Qualcuno in cui credere

di Impossible Prince
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The artist is here to disturb peace ***
Capitolo 2: *** "Dream ha pubblicato una foto dopo tanto tempo" ***
Capitolo 3: *** Sylvia Plath ***
Capitolo 4: *** Intermezzo - 'E se fossi una truffa anch'io?' ***
Capitolo 5: *** Marvel Cinematic Universe ***



Capitolo 1
*** The artist is here to disturb peace ***




“Artist is here to disturb peace”

 
La storia è qui per rivelare il vero travaglio.
 
No. No. No. Cancella.
 
La storia è qua per rivelare quello che accade realmente, nascondendolo all’interno di una fanfiction.
 
No. No. No. Cancella, cancella.
 
La storia è qua per rivelare quello che accade realmente, mascherandolo all’interno di una fanfiction.
Il travaglio a cui puoi essere sottoposto senza doverlo dire a qualcuno.
 
No. No. No. Cancella, cancella.
 
La storia è qua per rivelare quello che accade realmente, mascherandolo all’interno di una fanfiction.
Il travaglio a cui puoi essere sottoposto senza poterlo dire a qualcuno. E, allo stesso tempo, colpevolizza il lettore per essere passivo davanti a quello che succede, non realizzando la gravità della situazione.
Pone il lettore davanti alla consapevolezza di informarlo e obbligarlo ad affrontare una situazione conclamata e che potrebbe scorgere davvero se aprisse maggiormente gli occhi e non si limitasse a qualche frase di circostanza.
 
No. No. No. Cancella, cancella, cancella.
 
La storia è qua per rivelare quello che accade realmente, mascherandolo all’interno di una fanfiction.
Il travaglio a cui puoi essere sottoposto senza poterlo dire a qualcuno. Allo stesso tempo colpevolizza il lettore per essere rimasto passivo davanti a quello che succedeva, non realizzando la gravità della situazione. Pigro e indifferente perché pensava che fosse compito di altri e non suo. Il racconto lo obbliga ad affrontare una situazione conclamata che potrebbe scorgere davvero se aprisse maggiormente gli occhi e non si limitasse a qualche frase di circostanza.
In questo modo si renderebbe conto di quello che Michael Butt ha vissuto è avvenuto sotto i suoi stessi occhi.
 
La fanfiction è qui per
 
No. No. Cancella.
 
La fanfiction è qua per disturbare.
 
No.
 
La storia è qua per disturbare la vostra ipocrisia.

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Capitolo 2
*** "Dream ha pubblicato una foto dopo tanto tempo" ***


“Dream ha pubblicato una foto dopo tanto tempo”


Mi era stato detto anni fa che il modo più feroce con cui puoi ferire una persona è tramite l’indifferenza. Non sono mai stato incline a crederci, sarà perché essere indifferente non è mai stata una mia dote.
Sono una persona viscerale. Se apprezzo una persona glielo faccio capire in ogni modo. E se la disprezzo mi diverto ancora di più.
Ma ignorarla? Semplicemente non pensarci, passarci sopra? No, non è da me. Non se ne parla. Era qualcosa che per mi era ignoto, di cui non avevo mai capito la portata e che non pensavo di poterla mai comprendere.
Sono una persona viscerale, vi dicevo. Ma quello stesso atteggiamento era il medesimo che sono solito causare io. Mi si ama o mi si odia. O bianco o nero. Il grigio, con tutti i suoi fratellini posti educatamente sulla scala non sono mai stati contemplati.
Eppure, accadde.
E siccome non conoscevo la portata, non conoscevo il significato, il sapore di quella scala di grigi mi avvicinai per studiarla da vicino, per osservarne la pigmentazione, per capire. E l’orrore si impossessò di me.
 
