Il padiglione d'oro - una storia giapponese

di yonoi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il padiglione d'oro ***
Capitolo 2: *** Un'immagine fasciata di silenzio ***
Capitolo 3: *** Komorebi o della luce che filtra tra le foglie ***
Capitolo 4: *** Jizo dei piccoli ***



Capitolo 1
*** Il padiglione d'oro ***


Il padiglione d’oro – una storia giapponese

 
 
“Nel mio andarmene
nel tuo restare –
due autunni”
 
(Masoka Shiki)
 

 
  1. Il padiglione d’oro
 
Da questa parte del mondo, il giorno arriva prima che da qualsiasi altra parte. Alle cinque è già chiaro, una striscia di azzurro sul muretto di cinta e il mormorio del traffico che incomincia a crescere più in là sulla strada.
Nella mia stanza, una delle pareti è composta da vetri scorrevoli, che scivolano l’uno sull’altro silenziosi: capita spesso che in quel gioco di trasparenze uno dei pannelli resti aperto, così che ho l’impressione di dormire in giardino, avvolto nel respiro che sale dalla terra e nel futon di trapunta.
Da uno spiraglio entra una bava di brezza. Fruga in mezzo alle felci, stacca le foglie dal caco con uno scricchiolio fragile e le porta qua e là, a sfiorare il terreno e poi di nuovo in alto.
Più o meno a quest’ora passa il ragazzo del giornalaio, un berretto calato tra due ginocchia che pedalano svelte, nello sforzo di correre più veloce del freddo. 
Un involto lanciato al di là del muretto, un tonfo porta le ultime notizie a destinazione. Ed è così che iniziano i rumori del giorno.
Allora le pantofole della Momoko-san iniziano a farsi sentire, girando per la casa insieme agli uccelli: il canarino nella gabbietta di bambù, nell’angolo di maggior luce della cucina. Il richiamo del merlo sull’albero del caco, tra i rami come linee che tagliano il cielo.
L’acqua del tè che bolle quasi non fa rumore, è riservata quanto la Momoko-san, che c’è ma non si vede. Quando uscirò dalla stanza, la colazione sarà pronta in un angolo, accanto al bentō annodato con cura nel fazzoletto. Il ricordo di Fumi riempirà tutta la stanza e persino nel bianco abbagliante dei muri ritroverò frammenti del nostro ultimo inverno. Lei infreddolita che si stringe nel cappotto, le sopracciglia come gabbiani sulla spiaggia e dietro la mareggiata.
Chissà perché i ricordi di Fumi sono sempre legati ai colori freddi. Il grigio della pioggia a cordicelle sui vetri, la tenue fosforescenza dei mattini di neve. Immagini che emergono da un fondo di oscurità come in certe pellicole senza sonoro, filmini in superotto che ritraggono ombre.  
Un cielo di madreperla è stampato sul furoshiki con cui la Momoko-san ha impacchettato il mio pranzo. Quando svolgerò il nodo scoprirò un volo di aironi, ciliegi in fiore o creste di spuma bianca e grigia. All’interno, involtini sigillati da cordoncini di alghe, palline di riso e verdure disposte con la stessa artistica precisione.  
Col pranzo sottobraccio e una pioggerella di aghi sopra alla testa, mi dirigo alla fermata dove l’autobus è già in attesa con la sua aria da pachiderma sonnolento, un lato un po’ inclinato per fare entrare la gente. Ombrelli che si accalcano, qualche giacca e cravatta, ragazze coi calzettoni e le orecchie filanti, collegate a minuscoli lettori di musica. L’autista ciondola il capo tra il poggiatesta e la mano, tutt’intorno si avverte l’odore della salsedine.
Il mare assomiglia alla mia padrona di casa: non si vede, ma la sua presenza s’intuisce un po’ ovunque. Si insinua in fondo ai vicoli, scricchiola sotto i passi come se fosse sabbia. Dietro agli steccati che chiudono i giardini, immagino file di ombrelloni chiusi, la spiaggia picchiettata dalle gocce di pioggia.  
Se la malinconia avesse un suono, sarebbe il fruscio della risacca che va e viene incessante.
Più tardi, sull’autobus, scoprirò qualche granello, un frammento di conchiglia giunto da chissà dove e rimasto appiccicato alle suole.
 
****** 

Attraverso quest’atmosfera di acqua e di sale, arrivo in città e il silenzio continua negli uffici. Il carrello dei detersivi, col mocio e gli altri attrezzi per il lavoro di pulizia, ha le ruote di gomma e si muove senza rumore. A quest’ora alle scrivanie non c’è ancora nessuno e persino il ricordo di Fumi si dissolve oltre la linea dei grattacieli dell’orizzonte.  
Negli ultimi tempi la malattia le aveva tolto le forze, fino a lasciarle il minimo indispensabile per aprire e chiudere gli occhi. Fumi però impiegava quegli ultimi scampoli di energia per sorridere, quando da impercettibili mutamenti nell’aria si accorgeva che ero entrato nella stanza. Fino a poco tempo prima era stata pianista e la musica continuava a tesserle attorno un bozzolo, suonando notte e giorno dal lettore appiattito tra le boccette, le garze, le scatole dei farmaci e i relativi orari.
Il suo sorriso galleggiava nella penombra insieme al sudore vecchio nelle lenzuola, la menta nei flaconi degli sciroppi e il tintinnio del furin appeso alla finestra.  
Quando all’ospedale era risultato chiaro che non c’era più niente da fare, Fumi aveva scelto di tornare nella sua casa di Tōkyō. Desiderava trascorrere il tempo che le restava sotto a un cielo che le fosse familiare. Non voleva morire in un paese non suo, in una corsia che era tutti i luoghi e nessuno, dove non c’era neppure un furin alla finestra, a rasserenarla con la cantilena del vento.  
Durante il viaggio le ho tenuto la mano e ho continuato a tenerla anche dopo. Poi sono rimasto qui, ad ascoltare il furin riempire con il suo sussurro la stanza che ho preso in affitto dalla Momoko-san.
Il furin è un oggetto piccolo ma potente. Offre sollievo dalla calura estiva dando un suono alla brezza, muovendo un bastoncino contro una piccola cupola di ceramica, di vetro, di metallo. A seconda del materiale, il timbro è sempre diverso.
Una striscia attaccata a una cordicella affida parole al vento.
Pioggia di primavera, nei campi il verso del grillo, l’autunno ha foglie rosse, l’inverno neve e cenere, vibrava il furin preferito da Fumi. Era dipinto a mano con un motivo di lucciole, la luce breve che si spegne nelle tenebre. 
Prima che mi arrivasse un rimprovero scritto da chissà chi, un furin mi faceva compagnia anche al lavoro. Lo tenevo appeso al carrello col mocio, i guanti di gomma, il secchio. È l’unico strumento che io abbia mai imparato a suonare.
Per un certo periodo, le cose sono andate avanti così: io, due stracci e Tōkyō quarantadue piani più sotto, nel silenzio delle prime ore del giorno.
Finché qualcosa è cambiato, e non per via di quell’ammonizione scritta in caratteri rigidamente incolonnati da qualche dirigente della ditta. Senza che sia accaduto nulla in particolare, mi sono reso conto che il ricordo di Fumi incomincia a sbiadire un giorno dopo l’altro. Già alcuni dettagli, il tono della voce, l’aroma della pelle in certe pieghe del corpo sono andati perduti, come quando si scende un pendio e chi resta indietro scompare dietro ai tornanti. È più o meno quello che accade al caco nel giardino della Momoko-san, che a novembre lascia andare le foglie a una a una, fino a restare nudo.
Forse è giunto il momento di andarmene dal Giappone, paese popolato solo da ombre. Ma alla sola idea di mettermi in movimento, e di recuperare biglietti e documenti, mi sento assalire dalla spossatezza del naufrago solo in mezzo all’oceano.
Così, quasi senza accorgermene, mi limito ad andare alla ricerca di spazi neutri. Esistono luoghi anonimi, come ad esempio i locali dell’azienda, dove mi sento in qualche modo al riparo. Nessun ricordo di Fumi è legato a un ufficio open space, con le postazioni occupate da pile di carte, i computer ultrapiatti e in fondo una vetrata che mostra un cielo senza colore, che potrebbe essere ovunque.  
In questa bolla di quiete, mi lascio assorbire dallo scroscio dell’acqua, dall’odore di limone che si leva dalla schiuma del secchio. Ogni flacone ha un’etichetta a fumetti, scritta in ideogrammi con un’infinità di colori e punti esclamativi. Di mio pugno, ho aggiunto brevi indicazioni in italiano sopra a strisce adesive – pavimenti, piastrelle, legno – perché anche se mi trovo in Giappone da più di un anno, della lingua non ho imparato quasi niente.
Non ho molte occasioni per parlare a qualcuno. Con la Momoko-san, ho convenuto una sorta di alfabeto dei segni: io indico col dito, balbetto qualche sillaba e lei riesce a dare a questo linguaggio amputato un senso compiuto. Immagino che si affidi a quell’intuito che molti giapponesi possiedono senza darlo a vedere, e che li rende capaci di comprendere lo stato d’animo del vicino solo standogli accanto. Sarà che tutti, qui, condividono la medesima forma di tristezza trattenuta.
 
******
 
Alle otto meno un quarto, identici uno all’altro come se fossero lo stesso individuo moltiplicato, arrivano gli impiegati. Escono dagli ascensori e da uno diventano cento, tutti in giacca e cravatta, cravatta e pullover, borsa e cappotto ripiegato ordinatamente sul braccio. Le donne si distinguono per qualche nota più accesa, un foulard colorato, un ciondolo di Hello Kitty legato alla borsetta. Come i colleghi uomini salutano con un cenno, prendono posto nelle rispettive celle dell’alveare e si lasciano assorbire subito dalle carte, gli ordini da spedire, quelli da controllare, gli imperativi categorici dei capi che piombano come fulmini a ciel sereno via mail.
Pur arrivando in anticipo, tutti hanno l’impressione di essere in ritardo. L’orario vero e proprio inizierebbe alle otto e mezza, ma nessuno perde tempo col cellulare in mano, o accanto ai distributori che elargiscono lattine di caffè bollente e tè verde. Il ticchettio delle dita che sfiorano le tastiere li avvolge in una nube di assoluta e timorosa concentrazione. Dal canto mio rifornisco il carrello, conto i rotoli da lasciare nei bagni e per oggi, qui, ho finito.
 
******
 
Al pianterreno dello stesso edificio c’è un ristorante, un cunicolo basso con una porticina chiusa da cordicelle, che nei mesi di cappa umida dell’estate tengono lontano l’assillo delle mosche. Ai lati dell’ingresso due lanterne e un grosso gatto di plastica, con la zampetta alzata per chiamare i clienti e magari anche un po’ di successo dai piani alti. La zampetta in questione è esageratamente lunga e ricorda un bastone: il che mi sembra adeguato, considerato il carattere del proprietario.
Forse perché sono loro i principali avventori e il cliente va messo in ogni caso a suo agio, davanti al bancone c’è una fila di trespoli e divisori, che ricordano le celle dentro a cui gli impiegati producono per la ditta. Dentro a quei loculi, i dipendenti della Bio Nihon mangiano come lavorano, assorti e in completa solitudine. Da una finestrella escono le scodelle del ramen col grande occhio dell’uovo che galleggia nel brodo, i tempura di gamberetti, le miniature cesellate del sushi. Il signor Muso, il gestore, manovra dietro alle quinte i cestelli del fritto, taglia la frutta a forma di ventagli e di fiori, prepara panda di riso per i bambini, per il resto del tempo è sempre di umore pessimo.
Muso, naturalmente, non è il suo vero nome ma quello che gli ha affibbiato il sottoscritto, perché lo sguardo perennemente accigliato che gli accartoccia il volto è una caratteristica che salta subito agli occhi.
Discendente di immigrati dalla Corea ancora in tempo di guerra, Muso coltiva con la devozione e il rispetto dovuti ai propri antenati un odio sanguinolento verso due categorie piuttosto ampie di individui: tutti i giapponesi e tutti gli inglesi. Secondo il suo personale metro di valutazione, per inglesi debbono intendersi gli stranieri di ogni parte del globo, sicché le possibilità di entrare nelle sue simpatie, per me e il signor Be, sono pressoché inesistenti.   
In compenso, io e Be rappresentiamo una valvola di sfogo in grado di riequilibrare i malumori di Muso quando il locale è affollato, le richieste dei clienti si susseguono pressanti, il suo faccione da Buddha diventa paonazzo e la pancetta tonda sotto al grembiule si trasforma una pentola a pressione in procinto di esplodere. Allora gli strofinacci cominciano a volare sulla mia testa di inglese che parla a monosillabi e sulla zucca di Be, che più semplicemente non dice una parola essendo sordomuto dalla nascita.
Il signor Be condivide con me l’alacre destino del lavapiatti e factotum del locale, funzione che comprende, oltre allo scarico delle merci e il servizio ai tavoli, la pulizia della cucina, dei pavimenti e di qualsiasi altra superficie esistente.
Fortunatamente, Muso non ha il bernoccolo della perfezione e non misura la polvere sulla punta dell’indice. L’unico angolo del locale su cui non transige è il padiglione d’oro. Si tratta di alcuni tavoli collocati in posizione più riservata, all’interno di una saletta chiusa da un paravento. Qui l’intonaco color mattone è meno cupo, e le stampe con vedute del monte Fuji non sono circondate da ragnatele di crepe.
Soprattutto la sera, al padiglione cenano i boss dell’azienda.
Per un certo periodo avrei dato chissà cosa per riuscire a stanare, in mezzo a quelle combriccole rilassate, il tizio che in un momento di sacro zelo s’era preso la briga di appiopparmi la famosa lettera di richiamo, dovuta all’uso non consentito del furin.
Quando mi era stata consegnata dall’addetto della Bio Nihon, il signor Be si era premurato di tradurla per metà a gesti e per l’altra metà scrivendo su un tovagliolo. I tovaglioli di carta, ridotti a brandelli e nascosti nelle tasche, sono il nostro abituale mezzo di pronto soccorso quando Muso dà ordini e io resto impalato, segno più che evidente che non ho capito niente.
Ovviamente, meno riesco a capire e più il capo si arrabbia, sicché a quel punto Be cava una strisciolina e interviene a salvare l’inglese in difficoltà. Be legge le labbra agli uomini d’affari di Singapore e Taiwan, agli americani in camicia hawaiana e infradito, agli studenti che arrivano dalla Francia e dalla Germania. Bazzica un po’ tutte le lingue e ama immergersi nella lettura dei dizionari come se si trattasse di libri di avventure.  
È vietato far musica, aveva mimato Be quella sera, scorrendo le dita sopra a un’immaginaria tastiera, e io immediatamente avevo pensato a Fumi seduta al pianoforte. Alla prossima infrazione, licenziamento, aveva scritto di seguito il mio collega, firmato Hirano Ryumei direttore del personale.
Per ribadire il concetto, Be aveva rivolto mezzo dito prudente in direzione della schiena di Muso, in quel momento completamente assorbito nell’operazione di scolare gli spaghetti e disporli nelle scodelle. Fai attenzione, aveva aggiunto, a mo’ di postilla sul tovagliolo.
All’inferno, avevo risposto alle gelide rimostranze di Hirano Ryumei. Senza considerare che di fronte a me non c’era quel tizio mai visto, bensì un poveraccio che tutti si sentivano in diritto di strapazzare solo perché non riusciva a esprimersi a parole.
Mentre il mio collega rideva con la voragine della sua bocca senza denti, mi venne in mente che non sapevo neppure quale fosse il suo nome. Provai a domandare, ma Be si limitò a puntare il dito sulla parola attenzione, sottolineando il tutto con l’unica sillaba che era in grado di pronunciare: be, per l’appunto.   
 
