Ti scatterò una foto

di BenniBennis
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione - Margherita ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - Aria di benvenuto e di rinascita ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - Primi incontri ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - Maracaibo, mare forza nove. Fuggire sì, ma dove? ***



Capitolo 1
*** Introduzione - Margherita ***


Introduzione – Margherita
 

Margherita, piacere. Venticinque anni, e da sette residente a Venezia. Nonostante ciò, sono nata e cresciuta a Napoli, ma il capoluogo veneto mi ha chiamata a sé, o meglio, ci sono scappata contro.
Non oso definirmi “niente di che”, perché so che direi una frottola; ho scelto io di non fare la modella, una mia propria decisione, anche se avrei potuto senza problemi : un metro e settanta per sessanta chili circa, lunghi capelli ondulati e neri più della pece, occhi grandi e verdi, labbra carnose, un naso ben squadrato ed elegante, e uno sguardo capace di essere degno delle migliori posatrici per fotografia. Chi mi conosce dubita che sia del tutto naturale, ma è così; sono solo nata fortunata. Gambe snelle e slanciate, fisico asciutto grazie a buone abitudini alimentari e sportive. Qualsiasi movimento io faccia, risulto aggraziata come una dama dell’Ottocento. Non oso lamentarmi della minima seconda taglia di seno e del neo forse un po’ troppo evidente all’angolo destro della bocca. Sono stata considerata spesso “una classica bellezza mediterranea” da voci conosciute e non, e quelle stesse voci mi hanno consigliato di diventare, per l’appunto, modella. Non le ha ascoltate. Il motivo?
Ha preferito la cultura e il sapere al fisico, e così appena diventata maggiorenne sono emigrata al famigerato Nord, in Veneto, e sono entrata all’università di lingue; potevo rimanere nella mia città, studiare lì, ma sentivo la necessità di cambiare aria. Ma ora, con laurea triennale e magistrale conseguite in perfetta scadenza, non mi ritrovo completamente soddisfatta della mia vita. Il lavoro di guida turistica che mando avanti già da due anni non mi dispiace, ma ho il bisogno di qualcosa di nuovo. In più, dopo tanti anni passati nella Laguna, mi manca la mia città, mi manca il Sud, il sole, il mare, e il mio caos partenopeo. Sono stata cresciuta a proverbi e racconti in dialetto, a pranzi di Natale infiniti e passeggiate sul lungomare la domenica mattina. E tutto questo a Venezia non c’è, e ne sento immensamente la mancanza, anche se non l’avrei mai immaginato, considerando poi che io ho deciso di abbandonare la mia famiglia e le mie abitudini.
Il mio viaggio senza ritorno coincise con la separazione dei miei genitori, dalla quale nacque anche l’astio per mia madre, donna stralunata e aspra, pronta a sposarsi nuovamente dopo un solo anno di divorzio. Questa cosa non l’ho mai mandata giù, ancora oggi non ho rapporti con il suo compagno e con lei mi limito a poche telefonate fredde molto di rado. In realtà non mi pesa, che lei faccia la sua vita, io ho la mia. Inoltre, ho una sorella minore, nata tre anni dopo di me. Elena studia medicina, ma lei è voluta rimanere a Napoli, è abbastanza poltrona e il solo pensiero di cambiare città per studi la stanca. Nonostante la lontananza, le voglio un bene enorme, grazie anche al fatto che siamo opposte e complementari, aspetto compreso: una testa di ricci e occhietti piccoli, vispi e scuri, una sicurezza che io non ho mai conosciuto, tutta studio, film, libri e musica.
Infine, ho un padre di cinquantanove anni, una persona – come il resto della sua famiglia – che non vedo da numerosi anni. Il mestiere di mio padre, inoltre, non facilità la possibilità di un incontro: far il cuoco comporta spostarsi di continuo, lavorare anche quattordici ore al giorno. Nonostante ciò, mio padre si ritiene fortunato ad essere ciò che è, ossia un primo chef, in quanto ama il mestiere che fa. Lavora solo durante la bella stagione in località turistiche estive, in hotel e villaggi. So che è orgoglioso di me, non me lo dice mai, ma quando ci sentiamo per telefono la sua voce si riempie di commozione ogni volta che gli narro qualche mio piccolo successo.
Oltre che studiare, in sette anni sono stata capace di frequentare corsi di danza, i più disparati, in quanto sono appassionata di danza. Andando alla ricerca, ho trovato lezioni di balli tradizionali, apprendendo così il valzer, il tango, il flamenco ed altri. Amo ballare, lo amo davvero tanto, e mi dispiace non aver potuto far crescere questa passione. Sono tante le cose che mi affascinano, forse troppe, e per questo sono finita per non realizzarne la maggior parte.
A Venezia non ho molta compagnia, amici stretti con cui passare il sabato sera non esistono, le conoscenze si litano ai colleghi di lavoro, i vicini di casa, e nient’altro. Non ho confidenti con cui sfogarmi nei momenti di stress accumulato; semplicemente trattengo le lacrime e dico “passerà”. Ci ho fatto l’abitudine, anche se è dura. Allo stesso tempo, sono consapevole che un minimo di vita sociale in più, conoscere gente nuova e interagirci, mi manderebbe nel pallone. La timidezza e l’insicurezza sono le basi del mio carattere. È anche per questo motivo che ho scelto di non fare la modella: avere dei riflettori puntati contro sarebbe una tortura, non saprei come muovermi, come comportarmi. Ugualmente, non saprei come comportarmi con un ragazzo; inutile dire che la mia ultima relazione con l’altro sesso corre a cinque anni prima, finita per sua scelta. Ho smesso di innamorarmi, mi sono chiusa sul lavoro e ho smesso di vivere la mia gioventù.
Ma mi sono stancata, stancata di essere sprecata. Ho semplicemente bisogno di una svolta.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - Aria di benvenuto e di rinascita ***


Capitolo 1 – Aria di benvenuto e di rinascita


Il vento marino spettinava i capelli e gli abiti leggeri di luglio. Il suono delle onde che s’infrangevano sullo scafo e il parlottare dei passeggeri facevano da basso sottofondo alla mia lettura. Non potevo smettere di leggere quella lettera, accuratamente scritta a mano e in una grafia quasi strisciata, come se avesse voluto togliere di mezzo quel pensiero il prima possibile; sicuramente gli era costato un certo sforzo trascrivere quella proposta, ma aveva voluto fare le cose per bene, e scrivere addirittura una lettera a mano, non farmi una chiamata, inviarmi un messaggio o una mail. Mi meravigliai ancora di quell’uomo, era raro che non mi stupisse.
Gli occhi si soffermarono sulla firma, la sua solita firma anch’essa trascurata, in cui a malapena si potevano riconoscere l’iniziale. Ma in quel caso il solo nome era preceduto da una parola molto semplice ma significativa. “Papà”.
Cara Streghetta mia, posso ancora chiamarti così? Di tempo n’è passato, e anche troppo in fretta. Ma non ti ho scritto qui per parlare di cose brutte, bensì il contrario. È tanto che non ci vediamo, ho perso il conto degli anni, e mi manchi tanto. La domanda è una e semplice: ti andrebbe di venire qui, da me, per una sorta di vacanza?
Erano anni che non facevo una vacanza estiva, e non era tanto per dire. Quando i corsi terminavano, trascorrevo i mesi più caldi dell’anno sempre a Venezia, costretta anche dal lavoro che raddoppiava.
Chiamami, così ti spiego meglio. Per piacere”.
Il pomeriggio di quello stesso giorno in cui avevo ricevuto e letto per la prima volta quelle parole, al ritorno da una guida a San Marco, davanti ad una tazza di tè tiepido, avevo composto il numero di mio padre. Il tono con cui accolse la mia chiamata mi fece capire subito che era più che felice che preso in considerazione la sua proposta.
Quando ero un’adolescente preda delle crisi esistenziali, il nostro rapporto era colato a picco, come una nave incagliata. Lo odiavo, odiavo qualunque cosa facesse e, più di tutto, odiavo quando mi dava consigli; non mi capacitavo di come potesse sapere cosa fosse meglio per me, lui che era maschio e soprattutto vecchio. Grandi litigate non c’erano per fortuna mai state, ma avevo finito per allontanarlo dal mio mondo composto da apparente felicità. A lui era dispiaciuto, ovviamente, e ogni giorno tentava di riavvicinarmi, ma al tempo ero ancora più testarda di adesso. Finché non me n’ero andata di casa, non c’eravamo parlati, o meglio io non gli avevo rivolto parola. A Venezia, non sentendo praticamente più nessuno, tutto si azzerò. Eravamo in territorio neutro, potevo dargli un’altra possibilità.
«Cos’è questo fatto della vacanza?» gli avevo chiesto dopo essermi informata su come stesse.
«Sì.» aveva mormorato indeciso. «C’è la possibilità di farti venire qui da me, per tutta l’estate. Se prendi una pausa dal lavoro puoi raggiungermi. Ho parlato con la direttrice dell’albergo su quanto tu sia importante per me, e ha detto che può lasciarti una camera, non è un problema, e -»
L’avevo interrotto divertita, bevendo l’ultimo sorso di tè e alzandomi dal tavolo.
«Okay. La camera, l’albergo, la direttrice disponibile… Ma il posto in questione dov’è?»
Sapevo che mio padre si spostava spesso per lavoro, e anche abbastanza lontano da casa a volte; tutto cambiava da anno ad anno. Pensare, ad esempio, che una volta era stato accettato a Capri – letteralmente di fronte casa – e la volta successiva in una località sarda.
«Mamma non ti ha detto niente su dove sto lavorando ultimamente?» mi aveva fatto perplesso.
Gli avevo ricordato quanto fossi in cattivi rapporti con quella donna e lui si era scusato, ricordandosi solo in quel momento che tra me e la sua ex moglie non scorreva buon sangue.
«Quindi?» avevo insistito.
«Scusa!» aveva riso. «Quindi, lavoro all’isola d’Elba.»
 
