Ballata estiva della West Coast

di AlessiaDettaAlex
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sotto lo stesso cielo ***
Capitolo 2: *** Ritornare per rimanere ***
Capitolo 3: *** La lunga strada ***
Capitolo 4: *** Accelerazione ***
Capitolo 5: *** Il significato nuovo ***
Capitolo 6: *** Il velo dell'incomunicabile ***
Capitolo 7: *** Accettare un rischio non calcolato ***
Capitolo 8: *** Passo a due ***
Capitolo 9: *** Rallentare ***
Capitolo 10: *** Un altro giorno di sole ***



Capitolo 1
*** Sotto lo stesso cielo ***


1. Sotto lo stesso cielo
 
Where are you now?
Was it all in my fantasy?
Where are you now?
Were you only immaginary?
 
“Faded”, Alan Walker
 
La superficie dell’oceano si ruppe con un fragore quando Kanan riemerse insieme alla sua collega e amica Nicole. Il solleone di luglio batteva i suoi riflessi sulle increspature dell’acqua e sulle tute bagnate delle due ragazze.
Nicole raggiunse la spiaggia per prima, ridendo a crepapelle, e afferrato l’asciugamano se lo passò tra i capelli zuppi; poi lo lanciò verso Kanan, che lo prese al volo.
«Vedo che nonostante gli anni ancora non ti sei stufata di fare scherzi idioti sott’acqua!» ironizzò Kanan tamponandosi la faccia, «a volte mi domando come tu faccia a farti rispettare durante i corsi»
Nicole si liberò della sua attrezzatura, le spalle ancora scosse dalle risate.
«Merito della mia assistente straniera affascinante!»
Kanan rispose ruotando gli occhi e accompagnò il gesto con uno sbuffo. Entrò nello spogliatoio anche lei, e quando ne uscì scrocchiò le spalle con due decisi movimenti delle scapole. Attese l’amica accanto alla porta.
«Sei insopportabile, Nicole»
«Lo so che mi vuoi bene, tesoro» rispose lei schiavando la porta con un gesto secco e facendosi strada verso l’uscita, «che ne dici se domani sera andiamo a prenderci una birra?»
Kanan gettò un rapido sguardo al cielo azzurro, tersissimo, che le sovrastava.
«Andata».
Da quando aveva lasciato il Giappone per la California, ormai tre anni prima, non si era ancora liberata dell’abitudine di alzare gli occhi verso il cielo ogni qual volta ne avesse l’occasione. Era un modo per sentirsi meno sola: «saremo sotto lo stesso cielo», si erano dette lei, Mari e Dia prima di lasciarsi definitivamente. Per i primi tempi si erano tenute di gran conto, scrivendosi al massimo a cadenza settimanale: ma i rispettivi impegni le avevano presto assorbite, riducendo all’osso i momenti di conversazione. Soprattutto da quando Kanan aveva accettato il lavoro offertole al Centro Immersioni di Santa Monica, dove aveva conseguito il brevetto professionale. Per il momento non era un gran lavorone, per lo più seguiva Nicole nelle sue lezioni e le faceva da assistente: qualche dimostrazione pratica, trasporto materiali. Ad insegnare e guidare sott’acqua clienti era abituata sin da giovane: ma tenere un corso regolare di sub era tutta un’altra storia.
Rientrò nel suo bilocale in affitto a Culver City e le venne spontaneo gettare uno sguardo su una foto delle Aqours posta accanto al letto, affiancata a una con suo nonno fatta al negozio. Si sedette sul materasso, indugiando per un paio di secondi sul rimbalzo confortevole che le preannunciava il momento del riposo. Lo sguardo scese dalle cornici al cassetto del comodino. Il vagare del pensiero aveva deciso di prendersi i suoi propri spazi e questo la innervosì; con le dita irrigidite fece quindi per aprire il cassettino, ma si trattenne un attimo sul pomello arrugginito; poi cedette. Una confusione di carte e buste da lettere ne fece capolino; Kanan estrasse quella in cima: la lettera portava un indirizzo italiano, la aprì: il testo si snodava su una carta caffelatte, pseudo-pergamenacea, con motivi floreali tutt’intorno e persino dei ghirigori dorati che - Kanan poteva ben intuire - avrebbero rivaleggiato con un invito nuziale. E tuttavia era l’invito a una laurea. Tipico di Mari: di un barocco tendente al kitsch.
La proposta era stata già declinata, con una onesta giustificazione lavorativa. Gli occhi rimbalzarono più volte sulla firma, il petto le si strinse in un moto di disagio. Quando richiuse la lettera e la adagiò senza imbustarla sopra il mobile, il disagio si trasformò in vuoto soffocante; e poté giurare che, a unirsi all’infelice impasto di emozioni, fosse arrivato anche il rimpianto. O era rimorso? Kanan non lo sapeva, ma sapeva che era una costante nella sua vita: il lacerante sentimento del non risolto.
 
La neolaureata correva al di sotto del tunnel umano degli amici in festa, alla cui fine l’aspettava la corona d’alloro che uno dei ragazzi le avrebbe posto sulla testa; gli amici cantavano a una voce stornelli goliardi della più antica tradizione bolognese. Il volto di Mari era illuminato di una spensieratezza che agli altri pareva sempre adolescenziale. La corona d’alloro, foglie verdi brillanti adornate da boccioli gialli – il colore tematico della facoltà di Economia secondo la scuola bolognese – venne adagiata sui suoi capelli dal vecchio amico e collega Leonardo. I compagni storici dei suoi ultimi tre anni le si strinsero intorno con pasticcini e bottiglie di prosecco.
Tra i tanti ospiti, uno d’onore: Dia. E una grande assente: Kanan. Non poteva certo dire che non se l’aspettasse, ma le era sembrato comunque che le venisse strappato il cuore dal petto; i commenti pungenti di Dia in proposito erano la cosa più vicina a una gradita consolazione, e Mari non mancò di ringraziare che lei ci fosse.
Dia, dal canto suo, guardava Mari e i suoi colleghi italiani con uno stupore misto a terrore: i ragazzi del suo gruppo sembravano una mandria di cavalli imbizzarriti, correvano qua e là con bicchieri colmi di prosecco appena stappato e urlavano alla stregua di scimmie. Non faceva fatica a capire perché la sua storica amica si fosse trovata così bene in Italia, se questa indecenza delle maniere era il tenore generale della vita nel Bel Paese. Un po’ come ritrovarsi cinque o sei Mari tutte insieme nello stesso posto: e l’associazione la fece subito rabbrividire.
«So… you are… a japanese friend of Mari?» partì un ragazzo piuttosto bassino, considerata la media, in un inglese pronunciato grossolanamente.
«Yes, my name is Dia, it’s a pleasure to meet you» replicò lei con più sicurezza e un mezzo inchino.
Tra i Kurosawa la consapevolezza dell’importanza dell’inglese non era mai mancata, e lo studio della lingua era curato già a partire dall’ambito familiare.
Gli amici di Mari erano forse meno accorti, ma non mancavano di voglia di chiacchierare e imparare; una volta rotto il ghiaccio, infatti, un crocchietto di gente si era subito formato intorno a Dia, ed era presieduto ora da Mari, che coadiuvava la traduzione per entrambe le parti in caso di problemi di comprensione. In poche battute si era subito tornati all’argomento-evento del giorno.
«Finalmente avrò alcuni mesi liberi! Non vedo l’ora di partire in vacanza e non fare assolutamente niente prima della magistrale»
«Tornerai in Giappone quest’estate?» le chiese Marianna, collega e fedele compagna di pazzie.
«No, credo seguirò i miei nel loro prossimo viaggio di lavoro»
Un coretto di esclamazioni stupite si levarono dalla bocca di tutti, in almeno tre lingue diverse.
«E dove?» incalzò Marianna.
Mari si lasciò andare a un sorriso furbetto.
«Los Angeles, my dears
Stavolta l’aria si riempì principalmente di slang dialettali quali «no, che figata assurda!» «socc’mel!» e «bazza storica! Che fortuna che hai».
Ma gli occhi di Dia, invece, cercarono insistentemente quelli dell’amica di sempre; trovati, cercò di sondarne i pensieri. Non che ci volesse una giustificazione specifica per voler andare a trovare un’amica che non si vede da tanto. Solo, le veniva spontaneo chiedersi che intenzioni avesse stavolta Mari, se andasse da Kanan in pace o in guerra, e se toccasse in qualche modo a lei far loro da babysitter anche stavolta.
Da Mari però ricevette solo un occhiolino e un sorriso sornione, di quelli che lei usava per mettere sotto chiave il cuore in modo che non ne trasparisse mai la nostalgia. Nient’altro.



 
Note finali
Benvenuti! Sono veramente fiera, dopo due anni di gestazione, di potervi sbattere impunemente addosso le mie fantasticherie! Spero siano una piacevole lettura!

Info di servizio: diversamente dal mio solito, nelle note finali di questi dieci capitoli cercherò sempre di essere stringatissima. Un po' perché voglio lasciar spazio alla storia in sé, un po' perché ci sarà tanto da dire dopo l'ultimo capitolo, in cui ringrazierò e ciarlerò un po' su com'è nata la storia.
I 10 capitoli sono tutti a rating verde: il giallo vale solo una quindicina di righe nel capitolo 8.
Importante: la pubblicazione avverrà con un capitolo ogni 10 giorni, regolarissima, in modo che in 100 giorni tondi tondi si finisca e io possa memarci su: che i 100 giorni della Ballata comincino!
Prossima pubblicazione: 22 settembre!

Grazie di aver letto!
Alex

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Capitolo 2
*** Ritornare per rimanere ***


2. Ritornare per rimanere
 
Oh I swear to you, I'll be there for you
This is not a drive by

 
“Drive By”, Train
 
Dalla poltroncina del suo jet privato, Mari guardava fuori dal finestrino ovale: muoveva impercettibilmente la testa a ritmo della canzone che stava ascoltando, ed era totalmente immersa nella felice corrispondenza tra il ritmo vivace nelle sue orecchie e la costa radiosa della California meridionale davanti ai suoi occhi. Alla sua destra i genitori scorrevano grafici statistici su un iPad che sembrava aver affrontato vittoriosamente numerose cadute, a ricordo delle quali rimanevano graffi visibili come cicatrici di guerra. La madre teneva stretto sulla sinistra un bicchiere di cristallo con un non meglio identificato alcolico bianco e frizzante.
Quando il pilota avvertì la famiglia Ohara dell’inizio della manovra di atterraggio, Mari si tolse le cuffiette e tornò consapevole dell’ambiente che la circondava.
«Mari, ben ritrovata tra noi» iniziò soavemente sua madre, «quando arriveremo potrai fare quel che vuoi: una dormita, una doccia, un giro in città o anche andare al mare… ma tieni presente che dovrai anche rimanere disponibile per aiutarci a lavoro»
«Mamma, dai… mi sono laureata solo qualche giorno fa, col massimo dei voti e al primo appello disponibile. Potreste lasciarmi questa vacanza»
«Certo tesoro, ma fare vacanza tutto il giorno tutti i giorni rammollisce lo spirito» attestò la donna ammorbidendo il tono, «e poi non potresti trovare opportunità migliore di questa per un tirocinio!»
Mari sospirò rassegnata. «È da quando sono nata che faccio questo tirocinio» avrebbe voluto replicare, ma valutò di rimanere zitta, perché non intervenisse anche suo padre. Gli Ohara possedevano un cinque stelle a Downtown, il cuore finanziario della metropoli di Los Angeles. Era probabilmente uno degli stabilimenti più redditizi e costosi sotto la loro direzione, e durante i mesi estivi una sala meeting avrebbe subito un’importante opera di ristrutturazione d’urgenza: la loro presenza era stata caldamente richiesta dal direttore.
Ma questi erano problemi di Mr. e Mrs. Ohara. Per lei, la giovane ereditiera, il corso di laurea magistrale in Business and administration a Bologna sarebbe cominciato a ottobre: di certo non aveva intenzione di passare i pochi mesi post laurea sempre al lavoro; per quello ci sarebbe stato tempo. D’altra parte aveva approfittato del passaggio negli Stati Uniti per ben altro motivo.
Qualche ora più tardi, davanti alle porte di vetro decorate d’argento dell’hotel, le fu assegnato un autista di fiducia che l’avrebbe accompagnata liberamente per la città durante tutta la sua permanenza. Zachary era un uomo sulla sessantina, alle dipendenze degli Ohara da praticamente quarant’anni, nato e cresciuto a Los Angeles: californiano di terza generazione, nipote di immigrati dell'Est Europa. Conosceva tutti i distretti cittadini come i cassetti di casa sua, sempre obbediente e disponibile, un uomo di bell’aspetto nonostante l’età; i capelli grigi curatissimi gli si attorcigliavano con naturalezza sulla fronte appena rugata: non se li faceva mai toccare da nessuno che non fosse sua moglie, tanto che girava voce che in realtà fosse una parrucca fatta molto bene.
Mari provò da subito una simpatia infantile per lui: c’era qualcosa in Zachary che le ricordava l’affabile e affettuoso nonno di Kanan, con cui praticamente era cresciuta. Dopo una dormita che sfiorava le quattordici ore causa jet lag, e alcune superflue raccomandazioni da parte di sua madre, poté finalmente saltare in macchina con lui.
«Dove la porto, Miss Mari?»
Pronunciava il suo nome tutto attaccato al titolo di cortesia, e con forte accento anglofono; di conseguenza suonava sempre un po’ come mismèri.
«Zachary, conosci il Centro Immersioni che sta a Santa Monica?» sorrise la ragazza fissandosi la cintura di sicurezza al lato.
L’uomo la guardò stupito.
«Vuole già fare qualche esplorazione subacquea, Miss? Non desidera prima visitare un po’ la città?»
«No, non proprio. Cerco un’amica che lavora lì».
 
I raggi del sole rimbalzavano sugli orecchini d’argento di Nicole a ogni suo movimento; Kanan notò che qualche suo allievo seguiva distratto quel luccichio come una falena attratta dalla lampadina. Era una giornata languida, una specie di noia soffocante sembrava vincere su tutto e non lasciava in pace né studenti né insegnanti. L’afa pareva visibile a occhio nudo. Anche Kanan guardava gli orecchini di Nicole: non se li toglieva nemmeno quando entrava in acqua, perché tanto «l’argento non si rovina mica». Pensò dovessero essere un regalo del suo ragazzo, visto che li aveva sempre addosso; non glielo aveva mai chiesto, chissà perché… uno sbadiglio tradì la sua distrazione.
«Miss Matsuura, mi andresti a prendere i moduli dell’informativa da firmare di là, per cortesia?»
Kanan si alzò subito in piedi, sebbene si sentisse ancora pesantissima. Il suo cognome e quel registro formale in bocca a una come lei le fecero storcere il naso d’istinto, ma annuì in fretta per salvare le apparenze; una Nicole infastidita era una Nicole da assecondare. Pensò inoltre che poteva usare la scusa per stirare le gambe e rinfrescarsi il viso.
Il Centro Immersioni era un posto dei più trafficati durante l’estate: clienti occasionali, corsisti, turisti con pacchetti da viaggio comprensivi di gite subacquee da sogno si mescolavano con lo staff in continuazione. Quel giorno il flusso sembrava essersi leggermente ridotto, segno ulteriore dell’eccezionale pigrizia che era scesa sulla California a grandi ondate di calore. La confusione che aveva nella testa era tale che le sembrò di sentire chiamato il suo cognome: si girò, ma tra la gente che camminava non le parve di notare nessuno che si rivolgesse a lei. Riprese a fare qualche passo, ma la voce insistette, stavolta a una distanza molto minore.
«Matsuura? Tutto bene?»
Scattò sul posto, colta di sorpresa: si voltò e vide che si trattava di uno degli uomini che lavorava alla portineria; fece d’impulso un inchino che nella sua testa era un incrocio tra un saluto e una richiesta di perdono.
«Scusami, non ti avevo notato!»
«Nessun problema! Pensavo avessi lezione con James adesso, per fortuna ti ho vista passare!» Kanan non ebbe la forza di rispondere che sì, lezione con Nicole James l’aveva davvero, ma era stata più o meno esplicitamente cacciata fuori come una studentella svogliata qualunque, «c’è una ragazza all’ingresso che cercava di te. Non le ho chiesto il nome ma dai lineamenti credo sia delle tue parti»
L’attenzione di Kanan s’impennò improvvisamente. Da quel che ricordava non aspettava visite dal Giappone; le prime persone a venirle in mente furono You o Chika: ma un viaggio del genere senza dir nulla le sembrò un azzardo perfino per loro. Dia avrebbe certamente avvertito, se non altro per eccessiva scrupolosità. Non le rimaneva che un’ultima probabile opzione.
«Grazie, vado subito!»
Prima di rendersene conto aveva accelerato il passo fino a correre: in quella languida giornata di luglio per la prima volta non avvertiva più il peso della gravità. Rallentò in prossimità del portone, fino a fermarvisi davanti: e solo dopo aver fatto un respiro più lento proseguì oltre.
«Konnichiwa, Kanan!»
La sua supposizione era esatta. Seduta su una panchina di ferro sul marciapiede stava Mari, coi capelli inusualmente legati in una coda alta.
«Che ci fai tu qui?»
Kanan ascoltò il suono della sua stessa voce e notò come ne trasparisse più felicità che stupore; rimase ferma sulla soglia, con una mano che stringeva gli infissi come se le servissero per non spiccare il volo.
«Sono venuta a reclamare di persona i miei auguri di laurea con l’unica invitata che era assente quel giorno, naturalmente!» la provocò Mari incrociando le braccia e alzando un sopracciglio.
«Quel video d’auguri imbarazzante che ti ho inviato in chat non è bastato per scusarmi, quindi?»
Pregò che la voce smettesse di tremarle fastidiosamente dall’emozione.
«Eri in ritardo, l’hai inviato all’una di notte»
«Ma qui erano le quattro, Mari»
L’amica voltò lo sguardo da un’altra parte, nascondendosi la bocca tra le dita della mano, ma non riuscì a impedirsi di scoppiare a ridere; subito si unì anche Kanan, che non vedeva l’ora di liberarsi della tensione accumulata nel giro di qualche battuta di dialogo. Ripreso il fiato, fece un passo in avanti verso di lei, lasciando l’appoggio sicuro del portone.
«Che tu ci creda o no, sto facendo fatica a trovare le parole in giapponese»
Mari si alzò in piedi.
«Questa non mi sembra una novità...»
Roteò gli occhi in risposta e l’altra la guardò col suo caratteristico sorriso giocoso. Il breve silenzio che seguì non fu spiacevole per nessuna delle due, tuttavia Kanan si risolse a tirar fuori la domanda che sentiva gravarle sulle spalle dall’inizio della conversazione.
«Fino a quando resti qui?» e si fece un altro po’ verso l’amica.
«Quanto vuoi, se stavi lavorando ti posso aspettare, tanto ho l’autista privato!»
«No, intendo… qui, in California»
Finalmente anche Mari fece il suo passo in avanti, con le mani incrociate dietro la schiena e un piglio di serietà che sostituì la voglia di scherzare.
«Settembre, probabilmente. Non sarà una toccata e fuga»
Un sorriso nuovo fiorì sul volto di Kanan, non previsto.
«Quindi rimani»
«Rimango»
«E staremo insieme»
«Of course, sono venuta per stressarti, Kanan!»
Quando ancora stava finendo di pronunciare il suo nome, si slanciò verso Mari per rinchiuderla in un abbraccio: quanto a lungo l’aveva atteso! La foga le fece sbilanciare un poco, ma una volta ripreso l’equilibrio, ancora ridendo, la guancia di Mari si poggiò sulla sua spalla: e stettero semplicemente così, più a lungo di quanto la loro riservatezza suggerisse. E sebbene questo fosse un rimpatrio tanto sperato, pure si resero conto che evidenziava quanto le aveva ferite quella mancanza che entrambe si portavano dentro da troppo tempo.

 


 
Note finali
Big rip per Nicole che nel frattempo aspettava Kanan tornare con i fogli che le aveva chiesto. Sì: me ne ero dimenticata anche io mentre scrivevo, figuratevi lei

Prossimo aggiornamento: 2 ottobre!

Grazie di aver letto!
Alex

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Capitolo 3
*** La lunga strada ***


3. La lunga strada
 
Tell me, tell me if you love me or not, love me or not, love me or not,
I'll bet the house on you, am I lucky or not, lucky or not, lucky or not?

