Anatomia della speranza

di Gaia Bessie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1: La casa di conchiglie ***
Capitolo 2: *** 2: Cera che cola ***
Capitolo 3: *** 3: Il gioco del silenzio ***
Capitolo 4: *** 4: Dietro le bolle di sapone ***
Capitolo 5: *** 5: Una vita negli origami ***
Capitolo 6: *** 6: Istantanee di una mancanza ***
Capitolo 7: *** 7: Messaggi in bottiglia ***
Capitolo 8: *** 8: Fiori di lanugine ***
Capitolo 9: *** 9: Il silenzio dei fuochi fatui ***
Capitolo 10: *** 10: Il paradosso di Moore ***
Capitolo 11: *** 11: Crepe strutturali ***
Capitolo 12: *** 12: Bucare la neve ***
Capitolo 13: *** 13: Piume sfiorite ***
Capitolo 14: *** 14: Sott'acqua e altri lughi possibili ***
Capitolo 15: *** Epilogo: Quando si smussano gli scogli ***



Capitolo 1
*** 1: La casa di conchiglie ***


Premessa: la storia contiene diverse parti riguardanti la depressione, se siete sensibili a tale argomento vi consiglio di non leggerla. Stay safe.
 
Anatomia della speranza
 
1.  La casa di conchiglie



 
Ho gridato il tuo nome sull'oceano 
ma i flutti furiosi l'hanno riportato a riva
ho scritto il tuo nome sulla sabbia
ma le conchiglie l'hanno cancellato
(Elisabetta di Baviera)

 
 
Il silenzio se ne è andato, mettendo a nudo come una marea i sassi e le conchiglie e tutto ciò che costituisce il caotico naufragio della mia vita
(Sylvia Plath)
 
 
Noya ha una collezione di conchiglie, nascoste nell’armadietto. Le ha raccolte l’estate scorsa, quando con i suoi genitori è partito per le vacanze, e sono bianche e rosa e persino rosse o blu: sono attaccate in un cartoncino e, ogni volta che le guarda formano un disegno diverso.
Novembre è una casa stilizzata, con due omini che, dal giardino di conchiglie bianche, si sporgono verso le finestre. Con un po’ di fantasia, e accorgendosi che uno è alto come un gigante e l’altro piccolo come i fiori rosa del giardino, Yū si rende conto che si tratta di lui e Asahi.
O, almeno, si trattava di loro, prima che Asahi Azumane scomparisse nel nulla: gli hanno detto, prima i compagni di scuola e poi persino sua madre, che sicuramente starà meglio lontano dalla pallavolo. Che si troverà un nuovo hobby, degli amici, forse persino una ragazza. Ma, nella casa di conchiglie nascosta nell’armadietto di Noya, Asahi è inquieto.
S’aggira tra muri di conchiglie ed erba di conchiglie come se gli mancasse un pezzo: ma Yū ha controllato e le braccia, le gambe, persino la testa di conchiglia, sono tutti lì al loro posto.
Ma Asahi è sparito e lui se lo immagina a non dormire, nel suo letto di conchiglie, costringendosi a studiare o a guardare la tv pur di impiegare in qualche modo un tempo che s’è dilatato oltremisura.
A novembre nella casa di conchiglie è già Natale, ma Asahi non sembra in vena di festeggiare: stanco e sfiduciato s’aggira per i corridoi della scuola e Yū lo vede ma, il coraggio per parlargli, non lo trova mai.
«Dovresti parlargli, Noya» osserva Sugawara, un giorno che lo sorprende a sbirciare nella loro classe. «Credo sia palese, che lo stai cercando».
Suga non lo dice, ma è altrettanto evidente che Nishinoya nutra una paura folle e incontrollata di ritrovarsi di fronte all’ennesima conchiglia rotta dal mare. E come potrebbe incollare i pezzetti di Asahi, senza sapere dove trovarli, e con mani così piccole che faticherebbe a tenerlo assieme?
«Pensa a con chi dovresti parlare tu» lo rimbecca Daichi, fintamente severo. «Siete in due, a essere senza speranze».
Sugawara incassa il colpo: nella sua casa di conchiglie, vi è una principessa che pensosa aspetta il proprio principe e come un’anima in pena vaga per quelle stanze vuote, respingendo ogni altro pretendente alla propria mano.
«Capitano» sibila Nishinoya, senza distogliere lo sguardo dal banco di Azumane. «Io lo faccio per il bene della squadra, non dimenticartene».
Daichi Sawamura sospira, sinceramente e totalmente esasperato, mentre posa una mano sulla spalla del suo giovane libero. «Non è guardandolo che lo convincerai a tornare» osserva, pacato. «Lui… è sereno, anche così».
Ma Yū, tra la sabbia bianca nella sua mente, vorrebbe solamente mettersi a gridare che lui lo sente che Azumane non è felice. Che come una bestia in gabbia freme, che graffia le conchiglie per poter uscire da quella prigione tutta colorata. Ma né Daichi né Suga capirebbero.
 
***
 
«Oggi è martedì1, Asahi-san» Yū lo insegue, prima degli allenamenti, per tutto il cortile. «Ricordi?».
Azumane alza gli occhi al cielo, d’altronde lo fa ogni martedì, e lo guarda con riscoperto interesse: Noya sorride, è il loro gioco.
«E allora?» domanda Asahi, fermandosi a guardare il suo ex compagno di squadra. «È solamente l’ennesimo martedì».
Ma Nishinoya non si fa ingannare e lo fulmina con un sorriso smagliante, continuando a trotterellargli dietro per tutta la scuola. «Oh, sì» conferma. «Ma martedì è il giorno in cui ti dico che manchi a tutta la squadra e che vorremmo che tu tornassi ad allenarti con noi».
L’ex schiacciatore sorride, malinconico, ma non smette di camminare. Forse pensa che Noya non possa accorgersene, guardando il mondo dal basso, di quel sorriso: ma il libero guarda sempre e solo in alto, così non se lo lascia sfuggire mai. È quello, che gli dà speranza.
«Già» commenta Asahi, cambiandosi le scarpe all’ingresso della scuola. «L’avevo scordato».
Noya lo guarda, ma non si scompone. «Martedì prossimo lo ricorderai» trilla, prima di correre via. «E, allora, risponderai di sì!».
Azumane sospira, guardando il libero che s’allontana, un po’ di corsa e un po’ saltellando, mentre un’ondata di malinconia gli scioglie le ossa, deformandolo. Lui vorrebbe dargli una risposta, ma non è quella che Noya si aspetta.
Perché Asahi si siederebbe, a gambe incrociate sul manto erboso, e gli confesserebbe che, dopo l’ennesima sconfitta della squadra, non ha dormito per giorni. Che, ancora oggi, una notte su due fatica a prender sonno e, quando riesce in quell’impresa, incubi instancabili lo rincorrono, azzannandolo sulle braccia, sulle scapole, sulle mani.
Ma Noya non capirebbe mai. Perché crede in lui, ci crede come un bambino crede che sua madre lo consolerà sempre dopo una brutta caduta, e lo crede come potrebbe credere nell’amore o in tutte quelle altre stronzate di cui va matto. Ma, Asahi, nella sua capacità di superare quel terrore che gli ha distrutto stomaco, mente e sogni, non può crederci.
Come non può credere che davvero Nishinoya sia così pronto a perdonarlo, dopo che li ha abbandonati tutti, correndo via dai suoi incubi. Eppure, Noya è lì, che lo insegue per tutta la scuola trillando che è martedì. Anche quando è giovedì, o venerdì, e Asahi non  manca di farglielo notare.
Ma non è il martedì, direbbe Noya se avesse il vocabolario e la pazienza di Daichi, è il messaggio che quel giorno veicola. Un messaggio che Asahi non può recepire, perché è muto e insensato come lo scampanellio di uno scacciapensieri ornato di conchiglie.
«Ah, Asahi-san?» Nishinoya torna indietro, molleggiando sui propri piedi. «Volevo ricordarti una cosa».
«Cosa?» domanda, Asahi, curioso. «Io… non penso di essermi scordato niente».
«Io sono sempre alle tue spalle» risponde il libero, battendosi un pugno sul petto. «In campo, ti copro le spalle. E, se in campo non vuoi tornarci, mi toccherà coprirtele anche qui».
Noya lo guarda, sorridendo, e gli porge qualcosa chiuso in quella mano minuscola. Asahi lo prende, riluttante.
È un braccialetto di conchiglie.
 
***
 
 L’ha cancellato. Con uno sguardo distratto in una giornata di sole, Shimizu l’ha letteralmente spazzato via.
Suga è rimasto lì, fermo nel bel mezzo del corridoio, a osservarla fluttuare via come fosse fatta d’aria. Kiyoko gli ha lanciato uno sguardo distratto e ha sorriso, leggermente, facendogli perdere un battito: Suga l’ha guardata e i suoi pensieri si sono scolorati su una pagina bianchissima, lasciandolo a contemplarne l’immensa inconsistenza.
È martedì, ha urlato Nishinoya mentre inseguiva Asahi verso il cortile, e quella frase è l’unica informazione che la mente gli ha concesso di preservare.
«Buongiorno» l’ha salutata, dolcemente. «Oggi è… martedì?».
Lei ha riso e l’ha guardato con curiosità e, in quel momento, Sugawara realizza che Noya ha combinato solamente l’ennesimo casino insensato e privo di giustificazione: perché oggi è solamente lunedì, ma a Nishonya non potrebbe importargliene di meno.
«Scusa» dice, in fretta. «Nishinoya aveva detto… cioè lui e il martedì, sai…».
Shimizu lo guarda con una dolcezza che silenziosamente lo sta spolpando vivo e, avvicinandosi leggermente, gli prende le mani tra le proprie. «Ho capito» risponde. «Non… perché sei così teso?».
Lui ha il viso arrossato, come nell’ennesima ustione da sole e sarebbe persino credibile, se solamente non fosse novembre. Ma Azumane va in giro con un braccialetto di conchiglie, quindi, forse potrebbe essere?
«Scusami» ripete lui, a disagio. «Ma non penso di essere pronto per sposarmi2, io…».
Shimizu ride, in un suono scampanellante e dolcissimo che lo confonde solamente di più. «Sposarti?» domanda. «Non ho intenzione di sposarti, per ora».
Sugawara sembra non cogliere l’implicazione e abbassa il capo, sempre più imbarazzato. «Io… scusami» ripete, per la terza volta. «Sono solo agitato per lo studio, e la squadra e…».
Si accorge a malapena che le sue mani sono ancora strette da quelle di lei, lunghe e sottili, che l’avvolgono come fossero la loro naturale copertura. Perché Shimizu sorride e, dai suoi occhi, s’intravede il mare.
«Anche io sono preoccupata» mormora, piano. «Ma… sono sicura che Nishinoya riuscirà a convincere Azumane a tornare a giocare».
Sugawara sorride, inclinando il capo. «Grazie» dice, solamente. «Mi piacerebbe se tu avessi ragione, Shimizu».
Lei sorride e si forza a lasciargli le mani, sebbene sia come dar via una parte di sé, e lo guarda andar via. Il rumore dei suoi passi culla i suoi e a Shimizu basterebbe solamente poter posare le proprie scarpe sulle sue impronte, ma non ha il coraggio di farlo.
Così lo ascolta allontanarsi domandandosi se, se fossero sulla sabbia, sarebbe lo stesso osservare l’impronta del suo passaggio che pian piano si cancella.
 
***
 
I suoi passi sono un tintinnio pressocché inudibile, da quando Azumane ha indossato il braccialetto di conchiglie: gli altri non mostrano di udirlo, ma lui lo sente. Lo sente come un peso sul braccio e sul petto, quando si trascina da una lezione alla pausa pranzo, e lo sente come la colonna sonora dei propri sogni a occhi aperti quando si ferma davanti alla palestra.
Ma, allo stesso tempo, Asahi desidera ardentemente e disperatamente non sentirlo più: di riuscire a sciogliere, con quelle mani decisamente troppo grandi, i nodini strettissimi fatti da Nishinoya e liberarsi di quell’ultimo serrato collegamento con la squadra di pallavolo.
Non ci riesce e non per una mancanza di tentativi. Non ci riesce perché Noya gli corre incontro, almeno tre o quattro volte al giorno, e osserva il suo braccio sinistro quasi come se temesse di non vederlo più.
È stupido e banale – d’altronde, Asahi ha ferito Noya in una maniera talmente profonda da essere inesprimibile – ma non ha abbastanza coraggio per infliggergli un ulteriore, inutile, dolore. Forse, Nishinoya rimarrà ancora per qualche mese imbronciato e scontroso e si rifiuterà di ammettere che la Karasuno sia ancora una squadra, senza Asahi, ma dimenticherà.
Dimenticherà perché la memoria altro non è che una marina dove i ricordi vengono annotati su sabbia e, allora, cancellarli è semplice come camminarvi sopra. A ogni mareggiata, un’onda se li porta via sommergendoli di sassi sbriciolati, alghe e, qualche volta, persino conchiglie. Noya le avrà raccolte tra i suoi ricordi, quelle usate per il braccialetto di Asahi?
«Asahi-san!» il libero lo raggiunge, affiancandolo, in una pozza di luce nel cortile. «Oggi è…».
«Martedì» risponde Azumane, non senza esasperazione. «Lo so, ma cosa dovrebbe avere di speciale?».
Nishinoya lo guarda e ha gli occhi grandi come scodelle, riempite di dolorosa speranza. «Niente, è solamente il giorno in cui ti ricordo» spiega il ragazzo. «Che manchi alla squadra e ti rivorremmo con noi».
Asahi sospira, esasperato, ma non riesce nemmeno a deludere totalmente le aspettative di quel ragazzo, che ha fede in lui come potrebbe averla nella fortuna o nel destino. Se non fosse che lui si sente inaffidabile tanto quanto entrambe – fortuna e destino – e non può promettere, non può giurare. A conti fatti, semplicemente non può.
«Grazie per avermelo ricordato» commenta Azumane, guardando il cielo. «Cercherò di tenerlo a mente».
«Un giorno, mi ringrazierai» risponde Noya, scrollando le spalle. «E sarai tu a ricordarmi ogni martedì della settimana».
Asahi cerca di non rispondergli che, da più di un mese, Yū ha trasformato ogni singolo giorno della settimana in un martedì senza inizio o fine. Che ogni giorno gli ricorda le medesime parole, ma lui non cede mai.
«Non credo» commenta. «Ma non posso nemmeno impedirti di ricordarmelo».
«Lo farò sempre» proclama il libero, stringendo i pugni. «Ogni giorno, di ogni settimana, finché non capirai che immenso errore stai commettendo».
Azumane si massaggia la fronte, sempre più esasperato. «Era proprio quello che intendevo» mormora. «Non mi lascerai mai andare».
Lo dice con un tale misto di rassegnazione e speranza che Noya non riesce a non osservarlo, frastornato. Per un terribile istante si ritrova a domandarsi se non sia realmente questo, il desiderio più recondito di Asahi: essere lasciato da solo, tra gli scogli aguzzi e i pendii scoscesi della propria mente, dove ogni conchiglia è rotta e incrinata sotto la potenza delle onde che schiumano e s’infrangono sulla battigia. Vuole davvero lasciarsi naufragare, l’asso della Karasuno?
«No» risponde il libero, cautamente. «Non lo farei mai».
Azumane sospira, forzandosi a sorridere allegramente. «Proprio ciò che temevo» sussurra. «Sei tremendamente testardo».
Ma non è la testardaggine, che muove Nishinoya, non è lo sterile desiderio di insegnare ai corvi della Karasuno a volare, né l’improbabile sete di vittoria. È indefinibile, lo scopo che spinge Yūa cercare Asahi sott’acqua, dopo una mareggiata: ma il ragazzo ha nostalgia.
Gli manca il rumore delle schiacciate di Azumane, il suo sorriso stanco dopo l’ennesima partita fallita, forse persino la sua faccia tesa di fronte agli avversari. Ma, questo, non riesce a dirglielo.
«Penso solamente che dovresti tornare» dice, invece. «Che manchi solamente tu per costruire la squadra più forte di sempre».
Ma Asahi non risponde: osserva una nuvola come se, lì dentro, potesse cogliervi la risposta che sta cercando.
 
***
 
«Andiamo, Dai-chi» strilla Sugawara, con tono cantilenante. «Non ci credo che mi stai davvero incentivando a spaccare la squadra per una semplice cotta».
Daichi sospira, semplicemente e definitivamente esasperato. Perché Suga lo osserva con curiosità ma, dentro di sé, cova solamente l’ennesimo mare in tempesta: l’ha colto, Sawamura, l’ha colto come un fiore e un desiderio sulla coda di una stella cadente. Gli ha colto quel pensiero, strappandoglielo dal capo come una ciocca di capelli, e adesso vorrebbe solamente trovare una soluzione a quell’inutile turbinio di emozioni che riempie di lividi il cuore del palleggiatore.
«Non ti sto dicendo di spaccare la squadra» borbotta il capitano, incerto. «Ti sto dicendo di non spaccare te».
Perché è esattamente quel che sta succedendo: Suga si straccia e si sfilaccia al pensiero che non potrà mai averla, che mai potrà metterle al braccio l’ennesimo braccialetto di conchiglie e, allora, dovrà solamente accontentarsi di osservare i suoi passi svanire tra la sabbia bagnata.
Sono sbrindellate, le emozioni di Sugawara, sbrindellate e imperfette di fronte al pensiero di Shimizu che gli stringe le mani tra le sue. Ma è sbrindellata anche la consapevolezza che, se solamente ammettesse a sé stesso che l’ama dell’amore dolce e da ballata che ha sempre sognato, spaccherebbe l’unità della squadra.
E allora la guarda e tace, o semplicemente tace e basta, mentre lei sembra aspettare che lui semplicemente trovi il coraggio.
Ma, a Suga, non ne è rimasto più.
«La stai drammatizzando» risponde, con noncuranza. «Non è niente di importante, anche Noya e Tanaka sono cotti di Shimizu».
Daichi sospira, chiamando a sé tutta la propria pazienza ma, abbassando lo sguardo, Sugawara si rende conto che il capitano sta stringendo i pugni, probabilmente trattenendosi dal dargli dello stupido.
«Lo sai anche tu, che è diverso» commenta, secco. «Loro sono… infantili. Dolci, forse, ma infantili. E lei…».
Ma Suga scuote il capo e, per un momento soltanto, sembra affranto. «Non dirlo» mormora. «Lasciamo le cose, lasciamo la squadra, così come sono».
Sawamura vorrebbe rassicurarlo, dirgli che non cambierà nulla tra lui e Tanaka o Nishinoya, ma non ha il coraggio di dire qualcosa in cui non crede. Eppure.
Eppure Suga nasconde un’anima ammaccata da pugni e schiaffi, mentre parla ai propri compagni di squadra, mentre sorride, persino mentre guarda in tralice Shimizu a bordo campo.
«Perché devi per forza ferirti da solo?» domanda Daichi, scuotendo il capo. «Potresti…».
Impedire che le onde cancellino i vostri passi dalla sabbia, che s’infrangano in una mareggiata di conchiglie frantumate e inservibili. Ma Sugawara gli risponde con un’occhiata inquieta, mentre s’avvia verso la palestra, forzandosi a sorridere.
Se guardassero nell’armadietto di Nishinoya, ne rinverrebbero una collezione di conchiglie che muta forma con l’incedere dei giorni. Quel martedì, sono una scogliera così bianca da risultare inimmaginabile, dove un mare rosato di tramonti s’infrange e si ritira: su uno scoglio, sono sedute due figure.
Sono mute come un pensiero sfuggente, e immobili, ma guardando il mare come se dentro l’acqua cristallina vi potessero essere delle risposte. Come se esistesse una maniera per non ferire, o per non essere feriti.
«No» risponde Sugawara, lapidario. «Non potrei mai».
Perché coglierla significherebbe sporcarne la divinità: non si toccano gli idoli, se ne sbecchi la doratura esse rimarrà sulle tue mani3. E lui dovrebbe coglierla come un’idea o una rosa in inverno, tirarla via da quel mondo perfetto che s’è costruita attorno, strapparla ai propri pensieri silenziosi per catapultarla nel suo mondo colorato e chiassoso. Nella marina di conchiglie, però, Shimizu lo guarda ed ha gli occhi così pieni di speranza da far male.
Ma lui non può toccarla, non può sfiorarle l’anima nuda quasi come fosse l’ennesimo pensiero venuto male, come sfiora i propri o quelli di Daichi, non può tenderle la mano e trascinarla via con sé. Una divinità non si tocca, si guarda soltanto.
Eppure, Shimizu lo osserva, senza farsi notare e, se solamente Suga non si facesse distrarre dal suo sguardo, noterebbe che ha le mani che le tremano. Insieme al cuore, al respiro e a tutto il resto.
E, se solamente guardasse le proprie, di mani, si renderebbe conto che sta tremando anche lui.
 
***
 
Un giorno, Asahi non si presenta a scuola. Poi, i giorni diventano due, poi tre e poi quattro.
Se Yū guardasse nel proprio armadietto, si renderebbe conto che una conchiglia s’è infranta in una marina, durante una tempesta.
Quel giorno è martedì, ma lui è così preoccupato da non riuscire ad accorgersene.




 

Angolo della vergogna:
Buongiorno e buonasera a tutti. Mi chiamo Gaia e sono otto anni che non concludo né pubblico una long che superi i cinque capitoli (ma non temete, questa è già terminata): quindi temo che questo mio glorioso ritorno sia molto poco glorioso, ma da qualche parte bisognerà pur iniziare.
Ho poco da dire su questo capitolo, per cui vi lascio le citazioni che avevo mandato per il contest cui la storia partecipa:

1Da Dr. House, Medical division – è uno sketch ricorrente tra Cameron e Chase che ho voluto riprendere (https://www.youtube.com/watch?v=cba5KCkRnN0)
2Dal manga/anime, ho ripreso letteralmente questa scena, con una leggerissima variazione per poter creare un secondo what if: https://www.youtube.com/watch?v=0Qdi_bJamcY
3“Non bisogna toccare gli idoli: la doratura ci rimane attaccata alle mani” – Gustave Flaubert, Madame Bovary

E vi aggiungo una spiegazione sempre per il contest:

Seguendo quello che era il tema del contest, ho deciso di basare il mio what if sul presupposto che Asahi si sia rifiutato di tornare in squadra, sviluppando così la mia idea. Da questo presupposto generale sono scaturiti ben quattordici capitoli e un epilogo, rimanendo comunque ampiamente nel limite di parole concesso.
La storia è quasi totalmente scritta nel medesimo tempo, cioè le azioni dei diversi personaggi avvengono in contemporanea o quasi, tranne nei capitoli 3 e 5 dove le azioni sono divise in due giorni diversi che s’intervallano. Ma comunque credo si riesca a capire anche dal testo.
La storia è presumibilmente OOC, ma principalmente perché la situazione sconvolge il carattere di Nishinoya, quindi penso sia giustificabile.
A tal proposito, ho cercato di trattare al meglio la tematica della depressione, senza svilirla e sottolineando come guarire non sia un processo immediato, ma lungo e faticoso. Spero di essere riuscita nel mio intento.
Per quanto riguarda il “Dai-chi” con cui Suga chiama Daichi, è una mia personalissima idiozia: siccome mi hanno spiegato le regole dell’accento in giapponese, ho pensato di usare questa mia scarna conoscenza. Infatti il soprannome è un misto tra la reale pronuncia del nome e come lo pronuncia il doppiatore di Sugawara nell’anime, che lo fa per davvero (almeno secondo me) in maniera un po’ cantilenante.
Il titolo ha un significato molto semplice, in quanto il tema della speranza regge l’intera storia e viene totalmente sviscerato in ogni capitolo, essendo descritto nella sua anatomia.

E credo sia tutto, spero che a qualcuno questa roba possa piacere.
Gaia

 

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Capitolo 2
*** 2: Cera che cola ***


Ringrazio chiunque leggerà questa storia. Prossimo aggiornamento: 24 ottobre.
 
2. Cera che cola

 
Il sognatore è al suo tavolino: è nella sua stanza: accende la sua lampada.
Accende una candela.
Accende la sua bugia
(Gaston Bachelard)

 
L'assenza affievolisce le passioni mediocri e aumenta le grandi, come il vento spegne le candele e ravviva il fuoco
(François de La Rochefoucauld)
 
 
Ci sono candele accese su un fiume che sfregia Tokyo come l’ennesima ferita: ogni estate, quello squarcio s’illumina di una dolcissima luce aranciata, che ha il sapore della speranza. Novembre non è il periodo giusto per il Tōrō4, ma è il momento dell’anno che maggior speranza richiede: così, pur non avendo corsi d’acqua a disposizione, ogni sera Shimizu si siede di fronte alla finestra di camera sua e accende una candela nel buio che la circonda.
In questo modo, la notte diviene solamente l’ennesimo fumo acre e bruciato, che cela un manto trapuntato di stelle. Lei rimane lì, a guardare la luna che pallidamente prova a illuminare tutto il cielo da sola: non può farcela, ma continua a tentare.
Allo stesso modo, Shimizu vive nella consapevolezza che non può costringere qualcuno a riamarla, ma può continuare a provare. Può continuare a guardarlo di nascosto, mentre ride, si fa rimproverare da Daichi e a sua volte rimprovera Nishinoya, Tanaka e Hinata – a volte persino Kageyama – comportandosi come un fratello maggiore.
Kiyoko vorrebbe essere egoista, e desiderare di rompere quell’armonia, ma non ci riesce: lei lo sa, perché Suga la guarda e non dice una parola, ma china il capo e arrossisce in silenzio. Perché, la maggior parte delle volte, la guarda e tace come se non  avesse risposte da darle quando lei gli rivolge la parola.
Sugawara non muoverà mai un passo verso di lei, che rimarrà a guardarlo sulla sponda sbagliata del fiume, domandandosi se sia possibile nuotarvi dentro o se il freddo la ucciderebbe.
Così, ogni sera, ogni martedì ricordato da Nishinoya, Shimizu si avvicina al davanzale della propria finestra e accende una candela che rischiara la notte. E, per qualche ora, la luna non dovrà illuminare il mondo da sola.
Ma, quando la flebile fiammella si spegne, il buio se ne mangia i colori e la forma tramutandola nell’ennesimo oggetto senza scopo o colore. Immersa nell’oscurità della propria camera, si domanda se non sia questo che Sugawara pensa della propria infatuazione per lei: che non sia altro che l’ennesimo attaccamento insensato da sperimentare, che potrebbe rivelarsi distruttivo per la squadra – cui sicuramente tiene più di lei.
E Kiyoko si trascina a un allenamento dietro l’altro, senza smettere la maschera di calma e quiete che indossa ma, nel vedere Suga che evita il suo sguardo o non lo ricambia, le trema il cuore. Perché il palleggiatore salta, esulta, ride con i suoi compagni ma, lei, non la guarda mai.
È ancora presto per attendere l’arrivo dell’estate ma le candele sulla sua finestra sono solamente l’ennesimo desiderio abbandonato lungo il fiume e, allora, la voglia di vederne colare la cera sul fondale è irresistibile.
 
***
 
«Perché non lo vai a trovare, se sei così preoccupato per lui?».
Per Shōyō il mondo è semplice, colorato e pieno di emozioni: è fuori dal suo raggio di comprensione, perché Azumane possa aver deciso di abbandonare la squadra, o perché Nishinoya tentenni così tanto di fronte a quella sua improvvisa assenza. La pallavolo dovrebbe essere un motivo sufficiente – no, di più: essere l’asso dovrebbe esserlo – per convincere Asahi Azumane a ritornare ad allenarsi.
«Non può di certo presentarsi così a casa sua, senza una spiegazione, solamente per dirgli ciao» lo rimbecca Kageyama, secco. «Idiota».
Hinata è già pronto a rispondergli a tono ma, poi, osserva il viso del libero e non riesce a far fuoriuscire le parole. Perché Noya si guarda i piedi e, se solamente alzasse il viso, si accorgerebbero tutti che potrebbe quasi essere sul punto di piangere.
Kageyama sospira, pensando che è a malapena pomeriggio e lui non è fisicamente pronto a una crisi di pianto.
«Non è così difficile» cerca di rassicurarlo. «Basterebbe portagli i compiti» continua l’alzatore, con ovvietà. «Qualcuno dovrà pur farlo, prima o poi, tanto vale che sia tu ad andare. Così potresti vedere come sta».
«Non so chi è stato incaricato di portarglieli» mormora Nihsinoya, atono. «Dovrei chiedere in giro e poi, io…».
Qualcuno gli picchietta la spalla, costringendolo a voltarsi e a venire investito dallo smagliante sorriso di Sugawara. L’alzatore ha in mano un quadernetto nero, che agita davanti al viso dei suoi compagni di squadra.
«Penso – letteralmente – di essere il vostro uomo» ride. «Perché, vedete, ho io i compiti per Asahi».
«Potevi anche dirlo in maniera meno ambigua, non credi?» borbotta Tsukishima, alle sue spalle. «Penso di essere il vostro uomo? Davvero, Suga?».
Nishinoya non esita a prendere il quaderno dalle mani del proprio compagno di squadra, tenendolo stretto a sé quasi come si trattasse di un tesoro. O di un desiderio colato via dalla cera di una candela per ustionargli le mani. E forse anche il cuore.
«Suga-san!» strilla, guardando l’alzatore. «Grazie mille!».
Sugawara sorride dolcemente ma, dietro di sé, percepisce con indefinibile chiarezza gli occhi di Kiyoko Shimizu trapassargli la schiena, passando dalle scapole per afferrargli il cuore.
«Di niente!» risponde. «E saluta Asahi da parte mia e di Daichi e digli… che questa palestra, questa squadra, sono ancora casa sua».
Nishinoya annuisce, mentre si affretta a uscire dalla palestra. Casa sua. Asahi probabilmente direbbe di non conoscere il significato di quella parola, pur di rimanere sepolto nel suo mondo di calma artefatta in cui s’è rifuggiato.
Ma, riflette, Sugawara ha ragione: è ora che Asahi torni a casa.
 
***
 
Casa di Asahi suona di vuoto.
Le tapparelle sono abbassate, non vi è nemmeno una luce accesa, né si ode alcun movimento tra le pareti. È una casa di fantasmi, pensa Noya con un brivido, fantasmi che hanno preso con loro anche lo schiacciatore, impedendogli di scappar via. Ma, quando suona il campanello, inghiottendo la paura per gli spettri, è Asahi ad affacciarsi dalla finestra.
«Nishinoya?» domanda, incredulo. «Cosa ci fai qui?».
Noya nota con orrore che Azumane indossa ancora il  pigiama e ha i capelli spettinati e sporchi, persino una macchia di curry gli decora la maglia. Vorrebbe domandargli cosa gli sia successo: è pomeriggio inoltrato – troppo presto per andare a dormire e troppo tardi per svegliarsi – ma lo schiacciatore ha un’aria così stanca e turbata che, ancora una volta, al libero mancano le parole.
«Ti ho portato i compiti» dice, infine, aspettando che Asahi si decida a scendere per aprirgli la porta. «Doveva farlo Suga, ma ha detto che potevo andare io, perché… volevo vederti. Sei sparito da una settimana e…».
Asahi sospira, passando una mano tra i capelli sciolti. «Scendo subito» esala, senza convinzione. «Aspettami un attimo, arrivo».
Dopo pochi attimi, la porta si apre lentamente. Da vicino, Azumane sembra ancora più stanco ed esasperato di quanto a Noya non fosse sembrato, dalla finestra.
«Asahi-san» borbotta, senza convinzione. «Cosa ti è successo?».
Lo schiacciatore abbassa lo sguardo sulla maglia macchiata e i pantaloni del pigiama, sui propri piedi nudi, come se non avesse realizzato di aver aperto a Noya in quelle condizioni. Ma, se solamente potesse guardarsi in volto, capirebbe: perché un fantasma stanco e con cerchi scuri sotto gli occhi gli restituirebbe lo sguardo, spaventandolo a morte.
«Ho solamente dormito male» risponde, infine. «Vieni, entra. Preparo del tè».
Nishinoya lo segue, silenziosamente, nella viscere di quella casa buia ed estranea: Asahi cammina piano, come se ogni passo pesasse in maniera indescrivibile, fino alla cucina.
«Siediti pure» mormora, indicandogli il tavolo. «Arrivo subito».
«Asahi» lo chiama, Noya, con una serietà che turba il suo interlocutore. «Cosa ti sta succedendo?».
Perché sei così apatico, vorrebbe domandargli, perché sono giorni che non vieni a scuola, che mi eviti, che non riesco a trovarti?
Perché Nishinoya ha cercato Asahi in ogni ombra, in ogni passo e persino nella luce riflessa del sole, ma non l’ha trovato mai.
«Te l’ho detto» risponde Azumane, porgendo al ragazzo una tazza di té. «Ho solamente dormito male».
«Per una settimana?» domanda il libero, perplesso. «Sei letteralmente sparito per giorni e oggi è…».
È martedì. Ma non riesce a dirlo, perché Asahi guarda fuori dalla finestra come se tra le nuvole vi fosse una risposta alle domande di Noya, e non dice una parola.
È dimagrito, nota Yū con orrore. In una settimana quanto peso potrà aver perso? Forse la sua è solamente suggestione, ma lo schiacciatore sembra già meno imponente: magari non sta mangiando come dovrebbe o magari – si domanda con orrore, guardandolo sedersi, affaticato – non sta mangiando e basta.
«Lo so, è di nuovo martedì» risponde Asahi, laconico. «Non pensavo saresti venuto fin qui per ricordarmelo».
«No!» strilla Noya, il volto contorto dalla delusione. «Oggi è il primo giorno in cui riesco a vederti, a sapere che ci sei ancora. Da una settimana».
Azumane lo guarda e sembra non comprendere, così sorride lievemente e scuote il capo, quasi come si sentisse in dovere di consolarlo.
«Conta qualcosa per davvero?» gli domanda. «Scommetto che sei stato in compagnia di Tanaka, o di Hinata. Non penso che la squadra ti abbia lasciato solo, sono… sono tuoi amici».
Yū lo guarda, è così deluso da far male. «Certo che conta» risponde. «Per me contavi».
Asahi sospira, guardando la propria tazza di tè, e non si rende nemmeno conto che Nishinoya ha usato un verbo al passato.
 
***
 
«Suga-san» Nishinoya lo chiama, sebbene sembri totalmente privo della sua solita energia. «Domani, per favore, fammi avere di nuovo i compiti per Asahi. Glieli porto io, se per te va bene».
Sugawara annuisce, senza convinzione. Noya l’ha dipinta in faccia, quella delusione devastante, quell’insoddisfazione: gli è rimasta della doratura sulle mani, come farà a sciacquarla via di lì? O, forse, non è doratura ma è ectoplasma e lui ha parlato con uno spettro che ha preso il posto di Azumane.
Perché quell’essere con cui ha bevuto il tè, si dice, non può essere Asahi: l’ha visto stanco, sfiduciato, ma mai così depresso. Così ostile nei suoi confronti. E, sul finire, Azumane non è nemmeno riuscito ad ascoltarlo, mentre Noya cercava di convincerlo a tornare a casa.
«Sei sicuro?» domanda Suga, sorridendo. «Posso andare io, se tu non te la senti».
Ma Nishinoya sorride e ha il fuoco nello sguardo: non una candela che si scioglie dolcemente, o una brace sul punto di spegnersi, no. Ha un incendio che gli marchia l’iride di una determinazione incontattabile, che Suga non comprende ma ammira silenziosamente.
«Finché non mi dirà di andarmene» risponde Noya, piano. «Io continuerò a chiedergli di tornare qui, con me».
Il palleggiatore vorrebbe metterlo in guardia: più grosso è l’incendio e più cenere si lascia dietro, ma non riesce – non riesce – a dire a Yū che solamente nelle favole si è in grado di salvare qualcuno. Che, nella realtà, non esistono salvataggi miracolosi. Solamente Asahi può uscire di casa e tornare a vivere ma, questo, Noya non lo comprende.
Suga vorrebbe dirgli tutto questo, ma viene interrotto da Shimizu che lentamente si avvicina a loro, porgendo qualcosa al libero. È una candela.
 
 
***
 
«Kiyoko» la chiama, così piano da rischiare di non essere udito, sulla via verso casa. «Io… posso accompagnarti a casa? Vorrei parlare con te, se… se sei d’accordo».
Lei non maschera la sorpresa e annuisce, spaesata, mentre prendono a camminare insieme, nella strada ombrosa e deserta – e i passi rimbombano in quel silenzio strano, e innaturale, finché Suga non la guarda e sospira, stanco.
«Io…» comincia, incerto. «L’ho capito, a un certo punto, che dovevo dirtelo. Che non potevo più semplicemente ignorarti e…».
«Cosa?» domanda lei, perplessa. Ma una lucina caldissima, forse l’ennesima candela semi-sciolta, ha cominciato a intiepidirle il cuore.
«Lo sai» mormora Suga, con la voce che fatica ad uscire. «Io… non sono bravo a parlare, non con te. Ma quello che sto cercando di dirti è che…».
Si passa una mano in fronte: Sugawara è bravissimo a incoraggiare i compagni di squadra, a tirare fuori il meglio di loro, a essere il perfetto vice di Daichi ma, quando si ritrova davanti Shimizu, perde le parole.
«Tu mi piaci» esala, infine, come se stesse finalmente respirando per la prima volta. «E mi piaci da quando eravamo al primo anno, prima di… di Tanaka, Nishinoya e tutto il resto».
A lei s’è fermato il cuore, così che a stento riesce a guardarlo negli occhi, ma le è rimasta abbastanza forza per allungare le mani e prendere quelle di lui. Suga sorride e – per la prima volta, da quando lo conosce – non si scosta, sebbene arrossisca comunque e abbassi lo sguardo, imbarazzato.
«Ma non m’importa» sussurra lui, piano. «Perché voglio stare con te… se anche tu lo vuoi, perché… oh, scusami, ho implicato che, io…».
Shimizu ride, con una delicatezza che lo spiazza, come ogni volta che accade. «Sì» dice, semplicemente. «Anch’io lo voglio».
Suga spalanca gli occhi, quasi come faticasse a crederci: basterebbe solamente un piccolo passo in avanti, per azzerare la distanza tra di loro, per ripararsi dal vento gelido di novembre con il semplice contatto tra pelle e pelle. Ha la tentazione di arretrare, ma Shimizu lo osserva con una tale aspettativa che non riesce a cedere alla sua parte meno coraggiosa, così compie inaspettatamente quell’unico passo.
Se la mangia, quella distanza, la brucia viva, la alza via come la palla verso lo schiacciatore e si ritrova gli occhi di lei – l’ennesima marina – puntati sul volto.
«Si può sapere cosa state facendo?» strilla Hinata, trascinando a piedi la propria bicicletta. «Non dovete andare a casa? Suga guarda che domani dobbiamo allenarci!».
Il rumore di un colpo attutito li scuote, costringendoli a voltarsi verso Shōyō, intento a massaggiarsi il capo, e Kageyama. L’alzatore ha ancora la mano alzata, pronta a colpire nuovamente il centrale con forza.
«Sei un idiota, Hinata» sibila, prima di chinarsi leggermente in avanti, in un cenno di saluto, e afferrare Shōyō per il colletto della divisa. «Noi adesso andiamo via, Suga-san. A domani».
Kiyoko ride, nuovamente. Suga rimane a fissarla, incantato.
 