Ripiegai la lettera sui già solcati segni, attenta a non farla portare via dal vento e mangiarla dall’acqua, e la infilai velocemente nella tasca esteriore della grossa valigia. Il sale velava il blu pavimento e lo rendeva allo stesso tempo bello e scivoloso; avanzai a piccoli passi attenta a non finire a terra, e, insieme alla mia figura, portavo avanti i bagagli. Forse portare due grandi trolley era stato un po’ eccessivo, ma davanti all’armadio non ero riuscita a infilare solo il minimo indispensabile. Erano comunque due mesi e io rimanevo un’ossessionata del vestire.
Ero riuscita ad entrare al coperto e a lasciare il ponte, e ora arrancavo goffamente e pesantemente. Con un colpo al cuore mi resi conto che un ragazzo aveva posato una mano sul carrello del trolley e faceva per darmi aiuto; aveva un viso cordiale e il sorriso che portava sulle labbra era autentico.
«Grazie.» sorrisi gentilmente.
«Oh.» sussultò subito. «Sei italiana? Intendo, sei… Ehm…»
«Sì, sono italiana.»
Non mi meravigliai per niente a quella domanda. Non era il primo che mi scambiava per una straniera. Mi dicevano che ero troppo bella per venire dall’Italia e dovevo essere nata da genitori di un altro paese; mi prendevano per greca, finlandese, australiana, spagnola. Ormai ci vivevo, con quegli scambi nazionali.
Con garbo, il ragazzo mi portò il trolley fino a dove gli avevo chiesto, mentre io mi occupavo dell’altro bagaglio. Mi fermai a quella che, informandomi, capii fosse la porta d’uscita, in modo che una volta aperta sarei potuta scendere subito. Non trovando un posto per sedermi e rilassare le gambe, mi limitai ad appoggiarmi a una parete e chiudere gli occhi. Ero stanchissima. Odiavo viaggiare in treno, e il caldo afoso e il cambio di mezzo che avevo dovuto affrontare non avevano certo aumentato la mia simpatia per gli spostamenti su ferrovie, nemmeno le molte ore seduta, aspettando d’arrivare in porto. La nave la preferivo, ma la stanchezza precedente si stava facendo sentire, e anche se era un’ora precisa di traghettata, strepitavo dalla voglia di mettere piede sulla terra ferma e sdraiarmi su un letto.
Notai, riaprendo gli occhi, che gran numero dei passeggeri della nave delle sette si era radunato vicino l’uscita, al mio fianco. Il traghetto era pieno, tutti futuri turisti come me, lo si leggeva dalle facce.
Solo quando fu aperto il grande uscio di ferro e si iniziò ad intravedere la scala d’approccio, pensai che lì, a terra ad aspettarmi, c’era davvero mio padre. Dovevo comportarmi da figlia normale, in buoni – o almeno decenti – rapporti con il proprio genitore. Ma come fare? Cosa dire, come agire?
E tra cinque minuti mi sarei trovata di fronte quell’uomo che da bambina avevo tanto amato e da adolescente non aver mai voluto. E da adulta come sarebbe stato il nostro rapporto?
Le grida dei marinai coloravano la calda aria e le ultime cime venivano fermate saldamente al porto, mentre con calma le persone scendevano gli ultimi gradini interni della nave. Dal voler scendere per prima, lasciai che tutti i passeggeri mi sorpassassero e assaporai per ultima l’aria aperta. L’estate, ufficialmente entrata già da un po’, si stava facendo sentire, regalando alla vista un cielo azzurro intenso e privo di nuvole e un’aria non eccessivamente pesante.
Aiutata da un disponibile marinaio, scesi sulla piattaforma di ferro e provai a fare i primi gradini, ma un uomo davanti a me mi fermò. Era lui.
Ciò che mi risaltò subito agli occhi furono due cose: la prima fu la divisa da cuoco che indossava nonostante fosse a un porto e non a lavoro, e la seconda l’immensa quantità di capelli grigi che gli occupavano la testa. Quanto era invecchiato? Sette anni erano tanti, tantissimi. La folta chioma nera rigata solo ogni tanto di bianco adesso aveva lasciato spazio ad un’altrettanta fitta di capelli, ma solo grigi.
«Papà.» non riuscii a trattenere in un sussurro.
Ero mutata improvvisamente. Fu come se mi facesse pena, e tutta quella voglia di odiarlo si materializzò a prima vista.
Lo sguardo profondo che mi metteva tanta soggezione negli anni addietro, però, c’era ancora, solo caratterizzato da qualche ruga in più; e in quel momento mi fissava senza sbattere un occhio.
«Sei tu?» domandò.
Avrei tanto voluto rivolgergli la stessa domanda, ma non lo feci. Annuii soltanto.
«Margherita.» sospirò profondamente e mi abbracciò senza scrupoli.
L’isolamento di Venezia che tanto avevo voluto si ruppe in quella stretta, e in più compresi che odiare qualcuno non era più cosa mia. Dovevo assolutamente aggiustare con mio padre; sarebbe stato difficile, più di dieci anni tra scontri e lontananza non si sarebbero cancellati in un battito di ciglia, ma forse un’estate sarebbe bastata, e si poteva iniziare ricambiando quell’abbraccio.
Fummo quasi cacciati via dai marinai che si accingevano a dare il benvenuto ai passeggeri che invece si imbarcavano in quel momento, così in due prendemmo i miei bagagli e raggiungemmo l’auto nel vicino parcheggio del porto. Caricammo le valigie e con uno sbattere di portiere mise in moto e ci allontanammo dall’insieme di navi. Si potevano ben vedere le vetture che salivano sulle imbarcazioni per andare via dall’isola, mentre io m’intromettevo in essa chiedendole, quasi pregandola, qualche cambiamento.
«Il posto non è lontano. Sono dieci minuti di macchina.»
Silenzio di nuovo, mentre percorrevamo una strada semideserta circondata da campi a maggese. Non avevo il coraggio di guardarlo in faccia, nemmeno quando posò una mano sulla mia e ci aggiunse un “mamma mia, sei cresciuta tantissimo, sei diventata ancora più bella”: così arrossii semplicemente, chiusi a pugno l’altra mano e ingoiai un boccone amaro. Nonostante il mio aspetto, non ero abituata ai complimenti, e mi risultava difficile ogni volta dire anche solamente “grazie”. Tutto ciò che facevo era arrossire, e a volte abbassare gli occhi; rari erano i ringraziamenti che mi uscivano di bocca.
Come se non avesse detto niente, ritirò la mano e la saldò al volante; sbirciai di nascosto e, con mio sollievo, vidi che era ben impegnato a guardare la strada.
«Vedi, qui c’è un supermercato, puoi venire a far spesa.» spiegò a un tratto rallentando. «Ti prendi la macchina e vieni qui quando vuoi.» poi parve rabbuiarsi. «Mi dispiace molto, ma è già tanto che ti è stata data una camera. Il ristorante è solo per i clienti e, be’, proprio non posso farti venire e -»
«Papà.»
Rallentò e fermò l’auto.
Mi faceva uno strano effetto chiamarlo, tanto quanto averlo insieme a me in quell’abitacolo. Ma quello sarebbe stato solo l’inizio, avrei fatto bene a farci l’abitudine.
«Va bene. Hai fatto anche troppo, per una come me.»