[...]
Tryna do what lovers do

 
“What Lovers Do”, Maroon 5 ft. SZA
 
Non appena il responsabile di progetto finì di pronunciare le parole «per oggi è tutto», Mari saltò in piedi e salutò con anche troppa veemenza gli astanti in riunione. Nonostante i tentativi di richiamo di sua madre, era assolutamente decisa a non rimanere un minuto di più.
Salutò i portinai dell’hotel mentre correva verso il buon Zachary, che stava in piedi accanto alla porta a vetri in atteggiamento di attesa.
«Miss Mari»
«Zachary, è bello rivederti!»
«Anche per me, Miss!»
Uscirono insieme e si diressero verso l’auto. L’uomo le aprì la portiera posteriore. Avviò il motore e prima di partire lanciò un’occhiata alla ragazza dallo specchietto retrovisore: era appena entrata in macchina ma il suo sguardo già strabordava dal finestrino. Non avevano bisogno di dirsi nient’altro, Zachary sapeva già bene la destinazione: il quartiere di Los Feliz e poi Hollywood, dove lei e le sue amiche si sarebbero fatte un giro insieme. Fermo nel traffico, abbassò il finestrino e si accese un sigaro; era un vizio che aveva preso negli ultimi anni, nonostante il biasimo mostrato dalla signora Ohara. Ogni tanto condivideva questa pausa fumo anche con il signor Ohara, che non era certo un assiduo fumatore, ma pur sempre bendisposto a passare una mezz’ora di relax in compagnia di un vecchio amico, prima ancora che dipendente. A Mari decisamente non importava: Zachary era sempre molto discreto e attento nell’esercizio della sua passione, e sul lavoro prendeva iniziative personali solo se era sicuro del benestare dei superiori.
«Questa sera serve che io rimanga ad attenderla, Miss Mari?»
«Non preoccuparti, potrei far tardi… prenderò un taxi, dì pure ai miei che è stato un mio desiderio e che hai provato a fermarmi»
L’uomo rise emettendo dei suoni gutturali. Immaginava già che avrebbe risposto così: il caratterino di quella ragazza lo incuriosiva parecchio, soprattutto quando a causa di ciò i signori Ohara smettevano di occuparsi di facile business per concentrarsi sulle loro complicate dinamiche familiari: e Zachary vedeva bene come entrambe le parti in gioco avessero bisogno di comunicare di più per comprendersi al meglio; una lunga strada da percorrere. Spense il sigaro sul posacenere semivuoto davanti al freno a mano.
Il cielo era di un azzurro vibrante, non c’era nemmeno una nuvola; il clima era afoso, come d’altronde ogni giorno nelle due settimane precedenti, ma avevano optato per lasciare il mare a giornate meno stancanti. Paradossalmente, poi, Kanan e Nicole passavano in spiaggia la maggior parte del loro tempo già per lavoro, quindi un giro in città era sembrata una buona alternativa per godersi il giorno libero. Nel giro di un’oretta, Mari le raggiunse in un bar a consumare un panino veloce per pranzo. Le tre ragazze parlottavano a voce alta, tra un morso e l’altro, raccontandosi dei propri viaggi: Mari propose qualche aneddoto divertente della vita in Italia, accompagnandolo a corposa gesticolazione - probabilmente affinata grazie agli amici autoctoni - cosa che a Nicole causò crisi di riso e sputacchiate incontrollate di pane. Da parte sua, l’istruttrice parlò a lungo della sua precedente vita sulla East Coast, nello Stato della Florida, e del perché avesse deciso di trasferirsi sull’altro oceano.
Kanan, più che altro, ascoltava: la testa appoggiata al palmo della mano e un lieve sorriso di soddisfazione per averle fatte conoscere; sin dal loro primo incontro, solo una settimana prima, era chiaro infatti che le due si erano davvero trovate. Prese com’erano, quando uscirono dal bar stavano ancora disquisendo della piaga degli uragani stagionali in Florida, argomento che a tutti gli effetti a Kanan sembrò un’evoluzione delle chiacchiere sul tempo; guardava Mari seguire il discorso con attenzione, annuendo di quando in quando e commentando con la solita esuberanza.
«…dopodiché ho fatto le valigie, guardato in faccia mia zia e le ho detto: “vado in California, preferisco i terremoti”. Lei mi ha dato la sua benedizione e mi ha lasciata andare. Capitemi, non volevo più assistere a un allagamento in vita mia. Ironia della sorte, però, ora lavoro sott’acqua»
Arrivati a questo punto, Kanan si sentì in dovere morale di intervenire.
«La California brucia tutti gli anni, regolarmente, a causa degli incendi … non puoi fare il confronto coi terremoti, non c’entra niente. Vivi qui da quasi dieci anni, devo dirtele io queste cose?»
«Siamo a L.A., mica in mezzo a una foresta. Qui non ho la percezione del pericolo… a parte quello provocato dalla visione del traffico sulla Freeway 101… ma poi per te è facile liquidare i terremoti, vieni da un posto in cui sono la norma e siete abituati agli scossoni delle faglie a subduzione!»
Kanan le rivolse un sorrisetto provocatorio.
«Oh, quindi sei anche un’esperta geologa, Nicole»
«Mamma Wikipedia e papà Google sono degli ottimi insegnanti»
«Immagino non si possa fare altrimenti col sistema scolastico che avete negli Stati Uniti»
«Touché! Non posso contraddirti, ma nulla mi impedisce di non offrirti una birra la prossima volta che usciamo, piccola assistente irrispettosa che non sei altro!»
Lo scoppiare della risata di Mari pose fine al battibecco, e presto fu seguita da quella delle altre due.
«C’è da dire che Nicole mi sostituisce veramente bene!»
Kanan si strofinò le tempie coi polpastrelli, ponderando una per una tutte le implicazioni di quella funesta affermazione.
«Se intendi che ovunque vado finisco per accollarmi i casi umani, hai ragione»
«Casi umani proprio come te» puntualizzò Nicole, «piuttosto, domani ricordati di venire a lavoro mezz’ora prima che dobbiamo sistemare dei documenti»
«Sissignora»
Mari guardò la più grande con un dispiacere evidente disegnato sul volto.
«Stai andando già via, Nicole?»
Lei diede uno strattone alle spalline dello zainetto che teneva appeso sulla destra, rivolgendole un sorriso spontaneo.
«Mi faceva davvero piacere stare con voi ancora, ma Samuel mi ha prenotata per il resto della giornata! Magari la prossima volta lo convinco a uscire con noi»
Kanan incrociò le braccia al petto e si lasciò sfuggire un verso bonariamente scettico.
«Samuel che ti condivide? Stiamo parlando della stessa persona?»
Nicole aprì la bocca con l’intento di difendere il suo ragazzo, ma le riuscì solo di confermare quanto già insinuato.
«Gli lascerò ancora una volta il beneficio del dubbio!» rispose alla fine, lasciandosi andare a una leggera risata, «alla prossima, belle!» e salutò con il braccio a mezz’aria.
Kanan e Mari, rimaste sole, si scambiarono un sorriso; poi Mari le si fece un passo più vicina.
«E noi cosa facciamo, invece?»
«Beh, il programma che avevo in mente è ancora lungo» disse Kanan infilando le mani nelle tasche degli shorts, «iniziamo da una passeggiata cliché a Hollywood Boulevard?»
«Mi sembra perfetto».
 
Una leggera foschia pomeridiana si alzava dall’asfalto bollente, tutto mangiato dalle auto in corsa. Le cime delle palme ondeggiavano, e sotto di esse si affrettavano instancabili losangelini e lenti turisti di ogni lingua e provenienza; le due ragazze proseguivano con un passo leggermente più rilassato della media, come quello di chi si prende il tempo per leggere tutti i nomi, uno per uno, delle celebrità rappresentate in ciascuna stella della Walk of Fame. Mari sembrava aver reso una questione di vita o di morte mettere i piedi solo ed esclusivamente sopra le stelle, azione che compiva con passi lenti ed esageratamente lunghi, come quelli dei bambini. Kanan la seguiva con la pazienza di un genitore, in silenzio: e il silenzio era forse la cosa che preferiva del rapporto con Mari; quando lei aveva voglia di chiacchierare non ce n’era per nessuno, ma allo stesso tempo non sentiva alcun bisogno di riempire il silenzio ad ogni costo. Era uno dei tanti motivi per cui attendeva sempre con impazienza di passare dei momenti da sola con lei: per loro due, spesso, era sufficiente la semplice condivisione di tempo e spazio.
Non avevano nessuna fretta: salutavano i teatranti in strada mascherati da supereroi e si concedevano un ballo improvvisato, a ritmo di una hit estiva che proveniva dagli altoparlanti esterni di qualche negozio; le vetrine di Hollywood splendevano di occasioni e sembravano suggerire la possibilità una spensieratezza infinita, un’estate eterna. Passarono in mezzo ai teatri storici dalle decorazioni dorate e un po’ stravaganti, fino ad attraversare una piazza squadrata con una fontana, i cui zampilli quasi accecavano sotto la luce del sole. A un certo punto si fermarono di fronte a un fioraio: Kanan, catturata da un’intuizione, insistette per entrare, per poi uscirne con in mano un unico giglio bianco striato di viola; piena di entusiasmo lo porse, senza aggiungere nulla, a Mari: l’amica prese il fiore: non fece alcun commento malizioso, nemmeno una risatina. Era così raro vederla semplicemente arrossire che Kanan passò una buona mezz’ora a chiedersi se non avesse esagerato.
Quasi senza rendersene conto, in seguito, si ritrovarono a camminare così vicine che prendersi per mano ne sembrava una diretta conseguenza; e proseguirono così, lanciandosi alternativamente occhiate rapide e affettuose. Nel momento in cui il sole cominciava a calare, crollarono su una panchina di una via più isolata. Mari si stiracchiò le gambe; teneva ancora saldamente tra le dita il suo fiore.
«E adesso dove mi porti?»
«Conosco un posticino che fa meraviglie con l’alga wakame, da queste parti. Che ne dici? Offro io»
«Addirittura? Oh, Kanan, questi giorni ti stai superando. Non ti ricordavo così propositiva da quando avevamo almeno quindici anni» la stuzzicò portandosi il giglio alle labbra.
Kanan strinse la mano che teneva quella di Mari, e scoppiò a ridere.
«Sarà che il tempo che passo con te mi sembra sempre troppo poco! Cerco di sfruttarlo al massimo»
Per la seconda volta nella giornata Mari si trovò senza parole, in seria difficoltà con una questione basilare come reggere lo sguardo di Kanan.
«Well played» ammise per togliersi dall’imbarazzo, «ma ti servirà impegnarti di più per farmi dimenticare che prima con Nicole mi hai definita “caso umano”!»
Kanan sciolse il contatto con Mari e si appoggiò con entrambi gli avambracci allo schienale della panchina, sconfitta ma ancora sorridente.
«Sei riuscita a farmi pentire della cosa più romantica che dico da anni, complimenti»
Mari rise.
«La prossima volta che sei così ispirata, ti prego, prima avvertimi!».
 
Il locale che Kanan aveva proposto non era per nulla formale, il che si adattava bene all’abbigliamento casual che entrambe avevano dal pomeriggio. Si erano fatte portare una boccetta d’acqua fresca per rinvigorire il fiore strapazzato qua e là dalla passeggiata, e tenerlo con loro sul tavolo mentre mangiavano.
«Non ti ho ancora chiesto com’è andato il meeting di stamattina coi tuoi»
«Non c’è molto da dire, in realtà» sospirò Mari appoggiando il mento al palmo della mano, «è solo che papà è fissato col gestire tutto di persona, quindi si fa sempre in quattro con mamma per essere presente sempre e dovunque per ogni stupido problema… ma io sono già stanca di sentirmi in dovere di avere tutto sotto controllo. Quando l’azienda passerà a me so già che assumerò personale e delegherò molti degli incarichi che loro svolgono di presenza. Non voglio passare la vita a girare come una trottola tra gli hotel senza avere un luogo da chiamare casa, dove ritornare, come fanno loro… poi diciamolo, le riunioni con i responsabili di progetto sono davvero noiose! In pratica noi eravamo lì solo per mettere la firma, una formalità a fronte di tre ore di lavoro su un progetto in cui hanno realmente voce in capitolo solo gli architetti e i designer. Voglio dire, che bisogno c’era di supervisionare di persona un lavoro di ristrutturazione se tanto abbiamo chiamato i migliori esperti dall’Europa? Sono dei maniaci perfezionisti!»
Kanan rise piano e incrociò le braccia sul tavolo.
«Per fortuna che non c’era molto da dire!»
Mari si morse la lingua.
«Chiedo scusa, lo sai che quando parlo dei miei genitori non riesco a trattenere le critiche… e poi, con te e con Dia è più facile smettere di fingere di essere l’ereditiera dedita solo al lavoro che vorrebbero loro»
«Non serve che ti scusi, lo so bene… dovresti parlargliene, però»
«Figurati se mi stanno a sentire! Ormai aspetto solo che mi lascino il comando, così finalmente posso gestirmi come preferisco. Ricordi quanto ci abbiamo messo a convincere mia mamma che esisteva la possibilità che sua figlia potesse fare qualcosa solo per divertimento?»
«Ricordo, come ricordo anche la proposta che volevano accettare per le tue nozze»
«Ecco, vedi? Non si accontentano di avere tutto sotto controllo nell’azienda, vogliono avere il controllo anche della mia vita! Qualche giorno fa li ho sentiti parlottare di fidanzati, sono sicura che ci stiano ancora pensando, anche se non me lo dicono esplicitamente»
«Credevo che tua madre avesse imparato la lezione» rispose atona Kanan, irrigidita dal sospetto di Mari.
«Lo credevo anche io, ma quando fa coppia con papà le “idee brillanti” su come influenzare la mia vita si sprecano… ormai credo lo faccia per abitudine» concluse strofinandosi la faccia con le mani, stanca.
Kanan la guardò in silenzio, meditando. Le vide negli occhi il peso del suo cognome e la mente riandò involontariamente alla volta in cui lei stessa l’aveva caricata di quel fardello, spingendola a partire; il senso di colpa le ritornò talmente vivido e cocente sotto la pelle che dovette trattenersi dal chiederle di darle un altro ceffone, in quel preciso momento. Poi però vide gli occhi di Mari posarsi sul giglio dalla corolla striata e sorridere, sebbene brevemente.
Kanan pensò che avrebbe voluto riempirla di fiori colorati, per tentare di strapparle fuori quel sorriso il più a lungo possibile.
 
I lampioni illuminavano il cammino del ritorno, stavolta eseguito a passi più svelti. Raggiunsero la bicicletta parcheggiata di Kanan, poi Mari chiamò un taxi; in realtà non era così tardi per richiamare Zachary, ma non aveva voglia di approfittarsi della sua disponibilità.
«Hai detto che ti muovi solo con la bicicletta in città?»
Kanan alzò le spalle.
«Sì, ci metto di più a raggiungere Santa Monica da casa mia, ma tanto mi sveglierei comunque presto… e la bicicletta è anche un bell’allenamento per le gambe» scherzò dandosi un colpetto su una coscia, «sto mettendo da parte dei soldi, ma devo ancora decidere se spenderli per la patente o altro»
Mari la guardò con curiosità.
«Quindi mi stai dicendo che non hai mai visitato posti fuori città?»
«Beh, sono stata qualche volta in giro con Nicole, ho visto un po’ di cose sia a L.A. che fuori»
«La prossima settimana ti porto a fare un giro io… mi farò anche perdonare di averti vomitato addosso i miei problemi stasera, mentre tu ti sei fatta in quattro per rendere bella questa giornata»
«Non pensarci, lo sai che ci sono ogni volta che hai bisogno!» sorrise semplicemente Kanan.
Ci teneva a mostrarle di non avere alcun problema, ma il suo primo pensiero, pressante, era che avrebbe desiderato caricarsi di almeno una parte della fatica che era toccata a lei per diritto di nascita.
Mari prese e strinse la mano di Kanan nella sua, si sporse verso di lei e fece schioccare un bacio sulla sua guancia.
«Grazie»
Nella testa di Kanan si spense ogni neurone e rimase stralunata a guardare l’amica, il viso infuocato che risultava peggiorato dalla luce calda del lampione. Per fortuna il taxi arrivò a toglierla dall’agitazione crescente, perché quando Mari salì in auto salutandola con un ulteriore bacio volante e un occhiolino - e stavolta Kanan ebbe il sospetto che lo facesse apposta per provocarla - era ormai rigida come una stecca di bambù.
Quando il taxi ripartì fece un respiro profondo e sciolse i muscoli come dopo una sessione di allenamento: il cuore le scoppiava in petto ed ebbe l’impressione, pedalando verso casa sua, che nonostante tutto il meglio dovesse ancora venire. Anzi, ne era certa.




 
Note finali
Questo è stato uno dei capitoli di cui ho amato scrivere di più (e nonostante questo nell'ultimo periodo mi ha dato del filo da torcere!): la ragione è semplice, fa parte del nocciolo "originale" della storia insieme al prossimo, nocciolo che di base doveva essere un'accozzaglia di questi flirt ambigui e tenerissimi come se piovesse
 
Prossimo aggiornamento: 12 ottobre!
 
Grazie di aver letto,
Alex

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Capitolo 4
*** Accelerazione ***


4. Accelerazione
 
'Cause we were just kids when we fell in love
Not knowing what it was
I will not give you up this time

 
“Perfect Duet”, Ed Sheeran ft. Beyoncé
 
«Ehi, cos’è tutta questa fretta? Un altro appuntamento con Mari a cui non sono invitata?» provocò Nicole incrociando le braccia al petto e inarcando un sopracciglio, «ma c’è un giorno in cui non vi vedete per forza oppure… un momento, oggi ti sei portata pure il cambio?!»
Kanan richiuse nervosamente la zip del borsone che aveva appena aperto, pentendosene.
«Esci dallo spogliatoio, per favore! Sei da denuncia, Nicole!»
«Mi spieghi che fate tutti i giorni dopo lavoro insieme? Voglio venire anche io!»
«Ma tu non ti vedi con Samuel? Tanto giovedì esci con noi come le altre volte… non è mica colpa mia se tu hai altro da fare…»
Nicole scosse la testa offesa e spostò le mani sui fianchi.
«Parli tanto del mio ragazzo, ma mi sembra che nemmeno tu abbia voglia di condividere una tua amica… o qualsiasi cosa sia lei per te»
L’insinuazione finale fece sudare freddo Kanan, di colpo allarmata dall’eventualità di poter essere letta e compresa come un libro stampato. Si drizzò in piedi e con movimento meccanico chiuse la porta dello spogliatoio in faccia a Nicole.
«Ok, messaggio afferrato, il discorso non ti piace...» si arrese Nicole alzando le mani davanti alla porta serrata, «comunque se ti può rasserenare quella camicia hawaiana che ti sei portata dovresti metterla più spesso, ti fa sorprendentemente sexy»
«Sì, sì»
«E tranquilla che farai colpo sicuro» aggiunse a bassa voce, un po’ per rispetto di Kanan, un po’ per paura che le arrivassero due pinne da snorkeling sul naso.
Una manciata di minuti più tardi, Kanan uscì dallo spogliatoio quasi di soppiatto, allarmata dal silenzio improvviso e forse accusatorio dell’amica: trovò Nicole seduta da un lato, sopra il proprio borsone, intenta a chattare con chissà chi. Si avvicinò a lei mentre si massaggiava una spalla con una mano. Nicole la guardò e lei abbassò gli occhi.
«Comunque… scusa per la reazione di prima»
La maggiore si alzò in piedi e sorrise bonariamente, come suo solito.
«Non pensarci» tagliò breve mettendole con solennità una mano sulla spalla, «ricordo che anche io ero intrattabile quando avevo la tua età e gli ormoni impazziti»
Tutte le buone intenzioni di Kanan scemarono inesorabilmente.
«A proposito di età… quando hai detto che ti sposi? Hai trent’anni, ormai è ora di sistemarsi»
Fu il turno di Nicole di indignarsi, ma il nuovo battibecco fu troncato sul nascere dal clacson di un'auto; entrambe le ragazze spalancarono gli occhi quando apparve la Mercedes bianca di Zachary, ma senza Zachary: al posto di guida c’era Mari con un ghigno vittorioso.
«Oh» si fece sfuggire Nicole.
«Ciao Nicole!! Ti fai un giro con noi?»
L’istruttrice lanciò uno sguardo benevolo a Kanan prima di rispondere.
«Non faccio cose da pensionati come giretti in macchina… in realtà mi vedo con Samuel e i suoi amici, devo mostrare a quel manipolo di californiani come surfiamo in Florida»
Con una manata sulla schiena spinse Kanan verso la macchina di Mari e si annunciò definitivamente fuori dai giochi.
«Divertitevi, belle!»
Mari la salutò allungando il braccio fuori dal finestrino, col solito entusiasmo; poi attese che l’ospite montasse in auto.
«E quindi...» iniziò Kanan assicurando per bene la cintura di sicurezza, «...hai rubato la Mercedes al tuo autista?»
«Nonsense! Me la sono fatta prestare, naturalmente!»
L’altra fece roteare gli occhi, scettica.
«Dico davvero, Kanan! Zachary mi ha mostrato il percorso stamattina e si fida di me. E soprattutto, non dirà nulla ai miei!»
«Ok, ok… quindi dove andiamo?»
«Sulla Pacific Coast Highway, of course
«La meta è la strada stessa?»
«Sarà bellissimo, vedrai!»
Kanan non ne aveva alcun dubbio. Abbassò il finestrino e si godette l’aria fresca che le arrivava in faccia, ottimo palliativo per sopportare la calura dell’abitacolo. Erano da poco passate le sei, orario in cui normalmente staccava da lavoro; il sole era ancora piuttosto alto e bruciante, ma era assente l’afa che aveva oppresso le precedenti settimane; rispetto ai giorni passati l’oceano era un poco più mosso – condizione ottimale per Nicole e il suo gruppo di surfisti. Dopo qualche centinaio di metri raggiunsero il mare ingombro di bici e di auto, in quello che forse era l’orario peggiore per muoversi su strada. Nonostante ciò Kanan poteva già ammirare senza grosse difficoltà la magnificenza dell’oceano, che occhieggiava alla sua sinistra tra le case e le palme; e nel perdersi nel blu profondo, il suo sguardo scivolò involontariamente sul primo piano, Mari: era assorta nel traffico e teneva la mano destra assicurata sulla leva del cambio – a quanto pareva Zachary era uno di quei pochi americani che preferivano la guida manuale.
A Kanan venne spontaneo chiedersi quando avesse imparato ad adattarsi alla guida a destra dei paesi occidentali.
«Sei migliorata» disse in coda al treno di pensieri.
Mari si esibì in un sorrisetto particolarmente soddisfatto.
«Ho guidato qualche volta quando ero in Italia!»
«Avevi la macchina?»
«No, ma l’aveva Nicchio… mi lasciava guidare quando capitava»
Kanan annuì, sebbene alle volte facesse fatica a distinguere a quale dei suoi amici italiani corrispondesse un certo nome – o soprannome.
Passati una trentina di minuti riuscirono a liberarsi del traffico cittadino e poterono finalmente sfrecciare sulla Pacific Coast Highway, oltre Malibù, con solo il mare da un lato e le Santa Monica Mountains dall’altro: la strada serpeggiava seguendo il profilo della costa a promontorio, con curve ampie e sinuose. La città iper popolosa e la sua selvaggia countryside si avvicendavano con sbalorditiva naturalezza; e dove là era tutto cemento ed elettricità, qua diveniva acqua, roccia, pianta.
Mari accompagnava il volante con entrambe le mani e Kanan notò che ogni volta che faceva una curva spostava leggermente il busto verso lo stesso lato; sui rettilinei invece si arrischiava a lanciare occhiate fuggevoli all’oceano. Il sole faceva brillare con la medesima lucentezza l’acqua e i capelli di Mari, liberi al vento dei finestrini abbassati: non riusciva a ricordare il giorno in cui l’aveva sorpresa per la prima volta così bella.
Lo smartphone le vibrò in tasca e la risvegliò dall’incanto; era un messaggio di Dia, che non poteva arrivare in un momento più esatto.
“Ciao, so che Mari è da te a Los Angeles da un po’… visto che non ho ricevuto tue notizie, volevo chiederti: sei ancora viva?”
Fece una smorfia per trattenere una risata; pur senza dirglielo mai esplicitamente, si stupiva di come Dia le facesse sempre intendere di averla a cuore. In tutto ciò, Mari la guardava già incuriosita, quindi decise di rimandare la risposta a più tardi.
«Chi è?»
«Dia! Mi chiedeva se fossi ancora viva o fossi stata già assalita da te»
Mari gonfiò le guance fingendosi colpita nell’orgoglio.
«No fair! Dovresti dirle che ti stai divertendo»
«Certo, certo…»
Mari liberò la destra dall’incombenza del volante per assestare un pugno sulla spalla della compagna, che però lo ricevette senza lamentarsi.
Qualche minuto dopo apparve di fronte a loro la Mugu Rock, uno dei primi affascinanti punti panoramici che regalava la Pacific Coast Highway: il rilievo alla loro destra si stagliava alto, mentre a sinistra l’iconica montagna tuffava il suo basamento in mare, disegnando una scogliera naturale; la strada si snodava tra le due pareti di roccia. Kanan non l’aveva mai vista: era uno scenario maestoso.
«Ci siamo!» esclamò Mari, preparandosi ad accostare l’auto nel parcheggio.
Quando uscirono dall’abitacolo le sembrò che il tempo fosse rimasto sospeso per tutto il viaggio: ma era passata già un’ora. Si accostò alla balaustra che separava la strada dalla scogliera: mancava ancora un po’ prima del tramonto e le ombre avevano appena cominciato a deformarsi. Il mare ingaggiava lì la sua eterna lotta erosiva contro la montagna; la natura, in questo frammento di mondo, dominava con la sua gravità stoica sulle opere dell’uomo; esattamente come succedeva a casa sua, sull’isola di Awashima.
Persa nella contemplazione, fu raggiunta dalla sua compagna di viaggio qualche momento più tardi, che aveva in mano due calici di cristallo e un bottiglione di vino spumante italiano.
«E quello da dove salta fuori?»
Mari versò parte del contenuto nei calici e ne porse uno a Kanan con un ghigno.
«Dal baule dell’auto!»
«Ti sei fatta prestare anche questo?»
«No, questo l’ho rubato dalla cucina dell’hotel»
La semplicità con cui aveva posto la questione non la faceva capacitare di come, dopo tutti questi anni, ancora riuscisse a lasciarla senza parole.
«Beh, diciamo non proprio rubato rubato» corresse il tiro, «l’ho portato io dall’Italia, quindi tecnicamente è mio»
Kanan soppresse ogni tentativo di rimostranza e decise che in fondo non le importava davvero di come quel vino fosse arrivato fin qui; e già che c’era, e specialmente già che era nel suo bicchiere, sarebbe stato uno spreco non berlo. Alzò il calice verso quello di Mari e lo incontrò a metà strada, tintinnando.
Un forte odore di salsedine si liberava ogni volta che un’onda si infrangeva sugli scogli sotto di loro; le ragazze seguirono a ritroso il moto dell’oceano, fino ad allargare lo sguardo all’orizzonte blu scuro; l’omogeneità del paesaggio era rotta qua e là dal biancore di barche a vela, motoscafi e yacht lucentissimi; e più in lontananza, proseguendo a ovest in quella direzione, attraversando quasi ottomila chilometri di Oceano Pacifico, c’era il Giappone.
«Ti manca, casa?»
Kanan non si era accorta di essersi persa di nuovo nel concatenamento dei suoi pensieri, quindi prima di rispondere si prese del tempo girandosi fra le mani il calice con le ultime due dita di vino.
«Sì, molto»
«Però sei tornata poche volte in questi anni…»
«Beh, il biglietto costa parecchio e devo risparmiare un po’ prima di decidere di partire… e comunque la mia famiglia accetta la distanza se sa che mi sto impegnando per me stessa… mi lasciano molto libera di fare le mie scelte e gliene sono grata»
Sentì Mari fare una pausa, prima di riprendere con le domande.
«Continuerai a lavorare qui, allora?»
«Mi piacerebbe tornare in Giappone, in realtà. Santa Monica mi piace, mi ha offerto opportunità mai viste prima… ma alla lunga la grande città non fa per me. Il mio obbiettivo sarebbe iniziare una mia scuola di sub in negozio da mio nonno, penso che porterebbe molti nuovi turisti…» fece una pausa, mandò giù un altro sorso di vino, «poi potrei affittare una casa da qualche parte tra Uchiura e Numazu… e, beh, il massimo sarebbe trovare qualcuno con cui condividerla per il resto della mia vita»
Mari rise, la voglia di stuzzicarla le pizzicava lo stomaco.
«Passare tutta la vita con un vecchio testardo come te?»
Ma Kanan abbassò lo sguardo e accennò un sorriso, malinconica.
«Esatto. Tutta la vita con un vecchio testardo come me… è una bella sfida, eh?»
Fu tentata di proporla a lei, ma si dette della stupida per averlo solamente pensato.
D’altra parte, Mari stessa fremeva per darle la risposta per cui le mancava il coraggio: «io l’accetterei»; e invece finì il suo vino in silenzio.
 
