Assalto frontale

di Cladzky
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Deltametrina ***
Capitolo 2: *** Litigi familiari ***
Capitolo 3: *** Luci nella notte ***
Capitolo 4: *** Andirivieni ***



Capitolo 1
*** Deltametrina ***


Il primo giorno in cui avemmo l’impressione che le formiche intendessero sterminarci fu il giorno che il mio vicino di casa volle sterminare un formicaio. Quando mi svegliai quella domenica mattina mi affacciai alla finestra e vidi la sua macchina parcheggiata. Doveva essere appena tornato dal suo viaggio di lavoro che lo aveva trattenuto nel fine settimana ed era già indaffarato nel giardino sul retro. Non mangiai, misi qualcosa addosso e lo raggiunsi. Avrei voluto salutarlo ma non me ne diede l’occasione, perché subito proruppe a lamentarsi.

―Questo è assurdo― Mugugnò mentre caricava un nebulizzatore con una tanica di Bifentrina.

―Che cosa?

―Te le ricordi quelle formiche cilene dei signori accanto?― Disse, indicando nel contempo la siepe oltre la quale un signore dai folti baffi la andava potando. Al sentirsi l’indice addosso lo guardò storto.

―Formiche argentine.

―Non serve che mi ricordi di essere un entomologo― La tanica del nebulizzatore era ormai piena da strabordare e lui ebbe difficoltà a chiudere l’imboccatura con ancora la confezione di bifentrina stretta nell’altra mano. Lo aiutai reggendogli lo strumento ―Fatto sta che da quando hanno fatto la disinfestazione nella casa accanto, qualche giorno fa, quelle bastarde devono essersi infilate nel mio giardino e si sono fatte il nido. Quando sono tornato ho trovato la mia cucina invasa, stavano ovunque ed era disgustoso.

Mise a posto la bifentrina e si riprese con violenza il nebulizzatore che gli avevo retto. Chiesi di poter vedere la cucina e lui scrollò le spalle. Aggiunse di fare in fretta perché presto sarebbe passato anche lì con un trattamento alla deltametrina e non ci sarebbero più state formiche vive da osservare. Varcai la soglia e già vidi sul soffitto in stucco bianco una scia ordinata di piccoli corpi color bronzo che spasmodicamente facevano avanti e indietro, penetrando da sotto la traversa della porta, sopra la mia testa. La seguì fino alla cucina e constatai che il mio vicino non scherzava quando l’ebbe definito uno spettacolo disgustoso.

La dispensa attaccata al muro era presa d’assalto, in diverse direzioni, da orde confuse di razziatori che si calpestavano l’un l’altro, correndo lungo le pareti. Alcune colonne riuscivano a infilarsi, seppur con difficoltà, fra l’anta e il mobile, altre invece si erano aperte la strada masticando il legno. Aprì una delle ante, un po’ tremando a dire il vero, e diedi un’occhiata all’interno. Le confezioni in cartone, in gran  parte con il rivestimento masticato, brulicavano come alveari. Quelle in plastica avevano subito un destino simile, sebbene per gli insetti era stato comprensibilmente più difficile forarle e si erano limitate a poche aperture che attraversavano diligentemente, aspettando il proprio turno per uscire o entrare. Ogni genere alimentare che non fosse chiuso in scatola era trasportato pezzo per pezzo via dal mobile e credo che se avessero avuto più tempo avrebbero trovato un modo anche per forare l’alluminio.

“Cristo” pensai “Tutto questo in due giorni”.

La mia mano stringeva ancora la maniglia dell’anta. Mi ci ero afferrato con forza quando vidi quelle moltitudini di occhi composti, mandibole e antenne saettare da tutte le parti, indaffarate, come se fosse l’ultimo giorno del loro ciclo vitale da operaie. Non ero ovviamente facilmente impressionabile alla vista di Imenotteri come loro, ma qualcosa nella spensieratezza e costanza con cui andavano lavorando mi inquietava. Si discuteva molto nel mio campo se insetti sociali come le formiche fossero entità senzienti, ipotesi verso cui ero favorevole, ed ebbi l’impressione che ci fosse qualcosa di coscienziosamente maligno nel loro agire. Capii infine perché: In un ripiano, dove il mio vicino teneva le spezie, le bustine erano state aperte, violate da morsi continui, feroci e il loro contenuto era scivolato fuori, liberando un forte e confuso odore nell’aria di cannella, peperoncino, sale e pepe. Erano lasciati ad andare a male, inconsumati, perché nocivi alle formiche da ingerire e soprattutto repellente per loro, giacché disturba il loro sistema di orientamento olfattivo, basato sul rilascio dei feromoni. Perché aprire confezioni di qualcosa che sapevano non avrebbero potuto usufruire? Ci ripensai presto su. Chiaramente non dovevano sapere che cosa le confezioni contenessero fino a che non le avevano forate.
All’improvviso dovetti ritrarre la mano. Mi sentivo come se qualcuno mi avesse strappato via un pelo dal corpo, molto lentamente e bruciava, come se il dorso stesse rosolando. Mollai la maniglia dell’anta e guardai. Una di quelle Linepithema humile, altresì detta formica argentina, aveva risalito le mie dita passando sulla superficie del legno, percependo i movimenti di un grosso oggetto che era appena entrato nella stanza, e aveva affondato le sue piccole mandibole nella mia pelle. Era ridicolo, pensavo mi fossi rammollito. Possibile che mi fossi indebolito tanto che il piccolo morso di una comunissima argentina, per quanto impregnato di didolicolo e iridomirmecina,  mi procurasse tanto dolore? Diedi una schicchera con la sinistra all’insetto e quello volò per aria, atterrando sul piano cucina. Mi guardai il morso, diventato rosso vivido e che andava già a gonfiarsi come punto da una zanzara. Non era per nulla normale, pensai e poi posai gli occhi sulla formica che avevo scacciato, ma non c’era già più. Sparita. Guardai meglio e la vidi. Scendeva dal piano cucina, giù per il mobile di legno, come se volesse portare a termine lo scontro con me. Ammirai la sua resistenza, pareva del tutto incolume dal colpo di prima o quantomeno nascondeva bene il dolore a differenza mia. Ma poi ricordai, con orrore, un dettaglio: Il dolicolo e iridomirmecina contenuti nelle secrezioni del morso di un’argentina oltre a possedere capacità irritanti al contatto avevano anche lo scopo di rendere la preda un richiamo per tutte le altre operaie. Vidi decine staccarsi dalle colonne principali e scendere lungo i muri e i mobili, veloci e imperturbabili, come l’onda di una stampa giapponese. Alcune, direttamente, saltarono giù dalla dispensa e una mi atterrò con le sue sei zampe dritta sul naso. Ebbi un sussulto e riuscì a rovesciarla lontano con un colpo secco a mano aperta proprio mentre apriva le mandibole tossiche. Arretrai, prima camminando all’indietro, poi, constatato che quelle operaie non avevano la benché minima intenzione di fermarsi e, anzi, si calavano in un numero sempre maggiore, attratti dalle sostanze rilasciate sul mio dorso dalla compagna, scappai, correndo come se avessi dietro chissà quale mostro. Attraversando il salotto, da quella colonna di legionari minuscoli che marciava sopra la mia testa, si paracadutarono alcuni individui, che fortunatamente reagirono con eccessivo ritardo all’odore di allerta e finirono alle mie spalle. Solo una volta in giardino mi resi conto di quanto sarei apparso uno stupido se qualcuno mi avesse visto, ma mi bastò un’occhiata allo sciame gigantesco affaccendato in cucina per rendermi conto che forse non avevo commesso la scelta sbagliata.

Mi tenni ben lontano da altre colonne di argentine, sperando che l’odore si dissolvesse presto. Lanciai un’occhiata intanto al mio vicino, che aveva preso a spruzzare il composto di bifentrina ai confini della sua siepe in fondo al giardino, dove stava l’imbocco attraverso gli arbusti che gli insetti usavano per introdursi nel suo giardino. Il nido doveva trovarsi in mezzo alle piante, nascosto. Se la prendeva con loro con particolare delizia, sghignazzando da sotto la maschera.

―Ve la siete voluta, figli di un’unica puttana. Quando avrò finito con voi l’Olocausto parrà uno scherzo in confronto.

―Ma non sarà meglio chiamare un disinfestatore?― Gli gridai dietro. Lui si voltò, interrompendo il suo assalto.

―Con quello che costano oggi faccio meglio da solo― Guardò di nuovo in basso, per riprendere l’uso del nebulizzatore, ma esitò ―Che scherzo è questo?

