Once Upon a Time: The Phoenix Kingdom

di Stephanie86
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: The Fall ***
Capitolo 2: *** 1. The Light and the Storm ***
Capitolo 3: *** 2. Let me guide you ***
Capitolo 4: *** 3. The Swan and the Panther ***
Capitolo 5: *** 4. Your mouth can lie but your eyes can't hide ***
Capitolo 6: *** 5. Make a Wish ***
Capitolo 7: *** 6. Fire, Snow and Darkness ***
Capitolo 8: *** 7. One Last Wish ***
Capitolo 9: *** 8. Temptation ***
Capitolo 10: *** 9. The Heart is a Lonely Wolf ***
Capitolo 11: *** 10. Thirst of Revenge ***
Capitolo 12: *** 11. Eyes on You ***
Capitolo 13: *** 12. Time Has Come Today ***
Capitolo 14: *** 13. A Long Night ***
Capitolo 15: *** 14. Fear No Darkness ***
Capitolo 16: *** 15. Fenrir ***
Capitolo 17: *** 16. The Queens Fighting ***



Capitolo 1
*** Prologo: The Fall ***


PRIMA PARTE

 

THE FALL

 

 

PROLOGO

 

 

 

 
Anatlon. Regno del Sud.

 

Snowing Castle, la capitale di Anatlon, il regno del sud, bruciava.

Le strade acciottolate della città si erano trasformate in un frastuono assordante, fatto di urla di dolore, di grida di terrore e panico. Nell’aria si era diffuso un orribile odore di fumo, di sangue e di carne bruciata. Le fiamme, divampate all’interno del castello, ora si levavano verso il cielo grigio, come le braccia di un mostro fatto di fuoco. Intorno alla dimora dei sovrani e dentro, nelle sale che avevano ospitato la famiglia reale e tutta la servitù, infuriava ancora la battaglia tra i soldati di David e Mary Margaret e i nemici, chiusi nelle loro nere armature, i visi interamente coperti dagli elmi a tre rostri, che permettevano di vedere solo i loro occhi assetati di morte e distruzione.

Quando avevano attaccato la città, puntando dritti verso il castello, sembravano in netta minoranza rispetto alle truppe dei Blanchard. Eppure, quando questi uomini venivano abbattuti, altri prendevano il loro posto, comparendo dal nulla, forse partoriti dalle tenebre o dagli Inferi stessi. Cavalli dalle nere gualdrappe volavano sopra gli sbarramenti come fantasmi, lame vivide e scintillanti come fulmini seminavano morte tra la gente in fuga.

Erano gli uomini della regina di Mehlinus. Lo stemma era ovunque sugli scudi, cucito sui mantelli e inciso sulle armature: il melo su sfondo blu.

- Che sia maledetta, la Regina del Nord! Che sia maledetta lei e tutta la sua gente!

Rumori di spade che cozzavano, di metallo contro metallo, voci che impartivano ordini, scalpiccio sulle scalinate, colpi di tosse di chi cercava, invano, di liberare la gola e i polmoni dal fumo nero che ormai inghiottiva tutto, fracasso di oggetti che andavano in frantumi.

David, con ancora l’immagine della sua amata che scompariva tra le fiamme appiccate da quegli infami impressa nella mente, aveva perso il conto degli uomini che aveva ucciso. Aveva continuato a mulinare la spada come un folle, aprendosi la strada. La lama era coperta di sangue. Tra affondi e fendenti, il re aveva liberato il passaggio e, pur essendo ferito a sua volta, aveva strappato la sua bambina di appena nove anni dalle mani di un uomo che aveva già alzato l’ascia per staccarle la testa. David, ignorando il dolore, si era avventato sulla belva e l’aveva trafitta, beandosi dell’incredulità dipinta nei suoi occhi, beandosi del rantolo che gli era uscito dalla bocca, beandosi del sangue che era stillato copioso dallo squarcio al centro della schiena. L’uomo si era afflosciato lentamente.

- Padre! - gridò Emma, gli occhi verdazzurri spalancati. Tese le braccia.

David la prese e la strinse a sé. Sentì il corpicino caldo della bambina contro il suo, fremente di sofferenza e rabbia.

Correndo attraverso stanze e corridoi, falciando gli ultimi uomini che cercavano di sbarrargli la strada, il sovrano di Anatlon uscì dalla sua dimora, si gettò nel giardino interno del castello, percorse un breve tratto di strada fino alle mura che erano state bianche come neve e che adesso erano annerite. Scavalcò cadaveri, alberi abbattuti, avvertendo su di sé lo sguardo vuoto dei suoi cavalieri, di coloro che erano morti per difendere la famiglia reale. Intorno solo il crepitare del fuoco, l’odore acre del fumo, le grida.

- David! – In sella ad un robusto cavallo marrone, Graham guardò David sopraggiungere, correndo. Dietro di lui veniva un uomo in armatura nera, che lo inseguiva, brandendo una lunga spada. Akela, il lupo grigio che lo accompagnava, ringhiò ferocemente, appiattendo le orecchie e mettendosi in posizione d’attacco. Graham prese una freccia dalla sua faretra. Un attimo dopo quella freccia colpì il soldato al collo.

- Sei ferito! – disse al re di Anatlon, quando l’uomo lo raggiunse.

- Non preoccuparti per me. Prendi mia figlia! - E gli passò la bambina.

- Padre, no! Non andartene! Non lasciarmi! - gridò Emma, disperata, le lacrime che già le bagnavano le guance.

Dalla porta occidentale si levavano urla, gli echi di una lotta accanita, colpi sordi che scuotevano le mura.

- Devi andartene, figlia mia. Morirai se resterai con me!

- Non voglio abbandonarti! Vieni con me! Ti prego!

- Emma... - David si avvicinò al cavallo e prese la mano della figlia. – Fidati di Graham. Adesso ti porterà al sicuro, lontano da qui. Il castello è perduto. Purtroppo non possiamo fare niente per salvarlo...

- E mia madre?

David la fissò, sentendosi trafiggere dal dolore della perdita come se si fosse trattato della lama di mille spade.

- Emma... – riuscì a dire lui. Ma non poté aggiungere altro.

Emma pianse più forte. – No, papà... Per favore... Ti prego... Dimmi che non è vero...

- Oh, Emma...

La bambina gridò: - No! Ti prego, dimmi che sta bene! Dimmi che non è vero!

Graham la fissava con gli occhi sempre più sbarrati. Il giovane aveva capito che stava accadendo qualcosa a Snowing Castle quando aveva sentito l’odore del fumo.

Cresciuto con i lupi, veri lupi della foresta che considerava la sua unica famiglia, Graham aveva imparato a vivere come loro, a cacciare insieme a loro e anche a sentire come sentivano loro. Per questo, pur essendo lontano qualche lega dalla capitale di Anatlon, aveva avvertito il fumo ancora prima di vederlo davvero. E aveva cercato di raggiungere Snowing Castle il più in fretta possibile. Conosceva i sovrani e loro conoscevano lui, sebbene avesse sempre vissuto con il suo branco. Era riuscito a prendere un cavallo imbizzarrito, ma miracolosamente illeso e a domarlo, in modo da potersi muovere più in fretta. Poi aveva cercato i sovrani, sperando di trovarli ancora vivi per portarli via da lì.

- No, no, no, no... – Emma agitava la testa, frenetica. Le sue ciocche bionde sbattevano di qua e di là.

- Mi dispiace. Devi andare, ora, Emma.

- No, no, no... No!

- Graham, voglio che porti mia figlia a Camelot. Parla con il re, digli che ci hanno attaccati. A tradimento! Chiedigli di proteggere Emma. Non fermarti. Non guardare indietro. Conto su di te.

- Sì. Non temere!

- Padre... - mormorò Emma. - Non lasciarmi...

David si sfilò la spada. Gliela porse, con tutto il fodero.

- No! Non la voglio! - gridò Emma.

- Prendila. Ti servirà! - disse David. - Un giorno, quando sarai abbastanza forte, tornerai. Vendicherai me e tua madre. Il regno sarà tuo! Ma adesso devi andare con Graham. Se rimani qui, morirai e tutto sarà davvero perduto! Fallo per me, figlia mia.

- Un giorno...

- Sì, un giorno. Presto... Presto verrà il tuo momento. Lo so. Non può essere altrimenti. Allora tornerai e tutto questo sarà tuo! Tutto! Il trono che ti appartiene di diritto sarà tuo! Le terre saranno tue! I miei uomini saranno tuoi!

Emma afferrò la spada che il padre le aveva dato e la strinse. Il ciondolo che portava al collo, un ciondolo a forma di cigno, che era anche il simbolo impresso sullo stemma del regno, brillò un istante. Guardò suo padre un’ultima volta, poi David disse a Graham di andarsene subito; gli ripeté di non guardare indietro e di non fermarsi mai. Gli disse di proteggere Emma anche se ciò avesse voluto dire sacrificare la vita.

- Emma sarà al sicuro! - E detto ciò, il Figlio dei Lupi gridò per spronare il cavallo, che partì al galoppo.

Emma ebbe modo di lanciare un’occhiata da sopra la spalla di Graham. Vide suo padre che ricambiava lo sguardo, poi lo vide girarsi per affrontare altri soldati nemici che lo stavano raggiungendo per ucciderlo.

Padre...

Fu l’ultima volta che lo vide.

 

 

Camelot. Regno di Elohim. Est.

 

L’acqua veniva giù dal cielo pesante, compatta, un vero diluvio. Appollaiata su un’altura a strapiombo sul mare come un nido d’aquile, circondata da mura chiare e frustate dal vento, la città di Camelot incombeva sulla valle, ombreggiata dal castello del re Artù, una dimora austera, costruita con pietre rosse e grigie ora striata dai lampi, ai quali facevano seguito violenti colpi di tuono. La bandiera sulla quale era impresso il drago dorato su sfondo rosso della famiglia Pendragon sventolava, sbatacchiata dalle folate impazzite.

Graham aveva cavalcato a lungo e ininterrottamente come gli aveva chiesto di fare David; nonostante la stanchezza e la fame non si era fermato quasi mai e teneva la bambina avvolta in un mantello per proteggerla dalla pioggia. Il cavallo che aveva preso a Snowing Castle non aveva retto al ritmo che gli aveva imposto e il giovane era stato costretto a deviare il suo cammino, entrare in un villaggio e rubare un altro cavallo.

- Vanargandr! – aveva urlato il pover’uomo che se lo era visto piombare addosso, accompagnato da Akela, con i suoi inquietanti occhi di colore diverso e le fauci spalancate. Non aveva cercato di fermarlo. Si era fatto da parte e aveva lasciato che prendesse uno dei suoi animali.

Era notte quando giunse alle mura. Oltre il frastuono della pioggia battente, riusciva a sentire le onde che si schiantavano contro le scogliere.

Lanciò delle grida e dei fischi per farsi udire. Gli uomini in piedi sui bastioni e nelle torri di guardia mandarono segnali ai soldati giù in strada. Questi sollevarono la grata e calarono il ponte levatoio, urlando e grugnendo.

Graham, bagnato fino al midollo, gli occhi rossi e accesi di furia, spronò il suo destriero ormai sfinito lungo la piazza rettangolare della città, lungo la via centrale, verso il castello. Affrontò l’ultima salita, arrivando davanti alla dimora del re. L’animale schiumava, aveva gli occhi sbarrati e iniettati di sangue.

- Chi siete? – urlò un uomo di guardia sui camminamenti.

- Devo passare! Devo parlare con il Vostro re. È successa una cosa terribile a Snowing Castle!

Pochi istanti ancora e le porte vennero aperte. Non appena Graham smontò, il destriero emise un nitrito sofferente e si piegò sulle ginocchia, per poi accasciarsi e sdraiarsi su un fianco. Gli stallieri, fradici e nervosi, accorsero.

All’interno del castello serpeggiavano l’agitazione e il fermento. Graham, senza fiato, entrò nella sala del trono. Non si inginocchiò davanti al re, che sedeva sullo scranno, le mani strette ai braccioli. Si limitò a chinare il capo. Lui e il Branco non avevano re.

- Qual è il tuo nome? - Artù si rivolse al giovane con la voce che tremava.  

- Mi chiamano Graham. – rispose l’uomo con i capelli castani e lo sguardo infiammato. Il lupo grigio si accucciò accanto a lui. – Vengo da Snowing Castle.

- Dimmi che cosa succede. Mi sono giunte voci molto infelici dalle Τerre del Sud. Puoi dirmi se è tutto vero?

- È tutto vero, purtroppo - disse Graham. Scostò il mantello per mostrare la bambina che aveva portato con sé. Tutti i presenti la fissarono, sbigottiti.

Emma li guardò con gli occhi grandi e increduli, spaventati.

- Ma... - Persino Artù aveva perso la voce. Quella bambina era meravigliosa. Era sicuro di non aver mai visto una bambina più bella. Aveva lunghi capelli biondo oro, che ricadevano sulle spalle come tante onde. E gli occhi... erano grandi e pieni di terrore, eppure anche limpidi, le iridi erano del colore del mare, tra il verde e l’azzurro.

- Ecco la figlia... la figlia dei sovrani di Anatlon. Sono morti. Loro e... E molti altri. - Graham storse la bocca in una smorfia e spiegò al re e ai cavalieri ciò che aveva visto a Snowing Castle. Ripeté le ultime parole di David.

- La regina...? Sei sicuro che fossero i suoi uomini?

- Sì. Io non sono cresciuto con gli uomini e non ho mai avuto né re né regine, ma conosco gli stemmi. Ho visto il melo sugli scudi e sulle armature nere. Anche sugli stendardi.  

La sala del trono si riempì di grida e imprecazioni.

- Tradimento! - urlò Sir Agravain, uno dei cavalieri della Tavola Rotonda, levando il pugno e poi sguainando la spada. Alto e massiccio, con le spalle larghe, i capelli rossi lunghi e sciolti sulla schiena, la barba a punta e lo sguardo pieno di sgomento e collera, Agravain digrignò i denti. - A morte, la regina del nord! Quella megera! Sire, datemi tutti gli uomini di cui disponete. Andrò a Nord e ci penserò io a quella strega! Questo è un affronto! Vendetta!

- Vendetta! Vendetta! - urlarono tutti.

- Silenzio! - gridò Artù. - State spaventando la bambina!

Tutti tacquero, fatta eccezione per qualche bisbiglio. La regina Ginevra, seduta accanto al marito, si coprì gli occhi con le mani, lasciando che i capelli le ricadessero sul viso e lo nascondessero. Alla sinistra di Artù, su un alto scranno, sedeva il consigliere del re, il druido Merlino. In una mano reggeva un lungo bastone ricurvo. Con l’altra, invece, si accarezzava la lunga barba bianca con fare pensoso.

- Agravain, ti darò gli uomini che ti servono, ma non andrai a nord, andrai a Snowing Castle e farai quello che puoi per aiutarli. Se è ancora possibile aiutarli.

- Certamente! Non temo nessuna stregoneria. - urlò Agravain.

- Per favore, vuoi stare calmo? - Uno dei suoi fratelli, Sir Gawain, posò una mano sulla spalla di Agravain.

Vendetta, vendetta, a morte...

Emma, che non parlava ma ascoltava tutto, bevve queste parole e una vocina interiore cominciò a ripeterle. Rivide il viso di suo padre, gli occhi di sua madre prima di sparire tra le fiamme. Non aveva mai incontrato la regina di Mehlinus ma già sapeva che gliel’avrebbe fatta pagare. Già sapeva che un giorno il Nord avrebbe pagato caro quell’affronto.

Vendetta. Vendetta. A morte.

- Agravain, fa ciò che ti dico. – riprese Artù, in tono grave. - Parti immediatamente e vai più veloce che puoi. Fammi avere un messaggio il prima possibile. Ma ti prego: non dire a nessuno che la principessa è viva. Potrebbe essere in pericolo.

Sir Agravain chiamò a sé i suoi tre fratelli, i cavalieri e uscì dalla sala del trono, imprecando ferocemente.

- E la bambina? – chiese Graham.

- Emma qui sarà al sicuro. Non qui a Camelot, ma... So già dove può andare. Saranno i miei compagni d’armi a proteggerla. Fino a quando sarà necessario. Nessuno deve sapere che è viva... Nessuno, chiaro?

Graham non aveva dubbi che fosse la soluzione migliore.

Emma non voleva essere protetta. Emma non voleva essere una principessa. Voleva combattere. Voleva diventare un cavaliere e avere una spada come gli altri.

- Figlio dei Lupi, ti prego di accettare degli abiti asciutti, del cibo caldo e un luogo in cui riposare questa notte. – disse Artù. – È il minimo che io possa fare per te.

- Siete molto generoso. Vi ringrazio – borbottò Graham, sorridendo stancamente.

- Sire... - mormorò Emma.

- Sì, dimmi. - Artù scese dal trono e si inginocchiò davanti alla bambina. - C’è qualcosa che desideri? Da mangiare, forse? Ti farò preparare qualcosa dalla servitù...

- Ho la spada di mio padre.

- Lo vedo.

- Voglio imparare. Voglio imparare ad usarla.

Artù spalancò gli occhi, trasecolato. - Vuoi...?

- Sì, per favore, Sire.

- Ma sei una principessa. Io ho il dovere di proteggerti, non posso...

- Vi prego.

Artù alzò la testa per guardare Graham, che non disse niente. Stava per crollare a causa della stanchezza. Guardò ancora Emma. Incrociò i suoi occhi per la prima volta; in essi vedeva il dolore, la paura, l’orrore, tutte cose che non avrebbero dovuto esserci nello sguardo di una bambina così piccola. Eppure vide anche determinazione, fermezza, una caparbietà che aveva trovato negli occhi di certi uomini, tra i quali anche i suoi Cavalieri, ma che lo sorprese comunque perché, dopo quello che le era accaduto, non avrebbe mai immaginato che avrebbe trovato la forza di reagire.

Artù si riscosse. - D’accordo. Ora però ascoltami bene, Emma. È molto importante.

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Capitolo 2
*** 1. The Light and the Storm ***


1

 

THE LIGHT AND THE STORM

 

 

 

 

 

Poco prima della caduta di Snowing Castle.

 

Nymeria. Regno di Mehlinus. Nord.

 

 

- Cos’è questa, madre? - domandò Regina a Cora, quando lei le porse il fodero in pelle nera.

- È la spada di tuo padre, Regina. – Sua madre sedette vicino a lei, sorridendole.

- Perché la stai dando a me?

- Perché da adesso in avanti sarà tua. Tuo padre avrebbe voluto così.

Henry. Suo padre. Il Re del Nord.

Regina era una ragazzina che poco sapeva di spade e di battaglie, sebbene nella sua camera da letto vi fosse un enorme arazzo che rappresentava la fondatrice della capitale di Mehlinus, la principessa guerriera Nymeria, impegnata in una battaglia contro il popolo barbaro che, un tempo, aveva occupato il Nord, saccheggiando e seminando il terrore. Cose successe un migliaio di anni prima. A Regina quell’arazzo piaceva. Una parte di lei avrebbe voluto essere come quella straordinaria regina che aveva salvato la sua terra. La straordinaria regina con i lunghissimi capelli neri come carbone e gli occhi di ghiaccio che falciava i nemici con la sua spada. Qualcuno diceva che quell’arma era magica, che risucchiava le anime delle sue vittime non appena la lama le trafiggeva.

Però Regina non aveva mai posseduto una spada prima d’ora. Le cose che le piacevano di più erano cavalcare, passeggiare nel verde che circondava la capitale del regno, in mezzo agli alberi di mele rosse. Cavalcare, soprattutto.  Quando era in sella a un cavallo e galoppava, con i capelli al vento, si sentiva felice e libera.  

- Non so, madre. Non so se...

- Cosa non sai, Regina?

Regina alzò lo sguardo, rendendosi conto che il sorriso era scomparso dal volto di Cora. Ora la madre la guardava severamente. La sua bocca aveva preso una piega dura.

- Madre, io non la so usare...

- Imparerai.

Accarezzò brevemente il fodero. Sembrava nuovo. - Non sapevo che... che mio padre avesse una spada simile.

- Non la portava sempre. È una spada molto antica. È la spada che Henry ha usato... nel duello contro il Re del Sud.

- L’uomo che l’ha ucciso... – Regina sapeva poco anche degli altri regni, perché non era mai uscita dal suo. Sapeva poco delle Terre dell’Ovest in mano ai lord. Sapeva poco del regno di Elohim, a est del mondo conosciuto. Sapeva ben poco di Anatlon, il regno del sud, dove viveva l’uomo che, secondo Cora, aveva assassinato Henry.

- David, sì. Un giorno, quando saprai combattere, potrai vendicare la morte di tuo padre uccidendo il Re del Sud con questa spada. - Cora le porse la spada nera e Regina la prese, estraendola dal fodero per osservarla.

Era bellissima, brillava colpita dalla luce dei lumi accesi nella sua stanza.

- È meravigliosa, madre.

- È tua. Conservala gelosamente. Non permettere mai a nessuno di impugnarla al posto tuo. Sei tu l’unica persona che può tenere al proprio fianco quest’arma.

- Sì, va bene, madre.

Stringendo l’impugnatura, Regina si sentì improvvisamente più sicura che mai di ciò che Cora le aveva detto: David, il duello, suo padre ucciso a tradimento dal Re del Sud solo perché quest’ultimo non era riuscito ad accettare di aver perso. Era tutto più chiaro. In lei si fece largo, per la prima volta, un sentimento intenso, bruciante, che era la rabbia ed era il desiderio di vendetta. Un sentimento che, sulle prime, la spaventò molto. Perché era un sentimento terribile. La costrinse a chiudere gli occhi a lungo, ad impugnare più saldamente l’elsa della spada.

David...

Era tutta colpa sua.

- Tuo padre era un cavaliere molto valoroso, Regina. – La voce di Cora era calma, ma aveva una nota di severità che agghiacciava Regina. - Ed era leale. Al contrario di quel... Re del Sud.

- Sì, mio padre non avrebbe mai colpito un uomo alle spalle.

- No, tesoro. Mai.

 

 

- Hai chiamato la spada Stormbringer? – domandò il consigliere Tremotino alla giovane Regina, che accarezzava il fodero della sua arma, sorridendo. Un sorriso puro. Un sorriso candido. Portava i lunghi capelli scuri e ondulati raccolti in una morbida treccia, la giacchetta azzurra, il foulard bianco intorno al collo e i pantaloni da cavallerizza.

- Sì. Perché significa Tempestosa. È un nome forte, non trovate anche Voi?

- Oh, sì.

La Tempestosa. La Portatrice della Tempesta, pensò il consigliere, divertito.

- Ed io sono nata in una notte di burrasca, non è vero?

- Ma certo che sì. È un buon nome. Un nome davvero forte. Perché diventerai molto forte, cara. Potresti diventare... molto potente. – Tremotino avvicinò il viso al suo, scrutandola attentamente. - Ora è necessario imparare, Regina.

- Sì. Voglio essere valorosa come mio padre.

- Forse conosco l’uomo che può fare al caso tuo.

- Chi è?

- Si chiama Daniel. È bravo con le armi. Vedrai, può essere anche un buon insegnante. Gli parlerò oggi stesso. – Il consigliere di sua madre appoggiò la punta dell’indice contro il mento. Il suo sorriso era vagamente inquietante e non solo per via dei denti marci.

Tremotino era il consigliere di Cora da quando era salita al trono, così come sarebbe stato il suo, di consigliere, una volta diventata regina. Ed era anche uno degli esseri più sconcertanti che il regno di Mehlinus avesse mai visto. Gli stavano tutti alla larga, eccetto la sovrana. Anche Regina avrebbe voluto stargli alla larga, ma in fin dei conti Tremotino non le aveva mai mancato di rispetto. La trattava con cordialità. Solo, lei si domandava da quale oscuro angolo di Mehlinus fosse sbucato. Si domandava perché la sua pelle assomigliasse a quella di un rettile, perché avesse quell’aspetto così poco umano. La pelle era squamosa e verdognola, i lineamenti erano affilati, gli occhi spiritati avevano pupille minuscole quanto la capocchia di uno spillo. Non aveva armi con sé. Poche volte lo aveva visto impugnare un’arma, eppure emanava un potere oscuro e affascinante.

- Perché questo... Daniel dovrebbe aiutarmi? – chiese Regina.

- Perché siete l’erede al trono, che domande!

- Ah, certo...

- E perché mi deve un favore. Anni fa ho aiutato la sua famiglia. Sai, erano in un periodo difficile, molti debiti. Ho dato loro una mano a liberarsi dei creditori.

Regina non voleva sapere che cosa intendesse Tremotino per ‘dare una mano’. – Quando potrò conoscerlo?

- Domani. Presentati a mezzogiorno nel cortiletto davanti ai magazzini delle armi. Ti aspetterà là, mia cara.

 

 

Il castello della sovrana del Nord era nero come la notte e sovrastava la città di Nymeria in tutta la sua imponenza. Anche di giorno sembrava che i pallidi raggi del sole, che ogni tanto facevano capolino tra le nuvole grigie, non fossero molto propensi a toccare le mura scure e altissime e ciò faceva apparire il castello come un luogo tetro e avvolto dalle ombre.

Regina fece come le aveva detto Tremotino. Si presentò nel cortiletto interno del castello, uno spazio circolare sul quale si affacciavano il granaio e il magazzino riservato alle armi.

Sua madre non le chiese niente ma, del resto, Cora le chiedeva raramente che cosa facesse o come stesse. Era troppo impegnata con le questioni inerenti a Mehlinus. Da quando era morto Henry, poi, aveva ancora più da fare del solito.

- Buongiorno, principessa. Vi aspettavo prima. – disse un uomo, in piedi al centro del cortile, di spalle.

- Prima? No, Tremotino mi ha detto... a mezzogiorno.

- Gli avevo chiesto di farvi venire qui prima di mezzogiorno. Ma d’accordo. Non importa.

- Siete il maestro d’armi, vero?

- Potete anche evitare la forma di cortesia. Chiamatemi pure Daniel.

- Allora tu chiamami Regina.

Daniel si voltò. Era un giovane di bell’aspetto, o almeno Regina pensava fosse bello. Alto, con gli occhi azzurri e i capelli corti e scuri. Nelle mani teneva due spade di legno. Indossava una giacca marrone sbottonata sopra la camicia di lino bianco, un vecchio mantello blu agganciato alla base del collo con una spilla a forma di melo, il simbolo della famiglia reale, i pantaloni in pelle nera e gli stivali di cuoio. – Voi siete la principessa.

- Ma...

- Come dicevo... il mio nome è Daniel, maestro d’armi, principessa. Lieto di conoscervi.

Regina deglutì. Daniel alzò gli occhi, sorrise e, senza alcun preavviso, le lanciò una delle spade di legno. Regina cercò di afferrarla, ma si mosse troppo tardi e la spada cadde a terra, rimbalzando.

- Domani, forse, ci riuscirete. Ora raccoglietela, vi prego.

- Vorrei usare la mia spada. – L’aveva portata con sé e gliela mostrò.

- Una bella spada. Ma non potete usarla, oggi. Non siete nemmeno capace di prendere al volo una spada di legno.

Regina si sentì punta nel vivo. - Ma è la spada di mio padre...

- Lo so. E ho molto rispetto per Vostro padre. – Lo sguardo di Daniel le sfuggì per qualche istante. Poi scosse il capo. – Ma dovete prima imparare ad impugnare l’arma e... anche a prenderla quando ve la lanciano.

Regina non replicò. Si tolse la cintura con la spada e posò Stombringer su una panca di pietra, contro il muro. Il maestro d’armi si levò il mantello.

- Raccoglietela – tornò a dire Daniel, gentilmente, indicandole la spada di legno.

Regina la prese. Era molto pesante, quindi la sostenne con due mani.

- No, principessa. Non è così che si impugna. Non servono tutte e due le mani.

- É pesante.

- Certo, è fatta apposta perché possiate diventare più forte. Anche Stormbringer è pesante. – Daniel fece ruotare la sua spada, prima vicino al corpo e poi sopra la testa. Dopodiché la lanciò e la riprese al volo. Tutto con una sola mano. – Una mano è sufficiente.

Regina la impugnò con una sola mano.

- La Vostra postura è errata. Ruotate il corpo verso destra.

- C’è qualcosa che va bene, in me? – domandò, stizzita.

- Sono sicuro di sì. Ma ruotate il corpo verso destra.

Regina ruotò. Daniel le toccò il mento con la lama di legno perché sollevasse un po’ la testa.

Il maestro d’armi sorrise di nuovo. – Sì, non male. Siete piccola, ma questo va bene. Restringe il bersaglio. Sollevate la spada, per favore.

Forse è anche troppo piccola, stava pensando Daniel. Troppo giovane ed innocente per impugnare una spada come Stormbringer. Troppo piccola per un destino così grande.

Regina eseguì.

- La presa sull’elsa deve essere delicata, principessa.

- Ma potrebbe cadermi...

- Non cadrà. Vedete la spada come il prolungamento del braccio. Certo non permettereste al Vostro braccio di cadere.

- No, direi di no.

- Bene. Allora adesso impugnate bene la Vostra spada. Direi che possiamo cominciare. Vi sentite pronta?

Regina decise che quel giovane le piaceva. Le infondeva sicurezza; era gentile. Le piaceva il suo sorriso. – Sì, lo sono.

- Cercate di colpirmi.

Non si aspettava una richiesta del genere. Pensava che le avrebbe mostrato alcune mosse. Che le avrebbe detto come fare.

- Cosa aspettate? – Daniel piegò leggermente le ginocchia, puntandole contro la lama della spada.

Regina si mosse il più rapidamente possibile. Menò un paio di colpi obliqui verso Daniel, che li parò facilmente, per poi scartare di lato, quando Regina tentò un affondo.

Daniel le sorrise di nuovo. Puntò la lama contro di lei. Quando si muoveva sembrava davvero che stesse danzando. Erano movimenti agili, fluidi e armonici.

Regina lo attaccò ancora. Le lame legnose cozzarono. Daniel non ebbe difficoltà a parare ogni suo tentativo.

- Siete già stanca? – domandò, quando la vide appoggiare le mani alle ginocchia.

- No. – Regina tentò un fendente.

Daniel lo parò e poi la colpì al ventre con la punta della lama. – Siete morta.

Regina aggrottò la fronte. Provò un nuovo affondo. Il maestro d’armi lo parò e le restituì il colpo. La lama la raggiunse al petto.

- Mi dispiace. Vi ho uccisa di nuovo. – ripeté il maestro d’armi.

Sembrava che nessun colpo lo spaventasse o lo preoccupasse. Mentre si batteva, continuava a sorridere. Qualche volta, addirittura, ridacchiava, molto divertito. Non era mai stanco. Sul suo viso non c’era traccia di sudore, mentre su quello di Regina cominciarono ad intravedersi presto i segni della stanchezza.

Daniel la colpì ancora alle gambe e al ventre. – Oh, sì. Temo che siate decisamente morta.

- Vi prendete gioco di me?

- Niente affatto. Non potrei mai. Vi sto solo insegnando a combattere.

Tremotino, venuto a vedere come andava la prima lezione, si appoggiò ad una colonna e osservò. Anche lui era divertito. Regina aveva una gran voglia di imparare. Quella ragazzina testarda e un po’ ingenua sarebbe potuta diventare un’ottima combattente. Una regina che la gente avrebbe temuto.

E quando conoscerà la magia, sarà ancora più potente, oh sì. Sto facendo un bel lavoro. Bisogna solo avere pazienza.

 

***

 

 

Poco dopo la caduta di Snowing Castle.

 

Foresta di Rhun. Regno di Elohim. Est.

 

 

- Ora ti mostrerò come si impugna una spada, Emma. Sei pronta? - domandò Gawain, estraendo la sua spada lunga dal fodero appeso alla cintura. Aveva la lama più larga rispetto a quella della spada di suo padre.

Erano passate solo poche settimane dalla caduta di Snowing Castle. Le persone che erano riuscite a fuggire stavano ancora cercando un rifugio nelle terre di Artù oppure a ovest. Non tutti erano disposti ad accogliere i profughi. Il re era stato molto generoso da quel punto di vista, ma sfortunatamente certi lord dell’ovest non erano come lui.  

Il signore di Camelot aveva deciso di nascondere Emma nella foresta e di farla proteggere ogni giorno da uno dei suoi uomini. Vedere i cavalieri entrare e uscire da Camelot era una cosa normale, poiché Artù aveva spesso bisogno di mandare messaggeri negli altri regni, soprattutto nelle Terre dell’Ovest, a Deep Valley, dove viveva sua zia Morgause, signora del Lothian, ma non solo. Aveva amici e alleati con i quali si teneva sempre in contatto. Doveva risolvere scaramucce nei villaggi vicini, difendere gli ospiti diretti a Camelot dai banditi.

Emma aveva insistito a lungo perché gli allenamenti cominciassero al più presto. Aveva già visto suo padre combattere, alcune volte, durante le giostre soprattutto, quindi alcune cose le conosceva già. Ma era ansiosa di diventare brava con la spada. Di diventare più forte. Un vero cavaliere. E aveva anche bisogno di distogliere la mente da ciò che era accaduto alla sua città e ai suoi genitori. Aveva bisogno di non pensare all’odore del fumo, al calore del fuoco che aveva divorato il castello, allo sguardo pieno di dolore di David, a sua madre, alle urla della sua gente, al soldato in armatura nera con il melo impresso sul petto che la minacciava con l’ascia. Le sue notti erano già piene di incubi. Di giorno voleva la spada. Voleva combattere.

E avrebbe anche voluto rivedere il bel giovane che l’aveva portata in salvo e che era sempre stato un amico dei suoi genitori. Graham. L’uomo cresciuto dai lupi.

- Sì... - Emma aveva la propria spada davanti a sé. La liberò dal fodero. Era pesante per lei e per un momento barcollò, sconvolta dal suo peso. Poi raddrizzò le spalle.

Gawain si tolse il guanto scuro. La mano destra strinse l’impugnatura. - Devi tenere l’elsa senza stringere. Così.

Emma strinse un po’ l’elsa della sua arma. La sollevò. Si sforzò di mantenere il braccio fermo.

- Bene. Metti il dito indice nell’anello formato dall’incasso e dall’archetto. - Le mostrò incasso ed archetto, perché potesse capire meglio. Emma eseguì, dapprima con qualche difficoltà, ma poi corresse la posizione delle dita. - Tienila senza esporre il gomito, mi raccomando.

- Non sembra difficile.

- No, non lo è. Ma tu sembri anche molto dotata con la spada, Emma. Adesso... in guardia. – Gawain si posizionò con una gamba avanti, il ginocchio leggermente piegato e l’altra più indietro. Era ben bilanciato.

Emma alzò la spada, puntandola contro il cavaliere, che le aveva fornito cotta di maglia e piastre, nonché un piccolo scudo, perché potesse proteggersi.

- Sarebbe stato meglio usare delle spade di legno. – osservò Gawain.

- Non mi interessano le spade di legno.

- Potresti farti male.

- Fa parte dell’addestramento di un cavaliere, no?

- É vero. Ma Artù mi ha detto di proteggerti. Se dovessi farti male...

- Parlate così perché sono una fanciulla?

Gawain sorrise. – Fanciulla... fanciullo... per me non fa differenza. E un giorno sarai anche cavaliere. Io lo dico per te. Sei ancora inesperta.

- Farò del mio meglio per imparare in fretta.

- Non c’è bisogno di avere fretta.

Emma sferrò un colpo contro la spada di Gawain. Lui glielo restituì e, non appena le spade cozzarono, Emma perse la sua, che cadde sull’erba. La guardò, furiosa.

- Raccoglila. È pesante, lo so. Ma se ti allenerai ogni giorno, presto il suo peso non sarà più così importante.

Emma raccolse la spada.

- Proviamo un fendente. È un colpo dato dall’alto verso il basso. Con una mano oppure con entrambe.

Emma strinse l’impugnatura. Sollevò la spada con entrambe le mani e abbatté la lama su quella di Gawain. Il colpo riverberò nel suo braccio. Emma barcollò in avanti.

Colpisce più forte di quanto pensassi, pensò il cavaliere, stupito.

- Molto bene. – disse Gawain. – Hai perso l’equilibrio perché non eri ben piantata con i piedi. Ma sono sorpreso dalla tua forza.

Emma alzò gli occhi verdazzurri su di lui. Gawain, oltre ad essere un uomo paziente e un buon insegnante, non la faceva sentire una bambina. La trattava come un’allieva adulta. E a lei piaceva, questo. Non tutti si comportavano così. Quello grande e grosso, Agravain, il fratello di Gawain, la osservava sempre con occhio critico e scettico. L’aveva sentito mentre diceva a re Artù che non pensava fosse giusto che una bambina di neppure dieci anni usasse una spada e pensasse di diventare cavaliere.

- Tu a nove anni cosa facevi, Agravain? – l’aveva rimbeccato Artù, severamente.

- Beh, Sire, io...

- Avevi una spada. Tuo padre, Lot, già ti aveva affidato ad un maestro d’armi. Lo so, sei stato tu a raccontarmelo.

- Questo è vero, Sire, ma qui stiamo parlando di una fanciulla. É una bambina e...

- La tua preoccupazione è anche la mia. Ma diamo una possibilità ad Emma. Diamole la possibilità di dimostrare quanto vale. Perché vale molto, ne sono convinto.

Agravain aveva borbottato qualcosa e poi se n’era andato.

- Si chiama Narsil. - disse Emma a Gawain.

- La tua spada?

- Sì.

- Narsil è un bel nome. È un nome forte. Nar, fuoco. E Thil, la Luce Bianca. La lingua degli elfi è... una lingua potente. - Gawain, primogenito di Lord Lot del Lothian e di Morgause, la zia del re, era anche un uomo del quale ci si poteva fidare a prima vista; aveva il naso un po’ lungo e appuntito, le sopracciglia folte, i capelli scuri che gli arrivavano alle spalle e i suoi lineamenti non erano niente di eccezionale, ma aveva un sorriso luminoso e guardava la gente con sincero interesse.

- E la Vostra spada come si chiama, sir Gawain?

- Si chiama Gramr.

Emma esitò un istante. - Perché l’avete chiamata così?

- Quando ero piccolo mio padre soleva narrarmi una leggenda, che mi piaceva molto: parlava di un coraggioso cavaliere che possedeva una spada magica, con la quale ha ucciso un drago che infestava le sue terre e causava morte e distruzione...

- E la spada di quel cavaliere si chiamava così?

- Gramr, sì.

- Raccontatemi questa storia, sir Gawain – Emma sedette sul prato. – Ho proprio voglia di sentirla.

________________

NOTA: Dopo il prologo e questo primo capitolo, ci tenevo ad aggiungere alcune cose: questa storia si considera come storia a 4 mani. E' vero che sono stata io a scriverla interamente, ma lo spunto iniziale (che è la sigla di un cartone animato degli anni '80 incentrato proprio su Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda) e anche varie idee che sono state poi sviluppate nella storia appartengono ad un mio amico, fan di Once. Abbiamo progettato questa storia prima che Once introducesse i personaggi arturiani, di conseguenza Artù, Ginevra, eccetera, sono diversi sia fisicamente che caratterialmente da quelli che ci ha presentato Once, come avrete già capito. 

Vi ringrazio per essere qui a leggere, comunque. Spero rimaniate fino alla fine :)

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Capitolo 3
*** 2. Let me guide you ***


2

 

LET ME GUIDE YOU

 

 

 

 

 

Nymeria. Regno di Mehlinus. Nord.

 

 

- Regina, quella battaglia... noi l’abbiamo vinta anche grazie alla magia.

- Alla... alla magia?

- Sì - Tremotino osservava Regina, ormai da due anni sovrana di Mehlinus. Una sovrana giusta, ambiziosa, che incuteva una buona dose di timore nel popolo, brava con la spada che le era stata donata, ma non ancora la sovrana che Tremotino avrebbe voluto che fosse. - Vostra madre sapeva usarla. E anche i Blanchard. Ma loro la usavano a sproposito. Cora era molto potente. Più potente dei Blanchard. E ha reso potente anche l’esercito.

- In... in che modo? - Regina era sconvolta. Quella parte della storia, lei ancora non la conosceva. Non sapeva dei poteri di Cora. Tremotino aveva deciso che era giunto il momento di metterla al corrente, perché anche lei potesse imparare, perché potesse iniziare a comprendere quanto fosse importante il potere. Quanto fosse prezioso. E cosa le avrebbe permesso di guadagnare. Bisognava spingere. Niente più di qualche piccola spinta.

- Ogni volta che i soldati dell’esercito nemico abbattevano uno dei nostri, altri due o tre prendevano il posto del guerriero caduto. Era la magia, Regina. Un incantesimo di Vostra madre. La parte magica del nostro esercito. Doveva agire in quel modo. Non ha avuto scelta. Loro erano tanti.

- E così li abbiamo respinti?

- Sì. Siamo sempre stati più forti. Cora è sempre stata molto potente.

- E i Blanchard?

- L’hanno uccisa comunque. La magia porta via molte energie, se usata troppo a lungo. Vostra madre era debole alla fine della battaglia. I Blanchard hanno finto una ritirata. Per distrarla. E l’hanno uccisa. - Tremotino si era passato una mano sugli occhi. - Dopo un sortilegio è calato su Snowing Castle. Il regno, da fuori, sembra deserto e distrutto. In realtà è un regno prospero...

- Chi... chi ha insegnato a mia madre...?

- Io, Regina. Sono stato io. E adesso sono disposto a fare lo stesso con Voi, mia cara.

- Con me? – Lei era inorridita. Si era morsa il labbro e aveva scosso la testa con vigore. - No... no, io non posso. Non posso farlo. I miei nemici usavano la magia ed io non voglio essere come loro.

- Ma voi non dovete affatto essere come loro, Regina! – Tremotino sembrava scandalizzato da ciò che aveva appena detto. – Dovete diventare più forte. Non solo un’ottima combattente. I nemici, la magia la sanno usare ed è necessario che impariate per potervi difendere se vi dovessero attaccare con essa. Non potete presentarvi dai Blanchard senza conoscere la magia. Oppure... avete paura?

- Non si tratta di paura. Sembra una follia, consigliere.

Tremotino non smise di sorridere. - Sì che è follia. È follia ciò che i Blanchard hanno fatto. È follia ciò che re David ha fatto a Vostro padre. Non è follia il volersi vendicare. Né tantomeno il potere. Non se viene usato contro chi vuole distruggerci.

Regina deglutì.

- Diventerete molto potente. Ne sono sicuro. Lasciate che sia io a guidarvi. – Tremotino giunse le mani e sedette in poltrona, guardando Regina con intenzione. Poi le fece segno di avvicinarsi.

- Scusatemi, consigliere. Non me l’aspettavo. Non so bene come comportarmi.

- È piuttosto chiaro. Per questo ci penserò io. Perché io, al contrario di te... di Voi... so quello che faccio. E vi conosco da tempo. – Il consigliere vacillava tra il tono informale che usava con lei quando era più piccola e non ancora una regina e quello più opportuno per un consigliere. Si fermò dietro di lei. Sembrava che la stesse studiando per bene e Regina non osò muoversi. – Ho dovuto aspettare. Ma il momento è finalmente giunto. Fidatevi di me.

Lei annuì, intimorita e Tremotino le appoggiò le dita sul viso.

Le sue mani erano viscide.

 

 

Daniel l’aspettava in cortile, come sempre.

Ormai Regina usava Stormbringer durante i suoi allenamenti e non più le spade di legno. Aveva usato le spade di legno solo durante le prime lezioni, dopodiché il maestro d’armi le aveva chiesto se si sentisse pronta per impugnare la spada di suo padre. Una vera spada. Regina non aveva avuto esitazioni. Si era fatta male; nel corso del primo scontro con Daniel, si era ferita anche se non gravemente. Ma le era piaciuto. Si era sentita potente. Il suo maestro le aveva insegnato anche a combattere in sella a Rocinante, in modo che fosse preparata ad affrontare un combattimento a cavallo.