***

Mi svegliai che erano tipo le dieci e mezza quella mattina. Il sole entrava dritto attraversando le persiane e proiettandosi sul lenzuolo, sulla mia gamba, sulle mie mutande e certo, anche sulla mia faccia. Se non fosse stato per quella stella di merda, probabilmente avrei dormito per altre due ore. Ma se non fosse per quella stella di merda, adesso, saremmo tutti morti.
Guardai il soffitto bianco. Mi sentivo... su di giri. C’era elettricità nell’aria. O forse erano solo i postumi di cinque ore di sonno. Mi rotolai verso sinistra e afferrai il telefono e poi cercai di rimettermi supino, ma il cavo del telefono me lo impedì.
Ora, avrei potuto staccare il telefono dal caricatore perché in fin dei conti era carico ma questo lo avrebbe portato a scaricarsi prima nel corso della giornata e l’idea mi dava fastidio, mi dava un senso di costante precarietà per quello strumento. Sapevo che il cavo fosse corto, succedeva ogni mattina e ogni mattina, come quella, pensavo che avrei dovuto comprarne uno più lungo, ma puntualmente non lo facevo e potete scommetterci che non lo avrei fatto neanche quel giorno.
A differenza di tutti gli altri giorni che erano cominciati alla stessa maniera, ovvero con il sole che mi schiaffeggiava il viso, quel giorno in particolare aveva qualcosa di diverso. Era elettrico, vi avevo detto. E se fossi stato un veggente, se avessi acquisito anche un briciolo delle doti dei miei Pokémon psico avrei preso il telefono in quel preciso istante e disinstallato quello che andava disinstallato.
Alcuni sono capaci. L’ho letto sul quotidiano l’altro giorno. Raccontavano di questo allenatore che aveva passato il tempo assieme ad una squadra di Pokémon psico e ora era in grado di usare la telecinesi per spostare piccoli oggetti. Allora l’ho detto a Camilla ma Camilla mi ha detto che non era vero, che sicuramente era una montatura e che robe del genere non erano possibili, perché allora lei avrebbe dovuto essere una forza della natura.
Camilla lo è davvero una forza della natura, dico davvero. Ma tantissimo proprio. E una volta aveva detto che voleva rendermi forte come lei e mi aveva tenuto sotto la sua ala fino a quando non sono andato ad Alola. Non aveva preso con letizia la mia decisione, ma diceva che dovevo farlo, per mettere qualche punto fermo nella mia vita e che fino a che non lo avrei fatto, avrei continuato a girare attorno alla vicenda. Camilla aveva ragione, ovviamente. Camilla è una forza della natura, dico davvero. E anche della verità. Ha sempre ragione. Fu dopo il viaggio ad Alola che comincia questa storia che sto scrivendo su questo computer sgangherato dove non funziona la a della tastiera, e quindi quando scrivo ciao esce in realtà scritto cio.
Comitato Internazionale Olimpico.
Però voi le a le vedete, ed è perché ho comprato una tastiera esterna, una di quelle che costa poco, quelle in cui la distanza tra i tasti e microchip è chilometrica sicché scrivo come un boomer, un tasto alla volta producendo quei rumori simili alle serie tv anni ’90 quando facevano vedere un ufficio e tutti gli impiegati battevano sempre un sacco le dita. Chissà che avevano da scrivere.
Io non gli ho mai vissuti gli anni ’90 ma Dream sì. Diceva che per lui gli anni ’90 erano un po’ la rappresentazione della sua infanzia, forse era per questo che voleva che Hillary Clinton vincesse la presidenza, perché i Clinton sarebbero tornati alla Casa Bianca. Ma sappiamo tutti com’è andata e Dream non ha più parlato degli Stati Uniti. Avevo visto Dream ad Alola.
Ero stato con lui per un po’. Dream era stato protagonista di una storia simil biblica, il figliol prodigo. Grande allenatore – detiene tutt’ora il record per il numero di vittorie alla Lega Pokémon – aveva contribuito alla distruzione della cellula del Team Rocket nella regione di Johto nel 2001, salvo poi perdere l’interesse nell’allenamento dopo che un suo Pokémon è morto di tumore. Ma nessuno sapeva di Umbreon. Poi però aveva ricominciato ad allenare e quando Giovanni organizzò il colpo di stato, era fuggito a Kalos dove aveva ottenuto asilo politico e lì aveva deciso di ricominciare ad allenare, con me come compagno di viaggio. Il mondo era estasiato dalla notizia: dopo la pagina nera della propria storia quale segno migliore di rinascita e ripresa di Dream che torna ad allenare? Ma una mattina mi son svegliato e bello ciao, ciao, ciao, ciao. Non c’era più. Sparito nel nulla, volatilizzato. Aveva lasciato solo un biglietto sopra ad una pokéball: “Grazie di tutto ma non fa per me. Io vado via”. Avevo scoperto che se n’era andato ad Alola e anni dopo lo andai a trovare. Ma quello che avevo visto non mi era piaciuto e allora ero tornato indietro. Non mi va di parlarne, dico davvero. Magari un giorno avrò voglia ma adesso no.
Anche Camilla non sa nulla di quello che è successo ad Alola, nonostante sia una forza della natura non è riuscita a farmi parlare. Neanche la mia ragazza, Alessia, sa qualcosa. Adoro Alessia, è forse la ragazza più eccezionale che abbia conosciuto. Però a volte non mi sembra che mi capisca. E in ogni caso, sicuramente, non avrebbe capito quello che è successo ad Alola, quindi non ho mai toccato il discorso con lei nonostante abbia fatto domande.
Così quella mattina il telefono vibrò quando stavo pensando che sarei potuto rimanere prono sul letto e abbronzarmi a chiazze. Mi piaceva il calore del sole in quel sotto-chiappa ma ormai è istintivo vedere chi scrive quando riceviamo una notifica, no?
Solo che non era nessun messaggio. Era Instagram. Con quell’icona oscena, fucsia e quel carattere piccolo piccolo attorno. Che brutta l’icona di Instagram, ragazzi, dico davvero. Mai visto qualcosa di così brutto. Persino il Muchalax che avevo da piccolo sarebbe stato in grado di fare un lavoro migliore. Adesso Snorlax non è più con me, l’ho regalato a Dream prima di vedere quello che avevo visto. Andavano d’accordo assieme e sono felice, nonostante tutto.
Lessi il messaggio affianco all’icona e provai una sensazione strana, come se il cuore avesse smesso di pompare e fossi morto. Quando Barbossa muore nella Maledizione della Prima Luna dice: “Oh, sento freddo”, ecco, appunto, sentivo freddo. Ma sarebbe stato solo l’inizio.
“Dream ha appena pubblicato una foto dopo tanto tempo”.
Aprì Instagram e fu come se un pugno uscì fuori dallo schermo e mi colpì dritto sul naso, che dolore. C’era il Ponte di Canalipoli e sotto una didascalia: “Me lo ricordavo più grande”. Lasciai cadere il telefono sul comodino facendogli fare un rumore secco ma ero già dall’altra parte del letto che stavo ruotando la maniglia della finestra. La pancia aveva cominciato a farmi male e presto sarei dovuto andare al bagno, potevate contarci. Aprii le finestre, tirai via il chiavistello dalle persiane e aprii anche loro. Vidi un Wingull volare sopra il tetto di casa e davanti, con i raggi del sole che ne oscuravano la visione, il ponte di Canalipoli, il Golden Gate Bridge de noialtri. Provai ad aguzzare la vista sul ponte ma casa era troppo lontana perché potessi riconoscere qualcosa che non fossero i camion. Se anche in quel momento fosse passato sul ponte non lo avrei visto.
Ma Dream era in città e tanto bastava. A cosa non lo so. Ma tutto di me era stato cancellato appresa quella notizia. La mia identità, la mia storia, quel bigliettino sulla pokéball, i miei Pokémon, era tutto secondario, una serie di piccoli punti scollegati tra loro che facevano da contorno al fatto che Dream fosse in città.

