sue quattro compagne si sovrapposero l'una all'altra nel
dibattito meno ortodosso esistente, dove vinceva chi avrebbe alzato di
più il volume della voce.
Dopo
aver sospirato la ragazza cercò di ragionare.
«Ragazze.
Ho intenzione di ritirarmi dalla competizione.» Disse in tono
serio e profondo.
Anemone,
Catlina, Anemone e Camilla la fissarono impietrite, ammutolite di colpo.
Ci
furono altri due o forse meno secondi di silenzio tombale.
«Scherzavo.
- disse poi in modo sciolto - Ora, smettete di fare discorsi in cui io
non posso intervenire e ascoltate. Ho delle cose per voi.»
Dopo
aver fatto un monologo abbastanza improvvisato ma comunque abbastanza
edulcorato da far salire il diabete, sul fatto che in un mese erano
diventate un gruppo unito e fuori dal normale, di aver passato giorni
devastanti tutte sempre unite ed essersi complimentata con Catlina per
aver zittito la bisbetica che stava rovinando l'autostima anche a lei,
Iris mostrò un sorriso entusiasta e sfavillante.
La
fatica impiegata nel sacrificare il suo unico giorno di vacanza alle
sue compagne, per poi cercare un regalo adatto a loro ed infine farsi
convincere da quella Korishima Georgia a rubare il suddetto regalo e
mandare al diavolo la sua etica morale si era fatta ripagare da un
sacco di baci, abbracci, coccole e perfino un "forse non sei proprio
così inutile".
Si
ricordò che forse avrebbero potuto approfittare dei Bijou
del
vario Tipo per inferire un colpo di grazia proprio contro di lei o i
suoi Pokémon...
Ma
per un attimo Iris subordinò il diventare Campionessa
all'amicizia sofferta.
Il
resto della serata la vide quasi protagonista, non le sembrò
nemmeno di avere il tempo per i suoi pensieri da quanto le quattro la
coinvolgevano nelle loro risate, conversazioni e scherzi.
Per
festeggiare al meglio il primo di luglio (solo in quell'anno e solo a
casa del Campione fu considerato una festività a tutti gli
effetti) Nardo in persona servì alle ragazze in dei
bicchieri
minuscoli una bevanda calda e incolore, dal sapore dolce-amaro
impossibile da deglutire senza prendere aria prima di ogni
sorso.
Era
piuttosto allettante però, pensò Iris.
«È
sake, grappa tipica ottenuta dalla fermentazione del riso.»
Spiegò l'uomo.
«Nardo,
le ragazze sono per la maggior parte minorenni. Dimmi il tasso
alcolico di questa roba.»
«Solo
se prima ne berrai almeno tre bicchieri, cara Camilla.»
«Ah,
è una sfida? Ora ti faccio vedere io come la Lega
Pokémon
di Sinnoh e sopratutto la sua Campionessa non valgono nulla di meno
della vostra.»
Dopo
tre bicchieri la giovane Campionessa si ritrovò
inconsapevolmente a raccontare a tutto il gruppo di essere rimasta
ancora vergine a vent'anni, ma di morire all'idea di farlo.
Non
era davvero ubriaca, si sentiva solo libera ed indipendente
dall'utilizzo della ragione.
Anche
la ragazzina dai capelli viola ne bevve un bicchiere, e si
sentì
euforica al massimo: immaginò suo nonno Aristide a scoprire
che
quell'estate la sua cara ed in apparenza innocente nipotina aveva
bevuto sake. E rise del fatto che non lo avrebbe mai saputo.
Se
prima tutte si erano mostrate riluttanti nel ingurgitare quella
sostanza calda e lattiginosa, dopo qualche bicchiere grande quanto
metà di un pugno tre su cinque si ritrovarono a berla come
acqua: era impossibile tenere una conversazione sensata (o pulita),
dato che ogni parola pronunciata era un pretesto per scoppiare a
ridere, perdendo la cognizione di tutto.
«Anemone,
- Camilla aveva attirato l'attenzione della rossa, ridacchiando ad ogni
sillaba - ci devi assolutamente dire con chi e sopratutto come vorresti
farlo, la tua prima volta.»
La
giovane Campionessa aveva enfatizzato il "chi" e il "come" quasi fosse
una questione di vita o di morte.
L'argomento
così sporco, interessante e intimo attirò
l'attenzione di
tutte, facendo rabbrividire Anemone: si sentì sciocca a non
aver
considerato che il passare l'estate circondata da ragazze comportava il
continuo e ossessivo parlare di maschi.
Quella
domanda la innervosì parecchio.
«Fare
che cosa?» Domandò falsamente, rigirandosi una
ciocca scarlatta fra le dita.
«Oddio,
- la interruppe Iris - l'ho capito pure io, Anemone! Dai... Non essere
stupida... Prima o poi dovremo farlo tutte... Che ragazzi ti piacciono?
Ti prego, diccelo...»
Camilla
e la ragazzina più giovane risero all'unisono. Tutta colpa
dell'alcool.
Stizzita
per la mancanza di tatto, Anemone si inventò la farsa
peggiore
della sua vita: da sobrie non ci avrebbe creduto nessuna.
Sperò
solo che fossero tutte, ma proprio tutte sbronze.
Se qualcuna l'avesse sentita... Era una cosa assai rischiosa da dire,
ciò che disse.
«Non
ne ho idea... Penso qualcuno come il fidanzato di Camelia, quello
biondo di Sinnoh... Sembra il ragazzo ideale... Da portare a
letto... Credo...»
La
rossa volle rimangiarsi subito l'intera frase, e il rimpianto di aver
pronunciato queste idiozie la perseguitò tutta la
serata.
Ma
continuando a ridere come tutte, lo nascose perfettamente.
Le
giovani capirono che era mezzanotte passata solo quando si accorsero di
non avere più forza in corpo neppure per fare l'ultima
battuta
probabilmente insensata o sporca.
Catlina
si era già abbandonata da un po' al sonno, lasciando il
dovere
alle altre di portarla di peso nel suo letto.
La
biondina ebbe l'impressione di essersi sognata tutto ciò che
le
era successo da quando aveva accettato di partecipare alla
competizione, e perfino che nei suoi lunghi e folti capelli abitassero
davvero dei Pokémon selvatici.
Una
volta calato il silenzio nella grande casa del Campione la notte
sembrò infinita.
«Anemone,
svegliati.»
La
rossa aveva appena riaperto gli occhi, ma il buio totale che inondava
la stanza le fece notare che era ancora notte. Da quanto confusa era,
pretese che il sussurro percepito si facesse ancora sentire, altrimenti
non doveva essere importante.
«Cambiati
e vieni nell'onsen fra cinque minuti, voglio parlare di una cosa molto
importante con te.»
La
voce sussurrante si era avvicinata alle sue labbra, con cui
percepì il dolce e leggero respiro.
Anemone
prima dubitò delle sue capacità intellettive, poi
si
chiese se stesse "sentendo le voci", e infine realizzò di
essere
nel pieno della lucidità.
«Che
scema, io stasera non ho bevuto» Si
sgridò.
Si
spogliò nella stanza buia e uscì in silenzio,
lasciandosi
addosso solo il costume da bagno azzurro chiaro.
Mentre
nel buio tastava con le punte dei piedi le assi lisce del pavimento,
Anemone provò a ricordasi tutto quello che aveva vissuto da
quando era lì.
Ogni
giorno era divertente, una piacevole normalità si era
stabilita
fra lei e le altre quattro, un equilibrio di amicizia bilanciava i loro
rapporti: capì però che tutto quel calore si
sarebbe
sciolto una volta terminata la competizione, niente di davvero
permanente le legava.
Non
si conoscevano abbastanza nel profondo, e tre mesi non sarebbero mai
bastati a rivelare quanto una persona può essere
psicologicamente contorta e piena di segreti.
La
giovane si stupì del fatto che l'onsen funzionasse anche di
notte; la luna si rifletteva fiera sulla superficie dell'acqua, come se
con la sua luce volesse trasformarla in nettare e ambrosia.
Una
ragazza era appoggiata mollemente sul bordo della vasca, la pelle
bianca e diafana riluceva come fatta di vetro. Il costume nero e giallo
non la conteneva in nessun modo, come se il suo corpo desiderasse far
risaltare più delle stelle la bellezza delle sue curve e dei
seni formosi.
Anemone
sorrise e raggiunse la compagna, immergendo le gambe in acqua.
«Se
Nardo ci becca qui, stai sicura che non vedremo mai la luce
dell'alba.» Scherzò.
«Qualche
giorno fa ci hai fatto vedere quanto sei sboccata e anticonformista ed
ora ti preoccupi di essere punita, da brava ragazzina? Cara mia, sei
persa come ribelle...»
Mentre
parlava, Anemone notò come Camelia fosse bellissima
soprattutto
senza trucco (e quasi senza vestiti): gli occhi azzurro pallido avevano
contorni molto più definiti, la pelle un aspetto
più
uniforme e pulito, le labbra erano più asciutte e
normali.
«Infatti
io non sono una ribelle, sono una persona normalissima.»
Disse lei, timidamente.
Quel
simbolo di bellezza universale, la cui perfezione fisica rappresentava
i desideri carnali di tutta la regione, la fissava sorridendo, dandole
la stessa strana sensazione di intimità di quando l'aveva
vista
piangere.
Era
perfetta, assolutamente desiderabile in entrambe i casi, e il fatto che
fosse una modella di professione contava poco o nulla: da quello che
Anemone aveva saputo da Camilla, la giovane prima di varcare passerelle
e tappeti rossi era stata cresciuta nella periferia malfamata della sua
città.
«E
ne sono contenta. - le arrivò in risposta - Ma ora
ascoltami.»
Si
sedette accanto a lei. Aveva delle cosce fantastiche.
«Riguarda
il mio ex.» Esordì la mora, assolutamente seria.
«C-Cosa?»
Anemone si bloccò.
«Corrado,
il mio vecchio fidanzato; - Camelia riprese aria - quello che mi ha
tradita, che mi ha stuprato la dignità e mi ha usata come se
fossi una..»
«Ho
capito, ho capito. Me lo avevi detto.
Io però ti ho detto che capisco meglio le femmine dei
maschi.»
«Ho
deciso una cosa. Una cosa che forse non capirai... Ma hai
detto
che per me ci saresti stata, quindi non puoi abbandonarmi
adesso...»
E
d'improvviso la modella si interruppe.
La
rossa stava per domandarle "che cosa?" ma si ritrovò gli
occhi
azzurrissimi della compagna piantati contro i suoi, in un espressione
gelida ed accusatoria.
La
ragazza si era alzata in piedi, scuotendo improvvisamente la superficie
dell'acqua.
«Anemone.
- fece una pausa - Tu non ti sei mai innamorata. Vero?»
«N-No...
Mi sono innamorata anche io.. .- a quel punto la rossa non seppe
più che cosa rispondere, ma era comunque impaurita - Ma cosa
c'entra con quello che volevi dirmi?»
«C'entra
eccome. Tu, tu mi stai facendo impazzire, idiota che non sei
altro.»
L'insieme
di frasi che ne seguirono furono troppo sconnesse, troppo improvvise,
troppo reali perché ci si potesse romanzare sopra,
ciò
che la sfortunata ragazza colse lo immaginò vividamente,
come la
concatenazione dei pezzi di un enigma.
«Hai
detto che non mi serviva un uomo per essere felice, che non volevi
spezzarmi il cuore, mi hai perfino chiesto di lasciar perdere l'amore e
non lo puoi negare.
Ma
tuttavia sembra che tu sia anche abbastanza libera e abbastanza, come
posso dire, "sincera" da essere più che disponibile a farti
toccare da persone come il mio ex-fidanzato.
Poi
ogni volta che Corrado mi spezzava il cuore eri sempre e dico, sempre
con me, sempre con il tuo stupido sorriso per cercare di darmi consigli
in materia di amore anche se tu effettivamente non se sai nulla, come
vedo... per poi avere certi attacchi di rabbia in cui volevi quasi
prendermi a schiaffi in faccia da quanto mi odiavi.
Mi
hai dato della doppiogiochista e della lunatica chissà
quante
volte, quando quella che per un mese intero ha continuato a passare da
sorrisi dolci ed innocenti ad attacchi di rabbia repressa e violenta
sei stata tu.
Continui
a tirarmi e mollarmi a tuo piacimento, come se ti dovessi stare accanto
solo quando sei felice, bella e perfetta e per il resto non debba
neppure guardarti.
Non
capisco cosa tu abbia. Se è così che ti dimostri
verso chi ci tiene a te...»
E
con un po' di amarezza, capì che probabilmente anche Camelia
doveva aver bevuto un bel po'. Non si sarebbe mai aspettata da lei una
confessione del genere, a meno che non fosse ubriaca o
sconvolta.
Quella
ragazza aveva un orgoglio ferreo, e in quel momento nella sua testa
qualcosa non funzionava bene.
L'aviatrice
respirò affannosamente, terrorizzata da tutte quelle accuse
repentine.
«Camelia.
Perché mi dici queste cose?» Glielo
sussurrò.
Ma
non appena vide che la mora stava per afferrarla dal costume con un
movimento drastico ed aggressivo, le venne naturale schivarla, finendo
per scivolare all'indietro nell'acqua con un tonfo sordo.
In
quel momento la soglia che divideva inquietudine e panico era stata
superata con un balzo: tutte quelle infami calunnie fecero trasalire la
parte d'animo che Anemone reprimeva d'istinto con una violenza ed
irruenza mai vista ne' sentita.
«Perché
accusi me senza guardarti un secondo allo specchio?
Non ti ascolti quando parli, falsa, isterica, opportunista e bipolare:
ti stai praticamente descrivendo da sola!
E
poi non mi sembra che ti sarebbe dispiaciuto poi così tanto
se
il tuo ragazzo fosse tornato a chiederti perdono in ginocchio, si vede
dai messaggi del tuo cellulare quanto tieni tu alle persone che ti
amano.
Tu,
tu hai bisogno di "amanti", non di "fidanzati", se vuoi saperlo: se ti
sono stata vicina in ogni tuo momento buio e non mi sono abbandonata
all'odiarti come hanno fatto già le altre tre, era
perché
credevo potessi cambiare, credevo che potessi cancellare dalla tua vita
la dipendenza da sesso e dal narcisismo che ti impedisce di piangere
ogni volta come una bambina... Ma ammetto di essermi sbagliata.
Il
tuo ego smisurato ti erge a padrona del tuo regno di assoluto e
fantastico nulla, in cui sono gli altri a guadagnarci dalla tua
stupidità e dal tuo falso altruismo.
Adesso spiegami, come fai ad amare in te stessa tutto ciò
che ti fa schifo negli altri!»
Anemone
glielo gridò così forte da perdere la voce con
una sola frase.
Nonostante
questo, la ragazza mora le si era posizionata davanti, squadrandola con
un certo scherno negli occhi, come a sminuirla definitivamente.
«Anemone,
sei tu la stupida che crede che "avere un fidanzato" significhi aprire
le gambe e aspettare che finisca bene, basta che non ti scarichi e ti
abbandoni come è successo a me. Sii onesta, non solo tu non
hai
mai avuto un ragazzo, ma non ti è chiaro neppure il concetto
di
amore fra uomo e donna, vero?»
Nonostante
il tono isterico, la voce rotta e i gesti scoordinati della compagna,
Anemone già all'inizio del discorso avrebbe voluto ordinarle
di
stare zitta, a partire da quando la mora aveva citato il deviamento
psicologico nei rapporti di relazione che le rinfacciavano tutti gli
insegnanti e gli psicologi da quando aveva sei anni, come se la sua
fosse stata una malattia.
«Senti,
se vuoi che sia onesta, io non ho nemmeno mai avuto una famiglia o un
qualcuno che mi amasse a prescindere. Prova a spiegarmi tu il concetto
di "amore", visto che la tua miserabile vita di narcisista figlia di
una prostituta e di un alcolista ne è piena.»
Però
aveva capito cosa intendesse Camelia: aveva scelto la persona sbagliata
a cui mentire. La cosa che di più la spaventava era il
conoscere
su quali tremende verità che ormai teneva celate persino a
se
stessa la modella avesse fatto luce.
«Preferisco
essere una narcisista che un'ipocrita che si nasconde dietro un falso
sorriso per celare tutti i difetti che ti renderebbero più
patetica ed odiata di quanto tu non sia ora.»
Anemone
la spinse nell'acqua, per paura che la modella, ubriaca ed isterica, la
volesse picchiare, e si sedette su di lei, ricevendo graffi e insulti
in pieno viso; senza altra scelta per farla tacere, la rossa dovette
giocare una mossa sporca, mandarla K.O. macchiandosi di
impudicizia.
Tenne
ferme le mani di Camelia con gran sforzo e agguantò il
laccio
posteriore del reggipetto della modella, che continuava a ripetere la
stessa cosa solo con parole diverse.
«Ti
prego, sta' zitta! - le gridò la rossa, esasperata - Quello
che
ho detto prima era perché... Perché...
È vero, ho
mentito a te e a tutte le altre; so di essere malata, in un certo
senso, ma... Camelia, io ti voglio bene, te ne voglio davvero
tanto...»
Anemone
fece una pausa; il tasto più dolente della sua
sensibilità era stato toccato.
«...e
non voglio che tu mi detesti.»
«Io
ti detesto già, se vuoi saperlo. - la mora si stava
dimenando
per liberarsi del peso della giovane sopra di lei - Anche io ti credevo
diversa, ma questa frase è troppo un cliché.
Ma
tanto tu mi conosci solo come una bugiarda.
Quindi
non mi conosci affatto.»
Il
discorso fu fermato a metà.
La
ragazza dai profondi occhi azzurri fu talmente sconvolta che la mano
con cui aveva fatto pressione sul reggiseno nero e attillato della
modella tirò con forza il laccio di tessuto sottile che lo
legava al collo della mora.
Non
ebbe scelta: voleva che Camelia tacesse.
Le
aveva mentito, lo sapeva meglio di lei: ma era ancora più
consapevole di aver risparmiato alla sua unica amica la
verità
che nascondeva sotto un falso sorriso.
Ci
teneva a Camelia, glielo aveva già ripetuto.
Tuttavia
quell'incomprensione la stava uccidendo, e parlare a una sbronza marcia
che voleva solo accusarla le parve inutile e doloroso.
«Sta'
zitta, neppure tu sai tutto di me! Non è colpa mia
se...»
In
velocità, prima che l'altra potesse ribattere qualcos'altro,
la
ragazza che si sentiva ancora una volta senza l'orgoglio per cui aveva
tanto combattuto afferrò la coppa destra del reggipetto
della
compagna, strappandoglielo letteralmente via.
Anemone
aveva premeditato quel gesto solo per farla tacere, ma osservando come
gli occhi di Camelia si erano dilatati in un'espressione mista fra
sconforto e shock mentre si copriva i seni con le mani schiacciandoseli
contro il torace, si pentì di quel gesto crudele e
insensibile.
Fece
di tutto per distrarsi dal suo primo seno nudo visto dal vivo, non
contando il suo
«S-Scusami...
Io...»
La
ragazza dalla pelle ambrata non ottenne risposta.
Non
era la modella a dover parlare in quel momento, ma lei e la sua
coscienza.
Gli
occhi azzurri di Camelia la supplicavano di essere onesta, di dirle che
cosa nascondesse a tutti.
Si
domandò se la mora si fosse mai sottomessa a qualcuno
così come ora si presentava davanti a lei. Ad Anemone
sembrò, per un secondo, di stare di fronte alla versione
undici-dodicenne di Camelia, che dopo aver ricevuto un sonoro e
umiliante ceffone in pieno viso si chiedeva perché dovesse
essere lei quella in torto e non la spietata che le aveva appena tolto
il reggiseno per evitare che le rinfacciasse la verità.
Provò
un senso di forte ribrezzo ad essersi resa simile al donnaiolo,
alcolista e violento padre che aveva descritto poco tempo prima con
tono di assoluta deplorazione.
Ma
per la rossa, spiegare ciò che la umiliava e rappresentava
allo
stesso tempo era impossibile; sentì la gola annodarsi,
strozzando ogni vaga scusa e pensiero tangibile.
Sotto
la luna estiva e il chiarore delle stelle riflesse nello specchio
d'acqua, Anemone si gettò in ginocchio davanti alla
compagna,
singhiozzando con il viso fra le mani e poi piangendo
copiosamente.
L'acqua
dell'onsen ondeggiava dolcemente.
Camelia
continuò a fissare la ragazza in lacrime ai suoi piedi:
sapeva in qualche modo la sua risposta.
Le
tornò in mente l'affettuosità che l'orfanella
rossa
dimostrava nei confronti di lei e di tutte le altre, di come si
rivolgesse a loro come fossero sue sorelle, la sua adorabile paura
dell'adolescenza, dell'essere diversa dai canoni di una diciassettenne
normale, e infine del suo fantastico talento nel nascondere le occhiate
che lanciava verso di lei e le altre tre...
Non
voleva che tutte quelle belle cose venissero consumate e sprecate da un
uomo desideroso di carne, non voleva che quella sorte capitasse anche
ad Anemone.
«Sei
bellissima.»
Le
disse Camelia, sorridendole.
«N-Non
sono io la top model da calendario qui.»
Anemone
rise fra le lacrime.
«A
volte parli proprio come un ragazzo... Mi piace.»
La
guardò negli occhi.
«Camelia,
io sono lesbica.»
Quella
confessione costò ad Anemone un'immane fatica, era
ciò
che riteneva il suo più grande e scandaloso
segreto.
Si
sarebbe sentita più pulita ad aver avuto come Camelia
milioni di
amanti piuttosto che essere ancora vergine perché non voleva
arrendersi alla crudele legge della natura, che unisce in amore solo
uomo e donna.
A
quel punto la bellissima modella allentò la presa di mani e
avambracci che aveva salda sul suo prosperoso petto, per spostare gli
arti in una posizione più comoda: con le braccia conserte
sembrava avere un atteggiamento volutamente superbo, quasi di sfida
verso la compagna che, sconfitta, aveva confessato umilmente il suo
segreto, apparendo quasi più miserabile della mora nella sua
precedente scenata.
Anemone
esibì una faccia alquanto delusa, presumibilmente del fatto
che
Camelia non scostasse le braccia e non le mostrasse la parte
più
bella e sensuale delle sue tette.
«Tranquilla.»
Le
due ragazze erano rimaste imbambolate a fissarsi qualche secondo, come
se stessero premeditando una frase sensata per cancellare magicamente
tutta quella litigata nata da una scemenza e sfociata in un segreto
confessabile solo dopo un estenuante interrogatorio.
«Non
ho nulla contro i gay, ma se me lo avessi detto prima non saresti
costretta a inventarti di sana pianta i tuoi gusti sessuali.»
Il
tono di Camelia era altamente sarcastico, ma solo per rassicurare
l'amica di non preoccuparsi di incorrere in ulteriori insulti e
scherno.
La
rossa sospirò.
«Nessuno
reagirebbe come te.»
La
ragazza aveva nascosto la bocca appoggiandosi al bordo dell'onsen con
il braccio. Era la prima volta che affrontava la sua deviazione nei
rapporti di relazione con il sesso opposto in prima persona.
D'un
tratto sentì la mano della modella posarsi sulla spalla nuda
e umida.
«Perché
nessuno ti conosce come ti conosco io.» Le
sussurrò all'orecchio.
Anemone
si avvicinò alla compagna, e cominciò a parlarle,
a
spiegarle come mai non si riteneva degna di una vita amorosa normale;
all'inizio era solo una leggera infatuazione per qualche eroina di
manga e anime.
Poi
però le toccò descrivere quanto detestasse le
moine che
le adolescenti facevano vedendo un ragazzo popolare, di come rimaneva
indifferente agli idol e agli attori famosi come un Pokémon
Volante colpito da una mossa Terra.
Le
facevano venire in mente l'umiliante punizione a cui gli istitutori del
suo orfanotrofio la sottoponevano, provò a far capire alla
compagna la vergogna provata nel rimanere seminuda davanti a degli
stupidi bambini ignoranti che le ridevano in faccia.
Camelia
le rispose che una volta cresciuti, quei ragazzini ignoranti e sessisti
avrebbero pagato un occhio della loro testa marcia per guardarle la
rossa spogliarsi dal vivo. Ma non se lo sarebbero mai meritato.
Le
due giovani infine compresero di essere vittime di un destino affine
quando scoprirono conversando casualmente di essere entrambe orfane di
madre, immaginando insieme come sarebbe stato avere una donna che
avesse condiviso con loro le fasi più buie e difficili del
loro
passato, ripetendo alle sue ipotetiche figlie di non essersi mai
meritate così tanta sfortuna.
Esplicò
in sintesi come si sentisse diversa, diversa nel senso di sbagliata:
tratti somatici troppo singolari, carattere troppo contraddittorio,
situazione economica pessima e interessi amorosi...
La
giovane dagli occhi azzurro cielo sentì di voler piangere
ancora.
E
si ricordò dolorosamente di come gli istitutori del suo
vecchio
orfanotrofio le torcessero l'orecchio per farla tacere qualora
piangesse o gridasse.
«Ti
capisco. E dico davvero, ho capito tutto.»
La
modella seguì con il dito di una mano esente dal doverle
sostenere il seno una lacrima dell'amica: questa brillava come una
diamante.
«Anemone,
io e te siamo più simili di quello che pensi.»
«A-Allora
dovremmo conoscerci di più... Tu non hai un qualche segreto
che
tieni nascosto a tutti compresi tuoi fan? Io non voglio più
mentirti, e penso nemmeno tu lo voglia.»
A
quel punto il dialogo fra le due rimase fermo e seguì un
lungo silenzio.
Le
due diciassettenni si fissarono a lungo.
Rifletterono
un attimo sull'aver praticamente sviscerato il loro vero io, di essersi
dette un sacco di falsità e di essersi ferite a vicenda,
insultate e poi rappacificate troppe volte: e tutto solo per
riconoscersi non simili, ma uguali, due gemelle opposte d'aspetto
fisico e separate dal destino, riunite solo dopo una vita di
ingiustizie e sofferenze, grazie all'occasione di quella notte
estiva.
Una
notte di mezza estate più calda e intrigante di tutte quelle
che
entrambe le ragazze avevano passato nella loro gioventù in
fiore.
«Anemone,
che taglia porti?»
«Una
coppa G. Perché?»
«Anche
io. Vuoi vederle?»
«Non
vedevo l'ora...»
Camelia
comprese finalmente dove tutti i suoi fidanzati temporanei, le notti di
tradimenti e l'accusa del suo ex di essere una falsa l'avevano portata.
Anemone
le aveva fatto cenno di alzarsi e sedersi sulle sue gambe abbronzate e
toniche, con la scusa del "tanto tu sei leggerissima": nessun uomo
aveva mai risposto alla sua preoccupazione spasmodica di essere grassa
in modo così dolce e spontaneo.
La
ragazza si sedette a gambe aperte sulle morbide cosce dell'amica.
Le
due avevano la stessa età e conformazione fisica, sia la
stessa altezza e peso.
Si
guardavano negli occhi, come a sigillare una promessa.
La
luna e le stelle sembravano sorridere, Venere e il fato aiutano sempre
gli audaci.
D'improvviso,
la rossa sentì una forza smuoversi nel suo animo; la
riconobbe,
era la stessa ribelle incatenata che la pregava di mostrare il suo
coraggio e di osare ciò che il buonismo e la misericordia
reprimevano d'istinto. I capelli rossi della ragazza sembravano vere e
proprie fiamme, resistenti perfino alle gocce d'acqua dell'onsen.
La
giovane tenne ferma la mano della mora, chiudendola nella sua.
Si
sentì potente e dominatrice della sua vita, padrona assoluta
dei suoi desideri appena
scostò
senza preavviso la mano di Camelia dal suo seno.
Rimase
incantata, quasi fulminata.
«Ritiro
quello che ho detto prima... Sei una ribelle,
definitivamente.»
La
mora parlò come per sgridarla, enfatizzando ancora quel
paradosso presente nella personalità della compagna.
«E-E
tu un'esibizionista...» Si sentì rispondere, quasi
balbettando.
Anemone
non fu mai tanto eccitata come in quel momento: il seno prosperoso,
sodo e rigonfio, colorato di un rosa candido, era di certo il
particolare che distingueva Camelia fra tutte le sue colleghe modelle,
quelle magrissime figure stilizzate.
Nonostante
l'abbondanza di carne che rimaneva compatta anche senza il sostegno del
reggiseno, la figura della fanciulla rimaneva sempre snella e
slanciata, facendo risaltare la profonda insenatura del petto
prorompente.
I
capezzoli avevano lo stesso colore delle sue labbra.
Quei
tesori, simboli di bellezza naturale e pura, meritavano di essere
premiati con la stessa mela d'oro con cui il principe troiano Paride
incoronò Elena la più bella tra le
mortali.
Così
Camelia meritava forse il titolo di più bella fra le
allenatrici, e conoscendola, Anemone capì che lo avrebbe
accettato senza troppa modestia.
Si
sentì un bacio stampato sulla guancia, mentre le braccia
bianche della mora le circondavano il collo.
Percepì
i suoi polpastrelli che cercavano ansiosi la chiusura del suo
reggiseno. La lasciò lavorare, più tesa che mai:
era la
prima volta che si spogliava, o meglio, si faceva spogliare da un'altra
ragazza, e si chiese se dovesse ostentare lo stesso orgoglio della
compagna o fingersi imbarazzata.
Scelse
di rimanere a fissare gli occhi di Camelia, che, per una che si
dichiarava profondamente eterosessuale fino a pochi momenti prima, si
erano dilatati con l'espressione più compiaciuta ed
estasiata
che le avesse mai mostrato.
Infatti
le tette della ragazza che sorreggeva la vita di Camelia con le mani
trapelavano un qualcosa di esotico, di affascinante, di... diverso.
A
differenza del colorito uniforme del corpo della modella, la pelle
della rossa si schiariva per un buon centimetrato di pelle in cui la
carnagione ambrata diventava più tenue e pura, con una breve
sfumatura che le disegnava sul petto le coppe di un bikini inesistente,
in cui si distinguevano i capezzoli rigidi alle estremità.
Con
un certo piacere, Anemone notò che in quanto a conformazione
e
struttura il suo seno e quello dell'amica erano pressoché
identici: la stessa elasticità, che glielo faceva vibrare
quando
si muoveva, la stessa perfezione delle rotondità, che
sembrava
quasi calcolata con una formula esclusiva della femminilità,
e
perfino la stessa taglia, che sinceramente non aveva mai pensato di
condividere con nessuno.
Le
due si sorrisero a vicenda, mescolando imbarazzo ed orgoglio nello
stesso sentimento: non c'era nessuno oltre a loro in quel momento, e
quindi non c'era mai stato nessuno per loro fino a quel momento: si
desiderarono a vicenda, dal profondo dei loro cuori.
Mentre
le mani lisce della rossa scorrevano sul suo corpo diafano immerso
nell'acqua tiepida, toccandole con gentilezza le braccia e le spalle,
il collo e le guance, la modella si avvicinò ancora di
più a quel miracolo che solo da un mese aveva sotto gli
occhi,
ma a cui in un mese non aveva prestato comunque abbastanza attenzione.
Furono
a tale distanza che i seni nudi di Anemone e Camelia si toccarono,
comprimendosi gli uni addosso al corpo dell'altra, portando i loro
occhi blu ad incontrarsi ancora.
La
rossa percepì le labbra della modella a pochi centimetri
dalle
sue, che tremavano, insieme al suo respiro, così dolce e
pulito...
«Ma
allora non sei ubriaca. Anche quando sei venuta a chiamarmi, il tuo
alito non sa di alcool.» Asserì sorridendole.
«Quindi
non hai sentito quando ti ho detto che io non bevo ne'
fumo? Sei scandalosa, lasciatelo dire.»
Le
rispose la compagna, con il suo tono di sarcasmo, che ora suonava
perfino sexy.
«Me
la perdoni questa?» Le mani di Camelia intanto accarezzavano
i
capelli fiammeggianti della ragazza che così disse.
Seguì
l'ennesimo silenzio in cui le due fanciulle si guardavano non solo
negli occhi, ma si osservavano il corpo, i lineamenti e
l'anima.
Nessuna
delle due avrebbe mai creduto di incontrare la propria anima gemella
incarnata nel proprio opposto: una giovane modella famosa e benestante,
dalla lingua velenosa e dal sarcasmo pungente, con un orgoglio che
vacillava fra il ricordo delle menzogne e della falsità di
suo
padre e la spola fra i mille fidanzati occasionali che volevano solo il
suo corpo, e una aspirante pilota con ingenti problemi economici, con
una bontà e una pazienza sempiterna, messa a dura prova da
un
passato senza una famiglia e l'impossibilità di innamorarsi
e di
essere riamata.
Due
figure simili, simmetriche, desiderose solo di riunirsi, due gocce
riflesse sullo specchio dell'acqua pura increspata da piccole onde
dell'onsen in quella notte.
Quella
bellissima, unica, fatidica notte.
«Allora,
hai voglia di dirmi quella cosa che hai accennato prima?»
Domandò
la rossa, scostando i capelli neri della compagna per metterle ben in
mostra il petto.
«Ora
che sai che non sono ubriaca è inutile. - la modella
guardò fiera i seni scoperti della compagna - Se una sbronza
marcia ti avesse detto "ti amo" ci avresti creduto?»
«Ti
sei finta ubriaca solo per potermi confessare i tuoi sentimenti? In
questo caso, no.»
«In
ogni caso sei stata tu a dichiararti per prima. Eri davvero troppo
adorabile.»
«Finirò
per diventare la tua vittima...»
«Del
resto, il Tipo Volante è debole contro il Tipo
Elettro.»
«Camelia,
tu mi piaci veramente.»
«Anche
tu, voglio provarti che anche tu mi piaci veramente.»
D'improvviso
Anemone chiuse gli occhi.
Una
dolcissima sensazione di caldo soffocante la pervase nel viso, e le
labbra, dopo pochi secondi di sorpresa estasiata, cominciarono a
seguire il ritmo di quelle della modella: questa le mostrò
le
capacità seduttrici della sua bocca, partendo da un semplice
stampo sulle labbra proseguendo con una sequenza più serrata
e
soffocante, mettendoci sempre più grinta e passione.
Non
era di certo il primo bacio della mora, ma di sicuro il primo dato ad
una ragazza; ed il primo di una ragazza che le aveva concesso di essere
la prima ad abbandonarsi alle sue sempre più bagnate
labbra.
Le
due diciassettenni continuarono a baciarsi appassionatamente,
stringendosi in un abbraccio che sembrava mirare al fondere i loro
corpi insieme, in una cosa sola.
Camelia,
più esperta in fatto di pratica, mantenne solo una mano a
sostenersi sul corpo ondeggiante dell'amica, e seguendo l'istinto
cominciò a saggiare quel corpo ambrato quasi totalmente
scoperto, toccando tutti i muscoli tesi e la pelle sudata dell'altra.
La
rossa, nuova in quel misterioso universo, desiderò ancora
una
volta provare a sé stessa di non essere la sottomessa della
coppia, e con coraggio provò a massaggiare il seno destro
della
mora, palpandone la celestiale morbidezza e sensibilità: fu
tanto brava che presto la compagna la invitò a fare lo
stesso
con l'altra mano, impegnando la rossa a massaggiarle vigorosamente le
tette, sovrapponendo le mani sopra i suoi seni per invitarla ad
intensificare il gesto, una rotazione che la rilassava ed eccitava allo
stesso tempo.
Camelia
fece lo stesso, chiedendosi come mai non avesse mai provato attrazione
per la bellezza femminile ed essersi dedicata ad un fare sesso
meccanico e pragmatico, che spesso terminava con lei e il suo amante
momentaneo che si fissavano come estranei.
Si
ripromise che una volta finito avrebbe ringraziato Anemone e magari
pregata di rifarlo altre cinquecento volte, finché il petto
non
le dolesse dai troppi massaggi erotici.
Quei
baci che ogni secondo diventavano prima dieci, poi cento, poi mille si
spostarono in diverse zone del corpo, finché entrambe le
giovani
non sperimentarono in prima persona il scambiarsi la saliva con veri e
propri amplessi delle loro lingue assetate d'amore.
Le
due innamorate si staccarono dal loro eterno bacio, gustando fino
all'ultimo il sapore dolce e pungente della saliva e della pelle
sudata. Anemone riprese fiato appoggiandosi al collo dell'amante, che
la guardava divertita.
«Che
cosa adorabile, è già esausta.» Pensò
l'altra.
Entrambe
rimasero a fissare un poco il cielo stellato, una distesa di zaffiri,
dimora di dei grandi amatori e ninfe voluttuose che brindavano in
simposio al loro amore neonato, proibito e segreto, al piacere del
corpo e della mente, ora svaga da ogni cattivo pensiero.
Se
esistesse un dio dell'amore, sarebbe stato leggermente turbato di
assistere ad una scena di effusioni così spudorate da parte
di
due giovani dello stesso sesso.
Ma
la realtà è ben diversa dai romanzi e dai manga,
perché nessuna censura può nascondere il
più puro
degli amori nella sua forma più inusuale e spesso
malgiudicata.
Quel
dio infine avrebbe riso e dedicato perfino una poesia in onore di tutte
le coppie come Anemone e Camelia.
«Come
faccio a dire a mio nonno che sono, anzi, sono sempre stata
lesbica...
Per te non deve essere un problema... Ma penso che spiegare ai tuoi fan
che ora sei fidanzata con... Una come me non sarà
facile.
Ci criticheranno tutti, ci odieranno a morte. E pensa farlo
scoprire ad Iris, Camilla e Catlina...»
Anemone
era appoggiata alla spalla di quella che adesso voleva chiamare
'tesoro'.
I
pregiudizi la spaventavano a morte, ricordandole come il mondo esterno
fosse composto da un codice binario di assoluta e noiosa
normalità: ogni numero al di fuori dell'uno e dello zero
è considerato eretico, meritevole di biasimo nel cosmo
dell'ordinario moderno.
Nel
Medioevo, se ricordava bene, gli omosessuali li bruciavano direttamente
al rogo.
Sapeva
inconsciamente che Camelia condivideva la sua stessa paura, ma la
stringeva comunque per infonderle coraggio.
I
loro corpi nudi sembravano fondersi l'uno con l'altro, uno spettacolo
magnifico alla vista.
«Pensiamoci
domani a queste cose, cara.
L'unica cosa che voglio fare finché non arriva l'alba
è
guardare e già che ci siamo anche toccare un po' il tuo
sedere.
Perdona il maschilismo.»
Entrambe
scoppiarono a ridere.
Camelia
però le fece notare di avere davvero un bel sedere, sodo e
tonico.
Anemone
la rassicurò, girandosi di pancia e mostrando alla ragazza i
suoi formosi glutei, mentre l'altra aveva già iniziato ad
accarezzarla e a sussurrarle la sua ammirazione.
Le
piaceva la sua voce sussurrante della mora, era seducente e penetrante.
Entrambe
si confessarono vicendevolmente di sentire un dolore piuttosto
piacevole al basso ventre, poi convennero insieme sul fatto di star
cominciando a sentirsi donne.
«Camelia,
tesoro... Sono felicissima... ti amo. Non lo ho mai detto a nessuno,
è strano per la prima volta...»
«Anch'io,
ti amo davvero cara. Non sto scherzando.»
L'amore
proibito delle due Capopalestra pregò il cielo di estendersi
ben
oltre quella fantastica notte, ben oltre quell'anno, oltre ogni giorno
della loro vita.
Magari
anche oltre quell'estate.
❁
«Camelia,
amore, prima che questa notte finisca e domani scoppi un casino
micidiale voglio che tu mi risponda con tutta la sincerità
che
hai a questa domanda.»
«Credo
di non avere scelta, se la metti così.»
«Credo
che sia una questione di grandissima importanza, è un dubbio
esistenziale che ho da un po' di tempo. Riguarda un paio di
strategie... Ma non so se tu possa aiutarmi.»
«Anemone,
siamo entrambe Capopalestra. Non ci può sorprendere
più nulla.»
«Allora
vado...
Secondo
te sono meglio le tette piccole o grandi?»
«P-Perché
mi fai questa domanda, che cosa c'entra con le strategie?»
«C'entra
eccome, è come con i Pokémon: immagina di avere
un
esemplare raro e potente e di non riuscire a controllarlo e perdendo
così una lotta...
Riusciresti
a immaginarti delle coppe oltre la lettera F su una ragazza?!
Potrebbero
creare disastri, mi dico, e si affloscerebbero e sarebbero brutte da
vedere.»
«Beh,
è vero: non sempre più grande è
meglio.»
«E
se
comunque hai un seno piccolo trovare il modo di valorizzarlo
è
difficile, solo gli Allenatori esperti sanno sfruttare il potenziale
dei Pokémon più innocui...
C'è
sempre l'evoluzione, dopotutto, e molti strumenti utili per farle
sembrare più gonfie e sode, e se non basta puoi usare degli
aiuti come l'imbottitura, ma io mi chiedo...
Esiste
un tipo di seno che possa piacere a tutti, universalmente?»
«Credo
che la tua filosofica domanda si risolva: come nelle lotte esistono
diverse strategie vincenti, così diversi tipologie di seno
possono vincere il cuore delle persone.»
«Wow,
Camelia, mi piaci sempre di più sapendo che sei
così intelligente!»
«Però
io non ho mai visto un Pokémon sopravvivere ad un attacco
come Dragobolide.»
«E-E
quale sarebbe la versione pettorale femminile di Dragobolide?»
«La
coppa G. Questa mossa mi manda K.O. in un colpo.»
«Ah,
neppure io resisterei ad un attacco del genere... È
così sexy...»
«Certo
che per essere una novellina stai imparando in fretta.»
«Tutto
merito tuo, dei manga per i maggiori dei diciotto e delle
fanfiction.»
❁
Behind
the Summery Scenery #12
1.
Credeteci o no, neppure io so molto bene quale sarà il piano
del
Neo Team Plasma per annientare le nostre eroine. Nonostante i miei
evidenti ritardi nella sceneggiatura, le scene in cui appaiono le
cinque antagoniste sono molto easy da scrivere, non mi è mai
capitato di doverci lavorare troppo a lungo. Sarà
la mia
parte oscura che emerge o il mio essere stufa di parlare delle solite
cinque allegre scemotte.
2.
Quando Camilla dice "le ragazze sono minorenni" intende secondo la
legislazione giapponese, in cui la maggiore età si raggiunge
a
20 anni. Questo fa della leader l'unica maggiorenne del gruppo dunque.
Ma hey, qui siamo in 'Murica e Abe non ha potere qui.
3.
Il dialogo fra Camelia ed Anemone è stato difficile da far
uscir fuori: volevo che sembrasse un litigio realistico, ma mi
trovavo ogni volta a cancellarlo e riscriverlo perché le due
monologavano come in una tragedia tirando fuori argomentazioni assurde
e divagando alla grande. Forse le battute sono un po' lunghe per essere
dette nel bel mezzo di una sfuriata, ma provate ad immaginarle come il
succo di ciò che l'ascoltatrice coglie dalle frasi sconnesse
e
brutali di quella che la sta accusando.
Dopotutto,
noi nel parlare sentiamo ciò che gli altri ci dicono o
ciò che noi vorremmo dire e non diciamo? Bella domanda.
4.
Come avete trovato la scena lemon? Io volevo che fosse al contempo sexy
e romantica.
Questo
è il concept di questo capitolo: piacevole per gli occhi,
piacevole per il cuore. Non avrei mai scelto di rappresentare una scena
da rating rosso, perché sapevo che non servisse. Inoltre,
buttarsi sul sesso senza sentimento andrebbe contro uno dei tre grandi
capisaldi della storia (ripassiamoli prima dell'esame ancora una
volta): tette, yuri e... sentimentalismi.
5.
E sì, lo so che le due amanti infelici
non sono completamente
nude, ma
in senso filosofico lo sono, aprendo il loro cuore l'una all'altra e
rivelando i loro veri sentimenti... La prima volta nessuno va mai
così oltre, dai, amo realistici.
6.
Per la scena del bacio ho trovato ottimi spunti dal poeta latino
Ovidio, nei suoi Amores e nell'Ars Amatoria.
|
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Capitolo 13 *** La vita non è fatta solo per spettacolo ***
ESGOTH 5
❁
A story
by: Momo
Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing: 🍦
Seguiteci
su instagram: @esg_ offical_ ig
Early
Summer Girls
❁
Capitolo
13
La
vita non è fatta per spettacolo
Il
secondo mese estivo, quello di luglio, nonostante si fosse aperto con
una calorosa per quanto
ristretta
celebrazione, non aveva portato molti cambiamenti alla vita quotidiana
delle nostre eroine.
Ad
essere sinceri, l'unica vera mutazione alle loro abitudini non fu un
problema per via della sua imprevedibilità, dato che
già da qualche giorno il meteo ne parlava, ma per la sua
pesantezza ed inevitabilità: luglio è sicuramente
il mese più noto per il suo caldo cocente.
Una
calura così torrida e soffocante è la nemica
numero uno degli allenamenti, se vista dal lato negativo; ma quella
mattinata afosa si rivelò la scusa perfetta per fermare
l'allenamento delle ragazze e fare una bella pausa in cui riprendere
fiato.
«Non
possiamo fermarci nel bel mezzo degli allenamenti. Se Nardo o Camilla
ci scoprissero ci punirebbero senza pensarci due volte.»
Quelle
parole proferite da Catlina non potevano avere senso: lei stessa aveva
ostinatamente protestato pur di non alzarsi dal letto quel giorno,
visto che la sera precedente lei e le sue compagne non dovevano aver
dormito più di sei ore; una ragazza delicata come lei aveva
bisogno di riposo, e con questo pretesto per lei veniva sempre prima
l'ozio e poi il lavoro, mai il contrario.
Sedute
all'ombra, le quattro ragazze si sorreggevano con le spalle appoggiate
l'una sull'altra come le pedine di un domino dopo che vengono colpite;
sentivano che sotto quella calura prima o poi il collasso totale era
imminente.
Quell'anno
l'estate si stava rivelando davvero troppo calda.
«Beh,
se è per questo, Camilla ci aveva promesso che un giorno
avremmo avuto una sauna tutta per noi: però io sto ancora
sudando come un Minccino nel Deserto della Quiete.
Quindi
mettiamoci il cuore in pace.»
Le
rispose Anemone, che dopo un respiro esanime riprese il discorso
più entusiasticamente.
«Io
però volevo che Iris finisse di spiegarci questa cosa dei
nostri nomi associati ad elementi naturali.»
«I-In
realtà è tutto qui... Avevo pensato questa cosa
con il mio Dragonite un po' di tempo fa, non so se abbia tanto
senso...» Ammise imbarazzata la ragazzina, strofinando le
dita nervosamente.
Iris
aveva realizzato che il caldo, se unito alla fatica e alla noia,
può risultare un'arma micidiale per il corpo e per lo
spirito; per questo si era fatta coraggio ed aveva cercato di spiegare
anche alle sue compagne quella specie di gioco che aveva inventato
qualche settimana prima.
O
questo o un silenzio di tomba, non aveva molte alternative.
All'inizio
doveva essere solo un modo alquanto fantasioso per far capire al suo
nuovo e brutale compagno di squadra chi fosse chi nel gruppo di
aspiranti allenatrici, esattamente come si fa con i componenti di una
band: pochi dettagli, ma fondamentali a riconoscere l'individuo.
Con
il passare del tempo e con il fare esperienza, Iris finì
davvero per associare con la mente le sue compagne proprio a quegli
elementi.
Era
una cosa stupida, in fondo.
Tuttavia,
le tre ragazze piuttosto sudate ed esauste non sembrarono reagire poi
così male.
«Che
bell'idea, si può dire che hai fantasia.» Le
rispose Catlina, accennando appena un sorriso.
«A
me piace tantissimo quello che mi hai dato, sei fantastica!»
Anemone
invece la abbracciò direttamente, facendo salire alle stelle
l'orgoglio della ragazzina.
«E
tu Iris, tu cosa sei?»
Tutte
le ragazze lanciarono uno sguardo perplesso verso Camelia, stupendosi
del fatto che per una volta stesse ascoltando un discorso che non la
riguardasse personalmente.
«Non
lo so. - Iris parlò come un profeta attorno a cui si
è radunata una grande folla - Perché non mi
aiutate voi a scegliere?»
«Deve
essere un qualcosa di naturale, giusto? - la rossa aveva già
messo la sua fantasia all'opera - Come la pioggia, il sole, una nuvola,
il fulmine che ha Camelia o il mio vento?»
«Sì,
ma questo non significa che ti devi limitare ai fenomeni atmosferici.
Per esempio, io ho il fiore di ciliegio.» La
ammonì la biondina di Sinnoh.
Ci
fu un attimo di silenzio. Quell'atmosfera così tranquilla ed
intima piacque molto alla ragazzina, lei e le altre tre ragazze stavano
costruendo qualcosa insieme, qualcosa che, come un soprannome che
prende piede, le sarebbe rimasto attaccato all'identità per
sempre.
«Una
Baccaliegia.»
Tutte
si voltarono ancora verso Camelia, che teneva gli occhi alti come se
loro, comuni mortali, non fossero state degne nemmeno del suo contatto
visivo.
Quest'ultima
si ripeté ancora più convinta.
«Il
simbolo di Iris è una Baccaliegia.»
Ci
fu un'altro momento morto, ma stavolta carico di forte imbarazzo e
confusione per tutte.
«Ma
mi spieghi perché io dovrei essere una
Baccaliegia?» Le domandò Iris, acida.
«Te
lo spiego subito. - le rispose l'altra, con il tono più
disinteressato e dolciastro che aveva - Pensa a tutte le altre bacche:
Baccamelon, Baccarancia, Baccanguria, Baccamango...
Cos'hanno
tutte in comune rispetto alla tua Bacca?»
Iris
ci rifletté un secondo.
«Beh,
queste bacche sono molto più grandi. E rotonde.
E
poi sono morbide, succose, lisce...
Aspetta.
Grandi, grosse, rotonde, morbide...
E
grandi...
Molto
più grandi... -La ragazzina dai capelli viola se lo
ripeté in testa un paio di volte - ...Molto, molto, molto
più grandi...»
Alla
fine la conclusione che ne trasse la lasciò così
scandalizzata che la quasi gridò.
«Ma
quindi io sarei una Baccaliegia perché non ho un seno grande
come tutte voi altre?!»
Iris
si coprì il viso con le mani per la vergogna: per l'ennesima
volta Camelia l'aveva gettata nel ridicolo e la sua imbarazzante figura
aveva fatto ridere sonoramente tutte le sue compagne, compresa la sua
stessa aguzzina che in quel momento la osservava struggersi nella sua
inadeguatezza pettorale con l'espressione di una vera sadica sul volto.
Questa
era per lei la triste e sfortunata pena da scontare per l'essere una
Baccaliegia.
Una
Baccaliegia continuamente arrostita fino al midollo da un tuono di
sarcasmo.
«Che
cosa mi sono persa?»
Iris
fu la prima a riconoscere la voce dolce e grave di Camilla, e l'unica a
sperare in un suo miracoloso intervento salvatore.
La
giovane donna sembrava più che serena a prima vista, sebbene
fosse stata convocata da Nardo una mezz'oretta prima.
«Bullismo
gratuito...» Fu capace di rispondere, guardando con occhi
mesti lo yukata violetto che a malapena aderiva al suo corpo nonostante
lo avesse tirato al massimo sotto l'obi.
La
leader, mossa dal suo forte senso di giustizia, lanciò uno
sguardo di fuoco verso l'unica legittima sospettata. Quest'ultima
però non si fece trovare impreparata.
«Camilla,
penso che Iris non abbia ben presente quanti vantaggi porti essere una
Baccaliegia.
Per
esempio, le Baccheliegia piacciono a tutti, a me compresa...»
«Certo,
certo, come no... - Iris la interruppe, rivolgendosi a Camilla,
furibonda - Ieri sera appena mi sono tolta lo yukata, lei ha fatto
finta di misurarmi il seno con le mani, poi mi guarda tutta delusa e
dispiaciuta e mi dice: "Non ci siamo proprio, se continui
così rischierai di far morire di fame i tuoi futuri figli."
E
quando mi nasconde i reggiseni e mi chiede se voglio prendere in
prestito uno dei suoi...
Ah,
e settimana scorsa mi ha chiesto se seguo qualche sub-cultura per cui
avere il fisico da anoressica, i capelli viola Grimer e la pelle
abbrustolita sono ritenuti sexy per una femmina!
Per
non parlare di tutte le volte che mi si spoglia davanti solo per
vantarsi delle sue enormi mongolfiere e mi fa domande imbarazzanti, del
genere "dimmi Iris, non hai mai paura che ti si comprima la gabbia
toracica in quel minuscolo corpicino che ti ritrovi? Sei tutta pelle e
ossa, chissà come fai a respirare e a stare in piedi."
M-Mi
sta facendo impazzire, io non la sopporto più!»
Tutte
quante ammutolirono, ad eccezione della diretta interessata ed
ideatrice di tali torture psicologiche, che continuava a sogghignare
soddisfatta.
Anemone
e Catlina, d'altro canto, si sentirono un po' complici del non fare
effettivamente nulla affinché quegli atti di bullismo
smettessero o per difendere la sfortunata vittima Baccaliegia.
Camilla
invece se la legò al dito perennemente, notando come lo
sguardo di Iris fosse contorto nell'espressione più
addolorata e sconfitta che avesse mai visto, come un prigioniero che
rivela le terribili disumanità con cui è stato
ferocemente torturato per anni.
«Mi
auguro che tu abbia un buon alibi anche per quello che sto per dirti,
Camelia.
Tranquille
voi altre, non siete escluse da questo annuncio neppure voi.»
La
modella vacillò leggermente al venire chiamata
così freddamente per nome, essendo piuttosto abituata ai
confidenziali soprannomi che venivano dati dai fan alle idol come lei.
Tuttavia
anche il resto delle ragazze, Iris compresa, ebbero un sussulto,
curiose e preoccupate allo stesso tempo di conoscere di cosa stessero
per venire accusate.
La
leader sfoderò uno dei suoi soliti sorrisi, così
maledettamente controverso in quella scena di forte ansia che
spiazzò tutte le ragazze. Chissà di cosa doveva
aver parlato con Nardo.
«Andrò
dritta al punto. - a quel punto Camilla frugò nella manica
del kimono ed estrasse un oggetto che nessuna, proprio nessuna si
sarebbe mai aspettata di trovare in mano a lei - ve lo
chiederò una sola volta. Rispondetemi con assoluta
serietà...
...Di
chi è questo reggiseno?»
In
quell'istante, tutte si chiesero se stesse malauguratamente scherzando.
Iris
si chiese se stesse scherzando su di lei visto il tema del dibattito
precedente.
Decise
di autoescludersi subito da quella snervante e ridicola querela.
«Non
è di sicuro mio. Una Baccaliegia come me non indossa questo
genere di indumenti.»
«Lo
so, Iris. E so bene che non può essere neppure di
Catlina.» Disse la Campionessa di Sinnoh.
«Come
fai a saperlo? N-Non mi pare di averti mai mostrato che intimo
indosso.»
Le
domandò pacatamente la biondina. Era piuttosto curiosa di
sapere anche lei.
«Vedete,
quando io e Catlina avevamo sei anni, lei era una bambina terribilmente
possessiva.
Che
fossero i suoi Pokémon o i suoi giocattoli, era sempre
pronta a non farli toccare a nessuno con scuse del genere "li
sporcheresti", "non sai usarli" o "costano tanto tanto".
Ricordo
che una volta stavamo giocando con delle bambole e non appena ho
toccato la sua, lei ha cominciato a piangere ed a gridare per un intero
pomeriggio...»
«C-Camilla,
ma era proprio necessario che lo sapessero tutte?!»
La
giovane principessa arrossì visibilmente e poté
paragonare il disonore di quel momento solo a quando nell'onsen la
leader l'aveva vista quasi senza la parte inferiore costume.
Ormai
l'autorità e la posizione di sub-leader che stava cercando
di costruirsi stavano entrambe andando in fumo. Perché
quelle ragazze dovevano rispettare Camilla e non lei?
Mentre
le giovani ridevano di lei, Camilla concluse impeccabilmente il
discorso.
«Catlina
non sarebbe così smemorata da dimenticare un oggetto
così importante come un reggiseno, insomma... La conosco
bene.» E rivolse un piccolo inchino alla compagna, quasi
avesse intuito il desiderio di rimediare al orgoglio frantumato
dell'amica d'infanzia.
Solo
due sospettate erano rimaste, alla fine di tutto. Quest'ultime si
fissarono negli occhi.
Ed
proprio in quel secondo, in quell'istante intriso di panico e tensione,
fu la spiccata sensibilità ai dettagli di Iris a notare una
cosa che le fece contorcere il viso e gli occhi involontariamente.
Come
poteva definirla: una forza, una connessione, una presenza? Era un
qualcosa di labile che eppure sembrava esserci sempre stato, era tutto
naturalissimo nonostante lei ne fosse rimasta esterrefatta.
Le
due diciassettenni avevano stabilito per quasi meno di cinque secondi
uno strano contatto visivo: osservano oltre le loro iridi, entrambe
azzurre ma di tonalità diverse, e focalizzandosi meglio
notò che qualcosa si erano dette, ma così
silenziosamente che nessuno avrebbe mai afferrato neppure vagamente il
concetto.
I
loro visi non si erano incontrati a metà strada per puro
caso, le compagne erano sincronizzate per via di una connessione solo
loro e che non potevano condividere.
Paura,
dolore, ansia, rimorso... Con uno sguardo ci si può dire
molte cose, probabilmente...
Ma
Iris non riusciva proprio a spiegarsi perché la superba e
acida modella stesse tenendo stretta nella sua la mano della dolce ed
amorevole aviatrice, che a sua volta faceva intrecciare le sue dita
scure con quelle diafane di lei.
«Potrei
avere da qualcuna di voi una risposta?»
Dal
tono di voce, si sentiva che Camilla cominciava a spazientirsi.
Da
quel punto in poi Iris sentì che si sarebbe trattato di un
infame e letale gioco del prigioniero.
Conosceva
bene quell'enigma tanto banale quanto irritante, lo utilizzavano spesso
gli adulti del suo villaggio per far confessare piccoli furti o malanni
commessi da più bambini.
Salvarsi
la pelle da una punizione non è poi una cosa tanto semplice,
se devi difendere un'altra persona oltre a te stesso: su questo
concetto si basava il trucco.
E
purtroppo per lei quella volta ci sarebbero state solo poche
possibilità di cambiare il finale, conoscendo le sue due
compagne, così diametralmente opposte da non poter avere
nessun legame di complicità a rigor di logica.
Uno.
Camelia scarica tutta la colpa sulla rossa e questa si arrende, come fa
sempre.
Due.
Anemone si ribella alla sua torturatrice e gliele fa pagare di santa
ragione.
Tre.
Entrambe rimangono mute, facendo solo un grande buco nell'acqua.
Dulcis
in fundo, tutte le ragazze avrebbero dato per scontata l'opzione numero
uno, vedendo la modella mora alzarsi con nonchalance. Questa
guardò dritta verso la leader.
«Camilla.»
Fece un respiro profondo e cominciò a parlare.
«Sono
tutta orecchi.» Le rispose la giovane donna in veste di
giudice.
Sia
la ragazzina dai capelli viola sia Catlina ed Anemone rimasero col
fiato sospeso.
«...Perché
hai in mano il mio reggiseno?»
La
leader rimase interdetta.
«Vedi,
te lo chiedo perché non capisco come faccia tu a possederlo
se è mio.
Io
potrei pensare, che ne so, anche che tu lo abbia trovato per caso, ma
non sono nata ieri, scusa.
Quindi
direi che vado per l'idea che tu me lo abbia rubato perché
sei una maniaca pedofila.»
Ci
fu un secondo di silenzio seriamente scandaloso: davvero Camelia so era
permessa all'apice della sua sfacciataggine di dare della "maniaca
pedofila" alla sua leader, violando ogni genere di rispetto imposto
dall'età e dai ruoli?
«Camelia,
non ti conviene parlare così alla tua...»
Cercò di parlare Catlina, con una certa autorità.
«Non
mi interessa - la interruppe decisa la mora - se la tua leccapiedi ti
difende.
Io
voglio sapere perché una ventenne ancora vergine, in base a
quello che hai detto ieri sera da ubriaca, ha in mano la mia biancheria
intima.»
Catlina
si zittì definitivamente: quella ragazza le aveva
polverizzato anche quell'ultima briciola di orgoglio ed
autorità che si era auto-conferita nominandosi sub-leader.
Che umiliazione, pensò, non riuscire neppure a difendere la
sua leader, non nulla di più meramente professionale.
«Te
lo chiedo perché - ora Camilla era visibilmente irritata, ma
si prodigava nel trattenersi - ho trovato questo indumento a bordo
vasca nell'onsen. E mi costringe a supporre che ieri sera qualcuna di
voi due abbia usato l'onsen senza il permesso mio o di Nardo.
Sapete
cosa vi spetta se infrangete le regole e questa non è
neppure la prima volta ma...
La
terza, in precisione, per voi due.»
«Senti
leader, quel reggiseno è una coppa G. È ovvio che
sia mio.
Lo
sa mezza Unima che quella è la mia taglia.»
Ammise
la mora, così stizzita che si conteneva a stento da
insultarla pesantemente.
«Come
vedi le tette di una smorfiosa non sono una questione di interesse
nazionale.»
Iris
non riuscì a trattenersi quella battuta, rosa com'era dallo
snervamento.
Camelia
le rivolse un bieco sorriso veramente meritevole di sberle.
«Iris,
le Baccheliegia non parlano. Zitta.»
Alla
ragazzina tornò immediatamente la voglia di seppellirsi
sotto tre metri di terra.
«Quel
coso è mio, insomma, non ho altro da dire, se non che mi
sarei aspettata il furto di un reggiseno da parte di paparazzi o miei
fan, non dalla leader con cui sono costretta a convivere.»
La
ragazza dal kimono giallo apparve più convinta che mai.
Finita
quella frase, prima che Camilla potesse distillare l'ultima goccia che
avrebbe fatto traboccare il vaso rappresentato dalla sua pazienza, una
voce prima esclusa dal dibattito si fece sentire.
«Smettetela
per favore. Anche io porto la coppa G. E ieri sera ero anche ubriaca.
È
mio, Camilla. Sono pronta a prendermi le mie responsabilità.
So
che tu, in qualità di nostra guida morale, non ti
macchieresti ma di un gesto così perverso.»
Mentre
si costituiva così all'improvviso, Anemone era l'unica a non
essersi mossa dalla sua posizione iniziale seduta all'ombra e mentre
tutte si erano alzate in piedi con i nervi tesi, lei aveva parlato in
modo piuttosto calmo e pacifico.
«M-Ma
allora perché mi avevi detto di portare la F?!» Le
domandò Iris scioccata.
«Iris
scusami, ma so che sei sensibile a queste cose...» La rossa
le rivolse uno sguardo dispiaciuto.
«Dai,
dopotutto è meglio una piccola bugia a fin di bene che
sbattermi in faccia la triste verità...
È
per questo che preferisco mille volte Anemone a Camelia.»
La
giovane se ne fece una ragione, poi si sedette circondando le gambe con
le braccia e appoggiando il mento alle ginocchia. Si chiedeva proprio
come sarebbe andata a finire.
«Anemone
cara, - a dirla tutta, Camilla si sentì leggermente a
disagio parlando con quel tono così mellifluo ed edulcorato
alla rossa, neanche si trattasse di un piccolo Pokémon
indifeso o di una bambina della stessa età della nipote di
Nardo: tuttavia quell'irrecuperabile abnegante non le ispirava altro se
non infinita pietà - so benissimo che il tuo intento
è quello di proteggere Camelia. Ma io voglio che tu sia
sincera.»
«Sono
sincera, e confermo sia che quel reggiseno è mio, sia il
fatto di aver usato l'onsen senza permesso. Mi dispiace molto di aver
tradito la tua fiducia.»
Rispose
umilmente la ragazza dallo yukata azzurro.
«Anemone,
lo sappiamo ormai tutte che tu ti assumi sempre tutte le colpe per
abitudine, basta.
Se
ho detto che è mio, è mio, e non vedo l'ora do
vedere in che modo Nardo ha intenzione di sfogare il suo sadismo su di
me.» Ribatté la mora.
La
situazione ora si era fatta tristemente familiare ad Iris, a cui
sembrò di essere tornata indietro ai primi giorni passati
con quelle ragazze, in cui fra loro aleggiava solo freddezza e
diffidenza.
Aveva
lavorato così tanto per far andare d'accordo le sue nuove
compagne, eppure...
Camilla,
la giudice imparziale ormai drasticamente divisa da testimonianze
contrastanti, esibì un sorriso, come di consuetudine. Quello
però fu il sorriso più maligno e strano che tutte
le ebbero mai visto sulle labbra. Tutto d'un tratto la donna
scoppiò a ridere come un'esagitata impazzita.
In
quel momento Iris si chiese se non fosse finita in una gabbia di matte
da legare invece che in una competizione fra allenatrici: lì
con lei c'erano rispettivamente un'isterica, una bipolare, un'apatica
(che doveva aver preso quel "leccapiedi" molto sul personale, visto che
non aveva più aperto bocca da quel momento) ed infine una
schizofrenica.
Proprio
una bella compagnia con cui passare l'estate.
«Ho
capito, ho capito - il tono di voce di Camilla sembrava quello di una
tossicodipendente in stato di euforia - la vostra strategia. La vostra
bruttissima strategia.
Volevate
costituirvi entrambe in modo che io ne fossi commossa e chiudessi un
occhio anche questa volta... Non sono stupida e questi giochi con me
non funzionano.
E
per aver cercato di imbrogliarmi così spudoratamente sarete
punite entrambe.»
La
donna riprese a parlare seriamente, con un tono duro come il cemento e
squadrò con un solo sguardo dalla testa ai piedi sia Anemone
che Camelia.
«Mi
avete profondamente delusa: non solo una Campionessa, ma una qualsiasi
donna perbene dovrebbe tenere nascoste le sue parti più
sensibili per pura decenza.
E
non posso immaginare che genere di motivo doveva esserci di levarsi il
reggiseno nel mezzo della notte... Guardate, non voglio nemmeno saperlo.
Però
sono certa che voi due vogliate sapere una cosa: la vostra punizione,
ovviamente.»
Le
due sventurate ragazze risposero in coro, senza dar troppa attesa alla
giovane.
«...Sauna?»
«No.
- tutte rivolsero l'ennesimo sguardo di disappunto a Camilla - Non
capisco che genere di congiure tramiate voi due quando siete sole. Di
sicuro non giovano ne' a me ne' a voi.
Per
questo voglio che oggi non vi vediate fino al tramonto.
Andatevene
dove volete lontano da qui, in giro per Unima, mi basta che non vi
incrociate o parlate per nessun motivo al mondo. Dovete sciacquarvi la
testa e rimettere a posto i vostri pensieri prima della competizione
per il vostro bene, non perché una "pedofila" ve lo ordina.
Ora
andate, per favore. Mi avete profondamente delusa.»
Nonostante
la ferrea disciplina appena esercitata, Camilla non stava traendo
nessun divertimento dal dover sgridare quelle sue adorabili apprendiste.
Non
piaceva neppure a lei che Nardo fosse così insistente ed
eccessivamente duro alle volte.
Le
due colpevoli si separarono, senza neppure guardarsi in faccia un
secondo.
Quell'atmosfera
di terrore crollò definitivamente da quel punto in poi,
lasciando una coltre di fumo allusivo che appesantiva l'aria e lasciava
aloni di incoerenza dappertutto.
«Alla
fine di chi era quel reggiseno, secondo te?»
Domandò
Iris sottovoce a Catlina.
«Io
mi domando ancora perché se lo sarebbero dovute togliere, in
primo luogo.»
La
ragazzina dal kimono viola analizzò tutti gli indizi che
aveva racimolato in quella mezz'ora di aspra lite: gli occhi che si
incontrano alla ricerca di aiuto reciproco; la mano dell'una stretta in
quella dell'altra; la mancata difesa vicendevole; i piccoli particolari
che ancora le mancavano per risolvere quell'enigma complicatissimo.
Tuttavia
una risposta aveva considerato... Ma era una cosa così
impossibile, così impossibile che se ne dimenticò
subito.
«Camelia
ed Anemone sono entrambe femmine... No, non è assolutamente
possibile.»
❁
Non c'era
un singolo giorno in tutto l'anno, che fosse inverno o estate, che
facesse caldo o piovesse a dirotto, sia di pieno pomeriggio che a notte
fonda, sempre la metropoli di Sciroccopoli si prodigava nell'apparire
il paradiso terrestre del ventunesimo secolo: le strade piene di auto
incolonnate davanti ai semafori, famiglie di turisti con macchine
fotografiche e Pokéball alla mano, grattacieli con i vetri
rifrangenti e cartelloni pubblicitari al neon ovunque.
L'unica
cosa che sembrava rallentare quella frenetica routine quel
dì sembrava il caldo.
Ma
era un particolare così insignificante che Camelia non ci
diede alcun peso.
Aveva
cercato invano di protestare, giustificandosi con il fatto che una
stella della moda del suo calibro non poteva affatto mostrarsi in
pubblico per questioni di sicurezza, prima di scoprire che per sua
sfortuna bastavano un paio di occhiali da sole per permetterle di
camminare sui marciapiedi affollati come una diciassettenne qualunque.
Nemmeno
la maglia di marca piuttosto scollata e i pantaloncini di jeans firmati
destavano alcun sospetto nei passanti... Piuttosto insolita come
punizione.
Camelia
non riusciva neppure a sentire il ticchettio dei tacchi alti
sull'asfalto sporco di gomme americane, e tantomeno il dolore del
camminarvici, abituata com'era.
Era
una buona mezz'ora che la giovane camminava senza fermarsi un secondo,
camminando spedita senza nemmeno una meta precisa, con quel suo
andamento molto chic e fluido.
Teneva
le cuffie sulle orecchie, assorta nei suoi pensieri.
Le
parole di quella canzone le conosceva a memoria, eppure si sentiva
confusa.
L'unica
cosa che riuscì a rallentarla per un secondo da quel
frenetico vagare silenzioso la costrinse perfino a sollevare la testa e
scostarsi dagli occhi quegli occhiali da sole scurissimi: sopra un
grattacielo, uno di quei cartelloni pubblicitari a led, mostrava una
sua fotografia.
Camelia
non sapeva che prodotto avesse pubblicizzato, non se ne sarebbe
ricordata neanche provandoci, pensando a quante foto e riprese le
avessero fatto in soli quattro anni di carriera. .
Del
resto, era sempre la solita lei, la solita Camelia che vedeva allo
specchio ogni giorno.
Solo
che la lei nel cartellone pubblicitario sorrideva in modo davvero
naturale e spensierato.
Era
un sorriso così innocente ed accattivante che riusciva a
distrarre anche dalla silhouette del corpo seminudo strategicamente
coperto sullo sfondo. Chiunque se ne sarebbe innamorato.
Camelia,
tuttavia, esibì uno sguardo disgustato e riprese a camminare
più velocemente.
Non
che le dispiacesse se anche tutta la regione l'avesse vista nuda su
tutti i mass media.
Era
bensì l'atroce menzogna che stava vendendo ai suoi fan che
la disturbava.
In
realtà, quando le telecamere erano spente, la ragazza aveva
passato settimane intere cercando di perfezionare il suo sorriso per
quel servizio fotografico, osservandosi davanti allo specchio, non
trovandosi mai abbastanza naturale, sforzandosi di risultare perfetta
almeno ai suoi stessi occhi.
Aveva
passato notti del tutto insonni a piangere e soffocare grida disperate
sentendo insieme ai morsi di un accenno di depressione anche quelli di
un appetito che ancora non riusciva a controllare e reprimere come
fanno tutte le professioniste esili come canne di bambù.
Le
erano passate per la testa idee terribili, alcune delle quali
stravolgevano completamente perfino la sua morale: quella che
però le era sembrata la meno dannosa era quella di seguire
Corrado per andare ad annacquare in qualche bottiglia di superalcolici
la sua tristezza, come faceva lui.
Ricordava
anche che sempre lui una volta l'aveva minacciata di rivelare a tutti i
giornali che la sua ragazza era astemia. Lei gli aveva riso in faccia,
in risposta.
Tutte
quelle sofferenze, umiliazioni e ferite fisiche e morali per una
fotografia.
Camelia
si augurò di non essere l'unica a guardare più in
fondo, senza fermarsi alle labbra lucide o agli occhi rilucenti per via
del trucco, sperò intensamente che i suoi adorati fan,
quelli che le avevano giurato di amarla senza neppure conoscerla, si
ponessero le sue stesse domande.
E
quel desiderio, alimentato dall'insoddisfazione e dalla confusione
interiore della giovane, di sballarsi fino all'ultimo respiro,
devastando da sola il suo stesso fisico e la sua psiche, l'aveva spesso
convinta che perdere sé stessa sarebbe stata la chiave per
ritrovare la voglia di ritornare apprezzare tutto ciò che
ora detestava con tutto il cuore.
Dopotutto,
quella città era immensa: rimediare droga ed alcool nella
città perfetta di Sciroccopoli non era mai stato difficile,
neppure per una come lei lo sarebbe stato, con le giuste conoscenze.
Ma
in quella enorme, popolosa e sfavillante città ci sarebbe
stato un qualcuno, una singola persona che sarebbe corsa disperatamente
da lei per strapparle dalla mano la fatidica bottiglia di vetro o la
siringa che l'avrebbe rovinata per sempre?
Chi
era disposto a salvarla da tutto ciò? Dov'era quel qualcuno
quando le serviva?
Ma
sopratutto...
C'era
mai stato un qualcuno per lei?
Tutto
d'un tratto l'incedere deciso e spedito della ragazza mora si
arrestò in modo automatico.
Realizzò
che nonostante i tacchi alti, doveva aver camminato un bel po', senza
neppure sapere dove fosse diretta. Era lì per punizione, ma
al contempo per sua scelta.
Lo
spettacolo idilliaco della metropoli affollata e caotica era
letteralmente sparito, come se non ci fosse mai stato; sembrava che
fosse stato tracciato un confine, un solco che divideva la parte
ipocrita e benestante di Sciroccopoli dalla sua sorella più
schietta e realistica.
Quello
scenario invece si descriveva da solo; i muri coperti da graffiti senza
arte, le strade sporche cosparse di volantini e rifiuti urbani, gli
edifici prefabbricati da cui spuntavano spessi cavi che facevano a gara
per accaparrarsi l'elettricità, perfino i passanti
sembravano guardarla storto per via dei vestiti di marca, e l'aria era
irrespirabile, come se perfino quella fosse stata un lusso.
Solo
però chi aveva passato gran parte della sua vita nella
periferia della città di Sciroccopoli poteva sapere che quel
posto aveva conosciuto tempi peggiori per davvero.
Togliendosi
con un gesto brusco le cuffie dalle orecchie, Camelia si
lasciò scappare una risata in un misto fra autoironia e mera
disperazione.
La
vista del luogo in cui era nata e cresciuta la infastidiva ancor
più del ricordo di esso.
Sembrava
che nulla fosse cambiato, che quei bassifondi malfamati e miserabili
aspettassero il suo ritorno da anni, come se non ci fosse altro posto
destinato a lei.
Camelia
si morse il labbro e sorrise amaramente, come la costringevano a fare
quando era in preda alla tristezza ma il suo pubblico desiderava
vederla felice per puro capriccio.
«Ho
ancora moltissime paure. Ho ancora moltissime lacrime...
Anemone,
muoviti e vieni a consolarmi.»
«Dovresti
fare attenzione, ti trovi nella parte più pericolosa della
città.
Sarebbe
davvero disdicevole se ad una fra le future Campionesse capitasse
qualcosa di male.»
Camelia
strizzò le palpebre, perplessa. Quella non era la voce di
Anemone, non lo era e basta.
La
rossa non parlava così fluidamente, e il tono di voce non
era così grave e profondo.
La
giovane Capopalestra si voltò di scatto, e per la prima
volta in tanto tempo sentì quel genere di panico che assale
spesso le ragazze quando scoprono qualcosa di strano, di inquietante.
Cacciò
un grido piuttosto femminile, spostandosi il più rapidamente
possibile dalla figura stagliata dietro di lei. Aveva paura, ma una
paura concreta, per una volta.
«Tranquilla,
non voglio farti del male...» Ma la voce non ricevette alcuna
attenzione.
La
mora non indugiò oltre. Lei era un'allenatrice, non una
stupida scolaretta incapace di difendersi: con un gesto deciso
infilò la mano coperta di smalto nella scollatura del top
che indossava, andando ad afferrare una sfera Poké posta
esattamente in mezzo al suo seno.
«M-Ma
perché questa ragazza tiene una Pokéball nelle
sue... In quel posto!?»
Domandò
lo sconosciuto, senza ricevere risposta e non meritandone nessuna la
domanda.
La
giovane aveva già provato quella tecnica una settimana prima
e l'aveva trovata pressoché utile, per quanto ambigua
sembrasse in apparenza.
Le
piaceva più di tutto l'effetto di shock ammaliante che
causava in chi la osservava.
Non
esitò ulteriormente nel piazzargli contro la sua Emolga a
scopo difensivo.
«Usa
Scarica, veloce!»
«C-Cosa?!
Ferma, ti prego...»
Ma
costui non fece in tempo ne' a protestare ne' a fuggire che si
ritrovò investito dalla scarica elettrica, che gli
impedì ogni movimento, lasciandolo cadere seduto in quella
strada lercia e deserta, in mezzo al nulla, come se si fosse trattato
di un criminale.
Erano
passato pochissimi minuti dacché Camelia aveva recuperato la
sua disinvoltura e la sua nonchalance perdute. Fra le accuse, la
punizione, il ritrovarsi nel ghetto da dove proveniva, un aggressore
l'avrebbe pagata cara per averla pensata una preda facile.
«Senti,
- cominciò a parlargli, piena di astio - non so chi tu sia,
ma lo ripeto ai miei fan dopo ogni apparizione in pubblico: mi fa
piacere incontrare e parlare con chi mi supporta, ma il tuo gesto mi sa
tanto di stalker. E violenza su una donna.
Quindi,
se non vuoi che ti denunci...»
Quello
che credeva un maniaco la interruppe, muovendo le mani cercando di
spiegare il malinteso.
«N-Non
avevo alcuna intenzione di farti del male o di causarti qualche
fastidio, mi dispiace, - si inchinò frettolosamente - ma
personalmente non ti conosco neppure...
P-Però
devi essere una persona famosa se hai addirittura dei fan...
A
proposito, non hai caldo in un posto del genere? Hai camminato un bel
po', non sei stanca?»
«Credo
che a Nardo e alla mia leader pedofila non possa interessare di meno se
io stia morendo disidratata o se io svenga per la fatica, tanto la
prima cosa di cui si preoccuperebbero sarebbe di trovare un'altra
ragazza per finire di costruire una sauna in un garage...»
Camelia
si concesse di rispondergli con una punta di sarcasmo.
Ma
subito si sfilò gli occhiali da sole con un gesto rapido
appena si accorse che grandissima blasfemia avesse appena detto chi le
stava di fronte.
«Aspetta...
Davvero non sai chi sono io? - Costui scosse la testa e lei
continuò - Mai sentito parlare Taylor Camelia, ta "Nuova
Miss Unima", quella che l'anno scorso era bionda, l'idol dal seno
perfetto, l'orgoglio della regione?!»
La
ragazza fletté le gambe fino ad abbassarsi al livello di
questo strambo individuo, sedendosi sui talloni in preda allo
sconforto. Che situazione sgradevole.
«Ma
seriamente, dove vivi per non sapere queste cose? In una grotta nel
Monte Vite?»
Gli
domandò delusa.
Aveva
in qualche modo compreso che una ragazzina strana ed infantile come
Iris potesse seriamente non averla mai sentita nominare, ma...
Quello
che le stava di fronte, impacciatamente seduto, era un uomo adulto di
circa trent'anni.
E
la mora conosceva bene i desideri degli uomini adulti: bellezza e
giovinezza.
Lei
era da qualche tempo diventata emblema di entrambe, la sua bravura
nelle lotte e la sua sagacia nel rispondere a tono erano
qualità trasparenti in confronto ai suoi profondi occhi
azzurri e il suo corpo snello e al contempo formoso, combinazione
più unica che rara.
«S-Scusa,
è un po' che non mi aggiorno sulle mode che seguite voi
giovani... - si scusò il giovane uomo, grattandosi la nuca
in evidente imbarazzo - a-ad ogni modo, forse dovrei presentarmi, prima
di rimanere fulminato di nuovo o rischiare una denuncia.
Immagina
se mia moglie Marina lo venisse a scoprire, il finire fulminato sarebbe
mille volte la prospettiva migliore.»
La
fanciulla trattenne una risata, pur cercando di ritornare stoica ed
insolente in quel preciso attimo.
«Il
mio nome è Ottaviano e mi era stato chiesto dall'ex-Campione
Nardo in persona di sorvegliarti.
Sai,
il mio genero è un tale dispotico, non hai idea di cosa
abbia dovuto passare da quando io e sua figlia ci siamo sposati;
è stato come passare dalla padella alla brace. Tale padre,
tale figlia.
Amichevole
in apparenza, ma basta conoscerlo più a fondo per passare
alla gogna per un minimo disaccordo...»
Camelia
rimase a fissare colui che aveva appena scoperto essere il genero di
Nardo a bocca chiusa: non era fatto male d'aspetto, lo avrebbe definito
un bell'uomo senza problemi.
Capelli
corvini leggermente spettinati, mentre i lineamenti del viso erano
dolci e non troppo marcati, i tratti erano fortemente orientali seppur
la carnagione di costui fosse rosea.
Il
corpo le ricordava gli atleti greci, media statura con i muscoli
proporzionati agli arti: non sembrava certo un fotomodello pompato di
steroidi, eppure le ispirava una certa idea di protettore, di
difensore, in un certo senso di padre, da come Ottaviano aveva
menzionato con affettuosa ironia la sua famiglia in qualsiasi frase.
Tutta
quell'apparenza però aveva insegnato alla ragazza durante il
corso degli anni una lezione durissima che non si sarebbe
più scordata, data l'asprezza delle pene con cui la vita
l'aveva punita più volte per la sua dimenticanza ed
ingenuità.
«Lasciami
in pace.» Gli chiese la mora, concisa come non mai, diretta
altrove.
«E
se ti succedesse qualcosa? - Ottaviano la seguì nel suo
girare i tacchi, afferrandole un braccio con una stretta salda da cui
la modella fallì dal liberarsi - Lo sai che in questo
postaccio rischi uno stupro o di peggio? Vieni via con me,
subito.»
«Ti
ho detto di lasciarmi stare, non ho bisogno di te.» Gli
rispose convinta.
«Dimmi
cosa vuoi fare qui tutta da sola, nella parte più squallida
della regione!»
«Te
ne importa? - in lei ora si era destato un forte desiderio di
provocazione, una specie di violenza verbale e psicologica che non
vedeva l'ora di scaricare su qualcun altro - Chi sei per dirmi cosa
fare, eh, mio padre?!»
Ottaviano
riuscì, dopo diversi strattoni della giovane che si sentiva
sua vittima, a trattenere quell'irascibile ragazza fra le sue braccia
immobilizzandone il busto con estrema facilità, come un
gladiatore non si lascia intimorire neppure da una leonessa inferocita.
«Se
mi fai qualcosa, anche solo se mi graffi, giuro che ordino ai miei
Pokémon di farti l'elettroshock!» Gli
gridò, mai decisa a demordere o ammorbidire i suoi
pregiudizi.
«Ti
sei proprio fissata con il fatto che io sia qui per farti del male, non
è vero?»
Ottaviano
tuttavia le parlò pacificamente, allentando la presa con cui
la tratteneva: era sicuro che non sarebbe comunque scappata, quella sua
belva mansueta.
Ansimando
in un misto fra rabbia e risentimento, Camelia gli sedette accanto, sul
ciglio del marciapiede dismesso, ma decise di non rivolgergli la
parola. Bello d'aspetto o no, simpatico nel fare battute o no, padre di
famiglia o no, quello rimaneva a suo parere, un maniaco sessuale.
Intanto
l'uomo scrutava con ingiustificabile interesse il panorama offerto da
quel vicolo trasandato spostando continuamente lo sguardo da un punto
all'altro, quasi fosse contento di quella situazione.
«Allora.
Posso dire di essere rimasto letteralmente bloccato qui con
te...»
La
fanciulla si morse il labbro e rimase in silenzio.
I
pomeriggi come quello sembravano non finire mai.
Infinità
di tempo irrimediabilmente piene di ricordi orribili che le impedivano
di vivere normalmente.
Intere
giornate passate vicino a qualcuno che non le piaceva, che odiava;
qualcuno che si divertiva a giocare con il suo cuore ribaltando sempre
la situazione, rendendosi tutto d'un tratto amabile e poi detestabile,
accarezzandola e violentandola a suo piacimento, come se lei fosse
stata una bambola di stracci con un sorriso perennemente cucito in
faccia e due occhi ciechi fatti di bottoni: ciò che vedeva e
come si sentiva erano cose senza significato.
Alla
fine, non era riuscita a fuggire da un bel niente. Tutto ciò
che odiava era ancora lì.
«Hai
detto che ti chiami "Camelia", giusto? - Ottaviano esordì,
raggiante - Lasciatelo dire, il tuo è davvero un bellissimo
nome, è il nome del fiore dell'amore.
Una
camelia bianca, se regalata alla persona amata, significa "sei
adorabile, mi piaci come sei".
Una
camelia gialla, invece, significa "ti desidero con tutto il cuore".
E
una camelia rossa significa "sono tua, per sempre".
È
un nome veramente bellissimo, rimpiango il non averlo dato a mia figlia.
Chi
ti ha dato questo nome stupendo deve amarti davvero tanto.»
Dal
tono così appassionato e sognante con cui aveva parlato,
sembrava che Ottaviano stesse ripetendo quel discorso più
per se stesso che alla sua disinteressata ed indifferente
interlocutrice.
Tuttavia
l'uomo non riuscì a spiegarsi il forte presagio di lacrime
che avvertiva sul volto che vedeva estremamente audace e sicuro di
sé dipinto su quella singolare ragazza.
«Amarmi
così tanto - Camelia emise una straziante risata nasale
monofona - da abbandonarmi a me stessa per andare a prostitute? Non
farmi ridere, per favore.»
La
ragazza si stupì di non essere ancora scoppiata a piangere.
Da
quando aveva cominciato a lavorare come modella era diventata
un'abitudine per lei avere crisi isteriche sempre più
violente e repentine, le dicevano che erano cose del tutto normali.
Andava
bene piangere fino a seccarsi gli occhi, a patto che davanti alle
fotocamere il giorno dopo si fosse fatta trovare attraente e
sorridente, così i suoi fan le avrebbero ribadito come fosse
bella quel giorno e poi, calata nuovamente la notte, constatasse ancora
che si trattava di una bugia?
Ecco
perché il rapporto che intercorreva fra lei ed i suoi fan lo
considerava travagliato.
Non
poteva dire di disprezzare dei folli che facevano ruotare intorno a lei
la loro intera esistenza, ma esorcizzare tutta la pressione e l'ansia
che le mettevano addosso le pareva difficilissimo.
Ancora
non aveva dimenticato quella fotografia e quel sorriso naturalmente
falso.
C'era
chi la conosceva e chi no, chi la amava e chi no.
Ma
se doveva nominare qualcuno che non l'aveva mai conosciuta e neppure
mai amata, avrebbe pronunciato a denti stretti il nome del suo crudele
ex-fidanzato.
Camelia
aveva giurato a sé stessa che appena il caso avrebbe fatto
rincontrare lei e Corrado, lei si sarebbe fatta vedere felice,
spensierata e dimentica di tutti i torti subiti.
Che
non le si avvicinasse ne' osasse parlarle, perché lei non
aveva più bisogno di lui.
Avrebbe
trovato qualcuno di migliore, non che ci volesse molto a trovare di
meglio di un traditore.
Le
sue compagne? Aveva consolidato da sola la certezza che ormai la
odiassero.
Non
le importava granché perdere l'amicizia di persone prive
della capacità di difendere perfino la loro
dignità come Iris o Catlina, meritevoli solo di estrema
derisione (e anche soprannomi che evidenzino i le loro umilianti
mancanze).
Aveva
promesso di esserne amica, ma stava cominciando a trovarlo piuttosto
stancante.
L'unica
cosa che ebbe da ridire su Camilla fu invece quanto fosse stata
divertente (e disgustoso, pensandoci bene) vedere la faccia che la
bionda aveva fatto quando tranquillamente le aveva dato della
verginella pedofila.
A
quel punto Camelia fu certa solo di una cosa: lei era una ragazza
decisamente sola.
Aveva
sempre considerato l'essere senza una famiglia decente, degli amici
veri o una relazione stabile come conseguenze del suo ego smisurato,
come dettagli a cui poteva fare benissimo a meno.
Ma
ultimamente era tutto come nuovo per lei. Quell'estate la stava
cambiando.
Era
cambiato tutto a partire, andando a ritroso, dal suo orientamento
sessuale.
«Sei
venuta qui, in questa periferia abbandonata e squallida, tutta da sola
perché volevi ubriacarti o farti di cocaina o prendere
pasticche?»
Dopo
un breve silenzio, Ottaviano le pose tale quesito, conciso e dritto al
punto.
Nella
sua voce un denso alone di convinzione.
«Assolutamente
no! Non farei mai cose del genere!»
Camelia
non gli lasciò neppure il tempo di fare altre supposizioni
meno macabre cotanto prontamente gli aveva risposto. Almeno su questo
era stata onesta.
«Sono
qui perché volevo riflettere, ma non sembro trarre nessuna
conclusione da sola...»
Il
semplice rispondere sinceramente riusciva ad infondere nella mora una
grande fiducia nei suoi valori morali che le sembravano stati sciupati
dall'incomprensione.
«Te
la senti di parlarne? Sembra affliggerti pesantemente, se non riesci
più ad essere te stessa.»
Le
chiese Ottaviano, posandole una delle sue forte mani sulla spalla nuda.
«Non
penso tu mi voglia ascoltare... So che noi ragazze siamo più
sopportabili finché stiamo zitte.»
Decise
di metterla sul ridere. Ma si rese conto dopo poco che quel "noi
ragazze" era una specie di plurale maiestatis per il suo nome e cognome.
«Voi
ragazze vi sentite non mai sole, a trattenere tutti i vostri dolori e
le vostre emozioni per rendervi, come dici tu, sopportabili?»
L'uomo
le parlò dolcemente, come se lei fosse stata sua figlia.
La
fanciulla dagli occhi azzurri annuì, senza cercare di sviare
o di celare ciò che era veramente.
Lei
era sola, non molto diversa dalle bambine orfane che vivono in quella
periferia, quelle che guardano con occhietti astiosi le giovane coppie
benestanti e le famiglie felici con un'insaziabile sete di amore e
compassione. Tuttavia esibì un mezzo sorriso totalmente
spontaneo.
«Certo.
Io non ho nessuno, se non me stessa e il mio sarcasmo. Lo so bene.
È
questa la fossa che mi sono scavata da sola.»
Fece
una pausa, poi riprese il suo discorso.
«Mi
aveva detto che mi amava e non era vero, mi aveva detto che gli sarei
mancata e non era vero, che sarebbe tornato, che gli piacevo
così come sono, che ero l'unica per lui...
Sono
tutte bugie.
Io
ci ho creduto invece, sono stata stupida. Non capiterà
più che mi faccia fregare da chi amo.»
Camelia
non sapeva più a chi si stessero riferendo le sue frasi; a
lei, al suo ex-fidanzato, ai suoi ammiratori, a quella persona che
tanto odiava, non sapeva spiegarselo.
Sapeva
però che in quella catena di sicurezza che si era forgiata
sopra le sue ferite c'era un anello debole che ancora si conficcava
nelle sue viscere più sensibili e la faceva vacillare.
La
giovane e bellissima fanciulla si alzò in piedi, elevandosi
sui suoi tacchi alti, squadrando l'uomo dall'alto al basso, alzando il
tono della voce.
«Ma
in fondo sono stanca di piangere e poi fingere e fuggire.
Sono
stanca di tutte le storie d'amore cliché.
Voglio
qualcuno che sappia amarmi sinceramente...
...È
possibile che l'unica a riuscirci con me sia stata una
ragazza?!»
Ad
entrambe le due persone così estranee sembrò che
in quella stretta calle dove neppure il vento poteva muovere una foglia
e gli unici rumori che si sentivano erano suoni che provenivano da
lontano, fosse calato ancor più silenzio, come se il cosmo
si fosse indispettito al sentir le parole della ragazza mora
pronunciate ad alta voce e non più imprigionate nel suo
subconscio.
«Quindi
ti sei innamorata?»
Le
domandò Ottaviano, ancora seduto ad ammirarle le gambe
snelle.
In
quel momento, Camelia si sentì sollevata da un peso, ed
annuì compiaciuta dell'intuizione corretta di costui. Era
stata chiara e concisa nel suo discorso, aveva tolto una delle spine
più dolorose con una sola frase.
«Sì.
E la ragazza che mi piace è anche lei interessata alle
femmine.»
Decise
di enfatizzare come fosse stata una del suo stesso sesso a conquistare
il suo cuore e non un ragazzaccio dal fisico pompato tutto fumo e
niente sostanza.
«Sei
molto fortunata, Camelia, - le fece presente l'uomo - da come ne hai
parlato deve trattarsi di una ragazza fantastica.»
«Eccome
se lo è. È sempre così dolce e gentile
con tutti, non è in grado di detestare nessuno.
Anche
se spesso la offendo e la prendo in giro, lei è sempre
lì con me quando ne ho bisogno, ascolta tutto quello che le
dico e non è un'ipocrita o una bugiarda... - lei
sospirò - Almeno spero.
Ieri
sera ci siamo baciate per la prima volta, ma non ho idea se anche lei
stesse facendo sul serio.»
«Cosa
intendi?» Ottaviano si alzò in piedi e le si
avvicinò con cautela, senza neanche sfiorarla.
Per
ora nessuno dei suoi figli aveva avuto quegli stessi intricati problemi
amorosi, gli parve leggermente inusuale che un'adolescente tenesse
discorsi su temi delicati ed imbarazzanti come la propria
sessualità così apertamente, quella ragazza non
doveva mai aver sperimentato in che cosa consistesse il clima di una
vera famiglia, il costante nascondere le cose, molto probabilmente.
Eppure
interpretò ciò come un'evoluzione, una visione
più moderna ed elastica dell'amore.
C'era
davvero bisogno di nascondere una cosa così bella e
meravigliosa come l'amore in una sviluppata società
contemporanea?
«Ho
paura. - con un lieve gesto della mano, la ragazza richiamò
a sé la sua piccola Emolga, che durante quella noiosa
conversazione si era distratta andando ad osservare quei vicoli strani
ed inquietanti più da vicino, come un cucciolo che vede
com'è fatto il mondo vero per la prima volta - Ho paura di
essere rifiutata da lei.
Fin
da quando ero bambina ho sempre avuto il terrore morboso che le persone
mi avrebbero abbandonata se non avessi soddisfatto le loro aspettative.
E
se peggio, facesse solo finta di ricambiare i miei sentimenti, questo
non riuscirei a perdonarglielo. Mi fa male, lo ammetto, ma non mi va
che anche questa storia finisca male per me...»
Camelia
non se ne era certo dimenticata fino a quel momento.
Aveva
pensato tutto il tempo alla rossa, le sembrava quasi di vederla
sorriderle in mezzo alle lacrime, voleva immaginarsela mentre le
sussurrava che andava tutto bene, che c'era lei e non doveva
più aver paura di nulla, le veniva voglia di scacciarla via
in modo che smettesse di perseguitarla e poi richiamarla indietro come
aveva fatto quando aveva finto di esserle ostile pur di mantenerla
accanto a sé nella competizione.
Rimpianse
di non averle parlato quella mattina, ma non le era stata lasciata
scelta.
«Saresti
disposta a fare qualsiasi cosa per lei, giusto?» Le
domandò ancora l'uomo.
«...
Sì. Più o meno. - lei si interruppe perplessa,
per poi proseguire spedita, una volta che la motivazione perfetta le
era venuta in mente - Questa mattina mi sono presa la colpa al posto
suo per una storia che non sto a raccontarti, ed è per
questo che sono qui, ora.
Quella
ragazza mi fa impazzire, non sono più me stessa quando
è lì con me.»
Non
era un esempio magistrale di altruismo, ma alla fiera modella non venne
in mente nulla di meglio per dimostrare di non essere un'egoista
completa anche se sapeva bene di esserlo.
L'uomo
annuì, sorridendole caldamente.
«Di
sicuro non sei il genere di ragazza che vuole una storia d'amore solo
per passare il tempo.»
«Non
voglio un amore mediocre; voglio l'amore più brillante di
sempre.»
Questa
semplice affermazione fece sorridere Camelia con una naturalezza che
aveva creduto di aver perso per sempre, ma che nessuna fotocamera
avrebbe mai potuto catturare.
Ottaviano
le prese la mano dalle esili dita coperte da una raffinatissima
manicure, e la guardò negli occhi, contornati da un make-up
a dir poco professionale e dal loro colore della rugiada.
«Credo
- cominciò lui - che tu debba forse iniziare a separare la
tua carriera di idol e Allenatrice dalla tua vita privata. Scommetto
che la tua bellezza non appassirebbe se per due minuti non ti trovi
sotto un riflettore o davanti ad una videocamera. Sei umana anche tu,
sai?
Capisco
ti posa spaventare il giudizio altrui, ma ci tieni davvero all'amore di
qualcuno incapace di vedere la tua bellezza interiore? Penso che sia
questo che ti faccia provare senso di solitudine.
Invece
di "correre" come un allenatore che cerca di catturare un
Pokémon selvatico fuori dalla sua portata, perché
non aspetti semplicemente che colei che ti ha rubato il cuore non venga
da te spontaneamente?
Hai
molto da offrire come ragazza, cose che vanno ben oltre la tua bellezza
ed... il tuo seno.
Parlando
da padre di due figli, ciò che hai passato di brutto deve
fortificarti, non traumatizzarti.
È
la tua chance per catturare l'attenzione di questa persona.»
Dopo
quel profondo sermone che la mora non poté permettersi di
ignorare e da cui aveva ritagliato molte risposte ai suoi dilemmi
precedenti che ora le parevano più insulsi che mai, la
Capopalestra di Sciroccopoli scoppiò in una risata leggera,
coprendosi le labbra con la mano.
«In
parole povere, stai per caso dicendo che dovrei dichiararmi io per
prima?»
Ancora
Ottaviano le fece presente il suo consenso scuotendo il capo, come un
generale da con assoluta austerità il segnale alle sue
truppe per cominciare la battaglia.
Camelia
si concesse cinque minuti per riflettere a tu per tu con i suoi
sentimenti, senza cercare di trovare scuse per giustificare la fobia
che aveva serbato in primo luogo.
Notò
che ora lei ed Ottaviano stavano camminando a ritroso, ripercorrendo la
strada che prima aveva intrapreso in stato di incoscienza, questa volta
conoscendo bene ogni passo.
Aveva
adorato come la notte precedente Anemone le avesse accarezzato e
massaggiato i seni con le mani ed avesse accolto il suo bacio con
così tanta passione.
Ma
più di ciò le era rimasto impresso come un segno
sul cuore come la tenera ragazza dai capelli rosso fragola le avesse
dichiarato di amarla veramente, come aveva sempre sognato.
Ottaviano
aveva senza dubbio ragione sulla pericolosità dell'amore
dittatoriale con cui Camelia avrebbe voluto provare a soggiogarla, come
mettendole una catena al collo per farle chinare la testa ad ogni
movimento o parola sbagliata, mossa da tutta quella paura di essere
imbrogliata ed abbandonata.
Eppure
lei ed Anemone, senza contare gli inutili fronzoli come i ruoli
sociali, avevano la stessa età, la stessa passione, la
stessa altezza e conformazione fisica e perfino la stessa taglia di
reggiseno: era un disegno delle stelle che fra di loro intercorresse un
rapporto di assoluta parità.
E
di conseguenza, se la mora avesse rinunciato a costruire quella catena
in cui ogni anello era rappresentato da una bugia e da una debolezza e
che una volta spezzatosi avrebbe permesso alla sua sfortunata amante di
scappare via lontano da lei, una porta si sarebbe aperta, e da
lì avrebbe potuto scorgere un assaggio di futuro per la sua
relazione ancora agli embrioni.
Anemone
non era una stella del cinema o della televisione, non aveva senso
mentirle o temere di udire solamente menzogne uscire dalle sue labbra;
nessuno doveva mettere un voto per giudicare il loro affetto reciproco.
Prima
di sentirsi dire cosa fosse sbagliato, Camelia avrebbe voluto sentire
che cosa fosse l'amore.
Nessuno
glielo avrebbe potuto spiegare meglio dell'intuizione che aveva avuto
dalle parole di Ottaviano, che aveva teorizzato un concetto talmente
complicato da aver tenuto impegnati filosofi e sociologi per secoli e
secoli.
Finalmente
dai fatiscenti edifici in cartongesso sporcati dai murales, uno scorcio
del mondo civilizzato si riusciva ad intravedere, mentre il sole
pomeridiano continuava ad abbrustolire il cemento della parte
più esterna della città del centro Unima.
«Mi
hai convinta. - prima di proseguire il discorso, Camelia si
assicurò di lasciar andare la mano de giovane uomo, che per
qualche motivo aveva tenuto stretta alla sua per tutto il tragitto come
una figlia intimorita all'idea di perdersi in un mondo grande e
tremendo e sopratutto di separarsi dal suo papà -
Parlerò con la ragazza che mi piace stasera. Le
cercherò di spiegare cosa provo per lei.
Quindi…
avrei bisogno di un passaggio fino a Ponentopoli, non è che
potresti accompagnarmi o chiamarmi un taxi per favore...?
Ah,
e voglio che quelle tre sfigate delle mie compagne vengano con me, ho
bisogno di un po' di pubblico...»
La
modella cercò di disegnarsi sul viso l'espressione
più carina ed innocente che possedeva, per stuzzicare la
fantasia di costui che era visto come puro e casto per paura della sua
stessa moglie.
Ottaviano,
dopo aver gentilmente provato a sistemare la questione del passaggio
cercando di non cedere alle lusinghe di una ragazza più
giovane di lui di almeno quindici anni per mantenere la sua
virilità intatta, fallì miseramente e fece cenno
alla giovane di seguirlo.
Tutte
quelle volte in cui aveva ripetuto a Camelia di essere bella non lo
aveva fatto per adularla o confortarla per pietà: trovava
quell'adolescente molto affascinante, dai capelli lisci nero fulgido
alla caratteristica frangetta leggermente sudata, il volto che
nonostante la pluralità di sentimenti che la giovane gli
aveva mostrato era perennemente segnato da uno sguardo orgoglioso e
provocante e i vestiti alla moda che indossava risultavano quasi
trasparenti nel nasconderle le curve del corpo.
«Posso
chiedere a mia moglie di trasferire uno dei Pokémon che
conosca la mossa Volo, così dovresti essere a Ponentopoli
prima che faccia buio...»
Sebbene
Camelia indossasse quel paia di costosi occhiali scurissimi, l'uomo si
accorse che aveva lo sguardo perso, con probabilità stava
pensando ad altro.
«Ottaviano.»
Dopo un po' la ragazza mora attirò con una dolcezza suadente
la sua attenzione.
L'uomo
si trovò catturato dal leggero sorriso che esibì,
non poté non trovarlo irresistibile.
«Sei
proprio un ottimo padre. Sono sicura che tua figlia non avrà
mai i miei stessi problemi.»
Le
rivolse un ultimo saluto con la mano in modo piuttosto distaccato, come
un generale che durante una celebrazione per la vittoria premia un suo
soldato per l'audacia ed arguzia dimostrata sul campo di battaglia.
Camelia
intanto ripensò a se stessa, e facendo ciò le
venne in mente la sua Anemone con un riflesso spontaneo. Non vedeva
l'ora di vederla, di confessarle cosa provava per lei.
Se
la sera prima le aveva offerto una camelia bianca ripetendole quanto
fosse bella nella sua particolarità, ora aveva bisogno che
lei sapesse quanto la desiderasse con il cuore, ricordandosi che il
giallo era anche il colore del suo kimono.
La
camelia rossa le sarebbe servita solo in un futuro lontano.
❁
Se
la rossa avesse potuto conoscere tutti i tormenti e le realizzazioni
che la sua compagna aveva vissuto parallelamente a lei quel giorno, di
sicuro si sarebbe riuscita a spiegare quel sentimento che stava
risiedendo in lei da quando aveva lasciato la dimora del Campione per
dirigersi nella sua città per punizione.
Di
certo non era ne' tristezza ne' rimorso. Anemone conosceva bene
entrambe quelle emozioni, aveva appreso gli effetti che portano
all'animo, e lei non li percepiva in quel momento: anche se le avessero
dato la possibilità di tornare indietro nel tempo non
avrebbe cambiato le sue azioni e non sentiva neppure il bisogno
impellente di scusarsi per esse.
L'unico
effetto che riscontrava su di sé era una specie di forte
disattenzione, cosa che un'aspirante aviatrice non poteva mai
permettersi: la ragazza si sforzò di concentrarsi sul suo
lavoro a testa bassa. Dopotutto aveva scelto lei di auto-punirsi in
quel modo.
Eppure
la giovane dagli occhi azzurri non riusciva a togliersi dalla testa
quelle odiose parole, quegli insulti indiretti verso la sua
dignità che Camilla le aveva rivolto con quel tono
eccessivamente compassionevole, abbastanza da darle quasi il
voltastomaco.
A
partire da quel "mia cara", a finire con il "sii sincera, per favore".
Sapeva
benissimo dì non essere la prediletta della leader (se le
avessero chiesto di identificane una nel loro gruppo avrebbe citato
Iris come prima ed ultima della lista), e come se non bastasse le era
stata propinata una versione dei fatti totalmente scostante dalle sue
accuse, secondo cui lei aveva agito per puro buonismo e non per
responsabilità.
Anemone
si ricordò che quella non era la prima volta in cui veniva
trattata dagli altri con estremo compatimento delle sue intenzioni,
come se la sua persona non meritasse di trarre alcun vantaggio da
nulla, come se lei dovesse sempre usare la propria schiena per
proteggere il prossimo dai colpi di una spada.
E
ultimamente quella situazione l'aveva seriamente stancata,
nonché umiliata pesantemente.
Non
era quello l'ideale di donna a cui aspirava, non voleva trasformarsi
nella sottomessa figura femminile della storia antica e nella donzella
in pericolo dei miti medievali.
Anemone
aveva sempre nel cuore l'ideale di vivere come una ragazza moderna,
fautrice del suo destino.
Era
questa la possibilità che il destino le aveva messo davanti
una volta entrata nella competizione, ma nel frattempo il termine
"moderno" si era snaturato da solo, perdendo la sua romantica
connotazione e trasformandosi in qualcosa di più attuale e
concreto, una specie di "contemporaneo" con i piedi per terra, che non
spiega ali immaginarie verso orizzonti irraggiungibili.
E
ciò aveva lasciato la rossa totalmente spiazzata, visto che
le ragazze contemporanee non riparino i motori degli aerei sporcandosi
di olio e fumo come faceva lei pure in quel momento e le ragazze
contemporanee non devono lavorare perché spinte
dall'indigenza e dalle pressioni della loro famiglia e sopratutto non
si fanno sgridare a quasi diciott'anni per aver fatto ritardo la sera o
per non aver riordinato la propria stanza.
Tuttavia
Anemone non odiava il suo lavoro e non lo considerava umiliante, visto
che alla fine la paga le permetteva sempre e comunque di comprare
qualche manga a fine mese o un vestito nuovo ogni tanto. Ma
rabbrividiva al pensiero di dover analizzare la sua situazione con gli
occhi di una sua coetanea abituata ad avere un guardaroba alla moda, a
truccarsi ogni giorno ed avere per la testa un unico e cardinale
pensiero, ossia i ragazzi.
Mentre
questi pensieri annebbiavano la mente della giovane, questa non si
accorse di aver allentato troppo le valvole che azionavano il nastro
nei rotori del cargo a cui stava lavorando da qualche decina di minuti
e che di conseguenza il motore aveva azionato le lamine che innestavano
la combustione interna per far attivare i motori, tutto questo senza
volerlo.
Anemone
si spostò immediatamente non appena vide che il rotore stava
per tranciarle la mano destra appoggiata pigramente sul nastro, usando
le lamine circolari dei freni a disco come seghe circolari.
La
ragazza si osservò il polso, scettica, staccandosi un attimo
dalle sue riparazioni.
"Anemone,
hai perso la mano destra? Guarda che non te ne comprerò una
nuova..."
Imitò
nella sua testa la voce di suo nonno.
Decise
definitivamente di prendersi una pausa, dato che a lavorare a vuoto e
male ci avrebbero rimesso solo lei ed il suo salario.
Forse
le sembrò chiaro come il sole che sentimento stesse provando.
Si
domandò ancora che senso avesse che le venissero affidate le
responsabilità di una ragazza di diciassette anni se poi era
ancora necessario che la trattassero come una bambina di sette.
Era
veramente necessario essere rimproverata per qualsiasi cosa alla sua
età?
La
giovane pilota aveva decretato di aver vissuto abbastanza per fare le
sue scelte, e molte di quelle scelte sarebbero andate ad influenzare la
sua vita futura in maniera indelebile.
Ormai
non poteva più scegliere che cosa fare da grande, come da
piccola sognava fare, ma le rimanevano un sacco di altre decisioni da
fare in campo privato, quelle erano molto più interessanti
di quelle da fare sul piano sociale.
Non
le andava di copiare quelle degli altri, delle altre sue coetanee. Lei
era lei.
Decide
di non negare l'evidenza a sé stessa, negare l'ovvio alla
persona che per forza di cose doveva conoscerla meglio di chiunque
altro: lei era diversa, differente.
E
tutta quella libertà che la regione ed il mondo sembrava
garantire le sembrò tutt'un tratto fasulla, un'illusione
vera e propria: se lei aveva la libertà di essere se stessa,
gli altri, reso ormai sinonimo di "nemici", avevano altrettanta
libertà e approvazione nel disprezzarla e nel ridicolizzarla.
Allora,
alzando gli occhi al cielo grigio di quel giorno coperto di nuvole
spesse come gomitoli di ovatta, sentendo il cuore stringersi dentro la
scatola toracica, ad Anemone sorse un forte dubbio, che ingigantendosi
sempre più nella sua mente si trasformò in paura
concreta.
Inconsciamente
dilatò le pupille e si appoggiò al muro,
scivolando con la schiena fino a sedersi a terra, come le gambe non
reggessero più il peso del suo corpo.
Anemone
sentì un baratro aprirsi sotto i suoi piedi, ma questa volta
era diverso.
Avrebbe
preferito qualsiasi cosa all'avverarsi del presagio che aveva appena
avuto.
L'uccellino
che ormai era associato a lei ora stava cadendo, con le ali legate,
all'interno di un'oscura e profonda voragine, scagliato giù
dai suoi simili come un arcangelo ribelle.
Molte
altre volte alla fanciulla dai capelli rossi era sembrato di star
precipitando nella tristezza e nell'incomprensione, ma tutte le volte
sapeva che il burrone che apparentemente sembrava infinito in
realtà aveva un fondo, una fine, e anche se lo avesse dovuto
raggiungere con un impatto tale da fratturarle tutte le ossa, il suo
uccellino giungeva al culmine, poteva dire "non può andare
peggio di così", e poi ricominciare a stento a volare verso
la luce.
Ma
come già aveva percepito, la fanciulla concepì
che quel baratro non sarebbe terminato presto, forse non sarebbe
terminato mai: il suo piccolo uccellino allora sarebbe precipitato in
eterno, senza trovare mai attimo di pace per osservare a che punto
è arrivato, cosa ne è stato della sua vita mentre
esso veniva inghiottito dalle fauci delle tenebre e della disperazione.
E
tutto questo sarebbe stato perché quell'uccellino era
diverso.
Il
suo piumaggio era diverso. La sua voce era diversa. I suoi occhi erano
diversi.
E
aveva osato sfidare Dio, e le leggi della natura.
«Sono
sicura che Camelia non ha i miei problemi...
...Ma
di certo saprebbe come aiutarmi... Vorrei che fosse qui più
di ogni altra cosa.»
Tutt'un
tratto un suono si disperse nell'aria.
Alla
tormentata ragazza parve familiare, non era però associabile
ai forti rumori che fanno gli aeroplani, anche se suonava comunque come
un qualcosa di elettronico.
Le
sembrò anche che la grigia giornata si fosse illuminata per
un nano-secondo, un biancore improvviso come un fulmine che squarcia il
cielo notturno.
Andando
a scavare nella sua esperienza, Anemone non poté evitare di
associare quel suono ad un ricordo, visto che come ci è
noto, la mente di quella ragazza lavorava per associazione di concetti
e idee a tal punto da aver marcato la netta distinzione dei suoi
pensieri fra dolci memorie ed orribili traumi in maniera irreversibile.
Da
qualche tempo infatti, nella regione di Unima era esplosa la moda degli
autoscatti.
Era
una cosa sciocca, vana e andando a mettere le dita nella piaga,
piuttosto narcisista, lo sapeva.
Ma
per la povera sfortunata fanciulla, un minimo briciolo di concesso
narcisismo ed egocentrismo velato rappresentava un vero e proprio lusso.
E
quello di premere un pulsante di fronte ad uno schermo di dieci pollici
o poco più sarebbe stato l'ennesimo lusso a cui avrebbe
dovuto rinunciare, avendo lei ridotto il suo precedente telefonino ad
un cadavere elettronico privato dell'anima funzionale, dopo essere
stato scaraventato a terra senza neppure una vera ragione.
Ma
nulla di tutto ciò accadde davvero; per l'ennesima volta la
rossa ebbe prova che in quel microcosmo in cui era entrata da qualche
mese, cose come l'indifferenza non esistevano.
L'ultima
cosa che si sarebbe mai aspettata era successa quando la sua cara Iris
(e dunque non di Camilla, vedendola sotto quest'ottica) le aveva
proposto di sua volontà una foto insieme, per poi finire a
farne e rifarne altre mille perché ogni singolo scatto aveva
qualcosa che non andava.
Era
un ricordo felice, che Anemone riportò a galla con una certa
pace nell'animo.
Si
voltò subito verso l'alto, ritrovandosi d'improvviso
abbagliata e stordita da una luce artificiale che doveva essere un
flash, prima di udire ancora, ancora quel suono: si trattava in
conclusione di una fotocamera di cellulare. Che doveva aver fotografato
lei.
La
ragazza aveva sviluppato negli anni certi riflessi che le venivano
quasi automatici, occhio vigile e sensibile al movimento anche di
oggetti distanti, e un preciso ordine mentale nell'agire e dotandosi di
tutti questi elementi messi insieme, più la stizza con la
quale si ritrovava a passare la giornata, la ragazza partì
senza bisogno di ulteriori indugi all'inseguimento di quel guardone non
identificato: sbottonando i primi bottoni della camicia estrasse la
Pokéball del suo Pokémon più veloce,
sebbene la differenza di essa fra i vari esemplari del suo team fosse
minima.
Scoprì
come fosse effettivamente utile usare il proprio seno per trasportare
oggetti, nonostante il suo iniziale essere restia a questo ingegnoso
trucchetto insegnatole da Camilla e Camelia.
In
lontananza, con le orecchie tappate dal vento e dall'altitudine, ad
Anemone parve di sentire colui che l'aveva fotografata gridare qualcosa
sulle linee di "no, si è accorta" con l'aggiunta di una
qualche imprecazione.
Volle
aumentare la velocità per raggiungerlo e fermare la sua
fuga, ansiosa come non mai di fargli fare un salto da dieci o venti
metri d'altezza, spinta com'era dalla rabbia e dalla confusione.
Che
bisogno c'era di fotografare una come lei? Cosa aveva lei, una comune
ragazza ne' bella ne' eccezionale, ne' meritevole di essere ritratto in
una foto?
Sebbene
la femminilità non fosse certamente uno dei suoi principali
attributi, Anemone non avrebbe mai creduto a tutte quelle malelingue e
alle stupide voci di corridoio che l'avrebbero definita un maschiaccio.
Man
mano che la distanza fra di lei e il suo personalissimo paparazzo si
accorciava, riuscì a proiettare nella sua mente un'immagine
chiara del perché il suo obiettivo fuggisse così
velocemente costringendola a sudare freddo pur di stargli alle calcagna.
Costui
volava su di un esemplare piuttosto particolare di Garchomp che si
differenziava da quello della sua leader per il colore più
luccicante e scuro delle squame, doveva trattarsi di un esemplare raro:
la giovane dai capelli cremisi non si diede per vinta e appena gli fu
alle costole ordinò al suo Swanna di usare la nuova mossa
che gli aveva insegnato.
«Swanna,
usa Geloraggio!»
E
si sentì un po' sciocca ad essersi accorta di quanto fosse
inutile una mossa come Pioggiadanza per un tipo Volante ed Acqua solo
dopo aver sperimentato una lotta a dir poco catastrofica.
La
mossa andò a segno, congelando la parte posteriore del corpo
del possente Pokémon Drago.
Non
ci volle molto perché accadesse ciò che doveva
accadere: gli aerei cadono sempre o di muso o di coda, detto
gergalmente.
Mentre
quel losco individuo e fotografo dilettante fu obbligato ad arrendersi
nella sua fuga e dunque a rallentare bruscamente, disperdendo nell'aere
qualche insulto rivolto a nessuno in particolare, la rossa gli si
parò davanti, pronta a non permettergli in nessun modo di
passarla liscia.
«Chi
cavolo sei? E perché mi stavi fotografando?! Cancella subito
tutte le foto che mi hai fatto, tutte!»
Anemone
si degnò per un attimo di osservare quel il suo dannato
stalker: non trovò una piega che non combaciasse con le sue
basse, bassissime aspettative, come previsto.
Un
ragazzo che non doveva avere ne' dimostrava più
dell'età di Iris, con quella folta cresta di capelli
arancio-rosso sulla testa lo avrebbe definito senza dubbio uno "yankii".
Portava
una collana di Pokéball al collo, provando di essere lui
l'Allenatore di Garchomp.
Per
com'era vestito non lo avrebbe di certo considerato uno di quei ragazzi
ossessionati dalla moda, aveva perfino meno stile di lei.
«Che
te ne frega di chi sono, - la rossa per fortuna non si era aspettata
che costui compensasse la mancanza di bellezza fisica con la
profondità mentale - e comunque, perché non
dovrei fotografarti?
Sei
la ragazza più sexy che abbia mai visto.»
All'ultima
frase estrasse dalla tasca un telefonino dallo schermo enorme dove
figurava niente meno che lei in una posa involontaria, piegata in
avanti intenta ad operare dentro il cofano di un aereo mentre i
pantaloni le aderivano perfettamente al sedere.
«Spero
tu stia scherzando.»
La
ragazza si trovò così sconvolta che non
riuscì a premeditare alcuna risposta a tono.
«Beh,
non credo che una persona normale si farebbe fare un'abbronzatura a
olio completa o si colorerebbe i capelli di un colore così
eccentrico e che poi si metta vestiti stretti solo perché le
mettono in risalto le tette e il fondoschiena, dai... O sei un'idol o
sei una modella...»
Ma
il ragazzo dai capelli arancioni non fece in tempo a terminare la frase
che la rossa gli assestò un sonoro ceffone sulla faccia
facendo risuonare e riecheggiare il suono ovattato della sberla tesa,
non giurò di essersi trattenuta la potenza che aveva
riservata nelle sue forti mani.
«Che
pervertito, non sai quanto mi fai schifo!»
E
lo schiaffeggiò un'altra volta, più forte di
prima, sempre sulla stessa guancia.
Nessuno,
nessuno l'aveva mai presa in giro così spudoratamente da
meritarsi lo sfogo più drastico della sua ira, avrebbe
preferito farsi sputare in faccia ad un così metodico e
paradossale insulto.
L'unica
cosa che desiderava ancora nella sua euforica e perfetta vendetta era
che gli uscisse pure il sangue dal naso a quel verme.
Eppure
quella parte di lei che le legava sempre le mani in situazioni in cui
l'istinto più grottesco cercava di prevalere la
portò a ritornare sui suoi passi: dopo qualche secondo di
riflessione Anemone comprese di non aver colto il significato latente
di quelle parole.
Qualcuno
l'aveva quasi paragonata ad una modella con schietta onestà,
e lei lo aveva ripagato con la violenza più bruta e scortese
possibile, la violenza fatta a persone innocenti, quella che lei tanto
diceva di disprezzare più di ogni altra cosa.
Non
aveva preso a schiaffi nessuna delle numerose persone che finora
avevano scambiato il rosso dei suoi capelli per una volgare tinta,
perché aveva sentito il bisogno di cominciare proprio in
quel momento?
«Scusa,
scusa, scusa, scusami, mi sono lasciata prendere dalla rabbia, non
volevo farti del male, intendo, non credevo di farti così
tanto male... Scusami, ti prego!»
Parlando
tanto velocemente da far sembrare la frase uno scioglilingua, Anemone
abbassò ripetutamente il capo con gli occhi stretti nelle
palpebre, in preda al più totale imbarazzo.
«Diamine,
picchi forte per essere una femmina... - il ragazzo dalla cresta da
ribelle si massaggiò la guancia pulsante dal dolore - il mio
era un complimento comunque, ma qualcuno qui sembra non saper capire il
sarcasmo...»
«E
qualcun altro il concetto di "violazione della privacy", - ma alla
rossa importava poco o niente se un pervertito le avesse anche detto di
essere bella - sta di fatto che se non cancelli tutte le fotografie che
mi hai scattato il cellulare rotto sarà l'ultima cosa di cui
dovrai preoccuparti.»
"Di
cui anche tu dovresti preoccuparti", le rinfacciò la
reminiscenza di aver già fatto schiantare un telefonino al
suolo in preda alla rabbia.
Il
ragazzo la guardò bieco, pronto a giocare il suo asso nella
manica, per prendersi gioco di lei.
«E
cosa pensi di dire al Campione Nardo una volta che lo avrai fatto,
"Nardo ho ammazzato tuo nipote perché ha osato guardare con
spiccato interesse le mie deliziose curve?"»
Dopo
che costui ebbe imitato il tono di un saccente specialista in materia,
la giovane dai capelli cremisi lo stette a guardare in silenzio,
mordendosi il labbro sia per la frustrazione che l'impotenza di non
poterlo atterrare con un bel manrovescio.
«Così
sei il nipote di Nardo...» Asserì a denti stretti.
«Esatto,
nipote a tutti gli effetti, il mio nome è Fedio e alleno
Pokémon da quasi dieci anni.»
Cominciò
a parlare il ragazzetto, come se l'incidente avvenuto in precedenza non
fosse stato altro che un malinteso facilmente trascurabile.
«Ah.
- Se ci teneva a rimanere fino alla fine della competizione, Anemone si
disse che avrebbe fatto meglio a non torcergli neppure un capello,
neppure per sbaglio - E... Perché sei qui?»
Continuò
a domandargli con tono apatico, come se tutti gli insulti che aveva
premeditato le si fossero seccati in gola.
Allora
Fedio la guardò negli occhi tutto sommato sorridendo,
sistemandosi in posizione più comoda sul dorso del suo
Garchomp.
«Avevo
bisogno di una pausa, per rinfrescarmi le idee dopo tutti i casini che
stanno succedendo ad Unima, ultimamente. Ogni tanto vengo qui in mezzo
al cielo per starmene in pace lontano da tutto quel macello che mi
aspetta giù a terra, tipo la scuola, mia sorella, i
miei...»
La
rossa non gli poté dar torto: anche lei considerava spesso
l'opzione di staccare la spina dai problemi quotidiani per purificare
corpo e spirito nell'aria fresca e pulita, attorniata da soffici nuvole
e accarezzata dalla brezza leggera.
«Non
so se lo sai, e se non lo sai sei proprio fuori, ma negli ultimi mesi
tutta Unima non fa che parlare del ritiro di mio nonno Nardo dalla
carica di Campione e della genialata che ha pensato per farsi
sostituire...»
A
questo punto il ragazzo si fece serio.
«Ha
scelto completamente a caso cinque ochette incapaci di lottare,
totalmente senza cervello ma con tette e sedere da record, tra cui ne
sceglierà una che diventi Campionessa...
Che
stupidata, non credi?
Normalmente
non avrei nulla contro delle ragazze con le loro doti in bella mostra,
basta che pensi alla Campionessa di Sinnoh o alla modella che
è diventata Capopalestra...
Ma,
in qualità di legittimo nipote primogenito dell'ex-Campione,
allenato per quasi dieci anni e che ha sfidato più volte la
Lega, il titolo lo avrei ereditato io, mi spettava legittimamente...
Certo
che a volte la vita è ingiusta, ti ritrovi con il niente in
mano solo perché delle stupide femmine munite di tette e
Pokéball sanno da che lato prendere i potenti... Che
ingiustizia...»
Fedio
finì di parlare, scuotendo la testa in assenso, cercando
forse di eliminare quel pensiero dalla sua testa.
«Oh,
mi dispiace...»
Intanto
Anemone si sentì il quadruplo più colpevole di
prima, nascondendosi la bocca con la manica della camicia: si
trovò divisa fra due emozioni.
Da
un lato il potenziale avverarsi del suo sogno aveva distrutto ed
mandato in fumo il sogno di qualcun altro, dall'altro tutto
ciò era successo non secondo la sua volontà.
Il
fato aveva giocato al povero Fedio uno scherzo meschino, se suo nonno
non fosse stato un così esasperato estimatore della bellezza
femminile forse le cose sarebbero andate diversamente.
In
un certo senso riuscì a compatirlo e fu lì per
lì sul punto di consolarlo.
Quella
storia le ricordava quanto spesso a lei venivano negate cose che le
spettavano di diritto perché alcune entità venute
dal nulla se ne impadronivano senza alcun merito o discrezione.
Tuttavia
la giovane aviatrice si trovò ancora a dover cambiare idea,
riascoltando più attentamente le parole proferite da quella
specie di microbo sputasentenze.
«Scusa,
hai appena detto che le cinque Allenatrici che il Campione ha
selezionato come potenziali Campionesse sono stupide ed incapaci solo
perché sono femmine?!»
Gli
domandò, furiosa. Eccolo, eccolo il nome del sentimento che
dapprima provava: rabbia.
«...
Può darsi. Tette e cervello vanno d'accordo come Heatmor e
Durant, si dice.»
Rispose
lui, senza mezzi termini.
Rimase
a fissare divertito la mascella serrata della rossa, che stringeva i
denti come un'innocente martire sotto tortura mentre riceveva lunghe e
dolorose frustate alla sua dignità.
«Ecco
perché mi fai schifo. No, anzi. Mi fate schifo.»
E
nel culmine di quel tremendo sentimento represso, divenuto da rabbia a
furia, Anemone con una decisa spinta frontale del braccio
riuscì a spingere Fedio e lo divelse dal dorso del suo
Pokémon, dopo che lui ebbe emesso la sua, sperava, ultima
imprecazione contro il cosmo.
«Se
mi ammazzi Nardo ti spedirà a pulire pavimenti per il resto
della tua vita.»
«Lo
farò col sorriso sulle labbra!»
Infatti
il giovane perverso rimase aggrappato di fortuna all'ala di Garchomp,
sospeso sotto chissà quanti metri dal suolo: lo scenario
perfetto di un omicidio perfetto.
Prima
che costui potesse dire le sue ultime preghiere si trovò
piantati in pieno viso gli occhi azzurri di Anemone, che gli stavano
trucidando la coscienza.
Se
in quel momento avesse avuto l'ultimissima possibilità di
ricorreggersi su qualcosa, Fedio avrebbe aggiunto gli occhi alla lista
dei requisiti indispensabili per una donna perfetta, a parte seno e
fondoschiena.
«Voi,
tutti voi maschi mi fate schifo, mi fate schifo da sempre.
Siete
l'incarnazione dello schifo morale, comportamentale, filosofico e
sociologico della regione.
Pensi
di farmi meno pena sparando quattro insulti a caso solo per farti
più forte agli occhi di qualche stupida
gattamorta?»
«Ti
prego, non voglio morire!» La supplicò il ragazzo.
Anemone
fece cenno al suo Swanna di reggere con il becco quel peso morto
sostenendolo dalla sua preziosa collana di Pokéball. Non
voleva liberarsi finalmente di quella zavorra umana prima che non
avesse ascoltato tutto il suo discorso.
«A
me no, però. E neanche alle mie compagne. Noi siamo ancora
lucide. - La ragazza dai capelli cremisi scossi dal vento estivo
sorrise trionfante. - Abbiamo il futuro della regione nelle nostre
mani, noi femmine.
E
non per ragioni superficiali come dici tu, come la bellezza estetica,
ma perché abbiamo il coraggio di non omologarci alla vostra
visione distorta e perversa di donna-oggetto e di non piegarci a
novanta gradi per entrare nelle vostre simpatie.
E
guarda un po' chi è che il mese prossimo avrà la
possibilità di diventare la Campionessa e chi invece se ne
starà a guardare con la mano infilata nei pantaloni...
Dopo
tutto quello che mi avete detto e mi avete fatto...
Senza
di voi maschi il mondo sarebbe un posto migliore!»
E
fece cenno al suo Pokémon Cigno di mollare la presa.
Invece
di seguire con lo sguardo il corpo del giovane che mentre precipitava
inesorabilmente si trasformava in un puntino sempre più
lontano ed insignificante, Anemone tenne bloccato il capo in direzione
dell'orizzonte, quella linea immaginaria eppure tanto reale che
separava nettamente cielo e terra e al contempo li mescolava in un
unico elemento.
Quasi
le sorse l'istinto bambinesco di tentare di raggiungerlo, l'orizzonte.
Ma
ovviamente era solo un sogno represso, maledì Tolomeo per
aver ipotizzato un mondo senza confini, una banalissima sfera senza un
limite o un orizzonte da raggiungere.
La
giovane aviatrice però sentì di aver varcato un
confine non macroscopico, quanto una soglia interiore: prima di pensare
a cosa ci fosse dall'altro capo della Terra avrebbe dovuto preoccuparsi
di cosa esistesse al di là di lei stessa, delle sue
sensazioni, dei suoi ricordi.
Solo
lei non aveva mai visto di buon occhio gli uomini. Nessuna donna era
mai stata in grado di condividere la sua accanita, lo sapeva.
Quel
gesto simbolico che aveva appena compiuto, caricandolo di vivo pathos e
soprattutto, di tutti gli ideali che riservava nel suo inconscio. Tutte
quelle parole erano vere, erano la fede e la religione in cui la rossa
aveva sempre creduto.
E
quella ribellione, quel simbolico parricidio del genere maschile,
quell'insita furia rappresentavano il suo intervento attivo in quella
specie di guerra santa che combatteva da quando era piccola.
Ora
però non era più una bambina docile ed indifesa,
completamente aggiogata al pietismo degli altri. Ne era quasi certa.
Era
il ricordo a motivarla, Anemone non avrebbe mai, mai, mai fatto nulla
del genere, il suo cuore puro come le bianche ali di una colomba si era
intorpidito e tutto ciò che riaffiorava nel suo inconscio in
quegli istanti lo incancreniva ulteriormente, facendolo diventare color
nero come il petrolio.
"Vi
odio. Non vi perdonerò mai." La sua
anima fanciulla ancora gridava, esasperata.
Come
avrebbe potuto perdonare chi l'aveva umiliata rinfacciandole tutti i
suoi difetti e annichilendo i suoi pregi? Come avrebbe potuto ricordare
con un sorriso le violenze psicologiche e soprattutto quelle fisiche
che avevano stuprato la sua dignità trasformandola in un
ameba?
Anemone
provò a convincersi che per fortuna doveva essere tutto
finito.
Non
avrebbe rincontrato nemmeno per caso nessuno dei bambini che erano
all'orfanotrofio con lei e che inventavano ogni giorno nomignoli
dispregiativi spesso basati sul suo colore dei capelli o sulle
ramanzine che le rifilavano gli istitutori.
I
suoi compagni del liceo ora probabilmente lavoravano tutti per una
qualche famosa azienda come quella dei genitori di Catlina, tutti
immersi nella loro monocromatica normalità.
Non
aveva spiaccicato parola con nessuno dei suoi colleghi da quando era
stata assunta, quindi un problema si eliminava alla radice.
Anemone
strinse i pugni e chiuse gli occhi. Aveva fatto la cosa giusta?
Tutto
questo lo aveva per difendere lei stessa e le sue care compagne.
Era
la sua prima decisione da donna adulta e se ne compiacque.
«Hey.»
Sentì alle sue spalle.
Riconobbe
la voce, si voltò di scatto e si morse il labbro per la bile.
Si
pentì di aver lasciato cadere anche la collana contenente le
Pokéball, sarebbe bastato un grido per permettere ad almeno
uno dei Pokémon in grado di volare posseduto da quel ragazzo
di uscire automaticamente dalla sfera e salvarlo.
Fedio
la squadrò tutto contento, seduto su di un Dragonite
dall'insolito colore, come se avesse trovato il punto più
sensibile di una ragazza senza nemmeno conoscerne il nome.
Infatti,
lo aveva definitivamente trovato.
«Certo
che tu hai dei problemi. Problemi seri. Sul serio non ti piacciono i
maschi?» Chiese.
Quella
strana ragazza dai capelli rossi nascondeva qualcosa. Lui lo aveva
capito.
Era
una cosa ovvia, gli dispiaceva lasciarla crede ulteriormente di averlo
fregato.
Sarebbe
stato un insulto alla sua intelligenza di donna.
«Che
cosa strana, cavoli... Sei la prima lesbica che conosco, sono senza
parole...»
Dopo
quella scioccante rivelazione, perfino il vento d'altitudine si
acquietò, il silenzio proruppe.
La
giovane ragazza dagli occhi azzurri riuscì perfino a vedere
l'orizzonte sfumarsi e perdere nitidezza fino a sembrare sciolto, prima
di coprirsi gli occhi con i palmi delle mani.
Alla
malora, l'essere spogliata del tutto di fronte ad una trentina di
bambini e il vergognarsi di non avere abbastanza soldi per arrivare a
fine mese: quella lì sentì come la più
grande umiliazione della sua vita.
Non
solo quel Fedio aveva smontato tutta la sua perfetta apologia delle
virtù femminili, ma anche la sua filosofia di vita, il suo
modo di essere e perfino i suoi gusti. Credeva di essere ormai immune
al sarcasmo e all'umorismo nero, ma cosi era troppo pesante, perfino
una ragazza di carattere mite come lei lo aveva percepito come
gravissimo insulto.
Si
sentì ridicola. Miserabile. Una stupida femmina, non poteva
dargli torto.
Anemone
odiava la superbia, la tracotanza e l'arroganza perché
inevitabilmente spingono l'uomo in questa situazione di illusoria
fierezza e di vittoria passeggera, prima di rovesciarlo nell'abisso
della vergogna e della discriminazione.
Discriminazione...
Era
quello il nome della voragine senza fondo in cui era caduto il suo
uccellino, mentre il suo candido piumaggio viene insudiciato dagli
sangue sgorgante dalle frecce di arcieri anonimi, le cui risa sdegnate
riecheggiavano nelle profondità del baratro.
Anemone
avrebbe voluto usare le mani, che in quel momento le coprivano gli
occhi umidi e lucidi, per tapparsi le orecchie: già riusciva
a sentire nella sua testa un fitto coro di voci indefinite, ridenti,
che gridavano a squarciagola, o parlottavano alle sue spalle come veri
vigliacchi, ed infine si univano tutti a gridarle contro, come se si
trattasse di una bestia, di un fenomeno da baraccone, di uno scherzo
della natura.
Lesbica.
Lesbica. Lesbica...
La
poca stima che i suoi colleghi di lavoro avevano per lei sarebbe
automaticamente svanita, ogni occasione sarebbe stata buona per
rinfacciarle il suo strambo orientamento sessuale.
C'era
mai stata una regione con un Campione gay? Non lo sapeva.
Non
le importavano i siti internet in cui le persone dicevano che era una
cosa naturale e si proclamavano da bravi ipocriti sostenitori di questa
specie protetta di persone strane e diverse.
La
vita reale era stata semplice, sotto un falso viso.
Ma
ammettere di fronte ad amici stretti, parenti, conoscenti di essere
dell'altra sponda spaventava Anemone a morte.
La
reazione di Fedio, che grazie al suo stupido vantarsene se ne era
giustamente accorto, fu la prova latente che il mondo, dopo quasi
diciassette anni, non era ancora pronto ad accettarla come persona.
Anemone
si appoggiò alla morbida ala bianca del Pokémon
Cigno che la osservava sconsolato, conscio di essere probabilmente uno
dei pochissimi che non l'avrebbe mai giudicata, mentre lei piangeva
sommessamente.
Non
le importava più del suo orgoglio, voleva solo sparire in
qualche luogo deserto per sempre.
Capì
dolorosamente di non essere ancora libera, come credeva fino a pochi
giorni prima.
«Ti
prego. Non metterti a piangere... Mi fai sentire un infame.»
Fedio
parlò onestamente: i ragazzi che fanno piangere le donne, a
suo parere, erano veramente i peggiori, al pari dei mariti violenti e
degli stupratori seriali.
Senza
che la rossa riaprisse gli occhi, lui cominciò a scorrere
sul telefonino le foto che le aveva fatto. Facendo uno zoom strategico,
notò la targhetta in plastica nera appesa alla camicia che
la rossa indossava in quel momento, dove erano scritti i dati
identificativi in caratteri eleganti.
«Reyes
Anemone, semi-professionista, ma... - e il tono del ragazzo perverso
assunse un accenno di entusiasmo e stupore - hai un diploma in
meccanica aerea? E hai qualcosa tipo cinquecento ore di volo? Oddio,
fai roba seria per essere...»
«Una
femmina?» Lo precedette lei.
«Una
pazza. Io ti stavo dicendo che sei la prima ragazza gay che incontro in
vita mia, non che se tu fossi stata un maschio avrei scelto una battuta
sui Pokémon uccello per insultarti.
Mi
stavi quasi per uccidere, cacchio. Non hai molti amici maschi,
no?»
«Come
tu non hai molte amiche femmine, immagino.»
La
rossa si decise a guardare in faccia il suo interlocutore.
«Sappi
che sei tu qui quella che ci guadagna. - Il giovane allenatore le fece
l'occhiolino - Ti piacciono di più le tette o il lato b? Da
quanto poi? E come hai scoperto che, uhm, ragazze si, maschi no?
Hai
già la ragazza?»
La
ragazza perse l'equilibrio sentendo quella serie di domande, dovette
tenersi saldamente stringendo a pugni saldi il piumaggio del suo Swanna
per evitare di cadere nel vuoto in preda alla confusione.
Non
poté credere alle sue orecchie.
«Perché
mi chiedi queste cose?» Domandò, senza farsi
prendere dall'ira, per questa volta.
«Non
so. - Il nipote di Nardo si mise comodo, disteso sul torso del suo
Dragonite cromatico come se fosse seduto su una sedia a sdraio - Ho
pensato che ti sarebbe piaciuto di più parlare di queste
cose. Non so molto di te, se non che odi i maschi, sei un prodigio che
guida aerei a meno di trent'anni e...»
Anemone
lo interruppe, con una certa gioia lampante negli occhi.
«Sì.
Ho la ragazza. Cioè, penso di sì, non le ho
ancora parlato bene di questa cosa...
Mi
sono sempre piaciute le ragazze nei manga e nei libri, ma non credevo
che amarne una in particolare fosse così difficile...
Scusami
per come mi sono comportata prima, io... Vedi... Non ho un buon
rapporto con il genere maschile, ma forse perché come hai
detto tu non ho amici, ma solo amiche. Ti ho giudicato male...
Scusa
ancora...»
«Aspetta,
hai detto che hai o non hai la fidanzata?»
«Non
lo so... Se una ti bacia in bocca, si siede in braccio tuo per tutta la
notte e ti tocca le tette, vuol dire che le piaci sul serio? Non sei
solo...»
«Una
delle tante?»
«Ecco.
Lei era eterosessuale convinta fino a ieri, magari si vergogna di me...
Non la biasimo...
A-Aspetta,
che mi succede, perché ti sto dicendo tutte queste
cose?!»
La
ragazza rischiò ancora di finire giù per terra.
Non
aveva mai parlato così apertamente dei suoi sentimenti con
qualcuno. Con un ragazzo poi.
Fedio
fece una carezza alla testa piumata del Pokémon di lei,
disinteressatamente.
«Perché
avrai raggiunto l'età per cui fare i repressi è
da stupidi e infantili.
Secondo
me la tua "ragazza", mi fa proprio strano dirlo, non si fa tutti i
problemi che ti fai tu.
Anzi,
magari sei proprio tu con i tuoi discorsi sul venire odiata
perché ti piacciono le femmine a farla rimanere male.
Hai
presente tutti quei discorsi, tipo sul fatto che Dio ha creato Adamo ed
Eva e che la mossa Attrazione funziona solo fra Pokémon di
sesso opposto? Onestamente, chi se ne frega.
Anche
se qualcuno sapesse che ti piacciono le ragazze, cosa potrebbe dirti?
Certo,
se ti metti a frignare e a gridare il tuo femminismo nazista contro noi
poveri uomini ci credo che nessuno ti prenderebbe sul serio...
Basta
che ne parli normalmente. Senza paura. Senza forzarlo troppo.
Normalmente.
Se
lei ti piace davvero, scusa, cosa te ne importa di quello che pensano
gli altri? Tu sei tu.
Non
hai detto che sai di essere diversa? E hai detto che ne sei pure fiera.
Non
sono una ragazza, ma le cretine che credono di essere in un film non mi
piacerebbero a prescindere... Devi essere più coraggiosa,
Anemone.»
La
rossa stette ad ascoltare quel ragazzino di quasi tre anni
più giovane di lei come se dalla sua bocca sgorgasse oro
colato. Si sentiva troppo coinvolta in prima persona per controbatterlo.
Coraggio:
gliene serviva una tonnellata, una montagna di coraggio per fare quello
che doveva fare.
Anemone
capì di non potersi permettere altri sprechi di questa
preziosa valuta allegorica, stava dilaniando le sue sostanze non
concrete, ma psicologiche, pur di comprarsi l'approvazione altrui.
Era
semplice per lei accusare la società di omologare i suoi
cittadini, eppure era lei quella in prima linea quando si parlava di
conformismo. Non poteva solo vestirsi e parlare come una ribelle.
Era
giunto il momento per la giovane dagli occhi azzurri di cambiare le
regole.
Si
ripromise di decidere da sé d'ora in poi. Non importa quante
volte sarebbe caduta a terra ed il suo viso si sarebbe coperto di
lacrime e fango, non avrebbe più usato le poche forze che le
rimanevano in corpo per lamentarsi della forza di gravità,
ma si sarebbe rialzata per ridere alla faccia del mondo.
«Come
farebbe Camelia, del resto.» Ammise sorridente, soddisfatta.
Avrebbe
fatto come un ragazzo: l'avrebbe resa fiera di lei, l'avrebbe sconvolta
e sorpresa nel migliore dei modi: lasciò correre selvaggia
la sua immaginazione, immaginò di confessarle il suo amore
con voce seria e seducente, quando le loro labbra si trovavano a pochi
centimetri le une dalle altre, guardandola fissa gli occhi di lei che
con la schiena al muro non poteva sfuggirle.
Proprio
come nei manga che le piacevano tanto.
E
se la scena si fosse svolta a ruoli invertiti, la rossa si sarebbe
assicurata che il suo "sì" suonasse il più
convinto e sincero possibile.
In
nessun modo le avrebbe dato l'impressione di mentire o d'essere ancora
nel dubbio.
«Camelia?
Scherzi, o intendi proprio quella Camelia?!» Fedio diede
d'escandescenze.
«Taylor,
proprio lei, la modella. - Rispose pacatamente lei - Non lo sapevi che
è una delle cinque ragazze adepte per diventare Campionessa?
Io faccio il tifo per lei.
Non
solo è fortissima come Allenatrice. È una ragazza
perspicace, intelligente e dal cuore d'oro...»
E
fu interrotta.
«Ma
quindi la sua settima è vera o se le è
ricostruite con la chirurgia estetica?» Fece lui.
«Non
dirmi che Camelia è famosa in tutta la regione solo per le
sue tette enormi?!»
Ribatté
lei, essendosi quasi dimenticata di aver a che fare con il nipote di
Nardo.
«No,
anche per come risponde durante le interviste. Una volta le hanno
chiesto quanto pesasse e sai che gli ha risposto quella? "Devo proprio
far sentire tutti voi grassi o posso fare finta di aver mangiato questa
sera?".
E
quando l'avevano scoperta a letto con un tizio completamente
sconosciuto si è difesa dicendo che lui era solo il primo,
mancavano soltanto tutti gli altri suoi fan.»
La
giovane aviatrice si fece raccontare meticolosamente tutte le voci che
correvano sulla sua tutt'altro che dolce (anzi, piuttosto acerba)
metà: alcune le piacquero, altre meno.
Lo
fece solo per passare il tempo, voleva che il tramonto giungesse quanto
prima pur di rivederla.
Inoltre
parlare d'altro era l'unico modo che aveva per riconciliarsi con Fedio.
Tutto
sommato era un ragazzo simpatico, decisamente molto più
simpatico di quelli che aveva conosciuto in vita sua. Si
augurò che trovasse presto una fidanzata, se lo meritava
dopotutto.
Intanto
il loro scenario, il cielo infinito, cominciava a sbiadirsi, il sole
era ormai stanco di flagellare la terra e il vento caldo del sud
accarezzava le loro schiene e i loro arti.
«Sei
una pazza. - la canzonò ancora Fedio, riguardo una qualche
battuta poco importante - Non mi stuferò mai di
ripetertelo.»
Lei
gli sorrise, scoppiando a ridere sonoramente, i denti bianchi come
l'avorio illuminavano il viso dalla tonalità più
scusa, la sua voce riecheggiava nell'aere gioiosa, spensierata.
«Sarà
una pazza, - pensò fra sé e sé il
giovane - ma al diavolo tutte le modelle di bikini e le attrici da
quattro soldi: lei è la ragazza più bella che
abbia mai visto.»
I
due si congedarono tutt'altro che freddamente, promettendosi a vicenda
di rivedersi.
Anemone
senza indugiare ulteriormente, sapeva di avere una cosa piuttosto
importante lasciata in sospeso e da portare a termine al più
presto.
A
quell'ora del pomeriggio, quando il cielo cominciava a indorarsi come
zucchero caramellato, Anemone era solita tornare a casa dal lavoro: fu
contenta di aver ormai perso la brutta abitudine di rimuginare su
quanto la giornata lavorativa di quel determinato dì le
avesse fatto schifo. Si ripromise un approccio più positivo
nei confronti del suo lavoro.
«Sono
a casa.»
Anemone
addolcì la voce involontariamente, quasi avesse canticchiato
quelle parole.
Non
le servì neppure varcare la soglia del piccolo appartamento
in cui viveva da quando aveva sette anni per assicurarsi che nessuna
presenza fosse in casa.
Non
lo aveva calcolato. Ma decise di andare avanti comunque.
Si
precipitò nella sua stanza in punta dei piedi, aveva bisogno
di guadagnare del tempo. Si tolse con assoluta noncuranza i vestiti che
aveva indossato per tutta la giornata, convincendosi definitivamente
che gliene servissero di nuovi. Si lasciò addosso solo una
delle tante t-shirt prese ai concerti del suo gruppo preferito ed un
paio di pantaloncini corti.
Rimase
scalza, e per un attimo pensò che forse avrebbe fatto meglio
a rinviare quella cosa che doveva fare, non avendo altra scelta.
La
giovane si diresse alla ricerca di qualche oggetto intatto da tenere
per quando sarebbe tornata a casa di Nardo, non ritenendo di doversi
rimettere nella condizione di scroccare cose come felpe, gli elastici
per capelli o lo shampoo alle sue compagne.
Detestava
essere quella "povera" del gruppo. In tutti i gruppi, del resto, quella
povera c'era sempre.
«Buonasera,
è passato d'uso salutare?»
Lei
si voltò di scatto. Si sentì ingenua a non averci
pensato prima: era quasi ora di cena ed in dieci anni lei non ci aveva
neppure mai provato ad avvicinarsi ai fornelli. Era sempre suo nonno a
cucinare per lei, garantendosi di viziarla almeno un pochino.
«Scusa,
non ti avevo proprio sentito. Tutto a posto qui?» Gli
rispose, cercando di non suonare per nulla scocciata o arrogante.
«Come
mai sei qui?» Il suo vecchio le rigirò la domanda.
«...Nardo
ci ha concesso un altro giorno di vacanza, così ho pensato
di passare a salutarti dopo il lavoro...»
No,
non andava bene così. Non poteva cominciare subito con una
bugia.
Dov'era
andato a finire tutto il discorso sull'avere il coraggio di affrontare
le difficoltà, come le aveva consigliato Fedio?
Non
poteva mica dirgli "sono stata punita per essermi intrufolata in piena
notte nella piscina privata del Campione della regione", dopotutto.
L'uomo
di mezza età tuttavia non le rispose, continuando a
preparare la cena in assoluto silenzio.
Anemone
di colpo si ricordò che l'ultima volta in cui aveva visto e
parlato con suo nonno era stata tutt'altro che piacevole.
Rammentò di averlo accusato di rubarle la sua
libertà, di sfruttarla e trattarla come se lei non fosse
neppure sua nipote con le parole più aspre e violente che
aveva mai proferito.
Perché
lo avesse fatto, si domandò ancora. Per una brutta giornata?
Per una verità taciuta per lungo tempo? Per ribellione? Non
importava. Sapeva solo che se ne era pentita amaramente.
Ed
ora lui aveva tutto il diritto di ignorarla.
Anemone
capì dunque che ormai lei aveva rovinato tutto, quella non
era più casa sua, lì non c'era posto per le
ragazze viziate, che si credono adulte mature dopo i primi schizzi
ormonali e si dimostrano invece testarde ed insensibili come bambine.
Stava
per andarsene in silenzio, quando nella piccola stanza irruppe un suono.
Un
suono squillante ed acuto, che sembrò alla rossa
un'allucinazione uditiva, mentre il trillo si ripeteva insistentemente,
e suo nonno distolse gli occhi da ciò che stava facendo, poi
la guardò, impassibile.
«Anemone,
per favore, rispondi.» Le disse con calma.
Lei
lo prese come uno scherzo. Davvero, doveva aver scelto proprio il
giorno sbagliato.
Casualmente
e senza farsi troppi problemi, la ragazza premette il tasto verde,
domandando chi fosse con tono parecchio innervosito dall'ennesimo
imprevisto.
«Ciao
Anemone sono io.»
La
ragazza riconobbe immediatamente la voce così nasale e
gentile, e si propose leggermente più entusiasta nei
confronti della sua interlocutrice.
«Ciao
Iris. Tutto bene? Cosa avete fatto oggi senza di noi?» Chiese.
«Niente
praticamente, dovevamo allenarci, ma Camilla e Catlina sono andate a
farsi un bagno per conto loro...» Le rispose la ragazzina.
«Ah,
così Nardo lascia fare a loro tutto quello che vogliono e a
noi no invece?»
La
rossa aggiunse una nota di pungente disappunto a quel dato di fatto.
«Cosa
ne so, quelle due controllano tutto e tutti senza che noi tre ne
sappiamo niente, sono come la mafia... - la rossa rise a quel bizzarro
paragone - Posso chiederti una cosa?»
«Certo,
dimmi.»
«Ti
dispiace se stasera, quando torni, stiamo un po' insieme? Mi sono
annoiata tantissimo oggi, sono stata da sola tutto il tempo, hai
voglia?»
In
un certo senso, ciò che la ragazza dai capelli rosso adorava
di Iris si riassumeva lì.
Quella
dolce ragazzina le sembrava quasi un cucciolo abbandonato che vaga
sconsolato per questo mondo egoista ed indifferente, alla ricerca di
qualcuno che possa dargli amore ed accettarlo per com'è: un
po' strano, poco cool, ma una buona persona.
E
lei non aspettava altro che accoglierla fra le sue braccia.
Adorava
che qualcuno avesse bisogno di lei. Già quando Anemone ed
Iris si erano confidate durante la prima notte a casa del Campione, la
prima si era domandata come potessero esistere persone tanto ingrate da
non apprezzare quella bambina un po' troppo alta per essere tale.
«Ovvio
che sì, possiamo stare ad ascoltarci la musica per gli
affari nostri se quelle altre hanno di meglio da fare
evidentemente...» Non le dava quasi mai fastidio, quando Iris
la interrompeva.
«Non
sei contenta?» La rossa si sentì domandare, una
domanda dalla tonalità probabilmente retorica, ma lei non
capì comunque. A volte figurare ciò che Iris
dicesse od intendesse mediante i suoi pindarici giri di parole era un
vero mistero.
«Contenta
di cosa?» La interrogò, sbigottita.
Subito
dopo sentì la ragazzina ridere divertita per via di un
respiro che aveva emesso sul microfono. Non riusciva veramente ad
arrivarci da sola, concluse infine.
«Hai
il telefono nuovo, finalmente! - la assordò con uno dei suoi
urli tanto acuti da sfiorare la quarta scala maggiore del pentagramma -
È l'ultimo modello uscito, ha un sacco di applicazioni
nuove, il display che si vede sotto il sole, la fotocamera interna, sai
cosa significa? Possiamo farci i selfie! Che bello, se me lo lasci
usare ti faccio vedere come si scaricano le app...
A-Anemone,
c-ci sei ancora?»
La
suddetta da un lato aveva avuto l'istinto di lasciar cadere il
gioiellino grigio metallizzato sul pavimento, sentiva i muscoli della
mano rammollirsi sotto il lieve peso dell'oggetto, dall'altro lo
strinse con fare rapace, portandoselo davanti agli occhi.
«Sarà
costato più del mio intero stipendio...»
Mormorò fra sé e sé.
Anemone
si sorprese di quante forme il perdono potesse vestirsi, pur di
rapportare un rappacificamento quasi totalmente negato.
«La
futura Campionessa non può andare in giro senza cellulare. -
La risposta le arrivò alle spalle, la colse alla sprovvista.
Era, ovviamente, suo nonno a parlare - Ed io invece, dovrò
abituarmi a non avere più una bimba di sette anni a cui
badare...»
Ma
Anemone lo fece tacere, lo abbracciò mettendogli le braccia
intorno al collo, stringendolo forte e facendolo barcollare. Non se lo
aspettava.
Avere
un cellulare nuovo, costoso, perlopiù dopo che aveva
volontariamente frantumato il precedente, era sì bello; ma
la coscienza di non aver mai e poi mai perso l'amore di suo nonno, suo
unico e vero genitore, era simile ad un miracolo, a suo parere.
«Te
lo sei meritata, ho saputo dei tuoi successi.» Aggiunse
l'uomo, ilare.
«Appena
divento Campionessa te ne compro uno uguale, voglio vederti usare uno
di quegli aggeggi tecnologici che dici prosciugano il
cervello.» Rise lei.
«Oh,
comunque, dicevi?»
La
ragazza si riportò il telefono all'orecchio, sperando che
Iris fosse ancora in linea.
«Niente,
- la rassicurò. Poi quest'ultima aggiunse con assoluta
noncuranza - tanto adesso siamo arrivate. Ti dispiace
aprirci?»
Anemone
esitò un secondo, riflettendo su quelle due ultime battute
con lo stesso sguardo perso e confuso che uno avrebbe impiegato per
comprendere una lezione sulla trigonometria avanzata.
Quel
giorno le stava regalando un infarto dopo l'altro.
«Stai
scherzando?! Che vuol dire "stiamo", come "stai arrivando"?»
E,
come da previsione, sentì suonare il campanello.
Prese
un respiro profondo, si sistemò frettolosamente i ciuffi
rossi che le cadevano sulla fronte ed i vestiti tutt'altro che
eleganti, e si preparò all'inferno che la aspettava aprendo
quella porta.
Era
arrivato il momento di mettere a frutto tutto il suo coraggio, si disse.
Chiudendo
la chiamata, Anemone alzò lo sguardo, adagiata alla soglia
dell'uscio come se le gambe non riuscissero più a reggerla
in piedi.
«Ma
non stavi scherzando allora... Come siete arrivate qui?»
Pronunciò a labbra socchiuse.
«Abbiamo
scaricato un'applicazione che permette di localizzare anche i posti
più remoti semplicemente partendo dall'indirizzo, abbiamo
preso un taxi e, wow, che bel posto, sembra carino per viverci,
già...»
La
giovane aviatrice continuava a sbattere le palpebre automaticamente,
alla stessa velocità con cui un colibrì sbatte le
ali, pur di risvegliarsi da quella sottospecie di trance, da quella
situazione da commedia degli equivoci.
Ma
sicuramente, in modo già previsto o inaspettatamente, non
poteva certo lasciare Catlina, Camilla ed Iris fuori casa, sarebbe
stato scortese, una vera figura da pitocco che non può
neppure permettersi di accogliere degli ospiti per via delle sue
condizioni economiche.
Le
sue compagne indossavano i loro vestiti casual, e mentre la rossa si
divertiva a confrontare i diversi stili degli outfit delle compagne
(tutti davvero molto carini, a sua opinione) suo nonno si
avvicinò a loro, scrutandole con fare semplicemente confuso,
senza far trasparire rabbia o seccatura dal volto.
«Ehm,
nonno... Queste sono... le... le mie... - Anemone fece un respiro
profondo - ...Le mie amiche.»
Poi
riprese, dopo un'altra boccata d'aria degna di un'apnea di minimo venti
minuti.
«Ragazze,
questo è mio nonno.»
Anemone
represse l'istinto di scappare via da quella situazione così
imbarazzante.
Poteva
peggiorare? La vita le aveva insegnato che ai problemi non esisteva mai
un culmine, come nel disegno di una tangente, che cresce esorbitando
all'infinito e si ripete ogni determinato periodo.
In
quel preciso istante, ecco il gran finale, l'atto conclusivo di quel
dramma ironicamente assurdo.