Poco più a nord di Point Mugu c’era una spiaggetta sabbiosa a forma di conchiglia, delimitata da una piccola scogliera; sulla battigia stava un gruppo di ragazzi intorno a un falò con delle birre, che ascoltavano musica da una cassa bluetooth. Mari e Kanan si sedettero a terra in un punto più isolato e rimasero in silenzio, gli occhi fissi sul tramonto che si dispiegava sopra l’orizzonte. Romantica com’era, Mari non poteva desiderare uno scenario migliore: si accoccolò quanto più possibile su Kanan, desiderando che il tempo si fermasse, o quantomeno rallentasse. Non era mai così con lei: aveva ragione a dire che il tempo che passavano insieme sembrava sempre troppo poco.
Appena il sole sparì dietro l’oceano, come in un muto accordo, si stesero sulla sabbia, incuranti di sporcarsi: la luna sopra di loro era poco più che lo spessore di un’unghia. Kanan, come suo solito, prese a parlarle delle stelle, delle galassie e dei misteri dello spazio; e Mari l’ascoltava, ascoltava il suono della sua voce appassionata; la guardava, anche, con lo stupore di una persona che si scopre innamorata per la prima volta, con la differenza che, oramai, la prima volta di certo non era. Finché, senza nessun preavviso, il discorso di Kanan virò: le parlò di quanto le era mancata, in modo profondamente diverso rispetto alle altre sue amiche più strette; della ferita che aveva addosso e che le bruciava ogni volta che la distanza le divideva: una ferita che a conti fatti, sin dai tempi dell’Uranohoshi, non aveva mai avuto il tempo di cicatrizzarsi; del modo in cui, infine, il giorno in cui si erano riunite si era riscoperta guarita. Doveva essere il vino, pensò subito Mari, perché raramente era stata così sincera con quel che provava.
Kanan allora, che non aveva mai distolto lo sguardo dal cielo in penombra, si voltò finalmente verso di lei, e subito arrossì nell’accorgersi di avere avuto i suoi occhi addosso per tutto il tempo. Mari ruotò su un lato e allungò una mano incerta verso il suo viso; Kanan la tenne stretta nella sua per non farla scivolare via troppo presto. Era sopraffatta dal martellio del suo cuore nelle orecchie: e anche in questo caso avrebbe volentieri dato la colpa al vino. Le loro mani si cercarono vicendevolmente, sfiorandosi il volto, i capelli, le braccia; Kanan cedette alla tentazione di averla così vicina e si accostò per stringerla tra le sue braccia, nascose le labbra sulla sua spalla nuda e le lasciava dei brevi baci: risalì sul suo collo e si fermò al livello del mento; Mari ridacchiava contenta, dei brividi le correvano lungo le braccia e allo stesso tempo provava un leggero solletico: riusciva a sentire, oltre il battito del proprio cuore, anche quello di Kanan. Tutto il resto, invece, era sparito.
Ci fu una pausa in cui entrambe si guardarono negli occhi, pieni di tenerezza; poi Kanan si avvicinò alle sue labbra: all’inizio con incertezza e quasi con spavento. Era istintivo quanto bastava perché fosse proprio il primo bacio, che è sempre anche imperfetto; ma col passare dei secondi, complice la risposta positiva dell’altra, divenne più ardito e appassionato. A Mari, per un momento, sembrò di star sognando; e pure, subito dopo, si rese conto che era impossibile sbagliarsi: era reale, tanto quanto la sabbia ruvida sotto di lei e la mano di Kanan che cercava la sua schiena sotto la canotta. La certezza di essere amata la investì nel suo abbraccio caldo; insieme il terrore di doversi dividere un giorno da lei, di nuovo, come sempre, come fosse il loro destino, le stringeva già il petto e la gola.
Quando si separarono, Kanan le lesse sul volto questa sovrabbondanza indecifrabile di emozioni e credette di aver fatto un errore, ma l'intervento di Mari le impedì di fare un passo indietro.
«Stavolta mi prometti che non mi lasci andare più?» sussurrò con voce rotta, quasi una supplica.
Kanan le accarezzò col pollice le labbra e la guancia.
«Te lo prometto».






 
Note finali
Pensate se le avesse risposto «lol nope» ... rip
Questo comunque è tra i miei capitoli super preferiti, incredibilmente non per la scena finale ma per il road trip e l'atmosfera un po' country che si respira tutt'intorno.
Inoltre, googlatevi tutti i luoghi nominati (Point Mugu Rock e la Pacific Coast Highway) perché meritano e ho amato scriverne!
 
Prossimo aggiornamento: 22 ottobre
 
Grazie di aver letto,
Alex

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Capitolo 5
*** Il significato nuovo ***


5. Il significato nuovo
 
I never knew anybody ‘till I knew you
And I know when it rains, oh, it pours
And I know I was born to be yours
 
“Born To Be Yours”, Kygo & Imagine Dragons
 
 
Mari appoggiò la schiena sulla sponda del letto e la testa sul muro alle sue spalle: con una gamba stesa e l’altra rannicchiata al petto, riavvolgeva gli attimi vissuti la sera prima, assorta. Sentiva di aver bisogno di meditarci, sebbene il concetto in sé fosse elementare: lei amava Kanan, Kanan amava lei. Col primo termine aveva avuto modo di farci i conti già da parecchio tempo, ma il secondo era la vera novità; le sembrò che si trattasse di un’altra Kanan, non quella con cui era cresciuta, e tuttavia era proprio lei, la medesima Kanan, quella le cui azioni fino ad ora - alla luce della nuova informazione - avevano assolutamente senso. Agguantò e strizzò il cuscino tra le braccia, affondandoci il viso: i recenti ricordi la fecero arrossire da sola come fosse ancora una ragazzina.
La sera prima, durante il viaggio di ritorno, erano rimaste in silenzio per tutto il tempo. Stavolta però era un silenzio differente rispetto a quello a cui erano abituate, carico di un inusuale imbarazzo; avrebbero avuto voglia di chiarirsi a parole, sebbene per entrambe il significato di ciò che era successo fosse già ovvio, ma allo stesso tempo ne erano a tal punto sopraffatte che non riuscirono ad aprir bocca. Davanti casa sua Kanan l’aveva salutata con sorriso un po’ sghembo, traditore di quel desiderio che aveva nel cuore e che scalpitava per fuoriuscire un’altra volta. Tipico di lei: solo un’ora prima sembrava un leone, adesso era poco più che un agnellino. Fu Mari a prendere l’iniziativa con un bacio all’angolo della bocca, e l’attesa già bruciante di rivedersi il giorno dopo.
Il cuore le galoppava in petto come se ce l’avesse ancora lì davanti, e le dispiacque vivamente che non si sarebbero viste prima delle sei del pomeriggio. L’attesa la rendeva nervosa; si liberò del cuscino, ma ancora non riusciva a decidersi di frugare nella cabina armadio per scegliere cosa si sarebbe messa; il ricordo dello sguardo innamorato di Kanan le rendeva difficili anche i movimenti basilari. Si ritrovò a ringraziare di dover aiutare suo padre a controllare dei documenti in ufficio, per buona parte della mattina; se la mente fosse stata altrove, il tempo sarebbe volato.
«Miss Ohara?» la cercò una voce dietro la porta della sua suite, «suo padre la prega di raggiungerlo nel suo ufficio il prima possibile»
Si tirò subito in piedi come se qualcuno fosse appena entrato in camera, sistemando con una mano la vestaglia da notte che aveva ancora addosso.
«Digli che arrivo tra dieci minuti» rispose fingendosi già operativa.
La puntualità era un requisito indispensabile della sua famiglia e Mari non faceva eccezione: si attivò al punto che, letteralmente dieci minuti dopo, stava bussando all’ufficio di suo padre.
I due si salutarono con un lieve inchino della testa, si sedettero ai lati opposti della scrivania e iniziarono a lavorare insieme senza scambiarsi parole superflue, com’erano soliti fare. Succedeva infatti, alle volte, che Mari gli ponesse delle domande su questo o quel documento, e l’uomo ogni volta alzava la testa, abbassava gli occhiali che compensavano il suo incipiente astigmatismo e le rispondeva con una precisione secca, guidata dagli anni di esperienza sul campo; poi prendeva di nuovo in mano il plico di fogli che aveva visionato e li batteva sul lato corto, contro il tavolo, un paio di volte, per tenerli in chirurgico ordine. E così riprendevano a lavorare, accompagnati solamente dal fruscio delle pagine voltate.
Mari prendeva le carte e le confrontava, ordinava e rivedeva; rispetto alle faccende che riguardavano spese e bilanci aveva un’attenzione quasi maniacale, trovandosi spesso a ragionare tra sé su quali sarebbero state le proprie strategie se fosse stata lei al comando, cosa avrebbe fatto in modo diverso e come; erano queste le volte in cui si rendeva conto di trovarsi, in fondo, perfettamente a suo agio con il lavoro che si trovava tra le mani. L’odore dolciastro di un pasticcino la distrasse, costringendola a girarsi verso il padre: era in piedi accanto a lei e le stava porgendo una ciambella glassata alla fragola su un vassoietto di cartone, senza sorridere, ma con una luce negli occhi ben distinguibile.
«Non hai fatto colazione stamattina» disse semplicemente, ed era vero.
Non si era alzata presto e non aveva mangiato nulla nel mezzo minuto in cui era uscita dalla camera per raggiungere l’ufficio. Avrebbe potuto farsi portare qualcosa dallo staff, ma la stretta allo stomaco che durava dalla sera prima l’aveva fatta desistere. Dal momento che la ciambella era lì, comunque, valeva la pena provarla: l’incarto stracciato che circondava il vassoio portava la firma della migliore pasticceria di Los Angeles.
«Grazie, papà!»
L’appetito cominciò a farsi sentire mano a mano che mangiava; era stata così presa dal lavoro che non si era accorta di nulla: né della fame che aveva iniziato a morderle lo stomaco, né di suo padre che si era fatto portare quella ciambella glassata per lei. Avvertì nuovamente una gratitudine filiale crescerle dentro, che però non riuscì più esprimere a parole.
Quando ancora stava finendo gli ultimi morsi di quella prelibatezza, lo smartphone l’avvisò di una notifica, vibrando sul tavolo.
“Nicole mi ha detto che posso uscire prima da lavoro oggi. Finisco alle quattro. Che ne dici di vederci all’acquario?”
La velocità fulminea con cui aveva letto e risposto affermativamente al messaggio l’aveva resa certa del fatto che il pensiero di Kanan, nonostante l’impegno, non se ne fosse mai davvero andato: casomai era stato spostato momentaneamente nell’inconscio, pronto a rimbalzare fuori al primo stimolo.
Suo padre parve notare la luce che le aveva irradiato il volto.
«Devi uscire con la tua amica?»
Mari annuì, sforzandosi di ridimensionare la gioia che le traspariva dal sorriso, per evitare approfondimenti ulteriori da parte dell’uomo. Al contrario di sua madre, lui non aveva il problema di tenere la figlia lontana dalle sue amicizie; guardava le persone che Mari frequentava con equo distacco. Finché lei non veniva meno ai suoi doveri, finché le sue avventure erano uno stimolo di crescita e vivacità intellettuale e non un modo per adagiarsi sugli allori, dal suo punto di vista poteva uscire con chi voleva. Questa discrezione era un lato di suo padre che apprezzava molto; il risvolto della medaglia, però, prevedeva che fosse assolutamente impossibile contraddirlo quando riteneva di dover avere l’ultima parola su una qualche questione; e ciò creava i momenti di maggior tensione con Mari, che preferiva quindi non interpellarlo, se lo poteva evitare.
Tutto sommato, era un equilibrio a cui si era assuefatta da anni.
 
Con ogni probabilità sarebbe arrivata in anticipo. Considerata la distanza, considerato il tempo per prepararsi, considerato persino il traffico infernale di Los Angeles a qualsiasi ora del giorno e della notte, Mari aveva predisposto ogni cosa perché si abbreviassero i tempi d’attesa per rivedere Kanan. La scelta di visitare l’acquario a South L.A. aveva avuto il suo appoggio per tutta una serie di motivi, primo fra tutti perché le ricordava casa; era un posto speciale già per le Aqours, una zona franca che aveva il potere di farla sentire unita alle altre anche a chilometri di distanza.
Quando Zachary la lasciò vicina all’ingresso, con sua sorpresa scoprì che Kanan era già lì, appollaiata su una balaustra e ansiosamente rivolta al suo orologio da polso. I loro sguardi si incrociarono e Kanan iniziò ad agitare la mano in segno di saluto, come faceva anche quando era bambina; il volto di Mari si accese e corse da lei: ma appena le fu di fronte, la sua sicurezza incespicò nuovamente e dovette sforzarsi – con risultati altalenanti – di non distogliere lo sguardo. Fu una consolazione vedere Kanan annaspare quanto lei, le pareva che le desse la certezza che quel che era accaduto non se l’era sognato, come invece, a furia di pensarci, le era parso: e d'altra parte fu proprio Kanan la prima a cedere all’agitazione e a incitarla a cominciare il giro all’interno dell’edificio.
Percorsero con calma le prime stanze, curiosando tra le informazioni oceanografiche del Pacifico; i brevi commenti che condividevano, insieme a qualche chiacchiera fuori tema su come fosse andata la giornata di lavoro di entrambe, le aiutò ad aggirare l’iniziale imbarazzo. Lentamente, Mari avvertiva che le barriere crollavano una dopo l’altra: e stanza dopo stanza, tra i coralli e le conchiglie – che si lasciavano ammirare dietro il vetro tirato a lucido –, si riappropriavano di quella complicità cui erano solite. Davanti a una vasca di pesci tropicali, Mari si sporse in avanti per dare un’occhiata più approfondita, ma nell’eseguire il movimento la sua mano sfiorò quella di Kanan e trasalì.
Era una sensazione nuova. O meglio, era sempre la stessa – mille volte in quei giorni si erano prese per mano passeggiando nei quartieri turistici – ma conteneva un significato nuovo. Un significato che faceva ancora fatica a realizzare completamente, dovette ammettere a se stessa.
«Tutto bene, Mari?»
La voce della protagonista dei suoi pensieri la fece sobbalzare. Si voltò verso di lei senza riuscire a darle risposta: percepiva un lieve senso di vertigine, per cui semplicemente ammutolì.
«Ascolta» iniziò Kanan abbassando un poco la voce, «se ieri ho passato un limite che non dovevo superare, mi dispiace… non volevo metterti in difficoltà»
Mari sentì il cuore affondarle in petto, come se glielo tirassero giù con due mani.
«No! No, non è questo!» intervenne aggrappandosi con la mano al suo polso, quasi a impedirle di scappare, «in realtà… sono stata molto felice che tu l’abbia fatto»
Kanan, rasserenata, cercò la mano di Mari per tenerla stretta. Parve voler aggiungere qualcosa, ma sembrava non riuscisse a trovare le parole; e Mari, d'altronde, viveva la stessa insormontabile difficoltà. Per un po’ si persero l’una nello sguardo dell’altra, ma ognuna, a dire il vero, era incartata nei propri pensieri: così, riconoscendo che non ne avrebbero cavato un ragno dal buco, Mari interruppe il silenzio.
«Andiamo a vedere la sezione del Pacifico Settentrionale?»
La guardò sorridere in risposta, per qualche momento; poi la guidò per mano, con quella fanciullesca eccitazione che aveva nel cuore ogni volta che passavano così tanto tempo insieme.
Si riempirono gli occhi delle creature dell’oceano profondo, passando dai polpi alle mante: rimasero alcuni minuti in più a guardare gli squali, perché Mari era rimasta affascinata dall’eleganza minacciosa di un esemplare adulto; si ritrasse dalla vasca solo quando si accorse che Kanan aveva spostato lo sguardo su di lei: ed era lo stesso sguardo innamorato che l’aveva mandata in tilt per l’intera mattinata. Uno sguardo che, si trovò a realizzare arrossendo, le aveva sempre visto cucito addosso quando era rivolto a lei. Si chiese come avesse fatto a non accorgersene prima: era come unire i puntini di un’immagine già molto chiara.
Nella zona esterna della struttura si trovava la vasca dei pinguini di Magellano, divisa in una sezione acquatica e una rocciosa: su quest’ultima, la maggior parte degli animali stava immobile a sonnecchiare al sole. I piccoli uccelli scuotevano le piume e battevano il becco, qualcuno galleggiava pigramente sulla superficie dell’acqua e si faceva trasportare dalle deboli increspature.
«Questi a Dia piacerebbero» notò Kanan.
Mari aveva già tirato fuori il suo smartphone, pronta a un set fotografico coi fiocchi che avrebbe poi inviato in blocco alla migliore amica: e prevedeva già gli annessi e connessi insulti di Dia per averle riempito la memoria del telefono di pinguini.
«Le somigliano, non trovi?» e fece un’espressione che, nella sua testa, doveva richiamare quella di Dia.
Il risultato fece scoppiare a ridere Kanan; e alla fine anche Mari, dopo qualche offesa protesta, si accodò a lei.
«Non la sai fare» replicò quindi Kanan riprendendo fiato, «è più così»
Mari, a sua volta, la osservò tentare per una manciata di secondi: poi le rispose con una smorfia di scherno.
«Ma quella non è una faccia da Dia! È una faccia da pupazzo di peluche»
«Pupazzo di peluche? Ma come ti viene in mente?»
«Sì, dai, se ti attacco sulle palpebre un paio di occhi finti sei un pupazzo perfetto. Puoi fare la mascotte dell’acquario. Googly eyes
«Googly eyes
«Yes, googly eyes!» pigolò Mari disegnando dei cerchietti con pollice e indice.
Kanan riattaccò a ridere di gusto e Mari, guardandola, si accorse che finalmente ogni cosa tra loro sembrava essere tornata al suo giusto posto. Erano di nuovo se stesse: e forse più se stesse di quanto non fossero mai state.
Rimanendo nei pressi della vasca dei pinguini, le due ragazze si avvicinarono a una panchina libera, per prendersi una pausa. Fianco a fianco, stettero qualche minuto in silenzio; Mari era china sulle sue ginocchia, il mento appoggiato ai palmi delle mani; il sorriso non accennava a sparire, nonostante gli sforzi per contenerlo. Entrambe tenevano ancora gli occhi fissi sui pinguini di Magellano, che continuavano la loro pigra vita pulendosi teneramente le piume a vicenda.
«Comunque, riguardo al discorso di prima… anche io sono stata davvero felice di aver fatto quel passo»
Mari si girò verso di lei: Kanan guardava sempre dritta davanti a sé, le mani appoggiate sulla panca come se stesse affrontando un discorso assolutamente casuale, ma senza averne davvero l’aria. Trattenne una risata: si rese conto che vedere Kanan ancora testardamente decisa a sfangare l’argomento le dava sicurezza. Raddrizzandosi sul posto, poggiò il palmo sul suo braccio per indurre anche lei a girarsi.
«E come mai?»
Già che aveva ritirato fuori la questione lei, le sembrava lecito provocarla affinché finisse. Una smorfia di agitazione si formò su di Kanan, già rossa fino alla punta delle orecchie; Mari non poté che trovarla adorabile.
«Credo… credo che il perché sia chiaro, no?» balbettò massaggiandosi nervosamente una spalla, «e per me... è così da sempre»
«“Sempre” è un sacco di tempo, Kanan» sottolineò Mari, ascoltando i suoi goffi tentativi con estrema dolcezza e un pizzico d’impazienza.
A Kanan venne da ridere in risposta al nervosismo, ma si sforzò di trattenersi – il movimento delle sue spalle l’aveva assolutamente già tradita – e appoggiò la mano sulla sua, come per dirle a gesti quel che non riusciva in nessun modo a parole.
«E tu invece?»
Non era più così semplice quando l’interpellata era lei, realizzò con un improvviso irrigidimento. Per impedirsi di rientrare nello stato di agitazione con cui conviveva da tutto il giorno, si propose di smorzare un po’ l’atmosfera.
«Io dico che dovresti far più pratica con il bacio alla francese» scherzò, mordendosi la lingua.
Kanan la guardò piegando leggermente la testa, scettica.
«Adesso vorrai dirmi che invece tu hai grande esperienza… aspetta, perché tu non hai avuto altre… “esperienze” in Italia, vero?»
La risata cristallina di Mari lasciava trasparire già la risposta.
«Chi lo sa...»
Il viso di Kanan cambiò da lievemente preoccupato a retroattivamente – e irragionevolmente – geloso.
«It’s joke!» cantilenò Mari.
Poi la sua espressione si addolcì e, accostandosi, accarezzò il volto dell’altra con una mano; se c’era un momento adatto per essere sinceri, si disse, non poteva che essere quello: ora che finalmente aveva ritrovato il coraggio che cercava da tutto il giorno.
«La verità è che ho sempre amato solo te»
Kanan, per propria parte, ebbe un sussulto: pur rimanendo immobile provò una voglia irrefrenabile di tirarsi su con lei, sollevarla in alto tra le sue braccia e urlare a tutti che, dopo tutti questi anni, Ohara Mari era finalmente sua, completamente sua.
«“Sempre” è un sacco di tempo, Mari» riuscì a commentare, ma la voce già le tremava.
Si sorrisero: quel che le univa da anni cominciava finalmente a prendere forma, ad acquisire corpo e parola.
 