Quelle parole non dette in faccia non sarebbero significate un bel niente, così mi voltai a incrociai i suoi occhi già puntati su di me. Sapevo che con quel “una come me” aveva intuito quanto mi sentissi in colpa per tutto quello che di cattivo che avevo fatto. Sperai che mi perdonasse, lo sperai davvero intensamente.
«Grazie di essere venuta.» mormorò emozionato.
In quel momento intuii che c’era qualcosa che non andava. Capivo cosa aveva negli occhi, la stessa cosa che portavo pesantemente io a Venezia: la solitudine.
«Sono qui.» lo rassicurai. «Non vado via.»
Come se i ruoli si fossero invertiti, fui io a infondergli calma come un genitore: appoggiai una mano sulla sua spalla e lui ci lasciò subito un leggero bacio.
«Forza, andiamo.» sorrisi allegra.
Non volevo perdermi in dolcezze e momenti emozionanti. Non di già, almeno.
Il motore riprese a ruggire e passai il resto del brevissimo tratto osservando il paesaggio fuori dal finestrino. Fino al villaggio era tutta natura, per lo più campi secchi e piante di origine marittima; per arrivare al posto in questione si percorreva una larga ed isolata strada sterrata, che continuava per un chilometro e mezzo da l’asfalto di una via principale e spesso trafficata, come in quel momento, che portava ad una spiaggia mozzafiato e per questo spesso percorsa dalla gente.
«Quindi ci sei già stato qui?» gli avevo chiesto, ma parve più un’affermazione.
«Sì.» cambiò marcia. «E’ il secondo anno che ci lavoro. E il posto è bellissimo, Margherita, bello davvero. Per una ragazza come te poi è un luogo pieno di distrazioni.»
Non spiegò altro, ma questo quasi mi bastava. Potevo finalmente vivermi per bene i miei venticinque anni, anche se per una sola estate. Era forse arrivata la svolta che tanto desideravo.
«Eccoci.»
Inaspettatamente, dietro una curva, c’era un cancello di legno scuro, di media altezza e con un’insegna che nominava il posto; ai lati piante fitte di margherite di tutte le grandezze occupavano vasi di pietra bianca.
«E’ proprio per te, guarda.» rise indicando i fiori, mentre con l’altra mano effettuava una svolta.
Mentre ancora sorridevo come una bambina a quell’osservazione, parcheggiò il veicolo in un parcheggio all’aperto ma riparato dal sole da pannelli di scura plastica, spense la macchina e aprì la portiera; io feci uguale, raggiunsi il cofano per prendere i bagagli e li tirai giù attenta a non far prendere loro un brutto colpo. Con un trolley, ci avvicinammo all’entrata di legno; questa fu aperta manualmente e ci ritrovammo all’interno del villaggio. Non che si vedesse ancora molto, ma sapevo che quello sarebbe stato un qualcosa di meraviglioso, me lo sentivo dentro. Ne ero quasi sicura, mi fidavo sempre ciecamente del mio istinto.
Ci trovavamo su una spaziosa e dritta strada di cemento, e alla mia sinistra si alzava una grossa casa dalle mura color pesca, a due piani, con una scala in pietra bianca che portava al secondo livello, nascosto però da un muretto che faceva da parapetto ad un balcone; anche il muro era colmo di fiori dagli accesi e caldi colori estivi e ricadevano sulla tettoia sottostante come riccioli morbidi. A destra della strada, invece, un alto e pulito canneto che ostacolava la vista, ma per niente brutto da osservare. In fondo alla via si poteva intravedere un altro parcheggio semipieno.
Scantandomi dal paesaggio meraviglioso, passai il trolley all’altra mano e feci un altro passo sull’asfalto cocente, ma l’uomo mi fermò gentilmente.
«Dove scappi?» rise. «Tu stai qui.»
Voltandomi verso lui, lo trovai che indicava la casa pesca sorridendo lievemente.
«Ah.»
Non sapevo se era sorpresa o delusione. Be’, dovevo comunque immaginare che essendomi stata riservata una camera da parte di mio padre non avrei potuto avere una stanza lussuosa o cose del genere, ma era ancora tutto da scoprire, per me.
«Questi sono gli appartamenti per il personale.» spiegò iniziando a salire le scale. «Non che tu sia del personale, ma sei comunque mia figlia.»
«Devo prenderla come una cattiva cosa?» sorrisi divertita, mentre a sguardo basso salivo gli scalini.
«Io non direi.»
Un balcone non molto sottile e né troppo lungo era ricoperto da mattonelle chiare e lisce, in abbinamento alle pareti. Alla fine del pavimento, una porta ricoperta a metà da un vetro ondeggiato e che privava di vedere all’interno; a sinistra, di fronte al parapetto e leggermente lontano dall’altro uscio, una uguale. Avevo dunque un vicino, non era male come inizio. Anche se contavo di fare più conoscenze possibili, per distruggere l’eremita che c’era in me da tanti anni.
«Tieni.»
Aprii la mano e ci poggiò dentro un paio di chiavi grigie, appese ad un portachiavi elementare e circolare e accompagnate da un porta-targhette verde; dentro c’era il numero 127 scritto a pennarello.
«Quindi quella è tua?» domandai indicando con un cenno del mento la porta di fondo.
«No.» scosse la testa. «Io vivo a due minuti di macchina da qui, in una casina sulla strada sterrata che abbiamo percorso prima.»
Non potevo crederci. Era così lontano? Non certo a una grandissima distanza, ma per una come me che contava di riallacciare ben stretti i rapporti, anche due minuti di auto potevano sembrare chilometri e chilometri.
«Va bene lo stesso. Verrò a trovarti quando posso, la sera, credo, quando stacchi…»
Parlavo e mi organizzavo piani, quando in realtà non conoscevo il suo turno di lavoro, i suoi ritmi.
«Allora ripariamo?» arrossì sorridendo.
Capii al volo cosa intendeva, e di risposta lo abbracciai leggero.
«Sì, ripariamo.» sussurrai al suo orecchio.
Sciolti dall’abbraccio, ci guardammo un po’ negli occhi, poi fece per andare via.
«Forza, devo andare. In cucina mi aspettano.»
Annuii con calma e pensai a quanto potesse essere bello riaverlo vicino. Senza accorgermene, mi era mancato.
«Ah, papà!» lo chiamai quando era arrivato al pianerottolo di spezzo. «Levami ‘na curiosità.»
«Dimmi tutto, Strega.»
Assaporai per un attimo quel soprannome che tanto avevo amato da piccola, e anche adesso, ripensandoci.
«Chi ci abita accanto a me?»
Rise sotto i baffi e la cosa mi convinse molto poco, poi aggiustando la piega alle maniche, parlò: «La direttrice.»
«Cosa mi stai dicendo?!» sbraitai sconvolta. «Sei serio?»
«Serissimo.»
«Uh mammà.» mi lasciai sfuggire.
Rise ancora, poi salutò con la mano e scomparve giù per le scale.
Credevo in un vicino migliore, e invece mi sarei accontentata del capo dell’albergo. Almeno era una donna, e almeno era grazie a lei se in quel momento mi trovavo davanti a quell’appartamento, vicino a mio padre.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 - Primi incontri ***