Eppure
la rossa non aspettava altro: mentre le altre tre ragazze stringevano
con la più assoluta riverenza la mano del suo vecchio,
sentì le sue di mani che venivano afferrate da dietro e non
appena si voltò il cuore le scivolò in gola.
Camelia.
Era lì anche lei, come poteva non essersene accorta?
Solo
per il gusto della sorpresa non ci fu lecito menzionarla, o forse la
rossa era già troppo agitata.
Ora
le condizioni per fare quello che doveva fare erano a suo favore.
Eccolo
lì, il suo kairós, la sua occasione.
Dopo
che le loro mani intrecciate in un momentaneo amplesso si erano
sciolte, le due riuscirono solo a scambiarsi un vuotassimo e freddo
"ciao", come avessero dimenticato l'intero contenuto dei loro
presupposti.
Anemone
sorrise, imbarazzata.
«Se
io e Camelia non riusciamo a parlarci adesso... ho perso la mia
occasione.
Ti
prego Dio, dammi coraggio, fa che ieri sera... Abbia avuto un
senso.»
❁
Un
sottofondo di tintinnio di piatti e posate animava quel piccolo
appartamento.
Dove
un uomo sulla sessantina avesse trovato le forze fisiche e monetarie
per moltiplicare la cena che doveva inizialmente essere per due a
servizio di un totale di sei persone come in un miracolo biblico ancora
non se lo spiegava nessuna.
Quell'anziano
signore non le aveva cacciate ferocemente di casa, come avrebbe fatto
chiunque altro con ospiti inattesi, ma aveva gentilmente proposto alle
quattro infiltrare di unirsi a cena con loro, promettendo di
rassicurare Nardo come un vero genitore premuroso farebbe con le sue
figlie.
E
guai se nostre ragazze avessero rifiutato: il profumo di cibo oramai
sopraffaceva l'aria di quel modesto appartamento, conferendogli
un'atmosfera ancora più calda e familiare.
«Allora
ragazze, - iniziò l'uomo, scherzosamente - mia nipote si
comporta meglio, ora che ha delle amiche?» Senza alzare gli
occhi, ascoltò la sopracitata rispondere nel più
completo imbarazzo.
«Dai,
smettila di farmi passare per un'asociale! - Poi, rivolgendosi alle
quattro compagne - È per via della scuola e poi per il
lavoro, per questo non esco molto con amici ultimamente.»
Tutte
annuirono e sorrisero.
«Tu,
che non ti sei presentata ancora, chi saresti?»
Domandò il nonno della rossa, con il tipico tono affettuoso
dei più anziani, che però la maggior parte delle
volte viene percepito come burbero.
Ci
furono due o tre secondi di quiete. Tutti le più varie
categorie di occhiate si posarono su di una sola, finché non
fu Camilla a riportarla con i piedi per terra.
«Camelia,
sta parlando con te.»
Gli
occhi della ragazza mora si dilatarono nello stupore più
completo, e non perché costui non l'avesse riconosciuta.
Riuscì a mormorare il suo nome a malapena, per poi abbassare
lo sguardo fino ad osservarsi le mani; dopodiché Camelia
lasciò che la sua mente si disconnettesse definitivamente
dal mondo terreno.
Perché
era lì, si chiedeva innanzitutto.
In
una casa che non era sua, circondata da estranee che la fissavano
allibite come se lei avesse chissà che strano morbo, a
mangiare forzatamente carboidrati che non sarebbe riuscita a smaltire
nemmeno con un digiuno di una settimana, ascoltando passivamente le
conversazioni più noiose di sempre.
Alla
fine però, Camelia ammise a sé stessa, che
effettivamente era colpa sua, se aveva scelto la strada più
lunga, e la più stressante. E, sotto un certo punto di
vista, anche la più strana.
La
modella ascoltava passivamente l'uomo di mezza età che
tesseva le lodi di sua nipote, parlando di lei come un veterano
Allenatore parla dell'esemplare più prezioso della sua
squadra.
Aveva
meticolosamente descritto la sua meraviglia ogni volta che la piccola
Anemone tornava a casa da scuola con i voti più alti della
sua classe, la sua passione per lo studio senza mai negligere l'aspetto
pratico della branca aeromeccanica, dopo aver esposto i grandi progetti
che aveva la rossa per il suo futuro; la divagazione finale in cui un
perfetto sconosciuto descriveva il sorriso sfavillante della sua
nipotina quando ad ella veniva detto che finalmente avrebbe avuto una
famiglia che le avrebbe voluto bene, fece sciogliere il cuore a tutte.
Camelia
sentì ancora quel sentimento di marcia invidia ristagnare in
lei, senza che lo volesse.
Ma,
come fece Apollo con i due serpenti che lo insidiavano fin dalla culla,
la fanciulla strozzò quel sentimento orribile, fermandolo
con un nervoso singulto ed un sorriso posato.
Normalmente
avrebbe perso la testa solo sentendo una storia del genere. Si sarebbe
data dell'egoista, dell'invidiosa che non sa gioire della fortuna
altrui, sarebbe volentieri scoppiata a piangere.
Lo
aveva fatto milioni di volte in passato, conosceva i suoi difetti ormai.
Nella
realtà parallela in cui viveva, Camelia non riusciva neppure
a concepire ciò che vedeva.
Come
un cieco non potrà mai credere nella luce, la ragazza si
guardava intorno, ascoltava stordita.
Era
tutto troppo bello per essere vero, si sarebbe voluta disilludere.
Ma
lo era. Era tutto così bello, bello e basta.
Un'appartamento
così pulito e dal soave profumo di qualche essenza
artificiale, niente cocci affilati di bottiglie rotte o avanzi di cibo
stantio sul pavimento; quella che vedeva era una tavola calda
imbandita, piena di vivande desiderose solo di farla ingrassare, nel
peggiore dei casi; dov'era finito l'alcool, le poche bottiglie
multicolore ancora integre che si moltiplicavano il sabato sera.
Ma
se c'era una cosa che di sicuro invidiava ad Anemone al di
là della pulizia e sobrietà di suo nonno, quella
cosa risiedeva in quanto amore, quanto vero genuino amore genitoriale
un vecchio non sposato senza neppure chissà che patrimonio
riservasse ad una nipote che non era nemmeno sua, come la trattasse
meglio di una principessa.
Intanto
le altre tre ragazze, le due bionde ed Iris chiacchieravano
allegramente, constatando come le conversazioni potessero andare avanti
anche senza di lei.
Ormai
il poco appetito che aveva le era stato lavato via, come se la sola
visione del cibo la infastidisse. Approfittò di respirare
due minuti, senza avere il suddetto sotto gli occhi.
Camelia
ricordò di come lei avesse passato i suoi ultimi anni fra i
servizi fotografici, le crisi davanti allo specchio, le sfilate sui
tacchi alti finché i piedi non gridavano pietà, i
trattamenti estetici simili a torture medievali, in aggiunta ai digiuni
e le diete forzate più le lacrime di mezzanotte, e infine le
interviste in cui le si chiedeva omertà spudorata, di
mentire riguardo ogni aspetto della sua vita per evitare di essere
licenziata ed essere mandata di nuovo in mezzo alla strada.
Certo,
adorava alcuni aspetto del suo lavoro. La fama, i soldi, la
notorietà.
Ma
avrebbe rinunciato perfino ad essi pur di poter assaporare per un
attimo la dolcezza di essere veramente importante per qualcuno.
Anemone
era riuscita ad avere qualcuno che la amava sopra ogni cosa nella sua
vita.
Lei
no. Camelia sapeva di non essere riuscita a bastare neppure alla
persona che avrebbe dovuto amarla per diritto di nascita.
"Che
schifo non avere una famiglia. Ci guadagni solo l'ingrassare di meno." Pensò,
cercando di ingoiare la cena offertale nel modo meno schifato dai
monosaccaridi possibile.
Certo
che la normalità faceva decisamente male dopo anni abituata
a vivere l'inferno, osservò.
«Camelia,
hai voglia di vedere la mia stanza?»
Senza
fare chissà che sforzi, la mora si trovò gli
occhi azzurri cielo in cui tanto adorava perdersi nei momenti bui a
dirimpetto dei suoi: quanto li amava quegli occhi, come amava la voce
di Anemone. Adorava tutto di lei (ad eccezione di ciò che
odiava, non sapeva concederle questo privilegio).
La
rossa intanto le aveva sporto una mano per condurla via.
Sorrise
leggermente, divertita dal tempismo di quell'intervento salvatore.
Si
chiese se davvero Anemone riuscisse a leggerle la mente e a percepire
le sue richieste di aiuto disperate, capitava troppo spesso
perché potesse trattarsi di una coincidenza.
«Certo.»
Le
due fanciulle lasciarono la sala da pranzo mano nella mano, mentre le
altre tre le fulminavano con occhiatacce perplesse. Con un semplice
contatto visivo, la rossa rassicurò suo nonno sulle proprie
intenzioni.
Era
il momento: fare quello che doveva fare.
Dopo
aver condotto la compagna nella sua stanza chiuse la porta, comprimendo
la luce formatasi sul pavimento in un'oscurità creata dalle
ombre.
Loro
erano dentro, ecco ciò che importava, tutto il resto doveva
starne fuori.
❁
«Allora,
dove nascondi tutti i tuoi manga porno? Sotto il letto, dentro
l'armadio?»
La
mora stava fissando la camera da letto di una normalissima adolescente
della sua età come se si trattasse di un museo d'arte
moderna.
«Intanto,
non si chiamano "porno", ma "hentai". - L'altra ragazza strinse le
braccia al petto deformando brutalmente l'immagine stampata sulla sua
t-shirt - Secondo, sono io a doverti fare delle domande.»
Anche
Camelia voleva riempire la rossa di domande, in verità.
Voleva
farle un interrogatorio degno dell'inquisizione, chiederle ogni singolo
dettaglio di tutti i segreti che da tutta la giornata tormentavano la
sua mente: dov'era stata, cosa aveva fatto e sopratutto chi aveva
incontrato quel giorno. La modella, se ne avesse avuto la
possibilità, si sarebbe pure presa l'obbligo di sequestrare
il cellulare alla compagna.
Eppure
tutta quella gelosia era inutile. Ottaviano le aveva parlato di tempi e
di spazi da concedersi a vicenda, di pazienza e di fiducia... Era
così indisponente da ignorare tali preziosi insegnamenti?
Camelia
fece un respiro profondo, pronta a gettarsi a capofitto di schiena,
confidando nella presa salda della giovane pilota, come in quel gioco
innocente che fanno i bambini.
Decise
dunque di ammorbidirsi solo per quella meravigliosa ragazza davanti a
lei.
Le
circondò con le sue bianche braccia il collo adornato dai
ciuffi rosso scarlatto, facendo tintinnare un paia di braccialetti
finemente abbinati ai suoi abiti e che le impreziosivano i polsi, come
una vestale romana, Camelia sentì le sue intenzioni le
più pure del mondo.
Le
prese le mani, ma con una forza mille volte maggiore di quella usata in
precedenza.
«Molto
azzeccato il tuo outfit.» Commentò alla fine.
Anemone
socchiuse gli occhi e fece una smorfia impaurita. E se ne
pentì, perché nel momento in cui
riacquisì piena facoltà del suo campo visivo,
l'universo e tutto il mondo era ancora lì, per sua sfortuna
non era morta dopo quel colpo inaspettato.
Ancor
meno giustizia gliene rendevano i suoi squallidi vestiti trasandati e
fin troppo profani, paragonare la sua maglietta ed i suoi pantaloncini
sbiaditi alla perfetta combinazione cromatica degli abiti di una top
model la faceva sentire come una mendicante vestita di stracci al
cospetto di una nobile d'alto rango.
«Ed
invece tu sei sempre troppo bella, mi fai schifo.» Le disse,
ridendo.
Ma
per Anemone, quella fantastica giovane era bella già da
quando lei stessa le aveva riempito la faccia di vernice. Non stava
dunque mentendo.
«Perdonami
se mi sono presentata a casa tua senza preavviso - cominciò
la mora - e l'aver portato qui quelle tre cretine solo
perché mi scocciava dovergli dare spiegazioni, che odio mi
fanno venire, ma vedi, morivo dalla voglia di vederti, da tutta
oggi...»
Probabilmente
Camelia non si era ascoltata mentre parlava, il suo unico obiettivo era
infondere sicurezza alla compagna, farle capire cosa voleva. Per dirlo
però, aveva usato una voce che era solita utilizzare per
flirtare spudoratamente, tradendo così la sua supposita
benevolenza.
«N-Non
preoccupartene, anzi, sono contentissima che tu sia qui. Io in
realtà, volevo farti un'altra domanda, però prima
una cosa.»
La
rossa torse il collo per guardare in viso la compagna dietro di lei.
«Uh?»
Fece questa.
Ma
prima che l'altra potesse anche solo battere le sue ciglia agghindate
di mascara nero pece, l'aviatrice eseguì una manovra
inaspettata: riuscì a girarsi di centottanta gradi senza
neppure il bisogno di mollare le mani della modella, invischiate nelle
sue.
Le
due si ritrovarono faccia a faccia l'una con l'altra, lo spazio
occupato dallo spessore di mezzo capello separava i loro volti.
Il
primo piano che Anemone ebbe del viso della compagna la
mandò in fibrillazione: occhi così lucenti e
perfetti, la pelle liscia da sembrare seta anche senza toccarla, il
make up così raffinato erano i piccoli dettagli che il
folgorante sorriso della compagna le offriva come distrazione.
Adorava
gli occhi azzurri, la frangetta così ben curata, le labbra
lucide che lasciavano intravedere i denti bianchi, gli zigomi dai
tratti a dir poco angelici.
La
rossa subito cambiò stato d'animo: ancora quella dannata
questione era irrisolta.
«Dovresti
ringraziarmi per averci almeno provato, io ce l'ho messa tutta e tu
invece...
Hai
rovinato tutto! Sono più stupida io che ho avuto la
brillante idea di toglierti il reggiseno o tu, che non te lo sei
più rimesso e lo hai perfino lasciato nell'onsen?!»
Nonostante
ciò, Camelia rimase fissa a guardarla negli occhi.
«Credimi,
volevo sputarti in faccia quando hai cominciato a fare tutte le tue
scenate per convincere quella pedofila di Camilla... Sei una masochista
o cosa? Io provo a difenderti e a fare una cosa buona di tanto in tanto
ma no... Tu avevi bisogno di lasciare le tue tette libere un altro
giorno, eh?»
«Non
ti lamentavi mica mentre me le palpavi tranquilla e beata!»
«Perché
io sono brava a lavorare di mani, ecco perché. Tu invece
potresti rompere un braccio a qualcuno, hai la delicatezza di un
Martelpugno.»
«Senti,
era la mia prima volta...» Anemone ammise dunque, imbarazzata.
Tutta
quella storia, tutta quella assurda faccenda che l'aveva portata ai
peggiori tormenti interiori, a patire le dodici fatiche di Ercole pur
di ottenere uno sguardo ravvicinato al volto di quella guastafeste
opportunista che ora la stava insultando ingiustamente, era scaturita
per via di un reggiseno coppa G.
E
ciò era un guaio. Se solo il seno di una delle due fosse
stato leggermente più piccolo, una taglia tradizionale,
piccola ma apprezzabile, un qualcosa di facilmente reperibile in tutti
i negozi di intimo, od una taglia più abbondante, simile ad
una morbida coperta di carne molto più difficile da
contenere per un indumento, le due ora non avrebbero di che litigare.
La
verità era che, in quella fantastica notte di baci,
abbracci, tocchi, sfioramenti, strette, massaggi e perfino qualche
impudicizia, le due giovani innamorate non si erano neppure curate di
ricordare il colore del reggiseno che indossavano.
Non
ricordavano nulla del profano, delle cose che gli uomini usano per
incriminarsi a vicenda e spargere odio. Le due giovani ragazze volevano
solo la cosa più nobile per un cuore volto al bene ed alla
rettitudine, fare l'amore sotto le stelle.
«Ieri
sera...» Dopo un breve silenzio, la mora ricongiunse con lei
lo sguardo.
Quelle
semplici parole, "ieri sera", sembrarono portare la rossa in una
dimensione onirica, facendole percepire ciò che in quella
fatidica notte era accaduto come un sogno, come se le due avessero
potuto interpretarlo soggettivamente, in base alle loro esperienze di
vita.
Ma
la realtà era una sola.
«...mi
hai detto che sei lesbica. E che io ti piaccio. Ma hai paura delle
opinioni degli altri. Delle altre, soprattutto.»
Anemone
fece per aprir bocca, ma l'amica la zittì, parlando prima di
lei.
«Non
voglio spiegazioni da te. Non eravamo ubriache, ma io voglio sapere
solo una cosa.
E
non avere paura. Anche se la tua risposta sarà un "no" secco
secco, sappi che va bene, potremmo restare amiche e ricordare questo
momento come il più schifosamente melenso ed imbarazzante
delle nostre vite.
Ma
è vero, tutto quello che mi hai detto?»
Le
due diciassettenni si lanciarono un altro sguardo seriosamente
divertito.
Camelia,
perché le pareva di giocare a sedurre un ragazzetto ingenuo,
ma che nascondeva un'arguzia nell'ingegno che perfino lei faticava a
prevedere.
Anemone,
perché aveva fra le braccia una giovane libertina pronta a
mettere in bella mostra le sue doti, pur essendo consapevole di valere
molto più di una qualsiasi avance.
Anemone
si sedette sul suo letto, cercando di apparire tranquilla.
«Certo.
Guardati intorno. Pensi che una normalissima ragazza eterosessuale
tenga nella sua stanza foto e poster di idol in bikini, ascolti solo
gruppi femminili e legga manga e guardi anime piene di tipe con le
tette più grandi di quelle di Camilla?»
Tuttavia,
dopo quel commento profondamente ironico, la ragazza si rifece seria.
«Camelia,
tu sei la mia migliore amica...»
A
quello spettacolo di umana pietà, la giovane da capelli neri
come la notte si smosse.
Andò
a sedersi accanto a quella docile creatura sull'orlo di una crisi di
panico, che sembrava boccheggiare alla ricerca di aria per riuscire a
terminare la frase.
Tuttavia,
scelse di non approfittare della debolezza psicologica della compagna
per il discorso che aveva formulato in quel pomeriggio: stessa altezza,
stesso peso, stesso colore degli occhi, stressa taglia di seno, stesso
passato e stesse paure.
In
quel momento, se la sua amica sentiva il suo cuore come un piccolo
uccellino caduto dall'alto del cielo, scacciato dal suo stesso nido,
era suo compito porgerle le mani per custodire e proteggere la sua
insostituibile onestà e semplicità da ogni sorta
di minaccia.
«Non
serve che fingi di esserne sorpresa. O che fai finta di sorprenderti.
So
bene che questa cosa mi rende diversa. Ma sai una cosa?
Non
è una cosa congenita. Insomma, non è che sia una
specie di trauma.
A
me piacciono piacciono le ragazze per scelta. Come uno può
scegliere il suo tipo preferito di Pokémon o decidere di
allenarli tutti, io ho voluto scegliere il tipo di amore che mi piaceva
di più.
Non
me ne vergogno e non ho bisogno di essere compatita per questo.
Sono
lesbica, non malata o confusa. »
Fece
un respiro profondo, poi proseguì, con tono più
sicuro, quasi spavaldo.
«Camelia,
lo sai che sei proprio bella? Sì, te lo hanno detto migliaia
di volte, ma sai, non è solo questo... Vorrei poterti
guardare da così vicino, ogni giorno...
Scusami.
Non
so dire niente di innovativo o di poetico. E quello che ti sto dicendo
ora te lo avranno già detto tantissimi, quindi io ho il meno
zero percento di possibilità...»
Aveva
grande paura che la fedeltà, l'amore ed il sostegno che le
avrebbe promesso non sarebbero stati abbastanza, aveva paura di essere
l'ultima di una lunga fila di spezza-cuori che Camelia aveva radunato
al suo seguito, come un branco di spiriti malevoli.
«Sono
contenta di piacerti. - La modella parlò ancora
più profondamente - Sai bene che so essere una grande
antipatica, lunatica, isterica e spietata. Sei pronta a farti piacere
tutto questo?»
Aveva
evidenziato ognuno di quei dispregiativi così bene che la
mente della rossa riuscì a rinvenire perfetti paradigmi di
ognuno di quei difetti elencati così minuziosamente.
«Camelia,
tu mi piaci tantissimo. Ti considero la mia migliore amica per questo.
Mi
piaci quando sorridi e quando vorresti picchiarmi a sangue, con o senza
trucco, nuda o vestita che tu sia, io adoro ugualmente la top model che
risponde male agli intervistatori come adoro la ragazza che dice di
odiare se stessa.
Credo
di avere una cotta per te... Perdonami...»
Poco
dopo aver ricominciato però, la rossa si sentì
una vile all'ennesima potenza. Dov'era il tanto vantato "coraggio" che
diceva di avere? Notò come le mani e le gambe le tremassero
per l'ansia.
Si
grattò la nuca perplessa, cercando di spostare le iridi
lontano dallo sguardo della compagna.
«...ti
prego scusami, scusa, non so se ce la faccio a dirtelo.
È-È la mia prima volta... Tu sei la mia migliore
amica, ed io...»
A
quel punto, la modella pensò che se quella stupida
innamorata così follemente di lei le avesse ripetuto ancora
una volta quelle parole l'avrebbe sicuramente soffocata.
Si
sedette sulle ginocchia della compagna, come aveva fatto la sera prima.
La
guardò negli occhi. Era il momento. Non vedeva l'ora.
«Anemone,
ad essere sincera non me ne frega nulla di essere la tua migliore
amica.»
L'altra
si stupì talmente tanto che l'espressione dipinta sul suo
volto fece quasi ridere la sua seduttrice. Che trappole, che scherzi
imprevedibili e fantasiosi gioca Cupido!
«Voglio
portarti a fare shopping con me e comprarti dei bei vestiti che si
intonino ai miei, uscire con te e tenerti per mano, farci un sacco di
foto con il tuo bellissimo cellulare nuovo, portarti alle feste, alle
mie sfilate, in discoteca così ti fai una vita sociale...
Io
voglio essere la tua ragazza.»
Prima
di scoppiare a piangere per la gioia, la ragazza dai capelli cremisi e
gli occhi cerulei avvinghiò il torso della bellezza
superbamente seduta sulle sue gambe con le sue braccia color ambrosia,
la strinse a sé con tutta la forza che aveva e prese a
baciarle le labbra, dimenticandosi del rossetto dal colore acceso
finemente steso sulle labbra dell'altra.
La
foga dettatale da quell'esplosione di passione improvvisa la
portò a compiere un lavoro confuso e disordinato, talora
morsicando il labbro della compagna, talora arrivando a coprire con i
suoi baci anche la superficie sotto il naso ed al di sopra del mento.
Ma
contro l'inesperienza il fatto che con il tempo sarebbe migliorata la
consolò.
Immaginò
tutte le occasioni in cui avrebbe potuto baciare Camelia in un futuro
non troppo lontano: stelle candenti, San Valentino, il festival dei
fiori di ciliegio, i regali, le celebrazioni, se una delle due fosse
diventata la Campionessa della regione... Avrebbe speso la sua intera
vita intenta a riversare il suo amore nell'idolo del suo cuore, tempio
un tempo inviolabile e proibito.
Ora
portava le stigmate del meraviglioso volto di Camelia.
«Camelia,
davvero, perché non me lo hai detto non appena ci siamo
incontrate che anche tu eri dell'altra sponda?» Si
limitò a chiederle, con ognuno dei cinque sensi in completo
tumulto.
«Ma
non lo sono, infatti. Non faccio le cose che hai detto e non mi
piacciono le idol.»
Le
rispose l'altra, mentre accarezzava i capelli disordinati della sua
amica.
Se
le avessero dato un megafono abbastanza potente lo avrebbe urlato ai
quattro venti, se lo sarebbe tatuata sulla fronte con inchiostro
indelebile, lo avrebbe scritto in cielo con il suo aereo se avesse
potuto. "Io sono fidanzata con una top model, alla faccia di chi
pensava che nessuno mi avrebbe mai amata".
Voleva
ringraziarla per aver fatto la prima mossa. Perfino quando era
completamente ignuda davanti a lei, Anemone si sentiva a suo agio.
Amava
Camelia proprio come amava se stessa. Perfino Dio e i moralismi della
religione non potevano nulla contro la forza e la confidenza che la
bella fanciulla dagli occhi azzurri le infondeva.
«Andiamo
a dirlo anche alle altre, per favore!» Esclamò
euforica.
«Mi
amerai sempre?»
La
voce della mora si approfondì, mentre questa spingeva la sua
compagna sul letto, facendola distendere sul giaciglio della sua
infanzia, ora luogo della realizzazione di loro desideri più
intimi e sessuali.
«Ovvio!»
Rise Anemone.
«Non
mi tradirai mai, vero?» Camelia si fece più
insistente.
«Certo
che no.» L'altra si dimostrò più che
interessata.
«Non
mi mentirai e non mi abbandonerai?»
«Mai
e poi mai.»
«Mi
sarai sempre accanto, mi vorrai sempre bene, anche quando non me ne
vorrà più nessuno?»
«Non
capiterà. Io ti amerò come nessun altro. Non devi
temere.»
«Dubiterai
mai della mia fedeltà?»
«Preferirei
morire.»
Dopo
questa affermazione degna del cuore più nobile e puro
dell'universo, ci fu un leggero silenzio. Camelia in quel momento
esibì uno dei suoi soliti sorrisi soddisfatti, quando
riusciva ad ottenere ciò che voleva il suo volto riluceva di
gioia.
«Lo
sai che tutte queste cose valgono anche per te?»
Sicurezze,
non promesse. Anemone doveva sentirsi al sicuro da tutto l'amore
corrotto e malato che lei aveva conosciuto, non avrebbe permesso che
una tal divina creatura potesse trovare un supporto non stabile o
peggio, una menzogna, e precipitasse con il viso nel fango
più torbido, umiliata e ferita come era successo a lei.
Amare
e vivere, solo lei ed Anemone, ignorando tutte le dicerie dei vecchi
moralisti ed i pettegolezzi dei giovani invidiosi stimandoli come una
moneta da un penny.
Il
sole sarebbe tramontato e poi risorto per miliardi di anni, invece a
lei ed alla sua amante sarebbe rimasta solo una cosa quando l'ultimo
dei loro giorni sarebbe giunto, una notte lunga e perpetua.
Cominciò
a baciarla: volle darle mille baci, poi cento, poi altri mille, poi per
la seconda volta cento e quando ne avrebbero totalizzate alcune
migliaia avrebbero perso apposta il conto per evitare di attirarsi il
malocchio, affinché nessuno potesse invidiare una tale
quantità di baci.
«Da
oggi in poi siamo fidanzate, quindi.»
La
rossa cominciò per gioco a stuzzicare con gli indici i seni
della compagna come se potessero scoppiare al modo dei palloncini
punzecchiati con uno spillo.
«Certo,
dolcezza.»
Per
ripicca, la ragazza che le sedeva sull'inguine tentò di
scoprirne i punti sensibili facendole il solletico, guadagnandosi una
risata sguaiata, infantile, liberatoria.
Nessuna
delle due ebbe voglia di discutere la validità del loro
amore.
Dopo
gli incontri di quel lungo pomeriggio estivo, sia il saggio e gentil
d'animo padre di famiglia ed il perverso ma affabile nipote di Nardo
avevano ribadito alle giovani l'importanza dell'io e del noi, della
libertà e della sottomissione, dell'orgoglio e della
modestia.
Amore
eterosessuale, amore omosessuale... Non necessitavano entrambe della
stessa quantità di amore?
La
risposta era scritta nei loro cuori, due metà divise ed ora
riunite in un qualcosa di saldo e permanente come un fidanzamento.
«Anemone,
Camelia, tutto a posto, ragazze?
Le
vostre amiche hanno detto che non dovete tornare a casa troppo tardi,
Nardo vi ha dato un coprifuoco da rispettare e...»
Non
appena il vecchio pseudo-genitore aprì la porta della stanza
di sua nipote ammutolì, fermando ogni azione o parola, come
paralizzato.
Qual
visione, la sua dolce nipotina che lo aveva lasciato quell'estate da
poco più che una bambina inesperta delle cose di mondo ed
ora si sdraiava, lascivamente, sotto le grazie di una ragazza
praticamente sconosciuta!
Sentendosi
leggermente colpevole, Anemone si morse il labbro.
Non
intendeva assolutamente tenere la loro relazione un segreto, pensava di
liberarsi con tutta calma del mondo da quell'abbraccio intossicante e
riferire la grande notizia apertamente.
Eppure
il cattivo tempismo aveva portato suo nonno, più le sue tre
restanti compagne a fissare lei e la sua dolce metà sedute
l'una sull'altra, mano su mano, bocca su bocca, con uno sguardo degno
di un reality show, reazione più che lecita.
Ma
le due erano consapevoli che le loro vita non era un film, un fumetto,
un libro od un programma televisivo. Niente di tutto ciò era
stato calcolato, la loro vita non era fatta solo per spettacolo.
Ancora
silenzio. Solo qualche respiro profondo, il tremolio nervoso del piede
di qualcuno, un primo piano sul viso di tutti e quattro gli spettatori
sconcertati.
«Ragazze,
nonno... Giuro che posso spiegarvi tutto.»
Anemone
ricevette le occhiate più incredule, come se stesse parlando
un lingua incomprensibile.
Che
figura orribile, proprio ora che aveva risolto i conti in sospeso con
entrambe le parti.
Mentre
Camilla gesticolava confusamente e muoveva le labbra senza pronunciare
davvero le parole per scusarsi del malinteso totale accaduto con la
lavata di testa rifilata alle due sventurate amanti quella mattina,
Iris continuava a dondolare il piede nervosamente, aveva sul viso una
specie di ghigno soddisfatto ed in parte complice, o si stava
trattenendo una risata o stava immaginandosi chissà che
scena al limite dell'osceno e dello scandaloso.
Catlina
l'avrebbero detta disgustata da quelle dimostrazioni così
esplicite di impudicizia, ed invece era rimasta più che
altro a fissare un punto nel vuoto, rimuginando chissà che
cosa.
Nulla
di cui stupirsi dunque.
Per
evitare di prolungare ancora quel silenzio imbarazzante, Camelia scese
dalla comoda posizione in cui si era sistemata per godere meglio
dell'affetto della sua ragazza, quasi a sfidare tutta quella tensione
solo per qualche bacio e due o tre abbracci.
«No,
non ve lo può spiegare.» Concluse quella, con aria
di sufficienza.
Per
le due diciassettenni impegnate nella competizione per il titolo di
Campionesse questo era solo l'inizio. Le vere sfide al loro legame
affettivo non avrebbero comunque tardato a presentarsi.
❁
«Lo
sapevo! Io già lo sapevo!
Hai
visto come si guardavano questa mattina? E si tenevano strette per mano
come due fidanzatine, quelle che dieci giorni fa dicevano tanto di
odiarsi e di non volersi più parlare... Ho sempre sospettato
che Camelia ed Anemone si sarebbero messe insieme prima o
poi!»
«Mi
sembra esagerato e leggermente inquietante il voler prevedere le
relazioni amorose di una persona, Iris.»
«E
invece è una cosa molto divertente se la provi. Sai Catlina,
tutte le persone su internet si divertono a creare delle coppie con i
personaggi che sembrano uniti da un qualcosa di speciale.
Per
esempio, se due persone si guardano fisse e si lanciano sguardi, cosa
pensi possa succedere?»
«Magari
quella persona ha qualcosa nell'occhio o deve sistemarsi il
mascara.»
«Va
bene, dai, pensa a qualcosa di più intimo, come prendersi
per mano, darsi baci sulle guance, scambiarsi i Pokémon
e...»
«Anche
noi membri della Lega Pokémon ci scambiamo i
Pokémon a volte, ma non mi sembra che scambiarsi i
Pokémon sia come scambiarsi gli anelli ad un
matrimonio.»
«Aspetta
Catlina, non lo sai che scambiarsi i Pokémon è
segno di amore implicito?»
«N-Non
è così, io...»
«Qualcuno
ci sta provando con te e tu non te ne sei neppure accorta! Dovremmo
cominciare a shipparti sul serio, dobbiamo assolutamente inventarci un
nome per questa coppia come fanno nei blog online!»
«Scipparmi?!
Significa che mi deruberete? In quel caso potrei fare ricorso al mio
avvocato.»
«No,
qui non c'entrano i soldi, è tutta questione di amore e di
scambi e di passione...»
«V-Voi
di Unima avete davvero molta immaginazione.»
«Boh,
siamo solo piuttosto aggiornati in campo di shipping e di fandom
secondo me.»
❁
Behind
the Summery Scenery #13
1. Questo
capitolo è definitivamente uno dei i capitoli che mi hanno
richiesto più tempo per la stesura: avevo cominciato a
scriverlo nel marzo 2015, quando ESG aveva appena cominciato la
pubblicazione. Verso agosto dello stesso anno indovinate cosa succede?
Mentre salvavo un progetto di inglese il file si è
sovrascritto al testo del capitolo. In quel momento avrei avuto
l'istinto di smettere con le fanfiction e darmi all'ippica.
2. Come avevo
accennato in passato, ESG si compone di tre stagioni da 12 capitoli
ciascuna.
Sono divise
in base alla span temporale che occupa ognuna: la prima è
ambientata a giugno, questa (ovvero la seconda) a luglio e la terza ad
agosto.
Questo
capitolo è ambientato esattamente il primo di luglio ed oggi
è...
3. In questo
capitolo mi sono divertita a creare una specie di parodia ai processi
tipici dei telefilm e anche della storia antica: ho spulciato alcune
cose dalla Prima Catilinaria di Cicerone e dall'Uccisione di Eratostene
di Lisia.
4. Il titolo
è cambiato ancora, yee. E ora torna tormale *whooosh*
5. Se nel
2013 per me 7 pagine di Pages (perché Word mi schifa assai)
erano la lunghezza massima di un capitolo vero e proprio, ora invece
stappo lo champagne se non sforo le 40 pagine.
La mia prof
di italiano aveva ragione, dovrei dedicarmi all'ippica alle volte.
6.
Qui assistiamo inoltre alla seconda puntata di "Momo e la coerenza", in
cui la nostra protagonista introduce un nuovo O.C. dopo aver scritto
una rabbiosa invettiva contro l'uso di tale tecnica di scrittura.
Anyway.
Ottaviano
è il mio imperatore romano preferito e
le sue vicende biografiche mi hanno ispirata molto: a quanto pare lui
era un ottimo padre, ma superbigotto e conservatore, e sua figlia
Giulia, beh... era un po' la Camelia di turno.
7.
Ora rispondo con tono molto sassy agli hater del punto sopra: Fedio
invece esiste, lol.
E
niente, se non ve lo ricordate andate a cercarvelo su
Pokémon Central Wiki. Non posso fare tutto io.
8.
Adesso Anemone ha il cellulare nuovo, un fantastico Samsung S6 con 32
giga di memoria.
Non
permetterà neppure che esso subisca un graffio per tutta la
storia d'ora in poi, tanto che per evitare che lo schermo si rompa lo
adagia sempre sulle sue morbide gambe.
10.
La scena del limone duro fra le nostre esponenti delle unioni
(in)civili poco legali è la trasposizione in prosa tradotta
del Carme V di Catullo "Vivamus atque amemus". E' una bella elegia,
leggetevela che è molto romantica.
11.
Questo è probabilmente il capitolo in cui ho raggiunto
l'apice della prolissità. Infatti da qui in poi mi sono
ripromessa di essere più sintetica, o quest'anno alla
maturità mi bocciano sul serio. Spero di mantenere la mia
promessa, per il bene dei lettori.
Update: non mi hanno bocciata.
12. La coppia Camelia X Anemone penso sia l'unica ampiamente accettata
dal fandom presente in questa storia. Si chiamerebbe Airplaneshipping, ma
siccome così mi sembra il nome di una compagnia di
spedizioni leggermente migliore di Chinapost, in questa storia possiamo
chiamarla StarrySkyShipping visto
che Camelia è definita una "stella" che scintilla nel buio
ed Anemone è il suo cielo, mediante il quale essa
può brillare. Inoltre, le due si dichiarano amore eterno
proprio sotto un cielo stellato, non è carino come nome
quindi?
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Capitolo 14 *** Noi siamo un po' diverse ***
ESGOTH 5
❁
A story
by: Momo
Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
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Early
Summer Girls
❁
Capitolo
14
Noi
siamo un po' diverse
Dopo
pranzo e prima degli allenamenti pomeridiani, il Campione Nardo aveva
sempre lasciato un'oretta vaca da impegni o programmi per le ragazze,
nonostante il loro ruolino risultasse sempre e comunque fitto e pieno
di impegni.
Dalle
otto del mattino alle sei della sera, coprifuoco alle dieci e sveglia
alle sette, tanti numeri e tanti orari scandivano la routine delle
aspiranti Campionesse, le lancette dell'orologio non smettevano mai di
ticchettare una marcia rigorosa, militare, esigente della loro
concentrazione a tutte le ore del giorno.
Ma
non in quell'ora di dolce e meritato ozio.
La
quiete lì rallentava lo scorrere del tempo, giocava a
ribaltare
la sabbia nella clessidra per far riprendere fiato alle ragazze.
«Axew
usa Gigaimpatto! Dragonite vai con Tuonopugno!»
Solo
una di loro sentiva gravare sulle sue spalle il dovere morale di non
interrompere ancora l'allenamento, non per un desiderio spontaneo di
migliorarsi ulteriormente, ma più che altro spinta dalla
necessità di essere, se non migliore, almeno allo stesso
livello
delle altre.
Come
ci è ben noto, Iris odiava perdere. Lo odiava e basta, non
poteva farci nulla.
Recentemente,
grazie a qualche consiglio benevolo e l'aver assistito a lotte a dir
poco mozzafiato, aveva riacquisito una certa confidenza, che le aveva
infuso di nuovo la voglia di mettersi in gioco.
Non
che ciò avesse diminuito di molto il numero di sconfitte che
subiva quotidianamente.
Ogni
tanto faceva errori stupidi, per i quali valeva la pena battersi la
fronte; altre volte invece non capiva neppure dove stesse sbagliando,
sapeva solo che i suoi Pokémon erano piombati a terra,
incapaci
di continuare a combattere, e lei stava lì a guardarli
sbigottita.
Era
solo colpa sua se aveva perso, non poteva incolpare nessuno e
ciò la frustrava.
Ad
Iris non rimaneva altro da fare se non sfruttare ogni secondo
antecedente al torneo per esercitarsi, allenare i suoi
Pokémon,
rimuginare sulle strategie, preparare piani per la battaglia.
Aveva
trascurato questo suo dovere per troppo tempo, ed ora ne pagava le
conseguenze.
I
due draghi si lanciarono prontamente all'attacco, performarono le loro
mosse mettendoci grinta e passione, obbedendo alla loro Allenatrice
come soldati fedeli solo al proprio duce, con il petto in fuori e lo
sguardo concentrato nelle loro azioni.
Iris
riteneva entrambe i suoi Pokémon straordinari e per nulla al
mondo avrebbe osato accusarli delle sue sconfitte.
Del
resto, un allenatore che sgrida i propri Pokémon
è come un contadino che sgrida la terra su cui lavora.
Il
mese di luglio era da poco iniziato e già l'ondata di caldo
che
periodicamente investiva la regione cominciava a farsi sentire
pesantemente, tanto che stare fuori all'aperto era diventato
letteralmente impossibile: la calura ammattente rendeva lungo e
faticoso il minimo movimento.
Lì
sul campo di lotta dove erano sempre solite allenarsi, Iris continuava
a farsi e disfarsi la coda di cavallo pur di trovare un modo per
sollevarsi i capelli dal collo sudato, anche sventolarsi continuamente
con le mani provocava sulla sua pelle sensazione di soffocamento e
realizzò di star percependo in bocca una sete terribile.
Allenarsi
sotto il sole cocente, sudare sette camicie (ed il suo yukata) per una
competizione in cui non vedeva neanche un'assurda
possibilità di
vincita, impiegare l'unico momento libero della giornata per
affaticarsi ancora di più... Era quello in significato
dell'impegno?
Si
chiese la ragazzina, ormai al limite della sopportazione.
«Che
schifo che faccio, - cominciò con voce lamentosa, come il
coro
di una tragedia - forse sarei veramente dovuta partire per Hoenn o per
Sinnoh e diventare Coordinatrice...
E
se mi avessero presa per un Varietà Pokémon?
Tanto anche
lì si tratta solo di improvvisare una stupida coreografia e
sorridere in un vestitino ridicolo davanti al pubblico...»
Le
venne voglia di sbattere al suolo la Poké Ball che stringeva
fra
le mani proprio come Anemone aveva gettato il suo telefonino in preda
all'ira. Tuttavia sapeva che era ancora più stupido ed
infantile
arrabbiarsi per la propria inettitudine, e perciò si
trattenne
una scenata degna di una rappresentazione teatrale.
Tutti
gli sforzi che stava facendo le sembrarono ancora una volta inutili.
Fare
l'Allenatrice era difficile, fare l'Allenatrice le richiedeva troppa
pazienza, fare l'Allenatrice costa tempo e molti soldi, fare
l'Allenatrice le sembrava il genere di mestiere meno adatto a lei.
Iris
fece per richiamare Axew nella sua Poké Ball con un mesto
sorriso sulle labbra come aveva già fatto con Dragonite: ma
proprio quando fu in procinto di proferire quelle parole le parve di
vedere un intenso bagliore, dovette socchiudere gli occhi nocciola per
via dell'intensità di quella luce.
Si
preoccupò molto, e la prima cosa che fece fu constatare che
il
suo piccolo Pokémon Zanna stesse bene, ed il risultato della
sua
analisi la sorprese alquanto, ma in senso positivo.
Dopo
che quel bagliore improvviso si fu dissipato udì un verso
che
ricordava solo vagamente quello del suo amato compagno di giochi,
suonava come un ruggito molto più potente, non feroce od
aggressivo, esprimeva uno stupore quasi pari a quello della sua
Allenatrice.
L'ombra
che il drago proiettava sul terreno era aumentata di ben mezzo metro,
le zanne si erano allungate cospicuamente, proprio in quel pomeriggio
estivo che sembrava così brutto e dimenticabile.
Quello
che finora era stato definito un Axew, da adesso in poi
dovrà essere appellato con il nome di Fraxure,
«Non
ci credo, ti sei evoluto! Sono così fiera di te, adesso non
sei più il mio piccolino, eh?»
Iris
corse incontro al suo Pokémon e lo abbracciò,
facendo pur
sempre attenzione a non ferirsi con quelle lame così
affilate
che il Pokémon Mascellascia presentava sul corpo.
La
ragazzina si sentì felice per lui. Conosceva allenatori che
erano nati, vissuti e cresciuti al fianco dei loro amici
Pokémon, e per lei non era stato così, lei e
Fraxure si
conoscevano da soli tre anni, eppure ciò non le aveva
impedito
di godersi l'amicizia del suo compagno drago come fosse millenaria.
Era
fiera di lui. Lo ammirava in un certo senso, anche lei come persona
sognava un giorno di evolversi, di diventare più grande e
più matura, per affrontare i nuovi pericoli davanti a cui la
vita l'avesse messa e per sperimentare su di sé il concetto
di
crescere, maturare sia fisicamente sia psicologicamente.
Fraxure
ce l'aveva fatta nel frattempo, a lei rimaneva ancora molta strada da
fare.
Continuò
ad accarezzarlo, sperimentando come la corazza che gli ricopriva il
torso fosse diventata ruvida e tagliente come carta vetrata.
Improvvisò perfino una danza della vittoria, esultando e
ridendo
all'apice della felicità.
«Sai
che facciamo adesso? - gli disse, molto in confidenza - Andiamo dalle
altre e gli facciamo vedere che figata di Pokémon sei
diventato
adesso!
E
al torneo regionale, noi due, le mie compagne... Le
polverizziamo!»
E
così corse ridendo tutta eccitata verso l'interno della casa
del Campione.
Aveva
l'obbligo di togliersi sempre le scarpe prima di entrare, con i piedi
nudi compieva passi ritmici e gioiosi come una ginnasta, stendendo le
braccia percepì una sensazione di fresco definitivamente
molto
più piacevole di quella sperimentata all'aperto poco prima.
Ormai
conosceva abbastanza bene la residenza estiva di Nardo, anche se il
gran numero di particolari che la addobbavano la stupiva ogni volta che
vi si addentrava: ogni tanto riusciva a notare un nuovo quadro
raffigurante paesaggi come mari in tempesta o vulcani in eruzione,
qualche ideogramma dal significato sconosciuto finemente intarsiato
sugli stipiti, e poi vasi, strumenti, perfino una katana nera in ebano
faceva viaggiare con la mente i visitatori verso uno scenario orientale
ed affascinante.
Tutto
d'un tratto una voce roboante e profonda ma dal tono piuttosto allegro
sorprese la ragazzina dalla carnagione ambrata, arrestando il suo
incedere contento.
«Iris,
- Nardo appariva come un personaggio davvero pittoresco perfino
all'interno delle mura domestiche - ti vedo piuttosto contenta
oggi...»
Mossa
da quel senso di piccolezza che si prova di fronte ad una persona
più anziana ed importante, Iris abbozzò un
inchino,
farfugliando una risposta monosillabica in preda all'imbarazzo.
«Ad
ogni modo, carissima, - Nardo sembrò ritornare serio - oggi
pomeriggio niente allenamenti: ho un lavoretto speciale da assegnare a
voi cinque, una specie di missione.»
La
parola "missione" evocò immagini ben definite nella testa di
Iris, che già aveva associato il termine ad azione,
sparatorie,
intrufolarsi in fortezze protettissime, aggeggi tecnologici, esplosivi,
un agire furtivo e scaltro dove non sono ammessi errori.
Una
missione era un qualcosa di più importante di un semplice
"compito" o "dovere", si caricava di un significato profondo e sociale,
la difesa della patria e degli innocenti, la sconfitta del male per
mano del bene, il trionfo della giustizia e della libertà.
Tutte
teorie molto astratte, e magari il senso di quella parole era pure
ironico.
Lasciò
che il vecchio uomo pazzo continuasse, senza neanche fiatare.
«Ai
Magazzini Nove, la zona commerciale di Unima, sono stati riscontrati
alcuni disagi quali strane sparizioni dei Pokémon di
numerosi
clienti, che sono state attribuite a qualche banda di ladri
giovanissimi.
Per
evitare che questi probabili furti si propaghino nel tempo ho chiesto
personalmente di intervenire, ma vedi, siccome sto invecchiando e voi
ragazzacce sembrate abbastanza a vostro agio in ambienti
così
affollati e caotici come i centri commerciali...
Oggi
pomeriggio quindi, voglio che facciate del vostro meglio per acciuffare
questi criminali, senza "se" e senza "ma", voglio che dimostriate alla
regione di non essere solo dei bei visini che non sanno neppure da che
lato tenere una Poké Ball.»
Il
Campione della Lega le fece poi cenno di riferire alle altre. Lei
annuì e con passo sveltito si diresse nella grande stanza in
cui
lei e le sue compagne dormivano.
Prima
che potesse allontanarsi di tre o quattro passi, Nardo tuonò
di nuovo.
«E
allora? - Iris lo guardò per l'ennesima volta completamente
sbigottita - Non mi dici perché sei così allegra
oggi?»
Notò
una certa dolcezza quasi tipica di un nonno in quella voce.
«...I-Il
mio Fraxure si è evoluto.» Ricordò
quella dannata
regoletta secondo cui bisogna riferirsi al Pokémon evoluto
con
il nome del suo stadio corrente.
L'uomo
le poggiò una delle sue possenti mani sul capo e le
strofinò la testa, scompigliandole tutti i capelli violetti
e
poi le fece un segno di consenso col pollice.
Con
tutto l'imbarazzo possibile, Iris si diresse speditamente alla sua meta.
Tranquillamente
aprì la porta, giocherellando con la Poké Ball di
Fraxure
lanciandola da una mano all'altra a mo' di giocoliere e parlando in
modo piuttosto amichevole.
«Vi
devo dare una notizia bomba, e sottolineo "bomba", ma prima che mi
dimentico; ho appena beccato Nardo e mi ha detto che oggi pomeriggio
non ci alleniamo, dobbiamo andare ai Magazzini Nove perché
ci
sono tipo dei ladri di Pokémon che scippano i clienti e in
teoria noi dovremmo trovare il modo di catturarli, quindi volevo sapere
se...
Ma
perché siete tutte mezze nude?!»
Dopo
tre passi contati all'interno della stanza Iris si paralizzò
e
tutto quello aveva intenzione di chiedere riguardo alla loro
importantissima missione lasciò immediatamente il suo
cervello.
Era
terribilmente confusa, e come fosse affetta da una qualche strana forma
di autismo, cominciò ad analizzare la scena nei minimi
particolari, senza spiaccicare parola.
Tanto
per cominciare, la musica alta che proveniva probabilmente dal
cellulare di una di loro (una canzone che a dir poco detestava per via
dei bassi martellanti e dell'eccessivo uso del sintetizzatore) le stava
sfondando i timpani.
In
secondo luogo provò a focalizzarsi sul tremendo odore di
chiuso
che permeava l'ambiente, dovevano essere le finestre serrate per
impedire il passaggio del caldo, la magione era munita dell'aria
condizionata e lì dentro si rischiava addirittura
l'assideramento da come la stessero tenendo al massimo.
Alla
fine Iris non ce la fece più e si trovò
inquadrata da
quattro paia di occhi uniti a degli sguardi rilassati, indifferenti e
poco scossi.
La
fecero sentire un'intrusa, e, a confermare questo suo presentimento,
constatò che le sue care compagne, per utilizzare un
eufemismo,
erano tutte e quattro impegnate nel farsi ligiamente gli affari loro
prima che lei entrasse a disturbarle.
Aveva
percepito dall'odore nauseabondo di tinta e prodotti alcalini che
probabilmente anche quel giorno Camelia lo avrebbe consacrato
all'adornare e abbellire la sua figura, i due lembi di capelli che di
solito lasciava ricadere ai lati del viso ora erano pinzati da due
forcine sopra la testa e la frangetta nera, sollevata anch'essa, ne
lasciava intravedere la fronte e le sopracciglia.
A
pensarci bene, la ragazzina non aveva mai contato neppure una volta in
un mese di convivenza quanti tipi di cosmetici, creme, e balsami la sua
compagna si mettesse pur di apparire sempre così bella
esteticamente, scorse solo in quel momento la minuziosità
che
stava impiegando nel rimuovere i più piccoli residui di
colore
nero opaco rimastele sul volto.
Senza
restarne troppo sorpresa, si sarebbe aspettata di vedere Anemone
attaccata al suo manga momentaneo, in una stramba posizione di lettura
con le gambe a ridosso della parete disposte verticalmente, teneva il
piccolo volume al contrario di fronte al viso; nonostante anche a lei
piacessero quel genere di prodotti d'intrattenimento nipponici, aveva
avuto modo di scoprire come i suoi gusti in fatto di fumetti manga e
quelli della rossa fossero totalmente diversi.
Riuscì
a discernere sulla copertina l'immagine di una ragazza in tenuta di
combattimento disegnata con proporzioni assurde, che avrebbero spinto
gli stessi Raffaello e Michelangelo a strapparsi i capelli da come la
testa di quell'eccentrica protagonista stesse sì sette volte
nel
corpo, ma almeno quattro o cinque anche nel suo seno.
Catlina
e Camilla erano sedute insieme l'una a fianco all'altra. Anche questa
volta ritenne una banalità, un dato di fatto a cui si era
abituata con il tempo e non la insospettiva più che la
biondina
aristocratica stesse mostrando qualcosa sul suo cellulare alla leader.
Quest'ultima
si dimostrava molto interessata, e alla ragazzina dai capelli viola
dispiacque un po' che le due bisbigliassero e non le permettessero di
ficcanasare nella loro conversazione.
Osservando
bene come il dito esile della compagna più grande scorresse
veloce attraverso lo schermo, immaginò si trattasse di
messaggi.
Per qualche ragione stupida non riusciva davvero ad immaginare una come
Catlina con dei contatti così umani ed informali. Camilla
intanto rideva.
A
vederle così, le due ragazze di Sinnoh sembravano le
classiche
amichette che hanno combinato un qualcosa di speciale e che le compiace
talmente tanto da poterne gioire solo fra loro.
Normalità
e stupore, sconcerto e calma, una storia di ordinaria follia: alzandosi
da terra la Campionessa fece cenno alla mora di abbassare il volume
assordante della musica che proveniva dal suo telefono, la rossa fece
disinvoltamente una capriola all'indietro portando il peso dei piedi e
del sedere verso l'esterno e riuscì a sedersi sulle
ginocchia
senza sgualcire il suo diletto volume, la giovane dagli occhi vitrei
fece per stirarsi le braccia e la schiena.
Iris
notò come quella sensazione mista di due opposti
complementari
le facesse provare un forte imbarazzo, anche se ad indossare solo
l'intimo in quel momento non era lei.
La
sua solerzia e la sua tempestività avevano predisposto la
scena in quel modo fortuito.
«Si
muore di caldo qua dentro, e non fare quella faccia da scema, siamo fra
ragazze e le tette non ce le possiamo tagliare solo per fare un piacere
a te.»
Camelia
fu la prima a parlarle chiaramente infastidita, mentre continuava ad
asciugarsi i capelli.
Guardò
la ragazzina reclinando la testa, aspettandosi che questa reagisse alla
provocazione.
Iris
respirò nervosa, «Per favore non adesso, Nardo ha
detto
che è una cosa seria, risparmiati i commenti.»
Sperò
veramente di non invischiarsi nell'ennesima battaglia persa contro la
mora.
«Qui
ad Unima non avete un corpo di polizia, delle forze dell'ordine, un
sistema giudiziario? - le fece notare Catlina - Perché
dovremmo
occuparci noi di una cosa del genere?»
«Non
so, lo ha detto Nardo...» Iris sentì che
l'esaurimento nervoso era imminente.
«Siamo
assicurate almeno?» Domandò la stessa, rigirandosi
una
ciocca di boccoli biondi fra le dita, suonando preoccupata.
«Cosa?»
«Voglio
sapere se siamo assicurate, se siamo coperte da un'assicurazione al di
fuori degli ambienti di lavoro. Io non esco di qui se in caso di
incidente, infortunio o lesa proprietà non ho la sicurezza
di
venire risarcita per i danni fisici e morali.»
Non
appena Catlina ebbe finito di spiegarsi usando un tono di assoluto
rigore ed inflessibile professionalità, la rossa
agguantò
la massa incolta di capelli cremisi che le ricadeva sul viso.
«Oddio,
questo vuol dire che dobbiamo... Uscire? Fuori? Nel mondo
esterno?»
«Sì
Anemone, dobbiamo andare ai Magazzini Nove, appena fuori
Boreduopoli...»
La
più piccola del gruppo tentò di spiegare, ma fu
interrotta.
La
rossa parlò più velocemente e scoordinatamente,
continuando ad afferrarsi manciate di capelli come a volerseli
strappare dalla disperazione, coprendosi il volto con le mani.
«No,
no, no, no, no, io là fuori non ci vado neanche morta!
Iris,
lo sai cosa mi hanno diagnosticato un po' di tempo fa, quando mi hanno
fatto tutti i test per l'aeronautica, eh? Cito testualmente, disturbo
di personalità antisociale in stadio aggravato.
Io
appena esco da una stanza per più di dieci minuti comincio a
sclerare di brutto, e poi oggi è una giornata di sole, che
tempo
migliore per restarsene a casa a leggere manga?»
«Inoltre
non abbiamo gli strumenti adatti e neppure degli indizi su chi siano
questi ladri di Pokémon. - Continuò Catlina,
sempre
più cinica riguardo quell'assurdo progetto - Questa volta
rischiamo davvero di finire in guai grossi, e se questi criminali osano
torcermi anche un solo capello io chiamo i miei avvocati e vi faccio
causa.»
Indicandola
di scatto con l'indice, Anemone fece per alzarsi sulle ginocchia.
«Aggiungici
i danni psicologici!» La rossa e la bionda annuirono
simultaneamente per dimostrarsi reciproco consenso, la principessa e la
povera per una volta d'accordo su qualcosa.
La
ragazzina più piccola del gruppo stava soffocando l'impulso
di
gridare insulti e lanciare parole rabbiose alle sue compagne neanche
fosse impossessata da un demone.
Era
snervante come ragazze più anziane di lei, che godevano di
titoli onorifici e rispetto garantito, sapessero comportarsi da vere e
proprie bambine con le loro scuse infondate e i loro capricci.
Inizialmente
si sentì di testare da sé la violenza fisica e
psicologica, tanto per dimostrare che la banda criminale doveva essere
l'ultima cosa che gli avvocati della bionda dovessero temere.
Pensandoci
bene, non solo in quella determinata situazione, ma durante ogni
qualsiasi litigio o discussione nata all'interno del gruppo, ad essere
bloccata con le spalle al muro non erano mai le sue bizzose compagne,
era lei quella che doveva arrampicarsi sugli specchi
affinché
quelle bestie in reggiseno di pizzo non la dilaniassero con i loro
artigli coperti di smalto.
E
voltandosi verso la sua ultima speranza, «Camilla, ti prego,
aiutami tu...» mugolò con voce esasperata,
prolungando il
suono dell'ultima vocale per mostrare la sua pazienza agli sgoccioli.
La
diretta interessata fece un respiro che parve quasi doloroso, si
alzò in piedi sistemandosi l'orlo delle mutandine in modo
che le
coprisse decentemente le natiche (in effetti fu portata a riconsiderare
il proprio discorso sul sacro pudore delle donne, essendo stata lei la
prima a trasgredirlo) e si passò il palmo della mano sul
viso.
«Ragazze,
Iris ha ragione. So che a volte dover pensare alla giustizia o al bene
della regione è una scocciatura mortale, ma è
dovere di
un Campione farlo, anche controvoglia...»
«Camilla,
guarda che in verità Nardo non lascia la sedia del suo
ufficio
neppure per prendersi il caffè, spiegami dove lo vedi il
senso
del dovere.»
Domandò
Catlina, infilandosi pigramente un vestito color beige rifinito di
fiocchi e merletti, com'era suo stile e tirandolo in modo che le
coprisse appropriatamente i fianchi.
In
mezzo ad un cumulo indistinto di indumenti abbandonati a loro stessi,
Camilla frugava senza guardare in faccia nessuna di loro. Anche lei si
sentiva artefatte scocciata da quel brusco obbligo di uscire in una
giornata così torrida, anche la leader era umana dopotutto.
Ma
l'arduo compito di tenere alto lo spirito di quel manipolo di
scansafatiche era comunque suo.
«Senso
del dovere a parte, avete pur sempre una reputazione da difendere. E
non mi sembra che passare settimane su settimane ad allenarci in
segreto, ingozzarci di sushi e girare a vuoto per la regione abbia
contribuito molto a renderla una buona reputazione.»
«Ma
quale reputazione e senso del dovere, - Camelia, a dispetto di tutte,
era appena uscita dal bagno con i capelli sistemati ad arte ed il
trucco già sul viso - siete delle asociali depresse allo
stato
puro, mi viene il cancro solo a stare con voi.»
Mentre
la mora era intenta a selezionare attentamente quale outfit avrebbe
scelto per la giornata, Anemone le aveva circoscritto la vita con le
braccia, domandandole sottovoce se avrebbe definito anche lei
un'asociale depressa; senza opporre resistenza a quelle coccole la
modella le esplicò il concetto con un
«Sì, tu
più di tutte.»
«Comunque,
qual era la notizia bomba che dovevi dirci?»
Camilla
glielo domandò rivolgendole un sorriso attraverso il collo
della
camicia che stava infilando e che le aveva scompigliato il ciuffo
biondo.
Soddisfatta
del risultato ottenuto, Iris scelse di appartarsi per togliersi il
kimono ed indossare i vestiti della vita quotidiana. Era tutto
così maledettamente stupido e confuso, dava ragione alle sue
compagne, non aveva senso esporre le nuove Campionesse a rischi di quel
genere, figurarsi se avrebbero avuto anche la minima
possibilità
di incastrare quei dannati criminali.
Ma
alla fine, se avesse dovuto cercare un senso ad ogni sua singola azione
e decisione, probabilmente non si sarebbe trovata lì, a
controllare se le fossero rimasti degli spiccioli nelle tasche per i
biglietti del treno, in quel momento, a riempirsi le orecchie di urla e
vociare femminile.
❁
«Ah,
quindi il tuo Fraxure si è evoluto mentre vi allenavate?
Forte!»
Non
appena le porte automatiche si aprirono, lo scenario del vasto e
scintillante centro commerciale catapultò le cinque giovani,
che
per un mese erano come rimaste isolate dal mondo civilizzato, nella
realtà a cui appartenevano prima di unirsi alla
competizione,
ovvero quella delle adolescenti che durante il weekend vanno a fare
spese con le amiche camminando in linea retta l'una accanto all'altra
anche a costo di intralciare la via ai passanti.
Lo
scalpiccio delle suole (anfibi, tacchi alti, sandali, scarpe da
ginnastica e ballerine nell'ordine) ticchettava sul pavimento il ritmo
di una marcia irregolare e frenetica, come una schiera di soldati che
si avvicina alla prima linea nemica.
Così
le cinque stelle, le cinque speranze ed idoli di Unima avevano fatto il
loro ingresso ai Magazzini Nove, dove l'affluenza di clienti non si
fermava nemmeno per via della calura.
«Vi
prego, ci guardano tutti, andiamo via.» Anemone a causa
dell'agitazione finì per stritolare la mano della compagna
che
teneva racchiusa nella sua, che l'altra mollò immediatamente.
«Camelia,
ti avevo detto che non potevi uscire in pubblico vestita
così.»
Camilla
camminava spedita in testa al gruppo, all'apice di quell'ipotetica
formazione a piramide.
«Tranquilla
leader, - la mora le rispose convinta - possiamo girare tranquillamente
in incognito senza che veniamo disturbate dai miei fan, credici o no,
bastano un paio di occhiali da sole come i miei per questo.»
«Non
mi riferisco a quello, ma che senso ha indossare occhiali che ti
nascondano gli occhi se hai la pancia, le gambe e la schiena
praticamente nude?»
«Perdonami
se sono l'unica che ha stile qui.»
La
ragazza con la frangetta si sistemò indispettita la
canottiera
scollata e la gonna a vita alta che le lasciava però
scoperto
l'ombelico e la cui lunghezza non arrivava neppure a coprirle le
ginocchia.
Catlina
controllava silenziosamente il cellulare, in disparte nell'ala destra,
come il nunzio che aspetta il segnale di guerra del nemico, o
semplicemente un soldato che vuole evadere gli ordini del comandante.
«Avete
presente i film d'azione? Non possiamo andare in giro così a
vuoto, ci serve un piano almeno per trovarli questi ladri di
Pokémon.»
Iris
si fece avanti, aspettandosi già qualche insulto solo per
aver menzionato la "missione".
«Propongo
di usare Iris come esca. In tutti i piani c'è sempre
un'esca.»
Dopodiché
la modella cercò con lo sguardo l'approvazione delle altre
con
l'intenzione di molestare verbalmente la ragazzina: se quella giornata
sarebbe stata così inevitabilmente penosa per lei, tanto
valeva
renderla penosa anche per le altre, sopratutto per Iris.
«Se
ci dividessimo? - propose la biondina, riponendo il cellulare nella
borsetta - Questo posto è enorme, e non sappiamo quanto
questa
compagnia di ladri sia numerosa...»
«Approvo!
Approvo in pieno! Io e Anemone andiamo a controllare al piano
superiore, chiamateci se trovate qualcosa, altrimenti non osate
romperci, ciao.»
Ancora
prima di terminare la frase la mora aveva preso la povera aviatrice per
il braccio e la trascinò in direzione totalmente opposta a
quella verso cui stavano camminando le altre tre.
Le
ci vollero un paia di strattoni per convincere l'amica a seguirla di
sua spontanea volontà, essendo questa dotata di grande forza
fisica unita ad una confusione dettatale dall'agorafobia.
Le
due bionde più la ragazzina arrestarono il passo qualche
metro più in là per decidere il da farsi.
Dopo
alcuni secondi di esitazione, la vibrazione del cellulare della giovane
nobile si fece risentire, costringendo questa a riprenderlo in mano per
l'ennesima volta.
La
faccia che ella fece non appena gettò l'occhio su lo schermo
fu
la cosa più simile ad un'espressione stupita che Iris ebbe
mai
avuto modo di vedere sul suo volto.
Catlina
poi sussurrò con discrezione un qualcosa all'orecchio della
Campionessa, che sembrò capire tutto al volo, come si
trattasse
di una procedura da tempo pianificata che doveva messere messa in atto
una volta suonato il campanello d'allarme.
«Iris,
- cominciò a parlarle Camilla, con assoluta
serietà -
possiamo affidarti quest'area circostante? Penso tu sia quella che
conosce questo posto meglio di tutte noi, no?»
Camilla
in effetti era al corrente di quando la sua apprendista aveva passato
il pomeriggio con Velia proprio in quell'identico posto, glielo aveva
riferito lei stessa. La ragazzina annuì.
Ripetendole
che i loro telefonini ora fungevano da walkie-talkie e di agire il
più segretamente possibile, la Campionessa le fece un
piccolo
discorso accelerato di incoraggiamento non molto utile al suo scopo
primario, ossia quello di incoraggiare.
Poi
le due ragazze di Sinnoh si allontanarono rivolgendole uno o due
sorrisetti e, continuando a bisbigliare, scambiarsi occhiate complici e
complottando chissà che cosa, sparirono nella folla che si
ammucchiava sulle scale mobili.
Iris
fece un respiro profondo, rassegnata.
Se
loro erano in numero dispari, perché doveva essere sempre
lei
quella lasciata da parte, si chiedeva. Ma non ebbe voglia di starci a
riflettere nel bel mezzo di un atrio affollato.
«Meglio
se intanto comincio, allora, posso partire da questo piano e poi fare
il giro lungo per perlustrare tutta la zona...»
Cominciò
ad incamminarsi su di una strada invisibile, avrebbe fatto di tutto per
distrarsi in quel genere di
momenti.
Quei
momenti in cui la lasciavano irrimediabilmente sola, e non se ne
accorgevano neppure.
Le
sue quattro compagne, anche se non lo volevano, sapevano essere
terribilmente spietate.
Lo
sapeva. Ma non ci diede peso, era inutile.
«Non
posso passare l'estate a piangere. Tanto vale che mi metta a fare
qualcosa della mia vita.»
Iris
si mescolò tranquilla al flusso di clienti presenti nel
centro
commerciale, decisa a controllare attentamente ogni angolo e portare a
termine diligentemente la loro missione.
Poco
ne sapeva la nostra eroina, è vero che nei momenti di
solitudine
si fanno gli incontri migliori ma anche gli incontri peggiori.
Era
passata una mezz'oretta, che per la ragazzina si era frammentata in
continue sessioni di rapide occhiate remissive all'orologio del
telefonino, che richiudeva con tedio straziante per controllare
passivamente la zona.
Come
poteva riconoscere dei criminali ad occhio nudo? Ma prima di mettere il
carro davanti ai buoi, quei criminali erano davvero presenti in quel
giorno, in quel luogo?
Iris
non lo sapeva.
Aveva
fatto due passi intorno all'androne principale, senza entrare da
nessuna parte, ed ovviamente i risultati erano stati straordinariamente
insoddisfacenti.
Ricontrollò
il cellulare, per vedere se ci fossero messaggini o chiamate perse
dalle altre componenti del gruppo, ma il non essere cercata accrebbe
solamente la sua tristezza.
«Quanto
le odio quando fanno così, quanto le odio...» Pensò
a denti stretti.
Iris
si fermò di colpo, in mezzo a quella corrente di persone che
migravano da un negozio all'altro, le sembrò di essere
ritornata
a quegli attacchi di panico che aveva avuto il mese prima, di notte,
quando era tutta sola. Terribilmente sola.
Mentre
la piccola aspirante Campionessa stava per abbandonarsi ad una latente
disperazione, percepì una mano stringerle e scuoterle la
spalla
animosamente, costringendola a voltarsi.
Non
se lo aspettava e rimase ancor più confusa di
prima.
Ma
tutto le era preferibile a quell'orrenda solitudine.
«Ehi
ciao, ti ricordi di me?»
Per
tutti i Pokémon del mondo, certo che si ricordava di lei.
Come poteva essersela scordata?
Iris
osservò la giovane che aveva attirato così
violentemente
la sua attenzione. Non la trovò cambiata di una virgola
dall'ultima volta.
Aveva
ancora i capelli color fucsia acceso, non li avrebbe detti il prodotto
di una tinta da quattro soldi, quel taglio sbarazzino corto tuttavia
sprizzava una certa femminilità.
Era
vestita normalmente, una camicia lunga aperta che seguiva
pedissequamente la moda di quel periodo abbinata ad una maglia ed un
paio di jeans non troppo scosciati.
Le
scarpe che indossava erano identiche alle sue, solo di un colore
diverso.
Iris
l'avrebbe senza dubbio definita una ragazza trendy e piuttosto carina,
una che sa far risaltare la propria figura senza bisogno di tacchi alti
o reggiseni imbottiti.
«Sì
che mi ricordo di te, - le rispose, contenta di rompere quel lungo
silenzio - ma non mi ricordo come ti chiami, scusa, magari me lo avevi
anche detto, ma non mi viene in mente...»
L'altra
ragazza si mise a ridere istantaneamente; Iris si focalizzò
sugli occhi di lei, non si sarebbe mai dimenticata quel colore
così singolare ed affascinante: azzurro chiarissimo, il
colore
degli iceberg che emergono dall'acqua ghiacciata e sotto la luce del
sole rilucono come zirconi.
«Tranquilla,
non pretendo che il mondo intero mi conosca...
Comunque
mi chiamo Georgia, c'eravamo viste qualcosa come un mese fa, sempre
qui...»
Iris
le sorrise a sua volta, imbarazzata. Se avesse aguzzato di
più
la vista non solo si sarebbe ricordata il suo nome, ma l'avrebbe
riconosciuta e salutata per prima.
Così
l'aveva solo messa a disagio, probabilmente.
«Ma,
cioè, sei qui da sola?» Georgia le
domandò, curiosa.
Iris
rispose, a malincuore, cercando di celare il dispiacere che aveva nella
voce.
«No,
nel senso... Sì, e-ero qui con delle mie amiche, ma se ne
sono
andate per gli affari loro e quindi io...»
La
ragazza la interruppe.
«Certo
che queste tue "amiche" sono proprio delle bastarde.»
Quella
arricciò il naso, alzò le spalle e stesse a
godersi la
giovane dai capelli viola, che le stava mostrando un'espressione
facciale senza prezzo, come se lei avesse detto chissà che
perla
di saggezza.
«Ma,
no, è solo che forse avevano di meglio da fare, sono anche
più grandi di me, quindi me la metto via...»
Nel
parlare sforzandosi di mantenere il sorriso, Iris balbettò
così tanto che l'altra ne ebbe quasi pena.
«Oddio,
ti capisco! Ho pure io delle, come posso chiamarle, conoscenti? Anche
no, e queste sono tutte più grandi di me, mi fanno venir
voglia
di tagliarmi le vene da quanto stupide sono.»
Iris
si meravigliò che qualcuno la capisse, credeva di essere
l'unica
al mondo a dover sperimentare l'essere la più giovane del
proprio gruppo e tutti gli svantaggi a ciò annessi.
«Io
le mie devo vederle tutti i giorni, tu non hai idea del disagio che si
prova...»
Scoppiarono
entrambe a ridere. Ma intanto la ragazza si chiese se il suo cervello e
la sua bocca fossero connessi l'uno con l'altro in quel momento.
Era
vero ciò che stava sostenendo? Odiava davvero le sue
compagne? Forse sì, forse no.
Non
ebbe un secondo per pensarci concretamente.
«Senti,
hai voglia se ci facciamo un giro noi due, fregandocene del resto?
Guarda
che la volta scorsa me la sono legata al dito, non succederà
che
io ti lasci vincere ancora a quel gioco con le pistole che abbiamo
provato la volta scorsa all'arcade.
Vieni,
dai, ti offro io due partite.»
«Oh
cavoli, grazie Georgia, ma davvero, non serve che paghi tu...»
A
dirla tutta Iris parlò solo per educazione: le erano rimasti
davvero pochissimi soldi in tasca ed era abbastanza sicura
che
suo nonno non gliene avrebbe anticipati altri prima della fine del mese.
«Dai
Iris, non fare la rompiscatole, e andiamo.»
«Okay,
va bene, mi hai convinta.»
Le
giovani si incamminarono l'una accanto all'altra, ma la sensazione che
condividevano non era quella di mera sopportazione e forzata
convivenza. Avere la stessa eta fisica e mentale fece sì che
le
due si sentissero sincronizzate su molto aspetti della vita che le loro
compagne più adulte consideravano stupidi e banali,
togliendo
alle ragazze che dovevano ancora avere quell'esperienza il brivido e
l'entusiasmo tipica della giovinezza.
«Ma
lo sai che hai proprio un bel cappello? Dove lo hai preso?»
Iris
indicò entusiasta il berretto nero sulla testa della sua
nuova
amica, molto moderno con la visiera rigida e piatta, le piaceva
veramente, anche se lei personalmente non se ne sarebbe mai comprata
uno.
«Ah,
questo? - Georgia fece una smorfia sbigottita dall'osservazione
così puntuale - È un'edizione limitata,
è come se
me lo avessero regalato e quindi sinceramente non lo so dove lo abbiano
preso.»
«Per
caso sai cosa vuol dire quel simbolo bianco sopra la visiera? A me
sembra tipo un simbolo geroglifico ma magari è solo per
bellezza
e non ha nessun significato...»
La
ragazza dai capelli corti la interruppe bruscamente, parlando con tono
molto più serio del precedente.
«Questo
simbolo è una Mano di Fatima.
Simboleggia
forza, prosperità e fortuna per il futuro.
Praticamente
questa Fatima era la figlia illegittima di un grande profeta e per
questo fu allontanata e costretta a vagare nel deserto
finché,
quando era ridotta allo stremo, incontrò Dio che le impresse
sui
palmi delle mani questi segni portafortuna e le disse di portare il suo
messaggio di pace e speranza in tutto il mondo.
Solo
che gli uomini non le credettero e per punirla le tagliarono il pollice
ed il mignolo delle mani.
Insomma,
ecco cosa succede a chi cerca di portare un po' di giustizia nel
mondo.»
Fra
le due ci fu un breve silenzio. La ragazzina dai capelli viola rimase a
bocca aperta, quella era la seconda volta che le succedeva in presenza
di quella misteriosa giovane dagli occhi glaciali.
Com'era
intelligente, colta, sagace, decisamente attraente e perfino brava ai
videogiochi!
Non
aveva mai incontrato una come lei, ne restò completamente
ammaliata.
«Wow,
che cosa forte. È bellissimo e ha pure un significato
profondo.
Mi fai sentire una sfigata così...» Ammise
onestamente, ma
senza alcun tipo di gelosia o rancore.
«Cosa
spari Iris, sei una delle persone più giuste che conosca. -
Le
rispose l'altra - Io mi sarei troppo incavolata se delle deficienti con
le mestruazioni isteriche mi avessero scaricato così, ma
perché frequenti gente del genere, scusa...
Vabbè,
chi se ne importa, muoviamoci o ci fregano il gioco.»
Mentre
ridevano, scherzavano e si divertivano assieme, Iris si
ripeté
nella mente, rimuginando e rimuginando su quelle parole senza riuscire
ad ignorarle o cancellarle dai suoi pensieri.
«Quattro
deficienti con le mestruazioni isteriche.»
«Ma
hai davvero tutta questa voglia di andare a cercare questi fantomatici
ladri di Pokémon?»
A
forza di strattonare, porre resistenza e camminare velocemente al
seguito della sua personalissima despota, ad Anemone era venuto il
fiatone.
Si
domandava come facesse quella a camminare sui tacchi dodici a tale
velocità senza scomporre la sua andatura flessuosa ed il suo
incedere simmetrico e regale.
La
stupì il fatto che anche nella vita di tutti i giorni
Camelia
camminasse incrociando i piedi uno davanti all'altro, come se stesse
ancora sfilando sulle più famose passerelle di Unima.
«Che
stupida che sei, - le giunse in risposta, e lei chiuse un occhio su
quell'appellativo tutt'altro che gradevole - ti sembra una cosa normale
andarsene ad un centro commerciale per giocare ai supereroi?
Almeno
qui non abbiamo Camilla a stressarci ogni cinque minuti
perché
"non posso andare in giro vestita cosi" e scemenze varie...»
La
mora non si fermò né rallentò di un
millesimo di secondo.
«Dove
stiamo andando? Perché cammini così veloce? Dai,
sai che
questo genere di posti non mi piace per niente.»
Anemone
provò a far leva sulla sua presunta agorafobia: detestava i
posti affollati, quella della sua presunta malattia forse non era
neppure una balla, tanto che se non avesse avuto il bisogno di lavorare
si sarebbe volentieri chiusa nella sua stanza a vita, a passare le
giornate fra anime, manga e videogiochi.
«Tesoro
mio... - rispetto a prima, gli occhi della rossa si illuminarono
all'essere chiamata in tal modo - mi avevi fatto una promessa,
ricordi?»
«C-Cosa
ti avevo promesso?» Disse lei, sorridendo leggermente,
divenuta
curiosa di sapere cosa avesse inconsapevolmente promesso al suo tesoro.
Quando
la sua compagna aveva rallentato di colpo il passo, si rese conto che
ormai era troppo tardi; si trovò costretta a seguirla
all'interno di un locale dall'asfissiante odore di tessuti sintetici.
La
ragazza dai capelli carmini si era trovata nel corso del suo
apprendistato da pilota a volare attraverso le tempeste, a fare manovre
assai rischiose sottoposta solo alla forza di gravita, sospesa nel
mezzo del nulla.
Infatti
in quel momento avrebbe di gran lunga preferito dover guidare un aereo
in mezzo ad un uragano piuttosto che entrare in un negozio di vestiti
firmati.
Le
luci così folgoranti la fecero sentire una cerva accecata
dai
fanali di un'automobile, sperò che fra le numerose ragazze
che
si dilettavano a sperperare i loro risparmi in comunissima stoffa
valorizzata da una stupida etichetta non ci fosse nessuna delle sue
colleghe di lavoro.
«Conosci
questo posto?» Le domandò la compagna, che si
guardava
intorno come un Allenatore alla ricerca di Pokémon selvatici
nell'erba alta.
«No,
ti prego, portami via.» Lei ribatté secca, sul
punto di scappare via terrorizzata.
Camelia
sorrise; curvò leggermente il polso indicando con la punta
dell'indice un grande poster appeso alla vetrina: un poster enorme,
avrebbe potuto tappezzarci la sua stanza.
E
alla rossa non parve poi così ostile ai suoi desideri questa
cogitazione: una bella ragazza dai capelli biondi tagliati corti e la
frangetta che le nascondeva le sopracciglia la stava fissando con
un'espressione basita e scandalizzata, le labbra coperte di rossetto di
color ciliegia.
L'osservatore
aveva quindi l'impressione di aver colto la giovane in un momento
intimo, la gestualità di ella consisteva nel voltare il capo
girata di spalle, con le braccia diafane atte a coprirle il prosperoso
seno, che si intravedeva a malapena dietro la schiena scoperta.
Ma
ancor più appariscente di tutti questi allettanti dettagli
era
il nome vagamente anglofono della marca di blue jeans che appariva
sullo sfondo, azzeccata come un pugno in un occhio.
«Questa
marca la adoro, - la mora pronunciò il nome con il suo
perfetto
accento inglese, mentre l'altra non riuscì neppure a
figurarsi
come si leggesse quella parola - veste praticamente tutti i tipi di
corpo. Non è solo per le anoressiche che portano la
ventotto.»
Anemone
non si sprecò neppure nel capire che cosa stesse a
significare quel ventotto.
Povero
numero, pensò. I numeri, a suo parere, stavano bene nelle
equazioni, nelle espressioni a far compagnia alle lettere delle
incognite, nei grafici cartesiani e nei problemi di fisica.
Anche
lei in quel momento si sentiva un numero fuori dalla sua espressione
lineare.
Però,
a fare da contrappeso nella bilancia delle sue preoccupazioni, vedeva
che Camelia era felice. Cioè, "felice" nella misura in cui
una
come Camelia poteva essere felice.
Stava
osservando con apparente noncuranza i vestiti appesi alle attaccapanni,
tradendosi però con il suo stesso sguardo, concentrato come
se
stesse affrontando un'importante lotta in Palestra.
«Sono
una debole, una smidollata, la sottomessa delle due, perché
mi
lascio comandare così...» Anemone
cercò di
ricondursi alla ragione. Poi riguardò la sua compagna.
«Ma
cavoli, perché io la amo così tanto, peggio di
una stupida!»
Si
corresse: non compagna. Bensì fidanzata.
La
cifra d'amore che stimava per Camelia era un numero con miliardi di
zeri in coda, potenza di dieci all'ennesima, moltiplicata per
altrettanti insiemi di numeri infiniti.
Il
suo ego dunque rappresentava solo una frazione infinitesimale, zero
virgola zero periodico.
La
continuò ad osservare in religioso silenzio, mentre la
Taylor faceva shopping.
«Anemone,
amore.» Si sentì chiamare e suo malgrado non
esitò a risponderle.
Le
brillavano gli occhi. Si appuntò che fra le pochissime cose
che
riuscivano ad ammorbidire la sua morosa tenera come un blocco di
cemento c'erano i negozi dal nome impronunciabile.
«Quale
ti piace di più?» La modella le domandò.
Le
mise davanti a scopo di confronto due t-shirt che differivano per il
colore, non per il modello.
Una
maglietta a mezze maniche lunghe fino ai gomiti, che però
scopriva la pancia, il tronco aveva un taglio decisamente troppo corto.
Tuttavia
non sembrava uno di quei top attillati per dare alle acquirenti la
falsa speranza di far risaltare forme inesistenti: era larga, morbida,
per nulla succinta.
Oggettivamente,
Anemone poté dirsi interessata per la prima volta in tutta
la
sua vita ad una questione di vestiti. Quella maglia era oggettivamente
bella.
«Non
so, a te quale piace?» Si dimostrò piuttosto
trasparente la ragazza.
«Quella
che piace a te, altrimenti cosa mi faccio, le domande da
sola?» Ribatté l'altra, pungente.
Non
che ci fosse molta scelta, non si trattava di trigonometria, poteva
farcela anche una stilista inetta come lei; Anemone si convinse: bianca
o blu scuro.
Indicò
dubbiosa la seconda, incrociando gli occhi spazientiti della fidanzata,
alla ricerca di un minimo segno di approvazione.
Quella
le sorrise: Anemone gioì di aver risposto giusto a quella
specie
di test in cui nessun libro di scuola le avrebbe potuto fornire la
soluzione, non importa quanto avesse studiato.
«Definitivamente,
- Camelia le pose l'indumento scelto davanti al petto - il blu
è il tuo colore, cara.»
Le
sussurrò all'orecchio, sempre più raggiante.
«A-Aspetta,
Cami, io credevo che volessi comprarla per te...»
La
sua protesta fu interrotta, o meglio, fu la pilota stessa ad
interrompersi scoprendo che l'altra non aveva ancora finito di parlare.
«Non
mi sembri una che mette gonne, ma voglio fare un tentativo, mi sento
masochista oggi. - Scherzò la mora, proseguendo la sua
attenta
ricerca fra gli appendiabiti - Tranquilla, niente minigonne o tubini
stretti, se la maglia è così corta puoi sempre
coprire
con... Vita alta, ecco.»
Anemone
la guardò compiaciuta, mentre scrutava la gonna abbinata:
graziosa, dello stesso colore blu notte della t-shirt, lunga fino al
ginocchio e per nulla attillata sui fianchi.
Quel
completo rappresentava il perfetto connubio fra fascino e
semplicità, moderno e tradizionale.
La
modella doveva aver ben presente che vestirsi bene e vestirsi poco
fossero due cose totalmente differenti. Erano solo i suoi outfit
piuttosto rivelatori a far combaciare i due concetti.
«La
mia taglia?» La rossa interrogò la sua ragazza,
per metterla alla prova.
Camelia
si posizionò davanti a lei, come aveva fatto per confessarle
il
suo amore, facendo combaciare il suo girovita con quello dell'amata,
disegnando con le mani due rette parallele tangenti ai larghi fianchi
di entrambe le fanciulle.
«Trentotto...
Trentotto. Abbiamo la stessa taglia.» Aggiunse
semplicemente.
Un'uguaglianza
perfetta di proporzioni a dir poco perfette.
«La
"trentotto" sembra molto. più grande della cosiddetta
"ventotto".»
Rimarcò
Anemone, che aveva appena intuito che la taglia ventotto rappresentasse
la magrezza ideale per antonomasia.
Probabilmente
una vita sottile come quella dovevano possederla solo persone
particolarmente esili di corporatura, come Iris per esempio.
«Infatti
io e te tecnicamente siamo plus-size. Cioè, io lo sono per
contratto, tu... Per proprietà transitiva,
diciamo.»
La
fanciulla abbronzata sentì una specie di eccitazione sublime
al
sentir quella che un mese prima aveva definito un'ignorante nominare la
proprietà transitiva, ma subito si riprese.
«Cami,
ti ringrazio tantissimo, hai un gusto fantastico nello scegliere gli
outfit, ma vedi... Io non posso neppure vagamente permettermi nessuna
di queste cose di marca... Dico, sono bellissimi, però cosi
costosi... Mi dispiace.»
La
sua fidanzata stette a guardarla un po', e la rossa ebbe da convincersi
che il suo personalissimo monologo sull'intoccabile situazione
economica l'avesse salvata anche quella volta. Poi la stessa sua
fidanzata riaprì bocca.
«Mi
avevi promesso che ci saremmo vestite abbinate. - A distrarla da quel
discorso le puntò ancora il dito contro, verso il basso
però - Altra cosa, non dirmi che hai solo quelle schifo di
scarpe, ti prego, non posso vederle.»
Anemone
si chiese se quella famosa sera a casa sua decidendo di fidanzarsi con
Camelia non avesse per caso firmato un qualche contratto in cui il
vestirsi bene era una delle classiche clausole invisibili scritte in
piccolo.
«Cami,
tesoro mio, ti prego, ascolta: sai che se potessi mi vestirei meglio di
una fashion blogger per renderti felice. Ma non posso. Non posso
proprio. Scusami.»
E
fece per restituirle quei bellissimi indumenti. Magari sul corpo di una
top model sarebbero stati messi più in risalto che da una
poveraccia dalle scarpe sporche.
«...Prima
però dammi la soddisfazione di vederteli addosso,
okay?»
Camelia
aveva, nel frattempo, rimediato un paio di scarpe con una spessa suola
bianca, calcolando bene se perfino un'imbecille sgraziata come la rossa
ci sarebbe riuscita a camminare.
Si
avvicinò così tanto al viso della sua fidanzata
che stentò al trattenersi dal riderle in faccia.
Quando
ottenne il consenso arreso e sottomesso della stessa aviatrice ebbe
quasi fretta di vederla entrare in camerino. Quanto le piaceva
prenderla in giro per poi stupirla.
«Forse
avrei dovuto prenderle anche uno o due paia di reggiseni e mutandine...
E un profumo da donna; - frugando nella borsetta,
buttò un'occhio per vedere se l'altra avesse finito di
cambiarsi - dovrei
ancora avere gli sconti che mi hanno regalato, di quel servizio
fotografico per la pubblicità dei jeans extra-slim, per
fortuna
hanno preso me e non una qualche modella stecca, o adesso questo
negozio sarebbe in bancarotta...»
Si
diresse sicura, sui suoi tacchi alti di pelle sintetica nera, alla
cassa per pagare.
Fra
i ricordi di Camelia si erano fossilizzati tutti i vestiti di marca che
aveva comprato per Corrado, interi completi scelti ad hoc da lei,
interi pomeriggi passati a trascinarlo per i suoi negozi preferiti,
mano nella mano, per poi postare le foto fatte in quei momenti sui
social.
Ora
probabilmente lui indossava ancora i vestiti che lei gli aveva preso,
tenendo per mano un'altra ragazza; aveva guadagnato dei bei vestiti da
quella loro relazione troncata nel peggiore dei modi, con l'umiliazione
ed il tradimento. Questa conquista poteva concedergliela.
Aveva
però imposto a se stessa il sorriso, come si sarebbe imposta
lo
stare a dieta dopo essersi abbandonata allo sfogo nervoso, anche solo
per un singolo assaggio di cibo spazzatura.
I
vestiti sono tessuto. Tessuto e basta.
Qualche
bottone, qualche lustrino, ma fondamentalmente tessuto.
Sotto
quel tessuto, sotto le giacche eleganti, i jeans all'ultimo grido e le
camicie in seta risiedeva ancora lo stesso ragazzo, la stessa pelle e
le stesse mani che avevano preso a schiaffi lei.
Quanti
di questi ammassi di tessuto gli avrebbe comprato la sua futura ragazza
affinché Corrado non lasciasse anche lei? Camelia rise
internamente. Che pena le faceva quell'uomo!
«Metti
tutto sulla carta di credito della mia agenzia, e dì al mio
manager che sono "spese necessarie". - Parlando amichevolmente con la
commessa, abbassò gli occhiali da sole leggermente,
facendole
l'occhiolino - Fallo e posso lasciarti un autografo.»
Tornò
da Anemone, che sembrava ipnotizzata dalla sua stessa immagine riflessa
nello specchio.
Continuava
a tastare con le dita la stoffa morbida della gonna, come la favola di
Alice che vede se stessa trasformata prima in gigante e poi in formica
da una semplice bevanda.
«Ti
piacciono? Sono tuoi ora.» Le domandò,
abbracciandola.
Anemone
non si era mai sentita così in vita sua. Così
carina, così elegante. Così femmina.
Aveva
accettato di arrendersi ad essere il maschio della coppia, a dover
indossare i pantaloni e cucirseli alla pelle per tutto il resto della
sua esistenza. Lavorare con i motori, studiare la fisica, amare le
donne come fanno gli uomini sembrava essere il suo destino.
Aveva
perfino rimuginato sull'essere nata nel corpo sbagliato, di non
meritare seni ed organi femminili quando di femminile in lei non c'era
nulla. Ma cambiare sesso era l'ultima cosa a cui avrebbe mai pensato.
Incredibile
come bastassero una gonna neanche troppo corta, scarpe con un leggero
tacco basso e una maglietta a farle sentire il suo sesso di nascita.
Magari un po' di make-up qui e lì sul volto, una borsetta
abbinata e un taglio nuovo di capelli avrebbero fatto un'ulteriore
differenza.
Nella
relazione amorosa in cui ora era invischiata piacevolmente, Anemone non
poteva dirsi né uomo né donna: entrambe le due
fanciulle
si continuavano a proteggere a vicenda, senza che ci fosse l'eroe e la
damigella in pericolo.
E
non solo quello. Il sesso d'appartenenza non doveva dettare loro ruoli
all'interno della coppia, il loro slogan rivoluzionario e bilanciante
era "uguaglianza".
«Li
hai pagati tu. Ovvio che mi piacciono... Cami, non dovevi, adesso sono
in debito con te a vita.» Continuava a fissarsi allo specchio
la
ragazza in blu, al settimo cielo.
«Le
tue colleghe non li vedranno neanche vendendo l'anima questi gioielli.
Saranno costrette a cercare delle imitazioni made in China o magari in
qualche negozio di seconda mano...
Sei
così bella, dammi il tuo cellulare nuovo, voglio provare la
fotocamera interna.»
Anemone
obbedì. Era la prima volta che fare shopping le era
così tanto piaciuto.
Ricambiò
il tenero abbraccio in cui la modella la avvolgeva, riuscendo
finalmente la sua stessa soprelevazione con i tacchi. Nonostante il
fastidio ai piedi, era tutto fantastico.
Uno
scatto allo specchio che le ritraeva entrambe lo avrebbe di sicuro
impostato come sfondo del cellulare. Sorrise il più
naturalmente
possibile, come faceva la sua Cami (aveva pensato a lungo di darle un
soprannome che i suoi fans non utilizzassero) abituata ai flash dei
paparazzi.
Si
risparmiò l'annoiarla ripetendole ancora "ti amo", non
voleva rovinare la foto.
In
quel momento di urbana felicità, Camelia depose l'aggeggio
tecnologico, ed incontrò lo sguardo della giovane dai
capelli
scarlatti e si tuffò nei suoi occhi azzurro limpido. Non
poté farne a meno.
Catturò
con la mano bianca il volto abbronzato della sua fidanzata, come per
portarsi alle labbra un boccale di delizioso e fresco vino per quella
giornata torrida.
Come
si aspettava, la rossa non si oppose, fece per ricambiare il bacio
schioccando il suo affetto sul perimetro labiale della
ragazza.
Sarebbe
dovuto essere un momento memorabile. E lo fu. Ma non in senso positivo.
«Che
schifo, due lesbiche che si limonano...»
«Fatelo
quando siete per gli affari vostri, esibizioniste!»
Anemone
e Camelia ruppero subito il bacio, separandosi di alcuni centimetri
l'una dall'altra.
La
prima si mise le mani davanti alla bocca, come se il suo fosse stato un
reato.
Sapeva
però che la sua ragazza non provava neppure metà
della vergogna che provava lei.
E
di sicuro le avrebbe ricoperte di aspri rimproveri, se non fosse stata
costretta a girare in incognito vista la sua fama.
Entrambe
le diciassettenni si voltarono a cogliere chi avesse gridato loro tali
ingiurie spudorate e non ci misero molto ad identificare i
calunniatori, anzi, le due calunniatrici, che continuavano a
bisbigliare come ipocrite ad alta voce fra loro credendo di non essere
state sentite abbastanza.
Le
due ragazzine che indossavano un'uniforme scolastica a luglio, con
tanto di gonna scozzese e giacca di feltro con ricamato lo stemma
accademico avevano voltato loro le spalle.
Come
se il semplice bacio di due adolescenti dello stesso sesso fosse stato
fonte di scandalo.
Quante
coppiette di fidanzatini standard vedevano dimostrarsi effusioni
affettuose molto più spinte in bar, palestre, in discoteca e
addirittura per strada, sotto gli occhi dei bambini e di tutti i
passanti, senza ricevere neanche un monito di licenziosità
anche
dalle persone più moraliste.
Uscendo
dal negozio di cui non aveva ancora imparato a pronunciare il nome,
Anemone si fece una veloce analisi di coscienza, come faceva sempre
dopo aver fatto qualcosa di sbagliato, data la sua natura mite e
gentile: aveva baciato la sua ragazza.
Non
una prostituta raccolta per strada, non la morosa di un amico, non una
donna sposata od una personalità pericolosa: la sua
fidanzata.
Con la sua buona volontà e tutta la comprensione del mondo,
non
riuscì ancora a capire cosa ci fosse di sbagliato.
«Sai
a cosa pensavo? - Camelia le portò il braccio dietro la
schiena,
avvicinandola a sé dopo quel brusco distacco - Che potresti
diventare più bella di molte mie colleghe modelle, se
volessi.
-
Capì
che la mora stava facendo di tutto pur di distrarla dal quel suo
pentirsi e dolersi dei suoi peccati insistenti, era stufa di vederla
stringere i denti neanche avesse un cilicio attorno alle cosce o una
frusta sulla schiena - Potresti metterti un po' di lucidalabbra,
sistemarti i capelli... Quando torniamo a casa ti faccio la manicure,
posso?»
Stringendo
saldamente il sacchetto con dentro la sua nuova gonna, i tacchi e tutto
il resto, Anemone rispose sommessamente, infiammandosi nell'animo.
«Sì,
però dopo che avrò fatto a pugni con tutti gli
stupidi che riprovano a chiamarti in quel modo.
Altrimenti
la manicure si rovina, no?»
Oltre
all'essere il luogo di convoglio dei più famosi negozi
disponenti di prodotti ogni genere, i Magazzini Nove si erano
guadagnati una modesta fama locale grazie alla presenza di numerosi
locali per lo svago ed il relax degli allenatori, sopratutto di quelli
che stavano intraprendendo un viaggio lungo e faticoso alla ricerca di
tutte le otto medaglie in vista dell'apertura a fine estate della Lega
Pokémon.
Nell'attico
del centro commerciale infatti, situato all'ultimo piano, vi era un
giardino di palme verde e rigoglioso aperto trecento e sessantacinque
giorni all'anno, per via del vetro trasparente che lo copriva come una
cupola, simulando un effetto serra capace di mantenere in quel
determinato spazio un clima quasi tropicale, caldo ma non torrido,
umido e fresco al punto giusto.
Numerose
varietà di fiori facevano capolino dai loro germogli,
invitati
dai raggi del sole a dischiudere senza paura i loro petali che
l'inverno aveva raggrinzito e sciupato, ormai gli ibischi variopinti,
le giunchiglie screziate, il narciso e il rododendro si erano spogliati
dei loro boccioli e facevano quasi a gara fra di loro, per vedere chi
avrebbe attirato su di sé la maggiore quantità di
attenzione.
Neanche
a farlo apposta, Camilla si ricordò che il suo nome di
battesimo
era, prima di tutto, il nome scientifico di una pianta, un arbusto
più precisamente, dai piccoli e delicati fiorellini bianchi.
Il
nome della ragazza che le sedeva accanto invece, era quello di una
specie di orchidea.
«Allora,
ti ha risposto?» Domandò gentilmente Camilla,
andando alla
ricerca degli occhi della compagna, che prontamente posò
altrove
il suo sguardo, cercando nella borsa per controllare.
Era
seduta esattamente accanto a lei, eppure la sentiva lontana mille
miglia. Le dispiaceva.
Aspettò
che l'altra controllasse il costoso telefonino e le desse una risposta.
Se avesse voluto però, constatò la Campionessa,
sarebbe
stato suo diritto controllare lei stessa il contenuto di quel messaggio
tanto importante: erano settimane che seguiva attentamente la
conversazione.
"La
storia di una giovane aristocratica e del il suo collega che era quasi
morto per lei", se avesse dovuto trarne un libro avrebbe scelto questo
titolo.
La
serata in cui Catlina aveva letteralmente vissuto l'inferno, trovandosi
faccia a faccia con il Neo Team Plasma, dovendo sopportare un
inspiegabile dolore e vedendo una persona a lei vicina beccarsi una
pallottola in pieno petto, quella sera l'aveva lasciata dormire, come
le aveva chiesto.
La
biondina era già fortunata se la leader le aveva concesso di
aspettare una notte, prima di subissarla di domande con una
curiosità a dir poco impertinente.
«Dove
siete stati? Cosa avete fatto? Dimmi, da quanto lo conosci?
È un bel ragazzo? È ricco?»
La
interrogava, mentre la sua amica di infanzia arrossiva imbarazzata e
rispondeva a bassa voce.
Tuttavia
le aveva risposto molto onestamente, tanto che Camilla se ne
stupì.
Era
una storia così carina e letteraria da meritarsi veramente
un romanzo rosa.
Una
giovane ricca da far paura ma timida ed inesperta, che rivolge la sua
attenzione ad un giocatore d'azzardo, figlio della strada, cupo e
misterioso come un'eroe del Romanticismo.
O
almeno, una lettrice in preda alle tempeste ormonali avrebbe voluto
leggerla così.
«Ha
detto che sarà qui in cinque minuti o meno.»
Rispose Catlina, finalmente.
Ci
fu un attimo di silenzio fra le due, mentre Camilla rimuginava sul come
romperlo.
«Sei
nervosa all'idea di vederlo?» Le appoggiò una mano
sulla spalla su cui ricadevano i capelli.
«...No,
non direi.» Rigirandosi il cellulare fra le mani, la bionda
chiuse gli occhi un secondo.
Quello,
teoricamente, doveva essere il suo primo appuntamento, il secondo primo
appuntamento a dirla tutta, visto com'era andato a catafascio l'esito
del primo vero e proprio.
Ovvio
che doveva essere nervosa. Dopotutto, Mirton la rendeva sempre e
comunque agitata.
Catlina
non si era mai veramente dimenticata di lui. A partire da quando
l'avevano risvegliata a casa del Campione, dopo aver perso i sensi,
aveva pensato a lui ogni notte.
Quanto
avrebbe voluto comunicare con lui attraverso la telepatia, come
facevano i Pokémon di tipo Psico... Non potendo, aveva preso
a
mandargli messaggi ogni giorno, uno dopo l'altro, per assicurarsi che
stesse bene, fino all'ultimo respiro.
Ad
essere onesta, non sapeva bene neppure lei cosa stesse facendo, ecco
perché si era affidata all'aiuto di Camilla, considerandola
la
più assennata in quel gruppo di quattro svalvolate.
Le
aveva fatto leggere tutti i messaggi e quando l'occasione per uscire si
era presentata grazie alla missiva di Nardo, lui le aveva chiesto di
incontrarla al più presto.
Ora
stava lì seduta ad aspettarlo, quell'anima dannata che le
stava scombussolando la vita.
«Come
sei messa con gli uomini, ultimamente?» Camilla lo disse con
tono scherzoso.
«Ah...
Io... C-Così così. - le rispose l'altra, senza
particolare entusiasmo - Tu?»
«Parlando
da Campionessa, sono l'ultimo dei miei pensieri, gli uomini. Ho
talmente tante cose da fare che gli unici appuntamenti che penso
avrò mai sono quelli con i miei sfidanti!»
Camilla
rise alla sua stessa affermazione, da quanto veritiera era.
Catlina
fece mente locale: erano secoli che qualcuno non le scriveva messaggi,
il suo telefonino era sempre quieto, così come i suoi
weekend
erano sempre vuoti, anche se doveva ammettere di detestare
quell'abitudine presa da quando era entrata a far parte della Lega,
addormentarsi davanti alla televisione mentre cercava di guardare un
qualche drama, magari non partendo neppure dal primo episodio.
Non
si identificava in quelle ragazze snob dai gusti impossibili da
soddisfare, ma le era altamente difficile trovare qualcuno che non la
facesse sentire a disagio, figurarsi se del sesso opposto...
Al
contrario, Mirton non si era mai fatti problemi nel portare nella sua
stanza ogni notte una ragazza diversa, tanto che lei si trovava perfino
perfino a salutarla la mattina dopo per aggiungere al danno la beffa.
Aveva
cercato di riassumere tutto questo nel suo "così
così".
Si
accontentò del fatto che Camilla non le avesse chiesto
ulteriori informazioni.
Inutile
dire che appena la biondina vide avvicinarsi un ragazzo alto, dai
capelli nero corvino ed un impeccabile abbigliamento il cuore le sembro
sfondare la cassa toracica.
Si
augurò che questo secondo primo appuntamento andasse per il
meglio, in cuor suo.
Camilla
invece aveva una visione molto più oggettiva di
ciò che
stava accadendo in quel momento, una visione meno da romanzo rosa e
più da saggio esplicativo. Stava in disparte a guardare.
Intanto
trovò una cosa assolutamente anormale come Catlina stesse
seriamente abbracciando quel suo collega: non lo strinse forte, neppure
lui lo stava facendo, era il gesto a sconcertarla.
Se
ogni volta che incontrava quel ragazzo lei faceva ciò, il
suo
solo ed unico mezzo abbraccio dato all'amica di infanzia la sera
dell'incidente non doveva valere che un soldo bucato.
A
sua opinione inoltre, era strano come Mirton continuasse a toccare con
apparente incoscienza la giovane, mentre parlavano le sfiorava la pelle
in continuazione; gesti del genere davano fastidio ad una persona
aperta e socievole come la Campionessa, come poteva una fanciulla
così introversa come Catlina trovarli vagamente sopportabili?
Era
chiaro come il sole dove quel tipo volesse arrivare. La giovane donna
non riusciva a capire come costui pensasse di scamparla liscia, pensava
davvero che i suoi gesti potessero apparire privi di una seconda
intenzione, neanche fosse stato un bambino.
Camilla
con successo soppresse tutti gli istinti rabbiosi che quell'antipatico
risvegliava in lei.
Si
vedeva da com'era vestito quanto dovesse essere preso dagli aspetti
importanti della vita, come i soldi, il gioco d'azzardo e i rapporti
occasionali.
Quando
costui le passò accanto non arrestò neppure il
passo per
rivolgerle la parola, proseguì dritto con la sua nuova
preda,
che lo seguiva fedelmente.
A
culminare la sua arroganza ed il suo esibizionismo, il membro dei
Superquattro di tipo Buio lanciò a Camilla un mazzo di
chiavi
tintinnanti, che la donna di riflesso prese al volo.
Gli
rivolse un'occhiata omicida, mista alla più totale
incredulità.
«Mettila
dove vuoi, - non la guardò neppure negli occhi mentre
parlava - ma non in seconda fila.»
«Non
sono una parcheggiatrice.» La Campionessa di Sinnoh strinse i
denti.
«Hai
la patente, bionda?» La squadrò lui dall'alto in
basso, quasi lei fosse una sua cameriera.
«Sì,
ma non sono comunque una parcheggiatrice.» Ripeté
lei, decisamente più stizzita.
Prima
di lasciarla sola tenendo per la schiena la bionda, Mirton
posò
sulla mano della sua personalissima serva una banconota verde tutta
stropicciata.
«Attenta
a non graffiare la carrozzeria.» La ammonì, con il
tono di un presuntuoso schiavista.
E
alzò i tacchi, dirigendo con sé la sua piccola al
loro secondo primo appuntamento.
Essendo
una persona assolutamente razionale, Camilla rimase due minuti ferma a
riordinare le sue idee, perché la confusione mentale che
regnava
nella sua testa le pareva incontrollabile: quel cretino o aveva davvero
scambiato per una serva la Campionessa di una Lega di
dignità
pari, se non maggiore, a quella in cui lavorava lui, o l'aveva
scambiata per la classica amica che si unisce come ruota di scorta agli
appuntamenti degli altri.
Osservò
attentamente anche la banconota che aveva fra le mani, insieme alle
chiavi della vettura, e ne notò il valore monetario
piuttosto
cospicuo.
Camilla
sorrise e subito si diresse a fare ciò che quel pallone
gonfiato
le aveva rudemente ordinato di fare. Aveva anche già una
vaga
idea di come spendere quei bei soldi.
«Grazie
mille, idiota.»
Stirò con le mani ciò che costituiva la tattica
di conquista di quel verme.
❁
La
ragazza dai capelli biondo platino lasciò che il buon
profumo da
uomo scelto apposta dal suo collega le inebriasse le narici prima di
rompere il leggero abbraccio. I due non si stavano neppure sfiorando
con le braccia, ma alla ragazza non importò
granché.
Mirton
era vivo. Era ancora vivo dopo essersi fatto quasi uccidere. Tutto
questo per lei.
Era
morto e poi risorto per lei. Non sapeva cosa dire, era tutto
semplicemente straniante.
Una
volta sedutasi, gli tastò impercettibilmente il petto, alla
ricerca del punto fatale. Lo trovò senza fare troppi
tentativi,
una parte coperta da una spessa garza sotto la camicia.
Immaginò
una ferita profonda e grave, ma non mortale: il buco lasciato la
proiettile non avrebbe permesso a Thanatos di strapparglielo via,
finché il Fato aveva deviato il colpo in una zona fra lo
sterno
e il primo ordine di costole, abbastanza lontano da cuore, polmoni ed
esofago.
«Sei
carina, - iniziò lui, sorridendole beffardo - a preoccuparti
per me solo quando sono quasi morto.»
«Ti
hanno fatto la maschera o l'ago?»
La
biondina glielo domandò quasi sottovoce, continuando ad
esaminargli il petto.
Il
collega però le riservò uno sguardo confuso e
velatamente spaventato.
«N-Nel
senso... - cercò di spiegarsi, imbarazzata - per
anestetizzarti,
ti hanno fatto inalare il gas con la maschera o ti hanno bucato il
braccio? Perché con la puntura di solito hai meno dolori
post-operazione, fare maschere su maschere può anche
peggiorarlo, il dolore.»
«Ah...
E chi si ricorda... So solo che adesso non potrò fumare per
almeno tre o quattro mesi...»
Mirton
sviò apposta la domanda, emettendo qualche risata forzata,
trovando veramente assurdo che una ragazza gli ponesse tali domande ad
un appuntamento.
«Vorrei
che tu la smettessi sia di bere che di fumare. Dovresti preoccuparti di
più della tua salute.»
«E
tu, Catlina, - prima che la ragazza potesse ribattere, lui le
passò una mano sulla testa e poi sul volto, costringendola a
chiudere gli occhi - tu ti preoccupi della tua salute?
Guarda,
hai la pelle d'oca a luglio.»
Prima
che ella potesse gettare un occhio sulle sue braccia bianche per vedere
se la pelle si era intirizzita in seguito al fenomeno
dell'orripilazione, Mirton si era tolto la leggera giacca in feltro
pregiato di colore nero ebano e l'aveva posta sulle spalle nude della
giovane di Sinnoh.
Catlina
gli sorrise timidamente, per dimostrare che trovava comunque galante
quel gesto tanto inusuale ed imbarazzante. L'uomo prese fra le dita una
delle ciocche dei capelli, percependone la pulizia e la delicatezza.
Sembravano
filigrana, la chioma di Berenice sul cui morbido flusso si disponeva il
cosmo intero.
Quell'atmosfera
fece tremare un qualcosa nel subconscio della bionda. Non sapeva cosa
però.
Mirton
sospirò e andò a raccoglierle la mano minuta per
portarsela vicino alla bocca.
Quel
qualcosa si rifece sentire, un po' più insistentemente.
«Ho
intenzione di smetterla - cominciò, stupendosi di star
parlando
seriamente una volta tanto - con questa vita da miserabile. Senza
soldi, senza lavoro, vivere alla giornata, che pena.
Dovrei
mettere qualcosa da parte per il futuro, ho ventisei anni ormai, sto
buttando la mia vita.
Se
mi facessi una carriera invece di buttare continuamente soldi e tempo
per scommesse e schedine, mi basterebbe trovare una con i piedi per
terra e sarei anche a posto.
Magari,
adesso mi darsi del pazzo... Sposarmi e mettere su famiglia qui ad
Unima...
Non
lo so, mi andava di parlarne con te, Catlina. Ci conosciamo da un po'
ormai, quattro o cinque anni più o meno, volevo fartelo
sapere.
Non sono più lo scemo di un tempo.»
Finito
di parlare i due si guardarono negli occhi. Ora che Mirton aveva
imparato a decifrare i codici criptici celati nelle iridi verde
acquamarina, poteva riconoscere una nota di ammirazione nella dolce e
fragile fanciulla. Sembrava sorpresa inoltre.
Dopo
che gli ebbe domandato se parlasse sul serio o stesse per l'ennesima
volta scherzando, la invitò ad alzarsi in piedi e la chiuse
in
un abbraccio molto più vigoroso del precedente, toccandole
la
schiena con le mani.
L'uomo
provò un certo piacere nel tastare la consistenza della
carne, la sinuosità delle forme.
Catlina
teneva le braccia attaccate al petto, leggermente turbata.
Voleva
abbandonarsi a quella confessione del suo amico assai nobile e virile,
degna di un gentiluomo, ma sentiva il corpo rigido.
Un
continuo sentore di freddo ed ansia le correva lungo la spina dorsale,
ma non aveva alcun che di cui preoccuparsi, la pelle d'oca era uno dei
sintomi più visibili di ciò che sentiva.
Respirava
con lui, focalizzandosi sulla sua felicità. Era vivo ed era
cambiato... Tutto qui?
Non
era mai stata così vicina a qualcuno, ragionò.
Mai così vicina ad un maschio in vita sua.
Mirton
la stringeva possessivamente, ma senza metterci troppa forza. Era
bello, era okay.
Il
ragazzo sussurrò qualcosa al suo orecchio, respirandole
sulla pelle ed accarezzandole la nuca.
Un
breve sfiorarsi delle sue labbra seducenti le accarezzò la
guancia rossa come una ciliegia.
La
biondina chiuse ancora gli occhi.
Non
voleva vedere oltre. Non voleva sentire oltre.
«No,
non adesso, avrei dovuto prendere le pillole e farmi le iniezioni, non
ora, no!»
Infine,
la giovane percepì la pressione dell'aria sopra la testa
triplicarsi fino a schiacciarla, le dolevano le ossa al semplice stare
in piedi, i legamenti incastrati in posizione bloccata.
Le
mancava l'aria da quell'abbraccio. Voleva romperlo. Subito.
L'ultima
cosa che Catlina sentì fu un colpo alla testa, un fortissimo
colpo alla testa.
Non
ci è più consentito seguire i pensieri e le
elucubrazioni
della giovane aristocratica, tanto che neppure ella fu in grado di
intendere e volere in seguito a tale impatto alla sua labile psiche.
Mirton
era sul punto di baciarla dunque. Aveva sentito il tempo quasi
rallentare, l'attesa che volgeva ad unire le labbra dei due amanti
sembrava infinita e molto romantica. Una sensazione rara, per uno
abituato a baciare almeno sei o sette ragazze a settimana.
A
riportarlo nella realtà e nel tempo materiale furono due
fenomeni. Uno più inquietante dell'altro.
Aveva
sentito Catlina scivolargli dalle braccia, cadere verso il basso come
da svenuta.
Se
fosse stato così avrebbe potuto ancora salvarla e
sorreggerla a sé. Non successe.
Gli
sembrò quasi che la ragazza lo stesse spingendo via con le
braccia, lontano da sé.
Catlina
pareva muoversi a scatti, agitando svariate parti del corpo con
convulsioni aritmiche, come i pesci quando vengono privati dell'acqua,
il suo corpo, le braccia, le gambe e la testa continuavano ad torcersi
infernalmente, senza che la povera ragazza potesse controllarli.
Gli
era caduta dalle braccia ed era distesa per terra, inerme, come presa
da uno shock elettrico.
Il
tutto era successo così ex abrupto che nell'impatto con il
pavimento aveva anche battuto la testa.
Il
Superquattro di Tipo Buio non poté udire neppure quella
volta un grido, nemmeno una parola.
La
ragazza era in un'agonia tremenda a vederla da fuori, come condannata
ad un dolore straziante che solo lei poteva percepire e stava lottando
per liberarsene.
Il
cosiddetto "grande male" era tuttavia appena iniziato.
Sulle
sue labbra si accumulavano grumi di saliva trasparente uniti a
goccioline scarlatte, dovute probabilmente al contrarsi perfino di
mandibola e mascella che le stavano macerando la lingua a suon di morsi.
Ironico.
Prima del bacio Catlina aveva avvertito il primo segnale di quel
pandemonio con un aumento di saliva. Data la sua natura di
incorreggibile principessa, le rincrebbe molto l'aver sputato
involontariamente a causa di una convulsione improvvisa, la primissima
delle mille che la stavano investendo in quel momento.
Aver
sputato in faccia al suo collega la fece vergognare come non mai. Che
figura penosa.
Intanto,
una gran folla di curiosi si stava raggruppando intorno alla ragazza
sofferente, tenendosi a buona distanza da quello spettacolo tanto
divertente quanto ripugnante.
Ovviamente
nessuno ebbe il coraggio di fare nulla per aiutarle la giovane dai
capelli biondi.
Satana
pareva aver invaso il suo corpo. Ora il suo male interiore era un
divertimento per i più.
Mirton,
preso dal panico, non capendo cosa stesse succedendo, alzò i
tacchi.
Si
sentì veramente uno scemo, non era possibile che quella
ragazza,
foderata di quattrini com'era, avesse sempre un nuovo problema, sempre
una scusa per allontanarlo.
Inoltre
era decisamente spaventoso quello che era appena accaduto. Se lo
sarebbe sognato di notte.
Immaginò
disgustato se Catlina avesse dovuto scoppiare in quelle strane crisi in
ogni momento cruciale della sua vita e consequenzialmente rovinarlo. Il
suo matrimonio, la cerimonia di avanzamento dell'età,
perfino il
suo primo bacio sarebbero stati tutti ricordi orribili.
«Non
mi serve una ragazza del genere, - si disse
- che vada a rovinare la vita di qualcun altro.
Avrà
anche i soldi, ma come persona non vale nulla.»
Le
gettò un ultimo sguardo, ma lei non sembrava neppure aver
notato il suo allontanarsi.
Quella
sera, immaginò il giovane uomo rimasto con solo polvere
nelle
mani, avrebbe avuto bisogno di distrarsi: una o due belle ragazze
trovate a qualche raduno di ricconi avrebbero tranquillamente
cancellato l'illusione di vero amore che Catlina rappresentava per lui.
❁
Erano
le quattro di pomeriggio. La radio funzionante nel locale aveva appena
finito di trasmettere una canzone famosissima, la hit di quell'estate a
parere di molti, ed aveva annunciato l'orario con inspiegabile
entusiasmo.
I
ventilatori sul soffitto sventolavano i clienti con le loro raffiche,
in ogni singolo bicchiere presente sul tavolo ci dovevano essere almeno
quattro o cinque cubetti di ghiaccio.
Quella
catena di bar era la più famosa e frequentata della regione,
eppure le bevande servite erano sempre di qualità scadente,
di
qualche marca commerciale, riempite di zucchero e carbonio.
Le
nostre quattro allenatrici più grandi sedevano ad uno dei
tavoli, le due di Sinnoh l'una accanto all'altra di fronte alle due di
Unima.
Nessuna
aveva voglia di conversare. Stavano tutte con gli occhi bassi, a
leggersi e rileggersi il proprio nome scritto con una calligrafia a dir
poco abominevole su una tazza di plastica.
Dopo
un sospiro doloroso, Camilla si decise ad aprire bocca.
«Che
giornata da schifo.» Commentò.
Le
altre tre giovani provarono ad andare in cerca di una qualche antitesi,
senza successo.
«...già.»
Fecero in coro, guardando ognuna in una direzione diversa.
Quella
giornata effettivamente stava facendo schifo. Molto schifo.
Com'era
possibile che quattro su cinque candidate al titolo di Campione della
regione, abili lottatrici e determinate personalità
potessero
trasformarsi in perfette disadattate sociali una volta messo fuori il
piede dal campo di lotta?
«Cami.
- Anemone riusciva a consolarsi solamente mediante l'idea di aver
comprato nuovi vestiti - Finisco io la tua bibita, dammela se non la
vuoi più, non sprechiamo cibo.»
La
mora strappò dalle mani della compagna la lattina colorata
prima
che ella potesse afferrarla dando per scontato il suo consenso. Era
strano: di solito era sempre il pensiero a confortare Anemone, mai il
possesso.
«Che
dolce, - le rispose in tono acidissimo - sei davvero disposta a
riempirti di brufoli e mettere su cinque chili al posto mio,
così mi sarà più facile scaricarti...
Sono
commossa, tesoro.»
«Aspetta,
quindi se diventassi grassa e brutta non mi ameresti
più?» Fece la rossa, sconcertata.
Dopo
essersi riconnessa al pianeta Terra, Catlina fece un gesto con la mano.
«Camelia,
posso averla io, per favore?» Le chiese senza lasciar
trasparire alcuna emozione.
Dopo
che la modella le ebbe passato la lattina, la giovane non si fece
problemi a bere dal buco sulla parte metallica, cercando di ingurgitare
la maggior quantità possibile di liquido.
Era
l'unico modo non deplorevole che aveva di alleviare il dolore delle
vesciche gonfie che sulla sua lingua si erano formate di conseguenza ai
continui morsi, dilaniandole la carne.
Camilla
le si avvicinò all'orecchio, appoggiandosi comodamente alla
sua spalla.
«Non
sapevo - le aveva detto, senza che lei potesse intendere il suo
giudizio - che soffrissi di crisi epilettiche.»
Camilla
aveva imparato una cosa nel quel mese in cui aveva avuto la
possibilità di rivedere la sua amica di infanzia: se voleva
approcciare la biondina doveva farlo nel modo più neutro
possibile.
Niente
commenti, niente domande, niente imbarazzo o commiserazione.
L'aveva
trovata agonizzante, in preda a quelle convulsioni involontarie, e la
prima cosa che fece fu, come da manuale di primo soccorso, toglierle
dalle spalle la soffocante giacca da uomo per porgliela sotto la testa
a mo' di cuscino, per evitarle una commozione celebrale.
Poi
girare il soggetto sul lato destro, le avevano insegnato, per evitare
che si soffochi.
«Mi
dispiace per quel ragazzo. Sembrava una brava persona.» Le
disse.
Le
parole discordavano totalmente con i pensieri della Campionessa; no che
non sembrava una brava persona. Certamente non lo era stato. Ne' con
lei ne' con la compagna.
Lo
sapeva, quel figlio della strada poteva portare solo guai e le sue
previsioni si erano rivelate esatte. Si risparmiò un "te lo
avevo detto", perché ci teneva alla sua amicizia.
«Pazienza.
- Catlina ci aveva messo relativamente poco per riprendersi dal
"piccolo male", lo stato di confusione che succede l'attacco di
epilessia - È stata colpa mia, alla fine.»
Quanto
sa essere ingiusta la vita, quando relega una ristretta cerchia di
persone all'infelicità più ingiustificabile,
mentre alle
loro spalle il mondo continua a girare, gaio ed indifferente ai loro
problemi. Così si sentivano le quattro, un mondo a parte, un
mondo disprezzato dalla gente.
Si
accordarono nel far riposare due minuti le loro squadre di
Pokémon, trovandosi anche un Centro Pokémon
all'interno
dell'ampio locale, loro almeno lo meritavano. Poi se ne sarebbero
tornate a casa e avrebbero fatto di tutto per dimenticare quella
giornata.
«Certo
che ci mettono un po' per ricostituire, - commentò la rossa
-
guardate che calca di gente c'è davanti al banco di
accettazione, qui finiamo a mezzanotte se tutto va bene.»
«Ma
se guardi bene, - cercò di rassicurarla la bionda -
c'è
quel gruppo di ragazzine che è là davanti da
quando siamo
arrivate. Le vedi, quelle ragazzine...»
«Ragazzine?!
- la interruppe Camelia, ridendo - Bambine, direi. Non avranno
più di quattordici anni!»
Dopo
averle rivolto un'occhiataccia spazientita, Catlina
continuò.
«Quel gruppetto con le giacche blu, la gonna grigia e il
fiocco
rosso.»
«Sembra
un'uniforme scolastica.» Camilla aggiunse quel piccolo
dettaglio.
Anemone
e Camelia sapevano di che stava parlando, e si offrirono di spiegare il
tutto alle due amiche straniere.
«Sì,
sono le uniformi della Municipale di Boreduopoli.
È
una scuola elementare, media e superiore privata per gli allenatori
figli di ricconi e di personalità di spicco della politica e
del
mondo delle lotte.
Solo
la retta scolastica costa più di quanto guadagno io in tre
mesi,
ci credo che vadano in giro con l'uniforme a luglio!»
Tutte
e quattro le prosperose fanciulle scrutavano quella piccola folla di
ragazzine in divisa scolastica in un misto di ammirazione e disgusto:
le scuole e l'istruzione sono un diritto pubblico ed essenziale, come
poteva esistere un'élite di allenatori prescelti che
meritassero
di imparare l'arte della lotta Pokémon a dispetto di chi
doveva
sudare per auto-istruirsi nello stesso ambito?
Ad
un certo punto però, nella mente della leader si accese una
scintilla di dubbio.
Aveva
aguzzato la vista attraverso il suo ciuffo prominente quanto il suo
petto ed aveva notato un dettaglio molto particolare. Molto sospetto.
«Scusate,
- attirò con la sua solita gentilezza l'attenzione delle
altre -
ma queste allenatrici in uniforme hanno per caso venti Poké
Ball
a testa?»
Camelia,
Anemone e Catlina si voltarono, esibendo delle espressioni sbigottite,
cercando di non dare nell'occhio e di non costringere la loro leader ad
indicare per non farsi riconoscere.
«Guardate:
la prima della fila è lì a prendere
Poké Ball dal
banco del ritiro da almeno mezz'ora.»
Battendo
forte sulla spalla della sua ragazza, furono costrette a zittire
Anemone, che aveva anche lei notato un particolare sospetto, come in
una storia di detective.
«Oddio,
guardate bene cosa fanno quelle due a destra, subito dopo la tipa al
banco.»
Tutte
stettero a guardare.
«Guarda...
Prende la Poké Ball... La passa sotto la gonna alla tizia
vicina... Che la passa a sua volta... Ancora una volta... Poi arriva a
quella all'uscita...»
«...e
le infilano tutte in quella borsa da ginnastica.»
Quando
Camelia aggiunse l'indizio finale le altre diedero uno sguardo
all'uscio, ma quelle ragazze si trovavano davvero in ogni angolo del
bar, alcune stavano perfino fuori a fare da palo, probabilmente.
Non
c'era più alcun dubbio.
Eccoli,
eccoli lì i fantomatici ladri di Pokémon di cui
parlava Nardo, o meglio, le ladre di Pokémon.
Il
fatto che si trattasse di adolescenti benestanti desiderose di
combinare qualche marachella e non poveracci disperati disposti a tutto
la rendeva una situazione deplorevole.
Chiunque
con un minimo di senso della giustizia ne sarebbe stato mosso.
E
straripando le nostre eroine di senso della giustizia, non esitarono ad
intervenire.
«Signori,
quelle ragazze stanno rubando i Pokémon dei clienti, bisogna
fermarle!»
Gridò
Camilla, alzandosi subito in piedi ed indicando le suddette con fare
allarmato.
Aveva
attirato su di sé l'attenzione di tutti i presenti, che
sotto
uno scrosciante bisbiglio la vedevano come se fosse lei a disturbare la
quiete pubblica, come se si trattasse di una matta.
Una
di quelle bambine un po' troppo cresciute si accorse che si stava
riferendo a loro, da vittima innocente si indicava il petto come San
Matteo nella Vocazione del Caravaggio, ma solo dopo essersi consultata
con le sue compari si degnò di parlare.
Era
una ragazza come tante altre, normale in tutti gli aspetti, se non
fosse stato per i capelli ed altri piccoli dettagli le componenti di
quel vasto gruppo si distinguevano a malapena.
«Scusa,
ma cosa stai dicendo? Cosa vuoi da noi?»
Chiese
con tono arrogante alla donna che doveva avere almeno cinque anni in
più di loro.
«Avete
idea - cominciò la bionda, sofistica - di quanta fatica
hanno
impiegato gli allenatori di questi Pokémon per allenarli e
di
quanto amore serbano nei loro confronti?
Se
volete avere dei Pokémon forti, perché non
allenate i
vostri e non lasciate stare quelli che non vi appartengono? Avete preso
le loro Poké Ball, lo hanno visto tutti.»
Le
scolarette avevano preso a fare commenti, senza ascoltare una sola
parola di quel discorso.
«Senti,
noi non c'entriamo nulla!»
«Smettetela
per favore, ci state mettendo in imbarazzo!»
«Non
hai le prove per dire che noi stiamo rubando Pokémon, -
questo
fu l'unico vero intervento che interessò veramente Camilla -
state solo facendo una figura da cretine così.»
Camelia
si alzò per affiancare la sua leader, con il fare rilassato
e
poco rabbioso che le aveva portato fortuna nel contrastare dei signori
di mezza età appartenenti ai servizi sociali.
Cosa
potevano farle delle bambine, quando lei alla loro età
già lottava a livello professionale?
«Sotto
la gonna. C'è abbastanza spazio nelle tasche interne per
contenere una sfera Poké.
Se
dentro non c'è niente allora siamo noi le cretine, ma io da
qui
vedo dei rigonfiamenti rotondi e non penso che siano quello che
penso...»
Parlò
con tono denigratorio, falsamente dolce e civettuolo. La mora si
chinò per osservare meglio, ma il dover indossare gli
occhiali
da sole in un luogo chiuso la impacciava parecchio.
«M-Ma
siete pazze?! Sotto la gonna? Lasciateci in pace, pedofile!»
Squittì una di loro, coprendosi con il lembo della gonna
come se
volessero violentarla o peggio.
«Aspetta,
- altre due si fecero avanti - ma quelle non sono le due lesbiche che
si limonavano in negozio?»
Indicò
senza alcun pudore Camelia ed Anemone, che si scambiarono occhiate
turbate.
«Sì,
- seguitò l'altra, ridendo stupidamente - guarda cosa fanno
queste sfigate pur di vedere una vagina che non sia la loro! Siete
così penose da sembrare uomini!»
«Poverine,
solo perché nessun maschio vi vuole vi masturbate a vicenda,
scommetto che siete entrambe vergini, che schifo che fate!»
Le
due incontrate prima nel negozio scoppiarono a ridere, senza
risparmiarsi nessun insulto dettatogli dall'omofobia. E dunque
dall'ignoranza.
Su
quante cose si sbagliavano le due! Correggere ogni singolo di quei
punti avrebbe richiesto troppo tempo, non si trattava di un test di
comprensione.
Quella
che sicuramente fu più toccata da quel discorso era Anemone,
che
non ne poté più di stare seduta a guardare: erano
diciassette anni che stava metaforicamente seduta senza far nulla, ad
ascoltare tutti quei mentecatti parlare di tutte le persone come lei
quasi si trattasse di bestie da circo, solo perché non
rientravano nello stato standard di cisgender o di eterosessuale.
Potevano
chiamare lei "sfigata", "dall'aspetto di un uomo", "verginella" (da
quand'è che essere vergine era diventato un insulto
comunque?) e
"schifosa". Lo avrebbe sopportato.
Ma
quelle stupide avevano preso nel loro gioco anche una persona
intoccabile per la rossa.
Non
dovevano permettersi neppure di citare in simile giudizio la sua
preziosa fidanzata.
«No,
scusatemi, - cominciò Anemone al suo solito, scusandosi e
poi
arrotolandosi le maniche - io adesso le picchio una dopo
l'altra.»
Ora
che Anemone era uscita dal suo stato di calma e ed entrata nella sua
modalità ribelle, le due bionde dovettero fare uno sforzo
immane
per trattenerla dal prendere a pugni una delle due ragazzine: la
giovane dagli occhi azzurri aveva una forza decisamente mascolina nelle
braccia e nelle gambe, derivata da tutti gli anni di lavoro in
aeroporto.
Dulcis
in fundo, la sua compagna dagli occhi tristi ricordò che
purtroppo qualcuna di quelle piccole pulci fastidiose aveva trovato
pane per i suoi denti dilettandosi nel vedere dal vivo una crisi
epilettica, uno scaricamento da parte di un ragazzo in grande stile ed
una sua amica venire a soccorrerla nel modo più indiscreto
possibile.
Perché
gli occhi umani sono sempre alla ricerca del ridicolo, dello scandaloso
e dell'inusuale, si chiedevano. Le altre ragazzine intanto si
divertivano ad imitare la leader ed il suo essere diventata una
parcheggiatrice part-time contro la sua volontà.
La
situazione stava degenerando.
Ormai
non solo i clienti nel locale e gli allenatori di quel Centro
Pokémon, anche i passanti si accalcavano davanti alle
finestre
per vedere all'interno cosa stesse succedendo: quale occasione migliore
per offrir loro un bello show? Come diceva anche un celebre imperatore
romano, la folla va tenuta a bada con cibo ed intrattenimento gratuito.
La
Campionessa di Sinnoh parlò, dopo aver raccolto intorno a
sé le altre tre ragazze.
«Che
ne dite di una lotta, qui ed ora, così ci fate vedere che
questi Pokémon sono vostri?»
Un'onomatopea
di entusiasmo da parte degli spettatori riecheggiò, il suono
prolungato della lettera "o" conferiva al tutto una nota di sfida e
sopratutto di possibile riscatto da quegli insulti umilianti.
Adesso
la tensione nell'aria era pari a quella percepibile in un torneo
nazionale.
Le
piccole ladruncole stavano per obbiettare, ma alla fine diedero il loro
consenso, decise.
In
qualche modo c'entrava il loro orgoglio, non solamente il loro bottino
in tutto ciò.
«E
non tirate fuori scuse, voglio vedere se a scuola vi insegnano solo
anche a fare le vigliacche!»
Gli
gridò la mora, che era in qualche modo abituata al clima di
lotta clandestina ed improvvisa.
Nella
sua città, essere fermati nel bel mezzo della notte da
qualche
delinquente malintenzionato era una cosa normalissima, tanto che queste
lotte costituivano un allenamento quotidiano.
Tutti
i tavoli e le sedie erano stati spostati a ridosso delle pareti, un
grande spazio al centro fungeva da rudimentale campo di lotta; come nei
film western degli anni venti, perfino i dipendenti del locale
sembravano eccitati dal combattimento imminente.
«Voi
di Unima siete così... Così...» Catlina
si
sforzò di cercare una parola, esasperata com'era.
«...selvaggi?»
Suggerì Anemone, che si stava sgranchendo le dita e le
giunture con gran fracasso.
La
biondina le diede conferma: una volta sistematesi nella loro
metà campo, Camilla propose.
«A
voi la scelta del tipo di lotta.» Spettava sempre allo
sfidato questo arbitrio.
«Lotta
multipla, - si fece avanti la loro capogruppo - ci alterniamo. Quando
il Pokémon di una delle due componenti di una squadra va
K.O.
un'altra la sostituisce e avanti così.
Vincono
le rimanenti in campo. Accettate, allora!?»
Camilla
assicurò con lo sguardo tutte le sue tre apprendiste.
Perché questo erano formalmente, le tre giovani con cui
stava
lottando ora. Ma quel ruolo era inutile per loro, come a lei era
superfluo il titolo di leader. Ora dovevano solo combattere come
squadra.
E
Nardo non aveva insegnato loro ciò. Il titolo di Campionessa
era
fortemente impregnato di egocentrismo, indipendenza ed isolamento.
«Lottare
insieme... Non contemporaneamente. Siamo una squadra ora.
Lo
siamo sempre state, dopotutto.» Realizzò, in
dispetto ai manuali e all'insegnamento scolastico.
Camilla
si sistemò il ciuffo sull'occhio, con la Poké
Ball in mano.
«Cami,
- le fece segno - vieni un attimo qui.» La ragazza mora le
venne
incontro e si sedette su di una tavolino a gambe accavallate,
nonostante la gonna cortissima.
«Solo
la mia ragazza può chiamarmi così, non ti ci
affezionare troppo, leader.»
Fu
contenta di trovare la modella pronta e carica di spirito energico.
Dopo
qualche piccolo commento, le due lanciarono le sfere Poké
all'unisono: ne uscirono Pokémon non troppo grandi, per via
delle dimensioni pur sempre limitate del locale.
Camelia
scelse la sua Flaaffy, dopo averne accarezzato la morbida lanugine
elettrostatica.
Era
il membro del suo team acquisito più recentemente, regalo di
uno stilista straniero.
Per
coincidenza, tutti i Pokémon della giovane Capopalestra
erano esemplari femmina.
La
Campionessa di Sinnoh volle andare sul sicuro invece. Il suo Spiritomb,
ottenuto esplorando i sotterranei bui e spaventosi della sua regione,
non aveva debolezze, la combinazione dei tipi Spettro e Buio era una
difesa impareggiabile.
Due
delle ragazzine si fecero avanti, chissà se le sfere che
brandivano erano loro o semplicemente rubate ad altri, come le
centinaia che avevano raccattato prima.
Un
Watchog ed uno Swoobat erano piazzati contro di loro come avversari.
Al
segnale di partenza, le due allenatrici in uniforme non esitarono ad
attaccare: come previsto.
«Watchog
usa Palla Ombra su Spiritomb!» Fece la prima, la sua voce si
sovrappose quasi a quella dell'arbitro da quanto presto aveva parlato.
«E
tu Swoobat, usa Raffica!» La seconda le fece eco.
Camelia
scoppiò spudoratamente a ridere, indicando le sue avversarie
e
rivolgendosi a loro con tutta la cattiveria che aveva in corpo.
Sollevò un pelo gli occhiali per vederle meglio.
«No
davvero, Camilla, ti prego, dimmi che quelle due non hanno appena usato
una mossa di tipo Volante ed una di tipo Spettro. Perché in
questo caso ho perso tutta la speranza che avevo in questa generazione
di sfidanti.
No,
Camilla... io esco.»
La
giovane top model si sentiva realmente sconfortata, specie
perché quella generazione di sfidanti era quella che teneva
il
suo poster appeso al muro della propria camera, che veniva a tutte le
sue lotte e alle sue sfilate, portando asciugamani e striscioni con il
suo nome scritto sopra e contornato da cuori e tuoni (aveva chiesto lei
personalmente di aggiungere i secondi).
Lottare
con dei piccoli vanitosi tutti fumo e niente sostanza non era
divertente, a suo parere.
Lei
vendeva la sua immagine a quegli incompetenti, lei era il loro emblema
dunque, non c'era verso che potessero davvero apprezzarla, non ne
avevano la facoltà intellettiva.
«Flaaffy,
rimani dove sei e usa Stordiraggio su Swoobat.»
Ordinò, sempre ridacchiando.
«Doppioteam,
per favore.» Camilla decise di stare al gioco e questa ne
gioì ancora di più.
Era
strano, pensò la mora, ma cominciava a tenerci sempre di
più a quelle ritardate delle sue compagne. Non voleva averle
sempre appresso, ma non poteva neppure viverci senza.
Era
una relazione strana, tutto sommato le piaceva.
Prima
che potesse trastullarsi nel pensiero di aver zittito quelle bambine,
una delle due si fece risentire. Parlava con la compagna, comunque
garantendosi l'attenzione di tutti.
«Scommetto
che quella usa Stordiraggio anche sulle persone...
Così
riesce a distrarle da quelle cosce grasse e flaccide che si ritrova!
Scusa,
scusa tizia con gli occhiali, perché ti metti quella gonna
corta? Fai solo schifo.»
«Già,
avrà cellulite di noi due messe insieme e guarda... ha
quelle
due tette finte che fanno impressione e poi si vedono le costole,
sembra un'anoressica dalle gambe in su!
Non
puoi coprirti, ci fai un piacere sai, devi proprio andare in giro
nuda?»
«E
poi si chiede perché nessuno gliela dà!»
Camelia,
per la prima volta in via sua, non seppe che rispondere a quelle
provocazioni.
Due
bambine l'avevano battuta nella sua specialità, il sarcasmo
e la presa in giro.
Plus-size.
Quanto odiava essere una modella plus-size.
La
giovane stella di Sciroccopoli, a volte, molte volte, non riusciva
proprio a sentirsi fiera del suo corpo, non riusciva a vedersi bella
neppure quando lo trovava scritto a caratteri cubitali nelle riviste di
moda o nei cartelloni pubblicitari.
Se
i suoi fans le mettevano un'ansia a dir poco insopportabile, sapere
dell'esistenza di gente che la odiava senza un motivo valido era
abbastanza per schiacciare quella ragazza.
Alla
fine, anche Camelia sapeva di essere una ragazza.
La
sola coscienza che esistesse chi la riteneva brutta, sproporzionata e
magari pure stupida, uniti a tanti insulti e i mille difetti che
riuscivano a trovarle sul momento, l'essere un'indossatrice di taglie
leggermente più forti di quelle popolari la privava della
sua
femminilità.
Cosa
doveva fare per soddisfare anche le richieste di quelle persone, che
trovavano orrendi i suoi seni grandi, la vita magra (per quanto le
fosse possibile per mantenere uno stato di salute sopportabile) ed il
suo sedere sodo, che facevano innamorare tutti a prima vista?
«Camelia,
tranquilla. Con Stordiraggio hai confuso Swoobat, bella mossa.
Doppioteam
ci fa guadagnare tempo. Cerca di distrarre anche Watchog in maniera
tale da impedirgli di attaccare, poi al resto penso io.
Ti
fidi di me, vero?»
Camilla
le stava accarezzando le cosce bianche, si accorse, e per incitarla ad
agire le stampò un leggero schiaffo su di esse, facendole
tremare la carne morbida.
Poi
le fece cenno che a guardarla in quel momento non c'erano solo gli
stupidi esteti della generazione dell'insoddisfazione, lì a
fare
il tifo per lei c'era l'unica persona il cui parere importava alla
mora, l'unica plus-size che avesse mai trovato bella quanto lei.
«Anemone...
appena torniamo a casa ti faccio la manicure, ma tu mi insegni a farla
pagare ai prossimi deficienti che ci insultano perché siamo
lesbiche. E ne sono invidiosi.
Del
resto, io mi faccio una bella ragazza ogni sera, caso mai sono loro a
masturbarsi, no?»
«Flaaffy,
- dondolò i piedi infilati nei tacchi dodici, spensierata -
usa Attrazione su Watchog!»
Camilla,
riuscita nel suo intento di consolare la giovane, ripropose il
Doppioteam così efficace.
Tutti
i presenti stessero a guardare con le dita fra i denti per l'emozione.
Nessuno
sapeva cosa l'audace Campionessa e la carismatica Capopalestra avessero
intenzione di fare, neppure le altre due loro compagne di squadra.
«A-Attrazione...
Ha avuto effetto sul mio Pokémon?!»
La
prima delle due scolarette gridò con aria sconvolta e
furiosa alla sua amica, che anch'ella osservava spiazzata.
«Credo
di sì... Non riesce più ad attaccare,
cavolo!»
«M-Ma...
- continuò la proprietaria del Pokémon innamorato
-
...come ha fatto ad avere effetto quella mossa... la mia Watchog
è femmina!»
Si
udì un clamore collettivo da parte di tutti, le mani sul
volto e la sorpresa negli occhi.
«Swoobat,
usa Raffica, veloce!»
Ma
il Pokémon Pipistrello non ascoltò, cercava di
muovere le
ali ma finiva per sbattere in continuazione contro il soffitto, confuso
com'era dal precedente attacco Stordiraggio.
Le
due ladre di Pokémon si osservarono disperate, era l'inizio
della loro fine.
«Se
non possono attaccare, Spiritomb vai con Psichico a
ripetizione!»
Camilla
si lanciò all'attacco senza esitare, cogliendo l'attimo
fortuito.
«Flaaffy,
usa Riduttore, grazie.»
Camelia
invece era sempre più calma e rilassata, seduta su quel
tavolo.
Fra
colpi violenti, urti e botte, le due pari in ardore e spirito alle
Amazzoni, donne guerriere indipendenti dagli uomini e svincolate dalle
catene della società, avevano distrutto non solo i due
Pokémon in campo, ma anche quella legge naturale che
impediva
l'amore fra esseri dello stesso sesso.
La
natura è multiforme e spesso benigna: Adamo ed Eva avevano
stabilito che l'amore di uomo e donna è il germoglio della
riproduzione della specie, ma se la mossa Attrazione era in grado di
funzionare anche fra Pokémon dello stesso sesso i casi erano
due.
O
i manuali di lotta si sbagliavano sul campo di azione della mossa, o
Camelia con i suoi Pokémon erano davvero così
bella da
risvegliare l'infatuazione estetica anche nelle ragazze.
Comunque
sia, ora Swoobat e Watchog giacevano al centro del locale, stesi a
terra esausti.
Il
pubblico lanciò una serie di grida confuse, non si capiva se
il loro fosse supporto o disgusto.
Le
due allenatrici vincenti di abbracciarono amichevolmente, con una certa
difficoltà nel non stritolarsi il seno a vicenda al contatto
dei
loro petti prosperosi.
Camelia
e Camilla stettero due minuti a godersi lo scroscio di applausi rivolto
a loro, poi se ne tornarono alla loro postazione. Lo show deve andare
avanti.
Anemone
e Catlina, molto più timide e discrete, si avvicinarono alla
postazione con gli occhi bassi, un po' in imbarazzo, ma con la fiducia
infusa dalla vittoria delle loro compagne.
«Distruggile,
amore mio.»
Camelia
sussurrò all'orecchio della rossa, che subito senti gli
ormoni
sobbalzare. Avrebbe ucciso qualcuno a mani nude se la sua dolce
metà glielo avesse chiesto con la sua voce sexy.
«Liepard,
vieni fuori!» Gridò una. Anche le loro subdole
avversarie
si erano date il cambio, e la prima aveva già schierato il
suo
Pokémon, con la mano tremante dall'agitazione.
L'altra
sua compagna mimò il gesto, sperando di non trovarsi troppo
svantaggiate dal dover scegliere i Pokémon per prime,
così le nostre ragazze avrebbero potuto adattarsi con i tipi.
Più
silenziosamente della sua amichetta, schierò in campo un
esemplare di Krokorok.
«Maledizione,
- puntualizzò la rossa, - proprio due Pokémon di
tipo Buio dovevano scegliere?»
Altro
che fortuna, lì ci voleva un miracolo per intercessione
della grazia divina.
«Ti
causa qualche problema, Anemone?» Le domandò
gentilmente la bionda al suo fianco.
«A
me personalmente no, - le rispose, con voce concitata - ma tu alleni
solo Pokémon Psico, non hai solo lo svantaggio del tipo, ma
le
mosse Psico non hanno proprio effetto, sei nei guai...»
«Lo
so. - Anemone si sbalordì della calma con cui l'altra
l'aveva interrotta - Sono attrezzata per questo.»
«Oh,
ah, okay... Ehm... Senti Catlina, posso chiederti un favore, prima che
cominciamo? - le due giovani si accostarono in disparte, Anemone
parlò sottovoce - Solo per questa volta che dobbiamo lottare
insieme... Ti dispiacerebbe pronunciare ad alta voce i nomi delle mosse
che vuoi far utilizzare ai tuoi Pokémon? Solo per
comodità sai, insomma, non siamo tutti telepatici
e...»
«Va
bene. - La rossa non capiva come Catlina riuscisse a concludere prima
di lei tutti i suoi discorsi - adesso però ascoltami
tu.»
La
giovane aristocratica mandò in campo il suo Reuniclus, il
Pokémon Cellula di color verdastro, fluttuante in aria, un
ammasso di tessuti epiteliali e liquido amniotico.
Anemone
annuì e si mise in ascolto, ma la sua misteriosa compagna
non si
decideva ad aprire bocca. Lei rimase a fissarla del tutto perplessa,
sperando che ella si spicciasse.
La
lotta stava per cominciare, e le loro avversarie si stavano
già spazientendo.
«Catlina,
per favore, sbrigati che devo ancora scegliere il mio...» E
fu interrotta.
«Mi
senti, Anemone, hey, riesci a sentire la mia voce?»
Anemone
avrebbe giurato di sentire perfettamente la voce della biondina,
però ancora le sue labbra non sillabavano alcuna parola.
Sbatté più volte le palpebre, ma la situazione
era la
stessa.
«Non
fare quella faccia e ascolta. - la rossa era
visibilmente terrorizzata, ma non poteva permettersi di perdere altro
tempo - Il
mio Reuniclus ha l'abilità Telepatia, che permette a
Pokémon ed Allenatore di comunicare solo tramite il
pensiero.
Per favore, smettila di guardarmi così.
Il
mio Pokémon conosce una mossa molto potente, Focalcolpo, di
tipo
Lotta, che farà al caso nostro. L'unica cosa che mi serve
è che i due Pokémon nemici siano allineati in
modo da
colpirli entrambe con un solo colpo.
Tu
devi riuscire a metterli in questa posizione. Hai una squadra molto
veloce, ma se ci colpiscono troppe volte siamo spacciate. Sono sicura
che puoi riuscirci, devi riuscirci...
A-Anemone,
mi stai ascoltando?»
«Ah...
S-Sì... Però... Wow, non è male questo
modo di comunicare, molto privato... - la rossa
prese a inviare occhiatine complici alla compagna - Questo
significa che tu puoi sapere a cosa io sto pensando in qualsiasi
momento?»
«Hai
capito o no!?» Per un attimo la bionda
persa la sua solita compostezza.
«Va
bene, va bene, certo che a volte sei proprio una piccola principessa
viziata... Ho capito.»
Anemone,
sebbene stesse solo pensando a quelle parole, esibiva con il volto ogni
singola espressione da affiancare alle sue risposte.
«Bene.
Ultimissima cosa.» Catlina si fece ancora
più seria.
«Che
c'è?»
«Potresti
per favore smetterla di guardarmi il seno?
È
imbarazzante durante una lotta, e ti ricordo che sei anche
fidanzata.»
La
giovane di Sinnoh fulminò con gli occhi quella ragazza un
po' troppo impressionabile.
«S-Scusami,
ma sai, quel bel vestito che indossi te le mette proprio in risalto, -
presa dalla vergogna, la rossa prese a ciarlare a macchinetta - le hai
proprio belle rotonde, mi piacciono così...
M-Mettiamoci
al lavoro, okay.
Unfeazant,
esci e diamoci dentro!»
Ragionandoci,
l'aspirante aviatrice non era mai stata in contatto così
stretto
con una persona dell'alta società come Catlina. Odiava
ammetterlo, ma nonostante la sua indole buona e mite serbava non pochi
pregiudizi nei confronti delle persone benestanti e ricche della
regione.
Alla
fine il denaro contava poco o nulla nel rapporto fra persone umane. In
quel momento le due erano unite nella lotta contro dei ladri, nemici
comuni a tutte le classi sociali.
La
rese molto contenta questo avvicinamento con Catlina, ancor
più
per il fatto che era nato dalla volontà spontanea della sua
timidissima ed introversa compagna.
«La
prima mossa ai perdenti, Liepard usa Ombrartigli su
Reuniclus!» Gridò la prima.
Catlina
fece un cenno col capo alla sua compagna di lotta, che
afferrò al volo.
«Unfeazant,
sono io che ti sto parlando... Usa Acrobazia volando a parabola contro
Liepard. Tranquillo, Krokorok non può colpirti se ti alzi in
volo appena te lo trovi davanti.»
Il
Pokémon Uccello non esitò a porsi in difesa
dell'esemplare Cellula, eseguendo alla perfezione il comando senza
indugi. Non si sorprese neppure di sentire la sua Allenatrice parlargli
attraverso la telepatia. In quel momento contava solo la vittoria.
«Catlina.
- Anemone la chiamò. - Spacchiamogli il...»
«Ci
siamo. - Asserì quella. Ecco che i due tipo Buio si
trovavano uno di fronte all'altro.
Come
si suol dire, uccidere due piccioni con una sola pietra. - Reuniclus,
Focalcolpo!»
Ciò
che succedette all'impatto con i due Pokémon fu un marasma
di
rumori caotici. La potenza della sfera emessa dalle acquose braccia del
Pokémon aveva colpito entrambe gli avversari, andando a
travolgere insieme ad essi anche tavoli, sedie ed altri soprammobili
presenti in linea retta.
Il
tutto si andò a scontrare contro la parete, lasciando oltre
ad
un boato significativamente forte, i segni visibili di danni materiali
non poco onerosi da riparare.
Il
pubblico numeroso e febbricitante rimase senza parole per alcuni
istanti.
«C'è
qualcun'altra che vuole sfidarci? Eh?»
Anemone
si rivolse con tono rissoso a tutte le altre ladre in divisa scolastica
lì presenti.
Nessuna
osò farsi avanti, nessuna fiatava o aveva commenti per
quella scomoda situazione.
D'improvviso
il bar fu riempito da un sonoro scroscio di applausi, fischi ed urla
gioiose; dimenticandosi subito del disastro causato dalla mossa
Focalcolpo i presenti esultarono in coro, tutti facevano in modo di far
sentire il loro apprezzamento alle quattro abilissime lottatrici.
Le
nostre quattro eroine, quindi, avevano guadagnato la loro schiacciante
vittoria.
«Prima
di festeggiare, - Camilla si fece avanti, decisa - vediamo se ci siamo
scordate di qualche Pokémon, che so, sotto la
gonna...»
Senza
porsi alcuna restrizione, la Campionessa di Sinnoh prese ad esaminare
le gonnelline color grigio cenere delle ragazzine, trovandovi, senza
sorpresa, una tasca interna attorno al bordo che lo ingrossava
visibilmente.
La
presa in sequestro intanto arrossiva di vergogna, l'umiliazione
accresciuta da tutti quegli insulti mal pesati e sciocchi sbraitati
contro le loro stesse giustiziere.
L'aspro
sapore di sconfitta che lacerava l'orgoglio.
«Una,
- mise la prima a terra, allineando poi le restanti, in modo che ognuno
dei presenti osservasse bene - due, tre, quattro, cinque... Qui sotto
c'è una squadra intera, a quanto pare.»
«E
qui un box intero, gente!»
Camelia
aveva rovesciato con noncuranza quell'enorme borsa posta all'entrata,
riversando sul pavimento una centinaia di Poké Ball che
rotolavano confusamente per terra.
Le
altre componenti di quella banda estrassero la loro refurtiva
volontariamente, per evitare di venire perquisite e dunque toccate
maniacalmente dalle altre due ragazze.
La
giustizia è una dea bendata, va guidata per mano alla
ricerca
del crimine come una bambina sperduta. Ma una volta che lo ha
riconosciuto, ella agisce da sé, riportando nel mondo
l'equilibrio corrotto dai misfatti figlii della cattiveria umana, come,
in questo caso, i furti.
Dopo
pochi minuti il locale pullulava solo di poliziotti ed agenti della
sicurezza.
Troppo
facile intervenire sul delitto solo quando è già
stato smascherato, pensarono tutte.
«Ragazze.
- L'infermiera del Centro Pokémon che stava assistendo
quella
banda di criminali in incognito si mostrò alle quattro,
prima
che se ne andassero - Vi ringrazio veramente per il vostro lavoro, non
ho parole per descrivere il grande favore che ci avete fatto...
Erano
un po' di giorni che quelle ragazzine si mostravano qui ai Magazzini
Nove e da lì sono cominciate numerose sparizioni dei
Pokémon di molti clienti che, pur denunciando il fatto, non
ricevevano spiegazioni valide. Voi non solo avete riconosciuto l'autore
dei furti, ma abete anche ritrovato i Pokémon spariti! Siete
state grandi.
S-Se
posso fare qualcosa, a nome di tutti, per ringraziarvi adeguatamente
io...»
«Grazie
mille, Infermiera Joy, - la leader parlò a nome di tutte -
ma vogliamo niente.»
Lo
spirito di eroismo ed abnegazione gonfiò il polmoni della
donna,
a cui era più caro il bene comune dei benefici personali.
Non
era così per le altre tre, tuttavia.
«Camilla,
sei pazza per caso?!» La canzonò la rossa.
«Mi
sono lasciata insultare da delle bambine di sei anni solo per il gusto
di essere insultata? Camilla, sei uno scandalo, ritiro tutto quello che
ti ho detto prima.»
Camelia
fece per uscire, assieme alla sua ragazza e ai bei vestiti che le aveva
comprato.
«A
me basterebbe, chiedo per favore, una bottiglietta d'acqua... - poi la
biondina si rivolse alla leader - M-Mi si stanno gonfiando tutte le
vesciche, ti prego di capire, Camilla...»
Tutte
e quattro scoppiarono a ridere. Alla fine del giorno, ecco dove stava
la bellezza nell'essere allenatori di Pokémon: risparmiare i
sottomessi e debellare i superbi.
«I-In
realtà il mio nome è Claudia...»
Si grattava il capo, perplessa. Poi continuò, esibendo un
brillante sorriso - Vi auguro altrettanta fortuna per i vostri
allenamenti, arrivederci ragazze.»
La
proprietaria del Centro Pokémon non doveva sapere di aver
davanti ai suoi occhi quattro delle cinque candidate al titolo di
Campione della sua regione.
Ma
dopotutto, chi mai poteva avere occhio così acuto o mente
così vispa da distinguere a prima vista una ragazza da una
Campionessa?
❁
Ironico,
una giornata orribile per uno può essere il giorno fortunato
di un altro.
Fortuna
e fortuna non giacciono mai l'una in braccio all'altra, ma al contempo
evitano di distanziarsi troppo, tanto che l'uomo sfortunato e
miserabile condivide volente o nolente il suo spazio vitale con il
più felice della Terra.
Ma
Iris non ci fece caso, concentrata com'era nel muovere i piedi sui
pulsanti giusti a tempo della musica, per rendere quei gettoni spesi
degni di un nome nella classifica degli highscore.
La
musica che caratterizzava l'ampio luogo climatizzato illuminato dai
neon fluorescenti era un misto di techno ed elettronica, i bassi
roboanti battevano un ritmo cadenzato a cui il sintetizzatore univa una
melodia ripetitiva, adatta al ballo.
Le
due ragazze avevano le orecchie ovattate dalla concentrazione
necessaria per completare la canzone: come uno scienziato sforza
l'occhio all'interno del microscopio per discernere i minimi
particolari, la pupilla marrone nocciola di Iris si era dilatata per
cogliere ognuna di quelle singole frecce colorate che affollavano lo
schermo, scorrendo a una buona velocità.
La
giovane con il cappello copiava i suoi stessi movimenti.
Ovviamente
seguivano una combinazione di salti e battiti molto rigorosa, ma a
vederle da fuori sembrava affette da uno strano morbo che faceva agitar
loro le gambe come cavallette.
Finita
la cascata di note finali, sul display si materializzò una
scritta che portò sollievo ai piedi stanchi, non serviva un
esperto madre lingua per capire cosa significasse "stage cleared".
Comparvero
poi dei numeri che stavano a segnalare i punteggi raggiunti dalle
giocatrici.
«Non
ci credo, mi hai battuta ancora, per di più senza sbagliare
un passo!»
Il
sorriso di Georgia tradiva il suo tono dispiaciuto, dimostrandone la
sportività.
Mentre
quella si aggiustava i capelli rosa acceso inondati da goccioline di
sudore sotto il cappello, Iris si figurò definitivamente
quanto
ella, in confronto a lei, fosse veramente una bella ragazza.
«Non
lo so, - le rispose, mentre cercava le lettere per comporre il suo nome
e firmare i suoi record - sarà che ho i piedi
veloci...»
Quanto
avrebbe voluto scambiare la sua bravura ai videogiochi ritmici con una
bellezza folgorante o una capacità di ragionamento da
intellettuale o direttamente con una fortuna infinita.
Invece
le toccava rimanere brava a muovere i piedi su una piattaforma
luminosa, talento svalutabile quanto il semplice saper
respirare.
«Comunque,
grazie per avermi offerto queste partite.» Trovò
opportuno ringraziarla ancora.
È
noto che qualora dovesse ringraziare o scusarsi, la ragazzina si
assicurava di farlo almeno sei o sette volte di fila. Era la paura di
causare fastidi a renderla, a suo parere, ancora più
fastidiosa.
«Scherzi?