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Capitolo 3
*** Sylvia Plath ***


Silvya Plath

 
L’acqua aveva appena cominciato a scorrermi addosso, formando dei ruscelli che percorrevano ogni frammento del mio corpo. I capelli erano appiccicati alla fronte e le palpebre appesantite dall’acqua quando sentii il telefono squillare.
Dream.
Chiusi di scatto l’acqua e sentii le tubature borbottare con un suono simile ad una campana. Aprii la doccia e mi fiondai fuori e uscito dal bagno per poco non scivolai. Quando arrivai davanti al telefono lo presi in mano con un senso di delusione.
«Pronto»
«Ci hai messo un po’» fece Camilla dall’altro lato del telefono.
«Ero in doccia»
«Lo sapevo, è per questo che ti ho chiamato. Per dirti di non farlo»
«Non mi devo lavare?»
«Michael» la sentii abbastanza spazientita, forse avevo tirato troppo la corda, potete giurarci. Ma non per quella chiamata, eh. Insomma, nessuno si spazientisce per un abattuta. Intendevo negli ultimi giorni, nelle ultime settimane. Da quando ero tornato da Alola, insomma. «Sono molto favorevole al fatto che tu ti lavi. L’ultima volta che ti avevo visto puzzavi di sudore. Ti sto solo dicendo che non devi andare alla ricerca di Dream»
«Hai visto la notifica?»
«Naturalmente, ed è per questo che ti ho chiamato. Non permettergli di giocare con te, chi diamine è per farlo?»
«Voglio solamente fare una passeggiata, ne ho bisogno»
«Michael» ragazzi, avreste dovuto sentire il tono con cui lo disse. La sua voce era un coltello e stavo sanguinando. «Sono due settimane che non esci di casa, e adesso vuoi farmi credere che casualmente, per caso, ti è venuta voglia oggi? Proprio quando quello là dice di essere a Canalipoli?»
 «Cosa devo fare? È più forte di me» e lo era davvero. Ma non so cosa fosse più forte di me. Se Dream, la voglia di vederlo o la mia incapacità di controllarmi. Forse tutte e tre le cose. Fu così che chiusi la chiamata e tornai alla doccia.
 