Le era piaciuto come le piaceva Daniel. E le piaceva non solo come maestro d’armi ma anche come uomo. Sapeva che Daniel era più grande, ma questo non le impediva di sentirsi attratta da lui. Non aveva mai detto nulla a riguardo. Sarebbe stato inutile, non solo per la differenza d’età, ma anche perché Daniel era di rango ben inferiore al suo. Non le avrebbero mai permesso di sposare un uomo che non era altro che un maestro d’armi.

Le lezioni erano più brevi, perché Regina ormai era la sovrana di Mehlinus e aveva altri compiti a cui badare, ma non era mai mancata a nessuna di esse. Adesso, poi, non combatteva soltanto per diventare più forte. Il desiderio di vendetta era sempre più bruciante. Combatteva perché voleva davvero vendicare la morte dei suoi genitori.

- Oggi non potrò restare molto, Daniel.

- Ah, davvero?

- Sì. Mi dispiace. Devo andare con Tremotino.

- Con il Vostro consigliere... – Daniel sembrava deluso.

- Sì.

Daniel, in realtà, si era reso conto di una cosa: la ragazzina che era venuta da lui quel giorno, alcuni anni prima, la ragazzina che aveva fatto i capricci perché desiderava usare fin da subito una spada vera, stava scomparendo. Ora non c’era soltanto una regina davanti a Daniel, ma una donna il cui carattere si era indurito. Una donna ambiziosa. Una donna arrabbiata. E la rabbia poteva condurla verso l’oscurità. Il maestro d’armi non avrebbe mai voluto che accadesse. Ed era colpa di Tremotino, se Regina stava cambiando. Il consigliere fingeva di desiderare unicamente il suo bene, ma stava manipolando la sua personalità per trasformarla in qualcun altro. Stava alimentando la sua furia.

- Vi dispiace se cominciamo? – Regina aveva anche ricominciato a dargli del Voi. Come se volesse stabilire una certa distanza tra lui e se stessa.

- Voi non siete qui.

- Come?

- Voi non siete qui, mia regina. Mi duole dovervelo dire. Siete con i Vostri problemi. E sapete che cosa accade se rimanete con i Vostri problemi mentre combattete? – Daniel sguainò la spada e lo toccò il braccio con il piatto della lama. Per istigarla.

Regina estrasse Stormbringer e lo attaccò. Daniel ci mise ben poco per disarmarla e costringerla a terra, con la spada puntata contro la gola.

- Ecco ciò che Vi accade. Avrete più problemi. – Indietreggiò per permetterle di alzarsi. – Così non va bene.

Regina lo attaccò di nuovo. Daniel parò i due colpi obliqui che lei gli inflisse. Tentò un affondo, che Regina riuscì a parare all’ultimo istante. Poi si ritrovò con la spada del maestro a pochi centimetri dal collo.

- Come farete a combattere, allora? Non potrete. Vi uccideranno subito. – Lui rinfoderò la spada e la fissò. – Siete turbata. Me ne rendo conto. È naturale. Avete perso Vostra madre. Siete diventata regina e ciò è un altro motivo di turbamento. Le regine hanno molte responsabilità, molte cose a cui pensare. Ma quando siete qui... dovete esserci completamente. Quando usate la spada i problemi vanno messi da parte. O saranno la Vostra condanna. E Voi non volete morire. Non ancora. Non è vero?

Regina ci mise qualche istante a rispondere. Poi scosse la testa.

Daniel sorrise e le mise una mano sulla spalla. Regina lo guardò negli occhi azzurri e arrossì. Distolse subito lo sguardo.

- Bene. Adesso... in guardia! – disse Daniel.

 

 

Dopo la lezione Tremotino l’accompagnò in un boschetto vicino a Nymeria. Voleva insegnarle i primi rudimenti di magia. Tanto per cominciare le chiese di accendere un fuoco.

- Dovete concentrarvi, Maestà.

- Ci sto provando.

- Non ci state provando abbastanza.

- Invece sì. È da un’ora che cerco di concentrarmi.

- Non limitatevi a concentrarvi. Usate le emozioni.

Regina si concentrò sui tre grossi rami, circondati da alcune pietre, che Tremotino aveva sistemato davanti a lei.

Trascorsero alcuni minuti. Intorno a lei il canto degli uccelli. Il gorgoglio delle acque di un torrente. Il vento che faceva frusciare le foglie sopra la sua testa. Nessun fuoco si accese.

Regina imprecò.

- Mia cara... – disse Tremotino.

- Non è molto facile, consigliere.

- La concentrazione non è semplice, Maestà. – Tremotino stava perdendo l’abitudine di chiamarla per nome, anche se a volte si lasciava sfuggire un mia cara o qualche altro vezzeggiativo. – Non è semplice qui, come non è semplice se vi tirano delle frecce addosso, se vi minacciano con una spada, se piove o nevica. Ma io ho riposto molte speranze in Voi. So che potete farlo. Prendete la Vostra rabbia e alimentatela. Usatela per risvegliare il potere. Perché la magia è potere, Maestà. Dipende dalle emozioni.

Regina deglutì, osservando gli occhi accesi del consigliere.

- Pensateci: i Blanchard. Sono loro il Vostro obiettivo. David, che ha ucciso Vostro padre in quel modo... colpendolo alle spalle! – Tremotino si avvicinò e cominciò a girarle intorno. – I sovrani del sud hanno ucciso Vostra madre. Ci hanno ingannati. Hanno attaccato i nostri uomini, hanno finto di ritirarsi e poi hanno ucciso Cora. Hanno nascosto il loro regno con un sortilegio che lo fa apparire distrutto e deserto.

Regina sentiva le parole di Tremotino colare nelle sue orecchie come veleno. Le incendiavano i pensieri. Le facevano ribollire il sangue.

- Hanno usato la magia per i loro malvagi scopi. Sono crudeli. Vogliono avere tutto. Se volete batterli, se volete davvero vendicare la morte di Cora e di Henry, allora avrete bisogno del potere. Senza, loro vinceranno ancora. Vinceranno e, forse, distruggeranno Mehlinus. Voi siete la regina. Una regina deve saper proteggere il proprio regno!

Il cuore le batteva forte nel petto. Le pulsavano le tempie. Regina strinse forte l’elsa di Stormbringer nella mano destra.

- Maestà, Voi dovete...

Gli occhi di Regina si colorarono di viola. Avvertì un’ondata dirompente di potere lanciarsi in avanti. L’avvertì, proprio come avvertiva la presenza di Tremotino.

Una vampata improvvisa di fuoco scaturì dal legno e salì verso l’alto, ruggendo e scoppiettando.

Regina gridò e si ritrasse, sollevando una mano come per proteggersi.

Tremotino ridacchiò, soddisfatto. – Bene! Molto bene! Eccellente, direi! Sapevo che ce l’avreste fatta, Maestà.

- Voglio... voglio andarmene. Voglio tornare a casa. – sentenziò Regina. Cercò di alzarsi e incespicò di nuovo, finendo in ginocchio in mezzo ad un mare di foglie.

- Così presto? – Con un gesto della mano, il consigliere spense il fuoco.

- Non voglio usarla. Mai più. – Il cuore batteva ancora molto forte. Non avrebbe mai pensato che tutto quel potere potesse scaturire proprio da lei. Le sembrava enorme. Distruttivo.

- Perché no? – chiese Tremotino, quasi offeso da quella constatazione. Eppure sembrava anche se sapesse che cosa gli avrebbe risposto.

- Perché mi è piaciuto.

Tremotino ridacchiò. Più che una risata, suonò come un verso stridulo e prolungato. Un iiiiiiiiih che la infastidì, così come la infastidì vedere i suoi denti gialli. Erano come zanne. – Bene! Ora avete scoperto chi siete veramente. E avete scoperto... che potreste fare così tanto.

- Quello che voglio è proteggere il mio regno.

- Ma certo! È proprio quello che intendevo dire. Con la magia... lo farete.

Regina abbassò la testa, ma Tremotino la costrinse a guardarlo, mettendole due dita sotto il mento. - Se vi lascerete guidare da me, andrà tutto bene.

 

 

 

Foresta di Rhun. Vicino a Camelot.

 

La lezione di combattimento era appena terminata.

Emma era ancora giovane, ma era molto in gamba. Il cavaliere Lancillotto, riponendo la propria spada, Aradonight, nel fodero, le aveva detto che aveva fatto progressi e che era molto soddisfatto di ciò.

Quel giorno aveva assistito alla lezione anche il figlio del cavaliere, un bambino di nome Galahad.

Il suo aspetto suscitava anche chiacchiere maligne. Lancillotto del Lago era un cavaliere affascinante, con i capelli neri e folti, gli occhi leggermente a mandorla e la carnagione olivastra, mentre suo figlio Galahad aveva la pelle lattea, talmente chiara che non passava mai molto tempo al sole. I capelli erano corti e spesso spettinati, quasi bianchi, a parte qualche debole riflesso biondo. Gli occhi, sottolineati da lunghe ciglia, erano di un azzurro così chiaro che a volte a Emma sembravano incolori.

Ma a Emma non importava poi molto del suo aspetto. Era un bambino gentile, fortemente interessato alla storia di quella futura regina costretta a nascondersi nella foresta, ma anche capace di mantenere un segreto.

- Sei molto forte, Emma - le disse Galahad, avvicinandosi.

- Grazie.

- Un giorno anch’io imparerò a combattere e diventerò un cavaliere, come mio padre.

Emma sorrise. Galahad, al momento, era uno dei paggi di re Artù. Lui non doveva nascondersi, quindi seguiva la normale educazione di tutti i futuri cavalieri, di tutti i figli di cavalieri. Anche se era nato da un’unione illegittima, Lancillotto l’aveva riconosciuto come figlio suo, perciò Galahad veniva istruito a Camelot, presso la corte del re. Ora era paggio, avrebbe imparato a stare in società e a cavalcare. Poi sarebbe diventato scudiero a tutti gli effetti e infine cavaliere, se avesse superato tutte le prove. Emma pensava che le avrebbe superate. Era sveglio e intelligente.

- Hai anche una spada molto bella. Mi hanno detto che si chiama Narsil. Che cosa vuol dire?

- Nar, il Fuoco, e Thil, cioè la Luce Bianca.

- É un nome veramente bello. Un nome forte, come dice sir Gawain.

Emma annuì.

- Quando avrò la mia spada, le darò anch’io un nome molto forte. Il nome... il nome di qualche eroe, magari.

- Troverai il nome adatto.

- Stai bene qui, Emma? - le domandò Galahad, osservandola mentre riponeva la sua spada nel fodero.

Emma aggrottò la fronte. - Perché me lo chiedi?

- Perché tu non sei nata qui e mi chiedevo se stessi bene comunque.

Esitò. - Sì, certo. I cavalieri mi proteggono e mi trattano con gentilezza. Mi vogliono bene.

Ci fu un attimo di silenzio.

- Allora sei a casa. – aggiunse Galahad.

- No, questa non è la mia casa. La mia casa è Anatlon. È Snowing Castle.

- Mia madre diceva sempre: dove c’è qualcuno che non smette di pensare a te con affetto, c’è la tua casa...

- Ah, sì?

Galahad annuì. I suoi occhi erano limpidissimi. Sembrava più grande, mentre parlava. - Non ho mai conosciuto mia madre, ma lei lo disse a mio padre. E lui l’ha detto a me.

Emma pensò che fosse proprio una bella frase, ma che in ogni caso non si adattava a lei. La sua casa l’aspettava ed era il regno del sud. Ci sarebbe tornata. Doveva vivere nascosta, ma se era il prezzo da pagare per ottenere la vendetta allora l’avrebbe pagato. Certi giorni erano più lunghi e difficili di altri. Certe notti erano dure, erano piene di incubi... ma si era detta che doveva stringere i denti.

- Lancillotto... – disse Emma, ad un certo punto.

- Sì?

- Posso domandarvi una cosa?

Lui sorrise. – Quello che vuoi.

- Avete più avuto notizie... dell’uomo che mi ha salvata? Graham.

- L’uomo cresciuto dai lupi? – Lancillotto annuì. – Sì. A volte ci giungono delle notizie, grazie alle spie di Artù. Il Branco di Graham è diventato più grande negli ultimi tempi.

- Più grande?

- Oltre a Graham, si sono aggiunte altre... persone. Intendo uomini come noi. Uomini che vivono con i veri lupi.

- Chi sono?

- Non lo sappiamo con certezza. Probabilmente disertori. Non conosciamo i loro nomi. Solo Graham li conosce. Immagino che lui si fidi di loro...

- Voi non vi fidereste?

Lancillotto sembrò rifletterci qualche istante. Sfiorò l’anello che portava all’anulare della mano destra, un dono di sua madre, la Dama del Lago. - No. Potrebbero non essere altro che mercenari. Dei voltagabbana pronti a tradire in qualsiasi momento il loro Alfa.

- Alfa? – Emma era sempre più curiosa e perplessa. Aggrottò la fronte.

- L’Alfa è l’individuo che occupa una posizione di dominanza rispetto agli altri membri del Branco. Graham è l’Alfa del suo Branco. Loro sono tenuti ad ascoltarlo.

Emma si morse il labbro. – Vorrei rivederlo.

Lancillotto le mise una mano sulla spalla. – Lo capisco. Ma i Lupi si spostano spesso. Viaggiano. Certo, ogni tanto Graham ritorna e sosta nella foresta di Misthaven, a ovest. È là che è cresciuto. Ed è là che ha incontrato i primi uomini che si sono uniti a lui.

Emma non disse niente.

- L’ultima volta che Artù ha avuto notizie di loro, un paio di lune fa, erano nel Lothian. Tuttavia... Non credo che si sia dimenticato di te, Emma. Un giorno, forse, tornerà.

Emma si chiese se Graham fosse realmente al sicuro. Se potesse fidarsi ciecamente dei suoi nuovi compagni. Lui era stato cresciuto dai lupi, i lupi veri. Le avevano parlato di un lupo che lo seguiva spesso, grigio e bianco, con gli occhi di colore diverso. Era davvero sicuro che quelle persone fossero oneste? Era sicuro che l’avrebbero sempre ascoltato e rispettato in quanto Alfa? Era convinto che volessero vivere come lui, senza re o regine, senza signori ai quali rispondere?

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Capitolo 4
*** 3. The Swan and the Panther ***


3

 

THE SWAN AND THE PANTHER

 

 

 

 

Nymeria. Regno di Mehlinus. Nord.

 

 
- Bene. Ora mostratemi che cosa avete imparato. – disse il consigliere Tremotino, facendosi da parte per concederle lo spazio di cui aveva bisogno.

Un cavallo stava venendo nella loro direzione. Regina lo vide avvicinarsi velocemente, al galoppo. Si accorse che non era un cavallo, ma un unicorno, un bellissimo esemplare robusto e nero, selvatico e quindi difficilmente domabile. I suoi zoccoli calpestavano rami secchi e foglie, sradicavano cespugli, sollevarono uno spruzzo d’acqua quando sprofondarono in un torrente.

- Immobilizzatelo, Maestà. – disse Tremotino.

Deglutendo, Regina sollevò entrambe le mani e cercò la concentrazione necessaria. Aveva fatto progressi durante l’ultimo anno. Il consigliere si era detto soddisfatto. Aveva dovuto subire i suoi rimproveri quando non si concentrava abbastanza o quando un incantesimo non riusciva perché sbagliava le parole di una formula. Ma Regina si sentiva più forte. Anche quando usava la spada. Ormai era diventato facile maneggiare Stormbringer. I combattimenti contro Daniel erano più agguerriti. Non si lasciava più atterrare né disarmare così facilmente.

L’unicorno arrivò a pochi metri da lei e s’impennò, nitrendo. Regina rivolse i palmi aperti verso l’animale. E quello rimase là, ritto sugli zoccoli posteriori, con la criniera scura al vento e gli occhi neri come la notte che sembravano fissare proprio lei. Immobile. Circondato da una densa aura azzurrina.

Regina sorrise. – Ce l’ho fatta.

- Eccellente, mia cara, eccellente! – esclamò Tremotino, ridacchiando e battendo le mani. Il consigliere indossava una giubba in pelle nera, i suoi inseparabili pantaloni di pelle e gli stivali di cuoio. Il suo aspetto non cambiava mai, neppure di una virgola e a Regina sembrava sempre più strano. – Cioè, volevo dire... Maestà.

Regina non disse nulla.

- Adesso... andiamo avanti. C’è solo un’altra piccola, piccola, piccola cosuccia che dovete fare.

- Ovvero?

- Uccidetelo. – lo disse con lo stesso tono che avrebbe usato per dirle: “montate in sella e andate a farvi una bella cavalcata”.

Il sorriso di Regina si spense e lei guardò Tremotino, inorridita. – Cosa?

- Uccidetelo. Con la magia, è chiaro.

Regina abbassò lo sguardo su Stormbringer, nel fodero appeso alla cintura. Poi sollevò di nuovo gli occhi, confusa. – Ma...

- É molto semplice. E molto rapido. – Tremotino mostrò il gesto con la mano destra. La ruotò, mimando un collo che viene torto fino a spezzarsi. – Coraggio. Uccidetelo.

Regina guardò il cavallo, fermo davanti a lei. Levò una mano, dapprima tenendola stretta a pugno. Guardò ancora l’animale. Aveva la bocca secca e il cuore che scoppiava nel petto. Aveva imparato ad essere più dura, come regina. Aveva imparato a far rispettare le leggi, a punire chi le infrangeva, qualunque fosse il motivo. Ma uccidere... uccidere quell’unicorno... ucciderlo così, per niente...

- Non posso farlo. È innocente. – mormorò Regina, ritraendosi.

- Nulla è innocente. – scandì Tremotino. – Credete davvero nell’innocenza?

- Io...

- Ascoltatemi, Maestà: dovete dimostrarmi di essere in grado di affrontare il prossimo passo. Uccidere. Dovrete farlo e lo sapete bene. Ucciderete con la spada, ma Stormbringer non Vi basterà quando affronterete i Blanchard. Loro sono potenti. Sanno usare la magia e la useranno. Contro di Voi. Dovrete essere capace di rispondere. Dovrete essere capace di difendervi con il potere. Dovrete essere capace di uccidere. Loro non avranno pietà. Non conoscono la pietà. – La voce di Tremotino si era fatta bassa. Bassa, sgradevole, ma ipnotica. – Ricordate? David ha ucciso Vostro padre colpendolo alle spalle...

Regina avrebbe voluto chiudersi le orecchie. La conosceva, quella storia. Tremotino gliel’aveva raccontata tante volte.

- E hanno ucciso Cora. Se volete la Vostra vendetta, allora dovrete uccidere anche con la magia.

- So quali sono le loro colpe, consigliere! Ma questo unicorno non ha fatto nulla di male.

- Se non siete in grado di uccidere un dannato unicorno, allora non sarete mai in grado di togliere la vita ad un uomo. E perirete. Desiderate questo? Credevo che il Vostro desiderio fosse diventare più forte, in modo tale da poter affrontare i Vostri nemici ad armi pari.

- E lo è, infatti!

- Allora uccidetelo! Mostratemi che siete pronta per proseguire con il vostro addestramento – Tremotino le puntò contro il lungo dito indice. – Se non imparate ad usare quel potere non vincerete mai. Non avrete mai la Vostra vendetta! E cosa penserebbero di Voi? Cosa penserebbe Vostro padre? Cosa penserebbe Vostra madre? Loro non sarebbero fieri di Voi, Regina. Non dimenticate chi siete: la sovrana di Mehlinus. Il regno ha bisogno di una regina forte. Ha bisogno di una regina che sappia combattere, oltre che governare. Ha bisogno di una regina che non ha paura!

- Non ne ho.

- Invece ne avete. Altrimenti uccidereste questa bestia.

Regina guardò l’unicorno.

- Immaginate che l’unicorno sia un uomo. Immaginate che sia il re di Anatlon, colui che ha ucciso Vostro padre. Immaginate che sia la regina di quel regno, che è responsabile della morte di Cora. Siete orfana, Regina. Siete orfana per colpa loro! Non mi dite che intendete risparmiarli dopo tutto quello che hanno fatto?! Perché se lo farete... Loro non faranno lo stesso. E per Mehlinus sarà la fine. Sarà la fine per tutti noi.

Regina alzò la mano destra e stavolta l’aprì. Si concentrò sul collo dell’animale. Tremotino si avvicinò lentamente, gli occhi spiritati pieni di aspettativa.

“Siete orfana per colpa loro. Non mi dite che intendete risparmiarli dopo tutto quello che hanno fatto?!”

“La magia è potere...”

“Il regno ha bisogno di una regina forte. Ha bisogno di una regina che sappia combattere, oltre che governare.”

- Fatelo. – sussurrò Tremotino.

“Cosa penserebbe Vostro padre? Cosa penserebbe Vostra madre? Loro non sarebbero fieri di Voi, Regina...”

“...Se volete la Vostra vendetta...”

“Il regno ha bisogno di una regina forte...”

Regina ruotò la mano di scatto. Il collo dell’unicorno si spezzò. Il rumore orribile dell’osso che si frantumava riverberò nel cervello di Regina, che chiuse gli occhi e inorridì. Il cavallo si schiantò sul prato, emettendo un lungo sibilo. Gli occhi neri rimasero aperti, a fissare il vuoto.

 

 

Poco dopo, nel tornare verso Nymeria affiancata dal suo consigliere, Regina rifletté sull’accaduto. Aveva ucciso una bestia innocente. Un unicorno. Un bellissimo animale, che non le aveva fatto niente. L’aveva ucciso, come le aveva chiesto di fare Tremotino.

“Il regno ha bisogno di una regina forte...”

“Nulla è innocente...”

Forse Tremotino aveva ragione. Se non l’avesse fatto, non avrebbe mai avuto il coraggio di vendicare la morte di Cora ed Henry. Quando aveva spezzato il collo dell’animale aveva provato orrore, ma anche qualcos’altro. Potenza. Sì. Si era sentita potente, perché quella vita era nelle sue mani. Aveva immaginato che davanti a lei ci fossero i sovrani del sud. Aveva immaginato suo padre colpito alle spalle da David. Ed era stato normale... uccidere. Terribile, ma naturale. Perché, una volta in guerra con il nord, non avrebbe potuto fare altro. Molte persone sarebbero cadute. Tra quelle non poteva esserci lei, altrimenti Anatlon si sarebbe imposto sul nord. Avrebbe usato la magia, non solo la spada. Avrebbe usato la magia per difendersi. Come le aveva detto il consigliere, i Blanchard sapevano usare la magia e se non avesse risposto nello stesso modo ai loro attacchi non ne sarebbe uscita viva.

- Tremotino.

- Sì, Maestà?

- C’è un’altra cosa che vorrei fare.

- Che cosa?

Regina si girò a guardarlo. Tremotino le rivolse un sorriso compiaciuto.

- Avete detto che il regno ha bisogno di una regina forte... Di una regina che non ha paura.

- Assolutamente sì.

- Allora è necessario iniziare a dimostrare quella forza.

- Come? Alzando i tributi?

- Ho bisogno di un simbolo che dimostri che il nord è forte. Che il nord è potente. Ci sto pensando da un po’, consigliere. Credo sia giunto il momento di cambiare lo stemma di famiglia.

Tremotino sbatté le palpebre. – Lo stemma? Il melo? Volete... Volete un nuovo stemma che non sia il melo?

- Sì.

- Oh... – Il consigliere sembrò confuso. Il suo sguardo si perse per qualche momento. Ma si riprese quasi subito. – E a cosa pensavate, come nuovo stemma?

- Una pantera. Voglio una pantera nera.

Tremotino sghignazzò. Nel corso della sua lunga vita aveva visto e udito parecchie cose, cose incredibili, assurde, spaventose, divertenti. Ma non ricordava di un re o di un signore che avesse preso la decisione di cambiare lo stemma di famiglia. Regina aveva il potere di sorprenderlo. – Ottima scelta. Una scelta davvero eccellente. La pantera è un predatore forte e aggressivo. Che tutti temono. Significa potere. Ma simboleggia anche... la magia. Il coraggio. La resistenza. È un animale ammirevole e meraviglioso. Come Voi, del resto.

Inizialmente il consigliere aveva pensato che la sovrana avesse scelto, come nuovo stemma, il suo animale guida, ovvero il corvo. Quando Regina era molto piccola, in occasione del suo... sesto o settimo compleanno, Henry aveva organizzato degli spettacoli per allietare sua figlia e la corte. Oltre a giocolieri, mangiafuoco, acrobati, bardi e trovatori vari, c’era anche un uomo che diceva di essere un indovino. Aveva tutta l’aria di essere un ciarlatano, ma aveva stabilito, dopo aver letto la mano e lo sguardo di Regina, che l’animale guida della futura sovrana era il corvo. Tremotino era sicuro che la stessa Regina se lo ricordasse benissimo, quel momento.

Ma la pantera è la scelta perfetta. Oh, sì, sì! Eccellente, mia cara Regina!

 

 

Foresta di Rhun. Regno di Elohim. Est.

 

- Cambiare lo stemma? – esclamò Emma, sgranando leggermente gli occhi verdazzurri.

Agravain annuì, torvo. – Sì, Emma. La Regina del Nord intende cambiare lo stemma della sua famiglia. Ha scelto la pantera. Una pantera nera.

- Ne siete sicuri?

Gawain, il cavaliere che era incaricato di proteggere ed allenare Emma quel giorno, sospirò. – Le spie di Artù sono molto abili nello scovare informazioni. E non mentono. Non mentono loro così come non mente Merlino. Ha visto la pantera nei suoi sogni.

- Non mi sorprende affatto. Quella maledetta strega! – gridò Agravain, gli occhi verdi accesi di rabbia.

- Secondo le tradizioni più antiche, la pantera è un animale sacro. – disse Gawain, le folte sopracciglia aggrottate. – Serve per mettere in risalto l’importanza e la nobiltà di una famiglia.

- Nobiltà! – gridò Agravain, con la voce grossa. – Quale nobiltà? Henry era il re. Era di nobile lignaggio. Ma la moglie era una mugnaia! Lo sanno tutti! E poi l’attuale sovrana è tutto fuorché nobile. Nemmeno una delle sue chiappe lo è!

- Agravain... – intervenne il fratello maggiore. Era sempre saggio, Gawain. Decisamente più maturo e meno impulsivo del fratello minore. Sapeva sempre cosa dire e lo diceva al momento giusto. La sua voce infondeva una certa tranquillità, anche quando era molto severa, come in quel momento.

- Che? Emma sa benissimo ciò che penso. E credo che le sue idee a riguardo non siano molto diverse dalle mie.

- Abbassa la voce comunque. E cosa ancora più importante... modera il tuo linguaggio. 

- È più preoccupante il mio linguaggio, fratello, o una strega dannata che ha commesso le atrocità che conosciamo?

Emma non ascoltava più. Rifletteva.

Sapeva benissimo quale fosse il significato di quel gesto. La regina di Mehlinus stava cercando di dimostrare la sua forza. Il suo potere. Stava dicendo agli altri regni di stare in guardia. La pantera era un animale bello e pericoloso. Era un animale oscuro. Era un predatore che incuteva timore nei suoi avversari.

Non ho paura, si disse Emma. Non ne ho, Regina.

- La pantera non batterà il cigno. – disse Emma, risoluta. La sua voce non sembrava quella di una ragazzina. Era la voce di un’adulta.

- Come? – disse Agravain, sollevando un sopracciglio.

- La pantera non batterà mai il cigno. – Emma sfiorò l’elsa di Narsil. – La pantera è un predatore. È forte. È un simbolo di potere.

- Non basterà uno stemma, Emma. – disse Agravain. – Sono d’accordo. Può cambiare stemma tutte le volte che vuole, quella strega. Resterà sempre la responsabile di ciò che è accaduto alla tua gente e ai tuoi genitori. E non ci farà mai paura.

- Anche il cigno lo è.

- Cosa, Emma? – domandò Gawain.

- Un simbolo. Secondo le antiche leggende, è un simbolo di forza e di coraggio. Di... saggezza e di fedeltà. Me lo disse mio padre... un tempo. – Emma si rabbuiò. – So che aveva ragione.

- Aveva ragione. – disse Gawain. Il cavaliere la guardava, ammirato e con infinito rispetto. La guardava come se avesse avuto dinanzi una regina. – Il cigno è anche simbolo di forza e coraggio, non solo di purezza e di innocenza. Il cigno non ha paura di niente. Nemmeno della pantera.

- Io sono un cigno. Il mio nome è Emma Swan.

- Il tuo nome è Blanchard. Che cosa signif...? – cominciò Agravain.

- Sì. Ma più di una volta mi avete detto che il re è preoccupato. Mi avete detto che questi luoghi hanno occhi ed orecchie. Mi avete detto che ogni giorno che passa diventa sempre più rischioso per me. È giusto che usi un altro nome. Ed è il nome giusto. Emma Swan. Il cigno... Come il simbolo della mia famiglia.

I due fratelli si scambiarono un’occhiata.

- Emma Swan. Ammetto che mi piace. Sembra un nome forte. Come Narsil. – osservò Gawain.

Emma non disse niente. Sorrise.

Agravain era stupito a sua volta. Cominciava a rendersi conto che in quella ragazzina c’era molto di più di ciò che aveva visto fino a quel momento. Non poteva nemmeno considerarla una ragazzina. Non lo era più. Appoggiò la mano destra sull’elsa della sua spada, Varja, che significava diamante, ma anche fulmine. L’aveva chiamata così quando era diventato cavaliere. Nell’elsa era incastonato un piccolo diamante forgiato a Deep Valley, dov’era nato.

- Noi siamo con il cigno. – dichiarò Agravain. – Con il dragone e con il cigno. E sempre lo saremo.

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Capitolo 5
*** 4. Your mouth can lie but your eyes can't hide ***


4

 

YOUR MOUTH CAN LIE, BUT YOUR EYES CAN’T HIDE

 

 

 

 

Nymeria. Regno di Mehlinus. Nord.

 

 

- Sinistra! – gridò Daniel, incalzandola e menando un colpo a sinistra.

Regina lo parò.

- Ora destra!

La spada del maestro d’armi non colpì a destra, ma a sinistra. La lama arrivò a pochi centimetri dal suo collo. Non la toccò. La sfiorò soltanto. Ma a Regina bastò per sentirne il morso freddo.

- Siete morta, mia regina. – disse Daniel.

Lei abbassò Stormbringer. – Avevate detto ‘destra’.

- Sì ed ora siete morta.

- Avete mentito. Avete detto ‘destra’ e invece avete colpito a sinistra! – esclamò, sentendosi raggirata.

- Non ho mentito. Ha mentito solo il mio braccio. E la mia lingua. I miei occhi non mentivano affatto. – Daniel abbassò la sua arma, sorridendole.

- I Vostri occhi...

- Già. Voi non mi avete guardato. Non mi avete visto.

- Vi ho guardato! Non vi ho perso di vista un istante.

- Guardare non significa essenzialmente vedere, mia regina. – La voce di Daniel era gentile, nonostante la stesse rimproverando. – É vedere, ciò che conta davvero. Vedere è il vero segreto dell’arte della spada. E Voi, un attimo fa, non avete visto. Per questo è stato facile trarvi in inganno. In battaglia potrebbe succedere. Un avversario potrebbe cercare di ingannarvi. I suoi occhi, però, vi suggeriranno sempre la verità. Mentire con gli occhi è più difficile. Se riuscirete a vedere, lui non potrà sorprendervi.

Regina lo fissava, ancora furibonda.

- Coraggio, ricominciamo. – disse Daniel, mettendosi in posizione per riprendere il combattimento.

Iniziarono di nuovo a combattere.

Daniel si batteva tenendo il braccio sinistro dietro la schiena, come i migliori spadaccini. Non sembrava aggressivo, ma era abile, veloce e non si lasciava sorprendere facilmente.

Regina fu molto aggressiva, invece. Le bruciava il fatto che il maestro d’armi le avesse detto che non sapeva vedere davvero. Le bruciava il fatto che, dopo alcuni anni di addestramento, ancora Daniel riuscisse a batterla, a disarmarla. Non voleva più che accadesse. Perché non era più una bambina.

“Il regno ha bisogno di una regina forte. Ha bisogno di una regina che sappia combattere, oltre che governare...”

Regina avanzò e incalzò il maestro d’armi con una serie di affondi e di fendenti. Anche se il braccio le faceva male, continuò a menar colpi, alcuni anche molto rischiosi. Daniel seguitò a respingerla. Nei suoi occhi azzurri passò una scintilla di preoccupazione.

“Ha bisogno di una regina che non ha paura!”.

Regina colpì forte. Il fendente sbilanciò Daniel, che barcollò leggermente. Lei sferrò un altro colpo. La lama sfiorò il braccio sinistro di Daniel, lacerò la stoffa della casacca e aprì un taglio superficiale nel braccio. Regina fece roteare Stormbringer sopra la testa del maestro d’armi, che si piegò sulle ginocchia. Allora Regina abbassò la spada. Un potente fendente dall’alto in basso. Daniel lo parò, ma lei fece forza con le braccia. Spinse, fino a quando il viso del maestro non si contrasse in una smorfia di dolore. Allentò la presa sull’arma, che cadde a terra. Regina gli appoggiò la lama sulla gola.

“Il regno ha bisogno di una regina forte...”

“La magia è potere...”

Daniel vide il lampo omicida che passò negli occhi della sovrana di Mehlinus. Lo vide chiaramente. E vide anche qualcos’altro. Le iridi che cambiavano colore. Dal nocciola ad un viola intenso. Fu un mutamento che lo affascinò e lo inquietò. Il potere magico scorreva nelle sue vene. Era un potere talmente grande che lui riusciva a vederlo ruotare nel suo sguardo.

Per un istante Regina, pensando alle parole di Tremotino, fu tentata di usare la magia sul maestro d’armi per terrorizzarlo. Per punirlo per ciò che aveva fatto un attimo prima. Per fargli capire che la magia era veramente potere e che lei quel potere lo dominava, ormai.

Mehlinus ha bisogno di me. Ha bisogno che io sia forte.

Batté le palpebre e ritirò la spada, rimettendola nel fodero in pelle nera. Daniel si alzò.

- Vi ho sconfitto. – osservò Regina, soddisfatta.

- Sì, Maestà. Mi congratulo. Siete stata molto abile.

Daniel pensava che la Regina che conosceva lui fosse stata relegata in un angolo della mente. La giovane donna che gli stava di fronte era una donna con lo sguardo carico di ombre, una donna che rischiava di cadere preda dell’oscurità per colpa delle macchinazioni di quell’essere mostruoso. Tremotino. Il segnale che il cambiamento era radicato era costituito dal fatto che avesse deciso di sostituire lo stemma di famiglia, il melo, con una nuova immagine, la pantera nera con le fauci spalancate, un animale pericoloso, aggressivo oltre che bellissimo. Anche il popolo aveva paura della sua regina. La sovrana era diventata più dura, più esigente, decisamente più autoritaria negli ultimi tempi. Era stata una trasformazione... lenta. Ma inesorabile.

Daniel si rammaricava di non poterla aiutare. Lui era solo un maestro d’armi, il suo compito era insegnarle ciò che sapeva sull’arte della spada. Se avesse cercato di interferire, Regina non gliel’avrebbe permesso, non più. Tremotino avrebbe fatto in modo che i suoi tentativi andassero a vuoto. Il consigliere era altrettanto potente.

Non cedere, Regina, pensava Daniel. Non cedere. Non dare retta a quell’essere. Non sei così. Puoi essere diversa. Lo so. Ti conosco.

- Cos’avete da guardare, Daniel? – domandò Regina, aggrottando la fronte.

- Nulla, mia regina. Volete continuare?

- Certamente. La ferita vi fa male?

Daniel guardò il taglio sul braccio. Scosse la testa. – Niente di grave. Più tardi la medicherò.

 

 

Foresta di Rhun. Regno di Elohim. Est.

 

- Come hai fatto a capire che stavo per colpirti a destra e non a sinistra, come ti avevo detto? – domandò Agravain, gettandosi i capelli dietro le spalle con un gesto della mano e andando a recuperare il suo mantello verde, sul quale era impresso il drago d’oro dei Pendragon. Se lo legò alla base del collo, appuntandovi una spilla, che invece era a forma di serpente, il simbolo della sua famiglia d’origine e del Lothian.

- Dagli occhi, sir Agravain. – rispose Emma, sorridendo.

- Dagli occhi, eh?

- Mio padre, una volta, mi disse che mentire con la lingua è facile. Ma con gli occhi è molto più complicato.

- Già. È così. In generale, comunque, non sono un bravo bugiardo.

Emma aveva quasi sedici anni e stava diventando sempre più bella. Portava i capelli lunghi e ondulati legati con un laccio quando combatteva. I suoi occhi erano verdazzurri, decisi e sinceri. Era dotata di una forza notevole. Si muoveva bene, in modo fluido mentre impugnava la sua spada. Era anche veloce. E Agravain ora aveva scoperto che sapeva vedere davvero. In battaglia sarebbe stato difficile ingannarla.

- Avete un nuovo cavallo, sir Agravain? È molto bello. – osservò Emma, guardando il destriero bianco del cavaliere, che attendeva placidamente vicino ad un salice piangente.

- Non è mio, Emma. È tuo.

- Mio? – Lei aggrottò la fronte.

- Si chiama Maximus. È un dono di Artù. Il re mi ha chiesto di mostrartelo.

- Perché... perché il re mi ha fatto questo regalo?

- Sei una principessa. E un giorno sarai anche un cavaliere. Ogni cavaliere ha bisogno di un cavallo che si adatti alla sua persona.

Emma si avvicinò al cavallo, che la fissò tranquillamente, agitando un po’ la testa. Lo accarezzò sul muso e poi sulla folta criniera bianca.

- Maximus...

- Vuoi provare a montarlo, Emma?

Lei annuì e sir Agravain le mostrò come inserire il piede nella staffa nel modo giusto e come montare in sella. In realtà le venne naturale. Quando salì in groppa, il cavallo emise un lieve sbuffo. Emma sorrise, afferrando le briglie.

- Credo sia perfetto per te. – commentò Agravain. – Sei una cavallerizza nata.

- Grazie.

Agravain le fece vedere come far muovere in avanti il cavallo e come fermarlo. Poi la seguì, mentre lo conduceva lungo i sentieri della foresta. Poco prima di giungere ad un torrente, il cavaliere le disse di scendere da cavallo e di aspettare. C’erano due donne, vestite da contadine, con uno scialle azzurro sul capo, che stavano riempiendo alcuni secchi d’acqua e intanto cantavano:

 

Io sono la Dea Madre

adorata da tutto il creato

ed esisto da prima della creazione del mondo.

Io sono la forza femminile primordiale,

senza confini ed eterna.

 

Io sono la Dea della Luna,

la Signora di tutta la magia.

I venti e le foglie intonano il mio nome.

Io porto la falce di luna sulla fronte

e i miei piedi riposano tra i cieli stellati...

 

Emma ebbe la netta sensazione di essere osservata. Non dalle due donne. Loro non potevano vederla. Ma da qualcos’altro. Qualcun altro.

Si voltò di scatto verso la foresta, una mano sull’elsa della spada. Non c’era nessuno.

“Io porto la falce di luna sulla fronte e i miei piedi riposano tra i cieli stellati”.

Pochi istanti dopo la sensazione scomparve.

Quando le donne videro Agravain sussultarono ma, riconoscendolo come un cavaliere del re Artù, gli sorrisero e chinarono il capo in segno di rispetto. Agravain parlò con loro per qualche istante, poi le donne se ne andarono, trasportando i secchi colmi d’acqua.

Emma uscì allo scoperto. – Cosa avranno pensato vedendovi qui?

- Oh. Nulla di preoccupante. Avranno pensato che mi fossi nascosto nella foresta con qualche fanciulla.

Agravain era conosciuto anche per il successo che aveva con le donne. Era stato sposato, ma la moglie era morta un paio d’anni prima, dando alla luce il secondo figlio del cavaliere.

- Quella era una canzone per la Dea, vero?

- Una canzone per la Grande Madre, venerata ad Avalon e nelle terre di Artù.

- Voi siete mai stato ad Avalon, sir Agravain?

Lui batté le palpebre. – Oh. Solo due volte.  

Emma si bagnò le mani e le braccia nelle acque del torrente. Anche Maximus chinò la testa per bere.

- Com’è Avalon, sir Agravain?

Breve esitazione. Sembrava non fosse molto sicuro di ciò che aveva visto. - Molto più grande di come me l’aspettavo. E... molto verde. Con tanti alberi di mele.

- È vero che è l’Isola delle Fate?

- Beh, io non ho visto nessuna fata. Ma la magia che vi dimora è molto potente. La protegge. È necessario passare attraverso le nebbie per raggiungerla. E nessuno riesce a farlo, a meno che le sacerdotesse non lo vogliano.

Emma restò in silenzio, pensierosa. Anche a lei sarebbe piaciuto vedere la leggendaria Avalon, almeno una volta. Aveva ascoltato un sacco di storie su quella terra e sulle sacerdotesse e i druidi che l’abitavano. Molte di queste storie gliele aveva raccontate Merlino, che era nato ad Avalon e ci era vissuto fino a quando Uther Pendragon non era salito al trono. Allora aveva deciso di seguirlo a Camelot, diventando il suo consigliere.

- Ho l’impressione che tu voglia chiedermi qualcosa, Emma. Se hai delle domande, fai come me. Falle sempre. – Agravain bevve un sorso d’acqua e si bagnò la faccia. – Quando ero piccolo, mio padre non sentiva altro che come, quando, cosa e perché. I suoi scapaccioni non servivano. Io non sono tuo padre né ti darei mai uno scapaccione... ma ascolto volentieri le domande.

Emma esitò ancora un istante. Ma era curiosa. - Com’è la Somma Sacerdotessa?

- Morgana. – Agravain sorrise. – Sai, tutti mi chiedono di Morgana. Non osano chiedere al re, ovviamente.

- Dicono che sia bella e molto potente.

Calò il silenzio mentre Agravain piluccava una mora. Quando anche l’ultimo granello sparì fra le sue labbra, sembrò trovare le parole giuste. – I bardi dicono così. Dicono che sia bella come una Dea e che nessuno oserebbe mai sfidarla. Dicono che abbia posseduto la Vista fin da bambina. E i bardi molto spesso esagerano. Ma non questa volta.

Emma non riusciva ad immaginarsela. Si chiese se un giorno l’avrebbe incontrata.

- Forse è meglio tornare, Emma. – suggerì Agravain.

- Sì, va bene. Combattiamo ancora un po’.

- Non sei stanca?

- No. E Voi?

- Io! – Agravain rise. – Io non sono mai stanco quando si tratta di combattere. Combatterei anche tutto il giorno. Andiamo.

 

***

 

NB: Preciso che gli allenamenti di Regina con Daniel sono ispirati alle lezioni di danza di Arya Stark e Syrio Forel.

Grazie, come sempre, a tutti i lettori di questa storia. :)

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Capitolo 6
*** 5. Make a Wish ***


5

 

MAKE A WISH

 

 

 

Vicino a Nymeria. Regno di Mehlinus. Nord.

 

- Tu hai risvegliato il potente Genio di Agrabah! – declamò l’uomo con il turbante rosso, allargando le braccia. – Esaudirò tre desideri. Non uno in più, non uno in meno. Ma sappi che la magia ha i suoi limiti.