***
 
«Asahi-san!» il giorno dopo, Noya si presenta nuovamente a casa di Azumane. «Ti ho portato i compiti, sono sempre quelli di Suga!».
Ma, questa volta, Asahi non risponde immediatamente e, quando finalmente va ad aprirgli la porta, ha un vistoso taglio sulla mascella. Yū non riesce a non guardarlo, come ipnotizzato, quella striscia di sangue secco che deforma il volto dello schiacciatore in un secondo – unico – inquietante sorriso. Tende la mano, vorrebbe toccarlo, vedere se sta bene – ma Asahi fa un passo indietro, turbato.
«Cosa hai combinato?» domanda Noya, perplesso. «Hai sbagliato a raderti? Pensavo avessi imparato, ormai».
Ma la barba di Asahi è sempre lì, più incolta del giorno prima, a contornare quello squarcio: se Noya potesse toccarlo, quello certamente riprenderebbe a sanguinare, macchiandogli le dita.
Il pensiero che possa essersi tagliato di proposito non lo sfiora, come potrebbe? Ha una tale fiducia in Asahi da non poter contemplare il pensiero che si possa voler ferire con le proprie mani.
«Sì, esatto» risponde Azumane, secco. «Io… ero distratto, sono così stanco che è difficile ragionare lucidamente».
Lo dice con un tono tale che a Noya, per un momento, s’infrange il cuore in un coro di sussurri: Asahi è stanco, stanco per davvero, ma non è solo l’insonnia. È qualcosa di più profondo, di più esistenziale, è stanco come la fiammella che erode l’ultima parte della candela, prima di spegnersi definitivamente.
Perché sono belli, i lumini, ma alla fine si spegneranno tutti quanti alla prima ventata di gelo o al primo schizzo d’acqua – s’è spento, Asahi? Ed è stato vento o acqua, a inzuppargli le ossa di quel tacito dispiacere?
«Dimmi cosa posso fare» mormora Nishinoya, piano. «Io… non so cosa fare, se tu non me lo dici. Quindi, ti prego, aiutami. Come posso aiutarti se tu non mi dici come?».
Ad Asahi si scioglie lo sguardo in un minuscolo sorriso mentre, quasi senza accorgersene, sfiora leggermente il braccio di Noya. Il libero sobbalza, come se quel tocco fosse fuoco o cera bollente, confuso.
«Non dire niente» sussurra Asahi, con un filo di voce. «Possiamo semplicemente rimanere in silenzio, per un po’?».
Yū vorrebbe dire che non possono, perché ci sono silenzi affilati più delle parole, silenzi che spaesano, silenzi che riscaldano fino a sciogliere. Ma come potrebbe dirlo ad Asahi, che ha uno sguardo talmente stanco – disperato – che fa più male dell’ennesimo inutile silenzio?
«Certo» mormora, senza convinzione. «Silenzio. Ho capito. Ma, se solamente tu parlassi con me, forse allora…».
Vorrebbe aggiungere qualcosa, dirgli che lo aiuterà, che lo tirerà su e ricostruirà da zero, ma Azumane gli lancia uno sguardo indecifrabile. E, lentamente, si porta un dito alle labbra.
Shh.
 
***
 
Quella sera, Shimizu si avvicina al balcone per guardare il cielo terso e trapuntato di stelle: è così limpido che, per una sera solamente, la luna non sembra più sconfitta nel proprio compito di rischiarare tutta la notte.
Quella sera, Shimizu si rende conto di non avere più niente per cui pregare, tra le mura della propria casa: Sugawara le ha sorriso, davanti alla porta di casa, come non faceva da tempo o, forse, come non aveva mai fatto prima.
Le ha detto, in un sussurro dolosamente spaventato, che non gl’importa della spaccatura che creerà nella squadra. Che forse ferirà Noya e Tanaka ma che, se davvero sono suoi amici come dicono, sapranno perdonarlo: Nishinoya perdona giornalmente Azumane, che s’è perso in un’annichilente apatia, quindi come potrebbe rifiutarsi di fare lo stesso con lui?
Lei ha risposto che sarà semplice, perdonare. E, silenziosamente, ha pensato che è così perché lui potrebbe essere in grado di amarla per sé, per Nishinoya e anche per Tanaka.
Per quella sera solamente, il cielo non avrà bisogno di una candela: Shimizu riesce a trovare abbastanza luce dentro di sé.


 
4Ho preso spunto dalle poche conoscenze di cultura giapponese che ho, parlavo di questa cerimonia


 

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Capitolo 3
*** 3: Il gioco del silenzio ***


3. Il gioco del silenzio

 
Ogni parola ha conseguenze.
Ogni silenzio anche.
(Jean-Paul Sartre)
 
Amare vuol dire soprattutto ascoltare in silenzio.
(Antoine De Saint-Exupery)
 
 
Ogni giorno dopo gli allenamenti, Nishinoya corre il più velocemente possibile fino a casa di Asahi: ci mette venti minuti e arriva con il respiro affannato ma, quando bussa alla porte, Azumane è sempre lì dietro ad aspettarlo.
Insieme, giocano. In silenzio siedono – una volta in cucina, una volta in camera sua – e si guardano negli occhi, per ore intere.
Noya pensa che si tratti un gioco strano ma, se serve a riscuotere Asahi dalla catatonia in cui è precipitato, lui è disposto a giocare – e a lasciargli vincere – anche cento partite di seguito. Così passano le ore a guardarsi con lui che scalpita, che vorrebbe solamente parlare, e chiedere e domandare, mentre invece Asahi è lento e sonnolento come un gatto acciambellato su una poltrona. E riesce a vincere ogni partita perché, a meno che Noya non lo tempesti continuamente di domande, non parla quasi più.
Azumane guarda il muro alle spalle di Yū, costringendolo ad ascoltare quel silenzio che non è solo muto, ma anche sordo. Perché Nishinoya parla, lo sommerge di parole, ma ci sono momenti in cui Asahi è così lontano che fatica persino a sentirlo.
«Mi puoi dire che ti succede?» urla, nell’ennesima giornata mangiata dal buio, dal dolore e dal silenzio. «Parlami».
Azumane lo guarda come faticasse a riconoscerlo, sbattendo gli occhi come se fosse letteralmente accecato dalla luce.
«Asahi-san!» alza la voce Noya, scuotendolo leggermente. «Per favore, dimmi cosa devo fare, ti prego».
Lo schiacciatore lo guarda e – nota Yū con terrore – ha gli occhi pieni di lacrime. S’è fatto incredibilmente sottile, Asahi, e adesso non fa più paura, ma sembra solamente un bambino che ha paura di un suo incubo.
E, forse, il punto è esattamente quello: Asahi ha paura di qualcosa.
«Non…» sussurra, come se avesse disimparato a parlare. «Non te ne andare. Per favore, resta».
Lo dice con una tale esigenza da strappargli via ogni parola, lasciandolo con le corde vocali stracciate a sibilare suoni vuoti. Yū vorrebbe dire che deve andare, che domani dovrà allenarsi tutto il giorno, che. Che non riesce più a vederlo in quello stato ed è esattamente per quel motivo che ha bisogno di andare via.
Non può rimanere a vederlo smagrire e ingrigire nella luce giallastra della cucina, non può fare altro che lasciarlo andare, se Asahi non vuole tornare a casa insieme a lui. Ma riuscirebbe per davvero, Yū, a voltargli le spalle in quel modo?
«Hai promesso» mormora Azumane, indicandosi con un gesto stanco. «Sempre alle mie spalle, hai detto».
«È vero, io…» sussurra Noya, piano. «Ho promesso».
Sempre dietro di lui, ha giurato, a recuperare ogni colpo irrecuperabile, ogni errore, salvare ogni palla murata dall’avversario. In un certo senso ha promesso – e ha fallito senza provarci a sufficienza – di proteggere lui. Così, Yū si costringe a respirare profondamente, anche se l’ossigeno s’è tramutato nell’ennesimo peso inutile e doloroso, e a sfiorare con la mano il braccio di Asahi.
«Vuoi che rimanga a dormire?» mormora, con una dolcezza strana. «Posso… posso rimanere qui, se non vuoi rimanere solo».
Azumane non dice una parola. Vorrebbe sorridere, ma non ci riesce e si produce solamente nell’ennesima smorfia che la vita gli ha rivolto: Noya sa quanta fatica gli costi ammettere una debolezza simile – perché Asahi ha paura di dormire da solo – così lo guarda e annuisce, come per confermargli che non andrà via.
«Rimarrò sempre con te, se ne hai bisogno. Devi solamente chiedermelo e… io sarò qui con te» sussurra, così piano che è sicuro di essersi udito solamente lui. «Sempre».
Asahi sorride – un sorriso vero – e allunga la mano per scompigliargli i capelli. «Lo so» risponde, ripetendo una frase già nota. «Era quello che temevo, da quando ci siamo incontrati per la prima volta».
Yū ride ma, di fronte allo sguardo distrutto del suo compagno di squadra, è solamente l’ennesimo suono squallido e strozzato.
 
***
 
È il gioco dei segreti.
Sugawara è stato codardo, per una volta in vita sua, e ha deciso che il silenzio forse non sarà l’arma dei forti, ma sicuramente sarà la sua. Che non dirà una parola, né a Tanaka né a Nishinoya, di lui e Kiyoko: non sta mentendo, dice a sé stesso con fare consolatorio, sta omettendo e un’omissione non ha mai ucciso nessuno.
Ma, durante la pausa pranzo, Daichi lo guarda e, nel silenzio assordante che li separa, il capitano ha nascosto delle tacite accuse. Non lo provoca, né riesuma la conversazione, ma semplicemente lo scruta pensieroso finché, dopo un paio di minuti, Suga non riesce più a tollerarlo.
«Dillo pure, Dai-chi» borbotta, stancamente. «Prima che tu mi costringa a dirmelo da solo, cosa che sarebbe veramente imbarazzante. Lo so che sono stato…».
«Sconsiderato, stupido e infantile» completa Sawamura, con un cipiglio. «Come ti è venuto in mente, di nascondere a tutti una cosa del genere? Tanaka ti ucciderà, quando lo verrà a sapere».
«Per questo» risponde Suga, massaggiandosi le tempie. «Non lo verrà a sapere. Ciò che non sa non può ferirlo, no?».
Daichi sospira, comprendendo l’impossibilità di far ragionare il proprio compagno di squadra. Così, gli posa una mano sulla spalla, con fare paterno.
«Suga» lo richiama, serio. «Siamo corvi. Possiamo volare in alto, ma più lo facciamo e più sarà doloroso dover atterrare, quando arriverà la tempesta».
Ma Sugawara ride, ha i capelli scompigliati e aggrovigliati. «Siamo corvi, Daichi» ripete. «Siamo fatti per volare in alto».
Sawamura scuote il capo, esasperato: sembra quasi che Suga abbia da poco imparato a volare e che, per questo, sia ignaro del dolore di una caduta. È incosciente, avventato, e totalmente ubriaco di quell’amore finalmente espresso a parole, finalmente ricambiato.
E lui non può fermarlo – come fai ad arrestare un volo in picchiata? – né attutirne la caduta: così sospira e alza le mani, in segno di resa.
«Verrai a dirmi che avevo ragione» prevede. «Quando Tanaka e Nishinoya ti avranno teso un’imboscata per avere il tuo scalpo».
Suga ride e non ha percezione di quanto, invece, Daichi stia parlando seriamente. «Come sei drastico, Dai-chi» lo prende in giro. «Non è un segreto di stato, è solamente… una faccenda privata».
Sawamura sorride, ma per finta. Perché indica il cielo con una mano, mentre una nuvole oscura loro la visuale.
«Da lì sopra» indica. «Sembra facile e bellissimo».
Poi, abbassa lo sguardo sul terreno, seguito a ruota da Sugawara. «Ma cadere lì giù, Suga» continua. «Quello è doloroso come poche altre cose».
«Ti prometto che non cadrò, Daichi» risponde Suga, determinato. «Che rimarrò sempre più in alto di tutti».
Il capitano del Karasuno scuote il capo, esasperato. «Non era quello che intendevo» mormora. «Ma spero che tu non debba conoscere quel dolore».
Suga annuisce: continuerà a giocare a mantenere i segreti, specialmente quelli che lo riguardano.
 
***
 
«Puoi dormire qui, con me?».
Per una volta, è Asahi a perdere la partita al gioco del silenzio: Nishinoya ne è così sorpreso che, almeno all’inizio, fatica a comprendere le parole che ha pronunciato. Ha spaccato quella lastra di vetro che li separava, Azumane, facendola esplodere in un miliardo di frammenti – e Noya non riesce a crederci.
«Vuoi che dorma con te?» ripete, scandendo bene le parole. «Io… va tutto bene?».
Dopo aver posto quella domanda, si rende conto di quanto sia fondamentalmente idiota: è ovvio e palese che Asahi non stia bene, perché trema come se le ossa volessero bucargli la pelle e ha gli occhi lucidi di lacrime.
«Sento freddo» risponde Azumane, piano. «E… non voglio dormire da solo, stanotte».
Perché Asahi teme i suoi incubi più di ogni altra cosa: solamente in braccialetto di conchiglie regalatogli da Noya li tiene a bada – cosa succederà, se avrà direttamente Nishinoya a mandarli via?
Yū lo osserva e, qualcosa dentro di lui, si spezza definitivamente seguendo il suono di quelle parole.
«Va bene» pigola, incerto. «Se pensi che ti serva per… ricostruirti, ho promesso che ti avrei aiutato».
Azumane non dice una parola, ha il viso arrossato e gli occhi sempre più lucidi. Se parlasse, Yū si renderebbe conto che fatica a pronunciare una singola parola, come se il fiato s’incagliasse tra le corde vocali, soffocandolo.
Quando si alza – forse per preparare la cena, forse per andare direttamente a dormire: d’altronde è l’unica attività che riesce realmente a praticare – le gambe gli cedono, costringendolo ad accovacciarsi sul pavimento.
«Asahi-san!» strilla Nishinoya, piegandosi accanto a lui. Non gli verrà difficile, sostenerlo: è stranamente leggero, da quando s’è rinchiuso tra quelle quattro mura. «Ma… tu scotti5!».
Lo schiacciatore lo guarda e delle lacrime gli rigano il volto, incontrollate, mentre cerca di far leva sulle proprie gambe per alzarsi dal pavimento.
«Scusami» sussurra. «Io… non so cosa mi stia succedendo, ma non… non penso di sentirmi molto bene».
«L’ho notato» risponde Noya, tra i denti, mentre lo aiuta ad alzarsi. «Forse è meglio se ti porto a dormire».
Non è semplice, mettere un passo avanti al precedente, ma Nishinoya è cieco di determinazione e muto di terrore, così riesce a portare Asahi fino al suo letto, dove il ragazzo si stende a fatica. Trema così tanto che i denti sembrano volergli saltare via, per la forza con cui s’urtano tra di loro.
«Hai delle medicine?» domanda Yū, pronto a dirigersi verso il bagno. «Altrimenti posso andarle a comprare».
Azumane lo guarda e, per un momento, Noya si domanda se lo stia vedendo per davvero: ha gli occhi annebbiati, sembra quasi che persino distinguere i contorni di camera sua gli riesca difficile ma, quando Asahi riesce finalmente a pronunciare qualche parola, si rende conto che forse sono solamente altre lacrime.
«Non…» mormora il ragazzo, passandosi una mano sulla fronte. «Non andartene».
Il libero sospira – ha il cuore frantumato e spezzettato, come farà a ricomporlo? – mentre si siede sulla sponda del letto. Qualcosa in lui gli urla, assordandolo, che dovrebbe prendergli la mano, ma non ne ha la forza.
Perché Asahi lo guarda ed è così stanco e affaticato da fargli venire voglia di urlare, mettendo una fine definitiva al gioco del silenzio: non lo fa, perché al contempo Asahi trema così tanto che potrebbe spezzarsi e lui, d’infrangerlo anche con le parole, non ne ha la forza.
«Non me ne vado» mormora, infine. «Te lo prometto, non me ne andrò».
Perché Yū non scivola via come acqua di scolo, né è fragile come l’ennesima conchiglia incrinata: silenzioso siede sulla sponda del letto e, tra le coperte color mattone, una parte di sé – quella meno ostinata e più riflessiva – ha finalmente capito.
Il gioco del silenzio ha una sola regola ben precisa: non parlare mai. Ma perché Asahi si dovrebbe rifiutare di pronunciare anche soltanto una parola, se non fosse perché le ha ormai perse tutte quante?
In quel silenzio forzato, finalmente Noya trova la risposta che cercava e, se solamente avesse la forza di verificarla, la troverebbe in tutta la propria dolorosa chiarezza lì, in quella casa. Forse nel mobiletto del bagno, appena sopra il lavandino, o forse nascosta nell’armadio – ma, comunque, a pochi passi da sé.
«Asahi-san» lo chiama, scuotendolo appena. «Tu… la sera devi prendere delle medicine, non è vero?».
Azumane annuisce, senza muovere la testa dal cuscino, ma con una mano indica il comodino, di fianco a sé.
«Sono lì» mormora, piano. «Mi prenderesti un bicchiere d’acqua?».
Yū annuisce, mentre dal cassetto del comodino rinviene una scatola in cartone bianca. Su di essa, un nome che non comprende e delle avvertenze che non riesce a leggere: così, porge la scatola ad Asahi, dirigendosi lentamente verso la cucina.
Lì, si costringe a sedersi su una sedia, mentre gli tremano le mani sullo schermo del telefono: sul motore di ricerca, digita – facendo attenzione a non sbagliare la dizione – una sola parola. Remeron.
 
«Mirtazapine, sold under the brand name Remeron among others, is an antidepressant of the atypical antidepressants class primarily used to treat depression. Its full effect may take more than four weeks to occur, with some benefit possibly as early as one to two weeks.
Often it is used in depression complicated by anxiety or trouble sleeping»6.
 
A Noya si ferma il cuore, mentre scorre velocemente i risultati di quella pagina: non c’è spazio per gli equivoci, per un difetto di comprensione o per un’ipervalutazione della situazione. Sono antidepressivi.
Si deve aggrappare alla sedia, per impedirsi di piombare giù e rannicchiarsi sul pavimento. Non è la notizia, ma quella consapevolezza dolorosa che gli striscia lungo il collo, in una serpentina bruciata e rovente.
Non gliel’ha detto. Non si è sentito abbastanza coraggioso per confessargli che stava così tanto male da non potercela più fare da solo.
Asahi Azumane prende antidepressivi e Noya l’ha scoperto per caso, senza che a lui passasse minimamente per l’anticamera del cervello di dirglielo.
 
***
 
Kiyoko è bellissima.
Sugawara si sorprende più volte ad osservarla, incantato, mentre camminano insieme, mentre siedono tranquilli a studiare e, alla fine, persino durante l’allenamento, cosa che causa una serie di incontri spiacevoli tra la palla e il suo volto. Ma ciò non basta per farlo desistere, così che Daichi, che lo tiene d’occhio come un padre o un fratello maggiore, è costretto a tirargli una pacca sulla spalla, intimandogli di concentrarsi.
«Ti si legge in faccia» gli sussurra, occhieggiando a Tanaka e Nishinoya. «Meno male che volevi mantenere il segreto, non oso immaginare se avessi voluto dirlo».
Suga alza gli occhi al cielo, sinceramente divertito. «Piantala, Dai-chi» cantilena. «Cerca di essere contento per me».
Daichi scuote il capo, sollecito. «Lo sono» ammette. «Ma…».
Ma prima o poi dovrai atterrare da quel mondo di nuvole in cui ti sei nascosto, pensa, e allora ti farai veramente male: più sali in alto e più diviene difficile atterrare. E Tanaka è quella nuvola, in una giornata di sole, che ti costringe a planare sul suolo secco e arido.
«Sempre ma» commenta Suga, gettando un pallone nel cesto. «Dovrei cominciare a chiamarti papà».
Siamo corvi, Daichi – quelle parole risuonano nelle orecchie del capitano del Karasuno – siamo fatti per volare in alto. Ma, guardando lo sguardo perplesso con cui la squadra occhieggia a Kiyoko e Sugawara, non riesce a convincersene.
«Se fossi tuo padre, forse mi ascolteresti» risponde, calmo. «E noteresti che ti stanno guardando tutti».
Suga sorride ma, guardandosi attorno, si rende conto che Tanaka ha un’espressione che inquieta.
 
***
 
«Pronto, Daichi?».
La voce di Yū risuona disperata, nella cucina deserta della casa di Azumane, disperata e sola: ha perso l’ennesima partita al gioco del silenzio se non fosse che, questa volta è rimasto solo a condurre quella scommessa contro sé stesso. E ha perso, perché il silenzio da solo è ancora più teso e opprimente di quanto non lo fosse quello sperimentato con Asahi.
«Nishinoya?» domanda il capitano del Karasuno, dall’apparecchio telefonico. «Sono le otto di sera, si può sapere cosa hai combinato, questa volta?».
Per un momento, Noya sorride, al pensiero che Daichi possa avere talmente poca fiducia in lui, ma è solamente un istante che gli riscalda il volto. Perché poi il telefono e la consapevolezza che esso comporta torna a pesargli in mano come un macigno.
«Io…» mormora, piano. «Sono a casa di Asahi».
Daichi sospira, piano. «Non dovresti tornare a casa?» domanda, con fare paterno. «Inizia a essere tardi».
Ma Yū, che era riuscito a rimanere calmo e controllato fino a quel momento, si fa scappare un rumoroso singhiozzo ed è costretto a respirare profondamente, prima che le lacrime lo sommergano.
«Noya?» domanda Sawamura, preoccupato. «Mi spieghi cosa sta succedendo, per favore? Non costringermi a venire fino a casa di Asahi a quest’ora».
«Io… ho scoperto una cosa» mormora Nishinoya, cercando di ritrovare le parole. «Asahi… prende delle medicine».
Un attimo di silenzio, Daichi si schiarisce la voce, a disagio. «Le prendiamo tutti, Noya, non sarà niente di grave» dice, infine. «Sarà raffreddato, o…».
Yū si copre il viso, imponendosi di continuare a respirare. «No» mormora. «Io… le ho cercate su internet, sono… sono antidepressivi, Daichi».
Per un lunghissimo istante, il capitano del Karasuno non riesce a pronunciare nemmeno mezza parola: Noya sa di averlo ferito, svelandogli che Asahi ha deliberatamente nascosto a tutti loro qualcosa di così terribile. Ti avremmo aiutato, avrebbe voluto urlare. Perché devi voler fare sempre tutto da solo?
«Antidepressivi?» ripete Daichi, improvvisamente serio. «Ne sei sicuro?».
Ma Nishinoya singhiozza così forte che Sawamura non riesce nemmeno più a dubitare di quelle parole.
«Rimani lì» dice, infine. «Stai con lui. Domani mattina è sabato, io e Suga ti raggiungeremo per capire cosa succede ad Asahi. Va bene?».
Yū annuisce, sebbene Daichi non possa vederlo. «Va bene» mormora. «Ti prego, venite presto».
Il capitano del Karasuno sospira, cercando di non fare intendere a Nishinoya quanto quella conversazione lo abbia turbato.
«Stai con lui» ripete.
Stai con lui.
Nishinoya respira profondamente, cercando di far affluire l’aria ai polmoni: si era tanto interrogato sul peso sul petto che Asahi diceva di sentire e che non aveva mai pienamente compreso. Finché, adesso, non la avverte anche lui, quell’oppressione.
Quando sale le scale, Asahi è ancora sveglio, avvolto in una coperta e guarda fuori dalla finestra. Noya gli porge un bicchiere d’acqua, a disagio, mentre lo schiacciatore inghiotte una pillola, cercando di nascondere la scatola.
«Noya» lo chiama, mentre il libero si distende al suo fianco, le mani nascoste sotto il capo. «Io…».
Asahi fa un respiro profondo, mentre investe Nishinoya con il proprio sguardo, drammaticamente intenso.
Non riesce a ricambiare quell’occhiata, Yū, ma ne avverte il peso – è anch’esso opprimente. Così guarda il soffitto, aspettando che Azumane si decida a parlare.
«Mi dispiace» soffia il ragazzo, infine. «Io… l’ho capito subito, quando sei tornato».
Noya gli restituisce un’occhiata interrogativa, voltando appena il volto nella sua direzione, ma non chiede. Non ne ha la forza.
Stai con lui. Ma Asahi ha mentito, no, ha omesso qualcosa di così fondamentale come il fatto che avesse bisogno di aiuto. Chiarendo, in questo modo, che l’aiuto che gli serve non è quello di Nishinoya.
«So che lo sai» mormora Asahi, piano. «Mi dispiace così tanto».
Ha la voce macchiata di pianto, ma nella mente di Noya s’insegue e s’affanna un singolo stralcio di pensiero, insensato e persistente, che annacqua ogni altro ragionamento.
Asahi ha rotto il silenzio e ha perso la partita.


 
Rieccomi qui (e vi ricordo che il prossimo capitolo sarà online il 28 ottobre, quindi aspettatemi che arrivo puntuale).
Vi confesso che questo capitolo è uno dei miei preferiti, quindi spero che qualcuno voglia darmi un feedback, ma accetto sinceramente anche solamente le visualizzazioni, mi basta sapere che qualcuno legge questa storia.
Prima di lasciarvi alle citazioni di questo capitolo, volevo far presente che la long partecipa all'iniziativa del gruppo Facebook Caffé e Calderotti, dal titolo "Gioco di scrittura", con le tracce Angst 7 (Nishinoya) e Romantico 4 e 8 (Sugawara e Shimizu).
Le note di oggi sono le seguenti:

5La febbre psicosomatica esiste e ovviamente non è una mia invenzione
6Anche il Remeron non è un nome a caso, ma è frutto di una selezione tra gli antidepressivi, perché me ne serviva uno che avesse effetto rapito e servisse anche per ansia e disturbi del sonno. La citazione proviene dalla pagina di wikipedia che è effettivamente il primo risultato di Google.

Grazie per avermi letta!
Gaia


 

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Capitolo 4
*** 4: Dietro le bolle di sapone ***


4. Dietro le bolle di sapone

 
Tutto è parimenti vano nella vita umana, le gioie come i dolori. Ma è meglio che la bolla di sapone sia dorata o azzurra anziché nera o grigia.
(Nicolas de Chamfort)

 
Nell'amore è sempre un po' di demenza. Ma anche nella demenza è sempre un po' di ragione. E anche a me, che voglio bene alla vita, pare che tutti quanti tra gli uomini abbiano della farfalla e della bolla di sapone, sappiano meglio di tutti che cos'è la felicità. Veder vagheggiare queste animule lievi scioccherelle leggiadre volubili - è qualcosa che induce Zarathustra alle lacrime e al canto.
(Friedrich Nietzsche)
 
 
Quando Yū apre gli occhi, dopo una notte quasi totalmente insonne, si ritrova a fronteggiare lo stesso peso sul petto con cui s’era addormentato la sera prima. Perché Asahi, almeno nel sonno, sembra in pace – mentre, in Noya, una tempesta cerca di spazzargli via il cuore, nella veglia come nell’onirico.
Nel sonno, Azumane si è rannicchiato su sé stesso e ha cominciato a respirare pianissimo, come se stesse ancora giocando al gioco del silenzio. Ha una mano tesa verso Noya, quasi come se desiderasse fargliela sfiorare, nell’ennesimo contatto inutile e insensato che potrebbero sperimentare.
Alle otto di mattina Yū non riesce più a guardarlo – ha gli occhi talmente pieni di quella parola, Remeron, da non poterne più – e si costringe ad uscire fuori, per strada, a farsi ferire dall’aria gelida del mattino. D’altronde, sarebbe solamente un altro graffio in una mappa già piena di cicatrici.
Fuori dalla porta fa freddo, ma a Nishinoya tremano solamente le mani mentre si siede sul muretto che circonda la casa, con i piedi a penzoloni.
«Noya?» una voce lo scuote, rischiando di farlo cadere all’indietro. «Si può sapere cosa ci fai fuori, al freddo, in maglietta e pantaloni?».
Daichi sembra parecchio infuriato, sebbene Sugawara lo stia tirando per un braccio, cercando di calmarlo.
«Su, Dai-chi» mormora il palleggiatore, sorridendo di sbieco a Yū. «Non mi sembra il caso di rimproverarlo a quest’ora».
«Bene» sbuffa il capitano del Karasuno, chinando il capo. «Ma guai a te se salterai anche soltantoun allenamento perché ti sei raffreddato».
Nishinoya annuisce, senza entusiasmo. Per la prima volta in vita sua, l’idea di un allenamento non lo riempie di eccitazione ma, al contrario, di crescente disagio. Perché lo terrorizza l’idea di lasciare Asahi solo con i propri pensieri, nascosto sotto le coperte da un mondo che potrebbe non voler vedere più.
Daichi sembra capirlo, perché gli poggia una mano sulla spalla, con fare protettivo. «Tranquillo» mormora, ma tranquillo non è nemmeno lui. «In qualche modo aiuteremo Asahi a tirarsene fuori».
«Non sei solo» gli fa eco Suga. «Noi siamo suoi amici, lui… se ha bisogno di noi, non ci tireremo indietro».
Yū sorride ma, dentro di sé, sta ancora tremando.
 
***
 
Quando Asahi si sveglia, è solo.
Con un frammento di pensiero e di rimpianto, si trova a sfiorare la parte di letto dove ha dormito Noya, scoprendola fredda. Una parte della sua mente gli suggerisce che non dovrebbe stupirsi, che il ragazzo sia scappato: ha qualcosa di rotto nella testa e nel cuore, Asahi, di rotto in maniera irreparabile. Non basta una pillola – che magica purtroppo non è – non bastano le sedute con lo psicologo e, soprattutto, non basta nemmeno la volontà.
A cosa servirebbe, poi, voler uscire da quel tunnel per rimanere fragile come una bolla di sapone?
Nella casa, i suoi passi risuonano come un requiem, come la campana a morto e un battito sul punto d’arrestarsi per sempre.
«Ben svegliato» ad Asahi si ferma il cuore, nel comprendere che Noya è ancora lì. «Hai dormito un sacco, Asahi-san».
Azumane vorrebbe rispondere ma, alzando lo sguardo, incontra gli occhi di Daichi e Sugawara che lo scrutano, delusi.
«Che ci fate qui?» biascica, sedendosi su una sedia. «Io… li hai chiamati tu?».
Yū china il capo, ma non dice una parola. È Suga a parlare, dei tre, avvicinandosi leggermente.
«Asahi» lo chiama. «Noi… siamo qui per aiutarti. Come tuoi amici, se non vuoi più chiamarci compagni di squadra».
«Non potete» tossisce lui, a capo chino. «Non posso nemmeno io, quindi come potreste farlo voi?».
«Non puoi dirlo» risponde Daichi. «Non ci hai nemmeno provato, a chiedere aiuto. A me, a Suga, a Nishinoya… avresti potuto chiedere a chiunque di noi».
Ma non l’ho fatto, pensa Azumane, guardando il pavimento. Silenziosamente si domanda perché non ne abbia mai avuto il coraggio ma, guardando Yū, gli sfugge una smorfia di dolore e, allora, la risposta rimbomba forte e chiaro nella sua mente.
Perché la ferita s’infetta di un dolore insopportabilmente pulsante, quando non ci sei. E come potrebbe, Nishinoya, esserci sempre?
«Asahi-san» mormora Noya, piano. «Per favore, dicci come fare per aiutarti».
Ma Asahi li guarda tutti, soppesandoli con uno sguardo triste e stanco, e scuote il capo. Poi si alza, allontanandosi dalla sala e comincia a salire le scale a passo pesante, l’ennesimo rumore che rispecchia solamente il tremito che gli agita l’anima nuda e cruda, che rimbomba nel cervello come una preghiera muta e sorda.
Yū potrebbe piangere, se non gli si fosse gelato il cuore.
 
***
 
«Noya» Suga lo afferra per un braccio, impedendogli di correre via, verso un luogo dove potrà finalmente permettersi di piangere. «Aspetta».
Yū lo guarda, ha il respiro affannato. Vicino a loro, un bambino gioca a soffiar via delle bolle di sapone, tonde e lucide come frammenti di ricordi.
Perché questo è rimasto a Noya, frammenti di ricordi: perché può cercare Asahi in palestra o persino a casa sua, ma lui non c’è – non c’è – ed è un’assenza che diviene sempre più pesante. Lui non c’è perché il sapone ha mascherato ciò che nasconde dietro: una bolla non è mai trasparente, è una lente che non ingrandisce, deforma soltanto. E, dietro di essa, vi era un Asahi diverso, che non avrebbe mai potuto immaginare.
«Lo capisco» mormora Daichi, di fianco al palleggiatore. «Ma… non è colpa sua, non… tornerà indietro, io ho fiducia».
«Come fai ad avere fiducia?» sibila Yū, assottigliando lo sguardo. «Come fai a dire che tornerà se, lo hai visto. Non è nemmeno più lui».
«Perché quando ami una persona» risponde Sugawara, placidamente. «Sei disposto a perdonargli anche il non essere più in sé».
Nishinoya sta per dirgli che, no, che lui non è disposto a permettere ad Asahi di lasciarsi scivolare via, di perdersi in quel mare oscuro in cui vorrebbe lasciarsi annegare. Che non può perdonargli di non aver chiesto aiuto.
Vorrebbe inondare Suga di parole, delle proprie ragioni ma, per un motivo ben preciso, quando apre la bocca non esce alcun suono.
Quando ami una persona. E la ragione è esattamente quella lì, che lo costringe a cavarsi un suono rauco e insensato, che lo costringe a tossire via le parole.
«Quando ami una persona?» ripete, soppesando quei suoni innaturali. «Non so cosa tu stia implicando, ma io non…».
Sono parole che s’infrangono contro gli occhi di Sugawara che, limpidi e sinceri, lo scrutano con fastidiosa comprensione. Ha sfondato un muro, Suga, con quelle parole – ed è stato insensatamente doloroso, sentirsi come un puzzle sgretolato e privo di immagini. Come si risolve un rompicapo che è privo di colori e persino di forme?
«» lo interrompe Suga, pronunciando il suo nome. «Sono stato indelicato ma… Riflettici un attimo, non… Non devi dirlo a noi, ma… Riflettici».
«No!» lo interrompe Noya, abbassando lo sguardo. «Non voglio ascoltarti, tu lo fai perché… perché pensi che io e Tanaka siamo due stupidi».
A Sugawara si gela il sangue nelle vene, nel sentire quelle parole – siamo corvi, siamo fatti per volare, ha detto. Ma, a quanto pare, l’atterraggio di emergenza risulta essere ormai inevitabile.
«Non…» borbotta. «Certo che non lo penso».
«E allora, visto che siamo amici, perché ce lo hai tenuto nascosto?» urla Nishinoya, fuori di sé. «Fai a me la predica su Asahi, ma non sei tanto diverso da lui».
Daichi sospira – siamo corvi, siamo fatti per volare – e mette una mano sulla spalla del libero, cercando di placarlo.
«Nishinoya» lo chiama, calmo. «Suga ha sbagliato» si ferma a fulminare con lo sguardo Sugawara, pronto a ribattere. «Avrebbe dovuto dirvelo. Ma temeva che non avreste avuto una reazione…pacata, ecco».
Ma Yū li guarda ed è deluso in una maniera che quasi fa male: non è solamente perché arde, il fatto che Suga abbia omesso la propria relazione con Shimizu, ma è anche per Asahi, per l’amicizia e tutto il resto.
«Capitano» mormora, acido. «Non verrò agli allenamenti, domani. Non… non verrò più. Non è il mio posto, con voi».
«Nishinoya» lo richiama Daichi, severo. «Non buttare via il tuo futuro, per favore. Domani mi aspetto di trovarti in palestra».
Ma Nishinoya scuote il capo, ed è sinceramente disperato. «Ho sbagliato» sussurra. «Non sarei mai dovuto tornare, senza Asahi-san. Ho rovinato tutto».
 
***
 
Tanaka è inquieto.
Alcuni studi dicono che i corvi siano in grado di percepire l’arrivo di una tempesta7 e, così, iniziano a scendere verso il terreno: in quel momento, Tanaka è planato giù, a capofitto, come se sentisse già la pioggia sfiorargli il capo.
Lo hanno notato tutti, che Nishinoya non si è presentato agli allenamenti. L’ha notato Daichi, che ha stretto le labbra e i pugni, fulminando Tsukishima prima che potesse fare osservazioni in merito.
L’ha notato Sugawara, che ha gettato un’occhiata a Shimizu e ha taciuto, con aria colpevole.
E, infine, lo ha notato anche Hinata, che ha preso a domandare a chiunque che fine abbia fatto il libero. Solamente Kageyama non domanda, ma osserva Suga e tace, tirando uno scappellotto a Shōyō quando fa per avvicinarsi ai due senpai per porre anche a loro la medesima domanda.
«Tanaka-san» urla, con tono lamentoso. «Ma che fine ha fatto Nishinoya? Se non arriva come faremo a cominciare?».
«Nishinoya oggi non verrà» risponde Daichi, atono. «Dovremo fare a meno di lui, Hinata, mi dispiace».
Il rosso spalanca gli occhi, stupito. «Oh» mormorò, spalancando la bocca. «Deve essersi arrabbiato proprio tanto, allora».
Istantaneamente, tutta la squadra gli punta gli occhi addosso. Solamente Kageyama si lascia sfuggire uno sbuffo e uno sguardo esasperato.
«Taci, idiota» sibila. «Come si fa a non sapere mai quando è il momento di stare in silenzio?».
«Idiota ci sarai tu!» replica Hinata, digrignando i denti. «E poi so quello che dico! Ne sono sicuro che Nishinoya sarà furioso perché ha scoperto…».
«Shōyō, davvero» tenta di fermarlo persino Yamaguchi. «Non penso ci sia bisogno di spiegazioni, avrà semplicemente preso un raffreddore».
«Perché ha scoperto» continua il ragazzo, imperterrito. «Di Suga-san e Shimizu».
Quell’affermazione cade nel vuoto: l’unico rumore che si sente, nella palestra, è una risatina forzata di Sugawara e un sospiro del capitano.
«Ma che dici, Hinata» ridacchia Suga, agitando la mano. «Io e Shimizu, questa è veramente bella».
Ma a Tanaka, che osserva Shimizu come se fosse in grado di trovare una conferma nel suo sguardo impassibile, tremano le mani così tanto che è costretto a stringerle in un pugno, fino a farsi sbiancare le nocche.
«Sugawara» sibila, senza usare il soprannome del compagno di squadra. «Hinata sta dicendo la verità?».
Nella palestra tutto tace, Suga non ha il coraggio di dare quella conferma che tutti quanti sembrano aspettarsi. Ma Shimizu lo sta guardando e, con lo sguardo, sembra urlare un a gran voce, costringendolo a chinare il capo e a sospirare, rassegnato.
«Sì» mormora Suga, guardandosi i piedi. «Sta dicendo la verità».
Si aspetta una sfuriata, rabbia cieca e sorda, forse persino un pugno. Ma Tanaka lo guarda – ha la stessa espressione di Nishinoya, due giorni prima – ed esce la palestra a grandi passi.
 