―Che succede?― Gli gridai di nuovo, avvicinandomi all’ombra di un albero, ma non a lui, sia per evitare di inalare per sbaglio la bifentrina sia per non invitare di nuovo altre formiche a mordermi.

―Queste maledette si muovono ancora. È assurdo, come se non respirassero.

Concordai silenziosamente con lui, mentre tornava alla sua opera di disinfestazione amatoriale. Se quello che mi aveva detto era vero, cioè che quelle formiche argentine altro non erano che un formicaio che si fosse spostato dall’ambiente già disinfestato dei suoi vicini al suo, era possibile che nel giro di poche generazioni avessero già sviluppato una resistenza agli stessi pesticidi? Ma i miei ragionamenti furono tagliati corti da un grido. Il mio vicino indietreggiava barcollando, lasciando cadere il nebulizzatore per terra e afferrandosi il ginocchio, per poi cadere all’indietro, in mezzo all’erba. Lasciai perdere ogni mia paura e gli corsi incontro, mi piegai su di lui e cercai di rimetterlo in piedi, in mezzo a quell’atmosfera dal forte odore di insetticida. Lo trascinai via, per evitare di risultare nuovamente dei bersagli per quegli animali, afferrandolo da sotto le spalle e accompagnandolo nel suo garage. Una volta lì si era ripreso abbastanza dallo shock dovuto al dolore improvviso e si arrotolò i pantaloni, scoprendo una delle argentina con le mandibole ancora piantate nella sua carne bianca. La schiacciò senza pietà con un pollice, rigirandolo per bene, finché il corpo del piccolo invertebrato non fu niente che una macchia nera irriconoscibile di endoscheletro infranto e organi sparsi. Nel farlo trasalì, perché si schiacciò anche il morso, che, come il mio, aveva preso a crescere ad un ritmo spaventoso, assumendo un colorito rossiccio di sangue raccolto.

―Chiamiamo un disinfestatore, non possiamo farcela da soli― Insistetti.

―Ma sei scemo?― Sbottò lui, dandomi uno scossone che mi fece cadere da piegato a seduto sul pavimento in cemento della stanza, sbattendo la schiena su uno scaffale in metallo di vernice e lucido ―Ma ti senti quando parli? Suggerisci di scappare di fronte a delle maledette formiche? Ma va la, solo un morsetto mi hanno dato!

E si rimise in piedi, seppure non ci riuscì la prima volta e scivolò in ginocchio. Fece appello a tutte le sue forze e con uno sbuffo tornò eretto e si recò a riprendere il nebulizzatore. Ma era tardi, le formiche ormai lo avevano completamente ricoperto. Lo raggiunsi e guardammo insieme quello strano fenomeno.

―Sembra che non vogliano ridartelo― Commentai, affascinato.

―E io lo prendo lo stesso.

Lui se ne tornò dentro casa. Sentì un rumore di utensili e un lavandino aprirsi. In un minuto tornò fuori con un secchio pieno d’acqua. Io intanto mi ero allontanato di nuovo sotto il suo ciliegio, perché le formiche avevano di nuovo preso ad avvicinarsi a me. Si recò verso il nebulizzatore e ci rovesciò l’acqua sopra, sollevando una nuvola di vapore. Era bollente. Le varie formiche che lo coprivano erano morte e, se le si fosse potute osservare al microscopio, avevano lasciato indietro dei terrificanti cadaveri contorti dalle ustioni. Si tolse la giacca e la avvolse sul nebulizzatore per afferrarlo senza scottarsi, lo portò via e aspettò che si fosse raffreddato per tornare a mettere in pratica il suo piano contro quella specie infestante.

―Le formiche argentine― Dissi sovrappensiero nell’attesa, più a me stesso che a lui ―Sono riuscite a colonizzare tutti i continenti, Antartide esclusa.

―Di certo non riusciranno a colonizzare il mio giardino, stanne certo― E dicendo questo afferrò rabbioso il nebulizzatore, stringendolo con forza, ancora troppo caldo, e, claudicante per il morso di prima, si diresse a concludere il lavoro. Dopo una mezz’ora circa aveva finito la sua scorta di bifentrina, scaricandola tutta su quei corpicini neri. Nonostante la loro inziale resistenza le formiche si erano piegate sotto il potere tossico del piretroide, che aveva completamente distrutto il loro sistema nervoso, portandole ad una lenta agonia fatta di delirio e paura. La colonna che collegava il formicaio alla casa era stata interrotta. Le altre dovevano essersi chiuse nel nido avvertendo il pericolo o cambiato strada, mentre quelle in cucina aspettavano, confuse dall’aver perso contatti con il resto della colonia. Su quell’erboso campo di battaglia dovevano giacere almeno i cadaveri di trentamila formiche argentine. Se non si fosse trattato di insetti sarebbe stato spaventoso. Per un momento cercai di figurarmi uno scenario alternativo dove non erano le formiche ma trentamila piccoli esseri umani ad essere stati uccisi da una singola, gigantesca argentina armata di nebulizzatore, ma scacciai subito quel pensiero dalla testa.

―”Chiamiamo un disinfestatore”― Mi fece il verso lui, mentre andava a sistemare l’attrezzo mortale in garage ―Ma fammi il piacere.

―Tutto a posto la gamba?

Se la scrutò un poco, alzandosi la gamba del pantalone. Io feci lo stesso con la mia ferita al dorso che non accennava a sparire.

―Mah, mi pare di sì. Ormai non lo sento più― Disse, ma avevo intuito dal tono della sua voce che mentiva ―Tempo di fare una visita a quelle rimaste in cucina.

―No― Intervenni deciso ―È meglio attaccare il nido adesso. Non possiamo lasciargli il tempo di riorganizzarsi. Le formiche argentine possiedono circa una regina ogni centoventicinque operaie e se anche una sola dovesse scapparci avrebbe la capacità di fondare una nuova colonia e tu ti ritroveresti punto e a capo.

Lui si grattò il mento dalla barba incolta.

―E sia― Accettò ―Mostrami dove sta il nido.

Non fu difficile, bastò potare un poco la siepe per trovare, ben in profondità, in mezzo alle sue radici, due aperture di un formicaio, a dieci metri di distanza l’una dall’altra. Io allargai ancora un poco il buco in mezzo ai rami con le cesoie mentre lui era tornato in casa a prendere un altro secchio. Tornò e lo rovesciò senza complimenti  per metà su ognuno dei due buchi. Potei solo immaginare cosa si provasse ad essere una di quelle operaie, chissà, forse intente ad accudire delle pupe, giù in quei condotti scuri di terriccio, per poi ritrovarsi immersi nell’acqua calda, ustionati e annegati al tempo stesso in mezzo ai corpi delle tue sorelle. Anche questo pensiero fui portato a scacciarlo con forza. Dopotutto, pensai, alle formiche non deve interessare troppo di morire. Chissà, forse neppure provano dolore. Ma ciononostante quella bruttissima sensazione non mi mollava.

―Bella pensata vecchio mio― Disse il vicino, dandomi una sonora pacca sulla spalla che mi ridestò da quei pensieri. Si diresse poi a prendere la tanica di deltametrina e a riversarla nel nebulizzatore, pronto a finire il lavoro in cucina, dove lo attendevano le ultime argentine, inconsapevoli della morte delle loro regine e camerate ―Vuoi dare un’ultima occhiata alle pesti prima che sia troppo tardi, entomologo?

―Per favore no― Dissi, tornando in casa per mangiare qualcosa. Mi sentivo patetico per aver risposto così ma non potevo farne a meno. Per quanto microscopico, quel massacro non fu piacevole, affatto. Cominciavo a sentirmi male e tornai a casa, con la consapevolezza che, per quanto lo aborrissi, ero stato un complice.

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Capitolo 2
*** Litigi familiari ***


Sulla via di casa trovai un’altra formica, nera stavolta, una Lasius niger appunto. Non la vidi per intero all’inizio, solo il suo addome, che ondeggiava qui e là, nel tentativo di infilarsi sotto il pulsante del mio campanello elettrico. Ne avevo abbastanza di esapodi quella mattina e in retrospettiva avrei potuto benissimo ignorarla e filare dentro a mangiare qualcosa, ma per pura deformazione personale provavo un’attrattiva malsana per quell’esoscheletro pregno di emolinfa, che andava a cercare di strisciare in mezzo ai circuiti elettrici sotto il pannello di fianco l’entrata. La avvicinai e quella subito si mise in guardia, estraendo la testa setolata da sotto il pulsante in plastica, allertata dal cambio di odore e vibrazioni che avevo portato nell’aria.

