Museo delle anime

di VigilanzaCostante
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Incipit ***
Capitolo 2: *** Valeria ***
Capitolo 3: *** Fede ***
Capitolo 4: *** Ludovica ***
Capitolo 5: *** Papà ***
Capitolo 6: *** Elisa ***
Capitolo 7: *** Matilda ***
Capitolo 8: *** Giovanni ***
Capitolo 9: *** Federica ***
Capitolo 10: *** Mamma ***
Capitolo 11: *** Anais ***
Capitolo 12: *** Alessia ***
Capitolo 13: *** Michela ***
Capitolo 14: *** Nonna ***



Capitolo 1
*** Incipit ***


Solo in questo incipit sarà presente una breve drabble, slegata dalla raccolta che vi sto presentando. L'ho scritta a posteriori, giusto per mettere punto di inizio a questo viaggio. Vi prego, se riesco a toccare le corde giuste, fatemelo sapere. Ci tengo tanto a questi ritratti, più della mia stessa vita, e la decisione di pubblicarli è stata sofferta e ricca di indecisione. Ma nel cassetto stavano prendendo polvere e l'arte (bella o brutta che sia) a volte va condivisa. Buona lettura!


Incipit


Seguitemi, vi accompagno nel mio cuore, nella profondità della mia anima.
È qui, su questi fogli, che c’è tutta la mia essenza, la mia gioia più grande, la mia sofferenza più profonda. Qui ci sono le anime delle persone che hanno camminato nella mia vita, che ancora camminano, che mi hanno voltato le spalle o che non hanno mai smesso di amarmi.
Voi non conoscete nessuno di questi volti, nessuna di queste storie, ma guardateli come se fossero opere d’arte, osservateli, lasciatevi emozionare, oppure tenetevi a distanza.
Magari, in una di queste sfumature, scoprirete voi stessi.

[94 parole]

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Capitolo 2
*** Valeria ***


 

Valeria


La sera davanti allo specchio si guardava e non si vedeva, le labbra colorate di un rosso acceso, gli occhi che cambiavano tonalità davanti alla luce bluastra delle lampadine. Erano lenti e meccanici i movimenti che seguivano, tirava fuori le salviette e flebilmente le passava su tutta la faccia. Portavano via quello strato di colore che non le apparteneva, quel catrame che sembrava farla più bella, darle un tono diverso. In realtà lo sapeva che le sue labbra carnose non avevano bisogno del rossetto per essere guardate, che la tristezza dei suoi occhi non sarebbe scomparsa con un po' di mascara.
Valeria era una persona autoconsapevole. Sapeva benissimo che effetto faceva sulle persone e quale parola le avrebbe stregate. Era consapevole di saper modellare, stringere, cambiare. Entrava dentro alle persone con una maestria che pareva involontaria, se lo fosse o meno non lo scopriremo mai.
A quel punto spegneva la luce del bagno, si spostava nella sua camera e scivolava nel letto per concedersi quella mezz'oretta di pace.
Era raro che riuscisse a mettersi in pausa, tutto correva e tutto scappava, le macchine la superavano veloci la mattina e lei non si lasciava intimidire dalla frenesia del mondo. Si adattava in modo abile allo scorrere delle cose, senza lasciarsi spaventare. Ma una volta a letto dopo un'intera giornata di finti convenevoli, ritrovava in sè stessa il proprio interlocutore.
Si chiedeva quando sarebbe scoppiata, quando sarebbe arrivata al suo culmine, all'apice del suo dolore. Quando si sarebbe stufata di tutte le mani che l'accarezzavano e cercavano di attirarla a sè, quando la pesantezza dei loro animi l'avrebbe fatta rovinosamente cadere a terra. Non si dava delle risposte eppure con quegli interrogativi si addormentava. Sonni profondi e senza incubi, riuscivano a farle dimenticare chi era e cosa la preoccupava.
Valeria un tempo sapeva parlare, stregare, incantare. Se è ancora in grado di farlo non credo di saperlo, piano piano si è allontanata dalla vita e da tutti gli amici che credeva di avere.
È stato un addio di quelli silenziosi, un allontanarsi passo dopo passo, traballando sulle punte.
A volte l'ho vista, era indaffarata nel suo lavoro, eppure si è fermata un attimo per parlarmi. Gli occhi azzurri erano dipinti di una malinconia nuova, era difficile guardarla fisso. Le mani parevano rovinate, tremavano mentre mi sorrideva in modo dolce.
Un tempo Valeria era un'affilatrice di coltelli, i suoi sorrisi sapevano comunicarti la sensazione giusta, il tono della sua voce era accompagnato dal solito pizzico d‘ironia. Ora Valeria ha deposto le armi, nascosto i suoi assi nella manica. Sembra fragile come un castello di carta in una giornata ventosa, la finestra aperta che fa entrare il gelo dell'inverno.
L'avrei voluta tanto abbracciare, dirle che non l'ho dimenticata e che solo perchè ha tentato di sparire non significa che abbia cessato di esistere.
Si sentiva sola, Valeria e questa era la prova che l'amore non aggiusta tutto, non ti cura. Nonostante faccia vibrare il cuore e ti mantenga viva.
Di cosa aveva bisogno? Forse di partire e ricominciare da zero, prendere il primo volo low cost con un giornaletto di gossip appoggiato sulle gambe. Forse un nuovo nome, una nuova identità. Forse avrebbe buttato quelle felpe larghe e sfatte per indossare dei sentimenti migliori, meno malati, meno stanchi, meno contornati da occhiaie scure e labbra martoriate.
Forse avrebbe messo piede in una città che la valorizzasse, che la facesse sentire una tra tanti, sconosciuta, anonima. Forse aveva proprio bisogno di sentirsi ordinaria, dannarsi per l'università da scegliere, ridere davanti a uno dei tanti programmi tv,  mangiare patatine scadenti davanti a uno spritz bianco fatto male.
Invece sentiva lo spessore della sua anima tra le dita, consapevole, troppo consapevole del suo essere. Essere triste, essere malinconica, essere vera e allo stesso tempo finta ai loro sporchi occhi. E la delusione che le lasciavano le persone diventava insopportabile, la schifava, la faceva arrabbiare.
Quando ci mettevano a capire quello che lei si aspettava? Perchè non si accorgevano, non capivano, criticavano la sua solitudine?
Allora rimetteva quel rossetto rosso, l'ombretto sugli occhi, smetteva di stare dietro alla frenesia del mondo e si lasciava alle spalle tutto il resto.
Che corrano gli altri, che se ne vadano, lei rimaneva ferma, mano nella mano con il suo grande amore: sé stessa.
Valeria era un'affilatrice di coltelli, ora è solo un po' più stanca, un po' più spenta, forse carica di dolore e nessuno a cui poterlo manifestare.
Valeria, dolce Valeria, matta Valeria, grande Valeria.
Ti sei murata in un castello di cristallo, ora puoi uscire, non avere paura. Sei pronta ad affrontare il mondo, non è cambiato da quando te ne sei andata, ma se vuoi puoi provare a cambiarlo tu.
 

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Capitolo 3
*** Fede ***


 

Fede


C'è chi fuma per moda, i più piccoli di solito, vogliono atteggiarsi da grandi, da duri, e con fare da strafottenti affrontano il mondo con un filtro in bocca. C'è chi poi ne fuma una ogni tanto, distrattamente, mentre magari sta bevendo una birra e ride con gli amici, lo fa quasi per tenere le mani impegnate, per darsi un tono in una delle tante conversazioni notturne, forse perchè semplicemente è quello che vuole fare nel momento in cui lo vuole fare. E poi ci sono loro: i fumatori abituali, qualcuno direbbe accaniti, che scandiscano la loro giornata tra una sigaretta e l'altra. Una la mattina, una la sera, prima di andare a dormire, quasi d'obbligo. Sono coloro che di solito sbuffano quando non fai altro che ripetere "Il fumo uccide", scrollano le spalle e fanno finta di non averti sentito, perchè quel mantra è entrato nelle loro orecchie fin troppe volte, e forse a loro semplicemente non importa.

Il che pare impossibile, che una cosa così fondamentale non importi, ma a guardarli poi non sembra sbagliato, mentre con fare esperto fanno su un'altra sigaretta: cartine, tabacco, filtro, far girare, meccanico no? Meccanico, scandire il tempo, il ritmo, le giornate, la vita. Che vuoi che sia una sigaretta, o una bottiglia di vino, quando si ha troppi pensieri, quando il nervosismo si irradia per tutto il corpo.