***
 
«Ciao, Noya» ad Asahi trema la voce. «Sono ancora io, Asahi. Io non… quando puoi, richiamami. Per favore».
Ha detto quella frase talmente tante volte che, ormai, è divenuta una parte fondamentale di lui; la pronuncia davanti a un pranzo che non ha voglia di mangiare, sul letto mentre osserva il soffitto,  e anche mentre guarda il telefono sperando in un messaggio che non arriva mai.
Ma Nishinoya non lo richiama e, in tutta la casa, vi è un silenzio che assorda. Asahi vorrebbe lasciar perdere, chiudersi di più in sé stesso o semplicemente scoppiare in una pioggia di goccioline d’acqua saponata, ma non riesce. Può accettare di perdersi, di lasciarsi andare, ma non può pensare la medesima cosa di Nishinoya.
Eppure, il telefono non squilla mai. Sono passati tre giorni, da quando Daichi e Suga hanno provato a parlargli, tre giorni in cui Asahi s’è macerato in una nuvola di insoddisfazione e rimpianto finché, all’alba del lunedì mattina, ha deciso che doveva parlargli.
Noya ignora le sue chiamate, forse troppo deluso da lui per avere voglia di rispondere: d’altronde, non avrebbe nemmeno torto, a non volergli parlare. Asahi l’ha lasciato con gli occhi arrossati dal sapone e senza belle illusioni tra le mani – le ha scoppiate tutte con la punta delle dita – e, adesso, cosa rimarrà ad entrambi?
«Ciao, Noya» ad Asahi continua a tremare la voce. «Sono ancora io, Asahi. Io non… quando puoi, richiamami».
Per Nishinoya, la tentazione di rispondere è fortissima: ha preso il telefono in mano, trovandovi una chiamata persa dietro l’altra, così tante volte che gli è difficile contarle. Ma, ogni volta che quello ha preso a suonargli in mano, s’è sempre costretto a metterlo giù.
Ma Asahi continua a richiamarlo, facendo risuonare quella terribile suoneria in tutta la sua stanza, così che Noya è costretto a nascondere la testa sotto il cuscino, per non sentirla più. Vorrebbe solamente gridargli che non vuole parlargli, di lasciarlo perdere. Ma non riesce.
«Pronto?» bisbiglia, incerto. «Asahi-san?».
Ma non risponde nessuno. E, adesso che il telefono suona a vuoto, con Noya che trema di fronte a quel silenzio, cosa è rimasto di entrambi?
La bolla di sapone è scoppiata, riempendo il pavimento di colori e acqua saponata.
 
***
 
«Suga-san!».
Hinata è una bolla di sapone: colorata e allegra, vive in un mondo dove la forma e i riflessi sono in ogni cosa e, per riportarlo sul pianeta Terra,  bisogna farlo scoppiare. «Suga-san!» ripete. «Non dovresti dire a Tanaka che si sta perdendo l’allenamento?».
Sugawara sospira, di fronte a quell’insano ottimismo, mentre Kageyama si avvicina a grandi passi, pronto ad afferrare il centrale per la collottola e a scuoterlo così forte da fargli finalmente riavviare il cervello. Ma Suga alza la mano, per fermarlo.
«Perché non vai tu?» suggerisce. «Sicuramente Tanaka preferirebbe vedere te, piuttosto che me».
Ma Shōyō spalanca gli occhi, come se qualcuno gli avesse rivelato la verità che si cela dietro il mondo, e si sporge per dare un’energica pacca sulla spalla del palleggiatore, sorridendo entusiasticamente.
«Dobbiamo vincere!» gli ricorda. «La pallavolo è più importante delle liti per una ragazza, non credi?».
Pronuncia quell’ultima parola con reverenza, forse anche lui – al pari di Tanaka e Nishinoya – pensa a Shimizu come sia intangibile. Una divinità macchiata e crepata dalla sua presenza: l’ha spogliata, dall’essere una Dea, l’ha spogliata e le ha lasciato l’anima nuda esposta agli sguardi di chi l’ha sempre venerata. Ma, nonostante tutto, Sugawara non riesce a pentirsene – forse, è l’unica cosa che abbia mai veramente desiderato.
«Hai ragione» mormora Suga, incerto. «Ma… non posso comunque andare a parlare con Tanaka, adesso. Aspetterò che si sia calmato».
Hinata vorrebbe continuare a parlare, ma uno sguardo di Kageyama lo costringe a tacere. Distrattamente Sugawara si trova toccato dal pensiero che, quella meravigliosa bolla di sapone, s’incagli perfettamente tra le palle di Tobio, quasi come fosse l’ennesima palla da alzare – e solamente lì si quieta e tace, forse per paura, forse per una consapevolezza che a Nishinoya manca ancora.
«Ma, se mai dovessi farlo» completa Suga, con sincerità. «Sarai il primo a cui lo farò sapere».
Shōyō annuisce, ma non sembra completamente convinto.
 
***
 
L’ha infettato, quel silenzio assordante.
Inizialmente era durato solamente pochi secondi – perché Noya vive nel bisogno patologico di fare chiasso – ma, poi, piano piano ha mutato forma e s’è evoluto, propagandosi come una malattia nel suo animo. Ed è durato minuti, prima, e ore, poi.
Ma Yū non aveva niente da dirsi, così è rimasto muto in un silenzio che assorda e che, probabilmente, non sarebbe stato in grado di ascoltarlo. Solamente una lucina di consapevolezza si è accesa, ogni tanto, in quel tempo slargato e improvvisato che ha preso il  posto delle ore dedicate agli allenamenti.
Asahi non ha più chiamato. E lo sa perché, sebbene abbia tolto la suoneria al telefono, esso non si è illuminato rischiarando fastidiosamente la camera da letto. E nemmeno lui ha avuto il coraggio di richiamarlo: d’altronde, non avrebbe parole da rivolgergli.
Suga gliele ha tolte, le ha soffiate via come l’ennesima bolla di sapone che gli è scoppiata davanti le mani, gliele ha tolte e Noya non ha idea di come fare per recuperarle. Perché è scivolosa e insensata, quella situazione, l’ha appiccicato al pavimento e, adesso, non riesce più a muovere un passo da lì.
Forse, Asahi non chiamerà più e Yū dovrà sempre fare i conti con quell’assenza che, nella penombra che lo avvolge come una coperta, si fa sempre più pressante.
Poi, la suoneria del cellulare gli frantuma le ossa di paura. A Noya tremano le mani, mentre si appresta a rispondere con la consapevolezza che, Azumane, appena sentirà la sua voce porrà fine alla chiamata.
«Pronto?» mormora, sentendo il respiro di Asahi dall’altro capo della linea. «Asahi-san?».
Una parte di Yū, invasiva e infestante come una malattia, pensa distrattamente che può bastargli anche quello: sapere che Asahi è vivo, che respira ancora e ha abbastanza forza per continuare a telefonargli.
«Noya» mormora Asahi, così piano che, per un momento, il libero dubita di averne davvero udito la voce. «Io… ti disturbo?».
«No» risponde Yū, incerto. «Non mi disturbi, io… oggi non sono andato agli allenamenti».
Azumane non domanda. Forse, ha percepito quell’incertezza – quell’incrinatura – nella voce di Noya che lo ha fatto desistere dal porre quella domanda cui, il libero, non potrebbe mai voler rispondere.
«Oh» mormora, invece. «Posso… posso fare qualcosa?».
Nishinoya ingoia una risposta sarcastica – e come potresti? – e scuote silenziosamente il capo, prima di rendersi conto che Asahi non può vederlo.
«No» pigola. «Sto bene. Ti serviva qualcosa?».
Asahi sospira come se anche quel respiro fosse l’ennesimo, inutile, peso che la vita gli ha lanciato addosso.
«Sì» ammette, a fatica. «Ho bisogno di aiuto».
A Yū, per un attimo che si rivela pressocché infinito, manca il respiro.

 
Buongiorno a tutti, eccomi qui con il capitolo quattro (ricordo che il prossimo aggiornamento sarà: 2 novembre). La vicenda inizia pian piano a complicarsi, com'era ovvio pensando che ci sono ancora undici capitoli che aspettano di essere postati - oggi mi sento spiritosa.
E niente, nel capitolo vi è una singola nota, che è questa:

7Anche questa non è chiaramente una mia invenzione, ho solo aggiunto che anche i corvi lo fanno

Grazie per avermi letta e alla prossima.

Gaia

P. S. Se a qualcuno dovesse interessare una Kageyama/Suga Soulmate!AU, stia sintonizzato su questo profilo, dovrebbe uscire al più tardi dopodomani.

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Capitolo 5
*** 5: Una vita negli origami ***


5. Una vita negli origami

 
La musica è un po' come un origami.
Se lo spieghi, è solo un foglio.
(Caparezza)

 
Nulla è come appare. Proprio come un pezzo di carta può essere più di un pezzo di carta negli origami (…).
(Chris Bradford)
 
 
«Si può sapere cosa diamine stai combinando, adesso?».
Tsukishima è letteralmente esasperato, dai drammi e dalle stranezze dei suoi compagni di squadra. E Hinata è sicuramente il primo nella classifica delle stranezze, fatto che lo fa letteralmente uscire dai gangheri, ogni singola volta che lo trova impegnato nell’ennesima stramberia.
Ma, dalla pausa pranzo alla fine dell’allenamento, il rosso si è rinchiuso in un silenzio concentrato che, se inizialmente aveva spinto Kei a ringraziare il fato o la provvidenza, sul finire della giornata lo esaspera e basta.
«Sto facendo un cigno!» esclama Hinata, alzando lo sguardo dalla matassa informe di carta con cui sta cincischiando. «Guarda, a te non sembra un cigno?».
Tsukishima sospira, cercando di non domandarsi quale fottutissimo problema dimori nella testa di Hinata, chinandosi per osservare meglio la creazione del proprio compagno di squadra.
«No» dichiara, infine, facendo piombare Shōyō nello sconforto. «Sembra più una… credimi, non lo vuoi sapere».
Il rosso gonfia le guance, esasperato, guardando con odio la carta stropicciata tra le mani del compagno di quadra. «Maledetto Kageyama» sibila. «Ma non riuscirà a battermi, questa volta».
Tsukishima alza gli occhi al cielo, restituendogli la carta. «Adesso fate le gare di origami?» domanda, con malcelata sufficienza. «Davvero?».
Ma Hinata non sembra cogliere il sarcasmo, così annuisce, concentrato. «Certo che sì» risponde, azzardando una piega. «Kageyama ha detto che per giocare bene bisogna avere pazienza, come quando si piega un origami».
«E tu hai pensato fosse una sfida?» domanda il biondo, senza mutare tono. «Era una metafora, Hinata, anche se dubito tu sappia cosa sia».
Il centrale scuote le spalle, sempre più concentrato. «Kageyama ha detto di saperli fare» risponde. «Quindi devo farli più belli dei suoi».
Tsukishima si passa una mano sul viso, esasperato, ma viene interrotto da Sugawara prima di poter far notare a Hinata quanto, la sua, sia un’idea fondamentalmente stupida.
«Andiamo, Tsukishima» lo rimprovera il palleggiatore, allegramente. «Lascia stare Hinata, sta solamente coltivando altri hobby, che male c’è?».
Il biondo non risponde ma, dentro di sé, pensa che non si tratta di male ma che, piegare un pezzo di carta, altro non è che cercare di dare forma alle spiegazzature che la vita vi ha inciso. E, al pari di Hinata, la vita di Sugawara è una palla di carta stracciata e piegata senza grazia e senza criterio. Ma, questo, si trattiene dal dirlo.
Che senso hanno, gli origami? Se li apri, sono solamente l’ennesimo foglio bianco e spiegazzato.
 
***
 
Non ha esitato a vestirsi e a correre fuori di casa, quando Asahi gli ha detto di aver bisogno di lui, non ha tentennato nemmeno per un secondo. Ha la maglia stropicciata e i capelli spettinati ma, mentre corre per le strade quasi vuote, a Yū non potrebbe importare meno.
In un angolo della sua mente, percepisce il discorso insensato e incancellabile di Sugawara – quando ami una persona – che non gli lascia prender fiato.
Quando finalmente arriva a suonare il campanello, Asahi è già dietro la porta, nascosto nel buio.
«Ciao» mormora. «Scusami se ti ho fatto correre fin qui, io… non volevo rimanere da solo».
Nishinoya abbassa lo sguardo, cercando di ignorare il fatto che, sebbene non lo veda da nemmeno una settimana, Asahi sembra ancora più magro e nevrotico. Anche i suoi capelli sembrano secchi e spenti, così come lui s’è seccato e spento da quando s’è rinchiuso a chiave nella propria mente.
«Non importa» risponde, piano. «Ero a casa».
«Ti va…» mormora Asahi, indicandogli le viscere di casa sua. «Ti entrare? I miei sono fuori per un viaggio di lavoro, non torneranno prima di lunedì prossimo».
Yū si ritrova a spalancare la bocca: sa bene di quanto i genitori del suo ex compagno di squadra non siano particolarmente presenti ma, facendo silenziosamente il conto di giorni, si rende conto che ne passeranno sei di fila a viaggiare verso chissà dove.
«Ma oggi è martedì» commenta, stupido. «Vuol dire che…».
«Lo so» mormora Azumane e, per la prima volta da giorni, sorride. «Martedì è il giorno in cui mi dici che manco a tutta la squadra e vorreste che io tornassi ad allenarmi con voi».
Nishinoya spalanca la bocca, stupito. «Te ne sei ricordato» mormora. «Io non credevo, che ci saresti mai riuscito».
Dentro di sé, qualcosa in Noya s’è messo a urlare, cercando di attirare la sua attenzione: è un sentimento stracciato e spiegazzato, un buffo origami impolverato – a forma di cigno – che svolazza tra i prati appassiti della sua mente. Ha la voce di Sugawara.
«Asahi-san» lo interrompe, prima che possa ribattere. «Potrei farti una domanda?».
Lo schiacciatore annuisce, perplesso, mentre scivola su una delle sedie della cucina senza distogliere lo sguardo dal proprio interlocutore.
Yū respira – Quando ami una persona – e si aggrappa al tavolo di legno, come se da quello potesse dipendere la sua stessa esistenza.
«Sii sincero, però» gli impone, duramente. «Tu mi perdoneresti, se non fossi più in me? Se volessi solamente lasciarmi scivolare via».
«Lo farei» risponde Asahi solennemente, passandosi una mano tra i capelli, a disagio. «Ma cercherei comunque di tirarti fuori da ».
In quel prato secco e sfiorito dove la mente non è altro che l’ennesimo gioco senza soluzione, un foglio bianco che non si riesce a piegare. Lì, proprio in quel luogo, Yū sta gridando fino a lacerarsi i polmoni.
«Posso rubarti il divano per qualche ora?» gli domanda, evitandone lo sguardo. «Mi stavo per addormentare, quando mi hai chiamato. Stanotte non ho dormito molto bene».
C’è perplessità, nello sguardo di Asahi, sebbene il ragazzo non si scomponga. «Certo» risponde. «Leggerò qualcosa, nel mentre».
Lo sanno entrambi, che è una bugia: Azumane passeggerà tra i campi incolti della propria mente, alla ricerca di un motivo valido per fuggire via da lì – e, ormai Noya lo percepisce con irritante e spiacevole chiarezza, il motivo è lui – sulle ali di un cigno di carta.
Il libero si stende sul divano. Non ha nemmeno notato che Asahi ha le braccia marchiate di graffi rossastri.
 
***
 
«Sei preoccupato» Shimizu non è una che parla molto ma, di fronte a quella ruga di fastidio che increspa la fronte di Suga, non riesce a trattenere le persone. «È per i tuoi amici?».
Lui sospira, rimestando con il cucchiaino il proprio tè. «Se possiamo ancora chiamarli così» mormora. «Nishonoya è sparito dalla circolazione, Tanaka… mi guarda con quello sguardo assente e io non so cosa fare».
Kiyoko allunga la mano, carezzandogli il braccio. Lui le sfiora la mano con la propria e, per un momento soltanto, un’emozione indefinita gli colora lo sguardo.
«Mi dispiace» mormora, allontanando la mano. «Ma io non ce la faccio più. Mi guardano tutti come se avessi commesso qualcosa di sbagliato e io…».
Suga sospira, cercando di non farle capire che gli sta tremando la voce, in un pallido riflesso del cuore.
«Io non lo posso sopportare più, quello sguardo perso» sussurra. «Non posso farcela a scontrarmi con loro. Né voglio doverlo fare».
Lei lo guarda, incapace di avere una qualunque reazione: è difficile respirare, quando uno strappo netto ti straccia a metà. E le sue emozioni sono solamente l’ennesima piega venuta male in un cigno privo di ali, privo di piume.
«Lo so» risponde, atona. «Era esattamente ciò che temevo, ma…».
Suga la guarda e vorrebbe toccarla, sfiorarle l’anima come le labbra e il cuore: ma, nella sua mente, lo sguardo vuoto di Tanaka non gli lascia scampo. Come potrebbe toccarla, con quegli occhi che gli scavano tra i pensieri?
«Non posso tenerti con me, se tu non mi vuoi» completa Shimizu, piano. «Non posso costringerti a rimanere, se… se non vuoi più».
Lui pensa che ne è innamorato – pazzamente come pazzia è quella che sta compiendo in quel momento – e che tutto vorrebbe, meno che lasciarsela scivolare tra le mani. Ma, in un certo senso è lo stesso principio che ha insegnato a Noya: quando ami una persona, spesso sei anche disposto a lasciarla andare.
«Io ti terrei sempre con me» ammette, costringendosi a non sfiorarle la mano con la propria. «Ma come posso prendermi la responsabilità di aver distrutto la squadra?».
Shimizu china il capo, sulla propria tazza ormai vuota. «Un giorno» sussurra. «Tutto questo dolore ti sarà utile8\».
Suga scuote il capo, con un sorriso amaro sul volto, mentre posa il cucchiaino sul piattino. La tazza è ancora piena, con il tè che lentamente vi si gela dentro.
«Non credo» mormora. «Me ne pentirò domani sera, ma sarà troppo tardi e io… io voglio stare con te, non posso sopportare…».
La guarda e ha gli occhi stanchi e graffiati, mentre scuote il capo come per scacciar via un pensiero troppo persistente.
«Di perderti» continua. «Che un giorno ci incontreremo e tu mi saluterai con un cenno, o non mi saluterai affatto».
Ride, in un suono forzato e innaturale che, nella bolla di silenzio in cui sono avvolti, costituisce solamente l’ennesima spiegazzatura su carta stirata.
«E io rimarrò a guardarti mentre andrai avanti» mormora Suga. «E non potrò fermarti, perché sarai tu a non volermi più».
Shimizu l’osserva, sopprimendo la voglia di mettersi a piangere. «Allora» risponde. «Rimani».
«Non posso farlo» sussurra, lui, sfiorandole la mano e i pensieri. «Troverai qualcuno che ti meriti più di quanto non possa fare io».
A lei scivola una lacrima nella tazza vuota, Suga si costringe a non notarla, fissando il tovagliolo. È tutto spiegazzato.
 
***
 
«Cosa hai fatto?» Daichi spalanca gli occhi, di fronte al racconto di Sugawara. «Devi essere impazzito, non trovo altre spiegazioni possibili, per farti una cosa del genere».
Suga lo guarda, senza scomporsi. È diventato apatico, in quei giorni, come se qualcuno l’avesse privato di un pezzo di cuore. Quando non lo guarda nessuno, si osserva le mani: sono scosse da un tremito incessante, che riflette alla perfezione il terremoto che gli agita il cuore.
«La cosa giusta» risponde, facendo fatica a far uscire quelle parole. «Andiamo, Dai-chi. Me lo avevi detto anche tu».
Daichi lo guarda, con un severo cipiglio. «Io non ti ho mai detto» comincia. «Di… di farti male in questa maniera».
«Mi avevi detto» mormora Suga, guardando in alto. «Che da lì sopra avrebbe fatto male, cadere qui giù».
«Tu non sei caduto» lo interrompe Sawamura, stringendo i pugni. «Ti sei tuffato di testa, che è diverso».
Ma la verità è che Sugawara s’è tuffato col torace squarciato, di cuore, e lì dentro gli sono entrati i sassi, un po’ di sabbia, e adesso è di nuovo tutto da ricomporre. Perché Daichi lo guarda e non riesce a elaborare una risposta – un piano – per poterlo ricostruire, togliendogli quello sguardo disperato che gli corrompe i lineamenti delicati.
«Ho salvato la squadra» risponde Suga, con una fiammella negli occhi. «Conta questo, alla fine dei giochi. Io… parlerò con Noya e Tanaka, per dirgli che possiamo tornare come prima».
Daichi vorrebbe replicare, dirgli che è un idiota, che ha sbagliato, che. Ma Hinata trotterella al loro fianco, osservando l’espressione di Sugawara con curiosità.
«Suga-san!» lo chiama, con fin troppo entusiasmo. «Ho battuto Kageyama nella gara di origami e ha detto che non mi alzerà più nemmeno una palla! Potresti farmi fare qualche schiacciata?».
Suga ride, ma sembra che quel suono possa squarciarlo in due come un foglio strappato, e fa per avviarsi verso il cesto con i palloni.
«Certo!» risponde, fingendo entusiasmo. «Anche se non pensavo avresti vinto, sai?».
Shōyō gonfia il petto, orgoglioso. «Perché Kageyama fa schifo con gli origami» risponde. «E io mi sono impegnato e ho fatto questo!».
Alza la mano, facendo emergere un animaletto di carta dalla gabbia del proprio pugno. Suga lo guarda con curiosità, cercando di comprenderne la forma attraverso quelle pieghe grossolane e imprecise.
Ma, nonostante la carta stropicciata e un’ala mancante, è inequivocabilmente un cigno.
 
***
 
Lo ferma dopo gli allenamenti, con un sorriso e un colpetto di tosse: Tanaka la guarda con confusione, mentre gli si avvicina, con un sorriso amichevole in volto.
«Tanaka-san» lo apostrofa, mentre lui sembra essere già pronto per scappare. «Potremmo parlare qualche minuto?».
«P-Parlare?» balbetta il ragazzo, arrossendo misteriosamente. «Ma, cioè… tu e Sugawara… parlare, hai detto?».
Kiyoko annuisce, mettendosi a sedere su una delle panche della palestra. «Non ti ruberò molto tempo» mormora. «Ma vorrei parlare di Suga, se hai il tempo di ascoltarmi».
 
***
 
Alla fine, Noya s’addormenta per davvero, ma i suoi sogni smettono di essere colorati e tondeggianti, per divenire affilati e a tinte fosche. Qualche volta, nella finestra di quel mondo onirico, si affaccia Asahi.
Gli tende la mano, ma Yū non arriva mai ad afferrarla. Perché, abbassando lo sguardo, si rende conto che le braccia dello schiacciatore non sono solamente esili e senza forze, ma anche piene di graffi. E, in quel momento, il sogno muta forma e diventa incubo.
Perché sente Sugawara che gli sussurra, da un angolo illuminato della sua mente, che fa parte delle cose che facciamo per le persone che amiamo. Poi aggiunge, con un tono che è un po’ il suo e un po’ quello di Daichi, riflettici. E Yū glielo giura, ci ha riflettuto, giorno e notte, ma non ne è venuto a capo.
«Noya?» una voce cui s’appiglia per svegliarsi. «Va tutto bene?».
Asahi lo guarda, preoccupato, dalla propria poltrona. Nishinoya deve sbattere gli occhi un paio di volte, prima di riuscire a metterlo a fuoco.
«Scusami» continua Azumane. «Ti ho svegliato, ma ti lamentavi e… piangevi».
Pronuncia quell’ultima parola con un terrore tale che, per un momento, Yū deve valutare l’idea di allungarsi e stringergli la mano. Ma, mentre si volge per farlo, si rende conto di avere il viso umido di lacrime appiccicose.
«Mi stavi chiamando» borbotta Asahi, a cercando di spiegarsi. «Davvero, mi dispiace, eri così stanco».
«Io…» mormora Noya, frastornato. «Devo aver fatto un incubo, scusami se ti ho fatto preoccupare».
Azumane sorride, ancora. «Non importa» borbotta. «Posso preparare il pranzo, se hai fame. Altrimenti, potrei…».
Yū si domanda dove l’abbia presa, Asahi, quell’energia: se è stata una pillola magica o forza di volontà perché, in quel momento, sembra stare meglio. Ma, poi lo sguardo gli cade lì, nella sottile striscia di pelle che separa la mano dalla manica della maglietta e allora comprende.
Che i sogni non sono sogni, ma frammenti di ricordi o pensiero. E i suoi si sono scolorati di fronte ad Asahi, i cui capelli si sono diradati come foglie secche, secche come quello sguardo arido e apatico che gli ha rivolto, ormai una vita fa.
«Togli la maglietta» sibila, alzandosi di scatto. «Dico sul serio, toglila. Prima che venga fin lì e lo faccia io».
Azumane arrossisce furiosamente, mentre prova a far calmare Noya con un gesto della mano e un ma che dici, che però non convincerebbe nemmeno la persona più ingenua del pianeta. Nemmeno lui, quindi.
«Toglila» ringhia Noya, mettendogli le mani suoi fianchi. «Asahi, dico sul serio, fammi vedere cosa ti sei fatto».
Lo schiacciatore sospira, sfilandosi la maglietta. «Non dire niente» sussurra. «Ti prego, non dire niente».
Dal petto alle braccia una fitta mappa di graffi gli ridisegna le ossa, i muscoli, come una buffa cartina geografica.
Noya apre la bocca per urlare, ma non ne esce alcun suono.
 
***
 
«Suga-san!» Hinata lo guarda, prima di uscire dalla palestra, e ha gli occhi tondi come scodelle. «Si può sapere cosa ti succede?».
Suga abbassa il capo, chiedendosi quanto sia evidente, se persino Hinata è riuscito a rendersi conto di quanto ci sia qualcosa che non va. Ma sorride, l’ennesimo movimento inutile che gli spacca la faccia, e inclina leggermente il capo.
«Niente» risponde, contento. «Cosa dovrebbe esserci, che non va?».
«Che non ti stai impegnando come dovresti» lo rimprovera Shōyō, con aria corrucciata. «E non solo tu: Nishinoya non si vede da nessuna parte, Tanaka non vuole allenarsi con noi ed è qui solo perché ha paura di Daichi, e… e tu stai così».
Mima il gesto di accasciarsi al suolo, emettendo uno dei suoi suoni incomprensibili.
«Quello che Hinata cerca di dirti, Suga-san» interviene Kageyama, gettando un’occhiataccia al rosso. «È che tutti noi ci siamo accorti che hai qualcosa che non va».
Suga ride, ma somiglia più al suono di qualcuno che sta piangendo a dirotto. Persino Shimizu, dall’altro lato della palestra, si volta a guardarlo, preoccupata.
«Niente» ripete, ma ha le lacrime agli occhi e fatica a respirare correttamente. «Io sto bene, avete capito? Sto bene».
Ma ha la voce così rotta e sporca di pianto che lui stesso fatica a crederci.
«Suga» le mani di Daichi gli si posano sulle spalle, gentili ma ferme. «Calmati. Ti accompagno a casa, non… per oggi penso che tu abbia finito, d’accordo?».
Il capitano si volta verso il resto della squadra, senza mollare la presa sulle spalle del palleggiatore. «Finite l’allenamento e chiudete tutto» dice, stancamente. «Tanaka, occupatene tu».
Ma Tanaka sta osservando Suga fino a consumarlo e ha lo sguardo illuminato da una tale accecante comprensione che nessuno può fare a meno di notarlo.
«Aspetta!» strilla Hinata, interrompendo quella situazione così tesa. «Volevo darti questo. Domani tornerai più forte!».
Sulla mano di Sugawara, giace ora un cigno stropicciato e senza un’ala.
 
***
 
Quella notte, Suga non chiude occhi, per i suoi sogni sono popolati da Kiyoko e dalle sue medesime parole.
Tutto questo dolore ti sarà utile. Ma che utilità vi è in un dolore così insensato, così annichilente, che gli impedisce persino di respirare correttamente?
Quella notte, Suga si siede di fronte alla finestra di camera sua, a osservare il cielo stellato – Kiyoko avrà acceso una candela?
Lui non ne possiede una, ma ha un piccolo e maldestro origami che lo guarda, pieno di compassione.

 
Buona domenica a tutti e grazie per avermi letta: purtroppo questo capitolo è quasi totalmente privo di note (esclusa la 8), quindi posso solamente lasciarvi alla lettura di esso.

8Parziale citazione del titolo del libro di Peter Cameron, Un giorno questo dolore ti sarà utile

Finalmente sono comparsi Hinata e Kageyama, che spero si siano mantenuti IC, dato che non sono pg che uso spesso.
Nel mentre vi ricordo che il prossimo aggiornamento sarà il 5 novembre e, se vi va, vi linko la mia ultima OS nel Fandom: Il labirinto degli specchi (Kageyama/Sugawara).

Grazie a tutti
Gaia

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Capitolo 6
*** 6: Istantanee di una mancanza ***


6. Istantanee di una mancanza


 
 
Al tempio c'è una poesia intitolata "la mancanza", incisa nella pietra.
Ci sono tre parole, ma il poeta le ha cancellate.
Non si può leggere la mancanza, solo avvertirla.
(Rob Marshal)

 
Perché la mancanza d’amore
è la mia pestilenza
(Alda Merini)
 
 
Camera di Asahi è piena di fotografie, nota Nishinoya con sorpresa, e sono tutte istantanee per cui non ricorda di aver posato, così come effettivamente non ricorda di aver mai visto Asahi con in mano una macchina fotografica.
Eppure, lui è lì su quel muro, insieme a Daichi, Suga e Tanaka, tutti sorridenti nel guardare un punto indefinito. Erano felici, loro cinque, e nemmeno se ne erano resi conto: e, adesso, Hinata gli ha scritto che Sugawara ha quasi pianto durante un allenamento, che Tanaka s’è trincerato in una nube di mutismo e, infine, lui sa che Asahi s’è incamminato su un sentiero impercorribile. Aveva già cominciato a esplorare i campi aridi della propria mente, in quelle foto, oppure era felice per davvero?
«Dimmi cosa posso fare» Noya stringe la maglia di Asahi tra le mani, non ha avuto la forza di ridargliela. Deve aggrapparsi a qualcosa, per non crollare sul pavimento. «Per tirarti via di qui».
Ma Asahi non ha parole per rispondergli: allo specchio, si guarda incantato, come se non conoscesse la mappa di segni rossastri che gli sfregia il busto, come se non l’avesse tracciata con le sue mani.
«Guardati» borbotta Yū, acido. «Perché è l’ultima volta che ti vedrai così, fosse l’ultima cosa che faccio».
«Noya» lo chiama Asahi, ed ha una linea di stanchezza che gli sega in due lo sguardo. «Lascia perdere».
«Io non ti lascio perdere» sibila il libero. «Mettitelo bene in testa».
Perché Suga aveva torto, pensa distrattamente: quando ami una persona fai di tutto per non lasciarla andare. Ma lui lo ama, Asahi?
Yū pensa alla sua infatuazione per Kiyoko – e a quanto si sia arrabbiato con Sugawara per avergliela portata via, senza dirgli una parola – e gli sembra una storia vecchia di secoli, così sterile e ingenua, un amore visto da una lente d’ingrandimento sfocata e smisurata. Ma lui lo ama, Asahi?
Pensa che ha paura. Che non è ancora pronto per dire di amare qualcuno per davvero e, soprattutto, non è pronto a perdere il suo migliore amico per l’ennesima infatuazione insensata che potrebbe voler sperimentare.
E Noya, più che per dire di amarlo, non è pronto a lasciar scivolare via Asahi in quella maniera; lo vuole rivedere sorridente, in una nuova istantanea, mentre costringe Suga a non scappare via dall’inquadratura e ride dell’espressione un po’ contrita di Daichi. E vuole esserci anche lui, in quella foto, a saltellare per essere alto quanto Asahi, almeno lì.
«Non puoi fare niente» mormora Azumane, dolcemente. «Se avessi potuto aiutarmi, te lo avrei detto».
Ma Nishinoya ne ha bisogno – come ha bisogno di aria, acqua o nutrimento – di sapere che Asahi tornerà a scattare foto, che saranno nuovamente vicini sotto le luci di Natale e che Suga continuerà a tentare di fuggire per non essere ripreso. Ed un pensiero che è aria, acqua e nutrimento: ha bisogno di Asahi.
«Posso» risponde Yū, forte e chiaro. «Io… dimmi solo di cosa hai bisogno: medicine, non dormire da solo, tutto quanto».
Azahi sorride: ha perso le parole, non riuscirebbe a pronunciare nemmeno il suo nome.
 
***
 
Suga non ha smesso di andare agli allenamenti: avrebbe voluto, ma Daichi non lo avrebbe permesso nemmeno se lo avesse supplicato. Così, ogni mattina si pizzica le guance, si sciacqua il viso e va a scuola e, quando le lezioni finalmente terminano, si trascina stancamente fino agli allenamenti.
Lì, c’è lei.
Shimizu lo osserva quasi come si aspettasse un miracolo, da parte sua, o un viaggio nel tempo: ma Suga le sorride appena, voltandosi per non farle vedere quanta disperazione sia nascosta, dietro quel sorriso. Ma, tutti gli altri, se ne accorgono.
Se ne accorge persino Hinata, che abbandona periodicamente Kageyama e le sue alzate perfette per chiedere a Suga di fare un po’ di pratica con lui. Forse comprende, nella sua maniera arzigogolata e poco convenzionale, che altrimenti l’alzatore si siederebbe a bordo campo e lì scoppierebbe in un pianto disperato senza riuscire più a frenarsi.
«Suga-san!» lo chiama, da un punto all’altro della palestra. «Facciamo qualche schiacciata!».
E Sugawara gli alza una palla dietro l’altra, finché non ansima e gli fanno male le braccia, ma non è mai il meglio che potrebbe dare; Hinata lo comprende perfettamente e, ogni suo sguardo, è di tiepido rimprovero.
«Un’altra!» urla, come se fosse solamente una sua esigenza. «Alzamene un’altra!».
Suga lo fa, ma la sua mente è altrove. È ancorata a una mancanza che dura per un istante infinito e gli asporta il cuore con un singolo graffio.
Perché, nonostante tutti i suoi sforzi per ignorare quella morsa che gli serra il petto, Shimizu è ancora lì. Che lo guarda, con un certo dispiacere che le macchia l’iride, un vento tiepido che riscalda un mare in tempesta. E lui è lì, in mezzo a quelle acque agitate e non ricorda bene come si faccia a rimanere a galla.
«Suga-san!» lo richiama Hinata, ma lui è come fosse cieco e sordo di fronte a tutta quella energia. «Le alzate!».
Ma Sugawara ha lo sguardo fisso su Kiyoko che si volta, verso qualcuno che non è lui e sorride incoraggiante. Lui la osserva, voltandosi per cercare di capire chi sia il destinatario di quel sorriso e domandandosi silenziosamente se non sia già arrivato il momento che temeva – quello in cui dovrà lasciarla andare via.
Perché se ami una persona, puoi accettare di perderla per il suo bene: così, Suga volta il capo per incontrare lo sguardo di Tanaka, che pare essere resuscitato dalla propria apatia.
«Suga-san» Kageyama si avvicina, con una palla in mano. «Credo di aver bisogno di una boccata d’aria, ti andrebbe di accompagnarmi?».
Suga annuisce e sente le proprie gambe muoversi per seguire il proprio compagno di squadra, ma la testa non si muove, rimane ancorata lì, a quella parte di palestra, a quel viso. Perché Shimizu non si è resa conto di essere osservata, così continua a osservare i corvi allenarsi, mentre si sistema una ciocca di capelli dietro l’orecchio e sorride.
 