- Genio? Agrabah? – Il ragazzino con i capelli neri, che avrebbero anche avuto bisogno di una bella lavata, così come i suoi vestiti, fissò lo strano uomo, stringendo la lampada dorata che aveva trovato abbandonata nella melma, sulle rive del fiume Acheron. Ci era andato per riempire i secchi d’acqua e portarli a casa, in modo che sua madre potesse cucinare e i suoi fratelli potessero lavarsi. Suo padre – l’uomo che gli aveva fatto da padre - non c’era più da tempo, perciò toccava a lui, che era il più grande. Mentre si preparava a riempire uno dei secchi, aveva notato lo scintillio dell’oggetto. Era bastato sfregarlo perché ne uscisse un uomo con la pelle olivastra, preceduto da una nube nera.

- Proprio così, ragazzo. E ricordati che una volta espresso, un desiderio non si può ritirare, che questo ti piaccia oppure no. – Il Genio piantò le mani sui fianchi. Aveva l’aria annoiata, la stessa aria di chi aveva fatto e detto le stesse cose più e più volte. – Allora, qual è il primo desiderio?

Smarrito, il ragazzino lo guardò con gli occhi sbarrati. – Da dove vieni?

- Questo non è un desiderio. – osservò il Genio. – Te l’ho detto. Da Agrabah. È a est.

- Il regno di Artù?

- Artù? Ma certo che no. Molto più a est.

Scosse la testa, confuso. – Non c’è niente più a est. Ci sono le Terre Ignote e nessuno ci va. Nessuno ci va e nessuno ritorna, se ci va.

Il Genio roteò gli occhi. – Già. È così. Ma vogliamo sbrigarci? Qual è il tuo desiderio?

Il bambino si morse il labbro. Aggrottò la fronte. C’erano tante cose che avrebbe potuto desiderare. La felicità per sua madre. Che suo padre ritornasse a casa, sempre che non fosse morto. Abbassare i tributi. La regina aveva imposto delle tasse esorbitanti e non era giusto.

- Sta attento. Ci sono cose che non si possono chiedere. La morte, l’amore...

- Oh, no, non voglio uccidere! – esclamò. – Solo che... non so che cosa desiderare. Ci sono tante cose. È difficile. Sai, mi piacerebbe desiderare le felicità per le persone che mi vogliono bene. Ho due fratelli e mio padre se n’è andato... non è mio padre, in realtà. Il mio vero padre non ne vuole sapere di me. Per lui sono solo un bastardo.

Il Genio emise un lungo sospiro. Si trascinò fino a un tronco caduto e si sedette pesantemente. Il bambino prese posto di fronte a lui.

- Tu non mi sembri tanto felice, però. Eppure sei un Genio.

- Oh. Lo sono diventato moltissimo tempo prima che tu venissi al mondo. – ammise. - Essere un Genio... non è magico come sembra.

- Non ti piace esaudire i desideri?

- Certo che no. Ogni desiderio ha un prezzo e spesso... il prezzo da pagare è molto caro.

- Quindi... tu vuoi essere libero?

Il Genio scrollò le spalle. Aveva un’aria rassegnata, triste, di chi non si aspetta niente. – Più di ogni altra cosa.

- Allora è facile. Conosco il primo desiderio.

- Bada. Ho esaudito mille e uno desideri da quanto sono diventato un Genio. E li ho visti finire male tutti, tutti si sono trasformati in una maledizione. – Sorrise a quel bambino. Non aveva mai avuto un padrone così piccolo. Erano tutti adulti. Erano giovani o vecchi, ricchi, poveri, belli, schiavi, donne e uomini. Ma nessuno era così piccolo, con due occhi così sinceri e l’aria di chi non aveva visto nulla del mondo tranne il posto in cui era nato e i visi dei propri fratelli. Se avesse desiderato il ritorno del padre adottivo, lui sarebbe tornato, ma quel ritorno avrebbe potuto portare solo guai. Se avesse desiderato una vita piena e felice per sua madre e i fratelli, avrebbe avuto ciò che aveva chiesto, ma ci sarebbero state delle conseguenze. - Purtroppo... come ti ho già detto, ogni desiderio ha un prezzo.

- Come la magia. – disse il bambino. – In tutte le storie che ho sentito, la magia ha un prezzo. La regina la sa usare. Però penso che il mio desiderio non sia così male. Io... desidero che tu sia libero.

Agitò la lampada, anche se immaginava che non ce ne fosse bisogno.

Il Genio non credette alle sue orecchie. I bracciali dorati fissati ai suoi polsi si aprirono e caddero sull’erba. Scomparvero prima ancora che potesse battere le palpebre. Polvere. Polvere che venne trasportata via dal vento.

- Questo è... sono finalmente libero? Lo sono davvero?

- Non so bene. – disse il bambino. - Tu sei il Genio. Pensi che abbia funzionato?

Lui sorrise. – Oh, sì. Credo proprio di sì. Ma restano ancora due desideri. Che cosa ne farai?

- Beh... ne dono uno a te. Ecco, desidero donare a te il terzo desiderio. – Gli restituì la lampada. L’oggetto aveva perso un po’ della sua lucentezza, come se la libertà del Genio avesse cambiato anche il valore di quella prigione in cui era stato rinchiuso.

Il Genio prese la lampada. – Ne sei sicuro? Ci sono tante cose che potresti desiderare. Hai detto che il tuo vero padre non vuole saperne di te. Non vuoi... che abbia ciò che si merita? Non la morte, ovviamente. Potrebbe... perdere tutto quello che ha, ad esempio.

- Non servirebbe. – Scrollò le spalle. – Non mi amerebbe comunque e non gli importerebbe di mia madre. È un lord. Mia madre, invece, è solo una levatrice.

- Si tratta della tua ultima parola?

Il bambino annuì vigorosamente.

- D’accordo. Ma non userò mai il desiderio che c’è qui dentro. È troppo pericoloso. – Mise la lampada nella sacca di cuoio che portava agganciata alla pesante cintura. – Piuttosto, dimmi... hai parlato di una regina. Dove siamo esattamente?

- Siamo a Nymeria, nel regno di Mehlinus. Andiamo, ti porto in città.

Il Genio appoggiò una mano sulla testa del ragazzo, non sapendo come ringraziarlo, ma augurandosi che nessuno di quei desideri si ritorcesse contro di lui.

 

 

I soldati non erano come il suo piccolo padrone. Chiusi nelle loro armature nere, sollevarono la celata dell’elmo nello stesso istante, piantando sul Genio sguardi diffidenti. Uno mise mano all’elsa della spada, anche se si accorse subito che lo straniero non aveva armi. Però indossava una casacca con rifiniture dorate, certamente di ottima fattura, un paio di pantaloni di un arancione brillante, larghi, ma più stretti intorno alle caviglie, le scarpe a punta e il turbante rosso. Il suo accento non lo aiutò. Quello non era un accento del nord e quegli abiti erano decisamente insoliti.

- Che cosa hai lì, ragazzo? – domandò il soldato.

- Secchi d’acqua. Sono già in ritardo. Mia madre mi sta aspettando. Abito accanto alla casa del venditore di spezie.

- Certo. Dimmi la verità, chi è quest’uomo?

- L’ho conosciuto vicino al fiume. Ci vado ogni giorno. È un Genio.

- Oh, un Genio?

Il Genio si intromise, sollevando una mano. – Lasciate stare questo bambino. Lui non ha fatto nulla di male. Mi ha solo trovato.

- Capisci bene la nostra lingua. – L’altro soldato tolse la mano dall’elsa, ma prese l’uomo per un braccio e gli impose di avanzare. – Bene. Meglio così. Quando apparirai davanti alla regina potrai spiegarti da solo.

- La regina?! – Il ragazzo si spaventò parecchio. Lasciò cadere un secchio, rovesciando l’acqua, ma non se ne curò. – No, lui non è un ladro.

- Non preoccuparti per me, ragazzo. – disse il Genio. Anche lui portava un secchio. Si era offerto di aiutarlo, dato che lo aveva liberato. Lo posò a terra. – Torna a casa da tua madre, prima che si preoccupi.  

- Sì, ragazzo. Fila via. – disse il soldato che tratteneva il Genio. – Non so che cosa sia questa storia, ma ti conviene svignartela. Ci pensiamo noi.

 

 

Il palazzo della regina di Mehlinus era enorme e nero come la notte. Le torri svettavano minacciose verso il cielo grigio e lo stendardo ondeggiava, sbatacchiato dal forte vento.

Il Genio riconobbe una pantera con le fauci spalancate. L’ultima volta che aveva visto un simile animale non era ancora diventato Genio. Era successo così tanto tempo prima che sembrava un sogno. Così come sembrava un sogno la sua libertà. Il suo salvatore se n’era andato di malavoglia, trasportando i due secchi d’acqua che gli erano rimasti. Era solo un bambino, era molto magro, ma nessuno si era offerto di aiutarlo.

Non aveva una bella sensazione. Aveva capito di essere lontanissimo da casa, molto più lontano dell’ultima volta che aveva esaudito i tre desideri del proprio padrone. Comprendeva la lingua, anche se alcune parole gli sfuggivano inesorabilmente. Era stato in molti posti e aveva imparato molte lingue.

E forse era quello il prezzo della sua libertà. Sarebbe durata poco o sarebbe morto presto, dopo averla assaporata solo per un breve istante.

- Vostra Maestà. – sentenziò la guardia. I due che lo scortavano si inginocchiarono subito davanti alla donna appena scesa da cavallo. Erano in un grande cortile. Ogni uomo era impegnato in un’attività diversa. Chi lucidava le armi, chi si occupava del destriero della sovrana, chi stava rimestando il magazzino con le scorte di cibo.

- Che cosa succede? – domandò la donna, usando un tono seccato. Si girò, osservando i suoi uomini.

Era una donna giovane, ma aveva un aspetto molto regale ed era come se lo avesse sempre posseduto, quell’aspetto. Come se fosse nata per essere regina. Indossava una lunga pelliccia bianca per proteggersi dal rigido autunno del nord. I suoi grandi occhi scuri lo scrutarono con curiosità e perplessità, ombreggiati da lunghe ciglia. Erano occhi duri, ma anche stranamente caldi in netto contrasto con il freddo che imprigionava Nymeria.

Era come un’apparizione, di una bellezza oscura e forte. La guardò, estasiato.

- In ginocchio al cospetto della regina, barbaro! – gridò un soldato. Gli diede una possente spinta e il Genio cadde subito in ginocchio e giunse persino le mani.

- Perdonatemi, Maestà. I miei ossequi. – mormorò il Genio, alzando appena lo sguardo.

La regina lo osservò dall’alto, con un sorriso appena accennato.

 

 

 

Foresta di Rhun. Regno di Elohim. Est.

 

L’autunno stava per cedere il passo all’inverno. Il freddo diffuse la sua foschia su Elohim, il mare che Artù vedeva dalle finestre della sua stanza era grigio, spesso onde burrascose si infrangevano contro gli scogli.

Emma vedeva sprazzi di cielo tra i rami intricati della Foresta di Rhun.

Voleva vedere di più. Voleva udire da vicino il rumore del Mare Orientale. Voleva guardare le onde. Voleva vedere delle facce nuove. Sentire delle voci nuove. Mentre combatteva, aveva la mente altrove e si lasciava sorprendere. Oppure combatteva con molta foga, rischiando di farsi male e stancandosi presto.

La sua irrequietezza era evidente ai cavalieri che la proteggevano. Solo che le loro parole non la tranquillizzavano affatto.

- Quindi domani andrai a Corbenic. – disse Emma, un mattino, a Galahad. Il ragazzo era venuto a salutarla, dato che non lo avrebbe visto per molti giorni.

- Sì. Sembra che mio nonno sia diventato un po’ più buono e voglia parlarmi. Così potrò vedere dove sono nato e dov’è nata mia madre.

Almeno lui poteva ancora vederlo, quel posto. Poteva ancora tornarci. Lancillotto lo avrebbe portato tutte le volte che glielo avesse chiesto. Il signore di Corbenic, che tanto aveva disprezzato Lancillotto per essersi innamorato di Elaine e aver generato un figlio con lei, era persino diventato un uomo più magnanimo. Quando Lancillotto si era proposto come sposo di Elaine, il lord lo aveva rifiutato, avendo già promesso la figlia ad un altro uomo ben più anziano di Lancillotto. Tuttavia non era riuscito ad impedire che si amassero comunque. 

- Fammi venire con te.

Galahad la fissò, pieno di sconcerto. – Con me? Ma non posso...

- Domandalo a tuo padre. Starò attenta.

- Non puoi uscire dalla Foresta di Rhun. È pericoloso.

Emma strinse le labbra e anche l’elsa della spada. Una parte di lei sapeva benissimo quanto fosse pericoloso. Sapeva benissimo che poteva accadere qualunque cosa, che c’erano persone che avevano occhi e orecchie ovunque. Eppure c’erano giorni in cui non sopportava di dover restare in quella foresta.

Poco dopo, Lancillotto si presentò da lei. Galahad non c’era, ma era chiaro che aveva parlato con suo padre.

- Portatemi con Voi. Sarò prudente. Merlino potrebbe aiutarmi e occultare il mio aspetto con una magia. – Guardava il cavaliere dritto negli occhi. Voleva dimostrargli che non aveva paura.

- Non posso farlo, Emma. – Sembrava davvero rammaricato, ma la sua voce era ferma e solida come una roccia. - Ci sono maghi anche a Corbenic. Avvertirebbero la magia e potrebbero pensare che tu sia una minaccia. Non saprei nemmeno come giustificare la tua presenza.

- Potrei spacciarmi per una serva.

- Tu sei una principessa. Sei l’erede di Anatlon. Non puoi travestirti da serva. Inoltre, non posso disobbedire al re.

- Dì al re che sono io che te l’ho chiesto.

- Non approverebbe, Emma. Sai perché ti trovi qui. Capisco che tu voglia...

- No, non capite! – gridò Emma. Non aveva mai alzato la voce in presenza di un cavaliere di Artù. Era sempre stata molto rispettosa, ma non riuscì più a trattenersi. Esplose. – Voi non capite perché non passate il Vostro tempo in una foresta. Avete visto cosa c’è là fuori, avete visto molti posti, siete stato d’aiuto a molte persone, io invece... non posso andare in nessun posto, cavaliere! Sono prigioniera!

Lancillotto era sbalordito. Sapeva quanto Emma fosse tenace, ma quella, più che tenacia, sembrava disperazione. – Emma, ti imploro di credermi. Non sei prigioniera. Come puoi pensarlo? Noi siamo qui per proteggerti. Quello che vuole il re è che tu sia al sicuro fino a quando non arriverà il tuo momento. È quello che ha promesso anni fa. È quello che vorrebbe tuo padre.

- Non parlate di mio padre!

Il cavaliere tacque, tormentandosi l’anello.

Non c’era nient’altro che potesse fare; era chiaro che il re non avrebbe mai permesso una cosa simile e nessuno dei cavalieri avrebbe disobbedito a un ordine di Artù. Con il viso che scottava, in quanto sapeva che rivolgersi in quel modo ad un cavaliere era sbagliato, Emma gli voltò le spalle. Aveva gli occhi pieni di lacrime, ma non avrebbe mai pianto davanti ad uno dei suoi protettori.

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Capitolo 7
*** 6. Fire, Snow and Darkness ***


6

 

FIRE, SNOW AND DARKNESS

 

 

 

Nymeria. Regno di Mehlinus. Nord.

 

 
Nevicava. Da tre giorni, ormai.

Gli inverni, nel regno del nord, erano terribili. Nevicava a volte anche per molti giorni consecutivamente. Una neve fitta, che cadeva giorno e notte, senza posa, senza requie e senza pietà. I tumuli bianchi riempivano i vuoti tra le merlature delle fortificazioni e davano la scalata alle mura nere del castello. Bianche e pesanti coperte calavano sui tetti di ogni casa. Gli uomini di guardia, non appena terminavano il loro turno per lasciare il posto ad altri, andavano ad ammassarsi nelle torrette per scaldarsi vicino ai bracieri ardenti. Eppure i postulanti, più che mai desiderosi di ottenere udienza, attendevano il loro turno, ordinati, infagottati dalla testa ai piedi.

Daniel, il maestro d’armi, entrò nell’enorme sala del trono del castello di Nymeria e si accorse subito che alcune cose erano cambiate: c’era un arazzo in più, sul quale era rappresentata la fondatrice della capitale di Mehlinus con la spada levata verso il cielo mentre intorno a lei giacevano i barbari. C’era un arazzo simile anche nella stanza di Regina, che aveva sempre ammirato e adorato le storie legate alla regina guerriera del nord.

Per quanto riguardava l’attuale sovrana, lo guardava e gli sorrideva, seduta su un divanetto foderato di pelliccia, davanti al fuoco che scoppiettava vivacemente. Poco più in là, in piedi vicino al trono, il consigliere Tremotino si rimirava le unghie, come se ciò che stava accadendo in quella stanza non fosse affar suo. Ghignava, esponendo i suoi orribili denti marci. Qualche mese prima era stato proprio Tremotino a venire da lui per comunicargli che le lezioni erano finite. Regina, d’ora in avanti, intendeva allenarsi da sola. Era diventata brava, in effetti. Daniel non era sorpreso. Tuttavia gli dispiaceva non vederla più così spesso come prima.

- Ben arrivato, Daniel. – disse Regina.

Ah. Per tutti gli dei. Gli sembrava di non conoscere affatto la donna che gli stava di fronte.

Comunque si inginocchiò e chinò il capo. – Mia regina...

- Immagino che Vi starete chiedendo quale sia il motivo di questa convocazione.

Daniel sollevò lo sguardo. Gli occhi nocciola di Regina erano messi in risalto da una mano di trucco scuro. Le labbra erano rosse come mele mature e piegate in un vago sorriso arrogante. Gli orecchini mandavano barbagli di luce bianca, come il ciondolo con il vecchio simbolo del regno, il melo, che portava al collo. Il suo corpo era chiuso in un lungo abito di seta color porpora con le maniche bordate d’argento. In mezzo a tutto questo non poteva mancare la sua spada, Stormbringer, riposta nel fodero in pelle nera posato vicino a lei.

- Sì, io stavo... – iniziò Daniel.

- I Vostri insegnamenti sono stati molto utili, maestro d’armi. Per questo ho deciso di ricompensarvi.

- Non desidero alcuna ricompensa, mia regina. È stato un piacere e un onore per me insegnarvi ciò che so.

- Daniel... non fare il modesto.

Aveva lasciato perdere la forma di cortesia. Regina non poté non notare che il maestro d’armi aveva serie difficoltà a guardarla negli occhi. Una volta ciò le sarebbe dispiaciuto. Perché si era sentita legata a Daniel. Si sentiva ancora legata a lui, in qualche modo. Ma aveva imparato ad apprezzare il fatto che la gente abbassasse lo sguardo davanti a lei.

- Sono serio. Non desidero ricompense.

Tremotino gli lanciò un’occhiata divertita.

- Ho intenzione di nominarvi comandante del mio corpo di guardia. – Regina era passata di nuovo al Voi, quasi si fosse resa conto che era più consono mantenere le distanze. Si alzò in piedi, muovendosi con la grazia e l’eleganza di una predatrice.

- Ne avete già uno.

- No. Si è ritirato. Era un uomo anziano, ormai. Voi, invece, siete ancora giovane. E siete un ottimo spadaccino.

Daniel pensò febbrilmente. Diventare il comandante significava proteggere la regina ma anche eseguire i suoi ordini. Qualsiasi ordine. Frustare un prigioniero. Condurlo davanti alla forca. Guardarlo morire. Avrebbe dovuto eseguire e basta. Significava addestrare altri uomini. E nel caso in cui la regina fosse stata assente, gli sarebbe toccato ricevere ordini da Tremotino. Era sicuro che vi fossero altri uomini ben più capaci e più vecchi di lui che sarebbero stati onorati di accettare quel ruolo.

- Ma io... non sono un nobile, mia regina. La mia è una famiglia di stallieri ed io... sono un umile maestro d’armi.

- Mi state dicendo cose che già so, Daniel.

- Mia regina...

- Vi conviene accettare, Daniel. Non rifarò una seconda volta la stessa offerta. E il Vostro rifiuto mi offenderebbe. – La voce di Regina si era fatta più severa. Il sorriso arrogante era ancora al suo posto. Ormai era a pochi passi da lui e Daniel percepiva tutto il peso del suo sguardo.

A Tremotino sfuggì una risatina sibilante.

Mostro, pensò il nuovo comandante. È colpa tua.

- Maestà, non è mia intenzione offendervi. È un pensiero molto generoso. Semplicemente non me lo aspettavo. Accetto. E Vi ringrazio. – disse Daniel. Che altro avrebbe potuto dire? Aveva scelta?

Regina era più che soddisfatta. Si avvicinò ulteriormente e gli appoggiò una mano sul petto. - I miei fabbri stanno preparando una spada e un’armatura per Voi. Andate da loro. Vi aspettano. Le mie guardie sono già state informate.

Daniel si profuse in un altro breve inchino, dopodiché si avviò verso l’uscita, sentendosi la testa molto più pesante rispetto a quando era entrato. Non solo perché non si aspettava una simile nomina, ma anche perché il cambiamento avvenuto in Regina era terrificante. Era una donna bellissima, eppure era una bellezza oscura, che non si limitava ad attrarre, ma incuteva un vero e proprio terrore.

- Comandante. – lo richiamò Regina.

- Sì, Maestà?

- Non deludetemi.

Le porte della sala del trono si chiusero subito dopo, dietro le spalle di Daniel.

- Potete averlo, se lo desiderate. – disse Tremotino, dopo qualche attimo di silenzio, mentre la regina si soffermava ad ammirare l’arazzo che aveva fatto preparare appositamente per la sala del trono.

- Come?

- Il maestro d’armi. Potete averlo. Vi basta una parola. Verrà. – Tremotino sorrideva.

- Vi ricordo che Daniel da oggi in avanti è il comandante del mio corpo di guardia, non solo il maestro d’armi. – gli fece notare Regina. – In secondo luogo di che cosa state parlando? Spiegatevi.

- Mi spiego subito. Non potete averlo come marito. Questo no. Anche perché sapete bene che è di lignaggio troppo basso.

- Infatti lo so.

- Certo, lo era anche Vostra madre, se mi permettete. Ma lei aveva... ecco, aveva molto da offrire. Aveva delle risorse. Vinse una sfida e il re non poté tirarsi indietro davanti al suo potenziale.

- Non c’è bisogno che me lo ricordiate, consigliere.

- Giusto, perdonatemi. Ma come stavo dicendo... una regina ha bisogno di compagnia, a volte. – Tremotino comparve al suo fianco all’improvviso, facendola sobbalzare. – E Voi, essendo la regina di Mehlinus, potreste avere chiunque. Ordinate. Gli altri eseguiranno.

Regina doveva ammettere che c’erano notti in cui si sentiva terribilmente sola. E non solo di notte. C’erano dei momenti in cui avrebbe voluto poter parlare con qualcuno di quello che sentiva. Momenti in cui avrebbe voluto avere qualcuno vicino che non fosse il suo consigliere, qualcuno che potesse lenire il senso di vuoto che si faceva strada nel suo animo e nel suo cuore. Il senso di vuoto che la faceva sentire un’estranea anche nel suo castello, nella sua città. Nel suo regno.

“...essendo la regina di Mehlinus, potreste avere chiunque. Ordinate. Gli altri eseguiranno.”

- Fate entrare il primo postulante. – ordinò Regina, evitando di rispondergli.

- Come desiderate. – Tremotino s’inchinò leggermente.

Vicino alle porte che davano accesso alla sala del trono, c’era l’uomo uscito dalla lampada magica. Il Genio. Chinò il capo brevemente quando il consigliere passò accanto a lui e poi alzò la testa. Portava un vassoio d’argento con delle lettere. Regina gli fece cenno di entrare e di posarle accanto al trono. Lui eseguì docilmente. La sua pelle appariva più scura alla luce delle torce e i finimenti dorati della casacca brillavano.

“Potete averlo, se lo desiderate.”

Oh, sì. Poteva avere chiunque, probabilmente. Anche il Genio. A giudicare da come la guardava, Regina era sicura che sarebbe stato ben felice di farle compagnia.

- Cos’altro posso fare per voi, mia regina?

- Nulla. – rispose Regina, sovrappensiero. – Sto bene così.

 

 

 
Foresta di Rhun. Vicino a Camelot.

 

Il sogno fu orribile.

Emma udì una risata, un suono freddo, aspro, come coltelli che vengono affilati sulla mola.

Era in piedi sull’orlo di un abisso. Il crepaccio le sbarrava la strada. Al di là dell’ostacolo Snowing Castle, la sua città natale, bruciava. Le fiamme si levavano alte verso il cielo nero. Avvolgevano il castello dei suoi genitori. Lo stendardo con lo stemma di famiglia venne catturato dalle lingue di fuoco e arse. Sentì il rumore di un ariete che tentava di sfondare un portone. Un BUM-BUM costante. Grida. Urla. La gente terrorizzata. Armature nere. Uomini in armatura nera sui camminamenti, sulle torri. E un altro stendardo. Il melo su sfondo blu. Il simbolo della regina di Mehlinus.

- No! – gridò Emma. Cercò la sua spada, Narsil. Voleva combattere. Voleva uccidere quei mostri che si stavano prendendo la sua città.

Ma il fodero attaccato alla cintura era vuoto. Non aveva la spada con sé.

Sotto di lei le tenebre dell’abisso che la separava da Snowing Castle ribollivano. Una voce salì dal profondo di quel baratro. Una voce crudele. Distorta.

- Guarda! Snowing Castle è caduta! Non esiste più, principessa! Il cigno non può fare nulla. Non può battere la pantera! – la schernì.

E il melo impresso sullo stendardo mutò davanti ai suoi occhi. Si trasformò in una pantera nera con le fauci spalancate.

- Non puoi fare niente! È tutto finito! Per te e per la tua gente!

- NO! MAI! Non è finita! Io li vendicherò! – urlò Emma, con tutto il fiato che aveva in gola. Cercò di allontanarsi dall’orlo del baratro. Doveva aggirarlo se voleva raggiungere la città. Sua madre e suo padre. Ma era come muoversi sott’acqua. Le sue gambe erano pesanti. Troppo pesanti.

- Vendicarli? – La voce era molto divertita. Rise. – Non vincerai! Il cigno è perduto! Perduto! Come puoi pensare di sconfiggere la pantera?

- La Regina del Nord la pagherà!

Un’altra risata. Ancora più fredda e cattiva.

- Le tue ali sono spezzate, cigno – gridò la voce. – Spezzate e bruciate come Snowing Castle. Come Anatlon! Sei debole! Mehlinus, invece, è potente!

- Non per molto!

- Il tuo coraggio è lodevole, te lo concedo. Ma inutile!

Emma pensava che la voce appartenesse proprio a Regina. Anche se essa era distorta, immaginava quanto la Regina di Mehlinus si divertisse. Immaginava quanto si fosse divertita quando i suoi uomini avevano abbattuto Snowing Castle.

- Resta nella tua foresta! Ti conviene. Se ne esci, morirai!

- Emma, non ascoltare! – gridò una voce maschile che conosceva, anche se non la udiva da tempo.

Dall’altra parte del burrone, c’era il giovane che l’aveva portata in salvo, Graham. La guardava, spaventato. Emma poteva sentire anche degli ululati. Accanto a Graham comparve un lupo. Un vero lupo, bianco e grigio, con un occhio rosso e uno nero.

Le tenebre si addensarono. Nell’oscurità dell’abisso qualcosa si mosse. Esplose un ruggito che coprì i rumori della battaglia in corso oltre le mura della città. Emma si tirò indietro. Inciampò e cadde sull’erba.

- Emma! – urlò ancora Graham.

Un’enorme pantera sbucò dal burrone. Era più grande di una pantera normale, con le zampe robuste munite di lunghissimi artigli, le fauci spalancate e sbavanti, i denti aguzzi simili a sciabole, gli occhi rossi e pieni di furia. Di fame.

La mia spada! Dov’è la mia spada? pensò Emma, disperata.

Non aveva nessuna spada. E nemmeno un’armatura. Solo la cotta di maglia.

- Il dragone non riuscirà mai a salvarti. Muori, principessa del nulla!

La pantera l’attaccò, mirando alla sua gola.

 

Emma si svegliò, gridando, con gli occhi sbarrati nel buio della sua casa di legno, costruita da Merlino con la magia sui grossi rami intrecciati di due salici piangenti, con un incantesimo di protezione a fare da scudo, impedendo a chiunque di vedere il rifugio.

Era madida di sudore, con il cuore che batteva all’impazzata, le membra tremanti, lo sguardo di fuoco della pantera e le fiamme che divoravano Snowing Castle ancora impresse nella mente.

Anche Galahad si era svegliato. Emma lo vide seduto nel suo giaciglio, con le gambe avvolte nelle coperte, gli occhi azzurri spalancati, che la fissavano. I suoi capelli sembravano un covone di fieno. Un covone di fieno quasi bianco. Il ragazzino seguiva sempre il padre quando quest’ultimo si recava nella foresta a proteggere Emma. Vicino, aveva Kylr, la sua spada. Lancillotto l’aveva fatta forgiare apposta per lui, perché potesse imparare a maneggiarla e a combattere.

- Che succede, Emma? – domandò Galahad, alzandosi.

- Niente... un incubo.

- Che incubo? Cos’hai sognato?

Lancillotto entrò nell’abitazione con la spada in pugno. Sicuramente il suo grido l’aveva spaventato.

- Mi dispiace. Va tutto bene, Lancillotto. – disse Emma. – Ho solo... era solamente un incubo.

- Stai bene davvero? Posso fare qualcosa? – chiese il cavaliere, riponendo Aradonight nel fodero. Emma non si era ancora scusata con lui per ciò che era successo quando era partito per Corbenic con il figlio. Sapeva che doveva farlo, ma non trovava le parole giuste e il cavaliere non sembrava comunque in collera con lei.

Emma chiuse gli occhi. Udì il frinire di molti grilli e le fronde degli alberi che frusciavano. Scosse il capo. – No. Grazie. Sto bene.

Poco dopo Lancillotto lasciò la casa e scese, per riprendere il suo turno di guardia.

- Cos’hai sognato? – sussurrò Galahad.

- La... la mia casa. Che bruciava.

- Questa casa?

- No. Snowing Castle. – Emma inspirò profondamente, cercando di reprimere le immagini del suo incubo.

“Le tue ali sono spezzate, cigno! Spezzate e bruciate come Snowing Castle. Come Anatlon! Sei debole! Mehlinus, invece, è potente!”

“Muori, principessa del nulla!”

(E se fosse davvero troppo potente? Se morissi, nel tentativo di vendicare la morte dei miei genitori? Se Regina fosse troppo potente, con la sua magia?)

In fondo lei chi era? Era l’erede di Anatlon, certo, ma era anche una fanciulla orfana, che di magia non sapeva niente. Combatteva bene, ma se ciò non fosse stato abbastanza? Magari non sarebbe morta. Magari la regina l’avrebbe catturata e imprigionata.

“Sei debole! Mehlinus, invece, è potente!”

Emma strinse i denti. No. No, non doveva farsi dilaniare dai dubbi. Non doveva cadere preda delle sue paure. Allungò una mano e cercò Narsil, che aveva sempre vicino a sé. La trovò. La spada era nel fodero, al suo posto. La spada di David. Strinse l’elsa e inspirò di nuovo.

Le ali del cigno sono solo ferite. Non sono bruciate. Anatlon risorgerà. La mia città risorgerà.

Un giorno, sembrò sussurrare una voce nella sua testa. La voce benevola di suo padre.

Credi in te, Emma. C’è speranza. La speranza è la magia più potente di tutte. Sua madre. Mary Margaret le ripeteva spesso, quand’era piccola, che la speranza era sempre l’ultima a morire. Le ripeteva che, nel caso in cui qualcosa fosse andato storto, nel caso in cui si fosse ritrovata in una situazione che l’avrebbe costretta a prendere decisioni difficili o a cavarsela da sola, allora la speranza l’avrebbe sorretta.

Galahad taceva. Aveva visto il panico, negli occhi di Emma. Non gli era mai capitato di scorgere il panico in quegli occhi verdazzurri. Aveva visto molte cose, in passato. Dolore. Rabbia. Frustrazione quando veniva disarmata durante gli allenamenti. Tristezza. Forza. La sua irrequietezza perché era costretta a vivere in quella foresta. Ma il panico no. Mai. E lui la conosceva praticamente da sempre. Era ancora molto giovane, ma capiva che Emma sarebbe diventata un vero cavaliere. Una vera regina di quel regno che a Galahad sembrava così lontano, inimmaginabile, persino. Del resto lui conosceva solo Corbenic, il luogo in cui era nato, Camelot e qualche cittadina nelle vicinanze. Niente di più. Non era mai stato ad ovest, nemmeno dalla zia di suo padre, Morgause (e non ci teneva, dato che l’unica volta che l’aveva vista, la signora del Lothian era venuta a Camelot in occasione del matrimonio di uno dei suoi figli. Quando i suoi occhi verdi si erano posati su di lui, Galahad aveva avuto paura). Non era mai stato ad Avalon, dov’era nato suo padre. Avrebbe voluto andarci, un giorno, sull’Isola delle Fate. Per vedere il leggendario cerchio magico e la roccia in cui era conficcata Excalibur, prima che Artù la estraesse.

E Anatlon? Com’era Anatlon? Com’era prima di cadere?

- Non preoccuparti, Emma. – si decise a dire. – Un giorno tornerai a casa e ricostruirai il tuo regno. Lo dice persino Merlino.

- Merlino, eh?

- Merlino fa dei sogni, a volte. Qualche giorno fa ne ha fatto uno e nel sogno c’era un cigno con le ali di fuoco. Andava verso...

- Verso?

- Verso Mehlinus. Da quella strega.

Emma non disse niente.

“Le tue ali sono spezzate, Cigno! Spezzate e bruciate come Snowing Castle...”

- Vuol dire che ci andrai un giorno. A nord, voglio dire. E la sconfiggerai. Quando succederà... Emma, quando succederà potrò venire con te?

- Venire con me?

- Avrai bisogno di aiuto, contro la regina. Avrai bisogno di tanti uomini. Ed io voglio essere tra i cavalieri che ti accompagneranno.

E morire? Perché è questo che potrebbe succederti, Galahad. Potresti morire. Per me.

- Vedremo. Vedremo quando verrà il momento... – mormorò Emma, guardando altrove.

- Verrò anche se mio padre non dovesse essere d’accordo. Lo prometto.

Emma sorrise e appoggiò una mano sulla testa di Galahad. – Va bene. Adesso, però è meglio rimettersi a dormire.

- Sì... Emma?

- Dimmi.

- Posso restare qui vicino a te?

- Come vuoi.

Galahad si prese una parte della coperta e si sdraiò vicino a lei. Pochi minuti dopo dormiva profondamente. Emma, invece, rimase sveglia ancora per un bel pezzo.

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Capitolo 8
*** 7. One Last Wish ***


7

 

ONE LAST WISH

 

 

 

Nymeria. Regno di Mehlinus. Nord.

 

L’anniversario della fondazione di Nymeria aveva portato in città moltissima gente, proveniente dai luoghi più remoti del regno.

Le strade pullulavano di persone, i mercanti esponevano la loro robaccia fino a tarda notte, gridando offerte, i fabbri lavoravano a nuove armi e armature per le guardie che seguivano i lord, il battere costante dei loro martelli era ipnotico e le fucine ardevano costantemente. Uomini e donne amoreggiavano negli angoli bui, all’ombra dei porticati o tra i filari di mele che circondavano la capitale di Mehlinus.

Il castello di Regina grondava di invitati. Il chiasso le stava dando alla testa. Per l’occasione, su consiglio di Tremotino, aveva esposto sia l’arazzo con il nuovo simbolo, la pantera, sia quello con il vecchio simbolo della famiglia, il melo. Guardava gli uomini seduti ai tavoli. Li guardava mangiare e bere sidro e vino in gran quantità. Li guardava allungare le mani per avvinghiare qualche servetta, nonostante le mogli fossero lì presenti e alcune fossero anche gravide. Un uomo cascò con la faccia nel piatto, ubriaco, dopo aver biascicato l’ennesima battuta e venne afferrato per le braccia da due compari che lo condussero fuori.

Avrebbe dovuto esserci anche lady Morgause, la signora del Lothian, ma il marito, Lot, era molto malato e lei aveva preferito restare a Deep Valley.

- Morirà presto. – aveva annunciato Tremotino, con scarso interesse. – Sono sicuro che a Morgause non dispiaccia poi così tanto. Almeno il Lothian sarà soltanto suo. Il figlio maggiore è un cavaliere di Artù e sembra voglia restare a Camelot. Credo sia meglio così. Gawain è attualmente il più vicino al trono. Ginevra non ha ancora partorito un erede.

Regina lo ascoltò appena. Le avevano portato doni di ogni tipo, anche proposte di matrimonio che aveva rifiutato. Ne aveva abbastanza di quella marmaglia.

Il dono più bello lo aveva ricevuto proprio da Morgause, un enorme arazzo che rappresentava la regina fondatrice seduta sul trono, gli occhi azzurri che la fissavano da un passato inimmaginabile, il lungo mantello nero e la corona sul capo. Aveva anche una spada appoggiata sulle ginocchia, solo che non era la sua spada, bensì Stormbringer. Era impossibile non riconoscerla. Come se, chiunque avesse prodotto l’arazzo, avesse deciso di fondere la prima regina di Mehlinus con l’ultima. Regina aveva notato, guardandolo meglio, che solo un occhio di Nymeria era azzurro. L’altro era nocciola. Ai piedi della regina c’era una pantera nera con la testa poggiata sulle zampe.

Come se la faccia della tua antenata non fosse già ovunque, pensò Tremotino.

Ad un certo punto, senza che nessuno se ne rendesse conto, Regina prese la pelliccia ed uscì, incurante del gelo della notte. Raggiunse uno dei cortili interni del castello. Era deserto, illuminato solo dalle torce e dalla luna piena.

Non rimase deserto per molto tempo.

- Non siete in vena di festeggiamenti? – Il Genio la osservava, in piedi accanto ad una delle colonne che circondavano il cortile.

- Nemmeno voi, a quanto vedo. – rispose Regina.

- Perdonatemi. Non volevo disturbarvi.

Regina gli voltò le spalle. Non rispose subito, non sapendo se cacciarlo o permettergli di restare. Dato che sembrava conoscere molte cose ed era stato un Genio capace di esaudire ogni desiderio, gli aveva concesso di vivere con la servitù e di lavorare con gli stallieri e gli armigeri. Tremotino le aveva detto che, in fondo, quello straniero avrebbe potuto rivelarsi persino utile. - Non l’avete fatto. Siete uno di quelli che mi disturbano meno. E in ogni caso là dentro nessuno sembra notare la mia assenza.

- L’ho notata io. – Il Genio si avvicinò, ma mantenne comunque la distanza dalla regina. Guardò l’albero che faceva bella mostra di sé al centro del cortile e ne sfiorò le foglie. Era rigoglioso nonostante fosse inverno e ogni altro albero fosse spoglio, imprigionato dal freddo. Le mele erano rosse e lucide. Avevano un bell’aspetto. Doveva esserci di mezzo la magia. – Che albero sontuoso.

- Sì. È cresciuto con me. – ammise Regina. – Io e quest’albero abbiamo molte cose in comune.

Il Genio attese il resto, rispettando il suo silenzio.

- Nessuno dei due può lasciare questo regno, non ancora... e nessuno dei due appartiene davvero a questo posto. – Regina sembrava parlare più a se stessa che a lui. – Per quanto io mi sforzi, nessuno mi amerà mai davvero.

- Oh, eppure molti uomini Vi desiderano. Vorrebbero sposarvi.

- Non mi interessano. Ed io non interesso davvero a loro. Sarei intrappolata. A volte mi sento... già intrappolata.

Il Genio l’aveva vista rifiutare almeno tre proposte, da uomini più o meno giovani, nobili e con molto da offrire in quanto a bellezza e ricchezze. Avrebbe voluto essere tra quegli uomini, solo che lui desiderava essere accettato. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per Regina. Non era avido, non voleva il potere, non voleva essere un re. Gli bastava aver riconquistato la libertà, grazie a quel ragazzino che lo aveva trovato nella sua lampada sulla riva del fiume. Avere la possibilità di restarle accanto per il resto della vita sarebbe stato il suo unico desiderio, la felicità vera. Era sicuro che vi fossero molte cose che Regina nascondeva. Molte cose che lui avrebbe onorato e rispettato.

- So cosa significa essere in trappola. Meglio di chiunque altro. – Sorrise e le sembrò sincero. Estrasse qualcosa dalla sacca che portava con sé. – Anch’io ho qualcosa per Voi, se me lo permettete.

- Di cosa si tratta? – Regina era certa che volesse regalarle un gioiello o qualche altro ornamento, come avevano fatto gli altri ospiti. Non ne voleva più, di regali.

Invece il Genio le mostrò uno specchio, racchiuso in una bella cornice dorata. – Così... vedrete Voi stessa come Vi vedo io.

Regina lo prese, fissando la propria immagine riflessa, i capelli lunghi, raccolti da un fermaglio argentato, la collana che splendeva intorno al suo collo, la sua aria corrucciata. – E tu... come mi vedi?

- Come la più bella... di tutto il reame, mia regina. – confessò il Genio.

Regina si accorse che la fissava intensamente, quasi non avesse mai visto una donna in vita sua. Si scostò. – Vi ringrazio, ma...

Lui si fece avanti e tese la mano, sfiorando cautamente quella di Regina. - So che Vi sembrerò avventato. Ma desidero anche essere onesto con Voi.

- Che state facendo? – Fece per sottrarre la mano, ma il Genio la trattenne, senza stringere troppo. Era passata nuovamente al Voi e sentiva anche la magia ribollirle nelle vene.

- Mia regina, il mio amore per Voi cresce senza che io possa prenderne il controllo. Ed è così da quando Vi ho incontrata.

Non riusciva a credere alle sue orecchie. – Avete perso il senno!

- Forse. – ammise il Genio. Le lasciò la mano. - Voi siete stata gentile con me. Molto più gentile di altre persone. Non mi avete mai punito, né messo in catene. Avreste potuto. Sono solo uno straniero che viene da una terra lontana e che nessuno conosce. Mi avete sempre parlato... come se Vi importasse di me. Non lo fate con chiunque. Ed io... ve ne sono grato. Vi amo, mia regina. Datemi la possibilità di restarvi accanto.

- Siete davvero convinto che io voglia un marito? – Regina alzò la voce e posò lo specchio sulle pietre intorno al melo. – Allora non mi avete ascoltato bene quando ho rifiutato tutte quelle proposte!

- Non sono come quegli uomini. Non desidero il potere. – Il Genio allargò le braccia. Ora parlava con una specie di frenesia, in modo molto diverso da come parlava di solito. – Né tantomeno desidero essere un re. Siete Voi la regina.

- E allora che cosa volete?

- Quello che ho detto. Essere al Vostro fianco. Vi rispetterei e onorerei. Vi proteggerei, se fosse necessario. – Sembrava la stesse rassicurando, quasi credesse davvero che uno come lui potesse rappresentare una minaccia per il suo trono. - Non Vi ostacolerei mai. Al contrario, io farei... qualsiasi cosa per Voi, mia regina.

- Silenzio! – ordinò Regina, inducendolo subito a tacere. Si mise a ridere. Non poté evitarlo. Rise incontrollabilmente mentre il Genio la guardava, sconcertato. Immaginava che lui la desiderasse, ma mai avrebbe pensato che volesse avanzare qualche pretesa. - Non ho bisogno della Vostra protezione e non ho bisogno di essere onorata da uno come Voi! È ridicolo scambiare il mio essere... magnanima con qualcosa come l’amore. L’amore offusca la mente ed io non ne ho bisogno.