Una passeggiata e un paio di granite più tardi, cominciarono ad avviarsi verso l’uscita. Kanan, prima di lasciarla andare, si assicurò che portasse con sé un ultimo pegno: un piccolo mazzetto di soffici fiordalisi, blu lucenti, consegnati con l’impaccio di un’amante che spera di ottenere il fatidico sì dall’amata. Li aveva comprati in gran segreto prima di presentarsi all’acquario, tenuti malamente nel borsone del lavoro per non destare sospetti, ma non aveva trovato il coraggio di porgerglieli prima.
«Sono bellissimi»
Kanan annuì. Aprì e richiuse la bocca, anche stavolta, come a volerle dire qualcosa di più, ma poi abbassò lo sguardo e tacque di nuovo. Mari li prese dalle sue mani senza mai interrompere il contatto visivo e le sorrise: pur di non intrecciarsi con le parole, Kanan sembrava ostinata a trovare cento altri metodi alternativi per dichiararsi. Ma nonostante tutto, non era ancora disposta ad arrendersi.
«Come vedi non sono brava a dire quello che sento, probabilmente questo fatto non cambierà… a meno che le parole non me le suggeriscano Dia o il vino» e risero, ripensando entrambe all’insolita apologia delle stelle e della nostalgia fatta da Kanan la sera prima, «dopotutto lo sai che non sono una poetessa, sono solo una ragazza che ha vissuto diciotto anni su un’isoletta nell’oceano»
«Una pesciarola, direbbero in Italia»
«Una pesciarola, certo» ripeté Kanan con un confusissimo accento misto tra l’americano e il giapponese.
Si fermò un istante e si arrischiò a rialzare lo sguardo su Mari: l’espressione di lei era passata in poco tempo da imbarazzata a provocatoria, il che la fece subito avvampare.
«I’m sorry, Kanan» rise Mari vedendola più in difficoltà di prima, «è solo che dopo i fiori non credevo ti saresti spinta oltre»
«Beh, non è che tu mi stia facilitando il compito» sbuffò incrociando le braccia al petto.
L’altra le fece una linguaccia colpevole in risposta, che si riguadagnò la benevolenza di Kanan. Allora quest’ultima prese un profondo respiro, scrocchiò le spalle tese e si decise ad arrivare al dunque.
«Mari» la compagna si ricompose e strinse istintivamente il mazzolino tra i palmi, «quello che volevo dirti, stavolta per davvero... è che anche io ho sempre amato solo te»
Sentì l’esigenza di distogliere subito lo sguardo, incapace di reggere il peso delle parole che lei stessa aveva appena pronunciato.
Mari si accorse solo alla fine di aver trattenuto il respiro per alcuni secondi; e quando tornò a ispirare le parve di aver atteso quel momento da tutta la vita; nascose l’ampio sorriso dietro a quei fiordalisi un po’ stropicciati: secondo una vecchia tradizione orientale, il fiore perfetto per dichiarare i propri sentimenti. Si sorprese di quanto meticolosa fosse Kanan in queste faccende; e ogni volta scopriva un lato nuovo di cui innamorarsi, trovava una scusa diversa per volersi gettare tra le sue braccia e lasciarsi cullare, in completo abbandono; i suoi occhi, dopotutto, non avevano mai brillato così tanto.
Quando Zachary arrivò e portò via con sé Mari, Kanan rimase in piedi sul marciapiede a guardare l’auto allontanarsi per un bel pezzo. Leggera come una piuma, aveva l’aria di essersi completamente dimenticata persino di quanto l’appesantisse il caldo asfissiante di Los Angeles. Tutto era già avvolto nella luce calda del tramonto: le palme si stagliavano scure e alte a ritagliare forme nel cielo terso; il vociare dei turisti non accennava a scemare, e ancora un’afa compatta, a cui Kanan pareva immune, vaporava dall’asfalto sbriciolato. Le sembrava di essere dentro un set cinematografico: per le strade si accendevano i primi lampioni, come tante costellazioni che salivano al cielo, festose. La città delle stelle splendeva, ed era stupidamente certa che splendesse per lei.
Nel momento in cui, finalmente a casa, prese in mano lo smartphone, dimenticato da tutto il pomeriggio in una tasca laterale del suo borsone, realizzò di non aver ancora risposto al messaggio di Dia del giorno precedente. Accedette all’applicazione e con sua sorpresa vi trovò un’altra notifica risalente a qualche ora prima, di cui non si era accorta.
“Kanan ci sei? Mari mi ha inviato una cosa come 35 foto di pinguini, scrivendo solo un irritantissimo "PENGIN". Prima o poi compio un omicidio. Tu perché non rispondi? Devo allertare l'ambasciata giapponese?”
Si lasciò cadere sul letto, scossa da incontrollabili fitte di risate. Non sapeva davvero da dove cominciare per raccontarle tutto quello che era successo in ventiquattr’ore. Optò per la soluzione più estrema: partì dall’evento-bomba, con un messaggio a bruciapelo.
“Scusa, non ho avuto il tempo di risponderti… qui tutto bene: ieri sera ho baciato Mari”
Inviò. La replica di Dia arrivò rapida come se l’era figurata.
“Tra mezz’ora ho pausa pranzo, vedi di chiamarmi per cortesia”.





 
Note finali
Due parole: Adorable dorks
E altre due bonus: Googly eyes (cercate su youtube "Aquarium of the Pacific", la playlist del canale con le mascotte dell'acquario è delirante)
 
Prossimo aggiornamento: 1 novembre
 
Grazie di aver letto,
Alex

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Capitolo 6
*** Il velo dell'incomunicabile ***


6. Il velo dell’incomunicabile
 
Would you take the wheel
If I lose control?
If I’m lying here
Will you take me home?
 
“Take Me Home”, Jess Glynne
 
«Quindi ho capito bene? State insieme? Insieme… per davvero? Se non me lo dice anche Mari non ci credo»
Mari e Kanan, a braccetto sul divano, sorrisero davanti allo schermo del portatile appoggiato sul tavolino.
«Confermo! Da quattro giorni, per la precisione!»
Dia dall’altro capo del mondo sembrava sull’orlo delle lacrime. Era per lei la notizia più bella di quel lunedì mattina - a Los Angeles era appena tramontato il sole su quella domenica assolata. Tastava sulla scrivania qua e là in cerca forse di un fazzoletto e faticava a trattenere le smorfie causate dalla crisi di pianto che stava per scatenarsi.
«Dia, non penso ci sia bisogno di essere così melodrammatici...»
«Non posso crederci, non devo più ascoltare le lagne di Kanan… mai più… mai più... da sei anni incessantemente… da sei anni» continuava a ripetere tra i singhiozzi.
«Ehi!»
«Oh
Nonostante il palese imbarazzo con stizza di Kanan per lo svelamento di altarini che sarebbero dovuti rimanere tra lei e la migliore amica fino alla tomba, Dia si asciugò gli occhi come se niente fosse e abbozzò un sorriso.
«Gli dèi devono aver ascoltato le mie preghiere»
«Hai finito?» commentò Kanan incrociando le braccia al petto.
«Mi sembra il minimo che ora tu sopporti un po’ me, come risarcimento per tutto il mal d’amore che ho dovuto sopportare io» disse, ma pur volendo suonare pungente, non riusciva a nascondere l’entusiasmo per la notizia.
Mari scoppiò a ridere, sebbene il discorso l’avesse messa in imbarazzo tanto quanto Kanan; una parte di sé, però, pensò a chissà quanto «mal d’amore» si sarebbero potute risparmiare entrambe ad essere state completamente sincere con qualche anno d’anticipo. Diede un’affettuosa spallata a Kanan nel tentativo di farla passare sopra l’alto tradimento dell’amica; poi rivolse la sua attenzione di nuovo alla webcam.
«Piuttosto, quando ci rivediamo, Dia? Mi manca uscire tutt’e tre insieme»
Il volto di Dia si addolcì visibilmente.
«Se tornassimo tutte a Uchiura, questo Natale? Io ho una settimana libera fino a Capodanno. Voi che ne pensate?»
Anche Kanan, merito in parte del cambio di argomento, si riaccese.
«Per me è perfetto! Ma devo prenotare il biglietto già da ora»
L’approvazione sollevata dalla proposta le portò a rivangare i bei tempi della fanciullezza, e cominciarono a raccontarsi storie vecchissime di quando andavano a cacciarsi in guai non richiesti in giro per l’isola di Awashima; esploravano lunghi percorsi scivolosi nei boschi, si arrampicavano sugli scogli, facevano tuffi dal molo e pic-nic improvvisati nei pressi del tempio; allora era Kanan che trainava il gruppetto e proponeva le gite più avventurose durante le stagioni calde. D’inverno, invece, coperta da strati di lana così fina che sembrava avesse il fuoco sotto la pelle, Kanan portava le amiche a pescare col nonno; la sera s’intrattenevano in lunghe chiacchierate in casa Matsuura davanti a tè bollenti e poi seguivano fantasiosi giochi di ruolo che potevano durare ore; almeno finché Mari non veniva portata via di peso da qualche dipendente degli Ohara, stanchi di vederla gozzovigliare in giro come una ragazzetta di periferia qualunque.
«Mari» venne allora in mente a Dia, «ma i tuoi genitori lo sanno? Di te e Kanan»
La domanda era stata posta con molta attenzione, perché Mari aveva la tendenza a nascondere ai genitori molte cose, anche decisive; e Dia riconosceva tuttavia che la natura della sua relazione con Kanan poteva essere argomento particolarmente delicato per la sua famiglia.
«Mia madre lo sa, ma non perché ho voluto dirglielo… non ho avuto scelta»
Kanan si voltò verso di lei, stupita.
«Non lo sapevo! E che ha detto?»
«Niente, che doveva dire? Quello che faccio nella vita privata è affar mio»
Aveva risposto con un’improvvisa malcelata stizza, tanto che sia Kanan che Dia rimasero interdette. I tentativi successivi di indagine, però, non valsero a ottenere le risposte che cercavano.
Nell’ora successiva alla videochiamata il malumore di Mari migliorò un po’, mitigato dalla presenza affettuosa della compagna. L’appartamentino di Culver City era avvolto in un assordante silenzio; Kanan le gettava rapide occhiate mentre controllava il dolce che aveva in forno: Mari apparecchiava la tavola, assorta in qualche mondo parallelo, tanto che si era persino dimenticata di indossare il suo sorriso di circostanza; pur essendo visibilmente impensierita dall’ultimo discorso fatto con Dia, non si era ancora decisa a rispondere alle domande a riguardo. Kanan allora pensò che valeva la pena fare un altro tentativo.
«Ti va di dirmi cosa è successo con tua madre?»
Non ricevette risposta, quasi che non l’avesse neanche sentita parlare; ma le lesse negli occhi un’estenuante lotta interiore.
«Mari» riprese più dolcemente, «se cominciamo già a non dirci la verità, quanto dureremo?»
Si guardarono un istante, Kanan posò sul piano cottura lo straccio che aveva tra le mani. Mari dovette ammettere a se stessa che aveva ragione da vendere; inspirò lentamente nel tentativo di trovare la forza che le era venuta meno.
«Mia mamma mi ha preso da parte, ieri sera» cominciò lei allora, ma nel parlare le si era già formato un groppo in gola, «è convinta che io abbia bisogno di conoscere nuove persone, che dovrei smettere di stare sempre con le solite amiche… è incredibile, da quando abbiamo fatto il viaggio in Italia dopo il diploma è come se non avessimo risolto nulla, ma solo spostato il problema: ora invece che parlare esplicitamente di obbedienza svia il discorso su ciò che crede sia il meglio per me… ma il risultato è comunque che cerca di impormi il suo volere…» fece un pausa in cui prese un altro profondo respiro, la prossima parte sarebbe stata la più difficile da riportare, «alla fine ha cominciato a parlarmi di certi “ragazzi interessanti” che conosce lei, figuriamoci… allora le ho dovuto dire di te e lei ovviamente mi ha risposto con le solite stupidaggini, arrogante come se avesse la verità in tasca… mi ha detto che tu non sei adatta a me, che mi distrai dal mio dovere… io l’ho odiata»
Aveva appena finito di parlare quando si ritrovò stretta tra un paio di braccia salde. Kanan non le disse nulla; avrebbe voluto darle un consiglio che le risolvesse il problema con un colpo di bacchetta, o quanto meno che caricasse magicamente su di sé tutta la sofferenza che Mari viveva con la sua famiglia. Ma si ritrovò impotente come e più di lei. La sentì nascondere gli occhi sulla sua spalla e iniziare a singhiozzare: e Kanan realizzò in quell’istante ancora, come già le accadeva da molti anni, che avrebbe dato la vita per lei milioni di volte.
 
La madre l’aspettava in camera, quella sera, nonostante Mari avesse fatto di tutto per evitarla al suo ritorno. Al vederla provò un moto ribellione così acuto che le sembrava di essere tornata alle superiori; non si scomodò nemmeno a nascondere il suo disappunto, tanto che la donna, seduta a gambe accavallate sul suo letto, dovette esitare un istante.
«Ho parlato con tuo padre»
Mari strinse i pugni.
«Beh, grazie di avermi risparmiato la fatica»
Rimase in piedi davanti a lei, a testa alta; poteva dirle quel che voleva, non avrebbe ceduto di un passo.
«Secondo noi dovresti stare con qualcuno che invece di distrarti dal tuo compito, ti aiuti a svolgerlo»
«Non ancora questo discorso, mamma. Non sposerò uno dei vostri “caldamente consigliati” giovani imprenditori»
La donna si alzò in piedi, infastidita da certa sfrontatezza che percepiva in Mari.
«E chi vorresti sposare? La ragazzina che passa la metà del tempo sott’acqua? Tu hai dei doveri… hai un futuro»
«Non parlare così di Kanan!»
«Lo sai che io non ti allontanerei mai dalle tue amiche! Ma questo è oltrepassare il limite!»
«Siamo innamorate, mamma, e non certo da ieri! Lei mi ama! Io la amo! E non credevo che avrei dovuto farti un discorso del genere per giustificarmi di qualcosa che riguarda me e solo me!»
Quelle parole quasi urlate echeggiarono tra le mura della stanza per un po’ di tempo ancora, a riempirne il silenzio. Sua madre la guardò, parve più addolorata che arrabbiata della risposta di sua figlia; si sarebbe quasi potuto dire che ne fosse mortificata, ma Mari non riuscì ad esserne certa, perché lei non disse più nulla: si diresse verso l’uscita e nel passarle accanto le lasciò una piccola pacca sulla spalla, che per qualche ragione alla più giovane fece più male di uno schiaffo in faccia. Non riusciva a capirla. La compativa, forse? Era un modo per dirle che dei suoi sentimenti a lei non importava niente, oppure che gliene importava abbastanza da dispiacerle per le cose che era costretta a dire? Costretta da chi, poi? Silenzio stampa. Senza dubbio le difficoltà comunicative erano un’amara costante dei suoi rapporti.
Lanciò la borsa sul letto con un grugnito infastidito e nello stesso istante le venne in mente suo padre: lui lo sapeva. Raggelò. Le sembrò già sufficientemente strano che non fosse venuto quella sera stessa a parlarle, al posto suo; ma ne era in realtà sollevata, perché non sapeva se sarebbe riuscita ad affrontarlo nel suo stato attuale. Sarebbe stato un osso duro. Si gettò a faccia in giù sul letto; le poche volte che nella sua vita si era dovuta arrendere al volere dei suoi era stato a causa dell’intervento di suo padre, sempre particolarmente perentorio. Allungò un braccio verso il guanciale e se lo trascinò fino a poterci nascondere la faccia; guidata dalla rabbia, desiderò per un istante essere risucchiata in un’altra dimensione, una in cui lei non era erede di un bel niente, non aveva responsabilità, non aveva su di sé nessun tipo di aspettative; una in cui non aveva genitori che non si erano nemmeno sposati per amore. Perché altrimenti, si ritrovò a pensare amaramente, l’avrebbero capita. Addolorata dai suoi stessi pensieri presto si ritrovò svuotata, un guscio fatto di stanchezza che non aveva più nemmeno la forza di arrabbiarsi; completamente accartocciata su se stessa, si addormentò.
Il mattino successivo, con suo disappunto, si rese conto che l’escalation di tutte le sue paure era appena all’inizio. Fu infatti fatta chiamare da suo padre nel suo ufficio e sapeva che stavolta non sarebbe stato per una rilassante seduta di lavoro insieme, condito da gesti paterni a riempire le pause; Mari non aveva voglia di prolungare oltre la sua agonia, per cui si affrettò a presentarsi. L’uomo stava controllando alcune carte, probabilmente riferite ai lavori di ristrutturazione, ma quando la vide entrare posò tutto sulla scrivania e scostò le sue scartoffie da un lato, con gesto lento della mano grande; poi incrociò le braccia e si appoggiò alla poltrona: un movimento che da bambina gli aveva visto fare tante volte quando doveva sgridarla. Da parte sua Mari, come la sera prima, una volta presa posizione all’interno dell’ufficio proprio davanti alla scrivania, non si mosse di un centimetro; ma nonostante l’attitudine fiera, aspettava che il padre cominciasse a parlare come se si trovasse di fronte a un giudice che stesse per pronunciare il suo verdetto. Se ne rimproverò mentalmente: era ridicolo che dovesse sentirsi giudicata su una questione così personale.
«Siediti pure»
Ma Mari non volle: rimase immobile nella sua posizione, lo sguardo torvo. Suo padre allora fece un lungo sospiro.
«Mari, lo sai che non voglio fare la parte del cattivo. Io non avrei niente contro le tue scelte se non dovessi affidarti un giorno la direzione di questo posto: avrai una grande responsabilità, difficile da gestire. Io e tua madre ci saremo il più possibile per te, ma ciò non toglie che sarà un incarico davvero oneroso. Credo che di questo tu sia consapevole»
Padre e figlia si guardarono un momento: lui, sebbene abituato a parlare, pareva ricercare con più attenzione del solito le parole da usare. Lei preferì non rispondergli: sapeva che c’era ancora dell’altro e aspettava che arrivasse al vero punto con impazienza.
«Noi ti consigliamo dei giovani del tuo rango non perché ci divertiamo a programmare la tua vita: lo facciamo perché sappiamo quanto un giorno potrà essere utile avere qualcuno al tuo fianco che ti aiuti concretamente nel tuo ruolo. Questo è il primo motivo per cui credo che stare con quella ragazza non ti sia d’aiuto» l’uomo chiuse gli occhi un attimo e prese un respiro, pensoso, «Su un altro piano, invece, sono del parere che non solo non possa aiutarti, ma potrebbe addirittura esserti dannoso»
Mari aggrottò le sopracciglia. Immaginava che la questione potesse rivelarsi più spinosa di quanto già non fosse: allora raccolse il coraggio a due mani e si decise a rispondergli.
«In che modo quello che faccio nella mia vita privata dovrebbe avere ricadute negative sul mio lavoro?»
Il padre non si scompose: tenne testa per qualche secondo allo sguardo della figlia coi suoi occhi vitrei, in cui si intravedeva il peso degli anni e delle sue proprie fatiche.
«Il lavoro imprenditoriale svolto ai nostri livelli ti rende in tutto e per tutto un personaggio pubblico, Mari. Le scelte che compi nella tua vita non sono mai solamente tue, appartengono a tutta l’azienda: la tua reputazione personale è collegata a quella di coloro che hai sotto la tua responsabilità. Tu ne rappresenti l’immagine. E deve essere un’immagine il più possibile scevra da… scandali»
Il volto di Mari si scuriva man mano che il padre aggiungeva argomentazioni che le sembravano senza capo né coda; ma l’ultima parola le fece montare una rabbia amara, di chi vorrebbe ribellarsi ma sa già che ogni replica sarebbe probabilmente inefficace come una goccia nell’oceano.
«Con chi sto non deve interessare a nessuno! Se la gente vuole scandalizzarsi, che si scandalizzi, a me non è mai importato di cosa pensano gli altri»
«Allora forse non sei più adatta a questo ruolo»
Mari gelò la sua furia immediatamente e stette col fiato sospeso di fronte a lui. Suo padre le suonava all’improvviso mortalmente serio, più di quanto avesse mai percepito in precedenza.
«Se non sei disposta a fare dei sacrifici forse non è questo il luogo per te. Io e tua madre ne abbiamo fatti e ne facciamo ogni giorno. Te lo dico col cuore in mano: non voglio più obbligarti a vivere una vita che non desideri… se sei decisa stare con lei allora l’Ohara Corporation non fa per te. Finirai il tuo percorso di studi in Italia e poi, laurea alla mano, sarai libera di decidere da sola per il tuo futuro. Sono certo che hai le carte in regola per avere successo qualunque strada tu scelga. Se ci vedremo costretti a designare un nuovo erede per l’azienda, però, dovremo dirottare su di lui una parte del patrimonio che ti spettava intero»
Mari era senza parole. Non riusciva a percepire se questo assurdo discorso fosse una sincera proposta di scelta oppure un’arma di un puro e semplice ricatto. Si era impegnata tutta la vita per ereditare ciò di cui aveva pieno diritto, aveva studiato, sudato, lavorato; grazie anche a quei tre anni a Bologna aveva realizzato che desiderava quel futuro per se stessa: non si capacitava di come proprio ora suo padre le proponesse a cuor leggero di sottrarglielo. Boccheggiò, sopraffatta dal ritmo accelerato del suo cuore; i pugni che aveva stretto le si sciolsero, sudati e tremanti.
«Aspetta… aspetta io… devo pensarci» si ritrovò a balbettare, dolorosamente disarmata.
Ridotta al silenzio, spogliata. Come tutte le volte che suo padre si esprimeva col pugno di ferro del risoluto imprenditore. Avrebbe voluto aprire il suo cuore, far uscire il dolore che lo gonfiava come una spugna, ma più guardava l’uomo davanti a sé più le parole le marcivano sulla lingua: lo fissava persa, impossibilitata a ricucire la figura del padre con quella dell’uomo in carriera; si sentiva vergognosamente docile, prosciugata delle proprie forze, stupida e indifesa. Inveì dentro di sé contro quel velo di incomunicabilità che li separava. Tutti loro.
Il padre fece un segno d’assenso e la invitò a congedarsi. Mari uscì, a passi lenti ed estraniati; nel fare le scale incrociò un paio di operai della sala meeting che la salutarono rispettosamente, ma lei passò loro accanto come un fantasma. Fuori dalle finestre, Downtown Los Angeles era pietrificata in una scultura bollente fatta di acciaio, vetro, bitume. Il sole compiva i suoi giochi di luce riflettendosi sulla superficie lucida dei grattacieli, cuocendo a fuoco lento tutta la vallata; non c’era un filo di vento. Eppure Mari tremava, e a incontrarla tra i corridoi la si sarebbe certamente data per malata: ma nessuno di quelli che la incrociava giudicò di doversi fermare.
Alla fine si era giunti di nuovo a questo. Il suo futuro o Kanan. Quando era più piccola, quando erano solo buone amiche, avrebbe senza dubbio privilegiato la seconda; provò vergogna nel rendersi conto che, in fondo, adesso non era per nulla scontato mettere da parte tutto per lei.
Dopo ore, ormai smarrita nella sua disperazione, decise che aveva bisogno di tempo per riflettere. Non andò a Santa Monica quel giorno, né il giorno dopo.