***
 
«Dimmi qualcosa» Asahi giocherella pigramente con uno yo-yo di plastica rosa, disteso sul letto. «Raccontami qualcosa, non farmi pensare».
Perché i pensieri sono dolorosi quanto quelle fotografie appese sulla parete, dove Asahi fatica a riconoscersi. Ma c’è comunque un filo comune che le unisce tutte quante – Daichi con il sorriso più forzato del mondo, Suga che fugge dall’obiettivo, Tanaka che ride come se fare fotografie fosse la cosa più divertente del mondo – ed è rosso come un pezzo di cuore: lui e Noya sono sempre vicini, in ogni istantanea scattata. Sente quella vicinanza anche nelle fotografie dove lui è assente.
«Cosa vorresti raccontato?» domanda Yū, seduto sul pavimento a gambe incrociate. «Conosci tutto, della mia vita».
Asahi pensa che non è vero, sono arrivati a un punto della situazione in cui non si conoscono più, perché tutto è ridotto a una mappa di cicatrici che si è inciso sopra la pelle. E come potrebbe capire, Noya, cosa si prova a sentire il sangue che ribolle sotto la pelle, pregando di farlo uscire?
E cosa ne sa, lui, di Noya? Perché la mancanza raffredda, toglie, e non ha fotografie di quel periodo in cui ha smesso di essere martedì.
«Quello che vuoi» risponde, invece. «Tu… a cosa pensi, come passi le giornate? Tutto quanto».
Nishinoya ci riflette, grattandosi il mento con aria concentrata, poi osserva il calendario sopra la testiera del libro e sorride. «Oggi è il martedì» commenta, ridendo. «Ed è il giorno in cui ti dico che…».
Che mi piaci e vorrei stare con te. Ma, questo, non riesce nemmeno a pensarlo negli angoli più oscuri della propria mente.
«Che vi manco e vorreste che tornassi in squadra» lo anticipa Azumane, calmo. «Got it! Ma non posso tornare e penso che tu lo sappia».
Nishinoya annuisce: non finché è così ferito da sé stesso, ma lui continuerà a sperare che Asahi, un passo alla volta, riesca a tirarsi fuori dal quel luogo buio e oscuro in cui è precipitato. Che torni a scattare fotografie, questa volta anche a Hinata, Kageyama e gli altri del primo anno, e siano sempre le istantanee scattate dal punto più alto possibile.
«Dovrò trovare un altro scopo al martedì, allora» osserva Yū, pensieroso. «Quale potrebbe essere?».
«Dovrebbe essere qualcosa che vuoi dirmi» risponde Asahi, guardandolo negli occhi. «Davvero non c’è nient’altro che vorresti potermi dire ogni martedì?».
Che mi piaci e vorrei stare con te. Vorrebbe quasi dirglielo per davvero, ma non gli vengono le parole e, anche se ne possedesse abbastanza da potersi spiegare, come potrebbe sopravvivere a un suo rifiuto? Se si sfilacciasse, quel filo color sangue che li unisce, cosa farebbe?
Non ci sarebbero più istantanee incollate con lo scotch sulla parete, né sorrisi forzati o fughe dall’obbiettivo. Vi sarebbe qualcosa di istantaneo, quello sì, ma sarebbe solamente l’ennesima inutile mancanza.
«Tu non vorresti dirmi niente?» domanda, senza convinzione. «Aspetti sempre che sia io a dire qualcosa».
Asahi lo guarda e gli si blocca il fiato in gola – che mi piaci e vorrei stare con te – così si limita a scuotere il capo, incerto.
«Tu sai tutto, di me» risponde, parafrasando Noya. «Cosa vorresti che ti dicessi, di nuovo?».
Yū lo guarda, soffermandosi su quei graffi che pericolosamente sporgono dalle maniche della maglietta di Asahi. «Niente» risponde, piano. «Credo di non sapere più niente di te, Asahi-san».
 
***
 
Fuori dalla palestra, ogni respiro inizia a pesare, divenendo l’ennesima tempesta di sabbia in grado di perforargli i polmoni. Suga non piange, ma ha così tanta sabbia in volto che gli lacrimano gli occhi.
Kageyama lo guarda e pare comprendere, perché ha sul viso una tale compassione da risultare fastidioso.
«Non guardarmi così» sibila, strofinandosi gli occhi con il dorso della mano. «Soffro di pressione bassa, dammi qualche secondo e mi sentirò meglio».
Kageyama sorride leggermente, ma non lo contraddice. «Immagino che non ti interessi un mio consiglio» comincia, cauto. «Ma… forse dovresti semplicemente parlarle».
«Hai ragione» sbotta Suga, acido. «Non ho bisogno di consigli, da parte di nessuno. Io… devo semplicemente permetterle di andare via».
Non posso tenerla con me, pensa silenziosamente, se lei non mi vuole più.
Tobio non coglie l’occasione di cominciare una discussione: al pari degli altri compagni di quadra, è semplicemente turbato di fronte a quel nuovo Sugawara, che s’è affilato su una delle ripiegature della vita divenendo l’ennesima stalattite pronta a bucare e a ferire.
«Se vuoi lasciare andare qualcuno» borbotta Kageyama, reprimendo un moto di fastidio nei confronti del compagno di squadra. «Lascialo andare per davvero».
Suga non lo ammetterà mai, nemmeno con sé stesso, ma lui non potrà mai lasciarla andare. Ci sarà sempre un modo, almeno tra le grotte buie e taglienti della sua mente, di tenere Kiyoko con sé. Nella sua fantasia sciocca e turbata, non potrà mai permetterle di svanire come l’ennesimo ricordo imperfetto. E, allora, come può dire che la lascerà andare?
Lei forse s’innamorerà di nuovo – ma non di Tanaka – forse smetterà di guardarlo, di sorridergli, forse persino di salutarlo. Forse. Ma, nella mente di Sugawara, Kiyoko rimarrà sempre congelata nell’ennesima e dolorosa istantanea.
«Dovrei» mormora Suga, scuotendo il capo. «Ma come puoi fare sempre ciò che devi?».
Kageyama sorride, a labbra tirate, guardando pensieroso l’orizzonte. «Non puoi» dice, scrollando le spalle. «Ma, allo stesso tempo, devi».
Anche se significasse lasciarla a Tanaka, pensa Sugawara con rimpianto, e lui non è pronto – basta illusioni: semplicemente non lo è – a vederla andar via. Pensava che sarebbe arrivato tra mesi – no, da anni – il momento in cui avrebbe semplicemente dovuto dirle addio e divenire l’ennesimo estraneo. Ma, quando Shimizu sorride e inclina il capo, Suga sente distintamente il proprio cuore incrinarsi nella medesima forma e misura di quel sorriso.
«E lo sai perché?» biascica, divertito. «Per esperienza personale, forse?»
Non pronuncia quel nome, ma sorride ironicamente e, per un momento, sembra ritornare il sé stesso di pochi giorni prima. Kageyama scuote il capo, irritato, trattenendosi dal domandargli perché dovesse ritornare in sé in quella maniera così fastidiosa.
«Non siamo tutti feriti» risponde, invece, atono. «Non comportarti come se ognuno di noi avesse chissà che dolore da nascondere».
Sugawara ride, pensando a quanto Kageyama si stia sbagliando: certo che sono tutti feriti ed è perché la vita ti buca e ti squarcia a ogni respiro. E, in qualche modo che fatica ad ammettere, persino Tobio deve essere rimasto ferito da qualcosa. O qualcuno.
«Certo che lo siamo» mormora Sugawara, osservando il cielo sfumarsi d’arancio. «Non sarebbe vita, se non si divertisse a ferirci».
Tobio sorride ma, controluce, è solamente l’ennesimo gesto forzato e innaturale. Sembra quasi che voglia spaccarsi il viso in due metà diseguali.
 
***
 
Asahi mangia sempre di meno, nota Noya con orrore: gioca con il cibo che ha nel piatto ma non lo mangia mai, pilucca solamente. E non è una sensazione, uno scherzo delle luci e delle ombre della sua mente, Asahi s’è davvero fatto più stanco e più sottile con ogni giorno che ha ceduto la propria resa al seguente.
«Dovresti mangiare di più» lo rimprovera, burbero, mentre lo guarda rimestare la propria ciotola di curry con aria svagata. «Stai dimagrendo a vista d’occhio».
Lo sguardo di Azumane è di una freddezza che inquieta. «Importa per davvero?» domanda, atono.
Yū sospira, esausto, perché il problema è esattamente quello. Che ad Asahi non importa più niente, di sé stesso: solamente lui sembra essere stanco di vederlo camminare spedito verso un’autodistruzione insensata e inutilmente dolorosa.
«A me importa» ammette, infine. «Io… vorrei aiutarti, lo sai. Vorrei vederti mangiare perché adori farlo e…».
Sorridere ancora, pensa, ma questo non riesce a dirlo. In quante fotografie sul muro Asahi ha sorriso, senza sapere che un giorno avrebbe semplicemente smesso di farlo?
«Che tornassi a fare foto» dice, invece, Yū. «Hai un buco nel muro, da quando hai lasciato la squadra».
Ma, probabilmente, la verità è che Azumane il buco lo ha dentro di sé: una voragine immensa che s’affaccia nel vuoto, nutrendosi di ogni sua emozione. Forse, è per questo che Asahi vorrebbe semplicemente sparire, lasciandosi risucchiare da quel buco nero che ospita nel suo petto.
«Non penso di sapere più come si fa» commenta Asahi, atono. «Sono passati dei mesi, Noya, non sono più abituato a…».
Alle persone, a scattare fotografie, ad andare in giro sulle mie gambe. Potrebbe fare un elenco infinito delle cose cui non è più abituato ma, di fronte allo sguardo speranzoso di Noya, non riesce a dire niente di tutto questo.
«Provaci» mormora il libero. «Torna a scuola, fai foto a tutti e… un passo alla volta…».
Starai bene. Non lo dice ad alta voce, perché è speranza tiepida in una cucina che è piena di gelo, ma Asahi potrebbe benissimo leggerlo sul fondo delle sue iridi castane.
«Un passo alla volta» mormora Azumane, incerto. «Aspetta un attimo».
Noya lo sente attraversare le viscere della casa, salire e scendere le scale e ritornare nella cucina. Quando Asahi rientra nel suo campo visivo, sorride.
Tra le mani, regge con orgoglio una vecchia macchina fotografica. Flash.
Forse, quel giorno diventerà solamente una dolorosa istantanea da attaccare con lo scotch su un muro troppo bianco.
 
***
 
«Si può sapere cosa ti è saltato in mente?» Tanaka è arrabbiato, quando finalmente riesce a parlargli. «Sei impazzito o cosa?».
Suga lo guarda, senza scomporsi. Ha il viso che sembra scolpito nel ghiaccio, con la bocca deformata da un sorriso che non gli riesce di metter su, così che sembra solamente una smorfia e lui rimane solamente stanco e ferito.
«Tanaka» lo saluta, atono. «Non capisco di cosa tu stia parlando. E, anche se lo capissi, sto andando a casa e sono troppo stanco per parlare».
«Soffri ancora di pressione bassa?» risponde lo schiacciatore, ironicamente. «Io lo so bene, come si chiama la tua pressione bassa, Suga».
Lui sorride, questa volta per davvero, e sembra che gli si sia aperto uno squarcio sul viso, gemello di quello che ha sul cuore e ha la forma del sorriso di Shimizu.
«Cosa sei venuto a dirmi, Tanaka?» domanda, stancamente. «Io non ho voglia di sapere niente, di voi due, quindi…».
Tanaka lo guarda e freme, stringendo i pugni. «Come hai potuto?» sibila. «Lasciarla».
Sugawara ride, così forte che potrebbe rompersi una costola. «E me lo chiedi tu?» domanda, ironicamente. «Se ami una persona, devi anche essere disposto a lasciarla andare».
«Che cazzata è mai questa?» grida Tanaka, indignato. «Suga, ma ti senti?» domanda, riprendendo il controllo. «Non… torna da lei».
Suga lo guarda, disorientato. Si era preparato a litigare, a difendere il proprio diritto di amare Shimizu a distanza, silenziosamente e discretamente. Si era preparato a cedere, a dirgli che il suo sarebbe rimasto un amore muto e sordo, non corrisposto – ma Tanaka lo guarda, ed è sinceramente preoccupato.
«Cosa?» biascica Sugawara, incerto. «Lei… tu… cosa stai dicendo?».
Tanaka lo guarda e si sta evidentemente sforzando per non fargli vedere la sofferenza che quelle parole celano. «Torna da lei» ripete. «Io… inizialmente non pensavo che avresti potuto renderla felice, non più di quanto avrei potuto fare io. Ma lo fai, è evidente che lo fai, e allora… torna da lei».
Suga lo guarda e sente distintamente, quella mancanza gemella che tormenta i cuori di entrambi: è solamente l’ennesima fotografia venuta male, sfocata in rosso sullo sfondo di un cielo troppo blu, troppo nitido.
Come potrebbe tornare indietro, vorrebbe chiedergli, ma Tanaka sospira e, voltandogli le spalle, si allontana orgogliosamente e a grandi passi. Suga si ritrova così ad ascoltare il proprio silenzio, senza sapere bene come colmarlo.
Ha capito – non può lasciarla scivolare via, se davvero la ama – ma, quando lei gli sfila accanto in silenzio, gli mancano le parole. Perché è ferito, tutti loro lo sono in qualche modo, al pari del sole che tramonta a fatica, tingendo il cielo con il proprio sangue.
Suga lo guarda, domandandosi cosa abbia di tanto speciale, un tramonto: è solamente l’ennesimo flash di un’istantanea sfocata.


 
Sono di volata, devo andare a fingere di lavorare: prossimo aggiornamento 9 novembre.
Grazie per avermi letta.

Gaia

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Capitolo 7
*** 7: Messaggi in bottiglia ***


7. Messaggi in bottiglia


 
Epistula non erubescit.
La lettera non arrossisce.
(Marco Tullio Cicerone)

 
Il pericolo di certe lettere d'amore è che ci facciano innamorare davvero.
(Roberto Gervaso)
 
 
«Cosa dovrei dirle, Dai-chi?» mormora Suga, stringendosi la testa tra le mani. «Io… ho sbagliato tutto».
È talmente disperato che Daichi non riesce nemmeno a dirgli, in un momento di massima sincerità, che ha pienamente ragione: che non è planato sul terreno, ma vi si è lanciato senza alcuna rete di sicurezza, atterrando di cuore e ferendosi a morte. Così china il capo, riflettendo silenziosamente su cosa rispondere.
«Scrivile una lettera» borbotta, infine. «Forse è meglio se eviti di parlarle direttamente, non penso ne saresti in grado».
Perché Suga è troppo ferito – tutti loro lo sono – per cavarsi dalla bocca due semplicissime parole: ti amo, mi dispiace. Forse, tracciarle su carta potrebbe essere diverso, così come diverso è divenuto Sugawara, da quando ha sperimentato l’assenza di Kiyoko.
Un’assenza che lo mangia, silenziosamente, masticandogli le ossa e senza sputarne via il midollo. Solo l’orgoglio, gli è rimasto, tra le cose che silenziosamente può inghiottire anche lui. A sussurrargli che deve dirglielo, ma come puoi ascoltare qualcosa che vorresti solamente costringerti a sputar via? L’ha tirato fuori, quell’orgoglio, in un colpo di tosse: di fronte alle parole di Tanaka, si è reso conto come non gli servisse più.
E, adesso che nemmeno quello gli è rimasto, Suga ha compreso di aver scommesso sulla puntata sbagliata. Tornare indietro – è impossibile, pensa distrattamente – è tutto quello che gli è rimasto, l’unica speranza su cui potrebbe contare.
«Una lettera?» mormora, incerto. «Potrei… no, non posso. Io devo parlarle, devo dirle che…».
Che è martedì: mi piaci e vorrei stare con te, ma questo Shimizu già deve saperlo, quindi cos’altro dovrebbe dire o fare per avvalorare quelle parole?
Questo, Suga non può saperlo: ha una concezione così approssimativa e imperfetta di quanto dimori nella sua mente che, il pensiero di amarla di quell’amore da fiaba, ancora non l’ha compreso. Né, in ogni caso, sarebbe in grado di esprimerlo con delle semplici parole.
«Scrivile» ripete Daichi, incoraggiante. «Fidati, scrivi meglio di come parli in questo momento».
Suga sorride ma, nella pelle e appena dietro, non ne è convinto nemmeno lui: che utilità ha la carta scritta, se puoi stracciarla con un singolo respiro, facendola divenire l’ennesimo origami venuto male?
 
***
 
Asahi torna a scuola.
Con sé porta un braccialetto di conchiglie, una macchina fotografica e un muro di silenzio – che abbia ripreso a giocare? – con cui investe indistintamente professori e compagni troppo curiosi.
Noya, a ogni pausa pranzo e dopo la fine delle lezioni, lo va a prendere fino alla porta della sua classe. Ma, adesso, Azumane non è più solo: discretamente, con dolcezza straziante, Daichi e Suga si sono avvicinati a lui.
E Suga è stanco e afflitto ma, quando si tratta di risollevare il morale dell’ex asso della squadra, non lo mostra mai – è solamente un’ombra in una giornata piena di sole – e fa di tutto per farlo ridere. Daichi è più serio, quasi paterno, quando fulmina con un’occhiata tutti quelli abbastanza arditi da avvicinargli e chiedergli cosa sia successo in quelle due settimane di assenza.
Asahi torna a scuola, poco prima delle vacanze di Natale, ma non si sente ancora pronto per tornare a far parte della squadra. Forse, non si sentirà mai realmente pronto a farlo.
Yū lo accetta silenziosamente – perché vive come fosse proprio il dolore di ogni graffio inciso sulla pelle – ma, dentro di sé, è ancora martedì.
Nonostante ciò – mentre Asahi gioca continuamente con il proprio braccialetto di conchiglie, quasi fosse uno scacciapensieri – a Noya è dolorosamente chiaro che non è ancora pronto.
Lo sanno persino Daichi – che non chiede, ma spera – e Suga, che spera solamente. Così, Asahi da lontano sembra finalmente tranquillo: nei prati aridi della sua mente, un singolo filo d’erba ha preso a crescere, verdissimo tra la sterpaglia secca e bruciata.
Asahi è tornato a scuola, ma non in palestra, e forse si potrebbe persino dire che sia tornato in . Ma, il più delle volte, quando Noya non è davanti a lui, il suo sguardo s’incupisce improvvisamente.
E, allora, diviene evidente: Asahi è da qualche parte che non sa e, ancora, deve ritrovarsi.
 
***
 
Noya è felice, incredibilmente, da quel giorno in cui Asahi si è alzato dal letto e si è vestito per andare a scuola. Non s’illude, quello mai: non è meno rotto e sgangherato di prima, ma qualcosa si è smosso dentro di lui – qualcosa inizia a crescere rigoglioso, da un semino minuscolo che ha lasciato cadere per sbaglio.
La sera, Asahi lo aspetta in cortile leggendo un libro, mentre lui torna a partecipare agli allenamenti. Ma dentro la palestra non entra mai né Yū lo sorprende a sbirciare, perché semplicemente non lo fa.
Seduto sotto un albero, Azumane rimane immobile per ore, cullato dalla voce dei suoi ex compagni di squadra. Ogni tanto, Nishinoya fa capolino, asciugandosi la fronte e non è ancora martedì, ma…
«Volevo ricordarti che ci manchi e ti vorremmo in squadra con noi» dice, piano. «Solo per fartelo sapere».
Asahi sorride, ma è solamente l’ennesima maschera di ghiaccio. «Grazie» mormora, tenendo con il dito il punto che sta leggendo del proprio libro. «Lo terrò a mente».
Ma, di cambiare idea, non se ne parla. Così come Sugawara non riesce a riordinare le proprie, di idee, per fermare Shimizu e dirle solamente poche parole: è martedì e io ti amo ancora. Ma non ancora, perché sarebbe il termine sbagliato.
Quello che Suga sta cercando di dire – no, di pensare – è che la ama da quando l’ha vista la prima volta e lo fa in una maniera talmente intensa e disperata che nemmeno la lettera, rinchiusa tra le pareti di vetro di una bottiglia e gettata in mare, potrebbe essere sufficiente a esprimere quel sentimento a parole.
Sugawara non la ama ancora, non la ama di nuovo, ma la ama e basta. L’ha amata anche quando s’è risolto a lasciarla scivolare via, sbagliando, e la ama anche adesso che è costretto a guardarla da lontano.
È un martedì per tutti, alla Karasuno – ma a rendersene veramente conto è solamente Asahi.
«Suga» lo chiama, quando il ragazzo esce di corsa dalla palestra, pur di non dover incontrare lo sguardo di Shimizu. «Secondo te, come potrei dire a…».
S’interrompe. Non è certo di voler dire quella frase ad alta voce – che mi piace e voglio stare con lui – e farla diventare dolorosamente reale.
«Scrivigli una lettera» risponde Sugawara, con convinzione. «Daichi ha detto di fare così, ma non sono ancora totalmente convinto che sia una buona idea».
Asahi ridacchia, di fronte alla perplessità del suo amico. «Scrivi meglio di come parli» osserva. «Potresti scrivere anche per me».
Suga sorride, ma dura solo pochi secondi: Kiyoko esce dalla palestra e lo guarda a malapena, mentre si avvia verso casa.
 
***
 
Volevo dirti che
Io ti amo
Oggi ti ho vista, e
Non so come fare, se non torni da me
 
Le tre di notte, e lui non riesce a dormire: la carta, il suo unico mezzo per evitare un dialogo che non si sentirà mai pronto ad affrontare, è divenuta improvvisamente sua nemica. Perché Suga pensa, posa la penna sul foglio e le parole non escono.
Che parole potrebbe cavarsi fuori, poi, quando parole da dire non ne ha più? Siamo tutti feriti, in questo mondo. Anche lei.
 
Io ti amo e non so come fartelo sapere, Kiyoko: mi hai strappato tutte le parole che mi erano rimaste e, adesso, con che forza dovrei cercarne altre?
 
L’inchiostro, controluce, sembra solamente l’ennesima colata di sangue.
 
***
 
Rimani con me.
Sono le parole che pronuncia Asahi ogni pomeriggio quando, dopo aver terminato di fare i compiti, Noya comincia a raccogliere la propria borsa per andare a casa. Lui cede sempre, come potrebbe fare il contrario?
Perché Asahi è così stanco, quando gli domanda di rimanere, che Noya non riesce mai a dire di no. E, deve ammettere almeno con sé stesso, probabilmente nemmeno vorrebbe mai dovergli negare qualcosa. Perché anche quel giorno e martedì e lui sembra non ricordarsene minimamente.
«Rimango» dice, ogni volta. «Non preoccuparti, rimarrò sempre con te».
Alle sue spalle, pronto a salvarlo da tutti i mostri – reali o immaginari – che vivono dentro la sua testa. Azumane sorride, facendogli posto sul letto, ma non dice una parola: i tagli si sono rimarginati, senza lasciare nemmeno una cicatrice, ma non è guarito del tutto. Un filo d’erba non è un prato intero e, nella sua mente, i fiori non riescono a crescere.
Sono brandelli di pensiero che nascono e tramontano nell’arco di un respiro, frastornandolo. Ma un singolo filo d’erba resiste stoicamente a paure che sono pioggia, vento e tempesta – è Noya, che si stende placidamente al suo fianco, indossando solamente una maglietta.
«Domani sarà martedì» osserva Asahi, fissando il soffitto. «Ricordi?».
E come potrebbe Yū, dimenticarsene, se è martedì ogni singolo giorno della settimana?
«Certo» risponde, voltandosi a guardarlo. «Hai finalmente trovato qualcosa da dirmi anche tu, ogni martedì?».
Martedì potrebbe essere il giorno delle lettere mai scritte, pensa Asahi silenziosamente, o mai inviate. Ma, quello che finalmente riesce a farsi uscire dalla bocca è diverso. Perché non ce la fa più a conviverci, con quel pensiero incancellabile, con quelle parole che lo soffocano lentamente giorno dopo giorno. Martedì dopo martedì, in un interminabile inizio settimana.
«Potrebbe essere il giorno in cui ti dico che mi piaci» mormora, a disagio. «E che vorrei stare con te».
Nishinoya lo guarda e vorrebbe dire qualcosa, ma non riesce nemmeno a respirare, così rimane ad ascoltare quella frase che gli riecheggia in testa, disorientato.
Gli ha fatto perdere l’equilibrio, dando voce ai suoi medesimi pensieri, e adesso lo abbandona in un silenzio barcollante e incerto.
«Non dire niente» mormora Asahi, coprendosi il volto. «Ho rovinato tutto, io… mi dispiace, Yū, davvero».
Ha pronunciato il suo nome. Ha infranto, ancora una volta, quella rigida lastra di vetro che dovrebbe tenerli separati.
Eppure, ad Asahi tremano le mani e, in tutta la stanza, le conchiglie tintinnano seguendo il ritmo di quel tremore. Noya lo guarda e vorrebbe tanto avere delle parole – o dei fatti – per dirgli immediatamente che sono settimane che pensa la medesima cosa.
«Avrei dovuto immaginarlo» continua Asahi, senza riemergere dal nascondiglio dietro le proprie braccia. «Tu… Shimizu… era ovvio che mi avresti guardato così».
Yū respira profondamente. Azumane non se ne può accorgere, ma ha le lacrime agli occhi e, se dicesse una parola, scoppierebbe in un pianto inconsolabile.
 
***
 
«Si può sapere cosa è successo tra te e Nishinoya?» sbotta Daichi, esasperato dopo aver subito due giorni di mutismo selettivo da parte di entrambi. «O, meglio, cosa è successo ancora».
«Attento, Asahi» interviene Suga, con aria colpevole. «Oggi credo proprio che Daichi ne abbia le…».
«Sugawara» sibila il capitano, con aria contrariata. «Ti avverto: prova a dire che ne ho le palle piene e vedrai come saranno le ultime parole che pronuncerai».
«Oh, andiamo» risponde il palleggiatore, divertito. «Sono delle ultime parole terrificanti, Dai-chi».
Asahi osserva i suoi amici: sono meravigliosi, illuminati da quella giornata di sole, così felici da far male. Suga s’è calmato, da una sera all’altra, ha smesso di parlare di Shimizu e ha il dito indice macchiato d’inchiostro.
Non lo dice, ma Azumane lo ha visto, quella stessa mattina, mettere una busta nell’armadietto della manager – un messaggio senza bottiglia – e allontanarsi con un sorriso in volto all’aroma di speranza.
«Di terrificante c’è solo il tuo comportamento di oggi» risponde Daichi, senza nascondere il proprio divertimento. «Sembri ubriaco, Suga».
Forse, ubriaco lo è davvero, di un ottimismo che gli riscalda le ossa, intiepidendole. Ma questo, a Sawamura, non lo può dire.
«Oggi è una bella giornata» risponde, invece, indicando il cielo. «Credo sia il martedì meno martedì nella storia dei martedì più martedì e…».
«E hai interrotto Asahi» commenta Daichi, scuotendo la testa. «Che mi stava giusto spiegando perché adesso anche Nishinoya è sparito dalla circolazione».
Sugawara tace, domandandosi perché gli studenti della Karasuno si diano alla macchia con così tanta semplicità: perché a Noya è bastato spegnere il telefono e rinchiudersi nei suoi pensieri, per rendersi irrintracciabile.
«Io…» borbotta Asahi, imbarazzato. «Gli ho detto le parole sbagliate, temo».
«Cosa potrai mai avergli detto?» chiede Suga, curioso. «Che non è un bravo libero? Che ti sembra più basso del solito? Che…».
Ma Azumane lo guarda con una disperazione tale da spingerlo a tacere, improvvisamente.
«Che mi piace» mormora lo schiacciatore, chinando il capo. «E vorrei stare con lui».
Nel silenzio del cortile all’ora di pranzo, si sente solamente il sospiro esasperato di Daichi Sawamura.
«Davvero» esordisce, guardando i suoi due amici. «Io ne ho le palle piene, di voi».
 
***
 
 
Noya si è nascosto sotto il letto, quasi come se si vergognasse di farsi vedere persino dalle pareti di camera sua. Lì sotto, il mondo è finalmente attutito, meno colorato e doloroso e, allora, può finalmente assordarsi con il suono dei propri pensieri.
Ha provato a telefonare a Daichi, ma il capitano ha chiuso la chiamata gridando che ne aveva le palle piene dei loro problemi sentimentali e di risolversela da solo. Yū è rimasto parecchio interdetto, di fronte a un tale sfogo del capitano dei corvi, così si è nascosto sotto il letto e vi è riemerso solamente per pranzare. Ma, per la prima volta in vita sua, si rende conto che non è il cibo a essere la soluzione.
Chiamare Asahi e dirgli che la sua reazione è stata inconsulta, per non dire totalmente sbagliata, è fuori discussione: significherebbe dover fare una confessione che, ancora, Yū non si sente pronto a dire ad alta voce.
Ha pensato anche di scrivergli una lettera ma, al terzo tentativo, si è reso conto di essere strutturalmente diverso da Suga e che il suo cervello non è pensato per ragionare con calma e lucidità al di fuori dal campo di pallavolo.
Asahi ha continuato a inviargli messaggi di scuse che hanno avuto l’effetto di fargli semplicemente vibrare i nervi di fastidio, così ha dovuto spegnere il cellulare – privandosi della possibilità di costringere Sugawara e Daichi di correre a casa sua per dargli qualche consiglio sensato – e nascondersi nuovamente sotto al letto.
«Cazzo» mormora, con le mani tra i capelli, per quanto lo spazio angusto possa permetterglielo. «Come ho fatto a essere così stupido?».
«Ah, non lo so proprio» gli risponde un peso che si accascia sopra il letto. «Ma potresti dirlo così, ad Asahi, era preoccupato per te».
«Suga-san?» chiede Nishinoya, senza azzardarsi a uscire dal suo nascondiglio. «Si può sapere cosa ci fai in camera mia?».
Sente una risata, sopra la sua testa. «Mi ha fatto entrare tua madre» spiega il palleggiatore, con tono svagato. «Le ho detto che passavo a darti una mano per i compiti di inglese, non capisco come abbia fatto a credermi… non penso di averti mai visto farli, in vita tua».
«Si può sapere perché sei così felice?» ringhia Noya, contrariato. «Non c’erano problemi nel tuo personale paradiso?».
«Come fai a temere per una lettera in una bottiglia, se non saprai mai se verrà letta?» risponde Suga, calmo. «Ma non sono qui per parlare di me… ti chiederei persino cosa è successo, se mi facessi la cortesia di uscire da lì sotto».
«Non posso» s’impunta Yū, con la voce che trema. «Ehi, aspetta… perché Daichi ha detto di averne le palle piene, di noi?».
Sugawara sorride, anche se Noya non può vederlo. «Oh, niente di che» risponde, minimizzando. «Oggi abbiamo parlato con Asahi».
«Cazzo!» urla nuovamente Nishinoya, sbattendo la testa contro la rete del letto. «E… immagino vi abbia raccontato tutto».
Non dovrebbe vergognarsi di confessare a Sugawara quanto tema di permettersi di amare Asahi, come lui vorrebbe essere amato e come Yū vorrebbe fare per davvero, ma non gli vengono le parole. E, allora, ogni suo pensiero diviene solamente l’ennesimo messaggio in bottiglia che non leggerà mai nessuno.
«Noya» lo richiama Suga, con voce dolce ma ferma. «Penso che tu debba assolutamente dirglielo».
«Cosa?» borbotta il libero, perplesso. «Cosa devo dirgli?».
Spera quasi che Sugawara possa dargli delle istruzioni, forse basterebbe anche soltanto un suggerimento, su come cavarsi via da quella situazione talmente irreale da risultare dolorosa. Come dire ad Asahi che non è pronto – semplicemente, non lo è – a dirgli che gli piace, che lo pensa, che lo vuole, che lo sogna persino.
«Che oggi è martedì» risponde il palleggiatore, placidamente. «E che ti piace e vorresti stare con lui».
Ma come si fa a dire una cosa del genere, vorrebbe domandare Yū, come fai a cavarti dal cuore quelle parole così impronunciabili?
I pensieri di Yū sanno di zucchero bruciato, sono appiccicosi e caramellati attorno a quella convinzione – non può dirlo ad Asahi – e non si riesce a tirarla via in nessun modo. Ma Suga sorride, sopra la sua testa, e parla così pieno di dorata fiducia che è impossibile non prestargli ascolto.
«E tu?» gli domanda, infine, sperando di scacciar via i propri pensieri. «L’ha letta, Shimizu, la tua lettera?».
Sugawara non risponde: ha il cuore spezzato e non sa bene il perché.
 
***
 
Un’onda le ha spinto una bottiglia sulla gamba, facendola sobbalzare: Shimizu, aprendo il proprio armadietto, ha trovato una busta bianca con il suo nome e cognome scritti sopra, con una grafia tremendamente familiare.
Dentro, vi è un singolo foglio denso di caratteri, che la fissano come se potessero scollarla dalle ossa in un turbine di sussurri. Shimizu li ha toccati, sperando che toccare l’inchiostro restituisca la medesima sensazione che era sfiorare la pelle di Sugawara, mentre il cervello cercava inconsistentemente delle parole precise.
Ti amo e voglio stare con te.
Suga ha scritto parole bellissime ma che, a conti fatti, sono solamente tali: parole. E lui sarà sicuramente un bravo scrittore, ma si è dimenticato di dirle la cosa più importante di tutte – che gli duole il cuore dalla sua mancanza.
Ha conservato la lettera, nella copertina del suo libro preferito, dove potrà sempre rileggerla se mai dovesse desiderarlo. Ma non ha risposto: nelle spiagge desolate della sua mente, una bottiglia di vetro è andata in frantumi lungo la battigia.


 
Buongiorno e buon inizio settimana a tutti, non ci credo che siamo arrivati già a metà storia!
Per questo capitolo non sono presenti note, quindi posso sparire e tornare a lavoro prima che il mio cervello possa sentirsi in vacanza. Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, anche se vi svelo subito che il prossimo è il mio preferito e contiene una serie di nonsense non indifferente, quindi aspettatemi su questi lidi per giorno 13 novembre.
Un grosso abbraccio a chi continua a leggere questa storia (e, a proposito, vi lascio la mia ultima OS, una OiSuga distopica: Messaggi in una parete.

Buona giornata a tutti!
Gaia

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Capitolo 8
*** 8: Fiori di lanugine ***


8. Fiori di lanugine

 
A volte penso che staremmo meglio se fossimo semi di soffione: niente famiglia, niente storia, liberi di volare nel mondo, ciascuno nel proprio batuffolo di lanugine.
(Sophie Kinsella)

 
 
I denti di leone sono semplicemente delle amichevoli e piccole erbacce che desiderano soltanto di essere amate come fiori.
(Heather Babcock)
 
 
L’Irlanda è sommersa da un silenzio piovoso, e salvata dalla magia: in un luogo in cui vi sono gnomi, fate e incantesimi, persino le stranezze di Hinata sembrerebbero perfettamente sensate. È il posto dove Sugawara vorrebbe vivere, perché servirebbe una fata, uno gnomo o un incantesimo per riportare Shimizu da lui.
Lei ha letto la lettera, e questo lui lo sa con annichilente certezza, ma non ha risposto: e non si tratta nemmeno di volere, ma di potere, e come potrebbe aver voluto ignorarlo con la freddezza di uno scroscio di pioggia?
Dal giorno in cui matura la risposta a quella domanda, ovvero la cieca consapevolezza di non aver fatto abbastanza, inizia a giocare con lei, seminandole indizi sopra il banco tra una lezione e l’altra. Il più delle volte, sono due o tre soffioni legati insieme da un nastrino.
Shimizu non capisce. La vede vagare per i corridoi, per la palestra e per il cortile con quei fiori in mano, cercando di comprenderne un senso che Sugawara è riuscito a nascondere nella sfera dell’incomprensibile.
Ma, quando prova a domandarglielo, rompendo il muro di silenzio che li ha divisi per tutte le vacanze di Natale, Sugawara scuote il capo.
«Se te lo dicessi io» risponde, affilando lo sguardo. «Perderebbe di significato, no, io voglio che lo capisca tu».
Shimizu, però, non ci riesce: non le dicono niente, quelle erbacce, se non cieco desiderio di librarsi in volo con un soffio. Ma non è questo, quello che Sugawara intende dirle. O, almeno, così crede.
«Sei per caso impazzito?» gli sibila Daichi, il giorno in cui scopre quello scarno di parole. «Hai perso l’occasione adatta per dirle quello che provi».
Ma Suga non si scompone e, sulla divisa, ha della lanuggine attaccata: forse quella mattina, mentre raccoglieva i soffioni, ha espresso anche lui un desiderio che s’è perso nel vento di gennaio.
«Certo che no» risponde, fiducioso. «Al massimo, puoi dire che ne ho guadagnata una».
Ma Daichi non comprende, così come non riesce a farlo nessuno che provi a seguire quelle strane macchinazioni di Sugawara. Il quale, una mattina, lascia un foglietto ripiegato sul banco di Shimizu.
«Un’altra lettera?» domanda Sawamura, speranzoso. «Ti sei deciso a smetterla, con questa cosa dei soffioni?».
«No» risponde Suga, con leggerezza. «E di nuovo no. È un haiku».
Daichi si trattiene dal mettersi nuovamente a gridare che è stanco dei drammi altrui, ma inghiotte quelle parole e si costringe a metter su un sorriso falso. «Un haiku, eh?» domanda. «E da quando sai scrivere gli haiku?».
Sugawara ride, sedendosi al proprio banco. «Da mai» risponde. «Ma da qualche parte bisognerà pur iniziare, o no?».
Daichi lo guarda, interdetto, gettando un’ultima occhiata al foglietto – e senza riuscire a trattenersi dall’andare a sbirciarne il contenuto.
 
Fiore perenne
Vi abita una fata
Abbi fiducia

 
«Te lo dico sinceramente, Suga» si lascia sfuggire Daichi, esasperato. «Era meglio se continuavi a non scriverne».
 
***
 
«No, Nishinoya, la risposta è no!» Daichi ha, come è successo molte altre volte in quei giorni, perso la pazienza. «A qualunque domanda tu stia per pormi. Soprattutto se riguarda haiku o soffioni o altre assurdità del genere!».
«Lascia perdere, Noya» interviene Suga, divertito. «Oggi Daichi è un po’ suscettibile, che ti serviva?».
Yū li guarda, sospettoso, ma non chiede. Ha le mani arrossate e le nocche graffiate, come se si fosse scontrato contro l’ennesimo muro – di silenzio – e avesse perso la battaglia. Ma non la guerra, perché digrigna i denti e sembra nuovamente pronto a scattare.
«Cosa dovrei fare?» mormora. «Con Asahi-san. Cosa pensi che sia giusto fare?».
«Sei tu a doverlo dire» irrompe Daichi. «Cerca solamente di non farlo soffrire più del dovuto, lui è…».
Ferito. Tutti noi lo siamo, pensa il capitano, occhieggiando all’aria svampita e sovrappensiero di Suga.
«Beh, Noya» interviene Suga, dandogli una pacca sulla spalla. «Oggi è giovedì: sei un po’ in ritardo, ma forse fai ancora in tempo».
«Non so cosa dirgli» bisbiglia Yū, insolitamente placido. «Come fai, come faccio a…».
«A dirgli che ti sei comportato da idiota?» domanda il palleggiatore, divertito. «Potresti usare queste esatte parole».
Nishinoya sospira, ma non lo contraddice. «Di cosa ti sei fatto, Suga?» domanda. «Sembri di ritorno dal mondo delle fate».
Daichi digrigna i denti, ripensando alla mattina precedente, mentre Sugawara scoppia a ridere. Il palleggiatore non dice una parola, ma mette una mano in tasca, riscoprendola con un dente di leone spelacchiato e il palmo pieno di lanugine.
«Davvero?» domanda Sawamura, esasperato. «Adesso inizi pure a portarteli in giro? La tua è diventata un’ossessione, Suga, inizi a preoccuparmi».
Ma Yū ha gli occhi fissi sul suo compagno di squadra, e sono pieni di curiosità: perché Sugawara gli porge il fiore – o l’erbaccia – sporcando anche lui di lanugine.
«Un soffione?» domanda, perplesso. «Non so nemmeno cosa dovrebbe significare, ammettendo che ne abbia uno, di significato».
«E perché dovrebbe rispondere alla sua domanda» continua Daichi, brontolando. «Davvero, Suga, vorrei proprio capire cosa ti sta succedendo».
Ma Sugawara non lo guarda nemmeno, perché indica con fare paterno il soffione che giace immobile tra le mani di Yoka, e sorride.
«Vuol dire speranza» risponde. «Ma, se non fai attenzione, anche distacco».
 