***
Come diceva Camilla, erano due settimane che non uscivo di casa. Ufficialmente non avevo voglia di farlo, ma combinato con il fatto che non mi lavassi, che era vero, la questione si era fatta molto più complessa. Ma alla fine si dice che il primo passo per risolvere un problema è riconoscerlo, no?
L’orrore di cui vi parlavo nel capitolo precedente è questo qua. Lo chiamavo “principio di depressione”, lo scorsi tra le corsie del supermercato quando tornai da Alola per fare la spesa. Così lo chiamavo. Principio-di-depressione. Lo avevo stabilito in solitaria, senza conoscenze psicologiche o psichiatriche di sorta.
Suonava bene la parola principio. Me lo immaginavo come un embrione, un germoglio, qualcosa che c’era ma che poteva ancora non essere. Evitava di farmi dire “sono depresso” o “soffro di depressione” perché questa parola da sola non viene più riconosciuta come un messaggio importante, una richiesta di aiuto. Abusiamo del termine “depressione”. Siamo depressi anche nelle giornate storte. Ma dire di avere un principio, questo sì che avrebbe allertato le persone a me care. Nessuno dice mai di avere un principio, le menti non dismettono in automatico principio-di-depressione, non è un’espressione comune, non è un modo di dire colloquiale o popolare, impone di pensare, richiede di sezionare ciascuna parola, capirla e comprendere una situazione di disagio. Era quello che speravo.
Ero in un supermercato, come vi dicevo. Avevo afferrato dal tappo una bottiglia di the al limone dallo scaffale mezzo vuoto dal tappo e mi venne in mente quella canzone di Calcutta in cui diceva che la propria ragazza spremeva limonata e non ce la faceva più, no che non ce la fa più, lo ripete due volte all’inizio. E mentre la canticchiavo con tono basso, la mia voce si ruppe. Non stavo spremendo limonata, stavo solamente comprando una dannata bevanda piena di additivi che del limone aveva solamente il nome eppure mi resi conto che non ce la facevo più neanche io. Avevo sentito le lacrime esser pronte per sgorgare fuori. Il labbro inferiore mi aveva vibrato.
Doveva esser fatto tutto nei minimi dettagli. Immaginavo le persone che potessero scorgermi sull’orlo di un pianto. Dovevo agire come una persona normale. Abbassai il capo e guardai il tappo della bottiglia. Girai la bottiglia tra le mani per leggere la scadenza. Sarebbe scaduta a dicembre di quell’anno. Avevo ancora, vediamo. Settembre, ottobre, novembre, dicembre. Quattro mesi. Era già tanto se sarebbe arrivata alla settimana dopo. Sentivo le lacrime calmarsi dietro i bulbi oculari. Volevo esserne certo. La riappoggiai sullo scaffale e mi ero infilato fino alle spalle al suo interno per prendere proprio la bottiglia che era appoggiata contro la parete di alluminio. E in questa frazione di secondo riuscii a fare un respiro profondo. All’esterno, mi ero detto, doveva apparire come un sospiro per la fatica.
Ero uscito dallo scaffale una volta accertato che la crisi fosse passata. Avevo ripreso a guardare il tappo alla luce del neon. Settembre. Poco male. Non sarebbe arrivata alla settimana dopo in ogni caso.
Non avevo voglia di fare la spesa, a dire il vero. Mi ero costretto perché avevo bisogno di cibo se volevo continuare a campare. Sì, insomma, nonostante il principio di depressione che mi si sarebbe svelato solamente nei giorni e nelle settimane dopo, non ho mai avuto voglia di crepare davvero. È una cazzata quella che se sei depresso allora vuoi crepare. Forse non ero neanche depresso, vai a capire. Fatto sta che andai alla cassa a pagare dopo aver fatto la spesa e la tizia mi disse: «Ah, Signor Butt, come sta? Tornato dalle vacanze?»
Sorrisi, e dissi di sì, che Alola era splendida e che c’era un mare pulito-pulito, cristallino. Il problema di essere un Campione di Pokémon è che la gente ti segue sui social, su Instagram o su Facebook e sa tutto quello che fai. E tu glielo devi far sapere perché se no l’agente si lamenta e dice che non si fanno abbastanza public relations. Che vita di merda quella del mio agente. Ti laurei in ingegneria gestionale, passi cinque anni ad esser preso per il culo dagli altri ingegneri perché la tua non è davvero ingegneria e diventi il manager di uno che ha problemi di depressione, ma che non ne è sicuro ma che non lo fa sapere a nessuno, manco alla propria ragazza.
Ero arrivato a casa e dopo aver appoggiato la spesa per terra, davanti ai mobili della cucina mi sentii stravolto. Stanco. Non avevo proprio voglia di svuotare i sacchetti e metterle nella dispensa, così me ne ero andato in camera, in mutande e mi ero sdraiato sul letto. E quello fu il mio abbigliamento per le successive due settimane.
 