 
Note finali
Angst per Mari a tradimento? Angst per Mari a tradimento!
Il finale (dalla discussione col padre in poi, ma soprattutto quando Mari esce dall'ufficio) a mio giudizio è uno dei pezzi che mi sono espressivamente venuti meglio dell'intera storia (grazie al Maestro Carlo Emilio Gadda per gli spunti) <3

Prossimo aggiornamento: 11 novembre

Grazie di aver sofferto letto,
Alex

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Capitolo 7
*** Accettare un rischio non calcolato ***


 7. Accettare un rischio non calcolato
 
How do we rewrite the stars?
Say you were made to be mine?
[...]
But I can’t have you
We’re bound to break and my hands are tied
 
“Rewrite The Stars”, from The Greatest Showman
 
La piscinetta delle esercitazioni del Centro era gremita di clienti e studenti, tra i quali spiccava il gruppetto di principianti di Nicole e Kanan; la prima era intenta a spiegare alcune procedure di primo soccorso che la seconda avrebbe poi fattivamente mostrato. Ma Kanan, in evidente stato di distrazione, anziché ascoltare picchiava il boccale di uno snorkel sulla gamba della sedia su cui era seduta, con un ritmico e fastidioso ticchettio. Fissava un punto imprecisato dietro Nicole, di cui captava qua e là qualche parola, non sufficiente per strapparla dai suoi pensieri.
«… vero, Miss Matsuura?»
Kanan raggelò, per la seconda volta rimproverata nel giro di un mese. Balbettò qualcosa per scusarsi, mentre si alzava in piedi e si prodigava in inchini riparatori; qualcuno tra gli studenti rise, ma venne immediatamente fulminato da un’occhiataccia di Nicole.
«Come dicevo, Miss Matsuura adesso ci mostrerà alcune tecniche di rianimazione…» le due colleghe si guardarono, Kanan annuì un po’ troppo debolmente per i gusti di Nicole «a meno che non senta la necessità lei stessa di una… procedura di respirazione bocca a bocca da parte di una certa bionda…» aggiunse a denti stretti, ma abbastanza forte perché la sentisse.
Kanan la guardò stordita; gli studenti in loro prossimità ammutolirono, captando la tempesta.
«Scusa?»
«James, Matsuura… tutto a posto?»
La voce intervenuta era quella di uno degli istruttori più anziani, allertato dallo stato di tensione che si respirava nel gruppo delle due più giovani. Nicole sfoggiò il suo miglior sorriso riparatore e fece prontamente un cenno al suo superiore.
«Tutto bene, è solo il caldo che ci sta dando alla testa» scherzò, «… in pausa pranzo ne riparliamo, non pensare di sfuggirmi, Kanan» concluse rivolgendosi sottovoce alla collega, tra il minaccioso e il rassegnato.
Ma il fioco cenno di assenso della ragazza le fece temere che la situazione fosse più grave di quel che si era immaginata.
Nel giro di qualche ora stavano sui tavolini esterni del locale che erano solite frequentare, a metà strada tra il Centro Immersioni e la spiaggia.
«Kanan, ultimamente al lavoro non sembri neanche tu. Di solito sei sempre attenta e ricettiva... un giorno “no” capita a tutti, ma ormai saranno… quanti, quattro?»
«Tre» corresse Kanan posando sul tavolino la bottiglietta ancora piena di Coca-Cola.
Nicole piegò il capo verso di lei con fare interrogativo.
«Mari è un po’ che non si fa viva… è per quello?»
«Risponde in modo evasivo ai messaggi, non risponde per nulla alle chiamate… tutto da un giorno all’altro. Non ha mai fatto così, ho paura che c’entrino i suoi genitori… e non so che fare, non so se dovrei andare da lei il prima possibile oppure è meglio che non mi faccia viva per un po’! Non so nemmeno se è per causa mia e questa cosa mi manda fuori di testa!»
La collega stese una mano in avanti per bloccarla.
«Kanan, calmati. Capisco la preoccupazione e tutto, ma devo dirtelo: scene come quella di oggi al Centro non devono più ricapitare. Sei una gran lavoratrice, lo so bene, e so che normalmente sei perfettamente in grado di tenere separate vita lavorativa e vita privata… questo è un caso più che particolare. Ma è arrivato il momento di riprendere a dividere le due cose… e ti chiedo scusa per la frecciatina che ti ho lanciato, riconosco non fosse per nulla d’aiuto. Tutto questo devo dirtelo in qualità di tua collega e superiore...», e Kanan abbassò la testa colpevole, «… da amica, invece, ti dico: vai da lei. Non ha senso che tu rimanga qui a piangerti addosso come una bamboccia mentre aspetti che ti risponda, non sei mica alle elementari! … facciamo così: domani siamo libere, ti accompagno in macchina a Downtown»
Kanan aveva gli occhi lucidi e un’espressione sconsolata da far impietosire un serial killer; teneva stretta la bottiglia con entrambe le mani, come fosse l’unico solido appiglio rimastole in mezzo a una burrasca.
«E se fosse lei a non volermi vedere? Io non voglio lasciarla andare, Nicole»
«Raggio di sole, assumiti le tue responsabilità. Tu l’hai conquistata, tu ora devi trovare il modo di far funzionare le cose… lei per qualche motivo adesso non può, perciò o ti fai avanti, o lasci che la vostra relazione marcisca nei sotterranei di questa volubile città nello stesso modo in cui ci è nata. E sono sicura che tu non voglia questo»
Nicole alzò il suo tè freddo verso di lei, attendendo che Kanan facesse lo stesso. La più giovane lasciò andare un sospiro misto a una mezza risata; arresa, accettò l’offerta e fece tintinnare la bottiglia contro la sua, per poi portarsela alle labbra.
 
Seduta in macchina con Nicole, il giorno dopo, Kanan ebbe un po’ di tempo per pensare. La città le scorreva davanti agli occhi, vitale e indaffarata come sempre; si rese conto di quanto le sembrasse molto più monotona e grigia, senza Mari. Le cose che un tempo l’avevano stupita - i viali alberati, i cinema storici, i monumenti contemporanei - non sortivano più alcun effetto su di lei da quando si era chiusa nel suo silenzio: era come se la luce delle cose fosse venuta meno e la realtà stessa fosse piombata in un buio abisso. L’insegna di Hollywood era una scritta di cartapesta che campeggiava in un prato di sterpaglie bruciacchiate dal sole estivo; le strade secche, crepate, nascondevano l’incuria e l’indifferenza di quei vialoni tutti uguali, che fungevano da cornice arrugginita alle ben curate attrazioni principali: la Vanità mascherata sorrideva ai visitatori in forma di ville e di stelle e di impronte e di supercar parcheggiate tra i negozi di lusso. Los Angeles era sempre stata così mediocre?
«Questa stupida città è un inutile connubio di traffico e celebrità rifatte» arrivò il puntuale commento di Nicole, che si innervosiva spesso quando doveva guidare per quelle strade.
Kanan rise tra sé; ma subito dopo la colse una sorta di angosciosa malinconia, e le scavò un vuoto addosso che pareva riflettere il nulla esistenziale che in quel momento, per la prima volta, aveva sorpreso oltre il sipario della gloriosa capitale del cinema. Forse Nicole non aveva tutti i torti.
Il navigatore le condusse all’hotel a colpo sicuro, in poco meno di mezz’ora. Nicole scambiò con lei uno sguardo di complicità e poi le diede delle vigorose pacche sulla schiena.
«Vai a torna vincitrice! Chiama pure se hai bisogno»
Kanan annuì e scese, ma attese immobile che la sua collega ripartisse: inspirò a fondo, chiuse gli occhi qualche secondo, poi li riaprì; solo dopo si avviò all’interno dell’hotel. Una volta davanti al bancone chiese al receptionist di Ohara Mari, la figlia dei proprietari: questi la squadrò con sospetto da dietro gli occhialetti spessi.
«Chi cerca la signorina?»
Nel tentativo disastroso di balbettare il proprio nome – già pensava a tutti i possibili scenari apocalittici in conseguenza all’esser beccata dalla madre di Mari –, fu definitivamente zittita dalla mano di un uomo adulto sulla sua spalla. Gelò.
«Me ne occupo io, questa ragazza è con me»
Kanan riconobbe il timbro in un battito di ciglia e si voltò, l’espressione totalmente trasfigurata dal sollievo.
«Zachary!»
L’autista le sorrise, bonario come sempre; poi le fece cenno di seguirlo all’esterno, mentre già si infilava una mano nel taschino del gilè quadrettato e ne estraeva la scatolina dei sigari. Una volta sul marciapiede, appoggiò le spalle al muro e se ne accese uno, con una gestualità precisa e rituale. Kanan lo lasciò fare: essere con lui l’aveva investita di uno stato di semi-pacificazione; non avvertiva più la frenetica fretta di trovare Mari: la sua pista migliore era proprio davanti ai suoi occhi, che aspirava il cubano con l’usuale dedizione.
«Stai cercando Miss Mari?» iniziò lui dopo un lungo minuto di pausa.
Kanan annuì.
«Sai dirmi dov’è?»
«Sì, ma mi preme dirti una cosa, prima» fece un tiro, trattenne il fumo in bocca e poi lo espulse, «sono confidenze che mi ha fatto la signorina… ma siccome riguardano anche te, vorrei mettertene al corrente» aspirò ancora, facendo una pausa più misurata «così potrai decidere consapevolmente se proseguire o farti da parte»
«Sì, certo» gli rispose Kanan staccandosi dal muro, un formicolio al petto la riportò di nuovo in uno stato di preoccupata sospensione.
«Mister Ohara ha proposto alla signorina di scegliere tra succedere all’azienda oppure vivere liberamente la vostra relazione. Ma il problema è che, naturalmente, non riesce a decidere»
L’uomo si lasciò andare a un sonoro sospiro. Kanan si era già visibilmente irrigidita, sembrò voler subito intervenire ma le parole le si seccarono in gola.
«Io devo confidarlo, ho a cuore la felicità di Miss Mari come se fosse figlia mia», passò la fiamma dell’accendino sulla punta bruciacchiata del sigaro, per riattizzarlo, «mi preoccupa che affronti questa situazione da sola, per questo ho provato a parlarle: ma la signorina alle volte sa essere testarda tanto quanto il suo vecchio! Non sente ragioni, anche se ormai è evidente che non risolverà nulla incaponendosi. Io ho paura che finisca semplicemente per gettare la spugna. Sono convinto che parlare con te l’aiuterebbe, ma significa anche prenderti il rischio di entrare in faccende che riguardano la sua famiglia» fece un altro tiro, poi si voltò verso la ragazza, «al netto di queste informazioni, ti chiedo: cosa vuoi fare?»
A Kanan, in verità, era crollato il mondo addosso. Non riusciva a credere alle sue orecchie: ogni volta che il loro rapporto si poteva dire solido, ogni volta che lei si poteva finalmente definire felice, riuscivano a finire nelle situazioni più spinose, sbattendo la faccia su muri che sembravano fatti di cemento armato. Lo scoraggiamento era palese nei suoi occhi, ma lottò dentro di sé perché non avesse la meglio: ci doveva per forza essere una soluzione, qualcosa che non le obbligasse sempre a separarsi di fronte al quell’ingrato, recidivo, bivio. Qualcosa che permettesse loro di rimanere se stesse.
Afferrò il braccio dell’uomo, col cuore che aveva iniziato a galoppare con impazienza.
«Portami da lei, ti prego»
Zachary le sorrise e spense il suo mozzicone su un posacenere posto fuori le porte dell’hotel, per poi conservarlo nella scatolina. Tirò fuori dal suo borsello le chiavi argentate della Mercedes e le aprì la strada. Kanan non aveva assolutamente idea di cosa le avrebbe detto: l’unica sua certezza era che non avrebbe fatto passare un giorno di più senza aver provato a parlarle.
 
In cima al monte di Hollywood, sul versante dell'Osservatorio Griffith carico di turisti, si godeva di una delle viste più iconiche della Contea di Los Angeles. Circondato dall’ampio Griffith Park, l’Osservatorio troneggiava al di sopra dell’immensa metropoli, svelando un panorama che sfiorava le coste dell’Oceano Pacifico. Sul grande parcheggio simmetrico, puntellato di auto metallizzate, Zachary si era fermato per far scendere la sua ospite. Kanan si voltò verso di lui, ancora immobile sul sedile: colse una buona dose di coraggio dal suo sorriso paterno; quindi fece per scendere ma venne bloccata dalla cintura di sicurezza, di cui si era dimenticata, che la riportò ingloriosamente sul sedile. Zachary non poté trattenere una risata.
«Rilassati»
«Spero andrà meglio di come ho cominciato!»
«Ne sono certo»
Scese dalla Mercedes: il luogo, fortunatamente, la metteva a proprio agio: ci era stata altre volte e lo conosceva piuttosto bene. Guidata dall’abitudine, prese il percorso esterno all’aiuola, in direzione del lato ovest dell’edificio; camminava lentamente, per avere il tempo di pensare a cosa le avrebbe voluto dire al momento di incontrarla. Scese le scalette e raggiunse i balconcini che davano sulla vallata, bianchi e assolati; il mare vasto della città catalizzò subito la sua attenzione: perciò si avvicinò al muretto per goderne meglio. Istintivamente prese il cellulare dalla tasca per fare una foto, ma appena sbloccò lo schermo si ritrovò davanti agli occhi la chat di Mari; aggrottò le sopracciglia e mise via l’apparecchio, nuovamente ferita.
Da tre giorni non le parlava. Zachary sosteneva che non riuscisse a scegliere, ma in fondo questa chiusura non era già essa stessa una scelta? Dopotutto non si era più presentata al Centro, e l’aveva tagliata fuori da una faccenda che la riguardava. Sapeva bene che Mari si trovava di fronte a un’impasse: non sapeva se avrebbe reagito in maniera diversa, nei suoi panni. Ma il problema era, appunto, che si trattava di un’impasse; un nodo che andava sbrogliato all’origine. Facilmente, ne conseguiva una valanga di lavoro e di rischi. Gettò fuori un sospiro rumoroso, incurante di essere in un luogo pubblico.
Dietro di lei alcuni turisti percorrevano la passeggiata, parlando una lingua che non conosceva; nel movimento istintivo del girarsi a guardarli, Mari entrò inaspettatamente nel suo campo visivo: lei era proprio lì, qualche metro più avanti sotto il porticato, con le mani appoggiate al muretto e gli occhi persi tra i grattacieli argentati. Kanan ebbe un tuffo al cuore: e si rese conto che aveva esaurito il tempo per autocommiserarsi. Prese un profondo respiro e le si accostò, imitandone la postura.
«Ehi»
Un leggero movimento al suo fianco le dette la certezza di essere stata sentita.
«Che ci fai tu qui?»
«Cercavo te»
Non udendo risposta, raccolse tutto il coraggio che aveva e si girò verso di lei, persuasa che la soluzione migliore fosse arrivare al punto il prima possibile.
«Sei sparita tre giorni senza alcuna spiegazione e nascondendomi la verità… avrei potuto pensare che ti fosse successo qualsiasi cosa se non avessi parlato con Zachary. Venire a cercarti mi sembrava il minimo che potessi fare»
«Mi dispiace… lui ti ha detto tutto, immagino»
«Tutto quello che speravo mi dicessi tu»
Pur senza desiderarlo davvero, non poté fare a meno di lasciar trasparire, dal tono della sua voce, una punta di delusione. Mari in risposta si staccò dal muretto e le stette di fronte, faccia a faccia, cosicché Kanan ebbe modo di vedere quanto stanchi fossero i suoi occhi, gonfi, arrossati; l'immagine la trafisse più di quel che avrebbe voluto.
«Allora non mi sembra ci sia bisogno di dirci altro. Perché sei venuta a cercarmi lo stesso? Io non voglio più metterti in mezzo a tutti i casini della mia famiglia… e io… io sono stanca di lottare contro di loro»
Kanan deglutì, la gola le si era seccata di botto nel sentirla così prostrata.
«Mari, ma tu non sei da sola, ci sono io con te...  se tu non riesci più a lottare posso farlo io per te!»
«Tu non capisci!» ribatté alzando inaspettatamente il tono, al che Kanan trasalì, «non possiamo fare nulla se mio padre decide che non è d’accordo! Ha avuto il coraggio di propormi di abbandonare tutto quello per cui ho lavorato duramente! Tutto! Io sono stanca… forse semplicemente non siamo destinate a stare insieme, alla fine troviamo sempre qualcosa o qualcuno che si mette in mezzo. Io non vorrei scegliere, Kanan, ma mi vogliono costringere a farlo»
«Non devi scegliere, infatti! Io stessa neanche ti chiederei mai di rimanere con me di fronte a un bivio simile, lo sai bene… perché non è giusto che tu scelga! Questo è ciò che dobbiamo dire a tuo padre: che noi abbiamo diritto di stare insieme tanto quanto tu hai diritto di riavere il tuo posto! È mostruoso che ti ricatti in questo modo! Ma dobbiamo essere unite e dirglielo insieme!»
«Pensi che riusciremmo a convincerlo? Non lo conosci abbastanza, Kanan. Devi smetterla di insistere!»
Nonostante il groppo in gola che cominciava a percepire, Kanan strinse i pugni e fece un passo verso di lei.
«Devo smetterla? Quando ti ho lasciata andare te la sei presa! Ora che non ho intenzione di tirarmi indietro non va bene lo stesso?»
«Kanan, ti prego...»
«Che cosa vuoi che faccia, Mari? Torniamo amiche e facciamo finta che l’ultima settimana non sia mai esistita? Io finalmente so che cosa voglio veramente e so che lo vuoi anche tu! Come puoi chiedermi di non lottare?»
«Ma questa non è una battaglia! Quando mio padre si mette in testa una cosa non c’è verso di convincerlo! Insieme a mia madre, poi…»
«Non mi sembra che il loro giudizio fosse un problema quando scappavi dall’hotel per venire a incontrare me e Dia!»
«Eravamo solo bambine, Kanan!»
«Anche quando sei tornata all’Uranohoshi di testa tua eri una bambina? Anche quando eravamo in Italia? Io capisco che tu non ce la faccia più, ma io sono qui proprio per questo! Io sono qui per te!»
Le prime lacrime dall’inizio della discussione scesero proprio sul volto di Kanan; Mari non riuscì a sostenerne la vista e si girò dal lato opposto, dandole la schiena e nascondendo con le mani il turbamento che le traspariva dal viso.
«Tu sei venuta da me, Mari! Tu hai deciso che valeva la pena rischiare, mi hai cercata, mi hai… mi hai fatta innamorare di nuovo di te! E non ti sto dando la colpa perché lo rivivrei cento volte… ma mi sembra un po’ tardi adesso per chiedermi di dimenticare tutto e rimanere solo amiche! Perché io ora so che affronterei tuo padre per poter restare con te!»
Le spalle di Mari tremavano; allora Kanan avanzò e la circondò con le sue braccia, decisamente e allo stesso tempo senza forzarla. Appoggiò il mento sulla sua spalla, incrociò gli avambracci sul suo addome e chiuse gli occhi, dando un profondo sospiro.
«Se davvero vuoi che io mi faccia da parte, allora devi convincermi del fatto che non mi ami»
Mari rimase immobile nel suo abbraccio, col respiro spezzato e le labbra semiaperte, incapace di replicare. Fece correre le proprie mani sui suoi polsi, tra le dita, accarezzandole piano. In un moto istintivo spostò la testa come a voler girarsi per darle un bacio, ma si fermò a metà movimento, combattuta tra il desiderio di abbandonarsi e il continuare a resistere; allora sfregò la guancia su quella dell’altra, per un breve momento.
«Pensi che per me sia semplice, Kanan?» trovò la forza di rispondere a un certo punto, ma la voce le usciva esile «Mi vedi! Vorrei con tutta me stessa che fosse facile come dici tu, ma non lo è»
Prendendo coraggio strinse la presa sulle mani di Kanan e la indusse a sciogliere l’abbraccio; poi, senza mai voltarsi, se ne andò.
 