Federica ha sempre fumato, da quando la conosco, e non mi è mai sembrato strano, o sbagliato, anche se al tempo era solo una bambina di 14 anni o poco più, sembravano proprio giuste quelle dita lunghe, bianche, aggrappate a quel piccolo oggetto, niente di errato nell' avvicinarlo alle labbra sottili, che non concedevano un sorriso con facilità. Stava in silenzio, così, non le serviva per dare un senso a quello che diceva, non era messo lì per bellezza, per pavoneggiarsi, lei semplicemente stava in silenzio, anzi si crogiolava nelle non-parole, nella semplicità del tempo che si dilatava tra un passo e l'altro.

Federica è sempre parsa impenetrabile, forse incomprensibile, fredda, un muro di fumo denso, grigio, o almeno così all'apparenza, con il suo dire sempre la cosa più lapidaria, nel momento più giusto o forse per questo più sbagliato, la precisione con cui pronunciava le sue sentenze, la convinzione dei suoi pensieri, la coerenza più perfetta e assoluta, quasi stupenda. Federica era la magia della coerenza, aveva quella capacità assurda di vedere con lucidità le cose, razionale, adatta. Non avevo mai visto così tanta forza in una sola persona, prima di conoscerla, come faceva, mi chiedevo io, a nascondere tutto senza lasciare ombra di dubbio, a celare il malessere, il dolore, la sensazione di vuoto. Come faceva a raggruppare i suoi pensieri nel silenzio, dissimularli dietro a sorrisi compiaciuti, a bicchieri di alcol o di mozziconi di sigaretta. Come faceva a reprimere la voglia di urlare, di battere i piedi, di piangere, crollare?

Ho avuto il piacere, o forse la sfortuna, di averla vista arrabbiata spesso, e forse nel modo più deleterio esistente, perchè anche nella rabbia, nell'ira più nera, Federica non fiatava, non diceva mai una parola di troppo, non perdeva mai le staffe, ti congelava con la sua delusione nello sguardo e tu sapevi di aver sbagliato, o di averla ferita, toccata, superata.

Così, senza volerlo, avevo imparato che chi si mostra più forte cela la pià grande angoscia, che un muro di ghiaccio può difenderti dal mondo, ma non da te stesso e che Federica era un'anima vera, più di quanto riuscisse ad ammetterlo. Così vera da odiarsi, da portare rancore verso quel muro che viveva con lei, dandosi la colpa per non riuscire a spiegarsi, esprimersi, mostrarsi come un libro aperto. Eppure Federica non aveva niente di sbagliato, chissà se lo sapeva, se si credeva capace di amare o se al contrario fuggiva. Io l'ho sempre visto l'amore, nelle sue mani, nei suoi abbracci un po' impacciati, negli occhi lucidi quando non voleva piangere, non poteva piangere perchè lei odiava le lacrime e non saperle gestire. Vedevo in lei una dolcezza soffusa, come quando la domenica mattina ti svegli con pochi raggi di sole che filtrano tra le tapparelle, che ti accarezzano delicatamente il viso, senza esagerare, senza svegliarti. Una dolcezza disarmante, per chi non la conosceva bene, che si sentiva toccare dai suoi rari slanci d'affetto, dai suoi abbracci improvvisi, che si potevano contare sulle dita di una mano. Una dolcezza rassicuratrice nel suo saperti ascoltare, nel lasciarti sfogare, arrabbiare, piangere, sbraitare per cose di poco conto, così insignificanti, eppure lei ti ascoltava, senza fiatare, per poi farti ragionare, delucidare, aprirti gli occhi, la mente, "Sii razionale", sembrava starti suggerendo, uno sguardo di leggero rimprovero negli occhi.

E lei intanto combatteva per essere credibile prima di tutto davanti allo specchio, per sapersi riconoscere, per leggere nel suo sguardo ancora un briciolo di verità. Aveva paura, ne ero certa, anche se non lo diceva, di non provare più niente, così abituata a farlo credere agli altri, aveva paura di perdersi, in quel labirinto che la circondava, e forse era giusto che lo facesse. Che si perdesse.

Perditi, Federica, commetti errori, lasciati travolgere, crolla, e non sorreggere per una volta, parla e non lasciar parlare, non avere paura di farti sentire, di esistere, di essere, perchè già sei, così luminosa e nemmeno te ne accorgi. Federica, taciturna agli occhi degli altri, degli adulti, di chi nemmeno la conosce. Federica, vera, una grande amica, per chi ha la fortuna di scoprirla e viverla. Federica, coerente, magica Federica, butta a terra la sigaretta, schiacciala con un piede e accendine un'altra se necessario. Prendi un grande respiro, lasciati andare, trasportare da questo vento insopportabile che chiamiamo quotidianità.

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Capitolo 4
*** Ludovica ***


Ludovica

Pioggia leggera, il ticchettio delle gocce che una ad una formano una pozzanghera. Uno, due, tre. Tamburella le dita, sottili, piccole, sulla mia spalla. Una, due, tre. Poi con quelle stesse dita si sistema il colletto della camicia, bianca, immacolata. Uno, due, tre. La pioggia bagna i vetri dell'auto, non sta scrosciando, facendo rumore, è la pioggia di Marzo, e Ludovica quando è triste è proprio così, come la pioggia di Marzo, malinconica, vuota, persa in quell'odore penetrante che preannuncia la primavera.
Eppure se penso a Ludovica non penso alla pioggia, penso all'odore del pane caldo, quello fatto in casa, il calore di un focolare e la poltrona proprio lì vicino, un buon libro tra le mani e il tepore del Natale. È facile immaginarla su quella poltrona, le gambe lunghe distese, le mai ricoperte di anelli, gli occhiali che scendono fastidiosamente sul naso, e lei con noncuranza li tira su. Si sofferma sulle pagine ingiallite quasi ad ammirare il contrasto con la sua pelle, sottolineando con il polpastrello certe frasi, come si faceva alle elementari quando non si voleva perdere il segno. Uno, due, tre, tocchi prima di girare un'altra pagina, "è un tic", poi avrebbe sorriso, in modo dolce, soffice. Ludovica è proprio questo, l'arancione croccante di un pomeriggio d'inverno, sa di casa.
Eppure Ludovica che quando l'ansia la opprime lo dice, non riesce a dar voce ai suoi pensieri, a spiegare quel circolo vizioso, non sa come fermarlo, come dargli un senso o un volto. Si stringe al petto le ginocchia e finge di non esistere, cerca di addormentarsi, ma i pensieri continuano a bussare, tre colpi, uno, due, tre. E non sembrano intenzionati ad andarsene, a lasciare perdere, vogliono costruirci casa nella sua testa, arredarla e camminare avanti e indietro, su e giù fino a farla impazzire. A volte basta, però, un " Va tutto bene, Ludovica". Un abbraccio, una risata, un film di quelli che ti fanno trattenere il respiro fino ai titoli di coda. Potrebbe essere la protagonista di uno di quei film, con fare un po' da artista, ce la vedi con una chitarra in mano e un foglio stropicciato davanti, pieno di note, parole, disegni.Lei è così. Una bozza continua, una poesia piena di sbavature e correzioni, i fiorellini disegnati a piè pagina in un momento di noia, gli appunti sparsi per tutto il tavolo, che non si capisce quando finisce un argomento e inizia un altro, i libri con i finali sospesi, un quadro astratto, la mina di una matita rotta, spezzata, per terra, dopo aver disegnato troppo. E allora lasciali entrare quei pensieri che sembrano intenzionati a buttare giù la porta, accoglili con uno dei tuoi sorrisi e disarmali con la tua essenza, vedrai come ne rimarranno impauriti, come saranno estasiati dall'arte che crei con una sola risata. Sedetevi pure, mettete radici, lasciate la valigia ma sarete voi a volervene andare, perchè Ludovica con la sue mani piccole e la mente grande non ha bisogno di nuovi ospiti da invitare, di conquilini con cui abitare. Basta lei per una reggia intera, con quel suo disordine cronico di cui ne è prova lampante la sua macchina, con sempre qualche foglio nuovo, qualche manuale intero ancora da studiare, pupazzi sballottollati da un sedile all'altro. La macchina di un'artista, come dicevo, la macchina comunista come dice lei, di quel colore improponibile, forse sarà difficile separarsene quando comprerà una macchina più lucente e maestosa, sarà difficile separarsene perchè ci si affeziona a quel caos un po' in bilico, un po' azzardato.
Uno, due, tre, un abbraccio stritolante ed è ormai novembre, fra poco arriva l'inverno e forse dovremmo scappare in una baita in montagna, con quattro, cinque amici non di più, voglio un caminetto e il fuoco che ci scalda le mani, magari il tuo gatto che si accoccola ai nostri piedi, in cerca d'affetto, o forse solo di cibo.
Ludovica, così grande e così bambina, così inadatta nel suo corpo da donna, ma femminile nel più piccolo gesto. Ludovica e la sua risata infinita, che quando le prende non finisce più, e ti incita a continuare, a sorprenderla a farla ridere ancora ancora, buttare indietro la testa e diventare spensierata in un battito di ciglio. Ludovica così matura, ma così infantile in ogni suo capriccio, il passato che ha dovuto affrontare e di cui non parla neanche per mezzo secondo. Ludovica e tutti i segreti che cela, e la spontaneità nell'affetto che mostra.
Ludovica, incastrata nella mia anima, resta lì.
 