Forse speravo di rasserenarmi dall’esperienza precedente. Le argentine con cui avevo avuto a che fare poco prima erano state così innaturalmente violente da spaventarmi, o almeno, così mi erano parse. In fondo ero appena sveglio, non potevo essere del tutto lucido, era chiaro che fossi eccessivamente paranoico e che le Linepithema humile, in fondo, non avendole mai incontrate prima d’allora, stessero solo agendo come di loro consueto e io mi fossi spaventato per nulla. Forse, mi dissi, anche quei morsi irritanti, in realtà, erano morsicate comuni e avevo fatto una sceneggiata per nulla, ipersensibile come ero, specie la mattina. Ci risi sopra, ma poi smisi, rimuginando. Frattanto, senza darci pensiero, avevo porto la mano e lasciato che la formica nera mi finisse nel palmo. Ponderavo sul fatto che il mio vicino, uomo ben più robusto di me, fosse stato preso da un dolore lancinante quando era stato morso, tanto da finire in terra, seppur per un breve istante e cercando di nasconderlo in seguito. Qualcosa di strano, in fondo, in quelle formiche argentine, che di certo non possedevano la stessa applicabilità di forza nelle mandibole di una Paraponera clavata, doveva esserci. Infine mi rilassai, mentre quella Vespoidea operaia e priva d’ali avanzava timidamente a poggiare le sue zampe sulla mia pelle increspata dai dermatoglifi. Mi ero ricordato infatti -sorridendo al mirare la niger scuotere qui e là le antenne, immobile, ad annusare l’aria come un cagnolino- che, a causa del loro elevato numero di regine, le Linepithema humile possedevano un’altrettanta elevata differenziazione genetica da colonia a colonia, tanto da parere specie differenti e combattersi fra loro per il territorio. Ma certo, pensai, mettendomi una mano sulla fronte, che mi accorsi essere sudata, chiaramente doveva trattarsi di un caso isolato, eccezionale, un codice genetico unico che si era andato a sviluppare in quel singolo nido e che ora era probabilmente morto con esso. Quasi cominciavo a riconsiderare la mia posizione in merito all’eccidio che avevo appena compiuto nel giardino di fianco. Dopotutto le argentine erano particolarmente invasive e portavano all’estinzione di svariate specie nel territorio che vanno ad occupare, a causa della loro caccia di massa. Iniziai a vederla come una buona azione, un favore fatto a tutti i vari coleotteri e ditteri che, chissà, dovevo aver salvato distruggendo quel formicaio.

Feci per carezzare il corpo della niger con la mano destra, libera, ma quel dolore lancinante tornò all’improvviso, partendo dalla mano sinistra, che la reggeva. Scossi la mano come se stesse bruciando e prima che potessi accorgermene l’infiammazione era passata e la formica volata via, atterrando sul vialetto di casa mia. In preda ad una rabbia a me inconsueta, specie per il solito rispetto che provavo per la vita, sollevai il piede e la schiacciai di colpo. Mi resi conto di ciò che avevo fatto solo quando lo sollevai. Che inutile reazione, che inutile assassinio. Aprii la porta ed entrai, sconsolato, la mano tremante, fredda, come paralizzata, con il morso che cresceva a vista d’occhio, stretta nella mano destra. Richiusi la porta, non prima di aver gettato uno sguardo al cadavere che avevo lasciato indietro, con le zampe ora scontorte, rivolte verso il cielo, quasi stesse a pregare, con l’ultimo respiro che sfiatava dai suoi spiracoli ai fianchi, chissà quale divinità invertebrata, muoversi un poco, seppure impercettibilmente. Come potesse essere viva, seppure morente, dopo uno schianto del genere era oltre ogni mia concezione.

Richiusi la porta e andai in cucina. Non avevo ancora fatto colazione. Accesi la radio e girai la manopola. Trovai un notiziario e lasciai parlare il conduttore mentre cercavo di prepararmi qualcosa. Mi ero collegato giusto in tempo per i servizio di apertura, ovvero l’allegro omicidio di una giovane coppia in qualche città che non avevo mai visitato: il modo ideale per iniziare la domenica mattina. Mi diressi alla dispensa ed ebbi dubbi sull’aprirla o meno. Nella mia testa vagavano ancora le immagini di quel mostruoso mare di gambe rossicce, che si accalcavano l’una sull’altra, nel loro trasportare, instancabilmente, corpi simili a vespe prive d’ali. Mi giudicai uno stupido e la aprii. Nulla di inconsueto. Presi quel che mi serviva e andai a poggiare tutto sul tavolo.

―Passiamo ora al nostro operatore sul posto della piazza principale, in cui si sta svolgendo la protesta dei lavoratori e i sindacati contro le direttive del governo, definite fasciste…― Fu tutto quello che riuscì a capire prima di disinteressarmene completamente. Forse sbagliavo, ma mi sembrava tutto troppo complicato e lontano per potermi riguardare, soprattutto considerando che non facevo parte né del governo né dei lavoratori ormai. Misi a bollire l’acqua per il tè. Mi tornò alla mente la fine atroce che facemmo fare al nido e optai per spegnere il fuoco e buttare la bustina subito. Sorseggiai un buon tè freddo al limone.

“Questa storia mi sta facendo impazzire” Pensai, mentre prendevo le uova. Avevo intenzione di farle sode e invece finì, per lo stesso timore di prima, a consumarle crude “Neanche fossi tornato dalla guerra. Devo calmarmi”.

Mi tirai uno schiaffo da solo. Di solito nei film funzionava, tanto quanto mangiare uova crude, ma nessuna delle due si dimostrò salutare per me. Cercai di razionalizzare la cosa, mentre andavo a rovistare nuovamente nella dispensa, cercando da che mangiare al volo. Presi una mela e pensai, ma mi cadde. L’avevo afferrata con la sinistra, che, notai, mi tremava ancora. Notai anche che il morso dell’argentina, datomi ormai più di mezz’ora fa, era ancora visibile e non accennava a sparire. Quei due segni parevano il morso di un vampiro. Non resistetti alla tentazione e, pur sapendo dell’inutilità del gesto, me li grattai. Il bruciore era sparito, ma restava un leggero, perpetuo, prurito. La mela era caduta sul parquet in legno. La ripresi, con la destra, e me la rigirai. Constatai la sua interezza e le diedi un morso. Quel buon sapore mi aiutò non poco. Dovevo assolutamente pensare ad altro. Ci sarebbero state altre occasioni per indagare su quegli avvenimenti, ma non era il caso quella mattina.
Uscì a prendere il giornale e l’ultimo numero della rivista di cui avevo bisogno. Quando approcciai l’edicolante era chinato dietro il bancone.

―Maledetti insettacci…―

―Formiche?― Fu la prima cosa che dissi, sgranando gli occhi.

―Oh― Disse lui, sorpreso, rialzandosi e forse sorprendendosi ancora dall’espressione che avevo stampato in faccia. Ero veramente esasperato e mancava ancora molto a mezzogiorno. Di questo passo sarei diventato un guscio vuoto entro sera. Lui spiegò, brandendo uno scacciamosche ―No, vespe.

―Meno male.

―Meno male una sega― Commentò lui, accigliato ―Queste son pure peggio. Potessi sapere da dove vengono…

Una mi volò accanto la guancia, anzi, vi ci si posò sopra. Non mi agitai, sapevo che non era il caso. L’edicolante, d’altro avviso, mi guardò per un momento come un lebbroso, per poi prendere il coraggio e lo scacciamosche a due mani. Non sospettosa di nulla, la piccola Vespula germanica stava grattandosi spensieratamente le antenne segmentate, agitando l’addome telescopico che pulsava veloce quanto lo scorrere della sua linfa vitale.

―State fermo― avvertì l’edicolante. Vibrò il colpo subito dopo. Portai la mano sinistra a pararlo e riuscii ad afferrare l’asticella prima che potesse cogliere il bersaglio. Nello stringere sentii il bruciore dei due morsi tornare a bruciare. La germanica, invece, come un piccione spaventato volò via, ma, non essendo davvero un piccione, ne approfittò anche per affondare il suo pungiglione velenoso nella guancia, ritrarlo e fuggire, ronzando via dalla mia esistenza. Io l’avrei ricordata, anche se per poco. Data la memoria ancora ignota delle vespe droni mi chiesi se lei avrebbe fatto lo stesso.

―Voi entomologhi siete dei pazzi―Commentò sgomento l’edicolante ―Buscarsi un colpo al posto suo.