Il sole era tramontato da una ventina di minuti: il suo chiarore ancora s’irradiava dall’orizzonte, regalando tonalità indaco e azzurre alla volta del cielo. Kanan era in piedi sul molo di Venice Beach con le mani in tasca e lo sguardo rivolto all’oceano, la bicicletta malamente abbandonata un centinaio di metri dietro di sé, vicino alla pista ciclabile. Un rimescolio continuo si poteva ascoltare da sotto il pontile in legno, stanche carezze del mare che concludevano l’avvicendarsi affannoso delle maree; il molo era in penombra, faticosamente illuminato da qualche lampione freddo e frequentato solo da qualche coppietta. Kanan respirò l’oceano: l’odore di salsedine la tranquillizzava, ma non valeva a toglierle dalla testa lo scontro avvenuto con Mari quella mattina. Passeggiò con una fiacca quasi senile fino alla fine del pontile, in ascolto dei propri passi e delle onde gorgoglianti; c’era il mare, c’era la pace, c’era la quintessenza della sua vita senza alcun rischio preso, se non quelli già calcolati, se non quelli già vissuti e superati. La sognava da sempre, questa vita, tra le onde del mare e le quattro mura di casa e del negozio, con nessuna preoccupazione che non fosse il suo immediato presente: ma subito al pensarlo sul volto le si disegnò una lacerante afflizione, perché in quel suo sogno non vedeva accanto a sé Mari. Un misero presente, quello in cui lei non c’era. Mari, in questo quadro, era il rischio non calcolato: senza accettarlo, la sua bella vita in riva al mare non valeva la pena neanche di essere immaginata. Era un rischio che chiedeva di essere rischiato fino in fondo; era il punto di crepa che sfregiava un muro meticolosamente cementato: se gli avesse dato lo spazio per allargarsi, chissà cosa poteva rivelare.
Si fermò alla fine del molo. Sfilò le mani dalle tasche e chiuse gli occhi: quel che c’era da fare lo sapeva da ore, ad essere sincera con se stessa. Sapeva già per cosa valeva la pena combattere, sebbene cercasse di distogliere la mente e tentasse di convincersi che era tutto vano, che Mari aveva tristemente ragione. Era un aut aut: una vita con lei o una senza di lei. Prese un ultimo profondo respiro, riempiendosi i polmoni, poi dette le spalle all’oceano e avanzò verso la bici, a passo spedito. Avrebbe preso su di sé la responsabilità di quel rischio e affrontato faccia a faccia la famiglia Ohara.



 
Note finali
*parte musica della boss battle in lontananza*
Questo è il capitolo in cui dimostro con un complicatissimo teorema (aka narrazione patetica, cioè piena di pathos) che Kanan ha imparato qualcosa dagli errori passati *rumori molesti di fangirl di Kanan*

Prossimo aggiornamento: 21 novembre

Grazie di aver letto!
Alex

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Capitolo 8
*** Passo a due ***


8. Passo a due
 
When every star falls from the sky
And every last heart in the world breaks
[...]
When every ship is going down
I don’t fear nothing when I hear you say:
It’s gonna be OK
 
“Ok”, Robin Schulz feat. James Blunt
 
Kanan non riusciva a realizzare di essere sul serio di fronte al plurimilionario Akihito Ohara con l’aria di una che ha delle richieste precise e vuole vederle soddisfatte. Aveva fatto peste e corna per riuscire a convincere prima la receptionist e poi la sua segretaria personale ad avere un colloquio improvvisato e fuori programma, millantando urgenze di ogni ordine e grado - dopotutto era una questione da affrontare «ora o mai più». Sua madre l’aveva incontrata molte volte in passato e l’antipatia era palese e reciproca; ma lui era tutta un’altra storia: emanava sicurezza e austerità, si intuiva fosse una persona costruitasi da sé, abituata a giocare secondo le sue proprie regole. Incrociando lo sguardo accusatorio dell’uomo in piedi, appoggiato alla sua scrivania a braccia conserte, e sua moglie lì accanto, seduta su una poltrona di velluto rosso, per un istante si pentì amaramente di tutte le scelte che aveva compiuto dai sette anni in poi, in cui c’entrasse Mari. Riusciva a capire ora molto bene di fronte a che tipo di pressione lei aveva lottato coraggiosamente tutti i giorni della sua vita, per affermare se stessa nelle sue scelte. Ma il suo spaesamento durò poco: Mari li affrontava a testa alta da più di vent’anni, Kanan sarebbe riuscita a farlo almeno per una mezz’ora, per il suo bene.
«Hai un bel coraggio, Matsuura, per venire qui a parlarmi in questo modo»
Lei in realtà era abbastanza sicura di aver dato fondo alle sue massime riserve di umiltà e diplomazia nel rapportarsi a loro, per cui non capiva troppo bene da dove provenisse la stizza. Si era addirittura vestita di tutto punto con una polo ben stirata e pantaloni cargo lunghi fino alle caviglie - non il massimo dell’eleganza, ma per non ammucchiare troppi vestiti nell’appartamento si era adattata negli anni a un guardaroba ristretto.
«Ecco… ve lo ripeto, sono qui solo perché vorrei che lei potesse essere lasciata libera. Intendo… libera davvero. Vorrei che fosse libera di decidere autonomamente se io sia o non sia d’intralcio per il suo lavoro. Io, da parte mia, sono pronta a impegnarmi perché lei dia sempre il meglio, come già fa. Non voglio altro che il suo bene, dovete credermi»
Il discorso suonava un po’ formale, ma era così che se l’era progettato e ripetuto più volte nella sua testa, per evitare di rimanere in balia della propria altalenante capacità di comunicazione.
Fuori dalla stanza, appoggiata al muro accanto alla porta, l’argomento della loro disputa li ascoltava a loro insaputa. Mari l’aveva scorta entrare nell’ufficio di suo padre qualche minuto prima, ed era l’ultima cosa che si sarebbe aspettata: non riusciva a credere che fosse stata serissima quando le aveva proposto di affrontare insieme suo padre. Per la precisione, «pazza» e «testarda» erano i primi due appellativi che aveva usato nel suo filo di pensieri. Il secondo dopo, però, si era trovata suo malgrado attaccata alla porta dell’ufficio a origliare, con un’attesa allo stesso tempo vibrante e angosciosa.
«Tu non hai la più pallida idea di quale sia il suo bene!» intervenne sua madre.
«È vero, per questo voglio che lei stessa sia libera di decidere qual è!» arrivò la risposta ribattuta di Kanan.
«Comprendo la tua preoccupazione, ma Mari ha ancora bisogno di essere guidata», la figlia rabbrividì a sentire la dura sentenza del padre, «e non permetto a una ragazzina di sindacare sulla giustezza delle decisioni che prendo in quanto genitore»
«Per di più, la predica arriva dalla stessa ragazzina che la faceva sempre fuggire di casa a orari improponibili!» aggiunse la moglie, «ti conosciamo da quando eri bambina, sarete state buone amiche ma non sei nella posizione per chiederci favori»
Il silenzio che seguì le fece temere il peggio; Kanan non rispondeva, poteva benissimo immaginare che fosse in atto una strenua battaglia di sguardi. Poi, finalmente, un paio di passi decisi.
«Smettetela di chiamarmi “ragazzina”. Io non sono più solo una sua amica: sono la sua ragazza, a prescindere che voi lo accettiate o meno»
Il tono era cambiato, come se avesse smesso di seguire l’evidente scaletta mentale e fosse passata alle repliche a braccio. Mari ringraziò tutti gli dèi di non essere in quella stanza, cosicché non potevano vedere l’incendio che le ardeva in faccia.
«Voi lo sapete meglio di chiunque altro quanto le abbia fatto bene stare con noi, vivere le sue esperienze alla Uranohoshi… ve lo abbiamo dimostrato! E ci avevate promesso che l’avreste lasciata essere se stessa! Lasciate che decida per sé! Lasciate che sbagli, se deve! Non è di certo un fallimento che la farà arrendere, io lo so bene… ha studiato duramente per dare il meglio: è con voi da sempre, si prepara da anni, pensavo la consideraste molto migliore di così!»
Il tono quasi di supplica, ma una supplica carica di determinazione, lasciò poi il passo a un cambio repentino d’argomento che le infiammava le parole fin quasi a bruciare: ed era un fuoco che Mari non si aspettava provenire da Kanan.
«Io mi fido del suo giudizio e ve lo ripeto: sono la sua ragazza. Questa cosa non cambierà finché so che anche lei lo vuole. Io amo Mari, e resterà un dato di fatto anche se la costringete a scegliere tra me e il suo lavoro… mi sono ripromessa di prendermi cura di lei. Per questo sono venuta da voi: non ho intenzione di lasciarla sola mai più»
Dietro la porta, Mari si accorse di star piangendo solo quando due gocce le bagnarono gli shorts, troppo occupata a far tacere il suo cuore che bussava irrequieto, per timore che le persone dentro l’ufficio potessero riuscire a sentirlo; accovacciata a terra, con la schiena sempre saldamente appoggiata al muro, lasciava che le lacrime le scorressero liberamente sulla pelle. Respirava la stessa tensione che si registrava nella stanza alle sue spalle; il discorso di Kanan le aveva instillato il tarlo di voler intervenire, di raccogliere finalmente il coraggio che le mancava per mettersi al suo fianco e guardare nuovamente suo padre in faccia, non più sola.
«Tu e lei vivete nel mondo delle favole»
L’imprenditore aveva preso il posto del genitore, e aveva ristabilito il silenzio. D’improvviso era sparita la Kanan decisa, quella con la risposta pronta – preparata o meno. Mari sprofondò ancora più in se stessa, ferita: stupida Kanan che aveva creduto di poter fare la differenza, e stupida lei che ci aveva sperato, nascosta dietro una porta al riparo dalla tempesta.
«Quando crescerete capirete come gira veramente il mondo»
Alcuni passi lenti, che Mari riconobbe come quelli di suo padre, riecheggiarono fin nel corridoio vuoto.
«E con questo, direi che il nostro meeting si conclude qui»
Eppure sembrava così vicina a farcela. Mari abbassò lo sguardo sulle sue mani, nervosamente attorcigliate tra di loro: la mente le si svuotò. Si rialzò con lentezza, graffiando leggermente le spalle nude sullo stipite di legno; se agivano da sole era impossibile, aveva ragione Kanan. Ma insieme sarebbe realmente cambiato qualcosa? Non ne era convinta, ma non poteva saperlo finché non si decideva a tentare. Avvicinò la mano alla maniglia, e nello stesso secondo si sentì assalire da mille obiezioni, dubbi, paure per le conseguenze; stavolta, tuttavia, scelse di lasciar cadere tutto nel vuoto.
Padre, madre e compagna la guardarono, con diversi gradi di sorpresa nell’espressione del volto; Mari ricambiò lo sguardo di tutti, poi si fermò su Kanan: voleva trasmetterle a un tempo il rammarico di non essersi unita a lei e la gratitudine per non aver ceduto di un passo, pur da sola. Eppure, negli occhi luminosi di Kanan, non riuscì a trovare alcuna traccia del rimprovero che credeva di meritare.
«Tu sei veramente un vecchio testardo» finì per dirle con un timido sorriso.
L’altra arrossì in risposta, del tutto impreparata alla nuova situazione. Mari le si fece accanto e stette a testa alta davanti ai suoi genitori, come oramai faceva inconsciamente tutte le volte che li fronteggiava. D’altra parte erano stati proprio loro a insegnarglielo: a tenere sempre il mento sollevato con fierezza, anche nelle situazioni più disperate; era il sigillo d’orgoglio di essere un’Ohara.
«Se è una favola, papà, io non lo so… ma so che lei è qui per me, perciò anche io voglio esserci per lei. Io ho imparato da voi cosa significa il duro impegno, la responsabilità e la passione per il lavoro: e quando lo dimentico, Kanan è la persona che mi spinge a dare di nuovo il massimo. Per questo non posso più scegliere tra le opzioni che mi hai dato: ho bisogno di entrambe per essere me stessa»
La stanza ricadde nuovamente nel silenzio. Mari fece un inchino e fu subito imitata da Kanan; da quella posizione poté immaginare gli sguardi perplessi e sconcertati dei suoi genitori, o forse le occhiate complici che si scambiavano per decidere sul da farsi. Non che ci fosse molto da decidere, pensava Mari: era ancora convinta che non sarebbe mai bastato a persuaderli, ma almeno adesso sapeva che non avrebbe mai più dovuto affrontarli da sola. Quel silenzio, a dire il vero, la rincuorava: poteva essere segno che un seme era stato piantato, anche se non sapeva quanto tempo ci sarebbe voluto perché nascesse il primo frutto. Sentì sua madre alzarsi dalla sedia e il ticchettio dei suoi sandali dirigersi lento verso il centro della stanza, probabilmente accanto al marito. Quando il movimento cessò, le due ragazze si decisero a sollevare di nuovo la testa.
«Non ti arrendi proprio mai, Mari» disse alla fine l’uomo.
Aveva pronunciato il nome della figlia con una vena di tenerezza e orgoglio che a lei sembrò di risentire solo in quel momento per la prima volta dopo tempo. Non sorrideva, ma nei suoi occhi si intravedeva con chiarezza una luce nuova.
«Matsuura» la ragazza s’irrigidì, sentendo salire alle guance un lieve imbarazzo per le cose pronunciate davanti a lui, «come ho detto, il coraggio non ti manca. Ormai ti sarà chiaro che io non sono un sentimentale, ma capisco che tieni a lei davvero. Puoi star tranquilla: Mari riavrà il suo posto; voglio darvi la possibilità che chiedete. Se la vostra relazione creerà intralci sul suo lavoro o attirerà curiosità inappropriate, però, sarò costretto ad allontanarti; e se lo ritiene necessario, Mari è libera di andarsene con te, secondo le condizioni decise in precedenza»
La figlia pareva riaver acquistato il suo colore, perso da giorni: si scambiò con Kanan un’occhiata carica di meraviglia e sul volto di entrambe si allargò un sorriso allegro; non era una soluzione definitiva, ma il seme era stato piantato per davvero; e chissà che le cose, col tempo, sarebbero potute realmente migliorare.
«Abbiamo ventun anni, papà… non trattarci come bambine»
L’uomo rise tra sé, poi fece loro il gesto di andarsene. Mari lanciò uno sguardo grato anche a sua madre: l’inaspettato sorriso che la donna portava in viso la destabilizzò un attimo; le sorrideva con serenità, senza quel caratteristico cipiglio che le raggrinziva il volto la maggior parte del tempo. Anche lei, in qualche modo misterioso, pareva fiera: e questo la commosse quasi più del cedimento di suo padre.
Una volta chiuse le porte dell’ufficio, Kanan e Mari raggiunsero in fretta la hall principale dell’albergo: Mari non aspettò neanche il tempo di finire le scale per lanciarsi su di lei in un abbraccio strettissimo, col risultato che Kanan dovette faticare non poco per mantenere l’equilibrio e non ruzzolare con lei giù dagli ultimi gradini.
«Kanan, sei stata fantastica!»
«Io te l’ho detto che avrei lottato!»
«Ti chiedo scusa per non essermi subito confrontata con te…»
Ma Kanan scosse la testa e le baciò una guancia.
«Siamo insieme, d’ora in poi. Non devi affrontare da sola più niente, d’accordo?»
«D’accordo!» incrociò i polsi dietro al suo collo, il cuore le scoppiava di felicità, «Mi sorprendi ogni giorno di più»
Con un movimento scattante Kanan la sollevò da terra e le fece fare una giravolta, come se non sentisse alcun peso: Mari rideva e quando toccò di nuovo il pavimento, ancora tra le sue braccia, si gettò su di lei per un bacio appassionato, atteso come una pioggia torrenziale dopo la siccità. Kanan le scostò dietro l’orecchio una ciocca di capelli, sfatti dalla concitazione del momento; quindi le raccolse il volto tra le mani e poggiò la fronte sulla sua, ridendo lei pure.
«Considera però che per riuscire a fare quel discorso ai tuoi mi sono dovuta prendere una birra prima… dovevo mascherare quel momento di lucidità in cui mi ero resa conto che fosse una follia»
«Kanan, non rovinare l’atmosfera… in questo momento dovresti dirmi solo cose romantiche»
«Ah, va bene. Non ho preso nessuna birra, ho lasciato che parlasse il cuore al posto mio. È abbastanza romantico?»
Mari rise ancora, beata.
«Non vedo l’impegno. Sa di già sentito»
Kanan ci pensò su un attimo, storcendo l’angolo delle labbra e fissando un punto al di sopra dei capelli biondi di Mari. Quando si ritenne soddisfatta dell’idea, sfoggiò il suo sorriso più affascinante.
«È la tua risata che mi dà la forza di spostare anche le montagne per te»
Stavolta l’altra arrossì, esattamente come aveva previsto; quindi le accarezzò una guancia e ne approfittò per rincarare la dose.
«Il mio cuore ti appartiene da sempre… e questo è un diritto che non ti verrà mai tolto»
«Dai, smettila! Non puoi dire queste cose con quella faccia seria» rise ancora Mari, e nascose il viso ormai infuocato nell’incavo della spalla di Kanan.
«Ma sei tu che mi hai detto di dirti solo cose romantiche. Obbedisco, principessa!»
La «principessa» per tutta risposta, visto e considerato come la situazione le si era ritorta contro, decise che era meglio concludere con un altro bacio; e certamente Kanan non se ne poteva lamentare.
 