Capitolo 2 – Primi incontri
 
 
Mi svegliai come spesso capitava anche nei primissimi giorni al Nord, chiedendomi dove mi trovassi, perché quelle bianche pareti erano diverse dalle bianche pareti del mio appartamento di Venezia. Qui il soffitto era più alto e le crepe sull’intonaco agli angoli del soffitto non c’erano.
Quando spostai gli occhi al resto della camera, allora ricordai, e non riuscii a trattenere un sorriso. Felice, nonostante non avessi ancora fatto niente mi ero svegliata felice, con il piede giusto, e se il buongiorno si vedeva dal mattino, allora la giornata sarebbe stata magnifica.
Poggiai una mano sul cuscino ed una sulle labbra, senza far niente, senza pensare, solo godendomi il silenzio della mattina in un’atmosfera che mi sembrava paradisiaca. Non dover sentire la sveglia e potermi alzare quando mi pareva senza l’ansia di correre a lavoro, già era una bella sensazione. Infatti non sapevo che ore fossero, tardi o presto poco era importante, perché ero in vacanza, e potevo fare quello che desideravo, e quando desideravo.
La sera prima ero crollata sul letto con l’obiettivo di rilassarmi un po’ dal viaggio, ma avevo finito per addormentarmi subito, ancora completamente vestita. Mi aveva fatto aprire gli occhi un bussare alla porta, e insieme a me si era svegliato anche lo stomaco, chiedendomi da mangiare; in effetti era da mezzogiorno che non mettevo qualcosa di decente sotto i denti. Era mio padre, passato subito a salutarmi dopo aver smontato da lavoro ed aveva portato con sé un bel pezzo di schiaccia toscana e delle fette di prosciutto crudo. Li avevo accettati molto volentieri dato che in cucina non avevo niente, così ero tornata a letto a stomaco pieno, struccata e con un pigiama addosso. Non ero riuscita, sempre il giorno precedente, a disfare nemmeno una valigia o andare a comprare qualcosa; ero troppo stanca. Mi ero limitata a fare un brevissimo giro dell’appartamento che mi era stato assegnato, rimanendo anche abbastanza contenta del luogo in cui avrei vissuto per i successivi mesi. Non era male ed era compatto, come piaceva a me : le stanze erano tre, un bagno di tre metri quadrati, la camera da letto che conteneva a stento un letto matrimoniale, un armadio a due ante e spazio per camminare a raso muro, ed una sala di medie dimensioni che comprendeva salone, cucina e un angolo con un piccolo televisore.
Stare nel letto era una delle cose che amavo di più, ma avendo svariate cose da fare, mi alzai scostando irruentemente il lenzuolo dal corpo e uscii di camera, spalancai la tenda sull’unica finestra della più grande stanza e lasciai entrare una luce accecante. Sbirciando fuori notai che anche il cielo era dalla mia parte, ancora più limpido e chiaro del giorno precedente. Sorrisi ancora allegra e mi mossi verso il bagno; la doccia mi richiamava, ma avrei prima disfatto le valigie.
Aprendo uno dei due trolley ringraziai il fatto che l’armadio fosse molto ampio, dato che ciò che avevo selezionato per quell’estate era quasi il mio guardaroba intero. Dalle mie mani alle grucce passavano le numerose lunghe gonne che proprio non ce l’avevo fatta a lasciarle a casa, vestiti estivi, le camicie smanicate e le canottiere colorate, il gran numero di jeans corti e lunghi, e i pochi pantaloni di leggero cotone; sul fondo della valigia, una felpa in caso di freddo o umidità e ciò che avevo preso con grande emozione, immaginando il momento in cui lo avrei indossato: un abito lungo alla greca color rosa confetto. Vedendolo in un grande magazzino al centro di Venezia, me ne ero innamorata e l’avevo portato in camerino senza badare nemmeno al prezzo; quando poi me l’ero visto addosso, avevo davvero perso la testa. Ero uscita di corsa con il capo tra le braccia e mi ero precipitata alla cassa, spaventata come se qualcuno lo potesse prendere al mio posto. Ciò che provavo per gli abiti lunghi era vero amore.
Nemmeno fosse un vestito da sposa, presi una stampella e lo appesi con molta cura, attenta a non fargli prendere minime pieghe. Sistemata la valigia, passai alle scarpe, allineandole di fianco al guardaroba; nemmeno con queste mi ero risparmiata: un paio di sandali alla schiava, uno d’infradito, stivaletti bassi estivi e due paia di tacchi, uno nero e vertiginoso, da abbinare all’abito greco.
Svuotai infine la sezione bagno, buttando qua e là sulle mensole i vari prodotti, nel mio caratteristico disordine: se non fosse stato per le sgualciture, anche i vestiti sarebbero finiti dove capitava. Era un lato del mio carattere, che alla perfezione si rifletteva sui sentimenti, sui pensieri e sulle emozioni. Ciò che provavo e pensavo la maggior parte delle volte non aveva né capo né coda, era tutto confuso ed ingarbugliato, rendendo difficile la mia capacità di creare una relazione stabile.
Con un sospirone mi guardai intorno e cercai un posto dove mettere le borse. Due minuti dopo ero in equilibrio precario su una sedia, allungandomi e dannandomi per far stare i due trolley vuoti sulla parte superiore dell’armadio, sentendomi tanto un clown circense.
Nemmeno se fossi in un film, tre tocchi pesanti si posarono sul vetro opaco della porta principale, e spaventata dal rumore nel silenzio, sobbalzai, perdendo altro equilibrio dalla seduta. Grazie al cielo c’era il cornicione del mobile e mi mantenni ad esso. Solo dopo aver insultato a fior di labbra il visitatore mattutino, scesi con i piedi per terra e mi diressi all’entrata. Il tempo che l’ospite battesse ancora tre volte, che io urlassi “eh, un attimo, arrivo!”, riflettessi che fossi ancora in pantaloncini extracorti del pigiama e finissima canottiera e prendessi una pinza e la sistemassi alla bell’e meglio in testa, arrivai all’uscio ed aprii di scatto. Il sorriso di benvenuto che aveva messo si smontò in circa due secondi. Chissà che prima impressione le feci, ma non sicuramente ottima.
«Ehm…» arrancai. «Buongiorno.»
Sbatté più volte le palpebre dalle lunghe ciglia passate con il mascara, poi rimontò il sorriso.
«Ciao.» rispose. «Tu devi essere Margherita.»
Superato il primo strato di rabbia, si spaziò in me la vergogna.
«Sì…» sussurrai. «E lei…?» aggiunsi quando vidi che non proseguiva nel discorso.
«Oh!» esclamò ridendo. «Che sbadata, scusami.» allungò una mano dalle dita affusolate e dalle corte unghie smaltate. «Io sono la direttrice.»
Allora sì che la vergogna aumentò e affogò tutte le parole nella mia mente. La direttrice, lì davanti a una me in pigiama. E le avevo anche risposto male. Una perfetta prima presentazione, no?
Non seppi con quale forza, ma allungai anche la mia mano destra e gliela strinsi; mentre la sua presa era forte, quasi maschile, la mia era debole e tremante. Abbassai gli occhi e li fermai ad osservare il Rolex femminile che aveva, stranamente, al polso destro.
«Ti ho svegliata, vedo.» disse ritirando la mano svelta, come irritata dal mio sguardo.
«Io?» chiesi alla sprovvista. «No! Voglio dire, no, stavo sistemando la mia roba. Non hai dato fastidio… Cioè! Non ha dato fastidio.» corressi subito.
Volevo sprofondare in quel momento, oppure ritornare dentro, e come una scena recitata, chiedere un nuovo ciak e girare la parte in miglior modo.
Rimanemmo in silenzio, io mi fissavo i piedi scalzi e facevo giocare le dita per evitare di guardare quella donna negli occhi. Pensai però che non l’avevo nemmeno inquadrata fisicamente, e per evitare di fare altre cattive figure come non salutarla per strada perché non l’avrei riconosciuta, la guardai dritta in faccia, anche se era poco carino. Il viso era scoperto dai capelli ricci biondo cenere tirati su da un paio di lenti da sole, e gli occhi piccoli color nocciola leggermente all’ingiù risaltavano sulla faccia grazie al trucco luminoso; sotto di essi un naso piccolo e schiacciato e un paio di labbra olivastre e sottili; aveva la pelle scurissima, come molto abbronzata, e piena di macchie del colore delle labbra. Adesso non sarebbe stata difficile da dimenticare.
«Bene, ero passata per darti il benvenuto.» si sforzò di sorridere.
«La ringrazio.» combattei contro il “tu” che volevo per forza rivolgerle. «È molto gentile da parte sua.»
«Ma figurati.» e il sorriso che in quel momento fece era sincero, lo si poteva vedere. «Forza, non ti rubo altro tempo, avrai tanto da fare.»
Incapace di rispondere, annuii come una stupida e la lasciai allontanare; scese le scale e scomparve dalla mia vista. Non persi tempo e sbattei la porta alle mie spalle, poggiandomi ad essa e alzando gli occhi al cielo. Non l’avevo salutata, non l’avevo ringraziata per il soggiorno gratuito, mi ero presentata poco carinamente, vestita come una poco di buono.
«Che figura di merda.» mormorai con le mani sugli occhi. «Ma la giornata non doveva andare bene?»
Chiusi la porta a chiave e andai alla doccia, che sentii come se mi aspettasse a braccia aperte almeno lei in modo accogliente. Uscii dopo poco, con l’obiettivo di andare a fare un po’ di spesa generale e non perdere altro tempo inutilmente. Afferrato un asciugamano morbido e profumato già sistemato nel bagno prima del mio arrivo, lo arrotolai intorno al corpo accaldato e lo fermai di lato; gli occhi mi scapparono al piccolo orologio da comodino mentre mi vestivo, e vedere che era la mezza aumentò la velocità della mia preparazione. Presi al volo la copia delle chiavi dell’auto che mi aveva lasciato papà la sera prima insieme alla cena e mi precipitai fuori; fui costretta a tornare indietro perché dimenticai di chiudere l’appartamento.
 