***
 
Fissavo la maniglia della porta da qualche istante e non so perché. Non che mi aspettassi di avere i poteri telecinetici come quel tizio del giornale. Ma tutto all’improvviso non avevo granché voglia di uscire. E non avevo più voglia di interessarmi a Dream Grant, dico davvero, lo giuro. Aveva ragione Camilla, non mi meritavo di esser trattato così. E lui cosa aveva in più di me per trattarmi in questo modo?
Beh, oddio, ce l’aveva fatta. Il signor Grant rappresentava tutto quello che avrei voluto essere. Ambizioso e sicuro di sé, di successo, consapevole delle proprie capacità, senza paura a farle vedere. Dream era il sogno americano e il destino manifesto messi assieme, la rappresentazione della potenza dell’essere umano. Se fosse stato statunitense, Dream sarebbe diventato Presidente. Se avesse voluto creare computer avrebbe creato la Applesoft, se avesse voluto diventare uno scienziato avrebbe inventato la macchina per il tempo. Aveva scelto di diventare allenatore di Pokémon e ora una sua vecchia figurina valeva circa cinquecento di dollari su eBay per l’album di figurine degli allenatori del 2001.
E mi sentivo piccolo davanti a queste considerazioni. Vi sentireste piccoli anche voi, perché quindi disturbarlo? Perché quindi indugiare in questo raffronto costante da cui non ne poteva uscire nulla di buono? Era chiaro, io non ero Dream Grant. No, ragazzi, non lo ero. Io ero Michael Butt, anche il nome era diverso. Quello che sapevo è che se Dream poteva essere il Presidente degli Stati Uniti, io potevo essere forse il consigliere dello Studio Ovale. Ma questo lo sapevo io, lo sapete voi e lo sanno tutti gli allenatori là fuori. Quando ci si diploma alla Scuola per Allenatori, tutti gli studenti sanno di voler essere come Dream, usandolo come mezzo di riferimento. Dream, non Rosso, di cui nessuno si ricorda più. Io non l‘ho mai conosciuto Rosso, ma la sua morte aveva sconvolto profondamente Dream, dico davvero. Avevamo scoperto della sua morte per caso, guardando il telegiornale in un centro Pokémon di Luminopoli. Si era trincerato dietro un profondo silenzio, non ho mai visto nessuno essere così silenzioso, tranne quando uno dorme. Ma Dream era sveglio, potete giurarci. Io non so se la morte di Rosso lo abbia indotto ad abbandonare la carriera di allenatore di nuovo. Ma quando l’ho rivisto ad Alola gliel’ho chiesto e mi ha detto di no, ma che presto sarebbe andato a trovarlo al cimitero e avrebbe convinto la famiglia a cambiargli sepoltura, che in fondo si meritava una bara più decente.
Io non l’ho mai visto il cimitero di Rosso. Ma sembrava sincero quando diceva che la morte di Rosso non ebbe effetti sul viaggio a Kalos.
Comunque mi girai, lasciandomi la porta alle spalle. Aveva ragione Camilla, non mi meritavo di esser trattato così da Dream. Sapeva che abitavo a Canalipoli, avrebbe potuto scrivermi in qualche modo. Non ero certamente qualche politico che si divertiva a provocare ai tempi della dittatura di Giovanni, no? Eh. Avea tutti i mezzi per contattarmi, sapeva persino dove abitavo. No, non sarei uscito quel giorno e non lo avrei cercato né disturbato.
Pochi istanti dopo ero di nuovo in mutande sul letto.

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Capitolo 4
*** Intermezzo - 'E se fossi una truffa anch'io?' ***


– Intermezzo –
“E se fossi una truffa anche io?”