Los Angeles aveva di nuovo i suoi colori. Kanan riusciva a vederli tutti: verdi, azzurri, viola, rossi, la vallata risplendeva della luce del tramonto, che si insinuava tra le montagne ammantate d’estate. Le sembrava che le vie profumassero, addirittura, d’oceano e di fiori; e una musica ammaliante riempisse l’aria. La città degli angeli fremeva intorno a loro, quasi dentro di loro. Cenarono insieme in un locale che avevano trovato quasi per sbaglio, nascosto, decorato a mattoncini e luci al neon variopinte; un pianista jazz animava la serata con la sua musica; e scherzavano tra loro come una coppia di lunga data. Kanan riposava il cuore nella sua risata: la guardava mangiare, scostarsi i capelli, giocare col bicchiere semivuoto; si scoprì a desiderare di averla accanto per tutta la sera, di poterla baciare, stringere e amare fino al mattino successivo; e di potersi svegliare con lei ancora addormentata tra le sue braccia. Il pensiero le bruciò le guance e si trovò a riflettere, non senza un certo turbamento, sulla possibilità di proporle di stare insieme anche nel dopocena.
Mari, a fine serata, era raggiante. Kanan non riusciva a smettere di guardarla, non ancora, nonostante l’orario tardo e il lavoro l’indomani; per questo poco prima di separarsi, prendendo un ampio respiro, decise di rischiare.
«Ascolta... ti va di venire da me? Stiamo ancora un po’ insieme, ci guardiamo un film o quel che vuoi… sempre se non preferisci tornare in hotel subito, insomma… dopo tutto quel che è successo oggi capisco che sarai stanca»
«Vengo volentieri»
Il volto di Kanan si accese: Mari le aveva dedicato un sorriso divertito che l'aveva sciolta da ulteriori preoccupazioni; per un istante, comunque, ebbe il dubbio che avesse previsto tutto alla perfezione.
Arrivate in appartamento, Kanan tirò fuori un paio di dvd dal mobiletto sotto la vecchia televisione.
«Horror o azione?»
Mari fece il giro del divano e la raggiunse.
«Azione. Adorerei vederti aggrappata a me durante un horror, ma per tua fortuna stasera voglio rilassarmi… come mai hai un horror, proprio tu?»
Kanan alzò le spalle noncurante.
«Con gli horror si rimorchia meglio, nel caso avessi portato qualcuna a casa»
«Kanan!»
«Sto scherzando, me l’ha regalato Nicole per un compleanno, voleva vedermi urlare tutto il fiato che avevo in gola»
«E ci è riuscita?»
«Naturalmente. Pessimo compleanno»
«È proprio la sorella che non ho mai avuto»
L’altra fece roteare gli occhi, deformando insieme il viso in una smorfia. Lasciò cadere l’horror incriminato nel caos del mobiletto e si tenne l’altro. In meno di due minuti - e tre pugni al vecchissimo lettore dvd della televisione per farlo partire - fu sul divano accanto a Mari, che intanto aveva preso un pacchetto di patatine aperte dalla dispensa e si era comodamente posizionata. Spalla contro spalla, seguivano il film sgranocchiando gli snacks e scambiandosi battute di commento; verso la fine Mari si sistemò sulla spalla di Kanan, che di conseguenza smise completamente di ascoltare: l’agitazione era tornata a morderle lo stomaco, più pressante che mai.
«Non era granché»
La voce di Mari la fece sobbalzare, non si era neanche accorta che erano arrivate ai titoli di coda; non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato da quando aveva lei sulla sua spalla.
«No, non lo era» si trovò a rispondere meccanicamente, «ma la compagnia era la migliore» aggiunse voltandosi, ritrovato un pizzico di fiducia in sé.
Mari allora alzò la testa e incontrò le sue labbra senza rispondere. Kanan colse la palla al balzo e la spinse con delicatezza indietro, tra i due cuscini sgualciti del divano, continuando a baciarla; le braccia di Mari circondarono la sua schiena e lei si ritrovò addosso lo stesso fuoco, lo stesso desiderio di qualche ora prima nel locale: e i sospiri di Mari mentre le baciava la base del mento la convinsero che fosse mutuale. Si sentì comunque in dovere di esplicitare le sue intenzioni, nel remoto dubbio che stesse fraintendendo.
«Ma questo, per te… va bene?»
Nonostante lo sforzo di comunicazione – ne aveva già fatti troppi in quella giornata – le dispiacque di non riuscire ad essere più esplicita di così. Per tutta risposta Mari, come lei molto più avvezza a utilizzare i fatti che le parole, si slacciò un paio di bottoni della blusa, guardandola con un sorrisetto furbo e mieloso al contempo. «Classica ordinaria amministrazione», realizzò Kanan alzando un sopracciglio. Decise quindi che se doveva prendere l’iniziativa, tanto valeva farlo per bene: scese dal divano, fece scrocchiare qualche muscolo e, con un unico movimento, la sollevò di peso tra le sue braccia; Mari si lasciò sfuggire un verso di sorpresa e si aggrappò alle sue spalle; i loro sguardi si cercavano mentre Kanan la portava in camera, per adagiarla finalmente sul suo letto.
«Sei un’esibizionista»
«Come se ti dispiacesse»
«Non ho detto questo, infatti»
Kanan gattonò sopra di lei, per tornare nella posizione con cui avevano cominciato; Mari la lasciò fare, sfoggiando lo sguardo più seducente che aveva in repertorio; e non appena Kanan si abbassò per baciarle la fronte, lei ne approfittò per prenderle il colletto della polo e strattonarla contro le sue labbra, senza ulteriori preamboli. Kanan comprese che faceva sul serio quando sentì le gambe di Mari incrociarsi dietro la sua schiena, per imprigionarla; non che avesse voglia di scappare, bensì tutto il contrario: non ne aveva mai abbastanza, di lei. Fece scivolare la mano sotto la sua blusa ormai sbottonata, e già Mari fremeva: le sue dita si infilarono tra il materasso e la schiena, risalendo lentamente fino a trafficare con l’aggancio del reggiseno; per slacciarlo ci volle qualche secondo più del previsto, e dopotutto era il fascino dell’improvvisazione: Mari faticò a contenere una risata che mischiava il leggero solletico alla beffa giocosa. Una volta riuscita nel suo tentativo, comunque, Kanan si prese una pausa per accostarsi all’orecchio della sua partner.
«Ti amo» le sussurrò, e Mari arrossì senza vergogna.
Kanan stessa si sorprese della propria disinvoltura, tanto che si sentì di dover aggiungere «camera da letto» all’elenco delle cose e delle circostanze che le permettevano una discreta onestà. Accanto alla voce «alcol».
Trascorsero insieme le ore successive, quella intera notte, intrecciate in una danza di cui quel giorno avevano eseguito soltanto i primi passi.





 
Note finali
Ah, yes, the cerimonial fuck chapter (cit.)
Comunque "tu e lei vivete nel mondo delle favole" è ciò che ho detto alla Me Romantica e alla Me Melodrammatica dopo aver finito di scrivere questo arco angst, sotto il loro funesto influsso

Prossimo aggiornamento: 1 dicembre

Grazie di aver letto,
Alex

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Capitolo 9
*** Rallentare ***


9. Rallentare
 
Love is just a tool
To remind us who we are
And that we are not alone
When we’re walking in the dark
[...]
We'll wish we could come back to
These days, these days
 
“These Days”, Rudimental ft. Jess Glynne
 
Il tuffo a bomba di Nicole dal gommone per poco non investì in pieno Mari sotto di sé, che era sgusciata via con mezzo secondo d’anticipo. Kanan entrò in acqua con decisamente più grazia di lei, scivolando sotto la superficie quasi senza creare alcun disturbo, con un unico movimento sinuoso dal bordo del gommone: s’immerse di un paio di metri, giusto il tempo di far perdere le sue tracce, poi identificò Nicole e risalì, assalendola dalle profondità come uno squalo. Tra gli schizzi furiosi, ingaggiarono una battaglia in cui si tiravano sotto la superficie a vicenda, azzuffandosi come se avessero dieci anni; Mari allora prese a gridare per aizzarle, sicura di non essere coinvolta: finché l’inevitabile tregua tra le due contendenti non ebbe il risultato di immobilizzarla, riportarla di peso sul gommone e lanciarla tra le braccia dell’oceano per zittirla. Nell’aria dominata dal gorgoglio dell’oceano si levava il suono ovattato delle loro risate, inframezzato dallo scroscio dei tuffi scomposti e le schermaglie amichevoli: mettersi a giocare sulla superficie in muta da sub non rientrava nei loro piani, ma si era rivelata una gradita improvvisazione.
Quando ritennero di aver lottato abbastanza, invocarono una pausa; poi finalmente, risalite sul gommone, si aiutarono a vicenda a issarsi la bombola dell’ossigeno sulle spalle; imboccarono l’erogatore e sparirono sott’acqua. Kanan e Nicole guidavano la piccola spedizione con la stessa professionalità che avevano sul lavoro; Mari, serrato il contatto con le due istruttrici, si perdeva a ricercare con gli occhi tutto quello che l’oceano aveva da offrirle. Curiosavano da vicino i movimenti dei banchi di pesci luccicanti ed esploravano piccole scogliere tappezzate di molluschi; se una scovava qualcosa di interessante picchiettava le spalle delle altre e lo indicava, con la lentezza imposta dalla viscosità del mare. Kanan era, come sempre, la più a suo agio delle tre: un tutt’uno con l’acqua, pareva muoversi meglio in immersione che sulla terraferma.
Riemersero solo quando cominciavano a sentire la pelle raggrinzirsi e una certa stanchezza chiamare.
«Ok amiche, pausa... che ne dite se torniamo a riva? Io ho fame»
«Sì, certo… si va verso i trentacinque, eh Nicole?»
Non mostrando alcun segno d’essersi offesa, Nicole attese che Kanan la raggiungesse sul gommone, si togliesse la muta per rimanere in bikini, e poi con pollice e indice tese il laccio del reggiseno della collega, in modo da farglielo scoccare fastidiosamente sulla schiena una volta rilasciato: ignorò gli improperi bilingui che aveva preso a lanciarle addosso, supponendo che tra i vari «fuck» ci fossero semplicemente antiche maledizioni orientali contro la sua discendenza fino alla terza generazione. Non che Kanan fosse capace di dir male contro qualcuno, ma il suo livello di comprensione del giapponese si fermava alla parola «sayōnara», sentita in chissà quale film di quando era piccola. E visto che Mari rideva, non poteva andare così male. Quindi si mise al motore del gommone e ripartirono verso la riva.
«Questo gioiellino dobbiamo riportarlo senza alcun problema al negozio del Centro Immersioni, altrimenti lo ripagheremo coi nostri stipendi, sappilo»
Kanan appoggiò gomiti e schiena al bordo, la punta della coda penzolava sfiorando la superficie dell’acqua.
«Il mio stipendio è nelle tue mani, allora»
«Visto, Kanan, che non sono l’unica che ruba le cose dal proprio posto di lavoro?»
«Si dice “prendere in prestito”, grazie Mari» la corresse Nicole alzando un dito gocciolante in aria.
«Sarà, ma nessuna di voi due me la racconta giusta»
Un ghigno si allargò sul volto di Mari.
«Intanto sei quella che si è divertita più di tutte»
Kanan allungò il piede verso di lei, dandole un colpetto col calcagno.
«Mi sarei divertita di più se tu non avessi finto di affogare solo per farti ripescare»
«Oh, my sweet knight! Sei corsa subito a salvarmi!» cantilenò calcando di proposito l’accento giapponese.
«Non credere di essere chissà chi, Mari» intervenne Nicole, con gesto eloquente della mano libera, «Kanan a lavoro è circondata di gente che finge di affogare per essere salvata»
Lo sguardo inceneritore di Kanan fu intercettato da quello ingelosito di Mari, e Nicole si abbassò gli occhiali da sole sul naso con un sogghigno vittorioso.
 
Una volta rimesso piede a Santa Monica Beach, si presero un attimo per stendersi sugli asciugamani, sotto il sole ormai alto. La spiaggia era ampia, puntellata qua e là di persone che passeggiavano sulla battigia e surfisti in costumi variopinti; alla loro sinistra troneggiavano le attrazioni colorate del molo di Santa Monica, con la grande ruota panoramica sulla punta: sembrava dipinta sull’orizzonte come in una cartolina, a pennellate caotiche e sconnesse a causa dell’umidità che si levava dall’oceano. Un chiacchiericcio leggero rallegrava l’aria; si riuscivano a sentire in lontananza le canzoni arpeggiate da un artista di strada, che spezzavano la monotonia asfissiante di una giornata di mare come tante altre. Il sole bruciava sulla pelle e si rifletteva sugli occhiali da sole delle ragazze come una lama di luce.
Nicole aprì la borsa termica riempita di bottiglie di Coca-Cola e succhi di frutta ghiacciati.
«Niente birre oggi?»
«Sono in fase relax e non ho bisogno di cavarti fuori nessuna verità»
«Ah, quindi è proprio così che fai tu» commentò Mari scegliendo una bottiglia di Coca-Cola dal lotto.
Kanan stappò la sua e aggrottò le sopracciglia, offesa dalle insinuazioni di entrambe.
«Senti chi parla!»
Mari si stese sul suo telo con un respiro profondo; si accostò la coca ghiacciata alla pancia e alle braccia, emettendo ogni tanto dei gemiti di sollievo. La sua ragazza le si sedette accanto e iniziò a sorseggiare piano.
«Vuoi del ghiaccio addosso anche tu?»
«No, grazie»
Pigramente, Nicole si lasciò cadere sul suo asciugamano davanti a loro, mettendo via gli occhiali da sole. La giornata si prospettava caldissima, si faceva fatica a respirare; il peso della canicola di fine agosto le fece rimpiangere di essere uscite dall’acqua così presto.
«Ma Samuel dov’è?» chiese Mari a un certo punto.
«Quello scemo si è ammalato ieri, è tipo l’unico che riesce ad ammalarsi d’estate»
Kanan rise.
«Poveretto, non è mica colpa sua»
«Usa l’aria condizionata in casa con la stessa leggerezza del forno a microonde… a me dispiace solo per te, Mari, perché avevo davvero piacere a fartelo conoscere… quando hai detto che torni in Italia?»
«Metà settembre»
Kanan abbassò lo sguardo e strinse tra le mani la sua bottiglia, col cuore improvvisamente gonfio di malinconia. Sentì una sensazione di gelo sul braccio sinistro: si voltò e si accorse che Mari si era tirata su e la guardava con un sorriso rassicurante; non poté fare a meno di corrisponderle, pur senza avvertire in sé quella scintilla di spensieratezza a cui nei mesi passati si era quasi abituata. Si chiese se fosse possibile assuefarsi alla felicità.
«Siamo già a quel momento della storia, eh?» asserì comprensiva Nicole, appoggiandosi sul telo coi palmi dietro alla schiena.
Si scambiarono tutte un sorriso che aveva dei tratti insieme affettuosi e sofferti. La brezza di mare soffiava su di loro e le cullava; le bottiglie semi vuote, infilate momentaneamente in piccole buche sulla sabbia, erano impregnate di un fine strato di goccioline di condensa; la cognizione lampante in tutte loro, per la prima volta, che ogni cosa giunge al suo termine, fu un affondo doloroso e lento.
«Devi invitare anche me alla tua prossima laurea, però, mi raccomando» aggiunse dopo un po’ Nicole, per ravvivare l’atmosfera.
«Sei già sulla lista degli ospiti!» replicò Mari alzando indice e medio con un acceso sorriso.
«Peccato, se verrai anche tu non avrò più la scusa per non presentarmi!» commentò Kanan con un’alzata di spalle e un simulato disinteresse.
«Se tu stavolta non ti presenti, sappi che mi rivedrai solo nelle foto!»
La replica di Mari era arrivata diretta e raggelante come una secchiata d’acqua in faccia, tuttavia non era nulla che Kanan non avesse previsto; e anzi, forse addirittura consapevolmente provocato. Nicole rise.
«Tranquilla, mi assicurerò io che questa stupida venga, anche se dovessi obbligarla a farsi seimila miglia a piedi e a nuoto»
Il sospiro di rassegnazione di Kanan le arrivò forte e chiaro.
«Seimila miglia? Ma quando vi deciderete a usare il sistema metrico decimale come il resto del mondo?»
«Guarda, tesorino, che già lo sappiamo che sarebbe ora di cambiarlo. Ma siamo americani, ammettere di doverci adattare agli altri non è mica facile!»
Il livello di autoironia che Nicole possedeva era impressionante, e Kanan non mancava, in fondo, di andar fiera di aver trovato un’amica con queste invidiabili qualità. Risero, il velo di malinconia che si era issato su di loro sembrava essersi già diradato; Nicole, però, ritenne di dover intervenire con qualcosa che alleggerisse ancora un po’ la tensione.
«Beh, direi che abbiamo riso abbastanza, adesso pasta»
Kanan e Mari gelarono contemporaneamente, nonostante i trentaquattro gradi.
«Che ne dite di andare a mangiare qualcosa? Ho paura che il cervello di Nicole si spappoli e cominci a sparare freddure a raffica»
Nicole stessa, che aspettava il momento del cibo già da troppo, non ebbe nulla da ridire.
Passarono l’orario di pranzo al riparo dalla calura opprimente, rifugiate sotto il tendone di un take away messicano, mentre mangiavano e discutevano di surf e altri sport acquatici; Nicole teneva di nuovo banco raccontando le sue dubbie prodezze da surfista, precedenti alla scelta di dedicarsi totalmente alla scuola di sub. Poi, senza alcun collegamento apparente, attaccò a raccontare di un uomo, della sua città d’origine in Florida, che affrontò un uragano a petto nudo: con la bandiera americana in mano faceva headbanging come a un concerto metal.
Il suono delle loro risate riempiva il locale: desiderarono che quel momento fosse eterno. Nicole rideva più di tutte, Mari e Kanan alternavano commenti sarcastici a esclamazioni di incredula meraviglia. Tutt’e tre sapevano che ogni secondo che trascorrevano insieme sarebbe stato, un giorno, un prezioso ricordo da conservare.
 
Passò ancora un’ora prima che Nicole decidesse di andare a far visita a Samuel, fermo a letto: salutò entrambe con un sentito abbraccio, augurandosi di poter vivere cento altri giorni insieme, belli allo stesso modo. A quel punto, stanche del mare, Kanan e Mari trascorsero il resto pomeriggio a passeggiare, percorrendo a piedi la strada tra Santa Monica e Venice Beach. Il cammino di un’ora si snodava lungo la costa oceanica, percorsa in special modo da ciclisti; crocchietti di persone stavano ammassate intorno a musicisti e performer, ad ascoltare, a fotografare, a lasciare mance. Venice Beach emanava un clima di festa sempiterno, d’estate e d’inverno: ogni volta che Kanan ci passava la musica riempiva la passeggiata, mettendole una gran voglia di ballare, di tornare a ballare e cantare; che fosse sulle note di una canzone raggae a luglio, su un rock leggero a ottobre o su un classico natalizio a dicembre. Il potere di stupire accordato a coloro che vivevano di musica, se ne accorse presto, era universale.
«Ti ricordi quando abbiamo ballato con le Aqours a Roma? Abbiamo fatto le artiste di strada anche noi!» esordì Mari, trasportata da simili riflessioni.
«Certo! Lo rifarei anche adesso, è stato bellissimo»
«La faccia delle persone che ci guardavano era impagabile!»
«Io ricordo bene la faccia di tua madre, perché credo sia stata la prima volta che l’ho vista sorridere»
«Probabilmente è stata la prima volta che l’ho vista sorridere anche io, figurati! Sapevamo raggiungere davvero chiunque»
«È vero» Kanan sorrise, alzando un sopracciglio «e pensa che quando lo racconto nessuno ci crede… persino Nicole!»
Mari fece una giravolta mimando dei passi di una vecchia coreografia, poi si fermò a pochi metri da due ragazzi, uno con una chitarra acustica in mano, seduto sopra un amplificatore, l’altro posizionato sul suo cajon, che scandiva un ritmo lento.
«Non ci ha creduto perché è stato letteralmente incredibile, Kanan» allungò un braccio in direzione della compagna, invitandola a raggiungerla, «quello che facevamo con le Aqours, il legame tra tutte noi, era fuori dall’ordinario…  come è fuori dall’ordinario anche quello che abbiamo io e te»
La prese per mano e l’avvicinò a sé, muovendosi piano al ritmo della ballata che i due musicisti suonavano.
«Sai che non sono brava con i lenti»
Mari accompagnò le loro mani in posizione e tirò su il mento di Kanan con un gesto morbido della punta delle dita, per indurla a guardarla negli occhi.
«Non c’è bisogno che tu lo sia... seguimi»
Fronte contro fronte, Mari chiuse gli occhi e prese il comando; Kanan ne assecondava i movimenti, senza riuscire a staccare gli occhi dal suo viso. La voce melodiosa del chitarrista, l’arpeggio leggero, la cullarono in uno stato di serena pace; da quella quiete emersero immagini del passato, di mesi e persino degli anni: la sua vita in California, la vittoria al Love Live, i primi tentativi delle Aqours, le avventure vissute con le amiche d’infanzia; ricordò con gratitudine ogni passo compiuto, fino a rievocare il viso di Mari bambina, la prima volta che l’aveva vista, la prima volta che l’aveva scelta, preferita. E si stupì delle conseguenze inimmaginabili che erano scaturite da quella prima, ingenua, preferenza. Anche Kanan allora chiuse gli occhi: sparita Mari, tuttavia, di nuovo venne a farle visita l’ombra lunga della sua prossima partenza; turbata, serrò con maggior forza la presa sul corpo della sua partner.
«Che c’è?» sussurrò Mari, fermandosi.
«Non voglio che tu te ne vada» disse semplicemente, concedendo ai pensieri di sciogliersi in parole senza alcun filtro.
«Non ti ricordi? Saremo sotto lo stesso cielo» sorrise, facendo scivolare la mano dalla sua spalla al braccio, in una carezza.
Kanan si tenne stretta agli avambracci di lei, facendo scorrere le dita sui gomiti per tirarla un po’ più a sé.
«Ma tu sarai lo stesso lontana»
Mari allora avvolse tra i suoi palmi il volto scuro di Kanan, accarezzandolo: le lasciò un bacio a fior di labbra, poi, senza aggiungere nulla, la riprese per mano e la condusse con delicatezza al suo fianco, a riprendere il percorso tra i turisti di Venice. Kanan la lasciò guidare, combattendo la sensazione di colpa che l’aveva invasa per aver rabbuiato l’atmosfera. Era certa che anche Mari provasse la stessa sua malinconia, ma lei aveva cercato di combatterla tutto il giorno per potersi godere la reciproca compagnia in serenità; e a conti fatti, spiattellarle in faccia la cruda realtà era stata una mossa azzardata. Forse, per una volta, riflettere di più prima di parlare sarebbe stato d’aiuto. Era così presa dai propri crucci che non accorse che Mari si era fermata davanti ai ninnoli di un negozietto di souvenir; notò allora che lei guardava un piccolo ciondolo d’acciaio: era un oggettino a forma di stella di bassa fattura, colorato di giallo canarino e senza alcun valore; tuttavia Mari ne sembrava totalmente presa.
«Cos’hai trovato?» chiese frugando con gli occhi tra le cianfrusaglie di bigiotteria.
«Questo! Non è carinissimo? Potremmo comprarci insieme un ciondolo a testa, per avere un ricordo di questi giorni»
L’idea le parve un po’ infantile, tanto più che era certa si trattasse di robetta che, costando una miseria, sarebbe durata poco. Ma Mari non era nuova a queste uscite: pur avendo un budget cento volte più ampio del suo, non aveva problemi a godersi spese low cost come faceva la quasi totalità dei suoi amici. Nonostante l’obiezione, suo malgrado si trovò a cercare tra le varie forme qualcosa che la convincesse a prendere la proposta sul serio; e tra i tanti ciondoli il suo occhio cadde su un piccolo delfino azzurro. Lo prese tra le mani e poi guardò Mari, con una luce negli occhi che fece cadere nel vuoto ogni altra opposizione. Anche alla sua ragazza si illuminò il viso.
«Hai visto, Kanan? Aspettavano solo noi due!»
E Kanan si rese conto di quanto, più di tutto il resto, le sarebbe mancata la semplicità vissuta in quei giorni; la facilità con cui ogni piccola circostanza condivisa diventava «casa» e riempiva il cuore di un’inaspettata pienezza. Strinse tra le mani il piccolo delfino azzurro come il più prezioso dei tesori.



 
Note finali
No, sul serio, cercatevi su YouTube Florida man headbanging in hurricanes o direttamente il canale di Lane Pittman, non ve ne pentirete

Also, Kanan e Mari si comprano bigiotteria coordinata come fossero adolescenti col braccialettino dell'amicizia, di quelli con su scritto "BFF TVTBXS", 1 euro e 50 l'uno dalla bancarella dl mercatino rionale

Prossimo aggiornamento: 11 dicembre (finale!)