Fare compere non era stato certo bellissimo, ma almeno con esse ero riuscita a cucinarmi un piatto di pasta con un condimento di pomodoro proprio niente male, e sonnecchiare a stomaco pieno era sempre gradito.
Fui svegliata dopo poco che mi ero messa a letto. In realtà il solito orologio, mi diceva che erano già le cinque e mezza. Anche questa volta, come era successo in mattinata, fu la porta a rompere il mio sonno, ma adesso risposi in modo più garbato e strofinai gli occhi prima di aprire l’uscio. Per fortuna era solo mio padre.
«Strega.» sorrise a mo’ di saluto.
«Ehi, ciao.»
«Riposavi? Scusa.» disse deluso, sostituendo il sorriso con un broncio.
«Guarda che hai fatto bene, sennò continuerò a passare le giornate a letto.» scherzai mantenendo una risata tra le labbra. «Vai a lavoro?»
«Sì.» rispose semplicemente. «Senti una cosa.»
Sapevo che quando diceva in quel modo non avrei sentito un bel niente, perché era un modo suo per farmi capire che mi avrebbe fatto capire qualcosa senza le parole. E infatti, allungò gli occhi alla porta accanto alla mia, aspettando una mia reazione.
«Sì, stamattina.» intuii. «Ho fatto una figuraccia assurda. Credo che ti farò passare come il cuoco con una figlia scostumata.»
«E come mai?» si rabbuiò.
Gli feci cenno di entrare ma lui rifiutò dicendo che aveva pochissimo tempo per me, era passato solo per un saluto. Così, poggiandomi allo stipite di alluminio, gli raccontai brevemente dell’incontro della mattinata in tutti i particolari e in completa sincerità.
«Ma figurati.» scherzò. «E’ una donna molto divertente, se la si scopre a fondo. Stai tranquilla che non valuterà male questa prima visita.»
«Speriamo.» masticai trai denti.
Dopo avermi chiesto se avevo bisogno di qualcosa, si congedò con un “Ciao, ci vediamo stasera, se non dormi”. Annuii, e stavo già per rientrare in casa, quando invece mi richiamò di nuovo.
«Perché non ti vai a fare un giro? Qui, intendo. Vedi un po’ il posto, no? Sennò quando? C’è il mare ed altro, mica puoi “passare le giornate a letto”?» mi citò con un sorriso.
Non ci pensai nemmeno, feci ancora di sì con la testa, poi andò via davvero. Avevo risposto un po’ di getto, non avevo nemmeno badato alla domanda, e una volta dentro che davvero avevo bisogno di andare in esplorazione, di conoscere gente. Se non ora, quando? Avrei aspettato altre settimane, per poi rimpiangere di essermi goduta poco la vacanza? No.
Infilai nuovamente i sandali alla schiava, presi gli occhiali da sole e li posai in testa in modo da fermare i lunghi capelli sciolti; ero struccata, ma non me ne importava, perché secondo tanti il mio viso al naturale faceva invidia ai più bei make-up visti in giro. Così dopo una veloce spazzolata alla chioma quasi indisciplinata che avevo in testa uscii ancora dalla piccola casa e scesi le scale con una sorta di forte adrenalina nelle vene. Quella sarebbe stata una parte della mia vita, diversa dalla monotonia, dal lavoro e dalla vita rigida che affrontavo da tanto, e me la sarei goduta; quel giorno si dava il via alle danze.
Percorsi il vialetto principale scendendomi ed allontanandomi dunque dal cancello d’entrata con le margherite, diretta verso il parcheggio interno alla struttura, circondato su tre lati da alti alberi dalle foglie chiare; arrivata ad esso, notai che il canneto che avevo di fronte casa finiva di getto, e alle sue spalle si rivelavano due campi da tennis, al momento vuoti e silenziosi, con le racchette raccolte in un angolo e il verde tappeto ad abbrustolire sotto il sole tardivo.
Avanzai ancora, oltrepassai le auto ferme e scoprendo allora un’altra specie di entrata, però senza cancelli automatici, solo un piccolo archetto di pietre costeggiato da aiuole verdi e di media altezza. Passato l’arco, rimasi meravigliata: davanti a me si estendevano quattro grandi quadrati di prati all’inglese, circondati dalle siepi tagliate anche loro ad altezza uomo; tra l’erba ci passava una strada di pietre grigie e squadrate, e a sinistra dei prati, massicce e dalle persiane bianche, si alzavano case come quella dove alloggiavo io, però in numero maggiore, una lunga fila color pesca. Dall’altra parte, a destra, qualcosa che non riuscivo a capire, così ci andai contro subito. Solo dopo esserci arrivata sotto, capii che si trattava di un palco. Un grande palco con tanto di impalcature laterali e luci, come quelli dei palazzetti per spettacoli; di fronte a esso una grossa distesa di sedie di plastica, e dietro anche degli spalti.
«Però...» mormorai. «Sono attrezzati.»
Per arrivare a tale posto, bisognava passare per una corta stradina a serpentina iniziata da un cancelletto ora chiuso.
Osservai ancora affascinata quella struttura, poi ripresi la mia esplorazione. Ancora in leggera discesa, si arrivava a una strada più grande, che univa le varie vie che camminavano tra i prati precedenti e continuava dritta per un bel pezzo. Era piena di gente, e mi sentii scomparire, passare un po’ in secondo piano, nascondermi; non mi dispiacque a dire il vero, così potevo guardarmi intorno senza essere troppo osservata.
Alla mia sinistra, piscine. Tante piscine, alcune spaziose ed alcune molto piccole. Al loro opposto, un altro edificio, pieno di alte e grandi finestre prive di tende e che permettevano di vedere all’interno alcuni tavoli di legno. Ipotizzai che fosse il ristorante, e che quindi mio padre non dovesse trovarsi poi così lontano da lì.
Mossi un paio di passi verso quella struttura, ma una voce mi fermò facendomi sussultare. Come se fossi colpevole di reato, mi voltai con il cuore in gola, ma mi tranquillizzai non appena vidi che quel “ehi” pronunciato un po’ duramente proveniva solamente da un ragazzo.
«Ciao.» sussurrai indecisa sul tono da prendere.
«Andavi da qualche parte?» domandò avvicinandosi, poi aggrottò lo sguardo e storse la testa di lato. «Non ti ho mai vista prima.»
Bella osservazione, dato che nemmeno io avevo mai visto lui, un ragazzo che in realtà, vedendolo da vicino, pareva essersi inoltrato nella trentina già da un po’.
Quando feci scattare un veloce sguardo al disegno che aveva sulla t-shirt all’altezza del cuore, mi si schiarirono le idee.
«Sei arrivata oggi?» chiese ancora.
«Io…» feci, non trovando le giuste parole per spiegare. «No, in realtà ieri. Però…»
«Ah, ecco! Tanto piacere, io sono Roberto.» sorrise a trentadue denti allungando una mano verso me. «Se ti stanca un nome così lungo, chiamami Robbie. Sono il capo della troupe d’animazione.»
Confermò la mia supposizione, e credei che non era per niente male come prima persona da conoscere.
«Oh, piacere.» sorrisi di ricambio. «Io sono Margherita.»
Forse stringere la mano era un atto abbastanza formale, ma risposi alla sua iniziativa.
«Sono… la figlia dello chef.» sentii di aggiungere, inventando quel nomignolo su due piedi.
Non sapevo ancora che poi sarei stata riconosciuta dal personale per tutta l’estate con quel nomignolo.
«La figlia dello chef?» fece stupito. «E allora il doppio del piacere!»
Scoppiai a ridere, anche se una parte di me si stava vergognando al sentirsi troppo importante, quando in realtà ero una più che normalissima ragazza.
«Scusa, forse stavo andando da qualche parte sbagliata.» indicai dietro di me. «È la prima volta che scendo.»
«Di lì c’è il ristorante.» disse diretto. «E non ci si può accedere in orari come questi. Però credo che per te ci sia una specie di permesso.» rise.
Sorrisi ancora, ma rassegnata e già stanca dell’importanza che mi stava dando lui, così come avrebbe potuto darmi qualsiasi altra persona che avrebbe conosciuto la mia identità. Fuori dalle relazioni da raccomandazione, io ero Margherita e basta. Sapevo cavarmela da sola, non c’era bisogno di un’ala protettiva e potente che mi spianasse la strada.
Mi maledetti per aver aggiunto quella frase dopo il mio nome di fronte a Roberto, di fronte a un perfetto estraneo con il quale potevo iniziare in buon rapporto. E invece gli avevo servito un nomignolo su un piatto d’argento.
«Per… piacere.» aggiunsi un po’ faticando, ma volevo mettere le cose in chiaro prima che fosse troppo tardi. «Io sono Margherita. Non considerare le mie relazioni. Sono una ragazza normale.»
«Ehi!» esclamò allontanandosi di un passo. «Okay, tranquilla. Anzi, scusami, non volevo disturbarti.»
«No, non mi hai fatto male, solo che…» sbuffai. «Niente. Va bene. Solo una cosa: non dire in giro che sono chi sono.» mi resi conto di essermi incartata e di essere caduta nel ridicolo, e ancora volli fare tutto da capo. «Che casino che sto creando. Sembro una stupida bambina.
Mi sedetti sul muretto che costeggiava la stradina per il ristorante e sprofondai il volto tra le mani.
«Margherita.» sentii vicino, e alzando il viso, notai Roberto a pochi centimetri da me, inginocchiato per arrivare alla mia altezza. «Basta. Non devi preoccuparti proprio. Questo incontro è stato tra me e te, stop. Agli altri ti presenterai tu in persona, giusto?»
Annuii, e m’imbarazzai maggiormente riflettendo che stavo facendo un discorso del genere con un ragazzo di cui sapevo solo il nome e il mestiere, ma ero così stufa delle situazioni che mi attribuivano che non ero riuscita a tenermi altro dentro.
«Forza, ora devo andare.» si allontanò molto, poi si voltò verso me. «Per la cucina passa da dietro.»
Gli sorrisi grata e feci già per avviarmi, ma mi fermò con un “mh!”.
«Ci vediamo stasera, allora?»
Storsi il capo e trasformai gli occhi a due fessure.
«Alla Serata Latina. Dai, vieni, ci divertiamo.»