Io frattanto mi ero piegato, mani al volto. Era da quando mi ero svegliato che gli insetti mi facevano nero, non ne potevo più. Contai i soldi necessari e glieli porsi senza dire nulla. Presi il mio giornale e la rivista di cucina, mentre gettavo via il pungiglione. Sfogliando l’oroscopo mi resi conto che il dolore già andava passando.

“Almeno questa epidemia non si sta ancora espandendo a tutti gli altri membri della famiglia Vespoidea” dedussi. “Che idiozia”, aggiunsi subito dopo. Chiamare epidemia dei casi isolati di un fenomeno che ancora non riuscivo a comprendere. Se qualche competente del campo avesse potuto sentire i miei pensieri si sarebbe strappato i capelli e il mio dottorato subito dopo. Mi recai a casa a passo svelto.

Passai il resto della mattina a passare la tagliaerba in giardino e l’aspirapolvere in casa. Diedi la cera, spolverai i mobili, lavai i vetri e pulì i piatti della sera scorsa. Passai per il mio studio e riordinai i vari libri e gli appunti che avevo messo in mezzo e mai a posto. Quando la mia mente non poté trovare altro da fare senza pensare alle formiche mi misi a leggere un libro in salotto, un pessimo romanzo di fantascienza. Nonostante tutto non riuscivo a calmarmi.
“Devo essere sotto effetto di noradrenalina” Pensai, ma era anomalo. Dopo tutto quel tempo e con una simile, ridicola dose, quella vespa non avrebbe potuto ancora essere la fonte del problema. “Forse”, ed ecco un’altra di quelle folli teorie che mi si andavano formando sin da quando avevo aperto gli occhi quella sciagurata mattina “Anche la Linepithema humile e la Lasius niger devono avermela iniettata”.

In quel frangente tornò mia moglie. Balzai subito in piedi, in un misto di contentezza e bisogno continuo di tenermi in movimento e non fermarmi più a pensare a quella maledetta storia. Stava togliendosi il cappotto.

―Tutto a posto a lavoro?

―Certo― Rispose lei, non tentando neppure di mascherare un velo di frustrazione.

―Non è tutto a posto― Affermai, sentendomi poi un imbecille per quanto ovvia fosse quella constatazione ―Cosa è successo?

―Semplicemente― Disse, appendendo il cappotto in pelle ―A nessuno piace lavorare, amore. Lo sapresti se solo tu…

―Non ricominciamo per favore, non dopo la giornata che ho avuto.

―Posso immaginare che fatica.

Non risposi. Lei si guardò attorno.

―Hai fatto pulizie vedo.

―Non potevo farne a meno.

―Era il minimo che potessi fare.

Ignorai quelle frecciatine.

―Cosa vuoi che ti cucini?

―Quello che vuoi― Disse, non guardandomi e sbottonandosi la camicia.

―Hai detto così anche l’altra volta e poi ti sei lamentata.

―Cristo!― Sbottò lei, strappandosi un bottone dall’abito nel contempo per la rabbia. Dovevo avere avuto un tono insopportabile senza rendermene conto ―Sembri una cazzo di casalinga isterica, lasciami riposare un attimo per favore.

Ovviamente il “per favore” uscì più come un ordine e fu esattamente così che lo presi. La lasciai in salotto, mentre si sdraiava sul divano per il verso lungo, quasi svenuta. Mentre apparecchiavo, dalla cucina, potei sentirla salire lentamente le scale poco dopo. Tranciai a pezzi un pollo in petti e cosce, lo sistemai nel catino e lo misi in forno. Impostai l’elettrodomestico e salì le scale anch’io. Trovai mia moglie mezza svestita, colta da un colpo di sonno e sdraiata di pancia sul letto, i capelli scapigliati e dorati come un girasole, le dita che si aggrappavano alle lenzuola quasi le volesse strappare con le unghie, gli occhi socchiusi, ma tesi, non sereni, come se la pupilla ancora si muovesse impazzita sotto la palpebra. La camicetta bianca era riversa su una sedia, era nuda dalla vita in su e sognai sopra la sua liscia schiena scoperta. Mi sedetti a fianco, sul letto e le passai un mano sul capo, come una bambina. Lei ebbe uno scatto, riacquistò il senno come non lo avesse mai perso e mi afferrò il polso, torcendomelo. La mia povera mano sinistra non conosceva pace quella mattina. Quando il dolore mi arrivò al cervello la prima immagine che mi apparve fu quella di uno scorpione.

―Sei… Sei proprio un idiota. Lasciami dormire adesso, non ho voglia di vedere nessuno― biascicò lei, mezza ssonnata.

Mi mollò il polso con un gesto stizzito e io subito ne approfittai per rialzarmi dal letto. Quella non era certo la mia giornata fortunata. E la sera era ancora lontana. Tornai giù a finire di cucinare.

Pranzammo in seguito.

―Niente da dire sul cibo?― Chiesi. Lei non rispose, versandosi più vino del dovuto ―Cucinerei meglio se mi dessi dei pareri.

―Tu hai sempre bisogno del parere altrui― Sentenziò acida lei ―Sii uomo per una volta.

―Eccoci di nuovo― Sbattei le mani ―Di nuovo con questi stereotipi. Solo perché sono io a cucinare e a tenere in ordine la casa…

―Non intendo quello― Tagliò corto lei. Attesi ma non aggiunse altro.

―E poi sarei io quello isterico― Borbottai. Lei, di rimando, sbatté i pugni sul tavolo. Mi cadde il sale dalle mani e si sparse per terra. Sospirai.

―Credo di avere il diritto di essere antipatica quanto mi pare finché sono io a reggere economicamente la famiglia, tesoro.

Ovviamente nella parola “tesoro” non c’era alcun affetto.

―Perciò perdonami se quando torno da lavoro, come questa domenica, non sono la moglie perfetta che vorresti e di cui senti la necessità di prendere il posto.

―Cosa ne diresti― Proposi, rigirandomi il mezzo limone con la forchetta ―Se non toccassimo più l’argomento, almeno per oggi?

Lei si ammutolì un momento, inspirò e chiuse gli occhi. L’istante successivo si era alzata dal tavolo ed era tornata di nuovo di sopra. Finii di mangiare, canticchiando una vecchia canzone estiva, sparecchiai la tavola e pulii piatti e posate.

“Volevi qualcosa che ti distraesse dalle formiche? Beh, lo hai trovato bello mio”.

Uscii per buttare la spazzatura. Diedi un’occhiata alle mie spalle, con il sacco dell’organico in mano, e vidi mia moglie, dalla finestra, recitare qualche opera teatrale davanti lo specchio. Aveva sempre avuto una bella voce. Peccato la usasse così spesso per litigare con me. Ripresi il mio cammino verso il bidone. Lo aprii e guardai che non fosse pieno. Era pieno, questo era sicuro, ma pieno di maledettissime formiche, su ogni
parete interna, impestando ogni rifiuto lì dentro. Buttai il mio sacco e me ne andai.

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Capitolo 3
*** Luci nella notte ***


La giornata proseguì come al solito. Fortunatamente forse, ma estremamente noiosa. Non ero sicuro fosse una cosa positiva. Oggi so solo che rimpiango quei giorni.

Bussai alla porta della camera da letto. Aspettai il suo permesso ed entrai. La trovai seduta di fronte alla toeletta, con in mano una sceneggiatura dei classici teatrali. Una dozzina d’altre erano sparse per il letto o sul ripiano. Non mi guardò direttamente, ma sollevò gli occhi viola dalle pagine e incontrò i miei, riflessi nello specchio. In quell’istante mi guardai anch’io. Avevo una pessima cera. La puntura della vespa sulla guancia si era gonfiata, molto più lentamente, però, rispetto a quelle delle due formiche. Oltre a quello avevo un necessario bisogno di farmi una doccia.

―Mi spiace per prima.

―Non c’è n’è bisogno― Frattanto lisciava fra le dita le pagine spiegazzate del copione.

―Ero fuori di me. Non volevo definirti un’iste…

―Sì, lo pensavi davvero.

―Non dire…― “cazzate” pensai, ma forse era il caso di abbassare i toni. Senza forse ―sciocchezze. Tu hai tutto il diritto di…

―Essere intrattabile? Violenta? Volgare?

―Lasciami finire― Forse intendevo essere imperativo, invece feci un gesto di preghiera con le mani e mi chinai un poco con le ginocchia ―Dico soltanto che, date le tue responsabilità, è più che giusto avere il diritto di sfogarsi un poco.

―Questo non è sfogarsi― Si alzò dalla sedia. Si volse verso di me finalmente e mi si fece incontro. I miei occhi gli arrivavano alla gola. Alzai il mento. Lei continuò ―Uno si sfoga ogni tanto. Qualcosa si sta rovinando fra noi.