- Ma mia regina... – La voce dell’uomo suonò bassa ed implorante.

- No. Si dice Vostra Maestà. – lo rimbeccò Regina. – Sono stata magnanima, perché il mio consigliere mi ha suggerito di esserlo. Potevate tornarmi utile e in effetti è stato così. Non siete stato un semplice servo; avete scoperto una spia nel mio palazzo e me l’avete consegnata. Avete fatto il Vostro dovere. Vi ho ringraziato perché lo meritavate. Se avete pensato che potessi amarvi, ripensateci!

Il Genio sospirò. Rivolse alla sovrana di Mehlinus uno sguardo pesante. - Voi non mi amate... certo. Non Vi importa nemmeno di me, vero?

- Importarmene? Sii riconoscente, almeno, potrei punirti e gettarti in prigione! – Regina aveva smesso di ridere. Era in collera. I suoi occhi sembravano molto più scuri, bruciavano. Il Genio li vide colorarsi di viola. Usò un tono informale e pieno di disprezzo. - Invece ti offro un’altra possibilità: vattene dal mio regno e non tornare mai più.

- Io... non posso vivere senza di Voi. – mormorò il Genio, afflitto. Trasse un respiro profondo. – Non vivrò senza di Voi.

- Che succede? Non hai udito le mie parole? – Regina sollevò il palmo della mano. Le dita risplendettero quando la magia divenne visibile, sgorgando dalla sua pelle. Fasci di potere viola si levarono come serpenti velenosi pronti a morderlo. – Io non ti amo. Non ti voglio tra i piedi. Così come non voglio tra i piedi nessun altro uomo.

Il Genio mise mano alla sacca che portava appesa al fianco, assieme al pugnale. Estrasse la vecchia lampada che era stata la sua prigione per moltissimi anni. - Ho ancora una freccia nel mio arco. Mi rimane un desiderio.

- Desiderio? Mi avevi detto che il ragazzino che ti ha trovato li aveva espressi tutti!

- Oh, sì. È così. Ma ne ha donato uno a me. L’ultimo. – Non c’era alcuna vena di trionfo nella sua voce. C’era solo tristezza e dolore. – Io desidero... di poter stare con Voi per l’eternità, di poter guardare il Vostro viso, di restare al Vostro fian...

Regina scagliò la magia contro di lui, ma in quel momento il Genio scomparve. L’onda di potere colpì un soldato che era stato attratto dalle voci in cortile ed era venuto a vedere che cosa stesse accadendo. L’uomo perse l’elmo e finì contro una delle colonne, per poi accasciarsi sulle pietre del cortile.

Il Genio era sparito. Regina si guardò intorno, ma c’era solo la lampada.

E lo specchio.

- No! – urlò una voce. Era vicina, ma al tempo stesso era anche attutita, come se qualcuno si stesse lamentando dietro ad una porta chiusa. – No! No!

Regina raccolse lo specchio. Non vide più la propria immagine, ma il volto del Genio e i suoi pugni che battevano contro il vetro. Gridava, disperato. Prigioniero. Un’altra volta. Aveva venduto la sua libertà e pagato il prezzo che tanto temeva.

- Il tuo desiderio è stato esaudito. – Regina sorrise, accarezzando la cornice dello specchio. - Ora resterai con me... per sempre.

 

 

Foresta di Rhun. Regno di Elohim. Est

 

Emma osservò il proprio viso nell’acqua del bacile, un viso ormai adulto, con qualche ciocca di capelli biondi che era sfuggita al laccio che usava per raccogliere la folta chioma ondulata.

Era irrequieta. C’era qualcosa nell’aria che la rendeva irrequieta. O forse era il pensiero dei sogni che l’aspettavano. Ultimamente sognava più spesso Snowing Castle, il fuoco che la divorava, le facce dei soldati in armatura nera nascosti dietro agli elmi, gli stendardi che bruciavano. Sentiva le urla e vedeva il sangue scorrere a fiumi per le strade.

Credeva che i sogni stessero svanendo. Ma ultimamente si erano fatti più pressanti. A volte nei suoi incubi vedeva anche Graham, solo che invece di salvarla veniva ferito a morte. Come suo padre. O spariva tra le fiamme, come sua madre. E lei non poteva fare niente, perché in quei sogni era ancora una bambina.

- Chi è là? – Udì la voce di Agravain, improvvisamente allarmata.

Subito prese Narsil e la estrasse dal fodero.

- Chi è là?! – ribadì Agravain.

Sapeva di non doverlo fare, però uscì allo scoperto e guardò giù, sempre con la propria arma in pugno.

Una figura incappucciata sostava davanti ad Agravain. Era poco più bassa del possente cavaliere della Tavola Rotonda. Nella mano destra comparve un lungo bastone con la sommità ricurva. Un bastone da druido.

Agravain si rilassò e ripose la spada nel fodero. – Con il dovuto rispetto, mago... so che non era Vostra intenzione spaventare, ma desidererei essere avvertito delle Vostre visite!

Emma posò Narsil e scese per accogliere Merlino. Non capitava spesso che il mago le facesse visita. Si chiese subito se fosse accaduto qualcosa di grave a Camelot, al re magari oppure alla regina Ginevra.

- Si vede che siete, in parte, sangue di Avalon, sir Agravain. – disse Merlino, scostando il cappuccio. Il sorriso sul vecchio volto era quasi irriverente. - Mi avete sentito arrivare prima che comparissi. Vi dispiace lasciarmi da solo con Emma, ora?

Agravain borbottò fra sé e sé, ma non esitò ad andarsene.

Merlino si rivolse ad Emma. La giovane che aveva davanti in quel momento non appariva né forte né tantomeno arrabbiata, come era sembrata ai cavalieri che la proteggevano da anni ormai. Emma era dimagrita e dai suoi occhi traspariva una densa inquietudine, un’angoscia sorda. Sembrava non sapesse che cosa fare con le proprie mani; un po’ le nascondeva dietro la schiena, un po’ le serrava a pugno o le metteva sui fianchi, ma non aveva la spada con sé, quindi non poteva stringere l’elsa di Narsil, divenuta così familiare.

- Vieni, Emma. – disse Merlino, sedendosi a terra ed incrociando le gambe.

Emma esitò un istante, poi andò a sedersi di fronte al consigliere di Artù. Era sempre sorpresa dalla sua postura, ancora così eretta nonostante la tarda età. Doveva essere vecchissimo, ma non camminava curvo. Non si appoggiava al lungo bastone.

Gli occhi blu, piccoli ed infossati nelle orbite, la scrutarono. – Dimmi, Emma. Come ti senti?

- Sto bene. – rispose lei, subito.

- Questa non è la verità. E lo sappiamo entrambi. – Merlino appoggiò il bastone sulle proprie gambe e scosse il capo. – Sono qui per ascoltare la verità. Tu sai cosa voglio dire.

Emma si morse il labbro.

Merlino non insistette, ma attese, l’espressione insondabile dietro la folta barba bianca.

- So perché mi trovo qui. Non l’ho dimenticato. – ammise Emma, parlando con un certo sforzo. – Ma spesso... spesso vorrei non sentirmi intrappolata. Vorrei uscire da questa foresta. Vorrei poter vedere qualcosa di... diverso da questi alberi. Vorrei non essere costretta a nascondermi.

- Capisco.

- So di essere egoista. E so anche... che non avrei dovuto comportarmi in quel modo con sir Lancillotto. Mi sono scusata.

- Sì, ne sono a conoscenza. – Merlino accennò un sorriso. – Non sono qui per rimproverarti.

- Ho anche... paura. Non dovrei. Dovrei essere pronta a combattere. Dovrei ricordarmi sempre di ciò che mi disse mio padre. Ma i sogni non mi lasciano in pace.

- La paura. – disse Merlino. – Sarei più preoccupato se non provassi paura. Perché l’uomo che non sente la paura è un folle. Chi è in balia di essa e fugge è un codardo. Ma tu continui a fare ciò che va fatto. Questo è coraggio.

- Ma ho desiderato scappare. Andare via da questo posto.

- Tu hai sognato di essere libera di fare quello che tutte le persone libere possono fare. Ma tu... non sei libera. È la verità. – Il druido parlava lentamente, ma con un tono deciso e sincero. – Ne so qualcosa.

- Davvero?

- Oh, certo. Sono nato ad Avalon. – Accarezzò il proprio bastone. – Sono stato giovane. È accaduto molto tempo fa, ma normalmente i giovani druidi non lasciano Avalon. Non mentre vengono istruiti. Non i drudi... che nascono con il dono della magia e devono imparare a controllarlo.

- Voi... siete nato con la magia?

- Quando sono nato ho scagliato la levatrice fuori dalla stanza senza volerlo. Questo è quello che mi hanno raccontato.

Emma non pensò alla donna che volava investita dalla magia del nascituro. Pensò a quanto tempo prima potesse essere successo. Forse erano cento anni. La sua mente, però, le suggerì non cento, ma mille anni, anche se in quel momento Merlino sembrava molto umano. Vecchio, forte, ma umano.

Non si sarebbe mai sognata di domandargli quanti anni avesse, però di storie su Merlino ce n’erano un’infinità. Chi sosteneva che fosse immortale, chi invece preferiva pensare che fosse umano solo a metà, figlio di una giovane donna di Avalon e di un demone superiore. C’era chi diceva che fosse morto e poi ritornato in vita o che fosse capace di resuscitare i morti. Che un suo incantesimo avesse spinto Uther Pendragon, il padre di Artù, tra le braccia di Igraine, affinché i due concepissero il nuovo re di Camelot. Quando Galahad era nato, le malelingue sostennero che fosse figlio di Merlino; essendo già molto vecchio quando lo aveva concepito, Galahad era nato con i capelli bianchi come lui. Ma almeno Emma poteva dire che quell’ultima storia era falsa. Il nonno di Galahad era nato con i capelli bianchi, con quella pelle lattea ed era persino cieco, ma aveva recuperato la vista grazie ad un incantesimo.  

- Quando ero più giovane di te... non potevo lasciare Avalon ed era difficile tenermi a bada. – continuò Merlino. – Per quanto i miei insegnanti mi dicessero che ero destinato a grandi cose e che dovevo avere pazienza, era complicato per uno come me capire e starmene al mio posto. Serve tempo, per capire queste cose. Per te è ancora più difficile, lo comprendo. Sono anche convinto che tu sia molto astuta. Avresti potuto provare a scappare. Una mossa avventata, ma sarebbe potuto succedere.

Emma non negò di averci pensato. Restò in silenzio.

- Artù sa tutto questo, avrebbe potuto aumentare gli uomini di guardia. Metterne due in più per essere più sicuro. O chiedermi di usare un incantesimo per impedire che ti allontanassi.

- E perché il re non l’ha fatto?

- Perché Artù si fida di te. Sapeva che ti saresti ricordata delle parole di tuo padre.

- Ma non poteva averne la certezza. – Emma spostò lo sguardo altrove.

- No, ma ha seguito l’istinto. Io non ho insistito.

- Perché Voi... l’avete visto, forse.

Merlino scosse il capo, passandosi una mano nella barba. – Il futuro non è mai così chiaro, Emma. No, non ho visto cosa sarebbe accaduto. Semplicemente mi fidavo di te. Sapevo che ti sentivi... in trappola. Aspettavo solo il momento giusto per venire a parlarti.

“Sarei più preoccupato se non provassi paura. Perché l’uomo che non sente la paura è un folle.”

- Non fuggirò. – disse Emma, anche se Merlino non sembrava aver bisogno di essere rassicurato. – Non dimentico quello che mi ha detto mio padre quella notte. Lo disonorerei, se fuggissi. Lui vorrebbe sapermi al sicuro. E anche mia madre.

- Già.

- Non è facile aspettare. Ma so di non essere ancora pronta e so che là fuori ci sono troppi occhi e troppe orecchie.

Merlino avrebbe voluto dirle di più. Avrebbe voluto dirle che c’erano molti occhi là fuori, come pensava, ma c’erano occhi anche lì, nella Foresta di Rhun, solo che erano azzurri e benevoli. Avrebbe voluto dirle che c’erano davvero molte orecchie e anche bocche che erano state messe a tacere da Artù e in qualche occasione anche da sua moglie, Ginevra. I sovrani di Camelot erano più scaltri di quello che chiunque pensasse. E se occorreva, sapevano prendere decisioni anche molto dure.  

- Ce ne sono. – disse, infine. – Oh, eccome se ce ne sono.

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Capitolo 9
*** 8. Temptation ***


8

 

TEMPTATION

 

 

 

 

Nymeria. Regno di Mehlinus. Nord.

 

 

Regina sapeva che quella notte il sonno non sarebbe venuto. Era una notte scura. Una notte senza stelle e senza luna. Fredda.

Attraversò il giardino interno del castello, da sola, con una torcia in mano per illuminare il sentiero. La nebbia era molto fitta, così fitta che riusciva a distinguere solo le forme degli alberi più vicini. Le sembrava di trovarsi in un luogo oscuro e sospeso fra due mondi, la realtà e un sogno buio. Un luogo dove le persone vagavano, disperate, incapaci di ritrovare la strada per tornare a casa o per raggiungere il regno dei morti. Persino le guardie sulle mura non erano che ombre vaghe, rattrappite sotto l’armatura nera e i mantelli foderati di pelliccia. Solo il condensarsi del respiro nell’aria dimostrava che erano ancora in vita. Anche Regina indossava un pesante mantello foderato di pregiata pelliccia, allacciato alla base del collo con una grossa spilla a forma di pantera. E Stormbringer al fianco.  

Nella parte più antica del giardino e del castello della famiglia reale si trovava l’ingresso per le cripte, una botola di pietra vicino alla base di una delle torri che svettavano verso il cielo.

Regina sollevò la pesante botola usando qualche parola magica. Illuminò con la torcia gli scalini ripidi, in pietra, che scendevano sottoterra. Una lunga discesa. Regina l’aveva compiuta altre volte. Scese con molta cautela.

C’erano diversi livelli, ma nei più bassi Regina non si recava mai. Si fermava al primo livello, dove si trovavano le tombe degli ultimi re e regine di Mehlinus.

Spinse la porta massiccia ed entrò in un tunnel lungo e squadrato. Le ombre danzarono sui muri antichi. La sua ombra si allungò lungo le pareti, distorta dalla luce della torcia. In ogni nicchia c’era la statua di un regnante, scolpito nella pietra grigia per l’eternità. Alcuni sedevano su scranni e stringevano i braccioli, altri erano in piedi, con una mano sull’elsa della spada o con le dita intorno ad una lunga lancia. Altri ancora non avevano armi ed erano stati scolpiti a braccia conserte o mentre fissavano un punto in lontananza. Gli ultimi, in fondo al corridoio, erano i suoi genitori. Vicini, nella medesima nicchia. Entrambi in piedi. Re Henry aveva le dita strette intorno ad un’elsa di pietra. Stormbringer, ovviamente. La sua spalla sinistra sfiorava quella della moglie.

I loro occhi di pietra sembravano fissarla. Soprattutto gli occhi di pietra di Cora.

“È la spada di tuo padre.”

“Perché la state dando a me?”

“Perché da adesso in avanti sarà tua.”

In basso, sulla pietra, erano incisi i nomi. Regina Cora. Re Henry.

Un giorno, qualche tempo prima, Regina aveva scoperto che un soldato ubriaco si era permesso di prendersi gioco delle origini umili di Cora, dicendo che sulla tomba avrebbero dovuto scriverci che lei era la Regina dei Mugnai. Regina, che aveva imparato ad avere occhi ed orecchie ovunque, aveva mandato a prendere quell’uomo e aveva costretto l’ex comandante delle guardie a infliggergli trenta frustate davanti a tutti.

- La prossima volta che vi prenderete gioco della mia famiglia, pagherete con la vita. E pagheranno anche Vostra moglie e i Vostri figli. Prima di Voi. – aveva detto.

L’uomo non aveva più aperto bocca, ma era diventato pallido come ricotta.

- Madre... padre... sono una regina. – sussurrò, nell’oscurità. – E come regina avrò la mia vendetta. Presto. Molto presto. Loro la pagheranno e Voi potrete riposare in pace. Finalmente.

La sua voce riecheggiò lungo il corridoio, scivolando tra le nicchie e le statue.

- Sono sempre più forte. Ogni giorno che passa. Non fallirò. – promise.

Gettò un ultimo, lungo sguardo al simulacro di Cora e a quello di Henry. Più avanti c’era un’altra nicchia. Vuota.

Quello è il mio posto.

Rabbrividì ancora, poi tornò sui suoi passi, ignorando la sensazione pressante di quegli sguardi di pietra che la osservavano.

Quando riemerse, inciampò nell’ultimo gradino e per poco non cadde in avanti. La torcia le sfuggì di mano, scivolò sulle pietre e si spense. Mani si allungarono per aiutarla.

- Maestà...

Lei alzò lo sguardo, incontrando gli occhi azzurri del comandante. Lo respinse con un gesto seccato e si scostò. – Non ho chiesto il Vostro aiuto!

- Vi prego di scusarmi. Ho sentito dei rumori e sono venuto a controllare. Non pensavo Vi trovaste nella cripta. – Daniel richiuse la botola per lei.

Regina non rispose. Il comandante indossava l’armatura nera con la pantera incisa sul petto, il mantello, i guanti scuri ed era senza l’elmo.

“Potete averlo, se lo desiderate”, le aveva detto Tremotino.

- Prendete la mia torcia, Maestà. – disse Daniel, porgendogliela. – Vi servirà.

“E Voi, essendo la regina di Mehlinus, potreste avere chiunque. Ordinate. Gli altri eseguiranno.”

- No. Tenetela Voi. Accompagnatemi.

Daniel la guardò, sorpreso. – Ma il mio turno di guardia...

Regina sorrise e s’incamminò, senza rispondergli. Daniel la seguì, facendole luce con la torcia.

- Non dovreste scendere nella cripta di notte, Maestà. – osservò il comandante, quando entrarono nel castello. Spense la torcia e la infilò in un anello conficcato nella parete. – O, se desiderate farlo, lasciate che qualcuno Vi accompagni.

- Voglio andarci da sola, nella cripta.

Daniel non replicò a quell’affermazione. Dopo un attimo disse: - Posso fare qualcos’altro per Voi, Maestà?

- Sì. Seguitemi, Daniel.

Regina lo condusse su per le scale che risalivano la torre centrale, in cima alla quale si trovavano le sue stanze. Il comandante la seguiva, esitante, con le sopracciglia aggrottate.

- Dovete scusarmi, se prima Vi ho aggredito. So che volevate soltanto aiutarmi. – disse a Daniel, in tono gentile.

Gentile?

No, non era solamente gentile. C’era dell’altro.

- Non ha importanza, Maestà.

- Ma posso farmi perdonare. Perché non entrate?

- Non posso. Sono le Vostre stanze. – Daniel indietreggiò di un passo.

- Sono io che Vi sto chiedendo di entrare. E poi non siate sciocco: sapete benissimo perché Vi ho condotto qui. Questa notte è fredda, comandante. Non trovate anche Voi?

- Sì...

- E perché trascorrere questa notte così fredda in completa solitudine? – Regina gli appoggiò una mano sul petto.

- Maestà...

Lei gli afferrò saldamente la mascella, facendogli male e lo baciò, premendo con forza la bocca sulla sua. Daniel tenne le labbra serrate e la scostò da sé.

- No. Io... non posso. Mi dispiace.

- Non potete? – Regina gli appoggiò le dita sulla nuca, accarezzandolo. – E perché? Non sono un’estranea, Daniel. Sono Regina.

No, non è vero, pensò, frattanto, Daniel. Sentiva il profumo della sua pelle, la mano che strisciava sulla sua nuca. Le sue labbra rosse e piene erano un invito che nessun uomo avrebbe mai potuto rifiutare. Non poteva negare di esserne attratto. Avvertiva chiaramente il calore del suo corpo. La Regina che ho conosciuto io non si sarebbe mai comportata così. La Regina che ho conosciuto io non avrebbe indossato questi vestiti, questi gioielli. Non sarebbe scesa nella cripta da sola, in piena notte. La Regina che ho conosciuto non avrebbe sfogato la sua rabbia sulla gente. La Regina che ho conosciuto... era bella e delicata. Era una fanciulla ingenua, forse. Ma dolce.

Le dita di Regina si infilarono nei suoi capelli scuri. Lei avvicinò di nuovo le labbra alle sue, ma Daniel si ritrasse.

Regina si lasciò sfuggire un’esclamazione seccata. – Dunque Vi rifiutate?

- Maestà... perdonatemi. Siete una donna bellissima, ma non sarebbe giusto. Né per Voi né tantomeno per me.

- Oh, non sarebbe giusto! Ne fate una questione d’onore? Non sono maritata, Daniel. E nemmeno Voi. So che avete avuto dei figli da altre donne, quindi non siete un ingenuo e nemmeno così pudico.

- Non si tratta di questo.

Il punto è che tu non sei più quella ragazzina, Regina. Io non so chi sia la donna che ho di fronte.

- Ma se ritenete giusto punirmi, fatelo pure. – aggiunse Daniel, chinando leggermente il capo.

Volendo posso costringervi, comandante, pensò Regina. Posso costringere chiunque a piegarsi al mio volere. Potrei trasformarvi nel mio cagnolino personale!

Ma Regina non lo punì. Lo schiaffeggiò. – Fuori dai piedi.

 

Chiuse le porte delle sue stanze, sbattendole con violenza. Le fiammelle delle candele tremolarono. Alcune si spensero.

- Che possa bruciare negli Inferi! – gridò. Prese uno dei calici posati sul camino e lo scagliò con violenza contro una parete.

Il fuoco si accese di colpo, scoppiettando.

La superficie dello specchio appoggiato sul tavolino accanto alla finestra si illuminò e il volto del Genio della Lampada emerse dall’ombra, corrucciato. Galleggiava in un mare di oscurità.

- Che cosa Vi turba, Vostra Maestà? – le chiese, la voce stanca. Da quando aveva espresso il desiderio che lo aveva intrappolato nel suo stesso dono, aveva potuto vederla ogni giorno ed ogni notte, eppure l’unica cosa che lei gli aveva regalato erano state la sua rabbia e la sua frustrazione.

- Che cosa mi turba, mi chiedi?! – gli rispose Regina, furibonda. Afferrò lo specchio. Stava per scagliarlo lontano da sé come aveva fatto con il calice. Il suo cuore era in tumulto. Daniel l’aveva rifiutata. L’aveva guardata come se nemmeno la conoscesse. Era vero, non era più la ragazzina a cui aveva insegnato ad usare la spada. Non era più ingenua né sprovveduta. Ma lo aveva reso comandante. Lo aveva sempre trattato con gentilezza. Eppure quella sera lui non l’aveva nemmeno voluta sfiorare.

“Siete una donna bellissima, ma non sarebbe giusto. Né per Voi né tantomeno per me.”

Regina accarezzò la cornice, osservando il volto del Genio. La rabbia l’aveva lasciata spossata. -Specchio, servo delle mie brame. – disse, inclinando la testa di lato. – Chi è la più bella del reame?

- Voi. – rispose subito il Genio, senza esitazioni. – Siete Voi la più bella, Maestà.

 

 

 

Foresta di Rhun. Vicino a Camelot. Est.

 

Emma non aveva nessuna tomba su cui piangere o giurare vendetta. Non aveva una cripta sotterranea nella quale erano custoditi i simulacri dei suoi genitori. Ma pensava a loro ogni giorno; a David e ai suoi occhi azzurri pieni di dolore quando l’aveva lasciata andare via con Graham. Al momento in cui le aveva dato la spada. A quando, da bambina, la sollevava in alto, la lanciava e poi la riprendeva al volo, facendola ridere. Sua madre. Il suo sorriso dolce. Gli occhi verdi. Le sue dita che le accarezzavano i capelli o glieli intrecciavano. Sua madre che tirava con l’arco. Era bravissima. Non mancava mai il bersaglio.

Quel giorno i suoi pensieri vennero interrotti dalla lunga processione che aveva lasciato la città di Camelot. Emma la vide da un punto sopraelevato; alle sue spalle c’era uno dei suoi protettori, Gawain.

Lord Leodegrance del Cameliard, padre della regina Ginevra, era morto, cedendo così il posto di lord al figlio maschio. Il re si stava recando ad ovest insieme a sua moglie per assistere alle esequie. Con lui viaggiavano alcuni cavalieri in sella ai loro destrieri, tutti in armature e cotta di maglia, con il metallo lucente che scintillava non appena intercettava i raggi del sole. C’erano anche scudieri e paggi, armigeri, servitori e stallieri. Griflet, scudiero del re, reggeva l’asta sormontata dal vessillo dei Pendragon, il dragone dorato su sfondo rosso. Squilli di tromba avevano salutato la partenza della colonna.

Un altro alleato di Artù è morto. Se il re morirà senza eredi, scoppierà una guerra e non ci sarà nessuno a proteggere il trono, si sussurrava a corte. Si sussurravano cose che poi Agravain sussurrava a lei. Di solito era il fratello di Gawain a portagli le notizie più interessanti. Non solo quelle che riguardavano Regina, ma anche quelle che circolavano a Camelot. Emma era costretta a vivere in una foresta, nascosta, quindi voleva sapere tutto quello che c’era da sapere. E Agravain era la fonte migliore, dato che pareva sapere tutto ciò che accadeva e si diceva, non solo a Camelot e all’interno del castello, ma anche nelle città vicine. E conosceva ogni scandalo che avesse avuto luogo negli ultimi dieci anni. Spesso raccontava storie interminabili, divertenti e maliziose.

“Ma il nuovo lord del Cameliard è il fratello della regina. Perché non dovrebbe essere un alleato di Artù?”, aveva domandato Emma.

“Non si può essere sicuri di niente, Emma.” aveva risposto il cavaliere, grattandosi la barba rossiccia e a punta. “Lord Lavik è il fratellastro della regina. Non è un figlio legittimo del lord, ma è stato riconosciuto e quindi ora è lord anche lui. Se lo vedessi, penseresti a un ratto.”

“Perché è molto brutto?”

“No. Non è questo. Credo sia il suo modo di comportarsi. I suoi occhi. Ha qualcosa nello sguardo che ti fa pensare che non sia meglio di un ratto che fruga tra i rifiuti. Un grosso ratto nero e con il pelo lungo.”

Emma ripensò al sogno che aveva fatto una volta, una notte d’inverno.

“Resta nella tua foresta! Ti conviene. Se ne esci, morirai!”

“Muori, principessa del nulla!”

“Le tue ali sono bruciate, cigno!”

- Sir Gawain... andiamo. Voglio combattere. – disse Emma, allontanandosi dall’altura e dirigendosi di nuovo nella foresta.

- D’accordo.

È quasi pronta, pensò il cavaliere. Ancora qualche anno... e poi vorrà andare. Vorrà la sua vendetta, com’è giusto che sia.

Prima che Emma potesse scagliarsi contro il cavaliere, qualcosa si mosse tra gli alberi della foresta. Rumore di passi.

- Chi è là?! – gridò Gawain, brandendo la spada. Anche Emma aveva estratto la sua.

Non giunse risposta.

Dalla foresta sbucò un uomo con abiti in pelle nera, un mantello di pelliccia sulle spalle, i capelli castani e la barba corta. Non aveva armi in pugno. Portava un coltello infilato nella cintura e un altro nello stivale.

- Non voglio combattere. Se avessi voluto aggredirvi, non mi avreste sentito arrivare. – disse l’uomo, mostrando i palmi delle mani.

- Sei tu... Graham. – disse Emma, costernata. Rinfoderò la spada, guardando negli occhi l’uomo che le aveva salvato la vita.

- Sì, sono io.

Anche Gawain l’aveva riconosciuto e aveva riposto la spada nel fodero.

- Volevo solo vedere Emma. Rivederla. E parlare. – disse, sorridendo.

- Vi lascio soli, allora. – disse Gawain.

Graham non era cambiato molto. Aveva i capelli più folti, forse. La barba di alcuni giorni. Ma era sempre lui. E, vedendolo, Emma non poté non ripensare a quando l’aveva portata in salvo. Non poté non ripensare a lui che cavalcava sotto la pioggia senza mai fermarsi, proteggendola con un mantello.

Finalmente rivedeva un viso conosciuto. Non un viso del tutto nuovo, ma un viso diverso da quelli che vedeva ogni giorno.

- É bello vederti, Emma. Sei cresciuta parecchio. – disse Graham.

- Sì. Credevo che non ti avrei più rivisto.

- Ho sempre saputo dove ti trovavi. Ma viaggio spesso insieme al mio Branco. È da molto tempo che non vengo a est.

- Non ti ho mai ringraziato davvero. Per quello che hai fatto per me. Mi hai salvato la vita.

- Non c’è bisogno di ringraziamenti. Avrei voluto fare molto di più per tuo padre. Allora David e Mary Margaret erano i soli umani per i quali provassi simpatia. – Graham parlava come se non considerasse se stesso un uomo. Ed Emma sapeva bene perché. Gli unici uomini che avrebbero dovuto prendersi cura di lui l’avevano abbandonato poco dopo la nascita ed erano stati i lupi a crescerlo. Aveva qualcosa del lupo, Graham. Negli occhi. Nel modo di muoversi.

Graham scrutava la ragazza che aveva di fronte a sé. Era bella. Era sempre stata bella, fin da quando era piccola. Aveva un che di magnetico nello sguardo. – Ho pensato molto a te.

- Davvero?

- Spesso ti sogno. Sogno quella notte, a Snowing Castle. Sogno che mi chiedi aiuto. Sogno anche di combattere al tuo fianco.

- Anch’io ti ho sognato.

Ma era un incubo.

- Ho sognato te e il tuo lupo grigio. Lui è... ancora con te?

- Akela. Sì, sta bene. Lui è sempre al mio fianco. – Graham non le chiese cosa avesse sognato esattamente.

- Mi hanno portato notizie del tuo Branco. È vero che hai accolto degli... uomini?

- É vero. Già da diverso tempo ci sono anche degli esseri umani nel Branco. Sono persone che non hanno più una casa.

- Ti fidi di loro?

- Sì. Hanno dimostrato il loro valore e la loro lealtà. Non sono mercenari. Hanno lasciato i vecchi padroni perché non sopportavano la loro disonestà. Alcuni sono stati esiliati, perché si sono rifiutati di obbedire agli ordini. Altri si sono esiliati di loro spontanea volontà. Ma sono uomini sinceri.

- Mi sorprende. Credevo che non ti piacessero gli uomini.

- Ammetto che all’inizio non è stato semplice accettarli. Io sono stato abbandonato e poi cresciuto dai lupi. Per molti anni ho avuto poco a che fare con gli uomini e non li capivo nemmeno. Ora... beh, i miei compagni posso capirli.

Emma sorrise.

Graham rimase là, a fissarla.

- Cosa c’è? – domandò Emma

- Pensavo. Mi hai appena chiesto se mi fido dei membri del mio Branco...

- Se ti ho offeso, mi dispiace. Non era mia intenzione.

- Non mi hai offeso. – Lo sguardo di Graham era più cupo, adesso. Più distante. Come se stesse ricordando qualcosa. – Credo che i tuoi dubbi su questi uomini che vivono insieme a me siano legittimi. Tu non li conosci.

- E allora cosa c’è che non va? Cosa ti preoccupa?

Silenzio. La pausa fu molto lunga. Emma pensò che Graham non avesse nemmeno capito la domanda o non desiderasse rispondere, ma alla fine lo fece.

- Non sentire niente.

Emma batté le palpebre, perplessa. - Come?

- Emma, tu ti preoccupi per me e ti preoccupi della lealtà dei miei fratelli. Ti preoccupa il fatto che possano voltarmi le spalle, un giorno. Che possano abbandonarmi o... peggio. Farmi del male. Ma quello che preoccupa me è me stesso.

- Cosa vuol dire?

- I miei fratelli hanno un cuore, Emma. Lo vedo. Sono sicuro di questo. Ma io... io non so se ne ho uno.

- Non sai...? – Emma scosse la testa. – Graham, no, tu...

- Ho fatto molte cose di cui non vado fiero, in passato. Ho fatto cose terribili. Mi è capitato di uccidere. E quando lo facevo, non sentivo niente. Non provavo rabbia verso me stesso o dispiacere. Non ho provato nemmeno orrore o vergogna. Quando ho dovuto uccidere Peter...

- Peter? Chi è Peter? – lo interruppe lei.

- Peter era un membro del mio Branco. Era molto giovane, poco più che un ragazzo quando lo trovai. Era scappato di casa perché i suoi genitori lo maltrattavano. – Graham sedette sul tronco di un albero caduto. Ora la sua espressione era addolorata. Addolorata e tesa, mentre le parlava. – Fu colpa mia...

- Sono sicura che hai fatto il possibile per aiutarlo. – disse Emma, sedendosi accanto a lui e posando una mano sulla sua. Non si aspettava una simile confessione. Conosceva Graham da molto tempo, da prima che le salvasse la vita, ma era la prima volta che lo sentiva così vicino. Vicino eppure anche sperduto.

- No. Avrei potuto fare di più, Emma.

- Raccontami. Parlami di Peter.

- Vuoi davvero ascoltare questa storia? Non ti piacerà.

Emma era sicura che a Peter fosse successo qualcosa di terribile, ma non credeva che Graham non avesse fatto tutto ciò che poteva per aiutarlo. Non credeva nemmeno che lui non provasse niente, che non avesse un cuore. Voleva dimostrarglielo, per questo desiderava che le parlasse di quel misterioso ragazzo. - Sì, Graham. Voglio ascoltarla.

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Capitolo 10
*** 9. The Heart is a Lonely Wolf ***


9

 

THE HEART IS A LONELY WOLF

[Graham and Peter]

 

 

 

 

 
Si chiamava Peter ed era solo un ragazzo quando lo conobbi.

È accaduto in estate. Io e il mio Branco eravamo nel DunBroch, una regione ad ovest del mondo conosciuto. Ci eravamo accampati nei pressi di un bosco, lungo le rive del fiume. Mi ero allontanato dal gruppo, seguito come sempre da Akela, per poter riempire d’acqua alcune borracce.

Lo trovai accucciato vicino al fiume, intento a sciacquarsi il viso. Indossava abiti che un tempo dovevano essere stati verdi, ma ora erano scuri e polverosi, logori, sporchi di fango. Si girò di scatto quando sentì i miei passi e sfoderò subito un coltello, guardandomi con gli occhi sbarrati.

- Metti giù il coltello. Non intendo farti del male. – gli dissi, alzando entrambe le mani per mostrargli che ero disarmato. Ce l’avevo anch’io un coltello, in realtà, infilato nello stivale. La mia voce era calma. Non era la prima volta che incontravo viaggiatori solitari; a volte erano solo viaggiatori, esploratori, persone senza più una casa e che si spostavano da un posto all’altro, senza fermarsi mai a lungo da nessuna parte, come facevo io con il mio Branco. Altre volte erano guerrieri o fuorilegge che non vedevano l’ora di combattere, di assalirti per rubarti ciò che avevi addosso, compresi i vestiti.

Il ragazzo restò là a fissarmi.

- Sono venuto a prendere dell’acqua. – Gli feci vedere le borracce.

- Quello è un lupo. – constatò, riferendosi ad Akela, che scrutava il giovane con i suoi occhi acuti, uno rosso e l’altro nero.

- Sì, lo è.

- È con te? – Continuava a puntarmi contro la sua rudimentale arma, ma adesso sembrava incuriosito.

- È sempre stato con me. – Mi chinai e riempii le borracce, mentre Akela seguitava a tenere d’occhio il ragazzo.

- Vivi con i lupi?

- Sono cresciuto con loro.

- E la tua famiglia?

- I lupi sono la mia famiglia.

Lui esitò. - Qual è il tuo nome?

Mi girai a guardarlo. – Mi chiamano Graham. Il mio compagno, invece, si chiama Akela.

- Io mi chiamo Peter.

- Peter?

- Puoi chiamarmi così. Peter. – Pronunciò il proprio nome come una sfida, cosa che mi indusse a pensare che non fosse il nome che gli avevano dato gli uomini che lo avevano generato.

Lo scrutai per un momento. Era snello e castano e aveva un viso che poteva essere descritto come gentile, anche se scarno, probabilmente perché aveva sofferto la fame. Avrà avuto... quindici estati. Magari un paio di più. Non aveva ancora bisogno di farsi la barba. I suoi occhi verdi possedevano una vitalità sorprendente. Il suo era uno sguardo intelligente e furbo.

- Che cosa fai qui da solo, Peter? – gli chiesi. – Il sole è tramontato da un pezzo. Non è un posto adatto ad un giovane che viaggia senza nessuna scorta.

- Lo so. Sono di passaggio.

- E dove sei diretto?

- Ancora non ho un’idea precisa. Da qualche parte.

Dal buio giunse il richiamo di un gufo. Il silenzio, interrotto solo dall’ansimare di Akela, era sinistro. - Non hai una casa? – domandai. Anch’io ero incuriosito da quel ragazzo. Volevo saperne di più.

- L’avevo. Ora non più. – mi rispose, con noncuranza. Ripose il coltello. – Me ne sono andato.

- Sei scappato.

- Fa differenza? Non era casa mia. Non lo è mai stata.

- Quale pensi che sia il tuo posto?

Ci raggiunse anche l’ululato di uno dei membri del mio Branco. Akela drizzò la testa e le orecchie.

- Ci sto mettendo troppo. Meglio che torni dai miei compagni. – gli dissi.

- Lasciami venire con te.

L’aveva detto impulsivamente, ma lo osservai, stupito. – Come?

- Potrei entrare nel tuo Branco. Voi non vivete con gli uomini e a me non interessa vivere in mezzo a loro. Accoglimi. Ci sono altri uomini come te, vero?

- Sì. Altri tuoi simili. Ma sono uomini, appunto. Sono adulti. Tu sei solo un ragazzo.

Parve risentito per il semplice fatto che l’avessi chiamato “ragazzo”. – Non sono solo un ragazzo. Imparo in fretta.

- Il mio Branco si sposta di continuo. Non è una vita semplice.

- Non mi aspetto una vita semplice.

- Sai combattere? Cacciare?

- Mi piace combattere. Non ho mai combattuto con armi vere, ma solo con spade di legno. Ma imparerò. Te l’ho detto, sono uno che impara in fretta. Sono sopravvissuto fino ad oggi. E ti assicuro che sono parecchie lune che vivo in mezzo alla natura. È questo il posto per me. Come il dio Pan.

- Pan?

- Il dio della natura. Il dio selvaggio. Non conosci il mito?

Avevo sentito molte storie, nella mia vita e mi sembrava di ricordare anche una leggenda che parlava di un essere metà uomo e metà animale che proteggeva le selve e i pascoli.

- Credo di conoscerlo un poco. –- risposi.

- Pan è il dio della natura, dei pascoli e delle campagne. Lui rappresenta la libertà. Ed è quello che io voglio essere. Libero. Una cosa che non sono mai stato, Graham. Perché i miei genitori non me lo permettevano.

- Ti tenevano prigioniero?

- Mi maltrattavano. Quando mi scovavano a giocare con ragazzi della mia età, mi punivano, picchiandomi, soprattutto mio padre. Lui mi costringeva a stare chiuso in un ripostiglio per ore. Diceva che giocare è una perdita di tempo. Per lui dovevo solo lavorare. Lo facevo. Mi spaccavo la schiena. Ma non era mai abbastanza. – Più raccontava e più si infuriava. I suoi occhi erano pieni di collera e risentimento verso il genitore. – Sai cosa gli dissi, un giorno? Sai cosa dissi a mio padre quando mi pescò a combattere con delle spade di legno insieme ad alcuni compagni?

- Dimmelo tu. Cosa gli dicesti?

- Che un giorno me ne sarei andato. “Un giorno volerò via da qui”, così gli ho detto.

Immaginavo che suo padre non l’avesse presa bene.

- Mi picchiò. Mi picchiò tanto che quasi persi i sensi. Quando mi vide per terra, mi derise: “Vedi? Tu non sai volare. Non andrai mai da nessuna parte”. E mi lasciò senza cena.

Ero colpito. Non dal comportamento di quegli uomini, perché sapevo bene quanto gli esseri umani potessero essere crudeli. Ero colpito da lui. Lo ammetto, mi piacque molto, quel ragazzo. Se potessi tornare indietro e cambiare il passato, lo manderei via e forse gli salverei la vita. Ma in quel momento mi piacque e non volli allontanarlo. Mi assomigliava, perché anche lui non voleva vivere in mezzo agli uomini, in quanto quegli uomini l’avevano tradito. Anche lui non si sentiva parte di quel mondo e desiderava abbandonarlo.

Così accettai e gli dissi di seguirmi. L’accampamento non era lontano.

Mentre camminavamo, tirò fuori un oggetto di legno. Era un flauto. Vi soffiò dentro, producendo suoni armonici e melodiosi.

- Un flauto? – chiese, perplesso.

- L’ho fatto io. Lo chiamo Flauto di Pan. Anche il dio aveva uno strumento simile. – mi rispose, orgoglioso. E riprese a suonare.

Sorrisi, ascoltando le note prodotte dallo strumento.

Giungemmo nei pressi della radura in cui erano accampati gli altri membri del Branco. Vidi le braci di un fuoco che si stava spegnendo. Scorsi le ombre dei miei fratelli sdraiati sull’erba. Stavo per segnalare la mia presenza, quando una figura saltò giù da un albero e, muovendosi rapidamente, ci venne incontro.

Peter arretrò e smise di colpo di suonare. Si portò una mano alla cintola, dove teneva il suo coltello.

- Fermo! – ordinai. Il ragazzo mi guardò, pensando che mi stessi rivolgendo a lui. In realtà parlavo al mio compagno.

- Dove l’hai trovato, questo? Chi è?

- Non è un nemico. L’ho trovato vicino al fiume.

- Si è perso?

- No. Peter, ti presento Koga.

Peter guardò Koga, con un sopracciglio sollevato. Era un giovane robusto, con i capelli neri e lucenti legati in una coda alta. Gli occhi azzurri erano a mandorla e aveva sempre un’aria un po’ sfrontata. Teneva una mano sull’elsa rossa della spada che portava appesa alla cintura. Gli spiegai chi fosse Peter e gli dissi che, d’ora in avanti, sarebbe stato uno di noi.

- Uno di noi? - chiese Koga, osservandolo con sospetto.

- Questo ti crea problemi?

- Non saprei. Non sei una spia, vero?

- Una spia di chi? – domandò Peter.

- Di un lord. In fondo i lord e i re hanno spie ovunque. Non che io mi aspetti la verità da te. Se sei una spia... non penso che me lo diresti.

Peter emise un basso verso indignato. Si scostò un ciuffo di capelli dalla fronte. – Non sono una spia!

- Possiamo credergli, Graham?

- Certo. – risposi, mettendo una mano sulla spalla di Peter. – Possiamo.

Koga era affiancato da due lupi, uno dei quali era Won-tolla, la lupa più anziana, con il pelo bianco e coperto dalle cicatrici di diverse battaglie. Montavano la guardia insieme a lui. Peter allungò una mano, sfiorando il muso della lupa e lei gliela annusò brevemente.

Gli altri membri del Branco, umani e non, formarono un cerchio intorno a me e al nuovo arrivato.

- Cos’abbiamo qui? – domandò Killian Jones, aggrottando le sopracciglia scure e scrutando Peter.

- Beh, sembra... un ragazzo – rispose suo fratello Liam.

- Che cosa vuoi, ragazzo? – domandò Adair, sfilandosi un filo d’erba dalla bocca. Era più vecchio di me e se ne stava spesso sulle sue, imbronciato. Fissò Peter con uno sguardo sospettoso. – Non sembri ferito e non credo ci sia da mangiare, per te.