******
  
Ed è qui che comincia, in realtà, questa storia.
Da un fine settimana dal clima insolitamente mite, da una sera percorsa da una brezza tiepida che spinge la gente in strada con un gelato in mano, un cartoccio di dolci acquistati dagli ambulanti e nuvole di zucchero filato per i bambini. Il crepuscolo gonfia le nubi alla stessa maniera dei venditori, indaffarati a montare quelle matasse rosa che si attaccano alle mani, ai capelli, alle guance.
Sulle facciate dei palazzi, già immerse nella penombra, le luci degli uffici si spengono una dopo l’altra. Pochissimi rimangono a fare gli straordinari, molti di più si affacciano attratti dal richiamo di questo autunno sontuoso, che sembra arrivare fin qui come un torrente in piena dalla campagna.
Anche il signor Muso ha inaugurato un banchetto per vendere ai passanti polpette e spiedini, coni di gamberoni fritti al momento. Poiché di noi non si fida, ha lasciato me e Be a presidiare il locale, che questa sera è stranamente deserto. L’intonaco mattone, che di solito crea un clima di oscurità, risplende di bagliori. Tra gli sgabelli altissimi si consuma un incendio senza rumore.
Il riverbero è così forte che io e Be quasi stentiamo a riconoscerci. I gomiti sul banco e i piedi che riposano per una volta tanto, restiamo a lungo vicini e in silenzio. L’ombra di Fumi accanto a me è così intensamente presente che se allungassi la mano potrei quasi sfiorarla. Siamo così rapiti dallo spettacolo di quel cielo che implode, che neppure ci accorgiamo che un cliente è entrato ed è andato ad accomodarsi dritto nel padiglione.
È il signor Be a rendersene conto per primo, stringendo gli occhietti come chi si desta da un sogno. Subito si precipita ad avvertire Muso, che in quel momento è circondato da un gruppo di ragazzine e sta raggiungendo rapidamente il punto di ebollizione. La breve parola che rivolge al signor Be è una delle poche che ho imparato subito e mio malgrado: Arrangiati, ringhia Muso, e mai come in quel momento il suo soprannome gli calza a pennello. La coda tra le gambe del mio collega che rientra al galoppo non necessita di ulteriori spiegazioni.
Sei tu quello che parla, gesticola il signor Be in preda all’agitazione, spingendomi verso la saletta riservata e buttandomi in pasto al cliente. Faccio presente che io capirò sì e no due parole. Per tutta risposta Be mi mette in mano un menu, non quello di plastica che usiamo di solito ma una carta elegante, con tanto di fiocco penzolante di seta rossa.
Poi comincia a sciacquare il servizio buono, calici e porcellane così preziosi e fragili che mette paura a guardarli, anche perché al collega tremano decisamente le mani. Be regola la fiamma sotto ai tegami, inizia a disporre le verdure su un tagliere, a tagliarle in nastri sottili e veloci. In ogni caso, vuole farmi capire che i ruoli sono decisi e farei meglio a sbrigarmi. Da ultimo, alza un dito verso il soffitto, per segnalarmi che il cliente in questione è uno dei piani alti, uno dei pezzi grossi della Bio Nihon, cosmetici e cibi naturali esportati in tutto il mondo, dalla Cina alla Lapponia.
Sperando che l’alto dirigente in questione ignori totalmente che a prendere il suo ordine è quello che pulisce i gabinetti in azienda, entro nel padiglione.
L’uomo che ha occupato il tavolo con grande spargimento di carte, come se fosse ancora seduto alla scrivania, alza gli occhi dal portatile e quel che mi viene incontro è lo sguardo di Fumi, posato tra le ciglia di un volto delicato e soprappensiero.
È un ragazzino, penso io sorvolando su quella strana impressione. Sarà uno stagista. Ho quasi voglia di accompagnarlo a uno dei loculi del bancone, mettergli in mano il primo menu plastificato che mi capita a tiro e risparmiarmi quello sfoggio di porcellane che vale un occhio della testa anzi due teste, la mia e quella di Be.
Il cliente, dal canto suo, ha un moto di sorpresa appena accennato, certo non si aspettava di trovare un occidentale in un locale dove non si servono pizza e ragù. Si limita a sfilarmi dalle mani il menu e comincia a ordinare con una voce infinitamente profonda e carezzevole. La sensazione che nei suoi lineamenti si nasconda qualcosa della grazia di Fumi continua a sbalordirmi. Quando esco dal padiglione, sono quasi sicuro di avere segnato un piatto al posto di un altro.
Torno al bancone in uno stato di insolita confusione.
Be sta ancora lucidando i calici e sorride.
Chi è quello là, domando, puntando con il dito alle mie spalle. Il signor Be lavora nel locale da anni, forse da prima che esistesse la Bio Nihon. Infatti, gli basta allungare il collo in direzione del padiglione per andare a colpo sicuro. Ride ancora più forte, si fa scappare un paio di be mentre scrive sulla solita strisciolina nome e qualifica del misterioso avventore: Hirano Ryumei, direttore del personale. Subito sotto, aggiunge: Fai molta attenzione!  
Quello è Hirano Ryumei? Il tizio della lettera?” replico io, con un tono un po’ troppo aguzzo. “Direi che a questo punto, la faccenda è affar tuo. Io di là non ci torno,” e ad ogni buon conto mi libero del menu come se scottasse. Il fiocchetto di seta scivola sul bancone con il fruscio di una fiammella che si accende.  
In realtà, quell’uomo mi suscita una strana mescolanza di sensazioni. Stupore, curiosità, persino nostalgia per via di quelle tracce che non riesco a ricondurre a nient’altro che a Fumi.
Non saprei neppure spiegare di che cosa si tratta: è qualcosa di simile a una fragranza nell’aria, il modo di abbassare lievemente le ciglia che era tipico di lei, un sorriso impigliato agli angoli delle labbra. Sono tutte impressioni, perché neppure per un istante Hirano Ryumei si è lasciato andare a sorridere.
Forse ho accumulato un eccesso di stanchezza. Forse dovrei andarmene da questo paese di fantasmi al più presto.
Be mi fa cenno di abbassare la voce, si precipita in strada con l’ordine alla mano per richiamare Muso dal suo presidio, riceve un altro arrangiati questa volta seguito da istruzioni dettagliate. Mentre il collega comincia a scaldare il brodo del ramen, rimango a galleggiare nella strana impressione che pochi passi più in là, dietro al paravento, Fumi mi attenda al tavolo migliore del padiglione. D’un tratto ho la certezza che voglia dirmi qualcosa.  
Quando ritorno al tavolo, il cliente sembra avere subito una trasformazione: si è scavato una nicchia dentro alla poltroncina imbottita, ha incrociato le braccia e si è addormentato. Lo schermo del portatile crea un riflesso azzurrognolo sulle ciglia di Fumi, gli zigomi alti di Fumi. E io con il ramen in bilico sul vassoio provo un senso di pena, perché mi sembra di leggere un messaggio per me in quell’abbandono così improvviso al sonno.
Fumi, sei tu? Un momento ci sei e un attimo dopo sei altrove.
 
******
 
Un ricordo di Fumi, l’ultimo.
La sua mano che, nelle ultime settimane, era diventata sempre più fredda, come se all’interno del suo corpo avanzasse l’inverno. La consistenza del sudore, l’odore che era un misto tra quello dolciastro dei farmaci e quello della neve che dentro di lei fluttuava incessante. Mi affaccio alla finestra o meglio mi nascondo dietro alle tende chiuse, ne avverto la pesantezza sulle spalle.
“Apri,” sussurra lei, che vuole vedere il cielo e nella penombra che attutisce la stanza si sente prigioniera. Mi viene incontro un fiocco che volteggia nell’aria. Poi un altro, che scompare risucchiato dagli scarichi in coda all’ora di punta.
A quel punto la neve inizia a cadere, compone falde che s’incrociano in una danza. 
La gente apre gli ombrelli, ma soprattutto si ferma a guardare in alto. Un gruppo di scolari si scompagina a in tratto, i bambini lasciano la mano del compagno, vogliono catturare quei batuffoli con la mano. Gli insegnanti si fermano anche loro col naso in su, a scrutare quel cielo lucidissimo e pallido che si disfa in frammenti.
Il furin appeso nel vano della finestra si riscuote in un fremito. Il suo tintinnio è il suono della prima neve dell’anno, giunta in anticipo forse per esaudire il desiderio di qualcuno.  
Fumi mi chiede di spegnere il lettore della musica. S’immerge in quel silenzio che cala dall’alto, annulla il brusio del traffico e adagia sopra i tetti un velo luminescente.
“Me lo sentivo, sai. Da qualche giorno sognavo grandi distese bianche. Come un immenso futon dentro a cui riposare. Avevo tanto desiderato rivederla per un’ultima volta.”
“Ho freddo,” dice poi. Lascio la mia postazione davanti alla finestra per mettermi alla ricerca di un’altra coperta.
Di lì a poche ore, Fumi si era assopita per non svegliarsi più.
Così eravamo rimasti io, la neve di Tōkyō e il furin sbattuto qua e là dal vento che trascinava i fiocchi sempre più lontano.
 
******
 
Sto ripensando a questo mentre le ombre scendono rapide nel locale. Anche quel tramonto imponente ha ceduto ormai il passo alla notte. Qua e là resta un barbaglio, una sfumatura di rosso sopra al bancone dove ritrovo Be che mi guarda stupito, vedendomi tornare con la scodella intatta del ramen. Muso sta smantellando il suo banchetto e fa la spola con gli avanzi della serata, spiedini ormai secchi, polpette che galleggiano nella teglia del sugo. Prima che il boss recuperi il suo posto di comando, domando a Be se abbiamo da qualche parte un plaid, una coperta anche piccola purché sia pulita.    
Quando torno nel padiglione, il mio cliente nonché diretto superiore alla Bio Nihon è sveglio e operativo, di nuovo concentrato sul suo lavoro al computer.
Mi rendo conto della figura assurda che faccio, piantato lì con una coperta tra le braccia a contemplare un perfetto estraneo. “Non fissare in quel modo la gente”, mi ripeteva Fumi quando la curiosità per un volto, un gesto, un dettaglio, mi coglieva d’un tratto e subito pensavo a come realizzarci un fumetto. “È una mancanza di rispetto. È maleducazione”.
“Ma qui non siamo in Giappone”, ridevo, e l’estate iniziava sotto ai portici della mia città, insieme con la fragranza dei tigli in fiore. Sulla piazzetta davanti all’uscita del teatro lei scivolava in un raggio di sole e diventava pura luce. Una bracciata di fogli sciolti, coperti dalla scrittura fitta del pentagramma, l’odore di cera e legno delle ore di prova trascorse con l’orchestra, la musica ancora intrecciata ai capelli.
Ora invece siamo proprio in Giappone, paese in cui è scortese frugare tra le pieghe l’intimità di un volto. Da dietro al bancone arrivano il ringhio di Muso e un odore estenuato, che assomiglia al sudore e probabilmente è quello delle polpette colate a picco nel sugo. Di fronte a me Hirano Ryumei esprime il suo imbarazzo chiudendo il viso come un ventaglio, probabilmente si chiede dov’è andata a finire la sua porzione di ramen.
Il servizio è scadente, leggo nell’immobilità dei suoi lineamenti.
Dalla composizione floreale sul tavolo, un crisantemo affloscia lo stelo e si piega. Vedo Hirano Ryumei accorciare il gambo e rigirarselo un poco, alla ricerca di un punto preciso della spugna dove ricollocarlo. Da queste parti i crisantemi, che sbocciano quando la terra è già fredda, sono considerati un simbolo di lunga vita. Soltanto quelli bianchi, come quello che il cliente ha in mano in questo momento, rappresentano il dolore e non si regalano mai a nessuno.  
Mi chiedo a cosa pensa Hirano Ryumei mentre gira e rigira quel fiore tra le dita. Sicuramente al ramen e al piatto di verdure che aveva ordinato, penso affrettandomi di nuovo al bancone.
 

 

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Capitolo 2
*** Un'immagine fasciata di silenzio ***


“Penso spesso a un’immagine
che solo io vedo ancora,
e di cui non ho mai parlato.
È sempre lì, fasciata di silenzio,
e mi meraviglia.
La prediligo fra tutte,
in lei mi riconosco, m’incanto.”
(M. Duras, “L’amante”)
 


2. Un’immagine fasciata di silenzio
 

Due fiocchi nel silenzio / nel tuo sguardo lontano / incomincia l’inverno.
Sul bordo del mio quaderno da disegno mi piace appuntare ogni tanto un verso. È come se lei fosse seduta accanto a me sulla sabbia, stretta tra le ginocchia e la sciarpa, mentre il suo occhio obliquo sbircia sui fogli. Allora le rivolgo qualche breve parola.
Mi piace venire qui alla mattina presto, a raccontare storie davanti al mare. Proporre i miei fumetti nel paese dei manga, entrare a far parte di qualche studio professionale sarebbe in realtà il motivo – quello ufficiale – per cui sono rimasto in Giappone dopo la morte di Fumi. Nei giorni di riposo che Muso ci dispensa col contagocce, cerco di ricordarmelo. Allora prendo il mio album e inforco la discesa che inizia dietro la casa della Momoko-san.
Un viottolo polveroso ruzzola tra enormi piante di aloe, simili a divinità di pietra con tante braccia. Dopo un breve tragitto, arrivo a una spiaggia bigia e a un orizzonte di onde perennemente agitate.
Qui soffia un vento gelido anche d’estate. Un cartello che rimbomba a ogni raffica, superando persino il rumore del mare, elenca tutto ciò che è vietato fare in questo minuscolo spazio: nuotare, bere e mangiare, giocare a pallavolo, a calcio, con le racchette. Infastidire i vicini schiamazzando al cellulare, anche se il volume della risacca è così alto che è quasi impossibile disturbare.
L’oceano si dispiega dietro al guinzaglio di rocce della scogliera, inarca il dorso e drizza creste di spuma. I pochi che si spingono fin qui a passeggio col cane, i pescatori che fanno la spola dalle barche, appaiono e scompaiono come fantasmi dentro ai cappucci degli impermeabili. 
Il cartello dei divieti me lo sono fatto tradurre da Be, dopo averlo copiato più o meno fedelmente su uno dei miei fogli, nel solito tentativo di afferrare qualche parola di giapponese.
Un’unica frase Be non era riuscito a leggere, dovevo aver sbagliato nel riprodurre i caratteri. Vietato respirare, avevo suggerito. Vietato far suonare i furin, aveva scritto Be sulla sua strisciolina. Vietato soffiarsi il naso, avevo aggiunto io, ricordando quel giorno in cui, appena scesi dalla scaletta in aeroporto, persino Fumi si era voltata a guardarmi di traverso. Vietato dire che Muso assomiglia a un sacco di patate, aveva contrattaccato Be, ridendo come un matto. Vietato fare sesso, stavo per dire io, salvo trattenermi all’ultimo momento per non offenderlo.
Così era nata l’amicizia tra me e il signor Be, con la complicità di un cartello roso dalla salsedine, piantato su una spiaggia dove soltanto io riuscivo a resistere intirizzito più di cinque minuti.
 
******
 
In spregio alla regola che impone di non parlare al cellulare, tanto il divieto è in ideogrammi e il mio interlocutore ne sa quanto me, puntuale arriva una chiamata da mio fratello.
“Sei di riposo?” La sua voce si fa strada in una tempesta di scricchiolii, accentuata dal vento che oggi è particolarmente molesto. Le barche dei pescatori, attraccate al piccolo molo, paiono i seggiolini oscillanti di una giostra.
“Sto cercando di mettere insieme una storia,” mi affretto a rispondere, tanto per non confermare l’impressione, peraltro corretta, che nel Paese del Sol Levante mi limito a ciondolare impelagato nei ricordi. Del lavoro di lavapiatti Giulio non ne sa nulla, ufficialmente sono impiegato alla Bio Nihon anche se non è chiaro con quali mansioni. Confondere le tracce è l’unica abilità in cui sono riuscito a raggiungere l’eccellenza, ma Giulio mi conosce ed è poco propenso a farsi depistare.
“Di cosa parla questo nuovo fumetto?” prova a sondare. “L’hai già fatto vedere a qualcuno? Insomma, come stai?” Quando ritorni a casa, è la vera domanda che cuce come un filo tutte le altre.
La mia esitazione corre lungo la linea ed è già una risposta.
“Ho mostrato a un amico di Stefania i tuoi schizzi, lui lavora in una casa editrice. Mi sembra interessato. Quando ti deciderai a tornare, fisseremo un appuntamento.” Ecco, l’ha detto. “Tu intanto segnati questo nome, Enzino Morini. Ha lo studio in via de’ Griffoni.”  
D’un tratto via de’ Griffoni, un vicolo attorcigliato nel centro della mia città, mi sembra più remoto dell’altra faccia della luna.
Cerco di rintracciare su una mappa di volti il profilo di Stefania, mia cognata. Trentotto anni, capelli perfettamente lisciati dalla piastra, la pelle maculata dall’abbronzatura in ogni stagione. Un ventaglio di rughe attorno alle palpebre e una voce che squittisce soprattutto di vacanze, Sharm e Sankt Moritz, chi c’era e chi non c’era, l’abitudine di chiamare i pezzi grossi col nome proprio e tutti gli altri tesoro. Dirigente d’azienda, eppure così diversa dai direttori di qui, da Hirano Ryumei in primo luogo, e chissà perché mi esce tutt’a un tratto quel paragone assurdo.
Forse perché, sull’albo, ho abbozzato un ritratto di lui con il crisantemo bianco. La cosa più difficile è stato riprodurre con la miglior precisione il movimento delle dita che rompevano il gambo, il garbo e l’infinita compostezza del gesto.
Giulio direbbe che sto dando i numeri e forse non sarebbe lontano dal vero. Fortuna che è lontano da qui diecimila chilometri e otto fusi orari, sicché non può spiare sull’albo.
Dopo aver chiesto notizie di Stefania, dei bambini e di quel moncone di vita che è rimasto in Italia e mi è sempre più estraneo, risalgo dalla spiaggia, dove ormai fa decisamente troppo freddo.
Una pioggerella impalpabile mi accompagna in paese quasi senza bagnarmi. Sulla piazzetta è in corso il mercatino settimanale. L’odore della terra sale, corroborante, mi desta come da un sogno.
Davvero voglio inventarmi una storia con Hirano Ryumei come protagonista? E di cosa parlerà? Del mio licenziamento per aver superato la soglia di rumore consentita in azienda, spingendo troppo forte il carrello delle scope?
Cerco di distrarmi osservando le bancarelle, vecchie stampe e mobilia di recupero, stuoie e paraventi in carta di riso, con voli stilizzati di rondini e gru. Un ragazzino abbarbicato a una stufetta, gli occhiali spessi tra la sciarpa e il berretto, è immerso nella lettura di un manga. Non fa caso ai clienti che si radunano a loro volta per leggere, rovistando tra i fascicoli impilati sul banchetto in un silenzio da biblioteca. Il ragazzino si scomoda solo quando qualcuno decide di comprare: allora alza i fondi di bottiglia dal suo libretto e allunga la mano, per poi riporre gli spiccioli dentro a un porcellino salvadanaio. Probabilmente i manga sono di sua proprietà e il ragazzo li vende per farsi un gruzzolo. 
Ovunque si diffonde un aroma di pesce fritto, che proviene dal chiosco dove un’anziana ossuta muove continuamente, con un forchettone, tempura di gamberoni e anelli bianchi di seppie.
Mi crogiolo in quel tepore che giunge a folate, ma ciò che attira la mia attenzione è il banchetto presidiato da un altro anziano, che espone oggetti di una bellezza inconsueta. Sono vassoi e ciotole, tazze da tè percorse da sottili venature dorate che seguono una trama del tutto casuale. È come se tenessero insieme dei cocci, facendo risaltare i punti di rottura invece di nasconderli.  
Il vecchietto combatte il freddo stropicciandosi le mani nei guanti, e a differenza del ragazzino dei manga, si entusiasma sul serio quando mi avvicino alla sua bancarella.
Il filo di barbetta che gli pende dal mento trema per il fervore o forse per il gelo, mentre attacca a spiegare le peculiarità della sua mercanzia. Quando finalmente si accorge che di quel diluvio di parole non ne ho afferrata neppure una, fa marcia indietro e riprende daccapo, questa volta in un inglese così sbilenco che capisco ancora meno. Americano, prendi, mi dice alla fine, allungando un opuscolo. Americani tutti imbecilli, aggiunge tra sé, e questa è l’unica frase che riesco a cogliere in pieno, perché del giapponese conosco soprattutto gli insulti grazie alle lezioni intensive di Muso.
Mentre il vecchietto recupera un po’ di tepore strofinandosi forte le mani nelle muffole, sfoglio l’opuscolo che, miracolosamente, contiene una spiegazione anche in italiano. In pratica, il nonnetto è un esperto di kintsugi, l’arte di riparare decorando le crepe con lacca e polvere d’oro.
Far splendere le ferite è un atto di devozione, recita la massima posta in calce alla foto di un vaso di calle bianche, attraversato da una diagonale di luce. Ciò che si rompe in realtà cambia aspetto e mostra la bellezza di ciò che ha vissuto.
Mentre ripongo l’opuscolo nell’album da disegno, so già a chi vorrei donare uno di quegli oggetti così raffinati e colmi, al tempo stesso, di un significato profondo.
A Fumi ormai non posso regalare più niente. Ma a Hirano Ryumei piacerebbero, mi dico, salvo rendermi conto una volta di più dell’assurdità dell’intera faccenda. Per quello che ne so, quel tizio potrebbe essere un lettore accanito di manga, come i tanti pendolari che incontro ogni mattina sull’autobus. A Hirano Ryumei piacciono i manga hentai, m’invento, per sfuggire a quella che sta diventando un’ossessione.
 