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 - Maracaibo, mare forza nove. Fuggire sì, ma dove? ***


Capitolo 3 – Maracaibo, mare forza nove. Fuggire sì, ma dove?
 
 
Sembrava avessero previsto il mio arrivo, fatto stava che la combinazione “me” e “balli latinoamericani” era una delle mie coppie preferite. Quando avevo iniziato a studiare danza tradizionale, a diciotto anni, il primo corso che avevo fatto era stato proprio quello dei balli caribici e sudamericani, perché li consideravo molto giovanili e sfrenati, in sintonia con la mia ribellione inziale. Me ne ero innamorata subito. Non c’era lezione che perdessi, o passo che non imparassi in due minuti; non mi stancavo mai, e di ritorno dalle lezioni universitarie, mi mettevo a ballare anche a casa da sola. Mi piaceva perché mi divertiva, e quello che cercavo a quell’età, era lo svago di una nuova vita. Avevo proseguito con altri balli, ma il merengue, la salsa, la bachata e il resto avevano mantenuto un posto in risalto nel mio cuore: appena sentivo una nota tipica improvvisavo una sequenza di quei passi che tanto conoscevo bene.
Sotto consiglio di Roberto, ero andata da papà (che mi aveva fatto fare anche un giro nell’immensa cucina e presentato un gran numero dei suoi colleghi) e gli avevo chiesto cosa facessero lì la sera, rimanendo sempre vaga e senza accennare al discorso con l’animatore.
«Dipende.» aveva iniziato, mentre batteva una fetta di carne. «Sarò sceso una o due volte, sono troppo stanco quando stacco, ma cambiano quasi tutte le sere. Fanno cose a tema, spesso. Stasera vai a vedere?»
«Sai, non so…» avevo mentito rigirandomi una ciocca nei capelli. «Se ho tempo.»
«E cosa devi fare di così speciale?» rise.
Alzai gli occhi al cielo capendo che ero sgamata, e ammisi che avrei fatto un salto. Di Roberto però nessuna parola.
«Allora ci sentiamo stasera, prima che scendi. Aspettami, non dovrei fare tardi.»
Annuii, poi mi sussurrò svelto: «Va’ via, che se ti beccano qui mi fanno nero.»
Teatralmente feci un gesto di paura e scappai fuori. La strada verso casa me la feci di corsa, e mi meravigliai che non mi fossi persa e che avessi memorizzato la via. Dopo aver fatto le scale rapidamente, entrai e chiusi la porta alle mie spalle, e mi lasciai andare ad un sorriso di cui non sapevo nemmeno io l’origine. Non potevo essere felice solo per quella sera. Forse stavo realizzando che quei mesi sarebbero significati realmente felicità. Spensieratezza e felicità.
Il sole delle sette era quasi del tutto scemato, ne rimaneva solo uno straccio che proiettava le ombre sui pavimenti, e le nuvole soffici che si erano formate le ultime ore non annunciavano per niente pioggia.
Preparai cena, e il sorriso non mi lasciò nemmeno in quel momento. Non mi avrebbe abbandonato tanto facilmente, l’avrei tenuto stretto a me come tesoro inestimabile. Perché lo meritavo, sapevo di meritarmelo e non trovavo il motivo per il quale non dovessi combattere per conservarlo. Era mio, ero io, e sarei stata di nuovo la Margherita solare di un tempo, tanto remoto quasi da non ricordarlo. E forse sarei stata anche meglio.
 