―Non esagerare― La interruppi, mettendole le mani sulle guance ―È solo il periodo che è così. Vedrai che…

―Vedo solo che non riusciamo più ad andare d’accordo. Quand’è stata l’ultima volta che ci siamo, beh, goduti qualcosa assieme?

―Beh, la settimana scorsa quando…―Mi fermai. Lei scosse la testa, agitando i capelli biondi. Riprovai ―Quella volta al lago, per esempio, è stato meraviglioso.

―È stato sei mesi fa.

―Come vola il tempo― Forse volevo fare una battuta, ma mi uscì con un filo di voce. Ero veramente sorpreso che fosse passato così tanto da quella volta.

―Ascolta. Sappiamo entrambi qual è il problema.

―No, non lo so― Ecco, ora mi stavo irritando io ―Spiegamelo per piacere.

―Devi trovarti un lavoro.

―Ancora questa storia― Mi voltai e feci per andarmene. Lei mi prese per il braccio e mi costrinse a voltarmi.

―Sì, hai capito bene, ancora questa storia.

―Non pensavo fossimo in bancarotta― Diventavo molto poco divertente quando si parlava di finanze.

―Non sono i soldi il problema. È una questione di principio. Non sopporto di impegnarmi tanto per poi tornare a casa e trovarti a far nulla.

―Nulla― Gettai le braccia all’aria ―È così che chiami i miei studi?

―Non li chiamerei studi― Controbatté, senza perdere un minimo di calma ―Poco più che un passatempo.

―Passatempo― Ripetei un’altra volta. Girai su me stesso come a cercare qualcosa da prendere a pugni. Ero fin troppo irritabile su questo argomento ―Se la mia ipotesi fosse corretta potrei rivoluzionare il mondo, ho solo bisogno di tempo, molto tempo per i miei esperimenti. Per questo non posso permettermi di prendere un impiego al momento e contavo sul fatto che tu mi supportassi in tutto questo, visto che il tuo stipendio ci permette benissimo di mantenere entrambi in modo più che dignitoso. Non ti avevo già spiegato quanto fossero importati le mie ricerche?

―Certo, le tue ricerche― Sbuffò lei. Dal tono era chiaro che non le stava prendendo affatto sul serio, anzi, sembrava stesse reggendo il gioco a un bambino ―Le tue importantissime ricerche sugli effetti delle onde elettromagnetiche negli insetti.

―Ma cosa vuoi capirne tu?

Lei si risentì.

―Pensi che non ci capisca niente e sarà anche vero, ma di sicuro non andrai da nessuna parte con i tuoi studi fatti in casa. Hai bisogno di attrezzature adeguate e non possiamo permettercele.

―Ed è per questo― Mi avvicinai a lei, chiudendo le mani in preghiera, contento che stesse arrivando al punto della situazione ―Che devi darmi fiducia. Sto inviando le mie ipotesi e i risultati dei miei esperimenti all’università e mi assumeranno a breve, vedrai. Potrò continuare i miei studi con gli strumenti adatti e in più avrò uno stipendio anch’io, se questo ti può mettere il cuore in pace.

―Quanto a breve?

―Questo non te lo so dire― Farfugliai. Pensavo di star guadagnando credibilità ai suoi occhi, ma con quella domanda mi aveva di nuovo messo alle corde ―Aspetterò una risposta e te lo saprò dire.

―Io so già cosa dirti invece― Alzò un dito ―Hai di fronte due strade.

―Questa retorica non è da te.

―Lasciami parlare― Fece fare all’indice un mulinello in aria, come per ricominciare da capo ―Una è un’incognita e l’altra è una certezza. L’incognita è quando ti assumeranno all’università e se mai lo faranno. La seconda è andare a fare a qualcosa, qualunque cosa, purché tu contribuisca a qualcosa in questa casa.

Ponderai su come rispondere. Non avevo assolutamente voglia di darle ragione.

―Questo significherebbe abbandonare le mie ricerche.

―Non è vero e lo sai― Fu categorica ―Non inventarti delle scuse.

―Perderei comunque del tempo e ci metterei molto più del previsto, proprio ora che credo di essere sulla strada giusta.

―Ascolta, forse questa argomentazione ti suonerà più convincente― Si avvicinò, tanto che i nostri petti stavano per toccarsi ―Se anche tu ti cercassi un lavoro io non dovrei più fare certi turni assurdi per mantenere il nostro stile di vita “più che dignitoso” e non dovrei lavorare durante i festivi, come è successo oggi e molte altre volte. Forse, dico forse, finalmente avrei un po’ di tempo ed energia da impiegare in quello che mi interessa veramente.

Il suo occhio cadde sulle sceneggiature. Le raccolse, una per una, se le mise sotto braccio e fece per uscire dalla stanza, non prima di essersi fermata a fianco a me.

―Non sei l’unico che vorrebbe seguire il suo sogno. Sii meno egoista per una volta. Sii più uomo, ecco cosa intendevo a tavola.

Lasciò la stanza e scese le scale. Probabilmente era andata in salotto per continuare a provare. Non potevo ribattere nulla e mi sentivo uno schifo. Mia moglie aveva ragione. Scesi le scale anch’io, non prima di aver rimesso a posto la coperta spiegazzata del letto. Mi affaccia sul salotto, senza varcare però la soglia, fermo di fronte l’ingresso, appoggiato al muro. Lei era sdraiata sul divano, mi dava le spalle e sfogliava un’altra di quelle sceneggiature. Stava modulando la voce per vedere quale tono era adatto per una specifica linea di dialogo.

―Cosa pensi che potrebbe fare qualcuno che ha solo un dottorato in entomologia?

Lei si voltò, prima sorpresa, poi sollevando appena le labbra, felice che mi fossi arreso.

―Per quanto mi riguarda puoi anche fare il magazziniere. L’importante è portare a casa qualcosa.

Sorrisi anch’io. Mi misi le mani in tasca e guardai il parquet.

―Non pensavo intendessi fare l’attrice.

―Il tuo spirito di osservazione si ferma agli insetti.

Perfetto, ero nuovamente riuscito a farle perdere il sorriso. Entrai nel salotto e le misi le mani sulle spalle. Abbassai gli occhi e lei alzò i suoi, riflessi uno nell’altro.

― Se non mi risponderanno a breve dall’università andrò all’ufficio di collocamento, farò colloqui, qualunque cosa, basta che tu sia felice.

Lei sorrise per un momento.

―Quanto a breve?

Attesi.

―Questo non te lo so dire.

Parlammo poi delle punture che avevo sul corpo e io le spiegai il tutto, ma la discussione, di fatto,era già finita.

Finii di leggere il mio stupido romanzo, che terminò stupidamente come era iniziato. Considerai di cancellare il mio abbonamento alla collana di cui faceva parte, ma in tutta onestà mi divertiva troppo quell’ammasso di azione becera ed errate conoscenze scientifiche per farlo. Non avevo voglia di proseguire le mie ricerche quel pomeriggio, ne avevo abbastanza di insetti, dopo quello che era successo quella mattina. Uscii invece, feci una passeggiata al parco, così, per pensare al da farsi senza fretta, illudendomi che il tempo sarebbe scorso più lentamente se fossi in presenza di un bel paesaggio. Il buio arrivò molto prima del previsto, tanto prima che ero appena arrivato al laghetto che già tramontava il sole. Odiavo l’inverno. Le temperature, poi, passarono da tiepide a freddissime senza preavviso e mi ritrovai a raggelare sotto una tramontana particolarmente antipatica. Mi sarei dovuto vestire più spesso, in previsione di questo, ma mia moglie doveva proprio aver ragione, non vedevo più in là degli insetti. Camminavo sulla ghiaia lambita dall’acqua increspata dai soffi ghiacciati, molti uccelli, specie i cigni e le papere che nuotavano, presero il volo, facendosi trasportare dalle raffiche. Non ero solo, sotto la luce gialla elettrica dei lampioni, stavano molte coppie attorno a me. Forse, in realtà non lo avrei notato, o forse ancora non erano così numerose come mi sembravano, ma fatto sta che non potei fare a meno di pensare che avrei fatto meglio di chiedere a lei di uscire insieme. Non lo avevo neppure considerato per un momento, come se la evitassi, che preferissi stare da solo che in sua compagnia. Possibile? Forse aveva ragione lei, forse veramente qualcosa non funzionava più fra noi due. Provai a pensare perché stessimo insieme. Dovevo essere sotto l’influenza di quel paesaggio così idilliaco, con quelle acque viola, alla luce del tramonto, come gli occhi di lei, e le fronde, scosse dal fischio nell’aria dell’inverno. Pensavo, sapevo che c’era una buona ragione perché noi due ci fossimo sposati e la sentivo ogni volta che la vedevo sorridere, eppure, nonostante mi pendesse sempre sulla lingua, non la riuscivo a comporre in parole umane. Gli ultimi mesi ci avevano così tanto allontanato che non riuscivo più a ricordare un giorno che non avessimo litigato. Sicuramente c’erano stati, ma ora rileggevo il passato con un filtro negativo, cinico. Come avrei voluto essere dolce e romantico come un tempo. E continuavo a riflettere, potendo solo pensare ai suoi capelli biondi, le sue labbra soffici, le guance rosate e la pelle liscia come porcellana. Che razza di animale, mi dicevo, non posso amarla solo per queste frivolezze. Doveva esserci qualcosa di più, doveva, non ero un tipo del genere in fondo.