******
 
Dopo quella sera in cui il padiglione l’aveva accolto propiziandogli il sonno, Hirano Ryumei ha continuato a frequentare il locale, senza più addormentarsi ma sempre alle ore piccole. Le undici, mezzanotte, quando Muso comincia a spegnere le luci e si affaccia tra le cordicelle della porta, il tempo di una sigaretta in santa pace poco prima di chiudere. Gli sgabelli sono già ribaltati sui tavoli, le stoviglie a scolare sopra agli strofinacci. Be si aggira con il secchio del mocio e l’aria rilassata di chi sa che per oggi, finalmente, è finita. 
Finché le cordicelle della porta si scostano e a fare la sua comparsa non è il grembiule costellato di macchie sul grosso ventre di Muso, ma la figura verticale e un po’ legnosa di Hirano Ryumei, che si fa avanti con la perfetta padronanza di chi entra in casa propria. Con sé ha la valigetta del portatile e il consueto profluvio di carte.
Alle sue spalle, col passo da grosso granchio che in quel momento tradisce tutta la sua esasperazione, arranca il signor Muso. La scarica di accidenti che rivolge tra sé a Hirano Ryumei è poco più di un fumetto che solo io immagino galleggiare sulla sua testa.
Afferro al volo il menu con la nappa rossa e mi fiondo nel padiglione.
Hirano Ryumei prende atto della mia presenza al tavolo con un cenno del capo, s’immerge nella lettura del menu o forse in altri pensieri, fatto sta che ogni sera ordina sempre la stessa cosa, ramen con verdure oppure verdure e ramen. Quando li ha davanti, neppure li assaggia. Si limita a rigirarli un poco nel piatto come per dare a intendere che qualcosa ha mangiato. Quando passo a ritirarli, li ritrovo ogni volta praticamente intatti.
Forse Hirano Ryumei si sfama mangiando il menu con gli occhi.
Io attendo piacevolmente impalato al suo fianco, per quel che mi riguarda potremmo andare avanti così fino al mattino. Dalla mia postazione, mi limito a condividere un frammento di notte con quell’uomo solitario che mi ricorda Fumi. Il cliente passa in rassegna le pietanze o pensa ai fatti suoi, io a mia volta annoto particolari e dettagli.
Apparentemente, quel tizio non è così diverso dai suoi colleghi dirigenti, né dai tanti impiegati che frequentano il locale. Eppure c’è qualcosa che mi attrae irresistibilmente nel suo modo di muoversi e riempire lo spazio con una sorta di grazia. Hirano Ryumei possiede quell’eleganza innata che è un dono di natura e che non ho mai visto, così evidente, in nessuno.
Ogni sera si ripete lo stesso cerimoniale. Il cliente contempla il menu per un tempo da qui all’infinito e poi ordina il ramen che Muso, dietro al bancone, ha già recuperato da qualche fondo di frigorifero e tenta di rianimare, con l’aggiunta di brodo e imprecazioni varie.
Finché una sera in cui il ramen tarda a resuscitare e io ho appena servito il nostro sakè migliore per prendere tempo, a un certo punto Hirano Ryumei raduna le carte, chiude il portatile e si rivolge a me. Mi aspetto delle rimostranze per il ritardo e per l’alcool, perché so che a differenza degli altri boss Hirano Ryumei non beve, ma vai tu a spiegarlo a quel testone di Muso.
Invece, da quella voce sempre calma e controllata, esce tutt’altro:
“Lei lavora anche per noi, se non sbaglio.” È quasi l’una di notte e la morbidezza del tono si arricchisce di ombre. “È qui per studiare?”
Chissà perché mi viene spontaneo dire le cose così come sono. Nessun accenno all’ambizione di sfondare nel paese dei manga, ma più semplicemente:
“Ho perduto mia moglie. Lei era di Tōkyō.”
Hirano Ryumei mi scruta, soprappensiero. Sta per dire qualcosa ma all’ultimo si trattiene, si limita a chinare le ciglia sul piatto vuoto e le parole muoiono su quelle labbra piene che non sorridono mai. Io invece continuo, e va’ a capire perché.
“Fumiko, mia moglie, era molto malata. È successo un anno fa. Qui ci sono tante cose che me la ricordano. È come averla vicino.”
Il mio interlocutore annuisce. I margini consentiti dalla sua educazione sono un po’ troppo stretti per condividere fatti così personali, ma ho il sospetto di averlo colpito sul vivo, perché di punto in bianco cambia discorso:
“Presto dovremo abolire il servizio di pulizie e affidarlo a una ditta esterna. È una decisione che non dipende da me.”
Devo dire che un licenziamento per un motivo o per l’altro prima o poi me lo aspettavo, sicché, malgrado tutto, non riesce a cogliermi di sorpresa. Il suo volto non lascia trapelare nessuna emozione, eppure ho l’impressione che Hirano Ryumei abbia tirato fuori quella faccenda per sottrarsi ad altri argomenti e pensieri.
Sul tavolo c’è un vaso di crisantemi bianchi. Fiori finti stavolta, più economici secondo il parere di Muso, nonché meno propensi a dar luogo a incidenti quando i boss della Bio Nihon cenano qui e i simposi finiscono puntualmente con una sbronza di gruppo.
Hirano Ryumei saggia tra le dita la consistenza di un petalo. Dal bancone, Muso fa cenno di andare a recuperare la scodella del ramen.
Nei giorni successivi, non accade un bel niente. Alcuni colleghi degli altri turni spariscono da un giorno all’altro, sostituiti da altre facce e carrelli diversi, con un logo che riprende il colore bianco e verde delle loro uniformi. Io però non ricevo nessun avviso, sicché è evidente che il mio contratto part time dipende dagli umori di Hirano Ryumei più di quanto lui stesso sia disposto ad ammettere.
 
 ******
 
A volte mi domando come mai un uomo del genere non abbia un altro posto dove andare la sera, piuttosto che ordinare il solito ramen in un locale che non è certamente di prima classe. Senza dire che quel ramen Hirano Ryumei non lo assaggia neppure. È chiaro che si tratta di una scusa per poter occupare un posto nel locale. Nel padiglione d’oro, per di più.
Secondo Be, non ci sono misteri. “Lavora,” sostiene il mio collega, o meglio lo annota su una delle solite striscioline di contrabbando. “Quelli lavorano tanto, lavorano sempre. Se la ditta li licenzia è finita, nessuno li assume più.”
Talvolta, in effetti, durante il turno mattutino alla Bio Nihon mi capita di scovare quella che, a una prima occhiata, sembra una giacca dimenticata da qualcuno. Puntualmente, dentro alla giacca c’è anche il suo proprietario con la testa crollata sopra alla scrivania.
“Scadenze, straordinari,” insiste Be che tra i mille mestieri di una vita è stato anche fattorino in una ditta. “Fanno così tardi la sera che non vale la pena di ritornare a casa, specie se abitano molto lontano.”
Hirano Ryumei arriva al ristorante con grande profusione di carte, accende il portatile e mangiare è la sua ultima preoccupazione. Eppure, il carico di lavoro non mi pare l’unica e verosimile ragione per cui debba accamparsi nel nostro ristorante, invece di raggiungere la villa dai molti tatami dove probabilmente abita, almeno stando alla mia immaginazione.
Forse una casa vera Hirano Ryumei non ce l’ha, e per casa intendo un luogo dove ci sia qualcuno che aspetta il tuo ritorno. Anche la sua espressione algida e concentrata mi è sempre sembrata triste.
Una malinconia di vecchia data dietro a una facciata di perfetta efficienza: è questo a rendere Hirano Ryumei così inaccessibile e in fondo così diverso da Fumi, che ha sempre continuato a sorridere nonostante tutto. L’unica volta che la ricordo seriamente arrabbiata fu quando mi cacciai in testa che dovevo conoscerla e la inseguii fin dentro ai camerini del teatro, dopo un concerto. Ho ancora sulla fronte la piccola cicatrice dovuta al colpo d’uscio che mi arrivò dritto in faccia. 
 
******
 
Be intuisce i miei pensieri come se li leggesse dentro al vocabolario di lingua cinese che tiene sotto l’acquaio e in cui s’immerge nei momenti di tregua, quando il locale è vuoto e Muso si concede un sonnellino nel retro. Pare sia innamorato della ragazza che impacchetta involtini primavera nel China Express di fronte, guardata a vista da un nutrito clan di parenti che parlano giapponese come lo parlo io. Così Be, nei ritagli di tempo, studia il cinese per potersi recare dal padre di Shu e chiedergli di sposarla. L’unico risultato che ha rimediato finora è stato di finire a gambe all’aria sul marciapiedi, preso per la collottola da una decina tra zii, cugini e fratelli di Shu, che in cinese significa gentilezza.  
In compenso, l’intuito del mio collega si è affinato. Ogni volta che Hirano Ryumei entra nel ristorante, Be intercetta subito il senso di straniamento che mi coglie d’un tratto.
Allora comincia a ridere, stringendosi le narici generose con la punta delle dita. C’è puzza sotto al naso, è il messaggio in codice. O meglio, quello è il soprannome che il signor Be ha assegnato al nostro cliente abituale, per via di quell’aria che a lui sembra arrogante e a me soltanto triste.
Vai, vai, che ti aspetta, scrive Be sulla solita strisciolina quando Hirano Ryumei entra nel padiglione e si guarda attorno aspettando l’arrivo del menù.
“Non sta fissando me,” replico io, colto sul fatto.
È vero, annota rapido Be, accennando al possente deretano del nostro capo, chino a frugare nel frigorifero. Sta contemplando Muso che danza col ventaglio e il kimono da geisha.
A quel punto il signor Muso, sentendosi evidentemente preso per quel didietro che sporge dallo sportello, ci appioppa un ringhio per uno spedendoci ad accendere le luci e ad accogliere l’ospite. Be si dirige puntualmente verso gli interruttori, buttandomi per l’ennesima volta in pasto al fascino indecifrabile di Hirano Ryumei. 
Da ultimo, il nostro cerimoniale si è arricchito di nuovi particolari. Quando la scodella del ramen è già servita al tavolo, il bicchiere di minerale crepita nel suo angolo e il piatto di verdure è arrivato anche lui a destinazione, Hirano Ryumei spegne il computer e inizia con le domande.
Da quella sera in cui ha rotto il ghiaccio chiedendomi del mio soggiorno in Giappone, deve avere intuito che esistono tra noi segrete affinità che vale la pena di approfondire. Per questo, puntuale come se io fossi parte delle scartoffie, accende una sigaretta e inaugura il momento dedicato alle confidenze. Confidenze da parte mia, naturalmente, perché di se stesso, Hirano Ryumei non svela neanche un’ombra.
Forse anche il mio cliente ha perduto qualcuno e ci tiene a sapere come si resta in piedi dopo un fatto del genere.
È chiaro che sfrutta la sua posizione per venire a conoscere quello che gli interessa, ma lo fa con cautela, quasi con timidezza. Il suo tratto è gentile, sicché mentre continua a tormentarmi su Fumi, sulla sua malattia e su come sono riuscito a rimettermi in piedi dopo, m’invita ad accomodarmi sulla poltrona di fronte. Alle mie spalle, avverto le sopracciglia di Muso sfuggire letteralmente dalle tempie: neppure lui si prende la libertà di sedere nel padiglione e tra l’altro il locale dovrebbe essere già chiuso da un pezzo.
Ma Hirano Ryumei è una lanterna di luce ardente, attorno a cui volteggio pur rimanendo immobile sulla poltrona foderata di seta. M’immergo nel fumo della sua sigaretta, rispondo alle domande della sua voce profonda e per quel che mi riguarda non me ne faccio nessuna.
So solo che accanto a lui mi sento in compagnia di più persone: l’uomo che ho di fronte ma anche Fumi che mi parla con la sua voce, mi chiede cosa faccio quando la nostalgia è forte, come sto impegnando il tempo che mi è rimasto. Una sera porto con me i miei album, mostro a Fumi i disegni, la storia del nostro primo incontro a teatro, il mio inseguimento dopo il concerto e la botta sul naso.
Solo il ritratto di Hirano Ryumei con il crisantemo, possibile inizio di un’altra storia, non lo mostro di certo al diretto interessato.
“Davvero le ha sbattuto la porta sulla faccia?” domanda il mio cliente. Sfoglia le pagine con le sue dita lunghe, che sopra a un pianoforte sarebbero perfette.
“Esattamente,” confermo, mostrando la piccola cicatrice. “Poi però, per farsi perdonare, Fumiko ha accettato un invito a cena.”
Hirano Ryumei si protende per osservare meglio, il suo sguardo si posa sulla mia fronte. D’un tratto mi rendo conto che quello che desidero non è più la vicinanza di Fumi, bensì quella di lui.
In preda alla confusione, mi alzo e do una testata contro l’arco d’ingresso del padiglione.
“È successo più o meno così,” aggiungo, completamente rintronato. Metaforici uccellini mi svolazzano cinguettando nel cranio, ma la visione di Hirano Ryumei davanti a me si conserva nitida.
Non credo di aver mai visto in vita mia nient’altro di così limpido e chiaro.
Il cliente è sbalordito. “Guardi che avevo capito,” si scusa, “non c’era mica bisogno di farmelo vedere.”
Be allunga il collo da dietro al bancone, io faccio segno che tutto procede al meglio.
Intendevo sfuggire a una vicinanza eccessiva, ma non ho fatto che peggiorare la situazione. Subito dopo, infatti, Hirano Ryumei versa un po’ d’acqua su un fazzoletto e preme quel tampone improvvisato sulla mia fronte. Segue la traiettoria dello zigomo e del mento e giunge fino al collo, ad asciugare un rivolo che evidentemente considera preoccupante.
Il calore del sangue mi scende dalla testa, s’insinua un po’ ovunque e va a finire chissà dove.
“Ci vorrebbe del ghiaccio,” mormora Hirano Ryumei, con la sua voce suggestiva.
No, è sufficiente che tu non smetta, per me puoi continuare fino a domani.
I suoi occhi percorrono le linee del mio volto insieme all’aroma di colonia del fazzoletto.
Sono tentato di prendere le dita di Hirano Ryumei tra le mie, ma al tempo stesso non so cosa potrebbe succedere. Sicché a un tratto sparo a bruciapelo una domanda, anzi due:
“Quindi anche lei ha perso sua moglie? C’è qualcos’altro che desidera sapere?”
Vedo gli occhi di Hirano Ryumei, fino a un attimo prima dilatati dall’apprensione, ritornare a due fessure di ghiaccio.
“Non credo che i miei fatti personali la riguardino,” risponde, abbandonando il fazzoletto sul tavolo e recuperando una distanza di cortesia. Cala tra noi un sipario a meno dieci gradi, mentre io recupero quel tampone insanguinato perché, piaccia o no a Hirano Ryumei, continuo a zampillare a dirotto.  
Di lì a poco il cliente consulta l’orologio, raduna le sue carte e chiede il conto. 
 