***
 
Le ha lasciato soffioni sul banco – e un haiku totalmente incomprensibile – senza che lei fosse in grado di risolvere quel rompicapo. Suga ha parlato di fate e fiori che non sfioriscono mai ma, di tutto questo, Shimizu non ha compreso poi molto: eppure, lui la guarda come se la soluzione fosse lì, sotto il suo naso.
Se soltanto lei riuscisse a trovarla. E non la trova mai, come potrebbe, cosa ne potrà mai sapere lei di dove abitano le fate.
Deve inghiottire l’orgoglio, prima di andare da Suga a domandargli cosa diamine intendesse con quel terribile haiku.
«Dillo e basta» sussurra, deglutendo rumorosamente. «Non… non posso aspettare di capire cosa vuoi dirmi. Voglio sentirlo».
Ma Suga sorride e scuote il capo, con devastante dolcezza. «Non c’è niente da capire» risponde. «È solamente l’ennesimo messaggio in bottiglia cui non risponderesti, se solo potessi leggerlo».
E, allora, in Kiyoko si sedimenta una dolorosa consapevolezza: l’ha ferito – no, sono entrambi feriti – e adesso deve capire come fare a cauterizzargli i punti in cui vene e arterie hanno ceduto, provando a dissanguarlo.
Eppure, lei stessa ha le mani tagliate dai cocci di una lettera in bottiglia, ma lui sembra non rendersene nemmeno conto.
«Perché devo per forza inseguirti?» domanda, atona, guardandolo mentre si allontana. «Pensavo che oggi fosse martedì».
«Lo è» risponde Suga, senza voltarsi. Ha la voce macchiata da un sorriso. «Ma non mi basta più».
 
***
 
«Asahi-san» Noya respira profondamente, nel pronunciare il suo nome. «So che sei a casa, anche se fai finta di non sentire il campanello. Quindi, per favore, scendi».
Ma Asahi, dall’altro capo della linea, è muto e sordo e chissà che non sia persino cieco – perché non lo vede, sicuramente, e finge di non sentirlo e non vuole più parlargli.
«Ascolta» mormora, guardandosi i piedi. «Io sono meno bravo di Suga in queste cose. Non scrivo haiku né raccolgo soffioni, ma… oggi è martedì».
Yū respira profondamente, cercando di controllare quell’improvviso tremore che gli scuote il cuore. «E non è solamente il giorno in cui ti ricordo che ci manchi e vorrei che tornassi ad allenarti con noi» prosegue, fingendo una calma che non prova. «L’hai detto tu: è il giorno in cui ti dico che mi piaci, e vorrei stare con te».
C’è silenzio, attorno a lui, ma un click improvviso taglia l’aria: Asahi ha chiuso la telefonata.
 
***
 
Un tempo, le fate erano libere. In Irlanda, che è la terra dei miracoli, vagavano tra i fiori e si esercitavano in rosee e scintillanti magie, senza esser toccate dalla pioggia scrosciante.
Le campanule scampanellavano placidamente nel vento, sfiorate dagli incantesimi, mentre giorno e notte dolcemente s’alternavano a vegliare il cielo – ma le gioie violente hanno fine violenta9, e l’uomo è più violento di qualunque altra creatura.
Finché un giorno, alle fate non sono cadute le ali e, incapaci di volare, hanno dovuto ricorrere alla magia per continuare a fuggire: in un prato disseminato da soffioni si sono nascoste, facendo dei denti di leone la propria casa – temendo altri fiori che, dietro i passi degli uomini, si sarebbero spezzati10.
Ed è questo, che significa il soffione: fiducia, forza e persino speranza. Che è quello che Suga prova per Kiyoko, tra la foresta di campanule del suo cuore.
Lui si fida di lei, come potrebbe fare altrimenti? Le ha affidato, chissà quanto tempo prima, i propri sentimenti senza volerli mai riprendere con sé.
«Hai capito, non è vero?» le domanda, cogliendola come si fa con un fiore sporco di pioggia. «Altrimenti, non saresti qui».
Lei annuisce: si è fidata di lui, della fiducia cieca e irrazionale degli innamorati, costringendosi a ragionare su un dannatissimo soffione senza perdere la speranza.
«Non è stato semplice» risponde lei, calma. «Ma alla fine ho capito cosa intendevi ed è ».
Suga sorride, così dolcemente da far male, e allunga la mano per prendere quella di Shimizu: questa volta, non riuscirà più a lasciarla andare. Perché è solamente sciocco e doloroso, pensare di poter lasciare andare via qualcuno che si ama: siamo tutti troppo feriti per continuare a farci male da soli.
«Sì» ripete Kiyoko, con sicurezza. «Non voglio che la nostra sia distanza, che sia un distacco o l’ennesimo volare via dopo un soffio».
Sugawara non le ha mai sentito pronunciare una frase così lunga tutta in una volta e non riesce nemmeno a rispondere. Perché Shimizu lo guarda e sembra quasi potergli strappare via l’anima – le ali – con un minuscolo battito di ciglia.
«Sì» riesce a mormorare Suga, alzando una mano per sfiorarle i capelli. «Io voglio continuare a sperare con te».
Inaspettatamente, è Kiyoko a muovere un passo in avanti posando le sue mani, talmente esili, sulle spalle di lui. È un bacio lieve come una piuma o come l’ala di una fata, ma Suga spalanca gli occhi, sorpreso.
Le sfiora la schiena, temendo di frantumarla come una parete di silenzio, premendola contro il suo petto.
«Adesso basta, per volermi sposare?» le domanda, sorridendo. «Perché altrimenti temo proprio di non sapere più cosa inventarmi».
Lei ride.
 
***
 
Fuori da casa di Asahi tramonta il sole, illuminando la strada d’oro, ma Nishinoya è ancora lì: non si è mosso, da quando ha saltato gli allenamenti fino a quel momento, ma Asahi continua a far finta di non sapere che lui lo sta aspettando.
Non ha risposto più a nessuna chiamata ma, di tanto in tanto, a Yū sembra quasi di vederlo sporgersi appena dalla finestra. E lui rimane lì, a fissare quel punto indefinito in cui crede di scorgere Azumane, sperando in un segno.
Finché, alle dieci di sera, quando ormai tutto in lui gli grida di lasciar perdere e tornare a casa, Asahi lo raggiunge.
«Scusami» dice, imbarazzato. «Lo so che è stato crudele, costringerti ad aspettare qui, al freddo, per tutto questo tempo ma…».
Yū alza una mano, interrompendolo. «Ma me lo sono meritato» lo anticipa. «Lo so. Io… non sapevo cosa fare».
Perché l’ha sorpreso – no, l’ha travolto – anticipandolo in una confessione che avrebbe dovuto pronunciare lui.
«E così Suga ha iniziato a drogarsi?» domanda Asahi, imbarazzato. «Daichi mi ha detto qualcosa di simile, era incazzato nero».
«Se non si droga, è impazzito definitivamente» risponde Noya, ridendo. «Dovevi vederlo, con i soffioni e gli haiku, era… più Suga del solito».
Asahi sorride ma, sul volto, ha l’ombra di una domanda che non osa chiedere. E Yū lo sa, che quello è il momento in cui scoprire le carte, in cui deve dirgli tutto quello che gli si è agitato dentro in quei giorni.
«Io…» comincia. «Non sono bravo con queste cose, ma…».
Ma Asahi lo guarda, speranzoso, e Noya si rende conto che è la prima volta in cui si ritrova a essere timido con lui.
«Penso che tu mi sia sempre piaciuto, in qualche modo» ammette. «Non è solo per il gioco di squadra o altre stronzate. Dopo quella partita io… avrei solamente voluto proteggerti».
«Non avresti potuto» mormora Asahi, piano. «Non penso che te lo avrei mai permesso».
Yū lo guarda. E, se solitamente è vento o tempesta, forse persino un po’ irritante, in quel momento è insospettabilmente calmo11.
«Avrei dovuto» risponde, secco. «Se lo avessi fatto, non saremmo qui e tu… staresti ancora bene, Asahi-san».
Azumane non lo contraddice, ma china il capo: nella pelle già guarita, ancora uniforme, percepisce quasi delle vecchie cicatrici tornare a bruciare.
«Ma non sarebbe martedì» risponde. «E, allora, a me non basterebbe».
Yū sorride, speranzoso. «Tornerai ad allenarti?» domanda. «Tornerò a giocare anche io, se solamente tu…».
Ma Asahi scuote il capo.
«Quello mai» dice. «Chiedimi quello che vuoi, ma non quello. Non sono ancora pronto, io… quella partita la sogno ancora».
«Potresti provare, non è una scusa» sibila Noya, abbassando il capo. «Io starei dietro di te. Salverei tutte le palle murate e…».
Asahi lo guarda e sorride lievemente. «Non penso basterebbe» risponde. «A togliere la pressione». Si indica il petto, premendo leggermente contro lo sterno. «Puoi stare con me anche senza la pallavolo, ».
Ha detto di nuovo il suo nome, frastornandolo, strappandogli via l’arrabbiatura, le parole, e persino i pensieri. E, adesso, fatica a vederlo nella luce accecante del tramonto né riesce a comprenderne le parole né potrebbe dire qualcosa.
«Non ho soffioni con me» continua Asahi, sorridendo leggermente. «Né sono bravo come Suga con le parole. Ma ne conosco il significato».
Nishinoya rimane a guardarlo, incantato, mentre lo schiacciatore si china verso di lui, mormorando una singola parola sul suo volto.
Lui non riesce a – né vuole –trattenersi, così gli avvolge le braccia attorno al collo, tirandolo verso di sé. Asahi spalanca gli occhi, disorientato, ma non si ritrae di fronte a quello scontro tra corpi, tra labbra.
Noya inclina la testa, approfondendo il bacio, mordicchiandogli leggermente il labbro nell’ennesimo involontario sorriso.
In bocca, gli è rimasta quella parola dolcissima che, inavvertitamente, Sugawara gli ha riportato in mente soffiandogli addosso dei semi di dente di leone.
Speranza.
 
***
 
«Quindi, fammi capire» Daichi è incredulo. «Veramente l’hai convinta a riprenderti con dei soffioni?».
Lo dice con un disprezzo tale che Suga, steso sul proprio letto con i compiti sulle ginocchia, scoppia a ridere.
«Dimmi un po’, Dai-chi» cantilena, posando il quaderno sul pavimento. «Tu non avevi una personalità “fondamentalmente cortese”12
Sawamura  alza vistosamente gli occhi al cielo, chiudendo anche lui il proprio libro e voltandosi verso l’amico. «Lo sono, solitamente» dichiara, con solennità. «Ma tu, Asahi e Nishinoya avete decisamente messo alla prova la mia pazienza».
Sugawara ride. Era così tanto tempo che non lo faceva così sinceramente che, per un attimo, Daichi si volta a guardarlo, sorpreso.
Ma Suga ride e ride di cuore: dopo la più brutta caduta della sua vita, ha trovato la forza che gli serviva per rialzarsi. E quella forza ha un nome, che è quello del soffione, che dolcemente si piega contro la forza di un passo per poi rialzarsi subito dopo.
Si chiama speranza.
«Oh, tranquillo» mormora Suga, con un gesto della mano. «Continueremo sicuramente, come minimo domani succederà qualcosa di terribile».
«Non osare, Sugawara» risponde Daichi, minaccioso. «Se scopro che ne hai combinata un’altra, ti giuro che ti ammazzo con le mie mani».
«E poi» continua l’alzatore, pensieroso. «Asahi non è ancora tornato in squadra».
Daichi non lo dice ma, dopo aver parlato con Nishinoya, inizia a nutrire ben poche speranze riguardo a un eventuale ritorno in campo dell’asso e, con lui, del libero. Ma questo non può dirlo a Suga, che sicuramente se ne sentirebbe responsabile, così sospira e scuote il capo.
«Asahi è ancora ferito, Suga» mormora, piano. «Dai il tempo a Nishinoya di aiutarlo a ricostruirsi e, allora, tornerà».
Sugawara si adombra, per un attimo: il problema risiede esattamente in ciò che Daichi ha detto. Asahi è ancora ferito ma, in qualche modo dannatamente incomprensibile, la vita ferisce sempre e tutti loro hanno qualche cicatrice da nascondere.
Asahi non è solamente ferito, Asahi ha paura.
«Spero che tu abbia ragione» mormora. «Non manca molto al torneo primaverile. Abbiamo un coach, ma senza un libero e un asso possiamo fare ben poco».
Ma non è solamente quella, la preoccupazione di Suga, e Daichi lo comprende benissimo: l’alzatore teme che, in qualche modo che non comprenderà mai, Asahi non riesca a riemergere da quel lago oscuro in cui sta annegando. Che non gli basti Nishinoya per tornare a galla e, allora, si lascerà soffocare, prima lentamente e poi tutto in un colpo, violentemente.
«Tornerà» ribadisce Daichi, serio. «Asahi non è il tipo di persona che abbandona i suoi amici, la sua famiglia. Tornerà a giocare».
Eppure, niente riesce a cancellare dalla mente di Suga, il rumore di uno scroscio di pioggia che scioglie le nuvole irlandesi. Nel prato umido e bagnato, lì, vi sono delle fatine minuscole come conchiglie che saltellano e cercano di ripararsi le ali all’ombra dei funghi.
La loro magia illumina i fiori, mentre ritornano a casa nei propri denti di leone. Una di loro lo guarda, sorridendo amichevolmente nella sua mente, e si china per mormorare qualcosa. Speranza.
La fatina si sporge verso un fiore e, soffiando forte, ne spinge i semi lontano, nel vento.
Avrà espresso un desiderio?
Suga la guarda, perplesso, mentre comprende che la parola che gli ha sussurrato non è speranza. Mentre la lanugine gli plana addosso, capisce. Ha detto distacco.



 
Buona colazione a tutti!
Vi lascio un attimo le note:

9Shakespeare, Romeo e Giulietta (Atto II, Scena VI)
10La leggenda irlandese delle fate che vivono nei soffioni è invece ripresa da questa pagina 
11Frase ripresa dal manga (Vol. 3, cap. 17, p. 6)

Preciso che l'haiku di Suga è stato scritto da me, che come lui non scrivo Haiku, quindi prendetelo per quel che è.  Ovviamente il filo conduttore è il significato dei soffioni, che dovreste trovare nella pagina della leggenda.
Noi ci vediamo il 17 novembre con il capitolo nove, grazie a chi continua a seguire questa storia. Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, io vi svelo che è uno dei miei preferiti.

Gaia

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Capitolo 9
*** 9: Il silenzio dei fuochi fatui ***


9. Il silenzio dei fuochi fatui

 
Per tutte le donne è follia lasciare che in loro si accenda un amore segreto che, se non ricambiato e sconosciuto, divora la vita di cui si nutre; se scoperto e ricambiato, come un fuoco fatuo conduce in terre paludose da cui non è possibile liberarsi.
(Charlotte Brönte)

 
Se correremo dietro ai diritti senza avere assolto i doveri, ci sfuggiranno come fuochi fatui. Più li inseguiremo, più voleranno lontano.
(Mohandas Gandhi)
 
 
Hinata è inquieto. Nessuno ha chiaro come mai lo sia, dato che quel giorno è solamente un’insolita giornata di sole, ma Shōyō continua ad agitarsi e a saltellare sul posto come una piccola e irritantissima molla.
Ogni tanto, osserva la porta della palestra quasi come si aspettasse di vederla spalancata di fronte al ritorno di qualcuno – ma Asahi è in cortile, come ogni pomeriggio, in attesa di Nishinoya.
«Vuoi agitarti un altro po’?» gli domanda Tsukishima, ironico. «Sei calmo da far paura, Hinata».
Hinata lo guarda ma, sorprendentemente, non risponde né smette di agitarsi, irritando ancora di più il proprio compagno di squadra.
Daichi li osserva, poco distante, ma anch’egli è perso in quel pensiero insensato e persistente: Asahi ha scelto di non tornare in squadra. Per quanto sia sereno e felice, in quei giorni, lo schiacciatore s’è ancora rifiutato anche solamente di posare lo sguardo sull’edificio della palestra.
Noya prova a convincerlo ogni giorno, ma lui è irremovibile: non starà mai più così male per la pallavolo, questa è una delle poche certezze che Asahi pensa di avere. Mai più.
L’ha scottato, quella partita, lasciandogli un’inguaribile bruciatura tra gli organi interni: potrà dimenticarla ma, a ogni movimento, quella riprenderà inevitabilmente a dolere, deformandogli ossa e cuore. Come la scintilla solitaria nella brughiera, ogni notte essa s’accende per ricordargli il senso di colpa, la delusione e, infine, il sentire di aver perso Noya.
«Perché non gli parli?» propone Daichi, avvicinandosi speranzoso. «Forse, parlare con te potrebbe motivarlo».
«Io non credo che Hinata possa davvero motivare qualcuno» interviene Tsukishima, atono. «Al massimo, potrebbe irritarlo a morte, ma non penso che sia quello che cerchi di ottenere».
Il capitano sospira, pronto ad arginare la rabbia del rosso, ma Shōyō non si muove né da segno di aver sentito il discorso dei propri compagni di squadra. Dalla porta s’intravede Asahi, intento a leggere un libro, la fronte aggrottata su una frase un po’ ostica.
«Pensi che potrei davvero?» domanda a Daichi, scrutandolo con perplessità. «Dirgli che se non ritornasse, potrei superarlo e diventare io il nuovo asso? E allora lui potrebbe voler tornare».
Tsukishima si sistema gli occhiali, con fare divertito, ma un’occhiata impenetrabile di Daichi gli impedisce di proferir verbo.
«Certo che puoi» dice, convinto, il capitano della squadra. «Tentare non costa niente, no? Ed Asahi è proprio qui fuori, credo stia aspettando la fine dell’allenamento per tornare a casa con Nishinoya. Perché non lo raggiungi?».
Hinata fa per correre fuori, felice, ma Daichi lo prende per la collottola e indica con un cenno del capo il campo. «Lo farai dopo, Hinata» lo rimprovera, bonariamente. «Prima il dovere, poi tutto il resto. D’accordo?».
Il rosso annuisce senza convinzione, dirigendosi velocemente verso Kageyama. Fa attenzione a misurare i passi ma, dentro, continua a scalpitare.
«Ti vuoi concentrare?» gli sibila l’alzatore, nel vederlo così svagato. «Sei troppo distratto».
Ma Shōyō lo guarda e non risponde: alle sue spalle, dalla porta semiaperta, si scorge ancora Asahi e il suo libro. Lo schiacciatore non ha mai ceduto alla tentazione di sbirciare l’allenamento in corso, nemmeno quando sente la voce del ragazzo che ama chiamare un rolling thunder, tra le risate dei compagni di squadra per quel nome totalmente ridicolo.
Non alza gli occhi dal proprio libro. Chissà se lo sta leggendo per davvero, si domanda Shōyō distrattamente, o fa semplicemente finta.
 
***
 
«Asahi-san».
Azumane alza lo sguardo, sorridendo, ma non è Nishinoya il ragazzo che si ritrova davanti: è leggermente più alto e ha dei curiosi capelli color carota. Sembra scalpitare per dire qualcosa ma, forse, non trova le parole.
«Mi chiamo Hinata Shōyō» si presenta, orgoglioso. «E sono un centrale ma, un giorno, vorrei diventare l’asso della squadra».
«Oh» risponde Asahi, senza scomporsi. «Buona fortuna, sono sicuro che farai del tuo meglio».
«Non potremmo fare del nostro meglio insieme?13» domanda il ragazzo, speranzoso. «Non posso rubarti il posto o anche soltanto diventare più bravo di te, se tu non giochi più».
Lo schiacciatore serra i denti, di fronte a quelle parole, ma non si scompone né perde il sorriso cortese che gli decora il volto. «Sei forte abbastanza» risponde, gentilmente. «E lo avete già dimostrato, avete giocato diverse partite con la formazione attuale ed è sempre andata bene».
«Ma, se non riprenderai a giocare» continua Shōyō, con un’ombra di delusione nello sguardo. «Nishinoya non tornerà mai in campo e, allora, non sarà mai completamente felice. E Suga-san continuerà a sentirsi responsabile per tutto questo».
Asahi china il capo. «Lo so» ammette, triste. «Ma non posso nemmeno tornare. Io… non mi aspetto che capiate, però…».
Ma cosa c’è da capire, si domanda Asahi, riflettendo sul significato delle proprie parole. Lui sta ferendo deliberatamente Noya, ed è una consapevolezza talmente annichilente da fargli venire voglia di incidersi la pelle con le unghie, lì, davanti a quel buffo centrale.
Siamo tutti feriti ma, lui, negli squarci sul cuore di Nishinoya ci sta gettando sale e fuoco, impedendo loro di rimarginarsi.
E ha ferito anche Sugawara, forse persino più profondamente di quanto non abbia fatto da solo Suga stesso o di quanto abbia permesso a Shimizu di farlo. Perché Suga si sente responsabile, di quella sua crisi interiore, se ne sente il primo e unico colpevole – ma, a lui, non l’ha mai detto. Come potrebbe?
«Però non tornerai» lo interrompe Hinata, rassegnato. «Non capisco perché, comunque. Se odiassi per davvero la pallavolo, non aspetteresti qui ogni giorno».
Forse, ama più Noya di quanto non detesti la pallavolo. Forse. Ma il rumore della palla che impatta il terreno culla incubi e sogni a parimerito e, lui, non riesce a ignorare quel suono talmente familiare.
«No» conferma Asahi, piano. «Io… non sono ancora pronto. Se mai potrò esserlo».
«Essere murati sempre è molto brutto» commenta Shōyō, che proprio non riesce ad arrendersi. «Ma… continui a giocare per tutte le volte in cui sei libero di guardare dall’altra parte, no?».
Asahi sorride e, questa volta, sceglie di essere sincero con sé stesso. «Non deluderò mai più Suga, Daichi e gli altri» risponde. «Non deluderò di nuovo Noya».
Ma Hinata ha lo sguardo affilato come una lama e i pugni serrati, nel sentire quelle parole così piene di rimpianto. «Ma lo stai facendo già ora» commenta. «Non tornare è solamente l’ennesima delusione che potresti dargli».
Asahi scuote il capo, senza riuscire a guarda quel ragazzino negli occhi: Hinata Shōyō non può avere ragione, non può.
Lui non ferirà né deluderà Nishinoya mai più.
 
***
 
«Non te la prendere, Hinata» cerca di consolarlo Suga, nel vederlo dirigersi a casa tristemente. «Asahi… sta passando un brutto periodo. È molto difficile, cercare di farlo essere ragionevole».
Ma, in realtà, non è completamente vero: perché Asahi si sta ricostruendo, sta mettendo delle bende sulle ferite e, finalmente, sta ritornando a respirare. Non basta, però, respirare per permettergli di superare le proprie paure e tornare a giocare.
«Ha mollato» risponde Shōyō, atono. «E, se molli, non sei un vero asso».
 
***
 
Shimizu gli accarezza i capelli come fa con il cuore, cercando di massaggiargli via i pensieri. Ma Suga continua a guardare il cielo, da sopra le gambe di lei, cercandovi una risposta che non gli riesce di trovare.
«Non puoi trovare una soluzione a tutto» lo rimprovera bonariamente. «Permetti a Nishinoya di occuparsene».
Ma Hinata ha detto bene, perché Sugawara vive ancora nel senso di colpa: ha contato troppo su Asahi, pesando così tanto su di lui che, alla fine, l’ha spezzato. Qualche frammento è scivolato via, come pioggia, rendendo quasi impossibile ricostruirlo – ma Noya non demorderà mai, e questo lo sanno tutti loro.
«Potrei fare qualcosa» risponde, stropicciandosi gli occhi. «Io… non so bene cosa, ma deve esserci un modo per tornare indietro, per riportarlo qui».
Shimizu gli sfiora il petto con la mano, come per strappargli via il cuore. «Non addossarti sempre tutte le responsabilità» mormora. «Non è stata colpa tua».
Suga vorrebbe crederle, lo vorrebbe per davvero. Ma il suo senso di colpa è un fiore di fuoco che sboccia nella brughiera, la bruciante manifestazione del suo Akh14 che vola via tra le tombe prive di nome. Potrebbe sfiorarlo, e morire bruciato.
«Ho fatto troppo affidamento su di lui» sussurra, posando la propria mano su quella di lei. «L’ho sovraccaricato io, Kiyoko».
Lei sospira, senza smettere di carezzargli il capo. «No» ripete, ferma. «Azumane si è ferito da solo, Suga. E tu non puoi ricucirgli ferite che continuerebbe ad aprirsi da solo».
Suga pensa che, se lasciato solo con sé stesso, Asahi potrebbe non riuscire a tornare indietro: probabilmente, è quello che pensa Noya, che è diventato la divinità guardiana del ragazzo. Sugawara non lo dice mai, ma li vede e comprende – comprende perché Noya scruti ansioso ogni passo di Asahi, come se lo schiacciatore dovesse reimparare a camminare.
In un certo senso, è esattamente così: Azumane zoppica e inciampa lungo la strada della vita, da mesi, e solamente Nishinoya riesce a costringerlo a rialzarsi dopo ogni caduta.
Siamo tutti feriti¸ ha detto a Kageyama. Ma, forse, esiste qualcuno con ferite più profonde degli altri.
«Non posso continuare a “dargli tempo”» mormora Suga, piano. «Se non torna, forse, è perché non vuole farlo e basta».
Kiyoko lo guarda, sorpresa, ma non dice niente. Come potrebbe contraddire una frase talmente veritiera?
 
***
 
«Asahi-san?» Noya lo chiama, seduto per terra con aria pensosa. «Ormai è ora di cena. Non dovresti prendere le tue medicine?».
Azumane lo guarda e tace, imbarazzato. «Non ancora» ammette. «Non… io…».
«Non devi vergognartene» commenta Nishinoya, battendo la mano sul proprio petto. «Io voglio che tu le prenda, perché so che possono aiutarti. Voglio che tu ti riprenda e non puoi volerlo fare da solo».
Ad Asahi si ferma il cuore. A Noya non ha il coraggio di dirlo ma, lui, quelle pillole non vuole più prenderle. Adesso, sente proprio di poter farcela da solo – da solo con lui – e, quindi, ogni medicamento ha perso di senso.
«Non posso prenderle davanti a te» mormora, imbarazzato. «Penso che andrò in cucina, se non ti dispiace».
Nishinoya non lo ferma, né il dubbio lo assale: rimane a guardarlo scendere le scale, con il blister di pillole perso tra le mani troppo grandi. Asahi scende le scale a passi pesanti, fino ad arrivare in cucina, dove si versa un bicchiere d’acqua.
Ma, quando la pillola gli cade in mano, qualcosa gli urla no, non farlo. Così, rovescia la mano davanti a sé.
Il Remeron cade nel lavandino, giù per lo scarico, scomparendo in un vortice.
 
***
 
Asahi non dorme più.
La notte, la passa guardando Noya dormire al suo fianco o, nelle sere in cui lui è costretto a tornare a casa, a fissare il soffitto contando i minuti che lo separano dall’alba. È fredda, l’aria notturna, ma ormai non riesce nemmeno a tremare – non ne ha più la forza, né la voglia.
Perché non dorme più e, lentamente, il suo mondo si sta riducendo a una matassa informe e sonnolenta, scandita solamente dai respiri di Nishinoya – e, per questo, metà delle sue notti sono solamente vuote e inutili.
Asahi non dorme più, ma Noya non lo sa: Yū pensa che si sia miracolosamente ripreso, perché Azumane è pieno di energie, di voglia di fare, ed è persino tornato a mangiare normalmente. Non è più graffiato ma, dentro di sé, ha ancora qualcosa che ruota a destra quando, invece, dovrebbe farlo a sinistra.
Asahi non dorme più e Noya non si è ancora reso conto che è perché ha smesso di prendere le proprie pillole. O, almeno, così crede.
«Stai bene?» sussurra assonnato, Noya, nel buio della stanza. «Continui a rigirarti e sono le quattro di mattina».
«Non riesco a dormire» risponde Asahi, stropicciandosi gli occhi. «Non preoccuparti per me, tu cerca di riposare. Domani hai l’allenamento».
Ma Nishinoya si tira su a sedere e lo guarda, freddo. «Pensi che non abbia capito, Asahi?» domanda, calmo. «Forse non sarò bravo a scuola come Suga o Daichi, ma non sono nemmeno così stupido come pensi».
Azumane non riesce nemmeno a rispondere, perché Yū alza una mano, per dirgli di non dire niente. «Io lo so, che hai smesso di prendere le medicine» sussurra. «Stavo aspettando che tu me lo dicessi, ma adesso mi è chiaro che non lo farai mai di tua spontanea volontà».
Si alza, mettendo la giacca della divisa scolastica sopra il pigiama. «Scusami» sussurra. «Ma è meglio che io torni a casa».
Quella sera, Asahi non dormirà e desidererà non doverlo fare mai più – perché sognerebbe e sognerebbe Noya.
 
***
 
«Come?» domanda, Suga, spalancando gli occhi. «Cosa vuol dire che non hai più intenzione di avere niente a che fare con Asahi?».
Daichi si massaggia le tempie, cercando di non perdere la pazienza, anche se l’espressione turbata di Noya da sola basterebbe. «Aspetta» borbotta. «Non dirlo subito, dammi cinque minuti».
Daichi respira profondamente, mentre si trattiene dal domandare a Yū cosa ci sia di sbagliato in lui – così come s’era trattenuto dal farlo con Sugawara – per voler lasciare andar via la persona che ama.
Perché è evidente che Yū si sia asportato il cuore a unghiate, per trovare la forza e la voglia di lasciar scivolare via i propri sentimenti di Asahi, di lasciarli bruciare nel silenzio afoso di un cimitero in una notte di agosto.
È davvero fuoco, quello che arde nel suo petto, o è semplicemente una magica e orribile illusione? Forse è autocombustione, l’incontro tra due elementi – lui e l’assenza di Asahi – che non dovrebbero mai coesistere e, allora, infuocano la nottata come spiriti mai sopiti.
«Si sta facendo del male per causa mia» sussurra Noya, abbassando lo sguardo. «Per stare con me».
Istintivamente, sia Suga sia Daichi si sporgono per controllare che non abbia le lacrime agli occhi ma, in verità, Nishinoya è solamente furioso. Stringe i pugni come potessero sfuggire dal suo controllo, e ha i denti serrati tra di loro.
«Sei arrabbiato» constata Suga, con ovvietà. «Ci credo, che hai agito con impulsività».
«Non sono arrabbiato» urla Noya, concitato. «Vorrei solamente capire! Come ha potuto pensare che fosse una buona idea?».
Sugawara gli lancia uno sguardo pieno di scuse. «Perché credeva di stare bene» risponde, cautamente. «Perché tu lo facevi stare bene».
Yū china il capo, passa una mano tra i capelli rigidi di gel. «Quindi è colpa mia» mormora, esausto. «Ho fatto bene, ad andare via».
Daichi gli mette una mano sulla spalla, con dolcezza. «Non fraintendere» lo ammonisce. «Suga non intendeva dire che hai fatto bene, solo… cerca di comprendere Asahi: deve essergli sembrato un miracolo. Devi essergli sembrato un miracolo».
Ma Noya scuote il capo e si scrolla di dosso la mano del capitano. «Peccato» sussurra, affilando lo sguardo. «Che i miracoli non esistano: starà peggio per colpa mia e io non posso farci niente, se ne sono la causa».
«Non puoi semplicemente lasciarlo andare» cerca di farlo ragionare Daichi. «Suga ci ha ampiamento dimostrato come sia un metodo fallimentare».
Suga scocca un’occhiata offesa al suo compagno di squadra, ma non dice niente: Yū li sta osservando e ha un’espressione che inquieta.
«Non per me» risponde. «Io, a differenza di Sugawara, so perfettamente come fare a lasciare andare».
Nessuno dei suoi due interlocutori riesce a rispondere, di fronte a tanta cieca e bruciante determinazione, così Noya abbassa lo sguardo e si allontana velocemente.
Ha le mani in tasca, a contatto con il telefono che vibra l’ennesima chiamata di Asahi. Ma Yū non risponde mai.
 
***
 
Non chiede aiuto: d’altronde, non saprebbe a chi chiederlo, né chi vorrebbe poterglielo dare. Eppure, quando arriva a scuola, Daichi e Suga lo guardano come se si aspettassero delle parole – che non arrivano.
«Asahi» lo chiama Daichi, con tono fermo. «Dicci cosa possiamo fare per te: noi sappiamo che Noya ti ha…».
«Lasciato» completa Azumane, atono. «Sì, immaginavo».
L’ha lasciato, buttato via come spazzatura, abbandonandolo da solo in un letto di lacrime amarissime e sparendo nella notte. Il buio s’è inghiottito Noya e, da quel momento, lui ha cercato in ogni modo possibile di nascondersi da Asahi.
«Forse, se tu gli parlassi» osserva Daichi, cauto. «Se ti scusassi, forse Nishinoya tornerebbe indietro: non è una persona in grado di portare rancore».
Ma, dietro quella calma che lo caratterizza, nemmeno lui ne è totalmente sicuro: in questo momento, nascosto chissà dove, Noya sta bruciando. In lui arde una rabbia assetata, che non riesce a saziarsi della sua anima soltanto.
«Lo sai anche tu, che non basterebbe» risponde Asahi, placidamente. «Non è solamente arrabbiato, è deluso».
E, allora, la delusione di Noya è combustibile in una notte d’agosto, sotto le stelle meno scintillanti dei fuochi fatui: se lo toccasse, Asahi si brucerebbe le mani. Non che gli possa importare – a lui, quelle mani non servono più.
 
***
 
Dentro Yū c’è silenzio.
È come se i pensieri rimbalzassero in una stanza sempre vuota, dissolvendosi ogni volta che ne toccano le pareti. Lì dentro, è al sicuro: non vedrà Asahi smagrire e divenire sempre più stanco, non di nuovo, non vedrà il tremore che gli divora le ossa giorno dopo giorno. Non lo vedrà più.
Nelle pareti bianche della sua mente, vi è uno schizzo di sangue che vi s’apre sopra come l’ennesima ferita, e suona come il nome di Asahi. Ma Noya ha promesso a sé stesso che non sarà lui, la causa della malattia del ragazzo che ama: così, con più coraggio di quanto non ne abbia avuto Suga, semplicemente lo lascerà andare.
Ne è convinto ma, allora, perché c’è così silenzio dentro di lui?
Una scintilla brilla tra quelle pareti, illuminandolo. Ma, quando prova ad avvicinarvici le mani per riscaldarsi, scopre che rimarrà solo, al freddo e in silenzio: è solamente un fuoco fatuo in una stanza vuota e muta.


 
Buongiorno e buona colazione a tutti!
Vi lascio il capitolo in tutta fretta, dato che devo mettermi a lavorare, ricordandovi che il prossimo sarà fuori il 21 novembre e conterrà dosi massicce di filosofia.
Ho dimenticato una nota del precedente cap che provvisoriamente aggiungo qui e che sistemerò appena potrò (a contest terminato, dato che prima non posso modificare i capitoli postati):

12Frase ripresa dal manga (Vol. 3, cap. 19, p. 6)
13Frase ripresa dal manga (Vol. 3, cap. 18, p. 6)
14Manifestazione dell’anima, tramite i fuochi fatui, secondo gli egizi

Grazie per avermi letta!
Gaia

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Capitolo 10
*** 10: Il paradosso di Moore ***


10. Il paradosso di Moore

 
Il grande inganno, è che le cose siano come esse sono.
(Hegel)

 
The common explanation of Moore’s absurdity is that the speaker has managed to contradict himself without uttering a contradiction. So the sentence is odd because it is a counterexample to the generalization that anyone who contradicts himself utters a contradiction.
[La spiegazione comune del paradosso di Moore risiede nell’assurdità di un oratore che riesce a contraddirsi senza pronunciare una contraddizione. Dunque la frase è strana in quanto si pone come un controesempio alla generalizzazione secondo cui chiunque si contraddice lo fa pronunciando una contraddizione]15
(Stanford Encyclopedia of Philosophy)
 
 
Yū lascia casa, la sua famiglia, una promessa16.
L’allenatore della Nekoma ha invitato la squadra a un ritiro di tre giorni e, ovviamente, Ukai ha letteralmente colto la palla al balzo. Ed è la prima volta che Noya partecipa a una partita, da quando Asahi ha lasciato la squadra, infrangendo la promessa che ha fatto a sé stesso.
Ma, d’altronde, il guaio delle promesse fatte da solo risiede esattamente nella possibilità di ingannarsi per non perdere mai. E Nishinoya si dice che non può infrangere, una promessa, se Asahi ha rovinato tutto prima di lui.
È arrivato in palestra mentre Ukai decideva la formazione, con aria pensosa. Si è avvicinato a grandi passi, con una sicurezza che non prova – l’angoscia di quel tradimento a sé stesso lo azzanna e gli dilania il cuore – e ha detto, semplicemente, ci sono.
«Sei sicuro, Nishinoya?» domanda Daichi, cauto. «Io… ho sempre rispettato la tua decisione, lo sai».
Ma, arrivati a quel punto – riflettono entrambi, silenziosamente – che valore potrebbe avere una promessa?
Perché Noya si guarda attorno, e ha una tale delusione nello sguardo che fa male ricambiarlo: forse infrangerà la sua promessa ma, presumibilmente, è lui stesso infranto in una miriade di cocci affilati e irregolari.
«Gioco» ripete Yū, con convinzione. «La prego, mi permetta di partecipare: io sono pronto».
«Non sapevo che Azumane avesse deciso di tornare» borbotta l’allenatore, senza convinzione. «Non è venuto a dirmi niente».
«Non lo farà» risponde Noya, atono. Vorrebbe ridere, ma non riesce a far uscire quel suono inquietante dalle labbra. «Ma non importa, ormai le promesse non contano più niente».
«Capisco che tu sia arrabbiato» s’intromette Daichi, lanciando uno sguardo indecifrabile ad Ukai. «Ma sappiamo entrambi che te ne pentiresti: vieni con noi, ma non giocare. Te lo chiedo come favore personale».
Servirebbe a qualcosa?
Noya osserva il capitano della squadra e scuote il capo, stanco: gli si è spezzato qualcosa tra testa e cuore, impedendogli di voler continuare a proteggere Asahi da sé stesso.
È paradossale, che Nishinoya abbia semplicemente deciso di lasciar perdere, paradossale e ingiusto: ma come potrebbe, Daichi, dirgli di continuare a difendere un ragazzo con cui non vuole più avere niente a che fare?
«Va bene» capitola Noya, chinando il capo. «Ma voglio venire con voi. E, se durante la partita volessi entrare in campo, permettimelo Daichi».
Il capitano annuisce, in un tacito assenso strappato con la forza della disperazione, ma si vede lontano un miglio che non riesce a esserne convinto fino in fondo. Perché non è Nishinoya, a chiedere di poter giocare, è la sua delusione di fronte a una promessa incrinata e rotta. Ma non è forse tutta rotta la vita stessa, come Asahi, forse si sono rotte anche le sue speranze?
Noya sorride vittorioso, ma dentro ha qualcosa che suona di vuoto.
 