 
 
Quando ero arrivato a casa mia, quel pomeriggio, la prima cosa a cui pensai fu quella di togliermi gli abiti fradici. Si poteva sentire la pioggia battere sopra le tegole del tetto, nonostante tra questi e il nostro appartamento ci fossero diversi piani in mezzo.
Odiavo la pioggia. Ma non la odiavo sempre. Tipo quando ero a scuola, seduto sul mio banco e guardavo fuori dalla finestra a me la pioggia non dispiaceva. E neanche se ero in casa a guardarmi i cartoni animati o le serie tv. Anzi, rimanere nel “piano terra” del mio letto a castello mi faceva sentire protetto. Sarà perché sopra la testa avevo una lastra di legno spessa cinque centimetri che lo faceva sembrare un tetto a sua volta. Adoravo vedere le serie tv con la pioggia con il rumore della pioggia. Non che capissi davvero quello che dicevano nella televisione. Se si rivedessero certi programmi che si vedevano da bambini quando si è più grandi ci si rende conto di tante cose di cui non coglievamo il senso allora. Non che sia certamente un bene o un male. È solo curioso.
Comunque, sì, ve l’ho detto, pioveva. E quando piove la luce in casa mia è tipo grigia. Magari anche nelle vostre case, non lo so. Non ci sono mai stato nelle vostre case.
Quindi arrivai in camera mia e feci scorrere lo zaino lungo il braccio sinistro facendogli fare un tonfo arrivato sul pavimento.
Quel giorno in classe due compagni erano arrivati vantandosi di essere cresciuti dopo aver avuto la febbre. Ancora oggi non ho capito la correlazione tra l’avere la febbre e l’aumento dell’altezza, ma all’epoca era molto in voga come diceria popolare, un po’ come guardare gli occhi negli occhi un Sistea ti faccia passare l’orzaiolo. La maestra li aveva però fatti mettere sullo stipite della porta, aveva tracciato la loro altezza con il gesso e poi, prendendo un metro, aveva misurato. Erano cresciuti entrambi di un centimetro. Lo dicevano loro! Quello alto come me era alto un metro e trentadue e adesso era un metro e trentatré.
Non so, ma avevo sentito invidia davanti a tutta quella scena. L’attenzione della maestra, della classe durante che era rimasta attorno a loro durante l’intervallo. Il bianco del gesso che risaltava in mano alla maestra, il segno, impreciso che veniva lasciato sul legno. Ricordo che quel pomeriggio continuavo a rivedere la scena a rallentatore mentre fissavo lo stipite della porta.
Presi una matita e mi rimisi lì davanti ancora. Appoggiai la fronte al legno bianco. Appoggiai il lato della mano, quella parte tra il palmo e il dorso per intenderci sopra la mia testa. Poi, con la mano con cui tenevo la matita la portai sulla mano.
E la alzai un pochino.
Poi misurai l’altezza, beh.
Ero cresciuto.
Senza avere la febbre.
Dico davvero.

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Capitolo 5
*** Marvel Cinematic Universe ***