******
 
Per qualche sera Hirano Ryumei non si fa vedere al locale e io mi scopro a desiderare così intensamente la sua presenza che una mattina, durante il solito giro di pulizie, capito nel suo ufficio come tirato da un filo invisibile. Lo studio del direttore del personale è una stanza anonima, identica a quelle di tutti i capi della Bio Nihon. Due pareti occupate da scaffali e una scrivania che avrò spolverato centinaia di volte, senza ricondurla a nessun volto in particolare.
Sul ripiano del tavolo, la schermata di un orologio digitale segna un quarto alle otto. Tra poco l’ascensore arriverà al piano riversando la solita folla di impiegati, le ragazze coi ciondoli di Sailor Moon e Hello Kitty attaccati alla borsa. Un trucco leggero che forse è solo il freddo che viene da fuori e nessuna lattina di tè o caffè bollente che rotoli sbandando fuori dai distributori, richiamata da una moneta e dal desiderio di prendersi un po’ di tempo.
Tra breve inizierà il solito ticchettio di dita concentrate al computer, mentre nei corridoi le macchinette vibrano custodendo il tepore di quelle bevande che non interessano a nessuno. Ogni volta ho l’impressione che le lattine siano sempre le stesse da quando ho cominciato a lavorare qui. Per un attimo, immagino Hirano Ryumei intento a scaldarsi le dita attorno a un tè macha con sopra Totoro. Ciò che è davvero assurdo, non è tanto l’idea di lui che sorseggia da una lattina a fumetti, quanto il fatto che tra le sue mani, al posto di Totoro, vorrei esserci io.
In questo momento, sto spolverando le scansie della sua libreria. Poi passerò al tavolo e infine all’aspirapolvere sulla moquette, sicché ho tutte le ragioni del mondo per essere qui. Ho meno motivi, forse, per curiosare in cerca di qualche indizio su quella vita privata che Hirano Ryumei custodisce così gelosamente.
Su uno scaffale scopro una fila di origami. Piccole gru e una rondine, una volpe più grande e una più piccina, madre e figlia colorate col pennarello. Una traccia di colonia mi riporta alla memoria il tocco delle dita di Hirano Ryumei avvolte nel fazzoletto, e trovo verosimile che quelle minuscole opere di arte e di pazienza sia stato lui a realizzarle. Finché m’imbatto in una ranocchia un po’ storta, scarabocchiata con quel tratto affrettato che è tipico dei bambini.
Così a Hirano Ryumei piace pasticciare con i colori. Certo, non è un grande artista. Chissà come se la cavava all’asilo, penso, mentre passo in rassegna il piano in legno scuro della sua scrivania. Da spolverare c’è poco e niente, non una macchia o un ricciolo di matita nel temperino.
La nettezza di quello spazio che il suo titolare occupa per un numero estenuante di ore al giorno, coincide con l’idea che mi sono fatto di lui, molto più degli origami sullo scaffale. Al confronto, il tavolo che la Momoko-san mi ha messo a disposizione a casa sua somiglia alla bancarella di un suk mediorientale.
Esasperato da quella carenza di chiavi d’accesso al mondo di Hirano Ryumei, apro a uno a uno i cassetti. La scusa di spolverare in questo caso viene meno, e anche il mio desiderio di rivederlo cede il passo alla necessità, non meno impellente, che il mio cliente non entri in ufficio proprio adesso.
Neanche a dirlo, capita esattamente questo. Lì per lì neppure me ne accorgo, perché sono completamente assorbito da una foto che ho riesumato nell’ultimo cassetto, sotto al solito strato di incartamenti vari. L’immagine è una perfetta combinazione di luci e di ombre. Su uno sfondo di ciliegi fioriti su un paravento, ritrae una donna in abito tradizionale, con un volto di mandorla dolce e al suo fianco un bambino in divisa scolastica.
La donna assomiglia a Hirano Ryumei nella misura in cui tutti i giapponesi si somigliano tra di loro. Il piccolo sorride, molto probabilmente perché gliel’hanno chiesto. Per il resto mantiene quel contegno tra il timido e il solenne che hanno i suoi coetanei quando li incontro alla fermata dell’autobus, in calzettoni, cartella e cestino del bentō. Qui i ragazzini imparano presto ad andare a scuola da soli, a orientarsi nelle stazioni della metropolitana e dei bus. La loro aria seria forse è solo paura di perdersi nella folla.  
Kimono e divisa scolastica m’impediscono di collocare la foto in un tempo reale, che potrebbe essere ieri o cent’anni fa. Difficile stabilire se la foto è un ritratto di lui con la madre o con la sorella, una zia, una cugina. Infiniti intrecci di parentele, tutte ugualmente possibili, si aggrovigliano nella mia testa, finché mi accorgo che il proprietario della foto mi sta di fronte.
Hirano Ryumei si limita ad attendere che io mi accorga di lui.
Evita di strapparmi quel frammento di vita privata dalle mani solo perché è trattenuto da molteplici strati di buona educazione, spessi come cemento. In compenso, mi sta bruciando con gli occhi.
Quando finalmente percepisco nell’aria un cambiamento del clima, tendente al caldo torrido, alzo la testa e la sua rabbia m’investe con la grazia di un lanciafiamme.  
“Se ne vada immediatamente,” intima a bassa voce, e io non me lo faccio ripetere due volte.
Raccolgo in fretta stracci, prodotti e aspirapolvere accatastando il tutto alla rinfusa sul mio carrello. D’un tratto ho un lampo di chiarezza cristallina: gli origami colorati col pennarello, la foto con l’elegante cornice in argento, sua moglie e suo figlio.
Il fatto che la foto non faccia bella mostra di sé sopra alla scrivania dubito che dipenda dal proverbiale riserbo della gente di qui.
 Esco di spinta rischiando di investire due Hello Kitty ritardatarie, borsette a tracolla e tacchi che procedono svelti. A causa della frenata improvvisa, il carrello rovescia tutto il suo contenuto: rotoloni asciuganti, spazzole e detersivi etichettati sotto alla dicitura legno, vetri, pavimenti. Le due Hello Kitty sbandano, sfugge una risatina subito trattenuta perché non io non pensi male, non mi stanno prendendo in giro, sono solo spaventate. Posano le borsette e mi aiutano a raccattare quel pandemonio, mentre io con la coda dell’occhio spio dentro all’ufficio.  
Hirano Ryumei non fa caso al trambusto. Rimane a lungo assorto a contemplare la foto, poi con un colpo brusco la chiude nel cassetto. Un attimo dopo è seduto alla scrivania, ha acceso il computer e immagino abbia già archiviato il mio caso sotto alla voce licenziamento.
Eppure, i giorni seguenti, di nuovo non succede niente.
Mi correggo: una piccola casa editrice, specializzata in manga e libri per ragazzi, mi chiama per un colloquio.

 
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Capitolo 3
*** Komorebi o della luce che filtra tra le foglie ***


 
“Piccole case
somiglianti ai vasi
della festa dei morti”
(Yosa Buson)
 

3. Komorebi o della luce che filtra tra le foglie
 

La sede dell’editrice si trova in un villaggio arrampicato sulle montagne, un viaggio di tre ore che attraversa boschi di brina, pini così svettanti che sulla cima sfoggiano già un cappuccio di neve.  
Il pullman ce la fa a stento, scala le marce e pare sempre sul punto di ruzzolare all’indietro, lungo tornanti che salgono sempre più in alto e mano a mano diventano sempre più stretti.
Da un certo punto in poi, la vegetazione assume un aspetto primordiale.
I salici formano una cupola, una galleria d’ombra che dà l’impressione di viaggiare in piena notte.
La strada ha perso anche l’ultimo lastrone di asfalto ed è ridotta a un sentiero accidentato.  
Inutile dire che ho il sospetto di aver completamente sbagliato indirizzo anche se Be, intento a divorare ciambelle al mio fianco, mi assicura che il paese esiste veramente e la casa editrice Natsukashii esiste pure lei, quanto meno è citata nell’elenco del telefono. Be ha svolto le sue indagini prima di mettersi in viaggio, vuole evitarmi possibili delusioni. Credo che mi consideri come un oggetto fragile, da trattare con cura.
Natsukashii è una di quelle parole che non hanno equivalenti in altre lingue. È la nostalgia che si assapora come un tè caldo in una giornata di pioggia, è gustare i ricordi attraverso un filtro che sa spremere il succo persino dalle foglie meno azzeccate e dai giorni più storti.
 La mia nostalgia, invece, è tutta occidentale, è soltanto rimpianto.
È questo ciò che provo, ora che i grattacieli e lo sfrigolio delle insegne cedono il passo al lieve filtrare del pulviscolo tra le foglie. Persino il brusio che avvolge Tōkyō di giorno e di notte, e si avverte anche a molti chilometri di distanza, è annullato da un lieve stormire di fronde.
Cosa rimpiango non saprei dirlo, o forse non voglio ammetterlo.
Sarà che il paesaggio intorno, così pervasivo e opprimente, mi ricorda Hirano Ryumei al punto che il vecchio bus sembra caracollare sul suo corpo disteso, immenso come le statue delle divinità nei templi. Gli odori che mi circondano mi riportano a lui, eppure anche Hirano Ryumei fa parte del fremito cittadino che mi sono lasciato alle spalle.
Dubito che avrò un’altra occasione per incontrarlo.
La sua vicinanza fa parte dei ricordi, come quella di Fumi.     
Il signor Be sospira, allunga il suo cartoccio per invitarmi a pescare uno di quei dolcetti a forma di gattino, di coniglio, di Pokémon. Nelle tasche, per gentile concessione di Muso che non lo sa, ha due pacchi di tovaglioli da ridurre in striscioline. Quando esprimo i miei dubbi riguardo a un editore così fuori mano e alla possibilità di ottenere un contratto, Be si dà una manata sopra alle tasche gonfie, come a dire che andrà tutto bene. Io non ne sono così sicuro, dal momento che il mio agente letterario non sente e io non parlo giapponese. Difficile dire se in questo caso l’unione fa la forza oppure farà fiasco.
Be non si scompone, cava fuori la prima strisciolina della giornata e mi onora del suo parere: hai fatto bene a spedire i tuoi disegni a un piccolo editore. Si comincia dal piccolo per arrivare al grande.
“Guarda che io non ho spedito niente a nessuno,” faccio presente a Be, e solo in quel momento mi rendo conto della stranezza di questo appuntamento tra le montagne. “Ho inviato dei bozzetti a delle riviste di Tōkyō, ma è passato molto tempo e nessuno mi ha mai risposto. Questa Natsukashii, fino a ieri non sapevo neppure che esistesse.”
Adesso lo sai, commenta Be sulla sua strisciolina. Probabilmente fa parte di qualche grande gruppo. Oppure, qualcuno l’ha contattata al posto tuo.
Quest’ultima ipotesi, di fatto la più assurda, è quella a cui ho pensato anch’io fin dall’inizio.
Di nuovo mi ritrovo a passare in rassegna volti e possibilità. La Momoko-san legge solo riviste di giardinaggio, non sa nulla di manga e al massimo protesta quando lascio il mio tavolo da lavoro in soggiorno nel caos più totale. A suo tempo, Fumi ha scritto per me decine di lettere di presentazione, ha esaurito la pazienza di amici e parenti, finché non è stata più in grado di alzarsi dal letto. Il signor Be non ha mai visto prima d’ora i miei disegni, Muso possiamo scartarlo a priori e con questo direi che il cerchio delle mie conoscenze si chiude. Rimane fuori solo Hirano Ryumei, che senza dubbio possiede l’autorità e i mezzi per convincere un editore a pubblicare uno sconosciuto.
Hirano Ryumei, magari. Mi piace crogiolarmi in quell’idea assurda mentre il pullman procede a scossoni, i passeggeri sonnecchiano, Be accartoccia il sacchetto vuoto delle ciambelle. Sul bosco aleggia una bruma leggera, che già a metà mattina preannuncia la sera.
Dimentico per un attimo l’intera faccenda, mi immergo nel ricordo di Hirano Ryumei che mi tampona il viso con il suo fazzoletto. Immagino un improbabile seguito alle manovre di pronto intervento di quella sera, io che rinuncio a sottrarmi a un’attrazione invincibile e gli prendo le mani, gli accarezzo la nuca. Tra le mie dita avverto la consistenza forte, viva dei suoi capelli e d’un tratto mi arriva una gomitata nelle costole, non da parte di Hirano Ryumei ma da parte di Be, che gesticola capolinea, si scende.
Il villaggio di Komorebi ci proietta fuori dal tempo. Casupole di legno con i tetti spioventi per permettere alla neve di scivolare, palizzate che chiudono giardini silenziosi, la gobba di un ponticello che scavalca un torrente. Arroccato su una collina di nebbia, in lontananza, un tempio.
Non c’è neppure l’ombra di segnaletica stradale, sicché io e Be impieghiamo più di un’ora per trovare la sede dell’editore. Ci perdiamo nei vicoli accompagnati dal tintinnio dei furin che sono appesi un po’ ovunque, alle grondaie e all’ingresso dei negozietti, alle finestre decorate con vasetti di spezie.
L’aria è tonificante e avverto una piacevole sensazione di vigore. In fondo, dove c’è un furin io sto bene e di furin, qui, ce ne sono a bizzeffe. Rimane la sensazione che Hirano Ryumei possa materializzarsi da un momento all’altro, alla curva di un vicolo, all’uscita di un emporio che vende di tutto, dalle seghe da tagliaboschi al tè verde. Il signor Be mi elargisce un’altra gomitata e gesticola: smettila di pensare, siamo arrivati.
Una targhetta affissa su quello che a prima vista sembra un fienile riporta il logo dell’editore: un panda con gli occhiali, un libro tra le zampe e un fumetto sopra alle orecchie. Nella vignetta è scritto, in ideogrammi fluttuanti, Natsukashii edizioni
L’incaricata ci accoglie attorno a un tavolo basso che impone ovviamente di accovacciarsi sui tatami. L’idea che le mie gambe si addormenteranno nel giro di un attimo è già un pessimo inizio, il timore che la mia interlocutrice non conosca una sola parola di inglese è quasi una certezza. Mentre la ragazza aggiunge foglioline dentro a un’elegante teiera di ghisa, mi affanno a cavar fuori i disegni dalla cartella e cerco lo sguardo di Be, che a sua volta è distratto da un vassoio di mochi posato sul tavolo. Durante tutto il colloquio, il mio agente si limita a sgranocchiare dolci, mentre io scopro che la ragazza non solo si esprime correntemente in inglese ma parla anche italiano.
“Ho studiato in Italia, lingue e letteratura,” si scusa quasi la signorina Nakamura, direttore della collana dedicata ai manga. “Come casa editrice, siamo presenti ogni anno al Salone del Libro di Torino. Immagino che avrà avuto occasione di visitare il nostro stand.”
Mentre con raccapriccio scopro che il signor Be sta spazzolando tutto il vassoio di mochi, provo a cavarmela con una mezza verità.
“È da un paio d’anni che vivo a Tōkyō. Diciamo che sono un po’ fuori dal giro.”
A questo punto dovrei attaccare con il mio discorsetto di presentazione, a lungo preparato, corretto, rimuginato. Estraggo dalla cartellina il mio pezzo forte, venti tavole che raccontano di Fumi e della sua passione per la musica, la porta sbattuta sul naso del sottoscritto, lei che dopo la morte si trasforma in furin per continuare a parlarmi con la voce del vento.
La signorina Nakamura serve il tè e a quanto pare è già al corrente di tutto.
“Non si preoccupi,” taglia corto. “Le sue opere e il suo stile sono stati così ben descritti dal nostro sponsor che non c’è bisogno di aggiungere altro. Esamineremo la sua storia per stabilire se è conforme alla nostra linea editoriale. Provvederemo noi a contattarla.”
Di fronte alla mia espressione sbalordita, la mia interlocutrice si degna di concedermi qualche spiegazione in più.
“Immagino lei saprà che grazie ai nostri sponsor la Natsukashii, oltre a vendere al pubblico, distribuisce gratuitamente negli ospedali. Quello di cui hanno bisogno i nostri lettori è armonia. Niente scene violente, niente volgarità, su questo non si ammettono eccezioni.”
Ripasso mentalmente ogni singola tavola di Furin nel vento d’estate. Non mi pare di ricordare che ci sia traccia di quello che la buonanima di mia nonna definiva linguaggio da scaricatore di porto. Mia nonna aveva un metro di valutazione molto nipponico.
L’oggetto del mio struggimento, tuttavia, è un altro.   
“Posso sapere chi vi ha fatto il mio nome?”
La signorina Nakamura mi guarda come se fossi uno strano tipo di extraterrestre.
“Chi è stato a presentarla dovrebbe saperlo lei,” osserva, e a un tratto sembra inquieta. “In ogni caso, le direttive aziendali vietano di rendere noti i nominativi degli sponsor. Per quanto riguarda la pubblicazione, le faremo sapere.”
“Vi ringrazio davvero per la vostra attenzione.” Abbozzo un inchino, facendo ondeggiare le antenne da mostriciattolo che in quel momento sento di avere sulla fronte. La Nakamura aggrotta le sopracciglia di fronte a Be, intento a raccattare le ultime briciole con la punta del dito. Quindi prende in consegna la mia cartellina.
 
******
 
Solo una volta usciti mi viene in mente che sopra alla cartellina c’è un adesivo di Kung Fu Panda che mostra il sederone con la scritta fuck off. Irritato, me la prendo con Be che ancora si lecca i baffi, con l’aria da grosso gatto randagio che ha fatto il pieno.
“Non mi sei stato granché di aiuto,” ringhio. “A saperlo, te ne restavi da Muso.”
“Te la sei cavata benissimo da solo,” gesticola il mio agente, sorridendo con la sua bocca da salvadanaio saggio. È l’unica persona che conosca che è in grado di sorridere persino con le orecchie. Mi indica una locanda con un maialino come insegna, srotola dalle tasche la solita strisciolina.
Possiamo ancora gustarci una buona zuppa di funghi prima che parta il pullman.
“Non ti sei già rifocillato abbastanza?”
La zuppa di funghi è una specialità di questa zona. Qui è pieno di ristorantini, ma tu non ci hai fatto caso perché hai la testa per aria, annota Be, rivolgendomi un’occhiata pregna di sottintesi.  
Chissà perché, mi sento su di giri e mi viene da ridere. Sarà l’aria pungente, l’idea di un editore nascosto in un fienile, sarà il pensiero dalla signorina Nakamura che legge fuck off sulla mia cartellina.
Nella locanda del maialino, le pareti di legno e una stufa a muro diffondono un tepore che è quasi un miracolo. La zuppa è un conforto in grado di riconciliare chiunque con il mondo: densa e fortemente aromatica, ha un retrogusto piccante di zenzero. Altroché il ramen di Muso.
Fatti preparare una porzione da portar via, scrive Be, questa volta sul tovagliolo del ristorante. Riuscirai a consegnargliela giusto in tempo per l’ora di cena.
Lì per lì non afferro dove il mio agente voglia andare a parare.
Be ammicca in direzione del padrone della locanda, intento a riporre una cotoletta dentro a un cofanetto di legno. Una volta chiuso, lo avvolge in un furoshiki di stoffa finissima. Grazie a una complicata architettura di pieghe, l’involto si trasforma in una confezione regalo e al tempo stesso in un sacchetto con i manici. La stoffa riproduce un volo di gru su un laghetto.
Sarebbe un bel dono per Puzza sotto il naso. Direi che è proprio il caso di ringraziarlo.
“Che c’entra quel tizio, adesso?”
Pubblicherai i tuoi disegni grazie a lui.
“Regalare una zuppa mi sembra un’idea stupida.”
Forse, ma è un’idea tua.
Una volta di più, le doti di veggente del signor Be mi colgono alla sprovvista.
 