Questo ed altro per un'amica!»
Georgia
estrasse dalla borsa una bottiglietta d'acqua da cui bevve in maniera
proporzionale alle energie spese per riuscire a vincere almeno quella
partita. Quando ebbe finito porse con assoluta naturalezza la
bevanda alla sua amica dai capelli violetto, che si dimostrò
piuttosto sbalordita.
Senza
lasciare il tempo di farsi obbligare, accettò quel gesto nel
modo più naturale che riusciva a mascherare.
«Davvero
sto mettendo la bocca dove le ha messe un'altra ragazza?»
Pensò fra sé e sé.
In
normali circostanze avrebbe trovato il gesto a dir poco disgustoso,
l'idea di pigliarsi la mononucleosi l'attirava ben poco. Ne bevve solo
due gocce e restituì la bottiglia di plastica con lo stesso
sorrisetto ebete di prima.
Da
quando era diventata così condiscendente alle richieste
degli altri, si chiedeva.
Le
sembrava che ognuno fosse padrone delle proprie scelte e fautore del
proprio destino, tutti ad eccezione di lei.
Tutto
sommato però, essersi piegata al volere di quella misteriosa
ragazza incontrata per la seconda volta di numero non le stava
dispiacendo per nulla, fino a quel momento.
Erano
state a fare un giro per tutto il centro commerciale, facendo cose che
a lei onestamente piacevano, non avendo di che fingere interesse
o di cui lamentarsi: distribuendosi le linee delle canzoni al karaoke
(mentre Iris se la cavava molto bene con le parti rap, Georgia aveva
molto più controllo nella voce per le parti cantate) avevano
scoperto di condividere pressoché gli stessi gusti musicali.
In
altri modi simili, casuali e piacevoli coincidenze, avevano trovato
tanti di quegli interessi comuni da sembrare un caso irrealistico, se
non impossibile, che le due non si conoscessero da una vita.
Una
persona che l'aveva spinta ad un furto e al successivo mentire per
camuffarlo le ispirava molta più fiducia delle quattro
"compagne" che da un mese erano entrate la sua vita e ancora le
infestavano la testa come pidocchi.
Quel
sentimento di liberazione la faceva in qualche modo sentire in colpa.
Nardo
aveva detto a lei e alle altre che non dovevano definirsi "avversarie",
ma "compagne".
Spiegarsi
come mai l'assenza di esse la facesse provare tale felicità,
portò Iris a formulare un'ipotesi, non troppo lontana dalla
verità.
«Senti
Georgia, non mi sembra di avertelo mai chiesto, tu quanti anni
hai?»
La
ragazza dai capelli fucsia stava giocherellando con il suo cappello
molto chic. Le sorrise.
«Quindici.
- rispose a suo perfetto agio - Come te.»
E
la indicò, facendole l'occhiolino come quando si erano
incontrate.
«Forse,
alla fine, con le altre mi sento male solo perché sono tutte
più grandi di me... Sì, deve essere
questo.» Iris
fece un bel respiro, prendendo una boccata d'aria fresca.
«Aspetta
però, - un dubbio le balenò subito e
così si
rivolse di nuovo alla sua coetanea - come fai a sapere quanti anni
ho?»
Georgia
esitò visibilmente, passandosi una mano fra i capelli ed
alzando le pupille al soffitto.
Contrasse
i muscoli facciali, come se stesse cercando una risposta, ma per
qualche secondo tutto ciò che uscì dalla sua
bocca fu un
miscuglio di foni monotoni.
«Eh...
M-Me lo aveva detto una tua amica, quella con cui eravamo uscite la
volta scorsa...
C-Cosa
credevi, che sono una stalker per caso?»
Alla
giovane Allenatrice sembrò una scusa più che
plausibile,
si perfino mise a ridere della propria ingenuità. Non poteva
esserci nulla che non andava in tutto ciò.
O
almeno, dalla sua prospettiva non c'era nulla di evidentemente sospetto.
Si
sedettero sulle scale sporche tappezzate di chewing-gum nero e
volantini stracciati.
Onestamente,
Iris si augurò in cuore suo che tutta l'estate avesse potuto
passarla così, come una normale ragazza di quindici anni.
«Hai
voglia se usciamo anche domani?» Le domandò
Georgia, che sembrava godersela come lei.
«Domani
non posso, scusa...» Iris evitò di guardarla negli
occhi.
Sperò
che smettesse di chiederglielo in quell'istante, ma non successe.
«Vabbè,
un giorno di questa settimana puoi?» Le aveva fatto quelle
domande già in precedenza, per tre volte totali in quella
giornata. La risposta però non sarebbe cambiata.
«Non
posso proprio, - Iris fece sentire quanto ciò veramente le
rincresceva - quest'estate sono... Piena di impegni, diciamo.»
«Non
dire stupidate, - l'altra le diede una leggera pacca sulla spalla,
guadagnandosene una a sua volta per ripicca, tanto le due erano vicine
per scherzare anche in quel modo - è estate, dai.
Tu
non vai a scuola, non lavori, non sei in viaggio e neanche in
apprendistato...
Com'è
che non sei mai libera? Mi nascondi qualcosa, ho capito!»
Iris
le regalò una delle sue occhiate più sanamente
divertite dei suoi scintillanti occhi nocciola.
Si
ricordò di come la roccia (rappresentata dal marrone delle
sue
iridi) potesse distruggere il ghiaccio degli occhi dell'amica, secondo
la legge delle resistenze e delle debolezze.
Per
la prima volta in vita sua, ritenne una cosa dovuta prestare la sua
fiducia ad un'estranea.
Inconsciamente
pregò di non doversene pentire in seguito.
«Vedi
Georgia, il fatto è che...» Aveva intenzione di
parlarne
con assoluta serietà, ma si bloccò al principio.
Emise
una risatina nasale e proseguì con tanta eccitazione ed un
certo
vanto.
«Uh?»
Fece l'altra, incuriosita.
«...io
sono una delle cinque scelte per diventare Campionessa della regione,
non scherzo!
Hai
sentito che entro la fine di quest'estate il Campione Nardo si ritira?
Ecco, io sono contro altre quattro ragazze e chi di noi vince
sarà la prossima in carica a partire da quest'anno.
Abbiamo
un ritmo di allenamenti molto duro e se io manco anche ad uno solo mi
ritrovo fregata al torneo di agosto... Per questo non posso
uscire...»
Per
dimostrare la veridicità delle sue parole, Iris estrasse
subito
dallo zaino la lettera che le era stata inviata dalla Lega
Pokémon all'inizio di giugno e la passò
all'amica, che la
esaminò.
Era
strano che questa la portasse sempre con sé, ma come prova
poteva vincere anche i più diffidenti.
A
parte suo nonno, solo Velia e pochi altri sapevano del suo ingresso
nella competizione. Nardo aveva ordinato loro la più totale
discrezione riguardo la questione del farlo sapere in giro.
In
preludio al TRUF ci sarebbero state conferenze stampa, interviste e
pubblicità a spargere la notizia, per garantire la
più
totale imparzialità da parte degli allenatori.
Georgia
le restituì la lettera, e non proferì parola.
Niente esclamazioni o domande a mitraglietta.
Solo
il suo solito affascinante sorriso fuori luogo brillava sulla sua
faccia.
Come
se quella rivelazione non fosse per lei una novità.
Dopo
un po' parlò, notando che la ragazzina si stava di nuovo
insospettendo.
Scelse
di non essere scontata però. Aveva dunque capito le
aspettative della sua nuova amica.
«Ma
allora quelle quattro mestruate che ti hanno lasciato da sola prima non
sono le tue "compagne", sono le tue "avversarie".»
Ecco,
lo aveva detto. Iris alzò gli occhi al cielo, esasperata.
Perché aveva ragione, ecco perché.
Ma
quelle "mestruate" facevano di tutto per farle credere il contrario.
«Scusa
Iris, io ti reputo una persona intelligente. - Riprese, con tono serio
e scherzoso insieme - Perché ci esci insieme?
Perché ci
parli? Non dovresti fare di tutto per sconfiggerle?
Hai
visto come ti trattano, anzi, come ci trattano quelle più
grandi. Ti capisco, sai?
Credono
di essere adulte, ma in realtà sono solo delle bambinette
con
otto chili di trucco in faccia e il reggiseno push-up...»
«Oddio,
- la interruppe Iris, ridendo - le mie "compagne" - fece le virgolette
con le dita - sono uguali identiche a come le hai descritte tu! Fanno
tanto le donne vissute, pensano di farmi lezioni di vita e invece al
massimo sono capaci solo di gridare ed insultarsi solo per farsi valere.
E
poi piangono, piangono, non fanno altro che piangere delle loro
disgrazie passate e sono piene di problemi, una perché ha il
padre alcolista, un'altra scopre di essere lesbica, un'altra soffre di
tutte le malattie del mondo, un'altra è una
pedofila...»
Sebbene
il tono della voce facesse pensare a cose detta a cuor leggero, Iris
sentì lo stomaco diventarle di granito dopo averle
pronunciate.
Non aveva idea di quanto velocemente facesse effetto il rimorso.
«Hai
presente quello che ti ho detto la volta scorsa, quando ci siamo
viste?» Ribatté quella.
Iris
deglutì un ulteriore ammasso di ghiaia. Neanche quello si
era scordata.
"Se
è per qualcosa o qualcuno che ti sta a cuore bisogna sempre
osare, non importa cosa comporti o se sia un bene o un male."
Quella
frase non sembrava la prima scemenza che balena in testa ad una
ragazzina di quindici anni, doveva averla trovata su un libro di
massime o di aforismi, faceva perfino rima.
«S-Sì...
Andare sempre avanti senza badare alle conseguenze, giusto?»
Georgia
le rivolse un sorriso compiaciuto e le accarezzò il braccio
strofinandovi la mano.
«Brava.
Se fai così vincerai di sicuro. - le disse. Poi
cambiò
argomento. - Quindi sei molto brava a lottare? Anche a me piacciono le
lotte. Certo, non sono ai livelli di una Campionessa ma... Me lo
insegneresti un qualche trucchetto, una strategia degna di un
professionista?»
A
culmine della sua imprevedibilità, mentre provava a parlare
la
ragazza della Mano di Fatima, dai poteri di veggente e delle lezioni di
vita aveva preso a ridere sguaiatamente, come se stesse volutamente
prendendola in giro.
Iris
pensò di poterglielo concedere: aveva ricevuto insulti
fisici e
verbali assai peggiori da persone che credeva sue "compagne", del resto.
Quanto
ammirava Georgia. Avrebbe voluto essere come lei, anche a costo di
trasformarsi in un clone senza personalità propria voleva
imitare il suo stile di vita: avanti senza fermarsi, non dipendere da
nessuno, raggiungere i suoi obiettivi ad ogni costo...
Iris
calcolò che l'ora doveva essersi fatta tarda. Non essendo
munita
di orologio fece per illuminare lo sfondo del telefonino, rimasto nella
tasca dello zaino per tutto il tempo che era stata con Georgia (non
voleva assolutamente venire distratta durante le sue sessioni
all'arcade) e guardare l'ora.
Fece
per smorzare un urlo che le usciva dal petto, insieme all'anima.
«Ho
dieci chiamate perse e venti messaggi da quattro numeri diversi! -
gridò quasi - Devo andare via ora, scusami Georgia, ma non
posso
restare ancora...»
Vedere
lo schermo invaso dalle notifiche la faceva andare in panico
già
di suo, sapere che quelle notifiche provenivano dai quattro cellulari
delle altre allenatrici (comunque, secondo che logica avrebbe dovuto
rispondere ad una piuttosto che ad un'altra?) ad intervalli regolari le
fece temere il peggio.
Non
voleva andarsene, voleva restare lì, magari uscire a cena
con Georgia e passarci la serata.
La
vita da aspirante Campionessa non le aveva mai fatto tanto schifo fino
a quel momento.
Fece
per allontanarsi, quando l'altra la fermò per un braccio.
«Hey,
aspetta, non mi hai ancora detto se ci rivedremo ancora... - anche lei
estrasse il suo telefonino dalla borsa - Almeno mi dai il tuo numero di
cellulare? Ti scrivo io poi.»
La
accontentò, scrivendolo direttamente sul suo tastierino e
salvandosi con nome e cognome.
Aggiunse
un cuore alla fine di esso, fece per voltarsi ma la ragazza le
domandava di più.
Intuì
dallo sguardo che un semplice "ciao" non era un saluto degno del tempo
così prezioso passato insieme; le due quindicenni si
scambiarono
un abbraccio e due baci sulle guance.
Separarsi
dalla sua nuova amica le parve più doloroso di un parto
cesareo.
Per
un mese intero, era come se la nostra eroina si fosse nutrita di pane
secco, colazione, pranzo e cena, fino a guastarsi le papille gustative.
A furia di mangiare sempre quel cibo insipido e disgustoso anche se
fosse stato del pane leggermente meno secco lei non se ne sarebbe
accorta.
Ma
tutto d'un tratto, ecco che quella ragazza dai capelli color caramella
l'aveva accompagnata in un mondo di dolcetti, cioccolata, ciambelle,
pasticcini e zucchero filato, riportandole l'appetito e la
felicità... Per poi vedersi lei costretta a nutrirsi di
nuovo di
quel pane secco.
Mentre
si avviava dalle sue "avversarie", Iris aveva la mente vacua da ogni
pensiero.
Poco
sapeva che quello che lei credeva pane secco in realtà
celava
sotto la sua crosta spessa e croccante un ripieno morbido, dei
più saporiti e variegati, una sinfonia per il palato.
Poco
sapeva che dopo un'abbuffata così abbondante di dolci
inevitabilmente le sarebbe venuto il mal di stomaco e le carie ai denti
l'avrebbero fatta pentire dei suoi giudizi avventati.
❁
Nonostante l'ora fosse
più vicina alla sera che al pomeriggio, il sole era ancora
alto nel cielo.
Forse
per quello, forse per la corsa fatta attraverso un'intera ala del
centro commerciale, quando la giovane dai capelli viola giunse davanti
alle tre allenatrici che la aspettavano ebbe quasi la sensazione di
stramazzare a terra.
Forse non era per
nessuna delle due ragioni, in fondo.
«Scusatemi,
- provò a parlare e le sembrava di respirare sott'acqua, le
facevano male le narici e la gola - ero andata a fare la ricognizione
come avevamo deciso, ma...
H-Ho incontrato
questa... Questa mia "amica" e... Avevo il cellulare spento e... e...
Siete arrabbiate con me,
vero?»
Lo
aveva già intuito dalle quaranta chiamate perse, il suo
ricongiungimento al gruppo non sarebbe stato accolto con il bentornato.
Non le sarebbero bastate scuse firmate dal capo di stato per calmare le
tre.
Lei
era una gomma da masticare appiccicata sotto la suola dei loro tacchi
alti, un insieme di pensieri e sentimenti calpestati senza
pietà, ma alla fine loro dovevano sempre lamentarsi della
schifezza rosa che rimaneva ad inorridire la loro perfetta vita
patinata.
Ecco cosa Georgia
cercava di farle capire da tutta la giornata. Lei non aveva amiche.
O almeno, fra le sue
amiche non potevano rientrare persone del genere.
Non
appena si trovò puntati addosso gli occhi di Camelia con il
suo
solito sguardo misto fra il disprezzo e un impulso trattenuto di
scoppiare a ridere, le si gelò il sangue.
Si aspettò il
peggio, che la lama della ghigliottina le trapassasse la nuca.
«Adesso
capite - la mora parlava con le altre due, suonando piuttosto divertita
- perché non la si può rispettare? Iris, hai un
atteggiamento naturale da vittima, sei così piccola e
indifesa
che mi viene una voglia matta di insultarti e maltrattarti, non posso
farci niente...»
Iris rimase zitta. Si
sentiva patetica, ma tanto non avrebbe mai ricevuto la pietà
che desiderava.
Mentre
Camelia se la rideva, la rossa l'aveva abbracciata da dietro, ponendole
la bocca vicino all'orecchio come se fosse diventata lei la sua
coscienza.
«Mi
avevi promesso che l'avresti piantata con il bullismo su di lei. Se non
diventi più gentile, Cami, sappi che ti lascio.»
«Vuoi sprecare
un talento così grande per l'umiliazione? Considerati
mollata, dolcezza.»
Mentre Anemone aveva
assunto la faccia più confusa di sempre, Iris si
spazientì.
«Siete
arrabbiate con me?» Reclamò la loro attenzione.
La
coppia di diciassettenni rise all'unisono, non potendo fare a meno di
trovare assai esilarante quella parte della più giovane del
loro
gruppo. A volte pareva che Iris avesse quasi paura di loro.
«Noi
no.»
Le
rispose pacatamente Catlina, mentre le porse tranquilla la bottiglietta
d'acqua da cui stava bevendo. Iris rifiutò nel modo
più
educato che conosceva. Non voleva più mettere le sue labbra
in
posti dove erano state anche quelle di altri, o meglio, di altre.
«Nardo...
Probabilmente sì.»
«Scusatemi, ci
costerà una punizione, io...» Iris era di nuovo
entrata in panico.
Stava camminando alla
cieca su una corda da funambolo divisa fra l'odio e l'amore.
Le venivano le vertigini
nel cercare di capire da che parte stessero quelle ragazze.
«Credo
sia il cerchio della nostra vita. - la mora la interruppe - Noi cinque
usciamo, facciamo le depresse, ci facciamo riconoscere e veniamo
giustamente punite per questo.»
«Tutte le
ragazze fanno così alla fine...» La biondina
proseguì il discorso.
«Ma noi
facciamo schifo pure in questo.» Anemone lo disse con estremo
rincrescimento.
«Siete proprio
sicure? Non vi credo.»
Iris riuscì a
calmarle alzando la voce ancora di più.
Il suo volto sembrava
sull'orlo del pianto. Quella situazione la confondeva troppo.
All'orizzonte,
interrompendo quella simpatica conversazione, apparve la leader,
sorridente come al solito. O forse potremmo dire che la solare ragazza
stesse sorridendo ancor più del solito.
Teneva
in mano la borsa di un qualche negozio, grossa ed ingombrante, doveva
aver speso un bel po' di soldi. Anche ciò era vero, ma quei
soldi non erano del tutto suoi.
Aveva fatto in fretta
per evitare che il negozio in questione chiudesse e poi aveva raggiunto
le altre.
«Scusate il
ritardo, - la giovane donna si scostò dal volto i capelli
lunghi - e comunque ciao Iris.
Speravo che ci avresti
messo un po' più di me, invece mi hai fatto fare la figura
della ritardataria.
Grazie, eh?»
Scherzò.
«Prego,
Camilla.»
Con una faccia di marmo,
Iris ringraziò almeno il fatto che qualcuno si fosse
calcolato la sua presenza.
Stranamente
la bionda aveva un non so che di diverso. Doveva essere stata la lotta
avvenuta nel locale contro i ladri di Pokémon a caricarla
così tanto, somigliava ad una bambina ansiosa di salire su
una
giostra.
La
donna faceva loro questo effetto, eppure sembrava perfettamente conscia
del suo apparire. Anzi, più che conscia, assolutamente fiera.
Fiera di essere diversa.
Era diversa da altre ragazze uguali, ma uguale ad altre ragazze diverse.
Si rivolse alle suddette
con una felicità inspiegabile.
«Ragazze,
seguitemi nel parcheggio.»
«Camilla,
dobbiamo andare o sennò perdiamo il treno, non
scherzare.» La riprese l'altra bionda.
«Vi
sembro forse una che scherza? - era incredibile come la stessa pazza
euforica potesse piombare in atteggiamenti così paurosamente
seri - È un ordine della vostra leader.
Seguitemi nel
parcheggio, ora.»
Tutte e quattro
ammutolirono, camminando a testa bassa come prigionieri di guerra.
Quanto
l'uomo che proclama se stesso civilizzato possa trasformarsi in un
selvaggio quando non ci sono telecamere di sicurezza a rimproverargli
ogni singolo battito di ciglia si poteva vedere esemplificato nei
parcheggi sotterranei.
L'illuminazione
faceva le bizze, sembravano le luci stroboscopie di un video musicale,
i graffiti coloravano i muri diroccati con vignette indecifrabili ma in
qualche modo artistiche. Si sentiva l'eco dei passi che graffiano sulla
ghiaia, le ombre proiettate sul cemento allungate di fronte a loro.
Camilla
guidava le compagne. Non vi era anima viva in quel postaccio, un
tappeto di cartacce accoglieva il loro ingresso e vi dovevano essere
non pochi Pokémon selvatici ad abitare lì.
La
leader si fermò proprio di fronte a una cosa che in quel
parcheggio di periferia contrastava come una macchia di inchiostro su
una camicia bianca, non aveva assolutamente senso di essere
lì.
«Che pazzo
parcheggia la macchina in un posto come questo?»
Domandò Iris.
«E non
è neanche una macchina a caso, è una cavolo di
Cadillac! Chi l'ha messa qui?!»
Anemone la succedette
subito.
La
vettura era un diamante caduto in un pozzo di catrame. La carrozzeria
nero lucido dalle forme eleganti e classiche, come una vera signora,
sprizzava il fascino sempre in voga di metà novecento. I
parafanghi tondeggianti, il cofano lucente con il logo della casa
automobilistica a troneggiare, i sedili in pelle rendevano
quell'automobile un pezzo da museo.
Camelia,
Iris, Anemone e Catlina stavano ad ammirarla, ma la leader le costrinse
ad aprire bene le orecchie e dare ascolto solo a lei. La sua voce era
ben amplificata dalla vastità del parcheggio vuoto.
Qual luogo e momento
migliore per tenere un sermone?
«Ragazze
care, in tutto questo tempo in cui siamo state insieme, in questo mese
ho notato una cosa. Lo dico come vostra leader, come una che ci tiene,
più che al vostro successo da Campionesse, al vostro
benessere
fisico e psicologico.
Vi
lasciate intimorire molto facilmente, voi quattro. Intimorire e poi
distrarre da quello che è il vostro scopo: credo che la
vostra
sia paura di essere giudicate dagli altri.
Voi
tutte dipendete ancora troppo dal giudizio della gente, volete essere
accettate in tutti i modi e alla fine vi lasciate colpire alle spalle
da frasi del tipo "sei troppo magra, sei troppo grassa, non sei
abbastanza bella, non sei come mi immaginavo, ti manca qualcosa." E
penso che questo possa essere un problema.
Un problema per
voi.
Io
ho fatto la vostra stessa identica strada tempo fa - beh, forse non
proprio identica, a Sinnoh siamo molto più conservatori, e
vi
prego di non pensare che il Campione della regione debba dire, agire e
comportarsi come vorrebbero gli allenatori.
Un Campione deve fare
queste cose pensando al bene degli stessi allenatori.
Capite? Gli altri vi
vedono, ma voi non vedete loro, vedete i loro disagi.
Quindi,
da oggi in poi, basta con i vestiti firmati, basta con le perdite di
tempo e di denaro e soprattutto... basta con i ragazzi.
Non
vi voglio neppure sentirli nominare, la vostra testa deve essere china
sulla lotta sette giorni su sette, ventiquattro ore su ventiquattro -
eccetto l'ora di pausa dopo pranzo, quella è
indispensabile.»
«Okay Camilla,
lo promettiamo...»
La mora fece per
scherzare alzando pure la mano, la donna però riprese a
parlare.
«Non
dovete promettermelo a parole. Dovete compiere un gesto simbolico.
Adesso. Tutte insieme. Come vere compagne di viaggio.»
Le
due Capopalestra, l'esponente della Lega Unima e la ragazzina stettero
ad aspettare la loro grande prova di coraggio sempre più
incuriosite.
Un
rito di iniziazione, quel luogo deserto e nascosto dava al tutto una
sfumatura di sacralità, un sacrificio che poteva essere
fatto
solo tra loro e nessuno ne avrebbe avuto notizia.
La Campionessa di Sinnoh
estrasse dalla pesante borsa alcuni oggetti.
Oggetti che non avevano
niente a che vedere con il tipico inventario di una femmina che passa
un pomeriggio di shopping.
Sempre
quella lanciò uno di quegli utensili a ciascuna, solo quando
si
ritrovarono la bomboletta in alluminio fra le mani (dall'esperienza
precedente la donna aveva appreso che era un riflesso incondizionato
prendere al volo qualsiasi cosa lanciata) poterono realizzare che si
trattava di vernice a spray.
Iris
notò subito che ognuna aveva ricevuto la tintura dello
stesso
colore del proprio yukata, lo capì dal semplice fatto che la
sua
era viola, guarda caso.
Ma
le giovani a cui spettavano l'azzurro, il giallo e il rosa chiaro
dedussero qualcosa di ancor più strabiliante. Strabiliante
in
senso non positivo.
Oh no, Camilla non
poteva starlo pensando sul serio.
Non era così
pazza. Neppure lei, la cui pazzia era sicuramente un punto di forza.
La
loro guida, la loro capogruppo, quella che avrebbe dovuto indirizzarle
sulla retta via del bene e della perfezione morale, camminando in
direzione dell'auto, stappò la sua bomboletta e la
agitò.
Nel frattempo, a tutte
le altre venne un mezzo infarto.
«Camilla,
fermati, non puoi fare una cosa del genere. - L'altra bionda
riuscì a distoglierla dal suo intento per qualche secondo,
ricevendo uno sguardo che voleva dirle "perché no?" - Questa
è la macchina di Mirton.
Avrà speso
tutto lo stipendio di sei anni per comprarsela, se scopre che siamo
state noi...»
Quella non era una
pazzia dunque. Quello era un piano puntigliosamente organizzato.
Il
venire costretta a parcheggiare la macchina di un simile soggetto aveva
fatto stillare la penultima goccia prima che il vaso della sua pazienza
traboccasse. L'ultima vera e propria per la giovane donna era stata il
vedere come quel Mirton avesse abbandonato una sua compagna, la sua
cara amica d'infanzia nel mezzo di un grave malore, da bravo
menefreghista.
Lì
nessuno avrebbe potuto denunciarle. Per ringraziarlo di averla perfino
pagata, Camilla aveva pensato di fargli una bella sorpresa,
riverniciandogli di nuovo la sua preziosa Cadillac.
Una vendetta organizzata
da Eris in persona.
«Catlina. - La
leader la chiamò con dolcezza - Nel sedile del passeggero.
Guarda.
È tua quella
borsa? E quella giacca? C'è pure una cosa lunga di
plastica...»
Camelia
scoppiò subito a ridere e si lasciò scappare una
pacca sulla spalla di Catlina.
«Quella non
è una cosa lunga di plastica, quello è un
preservativo!»
Attraverso i vetri,
ognuna delle ragazze assistette a quella scena degna di una commedia.
La composta, educata, la
bella e buona aristocratica di Sinnoh sgranò i suoi occhi
spenti.
Tutti
i messaggi inviati a notte tarda, il loro incontro dopo l'incidente, la
giacca appoggiata sulle spalle, la sua falsa conversione ad una vita
decente, il tentato bacio...
...tutto
questo, e quell'uomo aveva già trovato (o magari la teneva
solo
di scorta?) un'altra ragazza che occupasse il posto del passeggero
nella sua macchina!
Non trovò le
parole.
La
giovane si sentì doppiamente ferita ed umiliata: non le
interessava se a lui schifasse il suo volto pallido e poco espressivo,
le sue crisi epilettiche o il carattere non estroverso.
Mirton in
realtà aveva sempre voluto una sola cosa: i suoi
soldi.
Perché
grazie ai soldi era riuscito a comprarsi una macchina costosa e quale
ragazza giovane e sciocca non è attirata dalle auto di
lusso,
anche se l'auto viene guidata da un pezzente?
Rivolse un'ultima
occhiata alla leader. Poi anche Catlina tolse via il tappo.
Con
il dito premuto sul beccuccio ed il polso tremante per l'eccitazione,
le due di Sinnoh si limitarono a passeggiare intorno al perimetro della
Cadillac e a tracciare delle linee rette non troppo spesse sulle
portiere: una bianca a desta, una rosa a sinistra a far breccia in quel
nero brutto e deprimente.
Le
tre più giovani, Camelia, Iris ed Anemone avevano le labbra
increspate in un sorriso scioccato: dov'erano finiti i due angioletti
biondi tutte acqua e sapone che convivevano con loro?
La schiera degli
arcangeli decaduti dal paradiso stava chiamando anche loro.
«Wow, che
trasgressive! Il peggio che sapete fare sono due linee?»
Camelia le
canzonò e si fece aiutare dalla sua ragazza per unire a
quell'arcobaleno bicromatico il suo giallo acceso.
Anemone
e Camelia si scelsero per i loro graffiti la superficie sul retro:
subito dalla targa sparirono i numeri affogati in una barra azzurra
come il mare, la modella invece fece una grande linea cuneiforme simile
ad un gabbiano stilizzato.
«Non
starai disegnando un pene, spero.» La rimproverò
la
leader, facendo riecheggiare quella parola imbarazzante per tutta
l'area.
«È
un cuore, se vuoi saperlo. - Camelia si difese completando lo
scarabocchio e colorandone il centro rudimentalmente - Niente maschi
hai detto e io mi sono già adattata.»
«Per me idem.
Niente ragazzi, niente problemi. Io l'ho sempre detto, ma voi,
ascoltarmi, mai...»
La
rossa seguiva le finiture dell'auto tingendone i contorni con una certa
pignoleria, per quanto il non essere una tagger professionista le
permettesse, ed era già arrivata a coprire la superficie dei
parafanghi.
«Avrei voluto
saperlo anche io...» disse Catlina agitando la bomboletta,
ormai agli sgoccioli.
Ogni
tanto i colori si mescolavano e usciva una nuova combinazione, la
pittura colava e le goccioline macchiavano anche il cemento ed il muro.
Il
danno non era più riparabile già dopo cinque
minuti: il
colore nero faceva a malapena capolino da quell'ammasso di giallo, blu,
bianco e rosa che lo soffocava.
Non c'erano regole nel
giocare con la pittura spray, ciò che ne era venuto fuori
era un autentico disastro.
L'arte va capita, e in
alcuni casi serba perfino un significato profondo. E quello era il caso.
Iris le stava a
guardare, senza sapere cosa pensare. Era divisa interiormente.
Era colpa delle parole
di Georgia, avevano avuto effetto su di lei come un veleno.
E ad esse si era
contrapposto il discorso che aveva appena fatto Camilla.
Doveva
scegliere se vivere nel mondo reale e farsi accettare dagli estranei
che di lei sapevano poco o niente, oppure rinchiudersi in quel circolo
di bambine disturbate e dar sfoggio anche lei dei suoi personalissimi
disagi.
Non voleva che il mondo
la vedesse come una ragazza guasta, marcia e rotta.
Non lo voleva per nulla,
chi mai poteva desiderare di escludersi dal mondo volontariamente?
La
risposta era in quelle quattro ragazze più grandi di lei,
che si
erano ritagliate il loro angolo neutrale in mezzo al campo di battaglia
che era il mondo, tappezzato di mine antiuomo, filo spinato e gente che
salta da una trincea all'altra pur di non venire uccisa sotto gli occhi
di tutti.
Georgia
altro non aveva fatto che rovesciarle un secchio d'acqua fredda in
testa per renderla consapevole della verità. Anemone,
Camelia,
Catlina e Camilla non erano ragazze normali.
Nemiche o amiche,
compagne o no.
Suo nonno Aristide e
pressoché tutti quelli che conosceva le avrebbero definite
"cattive ragazze".
Ragazze deboli,
problematiche e pietose, ma lei non trovava affatto calzata questa
definizione.
Il giudizio della gente
doveva farsi gli affari propri e lasciarle stare.
Lasciarle sole, fra di
loro. Punto e basta.
A
svegliarla dal suo coma vegliante con una scrollata di spalle, la rossa
la fece quasi cadere all'indietro. Ciò la
infastidì, ma
non gliene volle troppo.
«Buongiorno...
- la riportò con i piedi per terra, mentre la ragazzina fece
inutili sforzi per liberarsi dalla sua stretta soffocante -
È il
tuo turno ora.»
Vide che tutte la
stavano guardando, aspettandosi qualcosa che lei non aveva di certo
colto.
Camilla le venne
incontro con le mani ancora imbrattate di bianco.
«Ti abbiamo
lasciato libero il cofano, devi dimostrare di essere... Una di
noi.»
«Io non so
se...» Provò a spiegarsi, ma non ebbe il tempo di
terminare.
«Non
è convinta, Camilla. - la indirizzò l'altra
bionda - Bisogna convertirla, credo.»
Senza bisogno di
chiederlo, la modella la prese per le spalle, sorridendole come al
solito.
«Iris
è ancora troppo... Troppo...»
«Troppo
normale. - si aggiunse la rossa, ponendosi dietro di lei ed
intrappolandola così - Dobbiamo farti un bel lavaggio del
cervello.»
«Che matte che
siete.» La giovane fece per ridersela, ma non c'era via
d'uscita.
«Che siamo,
intendi.»
«È
una prova questa. - La Campionessa fece allontanare le altre. - Credo
ci sia una specie di onore sotto, anche se non sembra. Fra tutte le
persone che ci sono ad Unima, tutte quelle che ci sono nel mondo, di
chi ti interessa di più l'opinione?»
«Non
so... - cercò di rispondere ragionevolmente - mi interessa
cosa
pensano di me le persone a cui tengo, tipo i miei amici...»
«E noi non
siamo tue amiche?» Camilla glielo chiese sorridendo.
Anche le altre tre
esibivano sorrisi gentili, osservando compiaciute la loro opera d'arte.
La ragazzina di soli
quindici anni non seppe più cosa pensare.
Camilla
aveva ragione: lei era un burattino nelle mani degli altri. Non
riusciva ad essere se stessa e ad esprimere i suoi veri pensieri con le
altre persone. Con Georgia, quel giorno, in cui l'aveva lasciata parlar
male delle sue compagne ne aveva avuto la prova.
Scusarsi per l'ennesima
volta non sarebbe servito.
Nell'amicizia non
bastano le parole, servono i fatti, come in una causa giudiziaria.
Sorrise a sua volta.
«Lo sapete che
la vernice è lavabile?» Disse.
Camilla e le altre si
guardarono perplesse. Il loro impeccabile lavoro era davvero stato
inutile?
Con le sue braccia magre
ed abbronzate, Iris estrasse dalla borsa un altro oggetto che
nessuna,
nessuna, si sarebbe mai
aspettata di vedere in mando ad una creatura così docile e
carina.
Sollevandolo di poco da
terra, Iris brandiva un martello di bronzo da chissà quanti
chili.
«Questo
no.» Asserì soddisfatta.
Camilla
partì e tutte le altre le rivolsero un applauso di rispetto,
che
le stette più a cuore di qualsiasi battito di mani che
avrebbero
potuto risuonare in tutta la regione.
Si avvicinò
piano alla Cadillac, ormai sicura delle sue decisioni.
Nessuna, nessuna di loro
era lì per dirle che stava sbagliando.
Portò
l'attrezzo dietro le spalle e lo impugnò saldamente: con un
fluido movimento degno di un effetto al rallentatore colpì
il
parabrezza più forte che poté, lasciandovi come
ricordo
indelebile una crepa grande come la sua testa.
Come
ciliegina sulla torta, nella borsa vi erano alcuni cacciavite
appuntiti, che le sue compagne usarono per decorare ulteriormente il
tutto con dei bei graffi.
Anemone,
vista la sua forza e le sue conoscenze di meccanica, riuscì
a
bucare tutti e quattro i pneumatici variopinti, la mora e la bionda si
divertivano a scalfire i fanali scappando via appena la scossa
elettrica li illuminava e Camilla non smetteva di rivolgerle sguardi di
ammirazione.
Ciò che aveva
fatto sul vetro infrangibile lo aveva in realtà fatto con i
pregiudizi altrui.
Alla fine anche quelli
erano in parte di vetro, labili e fragili.
Non
stava a nessuno giudicare il suo operato, come a lei non stava
ascoltare e prendere come certezze ogni diceria sul suo conto.
In quel momento lei e le
altre avevano compiuto un vero e proprio atto di vandalismo.
E nessuno, nessuno a
parte loro avrebbe mai potuto comprenderne il senso.
«Prendi
questo, - la ragazzina dai capelli viola decise di dare un'altra bella
martellata agli specchietti retrovisori per vedere in quanti colpi
riusciva a spaccarli - figlio di...»
«Iris!
- Camilla le puntò contro la sua bomboletta viola come se si
trattasse di un'arma da fuoco - Non voglio sentirti parlare
così, rifallo e Nardo ti metterà in
punizione!»
La più
anziana e la piccola del gruppo scoppiarono a ridere all'unisono. Che
scemenze.
«No, Iris ha
ragione. - la biondina parlò alla leader - Non avevi detto
"niente maschi"?
Niente vestiti firmati?
Niente soldi sprecati? Niente tempo buttato via?
Ecco, posso assicurarvi
che questo tizio è... tutte queste cose insieme.»
Dopo
un paia di tentativi troppo deboli, Catlina riuscì a
rimuovere
con un potente incastro del cacciavite il logo della rinomata casa
automobilistica dal portabagagli, esponendo la placca metallica come
un trofeo.
«Non
sapete che contenta sono. - Anemone era al contrario piuttosto
concentrata sullo svitare ad uno ad uno i cerchi delle ruote - Niente
più pianti, niente tradimenti, niente smancerie...
Siamo libere dalla
tirannia maschile, insomma.»
«Niente
smancerie? - le riprese la più piccola - E tutte le volte
che tu
e Camelia vi limonate di nascosto? Eh? Eh?»
«Da
domani vi voglio vedere tutte femministe e costipate! Scherzi a parte,
ma lo sai, Camilla, che questa è proprio una bella idea? No
boy
allowed.»
Camelia alzò
gli occhi dal suo disegno, una specie di stella deforme circondata da
cuoricini spastici.
«Regola numero
uno: - cominciò la leader - non si parla di
ragazzi.»
«E
numero due: non ci si sente con nessuno e non si danno proprie
informazioni attraverso i telefoni.» Continuò la
rossa,
fiscale come la prima.
«E se io - la
provocò la sua fidanzata - volessi tradirti usando, che ne
so, messaggi criptati?»
«In
quel caso - riprese quella, minacciandola di spruzzarle la vernice
addosso - ti rifaccio io la tinta adesso che ti dura per tutta
quest'estate.»
«Bene, allora
questi bei vestiti me li tengo io.»
E come sempre la mora
l'ebbe vinta senza il benché minimo sforzo.
Poi si
proseguì nel dettare la nuova costituzione vigente in casa
di Nardo.
«Non
invitare sconosciuti e conosciuti a casa di Nardo o rivolgergli la
parola potrebbe essere la regola tre.» Propose anche Catlina,
presa da un leggero entusiasmo.
«Chi viola le
regole o copre una che le sta violando merita di essere punita insieme
all'altra.
Niente bugiarde qui,
siamo intesi?» La mora pareva più seria che mai.
Le
quattro si sentirono la coscienza pulita e l'animo in pace per l'aver
letteralmente distrutto una macchina creando quelle regole
così
chiare e rigorose.
Le brave ragazze si
danno un regolamento del genere. Non quelle come loro.
Il
tutto si poteva riassumere così: non parlare con i ragazzi,
non
messaggiare con i ragazzi, non uscire con i ragazzi, non favorire gli
incontri con i ragazzi.
In parole povere,
bloccare ogni genere di rapporto interpersonale con il sesso maschile.
Quell'idea
così definitivamente pazza non poteva essere frutto della
mente di ragazze adolescenti.
Di adolescenti normali
perlomeno...
Iris suo malgrado
accettò questo patto diabolico, senza troppo rammaricarsi.
Sapeva
di essere una che ci teneva alla sua immagine, ma di sicuro non si
definiva una divora-maschi. Avrebbe potuto vivere anche senza.
Non aveva il fidanzato,
non aveva ammiratori, al momento voleva solo andare d'accordo con le
sue compagne.
E quelle quattro regole
sembravano garantirle ciò.
Cosa
gliene fregava se il resto del mondo le puntava contro il dito
definendola nel peggiore dei modi ed insultandola per la sua
diversità, finché aveva l'affetto di quelle che
da sole
si erano definite le sue amiche?
Aveva
dato il suo pieno consenso, e per quello si sarebbe sicuramente
guadagnata manifestazioni di vera amicizia ancora più
concrete.
Rimasero
a godersi lo spettacolo della distruzione della misoginia per altri
dieci minuti, prima che veramente a Nardo potesse sorgere in mente la
mezza idea di punirle davvero.
Lasciarono il parcheggio
vuoto con l'orgoglio alle stelle, le nostre cinque eroine.
Non vi era nulla di
più bello per le giovani dell'aver completato tutte il loro
rito di passaggio.
Niente e nessuno avrebbe
dovuto più intromettersi fra il loro essere
contemporaneamente avversarie e compagne.
Iris
fu certa che non lo avrebbe mai permesso, mentre tornava a casa del
Campione ridendo di tutto ciò che era successo in
quell'estenuante giornata.
❁
La sala era buia,
abbastanza vasta da impedire alla fievole luce delle lampade sul
soffitto di illuminarla adeguatamente.
La grandezza
dell'ambiente, d'altro canto, garantiva il perfetto rimbombo ad ogni
genere di rumore.
Tuttavia
l'unico di essi che in quel momento era possibile udire era il
ticchettio lento di tacchi. Poi la voce della stessa persona che
camminava.
«Sapete...
- cominciò, proseguendo il suo vagabondare avanti e indietro
lungo un segmento di pavimento - io non ho nulla contro le persone
stupide.»
Oltre
a colei che stava parlando, si contavano più o meno trenta
presenze in aggiunta, un totale di persone disposte in riga militare
secondo criteri matematici piuttosto rigidi.
I loro abiti erano neri
in modo da confondersi con l'oscurità e risaltare durante il
giorno.
I
loro volti si distinguevano a malapena: i capelli erano tutti pettinati
in una coda di cavallo in modo da non intralciare il loro campo visivo,
bocca e naso coperti da una mascherina simile a quelle dei medici,
soltanto che anche quella era di colore nero.
Perfino
le loro espressioni facciali erano coordinate a puntino in
quell'istante. Solo paura e vergogna si leggeva in esse, gli occhi
abbassati pur di evitare gli occhi della leader.
«Diciamocelo:
alla fine siamo tutti un po' stupidi, no?» Rise quella.
Nessuna rispose a quella
domanda retorica, a cui seguì un breve e snervante silenzio.
La
leader riprese poco dopo, sorprendendo ognuna di quelle cloni l'una
dell'altra: accelerò d'improvviso il passo, si tolse il
cappello
che aveva addosso con un brusco gesto e tenendolo per la visiera,
rivelò i capelli corti color fucsia acceso scombinati e
schiacciati.
Stava per iniziare un
brutto momento per ciascuna di esse, nessuna esclusa.
«A
me da fastidio quando gli stupidi influenzano con la loro
stupidità i piani dettati loro dalle poche persone
intelligenti,
facendo passare anche quelle per persone stupide! - la ragazza al
comando fece un grande sforzo di calmarsi - Vi avevo dato un compito
semplice, diamine.»
Il suo sforzo non fu
ripagato ed ancora l'ira trascinò la giovane nel suo vortice.
«E
ora, sapete, dico a voi, sapete che cosa mi fa uscire dai gangheri
più di ogni altra cosa? Eh? Quando a mandare in rovina le
persone già stupide ci riescono benissimo persone ancora
più stupide!»
Con
il cappello che agitava nella mano colpì violentemente la
prima
sfortunata di quella schiera di ragazze che le capitò a
tiro.
Poco le importava se si fosse anche trattato di una ragazza
più
grande di lei o più forte di lei.
Perché
Georgia Lang era non solo un membro scelto del Neo Team Plasma. Ne era
la leader.
Quella
giovane che aveva appena picchiato, una semplice recluta. Questa
consapevolezza dei ruoli la rendeva non un soggetto ma un oggetto,
impotente e destinata a subire le conseguenze del suo non agire da
oggetto.
La giovane di quindici
anni si passò le mani sudate sul viso.
Chissà
che ore erano, lì il tempo non scorreva mai,
chissà che
cosa avrebbe potuto fare in quel momento al posto di sgridare le sue
sottomesse: andare al cinema, uscire con gli amici, allenare la sua
squadra... Tutte quelle opzioni impossibili le fecero solamente
aumentare la bile.
È
vero, mentre quelle reclute inesperte stavano faticando per rubare i
Pokémon ai Magazzini Nove, lei era andata al karaoke e
all'arcade con una delle loro nemiche. Non poteva passare la sua estate
a controllare quelle bambine, ma alla fine la colpa del loro fallimento
era solo sua.
Non voleva ammetterlo a
se stessa, però.
«Ma
tanto, - riprese poco dopo, riacquistando sicurezza - voi cosa siete?
Niente. Siete reclute, oggetti, schiave, mezzi per raggiungere
l'obbiettivo, comparse senza volto nel libro della storia del Neo Team
Plasma! Vostro compito non è essere ricordate. Voi dovete
fare
che noi, le protagoniste della storia vengano ricordate,
così in
futuro potranno dire "nonostante l'inettitudine delle loro reclute, i
cinque membri scelti del team riuscirono ad ottenere il controllo sulla
regione di Unima!"
Suona bene, vero?
Quindi
non verrete punite, anzi, andate a dormire, facciamo finta che tutto
questo non sia mai successo! Per la gloria del Neo Team Plasma,
okay?»
E
se ne andò con una disinvoltura tale da lasciar spiazzate
tutte
quante, tanto che neppure dopo che la leader ebbe lasciato la stanza il
silenzio si ruppe.
Si
incamminò diretta, abituata com'era a non perdersi in
quell'edifico fatto apposta per sviare gli intrusi nella loro base
segreta. L'area dopotutto era stata abbandonata e concessa ad alcune
multinazionali affiliate al team recentemente, per via di una perdita
di gas inesistente resa un affare serio da numerosi contratti e
collaborazioni, talmente serio che proprio per caso il team avrebbe
avuto proprietà dell'ex Deposito Frigo fino al termine (mai
precisato) dei lavori.
Georgia
aveva parlato del controllo della regione come obbiettivo da
raggiungere, ma quello era già stato ottenuto anni
prima.
I
politici più influenti, le aziende più
importanti, interi
villaggi e numerosi individui si prestavano alla protezione del Team
Plasma per soddisfare i propri comodi nel modo più segreto
possibile.
Eppure
tutti gli abitanti della regione consideravano il Team Plasma acqua
passata, un'organizzazione criminale che come molte vede il suo
tramonto per mano di una personalità eroica. L'anno
precedente
infatti, due giovani allenatori, un ragazzo ed una ragazza avevano
salvato Unima dalla catastrofe evocando i draghi leggendari Reshiram e
Zekrom grazie ai loro cuori puri e l'aiuto di un misterioso individuo.
O almeno, questo era la
versione che i mass media avevano divulgato.
Come
la fenice che rinasce dalle proprie ceneri, alcuni membri del team di
diverso rango avevano istintivamente abbandonato gli ideali promossi
dall'organizzazione al momento del suo scioglimento, speranzosi di
dimenticare il passato da criminali.
Ed
invece vi era chi non demordeva e nell'oscurità
più
totale continuava ad alimentare la fiamma in attesa di poter dare di
nuovo inizio all'incendio; infine alcuni membri, i più
recenti,
erano entrati a far parte di questo nuovo capitolo dell'intricata
storia, denominato come il Team Plasma nuovo da opporre a quello
vecchio, i cui errori non si sarebbero ripetuti una seconda volta.
Come
ulteriore rimando alla mitologia orientale, il simbolo del Neo Team
Plasma era la Mano di Fatima visto che, per ragioni sconosciute, i
membri reclutati erano tutti di sesso femminile.
Georgia
si sistemò il cappello, per lei accessorio irrinunciabile.
Fece
segno di essere arriva ai gruppo dei membri scelti, che la aspettavano
sulla soglia della grande Sala del Trono (com'era stata denominata).
Le altre quattro
aspettarono che ella passasse avanti solo per poterla spingere e farla
quasi inciampare.
«Perché
hai mandato via quelle stupide senza punirle? - le domandò
insistentemente Jasmine - Eh? Bipolare? Mi rispondi,
bipolare?»
La giovane decise di
ignorare quelle provocazioni e proseguire spedita.
Apparentemente
le cinque erano state richieste in persona per assistere ad "una
scoperta memorabile per la gloria del Team", come l'aveva definita il
loro boss.
Non
aveva rivelato loro nient'altro, doveva trattarsi di affari top secret
se non potevano parlarne neppure mediante la loro apparecchiatura a
prova di sbirri e di intrusione.
L'aspetto
diroccato e malridotto ereditato alla compravendita del Deposito Frigo,
loro nuova base, era rimasto intatto, perfino i luoghi in cui le
reclute dormivano a prescindere dal loro rango somigliavano a veri e
propri lager, del tutto scomodi, sporchi e invivibili.
Ogni
luogo ad eccezione di quella sala, che aveva la fortuna di trovarsi
sottoterra per sopravvivere persino ad un attacco nucleare.
Lì
le pareti scintillavano d'oro, vi erano appesi probabilmente gli
originali di quadri sottratti ai musei e alle gallerie d'arte
più famose, un tappeto del colore della regalità
si
estendeva lungo la linea mediana del pavimento in marmo bianco.
All'apice di una scalinata vi era ironicamente un trono principesco che
sicuramente non era una semplice riproduzione, adornato di minerali
preziosi come quello dei sovrani medievali.
Una vera e propria
controparte della Sala d'Onore presente alla Lega Pokémon.
Le cinque ragazze nelle
loro sudicie uniformi nere piuttosto scosciate si sentirono infime.
Proseguirono nel
silenzio della notte, attraverso il corridoio rosso semi-illuminato.
Una volta giunte di
fronte a quella specie di altare sopraelevato, una voce maschile
parlò loro.
«Qui estis
vos?»
La domanda non era
voluta, marcava solo l'inizio del motto rituale.
In latino, la lingua
delle sacre formule, le giovani ripetevano la loro formula a memoria
senza davvero conoscerne la lingua.
Tutte
le ragazze, con Georgia posta al centro, si disposero in riga e subito
si inginocchiarono in posizione di preghiera, con il torso chinato e la
testa sopra la mani, in quella specie di próskinesis.
«Neo Team
Plasma.»
Risposero in coro.
«Et quod est
vobis perfaciendum?»
Chiese ancora, aspettandosi la solita risposta.
«Futurae
Propugnantes quaerere et delere, ut Plasma societas adipisceri, postea
multae anticae claedae, omnis regionis Unimae imperium
possit!»
«Et facietisne
omnia ad fungendum vestra missione?»
«Certe.»
Partì con sottigliezza Alice.
«Sine
dubitum.» La susseguì Jasmine.
«Faciemus.»
Si aggiunse Sabrina.
«Omne
perfungemur missione.» Ammise Lucinda con orgoglio.
«Sine ulla
indignatio.» Completò la leader Georgia.
Finita
la recitazione, i membri ebbero la possibilità di alzare il
capo
e guardare colui che stava di fronte a loro, seduto sul quello sfarzoso
trono nascosto, come il re dei pitocchi.
Un
uomo vecchio, la cui vista non era mai davvero gradita a nessuno, il
cui aspetto sciupato dall'età e dalla vita fuggitiva
contrastava
con la cappa coperta di ricche pelli e disegni in filo d'oro che aveva
addosso. Portava perfino una corona, la corona dell'impero latente che
era ai suoi piedi.
Il
suo ghigno non esprimeva altre emozioni se non la continua coscienza
che la situazione, il luogo e le persone di fronte a cui si trovava
erano completamente nelle sue mani.
Da lì forse,
il simbolo della Mano di Fatima coperto di pietre preziose sul suo
mantello.
Ghecis, il sovrano del
Team Plasma, guardò le cinque e ancora mostrò
quel riso raccapricciante.
Al
suo fianco fece la sua apparizione un individuo in camice da
laboratorio, dai capelli biondi spuntava un bizzarro ciuffo blu che gli
circondava la testa senza però toccarla. Portava occhiali da
vista non troppo spessi, non sembrava troppo vecchio ma neppure
così giovane.
Avrebbe
dovuto essere intimorito dal trovarsi a pochi passi dal capo di un
organizzazione criminale così potente, eppure era intento a
smanettare velocemente sul suo tablet.
Quando
questo ebbe finito i suoi conti si avvicinò: sorrideva
beffardo,
come se non avesse paura di nulla. Al suo fianco vi era un esemplare di
Klingklang.
«Eccole,
- fece calorosamente, raccogliendo nella sua mano il volto di Lucinda,
rimanendo ad esaminarne i lineamenti - proprio come me le
avevi...»
«Avevate.»
Lo corresse brutalmente l'uomo.
Poi lo scienziato riprese.
«...come me le
avevate descritte, Ghecis: belle, in salute e soprattutto... Giovani...
Fanno
al caso nostro. - mollò il volto della fanciulla e
parlò
a tutte - Non avete ancora eliminato nessuna delle candidate
Campionesse?»
Quell'uomo
aveva un atteggiamento decisamente troppo arrogante. Non poteva
permettersi di chiedere i dettagli di un piano segreto le cui
conseguenze si sarebbero sentite su scala nazionale con tale
nonchalance, a meno che Ghecis non lo avesse volutamente informato.
«Nossignore.»
I cinque membri
selezionati dovettero rispondere a malincuore, sempre mantenendo la
loro serietà.
Costui tornò
a ticchettare gli indici sul tablet, e il re del team si
alzò dal suo seggio.
«Sono
lieto, per quanto possa rendermi lieto sapere del fallimento continuo
delle vostre missioni, - tutte abbassarono gli occhi a quell'aspro dato
di fatto - di presentarvi il Professor Acromio, uno degli scienziati
più brillanti della regione in materia di potenziamento
delle
prestazioni in lotta.»
Il professore fece solo
un lieve cenno con la testa al posto di un inchino.
La
sapienza nell'usare i vocaboli giusti al punto giusto con la giusta
intonazione aveva garantito al vecchio dai capelli verdastro molti
seguaci, tanto potente era la sua arte retorica.
«A
differenza di altri cervelloni troppo occupati a difendere il loro
orgoglio, come Aralia e Zania, quest'uomo si è offerto di
aiutare la nostra modesta "famiglia" nel nostro scopo per un prezzo...
Molto interessante... A
lei la parola, Acromio.»
«Se non
le...» Fece per parlare, ma fu interrotto ancora
più rabbiosamente dall'altro.
«Vi,
maledizione, vi!» Ringhiò esasperato, cercando di
non fare la figura dello stolto.
«Se
non vi dispiace, preferirei essere chiamato con il titolo di
Professore... Tornando a noi, ho qui con me un piccolo segreto che
potrebbe garantire a noi, noi Team Plasma intendo, il dominio non solo
su tutti i Pokémon presenti nella regione, ma anche sugli
essere
umani.
A sentirmi solo parlare
vi potrà sembrare una barzelletta, ma lasciate che vi mostri
i fatti.»
Una serie di occhiate
perplesse partì dal principio di azione e reazione causato
da Lucinda.
Davvero costui possedeva
il segreto per la conquista della regione?
E anche se fosse stato
vero, chi lo diceva che non si sarebbe rivelato un fallimento come
quello dell'anno precedente?
Tutte
furono curiose di scoprirlo e si sentirono in qualche modo onorate di
poter essere le prime ad assistervi insieme al loro capo. Questo
sicuramente faceva di loro le protagoniste assolute.
«Ora, voi
siete giovani, care ragazze, nessuna di voi supera i vent'anni di
età... Adesso ditemi...»
Acromio estrasse dalla
tasca del camice una piccola fiala di vetro, da cui si intravedeva un
liquido.
Era rosso, somigliava a
sangue, ma molto più acceso e denso. Proseguì,
quasi scherzando.
«...qualcuna
di voi si è mai fatta di droga?»
Calò un velo
di impenetrabile silenzio nella grande sala. Ghecis guardava
stranamente divertito.
Che
razza di domanda da porre a delle adolescenti! Davvero esistevano
persone così bigotte da pensare che i giovani di Unima
pensassero solo al sesso, all'alcool e alla droga?
Il
problema era che costui doveva essere un brillante scienziato... Quello
era un brillante scienziato quanto loro erano delle
tossicodipendenti, pensarono.
«I-Il
mio ragazzo, - avendo l'ordine della più assoluta
onestà,
Jasmine disse l'unica cosa - il mio ragazzo si fa di cocaina, la inala,
la usa come anti-depressivo...»
Le
altre quattro, prima di domandarsi ancora di più lo scopo di
quella domanda, si interrogarono sul come una potesse fidanzarsi con un
drogato come Corrado e vantarsene apertamente.
«Non
importa, - proseguì il professore - c'è sempre
una prima
volta... Non voglio rovinarvi la sorpresa, perché...
Perché non provate voi stesse che cosa fa? Forza, ce
n'è
per tutte!»
Per
la prima volta, le ragazze del crimine con la lettera maiuscola, la cui
filosofia di vita era andare sempre avanti senza rimorsi e fare ogni
cosa per ottenere il successo, esitarono.
Dovevano
aspettarselo. Fare qualsiasi cosa le stava portando a drogarsi per
soddisfare le volontà del team ed ovviamente non potevano
che
dissentire.
Sapevano tutte, tutte
che la droga di qualsiasi tipo è inutile, pericolosa e
spesso letale.
Dovettero stimare quanto
valesse la loro vita rispetto agli interessi del Neo Team Plasma.
Una scelta di
proporzioni abnormi per delle ragazzine di età compresa fra
i quindici e i vent'anni.
Mentre Alice, Jasmine,
Sabrina e Lucinda valutavano ciò, la ragazza dagli occhi di
ghiaccio si alzò in piedi.
«Fifone...
- fissando quelle quattro codarde lo mormorò a denti
stretti,
per poi rivolgersi ai loro superiori - Mi offro volontaria
io.»
Georgia
non sembrava impaurita, nemmeno un poco riluttante al farsi manipolare
da un clan di cui faceva parte da meno di un anno. Lo aveva scelto lei.
Non si sarebbe fatta pregare.
Ricordava
bene ciò che il giorno prima aveva detto ad Iris. Le era
servito
per convincersene ancora di più e ora non aveva motivo di
negarlo e di passare per un'incoerente.
«Se
è per qualcosa o qualcuno che ti sta a cuore bisogna sempre
osare, non importa cosa comporti o se sia un bene o un male.»
Il
professore esultò, agganciando alla bocca della fiala il
beccuccio di una siringa con l'ago piuttosto lungo. Ghecis
invitò la ragazza a mettersi comoda sul suo trono, stupendo
tutti.
«Sarà
come il vaccino, - pensava la ragazza, cercando di
ignorare l'ansia che le provocava l'essere guardata dalle sue "non
compagne" - Per fortuna che non ho paura degli
aghi...»
Dopo
averle annodato il laccio emostatico intorno al bicipite destro, sotto
gli occhi basiti delle quattro ragazze e lo sguardo rapito del sovrano,
la ragazza dai capelli fucsia si lasciò iniettare nella vena
brachiale il liquido, osservando il livello di esso scendere dalla
siringa per entrarle in corpo.
Dopo una piccola dose la
puntura terminò, ed il professore estrasse l'ago,
soddisfatto.
In quel momento doveva
succedere qualcosa.
Fu
una questione di secondi, che lo sguardo della ragazzina perse ogni
contatto visivo e le pupille dilatate al massimo vagabondavano
attraverso le orbite come in preludio ad uno svenimento.
Il
viso totalmente assente, l'arrossarsi della sclera e la disfunzione
delle facoltà percettive diedero ai presenti l'idea del
classico
effetto di droghe come la marijuana e l'hashish.
Nulla di originale.
Ma quello strano
scienziato non aveva mostrato ancora nulla del suo misterioso
esperimento.
Nella sala, ancora una
volta, una fitta coltre di silenzio scese.
«Alzati. -
comandò secco alla quindicenne in trance - Vieni qui davanti
a me.»
A
dispetto delle aspettative comuni, quella non zoppicava minimamente e
non sembrava affatto confusa, camminò perfettamente come un
androide pilotato dal suo creatore.
Stava in piedi di fronte
a lui, probabilmente attendendo il suo prossimo comando.
Senza
che davvero nessuno, proprio nessuno potesse prevederlo, Acromio
schiaffeggiò con forza la ragazzina di fronte a lui per ben
tre
volte, facendola finire per terra.
Aveva impresso tale
potenza al braccio che sul volto di ella era comparso un ematoma.
Le
quattro ragazze subito si allarmarono, respirando affannosamente per la
sorpresa tutt'altro che piacevole, il dover restare al loro posto
mentre una loro coetanea venire picchiata fece venire a tutte la pelle
d'oca.
«Cosa le avete
fatto?!» Lucinda ebbe il coraggio di urlare, quasi in lacrime.
Solo il pensiero che
ciò dopo sarebbe toccato a lei era abbastanza per farla
piangere.
Poco
dopo, la vittima di quei manrovesci si rialzò in piedi,
cercando
di ricomporsi; ciò non le richiese uno sforzo eccessivo, era
subito tornata nella sua posizione di prima, con lo sguardo ancora
perso.
«Dimmi tesoro,
- Acromio le domandò, anche se già sapeva la
risposta - ti ho fatto male?
Sii sincera,
zuccherino.»
Solo
un eccesso di orgoglio avrebbe portato una docile fanciulla a non
ammettere il proprio dolore dopo aver ricevuto tre schiaffi del genere,
abbastanza violenti da causarle una botta visibile.
La ragazza
rifletté un secondo. La risposta la sapeva, ed era anche
sincera al cento percento.
«...N-No...
No, non ho sentito niente, com'è possibile?»
«Ebbene
signorine, - era disgustoso come quell'uomo ammiccasse a delle ragazze
più giovani di lui di almeno vent'anni - questo è
il
Sangue del Drago. Vi piace il nome?
Un'iniezione di meno di
cinquanta millilitri vi garantirà l'immunità per
almeno una o due ore...
La
sua formula chimica composta di una tossina ad idrossido di idrogeno
ispirata alle capacità immunitarie di alcuni Tipi
Buio addormenta i nervi e impedisce la percezione del dolore.
Ora potreste pensare che
il mio Sangue di Drago non sia altro che una semplice anestesia...
Sbagliato: la sua formula, ispirata all'abilità Insonnia di
alcuni Pokémon, pone il cervello in totale
attività
evitando il coma post-assunzione.
Somministratela alle
vostre reclute, ai vostri Pokémon, ha sempre e comunque
effetto.
Potrei dilungarmi sugli
aspetti teorici, ma al momento credo che sia inutile, visti gli
effetti...»
Nessuno
aveva parole per descrivere il miracolo scientifico a cui avevano
assistito, da come il professore ne aveva parlato questo Sangue di
Drago doveva essere il vero e proprio elisir
dell'immortalità,
disponibile solo al Neo Team Plasma.
Con quella sostanza in
corpo non avrebbero solo eliminato le cinque Campionesse.
Avrebbero
potuto conquistare tutte le regioni, catturare i Pokémon
Leggendari, sfidare la morte in persona e vivere così nella
memoria dei posteri.
«Klingklang,
usa Raggioscossa!» Ordinò raggiante.
Ancora,
la giovane fu pervasa dalle contrazioni involontarie seguitanti
all'elettroshock per alcuni secondi, poi cadde a terra, ancora fumante
per la carica ricevuta. Ma invece di morire fulminata, come sarebbe
successo in natura, quella si rialzò ancora, incolume,
anch'essa
sorridendo vittoriosa.
«Vostra
Grazia, - lei si rivolse così a Ghecis - se ci permettete di
usare questo Sangue di Drago per eliminare definitivamente le ragazze
di Nardo, posso assicurarvi che questa sarà la vittoria
decisiva
per il Neo Team Plasma.»
«Hai fegato
questa ragazza. Come si chiama?»
Domandò
sorpreso Acromio, con gli occhi di nuovo chini sul suo tablet.
«Georgia,
- esultò Ghecis, una gioia spaventosa se vista su di un
essere
ripugnante come quello - Georgia si chiama, è la leader di
questo gruppo di imbecilli... - poi riprese a parlare a lei - Affido
a te, carissima, il compito di dirigere le operazioni questa volta.
E voi altre - si rivolse
a quelle, furibondo - ascoltatela, ogni suo ordine è un mio
ordine.»
«Non la
deluderò, Mio Signore.»
La ragazza dagli occhi glaciali fece una riverenza.
Non aveva motivo di
deluderlo. Non aveva la possibilità di deluderlo. Ora erano
invincibili.
Avrebbe adempito alla
missione nel modo più epocale possibile.
Era abbastanza motivata
da poter uccidere in quel momento, lo avrebbe fatto senza rimorsi.
Del
resto, lei era entrata di sua spontanea volontà nel Neo Team
Plasma e con sangue, sudore e lacrime, solo con i sacrifici era
riuscita a diventarne leader. Credeva nei loro ideali, li avrebbe resi
lei stessa unica ed incontrastabile verità per tutta la
regione.
Dopo
essersi congedata, stabilì che non avrebbe deluso Ghecis,
suo
secondo padre, come in passato lo aveva deluso suo figlio.
Quando
fu sola, nella sua stanza fredda e buia, dopo essersi tolta l'uniforme
e poi seduta sul suo letto con le cuffie sulle orecchie, accese il
telefonino rimasto assopito sul fondo della tasca posteriore.
Prima
di avere anche solo il tempo di rimpiangere la sua decisione,
selezionò dalla rubrica il numero di Iris, vedendola ancora
online perfino a quell'ora.
«Ciao, sono
Georgia, hai voglia di uscire sabato sera?»
Scrisse
sfruttando la sua velocità dattilografica, per poi
abbandonare
l'apparecchio sul cuscino e chiudere gli occhi per qualche minuto, per
riposarsi dopo quella giornata così importante.
Presto i minuti si
fecero ore e la giovane leader del Neo Team Plasma cadde fra le braccia
di Morfeo.
Ancora il suo telefonino
non dava segni di una risposta della destinataria.
❁
«In
quanto leader e dunque responsabile del benessere dei miei sottoposti,
mi sono accorta che questa storia è indiscutibilmente povera
di
insegnamenti per i lettori! Com'è possibile?
Certo,
magari l'autore di questo disastro ha avuto di meglio su cui
concentrarsi, meglio fermarsi a descrivere i seni di tutte le
protagoniste invece di fornire un qualche messaggio educativo, una
morale di fondo o un qualcosa di legalmente e politicamente corretto!
Vogliamo
dare un'occhiata a cosa ci insegna questo capitolo di Early Summer
Girls (perché poi il titolo deve essere in inglese? Non
è
già abbastanza confuso così?)
Numero
uno: dai retta agli sconosciuti incontrati per caso e con losche
intenzioni.
Numero
due: usa i soldi forniti dall'agenzia per comprarti i vestiti firmati.
Numero
tre: datti ad effusioni amorose in pubblico nel modo più
vergognoso possibile.
Numero
quattro: spia le persone che ti sembrano antipatiche.
Numero
cinque: inizia una rissa in un locale frequentato contro le suddette
persone.
Numero
sei: umilia pubblicamente le su-suddette persone.
Numero
sette: rivela agli sconosciuti del punto uno i tuoi segreti
professionali.
Numero
otto: dai il numero di telefono ai suddetti sconosciuti,
così non sono più sconosciuti ma maniaci.
Numero
nove: accetta denaro dagli sconosciuti (gli sconosciuti del punto nove
sono diversi dagli sconosciuti dei punti uno, sette e otto) e compra il
materiale adatto per...
A-Aspettate,
è forse un modo per dire che anche io sono implicitamente un
cattivo modello?!
...beh,
sono una Campionessa, non una suora. Non lamentatevi con me, ma con
l'autrice!»
«In
quanto leader e dunque responsabile del benessere dei miei sottoposti,
mi sono accorta che questa storia è indiscutibilmente povera
di
insegnamenti per i lettori! Com'è possibile?
Certo,
magari l'autore di questo disastro ha avuto di meglio su cui
concentrarsi, meglio fermarsi a descrivere i seni di tutte le
protagoniste invece di fornire un qualche messaggio educativo, una
morale di fondo o un qualcosa di legalmente e politicamente corretto!
Vogliamo
dare un'occhiata a cosa ci insegna questo capitolo di Early Summer
Girls (perché poi il titolo deve essere in inglese? Non
è
già abbastanza confuso così?)
Numero
uno: dai retta agli sconosciuti incontrati per caso e con losche
intenzioni.
Numero
due: usa i soldi forniti dall'agenzia per comprarti i vestiti firmati.
Numero
tre: datti ad effusioni amorose in pubblico nel modo più
vergognoso possibile.
Numero
quattro: spia le persone che ti sembrano antipatiche.
Numero
cinque: inizia una rissa in un locale frequentato contro le suddette
persone.
Numero
sei: umilia pubblicamente le su-suddette persone.
Numero
sette: rivela agli sconosciuti del punto uno i tuoi segreti
professionali.
Numero
otto: dai il numero di telefono ai suddetti sconosciuti,
così non sono più sconosciuti ma maniaci.
Numero
nove: accetta denaro dagli sconosciuti (gli sconosciuti del punto nove
sono diversi dagli sconosciuti dei punti uno, sette e otto) e compra il
materiale adatto per...
A-Aspettate,
è forse un modo per dire che anche io sono implicitamente un
cattivo modello?!
...beh,
sono una Campionessa, non una santa. Non lamentatevi con me, ma con
l'autrice!»
❁
Behind
the Summery Scenery #14
1. Dovrei
scrivermi volta per volta le curiosità da annettere al
capitolo, altrimenti devo fare uno sforzo mnemonico immane.
2. Eh, sì, questo capitolo pullula di Product Placements.
Esatto, adesso ESG ha pure degli sponsor, che bello. No, scherzo.
Questo per dire che è vero, mi sono ispirata a luoghi,
prodotti,
cose che esistono nella vita reale sotto forma di brand e
li ho
trasferito nella storia per farla sembrare gggiovane: le ragazze vanno
a bere da Starbucks, Iris e Georgia giocano al Pump it Up,
Camelia e Anemone fanno shopping da Urban Outfiters, (o da Sisley, o da
H&M... è uguale), cosa c'è di male?
3. L'outfit di Anemone l'ho creato con Polyvore. ve lo posterei qui, ma
non aggiungo altro trash al trash.
4. E adesso scopriamo che Catlina soffre di crisi epilettiche.
Dunque, disclaimer: le informazioni che darò riguardo la sua
malattia da qui in avanti sono frutti sia della mia cultura personale,
sia di ricerche mediche a scopo informativo.
Quindi, se qualcuno che ci capisce più di me su questo
argomento ha qualcosa da ridire me lo faccia sapere per favore.
In primo luogo perché non ci tengo affatto ad essere la
prossima
John Green, poi perché non mi dispiacerebbe imparare un
qualcosa
di utile una volta tanto.
5. La scena della lotta, parliamone. Spero di non aver offeso nessuno
descrivendo le ragazzine del Team Plasma come giovani, facendo
trasparire il classico stereotipo che interessa i ragazzini del secondo
millennio.
Nel caso lo avessi fatto, consiglio a chi si è offeso di
ripigliarsi, siete veramente messi male se riuscite ad immedesimarvi
nella parte marcia di questa generazione.
6. Il simbolo sul cappello di Georgia è questo. Scusate
amici, niente metaposting.
7.
Questo capitolo comprende il 14 ed il sub-capitolo vecchio del 15.
8. Oh
yeah guys, avete visto come le nostre cinque bad bitches vivono la thug
life? La scena
della macchina è tratta da un video musicale, in cui
però
si limitavano a fare un paio di strisce e a rompere un finestrino. Mi
pareva opportuno esagerare per ottenere la perfetta vendetta contro il
fidanzato traditore.
Voi però non fatelo a casa, eh.
9. Ragazzi che leggete la storia, non prendetevela per il "regolamento
anti-uomini": sono solo lesbiche ed arrabbiate.
E comunque restate i migliori, you slayyyyyyyy.
10. A breve vi carico il design delle reclute del Neo Team Plasma, non
sprechiamo il bel disegno che ho fatto.
11. Se non riuscirò a far dire entro la fine dell'arco del
Team
Plasma ad Acromio che "lui non è d'accordo" cancello la
storia.
Get the reference, c'mon... Il trailer di Nero2/Bianco2... La piazza...
Vabbé, I give up.
Update:
e invece ce l'ho fatta. Momo delivering what ahe promises as per usual
^^
12. E per completare l'opera, domanda a sorpresa: ad alta voce
leggete il titolo competo della long. Early Summer Girls.
Come avete letto la
prima parola? [ˈɜːli] mi
auguro. Perché se vengo a che ci sono persone che
leggono
Irly Sammerr Gars cancello la storia e non potremmo sentire
Acromio dire che non è d'accordo.
13. Ultima, ma questa è più una
comunicazione di
servizio: in questa storia non ci sono spoiler relativi ai nuovi giochi
Pokémon Sole e Luna. Canonicamente si parlerà in
generale
solo delle sei regioni fino a Kalos, per permettere a chi ancora non ha
giocato di godersi in santa pace la sua avventura senza spiacevoli
sorprese (E sottolineo "spiacevoli").
Ora però devo tornare a decidere chi fra le nuove
allenatrici sarà la mia nuova waifu... Mmhh... Bella
domanda...
Update:
e adesso c'è pure Galar di mezzo! Santo piripillo
ònó
11.
La Cadillac. Perché ho voluto inserire una Cadillac? Beh,
innanzitutto, è oggettivamente una bella macchinozza.
Secondo,
la citazione!!
....che non era, almeno in origine, a quello che state pensando voi.
Il
rferimento originale a cui mi rifacevo durante la stesura del capitolo
è alla macchina che guida Chance Wayne, il protagonista di
Sweet
Bird of Youth, la (tragi)commedia di Tennessee Williams - di cui
cìè anche il film con Paul Neumann. Ad un certo
punto, il
fratello di Heavenly pronuncia la battuta "Oh, sì...
[Chance] se
ne andrà [da San Cloud]... ma noOoOoOon su quella Cadillac
sfrecciante". Ecco, nemmeno Mirton se ne tornerà alla Lega
sulla
sua Cadillac sfrecciante.
Tuttavia,
non potevamo - né io, né voi - prevedere che lo
stesso
modello di autovettura sarebbe diventato celebre poiché ha
trasformato la calura nostrana in uno scenario degno di Rio de Janeiro.
Per questo, incoraggio tutti i recensori ad utilizzare lo spelling
Katuxano della parola Cadjillachi,
in memoria della grande djiva in ascolto strike a pose, a cui tutti
possiamo e dobbiamo avvicinarci.
|
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Capitolo 15 *** La vendetta è un piatto che va servito freddo ***
ESGOTH 3
❁
A story
by: Momo
Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing: 🍦
Seguiteci
su instagram: @esg_ offical_ ig
Early
Summer Girls
❁
Capitolo
15
La
vendetta è un piatto che va servito freddo
Quella
sera fu una delle pochissime in cui le nostre eroine non avevano chiuso
ancora gli occhi dopo le ore dieci. Niente coprifuoco per quel giorno,
aveva detto Nardo.
Aveva preparato con le sue mani una cena abbondante a base di piatti
tradizionali, concesso alle giovani un solo bicchiere di sake ciascuna
(non avrebbe mai più ripetuto quell'errore fatto la sera del
primo luglio) ed ora contemplava le figure delle sue ragazze danzare
come lucciole nella notte, mentre giocavano con le stelle filanti
ridevano e scherzavano.
Se lo erano meritate, in fondo.
Gli aveva affidato una missione con le aspettative di successo
più basse dei loro piedi. Invece loro gli avevano obbedito
con diligenza e non solo, si erano lanciate in una lotta
così ben gestita da farlo inorgoglire dell'aver scelto
proprio quelle cinque come nuove Campionesse.
L'unica notizia che lo aveva leggermente turbato era stata una
segnalazione di uno dei suoi dipendenti alla Lega Pokémon,
una cosa da poco, una banda di teppisti gli aveva sfasciato la macchina
da capo a piedi prendendosi pure la libertà di
ridipingergliela di viola, giallo, azzurro, rosa e bianco...
Ma al vecchio e bonario Campione in procinto di andare in pensione non
importò granché.
Guardava i bastoncini luminosi che agitavano nelle loro mani, mentre
strappavano un lembo di buio alla dea della notte e lo trasformavano in
polvere cosmica, lacrime di luce brillanti come i gioielli dei monarchi
orientali, secondo il vecchio Campione la risposta a tutti i problemi
che la sua cara Unima stava affrontando risiedeva nel cuore dei giovani.
Voleva vedere chi fra quelle belle, abili ed astute ragazzine avrebbe
cosparso il territorio arido della regione con una pioggia rinvigorente
di idee e proposte che se messe in bocca ad una personalità
come il Campione della Lega non sarebbero potute passare inosservate.
Nardo esaminò la grazia con cui elle muovevano gli stecchi
di gocce scintillanti come una maestosa geisha muove il suo ventaglio
nella danza giapponese, gli yukata si aprivano come tessuto senza
corpo, ali d'aria.
Erano delle bambine, tutte quelle Allenatrici preservavano nel loro io
un'innocenza rimasta inviolata, era quasi toccante vederle giocare a
rincorrersi e sentirle scherzare così liberamente con tanto
di minacce del genere "ti do fuoco ai capelli".
Solo una persona pura di cuore come un bambino può vedere la
realtà da un punto di vista differente ed estrarre dal fango
un tesoro, riuscire a ribaltare la sgradevole situazione di degrado,
corruzione e malessere che investiva la regione in una nuova
età dell'oro.
Ce l'avrebbero fatta, ne era certo.
In quel preciso momento, distraendo le giovani dai loro giochi, si
udì un boato.
Somigliava al suono di un'esplosione causata volontariamente.
Una fitta colonna di fumo grigiastro intanto solcava il cielo d'avorio.
«Nardo, Nardo, - una voce femminile lo cercò di
riportare alla realtà, ma al vecchio servì
più tempo per accorgersene - è successo qualcosa,
a nord, in direzione della Lega...»
«Ragazze, per favore, calmatevi. - il Campione si
trovò circondato dalle cinque e parlò loro come a
delle figlie - Non è nulla, dovete solo stare
calme.»
L'istinto paterno non servì a migliorare di molto la
situazione, tanto che subito squillò il telefono e la leader
del gruppo, avendo riflessi sicuramente più veloci di egli,
rispose.
L'uomo stette ad aspettare.
Sapeva che in quella situazione non era assolutamente possibile restare
calmi.
Camilla teneva il telefono fra la spalla e l'orecchio, rivolgendosi a
tutti i presenti lì.
«È la Professoressa Aralia. Dice di accendere la
televisione.»
«Scommetto dieci Pokédollari che cominceranno
dicendo "interrompiamo il programma per una notizia dell'ultimo
minuto."»
Camelia si era già precipitata sul telecomando del
televisore ultrapiatto.
In qualche modo fu come se la scommessa l'avesse vinta.
Senza il bisogno di cambiare canale, la testata del telegiornale
esprimeva l'accaduto in semplici e fin troppo sintetiche parole,
neanche stesse parlando in codice cifrato.
«Capo del Neo Team Plasma lancia una vera e propria sfida al
Campione della Lega.»
La telecronista descriveva imperturbata la vicenda probabilmente per la
quarta o quinta volta, tanto da avervi costruito sopra un bellissimo
sermone utile solo ad acchiappare gli ascolti.
Dietro di ella, sullo schermo, comparve un volto che nessuno, nessuno
nella regione di Unima avrebbe mai desiderato di rivedere una seconda
volta.
«Come uno dei tantissimi sfidanti alla Lega
Pokémon, mediante un videomessaggio caricato sul web
è il temutissimo Ghecis Harmonia ad invitare il Campione
Nardo a "sfidare la sua migliore recluta".
L'uomo si presenta ancora con il nome di re del rinato Neo Team Plasma,
l'organizzazione criminale che si credeva estinta da ormai due anni ha
infatti proposto al Campione in carica una sfida questa sera alla Lega,
con il dominio sulla regione come posta in palio.
È nelle mani del Campione Nardo ora, decidere se presentarsi
per difendere...»
L'uomo di mezza età spense il televisore e si
portò una mano fra i capelli brizzolati.
Non poteva star succedendo di nuovo.
Due anni or sono si era trovato a sfidare il figlio, l'erede di quel
pazzo megalomane pur di conservare la salvezza della sua cara patria:
ma N lo aveva sconfitto.
Lui e i suoi Pokémon avevano combattuto fino allo stremo,
eppure la carne marcia derivata dai residui di quell'essere era
riuscita a prevalere sul buon sangue dei nativi di Unima.
Per la prima volta dovette dare il dispiacere alle ragazze raccolte
intorno a lui di vederlo veramente preoccupato, anche se non in modo
troppo lampante.
«Quindi è un tutto per tutto? Chi vince diventa il
nuovo Campione?»
Domandò Catlina, dimostrandosi più collaborativa
del solito.
«Però Ghecis ha detto che non lotterà
di persona... Non so se ci sia da preoccuparsi, le reclute che abbiamo
sconfitto noi erano delle incapaci, ma questa potrebbe essere anche un
mostro per quanto ne sappiamo.»
Anemone provò a risponderle, ma si trovò ancor
più arenata nei dubbi.
Nardo fece un respiro profondo ed alzandosi in piedi afferrò
la cintura in cui teneva le sue sei Poké Ball. Dipendeva da
lui e basta quella lotta.
Ma prima che potesse anche solo muovere un passo, Camilla lo
fermò.
«Per favore, lascia andare noi.» Disse in tono
compunto.
«Camilla, - fece per contraddirla - siete sotto la mia
responsabilità. Se qualcosa dovesse accadervi...»
«Abbiamo battuto il Team Plasma già una volta.
Possiamo farlo di nuovo.»
Affermò la donna, ancora più convinta.
«Sei proprio testarda... - l'uomo le sorrise quasi, stupito
com'era dal comportamento della sua collega - è me che vuole
Ghecis.»
«Ma le vere e proprie Campionesse della regione di Unima
siamo noi cinque.»
Camilla estrasse dall'ampio seno una delle sue sfere Poké.
In teoria aveva ragione.
«È nostro compito, ti prego. Non sei nelle
condizioni di lottare contro una recluta del Team.
Lascia fare a noi, non ti deluderemo.»
Il vecchio riuscì a vedere negli occhi di ciascuna di esse
una scintilla di paura.
Ma alle radici della forza vi era proprio l'avanzare lungo la propria
strada nonostante la paura.
Che fosse l'amore per la patria natia, il loro orgoglio da aspiranti
Campionesse, il senso innato di giustizia, non sembrava che
ciò che aveva detto Camilla fossero solo parole di conforto.
Le altre quattro annuirono, dando la loro completa approvazione.
Il destino di Pokémon, umani, città e territori
che condividevano un unico nome era nelle loro lisce manine delicate
con le unghie dipinte di colori stravaganti.
«A-Abbiate cura di voi...» Nardo le
lasciò, senza il coraggio di guardarle in volto.
Si erano allenate, erano discrete lottatrici, avevano buon senso.
Sarebbe bastato ciò?
Non avrebbe mai offerto cinque giovani vite in sacrificio se quelle non
fossero già state marcate con il sangue dell'agnello,
predestinandosi alla morte sul campo di battaglia.
Quando mai avrebbe trovato altre candidate più volenterose,
più benevole e pure di cuore da sottoporsi al rischio di un
intero paese?
Dove le avrebbe trovate, se non fra le anime che viaggiano nei sussurri
del vento estivo?
Se
durante il giorno la Lega Unima riusciva a schiacciare i visitatori
come moscerini al cospetto della sua maestosità, lo scuro
velo della notte le bendava gli occhi, tutto quel luccichio visibile
nelle fasi diurne del giorno veniva inghiottito da una visione
più tetra e terrificante.
Somigliava ai castelli, alle prigioni, alle ambientazioni degli stage
finali programmati per un videogioco, la tonalità gradiente
era una scala di grigi che si esauriva nel nero totale.
Vi era scarsa illuminazione, la Lega Unima era famosa per il suo
tendere al risparmio e neppure i Superquattro, a detta di Catlina, vi
risiedevano al momento.
Le ragazze, dopo aver attraversato la Via Vittoria, salirono ogni
gradino che conduceva al padiglione dorato come se stessero mettendo
piede su un campo minato.
Si muovevano in gruppo, la leader in testa guidata dalla sua coetanea,
le due diciassettenni in seconda linea, alla ragazzina più
giovane toccò la retrovia invece.
«Dite che si sono accorti che siamo qui?» Chiese
quella.
«Non lo so Iris, perché non gridi un po'
più forte così ci sentono bene?»
Camelia le rispose così a tono che le venne pure la pelle
d'oca. La ragazzina avrebbe volentieri contraddetto la sua molestatrice
dicendole che quello era il suo tono di voce normale ma la biondina
fece segno di stare in silenzio alle due.
«Vorranno attaccarci di sorpresa, questo è
sicuro.»
«Mamma mia, - la modella mise ancora più enfasi
alla sua scenata - ed io che credevo ci avrebbero avvisate appena gli
girava di farci secche...»
La minore fra le due più anziane del gruppo stava giusto per
rimproverarla quando Camilla intervenì.
«Camelia ha ragione. Smettiamola di dire ovvietà e
pensiamo a cosa fare qui ed ora.
Qualcuna di voi ha per caso un piano?»
Si guadagnò quattro occhiate estremamente confuse.
«Un piano?! - Fece la rossa stravolgendo la voce - Da
quand'è che noi usiamo un "piano"?
Cosa siamo, i personaggi di un anime mainstream?»
Per quanto sciocco potesse essere, le cinque per davvero non avevano un
piano.
Si fermarono al centro della sala principale, radunate intorno alla
statua di marmo che rappresentava i due draghi leggendari in punto di
smaterializzarsi nelle rispettive pietre.
Non si spesero per ulteriori commenti, quando a parlar loro con il
linguaggio dell'ansia fu il vento.
Iris sentiva i nervi tesi come le corde di un violino, più
strabuzzava gli occhi per guardare i movimenti di ogni singolo atomo di
ciò che la circondava, più le sembrava di non
vederci nulla.
Stava perfino sudando, sperò di non macchiare lo yukata
visto che non era stato dato loro neanche il tempo di cambiarsi i
vestiti.
E la sua ansia non rimase sospesa nel vuoto, bastò un verso
stridulo a mettere tutte in allerta: senza esitare mandarono in campo
il primo Pokémon che avevano sotto mano.
O per meglio dire, sotto il seno.
Iris stette a guardare le sue compagne con sguardo schifato, com'era
possibile che ora avessero preso tutte e quattro a tenere le
Poké Ball in quel posto? Era forse una congiura contro di
lei?
«...io vi detesto... Dragonite, vieni fuori.»
Dopo essersi ripresa lo chiamò fuori e come sempre lo
trovò pronto a combattere.
Le altre nel frattempo avevano schierato rispettivamente Emolga,
Swoobat, Reuniclus e Spiritomb.
Erano stretti in due cerchi concentrici alla statua, in quello esterno
i Pokémon vigilavano come sentinelle, decisi com'erano a
difendere le loro Allenatrici.
Queste non ebbero neppure il tempo materiale di escogitarlo un piano.
Pochi secondi dopo la sala dai soffitti affrescati si era riempita di
presenze nemiche che continuavano a fuoriuscire a fiotti dai quattro
corridoi che conducevano alle stanze dei membri dell'élite.
Oltre al buio pesto ad annebbiare la visione, una spessa nebbia aveva
cominciato a diffondersi, rendendo l'aria irrespirabile e dolciastra.
«Ragazze cosa cavolo sta succedendo?!»
Iris non potendosi voltare ricercò vocalmente la presenza
delle sue compagne.
Riconobbe la voce, era Anemone, lo capì da alcuni suoni
acuti che giungevano chiari al suo orecchio nonostante la confusione;
non capì esattamente cosa avesse detto però.
Riuscì ad afferrare due o tre parole come
"Pokémon", "non si vede", "attacca".
«Dragonite, Tuonopugno!» Ordinò senza
esitare.
Lanciò un'occhiata veloce ai lati, ma tutto quello che le
pareva di vedere le sembrava il frutto di allucinazioni pesanti: vedeva
buio, come se stesse tenendo le palpebre chiuse, ma squarciato da masse
di fumo o aria che le frammentava la visione a mo' di occhio di mosca.
E poi chissà quanti Pokémon proiettili che le si
lanciavano contro, urtandola e confondendola.
Sentiva che non solo lei, ma tutte stavano facendo in modo di
proteggersi nella maniera più disordinata possibile a causa
di tutte quelle distrazioni.
Sentiva le carotidi gonfiarsi sul collo, pompare il sangue fino al
cervello mentre l'adrenalina le stava inibendo i sensi, il sudore
scorreva freddo sulla sua esile schiena.
Dopo non troppi minuti però, Iris constatò dal
potente ruggito che il suo adorato Pokémon non suonava
affatto stremato. Lo sentiva carico come quando era uscito fresco di
cure dalla sua sfera.
In effetti, il verso di Dragonite era diventata l'unica cosa vagamente
simile ad un rumore.
Senza neppure accorgersene, il silenzio aveva di nuovo inghiottito la
stanza, lasciandola lì con la saliva bloccata in gola, ad
allungare il suo cocktail ubriacante al gusto ansia e confusione.
«Dragonite, stai bene?»
Chiese piano la giovane dal kimono violetto, facendo qualche passo
dalla sua postazione.
Riuscì finalmente a vederlo, i contorni erano sempre
più nitidi e quando fu abbastanza vicina lo
accarezzò incontrando gli occhi vispi del Pokémon
drago.
La ragazzina quindi diede un'occhiata più analitica attorno
a sé.
«La nebbia è andata via...» Constatò,
facendo qualche altro passo.
Senza volerlo, schiacciò qualcosa di non troppo piccolo con
il piede, la qual cosa strillò al contatto e lei, spaventata
a morte, fece lo stesso, potendosi pure riascoltare in tutta la sua
ridicolezza grazie al fenomeno dell'eco.
Dopo essersi ripresa da quel mezzo infarto, posò lo sguardo
verso il pavimento.
Non era una cosa. Erano tante, tantissime cose. E come dettaglio
finale, realizzò che quelli che aveva urtato non erano cose.
«Guarda! - attirò l'attenzione del suo compagno -
Sono degli Zubat, e ci sono anche delle sue evoluzioni. Sono questi
Zubat ad averci attaccate prima...
Per fortuna che ho usato Tuonopugno, che è efficace contro
il tipo Volante... Immagina se… Se…
E la nebbia... La nebbia... È Nebbia! Intendo, la mossa
che... che causa la nebbia.»
Iris si rese conto che parlarne con il suo Pokémon non aveva
poi così tanto senso.
La sua teoria aveva un senso; gli Zubat nemici avevano usato Nebbia in
gruppo per ricoprire di essa tutto il padiglione per poi scagliarsi
contro di loro alla rinfusa, poteva concederselo.
Ma prima che quella potesse gridare il vero e proprio fulcro delle sue
paure, il vento di tarda serata ululò ancora nelle sue
orecchie, come a volerle suggerire "scappa, scappa finché
sei in tempo."
«Ragazze...» Sussurrò ad occhi sbarrati,
cercando a tentoni nel buio.
«Ragazze...» Ripeté con voce tremante,
come i suoi arti in quel momento.
«C-Camilla… Cat… Cami…
Anemon... hey, ragazze...» Non ottenne risposta.
Non le vedeva intorno a sé, non sentiva le loro voci, non
erano lì e basta.
E quella non era neanche la prima volta che le quattro Allenatrici la
lasciavano sola, per Dio.
Ma allora perché il suo subconscio continuava ad invocarle
disperatamente, come se potesse raggiungere con i pensieri i luoghi che
neppure le parole riuscivano con fatica a sfiorare?
Evitò di perdere tempo a razionalizzare troppo con le mani
in mano, non era da lei.
Dovevano essere sparite con la nebbia e la confusione, come un trucco
di magia.
Nonostante la paura snervante, Iris sapeva che aspettare sempre il loro
ritorno girandosi i pollici le aveva portato solo delusione nelle
occasioni di separazione.
Se non fossero venute loro da lei, beh, la ragazzina non
esitò a cercare tutte le possibili vie di fuga da quella
sala.
Si voltò e Dragonite fu più sveglio di lei quella
volta. La scalinata principale era bloccata.
Un cancello alto di ottone la rinchiudeva in quella casa degli orrori.
«Quello non è il cancello che si attiva quando un
Allenatore sta sfidando la Lega?
È attivo ora... Questo significa che...»
Corse subito verso la prima delle entrate alle sale dei Superquattro e,
come aveva previsto, la trovò inaccessibile:
tornò alla sua posizione iniziale, reggendosi alla statua
come se le si fosse aperta una voragine sotto i piedi.
Respirò ansimando, si passò le mani sugli occhi,
fece rientrare il suo Pokémon per paura che potesse venirle
sottratto perfino lui.
Essere un Campione significa... Lei non sapeva affatto cosa
significasse.
Ma se ciò significava sovvertire l'ordine e la pace di
un'intera regione, adescare delle persone innocenti con turpi inganni e
poi sfruttarle come pedine per segnare lo scacco matto, se essere il
Campione di Unima significava davvero cedere alla
mostruosità pur di poter mettere un piede nella Sala
d'Onore...
«Hey!»
Gridò Iris, con le mani a megafono, parlando verso l'alto.
«Mi senti, recluta di Ghecis?
Sono io, una delle candidate al posto di Campione! Dove sei? Dico a te,
codardo!
Ti sei fatto battere i Superquattro dalle mie compagne, ma bravo, ti
faccio l'applauso.
Hai pure il coraggio di definirti "Campione" e di prendertela con
Nardo? Bene.
Io... Io sono qui. Non me ne vado finché tu e il tuo stupido
Team non ve ne andrete a quel paese, che cosa vi ha fatto Unima, si
può sapere?! Eh? Rispondimi!»
La ragazzina dagli occhi nocciola e i capelli disordinati riprese fiato.
Aveva gridato di gola, che ora le doleva atrocemente.
Deglutì, armandosi di tutto il suo coraggio.
Pensò che Aristide sarebbe stato fiero di lei, nel vederla
resistere anche dopo tutti quegli inciti a scappare via e mettersi in
salvo la pelle a discapito della salvezza della regione, della Lega e
delle sue care compagne. Ma non le importò più di
tanto.
Iris non fece quella pazzia per un premio o perché qualcuno
glielo aveva ordinato.
Lo fece per se stessa. Per se stessa e nessun altro.
Rifletté un secondo sulle sue prossime mosse, non riuscendo
a star ferma.
Con le sue mani color dell'ambra andava tastando il perimetro freddo
della statua centrale, giurò che se fosse diventata
Campionessa avrebbe ristrutturato l'edifico della Lega ed eliminato
quella maledetta statua fatiscente.
«...L'ascensore! L'ascensore del primo giorno,
sì!»
❁
Attraverso
un corridoio stretto e buio, coperto da piastrelle nero lucido in cui
la luce lontana si diffondeva seguendo linee disposte a raggiera, la
mora fece i suoi passi in avanti.
Non sembrava esserci stata una via d'entrata e molto dubbiosa era
sull'esistenza di quella d'uscita.
Ma era tutto così stupido, così stupido che le
dava la nausea.
Non le interessavano minimamente le storie di odio prolungato e la
facevano ridere i monologhi che i cattivi fanno per spiegare le loro
intenzioni ed apparire figure profonde e traviate.
No, erano solo degli stupidi a suo parere. Sospirò annoiata
e proseguì.
Camelia intravide la luce e lasciò che essa le riempisse le
iridi azzurre stancate dalla precedente oscurità.
Il campo di lotta della prima stanza dei Superquattro infatti era
completamente illuminato: lampade, riflettori, lo schermo ad alta
definizione e perfino il tabellone con gli status dei vari
Pokémon erano tutti accesi, irraggiando quel cubicolo nero
come la scatola di Schrödinger.
Nonostante l'atmosfera di colori e luci preludeva ad un eccitante
scontro, Camelia non poté far a meno di notare come le
gradinate fossero vuote, nessuno era lì oltre a lei.
Si immaginò quella stessa situazione ad una sua sfilata,
neppure un fan sugli spalti a supportarla, niente fotografi e niente
giornalisti, solo lei e il suo esibizionismo a metterla in ridicolo
davanti alla persona il cui giudizio per lei contava più di
mille articoli sulle riviste di moda e di ogni commento sul web: lei
stessa.
Sistemandosi la frangetta, la modella si diresse verso il centro del
campo di lotta, sotto gli occhi degli spettatori invisibili.
Odiava il non essere osservata, anche quando sapeva di esserlo.
«Buonasera, Camelia.»
La mora storse il naso all'essere salutata così educatamente
da un individuo che pochi minuti prima aveva tentato di ucciderla,
seppur non mettendoci abbastanza impegno.
Si aspettava che adesso comparissero degli uomini forzuti o dei robot
assassini per attaccarla come in ogni film d'azione che si rispetti, ma
la voce presto si fece volto, comparendo dall'altra metà
campo.
Una figura femminile, sottile e graziosa, indossava un vestitino nero
con calze in pizzo abbinate, i capelli color biondo cenere sciolti
sulle spalle, doveva avere la sua età ma provenire da
un'altra regione per via della forma degli occhi e dei tratti del volto.
Le rivolse un sorrisetto innocente e lei lo ricambiò,
guardandola di sbieco.
Poi la ragazza misteriosa riprese.
«Ho sempre voluto conoscerti di persona, sembri
più umana che in foto.»
«Che carina, - ribatté la mora - sei una mia fan?
Dove te lo faccio l'autografo, su quelle tettine piatte come tavole da
surf che ti ritrovi?»
Incrociò le braccia sotto il petto, ergendosi come paragone
di prosperità irraggiungibile.
La brunetta subito ebbe l'impulso di guardarsi il petto, la reazione
classica a cui tutte le vittime di quella sua freddura intramontabile
andavano incontro. Fece pure una smorfia da offesa.
«Certo che però sei proprio una maleducata,
papà non ti ha insegnato che non si giudicano le persone,
eh?»
Camelia non ritenne opportuno tirare quello scambio di battute troppo
per le lunghe e esternare quel bel commentino che teneva sempre in
riserva sulle facili abitudini sessuali di sua madre e la
fissò spazientita.
«Come sai chi sono? Ti conviene rispondermi.»
Tagliò corto.
La ragazzina così sboccata estrasse una Poké
Ball, tenendola fra il pollice e l'indice.
Non sembrava troppo agitata, che fosse lei la fantomatica recluta di
Ghecis?
«Diciamo che io e te abbiamo... - cercò le parole
adatte - un amico in comune.
Però sai, lui non parla neppure bene di te. Dice che hai un
caratteraccio, che sei lunatica e isterica, ah, e che quando glielo
succhiavi sputavi tutto per terra pur di non ingoiare... Che
schifo.»
Camelia mostrò un'espressione mista fra la disapprovazione
ed il ribrezzo più totale.
Non le ci volle molto a capire chi fosse quel loro amico, quella
principiante in fatto di sarcasmo aveva reso il tutto così
ovvio che se se lo fosse scritto sulla fronte avrebbero perso meno
tempo.
«Piacere comunque. - la giovane le pose davanti la mano
affinché la mora gliela stringesse - Sono Jasmine,
la ex di Corrado.»
Provandoci quasi piacere a recitare in quella farsa al limite del
demenziale, la modella prese a leccarsi le dita della mano una ad una,
passandovi la lingua e infilandole fra le labbra.
Voleva troppo che quella smorfiosa cogliesse l'allusione sessuale e ne
rimanesse schifata.
Finita la simulazione di quel lavoretto orale con le sue dita, le
strinse la mano ancora lucida di saliva.
«Io e Corrado ci siamo lasciati un mese fa. La migliore
decisione della mia vita.
È tutto tuo, goditelo, Jasmine. Una cosa, fai parte del Team
Plasma?»
«Neo Team Plasma.» La corresse quella.
«Quello che è.»
Ecco chi era dunque: la ragazza dei messaggi, quella con cui quell'uomo
miserevole l'aveva tradita. Fece di tutto per controllare se nel suo
cuore fossero rimaste tracce di rancore serbato contro colei che le
aveva rubato il fidanzato, ma niente.
Aveva perso un centesimo e per rimpiazzarlo aveva trovato la banconota
da cento.
Lei era felicemente fidanzata ora, non gliene importava più
nemmeno di far invidia a quel verme.
La sua Anemone invece, chissà dove si trovava in quel
momento...
«Indovinato, ma cosa importa ora? - Jasmine sorrise,
osservando la saliva della modella assorbita dalla sua mano - Tu hai
rovinato la mia relazione. Mi hai rubato il ragazzo.
Sei una modella famosissima, no? Puoi avere tutti i ragazzi che vuoi,
perché proprio il mio?!
Ti diverti, eh? A darla a tutti come fosse niente, ti fai fotografare
mezza nuda, ma appena ti si chiede di impegnarti in una relazione
seria... Non sei capace, no.
Vuoi solo fare sesso senza dover per forza amare qualcuno, tu come
tutte le tue amiche modelle, sei una specie di prostituta... Anzi, no.
Peggio.
Almeno le prostitute si fanno pagare, tu cosa ci stai guadagnando?!
Mi viene voglia di ammazzarti così su due piedi. E
sarà proprio quello che farò.»
Finito il suo discorso, Jasmine fece uscire dalla sua Poké
Ball un esemplare di Steelix lungo chissà quanti metri e con
passo aggraziato salì sulla testa del serpente di roccia,
aspettando di essere trasportata in alto, godendosi la visuale dalla
sua piattaforma.
«Non capisco. - fece la modella, in quel momento piccola come
una formica ai suoi occhi - Pensi che terminarmi ti farà
bene all'autostima? Cresci, per favore.»
Camelia era quasi sul punto di scoppiare a ridere da quanta pena le
faceva la sua avversaria.
Che motivo aveva di odiarla a tal punto da volerla morta? Minacce a
vuoto, le sue.
Se queste erano le nuove reclute del Team Plasma, avevano reso
un'organizzazione già poco temibile ancora meno temibile nel
giro di un anno.
«Sei proprio un'oca.» Si limitò a
risponderle quella.
Jasmine non aspettò neppure che la modella scegliesse un
Pokémon che potesse difenderla.
Con un semplice gesto del braccio, ordinò al suo Steelix di
colpirla con la coda, un movimento netto e brusco. Non disse una
parola: la violenza era la sua unica arma contro il sarcasmo devastante
della sua avversaria.
La mora cadde a terra, senza neppure accorgersi dell'accaduto.
Avrebbe paragonato quella botta alla sberla ricevuta da Corrado al
momento della loro rottura, ma quella volta le fece il triplo
più male. Le sembrava che il cranio si fosse frantumato.
Si trovò confusa per una manciata di tempo, fece tantissima
fatica a rialzarsi.
Camelia scoprì leggermente il seno, cercando a tentoni una
sfera Poké.
«Emolga, per favore, Attacco Rapido.»
Non riusciva neppure a sopportare il suono della propria voce da quanto
le doleva la testa.
«Credimi, nella vita non basta avere le tette per ottenere
quello che vuoi.
Steelix, ancora Codacciaio!»
Il Pokémon di Johto prese Emolga in pieno non tanto per
l'agilità del movimento, ma la coda era così
grande e grossa da poter colpì qualsiasi cosa nel raggio di
molti metri.
Pensandoci bene, la modella di Sciroccopoli non aveva scelta: lei era
specializzata in tipi Elettro, cosa poteva fare contro un tipo Terra,
perlopiù tanto potente?
Nonostante il danno considerevole, Emolga tornò volando fra
le braccia della sua Allenatrice.
«Questa non è una lotta in palestra. -
precisò la brunetta - Lo sai perché?»
«Perché gli sfidanti per regola devono avere
più di dieci anni?»
Ribatté lei, cercando di tranquillizzare il suo
Pokémon da quell'urto a dir poco illegale in un torneo o in
uno scontro ufficiale.
«Sei una stupida e mi è stato ordinato di farti
fuori dai miei superiori.»
«Ma ti prego... Emolga, usa di nuovo Attacco
Rapido.»
Ordinò mettendoci abbastanza freddezza da camuffare la sua
reale preoccupazione.
Escludendo la frivolezza a dir poco insopportabile di quella Jasmine,
credeva che uno stato così avanzato di infantilismo
esistesse solo nelle più degradate community online, non
poteva negarle l'essere un'avversaria oggettivamente forte.
Sapeva che non esisteva una legge universale che garantiva ai
Capipalestra l'intoccabilità, ma se si fossero davvero
cimentate in una lotta seria già prevedeva un esito
catastrofico per la sua squadra. Invece Jasmine volle proseguire in
quello scontro senza regole.
L'avversaria ripeté il comando precedente, ma Emolga fu
abbastanza fortunata nello schivare il colpo della coda di Steelix. Il
Pokémon Scoiattolo scattò in alto, per arrivare
alla testa di quel bestione.
Se c'era una cosa che rendeva l'Allenatrice dallo yukata giallo del
tutto e per tutto simile ai Pokémon che allenava era la loro
tempestività.
Corrado, che la definiva "isterica" e "lunatica", aveva afferrato il
concetto.
Un cuore totalmente in balia dei sentimenti era il suo, nel bene e nel
male era così.
Emolga, la cui velocità in volo si era temprata nelle lotte
contro avversari ben degni della sua contesa, invece di scagliare il
suo attacco contro il Pokémon come le aveva ordinato di fare
la mora, si avventò impetuosa contro la recluta del Neo Team
Plasma, che non ebbe modo di evitarla.
Camelia rise divertita ed applaudì per finta, soddisfatta al
massimo delle sue doti di combattimento.
Osservarono Jasmine cadere a capofitto dalla sua posizione rialzata,
dovevano essere una decina di metri minimo, e non osarono fiatare.
L'atmosfera si rovesciò subito.
Quello a cui stavano assistendo non era una lotta Pokémon,
ma un vero e proprio omicidio.
Dopo alcuni secondi non facilmente numerabili, la ragazza si
schiantò a terra trascinando con sé il suo urlo
disperato. La mora si rigirò le ciocche nere fra le dita,
incerta se infierire ulteriormente o cominciare a preoccuparsi delle
conseguenze legali dell'atto del suo Pokémon.
Le uniformi arancioni del carcere la ispiravano ben poco,
così come l'idea di dividere la sua cella con ragazzacce
piene di tatuaggi, piercing e storie di traumi per nulla interessanti.
«Beh, - fece lei, richiamando a sé Emolga - io
direi che possiamo anche andare.»
La giovane Capopalestra ebbe solo il tempo di voltare le spalle.
Dopodiché tutto riprese a tremare, ancora sentiva il dolore
della botta risuonarle in testa e la confusione le tappò le
orecchie, come quando si metteva le cuffie per estraniarsi dal mondo
che la stava facendo impazzire.
Sì ritrovò a terra, una marea di rocce e sassi
annebbiava l'aria e le asciugò i polmoni.
Sperò subito di non essersi sporcata il kimono, quasi le
venne da ridere per la frivolezza delle sue priorità...
Ma davvero, non le venne neppure voglia di comprendere cosa stesse
succedendo.
«Chi è la stupida che deve crescere,
adesso?»
Jasmine sembrava aver ripreso possesso del suo corpo, anche se non
aveva ancora il controllo totale dei suoi arti; si alzò da
terra faticosamente, come uno zombie che si risveglia dalla sua tomba.
La giovane di Olivinipoli sorrise maligna. Non se l'aspettava.
Essere sopravvissuta ad una caduta micidiale senza neppure avvertire
l'impatto col suolo la fece sentire invincibile.
«Sono io che ho bisogno di una visita o quella
tizia non è morta dopo essere caduta?
È vero. Queste reclute sono più forti
di noi... Ma rimangono sempre un branco di stupide.»
Camelia aveva un sorriso beffardo sulle labbra.
«Steelix, usa Frana e finisci questa cretina. Voglio proprio
vedere cosa dirà Corrado...»
❁
La
prima, la seconda, ma anche le altre tre sfide rimanenti, anche se
troppo ingiuste nel loro svolgersi per essere definite tali, ebbero
luogo in contemporanea.
Anemone fu svegliata dal suo stato di trance da un suono che le
giungeva ovattato alle orecchie. Doveva trattarsi di musica, uno
strumentale rock che faceva vibrare l'aria e non rientrava per nulla
nei suoi gusti musicali.
Lei si trovava in un corridoio dalla forma di un parallelepipedo, le
pareti bianche intrise di muffa e l'aria così afosa da
trasformare l'umidità in acqua che gocciolava dal soffitto.
Come poteva trovarsi lì? Quella domanda ribaltava le leggi
spazio-temporali dalle fondamenta.
Seguì pedissequa la musica, la quale passo dopo passo si
faceva molto più forte e definita, come la colonna sonora di
un film quando ci si avvicina alla scena clou.
La ragazza sentiva di essere agitata, ma le crisi di panico non
rientravano nei suoi fantomatici disturbi mentali.
Uscita da quel tunnel quadrangolare si ritrovò in uno spazio
ampio: i riflettori scorrazzavano liberi senza puntare la loro luce su
qualcosa in particolare, le casse riproducevano quel ritornello rock e
a sormontarne l'intensità sonora fu solo il suono di una
campana, che batté due rapidi rintocchi.
Al centro della stanza del secondo membro dei Superquattro vi era un
ring da pugilato.
O da lotta libera, o da wrestling, o da kick-boxing, secondo l'analisi
poco professionale della rossa.
Era la tipica area quadrata sopraelevata delimitata da un perimetro in
corda dove probabilmente si sarebbe svolta la lotta, visto che anche il
tabellone dei knock-out era acceso.
Non che alla giovane dai capelli scarlatti dispiacesse uno scenario
spettacolare per la sua seconda vittoria contro il Team Plasma, lei
adorava quel genere di spettacolarità straniante che
conferisce il pathos necessario ad affrontare una lotta.
All'angolo destro infatti, stava ad aspettarla la sua avversaria,
collant rigorosamente neri ed una maglia abbinata le scopriva lo
stomaco a dispetto del suo pudore.
«No... - disse ad alta voce Anemone, guardandola dal basso,
sconcertata - Non tu...»
«Ciao, rifiuto umano.»
La accolse con calorosa familiarità la giovane. Le rivolse
pure un inchino per prenderla ancora più in giro e
tradendosi subito ridacchiando.
Anemone respirò a pieni polmoni.
«Sai che io ho un nome e cognome?»
Non ebbe tempo di pensare ad una risposta ad effetto e si
sentì stupida anche nel ribattere così.
«Davvero? - l'altra si sistemava i capelli lilla in una coda
bassa - Credevo facessi "rifiuto" di nome ed "umano" di cognome. E
zitta, anche se mi dicessi come ti chiami non mi fa
differenza.»
La giovane Capopalestra di tipo Volante le disse "come, scusa?" usando
lo sguardo.
Onestamente, non se la ricordava così sfacciata e
presuntuosa. Non così tanto almeno.
«Cosa mi guardi con quella faccia da scema? - la
istigò ulteriormente quella - Se hai voglia di parlare,
vieni qui sul ring.»
L'altra non si fece attendere e scavalcò la recinzione in
elastico con un agile salto, trovandosi nell'angolo opposto a quello
della recluta come in un vero match di boxe.
Si chiedeva per quanto tempo la smorfiosa avrebbe voluto fingere che
loro due non si erano già incontrate ed avevano avuto modo
di far conoscenza nella maniera più umiliante possibile.
Umiliante per lei, ci teneva a sottolineare.
La storia della pioggia, del passaggio in macchina, dell'uniforme e dei
capelli tinti le riecheggiava nella memoria ed era andata a catalogarla
nella sezione dedicata alle figure imbarazzanti che desiderava
cancellare a tutti i costi, come se si fosse registrato in una di
quelle vecchie videocassette.
Alice, ne ricordava perfino il nome quando in realtà voleva
eliminare anche il suo viso dai ricordi.
Anemone si preparò con la Poké Ball in mano nella
maniera tanto estrosa che ben conosciamo, scacciando quei pensieri
dalla sua testa per concentrarsi sullo scontro.
«Perché volete sfidare il Campione? Sapete che non
accetterebbe mai una sfida contro dei vermi come voi.» Le
parlò provando ad incuterle timore.
Alice però sembrava indifferente, quasi sapeva di avere la
situazione in pugno.
«Cosa te ne frega, fatti gli affari tuoi per ora. - Si
sgranchì le spalle, guadagnandosi un'altra occhiata stupita
dalla ragazza rossa - Tu invece, che mi racconti, rifiuto umano?
Alla fine non ti hanno sbattuta fuori per pura fortuna, sappilo. Solo
perché gli "assistenti sociali" che ho assunto erano tutti
dei pervertiti e degli incompetenti assurdi.»
Anemone si spostò più volte i capelli
scompigliati dalla fronte, sentendo il sudore accumularsi.
Quindi era stato pianificato tutto quello che aveva dovuto passare il
giorno in cui credeva il suo sogno per sempre infranto, perfino le
minacce e gli insulti che aveva sputato contro quella che ora era la
sua fidanzata erano state il frutto di un piano.
Non aveva parole, davvero.
Le formicolavano le mani dalla rabbia bollente, ma decise di
trattenersi ancora un poco.
«Vorrei sapere cosa ti ho fatto. - La rossa la
approcciò piano - Non ci conosciamo neppure, Alice, e...
Niente. Lo capisci anche tu che insultarmi così non ha senso.
Smettila, te lo chiedo con le buone. Il tuo è bullismo nei
miei confronti. Lo sai.»
Anemone finalmente espirò, aveva parlato tutto d'un fiato.
Sperò che funzionasse.
Qualsiasi persona dotata di un minimo di buon senso ha ben presente
come le offese verbali e fisiche possano andare ad urtare in modo serio
la dignità degli esseri umani, non importa il loro rango o i
loro interessi o la loro origine. Ma non quell'aviatrice, a quanto
pareva.
Tenendola sulle spine per qualche secondo, Alice stette in silenzio,
facendole intendere che non si trattava di scherzi fra amiche, ma di
disprezzo allo stato puro.
«Sei proprio patetica, la solita vittima della
società che si domanda perché la gente la prende
in giro... Ma oh, ti sei mai guardata allo specchio, lo vedi come sei
messa?
E poi to chiedi perché tutti ce l'hanno con te, ma ti svegli?
Guarda che il mondo è pieno di esibizioniste lagnose come te
che si credono fighe solo perché sono disagiate,
problematiche ed incomprese, mio Dio come mi fate piangere, che fanno
le alternative e falliscono pure. Sei il male della società,
sei un rifiuto umano infatti.
Tu non è che non puoi essere una persona normale, sana di
mente magari. Tu non vuoi.
Devi fare la diversa perché pensi che così la tua
vita senza personalità e valore valga qualcosa di
più e non vedi che stai solo facendo la figura della
disadattata così! E te ne vanti?
Non vedo l'ora di farti fuori. Quelli come mi fanno schifo pure quando
respirano.»
Detto questo calò il silenzio, ma non prima che quella
vipera non avesse avuto l'ultima occasione di insultarla con esempi
concreti tratti dalle lunghe sessioni di spionaggio delle loro
avversarie.
«Poi anche tu ti ci metti... Le hai tutte, diamine!
Sei orfana, sei povera, sei un'otaku, impopolare, isolata, secchiona...
E pure lesbica!
Nel senso, lo hai capito pure tu che nessuno vorrebbe mai riprodursi
con una schifezza come te!»
La diciassettenne sbatté le palpebre ancora, incredula,
mentre la recluta del Team vagabondava in circolo e non la fissava
neanche mentre parlava.
La storia era sempre quella, le dispiaceva doverglielo ripetere, ma
appena qualcuno tirava fuori il classico discorso omofobo non le
rimaneva scelta.
Quella ragazza stava giocando a tirare la coda al gatto senza sapere di
aver svegliato la lince che riposava nei meandri del subconscio della
rossa, la ribelle strappata al suo habitat selvaggio in cui vige solo
la regola della selezione naturale, occhio per occhio e dente per dente.
Attraversò la diagonale del ring mentre si sgranchiva le
dita, senza smettere di camminare lentamente, si rimboccava le maniche
del kimono azzurro. Guardava dritta quella viziata.
Non gliene importava se Alice le stesse ridendo in faccia.
La bella e dolce fanciulla la afferrò per il colletto nero
dell'uniforme fino quasi a strozzarla e subito via con un potente
gancio per cancellarle quell'espressione dal volto.
Si sentì quella soffocare un gridolino acuto e poi
ammutolire non appena Anemone le sferrò una ginocchiata
sullo stomaco, rapida però forte abbastanza da smuoverle le
interiora.
Con tutta probabilità, la rossa finì velocemente
il suo lavoro per paura che quella le vomitasse addosso.
Quando si assicurò di averla definitivamente stordita, i
bicipiti tonici ed abbronzati si contrassero e diventarono di roccia,
rivelando quanta forza a dir poco mascolina si nascondesse nel corpo
dalle pronunciate curve di quella ragazza di Ponentopoli.
Dopo quella scarica di pugni, Alice crollò in ginocchio con
le labbra tumefatte.
La campana di prima suonò i rintocchi necessari a cominciare
il conto alla rovescia: dieci, nove otto, sette, sei... C'era davvero
bisogno di regole in quella rissa brutale?
Anemone si guardò le mani ed ebbe la coscienza un po'
più a posto nel non trovarle macchiate di sangue: ora
sì che si sentiva una violenta e una disadattata sociale,
che bella sensazione.
L'aviatrice di Hoenn sputò a terra un grumo di sangue,
magari c'era qualche dente lì in mezzo.
Si alzò in piedi poco a poco, anche lei incredula come
Jasmine di essere sopravvissuta a dei colpi a dir poco devastanti senza
sentire neppure il solletico.
«Ma come ha fatto a rialzarsi dopo che l'ho pestata di
botte?! Non capisco...» Pensò la rossa.
La recluta del Neo Team Plasma scosse la testa in verso orizzontale per
scrollarsi via l'intontimento successivo ai pugni in faccia, sentendo
il sapore del sangue che le colava dal naso sulle labbra.
Le due aviatrici stettero a guardarsi incredule: stava per cominciare
il secondo round.
Anemone fece per dare inizio alle danze, ma qualcosa la trattenne.
All'inizio credeva fosse un sentimento involontario, ma era inutile che
nascondesse a se stessa che il volersi fermare proprio in quel momento
fosse il risultato di una ferma decisione.
Non era la prima volta che la ragazza rossa picchiava una persona che
l'aveva presa in giro.
Perfino lei ne era cosciente, cosciente a tal punto da provarne
più che mera vergogna.
Sentiva come se fosse regredita, involuta; in natura non è
possibile che un Pokémon torni al suo stadio precedente dopo
l'evoluzione però lei ci era riuscita comunque.
La scena del suo primissimo pestaggio le riaffiorò in mente,
non troppo chiara ma non troppo fugace per non prenderla in modo
profetico.
Dovevano essere passati circa dieci anni da quando aveva espresso tutta
la sua frustrante incomprensione picchiando uno dei bambini
all'orfanotrofio ed ancora, a quasi diciotto anni, non aveva imparato
un metodo di difesa della propria dignità che non
comprendesse la violenza.
Lo schiaffone dato a Fedio doveva averle insegnato a controllare i suoi
impulsi, ed invece eccolo lì, l'ennesimo tentativo di
restaurare il suo orgoglio ferito andato a rotoli a suon di calci e
manrovesci.
Anemone inspirò a fondo, ricomponendosi a fatica.
Le venne il serio dubbio che la ribelle di cui tanto andava a vantarsi
di essere altro non fosse che una bambina ferita, incapace di
interagire con il mondo, pensò di meritarsi davvero l'essere
una disadattata.
Inconsciamente maledì suo nonno per averla cresciuta
così, ma se ne pentì.
«Allora? - Alice la provocò un'altra volta - Vuoi
ancora sfogare la tua frustrazione sessuale su di me?»
«Vai a morire. - Le ribatté secca - Swanna, vieni
fuori...»
La giovane fece per lanciare la sfera in campo, ma pochi attimi dopo
non riusciva più a percepire l'oggetto rotondo presente
nella sua mano: l'avversaria l'aveva letteralmente disarmata, se ne
accorse quando le si posizionò davanti agli occhi il suo
esemplare di Skarmory mentre depositava la Poké Ball di
Swanna nelle mani della sua perfida Allenatrice.
«La rivuoi, lesbicona? - Riprese a prendersi gioco di lei,
evidenziando bene l'ultima parola - Perché non chiedi alla
tua fidanzatina di venirtela a prendere?
Quella che gira sempre con le bocce di fuori.»
La rossa non aveva calcolato la possibilità di non poter
neppure cominciare a lottare perché privata del suo
Pokémon, fino a quel momento non le era mai capitata una
cosa del genere nella sua carriera da Capopalestra, e per quello rimase
senza risorse.
L'avversaria non aspettò neppure una risposta ai suoi
insulti, sapeva che non sarebbe mai giunta.
Fece un segno con la mano al suo Skarmory, il Pokémon
Acciaio usò Aerasoio senza esitare.
Come quando era ancora orfana di padre e madre ed il classico bullo
prima le rubava dalle mani la palla con cui stava giocando e poi
cominciava a tirarle forte i lunghi capelli rossi e a graffiarle la
pelle fino a farle uscire il sangue.
«Non provare a metterti contro di me, lesbicona, non hai
speranze.» Concluse.
L'unica
a non trovarsi sorpresa dall'uso della mossa Teletrasporto e a
risvegliarsi in una stanza sconosciuta dopo aver perso i sensi ebbe la
malaugurata idea di recarcisi spontaneamente nel luogo predisposto al
terzo scontro.
A dirla tutta, a comandare i passi nell'oscurità della
biondina di Sinnoh era il sonno.
La lotta di prima era bastata a stremarla fisicamente, si augurava di
non incontrare niente e nessuno che le richiedesse di sforzare le
sinapsi, voleva solo tornarsene a casa ed annegare il viso sul cuscino
ed immergere la mente nel mare dei sogni.
Catlina percepiva le palpebre caderle sugli occhi, dover far
ricognizione nel posto di lavoro a mezzanotte passata era tutt'altro
che un sogno, era il suo peggiore incubo.
Quello insieme al lunedì mattina. Anzi, forse il secondo le
faceva anche più paura.
Non ebbe timori nell'avanzare i docili passi nella completa
oscurità dato che aveva progettato lei stessa l'intera sala
di lotta e ne conosceva i minimi anfratti.
I suoi colleghi alla Lega ci avevano preso quasi gusto nel rimarcarle
quanto i suoi gusti in fatto di design rispecchiassero perfettamente la
mentalità di una quindicenne appena assunta, nonostante
ciò non osava rinnegare che quello fosse il suo stile.
Fra tutte le geniali trovate che la sua fantasia di adolescente aveva
progettato, quella che più di tutte adorava era di sicuro il
sistema di illuminazione: il soffitto era dipinto di blu cobalto,
costellato da piccoli puntini bianchi che ne bucavano il cupo manto.
Avere sopra i suoi occhi un cielo stellato le dava una bellissima
sensazione di pace, come quando da piccola contava le stelle e poi ne
perdeva il conto prima di addormentarsi.
Il campo di battaglia si trovava all'apice di un'originale scalinata a
periferica che permetteva ai suoi sfidanti di perdersi
nell'immensità del creato che lei aveva umilmente cercato di
riprodurre nella sua stanza prima della sfida decisiva.
La ragazza dallo sguardo vuoto intravide un'ombra esile agitarsi nel
buio, trovando uso pratico al piano di auto-difesa che si era
organizzata: non si sarebbe fatta sconfiggere dal Team Plasma come la
seconda volta, né sarebbe rimasta zitta a guardare come la
prima.
Catlina ricordò di non essere più una ragazzina,
doveva comportarsi da donna in quel momento.
Si fermò sul bordo del campo, attendendo con pazienza che
l'ombra furtiva si accorgesse della sua presenza. Aveva la silhouette
di una bella ragazza, abbastanza concentrata nel compiere un semplice
gesto manuale da non accorgersi della proprietaria legittima di quella
stanza.
«...L'ultimo sulla sinistra.» Disse pacatamente
Catlina e non ebbe risposta.
Ricordò che quell'esatta reazione l'avevano già
avuta Iris, Camilla e molte altre persone con cui si era trovata ad
esternare le sue povere capacità retoriche.
Lei era come la tipica studentessa che non proferisce parole durante la
lezione e quando viene interrogata deve fare i conti con una forte
ansia da prestazione che alterai risultati.
Si appuntò in mente di specificare sempre il soggetto nelle
frasi.
«L'interruttore delle luci. È l'ultimo sulla
sinistra.» Si corresse.
«Perché non lo accendete voi, signorina?»
Le rispose la giovane al buio, alzandosi esausta dalla sua posizione a
carponi.
Spinta ad abbassare la guardia dal sonno, dalla noia e dalla voglia
irrefrenabile di lasciare quel posto, Catlina obbedì e
portò il dito fin sopra l'interruttore più grande
di tutti, ogni essere un minimo sveglio avrebbe intuito che fosse
quello.
Ci cascò in pieno: la recluta la bloccò da
dietro, prima che lei potesse illuminarle il volto e rivelare
così la sua maledizione, come nel mito di Psiche la quale
brucia la pelle di un dio con l'olio della lampada.
La mano era ferma intorno al collo della biondina, aggrappata al
tessuto del kimono rosa, riusciva a sentire il fiato di quella pantera
sul volto, tutti questi gesti in rapida successione per non permetterle
di contrattaccare nonostante i suoi riflessi fossero comunque poco
reattivi.
Catlina respirò piano. Non le stava stringendo la gola, ma
si sentiva come se stesse soffocando.
«Siete molto ingenua, signorina.»
Commentò la nemica al suo orecchio.
Aspettò un po' prima di ottenere risposta.
«Cosa vuoi farmi? - il tono della ragazza era calmo e
monotono, non aveva neppure dato l'intonazione alla domanda - Credo di
avere il potere per sistemare la faccenda, se quello che volete sono
soldi. Non c'è bisogno di mettere in mezzo tutta la
regione.»
Siccome quella recluta era così stranamente civile da averle
dato del "voi" fino a quel momento (di solito perfino i domestici e le
cameriere che lavoravano per la sua famiglia si limitavano al "lei"),
la biondina pensò di provarci almeno a negoziare.
Avrebbe volentieri speso miliardi su miliardi pur di potersene andare a
dormire al più presto.
«Non trovate che sia vile da parte di un membro dei
Superquattro cercare di comprarsi la vittoria contro uno
sfidante?»
Infatti, spostando la prospettiva al di fuori della Lega, uno avrebbe
descritto la scena come una normalissima lotta intrapresa da Allenatori
audaci per coronare l'apice del loro viaggio attraverso Unima, come
succedeva nelle restanti cinque regioni ogni giorno da innumerevoli
anni.
Ma una volta varcato quel cancello all'ingresso, lasciassero ogni
speranza coloro che vi entravano: le sfide contro i Superquattro
avvenivano tutte nello stesso momento, mentre probabilmente Ghecis
accedeva alla Sala d'Onore indisturbato, pronto ad issarvi il vessillo
del Neo Team Plasma a simbolo della sua vittoria.
Catlina ignorò la domanda e cominciò a sentirsi
turbata. Non lo diede a vedere però.
Lei e le altre erano state usate come pedine per raggiungere il
traguardo, dall'alto del suo trono l'uomo del terrore lanciava i dadi
per stabilire la loro sorte.
«Perché non rispondete, principessa? - la recluta
sapeva di starla infastidendo soltanto toccandola - Credevate che si
trattasse solo di soldi? Mi dispiace deludervi.
Ci sono dei principi alla base del piano del Neo Team Plasma, principi
morali ed etici.
Filosofie di vita che possono cambiare tutte le regole del mondo,
ribaltare la situazione a nostro vantaggio. Ma non sono cose per voi.
Sono cose che valgono ben più dei vostri soldi, il denaro
non può comprarle, capite?
Soldi e potere... Credete di poter corrompere la purezza delle nostre
intenzioni.
Voi aristocratici non ne comprendete il valore perché
ciò che a voi rimane è il vuoto.
Un vuoto interminabile da riempire con vestiti firmati, auto di lusso,
cene di gala, divertimenti e vizi che logorano la mente e l'anima...
Non vi è destinazione per vostre vite se non la totale
disperazione.
Ma tranquilla... Non sarà il suo caso. Lasci che la preservi
io stessa da tutto questo.»
Un suono metallico, scattante e meccanico riecheggiò lungo
la sala.
Il suono letale del grilletto di una pistola.
Catlina percepì la fredda superficie metallica appoggiata
sulla sua tempia.
Non mosse un muscolo, non respirò e se lo fece non fu
visibile.
Il possesso di armi nella regione era diventato illegale dopo un
referendum popolare in cui la popolazione, stufa di sottostare allo ius
omnia e vivere nella paura della morte anche nei momenti di vita
quotidiana, aveva espresso il suo volere concisamente.
"Fate le lotte Pokémon, non fate la guerra" era lo slogan.
A quanto pareva quell'obbiettivo era ancora lontano anni luce dal suo
compimento.
Legislazione o no, la bocca della pistola era a distanza
così ravvicinata dalle cervella della giovane di Sinnoh che
il proiettile non avrebbe mancato il colpo neanche volendo e nessuno si
sarebbe potuto interporre fra di lei ed esso.
Un colpo per Mirton, e poi un colpo per lei.
Lui si era preso il proiettile che spettava a lei ed ora era il suo
turno pagare il fio.
Mirton non l'aveva salvata dunque, aveva solo posticipato la sua
condanna.
Come se la stanza non fosse già abbastanza buia, Catlina
chiuse gli occhi.
«Sei tu la croupier del casinò?» Chiese
solo quello, con calma.
«Sospetto - rispose l'avversaria - che voi siate molto
coraggiosa, signorina Yamaguchi.
O che siate talmente impaurita da dover nascondere la vostra paura per
forza.
Certamente, sono io. Devo dire che il suo collega, quel gentiluomo che
avete rifiutato in maniera così crudele per seguire i vostri
squallidi interessi, lui ci ha messo di meno per riconoscermi.
Siete ancora innamorata persa di lui?
Non vi dispiacerebbe vederlo un'ultima volta prima di morire?»
Ci fu un altro suono proveniente dal grilletto, la biondina non poteva
neppure vedere la pistola, non avrebbe riaperto gli occhi per nulla al
mondo.
«...No.»
No. Se lo ripeté in testa un paia di volte, godendosi
l'inattesa risposta della sua boia.
No che non voleva vederlo. Non aveva nulla da dirgli, magari se gli
fosse piaciuto il lavoretto che lei e le sue compagne avevano fatto
alla sua auto, ma nulla di più.
Ecco una delle tante volte in cui la ragazza introversa si era pentita
di aver abbandonato il suo guscio per esporsi ai peggiori danni fisici
e psicologici che il mondo esterno le aveva inferto.
Era stata una delle tante volte, ma anche una delle peggiori.
«Bene. Sono sicura che l'amore di quel ragazzo non
rappresentasse nulla per voi.
Meglio morire che prestare considerazione ad una persona di rango
inferiore, dico bene?»
Si espresse sempre la ragazza in nero.
Alla fine, dato il suo status sociale elevato e la tendenza della gente
di dilettarsi del giudicare il prossimo, la sua più
innocente timidezza e la paura di essere ferita sia nel corpo sia nello
spirito venivano fraintese e scambiate per la più
superficiale forma di materialismo.
Catlina lo odiava, ma non poteva farci nulla.
«Vieni ad aiutarmi... -
pregò nella sua mente - Appena spara...
Proteggimi...»
Se fosse stata davvero in procinto di morire, di certo non avrebbe
rivolto il suo ultimo pensiero a quello sciagurato del suo collega.
Prima veniva la sua famiglia, Nardo, le persone che l'avevano aiutata
nel momento del bisogno, le sue quattro compagne... Ma non lui.
Non gli avrebbe dato la soddisfazione di farlo sentire desiderato e
nemmeno di farsi sentire desiderabile, sapeva di non esserlo, sapeva di
esserlo insieme ad altre mille ragazze.
Fece un respiro a pieni polmoni e si decise a formulare le sue "ultime
parole".
«Chissà se quando si muore è come
addormentarsi... Per sempre.»
«Avrete modo di scoprirlo da voi, signorina. - La recluta
ripeté - Addio, ora...»
«Mi piacerebbe morire nel sonno, così, senza
accorgermene, senza sentire dolore...»
«Zitta ora! Non mi interessa sentire le tue
stupidate!»
Sparò. Un colpo decisivo, che non ebbe neppure il tempo di
viaggiare per l'aria.
La giovane senz'anima non ebbe neppure il tempo di completare la sua
presunta ultima frase.
Forse non era un torto compiuto a suo danno, morire era quello alla
fine.
Niente preavvisi, niente ultime occasioni, una preghiera vana magari,
una lotta contro gli istanti estremi che precedono l'addio al mondo e
il passaggio definitivo attraverso le rive dell'Acheronte.
Catlina giurava di conoscere quanto sfocata fosse la linea che divideva
vita e morte, quanto fosse difficile attraversarla con una sola falcata.
In quel momento però decise di smetterla di pensare alla
morte.
Non aveva senso. Lei era viva e vegeta.
Il colpo sparato non le sfiorò neppure la tempia;
rimbalzò invece, come se la pelle chiara della giovane fosse
impenetrabile, fatta di roccia, e secondo il principio di azione e
reazione il proiettile fu rispedito direttamente dentro l'imboccatura
della pistola, facendola esplodere in mille frammenti lucenti.
La recluta sciolse la presa sul collo lasciando la bionda libera di
muoversi, fu fortunata nel non rimanere ferita dalle schegge affilate
in cui l'arma da fuoco si era smembrata.
«M-Ma... Cosa...» Non poté credere di
non essere riuscita ad uccidere ancora Catlina.
L'altra volle preservare la sua incolumità: fece segno a
Reuniclus di venire accanto a lei ed il Pokémon Cellula si
precipitò al suo fianco scendendo dal nascondiglio in cui si
era appostato per fare da angelo custode della sua allenatrice.
«È Specchiovelo. La mossa che ho usato... - Non
riusciva proprio a nascondere la logopatia che la affliggeva - ...Me lo
aspettavo comunque.»
Catlina aveva interiorizzato insieme ai suoi miliardi di difetti
paranoici anche la sua ingenuità.
Aveva creduto di essere importante per un ragazzo, che costui si fosse
innamorato di lei, era facile imbrogliarla con qualche buona parola e
gesti fuori dall'ordinario.
Non era diffidente come Camelia o disillusa come Anemone e Camilla.
Ma di sicuro non era una sprovveduta. Aveva pianificato la sua difesa
prima ancora di incontrare la sua nemica, l'esperienza precedente le
aveva insegnato qualcosa.
Le aveva insegnato che non valeva la pena sacrificarsi per qualcuno che
non si ama.
«Dobbiamo
sbrigarci. Non abbiamo molto tempo.»
Recuperata la sua lucidità, Camilla non si concesse un
secondo di distrazione.
Una volta in piedi non diede neppure un'occhiata all'ambiente
circostante, il ciuffo folto doveva averle fatto sviluppare una lieve
forma di occhio pigro. Camminò.
In quella stanza, a differenza delle altre tre, vi erano ampie finestre
dagli archi a sesto acuto in stile gotico, le vetrate attingevano la
poca luce proveniente dalla luna come un cercatore di acqua assetato in
mezzo al deserto.
Abbinandosi all'ambientazione di fine settecento, un'imponente libreria
in ebano raccoglieva volumi conservati con la massima cura, alcuni dei
quali risultavano un poco ingialliti, la Campionessa di Sinnoh si
sarebbe volentieri fermata a spulciare qualche titolo, se avesse potuto.
Le piaceva leggere, che fossero libri cartacei o che dovesse sgranare
il suo occhio scoperto davanti al telefonino o al portatile. Si
appassionava a numerosi argomenti, i suoi interessi volubili si
rinfrescavano mese dopo mese.
C'era stato il periodo in cui aveva la fissa con l'arte, quello della
mitologia, quello della storia...
Ed ora, soprattutto per via del compito di preparatrice che Nardo le
aveva affidato, il tempo per leggere le si era ridotto a zero.
Insieme a quello per svagarsi, per uscire, per fare tutte le cose che
fanno le donne della sua età.
In fondo non capiva come mai tutti i capi dei Team malvagi e le
organizzazioni malavitose mirassero a conquistare il potere sulle
regioni acquisendo il titolo di Campione.
Dovevano immaginarsi chissà che scenari, bere vino pregiato
da coppe in cristallo massaggiati da fanciulle avvenenti in qualche
villa con piscina sulla spiaggia.
Non potendo convincersi che esistesse tale dabbenaggine, Camilla
proseguì.
Voleva sbrigarsi. Voleva sconfiggere subito la sua avversaria.
Sentiva idi dover tornare al più presto dalle compagne per
controllare se fossero sane e salve. Le veniva il magone pensando che
in quel momento potessero trovarsi in pericolo, ferite.
Sarebbero potute addirittura morire, era questione di attimi.
Certo, sconfiggendo la sua avversaria avrebbe facilitato l'ingresso di
Ghecis alla Sala d'Onore.
Calibrò comunque che quattro vite dipendevano dalla sua
scelta e lei aveva scelto di essere lì, a combattere per le
sorti di una regione che non era nemmeno la sua.
«Eccoti.»
La voce grave di Camilla parlò.
La luce di diversi lumini appoggiati a terra illuminava un discreto
raggio di pochi metri, la cera delle candele usurate aveva formato un
lago incandescente ed una calura soffusa.
Così la bionda riuscì a vedere un'altra giovane,
quante di queste giovani ragazze erano state reclutate dal Team Plasma
in due anni non lo sapeva.
Quella stava a terra, accovacciata sui piedi e le ginocchia aperte,
come un essere tratto da una favola nordica, un gargoyle o un goblin.
Alzò lo sguardo ed incontrò il volto della donna.
Si spaventò visibilmente e subito provò ad
indietreggiare goffamente prima di incontrare la parete ed essere
costretta ad alzarsi in piedi.
«Non ho tempo da perdere con te, sappilo.» Camilla
la ammonì ancora.
«C-Calma, aspetta, - fece la recluta - parliamone... Tu sei
la Campionessa di Sinnoh...
Sei ancora tu contro di me... A-Aspetta, cosa fai con quella mano ne-
»
Camilla aveva già allentato la cintura per prendere con
più facilità la Poké Ball custodita
nel suo seno prominente senza doversi far male con le unghie.
La giovane portò avanti le mani coperte da spessi guanti
sditati neri.
«Non è molto leale - riprese - una Campionessa
contro una semplice Allenatrice.»
«Una Campionessa - ribatté Camilla - con quattro
ragazze ed un'intera regione sotto la sua
responsabilità.»
La recluta tutt'un tratto si calmò, fece qualche passo
avanti in direzione della nostra eroina e si espose alla luce delle
candele: aveva occhi e capelli azzurro ceruleo, tratti che rivelavano
la sua provenienza da una regione diversa da Unima.
Per qualche motivo l'organizzazione criminale attirava numerosi membri
stranieri, addirittura quattro su cinque fra i membri scelti.
«Quindi tu combatti per le tue compagne?»
Osò chiedere.
La bionda annuì sorridendole, sicura della sua scelta. Come
poteva negarlo?
Lei stessa si era fatta portatrice di quell'ideale, rinunciare all'io
per concentrarsi sul noi.
Non vi erano premi, titoli e ricompense più degni
dell'amicizia e della protezione che si era offerta di condividere con
le giovani apprendiste, ora aveva l'occasione di darne la prova.
Il Team Plasma giocava ad essere il diavolo che rovina l'uomo puro di
cuore.
Ed ora la stava tentando, chiedendole sottilmente di gettarsi dalla
rupe e aspettare che gli angeli al suo comando la salvassero dalla
caduta.
«Sei una leader fantastica allora. - Ammise la recluta dai
capelli cobalto. Poi, enfatizzando molto il gesto, lasciò
cadere ai suoi piedi le tre Poké Ball legate alla sua
cintura - Non voglio farti niente.»
Camilla la guardò perplessa. Sapeva che qualcosa non
quadrava, volle andare in fondo alle ragioni di quel gesto inaspettato.
«Hai paura che io voglia vendicarmi per l'attacco nell'onsen?
Sai di avermi quasi rotto una costola?
Ed avete ferito ferito una bambina innocente con le vostre inutili
pretese. - la approcciò seria - Ti aspetti davvero che io ti
risparmi?!»
«Allora non sei così altruista come ti fai vedere
a Sinnoh...»
Si scostò i lunghi capelli dalle spalle e si
allontanò leggermente, lasciando le tre sfere ai piedi della
bionda. Poi riprese a parlare con calma serafica.
«Si dicono molte cose sulla Campionessa della regione, certi
dicono che è una persona meravigliosa, bella e perfetta. Una
specie di divinità, senza difetti, perfetta.
Beh, una che vince la Lega Pokémon a quindici anni
è un piccolo prodigio.
Dicono che non hai neanche mai perso una lotta, ma cosa significhi,
questo non lo so.
Poi c'è chi dice che tu non sia altro che un'esibizionista
persa, la classica scema con una fortuna incredibile, ma secondo me
questi che parlano sono solo ragazzini invidiosi.
E poi... Ah, sì!
C'è una cosa che non ho ancora capito: si dice che tu sia
vergine perché hai rinunciato all'amore per le lotte.
Ma corre anche voce che la Campionessa di Sinnoh sia una lesbica
ninfomane pedofila che intrattiene relazioni non consensuali con
ragazzine più piccole di lei...
Quale delle due è vera?»
La bionda ragionò un attimo su quelle parole. Certo che
conosceva quelle voci.
Aveva anche una mezza idea sul chi avesse potuto metterle in giro e
ciò la fece innervosire.
Ma ricordò il discorso fatto nel parcheggio, la macchina
colorata, i soldi spesi a comprare la vernice e distaccò
immediatamente il suo interesse su quelle dicerie.
Rispose senza mezzi termini.
«Non penso che il Campione della regione dovrebbe venir
giudicato in base alle sue abitudini sessuali. - fece uscire Garchomp
dalla Poké Ball, senza il bisogno di chiamarlo fuori - Non
ho intenzione di rimanere qui a parlare comunque.»
La sua avversaria non accennò a voltarsi: guardava fuori
dalle ampie finestre, parlando girata.
«Tranquilla. Se vuoi rivedere le tue compagne aspetta solo
una decina di minuti.
Le riavrai vive e vegete. Te lo assicuro io.»
«Non ti conviene scherzare con me o...»
La donna si spazientì e fece per attaccare, ma fu interrotta
dall'altra che continuava ad ammirare il panorama fuori dalle vetrate.
«Ti ho detto che puoi stare tranquilla. Aspetta e basta.
Non dureranno molto nel mezzo di una battaglia violenta.»
La ragazza in nero si trovò con violenza scaraventata a
terra, ustionandosi la pelle con la cera bollente caduta sul pavimento
e spegnendo la fiamma di una candela.
Le giunse alle narici il forte odore di fumo mentre il peso della donna
bionda la sopraffaceva.
Teneva fermi i suoi polsi bloccandole la circolazione e la guardava in
volto attraverso l'occhio color grigio cenere che non coprivano i
capelli dorati.
Avrebbe optato per la terza opzione, la descrizione più
adatta a quella pazza in kimono bianco.
«Cosa intendi? - gridò, sconvolta - Rispondi! Cosa
volete fare a quelle ragazze?
Rispondimi o dirò al mio Pokémon di tagliarti la
gola!»
Le ultime sillabe risuonarono nella biblioteca vuota.
Camilla inspirava dal naso ed espirava dalla bocca, cercando di
riprendere aria. Le bruciavano le corde vocali, non le capitava mai di
urlare così e la sua tonalità di voce bassa non
la aiutava affatto.
Aveva perso il controllo. Sentendosi meno perfetta che mai, come se lo
fosse mai stato in primis, alla giovane donna vennero quasi i brividi
per la preoccupazione.
Il silenzio non la aiutò a ricomporre i suoi pensieri,
confusi e disordinati quali erano.
Era la prima volta che le capitava di perdere così
bruscamente la sua razionalità. La sconvolse.
«Non parlavo delle tue compagne, ma delle mie.»
La fanciulla dai capelli blu cobalto, nella sua posizione piuttosto
ambigua e con l'affilata zanna del Pokémon Drago puntata
alla gola, sorrise con naturalezza.
«Che cosa?»
Camilla le si avvicinò ancora di più,
appoggiandosi su di lei come in un rapporto amoroso.
«Ti spiego. - proseguì la recluta, immobilizzata -
Il nostro capo ha stretto un accordo con uno scienziato che somministra
una droga potentissima a cinque reclute del Neo Team Plasma, me inclusa.
Si chiama Sangue del Drago.
Praticamente rende insensibili al dolore per un'ora circa.
E si aspetta, il nostro capo, che vi uccidiamo.»
«E tu, tu vuoi uccidermi?» Domandò
sussurrando la ragazza dallo yukata bianco.
«No, sinceramente, non me avrei motivo.
Sto aspettando anche io qui con te, aspetto che liberino pure me da
tutto questo.»
«Ne sono contenta. - Camilla mollò la presa sui
polsi della ragazzina - Ma cosa tu intenda non mi è chiaro.
Forse sono stupida io.»
«Intendo - la ragazza si sfilò i guanti neri che
recavano uno strano simbolo su di essi - che oggi è il mio
ultimo giorno da membro scelto del Neo Team Plasma.»
«Credevo vi divertiste voi teppisti a rubare
Pokémon e scatenare il panico in giro per Unima.»
«Almeno noi non andiamo a distruggere la macchina agli
sconosciuti o a fare risse in giro per i locali.
Perché quella faccia? Sei sorpresa?
Vi osserviamo da due mesi più o meno. Il Neo Team Plasma
conosce le vostre mosse, sa tutto di voi cinque. Ha telecamere
dappertutto, siamo informate su tutto il gossip che avviene dentro e
fuori dalla casa del Campione.»
Camilla si alzò in piedi, lasciando la recluta libera di
muoversi.
Non fece nulla. Tornò a sedersi su una pila di grossi tomi
polverosi, osservando le striature di luce lunare sulla grossa libreria
tarlata.
Trovava quella ragazzina che aveva cercato ed era quasi riuscita ad
ucciderla assai interessante.
Riusciva a fiutare da un chilometro che si trattasse di un'altra bimba
problematica, quelle che lei si divertiva ad analizzare e riparare come
se si trattasse di un giocattolo rotto.
Le ispirava debolezza. Forse era per quello che voleva evadere al Team,
forse non riusciva a sopportare tutta la pressione che la
criminalità organizzata le metteva.
«Mi chiamo Lucinda comunque. - le disse quella - Fidati, le
tue compagne staranno bene.»
❁
Era
sicura che avrebbe funzionato alla grande.
D'altronde non lo aveva notato proprio la prima volta alla Lega che
Nardo toccava esattamente un particolare sulla coda fiammeggiante di
Reshiram per attivare l'interruttore dell'ascensore nascosto?
Iris si sentì esageratamente soddisfatta della sua deduzione
poco brillante.
Ma appena la piattaforma si illuminò di colore blu acceso
(non capiva quale fosse la strategia di risparmio della Lega, tagliare
l'illuminazione notturna per favorire gli effetti speciali?) lei non
esitò a salirci sopra e ritornare al panico della situazione
precedente.
Scendeva piano, eppure non riusciva a sfruttare quel breve intervallo
di tempo per figurarsi cosa fare, cosa sarebbe successo, chi avrebbe
incontrato lì sotto.
Chiuse forte i suoi occhi rotondi, stringendosi la Poké Ball
al cuore.
Arrivò a destinazione prima di poter versare una sola
lacrima. Fece un passo e poi si bloccò.
Iris si trovò di fronte la stessa scalinata che aveva
già visto, solo le sembrava di un chilometro più
lunga senza le sue compagne a salirla insieme a lei.
Non trovò nulla al momento che le ispirasse pericolo
mortale. Era solo confusa.
Le faceva uno strano effetto vedere la Sala d'Onore per prima fra tutte
le concorrenti della competizione senza neppure aver vinto, senza
neanche vagamente meritarselo.
Si sentiva come una ladra, un'intrusa. Non vi erano luci a brillare per
lei né applausi per elogiarla, c'erano solo tre fantasmi
invisibili e muti a tenerle un'indesiderata compagnia: nulla, niente e
nessuno.
Generazioni di Allenatori provetti per anni ed anni avevano dedicato la
loro esistenza alla lotta, faticando giorni e notti pur di poter
registrare la loro squadra come vincitrice della Lega
Pokémon e potersi proclamare umilmente Campione della
regione di Unima.
Lei invece era lì perché aveva premuto un
pulsante.
Il cielo nero si estendeva sopra la sua testa mentre avanzava i suoi
passi sulla dura pietra, attraversando le file di colonne imponenti,
l'architetto che le aveva progettate e il come fosse riuscito a
costruirle erano ancora un mistero.
La Lega era stata solo ristrutturata negli anni e non si conosceva
l'identità dell'antenato di tutti i Campioni di Unima, buona
ragione per attribuire alla sua istituzione origini mitiche.
Iris si meravigliò della semplicità di
quell'ambiente, paragonata con lo sfarzo classicheggiante del resto
dell'edificio: ogni tanto alzava gli occhi per controllare se Dragonite
fosse ancora sopra di lei, poi tornava a guardare dritto avanti a
sé per salire le interminabili scale, poi ancora provava a
sollevare il capo per vedere se alla fine di quel percorso ci sarebbe
stato qualcosa o qualcuno ad attenderla, ma il pensiero di
ciò la spingeva ad abbassare lo sguardo per la paura.
Non sperava davvero di trovare qualcuno, probabilmente Ghecis avrebbe
fatto come i cattivi dei film, si sarebbe goduto lo spettacolo da una
comoda poltrona girevole ridendo a squarciagola come uno psicopatico.
Non ci doveva essere lei nella Sala d'Onore, doveva esserci una delle
altre sette milioni di persone che nel mondo erano meglio di lei.
Questa convinzione le provocò ulteriore fatica nella scalata.
Con la mente vacua da ulteriori pensieri, Iris si trovò
sulla cima, nel cuore pulsante di Unima.
Ma, come aveva previsto, notò di non essere sola. Per una
volta non era sola.
Eccolo, o meglio, eccola lì: la recluta più forte
del Team Plasma, subito dopo il capo vero e proprio.
Questa si girò, si fece vedere in faccia.
Aveva la bocca coperta da una mascherina. Era nera.
Iris constatò che coprirsi solo la bocca non le impediva di
averla già riconosciuta.
Purtroppo.
Iris rimase ferma, tutti i muscoli del volto si erano contratti
involontariamente.
Non disse nulla, ma avrebbe avuto molto da chiedere.
Nella sua mente riviveva l'esperienza.
Quella recluta l'aveva già vista. L'aveva conosciuta, ne
conosceva il nome, ci era andata all'arcade insieme, aveva confidato i
suoi segreti ca lei, era sua complice in un furto.
Ma non le venivano in mente parole abbastanza forti per nascondere la
sua delusione.
«Georgia...»
Gli stessi capelli color ametista dal taglio trendy. Lo stesso corpo
femmineo e proporzionato.
La stessa persona che ammirava tanto, che per lei era bella,
intelligente e simpatica ma allo stesso tempo raggiungibile.
Sbatté le palpebre due o tre volte.
«...Sei un membro del Team Plasma...»
Gli occhi i quell'azzurro particolare, come cristalli di ghiaccio
tagliente, le sminuzzavano l'anima sorridendole beffardi, prendendosi
gioco del suo stupore.
Poi quella rimosse la mascherina e cambiò espressione,
facendosi più cupa in volto.
La giovane Allenatrice non rammentò di averla mai vista
così.
«Non dovresti essere qui, Iris.» Le rispose quella,
col suo tono di voce tanto eufonico.
Vestiva di nero, un top senza maniche le scopriva la pancia piatta e
gli addominali non troppo marcati, in contrasto con il petto comunque
polposo, abbastanza da riempire la sua mano.
Poi la gonna corta, scarpe da tennis con calzini alti tutti abbinati,
la cintura di pelle sintetica in cui tenere le Poké Ball
e... Il cappello.
Il cappello che le piaceva tanto, aveva pure un significato profondo,
che riportava lo stesso arabesco misterioso, sulla testa di una
criminale adolescente.
Se lo sistemò sulla testa e fece qualche movimento con le
spalle, ma senza spostarsi.
«Neanche tu...» Le rispose la nostra eroina con
durezza.
«Io sì, - ribadì - tu no. Sono i piani
della mia organizzazione, questi.»
«Sfidare Nardo in piena notte per il controllo su Unima?! Che
pazzia! - Iris alzò la voce -
Sarebbero questi i piani della tua organizzazione? Che per di
più ha già fallito in partenza?!»
Georgia fece qualche passo laterale, sempre mentendo il contatto visivo.
Sospirò leggermente, mettendo la sua avversaria in
soggezione.
«Perché non hai risposto al mio
messaggio?» Disse pacatamente.
«C-Cosa...?» Iris la guardò stranita.
Quale messaggio? Ecco.
L'ordine della sua leader di non intraprendere rapporti interpersonali
con estranei l'aveva obbligata a spegnere il telefono per quasi tre
giorni, record che non aveva precedenti.
La sua generazione aveva come ossigeno la tecnologia e credeva che
disfacendosene avrebbe riottenuto lo stato di naturale
felicità da cui la allontanava il progresso, ma
evidentemente alzare gli occhi dallo schermo del cellulare le aveva
causato solo danni.
«Lascia perdere. Ti avevo chiesto se potevamo uscire
sabato...»
«Oggi?»
«Oggi. E tu non saresti stata qui in questo momento, saresti
da un'altra parte.»
Senza muoversi di un centimetro, la ragazzina non dimenticò
che la confidenza che le due avevano non sarebbe svanita per mezzo di
una semplice uniforme attillata.
«Beh, anche tu saresti stata da un'altra parte, se
è per quello.»
Le rinfacciò la verità. Come pensava di rimediare
ad una bugia con un'altra bugia?
I discorsi che faceva Camelia sulla coerenza stavano permeando anche in
lei.
«Comunque, - la ragazza si sistemò i capelli corti
- si vede che non capisci niente.
Chi ti ha detto che noi volevamo sfidare Nardo? Il tg,
immagino.»
Iris non si fece problemi ad ammettere di essere non poco confusa.
«Spiegati. Non siamo tutti dei cavolo di geni del male
qui.»
Mentre lei e le sue compagne si erano lanciate alla rinfusa come
barbari all'attacco, il Neo Team Plasma aveva escogitato un piano di
conquista infallibile, tanto da farle quasi invidia.
La recluta estrasse una Poké Ball dalla cintura e rimise la
maschera a coprirle la bocca, come gesto per disconoscere la sua
avversaria in kimono viola ed ogni cosa che le legasse.
«Se avessi letto il mio messaggio e fossi venuta avresti
fatto meglio.
Ti credevo una intelligente, che ci arriva. "Quanto odio le mie
compagne", "Mi trattano male", "Sono tutte stupide"... -
imitò una vocina stridula per prenderla in giro, poi si
ricompose nella precedente serietà - E poi ti fai comandare
da loro a bacchetta, sei tu qui quella con qualche problema.
Ma fa nulla. Saranno le mie di compagne ad ammazzare quelle quattro
stupide.
Mentre tu sei qui a non fare niente.
Come sempre. - Fece spallucce - Vi spiamo da un mese ormai e io lo so
come sei.»
La ragazzina provò a voltarsi indietro, ma
calcolò che il tempo impiegato a scendere le scale e
percorrere tutta la Lega a piedi era abbastanza per permettere alle
altre reclute del Team di far tutte e cinque fuori.
Se quel gioco era lei contro una banda estesa a livello regionale di
criminali senza scrupoli, non aveva intenzione di cominciare la partita.
«Vuoi dire che ci avete spiate per un mese per escogitare un
piano sadico come non so cosa e... E alla fine farci fuori?»
Domandò, senza quasi accorgersene. Non voleva crederci. Non
volle crederci.
Ma la ragazza in nero aveva già la risposta pronta per i
suoi dilemmi.
«Perché, mi ascolti quando parlo? A noi servivano
solo Taylor Camelia, Reyes Anemone, Yamaguchi Catlina e Kuroi Camilla.
Non tu.
Tu non sei una minaccia per il Neo Team Plasma. Tu non sai nemmeno
lottare decentemente, mi domando ancora perché Nardo ha
scelto un'impedita come te per il ruolo di Campionessa.
Sai solo leccare i piedi alle quelle quattro sceme, non hai altre doti
o talenti.»
Se già l'autostima di Iris era una cosa labile come un
castello di carte, quella ragazza dai capelli fucsia ci aveva
letteralmente soffiato sopra facendola cadere dalle fondamenta.
Non riusciva a darle torto o trovare argomentazioni da porre in
antitesi.
Iris si sentiva come Georgia l'aveva appena descritta, lo dimostrava la
sua semplice presenza lì.
Si era fatta mandare nell'occhio del ciclone solo perché le
sue compagne ci erano andate.
Avrebbe potuto evitare quell'errore in mille modi ma aveva voluto
seguirle invece di restarsene al sicuro.
Si trattenne dal piangere, ancora travolta dallo sconcerto.
Quegli insulti la ferirono più di tutti quelli che aveva
ricevuto in quel momento.
Perché erano la nuda e cruda verità.
Non essere carina esteticamente o essere piatta di seno erano i suoi
ultimi problemi in quel momento.
«Peccato, Iris. - concluse Georgia - Mi stavi simpatica. E
invece, siccome sei qui e hai visto tutto, mi tocca uccidere pure te.
Ma non prenderla sul personale, sto solo eseguendo gli ordini che mi ha
dato il mio capo.»
Senza battere ciglio, lanciò in avanti la Poké
Ball che teneva in mano.
La non più misteriosa quindicenne dai capelli fucsia acceso
smorzò le labbra in un sorriso insipido, le intenzioni non
chiare, riflesso della sua personalità multiforme.
Di fronte a lei si materializzò un Pokémon che
non aveva eguali fra gli avversari affrontati precedentemente dalla
nostra eroina, neppure fra i componenti delle squadre allenate
professionalmente delle sue compagne, perfino il suo Dragonite
vacillò.