- Voglio essere uno di voi. – rispose Peter, senza esitare.

- Ma guarda. E perché dovremmo assecondare questa pretesa? Non abbiamo bisogno di altre persone. – Adair si avvicinò e lo squadrò da vicino. Era più alto di Peter, con i capelli lunghi fino alle spalle e gli occhi grigi.

Intervenni. Adair metteva spesso in discussione le mie decisioni. Era scontroso e mi aspettavo che un giorno se ne sarebbe andato. Ero sicuro che mi sarei svegliato una mattina e che non l’avrei più trovato.

- Io ho detto a Peter che può restare. Se gli altri sono d’accordo, resterà.

- Bene, io non lo sono. – sentenziò Adair, incrociando le braccia al petto. - È un ragazzo che non ha ancora bisogno di farsi la barba. Scommetto che non sa fare niente. Ci rallenterà e basta.

Peter sembrava un vulcano pronto ad eruttare. Era diventato tutto rosso.  

- Io sì, invece. – disse Killian. – Suvvia, amico. Due mani in più fanno sempre comodo. E anche due occhi.

- Concordo. Mi sembra sveglio. – commentò Liam, annuendo.

Anche gli altri furono d’accordo.

Lo invitai a sedersi davanti alle braci del fuoco e a raccontare la sua storia. Lo fece di buon grado. Non disse mai da dove proveniva ed io non lo giudicai importante.

Poi Killian gli raccontò la sua, di storia. La sua e del fratello. Erano stati rispettivamente il tenente e il capitano di un vascello. Avevano servito a lungo lord Kaspar, un signore dell’ovest, un uomo potente, che li aveva mandati alle Isole Brumazzurra, nell’Oceano Occidentale, perché trovassero una misteriosa pianta curativa. Erano suoi uomini da anni e avevano fatto già molti viaggi per lui, in precedenza. Ma questo viaggio era stato diverso. Killian aveva capito subito che c’era qualcosa che non andava in quella missione, mentre Liam era sicuro che non vi fosse nulla da temere.

- Ma c’era. – disse Killian, appoggiando i gomiti alle ginocchia e lanciando un’occhiata al fratello maggiore. – Lord Kaspar era un uomo avido e crudele. Quella pianta era un’arma. Non era una pianta curativa. Era velenosissima. Voleva usarla per uccidere.

- Non mi rimproverare troppo. - rispose Liam. – Gli ho creduto e me ne pento.

Peter sembrava molto interessato a quelle storie.

- Quello è un flauto? – domandò uno dei miei compagni, Ginta. Osservava lo strumento che Peter teneva appeso alla cintola, vicino al coltello.

- Sì. È il flauto di Pan.

- Chi è Pan? – volle sapere Hakkaku. Lui e Ginta erano entrati a far parte del Branco insieme a Koga, essendo suoi amici. Hakkaku aveva la testa rasata, fatta eccezione per una bizzarra cresta bianca.

- Il dio della natura. – rispose Peter e, divertito dall’interesse che aveva suscitato, raccontò la storia della divinità chiamata Pan.

- Suonaci qualcosa, amico. – propose Killian.

Peter suonò e riuscì a deliziare tutti i presenti. Deliziò tutti, a parte Adair, che borbottava, contrariato.

Fu così che lo accettammo nel Branco. Io mi occupai di insegnargli a cacciare e ad usare le armi, non solo il coltello, ma anche una vera spada, che gli diedi subito dopo il suo ingresso nel gruppo. Peter la chiamò “Is féidir”. Era vero che imparava in fretta. Era un giovane sveglio e intelligente, furbo e vivace. Non gli sfuggiva nulla. Era ancora impulsivo ed irruente, cosa che mi preoccupava, perché in un vero combattimento avrebbe potuto costargli caro. Ma era solo un ragazzo ed era ancora inesperto. Gli serviva del tempo per placare la sua irruenza e combattere con lucidità. La sera, quando sedevamo intorno al fuoco, suonava il suo flauto. Cercò di insegnare anche a me a suonarlo, ma non riuscii mai ad imparare. E nemmeno gli altri, a dirla tutta. Solo Liam strappò qualche buona nota da quello strumento musicale. Adair non ci provò nemmeno.

Alcune lune dopo l’arrivo di Peter giungemmo in una regione dell’ovest chiamata Kernow. E venimmo a sapere che i Dohle, un gruppo di crudeli fuorilegge e mercenari il cui nome significava Cani Rossi, ultimamente avevano aumentato le scorrerie lungo i confini del posto. Distruggevano i raccolti, si prendevano le donne e qualche bambino, che poi veniva certamente venduto come schiavo, conquistavano le terre, venivano scacciati dagli uomini del lord che governava quella regione e dopo poco tornavano per riprendersele. E seminavano il panico.

Avevo raccolto informazioni su di loro una sera, mentre mi trovavo in una taverna. Il loro leader si chiamava Bryn, anche se il suo vero nome era Bankotsu; voleva che il suo nome potesse essere ricordato dal popolo, così si faceva chiamare solo Bryn e pur essendo poco più che un ragazzo era il più forte del gruppo; maneggiava senza alcuna difficoltà una pesantissima alabarda. Della stessa risma faceva parte quello che molti definirono un parente dei giganti che un tempo abitavano le terre del sud: Kester. Qualcuno sosteneva che le loro armi fossero speciali e avvelenate, perché tra di loro c’era anche un esperto di veleni, un Cane Rosso di nome Mungo.

Nessuno sapeva da dove provenissero, esattamente. Si diceva che certi Cani Rossi fossero nati nelle Terre Ignote, luoghi remoti, situati al di là del Mare Orientale, abitati dai più biechi fuorilegge, da bruti e schiavisti, da malvagi pirati e persino da creature che da queste parti non si vedono più da tempo. Come i draghi.

- Draghi? – domandò Peter, incuriosito e affascinato.

- Draghi. – confermò Killian. – Non so se sia vero o se siano solo storielle. Quel che è vero, però, è che qualsiasi nave si avventuri in quelle acque... non fa ritorno. Quel posto è una fottuta trappola.

- Mi sembra un buon posto per i Dohle. – osservò Liam.

Ero allarmato, quindi, di notte, io e i miei compagni ci davamo il cambio per montare la guardia. Ed eravamo più guardinghi del solito.

Tre giorni dopo accadde.

Dormivo profondamente, ma sentii qualcuno che mi scuoteva brutalmente per strapparmi dal sonno. Era Hakkaku ed era pallido come cera. I suoi occhi neri erano sgranati.

- Graham. Credo...

- Cosa? – domandai, alzandomi subito.

- Guarda.

Il cielo si era tinto improvvisamente di rosso e arancione. In realtà non era il cielo, compresi subito dopo: quello era il bagliore delle fiamme. Qualcosa, probabilmente delle case, stava bruciando. Nell’aria aleggiava l’odore acre del fumo.

- Ma che...? – iniziai, alzandomi in piedi e prendendo la faretra piena di frecce.

- Graham... quelli sono guai. – disse Killian.

- Sono i Cani Rossi, vero? – domandò Peter. Era uno di quelli che stavano montando la guardia, insieme a Koga e Hakkaku. – Dobbiamo andare ad aiutare quella gente!

Ero certo che fossero i Cani Rossi. Erano soliti incendiare le case e distruggerle, mentre saccheggiavano.

- Dov’è Adair? – domandai, notando che il mio compagno non c’era. Il suo giaciglio era vuoto.

Nessuno seppe rispondere, ma in quel momento c’era poco tempo per pensare e fare domande. Credetti che avesse fatto quello che mi aspettavo che facesse, ovvero andarsene.

- Venite. Tenete gli occhi aperti. – dissi.

Attraversammo la radura e un tratto di foresta che ci separava dal villaggio e più ci avvicinavamo, più i rumori si facevano più chiari. Più terribili. Urla di dolore e paura, il crepitio delle fiamme, l’odore sempre più forte del fumo, passi in corsa...

Il sentiero ci condusse direttamente a quello che era stato un gruppo nutrito di case.

Regnava il caos. Molti tetti erano in fiamme. Diverse costruzioni si stavano ripiegando su se stesse, pronte a crollare. C’erano persone in fuga, con gli occhi sbarrati e colmi di terrore, ovunque. C’erano cani che abbaiavano furiosamente e cavalli imbizzarriti. C’erano anche corpi senza vita di uomini e donne, persino di qualche bambino, seminati per le strade. La terra era intrisa di sangue. Nell’aria aleggiava un puzzo terribile, di carne e legno bruciati, di odio e morte.

Riconobbi subito il capo dei Cani Rossi, Bryn, per via della pesante alabarda che maneggiava e che, in quel momento, stava puntando contro un uomo che cercava di difendere la propria famiglia. Era giovane, proprio come me l’avevano descritto, con i capelli neri raccolti in una lunga treccia, una stella viola a quattro braccia impressa sulla fronte e l’espressione determinata ma incredibilmente calma, mentre colpiva. Vicino a lui c’era un individuo magro e scattante, che impugnava una lunga sciabola. Sulle prime, lo scambiai per una donna. Ma era un ragazzo altrettanto giovane. Era Jacob, il secondo Cane Rosso più forte dopo Bryn. I due combattevano sempre vicini, coprendosi le spalle a vicenda.

Koga non perse tempo ed estrasse la spada. Peter estrasse la sua.

- Costringeteli alla fuga. Ma state attenti agli abitanti del villaggio. – ordinai.

- Bene. – disse Peter, con un sorrisetto sulle labbra. – Giochiamo!

“Giochiamo.”

Mi vennero i brividi nel sentirlo parlare così. Era la sua prima battaglia e ovviamente non vedeva l’ora di dimostrare la sua forza e il suo coraggio.

Akela restò al mio fianco, ma ringhiò ferocemente e così facendo indusse gli altri lupi ad avanzare, minacciosi, verso i nemici.

Uno degli assassini, un uomo enorme, molto più alto di me, con le spalle larghe, un torace possente e due lunghe braccia muscolose, cercò di afferrare Peter, ma non fu abbastanza veloce. Si muoveva in modo goffo e scoordinato. Kester. Il ragazzo gli sfuggì. Io scagliai una freccia per distrarre quel gigante. Lo colpii al braccio e lui ruggì di dolore, spalancando una bocca larga e mostrando due file di denti che sembravano zanne. Afferrò la freccia e la estrasse, poi venne verso di me, caricando come un toro a testa bassa. Lo scansai, allungai un piede e lo feci inciampare, mandandolo gambe all’aria. Akela lo morse al polpaccio.

Killian incalzò Jacob. Quest’ultimo vibrava colpi di sciabola ed era molto rapido, anche se sembrava alquanto sorpreso dalla presenza di quegli uomini armati nel villaggio. Mentre parava i colpi senza alcuna difficoltà, continuava a cercare il capo con lo sguardo. Koga, invece, si occupò di Bryn, che osservò il suo avversario con aria di sfida. Ognuno dei miei compagni cercava di tenere impegnato un Cane Rosso, mentre Ginta e Hakkaku cercavano di aiutare la gente a scappare oppure aiutavano i feriti che erano ancora in grado di camminare. Urla, grida e pianti disperati riempivano la notte.

Peter si ritrovò faccia a faccia con un Dohle agguerrito, che gli disse qualcosa in una lingua sconosciuta, che lui non capì, ma sembrava che lo stesse provocando. Il Dohle estrasse la spada per affrontarlo. Peter menò fendenti con la sua arma e l’assassino rispose, parando colpo su colpo.

- Andiamo via! – gridò Bryn, all’improvviso. Il capo dei Dohle doveva essersi reso conto che la situazione si stava mettendo male. I miei compagni avevano colto lui e i suoi uomini alla sprovvista. I Dohle saccheggiavano e uccidevano, ma era evidente che non si sarebbero mai aspettati quell’interruzione. Erano disorganizzati. Confusionari.

Fu allora che lo vidi.

Adair. Era accanto a Bryn. Aveva estratto il pugnale dal corpo di un uomo. Alzò la testa e incrociò i miei occhi. Mi sorrise, bieco.

Combatteva con loro. Con i Cani Rossi. Li aveva aiutati.

Alcuni Dohle si mossero verso il loro capo, anche il gigante che avevo fatto cadere, sebbene non facesse altro che imprecare e gridare oscenità.

- Ritirata! Mi hai sentito?! – chiamò il capo, furibondo.     

Si stava rivolgendo all’avversario di Peter, che non ascoltò. Continuò a combattere contro di lui. Anche Peter sorrideva. Lasciò partire un affondo che quasi colse l’assassino impreparato.

- Dobbiamo ritirarci, Simon, datti una mossa! – gridò ancora Bryn.

Un Cane Rosso con i capelli lunghi, raccolti in un codino, che imbracciava lo scudo sul quale capeggiava il simbolo del gruppo, cani rossi su sfondo nero, si staccò dai compagni e si diresse verso i due contendenti. Era pallido, stanco e sembrava anche nauseato.

L’assassino impegnato nella lotta, intanto, vibrò un colpo di punta e ferì Peter di striscio ad un braccio. Spillò sangue.

- Colpo scorretto! – esclamò Peter, rispondendo con un affondo. Stava vincendo. Lo vedevo. Era troppo irruente, ma stava vincendo. L’avversario, pur essendo più robusto di lui, era in difficoltà.

Poi arrivò l’altro. Arrivò un Cane Rosso alto, con strisce verdi dipinte sul viso, le labbra arricciate in un ghigno sadico e le mani coperte da un paio di guanti di cuoio dai quali spuntavano artigli lunghissimi e affilati.

- No! – gridai. Allungai una mano dietro di me per prendere una freccia.

- No, Seamus! – disse il Cane Rosso che si era avvicinato per recuperare il compagno che non aveva ascoltato gli ordini del capo.

Peter lo vide. Vide con la coda dell’occhio Seamus e il barbaglio dei suoi artigli che incontravano il bagliore delle fiamme, ma quando si girò per affrontarlo era troppo tardi. Seamus abbassò la sua arma e l’affondò nella carne di Peter, tra collo e spalla. Peter urlò, piegandosi subito sulle ginocchia.

- Peter! – gridai. Nel preciso istante in cui scagliai la freccia che avevo incoccato, il Cane Rosso che aveva ferito Peter afferrò il compagno che gli aveva detto di fermarsi e lo usò come scudo umano. La freccia trapassò l’uomo, colpendolo al centro del torace. Poi Seamus raggiunse gli altri membri del gruppo e corse via con loro.

- Koga, non inseguirli! Non serve! – sentì gridare Ginta.

- Maledetti! – urlò Koga. – Adair! Traditore! Torna indietro, se ne hai il coraggio! Ti ho visto!

Adair fuggì nella foresta, ma non andò dietro ai Dohle.

Peter cadde riverso al suolo. Il Cane Rosso trafitto dalla mia freccia cadde a sua volta. Quando li raggiunsi, quest’ultimo era già morto. Scorsi il suo volto, gli occhi aperti e ormai vuoti, e mi resi conto che non era un volto brutale. Sembrava una faccia gentile.

Mi chinai su Peter e gli cinsi le spalle con un braccio per sollevarlo. La ferita era profonda, perdeva molto sangue. Attraverso lo squarcio provocato dagli artigli di quel mostro, vedevo i muscoli della spalla. La sua giacca era già inzuppata. Quando cercò di parlare, altro sangue uscì dalla bocca.

- Va tutto bene. Sono qui con te, Peter. – gli dissi, per rassicurarlo. Anche se non andava bene, perché quella ferita era mortale.

- Graham...

- Dobbiamo portarti via.

- No, Graham... non c’è niente... non c’è più niente che tu... possa fare per me. – I suoi occhi erano velati. Soffriva terribilmente. Ciuffi di capelli biondi gli erano ricaduti sulla fronte sudata. Eppure, riuscì a curvare le labbra all’insù. Riuscì a sorridere. - A parte... a parte una cosa.

- Cosa?

- Finiscimi, Graham.

Scossi il capo con forza. - No, Peter. Ti porto via. Non posso...

- Puoi...

- Peter...

- Ascolta, Graham... - Tossì. Sputò altro sangue. I suoi occhi si chiusero per qualche momento, poi si riaprirono e parvero più limpidi. Persino più adulti. – Io... non ho paura. Non ho paura... di morire. La morte... può essere... una grande avventura.

La morte, per me, era la morte. Non era un’avventura. Ma non potei replicare.

- Ti prego. - mormorò.

Furono le parole decisive. Sarebbe morto, ma molto più lentamente se non avessi fatto quello che mi chiedeva.

Estrassi il coltello che tenevo nello stivale. Intorno a me l’aria era spessa e soffocante, sulle strade turbinava un vento caldo, il legno bruciato crepitava e scoppiava. Le grida erano quasi del tutto cessate. Ora c’erano pianti e gemiti ovunque. Il tetto di una casa, privo di sostegno, crollò miseramente, sollevando una nuvola di polvere e ceneri roventi.

Peter mi sorrise un’ultima volta, poi sembrò rivolgere gli occhi al cielo, alle stelle e alla falce di luna che vedeva attraverso le volute di fumo denso.

Stava ancora guardando quando affondai la lama del pugnale nel suo cuore. Non emise nemmeno un lamento. Il suo sguardo divenne vuoto e il suo corpo si rilassò.

 

- Feci preparare una pira e bruciammo il suo corpo. - disse Graham ad Emma, dopo qualche istante di silenzio. Abbassò la testa e vide la mano di lei premuta sulla sua. Sollevò il capo e notò che i suoi occhi verdazzurri erano arrossati e lucidi, quasi stesse per piangere.

Emma era profondamente colpita da quella storia. Cercava di immaginare quel ragazzo fuggito da casa, che aveva trovato rifugio nel Branco di Graham ed era morto giovanissimo, per colpa di un brutale assassino.

- Dopo quello che è accaduto a Peter... mi sono ripromesso di non accettare mai più ragazzi così giovani nel Branco.

- Ma?

Graham si alzò. – Ma ho infranto anche quella promessa. Tempo dopo arrivarono altri... che chiesero di essere accettati nel Branco. Tra di loro c’era un giovane. Probabilmente mi sono lasciato influenzare dal suo nome. Si chiama Peter. Anche lui.

Emma sorrise. – L’hai accettato.

- Sì. Koga se n’è andò qualche luna dopo la morte del ragazzo, perché aveva conosciuto una donna di nome Ayame e se ne era innamorato. Ginta e Hakkaku l’hanno seguito. Erano arrivati con Koga e quindi se ne andarono con Koga. Killian e Liam sono ancora con me. Adair... beh, l’ho rivisto, ma non gli ho permesso di avvicinarsi ai miei compagni. Ha fatto la sua scelta.

Emma restò in silenzio.

- E quando arrivò Peter... il secondo Peter... decisi che ogni membro del mio Branco avrebbe sempre avuto con sé un lupo, proprio come io ho sempre avuto al mio fianco Akela. Un lupo che potesse proteggerlo se si fosse ritrovato in difficoltà o in pericolo.

- Hai preso la decisione giusta.

- Capisci, ora, Emma? – domandò Graham, guardandola con occhi intrisi di tristezza.

- Oh, sì. Capisco.

- Ho ucciso Peter.

- L’hai aiutato a morire. Hai impedito che soffrisse. Hai fatto ciò che lui ti ha chiesto. Era misericordia, Graham. – Emma si avvicinò.

- È morto per colpa mia.

- Non è vero. Tu hai fatto il possibile. Non potevi prevedere... che Adair ti avrebbe tradito, né che i Cani Rossi fossero vicini.

- Non avrei dovuto accettarlo.

- Peter si è sentito a casa, grazie a te. Si è sentito libero, come desiderava!

- Non ho versato neppure una lacrima quando ho visto il suo corpo bruciare. Sono andato avanti e non ho versato neppure una lacrima.

- Graham...

- Non ho provato orrore. Né disgusto verso me stesso. Capisci quando ti dico che io non ho un cuore? Non sento niente, Emma.

- Graham... davvero sei convinto di non avere un cuore?

- È l’unica spiegazione per il fatto che non riesca a provare niente.  

- Graham... tu ce l’hai un cuore.

Lui scosse il capo, affranto.

- Te lo dimostro. – Emma si avvicinò di più al Figlio dei Lupi, senza smettere di guardarlo. Allungò una mano, con cautela, poiché non sapeva se Graham volesse essere toccato. E appoggiò il palmo aperto sul suo petto, all’altezza del cuore, sentendolo battere sotto lo strato di cuoio nero. Emma gli sorrise per incoraggiarlo. – Senti? Sta battendo. È reale.

Graham non rispose. Si morse il labbro.

Allora Emma gli strinse una mano e gliela sollevò, sostituendola alla sua. Lo costrinse a tenere quella mano sul cuore. Graham sfuggì il suo sguardo.

- Ecco. Il tuo cuore. Sta battendo.  

Graham si scostò bruscamente. – No. Non è vero. Non significa niente.

- Non puoi pensarlo davvero. Hai accolto quel ragazzo nel tuo Branco. Ti sei preso cura di lui, ti sei sentito in colpa quando è morto. Ti preoccupi per i tuoi fratelli, vuoi che siano al sicuro e infatti hai deciso che ognuno di loro debba essere protetto da un lupo. Tutto questo dimostra che tu hai un cuore, Graham.

- È solo la cosa giusta da fare. Preoccuparmi per i miei fratelli. Io sono l’Alfa. È mio dovere...

Emma restò a guardarlo, con la testa leggermente inclinata.

- Cosa c’è? – domandò Graham.

Lei si fece più vicina, gli appoggiò una mano sulla spalla e poi lo baciò.

Non aveva mai baciato un uomo in quel modo prima di allora, ma con Graham le venne naturale. Forse perché lo conosceva da molto tempo e aveva sempre pensato che fosse attraente, forse perché le aveva salvato la vita, forse perché l’aveva commossa con la sua storia e con tutti i suoi dubbi.

Lo baciò, assaporando piano le sue labbra leggermente screpolate, mentre la barba castana sfregava un po’ contro la sua pelle. L’odore del Figlio dei Lupi era forte. Non sgradevole, ma intenso. Era un odore selvaggio. L’odore degli uomini che vivono nei boschi.

Stupito, Graham mosse la bocca contro la sua, in modo incerto, come se nemmeno lui sapesse bene che cosa fare.

Emma si allontanò, le guance arrossate, una ciocca di capelli biondi che le ricadeva sul viso. Graham la fissò con gli occhi dilatati.

- Allora? – Emma si schiarì la voce, distogliendo lo sguardo. – Pensi ancora di non avere un cuore? Non hai... non hai sentito niente?

Graham strinse le labbra e vi passò sopra la punta della lingua, come se stesse ricercando il sapore di Emma su di esse. Batté le palpebre.

Dal folto della foresta venne un guaito basso. Un lupo grigio fece capolino da una macchia di cespugli. Osservò Emma con i suoi strani occhi. Uno rosso come il sangue e l’altro nero.

- È Akela. – disse Graham, rinfrancato. – Devo andare, adesso.

- Sì...

- Grazie. – Il Figlio dei Lupi le toccò il viso con la stessa mano che Emma gli aveva posato sul cuore un attimo prima. Sorrise, dolcemente. Sembrava stesse meglio. Emma capì che quel ‘grazie’ era rivolto a lei. La ringraziava per ciò che aveva appena fatto: dimostrargli che lui non era insensibile come credeva. Il suo bacio era stato importante.

Emma arrossì. – Spero di rivederti.

- Ci rivedremo. Ne sono sicuro.

Restò a guardarlo mentre spariva nella Foresta di Rhun, seguendo il suo lupo.

_____________________________

Salve lettori.

Tecnicamente questo capitolo è un crossover. Alcuni personaggi (Koga, Ginta, Hakkaku, i briganti...) appartengono a Inuyasha, una serie di manga ed anime creata da Rumiko Takahashi. 

Il Peter che incontra Graham ha l'aspetto di Robby Kay, quindi del Peter Pan di Once, che in questa storia non ha legami con Tremotino e non è un personaggio negativo.  

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Capitolo 11
*** 10. Thirst of Revenge ***


SECONDA PARTE

 

RISE OF THE FALLEN

 

 

 10 

 

THIRST OF REVENGE

 

 

 

Undici anni dopo la caduta di Snowing Castle.

 

Foresta di Rhùn. Vicino a Camelot.

 

 
La primavera scivolava delicatamente sulle terre vicine a Camelot. I prati verdi si ricoprirono di margherite, viole e gigli selvatici. Tra le pietre dei terreni più sterili e nei boschi, vicino ai torrenti, spuntarono gli anemoni rossi, fiori effimeri e simili a grosse gocce di sangue. Le vigne si coprirono di germogli e in ognuno di quei germogli dalla punta scarlatta si raccoglievano i grappoli e il vino nuovo. Gli uomini che vivevano nelle casupole e nei villaggi sparsi per le terre governate da Artù, costantemente indaffarati in quelle vigne e nei loro campi, cantavano canzoni e levavano preghiere alla Dea Madre perché desse loro un raccolto ricco, abbondante, con il quale sfamare i figli e le mogli.

Nella foresta di Rhùn, a poche leghe da Camelot, dove gli sguardi indiscreti non giungevano mai, si udiva spesso un cozzare di spade, grugniti di persone impegnate in qualche combattimento.

Emma, la figlia dei defunti sovrani di Snowing Castle, era ormai una fanciulla di vent’anni, bella e caparbia, ammirata dai cavalieri del re Artù, che la proteggevano, nascondendola agli occhi di chiunque potesse essere un pericolo per lei.

Emma, nella foresta, aveva imparato a combattere. Teneva sempre con sé la spada che le aveva donato suo padre prima di lasciarla andare via con Graham. Aveva imparato a battersi con quella. Ferendosi, a volte, ma senza mai lamentarsi.

Nessuno sapeva che era sopravvissuta alla caduta di Snowing Castle. Anatlon, il Regno del Sud, versava in stato d’abbandono. Quando i messaggeri e i soldati erano costretti ad attraversarlo per raggiungere il Mare del Sud, lo facevano più in fretta che potevano, inseguiti da storie piene di sangue e orrore, di fantasmi e morti che si levavano perché non avevano mai ricevuto una degna sepoltura e non trovavano pace.

Quella mattina il cavaliere incaricato di proteggere Emma era il più giovane di quelli che sedevano alla Tavola Rotonda; Galahad, il figlio di Lancillotto.

- Affondo! - gridò il giovane e si mosse in avanti, abile e rapido.

Emma parò il colpo. Le spade cozzarono. Non era facile combattere contro Galahad. Perché il cavaliere era mancino e la costringeva ad usare il braccio sinistro.

Devi imparare ad usare anche l’altro braccio, Emma. Può essere fondamentale in un duello, le aveva detto una volta.

- Fendente, a destra! - Galahad lasciò partire un colpo dall’alto verso il basso, alla sua destra.

Emma dovette abbassarsi, piegando leggermente le ginocchia. Le spade cozzarono di nuovo.

Galahad menò un altro colpo, stavolta senza avvertirla e lei, per un pelo, non venne colta alla sprovvista. Fece un salto indietro, fermò l’ennesimo affondo del cavaliere e poi, in un baleno, lo disarmò. La spada di Galahad cadde sull’erba. Il cavaliere si inginocchiò ed Emma gli puntò la lama sulla gola.

Lui sorrise. – Sei... sorprendente, Emma.

- Grazie. - disse Emma, rinfoderando la spada.

- Sono un buon insegnante, allora. - Galahad si alzò. Il combattimento l’aveva stancato, anche se era stato davvero divertente. Ripose la sua spada, Kylr, nel fodero in pelle di daino.

- Direi di sì. Abbiamo già finito?

- Ma stiamo combattendo da parecchio tempo!

- Non sono stanca.

- Io ho bisogno di una pausa. Il sole è alto. Inizia a fare molto caldo. Vieni, andiamo al torrente.

Emma lo seguì lungo lo stretto sentiero fra gli alberi, fino ad un largo torrente, che digradava per scendere in una piccola valle. Dal punto più alto potevano vedere i piccoli villaggi accatastati sulle colline, i campi e le vigne. Più lontana, ma visibile, Camelot, circondata dalle sue mura grigie e scintillanti.

Galahad, restando in una zona d’ombra, si bagnò il viso e le mani nell’acqua. Il figlio di Lancillotto aveva diciotto anni; era decisamente più alto di lei, aveva un fisico asciutto e scattante, come quello di un corridore; i suoi muscoli erano perfettamente delineati, guizzanti sotto la pelle chiarissima. Possedeva anche una certa, raffinata eleganza. Si bagnò le mani, per poi passarsi le dita nei folti capelli corti e quasi bianchi, arruffati.

Emma spostò lo sguardo sulle lontane colline verdeggianti mentre inspirava per avvertire gli odori della primavera. Si trovava nella Foresta di Rhun da così tanto tempo, ormai, da avere una gran voglia di spazi aperti, di radure sterminate, anche di montagne, invece delle solite infinite schiere di alberi. Non provava sollievo quando ne usciva momentaneamente, dopo essersi assicurata che non ci fosse nessuno nei paraggi, perché sapeva che sarebbe dovuta tornare nel folto della foresta. Nel punto in cui c’era il suo rifugio, i rami erano così fitti che era quasi impossibile vedere il cielo. Quando pioveva, la densità del fogliame la faceva piombare nelle tenebre, come se fosse stata sepolta in una cripta.

- Il destino è inesorabile e la vita, a volte, pare una beffa degli dèi. - aveva detto Merlino, tempo addietro.

Aveva ben impressa nella mente la sua promessa. Era pronta a mantenerla, ormai. Sapeva usare la spada che aveva ricevuto in dono. Sentiva di potersi battere contro la donna che riteneva responsabile di tutto quello che era accaduto alla sua gente e ai suoi genitori.

Regina. La figlia della donna che aveva attaccato a tradimento e ucciso i suoi genitori, massacrato la sua gente senza pietà e distrutto la sua casa. L’erede che continuava a regnare esattamente come la madre, opprimendo i suoi sudditi e preparandosi, forse, a conquistare ogni terra conosciuta.

- A cosa pensi, Emma? - domandò Galahad.

- A nulla. Torniamo?

- Sì.

 

 

 

Nymeria. Regno di Mehlinus. Nord.

 

 
Il castello nero della regina del nord sovrastava la città di Nymeria in tutta la sua imponenza. Sulla cima della torre centrale sventolava lo stendardo sul quale capeggiava la pantera nera. Il cielo era solcato da pesanti nuvole grigie, che rendevano il luogo ancora più inospitale.

La regina stessa, stretta in abiti di pregiata seta blu, appariva oscura, potente e regale. Il trono su cui sedeva era nero, con lo schienale alto e i braccioli imbottiti.

Si trovava proprio lì, quando le porte massicce della sala del trono si spalancarono. Prima entrò il comandante delle guardie, chiuso nella sua armatura con la testa di pantera incisa sul petto. Solo gli occhi azzurri erano visibili. Si inchinò. Dopodiché entrarono due guardie, trascinando un uomo pallido e scarmigliato, vestito di stracci, con le mani e i piedi incatenati. Aveva la follia dipinta negli occhi. Era stato rinchiuso nelle fetide segrete del castello per giorni, con pane raffermo come cibo e pochissima acqua. Aveva urlato, supplicato, aveva chiesto perdono, ma nessuno era venuto a liberarlo. Fino ad oggi.

Lo costrinsero ad inginocchiarsi davanti al trono.

- Vostra Maestà. - iniziò una delle guardie. - Abbiamo portato al Vostro cospetto l’uomo che intendeva porre fine alla Vostra vita.

- Non ho attentato alla vita di nessuno, io volevo... - cominciò a dire il prigioniero.

L’altra guardia lo colpì al viso con uno schiaffo. - Nessuno ti ha chiesto di parlare!

L’uomo tacque.

- Dicevo... - riprese la guardia. - Che abbiamo portato al Vostro cospetto...

- Ho capito - rispose Regina, in tono seccato. Rivolse un’occhiata priva di qualsiasi interesse al prigioniero. - Lasciatelo parlare.

- Grazie... grazie, mia regina. - disse lui, riverente. - Io... non intendevo attentare alla Vostra vita. Ho rubato delle armi, questo è vero... e ho cercato di prendere due sacchi di grano dalle dispense del castello. Ma non avrei mai attentato alla Vostra vita! Lo giuro! La mia famiglia... ho quattro figli, stanno morendo di fame perché il raccolto lo scorso anno è andato... è andato male. Quindi...

- Quindi hai pensato bene di prendere il grano. E le armi? - domandò Regina.

- I briganti... le terre intorno a Nymeria pullulano di briganti. Una volta...

- Basta così. - lo interruppe Regina, levando una mano.

- Ma mia regina...

- Non voglio sentire altro.

- Chiudi quella boccaccia, stolto. - intimò una guardia, afferrandolo per i capelli.

Il comandante delle guardie sembrava una statua di sale.

- Cosa dobbiamo fare di quest’uomo, Maestà? - domandò la guardia che aveva schiaffeggiato il prigioniero.

- Portatelo fuori da qui. Portatelo in piazza e...

E tagliategli la testa, pensò il consigliere della regina, Tremotino. Era in piedi accanto al trono, lo sguardo fermo, un mezzo sorriso che gli aleggiava sulle labbra. Aprì un paio di bottoni della sua casacca di lana, adatta a fronteggiare le rigide temperature del nord, guardando il ladro come se fosse stato una specie innocua e ridicola di scarafaggio.

- E impiccatelo. - continuò Regina, con un tono implacabile.

Oh, beh, che peccato, nessuna testa che rotola, pensò Tremotino. Il suo sorriso si allargò, diventando ancora più inquietante.

- Sì, Vostra Maestà. - disse la guardia. Lui e il suo compare afferrarono l’uomo per le braccia. Quest’ultimo iniziò a piagnucolare, a chiedere pietà, ma non venne ascoltato. Lo trascinarono verso l’ingresso, urlante.

- Non ho ancora finito! - gridò Regina. La sua voce rimbombò lungo le quattro pareti ricoperte di arazzi della sala del trono. Daniel sussultò.

Tremotino osservò la regina, in attesa.

- Dopo che l’avrete impiccato, lasciatelo penzolare per un po’. Voglio che tutti lo vedano. Lasciate che i corvi gli becchino la faccia e gli occhi. Che sia da monito a tutti coloro che cercheranno di mettere le mani su ciò che mi appartiene!

- BALDRACCA! - gridò il folle mentre veniva trascinato via. - MORIRETE, UN GIORNO DI QUESTI! VE LO AUGURO, PERCHÉ SIETE SOLO UN’AVIDA BALDRACCA!!

Le guardie lo schiaffeggiarono e sferrarono calci. Gli aprirono una ferita sulla fronte, sgorgò il sangue che gli inondò la faccia. Poi uscirono. L’ultimo fu il comandante delle guardie, che stringeva i denti. Aveva arrestato quell’uomo all’alba, cogliendolo sul fatto e già sapeva che cosa gli sarebbe successo non appena fosse comparso davanti a Regina. Aveva sperato che lei lo facesse frustare e basta o che gli chiedesse di gettarlo di nuovo nelle segrete. Avrebbe anche potuto fargli tagliare una mano. Nelle terre dei lord era quello che accadeva ai ladri, il più delle volte. Ma aveva sperato invano.

Le porte si chiusero.

L’espressione di Regina subì un mutamento; gli occhi scuri si velarono di turbamento. Poi la mano destra cercò e trovò l’elsa della spada che teneva sempre vicino a sé.

- Avete preso la decisione giusta, Maestà. - disse Tremotino. - Quell’uomo mentiva. Era evidente. E non era veramente pentito.

Regina non rispose. Continuava ad accarezzare l’elsa di Stormbringer.

Tremotino era soddisfatto. Quando la figlia di Cora era salita al trono, era una ragazza molto giovane, ingenua; era ambiziosa, ma il popolo non l’avrebbe mai temuta. La morte di entrambi i suoi genitori aveva indurito il suo carattere, ma erano stati il tempo e i suoi insegnamenti a farla diventare ciò che era adesso: una donna potente, che la gente guardava con timore, se non con terrore. Una donna che non aveva pietà di chi violava le ferree leggi del regno. Una donna che guardava il mondo come se fosse qualcosa da possedere, da conquistare. Tutto. Fino all’ultima terra conosciuta. Una donna che, per dimostrare forza e carattere, aveva deciso di scegliere un altro simbolo per il suo regno: non più un melo, ma un animale oscuro e aggressivo, la pantera. La pantera con le fauci spalancate su sfondo viola.

Stormbringer. La spada di tuo padre. Henry, oh già, pensò Tremotino. Chissà cosa direbbe se fosse qui, ora.

- Vostra madre sarebbe orgogliosa di Voi. - osservò il consigliere, per infonderle sicurezza.

- Sì... - disse Regina, pensierosa. - Mia madre...

- Sarebbe stato davvero bello se fosse stata qui, ad assistere.

- Ma non è qui.

Breve silenzio. 

- Stanotte ho fatto un sogno. - Regina sembrò cambiare improvvisamente argomento.

- Che genere di sogno?

- Un incubo. Ero a Snowing Castle e i miei uomini avevano incendiato il castello e ucciso i sovrani. La gente mi accusava. Mi additava e mi accusava. Mi chiamavano traditrice. Sembrava tutto... molto reale.

Dannazione anche ai sogni, pensò il consigliere.

- Maestà... avete già fatto questo sogno altre volte. Non badategli. I sogni vanno interpretati nel modo giusto. Sapete bene come sono andate le cose. Ve l’ho raccontato molte volte. Tutto il regno lo sa. Non lasciatevi ingannare dagli incubi. Sono convinto che molti Vi additeranno, ma siete sempre stata nel giusto.

Regina accarezzava Stormbringer, non l’elsa ma la lama, come se preferisse il morso gelido dei bordi affilati. Parlava quasi fosse ancora preda del proprio incubo. La sua voce era strana, quasi assonnata. - In realtà loro ci hanno ingannati. 

- Ci hanno ingannati. Ci hanno teso una trappola e poi hanno trucidato molti dei nostri uomini. – Tremotino scosse il capo e sospirò. Guardò la spada di Regina. La donna strinse di nuovo l’elsa. - E siamo ancora in pericolo. Ma Voi siete più forte, adesso. Siete più temuta. Avete la Vostra spada, Strombringer... e avete la magia. La magia... è potere.

L’espressione di Regina si indurì. I suoi occhi fiammeggiarono di rabbia... Tremotino vide chiaramente le iridi che cambiavano colore; dal nocciola al nero e dal nero al viola. La magia stava scorrendo nelle vene e nella mente della regina.

- Cora fece quello che poteva. Ma Voi... farete molto di più. I Blanchard si sentono al sicuro dietro al loro sortilegio. Ma non lo saranno ancora per molto.

Regina sentiva l’odio montare come una marea. Bruciava nelle sue vene come acido. In bocca aveva un sapore amaro, il sapore della vendetta, quella sete di vendetta che era diventata quasi impossibile da domare. I Blanchard avevano ucciso sua madre. David, il re di Anatlon, aveva ucciso Henry, suo padre, quando lei era ancora una bambina. In duello. Non aveva combattuto con onore. Henry, che era un cavaliere forte e valoroso, non avrebbe mai colpito un avversario a tradimento...

- Sarà mio... - mormorò Regina.

- Ne sono certo.

- Anatlon... sarà mio. – ripeté, parlando a se stessa e non più al suo consigliere. - Lo prometto. Presto o tardi, tutto sarà mio.

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Capitolo 12
*** 11. Eyes on You ***


11

 

EYES ON YOU

 

 

 

Deep Valley. Lothian. Terre dei lord. Ovest.

 

 

L’araldo d’armi consegnò le lunghe lance di frassino ai due giostranti e si ritirò alla svelta.

Sulla pista, davanti ad un palco coperto, era stata sistemata la barriera di legno che serviva a separare i contendenti durante la galoppata uno contro l’altro.

I cavalieri scelti per la giostra erano estremamente diversi. Il primo era alto, robusto ma non muscoloso; il fisico agile e asciutto era protetto da un’armatura d’argento, che mandava bagliori quando veniva colpita dai raggi del sole. Il destriero era un cavallo nero, chiazzato di bianco, con il basso addome coperto da un arcione ampio, che proteggeva anche le gambe del cavaliere. Il secondo contendente era un uomo decisamente più largo di spalle; l’armatura scura sembrava contenere appena il suo corpo. Stava in sella ad un grosso cavallo da guerra, uno di quegli animali difficili da domare, con la testiera spessa che copriva gran parte della visuale del destriero, in modo che non potesse reagire di sua iniziativa durante lo scontro. Come ornamento, una vistosa gualdrappa rossa.

I giostranti si disposero ai due estremi della barriera e calarono le celate sui loro volti. Strinsero saldamente le lance con una mano e, con l’altra, afferrarono bene le briglie.

- Cento denari sul cavaliere in sella al cavallo da guerra. - disse un uomo, sugli spalti.

- Cento sul cavaliere d’argento. - disse lady Morgause, la signora di Deep Valley, accennando un sorriso. Come se già sapesse come sarebbe finita quella giostra.

- Accetto la scommessa, mia signora. - disse lo sfidante.

Calò il silenzio.

L’araldo d’armi sventolò una bandiera e lanciò un grido, che era il segnale atteso per iniziare la giostra.

I due cavalieri spronarono i loro cavalli, che presero subito velocità, scagliandosi l’uno contro l’altro. Quando erano ormai giunti a metà della barriera, abbassarono le lance, quasi nello stesso momento.

- Finiranno con l’ammazzarsi. - commentò qualcuno sugli spalti.

Non si ammazzarono. La lancia del cavaliere d’argento si scontrò con il petto possente dell’avversario, mentre quella dell’altro giostrante sfiorò la spalla del contendente. Nell’urto, la lancia di frassino si ruppe con un suono secco. L’uomo in sella al cavallo da guerra cercò, invano, di aggrapparsi alla criniera del cavallo per non cadere, ma fu disarcionato. Rovinò sulla pista, mentre il suo destriero s’impennava e andava poi a fermarsi in fondo, vicino al muro di pietra che delimitava l’area in cui si svolgeva la giostra.

Lo sconfitto imprecò ferocemente e si tolse l’elmo, scagliandolo lontano da sé. Rosso in viso, spezzò in due la lancia, gettò via i pezzi e uscì dall’arena, imbufalito. Le guardie immobili accanto alle entrate lo lasciarono passare. Il pubblico gridò e applaudì.

- Beh, mia signora...

- Cento denari, avete detto.

- Parola mia. Non uno di più e non uno di meno. Una scommessa è una scommessa.

Lady Morgause sorrise. Si alzò in piedi, applaudendo il cavaliere che aveva vinto la giostra e che le lanciò una rosa, per poi inchinarsi.

Morgause sedeva sempre nello scranno rialzato, al centro del palco. Lo scranno alla sua destra era vuoto ed era quello appartenuto a Lot, suo marito, morto alcuni anni prima.

Morgause era alta, magra di corporatura, con i capelli rossi che le ricadevano sul petto e sulla schiena come una cascata di lava; aveva occhi verdi e misteriosamente crudeli, lo sguardo era affilato e l’espressione dura, di sfida. I lineamenti del suo viso non erano delicati, ma decisi, gli zigomi alti e leggermente sporgenti.

- Madre, avete visto? Come facevate a sapere che avrebbe vinto? Sembrava così... beh, piccolo... - le chiese suo figlio Mordred, un ragazzino di undici anni, in piedi alla sua destra. Portava già una spada dalla lama corta al fianco, appesa alla cintura che gli chiudeva la casacca di lino in vita. I grandi occhi celesti la guardavano pieni di aspettativa e di curiosità. Abbassò il cappuccio della mantella.

