Confessioni di una maschera

di Francine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. ***
Capitolo 7: *** 7. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


Sì, lo so. Lo so. Avrei altre cose ben più poderose a cui badare - e da un tempo così imbarazzante che non basta più il velo pietoso per coprire le mie mancanze, avrei bisogno di un catafalco imperiale. Tipo la Reggia di Caserta, ma con meno stucchi - ma avevo bisogno di far prendere aria al cervello, in qualche maniera, e siccome avevo questa ideuzza - rigorosamente post Soul of Gold - che gironzolava a piede libero per il cervello da un po' di tempo...
Com'è che si dice? Ah, sì. «Sarebbe stato un delitto», giusto? 
Il titolo strizza l'occhio al celeberrimo romanzo di Yukio Mishima - cui non sono degna di accostarmi, ma se non la tocco piano pianissimo, non ha senso proprio toccarla, né? - e state tranquilli: so che Sherry Vernet (alla quale va un grosso grazie per il betaggio; se qualcosa non fila, pigliatevela con me!) ha intitolato allo stesso modo una sua raccolta, ma siccome sono una brava bambina - checché ne dicano le malelingue avvelenate - ho chiesto il permesso.
Tutti i personaggi nominati in questa storia appartengono a Masami Kurumada e a chiunque ne detenga i diritti legali. Questa storia è stata scritta per puro diletto personale; non ha alcun fine lucrativo. Nessun copyright si ritiene leso. L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright dell'autrice (Francine) e non ne è ammessa la citazione altrove, a meno che non sia autorizzata dalla stessa tramite permesso scritto.
Al solito, pomodori a destra e carote a sinistra, grazie. 
Io metto su il caffè.



  
Chi beve solo acqua ha un segreto da nascondere.
(Charles Baudelaire)



1.



«Avanti. Chiamiamo le cose col loro nome, una buona volta!»
«Cioè?»
«Due parole.» Pausa. «Abuso. Edilizio.»
Indice e medio alzati che tentennano come una bandiera al vento di maestrale, conclude: «Lo so io e lo sai tu.».


Quando Marco beve non va mai a finire bene. Marco non regge l’alcol, neppure per sbaglio. Nemmeno per ipotesi. Eppure – che si tratti di vino, birra, spumante, amaro, rosolio, whisky torbato o anche solo due dita due di limoncello – alza il gomito senza decenza. Tanto ci sarà sempre qualcuno che, arrivati ad un certo punto, giudicherà che la misura è colma e fermerà il suo scivolare indefesso verso la sbronza colossale. Il problema di Marco è che affida questa funzione a Yngve. Il quale non solo non si preoccupa di salvaguardare l’altrui decenza – foss’anche quella di un amico – ma gli lascia tanta corda da portevisi impiccare da sé, e con tutto l’agio di questo mondo e dell’altro; non pago, osserva l’evolversi della situazione quasi fosse un quadro clinico o un bizzarro esperimento scientifico, uno di quelli in cui ti chiedi se si nuota meglio nell’acqua o nello sciroppo al tamarindo. La risposta è una sola – l’acqua, per chi se lo stesse chiedendo – eppure una nota università americana – o era inglese? – ha ben pensato di spendere i soldi dei contribuenti per esperire sul campo questa ovvietà, forse per far parlare di sé ed ottenere i tanto decantati quindici minuti di celebrità – se poi questi siano conditi da applausi o da pernacchie, Warhol non l’ha specificato.
Ecco, Yngve ragiona come i capi dipartimento di una di queste università arrembanti, con la differenza fondamentale – capitale – che lui non spende quattrini per portare avanti le proprie ricerche. Lui opera sul campo una sua personalissima versione della vivisezione; non si allarmino gli animalisti: non ci sono cani, gatti o scimmie sul personalissimo tavolo operatorio di Yngve, ma solo Marco. E forse, non è poi questo male.


«Solo che se lo faccio io, sono il solito italiano». Singhiozzo. O era un rutto? «Se lo fa lui, mister Palo nel Culo…» e la geremiade di Marco si perde in una serie di borbottii incoerenti.
«Ne hai le prove?»


Yngve non potrebbe essere più terrificante, adesso, nemmeno se tenesse in mano un bisturi affilatissimo, uno di quelli che nei film da quattro soldi riluce sinistramente nella penombra della camera operatoria. Perché quando Marco è sbronzo per essere sbronzo non va assecondato. Nemmeno per sogno. Neppure per sbaglio. Perché il suo cervello malato e contorto, a quel punto, trova un appiglio, un gancio in mezzo al cielo cui aggrapparsi e continuare a vagolare, ingarellandosi su se stesso.
E Yngve lo sa.



«No», borbotta Marco. Com’era prevedibile.
«Ma posso trovarle…», e quella luce che splende sul fondo dei suoi occhi blu regala un lunghissimo e poco piacevole brivido alla spina dorsale di Rodrigo. Chiamiamo le cose col loro nome, s'era detto: all’improvviso l'avvolge un gelo micidiale, in barba al sole di giugno che ha fatto gli straordinari per tutto il giorno. Le rocce attorno alla scalinata che conduce dal Sacerdote sono ancora calde. Non oso pensare a cosa sarà agosto, si dice Ruy; ma neppure quel pensiero riesce a sciogliere il gelo che lo ha ghermito, ché se tanto mi dà tanto, qui non ci arriviamo vivi ad agosto…


«Sul serio?»
Yngve rilancia. Sempre e comunque. Anche quando in mano ha un paio di fanti. Soprattutto quando in mano non ha neppure un paio di fanti. Se uno è così scemo da non capire che sta bluffando, non è un problema che lo riguarda. Anzi. Il problema è che Marco non si è mai accorto della luce tagliente che colora gli occhi di mare al mattino di Yngve in quei momenti. La stessa che gli sta attraversando lo sguardo in questo istante; ma Marco non la vede.
Marco lo fissa. Sorride. Si pulisce le labbra passandovi sopra l’avambraccio abbronzato e si alza.
«Scommettiamo?» dice – anche se quest'uscita da smargiasso assomiglia più ad un’accozzaglia incoerente di vocali a caso. Come parlerebbe un polipo, se i polipi potessero parlare. Ammesso che avessero qualcosa da dire agli esseri umani, s’intende.


E così biascicando, Marco si gira e se ne va, il passo strascicato di chi ha troppo alcool in corpo e poca mercanzia nel cervello.


Atarassico, Yngve sorseggia la sua Guinness, come se quello spettacolo indecoroso fosse la normalità; poi posa il bicchiere sul tavolo immacolato e butta la sua bomba con la stessa grazia di una ballerina che attraversa il palcoscenico danzando sulle punte: «Fossi in te, avviserei Aiolia…».
Rodrigo lo fissa come se gli fosse spuntata una seconda testa. «Prego?», domanda. Ché alle volte seguire il filo dei pensieri di Yngve equivale a lanciarsi di testa in un maelstrom particolarmente incazzato.


E infatti Yngve sbuffa, gli occhi stanchi. Di dover spiegare tutto per filo e per segno, forse. Di dover indicare al prossimo l'evidenza dei fatti. Di dover mostrare tutti i passaggi agli allievi duri di comprendonio. In questo è sin troppo simile a Shaka, lui: perché sprecare parole per spiegare l’ovvio, la lapalissiana verità che brilla alla luce del sole?
Peccato, però, che il più delle volte questa verità non sia così evidente come credono loro. E che se si mostrassero più comprensivi e spiegassero al resto dell’universo creato un paio di passaggi, forse un paio di rogne in più si potrebbero evitare.
Tipo lasciarsi accoppare sotto gli alberi di Sala.
Tipo farsi impalare da un ramo di una pianta fin troppo cresciuta – salvo poi atterrare in piedi, al centro della scena, come un fottuto eroe di film d’azione. E Ruy si chiede se, per caso, Yngve non si aspettasse un applauso, in quel momento, ché Loki sarebbe stato prontissimo ad elargirglielo, se non fossero stati in ben altre faccende affaccendati. E se questo non avesse ammazzato il mood generale. Non puoi fare a cazzotti e fermarti ad applaudire il nemico.
Non si può. Non si fa.


«Aiolia», ripete Yngve. Come se quelle sei lettere dovessero far scattare qualche interruttore nel cervello intontito di Rodrigo. E quando questo non accade, continua: «Che è amico di Milo. Che è amico di Camus.».
«E?»
«E se tu avvisassi Aiolia, magari lui avviserebbe Milo. Il quale, a sua volta, avviserebbe Camus.»
«Cos’è, il gioco del telefono?»
«Noi non vogliamo ritrovarci con del surimi a custodire la Quarta Casa, vero?»
Ma allora perché non l’hai fermato?, si domanda Rodrigo, il bicchiere di Laphroaig stretto tra le dita. E poi lo dice: «Perché non l’hai fermato?».
«Perché sai benissimo che è impossibile fermare Marco, in certi momenti. Fai prima a tagliare la testa al vento.» Pausa. «E poi, a voler essere spietatamente onesti, neppure tu l’hai fermato. O sbaglio?»


Touché.
Una di quelle stoccate che trafiggono il cuore e lo trapassano da parte a parte. Brucia farsi trovare con la guardia abbassata. E brucia che ad avergli inflitto la bordata finale sia stato proprio Yngve, il serafico ed atarassico Aphrodite dei Pesci, che mai si preoccupa di quel che gli accade attorno: se è un nemico, lo si abbatte. Con garbo ed eleganza. Perché preoccuparsi?
Dovessero venirgli le rughe, pensa Rodrigo, incassando.
«Dai retta ad un cretino», conclude Yngve, versandogli un altro goccio di whisky torbato. «Avvisa Aiolia. Così avrete modo di parlare di quella cosa…»
«Quale cosa?»


Il sorriso di Rodrigo, all'occasione, è bello come solo sanno essere quelli di chi non sorride mai. Un lampo divertito che abbraccia gli occhi di foresta liberando le sue spalle dal peso di una serietà sproporzionata. Saturno sa essere un padre severo, e a Rodrigo piace indulgere in una sorta di auto perfezionamento così cattolico da fare male. Una spada la si affina col fuoco. Ad astra per aspera, eccetera eccetera.
Solo che Rodrigo gli sta mostrando un altro sorriso, uno ben più pericoloso della sua maschera di serietà – è lui, quello che Marco chiama affettuosamente Mr. Palo nel Culo, non Camus – ed è quello che sta rivolgendo a Yngve in questo stesso istante. Uno di quelli che ti affetta in due come fossi un petalo di ciliegio sul filo di un’affilatissima katana.
Ma Yngve non si scompone.
Ci vuole ben altro, per incrinare la sua, di maschera.
«Quella cosa», replica, infatti, prima di svuotare il proprio bicchiere in un unico, lunghissimo sorso. «Prima la affronterete, e meglio sarà per tutti.».


E Rodrigo si dice che ha ragione. Come sempre succede, con Yngve. Facile così, però; e il custode della Decima Casa non si accorge di aver pensato quelle parole ad alta voce fino a quando non incontra lo sguardo malizioso e divertito di Yngve.
«Chi è troppo vicino al faro brancola nel buio», dice. «O una roba del genere. Dovrò farmelo spiegare per bene…»
E Rodrigo sa già a chi chiederà lumi Yngve. Uno sbarbatello dai grandi occhi, il cuore gentile e l’armatura di un rosa così improbabile da sembrare una caramella. Con le catene pronte ad ammazzarti senza battere ciglio, ma pur sempre una caramella.
E se ne restano in silenzio, mentre il sole si va ad inabissare dietro alle montagne, per illuminare altre vite ed altri giorni, lasciandoli ciascheduno coi propri pensieri a fare loro compagnia.


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Capitolo 2
*** 2. ***


 
2.



«Aiolia, ascoltami!»
«Sta' zitto!!»


E Aiolia lo lascia lì, con la stessa espressione di un pesce appena pescato che si chiede che fine abbia fatto tutta l’acqua in cui stava nuotando sino a cinque secondi prima, a guardarlo andar via di schiena, le spalle ampie e il sedere di marmo che sono l’aspirazione di mezzo Santuario e il sogno bagnato dell’altra metà.
Sconfitto, Rodrigo si lascia ricadere di peso sulla sedia, reclinando la testa all’indietro e abbandonando le braccia a peso morto. Avrebbe dovuto parlarne a Milo. Sissignore. Saltare i passaggi intermedi ed andare dritto al sodo. Ché se la weltanschauung di Yngve è scaricare pesi e responsabilità sulle spalle altrui - disciplina praticata a livelli olimpionici - la sua no; lui è uno che mira al nocciolo delle cose senza porre troppo tempo in mezzo. Almeno da quando Athena li ha tirati fuori da quella statua pacchianissima e scomodissima. Se solo l’avesse fatto prima, magari si sarebbero risparmiati tutta una serie di rogne, lui e Aiolia. E anche il resto dei suoi compari. E forse Saga non avrebbe fatto quello che ha fatto. Sì, forse sarebbero crepati sputando l’anima e le viscere – togliamo quel forse – ma almeno avrebbero fatto un tentativo e…

«Non prendertela. Sai anche tu com’è fatto, no?»

Aiolos ha la pazienza dei Santi, quelli veri, quelli che compiono grazie e miracoli e appaiono nei dipinti delle chiese con una bella aureola dorata attorno alla testa.
«Sì, però…» Rodrigo non aggiunge altro. Sarebbe superfluo.
«Dagli tempo», chiosa Aiolos con l’allure del fratello maggiore; anche se, a voler essere del tutto onesti, Rodrigo è più vecchio di lui. Eppure, il Sagittario si ritrova con un corpo adulto, da uomo fatto: spalle larghe, mento solido, presa salda e gambe robuste. Dell’adolescente morto per salvare Athena c’è un ricordo, un accenno nella linea del naso, nel modo di sorridere o di aggrottare appena le sopracciglia, quando si parla del fratello.

«Io di tempo gliene do tutto quello che vuole», ribatte Rodrigo. «Basta che tuo fratello faccia pace col cervello!»

Perché Aiolia avrà anche tutte le ragioni di questo mondo e dell’altro per avercela con lui, Rodrigo non discute; ma quando concedi il perdono a qualcuno, non puoi rimangiartelo l’istante successivo. O perdoni, oppure no. E forse Rodrigo avrebbe apprezzato di più questa seconda opzione, rispetto ad un umore altalenante e mercuriale. Aiolos concorda, visto che si stringe nelle spalle – libere dall’ingombro delle sue ali d’oro – e gli dice: «Tu hai ragione, ma, vedi, mio fratello oggi ha un diavolo per capello e tu l’hai fermato proprio quando aveva preso una decisione, alla buon'ora.».
Rodrigo vorrebbe ribattere due o tre cosette. Tipo che cosa ci stesse facendo Aiolia alla Nona Casa, se aveva una fretta del diavolo. Ma questa domanda gli resta in gola, come tante altre che nel corso degli anni si sono sedimentate sull’anima. Conosce già la risposta. Un classico. Così Rodrigo lascia correre le nuvole e le parole di Aiolos.