Iris odiava la sconfitta. La odiava tanto.
Quando perdeva una lotta Pokémon le dicevano sempre di non
arrabbiarsi, quella era solo una lotta. Per lei non era mai "solo una
lotta", ed in quel caso era ben diverso.
Quella era una battaglia violenta. E forse sarebbe stata anche l'ultima
lotta della sua vita.
«Beartic, - disse cinica la leader del Neo Team Plasma - usa
Purogelo.»
La nostra eroina non poté reagire. Quell'intera situazione
l'aveva sopraffatta, non si sentiva neppure degna di quella fine,
annientata dal boss di un'organizzazione criminale.
Che ne sarebbe stato del suo ricordo? Sentiva di aver insozzato
l'immacolata lista degli aspiranti Campioni di Unima, spegnendosi
così, nella Sala d'Onore della Lega Pokémon in un
ammasso informe di sangue versato, organi macellati e sogni distrutti.
Era colpa sua se si era lasciata guidare dalle sue compagne? Si
sentì stupida, miserevole.
Non sapeva neppure quale fosse la morale che la sua breve esistenza
voleva insegnarle.
Magari aveva sbagliato nel fidarsi di quell'estranea, aveva peccato
nell'aver afferrato la Mano di Fatima? O forse era solo colpa sua, o
forse il fato era già stato prescritto per lei?
Alla fine, Iris concluse che non per forza tutte le vite umane devono
significare qualcosa.
Non tutti gli Allenatori diventano Campioni, non tutti i morti vengono
compianti alla televisione e sui giornali, non tutte le ragazzine sono
destinate a diventare donne.
Le faceva male quanto ingiusto, caotico e crudele fosse l'ordine del
mondo.
La giovane di Boreduopoli indietreggiò piano, sapendo di non
avere scampo.
Pensò alle parole di quella bestia psicotica in abiti sexy:
non pensò alla parte in cui decantava il suo patetico
esistere, non sarebbero scesi gli angeli a salvarla per compassione.
Anche le sue compagne sarebbero morte con lei.
Quel pensiero non la fece star meglio, di solito considerava un mal
comune un mezzo gaudio, e invece la rattristò ancora di
più.
Ripensò alle sue ultime parole dette a loro in ordine
cronologico: io vi detesto.
Io vi detesto.
Le sue ultimissime parole prima dell'estremo saluto erano state quelle.
Nessuna creatura divina l'avrebbe accolta nel suo regno dopo quell'atto
di suprema infamia: aspettava disperatamente che l'artiglio di Satana
la trascinasse a bruciare in eterno nel fuoco delle più
profonde bolge dell'inferno.
Guardò un'ultima volta alla sua avversaria, al limite della
sua devastazione psicologica.
«Georgia... - pensò,
alla fine di tutto - Io credevo che potessimo essere
amiche...»
❁
«Non
posso crederci Georgia, tu eri la cattiva per tutto questo
tempo?!»
«Dai,
non chiamarmi "la cattiva", altrimenti mi odieranno tutti i
lettori.»
«E
dire che potevo accorgermene prima, cavoli, avevi messo il cappello
pure quando siamo uscite insieme!»
«Veramente
quella mattina mi sono vestita di fretta, non avrei dovuto indossare
parte dell'uniforme del Team mentre sono in incognito...»
«Vedi?
Così impari a darmi della stupida, almeno io non esco in
kimono, anche se sono perennemente in ritardo a cambiarmi per gli
allenamenti.»
«A
proposito di quando siamo uscite insieme, Iris, hai presente i soldi
che ti ho prestato quando siamo andate all'arcade e hai fatto il nuovo
record?»
«Eh?!
N-Non dirmi che li rivuoi indietro?»
«No...»
«Ah,
per fortuna! Mio nonno non mi allunga la paghetta da giugno, sono
completamente al verde e se non fosse stato per te forse non avrei
neanche potuto fare una partita...»
«Intendo
che non devi restituirmi i soldi dell'altra volta.
Tu
devi ancora ridarmi quelli di quando siamo uscite con la tua amica.
Sei
in ritardo coi pagamenti, ti conviene sbrigarti prima che ci aggiunga
anche gli interessi...»
«Sei
proprio una mente malvagia e perversa!»
«Sono
fiera di esserlo.»
❁
Behind
the Summery Scenery #15
1.
Dal titolo del capitolo potete dedurre che all'autrice piace Tarantino
e soprattutto Kill
Bill.
2.
Questo capitolo è più o meno un esperimento per
vedere come me la cavavo con le scene d'azione. Nelle recensioni mi
avete detto di vaerlo trovato diverso in qualche modo dai precedenti,
più grintoso ed esplosivo. Mi avete fatto anche notare
però che in alcuni tratti è irrealistico, in
altri ripetitivo. Mi ci è voluto un po' per elaborare bene
tutti questi pestaggi, lotte e sparatorie, quindi consigli e critiche
sono ben accetti.
3.
Scrivere i cattivi a volte è più divertente che
scrivere i buoni. Ve la immaginate una versione "rovesciata" di ESG, in
cui la vicenda è interamente raccontata dal punto di vista
delle antagoniste? Questa cosa fa molto Senran Kagura.
4.
Giuro che dal prossimo BTSS la pianto con le domande retoriche, ma in
quanto ad impaginazione, meglio l'incolonnato a sinistra o il
giustificato? Il giustificato è molto bello da vedere su
computer, ma su telefono sembra di leggere un testo bucato. Ho notato
di aver giustificato alcuni capitoli random, ma vorrei scegliere al
più presto una formattazione unica.
Update: alla fine ho optato per il giustificato, Le scelte della vita,
proprio.
5.
Avete notato che i primi tre capitoli sono stati ricorretti a n c o r a
? Ringraziamo Blue Eich e la sua pazienza millenaria.
Lo
sapevate che si scrive Poké Ball e non Pokéball?
Provate a cercare su Pokémon Central Wiki, ha ragione
lei!
|
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Capitolo 16 *** Vedete? È sangue umano, non divino ***
ESGOTH 3
❁
A story
by: Momo
Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing: 🍦
Seguiteci
su instagram: @esg_ offical_ ig
Early
Summer Girls
❁
Capitolo
16
Vedete?
È sangue umano, non divino
«...Una
droga artificiale che concede l'immunità per un periodo
limitato di tempo, hai detto?»
La
Campionessa di Sinnoh aveva gli occhi puntati verso la grata bronzea
del cancello serrato.
La
Lega di Unima era diversa da quelle delle altre regioni, era nata
più tardi siccome la guerra che investì il
territorio in
tempi antichi aveva frenato ogni tipo di attività ludica
visto
che i Pokémon venivano reclutati come soldati a fianco degli
uomini senza alcuna pietà.
La
differenza sostanziale era già impostata nelle premesse: gli
Allenatori potevano sfidare i Superquattro nell'ordine che
più
preferivano. Il fautore di questa bizzarra rivoluzione che dunque
aboliva ogni tipo di gerarchia fra i membri della Lega non poteva che
essere Nardo.
La
giovane donna riportò l'attenzione sulla recluta con cui
aveva
fatto un qualcosa, qualcosa di neppure vagamente simile al fare
amicizia, ma comunque diverso dal fare a botte.
«Sì.
- Voltandosi piano, la recluta dai capelli blu le venne vicino - Ghecis
vorrebbe iniziare il contrabbando del Sangue del Drago, per questo
prima lo ha testato su delle persone invece che sui Pokémon.
Vorrei
poterti dire altro, ma non so nulla oltre a queste cose che ti ho
appena detto.
Forse
Georgia potrebbe saperne di più... Lei è la
nostra leader
del resto, è la persona più vicina a Ghecis
Harmonia.»
Dopo
che Lucinda, le aveva detto di chiamarsi così almeno, ebbe
finito di parlare, Camilla ponderò bene che domanda fosse
necessario farle pur di far chiarezza su quella faccenda.
Da
come si era spiegata, ora Ghecis era diventato un venditore
all'ingrosso di droga, uno spacciatore insomma. La sua strategia quindi
risiedeva nel puntare alla fascia più debole della
popolazione
di Unima, quella più disillusa e stremata dalla crisi, dalla
disoccupazione, quella che non credeva più nell'amicizia fra
umani e Pokémon e non vedeva più nella fatica e
nel duro
lavoro la chiave per il successo: i giovani.
Tuttavia
per quanto catastrofico ed incerto questo piano suonasse alle sue
orecchie lei non poteva fare nulla di concreto per fermarlo in quel
momento. Quella sensazione di impotenza la fece imbestialire.
«Devo
andarmene di qui.»
Ripeté
fermamente, guardandosi intorno in cerca di qualche via d'uscita.
Lucinda
le sorrise ancora, emulando l'abitudine della sua avversaria in kimono
bianco latte.
«Sii
paziente, Campionessa. È solo questione di tempo che... -
subito
la ragazza interruppe i suoi giri di parole non appena l'altra la
minacciò facendo gesto al suo Garchomp di avvicinarsi a lei
-
H-Hey, calma!
Lo
sai che i cancelli non si aprono prima della fine di una lotta?
Ma
non di una lotta normale, di una battaglia violenta. Come piace a
noi.»
«Certo
che lo so.» La bionda si toccava nervosamente il ciuffo,
ormai unto e sudato.
Lucinda
l'aveva incastrata sull'orlo del precipizio bloccandole l'unica via di
scampo.
Sapeva
che la bionda non avrebbe mai avuto il coraggio di affrontare una
ragazzina in una battaglia violenta, non lo avrebbe fatto neppure se si
fosse trattato della temutissima recluta in persona.
Lei
non era una persona aggressiva: amava le lotte, amava farle, amava
guardarle, ma questo non faceva di lei una sadica che gode nel far
soffrire il prossimo.
E
di conseguenza, dall'alto del suo titolo conferitole dalla regione di
Sinnoh, non poteva che disprezzare coloro la cui mania di far del male
aveva fatto dimenticare ciò che di bello e sano la contesa
ha da
offrire.
Si
alzò in piedi, sovrapponendo l'ombra del suo corpo
prosperoso
alla flebile luce della luna nel punto più alto del cielo.
Doveva essere l'una di notte passata.
Si
diresse verso uno scaffale, decisa come non mai nelle sue intenzioni.
Anche
l'avessero definita una codarda senza il coraggio di affrontare uno
scontro corpo a corpo poco gliene importava, per dirla tutta gliene
importava tanto quanto le voci che la dipingevano come una maniaca
sessuale.
«Cosa
stai facendo?»
Le
domandò la ragazzina, calciando svogliatamente una delle sue
Poké Ball posate a terra in segno di arresa.
La
giovane donna estrasse un libro dal ripiano intarsiato e verniciato.
Diete
un'occhiata al titolo solo per curiosità, sfogliò
veloce
tutte le pagine e lo tenne chiuso per leggere il retro, ma subito se lo
dimenticò. Tipico di Camilla.
Successivamente
rivolse una scorsa al suo fedele Pokémon Drago per metterlo
al
corrente delle sue intenzioni. Delle sue pazze, ma al contempo come non
mai legittime intenzioni.
Chi
aveva deciso che la pazzia era sempre solo un difetto e mai una dote?
«Garchomp,
usa Lanciafiamme.»
Teneva
quel libro dall'angolo con la punta delle dita, il più
lontano
possibile dai capelli e dalle sopracciglia. Il potente dragone non
mancò il bersaglio.
La
carta prese facilmente fuoco, il getto di fiamme incandescenti era
addirittura esagerato per lo scopo che aveva, ma evidentemente il seno
di Camilla non era abbastanza ampio per contenere anche un accendino
insieme a tre Poké Ball.
Le
pagine si increspavano come foglie d'autunno prima di annerirsi e
dileguarsi in anidride e monossido di carbonio, la donna lo
agitò in aria come se si trattasse di un trofeo.
Intanto
una colonna di fumo si levava alta, come quella che avevano causato
quelle del Neo Team Plasma per attirarle lì. Nera, grigia e
poi
di nuovo nera, l'aria aveva un odore irrespirabile.
Chiudendo
gli occhi per non vedere completamente la scena, la bionda
strappò una pagina immacolata del libro sul punto di
incenerirsi; anche in essa vi erano molte parole, ne colse alcune come
"amore", "anima", "alquanto", un avverbio che finiva in -mente e una
qualche persona del verbo "devastare".
Avvicinò
la carta bianca alla fiamma bluastra del libro che si spense subito
dopo, ma trovò di cui perpetuarsi su quel foglio: Camilla
strinse i denti e deglutì forte, prima lentamente, poi
accelerando così tanto il gesto da non percepirne la
gravità, posò due dita sopra quel fuoco,
ritraendole
immediatamente.
«Sei
proprio matta.» Commentò ancora la recluta.
Il
dito medio e l'indice della sua mano destra ora erano arrossati e
gonfi, il sangue premeva di uscire dalla pelle lesa e per quanto
piccole alcune bollicine sull'epidermide la facevano agonizzare dal
dolore.
Questo
di sicuro lo aveva fatto per le sue compagne.
La
sua lotta infine era stata percepita come persa. Ben per quella, a lei
bastava solo una cosa.
Vide
il cancello aprirsi, solo il suo purtroppo, ma era comunque una notizia
sensazionale.
Fece
rientrare Garchomp nella Poké Ball e si diresse subito
fuori,
talvolta urtando contro i mobili andando a tentoni nel buio.
Prima
che potesse andarsene a controllare come stessero le sue care compagne,
la recluta la fermò ancora.
«Quando
ci rincontreremo, Campionessa di Sinnoh?»
Chiese,
senza muoversi. Aveva i capelli blu e l'uniforme completamente fradici,
stava in mezzo a quell'acquazzone e i suoi occhi azzurri come
lapislazzuli si vedevano ancora, la osservavano disperati.
La
giovane le sorrise, voltandosi indietro per un secondo e sistemandosi
si capelli biondi ormai disfatti e bagnati.
Corse
indietro verso la ragazzina ed incrociò quegli occhi.
Onestamente, non sapeva neppure lei cosa stesse facendo.
«Devo
andare ora. Devo andare dalle mie compagne ora.»
Disse soltanto.
Poi
le stampò un bacio leggero sulla guancia. Lo fece di getto,
non
riusciva a trovare una spiegazione logica a quel saluto così
inappropriato, così scandaloso per un personaggio del suo
rango.
D'improvviso
provò a figurarsi quanti anni potesse avere Lucinda. Non ci
volle pensare.
Intanto
le sue gambe continuavano a muoversi fuori dalla sala, alla ricerca di
un modo per ritrovare le sue quattro ragazze sane e salve, aveva
sacrificato sé stessa ma ancora non aveva ottenuto il
risultato
che sperava.
Camilla
sospirò e non osò fermarsi. Andò
avanti,
esprimendo il desiderio che Catlina, Camelia, Anemone ed Iris fossero
lì davanti ad aspettarla, che a mancare fosse solo lei.
Inevitabilmente
però ripensò a Lucinda e alle sue parole,
immaginò che fosse ancora lì.
Non
avendo il coraggio di lasciarle un ultimo sguardo si diresse fuori,
camminando a testa alta.
❁
La
luce eccessivamente potente della stanza permetteva di discernere a
occhio nudo ognuno dei singoli granelli di polvere che fluttuavano
scomposti nell'aria, rendendola asciutta, irrespirabile.
Non
era vera e propria polvere. Un miscuglio eterogeneo di ciottoli, cocci
e briciole di materiali diversi che si riversavano senza un ordine
preciso.
L'impatto
della mossa Codacciaio di Steelix contro il pavimento aveva a dir poco
distrutto il granito nero frantumandolo come una stoviglia rotta, in
cui nessun pezzo è in alcun modo riparabile.
Anche
la confusione dovuta a tale attacco cessò e per rompere quel
silenzio non sarebbe bastato il fruscio del pulviscolo caotico che
aveva la stessa intensità sonora di un sussurro.
Nella
sua mente, Jasmine pensò con il sorriso sulle
labbra "missione compiuta".
Compiuta
con un bel disastro, ma alla fine dalla sua parte non c'erano state
ingenti perdite, solo un paio di danni psicologici dovuti alle battute
acide della sua avversaria.
Alla
giovane recluta del Team Plasma salì l'adrenalina alle
stelle. O
forse era un'altra sostanza chimica a venir rilasciata nel suo corpo,
una scarica di dopamina la faceva sentire euforica.
Il
suo gesto avrebbe avuto delle conseguenze.
Sottraendo
la vita di una persona allo svolgersi del fato aveva a sua volta
eliminato conoscenze, incontri, occasioni e ricordi che altrimenti le
avrebbero causato un'esistenza pietosa.
Ma
ora non c'era pericolo: diede un occhio veloce all'ammasso di macerie
disposte sul pavimento.
Jasmine
tirò un sospiro di sollievo. Niente. Quella stupida modella
era morta, finalmente.
Se
non fosse stato così per il suo Pokémon poco
cambiava, lo
avrebbe preso con sé e ne avrebbe fatto un'aggiunta per il
Team.
Erano
mesi che le reclute di basso rango, le ragazzine degli ultimi anni
delle medie e quelle che avevano appena cominciato le superiori
solitamente, non facevano altro che racimolare esemplari scarsi,
Patrat, Rattata, Pidgey e Pidove privi del qualsivoglia potenziale per
la lotta.
Il
Neo Team Plasma non sarebbe andato a fallire per una sciocchezza del
genere.
Con
passo lento, come un automa, la giovane di Johto scese dalla testa del
suo Pokémon, posizione sopraelevata da cui aveva osservato
incolume tutta la scena, e le si avvicinò piano.
Attraversò
l'intero perimetro dell'arena di lotta, notando come poco a poco alcune
luci fossero andate in cortocircuito ed emettessero scintille dai cavi
spezzati.
Serbava
una curiosità sadica mista ad un profondo disgusto, la sua
voglia di vedere il cadavere della sua coetanea: immaginava di aver
fatto il peggio, eppure non vedeva l'ora di scoprire le conseguenze del
suo tentato omicidio.
Voleva
vedere Camelia sfigurata. La pelle priva di colore, gli occhi con le
pupille azzurre volte al cielo mentre la sclera bianca abbandonava ogni
contatto visivo con il mondo circostante, il corpo squarciato dai tagli
e il sangue incrostato, una scena da far accapponare la pelle.
In
che modo la vita di una top model viziata, meschina e ninfomane aveva
contribuito a rendere il mondo un posto migliore? A suo parere, era
servita solo a sprecare carta per stampare le sue foto, a sprecare
fiato per discutere i suoi scandali.
Quella
bellissima Capopalestra aveva lasciato solo tracce di odio dietro di
sé. I suoi fans avrebbero presto sostituita con un'idol dal
seno
più grande, la sua tragica esperienza sarebbe diventata un
modello da non imitare per tutte le ragazzine che pensano alla vita
come una vetrina da esposizione.
I
suoi ex infine, loro forse erano stati gli unici a trarre qualcosa da
quel miraggio di piacere, un qualcosa di transitorio e vuoto come il
piacere sessuale, ma pur sempre qualcosa.
Sperò
solo che Corrado si dimenticasse presto di lei, come già
aveva fatto dopo la loro rottura.
La
ragazza giaceva in posizione supina, adagiata sul lato sinistro, con la
frangia nera leggermente spettinata che le copriva gli occhi. Sembrava
una Venere dormiente, non riportava ferite esterne.
Jasmine
allora provò a tastarle con il piede la mano coperta di
smalto.
L'arto
svilito di ella si dischiuse, lasciando scivolarle dalle candide dita
una sfera Poké coperta di polvere, i segni dei polpastrelli
che
afferravano il piccolo oggetto rotondo erano ancora visibili.
Doveva
averla tenuta sotto il torso per proteggere il Pokémon
all'interno dalla frana causata dall'attacco, un atto veramente nobile
per un qualsiasi Allenatore di Pokémon.
Ma
alla brunetta non importò. Quella che aveva appena fatto
fuori era una lurida sciupamaschi.
Niente
e nessuno le avrebbe mai dato la possibilità di redimersi
nemmeno da morta.
Soprattutto
non gliel'avrebbe data lei.
Senza
esitare oltre, quella fece per prenderle la Poké Ball dalla
mano
con l'intenzione di scappare il più velocemente possibile
subito
dopo e non rimanere a guardare ulteriormente.
Non
ebbe il tempo di fare ciò, che il cadavere della famosa
modella fremette.
Una
risata femminile e nasale, prima molto flebile e poi sempre
più
aperta, distruggeva quella barriera di silenzio imbarazzante, rideva di
gusto e non riusciva a fermarsi.
Era
un suono delizioso sentire Camelia ridere. Lo era sempre.
La
recluta indietreggiò spaventata, come se avesse appena
toccato
un essere viscido, lasciando perdere l'oggetto del suo desidero. Era
davvero viva?
Sì
che lo era. Lo era e ci teneva a farlo sapere.
«...Scusa...
- fece per riprendere fiato la mora, non si capiva se stesse fingendo o
facesse sul serio - scusa, non riuscivo più a
trattenermi...»
Non
si mosse dalla sua posizione, contorse i muscoli della schiena per dar
sfogo alla risata.
I
residui di sporcizia erano evidenti sul nero dei suoi capelli,
rendendolo opaco, schiarendolo fino ad una sfumatura più
simile
al grigio antracite.
Il
suo kimono invece non aveva neppure l'aspetto di un capo di
abbigliamento: somigliava ad un insieme di stracci cuciti insieme,
cuciti male per di più, neppure la fantasia a fiori che
colorava
il tessuto giallo limone si distingueva.
«Ma
tu, tu non muori mai?!» Le urlò contro la giovane,
correndo verso di lei.
Ma
Camelia smise di ridere solo quando la ragazza fu per avventarsi su di
lei.
Che
imbecille. Non poteva richiedere l'aiuto del suo potentissimo Steelix?
Immaginò
che si trattasse del classico Pokémon al cento percento
obbediente alle mosse dettate dal suo Allenatore, quelli che vivono per
assecondarlo e vengono trattati come macchine.
Jasmine
la colse di sorpresa però: essendo ancora in piedi
bloccò
sotto la suola dei suoi stivaletti neri in dotazione con l'uniforme le
maniche dello yukata della mora.
Non
le pestò le braccia, fu fortunata, ma così lei si
trovava bloccata a terra, senza via di scampo.
Si
sarebbe dovuta preoccupare. Ma ancora, la situazione per lei era troppo
stupida.
«Lo
sai cosa mi fa ridere di tutto questo?» Le disse, sorridendo.
Si
mosse improvvisamente, con un movimento che non richiedeva
l'elasticità di un acrobata, ma il pudore che solo una
modella
di bikini scosciati poteva avere: in una manciata di secondi
ritirò le braccia lungo le maniche larghe, lottando con gli
elastici e le cuciture che le graffiavano la pelle, scostando le
spalle, riuscì a liberarsi in maniera del tutto poco
ortodossa.
Durante
le sue sfilate le concedevano anche meno tempo per spogliarsi.
«Che
quella dalla parte del torto sia tu. Non hai idea, ci godo troppo...
Credimi
Jasmine, è stato bellissimo morire con la coscienza a posto.
Peccato sia durato poco.
Meglio
questo che vivere col senso di colpa a vita per aver detto cose al
limite del ridicolo su una persona innocente, ma molto, molto
meglio!»
«Non
prendo lezioni di vita da una con mezze tette
fuori!»
Le
ribatté quella, rabbiosa come non mai.
Effettivamente
quella lotta così dinamica aveva causato qualche scompiglio
interno ed esterno.
Camelia
era riuscita a liberare le braccia prima immobilizzate estraendole
dalle maniche e facendole riemergere dal largo spacco sul torace che
aveva.
Ringraziò
di essersi messa lo yukata, con una maglia normale non ci sarebbe
riuscita.
E
comunque, non capiva le paranoie di quella ragazzina
(calcolò
che portasse più o meno la stessa taglia di Iris, dunque un
poco
le capiva), il suo seno era in piena regola. Almeno quella volta, era
perfettamente coperto e non passabile di censura.
«Perché
non ti fai gli affari tuoi? Guarda, hai tutta la gonna abbassata... Non
adatto a un pubblico di minori, direi.»
La
giovane Capopalestra non sapeva se stesse facendo ciò per
diletto o per pura curiosità.
Stava
di fatto che quella piccola smorfiosa le aveva mostrato la sua zona
più delicata senza pensarci due volte, la vedeva quando era
distesa e non se ne sarebbe scordata facilmente.
Non
aveva un piano in mente, era tutto congeniale alla pessima battuta che
aveva fatto.
Con
le braccia nude le afferrò l'orlo della gonna in pelle
sintetica, tirandola verso il basso più forte che
poté,
tenendo lo sguardo fisso sul bordo del suo bacino.
È
lì che si trovava ciò che le interessava: la
cintura con le Poké Ball.
«Sei
solo irritante, non me ne frega di cosa tu pensi
ora!»
Le
gridò contro l'altra, provando a dimenarsi per scacciarla
via da
quella distanza estremamente ravvicinata con il suo inguine.
Era
quella la reazione che desiderava, puro moralismo e puritanesimo.
Camelia
prese tutte e tre le Poké Ball, staccandole dai loro ganci
in
fretta e furia, dovendo fare i conti a sua volta con i pugni e i calci
che provenivano dalla sua avversaria ancora in piedi.
Lanciò
via lontano le altre due Poké Ball, nell'ultima che era
rimasta vuota fece rientrare Steelix.
Tenne
quella sfera sospesa in mano, con l'altra che attendeva che gliela
cedesse.
Ci
fu un attimo di tregua dopo quel marasma confusionario e artefatte sexy.
«Ho
vinto io.» Sibilò Camelia fra i denti,
evidenziando un sorriso vittorioso.
«No...
Non ho ancora finito... Tu sei una sporca gattamorta, lo so io quanto
lo sa Corrado, tu sei una...» Ma non riuscì a
terminare la
frase da quanto era esausta.
«Ho
vinto io, okay? Ora fammi uscire di qui, mi sta venendo il mal di
testa.» Insistette.
La
mora infine, mossa da una quantità industriale di pietismo
accumulatasi in quello scontro, passò la Poké
Ball alla
sua avversaria, mentre la porta del corridoio buio da cui era entrata
si illuminava, mentre tutte le lampade e i riflettori si affievolivano
per la sua uscita di scena.
Mentre
la nostra eroina camminava voltata verso l'uscita, alla solita maniera
elegante che conosciamo, non riuscì ancora a spiegarsi la
marea
di bugie che quella ragazza aveva inventato su di lei.
Erano
tutte bugie, cose non vere. Solo lei poteva confermarle.
Le
fece schifo quanto in basso una persona potesse cadere pur di reclamare
attenzione sottraendola ad altri, lei che aveva ricevuto le peggiori
attenzioni poi.
Lo
avrebbe volentieri definito un fenomeno passeggero, una moda di
internet, ma non c'era verso.
Si
sentiva più pulita a camminare a seno nudo davanti a milioni
di
persone piuttosto che inventare un finto pudore pur di spogliare gli
altri della loro dignità.
E
intanto la recluta dai capelli bruni collassò a terra, come
se
la spina dorsale non riuscisse più a reggere il peso del suo
corpo.
Erano
ormai le due e mezza di notte.
❁
Se
Alice non avesse attaccato dopo aver pronunciato la classica frase
allertante non sarebbe stata una vera antagonista. Non si
smentì: fece uscire dalla Poké Ball il suo
esemplare di
Skarmory, le cui ali platinate puntavano dritte verso l'alto.
Si
massaggiò un ematoma bluastro al centro del viso e subito
impartì un comando.
«Usa
Eterelama.» Disse con il naso tappato, più seria
che poté.
«Che
simpatica. - Mossa dalle circostanze, Anemone si permise il suo primo
accenno di sarcasmo in un discorso, sentendosi presa in giro come mai
era stata - Mi hai rubato l'unico Pokémon che avevo. Cosa
pensi
di attaccare, ti sei fatta due domande?»
La
sua perplessità era assai lecita. Quella recluta stringeva
fra
le mani la Poké Ball di Swanna, tenendola bene in evidenza
per
rinfacciarle l'averla disarmata già a inizio lotta.
Ma
la risposta giunse da sé, non serviva un maestro per dedurla.
Subito
un impetuoso movimento delle ali del Pokémon avversario
squarciò l'aria, producendo un'onda trasversale di notevole
intensità, una lama di etere, appunto.
La
ragazza esperta nel tipo Volante era cosciente della
velocità di
quell'attacco e volle evitarlo a tutti i costi, per quanto le
dispiacesse esserne il bersaglio.
«Non
posso crederci, questa mi vuole fare secca! -
pensò sconsolata - Ma cosa ho fatto di
male nella mia vita per meritarmi tutto questo...»
La
aggredirono due colpi uno di seguito all'altro, rapidi come saette e
taglienti come rasoi.
Certo,
le sarebbe bastato indietreggiare di qualche passo, ma l'audace giovane
dai capelli cremisi non poté che cogliere
l'opportunità
di dimostrare quanto fosse migliorata nel periodo che la separava dalla
lotta contro Camelia.
Inarcò
la schiena all'indietro tale e quale a un giunco mosso dal vento e con
le mani si sostenne, i muscoli delle cosce le diedero la forza
necessaria a spingersi per poi atterrare in piedi, ricomponendosi nella
posizione eretta iniziale.
Evitare
un attacco Eterelama con una leggiadra rondata, quello era il suo stile.
Il
suo piano successivo (ormai nella sua fantasia era diventata la
protagonista del suo anime, che però non era mainstream)
sarebbe
consistito nell'attaccare fisicamente la recluta almeno per riprendersi
la sua Poké Ball, visto che neppure dopo la sua epica
scazzottata quella ragazza andava al tappeto.
Schivò
veloce un'altra serie di mosse impartite con quel tono sciatto e
disinteressato.
Infine
le rivolse queste parole, guardandola dritta in faccia.
«Possiamo
andare avanti anche tutta la sera, se vuoi. Però sappi che
io avrei di meglio da fare.
Ho
una fidanzata che mi aspetta. Una top model, sottolineo.»
Era
ovvio che non volesse davvero restare lì tutta la notte a
saltare da un capo all'altro dell'arena come una cavalletta, lo aveva
detto solo per intimorirla.
«Oh
Dio, e se anche lei ha il fidanzato? -
pensò, allarmata da un'incombente scudisciata - Ho
fatto un'altra figura del cavolo.»
Alice
la fissò falsamente basita. Non credeva che quel caso umano
si
ascoltasse davvero quando parlava, ma allo stesso tempo era curiosa di
vedere quante risorse le fossero rimaste per affrontare la parte
più dolorosa della battaglia.
«E
per ora che tu avrai fatto l'ennesima capriola per evitare gli attacchi
del mio Skarmory, io ti avrò già eliminata.
Quindi mi
dispiace Cenerentola, niente principe azzurro neanche
stasera.»
«A
me non serve un principe, - riprese quella metafora - non sono
né una principessa né una damigella in pericolo.
Se non
ti dispiace, me la cavo benissimo anche da sola.»
Alice
la guardò stupita, ma quella volta dimostrava genuino
stupore,
non quell'espressione posticcia da pesce lesso che in realtà
conosce tutta la storia.
La
rossa si fermò un attimo e aspettò cauta che non
si azzardasse a tirarle contro un'altro Eterelama.
«Skarmory,
facciamola finita. Usa Ferrartigli.»
Il
Pokémon di Hoenn subito obbedì al comando e si
lanciò in planata verso il suo bersaglio, affilando gli
artigli
delle due zampe grazie all'attrito dell'aria.
La
recluta scelse un attacco di tipo fisico per entrare in contatto con la
sua preda, l'ennesimo attacco speciale sarebbe andato a vuoto di
sicuro. Voleva sbrigarsi nel suo compito inoltre.
Lei
non perse tempo e subito si preparò a crearsi una strategia
che
non fosse solo difensiva, ma anche offensiva: attese paziente senza
muoversi che Skarmory le si avvicinasse.
La
sua avversaria era ancora in errore, se pensava che lei si fosse data
per vinta.
Al
momento preciso (aveva notato che ce ne era sempre uno in ogni
occasione) saltò in alto, contraendo i forti muscoli delle
cosce, aggrappandosi con le mani agli artigli acuminati del
Pokémon. La giovane subito contrasse il viso dal dolore.
Il
piumaggio metallico caratteristico dell'uccello non le aveva aperto
solo minuscoli taglietti sulle dita, le sue braccia erano striate di
rosso come quelle di un'autolesionista, in alcuni punti la pelle
abbronzata le si sbucciava perfino: quando era piccola suo nonno
copriva i suoi piccoli malanni con cerotti morbidi di cotone,
ripetendole che peste di una bimba fosse.
Una
volta accortosi di aver mancato il bersaglio, il Pokémon
cominciò ad agitarsi, provando a scrollarsi di dosso la
zavorra
umana appesa alle sue zampe.
Anemone
tentò di non perdere la calma, ma quello continuava a salire
in
alto, sempre più in alto, la stanza aveva un soffitto
decisamente alto, fuori dalla norma.
Continuare
a penzolare non avrebbero aiutato a recuperare i suoi resti spiaccicati
neppure con un cucchiaio.
La
ragazza dai capelli rossi si fece coraggio, ne teneva sempre un po' di
riserva nelle situazioni di pericolo, per tutto simile a un supereroe
quando sfoggia la sua arma segreta.
Più
forte stringeva le dita intorno agli artigli affilati, più
le faceva male. Fece un respiro breve.
Incanalò
tutta la sua energia sulle gambe e, dandosi lo slancio con il bacino a
mo' di altalena, riuscì a salire sul dorso di Skarmory con
una
capriola molto agile, si sentiva una trapezista senza la rete sotto, il
fatto che non fosse ancora caduta lo considerava un miracolo.
Si
trovò seduta in una posizione assai scomoda in cui il suo
kimono
era completamente sollevato nella parte inferiore, rivelando insieme ai
muscoli tonici delle cosce e dei polpacci anche due natiche perfette,
sode e carnose, la pelle vibrava leggermente all'impatto con l'acciaio
duro.
«Che
sta facendo ora... - Alice osservava tutto con lo stesso scetticismo di
chi ha capito il trucco di un mago o non ha nessuna voglia di lasciarsi
impressionare - Questa ha problemi seri...»
Non
era panico quello che la rossa provava, le veniva imposto dal suo
cervello di agire razionalmente seguendo il suo schema, però
quel bestione si muoveva a tale velocità da riuscire a farle
sentire l'aria fischiare nelle sue orecchie.
Dopo
essersi domandata da sola "okay, ora che si fa?" almeno dieci volte in
un minuto, provò ad andare d'istinto, dopotutto fidarsi del
suo
senso dell'intuito le aveva sempre portato fortuna.
Si
avvicinò con non poca difficoltà alla testa
affusolata,
la fisica le era nemica in quell'impresa dato che la direzione verso
cui lei puntava era quasi perpendicolare a quella verso cui si dirigeva
a bordo di quel Pokémon Uccello e i due vettori si sommavano
un
una serie di prove ed errori, tuttavia anche solo uno degli ultimi le
sarebbe stato fatale.
Senza
pensarci due volte, gli coprì gli occhi con le mani.
Una
mossa semplice, ma altrettanto efficace.
«Ecco,
adesso si ammazza.» Commentò senza trepidazione la
ragazza a terra.
Il
volatile lanciò un lungo e disperato stridio, manifestando
la
paura latente sotto quella dura corazza d'acciaio, nonostante
ciò non riuscì a sollevare alcuna preoccupazione
nella
sua Allenatrice.
Non
importa quanto esso si dimenasse pur di scrollarsi di dosso la causa
del suo accecamento, a provare un minimo dispiacere per quell'atto di
maltrattamento era la rossa.
Ma
non aveva altra scelta. La guerra di suo porta sempre gli innocenti in
mezzo al conflitto.
Anemone
cercava di non spostare le mani dagli occhi di Skarmory mentre
contemporaneamente doveva aggrapparsi alle schegge di metallo acuminate
per non precipitare a terra, contando ogni secondo qualche graffio
bianco che risaltava sulla pelle abbronzata.
Come
una domatrice che cerca di non cadere dal dorso di un cavallo
imbizzarrito, il suo numero circense non doveva servir solo a portare
divertimento per la sua avversaria spettatrice, poteva giurarci che
stesse contando i secondi prima che lei venisse sbalzata via.
Ebbe
un'altra idea, in una situazione normale non l'avrebbe mai definita
frutto della sua mente.
Incitò
il Pokémon a planare spostandogli il muso verso il basso.
D'istinto
Skarmory interpretò quello stimolo come ancora di salvezza e
prese a scendere in velocità, sempre più veloce
fendeva
l'aria col suo corpo aerodinamico, costringendo la sua pilota a
chiudere gli occhi e tenersi con tutte le forze.
«Va
per il suicidio? - Alice si pose un'altra domanda all'apparenza
retorica - Va per il suicidio...»
Quell'istante
di forte tensione fu l'ultimo che le due ragazze poterono ricollegare:
pochi istanti dopo, davvero impercettibili, nessuna riusciva ad
intravedere neppure il volto dell'altra.
Erano
entrambe a terra.
Sia
quella che vi si era scagliata contro di sua volontà, sia
quella che già vi era.
La
recluta del Neo Team Plasma non poté considerare sana quella
strategia da kamikaze; la rossa aveva per davvero diretto il suo stesso
Pokémon contro di lei per colpirla?
Più
di questo però, odiava il fatto che il suo tentato suicidio
avesse funzionato ed ora il suo Skarmory era bello che andato.
«...sei
morta?» Sentì domandare.
Erano
ancora sul ring, i tre corpi stremati giacevano su una conca profonda
procurata dall'impatto.
Anemone
si sedette distendendo le gambe, sbattendo un paio di volte le palpebre.
Si
guardò i palmi delle mani, i gomiti, le ginocchia e le
caviglie,
scorticati secondo un disegno astratto di diverse sfumature di
carminio, nei punti in cui non era ferita c'erano macchie di contusioni
ben visibili.
Diede
un'occhiata in giro e giunse allo stesso risultato analitico della sua
avversaria.
«No,
per tua sfortuna.» Non seppe dirsi né contenta
né dispiaciuta nel ricevere tal notizia.
Alice
ritirò il suo Pokémon nella sua sfera. Non
c'erano
problemi per lei, il Sangue del Drago non le aveva fatto percepire il
minimo dolore, era come se le fosse arrivato un cuscino addosso invece
di una bestia da chissà quanti chili.
O
almeno, in teoria.
Rivolse
uno sguardo omicida alla rossa: era veramente decisa a farla finita.
Afferrò
una scaglia tagliente come una mannaia lasciata cadere dal suo
Pokémon.
Avrebbe
puntato alla gola. Non voleva dimostrare alla scientifica che aveva
perso il suo tempo a sviscerare un individuo tanto patetico.
Anemone
colse l'intento assassino e si spaventò. Non aveva
di che difendersi ora.
La
sua avversaria le sembrava invincibile, mentre lei ancora faticava a
riprendersi dalla caduta.
Si
alzò in piedi, come un poveraccio sorpreso a rubare di
nascosto,
scappò via ed inevitabilmente si trovò bloccata
dall'altra parte del ring.
Vedeva
la punta acuminata scintillare: respirò affannosamente,
stringendo gli occhi per la paura.
Ma
la recluta non accennava a raggiungerla. Non si muoveva
neppure.
In
verità non l'aveva ancora uccisa perché non
poteva proprio alzarsi.
Così
vi fu un breve silenzio, in cui la rossa la fissava confusa, mentre
questa non comprendeva come mai si trovasse ad avere tale
difficoltà motoria pur non avendo percepito nulla.
E,
come da copione, Alice scoprì sulle sue macerate ossa quanto
quell'elisir dell'invincibilità non fosse stato altro che
una
gigantesca, enorme, grandissima fregatura.
«...Mi
ha spaccato le gambe! Brutta idiota, che hai fatto, mi hai spaccato le
gambe!»
Gridò
quasi in lacrime. Provò a rimettersi in posizione eretta, ma
sebbene non sentisse alcun dolore, le sue gambe non potevano obbedire,
le ossa fratturate non le permettevano di sostenere il suo stesso peso.
Intanto
la rossa aveva raccolto la Poké Ball del suo Swanna
sfuggitale dalle mani.
Sarebbe
scoppiata a piangere per l'umiliazione, non si trattava solo del
fallimento di una dannata missione, il suo orgoglio ferreo si era
andato ad incrinare e poi spezzare come il ramo di un albero fracassato
dal temporale.
Ora
capiva la sete di vendetta dei cattivi dei film e dei fumetti, non era
questione di successo, era tutto schiavismo dettato dalla sua superbia,
la sua giovane età le aveva davvero dimostrato l'esistenza
del
karma, della provvidenza divina, della vendetta storica.
«Ah...
Ops, scusa...»
Dulcis
in fundo, Anemone le rispose con una dabbenaggine che solo lei era in
grado di dimostrare.
Poi
la vide voltarsi e uscire di corsa, probabilmente sarebbe andata dalla
sua "fidanzata" a raccontarle tutto e a ridere di lei, come chiunque
avrebbe fatto.
Non
conosceva abbastanza a fondo Anemone, per sapere che non lo avrebbe mai
fatto.
❁
Una
barriera sferica invisibile ed impenetrabile circondò
un'area
ristretta intorno alla giovane allenatrice, ella si godeva il prodigio
delle sfere scure che si smaterializzavano al contatto con la
superficie proprio come le bolle di sapone quando scoppiano.
Peccato
che la mossa Protezione funzionasse solo per un limitato periodo di
tempo.
Invece
di perdere la calma o di manifestare sconforto, Catlina dispose di
racimolare istanti per escogitare una continuazione al suo precedente
piano, anche se, per via della fatica e del sonno incombente, non era
più in condizione di temporeggiare.
Il
cielo notturno fedelmente riprodotto sopra la sua testa e quella di
Sabrina non aveva mai smesso di vorticare lento, le stelle ben visibili
scorrevano come in un fiume d'acqua blu cobalto atto a lavare la
distesa buia del soffitto: un'atmosfera onirica avvolgeva quel luogo.
Prima
che nella sua mente confusa potesse affiorare il nome di una qualche
costellazione si trovò a pregare che l'utilizzo prolungato
della
mossa difensiva per eccellenza non decidesse di fallire proprio in quel
momento.
Non
avrebbe accettato quella presa in giro da parte del fato.
Dette
uno sguardo ai fugaci movimenti dell'avversaria, così
lontana da
lei, agli antipodi della stanza: neppure lei pronunciava ad alta voce i
comandi per il suo Pokémon, forse era una cosa che tutti gli
allenatori esperti del Tipo Psico facevano e lei non aveva alcun
diritto di sentirsi unica per quello.
Sapeva
che l'Alakazam della recluta puntava a lei, l'organizzazione del Team
Plasma si era riappropriata della tecnica della battaglia violenta per
sottomettere l'Allenatore al posto del Pokémon, dunque
quella
strana ragazza non l'avrebbe lasciata in pace finché non
l'avrebbe vista al tappeto.
Era
strano: pochi minuti prima parlava di principi morali, di
etica.
Come
questi concetti potessero sposarsi con i piani di dittatoriale abuso
del potere le era oscuro, a suo parere non esistevano filosofi che
avessero incluso nei loro insegnamenti tale incoerenza di pensiero,
né fra i primi pensatori greci, indaffarati alla ricerca
dell'archè, né i monaci chiusi nei conventi ad
analizzare
i cardini della fede, non trovava esponenti di quella teoria neanche
fra gli illuministi e gli psicanalisti di fine novecento.
Le
pesava di non poter afferrare l'apparente profondità di quel
messaggio. La biondina di Sinnoh aveva ricevuto un'educazione
costosissima ma che le era praticamente scivolata addosso, o lei era
una sempliciotta capace solo di ripetere a memoria le declinazioni in
latino, o per davvero la filosofia del Team Plasma non aveva senso.
Camilla
invece... Camilla sapeva un sacco di cose, puntualizzò nella
foga.
Quando
Nardo poneva loro delle domande sull'andamento delle loro tre compagne
più giovani era sempre la leader quella che rispondeva per
prima, mentre lei stava a fissarla come se un macigno le bloccasse la
lingua.
Poi
la Campionessa leggeva, leggeva sempre. Ogni tanto le veniva la balzana
idea di cominciare una conversazione con lei, ma la trovava sempre con
in mano un tablet dallo schermo graffiato o il suo cellulare
indistruttibile, allora si allontanava piano, per paura di causarle
fastidio.
Chissà
quante nozioni doveva aver appreso nel corso di dieci anni o
più, si domandò.
Sapeva
il Pokédex di Sinnoh e quello di Unima a memoria, mediante
contorti trucchetti aritmetici ricordava il numero esatto dei danni
inflitti da una mossa e in determinate occasioni si trovava perfino a
correggerla con il suo tono gentile e disponibile.
Per
quanto innocuo tutto ciò fosse, Catlina non poteva evitare
di
sentirsi a disagio nel ricevere quel tipo di attenzioni.
Era
una cosa insensata da dire o pensare per una che si era posta come
proposito per quell'estate il voler dimostrarsi più adulta e
matura.
La
ragazza si sentiva esposta in maniera eccessiva, avere la pelle di
carta velina amplificava il minimo sfioramento e la sola condivisione
di una stanza con Camilla la rendeva nervosa.
D'altra
parte vi erano momenti in cui la vicinanza con la suddetta le aveva
provocato invece un leggero solletico al cuore, non avrebbe mai
immaginato di rimembrare l'episodio dell'onsen con il sorriso sulle
labbra.
La
ragazza infine ammise a sé stessa di non aver mai provato
quel sentimento prima d'ora.
Era
qualcosa di più di un banale complesso di
inferiorità,
lei e la sua amica d'infanzia avevano condiviso talmente tante
esperienza da aver abbattuto del tutto ogni genere di sciocco orgoglio.
Erano
anni che le due non avevano nulla da dimostrarsi.
E
se c'era una cosa, uno scudo che per Catlina era indispensabile per
affrontare il mondo esterno era il suo scudo d'orgoglio e il velo di
paranoica introversione che la copriva da capo a piedi.
Come
Camilla avesse fatto breccia attraverso di esso... Non sapeva
spiegarselo.
Ancora
una volta, la biondina si vergognò di quei pensieri, non si
sarebbe azzardata a confessare di essersi concessa un volo pindarico
del genere nel bel mezzo di una lotta, e non una lotta qualsiasi.
Strinse
gli occhi che le lacrimavano nelle palpebre, di fronte a lei vi era un
marasma umidiccio che distorceva ciò che vedeva come in un
caleidoscopio e contribuiva a farle venire mal di testa.
Ma
quel suo delirio non scomparve appena lei dischiuse le palpebre.
Non
riconosceva più neppure l'ambiente della sua stanza. Le
stelle se ne erano andare.
Le
colonne ioniche se ne erano andate. Perfino la pietra d'Istria su cui
posava i piedi.
Macchie
indistinte e sfocate avevano preso il posto dei colori, l'aria si era
fatta dolciastra.
La
ragazza tentennò nel mezzo di quella confusione.
«Che
pensieri carini... Adesso siete pure diventata le- intendevo dire,
omosessuale?»
Dunque
era vero che la Capopalestra di Zafferanopoli leggeva nel pensiero.
Intanto
la nostra eroina esitò, inferma nei propositi. Non doveva
per forza rispondere.
«Deve
essere lei allora. Starà usando qualche mossa che altera la
dimensione dello spazio, come Distortozona...»
Rifletté,
prima di venire interrotta.
«Che
piccola presuntuosa. - Commentò la recluta da lontano - Mi
avete
già accusata dei vostri malesseri quella sera al
casinò,
non siete molto sincera con voi stessa.
Guardate,
vi tremano le mani... Non avete affatto una buona cera.
Deve
essere proprio brutto, insieme con tutti i mali che vi affliggono,
soffrire anche di crisi epilettiche! Siete proprio una ragazza
sfortunata.»
Catlina
non riuscì a sentire le ultime parole della frase che il
suono
affannoso del suo respiro si arrampicava disperatamente per uscirle
dalla gola e le aveva alzato la pressione.
Negli
ultimi anni non le era mai capitato di avere due attacchi
così
vicini nel tempo e, vista la natura della situazione, trovò
inutile ribadire a se stessa di doversi imbottire di farmaci.
Ormai
la schiena le faceva già male, le pareva che i tessuti
muscolari le si stessero strappando.
«Non
farti prendere dal panico, Catlina Yamaguchi, non farti prendere dal
panico che fai solo peggio...» Si
ripeteva in testa, incurante del fatto che la sua avversaria la stesse
ascoltando.
«Reuniclus
usa...» Le richiese grande sforzo gridare il comando e questo
suo
primissimo tentativo fu comunque inutile.
Usando
un attacco di tipo fisico Alakazam aveva sbattuto il povero
Pokémon Cellula contro la parete di marmo, scavando un solco
profondo qualche centimetro, mentre il verso straziato di esso
riecheggiava nella stanza.
Ora
la giovane senz'anima era letteralmente spacciata.
Poiché
perfino l'aria sembrava schiacciarla, lei si accasciò a
terra,
reggendosi sulla mani e sulle ginocchia, sentendo di essersi procurata
un nuovo paia di ematomi su ognuno dei due. Ora il suo intero corpo
fremeva visibilmente, come scosso da presenze demoniache.
Chiuse
gli occhi. Non pensò a nulla, volle concentrarsi solo
sull'oscurità che la sottraeva dalla visione della sua
dolorosissima fine.
Senza
dar l'impressione di star traendo alcun piacere sadico dai suoi gesti,
Sabrina si avvicinò alla fanciulla morente e la
squadrò
da capo a piedi.
Fece
poi un cenno con la mano al suo Alakazam, il quale ne
sollevò il
corpo di almeno un metro da terra, come il boia che in un esecuzione
pubblica mostra alla folla assetata di sangue il corpo dello sventurato
nobile di turno che andava a finire sul patibolo su richiesta del
popolo.
Notò
che la signorina Yamaguchi era svenuta per la paura. Sorrise
leggermente.
Poi
attuò il suo vero piano: far soffrire la ragazza, riuscire a
cavarle di bocca almeno un grido, non permetterle di mantenere intatto
il suo prestigio fittizio fino all'ultimo.
Così
fece segno al suo Pokémon di utilizzare Psichico, la mossa
manipolatrice per eccellenza, e di romperle il collo.
Un
crepito improvviso precedette la torsione involontaria, le vertebre
dorsali scricchiolarono quali gusci di noce rotti, la vittima di tali
abusi emise un gemito impercettibile per il dolore.
Ciò
la svegliò e la tramortì, il suo sguardo fu
diretto prima
verso l'alto e poi verso sinistra in un ampia circonduzione non fluida,
del tutto innaturale.
Le
ossa si erano bloccate in uno strano e complicato incastro che il
più piccolo dei movimenti avrebbe potuto trasformare in una
frattura disastrosa. La bionda non si mosse.
Però
i muscoli del collo e dell'addome le facevano un male tremendo, non
poteva più sopportarlo già dopo i primi istanti;
se le
era lecito, non avrebbe aspettato di farsi uccidere lentamente,
soffrendo da sola.
O
peggio, sopravvivere a quell'incubo.
«...S-Spezzami
la spina dorsale... - la flebile voce si era già rotta in un
mugolio straziato - t-ti prego, fallo...»
Inspirò
con forza attraverso i denti stretti. Era la fine. Rilassò i
muscoli del volto e si pulì la coscienza in extremis, per
guadagnarsi almeno il purgatorio.
«Neanche
per sogno, signorina.»
Sabrina
abbassò in modo brusco il braccio verso il basso, la scorse
mentre si voltava allontanandosi insieme al suo Pokémon con
un
aria per nulla turbata dall'omicidio in piena regola che aveva
commesso. I suoi tacchi alti si avviavano verso l'uscita, trascinando
la sagoma nera che li accompagnava con loro.
Catlina
dilatò gli occhi verde acqua, nel disperato tentativo di
mettere
a fuoco il fotogramma che precedeva la sua dipartita dal mondo dei
vivi, ma già non riusciva più a distinguere i
contorni,
poi solo grosse macchie dense le gravitavano di fronte al volto: ne
riconobbe una verdastra e amorfa, doveva essere il suo Reuniclus; gli
rivolse un sorriso brevissimo, per non farlo piangere.
Era
distesa di schiena sul marmo freddo, tenendo le braccia attaccate al
corpo tremante.
Non
sapeva dirsi se il morire da sola fosse un ultimo favore concessole da
Dio o la più triste delle miserie che le erano capitate
nella
sua breve e tormentata vita.
E
sotto quel cielo stellato, i lunghi capelli biondi della ragazza si
tinsero di un rosso cremisi, che presto arrivò a colorire
anche
la pelle del viso, bianca come il velo di una vergine.
❁
«Beartic,
usa Purogelo.»
Una
frazione infinitesimale di tempo divise il rimbombo del nome della
mossa fatale dalla violenta e brusca dispersione nell'ambiente di una
coltre bianca di ghiaccio, essa si propagava attraverso il pavimento e
le pareti, ma il freddo era addirittura tangibile nell'aria.
Come
investita da un'onda tsunami, la ragazzina non poté far
nulla per proteggere se stessa.
Finì
sbattuta per terra, la neve le graffiava la pelle e la sentiva
infilarsi negli anfratti del suo vestiario tutt'altro che invernale,
rotolò rasentando la terra e a fermarla riuscì
solo un
impatto sgradevolissimo con il fusto di una colonna.
Iris
non aveva neppure chiuso gli occhi: la spaventava troppo l'idea di
perdere i sensi e di risvegliarsi in qualche pericolosa situazione,
oppure di perdere i sensi e non risvegliarsi più;
attualmente si
trovava lontana una decina di metri dalla sua avversaria e questo le
portò un minimo sollievo.
Questa
aveva appena usato Purogelo, una di quelle mosse che, come Abisso e
Ghigliottina, garantiva una vincita sicura qualora andasse a segno,
cosa molto difficile.
A
scuola farcivano la testa dei bambini ripetendo loro che per questa
infame caratteristica sono proibite nei tornei ufficiali, che tanto ad
un bravo Allenatore non sarebbero servite, visto che la
probabilità di fallimenti era assai elevata, vista la scarsa
precisione.
Alla
giovane balenò subito in testa il giorno in cui Camilla e
lei
facevano pratica nel colpire i bersagli e di come perfino la
Campionessa non potesse fare a meno di mancarli.
Georgia
era una ragazza dotata di mille qualità, ci mancava solo che
fosse anche esperta nelle lotte: ma a cosa serviva tutto ciò
se
alla fine il suo genio era maligno e depravato?
Prima
cosa, Dragonite era ricoperto da una farinosa brina candida, adagiato
sul terreno come un cucciolo assonnato qualche metro lontano dalla sua
allenatrice. Era esausto.
Iris
prima di notarlo lì dov'era aveva invano sperato che si
fosse
dato alla fuga nel cielo buio, che si fosse messo in salvo volando via
con le sue piccole e tozze ali.
Ogni
attacco glaciale è micidiale per i Pokémon Drago.
Ed
anche la ragazzina dai capelli viola ne rimase quasi sopraffatta.
Si
alzò in piedi dovendosi appoggiare; non sentiva
più le
dita nelle scarpe zuppe di acqua, le facevano perfino male se si
azzardava a muovere un passo.
La
sua cute abbronzata, abituata al caldo sole che irradiava la regione in
quei mesi, ora si era rattrappita a contatto con lo yukata dal tessuto
irrigidito, aveva la pelle d'oca in ogni centimetro del corpo e le
stava causando perfino un forte dolore allo stomaco.
Richiamò
Dragonite nella Poké Ball e poi si rivolse alla recluta dai
capelli magenta.
«G-Georgia...
Ascoltami, non dobbiamo per forza combattere...»
Mentre
lo faceva tremava, batteva i denti, era la sua spiccata
sensibilità al freddo a congelarla nei movimenti.
Tentò
di avvicinarsi a lei nel timore che non riuscisse a sentirla, ma non
poté evitare di scivolare sulla pietra levigata coperta da
uno
spesso strato di ghiaccio, cadendo rovinosamente.
Eluse
del tutto lo sguardo della sua coetanea, i cui occhi le ricordavano
solo dal colore quanto tutto ciò avesse avuto luogo per una
ragione precisa.
Georgia
sospirò e si portò più vicina senza
alcun impaccio, con la scioltezza di un ninja.
«Fai
proprio schifo, non è divertente lottare con te.»
Iris
per tutta risposta le ripeté la stessa frase con una vocina
acuta in segno di sprezzo.
Poi
le rivolse queste parole, annebbiando l'aria di fronte alla sua bocca
con la condensa.
«Come
fai a divertirti così? L-La regione di Unima, vuoi che cada
di
nuovo nelle mani del Team Plasma... T-Tu, tu hai qualche problema...
Fraxure, vieni fuori!»
Si
dice che ai matti, agli psicopatici bisogna dare sempre ragione, non
svegliare i sonnambuli e a chi delira non va mai spiegato nulla. In
quel caso però, Iris non si permise di star ferma.
«Vuoi
farmi fuori con quello sputo di Pokémon?»
Rimarcò Georgia.
«Fraxure,
Cannonflash.» Ordinò lei a denti stretti,
impassibile davanti a quella provocazione.
«Intercettalo
con Slavina, Beartic. Poi attacca con Frana.» Si
sistemò il cappello nero.
I
due Pokémon si stavano scontrando e le due fanciulle si
trovavano nello stesso campo di guerra figurato di Greci e Persiani
alle Termopili, dei Romani contro i barbari sul confine, come
Giapponesi e Portoghesi al porto di Kanazawa.
Due
eserciti schierati, ognuno con il suo bagaglio di ideali, fortezze e
debolezze personali, nessuno dei due disposto a lasciar cedere tali
valori per sostituirli con altri, di stirpe empia.
«Fraxure,
schiva la frana e poniti davanti a Beartic! - Iris riprese il contatto
visivo con la leader delle reclute - Anche se ci uccidete tutte, appena
sarà giorno potete dire ciao ciao al vostro piano
malefico...»
«E
perché dovremmo? - Georgia non si scomodò
nell'emulare lo
stesso pathos - La popolazione di Unima è abbastanza stupida
da
credere che tu ti ci sia buttata da sola contro il Neo Team Plasma.
Qui
tutti credono a quello che leggono sui giornali e vedono in tv,
possiamo dire quello che vogliamo e fare quello che vogliamo, abbiamo
il controllo su ogni aspetto sociale della regione.»
«Peccato
che questa sia anche la tua regione!» Ribatté.
Fraxure
colpì con forza il muso del Pokémon orso,
costringendolo
a torcere la mascella e indietreggiare. La zanna affilata del drago era
una specie di prolungamento del braccio di Iris, se solo avesse potuto
colpire la leader di quel team di squilibrati.
Non
le avevano insegnato niente i libri di storia, quanta strada avesse
fatto Unima per guadagnarsi la sua indipendenza? Non l'avrebbe lasciata
parlare così male della sua regione.
«Beartic,
usa Scagliagelo e finiamola qua. Mi sono rotta di sentire questa
bambina parlare come se avesse vent'anni. - Georgia incrociò
le
braccia sotto il petto, rivolgendole uno sguardo malevolo da qualsiasi
lato lo si guardasse - Ti fanno questo effetto le tue amichette
lesbiche?
Ti
fanno sentire così importante?
Che
carine, una più stupida dell'altra, e tu sei quella
più
stupida di tutte perché creperai per prima!»
«Davvero,
davvero vuoi tutto questo? - Fece una pausa. La fissò,
dritta
negli occhi - ...Andando avanti così rimarrai per sempre
sola.»
La
ragazzina dagli occhi color nocciola cercò di allontanarsi
subito, stava scappando da dei proiettili vaganti in mezzo alla neve,
un vero scenario dal fronte durante la guerra mondiale, ci mancava solo
che oltre a prendersela con lei quella pazza in nero volesse far del
male pure al suo neo-evoluto Fraxure, prendendo di mezzo pure la
creatura più innocente su quel campo di lotta.
Le
fece uno strano effetto scoprire che la voce di Georgia, quando quella
rivelava i suoi veri colori, riusciva a superare in acutezza anche la
sua. Quando erano uscite insieme aveva un tono basso e suadente, anche
quando cantava era così.
Le
fece male ripensarci, mentre apriva le braccia per proteggere il suo
Pokémon usando come scudo il suo gracile corpo
già
indebolito dal gelo.
Il
ghiaccio tintinnava ogni qualvolta colpiva le pareti lastricate e le
incisioni rudimentali sui muri, i luoghi di appostamento per difendersi
dalle schegge appuntite erano talmente pochi da potersi contare sulla
punta delle dita.
Si
chinò a terra sperando di uscirne indenne pure quella volta.
Aspettò immobile, per paura che perfino il minimo
spostamento
d'aria, anche se avesse solo respirato, una grossa stalattite le
avrebbe trapassato la cassa toracica, bucandole il cuore da dietro.
Ma
non poteva affatto concepire un cuore più spezzato del suo
in quel momento.
«Ma
che hai stasera?! - Quella voce intensa fece di nuovo breccia nelle sue
orecchie, la recluta alfa si stava riferendo al suo Pokémon
-
Non ne becchi una, e io mi sto cominciando a...»
Georgia
si interruppe. Iris poté intuire che i suoi occhi freddi
avessero ingaggiato una gara di sguardi coi suoi, si rialzò
e si
rimise in posizione eretta.
Tuttavia,
i suoi occhi erano l'unico punto in cui non riusciva a concentrare lo
sguardo.
Come
a riprendere il tutto con una cinepresa fece una carrellata lenta e
meticolosa sul torace, ancora coperto dal top nero aderente: andare al
di sotto le fece storcere il naso in maniera abbastanza visibile.
«Oh?!
Che cosa guardi?!» La riprese la giovane, irritata.
Senza
neppure starla a sentire, Iris strinse ancora di più il suo
Pokémon al suo grembo, finendo per graffiarsi gli avambracci
sulle scaglie ruvide.
Fece
un piccolo passo indietro.
«Beartic,
- non potendo comprendere quello strano comportamento, Georgia
alzò ancora di più il volume - falla
fuori.
Falla
fuori, ora!»
Neppure
il Pokémon di tipo Ghiaccio si mosse. Sembrava che il tempo
si
fosse arrestato per permetterle di osservare, di osservarsi per la
precisione, e capire cosa le fosse successo.
«Georgia...»
Disse piano, affannosamente.
Iris
si mise la mano davanti agli occhi e si voltò schifata, non
reggeva più quella vista terrificante: era abituata a
guardare
film horror insieme a Velia ogni tanto, non si spaventava
più
ormai, sapeva che era tutto finto.
In
quel momento però si sentiva perfino l'odore, era orrendo.
Infine
deglutì con forza, sentiva un conato di vomito risalirle
l'esofago per il ribrezzo.
Le
puntò contro l'indice con fare recidivo, in direzione
discendente.
A
quel punto la ragazza dai capelli fucsia abbassò gli
occhi.
Iris
la vide portarsi le mani alla bocca, mentre cercava di soffocare un
urlo degno di un quadro espressionista, balzò perfino
indietro,
come a volersi scindere da quel corpo che la spaventava così
tanto.
La
neve bianca sotto le sue scarpe si era colorata di un vermiglio acceso,
ancora caldo le scorreva lungo le gambe bianche solcandole con vene
diramate in mille piccoli capillari rossi.
La
gonna era fradicia e l'intensità di quel color rubino
aumentava
man mano che il flusso diventava più fitto, come il fiume
Flegetonte.
Una
stalattite grossa quanto una lancia e appuntita quanto un pugnale aveva
trafitto in pieno la pancia della giovane leader e si stava sciogliendo
piano piano dentro le sue interiora.
Il
sangue dunque diventava sempre più liquido e viscoso,
grondava
fitto lungo il tronco della ragazza fino a rapprimersi sulle sue
scarpe, incapaci di muoversi ulteriormente.
Sembrava
per davvero una punizione divina, mentre Georgia emetteva gemiti
raccapriccianti che non riuscivano ad attraversarle le labbra per lo
shock.
Subito
la ragazzina si chiese per quale ragione ella non si fosse neppure
accorta di una ferita di tali dimensioni, ma ancora ignota le era la
ragione per cui il dolore del tutto non le avesse dato il minimo
sospetto.
Il
Sangue del Drago era diventato sangue umano quella notte.
Quando
quella si toccò con le mani e le vide tinte di rosso come
quelle
di un assassino, Iris provò a parlarle mettendoci tutta la
risoluzione e il coraggio rimastole: c'era ancora una
possibilità di salvarla.
«C-Calma,
okay? P-Posso avvisare la mia leader, n-non ti farà niente,
tranquilla, e chiamiamo un'ambulanza, ti giuro, non devi
preoccuparti...»
«Vattene!
- le gridò, esasperata - Vattene,
idiota!»
E
non riuscì ad portare a termine il discorso.
Il
suo Beartic cominciò ad attaccare alla rinfusa, condividendo
lo
stato di trauma della sua allenatrice: alla giovane non rimase altra
scelta che la fuga, ora che ne aveva la possibilità.
Ma
indugiò un attimo. Lasciare una ragazza mezza morta in preda
ad
una crisi non rientrava nel suo prezioso codice etico.
Però
non ebbe scelta.
La
lasciò, correndo verso l'uscita, sperando di poter tornare a
riveder le stelle dopo quell'inferno.
Urlava,
agonizzante per la disperazione, stava invocando un qualcuno per
salvarla, un qualcuno che non sarebbe mai giunto. Georgia ora poteva
tastare sui suoi polpastrelli il sangue, si passò le mani
sul
volto per asciugarsi lacrime miste a sudore acido ed
imbrattò
anche i capelli, le guance.
«Se
vai avanti così - riecheggiò
questo pensiero nella sua mente - rimarrai per
sempre sola.»
Alzò
gli occhi al cielo, l'ultima persona che le avrebbe dimostrato
compassione per il suo intestino squartato e per l'insuccesso della
missione sarebbe stato Ghecis Harmonia.
❁
Nell'androne
principale della Lega cinque sagome si ricongiunsero meste, sembravano
gusci vuoti animati solo dalla consolazione di essersi riconosciute
nonostante il loro aspetto falsato.
Almeno
erano tutte e cinque, all'appello però mancava qualcosa.
Nessuno
ritorna indenne dalle battaglie: chi senza un occhio, chi con una gamba
in meno, chi con una delusione in più, chi senza un pezzo di
anima.
Iris
rabbrividì, nonostante l'ambiente ghiacciato ormai lo avesse
lasciato alle sue spalle continuava a sentire freddo, anche in piena
estate la sensazione di congelare la perseguitava.
Camminava
tenendo le caviglie rigide, per paura di spezzarsi i geloni.
Ora
lo scuro mantello della notte era squarciato da numerosi bagliori, luci
artificiali bianche, rosse e blu, poi un brusio insopportabile si
mescolava alle mille impressioni che si stavano imponendo nella sua
memoria, lasciando tabula rasa degli attimi precedenti.
Un
sacco di persone la continuavano a toccare, a girarle la testa e la
costringevano a guardarli negli occhi e le facevano domande e
pretendevano che lei rispondesse.
Avrebbe
voluto chiedere a Camilla cosa fare, ma era voltata altrove.
Dopo
poco la raggiunsero anche le sue compagne Capopalestra, vicine l'una
all'altra.
Un'ambulanza,
la riconobbe in lontananza mentre qualcuno le chiedeva insistentemente
dove fossero i suoi Pokémon e in che condizioni si
trovavano, la
ragazzina glieli cedette alla svelta pur di racimolare un ulteriore
squarcio di cosa stesse succedendo in realtà.
Si
aggrappò al suo yukata sporco e bagnato, tirando
sù col naso e dilatando le pupille.
«Oddio,
Catlina...» Mormorò sconvolta.
Lei
credeva di aver toccato il fondo affrontando da sola la leader del Neo
Team Plasma, la recluta prediletta dal capo, l'amica pericolosa esente
però da ogni suo sospetto.
Quella
fu la prova schiacciante che a tutto c'è un peggio, una sua
compagna, con cui condivideva lo stesso tetto da un mese ormai era
finita in ospedale per colpa di chissà chi: le si
gelò il
sangue.
E
a proposito di sangue, quella visione spaventosa, di una ragazza
ricoperta di esso da testa a piedi, quella la aspettava nei suoi incubi
peggiori, ogni notte d'ora in poi.
Ancora
traumatizzata da quell'esperienza tremenda, non proferì
parola
lungo il tragitto verso casa di Nardo, non che le sue compagne fecero
diversamente. Lo vedeva dai loro volti che di sicuro avevano tutte
qualcosa da raccontarsi e nessuna sperava davvero di dover stare a
sentire.
Quando
l'alba sarebbe giunta ed il sole sarebbe sorto, tutta la regione di
Unima avrebbe dovuto ascoltare controvoglia una storia di violenza, di
inganno e di tradimento.
Addirittura
i draghi guardiani avrebbero preferito giacere quiescenti nelle
profondità della terra piuttosto che udire di una nuova
minaccia
alla salvezza della loro terra, il ritorno inaspettato del Neo Team
Plasma, più forte di due anni prima, più spietato
che mai.
❁
Behind
the Summery Scenery #16
1.
Grazie innanzitutto per aver votato Catlina per farla inserire nella
lista dei personaggi! Siete fantastici, non so come ringraziarvi. Anzi,
lo so, perché oggi non vi fate un 2x1 e vi leggete anche il
prossimo capitolo?
2.
Il titolo è una citazione di Alessandro Magno, che
pronunciò poco prima di morire ferito da una freccia in
battaglia. Povero Ale.
3.
E povere antagoniste! Io di norma non sono un'appassionata della
violenza e del gore (tranne quando c'è di mezzo la mia prof
di
matematica) e infatti mi sento di aver esagerato... Ammiro la freddezza
degli scrittori horror.
Ora
vi sfido ad aspettarvi che le 5 cattivone siano morte, dopo i sensi di
colpa che mi sono venuti.
4.
Ma quanto adoro Alice e Jasmine che interagiscono così, lol.
Scommetto che se avessi scelto degli OC da mettere nel Neo Team Plasma
avrebbe fatto schifo. Invece così è tutto
più un
mindfuck.
Sì,
questa storia è un unico grande mindfuck.
5. Per i miei capitoli 15-16 mi sono l a r g a m e n t e ispirata agli
episodi 5-6 dell'anime Senran Kagura Skirting Shadows. Infatti Iris vs
Georgia èun po' come Asuka vs Homura: la prima le prende per
tutto i match, ma non va a tappeto, l'altra la chiama indegna del
titolo che andrebbe a ottenere e la buona le ricorda che il potere
dell'ammicizzia e della vagina tm sconfiggerà il male. Un
giorno. Si spera.
|
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Capitolo 17 *** Inseguitrice di sogni senza speranze ***
ESGOTH 3
❁
A story
by: Momo
Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing: 🍦
Seguiteci
su instagram: @esg_ offical_ ig
Early
Summer Girls
❁
Capitolo
17
Inseguitrice
di sogni senza speranze
Se esiste un posto
capace di mettere le persone a disagio indipendentemente dalla loro
condizione interiore, dalla loro personalità e dal loro
rango sociale, sono gli ospedali.
Nessuno desidererebbe
mai trovarvisi di propria volontà, soprattutto chi non
è lì per farsi curare. È un luogo di
tristezza perenne che aleggia nell'aria ed invade lo spirito.
Almeno questa era
l'impressione che l'acre odore di disinfettante e gli sguardi ammattiti
degli inservienti avevano lasciato alle quattro ragazze, del tutto
spaesate.
«Voi, ragazze,
- una giovane infermiera accompagnata da un esemplare di Audino le
approcciò con gentilezza - potete anche andare a
casa.»
La stessa poi
aspettò che le giovani allenatrici obbedissero, ma non si
decidevano a smuovere le loro espressioni di marmo, preoccupate e meste
per una ragione assai lecita.
Dunque, l'infermiera
sospirò ed aggiunse.
«La vostra
amica però... Dovrà restare qui. Per un bel
pezzo, immagino...»
«Possiamo
almeno vedere come sta Catlina? Poi ce ne andiamo, promesso.»
La pregò la
rossa, facendo trasparire il suo buon cuore.
«Sarebbe parte
del segreto professionale, - cominciò la donna, ma intanto
il suo Audino aveva sollevato le veneziane che garantivano la privacy
nella sala operatoria del reparto di terapia intensiva -
però basta che fate presto.»
Quella che si tenne il
più distante possibile dal vetro fu Iris, dissuasa dalle
esclamazioni di penoso orrore delle sue compagne più grandi,
anche se alla fine non resistette alla curiosità.
La stanza era in
penombra, nonostante il giorno fosse sul fare.
L'ambiente era
tutt'altro che spoglio, alle pareti, sui tavoli, dappertutto vi erano
macchinari di diverse dimensioni e di cui non riusciva ad individuare
le funzioni rispettive.
Al centro vi era il
lettino elettronico, lo schienale posto ad una specifica angolazione
per evitare il soffocamento della giovane distesa su di esso, immobile
come una salma adagiata sulla sua bara.
Eppure, se uno riusciva
ad ignorare la fasciatura di garza bianca che bendava il suo capo,
l'ingombrante maschera posta sulle sue labbra, i molteplici aghi che si
districavano dalle sue braccia, se uno fosse stato in grado di chiudere
un occhio perfino sulle ventose attaccate al suo petto simili a
sanguisughe, sembrava che la povera Catlina stesse, come era solita,
semplicemente dormendo.
I lunghi capelli biondi
scendevano morbidi sul cuscino, Iris si domandò se avessero
mantenuto il loro peculiare profumo di vaniglia. Subito rimpianse
l'aver assistito a quella scena.
Tutte le aspiranti
Campionesse rimasero senza parole, finché Camilla non si
costrinse a chiedere quello che tutte desideravano sapere
inconsciamente.
«Cosa le
è successo?»
«Ha avuto un
trauma cranico piuttosto brutto. - L'infermiera cercò di
spiegarsi il più chiaramente possibile - L'osso si
è fratturato e le ha lesionato la parete celebrale
dell'encefalo ed ha causato pure una commozione abbastanza grave.
Ha anche una vertebra
rotta e due distorte, potrebbero esserci complicazioni a livello
spinale.
Dobbiamo ancora
completare le analisi, e purtroppo la aspettano un paio di operazioni
piuttosto dolorose...»
«Catlina
è abituata a questo genere di cose. Non si fa spaventare
facilmente, lo so per certo.»
La interruppe con
fermezza la leader del gruppo. Aveva avuto una premura nel precisarlo
quasi anormale, tutte le altre tre si interrogarono sul senso di
quell'affermazione.
Camelia
accarezzò la spalla della bionda per tranquillizzarla,
ripetendole di calmarsi con un forte sconforto nella voce.
L'infermiera poi
richiuse le tende, lasciando la giovane aristocratica in compagnia solo
dell'elettrocardiogramma e del debole bip che esso emetteva a
intervallo regolare.
«Appunto,
Campionessa Kuroi. - Disse quella - Proprio perché ci sono
già stati altri episodi simili in passato ora
sarà tutto più doloroso per lei.»
Dopo averle lasciate
sole, Camilla si dimostrò eccessivamente riluttante nel
lasciare l'ospedale.
Si osservò la
fasciatura intorno alla mano sinistra, sotto di essa la pelle era
rimasta annerita e macerata, come quella del comandante romano Muzio
Scevola, solo al contrario.
Immaginò
quell'ustione di primo grado estendersi in tutto il suo corpo,
divorandone la bellezza e seccandone ogni traccia di giovinezza:
strinse le palpebre in segno di ribrezzo.
Come aveva potuto
permettere che una delle ragazze che Nardo le aveva affidato in
custodia al pari di delle sorelle minori venisse massacrata in maniera
così brutale, senza rendersene conto?
E dire che non poteva
neppure vedere Catlina come una sorella minore, nel modo in cui vedeva
Iris, Anemone e Camelia: lei era la sua sorella gemella.
Tutte le bambine ricche
o comunque benestanti sono solite desiderare una sorella, una compagna
di giochi per rendere più eccitante la quantità
industriale di tempo libero a loro disposizione.
Neppure la
consapevolezza di essere un semplice trastullo, un oggetto da
compagnia, riuscì a distogliere la donna dalla tenera
preoccupazione che le rodeva l'animo.
Non aveva alcuna prova
materiale che potesse confermare ciò che aveva detto poco
prima sulla fortezza della sua compagna di Sinnoh.
Come già
sappiamo, le due non si vedevano da ben dodici anni.
In quel lunghissimo
decennio Camilla non aveva mai sentito la mancanza di quella ragazza
come la sentiva ora, quando ella riposava in un sonno a tempo
indeterminato.
Nonostante fosse sempre
così riservata, silenziosa ed asociale, la sua assenza la
faceva rabbrividire.
Aspettò di
tornare a casa di Nardo, di lavarsi e di distrarsi per dimenticare
tutto, ma non fu affatto facile per lei.
Provò ad
addormentarsi, sperando di incontrare la biondina nel suo stesso sogno,
magari.
Chissà se
molte cose fossero cambiate.
Chissà se
Catlina fosse invece rimasta la stessa persona che conosceva lei.
❁
Faceva freddo.
In quel posto faceva e
non faceva freddo, perché quel posto era e non era allo
stesso tempo.
Negli anfratti
più viscerali della mente umana di ogni individuo vi
dovrebbero essere dei neuroni malfunzionanti; cellule che sfuggono alle
regole della ragione e si imbevono di informazioni strane, in apparenza
superflue, dimenticabili, come spugne intinte nell'aceto.
Quando esse giungono
alla bocca però, al loro padrone spetta di assaggiare la
dolcezza, l'amarezza, la velenosità del ricordo intrappolato
là dentro.
Finché la
mente dorme, essa rimane vulnerabile. Il sonno della ragione genera
mostri.
In quel pozzo senza
fondo, un soggetto percepiva una luce eterea, troppo forte, o forse
troppo bianca. Puro bianco latte, il colore più neutro che
l'occhio può percepire.
Se quindi vi
è un io che pensa vi è esistenza, esperienza. Il
bianco accompagnò al silenzio di quell'utopia voci senza
volto, ma di cui si poteva riconoscere il mittente.
Non vi era nessuno
lì però.
«Sì,
è stato solo un incidente...
Incidente...
Incidente... Incidente... Incidente...» Ripeteva
all'infinito.
L'anima rinchiusa in
quel limbo pretese di possedere una corporalità, di occupare
una posizione in quello spazio per darsi almeno due o tre coordinate
topologiche: era in piedi, seduta, distesa?
Di fronte a quello che
si stagliava avanti a lei, quello che presunse essere il campo visivo,
passò una mano che si fermò al centro dello
stesso: strinse l'arto, scoprendolo mosso dalla sua volontà.
In seguito
provò a toccarsi con le mani, tuttavia non ricevette alcun
feedback tattile.
Tutto sembrava fatto di
aria: la sua pelle, i suoi capelli, il terreno su cui camminava.
A proposito di
quest'ultimo, provò a muovere dei passi, trovandoli lenti e
faticosi.
Quel posto era pieno
d'acqua. Guardando verso il basso, le arrivava alle ginocchia.
«Potrei essere
diversa, sarebbe bello se... se...
Le altre ragazze... Le
altre ragazze... Così carine... Così
carine...»
Quelle parole avevano,
in mezzo a quel marasma, uno spazio e un luogo: l'onsen.
E tutto allora ne prese
la forma, il perché non lo sapeva, ma ora quello spettro
vagante si trovava lì, a casa di Nardo, anche se tutto
appariva sbiadito, a tratti offuscato.
Sembrava quasi che oltre
un certo confine quel mondo scomparisse e l'infinita distesa di bianco
nulla riprendesse ad espandersi. Abbassò di nuovo lo
sguardo, appena un'altra voce si presentò.
«Avevamo sei
anni... Sei anni e... e... E perché sono
qui?»
«Catlina,
dovresti presentarti anche tu...»
Appena l'anima rivide il
tanto odiato riflesso del suo corpo pallido sulla cresta dell'acqua, si
strinse nelle spalle per lo spavento. Cominciò a chiedersi
spiegazioni, a farsi domande, senza parlare per davvero, mentre la voce
in fondocampo, la sua voce, discorreva per conto suo.
«Sono sicura
che queste ragazze sarebbero molto contente di conoscerti.»
Udì.
«Sono
io? Sono viva?» Domandò,
insistendo.
«Sono
Catlina Yamaguchi-Hāto...» Si rispose,
pensierosa.
«Ho
freddo... Perché ho freddo? - osservando
meglio l'immagine, era così poco sconvolta da sorvolare
anche questo piccolo particolare - Ah, giusto, non
esisto...»
«Siamo amiche
d'infanzia... Siamo amiche d'infanzia... Siamo amiche
d'infanzia...»
Quest'ultima frase la
lasciò di stucco: non era la sua voce.
Almeno, lei non si
riconosceva in quel tono così profondo, caldo e
confortante.
Ci doveva essere qualcun
altro a farla sentire meno sola.
Catlina cercò
di avanzare nell'assoluto in cui era bloccata, non percependo
movimenti, neppure respirare le sembrava possibile, ma non si arrese e
seguì la voce.
Nonostante
quell'ambiente le fosse del tutto estraneo, riusciva poco alla volta a
riassemblare i pezzi di memoria che vi aveva seminato per dare un senso
logico al proprio agire.
E dopo un tempo che
nessuno orologio, nessuna clessidra o meridiana avrebbe mai potuto
contare, le parve di vedere qualcosa. Qualcuno.
Qualcuna.
«Catlina...
Catlina... Hey...» La chiamava piano,
lieta.
Svestita del tutto come
lei, un corpo muliebre che stava lì in piedi a pochi passi,
con la testa voltata altrove, pur sapendo di aver approcciato con
successo la giovane del suo interesse.
Conscia di non essere
più sola, la ragazza si coprì il seno rotondo con
le mani, in preda all'imbarazzo.
Le era bastato scorgere
i lunghi capelli biondo grano fluttuare in un vento immaginario per
riconoscere chi fosse riuscito ad entrare in quel mondo inaccessibile a
tutti se non a loro due.
Catlina tremò
e volle allungare un dito per provare a toccarla.
«C-Camilla? -
sussurrò, picchiettandole sulla spalla, timorosa - Sei
tu?»
«Sono
io, sono io, chi credevi che fossi?» Straordinario
che le rispose, porgendole inoltre i suoi due occhi argentei, con le
stesse sfumature di quando la vedeva dal vivo.
Quella frase, come tutte
le altre sentite finora, ci metteva qualche secondo a lasciare le
orecchie della ragazza, quella specie di conversazione procedeva lenta.
«Chi credevi
che fossi? Camilla... Tu sai dove siamo? Forse, lo sai?»
«Dove
siamo? - ripetere le domande forniva alle due tempo
per pensare ad una risposta adeguata - Non importa
dove siamo.»
«Ma
siamo sole qui? Solo noi due?» Catlina
suonava molto più preoccupata ora.
«Non farti
altre domande: tutto quello che vuoi sapere lo vedi tu stessa. Non puoi
far entrare qui dentro qualcosa che non vi appartiene. Quindi non
chiedermi nulla.»
La bionda si espresse
con tale durezza da far spaventare la compagna, senza che quella ne
facesse un dramma però.
«S-Scusa. -
Poi riprese più calma, dicendo ciò che rifletteva
il suo stato d'animo veramente - S-Si sta proprio
bene qui.»
«Concordo! -
Esclamò gaio l'ectoplasma di Camilla - C'è
silenzio.»
«Sì,
è vero...» Affermò
l'altra.
«E
ci siamo solo noi due, nessun altro, niente può succederci
finché siamo qui...» Aggiunse.
Catlina provò
a guardarsi intorno, ma già cominciava a perdere le sue
coordinate geografiche, intenta com'era nel focalizzarsi sull'immagine
luminosa ed effimera, quali i santi nelle rappresentazioni pittoriche,
della sua cara amica d'infanzia.
Aveva ragione Camilla.
Non era in dovere di conoscere la locazione di quel posto.
A nessuno, del resto,
è lecito sapere dove si trovi il Paradiso. Perché
lei era lì, lì e basta.
Le parve di provare una
febbrile eccitazione, al pensiero di essere capitata in un universo il
quale corrispondeva alla perfezione, all'ideale di cui in vita non
aveva mai avuto neppure un assaggio.
Silenzio.
Vastità. Semplicità. Vuoto. E Camilla Kuroi.
Neppure il suo respiro
faceva rumore lì e la sua esitazione non sembrava neppur
vagamente disturbare la donna dalle morbide curve appena tratteggiate.
Secondo un certo
filosofo, dove vi è vita non vi è morte, ma allo
stesso tempo, quando una persona lascia in maniera definitiva le
spiagge dei mortali è infine libera dal peso soffocante
impostogli dall'esistenza. Per tutta la durata dei suoi quattro lustri,
la biondina aveva vissuto nascosta; ora invece la luce del sole la
invitava ad uscire allo scoperto e rivelare i suoi veri sentimenti.
Ricambiò il
dolcissimo sorriso, in quella vallata della felicità niente
le avrebbe proibito di vedersi in continuazione bella, giovane,
raggiante. In seguito approcciò la figura di fronte a lei,
tentò di gettarle le braccia al collo per abbracciarla ed
accettare la sua condizione di fortunata sonnolenza.
Lo avrebbe fatto
volentieri.
Il volto dell'altra si
era mosso un poco, intravide i denti bianchi appena ella dischiuse le
labbra in segno di gradimento. Aveva perfettamente senso e il suo cuore
batteva all'impazzata.
Altro che tre mesi
d'estate... Ora a lei e Camilla restava un'eternità intera
da vivere insieme.
La giovane aristocratica
sospirò però, in segno di delusione.
Poi subito le venne
quasi da piangere.
In quel mondo parallelo
si sentiva sempre più emozionata, avvolta in un climax
talvolta ascendente, subito dopo il contrario, non era mai stata
abituata a questi cambiamenti repentini e ciò la
scoraggiò.
«Camilla...
Perché non posso toccarti? Perché le mie mani ti
trapassano? Perché...»
La suddetta,
impassibile, esalò una voce a dir poco flebile, senza
muovere un muscolo.
«Perché...
Perché, tu vuoi restare con me qui. Anche se non puoi
toccarmi, tu vuoi restare qui...»
«Sì,
sì che lo voglio, - esasperò
la bionda - Voglio stare qui, proprio qui con te,
ma...»
Più cercava
anche solo di afferrare un lembo di pelle della mistica
entità cosi somigliante alla sua amica, più i
suoi gesti sembravano vuoti e privi di senso, tanto che non le
sembrò affatto necessario possedere un corpo e delle mani,
era solo un maledetto supplizio di Tantalo.
«Ma...» La
vista le si offuscò.
«Carissima...
Io non appartengo a questo mondo.
Al tuo mondo dei
sogni.
Io sono reale. Non ho
modo di esistere davvero qui. Mi dispiace.»
Andò alla
ricerca disperata di conforto negli occhi di Camilla. Non vedendo pure
quelli, si impanicò.
Il chiarore del derma si
era fatto folgorante, uno ad uno i lineamenti perdevano consistenza ed
annegavano in quel mare di luce fastidiosa.
«Camilla...
Camilla...» La richiamò,
più forte.
Aggiunse ai precedenti
altri gesti scoordinati delle braccia, per riuscire a cogliere almeno
l'essenza ed evitare che essa sparisse nel nulla, invano. Era tardi.
Ogni singolo contorno di
figura aveva perso la sua nitidezza, trasformando la linea del corpo in
una macchia inguardabile, senza forma, uno spettro paurosamente
acciecante.
Fece per allontanarsi,
non avendone però il fegato. Rimase lì, alla
ricerca di una traccia di Camilla.
Ma prima di dissolversi
del tutto, le giunsero solo queste ultime parole.
«Catlina, non
vuoi che restiamo insieme per sempre?
Per sempre... Per
sempre... Per sempre...
Per sempre...»
La giovane di Sinnoh
rimase inerme, voleva chiudere gli occhi per difendersi dalla luce
infernale che la circondava e non poteva, ormai che quel meraviglioso
silenzio si faceva sempre più irrecuperabile, sentiva suoni
indistinti, forti e stranianti.
Era troppo spaventoso
per lei da reggere.
«Per sempre...
Per sempre... Per sempre... Per sempre...»
«Camilla... Mi
avevi promesso che saremmo state insieme per sempre...
Mi avevi promesso... Per
sempre... Insieme...
Camilla...»
Decisa a non rimanere un
secondo ancora in quella stanza delle torture, alla debole e sfinita
aristocratica di una regione lontana rimase solo una
possibilità di salvezza, prima che anche lei venisse
assorbita dal nulla e il suo ricordo si dileguasse in esso.
Disse addio, col cuore
spezzato, all'utopia in cui credeva di potersi rifugiare, si
maledì per averci seriamente creduto, aveva dimostrato per
l'ennesima volta di essere solo una bambina viziata, che non vuole
crescere, che non vuole andare avanti, come tutti quelli intorno a lei
ormai avevano fatto.
«Camilla...»
Invocò
un'ultima volta, senza esito.
In quel fatidico momento
era costretta a fare la cosa che più di tutte la spaventava,
la traumatizzava, la distruggeva in tutti i sensi fin da quel giorno.
Aprire gli occhi.
❁
«Camilla!»
Iris zampettò
all'interno della loro stanza comune, svegliando lei e le altre due
ragazze dal loro intorpidimento con il suo strillo potente. Rimase in
piedi, sulla soglia, per riferire ciò che aveva appena
saputo da Nardo.
«Catlina si
è appena svegliata dal coma.»
Tutte e quattro erano
rimaste in stato catatonico dalla nottata precedente. Avevano stabilito
di dormire fino a metà pomeriggio per riprendere le forze,
tuttavia non era semplice farsi una bella dormita rigenerante con il
peso di una sconfitta del Team Plasma sulla coscienza.
In un certo senso,
invidiavano un pochino la sorte della loro taciturna compagna.
La ragazzina dai capelli
violetto continuò ad esporre, avendo l'attenzione collettiva
su di sé.
In un persona in
particolare poteva notare un interesse quasi fraterno.
«Da quel che
ho capito hanno provato a svegliarla, ma lei ha avuto una crisi di
nervi e l'anno dovuta riaddormentare subito per evitare complicazioni.
Le è venuto
un attacco dei suoi, di quella cosa che ha lei, come si
chiama...»
«Epilessia.»
Rispose atona Camilla.
«Sì,
quello. Devono operarla alla testa il più presto possibile,
solo che è un po' un casino.»
«Per la storia
degli interventi che si era già fatta?» Fece
Anemone.
«Se sapete
già le cose perché ve le devo dire io? -
Ribatté Iris, stressata - Sì, comunque.
Sono cose che le faranno
malissimo dopo, ma che sono le uniche a farla star bene,
povera.»
Poi Iris, siccome doveva
essere stanca come non mai di star rinchiusa in casa da tutta la
giornata, pensò la giovane donna, cominciò a
ricercare la compagnia di qualcuna con cui intrattenersi, anche se
scegliere Camelia non fu proprio una brillante idea.
«Che stai
facendo?» Le chiese, piuttosto aliena a tali pratiche da
fattucchiera.
Infatti era una buona
mezz'ora che la modella stava davanti allo specchio con le cuffiette a
cospargersi di diverse tonalità di fondotinta, cipria e
altri cosmetici in polvere per coprire un ematoma rossastro comparsole
sul viso in seguito ad una delle tante botte della sera precedente.
«Mi dispiace
per lei, - le fece eco la rossa - è piena di problemi, e se
lo dico io, che di problemi ne ho fin troppi... Camilla!»
«Ehi, mi
ascolti? Guarda che parlavo anche con te prima.» Per
guadagnarsi l'attenzione della ragazza mora Iris scelse la via peggio
adatta, ossia le strappò con forza l'auricolare
dall'orecchio, facendola sussultare.
«Camilla, - la
chiamò sempre Anemone, con più insistenza,
distraendola dalla sua meditazione - posso cambiarmi le garze sulle
gambe? Mi danno troppo fastidio...»
«V-Va bene, -
le rispose con gentilezza, mostrando quanto più interesse
possibile - però prima disinfettati.»
Per contrattaccare
all'aggressione ricevuta, Camelia aveva raccolto da terra un cuscino e
lo aveva sbattuto con forza sul viso della sua personale scocciatrice,
con la quale avrebbe presto iniziato a litigare, tanto ormai anche la
leader si era abituata ai loro dibattiti incivili.
«Ma quella
roba brucia tantissimo! Faccio prima a versarci sopra la candeggina a
questo punto!»
Anemone aveva comunque
questa mania di atteggiarsi in modo eccessivamente teatrale ogni tanto.
«Se aspetti
cinque minuti ti aiuto io, okay?» Si propose la bionda,
sempre cortese.
Guadagnò un
cenno svogliato, poi la rossa riprese a leggere il suo manga,
grattandosi la rogna del sangue coagulato sulle gambe sbucciate.
«E voi due
smettetela subito. Vi conviene.»
Fu talmente secca e
concisa da dissuadere le due dal loro ennesimo stupido litigio.
La Campionessa di Sinnoh
si lasciò scappare un evidente sospiro.
Le pareti del suo
stomaco si torcevano neanche avesse le ulcere, avvertiva languido,
pesante e ammattente quel senso di colpa che tentava di estinguere del
tutto dal primo istante in cui aveva rivisto la biondina nobile davanti
a sé.
Provò a
convincersi che quel coma profondo non glielo aveva procurato lei.
Non era colpa sua, si
disse, poteva testimoniarlo, non le avrebbe torto un capello, mai nella
vita.
Eppure alle sue orecchie
le proprie difese suonavano come le scuse di una ragazza incapace.
Ed ora, a pagarne
l'inesorabile prezzo, era un'innocente fanciulla ferita sia nel fisico
sia nella psiche.
A parole, lei e la sua
coetanea si erano salutate con una cordialità bestiale dopo
ben dodici anni di separazione; a fatti, Catlina doveva essersene fatta
una ragione, si era scelta una nuova strada da percorrere, lontana da
quei brutti ricordi. Ci aveva provato almeno.
Non poteva credere che
le fosse toccato un altro, non trovava altre parole per definirlo,
incidente.
"Incidente" nel senso di
"evento che incide" sulla vita quotidiana di un'allenatrice
normalissima, perché di casuale ed incidentale i due
sventurati fatti avevano ben poco.
Camilla socchiuse gli
occhi, ripensando a cosa avesse fatto lei, in entrambe i casi.
Niente? No. Di meno. Non
c'era. Non era lì con lei, al suo fianco.
Era assai patetico
preoccuparsi dei postumi di quel disastro oltre dieci anni dopo,
benché di umanità la giovane donna ne avesse da
vendere. Solo che mai, mai come quell'estate aveva sentito
così tanto la vicinanza e la lontananza di Catlina nello
stesso istante.
Per le due,
più il tempo passava, più il loro rapporto si
faceva ambiguo: erano vicine tanto da potersi toccare? Erano lontane
mille chilometri? Che cos'erano, loro due?
Inoltre, non sembravano
esserci progressi; non si avvicinavano né si allontanavano
l'una dall'altra.
La distanza fra lei e
Catlina era una cosa che proprio non sapeva.
La Kuroi era nella sua
Lega a Sinnoh, a gloriarsi del suo alto titolo, a sfidare altri
allenatori, a leggere libri di storia e di mitologia, poteva uscire
quando voleva per un gelato od incontrare i numerosi spasimanti che
quotidianamente le inviavano lettere e regali.
Nel frattempo invece, la
bambina con cui aveva trascorso numerosi bei momenti nella sua vita,
ella giaceva inerme su un letto d'ospedale, forata dagli aghi e tenuta
a balia dai gas, in compagnia solo di dolori lancinanti e sogni
infranti.
Non avrebbe permesso che
quella situazione si protraesse, non ulteriormente.
Camilla, nonostante la
testardaggine e l'ingenuità residua di quando era piccola,
era brava a trovare la determinazione giusta per agire anche dopo un
lungo periodo di vile procrastinazione.
Tuttavia qualcosa la
bloccava.
Doveva prima superare un
gravissimo impasse insinuatosi in lei per via del tempo e della
rimembranza.
❁
«La mia
famiglia, gli Yamaguchi-Hāto, gestisce da diverse generazioni il
Maniero Lotta di Sinnoh, guadagnandosi la sua più che
onorabile posizione grazie ai numerosi sfidanti ed ai finanziamenti
delle multinazionali.
Quindi non c'era verso
per cui io dovessi crescere nell'indigenza, mamma e papà mi
crebbero e mi mantengono tutt'ora, alimentando con le ricchezze il
fuoco del mio piccolo ego bruciante, ero e sono io la loro piccola
principessa.
Sarebbe stato proprio
questo stile di vita aristocratico, con le sue cene di gala, i vestiti
di seta e lana pregiata, le tristi sonate al pianoforte, ad isolarmi
precocemente dalla vita comune, a mio parere: per fortuna che i miei
conoscevano i genitori di Camilla.
Mentre loro discutevano
di politica e di finanza, io e lei eravamo solite giocare insieme tutti
i pomeriggi, esploravamo le minuscole stradine di Memoride e lanciavamo
i sassolini dei rigagnoli: io non riuscivo a farli rimbalzare sulla
superficie dell'acqua, mi arrabbiavo e mi imbronciavo, poi toccava a
lei spiegarmi con pazienza il trucco, mantenendo intatto il suo
splendido sorriso.
Ci volevamo bene in
fondo, volevamo tutte e due diventare allenatrici professioniste e fu
lo sbocco d'incontro delle nostre aspirazioni a tenerci maggiormente
unite.
È probabile
che, se solo io avessi avuto più di una amica soltanto,
avrei accantonato Camilla come facevo con i miei giocattoli vecchi, e
lei avrebbe fatto lo stesso.
Però non
potevamo, perché l'una aveva solo l'altra per passare le
giornate, all'inizio era solo una questione materialista, per me si
trattava solo di non cedere alla noia che colpisce tutte le bambine
ricche alienate dalla vita normale.
Un giorno, purtroppo,
successe.
L'incidente successe.
Avevamo sette anni.
Un giorno di pioggia, io
e Camilla ci stavano annoiando a morte. Eravamo a casa mia.
«Facciamo una
lotta, io contro te? Usiamo i Pokémon dei miei genitori,
tanto mi lasciano.»
Siccome ero di
temperamento assai permaloso, pur di non suscitare il mio dispiacere
Camilla obbediva a tutte le mie proposte, dimostrandosi più
matura nonostante non ci togliessimo nemmeno un anno a vicenda.
Ci facemmo portare un
Pokémon a testa da uno dei domestici e cominciammo a lottare
in una sala ampia, con un enorme lampadario di cristallo appeso al
soffitto.
Come mai io ricordi solo
questo specifico particolare acquista un senso proseguendo nella storia.
Persi. Non c'era da
stupirsi: Camilla era la bambina più brava nelle lotte che
conoscessi, a scuola era la migliore, ed io ero troppo egocentrica per
gioire dei suoi successi.
All'epoca
però ne feci un dramma. Invece di ritirare il
Pokémon esausto iniziai a sbattere i piedi a terra, ad
atteggiarmi come se avessi subito un torto gravissimo, presi prima a
bisbigliare confuse contumelie per poi gridare contro Camilla, fuori di
me.
«Mi hai fatta
perdere, ti odio, sei cattiva, non sono più tua
amica!»
Lei rimase a guardarmi,
sbigottita.
Mi vergogno ancora
adesso della figura che avevo fatto, e dire che non era neppure la
prima volta.
Per colpa del mio
carattere estremamente suscettibile litigavamo sempre,
finché non era lei a scusarsi in tono sommesso, io rimanevo
irremovibile, con la certezza di aver sempre ragione;
la classica bambina
viziata che non ha amici perché non li merita.
«Vorrei che tu
morissi.» Le dissi qualcosa del genere senza nessun tipo di
rimpianto.
Quella volta,
sfortunatamente, mi giocai la mia ultima occasione di sentirmi chiedere
"scusa".
Perché io e
Camilla non ci saremmo più parlate per dodici anni dopo quel
momento.
Dopo quella scenata, di
norma mi sarei messa a minacciarla di riferire l'episodio a mia madre,
e feci per andarmene via, tanto arrabbiata ero con lei.
Ma ordinai al mio
Pokémon - non ricordo chi fosse - di colpirla. Ne fui capace.
La creatura che lottava
al il mio fianco, che aveva quasi più umanità di
me, deviò il colpo per risparmiare la vita a Camilla,
innocente qual era.
Riuscii perfino a
infastidirmi perché la mossa non era andata a segno,
l'apoteosi della superficialità incarnata in una bimba di
sette anni. Stavo per mettermi a piangere.
Ma pochi istanti dopo,
non vidi altro che buio.
Finii distesa per terra:
in un secondo non mi sentivo più le braccia e le gambe, mi
sforzai di chiamare aiuto, gridai "mamma" e "papà"
finché la mia gola non fu sommersa dal disgustoso sapore del
sangue, alla fine chiusi gli occhi perché la testa mi faceva
malissimo.
E fu così che
la mia intera famiglia, erede di uno dei più vasti imperi
economici della regione, si trovò sconvolta dalla precoce
ospedalizzazione della loro unica figlia.
Io, tuttavia, non ebbi
modo di conoscere il loro dolore, se non molto tempo dopo.
A trattenere la mia
anima infelice dal cadere fra le braccia di Thanatos furono la maschera
ad ossigeno e le iniezioni nutritive, la medicina mi tirava da un lato
mentre il padre degli inferi aspettava seccato, con la falce in mano,
accanto al letto bianco.
I dottori e gli
specialisti rimasero straniti dalla mia situazione: non ero in coma
vegetale.
Il che
rassicurò i miei familiari, il trauma più grave
di tutti era a livello dell'organo, una cosa più grave di
una commozione, ma non abbastanza grave da interrompere le mie funzioni
celebrali.
Dunque, vedendolo dal
lato romantico, si potrebbe dire che io abbia passato tre anni dormendo
beatamente, nel mondo dei sogni, lontana da tutto ciò che
accadeva intorno a me.
Quanto vorrei fosse
stato così... Non posso saperlo.
Ricordo che un giorno...
mi svegliarono? O mi risvegliai? Non credo fosse volontario.
Una luce intensa mi
abbagliò, vedevo intorno a me persone ansiose, paranoiche
che mi toccavano e mi chiamavano; la testa mi faceva, inutile dirlo, un
male tremendo.
Dopo cinque minuti ebbi
il mio primo attacco di epilessia.
Ed il venire a sapere
della ragione di quell'incubo ad occhi aperti non mi aiutò
molto.
Il mio
Pokémon, sotto il mio errato comando, aveva colpito l'enorme
lampadario sul soffitto, facendomelo precipitare addosso.
Lo interpretai come una
specie di punizione divina per il mio egoismo.
Perché a
partire da quando ripresi conoscenza tutto cominciò a
trasformarsi in un incubo.
Ora avevo dieci anni. E
piano, incredibilmente lenti, ne passarono altri cinque, pieni di
terapie intense e dolorose. I postumi delle operazioni mi costringevano
a letto per giorni interi a volte, e non mi restava altra scelta se non
provare a chiudere gli occhi e provare ad immaginarmi altrove, libera
di muovermi, non così irrimediabilmente sola.
Per alleviare il mio
corpo debole ed infermo bastavano le anestesie e gli antidolorifici.
Ma per farmi dimenticare
quanto avevo perso in quegli anni di inerme sonnolenza
intervennero solo il tempo e la rassegnazione.
Quando lo chiesi ai miei
genitori, disperata come non mai, mi risposero che Camilla era partita.
Camilla se n'era andata.
Via, lontano, in viaggio per diventare Allenatrice.
L'unica persona a cui
ero legata era andata avanti, senza di me, io ero rimasta indietro anni
luce bloccata in ospedale senza potere nulla per impedirlo.
Mi spezzò il
cuore e non sapevo come farmene una ragione.
Mi estraniai dalla
realtà.
Mi vennero le borse
sotto gli occhi, perdevo peso per poi riprenderlo in breve tempo, dove
le schegge di vetro mi avevano ferita c'erano suture rosse ben
evidenti, come su una bambola rattoppata; ecco cosa sono adesso:
brutta, stanca e depressa.
«Quanti anni
hai? Da quanto sei qui?»
Mi domandò
una volta un uomo che non era né un dottore, né
uno psichiatra. Di solito non accetto la compassione, non ne sento il
bisogno, ma costui sembrava volerlo sapere per pura condiscendenza.
«Sei
abbastanza grande, a mio modesto parere, - mi rispose, quando gli dissi
di avere ormai dieci anni - per avere un Pokémon tutto tuo,
allora.»
All'inizio lo presi come
un brutto scherzo: non riuscivo nemmeno a camminare da sola.
Figurarsi allenare dei
Pokémon, avevo rinunciato ad avverare i miei sogni molti
anni or sono.
Ma Nardo non si
smentì affatto: suggerì ai miei di affiancare
alla loro figlioletta mezza paralizzata un qualche tipo Psico
inizialmente per aiutarmi a vestirmi, lavarmi, vivere una vita
più o meno normale.
Mai avrei pensato che la
passione tanto adorata da piccola mi avrebbe permesso di lasciare le
stanze incolori e la sedia a rotelle.
«Ho intenzione
- parlava così il Campione - di rinnovare i Superquattro
della mia Lega prima o poi, nella regione di Unima, adesso sono tutti
troppo vecchi!
Quando sarai un po'
più grande, ti aspetto.»
Così feci
qualcosa del materiale che prima era confinato nella mia testa, riuscii
ad avverare almeno uno dei tanti sogni che avevo. Così come
aveva fatto Camilla.
Seppi più
tardi che lei era ora la Campionessa di Sinnoh. Ne fui contenta, se lo
meritava.
Tuttavia, anche la
persona più buona, dolce ed innocente della Terra, quando
scende la notte, si vede rapita da un oscuro mondo di ombre, fantasmi e
angosce.
Mi domando se fosse
stato anche il mio caso, se anche io mi fossi svegliata proprio nel bel
mezzo di un brutto sogno.»
❁
Nonostante le persiane
leggermene abbassate, neanche un misero raggio di sole riusciva a
penetrare all'interno, la stanza rimaneva immersa nella penombra: fuori
piovigginava, il cielo era grigio ed il clima uggioso. Non
concentrandosi troppo sulle conversazioni del personale di reparto in
lontananza si poteva ottenere il silenzio perfetto.
Catlina guardava assorta
le gocce stillate dalla flebo che una ad una le venivano iniettate nel
polso.
Faceva piani fugaci per
il suo futuro, talmente vaghi da sembrarla non riguardare affatto.
Si augurò
che, a prescindere da chi sarebbe diventata la nuova Campionessa, non
le venisse la brillante idea di smembrare i Superquattro per
sostituirli. Cosa ne sarebbe stato di lei?
Non aveva la faccia
tosta di ritornare a Sinnoh, di dimostrare una volta per tutte ai suoi
genitori che grande perdente avessero generato. Si strinse nelle
coperte bianche, inodori.
Aveva appurato di non
poter partecipare alla competizione in quelle condizioni; aspettava
solo l'annuncio ufficiale. Ricordò anche di doversi fare la
risonanza magnetica, prima o poi.
La biondina senz'anima
sperava inoltre di aver passato in coma più di una manciata
d'ore; quel sogno mostruoso, di difficile interpretazione, non le aveva
concesso di estraniarsi abbastanza da tutti gli orrori del suo brusco
risveglio.
Siccome il buio a pieno
pomeriggio la faceva sentire ancora più miserabile di quello
che già non era, fece per mettersi seduta (richiese uno
sforzo immane alla sua schiena) e guardare fuori dalla finestra.
Non aveva niente di
meglio da fare. Non aveva neanche sonno in quel momento.
Tutti gli ospedali,
sapeva per esperienza, danno quasi sempre su grandi spazi aperti, pur
di creare l'impressione ai pazienti di non rimanere esclusi dalla
società, dai loro familiari, dai loro amici.
Con lei non funzionava
granché, ma apprezzava comunque il tentativo.
Sbirciò in
mezzo all'immacolato lenzuolo bigio disteso all'orizzonte e al viale
d'accesso, affollato da macchine, ambulanze, persone.
Si sentiva patetica nel
paragonare sempre se stessa a tutto ciò che non la
riguardava, ma le visite ospedaliere costanti per lei si erano fermate
a uno o due mesi dal suo ricovero.
Poi i suoi genitori
avevano sentito il bisogno di ritornare a lavorare, i compagni di
classe, pure la scuola doveva continuare, per quanto lo volesse nessuno
poteva fermarsi a condividere quel limbo con lei. Tutti erano uguali ai
suoi occhi.
Infatti la giovane
posò inconsapevole lo sguardo su una figura femminile
vestita di nero.
Le condizioni
meteorologiche non erano esattamente torride, ma portare una giacca
così pesante le sembrava esagerato.
Costei aveva una fluente
chioma bionda, la vedeva da lassù, e si dirigeva verso
l'ingresso principale. Le pareva familiare.
Catlina si sporse un
poco in avanti per focalizzarne meglio i tratti somatici prima che
sparisse dal suo campo visivo: all'inizio credeva di aver visto male,
subito dopo, appena comprese di non essersi sbagliata, l'innegabile
verità la fece quasi sobbalzare.
«Camilla...?»
Mosse le sue labbra
arrossate mentre si ripeteva in testa quel nome.
Il cuore arrugginito
della ragazza sussultò ed ora si ritrovava ansiosa, in uno
stato di repressa eccitazione, quel sentimento era più
ardente che mai, di tutte le volte in cui quell'estate si era trovata
nella medesima situazione.
Rimase allertata, come
aspettandosi qualcosa da quella stranissima coincidenza.
Il fantasma della sua
amica d'infanzia mentre scompariva sotto i suoi occhi la tormentava in
duplice senso: la memoria del passato, rievocata dal suo subconscio, e
la premonizione del futuro, innestata in un sogno a dir quasi profetico.
Aveva già
perso Camilla una volta, per colpa della sua ingenuità di
bambina.
Non avrebbe permesso che
ciò accadesse di nuovo, ora che era diventata un'adulta.
Piuttosto scombussolata,
uno spirito di vigore la pervase, si guardò intorno.
Una falsa speranza le
balenò in mente, ma subito si disilluse.
Non era possibile,
proprio no. La volta del primo incidente, un po' per pigrizia ma
soprattutto per incapacità, la riabilitazione procedeva
così lenta da aver spinto il suo vecchio fisioterapista a
considerare addirittura l'ipotesi della paraplegia.
Nonostante
ciò, la biondina fece un respiro profondo, si
girò con le braccia verso il bordo del letto elettronico,
subito rabbrividì al contatto dei piedi con il pavimento
freddo di marmo.
Il tentativo successivo
fu quello di rimuovere l'ago della flebo, coperto da un cerotto, senza
rompersi una vena: una mossa secca e lo abbandonò
lì, gocciolante.
Si disfece anche del
respiratore, il quale le intasava le narici e di cui si domandava
l'utilità, visto che perlomeno i suoi polmoni funzionavano
bene.
Catlina si impose di non
perdere tempo a rimpiangere la follia che stava per compiere.
Ogni singolo secondo era
prezioso, doveva raggiungere l'entrata, e non solo, doveva sbrigarsi a
raggiungerla, o Camilla se ne sarebbe andata e l'avrebbe persa in
maniera definitiva.
Aveva paura. Le gambe
avrebbero ceduto prima o poi, ne era sicura. Sapeva che la semplice
forza di volontà non basta a guarire le persone, anche se
purtroppo in quel momento poteva contare solo su di essa. Lasciava il
letto a cui si sosteneva per un attimo, poi si aggrappava di nuovo
all'oggetto più vicino, vista la sua stabilità di
un castello di carte.
Non aveva neppure
raggiunto la porta della sua stanza che una scivolata improvvisa le
fece quasi cambiare idea. Si chiese cosa stesse facendo,
perché lo stesse facendo.
La ragazza strinse i
denti, spostò il peso sulle braccia e provò a
rialzarsi, come aveva fatto durante le molteplici cadute subite nella
sua vita: rimaneva per secoli sul pavimento a piangersi addosso,
finché non riscopriva il piacere di tornare in piedi.
Avrebbe chiesto a
Gothitelle o a Reuniclus di accompagnarla ma, non potendo utilizzare
Pokémon all'interno di una struttura pubblica, si trovava ad
avanzare a testa dritta, incerta ma allo stesso tempo decisa, una
funambola per cui ogni passo potrebbe essere fatale.
Debole quant'era, si
aspettava un braccio od una gamba rotta dietro l'angolo.
Invece di pensare alle
fratture, proseguì tenendosi vicina al muro, appoggiando la
mano ogni qualvolta il suo equilibrio vacillava, i visitatori la
guardavano perplessi - come biasimarli - una paziente scalza, con
indosso solo una leggera camicia da notte, pallida e smorta che
camminava come un cadavere resuscitato davanti ai loro occhi,
però nessuno comunque osava riportare il fatto al personale.
Aveva fatto perfino due
piani di scale da sola, per la prima volta da quando era quasi morta
Catlina aveva le lacrime sull'orlo dei suoi verdi occhi svuotati.
Subito la prese il
panico che Camilla potesse ancora serbare rancore nei suoi confronti.
Del resto, lei le aveva
augurato di morire, cosa avrebbe fatto se quel lampadario avesse
rovinato l'esistenza alla piccola Campionessa invece che a lei?
Dal grande androne
all'ingresso si sentiva l'olezzo di asfalto bagnato proveniente da
fuori.
La biondina aveva i
piedi congelati, l'acqua fredda e lo sbalzo di temperatura si
aggiungevano ai malesseri conseguenti all'aver lasciato il suo caldo e
sicuro giaciglio.
Tutto questo solo per
incontrare una ragazza, anzi, la ragazza, l'unica per cui si era
svegliata dal suo idilliaco mondo dei sogni per gettarsi a capofitto in
quell'orrenda realtà.
La riconobbe subito dal
ciuffo disordinato che scorgeva di profilo: era ancora lì,
ma non per molto.
«Camilla!»
La chiamò, esaurendo subito la poca voce che aveva in gola.
Attese la sua reazione,
sospesa nel presagio snervante di non venire riconosciuta o ascoltata.
«Camilla...»
Riprovò, come aveva fatto in quel sogno.
La reazione
così repentina della bionda la immobilizzò, il
battito cardiaco accelerava secondo per secondo, era in fibrillazione e
le mancavano le parole.
«Catlina...
Perché sei qui? Cos'è successo... Tu non stai
bene... Catlina... »
Quella le rispose
sorridendole, le sue sottili labbra rosse contrastavano con il viso
esangue come porcellana su cui si intravedevano i capillari violacei.
Appena si
trovò davanti a lei la presero, inevitabilmente,
contemporaneamente, i sintomi che precedevano le sue crisi epilettiche.
Stava per perdere i sensi, prima che potesse collassare a terra l'altra
la circondò con le braccia, per sostenerla.
Camilla
posticipò i suoi dubbi per far spazio alla nuova
priorità momentanea.
Se solo, quel giorno di
pioggia, se solo avesse messo da parte il suo inutile orgoglio, i suoi
sentimenti sarebbero stati trasmessi chiari, cristallini, ed ora quelle
braccia morbide l'avrebbero sostenuta e presa per mano, accompagnandola
attraverso l'impervio sentiero della vita, quello che lei aveva
percorso tutta da sola, zoppicando.
«Vieni, ti
riporto nella tua stanza, attaccati a me...» Le disse,
spaurendosi.
Catlina fece del suo
meglio per evitare di appesantire la sua salvatrice. Era sempre stata
lei la zavorra fra le due, tutta quella situazione era un suo
capriccio, ma se Camilla si fosse limitata a riportarla indietro e
chiamare un'infermiera lei non sarebbe stata contenta.
«S-Scusa, - le
fece, muovendo piano la bocca per evitare di mordersi la lingua o di
sputare - n-non ce la faccio a... a... a-a camminare...»
Si accasciò a
terra, la presenza di Camilla ora le portava solo becera
vergogna.
Le veniva da vomitare,
stava pure sudando freddo, si faceva schifo da sola.
«Tranquilla,
tranquilla... - anche la giovane donna faceva trapelare un accenno di
preoccupazione dalla sua voce - ...per fortuna che sei più
bassa di me...»
«Camilla...
C-Camilla... Camilla!» Il tono era andato in crescendo.
La bionda si tolse il
cappotto nero di lana pulita e lo avvolse intorno al corpo tremante
della compagna, la quale ripercorse a mente il momento in cui il
ragazzo di cui era innamorata aveva fatto lo stesso, per poi
abbandonarla nel mezzo del suo morbo sacro.
Quella invece l'aveva
sollevata da terra come un marito regge la sua sposa il giorno del
matrimonio. Credeva che il suo essere più bassa di Camilla
(attualmente la biondina era alta come le sue compagne diciassettenni,
quando Camelia non metteva i tacchi) le fruttasse solo le infantili
prese in giro ricevute dai cinque anni in giù, in quel
momento le stava sul serio aiutando.
Fu ammirevole vedere
come Camilla tenne duro fino alla fine; adagiò la ragazza
malata sul suo letto, la sua camera era singola grazie ad un piccolo
accorgimento dei genitori lontani ma comunque attaccati alla loro
principessa, subito la coprì con le coperte.
«Stai bene?
Catlina, se stai bene, rispondimi, per favore.»
Voleva tanto dirle che
stava benone, benché ciò significasse mentirle.
Le convulsioni venivano
improvvise, la scuotevano come se un demone desiderasse emergere dal
suo corpo, la lesione spinale adesso si faceva più acuta, un
chiodo forzava sulle sue vertebre, il cuscino si cominciò a
bagnare di piccole macchioline trasparenti.
«Chiamo un
dottore, non voglio che ti succeda niente...»
«No, no, per
favore. - interruppe la frase per una boccata d'aria - M-Mi farebbero
di defibrillatore, c-che fa malissimo... Sto bene così,
g-giuro... Mi passa...»
«Okay, okay...
- Camilla si girava intorno, incerta sulle sue azioni - Non chiamo
nessuno, tranquilla... È tutto a posto...»
Catlina osservava la
scena distesa di lato, dopo aver di nuovo indossato il respiratore che
le faceva prudere il naso, mentre Camilla stava in piedi chinata su di
lei, i suoi capelli le sfioravano il viso.
Anche se era cresciuta
al suo fianco non la riconosceva più, falsata l'immagine dai
suoi occhi umidi.
«Camilla, t-ti
prego, rimani qui.» Disse, per poi cominciare a tossire forte.
La teneva ferma con le
mani, una sulla testa, immersa nel fiume di boccoli dorati, l'altra sul
fianco, per evitare i contraccolpi delle convulsioni. Sorrise anche
lei, ma non la rassicurò.
«C-Certo,
rimango qui con te, finché non ti passa... Stai
tranquilla... Passa, come hai detto tu... - impiegò la
strategia di continuare a parlarle - L'epilessia è dovuta
agli stati d'animo? All'ansia? All'agitazione?»
Catlina, non potendo
parlare, rispose in testa sua: magari. Fosse così, non
l'avrebbe colpita nel mezzo di un bel sogno, durante il suo lussuoso
primo appuntamento, durante il secondo, così romantico.
Era la conseguenza di
una lesione celebrale. O forse, la ragione per cui portava una benda
sulla testa era il non saper controllare gli impulsi. Camilla, anche in
questo caso, aveva ragione.
Psiche e corpo sono
collegati l'uno all'altro, le malattie non sono solo intoppi a livello
cellulare o fiotti di sangue che fuoriesce: l'uomo può farsi
del male anche da solo, senza agenti esterni.
«Quando
eravamo piccole non ne soffrivi. Piuttosto, stavo per venire da te,
prima.
Credici o no, non ce la
faccio quasi più a fare la leader! Troppo stress,
soprattutto ora...
Sai che quando, per
esempio, vedo che sono tutte giù di morale, specie le
più grandi delle nostre ragazze, mi chiedo
"chissà cosa farebbe Catlina" perché io non sono
bravissima a consolare la gente, come vedi...»
La biondina stette ad
ascoltare il continuo monologo della sua amica d'infanzia, silenziosa,
cercando di perdersi per strada meno parole possibili: Camilla diceva
di non essere brava a consolare, appunto, per consolarla.
Il discorso scorreva
come il flusso di un torrente in piena; parlava delle loro
attività, della fatica che faceva a tenere buone le tre
più giovani di loro, per poi elogiarne la fedeltà
e la dedizione, ripercorreva le tappe del loro viaggio, da Memoride, a
Unima, a casa di Nardo, dove si sentiva la mancanza del profumo del suo
shampoo alla vaniglia.
E piano piano, poco a
poco, le convulsioni diminuirono di intensità, rimasero dei
radi singhiozzi, infine neppure quelli. Catlina si sentiva solo
esausta, come un Pokémon dopo una lotta sfiancante aspetta
solo di rientrare nella sua sfera.
Si meravigliò
di come il suo scetticismo riguardo la terapia assistita fosse crollato
appena Camilla l'aveva distratta dai suoi dolori nel momento in cui non
riusciva a farlo da sola.
Tuttavia scorgeva
nell'occhio argenteo di lei, quello non nascosto dal ciuffo ribelle,
uno sprazzo di insicurezza. Perché era lì? Cosa
voleva da lei?
Era questa la domanda
che faceva da denominatore comune alle due.
Chi siamo? Cosa vogliamo
l'una dall'altra?
La giovane inferma
appariva più quieta, ma coperta da una brutta cera. Le
cadevano le palpebre ed i suoi inspiri rumorosi echeggiavano quali il
recalcitrare di un vecchio apparecchio a manovella.
Era tardo pomeriggio e i
dottori non le avevano neanche mostrato i referti degli esami.
«Hai
sonno?» Le domandò Camilla, guardando la compagna
dall'alto.
«N-No... -
Catlina si rannicchiò in posizione fetale - Ho paura
che...»
Si bloccò.
Doveva dire a Camilla quello che provava dopo aver tanto rimuginato sul
loro rapporto. Solo che non ne aveva la forza, si raccontava da sola
l'ennesima frottola.
Ma non poteva perdere
quell'occasione ed allo stesso tempo perdere anche lei.
«Ho paura che
tu vada via, se mi addormento.
Mi hanno tenuta in sala
operatoria tutta oggi e mi manca ancora un intervento da fare...
Capiscimi. Ho ancora paura... M-Mi hanno aperto la testa con il
bisturi.
Ho paura di fare brutti
sogni.»
Concluse
l'aristocratica. Si mise a ridere attraverso i tubuli.
Allora, di punto in
bianco, Camilla si mise a sedere sull'orlo del letto bianco, fino a
quel momento sacrario intoccabile, lei vi ci si sedette come una madre
che assiste la figlia, conscia che un maggiore avvicinamento con la sua
cara amica non le avrebbe trasmesso alcuna malattia.
«Tu dormi
pure. - Le fece, accomodandosi con le gambe accavallate - Io rimango
qui, finché non ti svegli.»
All'udire codeste
parole, a tal punto intrise di significato, Catlina si trovò
sul punto di crollare psicologicamente. Camilla ricordava come lei,
dunque.
Si sentiva di nuovo una
bimba appena nata, che dopo aver compiuto i suoi primi passi cerca
rifugio nel suo mondo ideale, un riposo sereno fra volti familiari.
Camilla era fra questi.
Le sorrise.
«Buonanotte, allora.»
Con un cenno del capo,
si fece congedare. Tranquillizzata dei due occhi luminosi a fare da
faro nella notte buia, riuscì a chiudere i suoi con
inaspettata facilità, andare a dormire era cento volte
più soddisfacente dopo una giornata faticosa.
Doveva approfittare di
quel tempo indispensabile a riprendere le forze sapendo che non era
ancora finita, qualora il dolore l'avesse svegliata e non fosse
più riuscita a chiudere occhio per giorni interi.
Anche un brutto sogno
fosse giunto a lei, non si sarebbe lasciata traumatizzare.
Mentre la medicina, la
tecnica e la fisica sono ambiti in cui gli esseri umani sono riusciti a
dettare leggi costanti, sicure, i sogni sono ancora oggi materia
incontrollabile, dal comportamento imprevedibile e indeterminabile:
solo nella vita l'uomo può qualcosa per contrastare la
tristezza la disperazione.
Catlina si
addormentò beata, alla luce di una lampada al neon, con la
mascherina dell'ossigeno che russava come un drago dormiente, con
questo dolce pensiero coccolato fra le bende bianche di garza
disinfettata.
❁
Camilla si mise a
fissare il vuoto, dopo due minuti da quando la sua cara coetanea era
sprofondata fra le braccia di Morfeo. Sembrava che tutto il mondo si
fosse acquietato non appena l'aveva lasciata lì, da sola,
davanti al loro rapporto: l'imbarazzo, il dolore, la rabbia.
Dopo dieci minuti diede
un'occhiata al telefonino, tenendo l'illuminazione dello schermo bassa
per non disturbarla. Vista l'ora, il crepuscolo bruno al di fuori delle
inferriate, l'orario di visita doveva essere finito da un pezzo e
presto o tardi l'avrebbero cacciata via.
Mezz'ora e non riusciva
a smettere di osservare i piccoli particolari della fanciulla
dormiente: la bocca socchiusa iniettata di cruore, l'addome si alzava
ed abbassava a ritmo regolare, le maniche del pigiama in cotone soffice
congiunte al petto.
La bionda, constatando
che fosse ormai sul primo sonno, le accarezzava le guance.
Il senso di colpa la
divorava da dentro, svuotandole le viscere.
Poteva battersi il
petto, strapparsi i capelli e graffiarsi il seno dal dolore, il
patetismo di quel gesto eseguito dalla sua compagna l'aveva traslata
sotto un punto di vista differente.
Camilla
scoprì di non poter più far finta che le profonde
cicatrici non esistessero, Catlina non meritava quella freddezza in
aggiunta al rigore glaciale che l'accompagnava nella vita.
L'immagine palesata
sotto i suoi occhi era diversa da quella che si era persa anni prima,
ma conservava alcune somiglianze molto evidenti. La resilienza, per
esempio.
Ridurre una ragazza
bella, dolce e sensibile come Catlina ad un capro espiatorio per la sua
pietà avanzata le pareva una bestemmia; lei meritava di
più di un semplice "scusami".
A spingerla
lì, pensò Camilla, la pena per una malata
c'entrava poco o niente.
Era l'anima perseverante
nelle difficoltà e appassionata nell'inseguire i suoi sogni
ad impreziosire il rudere cadente del corpo in cui essa abitava.
Ma, anche senza tutti
quei traumi, aveva riconosciuto tale atteggiamento già
quando le due erano piccole.
Camilla percepiva il
cuore scalpitare come un prigioniero incatenato: ora che il peggio era
andato via, costringendo peraltro la povera Catlina a fare i primi,
faticosi passi per riallacciare i fili rossi del loro legame
interrotto, ora che il labbro putrefatto della loro ferita aveva
assorbito tutto il sale, disinfettato contro l'astio, ora poteva
disseppellire il loro passato.
Quanti bei ricordi
felici avevano collezionato le due amiche nel corso della loro
infanzia!
Le pepite d'oro non
meritano di venire insozzate dal catrame, come mai nessuna fra loro
aveva mai pensato di spolverare tali tesori?
I pomeriggi passati a
pettinarsi i capelli a vicenda, le notti passate a parlare dei loro
sogni mangiando biscotti, le lotte fatte nel cortile della scuola, i
bacini casti ed innocenti sulle sue guance...
La Campionessa di
Sinnoh, quando un'ora passò, si coprì con le
maniche della giacca gli occhi, scostando col dito indice una lacrima,
come se la sua amica, la sua migliore amica la potesse veder piangere
per lei.
Non poteva sapere per
certo se condividesse i suoi sentimenti al cento per cento. Ma poteva
esternarle i suoi, poteva almeno provarci. Era il momento giusto.
Dopo un'ora e qualche
minuto, Catlina si stropicciava gli occhi e si passava una mano sul
viso intorpidito, aveva dormito sul lato destro, schiacciandosi il seno
fra gli avambracci.
Con il cuore che batteva
all'impazzata, Camilla la benedì con un sorriso gentile.
Non disse nulla, notando
lo stupore assonnato della giovane distesa al suo fianco.
«Sei ancora
qui...»
Le sussurrò
contenta, sistemando un pochino la sua posizione all'interno delle
lenzuola.
«Non me ne
sono mai andata.»
La stupì con
questa risposta, non ritenendo utili chissà che sproloqui.
Da quell'estate in poi avrebbe avuto una vita intera per parlarle, a
prescindere da quali traumi e da quali sconfitte avrebbero subito in
futuro entrambe le parti.
Dopo un breve silenzio
di riflessione, ottenne tali parole, semplici e sapientemente ponderate.
«Lo
so.»
Dopodiché la
compagna dagli occhi vuoti le chiese con cortesia un bicchiere d'acqua
e lei subito si fece pronta a servirla.
In realtà,
neppure quando era lontana mille miglia, durante il suo viaggio
attraverso Sinnoh aveva cancellato il ricordo, per quanto doloroso:
nessun minatore getta via il diamante trovato in mezzo alla calcite,
per quanti calli sulle mani la sua estrazione gli abbia causato.
C'erano state pressioni
esterne, per così dire, che avevano costretto la giovane
Camilla ad allontanarsi da Memoride. Ma quella era un'altra storia.
Pregò che un
giorno il loro rapporto si approfondisse e diventasse di nuovo intimo a
tal punto da poter condividere con lei anche quella storia.
Passarono un po' di
tempo assieme, le due bionde, per discutere dei loro mestieri inerenti
al gruppo delle cinque: quegli argomenti triviali e sciocchi,
dopotutto, avevano contribuito a ricostruire i ponti tagliati da
distruttivi silenzi.
Si era fatto buio e
l'unica lampada presente nel piccolo cubicolo ospedaliero illuminava il
volto e la chioma disordinata della nobile, decisamente più
vivacizzata da essa.
La vide arrangiare
dietro le orecchie lunghe spole dorate incappando con le dita in
qualche nodo, provava a rendersi più presentabile per lei
pur conscia di apparire sfigurata in qualche modo.
«Se vuoi ti
aiuto a farti una doccia, dopo...»
La voglia di rimangiarsi
subito quelle parole impudiche non tardò ad assalirla.
«S-Sì,
penso che mi servirebbe. - E ad essa si aggiunse la reazione a quella
conferma assai improbabile - Perdonami, sono impresentabile.»
«Ti sminuisci
sempre, quando in realtà stai già bene
così.»
«È
perché con te non posso mai reggere il confronto.»
La donna non diede peso
a quei dettagli, tuttavia la postura tradiva una certa aria di
imposizione.
Concesse dunque
l'attenzione che essa meritava, guardandola dritta negli occhi.
Catlina fece un respiro
profondo. Le prese la mano, con quella in cui si notavano ancora i
buchi degli aghi, e la strinse al suo petto, inondandola di calore
umano.
Le infuse tutto il
coraggio che le serviva.
La Campionessa poteva
dirsi soddisfatta.
Un minimo si dispiaceva
che la loro amicizia fosse rinata solo grazie agli sforzi della
compagna, ma lei aveva ben poco su cui lavorare per riparare al suo
orgoglio ferito.
Finalmente la distanza
che la separava da lei era stata annullata, tutto sarebbe tornato
esattamente come prima.
«Camilla...»
La luce le indorava i
capelli e le faceva brillare gli occhi, come una vergine in mandorla di
un affresco trecentesco, le sue sofferenze la rendevano pura, una
visione estatica, esteticamente sconvolgente.
Catlina
espirò un'ultima volta, trovando la forza di confessarsi
a quel sorriso che mai l'aveva abbandonata un secondo.
«Camilla... Ti
ho sempre amata.
Fin da quando eravamo
piccole, sono sempre stata innamorata di te.
Non ho mai conosciuto
l'amore, lo sai...
Ma mi basteresti tu, tu
sei più di un'amica per me, sei la persona che
più mi è stata vicino e...
Sì, vorrei
che stessi sempre al mio fianco, perché io ti amo.»
❁
Quando una relazione
riesce a valicare definitivamente lo status di pidocchioso riguardo per
cui alcune parole sono sgarbate, certe azioni impudenti, delle
attenzioni asfissianti, secondo un regolamento universale sollecita
è dunque la fase successiva, tutti pronti per passare alla
dissezione introspettiva del partner, scoprendone i segreti e violando
ogni genere di summenzionata riservatezza.
Invece di interessarsi a
qualsivoglia masturbazione celebrale, Camilla preferiva di gran lunga
sapere come si sentisse, cosa provasse chi esce dal coma.
Quella notte doveva aver
dormito come uno Snorlax, o il sole aveva deciso di spuntare in
anticipo quel giorno, perché lei non si ricordava niente e
le spesse coperte felpate l'avevano fatta sudare.
A proposito di esse, la
donna sentiva la morbidezza del tessuto avvolgerla e sfiorarla in punti
che non credeva così sensibili: sollevò quindi un
lembo, senza alzarsi dalla posizione supina che aveva assunto.
Avvolta nella penombra,
a sua sorpresa intravide la forma cuspidale del suo pube stretto fra le
cosce carnose, rabbrividendo al contatto col lenzuolo fresco e
leggermente umido.
Trovava strano dormire
su un letto vero e proprio dopo un mese e mezzo sui futon arrotolabili.
Infatti le piacque
così tanto di starvi che decise di non alzarsi, ma
appoggiò la testa sul guanciale e lo sguardo pigro su del
mobilio circostante; design moderno, si disse, dalle forme minimali e
raffinate, come la libreria spoglia ed il comodino che recava i suoi
oggetti personali.
Come mai si era appena
svegliata in una stanza che non era a casa del Campione di Unima?
Camilla Kuroi non era il
tipo di persona che cede allo stupore, ma era assai curiosa di
esaminare quella bizzarra situazione per scoprire come vi si fosse
cacciata, fingendo che le dispiacesse.
Per far ciò,
si adagiò sull'avambraccio sinistro scaricando il peso sulla
spalla e i lunghi capelli lisci le scivolarono verso il torso scoperto,
lasciandola come una sirena che emerge dall'acqua.
Che sorpresa. Non era
sola a letto.
Quel genere di equivoci
che coinvolgono ampie e comode stanze, sgomento misto a sonnolenza,
amnesie e belle ragazze sono quasi sempre i figli primogeniti di
qualche bottiglia di vino in più, di una scommessa ben
valutata o di una farsa epocale.
La location: c'era.
Alcool, soldi et cetera: ancora da definirsi in teoria, ma la
Campionessa svalutò l'ipotesi senza pensarci troppo. Ma
ancora stava rivolgendo la sua attenzione al quesito sbagliato.
Si perse un attimo a
contemplare la terza componente, ossia chi avesse passato la notte al
suo fianco, e piano piano tutto il resto venne da sé.
Ormai aveva visto
Catlina dormire in tutte le posizioni e aveva memorizzato quale fosse
la sua preferita, quella sulla schiena, non certo quella sulla pancia,
poteva compatirla, anche a lei faceva male schiacciarsi l'ingente seno
sotto il peso del corpo...
Insomma, la biondina
giaceva distesa, con la testa adagiata sul cuscino, rivolta nella sua
direzione, ma nascondeva ritrosa le iridi sotto le palpebre serrate.
La sua chioma, sparsa a
raggiera, volgeva sopra il suo viso dipingendovi ombreggiature che
parevano disegnate a carboncino, un pelago fluente e ondulato del color
della filigrana.
Come la mantenuta
dipinta da Goya, anche Catlina sembrava inconsapevole di essere
completamente nuda, e ciò contribuiva ad enfatizzare l'aura
di fanciullesca innocenza che la caratterizzava.
Era coperta fino alle
costole, da esse in su il seno perfetto veniva leggermente compresso
dalla forza birichina della gravità e diventava, piuttosto,
due ellissi, coronato dalle areole rilassate.
Era addirittura visibile
lo sterno, che in normali circostanze rimaneva sepolto sotto l'ingente
massa del busto della ragazza di Sinnoh, e quella determinata parte del
corpo andò in risoluzione ad uno dei misteri che
attanagliavano la sua amica d'infanzia: ecco dove andava a finire la
cicatrice.
Mica poteva scomparire
nel nulla, una volta partita dalla clavicola ed immersasi nel seno.
L'osservazione
meticolosa di tutte quei particolari irrilevanti aiutava Camilla a
distrarsi dall'imbarazzante situazione che la vedeva protagonista.
Era, nel complesso, una
cosa del tutto sbagliata quella che aveva combinato.
Rilanciò
un'occhiata restia alla sua compagna addormentata, passandosi le dita
fra i capelli.
«Chissà
quante probabilità ci sono - pensò, ironica - che io e
Catlina abbiamo solo dormito ieri sera.»
Risvegliatasi nuda e
sudata, la riflessione dolce-amara sulle sue azioni discutibili era
l'unica forma di accettazione che la giovane poteva concedersi, siccome
di rimpianto vero e proprio non ne provava ed allo stesso tempo non
c'era giustificazione che le dicesse di aver fatto la cosa giusta.
Il giorno precedente, o
meglio, la sera e la nottata, le erano sembrati cortissimi e
transienti, le ore si consumavano quali fiammiferi esposti al vento e
lei aveva la bramosia di sfruttarle tutte, dalla prima all'ultima: un
buon proposito, per una che si era presentata in un ospedale a visitare
una malata in gravi condizioni spinta dalla vile pietà.
Nardo però
aveva chiesto che fosse lei ad assicurare la guarigione della sua
Superquattro prediletta, imponendole di sottoporsi all'ennesima
operazione al cervello, garantendole più o meno altre
tre-quattro settimane di sopravvivenza autonoma, senza contare
eventuali effetti collaterali.
Evidentemente la
Campionessa aveva sottovalutato la sua autorità di leader,
perché la stessa paziente che si rifiutava di farsi toccare
con un batuffolo di cotone aveva d'improvviso trovato il coraggio e la
forza psicologica di farsi incidere per intervenire, fin dov'era
possibile, sulla parete celebrale lesionata dall'osso rotto.
Perfino i dottori
avrebbero posticipato l'intervento al giorno successivo, ma Catlina
insistette a lungo, perseverò nel far prevalere i suoi
interessi sulla questione etica e sanitaria, come ogni figlia di buona
famiglia è abituata a fare, riuscendo nel suo intento.
Tale ferma decisione
l'aveva lasciata così spiazzata da costringerla ad aspettare
seduta lì, di sua volontà, tre lunghe ore di
intervento chirurgico, con la paura di aver mandato la sua migliore
amica al macello, di sentire l'elettrocardiogramma affievolirsi ed il
dottore annunciare con tono mesto "paziente deceduta".
Erano le sette di sera.
Non cenò, mentre il suo cellulare vibrava con insistenza per
ricordale che la batteria si stava esaurendo, mentre la sua tensione
aumentava.
Ogni tanto accarezzava i
Pokémon della compagna, l'orologio ticchettava piano.
Anche quell'attesa
finì.
Quando le ripresentarono
la biondina, ancora sotto anestesia e con la testa fasciata da bende
ancora più spesse, le parole che la stessa le aveva rivolto
poche ore prima risuonarono nelle sue orecchie.
E le toccò
ancora attendere che tutti gli infermieri lasciassero stare la povera
allenatrice.
La sua compagna appariva
stanca, ancor più di prima, sul punto di lasciarla una volta
per tutte.
Si era sbrigata a
riprendersi per via del dolore intrinseco del taglio, i punti tiravano
la pelle della sua nuca e non le permettevano di riposare ancora, al
limite della sopportazione avrebbe volentieri aspettato di cedere allo
sfinimento pur di rivedere l'alba del domani.
Questo sarebbe toccato
alla ragazza che poco prima aveva confessato il suo amore per lei.
Come conseguenza non
suonava poi tanto tragica, comparato sia a quanto di peggio ella avesse
vissuto in passato, sia con il fatto di potersi rivedere il giorno
dopo, assieme, di nuovo.
Ma a Camilla non giunse
a tal conclusione: le sembrava che tutto sarebbe potuto finire
lì.
«Andiamo via
da qui.» Disse.
Si alzò di
scatto dal bordo del letto dov'era seduta, infilandosi la giacca, di
fretta.
Catlina la
guardò divertita. Pensava stesse scherzando, quella
lasciò la sua stanza per un po'; dopo mezz'ora era tornata
con in mano le carte per la dimissione in extremis.
«Torniamo a
casa di Nardo?»
La nobile lo
domandò tale e quale la stessa bambina ansiosa di lasciare
l'ospedale per tornare a casa di dodici anni prima, ma la leader le
diede risposta negativa, ben conscia di non poter presentare una malata
terminale al Campione e alle altre più giovani, soprattutto
la reazione di esse alla confessione della sua cara amica la
preoccupava, ma non rivelò nulla a costei.
«Va bene, se
vuoi ti accompagno in un posto dove nessuno ci può
disturbare.» Propose.
Camilla la
guardò, curiosa. «Quanto lontano
è?»
«Spiraria. -
Fece la ragazza, ancora distesa comodamente a letto - A un'ora da
qui.»
Camilla
calcolò dunque di essere giunta lì per mezzanotte
circa.
Camelia, Anemone ed Iris
dormivano già da due ore ormai.
Dopo aver mentito a
Nardo, dicendogli di aver completato con successo il compito che lui le
aveva assegnato e che avrebbe passato la notte a fianco della compagna,
partì.
Beh, in teoria non aveva
promesso nulla di falso.
Tornando al presente, la
Campionessa di Sinnoh scivolò via dalle coperte nel
più assoluto silenzio, nuda, alla ricerca perlomeno della
propria biancheria intima.
Più si
sforzava di trovare una ragione al suo operato, più le
faceva male la testa.
«Sei
sveglia? - cominciò a mettere a punto un
discorso da farle, non appena si fosse un minimo coperta - Ti
sei fatta una doccia ieri sera tardi ma eri così stanca che
ti sei addormentata e non ho voluto disturbarti per farti
vestire... - e poi doveva ricordarsi la parte
più importante - Tranquilla, non
è successo nulla...»
L'ultima parte l'aveva
rivolta più a se stessa che alla sua amica
d'infanzia.
Aveva avuto prova che la
sua abilità persuasiva era abbastanza suadente da abbattere
tutte le convinzioni e le congetture che l'altra avesse in mente,
avrebbe sfruttato la sua debolezza psicologica per preservarsi da un
bel casino.
Non poteva metterlo in
dubbio: ciò che aveva fatto era una cosa sbagliata, sotto
ogni punto di vista.
«Buongiorno.»
Si sentì dire alle spalle.
La donna si
girò come se l'avessero beccata con le mani nel sacco, non
era riuscita neppure a recuperare la parte inferiore del proprio
vestiario, si alzò esibendo un caldo sorriso piuttosto
deviante, senza vergogna fece qualche passo verso il letto.
«Buongiorno.»
Rispose a sua volta, maliziosa.
Si rassegnò
pacificamente al fallimento del suo piano, non avendo altra scelta.
Intanto Catlina si
stiracchiava le braccia, traendo la pelle bianca del torace e delle
spalle
Il suo seno ricadeva
morbido alla sua posizione naturale, scendendo un poco più
in basso di quando era sorretto dal reggiseno.
Anche se non si sarebbe
mai considerata tale in cambio di tutto l'oro del mondo, Catlina era
veramente una bella ragazza, a detta della Campionessa.
Grazie al sonno
rinvigorente aveva ripreso un colorito roseo sulle guance, aveva gli
occhi socchiusi ma le palpebre erano meno cadenti del solito.
Camilla inoltre
intuì si fosse pure svegliata di buonissimo umore.
«...Che ore
sono?»
Le domandò
poi, alla ricerca di un piccolo porta-pillole azzurro.
«Tardi. -
Voleva limitarsi a rispondere la bionda, ma specificò subito
dopo - Le undici e mezza.»
Qualche minuto dopo,
come se il tempo importasse granché in questa vicenda
anacronistica, Camilla tornò nella camera da letto,
illuminata dal sole mattutino attraverso le ampie finestre, con in mano
due tazze di tè caldo fumanti.
Lei non era mai solita
berlo di mattina, tuttavia sapeva che la sua amica ne era dipendente in
qualche modo e la doveva accontentare.
«Cos'hai detto
a Nardo?»
La più
giovane fra le due bionde le pose composta quella domanda, senza
neppure degnar l'altra di uno sguardo sorseggiava piano il suo
tè, ingoiando con esso di malavoglia un antidolorifico
grande quanto un acino d'uva.
«Che rimanevi
un altro giorno in ospedale per gli ultimi controlli.»
Le rispose, con
altrettanta tranquillità.
«E a quelli in
ospedale hai detto che...» La invitò poi a
completare la frase, con lo stesso tono.
«...che eri
pronta per tornare a casa di Nardo per questioni riservate.»
Al sentire quella
retorica di scarsa leva basata su un doppio controsenso, Catlina si
mise a ridere da sola, scrutata dagli occhi argentei della compagna.
In meno di ventiquattro
ore si rese conto di averla vista fare cose di cui perfino lei, la
quale diffidava dei pregiudizi quanto conviene ad una persona perbene,
non credeva la biondina capace.
Anche quando ripensava a
Catlina ancora nel periodo in cui non si potevano vedere di persona, la
immaginava sempre sul punto di spegnersi, come i Pokémon che
vengono avvelenati o scottati durante la lotta tengono il loro
allenatore coll'acqua alla gola per paura che i Punti Salute si
esauriscano, così lei trasudava precarietà e
debolezza perenne, sempre sul punto di svenire, ammalarsi,
più di una volta di morire.
Per questo continuava a
lanciarle occhiate fugaci dallo specchietto retrovisore mentre erano in
macchina dirette a Spiraria: aveva la testa ciondolante e le palpebre
socchiuse, ma quella volta Catlina non sembrava volersi addormentare,
guardava la strada in silenzio, dal finestrino fissava i lampioni in
successione sfrecciarle sotto lo sguardo.
Allora Camilla tirava un
sospiro di sollievo e riportava la sua attenzione alla strada, premendo
l'acceleratore come se stesse scappando da qualcuno che la inseguiva,
come una criminale.
Ripeté tale
gestualità per tutto il tragitto, tanto che all'arrivo il
senso di sicurezza la sbloccò del tutto, finalmente.
I loro telefonini erano
spenti, la loro locazione era agli altri una sciocca illusione,
abbastanza vivida da non incoraggiarli a venirle a cercare
però, faceva perfino caldo a notte fonda.
La Campionessa
accompagnò la sua cara amica in una camera da ella stessa
indicatale grazie ai suoi Pokémon e le loro mosse di
levitazione, molto adatte al trasporto di chi non è in grado
di deambulare da sé.
La giovane donna credeva
che la sua fuga romantica senza motivazioni logiche sarebbe finita una
volta per tutte non appena, ritornati i Pokémon nelle loro
sfere, l'altra, ormai pallida e stremata all'inverosimile, si era
lasciata distendere sul letto, quello stesso letto ove stavano ora.
Aveva predetto che
adesso si sarebbe finalmente addormentata, Camilla ne fu quasi certa.
Ma, forse presa dalla
foga del momento, dal desiderio di compensare la straordinaria apertura
della sua migliore amica, o magari dall'adrenalina nel provare
l'esperienza tanto attesa nei suoi vent'anni, benedì il buon
nume dionisiaco per averle concesso quell'occasione.
La giovane non seppe
dire se fosse successo di fretta o se si fosse protratto a lungo.
Semplicemente, le due
avevano smesso di badare al tempo per concentrarsi su ben altro.
Il lungomare assisteva
muto, lo scenario era ristretto nelle pareti di quella stanza.
Camilla si
avvicinò alla ragazza, portandosi lentamente a sovrastarle
senza però abbandonare il proprio peso su di lei. Le
accarezzò i capelli, notando quanto perfino tal gesto
triviale le avesse dipinto un'espressione di sgomento negli occhi
lucidi.
Con delicatezza distese
la schiena e si avvicinò al suo volto trattenendosi ad una
distanza inconcepibile per un rapporto di sola amicizia ma che
rappresentava il massimo a cui potesse tendere per potersi
eventualmente fermare.
«Oh Dio... -
Esclamò in un sussurro, vergognatasi dei suoi istinti
inselvatichiti - V-Vuoi che io...»
«Sì,
va bene... - La dolce voce tremante le trasmise una carica erotica
ancor più amplificata, il significato del suo consenso era
inequivocabile da quell'istante in poi - Camilla, puoi farmi tutto
quello che vuoi... Basta che tu non mi faccia del male.»
E fu così che
il conflitto durato per mezza vita, tutte le tensioni sentimentali ed i
patemi d'animo che le due allenatrici si erano inventate nel timore di
non potersi più vedere, abbracciare, toccare, l'amicizia di
due bambine estranee al loro mondo si risolse nell'azzeramento
definitivo della distanza fra le due.
Camilla la
sentì guaire non appena la mano le scivolò sotto
la sua camicia da notte, al contatto con la pelle calda si
abbandonò ad un bacio passionale e affrettato, che le labbra
inesperte della compagna non riuscirono ad imitare.
Tuttavia Catlina ci mise
relativamente poco a spogliarsi della sua timidezza e ritenzione,
almeno quanto richiese all'altra per spogliarla dei vestiti e della
parte superiore della biancheria, mentre il suo respiro si faceva
sempre più irregolare ed un sorriso confermava come le sue
azioni, frutti di anni ed anni di libidine repressa, talmente scomposte
ed incomprensibili la facessero sentire bene, dopotutto.
È noto che
questa fu la prima volta sia dell'intrepida Campionessa, sia della sua
partner meno disinibita.
Nonostante
ciò, Camilla aveva una conoscenza teorica largamente
più approfondita dell'arte amorosa e se non fosse stato per
essa le due vergini sarebbero rimaste ancora a lungo al punto di
partenza.
Il gelido tocco delle
mani di Catlina scorreva sulla sua schiena nuda, senza che potessero
incappare nel suo reggiseno durante il tragitto, esse scesero senza
problemi verso i fianchi curvilinei, e la più grande delle
due volle subito provare su della sua amante tutto quello che aveva
letto nei libri e di cui le sue coetanee più esperte
parlavano, a patto che non violasse l'unica condizione che l'altra le
aveva imposto.
Il solo pensiero di aver
condiviso le pratiche sessuali riservate al primo vero amore con una,
tolti tutti i preconcetti dettati da quell'estate in poi, collega
instillò una velenosa perplessità nella
Campionessa di Sinnoh, che però non fu abbastanza per
metterle in odio i punti segreti che aveva visto, le
sensibilità su cui aveva infilato le dita e le parti di
Catlina che aveva baciato con tanta adorazione.
Perché quella
che le aveva posto il seno affinché glielo succhiasse non
poteva essere un'estranea?
Con quale coraggio si
era gettata nell'abisso di non ritorno il quale separa amicizia ed
amore?
Ma Camilla volle
perseverare nel suo incedere al buio.
Era la sua prima volta.
E l'idea di possedere la verginità di una fanciulla mansueta
e riservata come una vestale sulla punta dei suoi polpastrelli le
riempiva le membra di vigore.
Già voleva un
bene dell'anima a Catlina, unirsi al suo corpo era stato solo mera
formalità.
Il teorema precedente
sulla bipartizione dello spirito di Camilla, il più puro fra
i più puri dell'universo, trovava la sua dimostrazione in
quella mattina, in cui le due biondine di Sinnoh non si erano ancora
rivestite, anche dopo aver terminato la colazione.
Catlina
presentò poi un qualcosa di simbolico: appoggiò
la testa libera dalle bende sull'incavo fra il collo e la spalla della
leader e chiuse gli occhi per enfatizzare quanto si stesse godendo la
loro vicinanza. Non lo avrebbe mai fatto se si fosse trattato di un
altro, o di un'altra.
«Adesso dovrai
prenderti cura di me finché non mi riprendo... Aiutarmi a
lavarmi, a vestirmi, a medicarmi... Non sono in grado di fare tutto da
sola.»
«Sei un
pochino viziata, uguale e identica a dieci anni fa.» La
riprese scherzando la donna.
«Dai, - la
biondina si indispettì - non sto scherzando. Sai che sono
paralizzata dalla vita in giù fino a quando le terminazioni
nervose non si riprendono dal trauma...»
Camilla la interruppe
subito prima che ella potesse entrare in dettagli medici orrorifici.
Era una prassi che non sopportava, provava troppa empatia per restare
indifferente.
«Certo,
certo... - poi volle provocarla ulteriormente e vederla arrossire - Ti
dispiacerebbe farti fare il bagno da una delle nostre ragazze,
uhm?»
La nobile si strinse
nelle gambe bianche in preda all'imbarazzo, come previsto.
«Scherzi? Non
voglio che quelle... quelle... Quelle tre mi tocchino!
E non voglio che
sappiano che noi... Che sappiano di noi.»
Lo aveva previsto. In
primis, sapeva bene che Catlina non poteva essere davvero lesbica.
Prima che subentrasse
tutta la vicenda del Team Plasma, lei aveva occhi solo per un uomo,
attraente d'aspetto e dal carattere carismatico. Era una fanciulla come
tante.
Purtroppo
però, notando come si protraesse in avanti la sutura
presente sulla sua nuca in bella vista sotto il suo campo visivo, fu
costretta a ricredersi.
Chissà se
Catlina la amava come proclamava. O era solo curiosa. Frustrata,
può darsi.
Quella ragazza era alla
costante ricerca di materiale onirico sparpagliato attraverso la loro
realtà senza senso, ingiusta e sanguinolenta, non potendo
dormire in un sogno per tutta la vita rincorreva le ombre, le
proiezioni dei suoi desideri infantili nascosti nel silenzio e nel
rumore.
Dopodiché
ella si scostò improvvisamente dal suo fianco e
arrancò verso l'esterno per prendere un piccolo oggetto
tintinnante e le mostrò un altro sorriso, questa volta meno
consunto.
«Ti piace
questa villa?»
Domandò,
nascondendo qualcosa dietro la schiena, la sua carnagione lattea
illuminata dal sole.
Per risponderle, Camilla
la sfiorò con le labbra la guancia e le leccò
l'orecchio, guadagnandosi un mugolio di inaspettato piacere.
«Non avrebbe
nessun valore se tu non fossi qui.» La sua voce era
impregnata di eccitazione.
Cercando di emulare il
gesto subito la sera prima, Catlina le catturò la testa
sulla sua mano e si portò a un dito dal suo volto, ma non la
baciò ancora.
«Poco importa.
Tanto adesso è tua.»
E, prendendole per
l'estremità, le mostrò assai compiaciuta un mazzo
cospicuo di chiavi, ognuna di esse apriva un anfratto di quell'enorme
edificio. La giovane rimase senza parole.
«Ho chiesto a
mamma e papà se fosse un problema lasciarti la villa, visto
che io non la uso.»
Fece la biondina, come
se una cessione di proprietà fosse una cosa da nulla.
«Ah,
sì?»
Camilla d'altronde,
pretendeva spiegazioni. Non era propriamente sul lastrico, ma non
riusciva a capire la mancanza di buon senso che caratterizzava le
persone così abbienti.
«Mi avevano
comprato questa casa perché ci abitassi per tutto il tempo
in cui sarei rimasta ad Unima, ma sai che voglia... Svegliarsi
così presto la mattina per arrivare da qui alla Lega?
Neanche morta.»
Catlina esibì
una smorfia di insofferenza, mentre accarezzava con affetto
disinteressato le gambe della sua più-che-amica, guardandola
dritta in viso. Intanto riprese.
«Meglio se la
tieni tu. Puoi anche arredarla di nuovo, se ti fa piacere.
Così puoi
venire ad Unima ogni estate senza doverti cercare un albergo...
E ci possiamo vedere
sempre, anche dopo la fine del torneo, no?»
Non dandole il tempo di
reagire a tutta quella gentilezza entusiasta, la stessa le propose in
ultimo luogo di farsi una bella doccia fresca insieme prima di tornare
a comportarsi da colleghe di lavoro, lasciando all'altra, ad ogni modo,
poca scelta.
Sebbene dovesse contare
sul suo corpo ulteriori cicatrici, un trauma cranico, un divampante
amore da celare e la possibilità di diventare Campionessa
svanita, Catlina sorrideva come un tempo.
Con tutta
probabilità, amava veramente la sua compagna come aveva
detto.
Prova di ciò
stava scritta sul suo corpo come documento ufficiale. La sua pelle
semi-traslucida era ora decorata da ematomi colorati, blu, violacei e
rossastri, a far compagnia agli altri segni permanenti, stavano sparsi
nelle zone più esposte quali il collo e le spalle, fino a
scendere fra le cosce, sul sedere e in mezzo al seno come testimonianze
del suo amore.
«Devo aver
esagerato un po' ieri sera... Ho succhiato troppo forte, è
vero...
Ma la sua pelle
è così deliziosa... Come mordere un
marshmallow.» Pensò.
Camilla, d'altronde, non
esitò a prenderla in braccio per accompagnarla ed insieme,
nonostante tutto ciò che era successo in quelle giornate di
agonia fisica e morale, guardavano una bomba da bagno tonda sciogliersi
e colorare l'acqua della vasca di rosa intenso.
❁
«Camilla!
È tutta la sera che ti chiamo! Diamine, potresti almeno
tenere il cellulare acceso?»
«Scusami tanto
Nardo, ho avuto da fare per tutto il tempo, sono passata a vedere come
sta Catlina nel frattempo...»
«E come
sta?»
«Uhm, sta
abbastanza bene, dai, il dottore ha detto che la possono dimettere
anche domani mattina, volendo.»
«Ma non le era
venuto una specie di ictus? Non era in pericolo di vita fino a poche
ore fa?»
«N-No, sono
solo i medici che fanno i paranoici, pensa che mi è perfino
venuta incontro quando sono arrivata...»
«E
l'operazione che ti avevo detto di farle fare? Ti sei ricordata almeno
quella?»
«Certo che me
ne sono ricordata, l'ho pure convinta a farsi incidere sotto la nuca,
così non devono tagliarle i capelli! Ho solo avuto un po' di
cose da fare, e un imprevisto...»
«Va bene,
Camilla. Scusa se sono un po' preoccupato, ma sai com'è,
quella ragazza mi da problemi con la salute da quando l'ho presa alla
Lega. Basta che ora sia tutto a posto e non ci siano altri
scombussolamenti nel programma. Stai arrivando a casa?»