Non lo sapevo, mio caro. Se non fosse stato per la mia magia, non avrebbe mai vinto. Avrei potuto rischiare, in fondo che cosa sono per me cento denari? Ma non sono dell’umore adatto per accettare una sconfitta.

- Spesso le apparenze sono ingannevoli, Mordred. Non sempre la vittoria di un cavaliere dipende dalla sua forza fisica. Non vince il più forte, ma il più furbo.

- Potrò giostrare anch’io, madre?

- Tra qualche anno. Quando sarai abbastanza alto da non affondare nella neve.

- Il cavaliere d’argento non è tanto più grande di me!

- Infatti. Il cavaliere d’argento ha diciassette anni. Tu ne hai undici.

- È molto tempo.

Il volto di Morgause si indurì per il tono irriguardoso del figlio. - Non devi andare a studiare con maestro Archibald?

Mordred si avvicinò con una smorfia. La vera madre era una sorella di Lot e sacerdotessa di Avalon, che era morta dandolo alla luce, non prima di aver chiesto al fratello di prendere il bambino e crescerlo come se fosse suo.

- Ed io sono già alto, madre. – disse Mordred, alzandosi sulle punte dei piedi.

- Verrà anche il tuo momento. Cerca di avere pazienza. - Morgause gli appoggiò una mano sulla spalla. – Tuo padre ti direbbe lo stesso se fosse qui. Verrà anche il tuo momento. Bisogna essere pazienti.

Mordred sembrò riflettere su quelle parole. Prese tra le pieghe della tunica un cavaliere intagliato e se ne andò, parlandogli sotto voce. Le ancelle avevano usato dei pezzi di legno per intagliare dei piccoli soldati con elmo e armatura, colorandoli con del succo di bacche per creare delle tuniche cremisi.

Oh, verrà. Verrà eccome. Farò in modo che quel momento arrivi prima di quanto pensi, mio adorato Mordred.

Tornata nelle sue stanze Morgause lesse alcune missive di certi lord dell’ovest. Tutte faccende noiose.

Aveva appena rotto il sigillo di ceralacca dell’ultima lettera, quando un corvo andò a posarsi sul davanzale della sua finestra e mandò un gracchio. Morgause allungò un braccio, coperto dalla lunga manica della veste verde, e l’uccello lasciò il davanzale per posarsi su di esso. Sbatté le ali nere un paio di volte. L’occhio sinistro la fissava. Quello destro era cieco.

Legato alla zampa, c’era un messaggio scritto su carta vecchia e ingiallita.

Morgause lo srotolò e lo lesse. Era in codice, ovviamente. Ma per lei decifrarlo non era un problema. Riceveva quel genere di messaggi da parecchi anni.

- Ignis. - disse, un istante dopo.

Il fuoco si accese nel camino, scoppiettando. Morgause gettò il messaggio tra le fiamme e lo guardò diventare un mucchietto di cenere. Poi il fuoco si estinse. Andò al tavolo accanto alla finestra, si sedette e vergò subito una risposta, usando lo stesso codice. Arrotolò il messaggio e lo legò nuovamente alla zampa del corvo. L’uccello non attese un altro ordine. Spiccò il volo, lanciandosi fuori dalla stanza della signora del Lothian.

Morgause lo osservò fino a quando non scomparve all’orizzonte.

 

 

Foresta di Rhun. Vicino a Camelot. Regno di Elohim.

 

Emma cavalcava, seguendo il sentiero che l’avrebbe condotta alla sua casa, nascosta nel folto della boscaglia. Cavalcava senza sella, muovendosi al passo in groppa al suo destriero bianco, Maximus, il dono di Artù. Alle sue spalle, taciturno e riflessivo come sempre, c’era sir Thomas.

Pensava di non aver bisogno di essere scortata fino a casa da uno dei cavalieri; ormai era in grado di badare a se stessa. Se anche l’avessero attaccata, avrebbe saputo come difendersi. Ma il re si ostinava ad ordinare ai suoi uomini di non perderla di vista nemmeno un istante.

Thomas la seguiva senza parlare e di questo gli era grata, perché aveva molte cose a cui pensare. Ogni tanto, però, Emma si voltava per assicurarsi che fosse ancora dietro di lei. E il cavaliere era lì, ovviamente, che le rivolgeva un sorriso. Era silenzioso e, al tempo stesso, molto guardingo; le sue orecchie erano tese, pronte a cogliere qualsiasi rumore, e i suoi occhi chiari sempre attenti. L’espressione del suo viso, ombreggiato da una leggera peluria bionda, era sempre cordiale. Il sorriso aperto e luminoso. La mantella di lino a strisce bianche e rosse ondeggiava sulle sue spalle.

Emma proseguì. Si addentrarono di più nel bosco e arrivarono alla biforcazione. A destra il sentiero li avrebbe condotti fuori dal bosco, sulla strada che portava a Camelot; a sinistra, si stringeva fino ad una radura. Emma avrebbe dovuto prendere il sentiero di sinistra.

Ma qualcosa la costrinse a rallentare l’andatura e poi a fermarsi.

Proprio tra i due sentieri, sotto un arco formato dai grossi rami di due alberi che si intrecciavano più in alto, c’era... una figura.

Dapprima sembrò fatta unicamente di nebbia. Come uno spettro. Poi, la nebbia assunse una forma; quella di una donna che indossava una tunica lunga. Lingue di nebbia si arricciarono ai suoi piedi. Fluttuava.

- Che cosa succede, principessa? - domandò Thomas, alle sue spalle.

Non rispose. Emma strinse gli occhi. La donna era una sacerdotessa di Avalon. Glielo rivelava non solo il colore della veste, ma anche la mezzaluna tatuata al centro della fronte.

No. Non era una semplice sacerdotessa. Era...

Thomas guardava nella sua stessa direzione, ma era più che evidente che non stesse vedendo niente. Ed Emma era sicura che non si trattasse di un’allucinazione.

- Ehm... sir Thomas. Potete lasciarmi sola un istante?

Lui tentennò, sapendo bene che non avrebbe dovuto abbandonare la principessa per nessuna ragione.

- Solo qualche minuto. Non preoccupatevi. - ribadì Emma.

- Avete visto qualcuno? Vi sentite in pericolo?

- No. Nessuno. Nessun pericolo, Thomas. Lasciatemi sola. Non ci metterò molto.

Thomas girò il cavallo e tornò indietro, la fronte aggrottata. Quando scomparve, Emma scese dal suo destriero e si avvicinò alla sacerdotessa. Non aveva mai visto una sacerdotessa di Avalon in vita sua. Tantomeno una sacerdotessa di grado elevato.

- Morgana?

Non ci fu risposta. Non riusciva a distinguere bene i tratti del viso, poiché era trasparente. Vedeva due occhi azzurri, quella mezzaluna al centro della fronte, il riflesso di una tunica dello stesso colore degli occhi... ma i contorni del volto restarono vaghi.

- Allora sai chi sono. – rispose Morgana.

- Sì. La gente parla tantissimo di Voi.

Scorse l’ombra di un sorriso. – Salve a te, principessa.

Emma si inginocchiò, come avrebbe dovuto fare chiunque in presenza di una sacerdotessa di Avalon di rango elevato. – Non siete veramente qui, vero?

- No. Mi fa piacere rivederti, Emma. – disse Morgana. – E non devi inginocchiarti. Sei una principessa e un giorno sarai regina.

Emma accolse quelle parole con interesse. - Rivedermi?

- Ti ho osservata a lungo.

Questa notizia non la stupì. Le era capitato diverse volte di sentirsi osservata. Mentre combatteva, ma anche mentre non faceva nulla di particolare.

- So che l’hai percepito. E ho la sensazione che tu mi stessi aspettando.

- Sì, io... ho fatto anche dei sogni. In un certo senso non sono sorpresa di trovarvi qui.

- I sogni sono preziosi. Se vengono interpretati nel modo giusto. Immagino che tu sappia anche perché sono qui.

- Non ne sono sicura.

- No?

Emma esitò. Si rialzò in piedi.

- È quasi venuto il tuo momento. Il momento di partire.

- Per il nord. – Rabbrividì. Per lunghi minuti regnò il silenzio.

- Il viaggio sarà lungo, Emma. Sarà lungo e avrai modo di scoprire che molte delle cose in cui credi non sono come appaiono. - La voce di Morgana era strana. Era una voce giovane, ma suonava saggia e controllata come quella di Merlino. Inoltre, sembrava che il suo sguardo fosse l’unica cosa che le fosse concessa di scorgere bene, mentre la sua figura aleggiava davanti a lei, come un sogno. Possedevano uno speciale magnetismo, quegli occhi. Non poteva fare a meno di fissarli.

- Cosa significa?

- Certe verità ti verranno svelate solo quando sarai pronta ad affrontarle. In un luogo più sicuro. Dove occhi e orecchie non possono giungere. Verrai ad Avalon.

- Perché?

- Perché è necessario. Le cose che devi sapere non posso rivelartele qui e ora. Non voglio correre rischi. Ne corro già abbastanza parlandoti in questo modo e non posso trattenere l’incantesimo a lungo. Ma posso dirti che non verrai da sola.

- Verrò ad Avalon... con i cavalieri, dunque?

Morgana sorrise. – Oh, sì. Loro saranno con te. Ma non saranno loro ad accompagnarti ad Avalon.

- Chi, allora?

- Lo conoscerai presto. - continuò Morgana, senza rispondere alla sua domanda.

- Si tratta di Graham?

Non vedeva Graham da almeno due estati, cioè da quando si era seduto su un tronco caduto accanto a lei e le aveva parlato di Peter, nonché della sua paura di non avere un cuore. Le spie di Artù a volte portavano notizie del Branco, che si spostava sempre da nord alle terre dei lord a ovest, persino nei desolati territori del sud. Graham aveva sempre fatto parte della sua vita e pensava che potesse far parte anche di quella battaglia. Avrebbe voluto che restasse al sicuro con il suo Branco, ma immaginava che avrebbe combattuto con lei.

- So che sei molto legata al Figlio dei Lupi. Ho osservato anche lui. – continuò Morgana, in torno riflessivo. – È un uomo leale e giusto. Pensa spesso a te.

Non capì se fosse una risposta alla sua domanda o no.

“Lo conoscerai presto.”

Lei conosceva già Graham. Quindi poteva trattarsi di qualcuno che ancora non conosceva. Forse faceva parte del Branco?

- Chiunque sia... – ricominciò Emma, schiarendosi la voce. - L’avete mandato Voi? L’avete mandato per me?

- Mandato? – La Somma Sacerdotessa sembrò sul punto di ridere. Ma non lo fece. – Oh, no. Emma. Io non ho bisogno di mandare qualcuno. Il destino lo manda. Incolperai lui. O forse lo ringrazierai. Se ti dicessi chi è, non mi crederesti né vorresti darmi ascolto. Ma ricordati delle mie parole. Non essere avventata. Non fare cose di cui potresti pentirti. Non lasciarti trascinare dalla tua rabbia. Vieni ad Avalon.

Di chi poteva trattarsi, allora? Un alleato? Un amico? Non osava porre troppe domande alla sacerdotessa.

“Non essere avventata. Non fare cose di cui potresti pentirti.”

- Ad ovest... vicino al confine con il regno del sud, c’è una città chiamata Thorntown. – continuò Morgana. Stava quasi per svanire. I contorni tremolarono e divennero ancora più evanescenti. – Alcuni... non vogliono fermarsi in quel posto. Superstizione. Magari nelle storie che raccontano c’è qualcosa di vero, ma tu dovrai fermarti, Emma. Dillo ai cavalieri che verranno con te.

- Thorntown. Sì, la conosco. - ripeté Emma.

- Pensi di essere pronta per questo?

Poggiò la mano sull’elsa della sua spada. Per un momento ebbe l’impressione che le si fosse ghiacciato il sangue nelle vene. Ricordò ancora le ultime parole di suo padre.

“Un giorno... Presto. Presto verrà il tuo momento.”

- Pensi di essere pronta a riprenderti il tuo regno e a ricostruirlo? Sei pronta a mantenere la promessa?

Snowing Castle che bruciava. Le fiamme che si levavano verso il cielo. Gli sguardi vuoti dei soldati di David. Sua madre, inghiottita dal fuoco. Le urla. Il dolore. Il melo inciso su quelle armature nere. Sugli scudi. Sugli stendardi. L’uomo con l’ascia che aveva cercato di ucciderla. L’odore del fumo. L’odore del sangue. L’odore della morte. Graham che la portava via, proteggendola sotto il mantello e tenendola stretta a sé.

Il melo. Ora la pantera nera. Una pantera con le fauci spalancate.

- Sì - disse Emma. - Sì, sono pronta.

 

 

Nymeria. Regno di Mehlinus. Nord.

 

Regina puntò i piedi e sibilò fra i denti per segnalare al suo cavallo che il percorso che stavano seguendo era diventato bruscamente più ripido. I muscoli di Rocinante si contrassero di colpo, allorché il passo già cauto si modificò in una serie di piccoli passi esitanti. Gli zoccoli sdrucciolavano sul terreno umido prima di arrischiarsi ad avanzare. L’animale sbuffava e scuoteva un po’ la criniera. Ormai era stanco. Regina l’aveva spinto al galoppo per un bel pezzo, in mezzo ai campi intorno a Nymeria, tra i filari di mele e spaventando anche alcune persone che percorrevano le strade tra la capitale e i villaggi vicini.

Daniel, che aveva sempre cavalcato dietro di lei, cercando di mantenere il suo ritmo, montava una paziente cavalla nera come l’armatura che indossava. Adesso era poco più avanti, le faceva strada, come se lei la strada non la conoscesse. Regina gli vedeva la nuca, con qualche ciocca di capelli scuri scompigliata in cima alla testa dalla brezza che spirava su dalla discesa. Il vento gli aveva catturato le pieghe del mantello, che svolazzavano. Non aveva parlato molto, se non per raccomandarle di non galoppare troppo veloce, consiglio che Regina ovviamente non aveva accettato. E la sovrana di Mehlinus era anche sicura che Daniel stesse ancora pensando all’uomo frustato e impiccato, il cui corpo faceva bella mostra di sé nella piazza centrale di Nymeria.

Era un ladro, Daniel. Io sono la regina.

Poi Rocinante scartò di lato, all’improvviso, infastidito da qualcosa che Regina non aveva notato.

- Ehi, che cosa ti prende? – domandò al cavallo, accarezzando il suo collo e la criniera. Pensò che l’avesse morso un insetto oppure un serpente, ma quando cercò per capire se avesse ragione non vide nulla di strano.

L’animale mosse nervosamente la testa e puntò gli zoccoli, rifiutandosi di proseguire. Anche la cavalla di Daniel sembrava agitata.

- Non capisco. Non vedo niente che possa innervosire i cavalli. - disse Daniel, guardandosi intorno.

Regina portò una mano all’elsa della spada. I suoi occhi scrutavano la vegetazione, che non era abbastanza fitta per nascondere qualcuno pronto a tendere un’imboscata.

Ma c’è qualcuno. Lo sento.

- Maestà?

Qualcosa si mosse tra i cespugli.

Daniel iniziò ad estrarre la spada, mentre con l’altra mano teneva strette le briglie.

Lo scoiattolo che sbucò dalla massa verde vicino al cavallo di Regina corse, rapido e scattante, verso l’albero più vicino e si arrampicò sul tronco nodoso, sparendo tra i rami. Uno stormo di corvi spiccò il volo, gracchiando.

La cavalla scartò di lato e Daniel rischiò di essere sbalzato dalla sella. Afferrò le redini con entrambe le mani e tirò forte; al contempo cercava di rassicurarla con la propria voce.

Regina aveva smesso di prestargli attenzione. Percepiva uno sguardo su di sé. Qualcuno la osservava. Non avrebbe saputo dire se fosse un pericolo, ma la sensazione era indubbiamente pressante.

E Regina era anche certa che non si trovasse lì, vicino a loro, in quella foresta. Non proprio. Era come uno sguardo che ti osservava intensamente ma da una certa distanza, da un mondo a parte, da un luogo che non avrebbe potuto raggiungere. Non capiva nemmeno da dove venisse una simile consapevolezza, ma c’era. La magia di chiunque la stesse guardando era potente.

- Maestà, state bene? – domandò ancora Daniel.

La sensazione disparve. Regina mise a fuoco il viso del comandante. Batté le palpebre. – Sto bene. Non c’è niente qui.

La cavalla di Daniel si era calmata. Rocinante aveva chinato il capo per strappare un po’ d’erba, come se non fosse accaduto nulla di particolare.

- Volete che dia un’occhiata in giro, Maestà? – domandò lui, con la fronte aggrottata.

- No, Daniel. Non preoccupatevi. Ve l’ho detto, non c’è niente qui.

Non c’è più, per lo meno. Ma c’era.

Un brivido percorse la sua schiena e le si increspò la pelle delle braccia.

Mi stanno spiando? I miei nemici mi spiano?

- D’accordo, come desiderate. – rispose Daniel, girando il cavallo. Non era molto convinto. Forse aveva percepito qualcosa persino lui, che non conosceva la magia.

- Torniamo a Nymeria. – concluse Regina, lanciando un’ultima occhiata al sentiero alle sue spalle.

Ovviamente era deserto.

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Capitolo 13
*** 12. Time Has Come Today ***


12

 

TIME HAS COME TODAY

 

 

 

Nymeria. Regno di Mehlinus. Nord.

 

 
Il cadavere dell’uomo condannato a morte per il furto del grano e delle armi penzolò nella piazza di Nymeria per tre giorni e tre notti. I corvi gli beccarono le guance, scavarono nelle sue mani e gli strapparono gli occhi. Cani randagi ed affamati si aggirarono intorno al corpo, osservandolo, guardinghi e smaniosi, e poi si avventarono sulle caviglie e sulle gambe, mordendo e strappando. Il lezzo divenne insopportabile.

Infine il comandante ricevette l’ordine di tirare giù il cadavere e bruciarlo, senza troppe cerimonie. La gente guardava. Tutti avrebbero voluto distogliere gli occhi da quell’orrore, ma nessuno era in grado di farlo. Il fabbro continuò a tenere gli occhi fissi sul corpo in putrefazione, mentre con la mano destra calava il martello sulla lama della spada che aveva appena forgiato. I bambini, attaccati alle gonne delle loro madri, avevano avuto incubi popolati di morti che camminavano, morti del tutto identici a quello che dondolava in piazza.

Daniel, il comandante delle guardie, ondeggiò, nauseato dall’odore pestilenziale. Non portava l’elmo e tutti poterono vedere il suo pallore, il sudore che gli imperlava la fronte e la bocca stretta, tirata in una smorfia disgustata.

- State bene, comandante? - domandò uno dei suoi uomini.

Non poteva svenire. Non poteva sentirsi male lì, davanti alle altre guardie. E non aveva scelta, se non eseguire l’ordine.

- Sto bene. Aiutatemi a caricarlo sul carro.

Lo aiutarono e lo portarono fuori dalla città, dove lo bruciarono.

La ragazzina alla quale ho insegnato a combattere non avrebbe mai fatto una cosa simile. Dov’è finita quella ragazzina? Cosa le è successo? Chi è la donna che siede su quel trono?, si chiedeva Daniel, ricordando gli occhi scuri di Regina, il giorno in cui si erano incontrati. Ricordando i suoi capricci. La sua ingenuità. Ricordando la sua dolcezza. Il suo modo di arrossire. E di sorridergli. La sua semplicità. Ricordando... la voce dura della regina Cora che la rimproverava perché andava troppo a cavallo, perché montava come un uomo, perché non era elegante. Lo sguardo spiritato di Tremotino... Regina che lo tentava, conducendolo nelle sue stanze e baciandolo di prepotenza, toccandolo in quel modo insinuante.

È il suo consigliere. Quel mostro. Perché non se ne rende conto? Quel mostro l’ha cambiata. L’ha manipolata!

Nel frattempo Regina aveva ricevuto delle persone nella sala del trono. Una serie di visitatori provenienti per lo più dalle terre dei lord, che avevano portato messaggi, saluti e qualche dono per la sovrana del nord, nonché alcune notizie, delle quali non le importava nulla. Tra i visitatori c’era lord Leopold; venuto dal Kernow, accompagnato da alcuni armigeri, lord Leopold si era inginocchiato al suo cospetto e... aveva chiesto la sua mano.

Regina avrebbe voluto ridergli in faccia.

- La mia mano, lord Leopold?

- Sarebbe un onore, per me, stare al Vostro fianco negli ultimi anni della mia vita, Maestà. Una donna così bella come Voi... inoltre, la mia adorata moglie, che è venuta a mancare pochi anni fa, non mi ha dato nessun figlio. Perciò...

Lord Leopold disse qualcos’altro, ma Regina aveva già smesso di ascoltarlo. Quell’uomo avrebbe potuto benissimo essere suo padre, senza contare che era di rango inferiore al suo. Non aveva bisogno di un marito che intralciasse i suoi piani o le dicesse cosa doveva e non doveva fare. Era lei, la regina. Persino lord Leopold doveva sapere che aveva rifiutato molti pretendenti in passato. Con che coraggio si presentava al suo cospetto per chiederle una cosa simile?

Rifiutò la sua proposta con lo stesso tono che avrebbe usato per rifiutare un piatto di vermi. Cosa che divertì molto Tremotino.

- Se permettete, Maestà, vorrei darvi un suggerimento. - disse, non appena lord Leopold ebbe lasciato la sala del trono, offeso per quel rifiuto e timoroso di qualsiasi altra reazione della regina del nord.

- Che suggerimento? - domandò Regina. Era stanca. Non voleva sentir parlare di visite fino all’indomani.

- Voi siete giovane e mi auguro viviate ancora molti anni; ma vedete... la vita è imprevedibile. Soprattutto la vita di una regina. È insidiosa. Piena di pericoli. C’è sempre qualcuno che trama alle spalle per sottrarre il potere. C’è sempre qualcuno disposto... a compiere raggiri. A vendersi al miglior offerente per...

- Possiamo arrivare al dunque? - lo interruppe bruscamente Regina.

- Perdonatemi. - Tremotino sorrise. - Quello che intendevo dire è che avete bisogno di un erede. Di qualcuno che prenda il Vostro posto quando sarà il momento. E per avere un erede... un erede legittimo, dico... è necessario un buon matrimonio.

- Non ho bisogno di un marito.

- Ora no. Ma pensateci: stiamo parlando del Vostro regno, Maestà. Non volete metterlo al sicuro?

- Prima di metterlo al sicuro con qualsiasi genere di matrimonio, devo prendere Anatlon. - Regina si alzò.

- Condivido il Vostro desiderio. So che tutto questo non Vi basta più e che intendete vendicare ciò che i sovrani del sud hanno fatto. Ma occorre pensare anche a... a Voi. Qualsiasi re deve pensare anche alla propria discendenza. Avete fatto bene a rifiutare lord Leopold. È troppo vecchio. È di rango più basso rispetto a Voi e di una regione marginale dell’ovest, che non Vi porterebbe nulla di buono. Tuttavia, se si presentasse un pretendente più giovane e all’altezza...

Lo rifiuteresti comunque, pensava frattanto il consigliere. Lo rifiuteresti comunque, ne sono convinto, ma con tutte le proposte indirizzate a te, mia cara, dovevo pur metterti al corrente. Sono un consigliere e i consiglieri... devono parlare anche di questo. E sarà meglio far seguire lord Leopold, dato che è quasi certamente una spia del Pendragon.

- Ascoltatemi bene, Tremotino. - disse Regina, osservandolo, torva e chiamandolo per nome. - Forse non sono stata abbastanza chiara. Non voglio un marito. Non ho tempo per pensare a questo, ora. Devo prendermi ciò che voglio, prima.

- Conquistare un regno è complicato, Regina! Occorre un esercito. Potrebbe volerci del tempo ed io penso...

- Non ci vorrà molto tempo, questo ve lo assicuro. E si dice Vostra Maestà.

Tremotino sollevò un sopracciglio. – Avete un piano, Vostra Maestà? A cosa state pensando?

Regina non rispose. Era pensierosa.

Certo, hai in mente qualcosa, pensò il consigliere. Non mi sorprende. La sete di vendetta è indomabile. Anzi, ciò che mi sorprende è che tu abbia atteso così tanto.

- Tremotino...

- Sì, Maestà.

- Ritenete che, se dovessi avere bisogno di aiuto, lady Morgause mi aiuterà?

- Che genere di aiuto, Maestà? Uomini per una guerra? Cavalli? Armi?

- Sì. Anche.

- Suppongo che potrebbe offrirvi il suo aiuto, ma...

- Vorrà qualcosa in cambio.

- Naturalmente. Morgause è una donna ambiziosa quanto Voi, Maestà. Non fa niente per niente. Si aspetterà un qualche tipo di ricompensa. E se desiderate il suo aiuto, dovrete dargliela.

Regina meditò per qualche istante. Accarezzò l’elsa di Stormbringer. – Potrei farlo.

- Non potrete rifiutare. Sono abbastanza sicuro che non potrete nemmeno... come dire... trattare. A Morgause non piace trattare. Vorrà quello che Vi chiederà e basta.

Regina aggrottò la fronte.

Erano anni che Tremotino non vedeva lady Morgause, la signora di Deep Valley. Signora del Lothian, per la precisione. Integerrima tenutaria di bordelli, sangue di Avalon, ma priva della Vista, che permetteva alle sacerdotesse di vedere lontano. Non perdeva mai una scommessa ed era più che ovvio dato che barava. Non era potente quanto lui o quanto la regina Cora, ma sapeva farsi rispettare. Un’altra pedina della grande scacchiera. Una pedina che non faceva una vera mossa da anni. Aspettava. Un occhio su Mehlinus e uno su Camelot. Quattro figli legittimi. Il maggiore, Gawain, era il più vicino al trono di Elohim, al momento, dato che Artù non aveva ancora eredi diretti.

Se anche arrivassi a domandarle qualcosa, chiederebbe molto, mia cara, pensò. Chiederebbe tanto.

Regina era pensierosa. Tremotino la fissava, in attesa.

- Sono stanca. Vado a riposare. – disse lei, all’improvviso.

- Certo, Maestà. Vi metto da parte le missive arrivate oggi.

- Naturalmente.

- Se avete bisogno di me...

- Non avrò bisogno di Voi, Tremotino.

 

 

Camelot. Regno di Elohim. Est.

 

Dopo l’apparizione di Morgana, Emma chiese espressamente al cavaliere Thomas di recarsi a Camelot e comunicare ad Artù la sua intenzione di parlare con lui di cose molto importanti. Il prima possibile.

Il cavaliere, confuso ed interdetto, fece ciò che gli aveva chiesto. Tornò poche ore dopo, sul far della sera, accompagnato da altri due cavalieri della Tavola Rotonda, Galahad, che rivolse subito ad Emma un’occhiata piena di dubbi e di domande, e Gawain.

Thomas le aveva portato un elmo, grazie al quale poteva celare il suo viso, eccetto gli occhi, e nascondere anche i lunghi capelli biondi.

Entrarono a Camelot poco prima del tramonto; gli occhi verdazzurri di Emma osservarono i camminamenti, le torricelle e le merlature di cui erano dotate le alte mura della città, dove si muovevano le sentinelle, armate di lunghe lance; attraversò la piazza rettangolare e, insieme ai compagni, procedette lungo la via principale, acciottolata e leggermente in salita, che conduceva al castello ed era fiancheggiata da abitazioni per lo più in pietra e coccio o dai portici, che riparavano i banchi di mercanti e artigiani. Altri edifici si susseguivano su entrambi i lati; botteghe, taverne e locande, qualche bordello. Chioschi di ogni tipo. Tessitori e merlettai che mettevano in mostra la merce. I soffiatori di vetro. Lo speziale, con due guardie alla porta perché la sua roba valeva un mucchio di denaro. La gente si faceva da parte, vedendo i cavalieri passare. Alcuni li guardavano, incuriositi o vagamente intimoriti. Altri chinavano il capo in segno di saluto e di rispetto. Qualche ragazzino li indicava col dito e li seguiva per un breve tratto.

Ben presto Emma si ritrovò ai piedi della grande e austera dimora di Artù, quel castello in pietre rosse e grigie, circondato da un largo e profondo fossato, che aveva visto per la prima volta una notte di undici anni prima, frustato da pioggia, vento e lampi. Lungo il perimetro del fossato sorgevano edifici pubblici, il tempio e le case delle famiglie nobili.

Galahad prese il corno del padre appeso alla cintura e suonò due volte per annunciare il loro arrivo. Pochi attimi dopo il ponte levatoio iniziò ad abbassarsi, cigolando e scricchiolando.

Vedendo un quarto cavaliere accompagnare i tre mandati da Artù, i soldati di guardia alle porte aggrottarono la fronte.

All’interno della cinta muraria si aprivano ampi spazi suddivisi in cortili che ospitavano le abitazioni dei servitori, delle truppe, degli artigiani, le scuderie e i depositi con le scorte di cibo e armi. I cavalieri smontarono e affidarono i loro cavalli a dei garzoni di stalla.

- Emma... – iniziò Galahad, a voce bassa. Le mise una mano sulla spalla. – Non so cosa tu abbia in mente, ma...

- Entriamo. – tagliò corto lei, sorridendo.

Non appena misero piede nella sala del trono, le chiacchiere intorno alla Tavola Rotonda tacquero di colpo. Diverse paia d’occhi, compresi quelli azzurri del re, quelli della regina Ginevra e del druido Merlino, che sedeva sul suo scranno, in disparte, armato del suo inseparabile bastone ricurvo, si concentrarono sulla principessa, che si tolse l’elmo, liberando le sue onde dorate.

Il silenzio era totale.

Emma imitò Gawain, Thomas e Galahad, che si inchinarono al cospetto del re e della regina. Poi i tre cavalieri presero posto intorno alla Tavola Rotonda, Galahad accanto a suo padre, Lancillotto, Gawain vicino al fratello minore Agravain e Thomas vicino a quest’ultimo.

- Emma. – iniziò Artù. – Non ho bisogno che tu mi dica cosa ti ha spinto a venire qui. Thomas mi ha detto che hai voluto restare da sola, per qualche minuto, nel bosco. Mia sorella è venuta da te, vero?

- Morgana? – esclamò Lancillotto, sorpreso. – Per quale motivo?

Emma avrebbe dovuto immaginare che non ci sarebbe stato bisogno di spiegare nulla ad Artù. Aveva Merlino come consigliere, un mago in grado di vedere lontano; infatti, non appariva affatto sorpreso, nemmeno lontanamente toccato dalla notizia.

- Sì – confermò il druido. – Ti stavo aspettando, Emma. Ti ho vista arrivare.

I cavalieri apparivano perplessi, incuriositi e vagamente increduli. Molti fissarono il vecchio druido. Era un uomo imponente, non tanto per via della sua statura, quanto per la reputazione, per una certa eleganza nella struttura fisica e per la presenza: dominava l’ambiente, riuscendo a far sembrare vuota una sala affollata.

- Morgana ed io abbiamo parlato nel bosco, oggi. – disse Emma. – La Somma Sacerdotessa mi ha parlato del mio viaggio.

Serpeggiò una certa agitazione tra i presenti.

- E cosa ti ha detto a riguardo? – chiese il re.

- Cose che ancora non capisco. Ma mi ha domandato se sono pronta, sire. Mi ha domandato se sono pronta a partire.

- E immagino che tu voglia partire.

- Sì, sire. Il prima possibile. Tra un paio di giorni al massimo, se me lo concedete. Vorrei portare con me alcuni cavalieri, che possano aiutarmi a studiare la situazione non appena arriveremo a nord. In modo da capire come potrò fare per attaccare.

- Un paio di giorni?! – Galahad espresse tutto il suo sgomento, sbarrando gli occhi azzurri. Suo padre gli sferrò una gomitata, invitandolo a tacere.

- Sono stupefatto anch’io. – disse Gawain, grattandosi la barba scura. – Un paio di giorni? Qui non si tratta di un viaggio qualsiasi. Stiamo parlando di andare a nord.

- Finalmente, vorrai dire! – esclamò suo fratello Agravain. – Sono anni che aspetto di andare a nord! Sono d’accordo con Voi, principessa. Affronteremo quella maledetta strega... che la Dea mi fulmini se non gliela faremo pagare cara.

- Agravain, ti prego. – disse Gawain, afferrandolo per il polso.

L’agitazione serpeggiò nuovamente tra i cavalieri. La regina Ginevra si tormentava una ciocca dei suoi capelli scuri, arrotolandosela sul dito indice.

- Emma... ne sei sicura? – domandò Artù.

- Sì. – rispose lei, senza alcuna esitazione. – Voglio andare. Voglio mantenere la promessa fatta a mio padre.

- Anch’io intendo mantenere la mia, di promessa. – osservò il re, risoluto. – Ed io ho promesso di proteggerti. Di tenerti al sicuro. Se quello che desideri è andare in cerca della tua vendetta, allora sia. Ma non c’era alcun bisogno di chiedermi uomini in prestito. Non ti lascerai mai andare da sola, nemmeno se si tratta di andare avanti, in ricognizione. I miei uomini migliori ti seguiranno.

- Io. - disse, subito, Galahad.

Emma sorrise. Non la sorprendeva affatto, che si fosse offerto.

- Vedremo. – rispose Artù, serio.

- Perdonate, sire... – intervenne un giovane cavaliere, seduto accanto a Galahad.

- Sì, Percival.

- Immagino che la principessa si renda conto del pericolo che corre. È stata preparata anche a questo. – Percival era un cavaliere della sua età, uno degli ultimi ad essere ammesso alla Tavola Rotonda; aveva i capelli biondi e corti, un viso piacente e gli occhi verde chiaro, occhi che la fissavano, astuti. Aveva in mente qualcosa. Emma l’aveva notato dal momento in cui era entrata nella sala del trono. Persino Artù sembrava al corrente di ciò che il suo cavaliere stava per fare.

- Volete combattere, sir Percival? – domandò Emma, prevenendolo. Appoggiò una mano sull’elsa della spada. – Volete che dimostri davanti a tutti che sono in grado di battere un uomo?

Percival sorrise e si alzò in piedi. – Combattere contro di Voi sarebbe un onore. Uomo o donna non conta.

Ginevra fissò il marito, sorpresa.

- Lasciamo che Emma dimostri ciò che sa fare. Molti qui ne sono al corrente. Ma è giusto che tutti quanti vedano. È giusto che tutti vedano che è in grado di affrontare chiunque. – Artù prese la mano della moglie e osservò i presenti, in attesa di qualche altra obiezione, ma tutti sembravano solo in trepidante attesa. Allora, con un gesto della mano, invitò Percival a farsi avanti.

Emma si liberò del mantello rosso ed estrasse Narsil. Percival era alto ed era bravo con molte armi. Con la spada, con l’ascia e con la lancia lunga. Nelle giostre organizzate dal re vinceva spesso.

Percival l’attaccò subito con un potente fendente a due mani, accompagnandolo con un grido di battaglia. Emma lo parò, avvertendo chiaramente il contraccolpo che riverberava lungo il braccio, facendole tremare i muscoli. Emma respinse il cavaliere, che tornò subito all’attacco con un affondo. Parò anche quello e attaccò a sua volta, lasciando partire un colpo dal basso verso l’alto. Le spade cozzarono.

I cavalieri seduti intorno alla Tavola Rotonda assistevano al combattimento in silenzio. Galahad aveva gli occhi fuori dalle orbite. Agravain seguiva ogni movimento come se li stesse immagazzinando nella memoria. Sorrideva, compiaciuto e divertito.

Emma si sentiva scorrere in corpo una grande forza, come accadeva tutte le volte che impugnava Narsil per combattere. Non aveva la minima intenzione di lasciarsi battere da un altro cavaliere.

Fece roteare la spada e attaccò Percival. Lui, colto alla sprovvista dall’improvvisa ferocia dell’avversaria, vacillò e mancò poco che rovinasse a terra. Emma menò fendenti, affondi e stoccate, costringendo Percival ad indietreggiare. Il cavaliere la respinse, gridando e facendo pressione con la sua spada contro quella di Emma. Lei si ritrovò sbilanciata, ma non cadde. Con un movimento rapido e pulito, si svincolò dalla spada avversaria e poi, impugnando saldamente Narsil e pensando a tutto ciò che le avevano insegnato, Emma colpì la spada di Percival, forte, un colpo che sembrò riecheggiare nella sala del trono, frantumandosi in una moltitudine di echi. Percival perse la presa sull’arma. Emma puntò la sua alla gola dell’avversario, che alzò le mani in segno di resa.

I cavalieri intorno alla Tavola Rotonda esultarono e gridarono, battendo le mani sul legno. Artù, pur sapendo quando Emma avesse imparato nel corso degli anni, era sinceramente impressionato. Si alzò, mentre nella sala del trono calava il silenzio. Percival tornò al suo posto, scuotendo il capo, con l’aria corrucciata.

- Ti batti con onore, Emma Swan. Tuo padre sarebbe fiero di te. – disse il re, sorridendo e rivolgendosi a lei con il nome che aveva scelto per celare la propria identità.

Emma non sorrise. Il ricordo del padre fece capolino nella sua mente e, istintivamente, strinse l’elsa della spada.

- Voglio darti ciò che ti meriti. Inginocchiati, Emma. – disse Artù.

Emma ebbe un attimo di esitazione. Poi fece ciò che il re le aveva chiesto. Lui estrasse la sua spada dal fodero.

Le cerimonie d’investitura, durante le quali gli uomini venivano nominati cavalieri, si svolgevano quasi sempre all’aperto, nella piazza di Camelot oppure all’interno del tempio. Solo in poche occasioni si erano svolte nella sala del trono. Inoltre il nuovo cavaliere doveva sottoporsi ad un lungo rituale: digiunare la sera prima della celebrazione e passare la notte nel tempio, pregando gli dei. Dopo l’investitura sarebbe stata organizzata una grande festa. Ma non c’era tempo per preparare una cerimonia adeguata.

Quindi Artù porse la mano libera ed Emma la prese. Con l’altra il re impugnò saldamente Excalibur e, con la lama, sfiorò prima la spalla destra e poi la spalla sinistra di lei.

- Emma, da questo momento in avanti, tu non sei solo una principessa, l’erede legittima del regno dei tuoi genitori. Sei un cavaliere.

Emma si alzò. Artù le restituì la spada. I cavalieri tornarono a battere le mani sulla Tavola. Galahad sembrava stordito dagli ultimi avvenimenti.

- E come cavaliere voglio che tu sieda in mezzo a noi. Vieni. Dobbiamo parlare di questa impresa. Di come affrontarla. Abbiamo molto di cui discutere. – Artù alzò lo sguardo alla ricerca degli occhi saggi di Merlino, che non si era mai mosso. Il druido sorrise leggermente. – Questa notte sarà particolarmente lunga.

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Capitolo 14
*** 13. A Long Night ***


13

 

A LONG NIGHT

 

 

 

Nymeria. Regno di Mehlinus. Nord.

 

 
- Partire? Domani? – Tremotino spalancò gli occhi, non appena Regina gli comunicò la sua decisione.

Erano entrambi nella sala del trono. Dalle finestre filtrava la luce delle torce accese lungo i bastioni.

- Ho già scelto gli uomini che mi seguiranno. – disse Regina, in tono pratico. – La mia armatura è pronta. I servi la stanno lucidando. Prenderò Rocinante e partirò alle prime luci dell’alba. Durante la mia assenza Vi occuperete Voi del regno.

- Maestà...

- Devo andare, Tremotino.

- Lo capisco. Ma...

- Non ci sono ‘ma’. – Regina assunse un’espressione dura. Agguerrita. Strinse l’elsa nera della sua spada, Stormbringer. – Sono troppi anni che attendo, consigliere. Troppi anni che penso a come vendicare la morte di mia madre e quella di mio padre. Troppi anni che penso a come vendicare il tradimento subìto! Non ho intenzione di perdere altro tempo. Voglio prendere il regno dei Blanchard! Voglio dimostrare a tutti che sono dei traditori! Che la loro magia... le loro illusioni... non mi fanno paura.

Tremotino annuiva, cercando di apparire comprensivo. – Sì. Non pensiate che sia qui per impedirvi di partire. So che lo desiderate. Però... sono il Vostro consigliere. Sono stato il Vostro insegnante. E sapete bene che provo un grande affetto per Voi. Quindi, sento di dovervi dire qualcosa. Me lo permettete?

- Parlate.

- Sono convinto che se Vostra madre fosse qui sarebbe fiera di Voi. Dovete prendervi la Vostra vendetta. È giusto. – Tremotino si avvicinò alla sovrana di qualche passo. Allungò una delle sue mani squamose, sfiorando gentilmente il volto della donna. – Ma, Regina... i Blanchard sono pericolosi. Non li vediamo da anni e non abbiamo idea di quanto siano diventati potenti. Voi... Voi non ne avete idea. Abbiamo mandato degli uomini laggiù, più di una volta. Quanti ne sono tornati? Nessuno!

- Non ho paura di loro, Vi ripeto! – s’irritò Regina, dandogli le spalle.

- Ne sono consapevole. Ma ammetterete che andare a sud sia rischioso. Non sono degli stupidi. Probabilmente si aspettano il Vostro arrivo da un giorno all’altro. E non solo non sapete quanto siano potenti a livello... magico. Non sapete nemmeno quanto lo siano a livello militare. Il mio consiglio è di aspettare ancora un po’. Non molto, soltanto qualche... qualche luna.

- È troppo, Tremotino. Non posso aspettare!

- La fretta non è mai una buona consigliera...

- Risparmiatevi le frasi fatte! – gridò la regina, voltandosi e fulminandolo con un’occhiata.

- Sì, è una frase fatta, ma è la pura verità, mia cara! – Tremotino assunse un’aria desolata. E l’aveva chiamata ‘mia cara’. Quando lei era piccola, lo faceva spesso. Adesso, quel ‘mia cara’ gli sfuggiva solo quando discutevano. – Potrei farvi numerosi esempi di... di guerrieri valorosi che hanno avuto fretta e sono caduti... senza ottenere niente. Vi ricordo che ho molti più anni di Voi. È molto importante che siate a conoscenza dei poteri dei Vostri avversari. In questo modo, potreste elaborare una strategia migliore.

Regina chiuse gli occhi per qualche istante e rifletté.

- Fidatevi. So di cosa parlo. – continuò Tremotino. – Siete potente, ma occorre capire quanto lo siano loro. Inoltre ritengo siano capaci di fare qualsiasi cosa. Sapete bene con quanta crudeltà hanno agito l’ultima volta. Sapete bene quanto siano malvagi, quanto possano essere... perfidamente astuti. Non lasciatevi accecare dal Vostro desiderio di vendetta. Non dovete dimenticarvi di ciò che hanno fatto a Vostra madre e a Vostro padre, ma non dovete nemmeno perdere la lucidità. Il regno ha bisogno di Voi.

Per quanto le costasse ammetterlo, Regina si rendeva conto che il suo consigliere non aveva tutti i torti. Non sapeva quasi niente dei Blanchard. Non li aveva mai visti. Voleva distruggerli, ma per farlo doveva conoscerli meglio.

Madre, vorrei che foste qui. Vorrei tanto potervi parlare del mio piano. Vorrei tanto potermi affidare ai Vostri, di consigli. Tremotino vuole solo aiutarmi, mi ha insegnato molto... ma vorrei che foste Voi ad indicarmi la strada.

- Io non posso più aspettare. – concluse Regina. – Ma... d’accordo. Avete ragione: non so niente dei Blanchard.

- Già. – Tremotino sorrise.