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Capitolo 5
*** Papà ***


Papà


Il suono di una chitarra, e di un paio di mani che accarezzano con una gentilezza disarmante quelle cinque corde, producendo una melodia un po' sconnessa, fuori onda. È così che penso alle giornate in famiglia, di quei giorni di festa dimenticati da tutti, quando da piccola mi svegliavo la mattina e sentivo l'odore di caffè e correvo di corsa in cucina perchè sapevo di trovarlo proprio lì, i capelli spettinati e una tazzina in mano. Mi aggrappavo alla sua maglia e sussurravo un buongiorno assonnato, poi lasciavo che prendesse i miei cereali e mi mettevo a mangiare vicino a lui. Poi quando tutti erano svegli si alzavano le tapparelle, la luce filtrava per tutta la casa, ed era una lotta all'ultimo sangue per il bagno. Papà rimaneva fermo davanti al computer a strimpellare quella sua chitarra, un qualche pezzo blues e niente lo fermava, nemmeno le nostra urla insistenti o il vociare dei nonni dal piano di sotto. Poi, quando non riusciva a trovare la calma necessaria, sbuffava dicendo "Nessuno in questa casa mi lascia suonare in pace", però rideva, non era arrabbiato.

Ora queste abitudini della domenica mattina sono un po' perdute, noi figli ci svegliamo sempre più tardi, e se ci svegliamo presto o studiamo o siamo da qualche parte a fare colazione con qualche amico, in un solito bar.

Però il mio papà non ha smesso di suonare quella sua chitarra, o spingere tutti quanti a passare del tempo insieme, e quando lo facciamo sembra di essere tornati bambini, a cantare a squarciagola le solite canzoni, ballare nel salotto in modo goffo e strano. Il mio papà ha una pazienza infinita, se si potesse misurare coprirebbe l'Europa intera, ci chiediamo tutti come faccia a sopportare quattro matti di cui tre donne dal carattere esuberante e la litigata facile. Ci chiediamo tutti come con il suo silenzio e la sua calma rassicurante riesca ad ascoltarci tutti senza un minimo di fastidio, e forse non potremo mai ringraziarlo abbastanza.

Quando tutto mi sembra troppo, quando le insicurezze mi divorano e la rabbia verso il mondo lacera i miei organi io ritrovo la serenità in macchina con papà, le sue mani grandi e screpolate appoggiate al volante, le mie lacrime e la sua voce che mi rassicura su quanto non ci sia niente più grande di me, se non il cielo.

E come avrei fatto senza di lui in 1000 e più occasioni, anche quando mi faceva arrabbiare, per la sua tendenza a minimizzare tutto. Poi l'ho capito, che quel suo modo di fare non era minimizzare, era invece guardare le cose planando dall'alto, donare leggerezza a situazioni pesanti come mattoni. Era meglio una risata, un "Ma che vuoi che sia", e un buffetto sulla testa, per farmi capire che la vita è più semplice di quanto si possa pensare, e che quando non lo è, bisogna vederla come tale.

Il mio grande papà non ci ha mai fatto mancare niente, mai una volta che io abbia sentito la sua assenza, anche quando effettivamente non c'è per questioni di lavoro, anche quando si dimentica i nomi delle mie amiche e io sbuffo perchè sono sempre quelle, da anni. Lui e la mamma hanno fatto un gioco da maestro, per conciliare ogni cosa, per donarci amore in mille modi diversi.

Hanno preso ad uno ad uno i loro i pregi, i loro difetti, li hanno messi su uno scaffale e ognuno di essi è stato usato nel modo più giusto, in armonia con ogni membro della famiglia, nonostante le litigate, le incomprensioni, le urla della domenica mattina e il suono di quella chitarra sempre brutalmente stroncato.

Chissà se lo sa, il mio papà, che lavoro egregio ha fatto, nell'abbracciarmi al momento giusto, nel rimproverarmi senza cattiveria. È un uomo di buon cuore il mio papà, anche se sceglie di stare in silenzio quando deve schierarsi, anche se preferisce la pace al dire ciò che pensa senza risentimenti. È un grande uomo il mio papà. E tutti quanti mi dicono continuamente che non ho ancora trovato una dolce metà perchè parto da standard troppo alti, a causa dell'uomo con cui sono cresciuta. Quando mi innamorerò, caro papà, voglio che sia di qualcuno dall'animo bello anche solo la metà del tuo, e potrò dire di essere felice.

Papà, dolce, matto, bellissimo papà, anche se prima o poi smetterò di essere quella ragazzina che canta i Beatles insieme a te, rimarrò sempre la tua bambina, che guarda al mondo con ingenuità e malinconia. Tu resterai sempre l'uomo della mia vita, il posto caldo dove nascondermi in caso di forte vento, il grande gigante gentile che mi sprona ad essere la migliore versione di me stessa.

 

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Capitolo 6
*** Elisa ***


Elisa


C'è qualcosa di magnetico nei tramonti, qualcosa che fa fermare ogni singolo passante ad ammirare il cielo con stupore, quasi fossimo tutti di nuovo bambini, meravigliati, incuriositi. Davanti a quell'accozzaglia di colori non importa più chi sei, chi ti sta aspettando a casa e qual è il più grande errore che mai ti perdonerai, davanti a quel tramonto per un attimo smetti di respirare, di esistere, di essere un qualcuno in relazione a qualcosa, sei improvvisamente un attore, un'artista, il più folle dei cantautori e il più innamorato dei poeti.
Elisa è come un tramonto a Novembre, che guardi tornando in macchina dopo uno dei tuoi mille impegni, riempie tutto il tuo campo visivo e ti sembra di esserci proprio dentro, a quel rosa caramellato, a quell'arancione sbiadito e al rosso che primeggia nei contorni delle nuvole. Ti sembra proprio di respirarle quelle sfumature e ti ammutolisci, lo speaker radiofonico che fino a un secondo prima stavi ascoltando ha smesso di parlare, il motore mezzo rotto ha cessato di produrre quell'incessante e fastidioso rumore. Tutto è ovattato e ti sei fatta di nuovo travolgere, investire, cambiare.
Ciò che è davvero buffo è che tutti i giorni, con qualche variazione di orario a seconda del periodo dell'anno in cui ti trovi, il sole tramonta, ogni giorno, nessuna eccezione, eppure l'essere umano si lascia ancora ammaliare da quel gioco involontario del cielo. Elisa, come dicevo, è proprio così, intensa, tumultuosa, sempre lì, sempre la stessa, ma sempre diversa, sempre in grado di cambiarti, stupirti, di trasformarti sotto al tocco delle sue dita. Elisa che neanche se ne accorge di starlo facendo, di starti toccando, stravolgendo.
Elisa senza impegni, senza intenzione, entra nella tua quotidianità con un balzo, fa rumore, ti scuote e ti destabilizza con il suo modo di ridere, di sghignazzare, che quando le sue labbra si distendono in un sorriso si illuminano anche gli occhi, irradiano una stanza. Elisa che invece quando è triste si colora di nero, indossa il più scuro degli sguardi e cammina a passo lento cercando di non essere notata. Quando soffre lo si sente, quasi la percepisci la sua aurea negativa, ma poi per cercare di depistarti ti prende in giro come una bambina. Ma se la guardi bene tu lo sai, che è stanca della vita, che quando arriva a casa si butta nel letto e affronta la giornata a fatica. Ed è per questo che Elisa è il sole quando tramonta, quando finalmente si lascia abbandonare, quando smette di riscaldare tutti quanti con la sua luce. Elisa è l'azzurro che presto diventa scuro, che si fa notte, buio pesto. Eppure è così bella Elisa, come quei tramonti, come il suono di un pianoforte un po' scordato alle due di notte, il ticchettio incessante delle lancette di un orologio, il petalo di una rosa che lasci appassire tra una pagina e l'altra di un libro.
Spesso mi ha detto di essere il nero del mio bianco, il buio della mia luce, mi piaceva quell'immagine perchè spiegava in modo intrinseco quello che siamo sempre state io e lei. Elisa da me torna sempre, ogni volta che le cose vanno male, ogni volta che i punti di domanda superano tutti i punti fermi del suo presente. Elisa quando sta per crollare ripercorre all'indietro la strada e bussa alla mia porta, io scendo le scale e allargo le braccia, perchè so che cosa dire per farla calmare, che parole sussurrare, che silenzi dilungare. Per questo Elisa è tornata sempre ogni volta dopo essere scappata, per dimostrarmi ancora una volta di quanto sa essere sgregolata. Sgregolata, scomposta, senza un posto dove andare, senza orari, libera di volare, di andarsene e di tornare, di piangere e poi di urlare, di ridere ridere forte, e poi baciare. Libera nel farsi condizionare, libera nel farsi amare e libera nel decidere di non poterselo permettere. Libera di ferirmi e libera di ricucirmi, di farsi ricucire, eppure stavolta Elisa non è tornata, anche se accompagnata dal dolore, non sta seguendo lo stesso schema, forse sta vacillando, aspettando, ma io so, e lei lo sa, che come i tramonti lei mi stupirà, mi lascerà di nuovo estereffata, incantata, meravigliata. E io, come da copione, smetterò un momento di esistere, mi dimenticherò degli esami da fare, dei chili da perdere, dei problemi da risolvere, di avere qualcuno a casa da cui tornare. Perchè Elisa è così, imprevedibile anche per sè stessa, non si conosce o forse non vuole farlo, troppo spaventata per guardarsi davvero allo specchio. Allora si immagina fredda, distaccata, quando invece non lo è mai stata, fa di tutto per allontanare, scansare, perchè dice di stare bene da sola, ma poi odia il confronto costante con sè stessa. E io, che la vedo per quella che è, che è stata e che sarà, riconosco nei suoi occhi caleidoscopici la vulnerabilità del suo essere, la fragilità del suo amore, che continua a combattere, con un coltello tra i denti.
Elisa, mia Elisa, dolce Elisa, nella ordinarietà che tenti di mostrare, nella dolcezza che cerchi di celare, io vedo ciò che mi spinge a lottare. Elisa, bella Elisa, magica bambina che gioca ancora a nascondino, conta fino a 50, poi torna a cercarmi.