I miei pensieri furono interrotti. Molti, attorno a me, prima che me ne accorgessi, esalarono un unanime sussulto di sorpresa, fermandosi, accalcandosi per vedere meglio, via dalla luce artificiale e dalle fronde degli alberi, indicando il cielo, con mille diti puntati verso le stelle. Alzai il capo e vidi, ma non vidi stelle, vidi uno stormo, che prima credetti essere aerei, prima di rendermi conto che quello che udivo non era il rumore di alcun motore, ma solo un costante, persistente, insopportabile, ronzio di insetti. Sopra le nostre teste, contro il nero mistero della notte, si agitavano, in formazione a V rovesciata, tante luci, incalcolabili, di un colore che prima definii bianco, prima che lo sciame si avvicinasse, spense e riaccese i propri addomi, dandoci invece un chiaro segnale verde. Molti gridarono di sorpresa, contentezza, esaltazione di fronte a uno spettacolo simile. Una flotta di insetti che si comportavano più diligentemente di una squadriglia dell’aviazione, tenendo il passo l’uno con l’altro, accendendo e spegnendo i loro faretti verdi all’unisono. Alcuni risero, molti si baciarono sotto quello spettacolo, qualcuno, preso dall’emozione, e conscio che qualcosa di simile non sarebbe mai più potuto accadere, si dichiarò a qualcun altro, ma non potei udire la flebile risposta in mezzo a quel fracasso che si stava levando da terra, che ora rivaleggiava con il ronzio dell’aria.

Che insetti erano? Molti le chiamarono lucciole e anch’io per un attimo fui portato a definirle così. Ma da quando le lucciole volavano in stormi così compatti, intensi e coordinati? Quello spettacolo fu considerato talmente meraviglioso che sicuramente mi sarei svegliato il giorno dopo con quello in prima pagina. Tornai sulla via di casa, inizialmente sgomento da quello a cui avevo assistito. La formazione a V rovesciata, intanto, era sparita, oltre quegli scogli che erano i palazzi e le luci del centro, chissà dove e avevano portato le loro luci verdi con loro. Ma, a dire il vero, aguzzando la vista, quello sciame immenso, che poteva raggiungere un’apertura alare di oltre cento metri, poteva ancora essere visto sfarfallare, fra le cime dei grattacieli, volare via, solcando verso la campagna.

Una volta sul vialetto mia moglie mi corse subito incontro, abbracciandomi. Fui preso alla sprovvista.

―Cosa è successo?― Chiesi, sbigottito, risvegliandomi dalla trance in cui ero caduto prima. Premevo le guance sul suo collo, le potevo sentire la carotide pulsare, mentre le sue braccia si chiudevano dietro la mia schiena.

―Vieni a vedere, vieni― Disse lei di tutta risposta, trascinandomi per il braccio su per le scale. Non potei fare a meno di seguirla. Seguimmo il corridoio, poi, fino al mio studio ―Stai a guardare, hanno cominciato poco dopo che eri uscito.

Da oltre la porta sentivo un ronzio stranissimo, come di falene, che sbattevano su un vetro. Lei spalancò la porta e mi spinse dentro. Prima ancora di varcare la soglia potei vedere cosa voleva mostrarmi. Mi si prospettarono i miei due terrai, quelli in cui conservavo le specie che usavo per i miei studi. Le termiti non si vedevano, dovevano essersi nascoste sotto terra, a causa della scena che si stava consumando nel terrario accanto. Quello delle Formica rufa, infatti, era nel bel mezzo di un pandemonio. Le luci, le stesse luci che avevo visto quella sera al parco, venivano emanate dagli addomi di uno stormo alato di centinaia di esemplari, che ronzavano e schiantavano dappertutto, agitando freneticamente le loro mandibole, maxila labium e glossa, come a sbavare, letteralmente avendo fame di libertà, e guardandosi intorno con i loro occhi compositi e i loro tre ocelli. La stanza era preda dei loro riflessi verdi, che lanciavano, spaventosamente intensi come neon, proiettando quell’aura spettrale su ogni parete e mobilio. Mia moglie mi cinse la mano, respirando affannata.

―Che stanno facendo? Te lo saprai no?― Chiese lei, illusa che potessi risponderle.

Ero allibito. Completamente. Di fronte a me avevo la prima prova fattuale che queste Formica rufa, per pura convergenza evolutiva, avevano sviluppato una forma di bioluminescenza simile a quella dei coleotteri, adoperando l’ossigeno come carburante per la loro illuminazione. Non solo quello, ma erano come regredite, ritornando al loro stato di vespe, riguadagnando le ali che avevano perso centosessanta milioni di anni fa nel Giurassico. Mi girava la testa, tanto quanto quelle giravano e rigiravano le loro antenne segmentate. Era impossibile, eppure era proprio di fronte ai miei occhi. Mi premetti i palmi sulle tempie, calde, poi sulle orecchie, come per non sentire quel maledetto ronzio. Solo i maschi e le giovani regine possedevano ali, ma non era periodo per i voli nuziali. Che i loro cicli biologici si fossero confusi? E anche se così fosse, come potevo spiegare quella moltitudine di individui alati, che di numero rivaleggiava con le formiche operaie?

―Non lo so, io proprio non lo so― Fu tutto quel che potei rispondere, prima di afferrare per lo schienale la mia sedia da sotto la scrivania e cascarci sopra, esterrefatto. Mia moglie si teneva il viso fra le mani, emozionata da quello spettacolo che riteneva, come quelle coppie al laghetto, meraviglioso. Frattanto le luci verdi continuavano a lampeggiare, vivide come lava, illuminando la stanza come una pista da ballo, ipnotizzando la mia attenzione. E, come per magia, credevo di capire cosa stessero dicendo loro, come anche quella squadriglia che aveva sorvolato il parco.

“Il momento è giunto, sorelle. Il momento è giunto”.

Le loro zampe continuavano a battere sul vetro e le loro ali a ronzare.

“Il momento è giunto, sorelle”.

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Capitolo 4
*** Andirivieni ***


Mi svegliai. Fortunatamente era solo sogno. Uno stupido sogno fatto della stessa consistenza della collana di fantascienza a cui ero abbonato, uno stupido sogno fatto di formiche geneticamente modificate e  che dominavano i cieli con i loro squadroni luminosi. Uno stupido sogno dove pareva che l’intera famiglia delle Formicidae stesse subendo simultaneamente gli stessi cambiamenti fisici, indipendentemente dal loro ordine, genere o specie di appartenenza. Uno stupido sogno frutto di paranoia, di segni infausti, di apocalisse. Qualunque essere razionale non avrebbe potuto crederci per un solo istante, ero convinto di non essere lucido e fui contentissimo di svegliarmi nel mio letto, nel mio mondo normale, naturale, dove certe assurdità non accadevano, dove le formiche non si erano sviluppate in chissà quale sorta di mostro. Solo una mente ignorante poteva concepire un complotto, una trama del genere, una mente annoiata e che non aveva la minima idea della natura degli insetti sociali o della natura in generale.