«Credo che Aiolia si sia innamorato…», e a momenti Rodrigo si strozza con l’acqua. «Per davvero», aggiunge Aiolos, dandogli delle generose pacche sulle scapole; stavolta non si tratta di un’infatuazione adolescenziale, una vampa che brucia come se volesse portarsi dietro il mondo intero per poi assopirsi il giorno successivo. No, stavolta è una cosa seria, dice la postura del Sagittario. E, annaspando tra un colpo di tosse e l’altro, Rodrigo sa dare un nome e cognome alla fanciulla per cui Aiolia perde il sonno.
«Stava andando a dirglielo. Credo.»
«Credi.»
Aiolos annuisce.
«Non so chi possa essere, però…» Eh, lo so io, chi è…, pensa Rodrigo, nascondendosi dietro al bordo del proprio bicchiere. «Tu ne sai qualcosa?»

Yngve è bravo a bluffare.
Rodrigo, no.
Però, da bravo cattolico, sa di essere un peccatore, e che si pecca in opere ed omissioni, anche quando queste sono alte un metro e sessanta – coi tacchi – e sfoggiano una capigliatura rosso fuoco. Quindi Rodrigo posa il bicchiere e si stringe nelle spalle prima di rispondere: «Con certezza, non saprei dirtelo», assolvendosi all’istante. Dopotutto, lui ha solo il punto di vista di Marin, non la verità oggettiva ed incontrovertibile, no?
Aiolos lo studia, come a volergli sondare l’anima e coglierlo in fallo.

«È che manco dal Santuario da qualche tempo», commenta Aiolos tornando ad osservare le nuvole. «Speravo potessi darmi una dritta tu…»
«Beh, se è successo qualcosa, sarà successo mentre ero morto», ribatte Rodrigo, salvandosi in calcio d’angolo. «Dopo tutto, non è che io e tuo fratello fossimo culo e camicia, prima.» Pausa. «Almeno non dopo che ti ho ammazzato.»
«Beh, tecnicamente non mi hai ammazzato tu...», ribatte Aiolos.
Rodrigo lo fissa incredulo. Sì, non lo avrà decapitato o non gli avrà trafitto il cuore da parte a parte, ma… «Ma ti ho ferito mortalmente. E ti ho lasciato a crepare dissanguato in qualche crepaccio.» Pausa. «È la stessa cosa.»
«Naah», replica Aiolos. «La tua, al massimo, è stata omissione di soccorso.»
E questo dovrebbe essermi di conforto?, pensa Rodrigo. E poi lo dice: «E questo dovrebbe essermi di conforto?».
Aiolos lo fissa come se gli fosse spuntata una seconda testa. «No?»
«No», ché Aiolos è buono e caro e puro e tutto quello che si vuole; ma alle volte Rodrigo vorrebbe spedirlo in vacanza con Yngve, cosicché si svegli un pochettino. Quanto basta. Come nelle ricette di cucina. Ma poi il buonsenso soffia all’orecchio di Capricorn. E gli suggerisce che se Aiolos ha un effettivo bisogno di essere svezzato – metaforicamente parlando – l’ultima creatura a doversene occupare sarebbe proprio Aphrodite. Non è il caso di creare un mostro e lasciarlo a piede libero su questa terra, no? Poi Saori – Athena; o tutt’e due – non la prenderebbe bene. Affatto.

Ignaro del dibattito che si sta svolgendo nella mente di Rodrigo – sono fatti suoi, e il Sagittario è un difensore indefesso della privacy. Propria e altrui. Soprattutto altrui, o avrebbe fatto un certo discorsetto con Saga tanto, tanto tempo fa –, Aiolos si stringe nelle spalle e gli chiede: «Cosa volevi da mio fratello? Posso aiutarti io?».
E Rodrigo si dice che avrebbe dovuto leggere l’oroscopo, appena alzato. Magari glielo avrebbero detto le stelle di marcare visita e starsene sotto le coperte, almeno per quel giorno. Massì, che si ammazzassero tra di loro e che una confezione extralarge di surimi presidii pure la Quarta Casa. La faccenda non lo riguarda. Forse.

«No, tranquillo…», esordisce – vorrebbe esordire – ma poi le parole se ne restano attaccate alla lingua con stoica ed indefessa determinazione. Eppure il piano era semplice: dire ad Aiolos che no, non è niente di serio – clamorosa bugia, ché dietro le sparate di Marco si nasconde sempre la miccia pronta a scatenare la Terza Guerra Mondiale – e chiedere scusa per il disturbo, quindi trottare di gran carriera all’Ottava Casa e parlare a Milo. E che muoia Sansone con tutti i Filistei; ma gli occhi del Sagittario sono smarginati come quelli di un bambino e tristi come quelli di un cane randagio che sta elemosinando un pezzetto di prosciutto. Bava alla bocca inclusa.
Così Rodrigo si sente raccontare per filo e per segno i motivi che l’hanno spinto a cercare Aiolia e l’ultima mattana del Cancro, elenco del bibendum incluso.
Aiolos l’ascolta, come quando lui era ragazzino e a sera gli sottoponeva una raffica di domande ragionate e ponderate, mentre la limonata nei bicchieri si andava scaldando, Aiolia dormiva della grossa e in cielo sorgeva Venere.

«Forse è il caso di andare noi due a parlare con Milo. Non credi?», gli propone. Alzandosi. E Rodrigo non può fare altro che imitarlo e seguirlo lungo la scalinata che porta all’Ottava Casa. Almeno non sarà da solo in questo delirio.

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Capitolo 3
*** 3. ***


 
3.



Quando lo trovano, Milo non è al proprio posto, ma due case più giù, alla Sesta, a meditare nel giardino che ospita i due alberi di Sala. Perché Shaka sarà anche un asceta, qualcuno che ama immergersi in raccoglimento e dialogare col Buddha dandogli del tu; tuttavia, il biondissimo custode delle vestigie di Virgo ha un debole per il barocco e per certe scelte così squisitamente ridondanti da fare un perfetto gemello per Yngve. Uno specchio che si riflette in un altro specchio e così via, all’infinito. Si dice che un segno dialoghi col proprio opposto in un muto riserbo, vedendo se stesso nel riflesso dell’altro. E a questo pensiero i polsi di Rodrigo tremano, ché se Yngve ha come contraltare Shaka e Aiolos quello svitato di Saga, a lui tocca una medicina amarissima. Marco. Ché con tutta la – poca – simpatia di questo mondo e dell’altro, definirlo sbiellato è essere gentili.


«Capisco.»


L’aria atarassica di Shaka non è andata in pezzi dopo che Rodrigo ha raccontato loro il perché ed il percome della loro visita – Aiolos si è ben guardato dal prendere l’iniziativa. Ma, quando hanno riportato la faccenda, la vena sulle tempie di Milo s’è ingrossata in modo preoccupante, e non perché lo Scorpione già sapesse in che modo l’avrebbe presa Étienne. Ché Aquarius sarà pure freddo come il ghiaccio ed impassibile come le nevi eterne della Siberia eccetera eccetera, ma anche lui è umano. Anche lui ha del sangue caldo che gli scorre nelle vene. E anche lui, quando si ficca in testa qualcosa, è più cocciuto di un mulo calabrese, a detta di Marco, che di asini e di calabresi pare se ne intenda.
E quando qualcuno si impiccia dei fatti suoi, Aquarius è più che pronto a mandare la sua proverbiale imperturbabilità alle ortiche senza battere ciglio. Anzi, di solito si lascia dietro una scia di cadaveri degna della rivoluzione di luglio.


«Io no.»


L’embolo di Milo è pronto ad esplodere.
Rodrigo lo intuisce dalla postura, dalle spalle rigide e dalle mascelle serrate. Guarda in terra, Scorpio, e non per pudore o reticenza, nossignore. Si sta trattenendo, pensa il Capricorno.
Meditare non è mai stato nelle sue corde, eppure ha seguito il consiglio di Camus e si è seduto sotto quegli alberi dalla fronda ampia a cercare di fare il vuoto dentro di sé. Buona fortuna, pensa Rodrigo. Che si aspettava un’uscita piccata e velenosa da parte di Milo, sempre pronto ad ergersi come l’ultimo bastione a difesa del suo migliore amico. Quello che Rodrigo non si aspettava è che lo Scorpione tacesse, dando spazio ad Étienne, che di solito lascia sfuriare le mattane di Marco come si fa con un vento particolarmente incazzato. Aspetti che passi. Ma non quando la buriana decide di scartabellare casa tua come se fosse l’elenco del telefono. Qualcosa la devi pur fare. Sprangare porte e finestre, ad esempio, per evitare guai peggiori. Ed è quello che farebbe lui – quello che farebbe qualsiasi persona con un briciolo di sale in zucca – ed è quello che sta per fare anche Étienne. Non prima, però, di aver lisciato per bene il pelo al Cancro e averlo trasformato in una confezione extra-large di surimi.
Che poi, ad essere onesti, a chi piace il surimi?


«Nemmeno io», prova a rispondere Rodrigo. Ché tutti si aspettano una sua spiegazione, oltre a quelle raffazzonate che ha potuto fornire loro. Come si fa a spiegare l’agire di un matto? Come si può? Non c’è logica, nelle azioni di Marco quand’è sobrio, figuriamoci quando è sbronzo!
Lui prima fa e poi pensa. E poi, forse, si pente. Sempre ammesso che abbia capito di aver sbagliato.
Il guaio di Rodrigo è che più questa storia va avanti, meno ha senso. Come se fossero in un videoclip di Bonnie Tyler, quello in cui dei ninja in bianco irrompono di notte dentro una scuola privata già problematica di suo. No, tutto questo non ha alcun senso. Alcuna credibilità. Peccato che a Marin quella roba piace. Piace tanto. Troppo.


«Ambasciator non porta pene», aggiunge Aiolos quando vede che il compagno è in difficoltà.
«Ma trova chi glielo sostiene», ribatte Milo sbuffando. «Ma è mai possibile che non sappiate tenerlo lontano dalla bottiglia?»
Cosa sono, la sua balia?, pensa Rodrigo. Ed è quando Milo gli risponde: «No. L’accompagno, semmai», che capisce di averlo fatto di nuovo. Stai perdendo colpi, Ruy?, si chiede, sospirando.
«Peccato che io non veda il becco di un quattrino…», ribatte.
«E chi di noi ha mai visto un soldo?» Milo è un treno lanciato nella notte. Peccato che Rodrigo non abbia alcuna velleità di fargli da sparring partner. Non oggi, almeno. Ché Yngve ha ragione. C’è un non detto tra lui e Aiolia che è bene illuminare prima che sia troppo tardi. Prima che faccia più danni che altro, perché Aiolia è come la vampa d’agosto: ti avvolge e ti porta con sé, annientandoti nel suo abbraccio focoso.
Perché Aiolia è così, un fiore generoso che regala quanto ha di più prezioso per un sorriso, una simpatia. Non ha regalato a Leaphya il ciondolo di Aiolos, come fosse un braccialetto dell’amicizia da scambiarsi alla fine delle vacanze?
No, aspetta…
Ed è a questo punto che Rodrigo capisce cosa sia l’illuminazione, quella vera, quella che ti solleva dalle miserie della condizione umana e spezza le catene del samsàra e…


«Potrebbe essere il deliquio di un ubriaco», sentenzia Shaka, con il tono di chi è prontissimo ad aggiungere due tazze ed un paio di cuscini a terra, sul piazzale antistante l’Undicesima Casa. Perché si domanda sempre all’ospite improvviso se voglia favorire. È buona creanza. Educazione. Savoir fair et savoir vivre, per dirla con Étienne. E l’ospite inatteso non sarà – quasi – mai così screanzato da rispondere «Sì, grazie» e sedersi a tavola come se tutti stessero aspettando lui. Peccato che Shaka sembra non avere alcuna intenzione di interrompere la sessione odierna – lui odia gli imprevisti almeno tanto quanto Yngve detesta un foruncolo sul naso. E anzi, sarebbe felicissimo di avere altri quattro compagni da instradare nell’elegante e raffinata pratica della meditazione. Anche lontano dagli alberi di Sala.
Io passo, pensa Rodrigo, mentre la postura di Aiolos suggerisce che sì, il Sagittario potrebbe accettare con gioia quell’invito. Lui si muove spinto dalla curiosità – ché altrimenti mai si sarebbe affacciato nelle stanze di Athena quella sera disgraziata di tanti, troppi anni fa – e Rodrigo si troverebbe costretto ad accettare, foss’anche per non dover andare da solo a cercare Marco per farlo ragionare.


«Magari, passata la sbronza, si sarà dimenticato di quanto detto ieri sera», suggerisce Shaka, una ciocca di capelli che gli scivola lungo lo sprone della sua tunica.
«Io temo di no.»
«Dici?»
«Tu non lo conosci.» La voce di Rodrigo ha lo stesso suono netto che si porta dietro il passaggio della lama di una ghigliottina. «Sarebbe capace di scomodare il Sacerdote pur di avere il permesso di…»
«Sfrantumarmi i gioielli di famiglia?»
«Precisamente.»



Anche Étienne ha in repertorio un bel sorriso, aperto, franco e caldo. Uno che invoglia a sedertigli accanto e a condividere quattro chiacchiere ed un bicchiere di vino buono. E anche Étienne si tiene quel sorriso per i momenti buoni, che conosce solo lui e – forse – Milo. Rodrigo l’ha visto, quel sorriso, qualche tempo prima, sulle piane innevate di Asgard, prima che Athena rompesse la statua in cui gli dei li avevano rinchiusi e li tirasse fuori, uno per uno, chiamandoli per nome. Ed è questo che fa saltare la mosca al naso di Milo, ché Camus - ché Étienne - è roba sua, solo sua; e allo Scorpione ancora non è andato giù che la maschera di freddezza di Camus - di Étienne - sia andata in pezzi non quando Surtur lo ha arrostito di fronte ai suoi occhi, ma quando lui, Rodrigo, è finito al tappeto al castello di Loki. E Rodrigo ha percepito il livore gonfiare il fegato di Milo, l’ha percepito eccome. Più di quanto lo Scorpione sia disposto ad ammettere. L’ha percepito chiaramente anche se Milo in quel momento era in stasi, come un bulbo piantato nella dura terra di Gennaio.
Non sono faccende che ti riguardano, si dice Ruy, perché di fare da paciere tra quei due non è proprio il caso. Sono adulti e vaccinati. Che se la sbrighino da soli, una volta tanto.