******
 
Sotto a un cielo già plumbeo, il pullman lascia la piazzetta di Komorebi. Tra le mani ho il tepore di una zuppa ai funghi avvolta in un furoshiki che ritrae una luna d’autunno.
All’andata il bus era carico di ceste di verdure e contadini anziani dagli occhi come rughe, due virgole sotto a spessi berretti di pelo. Al ritorno, gli unici passeggeri siamo io e il signor Be.
L’autista scodinzola con la disinvoltura di chi viaggia da solo. Raffiche furibonde tirano giù dalla montagna nuvole lampeggianti e un temporale coi fiocchi. Tutt’intorno si addensa una notte anticipata e picchiettata di gocce.
Io navigo sulla linea che va e viene dal cellulare, in attesa di mettermi in contatto con la Bio Nihon. Il numero me l’ha composto il signor Be, stufo di vedermi cavar fuori il telefono per poi riporlo a causa di una più che evidente mancanza di fegato. Faccio io, ha iniziato a smaniare a un certo punto. Il signor Be ha affrontato un intero clan di ristoratori cinesi ed è ancora convinto che riuscirà a spuntarla con il padre di Shu, il che gli conferisce una certa autorità. Non mi resta che consegnargli numero e cellulare, e augurarmi che l’intero sistema di comunicazioni della Bio Nihon sia fuori uso a causa di un assalto di pirati informatici, di un black out dell’intera città di Tōkyō, di una tempesta di fulmini come quella che stiamo attraversando in questo preciso istante. 
Sei tu quello che parla, ammicca Be, restituendomi l’ordigno che crepita sulla linea.
Rimango a lungo in un’attesa sospesa. I tuoni precipitano a rotta di collo dalla montagna, Be lancia dal finestrino occhiate cariche di un timore ancestrale. L’autista ora scodinzola con maggiore cautela.
“Bio Nihon International,” risponde una voce piatta di segretaria.
“Per cortesia, l’ufficio del direttore del personale.” Ricaccio indietro lo stomaco che a momenti mi ruzzola fuori dalla bocca, al suo posto faccio uscire l’inglese più business di cui sono capace.
“Il signor direttore è in riunione,” ribatte prevedibilmente la mia interlocutrice. “Non può essere disturbato per nessuna ragione.” Nonostante le interferenze sulla linea, riconosco il timbro della signora Namino, l’unica che in ditta viaggia senza fronzoli di Hello Kitty. Un autentico baluardo a difesa dei dirigenti della Bio Nihon, una che per smontarla ci vuole la fiamma ossidrica.
Non mi resta che buttarmi a testa bassa contro l’ostacolo.  
“Questa è una chiamata da Los Angeles, California.” Mi lancio in una parodia del perfetto accento yankee, declinata secondo l’orecchio musicale giapponese. “Volevo comunicare che, come da accordi con la vostra azienda, un incaricato della Muso Production giungerà in serata per incontrare il signor direttore e discutere della fornitura di zuppe per il vostro servizio mensa.”
All’altro capo della linea, la signora Namino vacilla. Avverto sin da qui il gigantesco punto interrogativo che apre una breccia nel suo cervello, sotto i colpi dell’incertezza. Presa alla sprovvista, inciampa sulle parole: “Los Angeles? Muso Production?” Finalmente trova una pista, una possibile via di fuga nei meandri dell’organizzazione aziendale. 
“Mi perdoni, signore, ma il servizio mensa non è di nostra competenza. La metto in contatto con il settore appalti.”
“Non mi faccia perdere tempo, miss, il tempo è denaro,” proseguo, inesorabile. Così direbbe zio Paperone, l’unico manager a stelle e strisce che mi viene in mente al momento. “Il nostro incaricato consegnerà un omaggio esclusivo da parte della ditta. La prego di rammentarlo al suo superiore.”
Passo e chiudo, lasciando la signora Namino a meditare sull’opportunità di compromettere le relazioni commerciali tra Stati Uniti e Giappone con inutili sottigliezze.
Muso Production, non so neppure come mi è venuto in mente.”
Non faccio in tempo a congratularmi con Be che proprio in quel momento il pullman sbanda, azzecca male un tornante ed esce di strada. D’un tratto mi ritrovo a testa in giù tra i sedili e a rimbalzare contro una serie infinita di spigoli, perché ho le mani impegnate a proteggere il furoshiki.
Il pullman volteggia, finalmente si ferma a pochi millimetri da un faggio piuttosto ben piantato. Il motore esala un ultimo sospiro e si spegne. Nel buio e nel silenzio che seguono – anche i tuoni tacciono per un lungo minuto – ha luogo una scena ai limiti del surreale: l’autista scende dal posto di guida, s’inchina a me e al signor Be impegnati a raccogliere membra acciaccate e sparse un po’ ovunque. Barcollante ma inappuntabile, annuncia agli unici passeggeri presenti:
“Il soccorso stradale è già stato avvisato. La società di trasporti esprime il proprio rammarico per questo inconveniente.”
Chissà perché quando c’è di mezzo Hirano Ryumei finisco puntualmente per ritrovarmi con una botta in testa. Comincio a vederci un preciso disegno del destino.
 
******
 
Arrivo alla sede della Bio Nihon alle otto di sera, inseguito dal temporale come se ce l’avessi attaccato ai garretti.   
Riesco a sgattaiolare approfittando del portiere che russa e nel giro di due minuti finisco intrappolato nell’ascensore. Mentre sul display appaiono le cifre corrispondenti al quarantaduesimo piano, una voce incorporea annuncia il quarantuno e a quel punto l’intera meccanica si scompensa. La cabina sussulta, le portiere si aprono sul calcestruzzo tra un piano e l’altro. In breve, il sottoscritto si ritrova inscatolato come se fossi anch’io una porzione di zuppa, cortese omaggio della Muso Production.
Spingo il pulsante di allarme e non succede niente. Spingo di nuovo e un operatore mi risponde con una voce così sferragliante che per un attimo ho il sospetto che a parlare sia stato l’ascensore. Forse Jeeg Robot d’Acciaio sta per giungere in mio aiuto, a suon di missili perforanti. Riporto a Jeeg la sequenza numerica della mia scatoletta, lancio un ultimo help me! da naufrago tra gli squali e rimango in attesa.
Appena sopra il mio naso, dal cemento filtra uno spiraglio di luce. Ombre che vanno e vengono nei locali della Bio Nihon, forse i passi di qualche anima in balia degli straordinari. Non per dubitare delle capacità risolutive di Jeeg, ma urlare con tutto il fiato che ho in gola mi pare un giusto contributo alla causa.
Di lì a poco l’ascensore ha un sobbalzo, scivola sulle guide, traballa fino al piano.
Le porte aperte inquadrano non il muso di Jeeg bensì un paio di tecnici in tuta verde e la minuscola signora Namino, che malgrado l’altezza esigua riesce perfettamente a squadrami dall’alto in basso.
“Dovevo immaginarlo,” esordisce, pungente. “Che cosa ci fa lei qui, fuori orario?”
 “Lavoro per la Muso Production,” rispondo, il che non è neanche troppo lontano dal vero. “Ho un omaggio per il signor direttore, da consegnare ben caldo.”
La signora Namino mi fulmina con uno sguardo di totale esecrazione. È il genere di occhiata che nel Giappone dei samurai equivaleva a un invito a suicidarsi sul posto. Il suo inglese si fa denso di spigoli aguzzi: “L’avverto che ho compiuto verifiche approfondite. La Bio Nihon non ha nessun contatto con Los Angeles, per lo meno attualmente. Ha con sé un biglietto da visita?”
“Si tratta di una zuppa strettamente confidenziale,” sorrido.
Ammetto che in fondo mi sto divertendo, malgrado gli abiti fradici e la piccola pozza che si va componendo, lenta, ai miei piedi.
Namino mi si para dinanzi con l’aria di voler vendere cara la pelle. È chiaramente disposta a immolarsi per testimoniare al mondo, o quanto meno alle risorse umane della Bio Nihon, che la Muso Production è una pura invenzione e che la voce al telefono era la mia.
“Andiamo, Namino-san,” insisto, e ormai il sorriso mi è arrivato da un orecchio all’altro. “Un semplice dono per il signor direttore.”
Le porgo il fukoshiki cercando di darmi un’apparenza dignitosa malgrado la botta in testa, un occhio semichiuso e un ginocchio di cui non ho ancora verificato le condizioni, ma che pulsa come se fosse sul punto di esplodere.
Non so neppure perché ma lo sguardo di Namino si ammorbidisce. È come se mi vedesse, in realtà, solo in quel momento. Per un attimo addirittura si confonde: “La stanza del signor direttore è la prima a sinistra.”
Chissà a quale direttore si riferisce.
So bene che l’ufficio di Hirano Ryumei è l’ultimo in fondo al corridoio, in una zona d’ombra dove la luce del giorno, in qualunque stagione, non arriva praticamente mai.
 
******
 
Pochi minuti dopo sono seduto alla scrivania di Hirano Ryumei, nella bolla di luce di una lampada a stelo. Lui è intento a scaldare la zuppa su un fornelletto, il giubbotto e la giacca del mio vestito buono pendono ad asciugare da qualche parte nel buio. Di là sale un odore di cane bagnato, che l’aroma di funghi copre solo a metà.
Ho un brivido più per l’imbarazzo che per il freddo.
Poiché continuo a tremare, Hirano Ryumei mi offre la sua giacca.
Infilo una manica e da lì sale un insistente odore di muffa. Forse è quell’odore di randagio sotto la pioggia che arriva fin qua.
Hirano Ryumei sembra non farci caso. Lo schermo del computer illumina il suo volto conferendogli la solita tonalità azzurrognola.  
“Posso sapere cos’è successo? Ha l’aspetto di uno che è finito sotto un treno.”
“Il pullman ha avuto un piccolo contrattempo.”
Ritengo superfluo informarlo che in questo preciso momento Be si trova al pronto soccorso, con gli ultimi due denti impacchettati nel fazzoletto. È stato lui a insistere perché, malgrado tutto, venissi qui a consegnare la zuppa Muso Production.
“Ci tenevo a farle avere questo piatto speciale da Komorebi,” riprendo. “È un modo forse un po’ strano per ringraziarla.”
Natsukashii è un buon editore, ma io non ho fatto niente,” ribatte Hirano Ryumei, refrattario a mollare la sua rigidità. “Semplicemente, trovo che i suoi disegni siano meritevoli.”
Eppure a sentir pronunciare Komorebi il suo sguardo si ammorbidisce, un velo di malinconia scende improvviso. D’un tratto ho di fronte l’immagine di un bambino che corre tra le case arroccate sulla montagna, fa rimbalzare i sassi sull’acqua del torrente, accompagnato dal tintinnio di milioni di furin.
Hirano Ryumei serve la zuppa in due bicchieri di plastica, in mancanza di altro.
“Andiamo sulla terrazza. Ormai ha smesso di piovere e il vento, fuori, è caldo.”
Come faccia a saperlo, lui che se ne sta sempre rinchiuso qua dentro, rimane un mistero.
Probabilmente possiede un filo diretto con la natura e il tempo, soprattutto con la bellezza del cielo. Forse tutte le bellezze del mondo comunicano segretamente tra loro.
 
******
 
Arroccata sul tetto del quarantaduesimo piano, la terrazza è un trampolino lanciato verso la notte, questa notte di Tōkyō che è un palpito continuo di formicolii e bagliori.
La zuppa di funghi sprigiona un aroma in grado di raggiungere i confini del mondo, o almeno quelli interiori di Hirano Ryumei, che per la prima volta comincia a raccontare di sé. Mai sottovalutare l’incantesimo di un piatto capace di ricondurre all’infanzia.
“Lo sa? Ho vissuto a Komorebi quand’ero bambino,” dice, le lunghe ciglia curve sul tepore che sale dal bicchiere di carta. “Solo la mia obaasan era capace di preparare una zuppa così profumata.”
Dev’essere questo, penso, il vero natsukashii. Rivedere la nonna che affetta i funghi e lo zenzero, nella luce abbacinante dell’infanzia. Risentire il sapore di allora, tale e quale.
“Komorebi è un paese suggestivo. Molto antico Giappone.”
“Allora i furin suonavano per tutta l’estate.”
“È così anche adesso. Anche se ormai è quasi inverno.”
Siamo appoggiati alla balaustra, a un’altezza tale che la strada, una vertigine di molti metri più sotto, non si vede e neppure si sente. Quassù giunge soltanto il brusio calmo del vento. È come viaggiare di notte in aereo, quando si è raggiunta l’altezza di crociera e il volo pare fermo.
“Mi sono trasferito molto presto, andare avanti e indietro era diventato faticoso. D’inverno uscivo col buio e rientravo col buio. Ma è stato difficile anche lasciare il paese, forse addirittura di più. Ogni tanto ci torno. Vado al santuario o a far rimbalzare i sassi sull’acqua. Da bambino mi piaceva.”
“Io lo faccio ancora adesso. Sette rimbalzi è il mio record.”
“Da adulti, però, è diverso. Sono diversi i pensieri.”
Hirano Ryumei, come al solito, si limita a tenere la zuppa tra le mani senza assaggiarla. Forse vive di odori e soprattutto del natsukashii, l’aroma dei ricordi. Dopo un poco, riprende:
“A sei anni ho superato il test per entrare in una delle migliori scuole di Tōkyō. Essere ammessi in una buona scuola è il primo requisito per poter frequentare un liceo serio, un’università seria, e presentare un curriculum valido presso qualsiasi azienda. I miei ci tenevano molto. Hanno fatto dei sacrifici, per questo.” 
“Studiare le piaceva?”
“Dovevo. A dire la verità, non me lo sono mai chiesto.”
Forse perché mi vede ancora tremare, nonostante la brezza sia effettivamente tiepida, Hirano Ryumei versa la sua porzione tutta nel mio bicchiere.
“Si scaldi, ne ha bisogno.”
Mi sento autorizzato ad avvicinarmi a lui un altro po’. Adesso il mio braccio sfiora il suo, di più, ci sono interamente appoggiato e lo sento attraverso la stoffa della giacca. Di nuovo, la sensazione non è di tepore ma è una sorta di umidità fredda, da scantinato.
Strano. Forse anche Hirano Ryumei in realtà batte i denti e non vuole darlo a vedere.
“Lei non ha freddo?” domando, a quel punto.
L’uomo al mio fianco scrolla il capo. Il suo sorriso resta a lungo sospeso nel buio.
“E poi cos’è successo?” mormoro, e chissà perché mi viene spontaneo abbassare la voce.
“Ho conosciuto mia moglie. Ci siamo sposati a Komorebi, là è nato nostro figlio.”
“Sono la donna e il bambino della fotografia?” domando, tanto ormai la frittata è fatta e quindi tanto vale condividere anche quella, dopo il brodo di funghi della Muso Production.
“Sono loro,” conferma Hirano Ryumei come se la faccenda non lo riguardasse affatto.
“Mi perdoni per aver inventato la storia della zuppa aziendale. Ci tenevo sul serio a fargliela assaggiare.”
“Los Angeles, California,” Hirano Ryumei scuote il capo. “Non so come abbia fatto, ma c’è andato vicino. Partirò per San Diego subito dopo Natale.”
“Che cosa?”
“La Bio Nihon apre una nuova filiale. I miei saranno contenti.”  
“Un salto di carriera,” osservo, mio malgrado.
Fumi che si allontana un’altra volta ancora. La immagino attraversare l’oceano come fanno gli aerei, i voli intercontinentali e gli spiriti dei morti: in punta di piedi e senza rumore dopo il decollo, lasciandosi indietro il cielo limpido e vuoto.
Rivedo la spiaggia dietro alla casa della Momoko-san, le onde tra le foglie dell’aloe, e d’un tratto comprendo perché mi sono sempre sembrate così ostili, così pronte a afferrare tutto quello che trovano e a trascinarlo lontano.
 
******
 
È proprio allora che accade. Lassù, sulla terrazza.
Proveniente da un punto imprecisato della città e della notte, improvvisa esplode la musica.
È un brano che conosco, Mononoke Hime, La principessa fantasma. Fumi lo eseguiva spesso durante i suoi esercizi al pianoforte, ancora all’epoca in cui suonava insieme all’orchestra. Anche dopo ha continuato a sedere al piano ogni giorno, perché faceva meno fatica a esprimersi con le note che con le parole. Era il tempo in cui lei stessa si stava trasformando in uno spettro dai lunghi capelli sciolti e la vestaglia ondeggiante.
“Partirà insieme alla donna e al bambino della fotografia?”
Non posso fare a meno di chiederlo e non so dirlo diversamente.    
Loro non ci sono più da molto tempo.” Hirano Ryumei guarda verso il basso, nel buio della strada molti metri più sotto. “O meglio, mia moglie c’è ancora. Vive a Komorebi, dai suoi. Qualche volta le scrivo, il bisogno di parlare con lei è rimasto, ma trovo anche normale che non voglia rispondermi. C’ero io alla guida dell’auto, quindi non si è trattato di un incidente.”
“Mi dispiace,” dico, e non mi viene in mente nient’altro. 
“Non deve dispiacersi. È stato molti anni fa, e poi non riguarda lei.”
Di nuovo Hirano Ryumei recupera la sua corazza e la distanza. È pallido e sembra invecchiato di molti anni. Intorno a noi, la musica cresce d’intensità, la perfetta armonia del Mononoke hime riempie tutto lo spazio.
Chissà se Hirano Ryumei riesce a sentirla. Mi volto a guardarlo ma in questo momento lui è altrove, nel letto circondato dal ticchettio dei monitor della rianimazione, a rivivere l’attimo in cui inizia a svegliarsi e chiede di suo figlio. 
“Scendiamo,” dice a un certo punto. “È tardi e ho ancora molto lavoro da fare.” 
Lo seguo, senza aggiungere altro.
Le note della Principessa fantasma continuano a seguirmi anche in strada, dopo che ho lasciato gli uffici della Bio Nihon e sto andando al locale per avere notizie di Be. Alzo lo sguardo in direzione della terrazza. Da qui è impossibile scorgere cosa accade quarantadue piani più su, eppure mi sembra d’intravedere una figura affacciata al parapetto, una figura che non è quella di Hirano Ryumei. È piuttosto una donna che indossa una lunga veste. O forse è solo un brandello di nebbia.
Scherzi della stanchezza, mi dico, o della botta che ho preso rimbalzando da un punto all’altro del pullman come la pallina di un flipper.
Probabilmente, il musicista nottambulo è uno studente che abita da qualche parte qui intorno, sta preparando quel pezzo per l’esame di domani e la strizza lo tiene ben sveglio. Questa in fondo è l’ipotesi più sensata, e me ne convinco al punto che quando torno a guardare verso la terrazza non vedo più nessuno.   
Da Muso, incontro Be che sventola la solita strisciolina. È un pezzo che mi aspetta per dirmi che l’assicurazione pagherà tutti i danni, non soltanto gli ultimi denti perduti ma una protesi nuova da farsi su misura.
Persino il signor Muso gli ha usato dei riguardi. Sarà che al locale stasera c’è poca gente, ma il capo gli ha concesso di starsene lì a godere la brezza nel retro, sulla sdraio che Muso adopera di solito per i suoi sonnellini. Una porta scorrevole si apre su un cortiletto e sul Mononoke hime che ancora m’insegue.  
È una bella serata, annota Be, soddisfatto. Così tiepida che sembra che stia per arrivare la primavera.
“La senti questa musica?” Per un attimo dimentico che Be è sordomuto.
Per aver nuove anche le orecchie, dovremmo andare a prendere un’altra zuppa coi funghi e fare un altro incidente, scrive Be, e mi allunga una pacca sulla spalla. 
 