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Capitolo 7
*** Matilda ***


Matilda

Per capire, a prima vista, qualcosa di una persona bisogna guardare le mani. Questa convinzione si è radicata in me nel tempo, guardando e stringendo dita rovinate dagli anni, colorate di rosso dal freddo, calde da risultare bollenti o fredde come pezzi di ghiaccio. Ho visto mani spoglie, nude, senza alcun ornamento, piccole e belle così, e mani ossute invece piene di vene, che narrano una storia, una vita. Ti innamori delle mani di una persona, non c'è niente da fare, anche se non sono belle da vedere e ruvide al tatto. Ti innamori perchè dietro a ogni carezza, ogni stretta, ogni sfiorarsi impercettibile e veloce ci sono storie lunghe anni o forse solo qualche mese, sussurri che superano il tempo, affetti da cui non ci si vuole mai allontanare.

E le mani di Matilda sono proprio belle, belle perchè vere, ferma immagine di quello che è davvero. Mani calde, calde come la sua risata prorompente, che sembra non avere mai fine. Quando Matilda ridacchia, infatti, sembra irradiare gioia senza pretese, genuina, spontanea, una risata calda come le sere d'estate, senza afa e con solo quel venticello fresco che accompagna il tramonto. Mani calde che ti stringono, ti dicono "Io ci sono", perchè c'è davvero senza tanti paroloni, senza finti convenevoli, Matilda c'è e basta, con quella sua leggerezza non programmata, senza orari, senza tempo. Mani grandi, che sorreggono, che ti abbracciano con una sincerità tale da essere disarmante, e non possono fingere, non possono mentire perchè non le si addice, la menzogna, la cattiveria, la meschinità.

Matilda è buona, buona nel profondo, e niente di quello che fa nasconde malizia, forse neanche si accorge dell'effetto che ha sulle persone, di quanto possono valere le parole che dice, perchè lei non le trattiene tra i denti, ti sorride e ti ammalia con la sua spensieratezza, senza rendersi conto che a volte le frasi si incastrano tra i polmoni e il cuore, che non tutto vola via con la brezza e che non stiamo tutti fluttuando in un immenso mare. Ma Matilda è così, senza pretese, senza pensieri, non oscurata da nubi nere, nocive, lei è limpida anche con la pioggia. È proprio così: Matilda quando soffre è come quelle giornate in cui piove con il sole, che sei confuso e spaesato perchè piccole gocce ti bagnano il viso, ma i raggi del sole ti accarezzano i capelli. Matilda non si lascia sovrastare anche nel più nero dei suoi giorni, neanche quando tutto la schiaccia e la opprime, riesce ancora a sorridere con quel sorriso a 36o gradi, un po' sbilenco, un po' storto, ma pieno.

E vorresti solo prenderla e stringerla tra le tue braccia, anche se non saranno mai calde come le sue, e farle sapere che non è un problema se si lascia andare, che può prendere e partire e che ci sarai anche quando sarà tornata, non importano i mesi, i giorni o gli anni. Che può prendere e lasciare tutto alle spalle, mettere una pietra sopra a tutti quei rapporti consumati che non hanno una forma, lasciare indietro chi ti ha strappato il cuore dal petto, i dolori nascosti sotto il letto, e i "Non ho niente, sto bene" appesi dentro all'armadio.

Puoi lasciare indietro tutto, voti a scuola, felpe che hanno perso il loro profumo, lettere che non hanno mai ricevuto il destinatario, notti passate a non riuscire a dormire, puoi lasciare indietro tutto e ricordarti solo l'emozione, ricordarti le risate di un sabato pomeriggio in centro, una nottata a parlare con le amiche, la gioia che il tuo cane manifesta quando torni a casa, i baci della mamma e gli abbracci quando sembrava tutto perduto. Ricordarti la rabbia di non essere capita e la gioia alla consapevolezza che forse, qualcuno, ti ha letto davvero.

E quindi Matilda, dolce e buona Matilda, dalle mani grandi e il cuore altrettanto, prepara la valigia e mettici tutto quello che non avresti pensato,e lascia fuori i turbamenti di un anno che poteva essere 100 volte migliore. Ricomincia in viaggio per Milano, su quell'aereo che ha già il tuo nome scritto su uno dei sedili, ricomincia e lascia che la tua leggerezza, la tua spensieratezza brilli nel cielo grigio inglese.

Sarai bellissima, e forte al tuo ritorno, forte da questo nuovo inizio, e pronta a rimetterti in gioco. Mi ritroverai con le braccia allargate e altre mille poesie da farti leggere, cose da raccontare, risate vere che riempiranno l'aria.

Ritroverò le tue mani grandi, calde e piene di anelli, e le stringerò con il più profondo affetto. Perchè piccola Matilda, chiunque ti lascerai alle spalle, avrai sempre qualcuno da cui tornare, a partire da me.

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Capitolo 8
*** Giovanni ***


Giovanni
 
 

La domenica mattina l'aria è strana, di solito sei abituato a dormire fino a tardi, ma a volte per un motivo o per un altro sei costretto a trascinarti fuori dal letto, ad affrontare il mondo prima del solito, e ti stupisci di come il sole possa accarezzarti il viso in modo così soffice, per niente invasivo, ti stupisci di come il chiacchiericcio delle persone sia più soffuso, sussurrato. E quando, per caso, le campane iniziano a suonare o un bambino si mette a piangere la tranquillità sembra intaccata, rovinata, sporcata. Ma niente può sconvolgere i piani della domenica, soprattutto quando il cielo è terso e le poche nuvole sembrano creare una composizione perfetta davanti ai nostri occhi.
Giovanni per me è un po' come la domenica mattina, precisamente una domenica mattina di settembre, e noi non siamo nel solito bar, le nostre scarpe si toccano impercettibilmente, lo costringo a farmi delle foto e lui sbuffa per poi prendermi in giro con una risata smorzata. Udine è bellissima la domenica, me l'ha detto Giovanni e forse è da quando lo conosco che ho iniziato ad apprezzare la nostra città, forse è colpa del suo essere mollegiante, dinoccolato, e il suo costringermi a passeggiare senza meta, spinti da una forza più grande di noi.
Dicevo, in ogni caso, che Giovanni è, incrediblmente e contro tutte le aspettative, di una leggerezza toccante. Prende ciò che dico e ci associa una risata, poi usa la sua ironia per cercare di smuovermi dalle mie convinzioni da bambina, come dice lui, dall'alto dei suoi 20 anni, come non smette di ricordarmi.
"Abbiamo 20 anni, cazzo", lo ripete anche a sè stesso, di vivere, di fare tutto quello che gli va, e nessuno lo mette in dubbio, neanche quando si siede davanti a uno spritz bianco e inizia a parlare, parlare, parlare, fino a perdere il filo del discorso, senza ricordarsi perchè stava parlando, ma il concetto è sempre quello. L'ho detto, Giovanni mi fa sentire leggera eppure è di una profondità disarmante, ti chiedi quando abbia tutto questo tempo per pensare, tra un treno e l'altro, una lezione e un esame. Eppure lui non ha da dire mai niente di scontato, superficiale, si chiede il senso, si chiede il perchè, e non gli serve molto per capirti, per vedere i tuoi punti deboli e saperli colpire, forse per una certa soddisfazione personale, forse solo perchè sa di poterlo fare. E a volte, questo gioco funziona, si crea un'armonia, un equilibrio precario e un po' strano, quello tra noi.