Marvel Cinematic Universe

 
Era passato qualche giorno da quando aveva pubblicato quella foto di Canalipoli su Instagram e davvero, non avevo voglia di incontrare Dream. Non ero interessato neanche a sapere se stesse bene. Cioè, mi auguravo di sì, che scherzate, non lo odiavo mica, non gli auguravo qualche accidente. Anzi, a dire il vero io ero certo che stesse bene anche perché se stai male non sei perennemente connesso a WhatsApp o Telegram. Non che lo controllavo, sia chiaro. Su Telegram se una persona è connessa esce fuori nella lista delle chat, c’è il pallino verde che ti ricorda: “hey, sono connesso, scrivimi dai”. Su WhatsApp capitava che entrassi a vedere la conversazione con lui. Ma per sbaglio, s’intendeva. Mi scivolava il dito sudato sulla chat e niente, vedevo che era online. Ma non lo facevo volontariamente, potete contarci.
Da quella fotografia mi pareva che le giornate passassero ancora più lente. Sarà perché non facevo assolutamente niente per tutto il giorno, rimanevo sul letto e fissavo il mondo che si stagliava oltre i miei piedi. Non sono un feticista, potete giurarci. Anzi, credo che i feticisti, quelli che abbiano la fissa per i piedi mi mettano un po’ i brividi. E mi piacerebbe dirvi che oltre i miei piedi immaginavo i percorsi in cui ero stato e mi ci muovevo attraverso a bordo del mio letto matrimoniale. Ma la verità è che non immaginavo niente, vedevo solamente l’armadio marrone chiaro immobile, fisso, senza che facesse neanche qualche scricchiolio, dico davvero. Oltre a dare da mangiare ai Pokémon – passavano il loro tempo nel giardino del condominio, assieme ad altri Pokémon – non avevo nient’altro da fare.
Così una mattina provai a scrivere ad Alessia. Non ricordavo che fuso orario ci fosse tra qui ed Alola, perché sì, la mia ragazza era partita per Alola. Cavoli ragazzi, sembrava che tutto il mondo si fosse unito per ricordarmi del mio soggiorno ad Alola. Ma a me non andava di ricordarlo, dico davvero. Beh, Alessia non mi rispose e forse là era ancora notte, ma quando era in vacanza aveva degli orari tutti suoi quella ragazza, poteva capitare che fosse ancora sveglia. Ma non lo era, si sarebbe trovata il mio messaggio come buongiorno. Penso sia bello trovarsi un messaggio come buongiorno, ecco perché non ho cancellato il messaggio. Ma al contempo, può essere imbarazzante, ecco perché evitavo di scrivere a Dream quando ad Alola era notte, non volevo che si trovasse il mio messaggio appena sveglio. E comunque prima o poi ad Alola il sole sorgeva e prima o poi me ne sarei ricordato di quel messaggio, che magari non era un messaggio di buongiorno, magari gli chiedevo qualcosa, gli chiedevo come stesse, cosa si raccontasse di lì o magari gli chiedevo se avesse mai trovato un Mareanie. Ragazzi, come mi piacciono i Mareanie, sono così belli. Ne ho sempre desiderato uno e ne ho provato a catturare qualcuno quando ero andato ad Alola, ma non ci sono riuscito. Dream aveva detto che avrebbe provato a catturarne uno e a mandarmelo, ma quando gli avevo chiesto qualche settimana dopo se ci avesse provato mi aveva detto di no. Lì capii che non lo avrebbe mai fatto e che non avrei mai avuto un Mareanie in squadra.
Fu una di quelle mattine che il telefono suonò e lo afferrai.
«Quando vieni a prendere il cibo dei tuoi Pokémon?» fece Camilla. Camilla non si occupava di queste cose, era insolito per lei domandarmele, probabilmente era il mio allenatore o il mio agente ad averglielo chiesto. Sì, ho un allenatore anche io. Si chiama Bruce Wallace. Mi aiuta a fare allenamento fisico e assieme studiamo nuove strategie. Tutti i Campioni di Sinnoh nati nell’isola ne hanno uno, è un tecnica che hanno pensato per evitare che il livello della qualità dei campioni si abbassasse, come successo un po’ ovunque. Non lo so se come metodo funzioni davvero. Io e Bruce andiamo d’accordo, è un brav’uomo e la sua famiglia sembra ok. Solo che non capisce che a volte ho bisogno di rimanere un po’ per i cavoli miei, che non ho sempre voglia di allenarmi. Dovreste vederlo, Bruce. Ha due braccia che se ti prendessero a schiaffi sarebbero capaci di farti fare il giro del mondo quattro volte.
«Non lo so, comunque ho ancora del cibo qua a casa»
«E cosa gli darai da mangiare oggi?». Mi passai la destra tra i capelli facendo un respiro profondo. Cosa diamine ne sapevo cosa avrei preparato per i Pokémon, non sapevo neanche cosa avessi in frigorifero o nella dispensa. Sapevo di avere del cibo, non mentivo, ma non sapevo mica cosa preparare.
E fu allora che mi resi conto. Mi resi conto che non avevo voglia di alzarmi, di preparare il pranzo per loro, non avevo voglia di assicurarmi che avesse la giusta quantità di sale. E poi, per come si stavano mettendo le cose non avevo mica voglia che Camilla o che ne so, il mio allenatore, mi chiedessero di mandargli una foto che dimostrasse il mio reale impegno nel preparare il cibo. Anzi, mi sembrò quasi che quella e tutte le potenziali chiamate successive avessero la funzione di un cappio al collo. Mi sentivo oppresso.