«La prossima volta, vieni direttamente da me.» La voce di Étienne è una mannaia che cala sul tagliere. E se gli sguardi potessero uccidere, Rodrigo sarebbe morto e risorto e rimorto e risorto ancora una volta, sotto i colpi implacabili delle occhiatacce con cui Milo lo sta trapassando da parte a parte. «Intesi?»
«Ha ragione lui», s’intromette Doko, il Venerabile Libra, il quale - forse in seguito al tempo speso a meditare davanti ad una cascata, forse per indole - non nasconde di starsi divertendo un sacco. Se la sta scialando da morire, direbbe Marco, pietra dello scandalo, che, nonostante tutto, sembra essersi fatto uccel di bosco.
Magari è caduto strada facendo, in uno dei crepacci e c’è rimasto secco, pensa - spera - Rodrigo, ché così avrebbero risolto due problemi in un colpo solo. Sì, la Quarta Casa resterebbe senza guardiano, ma Ruy non crede che all’Armatura del Cancro questo dispiacerebbe. Anzi…
«Però, adesso che ci penso...» e il Venerabile Doko si gratta il mento con aria distratta, a raccogliere le idee e a tenerli col fiato sospeso per qualche tempo, ché se e quando Libra parla, lo fa con pause ad effetto, e quasi mai per rivelare indizi capitali. Come Mu. Coincidentia oppositorum, si chiama in letteratura, ché sia lui sia Mu sapevano che sul trono di Athena sedesse un impostore. Eppure si sono tenuti quel piccolissimo particolare ben stretto, dietro le labbra serrate. Sì, Saga ha avuto più culo che anima. E Rodrigo si ripromette di affrontare la questione con Libra, prima o poi - ché parlare con Mu richiede una dose di pazienza che, al momento, il Capricorno non è sicuro di possedere - magari quando non dovranno mettersi di traverso per smorzare le alzate d’ingegno di qualcuno. O magari al ritorno da una lunga vacanza, una di quelle dove abbandoni l’orologio sul comodino per rimettertelo al polso dopo tre settimane. Anche quattro, se le cose girano nel verso giusto. E forse forse Rodrigo è ancora in tempo per fare richiesta al Sacerdote di un meritato - meritatissimo - periodo di riposo. Un po’ di freddo che gli snebbi il cervello, di questo ha bisogno il Capricorno. Neve alta più di un metro, silenzio e montagne innevate che aspettano, riposano, meditano. Sì, se lo merita, un po’ di tempo per sé. Un regalo di compleanno fuori tempo massimo. Perché no? E di sicuro Aiolia non verrà a cercarlo per fare alcun discorso con lui. Non adesso, almeno.


«Io non l’ho visto passare», dice infine Libra.
E quel piccolo sassolino si porta appresso altri detriti e altre rocce, fino a formare una valanga di pietre.
«Neppure io», gli fa eco Milo, e così Camus e così Aiolos e così Shaka. E un brivido lunghissimo corre sottopelle e lungo la spina dorsale di Rodrigo. Vuoi vedere che quell’imbecille ha davvero messo un piede in fallo ed è finito a fracassarsi le corna contro qualche roccia?


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Capitolo 4
*** 4. ***


4.




 Ci sono mattine in cui si sveglia e fatica a capire dove si trovi. Se sia ancora ad Atlantide, il mare come soffitto, nella reggia di oricalco e calcedonio di Poseidone, oppure se sia davvero con le chiappe sul trono di Athena, tra rocchi e colonne che resistono al tempo soltanto perché non hanno nient’altro di meglio da fare. O se non sia stato tutto un lungo, lunghissimo sogno e lui sia ancora nella grotta di Capo Sounion, a resistere contro la marea che sale e monta ed invade la sua prigione due volte al giorno.
Ma ci sono mattine in cui si sveglia e pensa che sia tutto un incubo. Gli succede quando ha le udienze, e gli tocca stare ad ascoltare le paturnie di questo o di quello e mettere pace - o evitare che le istanze dell’uno non provochino strane reazioni se mischiate con quelle dell'altro. Ha ridotto l’orario di ricevimento a due volte al mese, ché il Sacerdote di Athena non può e non deve cincischiare con le minuzie del popolino, ma sollevare lo sguardo e osservare con cura cosa accade all’orizzonte, quali nubi si stiano addensando o se la strada è libera fino a dove lo sguardo si perde, sfumando in una sottilissima linea di un verde prato appena accennato.
Deve ingoiare una pillola amara, ma è solo due volte al mese, e il Sacerdote si dice che sì, può farcela; che sì, è il caso di mandare giù quel sorso di fiele; che sì, via il dente via il dolore. 
Stornerà tutto con una bella e lunghissima pausa meditativa nella piscina che fu di Sion prima e di Saga poi, accompagnando il proprio riposo con una bottiglia o due di quel buon rosso, corposo e forte, che ha scovato nella cantina privata del Sacerdote, ché al sommo Sion, sotto sotto, piaceva vivere dignitosamente, non foss’altro che per alleviare gli acciacchi dell’età.

Sono le udienze private ed urgentissime quelle che gli fanno andare la giornata di traverso, ché non ha avuto il tempo e la possibilità di prepararsi spiritualmente alla cosa. E lui detesta essere impreparato, detesta che le proprie giornate siano mandate a carte quarantotto da stupidi contrattempi che spuntano fuori come i dente di leone in un prato a primavera. Ecco perché ha provveduto personalmente a far rivoltare quel praticello innocuo, zolla per zolla, cosicché non saltassero fuori sorpresine poco gradevoli. Eppure non è bastato, ché davanti al suo trono - ché davanti al trono di Athena - non c’è un soldato semplice che gli sta portando un’ambasceria urgentissima o un Santo di Bronzo che gli sta facendo rapporto - i Santi d’Argento sanno stare al mondo e richiedono udienza rispettando il cerimoniale - ma due Santi d’Oro: uno con l’Armatura da parata - mantello candido, rosa tra le labbra ed elmo sottobraccio - e l’altro che assomiglia ad un gatto randagio ripescato chissà dove, con gli abiti stazzonati, gli occhi cisposi, ciuffi d’erba che spuntano qua e là ed un bisogno disperato di dormire, di radersi e di fare una doccia, non necessariamente in quest’ordine.

È in momenti come questo che Kanon, ex Dragone del Mare e Generale di Poseidone, Santo dei Gemelliad interim e Grande Sacerdote di Athena, vorrebbe aver conservato la maschera blu cobalto che il Sommo Sion, suo predecessore, era solito indossare per celare al mondo il proprio aspetto ultracentenario - ché sì, il suo era un miracolo, ma i doni degli dei non sono fatti per i mortali. Quello che il Cancro ha appena detto - incalzato da Aphrodite come un branco di lupi segue un cerbiatto che si è perso - è talmente assurdo da lasciarlo a bocca aperta, e poco ci manca che i suoi occhi non cadano fuori dalle orbite e si mettano a rimbalzare sui gradini e sul pavimento di marmo, come un paio di biglie extra-large color azzurro mare. Il Cancro se ne resta con lo sguardo fisso sulla guida di velluto rosso ai suoi piedi, e non ha modo di assistere a questa scena singolare, ché non capita molto spesso di trovare il Sacerdote con la guardia abbassata; ma Aphrodite - ma Yngve - vede. Ed è un sorriso complice e divertito quello di Pisces. Lo stesso che incurverebbe le labbra di un gatto che sta per papparsi un passerotto grassoccio, ammesso che i gatti possano sorridere - cosa di cui Kanon è sicurissimo.

Ed è lo sguardo di Yngve, occhi di mare al mattino, che lo esorta a dire qualcosa. Non può starsene in silenzio e a bocca spalancata come un merluzzo appena pescato, anche se ha appena sentito le farneticazioni di qualcuno che, palesemente, ha una sbornia coi controfiocchi ancora da smaltire. È o non è il Sacerdote di Athena?
 
«Stai dicendo che...», esordisce, la voce arrochita di chi non ha ancora spiccicato mezza parola.

Per riguardo alle sue corde vocali, o per una prassi consolidata durante la reggenza di Saga, il Cancro termina la frase al posto suo: «Sì, Santità.».

E Kanon, Ex Dragone del Mare eccetera eccetera, vorrebbe rispondere «Sì, Santità un cazzo», ché lui non ha espresso nemmeno mezza delle domande che si affastellano nel suo cervellino in perenne movimento. Saturno è un padre severo? Forse. Ma vogliamo davvero parlare di quale croce sia essere retti da Mercurio?
Parliamone, pensa Kanon, in un angolino della sua mente, prima di stringere i braccioli dello scranno fino a farsi sbiancare le nocche. Non gli chiede: «E io cosa dovrei fare, di grazia?», ché quella testa dura non capirebbe il suo sarcasmo e gli risponderebbe come se quella fosse una domanda genuina. Guarda invece Aphrodite, che, invitato dall’occhiataccia del Sacerdote, si toglie quella stramaledettissima rosa dalla bocca e si fa uscire il fiato.

«L'Undicesima Casa non è il solo Tempio che ha degli spazi vuoti, Santità.» 

E qualcosa, nella testa di Kanon, si mette in moto. No, è vero. Anche gli altri templi hanno delle strampalate strutture al di sopra del tetto. Chi uno stupa. Chi un camminamento. Chi un porticato. La Settima Casa vanta addirittura un solarium. Ché poi, a dirla tutta, non sono dei veri e propri templi classici. L’architetto che ha progettato quel complesso si è preso alcune… libertà, per così dire. Sempre che queste libertà non siano intervenute a gamba testa strada facendo. Perché Kanon è sicurissimo che, almeno un paio di volte, Ade sia riuscito ad infiltrarsi al Santuario. Il Re dell’Oltretomba non sceglie forse il corpo dell’essere più puro al mondo, il quale - ma tu guarda le coincidenze! - è sempre qualcuno molto, ma molto vicino alla dea?
Certo che sì.
Ogni santissima volta.
Ma senza stare a scomodare le doti strategiche delle schiere di Ade - ché con una guida come Pandora e quei tre deficienti dei Giudici, l’esercito dell'Oltretomba è in una botte di ferro, altro che Attilio Regolo!-, il guaio dei templi classici è che invecchiano anche loro. Il sole, il vento, l’acqua, il tempo che passa, fanno danni ben più seri delle rughe sul volto di una donna. E prima o poi qualche frontone lì, qualche colonna là, si sarà dovuto procedere a riparare i danni, magari anche tirando su ex novo i templi danneggiati. Non stanno ancora riparando la Sesta Casa? E non vuoi che qualcuno si sia baloccato con l’Athena Exclamation, nel corso dei millenni?

Certo che sì. Ecco perché le Dodici Case hanno stili così diversi tra di loro. Ecco perché la Casa dell’Acquario assomiglia ad un patio da piazzare in qualche parco per farci suonare l’orchestrina locale, nei pomeriggi di primavera. Non ci vuole un genio per capirlo. E forse, sotto sotto, lo sa - lo intuisce - anche il Cancro, che se non avesse bevuto troppo, adesso si starebbe risparmiando questa udienza urgentissima e una cervicale coi controfiocchi.

Se non solleva la testa, gli cadrà per terra, pensa Kanon. E forse gli starebbe anche bene, così impara a cacciarsi nei guai. Quello che non riesce a comprendere, però, è perché Yngve lo abbia preso per la collottola e portato al suo cospetto, nemmeno fosse un cucciolo da sgridare perché l’ha fatta sul tappeto buono del salotto. C’è una motivazione, dietro ai gesti di Pisces; non è uno che fa le cose tanto per ammazzare il tempo, lui. Nossignore. 
Così Kanon fa un gesto con la mano, come ad invitare Aphrodite a proseguire col suo discorso.

«Forse occorrerebbe controllare se questi spazi possano essere abitabili», e la voce di Yngve calca quest'ultima parola. «Per scrupolo. Potrebbero rivelarsi utili, in futuro. Per evitare che il nemico sfrutti delle zone cieche.»
O per riunirsi per il pokerino del venerdì, sillabano le labbra di Yngve con studiata calma e lentezza. Cosicché Kanon legga. Cosicché Kanon capisca. Cosicché Kanon sorrida.
Oh, certo. Certamente. Il pokerino del venerdì. Lo strazio cui la dea li esorta a partecipare per riallacciare i rapporti tra di loro. Perché un compagno d’arme è un tuo sodale. Uno da issarti in spalla e riportare a casa quando le cose vanno male, convinto che lui farebbe lo stesso per te.

Sì, come no?, pensa Kanon; ché l’idea di Saori non è sbagliata - anche se Athena preferirebbe gli scacchi, ma bisogna pur adattarsi ai tempi che cambiano, no? - almeno sulla carta. Il problema, secondo la modestissima opinione di Kanon, è che non si è invogliati a riportare indietro la pellaccia di chi ti lascia in mutande ogni singola volta, non foss’altro che per fermare quella rogna una volta per tutte. Anzi, lo si lascia a crepare in qualche fossa merdosa, magari sotterrandolo sotto una palata o due di fango. Tanto per essere sicuri. Hai visto mai?

E Aphrodite sarebbe il primo ad andare a concimare il terreno, col culo che si ritrova con le carte. Poco ma sicuro. Ecco perché insiste per andare in missione da solo, ché lui non è una principessa in ambasce, nossignore. Lui si salva da sé. E sarebbe prontissimo a seppellire i propri compagni azzoppati, pur di non doverli riportare indietro a spalla, ché ad Aphrodite non piace faticare. Nossignore.

Ma c’è un'altra cosa che Aphrodite detesta, oltre al pokerino del venerdì, al perdere tempo, al doversi ripetere, e ai cretini patentati: avere persone tra i piedi. Già è seccante vedersi andare a venire persone che si recano all’udienza dal Sacerdote, figuriamoci avere tutti i santi venerdì sera quattro o cinque gaglioffi che si aggirano per i tuoi quartieri privati tanto per fare un salutino. Che fai, passi per casa sua e non ti affacci a scambiare due parole?
Non si può.
Non si fa.
E la storia del pokerino settimanale gli è venuta a uggia prima di subito, visto che non si può giocare con moneta sonante e che i suoi compagni di gioco hanno imparato a chiamarsi fuori quando c’è lui al tavolo.
Tutti, tranne Marco.

Non che al Sacerdote faccia piacere avere persone in giro per la Tredicesima Casa quando lui vorrebbe e potrebbe farsi i fatti suoi, magari accompagnando il proprio cogitare con un bicchiere di quello buono, o dedicarsi ad un appuntamento galante. Senza contare la deprecabile abitudine che ha Mu di portarsi appresso quella piattola del suo allievo. Che corre, s’impiccia, guarda, chiede, parla, respira, esiste…

Kanon, ex Dragone del Mare eccetera eccetera, sorride, un lampo malvagio che trova eco sul viso angelico di Aphrodite.
«Avete perfettamente ragione», dice il Sacerdote, alzandosi in un frusciare di vesti, l’elmo rosso corallo che sciacqua un po’ sulla testa di Kanon. «Sarà il caso di parlarne tutti assieme.»
«Volete dire, Santità...», osa timidamente domandare il Cancro, guardandolo da sotto in su come fa un cane che ha appena ricevuto un liscebusso da manuale. 
«Hai inteso bene, Death Mask», e quando Kanon lo chiama col suo nome celeste, il Cancro sa che il tempo dei giochi è finito e che adesso si fa sul serio. «È ora di indire un chrysos synagein


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Capitolo 5
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5.