«Infatti,
stavo quasi per dimenticarmi: stanotte mi sa che torno tardi, molto
tardi.
Ah, e non aspettatemi
per cena e domani mattina niente allenamenti, per una volta.»
«Hai
finito?»
«Credo di
sì, se cambio ancora programma ti avviso per
messaggio.»
«Ma questo
è un telefono fisso! C-Camilla?!
Ha riagganciato...
quella ragazzaccia...»
❁
Behind
the Summery Scenery #17
1.
Oggi non sono andata a scuola per editare questo capitolo. Credo di
aver a dir poco stuprato il tasto del corsivo.
E
se ho dimenticato qualcosa... fatemelo notare, per favore. Odio
rileggermi, penso si sia capito.
2.
Super disclaimer leggendario di livello God: questo capitolo
è pieno di ospedali, ferite, operazioni, coma celebrale,
bambini malati, terminologia medica e altre cose di delicatezza simile.
Ora, io ho cercato di non essere ne' troppo vaga, ne' troppo specifica
nella descrizione della ferita celebrale di Catlina, (la quale non ha
fatto niente per meritarsi tutto questo, cucciola) e di tutto
ciò che ne compete, ma se qualcuno nota incongruenze,
imprecisioni oppure se la sente di darmi dell'ableist!1!111!!1! e
dell'insensibile, lasciate pure una recensione con allegato il referto
medico.
3.
Il tema dei sogni è uno dei miei fetish da scrittrice (OMG
Momo si e apenna defnita skritrice, k aroganta e persuntuossa!!) e mi
piace come tale tema percorra tutto l'arco di Pokémon Nero e
Bianco.
Per
chi non ci fosse arrivato, il primo in cui Camilla e Catlina viaggiano
nella Critica della Ragion Pura è un sogno.
Il
secondo è un flashback, ma se siete arrivati fin qui senza
saltare capitoli o fare i furbacchioni dovreste saperlo.
4.
Ancora, i più puristi di voi si saranno coperti gli occhi
alla lettura di una scena vagamente accennata di sesso fra due ragazze
maggiorenni e vaccinate in una storia dal rating arancione, si saranno
muniti di acqua santa e crocifisso.
Oppure
no! Tranquilli che non ho cercato cose come "hot virgin blondes with
big boobs", è tutta farina del mio sacco.
|
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Capitolo 18 *** Io desidero ***
ESGOTH 3
❁
A story
by: Momo
Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing: 🍦
Seguiteci
su instagram: @esg_ offical_ ig
Early
Summer Girls
❁
La
casa del Campione di Unima, la sua dimora in cui viveva quando non si
occupava delle faccende da Campione ed era semplicemente il solito
vecchio, saggio Nardo dall'aria bonaria, si trovava nella cittadina
rurale di Venturia, nella parte continentale della regione.
Era un posticino tranquillo, fondato da una comunità di
pionieri
puritani i quali pregavano tre volte al giorno e digiunavano il
venerdì, convinti che il loro rigore e l'assidua pratica
dell'agricoltura avrebbero nobilitato il loro animo laborioso una volta
giunti al cospetto di Dio.
La calma della vita agreste e la ridotta affluenza di persone la
rendevano un idillio per l'allenamento, vi erano boschi di larici in
cui si potevano fare straordinari incontri con Pokémon
selvatici
abbastanza potenti, campi di diversi ettari per lottare in
libertà e soprattutto nessuna mollezza che inebetisca gli
allenatori, come avviene nelle grandi città.
La casa dell'uomo che veniva additato come il più forte
della
regione dava di sicuro nell'occhio, la ragione per cui avesse deciso di
costruirla in stile orientaleggiante era ignota a molti contadini del
luogo.
Le altre abitazioni consistevano quasi tutte in larghi casolari muniti
ciascuno del proprio ranch e di un fienile per conservare il grano, di
un silo e di uno o più recinti in cui i Miltank e i Mareep
pascolavano placidi.
Questo tipo di allevamento era principalmente volto alla sussistenza
degli abitanti locali, tuttavia l'innata estroversione della ragazzina
dai capelli viola le aveva fruttato una mutuale amicizia con i vicini,
fra di loro si era instaurata una simpatia tale per cui avevano deciso
di omaggiarla con un paio di bottiglie di latte Mumu fresco, munto
quello stesso mattino che lei aveva passato ad allenarsi in una vasta
distesa erbosa.
Quel delizioso premio, si disse, sarebbe di sicuro andato a genio ai
suoi due draghi perennemente affamati; le era costato di lasciar
giocare con i suoi Pokémon i bambini di quella coppia di
mezzadri, con la preoccupazione che si potessero ferire anche solo
accarezzando la scagliosa pelle di essi.
Tante volte lei si era tagliata facendo le coccole ai Druddigon di suo
nonno, sebbene lui la ammonisse di continuo sulla
pericolosità
della loro Abilità, Cartavetro.
Quel ricordo nostalgico la distraeva da qualcosa di più
reale,
un timore molto più sensato che una piccola Allenatrice
sopravvissuta ad un attacco di un team assetato di vendetta poteva
avere nel suo animo: Iris non riusciva neppure a sentire il sapore
vellutato del latte sulla lingua se ripensava cosa aveva vissuto solo
due giorni prima.
Immaginava terrorizzata la metamorfosi della bianca bevanda in sangue
rosso e viscoso, che le entrava in bocca e lei lo ingoiava, riluttante,
finché esso non le corrodeva lo stomaco e le interiora si
contorcevano per liberarsi da quel flagello tossico.
E allora, mossa dall'angoscia insopportabile si sventrava l'addome come
fa un macellaio con l'agnellino immolato e sperava che il veleno che
ora traviava la sua mente tanto da spingerla a quelle macabre fantasie
non avesse inquinato pure il cuore di Georgia.
Alla giovane vennero i brividi. Si fermò a circa cento metri
dal
sentiero in terra battuta che conduceva al giardino antecedente la
dimora del Campione, osservando davanti a sé.
Che strano. C'erano delle persone lì davanti, parecchie
persone stazionavano lì.
La ragazzina si mise a scrutare quel gregge di individui come se il suo
sguardo possedesse poteri telecinetici e riuscisse a rimuovere la loro
presenza dal paesaggio.
Già destavano leciti sospetti con il loro andirivieni
frettoloso, come i Durant nei formicai si acquattavano dietro i loro
furgoncini e ne uscivano con in mano attrezzatura audio-visiva
parecchio ingombrante e, a quanto pareva, nessuno aveva avuto la
brillante idea di coprire i giganteschi loghi delle reti televisive
stampati sulle vetture.
Giunta alla realizzazione di non avere assolutamente voglia di
un'intervista lampo che mettesse ancor più in ridicolo
l'esito
sfortunato della loro missione, Iris si decise a fare un giro
più lungo per entrare a casa di Nardo passando dal cortile
sul
retro, dove si trovava l'onsen.
Aveva sentito parlare alla televisione degli eroi che nelle altre
regioni avevano salvato la comunità da catastrofi naturali,
sventato i piani di organizzazioni temibili e catturato i
Pokémon Leggendari come se fosse il loro hobby.
Per lei invece, la nipote acquisita di un Capopalestra, era stato un
dono del cielo il solo essere sopravvissuta, in che modo potevano i
media nazionali considerare la sua missione un fallimento?
Poi speculare sul dolore altrui le sembrava la peggior forma di
mercificazione: se quegli eroi da fumetto senza un minimo di sentimenti
avevano come passatempo salvare la Terra, che si divertissero pure nel
farlo tutte le volte che volevano.
Lei era una ragazza normale, con limiti e debolezze, e così
erano anche le sue compagne.
E non c'era bisogno di ammetterlo in ogni canale perché gli
abitanti di Unima se ne rendessero conto.
Fu sicura di aver eluso la barricata di giornalisti solo una volta
entrata all'interno, non appena l'Emolga di Camelia le venne incontro
come a suggerirle che le due diciassettenni erano sveglie.
Abituata ormai a trattare tutti i Pokémon delle sue amiche
come
fossero i suoi, le fece una carezza sulla testina, facendole abbassare
le orecchie.
Una volta giunta nella loro stanza, Iris cercò di spiegare
la
situazione meglio che poté, non tralasciando di aggiungere
la
sua opinione più onesta che mai.
«Avete visto fuori? Ci sono giornalisti per tutta Venturia, e
indovinate chi cercano?
Si è sparsa la voce di quello che è successo alla
Lega, non ci voleva.
Adesso il Team Plasma ci ha veramente fregate, anche se non ci ha
uccise...»
«Grazie Iris che ci sei tu a tirarci su il morale, altrimenti
qui ci saremo già suicidate tutte.»
Quell'acida interruzione distolse l'attenzione della giovane dal
condividere la sua depressione con le altre, sebbene non si aspettasse
davvero tanta indifferenza di fronte a una notizia del genere.
Rotolò la testa in direzione opposta e diede un occhio a
cosa stessero facendo le sue compagne durante la sua assenza.
Lei si era svegliata relativamente presto quel giorno, aveva il bisogno
impellente di uscire a prendere una boccata di aria fresca dopo quei
giorni di lutto e reclusione, per la mancanza delle due compagne
più vecchie le tre rimanenti allenatrici si erano lasciate
allo
sbando.
O almeno, a quanto sbando si potessero lasciar andare sotto la
supervisione rigida di Nardo.
Iris non rispose e si accostò alle due, senza contenersi
molto
nella curiosità: in effetti era una settimana che Camelia
ripeteva come un mantra di dover assolutamente fare una manicure alla
sua ragazza, volente o nolente ella fosse.
Pur di rendere duttile al suo proposito la sua dolce metà
trovava in ogni occasione il modo migliore per sminuirla e farla
sentire in colpa con frasi del tipo "Anemone potrebbe pugnalarmi un
giorno o l'altro con quegli artigli che si ritrova".
Dall'altro lato però era da altrettanto tempo che doveva
sorbirsi lei in maniera un po' meno plateale le lamentele della rossa
riguardo la scarsa cultura della sua fidanzata, del fatto che non
riuscisse a tenere una conversazione con lei senza che quella non la
pregasse di evitare i suoi insulsi riferimenti alla matematica e alla
fisica, agli anime e ai manga.
Per questo perfino una di poche parole come Anemone riusciva ormai ad
esaurire il suo buon senso, quando le domandava se fosse possibile che
l'altra non sapesse cosa volesse dire un qualcosa che neppure lei aveva
mai sentito nominare, ma si trovava costretta a darle ragione per
evitare di sentirsi dare dell'ignorante dal genio di turno.
Dunque la situazione che le si presentava non poté non
strapparle un genuino sorriso.
Sapeva dell'esistenza di un Capopalestra artista dalle strane tendenze
pseudo-astrattiste con un tocco di dadaismo, ma nel suo piccolo
riteneva un vero capolavoro quello che la sua compagna modella aveva
dipinto sulle unghie della sua ragazza con una mano ferma da fare
invidia.
Non solo le aveva colorato le unghie con delle adorabili sfumature di
smalto rosa, viola ed immancabilmente azzurro, le aveva anche
ricostruite e limate.
Senza dubbio la più giovane si stupì di come la
sua anima
di ragazza cedesse così facilmente al senso del dovere per
concentrarsi su tali frivolezze come lo smalto, ma avrebbe barattato la
sua integrità morale per avere anche per sé una
manicure
così carina.
E fu al settimo cielo quando Camelia acconsentì,
aspettandosi una risposta negativa.
La restante mezz'ora passò tranquilla.
Niente invasione di domicilio da parte di paparazzi muniti di
fotocamere dai flash abbaglianti, niente discussioni amareggiate sullo
stato della loro compagna assente, le due Capopalestra riferirono che
Nardo aveva accertato il suo ritorno presto o tardi quel giorno, Iris
fece assaggiar loro il latte regalatole dai vicini e tutte concordarono
sul quanto si mangiasse bene lì.
«Dai, amore, voglio sentirti dirlo un'altra volta, davanti ad
Iris, per favore...»
La rossa si era messa in una sottospecie di posizione di preghiera,
congiungendo le mani per ottenere compassione, mentre Iris la guardava
stranita, in senso comunque buono.
«Ma fammi un piacere, - Camelia era così intenta
nel suo
lavoro con il pennellino in mano da non degnarla neppure di contatto
visivo - se penso che hai un fetish per queste cose mi viene mal di
stomaco.»
«Ti prego... - Anemone insistette - È tutta prima
che me
lo hai detto giusto, se lo rifai anche adesso sarà la cosa
più bella che tu abbia mai fatto per me... Insieme alle
unghie,
ovvio.»
«Okay, ma non mi ricordo bene...» La mora fece una
pausa dal suo lavoro per pensare.
Intanto le due ragazze di colore la fissavano con alte aspettative.
«Allora... Il volt è l'unità di
misura... - la
ragazza si sforzò un poco, poi riprese - ...del potenziale,
che
è... - rallentava ogni volta che era incerta sul passaggio
successivo, abbozzava quello che voleva dire con le labbra ed Anemone
le faceva cenni per continuare, tutta esaltata - uh, il prodotto fra...
La costante kappa-zero, che è nove per dieci alla nona
newton
per metro quadro su coloumb, e il diviso, cioè, scusa,
intendevo
il rapporto fra la carica e la distanza e tutto questo fa venire fuori
joule su coloumb che da... Sì, il volt.»
Ci furono alcuni istanti di silenzio dettati dall'ammirazione, mentre
la ragazza che aveva parlato così scioltamente di una
materia a
lei del tutto sconosciuta come l'elettronica era bloccata in una specie
di trance intanto che rifletteva su ciò che aveva detto.
Aveva formulato una frase, ma se le avessero chiesto di spiegare cosa
fossero il potenziale, il joule o i newton per metro quadro su coloumb
avrebbe fatto scena muta.
Tuttavia non ebbe motivo di disperare, visto che la sua insegnante
privata la stava abbracciando con una forza esagerata, neanche avesse
pronunciato chissà che confessione d'amore.
«Da quando stiamo insieme sei diventata il triplo
più intelligente.» Fece quella, convinta.
«E tu almeno dieci più presentabile.» La
risposta di rimando della mora la fece sussultare.
«E io almeno cento più... Niente, accendo la
tv.»
Iris premette il tasto sul telecomando e gettò lo stesso in
disparte, pur di troncare sul nascere una scena degna della
più
smielate commedie romantiche.
Certo, non aveva nulla contro qualche dimostrazione di affetto anche
fra ragazze innamorate.
Ma per Giove, che non fosse sotto i suoi occhi di innocente single di
quindici anni.
Il Campione aveva concesso alle sue ragazze di tenere la televisione
nella loro stanza alla stregua di un padre conservatore del millennio
passato, considerandola una macchina che distrugge l'immaginazione,
rattrappisce il cervello dei giovani e porta solo brutte
novità.
«Ma perché qui la tv è sempre
sintonizzata sul canale delle news?»
Iris prese un sorso di latte, a cui aveva aggiunto un cucchiaino di
Baccacao in polvere per renderlo ancora più gustoso e dolce.
«Infatti, - Anemone aveva fatto accomodare Camelia fra le sue
gambe, divaricandole dietro di lei - guardiamoci un anime, ne
dovrebbero essere usciti di belli nella stagione estiva.»
La voce in sottofondo sovrastò ogni rumore presente nella
casa,
tanto che Iris recuperò pure il telecomando per alzare il
volume: dalle immagini che comparivano sullo sfondo intuirono che si
parlava, purtroppo, di Unima.
Quello era un telegiornale nazionale che copriva gli eventi di tutte e
sei le regioni del mondo Pokémon, abbastanza famoso da
attirare
gli ascolti indipendentemente dalla qualità dei servizi.
Lo studio con il grosso banco coperto da schermi su schermi venne
inquadrato prima nel suo aspetto generale, poi la telecamera
puntò dritta al cronista, impeccabile nella sua giacca e
cravatta abbinate l'una all'altra.
Non avendo seguito tutta la trasmissione, alle ragazze giunse solo
questo spezzone del discorso.
«...che deriva dalle passate attività con il
famigerato Team Plasma.»
Ammutolirono tutte, lasciando che il servizio vero e proprio
cominciasse: furono mostrati loro immagini riprese da diverse
angolazioni delle quattro sale dei Superquattro, ognuna appariva
distrutta in parte, con calcinacci sul pavimento, cavi spezzati e altri
danni ingigantiti dallo zoom eccessivo.
«Quando sembrava che il panico di due anni fa fosse stato
debellato con la cacciata di Natural Gropius Harmonia -
partì
una voce narratrice, con estremo pathos - il Team Plasma rinasce dalle
sue ceneri, come il simbolo che ora lo rappresenta, l'Araba
Fenice.»
Passarono poi in rassegna una serie di graffiti su di un muro
diroccato, rappresentavano tutti un corpo informe attorno al quale
fiamme rosse divampanti si alzavano, abbastanza stilizzate nel disegno,
mentre la carcassa che ne era circondata veniva carbonizzata.
«In questi ultimi mesi sono stati segnalati alcuni casi
isolati
di vandalismo da strada, che non hanno preoccupato le
autorità
fino al fatale assalto alla Lega Pokémon di
mercoledì
sera; purtroppo in quell'occasione le forze di difesa della regione non
hanno potuto impedire danni irreparabili alla millenaria
struttura...»
«Ma dai! - lo riprese Anemone, indicando lo schermo con fare
sdegnato - Sono delle cavolo di statue, un po' di colla e si risolve
tutto!
Grazie telegiornale, adesso sembra che le "vandale" siamo
noi!»
Nonostante la reazione esagerata, la rossa aveva ragione
nell'evidenziare la frivolezza di quel commento: la plebe tende sempre
a cercare un colpevole ed ora la collera generale si sarebbe riversata
sui servizi di protezione, e più specificatamente su di loro
e
su di Nardo.
«Pensate che adesso la Polizia Internazionale
interverrà sul caso?» Domandò Iris.
«Probabilmente sono solo i notiziari a fare scandalo su
quattro
lampadine rotte... - Camelia le rispose così, essendo la
più esperta nel settore - Adesso che si inventeranno?
Chiamano Ghecis e gli fanno chiedere scusa in mondovisione?»
«...ma l'ex Capo del Team Ghecis Harmonia - il telecronista
proseguì il suo discorso capitando proprio a fagiolo alla
fine
della precedente affermazione della modella - nega il proprio
coinvolgimento nell'imboscata dell'altra notte e in tutte le
attività illecite intraprese a partire dallo scioglimento
del
clan.»
«Basta, io non voglio più vivere in questa
regione.»
La scena rappresentata si spostò in un'ampia aula per
conferenze, addobbata con festoni e decorazioni nere e bianche, la
bandiera di Unima sventolava alle spalle della tribuna oratoria.
Un vociare confuso diffondeva un brusio eccitato: i tecnici mostrarono
il pubblico seduto sulle tribune, uomini e donne vestiti con il
bicolore regionale e il fervore patriottico nelle loro espressioni.
Iris, Camelia ed Anemone erano tutte e tre originarie di Unima, forse
per la terza potevano esserci varie ipotesi sulla provenienza della sua
famiglia natia, però comunque conoscevano la loro terra come
un
Allenatore conosce la propria squadra.
Dunque non potevano fare a meno di essere in ansia per chi stava per
presentarsi sul palco.
L'uomo dalla folta chioma verde nonostante l'età avanzata fu
accolto con un fragoroso scroscio di applausi, mentre si sollevavano
striscioni e urla in suo onore.
Quel bizzarro individuo vestiva quale un monarca orientale, una tunica
riccamente ricamata con i motivi rossi, arancio e d'oro della fenice,
dell'arabesco e della Mano di Fatima: l'ultima, segno di fortezza e
coraggio, figurava in un ingombrante pendente tempestato di gemme.
Ghecis alzò una mano e la puntò verso il suo
pubblico, il
quale subito tacque e fu come risucchiato nella spirale ipnotica delle
parole di quell'oratore provetto.
«Cittadini, - decise di pausare per un secondo, l'atmosfera
si
era fatta bollente - è facile lodare la regione di Unima
davanti
agli abitanti di Unima.
Non lo è, quando bisogna difenderla dallo squallore e dal
degrado di cui ci accusano le altre regioni.
Nel secolo in cui viviamo, la nostra terra non è
più una
penisola di selvaggi vestiti di pelli che allevano Pokémon
ed
ignorano le vicende del mondo esterno.
I nostri padri, i nostri antenati che combatterono nella guerra fra i
due eroi al fianco di Reshiram e Zekrom, essi posero le basi per la
vita in comunità, cessarono le ostilità, la
guerra civile
che aveva devastato la regione e straziato la popolazione per anni ed
anni...
Eppure io, ormai anziano, io che credevo di aver visto tutto, oggi vedo
con i miei occhi a che aberranti gesti e malevole intenzioni si sono
lasciate andare le nostre generazioni!»
Gridò e si prese la fronte in una mano, con la testa bassa
in segno di delusione.
Nessuno fiatò.
«Secondo me ci crede tutti scemi...»
Commentò Iris, senza ostacolare l'ascolto.
«Questo atto, oserei dire, blasfemo, questa irrispettosa
blasfemia di... Dissacrare un edificio come la Lega Unima, simbolo
delle lotte Pokémon di generazioni di Allenatori concordi
uniti
sotto il saggio governare dei sapienti... - si interruppe, ma poi
tuonò, battendo il pugno - È
imperdonabile!»
«Okay, ci crede definitivamente scemi.»
Si rispose da sola, riprendendo a fare un altro po' di coccole ad
Emolga.
Invece di tirarla ulteriormente per le lunghe, Ghecis decise di
sfoderare subito il suo asso nella manica, la sua argomentazione
vincente.
«Ho sentito dire da fonti, direi, "attendibili", che la mia
persona sia responsabile di tale ingiuria.
Secondo questa tesi, l'unico collegamento plausibile risiede
nell'associare il nome del Neo Team Plasma, a quello
dell'organizzazione che io stesso, ripeto, io stesso ordinai di
sciogliere.
E non posso spiegare la rinascita di questo aborto, il quale pretende
di essere il figlio degli ideali innocui e puri della vecchia
organizzazione, se non domandandovi, come starete facendo anche voi,
amici: chi sono i membri di codesta malfamata organizzazione?»
«Le tue scaldaletto, tesoro, molto semplice.»
Gli ribatté la mora, salace come non mai.
Le altre due risero divertite, era in quelle situazioni eccessivamente
esagerate che le battute della loro compagna diventavano
particolarmente efficaci.
Dopo un leggero sussurrare del pubblico generato dalla domanda spinosa,
l'uomo si pronunciò.
«I membri di tale organizzazione sono, in fede vi dico, gli
scarti, gli inetti, i rifiuti umani della nostra
società!»
Chiunque, sia fra i presenti in quella sala, sia gli spettatori da casa
rimasero basiti, alla modella, del tutto risoluta a non ascoltare una
parola che uscisse dalla bocca di quel delinquente, cadde il pennellino
dello smalto e per sbaglio si rovesciò un bicchiere.
«Le tendenze del nuovo millennio indeboliscono i giovani e li
portano sulla cattiva strada.
Si atteggiano con superficialità e dimenticano i veri valori
che hanno reso grande questa regione.
E mi sento in dovere, cari signori, di portare esempi concreti in
sostegno della mia teoria: gli immigrati, i disabili, i poveri, i figli
della strada, i neri, i gay e le minoranze deboli in generale
rallentano lo sviluppo della regione e danneggiano il buon sangue dei
suoi cittadini.»
In quell'esatto momento la storia dell'umanità si
bloccò.
Vi furono mille secoli di involuzione del tutto compressi in pochi
secondi, quelle parole erano la vera blasfemia che distruggeva il
labile orgoglio del genere umano.
Ghecis Harmonia, il quale si faceva portatore delle verità
incommensurabili della regione, un aristocratico definito di buona
famiglia si era messo a spergiurare contro le fasce più
deboli
della popolazione, quelle più pregiudicate ed emarginate, ma
che
in toto non nuocevano affatto alla società nel modo che
sosteneva lui e che comunque rappresentavano pur sempre una parte della
popolazione.
Le tre ragazze rimasero senza parole, senza commenti.
Era come un'esecuzione pubblica, ognuna si sentiva piena di vergogna
per ragioni non meritevoli del loro rimorso, offese davanti a tutti, in
diretta nazionale.
Ogni sillaba di quel discorso era sbagliata. Chiunque lo avrebbe potuto
notare.
Ma quel bastardo senza gloria volle comunque perseverare nel suo
seminar zizzania.
«Con la mia candidatura a Campione, entro il mese prossimo vi
garantisco che la nostra amata Unima sarà libera da queste
piaghe, la nostra società imparerà ad isolare ed
eliminare questa categoria di individui deviati, e la giustizia e la
felicità trionferanno.
Ora ci troviamo tutti in un regime di terrore, in cui regna lo ius
omnia e la legge non è più pietra miliare. Ma io,
Ghecis
Harmonia, mi propongo di cambiare la situazione.
Il vostro consenso, concittadini, sarà la chiave per una
regione
più giusta, più bella, più
grande!»
Ed una marea di battiti di mani esaltati, di grida infervorate, di
febbrile eccitazione si diffuse fra la folla e il sovrano
già
pregustava la sensazione della corona d'alloro sulla sua testa, mentre
ringraziava con falsa umiltà i suoi nuovi sostenitori.
La ragazzina dalla pelle color caramello, i capelli viola, proveniente
da un villaggio sconosciuto e il cui orientamento sessuale era ancora
da definirsi pienamente, andò ad abbracciare le sue due
compagne, non riusciva neppure a far uscire dalle labbra il disgusto
abominevole che quell'individuo le procurava.
Non era preoccupata per sé. Non lo era.
Lo era bensì per le persone diversamente abili, straniere,
omosessuali, di colore e in condizioni economiche precarie che lei
conosceva, con cui si svegliava, mangiava, si allenava e andava a
dormire tutti i giorni.
Le stesse persone che le avevano insegnato ad abbattere le sue barriere
mentali per non finire a predicare l'odio come individui
così
rivoltanti.
Iris aveva paura, quasi quanta gliene aveva data il pensiero che esse
stesse potessero morire sotto l'attacco del Neo Team Plasma, per
Anemone, Camelia, Catlina e Camilla.
Quel giorno di luglio, Unima aveva subito un duro, durissimo colpo alla
sua dignità.
❁
Quando,
circa mezz'ora dopo, comparvero sulla soglia della loro camera la
leader insieme alla giovane che da due giorni infestava le loro
più nefande preoccupazioni, tutte e tre fecero del loro
meglio
per nascondere i volti di pietra, scolpendovi sopra dei sorrisi il
più accoglienti possibile.
E, tutto sommato, non si dispiacquero troppo di fingere la loro
felicità: rivedere Catlina tutta intera, viva, vegeta, ma
soprattutto sveglia dal coma, riscaldò i cuori congelati di
tutte.
Ma non solo. La biondina, nonostante fosse reduce da una dolorosa
lobectomia, appariva in pace con se stessa e con l'universo intorno a
lei: non si dimostrava recidiva agli abbracci e ai baci gioiosi delle
due Capopalestra, anzi, si sporgeva sull'orlo della sua sedia a rotelle
per contraccambiarli, al settimo cielo all'idea di lasciare quel tetro
ospedale una volta per tutte.
Era un ciclone di affetto e calde interazioni che non poté
non
far intenerire la protagonista, la quale si ripromise di aiutare la
loro amica nei momenti di precarietà fisica, il tutto di
propria
spontanea volontà, imparando come soccorrerla qualora le
fossero
venuti, per esempio, altri attacchi di epilessia, adesso aveva imparato
il nome di quella malattia.
Poi le propose, cercando sempre di non assillarla troppo, di farsi
rifare le unghie di nuovo, mostrandole il variopinto design di una
galassia blu scuro, piena di brillantini che sembravano stelle, che
sfoggiava con fierezza sulle sue.
«Se ve lo chiedono - fece Camelia, andando alla ricerca della
base trasparente - io non sono una delle candidate al posto di
Campionessa. Io sono la loro estetista.»
Scatenò così un altro momento di spensierata
ilarità per il gruppetto di nuovo riunito.
Se c'era una cosa di cui Iris era certa, essa risiedeva negli istanti
in cui le cinque sorridevano tutte assieme, nasceva una specie di
magia, un arcobaleno illuminava la loro stanza buia ed i brutti
pensieri si volatilizzavano come le bollicine frizzanti nella Gassosa e
nel Lemonsucco.
Perfino Nardo, il quale non osava mettere piede nei locali adibiti alle
ragazze neanche a pagarlo, volle dare il bentornato alla biondina,
sinceramente grato di poterla contare fra i suoi Superquattro ancora,
sperava per un altro po' di tempo, prima che la malattia peggiorasse.
Per lui, i suoi dipendenti alla Lega erano come dei nipotini, il
trattamento che destinava loro era lo stesso.
«Invece, - disse, più serio - desidererei delle
spiegazioni per quanto riguarda la signorina dal cellulare
inesistente...»
«Ti darò tutte le spiegazioni, - Camilla gli si
parò davanti, sicura e grintosa com'era da lei - quando tu
ci
dirai, una volta per tutte, quando potremmo avere la nostra
sauna.»
Tutte le allenatrici in kimono espressero il loro supporto alla
protesta della Campionessa.
«Credevi ce ne fossimo dimenticate?» Gli
ripeté la donna, mettendolo alle strette.
«Non mi pare il caso, comunque, di parlarne adesso. - L'uomo
dalla folta chioma arancione diede loro le spalle - La Professoressa
Zania mi ha chiesto un appuntamento in privato con voi, per discutere
la situazione del Neo Team Plasma senza che i media creino altro
panico.»
Partì una lunga espressione vocale di generale malcontento,
le
pupille che volavano al cielo, chiedendosi perché dopo tanti
tormenti alle giovani non spettasse neppure un giorno di pausa.
Dopodiché una sfilza di occhioni miserevoli pregavano il
vecchio
Campione di concedere loro un premio, una ricompensa che le spronasse a
fare bene il loro lavoro, come quando avevano scacciato i ladri dal
centro commerciale.
Infine si stabilì un compromesso: Nardo le avrebbe lasciate
libere un altro giorno per svagarsi, a patto che non tornassero a casa
ubriache o deturpate in alcun modo.
E, cosa più importante, avrebbe assunto lavoratori
professionisti per completare la sauna una volta per tutte, ovviamente.
Tutte applaudirono e i Pokémon fecero festa, con questo
allettante proposito riuscirono a distrarsi dalle loro manicure per
concentrarsi su ciò che la Professoressa aveva da dire.
In concomitanza con il congedo di Nardo, entrò nella stanza
una
giovane donna in camice da laboratorio, dai lunghi capelli nero pece e
la frangetta corta sorretta da due mollette. Sorrideva timidamente, al
suo fianco un piccolo Munna fluttuava come un palloncino, Catlina lo
cercò di attirare con dolcezza verso di sé per
accarezzarlo, appassionata com'era di Pokémon Psico.
La ricercatrice era leggermente impacciata nei movimenti, ma le ragazze
non glielo fecero notare.
«Ciao ragazze, - si presentò - Sono Zania Yumei e
sono una
collega della Professoressa Aralia, che immagino conosciate
bene.»
Tutte annuirono ed essa proseguì.
«Insieme a lei e ad altri studiosi mi sono offerta volontaria
per
aiutare il Campione sulla questione del Neo Team Plasma, mettendomi a
disposizione per evitare la catastrofe degli anni scorsi.
E credo di avere qualcosa che possa interessarvi.»
Zania estrasse un pc portatile e le ragazze fecero spazio sul tavolo,
radunandovisi intorno: esso rappresentava una schermata verde, in cui
un diagramma rappresentava alcuni valori inseriti in dei grafici.
«Come sapete, fino a poco tempo fa il Team Plasma, quando
ancora
era guidato da Natural Harmonia, voleva persuadere gli allenatori a
liberare i loro Pokémon.»
«È vero, - constatò la rossa - era
questo il tema dei loro discorsi in pubblico.»
«Ecco, quando l'anno scorso il Team è stato
sciolto sotto
ordine di Ghecis, alcuni allenatori che in precedenza avevano liberato
i loro Pokémon, li hanno ritrovati... Diversi.
Questi Pokémon abbandonati venivano recuperati in orde
radunate tutte nello stesso posto.
Quando rientravano in contatto con i loro vecchi allenatori si
dimostravano molto aggressivi, intrattabili e disobbedienti.
In questi mesi ho voluto fare delle analisi su alcuni campioni di
questi Pokémon "liberati".
Quelli che vedete sullo schermo sono i valori basilari che regolano la
vita di un essere vivente: battito cardiaco, frequenze nervose,
pressione sanguina...
Ed i risultati delle analisi su questi Pokémon sono
aberranti.»
«Poverini.» Commentò la nobile di
Sinnoh,
paragonando la propria situazione di malessere a quella di tali
creature innocenti.
«È ovvio che ci fosse qualcosa sotto. - Zania
cambiò interfaccia ed si fece più cupa -
Così ho
chiesto ad Aralia di analizzare il sangue, o qualsiasi tessuto
connettivo questi esemplari possiedano, ed ho scoperto questo.
Tutti i Pokémon liberati sotto ordine del Team Plasma sono
stati drogati con una neuro-tossina artificiale.»
Seguì un breve silenzio di riflessione. Ora era chiaro come
mai
quei farabutti predicassero la parità fra uomini e
Pokémon ed il ritorno allo stato naturale di questi ultimi,
e
razzolassero male utilizzandone loro stessi per lottare senza il
bisogno di allenarli.
C'era sotto un veleno, un veleno letale.
«E che cosa fa questa tossina?» Domandò
subito Camilla.
«Non possiamo saperlo esattamente, questa tossina non si
trova in
natura. - Zania sospirò - Andarlo a scoprire...
Significherebbe
fare esperimenti ed iniettarla su altri Pokémon sani e allo
stesso tempo negare le cure a quelli intossicati...
La legge della nostra regione proibisce la vivisezione.»
L'etica morale poneva un ostacolo ai chiarimenti della scienza, ma
nessuna di loro fu così cinica da voler aggirare un
tabù
tanto indecoroso.
A quel punto una domanda sorse spontanea alla più piccola
fra le Allenatrici.
«Che il Neo Team Plasma la utilizzi ancora questa
droga?»
«Spiegherebbe perché i Pokémon di
quelle pazze in
tutina ci abbiano attaccate senza pensarci due volte.»
Aggiunse
la mora.
Zania mostrò loro una mappa della regione, con le
città
principali segnalate da puntini gialli connessi da segmenti dello
stesso colore, per rappresentare i percorsi e le strade che le univano.
Indicò con l'indice un'area definita, a sud del territorio
ed ingrandì su di essa.
«A differenza degli altri clan malavitosi, il Team Plasma non
ha
mai posseduto un vero e proprio quartier generale. I suoi membri si
spostavano di città in città accompagnati da uno
dei
Sette Saggi.
Quindi, anche sul dove andare a localizzare dove nasca questo
fantomatico contrabbando risulta un problema...»
«Aspetta, - le fece la mora, spostandosi col cursore su una
parte
differente della mappa - ci sono due posti a Unima dove gira un sacco
di droga: a Sciroccopoli ed ad Austropoli.
Non guardatemi male... N-Non ne faccio uso o cose del genere, sono solo
informata...»
Ci tenne a discolparsi, tanto contraria era agli stupefacenti che
facevano impazzire la sua generazione. Quell'informazione inoltre,
innescò la risposta repentina della sua fidanzata, la quale
se
la sentì di esprimere il suo umile parere.
«Già. Se la droga gli arriva da altre regioni non
può di certo passare per via aerea.
Il servizio cargo nazionale infatti vieta il trasferimento di questo
tipo di merci.
O arriva nei container, e ne dubito, visto che la frontiera
è
quasi impossibile da passare ora che i Saggi sono in libera
circolazione, oppure...»
«Via nave. - Concluse Camilla - È l'unico modo per
raggiungere Kanto, Hoenn o Sinnoh.»
«Siete piuttosto unite - commentò la Professoressa
- per essere...»
«Avversarie? - la interruppe Catlina, che aveva trovato
ottima
compagnia in quel docile Munna così aperto alle coccole -
Sì, lo sappiamo, ce lo dicono tutti.»
Nessuna di loro aveva davvero capito se ciò fosse un
qualcosa di
bello o una stranezza riprovevole, tanto da spingere Anemone a chiedere
conferma, essendo ormai entrate in confidenza con la donna e non
necessitando più di onorifici e formalità.
«Secondo lei è sbagliato il fatto che non ci
odiamo ancora
a vicenda? Stiamo cominciando a preoccuparci, visto quello che ha detto
anche Ghecis in tv...»
Zania ripose il computer e si sentì un po' a disagio in
quella
piccolissima comunità: non le pareva di aver mai visto delle
Allenatrici così legate, da quando tre Allenatori che lei
ben
conosceva avevano cominciato il loro viaggio dalla cittadina di
Soffiolieve...
Non le sembrava affatto corretto utilizzare quelle ragazze
così
simpatiche, così fragili, per combattere dei criminali al
posto
della polizia o degli altri codardi, che solo al sentir pronunciare la
parola "Team Plasma" se l'erano data a gambe.
Stava per andarsene e riferire a Nardo quanto quella missione fosse
pericolosa ed infattibile, quando, di punto in bianco, Iris si
alzò in piedi ed attirò l'attenzione di tutte.
«Ma allora è facile! Basta andare ad Austropoli,
comprarci
un po' di quella droga e lasciarla alla Professoressa, così
può analizzarla senza far soffrire gli altri
Pokémon.»
La ragazzina dai capelli viola subì su di sé
quattro occhiate completamente confuse.
Alla fine però, Camilla smorzò un ennesimo
sorriso e si alzò pure lei, parlando dritta alla donna.
«Uhm. Si potrebbe fare.
Anche entro oggi se vogliamo, tanto non avete allenamenti, ragazze,
vero? - E fece l'occhiolino al gruppo affinché ricordassero
chi
aveva disdetto la loro sessione di fatica giornaliera - E poi non
dobbiamo neanche spendere i soldi del trasporto, possiamo andare in
macchina mia.»
«Se hai la macchina - la riprese Camelia - perché
non l'abbiamo usata fin da subito?»
«Ovvio che non potessimo usarla... - La bionda si
coprì la
bocca con la mano, in segno di imbarazzo - Mi hanno ridato la patente
questa settimana.»
«C-Come!? Ti sei fatta ritirare la patente? Hai preso sotto
qualcuno?» Sbottò la rossa.
«Cosa importa, erano solo un paio di multe per eccesso di
velocità, devo abituarmi che qui si guarda prima a destra e
poi
a sinistra...» Si difese la Campionessa.
Non le pareva il caso di drammatizzare sulle proprie piccole mancanze
quando crimini molto peggiori accadevano in giro per la regione.
E, se proprio non si fidavano di lei, non c'erano stati né
morti
né feriti, poteva giurarlo sulla triade divina di Dialga,
Palkia
e Arceus.
«Ve la sentireste? - domandò preoccupata la
ricercatrice -
È pericoloso e potreste rischiare ancora di più
di quanto
non avete già fatto con l'attacco alla Lega...
Avete già pensato a come fare? Avete un piano?»
Subito Iris le pose una mano sulla spalla, trasmettendole sicurezza
attraverso i suoi occhi nocciola.
«Un piano ci verrà in mente lungo la strada. Le
posso assicurare che ce la faremo.
Alla fine, siamo noi le Campionesse della regione, mica quel Ghecis
Harmonia.»
❁
Il
fuoristrada cachi guidato dalla Campionessa sfrecciava imperterrito
verso la piazza centrale: nonostante le numerose vetture dai colori
accesi che affollavano la strada, il procedere ad una
velocità
sostenuta amplificava il senso di libertà in ciascuna delle
ragazze, potevano sentire il vento fra i capelli e godersi la vista sui
cartelloni pubblicitari senza incombere nell'impiccio dei finestrini.
L'aria cittadina non trovava lo spazio fra il pesante odore di fritto
emanato dal cibo comprato pochi minuti prima ad uno dei tanti fast-food
seminati ad ogni angolo, anch'essi avvolti nello stesso contenitore di
carta unta con cui erano brillantemente impacchettati i loro hamburger
e le loro bevande frizzanti.
Iris alzò le pupille verso l'alto, mentre succhiava la
cannuccia
con tanta veemenza da far sembrare che la sua anima fosse stata
assorbita sul fondo del bicchiere in plastica; Austropoli non era come
tutte le altre città, la capitale della regione disponeva
perfino del suo zodiaco personale.
Era uno spettacolo singolare; se ne poteva discutere la valenza
estetica, visto che non erano le sfumature del cielo o la forma delle
nuvole a renderlo, se non bello, almeno notabile.
Grattacieli sempre più imponenti si sfidavano a quale fra
questi
colossi di cemento avrebbe per primo bucato la volta celeste, un
esercito di torri di Babele spuntava dal suolo e spostava la
prospettiva dall'orizzonte verso l'alto.
Li rivestivano cartelloni pubblicitari dai pixel grandi come lo schermo
di un televisore, gli ultimi prodotti per la cura dei
Pokémon
litigavano per il loro spazio vitale con gli ultimi modelli di
Interpoké e le collezioni primavera-estate dei
più
rinomati stilisti.
I cartelli stradali, le persone formicolanti sulle strisce pedonali,
gli uffici e i negozi ghermivano di vita a quell'ora: se ciò
fosse il degradante ritratto della globalizzazione che annichilisce
l'uomo o il benevolo volto del progresso è un'opinione del
tutto
soggettiva.
Camilla rallentò progressivamente di fronte al semaforo,
incolonnandosi in una fila piuttosto lunga di vetture parallela ad
altre tre o quattro identiche. Si fece infilare in bocca dalla sua
coetanea, la quale le sedeva accanto, una patatina fritta coperta di
salsa rossa, leccandole la punta del dito in segno di implicita
dimostrazione di affetto.
«Okay. - Iris si protrasse in avanti, verso l'incavo fra i
due
sedili anteriori - Voi quattro avete già trovato il Team
Plasma
una volta, potete farlo di nuovo.
Qual è il piano, allora?» Disse con voce intrisa
d'impaziente aspettativa.
La sua domanda, per quanto lecita fosse, si disperse nel rumore
fastidioso del traffico.
Si guardò intorno, ma le altre non le diedero l'impressione
di
non averla ascoltata, bensì di non avere la risposta giusta
da
darle.
«Niente piano, va bene.»
«Una cosa è un centro commerciale, una cosa
è una metropoli di sei milioni di persone.»
L'affermazione semplicistica di Anemone si ridusse a ciò,
mentre
ella mangiava tranquilla un medaglione di pollo dorato, torturandosi i
bordi sfilacciati dei jeans strappati con le unghie così ben
curate.
«Finché restiamo qui bloccate in coda mi sa che
fanno in tempo a cambiare regione.»
La mora allungò il braccio davanti al petto della ragazzina,
seduta verso la portiera di destra, e mentre imponeva alla sua ragazza
a suon di pizzicotti di smetterla di riempirsi di cibo-spazzatura,
l'autista spense il motore.
I tempi di attesa di fronte ad un incrocio di Austropoli si misuravano
in lustri, apparentemente.
Camilla e Catlina intanto presero a discutere anche in maniera
piuttosto accesa sulla direzione da prendere una volta superato il loro
purgatorio stradale, indicando punti nella cartina con un una potenza
direttamente proporzionale alla loro convinzione sul dove si dovesse
svoltare.
Percependo il classico momento in cui la sua presenza non serviva a
granché, Iris prese in mano il telefonino e, intenta a non
farci
nulla di particolare, toccò l'icona lampeggiante dei
messaggi.
Le capitava di rado un buco libero nelle loro intense giornate di
allenamenti per appartarsi ed intrattenere una conversazione, ma le
faceva piacere ripassare gli ultimi argomenti di pettegolezzo avuti
lungo la settimana, una frivolezza che si sarebbe potuta concedere solo
a quell'età.
Fece scorrere lo schermo velocemente, ai suoi occhi giungevano solo
mozziconi di parole, emoticon colorate, un gruppo di qualche mese prima
dal quale non era ancora stata rimossa, cancellare le chat le faceva
male ad una parte indistinta del cuore, era come eliminare un ricordo,
uno futile, ma pur sempre un ricordo.
Tutt'un tratto però, le capitò di vedere un
messaggio in
particolare che cominciava con "ciao, sei libera sabato sera". La data
non risaliva a meno di tre giorni prima, cosa che la
incuriosì.
Subito diede un'occhiata al mittente, o meglio, alla mittente.
Sebbene le sue labbra si fossero curvate in un sorriso compiaciuto, la
assalì di nuovo il brutto pensiero fatto prima di
raggiungere la
chiassosa città, riempiendola di ansia.
Quel numero poteva appartenere ad una persona morta.
Morta dissanguata, o di infezione, più probabilmente.
«So - alzò tantissimo la voce, facendosi sentire
anche
dagli altri automobilisti forse - come trovare il Neo Team Plasma. Ho
un piano, io.»
Dopo che la sua mossa le aveva permesso di non venire trascurata
ancora, Iris per la prima volta tergiversò nel regalare per
la
milionesima volta la sua gentilezza a prezzo stracciato alle sue
compagne.
Riguardare quel messaggio aveva risvegliato un'insofferenza ai
trattamenti subiti nel corso di quei due mesi, nessuna delle quattro
ragazze più grandi era esclusa da questo astio recondito.
Era inutile che la più piccola continuasse a ripetersi in
testa
"vi odio" e "vi detesto" se non dava mai le prove concrete, non poteva
aspettarsi che esse capissero sempre tutto da sole.
«Aspettate… ma perché dovrei?»
Non si risparmiò, viaggiò nel tempo fino alla
notte del
temporale, alla giornata in cui sarebbero dovute andare in spiaggia,
fino allo spiacevole episodio dei Magazzini Nove.
«Non vi ho mai sentite dirmi "grazie" o farmi vedere che ci
tenete un minimo.
E poi mi lasciate sempre da sola con le scuse più stupide,
pensate che io non ci stia male…
Non dico starvi simpatica, so che non ce la faccio, ma almeno non
trattatemi come se non fregasse niente! Scusate… ma non
è
giusto… io non vi ho mai fatto niente…
Voglio che almeno mi chiediate scusa, me lo dovete tutte!»
Fu quasi contenta di essere riuscita a schioccare per cinque secondi,
ma il loro esame di coscienze non durò troppo.
«Ma questo sarebbe un ricatto?»
Le fece Camelia, fissandola in cagnesco attraverso le ciglia allungate
dal mascara.
«Un po' è vero… Non hai tutti i torti.
Io ti chiedo scusa da parte di tutte, davvero, non pensavo stessimo
ferendo i tuoi sentimenti…»
Credette di averla scampata liscia la rossa, per quanto fosse sincera e
ricercasse sempre il perdono altrui Iris la riprese subito, con tono
ancora più concitato.
In fondo le dispiacque di non comprendere a fondo le accuse rivolte a
lei, ma come mai la ragazzina avesse deciso di parlare dei propri
problemi con loro in una situazione così inadatta le
sfuggiva.
«No! Non ha senso che me lo diciate così, per
farmi stare zitta!»
«Iris, - La cercò di tranquillizzare anche
Catlina, per
nulla favorevole a cominciare una lite nel bel mezzo di una missione -
se vuoi possiamo parlarne dopo, quando torniamo…»
«O "scusa" me lo dite sinceramente e mi promettete che d'ora
in
poi almeno ci provate a rispettarmi, altrimenti io scendo qui e me ne
vado una volta per tutte, ci si vede.
Non mi faccio problemi, eh.»
Ed in gesto di accesa provocazione, si slacciò la cintura ed
accavallò le gambe abbronzate quasi del tutto scoperte da
pantaloncini corti.
Quella era la sua soluzione finale, dopodiché non avrebbe
mai e
poi mai rimesso piede a casa di Nardo, si sarebbe ritirata dalla
competizione ed avrebbe sperato di non incontrare quelle quattro
neppure per caso per la strada: non avrebbe retto l'affronto.
Era incredibile come ogni singolo momento di negligenza fosse riemerso
a galla d'improvviso e le facesse provare anche più furore
di
quando tali episodi si erano realizzati nella realtà.
La ragione di ciò non fu il fatto che Iris non riuscisse
più a contenersi. Ne era ben capace.
Si era temprata ed era ormai indifferente alle prese in giro e alle
mancanze di tatto.
«Okay, ciao allora.»
La mora le sorrise, ondeggiando la mano ed indicandole il marciapiede
con il pollice.
Le altre rimasero zitte a guardarla, con i loro classici sguardi vuoti,
senza significato.
Iris non osò piegare il proprio orgoglio, per quanto fosse
stato abusato, alle pretese di quelle…
Come poteva definirle? Il termine "compagne" a quel punto le faceva
venire le afte sulla lingua.
Aveva trovato l'emblema di tutto quello che odiava incarnato in esse.
Potevano calmare i suoi bollori con abbracci e carezze quando lei le
supplicava e cercare di coinvolgerla nelle loro pazzie, ma quando si
trattava di dimostrarle di cosa fossero capaci, erano capaci solo di
esigere, e mai di desiderare.
Avrebbero fatto bene a sperare che la regione fosse piena di ragazzine
sottomesse ed emotive con le quali rimpiazzarla, ma che fossero
abbastanza docili da non stufarsi del loro trattamento da zerbino entro
una o due settimane.
La giovane si posizionò con le scarpe sopra il sedile,
pronta ad uscire con un balzo.
Georgia quindi aveva avuto ragione per tutto il tempo.
Ora doveva sbrigarsi, prima che il prossimo complimento le azzerasse di
nuovo il buon senso.
«Buona fortuna e addio, Campionesse.»
Fu teatrale nella sua uscita, ma non per questo sollevata dai suoi
tormenti.
A questo punto, la storia delle precoci Campionesse si sarebbe potuta
concludere qui, con la sfortunata dipartita della più
giovane e
la rottura definitiva dell'equilibrio iniziale.
Sarebbe stata, più che una prosa, una vera tragedia, il
finale
che non lascia spazio all'immaginazione o a un seguito, solo un enorme
punto di domanda aperto sotto ai titoli di coda.
Purtroppo però, per garantire una narrazione il
più
oggettiva ed impersonale possibile, non ci è possibile
parlare
di "e vissero felici e contente" o di frasi ad effetto strappalacrime.
Non finché l'automobile di Camilla non aveva ancora passato
il semaforo nonostante la luce verde.
La donna pestò il freno con tale allerta da riuscire a
vedersi i
punti della sua povera patente rosa calare di almeno una decina, mentre
lo schiamazzo dei clacson impalati dietro di lei la esortava ad
investire il bizzarro individuo che si era lanciato come un kamikaze
davanti al suo parabrezza.
L'Allenatrice dai capelli violetto scivolò inevitabilmente
in
avanti, vista la sua posizione instabile, ed insieme al suo cuoricino
spezzato avrebbe dovuto ammendare pure il naso dalla sua bella
morfologia, così piccolo e delicato, se Anemone non si fosse
subito adoperata come airbag umano.
Iris sospirò: non trovava la forza di arrendersi ed
accettare il
fatto che il destino gliele ponesse ogni giorno sotto i suoi occhi
innocenti, settimanalmente le toccava con mano, ed era proprio giunta
l'ora di rinnovarle l'abbonamento mensile al finire con il viso contro
un paio di morbidi, grandi e prosperosi seni.
«Scusate! Scusate!»
Il tizio che avevano rischiato di investire rimase accanto alla
vettura, gesticolando in maniera maniacale.
«Non compriamo niente, grazie ed arrivederci.»
Provò a liquidarlo la Campionessa, ma egli non si decideva a
sparire.
«Non sono qui per questo! - L'uomo rise, sistemandosi un
ciuffo
azzurrognolo in cima al capo platinato, poi consegnò alla
leader
un biglietto - Voi siete le Allenatrici scelte da Nardo: il mio capo mi
ordina di riferirvi questo messaggio, ascoltate bene:
Dirigetevi entro oggi alla sala congressi del Palazzo del Governo,
avete l'indirizzo nel biglietto da visita; c'è da discutere
su
questioni importanti, e come potremmo farlo senza di voi?
Vi consiglio inoltre di non riferire la faccenda ad esterni,
sapete… Sono affari di Stato.
Capito, signorine?»
Le cinque annuirono basite. Solo Camilla si sforzò di dare
un
consenso vocale, esortando inoltre il bizzarro ceffo in camice da
laboratorio a sbloccare il traffico prima che toccasse loro una multa.
Dunque l'albino sparì dalla loro vista, lasciandole confuse
come un Basculin in mezzo al deserto.
Era tutto intricato, ma l'unica soluzione fattibile per iniziare almeno
a sciogliere un capo di quel groviglio fu decidere se andare alla
misteriosa conferenza o proseguire nel loro intento precedente, ossia
procurarsi la droga ed acciuffare il Team Plasma.
Le due operazioni sarebbero costate alla polizia due o tre giorni di
lavoro, alle nostre eroine avrebbe richiesto il doppio, se non il
triplo del tempo.
E già l'indomani avrebbero di sicuro dovuto faticare negli
allenamenti il quadruplo pur di recuperare anche quella giornata persa,
Nardo purtroppo era fatto così.
Una coincidenza giocò tuttavia a loro favore, quando ogni
speranza sembrava esser stata abbandonata.
Camelia si permise, sfrontata com'era, di sfilare dalla tasca
posteriore il telefonino della ragazzina distesa di traverso, mentre
quella dimenava le gambe per impedirle di rapinarla a mani basse.
La mora, d'altro canto, era conscia di quanto i suoi trucchetti
viperini aggiungessero carburante alla frustrazione infiammata della
sua vittima, ma non aveva altra scelta.
Avevano una missione, dopotutto. L'aveva Iris, come ce l'avevano lei e
le altre tre.
«Zero tre zero quattro?» Domandò alla
sua fidanzata, sbloccando il touch screen.
«No, il contrario. - La rossa si rivolse poi alla ragazzina
distesa su di lei - Dovresti cambiare password, ormai questa la
sappiamo tutte.»
«Anche lo facessi - le rispose, sollevandosi dal suo soffice
supporto e rimettendosi seduta - non smettereste di spiarmi il
telefono.»
Subito però l'atmosfera mutò, portando
l'accusatrice dalla parte dell'imputato.
Iris non poteva prevederlo in alcun modo.
«Ma… questo numero chi è?»
Le domandò la modella, non esitando a mettere a disposizione
di
tutte il contenuto della conversazione, (di una sola battuta, ad essere
pignoli).
«E perché ti chiede di uscire sabato?»
Anche Anemone si accigliò, assumendo la stessa
perplessità confabulante della sua compagna.
«Ma ti ha messo pure un cuore… un cuore,
dico…»
La indicò la biondina, neanche ci fossero fotografie o
filmati pornografici all'interno di quella chat.
Le quattro giovani saffiche potevano aver formulato un'unica ipotesi, e
Camilla, ancore inebriata dai dolci baci sulle cosce della sua amica di
letto, le formulò il quesito finale.
«Iris. Parla chiaro.
Ti senti con un ragazzo per caso?»
Silenzio di tomba. Poi ad Iris sembrò che le fosse venuto un
embolo.
«Ma se sono due mesi che sono bloccata qui con voi, cavoli!
Mi avete pure minacciata di morte se anche provavo a pensare ai maschi
neanche fossimo in un convento, non sono così scema da farmi
altri problemi oltre a quelli che ho
già…»
Ad interrompere la più giovane fu sempre il desiderio di
chiarimenti della bionda. Non credeva di essersi persa così
tanto del carattere di Iris, quando in realtà era convinta
fermamente di conoscerla come le sue tasche.
«Allora chi era? È tuo dovere dircelo, che tu ci
voglia bene o male.»
Questa sbuffò, riguardando il riquadro contenente il testo,
e si spiegò una volta per tutte.
«Questo messaggio me lo ha inviato la leader del Neo Team
Plasma. Ecco, l'ho detto!
S-Si chiama Georgia Korishima e ha quindici anni come me, ci siamo
incontrate quando voi mi avete piantata in asso quando dovevamo andare
in spiaggia.
E sapete una cosa? Non era niente male come persona, se ieri l'altro
non avesse cercato di ammazzarmi!»
Aggiunse seriamente dispiaciuta ed in assoluta sincerità:
non
mirava a far sentire le compagne in colpa, solo non riusciva a
dimenticare i bei momenti trascorsi con un'amica che riusciva a capirla
al volo e condivideva le sue stesse passioni.
O almeno sperava, visto che la stima che la teppista le aveva giurato
di serbare nei suoi confronti si era rivelata una farsa, magari i
giochi arcade e le lotte le facevano pure schifo, per quanto ne sapeva.
«Se ti consola, - Anemone disse - noi non proveremo mai ad
ucciderti.»
Le altre tre ragazze annuirono, compiaciute da quell'affermazione.
Non credeva che fossero scema, più scema, ancora
più
scema e relativamente la più scema, erano solo affette da
una
classica forma di dabbenaggine e compassione tipica dei membri anziani
di un gruppo.
«…Confortante.» Rispose loro, atona.
«Però non ha più l'immagine sul profilo
- e fece
vedere loro il riquadro vuoto, in cui una sagoma bianca senza volto si
contrapponeva a uno sfondo bigio, blando e spersonalizzato - e non
è online… da quando ci siamo scontrate alla
Lega.»
Decise di sua spontanea volontà di sorvolare sul sanguinoso
squartamento a cui aveva assistito. Non lo aveva causato lei, non lo
avrebbe augurato neppure al peggiore dei suoi nemici, ma sperava nel
fatto che vedere una ragazzina uguale a lei soffrire in quel modo
atroce l'avrebbe resa insensibile ad altre eventuali carneficine.
Non era stata uccisa, quindi in teoria ne era uscita più
forte.
«Aspetta! Quindi tu hai avuto per, tipo, più di un
mese il
numero di una criminale ricercata in tutta Unima e non ci hai detto
niente?! Ma di che droghe ti fai?!?»
La mora prese la notizia piuttosto male, non trovando la minima
coerenza fra il discorso precedente pieno di spergiuri e denunce dei
loro difetti e quella mancanza inspiegabile di fiducia che la ragazzina
si permetteva di custodire anche dopo tutti i monologhi a effetto
placebo pronunciati da ella.
Le due litiganti fecero per iniziare una di quelle faide a base di
graffi e schiaffi innocui sulle mani, senza la vera intenzione di farsi
del male a vicenda, Camilla quindi intervenne.
«Non è importante adesso. Parlando di droga,
piuttosto,
credo di avere un'idea che potrebbe funzionare: se hai il suo numero di
cellulare, Iris, puoi telefonarle e provare a
contrattare…»
«Camilla, questa era la mia idea! - Iris si batté
la
fronte - Secondo me comunque non ci risponderà mai,
figuriamoci
poi se ha voglia di parlare con noi.»
«Tanto vale la pena di fare un tentativo, a meno che non sia
diventata irraggiungibile.»
Catlina era girata di centottanta gradi, per comunicare con le ragazze
sedute dietro.
La modella e la pilota diedero il loro consenso mendicante un cenno
convinto all'unisono.
Insicura sulle proprie azioni, mentre Camilla accostò nel
primo
posto di parcheggio libero e gratuito, Iris premette sull'icona della
cornetta verde.
Il loro coretto si zittì, con il lento tubare della chiamata
al vivavoce affinché potessero tutte sentire.
«Sta suonando.» Fece Iris, sottovoce.
Nessuna di loro credeva che qualcuno avrebbe per davvero risposto: non
vi erano dati certi, né tantomeno probabili; che serial
killer
terrebbe mai il cellulare acceso in modo da diventare rintracciabile
dalla polizia in men che non si dica?
Eppure, dopo qualche minuto di insistenza, qualcuno doveva essersi
stancato dello squillo assillante della suoneria e aveva avuto
l'audacia temeraria di far scorrere il dito sul tasto verde.
Si scambiarono diverse onomatopee per auto-invogliarsi a fare silenzio,
stupefatte della fortuna appena avuta: ora il problema rimaneva cosa
dire alle loro peggiori avversarie.
Niente "pronto, chi parla?" o convenevoli.
Quelli si adattavano alla borghesia, non al gergo di chi si trova
costretto ad unirsi ad un'organizzazione criminale, spinto da
chissà che squallido passato.
Sentirono un grugnito secco e insospettito, a tal punto che non
sembrava neanche una voce femminile quella che aveva risposto, ma un
automa senza sentimenti.
«Uhm?» Se ne uscì, alle sue spalle un
certo rumorio di sottofondo.
Le cinque protagoniste caddero ancora più nel panico,
biasimarle
non è possibile, data la repentinità con la quale
il loro
tuffo nel vuoto le aveva fatte atterrare su un letto di piombo.
Si scambiarono sguardi terrorizzati, spingendo la mano della
Campionessa che reggeva il cellulare alla bocca delle diverse
giovani, alla ricerca della coraggiosa che parlasse prima che la
chiamata fosse terminata.
Il fardello toccò a Camelia, essendo lei la più
sfacciata doveva provare a dire almeno qualcosa.
Il tempo correva contro di loro, la recluta avrebbe presto perso la
pazienza.
«T-Team Plasma…?» Si avvicinò
al microfono, con aria incerta, attendendo un riscontro.
Dall'altro capo del filo, partì una richiesta deittica ad
una delle seguaci lì presenti.
«Ohi, ci vogliono! Mi senti? Ci sta una tipa, ci sta una
cliente.»
Clienti? Il Neo Team Plasma vendeva merce via telefonica adesso? Che
razza di scherzo era?
Ma le nostre eroine non si persero d'animo e la modella seppe
già come attaccare bottone.
«Si dice… - disse, un po' presuntuosa - Che avete
della… roba, piuttosto buona...»
Ci fu un breve silenzio, in cui tutte si stupirono dell'astuzia
dimostrata dalla giovane: ora le reclute avrebbero percepito il loro
agire da latitanti e si sarebbero sentite meno intimidite dal rivelare
loro qualche succoso segreto.
Andò così. La seconda delle due si fece avanti.
«Avete sentito bene. - Ringhiò, già
ubriacata del
profumo di soldi - Dateci un luogo e un tempo…»
La sua compagna la bloccò subito nella sua precipitosa
imprudenza, afferrando l'apparecchio e gridandovi contro qualcosa del
genere, più farcito di intercalari e volgarità.
«E chi ci dice che non siete della polizia e volete beccarci
in bomba? Non siamo stupide, oh!»
«Hey, - l'altra seguace parlò con la
contrabbandiera, in
tono abbastanza amichevole - guarda che la leader ha salvato 'sto
numero con un cuore. Deve essere una cliente affezionata, 'sta "Iris".
Di solito faceva sempre fuori i numeri di quelli che compravano,
così se le scrollavano la rubrica poteva farla franca coi
debiti
e non entrare nei casini.»
Inutile riferire che la ragazzina dai capelli violetto sorrise
soddisfatta della sua operazione di spionaggio involontaria. Dopotutto
la sua amicizia con Georgia non si era rivelata poi così
tanto
vana. Stava per iniziare una trattativa in suo nome.
«Giusto, giusto! - Anemone partì a parlare,
più
disinvolta ed infervorata nella parlata gangster che lei si era
immaginata esistere solo nei thriller - Siamo state mandate per conto
suo.
Quindi vi conviene dirci dove ci si becca e darci la maria, non abbiamo
tutto il giorno razza di sfigate del…»
Prima che potesse sputare chissà quali altre
assurdità,
la sua ragazza le mollò un leggero colpo dietro la nuca,
incredula di come quella che definiva una persona intelligente in grado
di ricordare formule di lunghezza chilometrica si riducesse a quelle
cadute di stile.
«Calma, calma… - La recluta levò un
respiro
affaticato, confusa da quante persone stessero attivamente partecipando
ai loro affari in incognito - Più o meno, dove
state?»
«Austropoli, zona Nord. - Camelia si sentì in
dovere di
specificare dove la sua fidanzata aveva creato solo imbarazzo - Questo
pomeriggio.»
«Buon per voi, siamo al primo vicolo di Via Stretta passando
dalla piazza.
Fatevi trovare là fra un'ora e non provate a farvi seguire.
Spegnete i telefoni e copritevi la faccia.»
«Vi faremo un test, state scialle, sarà facile
facile, infatti la risposta ve la diciamo noi subito.
"Ghecis Harmonia rex Unovae", ditelo chiaro, una volta sola.
Capito? Non ripetiamo.»
Pur sapendo di non poter essere viste, le giovani annuirono comunque.
«A posto, ci si vede, alle quattro.
Fatevi trovare, o vi denunciamo, abbiamo il vostro numero, ricordatevi,
eh.»
La recluta infine buttò giù, non dubitando della
fedeltà ai loro giuramenti, le sue minacce erano state
più che convincenti.
Finita la chiamata, Camilla restituì il cellulare ad Iris,
la
quale tirò un sospiro di sollievo nel riceverlo allo scopo
di
liberarsi di tutta l'adrenalina accumulata.
Georgia, in conclusione, non era più la proprietaria del suo
telefonino e ciò la preoccupò.
Era finito in mano a quelle bestie umane, adesso lo usavano per le loro
attività illecite e lei vi trasse alcune ipotesi alquanto
sgradevoli sul cosa potesse esserle successo.
«Alle quattro, allora.»
Camilla si sistemò il ciuffo scomposto, osservandosi sullo
specchietto retrovisore.
Intanto sulle strade si erano radunati sempre più pedoni,
l'ora
di punta si stava avvicinando mentre il sole scottava il cofano
dell'auto rendendolo incandescente, il cemento era così
caldo da
poterci friggere un uovo sopra.
«E l'appuntamento alla sala congressi? - Domandò
Catlina,
rigirandosi fra le mani il biglietto da visita finemente decorato di
arabeschi e stampato con gran classe - Abbiamo solo un giorno, e
già mi sta venendo mal d'auto.»
Gestire in parallelo due operazioni così complicate
implicò la più pericolosa delle decisioni, quella
che
già due volte aveva messo nei guai le Allenatrici,
dimezzandone
la forza ed esponendole a perdite anche gravi.
Computarono alcuni paradossi, come nell'enigma della capra, del cavolo
e del lupo da portare dall'altra parte di un fiume immaginario senza
che una mangiasse o sbranasse l'altra.
La macchina di Camilla le avrebbe trasportate sul posto grazie al
navigatore satellitare fino ai
bassifondi della città, per poi sfrecciare via nella parte
benestante, fra gli uffici amministrativi, per il loro singolare
colloquio e, in qualità di guida, stabilì
ciò.
«Adesso vi dirò una cosa ovvia e degna dei
peggiori film del Pokéwood: dobbiamo dividerci.»
❁
Le
giovani generazioni, essendo nell'età della scapigliatura e
in
balia della spirale bohémien, almeno una volta sentono
l'impellente desiderio di associare con concretezza il loro caos
interiore ad un qualcosa di empirico, che lascia il segno.
Le due Capopalestra e la loro amica della Lega camminarono in gruppo
compatto per quella via imbarbarita dalla fervente attività
nella quale stavano per infilare anche loro il naso.
Un oggetto, un gesto, un luogo... Specialmente l'ultimo.
Inspirare attraverso i propri polmoni l'aria di degrado rinvenibile
soltanto nei bassifondi riempie i ragazzi di una sorta di squallido
timore reverenziale: possono ammirare le macchie sul manto candido
della civiltà, ma senza per forza doversi sporcare le mani.
«E basta! Questi sono lividi…»
Lì c'era l'eco, data la desolante vuotezza della zona,
altrimenti la voce della biondina non si sarebbe affatto sentita.
Infatti non ci volle molto alla sua compagna modella per ribatterle con
tutta calma.
«Cat, non dire stupidate, quelli sono succhiotti.»
Intanto che si dirigevano al luogo dello scambio, Catlina aveva avuto
modo di pentirsi a dir poco amaramente di aver voluto indossare una
maglia così scollata, quel giorno.
Non era nulla di osé, ma il fatto che non riuscisse a
nascondere
con efficacia i segni cutanei dell'amore di Camilla l'aveva gettata in
una pruriginosa situazione con le altre due.
Difettando di realismo, non avrebbe mai rimproverato alla sua amante di
averle stampato con le labbra la propria dichiarazione di
proprietà sulla sua pelle chiara.
«Ma non devi vergognartene, - Anemone le si
stagliò
accanto, cercando di sembrare rassicurante - anche io ne sono piena,
solo che non si vedono.»
«Vi ho detto che sono i segni delle botte che ho preso dalla
recluta del Team Plasma!»
Si continuò a difendere.
Una volta venute a conoscenza dell'odio infondato di coloro che stavano
per incontrare e restie al voler correre ulteriori rischi legati alla
mobilità, avevano deciso di mettere da parte la sedia a
rotelle
almeno per quel pomeriggio e di utilizzare i poteri psichici di
Gothitelle come esoscheletro al fine di permettere all'Allenatrice di
Sinnoh di deambulare da sé.
L'impressione del movimento delle gambe sembrava apparire in completa
autonomia, o almeno è quello che speravano i loro nemici
avrebbero creduto alla cieca.
«Hai preso proprio delle brutte botte… - Camelia
non si
perse la sua bella occasione di prendere in giro quella vergine pudica
- ...sul collo e sulle tette, poverina.»
E le fece una carezza faceta sulla testa, battendo poi sulla visiera
del cappello che le avevano chiesto di mettere per nascondere
l'antiestetico bendaggio presente fra i folti capelli.
Nessun tipo di delicatezza e di sensibilità avrebbe
impedito, si
disse, alla mora di trattenersi una delle sue freddure, le fosse
cascato il mondo in testa quella le avrebbe sempre e comunque riso in
faccia.
«Bene, ci siamo.»
Tutte e tre cambiarono subito pensiero una volta svoltato l'ultimo
angolo, quello che divideva Via Stretta da tutte le altre Avenue di
Austropoli.
Si fermarono un attimo e, stringendo i pugni come a voler arraffare al
filo invisibile di forza che rappresentava il loro legame, procedettero.
Oltre alle truppe ausiliarie nelle Poké Ball, Anemone, ancor
prima di mettere piede in quella discarica a cielo aperto, aveva messo
a disposizione i suoi Pokémon volanti in qualità
di
vedette, i tre uccelli sorvolavano la zona e coprivano le spalle delle
ragazze.
Più che per gentile disposizione d'animo, la rossa aveva
concesso loro quel piacere un po' per mettersi in mostra; contava
infatti sull'allenamento disciplinato della sua squadra per proteggere
la sua fidanzata e quasi quasi ci sperava in qualche attacco da poter
sbaragliare.
Quell'ambiente di ghetto le metteva una carica incredibile, non sapeva
spiegarsi il perché.
Mordendosi le labbra per non pensare al pericolo, trovarono subito
strano che in quel tugurio non ci fosse anima viva, proprio l'area che
doveva essere piena di gente aveva intenzione di lasciarle
così,
nelle grinfie di una banda di malfattori.
Beh, se due persone e basta sono sufficienti a creare una "banda".
Sembravano gatti neri. Una sedeva a terra, addossata ad una rete in
ferro battuto, rotta in alcuni punti, dava su un campo da basket
cementato; l'altra vi si era appoggiata mollemente.
Come chi ha paura di beccarsi il malocchio incrociando le creature di
compagnia delle streghe, Anemone, Camelia e Catlina si fermarono ad
alcuni metri di distanza.
Non sentendosi certe nel procedere per induzione e quindi azzardare il
fatto che ogni individuo vestito di nero con pendagli in oro posticcio
facesse parte del Team, provarono a seguire le istruzioni.
«Che scemata unica, chissà che non siano loro e si
chiedano "ma cosa vogliono queste sceme che parlano arabo"?»
Camelia aveva intenzione di sottrarsi in ogni modo a questa figura
irrimediabile. Non voleva allungare il suo curriculum di esperienze da
suicidio un mese prima del TRUF.
«Frega niente, lo dici con noi. Dai Cami, fammi questo
piacere…» La supplicò la rossa.
«Comunque questo è latino. - La corresse la
più
grande, poi ritornò seria al massimo - Ho la frase da dire
qua
sul telefono, pronte a dirla?»
Attraverso i suoi occhioni verde giada rivolse uno sguardo un poco
sfiduciato alle due, che ricambiarono con molta empatia quel sentimento
di essere semplicemente spacciate.
Non avevano altra scelta, alla fine, e si rassegnarono alla loro
missione.
Gli andarono vicino ed un membro di quella coppia, incappucciata, con
lo sguardo basso, le rivolse queste parole.
«Quis reget Unovam regionem et suis civites ac suis honores
praestat?»
Dopo un respiro profondo ed aver deglutito a forza, le nostre eroine
risposero.
«Ghecis Harmonia rex Unovae.»
«Stupida, dovevi dirlo con noi, io ti ammazzo!»
A dirla tutta, a pronunciare questa solenne formula furono solo le due
povere ingenue; Camelia aveva sì partecipato alla loro
ansia, ma
pur avendo davanti a sé il supporto bibliografico con su
scritto
ciò che doveva dire non aveva comunque aperto bocca.
Per questo se la stava ridendo sonoramente in disparte, una volta che
la sua ragazza, ormai presa da quell'atmosfera l'avrebbe anche
picchiata per quel tiro mancino, sempre in senso figurato.
Era troppo facile lasciar fare il lavoro sporco agli altri, non era
mica giusto, pensava quella.
Tuttavia le due randagie non sembrarono turbate dalla mancanza di
rispetto per il loro motto.
Quella accovacciata si alzò, con movenze lente e
scoordinate,
sembrava tirata su da fili, come un pupazzo rotto ed abbandonato in un
cassonetto.
Si tolse il cappuccio. Da esso sbucava una coda di cavallo alta, che
sfociava in una serie di sfumature tendenti al gradiente rosso,
partendo dall'arancio e dall'ocra. Il resto del manto era biondo sporco
e pieno di forfora, alle radici faceva capolino il colore castano
naturale di quella ragazza, se fosse stato possibile definirla tale.
La sua compare non era diversa. Aveva il suo stesso taglio e la sua
stessa tinta, forse ancora più rovinata della sua (aveva
infatti
i capelli nero pece e li aveva sfibrati tutti per decolorarli).
La femminilità sembrava essere colata via da quei due corpi
secchi, dai visi smunti, quattro linee di ombretto e di fondotinta in
croce; una aveva un piercing arraffato alla sua narice come un'amo da
pesca, attraverso i lobi dell'altra ci sarebbe potuta passare una
moneta.
Erano agghindate come vittime sacrificali, secondo quello stile tribale
per cui il loro sovrano dimostrava tanta passione.
E tutto quel nero non rendeva certo giustizia alla carenza di igiene di
quel postaccio in cui erano segregate.
«Cacchio, io ti conosco, a te… Te sei una modella,
t'ho visto una volta in un reality…
Voi altre due però, boh, cioè, chi
siete?»
La prima parlò, attraverso le palpebre sbarrate
esibì un sorrisetto sornione, deformando la bocca.
«Queste sono Capopalestra e una dei Superquattro. - La
riprese la
seconda, approcciandole anche lei con una camminata scimmiesca - E sono
anche tre drogate luride, a quanto pare.»
Ridacchiava alla sua stessa battuta, vicino a lei due esemplari di
Grimer.
Nessuna delle giovani osò ribellarsi a quelle accuse
infondate.
Erano lì per far scena e la loro bella pantomima non doveva
venir smascherata per nessuna ragione al mondo.
La cosa che faceva storcere il naso fu il perché, nonostante
le
avessero riconosciute, ai membri di rango più basso al
gruppo
eletto non fosse pervenuto l'ordine di eliminarle.
«Bada come parli, - le fece l'aviatrice, stizzita - siamo qui
per conto di terzi.»
«'Sta Iris è il vostro capo?» Le reclute
non la smisero di far loro domande per un po'.
Magari erano pure più agitate delle false acquirenti.
Camelia stava già per lacerarsi la faringe a suon di risate.
«S-Sì… Oh, sì, è
lei il nostro capo,
la nostra "boss", la nostra mittente, proprio una tosta come
lei!»
E né la nobile né la sua compagna poterono
impedirglielo:
davvero le credevano subalterne di una bambina proveniente da una landa
sperduta con complessi di inferiorità allucinanti?
Si trattennero comunque, piuttosto nolenti, annuirono anche.
«Sbatte se siete Allenatrici o Capopalestra o quel che siete.
Siete qua per la roba, no?
Io sono R. Questa è la mia socia, Z.»
«Aspetta… ma quindi i vostri nomi si scrivono,
tipo, come le consonanti?
O a lettere, "Erre" e "Zeta"? Come fate per la Scheda Allenatore, per
la carta di identità…?
E quando finite le lettere dell'alfabeto? O ci sono solo ventisei
reclute, anche se dubito?»
Iniziò a domandar loro Anemone, assai confusa da quegli
strani
pseudonimi: N, R, Z… cosa gli era saltato in mente a quel
pazzo
di Ghecis? Questo sistema di nomi era la manifestazione del male puro.
Ovviamente nessuno si degnò di rispondere a quelle sciocche
domande.
C'erano questioni molto più importanti di cui discorrere in
quel momento.
Z, quella più sciatta, predispose davanti alle allenatrici
un
bidone della spazzatura vuotato e capovolto, da usare come banco per
esporre la sua mercanzia; ci distese sopra una vecchia felpa bucata per
non insozzare la stessa e la sua compare vi aprì sopra una
ventiquattr'ore.
Fu quasi simile alla dischiusa di uno scrigno del tesoro,
perché
il valore di ciò che la misera valigetta conteneva poteva
eguagliare la bramosia di chi ricercava tali rarità: buste
di
plastica erano piene di polveri bianche, gialle e grigiastre, siringhe
e aghi sterili ancora impacchettate nei contenitori medici, poi carte,
filtri, scatolette di metallo per oltrepassare indenni i controlli.
Potevano scommetterci mettendo la mano sul fuoco: il Team Plasma non
era più l'organizzazione che il vecchio leader aveva
lasciato.
Quello era acqua passata.
Ora il Neo Team Plasma, il suo discendente, spacciava droga di ogni
genere a delle ragazze, fra cui due minorenni.
«'Sta roba - partì la seguace - è la
migliore di
tutta Austropoli. Non è solo per le persone, sorelle.
Questa roba la dai ai tuoi Pokémon e quello ti vince la Lega
in quattro regioni diverse, oh.»
Le "sorelle" dovettero tacere tutto il loro stupore. Non erano
più le giovani pulite di buona famiglia.
Ora dovevano calarsi nella loro parte, meglio di delle attrici,
dovevano recitare il ruolo delle tossicodipendenti, solo per comprare
per sé un po' di quel ben di Dio.
Faceva fatica Camelia soprattutto, lei era a dir poco schifata. Le era
giunta voce di alcune sue colleghe, le cui carriere erano state
stroncate da scandali che coinvolgevano proprio quelle sostanze
stupefacenti.
Non le avrebbe mai considerate come alternativa per combattere lo
stress lavorativo, meglio piangere e soffocare nella tristezza
piuttosto che soffocare nel vero senso del verbo.
R in seguito prese in mano una sacca di nylon, sventolandone il
contenuto con orgoglio.
«Polvoenergia purissima. È cocaina naturale per i
Pokémon, una volta la vendevano in tutti i mercati, ma da
quando
hanno cominciato a usarla nelle lotte è praticamente
scomparsa.
La fai tirare a un tuo Pokémon e quello ti passa da sbornia
totale a che ha più energia di non so cosa.»
«Sono sessanta Pokédollari al grammo. Abbiamo pure
la coca normale per voi perdenti, eh.»
Non era una strategia di marketing molto astuta quella di rinfacciare
ai clienti il loro vizio capitale, ritennero tutte, ma non erano
possibili i commenti.
Soprattutto perché quella Polvoenergia non era quello che
cercavano.
«Che altro avete?»
La rossa lanciò uno sguardo di intesa alle compagne, facendo
notar di essere per nulla interessate a quell'articolo.
Le reclute Plasma dunque si spicciarono a cercare un qualcosa di
più leggero, se così si può dire.
Una aprì e rovesciò sulla sua mano il contenuto
di una
scatoletta di metallo, una poltiglia verdastra dall'odore piuttosto
acre.
L'altra invece adibì una serie di rettangoli di carta,
piccoli
cilindri bianchi e cominciò a sistemare un grumo di quella
roba
su una di esse, arrotolandogli la carta tutt'attorno, per fare una
dimostrazione.
«Noi due - iniziò a presentare Z, ponendo il
braccio sulla
spalla dell'altra in segno di complicità - abbiamo la
Vitalerba
migliore della città. Mica come quello schifo che ti vendono
a
nord!
E non dovete neppure farla fumare per forza, ci stanno
Pokémon
senza bocca, basta respirare il fumo e, tipo,
cioè… ti
manda all'altro mondo…»
«Sentite, non è quello che cerchiamo,
cioè, che il nostro capo cerca.»
La biondina troncò quella pubblicità spicciola
sul
nascere, risistemandosi quell'ingombrante cappello che per nulla si
addiceva al suo stile, la faceva sembrare una poveraccia a suo parere.
Rammentarono di avere solo un pomeriggio per completare il loro
obiettivo, non potevano aspettare che le due spacciatrici ci
arrivassero da sole, bisognava trovare la droga. Quella droga.
Era una strana ingiustizia il non poter sbattere loro in faccia le cose
come stavano e dover lavorare solamente per allusioni. Una situazione
da veri drogati.
«Sentite. - La modella si atteggiò più
minacciosa,
avvicinandosi e incupendo la voce - Gira voce che voi abbiate una
cosa… Una cosa grossa. Che non si trova da nessun'altra
parte.»
«Cosa spari, sorella…» Si
allarmò R, sempre mantenendo un'aria di indifferenza.
«Non fare la finta tonta, fattona sfigata - Anemone decise di
disattivare il freno alla sua lingua - sappiamo che avete una droga che
è peggio dell'hashish, ti sballa di brutto.
Ti rende insensibile al dolore e ti fa diventare, tipo, super
forte…
Quindi poche storie e usciteci la roba buona!»
La top model ebbe il fortissimo impulso di strapparsi i capelli dalla
frangia, tanto imbarazzata si sentiva. In quei pochi istanti nei quali
la pazza con cui si era fidanzata aveva sparato tali scemenze tutte
d'un fiato riconsiderò da capo la propria relazione.
Altro che fine estate, le sarebbe servita pazienza per superare almeno
il mese corrente.
Rettifica: le sarebbe servita se nelle teste bacate delle due reclute
non fosse improvvisamente suonato un campanello, dopo tutto quel tempo
speso a ciarlare.
Si guardarono un attimo, circospette. Non si aspettavano una richiesta
del genere, a quanto pare.
Controllarono la totale assenza di eventuali testimoni. Poi Z
ridiventò ancora più seriosa.
«R, queste qua vogliono il Sangue del Drago.»
Silenzio. Neanche il loro respiro emetteva suoni, per quanto la
tensione fosse percepibile.
«Che nome stupido per una droga.» La mora
alzò le spalle.
«Sapete che se vi beccano con questa nel sangue alle analisi
finite in galera per la vita?»
Quando mai le spacciatrici tentano di dissuadere le clienti
dall'acquisto, che strano.
«Non solo a voi, ma anche ai Pokémon, -
precisò la
sua collega - vi squalificano da tutte le gare, questo è
peggio
del doping.»
Le tre non si lasciarono intimorire. Mica dovevano farne uso, erano
innocenti al cento per cento davanti ai controlli.
«E secondo voi perché siamo qua?» La
rossa gli lanciò un'altra provocazione.
Intanto Catlina estrasse una mazzetta abbastanza spessa dal suo
portafogli, implorando il perdono dei suoi genitori per aver usato i
soldi del suo vitto mensile per comprare della droga.
«Siamo disposte a pagare: quanti volete? Duecento,
trecento?»
Erano esterrefatte. Quei due topi di fogna stavano vedendo
più
denaro concentrato fra le mani di quelle tizie dalle tette enormi di
quanto ne avessero mai incontrato da quando si erano inserite nel giro.
Però si trattava di allenatrici autorevoli. Magari volevano
solo
gabbarle. Avevano qualche telecamera nascosta all'interno del seno, o
un microchip, o gli volevano affibbiare un cimice.
E poi erano vestite troppo bene, profumavano pure di pulito.
Magari quelle non erano le guardie del corpo della loro boss, quella
Iris.
Magari si trattava delle sue amanti, semplici membri del suo harem,
delle sue escort personali con cui si intratteneva alle feste,
inconsciamente scelsero quell'ipotesi.
Inoltre sapevano che a drogarsi non sono solo i figli della strada e
gli straccioni depressi.
Addirittura le superstar facevano largo uso dei loro prodotti, certo,
avevano dei negozianti migliori, ma quando bisogna staccare la spina
della ragione non c'è norma sociale che tenga.
Z quindi si decise: trafficò per un attimo con la
combinazione e
rivelò la valigetta avere un doppio fondo, piuttosto spesso.
Poi
prese a togliere carte, rimuovere sacchetti, fino al cuore di quella
matriosca.
C'era un cubo. Il cubo a sua volta era composto da tanti piccoli
cubetti, ciascuno diviso in altrettante fratture sempre più
minuscole. Era la Spugna di Menger del vecchio principe Harmonia, ne
erano sicure.
Il tutto era grande quanto una Pokéball. Infatti una delle
due
reclute premette sul centro, dove per definizione doveva esserci stato
il vuoto lasciato dal quadrato mancante in realtà vi era un
pulsante nero, camuffato con l'ambiente,
E dentro là eccola, la preziosa fiala, neanche cento
millilitri, il cosiddetto Sangue del Drago.
Nelle loro teste, Catlina, Anemone e Camelia esultarono "missione
compiuta".
Stavano per completare la transazione e andarsene a bere un bel
cappuccino, quando Z ritrasse la mano, un gesto che causò
nelle
ragazze grande sconforto, ma ancor più grande sorpresa.
La stessa fece segno alla socia, la quale aprì una delle
buste
precedentemente mostrate loro e versò un po' di quella
farina
bianca su del loro tavolo. Con un pezzo di plastica la divise
meticolosamente in alcune strisce lunghe e sottili in un batter
d'occhio.
Poi fece qualche passo indietro, esponendo contenta la preparazione
sopraffina alle tre Allenatrici.
«Prima di darvi il Sangue del Drago però, - R si
dipinse
un sorrisetto demoniaco in volto - lasciate che noi del Neo Team Plasma
vi dimostriamo la nostra gratitudine, non ci capitano tutti i giorni
affari come questo…»
«Su! - Le invitò l'altra, ancora più
insistente - Cosa aspettate? Offre la casa.»
Le giovani rimasero come paralizzate. Le avevano colte alle spalle,
come nell'assalto alla Lega.
Allarme rosso.
Allarme rosso. Erano finite in trappola.
«Allora, non volete favorire? »
«Dai, non abbiate paura… - Infine la recluta
cambiò
tono, suonando inaspettatamente molto aggressiva - Perché
così ci dimostrate di non essere tre deficienti che volevano
solo provare a fregare il Neo Team Plasma.»
❁
Gettando
di tanto in tanto l'occhio attraverso lo specchietto retrovisore,
Camilla, oltre al riflesso dei suo ciuffo scompigliato dal vento,
riusciva a scorgere ben poco dello sguardo di colei che adesso le
sedeva accanto, nel sedile del passeggero.
Iris non aveva più aperto bocca e non sapeva spiegarsi il
perché.
Fallendo nel concentrarsi esclusivamente sulla guida, la Campionessa si
domandò more geometrico le ragioni che avessero spinto la
sua
piccola amica a scoppiare in quel modo, a traboccare di astio in un
momento che richiedeva la loro unità, ma alla fine era
chiaro
che la ragazzina aveva deciso di tenersi per sé molti pezzi
della storia.
Come per esempio il fatto di essere stata costretta a cercare amicizie
esterne al loro circolo pur di trovare un briciolo di accettazione.
Come era potuto succedere?
Negligenza, sillabò nella sua testa. Che non fa mai male,
sia
chiaro, è naturale per gli uomini sovrascrivere i dati nel
database perfetto del nostro cervello ed eliminarne; però,
indubbiamente, tale colpa non era mai trascurabile per gli esseri
più giovani.
Camilla comprese il concetto, ricordandosi di essere stata anche lei
un'adolescente.
Una farfalla non può rimproverare ad una larva qualche
contumelia quando anch'essa ha dovuto patire la strettezza del bozzolo
e l'inadeguatezza agli occhi degli altri.
Perciò la bionda sorrise per tutto il tragitto verso la zona
finanziaria, guadagnandosi in risposta diverse occhiate confuse dalla
sua compagna, che si domandava il motivo di quella
tranquillità.
Ma neppure quando parcheggiò e cominciarono a salire i
gradini in marmo ella le rivolse la parola.
Il complesso era un capolavoro di architettura contemporanea, i
materiali sembravano leggerissimi ma al contempo resistenti, il clima
soleggiato divergeva la luce al di sotto dei portici e creava disegni
con le ombre, il tutto alimentato ad energia sostenibile, ovviamente.
Nonostante il Palazzo del Governo fosse un posto abbastanza affollato,
un paio di credenziali minime bastarono alle due per oltrepassare l'ala
destinata al pubblico ed accedere ai locali amministrativi attraverso
corridoi bianchi, quadri astratti e uomini in giacca e cravatta.
Intanto si interrogava sul perché avessero deciso di
convocarle
inviando come araldo quel buffo individuo suicida; era comunque
abituata, dopo cinque anni, a ricevere incarichi burocratici
nell'interesse della regione, era parte dei doveri del Campione.
Dunque immaginò si trattasse di qualche formalità
legata
all'acquisizione dei titoli, un corso accelerato per dirigere le
imprese di lotta, una o due conferenze sulla direzione della Lega.
Insomma, un mucchio di cose inutili, ma dalla bella organizzazione
strutturale.
Riferì ciò che aveva pensato alla ragazzina, che
ancora
si limitò ad annuire, muta: suppose che le sarebbe toccato
ascoltare anche per lei, non essendo quella molto disponibile a sentire
discorsi su argomenti che non conosceva né era in vena di
provare a comprendere.
Fece un sospiro sonoro, ma non si scompose.
Una delle tante impiegate dalla stretta gonna a tubino le
scortò
infine all'interno di un'ampia sala irradiata dalla luce naturale,
dalle ampie finestre il cielo azzurro si sposava perfettamente con la
colorazione minimalista del luogo, che tuttavia non poteva essere
più azzeccata: bianco e nero.
Uno alle pareti, l'altro sul tavolo e sulle sedie, era presente
addirittura un quadro piuttosto grande del mito della fondazione, con
Reshiram e Zekrom pronti a rilasciare tutta la loro potenza, intenti ad
usare le loro mosse peculiari per imporre il loro predominio sulla
regione.
Le due Allenatrici si accomodarono vicine l'una all'altra per prendere
parte alla seduta, sui loro posti le immancabili bottigliette d'acqua
che Iris non osò neppure aprire.
Accavallò le gambe, conscia che i suoi vestiti estivi non
fossero all'altezza di un incontro tanto importante, e si mise a
guardare altrove, verso l'esterno, dove faceva caldo.
Li dentro si gelava a suo parere, l'aria condizionata le aveva
riportato alla mente i Pokémon di tipo Ghiaccio, la bufera
di
neve e la sensazione di freddo legata alla sua sconfitta contro Georgia.
Chissà se avrebbe mai potuto chiedere sue notizie, si tenne
il dubbio per evitare di peggiorare la situazione.
Chissà se questa atroce domanda l'avrebbe potuta porre
direttamente a Ghecis Harmonia, già che c'era.
Non le fecero aspettare molto, non lasciarono loro tempo di assorbire
il disagio che aleggiava in quell'ampia stanza dal pavimento cerato: le
porte si spalancarono ed apparve, in maniera piuttosto plateale, il
tizio che le aveva guidate lì in carne ed ossa.
Si misero ad analizzarlo meglio, ora che non trovavano altro con cui
distrarsi. Era un uomo di età verde, molto curato
nell'aspetto,
non capivano però che cosa avesse a che fare con il Governo
di
Unima uno con tutta l'aria di essere uno scienziato od un ingegnere.
Stringeva con galanteria le mani a tutti i partecipanti alla riunione,
seminando il suo buonumore come una malattia contagiosa e la sua
affabilità aveva in breve conquistato il locale, era seguito
da
un esemplare di Klingklang mansueto.
La bionda lo credette solo un intermediario, un segretario del partito:
costui tradì le sue aspettative, andando a prendere posto a
capotavola, poi iniziò a parlare con lei ed Iris, quindi
calò un solenne silenzio.
«Ah, puntualissime, le nostre allenatrici! Ma…
sbaglio o ne manca qualcuna? Non importa!
Sarete ben liete di riferire il contenuto della convocazione di oggi
alle vostre compagne, dico bene, Campionessa Kuroi?»
Camilla diede educatamente il suo consenso, ma le sfuggì
come
mai quel tizio si riferisse solo a lei. E poi, chi lo conosceva? Voleva
qualcosa da lei o voleva qualcosa da loro?
«Ottimo, ottimo! Lasciate che mi presenti: sono il Professor
Acromio e mi occupo prevalentemente di studi nella ricerca del
potenziale dei Pokémon, sebbene io abbia anche un posto di
tutto
rispetto anche qui alla sede governativa della nostra
regione.»
L'eclettismo di quell'uomo poteva forse spiegare la sua bizzarria,
tuttavia sembrava ancora esserci del marcio in quella faccenda. Non
avevano mai sentito parlare di costui, tantomeno Nardo aveva mai
menzionato loro un suo collaboratore nei rami alti dell'amministrazione.
Dovettero aspettare di ricevere il succo del discorso, non c'era altra
scelta.
«Prima di tutto, - proseguì il Professore, sempre
molto
vivacemente - vi voglio ringraziare non solo per essere giunte qui con
un preavviso dell'ultimo minuto, ma soprattutto per il vostro lavoro
svolto finora: io, personalmente, ho ritenuto un atto molto coraggioso
da parte vostra il voler intervenire nell'attacco alla Lega, non tutti
gli Allenatori si assumerebbero una tale
responsabilità…»
Non era possibile che si fossero scomodati solo per far loro questo
encomio spicciolo.
Comunque non è che le cinque avessero concordato di
lanciarsi
fra le braccia del pericolo solo per una decisione condivisa. Non era
una decisione, ma un obbligo.
Erano loro a dover difendere la regione, in qualità del
titolo
per cui concorrevano, non avevano alcuna possibilità di
tirarsi
indietro, quindi quei ringraziamenti erano piuttosto inutili.
«…ma vi sarà di sicuro giunta voce
della terribile
situazione in cui si trova la nostra regione: da un anno il tasso di
criminalità si è alzato del due virgola nove
percento,
con ripercussioni sul commercio e sull'industria competitiva, i
Pokémon selvatici sono in diminuzione mentre il traffico di
droga ha raggiunto anche le zone più sensibili del
Paese…»
«…l'Apocalisse è vicina,
moriremo tutti e io ho fame, potete dirmi qualcosa che non so?
Voglio andare a casa, che noia.»
La ragazzina dai capelli violetto fece ruotare le sue iridi verso il
soffitto, stremata da quegli artefici retorici privi di un qualsivoglia
senso.
Se voleva sorbirsi i moralismi di qualcuno sul quanto Unima fosse
ridotta male, suo nonno era un maestro, magari era anche più
interessante di quel saltimbanco, il quale continuava ad elencare
numeri, percentuali e conseguenze che la crisi aveva fatto abbattere
sulla regione come le dieci piaghe dell'Antico Testamento.
Chissà se ci sarebbe stata anche un'invasione di Sewaddle,
prima o poi.
Camilla invece ascoltava con attenzione, appuntandosi i punti
più importanti nella sua mente, lasciando la pagina della
sua
testa ancora vuota, però.
Se le avessero dato una penna era sicura l'avrebbe mordicchiata come un
Patrat affamato.
«…e come voi potete capire, non solo voi ragazze,
ma tutti
i gentili ospiti di questo concilio, quattro ragazzine così
giovani, totali novizie in questo campo non possono permettersi di
essere esposte a una tale minaccia, come quella del Neo Team Plasma!
È inaccettabile.
È il frutto di una scelta affrettata, incosciente di quello
che ormai possiamo definire l'ex-Campione Nardo.»
«Uh?»
Iris si risvegliò immediatamente dalla sua trance distratta.
Cercò di riprendere subito il filo, apparendo un po'
confusa: ma Acromio non poté essere più chiaro.
«Non è possibile che delle ragazzine, ripeto,
delle ragazzine si assumano il controllo della regione.
Sono ancora troppo inesperte per prendere in mano le redini in una
situazione così delicata…
Non è assolutamente plausibile che Unima subisca ulteriori
danni, non credete?»
Gli intendenti borbottavano fra di loro, ma nessuno ebbe il coraggio di
fare una qualsiasi affermazione. Allora il Professore
continuò,
a cuor leggero.
«Quindi, Campionessa Kuroi e… - rimase a fissare
per una
manciata di secondi la più giovane, che distolse lo sguardo,
infastidita - come ti chiami tu, tesoro?»
Oh, sperava costui che lei gli rispondesse, ora che aveva provato a
chiamarla "tesoro"!
Iris rimase in silenzio, impallidì, per quanto la sua
carnagione
scura le premettesse, a quell'appellativo, costringendo la leader a
spiegarsi per lei.
«Iris. Calfuray Iris.»
«Iris, sì, certo! - Quindi Camilla era la
"Campionessa
Kuroi", mentre a lei rimaneva la scelta fra "tesoro" o "Iris" - ho
un'importante, importantissima, fondamentale richiesta da fare a voi,
in rappresentanza anche delle vostre colleghe assenti.»
A questo punto estrasse un foglio bianco, in carta raffinata, una penna
stilografica.
Lo porse loro, facendolo strisciare sul tavolo, e le fissò
ognuna negli occhi, con una fiducia che credeva insormontabile.
Poi sorrise, e finalmente avanzò la sua richiesta, la quale
credeva irrefutabile.
«Firmate qui, e ritiratevi definitivamente dalla competizione
per diventare Campionesse.»
Quelle parole impattarono così forte nell'atmosfera del
momento
da fermare la respirazione delle due allenatrici, che si fissarono a
vicenda, sconvolte.
Non osarono toccare la penna, ma non avanzarono neppure qualche
critica: volevano sapere cosa il Governo, ammesso che quel patto fosse
legale, avesse pianificato.
«Vi prego di non pensare tutto questo come un affronto alla
vostra dignità; ampliate il vostro orizzonte e cercate di
guardare al bene comune: nessuna delle quattro aspiranti Campionesse
potrebbe reggere il confronto contro tutti i problemi che abbiamo, fra
cui soprattutto la minaccia del Neo Team Plasma.
Serve una guida salda, esperta, che ha un progetto concreto.
E, se permettete, il nostro Consiglio ha già nominato un
futuro
candidato alla carica, assieme al suo partito, del tutto legalizzato.
Ci libereremo della delinquenza e garantiremo alla vostra generazione
un futuro più roseo.
Ah, ovviamente mi auguro che voi avevate tenuto un piano di riserva nel
caso non foste riuscite a diventare Campionesse! Confido nella vostra
previdenza, mie care.
Ora dovete solo firmare e siete libere di andare.»
Ognuno di noi abbraccia con l'animo due Stati: uno è grande
e
davvero pubblico, in cui sono contenuti sia le divinità sia
gli
uomini, non prendendo in considerazione questa città o quel
villaggio, ma misurando i confini della propria regione con il sole.
E l'ordine appena imposto loro proveniva appunto da questo stato, dai
suoi più alti rappresentanti, coloro che in teoria
dovrebbero
mirare al benessere di tutti il meglio possibile.
Iris pregò fosse così; il suo amore per la patria
era
l'unica scusa che mai l'avrebbe spinta a gettar via la più
grande occasione della sua vita.
«Ma non era quello che volevi dieci minuti
fa?» Una vocina la martellò
sulla coscienza.
La soppresse. Si sarebbe risposta da sola "certo che no".
Voleva ben altro.
Se fosse diventata lei il capo assoluto (ma contava che anche Catlina,
Camelia ed Anemone non avrebbero esitato) pensava di estirpare lei
stessa il male e di bonificare le paludi del degrado.
Più lavoro, più istruzione, più
servizi, più modernità. Per uomini e
Pokémon.
Non era forse questo il sogno condiviso da tutti?
Perché non poteva essere per definizione una di loro ad
avverarlo?
Ma c'era un territorio più ristretto, tuttavia non meno
influente di quello disegnato sulle cartine e sugli atlanti geografici:
quello dell'interiorità. Lo spazio che un individuo occupa
si
estende non oltre il limite da dove la sua ombra riesce a stagliarsi,
però è piccolo perché è
estremamente
concentrato.
E la somma delle parti costituiva l'intero. Un governante non
può vedere il suo regno come una grossa macchia indistinta
di
plebaglia spersonalizzata.
Ognuno degli Allenatori, degli Allevatori, dei bambini, delle madri e
dei padri, dei ricercatori, degli attori, dei dipendenti salariati e
degli studenti meritava di esprimere se stesso, di far sentire la
propria voce, ma a quanto pareva il Consiglio aveva avuto la brillante
idea non di tapparsi le orecchie e basta, ma di staccargli la spina al
microfono, direttamente.
Uno spirito di altruismo fece straniare la ragazzina di Boreduopoli da
tutti quegli aspetti che riguardavano lei e solo lei: aveva forse perso
un mese ad allenarsi per niente? Poco le importava, ne avrebbe buttate
via tonnellate di tempo della sua vita. Si sentiva meno importante
così? Già lo era poco di suo.
A motivarla e a portare all'esaltazione il suo buon senso era
effettivamente la persona che Acromio, il Governo, che i sostenitori di
quel partito volevano incoronare di alloro gettando invece il giovanile
volto delle sue compagne nel fango solo per il non avere una fondazione
alle spalle…
Il discorso alla televisione… non aveva nulla a che fare con
il
Team Plasma, no… Nero e bianco, ideali e
verità…
le girava la testa solo a pensarci.
Quelli non erano i pensieri ai quali una quindicenne doveva darsi.
«…Mi permette una domanda?»
Camilla portò il palmo della mano all'altezza della tempia,
come
una scolara timorosa di interrogare l'istruttore, il quale nascondeva
la canna per le botte dietro un sorriso smagliante.
«…Chi sarà il nuovo
candidato… - deglutì, era nervosa - alla carica
di Campione allora?»
Ma questa era un quesito del tutto retorico: la risposta era
già
stata scritta negli annali della storia, mentre lo scienziato si
toccò puntiglioso il ciuffo, in segno di sormontante
autorità.
Senza davvero volerlo, Iris sedeva sull'orlo della sedia, la plastica
le irritava le gambe, l'aria fredda aveva intirizzito le sue spalle e
quel freddo si era esteso anche al suo cuore.
«Mi pare ovvio, Campionessa Kuroi: al potere
salirà, entro
la fine di agosto, il partito nazionalista-liberale - e qui si
infiammarono gli animi - guidato dal suo nuovo re Ghecis Gropius
Harmonia.»
Non potevano mica lamentarsi: quel colpo di scena era prevedibile,
almeno quanto il fatto che il partecipare a quella riunione era stata
una fregatura vera e propria.
Però ciò non le autorizzava comunque a prenderla
alla leggera. C'era un complotto alle loro spalle.
In realtà c'era sempre stato, solo che loro erano state
troppo
occupate a colorarsi le unghie e a dibattere dei loro drammi
adolescenziali per accorgersene.
Mentre le future Campionesse di Unima sperperavano il loro tempo ad
inseguire dei teppisti da quattro soldi e ad attaccar battaglia contro
le forze dell'ordine, il pretorio di Ghecis, quell'uomo era riuscito a
riscattarsi dalla sua infima posizione di ricercato salendo la scala
sociale fino ad ottenere un consenso popolare, un vero e proprio
partito di orientamento… che orientamento era quello?
Oltre alla sete avida di potere quel depravato non sembrava incarnare
alcuna saggezza, pur essendo vecchio, pur essendo un eletto, a quanto
si divulgava sui giornali egli vantava di provenire dalla casata reale
dal sangue da cui discesero i due eroi gemelli della leggenda.
E fosse stato solo quello, sarebbe stato un reato, ma un reato
passabile.
Il fatto era che tutti quei bei manichini in tartan grigio, quegli
impresari e quei senatori dalle facce di cera ignoravano che quella non
era la prima, ma la seconda volta che quell'uomo viscido e senza
principi ascendeva all'Olimpo di prepotenza.
«Quindi, - Acromio si fece sottile, già pregustava
l'ottenimento della sua vittoria - una firmetta
qui…»
Ma che cosa importava a cinque ragazze? Non avevano niente di meglio da
fare?
Uscire col fidanzato? Studiare per gli esami? Andare a fumarsi una
canna?
«Io non firmo proprio niente!»
Lo stridio della sedia strascicata indietro con uno scatto repentino
gracchiò insopportabile nelle orecchie di tutti i presenti,
costringendoli a dedicare la loro scialba attenzione alla persona che
ritenevano meno degna di essa.
«Ragazzina… - l'uomo ribadì,
innervosito leggermente - non ci pensi al futuro del tuo
paese?»
Ormai però la giovane dai capelli viola si ergeva sulla
punta
dei piedi, batté i palmi chiari delle mani facendo risuonare
la
superficie del tavolo e quei tonfi amplificavano l'acutezza della sua
voce, rendendo ineludibile ciò che onestamente aveva da dire
in
merito già da un bel po'.
Solo che voleva assicurarsi di essere ascoltata, quella volta.
«Appunto perché ci penso non firmerò
questo contratto.»
«Cosa fa? - Si chiedevano gli altri, sbalorditi da tale
insolenza - Ma è pazza?»
«Un po' teatrale… non trovi?» La
canzonò lo scienziato, senza mostrare traccia di
vacillamento.
«Se ci ritiriamo dalla competizione farete salire Ghecis al
potere, ma siamo pazzi?!
Io, per quanto mi riguarda, non lascio Unima a marcire nelle mani di
quel… quel tizio.
Uno che ha provato l'anno scorso, l'anno scorso dico, a risvegliare i
Leggendari per il suo tornaconto personale, che vende la droga per
comprarsi le elezioni e che manda ad ammazzare cinque Allenatrici
neanche ventenni da altrettante Allenatrici neanche ventenni!
E io dovrei prendere ordini da una persona del genere?! Dovrei
chiamarlo "Campione"?
Perché è questo che fa un Campione ora: si
comporta come
un tiranno e vuole fare pulizia etnica delle persone che a lui non
vanno bene solo perché non gli possono offrire supporto!
Ghecis Harmonia pensa solo ai ricchi e ai potenti; ma ai gay, ai
diversamente abili, ai bisognosi e alle persone di colore chi ci pensa?
Ma perché invece di predicare l'odio in televisione non
provate
ad aiutare chi si trova in difficoltà? E perché
invece di
rubare denaro non condividete quello che avete per migliorare la
regione?
Potreste anche parlare con la popolazione dei vostri progetti al posto
di discuterne da bravi egoisti solo in segreto!
Questo non lo dico come aspirante Campionessa, ma come persona umana
che vive da quindici anni in questa regione…»
Dopodiché le andò via il fiato. Iris dovette per
forza
fermarsi e respirare per sedare il bruciore che le aveva tappato la
gola: tuttavia anche se le sue corde vocali le avessero concesso altro
tempo non avrebbe aggiunto molto altro.
Aveva centrato il punto senza troppa falsa retorica. Aveva espresso
chiaramente cosa pensava.
Intanto Camilla aveva abbassato l'occhio non nascosto, coprendo l'altro
con il ciuffo e la mano simultaneamente, non riuscì ad
individuarvi una visibile reazione.
Presa dalla foga momentanea e dallo stress cumulato in quel giorno, non
aveva davvero pensato alle conseguenze di quello sbotto repentino. In
primis ne era stata orgogliosa.
Farsi mettere i piedi in testa e una mazzetta di banconote in bocca era
il modo migliore per farla sentire una debole, una perdente e nessuna
di tali apposizioni si adeguava alla sua, per quanto precaria, sempre
presente autostima.
Immaginò quindi che magari neppure al resto della gente
piacesse poi così tanto.
Lei era umana e non considerava alieno a sé nulla che
concernesse gli uomini.
Ghecis Harmonia, il Neo Team Plasma, quell'Acromio, non erano
definibili "umani", a parer suo.
Infatti il professore attraversò la sala avvolta nella
costernazione, probabilmente qualcuno dei magistrati si sentiva pure un
po' toccato da quelle parole gridate in un normale pomeriggio afoso.
Passò oltre l'imponente quadro e si piazzò
accanto alla
piccola seccatrice, la costrinse a voltarsi sempre con deliberata
gentilezza e le parlò con un tono molto più
freddo e
distaccato di quello usato per convincerla a firmare la resa.
«Signorina Calfuray… lei dispone per caso di
conoscenza
approfondita della politica e dell'economia del Paese?»
Tale domanda spiazzò non poco Iris, che
indietreggiò intimidita.
«N-No…»
«Ha forse frequentato gli alti ambienti della Lega? Ha
qualche qualificazione come Allenatrice?
Ha mai sostenuto un Esame di Lotta?»
Si fece più veemente nella sua inquisizione, non
guadagnandosi
alcuna risposta affermativa che permettesse all'avversaria di
riscattarsi dalla propria posizione di inferiorità.
«No, ma questo è
perché…»
«Ha presente il codice civile e penale? Sa la differenza fra
socialismo e capitalismo? Conosce la storia della regione a partire
dalla fondazione? Lei possiede questo tipo di competenze?»
Tuonò, alla fine. Dopo rimase silente, aspettando che la
poco
temibile pulce ammettesse definitivamente di non essere altro che una
sempliciotta, una qualunquista ed un'ignorante sulle questioni di
attualità.
Ella sospirò, senza scomporsi.
«…No.» Concluse.
«La sua ostinazione, se permette, è immotivata ed
indubbiamente dettata da una recondita forma di frustrazione. Un
complesso di inferiorità molto aggravato, oserei dire
clinicamente.
È un atteggiamento tipico di chi è impotente, la
storia ci insegna così: lotta di classe e rivoluzione.
Lei vuole difendere gli inetti facendosi loro portavoce: l'ho visto
anche dal suo profilo educazionale.»
Ora Acromio reggeva il coltello dalla parte del manico ed era pronto a
piantarglielo dritto nel petto.
«Signorina, lei no ha terminato la scuola dell'obbligo, dico
bene?»
Iris non mosse un muscolo; era sicura che se lo avesse fatto la sua
mano avrebbe d'istinto raccolto il bicchiere o la bottiglia dell'acqua,
l'avrebbe agguantata e con salda stretta gliela avrebbe frantumata sul
cranio.
Perché quell'argomentazione era il ricatto peggiore con cui
avrebbero potuto incastrarla e lei non poteva negarne la
veridicità.
Se solo avesse avuto un altro nome, un'altra faccia, se solo fosse
stata qualcuno di più influente e rispettabile!
Ma il problema risiedeva in chi era, non in cosa pensasse o nel come lo
avesse argomentato: finché era Iris nessuno le avrebbe mai
potuto prestare fiducia lì.
«È vero.»
Tornò a sedersi, quietando l'ondata di patriottismo che
l'aveva investita.
Non parlò più. Credeva di aver perso del tutto la
capacità di comunicare, di rimanere civile ed educata, di
saper
far valere la sua opinione.
Si sentiva già ingabbiata nella dittatura, nel
totalitarismo, in
cui dopo la libertà di espressione e di associazione se ne
va
via anche quella di pensiero, facendole il lavaggio del cervello, fino
a vedersi costretta a lanciare fiori ed intonare inni al più
crudele individuo sulla faccia della Terra.
Camilla non si pronunciò invece.
Lo scienziato le chiese cosa pensasse. Lei stette zitta.
Le ripropose la sua offerta e lei lo ignorò.
Quindi quello le domandò ancora se davvero non avesse nulla
da
dire e lei, dopo un secco "no comment", si levò in piedi e
fece
segno anche alla sua compagna di uscire.
I tre quarti d'ora da dedicare alla riunione al Palazzo del Governo
erano finiti per loro.
Nessuno si prodigò nel trattenerle, poiché
chiaramente
nessuno aveva voglia di stare a discutere con delle bambine cocciute,
maleducate e vestite con pantaloncini corti e maglietta senza maniche.
Camminarono per un po' mute entrambe, prive di parole per descrivere la
situazione, i dialoghi e le circostanze a cui avevano dovuto far fronte
giocando ad armi impari.
Ghecis aveva dalla sua il Parlamento, una folla sempre più
numerosa di seguaci, i mass-media, un esercito di ragazze assassine ed
un brillante segretario di partito come il professor Acromio.
Perfino Camilla sapeva che neanche un suo intervento in
qualità
di Campionessa poteva in alcun modo interferire con la legislazione
proibitiva e arzigogolata di Unima, così soggettiva e
ristretta
nei suoi parametri d'azione.
Una morsa di angoscia prese d'improvviso la più giovane,
mentre si dirigevano all'auto.
Ella si strinse al corpo della leader, sorprendendola, avvolgendovisi
con le braccia e nascondendo il volto coperto di vergogna sulla sua
spalla, non raggiungendo in altezza la schiena per liberarsi del suo
sguardo.
In quel momento le sembrò davvero che non avesse altra
scelta, se non firmare il proprio ritiro.
«Ho fatto una figura da stupida, mi sono messa contro il
Governo,
ci ho messo tutte nei casini, Camilla, io… - Voleva
aggiungere
che le dispiaceva, ma non riuscì a pronunciare le parole -
io…»
Prima di poter anche solo lasciar che la sua mente navigasse fra le
fetide acque di quel pensiero nefando, come a volerla strappare a quel
gorgo di pessimismo in cui l'associazione criminale voleva trascinarla,
a farle da ancora di salvezza fu la fermezza con cui Camilla le prese
il viso fra le mani e se lo portò a contatto coi suoi occhi,
la
decisione che ci mise nella sua successiva affermazione.
E se lo diceva la Campionessa di Sinnoh, un'esperta di mitologia,
autodidatta, leader improvvisata piuttosto bene e soprattutto amica di
vero cuore, non ci trovò alcunché di marcio.
«Iris, non dire queste cose, per favore.
Sei stata grande.»
❁
Si
comprarono un gelato alla fine. Non perché ne avessero
davvero
voglia, ma più che altro per placare quella fame pindarica
di
soddisfazione materiale che una giornata dovrebbe garantire ai viventi,
pure quando tutto va male.
Lei e Camilla rimasero a chiacchierare insieme, sedute sul cofano
dell'auto pur di non sporcare gli interni, sebbene ci avessero
già mangiato dentro a pranzo.
D'estate, ogni turista medio si accodava davanti alle bancarelle,
pronte ad ostentare la loro produzione artigianale di Conostropoli,
creando una gran calca di fronte all'uscita delle gallerie d'arte.
Erano circa le cinque; la piazza principale, che un nome ce l'aveva, ma
era così altisonante e pretenzioso che oramai nessuno lo
utilizzava al posto del più intuitivo "quella della
fontana",
invece di svuotarsi si riempiva ancora di più.
Allora decisero di andare a recuperare le tre compagne. Senza fretta.
Quella giornata era andata anche peggio dell'altra secondo lei, tutto
quanto finiva sempre in balia del caso e delle circostanze
più
incoerenti ed imbarazzanti quando uscivano in missione.
Da quel pomeriggio in poi aveva stabilito in aggiunta che non si
sarebbe mai più incolpata se la situazione si fosse rivelata
del
tutto a discapito delle sue poche risorse di adattamento.
L'uomo primitivo ci aveva messo millenni ad imparare come camminare
eretto sulle gambe o a sopravvivere ai predatori, mentre a loro era
stata concessa un'esistenza sola.
Camilla accostò in un'area gratuita, poco lontana da dove
aveva
congedato le due Capopalestra e la sua amica d'infanzia,
cosicché le avrebbero viste più facilmente.
Accesero la radio ed aspettarono quiete, sicure che, dopo un pandemonio
come quello odierno, niente di sconquassante fosse in agguato dietro
gli angoli putridi di quelle strade.
Dopo un po' la leader cominciò a interrogarsi sul magari
fare
loro uno squillo, ma Iris la distolse, in riferimento all'episodio del
centro commerciale. Solo perché erano leggermente in ritardo
non
significava si fossero dimenticate del loro dovere, quella era una
mancanza di fiducia.
Attesero ancora un po', e proprio quando la bionda fu sul punto di
perdere la pazienza, la ragazzina non poté non dirsi
soddisfatta
delle sue intuizioni: poteva essere che avesse lei imparato a conoscere
le abitudini delle sue compagne meglio della Campionessa attraverso i
litigi e la frustrazione?
Infatti lungo il marciapiede scorse una testa del colore del metallo
arroventato e altre due figure al suo fianco comunque non meno visibili.
Gli fece un gesto di riconoscimento con la mano per invitarle ad
avvicinarsi, soprattutto però a velocizzare il passo.
«Ma perché ci mettono così
tanto…»
Sì, perché in effetti stavano camminando
piuttosto piano.
Anzi. Guardandole bene le sembrava che le gambe non seguissero un
andamento lineare nell'incedere, bensì descrivessero una
deviazione prima di toccar terra, come se avessero paura che il cemento
crollasse sotto i loro piedi, per questo oscillavano un po' ed ogni
tanto un robotico zoppicare balenava in quell'andamento incerto.
Appena le tre giovani le arrivarono davanti, Camilla uscì
alla
svelta sbattendo con vigore la portiera e la più piccola del
gruppo si allarmò in anticipo, non capendo bene il motivo di
questa foga.
Le sue tre amiche erano arrivate ed ora il gruppo era riunito.
Solo che un'aria strana aleggiava fra loro, in mezzo allo smog dei tubi
di scappamento.
Era un qualcosa di naturale, vagamente dolce, con un retrogusto di
silicone, artificioso e zuccherino. Sembrava un profumo da donna,
tuttavia abbastanza pungente da risultare intollerabile dopo i primi
dieci secondi.
Camilla si guardò intorno e controllò che non
fosse la
sua camicia ad esserne impregnata, come se un campanello di allerta le
fosse risuonato nella sua testa già abbastanza confusionaria.
«Hey… tutto a posto?»
Le fece la rossa, sorridendo in una maniera talmente tanto stinta,
quasi le dolessero le labbra nel compiere quella semplice azione,
curiosa anche lei di cosa stesse sospettando la leader.
«Più o meno. - Camilla esitò nel
risponderle - Voi sembrate fin troppo contente…»
Andava alla ricerca di un contatto visivo qualsiasi con ognuna delle
tre, ma sembrava che i loro occhi avessero di meglio da guardare, e
dato che i panorami tanto spettacolari in quel ghetto non abbondavano
di certo, immaginò che effettivamente ci fosse un qualcosa,
ma
che solo loro tre potevano vedere.
Forse, l'unica a non essere immersa in quella sonnolenza inebetente era
la biondina che pareva, al contrario, più sveglia del
solito,
tenendo la mora per un braccio, intanto che quella abbassava lo
sguardo, piuttosto cupa in volto.
Alla ragazzina non passò neppure per l'anticamera del
cervello
di analizzarle così. Piuttosto, vide che Camelia ed Anemone
avevano finalmente deciso di cominciare a tenersi per mano come vere
fidanzate anche per la strada. Lo trovò assai carino, e
glielo
fece notare.
Si aspettò un qualche commento aspro per via del suo
comportamento prima di separarsi per i loro compiti, ma Camelia stette
zitta quella volta.
Ecco, quello le instillò un minimo dubbio.
«Eh? - le rispose Anemone - È…
tipo… come se ci sostenessimo a vicenda,
adesso…»
«Già…» la sua ragazza
aggiunse, tossendo un
paio di volte con forza lacerante, causando un leggero tremore al
proprio corpo e costringendo la giovane aviatrice a sostenerla
più saldamente.
«Ci siamo sostenute a vicenda, il Team Plasma non ha potuto
fare niente contro di noi.»
Catlina si sistemò i capelli, scoprendo che una visita nella
zona malfamata di Austropoli li aveva sporcati ed unti tantissimo e pur
sapendosi spiegare il perché, era certa che sia lei, sia le
due
diciassettenni (verso le quali sentiva di aver accresciuto la propria
amicizia) avrebbero innanzitutto cenato, poi si sarebbero lavate.
Mai infatti, neanche dopo gli estenuanti allenamenti di Nardo, si erano
sentite così affamate in vita loro.
«Okay, quindi! - la nobile di Sinnoh alzò
spropositatamente la voce, fu sul punto di gridare per incitare la sua
coetanea a spicciarsi per loro, con il consenso delle altre - Possiamo
andare adesso, speriamo che Nardo ci abbia preparato già la
cena, perché io sto morendo di fame, voi no?»
«Avete trovato il Sangue del Drago?» Chiese Iris,
con molta cautela.
Subito però si ritrovò fra le mani, dopo averlo
afferrato
con una presa degna di un giocatore di baseball, una scatoletta dalla
forma un po' kitsch e per quello abbastanza adatta a contenere il
veleno con cui un pazzo manipolatore intendeva conquistare la regione.
Si sarebbe stupita se lo avesse riposto in un normale contenitore,
dopotutto.
«Non ringraziare… - Ammise Anemone, in un eccesso
di
modestia le tre si strinsero con le braccia sulle spalle - È
stato facilissimo! Ora però andiamo, dai…
è
tardi…»
Fece per entrare in macchina, quando, per sua sfortuna, Camilla le si
parò davanti, con lo stesso atteggiamento di un agente
durante
una perquisizione. La donna contava infatti sul suo sesto senso, grazie
al quale riusciva a percepire la tensione, quando le persone le
nascondevano qualcosa.
Fissò la sua compagna dritta dritta negli occhi, fintanto
che
ella stava ancora in piedi, mentre i suoi Pokémon e quelli
altrui osservavano la scena, avvertendo anch'essi che le loro
Allenatrici non sarebbero rimase impuni.
Camelia, Anemone e Catlina avevano perfino la sclera degli occhi color
rosa geranio.
Sì, proprio quell'esatta tinta, non si era cimentata in
un'iperbole.
«Ragazze, - Camilla le bloccò, per poi esprimersi,
laconica - siete fatte per caso?»
Calò un silenzio che riuscì ad incanalare tutto
l'imbarazzo e lo shock di quei due mesi in circa una manciata di
istanti, Iris rimase così sorpresa da non volersi neppure
sforzare di risultare troppo stupita.
Insomma, tutti i bei discorsi sulla coerenza, sul condurre una vita
sana e pulita di quella mattina?
Bastavano tre ore per convertire tre fanciulle ben educate e morigerate
sulla strada psichedelica della perdizione?
Si accorse solo in quel momento che in realtà Anemone non
stava
reggendo la sua fidanzata per amore, ma perché Camelia,
essendo
astemia come la più casta delle vestali, non doveva aver
retto
neppure una canna mal preparata, ed ora aveva perso tutto il vigore.
Se l'avesse mollata era sicura che sarebbe crollata a terra, priva di
sensi.
«Ci stai accusando… - la ragazza fu presa da un
attacco di
nervosismo e si strinse agli indumenti della leader, esasperata - di
esserci drogate?»
«Per favore, calmati. - la Campionessa si tolse le sue mani
di
dosso, dicendole in tono duro - Catlina, stai urlando.»
«Guarda che - Quella se la prese, stravolgendo del tutto il
suo
personaggio, era il principio attivo della cocaina che le donava una
scarica folgorante di energia che non sapeva come impiegare - io sono
calmissima! E ti dico che sto bene, giuro!»
«Hai avuto un trauma cranico quasi mortale tre giorni
fa!»
Le ripeté la bionda, conscia di non poter ricorrere a mezzi
termini con una persona (anzi, tre) sotto effetto di stupefacenti.
«Infatti. - Catlina tornò subito calma, cercando
di
trattenere la propria tempestività - Adesso non ho
più
male alla testa, grazie alle… "cose" che abbiamo fumato... E
tirato.»
«Vero, la polvere sapeva da zucchero filato alla fragola! -
esultò la rossa, per cercare di difendersi in quella causa
persa
in partenza - Cioè… faceva un male cane quando la
respiravi, tipo, che ti esplodono le narici… Ma dopo due
tiri ti
abitui, eh! Non fa così schifo come dicono.»
Tutto quello che la modella semi-morente, con la faccia bassa e il viso
sbiancato ebbe da aggiungere fu un lamento che sembrava provenire da
uno spettro.
«Mi viene da vomitare…»
Poi l'altra si mise a ridere, senza motivo, mentre la leader fissava la
scena allibita.
Come avrebbe potuto spiegarlo a Nardo? Quell'uomo le aveva beccate
già una volta; non contava l'episodio dell'ubriacatura
inesistente, ma quello del reggiseno non doveva aver insegnato nulla a
quelle ragazzacce.
Al diavolo, le lotte con i Superquattro delle altre regioni, le sfide
con i Campioni di Kanto, Johto ed Hoenn, e le catastrofi nazionali:
fare la leader di quel gruppo era la sfida più ardua ed
estenuante che avesse mai incontrato nei suoi anni di carriera.
E, come se non bastasse, non è che quelle tre avessero retto
male una piccola dose, non essendovi abituate.
No: le giovani confessarono, sempre a cuor leggero, di aver voluto
strafare, che un tiro segue l'altro, che si erano accese prima dei
leggeri spinelli, poi dei veri e propri tronchi d'albero, solo per
poter fare il fantomatico viaggio in un mondo allucinogeno, come i
Pokémon Psico quando distorcono il campo di lotta con
Magicozona.
Dopo l'aver rischiato di perdere la possibilità di
partecipare alla competizione, quella notizia rappresentava il colmo.
Lasciò perdere. Salì in macchina, sbattendo la
portiera, intimando le altre a fare lo stesso.
❁
Partirono,
infine. Le giovani alterate sedettero nei sedili posteriori e nel giro
di qualche isolato caddero addormentate come corpi morti, tutte
stravaccate l'una sull'altra, ogni tanto mugolando per le convulsioni
dovute alla cocaina, che stava risalendo il flusso sanguino fino al
cervello come un salmone che cavalca la corrente di un fiume
torrentizio.
I lampioni cominciavano ad accendersi, insieme ai cartelloni al neon e
ai semafori lampeggianti.
Non che di sera la metropoli dormisse; i club aprivano fino a tardi, la
musica delle discoteche batteva il ritmo martellante di un cuore ebbro
di adrenalina.
Solo la Campionessa di Sinnoh e la ragazzina di Unima poterono godersi
il rumore della sera.
La seconda però, intuì che il suo tacere imposto
per punizione potesse anche finire lì.
Per colpa di esso aveva passato una giornata piuttosto faticosa,
imbrogliata dagli impacci dei potenti e dalle meschinità
della
sorte.
E non riteneva giusto che anche Camilla, che tanto aveva fatto per
tagliare tutti quei cavilli, dovesse patire la stessa costante
frustrazione nei confronti delle sue compagne.
«Stai tranquilla. - Le disse, guardando le auto che
sfrecciavano
sotto il suo naso - Domani ti chiederanno "scusa" una dopo l'altra, ne
sono certa.»
Dopo una pausa di conciliazione, Camilla esalò un sospiro
per
liberarsi da qualunque peso la opprimesse. Il suo profilo disegnato
sullo sfondo di luci colorate evidenziava le sue labbra sottili e le
ciglia lunghe. Iris si mise ad osservare per proprio piacere le sue
braccia lunghe che afferravano il volante con fermezza, davanti alla
linea del suo seno cospicuo, che si intravedeva fra una fila di bottoni
slacciati per comodità.
Fu contenta che ella le avesse risposto. Quando riusciva ad
identificare anche in una donna ventenne tanto virtuosa le sue stesse
ansie e le angherie subite indirettamente dalle compagne, si sentiva in
qualche modo nobilitata.
Camilla era fin troppo umana per ispirarle la brama di idolatria.
Se il coraggio che tale persona le infondeva fosse arrivato nel momento
in cui Acromio le aveva chiesto di levarsi dai piedi per far strada
all'ascesa di Ghecis, altro che firma, con la penna gli avrebbe
infilzato i bulbi oculari.
Fu contenta almeno di aver rifiutato. Di sicuro, una volta riferita la
questione a Nardo, quel moscerino avrebbe fatto meglio a trovarsi un
lavoro stabile in una qualche fabbrica di elettrodomestici o a sparire
una volta per tutte.
Inoltre, quando mai un membro del governo è autorizzato a
chiamare delle minorenni "tesoro" e "cara"? Rabbrividì,
ripensandoci.
Ora che avevano nelle loro mani un campione della droga da analizzare,
sicuramente Zania avrebbe scoperto qualche ulteriore informazione ai
laboratori.
I Pokémon una volta schiavizzati avrebbero smesso di
soffrire, con tutta probabilità.
Ed un'altra macchia nera più visibile sarebbe andata a
sporcare
la fedina penale del capo del Team Plasma, già nera come il
catrame.
Dopo un pomeriggio, la giovane dai capelli violetto finalmente
riuscì a trovare un po' di fiducia per credere in
sé
stessa e nelle proprie parole pronunciate in quella sala riunioni.
A detta sua, dopo quelle esperienze, forse il mondo di pace e
collaborazione, il futuro perfetto di cui parlava lo scienziato si
poteva creare davvero, lo stavano facendo loro.
Sinceramente, era proprio quello anche lei desiderava.
«Sai cosa penso? - La voce profonda di Camilla la scosse dai
suoi
pensieri - Che l'obiettivo del Neo Team Plasma sia più
semplice
di quanto crediamo.
Nel senso: che non sia un qualcosa di estremamente complicato.
Ma che voglia agire a partire dalle nostre più piccole
azioni,
come se potessimo smettere di essergli di ostacolo di nostra
volontà.»
L'automobile ruggente corse a tutto gas verso una delle uscite
secondarie, per evitare di incappare in un controllo della polizia
antidroga ai caselli autostradali.
Era possibile il fatto che cinque giovani ed attraenti ragazze
potessero davvero rappresentare un intralcio concreto per una
società criminale…
Ma intanto, per quel dì, la vittoria era definitivamente
loro.
❁
«Ah…
mi sento malissimo… ho ancora i postumi della
tirata…
E in più, sai cosa, Anemone? Mi sento quasi in colpa. Avevo
giurato a me stessa che non mi sarei mai drogata e invece, sono proprio
una debole.»
«Cami, non è colpa nostra, lo abbiamo fatto per la
missione!
Appena abbiamo cominciato a fumare e a sniffare la coca noi, anche le
altre due reclute si sono strafatte e, credimi, loro erano messe anche
peggio.
Abbiamo avuto la nostra occasione e, prima di collassare, gli abbiamo
rubato il Sangue del Drago!
Direi che siamo state brave. Un piano infallibile, il nostro.»
«Ma non potevamo semplicemente fregargli la scatola e
scappare
via, senza doverci fare un cannone e tre strisce ciascuna?! »
«Dovevamo indebolirle prima, o ci avrebbero attaccate in
gruppo!»
«E se avessimo usato i nostri Pokémon? Siamo
Allenatrici
professioniste, dubito che ci avrebbero stese quelle mezze calzette.
Li avevamo pure schierati per bene prima di arrivare…
possibile che non ci abbiamo pensato?!»
«No, è vero! Siamo proprio tre imbecilli! Dove
andremo a finire?
In un centro di recupero per tossici, ci scommetto, perderemo tutti i
capelli e le tette, poi passeremo al crack, all'eroina, la daremo ai
nostri Pokémon, ci squalificheranno dai tornei e non avremmo
più una vita decente...
P-Però almeno saremo sempre insieme, no? Camelia, sappi che
io
ti amerei lo stesso, se io diventassi una cocainomane di strada tu
faresti lo stesso?»
«Ma se non hai neanche i soldi per comprarti un grammo di
quella roba!
Piuttosto, io mi preoccuperei della tua dipendenza dai
manga… ne
hai pile e scaffali interi nella tua stanza, quando potresti
risparmiare quei soldi per comprarti cose molto più
utili…»
«Hey, io non ti dico come vivere la tua vita!»
❁
Behind
the Summery Scenery #18
1.
Vi rivelo un segreto. Ae c'è una cosa che ODIO è
il self-insert (lascio
qui una spiegazione per i più anglofoni di voi).
E poi l'ipocrisia. Fanculo gli ipocriti, quanto li odio.
Ma in quel caso, ebbene, mi sono macchiata di entrambe le colpe! *cries
in matcha latte* Mi spiego.
Avete
presente come nel secondo capitolo io avessi evidenziato come se fosse
un tratto imprescendibile e non tralasciabile del personaggio che
Camilla ed Iris non si truccassero? Look at this:
"Sul viso non sembrava avere make-up, cosa che la compiacque parecchio,
dato che neppure lei si truccava." [Cap. 2 "Quando tutto è
nuovo
anche tu ti rinnoverai, Momo, 2013, Non mi troverete mai kek, Non mi
pubblicheranno ma double kek]
Ora, se ragioniamo per deduzione, si può evincere che "se i
personaggi non si truccano è perché l'autrice era
contraria, opposta e disgustata dal truccarsi". Che cosa frivola, ma
è la verità.
Ricordo a tutti che ho scritto questo capitolo nel 2013 e non
è
che me la passassi chissà quanto bene quell'anno, non avevo
la
fiducia in me stessa e la voglia di prendere pennello e beauty blender
ed imparare l'arte degli MUA mi mancava.
Flashforward nel 2018: le circostanze della vita mi hanno fatto capire
che girare con una faccia come la mia è illegale in 200
paesi,
quindi mi sono armata di Youtube e di pazienza e... la mia avversione
verso il trucco è sparita.
Lo ammetto, volevo fare la speciale che non è come tutte le
altre ragazze. Ma ho fallito. La vanità e il so
pigmented hanno vinto su di
me.
Quindi,
se adesso è molto più evidente che mi soffermi a
descrivere che marca di ombretto le ragazze stiano indossando e con che
pennello lo abbiano sfumato non è ipocrisia, sono solo io
che
cresco e mi evolvo!
2. Questa è
la manicure che ho descritto. Ve l'ho detto, io non sono come le altre
ragazze.
3. E continuando il discorso dei dettagli idioti: qui continua il
product placement iniziato nel quattordicesimo capitolo!!! Abbiamo
McDonalds, telefoni vari (opterò per lo Xiaomi e l'Oppo,
così non triggero la faida Samsung vs Android vs Huawei,
dato
che nessuno li ha in Italia), la Jeep, telefonia varia, Diesel/Urban
Outfiters... e Amazon Books!
Già, sembra proprio che Amazon.it muoia dalla voglia di
sponsorizzare questa fanfiction, tanto è che trovo la
pubblicità di manga che NON voglio leggere e libri di cui ho
cercato apposta le recensioni negative sia all'inizio, sia IN MEZZO e
pure alla fine dei miei capitoli.
Quando mi sono iscritta ad EFP, nelle Condizioni d'uso ci doveva essere
scritto "l'autore si impegna a leggere Tokyo Ghoul, My Hero Accademia e
Animali Fantastici per cultura personale". Grazie Erika, tu
sì
che sai trattare i tuoi utenti con il rispetto che meritano ❤
4.
In questo capitolo è presente una citazione epicissima ad un
film che ha fatto la storia della cinematografia.
Ovviamente parlo di Alex l'Ariete, ceh. 26:33,
grazie Mighty.
Cioè, due anni fa citavo Catullo, AHAHAHAHAHAH.
5. Prima il sesso, ora la droga. So che avere delle protagoniste pure e
perfette, delle idol praticamente, è bello. Non mi
parerò
il culo parlando di realismo, e non ritengo assolutamente che
personaggi trasgressivi o cattivi siano per forza interessanti.
Nessuno si è lamentato della tirata nelle recensioni, alla
fine
ho espresso nel dialogo come si poteva risolvere la cosa e non penso di
dover sempre dare gustificazioni a tutto quello che scrivo.
P-Però non drogatevi a casa, bambini. Bodrst
perdr la cors della vitt per colpa di guella robacc.
Menzione
speciale anche a questa poop in
cui la visual line (Camelia ed Iris) abbatte la transfobia, yasss
queens *emoji della corona*
|
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Capitolo 19 *** Non avere paura delle dissonanze ***
ESGOTH 3
❁
A story
by: Momo
Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing: 🍦
Seguiteci
su instagram: @esg_ offical_ ig
Early
Summer Girls
❁
Capitolo
19
Non
avere paura delle dissonanze
La
brezza di mare scuoteva le punte dei cipressi nel paesino di
Soffiolieve, a sud della regione.
Poche
case a quell'ora tenevano ancora le luci accese: la popolazione giovane
di quell'area non eguagliava in numero neppure uno solo dei quartieri
delle metropoli più famose.
Questo perché Soffiolieve non era mai stata né
una meta, né una grande attrazione.
Tutti
gli Allenatori prima o poi sarebbero stati destinati a lasciare quella
città, a migrare verso il nord e verso le luci sfavillanti
di città
come Austropoli e Sciroccopoli.
Si
potrebbe definire la quieta cittadina come un luogo di partenze, dove
tutto ha inizio.
Succedeva
che i ragazzini, una volta diventati autonomi, si alzassero dal letto
una mattina, salutassero la mamma ed il papà con un
abbraccio
affettuoso, poi per uno, due anni, qualche volta anche
dieci… non si
vedessero più in giro da quelle parti.
Ma, per
fortuna, non era raro che qualcuno di essi tornasse a casa, partito da
bambino, si ripresentasse da uomo o da donna.
Dunque
Soffiolieve era diventata un luogo anche di conclusione del viaggio, in
cui il giovane avventuroso rimetteva piede e subito ricordava tutte le
esperienze, le memorie e gli incontri raccolti lungo la strada ed in
maniera inevitabile paragonava la propria situazione corrente a quella
del momento in cui se ne era andato.
A
conoscere a menadito tale sentimento era una fanciulla di circa sedici
anni, la quale trovava in quel genere di fantasticherie l'unica
distrazione piacevole dal suo altrettanto piacevole lavoro.
Infatti
la ragazza, dal taglio a caschetto biondo grano e i sottili occhiali
rossi per contrastare la leggera miopia, aveva trovato la soluzione
migliore sul come passare la sua prima estate dopo aver completato il
suo viaggio in qualità di Allenatrice di Pokémon.
Come
denota il proverbio, aver trovato un lavoretto di assistente tanto a
lei gradito nel laboratorio della Professoressa Aralia, era come se non
dovesse più preoccuparsi della noia e del tedio che di
solito la vera e
propria definizione di "lavoro" porta con sé.
Ogni
giorno Belle (così infatti recitava la targhetta appuntata
alla sua
camicetta bianca) si godeva gli occhi illuminati di gioia dei piccoli
Allenatori in erba, mentre sceglievano il loro primo Pokémon
e
confrontavano i tre starter con quelli dei loro amici e futuri rivali,
quando prendevano fra le mani il Pokédex ed infine insegnava
loro a
catturare i Pokémon selvatici, sebbene molti fossero
già capaci di
farlo, e lei incolpava sempre internet per questa mancanza di
intraprendenza da parte delle nuove generazioni.
Il
sole nella calda stagione si atteggiava come i bambini che non vogliono
saperne di andare a dormire, rimaneva imperterrito ad arrossare il
cielo limpido, e la ragazza ne imitava il comportamento, sebbene la
professoressa avesse da un bel pezzo lasciato il laboratorio.
Con
un sorriso entusiasta e fanciullesco sulle labbra, aveva nutrito e
preparato lo Snivy, l'Oshawott ed il Tepig che il giorno dopo dovevano
farsi trovare in forma smagliante, sistemato le ultime ricerche a
proposito del cambiamento di forma di alcune specie a seconda
dell'ambiente ed ancora non si sentiva stanca o scocciata: era davvero
nata per quel lavoro.
«Beh,
direi che per oggi ho finito. — Ogni tanto le capitava di
parlare ad
alta voce per la gioia — Ah, no! Che sciocca! Devo mettere a
posto i
campioni che Zania ha inviato ieri!»
Belle
dunque zampettò verso la scrivania posandovi sopra un
pesante e
delicato scatolone, lo aprì con il taglierino e procedette a
sezionare
i vari vetrini in appositi raccoglitori, classificandoli per colore o
altre caratteristiche simili: frammenti di denti di drago, squame e
foglioline, peli, alette, un sacco di materiale biologico sulla cui
indagine sarebbe fiorito il progresso della scienza.
«Ma…
questo cos'è? — Si fermò nel mezzo
della sua
attività — Non ne ho mai visto uno così
prima…»
In
quel momento nel contenitore di carta l'ex-Allenatrice aveva
individuato un campione il quale destò la sua attenzione
più di tutti
gli altri: una persona senza neanche le basi scientifiche acquisite
dopo due mesi di applicazione in uno studio specializzato non si
sarebbe accorta della differenza.
Ma
lei, tanto adorava quella disciplina, si sbrigò a sistemare
le ultime
provette già viste e riviste, per concentrarsi su quel
bizzarro
contenitore.
Accese
la lampada da tavolo, si sistemò la montatura sul naso e
cominciò a rigirarselo fra le mani. Aveva la forma di un
cubo.
Belle
non aveva la più pallida idea di cosa fosse ed era sul punto
di
etichettarlo come un oggetto inutile, quando l'aver posato il dito per
sbaglio sulla sezione centrale di una delle sei facce fece scattare un
click e mosse verso l'alto un quadratino, che si rivelò
essere uno
scompartimento interno.
Curiosa
come mai in vita sua, fece cadere il contenuto sul palmo della propria
mano: una fiala stretta e lunga quanto il suo mignolo recava
un'etichetta scritta a mano in maniera frettolosa.
«Sangue
del Drago?»
Lesse ad alta voce, confusa. Non le sembrava un nome molto
scientificamente corretto.
Inclusa
ad essa, una serie di avvertenze figurava sul retro, con i soliti
simboli rossi, pieni di teschi e punti esclamativi, ce ne erano
parecchie e la ragazza le analizzò tutte.
«Attenzione: non ingerire,
non inalare, non esporre alla luce del sole o ad alte temperature, non
disperdere nell'ambiente… Non somministrare a uomini
né Pokémon.»
L'ultima
di esse fu il movente definitivo che la spinse ad aprire la boccetta,
versare una o due gocce di quel liquido rosso (come il sangue, almeno
lo pseudonimo aveva più o meno senso) su un vetrino sterile
e a
lasciare il verdetto finale al suo fidato microscopio.
Posò
l'occhio sulla lente e mise a fuoco l'immagine, cominciando a
discernere alcune particelle macroscopiche, appuntandosi delle formule
chimiche a lato, disegnando un modello atomico da cui poi avrebbe
decretato di che sostanza si trattasse.
Fu
impegnata in quel lavoro per una manciata di minuti, finché
all'interno
del laboratorio non si precipitò un giovane, talmente
d'impeto che
l'assistente della professoressa dovette corrergli incontro ed
allungargli una sedia.
Non
si reggeva in piedi. Portava una camicia bianca ormai sudata e sporca
di terriccio, la cravatta rossa snodata per il caldo: doveva aver
lottato contro una grande folla, aveva ricevuto spinte e gomitate, per
quello aveva perso il senso dell'equilibrio.
Sui capelli corvini
corti una patina opaca, stringeva fra le nocche scorticate la
Poké Ball
mentre le sue dita tremavano, ma il suo sguardo rimaneva rivolto verso
il pavimento, i denti stretti e le tempie pulsanti.
«Belle…
— iniziò un discorso, ma aveva la bocca seccata
dall'arsura — sei ancora qui, allora…»
«K-Komor,
non scherzare! — lo riprese lei, preoccupata come non mai
— C-Cosa ti è
successo? Contro chi hai lottato? Ho il diritto di saperlo!»
La
ragazza si era quasi gettata ai suoi piedi, tanto temeva per lo stato
del suo migliore amico. Si conoscevano dall'infanzia e Komor era una
persona astuta, intelligente ma soprattutto morigerata: sapeva
riconoscere il pericolo, non si immischiava mai in una lotta che non
era sicuro di poter affrontare.
Eppure
in quel caso doveva esserci stato qualcosa ad averlo spinto a
rischiare, qualcosa di più grande di lui e di sicuro non di
poco conto.
Gli
lasciò il tempo di riprendere fiato, non voleva sembrare
intransigente,
nonostante non potesse nascondere un'incredibile preoccupazione: non
era molto brava con le lotte Pokémon, ne aveva fatte ed
aveva vinto le
sue Medaglie, ma dopo aver sentito le ultime notizie regionali fra le
quali l'assalto delle nuove reclute, vedere una delle persone a lei
più
care ridotta in quello stato la fece rincuorare di aver scelto il campo
della ricerca scientifica al posto dell'allenamento.
Se
Komor si fosse scontrato contro qualcuno in una Battaglia Violenta, la
pace che riteneva assicurata dopo il fallimento del piano di N Harmonia
poteva considerarla lei stessa, che aveva pure assistito alla battaglia
finale al castello del Team Plasma, come morta e sepolta.
«Sono
stato alla Lega. — Cominciò a spiegare il ragazzo,
asciugandosi la
fronte perlata dal sudore — Quando ieri ho visto il servizio
in
televisione non ho trovato credibile nessuno dei discorsi di
Ghecis…
Non è questione di supportare o no un partito politico, ma
se
quell'uomo vuole diventare Campione della regione, dopo tutto quello
che ha fatto, dovrebbe almeno degnarsi di rispettare alcuni diritti
umani fondamentali…»
«Ti
riferisci al non voler lasciar tenere i Pokémon a tutte le
minoranze?»
Gli domandò Belle, che con le orecchie ascoltava il discorso
e con le mani proseguiva ad analizzare il bizzarro campione.
«Esattamente.
Quindi ho voluto cercare chiarezza da me.» Ammise
modestamente soddisfatto.
«Non
sei cambiato di una virgola da due anni fa.»
Scherzò l'assistente e riprese ad ascoltarlo.
«Sono
stato alla Lega Pokémon oggi. Pensavo di riuscire ad
entrare, essendo
ormai un Allenatore a tutti gli effetti, mi ricordo ancora di quando ho
attraversato Via Vittoria da solo, per la prima volta… non
ti dico cosa
ho visto stamattina.»
«La
Polizia Internazionale sta ancora indagando per cercare i responsabili
dell'attacco?»
Belle gli chiese, sempre più interessata. Komor invece
simulò una risata beffarda, prendendosi gioco della propria
illusione.
«Direi
proprio di no! Ghecis ormai si è talmente abituato a fallire
da sapere,
in qualche modo, che il suo piano di conquistare la Lega come se fosse
una roccaforte sarebbe stato un buco nell'acqua. — Il giovane
si chinò
e fece una carezza al suo Stoutland, il quale teneva nella sua squadra
dall'inizio della propria avventura — Non appena la notizia
dell'attacco si è diffusa in tutta la regione, lui ha
piazzato le sue
truppe intorno alla struttura principale, negando l'accesso alla Lega a
chiunque lui ritenesse, diciamo, "scomodo" per la riuscita della sua
farsa.»
Si
intuì la parte di mezzo nella vicenda: attacco fallito,
reclute
decimate. Il sovrano del Team chiede alle autorità locali ed
alle sue
strette alleanze nelle forze dell'ordine di sorvegliare l'edificio,
affinché nessuno venisse a vedere con i propri occhi la
verità, né
giornalisti, ma soprattutto nemmeno Nardo.
Poi
usa la disfatta come occasione per una doccia di petali di fiori, in
un’intervista su scala regionale si distacca dalla
responsabilità
dell'attentato e ne ricava un bel discorso per lavarsi la coscienza e
candidarsi legalmente alla carica di Campione.
«Per
fortuna che quelle nuove reclute erano tutte abbastanza scarse.
—
Asserì il ragazzo, portandosi vicino all'amica, ancora
intenta nel suo
lavoro — Erano tantissime però. Ho dovuto lottare
contro un esercito di
ragazzine delle medie e delle superiori prima di riuscire ad eludere la
sorveglianza ed entrare alla Lega! Ci riesci a credere?!»
«Komor!
Non parlare male così male delle ragazze! Le femmine possono
essere
anche molto brave dei maschi a lottare con i Pokémon,
sai?»
«Stavo
per essere letteralmente picchiato dai nuovi collaboratori del Team
Plasma e tu ti preoccupi del mio commento poco femminista?»
«Basta
che mi dici cos'hai visto quando sei entrato. Com'era messa la Lega?
Ghecis era lì?»
«Ovvio
che no, ma sembrava tutto abbastanza normale. Non ho controllato le
stanze dei Superquattro, dove dicono ci siano i danni peggiori, sono
subito sceso nella Sala d'Onore con l'ascensore, ed è stata
questione
di minuti prima che dei poliziotti affiancati da un Machamp mi
scortassero fuori di peso.»
Dopodiché
fece una pausa. Nel frattempo, la ragazza dagli occhiali spessi aveva
alzato gli occhi dalla sua analisi ed era pronta a dare il suo verdetto
in proposito del campione trovato all'interno della scatola cubica.
Mentre
era sul punto di eseguire tale operazione, il giovane Allenatore
estrasse dalla sua tasca un altro oggetto, che mai la bionda avrebbe
immaginato fondamentale per la loro ricerca della verità.
Si
trattava di un singolo pezzo di stoffa. Un brandello di stoffa nero
opaco.
I
fili del tessuto emergevano dai bordi dalla sagoma eterogenea, con
tutta probabilità era stato strappato via da un indumento in
materiale
sintetico, come una calza od una t-shirt.
«L'ho
trovato — cominciò a spiegarle, lasciandoglielo
fra le mani — sul
pavimento della Sala d'Onore, prima che la scientifica potesse tirarlo
su e rimuoverlo assieme a tutte le prove.»
Belle
lo prese in mano, senza riservare a quel pezzo di nylon
chissà che
riguardo, tanto che lo strinse nel pugno, mostrando all'amico uno
sguardo di leggera confusione.
Nonostante
la sua spiccata intraprendenza ed un effettivo quoziente intellettivo
esistente in mezzo a tutta quella materia grigia utilizzata per
memorizzare numeri di telefono ed orari degli spettacoli del
Pokémon
Musical, l'aspirante scienziata non aveva notato un dettaglio piuttosto
importante.
Quella
pezza nera era impregnata di qualcosa. Lo dedusse dall'odore acre,
molto particolare di essa e dalla viscosa consistenza del tessuto.
Un liquido non ancora asciugatosi nell'arco di quei tre giorni.
Piuttosto inusuale.
La
giovane mollò la presa e il rosso cremisi andò a
macchiare le sue dita bianche, rendendole appiccicose.
«È…
— rimase piuttosto basita, rendendosi conto del colpo di
scena che
poteva rivelarsi cruciale per la comprensione di tutta quell'intricata
congiura – L-Lo avrà perso una recluta?»
Il
giovane di Soffiolieve si sistemò la cravatta, cercando di
restituire
al proprio abbigliamento trasandato una certa rispettabilità.
«C'è
solo un modo per scoprirlo.» Indicò il microscopio
sul tavolo.
Belle
eseguì il comando, mentre un silenzio a metà fra
la curiosità fervente
ed una esitante preoccupazione animava i due ex-compagni di viaggio.
Al
contrario della prima analisi che aveva richiesto un po' di tempo, le
bastò una singola occhiata unita alla sua modesta dose di
esperienze
per riconoscere immediatamente la sostanza.
Il risultato fu artefatte inequivocabile.
«È
sangue. — Espose laconica, fattasi immediatamente plumbea in
volto — Sangue umano.»
I
due Allenatori si scambiarono uno sguardo di reciproco stupore,
più che
altro non avevano idea di come elaborare una risposta a
quell’informazione: il mistero dietro quella provetta
nascosta nella
Spugna di Menger si era infittito nel giro di pochi minuti.
Il
liquido ematico rimasto annidato nelle fibre dell’indumento
rappresentava la prova inconfutabile di una violenza davvero accaduta,
di entità non ben definita, ma se quello era sangue
autentico, Belle ne
avrebbe di sicuro potuto tracciare l’origine nel giro di una
settimana.
«Pensi
che...» La interrogò subito il ragazzo, desideroso
di
conferma per la sua più che plausibile ipotesi.
«Fammelo
controllare.» La bionda si precipitò
tempestivamente al microscopio,
senza neppure cambiare i settaggi utilizzati in precedenza
buttò
l’occhio alla lente. Anche lei voleva solo controllare a
fatti i propri
presentimenti.
Fecero silenzio entrambi, poi lei gli rispose.
«Ecco.
Lo sapevo. Alla fine, come fa del sangue a non seccarsi dopo tre
giorni? Una tossina anticoagulante che gonfia di ossigeno i globuli
rossi.»
«O-Okay,
vai piano, Einstein. – Komor la interruppe, vedendo che dallo
sgomento
la ragazza sarebbe potuta addirittura svenire – Una tossina?
Cosa fa
esattamente questa tossina?»
«Facilita
l’ossigenazione dei tessuti, te l’ho detto, ed
è terribile!»
Ci
vollero un paio di secondi prima che l’aspirante scienziata
realizzasse
di non trasmettere in maniera per nulla efficace la propria
preoccupazione usando un linguaggio incomprensibile ai comuni plebei
non acculturati come lei.
«Cioè…
in teoria è una cosa buona: più ossigeno il
sangue porta ai tessuti,
maggiori sono le prestazioni fisiche del soggetto. È un
ottimo
anabolizzante, me ne avevano parlato a lezione di chimica.»
Komor
ripensò a tutti gli strumenti per la lotta che sortiscono lo
stesso
effetto rinvigorente per i Pokémon: Muscolbanda,
Stolascelta,
Assorbisfera… ma non gliene venne in mente alcuno che
sfruttasse tale
principio.
Quindi non a caso la sostanza che era entrata a contatto
con il tessuto connettivo liquido doveva possedere almeno un effetto
collaterale. Uno solo, ma molto grave.
«Non
è possibile che una medicina finita nel sangue possa
resistere
all’ambiente per tre giorni e non deteriorarsi. Poi chi mai
inietterebbe o farebbe bere una cosa del genere ad un
Pokémon?»
«Infatti!
Questa robaccia è proibita nelle competizioni ufficiali, si
rischia
addirittura la squalifica da un torneo, nel peggiore dei casi le
terminazioni nervose del Pokémon che la assume perdono
contatto con il
cervello, si perde la sensibilità ed il controllo degli
organi interni
e della facoltà di reagire agli stimoli
e…»
L’Allenatore
dai capelli corvini strinse immediatamente l’amica fra le sue
braccia,
cercando con il suo abbraccio di strangolare da sé la
bestiale paura
nella quale ella era rimasta intrappolata. Nel corso dei due anni le
spalle che un tempo erano gracili e minute erano aumentate di stazza ed
ormai lui poteva dirsi uomo anche fisicamente oltre che
psicologicamente.
«Capisco.
È come morire di overdose.»
Lanciò uno sguardo verso il tavolo di lavoro e intravide
anche
lui il bizzarro contenitore del cosiddetto Sangue Del Drago.
«Quindi
la recluta… a… a quella recluta… era
stata
somministrata questa droga?» Chiese, agitata.
«Il
tessuto è quello delle loro uniformi. –
Constatò, fattuale – Ormai il
tabù dietro alla figura del Team Plasma è stato
praticamente rimosso.
Ogni giorno vedo membri girare senza problemi per strada con addosso i
loro vestiti neri e il loro nuovo simbolo su collane, bracciali e
cappelli. Nessuno sospetta niente, però.»
«Komor,
capisci? – Lo prese per le spalle, incapace di esprimersi con
calma
—Quel verme schifoso di Ghecis ha costretto una delle sue
reclute a
fare uso di un veleno mortale solo per seguire i suoi interessi! Questo
è un crimine! È orribile! Si tratta pur sempre di
persone…»
«Potrebbe
averne drogata una… come potrebbe averle drogate tutte. Cosa
ne sappiamo noi?»
Quella
falla nel perfetto sistema di segreti di stato e silenzi retribuiti
all’interno del Neo Team Plasma non era stato previsto,
questo era
assodato. Non era possibile che la copertura fosse saltata in maniera
così lampante, solo per colpa di un piccolo ficcanaso e
della sua amica
che aveva fatto un corso di chimica base.
Non
si riusciva a capire se ciò fosse dovuto
all’incompetenza del Campione
a venire, il quale aveva sottovalutato la massa che magari credeva di
poterla controllare senza problemi, o fossero proprio i componenti di
quel duo ad aver sviluppato un’iniziativa propria e fossero
riusciti a
penetrare le linee dell’omertà.
Belle
si staccò dalla sua zona di conforto e andò a
prendere la fiala
analizzata prima ed il suo taccuino pieno di note. Aveva
un’aria molto
più seria.
«La
tossina nel sangue della recluta e quello che questa provetta contiene
hanno la stessa struttura sintetica. La chiamano Sangue del Drago, ma
è
al cento per cento artificiale. Zania lo ha prelevato da uno dei tanti
Pokémon che sono stati liberati l’anno scorso,
dopo la scomparsa di N.»
Komor
sorrise.
«Quindi
funziona sia su umani che sui Pokémon? – Belle
annuì – Ghecis ha preso
due Pidove con una fava, ma non può averla inventata
lui.»
«Chiunque
l’abbia inventata, primo: è uno spreco di vita,
secondo me. – La
ragazza prese fiato —Secondo, poteva venderla al mercato nero
e farci
su un bel gruzzolo di soldi, invece ci regalarla al capo di
un’organizzazione ormai del tutto legalizzata.»
«Strano
però… ciò che prima era legale adesso
è
diventato illegale. Adesso è legale ciò che una
volta
consideravamo illegale.»
Vi fu un momento di pausa, per riflettere su quella, per quanto
romanzesca, assai calzante affermazione.
Da
due mesi, ad Unima era ammesso lo spaccio ed il consumo di droghe
potenzialmente distruttive. Ma guai a chi osava opporsi alla dottrina
del capo del Team, le opinioni differenti erano assolutamente proibite.
La
violenza giustificava i fini di una politica lucrosa, ma solo per chi
ne reggeva in mano le redini. L’onestà di chi
aveva tentato di puntare
al bene comune e al senso di giustizia era stata castigata con un
forzato regime di terrore basato sulla pubblica umiliazione.
Il cambiamento promesso alla televisione non sembrava portare con
sé alcuna nota di miglioramento.