- Partirò comunque, domani mattina. – Regina serrò la mascella. – Non ho intenzione di attaccare. Non subito. Andrò avanti, in esplorazione. Cercherò di... di capire quanto siano abili. Con la magia. E cercherò di... di farmi un’idea del loro esercito. Elaborerò un piano. E quel piano sarà perfetto, una volta che saprò tutto dei miei nemici.

- Queste sono parole sagge, Maestà. – disse Tremotino, con uno scintillio negli occhi scuri. – Ammiro il Vostro coraggio.

- Ma per quanto riguarda il viaggio... non si può rimandare.

Sospirò. Alzò il viso verso il soffitto altissimo della sala del trono. Poi lo riabbassò e guardò Regina negli occhi. – Sì. Va bene. Volete che vada ad assicurarmi che i servi stiano facendo il loro dovere con l’armatura e con il cavallo?

- Sì, andate.

Tremotino si inchinò lievemente.

Sì. Andrò a controllare il cavallo. E l’armatura. Quell’armatura nera che hanno forgiato apposta per te, Regina. E poi... ho dei messaggi da scrivere. Messaggi molto urgenti.

 

 

Camelot. Regno di Elohim. Est

 

Artù aveva ragione. Era stata una notte lunga.

Avevano parlato del viaggio. Avevano discusso su chi l’avrebbe accompagnata fino a Mehlinus.

Agravain aveva insistito talmente tanto, che alla fine il re aveva accordato il permesso; lui sarebbe andato con Emma. Anche Galahad, nonostante il parere contrario del padre, intendeva seguirla.

- Io ed Emma siamo cresciuti insieme. – aveva detto il giovane cavaliere. Palpebre socchiuse. Occhi chiarissimi e affilati. Duri. Decisi. Guardava il suo re con la mandibola che tremava. – Siamo cresciuti insieme ed io... mi sento in dovere di continuare a proteggerla e di essere al suo fianco in questa impresa.

- Va bene. - aveva detto Artù. – Te lo concedo.

Lancillotto, che occupava il Seggio Periglioso, il posto d’onore accanto al re, aveva stretto le labbra, preoccupato, ma non si era più permesso di contestare la decisione.

Gli altri cavalieri che avrebbero viaggiato con lei, oltre ad Agravain e Galahad, erano Gawain e Thomas.

Avevano discusso della tattica da adottare. Emma non aveva ancora un piano preciso in mente. Non sapeva cosa sarebbe accaduto, non appena si fosse ritrovata davanti alla sovrana del nord. Avrebbe combattuto. Fino alla fine. Questo sì. Avrebbe combattuto per vendicare i suoi genitori. Avrebbe guardato quella donna negli occhi. In fondo agli occhi. L’avrebbe guardata e l’avrebbe affrontata. Voleva batterla. Voleva sconfiggerla. Non doveva avere paura. Né della sua forza né tantomeno della sua magia.

- Viaggerete passando da sud, per poi spostarvi verso ovest. – aveva detto Artù, indicando la via su una grande mappa, srotolata sulla Tavola Rotonda. – La strada sarà molto più lunga. Impiegherete più tempo per raggiungere il nord, ma se attraversaste la Via dei Re, quella principale... sareste troppo scoperti. So che sapete difendervi, ma la regina vi vedrebbe arrivare. Se ha delle spie, cosa che credo fermamente, anticiperà le Vostre mosse. Sarà preparata. E non dovete darle il tempo di prepararsi. Dovete giungere a nord e osservare, prima di tutto. Capire com’è organizzata. Scovare eventuali punti deboli. È necessario cogliere di sorpresa lei e il suo consigliere.

Tremotino. Ecco un’altra cosa a cui doveva pensare. Tremotino, l’oscuro e astuto consigliere di Regina. Un uomo misterioso e potente, che per anni aveva camminato al fianco della sovrana. Emma non l’aveva mai visto, ma ne parlavano tutti come di un essere che di umano aveva ben poco. Aveva occhi spiritati e pelle da rettile, un aspetto sgradevole, per non dire ripugnante. La sua mente e il suo cuore erano neri come la notte più oscura.

Cogliere di sorpresa Tremotino sarebbe stata una vera impresa.

- Sire, c’è un’altra cosa di cui vorrei parlavi... – aveva detto Emma.

- Dimmi pure.

- La mia armatura...

- C’è già un’armatura per te, Emma. È da tempo che l’ho fatta forgiare. Un’armatura più robusta di quella che indossi. Sono sicuro che...

- Vi ringrazio. – lo interruppe Emma. – Ma mi riferivo allo stemma. Vorrei mostrare lo stemma della mia famiglia. Il cigno.

Artù l’aveva fissata, sbigottito. – Emma, se viaggi con lo stemma della tua famiglia... sarà più pericoloso. Regina capirà da lontano chi sei... e se ci fossero delle spie...

- Sì. Lo so. Ma è il simbolo del mio regno. Ed io voglio che lei sappia chi sono. Voglio che mi riconosca non appena mi avvisterà. Non sa nulla di me, non sa che esiste un’erede di Anatlon. Non ancora. Se anche le spie notassero il cigno, mi scambierebbero per un esule del sud, per un sopravvissuto che usa lo stemma della famiglia, per... un membro della guardia che è riuscito a fuggire. Tutti sanno che la famiglia reale è morta.

- Emma...

- Non ho forse scelto la parola ‘Swan’ come cognome? In tutti questi anni ho celato la mia vera identità dietro di essa.

- Certo. L’hai scelta perché ritenevamo che fosse meglio non usare il cognome Blanchard, visto che qualunque cosa, qui, sembra abbia delle orecchie. Hai anche assunto il simbolo della mia famiglia per lo stesso motivo.

- Ma adesso non intendo più nascondermi! Sire, parto per affrontare colei che ritengo responsabile della morte dei miei genitori e della distruzione di Snowing Castle. Voglio che Regina veda questo simbolo. Voglio che sia una delle prime cose che vedrà e che si renda conto che quel tradimento non resterà impunito.

Artù aveva riflettuto alcuni istanti. Gli altri cavalieri non avevano commentato.

- Bene, Emma. – aveva risposto il re. – Se è questo ciò che vuoi, allora farò in modo che sul tuo scudo venga inciso un cigno.

- Grazie.

Dopo la lunga discussione Emma non andò a riposare. Non era stanca. Il suo cuore era in tumulto e la sua mente già in viaggio. Quindi lasciò i cavalieri e, con l’armatura addosso e l’elmo sul capo, in modo che nessuno avesse una visione chiara del suo volto, salì sulle alte mura del castello, percorse per un breve tratto il cammino di ronda e poi si fermò, appoggiando le mani sul parapetto e guardando Camelot dall’alto; le case, il tempio con la sua cupola rotonda, le strade acciottolate, la piazza, il luccichio delle torce e di alcune lanterne, le abitazioni eleganti dei nobili vicino al castello del re. Guardò oltre le mura che circondavano la città di Artù. Guardò la foresta, dove si era nascosta a lungo, protetta dai cavalieri. Guardò le terre coltivate intorno a Camelot. Le ombre avvolgevano tutto, ma Emma assorbiva i rumori che giungevano fino a lei. Il latrato di un cane. Il richiamo di una civetta. Il frinire dei grilli. Lo scricchiolio prodotto dalle ruote di un carro. In cielo strisce di nuvole grigie tra le quali era possibile vedere le stelle e una piccola falce di luna.

Emma inspirò l’aria della notte. Quello era il luogo in cui era cresciuta da quando era stata costretta ad abbandonare Anatlon. Quello era il luogo in cui i cavalieri l’avevano protetta per anni. Lo conosceva. Conosceva la foresta come le sue tasche. Conosceva anche Camelot. Eppure non aveva mai pensato a Camelot come alla sua casa. Una volta le avevano detto: dove c’è qualcuno che non smette di pensarci con affetto, c’è la nostra casa’. Chi era stato? Ah, certo Galahad. Galahad gliel’aveva detto. L’aveva imparato da suo padre che, a sua volta, aveva udito quella frase da Elaine di Corbenic.

No. Camelot non era casa sua. Lì si era sentita protetta e amata, ma non era comunque casa sua. La sua casa era Snowing Castle.

- Siete qui.

La voce della regina Ginevra la fece sobbalzare.

- Mi dispiace. Non volevo spaventarvi. – disse la sposa di re Artù, avvicinandosi al parapetto. Vestita di un leggero ed elegante abito azzurro, la regina di Camelot si accostò a lei, l’ombra di un sorriso sulla bocca. I capelli scuri erano ora raccolti in una lunga coda.

- Non mi avete spaventata. Solo... non mi aspettavo di vedervi qui.

- Ed io credevo che foste andata a riposare.

- No. Non penso di poter riposare.

- Volete che Vi lasci sola? – Usava un tono molto rispettoso, come se non la conoscesse affatto. Come se stesse già parlando con una regina.

- No. Vi prego, restate.

Ginevra appoggiò i gomiti al parapetto. – Sono giorni importanti per Voi. Giorni che aspettavate da molto tempo. Siete davvero sicura di voler partire... così presto?

- Non è presto. Ho aspettato anche troppo.

- Siete giovane. Avete solo vent’anni. Se Vostro padre fosse qui Vi inviterebbe alla prudenza.

“...un giorno. Presto... Presto verrà il tuo momento. Lo so. Non può essere altrimenti. Allora tornerai e tutto questo sarà tuo! Tutto! Il trono che ti appartiene di diritto sarà tuo! Le terre saranno tue! I miei uomini saranno tuoi!”

Suo padre. Sì, forse David le avrebbe chiesto di attendere. Di prepararsi meglio. Ma Emma si sentiva pronta. Il suo cuore le diceva che il momento era giunto. Morgana gliel’aveva detto.

“Pensi di essere pronta per questo?”

“Il viaggio sarà lungo, Emma. Sarà lungo e avrai modo di scoprire che molte delle cose in cui credi non sono come appaiono.”

Cosa significava? Cosa? Lei sapeva come stavano le cose. Sapeva che Regina era la responsabile della morte dei suoi genitori! Aveva visto con i suoi occhi gli uomini con l’armatura nera e lo stemma sugli scudi, sugli stendardi. Il melo su sfondo blu, che adesso si era trasformato in una pantera nera con le fauci spalancate. Regina non aveva mai fatto nulla per negare quell’attacco. Era apertamente ostile con tutti. Forse le parole di Morgana si riferivano a qualcos’altro...

“Io non ho bisogno di mandare qualcuno. Il destino lo manda. Incolperai lui. O forse lo ringrazierai. Se ti dicessi chi è, non mi crederesti né vorresti darmi ascolto. Ma ricordati delle mie parole. Non essere avventata.”

- Mio padre era un uomo coraggioso. Forse mi avrebbe detto di aspettare, ma io sento di dover andare. Sento che è questo, il momento giusto. – disse Emma, osservando la foresta, seguendo uno stormo di uccelli neri che si alzava in volo.

- Allora pregherò per Voi. – disse Ginevra. – Pregherò per Voi ogni giorno. Pregherò perché troviate la forza di arrivare alla fine di questa impresa. Voi e non solo Voi... anche mio marito e gli altri cavalieri.

- Vi ringrazio.

Il sorriso di Ginevra era appena accennato. La sua voce era dolce, una di quelle voci che sembravano far rientrare i problemi in una dimensione meno vasta. Era piccola di statura e un po’ gracile fisicamente. In quel momento, là sui camminamenti del castello, sembrava in procinto di dissolversi. Eppure Emma intuiva che, dietro l’aspetto dimesso, vi fosse anche una grande forza d’animo. – Spero che ci sia qualcuno disposto ad ascoltarle, quelle preghiere. Non ho mai pregato molto gli dei nella mia vita. 

Emma non aveva idea di come rispondere, anche perché nemmeno lei si era mai affidata agli dei. Si schiarì la voce. – Non è necessario. Me la caverò. Mi sono preparata per anni.

- Mi ricordate Artù, a volte. Spesso fa di testa sua. Non è possibile discutere con lui quando ha già preso una decisione. È sempre stato così. Forse è anche per questo che il popolo lo ama. – Guardò l’orizzonte.

- Il popolo ama anche Voi.

- Non nello stesso modo. – Dicendolo, sorrise e poi alzò le spalle. - Io sono la moglie di Artù e il popolo si aspetta... qualcosa da me. Si aspetta un erede.

Stava per dirle qualcosa di sciocco, qualcosa che persino Ginevra si sarebbe aspettata: vedrete che arriverà. Non lo fece. Dare a qualcuno delle false speranze poteva essere più doloroso che restare in silenzio.

- Emma, non sono preoccupata per me. – ricominciò Ginevra, con una voce più ferma, più sicura. - Sono preoccupata per il regno. Se Artù non dovesse avere eredi... Camelot e l’est precipiteranno nel caos. Lo stesso caos che regnava in queste terre prima della salita al trono di Uther.

- Potrebbe nominare come erede un altro. Qualcuno di cui si fida.

- Sì, ma ciò potrebbe creare dei conflitti interni, dei rancori. Potrebbero esserci dei problemi all’interno della cerchia di Artù. E non vorrei mai che ciò accadesse. Se nominasse Lancillotto, potrebbe infastidire Morgause. Anche i suoi figli sono vicini al trono. Gawain specialmente. È il maggiore ed è il cugino di Artù. Ma se nominasse Gawain...

- Avrebbe problemi con il padre di Lance.

- Lord Ban di Benwick non è più così giovane, ma può essere pericoloso. Ha una dozzina di figli legittimi, ma Lancillotto è sangue di Avalon. Lo sono anche i figli di Morgause, ma lei ha abbandonato Avalon anni orsono, non è mai stata sacerdotessa e non possiede neppure la Vista, stando a ciò che dice Merlino. E Artù non si fida completamente di lei. Lance, invece, è figlio della Dama del Lago.

Emma non rispose. La brezza notturna scompigliò leggermente i capelli di Ginevra. Lei sospirò.

- C’è... c’è ancora tempo. – disse Emma. – Non dovete essere pessimista.

- Quando tornerete... Vi renderete conto dell’importanza di avere un erede. Anche Voi siete una regina.

- Adesso io sono un cavaliere.

- Oh, sì. Uno dei migliori. Quando avete combattuto contro Percival non credevo ai miei occhi. Sapevo che eravate brava... solo non immaginavo lo foste così tanto. Siete incantevole quando vi battete. E con incantevole... intendo dire che è difficile non guardarvi mentre usate quella spada. – Ginevra le appoggiò una mano sul braccio.

- Mi fa piacere sentirvelo dire.

- Ma siete anche la legittima erede di Anatlon. Vi chiederanno di... di sposarvi. Di sposarvi e di avere dei figli, che prenderanno il Vostro posto. Diventeranno fondamentali, quei figli, per mantenere la pace nel Vostro regno. Tutti Vi guarderanno, in attesa di quel futuro re o di quella futura regina.

- Non ho tempo di pensare a questo.

- Ora no. Ora dovete pensare solo a riprendervi ciò che Vi appartiene e ad onorare la memoria delle persone che Vi hanno messa al mondo. Ma insisteranno perché lo facciate. Nemmeno io ci pensavo, prima di sposare Artù. Non ci ho pensato nemmeno all’inizio. Quello a cui pensavo era... conoscere l’uomo che mio padre aveva scelto per me. Sono stata fortunata. Artù è davvero l’uomo migliore che potessi incontrare.

Emma si voltò verso la regina di Camelot.

- Forse parlate così perché c’è già qualcuno nel Vostro cuore? Qualcuno a cui tenete particolarmente? – domandò Ginevra, sottovoce.

Emma ripensò a Graham. Ripensò al loro bacio. Era da tempo che non si soffermava su quei ricordi, visto che era stata molto presa dalla sua missione e dal suo addestramento. Ma conservava ancora dentro di sé la dolcezza di quel momento.

- Nessuno.

- Nemmeno... Galahad?

- Come? – Emma era sbalordita. – Galahad?

- Siete molto uniti. Credo che Lancillotto approverebbe. E anche Artù.

- Io non amo Galahad. Non nel modo che credete. – Emma pensò al giovane cavaliere della Tavola Rotonda. Era bello, sì. Galahad era bello e generoso, aveva un grande cuore e l’aveva sempre trattata con rispetto. Le aveva insegnato a combattere con la mano sinistra. Ma... sposarlo? Non aveva mai pensato ad una cosa simile. Mai. Nemmeno una volta.

Ginevra non disse niente. Parve rifletterci su. Poi scosse la testa. – Forse è meglio che vada. Sono felice di avervi incontrata. E di aver parlato con Voi. Sembra incredibile, ma in undici anni non abbiamo mai davvero parlato.

- Già. No.

Ginevra la lasciò sola sul cammino di ronda. Emma restò là, a guardare la terra in cui era cresciuta, fino a quando non spuntò il sole.

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Capitolo 15
*** 14. Fear No Darkness ***


14

 

FEAR NO DARKNESS

 

 

 

Deep Valley. Lothian. Ovest.

 

 

- Cavalieri che lasciano Camelot all’improvviso diretti verso sud. E sembra che ce ne sia uno nuovo, che nessuno conosce, forse appena nominato. – Morgause, la signora del Lothian, sedette su una vecchia sedia in legno di quercia, nella sua stanza. Posò il calice di vino sul vassoio che un servitore le stava porgendo e gli fece segno di andarsene. Lui si affrettò a levarsi di torno.

- Così pare, mia signora. – rispose maestro Archibald, l’insegnante di Mordred. – Ma forse non dovremmo essere così sorpresi. Artù è... un re. Invia spesso i suoi cavalieri nelle terre dei lord o nelle città minori, a est di Camelot. Ha molte cose a cui pensare. Molti alleati da mantenere. Molti amici. Senza contare che c’è il matrimonio del Vostro terzogenito. Potrebbe...

- Il matrimonio di Gareth non c’entra nulla. E poi i cavalieri erano diretti a sud. Perché a sud? Non c’è niente laggiù! Niente che possa interessare ad Artù.

- È una via comoda, mia signora. È più sicura. Ci sono percorsi segreti. Viaggiare sulla Via dei Re... non è sempre facile. I cavalieri sarebbero troppo scoperti. Se i messaggi che Artù vuole far giungere a destinazione sono messaggi importanti, allora...

- La Via dei Re non sarà la più sicura, ma è la più breve. Artù l’ha usata altre volte, in passato. Se i messaggi sono così importanti, beh allora non vedo perché dovrebbe passare da sud per poi raggiungere l’ovest. Allungherebbe di molto il tragitto. – Morgause si alzò, avvicinandosi al camino dove, pochi giorni addietro, aveva bruciato il messaggio scritto in codice.

- Forse i messaggi non sono così urgenti. Ma è comunque necessario che arrivino a destinazione intatti.

- La verità, Archibald, è che qui c’è qualcosa che non torna.

- Non penso dobbiate preoccuparvi, mia signora. Due di quei cavalieri sono Vostri figli e sebbene siano fedeli al re di Camelot, sono anche fedeli alla loro madre.

O forse no, pensò Archibald. Ma si guardava bene dal dire cose che avrebbero potuto causare le ire della signora del Lothian.

- Non ho paura per me, Archibald!

E allora di cosa?

Il maestro deglutì e tacque. Viveva a Deep Valley da parecchi anni, ovvero da quando Mordred aveva solo qualche luna. Il suo compito era quello di seguirlo nella crescita ed istruirlo. E l’aveva fatto. Pensava di conoscere bene, quel bambino. Conosceva lui così come conosceva Morgause e la sua sorellastra, Igraine, la madre di Artù e Morgana.

Ma di Morgause aveva sempre avuto paura. Paura del suo sguardo verde, affilato e penetrante. Paura delle sue reazioni. Paura delle parole di Merlino, il consigliere di Artù che, anni addietro aveva avuto modo di incontrare. Era un druido saggio e potente, che vedeva molto lontano. E gli aveva detto qualcosa a proposito della Grande Madre, la divinità femminile primordiale venerata ad Avalon, ovvero che la Dea aveva quattro volti, quattro aspetti, quattro diversi modi di manifestarsi; il Primo Volto era il volto affascinante, dolce ma giusto, forte, appassionato, il volto di un’indomita guerriera.

Il Secondo Volto era quello più pio e benevolo, il volto di un’amica, di una consolatrice. Archibald aveva pensato ad Igraine, a quella donna così silenziosa e gentile.

Il Terzo Volto era il volto saggio, il volto della maga sapiente, che poteva essere capace di grandi affetti, ma era anche dura ed implacabile, disposta a tutto pur di difendere Avalon e i suoi abitanti dai nemici.

E poi c’era il Quarto Volto. Il volto oscuro. Il volto segreto. La giustizia senza compassione. Una notte senza luna.  

Morgause?

Le ombre che la signora del Lothian si portava addosso da quando era nata l’avvicinavano molto al Quarto Volto della Dea. Per questo Archibald era preoccupato. Preoccupato per Mordred, che era stato affidato alle cure di Lot e, quindi, di sua moglie. Era preoccupato persino per il re di Camelot. Per l’est. Perché Morgause era anche molto ambiziosa. Il suo primogenito era il più vicino al trono.

“Archibald, spera che Morgause non sia il Quarto Volto”, gli aveva detto Merlino. “Spera di non vederlo mai, il Quarto Volto. Anche se temo che sia tu che io lo vedremo.”

- Archibald, è meglio che tu vada. Da Mordred. Ti starà aspettando. – disse la signora di Deep Valley, ancora voltata di spalle.

- Certo. Certo, vado subito. – Si profuse in un breve inchino e lasciò la stanza. I suoi occhi azzurri erano offuscati da parecchi pensieri.

Che cos’ha in mente, mio nipote?, pensava, frattanto, Morgause. Perché ha in mente qualcosa, ne sono certa. Come se non bastasse, Regina è partita proprio questa mattina. Che Artù ne sappia qualcosa? Forse crede che lei si prepari ad attaccare Elohim? O forse lui sa qualcosa su di me? No, non può essere. Se lo sapesse, mi avrebbe già mandata a chiamare o sarebbe arrivato con un esercito. Nella migliore delle ipotesi mi avrebbe mandato un avvertimento o un ultimatum.

Avrebbe ordinato alle sue spie di tenere gli occhi aperti e di comunicarle altri, eventuali spostamenti o decisioni prese dal re di Camelot.

Se solo possedessi ancora una barlume di Vista!, pensò Morgause, fremendo di frustrazione. Sarebbe tutto più facile.

La Vista era un potere che le sacerdotesse di Avalon avevano fin da bambine, un potere che permetteva di prevedere eventi che erano in procinto di verificarsi. Ma la Vista di Morgause non era mai stata così potente e lei se n’era andata presto, seguendo sua sorella Igraine, che aveva sposato il padre di Morgana. Non aveva la minima intenzione di starsene rinchiusa ad Avalon! Ogni tanto aveva qualche visione, ma niente di chiaro, niente che potesse davvero capire.

Mi terrò in contatto con Tremotino e non solo con lui. Qualsiasi cosa Artù stia tramando, non gli permetterò di realizzarla!

 

 

Verso ovest.

 

Camelot era scomparsa presto dietro di loro.

Emma aveva visto le mura della città di Artù e Ginevra svanire pian piano, mentre lei e i cinque cavalieri che la seguivano si inoltravano nella foresta, seguendo la strada che li avrebbe condotti verso sud, per poi portarli verso le terre dei lord a ovest.

All’inizio, avevano condotto i loro cavalli al trotto. In seguito, per non stancarli, li avevano riportati al passo. Emma era davanti a tutti, affiancata da sir Gawain. Dietro c’erano Galahad e Percival, che aveva voluto unirsi a loro ad ogni costo. Chiudevano il gruppo Agravain, spesso impegnato canticchiare un vecchio motivetto popolare, nonostante non avesse una voce particolarmente gradevole e Thomas, silenzioso come sempre.

 

"Vanno le strade, lunghe e infinite
sotto le nubi e le stelle smarrite,
ma sempre i piedi che han tanto vagato
tornano infine al tetto bramato.
Gli occhi che han visto fuoco e sconquasso
e grande spavento in grotte di sasso
guardano infine i cari giardini
e i campi e i colli di quand'eran piccini”

 

- Agravain. – disse Thomas, schiarendosi la voce. – Forse potresti... raccontare una storia, invece di cantare.

- Io gli suggerirei di tacere e basta. – replicò Percival. – Le mie orecchie sanguinano.

Agravain lo ignorò. – Cantare una canzone che parla di fare ritorno a casa porta fortuna. E tiene lontano la morte. Oppure preferite che canti la canzone dei demoni che strappano i cuori dopo avervi tolto la voce?

Gawain ricordava quella canzone, perché la sentiva spesso da bambino, nel Lothian. Parlava di mostri che giungevano in una città in piena notte e portavano via le voci alla gente, per poi strappare loro il cuore, mentre le vittime urlavano senza però riuscire ad emettere alcun suono.

Sorrise al fratello. – Questa va bene, Agravain. Ma forse ti conviene riposare la voce per un po’.

 

 

Cavalcavano per la maggior parte del giorno, fermandosi solo per riempire le borracce o per mangiare qualcosa. Avevano evitato qualsiasi insediamento in modo tale che nessuno si facesse troppe domande su un gruppo di cavalieri che virava verso sud, anche se laggiù c’era ben poco.

Emma aveva indossato l’armatura che il re le aveva regalato. La cotta di maglia era d’argento, finemente lavorata; la piastra pettorale smaltata, candida come neve, come il manto del suo cavallo, Maximus; Narsil era nel fodero appeso al cinturone di cuoio bianco con le fibbie dorate; sullo scudo e sul mantello rosso agganciato alla base del collo era impresso lo stemma della sua famiglia, il cigno. Ripensò al momento in cui aveva lasciato Camelot; Ginevra non aveva fatto cenno alla loro conversazione sui camminamenti e l’aveva salutata con un semplice cenno del capo. Artù le aveva posato le mani sulle spalle e le aveva sorriso.

- Confido in te. Sento che sei pronta davvero e che puoi farcela. E allora il regno dei tuoi genitori sarà tuo. Lo ricostruirai e sarà di nuovo splendido, come un tempo.

La pantera non mi fermerà, aveva pensato Emma. Il cigno non ha paura della pantera.

Aveva visto Gawain salutare la moglie e i figli. Aveva guardato Agravain prendere in braccio i suoi e farli roteare in aria. Aveva osservato Thomas stringere la figlia di pochi mesi e baciare la moglie, Ella, in lacrime. Aveva spostato lo sguardo su Galahad che salutava suo padre, Lancillotto. Emma sperava che sopravvivessero tutti. Che quei saluti non fossero il preludio di un addio.

Percival era arrivato per ultimo. Non sarebbe dovuto venire, ma quella mattina aveva chiesto al suo re di potersi unire agli altri. Artù aveva acconsentito.

- Se è quello che vuoi, non te lo impedirò, Percival. – gli aveva detto il re.

- Vi ringrazio.

- Vuole la rivincita, ecco perché viene con noi. – aveva replicato Agravain, sorridendo, divertito. – Ti bruciano le chiappe, vero? Sei stato sconfitto pochissime volte in vita tua e mai da una donna.

- Ammiro le donne che sanno combattere bene, come Emma. E sì, quella sconfitta mi brucia, ma la principessa ha vinto meritatamente. Voglio venire perché la rispetto e credo in lei. – l’aveva rimbeccato Percival.

Eppure ieri Artù ha accordato il permesso a quattro cavalieri. Diceva che quattro bastavano. Oggi, però, non ha fatto molta resistenza quando Percival ha chiesto di unirsi a noi, aveva pensato Emma.

Merlino si era avvicinato, appoggiandosi al lungo bastone ricurvo. La pelle nera era segnata dalle rughe profonde, che parevano più marcate del solito, soprattutto sulla fronte alta, come se la preoccupazione lo stesse tormentando. Gli occhi blu sotto le fitte sopracciglia nebbiose sembravano scrutarla come se le stessero leggendo dentro. Non dubitava che ne fossero capaci. E lui non sembrava più un uomo - lo stesso uomo che si era seduto di fronte a lei nella Foresta di Rhun, un giorno di qualche anno prima e le aveva parlato di Avalon e di quanto gli fosse costato starsene al suo posto - ma una creatura saggia e potente uscita da qualche antica leggenda.

- Credi nelle parole di Morgana. Una sacerdotessa di Avalon conosce sempre la verità. – le aveva sussurrato, con la voce roca.

- Le credo. Ma non capisco. – aveva risposto Emma, alzando la testa per poterlo guardare.

- Capirai. Presto. Quando sarà il momento, capirai. C’è un momento giusto anche per scoprire cose di cui sei all’oscuro. E qui ci sono troppe orecchie.

Le parole di Merlino non avevano fatto altro che rendere assai più fitta l’oscurità. Emma sapeva che Merlino aveva delle visioni, a volte. Glielo aveva detto lui stesso. Ma le aveva anche detto che il futuro non era mai chiaro. Anche se lo fosse stato, dubitava che il druido glielo avrebbe svelato.

 

 

Verso il tardo pomeriggio del sesto giorno di viaggio il cielo, fino a quel momento terso, si riempì di nuvole minacciose e iniziò a tirare un forte vento.

- Sta arrivando un temporale. – annunciò Gawain, guardando le nubi. – Dobbiamo fermarci... qui.

- Qui? Ma sei uscito di senno? – esclamò suo fratello Agravain, strabuzzando gli occhi verdi.

- Abbiamo scelta?

- Preferisco cavalcare sotto la pioggia, tra i fulmini e i tuoni, piuttosto che fermarmi a Thorntown. È una città di spettri!

Thorntown era un villaggio di mercanti e contadini che, un tempo, sorgeva a sud ovest, tra il Lothian e quello che un tempo era il regno di Emma. Era uno dei villaggi distrutti dall’avanzata dell’esercito del nord, undici anni prima. Ora era in rovina e non ci viveva più nessuno, ovviamente. A parte gli spettri dei suoi abitanti, secondo alcune storie. Le case, in legno e pietre, erano malridotte, con squarci nei muri, tetti in larga parte crollati. Le stradine erano dissestate. La vegetazione si stava prendendo tutto quanto.

- Non possiamo cavalcare sotto la pioggia e lo sai bene. – intervenne Galahad, scrutando il posto. – Rischiamo di perderci. E saremo comunque costretti a fermarci, perché non vedremo niente. La notte è nera.

- E poi... da quando uno grande e grosso come te ha paura degli spettri? – lo prese in giro Percival. E tuttavia qualcosa lo innervosiva. Si guardava intorno e alle spalle.

- Non si tratta di paura. – ribatté Agravain. – Gli spettri ci... disturberanno. Potrebbero condurci alla follia. Lo sapete cosa dicono le leggende.

- Sì. – confermò Gawain. – Le leggende dicono molte cose. Cose terribili. Ma al momento non vedo un’altra soluzione. Emma?

“Ad ovest... vicino al confine con il regno del sud, c’è una città chiamata Thorntown. Alcuni... non vogliono fermarsi in quel posto. Superstizione. Magari nelle storie che raccontano c’è qualcosa di vero, ma tu dovrai fermarti, Emma. Dillo ai cavalieri che verranno con te.”

Tutti si voltarono a guardarla. Lei si tolse l’elmo, liberando la folta chioma biondo oro. Il mantello rosso svolazzò, sospinto dal vento. Era proprio come aveva detto Morgana. Thorntown. Ma cosa poteva esserci di importante in quel luogo dimenticato e in rovina? Forse la persona che l’avrebbe seguita ad Avalon si trovava a Thorntown? Si nascondeva?

E si rese conto che tutti stavano guardando lei. Se avesse detto di no, probabilmente non avrebbero contestato la decisione e avrebbero proseguito. Avrebbero... eseguito. Perché lei era l’erede al trono. Anche se quegli uomini l’avevano protetta, erano di rango inferiore al suo. Servivano un re, ma il re in quel momento non c’era. C’era solo la futura regina di Anatlon.

Emma deglutì. Improvvisamente aveva la gola arida. - Ha ragione Gawain. Dobbiamo fermarci. Se proseguissimo saremmo... certamente sorpresi dal temporale.

Agravain borbottò qualcosa di incomprensibile.

La strada davanti a loro si allargò e si rivelò ingombra di erbacce. Quella, un tempo, doveva essere la via principale del villaggio. Molte delle abitazioni erano evidentemente inagibili, gusci sbilenchi invasi dalla vegetazione. Ma tra di essi, trovarono un edificio in pietra e legno che, nonostante fosse pieno di crepe e muschio, sembrava abitabile. Il tetto era intatto. C’era persino un altro edificio, attaccato ad esso, forse una vecchia stalla. Una vera fortuna, visto che stava arrivando la tempesta e i cavalli dovevano essere messi al riparo.

- Cerchiamo di capire se possiamo avere accesso a questa casa. – disse Emma.

Il pianterreno consisteva in un grande stanzone. Contro una parete erano accatastati panche e tavolacci. Agravain, che si era liberato dal bisogno di fare polemica e parlare di fantasmi, prese un pannello di legno, lo saggiò con le sue grandi mani un po’ callose e poi lo portò davanti all’unica finestra priva di vetri in modo da chiudere l’apertura.

- Io e Galahad ci occuperemo dei cavalli. Li portiamo sul retro. – annunciò Gawain, risoluto. – Abbiamo poco tempo.

- Sì. Io vado a dare un’occhiata al pozzo. Forse c’è ancora dell’acqua. – disse Emma.

- Vengo anch’io. – disse Percival.

- Bene. Andate. Io do un’occhiata in giro. – disse Thomas.

- Ecco. Controlla che non ci siano fantasmi. – rispose Percival, accennando un sorriso.

- Fai pure lo spiritoso e prenditi gioco di me. – replicò Agravain, guardandolo con gli occhi socchiusi. – Sai poco del mondo.

- Ah, invece tu credi di sapere tutto...

- Ho parecchi anni più di te. E ho due figli. Ho visto molte più cose. Ho viaggiato di più...

Percival roteò gli occhi.

Il pozzo del villaggio era dalla parte opposta dell’edificio in cui avevano trovato riparo, in quella che, un tempo, poteva essere stata una piazza in cui veniva allestito il mercato. Il tamburo a manovella sotto il tettuccio marcio aveva ancora la sua fune, ma il secchio, che Emma districò da un ammasso di rovi a destra del pozzo, era privo del manico.

- Non importa. Ho portato una corda. – disse Percival. Si mise al lavoro. Tagliò un pezzo della fune e infilò le estremità nei fori in cui, in precedenza, era agganciato il manico.

- Ben fatto. – commentò Emma, sorridendo. – E nel pozzo c’è acqua.

“Magari nelle storie che raccontano c’è qualcosa di vero, ma tu dovrai fermarti, Emma. Dillo ai cavalieri che verranno con te.”

Non c’era nessuno, lì. Emma si guardava intorno, ma il villaggio era abbandonato. Thomas stava perlustrando i dintorni, ma non aveva lanciato alcun segnale.

Percival gettò il secchio nel pozzo, trattenendo la corda e, pochi istanti dopo, lo issò. Lui ed Emma diedero un’occhiata all’acqua.

- Mi sembra bevibile. Percival? Cosa vedi?

- Solo acqua. E noi.  

Emma sollevò un sopracciglio. – Bene. Ditemi, sir Percival. Perché avete deciso di unirvi a noi?

- Perché era la cosa giusta da fare. – rispose, senza esitazioni, fissando l’acqua. Ad Emma parve che le stesse nascondendo qualcosa. Qualcosa che lo toccava nel profondo. Fu sul punto di fargli qualche domanda.

In quel momento vi fu un colpo di tuono. Molto vicino.

- È meglio sbrigarsi. – gli fece notare Emma.

- Certo.

 

 

Da nord a ovest.

 

La luna era una falce sottile in cielo. Lungo la riva del fiume Acheron, Regina si era accampata non appena era calata la notte, con i cinque uomini che componevano la sua scorta. Due di loro, adesso, montavano la guardia.

Non aveva permesso molte soste. Il minimo indispensabile per far riposare i cavalli. Non avevano tempo da perdere. Avevano evitato di passare vicino ai villaggi sparpagliati per le sue terre, in modo che la gente non si accorgesse di nulla e non facesse troppe domande. Avevano attraversato campi arati, le zolle smosse. Avevano costeggiato il fiume fino a poco dopo il tramonto. Allora Regina aveva ordinato di fermarsi. Era la sera del sesto giorno di viaggio.

Anche Regina aveva scelto di non percorrere la Via del Re. Per sicurezza, ovviamente. Avrebbe impiegato più tempo, ma il tempo forse le sarebbe servito per elaborare il piano.

Non riusciva a dormire, per questo era uscita a guardare le acque del fiume che scorrevano, lente e tranquille, verso l’Oceano Occidentale, dove l’Acheron si gettava. Frinire di grilli e folate di vento che smuovevano le fronde.

Regina ripensava al mattino della sua partenza.

- Vi ripeto di fare attenzione. – le aveva detto Tremotino, quando Regina era montata in sella a Rocinante, il suo cavallo, un destriero giovane, marrone e con una macchia bianca sul muso, protetto da una gualdrappa nera di maglia metallica che mostrava le insegne araldiche del cavaliere, ovvero la pantera, nel suo caso. L’armatura nera, forgiata per lei, era perfetta, lucida, non troppo pesante ma comunque robusta.

- E Voi fate attenzione al mio regno. Fino a che non sarò di ritorno dovrete occuparvene. – gli aveva ricordato Regina.

- Contate su di me. E tenetemi informato.

- Lo farò.

- Un’ultima cosa. Guardatevi dal Branco.

- Branco?

- Sono... sono dei selvaggi, Maestà. Uomini che hanno deciso di vivere lontano dai loro simili. Uomini che hanno... che hanno ucciso e tradito. Niente più che mercenari. Si spostano spesso, insieme ai lupi. Lupi veri, intendo. Forse non li incontrerete mai e sarà meglio per Voi. Ma io Vi ho avvertita.

- D’accordo. Vi ringrazio.

Tremotino l’aveva fissata dal basso, sorridendo. – Avete tagliato i capelli...

Regina aveva sempre portato i capelli lunghi, fin da quando era piccola. Ma la notte prima di partire, guardandosi allo specchio, aveva deciso che era giunto il momento di tagliarli. Per comodità, ma anche perché le cose stavano cambiando. Presto sarebbe stata la regina non solo del suo regno, ma anche di quello dei Blanchard. Quindi aveva preso le forbici e se li era tagliati. Ora erano corti, non le arrivavano neppure alle spalle.

- Vi donano molto, Vostra Maestà. – aveva commentato il Genio, rinchiuso nello specchio.

- Sono ancora la più bella del reame?

- Lo siete sempre.

Ma non contava quanto fosse bella. Contava quanto fosse potente e quanto fosse disposta a rischiare per avere ciò che le spettava. Contava cosa fosse disposta a fare per vendicare i suoi genitori e il tradimento subìto anni prima.

Anche Daniel era venuto a salutarla. Regina non l’aveva voluto con sé, perché sapeva benissimo che non era d’accordo con la sua decisione di partire e prendere Anatlon.

- Maestà, siete sicura che... sia meglio per me restare qui?

- Sì, comandante. Mi servite a Nymeria. Occorre qualcuno che tenga d’occhio i confini della capitale. Usate pure tutti gli uomini che Vi servono. Se non Vi dovessero bastare, non esitate a cercarne altri. Ho dato disposizioni al mio consigliere affinché possiate disporre del denaro necessario a pagare...

- Credo che gli uomini basteranno, Maestà.

- Bene.

A quel punto, si erano uniti al gruppo gli ultimi due soldati. Erano giovani. Uno era alto ed era a testa scoperta; ciò attirava subito lo sguardo sui suoi capelli folti, di un nero splendente. Il viso dalle ossa minute era ben modellato e gli occhi erano di un azzurro tenebroso. L’altro, invece, si era già sistemato l’elmo sul capo e da sotto spuntava un ciuffo di capelli biondicci.

- E questi chi sono? – aveva domandato Regina a Daniel.

Il ragazzo con gli occhi azzurri si era piegato leggermene su un ginocchio, portandosi una mano al petto, con il palmo rivolto verso l’esterno. Poi aveva chiuso le dita a pugno. – Maestà... il mio nome è Will Nightshade. Lui è il mio compagno d’armi, Jim.

- Jim Halloway. – aveva dichiarato il secondo ragazzo, imitando l’inchino dell’amico. Le sue iridi, ombreggiate dalle lunghe ciglia, erano marrone chiaro.

- Da dove saltano fuori, Daniel?

Il comandante accennò ai giovani di prendere i cavalli. – Li ho addestrati personalmente. Potete fidarvi di loro.

Regina decise di non fare altre domande, dato che non aveva più tempo da perdere.

- Posso dirvi un’ultima cosa? – chiese Daniel.

- Dite pure.

- State bene con i capelli corti. – E aveva sorriso.

A quel punto anche Morgause doveva essere stata informata della sua partenza. L’avrebbe aiutata, se ce ne fosse stato bisogno? Regina era disposta ad ascoltare la signora del Lothian, vecchia amica e alleata di sua madre. Ma non era sicura di poter accettare qualsiasi cosa le avesse chiesto. Non poteva concedere troppo a Morgause. Era una donna ambiziosa. Non solo, poteva essere anche pericolosa, visto che nelle sue vene scorreva il sangue di Avalon.

- Non importa. – mormorò Regina. – Affronterò qualsiasi cosa. Devo farlo. Sono la regina di Mehlinus.

“Sono convinto che se Vostra madre fosse qui sarebbe fiera di voi. Dovete prendervi la Vostra vendetta. È giusto. Ma, Regina, i Blanchard sono pericolosi.”

Era disposta a correre quel pericolo. Per la sua vendetta.

Pensò a sua madre, uccisa da quei maledetti. A tradimento. Pensò a suo padre, ucciso da David. A tradimento anche lui. Pensò al simbolo che, un tempo, era stato suo: il melo su sfondo blu. Ogni tanto lo vedeva ancora nei suoi sogni, così come vedeva i suoi genitori. Henry, soprattutto. Henry che la issava sulle sue spalle, perché lei potesse cogliere una mela rossa. Una bella mela rossa che poi suo padre tagliava in tanti spicchi...

“Grazie, padre.”

“Possiamo raccoglierne altre domani, se vuoi.”

“Sì, mi piacciono le mele rosse.”

Regina era solo una bambina che non sapeva niente di magia. Ed Henry la portava spesso nelle terre che circondavano Nymeria, dove crescevano numerosi alberi di mele. Erano quelli i momenti in cui si sentiva più felice. I momenti in cui si era sentita davvero a casa. Suo padre le aveva detto spesso che la sua casa era ovunque vi fosse qualcuno che avrebbe pensato a lei con affetto. E Regina aveva suo padre. Cora era sempre molto occupata. Non l’aveva mai portata a raccogliere mele.

“Regina, hai mangiato di nuovo fuori dai pasti?”

“No, madre...”

“Invece sì, l’hai fatto. Altrimenti, cosa sarebbe questo?”. Allungò una mano e le tolse qualcosa da un angolo delle labbra. Un residuo di succo di mela.

“Madre...”

“Quante volte ti avrò ripetuto che una fanciulla come si deve non mangia fuori dai pasti? Devi iniziare a comportarti nel modo giusto, Regina. Non è così che una futura regina si comporta.”

“Cora, senti...”, provò a dire Henry. “Lasciala stare. L’idea è stata mia.”

“Non interrompermi, Henry!”

E suo padre abbassava il capo. Sembrava così debole in quei momenti...

Istintivamente Regina posò una mano sull’elsa della spada. La spada di Henry. E si sentì subito rincuorata. Chiuse gli occhi mentre stringeva l’impugnatura e vide la mano di suo padre che la stringeva come stava facendo lei. Lo vide chiaramente. Sorrise.