Grazie di aver letto
Alex

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Capitolo 10
*** Un altro giorno di sole ***


10. Un altro giorno di sole
 
When I am with you, there's no place I'd rather be
 
“Rather Be”, Clean Bandit ft. Jess Glynne
 
L’ennesimo bicchiere riempito di Dom Pérignon le passò davanti tintinnando, per poi essere portato direttamente alle labbra dell’uomo brizzolato che dialogava con suo padre. Sul buffet ricco di prodotti ittici si avventavano adolescenti di buona famiglia, vestiti di capi dalle firme lussuose, che parlavano del più e del meno; qualche ospite meno in vena stava a bordo piscina col suo Martini ghiacciato, a commentare la musica messa dal dj assoldato dal padrone di casa. La villa a Malibù in cui si svolgeva la festa era proprietà di un piuttosto giovane milionario originario della zona, noto alle famiglie potenti per il modo in cui ostentava le sue ricchezze con continui ricevimenti; la sua casa, parecchio grande, era il suo principale vanto e la faceva tirare a lucido dal suo staff con un’attenzione ossessiva: voci di corridoio sostenevano che la fissazione per la perfezione fosse conseguenza di una sorta di invidia per le residenze dei miliardari a Beverly Hills, nelle quali lui non riusciva mai a mettere piede. Gli Ohara, indaffarati com’erano, non amavano crogiolarsi troppo in questo tipo di divertimenti, tanto più in giorni di serrato lavoro; approfittando del fatto che Mari e sua madre avrebbero lasciato gli Stati Uniti entro pochi giorni, però, avevano deciso di accettare l’invito e concedersi un pomeriggio di libera convivialità, per salutare amici e colleghi imprenditori.
Mari intratteneva qualche conversazione, per lo più di cortesia, con un gruppetto di suoi coetanei, uomini e donne; gli argomenti che andavano per la maggiore erano il futuro e i progetti, ma erano trattati spesso con la leggerezza di chi sa di non aver bisogno di lavorare, per vivere; per molti di loro era anzi quasi un gioco, buono per riempire i vuoti lasciati dalla noia. Stancata dall’inerzia dei discorsi, Mari provò un paio di volte a virare su altri campi – le andava bene anche parlare di auto sportive di ultima generazione e viaggi in località da sogno, avendone una discreta esperienza – ma quasi tutti i ragazzi, con pochissime e deboli eccezioni, si mostravano poco ricettivi.
Col passare delle ore Mari fu presa da una svogliatezza mista a rassegnazione, che la convinse a staccarsi dal gruppo degli eredi per cercare sua madre: la trovò a chiacchierare con una coppia leggermente più anziana, dallo sguardo intelligente e affabile. La donna accolse sua figlia nel crocchietto porgendole un bicchiere di champagne, ma lei rifiutò con un gesto secco della mano; si scambiarono inchini e strette cordiali. Mari stette poi ad ascoltarli parlare: indovinò dai loro sguardi che fossero persone straordinariamente genuine, come era raro trovarne in certi contesti. Provò subito una forte simpatia, che risultò vicendevole: i due, infatti, la scrutavano con ammirazione.
«Hai una ragazza davvero a modo, Junko, ed è bella come te. Se la signorina è d’accordo un giorno avrei piacere a farle conoscere mio figlio… ha qualche anno più di lei»
Di proposte estemporanee ne aveva sentite fin troppe, ragion per cui si accinse a rifiutarla nello stesso modo garbato di sempre; perlomeno in questo frangente fu rincuorata di immaginare che il ragazzo in questione, con simili genitori, non poteva essere un cattivo pretendente. Chissà, magari sarebbero potuti addirittura diventare amici.
«Mi permetto di rifiutare l’offerta, Mari attualmente è già impegnata»
La giovane guardò sua madre, che l’aveva anticipata nella risposta, con un’esplicita meraviglia. La donna fece trasparire un sorriso tenero, e la figlia avvertì il suo cuore scaldarsi. Questo era qualcosa che non avrebbe mai sperato di veder realizzarsi davanti ai suoi occhi: sua madre, una sua alleata.
«Dev’essere un ragazzo davvero fortunato!» commentò l’uomo, soppesando il diniego senza stupirsene.
Le due donne si scambiarono un altro sorriso complice, poi Mari fece un inchino di scuse.
«Credetemi, sono io quella fortunata»
Quando la gentile coppietta fu poi chiamata altrove, madre e figlia si ritrovarono sole. Mari scavava dentro di sé, alla ricerca affannosa di parole per ringraziarla; ma, non riuscendovi, si rese conto di quanto raramente parlasse con lei in toni diversi da quelli del litigio. Mentre era assorta in questi pensieri, la donna avvicinò le mani alla sua treccia e le sistemò tra le ciocche uno stelo fiorito di nontiscordardime rosa chiaro; in tempi passati lo faceva spesso: ogni occasione era buona per adornare la figlia come una nobildonna. Mari si rassettò la gonna lunga scuotendola con le dita, nel tentativo di distrarsi dallo strano impaccio che l’aveva colta.
«Grazie» disse a mezza voce, sperando che da quel nocciolo di significato si intuisse tutta l’ampiezza della sua gratitudine: che andava molto al di là dei fiori con cui l’aveva ornata.
Sua madre le accarezzò una guancia; i suoi occhi le confermarono che stavolta si erano capite perfettamente. La tortuosa strada verso il superamento dell’incomunicabilità era appena stata imboccata.
 
Verso sera Mari ebbe il permesso di lasciare il ricevimento per incontrare Kanan un’ultima volta. Lei si trovava da poco a Malibù, accompagnata da un orgoglioso Zachary, e l’accolse col suo caratteristico sorrisone affettuoso e gioviale; Mari, accostandosi, prese in mano i lembi della gonna e fece un inchino aristocratico, davanti al quale l’altra rispose mimando il gesto con una mezza risata; poi Kanan le porse il braccio e attese che lei vi si aggrappasse.
Passeggiarono insieme, chiacchierando sommessamente, fino a una delle spiaggette nascoste tra le rocce; l’oceano rombava fiero a qualche metro di distanza: era quello il luogo dove tutto, per loro, iniziava e finiva sempre. La sabbia fine scricchiolava piano sotto i loro i piedi nudi. L’umidità accumulata durante il giorno si alzava sotto forma di foschia all’orizzonte, mescolando le tonalità di cielo e mare; l’aria era ferma. Stettero un po’ in piedi, immerse nella pace, a guardare in direzione di casa.
«Sai, credo che mia madre ti abbia già accettata» cominciò a un tratto Mari.
«Accettata nel senso che se lo fa andar bene pur di non rivedermi protestare in hotel, oppure...»
«Accettata per davvero, you silly
«Sul serio? Non pensavo di poterla convincere tanto presto»
«Nemmeno io»
«Ti ringrazio»
Scoppiarono a ridere: il suono fu assorbito dall’aria umida, come se l’oceano stesso avesse voluto mantenere la riservatezza su quel momento privato; e poi ricaddero nel silenzio. Kanan infilò le mani nelle tasche dei pantaloncini.
«E ti ringrazio anche di questi giorni... di quest’estate insieme»
Mari portò i palmi ai fianchi, risoluta.
«Guarda che ce ne saranno altri, Kanan... anzi! Quando tornerò in Italia ti chiamerò tutte le sere, così ci raccontiamo com’è andata la giornata!»
«Avremo due fusi orari diversi, lo sai, vero?»
«E allora io ti chiamo alle sette di mattina prima che tu vada a dormire… tanto le lezioni iniziano alle nove, ho tempo. No problem
Kanan inarcò un sopracciglio, ridendo.
«Persino negli Stati Uniti il tuo inglese mi sembra fuori luogo»
«Non cambiare argomento! Allora, io mi sveglio presto e ti chiamo, ci stai?»
«Ci sto, ci sto»
Siccome la risposta suonava ugualmente un po’ scettica, Mari non mollò la presa.
«Me l’hai promesso, Kanan!»
La voce ferma, gli occhi dorati incatenati nei suoi, improvvisamente privi di voglia di scherzare.
«Cosa?»
«Che stavolta non mi avresti lasciata mai più andare»
L’altra rimase interdetta un attimo, quasi frastornata. Fece scivolare gli occhi sulla sabbia, alla ricerca inquieta di parole.
«Giusto...»
Si girò verso il mare, camminando in direzione della riva a passi lenti, per fermarsi dove le prime onde si infrangevano. Mari incrociò i polsi dietro la schiena, inclinando leggermente la testa alla sua reazione incomprensibile.
«So che non sarà facile perché saremo comunque lontane… pesa anche a me andarmene. Mi è sempre pesato dividerci»
Vide Kanan alzare la testa alle prime stelle della sera, senza risponderle. La brezza di terra cominciò a soffiare alle loro spalle, smuovendo finalmente l’aria statica del tramonto.
«La prossima volta che ci rivedremo sarà a Natale, quando torneremo a casa… vero?»
«Sì. Ma se devo dirti la verità… se c’è una cosa che ho capito quest’estate è che mi sento già a casa quando sono con te, Kanan»
L’altra sfilò la sinistra dalla tasca, ma tenne la destra ben fissa al suo posto. Parve indugiare, pensierosa, su qualche cosa; poi si voltò verso Mari, portando con sé visibile negli occhi una determinazione nuova.
«Allora quando finirai l’università vieni a vivere con me»
Mari pietrificò sul posto. Kanan avanzava piano verso di lei, ostentando una sicurezza che non aveva, se non altro perché la sua ragazza si era già facilmente accorta di come le tremasse la mano visibile.
«Se lo vorrai anche tu torneremo in Giappone e cercheremo casa insieme. Non ti posso promettere una vita piena di feste e avventure spettacolari, come potrebbe dartela uno qualunque della fila di ragazzi che chiedono la tua mano… io dopotutto sono solo un vecchio testardo, come dici sempre tu. Ma se davvero vuoi stare con me posso prometterti che anche se dovrai viaggiare, avrai sempre un posto in cui tornare: ogni volta che tu partirai io resterò ad aspettarti. Anche per me, Mari, casa è dove sei tu»
Arrivata davanti a lei si inginocchiò su una gamba, sulla sabbia morbida. Solo a questo punto si rese conto dell’irrazionale istintività di quella decisione: lei in ginocchio in pantaloncini e canotta, Mari già inesorabilmente in lacrime, una promessa piuttosto vaga e fatta con due anni di anticipo. Pura follia da romanzo rosa! Con una giusta dose di cinismo, Dia avrebbe avuto certamente da ridire; ma ormai che c’era, convenne che fosse stupido tirarsi indietro.
«Diciamo che se avessi un anello sarebbe probabilmente il momento di dartelo, ma ammetto che è stato un po’ improvviso» rise per spezzare l’imbarazzo, estraendo dalla tasca destra il ciondolo a forma di delfino che aveva comprato a Venice Beach, «per ora posso offrirti solo questo, come promessa»
Prese la mano di Mari e pose il piccolo oggetto sul suo palmo, che poi coprì col suo, ancora tremante.
«Mari… vuoi passare tutta la vita insieme a me?»
Non aveva mai sopportato vederla piangere, soprattutto se sapeva di esserne la causa; dato il contesto, però, Kanan trovò che almeno stavolta fosse un buon segno. Con la mano libera, Mari si asciugò le guance e gli occhi; poi si portò le dita al collo per sfilare il proprio ciondolo dalla catenella d’argento: mostrando un sorriso ancora un po’ deformato dal pianto, lo pose in mano a Kanan, scambiandolo col suo.
«Assolutamente sì!»
Il volto di Kanan si allargò in un sorriso di pura gioia: balzò in piedi, l’afferrò per la vita e l’abbracciò con ardore; Mari si aggrappò alle sue spalle, stringendo tra le dita il tessuto leggero della canotta. Indugiarono nell’abbraccio più a lungo di quel che avevano programmato, ma Kanan non sentiva comunque nessun bisogno di separarsi da lei; esaurite ormai le energie dopo lo sforzo di rimanere tutta d’un pezzo, si arrese definitivamente alla gravità: le braccia blandamente appoggiate sui fianchi di Mari e la testa abbandonata sulla spalla, con un lungo sospiro. Suo malgrado, si accorse di stare ancora tremando.
«Dammi il tempo di ammucchiare risparmi e tra due anni faccio una proposta seria con un anello serio» dichiarò alla fine, mentre l’altra le accarezzava la schiena affettuosamente.
Mari alzò la testa, invitando Kanan a fare lo stesso: poi si sporse fino a incontrare le sue labbra, in un bacio di pochi secondi, carico di tenerezza.
«Non ne hai bisogno. Sceglierei te anche se ti proponessi vestita da tricheco»
Risero entrambe, sciolte dalla tensione. Kanan prese il volto di lei tra le mani e le lasciò un altro rapido bacio. Mari non dava segni di averne mai abbastanza: rimaneva attaccata alle spalle di Kanan con tutta la determinazione di cui era capace; e lei, da parte sua, godeva della rassicurazione della sua vicinanza.
Passò ancora un altro minuto prima che Kanan si decidesse a riscuotersi; quando ebbe raccolto la forza sufficiente, strofinò affettuosamente i fianchi della sua ragazza per invitarla a spostarsi.
«Che ne dici, andiamo a farci un’ultima passeggiata?»
Mari annuì, ma non la lasciò prima di essersi accostata alle sue labbra un’altra volta.
Percorsero a ritroso, mano nella mano, la strada dell’andata fino alla villa del milionario di Malibù. Un tetto di stelle luccicanti ricopriva la campagna, assorta; la strada semideserta conduceva a un ampio parcheggio costellato di macchine costose, appartenenti agli illustri ospiti del ricevimento. Qui, poco prima di separarsi, Mari sfilò dalla sua treccia un singolo fiore di nontiscordardime: con gesti misurati lo portò sopra l’orecchio di Kanan, intrecciandolo meticolosamente tra le sue ciocche, raggiante sotto lo sguardo rapito dell’amata. I loro occhi si cercavano e si evitavano, in un goffo tentativo di rimandare di minuto in minuto il momento della separazione. Kanan accarezzò piano le sue braccia, facendo scorrere le mani verso i suoi polsi e poi tra le sue dita, come per registrare nella memoria quell’ultima percezione fisica. Senza dirsi altro, alla fine, si strinsero nuovamente in un lungo abbraccio: l’ultimo che si sarebbero potute scambiare prima di parecchio tempo.
 
Due ragazze camminavano a passi lenti sulla battigia; respiravano a pieni polmoni l’aria impregnata di salsedine, quell’atmosfera carica tipica di una giornata nuova che incomincia, ai piedi dell’oceano. La più grande si fermò e dette una pacca sulla schiena alla giovane, con fare fraterno.
«Allora Kanan, oggi lezione di surf. Non guardare come fanno questi incapaci in California, ti insegno io la tecnica genuina»
«Agli ordini»
«Mi raccomando seguimi passo dopo passo. So che non hai alcun problema con l’acqua, ma non vorrei ti facessi male: domani dobbiamo portare quelli del corso a dieci metri di profondità, mi serve la mia assistente tutta intera e operativa»
«Sì, tranquilla, non serve fare tante storie, Nicole…»
L'amica la rimproverò con lo sguardo di sufficienza che indossava ogni qual volta si andava contro il suo proprio giudizio; quindi allungò una mano verso la collega e le scompigliò i capelli sciolti, ancora perfettamente asciutti.
«Tu dammi retta. La tavola è pronta?»
«Prontissima!» rispose Kanan sollevandola un poco per mostrargliela, in tutti i suoi due metri e venti di splendore, decorata a fiamme azzurre su fondo bianco. Una gentile e gradita concessione del negozio del Centro.
«Ok, io vado a testare le onde, quando hai finito di prepararti raggiungimi»
Nicole la salutò col gesto del capitano e fece qualche saltello di riscaldamento all’indietro, verso la riva assolata e ruggente; nel voltarsi, però, batté la sua tavola sulle spalle di una signora latinoamericana che passeggiava, scatenando una rissa verbale - metà in spagnolo, metà in inglese - davanti a cui Kanan non poté trattenere delle genuine risate.
Sulla battigia camminavano, mescolate, persone di ogni etnia e nazionalità: messicani, afroamericani, latinos, asiatici, europei di ogni generazione; e poi ricercatori, imprenditori, contadini, camerieri, ricchi e poveri, provenienti da tutti gli stati della federazione; alcuni arrivavano senza un soldo per cercare fortuna, altri accorrevano per studiare o per cambiare vita. Sin dai tempi della caccia all’oro nella baia di San Francisco, fino al sorgere del grande cinema di Hollywood, la California brillava come un faro di speranza per chiunque vi giungesse: era la patria dorata di sognatori e folli, da qualsiasi luogo questi provenissero. Era una cosa che l’aveva sempre affascinata.
Col borsone ancora in spalla e la tavola sottobraccio, venne a un tratto distratta dal rombo di un aereo di linea; alzò lo sguardo verso il velivolo dalla livrea argentata, splendente sotto i raggi del sole del nuovo giorno. La mano andò istintivamente a stringere il ciondolo stellato di Mari, appeso alla cerniera del suo borsone. Rimase per un po’ così, con gli occhi sollevati e le dita ferme intorno al pegno della promessa, anche quando l’aereo fu completamente scomparso dal suo orizzonte.
«Dai, Kanan, muoviti però!»
Sorrise e lasciò cadere sulla sabbia il suo borsone; vi sistemò dentro maglietta e pantaloncini e poi ammucchiò il tutto accanto agli averi di Nicole. Con pochi gesti rapidi si legò i capelli al solito modo, sfilandosi l’elastico dal polso. Quando fu pronta, fece un cenno d’assenso alla sua collega ed eseguì un breve stretching delle spalle e del busto; in un paio di saltelli fu a riva. Il mare rombava, Kanan ne avvertiva il potente richiamo fin dentro le viscere, come quando era piccola: quel rimestio le raccontava da sempre storie intessute di presente, passato e futuro; e la invitava ad abbandonarsi nel suo abbraccio. Inspirò a fondo.
Lanciò la tavola da surf davanti a sé e si tuffò tra le onde, riunendosi con l’oceano.



 
 







 
Note finali
Ok, chi vuole il capitolo extra ambientato due anni dopo in cui Kanan si ripropone vestita da Uchicchi?? Nessuno? Ah ok
Starei qui ore a parlarvi delle feste dei milionari e di quanto siano ingenue le promesse di “matrimonio” fatte con due anni di anticipo (Dio solo sa quanto desidero vederle semplicemente INSIEME E FELICI PER SEMPRE), ma ne lascio disquisire voi e passo al blocco dei ringraziamenti & ispirazioni (ossessivamente preparato e scritto già da almeno 5 mesi, come più o meno tutto in questa long)
 


Ringraziamenti & ispirazioni:

☼ Primo fra tutti il musical “La La Land”, che mi ha dato il la (ah ah) e l’idea madre, con la sua atmosfera sognatrice/romantica e che ho subito deciso dovesse caratterizzare anche questa storia.

☼ Dozzine di video su youtube che mi hanno dato la conoscenza pur sommaria dei luoghi; i vari “walking in Hollywood Blvd”, “4K driving from Santa Monica to sticazzi” (corsivo mio) che mi hanno accompagnato nel lavoro meticoloso di ricerca. Sono certa di essere lontanissima dalla realtà dei luoghi, perché per dire di conoscerli bisogna viverci: è stato comunque il mio povero e testardo tentativo.

☼ La one shot “Driving” di euphowolf su AO3 per l’idea del road trip di Kanan e Mari, che lei/lui però ha svolto in maniera magistrale (leggetela), al contrario del mio ben più pallido tentativo. Più in generale, ho un debito mentale immenso nei confronti di una ventina di storie su AO3 che hanno trattato la coppia: un serbatoio di suggestioni da cui ho attinto a piene mani.

☼ Ho preso ispirazione anche da moltissime fanart. Grazie soprattutto al Michelangelo delle KanaMari, Pito (@pito_sh su Twitter), che in combo con “La La Land”, ha dato il via a questa storia con un disegno in particolare.

♫ Le canzoni che facevano da apripista ai capitoli; hanno contribuito all’atmosfera un po’ spensierata che volevo si avvertisse anche nei capitoli più drammatici, dato che ho scelto in maggioranza tutte orecchiabili canzoni estive. Curiosità: se questa storia fosse un film, “These Days” sarebbe la traccia principale della colonna sonora, per ragioni di testo e musica. Grazie, estate 2018! *si rimette sconsolata la mascherina chirurgica*

☼ I lettori, i recensori, i miei sostenitori nel lavoro di stesura, tutti quelli che hanno creduto in me (sembra assurdo ma c’è una persona che riesce a incarnare tutte le categorie citate, ciao _Alcor, grazie di avermi dato idee e aiuti pratici e spirituali); chi ha “solo” letto e recensito; chi ha “solo” letto senza recensire. Siete tutti importanti. Inoltre ringrazio anche Haruka_Lisbet_Tenou (nickname su EFP) per essersi prestata a farmi da beta reader generale, dandomi preziosi pareri su come ho condotto la narrazione!

 In generale poi questa storia è la mia confessione d’amore alla “città delle stelle”, Los Angeles. No, non ci sono mai stata; sì, mi sono innamorata lo stesso. Volevo che la città trasparisse controluce e accompagnasse le nostre protagoniste in ogni capitolo con la sua presenza, esattamente come fa in “La La Land”. Mi auguro di esserci riuscita!
 
Lo so cosa state pensando: sembrano degli esagerati ringraziamenti di laurea per una banale fanfiction, ma è letteralmente la seconda long che concludo in tutta la mia vita. La prima l’ho finita non ironicamente ben 9 anni fa. E sapete quante ne ho cominciate e abbandonate in questo lasso di tempo? Troppe. Per questo sono davvero felice!
Che altro dire? Di base le ore di ricerca/studio/fantasticheria hanno superato di gran lunga quelle della stesura; per questo probabilmente, alla fine della fiera, ciò che mi rimarrà tra le mani (prodotto finale a parte, più o meno riuscito) è il bel ricordo di quel modo particolare che questa storia ha avuto di accompagnarmi per due anni tra le mie vicende quotidiane. E del modo in cui, contestualmente, ho imparato un metodo di lavoro serio che sono certa mi sarà utile per tutta la vita.
E come al solito, long live KanaMari!
Grazie di aver letto e buon Natale!
Alex

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