***
 
Cosa puoi fare, quando ami l’unica persona che è in grado di metterti a nudo senza dire una singola parola?
Sugawara ama Shimizu ma, quando lei l’osserva e sembra cogliere ogni imprecisione o sfumatura della sua pelle, forse un po’ la teme. La teme per la sua comprensione, per la prontezza con cui lo coglie come un fiore o un’idea solitaria ma, soprattutto, la teme per il suo essere talmente sé stessa. Perché Shimizu legge, seduta sul suo letto, con le gambe incrociate e sembra totalmente dentro quel libro, tanto da non avvertire lo sguardo del ragazzo, che si sporge per cercare di comprenderne il titolo.
«Mi stai facendo venire mal di testa» lo riprende Kiyoko, chiudendo il libro. «Non puoi semplicemente chiedermi cosa sto leggendo?».
Suga la guarda, imbarazzato. «Scusami» borbotta. «Non volevo disturbarti, sembravi molto interessata».
Lei sorride, voltando leggermente il libro, in modo da permettergli di leggere il titolo sulla copertina.
«La strategia verbale del buddhismo?»19 domanda Sugawara, perplesso. «Non pensavo ti interessasse la filosofia».
Ci sono troppe cose che deve ancora scoprire di Shimizu, pensa con una venatura di rimpianto, cose che non sa e che nemmeno immagina. Perché la ragazza sfiora la copertina di quel saggio come se fosse pelle nuda, con affetto quasi.
«M’interessa» conferma lei, parca di parole. «Da sempre».
«Non ne so niente, di queste cose» ammette Suga. «Ma potresti sempre insegnarmi qualcosa, se ti va».
Si siede al suo fianco – sfiorandole la mano come lei fa con i suoi pensieri – e occhieggiando con curiosità al libro, nuovamente aperto. Alla prima parola insensata che riesce a estrapolare da quelle righe – sprachspiel18 – Suga scuote il capo, confuso.
«Non penso che potrò mai capirci qualcosa» ride, alzando le mani. «Ma potresti sempre provare a spiegarmi, io… mi piace sentirti parlare».
Le ride, imbarazzata, e si volta per guardarlo: ha gli occhi luminosi come stelle, mentre inclina la testa. Non dice niente, lo guarda e basta, divorandolo con il proprio silenzio.
E lui non può – in tutta sincerità, semplicemente non può – trattenersi dall’avvicinarsi a quel sorriso, depositandovi un bacio lieve come un’ala di farfalla. Sorprendentemente, è lei a prendere l’iniziativa, allacciandogli le braccia al collo.
Non mi lasciare, urla silenziosamente, non lasciarmi scivolare via di nuovo. E Suga, che ha compreso come l’assioma del lasciare andare chi si ama sia solamente l’ennesimo assunto falso, la stringe a sé con un’urgenza quasi dolorosa.
Perché forse Shimizu non lo sa, né mai lui troverà il coraggio di confessarglielo, ma è l’unica che riesce a privarlo dell’equilibrio senza aver bisogno di pronunciare una singola parola.
Le sfiora una gamba, timoroso di un rifiuto, lungo il bordo della gonna: un confine che non ha mai oltrepassato.
Ma Kiyoko annuisce, dolcemente, facendo scivolare il libro sul pavimento. Sì.
 
***
 
Che senso ha un bacio o qualcosa di più se, poi, ogni promessa fatta, ogni patto e ogni concessione, a conti fatti non vale più niente?
Noya prepara la propria borsa con un’espressione astiosa e corrucciata, sebbene sia da solo nella propria camera da letto. Sono giorni che il suo telefono suona ininterrottamente, a tal punto che gli sembra quasi di sentirlo anche dopo averlo messo in modalità silenzioso, e lui lotta con la tentazione di rispondere. Anche solamente per urlare ad Asahi un sonoro vaffanculo, o per rimanere in silenzio ad ascoltarne il respiro rotto dal pianto.
Perché gliel’ha confessato Suga, entrando a sorpresa nella camera e guardandolo con un irritante misto di speranza e comprensione, che Asahi vaga per i corridoi con gli occhi lucidi. Che non è depressione, quella no – ha ripreso a prendere le pillole – ma mancanza.
Chissà se l’ha fotografata, quella mancanza, e appiccicata sul muro per coprirne i buchi neri. Noya scuote il capo, contrariato: ha gettato via, le proprie fantasie per Azumane, ha gettato via Azumane.
«So che soffre» sibila, in direzione di Suga. «Ma non ci credo».
Suga sospira, ma non si arrende. «Spero che tu ti renda conto di quanto sia paradossale» commenta. «Come fai a non crederci, se è qualcosa di talmente evidente? È come dire piove, ma non ci credo».
Noya alza gli occhi al cielo, ma non risponde, continuando a gettare magliette e biancheria nel proprio borsone.
«Si può sapere cosa ci fai qui?» commenta, atono. «Dovresti smettere di dire a mia madre che mi aiuti a studiare, prima che si illuda inutilmente di un miglioramento dei miei voti».
Sugawara ride, ma non molla il punto. «Volevo vedere se non avessi già cambiato idea, riguardo alle partite» commenta. «Ma vedo che ancora non ti sei reso conto di quanto sia una pessima trovata».
Perché se dovessero vincere anche solamente una partita, la psiche di Noya ne rimarrebbe inevitabilmente segnata, di fronte alla semplice evidenza che la squadra e lui stesso possono continuare a esistere senza Asahi. Suga ne è certo, Yū non può aver rinunciato per davvero allo schiacciatore.
Può cercare di convincerne – scappare di casa, dalla sua famiglia e persino dalle sue promesse – ma non può superare Asahi come fosse semplicemente un’insegna di una strada troppo lunga.
«Davvero, Suga» lo apostrofa Nishinoya, a denti serrati. «Dovresti farti gli affari tuoi, sei ancora in tempo per cominciare».
«Tu sei ancora in tempo per metterti una giacca, uscire e andare da Asahi» risponde il palleggiatore, calmo. «E dirgli che sei un idiota e che non riesci a rimanere sano di mente, senza di lui».
«E tu sei ancora in tempo per andare da Shimizu» risponde Noya, serio. «E dirle che ti ha lasciato un gigantesco succhiotto sulla clavicola».
Suga scuote la testa, esasperato, ma non riesce nemmeno a impedirsi di sfiorarsi il petto, confuso.
«Cerchi di distrarmi?» gli domanda, esasperato. «Nishinoya, davvero, ti stai comportando da idiota».
Ma Yū guarda la finestra, con aria immensamente seria e, per un momento, Suga s’illude di essere riuscito a farlo ragionare.
«Piove» constata Noya, invece, sfiorando il vetro con la punta delle dita.
Sugawara sorride, nel guardare l’acqua che s’infrange sul terreno, rendendolo fangoso. «Già» commenta. «Ma immagino che tu sia pronto a dire che pensi di no».
 
***
 
Asahi cammina senza ombrello, ma la pioggia non sembra sfiorarlo: perché, quando la vita ti ferisce, tutto il resto viene relegato al rango di semplice pizzicore. Un fastidio minimo che si perde in un dolore senza confini, o fine, che ti sbocconcella cuore e nervi.
È solo. Non riesce a cercare la compagnia di Suga o Daichi così che, dopo le lezioni, s’avvia da solo verso casa avvolto in una cappa di rigido silenzio. Qualche volta, sente una bicicletta sfrecciargli accanto, arruffandogli i capelli come una raffica di vento. Finché, in un giorno che non sa quantificare, la bicicletta gli si ferma accanto accompagnata dallo stridore dei freni.
«Asahi-san» urla un ragazzo con dei curiosi capelli arancione, scendendo dal veicolo. «Non pensavo saresti sparito».
«Sono ancora qui» risponde Azumane, perplesso. «Non… io non sono sparito».
Ma Hinata scuote il capo, facendo volare diverse goccioline d’acqua: ha i capelli bagnati, ma non fa niente per ripararsi. «Non sei più venuto a leggere davanti alla palestra» risponde. «Mi piaceva vederti lì, pensavo che un giorno saresti persino entrato».
Asahi si domanda come faccia, quel ragazzo, a essere così ottimista: perché lui vive nella certezza assoluta e incontrovertibile che mai più sfiorerà la rete o un pallone, ma Hinata non ci crede. E non è paradossale, smontare una credenza altrui, ma ad Asahi sembra proprio di sì.
«Non l’avrei mai fatto» risponde, atono. «Non avrei potuto».
«Ma, se Nishinoya avesse continuato a chiedertelo» ribatte Shōyō, con convinzione. «Un giorno avresti cambiato idea. Anche lui lo diceva sempre, che sarebbe riuscito a riportarti in squadra».
Azumane alza gli occhi al cielo, sporcandosi di pioggia per poter fingere, almeno con sé stesso, di non avere lo sguardo bagnato di lacrime.
«Non avrebbe potuto» sussurra, piano. «Non me lo sarei mai permesso, di tornare indietro».
«Domani partiamo per degli allenamenti contro la Nekoma» lo interrompe Hinata, con entusiasmo. «Vieni con noi. Sono solamente tre giorni, non devi per forza giocare».
Ma Asahi gli restituisce uno sguardo di pioggia congelata, salata, che fa venire i brividi. Scuote il capo, con lentezza esasperata.
«Non posso» dice, semplicemente. «Che il cielo mi perdoni, ma non posso fare una cosa del genere».
 
***
 
Daichi sospira, nel vedere Noya con il borsone così pieno da essere sul punto di aprirsi e vomitargli mutande e calzini sui piedi, ma non dice niente. Non gli domanda nemmeno se è sicuro, di volere infrangere ogni promessa che ha fatto a sé stesso, perché Nishinoya è abbastanza deluso e arrabbiato con Asahi da poter frantumare promesse, fantasie e patti sacri.
«Nishinoya» lo saluta, facendo l’appello. «Tanaka, Tsukishima… Hinata e Kageyama, piantatela immediatamente di litigare!».
«Siete riusciti a farlo arrabbiare in sei secondi netti» osserva Sugawara, stupito. «Credo sia un record».
«Suga… ma è un succhiotto, quello che hai sulla clavicola?» domanda Daichi, con gli occhi spalancati. «Non voglio saperne niente, non rispondermi. Yamaguchi, Tanaka, Ennoshita… Asahi?».
Quel nome cade nel silenzio, mentre Noya si volta, spaesato, cercando la figura familiare dell’asso della squadra. Ma, davanti al pulmino, non c’è nessuno.
«Scusate» mormora Daichi, massaggiandosi le tempie. «La forza dell’abitudine. Nishinoya, mi dispiac…».
«Non dirlo» risponde Yū, atono. «Narita e Kinoshita ci sono, adesso possiamo andare?».
Volta le spalle a Daichi, costringendolo ad ascoltare il suo silenzio, prima, e il rumore dei suoi passi, poi.
 
***
 
«Siediti accanto a me» Shimizu sorride dolcemente, mandando Nishinoya  completamente in tilt. «Suga è stato rapito da Daichi».
 Yū la guarda e non comprende, così si limita a scivolare sul sedile, disorientato. «E tu gli permetti di farsi rapire da Daichi?» domanda, perplesso. «Guarda che per come vanno le cose in questa squadra, potrebbero benissimo avere una relazione».
Lei ride, senza risparmiarsi un’occhiata in direzione di Sugawara, impegnato in una fitta conversazione con Sawamura.
«Hai ragione» ammette, sorridendo quieta. «Mi toccherà fare attenzione, allora».
Shimizu ha un libro sulle gambe, decorato da un piccolo segnalibro rosso fuoco che cozza con la copertina oltremare.
«Il paradosso di Moore: una critica al rappresentazionalismo21» legge Noya, grattandosi il capo. «Cosa vuol dire?».
«Oh, è filosofia» risponde Shimizu, illuminandosi. «Si tratta di un paradosso logico… una contraddizione, se preferisci».
«Ah» borbotta Nishinoya, poco sicuro di aver compreso. «E quale sarebbe, questa contraddizione?».
«Affermare una frase e al contempo dire di non crederci» spiega Kiyoko. «Se la frase è un’evidenza e si parla in prima persona».
Noya sbuffa, cercando di raccapezzarsi in quel discorso. «Mi puoi fare un esempio?» domanda, incerto. «Io… sono meno bravo di Suga, in queste cose, e credo anche lui ci capisca molto poco».
«Piove» risponde Shimizu, indicando il finestrino. «Ma io credo di no».
 
***
 
S’è tolto il bracciale con le conchiglie e lo ha chiuso in un cassetto – lontano dagli occhi, lontano dal… no, è una bugia bella e buona – dove potrà lentamente dimenticarsene. Forse non tutto in un giorno, ma piano, con la progressiva erosione della memoria che avviene da una notte alla successiva.
E, un giorno, Asahi sarà libero. Del ricordo di Noya, che lo insegue nei suoi incubi come l’ennesimo spettro, forse persino si libererà dai suoi pensieri e, allora, riuscirà a essere vuoto e privo di fantasie come un meraviglioso vaso di vetro. Incrinato.
Forse. Ma, la verità, è che Asahi s’è riempito di pensieri e parole così tanto che, adesso, se scoppiasse dalla sua testa uscirebbe solamente il suo nome.
Ha provato a chiamarlo. Disperatamente, continuamente, ma Noya non ha risposto mai: forse è troppo orgoglioso, forse è semplicemente deluso. Ma non risponde né alle chiamate né alle preghiere e, così, Asahi s’è quasi convinto a lasciarlo andare.
Perché gli hanno detto che Yū vuole riprendere a giocare con la squadra: che ha deciso di partecipare agli allenamenti con la Nekoma e ha detto all’allenatore Ukai che giocherà anche lui come libero.
Asahi è ferito da questa scelta e nemmeno sa il perché.
 
***
 
«Ti squilla il telefono» Shimizu indica con un dito il cellulare, che s’illumina e lampeggia. «Da almeno dieci minuti».
Nishinoya sospira, come se quella lucina fosse in grado di assorbirgli pensieri ed energia, risucchiandoli. Con le mani si aggrappa al sedile, quasi come se quel gesto fosse in grado di assorbirne il tremolio.
«Lo so» sussurra, senza nemmeno guardare lo schermo. «Credo sia ancora Asahi».
Lo dice con una tale esasperazione che a Kiyoko, in un doloroso momento di empatia, si stringe il cuore, seguendo l’armonia di un ricordo quasi sbiadito nella trama della memoria.
«E perché non gli rispondi?» domanda, incerta. «Perché tu vuoi rispondergli».
È evidente ma Noya, che si guarda le scarpe come potesse scorgervi una risposta, si costringe a scuotere il capo.
«Non ho più niente da dirgli» mormora. «Io… è diverso, da quello che stai pensando tu».
Perché Sugawara e Shimizu vivono l’amore delle favole, dove l’uno è il completamento perfetto dell’altra, e insieme sono solamente le ennesime rette coincidenti. Al contrario, Yū e Asahi sono due asintoti, che tendono disperatamente l’uno verso l’altro senza toccarsi mai.
Perché è semplice e coerente, la relazione tra Suga e Kiyoko, senza continue incomprensioni o ferite interne; non hanno bisogno di ferirsi continuamente a vicenda, non hanno bisogno di salvarsi.
«Ma vorresti comunque rispondergli» osserva Shimizu, placidamente. «Potresti farlo e basta, senza messaggi in bottiglia, lettere e soffioni».
Lo dice ridendo, ma è con messaggi, lettere e soffioni che Suga le ha maciullato il cuore, legandola a sé.
«Importa?» domanda Yū, stringendo i denti. È ancora semplicemente furioso. «Parlare non cambia le cose».
Ma ignorarlo non gli impedirà nemmeno di volerlo indietro, pensa distrattamente Shimizu, giocherellando con la copertina del proprio libro. Perché è totalmente evidente il fatto che Nishinoya desideri con tutto sé stesso rispondere a quelle telefonate, come desidera prendere a pugni Asahi o baciarlo fino a fargli male.
«No, non lo farà» conviene lei, placidamente. «Ma non le cambierà nemmeno non farlo».
Yū sospira, guardando distrattamente fuori dal respiro: una parte di lui, quella più ferita e sanguinolenta, pensa distrattamente che Shimizu abbia ragione. Che la vita ferisce comunque, qualunque cosa tu faccia: e, allora, varrebbe la pena di farsi ferire insieme.
Ma Asahi s’è frantumato sui loro sogni, distruggendoli, e Noya non è bravo a perdonare: è l’abbandono, che lo sfregia come una cicatrice, non la bugia sulle pillole. È il fatto che Asahi si sia nuovamente rinchiuso tra le quattro mura della sua mente, lasciandolo fuori ad attenderlo, sotto la pioggia e bagnato dal silenzio.
«Non posso» mormora Noya, semplicemente. «Anche se lo facessi, non penso che riuscirei a dimenticare».
Così come non riesce a dimenticare lui.
Yū guarda fuori dal finestrino, dove il sole ha cominciato ad abbracciare dolcemente il paesaggio, riscaldandolo con i propri deboli raggi.
Dentro di lui sta piovendo. Ma Noya non riesce a crederci.


 

Io mi scuso con coloro che non amano la filosofia, per questo capitolo, ma mi serviva per introdurre un avvenimento (che mi farà odiare da tutti voi) del prossimo capitolo che, a proposito, sarà fuori il 25 novembre, quindi prestissimo. Non riesco a crederci che già manchino così pochi capitoli all'epilogo, ringrazio tutti per avermi letta e vi lascio alle note di questo capitolo:

15La traduzione è stata fatta di me. Fornisco anche una brevissima spiegazione sul paradosso di Moore, esposto da Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche (parte II, nonché manifesto del secondo Wittgenstein). Per non farla molto lunga, lo spiego in parole povere. Il paradosso di Moore riguarda la contraddittorietà, reale o presunta, dell’affermare P ma al contempo affermare di non credere in P. Poiché non si afferma, secondo Wittgenstein, qualcosa in cui si crede, la frase sarebbe contraddittoria. Un celebre esempio del paradosso è citato nel testo: “Piove, ma io penso di no”.
16 Frase ispirata dalla canzone dei Baustele, L’orizzonte degli eventi (Paola lascia casa. Il ragazzo, la famiglia, una gatta)
17Il saggio esiste davvero e potete trovare il suo collegamento con Wittgenstein, qui
18Dal tedesco, gioco linguistico
19Anche questo saggio esiste per davvero, e lo trovate in questa raccolta, come primo saggio

Detto questo auguro a tutti una buona colazione e un buon finesettimana.
Gaia

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Capitolo 11
*** 11: Crepe strutturali ***


11. Crepe strutturali

 
C'è una crepa in ogni cosa.
Ed è da lì che entra la luce.
(Leonard Cohen)

 
Ella non sapeva che sulle terrazze delle case la pioggia forma laghetti quando le grondaie sono ingorgate, e avrebbe continuato a credersi al sicuro, quando a un tratto scoprì una crepa nel muro.
(Gustave Flaubert)
 
 
Tre giorni passano in fretta: il tempo scorre in maniera diversa, nelle assenze e, se per Noya dura tutto una manciata di secondi, per Asahi diventano tre secoli.
Yū ha giocato. Una partita solamente e per l’ultimo set, ma Ukai gli ha permesso di entrare in campo sotto lo sguardo scontento di Daichi. Un paio di volte, un Asahi-san gli s’è bloccato in gola, costringendolo a tossire – non si sarebbe mai perdonato, se lo avesse detto.
Così, ha partecipato alla partita, ha salvato quanti più palloni possibili e, dopo aver strappato la partita alla Nekoma, è uscito dal campo. Camminando lentamente, è arrivato fuori dalla palestra.
Lì, s’è accasciato sopra le proprie ginocchia ed ha urlato.
Daichi gli è corso dietro, insieme a Suga, e si sono seduti sul prato accanto a lui, senza osare sfiorarlo. Perché ha urlato così tanto che gli sarebbe venuto facile, lacerarsi la trachea e soffocare il un lago di sangue, ha urlato così tanto da perdere la voce. Ma non ha pianto, non avrebbe potuto, ha troppa rabbia dentro per permettere anche a soltanto una lacrima di sfuggire dagli occhi.
Il giorno dopo, Yū è andato a cercare Asahi: l’ha trovato a vagare di fronte alla palestra, con lo sguardo perso in un cielo talmente terso da risultare fastidioso.
«Noya?» lo chiama lo schiacciatore, appena lo vede comparire all’orizzonte. «Io vorrei parlarti. E lo so che non vuoi, ma io ti…».
Asahi non riesce a completare la frase, perché Nishinoya gli si avvicina a grandi passi, spintonandolo. E lui, più per la sorpresa che per la forza, cade sulle proprie ginocchia, sorpreso.
«Non dire più niente» sibila. «Hai rovinato tutto. Non… ti permetto più di dire che vuoi parlarmi, perché io non voglio!».
Ha gli occhi spalancati e il respiro affannoso, lo tiene legato al suolo, schiacciandolo con il peso di un singolo sguardo. In quel momento, Asahi comprende.
Noya è tornato in campo e gli è apparsa, chiara ed è evidente, la verità: può fare a meno di Asahi. Può continuare a vivere senza di lui, non è schiavo di quel bisogno ossessivo che li ha legati fino a quel momento.
Azumane lo comprende e ne è ferito a morte, ma non può nemmeno negare di aver legato Noya a sé, giocando con i suoi sentimenti e sul suo senso di colpa. E, ancora adesso, fatica a rassegnarsi all’idea di dover semplicemente permettergli di andare via.
Perché Noya trema ed è visibilmente sconvolto, quando ancora gli si avvicina – e sono della medesima altezza – con gli occhi spalancati e vuoti come buchi neri.
«Nishinoya!» il grido di Daichi apre il cielo come una ferita. «Spero vivamente che tu non stia facendo quello che penso, altrimenti…».
Ma Yū si guarda il pugno, stretto così forte da far sbiancare le nocche, prima di colpire Asahi con tutta la forza che ha in corpo.
 
***
 
«Daichi, ti prego» borbotta Suga, cercando di non farsi sentire dagli altri. «Prova a mantenere la calma».
Ma il capitano dei corvi è tranquillo in maniera quasi innaturale, mentre osserva con interesse Nishinoya e Asahi.
«Nishinoya» lo chiama Daichi, calmo. «Spiegami un po’ per quale motivo avresti dovuto dare un pugno sul naso di Asahi».
Sembra calmo ma, in realtà, un’ombra oscura sul volto ne esprime pienamente l’arrabbiatura, fatto che terrorizza i suoi due interlocutori.
«L’avete proprio fatto arrabbiare» constata Suga, stupito. «Era da tempo che non lo vedevo così».
Asahi non parla, ma sembra tranquillo. Ma, se solamente fossero in grado di guardargli dentro, i suoi ex compagni di squadra si renderebbero conto che è totalmente incrinato e crepato, con pezzi di intonaco e calcinacci che crollano giù, investendogli il cuore con una pioggia di detriti.
Basterebbe solamente un leggero sfioramento, pelle che chiama pelle, e allora lo schiacciatore crollerebbe giù in una nuvola di polvere biancastra.
«E, soprattutto» continua Daichi, sorridendo in maniera inquietante. «Spiegami cosa dovrebbe trattenermi dall’andare dal vicepreside per farti sospendere dalle attività del club».
Suga trattiene il respiro, senza avere il coraggio di contraddire il suo amico, di fronte a tanta cieca delusione. Perché Daichi è solamente deluso, dal comportamento di Noya, anche se non lo dirà mai ad alta voce.
«Niente» sibila Yū, guardandosi la mano. Ha le nocche spaccate, nota con disinteresse. «Vai, se devi. È giusto così».
«Dimmi qualcosa» risponde il capitano, e ha quasi un tono supplichevole. «Dammi una spiegazione, dimmi che c’è un senso a tutto questo».
Ma Noya scuote il capo, senza espressione. «Non ne sento il bisogno, Daichi. Serviva davvero un motivo?» dice, atono. «Buttami fuori dalla squadra, non importerebbe nemmeno più».
«Non farlo» Asahi trova in quel momento la forza di parlare, anche se i suoni escono a fatica dalla bocca che sa di sangue. «Non… non dirò niente».
Yū sente che dovrebbe dire qualcosa, arrabbiarsi di più, ma è troppo preso a guardarsi le mani: sono sporche di sangue ormai secco, un po’ suo e un po’ di Asahi, e pulsano e dolgono come un cuore infranto. Lui nemmeno lo sente più, un cuore che possa dolere, perché nel petto risuona solamente un vuoto inquietante.
«Asahi, io capisco cosa intendi» interviene Suga, diplomaticamente. «Ma Noya ha fatto una cosa molto grave e non sembra averlo capito».
Lo guardano tutti, così intensamente che Yū sembra comprendere di dover ricambiare lo sguardo, ma non ci riesce: ha ancora nelle orecchie il suono del pugno che infrange la pelle, il rumore del sangue che esce, e ne è incantato. L’ha colpito davvero, con un pugno ha infranto ogni speranza o sogno che Asahi potesse nutrire nei suoi confronti.
«Nishinoya» lo richiama Daichi e, questa volta, suona quasi più disperato di Asahi. «Dì qualcosa».
Noya li guarda, soppesandoli con lo sguardo. «Gli ho fatto un favore» mormora, alzandosi. «Ve ne renderete conto, quando tornerà in sé».
Daichi vorrebbe replicare, arrabbiarsi, ma Yū gli volta le spalle e si allontana via a grandi passi. Ha il petto che batte silenziosamente, allargando le incrinature che lo costellano.
 
***
 
«Cosa?» Shimizu restituisce a Suga un’occhiata turbata. «Gli ha davvero dato un pugno sul naso?».
Sugawara annuisce, passandosi una mano tra i capelli, con aria stanca. «Precisamente» risponde. «Daichi era furibondo e… dovevi vederlo».
Kiyoko non lo interrompe, rimane pazientemente in attesa che Suga trovi le parole. Ma, ripensando all’espressione distrutta di Asahi, il palleggiatore fatica a trovarne.
«Nessuno di noi sapeva cosa fare» sussurra, mentre Shimizu gli accarezza il braccio. «Cosa potevamo dirgli? Ha detto di avergli fatto un favore».
Un favore spezzandogli il cuore e lasciandolo lì, sanguinante e sconvolto. Incrinato. Che favore può aver fatto, Yū, ad Asahi?
Un favore, ma Suga ancora fatica a credere che sia successo per davvero: che realmente Nishinoya si sia allontanato da Asahi, senza rimorso e senza rimpianti, dopo averlo colpito con un pugno.
«Forse, lo ha fatto per davvero» osserva Kiyoko, sistemandosi gli occhiali. «Di certo, se Asahi pensava di potersi poggiare su di lui… adesso sa di non potere».
Suga spalanca gli occhi, in un lampo di comprensione.
Yū ha distrutto Asahi con un pugno e uno scopo.
 
***
 
Asahi s’è rinchiuso in casa, senza parole, e da lì non esce da due giorni: Daichi e Suga non hanno materialmente il coraggio di recarsi fin lì e obbligarlo a riemergere, non ne hanno avuto la forza. Perché Asahi è frantumato e crepato come le sue speranze, e nessuno di loro ha il coraggio di tenerlo insieme, né potrebbero riuscirci a priori.
Così, Azumane rimane a letto per due giorni, fissando il soffitto che lentamente s’agita e si contorce sulla scia dolorosa della sua mancanza di sonno. Ha le vertigini, forse per la mancanza di sonno o forse per qualcos’altro, e tutto il mondo sembra stia traballando seguendo il ritmo dei suoi pensieri concitati.
Ogni tanto, alza una mano e si sfiora il naso e la bocca, per scoprire che non dolgono più: e, così, anche l’ultimo residuo di Nishinoya gli è scivolato via come acqua tra le mani. Non gli è rimasto più nemmeno il dolore, sul finire, e ciò costituisce solamente l’ennesima crepa nascosta.
Ma esisteranno mai crepe che non siano celate, che non vivono tra i muri intestini di una casa, e che non rovinino tutto improvvisamente?
Asahi s’è rinchiuso in casa, dentro di sé, una casa che potrebbe crollargli addosso da un momento all’altro: non ha il coraggio di chiamare Daichi e Suga e dir loro che è rimasto ferito non nel corpo, ma nella mente. Che è rotta e scalcinata, quella sua esistenza, e lui non riesce a pensare a un modo per ricostruirla.
Ma, quando riesce a trovare il coraggio di chiedere loro – no, di supplicarli – di raggiungerlo, ad Asahi mancano le parole. Perché c’è pietà, nello sguardo di Daichi, e comprensione in quello di Suga. Due cose che minano ulteriormente le basi friabili su cui si sta ricostruendo, facendolo tremare.
«Faremo ragionare Nishinoya» promette Daichi, con il pugno sinistro serrato. «Vedrai, capirà che…».
Che ha rovinato tutto, vorrebbe dire il capitano ma, di fronte all’espressione così incrinata di Asahi, semplicemente non ci riesce.
Che deve sistemare le cose, vorrebbe dire Sugawara ma c’è Asahi che è totalmente privo di speranze, quindi come potrebbe infrangergliene una seconda?
«Non serve» biascica Azumane, a capo chino. «Lui è fiero di tutto questo».
Lo dice con un’amarezza che stordisce, che confonde, lasciando solamente l’ennesima ferita in suppurazione sul cuore.
«Non diceva sul serio» lo interrompe Suga, con convinzione. «Nishinoya… è impulsivo, il più delle volte è irritante. Ma non ti darebbe mai un pugno, a meno che…».
«Non sia veramente furioso» mormora Asahi, stanco. «Lo so. È questa la cosa peggiore, sapere che è furioso con me».
Gli altri due non hanno il coraggio di contraddirlo.
 
***
 
Noya non parla più: agli allenamenti, si trincera in un mutismo ostile e aggressivo, di fronte alla maggior parte dei suoi compagni – non chiedetemi cosa ho fatto, sembra urlare, in ogni suo passo. Nessuno ha per davvero il coraggio di farlo, così preferiscono lasciarlo sbollire in una vasca piena di silenzio. Persino Daichi è semplicemente troppo deluso per dirgli quanto sia stato stupidamente impulsivo e inutilmente violento, mentre Suga è troppo occupato a cercare di reincollare insieme Asahi.
Solamente Hinata sembra in grado di avvicinarlo, con la scusa di farsi dare ripetizioni di ricezione.
«Nishinoya-senpai!» si sente urlare, da un capo all’altro della palestra. «Insegnami il rolling thunder!».
E Noya lo fa, forse persino sorridendo, di fronte alle prove goffe di Shōyō. Ma, dentro di lui, il mare s’agita e divora la battigia un’onda dietro l’altra.
Hinata s’impegna a seguirlo ma, a un certo punto, si ferma e basta. «Nishinoya» trilla. «Ma è vero che hai tirato un pugno ad Asahi?».
Yū tace e lo guarda, vorrebbe non dir niente ma ha sul volto dipinto un del medesimo colore dei capelli del centrale, così, Shōyō ha immediatamente chiaro che non sono voci di corridoio. Che Daichi è nervoso e deluso, e Suga è sparito perché ha deciso di rimanere da Asahi.
«Non potresti semplicemente chiedergli scusa?» domanda il ragazzo, con gli occhi pieni di pungente speranza. «E dirgli che ti dispiace».
Noya vorrebbe tanto ma, sebbene lo neghi persino con sé stesso, quel pugno non gli ha drenato via la rabbia. «No» risponde, con sincerità. «Non posso».
Hinata vorrebbe controbattere, dirgli che certo che può, Asahi sarà sicuramente a casa sua a lamentarsi sulla spalla di Suga. Di certo non sarà scappato, o crollato a causa delle proprie crepe, basterebbe correre fin lì e, e, e… È che Noya non vuole farlo, semplicemente.
«Perché non puoi?» domanda Shōyō, seppur in cuor suo conosca già la risposta. «Non è difficile, scusarsi».
«Non posso» ripete Yū, serafico. «Perché ho fatto bene e un giorno verrà qui per ringraziarmi, quando si deciderà a tornare in squadra».
 
***
 
«Suga, scusami» Asahi guarda il palleggiatore, con aria esasperata. «Ma tu non avresti una casa tua, una famiglia e una ragazza?».
Sugawara scrolla le spalle, con semplicità. «Direi di sì» risponde. «Ma non hanno bisogno di me quanto te».
Asahi vorrebbe replicare, dire che lui non ha bisogno di Suga, che ha bisogno di ricostruirsi un pezzo per volta, fino a ritornare in sé. Ma, quando si siede davanti ai cocci e ai vetri della propria esistenza, si rende conto di aver di fronte un puzzle insensato e privo di scopo; e lui, da questo punto di vista, ha davvero bisogno di Sugawara e Daichi.
«E ti permettono di saltare gli allentamenti?» domanda, invece. «Daichi si è ammorbidito o si è ricordato di essere una persona “fondamentalmente cortese”?».
Suga ride, passandosi una mano tra i capelli. «Niente di tutto questo» risponde, con un sorriso furbo. «Gli ho semplicemente detto che non sarei venuto, non ha fatto domande».
Perché il capitano sa, ne è a conoscenza come lo è di avere un cuore, che Sugawara corre da Asahi per rimetterlo insieme, pur non essendo Noya. E Daichi è così stanco e deluso da non riuscire a negare al palleggiatore la possibilità di rimettere tutto insieme, di far quadrare nuovamente i pezzi della squadra.
«Tu non ti arrendi mai» osserva Asahi, quietamente. «Nemmeno di fronte alle cause perse».
«Io amo le cause perse» risponde Suga, sorridendo. «Pensa a Kiyoko, non so se riesco a pensare a una causa persa più grave di lei».
Ma, in realtà, Sugawara pensa alla propria battaglia con Kageyama: è destinato a perdere – ma è lui, l’ennesima causa persa – ma non a smettere di combattere per ogni secondo, ogni minuto in cui gli permetteranno di giocare. Ma, questo, Asahi non può saperlo.
Azumane ride, forse per la prima volta in quei giorni. «So dei soffioni» borbotta. «Non pensavo scrivessi haiku».
«Infatti non li scrivo» risponde Suga, divertito. «Penso di avere troppe parole, per scrivere dei buoni haiku. Così come tu hai troppa forza per rimanere fossilizzato qui».
Asahi non risponde: silenziosamente pensa che non può essere vero, che ha passato giorni a sentirsi stanco e inutile, finché Noya non è apparso al suo fianco.
Ma, adesso, è costretto a toccarsi il naso – e a trovarlo ancora lì, che non duole nemmeno più – e il viso, e riscoprirsi sempre uguale.
Non mentirà a sé stesso: le crepe ci sono ancora, nascoste tra l’anima e il cuore, e dolgono a ogni respiro come fossero incandescenti. Però non saranno quelle a impedirgli di rialzarsi, di dire a Noya di tornare, che il pugno forse ha persino funzionato.
Che, forse, da quel momento farà tutto meno male.
«Suga» lo chiama Asahi, abbozzando un sorriso. «Anche tu pensi che il pugno mi abbia fatto bene, non è vero?».
Suga lo guarda e la verità preme lungo il bordo delle labbra – tu hai troppa forza per rimanere fossilizzato qui.
«Penso che la violenza sia sbagliata» commenta, pacatamente. «E che a te servisse una spintarella e non un pugno».
«Ma funziona» sussurra Asahi, incredulo. «Intendevi questo, no?».
Sugawara annuisce, stupito dalla semplicità con cui quella parola gli esce dalle labbra, sformandole.
«Funziona».
 
***
 
«Io ti ho permesso di saltare l’allenamento per aiutarlo» sibila Daichi, irato. «Non per convincerlo che Nishinoya abbia fatto qualcosa di giusto e sensato, dandogli quel pugno».
«Non ho fatto niente» si giustifica Sugawara, alzando le mani con un’espressione innocente e al di sopra di ogni sospetto. «L’ha detto lui, che ha funzionato, te lo giuro».
«Voi due dovete esservi bevuti il cervello» prosegue il capitano della Karasuno. «Non me lo spiego altrimenti».
Ma Asahi sente forte e chiaro che lui e Suga hanno ragione: qualcuno ha riassestato le travi e i muri intestini che dimorano in lui, ponendo un limite a quella continua pioggia di calcinacci che lo investiva. Non si tratta solamente di un pugno – sarà lunga e dolorosa, ma adesso sente che ce la farà a tirarsene fuori.
«Tu hai parlato con Nishinoya?» domanda Suga, con curiosità. «Ti ha detto qualcosa?».
Daichi scuote il capo, mascherando un’espressione colpevole. «Mi ha preceduto Hinata» confessa. «Ma non ha ottenuto molto… è davvero convinto di aver fatto bene».
«E tu non gli hai nemmeno fatto una predica su quanto la violenza sia sbagliata e adatta agli animali?» chiede Sugawara, spalancando la bocca in una perfetta o. «Stai davvero perdendo colpi, Dai-chi».
Sawamura sospira, esasperato. «A cosa sarebbe servito, fargli la predica?» domanda. «Non penso cambierebbe idea».
Asahi annuisce, silenzioso: è vero, Nishinoya non cambia facilmente idea, è ostinato e costante come poche altre persone al mondo. Ed è disposto a fare di tutto pur di – salvarlo – portare avanti la propria visione delle cose.
«Ha sbagliato» conviene Suga, cauto. «Ma… sembra che abbia avuto un qualche tipo di effetto».
Perché Asahi non parla, ma si sfiora distrattamente il viso con le mani, quasi come faticasse a credere di non sentire più dolore. Perché non duole il naso, né la bocca, ma non duole quasi più nemmeno qualcosa di più viscerale.
Fa ancora fatica a respirare: l’oppressione non se n’è andata, né avrebbe potuto farlo, ma lui si sente incredibilmente meglio. Non ritorna a respirare, ma riesce almeno a regalarsi meno rantoli che gli spaccano i denti, e in qualche modo l’aria passa comunque.
«Puoi evitare di difendere ogni causa persa che incontri?» domanda Daichi, ironico. «Ha sbagliato, e basta. Non so nemmeno che provvedimenti prendere, con lui, ma non possiamo semplicemente far finta di niente».
Certo che no, pensa distrattamente Asahi, lui non potrà mai fare finta di niente. Quel pugno l’ha cambiato, senza mandarlo in frantumi come Daichi immagina: è deluso, forse, è persino stanco di lottare con Nishinoya. Ma è cambiato per davvero.
Scrutandosi dentro, non trova più polvere, muri incrinati e scalcinati, frammenti sanguinolenti di cuore che si staccano. Fa attenzione, girando tra le travi e i muri della sua anima, cercando segni di un crollo imminente.
Non ne trova: le peggiori crepe hanno cominciato a riempirsi di cemento, rendendo più saldi i muri. Qualcuna, invece, è già sparita.