Poi quella stessa mano salì al collo, a cercare il ciondolo, quello che aveva sempre avuto con sé da quando era piccola. Un ciondolo che aveva la forma di un albero di mele. Il suo vecchio simbolo. Così in contrasto con la pantera.

Regina alzò lo sguardo al cielo, osservando la falce di luna.

Presto avrebbe raggiunto il sud. Presto avrebbe affrontato i suoi nemici di sempre e li avrebbe sconfitti. Anatlon avrebbe dovuto chinare il capo e inginocchiarsi davanti ad una nuova sovrana. E pagare.

- Soldato. – disse Regina al giovane Jim Halloway, uno degli uomini che montavano la guardia. Il suo amico, sdraiato su un cumulo di pelli, alzò la testa e si mise in ascolto.

- Sì, mia regina. – disse Jim, con deferenza.

- Si dice Vostra Maestà. Portami una pergamena. Ho bisogno di inviare un messaggio.

Il soldato eseguì l’ordine e, nel giro di un attimo, fu di ritorno con ciò che aveva chiesto. Regina vergò un messaggio indirizzato a Tremotino, perché sapesse che era a buon punto e che andava tutto secondo i piani. Poi aprì una mano, pronunciò poche parole e, su di essa, comparve un corvo nero che sbatté le ali. Regina legò il messaggio alla zampa e sospinse l’uccello verso il cielo. Il corvo spiccò il volo.

Più a sud si erano assiepate pesanti nuvole temporalesche.

 

 

Vicino a Deep Valley. Lothian. Ovest.

 

Non molto lontano da Deep Valley, sorgeva Ludinsford, piccola città di mercanti di pelli e spezie, di strade lastricate da grandi blocchi di pietra, di edifici in mattoni addossati gli uni agli altri. E di ricche famiglie spesso in contrasto fra di loro. Tra queste ce n’era una, della quale era rimasta ormai solo l’unica figlia femmina del signore, che era lontanamente imparentata con Lot del Lothian.

Un servitore salì le scale che conducevano alle stanze di lady Amara, bussò discretamente alla porta, schiarendosi un po’ la voce e attese.

- Sì?

- Signora, ci sono delle missive per voi.

- Entrate.

Il servitore entrò. Tre candele di sego ardevano sul davanzale della finestra. Altre quattro, poste accanto al letto, spandevano una luce tremolante lungo le pareti, costringendo le ombre della sera a retrocedere.  L’uomo aveva riposto le lettere su un vassoio d’argento che portò alla signora, posandole sullo scrittoio, davanti a lei e chinando leggermente il capo.

- Ti ringrazio. – rispose Amara, scostandosi una ciocca di capelli dal viso.

- C’è altro che desiderate, milady?

- Niente. Ritirati.

Il servitore se ne andò alla svelta.

Amara allungò una mano e prese tutte le lettere arrivate quel giorno iniziando ad aprirle. Le lesse distrattamente e rispose ad alcune di esse, ma ciò che c’era scritto là dentro non era importante. Non aveva importanza per lei, almeno.

Il messaggio davvero importante e che da tempo attendeva era arrivato pochi giorni prima, con un corvo messaggero, che lo portava legato ad una zampa. Una piccola pergamena con poche parole scritte in codice, ma che non era stato difficile decifrare.

“È partita poco dopo il sorgere del sole. Presto saprà la verità. Ho già comunicato l’accaduto a Morgause.”

È quasi giunto il momento. Finalmente.

Amara si alzò. Guardò fuori dalla finestra, il cielo scuro e punteggiato di stelle. Poi osservò la sua immagine riflessa nello specchio vicino al letto.

Un istante dopo una magica e densa nube viola l’avvolse completamente e quando si diradò i capelli lunghi e neri della donna si erano dissolti, cedendo il posto a capelli ondulati e castani, raccolti con un fermaglio. Gli occhi avevano assunto un taglio differente e in essi brillava una luce diversa, più crudele. I lineamenti del viso si erano fatti più marcati, più duri ed erano comparse nuove rughe. La carnagione era chiara. D’un tratto la donna che indossava una lunga veste blu era più vecchia di quella che si era guardata allo specchio giusto un momento prima. Di Amara aveva solo la pesante collana d’oro a forma di serpente. Nella mano destra stringeva un lungo bastone dorato con la sommità a forma di cobra.

Cora, la regina di Mehlinus, che tutti credevano morta da undici anni, sorrise.

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Capitolo 16
*** 15. Fenrir ***


15

 

FENRIR

 

 

 

Thorntown.

 

 

Sua madre la prese in braccio e la sollevò perché Emma potesse raggiungere il ramo più basso dell’albero di mele e cogliere uno dei frutti gialli.

“Guardate, madre.”

Mary Margaret sorrise. “É molto bella, Emma.”

“Sì, è gialla. Mi piace il giallo, madre.”

“Allora dirò alla servitù di raccogliere altre mele gialle. Tutte quelle che troveranno.”

“Posso mangiarla?”

“Ma certo. Aspetta, togliamo la buccia, prima.”

Nel mangiare la sua mela Emma si sporcò il viso con il succo appiccicoso. Mary Margaret glielo tolse e rise, divertita. Poi si chinò per posarle un bacio tra i capelli biondi.

Emma si destò di soprassalto.

Il sogno, che più che un sogno era un lontano ricordo, stava già scivolando via. Le rimase impresso, però, il sorriso dolce di sua madre e il tocco fra i capelli.

Che cos’è che mi ha svegliata?

I cavalieri dormivano. Galahad si mosse sotto il mantello che aveva usato come coperta. Agravain, nonostante tutto il parlare di fantasmi, russava leggermente, ma non era colpa sua se si era drizzata a sedere di scatto, con il cuore che batteva all’impazzata. La pioggia, che aveva tempestato il tetto dell’abitazione di fortuna che lei e i cavalieri avevano trovato a Thorntown, era cessata. Un pallido chiarore penetrava dalle crepe nella porta di legno. Forse stava albeggiando.

Emma scostò le coperte, indossò il suo mantello e allacciò il fodero con la spada intorno alla vita. Poi, cercando di non fare rumore, uscì all’aria aperta, richiudendo subito la porta alle sue spalle.

In cielo vedeva ancora la falce di luna che faceva capolino tra le nuvole grigie, mentre il cielo si schiariva. Una vaga foschia ricopriva il paesaggio.

Un rumore. Dal retro. Dove c’erano le stalle. Un ringhio basso, seguito da qualche ansito.

Emma si irrigidì e mise mano alla spada. Camminando rasente il muro, si diresse verso le stalle.

Un altro ringhio. Unghie che graffiavano il legno. Un tonfo. Nitriti nervosi.

“Magari nelle storie che raccontano c’è qualcosa di vero, ma tu dovrai fermarti, Emma.”

Emma continuò a muoversi, passo dopo passo. Silenziosa. Stringeva Narsil così forte da sbiancarsi le nocche.

“Sarei più preoccupato se non provassi paura. Perché l’uomo che non sente la paura è un folle.”

Gliel’aveva detto Merlino, non molto tempo prima. Era stata l’unica volta che il druido aveva parlato di sé con lei.

“Ho anche paura. E non dovrei.” gli aveva detto Emma. “Dovrei essere pronta a combattere.”

“La paura. Sarei più preoccupato se non provassi paura. Perché l’uomo che non sente la paura è un folle. Chi è in balia di essa e fugge è un codardo. Ma tu continui a fare ciò che va fatto. Questo è coraggio.”

Emma continuò ad avanzare.

Il lupo grigio fermo davanti alle porte della stalla la vide subito. Era girato verso di lei, quando Emma si sporse per vedere cosa stesse succedendo.

L’animale era ferito ad una zampa, sanguinava ed era evidentemente sofferente e affamato. Ed era molto più grande di un lupo comune, con due sciabole che scintillavano nella luce del mattino al posto dei normali denti da lupo e ardenti occhi di brace che seguivano ogni suo movimento. Dalla bocca scese un rivolo di bava. Ringhiò contro di lei.

Un Fenrir!

Il bisogno di cibo l’aveva spinto fino a lì. Aveva percepito l’odore dei cavalli e aveva cercato di entrare nella stalla. Doveva essere anche debole, perché in caso contrario avrebbe già fatto a pezzi la porta. Emma non aveva idea di come avesse potuto fare, quella bestia magra, ad entrare là dentro e a prendersi anche solo uno dei cavalli. Maximus era robusto, ancora giovane e impetuoso. Gli altri cavalli erano tutti addestrati e, soprattutto, veloci e ben nutriti. Quella bestia doveva essere disperata. Ed era anche solo.

Emma strinse l’elsa di Narsil e lo guardò fissò negli occhi. Uno stormo di uccelli neri si alzò in volo.

Il Fenrir si avventò su Emma. Lei estrasse subito la spada e la fece roteare, mentre scartava di lato. Un lungo guaito di dolore, quando la lama ferì l’animale di striscio, ad un fianco. Emma si voltò subito verso il lupo, puntandogli contro la spada. Quello si girò, imbestialito, per fronteggiarla ancora. Fece qualche passo avanti. Emma indietreggiò di due. L’animale raspò il terreno con gli artigli e spiccò un altro balzo; lei lo ferì ancora. Schizzò altro sangue e il Fenrir guaì. Roteò un paio di volte su se stesso, come disorientato dall’ultimo colpo ricevuto e poi scosse la testa più volte, gettando bava ovunque. Nella stalla c’era un certo trambusto. Nitriti e rumori di zoccoli che sbattevano sulle assi di legno.

Poi un ululato, in lontananza, distrasse l’animale, che drizzò le orecchie e rimase in ascolto. Emma non lo perse di vista.

Infine, ringhiando, corse via, sparendo in mezzo alla boscaglia e lasciando sull’erba le tracce del suo sangue.

Emma sentiva il cuore pulsare forte nel petto. Chiuse gli occhi per qualche istante, poi rinfoderò la spada e si diresse verso le stalle. Voleva entrare e assicurarsi che i cavalli stessero bene.  

Aprì le porte della stalla. Nell’istante in cui lo fece, uno zoccolo si abbatté sul legno della porta.

Un lampo bianco.

Ebbe appena il tempo di scansarsi. Il suo cavallo si impennò, nitrendo impazzito e sbuffando. Solo per miracolo Emma riuscì ad afferrarlo per le redini. Strinse forte. Maximus s’impennò di nuovo, scuotendo il capo e tirando per liberarsi dalla sua presa. I suoi occhi erano folli di paura. Rotearono mostrando solo il bianco.  

- Maximus! Calmo! – gridò Emma.

- Che succede, per gli inferi?! – Le giunse la voce di Agravain.

- Emma! – urlò Galahad.

- I cavalli! Correte! – gridò Gawain.

Il destriero non si calmò. S’impennò una terza volta, dopodiché partì al galoppo. Emma riuscì ad afferrare il pomo della sella con la mano libera.

 

 

Da qualche parte, a ovest.

 

“Andrò avanti, in esplorazione. Cercherò di... di capire quanto siano abili. Con la magia. E cercherò di... di farmi un’idea del loro esercito. Elaborerò un piano. E quel piano sarà perfetto, una volta che saprò chi sono veramente i miei nemici.”

“Queste sono parole sagge, Maestà.”

Aveva fatto ciò che le aveva chiesto di fare Tremotino. Era andata avanti, in esplorazione.

- Maestà, non è sicuro. – le aveva detto uno dei suoi soldati, quando aveva esposto la sua idea.

- Lo è, invece. So quello che faccio.

- So che lo sapete. Ma mancano ancora parecchie leghe al regno del sud.

- Devo avvicinarmi da sola, soldato. Si tratta solo di andare in avanscoperta. Ho bisogno di sapere come agire prima di farlo sul serio. Non appena avrò un piano, riceverete un mio messaggio.

L’indecisione serpeggiò nel gruppetto.

- Ci vorranno giorni prima che facciate ritorno. – le aveva fatto notare Jim Halloway, come se lei ne avesse avuto bisogno.

- Non sapete badare a voi stessi, per caso?

Il giovane che gli stava sempre appiccicato, Will, aveva fatto un passo avanti e aveva aperto la bocca per dire qualcosa, ma Jim aveva sollevato una mano, agitandola.

- Naturalmente sì, Vostra Maestà. E sappiamo anche quanto Voi siate potente. Ma è sempre meglio, con il dovuto rispetto, che ci sia qualcuno a guardarvi le spalle.

- Lasciate che almeno uno di noi Vi accompagni, Maestà. – aveva proposto un altro soldato, chinando leggermente il capo. – Scegliete Voi chi, ma Vi prego di darmi retta. Diversi giorni di cammino Vi separano da quel luogo e i boschi sono infidi.

- Forse non ci siamo capiti, soldato. Il mio è un ordine. Dovete aspettare qui! – Regina era montata in sella a Rocinante, afferrando le redini e preparandosi a partire. Non voleva nessuno tra i piedi. Avrebbe percorso tutte le leghe che la separavano da Anatlon e poi avrebbe usato un sortilegio per cambiare il suo aspetto. In quel modo avrebbe potuto avvicinarsi indisturbata e capire che cosa l’aspettasse. Inoltre quella era una faccenda personale: si trattava della sua vendetta! Sarebbe stata lei, la prima a mettere gli occhi su Anatlon, su Snowing Castle. Erano anni che aspettava e voleva essere sola quando fosse accaduto.

- Il consigliere Tremotino ci ha raccomandato di proteggervi, Maestà. – provò a replicare, intimorito, un terzo soldato, strascicando i piedi sull’erba.

- Lo avete fatto. Adesso tocca a me. Vado avanti, soldato. Tornerò presto.

- Ma, mia regina, noi...

- Ora basta! Si dice Vostra Maestà! – Regina aveva appoggiato una mano sull’elsa di Stormbringer. I suoi occhi si erano colorati di viola. Il viola aveva preso a girare furiosamente. Le iridi non erano più iridi, ma buchi pieni di energia che vorticava. I soldati avevano fatto, tutti, qualche passo indietro. – Io sono la regina e voi farete ciò che io vi comando! Se non eseguirete l’ordine, ci saranno delle conseguenze! E vi assicuro che le conseguenze potrebbero essere molto spiacevoli.

I soldati si erano inchinati al suo cospetto e avevano promesso che avrebbero eseguito i suoi ordini. Non si sarebbero mossi da lì.

E ora cos’era successo?

Era successo che si era persa. Non aveva idea di dove si trovasse.

La circondavano cespugli, tronchi nodosi e spogli, fossi, pozze su cui aleggiavano nugoli di mosche, qualche albero contorto e vecchio. Il terreno era pianeggiante, ma non c’erano sentieri. Quello che aveva seguito e che le avevano indicato anche i suoi soldati, avrebbe dovuto esserci ancora, a quel punto. E invece non lo vedeva più. Non sentiva più il rumore delle acque del fiume che avevano costeggiato. Forse era arrivata ad un bivio senza rendersene conto e aveva preso la strada sbagliata, una strada che l’aveva condotta in una zona paludosa e deserta.

Maledizione.

Respirò a fondo per escludere qualsiasi emozione negativa. Aveva perso l’orientamento, ma non doveva farsi prendere dal panico. Avrebbe ritrovato la strada.

Se avessi portato qualcosa appartenuto ad uno dei miei soldati avrei potuto fare un incantesimo di localizzazione e tornare indietro...

Ma non aveva niente, quindi doveva cavarsela da sola.

 

 

Da qualche parte, a ovest.

 

Non sapeva bene quanto tempo fosse passato da quando si era aggrappata alla sella del suo cavallo imbizzarrito ed era stata trascinata in una lunga corsa.

Ad un certo punto, quando aveva ormai percorso diverse leghe, Emma era riuscita a vincere la sua lotta con Max e il cavallo, dando retta alla sua voce, si era calmato. Aveva rallentato il passo, proseguendo al trotto per un po’ e infine si era fermato, sfinito, sbuffando furiosamente e scuotendo la testa.

Emma smontò e accarezzò il destriero.

- Va tutto bene, Maximus. – sussurrò Emma. – Ora è tutto a posto.

Subito dovette rimangiarsi le parole appena pronunciate perché, guardandosi intorno, si rese conto di non sapere bene dove si trovasse. Il sole si era spostato nel cielo e aveva diradato la foschia che si era formata quella mattina. Era una zona pianeggiante e paludosa; pozze di acqua stagnante e rivoletti tra le pietre. Alberi alti e nodosi, sparsi qui e là. Nugoli di insetti che già le bazzicavano intorno alla ricerca di sangue da succhiare. Nessun sentiero, ovviamente. Era ben lontana dalla nota Via del Re e, a quanto sembrava, era lontana anche da qualsiasi villaggio abitato. L’ovest era pieno di zone paludose e difficilmente praticabili. Ed Emma era finita proprio in mezzo ad una di quelle paludi.

Si mette male.

Doveva capire dove si trovasse.

Se i cavalieri sono sulle mie tracce, forse è meglio che rimanga qui. Se mi allontano, rischio di non ritrovarli.

Ma il terreno intorno a lei era un terreno paludoso. Un vero pantano anche a causa del temporale di quella notte. Le tracce lasciate da Max nell’ultimo tratto stavano già svanendo. Sarebbe stato molto complicato, per i cavalieri, ritrovarla. Aveva percorso diverse leghe.

No. Decise di muoversi. Decise di cercare qualcosa che potesse indicarle in che zona era finita.

Emma prese le briglie e si incamminò, con Max che la seguiva, tranquillamente. Lo spavento era passato, ormai.

Dannazione a quel Fenrir!

La nota positiva era che, legati alla sella, aveva ancora delle sacche con del cibo, erbe medicinali e un piccolo otre pieno d’acqua. Le sarebbero bastati per qualche giorno. Doveva razionare le provviste, ma non sarebbe stato un problema.

“Ma sempre i piedi che han tanto vagato, tornano infine al tetto bramato”, aveva cantato Agravain solo il giorno precedente.

Vagare era proprio la parola giusta. I suoi piedi avrebbero avuto il loro bel vagare, ne era convinta.

Attraversò una macchia d’alberi, rovi, cespugli spinosi e sterpi, aprendosi la strada con la spada per evitare che le spine la pungessero o pungessero Max. Procedeva senza fretta, guardinga, attenta alle pozze profonde e ai pantani, si guardava intorno e tendeva le orecchie ad ogni minimo rumore. Raggiunse uno stretto fiumiciattolo. Tra le canne e i giunchi, un asse di legno marcio, largo un paio di spanne, collegava le due sponde.

Non ebbe bisogno di attraversarlo, fortunatamente. Il paesaggio si era aperto davanti ai suoi occhi ed Emma vide ciò che cercava, qualcosa che la aiutò a capire dove si trovava: l’Arduo Colle. Era molto peggio di quanto immaginasse, perché, anche se l’Arduo Colle era ancora ad una lega di distanza, lei si trovava da questa parte, non oltre il colle, dove la zona paludosa lasciava spazio al lago di Inis Witrin, da molti chiamato la Porta di Avalon.

Emma era nella Grande Palude.

L’aveva vista segnata sulla mappa che Artù aveva dispiegato sulla Tavola Rotonda. Non c’era niente in quel posto. O meglio, da qualche parte, qualcosa... qualcuno c’era. Se avesse esplorato meglio la zona avrebbe trovato delle casette improvvisate che appartenevano ai cosiddetti Uomini Paludosi; reietti, vagabondi, gente che non aveva più un luogo a cui tornare né tantomeno un’identità, persone che campavano pescando rospi, anguille e sanguisughe, raccogliendo bacche commestibili o erbe che poi venivano rivendute a qualche miserabile mercante delle città più vicine.

E ora?

Il Lago di Inis Witrin. La Porta di Avalon...

Le tornò in mente la sua conversazione con Morgana.

“Ma ricordati delle mie parole. Non essere avventata. Non fare cose di cui potresti pentirti. Non lasciarti trascinare dalla tua rabbia. Vieni ad Avalon.”

Ma non ebbe il tempo di rifletterci sopra, perché dalla macchia d’alberi che aveva oltrepassato poco prima sbucò qualcuno. Dapprima Emma udì il rumore di una lama che tagliava cespugli e rovi. Poi un’imprecazione. Una voce femminile. Il nitrito basso di un cavallo.

Un Paludoso?

Emma non sapeva quanto forti fossero quelle persone. Sicuramente avevano armi per difendersi. Armi rubate. Armi forgiate con le loro mani. Se un tempo erano stati dei combattenti, dei cavalieri o dei semplici soldati, erano in grado di difendersi.

Emma mise mano all’elsa. Maximus nitrì, nervoso.

Infine comparve una donna.

Sbigottita, Emma rimase là, a fissarla.

La donna indossava una robusta armatura nera e impugnava una lunga spada la cui elsa era altrettanto nera. I capelli erano corti e scuri e l’espressione corrucciata del viso decisamente attraente lasciava intuire che anche lei si fosse persa. Teneva per le briglie un bel cavallo, anche lui abbigliato più o meno come la padrona: sella scura, sottopancia e arcione neri.

Non può essere...

Emma credette davvero di essere piombata in un sogno allucinato. Era successo tutto troppo in fretta. Forse la sua mente stava reagendo nel modo sbagliato alla perdita dell’orientamento; forse era caduta da cavallo e giaceva svenuta da qualche parte.

La donna la vide e sbarrò gli occhi, stringendo saldamente la spada in pugno. Non parlò. Si limitò a guardarla.

No, non sto sognando. Tutto questo sta accadendo veramente.

Regina.

La donna era Regina, la sovrana del regno di Mehlinus. Non l’aveva mai vista ma non avrebbe mai potuto non riconoscerla; non solo perché gliel’avevano descritta, ma anche... per via dello stemma. Sul petto, incisa sull’armatura, c’era la testa di una pantera con le fauci spalancate. La spilla che chiudeva il mantello alla base del collo aveva la medesima forma. Aveva un portamento elegante, regale, anche se era vestita come un cavaliere. E quella spada... quella spada era Stormbringer, la Tempestosa. La spada della regina del nord. Solo lei avrebbe potuto impugnarla. Non se ne separava mai. Merlino l’aveva disegnata, basandosi sulle proprie visioni.

- Chi siete? – domandò Regina, puntando la spada nella sua direzione, ma restando a distanza.

Emma strinse il pugno. Aveva la bocca secca e il cuore in tumulto. Nella sua testa si facevano largo le immagini più dolorose della sua vita: Snowing Castle che bruciava, le fiamme che divoravano il castello, la gente che urlava, i corpi sparsi per il giardino sul retro del castello, suo padre che uccideva l’uomo che voleva spaccarle la testa con la sua ascia, David che la consegnava a Graham, Narsil...

Le ultime parole.

“Presto verrà il tuo momento. Lo so. Non può essere altrimenti. Allora tornerai e tutto questo sarà tuo! Tutto! Il trono che ti appartiene di diritto sarà tuo! Le terre saranno tue! I miei uomini saranno tuoi!”

Il dolore nei suoi occhi. Lo stemma... il melo, che una volta era il simbolo della regina del nord, che sventolava, che capeggiava sugli scudi, sulle armature.

“Un giorno, quando sarai abbastanza forte, tornerai. Vendicherai me e tua madre. Il regno sarà tuo! Ma adesso devi andare con Graham. Se rimani qui, morirai e tutto sarà davvero perduto! Fallo per me, figlia mia.”

Furiosa, Emma sguainò la spada.

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Capitolo 17
*** 16. The Queens Fighting ***


16

 

THE QUEENS FIGHTING

 

 

 

Grande Palude. Ovest.

 

Regina stringeva saldamente l’elsa di Stormbringer e guardava la straniera che aveva incrociato mentre tentava di superare quell’orribile zona paludosa e quasi impraticabile. Era una donna molto bella, con capelli biondo oro, ondulati, sciolti sulle spalle; l’espressione dura, occhi chiari, azzurri forse. O verdi. Sulle prime non riuscì a capirlo. Armatura argentata, molto robusta. Una bella spada nella mano destra. Una spada scintillante. Sembrava emanare luce pura. Il mantello rosso sulle spalle volteggiava.

Un cavaliere? Non le era mai capitato di incontrare una donna che fosse un cavaliere. Pensava a se stessa come ad un soldato, ormai, non solo come una regina. Ma era la prima volta che vedeva un’altra donna con indosso una simile armatura.

La donna avanzò verso di lei.

- Chi siete? Cosa volete? – ripeté Regina, irrigidendosi e preparandosi ad uno scontro.

- Che cosa fate Voi qui? – Il tono della donna era... sbigottito. Incredulo ed impertinente.

- Ve lo ripeto: chi siete? State indietro! Non avvicinatevi!

- Non sapete chi sono io, ma io so chi siete Voi. – Le puntò contro la lama della spada. – La regina di Mehlinus.

Regina sorrise, vagamente divertita. – Sono io.

- Ho riconosciuto lo stemma.

- Adesso dovreste dirmi chi siete. Mi state puntando contro una spada, cavaliere. Io sono una regina...

- Voi siete un mostro.

Spalancò gli occhi. Regina sentì la gola bruciarle e lo stomaco sussultare. Avanzò di qualche passo, spada in pugno. – Come osate?!

- Come oso? Come avete osato, Voi, prendervi la mia casa? Come avete osato... mi avete costretta a nascondermi per anni! - Emma non si controllava più. La sua mente era offuscata come da una febbre. Ma era una febbre rabbiosa. Una febbre nella quale si facevano strada una moltitudine di domande; perché la regina di Mehlinus era lì? Si era persa anche lei? Come mai aveva lasciato il suo regno? Era caduta in una trappola? Il Fenrir era opera di Regina?

- Ma di che cosa state parlando? Chi siete?! – gridò Regina, furibonda.

- Il mio nome è Emma. Emma Swan.

- Dovrei conoscervi?

- Non conoscete questo nome. Ma il nome Blanchard lo conoscete. Lo ricordate!

- Voi... Voi...

- Sono la figlia dei sovrani di Anatlon. David e Mary Margaret.

Regina vide rosso. Una furia cieca le ottenebrò il cervello. Nella mano destra si formò una sfera di fuoco, che scagliò in direzione di Emma, accompagnandola con un grido di rabbia.

Emma sollevò la spada e la sfera infuocata si scontrò con essa, disintegrandosi in tante scintille. – É così che combattete? Venite avanti e usate la Vostra spada! Combattete lealmente!

- Proprio Voi parlate di lealtà? Non sapete nemmeno che cosa significhi, lealtà! I Vostri... genitori non conoscevano il vero significato di questa parola!

- Sciacquatevi la bocca, prima di parlare dei miei genitori in questo modo! I Vostri soldati li hanno uccisi!

- Delirate! – Regina si fece sotto e lasciò partire un fendente dall’alto, tenendo la spada con entrambe le mani. Le lame cozzarono, violentemente.

Emma sostenne la pressione esercitata dalle braccia di Regina, stringendo i denti e spingendo in avanti, per allontanarla da sé. Regina barcollò, ma non perse l’equilibrio.

- Delirate... – tornò a ripete la regina di Mehlinus, gli occhi accesi di collera. – Sono i Vostri genitori ad aver ucciso i miei! Vostro padre... David... ha ucciso il mio. L’ha colpito alle spalle!

- Siete pazza! Mio padre non avrebbe mai fatto nulla di simile! – Emma provò un affondo. Regina non si fece cogliere impreparata. Lo parò. – Mio padre... era un uomo onesto. Un cavaliere leale e valoroso! Non avrebbe mai colpito un avversario alle spalle!

- L’ha fatto, invece! – Un altro affondo. Emma la respinse. – L’ha fatto, mia cara principessa! Lo so, è stata mia madre a dirmelo! Fu lei a consegnarmi questa spada... Stormbringer. È appartenuta a mio padre. Ho promesso che avrei ucciso il Vostro, con questa. Ho promesso che avrei vendicato la morte di...

- Mio padre è già morto! Da anni! È morto la notte della caduta del regno! Quando i Vostri soldati ci hanno attaccati a tradimento!

Regina cercò di colpirla alle gambe con un affondo molto rapido e potente. Emma la respinse di nuovo. Le spade cozzarono più volte. La regina di Mehlinus combatteva bene, era forte e ben bilanciata. Ma cercava di distrarla con le parole, con menzogne assurde e offensive.

- Vostro padre? Morto? Bugie! Il Vostro regno non è mai morto! Si tratta di un’illusione!

- Un’illusione?

- Un’illusione! Un sortilegio che i Vostri genitori hanno lanciato sul regno perché sembrasse... distrutto. Deserto. Privo di vita! Ma io so che non è così.

- Non potete saperlo! Non Vi siete mai allontanata dal Vostro regno! Credete che non lo sappia?

- Io so come sono andate le cose! Tremotino mi ha raccontato tutto!

- Quel mostro del Vostro consigliere...

- Ammettetelo! State raccontando menzogne per confondermi la mente!

- Siete Voi che dovreste ammettere quella che è la verità: i miei genitori sono morti per colpa Vostra! I Vostri uomini hanno distrutto Snowing Castle... l’hanno attaccata. A tradimento. I Vostri soldati hanno incendiato il castello. Mia madre è morta tra le fiamme! E mio padre...

- Smettetela con queste sciocchezze! Sì, i miei soldati erano a Snowing Castle, ma li avevate chiamati Voi! Avevate inviato un messaggio a mia madre perché mandassimo degli uomini ad aiutarvi. Dicevate di... aver bisogno di aiuto... perché c’era stata... un’inondazione! Avevate bisogno di uomini. Questo avete detto! E poi... era un inganno. Mia madre dovette usare la sua magia per sconfiggervi. Siete Voi i traditori!

Mentre parlavano i colpi si susseguivano uno dopo l’altro. Le lame cercavano un punto debole, miravano a fianchi, spalle, braccia, gambe. Emma sfiorò un punto scoperto del braccio sinistro di Regina, aprendo un taglio superficiale. Regina indietreggiò di qualche passo. Respirava affannosamente. Anche Emma iniziava a sentire la fatica. Restò in guardia, senza perdere di vista un momento la sua avversaria, che ora aveva iniziato a muoversi in cerchio.

“È vedere, ciò che conta davvero. Vedere è il vero segreto dell’arte della spada.”

Regina vedeva. Emma la seguiva, puntando gli occhi nei suoi.

- Noi non abbiamo mai tradito... Maestà. – Emma pronunciò quel titolo caricandolo di sarcasmo. – Ci avete attaccati Voi. Questa è la verità. Io ricordo molto bene quella notte, sapete? Ero là, a Snowing Castle. Ero là e ho visto mia madre sparire, inghiottita dalle fiamme. Uno dei Vostri soldati voleva... spaccarmi la testa con un’ascia. Mio padre l’ha fermato. E mi ha portata in salvo. Mi ha consegnata ad un uomo che mi ha portata a Camelot. È là che sono stata tutti questi anni!

Regina chiuse gli occhi per un paio di secondi. Vacillò. Emma sembrava... sembrava convinta di ciò che stava dicendo. Eppure lei sapeva. Regina sapeva la verità. Era su quello che si basava la sua vendetta.

- Ho visto il Vostro stemma. Il vecchio stemma. Il melo. Sugli scudi. Sulle armature e sugli stendardi. Non potrei mai dimenticarmelo!

- Oh, sì! Mia madre dovette usare la magia. Sì, perché noi eravamo in inferiorità numerica. Dovette usare la sua magia... e lo fece! Lo fece per difendersi! Non era sleale come Voi! Voi avete usato la magia per ingannare. Sempre! Avete attaccato Voi per primi! E non era il primo tradimento! Vostro padre ha...

- Mio padre non ha mai duellato col Vostro!

- L’ha ucciso! E avete ucciso anche mia madre!

- La responsabilità è Vostra!

Regina l’attaccò di nuovo, con un affondo accompagnato da un altro grido di rabbia. Emma lo parò, si spostò a destra...

Non perderla di vista neanche un secondo. Nemmeno uno.

...fece roteare la sua spada e la calò dall’alto, in un fendente potente. Regina sollevò Stormbringer. Le spade si scontrarono di nuovo, con una violenza tale che il colpo riverberò nelle loro braccia e nelle loro teste. Emma indietreggiò. Le tremava il braccio destro. Era coperta di sudore.

- Arrendetevi... – disse Regina.

- Mai!

- Arrendetevi ed inginocchiatevi! Ammettete le colpe della Vostra famiglia!

- La mia famiglia non ha colpe!

Ricominciarono a muoversi in cerchio. Senza mai distogliere lo sguardo l’una dall’altra. Due guerriere che aspettavano il momento migliore per azzannarsi. Una pantera nera e un cigno. Il cigno con le ali di fuoco. Ma le loro menti iniziavano ad essere confuse. In bilico.

Perché mente?, si chiedeva Emma. Era sopraffatta dallo sgomento. Non riusciva a capacitarsi di essere in quella palude, a battersi contro la donna che aveva odiato per anni. Perché dice tutte queste assurdità? Perché sembra così sicura di ciò che sta dicendo? Non ha mai distolto gli occhi, mai. Nemmeno una volta. Come se... come se credesse veramente in queste cose.

Perché non ammette quello che hanno fatto i suoi genitori?, si domandava Regina. La colpa è loro! Possibile che non ne sia al corrente? No, è impossibile. Deve saperlo! Erano i suoi genitori. No, SONO i suoi genitori. Tremotino non mi avrebbe mai mentito. Nemmeno mia madre.

Che succede ai suoi occhi? È la magia?. Emma vide le iridi di Regina cambiare colore. Erano... violacee. Poi tornarono normali. Scure e piene di furia.

- La storia dell’illusione... è assurda! I miei genitori non usavano la magia. Voi la usate. L’avete fatto un attimo fa!

- Oh, sì. Io la so usare, come la sapeva usare mia madre. Ma non sono sleale!

- Nemmeno io. E nemmeno i miei genitori lo erano.

- A questo punto devo pensare che non li conoscevate affatto! Ma non importa. Voi siete la loro erede! Siete responsabile quanto loro!

Emma provò un altro affondo. Le spade cozzarono. Regina la respinse. Emma scivolò e rischiò di cadere faccia a terra, nel pantano della palude. Ma non perse l’equilibrio. Regina cercò di sfruttare il fatto che si era sbilanciata e scaricò un fendente. Emma si difese.

“Devi imparare ad usare anche l’altro braccio, Emma. Può essere fondamentale in un duello...”

Le parole di Galahad risuonarono nella sua mente, frammentandosi in una moltitudine d’echi. Regina caricò un’altra volta. Emma respinse l’affondo.

“Può essere fondamentale in un duello.”

Le spade cozzarono ancora. Regina vibrò una serie di colpi con la lama di piatto. Emma indietreggiò. Regina tentò un nuovo affondo, sperando di coglierla alla sprovvista, ma lei non si fece trovare impreparata. Spinse con la lama, allontanando la spada. Ruotò su se stessa rapidamente e cambiò mano. Narsil passò dalla sua destra alla sua sinistra così all’improvviso che Regina ne fu disorientata. Il colpo arrivò da sinistra, un colpo obliquo. Regina lo intercettò, ma la sua posizione era precaria. Il polso cedette e perse la spada, che finì nel pantano della palude.

No!

Emma le puntò Narsil alla gola, appoggiando la lama su di essa in modo che Regina, costretta a terra, sentisse il freddo morso dell’arma.

Mi ucciderà, pensò Regina. Aveva ancora la magia dalla sua parte. Avrebbe potuto respingerla con essa. Emma non la conosceva, non sapeva usarla. Non sarebbe morta nel bel mezzo di una maledetta palude, per mano della figlia di quegli infami. Non lei. Non la sovrana di Mehlinus. Ma il fatto di essere stata gettata a terra e disarmata la faceva sentire fuori di sé.

- Tocca a Voi arrendervi. – disse Emma, con il fiato corto.

Regina non disse una parola. La guardò, furente. Emma allontanò Stormbringer con il piede.

“Il viaggio sarà lungo, Emma. Sarà lungo e avrai modo di scoprire che molte delle cose in cui credi non sono come appaiono”. La voce di Morgana penetrò attraverso la cortina di rabbia. Attraverso la fatica.

“Io non ho bisogno di mandare qualcuno. Il destino lo manda. Incolperai lui. O forse lo ringrazierai.”

“Se ti dicessi chi è, non mi crederesti né vorresti darmi ascolto.”

Regina?

“Il destino lo manda. Incolperai lui. O forse lo ringrazierai.”

- Dov’eravate diretta? Perché avete lasciato il regno? – chiese Emma, premendo la lama sul collo.

- Volevo il Vostro, di regno. Ero andata avanti in esplorazione. Volevo capire come prenderlo! – rispose Regina.

- Il mio regno? Prenderlo? Snowing Castle è caduta undici estati fa, Maestà...

Ancora quel tono sarcastico... Regina avrebbe tanto voluto strapparle il cuore dal petto per il modo in cui si rivolgeva a lei.

- Credete davvero in quello che mi avete detto? – chiese Emma, fissandola in quegli occhi scuri e penetranti. Che poi non erano così scuri come pensava. Erano nocciola.

- Sì, è la verità.

- No. Non lo è. Ma c’è qualcosa in Voi...

- Come dite?

- C’è qualcosa che non mi è chiaro. Mentre combattevamo... non ho avuto l’impressione che steste mentendo.

- Perché non mento! Non potrei mai mentire su una cosa del genere!

- Nemmeno io mento, Maestà.

“Ma ricordati delle mie parole. Non essere avventata. Non fare cose di cui potresti pentirti. Non lasciarti trascinare dalla tua rabbia. Vieni ad Avalon.”

- Io ricordo quella notte. Ero una bambina, ma ricordo... ricordo tutto il dolore. Il mio dolore e quello di mio padre, che aveva appena perso il suo amore. Ricordo che mi disse che un giorno sarei tornata e li avrei vendicati. Mi diede la sua spada: questa. – Emma puntò Narsil al viso di Regina. – Si chiama Narsil... Regina, forse Voi non state mentendo, ma nemmeno io lo sto facendo.

- Una di noi due mente di sicuro. E quella non sono io.

- Ma non ve ne rendete conto? Guardatemi! Guardatemi, Maestà! Guardatemi negli occhi! E ditemi che cosa vedete. Voi sapete usare la magia. La magia forse può permettervi di vedere la verità.

Regina mantenne lo sguardo fisso nel suo. Gli occhi di Emma erano verdazzurri. E di un’intensità tale che ne uscì destabilizzata. Cercò le bugie in quella limpidezza sconcertante. Cercò la falsità. Tracce di inganno.

E non ne trovò. Per quanto si sforzasse non ne trovò. Non aveva mai avuto la sensazione che stesse mentendo; fin dal momento in cui si erano incontrate, Emma l’aveva guardata con rabbia, come se realmente la credesse responsabile di ciò che era accaduto ai suoi genitori. Quelle che vedeva nei suoi occhi erano lacrime. Lacrime trattenute. Non aveva mai usato la magia, ne parlava come se non la sapesse usare. Se era figlia di quei demoni doveva conoscerla per forza, ma non vi aveva mai fatto ricorso.

“Ma ricordati delle mie parole. Non essere avventata. Non fare cose di cui potresti pentirti. Non lasciarti trascinare dalla tua rabbia. Vieni ad Avalon.”

“Credi nelle parole di Morgana. Una sacerdotessa di Avalon conosce sempre la verità.”

- Ho una proposta da farvi. – disse Emma, scostando un poco la spada. Poteva essere una follia. Follia pura. Poteva costarle la vita e tutto quello che aveva fatto, tutto quello che aveva imparato... sarebbe stato inutile. Ma la voce di Morgana la tormentava. Quegli occhi azzurri la tormentavano. Le parole di Merlino la tormentavano.

- Non intendo fare accordi con Voi! – replicò Regina.

- È un accordo che conviene ad entrambe, Maestà.

- No.

- Almeno ascoltatemi. – Emma continuò a fissarla, intensamente. – Dobbiamo raggiungere Avalon.

- Come? – Regina era incredula.

- Poco tempo fa, prima della mia partenza, Morgana è venuta da me.

- Morgana?

- Sì. La Somma Sacerdotessa. È stata lei a parlarmi del mio viaggio. Del fatto che avrei incontrato qualcuno. E che molte delle cose che so non sono come appaiono. – Le costava pronunciare quelle poche parole.

- Sono altre farneticazioni?

- No. Morgana mi ha detto questo. Una sacerdotessa di Avalon non parla in questo modo se non è a conoscenza di qualcosa che noi ancora non sappiamo.

- Non c’è niente che...

- Regina, anche Voi dubitate. Lo vedo nei Vostri occhi.

- Non sapete nulla di me!

- Credevo di sapere molto. Ma se vogliamo conoscere la verità, se vogliamo scoprire come stanno davvero le cose, è necessario fare ciò che mi ha detto Morgana. Andare ad Avalon.

- Non sappiamo nemmeno dove ci troviamo!

- Io lo so. – Emma indicò, con la mano libera, il colle. – Quello è l’Arduo Colle. L’ho riconosciuto subito, appena l’ho visto, perché si affaccia sulla Grande Palude. Questa. Al di là del colle c’è il Lago di Inis Witrin. La Porta di Avalon.

- Non passeremo mai. Nessuno passa attraverso le nebbie di Avalon.

- Loro sanno che stiamo arrivando. Ci faranno passare.

- E se così non fosse? Se state interpretando le parole della sacerdotessa nel modo sbagliato?

Emma strinse le labbra. - Me ne assumerò la responsabilità. Maestà... se volete scoprire chi di noi due ha torto allora dovete ascoltarmi: andremo ad Avalon. Parleremo con Morgana. E lei ci dirà tutto.

- E dopo?

- Dopo... quello che succederà dopo dipenderà da ciò che scopriremo. Perché in questa storia c’è qualcosa che non va. L’avete compreso bene anche Voi. Datemi retta. È l’unico modo.

Regina avrebbe tanto voluto stringere l’elsa nera di Stormbringer. La sua spada la faceva sentire... più forte. Più sicura.

Avalon...

Era vero che le sacerdotesse conoscevano la verità. Possedevano la Vista.

Non ci andare, strillò la voce di Tremotino, nella sua testa. Non ci andare, Regina, è una trappola di certo. Ti racconteranno un sacco di menzogne.

- D’accordo. – disse Regina.

- Bene. – Emma scostò la spada, rinfoderandola. Le offrì la mano per aiutarla a rialzarsi.

Regina la rifiutò e si alzò da sola.

- Raccogliete la Vostra spada. Sarà meglio partire subito.

I cavalli, che si erano innervositi durante lo scontro, se ne stavano qualche metro più in là, vicini. Come in attesa. Era un vero miracolo che non fossero scappati via.

Regina strinse l’elsa di Stormbringer nella mano destra. Sì, andare ad Avalon. Andare ad Avalon poteva anche essere la soluzione. Le sacerdotesse avrebbero dimostrato che lei aveva ragione. Che era Emma a sbagliare. Ad ingannarla.

(e se non fosse così? Se non fosse lei ad ingannarsi?)

Era Emma. Una volta svelata la verità, Regina l’avrebbe sconfitta. L’avrebbe fatta prigioniera. Sì, l’avrebbe fatta prigioniera e l’avrebbe costretta a condurla verso sud, ad Anatlon. Avrebbe conquistato il regno ed Emma si sarebbe...

- Volete affrettarvi, Maestà?

Ancora quel tono sarcastico. Come se... come se stesse prendendo in giro il suo essere regina. Furiosa, Regina usò la magia per creare un globo di fuoco.  

Emma le dava le spalle, ma capì cosa intendeva fare: - Non credo che lo farete. Avete detto che mio padre è stato sleale con il Vostro. Volete comportarvi slealmente anche Voi, colpendomi alle spalle?

Regina si rese conto di quanto fosse assurdo ciò che stava facendo. Pensò ad Henry e inorridì. Aveva perso il controllo. Non era così che doveva agire.

Il fuoco si estinse e Regina rinfoderò la sua spada.

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