Non ebbi neppure bisogno di controllare, sapevo già che lei non c’era. I miei occhi misero per bene a fuoco la stanza e potei vedere un sole stranamente estivo fuori, oltre la finestra, un cielo privo di nuvole. Neppure un filo di brezza scuoteva gli alberi lungo i viali. Pareva primavera, ma vi avvolsi comunque più stretto nelle coperte, come se gelassi. Non avevo la benché minima voglia di uscire dal letto. Parevo stanco, ma una stanchezza curiosa, una sorta di stagnazione mentale, dei pensieri, non nel corpo. Non era un’incapacità di fare qualcosa, ma una volontà di fare niente. Avevo come la voglia di rimanere lì per l’eternità, chiudere gli occhi e spegnere il cervello, scivolare in un oblio non nero, né bianco, ma puramente vuoto. Quando mi resi conto che, in un certo qual senso, stavo come anelando a una sorta di suicidio, mi strappai le coperte di dosso con tanta forza che dovevano apparirmi impestate di morte come un sudario. Saltai giù dal letto con un balzo, ma il mio corpo era ancora in uno stato semi-vegetativo e atterrai con le ginocchia molli, mi chinai, posi le mani di fronte a me per evitare di cadere riverso di faccia sul pavimento e, afferrandomi al comodino, mi rialzai. La testa mi girava e posi la mia mano sinistra sulla guancia. La puntura della vespa era sparita. Staccai il palmo dal volto e osservai il dorso. I morsi c’erano ancora. Non prudevano più, ma erano presenti, seppure sbiancati, e gonfi.

Riflettei un momento e scossi la testa. All’ora gli eventi di ieri erano veramente accaduti, le prove c’erano. Ma forse, pensai, non tutti potevano aver preso luogo. Quegli strani sciami verdi dovevo essermeli sognati, così come la loro presenza dentro il mio terrario delle Formiche rufa, dovevo star confondendo la serata di ieri con il sogno di quella notte, una breccia fra i muri che dividevano i ricordi e l’immaginazione, certo. Aprii la finestra e guardai fuori, a sinistra, la casa del nostro vicino, quello che avevo aiutato a liberarsi delle formiche argentine. Cominciai a pormi delle domande e mi annotai mentalmente di passare da lui in seguito. Mi vestì, uscii dalla camera e andai verso lo studio. La porta era chiusa. Poggiai la mano sulla maniglia, ma non entrai subito. E se le Formiche rufa avessero veramente sviluppato una casta di operaie dotate di ali e una forma di bioluminescenza? Mi considerai un maledetto stupido. Anche se fosse stato vero chi ero io per aver paura del semplice processo evolutivo, per quanto fuori dall’ordinario fosse? Certo, però, non avevo mai sentito di una specie che sviluppasse dei cambiamenti tanto repentini da una generazione all’altra. Era vero che conservassero nel loro codice genetico l’eredità fornitagli dallo stesso antenato che avevano in comune con le Vespidae, ma sarebbe dovuto essere un cambio graduale, favorito o meno dalla selezione naturale e, anche se fosse, questo non spiegava affatto come avrebbero potuto produrre una bioluminescenza dal loro addome, simile, anzi più intensa dei membri della famiglia Lampyridae. Non potevo più aspettare e spalancai la porta, facendola sbattere sul muro di fianco.

I terrari apparivano tornati alla normalità. Le termiti erano uscite di nuovo fuori e le formiche, grazie al cielo, non brillavano affatto. Tutto frutto della mia solita immaginazione insoddisfatta del vivere quotidiano dunque, un mio cercare avventure dove non ce ne stavano. Tirai un sospiro, forse di delusione o di sollievo. Avanzai verso i terrai, volevo accertarmi che nessun cambiamento improvviso fosse avvenuto. Premetti il volto contro quello delle rufa e le misi in agitazione. Prima assottigliai gli occhi per vedere meglio, poi li sgranai. Non tutte, ma molte avevano le ali, e sgambettavano, in giro per l’ambiente confinato, con quei coltelli di vetro sulla schiena, zompando via in volo di tanto in tanto per attaccarsi al vetro, come ad esercitarsi. Diedi un occhiata a quelle aggrappate alla superficie invisibile, e potei vedere nei loro addomi, una pulsazione, appena accennata ma percettibilmente, di un bagliore sinistro, meno intenso di quello della notte precedente.

Era tutto così sbagliato. Un evento eccezionale aveva preso luogo, una rivoluzione che stava scuotendo l’intera famiglia delle Formicidae, comprendendo la Linepithema humile, la Lasius niger, la Formica rufa e, probabilmente, molte altre specie. Non sapevo come comportarmi, sentivo che ad un evento eccezionale doveva corrispondere una risposta eccezionale, che mi sarei dovuto strappare i capelli e, invece, tutto quello che mi venne in mente fu di farmi una tisana e saccheggiare avidamente un pacco di biscotti. Ma che diavolo stavo facendo? Ancora con il cacao e il cioccolato sotto i denti volli fare una telefonata, ma, proprio mentre mi dirigevo all’apparecchio, fu qualcun altro a chiamare me. Sollevai la cornetta.

―Pronto?

―Sono io, ricordi?― Riconobbi la voce. Eravamo compagni di corso anni fa e si era trasferito dall’altra parte dello stato, sulla costa ovest, dopo laurea. Eravamo rimasti in contatto epistolare fino ad allora.

―Certo che mi ricordo.

―Dimmi― Fece una pausa, borbottò qualcosa sotto voce e riprese ―Come stanno le tue formiche?

Mi bloccai. Poi risi.

―Stavo per chiederti lo stesso.

―Vuoi dire che anche le tue…

―Brillano e volano.

Dall’altro capo regnò il silenzio, poi un respiro affannato, eccitato di contentezza.

―Le mie Camponotus zoc― Disse, ma incespicò nella pronuncia del nome da quanto andava di fretta ―Le ho trovato in quello stato stamattina. Ho paura a dargli da mangiare, non so come comportarmi.

―Non dirlo a me―  Ragionai, sospirando ―Quindi non è successo solo qui.

―No, affatto. Ho la radio accesa in questo momento, sembra che sia un fenomeno molto più ampio.

Provavo agitazione di fronte all’incomprensibilità di quella faccenda, ma finalmente avevo qualcuno con cui lamentarmene, qualcuno che era abbastanza informato sull’argomento come me. Era pur vero che il mio amico non fosse tanto ferrato, né interessato, per quanto venisse alle Formicidae, visto che teneva le proprie Camponotus zoc solo come cibo per ben altri insetti che allevava come passatempo, ma sicuramente ne sapeva abbastanza per poter capire la mia preoccupazione.

―Tutto questo non è altro che un enorme dito medio al processo evolutivo.

―Ammetto che è preoccupante.

―Più che preoccupante, mi da fastidio da quanto è inspiegabile― Mi prolungai più del dovuto, soprattutto per cercare di mettere in ordine, ad alta voce, cosa stesse accadendo ―Sin da quando il primo organismo monocellulare si è formato nel brodo prebiotico egli si è riprodotto e ha continuato a trasmettere i propri geni, rimescolandoli in continuazione, per sviluppare dei cambiamenti impercettibili nella propria prole, che avrebbe poi continuato il processo a sua volta, cambiamenti casuali, che alla lunga avrebbero portato al successo o il fallimento di una particolare linea di sangue, così come dettato dalla selezione naturale. E se oggi io sono qui, se oggi io sono un ammasso di atomi che occupa un determinato spazio, un gruppo di cellule, piene di citoplasma, un corpo solido, un vertebrato, un bipede, un plantigrado, un primate, un maledettissimo essere umano, è perché il mio filo di sangue è continuato fino ad oggi, senza interruzioni, passando dalle foreste del Carbonifero fino alle industrie dell’Olocene. È stato un processo lento, lentissimo, capisci no? E ora, tac! Nell’arco di una covata le formiche, non una specie, non un genere né un ordine o sottofamiglie di sorta, no, l’intero ramo delle Formicidae sembra sviluppare la bioluminescenza e una casta di operaie alate. Secoli di studi delle basi della biologia buttati al vento. E non solo hanno sviluppato delle dannate ali, macché, le sanno anche usare. Le hai viste come ronzano nel terrario, vero? Pensa, ieri io le ho viste in formazione, come acrobati dell’aeronautica.

―Sì― Mi interruppe lui ―So a cosa ti riferisci, da me non è successo ma ne parlano i giornali. Però, per favore, non farmi una lezione sull’abiogenesi.

―Certo, scusa― Mi resi conto di aver preso una tangente troppo grande, staccai il capo dalla cornetta e diedi un’occhiata all’orologio. Mi ero svegliato tardi ―È solo che tutto questo, insomma, mi fa paura.

Non udii nulla dall’altro capo del filo per un po’, infine, dopo quella pausa, riprese.

―Non sono della tua stessa opinione, penso che sia stupendo tutto ciò.

―Bah― Fu tutto quello che potei dire.