  «Benvenuti.»
 
Rodrigo ha un piccolo segreto, che mantiene celato con prudenza dietro allo sguardo tagliente e al diadema immacolato; se gli altri sapessero, la sua immagine di uomo integerrimo e tutto d’un pezzo se ne andrebbe in pezzi. Avete presente una pallonata che centra in pieno una finestra - magari una vetrata, di quelle istoriate con mille colori che sembrano prendere fuoco a mezzodì, quando la luce del sole le attraversa? Ecco. Nessuno - non Aiolia, non Marco; forse Yngve, ma ha il buonsenso di tenerselo per sé - sa che, alle volte, lui si estranea. E pensa. Ai fatti suoi, ai massimi sistemi che gli attraversano la mente, agli universi paralleli, possibili e impossibili.
Facciamo un gioco, gli diceva suor Bertilla, all’orfanotrofio di Burgos, quando era un soldo di cacio dallo sguardo sperduto. Facciamo che tu eri un principe. O un pilota di formula uno. O un astronauta. O…
E Rodrigo giocava, e gioca anche adesso, mentre il Sacerdote entra piano piano in argomento. Gioca ad ipotizzare un’esistenza differente.
Esiste un posto in cui lui e Aiolia sono amici. Un universo parallelo, uno tra i tanti presenti nel ventaglio infinito di possibilità. Una di quelle occorrenze in cui togli una virgola - uno iota, direbbe l’evangelista - ma il resto del discorso non cambia. Resta lo stesso. Evolvendo in un caleidoscopio di variabili, e tu devi avere solo il culo - un culo sfondato - per beccare quello giusto. Possibilmente migliore di quello in cui sguazzi già. Ché altrimenti non vale la pena nemmeno di stare ad ipotizzare di universi paralleli possibili et immaginabili.
Shura è una persona pragmatica e realista. Uno che, se vede un bicchiere d’acqua e ha sete, non si balocca a chiedersi se questo bicchiere sia mezzo pieno o mezzo vuoto, ma lo beve. E dopo ringrazia. Però, anche le persone pragmatiche e razionali e realiste e scettiche - da far sembrare san Tommaso un credulone impenitente -; anche queste persone, si diceva, hanno un bisogno disperato di coltivare quella pianticella gioiosa chiamata ottimismo. E la pianticella di Ruy è molto, molto rigogliosa.
Così, quando Ruy cogita di universi paralleli in cui lui e Aiolia non solo non si detestano cordialmente, ma vanno d’amore e d’accordo (non si spinge ad ipotizzare una realtà in cui le sue più sfrenate fantasie siano all’ordine del giorno), si perde ad analizzare i dettagli, i particolari, le cesellature.
C’è un universo in cui si sono incontrati per caso, su un treno diretto lanciato nella notte.
Ce n’è uno in cui sono due agenti segreti specializzati nel paranormale (vampiri, fantasmi, lupi mannari e compagnia cantante).
Ce n’è un altro in cui sono due giornalisti d’assalto che fanno passare il caso Watergate come una bambinata.
Uno in cui si sono accapigliati come due marmocchi bizzosi che se le suonano di santa ragione per una macchinina, un tappo di sughero o una biglia colorata, fino a diventare amici inseparabili.
Il bello di tutte queste realtà è che sono legate da un'unica condizione, quella di non essere Santi di Athena e non dover così sottostare alle rigide regole del Santuario: sveglia all’alba, missioni, flessioni, missioni, meditazioni, missioni, esercizi, missioni, riunioni, missioni, missioni, missioni. 
Un universo parallelo dove magari Aiolos ha insegnato ad entrambi a tenere in mano un rasoio. E a non soffocarsi con la schiuma da barba. E a parcheggiare in retromarcia in salita. In cui lui e Aiolia si scambiano giacche e cd e chiavi di automobili che appartengono un po’ ad entrambi. 
Ma la verità è che a Ruy basterebbe anche un universo piccino picciò in cui sono comunque dei Santi di Athena, ché come si sarebbero conosciuti un greco e uno spagnolo altrimenti?
Con l’Erasmus, tipo?
Gli basterebbe, a patto che quella notte disgraziata non fosse mai avvenuta. Che Saga non avesse dato di matto. O che Aiolos non l’avesse fatto al posto suo, ché gli universi specchio sono i più pericolosi di tutti. 
 
«Come avrete immaginato, le motivazioni che mi hanno indotto a convocarvi per questo chrysos synagein, il primo della mia reggenza, sono...»
 
Kanon - il Sacerdote, pardon - parla, ma Rodrigo non l’ascolta, preferendo baloccarsi con i suoi pensieri ancora per un po’. Se tanto gli dà tanto, Kanon ci metterà qualche altro minuto per entrare in argomento. Così come faceva Saga e come Sion prima di lui. Perché cambiare? Le tradizioni sono fatte per essere rispettate e portate avanti con indefessa pertinacia. E Kanon gli ha dato la precisa impressione di essere qualcuno che si insinua nel solco della tradizione, quasi gli facesse da coperta di Linus. Da feticcio. 
Rodrigo fissa lo sguardo sui propri schinieri.
Di sentire i perché e i percome del Sacerdote, non è giornata. Meglio trastullarsi ancora un poco con i suoi universi paralleli, prima che Kanon entri in argomento, quello vero, e a lui tocchi catapultare tutta la propria attenzione sulle sue parole. O forse, pensa il Capricorno lanciando un’occhiata distratta all’altra metà della sala, valutare se, al momento del rompete le righe, non sia il caso di bloccare Aiolia e fare con lui quel benedetto discorso interrotto, una volta per tutte.
L’espressione del Leone è seria. Grave. Più di quando era uno sbarbatello pelle e ossa con l’assurda fissazione di voler riabilitare il nome di suo fratello. Neppure Aiolia sta ascoltando Kanon, nossignore. Aiolia si sta preparando, il leone che osserva la preda controvento, nascosto nell’erba alta, in una macchia d’ombra, pronto ad azzannare sul collo l’incauta gazzella. La domanda è: si sta preparando a fare cosa?
Che diamine è successo?, si chiede Ruy, stornando lo sguardo su una crepa ai suoi piedi.
Quella non è la faccia di chi non è riuscito a parlare con Marin.
Quella è la faccia di chi con Marin ha parlato, sissignore, ma il chiarimento non è andato come sperato. Neppure per sbaglio.
Non gli avrà detto che… ?, pensa Ruy.
No, non può essere stata così crudele da fargli nomi e cognomi. Non erano amici, loro due?
Certo che sì. E un amico non è qualcuno che ti rifila una pugnalata alle spalle.
Certo, anche vuotare il sacco avrebbe una sua logica: il Santuario è un microcosmo più affollato dell’Encierro di Pamplona, un paesino minuscolo popolato di pettegole dalle lingue tanto lunghe quanto velenose; e prima o poi si rischia di inciampare proprio in quella persona che non volevi vedere sottobraccio a quell’altra che te l’ha portata via. Sempre ammesso che sia così e che la mente di Aiolia non stia a mille leghe dal Santuario, sulle piane ghiacciate di Asgard.
Via il dente, via il dolore. Logico. Pragmatico.
Però c’è il rischio di finire sgozzati, ad incappare in Aiolia, adesso. Più che dopo il passaggio del colpo di Saga.
Ruy scocca uno sguardo interrogativo a Gemini.
Non è che l’hai fatto un’altra volta, vero?, gridano gli occhi verde cupo di Ruy; ma Saga non coglie. Saga lo guarda, ma è come se non lo vedesse. Osserva tutt’altro, oltre Ruy e oltre la colonna del Capricorno - forse cerca il conforto di Aiolos? -, con lo sguardo allucinato di chi sta per passarsi una mano sul viso.
E poi lo fa.
E Ruy sbatte le palpebre.
Un momento. Che diamine sta succedendo qui?
Vorrebbe chiederlo ai suoi vicini, ma vede che sia Étienne sia Aiolos hanno uno sguardo incredulo. Molto, molto simile a quello di Saga. Solo Marco guarda altrove, come se l’intera faccenda non lo riguardasse.
Che cazzo hai combinato? Si può sapere che cazzo hai combinato, stavolta?
 
«Non è una brutta idea...»
 
Una volta, prima della battaglia contro Ade e del risveglio ad Asgard come Einherji, sentire un’affermazione simile uscire dalla bocca del Venerabile Doko avrebbe rasserenato gli animi. Ma il Venerabile Doko - la Prugna Secca, come lo chiamava Marco - ha lasciato il posto ad un adolescente invasato. Una sorta di uragano in bottiglia che non chiede altro che liberarsi e sgranchirsi un po’ le ossa, facendo il maggior casino possibile. Dev’essere stato tedioso meditare davanti ad una cascata per duecento e rotti anni. Molto tedioso. E se Ruy può provare genuina solidarietà per quel ragazzo, certe volte vorrebbe che riflettesse cinque minuti di più, prima di spedire gli altri - non lui stesso; giammai; Doko di Libra è impulsivo, mica scemo - in mezzo al maelstrom più furioso e incazzato.
 
«Stai scherzando, vero?»
 
La voce di Saga è di chi non solo non crede alle proprie orecchie, ma non ne vuole sapere di affacciarsi su un panorama allucinante.
Stile Alice nel Paese delle Meraviglie dopo un frontale con Tim Burton sotto acido. 
«No. Sono serissimo», ribatte Kanon - il Sacerdote, pardon - prima di aggiungere: «E al Sacerdote si dà del Lei, Gemini.». 
«Tu!», ruggisce Saga, e ci vuole la stazza di Adriano per trattenerlo al suo posto ed evitargli di strozzare il proprio gemello a mani nude. Vero che, dopo un omicidio, il secondo vien da sé, e Saga ha una certa esperienza in questo campo, tuttavia...
«Le regole sono le regole», ribatte Kanon. Come se la cosa gli rincrescesse sinceramente. «Ad ogni modo, questo servirà anche per la conta dei danni. Sapete anche voi come sono le assicurazioni...»
 
«Le assicurazioni?»
 
Rodrigo fissa il Sacerdote. Si accorge di aver pronunciato quelle parole solo quando gli occhi di tutti i presenti si catapultano su di lui. Aiolia compreso. E Ruy si impone di ignorare quello sguardo determinato che brucia come un falò nella notte, altrimenti è finita. Tanto varrebbe buttarsi nel primo burrone a disposizione - e lassù, su quella montagna, avrebbe solo l’imbarazzo della scelta.
Il Sacerdote si volta verso di lui come se si accorgesse solo adesso della sua presenza, e sorride. 
«Certo. Le assicurazioni.» 
«Le assicurazioni?!», ripete Rodrigo. Come a voler suggerire all’altro che sì, bello tutto, ma ogni bel gioco dura poco ed è il caso di piantarla con queste fesserie. Le assicurazioni! Ma per cortesia!
«Certo che sì», risponde Kanon, fissandolo come se fosse pazzo. Ed in effetti a Rodrigo piacerebbe l’idea di salire su quel vagone, almeno per cinque minuti. Tanto per vedere com’è. «Chi pensi ripagherà i danni che avete fatto?»
«I… danni
«Oh, avanti!» e Kanon sbuffa palesemente. «La Sesta Casa non esiste più. L’Undicesima ha uno strato di permafrost spesso tre dita, e tanti saluti al marmo di Carrara. L’Ottava non sta messa meglio. Alla Seconda sono crollate sei colonne. Sei. La Quinta, non parliamone. L’intonaco della Nona è andato al creatore e c’è un buco grosso quanto il mio trono...»
«… il trono di Athena», lo corregge Saga, ma Kanon non sembra averlo sentito.
«E poi c’è quella simpatica faglia tra il piazzale alle spalle della Decima Casa e la scalinata che conduce alla Undicesima.» Pausa. «Come li chiami, quelli? Ristrutturazioni?» 
«Per non parlare della perdita d’acqua», rincara la dose Yngve, sganciando la sua bomba con la sua solita noncuranza. E Rodrigo sa - e Rodrigo capisce - che c’è lo zampino di Yngve in tutta questa faccenda. Come quando si lancia un sasso giù per un dirupo. Tu fai cadere un innocuo ciottolo, ma in alcuni casi - tipo questo - il ciottolo si porta appresso mezzo costone. E, di finire schiacciato sotto la frana, a Ruy proprio non va.
Certo, se la frana lo seppellisse, lui potrebbe anche risparmiarsi di chiacchierare con Aiolia, e magari di essere folgorato dai suoi pugni - eventualità che, a giudicare dall’espressione terrea del Leone, non sarebbe sbagliato scartare a priori… 
«C’è un vero e proprio fiume che scorre alla Dodicesima Casa. C’è bisogno di un idraulico.»
«Per cortesia!», sbotta Saga, liberandosi di Adriano e facendo un passo avanti. «Quel fiume, come lo chiami tu, scorre dalla Sala del Sacerdote all’Undicesima...»
«Dalla piscina del Sacerdote all’Undicesima, vorrai dire...»   
«Non è una piscina!», ribatte Saga. Inviperito. «È una vasca per le abluzioni. Il Sommo Sion...»
«Il Sommo Sion aveva duecento e passa anni», puntualizza Kanon, lo sguardo atarassico e le punte delle dita a sfiorarsi. «Gli serviva per mantenere la pelle idratata.» Pausa. «A te?» 
«E a me serviva per mantenere la calma.»    
«Strano. Il potere logora chi non ce l’ha.»
«E tu ne sai qualcosa, vero, fratello?»
«Sacerdote, prego», puntualizza Kanon. Scherzando col fuoco.  
 
«Ma qualcuno ha davvero stipulato una polizza assicurativa?»
 
Tutti si girano a fissare Ruy, come se se lo fossero dimenticato, presi com’erano dal battibecco tra i due gemelli. 
«No, seriamente...»
«Perché ti stupisci», gli domanda Libra, sinceramente perplesso. «Mi sembra una scelta intelligente.» 
E Rodrigo si ritrova con lo sgradevole impulso di doversi mettere a boccheggiare. Come un pesce appena pescato che si chiede che fine abbia fatto tutta l’acqua che aveva attorno.
Ma quale assicurazione stipulerebbe una polizza sul Santuario?, pensa Ruy. E poi lo dice, tutto d’un fiato: «Ma quale assicurazione stipulerebbe una polizza sul Santuario? E la segretezza? Dove la mettiamo?».
«Esistono più cose in cielo e in terra, Orazio, eccetera eccetera...» Kanon filosofeggia, con l’aria dell’uomo di mondo che è avvezzo a scendere a compromessi, accomodamenti e transazioni di vari uffici. «La segretezza del Santuario non è in pericolo. Basta inserire un paio di note ad hoc tra le righe piccole. Il problema, semmai, è che quei cani ci metteranno una vita a pagare.»
 