 

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Capitolo 4
*** Jizo dei piccoli ***


“Crepuscolo autunnale
da solo faccio visita
a un’altra solitudine”
(Yosa Buson)
 

4. Jizo dei piccoli

 
A Komorebi ritorno presto, perché la Natsukashii non solo intende pubblicare Furin nel vento d’estate, ma mi chiede subito un’altra storia completa, da presentare all’editore entro cinque giorni.
La telefonata arriva alla mattina presto, durante il consueto giro di pulizie alla Bio Nihon, e mi getta nello scompiglio al punto che persino il carrello traballa, i detersivi sussultano, gli stracci alzano le mani in segno di resa e, se l’avessi ancora, il mio furin tintinnerebbe in preda a un attacco di panico.
In cinque giorni devo farmi venire un’idea che non sia carta straccia, concepire la sequenza narrativa, realizzare le tavole. Se penso che ci ho messo più di due mesi per completare la prima storia, avverto un cappio bello grosso stringersi attorno al collo. Soprattutto, all’altro capo della linea indovino il sorriso a trentadue zanne dell’ineffabile signorina Nakamura.
“Come, non lo sapeva?” dice, in un italiano perfettamente affilato. “Guardi che da noi funziona così. La nostra casa pubblica sessanta storie al mese e solo perché siamo un piccolo editore. Qui i manga sono prodotti di consumo, mica roba di élite.”
In Giappone, i disegnatori possono contare su greggi di assistenti che sgobbano come gli impiegati della Bio Nihon, ma io ho solo due mani e una testa che sembra un retino per le farfalle, nel senso che le idee a volte ci s’impigliano ma più spesso fuggono via.
In breve, ritorno a Komorebi per firmare il contratto, ricevere le ultime minacce da Nakamura e passeggiare per le stradine silenziose in cerca di ispirazione.
Proprio fuori dal fienile che è la sede dell’editore, un piccolo torii segna l’inizio della salita che conduce al santuario. Salgo gli antichi gradini di pietra, ben spazzati dai monaci che hanno accatastato ai lati mucchi di foglie, aghi di pino, rovi. Ovunque c’è odore di resina, di funghi, di umidità. I tanti che sono passati prima di me hanno impresso, nel tempo, le loro impronte sulla roccia.
Sulla cima mi coglie un senso di straniamento. La foschia che mi avvolge è fatta del respiro umido delle piante, ma ciò che mi colpisce è la particolare qualità del silenzio: è quello che si crea quando in un luogo sono presenti molte persone e tutte quante tacciono nel medesimo istante.
Dove sia questa folla, lo scopro inoltrandomi lungo un sentiero delimitato da cippi e colonnine, pagode in miniatura che ospitano divinità. I cespugli di felci proteggono da occhi indiscreti un camposanto, che sembra piccolo perché è nascosto ma che in realtà si snoda lungo tutto il crinale.
Percorrendo uno dei viottoli scopro molte statuette di Jizo, il monaco sorridente che protegge i viandanti e che ho incontrato spesso nelle strade di campagna e al paese, persino all’incrocio che conduce alla casa della Momoko-san. Qui Jizo è presente ovunque col suo volto pacifico e tondo, la testina pelata come quella di un neonato. Lungo il pendio ci sono file intere di queste figurine, una platea silenziosa che indossa bavaglini e cuffiette, addirittura piccole giacche a vento, come se fossero a tutti gli effetti dei bambini da proteggere dal freddo.
Ogni Jizo possiede un corredo di giocattoli, bastoncini d’incenso, girandole sbiadite dalle intemperie. Quelle più nuove ronzano catturando la brezza, altre giacciono a terra assieme alle statuette, forse perché nessuno viene a visitarle da tempo o forse per la burrasca della scorsa settimana.
Le statue sono di pietra, difficile che si rompano. L’unica eccezione è un Jizo di ceramica di cui qualcuno sta raccogliendo i pezzi poco più in là. Mi fermo a osservare quella figura china, le dita che frugano il muschio mi sono familiari, le riconosco nonostante la bruma, la distanza e la strana sensazione che provo nel ritrovarlo in questo posto. D’altra parte, Hirano Ryumei mi ha parlato di un incidente e di un figlio. E questa dev’essere l’ala del cimitero riservata ai bambini.
Forse Jizo rappresenta il piccolo defunto oppure è una sorta di angelo custode, una guida nei territori dell’aldilà. L’unica cosa certa è che il dolore di Hirano Ryumei arriva fin qui, al limitare del viottolo dove mi trovo adesso, e il suo profilo è così dissanguato che spicca nell’ombra, come se fosse anche lui di ceramica.
Rivedo il volto di Fumi già col naso affilato, i capelli come fili di ferro sopra al guanciale. Il senso di impotenza degli ultimi momenti, la neve di quel giorno trascinata dal vento.
Hirano Ryumei fruga la terra, si allontana con in mano i cocci di Jizo e un berrettino di lana rossa. All’altro capo del viottolo la sua figura si perde ed è come se non fosse mai stato qui. Di lui resta un’impronta sospesa nell’aria, un grumo di foschia che mi ricorda Fumi vista di spalle. Per un attimo i capelli di lei ondeggiano seguendo il ritmo dei passi, poi mi accorgo che quello che sto fissando è la chioma di un salice.  
Al solito, ogni volta che ho a che fare con Hirano Ryumei l’irrazionale rischia di prendere il sopravvento. Però non posso fare a meno di pensare al misterioso legame tra la grazia di lui e il ricordo di Fumi, come se l’una sconfinasse nell’altro.
Soprappensiero, raggiungo la zolla d’erba su cui aleggia quella strana foschia. Trovo un altro frammento del piccolo monaco, l’intera testolina con due occhietti e un sorriso appena abbozzato. Strano che Hirano Ryumei, che ho visto andar via col berrettino in mano, l’abbia dimenticata.
L’indomani, pongo quella reliquia insieme alle altre su uno scaffale, accanto agli origami della volpe più grande e quella più piccina. Quel mucchietto diventa una presenza fissa nell’ufficio del direttore del personale. Lo incontro puntualmente durante il mio giro di pulizie, finché Hirano Ryumei decide che non c’è modo di rimettere insieme i pezzi, oppure è solo stanco di trovarseli sempre tra i piedi.
È così che una mattina, al momento di vuotare il cestino della carta straccia, un tintinnio mi sorprende.
Un fruscio sale dal fondo, qualcosa che assomiglia a un furin. Sono i cocci di Jizo Bosatsu, il paffuto personaggio che, a quanto mi ha raccontato il signor Be, oltre a proteggere i viaggiatori di questo mondo ha cura dei bambini che dimorano sulle rive del grande fiume dell’aldilà.
Secondo un’antica credenza, i piccoli spiriti sono bloccati in quella sorta di limbo dalle acque scure. Ogni volta che tentano di attraversarle sono respinti, perché non hanno accumulato meriti sufficienti per rinascere in terra o in qualche paradiso buddhista. Nella speranza che si permetta loro di oltrepassare il fiume, passano il tempo ad accumulare pietruzze e a costruire torri che i demoni del luogo puntualmente distruggono, costringendoli a ricominciare eternamente daccapo. In quella terra detta Sai no Kawara, che significa il luogo dell’inutile sforzo, Jizo difende i bambini, li accoglie sotto il suo manto, li aiuta nel passaggio all’altra riva.
Dubito di aver mai sentito una storia più triste. Chissà se Hirano Ryumei ci crede, se con gli occhi dell’immaginazione e del senso di colpa vede l’anima di suo figlio aggirarsi su quel bagnasciuga di ombre.
Raccolgo i pezzi del monaco Jizo, caduto dall’aldilà direttamente dentro a un cestino della carta straccia, insieme a fotocopie riuscite male e fax non andati a buon fine. Nella mia tasca, i cocci battono l’uno contro l’altro. Direi addirittura che applaudono, mentre ripongo il carrello nel ripostiglio e mi dirigo verso l’uscita.
La sera stessa, al paese, con tutta la miglior buona volontà non riesco a prendere sonno. Il motivo ufficiale è la storia da consegnare all’editore. Dopo essermi rigirato infinite volte nel futon, esco a fare due passi per schiarirmi le idee. Scendendo lungo il viottolo tra le piante dell’aloe, ho l’impressione che la spiaggia dietro alla casa della Momoko-san si popoli di piccole figure accovacciate, intente a costruire castelli neri di sabbia. 
 
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Armato di attaccatutto e di giornali stesi sopra al bancone, il signor Be è assorto nell’operazione di rimettere insieme i pezzi di Jizo. I risultati non sono propriamente soddisfacenti, perché non appena riesce a saldare una parte ne salta via un’altra.
“Sta’ attento,” gesticolo io, che non so fare niente e quindi supervisiono.
Sto ancora rimuginando sulla storia da presentare alla Natsukashii entro i fatidici cinque giorni. Avrò pure qualche rimanenza da qualche parte, da spacciare per novità.
Forse potrei proporre Melodia nella notte. Una bambina sogna di diventare ballerina e per questo si esercita fino alle ore piccole. Dal palazzo di fronte l’accompagna un misterioso pianoforte, suonato da un altrettanto fantomatico musicista, un’ombra che s’intravede dietro alle tende di una finestra.
Dopo una lunga preparazione la ragazzina riesce a entrare all’accademia di danza, e da quel momento in poi il pianoforte tace. In seguito, si scopre che in quell’edificio era vissuta una giovane musicista, defunta dopo una lunga malattia. Il suo unico cruccio nel lasciare questo mondo era di non poter più suonare.
Anche stavolta si parla di Fumi e di spettri, però i disegni non sono macabri e naturalmente non c’è traccia del famigerato linguaggio da scaricatore di porto.
Direi che può funzionare.
Penso alla storia e mi torna in mente quella sera trascorsa sulla terrazza della Bio Nihon, in compagnia di Hirano Ryumei e della famosa zuppa Muso Production. Anche allora, come sorta dal nulla, d’un tratto si era materializzata la musica. 
Mi rivedo appoggiato al parapetto e alla spalla di lui, eppure c’è qualcosa in quel fotogramma, qualcosa che sul momento non ho registrato ma che ora mi suscita un senso di smarrimento.
Una sensazione di freddo.
In luogo del tepore che si avverte al contatto con un corpo umano, un refolo di polvere come di vecchia cantina. Anche il volto di lui spiccava nella notte come il barlume di un fuoco fatuo. Quell’effetto straniante era forse dovuto ai neon delle insegne, alla notte punteggiata di luci della città. O, più probabilmente, Hirano Ryumei moriva ogni volta che pensava a suo figlio.
Lavoro terminato, gesticola Be dopo un po’. Mi mostra la statuetta incollata alla bell’e meglio: malgrado tutti gli sforzi, le crepe sono la prima cosa che si nota e con tutto il rispetto Jizo sembra un rottame.  
“Sarà meglio comprarne un altro,” dico, e già mi vedo a caccia di monaci nei megastore aperti ventiquattr’ore su ventiquattro.
Come al solito, Be riesce a leggermi nel pensiero.
Dubito che tu possa trovarlo nei grandi magazzini, annota sulla carta spiegata sul bancone. E anche se riuscissi a comprarne uno uguale, non sarebbe la stessa cosa.
Al di là di ogni logica, so che Be ha ragione.
Dove ho sentito dire che ciò che si spezza può non solo essere aggiustato, magari un po’ meglio di come ha fatto Be, ma addirittura rivivere?
Continuo a rifletterci mentre torno al paese con l’ultimo autobus. Penso a questo e naturalmente a Hirano Ryumei, che dopo la pace siglata grazie alla zuppa Muso Production ha ripreso a frequentare il locale, a inondare il tavolo migliore del padiglione con i suoi fiumi di carte, a ordinare il solito ramen e a ripetere sempre gli stessi gesti. È come rivedere ogni volta lo stesso film.
Ogni sera mi chiede di sedere al suo tavolo. In compenso ha smesso di fare domande e si limita a guardarmi con una fissità sempre più impressionante, a esibire il suo incarnato sempre più trasparente. Lo sguardo di Fumi crepita nel fondo dei suoi occhi, come se provenisse direttamente dall’aldilà.
Più di una volta mi è capitato di voltarmi verso il bancone per controllare se anche Be vede quello che vedo io, ma il mio collega è discreto e di rado solleva il naso dal suo vocabolario di cinese. È ancora convinto che prima o poi riuscirà a spuntarla con il padre di Shu.
L’intera faccenda comincia a sembrarmi sempre più strana. In ogni caso, stasera mi guardo bene dall’andare a passeggio sulla spiaggia, sia mai che possa imbattermi in strane presenze in attesa del traghetto per l’oltretomba.
Rimango nella mia stanza e frugo qua e là tra gli album, in cerca del fumetto da consegnare all’editore. È così che ritrovo l’opuscolo che in una mattina ormai lontanissima mi era stato donato dal vecchietto del kintsugi.
Domani è giorno di mercato, fin dal mattino ci sarà una coroncina di bancarelle sulla piazzetta.
Forse vale la pena di andare a dare un’occhiata.
 
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Il mattino seguente parto in perlustrazione. All’appello sulla piazzetta sono presenti quasi tutti: c’è il ragazzino immerso nella lettura dei manga, che non alza la testa neanche di fronte ai suoi acquirenti e si limita ad allungare il porcellino salvadanaio. C’è l’anziana che cuoce il tempura, butta il sale a manciate e scuote il polso ossuto, che sembra un prolungamento della padella.
Poco più in là, al posto del kintsugi c’è un’adolescente con i codini e la faccia dipinta di bianco e nero, un musetto da scheletro e un banchetto dedicato a vecchi demo e fanzine di musica metal.
Quell’angolo dev’essere un crocevia di correnti gelide, perché Scheletrino trema come una foglia e insieme a lei rabbrividiscono i codini puntati in cima alla testa, di un bianco cinereo. Siccome occupa proprio quel posto, le domando se sa qualcosa del vecchio delle ceramiche, ma la ragazza si limita a scuotere il capo. Non capisco se sta morendo di freddo, non parla inglese o sta semplicemente rispondendo di no.
Mi resta solo l’opuscolo, che riporta ben quattro recapiti telefonici. A un’altra bancarella compero due lattine di macha bollente. Ne offro una a Scheletrino, che all’improvviso resuscita dal suo stato assiderato e ce la mette tutta per assicurarmi che il nonnetto del kintsugi sarà qui con le sue mercanzie il prossimo giovedì.
Decido che una settimana è un tempo troppo lungo e che Jizo non può aspettare. Dieci minuti, invece, sono più che sufficienti per consumare quel tè a temperatura da ustione, contattare i recapiti stampati sull’opuscolo, attendere mentre il cellulare squilla a vuoto perché a quei quattro numeri non risponde nessuno, scoprire che in calce all’opuscolo c’è anche un indirizzo.
“Komorebi,” annuisce Scheletrino, allungando le orbite dipinte di nero sulla stampa in ideogrammi. A quanto pare, il mondo è piccolo anche in Giappone, perché subito aggiunge: “Anch’io vengo da là,” e lo fa gesticolando come se fosse la sorellina minore del signor Be.
Scheletrino ha il visetto pitturato da teschio, i guanti con disegnate le ossa della mano, però è anche cortese come ogni studentessa giapponese che si rispetti. Non ci pensa due volte prima di abbandonare il suo banchetto dedicato all’archeologia metal, accompagnarmi alla giusta fermata del pullman e raccomandarmi addirittura al conducente, perché si tratta di scendere non a Komorebi paese ma a Komorebi mori, ovvero foresta.
Io mi limito a seguire la sua gonnellina a pieghe, la divisa scolastica che spunta sotto al giaccone con la scritta Death sulla schiena, il cavo delle ginocchia marmorizzato dal freddo. Anche le pupille di Scheletrino sono bianche, per via di qualche diavoleria di lenti a contatto. Il suo sorriso però esibisce un apparecchio per i denti, il che rende il tutto molto meno inquietante.
Non è la prima volta che vado a Komorebi, eppure un posto del genere non l’avevo mai visto. Dopo un viaggio di mezz’ora mi ritrovo ai piedi della montagna, davanti a una pompa che un tempo forniva benzina, mentre ora raccoglie solo vento e aghi di pino.
Sotto alla tettoia, riposa in pace un distributore di cibo e bevande. Pacchi di patatine, barrette al cioccolato, addirittura zuppe liofilizzate occupano i rispettivi loculi e hanno l’aria di essere defunti da anni. Mi riparo là sotto perché incomincia a piovere.
L’aria è impregnata di un forte odore di ozono, di tutto ciò che si disfa nel sottobosco: l’odore della pelle di Hirano Ryumei, che sa di terra profonda.  
Dall’altra parte della strada iniziano un bosco di pini e un viottolo.
La pineta arriva fin sulla carreggiata, mentre all’inizio del sentiero c’è un cartello, ceramiche per di qua. Come entro nel bosco mi avvolge una penombra verde brillante, completamente priva di voci e di rumori. L’intreccio dei rami impedisce il passaggio della luce e delle correnti sicché l’aria è ferma, come quando si entra in una stanza chiusa. Bastano pochi passi e il mondo come l’ho conosciuto fino ad ora svanisce in quel pulviscolo immobile.
Il viottolo procede interrompendosi e ricominciando dietro a un masso, a un cespuglio, a radici affioranti, finché si smarrisce in mezzo a un canneto. Più oltre c’è uno stagno ricoperto di muco e da fiori di loto di un candore spettrale. La pelle liscia sul dorso di Hirano Ryumei dev’essere così, mi ritrovo a pensare. Di nuovo ho l’impressione di stare camminando sul suo corpo riverso, e quest’idea è accentuata dalla morbidezza del passo. Il suolo è soffice e i piedi affondano negli umori. 
Proprio al centro dello stagno c’è un paletto infilzato, di nuovo un cartello con un dito di legno che indica per di qua. A quanto pare, il vecchio del kintsugi abita veramente da queste parti, possiede un laboratorio in questo luogo dell’altro mondo.
Giro attorno a quell’acqua immobile e membranosa, occhieggio i petali bianchi che sembrano volti issati su lunghi colli. Sarà semplice suggestione, ma arrivo alla capanna in fondo alla radura praticamente di corsa e busso come se mi inseguissero tutti gli spettri del mondo. All’inizio, la porta sembra spalancarsi da sola come nei film horror, perché l’omino che mi apre è persino più piccolo di quel che ricordavo, un metro e qualcosa che alla bancarella ci arrivava appena e ora, nella penombra, praticamente scompare.
“Lei è l’americano che non capisce né il giapponese, né l’inglese,” sorride l’artigiano, che mi riconosce al volo. “Come è riuscito ad arrivare fin qui?”
“In pullman,” rispondo io, e cavo fuori l’involto in cui ho raccolto i cocci del monaco Jizo.
“Jizo Bosatsu.” Il vecchio allunga il naso fin dentro al cartoccio. “Non mi dica che è venuto per una riparazione.”
“Scherza? Mi trovo da queste parti in gita turistica.”
“In gita?” riflette l’omino, il cui senso dell’humor dev’essere proporzionato all’altezza. “Strano, nella foresta non capita mai nessuno. Qui si lavora in assoluta tranquillità.” 
“Immagino. Al massimo, ci saranno i fantasmi.”
“Quelli disturbano molto meno dei vivi,” osserva il vecchietto, già concentrato nell’operazione di far combaciare i pezzi del piccolo Jizo. “Sarà un lavoro lungo,” annuncia alla fine.
“Roba di qualche giorno?”
“Minimo un mese. L’arte di riparare richiede tempo.”
D’un tratto mi ricordo che Hirano Ryumei partirà per san Diego subito dopo Natale, e che nelle vetrine dei centri commerciali stanno già comparendo le prime luminarie.
“Un mese per rimettere insieme quattro pezzi?” replico, impaziente.
“La fretta è sempre una mancanza di rispetto,” osserva l’artigiano. Mentre mi precede nel suo laboratorio, è ancora intento a spolverare quei cocci con la delicatezza che si riserva a una rarità.
 