Io e Giovanni ci siamo capiti subito e credo che potrebbe concordare con me, di come in poco tempo abbiamo compreso come far oscillare nel modo giusto le nostre estremità; e io l'ho capito, ho capito come nel tempo è riuscito ad affilare nel modo giusto la sua ironia, difesa e attacco, una continua partita a scherma, di "touchè" detti con voce compiaciuta, sguardo di intesa.

Eppure a volte smette, abbassa le armi e gioca con te senza la presunzione o la convinzione di poterti ferire, ed è allora che inizia a entrarti davvero, nel suo saperti ascoltare e nel suo parlare, poi ti chiede di appoggiarsi a lui guardando la tv, in un quadro perfetto, perchè in quel momento è giusto così.
Giovanni sa fare rumore ma poi sceglie la calma di una domenica mattina, si dipinge come un principe dal cuore di pietra, ma poi ti chiede con voce incerta di dargli la certezza del tuo affetto. Giovanni è l'incoerenza delle sue emozioni, della rabbia che lo pervade, della gelosia che rovina i suoi pensieri, ma Giovanni è anche una teoria meditata, girata e rigirata, fino a prendere una forma, un senso, una logica. Giovanni è riservato ma, sfrontato come solo lui sa essere, ti sfida alla prima uscita, al primo caffè, al primo "Stupiscimi, scegli tu il bar"; ma poi il bar non gli piace perchè non l'ha scelto lui e vorresti solo zittirlo.

Giovanni, però, ti fa sedere in mezzo a piazza San Giacomo, tira fuori una sigaretta (ogni tanto, senza protrarre il vizio, forse per darsi un tono), e tu guardi da fuori la perfezione di quel momento, e qualsiasi cosa dirai, qualsiasi silenzio casuale sceglierai di indossare, non sarà sbagliato.
E sei felice, anche se non lo dici e anzi non fai altro che ripetergli quanto sia fastidioso, borioso ed egocentrico. Ma sei felice, perchè è domenica, la luce sembra meno accecante, le cose pesanti volano leggere come piume e tutto sembra aver trovato un suo ordine casuale, che rende tutto miracolosamente, al posto giusto.

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Capitolo 9
*** Federica ***


Federica
 
Ogni giorno un pittore si sveglia in un appartamento un po' schiacciato, pochi metri quadri, sai quei posti d'artisti, con i muri incrostati ma il balcone con la migliore vista su Parigi. Me lo immagino così questo pittore, con una tavolozza di colori in mano, in tarda mattinata, che deve scegliere, ponderare. Me lo sono sempre chiesta, in modo quasi insistente, come fa un'artista ad aprire il suo armadio di pennelli e tavolozze e indossare la veste giusta, la tonalità giusta, l'inclinazione corretta, la maschera più adatta. Se si dovesse disegnare la vita a tempere e pennelli, a gessi e pastelli, di che colore sarebbe l'essenza dell'animo? E allora lui dipinge, aggredisce la tela con una passione feroce, quasi animale, da far tremare le gambe del tavolo. Lui sceglie un suo colore, gli da un nome, un senso, una forma, un odore. Questo pittore dipinge per lei, lei che è e che sarà , per quello che non è stata mai. E non si limita alle parole, prende l'abito adatto e lo cuce in silenzio, ascolta.

 

Rossa quella sua giacchetta, di carta pesta sembra fatta, ha una scritta sul retro, sembra che voglia andare via. Rosso quel suo rossetto, così preciso per le sue labbra, così luminoso e reale in contrasto con la sua pelle diafana, candida.

Quando non ho più blu metto del rosso, diceva Picasso e così è, così fu.

Di rosso si coloravano le guance, come mele appena colte, in una Primavera un po' scostante, sbagliata. Rosso lo smalto sulle sue dita piccole, fragili, piccole bozze mai finite. Rosso come un taglio di vino, una dolcezza latente, una passione cocente.

Rossa è Federica, e riuscire a racchiuderla è più difficile di quanto si pensi, non ti va mai di esagerare, di superare i margini, di colorare fuori dai bordi. Non ti va mai di fare un passo di più, perchè lei si descrive da sè, senza presentazioni o alcunchè. Federica sembra così piccola se la vedi da fuori, soprattutto con quelle sue felpe larghe che in realtà non sono proprio sue, sembra sprofondare, allunga le maniche e ci si stiracchia dentro. Eppure poi la senti parlare, o meglio, gridare perchè guai a lei se non fa sentire la sua voce, prorompente, cristallina. Ed è così colorata di una rabbia accecante, la sua voce, la devi sentire per capire, ti intimidisce con quei pugnetti serrati e con quello sguardo assasino, sembra starti dicendo di star attento, non svegliare il can che dorme. E tocca sempre le corde giuste e questo è fastidioso, destabilizzante per l'esattezza, perchè lei urla, con tutto il fiato che ha in gola e in ogni parola, scelta con cura, riesce a scalfire un segno in qualsiasi animo spento. E così tu l'ascolti con uno sguardo un po' perso, l'ascolti e neanche te ne accorgi di starti facendo ammaliare, con quella sua voce prorompente, cristallina, rossa viva.

Pennellate profonde, intense, cariche di significato, incidono, scalfiscano, cambiano. Cambia la tonalità, seppur il colore sia lo stesso, è di un rosso tenue che si tingono le guance di Federica, quando avvampa, il che non avviene così raramente, se la si conosce bene. Federica cela una timidezza genuina, che con le sue urla e il suo battere i piedi riesce a sminuire molto bene, ma dovete vedere che luminosa diventa quando le tremano le gambe e abbassa il capo leggermente. Il suo corpo sembra svegliarsi da un intorpidimento, i capelli acquistano una lucentezza propria, vigorosi; lei torna una bambina, non appesantita dalla vita, maledetta. E così la forte Federica, così tenace e pronta a mordere, in realtà non è fatta per la chiassosità di un bar in centro, di gossip sussurrati con le labbra protese, lei vuole una distesa immensa di verde, una panchina e qualcuno con cui parlare, parlare e scoprirsi, in quel modo lento e casuale, di chi sta solo scegliendo quale storia raccontare, quale parte di sè mostrare, aprire e poi richiudere il proprio cassetto dei ricordi. Federica che di cose ne ha da dire, momenti da ripescare, tutti colorati di un immancabile rosso, rosso passione, rosso dolore, rosso sangue. Denso, macchiato, sfumature impercettibili, silenziose, niente più solchi sulla tela, ora sono carezze gentili, frusciano le foglie e trema la pelle nuda a contatto del vento.

Un'opera diventa un capolavoro quando nasce dalle ceneri di una grande ferita, e Federica di ferite ne ha tante, interne, esterne, colpi inflitti silenziosi o urlati nella notte. Federica è un libro già scritto, di quelli che ti affascinano così tanto che corri a leggere l'ultima parola dell'ultima pagina, prima di iniziarlo davvero; è una valigia pronta da un pezzo, nascosta sotto il letto, una forcina che ti rende i capelli ancora più fuori posto, un chioschetto in una spiaggia deserta, il rumore delle onde fa da radio, e lei canta. Federica è senza confini, senza limiti, è l'alba che ha atteso una notte intera e le coperte in cui si è nascosta quando non riusciva a dormire, è il mascara passato veloce nei bagni della scuola prima di un appuntamento, il sorriso di scherno mentre ti sta prendendo in giro, o il suo appoggiarsi leggermente solo per dirti che ti sta ascoltando, senza grandi gesti d'affetto, solo una mano sulla spalla. Federica è l'acqua che scorre gelida tra le sue costole e lo sguardo fisso nel vuoto, ma è anche il rimasuglio di forza rimasta di alzarsi dal letto anche le mattine peggiori.