«Senti, sai facciamo?» dissi mettendomi seduto e infilando l’indice tra l’alluce e l’altro dito di cui nessuno sa il nome. «Adesso vi mando i Pokémon così ci pensate voi». Ovviamente ci fu la solita sequenza di no-ma cosa dici-che ti prende. In realtà non sapevo che mi prendesse, non avevo semplicemente più voglia di curare i Pokémon. E lo so cosa state pensando: “guardate un wannabe-Dream che si ritira dalla carriera di allenatore”. Non vi devo certamente convincere io dell’insensatezza di questa visione. Comunque la mia decisione era stata presa, tirai fuori qualche bugia dal cilindro dicendo che boh, magari alla fine faceva bene ai Pokémon cambiare un po’ d’aria e che in fondo qui a Canalipoli faceva caldo-caldo, sì ma era l’umidità.
Quando chiusi la telefonata mi resi conto che non avevo neanche voglia di alzarmi per richiamarli e spedirli dove dovevo spedirli, dico davvero. Mi sentivo come se il corpo e il mio cervello fossero due entità separate l’una dall’altra. Mi dicevo che dovevo alzarmi, che dovevo fare quello che dovevo fare ma il mio corpo non sembrava cogliere il messaggio, rimanevo sdraiato con la testa sul cuscino.
Rimasi a fissare il soffitto bianco. Mi domandavo perché non mi avesse scritto quando era arrivato a Canalipoli. Perché aveva deciso di ignorarmi, di fingere che non esistessi? Non riuscivo a distogliere la mia testa da questi pensieri, in sequenza che si autoalimentavano. Avrei potuto chiederglielo. Sarebbe stata un’ottima idea. In fin dei conti è meglio parlare chiaramente piuttosto che non farlo. Me lo aveva detto anche lui un giorno. Incredibile, vero? Mi aveva detto che era meglio parlare chiaramente e giocare a carte scoperte piuttosto che non farlo. Trovai la forza per allungare il braccio verso il comodino e tirai su il cellulare. Aprii WhatsApp e aprii la chat con lui. La fissai per un attimo. Sotto il suo nome apparve la scritta online. Poi, dopo qualche secondo, forse un minuto, sparì.
Non mi aveva scritto.
Appoggiai il telefono sul cuscino affianco al mio e dentro di me cominciò a montarmi una rabbia, una furia che raramente avevo provato in vita mia, vi giuro. Roba che proprio avrei potuto trasformarmi in un Hulk e far finalmente parte del Marvel Cinematic Universe anche io. Per quale motivo sulla faccia di questo pianeta io stavo male se Dream non mi parlava, non mi considerava? Chi era lui per farmi sentire così?
Chissenefrega di Dream.
Dannazione, parliamo di una persona come tante che ha avuto solo il merito di vincere qualche Lega Pokémon in più di me e che avrei potuto tranquillamente superare se solo avessi voluto. Io non avevo nulla da imparare da lui, dico davvero.
«Andasse a farsi fottere» biascicai. E mi sentii meglio, potete contarci. Cioè proprio che adesso non mi sentivo più senza energie, roba che volevo andare a uscire, fare una passeggiata e spaccare il culo a qualche Gennaro Bullo là fuori. Dio, mi sentivo una forza della natura. Non avevo bisogno di far parte del Marvel Cinematic Universe, ero io il mio Marvel Cinematic Universe.
Balzai fuori dal letto, accesi la musica così forte che l’avrebbero sentita persino a Fiordoropoli e cominciai a lavarmi i denti pronto per vivere quella giornata.
Sciacquatami la bocca, mi infilai un paio di pantaloncini di jeans e mi specchiai allo specchio prima di allacciare i bottoni dell’orlo. Mi misi di profilo e strinsi il braccio. Sembrava che stessi perdendo massa muscolare. Magari era la volta buona che avrei chiamato il mio allenatore. Con l’esercizio intenso che mi avrebbe fatto fare, anche per pagarmela, probabilmente avrei recuperato in un mese quello che avevo balzato per tutto il tempo. Ruotai il polso osservando il bicipite salire e scendere lungo il braccio.
Fortuna che io non ho questa chiavica dell’allenamento. Che perdita di tempo. L’unico motivo per cui avere quei bicipiti, Michael, è se vuoi fare soldi su Instagram. Altrimenti è una perdita di tempo.
Lasciai il braccio cadermi al fianco. Effettivamente, a me non interessava tanto allenarmi. Anzi, credo di averlo sempre odiato. Così come non sopportavo poi davvero il mio allenatore, mica per scherzo. E comunque non avevo voglia di uscire, figuriamoci di allenarmi. Tirai già la zip dei jeans che mi caddero senza opporre resistenza alle caviglie. Li superai alzando i piedi, un passo dopo l’altro.
Decisi che era il momento di spedire i Pokémon nel box. Mi affacciai alla finestra, mi misi due dita in bocca e fischiai. In pochi istanti erano tornati su a casa. Dieci minuti dopo erano tutti a centinaia di chilometri di distanza, in un posto fresco e con l’aria condizionata.
Io mi rimisi sul letto. Avrei dovuto pranzare ma non avevo voglia di alzarmi e pensare cosa cucinarmi. Quindi decisi che, in fin dei conti, avrei potuto saltare quel pasto. Non è che avessi poi così tanta fame.
Dico davvero.

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