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L’arte del kintsugi non ha nulla a che vedere con l’attaccatutto del signor Be, con le gocce di colla e i grumi che traboccano, con Jizo che alla fine barcolla e sembra zoppo. Per di più l’intero procedimento richiede davvero tempo. Occorre preparare la lacca apposita, a partire da una resina che il maestro estrae personalmente nella foresta, e mescola alla farina per renderla più consistente. Il risultato è un mastice robusto e brillante, sopra al quale si stende la polvere d’oro.
Ognuno di questi passaggi richiede un periodo di convalescenza in un essiccatoio, ovvero in una scatola denominata muro. Sicché la risposta dell’anziano artigiano a tutte le mie visite – nel bosco il cellulare non prende e i numeri di telefono sono praticamente inutili – è che Jizo è nel muro.
Intanto il tempo passa, gli alberi di Natale si accendono nelle strade, nei grandi magazzini cade una finta neve e persino il grosso gatto portafortuna davanti al locale di Muso esibisce una barba candida e un berretto da Santa Claus col pompon.
Alla Bio Nihon cerco di estorcere qualche notizia in più riguardo alla partenza di Hirano Ryumei, ma Namino è più impenetrabile del solito. Insiste col dire che l’azienda non ha contatti con Los Angeles e che l’unico fornitore di materie prime statunitense è una comunità Amish che invia pannocchie biologiche dalla Pennsylvania. Giungo alla conclusione che la missione di Hirano Ryumei alla conquista del Nuovo Mondo è evidentemente top secret. A quel punto, dirotto la mia insistenza sul vecchietto del kintsugi, ossia il maestro Hitodama.
Purtroppo per me, Hitodama è persino più inflessibile di Namino. La sua forza è nella dedizione totale alla sua arte, unita all’idea che un occidentale – specie un americano – non sia in grado di comprenderla per una mera questione genetica.
“Voi andate sempre di corsa,” osserva il Maestro, alla terza o quarta volta che mi presento per avere notizie di Jizo. “Invece, occorre tempo per sentire l’oggetto.”
“E che c’è da sentire?” replico a un certo punto, seccato. “È solo una statuetta.”
“Fare kintsugi non è solo incollare dei pezzi,” insiste Hitodama. “Si tratta di creare una cosa nuova, sicché bisogna entrare in sintonia con la ceramica e con le sue rotture, con urushi, la lacca, e infine con l’oro. Ogni cosa è composta della stessa sostanza di cui siamo fatti noi, e dello stesso spirito. Tutto ciò che appartiene a questo mondo lo è. Persino gli yurei che vagano nel bosco.”
“Cos’è che vaga nel bosco?” domando io, che già fatico a credere che un coccio di ceramica possa aver dello spirito.
“Gli yurei sono gli spettri dei morti inquieti,” spiega Hitodama come se parlasse del tempo. “Possiedono sofferenze da cui non riescono a liberarsi, e per questo continuano a vagabondare in questo mondo. Se segui il sentiero, da qui arrivi al cimitero di Komorebi paese. Molti di loro, immagino, vengono da là. Amano vagabondare, probabilmente ne ricavano un certo sollievo.”
“Fare due passi dev’essere rilassante anche per dei fantasmi,” ammetto.
In occasione delle mie visite a Jizo ho preso l’abitudine di avventurarmi nella foresta, in cerca di ispirazione o anche solo per ripulirmi dal chiasso che mi porto puntualmente dietro dalla città.
Ogni tanto mi fermo su uno sperone di roccia, su un cuscino di muschio per disegnare. In quei momenti, la suggestione del luogo raggiunge il suo apice. I pini formano una cupola, una cattedrale di umidità e lame di luce che piovono dall’alto, simili a colonne di pietra candida. Va da sé che durante le mie peregrinazioni non ho mai incontrato nessuno. È anche vero, però, che una simile qualità del silenzio è qualcosa a cui si è poco abituati. Sicché può capitare che la mente s’inventi dei rumori, o addirittura scorga strane ombre nel folto.
Il maestro Hitodama non lo sa, ma qualche volta mi è sembrato d’intravedere la sagoma di Hirano Ryumei, il suo profilo da stagista ragazzino sbucare dalle cortine di pulviscolo, nei punti in cui il tetto di fronde si apre un poco. 
Forse Hirano Ryumei va spesso al cimitero di Komorebi paese a trovare suo figlio.
Forse si tratta solo di una mia impressione.
 
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Nel frattempo, Hirano Ryumei continua a venire da Muso a orari balzani e sembra sempre più un’ombra. Della trasferta californiana non ho saputo più nulla, né dal diretto interessato né allungando l’orecchio a quel brusio che aleggia sulle spalle degli impiegati chini nei loro loculi e sui piatti di tempura e ramen di Muso. Probabilmente c’è stato un cambio di programma per motivi che a me, umile addetto al mocio, resteranno per sempre sconosciuti e insondabili.
Da Be, che sfoggia la sua dentiera nuova di zecca e ha messo su certe guanciotte da criceto, imparo che Hitodama significa fuoco fatuo. Da queste parti, quelle fiammelle erranti che mia nonna chiamava le lucciole dei morti sono considerate anime disincarnate, o in procinto di staccarsi dal corpo. Su una delle solite striscioline di contrabbando, Be abbozza il disegno di una sfera minuscola e bonacciona, che galleggia nell’aria munita di una lunga coda da spermatozoo. Non ho mai visto niente del genere attorno al letto di Fumi, né voglio mancare di rispetto al signor Be facendogli notare la strana rassomiglianza.
D’altra parte il vecchio Hitodama, pur mancando di forma sferica ed essendo, al contrario, secco come un rametto, ha l’aria di saperla parecchio lunga su come vanno le cose nell’altro mondo. Sarà per via dell’età, a colpo d’occhio stimabile tra i settanta e i centomila anni, oppure perché il suo lavoro consiste nel resuscitare le cose, nel recuperare pezzi altrimenti destinati al disfacimento: il che è pur sempre qualcosa che ha a che fare con la vita e la morte.  
“Una volta che una cosa è rotta, per quanto si cerchi di far combaciare i pezzi, la frattura rimane. È quel che si dice l’irreparabile, che significa che tornare indietro non è possibile. Si può però sempre fare qualcosa di nuovo. Kintsugi ci insegna che le cose non muoiono, ma si trasformano. E così accade per tutto ciò che vive. Non c’è davvero nulla che muoia per davvero e una volta per tutte.”
Le prime volte, mi limito a incassare queste perle di saggezza e ad andarmene poco convinto. Le parole del maestro mi sembrano frasi fatte per prendere tempo, perché nel frattempo Jizo è sempre nel muro e la faccenda inizia a farsi davvero lunga.
Finché un giorno arrivo al laboratorio e trovo il vecchio artigiano armato di una pezza di seta grezza e intento a levigare un oggetto che lì per lì non riesco a identificare. Sulla foresta cade quella pioggerella impalpabile che è poco più di un fruscio e che i giapponesi chiamano nenonke ame, perché la sua levità rammenta il pelo del gatto. La brezza la conduce qua e là disegnando un tratteggio leggero. Di tanto in tanto, quel soffio s’insinua sulla veranda e tira la coda a una fila di furin appesi alla grondaia.
D’un tratto ho l’impressione che Fumi sia accanto a me e mi prenda per mano. Avverto la leggera umidità delle sue dita nel palmo, come se fossero fatte di pioggia.
Dentro al laboratorio, il tempo nuvoloso diventa penombra. Il maestro è di spalle e continua a strofinare con lena. L’oggetto che esce fuori dal panno di seta si accende di bagliori come se a forza di sfregare si fosse accesa una fiamma: si tratta di Jizo, di nuovo integro e impreziosito da lamine d’oro. La lacca sottostante, di un colore rosso vermiglio, dona una sfumatura di intenso calore.
Urushi non voleva saperne di attecchire su una frattura così profonda,” spiega il maestro che, come al solito, parla della lacca come se si trattasse di un personaggio reale. “C’è voluto un bel po’ per convincerla a collaborare.”
“È un ottimo lavoro,” commento io rigirandomi tra le dita il piccolo Jizo, e la soggezione è tale che le parole mi escono in un sussurro. Mi capita sempre così davanti alla bellezza, quando qualcosa è bello all’eccesso. Grazie a quella nuova trama che lo attraversa, Jizo sembra avere acquisito persino autorevolezza: una personalità di tutto rispetto, perché ha vissuto l’esperienza della rottura e ne è uscito arricchito. Finalmente comincio a capire qualcosa del kintsugi, il suo significato così profondamente simbolico. Chissà se anch’io, nascoste da qualche parte, porto dentro di me delle trame dorate. O se quei fili di luce li sto ancora tessendo, impercettibilmente.
“Sarà difficile per me separarmene,” osserva Hitodama, stirandosi soprappensiero la barbetta. “Vede, quando un artigiano si appresta a lavorare su un restauro kintsugi, sviluppa una specie di innamoramento per l’oggetto che si ritrova tra le mani. È un lavoro straordinariamente meditativo. Tra l’altro, questo è Jizo, il protettore dei piccoli. Non so se lei conosce la storia di Jizo.”
“Qualcosa mi è stato detto. Appartiene a un amico,” dico io, che in realtà non so neppure come definire il rapporto che mi lega a Hirano Ryumei.
“Jizo protegge i bambini che sono morti prima dei loro genitori. Rappresenta il legame con i genitori, è il monaco sorridente che si occupa dei piccoli al posto loro. È un po’ come la mano del padre e della madre che si allunga nell’aldilà. Lei onora il suo amico riparando il suo Jizo.”
Forse perché col tempo si è davvero affezionato alla statuetta, Hitodama mi accompagna nel percorso a ritroso attraverso la foresta, fino alla piazzetta di sosta del pullman. La pompa di benzina e i distributori di barrette e di zuppe sono sempre là, i cavi collegati a mucchi di foglie secche. Sigillate nei rispettivi alloggiamenti, le confezioni hanno smarrito le loro tinte vivaci e sono gonfie di umidità. Probabilmente, al posto delle patatine c’è polvere.
Sotto all’ombrello che lo ripara da quella pioggerella felpata, il maestro Hitodama assume un tono ispirato. “Faccia attenzione, giovanotto. Lo dica al suo amico. Gli ricordi che un lutto che dura troppo a lungo nutre spiriti inquieti. A volte, addirittura, rischia di prender vita.”
Mentre salgo sul pullman, non sono più sicuro se le dita che sento stringersi attorno alle mie appartengono a Fumi o a Hirano Ryumei. 
 
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Mentre sobbalzo all’unisono con il pullman e l’intrico della foresta è ormai alle spalle, telefona mio fratello dall’Italia. Disgraziatamente, siamo ormai fuori dall’area in cui il cellulare non prende.
“Potevi farti vivo almeno a Natale,” esordisce Giulio, che avrebbe potuto benissimo farsi sentire lui. “Allora, come procede?”
“Sto pubblicando con un editore di qui.” Stento a crederci io per primo, quindi figuriamoci se può crederci lui. Avverto la perplessità sbocciare nella testa di mio fratello a mo’ di fuoco d’artificio e percorrere l’intero tragitto Italia – Giappone senza smarrire neppure un grammo delle sue vibrazioni.
 “È un piccolo editore,” aggiungo, per ridimensionare quell’effetto pirotecnico.
“Enzino Morini, invece, l’amico di Stefania, lavora per una casa importante. E per di più saresti a casa tua. Io proprio non ti capisco.”
Difficile spiegare che per me il Giappone è una sorta di limbo. Vista da questa parte del mondo, è l’Italia a sembrarmi complicata e difficile, con i nodi dei suoi rapporti, la lingua che non posso far finta di non capire. Con i suoi milioni di abitanti che si sfiorano silenziosi agli incroci, a margine delle insegne accese giorno e notte, Tōkyō mi garantisce la più assoluta solitudine. Qui ogni volto mi ricorda Fumi e persino la natura armoniosa dei luoghi conserva qualcosa del suo modo di muoversi. Avverto la sua presenza nel ramo del ciliegio che s’inchina al passaggio del vento, nel traboccare dell’edera sul muretto di un vicolo, nella curva di un ponticello a Komorebi. E, ovviamente, nel fascino suggestivo di Hirano Ryumei.
La conversazione con mio fratello si trascina per un po’. Si parla dei suoi figli, del Natale in montagna e di Enzino Morini che aspetta sempre che io lo contatti e per quel che mi riguarda può aspettare per sempre. Finché il pullman arriva al paese e in prossimità della piazzetta del mercato, dove c’è ancora Scheletrino col suo banchetto, la linea si confonde con la brezza che viene dal mare e finalmente si perde.
 