Sei tutte queste cose, ma forse sei solo una, sei tu il pittore che si è svegliato un giorno qualsiasi a Parigi, sei tu qui l'artista, colei che prende in mano i pennelli e dipinge la sua vita. Sei tu che con le tue lacrime, la tua essenza, la tua anima, hai iniziato questa narrazione, e sei tu che puoi decidere di strappare, modificare, aggiungere, togliere, amare. Sei tu qui il capolavoro, puoi riempire una galleria, una mostra, una villa. Mettiti un rossetto rosso brillante, gli anelli nelle tue piccole dita tremanti, stringi i pugni, alza il mento, sei proprio qui.

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Capitolo 10
*** Mamma ***


Mamma

I figli hanno una grande capacità di cui nessuno parla: quando sono soli in casa riconoscono in un millesimo di secondo i passi della mamma, quando sta salendo le scale o semplicemente sta camminando nel vialetto prima di tirare fuori le chiavi e smanettare davanti alla porta. È sempre un attimo, una frazione di secondo, e capisci. Per noi tre è sempre stato facile, con quei tacchi da cui non vuoi separarti, dei trampoli che per te sono giochi da ragazzi. Però di donne che portano i tacchi ce ne sono infinite, eppure quando ti sento arrivare so che sei tu.
Tu con quelle borse sempre enormi, chissà se sono tutte così le borse delle mamme, grandi e capienti che non si trova mai il portafoglio o le chiavi della macchina. Quelle borse da cui tiri fuori di tutto, fazzoletti o rossetti per l'evenienza, perchè sei sempre impeccabile, mai una volta fuori posto, sempre bellissima, splendente.
Una gran donna la mia mamma, non si ferma neanche un secondo, non si da neanche un attimo di pace. di riposo. Su e giù per le scale, in macchina per venirci a prendere o a fare commissioni per tutte le esigenze.  E che fatica con tre figli come noi, tutti diversi, bisognosi di attenzioni, di versare lacrime, chi di urlare, chi di ridere.
E di urla ce ne sono state tante, possiamo chiedere pure ai nostri vicini, hanno trapassato le mura le nostre grida, i nostri litigi costanti, i pianti e il non capirsi. Io in realtà l'ho sempre capita, con il suo bisogno di avere tutto sotto controllo, di vederci felici, di assicurarci un futuro. Ma anche con il desiderio di essere apprezzata, aiutata, abbracciata a volte. Io di abbracci te ne ho dati tanti, ma ti ho fatto mancare anche molte cose, ti ho fatto alzare la voce e avere paura. Paura di avere una figlia che alza muri invece di provare ad abbatterli, paura di sbagliare, di non dare abbastanza. Tu mi hai dato sempre tutto, una presenza costante e non di certo silenziosa. Ti fai sentire mamma, non passi di certo indifferente, con i tuoi gesti eclatanti, con le esagerazioni costanti. Siamo due donne drammatiche, ammettiamolo, sempre a recitare nel teatro della vita, ma tu sei la protagonista mamma, anche se a volte ti senti subordinata, una controfigura, un oggetto di scena. Sei tu la protagonista di questa casa, che cerchi sempre di armonizzare, fare andare tutto per il verso giusto, non lasciare mai cadere.
E tra esami, patenti, amici, amori, ti sei sempre distinta nelle nostre piccole vite, "la mamma è sempre la mamma", e ognuno di noi è sempre corso tra le tue braccia per essere consolato, capito e a volte anche sgridato.
Papà una volta mi ha raccontato di come da bambini non volessimo fare niente senza avere prima il consenso della mamma, e anche se lui ci dava il via libera noi aspettavamo di chiederlo a te. Ci siamo sempre aggrappati ai tuoi vestiti, nascosti dietro le tue gambe, per farci proteggere da te, dalla grande donna che sei.
Sei la donna che prima di andare a dormire ci diceva dalla fessura della porta "Buonanotte cicicchie", sei quella che ci veniva a prendere all'elementari e ci chiedeva mille volte come fosse andata a scuola, anche se noi rispondevamo un "Niente" sbrigativo. La donna delle contraddizioni, del "dovresti uscire di più" quando vogliamo stare a casa, e l'immancabile viceversa quando invece vogliamo divertirci. Sei quella che non smette di ricordare di quando era ragazzina, delle serate in discoteca e di come ti piaceva ballare, ballare veramente e si chiede da chi io abbia preso. Sei "da lunedì dieta", ma poi quando mi vedi mangiare di meno mi allunghi ancora un po' di pasta, sei talmente tante cose che non riesco nemmeno a riassumerle, come si fanno a condensare 19 anni in un solo ritratto, tu sei così tanto.
E anche se a volte ti sbeffeggiamo, scherziamo o ci arrabbiamo, resti sempre per noi, per me, il punto fermo in mezzo ai mille punti di domanda.
Con quei tacchi alti e le tue borse grandi hai sempre trascinato i problemi di tutti, hai tirato fuori le soluzioni più geniali e ci sei sempre venuta incontro, passo dopo passo.
So che spesso ti sminuisci, ti senti minacciata dai nostri modi di fare, credendo di essere da meno rispetto ad altri genitori. Ma io, nonostante il nostro rapporto di "odi et amo", non potevo chiedere di meglio.
Ora ti sono ancora vicina ma, quando in un futuro lontano sarò dall'altra parte del mondo, ti chiamerò soltanto per sentire la tua voce e sapere cosa devo fare, se mi sto comportando in modo corretto e come potrei fare di meglio. Perchè mi hai insegnato a non accontentarsi mai, a non fermarsi dicendo "Non ce la posso fare", mi hai spronato con i tuoi modi di fare ad essere una studentessa migliore, un'amica migliore, e una figlia migliore. In questo, forse, non ci sono ancora del tutto riuscita, e mi devi ancora sopportare piena di difetti, lamentele e sbalzi d'umore. Ma in ogni cosa che faccio, in ogni decisione che prendo, mi muove il desiderio costante di renderti fiera di me.

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Capitolo 11
*** Anais ***


Anais

Le tartarughe non sono tra gli animali più veloci, producono un rumore lento e poco continuo, più pesante. Lo sappiamo da sempre, Achille il più veloce tra gli uomini contro una testuggine vecchia e saggia, che non viene raggiunta mai. Fisicamente impossibile da immaginare, ma diciamocelo, le tartarughe sono degli animali difficili  da descrivere. Piccoli carri armati simbolo di resistenza, forza, allo scorrere del tempo, alle interperie. Stanno bene nel loro guscio, senza farsi toccare dalla pioggia, dalla grandine, dal terriccio che sporca le loro zampe. Tenace, resiliante, cosi è Anais, da sempre chiamata così, con un tatuaggio che lo descrive.
Anais è entrata nella mia vita e io non avrei mai immaginato che saremmo mai potute diventare amiche, mi ricordo vagamente le mille conversazioni che avevamo, lei con le sue convinzioni ed io con le mie. Erano infinite le argomentazioni e alla fine, anche se rimanevo sulla mia, il dibattito lo vinceva lei, e con quel suo sguardo di sfida mi osservava come per dire "Pensavi di fregarmi?". All'inizio, forse questo nemmeno lei lo sa, mi metteva in soggezione, e penso che sia quasi normale: è sicura di sè Anais, o almeno è quello che a prima vista riesce a mostrare, accavalla le gambe, poggia il gomito sul tavolo e ti provoca silenziosamente, con quella risatina viva, che sembra quasi prenderti in giro. È molto intelligente, di un'intelligenza astuta, arguta, sottile, usata per battute pessime e teorie geniali, che mi ritrovavo ad ascoltare scuotendo la testa per non darle la soddisfazione di dire "Hai proprio ragione, cazzo".
Poi con il tempo, con i mesi e il trascorrere ore insieme ho scoperto un lato più dolce di Anais, più docile, ma sempre accompagnato alla fierezza nel suo sguardo, al mantenere il controllo della sua voce. Anche nella premura dei piccoli gesti, nel suo modo di donare affetto c'è sempre stata una ruvidità e una durezza che lascia spiazzati. Decisa, è così Anais, se si mette in testa qualcosa poi la ottiene, di certo senza precludersi di lamentarsi, ma poi con la soddisfazione a traguardo raggiunto di dire di avercela fatta. Anche nelle cose più piccole, nell'aiutarti in qualcosa, nel darti consigli, è una piccola lotta con sè stessa per poi dire di aver avuto ragione, è assurda, e competitiva, anche quando con un joystick in mano si accanisce contro la play, per sfogare qualche rabbia mai risolta.
Ma la cosa che più ammiro di Anais è la sua capacità di sussistere per sè stessa, di bastarsi, di essere piena, completa, viva di suo, anche nei momenti di sconforto o di malinconica. È viva per sè stessa, come una roccia resiste a ogni mare spumeggiante e irruento, e anche se non si piace, anche se non si ama, anche se ha un'insicurezza di fondo che non mostra mai, fa di tutto per apprezzarsi e migliorarsi.
Anais galleggia da sè, senza bisogno di salvagente, senza bisogno di fingere, di vezzeggiare.
Come una tartaruga, che non si lascia mai superare da Achille, che piano piano raggiunge i suoi obiettivi senza farsi scalfire, nè toccare. E quando Anais si lascia toccare, quando si affeziona, quando vuole bene, brillano le pagliuzze gialle nei suoi occhi e con un silenzio calcolato fa sentire la sua presenza.
Quante me ne ha dette, quanti sguardi di rimprovero, quanti insulti concitati per farmi reagire, ne potrei raccontare mille di volte in cui mi ha scosso bruscamente per dirmi di vivere, con la V maiuscola, come fa lei, senza lasciarsi trasportare dalla corrente fredda.
È una grande amica, una grande persona, un personaggio un po' strano, ma così vero nel suo.
È una boccata d'aria fresca, un'avventura estiva, un abbraccio di quelli rari che ti scalda il cuore. È la pazzia di tingersi i capelli e il continuare a marciare sulle proprio idee, è la battute che fanno ridere anche se non vuoi ammetterlo, il saperti contagiare con i suoi piccoli modi di fare.
Anche se non me lo dice spesso so che mi vuole bene, e io, anche se ci ho messo una vita prima di riuscire a scrivere di lei, la reputo fondamentale.
Anais, roccia, tempesta, guscio duro, che ti piace fare la dura ma daresti la vita per i tuoi amici. Poco poetica, sempre diretta, con quel guizzo negli occhi e la verità sulle labbra, resta sempre quella che sei, e allo stesso tempo corri sempre, per essere la te migliore, ogni anno che passa.
 