Ed
agosto era alle porte: cosa avrebbe deciso la cittadinanza? Avrebbe
dato il suo consenso a farsi manipolare da un individuo senza scrupoli,
pronto a sfruttare l’ingenuità di delle ragazzine
raccoltesi sotto la
sua protezione per portare avanti il suo folle piano di predominio?
«Avviso
subito Aralia e Zania. Le chiederò gli altri campioni,
dobbiamo avere
una statistica di quanti Pokémon sono stati avvelenati. Non
possiamo
aspettare oltre.»
Belle si levò il camice in fretta e furia, accantonandolo su
una sedia ed andando in cerca del telefono.
«Dille
che si tratta di una situazione di emergenza. – Komor fece
per andare
anche lui, probabilmente alla ricerca d’ulteriori indizi su
quale fosse
il progetto del Team Plasma nello specifico – Non so quanto
possiamo
fare per i Pokémon e le persone già intossicate.
Ma è nostro obbligo
fare di tutto per fermare questi malati di potere e assicurarci che chi
ne è responsabile paghi con la giusta pena.»
L’assistente
della Professoressa strinse i pugni, mandando un’ultima
preghiera al
cielo prima di cominciare a spiegare alla donna competente nel campo la
tragica scoperta fatta da lei e Komor.
«Speriamo
solo che nel frattempo non succeda nulla di male alle cinque
Campionesse.
Senza di loro a contrastare l’ascesa di Ghecis
Harmonia… è finita.»
❁
Quando
si sente dire, specie ascoltando le chiacchiere degli esterni al
settore, che nel mondo dei Pokémon è
normalissimo, anzi, indispensabile
rinunciare all’istruzione per mettersi in viaggio e vivere
mille
avventure, da qualche parte nel grande macrocosmo delle sei e
più
regioni un qualche Allenatore ride.
Ride
divertito, sia chiaro: una società ha bisogno di medici, di
architetti
e di ministri; gli Allenatori che lottano, scambiano ed allevano
mostriciattoli per lavoro si contano sulle dita di una mano.
D’estate
però le scuole erano chiuse, almeno tale privilegio era
concesso ai numerosi studenti sognatori.
Tuttavia,
una comunicazione urgente era giunta nella casella di posta elettronica
di tutti gli alunni dell’istituto superiore di Alisopoli,
richiedendo
la loro partecipazione ad una conferenza che si sarebbe tenuta quello
stesso pomeriggio.
Chiunque
avesse avuto la balzana idea di saltare un evento così,
impostogli
dall’alto a caso, avrebbe dovuto mostrare la giustifica
firmata dai
genitori e nessun ragazzo si scomodò per farlo, nonostante
tale
imposizione violasse in qualche modo i loro diritti.
Quindi,
una folla di Allenatori pubescenti sedeva nell’aula magna
apparentemente controvoglia, abbandonando le loro membra sulle sedie in
legno alla ricerca della posizione più comoda e meno
sospetta per
schiacciare un pisolino, sussultando ogni volta che alle loro spalle
compariva un professore ad intimarli di tirar fuori carta e penna per
seguire il dibattito con attenzione.
«La
presentazione – dicevano, e non scherzavano neanche
– verrà inserita
nel programma scolastico e sarà oggetto di verifica in
futuro.»
Si
discuteva dunque l’oggetto della conferenza: la sua
importanza era tale
da meritare ore di approfondimento in classe, ma nessuno aveva idea di
che cosa trattasse nello specifico.
Dopo
una buona mezz’ora di attesa e preparativi, il preside della
scuola procedette all’introduzione del relatore.
«Buonasera
a tutti, oggi abbiamo l’onore di ospitare nel nostro istituto
una
figura di enorme influenza nel panorama socio-politico della nostra
regione, Violante Gropius Harmonia, membro del consiglio dei Sette
Saggi indetto dal candidato alla carica di Campione, Ghecis Gropius
Harmonia.»
Un
signore di età avanzata, la cui vecchiezza nascondeva un
qualcosa di
rancido, come se gli anni inclementi ne avessero apposta imbruttito
l’aspetto e rattrappito l’animo, salì
sul palco, accostandosi al podio
come se di orazioni come quella ne avesse tenute centinaia, tale
padronanza espresse quando agguantò il microfono.
Prima
di iniziare a parlare, l’uomo digrignò la mascella
in un’espressione
troppo contorta per sembrare un sorriso, visto che di fronte ad un
pubblico così giovane e facilmente abbindolabile non
bisognava che si
fregiasse di chissà quali doti retoriche.
Tutti
gli studenti ammutolirono da soli alla vista di costui, senza il
bisogno che i professori li ammonissero.
«Fratelli
e sorelle. – La voce era così tonante,
così autoritaria e vigorosa da
risuonare all’interno della cassa toracica di ognuno dei
presenti –
Giovani e brillanti menti, futuro della regione benedetta dai totem
leggendari della pioggia, del vento e della terra.»
La sala
si riempì di una forte aura sacrale, come ad una cerimonia
riservata a soli eletti.
«Fratelli,
non sapete qual grande onore sia per me essere portavoce del messaggio
di cambiamento più aperto, più inclusivo e
progressista di cui la
vostra generazione sarà mai testimone: perché
oramai è inutile cercare
di voltare il capo ed ignorare la situazione… la sicurezza
di ognuno
dei cittadini è messa a repentaglio tutti i giorni da
minacce a cui
ognuno di noi sembra essere del tutto indifferente.»
Violante
pausò, dando mezzo minuto per concedere al suo pubblico poco
avvezzo a
ricevere notizie di tal calibro per metabolizzare la sorpresa.
«Io
stesso, – L’anziano si indicò il petto,
quasi volesse trafiggersi con
quel gesto – in quanto parte dei sette ultimi discendenti
della stirpe
nobile degli Harmonia-Gropius mi sento colpito in prima persona da
questa catastrofe, come abitante nativo di Unima.»
Improvvisamente
tutti provarono un millesimo di compassione per quell’uomo.
Se era vero
che costui discendesse da una delle due casate che in principio
governarono come unicum e poi si divisero in base al loro schieramento
fra ideali e libertà, allora doveva aver vissuto il periodo
di
splendore che interessò il territorio prima della guerra,
almeno
attraverso i resoconti dei suoi illustri antenati.
Certo,
sembrava vecchio d’aspetto, ma di sicuro non nato otto secoli
prima di loro.
I
ragazzi si interrogavano fra di loro, anche l’attenzione dei
meno
interessati alla conferenza venne solleticata menzionando il malessere
nella loro patria. Molteplici erano le cause secondo i media, dalla
distribuzione ineguale delle risorse al tasso di disoccupazione alla
mancanza di fondi per finanziare l’istruzione e la
sanità.
Dunque
tutti i presenti in sala non videro l’ora di sentire per
quale di
questi ostici problemi l’uomo avrebbe proposto una soluzione
fattibile.
«Tutti
voi avete presente cosa sia una Poké Ball,
suppongo.»
Violante
prese la suddetta fra le grinzose mani, squadrandola con lo stesso
disgusto e confusione di come un cavernicolo osserverebbe una lampadina
od un fiammifero, trasmettendo il messaggio a tutta la platea.
«Da
quando gli umani hanno iniziato ad affidare la propria connessione
emotiva ai loro fidati Pokémon a queste… volgari
sfere di plastica,
espressione materiale dello schiavismo moderno e del capitalismo
più
spietato, la nostra società è implosa, in una
detonazione di
indifferenza, odio, razzismo, omofobia, transfobia, misoginia,
sessismo, misogynoir, binarismo, cissessismo e
eternormatività!»
Tutti
trattennero il fiato, quelle parole grosse, arcaizzanti e
specialistiche avevano gonfiato l’aria e gravavano come
macigni sulla
coscienza dei poveri studentelli, già affannati dal doversi
ricordare
ogni sillaba di quel discorso ed appuntarsela sul quaderno.
Cosa ne sapevano dei ragazzini di odio, tutto quell’-ismo e
quelle fobie?
«Nel
ventunesimo secolo il legame fra Allenatori e Pokémon si
è talmente
affievolito e meccanizzato che è solo grazie ad un vile
congegno che
gli umani riescono a guadagnarsi l’obbedienza dei loro
Pokémon.
Ma
quale obbedienza! Timore, paura di essere lasciati a marcire in un Box
Lotta, od in mezzo ad un’autostrada semplicemente
perché “non aveva la
Natura adatta” o “questo Pokémon lo
volevo cromatico” o ancora, mille
scuse basate sul più totale egoismo!
I Pokémon non vivono più in
simbiosi con il genere umano, ma ne sono schiavi, incapaci di esprimere
i loro pensieri e sentimenti, vengono trattati da ognuno di noi come
passatempo.
Pensateci,
Allenatori in erba: sfruttare il potenziale di queste creature
meravigliose, nate libere e dotate dei vostri stessi diritti di
esistere e di essere felici, ingaggiare lotte sanguinose solo per
ottenere compensi e fama, investendo una quantità abnorme di
quel
denaro nell’industria competitiva.
Sfogare
su di esse la frustrazione ed il sadismo insito nella nostra specie,
ferendo e sacrificando delle vite per intrattenere una folla di
vigliacchi! Non ricordiamo mai che furono i tre Spadaccini Solenni a
salvare i loro compagni, mentre le foreste venivano bruciate, i mari
riarsi e le montagne franavano per colpa della più
disastrosa delle
guerre?
Quando
mai l’Eroe della Verità o quello degli Ideali, che
tanto vengono
idolatrati nei libri di storia, quando mai provarono compassione per i
Pokémon che privarono dei loro habitat e delle loro genie?
I due,
acciecati dalla loro ambizione, continuavano a combattersi a vicenda,
dimostrando come anche gli uomini più virtuosi in
realtà sono incapaci
di comprendere i sentimenti dei loro Pokémon.
Poco
tempo fa, ricordate tutti di un… pazzo visionario, se mi
è concesso il
termine, che spergiurava e farneticava per le piazze delle
città,
dicendo di riuscire a parlare con i Pokémon! Tutte idiozie!
Costui
non poteva comprendere quanta ipocrisia nascondessero le sue parole:
l’uomo, ce lo spiegano filosofi come Locke e Hobbes,
è malvagio per
natura. L’uomo uccide, distrugge, violenta e fa de male a
tutte le
creature più deboli, pur di riuscire a sopravvivere.
Quindi,
una volta che ha imparato a non sottovalutare la forza e la purezza dei
Pokémon, i quali non avevano più la
capacità di sottomettere con la
costrizione, ha affidato alla tecnologia questo subdolo incarico.
Fratelli
e sorelle, — Violante si discostò dal palco per
avvicinarsi alla
platea, con la mano tremante mentre reggeva il microfono: ormai il
fervore era riuscito ad infuocare anche il suo animo — chi di
voi ha
ora il coraggio di guardare negli occhi il suo Pokémon senza
sentirsi
lercio nell’anima?!
Allora?
Chi è senza peccato, sia lui a lanciare la prima
Poké Ball!»
Facce
di incredulità, letterale terrore era dipinto nei volti
abbagliati dai
riflettori e tempestati dall’acne di quei poveri giovanotti:
si
sentivano colpevoli due volte.
Colpevoli
di non aver mai riconosciuto i propri misfatti, colpevoli di non avere
la più pallida idea di come farvi ammenda. Una ragazzina si
mise a
piangere addirittura, strepitando e scusandosi con le povere creature
che da sempre aveva inconsapevolmente offeso con il suo solo esistere.
Altri
studenti si guardavano sbalorditi invece, sentivano che, riconoscendo
una volta per tutte il loro privilegio di essere uomini bianchi
eterosessuali avrebbero potuto contribuire a liberare i loro coetanei
meno bianchi eterosessuali e meno uomini in questo modo.
Qualcuno
addirittura accettò la sfida di Violante e si mise a fissare
il proprio
Herdier mentre si rincorreva la coda per l’oppressione, o un
Lucario
tranquillo su una sedia ignaro del razzismo sistematico a cui era
esposto, chi invece provò a cercare conforto nelle pupille
tonde del
suo Minccino, beatamente addormentato in mezzo a quell’orda
di umani
barbari, incivili e ignoranti!
Il
vice-capo dei Sette Saggi si godeva un battere di mani scrosciante,
colmo di commozione e riverenza, ed il personale scolastico stava
già
asserendo di che gran utilità per gli studenti della scuola
di
Alisopoli fosse stata quell’ora tolta alle loro vacanze
estive (se non
ci avessero pensato loro, quegli Allenatori si sarebbero potuti mettere
ad allenare la loro squadra per i tornei della stagione, contribuendo
così al problema!).
Infatti,
non era forse il titolo di Allenatore l’emblema
dell’autoritarismo del
Pokédex? Perché poi, nei documenti ufficiali si
usava la medesima
versione del nome anche per le Allenatrici femmine? Quello era un atto
di sessismo vero e proprio. E chi non identificava se stesso
né nel
sesso maschile né in quello femminile, come facevano i Ditto?
Dunque,
dopo che la platea si fu acquietata ed i cori di supporto nati in mezzo
al marasma cessarono di gridare i loro “lunga vita al Team
Plasma” e
slogan simili, ci sarebbe dovuto essere il momento riservato alle
domande.
Il
classico quarto d’ora accademico in cui il pubblico
può interagire con l’oratore, immancabile.
Violante
aveva già posto un microfono all’inserviente
affinché si affrettasse a
gironzolare per la sala senza una meta, sotto centinaia di occhi
dubbiosi e inteneriti dalla penuria della situazione.
Come se
qualcuno di loro si sarebbe mai azzardato a porgli una singola domanda.
Se
lo spessore delle parole si potesse misurare dalla quantità
di
sostantivi astratti dalla lunghezza superiore alle tre sillabe
all’interno di una frase, allora la presentazione sul
pericolo
rappresentato dalle Poké Ball aveva più rilevanza
del discorso Sulla
Corona.
E
poi, chi è che non ha a cuore non solo il voler essere
buono, ma anche
l’apparire tale di fronte ai suoi simili?
L’omologazione fa bene allo
spirito, perché non c’è nulla di meglio
che andare d’accordo.
Non
importa la sostanza e la natura dell’opinione comune. Bisogna
accettarla in nome della pace.
Della
pace e del silenzio. Violante annuì soddisfatto, sotto la
lunga barba
canuta un sorriso di pietà, per quel suo pubblico
indottrinato, così
squisitamente manipolabile.
Fece
per scendere dal palco, quando le casse acustiche risuonarono con un
acuto straziante.
«Una
domanda dalle ultime file!» Si sentì echeggiare.
Piombò
il silenzio. Qualcuno aveva il fegato di contestare le basi poste per
essere un individuo decente? Tutti i presenti morivano dalla voglia di
sentire cosa avesse da dire quel, anzi, quei bifolchi.
Avevano
la stessa capigliatura, la forma ricordava gli aculei di un frutto
tropicale: non riuscivano a stare seduti per qualche ragione, erano
entrambe in piedi ed apparivano spavaldi, come se avessero aspettato
quell’occasione dall’inizio dell’evento.
Il primo fra i due, quello
che indossava un paio di pantaloni da jogging e sfoggiava perentorio
una visiera da allenamento, prese la parola, schiarendosi la voce per
l’imbarazzo.
Non
era suscettibile al panico da palcoscenico, ma era sicuro che la sua
reputazione sarebbe stata marcata per tutta la durata
dell’anno
scolastico a venire, per colpa del suo intervento imminente.
Non
ci guadagnava nulla, Nate, dall’essere accettato in una folla
dalle
menti monocromatiche, né tantomeno il suo compare si sarebbe
mescolato
a quel coretto perfetto: per quanto ciò potesse urtare i
sentimenti dei
loro compagni di scuola, doveva esserci almeno una voce a stonare e
riportare tutti ai fatti, rompendo quella camera sigillata di pensieri
conformati all’autorità.
«Buongiorno.
Quindi, uhm… Pensiamo, io e il mio amico, che questa domanda
sia molto
importante, perché io credo fermamente che i diritti dei
Pokémon siano
anche diritti nostri.
Quindi
vorrei sapere, in quali circostanze è una cosa accettabile
dire: “Solo
noi potremo servirci dei Pokémon e governeremo
sull’umanità inerme”,
“Io dominerò il mondo intero” e
“Sarò il burattinaio della gente
ignorante! Tutti mi daranno ascolto!”?»
Il
suo compagno dai capelli blu metallizzato riprese la sua
argomentazione, per evitare che potessero linciarlo in assenza di prove
concrete.
«Tanto
per dare un po’ il contesto generale, queste cose sono state
dette da
Ghecis Harmonia prima della cattura non riuscita del Drago Leggendario
e sono state riportate da testimoni oculari, fra cui
l’ex-Campione
Nardo.
Vorremmo sapere la sua opinione in merito al capo del Team che lei
supporta, signore.»
Poi
i due attesero con educazione la risposta, non badando molto alla
reazione decisamente poco oltraggiata dei loro coetanei e a quella a
dir poco rincresciuta dei loro professori, che di sicuro avrebbero
fatto pagar loro il prezzo dell’insolenza davanti ad una
personalità
politica così vicina al governo a suon di brutti voti per il
resto
dell’anno.
Il
loro obiettivo non era tanto quello di additare il capo del Neo Team
Plasma in quanto ipocrita od opportunista; ciò che volevano
mettere in
risalto era bensì l’incoerenza
dell’ideologia astratta di voler privare
gli Allenatori dei loro Pokémon in quanto incapaci di
soddisfarne la
felicità.
Avevano
imparato a dimostrare le loro tesi nella maniera più civile
e
logicamente corretta proprio a scuola, se neppure lì
potevano dare
prova delle loro conoscenza, perché sprecare il loro tempo
assimilando
nozioni inutili, con la passività degli Slowpoke che si
lasciano
trascinare dalle onde per non dover incorrere nella fatica di imparare
a nuotare da sé.
Violante
si prese la fronte in mano, facendo intendere quanto
quell’intervento
suonasse privo di senso alle sue orecchie. Stette un attimo in
silenzio, per trasmettere il suo imbarazzo anche al pubblico: ormai si
era sviluppata una forma di forte empatia, i sentimenti potevano
guidare le intenzioni a discapito dei fatti.
Poi
riprese a parlare, avendo trovato l’espediente perfetto per
cavarsela anche quella volta.
«Visto
che ci tenete tanto a ricercare il contesto, voi due
ragazzi… Il
contesto qui è quello di celebrare una comunità,
di discutere insieme i
problemi della nostra regione, soprattutto quelli che hanno un impatto
negativo sui cittadini amanti dei Pokémon e dei loro
inalienabili
diritti.
Qui,
fratelli, sono in presenza di due Allenatori maschi bianchi etero, che
si sentono esenti dalla partecipazione a ciascuna delle soluzioni che
ho proposto e…»
Non
si riuscì ad udire il resto. Tutti avevano già
ripreso ad applaudire,
non ci è però permesso sapere cosa stessero
applaudendo.
Violante
proseguiva e la sua voce veniva offuscata dallo strepitio, il pubblico
aveva voglia di un po’ d’intrattenimento e lo
avrebbe tratto da sé
gioendo di come il Saggio avesse messo a tacere i due, dimenticandosi
totalmente della tolleranza e della compassione menzionate poco prima.
Come
gli antichi Romani si divertivano a guardare uomini come loro sbranati
dalle belve feroci al circo, pur di potersi permettere di chiudere un
occhio sullo sgretolarsi lento e graduale del loro impero, guidato da
cortigiani corrotti.
«Le
parole che presumete di aver sentito – riprese Violante,
deciso a
chiudere qui la serata – vengono probabilmente da qualche
blog
fascista. Sapete, siete ancora giovani, troppo giovani per poter
riconoscere cosa sia giusto per il bene della regione.
Ed
io, in quanto rappresentante della persona infamata da queste false
notizie, mi farò giudicare soltanto dal nostro impeccabile
lavoro per
risanare l’economia schiavista, dare importanza alle
minoranze
razziali, alle donne, agli immigrati clandestini e per il rispetto
dell’ambiente, non da un discorso pronunciato o non
pronunciato dieci o
venti anni fa.
Ora,
direi che questi giovanotti maleducati ci abbiano fatto perdere
abbastanza tempo prezioso e non ritengo sia necessario offrire
ulteriore spazio alle loro posizioni estremiste e
contrariate.»
Dopo
l’ennesimo visibilio della folla, ormai pendente dalle sue
labbra, la
sicurezza accompagnò Hugh e Nate fuori dalla stanza,
pregandoli di non
dover usare la forza per costringerli ad andarsene.
I
due non protestarono, non sentendosela di rimanere comunque
lì, visto
che, come sosteneva Violante, nessuno poteva fare niente, il Team
Plasma aveva il monopolio su tutto, perfino sull’educazione e
le
opinioni della gente.
Quand’è
che la libertà di esprimere dubbi riguardo al sistema aveva
portato le
persone ad ostracizzare i dissidenti, in una regione moderna ed evoluta
come Unima?
Tanto,
finito l’evento, il peggio che poteva capitare è
che qualcuno si
scordasse di quella tiritera e continuasse a vivere normalmente.
Chissà
quanti Allenatori Ghecis avrebbe convinto a liberare i loro
Pokémon e a
rinunciare ai loro sogni, al loro passatempo preferito, le lotte.
«Grazie
per la vostra attenzione. Spero che la vostra fiducia nelle ottime
intenzioni del Neo Team Plasma sia stata consolidata.
Fratelli e sorelle, buona serata.»
L’anziano
oratore si avviò immerso in una quieta sensazione di
vittoria. Forse il
doversi confrontare con quei guastafeste armati di schiaccianti accuse
sul suo conto aveva accresciuto la sua sicurezza nella presa di potere
definitiva di Ghecis.
I molti ci avrebbero rimesso, un po’ gli dispiaceva,
dopotutto.
Ma
l’idea di condividere con uno degli uomini più
ricchi e senza scrupoli
parte del ricavato, ville, automobili, donne e cariche, rendeva quella
fatica molto più piacevole, agli occhi del vecchio e
irrancidito Saggio.
❁
Parlando
di diritti dei Pokémon: nella costituzione di Unima, al
contrario di
quello che sostenevano i seguaci del Team Plasma, nessun
Pokémon
possedeva il diritto alla vita di principio.
Solo
i Pokémon ufficialmente catturati, ironia della sorte, con
una Poké
Ball e quindi dotati di un numero di identificazione registrato in
tutti i database dei Centri, potevano scampare del tutto alla
predazione degli esseri umani.
Proprio
quel fortuito cavillo nella legge aveva infatti permesso a Nardo in
persona di organizzare una modesta grigliata nel suo giardino, visto
che i molteplici occhi del cosmo apertisi sopra Venturia sotto forma di
stelle non avrebbero condannato la sua comprensibile voglia di
festeggiare un momento di gioia all’intendo della sua
famiglia.
«Nonno,
mi racconti ancora la storia di come la mamma e il papà si
sono incontrati?»
Si
sentì domandare, mentre sulla brace la cena sfrigolava a
ritmo di un
allegro scoppiettare. L’uomo si girò con calma,
sentendo la vecchiaia
legargli i muscoli logorati come facevano i coleotteri con la mossa
Millebave.
Ma
dato che la sua nipotina era per lui la cosa più importante
del mondo
subito dopo la propria figlia, avrebbe scalato a mani nude il Monte
Luna e attraversato a piedi scalzi il Cammino Ardente per continuare a
vederla sorridente, in quel piccolo kimono comprato da qualche
rivenditore di terza parte, le cui maniche erano troppo lunghe per lei.
Stava
per incominciare la narrazione, quando una voce femminile lo
rimproverò; riflettendoci, la loquacità della
bimba era decisamente a
lui preferibile di quegli aspri rimproveri intrusivi.
«Giulietta,
questa storia te l’ha già raccontata mille volte.
Lascia stare il
nonno, probabilmente non se la ricorda neanche tutta… A
proposito,
papà, meglio che non ti distrai. Se la carne si brucia,
avrò fatto un
chilometro a piedi per niente.»
«Sembra
quasi che ti dispiaccia sentirla ogni volta, amore mio.»
Si
intromise nella conversazione il coniuge, che stava cercando da quasi
un’ora di installare delle stelle filanti in mezzo alla verde
distesa
di erba, non arrendendosi alla lettura delle istruzioni per provare
alla famiglia la propria mascolinità.
Nardo
allora prese in braccio la bambina, sacrificando le poche forze
rimastegli da un intero pomeriggio di preparativi, parlando
più ad alta
voce affinché i due diretti interessati assaporassero per
l’ennesima
volta il suo aneddoto preferito, al quale avrebbe sovrascritto pagine e
pagine di miti della fondazione e leggende fuorimoda.
Anche
se il come sua figlia Marina avesse conosciuto Ottaviano, suo marito,
non sarebbe mai entrata a far parte degli annali, non si sarebbe mai
stancato di ripetere la loro vicissitudine.
«Vedi,
tesoro, quando ancora riuscivo a percorrere le scale dalle stanze dei
Superquattro fino alla Sala d’Onore facendo due scalini alla
volta, —
alludeva ad un tempo abbastanza lontano — quando tua mamma
aveva
quindici o sedici anni, ed aveva questo suo sogno di diventare lei la
Campionessa della Lega Unima quando io mi sarei ritirato.»
«A-Aspetta:
quindi in qualità di Campione è effettivamente
possibile
passare la carica al primogenito in maniera ereditaria?!»
Il
più grande dei due nipoti di Nardo aveva ordinato al proprio
Dragonite
cromatico (che per essere il frutto di continui accoppiamenti e della
schiusa di una centinaia di uova di Dratini non pareva
chissà quanto
minaccioso, specie visto il suo manto color rosa shocking) di planare
svelto, interrompendo la sua serale passeggiata a spasso per
l’aria
tiepida.
Qualche
settimana addietro credeva di essersi liberato dall’illusione
di non
poter essere lui, Fedio, il nuovo giovanissimo Campione, a sbaragliare
tutti gli avversari con la potenza dei suoi draghi allenati ad hoc.
Quella
notizia invece aveva innescato quella bomba di rabbia che credeva di
avere represso con la consolazione che la pratica del nepotismo fra gli
Allenatori fosse illecita e degradante.
«Certo
che sì, caro mio! – Nardo gli
scompigliò la creta vermiglia che gli
aveva trasmesso con i suoi geni di irrefrenabile testa calda
– Ma pensi
davvero che avrei lasciato a tua madre il titolo, solo
perché è mia
figlia? Giammai! E sono fermo su questa decisione ancora
adesso!»
Nardo
era una persona decisamente molto generosa e malleabile, andava in giro
per la regione a stringere la mano ai bimbi e a regalare Bacche
succulente per i loro Pokémon. Aveva istituito una piccola
tassa sulla
partecipazione ai tornei pur di mantenere gratuite le cure istantanee.
Sentirlo negare alla sua unica e amatissima figliola tale
opportunità
non era un qualcosa di credibile per chi lo conosceva.
«Infatti,
— riprese, dopo aver rivoltato le bistecche, ormai striate
dal calore
della Carbonella – Marina se l’è presa
non poco. Quindi, di punto in
bianco, chiese a me e alla nonna di poter viaggiare per conto suo
attraverso le altre regioni, in modo da poter diventare più
forte e
venire a sfidarmi in una lotta legittimamente e diventare la prima
Campionessa femmina di Unima.»
La
donna, mentre apparecchiava un tavolo basso, sistemando dei cuscini
sull’erba per sedersi senza sporcare il suo di yukata,
cercò di
ignorare la conversazione al meglio delle sue capacità.
Pensò
a quanto era impulsiva e arrogante da giovane, a tutti i litigi avuti
con il padre per via di quella questione poco burocratica, a quanto
poco riconoscente si fosse mostrata nei suoi confronti solo per quel
privilegio negatole per una giusta causa.
Però,
se non fosse mai partita da Venturia, la situazione di quel momento
probabilmente sarebbe stata molto diversa da quella corrente. E
ciò non
l’avrebbe resa altrettanto contenta, dopotutto.
«Poi
cosa hanno fatto?»
La piccolina si era messa in bocca un gambo di sedano per mangiucchiare
qualcosa in attesa del pasto vero e proprio.
«La
mamma è andata in giro per Hoenn e Johto, cercando di
diventare
sempre più forte. Poi, quando è arrivata a
Kanto…»
L’anziano
rivolse uno sguardo compiaciuto al suo genero, il quale stava provando
finalmente a seguire passo per passo il manuale delle istruzioni,
aiutato dal suo Primeape, ancora più impaziente di far
fioccare le
scintille da quell’aggeggio piantato al suolo di lui.
«…Ha
incontrato papà e ha detto “ciao ciao”
al fare la Campionessa, meglio
fare la casalinga mentre lui porta a casa i soldoni della
Silph.»
Completò
il ragazzino, che aveva avuto anche lui la sua dose di
curiosità
riguardo quella materia, ma a cui l’argomento aveva finito
per andare a
noia con l’arrivo della pubertà.
Come
mai molte ragazze sostenessero di avere un obiettivo da portare a
compimento e poi mollassero tutto in media res solo per aver trovato
qualcuno con cui fidanzarsi, si chiedeva. Non si trattava di idol, la
cui carriera sarebbe terminata all’arrivo del primo amore,
che motivo
c’era di mandare all’aria i piani di una vita
intera? La logica
femminile per lui non aveva senso.
«Non
è una questione di soldi, Fedio, — lo riprese la
madre, che aveva
assegnato a ciascuno i posti e disposto un colorato centrotavola di
frutta esotica, noci e dolcetti tipici dell’estate
– ma del fatto che
una Campionessa deve rinunciare a molte cose nella sua vita ed io non
fossi veramente pronta.»
«Nonnino,
ma quindi non è bello fare il Campione?» Giulietta
si rabbuiò un pochino.
Marina
cercò di esporle le vere ragioni per cui riteneva che quello
stile di
vita non fosse adatto a lei, per far sembrare la sua scelta
più
ragionevole, ma l’esito che ottenne fu quello di preoccupare
la sua
bambina ancora di più.
«Vedi
tesoro mio, il Campione di una regione deve affrontare oltre trenta
lotte Pokémon al giorno, e quindi ha poco tempo per
occuparsi dei
propri hobby, di uscire con gli amici… poi il Campione non
è pagato,
quindi molti (come per esempio quello di Kanto e quella di Kalos),
hanno anche un lavoro per guadagnarsi da vivere.
Poi
ci sono spesso tornei, cerimonie e riunioni in giro per il mondo,
quindi viaggiando sempre è molto difficile trovare un
compagno o una
compagna per crearsi una famiglia, infatti molti Campioni sono single.
Inoltre, questi ritmi frenetici comportano molto stress, ore di sonno
ridotte, una pazienza ed un autocontrollo inimmaginabili per le persone
normali.
Il rischio di ammalarsi gravemente è molto alto.»
Marina
aveva dunque scelto per convenienza di rinunciare al suo sogno
d’infanzia non appena una possibilità assai
più gradevole le si era
presentata davanti: mentre si trovava a Kanto e le sue limitate
conoscenze della lingua le impedivano di leggere correttamente gli
orari del treno ad alta velocità
Zafferanopoli-Fiordoropoli.
Essendo
cresciuta in una placida cittadina di campagna, tutti quei turisti e la
confusione della metropoli l’avrebbero rallentata nel suo
viaggio.
Ma
eccolo, un giovane dalle palpebre lisce come foglie di tè ed
i capelli
combinati in un antiquato taglio con la frangia le domandò
se le
servisse aiuto e lei, impacciata nella comunicazione,
dimenticò la
forma cortese e di rivolgersi a lui con l’onorifico, facendo
quindi una
pessima figura.
Allora
Ottaviano decise di venirle incontro, provando ad abbozzare qualche
parola in un inglese a dir poco maccheronico, che per la loro
generazione rappresentava il picco della fluidità in un
paese non
anglofono.
Risero
l’uno del tentativo dell’altro. E da quel momento
cominciarono a
condividere questi momenti di reciproca commiserazione, sviluppando da
essi un profondo legame prima di amicizia, poi Marina
annunciò, poco
più che ventenne, di volersi sposare con questo giovanotto
dalla pelle
giallognola ed una capigliatura leggermente meno obsoleta della
precedente, ma comunque ridicola per gli standard occidentali.
Aveva
fatto un sacrificio, lo sapeva. Ma quella della figlia del Campione
Nardo era comunque una storia a lieto fine: avevano due bambini
meravigliosi (finché Fedio non fosse entrato
all’università o si fosse
trovato a sua volta una morosa matura e affidabile) ed un futuro
altrettanto brillante davanti a loro.
E
proprio in quel giorno di luglio i due, ancora per un altro anno,
festeggiavano il loro anniversario di matrimonio insieme a tutti i
testimoni del loro amore; solo una persona mancava fisicamente al loro
appello, ma era come se fosse lo stesso lì con loro, a
vegliare su di
loro da uno dei tanti astri su nel cielo.
La
famiglia stava per mettersi finalmente a tavola, quando Giulietta
cominciò a chiamare con insistenza suo nonno, sbracciandosi
dalla sua
posizione sopraelevata per attirare la sua attenzione dietro di lui.
«Nonno,
nonno, nonno… Ci sono dei signori al
cancello…»
Non
aspettavano di certo ospiti, specie vestiti in giacca e cravatta, con
tanto di una scorta armata con un seguito di Pokémon pronti
alla bega a
coprirgli le spalle.
Il
cuore del vecchio Campione fu preso da un terribile sentore,
l’atmosfera gioiosa era stata spazzata via da un tifone di
inaspettata
pericolosità.
Fece
cenno al nipote ed alla coppia di non muoversi, che se ne sarebbe
occupato da solo.
Sempre
tenendo la bambina con sé, avanzò verso questi
loschi figuri: notò
sulle loro uniformi spille appartenenti a divisioni private
dell’intelligence governativa.
Egli
non aveva alcuna traccia di misfatti all’interno
dell’arco temporale
che lo aveva visto in carica, lo sapeva per certo, dato che spesso
collaborava insieme ad i più alti piani
dell’amministrazione regionale.
Se
quella visita era stata organizzata a sua insaputa e si erano
così
mobilitati i servizi di difesa, di sicuro l’ordine doveva
essere
partito da qualcuno che non lo vedeva assai di buon occhio, con cui non
aveva piacere parlare o negoziare.
Il
Campione conosceva bene la persona che per ben due anni non si era mai
mostrata al suo cospetto. Ora invece, che non aveva più
paura di
nascondersi, costui aveva sguinzagliato i tirapiedi che lui prima
temeva peggio della morte e li aveva indirizzati contro il suo
più
acerrimo nemico: non Nardo.
Giulietta
si era stretta forte al collo del nonno, scrutando quegli individui
piuttosto stranita.
Certo
che in quei mesi stava arrivando tanta gente nuova; solo che quei
brutti ceffi non le ispiravano alcun comportamento amichevole. Vestiti
così di nero, nella notte, le ricordavano quelle streghe
cattive del
Neo Team Plasma, a dirla tutta.
L’uomo
tirò un sospiro: non sapeva cosa aspettarsi. Ma aveva un
brutto, bruttissimo presentimento.
«Cosa
volete?» lì interrogò, mostrando a sua
volta una
Poké Ball, per intimarli a non attaccare.
Un
qualche tizio mostrò un distintivo della Polizia di Unima il
quale, a
differenza di quello dei falsari presentatisi a casa sua il mese prima,
appariva lecito.
«Ex-Campione, — disse semplicemente –
è qui che
risiedono al momento Iris Calfuray, Camelia Taylor, Anemone Reyes,
Catlina Yamaguchi e Camilla Kuroi?»
Per
poco Giulietta non si mise a gridargli contro e l’uomo
dovette farle segno di stare zitta.
Tuttavia,
sebbene fosse più vecchio e navigato di esperienze
allarmanti, non
nascose di esserci rimasto di sasso. Cercò comunque di
prendere la
situazione con la massima professionalità, anche
perché, se avesse
mentito anche solo per proteggerle, avrebbe pagato conseguenze
addirittura peggiori.
«Sì,
le ragazze sono di sopra, dovrebbero essere ancora sveglie.»
«Dica
loro di scendere immediatamente, è un ordine
cautelare.» Gli rispose un altro di loro.
Nardo
mise giù sua nipote, la guardò negli occhi come
se potesse vedervi
riflessi tutti gli sguardi delle sue cinque apprendiste, alcune delle
quali conosceva da più o meno quando quelle avevano la
stessa età della
bimba dalle ciocche arancio.
«Giulietta,
vai di sopra e chiedi alle tue amiche di venire giù, per
favore.»
Cercò di nascondere tutta la genuina paura che aveva in
corpo.
«No!
– Urlò. Con la sua vocina stridula,
spazientì gli agenti —Nonno, io
non…»
Ma spingendola, la persuase a fare quanto gli aveva richiesto.
«Andrà
tutto bene, cucciolotta. Le tue amiche sono tutte molto forti e
intelligenti. Non gli succederà nulla di male,
vedrai.»
Pronunciando
quell’ultima asserzione, fissò uno degli uomini in
nero con sguardo
truce, per confermare a se stesso che per davvero non sarebbe stato
torto un capello alle giovani Allenatrici, quindi Giulietta corse ad
eseguire l’ordine con diligenza.
Aspettò
che ella zampettasse via, prima che il rimorso soffocasse del tutto il
suo animo ormai arrugginito e non predisposto più a tali
colpi.
Era
stato lui a domandare che venissero fatte più indagini con
l’aiuto
delle professoresse, sempre lui le aveva mandate a cercare le ladre
all’interno del centro commerciale e la sua sconsiderata sete
di
giustizia le aveva spinte alla ricerca della droga ad Austropoli,
gettandole tutte nella tana del lupo.
Giurò
che non si sarebbe mai perdonato quelle sue azioni, non
importa quanti anni sarebbero passati.
«Vedo
– fece il capo delle guardie, insultandolo a denti stretti
– che
finalmente anche tu, caro Nardo, testardo e beota come sei, hai ceduto
alla ragionevolezza di chi ti è in tutto e per tutto
superiore…»
«Cosa
volete fare a queste ragazzine innocenti? Cosa c’entrano loro
con i vostri affaracci?»
Tuonò infine, al limite della disperazione.
Era
successo. Quella sera, Unima aveva definitivamente ceduto alla minaccia
di un regime distopico.
«Alla
prima domanda non ti possiamo rispondere, vecchio.
Però
possiamo farti presente che queste cinque sono ufficialmente
considerate, dalla prima all’ultima, “oppositrici
del governo” e
“terroriste ideologiche”. Per questo è
necessario che, in quanto tali,
vengano sottoposte alla giustizia di Unima.
Alla
giustizia di Ghecis Gropius Harmonia.»
❁
«Intanto
che aspettiamo che mio suocero torni... Marina, non mi hai mai
raccontato di cosa facessi durante il tuo viaggio, nonostante ci siamo
conosciuti quasi diciassette anni fa.»
«D-Davvero,
Ottaviano, amore mio? C-Credevo che il mio passato n-non ti ineressasse
così tanto. Non è più importante il
presente, per te?»
«Certo
che lo è! Però mi piacerebbe poter dire di
conoscere un minimo mia
moglie. Molte delle cose che so di te le ho scoperte solo dai racconti
di Nardo, quado uscivamo a bere di nascosto alcol e sake insieme,
mentre tu mettevi i bimbi a dormire...»
«Tu
e mio papà che cosa?!»
«Calma,
calma! Piuttosto, dubiti della mia fiducia? Per questo mi tieni
nascosto ciò di cui parlavamo prima?»
«Adesso
sì!»
«Raccontami
che tipo di Allenatrice eri. Ti piacevano che generi di
Pokémon? Che team avevi? E quante Medaglie? Prima
che decidessi di smettere, ti mancava poco al raggiungimento della
categoria dei professionisti, quelli che possono sfidare
la Lega...»
«E
va bene! Lo ammetto: non ero granché come Allenatrice.
Speravo
che nelle altre regioni ci fossero Capipalestra un po' più
scarsi, così
avrei potuto ottenere le Medaglie più velocemente e
finalmente
permettermi di sfidare Nardo faccia a faccia... Sono una fallita, lo
so. Ma all'epoca non avevo il coraggio di rassegnarmi al fatto che io,
la figlia del Campione di Unima, non fossi tagliata per la lotta...»
«Tesoro,
è tutto okay! Per me sarai sempre la numero uno! Senza di te
non saprei
a chi affidare tutte le mie camicie sudat, i piatti sporchi, la spesa
ed il bucato.»
«Ottaviano!
Certo che voi di Johto siete proprio dei grandi maschilisti! Solo
perché io faccio eccezione, le donne sono comunque
ugualmente capaci
nella lotta come gli uomini, in fatto di potenziale!»
«...Luce
dei miei occhi: hai cercato di ottenere le Medaglie di una regione che
non è Unima... per sfidare la Lega. Ad Unima.»
«Domani
mi presenterò dgli assistenti sociali e firmerò
un divorzio.
Così
le camicie dovrai finalmente imparere a lavartele da solo, quando avrai
finito di montare la stella filante qui in giardino.»
❁
Behind
the Summery Scenery #19
1.
Questo capitolo è un po' una mia personale sperimentazione.
Mi
chiedevo: è possibile scrivere un capitolo di ESG senza G,
quindi senza che le ragazze compaiano? A quanto pare sì!
Tanto
per campiare un po', proverò ad auto-impormi delle challenge
di
scrittura, vi terrò aggiornati su come vanno.
2.
Chi non muore si rivede, ed in questo capitolo rivediamo i nostri
rivali Komor e Belle. Non sto andando avanti con una checklist per
inserire ogni singolo personaggio, sia chiaro... ma più si
è, meglio è! A-A meno che non si cominci a
morire, non
mi
chiamo Martin (anche se gli faccio concorrenza per
quantità di
titshots su capitolo).
3. La
scena della scuola e specialmente quella delle domande l'ho presa da qui.
Traetene l'opi nione che volete, non me ne frega niente.
Edit:
l'hanno arrestata nel 2018. Kek.
4.
"Momo fa backstory ai personaggi secondari (stavo legit per scrivere
"secondaries", skeegee, che m'hai fatto) invece di guardare ai buchi di
trama" è un mood.
5.
Mi prendo questo punto per porgere un saluto a quei fenomeni degli
autori che su instagram mi seguono sul profilo personale
perché
vogliono che legga la loro roba pubblicata su Wattpad, quelli che
leggono solo i dialoghi di ESG per risparmiare fatica(???), quelli che
droppano la storia perché io come persona gli sto
antipatica,
gli autori della sezione che ancora si augurino che io scompaia
nonostante ciò non accadrà finché
l'amministrazione non mi caccia (che comunque non accadrà,
lol).
Hi, how
are you?
|
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Capitolo 20 *** La vetrina delle vergogne viventi ***
ESGOTH 3
❁
A story
by: Momo
Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing: 🍦
Seguiteci
su instagram: @esg_ offical_ ig
Early
Summer Girls
❁
Capitolo
20
La
vetrina delle vergogne viventi
Dove sta
l’onore maggiore: nel godere di un grande premio o
nell’incombere di una grave pena?
Gli
applausi durano giusto il tempo di un grido e poco o niente rimane del
momento di gloria. Chiunque può sentirsi cantare le lodi e
dimenticarne il coro, assordato dal silenzio. Ma solo alle persone
veramente ritenute eccezionali è riservata dedizione nella
loro
caduta, ci si prende cura di vederle spegnersi pian piano, seguendo una
rigorosa procedura nel rovinarle interiormente ed esteriormente.
«Signorina, ci
deve consegnare immediatamente le sue Poké Ball.»
Un
paio di mani guantate porgevano una busta di plastica con un codice a
barre ed un’etichetta che recitava “oggetto
confiscato”.
«Ma neanche se
vuoi!»
Gli
fu risposto, mentre la giovane si reggeva nelle maniche, in
realtà non del tutto determinata a farsele strappare con la
forza come ultima spiaggia.
Le
altre la stavano a guardare, come se quella reazione fosse immotivata.
In realtà si stavano pentendo della propria
docilità,
almeno un’opposizione simbolica non sarebbe stata sprecata.
Invece così sembrava che quattro su cinque si fossero fatte
convincere ad abbandonare i loro fedeli Pokémon in mano
all’ennesima recluta con i capelli ossigenati ed il piercing
sul
naso.
«Senti,
rossa. – La apostrofò la sequestratrice, che si
girava fra
le mani un manganello come fosse una clava da ginnastica – Se
mi
lasci in mano le sei Poké Ball senza che ti faccio patire un
dente, rendi tutto più facile.»
Già per le
prime due parole la Capopalestra s’era infuriata come poche
volte.
«E
poi cosa gli fate? Gli iniettate sangue infetto delle peggio ebole e
alla fine li liberate finché non muoiono?!»
«Anemone,
calmati. Dagliele e basta. – E poi a voce più
sommessa,
Camilla aggiunse – Se non collaboriamo, potrebbe anche
prendere
le tue proposte in considerazione.»
Anemone
pensò a quanto odiasse tale condiscendenza, ma per quella
volta
non poteva biasimarlo all’altra. Prese tre sfere per mano e
le
consegnò alla recluta sbattendogliele con tale forza contro
da
costringerla ad indietreggiare.
Non
solo mezz’ora di impertinenti controlli, in cui le avevano
tastato come minimo ogni centimetro del corpo con meno delicatezza che
in qualsiasi aeroporto avesse mai messo piede, stava anche di fatto che
tutte loro meritassero anche la foto segnaletica.
Dopo
essere state perquisiste dagli Herdier (non che vi fossero molti posti
in cui nascondere oggetti contundenti o esplosivi in un kimono in
cotone corto fin sopra al ginocchio) le fecero cambiare con le
classiche uniformi da carcerati, quelle arancioni.
Un
piccolo particolare saltò subito all’occhio. E ne
fu fatto
un reclamo, perché avevano il diritto di rimanere in
silenzio,
ma anche il dovere di lamentarsi, se era per quello.
«No,
scusate, ma uniformi in poliestere e viscosa? A luglio?»
Camelia
si fece sentire, leggendo l’etichetta perché lei
era
abituata a metterseli i vestiti, non a manifatturarli.
Una recluta a cui i
pantaloncini stavano stretti ed aveva le smagliature la
guardò confusa e le rispose.
«Ghecis ha
voluto così.»
«Non si
possono avere quelle estive?» Le chiese, in un certo senso
anche a nome delle altre.
Sollevare
un po’ di futilità in quel momento di incertezza
stava
facendo l’effetto di rendere quel trambusto meno ufficioso e
meno
grave di quanto non si palesasse loro: mentre si facevano gli affari
loro, persone mandate dal vertice chiesero loro di alzarsi con calma,
di seguirli sempre con calma e soprattutto di stare calme, mentre
legavano una tozza cavigliera nera con uno schermo lampeggiante a
ciascuna.
Se
inizialmente ciò aveva suscitato sgradevole stupore, la
faccenda
si stava evolvendo in una paura del tutto informe, dato che quei riti
di passaggio verso la gattabuia si svolgevano sì
nell’istituto carcerario in cui erano state scortate dalla
polizia in macchina, ma di ufficiali e guardie neanche
l’ombra.
La recluta di prima, non
quella dei controlli, quella delle uniformi, alla fine rispose alla
mora.
«Hanno detto
che non si può. Non ci sono le vostre taglie.»
«Se
ti lascio fare una foto con me, - Camelia si indicò,
provando ad
usare la propria fama per associazione d’immagine –
e te la
autografo, così la vendi su internet?»
«Aspetta che
chiedo.» E quella contattò con il walkie talkie
chissà chi per l’autorizzazione.
Qualora
le fosse stato concesso almeno quel piccolo privilegio, avrebbe avuto
conferma di poter usare ancora qualche trucchetto intramontabile per
uscire da quella posizione disagiante.
«Mi
riferiscono che tanto appena tutto questo sarà finito il tuo
valore come persona cadrà al di sotto del prezzo di una
Pozione.»
E
se ne andò di sua spontanea volontà,
tornò solo
quando tutti e cinque gli yukata colorati non finirono sul pavimento:
collezionati i nastri e le cinture, la simpaticona almeno mantenne la
promessa di rispedirli indietro a Nardo e di non bruciarli assieme al
ciarpame accumulatosi negli uffici del vecchio governo.
Però con le
suppliche qualcosa Camelia e le altre riuscirono ad ottenerlo.
Di
non perdere i capelli, per esempio. Probabilmente, qualcuno contava di
raccogliere le folte lunghe chiome dai colori così vivaci e
singolari per farci una parrucca o la stoppa per le fessure.
Ma alla fine, dicendo di
averli colorati o di portare le extension, tale proposito non fu
attuato.
Quando
fu il momento della foto, fu chiara una cosa: quel processo
così
laborioso e snervante sia per chi lo subiva e chi ne reggeva i fili non
era nulla di costituzionale o formalizzante. Togliersi lo smalto tanto
carino, raccogliersi i capelli di modo che non cadessero oltre le
spalle, via bracciali, anelli, collane, neppure le scarpe gli era stato
permesso di tenere.
Senza
ombra di dubbio, più che renderle ancora più
innocue ed
indifese di quanto già non fossero, le cinque sventurate
erano
state spogliate della loro essenza, della loro identità.
Era
molto più semplice controllare delle bamboline spaventate
dalla
loro stessa ombra, aspettando che diventassero abbastanza opportuniste
e sfruttarle per qualche bassezza, sarebbero dovute somigliare ai
nemici controllati dall’intelligenza artificiale dei giochi
di
ruolo: senza faccia, senza nome e senza volontà.
Peccato che quella sera
avessero proprio una gran voglia di litigare, le aspiranti Campionesse.
La ragazza delle
fotografie la odiarono tutte, indistintamente.
Le
fece disporre a mezzo metro di distanza l’una
dall’altra,
facendogli usare le braccia come misuratore. Pretese che Iris, essendo
la più bassa, si posizionasse nel centro, che le due
diciassettenni fossero ai lati e sugli angoli le due più
anziane. Stavano di fronte alla famigerata parete con le tacche, divise
dalle operatrici da un vetro spesso, tanto che per parlare la recluta
si serviva dell’interfono.
Intanto
ella parlava con le altre sue amichette, che non si potevano sentire
dall’interno della stanza blindata, gesticolava e indicava
divertita le cinque figure, in piedi, immobili, quando alla rossa per
sbaglio scivolò di mano il cartello identificativo, la capa
si
mise a gridarle “tiralo su, mongoloide”.
Gli
fu chiesto di non sorridere e non mostrare i denti. Tutte annuirono,
guardando dritto avanti a loro, come topi ingabbiati. Apprezzarono che
per non sprecare tempo avessero preferito una foto di gruppo, anche se
non si trattava dello staff più gentile con cui collaborare.
«Bionda,
spostati quel diavolo di ciuffo, ti si devono vedere entrambe gli
occhi. Mora, tu alza la testa.» Rimbombò la voce,
tutte si
girarono verso la diretta interessata.
«Faccio
servizi fotografici da cinque anni, non mi faccio dire come posare da
una che mette il fondotinta liquido sopra dei pori larghi come
crateri.» Le rispose l’altra, sorridendo tra
l’altro.
«Dai,
Camelia... mi fanno già male le ginocchia.»
La
più piccola del gruppo fece per colpirla con il cartello,
tanto
la fece irritare quel commento, ma l’altra si
scostò
prima, battendola in agilità.
Odiava
sembrare condiscendente verso le azioni delle reclute del Neo Team
Plasma, di temporeggiare non le andava proprio. Delle vuote minacce e
un brutto vocabolario non sarebbero mai bastati a domare delle
scapigliate come loro, si disse Iris. E ciò le
sembrò un
segno, sotto sotto.
Mentre le altre tre
cercarono di calmare sul nascere quella becera lite, si fece risentire
la stessa.
«Vedete
di muovervi, o l’intera regione di Unima saprà che
non
siete solo delle criminali insalvabili, ma che avete pure la faccia da
cozze.»
Senza
troppo spavento, più mosse dall’imbarazzo di
essere
riprese da una palla al piede di tale calibro, si rimisero in
posizione, facendo la stessa faccia che ognuna di loro aveva usato per
la carta d’identità, il passaporto e
l’ID
Allenatore, col viso vuoto e gli occhi dilatati.
Si
spensero le luci e partì un flash fortissimo per due o tre
volte, illuminando la stanza d’un folgore insopportabile.
Quando
l’illuminazione tornò normale e sembrava tutto
finito, la
recluta sbottò, premendo il pulsante che azionava
l’altoparlante con il pugno, rivolgendo lo sguardo a destra.
«Ma
la deficiente che ha chiuso gli occhi!? – Respirò
rumorosamente sul microfono, straziata - Ma è possibile che
celebrolese del genere fossero candidate alla carica di Campione, fra
tutto il resto?!»
«Soffro
di epilessia. – Confessò la ragazza, piuttosto
urtata da
quell’appellativo sgradevole – Le luci
intermittenti
possono causarmi una reazione.»
«Ma
ti prego, un conto è essere matte, – si riferiva
anche a
Camilla, per quello usò il plurale – un conto
è
essere bionde dentro…»
«Rifai
la foto senza flash, per favore. – La interruppe quella,
sapendo
che dall’esterno si sentisse ciò che dicevano
– Non
abbiamo intenzione di ostacolarvi. Cercate di capire.»
La
ragione per cui la leader volesse ragionare con quelle canaglie fu
ignota a tutte. Probabilmente la donna aveva affrontato la situazione
con la maggiore maturità, visto che la recluta subito
comprese e
riprovò, stavolta esaudendo la loro richiesta.
Dopo un attimo di attesa
coi nervi a fior di pelle, la sentirono ripetere.
«Nelle
foto segnaletiche vi si devono vedere gli occhi, diamine! Potete
evitare di tenerli strizzati e spalancarli!? – Poi, in tono
più sommesso, aggiunse – S-Sapete che non ci
pagano per
questo? Noi tutte volevamo uscire questa sera, e invece siamo
qui… a fotografare delle imbecilli dalla faccia
schiacciata.»
«Ma questa
è la mia faccia normale, io non avevo gli occhi
chiusi.»
E
prima di fare la foto finale, dove ancora certi particolari non si
ritenevano adatti ai requisiti ufficiali per una segnalazione adeguata,
Anemone, mossa da curiosità si mise a tirare con gli indici
le
palpebre della giovane di Sinnoh per vedere, senza nessuna cattiva
intenzione, quanto effettivamente fossero poco esposti i bulbi oculari
degli abitanti delle quattro regioni dall’altro capo del
mondo,
non che volesse giustificare gli attacchi insensati di
quell’antipatica mocciosa dalla pelle butterata.
Da
quell’esperienza, le ragazze impararono che, potendo pure
recalcitrare ed ostruire l’articolato piano
dell’organizzazione degli Harmonia, alla fine, volenti o
nolenti
si dimostrassero, al punto di arrivo sarebbero comunque giunte, con le
mani legate dietro la schiena e gli occhi coperti, per non memorizzare
il percorso in cui altre reclute ancora le stavano indirizzando, verso
il loro destino incerto e nefasto.
Il
loro calvario, in cui il loro spirito sagace sarebbe stato smussato dai
flutti insistenti di persone grette e vili, cominciava proprio una
volta finiti i preparativi.
❁
Strano
che nelle prigioni vere non ci fossero le sbarre sulla parete o le
grate alle finestre. Una volta rimosse le bende, si sentì il
forte tonfo di una porta chiusa ed una sequenza di chiavistelli
incastrarsi con un clangore inquietante, come se si stessero mettendo
d’accordo in un codice segreto di non lasciare alcuna via di
fuga.
Ironicamente,
come se davvero questa storia avesse preso in considerazione
protagoniste così riflessive e assennate, le nuove arrivate
si
misero a sedere: avevano a disposizione due letti a castello soltanto,
spesso le istituzioni nutrono una certa scaramanzia verso i numeri
dispari.
Si
trattava di una cella abbastanza angusta da non permettere a
più
di una persona alla volta di stare in piedi e attraversarla, non che si
potessero fare più di tre passi prima di imbattersi in uno
dei
muri in cemento armato, il cui intonaco si sbriciolava e trasformava in
una polvere fitta; ricordava loro il locale dismesso che in teoria
sarebbe dovuto diventare la loro sauna personale e invece non avrebbero
mai più rivisto, con tutta probabilità.
Di
sicuro gli altri carcerati, gli assassini, gli stupratori, gli
spacciatori e i truffatori della regione di Unima se la stavano
passando meglio di loro al momento. Neppure le resistenze della lampada
a tungsteno erano salve da un fastidioso contatto, breve quanto un
battito di ciglia, almeno due-tre volte al minuto.
«Iris.»
La punse nell’orecchio una voce melliflua, che la fece
tornare in sé.
La
ragazzina si appoggiò alla testiera del letto, sentendo un
deflusso di sangue dalle mani e dai piedi. L’ansia
s’era
impadronita di lei e ora avrebbe dovuto convivere con quel demone in
meno di dieci metri quadrati di spazio.
«Cosa?»
Al suo voltarsi si udì la suola delle ciabatte in plastica
sulla
ghiaia residua del pavimento non piastrellato.
«Anche
se cammini avanti e indietro per oltre quindici minuti, non cambia
niente. Mi faceva solo piacere ricordartelo, sai, che non ti facciano
male le ginocchia.»
Già
la battuta di prima le aveva dato su i nervi, se Camelia non avesse
avuto ragione in quel momento le avrebbe intimato di levarsi quel
sorriso dalla faccia e smetterla di essere sarcastica, anche se
dubitava un qualsiasi esito positivo.
Al
celebre monito di “conosci te stesso”, Iris era
sempre
stata preparata sull’argomento. Conosceva le proprie paure e
sapeva quali situazioni o persone le innescassero, tantoché
a
volte le pareva di conoscere solo se stessa, incapace di processare
altro che andasse oltre i confini del suo solipsismo.
E
di sicuro, ad una giovane abituata agli ampi spazi verdi della sua
città, le strade larghe ed il cielo infinito sopra la testa,
il
semplice concetto di quei muri spessi, che le sembravano avvicinarsi e
restringere la stanza ad ogni occhiata gli lanciasse, non la aggradava
affatto.
Infatti
si stava trattenendo il lamentare la propria claustrofobia in rispetto
delle compagne: era ovvio che se quattro pareti la spaventavano
così tanto, la sua paura non sarebbe stata altro che una
zavorra
all’avvento di ciò che stava ad aspettarle.
Invece di mettersi
comoda in uno dei letti inferiori, si accovacciò scivolando
verso il basso, parallela alla testiera.
«Non capisco,
noi non stavamo vincendo? Avevamo anche festeggiato in
anticipo…» Disse, sconfortata.
«Io
non sono chissà che mente malvagia, – Anemone
muoveva il
polso da dietro la spalla della sua compagna per provare il proprio
punto – ma se dopo aver chiesto alle future Campionesse di
ritirarsi dal TRUF quelle mi tirassero bidone, io mi arrabbierei non
poco.»
Non
voleva dare torto alla rossa, fra tutti quanti, ma l’idea che
il
cervello del Team se la fosse legata al dito in quella maniera,
pianificando una tale vendetta come una fidanzata gelosa, ad Iris
suonava assurda.
«Cosa
dovevamo fare, arrenderci?! – E sottovoce, visto che non
sopportava una tale colpa su di sé – C-Comunque
era
Camilla che parlava, io sono stata zitta… u-un terzo del
tempo,
circa.»
La sua tirata
patriottica, se ne ricordava alcuni spezzoni, era altro tasto dolente
su cui voleva sorvolare.
«Vuoi
dirmi che siamo finite in prigione, - la mora alzò un
sopracciglio – perché le due reclute hanno fatto
la spia?
Ma se non sapevano neanche i nostri nomi, a parte il fatto che loro si
chiamano come gli Unown…»
Prima
che la più piccola del gruppo si permettesse ancora di
accusarle
ingiustamente, si intromise la sub-leader, che si era già
appropriata del letto in basso a destra, giocandosi la sua carta della
mobilità ridotta.
«Non potevamo
mica massacrarle, ci hanno incastrate. Non volevano i soldi,
quindi…»
«Se
lo avessimo fatto, dite che ci avrebbero iniettato il cocktail il
veleno degli Scolipede o saremmo finite sulla sedia elettrica, con i
Tynamo attaccati alle caviglie… Ah, no, hanno capito che
costringerci a stare in cinque, insieme ventiquattro ore su
ventiquattro in un buco avrebbe funzionato di più.»
Per
quanto potesse suonare barbarico, a differenza delle altre regioni, ad
Unima si usava ancora la pena di morte. Era usanza di anni e anni
orsono, in cui crimini compiuti venivano puniti e quelli potenziali
scoraggiati con l’esempio pubblico più efficace.
Tale
verdetto risaliva alla stessa era in cui dall’estero erano
giunte
ad Unima anche le armi da fuoco. Ma mentre quelle si abolirono sotto
pressione dei protestatori pacifisti, la pena capitale era entrata
nella coscienza collettiva come misura unica contro i peggiori misfatti.
All’alba
dell’ultimo secolo tuttavia, almeno per alleggerire il
supposito
peso morale dai cuori di chi non poteva davvero prescindere dalle
conseguenze, non si coinvolgevano più i Pokémon
nelle
torture e nelle esecuzioni.
Se i film cult non ne
avessero ricavato un mito, Camelia non avrebbe nemmeno citato tale
riferimento.
«Anche
no, gli costa di meno tenerci segregate qui finché non scade
il
mandato di Nardo. Fine della storia. – La biondina di Sinnoh
provò a distendersi sul brullo materasso che era stato
lasciato
loro e si rialzò subito con un riflesso atipico per lei,
prima
tastando, poi battendovi il pugno sopra – Che letti
scomodi… Ho sonno, voglio andare a casa,
uff…»
Per
quanto Catlina fosse cresciuta nella bambagia e le sue aspettative in
fatto di comfort risultassero eccessivamente alte, nessuna le diede
contro: erano state viziate così tanto nell’ultimo
mese
che per “casa” il loro pensiero non volò
mica alle
loro, nelle loro città natale.
«Cosa
succederebbe – la mora si alzò in piedi, di
scatto, con un
impeto del tutto estraneo alla sua personalità –
se
decidessi di ammazzarmi qui ed ora, in un gesto di estremo
vittism… intendevo, patriottismo?»
«Dirò
a tutti che eri la mia modella preferita.» Anemone si
toccò il cuore, sincera nelle sue condoglianze proprio come
la
sua fidanzata quando, come al solito, non lo era mai.
«Non
ditele neanche per scherzo cose del genere, abbiamo sfiorato
l’altro mondo circa… - Catlina fece i suoi calcoli
nella
lingua della sua regione, perché le risultava più
conveniente – quattro o cinque volte in tutto giugno e
metà luglio. Forse per me arrivano anche oltre il
dieci…»
A
quel punto, l’aria già soffocante della cella si
era
riempita di quelle voci disincantate, di quell’ironia
così
realistica e tagliente, che la più giovane del gruppo
desiderò liquefarsi e scivolare via da sotto gli anfratti
sulla
porta, visto che i piedi non potevano condurla da nessuna parte.
«Non
è giusto, non è assolutamente
giusto…» Sussurrò, non volendosi far
sentire.
La
ruota del karma, il principio del bene ripagato e del male castigato,
quell’ideale di giustizia di cui le avevano farcito la mente
sin
dalla tenera età, era rimasta incastrata ormai da un pezzo:
nemmeno la polizia le aveva ringraziate per aver cacciato le reclute
dal Centro Pokémon.
Si
strinse le ginocchia al petto e vi appoggiò la testa,
sentendo
il flusso della massa di capelli ricadere in avanti. Le pareva come se
la testa le stesse per esplodere.
Le sue compagne avevano
ragione, non era la prima volta che finivano con l’acqua alla
gola.
Ma
cosa potevano fare in quel momento, senza i loro Pokémon,
senza
potersi consultare con qualcuno di più saggio, senza neppure
lo
spazio vitale per organizzare il contrattacco?
Calò
un po’ di silenzio, quasi quasi ad alcune venne voglia di
andare
a dormire, era tardissimo e chissà cosa riservava loro il
domani
(e dire che in precedenza il coprifuoco delle dieci e mezza gli era
stato così tanto in odio!).
«Ohi,
spegnete la luce. – esortò la Capopalestra,
indicando
pigramente l’interruttore sulla sinistra in basso esattamente
alla portata di quella che fra loro era rimasta più
silenziosa
finora – Camilla, dai, per favore, spegni ‘sta
luce.»
Nonostante
l’udibile nota di irritazione, la leader rimase un secondo
titubante, concentrata su qualcosa.
Eseguì
comunque la richiesta, perché le era venuta
un’idea e non
l’aveva condivisa pur di non sforzare psicologicamente le sue
care apprendiste ancora in stato di shock.
Nel
buio, alzando gli occhi che la recluta delle foto tanto le aveva
criticato, aveva notato un particolare che purtroppo sembrava esser
sfuggito alle restanti.
«Ragazze,
– aveva un tono calmo, sapeva il significato di quello che
stava
per chiedere – al mio tre mettetevi tutte a gridare
più
forte che potete, okay?»
«Eh…
no?»
Iris
si sarebbe pentita di essersi rivolta ad una più grande di
lei
in maniera tanto irrispettosa un giorno, ne era sicura, ma quel giorno
non era altrettanto sicuramente quel dì o quella notte
stessa.
Sebbene
non fosse molto sensato mandarle troppe occhiatacce al momento e vista
la voglia di scherzare che là dentro veniva e se ne andava
nel
giro di pochi minuti, le quattro non si sprecarono troppo nel
controbattere.
“Per
favore, non c’è tempo…”,
“Tu sei
pazza” detto con tono derogatorio, “Ma anche
no” e
altro ancora inondavano di uno sgradevole brusio l’aria, con
aggiunta di qualche sbadiglio e imprecazione mormorata fra i denti.
Come
se a Camilla importasse, partendo dall’indice
iniziò a
contare e le altre prestarono ascolto, un riflesso automatico ricavato
dai loro allenamenti.
«Uno…»
«Spero che
adesso ci trasferiscano in un ospedale psichiatrico, perché
io ne avrei bisogno.»
«Non
c’è proprio nulla da fare, huh?»
«E anche oggi
si dorme domani…»
Alzò anche
l’anulare, sempre con lo sguardo fisso in alto.
«Due…
- e la Campionessa di Sinnoh non esitò oltre, visto che
necessitava della conferma per le sue supposizioni al più
presto
possibile – tre!»
All’unisono,
suoni acuti come il graffio con le unghie sulla superficie di una
lavagna si levarono e ogni atomo presente nello spazio gassoso fu
riempito di quell’energia fonica, vibrando con le voci
femminili,
simili al pianto di spiriti irrequieti, perfino i legittimi fantasmi
dei morti che infestavano quella prigione si sarebbero spaventati,
qualora non si trattasse solo di leggende metropolitane.
Dopo
aver trattenuto la lettera “a” sull’orlo
della gola
per circa mezzo minuto, una dopo l’altra smisero e subito si
pentirono di aver sperperato fiato per una cosa così futile.
Immaginarono
che la più anziana si fosse inventata quella specie di
terapia
per tranquillizzarle, pensando al loro bene psico-fisiologico. Non solo
tristezza, soprattutto rabbia si era annidata nei cuori delle
Allenatrici e senza intervenire subito le avrebbe rose
dall’interno, come roccia pregna d’acqua.
In
effetti, almeno Iris, ammise che per lei aveva funzionato. Certo, le
facevano un po’ male i polmoni, ma nulla che le peggiori
litigate
con le sue amiche o il tifo durante una lotta molto accesa non avessero
già messo alla prova. Si considerò fortunata che
esistessero persone come Camilla durante tempi del genere.
Tuttavia, il genio della
giovane donna non si era limitato solo ad
un’utilità di tipo astratto.
Quella sorrise
soddisfatta delle sue deduzioni. Anzi, ne trasse un vero e proprio
sollievo.
«Per
fortuna. Le telecamere non sono solo senza l’audio, ma non
hanno
neanche implementata la visione notturna.»
Dopo
quella rivelazione, le quattro si pentirono della loro
impulsività ed imprudenza: perlomeno adesso avevano la
sicurezza
di potersi parlare e confidarsi senza che quelle vipere andassero a
ficcanasare come avevano fatto fino ad ora.
La
loro teoria era comprensibile: avevano accumulato una
quantità
sufficiente di informazioni su di loro da considerarle dei libri aperti
e dopo averle imprigionate non avevano più il bisogno di
snocciolare ulteriormente ognuna delle loro singole conversazioni per
completare tabelle di dati personali da consegnare al loro capo. O
forse…
«Dobbiamo
avergli fatto venire un esaurimento nervoso a quelle povere anime,
immaginate ascoltare noi che parliamo dei nostri patemi
d’animo,
di battutacce, tette e sesso per un mese e mezzo.»
Dopo
questa constatazione indubbiamente della mora ed un’ansia in
meno, le cinque pensarono fosse alla fine giunta l’ora di
mettersi a letto, se proprio non riuscivano ad addormentarsi dovevano
accontentarsi di parlare sottovoce.
Ma
fu con la luce spenta e l’oscurità che si
manifestò
il vero e proprio inizio del test alla loro capacità di
sopravvivenza.
La
famigerata telecamera si spostò verso il centro del
soffitto,
azionata da qualche meccanismo automatico collegato al circuito della
corrente: infatti solo con lo scuro si poteva vedere il fascio di luce
quadrato puntato contro il muro brullo al termine della cella; faceva
anche da proiettore, in sostanza.
Aprirono
d’improvviso gli occhi, sorprese. Scendendo dal letto, si
piantarono tutte quante davanti allo schermo, impaurite più
che
curiose di sapere cosa sarebbe successo.
Non
vi erano pulsanti d’accensione o spegnimento. Qualsiasi
immagine
o video sarebbe apparso se li sarebbero dovuti sopire tutti,
sacrificando ulteriori ore di sonno preziose. Sedute tutte a gambe
incrociate sul pavimento lercio, come da bambine a scuola, con i nervi
a fior di pelle. E dalle casse, all’improvviso
partì.
«Buonasera,
care ragazze. Ci avete fatto aspettare un po’, ma alla fine
siete arrivate.»
In
qualità decisamente sgranata, il volto purtroppo familiare
di
una delle loro più recenti conoscenze all’interno
del Team
Plasma parlava perso nello sguardo ad una webcam interna, la fronte
appariva più alta e l’ombra degli occhiali si
rifletteva
sul volto pallido, su quel sorriso maligno.
«Non
ci credo, è il tizio che abbiamo quasi preso sotto, voleva
costringere me e Camilla a ritirarci e continuava a chiamarmi
“tesoro” … - Iris si
protese in avanti a
carponi, riconoscendolo, mentre le altre avevano sussultato nello
stesso istante, per poco Catlina non era svenuta – come
si chiamava? Acromio?»
«M
dispiace di non essere potuti giungere ad un accordo che accomodasse
entrambe le parti. Ci sono state delle interferenze, qualche
fraintendimento che non poteva essere affatto
ignorato…»
Continuò,
scandendo quelle parole in modo tanto accondiscendente, sembrava
sottovalutare di molto l’intelligenza delle sue
interlocutrici.
Non che avessero comunque la possibilità di ribattere
qualcosa,
da parte loro.
«Siamo.
In. Prigione. Per. Nulla. – Iris batté le mani ad
ogni
parola, come se desse una maggiore validità al suo discorso
– Sicuri che non siate voi a star violando qualche diritto
umano?»
«Tanto
non ci sente… non ha neanche senso provare.» La
riprese la
compagna più grande, tornata più o meno in
sé.
«Ma
non preoccupatevi! – Esclamò, facendo un giro
completo
dalla sua poltrona girevole, quella su cui per qualche ragione
possiedono tutti i cattivi dei fumetti – La procedura penale
di
Unima prevede che prima di imputare a qualcuno una condanna
è
necessario un processo giusto ed equo.
E
per non incappare ancora in quella prassi macchinosa delle volte
precedenti, già da domani mattina cominceremo le sedute
giudiziarie, una ad una, una dopo l’altra. Il tempo
è
denaro, ed il denaro in questo caso è la vostra
assoluzione.»
Il
programma del giorno dopo non suonava per nulla allettante. A quel
punto marcire nella cella afosa per altre tre o quattro settimane, per
tornare poi alle loro vite normali andava anche bene.
«Non
me ne frega niente se non ci può vedere o sentire, quando
gli
metto le mani addosso e glielo stacco dalla testa, quel ciuffo, allora
sì che possono processarmi!» Anemone glielo
gridò e
si sentì il rimbombo.
Senza
preavviso, la rossa ebbe uno scatto d’ira (per quanto ormai
le
altre quattro si fossero abituate a tali comportamenti, rappresentavano
comunque un pericolo in uno spazio così stretto), si
alzò
in piedi, si tolse una delle scarpe dalla suola scollata e la
lanciò contro il muro con la potenza e la precisione di una
catapulta medievale; Acromio se la beccò proprio sul naso,
mentre andava avanti a parlare indisturbato.
«Scusatemi,
suppongo.»
«…No,
tranquilla, no scuse.» La rassicurò la leader.
Ma
da quel raptus violento nacque altro. Altre calzature seguirono, vari
oggetti per l’igiene volavano sulla fronte, contro il mento e
la
bocca del rappresentante del partito, il peggio comunque furono alcuni
bicchieri che si frantumarono in cocci destinati a rimanere a terra
come una trappola di Fielepunte, sul muro i calchi dei proiettili
occasionali.
Tante
cose avrebbero voluto dire, i suoni rimasero appesi alle labbra: quella
detenzione già le stava imbarbarendo; il Professore non
aveva
ancora finito.
«Vi
consiglio vivamente di pensare già adesso al vostro alibi.
– L’uomo emise una risatina effemminata, a dir poco
irritante – Non fate le facce da cuccioli indifesi, suvvia!
Se
siete abbastanza grandi per concorrere al titolo di Campione, potete
benissimo affrontare la vostra causa senza che vi venga fornito alcun
avvocato.
Sono tutti soldi
risparmiati per la campagna autunnale del Team Plasma,
dopotutto.»
Fu
un duro smacco da recepire. Era dai tempi dei Greci che
l’organizzazione della difesa non veniva affidata al
cittadino
stesso, ed in molti casi perfino gli stessi accusati
all’agorà finivano per sobbarcare il lavoro
dell’orazione ad un logografo. Invece né Lisia,
né
Cicerone né Demostene potevano venire a salvarle con le loro
formulette retoriche e i loro “oh, giudici!”.
«Detto
questo, ci vediamo domani in tribunale. – Congiunse le mani,
ancora non capivano se si trattasse di un messaggio dal vivo o
pre-registrato - Dormite bene, domani sarà una giornata
leggermente impegnativa.»
Prima di scollegarsi
dalla linea tuttavia, il professor Acromio ricomparve sulla parete a
lasciar loro un ultimo messaggio.
«A
proposito, una comunicazione di servizio: questi giorni si prospettano
come i più caldi di tutta la stagione estiva di
quest’anno. Queste carceri tuttavia sono piuttosto antiquate
e mi
duole avvisarvi del fatto che l’aria condizionata non
funzioni.
Bevete molta acqua e fate delle belle docce fredde ogni quando ne
avrete l’occasione.»
In
seguito a tale consiglio paternalistico, Acromio si dileguò
e la
schermata tornò blu, apparve la scritta “no
segnale”.
L’ora
dello spettacolo era terminata. Da quel momento in poi erano al centro
per cento sole, ma non avevano neanche le forze di sollevare dal
pavimento le proprie ossa.
Dopo un silenzio che
parve interminabile, la sub-leader si morse il labbro, ponendo a tutte
la fatidica domanda.
«Allora,
domani chi va?»
Tutte contorsero la
faccia in un’espressione addolorata, la più
giovane emise un debole mugolio di insofferenza.
«Io
non ce la faccio, mi dispiace. – la pilota, al massimo
sincera,
scusandosi con tutto il cuore – Ho bisogno di prepararmi a
memoria quello che devo dire, non so improvvisare un discorso e ho
paura di parlare in pubblico. Se cominciamo male, possono farci di
tutto…»
«E
come facciamo a sapere che non sia tutto già deciso e il
risultato non sarà truccato? Io non so neanche
perché ci
abbiamo arrestato al principio.»
Iris
non riusciva a guardare in faccia nessuna. Dopo quel sensato
ragionamento e rivelate le sue fallimentari abilità
persuasive
alla riunione di Austropoli, non era di certo lei la migliore candidata
per dimostrare che le cinque sospettate di non si sa che reati in
realtà erano obbedienti, rispettose ragazzine educate.
Forse
Camilla era la scelta giusta, ma proporre sempre lei come cavia da
laboratorio e giocarsi subito il loro jolly non sembrava comunque una
buona strategia.
«Beh…
- commentò quella – credo ci toccherà
andare a
sorteggio. Mi sembra l’unica soluzione…»
Ci
fu un altro colpo di scena che nessuna si aspettò, ad
eccezione
di colei che si era fatta stuzzicare sin da subito dall’idea,
ma
aveva aspettato di sorprendere tutte spingendole agli sgoccioli. La
ragazza appariva abbastanza rilassata, mossa a far cessare quelle
paranoie idiote sul loro destino, abbastanza determinata da volersi
impegnare a far chiudere il caso e mostrare alle compagne spaesate
l’arte di vincere un dibattito con la propria intelligenza.
Quasi la stessa ragione
che aveva spinto Camelia a prendere parte alla competizione a inizio
estate.
«Ah,
bisogna spiegarvi sempre tutto, arrivarci da sole? Mai, eh…
com’è che si diceva? “Mi offro
volontaria come
tributo”? O qualcosa del genere.»
La
modella provò a ricordarsi la posizione delle mani associata
a
quella frase, ma le venne in mente solo qualcosa relativo
all’alzare il dito medio, quindi s’arrese. Ci stava
godendo
nell’appropriarsi delle bocche spalancate delle compagne,
ovviamente.
«Dai,
cosa volete che sia? Ci sono molestatori, evasori fiscali e produttori
che fanno stipulare ad alcune mie colleghe contratti da schiavisti e
tutta questa gente è in circolazione senza problemi. Che
volete
ci facciano?»
«Camelia,
sei sicura? – Camilla le venne incontro poggiandole le mani
sulle
spalle, mossa da genuina preoccupazione – Sappi che nessuna
di
noi potrà sostituirti all’ultimo. E che qualsiasi
cosa tu
dica o faccia potrebbe esserti ritorta contro.»
La
diciassettenne le afferrò i polsi e scostò da
sé
quella presa troppo intima. Le sorrise come faceva sempre, provando
perlomeno a rasserenarla almeno sul fatto di meritarsi per una volta la
fiducia delle sue compagne.
«Lasciate
fare a me stavolta. Dobbiamo soltanto negare tutto ciò di
cui ci
accuseranno, è fin troppo facile. Mi stanno letteralmente
chiedendo di venire umiliati davanti a mezza regione!»
Con
quell’affermazione, riuscì ad attenuare un
po’
dell’avvilimento di prima, mentre le quattro si guardavano
reciprocamente, dicendosi “beh, in
effetti…”.
Esattamente quello che voleva.
La modella si
alzò in piedi, rivolgendosi al suo uditorio, che ancora la
ammirava dal pavimento.
«Visto?
Io so come funzionano queste cose. - Indicando Iris, Anemone e Catlina,
gli sorrise impietosita, ricambiando con una freddura il loro supporto
– Con questo vostro atteggiamento da perdenti non andrete da
nessuna parte nella vita, mi dispiace.»
Senza
replicare nulla visto il grande favore che il cuore frigido della
Capopalestra stava facendo per salvarle dalle fauci del leone, una
nuova atmosfera speranzosa si sostituì all’ansia e
riempì il loro angusto spazio vitale per tutta la durata del
loro riposo, con una certa anticipazione per il mattino seguente.
In
particolare, la mora si addormentò accanto alla sua
fidanzata,
eccitata come se si trattasse del giorno prima di un grande evento, in
cui tutti i riflettori erano puntati su di lei.
«Cioè,
dovrei essere io la leader di questo gruppo. Sono troppo brava in
queste cose… Camilla, ti voglio bene, ma io sono meglio di
te,
scusa cara Campionessa.»
❁
Per
distrarsi dal torpore ai deltoidi che le infliggeva il camminare con le
braccia ritte ammanettata dietro la schiena, non potendo guardarsi
intorno, Iris si mise ancora a ragionare sulla scelta del proprio
partito, come se una lotta importante fosse imminente ed ancora non
sapesse chi mandare in campo per primo.
Camelia era davvero la
persona giusta a cui far aprire quelle danze infernali?
Quella
stessa esitazione le fece venire in mente una cosa non trascurabile:
per quanto la modella di tre anni più vecchia di lei la
maltrattasse, prendesse in giro, trattandola come uno zerbino e a
questo punto nessuno potrebbe negarlo, era la piccola aspirante
Allenatrice ad avere sempre pregiudizi e basse aspettative nei suoi
confronti.
Ripensò
al loro incontro alla Lega, a come le avesse dato della poco di buono
soltanto perché si stava risistemando il mascara (o altro,
la
sua memoria ormai si stava offuscando) ed aveva un top che le scopriva
la pancia.
E
dopo quella le aveva strillato contro, l’aveva sminuita
davanti a
tutte, ma l’orgoglio urtato di Iris non faceva fronte alla
perversa confermazione delle sue infantili congetture.
Ora
che si avvicinavano passo per passo al tribunale invece, avrebbe
preferito non partire così prevenuta nei suoi confronti. Era
come se il suo inconscio ispirasse energia negativa che poi si
tramutava in brutte reazioni.
Era
come se il bullismo di cui Iris si dichiarava vittima dal secondo in
cui aveva incontrato quegli occhi azzurri e appassionati in
realtà fosse partito da lei stessa, non da Camelia. Non
essendo
troppo cieca sui propri vizi da ignorarlo, alla ragazzina dispiacque
tantissimo.
«Fate entrare
le imputate.»
Udì
da fuori, già impietrita dal fatto che non si stessero
scomodando neppure di imparare i loro nomi od il codice a sei numeri
cucito sulle loro uniformi sgualcite.
Sentì
che la calura umana emessa dalle reclute tanto vicine a lei si era
dispersa, un profumo di legno vecchio la indusse a sollevare le
palpebre ancor prima che la benda nera le venisse tolta. Si
scoprì aggruppata con le quattro sue compagne, mentre la
Capopalestra di Sciroccopoli era a qualche metro più in
là, era da quando avevano messo piede fuori dalla cella che
non
gli era più stata data la possibilità di
scambiarsi una
parola.
D’improvviso,
una spinta di forza non modulata in maniera proporzionale ad una
corporatura così esile la fece sobbalzare, fu di nuovo
intrappolata nella stretta delle sorveglianti, le quali con foga
condussero a sedere lei, Anemone, Camilla e Catlina, pestandogli i
piedi ogni qualvolta rallentavano verso i loro posti in prima fila,
sull’ala destra della sala.
«Sono
giovanissime. Andranno per i sedici, i diciotto? O
forse…»
Uscì una voce dalla folla, loro non lo sentirono.
Tutto
quel venire sballottata a zonzo sortì l’effetto di
ammansire ogni impulso di rifuggire quel contatto forzato, nessuna
delle quattro rifiutò di mettersi comoda pur di venire
lasciata
in pace.
Quando
per sbaglio alla biondina aristocratica fu letteralmente staccato un
capello impigliato su un anello troppo fastoso con un lamento a fatica
contenuto, le venne l’orripilazione.
«Chissà
perché, ho la sensazione di averle già
viste… ah,
giusto. Mio figlio ha un poster della ragazza coi capelli neri in
camera! Mi dovrei preoccupare?» Fece un signore dalla giacca
con
i gemelli.
Sembrava
di stare in chiesa. Tutti i presenti lì vestivano eleganti,
mentre a loro era stato dato a malapena un quarto d’ora per
rassettarsi le loro zazzere nodose e lavarsi i denti.
Inoltre
avevano bevuto solo un po’ d’acqua, ma aveva un
retrogusto
strano; si potrebbe litigare fino alla fine dei tempi se
l’acqua
abbia un sapore o no, ma non sapeva di quella bottiglia e nemmeno come
quella del lavandino, era poco dissetante…
«Ho
sentito dire che sono delle tipe che... Ci vuole un bravo psichiatra
per raddrizzarle, magari.» Una signorina si
sistemò sulla
sedia in legno, dondolando.
«Sì,
la rossa mi dà abbastanza l’idea di una che da
piccola
picchiava i più piccoli per divertimento. –
Concordò il coniuge, lieto di essere stato invitato a far
presenza all’evento cult dell’anno in fatto di
politica
interna – Ma la più alta, con il ciuffo lungo, a
me fa
più paura lei fra tutte.»
Tutti
i magistrati le guardavano. Ma soltanto nel momento in cui erano sicuri
di poter immediatamente rifuggire gli sguardi delle ragazze. Al circo,
nessuno guarda negli occhi il fachiro sul punto di ingoiare la spada
affilata o il contorsionista a testa in giù.
Qualcuno
doveva aspettarsi che le ragazze facessero qualcosa di clamoroso, dato
che i più temuti fuorilegge alla fine si erano sempre
dimostrati
grandi intrattenitori una volta giunti in aula, aumentando la
soddisfazione per averli catturati ed averli portati sotto
l’imponente bilancia dorata.
Tuttavia,
l’attenzione che la probabile condannata attirava su di
sé
era ineguagliabile: come poteva la pelle rimanere pulita e uniforme
anche dopo aver dormito su cuscini luridi ed avere le labbra ancora
rosse, gli occhi spalancati pieni della luce naturale che ricadeva su
di lei dalle finestre, riuscendo a sembrare un poco preoccupata e
contenta insieme.
Era
come la volta degli assistenti sociali che volevano portarsi via
Anemone, pensò la ragazzina. Non riusciva nemmeno se ci
provava
a fare il tifo per la sua compagna, non aveva l’aria della
paladina della giustizia o della salvatrice di loro che erano innocenti.
«Ti
prego Camelia, non rovinare tutto.»
Incrociò
le dita, prima che le afferrassero il polso e finalmente qualcuna delle
sfortunate Allenatrici tornò a far parlare
l’intero gruppo.
«Davvero
è necessità vitale ammanettarci alle
sedie?»
Camilla
era quasi impietosita dalla briga che le reclute si prendevano dal
giorno prima per far sì di privarle ogni singola volta di
ogni
singola libertà, per esempio il grande privilegio di potersi
grattare un attimo il naso.
«Certo.
– Le rispose l’altra, con sicurezza –
Potreste
scappare o fare qualsiasi altra idiozia se non vi teniamo
legate.»
«Tenerci
legate non ci dovrebbe far venire ancora più voglia di
fuggire, in teoria?»
Nonostante
la leader fosse stata piuttosto gentile nel suo tono, la recluta si
riempì d’antipatia e tagliò corto.
«Risparmiati
la filosofia spiccia per il tuo processo, neh.» E si
allontanò.
Tamburellando
sulla gamba del seggio laccato, la mora manifestava la paradossale
voglia di salire su quel carosello diabolico, aspettare ancora di
iniziare il processo stava mettendo tutti di cattivo umore.
E
quel dì servivano giurati benevoli, dei veri e propri
maestri
d’empatia, perché perfino il cigolio di una porta
o un
banco strascinato sul parquet causavano numerosi e sonori mugugni
spazientiti, le formalità ammattivano lo spirito
già poco
combattivo delle parti in difesa.
Le
cinque reagirono in modo curioso quando una serie di colpetti ovattati
fece soffiare gli altoparlanti, si guardarono attorno stordite, come se
perturbazioni invisibili le stessero schiaffeggiando.
Il pubblico si
rilassò. Il microfono da cravatta intavolò una
vibrante entrata in scena.
«Signore e
signori della corte, grazie per aver aspettato fino a questo momento!
Dichiaro la seduta aperta!»
Il
Professor Acromio si introdusse reggendo il proprio tablet con la
copertura a tendina, incurante del dress-code nel suo camice
immacolato, incantando tutti quale il presentatore di uno show
televisivo. Assolutamente conscio di non pertenere affatto alla cerchia
di nemici canonici contro cui il vecchio establishment si era accanito,
non ci provava neanche a ghignare in modo losco o a far la voce grossa.
In
quel momento indossava gli abiti del segretario di partito,
dell’uomo eclettico e raffinato, dal background misterioso
che
affascina sempre gli studiosi di storia politica. I lineamenti efebei
ed il fisico gracile si guadagnarono subito la simpatia di quasi tutti.
«Mi
chiamo Acromio, sono un professore Pokémon. – Fece
la sua
solita tiritera, aveva caro di imprimere il proprio nome nella memoria
di chiunque incontrasse - Per oggi ed i giorni a venire sarò
io
il giudice di questa singolare causa. Confido nella vostra
collaborazione.»
Si
piazzò davanti alla platea, squadrando la sala
dall’alto
al basso, confidenza nell’avere in mano sua
l’intera
situazione. Non poteva negarlo, tutto quel potere lo aveva insuperbito
un pochettino.
E
per quanto ciò gonfiasse quell’intellettuale
schizzato
come un palloncino pieno di elio e la testa gli fluttuasse
nell’iperuranio dei fanfaroni, le sue poche disistimatrici si
dovettero cucire di malavoglia le labbra.
Soprattutto quella fra
loro la cui lingua poteva decidere la differenza fra salvazione e
condanna.
A
sorpresa di chi ben la conosceva (o anche di chi a malapena sapeva di
lei, visto che ormai non si stupiva più che tale ignoranza
sopravvivesse alla sua fama), quando costui stette di fronte al primo
banco per vederla per la prima volta, l’imputata fece un
profondo
inchino con il capo.
«Eccola
qui, dunque, l’imputata di oggi. – Acromio
aprì
sullo schermo quella pagina di dati sensibili su di lei, ricavati dalle
sue scrutinanti – Lei è Camelia Taylor? Piacere di
conoscerla, anche se in circostanze un
po’…»
La
ragazza ricambiò lo sguardo, dimostrandosi pacata e
disposta.
Aveva ammorbidito i muscoli facciali per riuscire a trasudare
un’innocenza forzata che spesso fantasticava di sfoggiare
anche
davanti agli estranei e di cui finora l’unica testimone era
stata
la sua fidanzata.
«Piacere
è mio. Può anche darmi del
“tu”, se vuole, io ho diciassette anni,
tanto.»
«L’importante
è cominciare con il piede giusto, vero, Camelia? –
Acromio
le saltellò accanto, energico come un venditore di dolciumi
– Che peccato non averti incontrato prima, mi sembri molto
più cortese delle tue due amiche della volta
scorsa.»
«Oh, davvero?
Grazie.» Civettò, sbattendo un paio di volte le
lunghe ciglia dorate.
«No,
davvero? Scherziamo?»
Era
già stato stabilito che fermare i monologhi interiori della
Capopalestra era impossibile: persistevano alle discussioni, alle
sgridate, ai pianti e perfino ai momenti di estrema tensione.
Quasi la divertiva, la
frecciatina del professore lanciata alla leader e
all’Allenatrice non qualificata.
Ci
credeva che le due disadattate non fossero riuscite a contrattare con
gli alti capi della società come lei, ma solo
perché
quelli avevano preso sotto tiro una bambinona ed una selvaggia, non ci
voleva un genio.
A
darle veramente di che sospettare fu che lui l’avesse
seriamente
scambiata per una persona che non era lei ed in teoria, se il fato si
fosse rivolto a suo favore, l’uomo avrebbe continuato ad
interrogare una Camelia feticcia; era come se avesse usato la mossa
Sostituto, nessun colpo le avrebbe lasciato un graffio
finché si
atteggiava così.
In teoria. Il costo
della sua finzione era comunque una bella fetta della sua
dignità.
Si sentì in
imbarazzo immaginando cosa stessero pensando di lei le sue compagne
vedendola da lì.
Per ogni favore che
faceva loro, in qualche modo incappava presto o tardi nella loro
antipatia.
Ma non le importava
più di tanto.
«Prima
di cominciare, dobbiamo fare il giuramento dei testimoni. –
Cambiando interfaccia sul tablet, il giudice lesse –
“consapevole della responsabilità che con il
giuramento
assumete davanti ad Arceus, se credente, e agli uomini, giurate di
dire…”»
«…dire
la verità e null'altro che la verità? –
Lo
completò, con la mano destra appoggiata sul petto e la
sinistra
alta, rivolta verso l’esterno – Sì,
sì, lo
giuro.»
La
formalità appena recitata, oltre ad impilarsi alle altre
scartoffie tratte dal repertorio di un’artificiosa
banalità, s’accattivò un briciolo
dell’ottimismo dell’insolitamente disincantata
Anemone.
Fece cenni d’approvazione con la testa che sembravano fuori
luogo. Ma lei si sentiva rassicurata da quelle parole.
Come
la mora aveva predicato loro il giorno prima, “glielo stavano
chiedendo”. Che cosa? Ma di fare ciò che quella
linguacciuta ape regina in grado di causare controversie solo
respirando sapeva fare meglio: dire la verità.
Pareva
una sciocchezza, ma se fosse capitato a lei di venire interrogata su
due piedi, la tentazione di fare falsa testimonianza ed avvalersi del
suo bel faccino come alibi l’avrebbe sopraffatta di certo.
Bisognava possedere un fegato di ferro per non avvalersi della scelta
più facile pur di farla franca.
Sperava davvero che tale
sfrontatezza non stesse a compensare una vacuità di buon
senso.
Anemone
si sfregò un sopracciglio, provando a comprendere dove
Acromio
volesse trascinare la coscienza della sua ragazza: voleva manipolarla,
quella era la sua ipotesi. Ma non capiva neppure lei se ci sarebbe
riuscito. Le intenzioni di Camelia erano così indefinibili,
solo
seguendo il dibattito uno ci sarebbe potuto arrivare.
«Ci
piace una ragazza che va dritta al punto! – Esultò
il
giudice, poi si ricompose – Va bene, signorina, una domandina
veloce, tanto per scaldarci e darci due o tre coordinate
ideologiche…
Mi
diresti che cosa ne pensi della filosofia del vecchio Team Plasma?
Quella di liberare i Pokémon dal giogo umano.»
La
modella si appoggiò sui gomiti, apparendo pensierosa per una
quantità strategica di secondi, per poi sciacquarsi dal
volto
con una velocità innaturale l’espressione basita,
curvando
l’asta del microfono verso la sua bocca.
«Uhm…»
Abbozzò un sorrisetto modesto.
Prima
che potesse spalancare i padiglioni auricolari e prevedere le sorti da
quell’esordio a dir poco spinoso, Anemone si sentì
tirare
la manica dell’uniforme ed abbassò il profilo,
come quando
in classe le toccava suggerire alle sue compagne durante i test.
«Ti prego,
dimmi che tua morosa ha un diploma come minimo per rispondere a questa
domanda.»
Bisbigliò la
più piccola, l’ultima a poter parlare di
quell’argomento in realtà.
«Non credo
proprio, non ha detto che ha iniziato con il modeling a dodici
anni?»
Le rispose, non trovando
ragione per cui valesse la pena mentirle.
«Se per colpa
sua finiamo in prigione, io…»
Per
quanto il volume basso le permettesse di suonare minacciosa, la rossa
si lasciò trasportare dall’istinto protettivo e la
bloccò prima che potesse esprimere intenti lesivi,
finì
per esagerare e la sentirono tutti.
Era
la tossina dell’amore che faceva effetto sulla mente
già
poco stabile della povera ragazza cotta di una calamita per antipatie.
«Stai
zitta un attimo! – Non appena una centinaia di occhiate
confuse
la mitragliarono all’unisono, Anemone, imbarazzata come non
mai,
si scusò – Tutto okay, continuate pure.»
Non
poteva negare che Camelia avesse anche dei difetti. Ma nel caso si
fosse fermata a vedere l’apparenza, le patetiche scenate che
metteva su solo per guadagnarsi l’apprezzamento altrui e
avesse
preso alla lettera tutto quello che la udiva dire, non avrebbe mai
potuto provare la gioia estatica di venire salvata dal tentato
rapimento organizzato dal Team Plasma o di venire baciata per la prima
volta.
Si
sentiva un po’ sciocca a ripetere come una macchinetta che la
sua
ragazza era diversa da come gli altri la vedevano ma nessuno sembrava
capirlo mai al primo colpo.
Mentre
anche le due biondine la sgridavano in labiale ed Iris probabilmente
non le avrebbe rivolto il saluto per almeno un decennio dopo
quell’uscita, la giovane di Ponentopoli alzò lo
sguardo,
dritto alle prime file.
«Andrà
tutto bene. So io più di ogni altro che Cami è
una tosta, sveglia ed intelligente.
E anche che
non è una da tradire una promessa, è troppo
onesta per permetterselo.»
Fece
un bel respiro profondo, anche se l’odore di chiuso le
impolverava la trachea, si preparò a venir impressionata.
Non
poteva vederla in faccia, ma una piccola risata di gusto proveniva dal
suo microfono prima che la mora iniziasse la sua difesa: soppresse il
desiderio di correre ad abbracciarla, percependo il freddo ferro sul
polso.
«Una
figura influente come te avrà di sicuro sentito parlare del
Team
Plasma, vero? – la riprese il professor-giudice, indisturbato
-
Dicono che bisognerebbe riconoscere le potenzialità dei
Pokemon
e liberarli dal giogo degli umani. Io, comunque…»
«…non
sono d’accordo.»
Frusciò un
coro di sgomento. Magari qualcuno si aspettava che piegasse di nuovo la
testa e dicesse di sì?
Chiunque poteva capire
che si trattava di una prospettiva illogica.
«Eh?»
Era
il momento di argomentare. Siccome il bagaglio etico-culturale di
un’adolescente che pone come priorità nella sua
crescita
trovare un lavoro senza alta qualificazione che le permetta di
comprarsi un numero non esiguo di scarpe firmate non somigliava affatto
all’arma giusta con cui combattere le antitesi, decise di
fare
uso di qualcosa di meno accademico, ma oggettivamente più
vero
di tutti gli artifici sofistici da manuale: la sua personale esperienza
come Allenatrice.
Avrebbe potuto scegliere
di esporsi in maniera neutrale, esponendo i fatti con disinteresse e
metodicità.
Ma
si trattava pur sempre di Camelia, la stessa persona che si era messa a
piangere fiotti di lacrime perché una bambinetta aveva preso
per
mano la sua fidanzata attuale e aveva alzato un po’ il tono
con
lei.
Ovviamente scelse di
essere il più drammatica possibile.
«Praticamente,
- quell’avverbio fuori posto la avvicinava proprio al popolo
comune, chiunque diciassettenne con il seno grande almeno due o tre
taglie più del normale poteva immedesimarsi – per
diventare famosa, ricca e tutto quello che volete, sono dovuta partire
da zero.
Ha presente la periferia
a sud di Sciroccopoli?»
«Certo.
– Asserì Acromio, catturato da quella storia a lui
sconosciuta – Una zona depressa con un tasso elevato di
criminalità e disoccupazione.»
La
ragazza sfruttò quella rivelazione in maniera trasversale:
non
serviva che quello annunciasse quanto vivere lì facesse
schifo a
lei, ma alle persone del pubblico che non conoscevano nel dettaglio gli
affari privati delle cinque come quello spione maniaco.
«Sì,
non è che sia stata molto fortunata in questo
senso…»
Lo
disse con una falsa spensieratezza, per poi colpire con il finale a
sorpresa; un mese fa la sola vaga menzione dell’argomento le
avrebbe irrigidito la spina dorsale e legato la bocca, da quanto la
feriva nell’orgoglio ricordare ancora quel triste passato che
non
l’avrebbe mai abbandonata.
«Forse,
con una situazione familiare meno… ehm…
complicata? Boh,
non saprei come dirlo, avrei… solo…
Preferito
non avere un padre violento, che mi insultava, mi picchiava,
m’ha
trascurato per la gran parte e non mi ha mai voluto bene,
uhm.»
Ma,
se proprio il fantasma della bambina con la frangetta sporca e le
bruciature di sigaretta sulle natiche doveva rimanere legata alla sua
ombra, meglio che sfruttasse quella rompiscatole per qualche scopo
vantaggioso, a parer suo.
Fece una pausa,
lasciando gli ascoltatori sbigottiti da tale sincerità.
«Capisco.
– Annuì interessato Acromio, addolcendo la sua
voce
già poco mascolina. Si rivolse poi verso le quattro giovani
sedute ai loro posti – Voi eravate a conoscenza di questo
fatto
sulla vostra amica?»
Anemone, Camilla,
Catlina ed Iris si guardarono fra di loro.
«Fin
troppo.»
Ammisero tutte assieme,
totale apatia nelle loro espressioni di marmo.
Giacché
la solfa del “il mio papà andava a letto con le
prostitute
e per qualche ragione questo mi autorizza a farmi spezzare il cuore da
qualsiasi essere maschile subentri nella mia esistenza, meglio
proteggere il mio fragile ego con battute di pessimo gusto”
non
era chissà che miglioria rispetto al “sono stata
adottata
a tarda età da un anziano sotto la soglia di
povertà,
però innamorarmi di ogni essere femminile che subentri nella
mia
vita è una scelta personale, come l’incolparmi da
sola” e l’unica che davvero poteva giustificarsi
era
“a cinque anni ero un poco viziata, mi è caduto un
lampadario sulla testa ed adesso ho l’assicurazione sulla
vita e
a malapena riesco a stare in piedi da sola”, non si
può
mica biasimare il decrescere dell’empatia
all’interno del
gruppo.
Una
sola entità sa infatti cosa Camilla ed Iris tenevano
nascosto
per non sfigurare davanti a tanta eleganza nel far pesare le loro
sventure sugli altri. Essa comunque disapprova questo vittimismo, sia
chiaro.
Camelia
si portò le mani davanti al viso, coprendo la pesante
inspirazione che avrebbe preceduto il suo enunciato. Doveva rimanere
sullo stomaco a tutti, i presenti doveva tornarsene a casa con il peso
dei suoi problemi sulla coscienza: non li avrebbe neppure lasciati
cenare in santa pace, la pena che cinquanta sconosciuti sarebbero stati
obbligati a provare per lei come minimo gli avrebbe tolto il sonno.
«Senza
i miei Pokémon… - fantasticava, con un amaro
sorriso a
dividerla fra sollievo e frigido realismo - …se non avessi
potuto allenare la mia squadra per le lotte non sarei mai diventata
Capopalestra… O modella, o una star…
Probabilmente non avrei
fatto niente di costruttivo della mia vita, sarei nella stessa
situazione di dieci anni fa.»
Cadde il silenzio. Come
se fosse esplosa una bomba e avesse raso al suolo ogni preconcetto.
Perfino
le quattro, così scettiche sul successo della sua strategia
di
difesa, le riconobbero di aver indubbiamente ribaltato le carte,
passando da fortunata imprenditrice della propria figura a vittima del
darwinismo sociale.
Contava che la
compassione suscitata andasse a confluire negli incassi del suo
prossimo servizio fotografico.
Infatti
Acromio si sedette su un banco, accavallando le gambe e schioccando la
lingua sui denti, perplesso: avrebbe avuto senso attaccare una persona
tanto amata dal pubblico? Non per forza i fan, ma anche i comuni
spettatori ignari si erano fatti rubare il cuore. Dargliela vinta,
comunque, non era in ogni caso considerabile un’opzione.
«Bene, bene,
Camelia.» Senza mai uscire dal personaggio, il
professore-giudice non indugiò per molto ancora.
Sapeva
benissimo infatti che catturare i cuori delle persone facendo leva
sulla loro morale, sull’etica, sulla coscienza umana e sui
sentimenti era stato ed ancora rimaneva il principale meccanismo di
garanzia nell’irrefrenabile scalata di popolarità
del Neo
Team Plasma.
Andare
nelle piazze dei paesi a predicare, prima. Organizzare
un’inquisizione ai capisaldi del futuro della regione,
trasmettere l’evento in televisione, commentandolo coi
più
autorevoli critici, riempire i social media di commenti, post, like,
click, era l’ora di mettere la quinta e dimostrare il valore
in
battaglia del Team Plasma del presente.
Le
sinuose dita rosee di lui si inerpicarono inspiegabilmente su per lo
zigomo ben disegnato della diciassettenne, che si sentì
subito
di essere scesa di un piano sociale: con un vecchio gesto di
condizionamento psicologico, la costrinse a fissargli le scarpe e ad
abbassare la testa, incastrando le pupille indagatrici negli specchi
azzurri, connessi al subconscio dell’accusata.
La
stavano tirando troppo per le lunghe. Era passata quasi
mezz’ora
e neppure l’ombra di qualcosa che suonasse come un termine
tecnico o una sentenza giuridica era stato pronunciato.
«Mi
rende molto lieto il fatto che tu abbia voluto esporci il tuo lato
più sensibile, così, su due piedi, con
serenità.
Ci vuole un bel coraggio a parlare di certi tabù senza paura
di
venire giudicati.»
«Lo
so.» Fu secca.
Il
professore doveva aver finalmente trovato il cavillo con cui incastrare
la mora, perché si stava calcolando con tutta calma il
tempismo
con cui consegnarlo all’opinione pubblica.
«Però
– arricciò le labbra, tutto deluso –
è
davvero sconfortante come una persona di umanità grande come
la
tua non si trovi d’accordo con il programma del Neo Team
Plasma…
Non è bello
andare tutti d’accordo? Non vuoi che nella nostra regione
regnino la pace e la fratellanza?»
Ad
Acromio si accesero negli occhi bagliori d’ambizione
così
autentici da mandare su di giri i presenti. Chissà se
ciò
gli succedesse sempre, quando parlava dei suoi propositi,
chissà
se davvero essi coincidessero al cento per cento con quelli del partito
di cui era stato fatto segretario.
Tuttavia,
la maschera del fanciullo sognatore non doveva increspargli troppo la
mandibola, o la sostanza delle sue aspettative per quel processo
sarebbe stata rivelata: il linguaggio del corpo si basa molto sulla
contenutezza del motore nell’abitacolo.
«Per
favore, lo dica… Dica quello che tutti vogliono
sentire…» Pregò in
silenzio, così il caso si sarebbe chiuso.
«…oh?»
Esclamò la giovane modella, come se non sapesse la risposta.
«Dunque?»
La incalzò l’uomo.
«No.»
E
Camelia si mise di sano gusto, di una naturalezza affascinante, che
riusciva solo a lei fra tutte le apprendiste Campionesse, come se si
trattasse di uno scherzo detto da una di loro nelle loro conversazioni
quotidiane, a ridere.
Da quei concetti tanto
distorti, si era sovvenuta di un qualcosa successole appena
l’anno addietro.
Nessuno la interruppe,
quando si mise a raccontarlo, rigirandosi i ciuffi corvini sulla punta
dell’indice.
«Nei
momenti in cui non ho in agenda una decina di interviste, altrettante
registrazioni, servizi fotografici o eventi dei fanclub, mi piacerebbe
trovarmi un qualcosa di divertente da fare.
Qualcosa da
fare, non qualcosa di cui preoccuparmi.
Quindi,
rieccomi ancora un’altra estate a girovagare per i
marciapiedi
affollati del centro di Sciroccopoli in una delle pause che mi prendo
spesso; metto le cuffie, gli occhiali da sole e di solito riesco ad
ascoltare almeno un intero album prima che il mio manager o il mio
fidanzato di turno non mi messaggiasse per sapere dove diamine fossi.
Stavo
passando davanti al Teatro Musical, in pieno giorno, e
dall’altro
lato della strada, una frase si infila nella confusione regnante nella
mia testa per via della musica alta.
«Papà!
Cosa ci fai qui?»
Afferrando i
cavi, mi strappo gli auricolari di dosso. Li ascolto ancora un
po’.
«Sono
venuto per riportarti a casa, non è ovvio? Non sei andata
anche
troppo lontano? Lascia che gli altri facciano le cose a modo loro, noi
le facciamo a modo nostro!»
«Okay,
allora perché tu non fai le cose a modo tuo e non lasci me
fare le cose a modo mio?»
Il mio
primissimo impulso fu di accelerare il passo, di scappare via in
pratica.
Questa giovane
Allenatrice non la conoscevo. Ma mi azzardai lo stesso ad intromettermi
nella discussione.
«Tesoro,
- le appoggiai la mano sulla spalla, come si fa con una vecchia amica
– tu continua pure il tuo viaggio.»
Suo
padre mi fulminò con lo sguardo, sgridandomi ed intimandomi
di
andarmene. Non mi fece nessun effetto, stranamente. Gli adulti non mi
hanno mai messo paura, come la fobia del buio, pensavo che se
l’avessi superata al più presto sarebbe stato solo
un
vantaggio per me.
E neanche mai
temuto il disaccordo, i litigi e le opinioni contrastanti.
Non volevo che
il genitore di qualcun altro cambiasse idea. Volevo spiegargli come mi
sentissi.
So
che spesso la reazione a un confronto di idee non à sempre
positiva o pacifica, ma la ragazza che voleva viaggiare mi aveva fatta
immedesimare, le avevo involontariamente rubato la scena ma per il suo
bene.
Alla
fine di tutta questa lunga parentesi, io e l’Allenatrice ci
siamo
sfidate ed io ho perso di brutto, quindi direi che la morale
è
abbastanza intuibile in questo caso.»
«Okay, ho
qualcosa di serio da dire. Sembra strano, ma se lei, Acromio, ha un
attimo di pazienza…»
Richiese
la giovane, congiungendo le mani, causando un battito che
riecheggiò nella stanza dall’acustica impeccabile.
Non
doveva improvvisare granché, un messaggio limpido e ormai
noto a
lei voleva trasmettere, prima di ascoltare il verdetto.
«Certo, ti
è lecito.» Il giudice incrociò le
braccia e si leccò le labbra.
Camelia fu sollevata ed
imboccò il percorso mentale che si era schematizzata in
maniera del tutto naturale.
«Allora,
intanto: il mondo è pieno di persone come me. Persone
orribili,
che non si trattengono le critiche e sono così oneste nel
dire
la loro, che finiscono sempre e comunque per venire feriti o per ferire
i sentimenti degli altri.
Ma va bene
così.»
Nessuno
osò controbatterla. Allora la mora proseguì,
avendo
stabilito che non c’era nulla di strano nella reazione del
padre
dell’esempio o del segretario del Team Plasma, quando gli era
stato rifilato un secco “no” alle loro
verità
personali.
«Se
non ci si scontra, se non si imparano a conoscere le
differenze…
non si può vedere il mondo sempre da un solo punto di vista.
Per
questo è importante provare a capire chi è
diverso.»
A
quel punto, la voce ormai ridotta a un soffio si fece ancora
più
dolce, tingendosi di una compassione unica, che solo la più
vanesia, acida e meno affabile di loro poteva far risaltare a tal punto.
«Per capire
che non c’è niente di male nell’essere
diversi. No?»
Prima
di quell’estate, Camelia si sarebbe definita senza problemi
come
una ragazza come tutte le altre. Non pretendeva di distaccarsi dalla
massa per poi ricadere nei peggiori stereotipi a capofitto: adorava i
vestiti firmati, truccarsi con cosmetici dai profumi dal nome esotico,
i pettegolezzi perfidi sulle sue rivali.
Tuttavia,
aveva scoperto talmente tante cose che non avrebbe attribuito alla sua
persona nemmeno in un universo alternativo; ed ora adorava quei lati di
se stessa.
Quando
la sua fidanzata l’aveva rimproverata, la sera del loro primo
bacio, perché era da ipocrita odiare i difetti degli altri
ma
assimilare gli stessi ai propri pregi. Per fortuna che era cambiata.
O
meglio, si era lasciata cambiare da quel vento fresco e nuovo con il
quale la sua vecchia pelle, troppo stretta oramai, era stata spazzata
via.
La
modella che insultava Nardo per averla iscritta a sua insaputa alla
competizione, che si gongolava del calore di una relazione vana e
transitoria come fosse l’amore della vita, che avrebbe
volentieri
mandato tutto all’aria per una singola sconfitta era relegata
in
un fotogramma della sua memoria, un’ispirazione continua a
migliorarsi, confrontandosi con tutto quello che odiava, snobbava o
ignorava.
Paragonò
la sua precedente chiusura mentale dell’abbandono di cui
aveva
paura da sempre: prima le sarebbe passata, prima avrebbe potuto riderci
sopra ed etichettarla come la fase oscura della sua vita.
«E
poi, ci sono i Pokémon! – Suonò molto
ingenua, ma
tutti concordarono con lei - I Pokémon sono fantastici, no?
Sono
carini e tutto, ma si può veramente dipendere da loro, in un
certo senso…»
Scostò il
microfono da sé e si sedette in posizione meno tesa, una
volta finito di parlare.
Subito
però le toccò alzare gli occhi, perché
dopo due
battiti solitari ed intensi, un applauso, degno delle più
buffe
imprese strappalacrime di silenziosi eroi senza volto si
levò
per Camelia, che sorrise timida.
Per quanto urtasse la
sua dignità, anche Iris si unì, colpendo con i
polpastrelli, leggera, sul palmo.
«Almeno
ha ammesso di essere una persona
orribile…» Si
consolò; con fatica aveva accettato il fatto che quella
Capopalestra fosse agli occhi degli altri molto più bella e
sviluppata di lei, ma che perfino in intelligenza dimostrasse di essere
più donna, le si seccò la bocca per
l’invidia.
Preferiva
l’approccio di Anemone, che appariva persa in quel discorso
toccante, le pupille turchesi si erano dilatate abbastanza che se non
l’avesse vista già varie volte in stati emotivi
alterati
anche all’estremo, avrebbe giurato si sarebbe messa a versare
lacrime di commozione.
«Beh…
abbiamo finito qui, giusto?»
Camilla,
per via del suo stato di anzianità, si sentiva di conversare
molto liberamente con le reclute che le sorvegliavano.
Peccato
che questo sermone, tanto carico di pathos ed umiltà, lo
avessero sentito solo la quarantina di persone lì presenti
in
sala: una volta spiaccicato su tutti i media, come l’apologia
del
secolo, nessuno si sarebbe potuto scagliare contro di loro in
qualità di terroriste ideologiche.
Terminato
all’incirca il clamore susseguitosi ad esso, Acromio si
sistemò il ciuffo e pulì gli occhiali sul camice.
Una recluta con uno
sbiadito tatuaggio tribale sulla tempia fece cenno alla Campionessa di
guardare avanti.
«Tutto
molto interessante. - Si riposizionò opposto
all’imputata,
si era acceso un fuoco nell’animo del professore. - Ma prima
di
confrontarsi con noi…»
L’uomo
andò ad arraffare un plico di fogli strabordanti dai lati,
uno
si sarebbe potuto tagliare un dito non maneggiandoli con attenzione. Lo
fece scivolare sul tavolo, come un disco da hockey. Il timbro rosso,
sbavato sugli angoli, aveva i sigilli dell’intelligence della
regione, cosa che la giovane non si sarebbe mai immaginata di osservare
neanche nei sogni.
Aprì la
copertina: in testa, lesse di quella volta che rise in pubblico di un
suo fan sovrappeso.
«…non
ti dispiacerebbe confrontarti un po’ con noi? Con le
evidenze?»
Come
assorta in una morbosa trance, voleva divorare quel fascicolo in minor
tempo possibile, il contenuto era troppo riservato, troppo reale per
portarla a distogliervi lo sguardo: la vipera che era, il mostro senza
ritegno, che non si ferma davanti a nulla per mostrare il vero, non
importa quanto doloroso sia, era comunque una parte di lei.
Due
pagine avanti: per far decollare più velocemente la sua
carriera, si dice fosse stata a letto con un suo amico fotografo senza
avvisare la sua manager di allora, la quale si trovava ad essere la
moglie di egli.
Peccato
non si fossero documentati sul dettaglio più importante: al
momento dell’accaduto lei era già una
celebrità, si
era semplicemente tolta uno sfizio, niente di così profondo.
“…ed
è per questo che io penso che ad Unima le Allenatrici donne
non
sono oppresse.” Si ricordava bene quell’intervista:
per un
mese intero sul web non si fece che discutere sull’impedire
alle
modelle ignoranti e qualunquiste di esprimere la loro opinione su fatti
di cronaca.
Nessuno prese mai in
considerazione tale proposta, ma essere sempre nei pensieri dei
progressisti le scaldava il cuore.
Richiuse il dossier,
battendone il bordo sul tavolo per far rientrare nella copertina le
carte uscite dal bordo rilegato.
«Ebbene?»
La incalzò Acromio, diventato più severo, esigeva
maggiore serietà.
«Niente.
Queste cose si sapevano da un po’, non sono chissà
che notizie.» Fece, indifferente.
Nonostante
tali rivelazioni non le facessero né caldo né
freddo, era
palese che avesse aspettato che lei stessa di esporre i propri punti
deboli, senza che dovesse lui sporcarsi le mani a dissotterrare i suoi
scandali sordidi e gli insradicabili dilemmi fissi, impiantati delle
sabbie mobili del subconscio di un individuo così
travagliato.
Poteva
darsi che ad Acromio, alle reclute, al Neo Team Plasma in generale non
piacessero granché le cosiddette “bambine
problematiche”. Ed avere a che fare con un numero tanto alto
di
esse richiedeva mezzi specifici.
Serviva
un lettino da psichiatra, ma anche le lame, il bisturi e
l’uncino
acuminato di un cercatore di ossa, per dissezionare i rancidi scheletri
che ognuna di loro nascondeva dietro all’aspetto di una
normale
cittadina di Unima.
E
talvolta non solo ossa, Camelia aveva alle spalle cadaveri freschi,
ripuliti dei segni di colluttazione, esposti in una collezione alla
maniera dei killer seriali dei romanzi gialli di metà
novecento.
Giaceva
la sua brutta fama nello stesso scrigno della coscienza in cui le sue
buone azioni, come quando aveva perdonato la più piccola del
gruppo nonostante l’avesse presa in giro e quando aveva
accettato
di venire a cena dal suo futuro suocero: anche quella era parte di lei,
non poteva cancellare nulla delle sue serate più selvagge o
delle sue affermazioni più controverse e ciò non
la
infastidiva mai.
«Camelia, ti
chiedo io adesso una cosa, una volta per tutte.
Ti sei mai chiesta come
si sentissero tutte le persone che hai in qualche modo
offeso?»
Dalle
labbra della ragazza scivolò solo aria intorpidita
dall’ansia. Si sentì come quando a scuola la
riprendevano
perché indossava gli auricolari dentro il cappuccio della
felpa
e punizioni quali i compiti extra la attendevano ogni doposcuola.
Quella
piccolezza, la odiava. Odiava anche Acromio, ma almeno se si trattava
di una sensazione non poteva avventarsi in avanti e strangolarla,
essendo qualcosa di astratto.
«Hai
mai pensato un attimo a tutto il dolore e la sofferenza agli altri che
hai causato con la tua
“onestà”?»
«No.
Perché, dovrei?»
«Questa
tua idea di dire quello che ti pare e piace, di giocare con i
sentimenti degli altri solo per proclamarti
“migliore”, sai
quanto è nociva alla felicità, al benessere di
tutti?
Mentre
tu ti vanti e fai di questo orrendo tratto della tua
personalità
un vanto, c’è chi invece, come il Nostro partito,
punta a
creare uno stato coeso, armonioso, in cui persone diverse possano
essere accomunate dall’unico desiderio: dare a tutti le
stesse
possibilità di successo, eliminando le disuguaglianze
sociali e
economiche…
Ma
tu non hai il cuore per tutto questo; - poi si rivolse al pubblico
– queste insolenze, questi affronti alla nostra bellissima
diversità, non saranno più tollerati, a partire
da ora in
poi!»
Acromio
scattò verso lo scranno, saltando quasi i due gradini su cui
era elevato.
«Ha
ragione, il professore. - Una donna nelle ultime file
confessò a
marito, intendendo però di ottenere il consenso di tutti i
suoi
vicini – Non si può lasciare che i giovani si
facciano
influenzare da queste derive autoritarie. Bisogna riportare
l’ordine.»
«Bisognerebbe,
- commentò un tirocinante della facoltà di legge,
a cui
stava stretta la camicia in seta – fare un purga di tutti
quegli
Allenatori buoni solo a seminare discordia, togliergli dalle posizioni
di rilievo: via tutti i Capipalestra e i Superquattro che speculano
contro la democrazia!»
«Giusto,
giusto, - gli fece eco una studentessa di una qualche
facoltà
umanistica, dagli occhiali spessi come vetri antiproiettile ed il golf
di cachemire in pieno luglio – non pensiate tutti che noi
giovani
siamo tutti così, per favore! Queste sono solo delle oche
ignoranti, che parlano per sentito dire, che non hanno studiato
né storia né filosofia.
Bisogna sempre
rispettare i diritti umani e non discriminare chi è diverso
è un diritto!»
«I
diritti umani sono fon-da-men-ta-li! Siamo nell’anno
corrente,
non è possibile che gente come questa Allenatrice abbia la
libertà di esprimere pensieri così estremi e
privi di
tatto.»
Si
unì alla lirica un altro signore, fra i tanti fortunati
scelti
per assistere al processo, che si trovò contento che la
propria
ideologia venisse confermata dalla nuova corrente di governo.
La mano ossuta
dell’uomo afferrò il martello in legno: un secondo
era proprio un secondo.
«Con la
presente…» Il tono andò in scala, come
se stesse cantando un ritornello.
Se
fosse andato tutto come sperato, lo avrebbero tutti ascoltato per altre
quattro volte, prima che la canzone del nuovo ordine terminasse, fra
gli squilli delle trombe e i rulli di tamburi e le risa dei bambini che
lanciano petali.
«No,
aspettate, non potete incarcerarmi per delle sciocchezze dette
chissà quanti anni fa…»
La
mora era ancora lì ma nessuno sembrava volerla
più
neanche guardare. Era davvero finita? Lei aveva ancora altro da dire,
da offrire a quella turba affamata di brama di disputa. Non importava
più a nessuno se fosse innocente o no?
Non lo sopportava.
Una bugia era diventata
più interessante, più rilevante di lei nel giro
di pochi istanti.
Si
arrabbiò. Provò ad alzarsi in piedi e torcendo il
braccio
verso l’esterno si girò verso la platea, verso le
sue
compagne. Non aveva altre persone su cui contare oltre a loro.
«Voi
altre, ditegli qualcosa! – Gli gridò, perdendo
tutto la
compostezza, al prospetto di non avere più nulla con cui
difendersi – Io non sono una criminale, potete provarglielo,
dovete provarglielo!»
Camelia
fece un respiro che però finì per gonfiarle il
volto di
disperazione, mentre gli iridi delle sue compagne si ingrossavano di
paura, di legittima preoccupazione di venire chiamate a loro volta a
testimoniare e di sapere benissimo di non avere alcun coraggio per
farlo e salvare la loro amica.
«Smettila,
per favore, di implorare attenzioni. - Il professore la riprese,
sterno, come una madre che secca il proprio lato femmineo apposta,
parendo talora più terrificante degli uomini – Le
prove
parlano chiaro, e vista la coerenza che ci hai dimostrato finora,
farebbe solo ancora più male alla tua reputazione, di negare
il
tutto.»
«Non mi merito
niente di tutto questo…» Soffocò un
singhiozzo, per nulla sceneggiato.
«Le
conseguenze si pagano, prima o poi. Legge del contrappasso.»
«Mi volete
mandare in carcere minorile per aver detto delle cose
che…?»
«Ma
quale carcere minorile! – Agitò il braccio, con
severità allarmante – Esattamente il 31 luglio, a
diciotto
anni, sarai al cento per cento responsabile per legge. Non manca mica
tanto: sei già un’adulta da un bel
po’.»
Schiarendosi
la voce dalla platea, le reclute appostate agli angoli della sala e
incaricate da far da scorta si riavvicinarono a lei come i demoni
muniti di forca atti a spingerla dentro la pece bollente. Era finito.
Con
brutalità, le pressarono sulle spalle fino a costringerla a
rimettersi seduta, per ascoltare la sua sentenza di condanna ed
imprimersela in mente.
Nessuno
osò abbandonare il proprio posto finché il
giudice-professore non terminò. Tanto si sarebbero
tutti
rivisti il giorno dopo, stesso luogo, stessa ora, alla vetrina delle
vergogne viventi.
«In
base a quanto stabilito dall’Altissimo consiglio del Grande
Partito, erede del regno dei Gropius-Harmonia e in base alla
deliberazione della Suprema Corte della Regione di Unima, la qui
presente imputata Camelia Taylor è accusata con tutta
validità di terrorismo ideologico, incitamento
all’odio e
alla violenza psicologica e, da quel che leggo qui… -
Acromio
strizzò le pupille, aveva dimenticato un dettaglio non poco
importante – di consumo di sostanze stupefacenti illegalmente
ottenute?!»
«N-non sono
una tossica, lo giuro.»
La
modella non ebbe nulla da ridire, aveva ricevuto esattamente
l’effetto boomerang che si aspettava. Solo che accorgersene
tanto
tardi era leggermente… Non era stato il Team stesso a
produrre
la sostanza proibita? Era il dilemma di chi fosse nato prima fra
l’uovo e la gallina.
«Comunque,
la giuria condanna l’imputata a scontare due anni di carcere
con
eventuale riduzione della pena in caso di buona condotta.
Si conclude la seduta di
oggi. Ringrazio tutti i presenti della Vostra
partecipazione…»
Come
poteva farsi un’idea, un programma per rassicurarsi sul suo
futuro con una predizione ufficializzata e infausta? Per quanto ne
sapeva, in quel lasso di tempo avrebbe potuto fare in tempo a morire.
Non si sarebbe vista mai ventenne.
Il
suo stesso profilo riflesso sul marmo lucido le ricordava quello delle
specie canine che una volta bastonati diventano incapaci di abbaiare,
ogni quando l’aguzzino torna per battergli la canna sul muso
quelli senza stancarsi continuano invece a muovere la coda domandando
del cibo.
Era
quello il senso di essere una ragazza addomesticata? Non era nata da
uno swing di un alcolizzato e di una prostituta per lamentarsi delle
sue scelte di vita in gattabuia.
Si trattava solo di un
brutto scherzo. Uno scherzo che si era fatta da sola, però.
E
visto il suo carattere, non poteva assolutamente dare ragione a chi,
come Acromio avrebbe sostenuto che il suo agire era dato da odio,
perché lei in quel momento non si odiava.
Neanche
se qualcuno avesse consegnato in mano a quell’uomo abietto la
pergamena lunga chissà quanti chilometri che al momento del
giudizio universale si sarebbe srotolata come un tappeto infinto
indicando ogni sua singola cattiveria, meschinità, errore e
peccato, lei non avrebbe mai potuto odiare quella persona.
Una parte, pure questa,
di lei.
❁
A
mezzogiorno, dopo il processo, non gli venne neppure dato da mangiare.
Per altre due ore circa, l’amministrazione carceraria aveva
preferito lasciare che alle cinque sventurate si corrodesse
l’apparato digerente con l’acidità della
pesantissima sconfitta appena subita.
Rimesso
piede in cella, la ragazza dai capelli sudati e unti di sebo, che poco
prima avrebbe grattato la faccia sul pavimento pur di non dover alzare
gli occhi ed incrociare tutte quelle domande, tutti quei dubbi e il
biasimo che la attendeva, si distaccò dal suo gruppo
appoggiandosi sullo spigolo del muro con la fronte.
Stavano
tutte a guardarla, ognuna aveva qualcosa di diverso per la testa. Nulla
di troppo prevedibile o di troppo insospettabile.
Camelia
si tappò naso e bocca come se una bombola di ossigeno fosse
collegata alle articolazioni delle braccia, tirò un respiro
rumoroso: non ce la faceva nemmeno a piangere a comando per sembrare
più dispiaciuta.
Si
girò per formulare qualcosa e la rapidità le fece
quasi
perdere l’orientamento, non riusciva quasi più a
distinguere chi avesse davanti a calpestare la sua ombra.
«Scusatemi…
Io…»
«No, non ti
scusiamo proprio, stupida figlia di…!»
Un
colpo secco la fece indietreggiare, spalle al muro, portò
subito
gli avambracci alti per proteggersi ancora da quel pugno contro
l’osso parietale, il cervello le riverberava come il gong dei
match di arti marziali.
Qualsiasi insulto fosse
stato inserito, la mora non vi fece attenzione.
Le
arrivò un altro pugno in faccia, stavolta sulla tempia, che
non
la prese di sorpresa quanto il precedente, solo che la vicinanza con
l’occhio la fece preoccupare, il bulbo aveva fatto uno strano
schiocco, causato dal muscolo, il nervo o chissà cosa.
«Perché
devi essere così? Potevi mentire, potevi negare tutto,
perché non ci hai pensato?!» Le strillò
alle
orecchie.
Da
destra, poi da sinistra, altri due manrovesci dall’ampia
circonferenza, lei non riusciva a stopparli con le mani accattate alle
spalle.
Avrebbe
voluto moltissimo difendersi, quando fu presa per il collo
dell’uniforme, sentendo la cucitura strillare mentre le
segava la
pelle; avrebbe potuto afferrare i polsi di colei che l’aveva
agguantata, ma perse l’occasione: il primo tentativo di presa
andò a vuoto, ma con il secondo le unghie
dell’altra erano
affondate nella carne e con una stretta eccessiva, assolutamente non
ragionata, Camelia ruppe il suo tacito subire con ripetuti
“basta!” e “smettila!”.
«Se ci succede
qualcosa… è tutta colpa tua, è sempre
e solo colpa tua, sei un’idiota!»
Aggiunse
anche “ti prego”. Dalla foga con cui tirava e visto
l’odio accumulatosi, avrebbe potuto giurare che Iris le
avrebbe
strappato il seno a suon di strattoni e graffi.
Più
provava a spingerla via, più anticipava la mossa successiva:
con
uno schiaffo abbastanza potente, una ragazzina così
magra… Non ce la faceva. Picchiare una più
piccola di lei
era un’impasse che purtroppo non avrebbe superato in quel
momento.
«Si
vede quanto te ne frega degli altri, di noi, di tua morosa, per colpa
del tuo stupido, stupido orgoglio, e se proprio vuoi saperlo non frega
a nessuno che tu vada in carcere o no a questo punto!»
Iris
la prese per la frangia, tirando verso il basso per esporla ancora
più alla sua voglia di batterla freneticamente, senza
trattenersi: gridare così forte l’aveva esaurita
abbastanza, ma non demorse nel voler come minimo scaricare la propria
delusione sulla disgraziata, sfruttando quella calzante occasione.
«Ohi, ohi,
ohi, calme, calme, abbassate quelle mani!»
«Non
l’ho neanche toccata!»
La mora adesso aveva il
fiato mozzo, le veniva da tossire un grumo di frustrazione bloccato
nella gola.
Non
si sarebbe mai aspettata una reazione tanto lenta dalla leader, la
antagonizzò per non aver fermato quell’aggressione
sin da
subito, che perfino Camilla avesse voluto vederla soffrire, in fondo?
In
realtà, si trattava solo dell’agilità
di Iris, era
sfuggita ai tentativi di immobilizzarla delle altre. Se solo ci
avessero la grinta e l’assertività giuste per
confrontarsi
con la sete di vendetta di quel piccolo mostriciattolo dai capelli
viola, era sicura che metà dei pugni presi non
l’avrebbero
neanche scalfita.
«Quanto
ti odio, - quella usò un turpiloquio, mentre Camilla
riprovava
ad allontanarla di almeno cinque passi tenendola per le spalle
–
quanto sono contenta di non doverti rivedere mai
più!»
«Okay, direI
che basta, ora.» La voce della bionda si era alzata ed era
discesa, non voleva altre discussioni.
Sorprendentemente,
invece di andarsi a nascondere dietro la folta chioma di capelli e la
sagoma protettrice della leader, Iris si scrollò le dita di
dosso, fece spallucce con il mento all’insù.
Camelia
si domandò da quando la bambina tanto terrorizzata dai
rimproveri dei superiori avesse smesso di essere intimidita da lei; non
se la ingraziava nemmeno con l’adulazione, invece quel giorno
alla Lega, in cui aveva detto “tu sei… una persona
famosa!
Scusa, ma devi essere bravissima”.
«Ah,
io non ho niente da aggiungere. – Iris incrociò
anche le
braccia, con un sorrisetto appena abbozzato, che cercava di ricreare
basandosi su quelli che la modella le aveva troppo di sovente rifilato
– Se vuoi tirarmi un calcio o cosa, fai pure, cambia
nulla.»
La
provocò, come se un’aura repulsiva la isolasse da
tutti
gli sguardi torvi guadagnati col suo comportamento irrazionale.
Terminata
l’ingiuria, udirono tutte per la seconda volta il cigolare
della porta che s’apriva.
«Ma vi stavate
menando? Che in basso che sono cadute…»
«Ricordiamo
che siamo ancora al primo giorno, entro sabato qualcuna secondo me ce
la troviamo appesa al soffitto.»
Due
reclute si misero a ridere nonostante nessuna di elle trovasse quegli
scadenti sforzi di umorismo davvero divertenti. Quella più
bassa
aveva in mano un secchio coperto di vernice stinta, in quanto ad
apparenza, non la distinsero dalle altre, se fosse stata in sala
d’udienze assieme a loro o no. L’altra se la
ricordarono
dai controlli.
«Che
volete?» Camelia non gli riservò troppa
gentilezza. Aveva un brutto presagio.
«Ci dispiace
un po’ per come te la sei presa sui denti, hehe.»
Fece recluta uno.
«No, non
è vero. Non ci dispiace neanche un po’.»
La riprese subito recluta due.
Dimenticandosi
di lasciare un intervallo comico per far sortire l’effetto
velenoso, le cinque si riempirono di disagio, fissandole sulla soglia.
«Siete
irritanti, andatevene.» Le intimarono.
«No,
non possiamo. Vi abbiamo visto che ve le stavate dando di brutto,
– indicò la telecamera, quale fosse un oggetto
senziente
che di propria volontà aveva spifferato tutto –
che bestie
senza autocontrollo siete, voi altre.»
«Ghecis
– Aveva davvero tutto questo tempo libero, il capo del Team?
Era
solo una minaccia probabilmente, ma si allarmarono comunque –
ha
detto che dobbiamo punirvi per questo.»
«No, no, non
dobbiamo punirvi tutte, basta una, secondo me.»
Quella
parlava in contemporanea alla collega e a loro, mescolando i punti di
vista, faticavano a capire se fosse certa delle loro intenzioni o
stesse interpellando l’altra per conferma di continuo.
«Hey,
ho un’idea! – le venne vicina tutta entusiasta e si
accostò al suo bicipite, l’altra
inclinò la testa
per porgerle l’orecchio – Se facessimo fare la
doccia alla
nanetta, non ci sarebbe gusto. Ma, se prendiamo una delle altre
quattro…»
«No,
che genio che sei! - Saltò, battendo le mani. Sembrava
parecchio
elettrizzata all’idea – Aspetta, ma se non puniamo
lei, poi
dopo queste altre potrebbero pestarla per vendetta, e quindi dovremmo
punirle ancora… un circolo vizioso, insomma.»
Colei
che aveva escogitato quella trovata si indicò la fronte con
l’indice, come se ci avesse pensato per prima alla
concatenazione
di causa-effetto che si sarebbe scatenata. In realtà non era
andata oltre lo step iniziale, solo che la competitività
stimolava il rendimento delle reclute, secondo i capi al livello di
Acromio.
«Allora, fra
voi quattro: vi diamo… dieci secondi!»
Esultò.
Poi
cominciò a contare alla rovescia in maniera piuttosto
inconsistente, decideva lei quanto un secondo dovesse durare e ogni
volta che abbassava un dito, i rimanenti apparivano stortignaccoli
quali artigli di un rapace.
Già
all’otto, Iris con due falcate era giunta fin dalle due
carceriere per implorare perdono; aveva appena rimproverato la sua
compagna per aver anteposto il proprio orgoglio personale alla salvezza
della squadra, non voleva fare il suo stesso errore. Poi voleva
interrompere sul nascere il piano diabolico secondo cui lei faceva da
capro espiatorio.
«Tre, due,
uno, uno e mezzo, uno e tre quarti, uno e sei
dodicesimi…»
Camelia
invece aveva trovato troppo conveniente che la sua assalitrice fosse
tornata alla sua posizione di sottomissione proprio ora. Lasciandola
andare però, quella avrebbe potuto considerare la situazione
un
mal comune-mezzo gaudio ed azzerare il conteggio delle offese fatte.
Come
minimo, per far sì che la mora le concedesse un uno-ad-uno,
le
due simpaticone dovevano stritolarle il seno con a stessa potenza, e
dubitava che una come la sua adorabile piccola compagna avrebbe sentito
metà del dolore patito da lei.
«Non pensateci
neanche. Vado io.»
«Woah,
la poveraccia ci fa da cavia! – La recluta dalle mani libere
scosse i palmi aperti, per poi lasciarle cadere, delusa - Che peccato,
io volevo la sociopatica, però.»
«Anemone,
non…» La modella provò a fermarla, in
tono un
po’ rude, con cui inconsciamente rafforzò la
supposizione
di Iris, ossia che non le fosse rimasto neanche un briciolo di tatto
per la sua fidanzata.
«”Non”
cosa? - La rossa si fece largo con movimenti fiacchi, aveva gli occhi
lucidi svuotati di ogni colore, pareva stessero per sgusciarle fuori e
lei li trattenesse con le palpebre – Gestitevele voi queste
cose.
A me non piace litigare.»
Ebbe una convinzione
tale da prevenire l’intervento delle due Allenatrici
più anziane.
La
luce al neon le batteva sulla fronte, trasformando il grasso cutaneo in
un illuminante naturale e Camelia non riusciva a guardarla. Era ancora
vulnerabile allo stoicismo di quella ragazza come lo era al momento in
cui le aveva inondato le maniche dello yukata di lacrime frivole.
Anemone
le ispirava qualcosa in mezzo al timore e al profondo rispetto quando
la sua personale presunta dominanza non riusciva ad immergersi nelle
crepe di quello spirito integerrimo e compatto come cemento armato. E
perciò a crollare era sempre lei per prima.
Lo trovava umiliante, ma
giusto.
Si
morse la lingua e non sviolinò tardi ringraziamenti al suo
sacrificio, usò quell’energia mentale per pregare
che
nulla di peggio di quanto era successo a lei succedesse alla sua cara
fidanzata.
«Okay, ve la
riportiamo fra… due-tre orette? C-Cosa credevate, che ce la
saremmo tenuta?!»
La Capopalestra di
Ponentopoli le squadrava senza metterci troppo risentimento.
«Questa
è per voi! – La recluta posò il secchio
a terra con
così poca cura da far strabordare il liquido contenuto in
esso,
ingrigendo ancora di più il pavimento con la macchia umida
– Sapete che se non si bevono almeno quatto litri al giorno
in
estate la pelle si secca e vi viene fuori l’acne
cistica?»
«Ma
è acqua? Cosa ci avete messo dentro?»
Sparirono
con la stessa grazia con cui si erano presentate, Anemone aveva ancora
la benda e quindi supposero fosse quella la prassi per tenerle
all’oscuro di dove si trovassero e dove le stessero portando.
La
richiusura della cella sembrò durare troppo, la porta scorse
l’angolo retto con una lentezza amplificata
dall’assenza di
ogni qualsivoglia commento riguardo la situazione corrente: le quattro
giovani ex-aspiranti Campionesse non condividevano nulla se non
l’aria pregna di terrore della clausura.
A
quel punto, con i palmi ancora brulicanti dalla voglia di colpire
qualcuno di vivente, ragion di quella scelta il bisogno di ferire
intenzionale e di un feedback in ritorno ad esso, Iris pensò
che
ritrovarsi con degli estranei ad esaurire gli ultimi istanti di
libertà formale che le rimanevano, se non preferibile, le
sarebbe stato indifferente.
Mentre
la furia del temporale ruggiva fuori nei campi di colza, tutte la
ignoravano e lei aveva osato crucciarsi; ora sentiva la mancanza di
quell’invisibilità, rivoleva le lacrime spese per
persone
ormai troppo lontane dal suo cuore perché la speranza di
sistemare le cose e di lasciarsi curare dal tempo potesse ricondurle
nel suo stesso spazio.
Rimasero tutte immobili,
come modellini di cera, non sapevano se fosse dì o notte.
L’unica
cosa che impressionò la piccola di Boreduopoli fino al
momento
in cui si addormentò, fu Camilla, andata ad analizzare il
contenuto trasparente del secchio, si augurò almeno che non
si
tagliasse con la ruggine.
Guardava
dentro quello specchio deformato, i ciuffi biondi le scivolavano da
dietro le orecchie e si tuffavano le punte: dall’odore e
dalla
consistenza, pareva acqua. Veleno, forse? Non lasciava alcun pigmento
violaceo o giallastro.
Dopo mezza giornata,
potersi reidratare un po’ non sarebbe stata una cattiva cosa,
pensò.
Ma
senza preavviso, il tossire prolungato e strenuo della Campionessa,
chinata a terra con la mano sotto il mento a raccogliere la saliva che
faceva capolino, dall’esofago la materia ingurgitata era
stata
violentemente rigettata, intanto respirava a fondo per asciugarsi la
bocca dal tremendo sapore e parlare con Catlina e Camelia,
già
pronte a soccorrerla.
«È
acqua e sale.» Disse, tossendo ancora più forte.
Finì che la
convinsero a sputare per terra, fino a che del retrogusto tossico non
ne fosse rimasta traccia.
❁
Niente luna, niente
cielo. Il soffitto sembrava pesare con lo spessore
dell’intera atmosfera terrestre.
Da
fuori tuttavia i rombi dei tuoni s’infiltravano nelle pareti
e le
reti dei materassi vibravano come telefonini in modalità
silenziosa.
I sogni di mezza estate
non dovrebbero conoscere così presto l’alba
Dappertutto, gli uccelli avrebbero comunque cantato. Anche non le
avessero rinchiuse, se c’era perfino la pioggia e il vento a
sibilare nel buio, quanta possibilità avrebbero avuto di
poter
vedere le stelle? Un desiderio del genere era strano. I fiori caduti
dagli alberi, chissà quanti.
Acromio
aveva ragione: il caldo umido impestava l’aria. Le
città
più inquinate, in particolare Austropoli e Sciroccopoli, in
cui
le nuvole grigio antracite ammassate
attorno alle punte dei grattacieli coprivano
le teste di circa sei milioni di abitanti di Unima non erano tanto
soffocanti.
«Direi
che basta per oggi. Ho finito il materiale, non posso farci
molto.»
Iris
si passò una mano sull’osso cervicale, sentendolo
più pronunciato del solito vista la sua posizione ricurva da
seduta, mantenuta per un tempo prolungato. Alzò la testa e
uno
scricchiolio sospetto la indolenzì.
Voleva
proprio fare un bel respiro aperto, ma le compagne dormivano tutte e
ormai le rimanevano poche coordinate sul come intrattenere una
conversazione con loro. Aveva segnalato chiaramente un addio poco
rincresciuto mediante le sue azioni.
«Se mi chiedi
“scusa” adesso e non dopo che ti sei fatta sgridare
da Camilla, potrei anche accettarlo.»
Lo aveva detto la mora,
prima di dormire. Lei non le aveva risposto.
«Avrei
dovuto metterle le dita negli occhi. O darle un morso. Non mi sono
impegnata davvero.»
Pensò
in quel momento. Perfino il silenzio della sua testa le pareva un luogo
insicuro e vulnerabile, sentiva allo scoperto tutti i suoi ragionamenti
non esternabili. Era tremendo per la ragazzina ancora scossa
emotivamente rimanere abbandonata al proprio rancore.
«Anemone
non me la perdonerà mai… -
fissò la compagna addormentata, racchiusa fra le braccia
della
sua fidanzata, invidiò tutta la sua bontà
– Ma come si fa a chiudere un occhio su
una cosa del genere… Giuro, non mi innamorerò
mai.»
La
rossa era effettivamente tornata da loro, un po’
più tardi
di quanto la recluta bassa aveva annunciato: se ne erano accorte solo
lei, che fingeva di essere assopita, distesa con mezzo occhio aperto, e
Camelia, la quale le aveva posto tantissime domande. Ma siccome non
aveva programmato il dopo, specie se avesse
intenzione di vendicarsi prima o poi, ora i loro rapporti si
erano malamente troncati e Iris si stufò di ascoltarla.
Riguardo
a cosa le avessero fatto, Anemone aveva ridacchiato e aveva rassicurato
la compagna che non era nulla di cui preoccuparsi. Non poteva riferire
in cosa consistesse la tortura, spiegò solo che era
intuibile
(lei provò a riflettere ma non ci arrivava da sola comunque)
e
la definì “sopportabile”.
«Certo,
avrebbero potuto anche frustarla, strapparle le unghie una ad una e
sfregiarla con l’acido. Tanto Anemone non direbbe niente
comunque, chi glielo fa fare… boh. Perché le
dà
sempre corda? Lei e Camelia sono una peggio dell’altra.
Come fanno a
non odiarsi una cifra? Se non stessero insieme magari capirebbero di
essere sulla strada del suicidio…
Forse
è vero. Sono io che sono gelosa perché non ho
nessuno a
darmi ragione a prescindere. O forse voglio qualcuno che mi abbracci
mentre dormo? No, fa troppo caldo, che schifo.»
«Iris, soffri
di insonnia per caso? Sei sempre sveglia nel bel mezzo della
notte.»
La
voce profonda di colei che stava sul letto al di sotto del suo si
intromise nel suo flusso di coscienza, un braccio bianco
spuntò
dal bordo delle sue lenzuola, le dita danzavano come ad invogliarla ad
afferrare la mano.
«Sì.
Sì, in un certo senso. Adesso dormo,
però.»
«Non
è che rinunciando al sonno tu stia espiando le tue colpe nei
confronti di Anemone e Camelia, sai?»
Ogni
presunzione della giovane Allenatrice di Pokémon Drago si
sgretolò, un vero e proprio malore fisico la costrinse a non
ribattere. Non si sentiva più se stessa, era convinta che
un’altra persona avesse agito al posto suo: la tipica scusa a
cui
non avrebbe mai creduto neanche lei.
Camilla,
poi. Sempre a sviscerare i suoi intenti più veri anche
quando
era sincera. Doveva solo arrendersi e lasciarsi sondare la coscienza e
non sarebbe stata una cosa breve come quando aveva osato mancare di
rispetto a Catlina.
Si
avvinghiò al braccio della Campionessa, a testa in
giù si
mostrò in viso mentre la matassa di capelli scompigliati le
scivolò sul naso e la compagna si sorprese piacevolmente.
Stava
seduta sull’angolo come una principessa in attesa del suo
salvatore, nella poca luce la sua attenzione ricadde sulle sue
ginocchia piegate, il muscolo del polpaccio riempiva tutta la carne e
la pelle diafana era piena, di un gonfiore sano e rassicurante.
Se
Camilla avesse avuto il fantomatico fidanzato di cui lei e le altre
insinuavano l’esistenza più che plausibile dal
giorno del
loro incontro, ora lui sarebbe venuto a salvarla, magari su un Rapidash
cromatico bianco o su un Drago che usava Lanciafiamme con poca mira.
Però
non c’era. E dopo tutte le batoste subite, Iris non si
sarebbe
mai permessa di proporsi come tale, la sua alterigia si era spenta e
guai se la cenere di essa le avesse offuscato l’animo.
«Ti faccio
vedere una cosa, vieni su.»
Come
se dovesse lasciar spazio al passaggio di un regale, si dispose subito
sul lato del letto, affinché la leader potesse salire senza
intralci: aveva scelto lei quello in alto, per risparmiare alle altre
la fatica di arrampicarsi, azione che invece alla ragazzina cresciuta
in mezzo ad alberi dai rami robusti e dai frutti deliziosi in apparenza
irraggiungibili, causava poco disturbo, magari un po’ di
nostalgia dell’infanzia.
Sperò
che Camilla non si aspettasse nulla di spettacolare quali passaggi
segreti, tunnel sotterranei o un fortuito condotto di aerazione
(quell’ipotesi, quanto fu doloroso scartarla sentendo il
monito
del professore via video!) per far condicio dei suoi misfatti
precedenti, altrimenti lei avrebbe già porto scuse ufficiali
e
se ne sarebbe lavata le mani.
Non
appena ella si accomodò nella posizione appoggiata sui
talloni
inconcepibile per il mondo occidentale, le diede le spalle per estrarre
qualcosa dal fianco del materasso adagiato al muro, una specie di tasca
artificiale, da cui venne fuori un rigurgito di ovatta che si
sforzò di contenere.
«Questo. Mi
dispiace, non ho saputo fare di meglio.»
«Dove hai
trovato questa corda?»
La
reazione istintiva che Camilla ebbe una volta l’utensile
finì fra le sue mani fu quella di tirarne varie sezioni per
testarne la resistenza: provò più volte e non si
ruppe.
In seguitò tentò di analizzare la composizione
delle
singole fibre, arrangiate in una treccia abbastanza stretta, poco
flessibile.
«L’ho
fatta.»
«Con
cosa?»
Lo
sguardo della ragazzina cadde verso il basso, a destra e a sinistra,
senza puntare a qualcosa di specifico però. Per quanto le
dispiacesse vedere la sua metodica ed arguta leader in
difficoltà per via del proprio essere restia ad aprirsi, non
le
offrì alcun indizio. Voleva che Camilla capisse nella sua
maniera solita, come per magia, come se non fosse cambiata di una
virgola la Iris che tanto la adorava e l’ammirava e non
poteva
fare niente se non era per il suo intervento miracoloso.
«Oh. Ho
capito. – lanciò uno sguardo verso il suo di letto
– Puoi avere le mie per stanotte.»
«No, sto bene
così. Tanto fa troppo caldo per dormire con le
coperte.»
In
effetti, la superficie del materasso spoglio e del cuscino senza federa
le ricordarono un deserto ghiacciato, in mezzo al quale stava la sua
compagna, chissà quante volte si era persa fra tutta quella
solitudine, oppure un mare bianco, piatto e senza onde, senza appigli o
punti di riparo.
Si
ricordò di una confessione, Iris odiava il freddo.
L’aveva
messa giù sul ridere, aveva fatto passi da gigante con
l’autoironia dall’inizio di giugno, ma dopo aver
scoperto
che la sua nemica era specializzata nel Tipo in grado di spazzare via i
suoi amati Draghi, il tutto aveva preso una nota cupa.
Aveva
scelto lei di fare tutto ciò, ma le faceva comunque pena,
anche
effetti collaterali tanto minuscoli la impressionavano. Sì
rimproverò di essere troppo empatica.
Rimase
a corto di commenti per un bel pezzo. Anche si fosse complimentata per
le sue doti manuali, era certa che la compagna avrebbe voltato il capo
e le sarebbe scivolato tutto addosso, senza farle alcuna differenza.
Onestamente,
lei non ci sarebbe mai riuscita a fabbricare una corda lunga quanto il
doppio dell’arcata delle proprie membra in circa due-tre ore,
al
buio, in un silenzio autoimposto, come l’eroina della fiaba
che
tessé la veste di ortiche. Rimpianse di non aver domandato
nel
dettaglio a Nardo in riguardo ai fatti accaduti previ alla competizione
che riguardassero Iris; questo perché lei aveva sviato ogni
suo
interesse nell’onsen, non sapeva se per vergogna o per
schiettezza.
Ecco
come s’era ingegnata, tornando un po’ indietro con
i fatti:
legato l’angolo della coperta maleodorante alla testiera in
acciaio, aveva affettato in lunghe striscioline, simili alle shide per
purificarsi nei santuari, usando uno dei cocci taglienti rinvenuti dopo
il loro sfogo piuttosto immaturo.
Piccoli
segmenti rossi infatti affioravano fra quelle dita sottilissime, ma di
infilarle nell’acqua salata per farli cicatrizzare non ci
pensava
nemmeno.
Aveva
seguito una serpentina, in modo da non sprecare un solo centimetro
della stoffa: un taglio orizzontale da destra e uno da sinistra, senza
mai strapparla in due. Non aveva disponibile neanche un gesso o una
matita per segnarsi dove era arrivata, aveva riservato fin troppa
concentrazione ad un lavoro tanto manuale ed in apparenza da
sempliciotta.
Solo
alla fine la ragazzina realizzò che perfino il suo leggiadro
peso non avrebbe retto con uno strato soltanto, allora ne aveva
aggiunti tirando le tre estremità per serrare i nodi,
ottenendo
la larghezza del suo braccio.
Improvvisamente
ricordò la battuta della recluta sul fatto che con quella
corda
robusta una si sarebbe potuta impiccare senza problemi; le vennero i
brividi, si pentì di aver sprecato ore di sonno in cambio di
sguardi confusi e in parvenza rammaricati da parte della Campionessa di
Sinnoh, la quale finalmente smise di giocherellare con il suo manufatto.
«Queste
fibre rosa, a fiori verdi e gialli, dove le hai trovate?»
Chiese,
sollevando gli angoli della bocca in un sorriso.
«Eh…
- mormorò, grattandosi l’attaccatura dei capelli,
la donna
colpiva sempre la testa del chiodo con le sue domande impertinenti
– dovevo aggiungere altro spessore e avendo finito i
teli…»
Un
bollore le intiepidì le guance, si strinse forte ai propri
palmi. Gli occhi nocciola della ragazzina fissavano la mano della
Campionessa con lo stesso shock di un ragno che si arrampicava sul suo
collo, eppure quel tocco delicato lungo le spalle accaldate le diede
l’impressione che la propria pelle si stesse sciogliendo,
risucchiando i polpastrelli della Campionessa all’interno di
essa.
Non
aveva mai detto a Camilla di smetterla con tutte quelle dimostrazioni
corporali di affetto, perché cominciare ora, si chiese.
Quando
la sentì scendere un po’ verso il basso,
prendendosi
più libertà di tastare la zona sotto alla
clavicola ed
adiacente allo sterno, il corpo che tanto biasimava poiché
fermo
ancora ad una fase bambina, puerile ed incompleto, si stupì
di
quanto risultasse sensibile: con movimenti più veloci aveva
già esplorato metà superiore del seno sinistro,
Camilla
ritrasse la mano e finalmente i loro occhi si rincontrarono.
Alla leader, come aveva
previsto, veniva da ridere. La assecondò, quindi.
«Solo il
reggiseno, o anche… sotto?»
«Uh…
Tutti e due.»
«Se ti dessi
una mano anch’io?»
«C-Camilla,
no, tranquilla, non devi! - Il senso di disagio riecheggiava
intensamente, finì per rompere il sussurro – N-Nel
senso… io posso, tu… no?»
«Perché
“no”?»
«Te lo devo
spiegare io?! Peggio della volta dell’onsen…
Allora, in teoria se tu hai…»
«Io
ho…? Vai avanti.»
«…No,
vabbè, niente. Girati, te lo sgancio io.»
Mentre
scostava la chioma bionda dalla cerniera dell’uniforme
arancione,
Iris capì finalmente che forse passare un decennio e un
lustro a
confrontare le proprie misure con quelle delle altre ragazze
l’aveva leggermente distaccata dalla realtà:
magari le sue
coetanee le avevano mentito, non avevano voglia di correre e saltare e
distendersi a pancia in giù ed usavano la mole del seno come
giustificazione. Così doveva essere.
Però
prima di allora non aveva incontrato una femmina con un rapporto
busto-vita grande come quello di Camilla, non poteva parlare di
qualcosa che non poteva immaginare neppure lontanamente. Ancora una
volta la Campionessa aveva l’ultima parola su faccende anche
fin
troppo mondane.
Trovò
inoltre un miracolo della tecnica il fatto che gli indumenti per adulti
aggirassero i problemi dovuti alla crescita del corpo che la propria, a
detto suo, inconcepibile coppa B non si poneva nemmeno: le spalline si
potevano staccare.
Si convinse che le donne
adulte fossero in realtà soltanto pigre e non fisicamente
impedite.
«Adesso
sono stanca però… Se te lo tieni un altro giorno
e me lo
dai domani, che mi rimetto a lavorare?»
Non
agguantò i ganci se non appena Camilla le diede riscontro.
Allora non esitò a staccarli dall’ultima asola.
«Se domani non
ci vediamo…» La voce di lei appariva disconnessa.
Iris
moriva dal bisogno di accarezzare la nuca bianca, di sfiorarle le
vertebre come i tasti di un pianoforte in avorio. Ma aveva paura di
avere le mani gelate e che a causa del caldo detestasse le sue manie
sciocche, non le avrebbe trasmesso nulla, non avrebbe saputo motivarla
o confortarla.
Come
fosse un’estensione del suo corpo, si mise a fissare il
reggiseno
nero (possibile avessero una selezione tanto misera nei colori, le sue
compagne più grandi? Poteva giurare a se stessa che a parte
quello bianco di Anemone e i pezzi da duecento Pokédollari
di
Catlina non aveva visto altri colori indosso a loro).
Attenta
a non venire guardata, si passò la coppa fra il pollice e
l’indice: gli diede addirittura un colpo con le nocche,
neanche
fosse una corazza d’acciaio; Camilla aveva sottovalutato il
supporto che offriva. Si appuntò in mente di rimuovere
l’imbottitura prima di procedere con il taglio, per poi
infilarla
nelle intercapedini della corda.
Fu
però un altro dato sensoriale a rapire la sua immaginazione
dalla cella buia e dalla disperazione dei momenti precedenti.
«Oh,
ma… profuma stranissimo. Sa da un misto di deodorante, pelle
e… boh, ha un odore forte. Non fa schifo, ma non
è
né dolce, né chimico… Come dire,
“essenza di
donna”? Essenza di Camilla?»
«Ti
può essere utile, allora?»
Iris
alzò di scatto il capo, per non farsi catturare con il naso
infilato nell’intimo della compagna, nonostante avesse solo
il
mento basso, Camilla continuò a scendere verso il proprio
letto
con molta attenzione ad appoggiare i piedi solo sul ferro e non sul
materasso scricchiolante.
«Sì…
è meglio di come pensavo.»
Farfugliò,
cercando di osservare l’oggetto al di fuori del contesto,
pesando
a tutti i modi per sfruttarlo al meglio, neanche fosse uno Strumento
per la lotta.
«Per fortuna.
Adesso ti lascio dormire, okay? Buonanotte, Iris.»
«Buonanotte,
Camilla.»
Il
sonno non le avrebbe portato via le sue compagne e, se non dopo ore dal
risveglio, l’odio, le cattiverie e le frustrazioni di quel
dì non sarebbero stati loro abbastanza chiari. Prima la
separazione, dopo la riunione, aveva deciso il Team Plasma per
arrecargli danno: e mentre lei vagava nel caos, il suo legame con
Camilla si era rafforzato.