«Dipende...», e la voce di Yngve è acido che stilla dalle sue labbra goccia a goccia. E Rodrigo non può fare a meno di chiedergli: «In che senso: dipende?».
Un sospiro a celare un nervosismo crescente, e Yngve risponde.
«Dipende dal tipo di polizza che si riscatta.»
Come se lui ne sapesse qualcosa.
Aspetta. Forse lui ne sa davvero qualcosa…, si dice Ruy, assottigliando lo sguardo. E chiedendosi che sapore debba avere il sashimi di carne umana. Magari, se lo marino un po’ con aceto e limone… 
«E tu cosa ne sai?», gli domanda, un tono inquisitorio che avrebbe fatto la gioia di Torquemada.
Yngve si stringe nelle spalle, in un clang di protesta da parte dell’armatura.
«Lo sanno tutti», ribatte, come a volergli dare dell’ingenuo. E forse sì, forse il peccato più grande di Rodrigo è proprio la sua ingenuità disarmante, unita alla fede incrollabile nella Giustizia e negli alti valori che muovono - che dovrebbero muovere - i Santi di Athena. Ma non c’è furia peggiore di quella di un ingenuo che si accorge di essere stato fregato. E Rodrigo intuisce, con spietata lucidità, che dietro a tutta questa storia - dall’ubriacatura indecente di Marco, al consiglio di parlare con Aiolia, al chrysos synagein - c’è lo zampino di Yngve. Sicuro come il sole sorge ad Est.
Va bene, Yngve. Te la sei cercata. «Io no», risponde. E pensando: Muoia Sansone con tutti i Filistei, aggiunge: «Spiegamelo tu, visto che sei così pratico.».
«È puro buon senso», ribatte Yngve. «Oggigiorno si assicura qualsiasi cosa, dall’automobile alla casa, alle gambe delle attrici. Basta leggere i giornali.»
«Immagino...», commenta Rodrigo, visualizzando Aphrodite dei Pesci sotto al casco del parrucchiere, intento a sfogliare un rotocalco femminile facendo attenzione a non sbeccarsi lo smalto appena steso. E quel pensiero gli regala un sorriso pericoloso. Il sorriso del cane pronto ad azzannare alla gola l’incauto postino che si introduce nel giardino da lui custodito.
«Quindi», riprende Yngve, «immaginerai anche che polizze diverse richiedano tempistiche diverse. Un conto è farsi risarcire perché qualcuno non ci ha dato la precedenza. Un altro è riscuotere un premio sulla vita.» Pausa. «Dico bene, Santità
Forse è solo un gioco di ombre, forse Ruy lo immagina solamente, ma sul viso di Kanon scende un velo. Come quando vieni colto in castagna, ma no, non vuoi darlo a vedere. Nossignore.
«Suppongo di sì», replica il Sacerdote.
«E immagino che l’assicurazione abbia pagato in fretta, una volta svolti tutti gli accertamenti del caso.»
Yngve l’incalza. Senza tregua. L’avanzare dello squalo che ha fiutato il sangue e che ha tutta l’intenzione di serrare la chiostra delle sue zanne attorno al tuo busto. Niente di personale. 
 
«Che storia è questa?»
 
La voce di Saga non ha perso il tono stentoreo e saldo con cui li guidava durante la sua… reggenza. E la posizione di Kanon si sta assottigliando, sempre di più, perché adesso anche gli altri si stanno interessando alla questione, che da bega condominiale si sta tramutando vieppiù in un succosissimo cheeseburger da far fuori in tre bocconi.
«Ma niente», minimizza il Sacerdote. «Quisquilie burocratiche di nessun peso e che niente hanno a che vedere...»
«C’era un’assicurazione sulla tua vita, Saga.»
La voce di Aiolia catapulta l’attenzione di tutti gli astanti sul Leone.
«Una… cosa
«Un’assicurazione. Sulla. Vita.» Aiolia scandisce le parole con cura, come fossero i grani di un komboloi. «Il beneficiario era Yngve.»
«Tu!!!», ruggisce Gemini indicando Pisces, e lo sguardo di Saga si va allargando in maniera preoccupante. Non è che gli viene un embolo, vero?, pensa Ruy, ritrovandosi a frapporsi tra Saga e Yngve. Per prudenza, ché Athena non sarebbe affatto felice di doverseli andare a riprendere un’altra volta, non dopo tutto il casino fatto per tirarli fuori da quella statua pacchiana in fondo al Tartaro. «Tu!!!»
«Perché ti stupisci, Saga?», domanda Yngve sinceramente sorpreso, i palmi delle mani rivolti verso Gemini a dimostrargli che è sincero e che non nasconde null’altro. «Mi sembrava la scelta più logica.»
«Logica?!», ruggisce Saga, facendosi strada verso Yngve. «Logica se hai deciso di accopparmi!»
«Che sciocchezze», chiosa Aphrodite, mettendo il broncio come un’attrice consumata. «Io sarei morto prima di te, nel tentativo di difenderti. Cosa che, per altro, è successa.»
«E la polizza, allora?!»
«Era una precauzione», spiega Aphrodite, stanco. Di dover spiegare tutto per filo e per segno, forse. Di dover mostrare tutti i passaggi agli allievi duri di comprendonio. «Sai, i tuoi continui sbalzi d’umore mi preoccupavano. E non poco.»
«I miei sbalzi d’umore?»
«Come preferisci chiamarli? Crisi?» Yngve è sincero. Le mani sui fianchi e l’espressione seria, aggiunge: «Che cosa sarebbe successo se ti fosse venuto un colpo apoplettico, mentre eri immerso nella vasca del Sacerdote per calmarti i nervi? O se ti fossi assopito e fossi annegato? Eh, Saga?».

«Sì, ma perché indicare proprio te come beneficiario?»

Il tono di Marco è basso, bassissimo. Come quello di una bestia che risiede nelle profondità della terra, o nell’antro gorgogliante di Cariddi. 
«Qualcuno doveva pur essere», dice Yngve. E prima che Marco gli chieda conto e ragione della sua scelta, aggiunge: «E visto che il Santo dell’Altare è carica vacante, il designato non poteva che essere un Santo d’Oro.»
«Ma perché tu?», l’incalza Marco. «Perché non Shaka? O Shura? O...»
«Perché il beneficiario deve firmare. E c’era un discorso di discrezione sul… segreto di Saga. Che conoscevamo solo noi due. Tre, se ci metti Shura...»
«Ah, no», ribatte Ruy voltandosi verso Yngve, il filo di Excalibur pronto a correre sulla sua pelle eburnea. «Non ci provare! Io non ne sapevo niente di questa storia!»
«E poi voi andavate in missione. Io, quasi mai. E scegliendo il sottoscritto non si correva il rischio che qualcuno ammazzasse il Sacerdote per riscuotere il premio. Qualcuno con il vizio dell’omicidio, ad esempio...»
Ma prima che Marco oltrepassi Saga e balzi al collo di Yngve per stringere, stringere, stringere - e Ruy potrebbe lasciarlo fare, una volta tanto -, Saga domanda: «Ma non avrei dovuto firmare anche io, in quanto diretto interessato?».
«Ci ho pensato io. Come al solito.»
«Hai falsificato la mia firma?!» Saga è sempre più incredulo. Yngve, il tranquillo Yngve, è una velenosissima serpe in seno. Quanto non lo conosci, Saga, pensa Ruy.
«Chi credi firmasse al posto tuo quando avevi le tue crisi di nervi e ti mettevi in ammollo nella vasca del Sacerdote?», domanda Yngve. «Il Santuario non può fermarsi perché il Sacerdote ad interim ha le paturnie! Ho assolto alle funzioni dell’Altare. Svolgendo un compito che non era e non è il mio. Che gente! Dovreste ringraziarmi, invece di sbraitarmi contro.»
«Che faccia di bronzo!» Saga è una pentola a pressione pronta ad esplodere, portandosi dietro mezzo complesso in un tripudio di livore e vapore. «Aiolia, chi ha beneficiato del premio assicurativo?»
«A quel che so, morti entrambi, la polizza è passata al parente più prossimo ancora in vita.».
 
«Permettimi una domanda», s’intromette Adriano, una mano sulla spalla di Saga a tenerlo fermo dai suoi propositi omicidi. «Tu cosa ne sai?»
Aiolia fissa il Toro dritto nelle palle degli occhi e poi ribatte: «Athena ha trovato una copia della polizza nella Biblioteca del Sacerdote.».
«Visto? Non ce l’avevo io. Era nella Biblioteca del Sacerdote», commenta Yngve. Come se questo chiudesse la questione dandogli ragione e asserendo la sua onestà.
Sì, e mio nonno aveva tre palle, pensa Ruy. Scostandosi di appena un passo da davanti a Yngve. Non ci tiene ad essere travolto da Saga. Che a breve si libererà dalla presa di Adriano e scatterà in avanti, passando sopra chiunque si pari dinnanzi al suo incedere. Athena compresa. 
«E?», domanda Adriano. Perché c’è un E? a galleggiare nelle pause di Aiolia. Un E? grosso quanto tutta la collina su cui sorge il Santuario.
«E una volta ritrovato Kanon in buoni sentimenti, Athena ha pensato a fargli recapitare la polizza.»
«E tu non hai detto niente?!»
Milo è inviperito, anche se si è sforzato di mantenere un tono neutro.
«Athena mi ha imposto la Sigé», ribatte Aiolia.
«Comodo...»
«Parlane con lei», e per Aiolia la questione è chiusa.
«Non ci sto capendo nulla», interviene Shaka, occhi una tantum aperti, azzurri più del cielo in primavera, ed espressione sperduta. «Chi ha pagato la polizza? E dov’è adesso?»
«Il Santuario ha pagato regolarmente tutte le rate», lo tranquillizza Yngve. «Anno dopo anno. Scendevo personalmente ad Atene ad occuparmi della questione.» 
«Il Santuario...», commenta Milo, l’espressione di chi è pronto a infilzare Yngve col proprio aculeo fino a non sentirsi più le spalle dalla stanchezza.
«Il Santuario ha un fondo per le emergenze», risponde Yngve. «Ho scoperto io stesso che il premio era stato pagato un paio di giorni fa, quando mi sono recato in agenzia per saldare le quote mancanti.» 
E Ruy fa presto a tirare due conti.
Un paio di giorni prima.
Quando Marco si è ubriacato oltre ogni decenza. 
Quando gli ha suggerito di parlare ad Aiolia. 
Figlio di puttana. Maledettissimo figlio di puttana.
«Tu hai fatto cosa?!» Kanon si libera dell’elmo del Sacerdote, troppo grosso per la sua testa. «No, non dirmi che...»
«Che altro avrei dovuto fare, Santità? Io non avevo la minima idea che la polizza fosse stata riscattata.» Pausa. «Erano molto, molto incuriositi dal fatto che non solo Saga non sia morto, ma che io stesso ero vivo e vegeto...»
«Ma che cosa ti passa per quella testa?», gli domanda Kanon, sinceramente perplesso, gli occhi strabuzzati e un principio di paresi alla mascella. 
«Ho fatto il mio dovere, Santità
«Il tuo dovere era quello di riferire a me, razza di imbecille!»
Yngve si stringe nelle spalle. «Visto che avete tirato in ballo il discorso delle assicurazioni, ho pensato che...»
 
«Andiamocene.»
 
La voce di Aiolia è calda e imprevista al suo orecchio.
Quando si è avvicinato così tanto?, si domanda Rodrigo, specchiandosi nei suoi occhi blu. «Il chrysos synagein non è ancora concluso...», replica. Gli sta chiedendo di saltare le lezioni? Sul serio? Cosa sono, due monelli? Due studenti di liceo in un giorno di primavera?
Ma non eri tu quello che cogitava di universi paralleli?, si sente chiedere dalla propria coscienza.
Sì. Certo che sì. Ma da qui ad accogliere con gioia questo cambio di direzione, ce ne corre. Non è che sta sognando? Magari Saga gli è davvero passato sopra senza troppe cerimonie, e lui adesso sta vagolando, disteso su una lettiga dell'infermeria.
No, non si può, si ripete Ruy, ergendo un piccolo, singolo dito tra sé e la valanga che sta per travolgerlo. Ma quando apre la bocca per dare fiato al suo pensiero, l’altro scuote la testa.
«Non è mai iniziato», puntualizza Aiolia. «È la loro resa dei conti. Non ci riguarda.»
E Ruy si trova a dargli ragione. Yngve ha messo in piedi tutta questa sciarada per motivi chiari solo a lui - e forse neppure a lui - ed è il caso che termini quello che ha cominciato. Però...
«Che succede se si ammazzano tra loro?»
«Il Maestro non lo permetterà», replica Aiolia. Secco e lapidario. Impaziente, quasi, di mettere quanta più distanza possibile tre sé - tra loro due - e la sala del chrysos synagein.
«Tu dici?»
«Fidati. E poi c’è sempre Aiolos. Che non lascerà che Saga accoppi suo fratello. Athena non la prenderebbe bene.» Pausa. «E poi non dovevi dirmi qualcosa?»
E Ruy si ritrova ad annuire. 
E Ruy si ritrova a fare un passo indietro, poi un secondo, un terzo, fino a quando non volta le spalle all’assemblea e segue Aiolia giù per le scale che conducono alle Dodici Case, la schiena del Leone ad occupare il suo spazio visivo.
E adesso che gli racconto?, si chiede, il coraggio che evapora ad ogni passo, e la certezza di star andando ad infilarsi di testa nelle fauci spalancate di una fiera affamata. Fermarsi alla Decima Casa non è un’opzione. Aiolia tira dritto, come se non fosse quella, la loro meta - come se non lo fosse mai stata. E quando i passi di Ruy rallentano, l’altro si volta, gli scocca uno sguardo che incenerirebbe un nevaio e poi aggiunge: «Non qui.».
E dove?, vorrebbe chiedergli Rodrigo. E poi lo fa. «E dove?», dice. Perché non è sicuro che Aiolia sia nella sua testa.
«Alla Quinta. Lì non ci disturberà nessuno.»
 

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Capitolo 6
*** 6. ***


6.



  «Che giornata assurda...»
 
Il diadema di Aiolia finisce su un canterano senza troppe cerimonie. Come se fosse il berretto impolverato di un monello. 
Si massaggia le tempie, poi si volta verso il proprio ospite e gli domanda:«Gradisci qualcosa di fresco da bere?».
 
Non era così che Ruy aveva immaginato il loro chiarimento.
Anzi, a dirla tutta, a voler essere smaccatamente sinceri, Ruy aveva immaginato tutto, tranne quello. Una resa dei conti che, prima o poi, ci sarebbe stata – anche se, a voler essere sinceri, Ruy avrebbe gradito lasciare le cose come stavano. Nel loro equilibrio, magari precario, ma sicuramente indolore. Perché stuzzicare il can che dorme?
Perché sono un masochista, si risponde Ruy, mentre un angolo del suo cervello gli ricorda che Aiolia aspetta una sua risposta.
 
«Acqua, grazie.»
 