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Capitolo 12
*** Alessia ***


Alessia
 
L’odore degli agrumi che rimane impregnato nei polpastrelli, il caldo che non ti abbandona neanche per un secondo, l’azzurro terso del cielo che ti sovrasta e i colori caldi delle case, dei negozi, dei bar. È questa Palermo: con il forte odore di pesce al mercato, e i venditori che con un sorriso caldo ti chiamano bonariamente “picciotta”.
Alessia è proprio così, è come Palermo, sembra proprio portarlo con sé il sapore di mare, d’estate, d’amore. Alessia entra nella tua vita spalancando la porta, ma la sua risata e la sua voce squillante si sentono già mentre con quel suo passo vitale sale le scale.
Alessia la riconosci tra mille, perché nel freddo inverno della nostra città lei si infila il cappello di lana, la sciarpa enorme che le copre metà del viso e si incammina sulla sua bicicletta di cui dimentica sempre il catenaccio. Lei, come mi dice spesso, soffre il freddo perché sente di appartenere al caldo, e non appena vede il sole deve uscire un attimo a farsi baciare. Le vuole bene il Sole, sembra seguirla un po’ ovunque, come se la portasse lei quella luce accecante.
E forse è proprio così, perché Alessia ti sorprende sempre con la sua spontaneità genuina, con l’armonia che con quelle dita guizzanti crea. Quando parla gesticola molto, come se stesse dipingendo su una tela, spruzzi di arancione, schizzi di passione, vivi, forti, veri.
Alessia è così, come una risata che ti prende dal cuore, come la calma di una lezione di Yoga. Sedersi, lasciarsi andare, respirare, farsi coinvolgere. Io di Yoga non ne capisco molto, ma forse da lei mi farei guidare, chiudere gli occhi, cercare quella pace che dalle espressioni del mio volto sembra scappare. Alessia invece è stata in grado di trovare un equilibrio in sé stessa, come un’equilibrista che sul filo del rasoio salta e non cade giù. Lei ha imparato a non crollare, forse proprio perché si è guardata dentro, si è vista, si è riconosciuta e ha imparato ad amarsi.
Alessia quando passa sembra una Dea, non perché io nel mio affetto la stia divinizzando, ma semplicemente per il suo modo di sospirare, di camminare sulle punte, di sorridere di getto, di salutarti con un bacio prima di andare via.
Alessia ti da il buongiorno e con un quadernetto in mano ti dice “Ho fatto dei sogni assurdi stanotte, devo leggerteli”. E anche in quel caos lungo una notte sembra esserci della coerenza espositiva, delle radici profonde, solide, tangibili.
Alessia che non si fa sfuggire niente, che quando desideri qualcosa te la porta solo per lasciarti così, un po’ di stucco, per farti felice. Lei che quando mangia del pane va nel giardino dicendo che vorrebbe lasciare le briciole agli uccellini, lei che non spreca mai neanche un singolo foglio di carta perché se no si sentirebbe in colpa verso la sua amata Natura.
Alessia con il thermos pieno di the caldo e pezzi di vita sparsi in ogni dove: la vedi concentrata mentre studia, con le gambe incrociate e i mille libri aperti davanti a sé. Sembra espandersi sempre di più perché lo spazio non le basta mai, tra penne, matite, colori, appunti e schemi.
Alessia che, anche se non lo da a vedere, ci rimane male se non riesce a farsi capire, comprendere. Ha bisogno di comunicare, interagire, ascoltare, vedere: e quando, per qualche errore di distrazione, nascono incomprensioni, non si arrende e continua a spiegarsi. Perché la sua opinione vale, le sue idee valgono e non le lascerà andare in un soffio di lieve brezza.
Come se camminasse sulle nuvole, leggera, non supera i limiti ma rompe gli schemi.
Palermo è una di quelle città in cui, anche se sei solo di passaggio, ci lasci l’anima. Un po’ come te, piccolo raggio di sole, che hai il disarmante potere di mettere gli altri di buon umore.
Alessia, cara Alessia, io all’amicizia credo poco e i rapporti li vivo con paura, ma piano piano ti sto lasciando entrare nella mia vita come quando chiudi le tapparelle e la luce del buongiorno ci si infila in mezzo a tutti costi. Sei una ventata d’aria fresca nelle peggiori giornate di studio, e senza aspettative, a passo scalzo, stai diventando importante.
Non perdere mai il tuo essere cristallina, neanche quando il vento burrascoso che viene da Nord ti fa tremare; tanto, anche nel peggiore degli inverni, con la tua pelle scura e con i tuoi occhi caldi tu porti l’Estate.