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Pochi minuti dopo, mentre l’aria comincia a diventare così umida che pare acqua – segno che la nenonke ame, la pioggerella a pelo di gatto, sta arrivando anche qui – sono in attesa di un altro pullman, quello che dal paese deve condurmi a Tōkyō e alla sede della Bio Nihon.
Con me, in quel tardo pomeriggio colmo di ombre, c’è solo il monaco Jizo, debitamente impacchettato perché non abbia a rimediare altri urti e anche perché si tratta di un dono da scartare. Per questo, il maestro Hitodama l’ha avvolto in un furoshiki con infiniti nodi e un motivo di coralli, che ricorda le trame del kintsugi. Pesci soprappensiero si aggirano in quei boschetti di rami rossi. Qua e là spuntano cavallucci marini dai lunghi musi perplessi. Sembrano punti interrogativi e non hanno tutti i torti: anch’io mi domando cosa potrà succedere nel momento in cui consegnerò il dono a Hirano Ryumei.
Magari lui neppure si ricorda di Jizo, oppure avrà già comprato un’altra statuetta, da lasciare al cimitero di Komorebi. Forse Jizo appartiene a quel genere di argomenti di cui non è educato parlare, per quanto sono intimi e personali. Se questo è vero, recuperare i cocci dal cestino della carta non è stata per niente un’idea geniale.  
Ma soprattutto, arrivo finalmente a chiedermi che cosa mi aspetto da Hirano Ryumei, cosa mi attrae in quell’uomo che non è Fumi ovviamente né potrà esserlo mai, e chissà perché me la ricorda così tanto.
Il tempo del viaggio non è sufficiente per mettere ordine nella mia testa, fatto sta che quando il pullman approda alla solita fermata, a due passi dalla Bio Nihon, non sono ancora riuscito a darmi una risposta. Guardo i pesci che s’inabissano nei fondali del furoshiki, con lenti colpi di coda. Anche la città intorno a me, sfumata come un disegno a matita dalla pioggia, è avvolta dal silenzio come se fosse sott’acqua. 
Non appena l’ascensore si apre sugli atri della Bio Nihon – senza intoppi, stavolta – vengo prontamente intercettato dalla signora Namino, arroccata come al solito nella sua postazione senza ciondoli di Hello Kitty, matite coi pompon e gomme da cancellare a forma di fragola.
“Ho una consegna per il direttore del personale.” Senza aggiungere altro, oltrepasso lo scoglio della sua scrivania a passi ben distesi, diretto verso l’ufficio di Hirano Ryumei. Con la coda dell’occhio, le punta delle orecchie, la nuca e tutto ciò che ho dietro la schiena, intercetto la reazione di Namino, che più che in contropiede sembra presa alla sprovvista. La cautela con cui si muove sulla poltroncina ergonomica, il suo sguardo esitante mentre imbocco il corridoio, non fanno risuonare nessun campanello d’allarme.  
Arrivo all’ultima stanza in fondo, la porta è ovviamente chiusa e dall’interno non proviene nessun rumore: né di voci al telefono, colloqui sussurrati, fruscii di fogli sul tavolo.
Busso a lungo senza provocare nessun mutamento in quella coltre quasi palpabile di quiete.
Quando mi decido finalmente ad aprire, mi accorgo che all’interno non c’è anima viva: di più, la stanza appare insolitamente vuota e fredda, come se fosse disabitata da tempo.
Sono più che sicuro che questo sia l’ufficio di Hirano Ryumei. Riconosco la scrivania in legno scuro, le tende sciolte sulle finestre, gli origami colorati con i pennarelli.
Fuori la pioggia non è più a pelo di gatto ma si sta trasformando decisamente in un acquazzone.
Attraverso lo spessore delle tende, che a un tratto mi ricordano i lenzuoli sui mobili delle case abbandonate, filtra un’eco scrosciante.
La mancanza assoluta di carte sul tavolo, che fino a ieri mi pareva un segno evidente del rigore mentale del suo proprietario, ora mi fa pensare solamente all’assenza.
Osservo gli origami sullo scaffale e li scopro sgualciti dal tempo trascorso lì, un tempo che d’un tratto mi sembra eterno. Dentro al cassetto, c’è ancora la foto con la cornice d’argento. La sagoma della donna, l’espressione paffuta e seria del bambino al suo fianco hanno smarrito i loro contorni. Emergono dal bianco della carta fotografica come un paesaggio che la neve cancellerà tra breve.
C’è polvere persino dentro alla cornice, una sorta di sabbia venuta da chissà dove e i resti di un insetto dalle zampette grinze, che chissà come ha fatto a finire lì dentro.
“Guardi che in questo ufficio non c’è nessuno.” Una voce esitante alle mie spalle. “Lei si occupa dei servizi e dovrebbe saperlo,” aggiunge Namino, questa volta con maggior decisione. “La direzione risorse umane è all’inizio del corridoio, prima stanza a sinistra. Ma guardi che il signor direttore è occupato.”
“Intende dire mister Hirano Ryumei?” domando, e continuo a guardarmi attorno perché in effetti tutto, in questo stanzone, parla di un abbandono che a colpo d’occhio risale a molti anni fa, anche se io lo noto soltanto ora. L’immagine di Hirano Ryumei intento a riscaldare la zuppa Muso Production assume i contorni irreali di un sogno.
“Guardi un po’,” si riscuote Namino, con quell’entusiasmo limpido che talvolta le sfugge, riportandola ai tempi di una gioventù meno rigida. “Il signor direttore sta uscendo proprio adesso. Se desidera conferire…”
Volto l’occhio nella direzione indicata e dalla prima stanza a sinistra vedo uscire un tizio che ho intravisto altre volte: tondo come il Buddha che ride, con l’unica differenza che questo non ride mai ed è perennemente smanioso e trasudante, con le ascelle chiazzate e il fiato corto. Più o meno la versione in colletto bianco di Muso.
Per la seconda volta in tutta questa vicenda, mi trovo a formulare la stessa domanda:
Quello è Hirano Ryumei?”
La signora Namino s’inchina compiacente, non so se a me o al suo diretto superiore. Sospetto un malinteso dovuto alla mia incapacità di esprimermi in un giapponese corretto. “Dev’esserci un equivoco,” provo a insinuare.
“Niente affatto, signore. Quello è il dottor Nishimura, direttore del personale,” ribadisce la mia interlocutrice, e di nuovo s’inchina. Malgrado la distanza dal Buddha che non ride sia di alcuni metri, riesco a percepire tutta la soggezione che Namino prova nei suoi confronti.
Incredulo, torno nell’ufficio dove con i miei occhi ho visto Hirano Ryumei entrare, strapparmi dalla mano la foto dei suoi, accendere il computer e iniziare a lavorare. Fino a ieri il cestino in cui ho trovato i pezzi del monaco Jizo era pieno di vecchi fax e cartacce, mentre ora è vuoto e sul fondo si annida uno strato di polvere. D’un tratto mi domando a quanti anni addietro risalivano quei fax, ammesso di averli visti e svuotati sul serio.
Eppure sulla porta c’è una vecchia targhetta che Namino conferma: c’è scritto proprio direttore del personale. “Ma era quello di prima. Non è più con noi da molto tempo.”
Namino mi fa cenno, mi accompagna in un angolo così in ombra che fino ad ora non vi avevo mai fatto caso. Appesa al muro, una fototessera naviga in una cornice troppo grande. “Il direttore generale desidera conservarla in ricordo del suo dipendente. O forse per timore di lui,” si lascia sfuggire Namino.
Contemplo stupefatto il profilo limato, il pallore accentuato dallo scatto in bianco e nero, quello sguardo distante che mi è così familiare. 
“È stato il nostro primo direttore del personale,” osserva Namino, e mi accorgo che sta misurando le parole come se qualcun altro, oltre a me, fosse in ascolto. “Era molto giovane, molto dotato,” aggiunge alzando leggermente la voce, per farsi meglio udire da quel qualcuno. “L’azienda ha perduto molto, a causa della sua scomparsa.”
La piccola foto è incastrata un po’ storta nel supporto di sughero della cornice.
Almeno un dito di patina rende i lineamenti di Hirano Ryumei ancora più evanescenti. Sotto alla cornice, un crisantemo bianco è affisso con una semplice puntina da disegno.
Dopo avere richiuso la stanza con cautela, Namino mi rivela qualche cosa di più. Prima si volta indietro un paio di volte, come per il timore di essere inseguita da orecchi indiscreti: “È un fatto che risale a parecchi anni fa. A quel tempo ero appena arrivata in azienda e l’ho sentito raccontare dai colleghi più anziani. Pare che abbia perso l’unico figlio in un incidente. Il giovane Ryumei-san, intendo. C’era lui, alla guida dell’auto. La moglie ce la fece appena a salvarsi, dopo di che chiese il divorzio. Fu allora che il direttore generale propose a Hirano Ryumei di aprire una filiale in California. Per aiutarlo a rimettersi in carreggiata, immagino.”
 Namino si passa una mano tra i capelli, li avvolge una volta di più attorno a una matita che regge quella matassa lustra come una conocchia. “La sera stessa, Ryumei-san si è gettato dalla terrazza dell’ultimo piano.”
D’un tratto ho di fronte a me una visione: io e un uomo dal volto che mi ricorda Fumi, assorti a contemplare l’orizzonte di Tōkyō con in mano un bicchiere di minestra coi funghi e un sottofondo di note suonate al pianoforte.
“Molti dicono che la sofferenza di Ryumei-san abita ancora in quella stanza, e la riempie così tanto che se uno attraversa il corridoio e ha già cattivi pensieri per conto suo, può arrivare a sentirla. Naturalmente, queste sono solo impressioni,” aggiunge Namino, con un sorriso che vorrebbe essere rassicurante e invece è contraddetto dalle sue stesse parole. “All’epoca, l’azienda riuscì a gestire l’intera faccenda con il massimo riserbo, al punto che i più giovani non ne hanno mai sentito parlare. Da lì è nato un detto, non fare troppo rumore per non svegliare il morto. La maggior parte dei nuovi pensa che si tratti di una battuta inventata per convincerli a lavorare senza perdersi in chiacchiere. Gli anziani, invece, sanno che c’è del vero. Il giovane Ryumei-san era una persona molto nervosa, non tollerava il chiacchiericcio e i rumori. Neppure il suono dei campanellini che a quel tempo andavano di moda tra le ragazze.”
D’un tratto mi torna in mente la lettera di richiamo scritta per impedirmi di far suonare il furin durante le pulizie del mattino: in un orario in cui gli impiegati ancora non ci sono ma, a quanto pare, ci sono comunque i fantasmi.
Il grosso dottor Nishimura non credo mi abbia mai né visto né sentito, probabilmente non sa neppure che esisto, eppure quella lettera può averla scritta soltanto lui: accogliendo le lamentele di altri o mettendo per iscritto le proprie.
Oppure il signor Be ha voluto farmi uno scherzo, al momento di tradurre e anche quando il nostro misterioso avventore ha cominciato a frequentare il locale. Magari Be era convinto che fossi a conoscenza di questa leggenda urbana aziendale. L’altra alternativa, più folle, è che il richiamo provenga direttamente dall’altro mondo e dallo spirito insonne di Hirano Ryumei.
Non mi resta che percorrere quel breve tratto di pioggia che separa la Bio Nihon dal grumo di luce calda che è il locale di Muso, e acchiappare Be per la collottola per venire a sapere qualche cosa di più.
 
******
 
Al ristorante, Be cade dalle nuvole e la dentiera quasi gli sfugge dalla bocca mentre si affanna a frugare nelle tasche, in cerca di una strisciolina di pronto intervento. Gli mostro l’immagine, sgranata dall’eccessiva penombra, che ho scattato al ritratto di un Hirano Ryumei a dire il vero più giovane e meno spigoloso. Probabilmente la fototessera proviene da qualche annuario dei dipendenti. Il crisantemo sotto sembra una macchia sul muro, una sorta di ectoplasma: Ryumei-san che esce sotto forma di suffumigio dalla foto, come in certi trucchi di medium dell’Ottocento.  
Be alza le mani, invocando le innumerevoli divinità del Giappone a testimoni della sua assoluta innocenza. “Hirano Ryumei, direttore del personale”, conferma, scrivendo affannosamente sulla sua strisciolina. “Tu ancora non lavoravi qui, ma lui veniva spesso e portava con sé le carte e il portatile. Ricordo che ordinava e poi non mangiava niente, più o meno come adesso. Da un certo momento in poi non l’ho più visto e ho pensato che fosse stato trasferito. Quando ha cominciato a tornare, non ho notato proprio nulla di strano.”
“Neanch’io,” mi tocca ammettere. Quel senso di gelo che sembrava emanare dalla sua vicinanza era un fatto recente, una novità degli ultimi giorni. Come se Hirano Ryumei cominciasse a disfarsi per la seconda volta dopo la morte.   
“Di un suicidio alla Bio Nihon ho sentito parlare, ma non mi è sembrato il caso di domandare ai clienti,” aggiunge Be, pensieroso. Quanto al resto, il mio amico condivide lo stato d’animo dei vecchi impiegati, a metà tra l’ossequio e il timore dell’invisibile: “Da noi si dice che gli spiriti di coloro che sono trapassati in maniera violenta possono essere trattenuti su questa terra. A volte perché hanno ancora qualcosa da fare, terminare un lavoro, pagare un conto in sospeso, restituire un libro preso a prestito. Cose del genere. Ma più spesso è un dolore a impedirgli di lasciare questo mondo. Un dolore così forte che non può essere cancellato neppure dalla morte.”
Forse Hirano Ryumei è così attaccato ai suoi doveri da voler ritornare ogni giorno alla Bio Nihon, viaggiando dall’aldilà su qualche metropolitana di spettri. Se cercavo uno spunto per una nuova storia – quella famosa storia del crisantemo bianco – direi che sono a posto. Immagino che dopo l’ufficio e la cena da Muso, la buonanima di Ryumei-san si ritrovi a vagare fino al mattino sulle rive del grande fiume dei morti, lungo la spiaggia dove suo figlio costruisce interminabili castelli di sabbia.
D’un tratto mi torna in mente Jizo, la statuetta riparata di fresco, che ho qui con me ancora avvolta nella barriera corallina del furoshiki. Che ci faccio con Jizo? Mentre dico a me stesso che non è certo il caso di credere ai fantasmi, questa è l’unica cosa su cui non ho dubbi: che Hirano Ryumei sia di questo mondo o dell’altro, devo restituire il piccolo monaco al cimitero dei bambini di Komorebi.
 
******
 
A lungo, dopo quel giorno, mi sono chiesto se quella con Hirano Ryumei è stata un’esperienza reale o solo un’invenzione della mia mente, un modo per far rivivere Fumi nelle parole e nei gesti di un individuo in carne e ossa. Per quale ragione poi l’individuo in questione dovrebbe essere un dirigente d’azienda, per giunta suicida, e non una delle tante ragazze che s’incontrano nei kombini o sul bus, resta uno dei grandi misteri del mio inconscio.  
Forse tutto questo fa parte di una grande memoria collettiva, in cui siamo immersi senza saperlo. E se attraversassi tutti gli immensi quartieri di Tōkyō, i villaggi di periferia con i loro vicoli stretti, le distese delle risaie nelle campagne, forse ritroverei qualche cosa di Fumi nei gesti di chiunque.
Il signor Be, ovviamente, la vede alla sua maniera. A sentir lui, la tristezza dovuta alla perdita di Fumi avrebbe richiamato quello spirito solitario fuori dal suo sacello in fondo al corridoio, dove tra vecchie carte e fax mai spediti vegliava sugli umori degli impiegati, rendendoli se possibile ancora più tetri. O forse, più che l’odore del lutto, a fare uscire Dracula dalla sua cassapanca era stato il tintinnio del furin appeso al mio carrello, tra il mocio e gli stracci per le pulizie.
A me quelli di Be paiono discorsi da fattucchiere, o quanto meno trame più adatte a un manga horror. A ogni buon conto, ho rimesso mano al ritratto di Hirano Ryumei con il crisantemo bianco e sto lavorando alle tavole di una nuova storia, che non a caso ho intitolato “Il padiglione d’oro”.
Nel frattempo, al locale, quella sala arredata con poltroncine imbottite, cuscini e primavere sul monte Fuji è stata chiusa da Muso in via definitiva. Né io né il signor Be l’abbiamo consultato in merito alla vicenda di Hirano Ryumei, ma forse Muso sa già tutto per conto suo e com’è comprensibile non desidera stranezze nel suo ristorante, né tanto meno farsi una clientela nell’aldilà. Oppure ha davvero intenzione di ristrutturare quell’antro dove i boss della Bio Nihon bagordano allegramente senza far caso all’odore di polvere vecchia delle tappezzerie. Sta di fatto che i lavori, descritti con dovizia di particolari dal nostro boss, per una ragione o per l’altra non iniziano mai.
Proprio quando non ho nessun finale sottomano, Hirano Ryumei decide di fare un’ultima visita al padiglione. La sera potrebbe essere una replica della sua prima venuta, perché l’ora è quella del crepuscolo come allora. Stavolta però la quiete che cancella ogni rumore dalla strada di fronte, oltrepassa la soglia e arriva fin dietro al bancone, è dovuta a una diversa forma d’incanto: non il tramonto autunnale ma la neve che cade, diffondendo ovunque un senso felpato d’intimità.
Di nuovo la neve, come durante gli ultimi giorni di Fumi.
Stasera però non si tratta di una tormenta. Sono fiocchi che rimangono a lungo sospesi, gracili come pulviscolo. Li sgrana un cielo giallo che pare immobile, per quanto è silenzioso.    
Il signor Be e Muso sono assorti nella preparazione dei dorayaki. Lavorano senza fretta come se si trovassero nella cucina di casa loro, e in un certo senso è proprio così. Muso impasta e inforna a intervalli, il profumo che fa lievitare i panetti e si sprigiona intorno rende i suoi gesti più morbidi e accurati del solito. Accanto a lui, Be taglia a metà i dorayaki, farcisce col ripieno e richiude il tutto con garbo, per non scombussolare il dolcetto nel suo lento cammino per venire al mondo.
Quando Muso non vede, s’inebria dell’aroma di pane caldo annusando la polpa.
Io mi aggiro tra i tavoli con uno strofinaccio, per gli ultimi ritocchi prima dell’apertura serale. Di tanto in tanto Muso e Be ridono, si scambiano qualche battuta che ovviamente non afferro, perché continuo a non sapere niente di giapponese. Mi godo però quel clima di familiarità di cui mi sento partecipe per una volta tanto. Sarà la neve fuori, che avvolge tutto in un’atmosfera sospesa.
Forse stasera ci saranno pochi clienti, mi dico, e nel momento stesso in cui lo penso qualche cosa mi attira, mi spinge a buttare un’occhiata nel padiglione. È un moto spontaneo, come per controllare che anche in quella sala tutto sia in ordine malgrado la chiusura e le sedie a gambe all’aria sui tavoli.
La prima cosa che noto è una composizione di crisantemi bianchi posati non su un tavolo a caso, ma su quello abitualmente frequentato da Hirano Ryumei. Si tratta di fiori freschi, che probabilmente Muso ha acquistato per decorare il locale, salvo dimenticarli in quell’angolo. Sia io che il signor Be conosciamo molto bene la durata degli impulsi creativi di Muso, spesso non più longevi di un battito di ciglia.
Mi volto in ogni caso per fare un cenno al bancone ed è a quel punto che, alzando lo sguardo, m’imbatto nella figura di Hirano Ryumei, che si materializza come se, fino a un attimo prima, fosse stato parte dell’ombra.
La sua sagoma è quasi sul punto di dissolversi, e forse proprio per questo nei tratti del suo volto si legge un certo sollievo. Non ha smarrito il suo rigore consueto, eppure dinanzi a me s’inchina con gentilezza. Coglie un fiore dalla composizione che a questo punto dubito sia stata portata qui da Muso, e me lo porge con un sorriso. Continuando a inchinarsi, si ritira in quel lembo di oscurità indefinita da cui era uscito solo un attimo prima.
Dopo di che il padiglione ritorna alla sua apparenza consueta e anche quel bagliore, come di fuoco fatuo, che scaturiva dal corpo di Hirano Ryumei svanisce, questa volta per sempre.
Mi precipito nell’angolo dove c’è il quadro elettrico, voglio accendere tutte le luci nella sala come ai tempi in cui Hirano Ryumei cenava qui, e chissà se ricreando lo stesso ambiente accogliente potrò ritrovarlo come per magia seduto al solito tavolo. Ovviamente, nella foga mi sbaglio sicché spengo i neon, le lampade, gli elettrodomestici e nel locale si fa il buio più completo. L’unica fonte di chiarore proviene dalla porta d’ingresso, dove la neve continua a scendere sempre più fitta e fosforescente. È là che mi dirigo mentre Muso protesta, la zucca del signor Be va a cozzare da qualche parte, un paio di sedie si ribaltano nel tentativo dei miei soci di raggiungere gli interruttori e tornare a vederci a più di un palmo dal naso.
Sulla soglia del ristorante, a parte il grosso gatto portafortuna con la zampetta alzata per richiamare i clienti e la buona fortuna, non c’è proprio nessuno. Solo la neve intenta a ricoprire le strade con pazienza, qualche ombrello a capo chino che attraversa un orizzonte senza rumore. 
È allora che ricordo che il crisantemo bianco, nella simbologia di qui, non rappresenta solo il dolore e la perdita, ma racchiude in sé anche il significato dell’amicizia. È il dono che si offre per celebrare un legame prezioso, capace di risanare le ferite più profonde come un’attenta opera di kintsugi. Inevitabilmente, mi torna alla mente Jizo, che nella solitudine del piccolo cimitero di Komorebi sfoggia ora una nuova mantellina di lana, per proteggere le crepe rinsaldate dall’oro ma anche – immagino io – per accogliere al caldo il figlio di Hirano Ryumei.
Deve fare molto freddo su quella spiaggia. Quasi come in quel fazzoletto di sabbia dietro alla casa della Momoko-san, dove continuo a recarmi nel tempo libero e dove ho completato anche le tavole di questa nuova storia.
Il giorno in cui mi sono arrampicato di nuovo su per la montagna, fino al fienile che ospita la Natsukashii edizioni, sono riuscito a ottenere dalla signorina Nakamura addirittura una confidenza. Il racconto di una stranezza, come l’ha definito lei. In pratica, il giorno in cui aveva ricevuto la chiamata di quel fantomatico sponsor che mi aveva proposto per la pubblicazione, le era sembrato di riconoscere la voce del vecchio direttore del personale della Bio Nihon, Hirano Ryumei-san. “Le confesso che nel risentire quel tono, la cadenza che mi era così familiare, ho provato una fortissima impressione. Ryumei-san era uno dei nostri maggiori sponsor per quanto riguardava le collane dedicate ai bambini e la distribuzione gratuita nei reparti di pediatria. Ammetto di non aver voluto indagare oltre. Dopo quell’episodio, l’ho subito contattata per onorare la memoria del nostro benefattore.”
In questa sera di neve, mentre alle mie spalle tornano ad accendersi le luci del ristorante, la quiete è così assoluta e perfetta che si potrebbe sentir cadere uno spillo. Eppure, a un certo punto, mi pare di udire un tintinnio in lontananza, qualcosa come la risata di un bambino condotto per mano da qualcuno che lo protegge e lo ama. Forse è il tasto di un pianoforte sfiorato da uno studente che deve imparare il Mononoke Hime, La principessa fantasma, per un esame. 
O forse si tratta solo del suono di un furin che canta nel vento.

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