Aiolia sparisce dietro una tenda e torna poco dopo, posando un vassoio con due bicchieri spaiati e una brocca d’acqua fresca con dentro un paio di rametti di menta e una fettina di limone. Ed è solo a quel punto che Ruy capisce di essere nelle stanze private di Aiolia, quelle sul retro della Quinta Casa. 
«Scusa il disordine», gli dice, quando è vero l’esatto opposto. Non c’è uno spillo fuori posto. O un granello di polvere. E quella brocca d’acqua sembra essere stata preparata per tempo.
«Non preoccuparti», ribatte Rodrigo. Per cortesia, ovvio. Ma anche perché tutto lascia supporre che Aiolia lo stesse attendendo al varco. E lui si chiede perché. Che Marin si sia lasciata scappare qualcosa? E se sì, quanto? Meglio giocare di sponda, lasciando ad Aiolia la prima mossa. Dopotutto, è il padrone di casa, giusto? «Grazie per l’acqua.»
«Finalmente è finita», sospira Aiolia; e se si stia riferendo al chrysos synagein o a qualcos’altro, Ruy non sa dirlo. «Non ne potevo davvero più.»
Ruy annuisce.
«Scusami per stamane», prosegue Aiolia, come se avesse provato quel discorso tra sé e sé. «Andavo di fretta. Sai com’è, quando si decide di prendere il toro per le corna, meglio non avere tentennamenti.»
Ruy annuisce. Ancora. Aiolia ha ragione. Si parla spesso di coraggio e ardimento e un’altra mezza chilata di nobili - nobilissimi - sentimenti, ma è facile quando si tratta di qualcosa di esterno a noi. Quando siamo noi, quelli sulla graticola, la faccenda cambia. Radicalmente. E alle volte, a voler prendere il toro per le corna, finisce che è la bestia ad incornare te.
«Spero sia andato tutto per il meglio», gli dice Shura. Tanto per riempire il silenzio imbarazzato che sta scendendo tra di loro. E per passare la palla ad Aiolia. Che annuisce e risponde: «Sì. Mi sono tolto un peso dal cuore.».
Criptico, il ragazzo. 
Ruy beve un altro sorso. E un secondo. E un terzo. Fino a quando il bicchiere si svuota pericolosamente e non si accorge che Aiolia lo sta fissando. E da un pezzo pure.
 
«Di cosa volevi parlarmi?»
 
Eccola, la stoccata mortale. Quella che punta dritto per dritto al cuore, sbaragliando la parata di quarta e quinta. Questo è quello che succede a farsi cogliere con la guardia abbassata, si ripete Ruy, dandosi dell’imbecille; ma è tardi, ormai, troppo tardi per avere paura. Aiolia è entrato nel suo spazio e adesso sta a lui difendersi. O limitare i danni.
 
«Mah, sai… Il solito...»
 
Aiolia piega la testa da un lato, come un cane che non ha capito bene il comando del proprio padrone. 
«Il solito?», ripete, come un pappagallo senza troppa convinzione.
«Beh, sì… sai...»
«No, non lo so.» Aiolia posa il proprio bicchiere. «Non avevamo detto di metterci una pietra sopra, dopo Asgard e tutto il resto?»
«Sì?»
«E allora perché torni a rimestare quel brodo?» Aiolia incrocia le braccia e lo fissa. «Se un discorso è chiuso, è chiuso. Riaprirlo non porta a niente di buono. Sbaglio?»
Attenzione. Aiolia ha le palle girate. Fai. Attenzione.
«No. No, non sbagli», ribatte Shura posando il proprio bicchiere. «È che avevo avuto un’impressione sbagliata.»
«Definisci, sbagliata...»
 
Rodrigo sospira. Poi si passa una mano davanti al viso e si dice che non è il caso. Non è pronto. Non lo sarà mai, lui e il suo immane senso di colpa che lo accompagna da così tanto tempo; e, forse, è proprio lui il primo a non voler chiudere la questione una volta per tutte. Forse si è talmente abituato a ricevere l’odio di Aiolia che, adesso, la sua indifferenza lo ferisce più dei suoi pugni. 
«Credevo che tu mi avessi perdonato per quieto vivere, visto il tuo umore… mercuriale.»
«Niente affatto», si affretta a spiegare Aiolia. «È che avevo pensieri, ultimamente.»
«Mi spiace», ed è sincero, Rodrigo, nel dire quelle parole; ma quel che gli rincresce davvero è che Aiolia non sia andato a confidarsi con lui. Forse è troppo presto. O forse non succederà mai. 
 
«Fa nulla. Ormai ho risolto.»
«Com’è andata con Marin?»
 
Ma tu vuoi proprio essere picchiato?, gli domanda la coscienza, mentre Aiolia lo guarda come se gli fosse spuntata una seconda testa.
«Tu che ne sai?»
Eh, già. Io che ne so?, ché a Rodrigo preme comunque conservare l’onore di Yngve. Sarà pure un disgraziato, sarà pure uno stronzo, e sarà pure colpa sua se adesso si ritrova invischiato in questo delirio; ma Yngve è un amico. Nonostante tutto. 
Sì. Tu vuoi proprio essere picchiato.
«Aiolos.» Rodrigo lo dice scoprendo di essere uno scaricabarile coi controfiocchi. Non gli pesa, come dovrebbe essere invece nell’ordine naturale delle cose. Forse l’influenza di Yngve è stata più incisiva di quanto avesse preventivato? Risparmiati quel forse, tesoro... «Mi ha confidato che ti eri deciso a parlare ad una ragazza», e siccome Leaphya è ad Asgard… Ma Rodrigo non porta a termine la frase.
«Parlare con. Non a. Con.»
Sì, ma di cosa?, vorrebbe chiedergli Ruy. Quello gli preme di sapere, non di un balletto tra casi. Di cosa dovevi parlare a Marin? Di Leaphya? 
«Dovevo chiedere il parere di Marin su una questione delicata.»
«Capisco...»
«No. Non hai capito proprio niente.»
 
E le mani di Aiolia si avvicinano.
E le mani di Aiolia si sbarazzano del suo bicchiere.
E le mani di Aiolia si posano sul suo, di diadema, che finisce chissà dove – su un canterano accanto a quello del Leone? Possibile. Probabile. Sicuro – e gli sfiorano l’accenno di barba che ha sul mento.
Gli occhi di Ruy sono smarginati.
Da qualche parte, il suo cuore ha smesso di battere, come se anche quel muscolo stesse trattenendo il respiro assieme ad ogni cellula del suo corpo.
Aiolia sorride, un lampo bianchissimo nella penombra della stanza. E all’improvviso Ruy sente caldo, un caldo asfissiante. Come se stesse andando a fuoco, come se Capricornus stessa fosse diventata incandescente.
 
«Marin sta con un altro. Lo so da quando eravamo ragazzini.» Pausa. «Me l’ha confidato lei, un giorno. Togliendosi la maschera.»
«Cosa?»
«Faceva caldo», si giustifica Aiolia. «E poi a me piaceva già un’altra persona.»
Chi?, vorrebbe chiedere Ruy. Invece la sua voce riesce ad articolare solo un: «Ah...».
«Io e Marin siamo amici. E siamo stati… qualcosa di più, per un certo periodo.» Pausa. Aiolia lo fissa, come a voler cogliere qualcosa sul suo volto. Un’espressione, un segno, qualsiasi cosa. «Avevamo entrambi bisogno di una stampella.»
 
Fa male. Oh, se fa male.
Ruy ha sempre saputo che, prima o poi, una cosa del genere sarebbe successa, sicuro come il Sole sorge ad Est.
Prima o poi, qualcuno sarebbe apparso all’orizzonte e si sarebbe accalappiato Aiolia. Ma un conto è immaginarsi una simile eventualità di notte, quando il vento fischia e non si riesce a prendere sonno. La si esorcizza, una catarsi tascabile e pronta all’uso, da tenere sul comodino alla bisogna. Fa male, fa schifo e terrorizza; ma poi si sta meglio.
Un altro paio di maniche è sapere che sì, è successo. Più e più volte, e poco importa se in quel mentre eravamo morti stecchiti – esplosi in una miriade di atomi come una supernova da passeggio. 
Fa male. Un male cane. Guardatevi dalla gelosia, eccetera eccetera.
Ma Ruy non vuole perdersi nemmeno mezza parola, nemmeno mezza sillaba della confessione di Aiolia. Forse è lui, il mostro dagli occhi verdi che divora se stesso. Cominciando dal cuore.
Fa un gesto con il capo ad invitare l’altro a continuare.
 
«Marin sta con Yngve. E Leaphya sta bene ad Asgard.» Altra pausa. «Alla Celebrante di Odino serve un eroe senza macchia e senza paura. E io, di macchie, ne ho fin troppe.»
«Ma allora perché le hai regalato il ciondolo di Aiolos?», gli domanda Rodrigo, le mani che si posano su quelle di Aiolia, come a ribadirgli che sono allo stesso livello. Che non deve tacergli più nulla.
Gli occhi di Aiolia si assottigliano. Un gatto che sta per papparsi un incauto  cardellino grassoccio che, credendolo assopito, s’è avvicinato troppo alle sue zampe. 
«Oh, qualcuno l’ha notato...»
«L’abbiamo notato tutti.»
«Sì, ma solo tu ne stai facendo una questione di Stato...»
«Hai illuso una povera ragazza.»
«Nossignore.» Aiolia si ritrae di un paio di centimetri. Vuole che lo veda bene in volto, così da spazzare via ogni qualsivoglia dubbio. «Leaphya. È. Innamorata. Di. Frodi.»
«Ah, sì? Perché, sai, a me sembrava che la Celebrante di Odino pendesse letteralmente dalle tue labbra...»
«Siamo gelosi, Shura di Capricornus?»
«Non cambiare discorso», e la voce di Ruy è acciaio temprato, adesso, gli occhi fissi in quelli azzurri di Aiolia.
«Era tutta scena. Voleva solo farlo ingelosire.»
«Ah.»
«E io volevo far ingelosire te.» 
«Ah.»
«E poi, quel coso porta sfiga.» Aiolia si stringe nelle spalle. «Gliel’ha regalato una ragazza che l’ha piantato in asso senza troppe cerimonie.»
«Ah.»
«Sai dire solo “Ah”, come un disco rotto?»
«N-no. No di certo.» Aiolia sorride. E a Ruy esplode una salva di fuochi d’artificio in mezzo al petto. «Che cosa vuoi dirmi, Aiolia?»
«Non ci arrivi?», gli chiede. E di fronte all’espressione più disorientata del suo repertorio, Aiolia ridacchia, tra il divertito e l’esasperato. «No, non ci arrivi.»
 
Lo dice come fosse una constatazione lapalissiana. E Ruy si sentirebbe offeso se, nel frattempo, Aiolia non rompesse gli indugi, chiudendo le labbra sulle sue e facendogli schizzare il cuore in gola e l’anima alle stelle.
Un bacio lieve, uno sfiorarsi appena, tanto per annusarsi e conoscersi, prima di fare sul serio.
«Adesso? Ci sei arrivato, adesso
La voce di Aiolia è troppo, troppo bassa per fare qualsivoglia ragionamento serio e ponderato. E le labbra di Ruy sono ancora attraversate da una leggera scarica elettrica per articolare un suono di senso compiuto. Così si ritrova ad annuire, la testa che va su e giù come quella di un pupazzo a molla, prima di contraccambiare la cortesia.
Ed è un bacio meno delicato, il suo, meno gentile. C’è la voglia – il bisogno – di colmare distanze e appianare ogni divergenza, di dare un senso a tutto il tempo perduto in inutili ripicche e dissapori, di cancellare in un attimo ogni timore e gelosia. Di reclamare Aiolia come suo. A partire da questo stesso istante.
E quando il Leone si stacca, alla ricerca di aria buona da respirare, il Capricorno non lo lascia andare, continuando a marchiargli zigomi, mascella e collo.
Aiolia ridacchia, soddisfatto, una mano che affonda nella massa di capelli scompigliati ad arte di Ruy. Fa quasi le fusa mentre si avvicina all’orecchio dell’altro e gli soffia: «Continuiamo il discorso in un posto più comodo?».

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Capitolo 7
*** 7. ***


7.



 
 
«Oh, qual buon vento?»
 
La dote principale di Yngve non è la bellezza, né il suo cervello che lavora ad un ritmo serrato – serratissimo. La dote di Principale di Yngve – al secolo, Aphrodite dei Pesci – è una faccia di bronzo da primato olimpionico. 
Gli sorride, mentre lo accoglie nel giardino sul retro della Dodicesima Casa, un grembiule addosso e una bandana giallo sole a proteggersi i capelli. Che sia già tempo di potare le piante?, si domanda Rodrigo, avanzando a passi lenti verso il padrone di casa.
 
«Scusa la confusione», dice Yngve, una pietosa bugia, ché il giardino in cui sta lavorando assomiglia ad uno di quei set fotografici en plein air. E Ruy non si stupirebbe di veder apparire da un momento all’altro il fotografo, le modelle e tutto il carrozzone al completo. «Vuoi qualcosa di fresco da bere? Fa un caldo, oggi...»
«Acqua, grazie...»
 
Yngve annuisce, posa le roncole, si sfila i guanti, scioglie il nodo del grembiule e rientra nel fresco della Dodicesima Casa. Punta dritto ai suoi alloggi privati, una carezza veloce a Non Plus Ultra che solleva appena una palpebra quando li vede sfilare, per poi tornare a ronfare beato su una mensola di marmo. Yngve si slega la bandana dalla testa e la posa sul tavolo, quindi gli porge un bicchiere colmo fino all’orlo di acqua fresca. Nella brocca, neppure a dirlo, un rametto di menta e qualche fettina sottile di limone.
 
«Grazie.» La voce di Rodrigo è bassa e tagliente. Quella di chi vuole spiegazioni. Quella di chi è venuto a ribadire che le persone – che gli amici – non si manovrano come burattini per i propri loschi comodi, che…
«Quello è un succhiotto?»
 
Rodrigo arrossisce.
In maniera indecente, inappropriata, indecorosa.
Arrossisce perché sì, quello che la sua mano è corsa a coprire ‒ e che lo scollo della camicia non copre quanto sperava ‒ è un succhiotto. Pegno di Aiolia. Uno dei tanti con cui gli ha costellato la pelle e l’anima la notte scorsa. E con cui il Leone starebbe ancora tracciando la sua personalissima mappa sul corpo dell’amante se questi ‒ Mr Palo nel Culo ‒ non avesse insistito per sgattaiolare via. Perché c’era una questione da chiarire con Yngve, e da chiarire subito, ché a Ruy non piace tentennare e a Shura non piace avere conti in sospeso.
E quello con Aiolia?, gli domanda la coscienza. Con la voce nasale ‒ e petulante ‒ di Yngve.
Sta’ zitta!
 
«Allora? Il gatto t’ha mangiato la lingua? Quello è un succhiotto, sì o no?»
 