―Non fare così. Anche tu dovresti sapere che la scienza è ben più che un numero di nozioni da imparare a memoria e, se queste nozioni vengono infrante dalla natura, non può essere la natura ad essersi sbagliata. Noi non possiamo certo giudicare cosa sia normale e cosa meno nelle faccende del cosmo, perché è il cosmo stesso la normalità, noi ci limitiamo ad osservarlo e capire le regole del gioco. Fino ad ora credevamo che simili sbalzi nell’evoluzione fossero impossibili, che per forza di cose i figli condividessero quasi lo stesso aspetto dei genitori e che solo con lo scorrere dei secoli, qualcosa di significativo, forse, sarebbe cambiato nella struttura vivente. Credevamo inoltre che non fosse possibile, per specie diverse, evolvere le stesse caratteristiche simultaneamente, se non per puro, infinitesimale caso. E invece le formiche, tutte le formiche, ci hanno smentito. Ho sentito notizie dall’Est che anche alcune specie del genere Liometopum sono state avvistate a ronzare sulle acque delle risaie, così al Sud, dove non identificate Pachycondyla illuminano di notte la giungla come verdi fuochi fatui. Al momento almeno sessantaquattro specie sono state confermate possedere questa mutazione improvvisa solo dal bollettino di stamattina e molti stimano che la lista continuerà a crescere. Non pensare, amico mio, alle tue conoscenze scombussolate, la scienza non è fatta per rimarcare l’ovvio, ma esplorare l’ignoto. Non vedere la mutazione nelle formiche come un monolito minaccioso, ma una porta da attraversare, verso qualcosa che non conosciamo e proprio per questo dovremmo.

―Forse hai ragione― Sì, le parole del mio amico avevano un senso. Non potevo che ammirare l’ottimismo che lo guidava. Eppure avevo un’obiezione, quello che, in fondo, mi turbava ―Ma ascoltami: E se invece non fosse stata una mutazione improvvisa?

―Spiegati meglio.

―Come qualcosa che le formiche… dio che assurdità― abbassai la cornetta, mi stropicciai gli occhi e mi grattai la fronte.

―No, vai pure avanti.

―Insomma… E se fosse qualcosa di organizzato?

Un’altra pausa. Poi rispose, con voce confusa, ma intrigata credetti.

―Continua.

―Immagina. Se questo nuovo tipo di formica operaia non fosse qualcosa spuntato da stanotte, ma, piuttosto, una sorta di applicazione cosciente dell’eugenetica, continuata nel corso di decenni, secoli, millenni, al fine di ottenere qualcosa similare in ogni specie della famiglia? Qualcosa di cui noi non ci siamo mai accorti perché questa sperimentazione ha sempre preso luogo nelle stanze più profonde e interne di ogni colonia, dove un continuo omicidio di esemplari inadatti era usato al fine di mantenere solo quelli con i geni necessari allo sviluppo di ali e bioluminescenza funzionanti, sfoltire il ramo da ogni altra degenerazione? Però significherebbe che, in un qualche modo, le formiche dovrebbero essere in…

Udii una fragorosa risata scoppiare lungo la linea ed io mi sentii in profondo imbarazzo per quello che avevo detto così apertamente.

―Tu, caro mio, sei talmente legato ai vecchi schemi che pur di mantenerli sei disposto a inventarti dei complotti da fare invidia alle dicerie sui comunisti mangiabambini.

―Ma è impossibile che…

―È possibile, invece, perché è successo. Forse non possiamo accettarlo, o neppure comprenderlo, ma è avvenuto proprio di fronte ai nostri occhi. Fino a ieri sera il mondo andava in verso e ora in un altro. Tutto quello che possiamo fare è prenderne atto e capire come funziona.

―Va bene, d’accordo, ma io ti dico che non mi piace questa storia.

―Qualora mai le formiche dovessero minacciare il genere umano con i loro spettacolini aerei ti darò ragione.

La chiamata terminò lì.

Andai in cucina e aggiornai il calendario. Era un lunedì, il primo giorno dopo il grande cambiamento. Finii di fare colazione e uscii a prendere il giornale. Appena sul viale mi imbattei in una visione che non avrei sperato di incontrare. Un piccolo drappello di Lasius niger passeggiava sul pietrisco, lasciando, potevo immaginarlo, una scia di feromoni dietro di sé. Come la niger sul mio campanello del giorno prima erano in cerca di una fonte di cibo da trovare e di cui riportarne l’esistenza al formicaio. Diedi un’occhiata alla casa del mio vicino e mi tornarono in testa i ricordi di quella dispensa completamente consumata dalle argentine. Se avessi lasciato passare quella squadra di ricognizione, probabilmente, mi sarei trovato una scia di niger che filavano avanti e indietro da casa mia. Sollevai il piede, le soverchiai, ma poi, ci ripensai.

Tornai in casa e riapparii dopo un paio di minuti di fronte alle formiche. Fortunatamente non erano andate nell’erba o le avrei perse di vista. Sparsi del sale in fronte a loro e queste si fermarono, rotearono le antenne e ne furono disturbate. Tentarono di aggirarlo ma gli sparsi il sale di fronte ogni qual volta cercavano di far breccia. Infine, sconsolate, si arresero e tornarono indietro. Fui curioso di capire da dove spuntassero. Le seguii per un poco, fino al marciapiede, dove si unirono ad un’altra fila, molto più spessa, di loro simili. Questa fila saliva e scendeva da quello stesso bidone che avevo trovato infestato da loro il pomeriggio scorso e continuava in una griglia per lo scolo dell’acqua, dove si infilavano per riportare il ricavato della loro uscita o ne sbucavano fuori per tornare a lavoro. Lo scolo sotterraneo proseguiva lungo tutto il viale e quel nido, o più nidi, doveva adoperarlo come una sorta di metropolitana sicura. La cosa fu confermata quando vidi un’altra striscia di niger fare andirivieni fuori dalla griglia successiva, che si infilava e usciva nel giardino di una casa. Chissà dove albergavano le regine. Forse, con quel vasto sistema di circolazione, potevano essercene decine sparse da qui fino al parco. Anche queste, notai tra l’altro, presentavano ali, seppure inutilizzate al momento, e una leggera scintilla pulsante nel ventre.

Smisi di analizzare la situazione mi recai all’edicola per prendere cosa mi serviva.

―Ecco qui quel pazzo― Disse affabile il gestore, che aveva già preparato la roba che gli chiedevo puntualmente ―A lei il quotidiano. E faccia un bel sorriso, perché le è arrivato il nuovo numero della sua collana.

Tirò fuori un libricino tascabile, dalla copertina bianca, lucida, con il titolo di un autore dilettante e un titolo pretenzioso sottostante, accompagnato da un’illustrazione fin troppo professionale per una pubblicazione del genere. Presi quel romanzetto di fantascienza e me lo rigirai fra le mani. Nel cerchio che incorniciava l’illustrazione stava una bestia dall’aspetto orribile, scheletrica, priva di pelo e con la lingua penzoloni, con dei denti e una faccia da teschio. Solo dopo mi resi conto essere quella una pecora.

―Una bell’aggiunta alla narrativa d’invasione se vuole il mio parere. In questo caso si tratta di pecore impazzite dalla carestia e diventate carnivore, tanto numerose da inondare e divorare intere città. Spero non le dispiaccia, appena mi è arrivato ieri gli ho dato una letta.

―Sono duecentoquaranta pagine.

―Che ci vuol fare, sono un patito io.

―Bah, per dei libracci del genere…

―Se li considera dei libracci― E qua si accigliò, quasi nascondendo i suoi occhi sotto quei cespugli che aveva in fronte e affacciando quasi l’intero tronco da fuori l’edicola ―Che li compra a fare? Ci incarta le trote? Ma cosa vuol capire lei che adora quegli insettucoli.

―Mi divertono, ecco tutto. Ma questo mi sembra troppo deprimente per poterlo fare.

―Mi creda, più un libro cerca di buttarla sulla disperazione e più risate attira. E poi, certi avvenimenti, è meglio leggerli su carta, così da potersi consolare che non accadano nel mondo reale. Quando leggo certe apocalissi il mondo mi sembra quasi vivibile al confronto.

Concordai con quanto disse. Srotolai il giornale e diedi un’occhiata alla prima pagina, convinto di trovarci una bella foto dello squadrone di ieri sera. Invece fui colto di sorpresa da un altro articolo, più allarmato. “Campi impestati da formiche indistruttibili” Leggeva un titolone in inchiostro nero a caratteri preoccupanti, per poi proseguire con il sottotitolo “I nostri cereali presi d’assalto da sciami di formiche alate e immuni a dosi convenzionali di pesticidi”. Guardai l’edicolante.

―Brutto affare― Disse lui ―I vostri insettacci sono proprio delle carogne.

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