 
Come avevo minacciato, paura e delirio in questo capitolo.
Fortunatamente non vi sono note, ma è solo perché la prossima contiene spiegazioni sulla mia peggiore battuta in questa fanfiction, quindi tenetevi pronti. Il prossimo appuntamento sarà il 29 novembre, con il capitolo 12 (non ci posso credere che siam già qui).
Spero che la storia continui a piacervi.
Gaia

 

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Capitolo 12
*** 12: Bucare la neve ***


12. Bucare la neve 

 
Troverai un po' di neve
Nel giardino del tuo amore
Verrò a raccogliere il bucaneve.
(Fabrizio De André)

 
Il bucaneve è un fiore bello quanto raro e forte. Nessun fiore osa sfidare la neve, eccetto questo.
Il bucaneve è straordinariamente coraggioso, e fa del freddo la sua forza. Ma non dimenticare che, anche se forte, il bucaneve è pur sempre un fiore; basta davvero poco perché si appassisca.
Tutti hanno le proprie debolezze.
(Yharu Hasaiko)
 
 
Si chiedono così tanto cosa fare con Nishinoya che, alla fine, rimangono con in mano un pugno di neve ghiacciata e null’altro. Perché Daichi si domanda che provvedimenti prendere per così tanto tempo da farsi venire mal di testa quando, in verità, Noya ha già deciso per lui senza dirgli una singola parola.
Perché è Hinata a dirlo, poco prima di un allenamento, che Nishinoya è perduto, se non sparito o dimenticato: lo si può facilmente trovare in classe, seduto al proprio posto, ma ha ricevuto dal vicepreside il divieto assoluto di frequentare le attività del club per un mese.
«E chi è andato a dire al vicepreside del pugno?» domanda Daichi, scrutando con aria di rimprovero tutti i membri della squadra. «Avevamo detto di aspettare, di prendere una decisione insieme. Io non posso credere che qualcuno di voi…».
Tanaka muove un passo avanti, ha un’ombra di delusione sul volto. «Nishinoya» risponde, con una sicurezza che non prova. «Lui… è andato questa mattina. Mi dispiace, Daichi, non sono riuscito a fermarlo».
Il capitano della Karasuno sospira, stremato: anche oggi non cresceranno fiori, nella sua squadra, non in mezzo a tutta quella neve.
 
***
 
Con che coraggio ha potuto privarsi della cosa che più ama al mondo, Noya, non lo sa né vorrebbe mai riuscire a immaginarlo. Si è mosso, scendendo dal letto quella mattina, e i suoi passi hanno compiuto il resto, la bocca l’ha suggellato e il cervello è rimasto spento e silenzioso.
Fuori nevica, candidi bioccoli cotonosi che sfregiano la città al pari di lacrime, colando dagli alberi lungo l’asfalto e fino ai tombini, come normalissima acqua di scolo. Ma Nishinoya non sente l’ombra pressante del freddo, sebbene sia uscito quella mattina senza cappotto, mentre torna da scuola a casa sua, affidandosi ai piedi e non alla mente. Come potrebbe, d’altronde, se quella sua mente è occupata nella mancanza – della squadra, della pallavolo e persino di Asahi – e non vuole vedere, sentire o toccare alcunché.
Nemmeno la neve. Eppure, l’ha sempre amata come si ama un’amante, come ha creduto di amare Shimizu e come ora è convinto di amare Asahi, l’ha sfiorata in carezze insondabili e l’ha cullata nei sogni e nella veglia.
Noya ama la neve, e si fida di lei. Perché sa che coprirà ogni suo passo, celandolo a chiunque lo stia cercando – a Daichi, a Suga, ma soprattutto ad Asahi – per tutta la città. È una musa dolcissima, il gelo, una mancanza che consuma dall’interno e, soprattutto, l’ennesima Dea incapace di perdonare.
D’altronde, nemmeno lui sa perdonare, quindi come potrebbe venerare qualcuno che è potere, questo sì, ma anche assoluto perdono?
Il telefono che squilla è solamente l’ennesima incrinatura in un paesaggio – un muro di ghiaccio – bianchissimo, dolce come zucchero a velo, che vorrebbe inglobarlo e farlo divenire l’ennesima nuvola in un mare di spumosi cirri.
«Nishinoya» Daichi è di fronte a casa sua, con le braccia incrociate sul petto. «Finalmente. Ti stavo aspettando».
Noya non gli domanda perché lo stesse aspettando lì, perché vive nella tiepida consapevolezza che, se avesse provato a fermarlo in qualunque altro luogo impossibile, sarebbe riuscito a sfuggire da quella conversazione. Ma sono soli, nella neve, e Daichi lo guarda con una durezza così gelida da frantumargli l’anima come ghiaccio secco.
«E perché?» domanda, con fare litigioso. «Vuoi rimproverarmi ancora, Daichi?».
Ma il capitano lo guarda, ed è così calmo e drammaticamente deluso da togliergli dalla bocca anche le parole.
«Non serve, ormai» risponde Sawamura, calmo. «Vorrei solamente che tu potessi riflettere, prima di buttarti a capofitto in qualcosa».
Yū non gliel’ha mai detto, ma Daichi è la cosa più simile a un fratello maggiore che abbia mai sperimentato e, per questo, brama silenziosamente la sua approvazione quasi quanto abbia mai bramato quella di Asahi. Né potrebbe dirglielo adesso.
Perché Daichi lo osserva con uno sguardo talmente deluso che Yū non ce la fa più, a ricambiarlo, né a pensare che d’ora in poi potrebbe guardarlo sempre in quel modo.
«Ho riflettuto» bofonchia, guardandosi i piedi. «E, comunque, se non l’avessi fatto io ci avreste pensato tu o Suga. Così, il vicepreside ha detto di aver apprezzato la mia onestà e me la sono cavata con poco».
«Ma a te non basta, no?» risponde Sawamura, atono. «Non ti basta aver dato un pugno ad Asahi, aver perso la possibilità di allenarti con noi. Adesso, cosa intendi fare, per peggiorare ulteriormente la situazione?».
«Niente!» esclama Noya, contrariato. «Io… non posso dire di aver sbagliato, perché io lo so che ho solamente fatto un favore ad Asahi. Ma… non avrei mai voluto fare un torto alla squadra, per questo».
Daichi sorride, con fare paterno. «Conta davvero?» chiede. «L’intenzione conta qualcosa, se poi dovremo giocare per un mese senza il libero migliore che potremmo desiderare?».
La neve scende velocemente come lacrime e, d’altronde, Yū vorrebbe solamente accasciarsi ai piedi di Daichi e scoppiare in un pianto disperato – ma il suo orgoglio non glielo permetterà mai. Così lo guarda, con gli occhi fieramente asciutti, senza muovere un muscolo.
Ma il capitano sorride e sembra pronto a spaccare qualunque lastra di ghiaccio, forse persino a bucare la neve, per portarlo via di lì, da dove ha perso il respiro e le speranze.
 
***
 
Suga è ubriaco.
Di felicità e buone intenzioni, mentre sfiora Shimizu come fosse in grado di coglierne i pensieri, e pronuncia quelle parole indicibili.
«Potresti parlare tu, con Noya» mormora, sfiorandole dolcemente la mascella con le labbra. «Ti ascolterebbe, lui… si fida della tua opinion».
Lei si lascia sfuggire un sospiro – forse di piacere, ma più probabilmente di esasperazione – mentre punta il suo sguardo glaciale su Sugawara, come per domandargli se reputi quello il miglior momento per cominciare quella conversazione. Ma, di fronte allo sguardo ansioso del ragazzo, Kiyoko deduce che la risposta sarebbe un perplesso sì, perché?
«Non credo» risponde, lapidaria. «Asahi lo ha fatto impazzire, lui… non penso ragionerebbe lucidamente».
Come, d’altro canto, nemmeno lui vi riesce più quando è in compagnia di Shimizu: perché lui può baciarla, fare scorrere le mani sul suo corpo facendola sospirare, ma lei riuscirà sempre a toccarlo con molta più profondità di quanto Suga non riuscirà mai a fare. A lei basterà sempre un’occhiata e un pensiero, per mettergli a nudo il cuore: Shimizu tace e l’osserva, mentre cerca le parole o le azioni per convincerla a parlare con Noya.
«Io so che tu ci puoi riuscire» mormora, giocherellando con l’elastico rosato dei suoi slip. «Non… noi abbiamo bisogno che tu faccia un tentativo».
Shimizu gli sfiora il viso con il dorso della mano, maledicendosi silenziosamente per la sua incapacità di negargli il proprio aiuto.
«Va bene» consente. «Io… gli parlerò».
Suga sorride, coprendo le labbra di lei con le proprie, sovrastandola. Shimizu gli sfiora le spalle, avvicinandolo maggiormente a sé: è caldo, il busto di Sugawara, in un contrasto pieno e brillo, ubriaco di quella neve che fuori dalla finestra cade costantemente illuminandoli del suo cieco biancore. Kiyoko ricorda a malapena com’era, nei tempi in cui ancora non s’appartenevano e lei, nello sfiorargli casualmente un braccio o una mano, veniva invasa da un pensiero insensato e persistente – se non mi bacia adesso, non lo farà mai più.
E ce ne erano stati talmente tanti, di mai più, da risultare incalcolabili, finché il mai più non era divenuto un adesso e adesso lui l’ama, lui la cerca, lui la sfiora come un pensiero sfuggente o una parola non detta.
Perché è calda, la pelle di Suga, come fosse costellata da piccole scintille che le pizzicano i polpastrelli quando con la sua pelle bacia quella di lui, in contatti casuali o premeditati.
E lui ha la gola tormentata dai baci e dai morsi di Kiyoko, in posti insospettabili, dove basterebbe accostare l’orecchio per sentire il cuore che prende il volo. È in caduta libera, il cuore di Sugawara, ogni volta che la scopre a guardarlo pensierosa.
Non si tratta del liberarsi dei vestiti – d’altronde, nudi lo sono sempre stati di fronte ai rispettivi sguardi – ma è il liberarsi dei pensieri e delle parole, che diviene il vero atto dello spogliarsi. Non basta lasciare scivolar via i pantaloni, la gonna, le magliette, persino la biancheria: sono le parole, ad essere state scolate da una grata di silenzio, insieme alla neve sciolta e grumosa.
Perché Suga può afferrarle il cuore a mani nude, semplicemente posandole una mano sul petto, dove batte furiosamente.
Shimizu sospira: solamente lui è in grado di entrarle dentro in quel modo, sciogliendola come un fiocco di neve al sole, solamente lui è in grado di farle ripartire il cuore.
«Io…» sussurra Suga, accasciandosi sopra di lei, col fiatone. «Credo di amarti».
A lei tremano le gambe, non solamente per la forza con cui l’orgasmo l’ha colta, come un bucaneve che emerge dal gelo. L’ha sentito, mentre d’addentrava dentro di lei con una lentezza quasi dolorosa.
Suga ha respirato un ti amo dolcissimo, confondendola, lasciandola priva di parole: e, nell’aria gelida che vorrebbe inglobarli, lei ricomincia a respirare.
«Lo so» sussurra, carezzandogli la schiena. «Anch’io credo la stessa cosa».
 
***
 
«Suga, per carità divina» lo apostrofa Daichi, vedendolo arrivare in palestra. «Comprati una sciarpa».
Il palleggiatore istintivamente si copre il collo, cercando di dar la colpa al freddo per il proprio viso arrossato. «Sì, fa freschetto» borbotta, senza togliere la mano. «Non trovi? La temperatura s’è abbassata, da stanotte».
Daichi ride. «Guardati allo specchio: hai il collo deturpato» risponde. «Freschetto-kun20».
 
***
 
«Nishinoya-san?» Shimizu non deve cercarlo a lungo: Noya non si muove dal suo banco fino alla fine della scuola e appena dopo, come vi si fosse congelato sopra e faticasse a staccarsi da lì. «Ti andrebbe di parlare con me?».
Il ragazzo alza lo sguardo, arrossendo leggermente e torcendosi le mani. «Suga è caduto proprio in basso» commenta, ridendo a gran voce. «Se pensa di risolvere tutto mandando te a parlarmi».
Lei sorride leggermente, senza dargli esplicitamente ragione. «Possiamo fare una passeggiata» propone. «I ragazzi hanno già cominciato ad allenarsi, non ci disturberanno».
Lui si trattiene dal dirle che Suga l’ha fatta diventare più subdola e diretta, ma Shimizu l’acceca con uno sguardo freddo e caldo insieme, e così Yū può solamente chinare il capo e seguirla in silenzio.
È chiaro, che Kiyoko cerchi di far leva sul fatto che a lui manchi, la squadra, che gli manchi il rumore della palla che impatta il terreno o le sue mani. Ma, questo, Noya non lo ammetterà mai ad alta voce.
La squadra sembra stranamente silenziosa, forse concentrata, vista da fuori: sicuramente sono meno rumorosi, senza Nishinoya e le sue mosse gridate ad assordante volume.
«Mancate tu e Azumane-san» commenta Kiyoko, dolcemente. «Se ne accorgono tutti, anche se voi credete di no».
Ma Yū la guarda con una serietà che terrorizza. «Io me ne accorgo» risponde, atono. «Certo che lo faccio».
Perché è solamente l’ennesima mancanza, un bocciolo che tenta di bucare la neve per vedere qualche tiepido raggio di sole – ma non ci riesce mai. Nella medesima maniera, Yū tende al resto della squadra come si fa con un’aspirazione o una brutta abitudine, senza riuscire ad esimersi dal desiderare di tornare in campo.
«Torna» prosegue la ragazza, distogliendo lo sguardo da un Sugawara impegnato al servizio, imbarazzata. «Almeno a guardare gli allenamenti, finché non potrai riprendere a giocare».
«Asahi non è tornato» risponde Noya, atono. «Ho infranto quella promessa una volta ed è andato tutto a rotoli, io… non lo farò di nuovo».
Kiyoko lo guarda – ha gli occhi fatti di neve ancora ghiacciata – e annuisce, comprensiva.
«Non mi sembra ci siano molte altre opzioni, allora» sussurra, mentre Yū annuisce vigorosamente. «Devi solamente tornare da Azumane e convincerlo a tornare indietro».
«Giusto!» esclama Noya, sovrappensiero. «Aspetta, no… io intendevo… no, intendevo di no».
Ma lei sorride, ed è un cubetto di ghiaccio che lentamente s’abbraccia da solo in una tazza di tè ustionante. «Siamo fatti per sbagliare e poi tornare indietro21» commenta. «Prova a vederla da questo punto di vista».
 
***
 
Asahi non lo ha detto a nessuno, ma si è riscoperto vivo in una mattina di gennaio, quando la neve soffocava già ogni fiore e ogni filo d’erba. E, adesso, quando cammina per i corridoi o per le strade, riesce finalmente a respirare.
L’aria fluisce – gelida, calda – fluisce senza sforzo nei polmoni, che si gonfiano senza ostruzioni. Asahi è tornato a vivere, da qualche giorno a questa parte, in maniera timida e silenziosa. È dura ancora, il più delle volte, ma si sente insolitamente leggero.
Non sa cosa è stato: se le pillole, le sedute dallo psicologo o il pugno di Noya. Oppure le pillole, le sedute dallo psicologo e il pugno di Noya.
Sa solamente, ed è la consapevolezza che illumina le sue giornate, che dentro di lui la neve si sta sciogliendo.
Telefona a Nishinoya tre volte al giorno: dopo gli allenamenti, dopo cena e prima di andare a dormire – sperando che il suono del telefono ne culli i sogni e mandi via gli incubi, come uno scacciapensieri un po’ inusuale. Lui non risponde mai, e come potrebbe?
Noya è ancora congelato, nemmeno i bucaneve riescono ad infrangere quella crosta di ghiaccio che gli è fiorita attorno. Deve fare attenzione, se non la lascerà sciogliere persino i fiori saranno costretti a sfiorire.
«Oh, Suga, Daichi» lo incontra fuori dalla palestra, sembra quasi che stia aspettando qualcuno. «Non entrate?».
Il palleggiatore scuote il capo, stringendosi in una sciarpa celeste, decorata a fiocchi di neve. «Aspettiamo Shimizu» confessa. «L’ho convinta a parlare con Nishinoya».
«Convinta» gli fa il verso Daichi. «Grazie per il dettaglio, Suga, ma dubito che ad Asahi interessasse».
Lo schiacciatore alza le mani, a disagio, gesticolando freneticamente al suon di ma certo, dimmi tutto.
«Fidati, Asahi» continua il capitano dei corvi, cupo. «Non vuoi sapere, quindi adesso aspetteremo Shimizu in rigoroso silenzio. E tu non toglierti la sciarpa per nessun motivo al mondo».
 
***
 
«Ho visto Asahi qui fuori» Tanaka accoglie così Suga e Daichi, all’entrata della palestra. «Si unisce a noi?».
Noya, seduto accanto all’allenatore Ukai, non riesce a impedirsi di sollevare il capo con dolorosa speranza. Ma, quando i suoi compagni di squadra entrano in campo, Asahi non è con loro.
«Potresti andare a parlargli» propone Tanaka, guardandolo con durezza. «Lui ti ascolterebbe, se tu gli dicessi che è pronto».
Ma Yū scuote il capo, e alcuni capelli si liberano dalla prigionia del gel per cadergli scompostamente sulla fronte, con aria triste. «Ma io non posso» risponde, atono. «Ormai non abbiamo più niente da dirci, io e lui».
«Tanaka» prova ad intervenire Daichi, odorando l’aria che profuma di tempesta. «Non mi sembra il caso: calmati».
Ma il ragazzo dalla testa rasata è così furioso che, l’avvertimento del capitano, lo sente a malapena.
«Si può sapere cos’hai che non va?» domanda, aggressivo. «Gli hai dato un pugno e lui non ha fatto una piega! Si può sapere che altro ti serve, per farti capire che devi andare da lui?».
Noya non risponde: si guarda le mani, che non riescono a rimanere ferme lungo le ginocchia, senza alcuna espressione.
«Non posso farlo» risponde, però, con un sorriso tagliente come una lama. O come la neve. «E, anche se lo facessi, non sarebbero affari tuoi».
«Il bene della squadra è un affare mio» risponde Tanaka, stringendo i pugni. «Tu cosa stai facendo, per riportarlo qui e tornare a giocare?».
Noya tace. Un pezzo di ghiaccio gli ha trafitto il cuore e ha il sapore del suo sorriso.
 
***
 
Asahi è rinato e vorrebbe dirlo a Noya, ogni secondo della giornata, ogni minuto in cui il cuore compie i propri battiti senza accelerare né rallentare. Perché, dentro di lui – nel cuore, nei polmoni, nello stomaco – è tutto meravigliosamente normale.
Ma Nishinoya è scomparso come i suoi incubi e Asahi, per quanto lo cerchi in ogni angolo o ripiegatura dell’esistenza, non lo trova mai.
Gli ha lasciato infiniti messaggi, ha accarezzato e abbandonato dopo tre sillabe l’infausta idea di dedicargli un haiku o di regalargli un mazzo di soffioni o scrivergli una lunga lettera strappalacrime. A Noya non interesserebbe nulla di tutto ciò: a Noya interesserebbe semplicemente vederlo tornare nel club e schiacciare ogni palla alzata e recuperata per lui. Ma Asahi non può farlo e ne è sicuro come è certo del ghiaccio che congela le strade, come è certo che Yū congelerà tra la neve se continuerà a dimenticare a casa il cappotto, come è certo che la mancanza lo divora.
È un tormento insopportabile, una pietrolina nelle vie respiratorie finalmente libere, l’assenza di Noya dalla sua vita. Ed è solamente l’ennesimo tormento a cui non sa come porre rimedio – forse, dovrebbe farsi prendere a pugni ancora una volta.
Perché ha il gelo attorno, Asahi, e non cresce più nemmeno un petalo o un brandello di fiore, nemmeno un bucaneve abbastanza coraggioso per sfidare quel fitto strato di neve. Ma non è solamente fuori, che nevica, il gelo lo ha anche dentro, da quando Noya è sparito dalla sua vita. E lui vorrebbe solamente fargli sapere che, adesso, è pronto a ricominciare.
Lo è per davvero. Ma conta qualcosa, quando il mondo s’ipnotizza davanti i fiocchi di neve, ignorando il freddo e la mancanza?
Perché Nishinoya non lo vede da nessuna parte, è sfiorito come l’ennesimo bucaneve di fronte a una tempesta, e Asahi potrebbe rinascere altre cento volte e comunque il libero non ne verrebbe mai a conoscenza.


 
Buongiorno a tutti!
Come prima cosa mi scuso se oggi non sono riuscita a postare di mattina, come sempre, ma ho avuto una nottataccia e sono veramente stanchissima. Ringrazio comunque tutti per il supporto che mi state dando, specialmente ora che la storia si avvia alla propria conclusione. A tal proposito, noi ci rivediamo giorno: 3 dicembre, con il capitolo 13.
Le note a questo capitolo sono le seguenti:

20 Io mi scuso per tutto ciò, è ovviamente riferito al fatto che Oikawa definisca Suga “freschezza-kun” e niente, scusatemi davvero
21 Frase ripresa dalla canzone di Fabrizio Moro, Parole, rumori e giorni (Perché avevi più capelli e più coraggio da investire / Siamo fatti per sbagliare, e poi tornare indietro)

E niente, spero vi sia piaciuto. 
A presto e grazie per avermi letta!
Gaia

 

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Capitolo 13
*** 13: Piume sfiorite ***


13. Piume sfiorite

 
Una piuma può tornire un ciottolo, se la conduce la mano dell’amore.
(Hugo Von Hofmannsthal)

 
La speranza è quella cosa piumata
che si posa sull’anima
canta melodie senza parole
e non smette mai.
(Emily Dickinson)
 
 
Kageyama s’è fatto sempre più silenzioso: il mondo della pallavolo maschile ha cominciato a notarlo ma, lui, s’aggira silenzioso e irritabile nella palestra della Karasuno. Nessuno ha il coraggio – o, nel caso di Daichi, la forza – di domandargli cosa lo affligga.
Perché Tobio vaga per la scuola con il passi di una piuma ma, quando intravede l’oggetto del proprio fastidio, diventano solamente l’ennesimo colpo di un peso di piombo sul terreno. Solamente Suga, che l’amore ha reso incosciente, ha il coraggio di avvicinarsi a lui, facendo finta di niente.
«Buongiorno, Kageyama» lo saluta, ogni mattina, quando trova solamente lui e Daichi ad allenarsi. «Come va oggi?».
L’altro alzatore risponde quasi sempre con un grugnito, facendolo ridere, cosa che Kageyama detesta più di ogni altra cosa.
«Ti faccio ridere?» domanda, un giorno, con aria contrariata. «Non sto facendo nulla di divertente».
Ma niente cancella il sorriso sul viso di Suga, nemmeno lo sguardo ammonitore di Daichi e quello perplesso di Hinata.
«Un giorno me lo dirai» Sugawara, calmo. «Verrai dal tuo vecchio senpai e mi dirai a chi dobbiamo dare la colpa per questo cuore spezzato».
Ma Tobio affila lo sguardo, e le parole. «Non ho bisogno di nessuno» risponde. «E, di certo, non ho bisogno di te».
Suga scuote il capo e non dice una parola: nemmeno l’ostilità di Kageyama riesce a cancellare il suo buonumore. «Oh, no» concorda. «Certo che no».
«E non pensare che…» sibila Kageyama, lanciando un’occhiata indecifrabile verso la propria sinistra. «Io non ti invidio».
Ha detto di non invidiare Sugawara ma, quando lo vede voltarsi verso Shimizu ed è così pieno di luce, forse si rende conto di aver mentito persino a sé stesso. Perché Suga la riconosce persino dal rumore dei suoi passi, la coglie come un fiore in una notte d’inverno e come un pensiero della sua mente in un momento di solitudine.
Lui è l’alzatore titolare, lo hanno nel mirino quelli della nazionale ma, a conti fatti, è ancora il re del campo. Forse non un tiranno, ma un sovrano silenzioso e solitario, impenetrabile come una lastra di piombo fuso. Ed è dolorosamente solo, quando si volta e non c’è Hinata a chiedergli un’altra alzata, ancora una.
Ha detto di non avere bisogno di lui ma, quando nel silenzio della sala ode solamente il suono dei suoi pensieri, si rende conto che non è vero. Che Suga gli ha dolcemente offerto la propria amicizia e lui l’ha rifiutata, senza nemmeno pensarci troppo.
Ma, di fronte al suo sguardo tranquillo, Kageyama non riesce ad ammettere tutto questo. E, di fronte a quella calma artefatta e che sa di neve sciolta, Tobio non ce la fa più.
«Io non…» mormora. «Non ho bisogno del tuo aiuti».
Ma Sugawara non smette di sorridere, facendogli letteralmente saltare i nervi uno alla volta.
 
***
 
«Tu la devi decisamente smettere» lo rimprovera Daichi, durante la pausa pranzo. «Di essere così irritante con il prossimo».
«Ma non lo sono» risponde Suga, placidamente. «Sei troppo severo, Dai-chi».
Daichi sospira, osservando sottecchi il proprio compagno di squadra: Sugawara è rinato come Asahi, da qualche tempo, sembra aver finalmente trovato quella pace di cui prima non conosceva nemmeno l’esistenza.
«Certo che lo sono, quando rischi di farti prendere a pugni» risponde il capitano dei corvi, secco. «Kageyama mi sembrava molto propenso a farlo».
Perché anche Tobio è ferito, riflette Sugawara, osservando silenziosamente le proprie cicatrici: e non è vero che non ha bisogno del suo aiuto, è solamente troppo orgoglioso per chiederglielo davvero.
Non siamo tutti feriti, risponderebbe Kageyama, offeso, e forse è vero: Suga non lo è più, ma ha una grossa cicatrice che gli sfregia il cuore.
«Sono il suo adorato senpai» ribatte Suga, con convinzione. «Non mi avrebbe mai preso a pugni».
Daichi ride, ma ovviamente non ne è affatto convinto.
 
***
 
Asahi è rinato, ma nessuno gli crede fino in fondo: lo stesso Suga, che eppure è meno severo di Daichi, lo guarda con incertezza. Quasi come si aspettasse di vederlo crollare da un momento all’altro lì, ai suoi piedi, in un inarrestabile fiume di lacrime.
Ma Asahi ha la mente leggera come una piuma e i passi fermi e pesanti come sassi, mentre dice con determinazione che, se non è guarito, è quantomeno migliorato.
«Non lo so, Asahi» risponde Suga, a disagio. «Queste cose sono sempre lunghe, non pensare di essere guarito da un giorno all’altro».
Ma Asahi non lo pensa, come potrebbe? Lui non è guarito, uscire dal posto dove è piombato è una lunghissima sequela di passi e, lui, forse non ne ha percorsi nemmeno la metà: ma è rinato, migliorato, forse persino ha meno cicatrici e meno crepe nel petto. E, di questo, anche Sugawara se ne è accorto.
«Lo hai visto anche tu» mormora, senza trattenere un tono di voce stupito. «Sto meglio».
«Meglio non vuol dire bene» risponde Sugawara, triste. «Ma ci arriverai, Asahi, io lo so che ci arriverai».
E, allora, tornerai nel club. Questo lo pensa ma, a conti fatti, non riesce a trovare il coraggio di dirglielo – perché Suga non è Noya, lui non riesce a toccare Asahi così in profondità da potersi permettere di dirgli una cosa del genere.
«Pensi che tornerà indietro, se starò meglio?» domanda Azumane, con l’innocenza di un bambino. «Intendo… lo sai. Lui».
Suga lo sa, di chi sta parlando Asahi, lo sa e non ha il coraggio di fornire una risposta: perché sente – forte e chiaro – che Yū non tornerà indietro mai più. Perché è determinato fino alla testardaggine, e orgoglioso, e allora non ammetterà di avere sbagliato, nemmeno se la posta in palio dovesse essere un pezzo del suo cuore.
Se lo farà dilaniare, azzannare, pur di non dover dire di aver commesso un errore. Eppure, deve vederlo anche lui, che Azumane si sta lentamente riprendendo: che come una piuma spostata dal vento rifiorisce, prendendo quota.
«Non lo so» risponde Suga, inghiottendo quella menzogna. «Ma starai bene in ogni caso».
In altri tempi, Asahi avrebbe risposto che no, non avrebbe mai potuto rimarginarsi senza di Nishinoya. Ma, adesso, lo guarda ed è acciaio rinsaldato sulle proprie crepe.
«Certo che sì» risponde. «Ce la farò anche da solo».
Non aspetterà mai più che sia Yū a tirarlo via da quel luogo di metallo fuso e crepe strutturali nella sua mente. Nessuno può tirarti fuori da nulla: o ti salvi solo o non ti salvi22.
 
***
 
«Si può sapere cosa ti prende oggi, Kageyama?» Hinata strilla da spaccare i timpani. «Sembri distratto».
Tobio gli rivolge la propria espressione più minacciosa, facendolo tremare. «Non sono distratto» pronuncia quella parola come fosse un insulto. «Ho solamente bisogno di una boccata d’aria».
«Ne ho bisogno più di te!» esclama Shōyō, affilando lo sguardo. «Facciamo a chi arriva prima fuori dalla palestra?».
Ma Kageyama lo guarda e, per un secondo soltanto, Hinata ne può intravedere la profonda stanchezza. «No» risponde il palleggiatore, atono. «Vorrei rimanere un po’ da solo».
Non siamo tutti feriti, in questo mondo – ha detto a Sugawara, in un tempo che sembra solamente sfiorito – non siamo tutti feriti ma, con tutta probabilità, lui lo é.
Hinata non lo segue, ma si volta per correre a massima velocità da Daichi, impegnato ad allenarsi nel servizio. Il capitano dei corvi lo guarda e sospira, preparandosi a sedare l’ennesima lite con Kageyama ma, quando Shōyō apre bocca, lo investe con un torrente di parole.
«Si può sapere cosa sta succedendo?» strilla. «Dovremmo concentrarci sulle partite, sul torneo primaverile che si avvicina!».
«Andiamo, Hinata, cerca di calmarti» cerca di rassicurarlo Daichi, calmo. «Nishinoya tornerà immediatamente dopo il mese di punizione, appena in tempo per il torneo».
Ma Shōyō abbassa lo sguardo, guardando i propri piedi con aria carica di delusione. «E tornerà anche senza Asahi-san?» domanda. «Come potremo giocare, senza di lui?».
«Tornerà» ripete Daichi, che ha promesso a sé stesso che farà di tutto per riportare Noya dove deve stare: sul campo e non nei prati sperduti della propria mente. «Fidati, tornerà a giocare in ogni caso».
«E Kageyama, allora?» insiste Shōyō. «Lo hai visto?».
Daichi se n’è accorto, che Kageyama è distratto, quando gioca, come se un pensiero insistente gli affollasse il cranio. Che tocca la palla seguendo il proprio istinto ma, quando per sbaglio si ritrova a guardarsi attorno, perde la concentrazione.
E, a lui come a Sugawara, è dolorosamente chiaro: è ferito, perché è vero che siamo tutti feriti, in qualche modo che non è ancora noto. Non a Shōyō, almeno, che vorrebbe solamente una spiegazione semplice e lineare che, però, non ha ragione d’esistere.
«Cos’ha Kageyama?» domanda, curioso di sentire la risposta di Hinata. «Mi è sembrato uguale al solito».
Ma il centrale scuote il capo, con convinzione. «Penso che sia come Nishinoya» risponde, piano. «Ferito».
A Daichi si ghiacciano le parole dentro la bocca.
 
***
 
Noya non torna più.
Lo sta inseguendo qualcosa, nella sua mente, un senso di colpa potente e pressante che, se solamente ci provasse, potrebbe frantumargli le ossa con un semplice sospiro. Così, Yū si nasconde in un letto di piume, cadute da corvi in volo tra le sconfinate praterie che lentamente appassiscono nella sua mente.
Lì, è al sicuro. Dallo sguardo deluso di Daichi e da quello comprensivo di Suga, non lo insegue il ricordo odioso e persistente di lui, né nessuno gli domanda spiegazioni che non è disposto a concedere nemmeno a sé stesso.
Agli allenamenti, si trascina come fosse una punizione. Lo è, veder giocare gli altri senza di lui, senza Asahi, è la peggiore punizione che potesse autoinfliggersi.
Ma, quando è seduto sulla panchina di fianco ad Ukai, Noya è così concentrato che si rende conto di non vederli per davvero. Perché nella sua mente ha cominciato a soffiare un vento tiepido, che solleva le piume in una danza dolorosa.
«Sei distratto, Nishinoya» lo rimprovera Ukai, con aria severa. «Fai attenzione al gioco, un paio di occhi in più mi fanno comodo».
Noya annuisce, concentrandosi sul gioco, ma dentro di sé urla: vorrebbe essere in campo anche lui ma, se non alle piume mosse dal vento, a chi potrebbe dirlo?
 
***
 
«Credo che Hinata sia preoccupato» incurante del rischio, Suga ha scelto comunque di fermare Kageyama, sulla via di casa. «Per te».
«Per far preoccupare Hinata come minimo dovrei essere in punto di morte, considerando quanto viva fuori dal mondo» commenta Kageyama, sistemando la borsa a tracolla sulla propria spalla. «Piuttosto, sei tu a essere preoccupato».
Suga sorride e scuote il capo. «Non ho mentito» premette. «Sono preoccupato, ma anche Hinata lo è».
Kageyama lo guarda e tace, forse ha perso le parole anche lui, o forse tace per il mero gusto di udire i propri pensieri impattare tra di loro nella scatola cranica. Sono così intrecciati e confusi tra di loro che, nemmeno seguendo il filo di Arianna riuscirebbe a sbrogliarli.
«E per cosa?» domanda, laconicamente. «Io sto bene, sono solo stanco».
Sugawara – che ha sentito quella scusa così tante volte sia da Asahi sia da Nishinoya – alza gli occhi al cielo, esasperato. «Perché non puoi ammettere di avere qualcosa che non va?» borbotta. «Se dovessi essere distratto al torneo, Hinata non te lo perdonerebbe mai».
Kageyama si stringe tra le braccia: fa freddo, ma il suo è un tremore che gli proviene dal cuore e ne ghiaccia il respiro come il sangue nelle vene.
«Ma immagino che tu lo sappia» prosegue Suga, camminando con fare svagato. «E io ti sostituirei: forse sbaglio a voler avere questa conversazione con te».
«Non perderò»23 gli ricorda Kageyama, di colpo sicuro e deciso. «Non contro di te, noi… dobbiamo sfidarci per forza, ogni giorno, e io non ho intenzione di perdere».
«Nemmeno io ho intenzione di perdere contro di te» risponde Suga, con entusiasmo. «Non… dovrei pensare che tutto è perduto, ma cerco di non farlo mai».
Provaci anche tu, vorrebbe dirgli, ma Tobio gli lancia un tale sguardo di avvertimento che quelle parole gli rimangono incagliate in gola. Così Suga sospira, mettendosi le mani in tasca e guardando il cielo già oscurato.
 
***
 
Le ha detto ti amo, così piano da farle dubitare di averlo sentito, ma effettivamente lo ha fatto: sembra quasi che si vergogni a ripeterlo, Suga, quando non è annebbiato dai fumi del sesso. Quando ritorna a ragionare lucidamente e, forse, in testa gli rimbombano forti e chiari tutti i ricordi delle settimane passate. Eppure, quando la guarda e la stringe dolcemente per ripararla dal freddo, Kiyoko ne è certa di una certezza che fa male: lo ha detto e lei non riesce a dubitarne, lo ha detto per davvero.
Perché, in fin dai conti, lei riesce a spogliarlo con uno sguardo anche quando ha due maglioni e un cappotto sopra, anche quando si soffia sulle mani per il freddo. È una ballerina di piume, l’aria condensata che sale verso il cielo, divenuta vapore: la guarda ammirata, Shimizu, come potesse desiderare di volare via con lei.
Se non fosse che qualcosa – no, qualcuno – riesce sempre a riportarla sulla terra, prendendola dolcemente per mano. Kiyoko lo guarda, mentre il mento gli affonda in una sciarpa azzurra, nascondendogli metà faccia. Il motivo è lui.
Ed è quello che Nishinoya non comprende, quando si ritrova a perdersi nei propri pensieri come fossero campi bruciati e sterminati ignorando dove sia la via d’uscita: è l’amore, la sua unica occasione per fuggire via di lì.
«A cosa pensi?» domanda, guardandolo afferrare parole come le coglie i pensieri. «Sei distratto».
Lo è sempre, Suga, ma quel giorno si guarda attorno come cercasse risposte a una domanda che non riesce a porre. E lei lo sente, come si sente un arto o il proprio cuore, che ha qualche preoccupazione che gli ronza fastidiosamente nel cervello.
«Credo che Kageyama abbia qualche problema» osserva Sugawara, guardandola. «Più del solito, intendo».
L’ha notato anche Shimizu, che l’altro alzatore s’è fatto ancora più ostile e pensieroso, ed evita qualcosa o qualcuno come si potrebbe fare con una brutta infezione.
«Non puoi farti carico dei problemi del mondo» risponde, con una vena di rimprovero. «E nemmeno penso che Kageyama vorrebbe il tuo aiuto».
«Lo so» commenta Suga, piano. «Ma non penso di potere lasciar perdere».
«Certo che non puoi» osserva Kiyoko, con l’ombra di un sorriso sulle labbra rosate. «Tu hai una passione per le cause perse, non è vero?».
Lui ripensa a un messaggio in bottiglia, un haiku e tutti quei giorni sfioriti in un’attesa senza inizio, ma con una fine. E la fine è lei.
Suga sorride, imbarazzato, e sta per rispondere che non è vero, che a lui piacciono solamente le cause perse che possono ritrovarsi, ma Kiyoko si mette una mano in tasca per cavarne fuori un batuffolo di lanuggine bianca.
È un soffione.
«Ritrovalo, allora» sussurra. «Immagino di poterlo solamente accettare».
 