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Capitolo 13
*** Michela ***


Michela

Le luci improvvisamente si spengono, e le urla del pubblico sovrastano i pensieri, i dolori, gli amori. È magico quel momento di sospensione, in cui l’attesa ti crea una fibrillazione e un’energia tale che spaccheresti il mondo con la tua luce. Però è buio. E tutto quello che si vede è la sagoma del palco ancora vuoto, in attesa del cantante, dell’artista, dell’attore.
Spietato e calcolatore sa calibrare il suo ritardo, per lasciare un minimo di stupore, di folle emozione. E poi la musica, oh la musica che annulla le urla, le acclamazioni, i cori. La musica che non importa quale sia, ti sconvolge.
Michela è un po’ come un concerto che aspetti da mesi, per cui ti svegli presto la mattina e sotto il sole fai una fila infinita. Michela è la fatica incomprensibile di aspettare tutte quelle ore, e poi la chiara e limpida consapevolezza che sì, ne valeva la pena. Michela è il boato, l’eccitazione palpabile di mille voci che si innalzano al cielo, e Michela è la calma scottante dell’unica voce che grazie al microfono abbraccia e conforta tutto lo stadio.
Michela è ancora piccola, ma a piedi pari sta facendo un salto nell’età adulta; o forse piccola ha smesso di esserlo da tempo, ed io, con un solo anno in più di lei, mi sono talmente affezionata all’immagine della lei bambina che trovo impossibile sostituirla.
Eppure, Michela è cresciuta e di esperienze ne ha fatte tante, sempre con una valigia in mano ha viaggiato per il mondo, partendo dalla sua cameretta che forse ora non è più rosa, che forse ora è cresciuta con lei. Michela è l’insicurezza palpabile, mista a una capacità innata di sapersi valorizzare. Di sapersi non-calpestare. Di essere in grado di brillare, di urlare, di farsi notare e di non passare inosservata di fronte agli occhi acquosi di chi la circonda.
Michela è brava a parlare, ma mai delle sue emozioni negative, sembra non voler ammettere ad alta voce che sì, quella cosa là, le fa male. Inizia a parlare solo quando sa calibrare, spiegare, dare. Mai una parola di troppo, mai una richiesta d’aiuto troppo palese, solo taciti sguardi.
E, quando finalmente capisce e comprende, che la vita è una e va vissuta, si lascia andare, si lascia abbracciare, stringere, amare. Lascia che gli altri le vogliano bene, per la sua spontaneità, per i suoi sorrisi a 360 gradi, per le sue mani calde e gli occhi luminosi, anche se stanchi.
Michela è il non-fallimento, è le aspettative enormi che ha creato intorno a sé e la paura di deludere. Di far crollare il castello. Di non essere abbastanza per gli obiettivi che si è prefissata.
Io, stupidamente, per anni ho creduto che lei di problemi non ne avesse mai, in quella perfezione che pensavo incarnasse, perennemente messa a nudo contrasto con le mie velleità. Invece, poi, con il tempo ho capito che Michela non ha nessuna voglia di essere quella “perfetta”, di essere la più brava, la migliore. Michela vuole solo non far crollare la pila di piatti che ha in mano, perché sa che il frantumarsi letale della ceramica, la distruggerebbe molto di più della fatica per tenerli su.
E così, ambizione dopo ambizione, non ha mai mollato, non ha mai deluso, tentennato.
Michela, che da bambina nel corridoio di casa della nonna giocava insieme a me ad inventare delle storie: come delle piccole regine convincevamo i nostri cugini maschi a giocare con noi, costringendoli in ruoli che non capivano e alla fine, grazie alle nostre risate, si divertivano anche loro. Michela che, nel periodo delle medie, si definiva la mia migliore amica e che poi mi ha visto voltarle le spalle quando l’affetto non riusciva a colmare la distanza di km e di età. Michela che, anche quando le chiudevo porte in faccia, mi ha sempre citofonato di nuovo, mai solo una misera volta. Michela che poi si è anche arrabbiata, si è fatta sentire, perché la mia assenza era ingiustificata, imperdonabile. Michela poi, mi ha saputo perdonare.
La prima canzone dei concerti è quella che ti fa saltare, gioire, urlare. Ma l’ultima, quella che chiude una serata fantastica, è la più triste e malinconica: le torce dei cellulari si accendono, le luci del palco si affievoliscono, e tutto sembra essere un’unica voce, un unico coro, composto dal pubblico e dal cantante stesso. Michela, tu che vuoi sempre essere la prima canzone di ogni concerto, concediti di essere anche l’ultima, cantata più bassa a voce, con una malinconia dolce nel cuore. Se vuoi essere il boato iniziale, devi accettare di essere anche la tristezza del dopo concerto, quando quelle mille voci che sono state, per un secondo, amiche, tornano ognuna alla loro vita di sempre.
E, se vuoi, puoi essere anche il cantante su quel palco, perché di talento ne hai sempre avuto, con quel pianoforte e la tua voce limpida. Sii padrona di te stessa, ma accetta anche di crollare, di abbassarti, di piangere, di essere solo una delle tante voci stonate nel pubblico.
Mi hanno detto mille volte che dopo i 18 anni il tempo vola: frase paternalistica, che ho sempre ignorato. Ma alla fine, se ci pensi bene, è così. Ora sei al massimo della tua vita, poi piano piano tutto diventerà più frenetico, meno tangibile, tutto più veloce. Goditi passo dopo passo questi 18 anni, perché te li meriti tutti.

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Capitolo 14
*** Nonna ***


Nonna Matilde
 
La bellezza di una farfalla è celata in un battito di ali, in un millesimo di secondo, nel polpastrello di un bambino che si allunga per sfiorarla ma lei fugge via. La bellezza di Matilde, che per tutta la mia vita è stata nonna Matilde, era una bellezza femminea, delicata ma al tempo stesso disarmante. Come una farfalla, sfuggente e leggera sfioravi le nostre menti e i nostri cuori, e soprattutto fragile come una farfalla lo sei stata nei tuoi ultimi e agognati mesi di vita, sarebbe bastato un solo tocco per farti cadere; allora è stato nostro compito ballarti intorno senza mai stringere troppo la presa.
Quando ero piccola, invece, mostravi brillanti tutti i tuoi colori. Ricordo quando mi mettevi a letto, mi tiravi su le coperte e ti sedevi sul bordo per aspettare che mi addormentassi; non mi raccontavi le classiche fiabe della buonanotte, mi raccontavi delle mille storie che avevi vissuto, dell’amore dei genitori che ti avevano messo al mondo, di come hai incontrato il nonno e di come lui ha lottato finchè non ti ha finalmente conquistato. Io, rapita, pendevo dalle tue labbra, ascoltavo il suono della tua voce e tentavo di immaginarmi quella giovane donna che a 17 anni portava un vestito a fiori e tutti si giravano incantati a guardarla.
Nei pomeriggi d’inverno, invece, mi andavo a infilare nel tuo di letto, il nonno mi cedeva il suo posto e si metteva sulla poltrona, e io affondavo il viso in quei cuscini con le federe dai motivi floreali, innamorata di quell’odore. Quante volte, quando ero piccina, abbiamo visto Anastasia? La storia di una nonna e una nipote che tu, con quegli occhi carichi d’affetto mi dedicavi.
Quante volte mi hai difeso, quante volte mi hai appoggiato, con una dolcezza e una magnanimità che i tuoi figli non hanno mai ricevuto? Mi hanno detto che l’essere nonna ti ha addolcito, ma non hai mai perso il tuo essere schietta, il tuo rimproverarmi quando facevo qualcosa che – secondo i tuoi parametri e non quelli di mamma – era sbagliata.
Quando mi sono fatta più grande, invece, ci tenevi a prestare a me e ad Annalisa i tuoi vestiti, la tua amata pelliccia, e i tuoi maglioncini a collo alto, e quando ci tiravamo a lucido per le occasioni speciali, ti brillavano gli occhi e ci dicevi “Quanto siete belle”. E non capitava mai di uscire senza salutarti, senza augurarti buona giornata al volo prima di immergerci nelle frenesie delle nostre vite. Poi tornavamo a casa e tu eri sempre lì, a bisticciare con il nonno e a guardare la tv, e a commentare le notizie che ti rimanevano più impresse.
Eri una presenza a volte silenziosa, ma mai invisibile, ti facevi notare e vedere a qualsiasi pranzo di famiglia, con quelle teglie di pizza ripiena che, l’hai sempre saputo, mi faceva impazzire. Eri una gran cuoca nonna, te lo abbiamo sempre riconosciuto e tu con il petto in fuori e un gran sorriso ne andavi fiera. Padrona della cucina, ma anche della casa, l’hai sempre detto tra una risata e l’altra che eri tu a comandare e a decidere per te; il nonno è burbero, ma alla fine ti lasciava sempre fare, ti teneva aperta la portiera prima che scendessi dalla macchina, e si è dedicato a te e alla tua serenità per tutta la sua vita.
Ho 20 anni, e per 20 anni ti ho avuta al mio fianco, ti ho vista come la nonna, la mamma di mia mamma, ma quello che c’è stato prima di questo posso percepirlo solo dai racconti, dalle foto. Quando tu avevi la mia età, eri di una bellezza mozzafiato, una bellezza regale che nessuno poteva ignorare. Te ne sei sempre vantata, era il tuo vanto più grande, anche quando ti stavi spegnendo. Mi chiedo perché non hai mai, invece, elevato la tua forza. Non eri una bambolina di cristallo nonna, ma una donna che ha lottato per tutta la sua vita, che ha schivato le sofferenze e che non si è mai fatta mettere i piedi in testa. È questo che dirò di te, quando mostrerò le tue foto: che eri bella da morire, ma anche inarrestabile.
Negli ultimi anni ti sei un po’ persa, lasciata sbandare. Ma nei tuoi occhi azzurri, che solo uno di noi nipoti ha ereditato, si poteva ancora scorgere il tuo vero animo. Ti abbiamo amata nonna, ammirata e protetta. Queste quattro mura probabilmente non saranno più le stesse senza di te, senza il tuo caratterino, senza la tua generosità e il tuo portamento. Sarà strano tornare a casa dopo un esame e non comunicarti il mio voto e credo non mi abituerò mai a non sentire più la tua voce che diceva “Piccolina, vieni un attimo qua”.
Ora sarà tutto più vuoto, tutto più triste, ma era il momento che tu partissi: sei giunta al capolinea, dopo un viaggio lunghissimo e indimenticabile. Hai preso in braccio e stretto al petto i tuoi figli, li hai visti crescere e poi hai fatto sedere sulle tue gambe una schiera di nipoti; e poi, è stata una vita intera insieme a lui, al tuo grande amore, che fino all’ultimo respiro hai voluto vicino.
In alcune culture orientali le farfalle sono viste come le anime dei cari che ti vengono a trovare, per un ultimo saluto; gira tutto il mondo, batti le ali e ritrova il tuo colore... poi, però, posati sulla mia spalla. Non toccherò le tue ali, non contaminerò la tua purezza, ma ammirerò quella tua eterea bellezza, che con tanto orgoglio in vita hai indossato.
 
 
 

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