Yngve deve essersi alzato con un inconfessabile desiderio di morte, stamattina. Altrimenti non insisterebbe così tanto. Altrimenti la farebbe finita e glisserebbe, come al solito suo, limitandosi ad un sorrisetto innocuo. Invece, no. Invece insiste, le mani sui fianchi come a dirgli che lui aspetta una spiegazione ‒ e più che convincente – circa quanto successo la notte scorsa. O non lo lascerà andare via.
 
«Questo non...»
«Quello è un succhiotto, sì o no?»
«Sì!»
«Alla buon’ora!»
 
Rodrigo sbuffa e si lascia cadere su una sedia.
«Non farlo mai più», dice – minaccia – lo sguardo truce e l’espressione incazzata. «Intesi?»
«Non farlo mai più… cosa? Mica te l’ho fatto io, quello
 
A Yngve piace giocare a fare il finto tonto.
Ma oggi proprio non è giornata, ché se da un lato Ruy è più che soddisfatto di come si siano evolute le cose, tra lui e Aiolia, dall’altro gli girano le palle al pensiero di essere stato lo zimbello di Yngve. Uno dei tanti, s’intende. L’ennesimo. E se a Marco non dispiace l’idea di andarci di mezzo ancora una volta – reazione che dipenderà da quanto l’amor proprio del Cancro, di solito sproporzionato, si sarà sentito offeso e da quanto sarà stata brava Shaina a lenire le ferite del suo orgoglio –, a lui no. Proprio, no. Ha già recitato quel ruolo ed è finita malissimo.
 
«Lo sai a cosa mi riferisco!»
«No.» Pausa. «Non lo so.»
 
Yngve vuole che gli tiri il collo.
C’è un’assicurazione sulla tua vita di cui tu sei l’unico beneficiario?
Perché Ruy non si stupirebbe di quest’eventualità. Affatto. Hanno stipulato una polizza ad un minorenne. E non hanno battuto ciglio quando questo minorenne scendeva da solo ad Atene a saldare le rate.
«A proposito. Com’è finita la storia della polizza?»



Rodrigo sa che non dovrebbe impicciarsi, ma è più forte di lui. E quando si accorge di ciò che ha detto, è troppo tardi per rimangiarsi quelle parole.
Yngve si stringe nelle spalle. Come a dire che la questione, ormai, non è più cosa che lo riguardi. Ha passato la patata bollente a Kanon. Con gli interessi. E c’è ancora qualcuno che considera Yngve un’adorabile bambolina.
Povero disgraziato…
 
«Non mi riguarda», risponde infatti Yngve. «La questione appartiene a Kanon, adesso. Al Sacerdote, pardon… Io mi sono limitato a segnalargliela. Sai come sono le assicurazioni, no?»
«No, non lo so.» Pausa. «Come sono le assicurazioni?»
«Pesci rossi quando si tratta di pagare. Squali, quando devono invece riscuotere.»
«Capisco...»
 
Yngve gli versa un secondo bicchiere d’acqua. Rodrigo accetta. Oggi fa caldo. Un caldo asfissiante. E lui avrebbe volentieri evitato di farsi tutte quelle scale per quel chiarimento vis-a-vis. E di dover sfilare davanti agli occhi dei suoi compagni d’arme. 
Shaka e Camus, impegnati com’erano a meditare, non si sono accorti di lui. Solo Milo ha sollevato mezza palpebra, gli ha scoccato un sorriso sornione, e poi è tornato a far finta di creare il vuoto dentro di sé.
Doko di Libra ha sorriso, con l’aria del saputello a cui cambieresti volentieri i connotati. Aiolos l’ha guardato con aria confusa, prima che la reale sostanza delle cose raggiungesse il suo cervello. Poi ha spalancato occhi e bocca e ha aggiunto un «Ah.».
E adesso Rodrigo capisce perché.
Un succhiotto sul collo. 
Come un adolescente colto in castagna dal professore. 
 
«Comunque, visto che siete sgattaiolati via, ti aggiorno sull’esito della riunione», dice Yngve posando il proprio bicchiere.
«Quando hai finito, dillo», minaccia Rodrigo, ma l’altro non sembra voler capire l’antifona.
«Il Sacerdote ha ordinato un’ispezione a tappeto di tutte le Case del Santuario.»
E perché?, pensa Ruy. E poi lo dice: «E perché?».
«Per sincerarsi che non ci siano… Come dire? Spazi nascosti che potrebbero ospitare una o più persone», risponde Yngve. «All’insaputa del Custode, s’intende.»
«Certo», fa Rodrigo. «All’insaputa del Custode...»
Yngve si stringe nelle spalle e allunga le gambe sotto al tavolo. «Mi sembra giusto. E anche sensato, ti dirò. Non si sa mai dove possa andare ad imboscarsi il nemico...»
«Quindi, per un po’ niente pokerino del venerdì?»
 
Touché.
Yngve sorride, ma Rodrigo ha scorto una crepa sulla sua pelle d’alabastro.
Tranquillo, pesciolino, questa era solo una botta dritta, pensa il Capricorno, versandosi da sé un terzo bicchiere d’acqua. Ci sarà tempo per un bell’affondo come si deve. Ma non subito. Più avanti. Queste sono solo bordate gentili. D’avvertimento. Scambi di cortesia, ecco. Buona educazione. Nessuna persona sana di mente rovinerebbe un bell’incontro assestando subito un paio di stoccate mortali. Sarebbe una barbarie.
Invece, così, c’è tempo. C’è respiro. C’è danza. Bellezza. E a Yngve piace, la bellezza. Specie se ha la pelle bianchissima e i capelli rosso fiamma, pensa Ruy. Che è pronto, prontissimo a scommettere che c’è lo zampino di Marin, in tutta questa vicenda ‒ dal rametto di menta per aromatizzare l’acqua, alla ricerca di nuovi e sconosciuti spazi all’interno delle Dodici Case. 
Come se i relativi Custodi non li conoscessero uno per uno. 
Come se i relativi Custodi non avessero battuto palmo a palmo le Case loro assegnate, vuoi per conservare i propri strumenti di lavoro (Mu), vuoi per pratiche meno nobili come nascondere qualche spuntino notturno (Marco); mezza dozzina di pile di riviste porno (Yngve); o qualche buona bottiglia di vino da stappare alla bisogna (Étienne).
 
«Saranno tutti troppo affaccendati a controllare le planimetrie della propria Casa per pensare al pokerino del venerdì», ghigna Yngve. E, se possibile, quell’espressione maligna lo rende ancora più bello. Come le sue rose bianchissime. Quelle più letali. Quelle che ti uccidono prima ancora che tu ti sia reso conto della loro pericolosità.
«E immagino che la cosa abbia una sua utilità», commenta Rodrigo, tamburellando le dita sul legno del tavolo. «Suppongo che Marin non ne potesse più di nascondersi dietro una colonna ogni santa volta che qualcuno passava per la Dodicesima Casa.»
«Supponi bene.» Pausa. «Certo che siete proprio strani… »
Noi, eh?, pensa Rodrigo. E poi lo dice: «Noi, eh?».
«Ma insomma! Vi tolgo le castagne dal fuoco e vi lamentate pure!» Yngve mette su un’espressione offesa, offesissima. Nella sua personalissima visione delle cose, ha fatto loro un favore. Guadagnandoci in prima persona, ça va sans dire, ché il bellissimo Aphrodite dei Pesci non è certo Madre Teresa di Calcutta; ma ha ragione: il pokerino del venerdì è - era? - una di quelle spine nel fianco di cui chiunque, al Santuario, avrebbe volentieri fatto a meno. A cominciare da Yngve. «Siamo onesti. Ti piaceva giocare a poker ogni benedetto venerdì sera?»
Rodrigo tentenna. Temporeggia. Esita. Traccheggia. Poi, alla fine, confessa: «No. Io odio giocare a poker.».
«Che ti dicevo?», e il viso di Yngve torna ad essere radioso. Come un bocciolo in procinto di schiudersi al sole di Aprile. O un prete che t’ha colto in fallo nel segreto del confessionale. «Che poi, ad essere sinceri, che senso ha giocare a poker senza soldi? Che gusto c’è? Tanto vale giocare a scacchi! Comunque sia, è finita. Una mano lava l’altra… »
«E tutt’e due lavano il viso.» 
 
Rodrigo incassa. Va bene così. È giusto lasciare che anche l’avversario dia un paio di stoccate. Magari di striscio. 
«Permettimi una domanda...»
«No. Non vogliamo che la cosa sia di dominio pubblico», ma non era quella, la domanda che voleva porgli Ruy. Ovvio, che vogliano mantenere la cosa riservata. Anche se, facendo un rapido calcolo, sono in tre a sapere della loro liaison: Ruy, Marco e Aiolia. E se Ruy è prontissimo a mettere la mano sul fuoco sulla propria riservatezza così come è pronto a farlo per Marco - strano, ma vero -, non è sicuro che Aiolia sia una tomba.
«Sì, ma...»
«C’è un passaggio segreto che collega il Santuario alla Dodicesima Casa», ma non era nemmeno quella, la domanda fatidica. «Basta saltare tra le rocce, come le capre.»
«Sì, ma...»
«Sì, ma; sì, ma… » Yngve sbuffa. «Cosa sei, un disco rotto?»
E due, pensa Rodrigo.
«Tu e Marin stavate insieme anche quando… Sì, insomma… »
«Anche quando c’era Saga sul trono di Athena?» La testa di Rodrigo va su e giù. «Sì. Più o meno. Da quando lei ha capito che con Aiolia non c’era storia.» Pausa. «Sai com’è… a lui piaceva qualcun’altro… »
Rodrigo non raccoglie. 
È troppo interessato - abbagliato - dal fatto che anche Yngve abbia ricevuto un due di picche. Che anche il bellissimo e letalissimo Aphrodite dei Pesci sia una seconda scelta, in un certo qual modo. C’è giustizia a questo mondo…
«Comunque non capisco la domanda», prosegue Yngve. «Chi l’ha detto che non si debba andare a letto con il nemico?»
«Il buonsenso?»
«Il buon senso! Che solenne fesseria», commenta Yngve. «Il buon senso è come una cane alla catena: ringhia e latra e abbaia, ma alla fine si stufa, si accuccia sulle proprie zampe e schiaccia un pisolino. Basta solo avere l’intelligenza di non starlo a sentire.»
 
Se l’altroieri Yngve gli è sembrato terrificante, oggi lo è ancora di più. 
Sarà per l’espressione sicura con cui ha appena pronunciato quelle parole; sarà per la penombra della cucina; sarà perché un pensiero del genere è così tipico di Yngve da non fare una grinza in bocca a lui; sarà quel che sarà, ma oggi la spina dorsale di Rodrigo è attraversata da un brivido lunghissimo e intensissimo. Come se Étienne ci fosse passato sopra, e come se Milo avesse voluto aggiungere un paio di aculei dei suoi. Così, per non essere da meno.
 
«Perché interrompere una relazione solo perché la fazione di uno vuole ammazzare quella dell’altra? Per un Sacerdote megalomane e impostore ed una ragazzetta che fa la voce troppo grossa? Che assurdità! Sono cose che capitano!» Yngve lo squadra, come a volergli sondare l’anima. «Anche Aiolia militava nella stessa squadra di Marin, no? Eppure questo non ti ha impedito di...»
«È una questione differente.»
«Talmente differente da essere identica.»
 
Rodrigo alza le mani.
Non ne vale davvero la pena. Quando Yngve si mette in testa una cosa, è capace di procedere come un treno fino alla propria meta. Quale che sia. Pure l’angolo più remoto - e freddo - del Cocito.
 
«E poi, la riunione di ieri è stata utile un po’ a tutti. O sbaglio?», domanda Yngve scoccando un’occhiata più che eloquente al succhiotto che decora il collo di Rodrigo. «E già che c’ero, ho anche fatto notare la… perdita che mi sta allagando casa.»
«Il fiume d’acqua che attraversa il naos, intendi?», ché sì, Yngve ha ragione. C’è un vero e proprio rigagnolo che scorre con indefessa convinzione al di sotto del rialzo al centro della Dodicesima Casa. Non gli si può dar torto.
«Quello», risponde Yngve. «Sai, da ragazzino aveva la sua utilità...»
«E per cosa? Per tenerci dentro le bottiglie di birra?»
«No. Dei pesci rossi.»
 
La voce di Marco buca il silenzio della Dodicesima Casa come un boato. Non l’hanno sentito arrivare. Eppure, il cervello di Rodrigo ha registrato i versi improbabili di Non Plus Ultra. Lo stava salutando. Quella lince travestita da gatto nutre una passione smodata per Marco. Come se fosse lui, il suo padrone. E Yngve glissa, anche se la cosa lo irrita. Come un dente cariato che pulsa, pulsa, pulsa…
Marco avanza. Come se quella fosse la cucina della Quarta Casa. Come se da un momento all’altro potesse spuntare fuori Francesca e chiedere loro se gradiscono una spuntino. Una cosetta veloce, tanto per mettere qualcosa nello stomaco. Mormora un «’giorno» poco convinto, scosta una sedia e vi si stravacca sopra, mentre Non Plus Ultra gli si acciambella sulle gambe. Come è suo costume.
 
«Dei pesci rossi?!»
«Sì», risponde Marco. «Quello è un succhiotto?»
 
Yngve si stringe nelle spalle. «Appena arrivato non spiccicavo mezza parola di greco. Il Sommo Sion credeva fosse una buona idea. Sai, per farmi ambientare.»
«E che fine hanno fatto, quei pesci rossi?», domanda Rodrigo, lo sguardo che si perde ad incontrare quello di Non Plus Ultra, il meraviglioso norvegese delle foreste di Yngve, tanto bello quanto stronzo. Almeno quanto lui. Una palla di pelo che s’inventa nuovi e arditi modi per palesargli quanto lui gli stia enormemente sulle scatole. E il sentimento è reciproco. Li hai mangiati tu, bestia immonda?
«Andati», risponde Yngve. «Uno dopo l’altro. Avevano il brutto di vizio di scivolare lungo la corrente e finivano nella piscina di Camus.»
Strano, pensa Ruy. Strano davvero. 
«Non fanno più i pesci rossi di una volta, vero Bellezza?», commenta Marco, accarezzando la testa di Non Plus Ultra. Che inizia a ronfare con maggiore convinzione.
«Ti sei lavato le mani?»
«Lava i peccati, non solo il viso.»
 
Marco sorride. Segno che è arrivato fin su la vetta armato delle peggiori intenzioni. Possibili e immaginabili. Ed è sobrio. Sobrissimo. E se da sbronzo è un pericolo pubblico perché bocca e cervello non sono più connessi - ammesso che lo siano mai stati -, da sobrio Marco rappresenta il tuo peggior incubo divenuto realtà.
E Yngve lo sa.
E Yngve lo aspetta al varco.
Come quando erano marmocchi e combattevano tra di loro, ché gli altri erano troppo, troppo piccoli per poter fare ragionevolmente sul serio.
La sua mano continua ad accarezzare il pelo bianchissimo di Non Plus Ultra.
 