Come poteva avere senso,
tutto ciò? Volle darsi da fare con la corda ancora un
po’.
Ma
quel reggiseno non era affatto flessibile come i suoi, non si riusciva
a tagliare subito: brandendo il suo machete improvvisato,
scorticò l’orlo inferiore per tutta la lunghezza,
come se
stesse aprendo il ventre di un grosso pesce per rimuoverne le interiora.
Dentro il pesce, ci
trovò metaforicamente un anello d’oro.
«Woah,
che grossi… con questi ferretti ci puoi strozzare una
persona.»
❁
«Quindi
domani vuoi andare tu al processo?»
«Non
c’è altra scelta. Dopotutto, la leader dovrebbe
sempre
essere la prima a sacrificarsi per il bene delle sue
apprendiste.»
«Com’è
che farti un massaggio dovrebbe contribuire al mio bene?»
«Hai
quasi staccato un seno a Camelia. Direi che te lo sei guadagnato,
questo privilegio.»
«Ah,
giusto! Domani, prima che si svegli le rovescio l’acqua
salata
sugli occhi, poi le taglio le tette con il mio nuovo bellissimo
taglierino!»
«Iris!»
«Va
bene, non lo faccio... Che schiena rigida che hai, hai tutti i muscoli
delle spalle duri…»
«Vero?
Credo sia una condizione genetica ereditaria, o la postura quando
leggo, ce l’ho fin dalle elementari: dici siano delle
cervicali?
Me lo chiedo da un po’…»
«…no?»
«No?
Pensi sia il clima? O una questione d’umore? Sai, magari
è
una di quelle cose che si risolve con gli impacchi caldi e la
meditazione zen…»
«Camilla,
posso riavere il mio bel taglierino affilato?
Sento
il fortissi-missi-missimo bisogno di tagliarmici la pancia e pugnalarmi
nello stomaco.»
«…tutto
okay?»
«Tranquilla,
è normale, faccio questi pensieri da un mese e mezzo!
Comunque
non sono una psicopatica.»
❁
Behind
the Summery Scenery #20
1. Sono
poco fiera di questo mio traguardo... l'intervallo di tempo fra il
capitolo prima e la pubblicazione di questo capitolo è il
più lungo di tutta la storia: sono passati ben un anno e
circa 6
mesi, il TRIPLO di quanto normalmente mi ci vuole per scrivere +
editare + pubblicarne uno. Chiedo scusa in stile booty guru apology,
anche se la mia
cancellazione è imminente e perderò lettori
comunque.
2.
Il titolo di questo capitolo: una ripresa di una delle mie
serie
preferite "Una serie di sfortunati eventi". Ho usato nel titolo la
tecnica dell'alliterazione, anche il tono generale del captolo
è
paradossale, cinico e no-sense, mi sono proprio calata nei panni di
Lemony Snicket, LEMOMO SNICKET.
3.
Domanda che sono sicura esiste: ma le reclute di basso rango del Neo
Team Plasma sono tutte uguali? Certo! Massima fedeltà ai
giochi.
Se ricordate inoltre, nello scorso capitolo, le reclute si chiamano R e
Z: questo perché, come la N del principe Harmonia
rappresenterebbe l'insieme dei numeri naturali, Z è quello
degli
interi relativi ed R quello dei numeri reali. Le altre reclute come si
chiamano? Esattamente coe le 26 lettere dell'alfabeto o come i simboli
unicode. Sì questo vuol dire che esiste una recluta L, che
però noi non vedremo mai .
4.
Ebbene, cosa mi qualifica per scrivere di processi, accuse,
codice
penale e cose varie? Ho un papà avvocato (con cui
denuncerò per diffamazione tutti i miei haters) a cui non
farei
leggere starobba neanche per sbaglio. Inoltre ho già
procurato
un bella delusione alla famiglia non andando a studiare giurisprudenza,
eheh. Quindi mi sono informta usando un misto della legislazione
americana e italiana perché tanto Unima non esiste. Al
solito,
segnalate errori kudasai.
5.
Acromio ha finalmente detto la battuta memosa! In realtà non
l'ha detta come la volevamo tutti, ma sono già in ritardo di
sei
anni con questa meme, che altro potrebbe umiliarmi di più?
6.
Esiste un punto del testo in cui mi sono letteralmente quasi
arresa, ho avuto un crollo ed un burnout temporaneo ma doloroso, in cui
ho letteralmente dumpato nel testo seria frustrazione e che non ho
cancellato tuttavia. Nella stub originale il punto era marcato da un "I
HAVE GIVEN UP, Alexa play God knows I tried by Lana del Rey", quindi
ero proprio sul fondo del barile di liquami in cui mi immergo a
capofitto ogni volta che scrivo. Trovatelo e ridete di me, come fate
sempre.
7.
Questo non è un vero punto da BTSS, ma un esperimento che
volevo
fare per pura curiosità: siamo nel mese del pride month, in
cui
voi altri, disgustosi froci che non siete altro, andate in piazza a
gridare quanto vi piaccia scopare (non siete mica come gli altri/e
ragazzi/e, eh!) e che volete i diritty tm. Quindi, mi sono detta di
fare qualcosa a tema identity politics.
Giochiamo
alle oppression olympics! Whooo! Magari nessuna delle nostre ragazze
diventerà Campionessa, ma si consolerà con il
premio
"sfiga 2019"! Ovviamente terrò conto del canon di ESG e di
quello che io come autrice so (e voi no, eheh). Ecco qui il nostro test.
Iris:
59/100
Camelia:
56/100
Anemone:
58/100
Catlina:
63/100 (???)
Camilla:
57
Acciderboli!
Ma come è possibile che una ragazza bianca eterosessuale
fino a
i/3 della storia e pure troia sia la meno privilegiata del gruppo???
N-Non ditemi che questa fantastica fanfiction non è poi
così intersezionale, queer e femminista! Ora mi metto a
piangere.
8.
La fantastica Kuro-san ha fatto questo
artwork per
celebrare il 4° anniversario di ESG, di cui nemmeno io mi sarei
ricordata! Lei è proprio brava, simpatica e paziente. Thanks
Kuro, really cool!
A
tutti gli amici artisti: se mi mandate le vostre creazoni su
@esg_offical_ig per messaggio privato, le metto anche qua, vvb
1000
|
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Capitolo 21 *** Le figlie degli altri ***
ESGOTH 3
❁
A story
by: Momo
Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing: 🍦
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Early
Summer Girls
❁
Capitolo
21
Le
figlie degli altri
Aprire la
scatola della notte, infilarci dentro il buio e poi
richiuderla. Metafore di “nulla”.
Catlina
dischiuse le palpebre secche, come se gliele avessero scolpite
nella creta e si stessero sgretolando. A vedere tutto quel cemento e
quella
polvere intorno a lei e alle altre, il verde acquamarina dei suoi occhi
avrebbe
finito per sbiadire; le sembrò subito che qualche particella
vi fosse entrata
ma resistette allo strofinarseli con le mani.
Una lunga notte
senza sogni era appena passata ed adesso le
pareva di stare in una cella mortuaria, le sue compagne addormentate
non si
accorsero neppure di lei. Stessa sensazione di quando
l’avevano svegliata dal
coma.
Si mise seduta,
le punte dei piedi intorpiditi incurvate
sull’orlo del materasso da dei tanto odiato. Le erano rimasti
i calchi delle
pieghe della tenuta carceraria sulle braccia e sul collo, quando
provò a
sfregarli via dall’epidermide si sollevò uno
strato grigio di sporcizia mista a
cellule morte.
Ora aveva capito
perché le reclute volevano tagliare a tutte
loro i capelli: le avevano infilate in un forno, senza ricambio
d’aria, perfino
il semplice respirare faceva aumentare la temperatura interna di
qualche grado.
Non aveva idea
di come lei, che aveva il sonno più pesante,
non riuscisse già più a sopportarla e le altre
quattro invece sì, quando ogni
giorno alle sette si mettevano a scuoterle le spalle, soffiarle sulla
faccia e
urlandole di smetterla di essere pigra, ridendo a squarciagola.
Tuttavia, le
mancava l’ondata di energia che, per quanto lei
si dimostrasse riluttante, la colpiva sempre.
Afferrando le
caviglie del pantalone per sistemarsi con le
gambe immobilizzate parallela al letto, gettò lo sguardo
verso la ragazza che
dormiva di fronte a lei, dandole le spalle; subito presa
dall’angoscia, Catlina
s’addossò in anticipo tutte le preoccupazioni che
le quattro avevano riposto da
parte almeno per concedersi un po’ di riposo tranquillo.
«Oggi
a chi tocca? Non a Iris o Anemone di certo…
Quindi siamo o io, o… No…»
Non poteva
essere altrimenti. Poteva quasi vedere Camilla
alzarsi tutta scomposta, sistemarsi magari il suo ciuffo senza neanche
l’ausilio di una spazzola, nelle condizioni in cui erano. Poi
quella le
rivolgeva un sorriso gentile, le chiedeva come stesse e se avesse
dormito
(perché il suo benessere, anche da prima del tempo della
frattura cranica
procuratale dal Team Plasma, aveva la priorità su tutto).
E alla fine, con
il fatidico “non preoccuparti, andrà tutto
bene”, Camilla si sarebbe lasciata interrogare al suo posto,
sebbene
condividessero lo stesso status e quindi le stesse
responsabilità.
“Vorrei
che stessi
sempre al mio fianco, perché io ti amo”, ecco cosa
aveva detto, convinta fino
in fondo. Di conseguenza, le venne naturale domandarsi “Io
amo ancora Camilla?”,
e la guardò ancora.
Invece di
rimanere a distanza come durante il primissimo
attacco all’onsen, volle farsi coraggio e gettarsi nella
mischia, per quanto
stressante e doloroso potesse essere esporsi allo scherno
dell’intera regione
di Unima.
In un certo
senso, era curiosa di scoprire cosa si sarebbe
inventato quello scienziato pazzo per infangare la reputazione della
sua cara
migliore amica; gli sarebbe servita molta fantasia, questo era sicuro.
Il punto
è che Catlina desiderava aiutare la loro leader in
qualche modo, fosse ciò il suo ultimo atto da persona
libera. A proposito di
ciò, prese a riflettere, mentre un leggero cigolio proveniva
da sopra di lei,
dove avevano deciso di stare le due diciassettenni, abbracciate assieme.
«Io e
Camilla non siamo neanche cittadine di Unima
però, non possiamo chiedere… come si diceva,
adesso? Il principio di espatrio?
Di esproprio?»
Il termine che
cercava era “extraterritorialità”, ma le
era
comunque chiaro il concetto; avevano entrambe il passaporto di Sinnoh e
mentre
il suo visto le garantiva di esercitare una professione sul suolo di
Unima
(sebbene lei non si avvalesse di tale privilegio) purché lo
rinnovasse ogni sei
mesi, la Campionessa aveva un semplice visto turistico che scadeva a
settembre,
fatto apposta per il torneo.
Lasciò
perdere comunque, visto che anche Camelia, Anemone e
quell’indemoniata di Iris (l’aveva spaventata, cosa
le era preso? Le era parsa
sempre così gentile, per quanto esuberante) erano innocenti,
ma non potevano
appoggiarsi a cavilli burocratici.
«A
proposito, - i due pensieri
non avevano
alcuna connessione logica, era solo la noia a portarla su quel sentiero
– i
nostri Pokémon? Non possono arrestare i nostri
Pokémon…
Si
può arrestare un Pokémon? Come si fa, boh. Non
è che puoi dire “okay, mettiamolo nella
Poké Ball per dieci anni finché il suo
Allenatore non sconta la sua pena, poi lo tiriamo
fuori…?” Nah, impossibile.»
Dunque, potendo
giurare sulla propria pelle rovinata dalla
deidratazione che le analisi critiche non fossero affatto la sua
specialità, si
passò le dita fra l’attaccatura della fronte,
lanciando un quarto dei capelli dietro
la nuca, ormai le radici si erano fortificate sotto il volume della
massa
bionda e spezzarle era ardua impresa.
Catlina
lasciò cadere il torso sul lato, come un corpo morto,
avendo esaurito le ragioni per stare a crucciarsi: era stato voluto
così dai
piani alti e basta, domandare di più era fuori discussione.
Se
c’era qualcosa che la sua povera materia grigia lesionata
poteva fare era sfruttare le ultime ore di sonno, prima che arrivassero
reclute
in uniformi dall’odore nauseabondo, magari deliziandole
ancora con altre
battute in svendita ai discount di comicità riciclata.
E si rimise a
dormire, accovacciandosi in posizione fetale,
provando a liberare la mente.
«No,
aspetta un attimo- Ahia, le gambe, le gambe,
ah! Mai più alzarsi di scatto…»
La supposizione
che siccome fosse in grado di fare due passi
senza appoggiarsi alle compagne adesso scoppiasse di salute era stata
presa
tanto seriamente che non le era stato concesso di usare la sedia a
rotelle
(comprata nuova di zecca, tra l’altro, sebbene ne avesse tre
o quattro
modernissime a casa) o che Gothitelle le reggesse la spina dorsale,
come lo
stelo floscio di un arbusto legato ad uno stecco.
Liberatasi da
quella sferzata ai nervi, riportò l’attenzione
su ciò che le era spuntato nella testa, un’idea
fastidiosa quasi paragonabile a
un tumore per lei, non poteva ignorarla.
«I
nostri Pokémon sono in questo edificio, qui da
qualche parte, di sicuro non dentro le loro Poké Ball. – La
ragione con cui giustificava quest’ultimo particolare
– Se non c’è neanche
l’aria condizionata, come fanno a trovare una macchina che
tenga in vita
quindici Pokémon automaticamente? Semplice: non lo
fanno.»
Tale fu la sua
teoria, tralasciando la manciata di pause per
passare da una conseguenza all’altra.
Catlina comunque
non poteva fregiarsi d’essere la migliore
prima di aver trovato un’applicazione pratica; se non poteva
essere la più entusiasta,
la più carismatica, la più decisa o la
più poliedrica, si sarebbe prodigata in
nome del titolo di genio della banda.
Chiuse gli
occhi, concentrandosi con tutte le sue forze sul
“legame che unisce Allenatore e
Pokémon”, in base a come l’avevano
istruita
dopo che aveva insistito con i suoi genitori di voler ritornare a
muoversi con
l’aiuto dei suoi partner psichici (lei si immaginava una
specie di filo
fluorescente di energia che ondeggiava in uno spazio dello stesso
colore, era
un trucco assai poco poetico da spiegare).
Da lì
aveva imparato a comunicare mediante il pensiero: non
era un superpotere. Moltissimi maestri specializzati usavano quella
tattica,
non era raro che alla televisione si parlasse di veri e propri incontri
manipolati da questo utile e scorrettissimo incentivo.
A volte, se il
destinatario dei messaggi telepatici era
abbastanza vicino ed in sintonia con il mittente, si poteva perfino
conversare
con gli umani: un salvavita, quando non si vuole far trapelare
informazioni
riservate (per esempio, la strategia usata per sconfiggere le ladre ed
ammonire
una delle due diciassettenni di risparmiarsi occhiate indiscrete al suo
corpo,
rivisse l’imbarazzo per un attimo).
«Ti
prego, fa’ che non ce li abbiano portati via…
ti prego…
Uhm?»
La sensazione
che le parole sussurrate nella sua testa
stessero vagando a vuoto svanì subito, il riflesso spontaneo
di avvicinare il
padiglione auricolare fino a toccare il muro, per origliare un sussurro
inesistente.
«M-Musharna?
Oh, piccolina, fatti sentire…» La
ragazza
ammorbidì il tono, speranzosa in una risposta.
Nonostante fosse
passato abbastanza tempo per crescere un
bambino di quinta elementare da quando la biondina aveva acquisito
Munna,
direttamente da Unima, al venire appellato con quel vezzeggiativo il
Pokémon
Dormiveglia non riuscì a trattenere un versetto sorpreso.
Catlina non si
poteva sbagliare, essa ripeté la sua
invocazione, fra la gioia di risentire la sua Allenatrice e la
preoccupazione
di non poterla vedere, riempiendosi di nostalgia.
«Amore,
sono io, sono io… Dimmi che non ti hanno
fatto male… - due chiamate
piuttosto entusiaste ruppero subito
la sua apprensione, strappandole un sorrisetto – Ah,
bene, per fortuna.
E gli altri? Sei
con tutti gli altri?»
Ancora un
riscontro sonoro positivo, per quanto una creatura
appartenente ad un diverso regno di autocoscienza potesse intendere il
linguaggio umano. Probabilmente, era bastata la semplice voce mentale
della sua
Allenatrice a mandare il tapiro rosa in euforia.
Intanto che
quello continuava a verseggiare, rassicurato e fin
troppo impaziente di ricongiungersi, Catlina fece un po’ di
spazio ad una linea
cognitiva diversa: come farsi dettare le coordinate sulla loro
locazione? A
quanto ne sapeva, oltre ai Chatot, solo nel Mito dell’Origine
e nei cartoni
animati esistevano Pokémon parlanti.
Per il momento,
doveva accontentarsi di un’approssimazione.
Quindi, la sua seconda trovata.
«Musharna,
sto per darti un comando. Attenta
bene.»
Due anni prima,
metà luglio, uguale: dei teppisti non ben
identificati avevano scavalcato le recinzioni e, penetrati nel Cantiere
dei
Sogni, scheletro di un centro politecnico mai completato nel sud,
avevano preso
a disturbare e perfino attaccare dei poveri esemplari di Munna indifesi.
Tutto questo per
ottenere una sostanza gassosa, i giornali non
avevano rivelato lo scopo di tale rastrellata, forse per un accordo
segreto con
i media.
Leggendo
quell’orribile notizia, ne era rimasta turbata
profondamente e pur avendo espresso vocalmente il suo disconforto ai
suoi
colleghi Superquattro, gli altri non ci avevano badato troppo,
liquidandola con
un’accusa di ipocrisia: “ti importa dei
Pokémon maltrattati solo quando sono
della stessa specie che alleni tu, Cat.”
«Butta
fuori tutto il Fumonirico che hai fatto su.
Sì, tutto, tutto, riempi pure la stanza e non
smettere… per favore, fallo per
noi.»
Quei finti
paladini della giustizia erano di sicuro stati
protetti dalla diffamazione; le reclute che prendevano a calci i Munna
sofferenti sul corpo tondo a fiorellini per ottenerne la sostanza
prodotta si
trovavano là con loro; del resto, Satana non rimpiazzerebbe
mai i suoi
demonietti più spietati.
Catlina
aspettò paziente, finché una zaffata di profumo
dolciastro la investì.
Dall’angolo
vicino al letto delle due Capopalestra uno
spiffero color pesca fuoriusciva dall’attaccatura usurata dei
mattoni, lento
quale un serpente fuoriuscito dal vaso dell’incantatore.
Altri soffi
timidi si disperdevano vicino al soffitto,
popolando un po’ la grigia solitudine prima di dileguarsi per
la loro
fievolezza. Appena uno di essi le passò sotto il naso,
l’Allenatrice dai
capelli oro s’accorse della pressione con cui erano emessi,
Musharna aveva
fatto proprio del suo meglio per aiutare lei e le sue compagne.
«Grazie
un milione, tesorino. –
Gli schioccò
un bacio, contenta del risultato – Scommetto che tu
e gli altri Pokémon
andate molto più d’accordo fra voi di noi altre,
ahahah.»
S’auspicò
di poter porre fine ad ogni loro bega interpersonale
con una scoperta del genere.
Ma ancora,
sarebbe stato davvero così immediato? Catlina
lanciò le pupille all’angolo
dell’occhio, verso la telecamera da meccanismo
misterioso.
Secondo Camilla,
l’audio era disattivato, non correva rischi a
rivelare il tutto prima del processo… e lei, si fidava
ciecamente della deduzione
della Campionessa?
«Allora
ieri come facevano ad avere quel malloppo
di informazioni compromettenti su Camelia? Uno non tira fuori a prove
così schiaccianti
in quindici minuti…»
Il successivo
respiro dalla bocca le uscì muto, fu un riflesso
incondizionato.
«C-Camilla,
io ti voglio ben… Cioè, ti amo, ci hai
salvate tante di quelle volte…
Però,
mi dispiace. Stavolta ti sbagli di brutto:
ci sentono. Ci hanno sempre ascoltato... scusa.»
La stima che
serbava non era diminuita affatto, anzi, già anticipava
il futuro salvataggio attuato dall’altra ragazza bionda, che
fra meno di un’ora
avrebbe avuto un palcoscenico intero per esercitare il suo talento
graziante,
di prelevare le sue quattro predilette da ogni situazione minimamente
sgradevole.
Innegabile
però, tale imprudenza era costata loro dura, un
errore umano che sarebbe stato non diabolico, ma stupido ripetere,
perseverando
con lo stesso piano d’azione.
Le aspiranti
Campionesse erano diventate troppo prevedibili, i
loro avversari stavano un passo avanti e peggiore delle ipotesi
avrebbero
sbattuto i loro Pokémon in un altro carcere lontano dal
loro, magari con
supplizi e torture inflittegli per punire
l’ingenuità delle loro protettrici
stesse.
Il Team Plasma e
il loro squadrone di avvocati ingiuriosi
avevano orecchie pure sui muri.
Purtroppo per
loro, pensò lei, non avevano dei muri bilingui.
Catlina
scrutò il pavimento ai piedi del letto, reggendosi con
i gomiti a pancia in giù: agguantato un pezzo di
calcinaccio, sformato come
quelli che aveva raccolto per mezza giornata il mese prima, si rimise
eretta e
voltata verso il muro.
Prendendolo con
la mano dominante, ne rilevò il lato
maggiormente appuntito e lo strofinò sulla superficie fino a
far scorrere la
rudimentale grattata con la scioltezza di un gesso da disegno, creando
sulla
nicchia una piccola nuvola bianca abbastanza compatta.
L’aristocratica
aspettò, posando la punta verso il centro del
muro adiacente a dove dormiva; ad Unima si usavano due alfabeti
sillabici,
dov’era cresciuta lei uno solo, formato da ideogrammi.
Per quanto
l’incontro faccia a faccia con le due reclute
drogate avesse abbassato l’aspettativa sull’acume
di esse, la sfera di
influenza del Team era abbastanza larga che, metti caso proprio
lì, si
trovavano ragazze miste, o immigrate da Sinnoh, di seconda o terza
generazione,
che con un dizionario alla mano avrebbero decifrato tutto, riportandole
alla
funesta conclusione verificabile anche parlando ad alta voce.
Peccato che
questa oblunga prefazione non tratti affatto di
una giovane qualunque della regione a nord del mondo dei
Pokémon. La signora Haato,
in preda all’eccitazione e alla pressione sociale della
maternità,
prematuramente indaffarata, vagliava una lista delle
attività indispensabili
alla sana crescita intellettuale della sua bellissima bambina dai
riccioli
biondi ed una soglia di attenzione piuttosto bassa.
Chiedeva dunque
conferma al signor Yamaguchi, se la piccola ce
l’avrebbe fatta a seguire i corsi di pianoforte, di lingua
straniera e di
letteratura classica senza perdere il suo sorriso vivace e luminoso;
allora
l’uomo rideva, non aveva scelto un nome scritto con i
caratteri di “bellezza” e
“sogno” perché sua moglie si inventasse
certe sciocchezze.
«Se ce
la fa la sua compagna di scuola, quella con
gli occhietti vispi, la figlia dei Kuroi, ce la fa benissimo anche lei!
Anzi,
potrebbe benissimo superarla, ne ha tutte le
capacità.»
Al tempo di quei
discorsi, Catlina aveva quattro anni e troppe
bambole nuove a cui trovare un nome per preoccuparsi.
I primi due
tratti le vennero un po’ sbilenchi, la calligrafia
non era il suo forte e da quando si era trasferita la tastiera
completava in
maniera automatica i messaggini per i suoi parenti a Memoride; sperava
solo
fossero un benché minimo leggibili.
Voleva
quasi arrendersi, non aveva idea di come scrivere la
sillaba “-di” di “audio” senza
fare una gaffe
smascherabile da un lettore
attento. Non si perse d’animo: scrisse
“audio” con
“a” di “angolo”,
“u” di
“esistere,
stare”, per “di” scelse il carattere di
“pulizia” ed “o” era solo una
particella interiettiva obsoleta.
Da
lì, la mano cominciò a muoversi da sola, tanta
foga aveva
di trasmettere il messaggio che solo Camilla avrebbe potuto leggere, in
effetti. Anche sotto sorveglianza, volle illudersi che solo la leader
avrebbe
capito il criterio per decifrare le lettere, come avveniva nei romanzi
di
fantascienza.
La
possibilità di rintracciare i loro Pokémon era un
grande
sollievo, se non un possibile punto debole da sfruttare appieno.
Ovviamente,
ciò non implicava andare fino in fondo con le sue
conseguenze…
Bastava
così. Tre frasi per notificare i cambiamenti più
importanti, quattro righe in totale, scritte calcando e smorzando il
tratto per
rendere ogni segno identificabile, non poteva causare confusione alla
sua
traduttrice, visto che le altre tre giovani avrebbero ricevuto il
messaggio
dalla sua bocca.
Battendo i
rimasugli di polvere via dalle mani, a Catlina
tornò una voglia incredibile di quelle labbra. Anche distesa
su quei giacigli
di spine, riusciva a volare indietro alla nottata di coccole e di baci
trascorsa a Spiraria, non aveva mai smesso di pregare per avere altre
cento di
esse, per lei e Camilla.
Se non erano i
traumi fisici, il crepacuore l’avrebbe uccisa,
una volta separata dalla sua anima gemella.
«Catlina,
che problemi hai?!»
Magari fosse
stato il suo subconscio a tuonare così, nessuno
dei suoi più alti picchi di realismo avrebbe eguagliato il
disagio di vedere
Camelia darle il buongiorno con quel suo tono irritante.
«Tanti,
grazie per avermelo ricordato.»
Voleva quasi
spingerle la faccia lontano dalla sua vista, ma non
dimostrarsi immatura e quella comunque si era già ritirata
sul suo posto, di
sopra.
«Non
sei simpatica, sei solo malata di mente.»
Il lamento
sgraziato della sua compagna di giaciglio
s’intromise in quel battibecco lasciandolo incompiuto.
La coscienza che
si trattasse di una nuova sessione di pure e
gratuite delusioni le aveva stampato una maschera tribale funebre sul
volto,
fra i ciuffi spettinati impiastricciati di sudore notturno.
«Si
parla di malati di mente, ci sono, presente!»
«Ho
bisogno di lavarmi assolutamente, questa divisa mi sta
piantando radici in corpo, che schifo.»
Camelia si era
sbottonata l’uniforme fino all’ombelico,
soffiandosi sullo sterno e sciugandolo con i lembi delle coperte pur di
evitare
la comparsa di macchie rosse.
Apprese che
dormendo accanto ad Anemone si erano trasmesse a
vicenda calore, una quantità elevata rispetto a quando
avvicinavano i loro
futon a casa di Nardo, mentre il climatizzatore soffiava una vera e
propria
bora nella loro camera.
«Fossi
in te, - la trattenne per il braccio, seria – non mi
butterei addosso acqua piena di piombo. – Indicò
il lavabo – Se tu vuoi il
tetano, vai pure… o un’infezione batterica, scegli
tu.»
«Grazie
di non lasciarmi morire, amore.»
«Prego,
tanto, anche ti prendessero da parte, come hanno fatto
a me ieri, al massimo ti beccheresti un…»
Non
completò la frase, dalla porta partì uno strillo
inconcepibile ad ogni ora del giorno, in particolare in quella
dimensione
spazio-temporale senza nemmeno un orologio ad avere pietà
della loro vita che
si consumava.
«Hey,
hey, hey, siete
pronte? Vi
vedo bene, Campionesse! Dormito comode, in questa suite 5
stelle?»
All’unisono,
sguardi, come quelli di un Allenatore che si vede
piazzata una trappola di Fielepunte non appena il suo
Pokémon mette l’alluce
sul campo di lotta.
«Vi
abbiamo portato il rinfresco migliore che vi si poteva
offrire e non ci salutate neanche? Villane che non siete
altro…»
Chissà
se al di fuori dell’ambiente lavorativo (ammesso che
ricevessero un compenso monetario o materiale, pur non addette al
business come
R e Z) erano migliori amiche oppure dovevano solo tenere in piedi una
pagliacciata per apparire quantomeno minacciose.
«Comunicazione
di servizio: vi spiamo da due mesi ormai…»
«Oddio,
e l’acqua è bagnata! O a volte…
salata.» Non erano
neanche le otto e Camelia aveva già pronta la battuta, un
record.
«Poche
storie, finta bisex. – E l’altra, che
l’assecondava! – Sappiamo
che a voialtre piace denudarvi a caso, neanche foste in calore. E nel
caso vi
venisse voglia di uscirle anche qua dentro perché
“che caldo blah blah”,
ricordatevi delle nostre amichette telecamerine.»
«Beh,
e che ve ne fate dei nostri video, vi ci masturbate
sopra?»
La rossa aveva
assolutamente messo in rilievo un punto
ragionevole: dove finivano tutte quelle ore, intere giornate di video
di loro
cinque che mangiavano, si vestivano, chiacchieravano e sempre
più spesso
indulgevano in qualche atto un po’ perverso.
«Bleah,
non siamo mica al vostro livello! Dovete sapere,
branco di Ditto abbandonati in una pensione, che fra i nostri sponsor
ci sono
anche clienti che… fanno business con questi video, e noi
siamo un’associazione
ecologica! Sarebbe un peccato buttare tutte queste cassette,
cioè…»
«Quindi
ci minacciate di vendere le nostre riprese a
proprietari di siti porno. – Catlina si grattò la
nuca, senza troppa emozione
per un argomento del genere – Wow, che onore vi fa questa
causa.»
«Spero
che sulle mie clip ci siano almeno due o tre
pubblicità, io non lavoro mica gratis.» La modella
aveva incrociato le braccia
e inarcato le sopracciglia sotto la frangia.
«Cosa
possiamo dirvi? Siete praticamente un arsenale di fetish
ambulanti!»
«Eh?!»
Fecero in coro.
La recluta alta
con il dito prese a spiegare alla compagna, la
quale annuiva ad ogni parola.
«Guarda:
piatta atletica di etnia esotica, rossa con fisico a
clessidra e abbronzatura, esibizionista snella ma con le curve,
principessina bionda
e modesta (conosco gente a cui piacciono le cicatrici), e per finire in
bellezza: ex-gotica con istinti da mammina e due tette
massive.»
Calò
un silenzio imbarazzante. Quelle reclute erano due palle
al piede, ma non si può dire non sapessero il fatto loro.
Dallo stupore,
nessuna domandò nulla. Forse perché
ciò di cui parlavano era in parte
veritiero.
«Vi
diamo dieci minuti.» Squittì la più
alta, eseguendo una
sgraziata piroetta di inspiegabile gioia.
«Okay,
ma noi ci defiliamo, qui puzza di chiuso che si muore.»
La riprese l’altra.
«A
dopo allora, chi non muore si rivede!» Uscirono.
Se quelle arpie
non tiravano in ballo il suicidio in ogni
singola loro visita non erano soddisfatte. Appena le ebbero lasciate
sole per
prepararsi, Iris cacciò un gemito insofferente, soffocare
nel cuscino scuoiato
pareva più veloce e indolore dell’impiccagione
suggeritagli implicitamente.
Per
incoraggiarla, Camilla la accarezzò sfregandole il
polpaccio, ancora insisteva a seguire le procedure delle aguzzine,
sebbene
avessero ottenuto ben scarsi risultati in fatto di ricompense.
Percependo le
punte sfrangiate del suo ciuffo lacerarle la
retina sinistra, provò a sistemarlo prima che uno shampoo
(buon partito per il
premio summenzionato) potesse salvarla dalla triste ultima spiaggia di
doverselo scostare dietro le orecchie, rinunciando al suo stile iconico.
La relativa
distensione le permise di organizzare le fasi
della propria difesa: non aveva mentito ad Iris, quello stesso giorno
lei si
sarebbe costituita, qualsiasi reato l’avesse commesso.
«Non
mi hai ancora detto cosa ti hanno fatto ieri sera quelle
sadiche.»
Origliò
da Camelia, di cui cominciava a scorgere la ricrescita
bionda sotto il nero lucido come petrolio. La sua ragazza
tirò un sospiro
addolorato, solo lei poteva tenersi per sé una condizione
così aspra e al
contempo disprezzare un minimo di sana compassione.
«Mi
hanno minacciata di farvi di molto peggio se parlo. Mi
disp…»
«Prova
a chiedere “scusa” e, ugh, non sai cosa ti faccio.
Anemone, ascoltami…»
La modella
provò a proseguire la conversazione, ma l’altra
era
ormai a testa china, alla ricerca delle proprie scarpe lacerate,
spazzando via
con le mani il nero e le schegge incagliatesi sotto i piedi.
«Oggi
mi conviene fare del mio meglio, ah. La
situazione sta degenerando sotto ogni punto di
vista…»
Dopo un respiro
profondo e una revisione della sua coscienza,
Camilla incanalò in sé il triplo della pazienza,
dell’acume e
dell’auto-consapevolezza di cui si armava ogni giorno, non
sorrise come ci si
aspetterebbe, ma la serietà la rendeva più
affidabile, più motivata al provare
a tutti di non aver cresciuto sia nella tecnica sia nella morale
quattro
disadattate.
Prima di uscire
però la sua mente si prese un break dal
processo et cetera, perché qualcuno aveva scritto il suo
nome sul muro come
“poesia”, “percorso” e aveva
ingenuamente confuso la lettura di “graziosa,
delicata” con quella di “Pokémon
da traino”.
«Camilla?
Scusa se ti chiamo ogni cinque
minuti, ma le due zecche Plasma vogliono tu entri in sala per prima.
Dicono ci
aspetti una “sorpresa”, e già mi sento
male… tutto okay, tu?»
Iris si trovava
ad alzare gli occhi
nocciola per ovviare alla differenza d’altezza, ma a
metà strada nella
diagonale si era formato un aggregato astratto di quella dipendenza
fraterna,
la stessa che il corpo fervente della giovane di Boreduopoli le aveva
trasmesso
adagiandosi sopra il suo quella sera, nell’onsen.
Possibile che
essere la leader fosse
allo stesso tempo così bello e allo stesso tempo
così devastante?
«Tutto
a posto, carissima. Ho solo un
po’ di mal di schiena…»
A quel punto,
una risatina le scappò.
«Un
po’?! Solo un po’?!» Iris aveva le
mani davanti alla bocca, come se non le fosse nemmeno lecito ridere.
La Campionessa
di Sinnoh, oltre alla
corazza impenetrabile dalle linee nemiche che sempre aveva addosso, ora
sentì
che due ulteriori scudi la proteggevano sia la destra che la sinistra.
Tuttavia, prima che una sola frecciatina potesse scalfire i due suoi
tesori,
una spada acuminata avrebbe trafitto il suo prosperoso petto almeno
cento
volte.
❁
Dalle finestre
ad arco proveniva una minima coordinata su cosa succedesse
nel mondo esterno nel frattempo ch’erano rinchiuse: il cielo
era annuvolato, la
pioggia della sera prima aveva macchiato i vetri, lasciando i calchi
delle
singole gocce.
Da
ciò, la sala appariva più scura del giorno
precedente, se non per un paio
di luci accese: stando alle parole delle due reclute, il Team si stava
davvero
impegnando nel crearsi un’immagine di amico
dell’ambiente.
L’ingresso
delle imputate non sortì alcun effetto sorpresa, molti degli
spettatori si erano abbonati ad ognuno dei cinque processi e le stesse
facce
pasciute e indagatrici si riconoscevano, anche quelle di chi non era
ancora
intervenuto nelle discussioni con la propria ovvietà
perbenista.
Camilla non
lasciava neanche che la toccassero, camminava da sola ed era
quasi come se le reclute stessero seguendo lei, non il contrario: per
quanto
irrispettose e rudi fossero, la donna le faceva rigare dritto senza
nemmeno
rispondere alle loro provocazioni.
Quando si mise a
sedere davanti al microfono, le bastò uno sguardo torvo
per impedirgli di ammanettarla alla sedia.
Prima che
qualsiasi fantasma di incertezza si impadronisse di lei, dalla
prima fila braccia abbronzate incurvate rappresentavano un cuore, un
applauso
momentaneo e un “dagliele di brutto, leader!”, poi
corretto su istigazione
Catlina con un “okay, magari no. Però fagliela
pagare per come mi hanno trattato
ieri” di rettifica.
L’ingresso
si fece d’un tratto affollato, una scorta si fece largo
attraverso il corridoio e la folla si fece quieta.
Procedendo
svelto, il camice bianco svolazzava a causa del movimento
creatosi attorno alla figura alta e gracile. Un sorrisetto la
colpì come un
proiettile.
«Buongiorno,
Cam…» Lo interruppe dal principio: non avrebbe
accettato una
conversazione in termini non egualitari.
«Campionessa
Kuroi. – Ricambiò la formalità, con
nonchalance - Buongiorno a
lei.»
Tenne il mento
alto, osservandolo dissipare il brusio della folla come un
prestigiatore fa sparire uno stormo di colombe sotto il mantello.
Acromio non
le avrebbe mai rivolto la spalla fredda all’inizio, ma la
donna era poco
intenzionata a lasciarli in mano le redini dell’udienza come
aveva fatto
Camelia, a un ingresso caloroso preferiva di gran lunga arrivare alla
sostanza
il prima possibile.
«Mi
scusi professore, ma se per favore potesse far iniziare subito il
processo…»
«Aspetti
un attimo, prima devo spiegarvi per benino una cosuccia. Ve
l’hanno accennata, le nostre ragazze?»
Le sue iridi
perlacee volarono più in alto del soffitto, si sarebbero
potute capovolgere e sbirciare dentro il suo cervello. L’uomo
si era avvicinato
alla platea con una lentezza a dir poco snervante.
«Buongiorno.
Forse, sarà capitato a tutti i presenti di accorgersi di una
piccola mancanza di correttezza da parte degli organizzatori della
scorsa
seduta… - c’era davvero bisogno di tutti quei
pleonasmi, vista la trepidanza degli
spettatori? – Le più sentite scuse da tutto il
comitato della giustizia di
Unima.»
Se il rimorso di
aver letteralmente manipolato l’esito del primo processo
li aveva colpiti solo una volta conclusosi, le aspettative in riguardo
alla
compensazione per tale errore si fecero ancora basse per le ragazze.
Nonostante
ciò, gli era stata preannunciata una sconosciuta
novità e una moderata
curiosità nel sapere come essa avrebbe influito da quel
momento in poi assalì
tutte quante.
«Ovviamente,
- nessuno aveva la più pallida idea di cosa si
sarebbe inventato, quell’avverbio serviva solo a occupare
spazio nella
spiegazione – stiamo parlando della minoranza numerica dalla
parte
dell’accusa.»
«Ehm?»
Le quattro
sedute vicine si rivolsero occhiate come sperassero
che loro vicina di posto avesse capito qualcosa di diverso, qualcosa
che magari
avesse un minimo senso.
«Per
questo, ottenuta l’approvazione del capo del Neo Team
Plasma, abbiamo pensato di introdurre un nuovo organo di legislatura
nella
procedura penale regionale: signore e signori, date il benvenuto al
primissimo
pubblico ministero della storia della regione!»
Le porte in
quercia pesante le aprirono sempre una coppia di
incappucciate, tenendole spalancate per far entrare una pletora di
individui,
ma nessuno di essi somigliava neanche vagamente a un giurista o a un
avvocato.
«Oddio,
quella tizia!»
Camelia
puntò un’unghia scorticata con qualche rimasuglio
di
smalto contro una signora di colore robusta, dai capelli spessi e
ricci, della
sfumatura verde della malachite; le altre le si accostarono per sentire
quali
succosi pettegolezzi avesse da svelare.
«Quando
abbiamo fatto la riunione per la Lega dell’anno
scorso, mi ricorderò sempre, mi guarda dall’alto
al basso e mi dice che come
sono vestita e il mio modo di rispondere non si addice ad una
Capopalestra… -
Poi, come se si stesse rivolgendo ad ella direttamente –
Scusa, ma… gli affari
tuoi? Chi sei tu per giudicare, boh, io… Secondo me
è la menopausa, ammazzatemi
appena faccio quarant’anni.»
Pur senza
volersela inimicare ulteriormente, Iris espresse
estremo disappunto, sbuffando perfino. Camelia credeva fosse colpa
degli altri
se il suo atteggiamento non veniva considerato il massimo della
simpatia.
«Guarda
che Aloé è buonissima, parli solo per sentito
dire…
Quando ero alle elementari ci hanno pure portati a vedere il museo a
Zefiropoli…
quello dove c’è lo scheletro di Zekrom,
dai.»
«Pensa
se mi dovevo sforzare di ricordami pure il nome.» La
mora si disinteressò.
«Ah,
so solo quello. Non conosco tutti, l’ultima lotta in
Palestra l’avrò fatta un anno
fa…»
«Ma
voi Capipalestra non vi parlate neanche per sbaglio? –
Catlina si intromise, non nascondendo la sua delusione: a Sinnoh questi
si
trovavano al bar per bere assieme, da quanto si trovavano in buoni
termini – Se
lo avessi saputo anch’io mi sarei risparmiata di provare a
socializzare con gli
altri Superquattro, tutto di guadagnato.»
Fosse stata
scorretta tale teoria, Camelia ed Anemone
avrebbero quantomeno accelerato il loro travaglio per conoscersi e
approfondire
il loro legame. A proposito della rossa, ebbe solo un commento da fare.
«Visto
quanto è utile essere una reclusa asociale? Vivi
benissimo lo stesso. – S’accorse anche di altri
volti incontrati alle cerimonie
di premiazione, quelle poche volte in cui le toccava partecipare,
quando suo
nonno smascherava i suoi finti infortuni sul lavoro - Sono proprio
tutti qua,
oh.»
I Capipalestra
si accomodarono in una tribuna su gradoni,
munita di sedie di feltro rosso e calici accompagnati da bottigliette
di Acqua
Fresca della marca meno costosa.
Come la minaccia
della tirannia di Ghecis li aveva uniti per
combattere ai piedi delle rovine della Lega Pokémon e nel
castello eretto per il
suo figlioccio, il burattino delle sue aspirazioni da megalomane, allo
stesso
modo lo stesso uomo li aveva radunati assieme nello stesso posto, un
edificio
egualmente simbolo del teatro di marionette di cui aveva retto i fili
da dietro
le quinte sin da subito dopo la sconfitta.
«Che
figura da sceme che ci facciamo, se ne usciamo vive io
mollo la carica, il lavoro e me vado a piantare Bacche a Johto per il
resto dei
miei giorni, eh.»
«”Che
ci fate”, non parlate al plurale per favore:
Superquattro maggiore Capopalestra.»
«Questo
vuol dire che il mio processo è stato giocato in
modalità facile?! Giuro che se Camilla riesce a pararsi pure
davanti a questi
trogloditi e mi fa fare la figura dell’idiota glielo brucio,
questo
“ministero”».
«Ma
voi tre non vi domandate perché nessuno è mai
gentile con
voi?»
La fierezza di
Iris nello stare per battere il suo record di considerazione
da parte delle compagne durante una rottura della loro armonia, contato
in
secondi, l’unità di tempo più lunga che
si sarebbe mai riuscita a permettere,
non superò nemmeno quella del suo mezzo-addio sul sedile
della jeep ad
Austropoli.
Anemone aveva
puntato dietro le sue spalle e come se il
riflesso automatico di voltarsi le fosse venuto meno, Camelia le
ruotò le
spalle, cogliendole il mento fra il pollice e l’indice in
modo che si
affacciasse sulla torma di esperti di lotta.
«Nonno?»
Senza suono, le
consonanti batterono sul suo palato.
Come non si
poteva compatire la
giovane nipotina del Capopalestra più anziano, il Domadraghi
più esperto e di
cui perfino i suoi coetanei temevano il nome, perfino se inserito in
contesti
casuali come “devo tornare a casa, o mio nonno mi
uccide”?
Aristide infatti
non aveva mai avuto occhi per altri nella
sala orpellata, per i suoi colleghi, per tutti quegli spettatori che lo
elogiavano come uomo imparziale e baldo foriero di giustizia sin dal
principio
del suo incarico.
Come non si
poteva compatire il vecchio Capopalestra, mentre
la giovane che aveva cresciuto come parte del suo sangue veniva
marchiata criminale
dall’uniforme arancione, incatenata come una bestia
pericolosa, quando aveva
lasciato la loro casa nel nord con lo stesso identico viso caramellato
colmo di
dolcezza?
Si ripeteva che
quella era un’altra, non la conosceva, non aveva
nulla a che fare con una scapestrata privata di sonno ed igiene.
La disperazione
di lui la raggiunse: anche lei voleva dimostrargli
che si trattava di un malinteso, che una nottata burrascosa ed un coro
di
malelingue in completo formale non gli avrebbero strappato dalle
ginocchia la
bambina persa ad ascoltare le storie antiche sui miti della Fondazione
e della
Guerra fra le casate.
Ma quella non
era la sua battaglia. Camilla e l’esordio della
sua arringa s’intromisero nel dolore dell’uomo.
«Prima
di iniziare…»
Acromio
accennò un goffo inchino verso i Capipalestra, non che
avesse ragioni per manifestargli il suo rispetto; ma di nuovo la
Campionessa
gli tagliò la lingua: avendo la voce più profonda
fra i due, poteva andare
avanti indisturbata, come sottofondo allo stridio bambinesco
dell’accusatore.
«Spero
che per qualsiasi cosa mi giudichiate, prenderete come
punto di partenza le mie azioni, - appariva severa, tuttavia non
riversava
alcuna avversione in questa sincerità – e non le
mie opinioni personali sul Neo
Team Plasma o su Ghecis Harmonia.»
Dal professore
uscì un sospiro condiscendente, inclinò il capo
per non infuriarsi a tale sconsideratezza.
«Campionessa,
cosa le fa pensare di essere superiore a tutti
gli altri cittadini e a poter evitare un interrogatorio
ufficiale?»
«La…
- lo disse rallentando, per poi sparare a velocità
supersonica la banalità che a malapena le usciva senza
l’impulso di battersi
forte la fronte - prima parola della frase.»
Acromio si
immobilizzò, come se il cervello dovesse
risparmiare l’energia per muovere gli arti e dedicarla a
pensarci su per
qualche imbarazzante secondo.
«…cosa?»
Non era sicuro della risposta, ma almeno serio nel
tentativo.
«Ho
detto la prima!»
Nessuno si
preoccupò troppo dell’insolenza, piuttosto di
quanto potesse essere controproducente sbattere un tablet di ultima
generazione
sul ripiano di legno rovinando lo schermo retina, tutto solo per un
leggero
scatto di rabbia.
«Molto…
- alla ricerca dell’aggettivo, la voce dell’uomo si
stringeva nelle mandibole: avesse perso il soave tono, il contenuto
sarebbe
passato automaticamente in primo piano e nessuno desiderava
ciò, tanto meno Acromio
stesso – audace, direi. Soprattutto vista la sua
posizione…»
«Senta,
se il vostro unico capo d’accusa è andare a
ripescare
fuori contesto post controversi in qualche mio blog abbandonato anni
fa, -
Camilla si girò lontana dal microfono, in preda
all’imbarazzo – anche se, per
favore, non fatelo, non credo di aver scritto cose molto lucide, a
quindici
anni…»
Non per nulla,
quando vedeva Iris o Anemone o Camelia cliccare
il tasto di condivisione per una qualche loro foto scattata per
scherzo, un
brutto sentore si risvegliava nel suo stomaco.
E si
riprometteva di cancellare le foto fatte con il suo primo
telefonino nel bagno di casa dei suoi a Memoride, in pessima
qualità sgranata,
con il rossetto e lo smalto nero, le code dell’eyeliner
lunghe fino alle tempie
per assomigliare più che potesse ad un’occidentale
e gli immancabili piercing
finti: il desiderio sfrenato di ricevere complimenti da degli estranei
era
bilanciato dalla paura dell’essere scoperta da mamma,
mediante una qualche spifferata
di sua sorella minore.
«Tsk,
sarebbe bello potersela cavare così. Anche se, a
pensarci bene, sequestrare i registri delle sue attività
online… Ha presente,
la cronologia delle ricerche? Ci potrebbe fornire ulteriori prove!
Ultimamente ha
per caso interagito con altre ragazze minorenni in maniera
predatoria?»
«Cos…!?»
Sentire la voce della Campionessa salire di qualche
ottava lasciò tutti un po’ sconvolti.
«Se
non lo ha ancora capito, ha sulle sue spalle un bel
macigno da cui discolparsi, qui leggo… leggo… e
che leggo? Manipolazione, abuso
sessuale e inclinazione alla pedofilia.»
«Pff!
– Quella risata esplose e nessuno la trovò
appropriata,
ma per Camelia quello era il colmo – S-Scusa leader, io
l’avevo detto solo per
scherzare, non volermi male per questo, ahah…»
Invece di
rammaricarsi dell’essere stata appellata “vergine
ventenne” ingiustamente a inizio luglio (nonostante grazie
alla coincidenza del
reggiseno nell’onsen fosse nata la storia d’amore
più interessante dell’intera
stagione) parole ben diverse le risuonarono, stavolta come un monito
per il
futuro che le era appena scorso davanti senza che si fosse potuta
arrangiare in
anticipo.
«Ma
corre anche voce che la Campionessa di Sinnoh
sia una lesbica ninfomane pedofila che intrattiene relazioni non
consensuali
con ragazzine più piccole di lei...»
Si ritenne una
sciocca. Il timore che le reclute d’élite del
Neo Team Plasma fossero davvero venute a uccidere le sue compagne
l’aveva
acciecata e lei non aveva letto fra le righe, nemmeno intuito che ci
fosse
stato un piano b nel caso non ci fossero riuscite.
«Questa
è pura diffamazione. - Appoggiò la testa sui
polpastrelli, deformando il sopracciglio per l’indignazione
– Non ho mai
toccato una ragazza con queste intenzioni in vita mia, in una regione
con un
briciolo di dignità sarei io a doverla denunciare, lei e
tutti quelli che…»
«Quindi
ha presente di cosa stiamo parlando, in minima parte.
Accuse relativamente recenti.»
Camilla era
stata l’unica a non condannare Iris per la sua
reazione alla primissima volta in cui l’insopportabile capo
del partito aveva
messo in bocca loro sentenze non veritiere, tanto che si resse in piedi
pur di
non rimanere passiva davanti ad un tale affronto.
«Non
ci provi neppure, a insinuare che io abbia violentato
qualcuno! Soprattutto, visto che è stato Nardo a darmi
questo incarico. – Da lì
s’impadronirono di lei sentimenti più grandi,
considerazioni che si portava
dentro come un testamento della sua esperienza da mentore –
Quanto privo di…
amore, fiducia ed empatia deve essere il vostro mondo per non riuscire
nemmeno
a metabolizzare la stima e l’ammirazione che un leader possa
dimostrare nei
confronti delle proprie… compagne di viaggio?»
L’ultima
definizione la lasciò leggermente titubante, ma
subito fece l’accorgimento di annuire e riconferirle
convinzione. Perché in
realtà la Campionessa avrebbe voluto usare altre
denominazioni per le
carissime, irriverenti e a suo parere inimitabili Allenatrici la cui
silhouette
non vedeva l’ora di vedere inondata dalla luce dei
riflettori, stagliata contro
i banner pubblicitari e l’oceano di bacchette fluorescenti
colorate.
Sul momento
avrebbe confutato questa tesi. A due settimane da
quando erano state invitate alla convivenza, lei si sentiva ancora
“leader”.
Già meno però, quando le toccava raccogliere dal
campo di lotta le Pozioni
vuote e gli asciugamani bagnati dimenticati puntualmente, quando il suo
subconscio la tentava di andare a farsi per prima la doccia,
finché c’era
ancora acqua calda.
La sua ipotetica
etichetta era ormai sbiadita poco a poco, per
ogni alba passata a leggere e rileggere gli appunti e le strategie
ideate dalle
quattro, ancora accoccolate nei loro futon; stritolava la penna rossa e
mangiandosi a malapena un “questi errori non li facevo
neanche a otto anni” e
per resistere, li confrontava con i fogli di due, tre giorni, della
settimana prima,
per ricordare a se stessa quanto fosse bella la definizione di
“fare del
proprio meglio”. E anche tre o quattro tazze di milk tea, in
aggiunta.
Odiava pure
sgridarle, dimostrarsi pedante sui punti critici e
richiamarle quando tentavano di ribellarsi.
Ma si rivedeva
nei loro sbagli e nelle loro lacrime, avrebbe
rimediato ad ogni costo per qualsiasi cosa impedisse loro di essere
ragazze
felici, oneste e lottatrici provette.
Non ci credeva
neppure lei a quanta strada le mancasse prima
di diventare “perfetta”, come molti
s’azzardavano ad appellarla. Il cammino era
comunque una cosa incredibile, le sue amiche si appoggiavano a lei per
sostenersi nei declivi e allo stesso tempo la sorreggevano quando si
sentiva
affaticata dal peso della responsabilità da leader.
«Quello
che nel nostro mondo importa è la salvaguardia di
minori da offese da parte di persone moralmente degenerate.»
«Vostro
onore, se mi permettete…»
Acromio
roteò il polso, offrendo il palco ad uno dei Capipalestra.
L’uomo parlò, appoggiando il cappello bianco e
sbattendo il tacco sulla gamba
del tavolo, in segno di irritazione.
«Non
vorrei rovinarti il monologo, prof. Ma ti serve almeno
uno straccio di prova che questa bella bionda si sia…
– incastrò e agitò per un
paio di volte indice e medio di ogni mano aperti: si trattava sempre e
comunque
di un luogo rispettabile – una di quelle sue amichette vispe.
Altrimenti lei è
pulita e sei tu l’unico a farci brutta figura.»
«Le
rispondo subito: uno degli espedienti più usati dai
molestatori seriali è quello della manipolazione. Far fare
alle vittime cose
che normalmente non farebbero mai: le considererebbero sbagliate, folli
o
non-da-loro. Capisce? Comincia tutto da dettagli
minimi…»
«Poche
chiacchiere, saltimbanco.»
Il professore
tornò a parlare con l’imputata, assicurandosi di
catturare del tutto il suo sguardo.
«Campionessa
Kuroi. Cosa stava pensando esattamente, quando ha
trascinato quattro ragazze sotto la sua guida a farsi massacrare,
rischiando
quasi la vita, combattendo contro i dissidenti del vecchio Team Plasma,
alla
Lega Pokémon? Quale giustificazione ha? Sentiamo.»
«Quale
giustificazione ho? Quale giustificazione ho?!
Ghecis vuole
umiliare il Campione e devastare il simbolo della
collaborazione millenaria fra umani e Pokémon, mettendo a
ferro e fuoco la
regione di Unima e a noi non sta bene.
Le va bene
questo, come giustificazione?»
«Tsk.
Quel messaggio trasmesso in televisione era chiaramente
finto! Queste maledette teorie della cospirazione! Lo ha smentito il
giorno
seguente, Ghecis Harmonia in persona.»
L’uomo
si sistemò gli occhiali sporchi ed impolverati, per
focalizzarsi sulle iridi cineree della giovane donna.
«E la
prego… “a noi non sta bene”? A lei non
sta bene! Ecco
qui l’esempio perfetto: queste ragazze obbediscono ai suoi
ordini, ai suoi
desideri efferati come burattini. Come se delle adolescenti sane di
mente se la
sentissero davvero di combattere fino alla morte di loro spontanea
volontà. No,
anzi: ciò che ha fatto lei è stato approfittare
della loro debolezza
psicologica per propugnare le sue deviazioni! Ribadisco: abbiamo una
manipolatrice e bugiarda compulsiva qui.»
Non detestava
Acromio e le sue tattiche sofiste, ma la
contraddizione insita in esso: aveva permesso lei che i
Pokémon drogati delle
reclute infilassero gli artigli nella loro carne e le ferissero con
zanne,
proiettili, addirittura con la forza telecinetica? Camilla
rappresentava la
probabile chiave di quell’effetto Nora.
«Sto
prendendola troppo sul serio. Non può essere
colpa mia… No? Ovvio che no! Se solo non mi sentissi
così male, perché? Non è
colpa mia, però… Se siamo così
patetiche, deboli, incapaci, inaffidabili…
No, non sono
loro. Sono io.»
«Mi
scusi. Vorrei fare un’obiezione, - una ragazza si
alzò in
piedi, non appena la sua richiesta fu accolta; non avrebbe lasciato la
sua
migliore amica e amante sola a combattere come durante il primo attacco
all’onsen – In qualità di
sub-leader.»
«Bene, adesso come minimo
il prof mi
insulta perché sono bionda, stupida e disabile.» Si disse Catlina,
attendendo di parlare.
«Signorina! Con che
genere di saggezza ci vuole
deliziare oggi? Sempre che si senta abbastanza lucida, che non le
vengano capogiri…
ma vada pure! E alzi la testa quando parla con un superiore, qui non
siamo
dipendenti suoi o degli Yamaguchi.»
La giovane respirò forte
per la seccatura. Ma non
si sarebbe concessa di incassare un altro colpo basso per via della
propria
personalità docile.
«Volevo dire che noi
siamo venute alla Lega, a
combattere il Team Plasma, di nostra spontanea volontà, non
perché Camilla ce
lo ha imposto. Non ci ha manipolate nessuno.
E, mi scusi, ovviamente su di noi
c’è riflesso
qualche cambiamento del tempo che abbiamo trascorso qui…
S-Sono la prima a
dirlo: prima avevo paura perfino di parlare con altre persone, di
esprimere i
miei sentimenti perché… boh, nessuna ragione in
particolare; ero viziata,
paranoica e direi anche un po’ stupida.
Camilla non ci controlla, fossimo
così
influenzabili… fosse così non ci avrebbero
neppure scelte per partecipare al
torneo regionale. Aiutarci e darci indicazioni su come sfruttare al
meglio il
nostro potenziale è il suo compito, e noi ci fidiamo di lei.
A-Almeno, io sì.»
«Questo non è
proprio quello che uno si
aspetterebbe di sentire dopo un lavaggio del cervello eseguito da una
maestra
dell’arte?»
Inutile che Acromio cercasse di
vittimizzarla
quando neppure lei aveva interesse in ciò; si era nascosta
dietro ad una marea
di scuse, dietro al proprio corpo infermo e alla visione distorta dei
propri
sogni troppe volte e lo scudo di menzogne che pensava potesse tenerla
al sicuro
per sempre accumulava falle, finché non s’era
sbriciolato nell’incubo che la
vedeva sola, in un mondo bianco senza speranza e senza futuro.
Avrebbe preso in pieno il
proiettile, catturandolo
come una mosca mediante il solo palmo della mano, lo avrebbe guardato
puntare
al suo viso, per poi scagliarlo contro il suo nemico, specchiandosi nei
suoi
occhi.
«Sono sopravvissuta ad un
elettroshock, ad un
colpo di pistola, al mio primo cuore spezzato, ad una contorsione
fatale, a un
coma di tre giorni…»
«Signorina, il pubblico
ha capito…» Gli parlò
sopra, mai lo aveva fatto fino a quel momento.
«…ad
un intervento a cervello aperto e ad un’overdose di
stupefacenti, grazie a
Camilla.
Credo che adesso…
– lo enfatizzò di prepotenza,
arruffando ancora le piume al pollo –
adesso…»
La Campionessa si spostò
le chiome dietro le
orecchie con le mani libere, come se le stesse fibre potessero
distoglierla dall’avvertire
un rumore sospetto: non che non ne fosse a conoscenza; aveva sistemato
il suo
futon (lo usava raramente per dormirci, purtroppo per lei) a fianco di
Catlina
per almeno due settimane, per controllare non stesse male durante il
sonno.
«S-Scusate… -
le uscì dal fondo dell’esofago,
nessuno a parte lei lo sentì - N-Non…
Io… Non mi sento bene…»
Il respiro affannoso, le pupille
dilatate, la
mascella rigida, le mani tremanti. Sul lato delle labbra su cui aveva
riversato
calore, passione e incontenibile vitalità, un rivolo
schiumoso sembrava una
secrezione mortifera, un rimasuglio di un’anima infettata.
Camilla girò la testa;
rimpianse i pochi secondi
sprecati in quell’azione e si mosse immediatamente,
abbandonando la sedia e
precipitandosi verso la fila di banchi.
«Spegnete quella luce
dietro, subito! Quella che continua
a spegnersi e riaccendersi…»
Cinque reclute scelte per la
corporatura tozza,
barricarono la giovane donna, neanche volesse compiere qualche
efferatezza,
neanche volesse altro se non aiutare la sua compagna sofferente sul
pavimento
laccato, nel mezzo di una delle sue crisi.
«Era dietro di me, era
dietro di me quella
trappola mortale, accesa… in tutto questo tempo,
Io…»
Che il tutto fosse stato
architettato per mettere
fuori gioco la sua migliore difesa, avrebbe potuto considerarlo un
proprio
errore di calcolo. Un errore maledetto, che la sua amica
d’infanzia stava
pagando contorcendosi e annaspando disperatamente. Alla fine, sempre un
errore
suo.
«Come non
detto… - la punta luccicante del
mocassino sfiorò da così vicino alla guancia
della giovane Superquattro da
quasi calciarla – Chi ha permesso che una degente in
condizioni di
fotosensibilità così elevate sia stata dimessa in
meno di un mese? Chiamate
un’ambulanza, fatemi un piacere.»
Ma il fatto che Acromio stesse
attivamente
prendendo in giro la fiducia che aveva rimesso in piedi Catlina dopo
tutte
quelle sventure, per lei era come costui bestemmiasse il nome della
divinità
che faceva sorgere il sole per lei ogni mattina.
Camilla provò a
dimenarsi ancora, cercando di
ignorare il dolore provocatole dalla stretta delle reclute;
l’ultima cosa che
vide prima che una di esse s’arraffasse ai suoi capelli per
riportarla al suo
posto fu il tentativo delle altre tre Allenatrici di sciogliere le
manette, a
causa delle quali la biondina rischiava di rompersi un braccio a causa
di
qualche malaugurata manovra impulsiva.
«Non vogliamo ulteriori
distrazioni per tutta la
durata del processo, nessun intrigo da commedia. Voglio che questo
concetto sia
cristallino.»
Camilla udì Catlina
tossire, l’unica cosa che era
in suo potere era pregare che i soccorsi arrivassero alla svelta, prima
che
ella si strozzasse con la saliva o qualche microfrattura si riaprisse,
dopo che
aveva faticato tanto per rigenerarsi fuori e dentro di sé.
❁
«Prossima
domanda.»
Il segretario
del partito sventolava la penna elettronica come una turbina,
il suo ghigno beota ancora intoccato si frammentava in un caleidoscopio
sullo
schermo crepato.
«La
ringrazio. Buongiorno, Campionessa. - Esordì un giovane uomo
dai
capelli castani mossi, la deliziosa sciarpa in cotone rosso si
azzuffava con la
camicia verde veronese, ma dai suoi occhi non traspariva alcuna malizia
–
Innanzitutto, sono dalla sua parte, per ora, a meno che non venga fuori
altrimenti.»
Normalmente,
Camilla avrebbe ringraziato anche il minimo complimento o un
vago supporto; tuttavia, il posto vuoto nella prima riga le pareva
enorme,
quasi quanto una voragine dopo un cataclisma.
«La
parte sull’alterazione mentale, quella lì, penso
abbia un peso
importante, almeno quanto le accuse di molestia sessuale. Quello che
voglio
chiederle è: vi sono dei precedenti? Non è
possibile che una figura così
eminente abbia macchie tanto grandi da passare
inosservate…»
«Davvero
vi è così difficile credermi? Sono nata a Sinnoh
in un piccolo
paese sul Monte Corona, da una famiglia normalissima di quattro
persone. Sono
andata a scuola, ho ricevuto un Pokédex e ho partecipato al
torneo della Lega
come tantissimi altri Allenatori. Ho fatto queste…
“cose da Campione” per
cinque anni oramai, starei cercando di vivere la mia vita e fare quello
che mi
piace: volevo viaggiare all’estero e venire a studiare la
mitologia di Unima da
un sacco e ce l’ho fatta.
Non capisco cosa
ci sia da demonizzare se una persona ha una vita
tranquilla e felice, per una volta.»
La giovane si
accorse di aver inconsciamente capovolto la strategia usata
da Camelia per sollevarsi dai guai per la gola: forse era giunta al
limite
delle forze e voleva solo terminare la seduta, nonostante avesse
premuto lei
stessa per velocizzarne l’andatura.
Oppure, riuscire
a spegnere ogni focolaio di sospetto e curiosità nei
confronti del suo passato, avrebbe distolto l’attenzione
dall’etichettare lei e
le sue associate come vittime e carnefice, essendo del tutto esente dal
classico background travagliato e disturbante dei personaggi moralmente
grigi.
Si dispiacque di
poter dare l’idea sbagliata, quella della dea delle lotte
bella e perfetta che non conosce l’amarezza o la sconfitta,
quell’ologramma in
cui troppe persone erano rimase intrappolate fino a provare autentica
delusione
scoprendolo consistente come l’aria rarefatta di un picco
desolato.
Contò
ancora sulla bontà delle sue ragazze: lei non aveva creduto
un secondo
che Camelia fosse solo un’antipatica sputasentenze, che
Anemone agisse solo per
amor altrui, che Catlina fosse distante e dimentica di tutta la loro
gloria
passata. Finora avevano sempre ricambiato le speranze che lei serbava
per loro,
le dimostravano in tal modo di vederla come una persona umana e
ciò non poteva
che scioglierla nell’animo.
«Per
quanto riguarda le relazioni interpersonali? Compagno, fidanzato,
marito?»
«Non
ne sento il bisogno, grazie. Il prossimo.»
Davvero non
riusciva a digerire certe domande, se non dopo essersi scolata
otto coppe di sake alla prugna.
Se si diceva che
la Campionessa Camilla fosse abbastanza resiliente da
affrontare Allenatori su Allenatori in match giornalieri senza pause
per
ricaricarsi e curare la sua squadra, un cuore spezzato non poteva aver
mai
avuto un impatto tale da invogliarla a predare ignare ragazze, le quali
avrebbero comunque dato poco da farsi a prescindere: non ci erano
voluti mesi,
addirittura anni prima che la modella uscisse da circolo vizioso delle
relazioni
casuali con uomini più voltagabbana di lei?
Come
è perfettamente impossibile amare senza conoscere
l’amore di persona,
pensava la bionda, il non essersi mai impegnata in una relazione
nemmeno una
volta la rendeva inesperta, certo, molto cauta e a volte anche
impaurita; ma
arrivare a considerare tale mancanza d’esperienza terreno
adatto ai germogli di
semi d’odio…
L’idea
che la teoria degli opposti sempre in movimento, che definire
“la
sua”, come se ne fosse appropriata, sarebbe un po’
da ipocrita, s’accoccolò al
suo stomaco. A meno che non la rinnegasse, in mezzo al mare di amore in
cui
s’immergeva e si purificava per e con le sue adorate,
carissime compagne, una
goccia d’odio si nascondeva fra i flutti e con
crudeltà inaudita inquinava il
suo cuore.
«Il
bisogno, dice?»
Ma Acromio
s’era impuntato su una storia inventata. Dopotutto,
neppure il cuore della donna era stato davvero pronto a quella
confessione
affettuosa che la più piccola del gruppo aveva mormorato fra
le sue braccia, al
tramonto, non trovando momento più adatto.
«Più
che una leader…»
«Quanto
la rende virtuosa, questa storia del celibato volontario,
signorina Campionessa! Ah, ah, ah! – Il professore
mimò una risata sgangherata,
ipotizzando l’essere impazzito a causa della
contraddittorietà delle azioni
della donna, come se fosse lui stesso a star recitando
un’esagerazione – In che
modo strano gira il mondo, in questi tempi!»
Lasciò
calare un proiettore, di qualità decisamente superiore
di quello disponibile per loro sintonizzato sul canale dei messaggi
snervanti
ma importanti, nella loro cella.
Se le sue
orecchie fossero state marchingegni collegati ad una
qualche scheda madre che controllava le sue razioni, voleva ogni
singolo cavo
reciso, un ictus alla propria coscienza messa in una posizione
così scomoda; si
stavano surriscaldando e lei perdeva la voglia di stare a sentire il
professore
ancora.
Ed ancora era
grata che qualcuna non smettesse mai di darle
una distrazione.
«…per
noi sei...»
«”Adamante”
nelle sue posizioni è dire poco. Magari è vero:
davvero non ne è cosciente. Davvero pensa che tutto questo
sia assolutamente
normale. Una cosa tipica da ragazza normale, da una famiglia normale,
che fa un
lavoro normale, passatempi normali – non sapeva se
interromperlo e ricordargli
di aver insultato la sua compagna per aver usato un’anafora
come effetto
retorico poco meno di un’ora prima - con una vita
sessuale… normale!»
Aveva pigiato
una combinazione dal tablet senza nemmeno
distogliere lo sguardo da lei: era prevedibile che Acromio non si fosse
gettato
nella disputa a mani vuote. Camilla credeva di aver sprecato i suoi
fendenti
migliori per un omuncolo disarmato, all’inizio.
«Campionessa,
le chiedo solo una cosa: non pensa mai a come si
sentirebbero i suoi genitori, sapessero di queste cose?»
«”Queste
cose”, cosa?!»
Come nel mito di
Orfeo e Euridice, una voce dentro di lei la
scongiurava di non cedere alla tentazione di girarsi a vedere la
propria
nobiltà d’animo sfigurata sul grande schermo, la
sua dedizione resa spregevole
ossessione; ma lei cedette, perché in fondo avevano ragione.
Lei una
debolezza ce l’aveva.
«…Come
una sorella maggiore.»
❁
Nessuno ci fa
mai caso al fatto che dopo grandi ribaltamenti, dopo ogni
catastrofe, ciò che rimane sulla terra è lo
stesso per tutti, ma ciò che si
sedimenta in ognuno dei superstiti varia sotto quasi ogni aspetto.
D’altronde,
non si può costringere uno ad identificare il tipo di fiori
sbocciati sul colle fertile dopo un’eruzione vulcanica, dopo
che il fuoco e la
cenere hanno inghiottito tutta la vegetazione passata. Quanti saranno i
granelli di sabbia che la risacca appoggia sulle spiagge delle regioni?
I
frammenti taglienti delle conchiglie rotte lasciano
un’impressione, almeno.
Il bagliore dei
fuochi d’artificio che si pone innanzi alla luna,
intimidita dalla prepotenza umana di segnare pure il regno celeste con
i suoi
fumi e i suoi colori, nonostante non gli pertenga. La voglia di
zucchero e
dolci, di eccitare il palato per poi finire inevitabilmente a morire di
sete.
Il telefonino che pregava di aver pietà del poco spazio
rimasto nella memoria
d’archiviazione, con un insistente notifica per ogni
fotografia scattata ad un
artista di strada, ad un Pokémon raro proveniente
dall’estero, al volto
sorridente della giovane donna che stava al suo fianco, perfetta anche
senza
l’ausilio delle applicazioni di bellezza.
Iris si rese
conto di starsi stringendo la mano da sola, pur di replicare
il calore di quella della sua compagna più grande, di come
l’aveva catturata la
prima volta che erano uscite assieme, di quanti sentimenti
l’avesse fatta
provare quel gesto e fra tutti quelli che il buonsenso le avrebbe
voluto
rinfacciare come monito alla sua scarsa consapevolezza…
felicità, ricordava
solo inspiegabile felicità associata al vibrante pattern dei
loro yukata,
all’odore di olio e alla bellezza di essere
all’aperto, sotto gli occhi di
tutti, mano nella mano.
«Nonno,
ti prego, non arrabbiarti… Non è successo niente,
ti giuro su…»
Tuttavia le sue
dita erano gelide, come toccare le falangi scabre di uno
scheletro.
Oltre il vetro,
spesso abbastanza da farle percepire la distanza per cui
nemmeno allungando il braccio avrebbe potuto sfiorare, la barba bianca
e gli
occhi vigilanti sui suoi progressi e i suoi difetti da sempre, le
apparivano
così truci, così terrificanti, fauci incupite e
digrignanti pronte a morderla.
Aristide non era
arrabbiato con sua nipote. L’uomo era estremamente deluso,
mortificato era dir poco.
Questo
perché della stupenda serata che aveva condiviso con la
Campionessa
di Sinnoh non era rimasto nulla, il rogo di Alessandria aveva colpito i
ricordi
di tutti. Eccetto, nonostante non fosse neppure presente quel
dì, quelli del
Team Plasma.
Ad essi spettava
la versione più equamente oggettiva e dolorosamente neutra
che potessero usare per rappresentare cosa succedesse nella casa del
Campione,
dove si consumavano i segreti delle ragazze; non c’erano
suoni, una visuale
dall’alto, la nitidezza delle immagini riprese rispecchiava
quanto in
superficie si fossero fermati per interpretare i fatti di quel giorno.
Le era stato
detto chiaro e tondo che lo spionaggio procedeva “da
giorni”,
ma né lei né Camilla si erano preoccupate di
incolparsi, di pentirsi o di
nascondere il loro, di segreto.
«Eddai,
per quanto ciò che è stato catturato dalle nostre
telecamere sia
indubbiamente degenerato e di cattivissimo gusto, non
c’è bisogno di coprirsi
gli occhi! – Acromio invitò i presenti –
Il Partito si è preso la briga di
censurare quelle parti non proprio adatte alla trasmissione in prima
serata!»
Se lo shock non l’avesse
immobilizzata, avrebbe dovuto fare come minimo i complimenti al Team:
erano
riusciti ad estrapolare dal contesto originario uno dei momenti
più
significativi per la sua crescita, farglielo rivivere mostrandoglielo
integralmente e a farla quasi vomitare dal disgusto.
Il suo sogno di una notte
di mezza estate di una quindicenne era diventato un incubo, un trauma,
un
qualcosa di cui si sarebbe dovuta vergognare per tutta la vita.
«…Cosa mi devi
giurare,
Iris?»
Tutte le volte che si
trovava da sola con il suo vecchio non aveva mai lasciato intercorrere
alcun
silenzio imbarazzante, ed il venir chiamata improvvisamente per nome
dopo il
verificarsi di uno stesso la fece rabbrividire.
«Ti giuro, ti
giuro… - Le
mancò il respiro - Camilla non mi ha fatto niente,
nell’onsen...»
L’anziano
abbassò la testa
prendendosela con la mano, esalando addolorato; la ragazzina lo
udì con i
nervi.
«Quando mai, quando mi ti
è stato insegnato di farti violare da un’estranea!
– la riprese e la voce si
fece come un tamburo rituale, scuotendo ogni mollezza nel suo corpo,
con una
pausa – Come aggravante…»
«No, non mi ha neanche
toccata, noi stavamo solo parlando!» Ribatté e il
suo tono da bambina eruppe,
nonostante lei volesse nasconderlo almeno per quella diatriba.
«Che ti sei messa in
testa
di fare? A farti vedere nuda da una donna adulta...»
«Camilla mi ha spiegato
che è una cosa normale a Sinnoh, serve a conoscersi meglio
e, ti ripeto, non mi
ha toccata né niente! Sei solo
paranoico…»
«Ti sembra una cosa che
io
e tua nonna… – non riuscì neppure a
completare la frase, si macchiò di
anacoluto da quanto era sconvolto – ecco, pensa! Pensa alle
conseguenze, una
volta tanto: a quanto ci aspettavamo da te.»
Iris avrebbe voluto
fingere di non sentire tutto il discorso, ma in particolare
l’ultima frase.
Perché così sembrava che lei la galera se la
meritasse, che fosse conseguenza
naturale per le sue malefatte.
E che aveva fatto di male?
Certo che lo sapeva. Aveva vissuto isolata dal proprio passato e dal
proprio
futuro troppo a lungo, si credeva un libro aperto e si portava alle
spalle
strappi alla coscienza grandi quanto un canyon.
Aveva obbligato a suon di
suppliche suo nonno a farle mollare la scuola, dimostrando subito di
non essere
sociale, di non avere attitudini, di non saper seguire una procedura
sicura e
basilare, di aver bisogno di sforare dalle regole per sentirsi
orgogliosa.
Alla Sala del Governo,
Aristide avrebbe risposto alle sue proteste contro il governo degli
Harmonia
come aveva fatto il professore, chiedendole dove fosse il suo diploma,
se fosse
sotto quella lingua lunga che si ritrovava.
E da lì, rifiutando la
strada battuta dell’istruzione superiore, la sua bambina si
era incamminata in
mezzo ai rovi, sui sentieri tortuosi, tutta sola, nella convinzione di
trovare
se stessa fra gli spettri dei sognatori disillusi nel tentativo prima
di lei.
Infatti, eccola lì, dove
l’aveva trovata? Senza vestiti, a farsi sbranare viva da
belve feroci, senza nemmeno
battere ciglio.
«Beh, cosa ti aspettavi?
Che mi facessi odiare, non posso nemmeno avere delle amiche? Dovevo
fagli
vedere io che sono la più forte solo perché sono
la nipote di un Capopalestra?»
Non lo chiese
ironicamente. Desiderava sapere davvero cosa nascondesse suo nonno
dietro alla
sua bontà condiscendente, che figlia s’immaginava
che la sua “Iris” fosse. Lei
non la vedeva da nessuna parte.
Il vecchio Domadraghi le
manifestò il suo compunto, rifiutando tali scuse degne di
una reietta con
disturbi mentali, incapace di capire la realtà. Sperava di
far risuonare della
ragionevolezza in lei, per riportarla al suo stesso livello. Eppure la
giovane
Allenatrice sembrava averlo abbandonato, come una scapigliata che fugge
con il
suo amante, la testa persa in chissà quali fantasie idiote.
Il fatto era che lì non
c’era nessun primo amore a sviarla… No, non
c’entrava nessun ragazzo in quella
faccenda.
«Questa in cui ti sei
tirata in ballo non è “amicizia”.
– La guardò dritta negli occhi marroni –
Non
me ne frega niente delle altre quattro e dei loro problemi. Possono
fare tutte
le schifezze che vogliono, fra di loro.
Ma che tu, tu ti vada a
far stuprare da donne adulte… Dov’è la
tua dignità? Oh? Chi te le ha insegnate
queste cose? Ce l’hai un po’ di rispetto per chi ti
ha tirato su?»
«Ancora! Basta! Sono io
che ho detto a Camilla di sì nell’onsen! Non mi ha
stuprato nessuna, io ho
fatto la mia scelta e le ho detto di sì, non
c’è niente di sbagliato qua!
Acromio l’ha incastrata perché vuole toglierci
dalla competizione… - un
singulto rallentò il suo fervore e ritornò
languida, come all’inizio – Nonno,
ti prego, ti prego… Cerca di capirmi.»
Quando la cintura del
kimono era caduta, aveva indugiato, lo ricordava. Ma appena Camilla si
era
esposta a lei, alla sua apprendista Campionessa che aveva salvato
dall’attacco
di un Pokémon selvatico e da uno del Team Plasma. A lei,
prima che ad ogni
altro amore della sua vita.
Anche se la sua carne non
era sviluppata, le sue curve non erano ancora abbastanza mature per
reggere un
confronto equo, senza riservare nemmeno la minima dose di amore che il
suo
minuto petto conservava per un momento del genere, come avrebbe potuto
innescare il meccanismo su larga scala?
Se non sapeva amare una
persona tanto dolce, gentile, coraggiosa e sensibile nei suoi
confronti, come
avrebbe potuto una Campionessa diffondere l’amore nella
regione di Unima, nel
mondo intero?
Qualora avesse voluto
semplicemente baciarla in bocca, strizzarle il seno o toccarle le gambe
e il
sedere, avrebbe potuto farlo: le circostanze erano a suo favore. In
teoria
l’avrebbero ugualmente criticata, cambiava solo che
così c’erano prove concrete
per la sua colpevolezza.
Ma c’era stato un
qualcosa
in aggiunta. E le due, pur non sapendolo ancora definire a parole loro,
avevano
capito che proprio grazie a questo qualcosa il loro bagno insieme aveva
avuto
un senso.
Una volta uscite
dall’acqua e asciugatesi la pelle bagnata al sole, sia Iris
che Camilla,
entrambe erano cresciute un po’.
«E tu, cerca di
raddrizzarti e torna a farti piacere i maschi, ti conviene.»
La ragazzina allontanò
lentamente la cornetta da davanti alla bocca, sebbene non si sentisse
nemmeno
la vibrazione del fiato; se fosse stato un vero telefono a filo,
avrebbe
lasciato cadere la linea con un tubare perturbante.
Ormai le sue orecchie si
erano riempite di insulti e a suo malgrado, la loro cattiveria andava
in
crescendo dall’inizio della stagione. La fiducia che aveva in
sé, la sua
identità ci aveva fatto un callo a tal punto da trovargli un
senso: credeva che
ci fosse dietro una progressione, che appena lei veniva ingiuriata con
qualcosa
di nuovo o originale aveva il bisogno di pensare “forse non
avrei dovuto
prendermela per la volta scorsa, non era poi così
male”.
Anche a furia di sforzarsi
di nuotare in quel fiume di chiodi, perché la punta
più affilata e con la
ruggine più tossica doveva avergliela spuntata colui che
doveva invece farle da
zattera di salvezza?
«Se anche io avessi
voti alti in matematica, storia, scienze, se fossi la rappresentante di
classe,
se facessi i corsi aggiuntivi per entrare alla lega d’oro
delle università
mentre lavoro al Pokémart nel finesettimana e ha comunque
tempo di leggere i libri
di economia e di politica prima di andare a letto senza affaticarsi
troppo a
suonare uno strumento o a far pratica di lingue straniere o a scrivere
poesie
per i concorsi…»
Neanche Camilla avrebbe
retto il confronto. Nemmeno lei, nonostante possedesse tutta la sua
ammirazione.
Non credeva che gli anni e
l’anzianità fossero tanto inclementi sul giudizio
del Capopalestra. Lei stessa
era grata per i traguardi raggiunti dai suoi predecessori, le capitava
perfino
di puntare il dito contro la sua generazione all’insegna
della passività e
della frivolezza.
Gli aveva dimostrato già
dalla tenera età di non aver paura di ferirsi per offrire
dal suo palmo una
Bacca ad uno Zweilous affamato, di essere disposta a rovistare aiuole
piene di
erbacce alla ricerca di una campanula che dicesse “ti voglio
bene” con la sua
tenera bellezza al suo vecchio. Non aveva guadagnato rispetto neppure
in tal
modo.
«…Lo dici solo
perché
Camilla e le altre sono femmine?»
Un silenzio ed Iris si
morsicò
le labbra, senza perdere la risolutezza.
«Allora sei un
infame.»
Non ci fossero stati venti
centimetri di vetro a schermarla, avrebbe finalmente sentito cosa
doveva aver
provato all’epoca Camelia, che non giustificava comunque in
base a ciò, ma dopo
un ceffone in pieno viso anche a lei sarebbe venuto istintivo lasciare
Boreduopoli e cancellare le proprie ignobili origini.
«Da chi hai preso queste
parole?! Parli così a tuo nonno, da quando? Lo hai preso
dalla spazzatura umana
che frequenti? Oh!?»
«Non le conosci
neanche…»
«Deficiente. Per fortuna,
per fortuna, guarda, che ti hanno ripreso! Così impari a
crescere: sei quasi
un’adulta e ancora ti serve vedere le conseguenze delle tue
stupidaggini in
prima persona!»
La giovane dai capelli
violetto stava per mollare la presa. Del resto, c’era il suo
bene, in ballo. Se
Aristide s’era infiammato fino ad insultare la sua
intelligenza, un motivo
valido doveva esserci. Non poteva essere in una posizione
più opposta: i loro
punti di vista si stavano scontrando e fra le scintille e i clangori si
consumavano sia la pietà filiale, sia l’affetto
paterno.
Tuttavia, l’uomo si
toccò
la barba ed aggiunse, in tono sarcasticamente critico.
«Non voglio neanche che
le
tiri fuori in un discorso, idee del genere…»
«…Perché?
- Gli chiese,
esasperata - …Perché, se fosse stato un ragazzo
ti sarebbe andato bene?!
Ragioni come il Team Plasma, io… non ci voglio ragionare con
te.»
«Che maleducata,
strafottente, ingrata sei diventata in mezzo mese!»
«Sono tutte queste cose
solo per aver fatto un bagno insieme con una mia amica?»
«Iris, non sei nella
condizione di dire niente. Dopo questa, tu sei come morta per me.
Allora…»
L’anziano stava
proseguendo a parlare, ma qualsiasi altro rimprovero avesse in serbo,
non lo
poté udire: la cornetta si trovava ora distante dal
padiglione auricolare,
sospesa a mezz’aria come gli ostaggi sul ponte delle navi
pirata.
Alzando le sopracciglia
sottili, l’Allenatrice e accusata si trovò
entrambe le mani vuote, un tonfo
fece intuire che il microfono avesse catturato l’urto della
plastica contro il
pavimento e pure il successivo dondolarsi al cavo che lo collegava alla
centralina.
Aristide osservò sua
nipote girarsi di novanta gradi, verso destra, mettendo le mani a
mo’ di
altoparlante: immediatamente due reclute si portarono ai lati del suo
seggio.
Invece di strattonarla, lei gli pose gli avanbracci e dopo averla
ammanettata e
bendata agli occhi, la condussero via, in silenzio.
Non poteva neppure udire i
suoi passi. Le conseguenze, su cui la stava istruendo poco prima,
stavano affliggendo
lui, che non aveva colpa, che aveva provato ad instaurare un codice di
condotta
nell’essere che più aveva a cuore, ed ora vedeva
la sua missione di genitore
fallita e ciò lo avrebbe in eterno perseguitato.
Era sicurissimo che Nardo
non approvava nulla di quanto era successo. L’ormai
destituito ex-Campione le
aveva per primo consegnate alle autorità, secondo la sua
teoria.
All’anziano e distrutto
Capopalestra del Nord non rimaneva che aspettare la sentenza per sua
nipote;
forse due, forse tre, forse dieci anni di carcere minorile ed un bel
programma
severo di riorientamento sessuale, che le avrebbe giovato di sicuro.
Non avrebbe permesso che
una forza al di fuori delle leggi della natura e della sua etica ferrea
gli
strappasse via la sua piccola, innocente e perfetta nipotina.
«Allora, se dopo
“questa” io sono “morta” per
te...»
E tale forza non aveva
uno, bensì quattro nomi diversi.
Mentre dietro quei nomi
c’erano visi angelici, corpi divini, maniere accattivanti,
potenza e carisma
allo stato puro. Con quali mezzi avrebbe costui potuto arrestare le
inarrestabili pulsioni dell’adolescenza?
«…allora forse
non dovevi nemmeno
adottarmi, infame.»
❁
Nella totale
afonia della prigione sgusciarono fuori i rumori che nella
loro quotidianità scomparivano in mezzo a risate, musica e
chiacchiere varie.
Ancora con lo stomaco mezzo vuoto ed un caldo pazzesco, le quattro
Allenatrici provavano
a risparmiare il poco carburante che avevano in riserva cercando di
muoversi il
meno possibile e ad auto-ibernarsi in un bagno di sudore disgustoso.
Camelia aveva
addirittura proposto di tagliare la testa al toro e levarsi
di dosso le uniformi, giusto per evitare di andare in iperventilazione.
Quando
con civiltà tentarono di distoglierla dall’idea,
ribatté che presto o tardi nei
suoi anni di carriera qualcuno tanto le avrebbe hackerato il suo
cellulare e
pubblicato tutti i selfie che si faceva davanti allo specchio, le
versioni
originali che non sarebbero finite in nessuna delle sue pagine
ufficiali.
Non capirono se
stesse vaneggiando o fosse seria, ad ogni modo non glielo
permisero; gli costò solo un paio di unghie finte spezzate
abbandonate lì sul
pavimento e un grumo di capelli biondi lavato via con l’acqua
salata, a
quell’ora calda quanto zuppa.
Le ragazze
quindi non avevano ragione per non godersi quei minuti di
degradante siesta dal valore immisurabile, sebbene i passatempi
disponibili
fossero limitati dal non arrecare disturbi alle sventurate complici.
La mora era
distesa su un letto in basso, accarezzando continuamente i
graffi di Iris sul petto e trovando il rialzamento sulla pelle
stranamente
piacevole al tatto, non che glielo avrebbe mai perdonato, pensava. Con
il
labiale percorreva una delle sue playlist senza le cuffie e senza far
passare
nemmeno un filo di voce, spaventata da quella mancanza di spazio
personale
nonostante non si facesse mai problemi di introversione.
In
contemporanea, le dita di Camilla, assorta sull’ingiustizia
della sua
condanna e angustiata da che genere di terapia avrebbero scelto per
curarla
dalla sua ossessione inesistente, correvano fra i capelli della nobile
dormiente sulle sue ginocchia; Catlina non aveva proferito parola dalla
potenza
degli antidolorifici somministrategli dopo l’attacco. La
Campionessa lo reputò
un bene per lei, l’avrebbero interrogata il mattino seguente
e la donna giurò
di fornirle mutua assistenza per qualsiasi causa le rivoltassero contro.
«Ohi,
bentornata. Che t’ha detto tuo nonno? Per la storia del
bagno,
intendo…»
La bionda
accolse Iris ancor prima che la porta si chiudesse. I ciuffi
lilla bagnati ma non puliti fuggivano in tutti i modi dalla presa
dell’elastico, il quale avrebbe richiesto un paio di forbici
per venir
scardinato dai nodi accumulati in mezza settimana. Oppure una mano
forte, ma l’unica
che sarebbe riuscita a spezzare la stoffa con l’uso della
bruta forza appariva
impegnata a fare altro, nel mezzo della propria concentrazione
autistica.
«Guarda
che faccia, come minimo avrà chiamato uno a farle un
esorcismo! - la
modella si rivolse alla donna – Leader, sai che ti capisco?
Quell’onsen, mamma
mia, è il sesso assoluto! Se esistesse un afrodisiaco fatto
piscina…»
«Camelia,
ti ringrazio dell’interesse, ma lo scopo per cui tu lo hai
usato
è totalmente diverso dal nostro.»
«Pfff,
sai quanto me ne frega di che cosa ci devi fare
nell’onsen… Te la
sei presa? È
perché ho preso io il meglio e tu ti sei dovuta
accontentare? O aspetta,
non sei davvero pedofila, hai solo gusti da plebea.»
«…mi
stai seriamente dando della squattrinata?»
La Superquattro
dischiuse mezza palpebra, non sia mai che qualcuno
presumesse che il conglomerato di lotta dei suoi potesse competere con
le
tre-quattro borse di marca o gli orologi di zirconi che lo stipendio di
un vip
regionale. Voleva proprio farle vedere, si sarebbe comprata
l’intera
manifattura solo per farla tacere.
«Vogliono
fare un’altra udienza fra poco.»
Questo
è essere ostaggi: non avere la libertà di poter
procrastinare le
proprie inquietudini.
«Hanno
detto che entro domani sera devono finire tutti i processi per avere
il verdetto finale.»
La
più piccola non si sentiva all’altezza di
quell’annuncio. Non poteva
rispondere a nessun loro dubbio, né chiarire la ragione per
cui il Team avesse
deciso di cambiare i loro piani senza preavviso, lasciandole alle
mercé del
loro pugno di ferro. Dai loro volti trasudava già tutta la
frustrazione, tutto
lo sconforto della sconfitta imminente.
A quel punto,
stavano guardando le carte sul tavolo da gioco ribaltarsi e
finire automaticamente nel mazzo degli Harmonia, non aveva neppure
senso
aspettare il loro turno e cercare di rispondere al poker di assi che
Ghecis gli
avrebbe piazzato, non che se ne sorprendessero più di tanto
adesso.
«Ragazze,
che facciamo…»
Catlina si
sforzò di sollevare la testa ma ripiombò sul
materasso dalle
vertigini causatele ancora dalle medicine.
«Vado
io, tanto non ci perdo niente.»
L’aspirante
Allenatrice di Tipo Drago si rigirò le maniche,
l’intestino si
smosse nonostante fosse vuoto, spiazzato quanto la sua mente dallo
stress e
dalla stanchezza. Non aveva altra scelta.
Acromio
l’avrebbe ridicolizzata come solo lui sapeva fare, la folla
avrebbe
provato imbarazzo trasversale finché suo nonno, il cui
giudizio contava quanto
tutti i Capipalestra della regione messi insieme, le avrebbe dato il
colpo di
grazia.
«No,
scordatelo.» Solo con la punta delle dita la
sfiorò Camilla ed il
muscolo del collo le fece un male assurdo.
«Sì,
ma, scusa…»
Malissimo.
Pareva insicura, pure. Del suo alibi, il giudice avrebbe ridotto
uno straccio e ci si sarebbe pulito le suole.
«Iris,
stai battendo i denti. Hai freddo?»
Credeva di star
guardando la compagna, eppure non stava focalizzando nulla,
pur vedendoci perfettamente non discerneva alcuna forma, ogni oggetto
sembrava
piatto e privo di senso come in un quadro astratto. I pochi lampi di
visioni
oniriche, talmente transienti da non avere neppure la lunghezza per
chiamarsi “sogni”
delle tre ore circa in cui alla stessa maniera non poteva dire di aver
“dormito”, irrompevano nel suo campo visivo.
Iris aveva
rimandato tale considerazione, troppo presa a badare ai propri
tormenti emotivi che spuntavano come bambini malformi, urlanti, usciti
da
chissà quale bolgia e che si moltiplicavano per mitosi.
Con il suo
spirito sfiduciato e il suo aspetto miserevole stava obbligando
Camilla a fare esattamente quello che le aveva proibito,
l’unica cosa che
voleva da lei; aveva violato il loro accordo privato. Ieri si era
offerta per
provare la propria superiorità, oggi per assoluta mancanza
di amor proprio.
C’erano
quaranta gradi lì dentro. C’era una ragazza con un
cuore pieno di
bontà ed una reputazione immacolata, rovinata
dall’affezione per la sua zazzera
viola e le sue promesse fatte in un tempo troppo felice per essere
lucide.
Dopo il video di
Acromio, la sgridata di Aristide e la tortura del Team
Plasma, lei aveva ancora freddo?
Iris si
odiò come mai in vita sua. Aveva ufficialmente abbassato la
testa e
detto “sì”, buttando via il suo orgoglio
personale. Abbassò la voce, non perché
non ci credesse abbastanza, ma affinché le spie con le
cuffiette non sentissero
una bella scossa sui timpani e poca soddisfazione nelle loro tattiche
autoritarie.
Del resto, la
sua non era più tortura per estrapolarle informazioni: era
una vera e propria punizione. La sua riconversione sponsorizzata dallo
Stato
era cominciata in quella mezz’ora.
«Nessuno
ti obbliga, se non te la senti. - Camilla si era già girata
–
Anemone, so che è brutto da chiederti,
ma…»
Si trattenne dal
piantare un pugnale nella bara, non rimproverare la rossa
per quello che avrebbe definito un comportamento infantile in qualsiasi
occasione le dimostrò che la sua soglia di tolleranza si era
notevolmente
abbassata.
Dopo aver
attirato l’attenzione di tutte gettandosi sul lato con un
guaito
gutturale, la giovane aviatrice stette immobile per qualche secondo,
abbandonando i graffiti incomprensibili aggiunti da lei sul muro: erano
leggermente più comprensibili di quelli della bionda, ma il
fatto che alle
lettere latine si aggiungessero pure i numeri aggiungeva un nuovo
strato di
complessità all’enigma per decriptarli.
«No,
Camilla, vai avanti. – La sua voce rimbombò
all’interno dei palmi con
cui si copriva la faccia e la bocca – Sai che io vivo per
essere uno scudo
umano, non aspettavo altro…»
«Per
favore, comportati da adulta. Nessuno ci guadagna niente qui. Non
essere egoista e…»
«Camilla,
non la provocare, fai un piacere. – La riprese la sub-leader
–
Quella ti stacca un braccio se le gira male.»
«Per
favore. – La Campionessa si passò le unghie fra i
capelli, uno strato
di forfora finì per annidarsi sotto di esse.
L’ultimo bicchiere davvero digeribile
che la sua gola ricordasse risaliva a due giorni prima, quindi apparve
più
stanca di quanto qualsiasi sessione di allenamento prolungato
l’avesse mai resa
– Arrivare a minacciarmi con la
violenza…»
Con un salto dal
dislivello di circa un metro e mezzo dal letto superiore,
la ragazza affrontò direttamente la leader, non la
sfiorò neppure ma la mise al
corrente di possedere almeno il doppio della sua massa muscolare, in
caso il
suo piedistallo dorato l’avesse abbagliata a tal punto da
usare lei come
diversivo temporaneo.
Innanzitutto,
lei non era una Poke-bambola da tirare al nemico per fuggire.
«Però
ti farebbe bene, vista la situazione, leader.»
«Puoi
anche non rubare le frasi fatte alla tua ragazza, che ha già
dato per
te, in caso non te ne fossi accorta.»
In aggiunta,
Camilla poteva anche smetterla di fingere di avere la
situazione sotto controllo, quando non aveva neppure i sotto controllo
suoi
panni sporchi esposti a quattro, non centomila, non duecento, quattro
persone.
«…almeno
io rubo da una persona sola, tu quado hai intenzione di dire alla
tua amante narcolettica che la tradisci con la tua piccola cotta al
limite
della legalità, ah?»
A parte Camelia,
che stava gridando le proprie risate fino a sentir male
alle narici (un po’ si dispiaceva di non averci pensato per
prima a questa
imperdonabile gaffe, però era così dannatamente
azzeccata! Per essere i due
giorni peggiori della sua vita stava ridendo fin troppo, non era una
cosa da
persone sane), le altre assunsero facce di piombo ed aspettarono mute
il
prossimo processo.
Tanto cinque
minuti dopo essersi sganasciata, l’isteria aveva esaurito le
ultime risorse di energia rimastele in corpo; e la mora svenne per un
calo di
zuccheri. Quando provarono a rianimarla le insultò pure.
Sperando il
tempo dell’attesa fosse abbastanza lungo da permetterle di
schiacciare un pisolino prima di dover stare a sentire la rossa
blaterare per
un’ora e mezza qualcosa riguardo alle ingiustizie economiche
della regione o
qualche altro tema di cui a lei non poteva importar di meno, strinse il
naso
cercando sussidio nella poca lucidità mentale rimastale.
«Eeeeh…?
No, aspetta… no, cosa, cosa… Cos…
Boh, capito
niente.»
❁
Reclinando il
capo all’indietro e abbandonando la testa alla
gravità, Iris
emanò un sospiro smorzato, il coccige non lo sentiva
più passando dallo star distesa
sul letto coriaceo allo star seduta sul legno duro.
Neppure lei
aveva mai così tanta ansia da palcoscenico:
com’è che Anemone
prendeva sempre il massimo dei voti alle interrogazioni? A cena, suo
nonno
aveva raccontato loro questo e ci aveva messo in gioco il suo orgoglio.
«Dovrebbe
essere grata al nostro lavoro, signorina.»
La rossa strinse
le labbra, da dietro i ciuffi appiccicati in punte
carminio contorse tutti gli oltre cento muscoli facciali per riprodurre
l’espressione più rilassata ed insospettabile che
le riuscisse; per fortuna al
team non era venuto in mente di adoperarla, perché la
macchina della verità
l’avrebbe smascherata immediatamente.
«Lo
stiamo facendo per il tuo bene, sappilo.»
Se davvero
gliene importava tanto da crearci un portfolio strabordante di
carta lucida con firme di esperti del settore, fra cui logopedisti,
fisiologi
e, non osò crederci, assistenti sociali, come mai glielo
mostravano solo
adesso? Quanti soldi risparmiati, al posto di farsi in giro per le sale
di
psicoterapeuti in tutto l’ovest della regione! La giovane
pensò ciò mentre si
grattava il padiglione auricolare.
«…è
stata dura, eh? Venir tirata su prima in orfanotrofio, poi in
condizioni di difficoltà economica.»
Subito riconobbe
la tattica di adescamento, ossia il fingere di compatirla.
Non glielo disse nemmeno con sincera pietà.
«Sì…
- La rossa aveva girato la testa e la sua voce non raggiungeva nemmeno
il microfono - …dura.»
«Tutto
questo bagaglio che ti trascini dietro… - Acromio
puntò al fascicolo
– Disturbi dell’umore, difficoltà a
relazionarsi con gli altri, il continuo desiderio
di distaccarsi dal mondo: hai mai pensato di chiedere aiuto?
Ovviamente, non
parlo solo di te. L’uomo che ti ha cresciuto, non si
è mai chiesto cosa ci
fosse che non andava?»
Assecondando
l’ingenuità di quell’affermazione, ne
estrapolò che il suo
vecchio si fosse semplicemente arreso all’idea di sostituire
tutte le
componenti malfunzionanti di lei, che forse sarebbe stato meglio
buttare via
direttamente l’intero prodotto. Peccato che la sua adozione
non fosse venuta
con una garanzia di qualità.
Si
sgranchì le spalle, guardandosi circospetta intorno: le
occhiate dei
presenti la intimorivano senza motivo, conosceva bene quel sentore di
disagio,
come se ogni persona del mondo non vedesse l’ora di
raccontare al proprio
vicino “ehi, l’hai vista quella?”. Era la
ragione per cui non comprava mai
manga in edizione cartacea se non su internet e pure quando li leggeva
in
pubblico li nascondeva dietro i manuali dei corsi
d’aggiornamento.
«…non
lo so.»
Nessuno la
mandò giù, una risposta deprimente come un rigore
mancato per la
squadra in svantaggio.
Nel mentre, al
professore scappò di nuovo quella risatina effemminata,
quella che alle donne viene nei momenti in cui la situazione prende la
piega
desiderata e tale risultato sembra loro un colpo di fortuna, quando si
tratta
invece di una forzatura prevedibilissima, frutto di macchinazioni
puntigliose
con un risultato biunivoco.
«Bene,
dai. Direi che è il momento di leggere un attimino le prove
forniteci dal contributo prezioso dal nostro gruppo di Sondaggio
Periscopico di
Interni Anti-Rivolta di Emergenza.»
«…S.P.I.A.R.E?»
La giovane
voltò la prima pagina, non riconoscendo nemmeno la stessa
carta
usata nelle udienze delle compagne. Le appariva più che
altro come un report
sulle loro attività quotidiane: c’erano orari,
indirizzi con tanto di
coordinate geografiche e perfino aggiornamenti sui loro movimenti
virtuali
quali telefonate, messaggi ed operazioni bancarie.
«Il
dato su cui vorrei lei concentrasse la sua attenzione si trova nella
dodicesima colonna della prima sezione, sotto i registri con la voce
“R.A.”.
Segua attentamente, per favore. Le nostre telecamere a calore hanno
rilevato
attività anomale nell’arco temporale che va dalle
ore undici quarantotto della
sera del trentuno giugno alle ore tre e diciassette dell’uno
luglio. Quello che
è stato riportato è un’alterazione al
solito programma di spostamenti, visto
che è abbastanza improbabile che mentre tutte le compagne
stessero dormendo lei
si stesse…»
«Oddio,
basta! Perché devo sempre essere io quella a cui va peggio?
Mettetemi in galera e fatela finita… Tanto non ho niente da
perderci, okay? –
Anemone affondò il naso sul tessuto
dell’uniforme e respirò l’odore di tre
giorni senza lavarsi - No, niente è
okay.»
«…e
ciò potrebbe essere relativo a molte delle implicazioni
emerse anche
nelle sedute precedenti! Il consumo di droga, per esempio. Oppure, si
potrebbe
intuire che ci fosse dietro un’attività di
prestito di denaro e i debiti
registrati siano inerenti a degli interessi molto
alti…»
Le avevano
sempre insegnato che non si interrompono gli adulti, che i dati
numerici fossero la cosa più vicina ad
un’approssimazione della realtà dei
fatti e di tenere sempre conto della posizione sociale
dell’interlocutore. Ma
chi le aveva imposto quelle regole non stava a fare altro, se non
portare acqua
al proprio mulino. Era dunque suo dovere riconfermare le istituzioni ed
i
luoghi comuni?
Oppure
c’era l’altra faccia della medaglia: quando perdeva
il controllo, la
rabbia si impossessava di lei e pur spostandosi dall’altro
estremo dello
spettro i dibattiti non riusciva a vincerli.
Non aveva mai
provato a rimanere al centro, magari l’equilibrio e la via
mediana erano lì ad aspettarla e a domandarsi come mai non
avesse mai cercato
nella moderatezza tutte le soluzioni ai suoi problemi,
perché al posto di
cercare le chiavi per aprirsi più porte si fosse affidata
tanto spesso ai pugni
e ai calci per abbatterle.
«…signorina,
il suo alibi?»
Il professore si
appoggiò al banco dove Anemone sedeva con il mento sul
dorso delle mani, come se non si aspettasse un riscontro verbale ma un
dolcetto
o, cosa che la gentilezza della giovane gli avrebbe offerto volentieri,
una
spinta per portarsi quel visetto pallido e glabro il più
lontano possibile dal
suo sguardo.
Acromio era
l’uomo meno mascolino che avesse mai visto, eppure trovava
comunque repulsivo quel calo di testosterone. Non capiva come potesse
varcare,
in fatto di aspetto e atteggiamenti, la soglia del genere ed
infastidirla in
entrambe i suoi attributi. Perfino lei non sopportava quel livello di
ambiguità
eccessiva.
«…il
mio alibi?»
S’accorse
che la leader schioccava le dita davanti a lei, per
risveglierà
dalla sua trance.
Il lampo di
genio che l’aveva illuminata nella battaglia contro gli
stessi emissari
del Team Plasma non poteva giungere in un momento migliore. O forse
era,
appunto, soltanto graziata dal fato e voleva in qualche modo un
riconoscimento
alla persona, un premio di consolazione per il suo ritardo intuitivo.
Non le venne
così di getto, in modo simile alla formula imparata durante
la
lezione di fisica, giusto perché a quell’ora era
l’unica studentessa attenta in
classe e sperava che qualche sua compagna carina le domandasse gli
appunti e
lei avesse almeno una chance per fare amicizia con qualcuno che vivesse
meno di
cento chilometri da Ponentopoli.
La morale della
storia fu che in vista dei test di fine semestre la più
carina della classe (gli standard di Anemone ai tempi delle superiori
non
puntavano a nulla di più arrivabile di qualcuna che sapesse
dell’esistenza di
almeno cinque serie che piacevano anche a lei) le chiese indubbiamente
di
copiare da lei per arrivare alla sufficienza e passare
l’anno, all’inizio delle
vacanze invernali voleva pure invitarla al cinema con il suo gruppetto
di
amiche popolari.
E la rossa aveva
ormai consegnato i moduli per ritirarsi dall’istituto
tecnico statale.
«Alla
fine avrà invitato un'altra ragazza con le calze fino a
metà
ginocchio, le lentiggini e gli occhiali rotondi. Lo sapevo, ci sarei
dovuta
andare comunque… se fossi venuta, non sarei qui a farmi
arrestare per spaccio
di stupefacenti.»
Non
l’aveva più rivista, ma se lo
sentiva dentro.
«Aspetta,
cosa stanno dicendo?! Io non spaccio droga! - si sovvenne di
quel piccolo particolare,
aggrottando la fronte travolta dal dubbio – Ma se
lo facessi, sai quanti
soldi potrei far su… il mio fondo “concerti e
goods annessi” ne gioverebbe
immensamente, potrei perfino pagarmi l’iscrizione al fanclub!
Oppure cambiare
finalmente le pale delle turbine laterali… Che staranno
senza
olio per un bel po’…»
«Signorina
Reyez!»
«Giusto,
giusto! Alibi, alibi…»
Tornò
sui suoi passi: si concesse di dargli un altro po’
l’impressione di
essere un’idiota, giusto per guadagnare tempo.
«Sa
che cosa significa la parola “alibi”,
almeno?»
La ragazza si
portò i fogli davanti agli occhi, ma rialzò li
subito non
appena individuarono l’informazione che le serviva.
Si
sentì leggermente in colpa. Tale dato non era una cosa che
doveva
ricordarle il segretario di un’organizzazione criminale, era
qualcosa che si
sarebbe dovuta tatuare sul braccio, far incidere su un anello o
quantomeno
segnarsi sull’agenda del cellulare, se proprio la memoria non
voleva adiuvarla.
«Anche
che io spacciassi… di sicuro non lo farei la sera fra
l’ultimo di
giugno e il primo di luglio.»
Nei numeri
c’era per davvero la chiave per risolvere
quell’intrigo,
dopotutto.
«Mi
scusi, ma è impossibile che io mi fossi immessa in questi
affari
loschi, nel tempo da lei citato.»
«Ah,
dice?» Acromio la incalzò.
L’aviatrice
diede segno d’esser pronta deglutendo, osservando nessuno in
particolare nella platea: vendere stupefacenti, guardare una nuova
serie appena
sottotitolata, volare intorno al mondo su un tappeto magico, per queste
e molte
altre attività strabilianti non avrebbe mai rinunciato al
luogo e l’atmosfera
di quella notte.
«…io
ero a limonare con Camelia quella sera.»
Si dispiacque di
aver formulato il proprio pensiero in maniera così poco
elaborata. Sembrava che le fosse importato di quella serata solo dal
momento in
cui fra di loro ci fosse stato un contatto fisico. Invece, anche le
avessero
dato il potere di viaggiare nel tempo, non avrebbe alterato un singolo
dettaglio di come lei (o la sua ragazza?) aveva confessato il suo amore.
La top model
più famosa di Unima aveva scavato a mani nude sotto la
crosta
di scuse e di bugie sotto cui Anemone si nascondeva, aveva
dissotterrato il suo
vero io e, mostrandoglielo dai suoi palmi bianchi ed eterei, che non
c’era
nulla di cui avere paura; era tutto a posto, era solo il suo primo
amore.
Le aveva gridato
contro, l’aveva odiata sentendosi rinfacciare la propria
ipocrisia e le aveva somministrato la pillola decisiva. Quando le due
si erano
rivestite, tornando nei loro letti, la Capopalestra si era stretta
nelle
coperte, come se quel magnifico momento potesse sfuggirle dalle mani.
Era valso
la pena ferirsi, avevano vinto entrambi quella battaglia; la tensione
sessuale
aveva messo k.o. tutte e due, la bellezza insormontabile
l’una dell’altra.
«Quella
sera ero impegnata con…»
Non avrebbe mai
sovrascritto al loro approccio nell’onsen altri spaccati
dalla loro relazione neonata. Finiti gli allenamenti, quando lei e la
mora si
appartavano e quella le proponeva di riprovare a baciarsi, Camelia le
perdonava
a malapena errori come il morderle un labbro per sbaglio o il
liquefarle il
rossetto con la saliva.
Come pensava, il
periodo di prova era finito. La versione completa di una
storia d’amore richiede impegno. In quel processo, aveva
carta bianca per
dimostrare di aver padroneggiato ciò che serve per una
relazione matura.
Ma una saetta,
proveniente da sotto gli occhiali del giudice e massima
autorità civile e morale della regione, la
abbagliò; strinse gli occhi azzurri
e la sua ambizione le si rovesciò dolorosamente nel fegato.
«…quella
sera ero con…
Un…
uhm… eeeh….
…partner.»
Ad un
Capopalestra andò l’acqua di traverso e la tosse
rumorosa rese il
tutto il triplo dell’imbarazzo generale.
Ma del resto,
che cos’altro poteva fare, la giovane sfortunata? Se fosse
stata in grado di reggerne il peso, avrebbe come sempre tenuto a cuore
l’amicizia, e anche quel qualcosa in più, che la
legava non solo al suo
“partner”, ma alle sue compagne. In quella seduta
tuttavia, non riusciva a
trasmetterla, per via della cieca follia egoista procuratale da troppi
fattori.
Anemone avrebbe
voluto rimangiarsi tutto, fare un reset completo.
Quindi era
questo il suo disturbo della personalità, in tutto il suo
intricato e disastroso fascino? Voleva farsi vedere da Acromio, dalla
Lega e
dal mondo come una brava ragazza, finché lei aveva la
certezza di esserlo,
perché? Perché di sì, lei era la
nipote prediletta, la studentessa modello,
l’instancabile lavoratrice, l’amica incorruttibile.
Ma
l’idea di subire del male a costo di difendere quel titolo
non la allettava
da un bel pezzo. Il Team Plasma l’aveva praticamente
già molestata una volta,
non le serviva il bis della stessa orribile sensazione.
Aveva imparato
il concetto di rispetto da piccola. Si era ormai
abbandonata, lasciata andare al proprio perfezionismo.
«Ah,
capito, capito, capito! – il professore disse – E
da quanto state
insieme?»
«Due
mesi.»
«Voglio
andare via da qui...»
Non erano
esattamente sessantuno giorni su sessantuno, ma non si sentì
tanto male per quell’approssimazione: almeno non avrebbe
dovuto passare il suo
mesiversario in un centro di riabilitazione e riorientamento, come
invece
sentiva sarebbe successo ad Iris, purtroppo per lei.
«E
come mai nessuna delle altre Allenatrici sapeva di questo
affare?»
«Abbiamo
una regola nostra, che non si parla delle nostre relazioni, per
non distrarci dagli allenamenti del torneo.»
«Uh,
lasciami in pace… lo so che lo sai, prof.»
Aveva previsto
un esito terribile per il proprio processo, ma di venire incastrata
dalle sue stesse parole le sembrava un trucchetto troppo scontato: non
solo ci
faceva la figura della bugiarda, ma pure dell’idiota.
Dieci anni da
quel processo, il suo caso sarebbe andato a finire in un
manuale di pedagogia infantile nella sezione sullo sviluppo ormonale
corretto.
O peggio, nei volantini di propaganda ultra-conservatrice, un esempio
di
redenzione all’ultimo minuto di un’anima perduta
nel peccato di lussuria e
sodomia.
«Beh,
allora ci siamo preoccupati per niente! Che gran sollievo, dico
bene?»
Segno di
gratitudine a chissà quale idolo falso il professore
venerasse, un
battito di mani riecheggiò nella sala e la colla che
sigillava la bocca dei
presenti si sciolse, facendoli ingaggiare nelle loro solite ciance,
fuoriuscenti imperterrite come un rigurgito. Solo nella primissima fila
ci fu
un silenzio mortificante.
«…sì.»
Gli rispose l’accusata.
«L’ho
giudicata male, devo ammetterlo. – L’uomo si
grattò il mento glabro –
L’apparenza, sa? Tutta colpa di quei capelli
rossi… un nero, una tinta chiara
chiara, pensaci su un attimo se hai tempo, magari. Sottotono
è sempre il
meglio, secondo me.»
«Ha
ragione.»
Per quanto il
suo cervello fosse in fase di rifiuto più totale, qualche
cellula malfunzionante le fece immaginare una scena momentanea in cui
le sue
ciocche scarlatte si spegnevano sotto uno strato corvino,
finché l’ultimo pelo
naturale che le rimaneva veniva alterato e allo specchio si rifletteva
un’altra
ragazza, non lei.
Forse costei
sarebbe stata la nipote prediletta, la studentessa modello,
l’instancabile lavoratrice, l’amica incorruttibile.
«Ricominciamo
da capo, allora? Hai delle cose interessanti da dire, ne sono
sicuro.»
«O-Okay.»
«Sai,
visto che ti dimostri collaborativa, a differenza di altre, potrai
avere vantaggi anche a partire da oggi! Suppongo che anche alle tue
amiche
piacerebbe farsi una doccia calda, un pasto più sostanzioso
o un cuscino più
morbido… ma si sono giocate la loro chance, peggio per loro.
E poi,
c’è sempre la possibilità di una
riduzione della pena…
Ah, e lo sapeva
che il Team Plasma implementerà un sistema di aiuti
economici per le famiglie in difficoltà? Bonus per la
cultura, opportunità di
reintegrazione nella società, eccetera
eccetera…»
«La
ringrazio.»
Anemone si
sentì quasi di gridare, tant’era sotto pressione.
Preferiva
quando le imponevano dall’alto di fare le cose, era meno
faticoso che scegliere
da sola e doversi addossare i contraccolpi.
Voleva scegliere
la via più semplice, per quello doveva farsi forte. Voleva
soltanto sapere quanto ancora doveva farsi forte pur di essere felice.
Fu sorpresa
nello scoprire di aver migliorato la sua posticcia faccia
contenta. Pareva davvero che le parole del giudice, invece di
instillarle puro
panico avessero avuto un effetto placebo su di lei, ora che gli aveva
detto
cosa volevano sentirsi dire.
Ma che per
favore, non le chiedessero di ripetere quanto aveva detto.
Poteva invece
raccontargli delle altre buone azioni che aveva svolto in
quegli ultimi due mesi; e fra le novantanove che in media si sarebbe
inventata,
alla centesima si sarebbe potuta sentire una totale traditrice.
«Appena
finito gli chiedo di mandarmi in una prigione solo femminile e se
è
vero quello che si dice delle prigioni, io ho ufficialmente vinto il
jackpot.
Camilla? Ritirati, per favor… ah, no, non ce
n’è bisogno. – Le venne un
déjà-vu, non che se ne accorse
o ne esplorasse il contenuto - Visto cosa succede a
specializzarsi nelle
materie umanistiche, tipo archeologia, mitologia… quello che
è, e non in quelle
scientifiche: niente soldi, niente lavoro e niente fidanz…
Partner,
giusto.»
«Obiezione,
vostro onore!»
Il suo monologo
interiore, che avrebbe visto benissimo in bocca al cattivo
di una campagna scadente di un gioco di ruolo che prova troppo a farsi
notare
dagli altri paladini, non riuscì a toccare nessuna delle
fantasie a cui si
sarebbe voluta abbandonare prima che il tremendo sentore tornasse a
infastidirla.
Acromio
fulminò il primo banco come se dalle pupille gli fosse
uscito non
un Braciere, un Incendio.
«Signorina
Calfuray!»
Intanto anche
lei percepì come d’aver già vissuto
quella situazione, in qualche
modo.
«Anemone
sta mentendo! - La ragazzina era balzata in piedi subito come suo
solito, ma già si era chinata per chiedere un consiglio
tattico alla leader –
Eh?! ”Vostro onore” è sbagliato?
– E mentre quella annuiva in apprensione –
Okay, ma allora perché non correggono i film? Mica
è colpa mia se imparo
sbagliato.»
«Fosse
quello! Andare ad obiettare la tua stessa parte… -
L’uomo si girò
dalla parte dei Capipalestra – Aristide. Lei è un
uomo santo, santo, dico. Uh…
non è servita la lezione dell’ultima volta?
Incorreggibile…»
La
più giovane fu per una seconda volta parzialmente
d’accordo con il prof.
Non ne sapeva nulla di politica, di finanza e di legge.
Ma una frase del
genere “a me non interessano i ragazzi” poteva
venir
pronunciata solo da un tipo di persona: una che di sicuro non ha
trovato un
fidanzato a distanza di tre settimane dall’averla
pronunciata. Tale menzogna la
riempì di rabbia.
«Anemone
è lesbica fino al midollo. Non si metterebbe con un maschio
neanche pagata, glielo posso assicurare.»
«Signorina…
questo non è il momenti per scherzare su queste
cose.»
Non che al Team
importasse granché delle preferenze amorose dei suoi
nemici: almeno su quello non stavano zuccherando la loro policy. Uno
può
desiderare quello che vuole nel suo cuore, a patto che lasciasse un
cantuccio
speciale per Ghecis Harmonia e i suoi adorabili progetti riguardanti il
togliere potere alle persone comuni. Poi costui si spostava dal suo
spazietto
ridotto direttamente nell’epicentro.
In
realtà, occultare le prove concrete non stava aiutando la
giovane
pilota. Nonostante avesse svariate volte dubitato della
stabilità del legame
fra le due Capopalestra, Iris non voleva vedere la sua migliore amica
distruggere
le sottili radici sorte sul terreno del suo primo vero innamoramento.
Fare ciò
equivaleva ad autodistruggersi.
«Non
scherzo, lei vi sta dando corda solo perché le mettete
pressione. –
Incrociò le braccia e guardò la rossa negli occhi
– Pure suo nonno lo sa! – E si
girò verso l’anziano Domadraghi – Quando
glielo abbiamo detto le ha fatto i
complimenti e ci ha offerto il gelato. E un coupon per spedizioni al di
sopra
dei 5 chili.»
«Puoi
provarlo in qualche modo?»
«N-No,
come si fa a provare che una persona è
gay…»
«Allora
ti conviene tacere. – Il professore credeva di aver mandato
in
porto un’altra argomentazione, ma la ragazzina rimaneva
più allibita dalla
mancanza di tatto nei confronti dell’argomento per prenderla
sul personale.
Quello poi si rivolse alla sua imputata preferita – Anemone,
cara mia, questo
blaterare non ti concerne affatto, vero?»
«Ecco,
l’ha detto! Hai sentito? L’ha chiamata
“cara”. – Catlina stava
sussurrando all’orecchio della leader - Adesso lei si alza e
lo pesta di botte.
Gli spacca gli occhiali sul naso e poi glieli fa ingoiare.»
«Ti
piacerebbe succedesse, vero?»
La Superquattro
annuì compiaciuta. La violenza fisica la odiava, ma perfino
i pochi neuroni rimasti accesi le suggerivano che Anemone, onesta e
buona qual
era, avrebbe posto fine alla sua sceneggiata in quel momento.
La rossa si
sgranchì le spalle, con uno scrocchio rumoroso si rimise
seduta
in posizione eretta.
«Non
ho idea di che cosa stia dicendo, professore.»
Quando si
reclinò indietro, presa dal rimorso, la platea si mise a
parlottare, ma da davanti a lei venivano le voci più
dilanianti.
«Iris,
scusami.»
Camilla
guardò le altre, confusa ma allo stesso tempo disgustata.
Più di
quando avevano tentato di trascinarla via a forza, si sentiva estranea
al
gruppo.
Non ci credeva
che in tre mesi si sarebbe potuta costruire una solida
amicizia fra di loro, ma dopo già un mese ecco solide
fondamenta, da lì
avrebbero soltanto potuto puntare al cielo e raggiungere le nuvole
tutte
assieme.
Ma la sua
falsità, avevano inghiottito il loro mondo come sabbie
mobili.
Ora lei era fuori dal gruppo, il cinque era quattro, forse tre, andando
avanti
così.
«Dopo
tutto quello che abbiamo passato… Ho fatto anche il tifo per
te
quando stavi per andartene! Perché? Perché? Tu
eri la prescelta! Dovevamo
combattere il Neo Team Plasma, non allearci con
loro…»
«Ragazze…
scusatemi. Sono una codarda. Ancora.
Forse lo
sarò per sempre.»
«Silenzio!
Silenzio! Ah, che dura gestire questo circo… Direi che qui
abbiamo quasi finito! Siamo stati velocissimi oggi. I signori
Capipalestra
hanno qualcosa da ridire?»
In
realtà molti di essi non avevano mai visto la rossa prima
d’ora o
qualora l’avessero mai scorta, non dava loro altro che
soddisfazione di non
conoscerla affatto: almeno una su due interrogate quel giorno pareva
una
ragazza a posto.
«In
tal caso, Anemone. – Acromio estrasse uno stilo elettronico
dalla tasca
del camice e lo porse alla giovane insieme al suo tablet malandato
– Prima di
lasciarti andare, perché sì –
apostrofò implicitamente le Allenatrici –
è più
che possibile evitare una sgradevole figura e l’umiliazione
di fronte a tutta
la regione, con un po’ di educazione.»
«Vi
sta mentendo! Quella ragazza è gay, le piacciono le femmine,
è palese…»
«Non
starò ad ascoltare oltre. Tornando a noi: questo modulo
richiede una
firma elettronica. Tutto qui! Poi ti lasciamo andare. Si tratta di
burocrazia,
è per riabilitarla ad allenare Pokémon,
ovviamente in armonia con le nuove
regolamentazioni stabilite dal nostro ufficio.»
Scorrendo il
contratto, lungo diverse pagine per non invogliare a farsi
leggere, la ragazza notò varie cose.
«”Divito
dell’utilizzo di Strumenti artificiali durante la
lotta”, “divieto
di conferire le Medaglie a chi ha un credito sociale basso”,
“divieto di tenere
i Pokémon dentro le Poké Ball al di fuori della
lotta”?»
Ma
più di quelle clausole ridicole, pensate ad hoc per rendere
la
professione di Allenatore un risibile passatempo, la coscienza che
prima di lei
tutti e otto gli altri Capipalestra avessero ciecamente dato la loro
approvazione… e lei si stava unendo a loro, come uno zombie
si stava facendo aggiungere
alle file dell’armata di burattini Harmonia.
Eppure, per
quanto illogico tutto ciò fosse aveva già
ingrandito la sezione
della firma, per evitare pure una brutta calligrafia. Tutto questo,
solo poiché
non aveva avuto il coraggio di ammettere l’ovvio, quello che
Iris e le sue
compagne sapevano ma che lei ancora era indugiante a rivelare al
pubblico.
Sebbene la sua
farsa le avrebbe permesso di essere l’unica a rivedere la
luce del sole estivo, si sentiva già in gabbia, in una cella
buia in cui nemmeno
la sua ombra poteva darle idea di cosa avesse lasciato morire con le
sue stesse
parole.
Intanto che
inseriva i suoi dati personali, Acromio
s’appropinquò
all’orecchio di lei e tentò di bisbigliare
qualcosa, se non fosse stato che il
microfono era ancora acceso e la sua voce acuta non era facile da
ignorare.
«Ma
senta… questo “partner”… - e
si eccitò fin troppo perché fosse decoroso
per un uomo adulto – è un po’ vaga come
definizione… Non vorrei mai mettere il
carro davanti ai buoi, ma Arceus solo sa quella sua fastidiosissima
amichetta
dalla testolina bucata mi ha messo una pulce
nell’orecchio.»
«Professore,
le chiedo per favore – La Campionessa di Sinnoh
seguì lo
stesso rituale di chi voleva esprimersi, come quando la chiamavano a
leggere un
brano di antologia in classe – mi dia una
possibilità per capire un po’ cosa
c’è sotto questo “partner”. Ho
un’idea che vorrei provare.»
«Ah…
E chi le ferma più adesso… A questo punto, non
che tu possa farci
molto, signorina Camilla…»
«Campionessa
Kuroi!»
«…la
scena è tutta sua.»
E si fece da
parte. La donna sorrise per la sua piccola conquista ed
iniziò.
«Buongiorno,
di nuovo. – Fece un inchino, ricordando di essere ormai
condannata ed odiata pressocché da tutti là
dentro – Volevo capire meglio,
questa cosa del partner, no? Riprendo quello che ha detto Iris, e
allora, ciò
che volevo chiederti è:
se dovessi
scegliere una ragazza fra di noi quattro, chi sceglieresti?»
Acromio si prese
la tempia e scosse la testa, ma con una placida
costernazione, quale si manifesta sentendo una battuta pessima o
assistendo
alla figuraccia di un compare. La rossa aveva manifestato un certo
disagio, non
da lei visto quanto fremeva indicando tutte le idol o le perfino le
passanti
per la strada.
«Camilla,
cosa stai dicendo? – Fece la finta tonta, atteggiamento che
non
le si addiceva per nulla, visto come mostrava i denti in quel sorriso
terrorizzato – Io sono, ehm, eterosessuale, come sai
benissimo.»
«Infatti,
- la prese in contropiede, psicologia inversa – ho detto
“se
dovessi”… Pensa ipoteticamente, se proprio ti
costringessero. Fai finta di
essere quello che non sei, ossia gay, in questa situazione.»
Dalla platea si
manifestò un ululo di interesse; una dimostrazione per
assurdo nell’aula di tribunale li avrebbe tenuti sulle spine,
dovevano
scervellarsi pure loro. Il gioco stava diventando interattivo.
«Okay,
se proprio mi tocca… - rifletté giusto il tempo
di preparare la
battuta - Di sicuro, non te, Camilla.»
Qualcuno si era
già messo a ridacchiare, ma l’inquisitrice non
demorse e la
prese con sportività.
«Perché?
Su, vogliamo sapere.»
«Perché?
Sei perfetta, di viso, di corpo e di aspetto in generale, ma non
sai impegnarti seriamente… - le venne in mente
l’accusa di infedeltà lanciatale
un’ora prima – E sei troppo accondiscendente. Ah, e
hai dei gusti musicali
schifosi: ti credi alternativa, ad ascoltare heavy e black metal a
vent’anni?»
«Capito,
okay. – L’indifferenza della bionda le permise di
proseguire con
la sua tattica – E Catlina?»
La potenziale
candidata si guardò intorno spaventata, come se si fosse
svegliata e ritrovata in sala come in un brutto sogno, quelli dove ci
si trova
in mutande in uno spazio pubblico della propria quotidianità.
«Eh,
più o meno la stessa storia… Ha stile e poi,
diciamocelo, è piena di
soldi. Ma cosa faremmo insieme? Non abbiamo interessi in comune. Non
posso
neppure portarla in aereo con me, rischia di svenirmi addosso o di
crepare,
come minimo e io i danni non glieli risarcisco.»
«Anche
io ti voglio bene.» Le sussurrò la giovane
aristocratica, facendo il
segno tondo di concordo con pollice e indice.
Ormai, avendo
capito le regole, Anemone si portò al punto successivo,
precedendo la leader nell’esposizione.
«No,
neanche morta! N-Nel senso, è la persona più
dolce, simpatica e la
migliore compagna di dance cover che esista sul suolo di
Unima… Ma a quindici
anni sei ancora una bambina! Dai, è troppo presto, ma magari
se passassero un
po’ di anni, e-e se fosse un maschio…»
«Va
bene, okay, chiaro.»
La rossa, che
aveva finora avanzato in maniera così brillantemente
neutrale
fra l’appagare la sete di approvazione del prof e il
mantenere uno stato di
fredda distanza dalle sue ex-compagne, si resse al bracciolo della
sedia, le
mancò il pavimento sotto ai piedi.
No.
Camilla non
poteva odiarla fino a quel punto.
Certo, le aveva
promesso botte assicurate in un futuro non troppo
imminente, ma se stava davvero per toccare quel tasto, almeno poteva
smetterla
di sorriderle in maniera così innocentemente sadica.
«Ma…
- stette un paio di secondi a trascinarsi la vocale e la
addolcì di
veleno caramellato – Camelia? Eh? Neppure lei ti piacerebbe,
giusto?»
«Niente
panico, sono arrivata fin qui con le mie cavolate, possiamo anche
toccare il fondo, scavare fino ad arrivare al centro della Terra e
farci un
bagno di magma.»
«Esattamente.»
«Woah.
– Quando l’aviatrice non le rispose la
incalzò con ancora più
veemenza – E cosa non ti piace di lei? Tutto,
immagino.»
«Ovviamente!
– Catlina comprese al volo, e non chiese nemmeno il permesso
di intervenire da quanto moriva dalla voglia di vedere dove le avrebbe
trascinate quella catastrofe di un processo – Sono opposti
totali, loro due. Quando
si sono incontrate per la primissima volta si stavano già
per linciare vive a
vicenda.»
«Dai,
buttaci un po’ le “dieci ragioni per cui non mi
metterei con Camelia
Taylor nemmeno se mi puntassero un Iper Raggio alla testa”!
Non so voi, ma io
sono super-curiosa.»
Iris si mise a
sedere a gambe incrociate sul banco, come se le stessero per
versare nella tazza il gossip più succoso della stagione, un
tè bollente e
ricco di sapore nella già torrida estate di
quell’anno.
«Se mi
date l’onore di iniziare, suggerirei di partire con le sue
brutte
intenzioni, la maleducazione e la brutta figura di ieri
sera…»
Acromio si
sfregò le mani per l’entusiasmo. Se si trattava di
seminare
zizzania, non poteva mancare alla festa, doveva addirittura aprire le
danze.
Un terremoto, un
tuono, un incendio, una lavata di testa alle sei del
mattino da parte del suo capo, quali di questi faceva più
terrore alla rossa?
In realtà la più tremenda era lei. Poteva ancora
tirare il freno a mano ed
evitare il crescendo di assurdità che stava accumulando fino
a crearci una
scala dritta dritta verso l’Olimpo delle stupidità.
Comunque lei
sapeva di non star dicendo il vero e lo sapevano le sue
compagne e soprattutto lo sapeva la sua ragazza, che come suo solito
non si
stava facendo per nulla trasportare, salda nel suo stoicismo, dalle
pagliacciate delle altre. Stava semplicemente lì a guardarla
e negli occhi
poteva leggerle così tanti segnali da non riuscire nemmeno
ad interpretarli,
come quando l’avevano intrappolata nel loro vortice di
emozioni nel garage e
aveva dovuto aspettare di giungere sull’orlo del precipizio
per scioglierne
l’enigma.
«Camelia,
amore mio, scusami… Scusami, scusami, scusami, scusami,
scusami, scusami,
ah, no, dire “scusa” la fa imbestialire, non so
essere una brava fidanzata
nemmeno nei miei filmini mentali, uh…»
Alla fine, senza
alcun preavviso, qualcosa la colpì.
La
lasciò stordita, visto che la fece riemergere con la testa
dalla foce di
insanità nella quale stava raschiando il fondale, aspettando
di venire
spiaccicata da metri cubi di idiozie, prese una boccata di buon senso
ma col
risultato di uscirne ancora più fradicia di quando
s’era tuffata.
Questo per dire
che se a venirle contro fosse stata un’altra ideona o un
nobile sentimento, non si sarebbe immediatamente chinata in preda al
dolore.
Bastoni e pietre potevano spezzarle le ossa, ma le parole, le opinioni
e le
voci di corridoio non le avrebbero mai fatto nulla.
E non le
avrebbero nemmeno fatto sanguinare una narice, costringendola a
pulirsi con la mano il sangue colante fino al labbro superiore,
perché quello
che le era stato lanciato contro, con ovvio intento di colpirla fra
l’altro,
era una scarpa mezza rattoppata dalla suola dura e pure incrostata di
minuscoli
sassolini, andatisi a stampare sul volto della giovane aviatrice.
Tirò
su con il naso, il liquido ematico misto al muco le bloccò
il flusso
d’aria e tutto le si riversò nella bocca,
facendole assaggiare quanto schifo
facessero le sue affermazioni, e dopo aver coinvolto gusto, odorato e
la vista
udì il cielo sbragarsi, lo stesso fulmine che
l’aveva incenerita ricordandole
di essere un’ipocrita, perlopiù con addosso
vestiti di seconda mano.
«Che
bastarda che sei.»
Perfino
indossando la stessa uniforme di Camelia, la sua pareva un pezzo di
alta moda, quei capi che vedeva nelle sfilate o nelle riviste dei duty
free e
si arrendeva a capirne il fascino; le stava stretta sui fianchi e
scendeva in
stile baggy, senza nessun ritocco di sartoria.
La mora si
alzò con la sua calma, mentre tutti si erano già
prevenuti con
le mani sopra la testa, il giudice era balzato all’indietro
gridando come una
cortigiana dell’Ottocento che vede un ratto, dal grido
strizzato dal bustino.
Come se
l’intero auditorio fosse scomparso e nell’intero
universo fossero
rimaste solo loro due: l’esercito di mostri che la
più giovane delle due
Capopalestra non solo appariva di troppo, intorpidendo il loro spazio
sacro,
l’essere in sovrannumero con così tanti peccati le
ricordò come l’altra si
fosse fatta arrestare ufficialmente, ma appariva pulita ed innocente.
Lei, a
differenza sua, aveva l’anima nera, o verde, dopo i
versamenti promessi dal
partito per comprarsi le sue menzogne.
«Una
bastarda bugiarda. – Si passò la mano sulla
frangia, sospirò delusa e
la sentirono tutti – Ti ricordi cosa mi avevi promesso, il
primo di luglio?»
Dietro quei
profondi occhi blu c’era la verità più
dolce. Come un
incantesimo purificatore, avrebbe potuto cancellare tutto
l’odio e il
risentimento semplicemente recitandolo.
Anemone
si morse il labbro ancora
arrossato dall’epistassi, le stava per scivolare dalla lingua.
«A
prossimo intervento senza pertinenza mi vedrò costretto
a…»
Acromio
cominciò a battere furiosamente il martelletto, non
suscitando
molta autorità.
La modella gli
lanciò un sorriso di quando aveva qualcosa in mente e
avrebbe usato ogni mezzo a lei disponibile per togliersi quello sfizio.
«Hey,
prof. Quest processo andrà in diretta live, vero?»
«Certo
che sì. – Mostrò con il palmo
un’ingombrante cinepresa proprio sul
retro della stanza, nessuno vi aveva prestato attenzione, quindi il
cameraman,
un individuo alto, dal delizioso ciuffo mielato e due occhi esperti su
cosa
piace agli spettatori più insoddisfabili, le fece
“ciao” con la mano – Con gli
ascolti di ieri, sarebbe uno spreco…»
«Beh,
allora slegami un attimo. – L’assistente alla regia
sganciò le
manette – Ho un enorme annuncio da fare.»
La ragazza
salì in piedi sul banco, già slanciata di statura
com’era il
resto della gente da quell’altezza poteva calpestarlo con il
piede nudo, dalle
unghie ancora miracolosamente intatte.
«Ciao,
Unima. Vi sono mancata?»
Regalò
il suo profilo migliore alla videocamera, che i suoi occhi seguivano
come solo un’esperta del settore del commercio della propria
immagine sa fare,
e riprese.
«Questa
ragazza è lesbica marcia.» Abbassò il
microfono a cono.
«Oh!»
La folla echeggiò.
«E
anche una bugiarda, meschina senza un minimo di ritegno. –
Scagliò una
folgore con lo sguardo alla sua “partner”,
dall’alto verso il basso la squadrò
come quando ancora la sola idea di essere in sua presenza la disgustava
–
Basta, fra noi è finita.
Trovati
un’altra che stia dietro al tuo fondoschiena represso, io ho
chiuso
con te.»
Le tre compagne
sedute dietro le caviglie della giovane erano a metà fra lo
scoppiare a ridere per lo spasso di quel colpo di scena o se piangere
di aver
visto non la più appassionante, ma l’unica love
story dell’estate morire in
prima persona. E Nardo, che diceva loro di non fare i tira-e-molla come
nei
reality show!
Intanto, altri
ottanta milioni di cittadini quella sera avrebbero acceso la
tv, aspettandosi il telegiornale delle sei, i resoconti dei fatti di
cronaca
seria e invece si ritrovavano due adolescenti ed il segretario del
Partito in
teoria più autorevole a stabilire se una delle due fosse
eterosessuale o no.
«Camelia,
cosa vuoi “rompere”? Noi due non siamo mai state
insieme come una
coppia seria.»
Incrociando le
mani sotto il petto, Anemone volle prendersi gioco di se
stessa.
Se lo meritava:
adesso aveva perso tutto. La faccia, la sua integrità, le
natiche
bianche della ragazza più sexy del mondo su cui non aveva
ancora avuto
occasione di sprofondare con il viso, come aveva visto fare nei fumetti
di
dubbio gusto che leggeva quando si sentiva ribelle, a mezzanotte.
Non si sentiva
un clown, lei era l’incarnazione di un intero circo.
«Questo
perché tu non ti sforzi nemmeno di prenderla seriamente: ti
ricordi
tutti quei codici e quelle formule inutili a memoria ma… il
nostro
anniversario? Di portarmi a cena fuori? Di andare a vedere una sfilata
assieme?»
«Che
cose noiose, se tu ti diverti così… ma aspetta! -
La ragazza fece
riverberare le mani, voleva difendersi almeno da quello che sapeva
benissimo
essere irreale – ma quando mi hai mai chiesto cose del
genere? – e fece una
risatina nasale - Sono delle conversazioni speciali? A che livello le
sblocco?»
«Vedi?
Non mi ascolti mai, - enfatizzò, lettera per lettera
– mai. Per te è
tutto un “io, io, io!” Sei regredita
all’infanzia, cosa vuoi saperne di
organizzare un appuntamento…»
Avrebbero potuto
chiuderla lì, mettendoci una pietra sopra che doveva
pesare quanto pesava alla loro coscienza di essere in procinto di venir
sbattute in prigione, entrambe.
Ma anche Anemone
si alzò in piedi sul tavolo, con una sferzata azione
riuscì a rompere la catenella delle manette; portatasi
all’altezza della sua
avversaria l’avrebbe affrontata a parole.
Non le era mai
capitato prima d’ora, non che lo trovasse alcunché
divertente.
«Credo
che per te non conti nulla come “appuntamento”, se
per lo meno non
finisci a limonare con cinque uomini diversi nel bagno di una discoteca
per
ricconi mentre un sesto tizio, che tra l’altro era il tuo
vecchio stilista e
“migliore amico”, ti fa il video!»
«Tu
come sai queste cose!? Di solito sei più disconnessa di un
Interpoké in
Modalità Aereo.»
Anche se si era
liberata e con un bel balzo con propulsione delle sue gambe
lunghe avrebbe potuto giungere davanti a lei e attaccarla con un pugno
o un
calcio, la mora non si scompose. Quel dibattito stava eviscerando le
sue
freddure migliori e la faccia scombussolata della sua ex la spingeva ad
andare
avanti con sempre meno peli sulla lingua.
«Io mi
informo sulle cose di cui mi importa! Invece tu non sai nemmeno che
gusto di Conostropoli mi piaccia o qual è la mia serie
preferita …»
Provò
a giocare sulle piccole gocce che avevano fatto traboccare la loro
urna d’amore, Iris le aveva fatto da maestra in questo.
«Certo
che la so! Si chiama “preferisco dei personaggi immaginari
alla mia
relazione attuale perché sono una seccatura vivente che non
si accontenta di
nulla”.»
«Sai
cosa?» Anemone le urlò fortissimo, stanca di usare
esempi concreti.
«Eh?»
Disprezzava seriamente quell’atteggiamento di menefreghismo
della
modella, l’occhio che aveva chiuso su di esso si era aperto
come quello di un
deva illuminato.
«Mi
dai così sui nervi quando fai così!»
«Specchio
riflesso… te ne servirà uno nuovo, penso che
tutti gli specchi
che hai a casa si creperanno se non ti ricordo che colore di fondotinta
devi
usare o di metterti la crema idratante ogni sera. Veramente, chi me lo
ha fatto
fare…»
«R-Ragazze,
p-per favore… - Acromio provò a dividere le due,
ponendosi fra
i due banchi, ma notando quanto la sua interruzione stesse arruffando
le penne
alle innervosite litiganti, si coprì la testa con il tablet,
non che ora gli
importasse molto se avessero fracassato l’aggeggio. Solo, non
mirassero alla
sua biondissima, affusolata, brillante e soprattutto preziosa capoccia!
- I
vostri problemi personali non sono affare che…»
«Professore,
stia zitto.»
«Campionessa
Kuroi!»
«Queste
ragazze stanno avendo il loro primo litigio! Le lasci fare. Stanno
imparando a conoscersi a vicenda.»
«Camilla,
ora che ci penso, neanche tu mi hai mai portata fuori a bere un
tè o a fare shopping…»
«Catlina,
non è il momento ora, non si sta parlando di te.»
La biondina fece
il muso, intanto che la tempesta infuriava.
«Per
fortuna doveva essere destino! Mi hai risparmiato la fatica, ci
vediamo all’inferno!»
«Ah,
e smettila di parlare come se
fossi in uno dei tuoi anime da disadattati sociali, sei
imbarazzante…»
«Lo
farò quando mi tornerà voglia di venire
insultata, umiliata in diretta
regionale e comandata a bacchetta dalla mia ragazza!»
«Oh?!»
La sala intera
risuonò di stupore, la sottile linea che separava la giovane
aviatrice dalla pazzia era stata valicata con un carpiato. Subito
quella provò
a ricomporsi. Ma ormai la bomba era già esplosa.
«S-Scusate,
intendevo… la mia migliore amica!»
«Sei
patetica, dai.» Le arrivò dalla piccola del loro
gruppo, ormai
cosciente che le acque si fossero calmate.
Anemone si rese
conto di non aver scampo, le relazioni interpersonali non
erano il suo forte: come un filo capriccioso si intorcolavano intorno
ai suoi
piedi, la facevano camminare in punta e piroettare intorno ad un asse
che non
comprendeva nessuna delle cose in cui credeva.
Suo nonno
sarebbe stato amareggiato. Non avrebbe voluto la carità dai
tecnocrati dei sentimenti.
Avrebbe voluto
invece vedere sua nipote levarsi le sue magliette oversize
sgualcite, in favore di un bel vestito a balze ed una collana di perle,
mentre
accompagnava la sua amata per le stradine silenziose di Ponentopoli,
dopo una
bella cenetta a lume di candela.
Gli avrebbe
offerto il suo divano, potevano stare accoccolate sotto le
coperte nelle serate invernali a guardare film paurosi, per avere una
scusa
dopo per dormire nello stesso letto e consolare la prima fra le due a
fare un
brutto sogno.
«S-Sono
etero…»
«Ieri
non lo eri.»
Nessun genitore
vorrebbe vedere la propria figlia soffrire, ogni genitore
vorrebbe estirpare la radice del male dal cuore di lei e farla vivere
felice,
anche a costo di farle versare qualche fredda lacrima in aggiunta.
La rossa
ripensò a ciò che oltre ogni
materialità, lei riteneva davvero
importante.
«…di
amarci sempre, di non tradirci l’un l’altra, non
mentire e non
abbandonare l’altra, di volerci bene anche quando nessuno te
ne vorrà e non
dubitare mai della fedeltà
dell’altra…» Sussurrò.
Senza nemmeno
sbattere le ciglia, gli angoli delle palpebre si fecero
pesanti e due ruscelli cristallini, per nulla dolorosi, discesero sulle
sue
guance ambrate; non si passò nemmeno una mano per
asciugarli, la stavano
purificando.
Se
quella realizzazione, prima
avvenuta nel privato della conversazione con Fedio ed ora alla luce del
sole,
le avesse causato soltanto male, era sicura che il sorriso dolce di
Camelia e
le sue braccia aperte, pronte per reggerla in un abbraccio, non
sarebbero state
lì come ultimo raggio di speranza negli istanti precedenti
al venire
incarcerata insieme a lei.
Sarebbero state
separate da sbarre, muri e telecamere di sicurezza, ma
l’aver amato veramente almeno una volta nella loro breve
adolescenza avrebbe
attenuato ogni futuro patimento.
«Okay,
va bene, sono lesbica.»
«Yay!»
E si
gettò a capofitto in braccio alla sua fidanzata, mentre le
loro tre
compagne le fecero un applauso sentito.
Quella sfuriata
era stata un capro espiatorio geniale. La rossa si
continuava a sfocare sulla spalla dell’altra, che le batteva
la testa affettuosamente.
Aveva bisogno che quei demoni uscissero, anche se le avrebbero
inumidito
l’uniforme già sozza non le importava. Se ne
sarebbe fatta peso per lei.
Camelia aveva
vissuto senza badare alle malelingue altrui, era il momento
che anche la sua ragazza imparasse a non sopravvalutare il potere di
individui
troppo sbilanciati dall’odio per decidere il meglio per lei.
C’era
di peggio del venire discriminata per il proprio orientamento
sessuale, pensava la modella, La sua compagna però non ci
era ancora arrivata,
perché portava quel peso da sola e una volta che glielo
aveva urlato contro,
ancora, era il suo turno di portare in mano il suo fragile cuore,
finché il
Team Plasma non glielo avrebbe fatto deporre fra le sue memorie
più belle,
anche se non le sarebbe tornato indietro mai più.
«Siete
dei codardi e degli omofobi.»
Camelia
parlò con tutto il disgusto che il suo tono serpentino
potesse
incanalare, incurante della reazione del prof, ormai volenteroso di non
indire
ulteriori sedute, non prima di essersi fatto una tisana ed una
manicure.»
«Avete
fatto piangere una povera ragazza sensibile…»
«Grazie…
ti amo.» Sentì un dolce sussurro.
❁
È un
anno a caso della prima metà del ventunesimo secolo, verso
fine
luglio.
Non sai
esattamente che giorno o che ora sia, questo perché le
autorità
possedenti una visione completa della storia tacciono questi dettagli
volutamente: Non ci sono finestre né orologi, qui dentro.
Potrebbero essere
passate tre ore come venti minuti, ma anche si trovasse un rudimentale
metodo
di calcolo in frazione della stanchezza su impazienza, non è
stato comunque
dettato alcun time up all’attesa nel limbo.
Il pasto
arriverà quando arriverà… fra tre ore
o venti ore, giù di lì.
In secondo
luogo, qua dentro fa caldo. Il caldo delle ramen’ya senza il
riciclo dell’aria, del vapore fitto e odoroso che riempie i
polmoni senza però
mai lasciarli abituarsi; il caldo delle fonderie in una fabbrica di
forni; Il
caldo del bagno bollente che lascia le grinze sulle dita, e anche
dentro la
trachea e ai bronchi, tutto si fa stantio, respirare diventa difficile.
Peggio di
respirare è solo trasportare il poco ossigeno al cervello
per
formulare pensieri coerenti. Agire senza dover sentire odore di sudore,
di
chiuso, di uova marce era di gran lunga meno impegnativo.
Ci si annoia un
sacco, senza ragionare. Non si riesce a conversare o ad
intrattenersi. Ovviamente, una buona distrazione è
rimembrare il passato,
episodi imbarazzanti, delusioni amorose, scene della vita da cancellare
e che
invece si ammucchiano lì, impuzzando ancor più
l’aria.
Come mantieni la
lucidità mentale? Ogni suono dà fastidio. Il
contatto è
sgradito a tutti.
Sopravvivi.
Piano piano. Con il decoro che bere da un secchio senza
bicchiere uno può ambire a mantenere.
«Ferma
lì, cosa stai facendo?!»
Anemone
saltò dalla sua metà di letto, le altre tre
ragazze la udirono con
prevenuto timore.
«Sto
morendo di sete. – Non seppero come leggere il rifiuto di
contatto
visivo della biondina, poteva starla provocando o voleva forse solo
fare l’insofferente
– Mi fa male la gola, ho parlato troppo.»
«Cat,
hai detto tre frasi in croce.»
La rossa
provò ad alzarla dal braccio e solamente l’arto si
sollevava. Non
capiva se quella non volesse allontanarsi da terra o le gambe le
fossero venute
meno e avrebbe dovuto lasciarla sul pavimento tutta la notte, quindi
insistette.
«Starò
benone. Non mi fa differenza il sale. Sopporto
tranquillamente.»
«Sei
finita in ambulanza per una lampadina bruciata, non contarci
troppo.»
Colei che era
seduta a terra mise le mani a coppa e non fece in tempo a
portarsi alla bocca mezzo sorso che la rossa aveva calciato con forza
il
secchio, facendolo volare contro il muro, sortendo l’effetto
di non dare
momento alla compagna di recuperare il contenitore prima che tutto il
liquido
non fosse finito in una pozzanghera nera come il catrame
sull’asfalto
diroccato.
«E tu
sei finita in carcere per evasione fiscale.»
Il reato di
negligenza è sempre un reato. Certo, se non si fosse
ritirata
dal liceo prima di cominciare il corso di economia, Anemone avrebbe
avuto da
discuterne con il giudice con più veemenza; non essere una
cima in contabilità
era meno logorante per la sua reputazione.
Alla fine, aveva
combinato soltanto di rinforzare lo stereotipo che le
lesbiche non sanno fare la matematica.
«Ah!»
«Cami,
tutto okay?»
«Non
so, un’unghia strappata conta come
“okay”? – La mora non aveva
preservato affatto la morbidezza concessale al processo – Mi
esce anche sangue…
io non ci arrivo viva alla fine di questa cosa.»
Si
lamentò e lasciò trapelare lo stesso tono
arrendevole e isterico
uscitole solo la volta della crisi in garage. Ma almeno in quel caso su
dieci
dita ogni french era al suo posto, la frangia non le graffiava le
ciglia e le
radici bionde erano state coperte per bene da uno dei parrucchieri
migliori
della sua città.
Ma piuttosto che
il suo aspetto increscioso, il fallimento dell’impresa in
cui si stava impegnando da non si sa quanto esattamente
l’aveva lasciata con la
bocca amara (non salata, almeno): la serratura non si poteva forzare.
Aveva
provato con cocci di vetro, bastoncini di metallo a mo’ di
piede di porco,
finché per disperazione aveva sacrificato l’unghia
infilandola fra le
intercapedini per far slittare il cardine. E ora aveva il pollice rosso
e
bruciante.
«Pensate
che forse – Catlina fece, dal pavimento – quando
sconteremo la
nostra pena, un giorno ci ri-incontreremo?»
Anticipare
quella domanda, destinata agli ultimi tramonti d’agosto le
fece
male al cuore.
«Perché
no? – La rossa riprese ingenuamente, dimostrando quanto i
suoi
cambi d’umore adesso fossero assimilabili a vera e propria
bipolarità – Io e la
mia ragazza vi accoglieremmo a braccia aperte!»
«…sotto
il ponte in cui ci ritroveremo a vivere, sempre se non ci ammazzano
prima.» La completò la modella, o meglio, futura
disoccupata senza molte skill
con cui rimettersi sul mercato.
«Dimmi
di no! Ho letto su internet che nelle prigioni statali una ragazza
su due viene stuprata!»
Senza neanche
storcere il naso a quel dato poco empirico, continuarono a
discutere.
«Dite
che ci manderanno tutte in una prigione diversa? A parte per Iris,
visto che suo nonno vuole riconvertirla…»
«Sinceramente,
io non farei scambio con nessuna e di dover darla vinta a
quel rachitico di Acro-coso non mi va, ma…
“terapia di riconversione”? – fece
una pausa – Poverina, mi ha fatto troppa pena. Non
è una cosa umana, questa.»
«Nel
senso: noi quattro siamo ormai perdute, delle catastrofi ambulanti,
delle perdenti patentate, delle zavorre umane… - e sorrisero
in coro, dando
tale affermazione per vera senza nessuna lamentela – ma lei
aveva ancora tutta
la vita davanti…»
«Forse
avrei dovuto essere più gentile con lei in questi
mesi…»
«Camelia,
hai detto qualcosa?»
«C-Chi?
Io? N-No…» Alzò le sopracciglia e le
guance si imporporarono
leggermente.
Ella si sedette
dando la schiena alla porta, la sua fidanzata al suo fianco
abbandonò la testa sulla sua spalla, per quanto i capelli
unti era sicura non
erano la cosa più romantica del mondo.
Stettero in
silenzio, stavolta riempiendolo di un niente terapeutico. Erano
già entrate nel Samsara, la vita terrena, i loro patimenti
individuali
rimanevano come giocattoli rotti, involuti.
Si avvicinava la
fine. Mancava un giorno, dopotutto.
Chissà
quante nuove canzoni sarebbero state rilasciate, quante news arretrate,
quante partite, quanti volti non avrebbero nemmeno potuto immaginare di
incontrare. E mentre il mondo girava, loro avrebbero perso la loro
giovinezza:
ogni anno, anche dopo la loro scarcerazione avrebbe intravisto una su
quattro
delle stagioni, un lungo, freddo, sterile inverno.
Inverno eterno
nel cuore delle Allenatrici, come nel cuore di tutta la
regione di Unima.
«Non
è meglio così?»
Camilla sentiva
la mancanza della brezza che aveva trasportato i suoi
pensieri espressi con voce, sulla terrazza della Lega, il primo giorno
d’estate. Ora la claustrofobia della sua testa, piena di
pessimismo da un lato
e dalla paura della paura stessa, dal trattenersi dalla psicosi
dall’altra, la
stava facendo parlare ancora con sé, di malavoglia.
Le tre la
stettero ad ascoltare, come se quello fosse un lamento funebre:
per essere flebile come un sussurro, risuonò nella tomba dei
loro corpi, come
una campana asettica.
«Un’intera
regione che si inchina di fronte a un despota… dove non
esiste
diversità di pensiero, di opinione, dove non esiste proprio
libertà… non voglio
vedere nemmeno l’ombra di una società del genere.
O un domani del genere.
Che bene
può fare, Ghecis Harmonia? Unire il popolo sotto il suo
vessillo
di ipocrisia e menzogne… Non voglio neanche sapere cosa
succederà, mi viene la
nausea solo a pensarlo! Le persone non in grazia del Partito perderanno
i loro
Pokémon, non ci sarà più equa
competizione, la gestione delle Palestre e dei
tornei sarà un’oligarchia di fedeli al Team
Plasma, le altre regioni ci
vedranno come una dittatura arretrata e miserabile!
Come pensavo,
passare il resto della vita in carcere a questo punto…
è
molto meglio, no?»
Finito il suo
monologo, con le sue apprendiste immobilizzate dal cinismo
insopportabile
di quelle parole, la Campionessa si accovacciò ai piedi del
suo letto,
raggiungendo le altre derelitte sul fondo dell’oceano di
disillusione in cui
lasciavano arrugginire le loro anime.
Calò
il silenzio per, serve o non serve dirlo, un ammontare indefinito di
tempo.
La sconfitta
vera e propria stava quindi nella serenità con cui stavano
accettando, inesorabilmente, che il loro prezioso tempo si consumasse
con
inclemenza.
Missione
compiuta per il Neo Team Plasma, guidato e rifondato dagli
Harmonia, tenuto in piedi dal loro esercito di reclute giovanissime.
Niente
più “presto”.
Niente
più “ragazze”.
Niente
più “estate”.
❁
«R-Ragazze…
R-Ragazze… ragazze?»
«Uh? Va de retro, recluta
ics, ipsilon,
zeta-al-quadrato-tutto-sotto-radice-che-si-semplifica!»
«M-Ma quale recluta al
quadrato, sono io, Iris! Perché state già
dormendo?»
«Non l’ho
deciso io… Comunque, perché parli così
strana?»
«S-Strana come? Io sto
bene.»
«S-S-Sembri
un balbuziente! Come ha detto prima la leader, hai freddo? Cosa ti
hanno fatto quelle reclute? Hanno già iniziato a farti la
riconversione sessuale?»
«N-Non mi dici di stare
zitta? M-Mi manca un sacco, c-come ai vecchi
tempi…»
«Iris, non scherzare su
queste cose, per favore!»
«N-Non sto
scherzandoci… Possiamo parlarne quando usciamo di
qui?»