Colsi il bussare alla porta come la manna, e non persi tempo per andare ad aprire al visitatore.
«Pronta?» chiese.
«Sissignore.» scherzai. «Dai, vieni un attimo dentro, stai un po’ con me. »
Tanto che la serata mi stava passando bene, dimenticai anche tutti i problemi con l’uomo e lo trattai tanto bene come non era mai successo.
«Vedo che sei contenta.» fece cenno alla mia espressione. «Anche dalla tua disponibilità ed accoglienza. »
«Potrebbe darsi.» risposi prontamente. «Ma potrebbe anche darsi che davvero sia disposta a cancellare il passato, o almeno a far sì che il presente possa curarlo»
Buttò giù il misero bicchiere d’acqua che gli avevo offerto e aveva annuito, asciugandosi le labbra con la manica della bianca giacca.
«Venezia ti ha reso saggia.»
L’argomento non fu più toccato, e ascoltai per cinque minuti un brevissimo riassunto di quello che aveva fatto quella giornata.
«Scappo, che sto dormendo in piedi e che poi ti faccio perdere la serata. »
Da solo, senza che lo accompagnassi, si avvicinò all’uscio, poi si girò per rivolgermi un ultimo saluto.
«Sai già il tema di stasera?» sorrise stanco.
«No.» mentii svelta.
Lo sguardo che mi rivolse era una traduzione di “non me la dai a bere”, poi aggiunse un “buonanotte Strega” e un “non fare tardi” paterno e la stanza si silenziò non appena la porta fu chiusa ancora. Come una molla a pressione, mi alzai dalla sedia e corsi allo specchio che si trovava in un’anta dell’armadio, e portai le mani ai capelli; avevo deciso di acconciare loro per ultimi, così iniziai la mia treccia caratteristica. Le dita ormai erano abituate, e a fare una lisca di pesce ci mettevo circa cinque minuti, muovendo i ciuffi a una velocità impressionante. Come sempre, la feci ricadere su una spalla e feci in modo che alcuni ciuffi laterali del viso uscissero dai ranghi. Con i capelli sistemati, diedi un ultimo sguardo alla figura slanciata allo specchio e cercai di capire se fosse vestita adeguatamente. La fascia blu oltremare monocolore le cingeva il busto in modo aderente e le lasciava un paio di centimetri di pancia e schiena scoperte; i jeans a sigaretta sottolineavano la magrezza e la lunghezza delle gambe, affusolate nonostante ai piedi portasse un paio di scarpe prive di tacco. Sulle spalle nulla, le clavicole leggermente sporgenti scoperte. Potevo sembrare una sgualdrina? Ma arrivai alla conclusione che era estate, che volevo divertirmi, e che l’ultima cosa a cui dovevo pensare erano gli abiti e l’impressione che avrebbero dato alla gente.
Con la paura di imbrattare troppo gli occhi, feci soltanto due passate di mascara nero e arrossii le guance con del fard leggero. Più mi guardavo allo specchio, più diventavo dubbiosa se andassi bene, così afferrai il cellulare al volo dal tavolo, lo infilai nella tasca posteriore del pantalone e uscii.
I lampioni ai lati della strada, nascosti dalle piante, illuminavano quasi a giorno la via, e passare inosservati era praticamente impossibile. Il viale era isolato, perché, come avrei imparato poco dopo, di lì non ci passava assolutamente nessuno, se non con le auto per uscire ed entrare nella proprietà. Di pedoni nemmeno l’ombra, potevi iniziare ad incontrarli una volta passato il piccolo arco che portava ai prati e agli appartamenti.
E infatti, superate le prime due distese di erba, incontrai una famiglia con due bambini addormentati tra le braccia dei genitori che si dirigevano alle camere; un po’ ancora inesperta, feci il loro percorso in modo inverso, e mi resi conto che stavo attraversando la strada che quel pomeriggio avevo percorso fino ad incontrare Roberto ed il ristorante. Solo che di notte si era trasformata, e insieme al buio era arrivata anche un’aria più tranquilla. Le piscine alla mia sinistra, se quel pomeriggio straripavano di bagnanti e donne sui lettini al sole, adesso erano come morte, colorate da luci che davano loro sfumature verdi e viola; era uno spettacolo bellissimo, nonostante monotono.
C’era un problema: dove sarei dovuta andare? Un minimo di spiegazioni Roberto me le avrebbe potute dare, e invece ero ferma in mezzo a una strada, senza sapere dove dover dirigermi.
Ad istinto iniziai ad avanzare, superando il vialetto del ristorante e tutto l’intero edificio. E fu allora che la sentii. Una musica, una salsa, e non potei trattenere il mio cuore da un salto nel petto. Aumentai il passo, quasi a tempo di musica, e svoltai a destra fidandomi del mio udito: un piccolo piazzale, coperto da un telo spesso e bianco, rifletteva molte luci colorate e una canzone a volume altissimo. E poi c’era gente, c’era tanta gente; non potei che andare loro incontro. La maggior parte era seduta a tavolini che prendevano gran parte del piazzale, altre ad un bancone di un grande bar stile hawaiano, altri ancora erano in pista che arrancavano passi di danza.
Io, quasi i piedi si muovessero da soli, mi avvicinai allo spazio lasciato ai balli, e mi poggiai a un muro di bassi edifici che intuii trattarsi di negozietti vari. La voglia di ballare era tanta, ma resistetti perché la vergogna quasi ancora mi soffocava. Avrei fatto bene a vincerla, o mi sarei rovinata la vacanza tra imbarazzo e timidezza.
Mi ricordai improvvisamente di Roberto e lo cercai tra la folla, ma con scarso esito: le luci deformavano i tratti principali dei volti, ed era impossibile che trovassi quello del ragazzo; anche perché, se facevo mente, mi resi conto che di lui avevo impresso solo i capelli gelatinati e un orecchino. Doveva trovarmi lui, o non ci saremmo visti quella sera.
Quando un dito mi toccò una spalla, credei che ci fossimo incontrati alla svelta, ma voltandomi non ritrovai Roberto. La prima cosa che vidi furono gli occhi adombrati piegati in un sorriso, poi scesi fino ad incontrare una distesa di trentadue denti che abbagliavano con la luce artificiale. Che gli prendeva tutta la parte sinistra del volto, aveva un trucco rosso e dorato, come se una fiamma gli circondasse l’occhio e gli incendiasse lo sguardo. Mi guardava e sorrideva, e non dava segni di volersi allontanare.
«Mi concederebbe questo ballo, signorina?»
Aveva una voce giovane, e il tono con cui me lo aveva chiesto e la mano porta con il palmo all’insù erano così gentili che rari ragazzi avevo incontrato in quel modo.
«Ehm… Io…» biascicai.
«Non preoccuparti se non sai ballare, ti insegno io su due piedi.» e aggiunse un occhiolino a quel sorriso. «Fidati.»
La musica quasi al massimo del volume copriva un po’ le sue parole, ma riuscivo a comprenderlo abbastanza bene.
«Il problema non è quello, anzi.» precisai subito. «Sarai capace tu di stare al mio passo?»
“Che atteggiamento sfacciato” pensai subito, ma non ebbi tempo di correggermi perché lui parve accettare la sfida, e abbassò la mano stringendola saldamente alla mia destra; poi, senza aggiungere altro, mi trascinò sulla pista, ma in un angolo privo di altre persone, liberi di poterci muovere. Riconobbi nella prima nota una famosa vecchia canzone merengue della fine degli anni novanta, e fui contenta di iniziare il genere che amavo di più. Lo trovavo così movimentato, più di tutti gli altri messi assieme, veloce e pieno di passi.
«Ti piace il merengue?» mi chiese il ragazzo prima che il pezzo iniziasse con le parole.
«È quello che preferisco.» ammisi seria.
«Allora siamo a cavallo.» sorrise di nuovo, lasciandosi illuminare innocentemente lo sguardo dal trucco elaborato.
Il pezzo iniziò ad entrare nel vivo e in quel momento soltanto capii che non mi sarei per niente risparmiata: sapevo ballare, era da tanto che non lo facevo, e a quanto pareva avevo anche trovato un partner abbastanza capace.
Feci incrociare d’istinto la mia mano destra con la sua sinistra, mentre posai l’altra sulla sua spalla; di risposta, sentii una presa salda ma non arrogante sulla mia schiena, e lì i passi uscirono da soli. Davvero ormai il ballo mi scorreva nelle vene unito al sangue, perché era così facile per me, come respirare; la musica trasportava talmente tanto che non mi dovevo nemmeno applicare a riconoscere il variare di note e ritmo.
Passai il primo minuto in silenzio, seria, concentrata negli occhi del mio ballerino per una notte e tanto curiosa, in fondo, di conoscere anche lui. Adesso, sotto la forte luce della pista, in effetti notavo che poteva avere circa la mia età, forse qualcosina di più. Ed era davvero bravo, c’era poco da criticare.
«Hai studiato danza?» gli chiesi mentre mi dava mano per una giravolta.
«Sì.» tornò alla presa alla mia schiena. «Anche tu, immagino.»
«Lascio giudicare a te.»
Volevo essere professionale, perché sapevo che stavo facendo una cosa in cui ero molto capace, ma non riuscii ad esserlo per più di un minuto. Poi iniziai a ridere, divertita. Erano anni che non passavo una serata del genere, e mi passò per la mente anche di trovare Roberto e ringraziarlo di cuore per avermi avvisato, perché quelli erano i momenti più belli che avevo passato da quando avevo messo piede sull’isola.
«Ti faccio ridere?» domandò accigliato.
«No!» esclamai perdendo un minimo il ritmo. «È che sono contenta.»
«Oh, questo mi fa piacere.» mostrò ancora una volta il sorriso; questo era semplice, ed oltre a questo, anche bello. «Da quanto sei qui»
Lasciai la risposta in sospeso, presa dai passi che decidemmo muti di complicare un tantino, aggiungendo anche dei movimenti di braccia che si incrociavano alternativamente.