«Certo, non fanno più nemmeno le capre di una volta», sospira, specchiandosi negli occhi blu del gatto. «Andare a letto con il leone. Cose da pazzi, vero? O forse, è arrivata l’Apocalisse? Sai com’era quella storia, no? E l’agnello giacerà con il leone...» Pausa. Non Plus Ultra gnaula. E Marco puntualizza: «Agnello. Non capretta.».
«Parafrasando: finché Mu se lo tiene nei pantaloni… »
«Fottiti. Tu e tu. E pure tu, bestia immonda… »
 
Quindi Rodrigo butta indietro la testa e sbuffa.
No, non la pianteranno. Anzi, continueranno a sfotterlo per un bel pezzo, e ci sta: tra amici si fa così, ché siamo pronti a risollevare gli spiriti in ambasce, ma anche a riportare coi piedi per terra i cuori che hanno appena incominciato a volare. Non per cattiveria o malanimo, nossignore; per prudenza, ché l’unico limite è davvero il cielo. E spesso il cielo sembra così vicino da darti l’illusione di poterlo toccare, solcare, attraversare, facendoti scordare che le tue ali, ahimè, sono tenute insieme con della cera ancora tenera. Così un amico, un amico vero, ha sempre pronte due cose: una buona bottiglia di sano bibendum - qualcosa che ti lasci mezzo morto a terra, sostituendo le pene d’amore con un'emicrania coi controfiocchi - e una scorta di cerotti e bendaggi con cui riattaccare un cuore in pezzi. 
 
«Credo, però, che ci vorrà del tempo», prosegue Marco. E poi, quando il suo sguardo legge la perplessità sul viso di Ruy, aggiunge: «Per essere ripagati, intendo. Sai, devono pensarci le assicurazioni...».
«Ah, beh. Allora l’abbiamo messo in banca!», sbuffa Rodrigo. 
«Bisogna sapersi accontentare», filosofeggia Yngve. 
Rodrigo accavalla le caviglie sotto al tavolo e lo fissa dritto nelle palle degli occhi. «Più che altro, bisognerà trovare una nuova forma previdenziale...»
«Scusami?»
 
Fouet. Dritto alla spalla destra. E ho appena cominciato, Yngve...
«Yngve, io ti conosco. Quindi non fare il furbo con me.» Pausa. «Io non sono Saga.»
«Sì. Ma Saga ti ha messo nel sacco.» Pausa. «O sbaglio?»
 
Sì, Yngve vuole davvero morire, oggi. Morire male. Dolorosamente. Un affondo dritto al cuore, dopo che Ruy gli avrà colpito ripetutamente braccia, gambe e torso. Che bellezza, tirare di scherma con la spada. E colpire tutto il corpo dell’avversario. Perché limitarsi al busto, o aggiungere anche le braccia, quando si può mirare - e sconquassare - l’avversario per intero? Vuoi mettere la soddisfazione? Il gioco di gambe? La grazia?
Strano che la scherma non ti piaccia, Yngve…
 
«Touché.»
 
E pure Marco aspira ad emulare san Sebastiano. Com’era? Asinus asinum fricat... 
«Sì. Per buona grazia vostra», ribatte Rodrigo. Calmo. Serio. Compassato come al suo solito, ché in duello non ci si può far prendere dall’ansia o dalla foga, ma serve usare il cervello. E Yngve, di cervello, ne ha da vendere. Forse anche troppo. E non ha paura di usarlo. Galleggiare a pelo d’acqua richiede cervello. E pelo sullo stomaco. E una buona dose di savoir faire e savoir vivre che garantiscano un discreto senso dell’equilibrio in un mondo perennemente sul filo del rasoio. 
«Desperate times, eccetera eccetera… » Come se la questione fosse finita lì. Come se, invece, non fosse appena iniziata.
 
«Non lo metto in dubbio», ribatte Ruy. «Così come non metto in dubbio che quel premio sarebbe potuto essere una sorta di… come chiamarla?»
«Chiama le cose con il loro nome e falla finita», e quando la voce di Yngve si abbassa così, è segno inequivocabile che l’hanno punto sul vivo.
«Perfetto. Chiamiamo le cose col loro nome», concede Marco. «Pensione, come ti suona?»
«Mi suona corretto», commenta Yngve. «Uno non può fare il Santo di Athena per tutta la vita. Bisogna anche pensare al futuro.»
«Yngve, tecnicamente noi...»
«Sì, lo so», lo interrompe l’altro. «Lo so. Tecnicamente, noi non abbiamo futuro, ma il No Future del punk non mi si addice. Né si addice a te. O a Marco.»
«No, in effetti no», replica il diretto interessato, camicia bianca e jeans immacolati. 
Troppe borchie? «Quindi?»
«Quindi, io punto a restare vivo il più a lungo possibile», confessa Yngve. Senza pudori, paure o reticenze varie. Con un’onestà che spiazza ancora di più, sentendola uscire dalle labbra rosate di Yngve. Uno che è prontissimo a rifilarti una scusa che indori la pillola più amara da ingoiare, seduta stante. «Ma per restare vivo il più a lungo possibile occorrono soldi. Denaro. Moneta sonante, ché campare costa. E i miei gusti sono ricercati.»
«E punti ad una polizza assicurativa? Sul Sacerdote?»
«E su chi altri, scusa?», gli domanda Yngve. Sinceramente perplesso. «Il Sacerdote è l’ultimo che scenderà in battaglia. Quindi anche l’ultimo a restare in vita. Senza contare che il Sommo Sion...»
«O chi per lui… »
«… o chi per lui, aveva duecent’anni.» Pausa. «Ti sembra logico che un vecchio di duecento anni cominci a menare le mani? Che potrebbe fare? Tirare la dentiera al nemico?»
«La protesi all’anca farebbe più danni», ridacchia Rodrigo. Ché Yngve sarà pure uno stronzo, sarà pure un paraculo, sarà pure la spina avvelenata in un roseto rigoglioso, ma lo fa ridere. Di cuore, pancia e anima. Ecco perché loro tre si sono presi. Ecco perché si trova bene in loro compagnia. Nonostante Marco sia uno sbiellato e Yngve uno scienziato pazzo a piede libero. «Però non ci credo che abbiano assicurato la vita di… »
«Certo che no.» Il sorriso di Yngve è un lampo bianco scoglio. Come la chiostra dei denti di un pescecane. «Ho assicurato Saga. Non il Sacerdote.»
«Figlio di puttana… »
«Sono bello, mica scemo!» Yngve allarga le braccia, come a dire: Tu quoque, Rodrige!. E poi lo dice: «Tu quoque, Rodrige!».
«Sì, sì. Qui, Quo e Qua.» Ruy fa un gesto con la mano, come a scacciare via una mosca fastidiosa. «E adesso come la risolvete? Il premio riscosso e… »
«Perché ti imminchionisci su questa faccenda? Vuoi accendere una polizza assicurativa sulla tua vita? O su quella di Aiolia?», e lo sguardo affilatissimo di Ruy fa capire a Marco che non è il caso di scherzare con il fuoco. «Kanon… il Sacerdote, pardon, rifilerà la patata bollente a Saori. Athena.»
«E?»
Yngve si stringe nelle spalle. «E te l’ho detto. Non ne ho. La più pallida. Idea», risponde, cadenzando bene le parole, quando è vero l’esatto contrario. «Posso solo azzardare l’ipotesi che Saori...»
«Athena.»
«… che Athena si rivolga ad uno studio di avvocati con gli attributi. Suvvia, la Fondazione Grado avrà pure qualcuno che curi i suoi interessi, no?»
«Suppongo di sì.»
«È bene che se ne occupi lei. Chi meglio della dea della strategia può uscire fuori indenne da questa situazione?»
«Da questo pantano, vorrai dire...», puntualizza Rodrigo. E poi aggiunge: «Gesù, Giuseppe e Maria. E tutto questo perché?»
«Tutto questo per un piatto di minestra.»
 
Ėjzenštejn. Nientepopodimenoche. A Yngve piace toccarla piano, pianissimo. Un sussurro appena. Sennò che gusto c’è? E qualcosa, nella mente di Rodrigo, gli suggerisce che sarebbe un perfetto Vakulinčuk, nella sua divisa da marinaio russo. A patto di lasciarsi crescere un paio di poderosi mustacchi, cosa che Yngve non sembrerebbe essere propenso a fare.
Il morto chiama, pensa Rodrigo. E la scalinata che collega le Dodici Case tra di loro assomiglia un po’ troppo a quella di Odessa, per i suoi gusti. Abbiamo già avuto una carrozzella col bambino. Vediamo di non metterci pure gli stivali dei soldati. E il montaggio analogico.
 
«A tal proposito… » 
 
E quando Marco esordisce in questa maniera non è mai una cosa buona. Anzi. C’è puzza di piombo, in quella cucina; troppa per respirarla ed essere ancora vivi a lungo. Adesso ti metti a citare Sergio Leone? Tutta colpa di Marco. Sua e di quei film con cui monopolizza il giovedì sera. La prossima volta, fantascienza. Dura&pura. Blade Runner, ad esempio. Per cominciare. Per sciacquarsi l’anima. Fino alla prossima volta. Io ne ho viste, di cose… 
 
«E se accendessimo una polizza sulla vita di Athena?»
«Sei impazzito?!»
«Piano, macho», gli fa Marco, l’aria atarassica di chi non ha alcuna intenzione di mettersi a fare a botte all’interno di una cucina immacolata. «La polizza avrebbe come beneficiario uno dei Santi di Bronzo. La Biscia. O il marmocchio con l’armatura color caramella», e Rodrigo si rilassa. 
Lo fissa, come a scrutargli l’anima, e quando vede che non c’è alcuna fregatura - al momento - nelle parole di Marco, raccoglie la sedia da terra e si risiede compito. Yngve incrocia le dita, rilassa le spalle e osserva Marco con molta, moltissima attenzione.
«La stipuleremmo con una compagnia assicurativa del Gruppo Grado», prosegue Marco. «Così, magari Saori… Athena, pardon, la pianterebbe di infilarsi di testa in ogni casino in cui inciampano i suoi graziosi piedini… Sul serio. Ho fatto quattro chiacchiere con quel moccioso.»
«E?»
«E quella benedetta ragazza se li cerca col lanternino, i guai!» Marco allarga gli occhi blu scuro, l’espressione incredula di chi non sa da che parte cominciare a raccontare. «Se a rapirla non è un dio che s’è svegliato col culo scoperto, lo va a cercare lei. Colonne sottomarine. Speroni di ghiaccio alla deriva. Giare. Rovi. Altari. Una volta l’hanno messa pure su una nave vichinga.»
«Su una nave vichinga?!»
«Sissignore!», commenta Yngve. «E mica una su nave qualunque. Su Naglfar. Nientepopodimenoche!» 
E quando vede che questo nome non fa accendere alcun interruttore nella testa di Rodrigo, Yngve aggiunge: «La nave del Ragnarok. L’unica e sola.».
«Ah.»  
«Esattamente.» Pausa. «Adesso capisci perché è di vitale importanza stipulare una polizza sulla vita di Athena? Pardon, di Saori?»
«Magari potremmo parlarne a quel gorilla del suo lacchè… Com’è che si chiama? Takumi?»
«Tatsumi», puntualizza Rodrigo.
«Fa lo stesso!» sbotta Marco. «Secondo me, lui potrebbe essere d’accordo...»
Rodrigo si stiracchia i polsi, allunga le gambe sotto al tavolo e si rilassa contro lo schienale. E dice: «Potrebbe essere una buona idea. Ma prego, Marco, prego. Inizia a spiegare. Sono tutto orecchi… ».





I matti non vanno assecondati.
O meglio: i pazzi furiosi vanno assecondati fintantoché in ballo c'è la vostra salvezza. Non va dato loro corda, a patto di non sperare che vi si impicchino da sé, togliendovi dall'imbarazzo (e da un'accusa di omicidio, ché sono trent'anni, minimo, da scontare nelle patrie galere. Sì, avete un tetto sulla testa e vitto e alloggio, tuttavia...).
Questa storia è colpa di SherryVernet.
Perché i pazzi non vanno assecondati, si diceva; e lei mi ha assecondato, mi ha fornito la corda (rigorosamente d'oro), mi ha corretto anche le virgole (dimostrandosi un'ottima cartina tornasole) e mi ha tenuto la manina durante il parto (podalico e pentagemellare) di quest'idea. Che se ne stava buona buona nella mia testa a decantare (in realtà, a diventare compost, ma non sottilizziamo) da almeno quindici anni. Da quando, cioè, un'avventurosa ragazzetta decise di piazzare una rock band improvvisata sulla cima dell'Undicesima Casa. E sì, anche se la cosa sembrava totalmente campata per aria e pretestuosa (com'era la faccenda dello scagliare la prima pietra?), il mio occhio cadde sulla forma
so bizarre dell'Undicesima. Che non assomiglia ad un tempio greco o ad una sua rivisitazione neoclassica, secondo la cucuzza bacata degli americani; assomiglia ad un inglesissimo patio in un parco, uno di quelli in cui l'orchestrina locale suona la domenica pomeriggio.

Poi, ripescando dal dimenticatoio per nobilissime cause i giochi per PS2 - rispettivamente:
Saint Seiya- Il Santuario e Saint Seiya - Hades - ho avuto la (sgradevole?) sorpresa di vedere come alcunio interni fossero stati ammodernati secondo l'estro degli sviluppatori. I quali sviluppatori hanno ben pensato di inserire un rialzo all'interno del naos della Dodicesima Casa per farvi scorrere un fiume. Non sto scherzando. C'è un fiume che scorre alla Dodicesima, ruscellio incluso.

E poi c'era quell'idiozia della
liaison tra Leaphya e Aiolia da vendicare. Ché capiamoci, a me sarebbe anche stato bene che il Gattozzo si fosse preso una sbandata per quella donzelletta, con buona pace di Marin (che nel frattempo sa Iddio che fine ha fatto); è la messa in scena che grida pietà e - soprattutto - vendetta. Mi sono presa un pizzico di libertà e mi sono tolta lo sfizio di giocare con i cliché. Considerate questa storia ambientata in un universo parallelo (con il pokerino del venerdì, Non Plus Ultra e il suo folle ammmmore per Marco, e un fugace accenno a Francesca, l'Attendente della Quarta Casa la cui caponatina resusciterebbe pure i morti e la cui cotta per Shura è nota anche ai sassi del Santuario. Since 2014.), uno in cui può succedere di tutto e di più.

I miei ringraziamenti vanno dunque a SherryVernet per la poderosa mano datami durante questa storia. E a voi, per aver letto fin qui.
Spero vi stiate divertiti e spero ci incontreremo ancora!
E adesso,
pe' falla corta, pe' falla breve, mio caro oste portace da beve!

 

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