«Senti,
nano da giardino con doppia funzione da teglia per grigliare: se io ti
dico di stare zitta ti stai zitta, e questo è già
un
progresso, ma se ti dico di dirmi se quelle bestie ti hanno fatto del
male tu me lo sei obbligata a dire! Guarda se ti devo spiegare io, come
funziona il bullismo qui…
Aspetta, cosa vuol dire
“quando usciamo da qui”?!»
«Te lo spiego subito. Ma
prima mi prometti una cosa?»
«Spara.»
«Q-Questa
volta mi ascolterete tutte. E p-poi farete esattamente tutto quello
c-che vi dico io. Tutto. Senza eccezioni, p-per quanto vi faccia
t-terrore o vi faccia schifo. D-Dovete fidarvi di me, stavolta. Posso
tirarci fuori tutte. M-Ma ci serve un piano.»
«Okay. Hai il mio
appoggio, cento per cento. Sveglio le altre.»
«G-Grazie per il
supporto, Camelia. Lo apprezzo un sacco.
N-Non voglio davvero che non ci vediamo mai più, o che tu
finisca in carcere. Scusa.»
«…okay.
Allora, che vuoi fare, come prima cosa?»
«M-Mi servono tutte le
vostre coperte, i cuscini e i copri materassi, più
un’oretta di tempo.
Ah, e i vostri reggiseni e le vostre mutande! Tutta la vostra
biancheria intima, datela a me.»
«…uh,
hey, voi altre. Svegliatevi, ora! Ho scelto di dare ascolto a questa
idiota con il cervello congelato, sbrigatevi a fare lo stesso,
così non mi sento un’idiota da sola!»
❁
Behind the Summery Scenery #21
1. Ragazzi,
sapete che ora è? Ora che mamma Momo riversi un po' della
sua immensa canoscienza da skrittrice su di voi, poveri sempliciotti.
Del resto, sappiamo tutti che avete aperto una storia che parla di
Pokémon e tette apposta per espandere la vostra sete di
virtute e canoscienza, per citare Dante sudante su Dante sudante.
Il codice che usa Catlina per
comunicare con Camilla si dice man'yogana (sì,
quell'apostrofo non vi cambia niente, sono solo perfettina io),
più precisamente, l'utilizzo che lei ne fa è
quello della lettura degli ongana. Questo sistema di scrittura del
quinto secolo implica caratteri usati per il loro suono e non il loro
significato. Cat ha scritto il nome giapponese di Camilla, "Shirona"
(che ricordiamo trascrivibile 白
奈、ossia "bianco" come il suo yukata puzzolente e
"rigoglioso", come le sue tette doloranti) come 詩路騈 。
In riguardo all'uso degli alfabeti
nel mondo Pokémon, vi indico questo delizioso
studio fatto dal club di Pokémon di
un'uiversità giapponese.
Edit: so benissimo che i nomi
giapponesi in Pokémon sono scritti tutti in katakana,
perché i bambini non sanno leggere. Preps (e giappiminkia)
stop flaming.
2. Munna, Musharna e il Fumonirico.
Che ricordi! Spero di ispirare qualcuno a rivisitare Pokémon
Nero e Bianco. Quest'anno è il loro decimo anniversario.
3. L'esordio delle reclute con
"Hey, hey, hey!" è riconducibile a due citazioni: Don't stop
me now dei Queen e Icy delle ITZY.
4. Headcanon quali il passato di
Camilla da emo-goth su MySpace e il gruppo di dance cover di Iris e
Anemone sono forniti al pubblico da me e la mia lettrice preferita, che
lascerò anonima
così non potrete cercarla e bullizzarla perché
Momo fa le preferenze, come la vostra prof più odiata del
liceo.
5. Non potete convincermi che
l'infamata di Morgan non sia stato il più alto momento della
televisione italiana degli ultimi 21 anni. La cit. se l'è
meritata eccome.
6. Ebbene sì. Lo hanno
fatto Mystic Messenger, Yuri on Ice ed un sacco di altre serie: questa
è la versione a'la
Momo di Gay or European, direttamente dal musical Legally
Blonde. Abbiamo Iris nel ruolo di Ellie, Acromio fa l'avvocato, Anmone
Architacos(?) fa Mikos e Camelia Carlos. Mi sono divertita un sacco a
scrivere quesa scenetta comica, all'inizio non volevo neppure
inserirla, ma Daisuke-kun mi ha fatta cambiare idea.
7. Sempre parlando di musical:
questi capitoli sono difficili da scrivere, specie senza il mood
adatto. Come avevo già specificato: ambienti chiusi da
claustrofobia, rivalità amplificate, la pazzia che incombe
lentamente. Delle ragazze chiuse in una stanza da una forza misteriosa
più grande di loro, pronte a sacrificare la loro amicizia
pur di rimanere in piedi, le ultime sopravvissute.
Non solo l'opera in
sé, l'atmosfera perfetta per questa prigionia sinistra e
macabra è offerta anche dalla colonna sonora di WEEK END
SURVIVOR, musical del 2015, con protagoniste i membri (ed ex-membri)
delle Kobushi Factory e Sudo Maasa. Cosa? Volevate forse un link
aggratis? No, ragazzi miei. Imparate a supportare i release fisici e
compratevi il cd e il dvd. (Tuttavia dovrei avvisarvi che viene un
pochini di soldini ed è solo in giapponese...) I'm sure
y'all can handle this.
|
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Capitolo 22 *** Girls' Style ***
ESGOTH 3
❁
A story
by: Momo
Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing: 🍦
Seguiteci
su instagram: @esg_ offical_ ig
Early
Summer Girls
❁
Capitolo
22
Girls'
Style
Dita agili
danzavano sui tasti, battendo un monotono tip tap; al posto
dei
brush e degli stop, sul monitor apparivano parentesi, punti
interrogativi, altre
parentesi, sigle alfanumeriche che si consumavano appena il tasto
“invio”
istituiva una nuova sessione.
«Hey,
ho appena
pensato una cosa.»
Dato che il loro
turno andava a coprire le ore più calde, il destinatario di
tale input reagì
solo dopo aver aumentato al massimo la velocità del
ventilatore a muro, l’aria
fredda le frustava le spalle e scuoteva i capelli ricolorati il giorno
della
sua ammissione nel Team.
La sua collega
aveva la stessa capigliatura: la coda alta bianco avorio con le punte
colorate
di giallo, arancio e rosso a rappresentare la Piroturbina del Drago
della
Verità. Gli avevano offerto pure una bandana nera, per
evitare che i ciuffi
ribelli le intralciassero durante operazioni delicate.
Le uniformi del
Team Plasma rivoluzionato univano all’efficacia delle
tecnologie sviluppate dai loro ingenti finanziamenti la sete di
freschezza e
gioventù che aveva prosciugato la vecchia retroguardia,
quella delle pesanti
cappe medievali e del figlio del capo seduto su un trono di promesse
non
mantenute.
Le uniformi in
fibra di cobalto, che riluceva di blu, consentivano una
copertura infrarossi impeccabile: due reclute, una sulla cima del Monte
Vite ed
una in mezzo alle paludi di Mistralopoli, potevano udirsi a vicenda
come sedute una accanto all'altra sul divano di casa.
Era stato
Acromio a proporre e sviluppare l’effetto rifrangenza: si era
vocalmente lamentato con Ghecis, perché accostare il blu al
rosso,
sebbene
simboleggiasse i Draghi della leggenda, risultava un
pugno in un
occhio per uno attento all’apparato estetico e alla
presentazione come lui.
Sempre un suo
suggerimento era lo stemma della casata sulle magliette
scollate e sui pantaloncini corti, rinvenuto su un reperto archeologico
nelle
Rovine Abissali, sepolto nell’oceano. Una lastra recitava in
una lingua
geroglifica lodi nei confronti del re, rappresentato da quella figura
ad
anelli, probabilmente la semplificazione di un disegno del vincitore
della
guerra.
“Il re
è saggio”. “Il re non perde mai la
speranza.” “Il re accetta tutti.”
“Il re è la luce del suo popolo.”
Il resto di
queste iscrizioni era ancora ad agghindarsi di alghe e
crostacei, nelle profondità dove i due fratelli, i principi
Harmonia, avevano
lasciato cadere il loro impero, presi dalla foga della battaglia
sanguinosa in
cui si erano invischiati per la successione.
«Wow,
hai pensato.»
L’altra
recluta,
un’altra scartata dalle azioni sul campo e spostata come
altra addetta alla
sorveglianza, aveva pigramente appoggiato i piedi sull’ampia
scrivania,
dondolando la sedia sulle gambe posteriori.
Durante
l’inverno e
la primavera, il loro lavoro non occupava più di qualche
weekend al mese. Del
resto, il piano di conquista scivolava ancora alla stampa, muovendosi
negli
anfratti del web e dei circoli di malavitosi.
Tuttavia,
arrivata
l’estate, ogni mattina si svegliavano con gli occhi doloranti
per le nottate
passate a controllare registrazioni, segnalare le zone bianche e quelle
dove
poteva esserci il rischio che le loro cimici facessero destare
sospetti.
«Domani
fanno gli
ultimi due processi… e poi? Noi cosa facciamo?»
Nessuna
organizzazione criminale era arrivata così vicina al suo
obiettivo, non c’erano
quindi precedenti di leader pronti a dare la disoccupazione a
centinaia, se non
in casi migliaia, di fedelissime reclute.
«Non
avevi detto
che adesso puoi entrare a quell’università da
fighetti… quella che dicevi ti
aveva bocciata al test di ammissione.»
«Bello,
vero? Mamma
e papà ne saranno contenti! – esultò,
tradendo un’ingenuità non idonea a quel
posto – Ma tu, C, Q e tutte le altre? Va bene, abbiamo i
numeri di telefono, ci
possiamo scrivere in chat, ma…
Tu cosa hai
chiesto,
come premio per esserti unita e tutto?»
«Io?
Volevo
trasferirmi a Johto e fare un corso di disegno lì, ma
siccome sono qua solo da
aprile e faccio schifo a lottare, mi hanno mandata al diavolo.
– Si accese una
sigaretta – Allora gli ho detto “almeno il
biglietto per l’aereo”, e Acromio mi
fa “va bene, zuccherino, amorino, tesorino mio” e
tutte le sbrodolate che quel
finocchio dice…»
Risero assieme,
e se
proprio qualche loro collega voleva mancare alla loro tacita
omertà avrebbero
hackerato le telecamere di sicurezza e quella conversazione era come
mai
avvenuta.
Dopotutto, il
loro
interesse primario era la liberazione dei Pokémon e la pace
sul territorio di
Unima. Leccare i piedi ai loro superiori era una regola, non un
principio.
«Non
vedo l’ora che
tutti i pezzi di fango che abusano i loro Pokémon vengano
processati e mandati in gattabuia. Finalmente il mondo avrà
un po’ di
giustizia.»
«Già,
e tutto il
circuito delle lotte, marcio fino alle fondamenta.»
«Una
settimana,
anzi, meno tempo: poi se proprio sei un sadico che non può
fare a meno di far lottare
i tuoi poveri Pokémon, dai a noi i soldi e noi gli diamo
quella… quella
sostanza… dai, non mi viene il nome…
La droga del
drago strafatto! E così
niente più sofferenza per loro.»
«Sempre
se li
lasciamo lottare… ieri stavo scorrendo la lista nera che
stanno compilando le
altre, con i nomi di chi sta antipatico al Team. Sono qualcosa come
novecento
mega di documento!»
E si
compiacquero
di nuovo, stavolta nel constatare quanto fosse semplice andare
d’accordo fra
reclute. Condividevano tutte la stessa linea di pensiero, per questo si
trovavano lì, a difenderla in prima linea.
Le uniche che
paradossalmente battibeccavano per ogni singola decisione erano proprio
quelle
che dovevano guidarle, non si davano tregua da quando i primi dati
erano stati
inviati alla loro base succursale nella periferia di Sciroccopoli, ora
del
tutto smantellata per non lasciare industrie.
Il loro sogno
era
quello che era stato predicato da due lunghi anni ed ora si stava per
avverare.
Nessuno gliene voglia se con le loro lattine di bevande energizzanti le
due
fecero un brindisi al successo della loro nuova casata.
Bevuto un sorso
dolce come lo champagne proveniente dalle botti più pregiate
delle cantine più
rinomate, la meno disincantata delle due sognatrici lanciò
un’occhiata al
monitor principale, riattivando l’audio mutato per godersi
almeno quella
conversazione.
«Hey,
guarda qua. –
Alzò di due, quattro, otto tacche il volume, desiderosa di
capire cosa stesse
succedendo – Ma sono serie?!»
«No
dai, abbassa! –
fece l’altra, insofferente – Hanno delle voci
troppo irritanti… sembra di
sentire dei Purrloin strangolati, mi fan venire il mal di
testa.»
«Vecchia,
- si
rivolse alla compare, un ghigno le torceva la bocca; subito strinse le
labbra
per lo stupore, stava per sputare una risata – le
ex-Campionesse se le stanno
dando! Di brutto anche!»
«No…
- si precipitò
al suo fianco, aggrappandosi allo schermo con le mani, come a volersi
portare
quei quaranta pollici in alta definizione a contatto con la cornea
– ma fanno
sul serio?»
«Guarda
un po’ tu…»
Non avevano
prestato alcun interesse allo sviluppo e al movente dello scoppio di
tale
rissa, in fondo, come potevano prevederlo? Le prigioniere non erano
libere di muoversi
come a
casa di Nardo. Credevano di aver
sedato ogni
possibile mutamento ai loro rapporti.
Invece, quello
che
l’occhio della verità trasmetteva in diretta per
loro era la più piccola del
gruppo (figurarsi se avessero fatto il minimo sforzo per impararsi i
loro nomi,
talvolta finivano per scambiarle una per l’altra addirittura)
trascinata dal
letto sul pavimento per il collo dell’uniforme.
Si erano perse
una
qualche discussione, mentre le due reclute fantasticavano sulla loro
carriera
futura, quando la loro coscienza si sarebbe liberata del peso di cui si
era
volontariamente sobbarcata, quello di associarsi anche una volta sola
nella
vita alle nefande gesta del Team Plasma.
«L’hanno
buttata
per terra…» Osservò l’una.
Sempre
sollevando
il suo corpicino esile dall’indumento, la mora le
allungò due ceffoni in pieno
viso, talmente potenti da farle sfuggire di mano la presa, lasciando
cadere di
faccia la ragazzina, la quale guaì.
«Oddio!»
Avevano azzerato
tutti i suoi riflessi, cosa che spinse una delle bionde a sferrarle un
bel
calcio sul fianco, mentre l’altra la scavalcò
camminandole con le scarpe sudice
sulla spina dorsale, lasciandole un’impronta bianca sul
tessuto: giunta in
direzione dei piedi, afferrò i capelli violetto,
estirpandoli dalla coda, in
modo da esporre ancora una volta il viso scuro, su cui erano evidenti i
graffi
del cemento.
«Adesso
guarda come
le parte un dente…»
«Puahahahah!»
Un altro calcio,
stavolta in pieno stomaco la fece emettere un grugnito straziato,
togliendole
il respiro. A quel punto la rossa, che avevano individuato come la
più
potenzialmente letale, le diede il colpo di grazia con un gancio in
pieno naso.
«Che
disagio,
ragazzi…»
Insieme a rivoli
di
lacrime ed un viso sfigurato da un’espressione di dolore
sconosciuto ad una
fanciulla così delicata, il sangue inzaccherò il
colletto, goccioline umide
anche sulle labbra e le guance.
Le due erano
come
entrate in trance. Era uno spettacolo orribile. Ma un istinto
primordiale, incantato dalla
grottesca impulsività delle aguzzine, non riusciva a farle
smettere di
guardare.
Appena si
rialzò,
la più piccola del gruppo caricò contro la
leader, ma ancora una delle due
Capopalestra cadute in rovina le bloccò le braccia e la
ricacciò giù, a suon di
ginocchiate. In quattro contro una, perfino le più
inoffensive fra quelle
psicopatiche si erano lasciate trascinare in quella sedizione.
«Hey,
guarda che se
le rompono un osso…»
«Passami
il
telefono, - la interruppe – voglio fare un video e metterlo
sulle storie. Ci
scrivo sotto “l’unica cellula del mio cervello che
ancora crede che Unima sia
la regione peggiore”.»
«Intanto,
che
battuta orribile. – Un altro grido di aiuto la
riportò alla serietà della
situazione – Poi, sai quanto Ghecis ci ha urlato contro per
la storia
dell’ambulanza? Ha detto che non vuole che gli facciamo
spendere soldi per la
campagna elettorale per mandare ‘sti casi umani in
ospedale.»
«Che
noiosa che
sei… quindi dobbiamo fermarle?»
«Beh,
dai, non “dobbiamo”,
in teoria… ci conviene, se non vuoi tornare a lavorare alla
discarica di
Zondopoli!»
«Stai
calma, mamma
mia, sei pesante come loro…» Roteò gli
occhi, poi si spostò dalla sua
poltroncina comoda per afferrare un walkie-talkie da passare
all’altra recluta.
«Che
vita di… -
prima che potesse completare la sua constatazione, il ronzio del
ricevitore le
ricordò di dover mantenere una certa
professionalità – Qui ala otto tre sette,
settore video-sorveglianza. Le tipe qua, si pestano neanche fossero in
un
picchiaduro.»
«Ah!
Guarda come le
ha ribaltato il braccio! Se la bionda glielo spacca, ti offro un
bubble-tea.»
«Hey,
C! Ti passo
il link adesso. – Rispose al quesito della sua amica e
collega, alquanto
spazientita - Ma che ne so! Sai che a loro se gli parte
l’embolo inverso sono
capaci di questo e altro. Dopo due mesi che stiamo a spiarle, alla fine
dovevamo aspettarcelo da queste mongoloidi.»
«Pff,
dai, muoviti,
o dobbiamo andare a tirare su avanzi di bambina spiaccicata dalle
pareti.»
«Mandate
tre o
quattro persone a dirgli di piantarla, per amor del Cielo. –
un “mettimi giù!”
si infilò nella loro comunicazione ed infine aggiunse pure
– No, scherzavo, fai
sette o otto, e di quelle forti, mi raccomando.»
Le due si
lanciarono
occhiate perplesse. Sapevano, nel fondo dei loro cuori sciupati dal
materialismo, che loro non sarebbero state le protagoniste di quella
faccenda
losca, ma mere spettatrici. Del resto, erano entrate nel grande schema
delle
cose da dietro una telecamera e solo da lì sarebbero uscite
di scena.
«Passo
e chiudo.»
❁
Si spostarono a
schiera, a passo svelto lungo gli intricati corridoi
foderati di cemento armato. Le reclute del Team, radunatesi per sedare
il
tumulto ma senza la più pallida idea di che procedura
seguire, si dirigevano
alla cella situata del sotterraneo, nel settore più interno
ed inaccessibile: ricordarsi dove
svoltare
risultava difficile pure a loro.
Anche una fosse
riuscita a scappare dall’interno, non avrebbe trovato
l’uscita prima che l’allarme rosso facesse
lampeggiare l’intera area, rallentando
la fuga e riportandola sotto la mano del potere.
E poi, per ogni
trasferta le avevano tenute bendate: non potevano quindi aver
memorizzato il percorso.
«Se
una di quelle
bestie di Giratina mi tocca soltanto, giuro che gli distribuisco io il
resto.»
«State
fuori in
due, ci serve un palo.»
Se da dentro non
si
vedeva neanche un’insenatura a fare da maniglia, dopo aver
ruotato il quadrante
in una specifica combinazione, scostato un paio di spranghe e maledetto
il
sistema carcerario della regione per aver concesso loro in uso quella
catapecchia con una tecnologia risalente a non dopo il
millennio,
quando il budget gli avrebbe potuto concedere almeno un riconoscimento
ad
impronte digitali, quello che era incorporato gratuitamente nei loro
smartphone, gratis per di più.
«Che
vergogna,
guarda se dobbiamo fargli noi da babysitter…»
«Aiutatemi,
vi
prego!»
Sentirono
quell’urlo disperato ancora, non sembrava provenire dalla
bocca o dalla gola,
ma dal corpo tumefatto nella sua interezza. Accasciata sul pavimento,
incurante
della ghiaia e della terra che si era appiccicata al suo viso bagnato,
stava
Iris Calfuray, nata il quattro marzo a Boreduopoli, ed il testo della
tiritera
che non gli era servita granché a scopo pratico.
Come se non
fosse
stato abbastanza, la rossa palestrata aveva fra le mani un grosso
mattone
scalcinato, con gli occhi iniettati di furia, pronta a spaccarglielo
sul cranio.
«Prendetele
e
tenetele ferme, subito!»
«Mollami,
ti ho
detto, mollami!»
In punta dei
piedi
per non pestare la vittima inerme, con goffaggine una
atterrò l’aristocratica,
Camilla finì in un angolo dopo aver indietreggiato
eccessivamente; la modella
richiese un paio di misure drastiche. Prima le
immobilizzarono le braccia
dietro la schiena e poi gliele torsero, visto che aveva preso a
dimenarsi e
lanciare ingiurie.
Anemone alla
fine: una
di loro non riusciva a trattenerla e ogni volta che si aggrappava alle
sue spalle
robuste, uno strattone la faceva barcollare in maniera imbarazzante:
per
fortuna che si erano portate dei rinforzi, in due per braccio le fecero
pure
cadere di mano la sua arma improvvisata.
«Prima
che tiro
fuori il mio Sawk e vi rigiro le poppe sulla schiena, che cosa vi
è preso?!»
Ringhiò
sull’orecchio della mora, che scalciò infastidita.
«Non
ascoltatele,
stanno mentendo… - il torso della ragazzina era voltato
verso di loro,
guardandole come se non le rimanessero che il buon Dio e le loro
nemiche
giurate da supplicare – Sono cattive…»
«Questa
selvaggia
lurida ci ha attaccato qualcosa!»
Senza un soffio
di
femminilità, la voce dell’ex-aviatrice
rimbombò e l’impeto rabbioso con cui si
scosse mise alla prova la sicurezza della presa.
«Ci
siamo prese la
peste per colpa sua! – Camilla tossì due volte, se
non si fosse subito arresa
la recluta addetta non avrebbe mollato solo per pulirsi sui pantaloni
– arrestatela e portatela lontana da me, entro
oggi.»
«Ma
cosa… Vi ha
infettato? Cos’è, una malattia?» Chiese
una di loro, serissima.
«Ci
avete tenute
chiuse dentro qua con lei per una settimana! E ci ha attaccato un
qualcosa,
direttamente dal suo schifo di villaggio imbucato sul confine di
Unima… dove la
gente non si lava, a quanto pare!»
«Che
sfiga…»
Ribatté un’altra seguace del Team.
D’un
tratto, Iris
si appese alla gamba bianca di costei, guadagnandosi una spinta
disgustata:
l’ideale di unità presumeva che si rifiutasse il
razzismo, ma venire contagiata
anche lei da quella specie di sub-umane era comunque sgradevole.
«Vi
giuro, vi
giuro, - riconobbero quell’espressione dalla scenata fatta
davanti a suo nonno,
un altro pezzo storico di comicità avanguardista –
non c’entro… Io non c’entro!
N-Non ho fatto niente, non sono infettata, vi
giuro…»
Si
soffocò nei
singhiozzi. Non l’avevano ancora vista piangere
così sonoramente. Come già
ribadito, uno spettacolo agghiacciante, si fosse trattato di un
alleato. Ma
quelle erano le nemiche, quindi si atteggiavano come a vedere il
ketchup nei
film splatter: deluse, ma non sorprese.
«Sta
zitta! Io ti
ammazzo di botte, fosse l’ultima cosa che faccio!»
«Ih!»
La fece
squittire, quel tono intimidatorio.
«Fermi
un attimo, -
s’intromise quella che doveva essere la più
anziana o la più sveglia delle
reclute lì presenti – Come sappiamo che non state
fingendo? Che virus, che
malattia è?»
«Avete
prove, eh?
No che non le avete, pezzi di spazzatura.» Le fece eco
un’altra.
D’un
tratto, Catlina
si fece avanti, senza riserbo, si sbottonò
l’uniforme fino al terzo bottone, mostrando
l’area compresa fra lo sterno e la clavicola in un triangolo
con angoli sulle
spalle: ma non solo lì, pure sotto il collo e sui bicipiti,
macchie violacee,
su cui i capillari rotti facevano capolino come nervature di una foglia
secca,
si estendevano e la sembravano voler tappezzare tutta.
«Ahahahahahah,
buona morte a tutte!»
«Chissà
se si
trasmette anche ai Pokémon… la febbre e il
raffreddore si passano, questa è
tipo la stessa cosa, secondo me.»
Non
controllarono
le altre: molte di quelle ragazzette impressionabili aveva
già in mente di procurarsi
disinfettante per le mani ed un paio di prescrizioni antibiotiche
subito finito
il loro turno.
«Che
schifo, mamma
mia… Cosa facciamo?»
«Le
lasciamo qua e
vediamo chi esce viva da questo casino. E noi intanto andiamo lontane
da qua, a
distanza di sicurezza, per favore.»
Le quattro
stavano
ancora scalpitando; al contrario, nessuna aveva neppure alzato un dito
per
allungare una mano e tirare su la derelitta.
«Si ma
i processi,
domani? Glielo dici tu ad Acromio, eh, che non siamo riuscite a tenerle
buone,
eh?!»
«Eh,
peggio per
loro, domani si presentano senza denti!»
«Ma
sei cretina,
oh?! Vuoi dare l’impressione che il Team Plasma usa la
tortura in diretta
regionale?»
Oramai, insieme
alla presupposta “malattia”, aveva iniziato a
dilagare pure confusione che
aleggiava in tutte le loro operazioni; per via della bussola morale
impostagli,
sempre indecisa, vista l’ambiguità di ogni loro
precetto: niente violenza, a
meno che non si tratti di avversari del Team. Nessuna pietà,
se non per i
deboli e gli sfruttati.
Ancora, contro
chi
stavano combattendo loro, semplici adolescenti più o meno
scolarizzate, senza
alcuna esperienza pratica in ambito militare? Ora il gioco di guardie e
ladri
in cui si erano buttate a capofitto non era più divertente
come all’inizio.
Per fortuna che
il
Neo Team Plasma ormai aveva già vinto, nessun motivo di
preoccuparsi.
Una recluta
ancora
più perspicace fece capolino dalla porta, roteando
l’adorato walkie talkie dal
laccetto come fosse un attrezzo circense.
«Ho
chiamato una
delle Reclute Scelte. Ha detto che adesso arriva.»
«Bene,
così appena
arriva le mazzate le condividiamo pure con lei!» Anemone non
poté esultare sul
serio, livida com’era.
«Le
Reclute Scelte? – Camilla
alzò un sopracciglio, fortuitamente nascosto dal suo ciuffo –
Intendono le cinque che
abbiamo praticamente e
letteralmente ucciso alla Lega? Come fanno ad essere ancora qui? Magari
le
hanno rimpiazzate? No, in così breve tempo? Camelia ha detto
che una si è
spaccata la spina dorsale e l’amica di Iris… era
stata impalata da una
stalattite! Non è possibile…»
Intanto sulle
piastrelle in terracotta, tacchi diversi dalle banali scarpe da
ginnastica di
tutti quei membri semplici si appropinquavano. Solo due gambe,
il
resto era un’altra schiera di nullità con le
solite sneakers. Pretese da loro
il rapporto.
«Praticamente,
‘ste
qua stavano a picchiarsi fino a cinque minuti fa perché la
piccoletta gli ha
passato la rogna e ora sono, tipo, tutte a macchie. Hai presente un
Whirlipede? Ecco, uguali.»
«Che
bello, -
estrasse dalla cintola un paio di Poké Ball, giusto per
essere sicura – e io me
lo devo gestire da sola, questo casino?»
«Uhm.»
Le fece la recluta che la accompagnava.
«”Uhm”,
cosa?»
«Uhm…
signora!»
«Cosa
dirai alla
leader e alle altre tre, se ti chiedono qualcosa?» La
interrogò in retorica.
«Che
non ne
sappiamo niente!» Rispose quella, assai entusiasta.
«Bravissima.
– Una
volta giunte alla porta, si sgranchì le dita, per nulla
pronta ad affrontare
una tale emergenza, senza la pressione datale almeno dalle sue compagne
più
minacciose – Se quelle non si risvegliano, ti faccio mia
vice.»
«Evvai.»
Fece un saluto
militare, che nessuna delle sue sottoposte ricambiò: gli
servivano entrambe le
mani per tenere le prigioniere dure, così come servivano
alla nipote del
Capopalestra di Boreduopoli il giorno seguente. Non poteva presentarsi
in aula
con una o due braccia in meno.
Senza la
capacità
di elaborare parole di senso compiuto, Lucinda scosse il capo, sicura
che nella
superficialità dei loro obiettivi i membri del Team non
avrebbero dato a lei di
che ragionare.
Si era
rifiutata,
ora che poteva esprimersi a voce, di prestare i suoi occhi per
offenderle
ulteriormente, quando le sue reclute stavano già
raccogliendo la semina. Le
avrebbe volute lasciar soffrire in pace, dignitosamente.
Infatti, se il
megalomane depravato dietro la loro organizzazione si fosse seduto sul
suo
trono senza rispolverare le gogne, lei avrebbe
più che volentieri
abbandonato il Team la notte dopo lo scontro alla Lega.
Sapeva di aver
violato il suo giuramento; la Campionessa di Sinnoh, che ora non la
guardava
nemmeno in volto da quanto l’aveva gettata in basso
l’umiliazione, era la sua
testimone.
«Una
malattia
infettiva, avete detto?» Non ci mise emozione.
Se a prima vista
quelle ragazze le sembravano troppo belle, troppo carismatiche e troppo
potenti
per venire assoggettate ad un potere tirannico i cui lacci erano troppo
larghi
per fermare la loro avanzata verso la Sala d’Onore, le loro
pance vuote, le
costole in vista, le nocche scorticate e gli animi consumati dalla
rassegnazione visualizzavano l’assenza di una vera, leale
battaglia fra buoni e
cattivi.
«N-No,
non è vero,
io non ho infettato nessun…» Un singhiozzo fu
abbastanza estenuante da zittire
la ragazzina, nel suo ennesimo tentativo di non venir additata come la
colpevole.
La Recluta
Scelta
non la compatì e si rivolse alla squadra operativa.
«Le
avete
controllate?»
«Yes,
m’am.»
«Vabbè,
le avete
controllate bene? Tutte?»
Terrorizzate
all’idea di dover compiere l’esame di mano propria,
si imbronciarono tutte e
strinsero le mascelle in preda al disgusto. Queste procedure non
stavano nei patti,
qualsiasi fossero i patti, visto che leggere i termini e le condizioni
di
servizio non è un qualcosa di umanamente fattibile.
Lucinda
aspettò una
manciata di secondi, un dubbio si era fatto strada in lei: le quattro
aggreditrici non osavano farsi avanti. La loro accusa non era un
qualcosa che
si poteva nascondere con la scopa sotto il tappeto, perché
dopo tutto quel
rumore ora stavano zitte?
Conosceva bene
quella sensazione. Gli lesse panico nelle pupille, alla bionda.
In quei mesi di
nefandezze, scorrerie e complotti le avevano insegnato fin troppo
dettagliatamente cosa fosse un umano.
Fece due passi
avanti, raggiunse la vittima e le sollevò il braccio.
Per qualche
ragione, l’affetto che intercorreva fra di lei e la
Campionessa, per quanto ce
ne fossero state innumerevoli prove, non riusciva affatto a capirlo: le
relazioni umane erano un’estensione della
difficoltà dell’individuo
“uomo”
preso come singolo.
«Arceus,
che
schifo! Ma cos’è, muco?» Una delle
ragazze in blu gridò, sul punto di
abbandonare l’impresa.
«Sembra
un fungo
bianco, tipo la muffa delle Baccarancia.» Le disse una
più ragionevole e meno sensibile.
Per riflesso
incondizionato, Camelia, Anemone, Catlina e Camilla analizzarono i
propri di
arti: sulla loro carnagione più chiara si notava di meno
l’infezione albina,
sotto la scarsa illuminazione il rosso acceso delle bolle in rilievo le
intimava di non grattarsele, pena una fontana di cruore impestato a cui
non
potevano far fronte: non gli era rimasto nemmeno un lenzuolo per
bendarsi o
dell’ovatta per fermare il flusso.
«Tiratemi
fuori di
qui! Hey, voi! Sono una top model, la mia faccia è tutto
quello che ho! Hey,
ah!»
La ragazza
echeggiò
fra le reclute, la giovane a terra si trascinò lungo il
pavimento come volendo
strisciare verso la colpevole, la quale era scoppiata a piangere di
nuovo,
anche se ormai non le rimanevano più lacrime.
«Eh?
Ghecis? Ci
vedi, mostro?! Ti stai divertendo? Stai ridendo di noi?»
La trattennero
per
i vestiti; l’ultima, per puro sadismo, si
controllò anche il petto e le gambe
da dentro l’uniforme, perfino le sue parti più
delicate erano state compromesse
dalla dermatite e le instillarono la paura di una patologia
più grave, che
l’avrebbe sfigurata andando avanti con gli anni.
«Non
ce la faccio
più… Non ce la faccio! Voglio andare via, voglio
morire!»
Solo dopo aver
gettato
l’intera stanza di sei metri per sei nel totale caos, Lucinda
si espresse.
«Beh,
scabbia.
Questa è scabbia.
Quindi,
sì, la
piccoletta vi ha attaccato una bella schifezza.»
«Ahahah…
no… n-no…
no! No!»
Il caldo. La
fame.
L’ansia. Chi stava muovendo quel corpo, quelle labbra, quello
spirito morto?
Camelia
approfittò
della distrazione delle reclute per svincolarsi e si portò
verso il muro
diroccato, fissandolo per un secondo. Nessuna delle costrittrici intese
il suo
scopo, sino all’instante in cui, appoggiati i palmi davanti a
sé,
molleggiandosi all’indietro con parecchio slancio,
colpì con la testa il
cemento.
«Tenetela
ferma,
tenetela ferma!»
Ancora ebbra
dalla
contusione, ripeté il gesto con la stessa veemenza che,
duplicata, la lasciò
lesa, a strisciare la fronte contro l’intonaco, la frangetta
lunga fino alle
ciglia tinta di carminio come la tenda di un cabaret da incubo.
Chissà
se le stesse
criminali dalla tinta slavata avrebbero gioito di
non doversi nemmeno scomodare, perché i loro target si
sarebbero suicidati, una
dopo l’altra.
Non avrebbero
neppure applaudito? Eppure, lo spettacolo che il capo aveva allestito
per loro
si prospettava molto accattivante. Non se ne erano accorte, ma in quel
teatrino
di marionette miserabili, dove tutto aveva un senso e nulla doveva
venire
abbandonato al caso, c’era infilato pure un elemento di
improvvisazione.
Non
c’erano
coltelli, pistole o veleni, là dentro. Solo cinque
squilibrate e la loro
fantasia.
La
necessità di
immobilizzare la mora decisa a spappolarsi le cervella contro il muro
aveva
distolto l’attenzione dalla lotta infuriante in cui le altre
si erano lanciate.
Non era cibo,
una
medicina o dell’acqua che si contendevano, ma un affilato
coccio caduto dal
soffitto, che otto mani tutte assieme cercavano di raccogliere o
sgraffignare
alla fortunata, alla rinfusa.
«Portatemi
via, -
le intimò la bionda, dal volto lucido di sudore –
o mi apro le vene, q-qui ed
ora...»
Prima che
qualsiasi
contromisura venisse presa, Anemone era riuscita a staccare dal letto
una gamba,
lunga quanto la sua intera altezza. Brandendola come un machete, la
agitò lungo
tutto il raggio, le reclute che correvano in direzione della porta per
non
venire colpite.
«Sta
zitta,
ipocrita! Se proprio vuoi, ti ci mando io all’altro mondo!
Tanto mi sei sempre
stata antipatica!»
Le
urlò e la beccò
sulla spalla ripetutamente, facendola accasciare per via della
clavicola
divelta. La sua compagna senz’anima provò a
soccorrerla, incurante della
possibilità di aggravare il contagio.
«Se
sei davvero mia
amica, Catlina… - Le chiese, ogni sillaba, una fitta al
petto – metti le mani
sul collo e, per favore, strangolami.»
«No…
Non posso… Ti
voglio troppo bene… - si coprì la bocca con la
mano ruvida - …possiamo morire
insieme! Di sete… Di crepacuore… Di…
D-Di… D-D-D…»
Le orbite si
svuotarono, le pupille verde-azzurro della giovane aristocratica si
erano
dissolte sotto le palpebre e precipitò sul fianco della
leader, quale un pesce
fuor d’acqua che schizza via dalla rete, bruciato dalla mera
immersione del
proprio corpo nel mare di ossigeno.
Le
due bionde formavano un’esilarante replica degli amanti
infelici le cui giovani vite vengono
terminate dal conflitto dovere contro sentimento, due destini
incrociati nella
bellezza della loro cella polverosa, il passaggio tremendo del loro
amore
marchiato di morte.
Almeno,
finché
entrambe boccheggiavano alla ricerca di un respiro non intossicante e
non
potevano bagnarsi le labbra con un veleno conveniente per la scena
tragica;
parlando di escamotage, se alla rossa non avessero strappato di mano il
suo bel
gingillo appuntito, magari non sarebbero neppure riuscite a seguire
pedissequamente la trama della vicenda, facendone soltanto un tentativo
poco
riuscito di parodia.
«Basta,
basta! Io
non ce la faccio più!»
Una delle
cadette
di recente arruolamento cedette, lasciando la sua collega da sola, in
balia di
una Camelia afflosciata sul suo omero, una ragazza liquida sul punto di
rovesciarsi a terra e spandersi, senza coscienza o integrità.
«C’è
un limite alla
disperazione… - si intromise un’ultima –
nessuno ci costringe a stare in questo
manicomio. Io me ne torno a casa, Ghecis e la sua
“ricompensa” possono andare a
farsi…»
«Uff,
ferme un
attimo. Basta porre resistenza. In quanto membro scelto e
autorità su questo manipolo…
almeno credo, che questo sia un manipolo? Voglio negoziare.»
Lucinda si
sistemò
i ciuffi color lapislazzuli dietro le orecchie, in modo che le ciocche
sul
parietale non andassero ad ingarbugliarsi sui lacci della mascherina
nera.
Evitò
di posare lo
sguardo per troppo tempo, come si era ripromessa. Iris stava annuendo
sotto il suo
mento, ansiosa di sapere cosa avrebbero ottenuto. La nemica riprese,
non
rivolgendosi a nessuna in particolare.
«Da
quanto è che
non vi lavate?»
«Una
settimana,
circa.» Le rispose prontamente quella dai capelli viola,
risucchiando un
singulto.
La recluta alfa
le
mostrò un sorrisetto commiserevole e parlò alle
sue sottoposte, ancora
imbambolate dall’ipotetico favore che la loro direttrice
provvisoria voleva
concedergli.
«Allora
è normale!
Tutto spiegato: sono le condizioni igieniche scarse! – Fu
strano sentire una
combinazione aggettivo-nome-aggettivo in una frase del parlato, ma era
effettivamente quello il problema; non detraeva tuttavia
all’argomentazione che
fosse proprio la ragazzina la colpevole – Fare la leader
è la cosa più facile
del mondo! Forse è per questo che tutti vogliono sempre
comandare?»
Camilla si
rialzò,
fissando le ginocchia bianche della ragazza con cui aveva
già combattuto due
volte.
Le sembrava
sempre
così ingenua, non si spiegava come fosse stata reclutata. Le
aveva confessato
di venire dalla sua stessa regione, quindi escluse una raccomandazione.
Dov’erano le sue motivazioni? Di solito, le persone malvagie
le hanno scritte
nei loro lineamenti. Quel viso roseo invece, quegli occhi rotondi
azzurri, le
labbra sottili… una combinazione di innocenza che si
prendeva gioco dei Saggi
ammuffiti nei loro mantelli termitai.
«E
quindi?»
Domandò, un altro nugolo di reclute si infiltrarono nella
stanza.
In seguito, la
tenebra scese sugli occhi di tutte quante, per quella che doveva essere
l’ultimissima volta.
❁
Come nel giorno
in
cui l’avevano portata davanti al giudice a farsi scuoiare da
false accuse, i
mugolii affaticati delle sue compagne raggiungevano le orecchie della
Campionessa e vi riverberavano, assordando i suoi.
Pokémon
pesanti le
stavano scortando, le zampe le trascinavano lente lungo quei vicoli
infiniti,
neanche la luce riusciva a perforare la stoffa opaca, anche avesse
voluto
sforzarsi di aprire gli occhi. Muovere il collo poteva essere fatale,
con le
mani legate dietro la schiena impossibilitate dall'offrirle equilibrio:
una
caduta in avanti e la percossa subita antecedentemente si sarebbe
trasformata
in una vera e propria frattura aperta, a livello del torace.
Non le importava
più nulla, a quel punto: avrebbe usato i suoi calzini per
asciugare la fronte
grondante di sangue di Camelia, avrebbe usato le buone anche per
calmare Anemone
e rimetterla isolata nelle sue fantasie placebo. Le sue cosce morbide
c’erano e
ci sarebbero sempre state per la sua migliore amica.
Camilla
soffiò via
la sua paura piano, non dischiuse nemmeno i denti per paura di bucarsi
i
polmoni.
«Tranquilla,
Campionessa:
non sei davvero ferita.»
Tale manovra non
fu
sufficiente, infatti dopo quella dichiarazione le scivolò
fuori una sonora
inspirazione. Aveva riconosciuto la voce di Lucinda.
«Non
fingere di non
averci pensato: non si prende la scabbia in una settimana di
tempo.»
«Ma
allora… - le
mancarono le parole, mentre il ticchettio delle loro Poké
Ball fra le mani
della recluta si faceva più insistente, vista la loro
andatura irregolare – cos’era?»
«Diciamo
che quello
che avete visto voi… - fece una pausa, per poi dare al tutto
un tono dolce,
quasi compatente – non è importante che lo abbiate
visto voi, ma che lo abbiano
visto le mie compari.»
«Un’illusione?
Com’è possibile?»
Come se le sonde
potessero entrarle in testa e registrare il contenuto dei suoi
pensieri, la
giovane donna quietò immediatamente i propri dubbi.
Non aveva sentito
dolore. Aveva blaterato idiozie, pure implorato Catlina di
strangolarla, come
se quella ci sarebbe mai riuscita, con le sue manine gracili dalle
nocche lisce
come cotone.
Le rincrebbe di
non
poter ringraziare a modo. Per questa ottima occasione, ma anche per
l’avvertimento sui piani di Acromio lanciatole nella stanza
dei Superquattro.
Non aveva idea
di
cosa avesse lei che le altre non avevano, per aver risvegliato la parte
empatica e umana di uno scagnozzo della figura più malvagia
di tutta Unima.
Si era bruciata
una
mano per lei, eppure se ne era dimenticata il giorno successivo.
Lamentarsi di
un osso rotto, quando tutto ciò che amava stava per cadere
in mano alla
tirannia del Team Plasma, non le pareva una priorità di cui
un vero eroe
dovrebbe porsi.
La recluta gli
fece
presente
di arrestarsi e le rimosse la benda, facendo attenzione a non
strapparle i
capelli.
Una porta
grigia,
con un cartello giallo e nero che ammoniva di pavimento sdrucciolevole,
si aprì
dopo che un Rhyperior la trascinò lungo una pista
arrugginita. Una zaffata di
umido e chiuso la costrinse a trattenersi il respiro.
«Ah,
comunque: vai
sempre dritta e poi gira alla terza a destra e segui le scritte rosse.
–
Lucinda si voltò verso di lei – Hai imparato ad
usare Focalcolpo, senza
ammazzare qualcuno?»
La bionda si
ricordò subito di quella specifica sessione di allenamento,
almeno quanto il
Team si ricordava di cosa lei e Iris avessero voluto intrattenere dopo.
Pensò
ai bersagli in pietra e annuì, timida.
«Bene,
allora.»
Ricevute le loro
Poké Ball, si lasciò condurre dentro, mentre
anche le altre quattro avanzavano,
le lasciò con un augurio, strano come tutti i precedenti,
mediante lo stesso
sorriso magnanimo.
«Buona
doccia,
ragazze.»
Chiuse la porta.
Nessun membro del Team era entrato insieme a loro.
❁
Per quanto
l’area
ricoperta di piastrelle verde palude fosse dell’area almeno
tripla rispetto
alla loro amata camera di stagionatura, le dieci gambe si raccolsero di
fronte
alla soglia, la gomma delle scarpe fallì nel trattenere la
permeazione del velo
d’acqua adagiato a terra.
Lo spirito
dell’elemento abitava quel luogo, lo possedeva; i pannelli di
cartongesso
penzolavano dal soffitto e rivelavano le interiora di quel carcere
abbandonato,
una cancrena nera con cui
l’edificio intero combatteva per
non crollargli addosso.
Sul
lato ovest,
una
fila di lavandini condivideva la stessa vasca in porcellana bianca
incrostata dal calcare, le lunghe bocche affusolate attecchite dalla
ruggine,
proboscidi di Donphan imbalsamati. Camilla si gettò in
quella direzione.
Lo spesso strato
di
ossidazione la trattenne dall’agguantare la manopola e far
sgorgare un
affluente da cui dissetarsi.
Il suo riflesso
sullo specchio alla parete spezzato, la pelle screpolata come il guscio
di un
uovo sodo e nervature di mercurio vi scorrevano sotto la superficie. La
sfocatura ed i graffi sul materiale, comunque, non le impedirono di
constatare
di non avere né botte, né fuoriuscite di sangue.
Parlò
contro lo
stesso specchio deformante, da cui le sue ragazze apparivano pochi
passi dietro
di lei, con gli occhi puntati tutt’intorno alla stanza: per
quanto l’immagine
fosse ectoplasmatica, erano deperite, parecchio sciupate, ma pur sempre
resilienti anche a quello spavento collettivo.
«Ce
l’abbiamo
fatta?» Si voltò ed il gruppo finalmente riprese
attività.
I neon non
sembravano volergli rivelare troppo. Il flusso di corrente appariva
continuo,
indebolito solo dall’umidità, piuttosto pericolosa
per i circuiti antiquati.
«Che
brutto che è
stato! Ho preso troppa paura.»
Catlina si
guardò
negli occhi ad intermittenza, sbattendo le palpebre per simulare un
cambiamento
repentino di luce. Smise e fece quel commento, mugugnando per
l’imbarazzo d’essere
l’unica ad aver veramente temuto di aver rovinato il tutto
per via dei suoi
attacchi imprevedibili. Ma accortasi di essere perfettamente lucida, la
fitta
di fifa le passò.
Le aspiranti
Campionesse non si concessero di esultare, per il momento. Erano consce
di
dover ancora attraversare l’inferno, invece di brindare sul
primo scalino in
discesa dal limbo.
«Qui
non ci sono le
telecamere?» Riprese la biondina, con tono più
esigente, per dimostrarsi utile.
Aveva insistito
su
quel punto dall’inizio. Non era un caso, che avessero pronti
fascicoli di
documenti per incastrarle dall’oggi al domani. Ancora di meno
che una lampadina
iniziasse a lampeggiare, guarda caso, proprio davanti ai suoi occhi,
proprio
quando stava per smontare le tesi del professore in favore della sua
cara
leader.
«Non
è contro la
legge, mettere le telecamere in un bagno?» Le rispose con una
domanda la rossa.
«A
proposito, avete
visto? – Camelia appoggiò il piede su un
orinatoio, sprezzante come une
esploratore che scopre delle nuove rovine – Ci hanno dato il
bagno dei maschi,
ahah.»
Trovava ridicola
la
mancanza di tatto del Team. Credevano di aver a che fare con un branco
di puriste, terrorizzate dalla mera esistenza del genere maschile
sulla
faccia della Terra? Quella definizione somigliava più ad una
caricatura, un
qualcosa che un osservatore poco informato avrebbe potuto blaterare nei
loro
confronti, uno che di loro aveva ascoltato soltanto i loro dialoghi
senza conoscerne il contesto.
Camelia stava
ispezionando degli urinali staccati dal muro con le tubature esposte,
con inspiegabile
curiosità.
«Vabbè,
dai, -
riprese, saltando sopra una panca in legno marcito, come fosse uscita
da un
musical – l’importante è che, non si sa
come, stiamo tutte bene!
Cioè…
noi quattro
stiamo bene.»
Forse erano i
postumi della disperazione, interrotti dalla serietà
richiestogli per
completare il trasferimento in quell’esatto luogo.
L’ineluttabilità della loro
incarcerazione doveva averle inseguire. Avevano fatto tanta strada solo
per
farsi intrappolare in un vicolo cieco, la ragazza dai capelli corvini
si
prendeva gioco di quelle sciocche ambizioni targhettando colei che se
le era
messa in testa per prima.
L’esclusa
dal loro
circolo di Allenatrici qualificate ed affidabili, con i piedi saldi a
terra,
aveva ovviamente recepito il messaggio.
Prima che
potesse
anche provare a difendersi da quella freddura, l’aviatrice si
intromise, con il
suo enorme cuore impacciato nel dare spiegazioni ai suoi impulsi
incontrollabili.
«Iris,
scusami! Ho
fatto fortissimo, non volevo…»
Strinse i
pollici
nei pugni, anche se infliggersi da sola una punizione non avrebbe mai
alleviato
le botte che si mimetizzavano nella carnagione color cacao della sua
compagna
più piccola.
«Non
importa.»
Disse Iris, solo quello.
«…eh?!»
Anemone
lanciò un’occhiata
confusa a Camelia, la quale ricambiò con un sorriso
inquieto. Confidarono nella
reciproca abilità di comprensione del carattere della loro
amica, ma nel loro repertorio
di reazioni non risultavano esserci esempi simili.
Tutte le volte
che
la modella l’aveva presa in giro amichevolmente per il colore
inusuale dei suoi
capelli o per la sua inesperienza in lotta, le era sembrato che
importasse, ad
Iris. Perfino l’intera epopea del suo piccolo seno
insignificante: poteva
starci una certa stizza all’inizio, ma non le faceva passare
indenne nemmeno
quella burla in buona fede da quanto, appunto, le importava.
E poi vi erano
gli
incidenti più grandi, in cui Iris non poteva permettere a se
stessa di tacere
sulla loro negligenza a prescindere dallo scenario. Fossero i Magazzini
Nove,
il solaio dove dormivano quella sera di pioggia o il sedile posteriore
del
fuoristrada di Camilla.
Piccoli fruscii
di misfatti
destinati ad invecchiare come storia antica nel giro di poche ore
rimbombavano
nel cuore della ragazzina di Boreduopoli, la valanga scuoteva ogni
arteria e le
dava prova concreta, a livello di nervi, di quanto il male psicologico
esistesse e facesse rumore, molto rumore.
Se quella era
Iris,
sepolta in tutte le istanze di rancore preservato nei confronti di
ognuna delle
compagne, chi era riemersa, in piedi dopo un pestaggio brutale, dopo
pugni e
calci in pieno viso, le orecchie esposte ad offese sulle sue origini e
sulla
sua individualità? Si era passata la manica sotto la narice,
osservando la
macchia sull’orlo seccarsi man mano che l’epistassi
diminuiva.
Chi aveva detto
loro “non importa”, dopo tale degradazione fisica e
morale? Chi era quella
ragazza?
«Venite
di qua.»
«Sei
partita di
testa? – la mossa che la modella aveva appreso per stallare
la sua
interlocutrice sul posto, congelandola sui suoi piedi, non
funzionò – Ti piace,
ah? Non c’è altra spiegazione, come fa una a
goderci così tanto quando la
insulti, la ridicolizzi davanti al mondo e la prendi pure a pugni in
faccia?
Iris, sei una
grossa masochista o cosa?!»
La ragazzina le
scivolò sotto lo sguardo, evitando l’attacco con
leggiadra indifferenza.
Attraversò
l’intero
atrio, divisore dello spazio dei
gabinetti e
quello degli spogliatoi. Non erano rimasti segni tangibili
dell’utilizzo di
quel servizio ma nessuno si era mai curato di
restaurarlo.
Allineate,
separate
solo da pannelli removibili in lotta contro la gravità e i
cardini sul muro,
una dozzina di cabine doccia. Le tende dovevano essersi deperite per
prime,
ragione per cui ne sopravvivevano solo gli anelli per appenderle, la
carcassa
spolpata.
«A voi
non bruciano
gli occhi?»
Le due giovani
di
Sinnoh si coprirono la bocca e il naso con la manica, simulando una
maschera.
L’assenza di riciclo dell’aria aveva trattenuto
là dentro il tanfo di anni ed
anni di sudore, sospiri, indigestioni, abbandono.
«Sull’ultima.
Ma
non so quanta differenza faccia.»
Le quattro
fecero
una smorfia schifata, non avrebbero avuto il coraggio di avvicinarsi
nemmeno al
piatto delle docce, lercio di chissà quali e soprattutto
quanti miscugli
ributtanti. L’area era umida, macchioline di acqua e calcare
si aggregavano sui
bordi. Iris si era addirittura inginocchiata e le ginocchia
dell’uniforme si
erano bagnate, le scarpe avevano fatto la stessa fine.
«L’acqua
va!?» La
leader indicò il bocchettone incrostato.
«Le
manopole sono
ancora là… fanno schifo anche solo vedendole da
qua, ma magari…»
Né
Catlina né
l’altra ottennero nulla da quel quesito.
Del resto,
sapevano
in cuor loro di non trovarsi nelle docce per farsi la doccia, avrebbe
avuto
troppo poco senso. Mentre malmenare la loro amica, fingere di aver
preso una
malattia da lei, per farsi condurre in quel luogo
prestabilito… aveva un suo
fascino, se proprio non c’era verso di dargli un senso.
«Sssh,
-
L’Allenatrice dai capelli viola, carponi, rivolse la sua
attenzione al piatto,
fece chinare le altre al suo livello – sentite.»
Nel silenzio, il
pugno scorticato contro l’asfalto, ancora imbiancato di
polvere, batté un colpo
vuoto, quale la membrana di un tamburo. Sicura che
l’intuizione non le avrebbe
colte subito, un altro colpo seguì, identico al primo. A
quel punto, Iris si voltò,
un debole sorriso le incurvava le labbra arrossate.
Tale gesto di
assenso lasciò le ragazze perplesse. Le aveva perdonate solo
per le botte, o
anche dai loro peccati precedenti, quali l’ignorarla e il
farla sentire
inferiore, erano state assolte?
«Uhm?»
La
Capopalestra mora non ebbe la pazienza di aspettare indizi.
La
più piccola usò
un tono gentile, lo stesso con cui lei si era timidamente presentata
alla Lega,
con i suoi codini un po’ spettinati e la maglia oversized, la
sua trasparenza di
animo.
«È vuoto. Non
c’è
niente sotto.»
«Cos…
Scusa?! No,
non può andarci così bene, non ci
credo.»
Sopportò
ancora la
drammaticità della compagna, che in fondo comprendeva.
La seconda
invece,
scostandosi i capelli nervosamente, provò ad elaborare
meglio.
«Anche
se sotto è
vuoto, questo non significa che… - perse il filo, e
riiniziò - Se c’è un’altra
stanza sotto…»
«Ogni
volta che ci
portavano fuori, – Anemone la interruppe, con la sicurezza
che la sua
esperienza e la sua istruzione le garantivano in questo campo
– ho contato
quanti passi ci mettevamo ad arrivare alla sala: circa centotrentasei.
Ma non vi pare
strano?»
«Centoventisei?»
«Sono
pochissimi! Vuol
dire che non ci hanno fatto salire a piedi, fino al posto dei processi.
Siamo
salite in ascensore! Non lo abbiamo sentito perché eravamo
bendate.»
«Non
è possibile. –
ribatté la biondina - Ce ne saremmo accorte.»
«Nessuno
– lo fece di
nuovo, sicura che una riccona a cui non era mai stato chiesto di alzare
un dito
in vita sua non avesse alcunché da ribattere – si
accorge, quando un aereo
aumenta o cala di altitudine, lo sbalzo di pressione è
minimo. Potrebbero
averci portate su di dieci piani e non ce ne saremmo accorte.»
«Non
ci sono
neanche finestre, né qui né nella nostra cella.
– Si aggiunse Camilla – Quindi,
può darsi che… Siamo al piano terra… -
lesse dallo sguardo della pilota di
essere vicina alla soluzione e passò da fuochino a fuoco
– no, siamo sottoterra!»
Usando le
proprie
mani, immaginò un modello della struttura: avevano visto tre
luoghi in croce,
eppure con un po’ di immaginazione potevano ricreare una
veduta aerea
dell’edificio, sebbene non ne conoscessero neppure
l’aspetto della facciata.
«Hanno
costruito la
struttura nuova al livello base, con il tribunale e tutto. Quella
vecchia è
stata coperta e lasciata sotto. Se Ghecis è davvero al verde
e si mette a
vendere la droga in giro per i vicoli, restaurare un vecchio carcere
maschile
probabilmente non era nei suoi interessi.»
Non erano giunte
ad
un accordo comune, quella questione non faceva altro che espandersi e
diramarsi
in ulteriori investigazioni sul funzionamento del complesso. Ma il
tempo
stringeva, quegli istanti usati per spremere le loro meningi doloranti
erano
abbastanza per farsi già uno shampoo e un balsamo.
«Frega
niente,
muoviamoci a togliere ‘sto coso. – Camelia
passò il sacchetto tappezzato di
etichette alle compagne, alla ricerca delle sue Poké Ball -
Al massimo ci estendono
la pena per danneggiamento di proprietà pubblica.»
«No,
che sfiga!»
«Leader,
che hai?»
Davanti ai suoi
occhi, il Garchomp di Camilla non le era mai apparso più
strano. Aveva la bocca
asciutta, i denti affilati digrignati e gli occhi stanchi, svuotati.
Agitava
quei prolungamenti ossei sulla punta delle zampe in maniera
disordinata,
affettando il nulla con le falci.
«Ci
scommettevo.
Hanno fatto qualcosa ai nostri Pokémon, ne sono
sicura.»
«Camilla,
- le fece
strano chiamarla per nome, una certa naturalezza le fece notare quanto
maggiore
fosse lo sforzo consapevole di non portarle mai rispetto – mi
dispiace un
sacco, ma puoi cortesemente ordinargli di usare Dragobolide,
Giga-mega-ultra-impatto
della morte o un’altra di quelle mosse spacca-deretani di voi
Campioni
fighetti?»
«Appunto,
- La
donna osservò la sfera del suo drago, abbattuta - Non
riesco.»
«Gli
hanno inibito
tutte le mosse. – Catlina eseguì lo stesso gesto,
per tutti i suoi Pokémon
insieme – Con Inibitore, la mossa. Serve un Centro
Pokémon qua.»
Le reclute si
aspettavano il peggio da loro. Le prigioniere avrebbero potuto ordinare
al
potentissimo team della Campionessa di sbriciolare un muro e
sgattaiolare
fuori, giocando a bowling con le reclute come birilli.
Del resto, si
trovavano
lì per lavare i loro poveri compagni. Niente doppio gioco,
avevano messo in
ballo la loro dignità per quel minuscolo privilegio. Forse
gli sarebbe
convenuto cominciare a strigliargli il pelo e controllargli le unghie,
non
sapevano in quali gabbie striminzite o in che tugurio avevano lasciato
i loro
amati mostriciattoli fino a quel momento.
Ancora
inginocchiata nello stesso punto, Iris chiamò una volta
sola, con
determinazione.
«Anemone,
- era
adagiata contro la parete, abbassò lo sguardo senza
esitazione – questa specie
di coperchio si può staccare?»
Si
grattò il
sopracciglio, esortando il suo cervello ad analizzare concretamente il
problema.
«Hmm,
- la rossa si
accovacciò, sperando di non sporcarsi ancora
l’uniforme – sono circa mezzo metro
per mezzo metro, conta che questa è resina sifone, non
porcellana. Poi… Poi il
silicone che tiene attaccato al pavimento è abbastanza
rovinato, ha preso
acqua, sì, sì.»
«Allora?»
Le
rivolse quegli irresistibili occhi nocciola, che la rossa aveva di
malavoglia
rifiutato durante il suo processo e se ne era già pentita.
«Sì
che lo puoi
staccare… se hai voglia di grattare via una ventina di
strati di colla e muffa.
- Lo ammise con sufficienza, ottenendo una leggera delusione nella sua
amica –
Io lo facevo almeno una volta al mese quando facevo la gavetta, mi ci
volevano
tre ore e un barattolo intero di solvente. Zero su dieci, non lo
raccomando.»
Iris nel
frattempo
afferrò un lembo dei vestiti della rossa, desiderando la sua
completa
immersione: stava per proporle qualcosa, qualcosa che non avrebbe
nemmeno
tentato di cominciare senza il consiglio della sua amica esperta in
meccanica.
Aveva paura di
irritarla, aveva bucato la sua difesa con lo spillo della contestazione
sulla
sua presunta eterosessualità e fatto affogare tutta la sua
barca di credibilità
da quel singolo foro. Certo, credeva di averlo fatto per il suo bene
emotivo,
adesso insieme alle insicurezze che Anemone aveva riguardo il suo
status
sociale e le proprie relazioni interpersonali, l’ombra della
sua fidanzata che
la esortava a smetterla di leggere i suoi preziosi fumetti, pena la
separazione, avrebbe infestato i suoi incubi.
«Possiamo
staccarlo
con questa, che dici?»
La rossa
incrociò
le braccia, piuttosto confusa.
Lo strato di
unto
infilatosi sotto le unghie delle punte smussate si trasferì
sui bottoni
bianchi, mentre la ragazzina li maneggiava attraverso la fessura: la
taglia
extra small la costrinse a scendere fino al terzo della fila, un'ondata
di
imbarazzo la infiammò all'idea che delle ragazze
più mature di lei
intravedessero lo sterno da quella fessura.
Riacchiappò
i suoi
sentimenti e li mise a bada, per quel che doveva fare non poteva
lasciare il
suo ego ammaccato libero di intralciarla.
La estrasse
piano,
per la paura che l'attrito delle fibre strette intorno alla pelle della
pancia
e dei fianchi la ustionasse.
Inizialmente era
bianca. Non che fosse il colore a dispiacerle, ma dopo anche sei strati
di
coperte e fodere non le pareva di fare progressi in quelle notti
insonni e
tormentate dall'idea che le lenti della telecamera avessero un visore
notturno.
Non era andata
così, Camilla l'aveva aiutata ancora. E pur non volendolo,
Iris in cambio aveva
alterato la sua sorte al processo e la sua limpida reputazione.
Sperò
di
riscattarsi agli occhi della Campionessa. Purtroppo il suo reggiseno
nero,
profumato di quell'aroma corporeo ed etereo allo stesso tempo, stava
vicino
alle fondamenta dell'utensile, nascosto.
Lo rinforzavano
un altro
capo del medesimo colore, ma dal tessuto più morbido, visto
che sorreggeva un
peso sì ingente, ma pur sempre minore, ed uno bianco a
strisce giallo limone,
una combinazione infantile anche per una bambina come lei in attesa del
miracolo della pubertà.
Lo strato
esterno
era il più fragile, un pizzo rosa pastello che aveva sudato
per non sfaldare
con il suo amato taglierino.
La cosa buona fu
che la parte scuoiata dalle decorazioni era malleabile, quindi ne
derivò una
doppia fodera arrotolata fra i nodi degli altri materiali.
Iris persistette
nella sua reticenza.
Non le sarebbero
arrivati applausi, non ne voleva. L'unica cosa che le premeva era di
rimuovere
il maledetto coperchio e di scostarlo sul lato della doccia.
«Una
corda? -
Anemone corse quasi a strappargliela di mano. Si vantava di essere la
più abile
in manodopera del gruppo, ma le sue enormi dita non avevano
speranza di infilarsi nelle intercapedini stretti - Ma non possiamo
staccare il
silicone a forza, bisogna pur attaccarla da qualche parte...»
Quello era un
lavoro per una ragazza piccola. Il loro essere ragazze grandi non aveva
contribuito, se non nel provvedere rifornimenti al loro comandante.
Non che la
dimensione delle proprie mani fosse attuale oggetto di complessi per
Iris.
«Più
o meno. -
Camilla le si accostò con un sorriso inspiegabile, insieme
al suo Togekiss e a
Milotic – Su, falle vedere la specialità,
tesoro.»
Afferrando il
collo
della lunga serpentina realizzata in biancheria da donna, l'Allenatrice
dai
capelli viola fece volteggiare l'estremità: un artiglio
grigio, dalle membra
nodose in ferro intrecciato, si dondolava come l'arto rinsecchito di un
mendicante affamato.
Poi Iris lo
raccolse al volo e dimostrò la flessibilità,
piegando i bracci spessi quanto il
manico di un coltello fine, i quali mantennero la posizione.
«Possiamo
attaccarlo e tirarlo su.»
«Hey,
quelli sono i
ferretti del mio reggiseno!»
«Intendi
“dei
nostri” reggiseni, Anemone.»
Non aveva usato
i
tanto odiati vezzeggiativi, ma la Campionessa era riuscita a trattarla
con accondiscendenza
anche così.
«Dai,
quello era
uno dei miei preferiti! Iris, tu non hai contribuito?»
«Non
mi serve una
spranga in titanio del genere, - la giovane non la degnò
nemmeno di uno
sguardo, allargò i bracci dell’attrezzo,
precisione e fretta si azzuffavano fra
i suoi polpastrelli - la mia schiena si regge benissimo da
sola.»
Mentre lei
lavorava, le quattro si scambiarono una perplessità
aberrante: era un’offesa a
loro? Ai loro seni? Alla loro ossessione per gli stessi? Alla critica
per chi
la compativa per la mancanza degli stessi?
«…Non
si parla così
a delle persone più grandi...? – Catlina si rese
conto di non saper sgridare e
cambiò discorso – Camilla, per favore,
di’ qualcosa.»
«Hmmm…»
L’idea
di infilare
le dita dentro lo scarico fece rabbrividire la ragazzina.
Arricciò il naso e
ogni volta che il ferro non ne voleva sapere di incastrarsi nelle
fessure della
bocchetta, violava il suo voto al pudore ed afferrava
l’intero componente
metallico sul centro del piatto doccia ed il ribrezzo diminuiva pian
piano.
A casa di Nardo
richiamava tutte quando lasciavano i capelli nella doccia, li tirava su
e
riconoscerne il colore andando a richiamare la colpevole le gonfiava il
petto,
invece.
«Ci
riflettevo
prima: stiamo letteralmente aiutando il Team Plasma facendo
così. - La
Campionessa volle condividere la sua saggezza – La prima
volta mi hanno presa
d’assalto quando ero da sola, poi alla Lega ci hanno tutte
divise e ci hanno
quasi messo in ginocchio.
Ragazze, stiamo
perdendo di vista la cosa importante: dobbiamo restare unite, almeno
per questa
volta.»
«No,
no, - Camelia
la incalzò – Iris ha ragione: quel reggiseno
è davvero orrendo, punto e basta.
– si rivolse ad Anemone, appoggiandole le mani sulle spalle
da dietro – davvero
tu vai in giro con roba del genere addosso?»
«Uh…»
«Ce
l’ho fatta. –
Tacquero tutte, Iris si alzò in piedi, le mani aperte alla
ricerca di un piano
su cui asciugarsi – Potete per favore prestarmi i vostri
Pokémon per tirare su
la corda? Da sole non ce la faremo mai.»
Quello stoicismo
l’aveva resa irriconoscibile, certamente. Ma non per nulla,
anche molto più
affabile.
La
più piccola del
gruppo era andata incontro al problema senza la sua spessa corazza di
vittimismo
e di auto-commiserazione. Aveva affrontato la belva a mani nude e ne
era uscita
con la pelliccia in pugno.
«Mettete
i più
pesanti in basso, i più leggeri verso l’alto,
quelli che possono volare o
fluttuare tirano tutti nella stessa direzione. Attenzione a non farvi
male,
piccoletti.»
Pur non avendo a
loro disposizione raggi laser, getti ad alta pressione o palle di
energia, dai
volatili ai draghi, agli psichici e ai terrestri, con versi colmi di
entusiasmo
esercitano la forza di cento Terremoti. La corda non gli
scivolò dalle zanne o
dal becco, nonostante il chiaro dolore ai denti e alle mandibole.
Era il momento
della loro vita in cui gli era richiesto l’impegno mai
sprigionato prima, di
fare insieme del proprio meglio, di darne tale prova alle loro
Allenatrici
ancora ignoranti di quel concetto.
«Però
volevo dire
che… Una ciocca violetta le cadde sul naso, con un soffio la
bandì lontano dal
suo sguardo. Si sarebbe risistemata dopo i capelli, aveva la netta
sensazione
che nessuna delle sue compagne l’avrebbe giudicata
– Ma quanto è figo l’avere
un piano, per una volta tanto?»
Voleva anche
complimentarsi con loro, che lo avevano seguito step per step:
l’assalto
per via della fantomatica infezione doveva essere realistico; niente
battutine
sulle tette o sulla loro vita sessuale, in quei tre mesi ci erano
sempre andate
troppo piano. Iris gli aveva fatto intendere che dovessero picchiarla a
sangue,
di non fermarsi se gridava e le implorava di darle tregua. Nessuna
safeword.
Vedere il
successo
della sua impresa come un martirio in favore della libertà
era riduttivo; i
segni delle ferite, le cicatrici le sarebbero state care, a lungo
andare.
Il suo profilo
abbronzato, nel cuore di Camelia, Anemone, Catlina e Camilla, aveva
ottenuto
una posizione riverenziale, un’aura di ammirazione per il suo
coraggio la
circondava e faceva presa in loro. Non avrebbero mai definito Iris una
tipa
“tosta” od “eccezionale”,
eppure aveva ottenuto il rispetto che era suo dovere
guadagnarsi, non esigere od elemosinare strisciando ai loro piedi.
Il tutto
ricordava
loro la pesca a gettoni delle sale giochi, una versione con
più di qualche
centesimo e dieci secondi del loro tempo in palio.
«Vero!
Dovremmo
farla più spesso, ‘sta cosa del
“piano”…» Catlina ruppe la sua
faccia di bronzo
e dimostrò il suo consenso a tale disposizione a lei aliena.
«Sei
troppo avanti
per noi. – La pilota le batté la spalla con
delicatezza, rivolgendole un tono
fraterno – Non ci dici le cose per vedere se anche noi
minorate mentali ci
arriviamo?»
Si
distaccò dal
voler salire su un piedistallo e voler attivamente dargli delle idiote.
O
meglio, era sicura sarebbe giunta l’occasione per
ricordarglielo, ma non erano
il tipo di idiota che eleva il sé
all’auto-celebrazione. Avrebbero potuto
scappare via insieme, aver avuto una perfetta sincronia e rimanete
tutte,
appassionatamente, delle ragazzine senza cervello. E non avrebbe voluto
che
questo cambiasse.
«Adoro
– la mora
dette il suo parere, sempre con il suo atteggiarsi serpentino, tuttavia
si
tradì con delle buone parole – come Iris ci stia
tirando fuori da qui. Ha
ragione il Team Plasma.
Siamo un branco
di
lesbiche inutili. Nel vero senso della parola.»
Ad Iris stava
quasi
per scivolare una risatina: non sapeva se si trovava
d’accordo con Camelia o
no, per quanto non le sarebbe dispiaciuto istituire un anniversario per
tale
raro evento.
“Quattro
deficienti
con le mestruazioni isteriche” … chi aveva detto
questa cosa? Era stato
sorpassato presto.
«Oddio…
- La voce
bassa di Camilla fu inghiottita da un boato gutturale, i calcinacci
appesi alla
base si dondolavano ai resti del silicone rimosso – Wow,
ragazze… Solo… Wow.»
Come il piatto
della bilancia su cui erano messe in palio le loro
possibilità di riscatto da
una vita da prigioniere del dittatore Harmonia, la plastica sporca in
bilico
sotto la salda supervisione dei loro Pokémon in combutta
liberò un miasma
ancora più potente, più organico e vivo
dell’odore di chiuso di quei giorni.
Finì
adagiato sul
pavimento, l’accesso alla voragine apertasi sotto era
completamente libero.
Potevano passarci il Garchomp di Camilla ed il Dragonite di Iris senza
problemi, cinque fanciulle dalla corporatura ammorbidita nei punti
giusti avrebbero
avuto poco da temere.
«No,
ci sta andando
tutto troppo bene: secondo me adesso moriamo.»
L’aristocratica tremò.
«O
magari muori tu
e dirai “ragazze, andate avanti senza di me!”,
visto che sei un peso morto.» La
canzonò la mora.
La pozza nera,
per
quanto poco romantico suoni, aveva eccome un fondo: un cotto tappezzato
dalle
alghe, viveva e respirava anch’esso come un vivente,
frusciava e deglutiva
quale una belva sveglia dal letargo.
«Andiamo,
dai. –
Camilla si toccò il ciuffo, incerta anche lei su cosa le
avrebbe attese laggiù
– Le reclute daranno l’allarme a momenti e non
abbiamo molta scelta nel coprire
le tracce.»
Iris
imbastì la
corda, tramutandola in un rampino: sarebbe stato come alle elementari,
quando
la maestra la sgridava e le toccava scendere dall’albero
più alto del cortile,
facendo attenzione a non impigliarsi con la gonna sui rami del pesco.
Ma ora era
diverso.
Lei era diversa. Non era più lei, da sola.
«Uhm.»
Annuì, con
convinzione.
Fece strada,
aggrappandosi alla corda e tenendosi in equilibrio con i piedi, lungo
la parete
viscida. La sua squadra la seguì a ruota, osservando che non
cadesse per quei
cinque, sei metri. Gli esemplari che potessero offrire supporto alare
aiutarono
le ragazze meno agili, con la mossa Psichico scesero anche i
più pesanti.
Non
c’era altra via
di uscita.
Erano le
Allenatrici venute dal basso, cadute nell’abisso per mano di
Ghecis, di
Acromio, della spazzatura che era la politica e la legislazione di
Unima.
Non avevano
scelta.
Se volevano
almeno
provare risollevarsi dalla loro caduta, dovevano scendere ancora
più in basso,
attraversare la bolgia e sperare di approdare sul versante nudo del
monte Purgatorio.
E quindi una ad
una, una dopo l’altra, scesero. Furono accolte dal buio che
ci si aspetta in
una serata lontano dai lampioni, ma in cui la luna è fulgida
in cielo; potevano
discernere dove fosse attraversabile solo dal riflesso
dell’acqua sulla sponda
impiantita.
Erano giunte
allo
Stige. Al posto delle anime dei dannati a galleggiare nello scorrere di
liquami
verdi una lattina di Lemonsucco, l’involucro sfaldato di un
Dolce Gateau ed un
bicchiere in plastica con la cannuccia ancora infilzata che proveniva
dalla
stessa catena di fast food dove avevano ritirato il pranzo la volta
della
caccia al Sangue del Drago: possibile che gli stesse scorrendo davanti
agli
occhi proprio lo stesso bicchiere che avevano gettato via? A volergli
dire che
il flusso dell’esistenza altro non era che un circolo, chiuso
in se stesso,
senza punti di conclusione o di partenza?
Ma le cinque
eroine
avrebbero corso più veloce della trasmigrazione, della luce
e della morte.
Finché avevano ancora gambe su cui sostenersi ed uno spirito
ancora fremente
nella gola secca, sarebbero andate avanti.
Senza fermarsi,
continuavano a muoversi attraverso i condotti delle fogne di Austropoli.
«Ci
stanno già seguendo, dobbiamo aumentare il passo.»
Nessuna di
quelle
parole attraversò la bocca di Camilla, troppo occupata ad
ossigenare il
cervello per ricordare le indicazioni di Lucinda, le braccia con cui
reggeva la
sua migliore amica e non lasciarla indietro ed il cuore, per non farla
soccombere alla paura, allo sfinimento o alla rassegnazione.
Per quanto lei
non
disponesse di un fisico atletico e nemmeno di un abbigliamento che
perlomeno le
consentisse di ovviare all’aerodinamicità ridotta,
doveva stare in testa e fare
da guida. Si crucciava di non riuscire a scacciare gli stormi di Zubat
che
volavano contro di loro e le unghie incolte penetravano nella carne di
Catlina
e si aggiungevano alla sofferenza di costringere una ragazza quasi
immobilizzata ad un moto brusco.
«Per
favore,
tienimi. - Camelia avrebbe desiderato mille volte un’uscita
di scena in slow
motion, con il ticchettio dei tacchi alti in sottofondo – Mi
fa già male la
milza…»
«Ti
tengo, ti
tengo. - Anemone optò per la manica dell’uniforme
come punto di traino: il
professore di educazione fisica valutava i suoi tempi al test di Cooper
con gli
standard maschili non senza una ragione - E poi dice che mille calorie
al
giorno ti bastano…»
Non lo disse per
cattiveria, in quanto la denutrizione faceva preoccupare anche lei di
dover
bruciare i suoi muscoli sodi; adorava il fisico snello e sottile della
compagna, ma non era certa del contrario, da quanti complimenti aveva
riservato
ai suoi glutei e ai suoi bicipiti.
Lungo il
cavalcavia
usato dagli addetti alla depurazione si muovevano compatte, quale una
falange
sulla via della ritirata, attente a non scivolare nell’acqua
putrida o a
slogarsi una caviglia fra le piastrelle sconnesse.
«Dobbiamo
andare verso
una scala che ci porti su?»
«Camilla,
avranno
già piazzato la polizia ad aspettarci sopra ogni
tombino…»
«Risparmiati
il
fiato, so dove stiamo andando… Ah…» La
Campionessa reputò la propria confidenza
con Catlina approfondita al punto tale da potersi perdonar quella
leggera
rudezza.
«E da
chi lo sai?»
La incalzò.
«…Lo
so e basta.»
«Come
sapevi della
corda, prima di tutte noi. E sapevi anche del video
nell’onsen… ma non ce lo
hai detto.»
Con le meningi
ormai
otturate dall’adrenalina, la donna non comprese appieno le
ultime supposizioni.
«…basta
che mi dici
perché. – Affievolì la voce, cosa che
la biondina sapeva fare ad arte,
ringiovanendo di dieci anni sonori – Se è una cosa
fra te e…»
«Ferme!»
Un ritardo nei
riflessi gli impedì d’arrestarsi in
prossimità del resto del gruppo. Tirare il
freno durante una corsa spericolata, con gli sgherri di Ghecis alle
calcagna
non era concepibile.
«Iris,
ci
ammazzano! – le gridò la rossa, a circa dieci
metri da lei, i muscoli ancora
caldi per riprendere lo sprint verso la destinazione –
Muoviti e…»
«Non
abbiamo tempo,
veloce, veloce!» Camilla gesticolò con la mano
libera, come se potesse
lanciarle un sortilegio e convincerla a rimettersi in marcia.
D’un
tratto, una
sirena intensificò l’ululato, piangendo come un
cucciolo ferito dalle trappole
dei cacciatori.
«Andate
avanti,
arrivo subito.» Gli rispose, voltando l’angolo con
calma serafica.
«Non
possiamo
fermarci, non possiamo…»
«Andrà
tutto bene,
ho visto solo…» Fu interrotta.
«Iris,
ascoltami: -
la Campionessa ispirò, la voce roca per
l’agitazione - non possiamo lasciarti
qui, da sola.»
«…guarda:
ci sono dei Pokémon qui.»
«Ah?»
Da dietro il
muro non uno, due musetti curiosi si porsero sul palmo della
ragazzina, lasciandolo maleodorante e umidiccio.
«Un
Aaron e… come si chiama, lo stadio base di
quell’uccello antico, di cui
rimangono le piume calcificate?»
«Archen.
– l’esserino gracchiò confuso, non
doveva vedere una persona in
carne ed ossa da tempo – Questi Pokémon sono
rarissimi. Chi li ha buttati nelle
fogne… oddio.»
Constatò
dagli enormi buchi ancora visibili sulle parti molli del collo e
del ventre che non si trattava di un Allenatore crudele o di una
Poké Ball
scivolata nel drenaggio per sbaglio. Avevano entrambe
un’etichetta sbiadita
legata alla zampa, quella di Aaron stretta gonfiandogli il piedino.
Non si aspettava
tutto questo, nemmeno dall’organizzazione criminale che
prelevava i Pokémon dalle loro case, dalle loro tane, per
farci esperimenti di
mala etica. I poveri reietti di cui aveva parlato Zania, ritrovati
martoriati
dopo la traumatica esperienza, erano una minoranza: sotto la
superficie,
lontano dagli occhi indignati dei politici e delle associazioni
multimilionarie, alcuni Pokémon aspettavano il ritorno dei
loro padroni, pieni
di speranza, nutrendosi di ciarpame, lottando contro i postumi degli
abusi del
Team, sia fisici, sia psicologici.
«Non
sono i miei Pokémon. Io non sono la loro Allenatrice. Non
sono neanche
di tipo Drago. Però…»
«Camilla!
Camilla! – Iris la chiamò, sovrastando gli allarmi
con il suo
acuto – Posso tenermeli?»
L’alzata
di spalle
e l’ennesimo invito a darsela le disegnò un
sorriso a denti aperti, contenta sì
che tutte le sue file bianche avorio fossero al loro posto e non dimeno
dell’avere due nuovi compagni di squadra (che a casa sua non
avrebbe mai potuto
tenere, né a Boreduopoli né al villaggio).
«Allora,
volete
venire con noi? Siamo buone! E carine. E anche voi siete carini!
Okay?»
Con falcate
fulminee, non rallentata da zavorre umane, saltò davanti a
tutte: dopo una
settimana di inattività, una pioggia grigia e deprimente,
sgranchire le gambe
non le era certamente in odio: fuori dalla gabbia atemporale in cui il
re
Harmonia voleva rinchiuderle e trasformarle nelle sue bambole, correre
verso il
futuro, per quanto incerto, era sempre una bella sensazione.
Ghecis non
sarebbe
sceso a prenderle per i capelli; gli rimaneva soltanto da lamentare la
sua
vecchia età, la forza di inerzia che lo relegava ai piani
alti. Fra i cunicoli,
la traccia di feromoni si sarebbe persa, le sue spie ad inseguire una
chimera,
là sotto.
Ogni centro
metri c’era
una biforcazione: non la prima, né la seconda.
«Qua,
a destra.» La
donna fu svelta ad avvisare l’amica, che diresse il gruppo
come l’asso di un
battaglione aereo.
«Cami…
cioè,
leader. Cosa… - la mora si portò una mano alle
carotidi, stavano per esplodere
– Quello… Quello non è un vicolo cieco?
Ancora? Un altro cliché da film
d’azione del…»
«Ma le
scritte
rosse…» Provò a protestare.
«Oh
no, - la mora
intervenne, sconfortata – basta, ragazze: R.I.P.
Camilla…»
«No,
eccole là. –
Anemone se la sentì di condividere
quest’informazione - Servono a indicare dove
espandere il tunnel, se a qualcuno interessa.»
«Belle,
non lo dico
con cattiveria – Camelia reiterò, portando avanti
le mani – Questo. Rimane.
Comunque. Un vicolo cieco. Giriamoci e andiamo avanti? O volete
annegare
nell’acqua dei cessi sporchi?»
«Oddio,
che mood.»
Le fece eco la sua ragazza.
«Spostatevi.»
Iris fece
scrocchiare indici e medi, il rumore le infuse energia, come quando
spezzava la
sua bacchetta colorata ad un concerto ed il fluido fluorescente
illuminava
l’oscurità prima dell’ouverture.
C’era
un ultimo
muro a separarle dal mondo esterno. Ma non gli sarebbero bastati
trucchetti,
infiltrazioni o le suppliche per superarlo. Serviva coraggio. Forza. Un
pizzico
di determinazione.
«Iris…»
Senza
ribattere, la leader decise di affidarsi a lei senza dubbi o indugi.
Aveva il sentore
che
non avrebbe fallito neppure quella volta, se l’avesse
lasciata mantenere la
concentrazione.
Notò
un pattern nel
suo modo di pensare: partiva sempre da dati sensibili. Anche una cosa
piccolissima.
«Qui
l’acciaio è smussato… Uhm…
Se non possiamo usare i nostri, di Pokémon,
non ci resta altra scelta.» Gli
tastò la fronte ed Aaron si fece ritroso subito.
«Archen
è un
fossile, giusto?» Le chiese la ragazzina, ormai sicura su
cosa dovesse fare.
«Ci
hai azzeccato. –
Schioccando le dita per invitare le altre tre a farsi da parte, le
rivolse un
sorriso di incoraggiamento – Iris, fai del tuo
meglio.»
«Sì!
– batté le
mani una volta, presa dall’entusiasmo, contando sulla propria
capacità di
improvvisazione in lotta, contro l’ostacolo metaforico
– Archen, usa Forzantica!
Aaron, tu Zuccata!»
Sebbene non
avessero stretto un legame profondo in quei dieci minuti di strada da
invidiare
agli Allenatori in viaggio da decenni assieme ai loro
Pokémon iniziali, gli
attacchi si combinarono perfettamente, fisico e speciale, mirando
l’uno alle
fondamenta, l’altro alla giusta altezza per far attraversare
Camelia e Camilla,
dato che superavano tutte e due il metro e settantacinque.
Dalla polvere di
cemento, con la tosse intermittente di Catlina a rassicurarle di non
aver perso
l’udito dopo tale boato, emersero le figure tozze e smagrite
dei due piccoli,
uno trotterellava verso la sua nuova madre, l’altro si prese
il suo tempo per
ammirare l’opera dell’uomo ridotta in briciole,
un’esperienza che non doveva
aver visto nella sua era mesozoica.
«Woah,
che figata.
- Anemone non si risparmiava i complimenti, quando sapeva di doverli ad
altri –
Ma… dove andiamo, ora? Dento là? Sappiamo almeno
se si esce fuori?»
Iris raccolse il
quadrupede in braccio, stupita dal peso dello stesso, intanto che il
volatile
si era appollaiato con le zampe sul suo nido spettinato.
«Ti
stai
lamentando? Faccio strada io, allora! – Camelia si
distaccò dalla presa
dell’altra, voltandosi indietro: si mise in posa e fece in
successione sia il
segno della pace, che il dito medio – Bye bye, hasta luego,
sayonara, zàijiàn Team
Plasma.»
«S-Si
dice
“saraba”. Vuol dire “addio” ma
è ancora più forte – Catlina
precisò – Con
“sayonara” ci può essere la minima
possibilità che ci rivedremo. E farei
volentieri a meno, sinceramente.»
Il muro divelto
le
costrinse a saltare fra i mattoni travolti, talvolta abbassando la
testa. Anemone
offrì il suo Swoobat affinché illuminasse la
viscera con Flash: appariva come
una normalissima grotta naturale, nei Percorsi ce n’erano
alcune per
incoraggiare gli Allenatori alle prime armi ad appassionarsi
all’arte
dell’esplorazione.
«Andiamo!
Andiamo!»
Esultò la bionda. Il suo Garchomp ed altri
Pokémon massicci si diedero da fare
per coprire il buco alla bell’e meglio. Le reclute se ne
sarebbero accorte
comunque, ma almeno avrebbero guadagnato tempo prezioso.
Si proposero di
seguirla fino in fondo, una volta uscite avrebbero abbandonato le
cavigliere
localizzatrici dentro ad una pozza di acqua o sotto un cumulo di
detriti.
Proseguirono
ancora
tenendosi strette l’un l’altra: davvero sarebbe
stato tutto in discesa, da quel
momento in poi? Davvero il peggio era passato?
Il Team Plasma
non
era il loro unico nemico. Aveva solo il vantaggio di essere
l’unico da cui una
farsa carnevalesca, una corda di stracci e un’esplosione
potevano cavarle fuori
indenni.
❁
La sabbia del
Deserto della Quiete, distesa immensa nella penisola settentrionale
della
regione, non aveva sentito sulla sua cute dorata nient’altro
che le carezze
delle rose di Gerico e le lacrime del cielo, una volta ogni decennio.
Invece, i passi
che
sprofondavano in essa, lasciando una trama romboidale sul fondo di
piccole
buche allungate, dovevano farle male, come uno sciame di pesti che
alterava la
candidezza della distesa farinosa, una scabbia umana.
L’eremo
tuttavia
rifiutava i pellegrini invadenti, si impossessava a sua volta dei loro
corpi e
dei loro pensieri.
Innanzitutto,
imbrogliava le Allenatrici: quando credevano di aver superato una duna
alta
quanto un’automobile, una di taglia doppia si presentava
sull’altro versante,
rimpicciolendole, lasciandole in balia di discese e salite infinite.
Poi gli
domandava attenzione, come una vecchia scorbutica.
Era una lotta di
sopravvivenza,
uomo contro natura.
«Oh!
Ferme! Ferme
un attimo! – la voce di Camelia, in coda al gruppo, diventava
liquido che
permea, appunto, nella sabbia asciutta –
Aspettate…»
Si
chinò e la
sabbia aderì alle guance lucide, per sostenersi immerse la
mano sulla coltre di
essa e la vide inghiottita, come l’arto del re che tutto
poteva trasformare in
oro.
Sulla terra, il
profilo della sua adorata Zebstrika, dal manto ruvido e spettinato, gli
occhi
chiusi per l’accecamento dovuto alle particelle minuscole,
disegnava una sagoma
delicata, dal contorno perfettamente uniforme. Dopo quella di Swanna,
di Dragonite
e l’intera squadra di tipi Psico, di Emolga che aveva avuto
la fortuna di
soccorrere prima che piombasse giù, un’altra
modesta tomba era stata scavata
sotto la pallida luce del sole calante.
La giovane non
volle nemmeno pensare a tale associazione. Prese la Poké
Ball e richiamò il
Pokémon Zebra immediatamente, pregando la propria
immaginazione impazzita di
non lasciare la polpa in pasto ai Mandibuzz selvatici, di non mostrarle
le
costole color alabastro seppellite dalle tempeste.
Nel silenzio
della
piana arida, Archen prese a strepitare, sebbene avesse seguito il
corteo
tranquillo durante tutto il tragitto, trascinandosi le ali ancora
inadatte al
volo.
Aaron si fece
strada scostando la sabbia con il musetto, sollevandone un turbine ad
ogni
passo indietro. L’intero convoglio fu costretto a fermarsi,
lusso che nessuno,
né persona né Pokémon si
sentì meritevole di concedersi.
Aveva concesso a
Catlina di utilizzare la groppa di Garchomp come mezzo di trasporto,
affidandosi all’immunità dei Tipi Terra, Acciaio e
Roccia al clima desertico;
l’istinto le aveva guidate dalla prigione fino a sotto le
sfumature rosa del
crepuscolo, una nozione di buon senso gli aveva mostrato solo dune,
tane di
Darumaka e altre dune.
Potevano essere
passate
ore ed ore senza bere, mangiare o riposarsi e non poterne ricavare
alcuna
ricompensa, né per gli occhi né per la loro
sanità mentale.
Colei che si era
tenuta
in prima linea, mantenendo un’andatura cadenzata nonostante
gli acciacchi
continui, si lasciò cadere sulle ginocchia, sperando che il
terreno fosse
benevolo ed attutisse, ma come l’acqua e il grano, le
proprietà fisiche si
presero gioco delle sue gambe deboli.
«Basta,
non ce la
faccio più, non riesco a camminare… Ho le
vesciche.»
Iris non credeva
fosse possibile sentire il bisogno di andare in ospedale.
Più tempo passava più
si scopriva dolorante, la testa gonfia e allampanata, il respiro
tremante, non
aveva dimestichezza con sintomi tanto potenti da farle mettere in
dubbio i suoi
quindici anni di perfetta salute. Le botte intanto si facevano di un
indaco
intenso, ma le scorticature rimanevano sempre della stessa
tonalità di rosso,
coperte della stessa sabbia annidatasi fra i capelli, fra le dita,
nelle pieghe
dei vestiti di tutte loro.
Non
slacciò neppure
le scarpe e le svuotò del contenuto infiltratosi fra le
intercapedini. I
calzini ancora umidi le fasciavano il piede pulsante come bende di lino
unte di
unguento, ad imbalsamarla lì dov’era, insieme agli
altri cadaveri spogli.
Loro cinque
erano
criminali appena evase, sulle cui letterali tracce c’era
già un’operazione in
moto per acciuffarle. Dovevano essere state rimesse in catene,
avrebbero fatto posar
loro la prima pietra per costruire il mausoleo del dio del sole, per la
luna
del deserto, per il tempio della gloria.
Sulle loro ossa
sarebbe giaciuta la vita eterna del re Harmonia, una mummia coperta
dello
stesso oro che in quel momento bruciava le loro bocche e gli macerava
le
palpebre.
«Rimettitele
su, o
rischi che un Sandile ti mangi un piede. – Due battiti delle
mani di Camilla vicino
all’orecchio la stordirono, mentre cercava di rimuovere delle
pellicine
biancastre dall’alluce colme di siero appiccicoso –
Dobbiamo andare. Dovrebbe
mancare poco.»
«Manca
poco a cosa?
– Camelia alzò la voce per attirare
l’attenzione di tutte, ponendo davanti agli
occhi della leader la Sfera in cui riposava il suo terzo
Pokémon di fila
esaurito dalla fatica – Che moriamo di fame e di sete? Che un
Darmanitan o un
Krokodile selvatico venga a sbranarci? O, il top del top: Ghecis si
è preso un
elicottero e abbiamo fatto tanta fatica solo per la soddisfazione di
picchiare
Iris a sangue.»
«Non
ti lamentavi mentre
mi prendevi a pugni in faccia e mi gridavi offese razziste,
ah?!»
La mora
gettò
un’occhiata di disprezzo alla ragazzina, ancora per terra,
scalza. Era sua
l’idea dell’evasione, ma poteva imputare solo al
suo istante di sciocca
benevolenza l’averla voluta assecondare per prima fra tutte.
«…N-Non
provare ad
andare a dire in giro che sono razzista, sai?»
Iris si
portò
l’indice alle labbra, per complicità.
«Mai
pensato! Sei
antipatica, crudele e io ti odio… ma non sei razzista.
Scusa.»
«Dopo
il dossier
credo che la community della moda mi abbia cancellata e adesso sono
irrilevante
e nessuno vorrà più sponsorizzarmi e
dovrò trovarmi un lavoro serio dove si
suda e bisogna avere un diploma e… Aspetta, noi stiamo per
morire, possiamo
pensare a questo?!»
«Beh,
non è mica
detto che moriamo… – Catlina aveva la testa a
penzoloni sulla spalla del drago
della compagna, gli occhi serrati per i capogiri –
…di stenti o ammazzate.
Potresti
prenderti
un colpo di calore. O una commozione celebrale. O un
infarto…»
Mossa
dall’avversione nei confronti di tale pessimismo, ma memore
della potentissima
lavata di capo inflittale da Camilla il giorno che erano arrivate a
casa di
Nardo, raccolse l’unica delle compagne con un senso
dell’umorismo abbastanza
versatile e le sussurrò.
«Per
fortuna che
non ci sono lampadari o lampadine nel deserto…»
«Iris,
pff…»
Adorò
la vista di
Camelia che si copriva la bocca e tratteneva una sonora risata,
meravigliata
dalla sua inventiva comica. Un piccolo traguardo raggiunto prima di
passare
all’aldilà, stupire di gusto la modella
più viperina sulla faccia della Terra;
per la prima volta la mora stava ridendo con lei e non di lei, ma della
sub-leader. Sperò solo che quella non avesse sentito niente.
«Boh,
io ho sonno. –
La biondina sistemò il braccio come cuscino, affondando la
guancia nella parte
liscia della manica, assorbendo la sua voce delicata nel tessuto
– Detto
questo, crepate in silenzio, per favore. Già non sopporto il
rumore che fate vivendo,
figuratevi i discorsoni drammatici che vi farete quando vi mancano 5
secondi di
vita. ‘Notte.»
Per assicurarsi
che
l’aristocratica inferma non dissimulasse la morte con il
sonno, prese a
punzecchiarle il viso senza difetti, come si fa con i molluschi arenati
sulla
spiaggia. Aveva le guance morbidissime, Iris si accorse, non aveva mai
avuto
vero e proprio contatto fisico con Catlina e si dispiacque di
ciò.
«Anemone,
- Camilla
aveva diligentemente controllato le pulsazioni dei membri del Team
rimasti in
piedi, non trascurando neppure quello della sua amica di infanzia,
scacciando
Iris dal suo breve passatempo, nonostante il suo infantile, evidente
disappunto
– stai pensando a qualcosa?
«Uhm!
– La rossa
annuì una volta, strabuzzando le iridi azzurre, irrorate per
i granelli di
sabbia – Mi è appena venuto in mente che, woah,
tutte le altre volte sì e
questa no? Ce l’hai con me per quella cosa che ho detto in
cella? Che ti avevo
minacciato?»
«Niente
nomignoli,
non devi dirmelo due volte.» La donna sospirò,
dandole una pacca sulla spalla.
«Ma,
boh… -
sgonfiate le guance dall’aria raccolta per simulare un
broncio indispettito –
non è che a me dispiace se mi chiami “tesoro,
cara, amore”. Okay, magari non
tutti quanti insieme. A me partono i neuroni quando lo fai apposta
per… avere
la mia simpatia? Cioè, sembra che te ne freghi di me solo
quando ne hai
bisogno.»
«Ah.
Io… mi
dispiace. Pensavo che ti facesse piacere, visto che siamo tutte
femmine, avere
un po’ più di intimità fra di noi.
Visto che sei stata tu a fare il primo passo
e presentarti, quel giorno…»
Anemone
arrossì
sotto la coltre di sudore dispersa sui suoi zigomi: credeva davvero che
Camilla
la considerasse un semplice digestivo per quando le circostanze non
andavano
giù lisce come lei si aspettava. Voleva spesso arrendersi ed
accettare quelle
gentilezze a braccia aperte: non ne poteva più di sentire il
suo nome dai
compagni delle superiori, il cognome dai colleghi e suo nonno che
recitava
tutto per intero quando lei difettava di obbedienza.
«A
proposito di
giorno! – Batté le mani così forte da
risvegliare Catlina e le altre dalla
trance e si precipitò sulla cresta della duna, modellata dal
vento con una
salita in apparenza dolce ma che ricadeva in uno strapiombo nel lato
opposto –
Il sole sta tramontando.»
Iris non
ascoltò
l’istinto di auto-preservazione ed alzò la testa:
un doloroso velo nero le
balenò davanti alle pupille. La sua compagna lo aveva
menzionato e lei aveva
provato a guardare la palla di fuoco direttamente, che
ingenuità per una che
aveva insistito nel non affidarsi più all’istinto.
L’aviatrice
stese
un braccio verso la porzione di cielo screziato e l’altro in
direzione perpendicolare.
«Quindi,
quello è
occidente – Camilla intuì – dove il sole
cade.»
«Se
quello è
l’ovest, questo è il nord. Quindi… - si
chinò, disegnò con il dito una croce e
ci mise le iniziali dei punti cardinali alle estremità
– Per di qua andiamo a
Sciroccopoli, di là torniamo ad Austropoli... ma non ci
conviene, visto che
avranno piazzato la polizia ad ogni angolo.
Ancora lo scorso
inverno ho fatto ricognizione intorno ai gasdotti che attraversano il
deserto e
se non mi sbaglio, c’è un’autostrada.
Basta seguirla e…»
La rossa
gesticolò
qualcosa in codice al suo Unfeazant, prima che spiegasse le ali bigie
verso
l’alto. Dopo neanche una ventina di metri l’uccello
puntò a nord-ovest. La
ragazza sorrise, interpretandolo come un ottimo segno. Se la forza
della natura
le trascurava così crudelmente, la trigonometria le
assisteva con una distanza
inferiore ai due chilometri dall’intersecare il lembo scuro
d’asfalto che
connetteva a capitale ed il centro divertimenti di Unima.
«Okay.
Quindi: -
Camelia calpestò la rosa dei venti e si posizionò
di fronte alla sua ragazza,
avvolgendola con la sua ombra – la tua idea è di
andare a piedi attraverso il
Deserto della Quiete fino a Sciroccopoli?
Tesoro, ti devo
ricordare che fino a ieri non ti ricordavi nemmeno il tuo orientamento
sessuale
o…?»
«Uh…
Sì? Fra poco
fa buio. - Tre secondi di silenzio. Anemone rovesciò lo
sguardo a terra, dove i
piedi si erano insabbiati – Di notte la temperatura scende
anche fino a venti
gradi sotto zero. Ritenzione termica, se ti interessa.»
«Aggiungo
anche –
Catlina si svegliò, tramortendo anche il Pokémon
su cui era sdraiata con quella
strana eccitazione – “ipotermia” alle
possibili cause di morte. Ricapitoliamo:
ustione, fame, sete, omicidio, ipotermia, stenti… o
l’ho già detto? Vabbè,
attacco di Pokémon selvatici…»
Con uno
starnazzare
sgraziato, più riconducibile ad uno Spearow a cui si tira il
collo per farcirlo
ed infornarlo a pranzo che ad un esemplare del tutto evoluto,
l’Unfeazant
mandato a misurare la distanza dall’autostrada cadde a terra,
esausto. Non
riportava ferite.
La sua
Allenatrice
sospirò, munendosi della Sfera per richiamarlo dopo
l’aiuto offerto loro.
«…tempesta
di
sabbia.»
«Tempesta
di
sabbia! – Il colore svanì dalle gote della
Superquattro, la polvere biancastra
un perfetto fondotinta e illuminante – No, aspetta, a parte
Garchomp e i
trovatelli di Iris non ci rimangono altri
Pokémon…»
«E
allora, andiamo.
– Camilla cacciò il ciuffo dietro
l’orecchio e quello scivolò immediatamente
nella sua posizione iniziale, disobbedendo alla fisica e alla sua
padrona –
Supereremo anche questa prova, ne sono certa! Del resto, pensare sempre
che
“potrebbe andare peggio” non è una buona
cosa.
Se una forza
soprannaturale potesse soffiarci da sotto il naso tutto il nostro
progresso,
avrebbe senso continuare a sperare? Ci pensate mai, a
cos’è la speranza?»
«Uhm…?»
La incalzò
Iris. Dopo tutto quello che avevano subito e scavalcato, le mancavano i
monologhi filosofici della sua leader.
Scesero dalla
collina in fila indiana, sfruttando la pendenza per slittare in basso
senza
dover inciampare sui lacci o sulla roccia friabile. Il vento della sera
aveva
già livellato molti dei dossi e se non fosse stato per le
tane dei Drilbur
birichini ad intralciarle, potevano dire che la parte più
aspra del sentiero
era ormai alle loro spalle.
Quella che
Anemone
aveva chiamato autostrada non aveva nemmeno parapetti degni di non
venire
scavalcati da una bella rincorsa spericolata. Non c’erano
strisce pedonali, ma
che pro scomodare la verniciatura stradale fino a quel punto morto
sulla mappa
della regione? Guardarono comunque a destra, sinistra e ancora destra,
su entrambe
le corsie, solo poche scie degli anabbaglianti rossi dei van container.
Ancora, non
c’erano
fondi per ricostruire edifici antichi, per tenere un processo, per
assumere
personale con esperienza a tenere d’occhio i furfanti: che
speranza potevano
avere le infrastrutture e i trasporti?
Mancava qualche
giorno al solstizio d’estate, ma nemmeno il faraone poteva
comandare al dio del
sole di non ritirarsi sotto i monti; nessuno però impediva
agli altri mortali
di sfidare l’egemonia della sua luminosità: le
quattro lettere di un’insegna al
neon rosa baluginavano una dopo l’altra. Nope…
Enop… Open.
Catlina
protestò
subito, ribadendo quanto il solo venire spottate da un cliente del road
bar o
da un’automobilista curioso avrebbe messo fine alla loro
corsa, costruendosi
pure una contro-argomentazione in riguardo a chi diamine interessasse
riportare
alla polizia delle luride saltimbanchi colte in flagrante
nell’imperdonabile
atto di andare a sistemarsi la zazzera. Disse che il malloppo che
Acromio aveva
promesso anche ad Anemone per corromperla rimaneva nelle tasche del
Team,
almeno temporaneamente.
Fu inutile,
Garchomp aveva ormai attraversato le due aree di servizio, dove ancora
nessun’auto si era fermata. Il tintinnio del campanello
allertò una giovane
cameriera, che si strinse nel canovaccio e nel bicchiere che stava
lucidando e
gli sorrise educatamente.
«Mi
scusi, possiamo
usare il bagno?»
«Uhm?
– batté le
ciglia pesanti per il mascara messo a dura prova dal clima desertico -
Sulla
destra.»
Dopo averla
disturbata, Camilla eseguì un inchino per insolito riflesso
culturalmente
inappropriato, guidando le compagne come fossero in gira scolastica
attraverso
il pavimento in piastrelle a scacchiera, sull’intonaco
acquamarina targhe di
vetture d’epoca, segnaletica stradale corrosa artificialmente
e cimeli più o
meno autentici da un decennio specifico fra metà e fine
secolo, nessuna però
riuscì ad identificare quale per l’esattezza.
❁
Il fruscio del
ventilatore a muro e la radio a medio volume con un dj invasato
rinfrescavano
il locale. Nessuno occupava gli sgabelli o i tavoli attorno al bancone.
̴
Lo scarico
ruggiva, il loro consumo d’acqua potabile in grado di far
rabbrividire
gli ecologisti e gli enti benefici delle pubblicità
progresso emotivamente
manipolanti di prima serata.
Le cinque
ragazze
si crogiolarono in quel sollievo momentaneo. Certo, se avessero avuto
un
Pokédollaro per ogni volta che si ritrovavano in una
toilette a rimuginare
sulla loro incredibile abilità di sopravvivenza…
avrebbero avuto due Pokédollari.
Non era molto,
ma
gli parve strano che fosse capitato ben due volte nel corso della
stessa
avventura. Quando si parla di diversificazione delle strategie, i
manuali di
narrativa non sono mai incorporati nella nostra realtà
crudele.
Erano contente
di
quel bagno pulito, uno sprazzo di normalità al profumo di
candeggina.
Iris non aveva
mai
passato così tanto tempo davanti allo specchio in vita sua.
Le sembrò proprio
che il tempo fosse rallentato e non provava pena per quelle sue
coetanee
dall’agenda piena di appuntamenti romantici per cui quella
sensazione esoterica
si ripeteva ogni singola sera.
Si
lavò le mani
fino ai gomiti e sfruttò le articolazioni già
snodate dalla corsa per sporgere
le ginocchia fino alla vasca del lavabo, conscia delle sue maniere poco
signorili. Più che delle ferite vere e proprie ferite, dallo
strato di sabbia
appiccicosa emersero solo dei tagli irritati. Doveva aver solo fiducia
che sua
epidermide guarisse senza disinfettante o garze.
Si
lavò il viso, le
sembrò quasi di riuscire a vedere tutto più
chiaramente, come se avesse pulito
le lenti sporche di un paio di occhiali invisibili. La coda di cavallo
ora era
a posto.
Si era lasciata
il
piacere maggiore per ultimo, apposta: le labbra color pesco toccarono
il flusso
pulito e limpido, ignorando il retrogusto calcareo ed il leggero
refrigerio
alle gengive, rese ancora più sensibili dalla
disidratazione. Non credeva di dover
cedere, un giorno, ai proverbi semi-ovvi di sua nonna adottiva, ma non
c’era
davvero nulla di meglio dell’acqua fresca sulla faccia della
Terra.
«Okay.
A posto. –
Si sentì strattonare i capelli non con eccessiva violenza,
se non che si lasciò
allontanare dalla sua deliziosa fonte artificiale di gioia –
Dai, Iris, basta.»
«Ma io
avevo ancora
sete…»
«News
flash: bere troppa
acqua fa gonfiare lo stomaco e la pancia. – Avrebbe fatto
opposizione a
qualsiasi consiglio estetico non convenuto Camelia le avesse appioppato
in
qualsiasi altra occasione, ma non le restò che un mugolio
indispettito – So che
tu non lo sai, quindi te lo dico con gentilezza, ma se rovini la mia
idea ti
stacco io le poche tette che hai e, boh, cosa dovrei farmene? Sono
talmente
insignificanti, non me ne farei niente…
Forza,
ritenzione
idrica! Aiuta queste povere anime come hai aiutato me a uscire dal
ghetto e
fare i milioni.»
«Però
tesoro, –
seduta sulla tazza chiusa con la testa adagiata al ginocchio, Anemone,
già terminata
la sua toelettatura, osservò la sua ragazza con scetticismo
– non ci hai ancora
spiegato bene cosa dobbiamo fare esattamente il
“piano” che avevi pensato. Si
sta facendo buio, fuori.»
La ragazzina si
stupì ancora di come i cambi d’umore della
compagna non la infastidissero per
niente.
La modella aveva
insistito di voler essere gentile e di volerle proteggere. Alle altre
tre
fuoriuscirono gli occhi dalle orbite: la concorrente più
bisbetica e viperina
che finalmente puntava il dito contro se stessa. Quello sì
che si poteva
definire uno sviluppo del personaggio! O meglio, si sarebbe potuto
definire
tale se non avesse aggiunto il personale desiderio di rivalsa dal non
aver
contribuito alla creazione di un signor piano, senza le virgolette ai
lati.
«Vi
faccio uno
spoiler: - chiuse pollice e indice e li agitò sfacciatamente
– non include
entrare nelle fogne, pestare la gente di botte o sporcarci le mani in
alcun
modo. Facile come catturare un Magikarp con una Master Ball.»
Non colse la
parola
precisa, ma una di esse fece scattare Anemone in piedi e quella
scoppiò in un
applauso compiacente, accolta da un mezzo abbraccio
dall’altra.
«Camelia
Taylor è
la mia – enfatizzò il possessivo, sorridendo beata
- Campionessa di Unima!»
«Yay,
sì, amore
mio! – attirò nella stretta anche la biondina,
confusa da tutto quell’affetto
ma comunque non restia. La mora attirò infine
l’attenzione della leader, sicura
di una qualche obiezione alla sua idea brillante da spianare con un bel
dibattito – Camilla?»
«…eh?»
La donna si era
lasciata
ciondolare contro la porta del bagno, senza dire una parola fino a quel
momento, in cui aveva poco velatamente dichiarato di non averci capito
nulla.
Camelia lo avrebbe preso come un “chi tace
acconsente”.
Tuttavia, il
dolce
profumino del cioccolato al latte e il rumore delle granelle croccanti,
musica
sotto i denti…
«Camilla,
dove hai
preso quel gelato? – Iris inclinò il capo
– N-Non abbiamo soldi per pagare…»
«Senti
chi parla.» La sua coscienza
la pizzicò nel fegato. Le sue compagne non sapevano nulla
della sua piccola scorribanda, ed invece era proprio quella la ferita
che
dentro lei era invecchiata peggio.
«…volete?»
La donna
alzò le
spalle, con calma serafica. Spezzò la rigidità
del polso ed offrì lo stecco di
cui ormai rimaneva soltanto la crema alla base. Sotto il ciuffo, i suoi
occhi la
pregavano di rifiutare ed avere pietà del suo essere stata
privata del suo
snack preferito, avendo pure bevuto il cocktail di vendetta al gusto
Plasma e
sale.
«No,
grazie…» La
più giovane ottenne un sorrisino ingenuo e lasciò
in pace la sua leader a
godersi quel piccolo premio per non aver perso le staffe neanche una
volta dall’uscita
dal carcere.
«Ah,
Iris, -
Camelia si intromise nello spazio personale di lei, alla ricerca della
tasca
posteriore dei pantaloni della tuta – mi serve un attimo, per
completare le
preparazioni…»
«No,
aspetta, -
provò a recuperare l’oggetto che la ragazza
più grande le aveva strappato di
dosso, ma come un micio che si lancia sul puntatore laser, la statura
di una
top model poteva benissimo eludere i suoi salti a due piedi, ridicoli
– non
puoi usare i miei Pokémon… Tanto non ti
ascolta…»
Sbalordito dal
repentino cambio di situazione, ma pur sempre sollevato dal non
trovarsi esposto
alla tempesta di sabbia, condizione metereologica non favorevole, il
draghetto
dalla corazza verde scarabeo si sgranchì le zampe.
«Fraxure,
- la
Capopalestra, che non aveva mai allenato un tipo diverso
dall’Elettro in
diciassette, quasi diciotto anni di vita e sei nel circuito
competitivo,
addolcì il tono, fissando le pupille nere del
Pokémon sulle sue. Poi gli fece
tre strani segni – usa Forbice X sulle nostre
uniformi.»
«No,
no, no, no,
no, no, no, no, no…»
Iris aveva
afferrato al volo. Non era fiera del proprio intuito, visto che ormai
la
supposizione più sconveniente e infima si rivelava sempre,
purtroppo, la
risposta corretta, quando si trattava delle idee delle sue amiche.
Una linea sotto
il
petto per domarli. Una sopra il bacino per trovarli. Infine, una a
livello
dell’inguine per condurli da loro e portarle almeno fino a
Sciroccopoli.
Stettero tutte
immobili, lasciando lavorare gli artigli affilati del loro sarto
personale.
La stoffa di
qualità scadente si lasciò smembrare, lasciando
un labbro sfibrato come le reti
di un pescatore vuote dopo una battuta poco fruttuosa. In quanto a loro
però,
era appena caduto il muro che le separava dal mare delle
opportunità, insieme
ad una buona porzione del pantalone e tutto il tessuto fra i due bordi:
finito il
lavoro impeccabile durato solo alcuni istanti, Camelia
invitò le altre a
disfarsi di quei cilindri di stoffa inutile ed utilizzò una
striscia del suo
per legarsi i capelli a mo’ di bandana dietro la frangetta.
La
più giovane
Allenatrice si portò i palmi davanti alla bocca e sulle
guance: i pezzi
tagliati intanto erano scivolati da soli, lei non aveva mosso un
muscolo per
spogliarsi di essi.
«Perché.
Cioè…
perché.»
Trattenendo il
respiro, sfilò verso il basso la parte centrale. Volle
battersi la fronte:
Camelia aveva ragione al cento per cento: la sua pancia color
caramello,
dall’ombelico aperto marcato da un solco sottile, alla linea
alba sembrava
piatta più del solito, le costole si notavano leggermente
perché la pelle
aderiva alle ossa, non avendo sviluppato addominali prorompenti o
tessuto
adiposo.
Proprio per
quello
scelse di non arrotolare la maglia sotto il seno. Calciò via
i due tubi delle
gambe, notando come la cucitura asinina del cavallo delle braghe fosse
larga
solo in apparenza. Senza la gamba completa, l’elastico si
attorcigliava lungo i
suoi glutei e fra le sue cosce, le quali di solito non si toccavano,
causavano
un leggero attrito a cui si abituò di malavoglia.
L’unica
modifica
che richiese fu che la forte Anemone le strappasse con le sue mani le
maniche
lunghe. Erano nel deserto, faceva caldo. Invece di rompere il
poliestere, ormai
assodato come più duttile della seta di un atelier di alta
moda, la rossa
riuscì a sbregare le cuciture sulle spalle e a rendere
quella che era la tuta
unica della sua amica una canottiera a spalline larghe abbinata ai
pantaloncini
corti che ella metteva spesso anche nella sua quotidianità.
«Direi
che siamo
pronte?»
«Aspetta…
ultimi
dettagli…» la mora stava raccogliendo con un
elastico fatto del medesimo
materiale la fiamma brulicante della compagna in uno chignon un
po’ arruffato,
lasciando scendere due ciuffi più lunghi ai lati, davanti
alle orecchie.
«E
tutto quello che
dobbiamo fare è… - Catlina aveva annodato la sua
chioma bionda, sicura di non
avere chance nel districare i numerosi nodi formatisi in quel nido di
Swellow e
fatto un fiocco all’estremità –
sorridere, testa alta, petto in fuori, pancia
in dentro?»
Non si fece
cruccio. Sotto le luci i segni delle cicatrici si vedevano, ma magari
era solo
un’illusione ottica. Ai pantaloni tuttavia, avrebbe preferito
una bella gonna
ampia, ma le circostanze non le avrebbero permesso di metterne una,
neanche
fosse stata disponibile nel loro guardaroba.
«Così,
sì.
Atteniamoci al piano.»
Camilla
esalò un
sospiro divertito, tenendo ancora a penzoloni fra i canini lo stecco
del suo
gelato. Avendo notato subito quanto quell’abbigliamento fosse
indecente, specie
per una della sua età, si mise d’impegno per
rigirare i bordi strappati, per
nulla consoni ad una giovane perbene. Fallì
nell’accorgersi che adesso oltre
mezza natica era rimasta scoperta e che il peso che si ritrovava a
portare
davanti non bilanciava quello dietro: nella sua regione i magazine
avevano
passato settimane indulgendo in gossip sui vestiti della Campionessa.
Almeno, con le
sue
care ragazze, poteva per una volta andare in giro per con
più pelle esposta che
coperta senza sentirsi giudicata.
Camelia si mise
al
suo fianco in testa al gruppo, con la sua fidanzata attaccata a lei, lo
sguardo
perso sull’alquanto originale trovata di sbottonare la maglia
e legarla sotto
il petto, trasformandolo in un delizioso tank-top vintage con vista
premium.
Finché
i loro
outfit coordinati non erano tutti all’ultimo grado non
sarebbero uscite dal
bagno. Regola non scritta delle adolescenti.
Quando lo
fecero,
la cameriera di prima lasciò precipitare un piatto dietro il
bancone;
mortificata, raccolse i cocci, dietro le gote paonazze.
La musica si
fece
più intensa, la chitarra elettrica esultò dagli
amplificatori. Era ora.
«Ricordate:
non
fate saltare la copertura. State rilassate e concentratevi. –
Camilla sussurrò
ed un “uhm!” raggiunse i suoi padiglioni, ma lo
sguardo era dritto verso
l’uscio del locale – Da qui in poi, solo iniziali.
Andiamo,
ragazze.»
Appuntandosi di
non
chiamare mai Camilla, Catlina e Camelia (da come aveva storto il naso
anche
Anemone ci aveva fatto caso) Iris si accarezzò i capelli,
lasciando respirare
la nuca fino a che potevano approfittare del condizionatore.
«…andiamo,
dove? Questo “piano” non funzionerà mai.
Speriamo almeno
che ci si diverta.»
❁
̴
Trascorsero un
quarto d’ora appollaiate sugli avambracci, il marciapiedi si
era ormai raffreddato e le tre giovani, la modella, la leader e
l’aspirante
Allenatrice, si godevano le venature sulle rocce rugose
all’orizzonte, i
lampioni ai lati della strada si erano già accesi: il
cronometro ticchettava e
ancora nessuno aveva accostato.
Camilla si
alzò e si stirò le spalle. Non era un miraggio.
Qualcuno aveva
messo la freccia a destra.
Destò
le altre due dal loro ozio catatonico, gli bastò solo il
rombo di un
motore aggressivo, ancora bollente per la corsa a oltre centoventi
chilometri
orari sul rettilineo che connetteva le metropoli.
«Ma
buonasera, dolcezze!»
L’ereditiera
e l’aviatrice udirono quel saluto invece, ricambiando con una
calorosa accoglienza che poteva essere motivata solo un buon salario o
una
grande disperazione. Nessuna persona sana di mente risponde
“oh, buonasera a
voi!” di sua spontanea volontà dopo essere stata
chiamata con un vezzeggiativo
da un estraneo.
«Oggi
deve essere il nostro giorno fortunato, eh? Siamo quasi a secco nel
mezzo del dannato deserto e non solo il gasolio ci viene meno del
solito… Ma
abbiamo beccato pure un servizio che… eh.»
O da un intero
branco di estranei. Catlina si arricciò con
l’indice una
ciocca caduta dalla coda socchiudendo gli occhi verdi, mentre lo stesso
interlocutore lasciò libera una chioma bruna e incurvata dal
casco
impiastricciato di adesivi di loghi tribali. Si acconciò
invece baffi e barba
con il dito, attorno a quel ghigno vittorioso per un semplice saluto.
«Eh,
ultimamente – Anemone gli indicò la tabella dei
prezzi a ridosso della
prima postazione: personalmente, trovava gli aerei un argomento di
conversazione molto più interessante delle moto, ma non era
a caccia di un uomo
con cui condividere i suoi interessi – il gasolio e il GPL
sono saliti. E per
trovare posti con prezzi onesti bisogna farne, di
strada…»
L’omaccione
le diede ragione insieme a tutto il branco, scambiandosi
qualche parolaccia giusto per dimostrare apprezzamento per una donna un
filo
competente in materia. Una decina di membri orbitavano attorno alla
Harley
Davidson rosso vinaccia del capo banda, senza nemmeno
un’ammaccatura, a
differenza delle braccia villose su cui i segni di qualche rissa si
mimetizzavano con tatuaggi di Pokémon intimidatori.
Charizard, Rayquaza, Tyranitar…
chissà se li avesse almeno mai visti di persona,
quell’individuo losco.
«Prego,
da questa parte.»
Catlina
imitò le movenze dei valletti che servivano il tè
con i biscotti a
casa dei suoi genitori, mescolandoli all’ingenuità
posticcia delle maid che servivano
il tè nel distretto degli otaku di Cuoripoli.
Pensò ingenuamente che il
carburante fosse proprio come una bibita per veicoli, visto che solo
dei
fanatici potevano dedicare così tanto tempo e denaro a delle
creature non
viventi ed aspettarsi tali ossequi nel mentre.
«Fai
strada, biondina.»
Le due giovani
si presero
sottobraccio e tornarono verso la stazione centrale ridacchiando
soddisfatte.
Con una nota
telepatica, Catlina aveva tristemente notato che le loro belle
facce e qualche strappo strategico alle loro uniformi per rivelare un
po’ di
pelle non sarebbero bastati per attirare potenziali clienti: non ne
sapeva
molto di marketing, visto che gli Allenatori non avevano mai smesso di
affollare il Parco Lotta da quando i suoi genitori avevano ereditato
l’attività.
Ma guidando
altri tre chilometri e fermandosi ad uno strip club i centauri
avrebbero trovato, oltre a del make-up e dei costumi di scena
più raffinati,
anche attrici migliori. Serviva un ritocco al modus operandi.
Anemone
l’aveva coperta subito: usando solo una mano sfilò
dal pannello con
i prezzi il cartello bianco della seconda cifra dopo la virgola e lo
reinserì
capovolto nei suoi listelli. Faceva talmente tanti calcoli per le merci
all’ingrosso da trasportare che a volte perfino un cervello
allenato come il
suo si illudeva che uno punto sei fosse meno di uno punto nove, se non
arrotondato.
«Okay,
principessa marchesa contessa duchessa
margravina Yamaguchi-Haato, - Anemone le
avrebbe rivolto
un bel tono sprezzante per innalzarsi con quell’iperbole al
livello della
compagna più anziana e darle indicazioni su un concetto al
limite del banale,
ma che alle sue orecchie sarebbe inevitabilmente risultato alieno, in
quanto
lontano dalla sua limitante esperienza di vita; si
accontentò di ammiccare e
ricreare la sua battuta in testa, sapendo di essere ascoltata da un
cenno
minuscolo – hai mai fatto benzina?»
Catlina aveva il
mento incollato alla clavicola destra, pensierosa mentre
cercava di tenere il passo atletico della compagna. Quella
rallentò,
adattandosi ai secondi sprecati dalla bionda per confermarle una cosa
ovvia per
pura educazione, ossia il non avere neppure la patente.
«Uh…
no, non credo.»
«Bella…
allora, ti spiego: aspetta che i soldi se
li sia mangiati la macchinetta, appena vedi le cifre che cambiano sul
monitor,
schiacci “gasolio” e, ti prego, tieni la pompa blu
con la bocca girata verso
l’alto, che se ti rovesci la benzina sui piedi ci sgamano
malissimo…
Sì,
ma vabbè.»
Si
fermò d’improvviso, facendole quasi perdere
l’equilibrio e rovinare
sull’asfalto striato dai graffi neri di copertoni inclementi.
A Catlina non
piacque per nulla lo sguardo inquisitorio lanciatole dalla ragazza che
pur tenendola
ancora a braccetto, riuscì a farla sentire in colpa.
«Eh…
cosa?»
«Cat,
non ho parole… Mi stavi guardando le tette.»
«No,
non è vero.» Tirò
su col naso l’aria torrida e la tossì fuori,
insultata da quella
presunzione, la stessa che aveva avuto lei sulla rossa durante la lotta
al café
del centro commerciale.
«Capisco
– e le
appoggiò la
mano abbronzata sulla spalla, addolcendo il ghigno che esalavano anche
i suoi
occhi – che se la tua ragazza ti tradisce ti senti,
in un certo sento, in
dovere di vendicarti ma, sai com’è… io
sono ufficialmente fidanzata e se lo
viene a scoprire Camelia tu… tu a dicembre non ci arrivi,
per fare i vent’anni.»
Che ipocrita.
Avrebbe voluto aggiungere quanto fosse tipico della classe
medio-bassa riciclare le critiche mosse in passato ed usarle contro gli
altri.
Ma ultimamente, specie osservando la sua duplicità quando il
suo animo era
stretto nella morsa velenosa di Acromio, Anemone si era
inconsapevolmente
avvicinata a lei e vuotato il sacco di dubbi che entrambe si caricavano
sulle
spalle dall’inizio delle loro relazioni clandestine.
«D-Davvero
credi che Camilla non provi niente per
me? Sempre se ne possiamo parlare…»
«Niente?
Non direi, nah. Ma certo! Vieni dietro
con me e se non ci fai conversazione con questi delinquenti,
riprendiamo il
discorso.»
Era sicura che
l’altruismo di Anemone l’avrebbe portata a
strappare i
petali delle loro margherite, sperando di arrivare, imperturbate,
all’ultimo
“Camelia e Camilla ci amano, certo, è
sicuro”.
«Sono
un bel po’. Sembrano abbastanza agitati, ma non espressamente
malintenzionati. - Giunte a una spanna di distanza dal resto del
gruppo, con un
cenno serioso la leader diede inizio all’operazione.
– Il capo, quello con la
moto rossa là, seguono tutti lui. E, non so, anche a costo
di suonare
misantropa, state attente.»
«Poco
socievoli qua, le addette alla pompa. – Il capo
ringhiò e subito
scoppiò a ridere insieme alla banda, dando una botta al
manubrio per
crogiolarsi nella sua simpatia – Se va avanti
così, zero stelle al personale.»
Si munirono di
tergicristalli, liquido anti-gelo e la facciata da
dipendenti statali non troppo estatiche all’idea di dover
servire gli ultimi
clienti della giornata, ma senza far sospettare alla gang di
motociclisti di
non conoscere il protocollo delle stazioni di servizio con un servizio
in più.
I più
disinibiti fra quei brutti ceffi già inspiravano rivoli di
voglia,
afferrando la pelle dei sedili e scambiandosi commenti in codice
tutt’altro che
ermetico. Partirono schiamazzi e qualcuno suonò il clacson,
fischiando: quella
reazione in vista di una semplice interazione con delle ragazze
giovani, si
presupponeva lì per fargli solo benzina.
«Allora,
dove lo mettiamo, quell’olio, eh? Lascio fare alle tue belle
manine, tesoro!»
La ragazzina
più giovane ringraziò di aver trascorso gran
parte della sua
vita nel quartiere benestante di una delle città
più sicure della regione.
Neppure ai tornei dai quali era uscita vincitrice tanti occhi si erano
incollati a lei, alla sua pelle, su cui strisciavano quali echinodermi
viscidi:
anche lei aveva guardato Camilla così, quando
l’aveva vista brillare dietro al
braciere alla Lega?
«Camilla,
- le afferrò il polso e la donna appoggiò lo
straccio per pulire
la cromatura sulla spalla – non me la sento di
andare.»
«Uff…»
Sentì lo sbuffare della mora, ormai voltata e diretta dal
capobanda
con il suo incedere artificiale, ora l’attenzione era sulle
sue anche sporgenti
da sopra gli shorts.
«No,
h-hai ragione. Avremmo dovuto prendere questa cosa in considerazione.
Sei ancora piccolina per certe cose, Iris. E per fortuna, aggiungerei.
Lascia
fare a noi quattro. Tu ci hai aiutate fin troppo oggi.»
Inizialmente
temette il peggio, di ricevere accuse di arrendevolezza, ma la
risposta comprensiva della donna le diede sollievo nell’aver
dato voce ai
propri sentimenti.
«G-Grazie,
Camilla. – A parere suo, poco contava la sua età.
Sapeva che Camilla
era inesperta quanto lei e quel genere di situazione la esponeva ad
attenzioni
indesiderate - N-Non farti toccare da questi tizi, per
favore…»
«Nessuna
di noi vuole tutto questo, ma non c’è altro modo.
Fidati di me.»
Come un ago
attratto da un magnete ineludibile, la Campionessa di Sinnoh, ancora
imbattuta e rispettata a tanto che i suoi detrattori avevano dovuto
inventarsi
calunnie morali per screditarla pubblicamente, si presentò
al cospetto di un
motociclista calvo che, dopo averle fatto i complimenti e domandato se
si fosse
messa a dieta come se si conoscessero da una vita, inseguì
con lo sguardo il
seno della sua compagna, senza che lei dicesse nulla.
La ragazzina si
stese contro la parete e le scapole sporgenti le punsero la
schiena, rigida come un tronco. Anche in quel momento di estrema
difficoltà, di
vita o di morte, aveva scelto di onorare non solo la regola
d’oro imposta dal
loro distruttivo delirio nel parcheggio, solo che pur di non macchiarsi
di
ipocrisia aveva lasciato alle compagne il lavoro sporco.
Quelle quattro
avrebbero dovuto avere paura, averne molta più di lei e
delle sue paranoie inspiegabili.
Non le veniva in
mente nessuna che si sarebbe lasciata canzonare e
abbindolare da quei nomignoli mentre passava il lubrificante sui raggi
delle
ruote (quei mascalzoni non si stavano nemmeno accorgendo che le loro
preziose
figlie meccaniche stavano subendo vilipendio, da quanto erano assorti),
ma lo
sapeva come uno sa debolezze e resistenze del proprio Tipo, che le sue
compagne
avevano un rapporto discutibile con gli uomini.
Non con i
bambini, non con gli adolescenti o gli anziani. I compagni
impertinenti, gli ex-fidanzati manipolatori e borderline abusivi, i
loro
fantasmi permeati nella membrana del loro inconscio e le distraevano
dagli
allenamenti, dai successi, dalle gioie dei loro giorni tranquilli,
tutte
assieme.
«Ma
per fortuna che io non sono così.»
Iris
rovesciò la lingua e la lasciò schioccare sul
palato, come se alla sua
onorevole causa mancasse un nonsoché di concreto. Aveva
attutito calci e botte
come una sacca da boxe in nome dell’atarassia e dei loro
principi rivoluzionari
assicurando alle sue amiche che le chiedevano “E se ti
facciamo male?”, “E se
il Team Plasma ci scopre?” martellandole il sistema limbico
con la telepatia.
“Ce la
posso fare. Andrà tutto bene. –
Camilla aveva detto che era migliorata nell’auto-ironia,
quindi ruppe
quella sacralità - Non deve dispiacervi per me
proprio adesso, dai!”
Invece, a
sentirsi male perché Camilla, Catlina, Camelia ed Anemone
stavano
fingendo fin troppo bene di cadere nelle trappole di adescamento di una
banda
di centauri il doppio della loro età… era lei.
«Eh?
Cosa? – La modella era quella che, qualora non le andasse
proprio giù
che il capo flirtasse apertamente con lei sotto
l’indifferenza della sua
fidanzata, stava dissimulando meglio il suo disgusto – Ah,
capito, capito.
Provvediamo subito!»
Mentre si
alternavano nell’appropinquarsi al marciapiedi i due steli
flessuosi bianchi, la ragazzina pregò che Camelia non
venisse ad avvisarla del
fatto che il boss l’avesse riconosciuta da una
pubblicità in cui aveva fatto
cameo o da qualsiasi video o immagine strana lei desse il permesso ai
suoi
agenti di caricare su internet.
Quando le due
furono a distanza sufficiente per travestire le loro
confabulazioni con un manto di professionalità, Iris la
invitò a sciogliere le
mascelle da quel sorrisino maligno.
«Ugh…
che c’è ora?»
«Il
capo vuole che lo servi tu, non noi.»
«Eh?»
«Ha
detto che le tettone gli fanno schifo e preferisce le ragazze
più…
“piccoline”.»
«Eh?!»
Si trattava
forse di una
specie di scherzo perverso? Camelia era seria solo quando le comodava,
ma in
quel momento, anche se dare il cambio alla compagna impaurita e
fermamente
contraria era un colpo troppo basso anche per lei, doveva stare
scherzando.
Non era
possibile, Chaos si era intrufolato nella sua testa e aveva
ribaltato il ripiano delle verità assolute di Iris,
sistemate in boccette
sigillate e collezionate negli anni trascorsi in affitto come vivente
nel suo
corpo “piccolino”.
Non riusciva
proprio a concepirlo: a chi è che non piacciono le tette
grandi?
Tutti i suoi
amici maschi le adorano, le femmine le desiderano per sé o a
volte per la loro dolce metà. Era indubbio che perfino sua
madre, suo padre, le
sue sorelle, potendo mettere la mano sul fuoco anche il Campione di
Unima le
adorava.
Forse, se solo
non le fosse rimasto un grumo di orgoglio ad intasarle il
flusso di coscienza, Iris avrebbe potuto ammettere che anche a lei
piacevano,
le tette grandi.
Come per le
caramelle, i cuccioli, le feste, il gusto piccante, viene
automatico domandare “perché” se uno si
trova a non amarle, è naturale, se le
ragioni per cui dovrebbero essere apprezzate sono tante e valide a
livello a dir
poco universale: sono morbide, sono invitanti, puoi usarle come cuscino
e poi
assicurano nutrimento per i bambini ed un futuro familiare roseo.
Anche uno
volesse rispondere alla domanda di prima dando la colpa alla
società che detta i gusti delle persone e le mode del
momento, la verità è che
una “società” non ti rincorre in mezzo
al deserto. Non sarà comune come
preferenza ma visto che una taglia più moderata,
più petite è numericamente più
frequente, ha molto più senso ricercarla.
L’oro
è difficile da estrarre e non si può produrre
nella fucina. Questo
non significa che un bracciale o un anello in argento faccia sfigurare
chi lo
indossa! Le miniere d’argento sono sempre attive e si
può ottenere anche dalla
raffinazione elettrolitica del rame.
«Ah,
già meglio! – Il capobanda strappò la
chiave dalla toppa e le fece
fare una piroetta intorno all’indice – Siamo
passati da un sei, appena la
sufficienza ad una promozione piena, eh!»
«…Buonasera.»
Iris
abbassò lo sguardo. Cosa doveva dire? Avendo a che fare una
persona
che non la attraeva affatto le serviva una tecnica troppo avanzata per
una
senza neppure le basi di come si flirta.
Gli porse il
palmo come fanno gli strozzini, pronta a chiudere il pollice
sulla banconota. Anche i suoi occhi si tinsero di impazienza da posto
di
lavoro, sebbene non avesse ancora l’età legale per
lavorare.
«Certo,
ecco. Gasolio.»
Chiuse il pugno
d’impeto e l’unica cosa che toccò furono
le sue stesse
unghie incolte. La ragazzina lanciò un’occhiata
allarmata al cliente, che le fece
cenno con il mento di voltarsi di centottanta gradi. Le unghie le
perforarono
ancora di più la pelle.
«Ti
è caduto. Prendili.»
«S-Scusi…»
La banconota era
stata ovviamente accartocciata per aumentarne il peso e la
gittata durante il lancio. Una giovane con i suoi riflessi
l’avrebbe afferrata
al volo, nel caso fosse caduta per caso, o non proprio per caso, e il
capobanda
lo aveva previsto. Le aveva teso una trappola, un tappeto di
Levitoroccia su
cui avrebbe per forza dovuto appoggiare i piedi.
Perché
quell’individuo non sarebbe certo sceso dalla moto per farle
il
favore.
Iris
controllò come se la stessero cavando le altre e vederle
servire i
centauri con risatine convincenti al punto giusto ed una scioltezza
inequiparabile alla sua le fece mordere il labbro e proseguire nella
farsa.
«Come
al solito, non importa quanto duro o
umiliante la situazione sia. Sono tutte che fanno del loro meglio. Non
posso
essere l’unica che si lamenta. Però, certo che con
questa filosofia uno può
fare qualsiasi cosa, eh?»
Si
piegò con le gambe leggermente divaricate. Se la
contendevano lei ed
Anemone in fatto di elasticità nei movimenti, abbassarsi con
le gambe le
sembrava una perdita di tempo quando il bacino era ancora oliato dalla
sua
propensione all’esercizio fisico… Alla fine, le
sue armi non erano totalmente
scariche.
Ora si trovava a
pochi passi dalla riuscita del piano di Camelia, ma nulla
di tutto ciò sarebbe mai cominciato senza una goccia di
combustibile. Una
scintilla era bastata. Dopo aver sfidato il destino così
tante volte, chi
l’avrebbe spenta più? Bruciava di fiducia in se
stessa. Fuoco caldo, e
personificandolo… sexy.
Avrebbe dovuto
mandare una cartolina alla Iris seduta scomposta sul suo
letto sul punto di fare canestro nel cestino con la lettera di Nardo.
«Oddio,
io sono senza mutande.»
Le ciocche viola
ricadute dopo aver assunto di nuovo la posizione eretta la
lasciarono leggermente disorientata. Assorbì il ronzio del
distributore dopo
aver inserito la banconota, senza dire nulla.
Si era accorta
però che quel potenziale infiammabile in lei poteva essere
attivato, come un’Abilità o un superpotere. Poteva
farne uso a suo vantaggio, lo
schioccare debole delle labbra del capobanda contava come un genuino
gesto di
apprezzamento. Si fece un memo in testa.
Il miele non
attira solo le farfalle e i colibrì. Anche le mosche
vogliono
impiastricciarsi le ali.
«Non
ti ho mai vista qua. Non che sia una cosa negativa… Come ti
chiami?»
«…Siri.»
Ci mise ben cinque secondi, giusto per visualizzarlo in testa e
leggerlo al contrario.
L’uomo
sbuffò, con un grugnire fuori luogo, visto che lo aveva
chiesto lui.
«Quanti
anni hai?»
Stavolta voleva
prenderlo in giro e fargli fare la figura del maniaco
attratto da una minorenne. Presa dall’ansia di farsi
scoprire, mancò
l’occasione.
«Diciotto.»
«Allora?
Si è persa la buona educazione di lasciare il cellulare,
quando ti
arriva una mancia bella grossa? Se sei libera sabato sera…
Tu, eh. Non una
delle tue amiche…»
«Non
pensarci neanche. Non toccarla, non guardarla, non provare neanche a
respirarle vicino!»
Qualsiasi
commento costui avesse da fare a proposito di un banalissimo
numero a costo di non terminare la conversazione e fargli perdere il
poco
progresso fatto con la falsa benzinaia, lei glielo lasciò in
bocca: ogni dito
perfettamente incastonato nella dentatura, una leggera pressione sulla
leva
fece sgorgare qualche goccia iridescente sull’asfalto,
facendo balzare la
ragazzina all’indietro.
Come durante la
cattura di Dragonite, non l’aveva sentita arrivare e se le
avesse chiesto cosa l’avesse spinta ad intervenire in quel
momento sgradevole
le avrebbe parlato di “istinto” o altre cose
incomprensibili. Ma andava bene.
Perché
come quando era andata a comprare martelli e bombolette per
vandalizzare la macchina, Camilla aveva una ferocia nel manipolare la
pompa
come fosse un fucile puntato alla tempia del capo che tutti i membri
del branco
andarono nel pallone e alcuni tentarono di fuggire a piedi.
Il che era un
male: nessuna di loro sapeva guidare una moto.
«Quindi…
adesso il piano è questo?»
Catlina si era
attempata nella procedura, persa nel suo gossip con la
compagna, e la sua bocchetta non aveva ancora raggiunto il serbatoio
del
motociclista che doveva servire.
«A
quanto pare… - Anemone invece rimosse la sua con una
violenza tale da
non permettere all’antiquato distributore di reagire con
l’allarme – A me sta
più che bene.»
Il capobanda
rimase impassibile. Doveva aver vissuto disavventure peggiori
o era semplicemente incuriosito da quella reazione. Intanto che Camilla
gli si
avvicinava, con la pompa carica, deglutì pesantemente.
«Hey,
calma, calma, bellezza. Stavo chiedendole solo se… No,
mettilo giù!»
«Zitto,
qua comandiamo noi.»
Pur oltraggiata
per il mancato rispetto del suo piano, Camelia raccolse
l’accendino
dal taschino in denim, sentendone il peso; non era
un’intenditrice ma tutti gli
intarsi pizzicavano il suo spiccato senso del valore. In qualche modo
adesso
era suo, glielo lasciò capire accendendo la fiamma giusto
l’istante di fargli
l’occhiolino.
Uno, due, tre
cerchi di gasolio per terra…
«Ti ho
detto di stare calma, ragazza. Se ci bruciate vivi qui ed ora, non
vedrete un centesimo.»
Il capo era
l’unico a non dare segni di nervosismo. Le Allenatrici fecero
attenzione a non rovesciare il liquido senza perdere la punta contro il
branco.
Cambiavano mira ogni tanto, tenendoli tutti sotto tiro, le braccia tese
e le
vene pulsanti.
La
più piccola del gruppo esalò, ammorbidendo la
presa. Quelle minacce le
ricordavano quelle delle reclute e tre ore di vagabondaggio non erano
bastate
per farle scordare quanto in basso certi individui possano scendere,
individui
a cui non voleva in nessun modo associarsi.
«Ascoltatemi,
noi…»
«Se
volete lottare, basta dirlo subito…»
«Vuoi
stare zitto? – Camilla gli rivolse lo sguardo più
torvo che le
riusciva con un occhio coperto – Lasciala parlare.»
«Noi
non siamo ladre. Ma…»
«S-Siete
delle ricercate?» Si intromise un altro centauro.
«Sì!
– La rossa alzò la voce. Si corresse subito,
maledicendo la propria
impulsività – Cioè, in
realtà, no. Ci hanno arrestate ingiustamente, Ghecis
Harmonia e i suoi.»
«Accusate…
di cosa? Cosa possono fare di così grave, cinque ragazzine
così
carine?» Gli fece la paternale.
«Ah,
piacerebbe saperlo anche a me…» Catlina
sbuffò.
«Voleva
solo toglierci di mezzo per prendersi il posto di Campione. –
Camelia puntualizzò - Siamo scappate. Non che potessimo fare
altro…»
«Mmmh…»
Calò
il silenzio. Ma la ragazzina dai capelli viola li incalzò,
le battute
finali erano vicine.
«Noi
dobbiamo assolutamente andarcene da qui. E al più presto. E,
uh… non
abbiamo soldi. - Guardò in basso, impaurita dalle semplici
parole, non
azzardando nemmeno il pensiero. Era tutto per loro cinque, dopotutto.
Si
rivolse al capo – S-Se è me che vuoi… a
me va bene.»
«Iris,
ti prego, tappati quella bocca prima che incendio anche te…
- La
voce di Camelia la intimorì. Quella rabbia nascondeva una
grande amarezza di
fondo – Lasciate fare a me. S-Sono esperta del
settore.»
«…Mi
chiamo Charles.»
Le cinque
tornarono con i piedi per terra mentre l’odore benzina
stava
cominciando a fargli girare la testa. Il capobanda si
sistemò la barba, non
cambiando mai il tono burbero, nemmeno per incutergli meno terrore.
«…e
sono un rubacuori. Vengo da Libecciopoli, giro in moto da queste parti
da oltre vent’anni.
E onestamente,
quel bugiardo lardoso di Ghecis sta pure a me sui… ci siamo
intesi.»
Gli fecero un
applauso, uomini e ragazze, insieme. Certo che alla fine non
erano così diversi. O magari lo erano, ma come faccenda la
si poteva superare
senza spargimenti di sangue. Chissà quante persone come loro
esistevano, sotto
lo stesso cielo che ora abbracciava Unima in una coperta indaco, non
nera.
«Allora,
dove volete andare? Ovviamente, avete a disposizione solo il
serbatoio che tenete in mano adesso.»
Quella era una
domanda che non doveva finire in fondo alla lista delle
priorità. Sia a nord che a sud non erano benvenute, ormai il
presidio doveva
essere stato esteso anche a Sciroccopoli e nei comuni vicini. Tornare a
Venturia
poi, come regalare la vittoria al Team Plasma.
«A
Spiraria, grazie.»
Catlina, per la
prima volta da quando l’aveva conosciuta, parve convinta di
una propria affermazione.
«Passeremo
per le vie secondarie, in modo da evitare i controlli sul Ponte
Meraviglia. Sarete lì entro mezzanotte
–
Spiegò loro, distribuendo caschi grandi come alveari, mentre
le giovani
esperivano al loro ruolo di benzinaie facendosi aiutare dalle mani
esperte dei
motociclisti. – Però, tu, ragazzina con quelle
belle gambe al cioccolato.»
Iris si
indicò il petto, temendo il peggio.
«Tu,
sì. – Batté la pelle squarciata della
sella del suo nobile destriero –
Tu sali dietro con me. E ti conviene dirmi come ti chiami veramente,
invece di
giocare con i sentimenti dei tuoi ammiratori.»
Quel commento le
rimase impresso per tutta la durata del viaggio, passata
stretta alla giacca di pelle dell’autista, la pelle
d’oca per il vento notturno
sul corpo così esposto. Ogni talvolta che passavano sotto ad
un lampione si
voltava a guardare le sue compagne, anche loro in groppa alle vetture
roboanti
e dai loro sorrisi le sembrò che loro corressero sempre
più veloci, che nessuno
potesse fermarle.
̴
❁
«I
gusti dei ragazzi… sono un argomento difficile. Mi fa venire
mal di
testa solo pensarci.»
«Boh,
io mi sono arresa subito. Nonostante sul mio posto di lavoro tre
quarti dei miei colleghi sono maschi, come quasi tutti i miei compagni
di
classe delle superiori, alla fine, mi cresce un altro cervello che poi
imploderà in se stesso.»
«Però
tu… come dire… Ti piacciono gli aerei, la
meccanica, gli anime e prima
che Camelia te lo imponesse dall’alto del suo egoismo non ti
sei mai truccata o
fatta le unghie. Anemone, secondo me tu hai un sacco di punti di
contatto con i
maschi e ci andresti d’accordo un sacco… Anche se
tu sostieni il contrario.
«Anche
no! Da compagna di ansia sociale, dovresti saperlo che saper fare
due chiacchiere con un essere umano non è sinonimo di
popolarità.»
«Ma mi
hai vista! Non riesco a rompere il ghiaccio, mi muoiono le parole in
gola. Al mio primo appuntamento sono stata zitta tutto il tempo:
“parliamo di
lotte? No, sembra che non pensi altro che al lavoro… Drama?
Vestiti? Cosa dico?
Cosa dico?”; Io, così, in testa mia.»
«Catlina,
tu non hai neanche bisogno di aprire la bocca! Giuro che se i
colori fossero persone, tu saresti il rosa fatto persona. Bevi il
tè come una
signorina, ci metti tre ore a lavarti i capelli e non penso che ti
vedrò
neanche al tuo funerale con addosso un paio di pantaloni. Questi
livelli di
femminilità dovrebbero essere illegali…»
«Non
è una questione di magnetismo… Va a finire che
pensino che io viva in
un universo diverso da loro. E poi, cosa che non nego, che non valga la
pena
corteggiare una ragazza ad alto costo di mantenimento. Non è
detto che gli
opposti si attraggono sempre. Essere etero non può essere
così facile…»
«Ma
non puoi negare che noi tomboy (tranquilla, non mi farei mai i capelli
corti) veniamo sempre considerate “solo amiche”. E
poi, perché un ragazzo
dovrebbe volere una ragazza con cui parlare di cose “da
maschi”, quando può
farlo con i suoi amici maschi?»
«Forse…
la fidanzata migliore per un ragazzo
è…?»
«Qualcuno
con cui condividere aspetti personali della tua vita, come i tuoi
hobby e le tue passioni, pur mantenendo una dinamica di scambio pari ed
equo in
cui non ci sono ruoli definiti in base al genere?»
«No.
la fidanzata migliore per un ragazzo è un altro
ragazzo.»
«Ah…
se valesse anche il contrario sarei d’accordissimo con
te… In caso,
Camelia ne sa di sicuro qualcosa in più di noi. Ma ti
darà ragione pure lei,
contaci.»
Buonasera,
è la vostra ragazza etero che larpa fingendo di essere
lesbica sull'internet. Come state? Avete fatto i compiti? Avete cenato
con almeno una porzione di verdura? Vi siete lavati i capelli?
Guardate
che se vi sgamo che non vi lavate i capelli almeno una volta ogni
due/tre giorni io... ad ogni modo. Mi siete mancati *emoji da bottom*,
bentornati a tutti, piccini ♥
Tonikaku.
Immaginate avere una storia che si chiama Early Summer
Girls e non la aggiornate d'estate, ma a ottobre. Momo, you had one
fucking job. Ma eccolo qui, il capitolo.
Ho
avuto un po' di problemi, il mio solito developement hell, ma almeno
non ci ho messo un anno, è pur sempre qualcosa. Come al
solito, recensite, aggiungete ai preferiti, fate quelle cose belle che
i lettori non pagati/supplicati tramite scambi di favori su Facebook
fanno. Per favore. Non ci perdete nulla, e potrei perfino inviarvi per
sbaglio le tette in chat.
Ah,
comunicazione di servizio: fra poco ripasserò a
controllare/fixare/riordinare i vecchi capitoli, per aggiornare la
storia alla versione... qualcosa punto qualcosa, ho perso il conto,
lel. Ma ho intenzione di rivedere i primi capitoli, correggere non solo
imperfezioni grammaticali, ma sistemare un po' la lore/la coerenza
della long in generale. Insomma, andrò a mettere mano al
contenuto, per la prima volta. Questo significa che domani mattina vi
sveglierete con una storia che invece di parlare di Allenatrici
lesbiche parla di alieni non-binary? Certo che no. Tuttavia, non so di
preciso l'estensione delle modifiche che voglio apportare. Esempio
concreti protebbero essere cose come la rimozione dell'uso delle armi
da fuoco nel capitolo 10 per esigenze di trama, o cazzatine come
l'height gap di Camelia ed Anemone, per rimanere più in
canon. Significa che dovrete rileggere 22 capitoli di nuovo?
No... (s-se non volete, ovviamente...). Aggiungerò una lista
nel primo capitolo, così i veterani (raga, c'è
gente che è qui dal 2016-2017... io non so come
ringraziarvi) possono semplicmente proseguire la lettura senza perdere
tempo.
Sore ni! La storia si fa
sempre più lunga e come ho fatto anche in passato, mi adeguo
sempre alle esigenze dei miei lettori in maniera il più
possibile ragionevole, rimanendo nel copromesso. Dunque, ve la butto
lì: read
guides.
Se ve ne serve una prima di iniziarle la lettura, se ne
volete una per un amico, se ne volete una per ricordo, contattatemi via
MP sia qui su EFP o nella pagina Instagram. Ovviamente è
gratis. Ed è l'unico servizio che posso offrire.
Ogni read guide sarà customizzata (come le copie
di Mario 64), basterà mi indichiate un personaggio, una ship
o anche qualsiasi cosa che vi piacerebbe leggere e io farò
di tutto per evitarvi quelle parti che, come vi è lecito,
potrebbero annoiarvi o non piacervi. Yoroshiku.
❁
Behind the Summery Scenery #22
1. Se la
volta scorsa il capitolo era finito in developement hell
perché non riuscivo a completare la stesura, stavolta posso
non ironicamente confessare che il fantasma di Steve Jobs ha scatenato
la sua ira sulla The Momo Entertainment e
più precisamente su questo capitolo: quando dovevo
controllare e discutere con Daisuke alcune cose che aveva corretto, mi
è partita la scheda video a causa di un aggiornamento che ha
fatto surriscaldare e scaricare la batteria. Risolto questo problema,
accendo il computer per editare l'html e guess fucking what? Il mio
computer prende un malware che si è scaricato in background
mentre aggiornavo iTunes!
Tutto questo
solo perché non compro Apple...
2. Da sempre sono appassionata di
misteri dell'internet e di lost media. Circa un anno fa ho scoperto
quel rabbithole tremendo che è la presunta
esistenza di questo anime in cui delle ragazze liceali sono rinchiuse
in un bagno senza uscite per tempo interminabile e per la disperazione
cominciano ad impazzire, ad ammazzarsi a vicenda e a
suicidarsi una dopo l'altra. Si chiama (in teoria...) Saki
Sanobashi (o Saki-san no bashitsu, più probabilmente questo)
ma... questo anime/ova non esiste! O meglio, nonostante i continui
avvistamenti nessuno ha mai recuperato la source, nessuno sa se si
tratti di uno scherzo di /b/ o no.
Quindi ho pensato ("wow, ho
pensato"): perché non renderlo realtà? Momo-san
no bashitsu! La stanza delle torture di Momo.
Un qualcosina per gli amanti dello
splatter e del gore.
3. Le fogne, yahoo! Come
i maniaci della lore avranno intuito immediatamente, dalle fogne di
Austropoli è accessibile l'Antico Sentiero, che collega
Austropoli e Libecciopoli dal Pokémon World Tournament. Da
una delle uscite si accede al Castello Sepolto, quindi al Deserto della
Quiete.
4. Non so
perché sento il bisogno di difendermi per questo genere di
cose, ma se qualcuno avesse intenzione di venire a indicarmi le
inconsisenze o la mancanza di realismo in-lore del piano di fuga, del
tipo "well. ACTUALLY asdfghcmvmafvmn", sono prontissima a dibattervi
nelle recensioni. Posso accettare una sola critica, e la mia risposta
è comunque di aspettare il prossimo capitolo. Credetemi, io
sono la prima che critica questo genere di dettagli tecnici, ma credo
di aver fatto abbastanza ricerca per questa volta.
5. "Io sono Charles. E
sono un rubacuori." Non posso credere che un personaggio
così i c o
n i c o se lo sia dimenticato tutto il fandom. Io ho usato il
design da himbo dei giochi, nelll'anime sembra troppo un hipster.
6. "Si
trattava
forse di una
specie di scherzo perverso?"
Ultimamente
(= negli ultimi sei mesi, sono molto ossessiva con i miei interessi) mi
sono appassionata alla saga di Fire Emblem! In particolare, Fire Emblem
Three War Criminals and a little shortie angy lesbean that did nothing
wrong uwu. Droppatemi la
vostra route/casata/otp/waifu e io deciderò se avete
diritti.
Edit:
nel frangente, ho avuto occasione di giocare anche a Fire Emblem Una
rincoglionita perde un braccialetto mentre il personaggio migliore
della serie spiega che i pegasi non volano sbattendo le ali ma
scalciando con i piedi e Fire Emblem Furry, razzismo e l'unica coppia
yaoi che è valida.
Ma giuro, giuro,
GIURO che quel "sub-umane" era del tutto
casuale.
7. Scrivere
questo capitolo mi è piaciuto un sacco, boh, mi faceva
piacere dirvelo!! Personaggi che di solito non hanno chissà
che interazioni si avvicinano, Iris diventa badass, la scena della fuga
mi ha risvegliato dal torpore di due capitoli di solo dialogo e la
scena della benzina mi ha fatto ricordare che questa storia
è la più trasgry del fandom.
O non
esattamente.
Non è
che qualcuno m lo abbia mai chiesto, ma siccome vivo la mia vita di
tutti i giorni con persone che vorrebbero farmi domande ma che hanno
paura della risposta (non perché io li intimidisca, ma
perché hanno paura di spezzarmi il cuoricino freddo come il
ghiaccio e nero come il catrame che mi ritrovo) mi va comunque di
esplicitare questa cosa.
«Ma
Momo von Entertainment, perché nessuno dice mai le
parolacce? E quando qualcuno è in procinto di dirne una ti
auto-censuri?»
Allora, prima
vorrei esporre le ragioni pr cui NON lo faccio: non me ne frega nulla
di tutelare i miei lettori. Ho detto un miliardo di volte che se
cercate un lesbian role model siete finiti nel posto sbagliato, non
sono vostra madre, loooooooooool (sono più la zia simpatica
e single che vi passa la droga nelle buste della paghetta, casomai).
Inoltre, del canon me ne frega fino ad un certo punto: se altri autori
vogliono far parlare i personaggi come scaricatori di porto, douzo.
Anche io parlo un po' come uno scaricatore di porto, non ci vedo nulla
di inerentemente sbagliato.
La vera ragione
risiede nel concept e nella aesthetic della storia. Le ragazze che
dicono le parolacce non sono attraenti come prodotto. ESG è
il mio prodotto e non posso regalare (non dico "vendere"
perché y'all broke ¯\_(ツ)_/¯) un prodotto
che non gradirebbero i miei lettori/lettrici. So che una delle
attrattive di questa storia è il suo essere un po'
edgy/non-convenzionale/autoironica ma voglio che questi aggettivi se li
meritino la trama, i dialoghi nado nado che ho cercato di creare in 5
anni, non la parola "fottuto" usata ad impromptu in ogni frase.
Seconda vera
ragione: dato che gli insulti, gli improperi nado nado in Italia
variano tantissimo da regione a regione, con la possibilità
che un'imprecazione che a me sembra diffusa tradisca una specifica
provenienza/dialetto, oltre a sembrare estremamente coatta, potrebbe
contribuire ad auto-doxxarmi. E io invece voglio che i doxxer si
mettano d'impegno, che vadano a scavare nei meandri dell'internet per
scoprire dove vivo e cosa faccio nella vita!
8. Titolo del
capitolo in inglese. Siate onesti, è tanto cringe? Hoes mad
semper et comunque, ma non mi venivano idee per questo titolo! Ormai
dopo oltre 20 capitoli avevo sviluppato la mia formula, ma stavolta...
le ragazze usano il potere della loro intraprendenza il loro intuito e
l'astuzia per fuggire, ma con un pizzico di arte seduttrice, di
manipolazione proveniente dalla femminilità. Questo
è lo stile ESG.
ESGism.
(Dai, se proprio
vi fa schifo, il prossimo capitolo si intitolerà "16.
3,1415926535897932384626433832795028841971…")
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