«Sono arrivata ieri pomeriggio.» spiegai.
Buffo come non cercassimo nemmeno fiato, come non sembrassimo stanchi o ci mancasse il respiro mentre infilavamo squarci di discorso nel ballo.
Presa dai miei pensieri, non mi accorsi che lasciò la presa dalle mie mani e le posizionò sui miei fianchi, per poi fammi effettuare una giravolta accompagnata; sussultai, e lui se ne accorse.
«Ti ho sorpreso?» sorrise sghembo. «Ben arrivata comunque.»
Senza perdere il ritmo della canzone, accennò un inchino che mi costrinse a bloccarmi. Quello senza dubbio mi sorprese.
Poche battute mancavano alla fine della canzone, e la concludemmo di colpo come la concludeva il cantante. Senza accorgercene, ci ritrovammo viso contro viso, un paio di centimetri a separare i nostri nasi. A quella vicinanza riuscii a distinguere anche le pagliuzze d’oro che risiedevano nei suoi occhi nocciola, nonostante la luce artificiale confondesse tutto. Solo quando abbassò le palpebre riuscii a rompere l’incanto che avevo preso, e mi resi conto con calma che un grande applauso giungeva alle mie orecchie. Ma non poteva essere per me, certo che no, non per noi; c’erano troppe persone, e non potevano applaudire noi. Eppure, voltandomi e dando le spalle al ragazzo, gli sguardi che incontrai erano rivolti verso me.
«Dio mio, che vergogna.» mormorai e automaticamente posai una mano sugli occhi.
Ma sentii lo sconosciuto tirarmi via da quel posto, e speranzosa mi augurai che mi stesse facendo allontanare. Il contrario: mi trascinava proprio al centro della pista, guardandomi solo di tanto in tanto per irradiarmi coraggio con un sorriso.
«No, no.» feci subito. «Io non ci vengo lì in mezzo! Scordatelo.» ma erano parole al vento.
«Infatti ti sto trascinando, qual è il problema?» ribatté ridendo.
Sentivo gli occhi di tutti seguire la mia figura e quella del ragazzo, e tentai di liberarmi dalla sua stretta intorno al mio polso, ma era bella salda come quella precedente sulla mia schiena. Non sapevo nemmeno come diavolo si chiamasse, e non potevo urlargli contro il suo nome arrabbiata.
Alla fine al centro della pista ci arrivammo, e questa fu immediatamente sgombrata apposta dai ballerini che si trasformarono improvvisamente in spettatori, tutti a guardare me e il mio ormai partner.
«Andiamo, DJ, un’altra.» sorrise lui facendo segno alla postazione console dietro di noi, rialzata su un palchetto.
«Maledetto.» sussurrai trai denti. «Non so manco come diavolo ti chiami.»
«Questo non è importante, fidati.» rise, poi si rivolse di nuovo al ragazzo dietro al computer. «Qualcosa di simpatico.»
Allungai seccata lo sguardo al DJ e ci trovai un ragazzo rossiccio e un paio di cuffie intorno al collo. Gli dava corda così facilmente che si dovevano conoscere per forza.
La canzone fu scelta, io e il ragazzo rimanevamo immobili a tre passi di distanza, le braccia morte ai fianchi, aspettando il prossimo pezzo che avrebbe regalato una performance al pubblico trepidante. Le prime note si fecero sentire, e rimasi quasi sconvolta da quella canzone.
«“Maracaibo”?» chiesi sottolineando.
«Ah, la conosci?» fu la risposta.
«Ne conosco anche una coreografia, me la insegnarono quando ero ragazzina.»
Ricordavo benissimo, come se fossero passati solo un paio di giorni, la mia storia con quella canzone. La prima volta che me la presentarono la odiai, trovandola insensata. Ma quando mi fu presentata la coreografia e la provai per un paio di lezioni, il mio rapporto mutò e finii per amarla e ballarla con piacere. Anche il testo era divertente da interpretare con i passi, come diceva la mia insegnate.
«Ma oggi la balliamo insieme.» sottolineai a bassa voce, giusto per fargli capire che a trovarci in quel luogo eravamo in due e ne saremmo usciti in due. –Okay?»
«Nessun problema, bella mora.»
«Che fine ha fatto la tua parte gentile?» quasi mangiai trai denti.
«Cosa hai detto?»
«Balla.»
Iniziammo a muoverci in contemporanea al via del testo, e ciò che ballammo era tanto veloce che di rado riuscimmo a fissarci negli occhi; raro era che ci fermassimo sul posto per più di due secondi. Ma non mi stancavo, e non mi sarei fermata fino al silenzio. Se lui conduceva quella serie di movimenti convinto di farmi stancare e farmi fermare affannando, si sbagliava un bel po’.
«Innamorata?» chiese quando riuscimmo ad incrociare gli occhi.
«Di Miguel?» seguii il testo che in quel momento stava passando. «Nah.» feci svogliata. «Tu chi saresti? Pedro?»
«Può darsi.» fece sornione.
«Quanto ti stai basando su questo testo?» domandai non appena mi strinse in un abbraccio.
«Balla.» sentii al mio orecchio, e sussultai rendendomi conto della mia citazione e di quella vicinanza.
Fui spaventata, spaventata di qualcosa che non conoscevo, e mi allontanai di scatto con la scusa di improvvisare qualcosa, spostandomi dalla parte opposta dello spiazzo e osservando il ragazzo che ora mi stava di fronte: era vestito con una tshirt nera a mezzemaniche e un gilet rosso sopra, pantaloni scuri e scarpe comode al ballo.
«Tornò Miguel, tornò.» dissi ad alta voce. «La vide e che fece?»
«Impallidì.» rispose confuso lui. «Quindi?»
Mi si era riavvicinato senza che me ne accorgessi, presa dallo scrutare il suo sguardo improvvisamente accigliato. Per diversi istanti smettemmo di danzare, rimanemmo immobili a osservarci a pochi centimetri, dimenticandoci che intorno a noi c’era un pubblico abbastanza numeroso.
«Il cuore suo tremò, e quattro colpi di pistola le sparò.» spiegai. «Potrebbe essere pericoloso.»
“Frottola”. Nella mia vita non c’era nessun Miguel geloso, e non c’era ragione di preoccuparsi. Odiavo le persone precipitose e non ero innamorata di nessuno, ma lo feci credere talmente bene che per quella sera e per altre qualsiasi iniziativa maliziosa scomparve dalle sue decisioni.
Passammo il resto della canzone a ballare seriamente, facendoci scattare un sorriso quando qualche sequenza risultava particolarmente ben riuscita. Alla fine raccogliemmo un altro grande applauso che ringraziammo con un inchino a mani unite.
«Posso offrire da bere alla mia ballerina per una sera?» mi chiese gentilmente avviandosi al bar hawaiano.
«Grazie, saresti molto gentile.»
Concludemmo la serata al bancone su due sgabelli altissimi, da soli in chiacchiere, come se tutte le prove spudorate di prima non ci fossero state. Patti chiari, amicizia lunga, insomma.
«Potrei finalmente sapere il tuo nome, adesso?» risi, concentrata sulla cannuccia della mia semplice Coca.
«Simone. Sono Simone.» e allungò una mano. «Il tuo?»
«Margherita.» risposi prontamente e afferrai quella stessa mano che pochi minuti prima aveva toccato vari punti della mia figura.
Non aggiunsi di chi fossi figlia, passai per una cliente normale.
«Complimenti, sei davvero brava a ballare.» poi finì il suo mezzo bicchiere di birra.
Arrossii sicuramente, conoscendo le mie reazioni a determinate frasi, e aggiunsi subito: «Anche tu! Tanto! »
«Ormai ci sono abituato, qui me lo dicono tutti.» sorrise con sguardo perso, facendo tintinnare un grosso anello d’acciaio sul bicchiere.
«Come?» feci confusa.
Con una scrollata di spalle spiegò: «Sono il ballerino nella crew di animazione. Insieme a quella bambolina lì, la vedi?» indicò una ragazza minuta ma con un fisico da far concorrenza al mio che stava ballando di fronte a un numero discreto di persone scoordinate. «Irene. Io e lei ci occupiamo delle coreografie e di tutto ciò che riguarda la parte ballata negli spettacoli.»
Svariati punti continuavano a rimanermi oscuri, ma mi vergognavo leggermente a dover far la parte dell’ignorante.
«Non ne hai mai visto uno, di spettacolo, è così?» capì al volo.
Mi morsi le labbra e annuii timidamente.
«Tranquilla.» rise.
Mi spiegò così in poche parole come funzionasse lì la sera, come tutti gli spettacoli a tema riempissero le calde serate estive nel piccolo palazzetto che avevo visto quella stessa mattina, andando avanti fino alle undici, quando tutti si spostavano lì, in quel posto a cui veniva assegnato il nome, appunto, di “Piazza”, dove il tema cambiava ancora e la musica regnava su tutto fino all’una a notte inoltrata.
«Ti sei persa un bel “The four elements”, stasera.» disse indicandosi il trucco. «Sarà per quando lo rifaremo.»
«Non mancherò, stanne certo.»
Si era trasformato, ancora. Se a primo impatto mi era parso gentile e con il passare dei minuti irruento, adesso era di nuovo diventato garbato e disponibile.
«Dongiovanni, vieni, ci servi in pista.»
Ci voltammo insieme e vedemmo venire verso di noi Roberto, anche lui con un trucco simile a quello di Simone, ma azzurro.
«Roberto!» sorrisi sorpresa. «Ciao!»
«Ehilà, sei venuta alla fine, ho visto.» mi salutò. «In pista con questo qui sei stata fantastica. Gli hai dato filo da torcere. Nemmeno Irene ci riesce, complimenti.»
«Oh, be’… Grazie.» dissi indecisa: cosa si doveva rispondere in una situazione come quella?
Simone si alzò e si voltò verso me: «Mi auguro allora di vederti ancora qui in serate come queste, Margherita.»
Feci cenno di sì con la testa e gli regalai un ampio sorriso, poi si allontanò battendo rumorosamente le mani a tempo con il pezzo che avevano appena messo. Notai Roberto sedersi al posto di Simone e iniziare a giocare col suo bicchiere vuoto. Ma non mi soffermai su di lui, avevo gli occhi fissi sui movimenti disinvolti ma allo stesso tempo coinvolgenti di Simone al centro dello spiazzo.

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