***
 
«Asahi?» Tanaka lo strilla, quando lo vede entrare nella palestra a grandi passi. «Sei tornato?».
Lo schiacciatore lo sente a malapena, mentre si avvicina velocemente alla panchina del mister Ukai. Ha lo sguardo perso in una dimensione sconosciuta, mentre si torce le mani febbrilmente.
«No» risponde, distrattamente. «Vorrei parlare con Nishinoya, se fosse possibile».
Noya non riesce nemmeno a dirgli che non vuole parlargli, perché Asahi è entrato in palestra di sua spontanea volontà e lui quasi fa fatica a crederci anche se lo ha davanti a sé.
Così si alza – non è più padrone nemmeno dei propri piedi, al pari dei suoi pensieri – e lo segue nel cortile illuminato da un freddo raggio di sole.
«Io non so come devo fare» borbotta Asahi, a disagio. «A chiederti se mi vuoi ancora».
Prende un respiro profondissimo, ghiacciandolo con una singola occhiata. «A dirti che forse non starò bene, ma sto meglio» continua. «E che forse tornerò a giocare o magari non lo farò mai, e tu per questo mi odierai per sempre».
A Yū duole il cuore, nel sentire quel forse, che è più di quanto Asahi non gli abbia mai concesso in quei mesi. Vorrebbe rispondere, ma lo schiacciatore parla così velocemente da non dargliene il tempo, costringendolo ad ascoltare in silenzio.
«O no, io questo non lo so, perché davvero non sono bravo a fare queste cose» si passa una mano tra i capelli, a disagio. «Non conosco il significato dei fiori, né so scrivere gli haiku e non ho idea di cosa potrei scriverti in una lettera».
Non che Suga sia lo scrittore di haiku del secolo, di trattiene dal commentare Noya, sorridendo lievemente al pensiero.
«Ma so che io voglio te» sussurra Asahi, con una determinazione che non gli è mai appartenuta. «E non per ventiquattr’ore, per una sera, per un pomeriggio. Io ti voglio con me sempre».
Si ferma a guardarlo, genuinamente disperato. Quell’espressione stringe il cuore di Nishinoya in una morsa inesprimibile, che duole con ogni singolo e inutile respiro.
«Non lo so se per te è lo stesso» mormora Azumane, guardandolo negli occhi. «Ma so che non credi in me e io proverò a convincerti che tutto questo non è un’idea così pessima».
Yū lo guarda, ed Asahi ha la bocca ancora piena di parole come uno scrigno magico, che se si schiudesse lo sommergerebbe come una marea in un campo arido e secco. Non c’è bisogno di convincerlo, realizza, senza trovare le parole per dirglielo: lui è già convinto di Asahi, lo è sempre stato come gli è sempre stato familiare respirare.
E vuole toccarlo, coglierlo come una margherita a mezzanotte o un ricordo in una mattinata assoluta, vuole averlo e vuole assolutamente essere suo. Perché forse non è guarito, ma molte delle sue cicatrici sono state suturate e, adesso, nuda pelle gli restituisce uno sguardo abbagliante.
«Permettimi di stare con te» sussurra Asahi, tendendogli una mano. «Promettimi che resterai, questa volta».
Yū guarda la propria, di mano, piccola e affusolata come quella di un bambino e con le medesime fossette sulle nocche.
Asahi lo guarda, in attesa. Non ha soffioni, né lettere, né haiku, ma a sé stesso e una fiducia assoluta e incontrovertibile in lui.
Noya posa la propria mano nella sua.


 
Buona mattina a tutti!
Sono molto contenta di essere arrivato a questo capitolo, che mi ha spezzato il cuore (ho capito che la storia si avviava verso la propria conclusione) e spero che piaccia anche a voi. Il nostro penultimo appuntamento sarà il 7 dicembre, con il capitolo quattordici.
Le note di oggi sono queste:

22Alice Sebold, Lucky
23Frase ripresa dal manga (Vol. 2, cap. 10, p. 8)

Grazie a chi mi sta leggendo, in silenzio o meno, per essere arrivato fin qui.
Gaia

 

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Capitolo 14
*** 14: Sott'acqua e altri lughi possibili ***


14. Sott’acqua e altri luoghi possibili24

 
Gli pareva che il fiume avesse qualcosa di speciale da dirgli, qualcosa ch’egli non sapeva ancora, qualcosa che aspettava proprio lui.
(Hermann Hesse)
 
Che cosa sogna l’acqua che dorme?
(Sylvain Tesson)
 
 
«Non ti senti mai come se facessi fatica a respirare?» domanda Suga, camminando allegramente. «Come fossi perennemente sott’acqua?».
Kageyama sbuffa, esasperato: Sugawara non molla l’osso e, ogni giorno, lo accompagna fino a casa. Come dovrebbe fare con Shimizu, se lei non lo avesse esonerato dal farlo – e non per Kageyama, ma per la preoccupazione che a Suga deriva dal sapere che è ferito anche lui. Che anche lui la notte fatica a trovare un motivo per addormentarsi, e la mattina uno per destarsi. Che pensa di essere l’unico a esserlo, ferito, quando tutti loro lo sono – e lo ha detto lui.
«No, direi di no» mente Tobio, guardando il cielo con aria fintamente interessata. «Ma tu non hai una casa tua, una ragazza, una sciarpa da metterti?».
Suga si copre il collo con la mano, ridendo. «Direi di sì, ad entrambe le cose» ammette, allegro. «Ma sono preoccupato e vorrei gareggiare con qualcuno che stia bene e che non sia così tanto…».
Ferito. Ma, questo, Tobio non lo ammetterà mai nemmeno con sé stesso.
«Tu non vuoi gareggiare con me e basta» commenta, acido. «Mi sembra tutta una scusa, Suga».
Ma il ragazzo dai capelli argentei alza lo sguardo al cielo, ignorandolo, e sorride preda di chissà quel pensiero. Forse, si dice Kageyama distrattamente, pensa alla ragazza che ama e, allora, il dolore per l’insulto è solamente un lieve pizzicore in una mielosa valle d’oblio.
«A me sembra che tu nasconda qualcosa» risponde Sugawara, scrollando le spalle. «E, stanne certo, scoprirò cosa… a meno che io non lo sappia già, ovviamente».
Ma Kageyama è fiero dei suoi segreti come lo è del proprio talento, così come è sicuro di saperli mantenere. Quelli degli altri, sì, ma soprattutto i suoi – eppure, Suga lo guarda come se comprendesse, e lui continua a ripetersi silenziosamente che non può essere.
Che non può avergli scavato dentro in quel modo, non senza il suo permesso e, allora, Tobio respira profondamente e riesce a ricontattare la propria calma.
«Dici?» domanda, ironicamente. «Non puoi sapere sempre tutto di tutti».
«Hai detto bene» commenta Sugawara, lanciandogli l’ennesima occhiata indecifrabile. «Ma io non posso sapere, io so già tutto di tutti».
Un brivido di timore gl’increspa la schiena, insieme alla certezza ferrosa e inossidabile che Suga possa aver compreso qualcosa.
«Tutto, di tutti» ripete Suga. «Ma vorrei che fossi tu a dirmelo».
«Che è l’ennesima stupida tattica per non farti gli affari tuoi?» domanda Kageyama, esasperato. «Io sto bene, davvero».
«Certo» conviene il suo compagno di squadra. «Immagino che dovrò farlo sapere ad Hinata, allora, sono giorni che mi chiede cosa c’è che non va in te».
Tobio stringe i pugni, fermandosi di scatto: è una certezza, adesso, che lo piega in due come un conato e gli ustiona la gola nella medesima maniera. Così che non gli rimane nient’altro da fare che guardare Sugawara, con gli occhi spalancati e pieni di timore.
Ma lui scuote la testa e prosegue a camminare, allegro, perso in chissà quali pensieri – nella testa di Kageyama ve ne è solo uno, che tuona e gli piove addosso continuamente.
Suga lo sa.
 
***
 
«Torna» Asahi lo guarda e ha gli occhi asciutti, ma gli trema il cuore. «Io non ci posso stare, in un luogo in cui non ci sei anche tu».
Yū lo guarda e sa di dover trovare le parole, perché Asahi interpreterebbe il suo silenzio come l’ennesimo rifiuto. Ma gliele ha strappate via dalla gola, insieme alle corde vocali, e adesso può solamente sputare sangue e filamenti di parole.
«Io…» sussurra, domandandosi come si faccia a rimparare a parlare. «Sì».
Non gli permette di dire altro, il suo corpo, perché si catapulta addosso ad Asahi – come ha sempre fatto dopo ogni partita, come forse un giorno farà nuovamente a un’altra partita – stringendosi al suo petto. Ha il cuore che batte e sembra quasi possa prendere il volo, rompendogli a forza di battiti la cassa toracica e planando all’aria aperta.
Lui gli accarezza i capelli, resi secchi e immobili dal gel, finalmente in pace. Perché forse non era vero, che Asahi era rinato dopo il pugno di Noya o dopo che questi era sparito in una nuvola di polvere e insoddisfazione. Perché Asahi rinasce in quel preciso momento.
Quando si rende conto di avere le braccia di Nishinoya attorno alla vita e che la sua testa è poggiata contro il suo cuore, in quel minuscolo istante torna a sentirsi vivo per davvero.
«Non sarà facile» mormora, scusandosi implicitamente. «Io… non sono guarito, Noya. Però, potresti…».
«Starti vicino» completa lui, guardandolo in volto. «Certo che lo farò. Non pensare di cavartela senza di me, non di nuovo!».
Asahi sorride: non si sente più sott’acqua da tempo ma, adesso, è come se quell’acqua residua avesse finalmente abbandonato i suoi polmoni, permettendogli di assaporare nuovamente l’aria fresca. Istintivamente si china, mentre una vocina nella sua testa gli urla di non farlo – potrebbe non volere, non essere pronto, no – e accarezza le labbra di Yū con le proprie.
Ma il libero ride, sulla sua bocca, cingendogli la nuca con le mani e approfondendo il bacio, mordicchiandogli il labbro inferiore con i denti appuntiti. Non mi scappi, vorrebbe dirgli ma, qualche parte di lui, ha la certezza che Asahi abbia capito – e, se solamente avesse il tempo di ragionare, si renderebbe conto che è per davvero martedì.
Non sentono nemmeno lo sguardo esasperato di Daichi, mentre chiude la porta della palestra alle loro spalle.
«Oh, bene» borbotta il capitano, con un’occhiata complice a Sugawara. «Ho la sensazione che ci toccherà comprare altre sciarpe».
Suga ride, coprendosi istintivamente il collo con una mano con aria colpevole.
 
***
 
«Buongiorno, Kageyama» lo saluta Sugawara, affiancandolo sulla strada verso casa. «Oggi ti senti in vena di parlare, sulla scia di romanticismo che ci ha investito?».
Tobio fa una smorfia, ma tace. Dentro di lui s’agita un mare improvviso, che gli sommerge la coscienza, annegandola: Suga sa. E lo sa come Tobio potrebbe sapere di avere due braccia, come sa di avere e come sa di essere inn… – no, quello mai.
«Non capisco perché continui a domandarmelo» sibila, fulminando Sugawara con lo sguardo. «Se lo sai già. Io lo so, che tu sai».
«Spero sempre che tu decida di dirmelo» commenta Suga, alzando le spalle. «Ma, sì, io so di Hinata».
Suga lo sa. Forse ha visto uno sguardo di troppo, un respiro troppo pronunciato. Forse. O forse l’ha capito come coglie i pensieri della ragazza che ama, in uno schiocco di dita.
Tobio non si rende conto di essersi fermato, finché non sente i passi di Sugawara cessare, a pochi metri da lui. Il ragazzo lo guarda, con curiosità, quasi come si aspettasse una qualunque reazione – quando lui è semplicemente paralizzato, di fronte a quella verità che s’è trovato davanti.
Ti sembra mai di essere come sott’acqua?
«Non lo dirò a nessuno» promette Suga, alzando una mano. «Ma speravo volessi il mio aiuto».
Kegayama vorrebbe dirgli che no, certo che non lo vuole, vuole continuare a far finta di niente finché non sparirà tutto in un oblio acquoso e soffocante.
«Sì» dice, in fine. «Sì, io… ».
 
***
 
Spogliarsi è solamente un luogo possibile, un luogo comune, un luogo che si è spesso disposti a visitare. Forse Asahi non sarà mai in grado di spogliare Noya come si spoglia un pensiero, né riuscirà mai a toccarlo con una parola, ma adesso le sue mani così grandi tornano ad avere un senso e uno scopo.
Perché Noya lo guarda, ed è così entusiasta e attivo da togliergli le parole, mentre si ritrova quelle mani minuscole sotto il maglione, a sbottonare la camicia. Casa sua suonava di vuoto, fino alla sera precedente, e adesso ha la cadenza dei loro respiri affannati.
«Non…» si ritrova a sussurrare Asahi, mentre il libero lo fa abbassare per un bacio dolcissimo, che ruba il respiro per farlo proprio. «Non… non so come fare».
Noya gli sfiora un fianco, in una carezza simile a un battito del loro cuore: soffice, ma agitata. Asahi si domanda che rassicurazione si aspetti, da lui, dato che è sicuro che anche Noya non abbia mai avuto esperienze con altri ragazzi – e, questo pensiero, un po’ lo conforta.
«Impareremo» sussurra, dolcemente. «Hinata sta imparando a ricevere, quindi non è niente di meno improbabile».
Asahi soffoca una risata sulle labbra di lui, sfiorandogli la lingua con la propria: Noya inclina la testa, stringendolo per la camicia mezza abbottonata e mezza no.
Asahi è un luogo finalmente possibile, ma non comune e, soprattutto, è l’unico luogo che lui vorrebbe mai dover visitare.
Gli tira i capelli, cercando di sentirlo di più, anche attraverso i vestiti, l’ultima barriera che riesce a tenerli separati.
Nishinoya scivola con una mano lungo il bordo dei pantaloni di Asahi, come per tirargli via quel consenso che fatica anche solamente a pensare. Indugia sulla zip, sfiorandolo a malapena, finché lui non gli mormora un a fior di labbra.
Noya sorride, soddisfatto, mentre si affretta a tirar giù i pantaloni, permettendo ad Asahi di calciarli via.
«Non…» sussurra lo schiacciatore, vedendo Noya mettersi in ginocchio sul pavimento, uno sguardo furbo che gli illumina lo sguardo. «Non devi… cioè non per forza…».
Ma Yū sorride e Asahi non riesce a dire altro – l’ha spogliato, più in senso metaforico che in senso letterale. «Voglio» risponde lui, sorridendo.
Asahi gli sfiora il collo, incerto, ma non riesce a dire niente, perché Yū lo ingloba, come ha fatto con la sua anima, il giorno in cui l’ha chiamato per nome per la prima volta. Può sfiorarlo, accarezzarlo, persino racchiuderlo tra le labbra. Ma non riuscirà mai a farlo entrare dentro di sé come quel giorno.
Può gemere, Asahi, può gridare il suo nome, afferrargli i capelli e imbarazzarsi per quelle goccioline biancastre che colano sul petto di Noya. Può fare tutto questo, o forse potrebbe anche tacere e godersi il momento, ma nulla comunque riuscirebbe ad eguagliare lo scossone all’anima che gli ha provocato quell’Asahi-san.
Forse, nemmeno un orgasmo.
 
***
 
«Daichi, scusami la domanda» commenta Suga, cercando di usare un minimo di tatto. «Ma hai trovato un nuovo hobby?».
Cerca di non ridere – anche se l’idea che Daichi possa essersi messo a far la maglia è a dir poco esilarante – mentre il capitano continua a distribuire sciarpe a ogni membro della squadra.
«Sto preservando il nostro buon nome» sibila Sawamura, gettandogli addosso una sciarpa verde bottiglia. «Prima che Nishinoya o chi per lui possa prendere esempio da te».
Suga ride, mentre tutti li guardano con aria perplessa e una sciarpa in mano.
 
***
 
«Volevo ringraziarti per il tuo aiuto».
Shimizu sorride, di fronte a un gigantesco mazzo di denti di leone che Noya le agita vicino al volto. Il ragazzo sembra imbarazzato – forse più da lei che dal compiere un gesto del genere – mentre cerca di spiegarsi.
«Per avermi detto di riprendermelo» borbotta. «Cioè tu lo hai detto meglio di me, ma il senso era quello».
«Di niente» risponde lei, prendendo il mazzo di fiori tra le braccia. «Quindi adesso siete…a posto?».
Yū annuisce vistosamente, pensando che non è il termine più consono da usare: sono meravigliosamente bene, camminano sulla spiaggia e non sott’acqua.
«Non dirlo a Suga-san, però» bisbiglia, indicando il mazzo di fiori. «Non vorrei si arrabbiasse, diventa terrificante quando lo fa».
Kiyoko ride, coprendosi la bocca con la mano. «Non penso lo farebbe» dice. «Sono fiori in amicizia, o no?».
In amicizia. Se glielo avesse detto uno o due mesi prima, Noya si sarebbe disperato per quella definizione così quadrata, così lontana dalla tiepida infatuazione che nutriva nei confronti di lei. Ma adesso, che sfiora l’acqua chiedendosi se essa ricordi com’era soffocarlo o abbia perso la memoria, quel pensiero produce solamente un piacevole brivido sulla schiena.
«Non ho mai avuto un’amica» ammette. «Credo che sia strano, ma non mi dispiace affatto come definizione».
Lei ride dolcemente, accarezzando il mazzo di fiori con aria pensierosa.
«Va bene» mormora, con convinzione. «Siamo amici».
Lui ride per tanta formalità, e sputa quel poco di acqua che gli era rimasto incastrato tra i polmoni, stagnando vicino al cuore.
 
***
 
«Ma cosa la porti a fare, la sciarpa di Daichi» Suga riprende Kageyama, sulla via di ritorno verso casa. «Se n’è reso conto anche Hinata, che è una sonora cazzata».
Kageyama si volta a guardare Sugawara, sorpreso del fatto che si sia abbassato a pronunciare una parolaccia, e si stringe nella propria sciarpa. «Fa freddo» si giustifica. «E non voglio ammalarmi adesso, al contrario di te».
Perché Suga gira a gola scoperta, lasciando che il vento gliela azzanni fino a farlo sanguinare: sembra non sentire dolore, né tantomeno freddo, mentre segue Kageyama da una strada all’altra. Di certo non trema, perché ha pensieri bollenti che lo riscaldano più della sciarpa di Daichi.
«Io non mi ammalo mai» risponde Suga, allegramente. «Ma mi farebbe comodo, se ti ammalassi tu».
Lo dice con un’innocenza tale da far sorridere anche Tobio, sebbene si affretti immediatamente a reprimere quell’involontaria contrazione di muscoli. Ma, ne è certo in maniera incontrovertibile, Suga lo ha visto.
«Non ci contare» risponde, con un piccolo ghigno. «Pensavo volessi battermi in maniera onesta».
«Sfruttare un raffreddore è sicuramente un metodo onesto» commenta Suga, alzando le spalle. «Quindi vedi di impegnarti per ammalarti».
Tobio alza gli occhi al cielo e fa per replicare, ma… – «Così posso chiedere a Hinata di portarti le medicine» ride, con fare confidenziale. «Posso sacrificare il mio essere un bravo senpai».
«Non dirlo mai più» tossisce Kageyama, a disagio. «Non la voglio nemmeno immaginare, una cosa del genere».
Perché, a quel punto, si ammalerebbe per davvero: sentirebbe anche lui il desiderio di spogliarsi – no, di farsi spogliare anche solamente con uno sguardo o una parola – e allora sarebbe costretto a togliersi la sciarpa rossa che Daichi gli ha letteralmente tirato addosso.
«Non ti chiederò il perché» risponde Suga, con un sorriso furbo. «Immagino siano cose private».
«No» risponde Tobio, lapidario. «Sono cose a cui non voglio nemmeno pensare, io… semplicemente non posso pensarci».
Stringe la sciarpa con così tanta forza che gli sbiancano le nocche.
 
***
 
Daichi sa.
Lo ha capito principalmente per il sorriso irritante con cui Suga saluta Kageyama, ogni giorno, e per lo sguardo confuso e ferito di Hinata nel vederli tornare a casa insieme. Lo sa e sa con certezza assoluta, che la squadra sta cadendo a pezzi sotto il peso del fatto che, i suoi membri, non riescono a frenare gli ormoni.
Daichi sa e non ne può più, di vedere Sugawara e Nishinoya distratti, come si trovassero sott’acqua, e Kageyama che vaga per il campo con aria scontrosa. Ma non può nemmeno rimproverarli e, così, si limita a tacere e a osservarli mentre cercano di respirare nel proprio luogo possibile – Shimizu, Asahi.
«Capitano» Tsukishima lo raggiunge, camminando lentamente. «Mi servirebbe una mano per…».
«Ti prego» borbotta Daichi, passandosi una mano sul volto con aria esasperata. «Non dirmi che ti sei innamorato di Yamaguchi e ti serve un consiglio, non penso potrei reggere tutto ciò».
Il biondo lo guarda, sistemandosi gli occhiali a disagio. «Ehm, no?» domanda, perplesso. «Perché dovrei chiederti una cosa del genere?».
«Esatto!» esclama Daichi, con aria esausta. «Per nessun motivo al mondo. In cosa ti serviva una mano?».
«Per riavvolgere la rete» risponde Tsukishima, con ovvietà.
Daichi tira un sospiro di sollievo, mentre il centrale lo guarda con sempre maggiore perplessità.
«Fidati» borbotta il capitano dei corvi, occhieggiando agli altri membri della squadra con sospetto. «Capirai anche tu perché, prima o poi».
 
***
 
Sugawara gli ha detto che la soluzione è solo una.
E non è ammalarsi, scrivere una lettera e metterla in una bottiglia, comporre un haiku o raccogliere i soffioni. La soluzione è ritornare a respirare.
Abbandonare i luoghi subacquei e riemergere sulla battigia, cercando di non farsi frustare da vento e tempesta. Ma Kageyama non riesce a riemergere da quella marina perché, per quanto si sforzi di nuotare verso la riva, c’è qualcosa che lo continua a spingere indietro.
Il motivo è lui. Che lo spinge sott’acqua, dove non riesce a respirare, cercando di fare a gara anche a chi respira di meno, a chi chiama per primo l’altro per dirgli – «Vienimi a prendere».
Che qui non si respira.
«Ma cosa ci fai ancora qui?» Hinata ha il fiatone, in bicicletta, quando lo trova poco lontano dal negozio di Ukai, con la testa appesantita dai pensieri. «Non ti sei fermato dopo l’allenamento, pensavo fossi tornato a casa».
«No» sussurra Kageyama, incerto. «Io… ti stavo aspettando».
Ti capita mai di sentirti come sott’acqua. Tobio respira, ma gli sembra comunque sempre e solo di annegare.
Non ci sono onde, nella sua mente, è tutto un immenso tsunami che arriva e si ritira, mangiandosi ogni cosa, ogni conchiglia e ogni casa che riesca a costruirsi nell’intervallo tra un’ondata e la successiva. E lui sente di non sapere come si fa a restare a galla, perché l’acqua lo risucchia, facendolo sparire in un vortice, e non c’è nessuno disposto ad aiutarlo. Nemmeno lui.
«E perché mai?» domanda Hinata, inclinando il capo con fare comico. «Se dovevi dirmi qualcosa potevi rimanere e farmi fare qualche schiacciata in più».
Tobio sospira, ma esce solamente dell’acqua calda e qualche alga.
Vorrebbe dirgli che non capisce perché lo vuole come si desidera una stella cadente in una notte densa di nuvole, come si può volere il desiderio di compleanno di fronte a una torta priva di candeline. Vorrebbe dirglielo, ma ha la bocca piena di sabbia e frammenti di corallo.
«Sei strano» commenta Shōyō. «L’ho detto a Suga-san, ma ha continuato a dirmi che eri normalissimo».
Tobio gli mette le mani sulle spalle, per farlo tacere, e il centrale chiude gli occhi, preparandosi a essere scrollato o a ricevere un pugno sulla testa. Che non arriva.
È forse così che si ritorna a respirare?


 
Buongiorno a tutti, e scusatemi per il ritardo! 
Mi fa un sacco tristezza dovervi dire che questo è il nostro ultimo appuntamento, a venerdì 11 dicembre, con l'epilogo. Spero che questa storia vi sia piaciuta e che potrete continuare a leggermi con qualche novità futura.
La nota di questo capitolo:

24Riferimento al libro di Ayelet Waldma, L’amore e altri luoghi impossibili, da cui è stato tratto l’omonimo film con Natalie Portman.

Un bacio a tutti voi.
Gaia

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Capitolo 15
*** Epilogo: Quando si smussano gli scogli ***


Epilogo: Quando si smussano gli scogli

 
Sii sempre come il mare che infrangendosi contro gli scogli, trova sempre la forza per riprovarci.
(Jim Morrison)

 
Mi accontento di questo: darti appuntamento nell’aria, farti sedere accanto a me sullo scoglio, anche se non ci sei.
(Sylvia Plath)
 
 
Io ti aspetto, te lo prometto.
Suga se l’è sentito dire una sera che diveniva lentamente notte, con l’aria fredda che dolcemente gli erodeva gli spigoli e le ripiegature della mente, smussandolo. Shimizu l’ha sussurrato, ma lui l’ha sentito.
L’ha sentito come percepisce i propri pensieri o come è certo di avere un cuore che batte nella gabbia toracica, trafitto dalle sue stesse ossa. E ne è certo come è certo di amarla e di farlo da praticamente sempre; la sua non è una sterile infatuazione frutto di un incontro tra pelli, ma l’amore di una ballata che s’incarna e diventa vita vera – o, così gli piace pensare. Ma la ama per davvero, le sussurra come un mantra, così tanto da essere disposto a sbagliare e tornare sui propri passi.
Io ti aspetto.
Come si fa con i casi persi – e, d’altronde, Suga lo è – o con i luoghi impossibili, Shimizu nemmeno guarda l’orologio per contare i minuti che li separano. Perché non è separazione o squallida attesa, la loro: lei lo tiene con sé anche nella sua assenza, come una fantasia o un ricordo incancellabile, tenendolo per mano persino nei propri pensieri.
Perché lei sarà sempre lì, con lui, a contare quanti passi li separano e desiderando posare i propri sulle impronte di lui.
Te lo prometto.
«Ma non dovrai mai più aspettarmi» sussurra Suga, sfiorandole il viso e il cuore. «Sarò sempre con te».
Lei sorride dolcemente, ma ha gli occhi lucidi: non riesce a concepirlo nemmeno lei, come sia tutto sistemato, tutto risolto. Che non vi siano più lacrime, per nessuno, che il martedì esploda in un rosso tramonto a lieto fine.
Qualcuno ha detto che il sole, raggiunto il proprio zenit, può solamente cominciare a cadere verso l’altro capo della terra. Ma, anche qualora fosse realmente così, si può realmente dire che stia cadendo? Da qualche parte della terra, che lei ignora, è ancora martedì.
«Lo so che non ho mazzi di fiori, o altri haiku scritti benissimo» ride Suga. «Ma io lo penso per davvero, che un giorno mi chiederai di sposarti».
E martedì, da quel momento in poi, sarà solamente l’ennesima tacca sulla barra delle settimane, un segno che si perde nel legno. Ve ne saranno altri, ma si perderanno come un’onda solitaria in mezzo al mare e, allora, finalmente potranno sedersi sugli scogli.
Shimizu lo vede già lì, Suga, con le gambe a penzoloni sopra la vasta immensità del mare: le sta sorridendo, agitando la mano, persino in quella marina che dimora nella sua mente. Hanno appuntamento lì, quando lui non c’è, perché lei lo aspetta sempre e soprattutto in quell’assenza dolorosa e bulimica.
«Potresti anche chiedermelo tu» risponde, accennando un sorriso. «Con un mazzo di fiori e niente haiku».
Perché, forse, cresceranno entrambi. Un giorno si sveglieranno e avranno venti, trent’anni: ma non basterà per permettere loro di dimenticare quel momento, le onde che spruzzano acqua salata, e le mani di lei che si sono strette su quelle di Suga dando il via a tutto quanto.
Niente haiku per Shimizu, questa volta: lui realizza in un lampo di comprensione che non le servono più, le dichiarazioni d’amore, perché semplicemente Kiyoko sa. Che ha promesso, forse persino a sé stessa, di amarlo e aspettarlo finché il tempo lo permetterà – andranno sotto la terra, in un martedì che dura più di ventiquattro ore, insieme.
«Te lo chiederò» risponde Suga, prendendole le mani come lei aveva fatto con lui. «Con i fiori, con un anello e senza haiku».
Perché le parole hanno smesso di servire, sono divenute l’ennesima vuota espressione del trascendentale: a che cosa serve, parlare, se si colgono come pensieri sfuggenti e silenzi carichi di significato.
Nella marina della propria mente, Shimizu è finalmente calma. Non v’è vento o tempesta che l’agiti come l’ennesima onda anomala, le alghe crescono placidamente sul fondale e non vengono strappate e rigurgitate dal mare sulla riva. Le conchiglie sono al sicuro, minuscole e mai incrinate – e, nell’armadietto di Nishinoya, formano una casa.
L’avranno anche loro una casa, una famiglia? Dei bambini a cui Suga insisterà per spiegare il significato dei fiori, o persino come si componga un haiku, e a cui farà indossare le sciarpe di Daichi.
«Soprattutto senza haiku» rimarca Shimizu, sorridendo. «E io ti dirò…».
Lui le lancia uno sguardo così impenetrabile da sembrare quasi denso, facendole perdere le parole. Le perde sempre, Kiyoko, quando lui le lancia quelle occhiate insostenibili: perché nei suoi occhi sono espresse mille promesse e, allora, lei si perde a cercare di interpretarle tutte quante – ma sono anche le uniche occasioni in cui, per lei, Suga rimane insondabile.
Come una marina senza luna, lui la guarda e mormora parole incredibili, che la fanno tremare come l’ennesima nevicata di quel mese. È un quarto di luna, il sorriso di Suga mentre la interrompe, con una dolcezza che fa quasi paura.
Io ti aspetto, te lo prometto. Ne aspetta anche la risposta, senza timore, certa che anche il suo sarà sempre e soltanto un meraviglioso sì.
Sì lo voglio, sì voglio rimanere con te, sì è lunedì e noi siamo solamente nell’ennesimo luogo possibile della nostra vita. E io ti aspetto, voglio rimanere con te anche quando il sole il confine della vista.
. Aspettiamoci a vicenda.
«Mi dirai di sì» commenta Suga, accarezzandole i capelli con la mano affusolata. «Perché non potrai dirmi di no, dopo che te lo avrò già detto per primo».
Lei sospira, ma non dice niente, accoccolandosi contro il suo petto – c’è ancora, il cuore tra le ossa, o le ha frantumate tutte esplodendo in uno tsunami di sangue e cocci di gabbia toracica?
«Perché te lo sto dicendo ora» prosegue Suga, così piano che Shimizu fatica a sentirlo. «».
 
***
 
Io ti aspetto, te lo prometto.
Hinata se l’è mangiato vivo la sorpresa e lo sgomento, di fronte a un bacio che non si aspettava di ricevere. Che non si aspettava di assecondare.
Kageyama ha sussurrato qualcosa, prima di voltargli le spalle e cercare di correre via, se solamente lui non l’avesse afferrato per una manica. Shōyō ha lo sguardo scuro come una marina notturna e affilato come uno scoglio, su cui è impossibile accovacciarsi.
«Perché scappi?» domanda, piano. «Se è una gara dobbiamo partire insieme».
Tobio lo guarda e non comprende: scuote il capo, così che i capelli gli disegnano l’ennesima ombra sul volto, e si guarda i piedi a disagio. È patetico. Ha seguito i consigli di Sugawara – che, tra le altre cose, non è esattamente la persona migliore per quel tipo di consigli – e ha fallito, palesemente, perché Hinata lo guarda con gelida sorpresa.
«Sei stato scorretto» lo rimprovera il rosso, con le mani sui fianchi. «Mi hai colto di sorpresa, non lo avevo capito».
Kageyama sospira, senza riuscire a muoversi, sebbene ogni nervo gli stia gridando di voltarsi e andare via. Perché non la può sopportare, quella sua buffa delusione, non può sopportare i rifiuti e, alla fine, non può sopportare nemmeno lui.
C’è una parte di sé che lo detesta come l’ennesima appendice superflua della propria vita, mentre cerca di trovare una scusa – sai, è che Suga mi ha sfidato. Sai, è che sono momentaneamente impazzito, ma adesso sto bene, te lo giuro – che giustifichi quel gesto stupido e impulsivo che ha compiuto.
Eppure. Eppure, Hinata non l’ha spinto via – forse era paralizzato dal disgusto? – e gli è persino parso che lo assecondasse.
Tobio aveva promesso a sé stesso che lo avrebbe aspettato ma, lui, ha un pessimo rapporto con le attese. Che siano i trenta secondi in cui il tè dovrebbe cominciare a riscaldarsi, o quelli necessari affinché il succo di frutta venga espulso da una delle macchinette automatiche a scuola, Kageyama non sa aspettare.
Quindi era solamente l’ennesima promessa vana e inutile, si dice, mentre Hinata si scontra con quel muro di silenzio che s’è costruito attorno per disorientarlo. Se non parli, pensa distrattamente nascondendo le mani in tasca – stanno tremando – non puoi essere colpevole.
«Kageyama!» strilla Hinata, scrollandolo leggermente. «Ma almeno mi stai ascoltando?».
Certo che no, vorrebbe rispondere Tobio, con assoluta sincerità. Perché dovrebbe interessargli, quello che Hinata sta per dirgli, ponendo una drammatica fine a ogni speranza che abbia mai nutrito nei suoi confronti?
«Scusa» si tira fuori, con più sincerità di quanta non avesse voluto metterne. «Non volevo, io…».
Che scusa puoi tirarti fuori, per giustificare un bacio alla persona di cui sei innamorato?
Shōyō sospira, immensamente contrariato, mentre si avvicina leggermente: vorrà dargli uno schiaffo, un pugno come Nishinoya ad Asahi, urlargli contro che è solamente un povero illuso? Kageyama alza il viso, orgoglioso, pronto a prenderselo, quel pugno, senza dire una parola. Ma, anche quello non arriva.
«Se pensi di potermi battere, sei un illuso» borbotta Hinata, orgoglioso. «Il secondo posto non vale, se fai una gara migliore».
Quando finalmente lo bacia, Kageyama spalanca gli occhi, sorpreso – una parte di lui, quella più nascosta, si rassegna a dovergli dire che ha fatto per davvero la gara migliore.
 
***
 
Io ti aspetto, te lo prometto.
L’ha detto con fare minaccioso Daichi ad Asahi, quando ancora s’è rifiutato di mettere un piede in palestra: io ti aspetto perché questo è il tuo posto, e tu non puoi far niente per cambiare questa cosa, è la tua natura e le nature non mutano. Ma Asahi non desiste, anche se la sua vita è notevolmente migliorata, perché la sua vita adesso ha Nishinoya.
Daichi, però, non si rassegna. Come nella vita non s’è mai rassegnato a moltissime cose tra cui, con suo grande e perenne disappunto, insegnare la decenza a Sugawara. Il conteggio delle sciarpe che gli ha regalato – no, lanciato addosso con aria esasperata – è salito a cinque e mezzo, per quella volta che gli ha lanciato anche il gomitolo. Ogni tanto Suga ride, dicendogli che il determinato capitano dei corvi che fa la maglia è un controsenso, ma è l’unico modo possibile in cui Daichi riesce a smussare i propri spigoli. E quelli degli altri.
Così, tutti i corvi sono coperti a dovere – e ha dovuto cucire anche un cappellino per Nishinoya, che ha insistito così tanto da ridurlo alla più cieca esasperazione – e nessuno di loro prenderà un raffreddore prima di una partita, né potrà seguire il tragico esempio di Sugawara.
Persino Asahi ne ha una, verde speranza, che lo avvolge come l’abbraccio dei suoi amici ogni volta che si ferma nel cortile della palestra per aspettare Noya. Ma è una speranza comune, un coro di speranze, che rimbomba tra gli scogli come un’onda sonora e li spinge a pregare silenziosamente che Asahi cambi idea.
Non è solo per il bene della squadra, o perché lui è l’asso, è perché c’è ancora un vuoto da quando lui se n’è andato. Perché Daichi e Suga, così come Tanaka e persino Nishinoya, ne sentono la mancanza. Si voltano, a ogni partita, per scoprire che lui non c’è – non c’è dove si aspetterebbero di vederlo, pronto a saltare, e quell’assenza diviene sempre più pesante.
«Suga, ti avverto» sibila Daichi, interrompendo il flusso dei propri pensieri. «Se non metti immediatamente una sciarpa…».
«Ti arrabbierai parecchio» completa il palleggiatore, allacciandosi l’oggetto incriminato attorno al collo. «Cristallino».
Sugawara finge una calma che non prova ma, il capitano ne è sicuro, anche lui avverte quel vuoto nel campo, dove dovrebbe esserci anche Asahi. Daichi sospira, passandosi stancamente una mano sul viso.
«Non dirmi che a te non manca» commenta, lanciando a Suga uno sguardo impenetrabile. «Asahi intendo. Io… pensavo che sarebbe tornato, prima o poi».
Ma Sugawara sorride, nascondendosi nella propria sciarpa azzurra. «Come sei sentimentale, Dai-chi» commenta allegramente. «Certo che tornerà, abbi fiducia».
D’altronde, pensa Daichi distrattamente, ha promesso a sé stesso che avrebbe continuato ad aspettarlo.
 
***
 
Io ti aspetto, te lo prometto.
L’ha sussurrato Yū ad Asahi, dopo il suo ennesimo no, non posso tornare: si può sempre andare indietro, anche dopo aver proseguito in avanti per una decina di chilometri. Ma Asahi sembra non comprenderlo, perché continua a dire che ha bisogno di andare avanti e dimenticare. Eppure, si domanda Noya quando è abbastanza lontano da impedirgli di cogliere quel pensiero amaro e appiccicoso, che tornare indietro non impedisce di dimenticare.
Ma ha giurato che lo aspetterà, da vivo e da morto, qualunque decisione decida di prendere – anche se a lui non dovesse piacere. E come potrebbe apprezzarla, Nishinoya, una decisione talmente insensata e autolesionista?
Asahi è fatto per il campo, altrimenti non avrebbe braccia così lunghe e forti, non sarebbe così alto e avrebbe mai così grandi – ma lui sembra non comprenderlo e, allora, con che parole potrebbe dirglielo?
Che sacra promessa potrebbe fare, Yū, per convincere Asahi che sono destinati a essere l’uno il completamento dell’altro e, allora, saranno sempre incompleti e frantumati se lui non deciderà di ritornare a giocare?
È ancora spigoloso, Asahi, le mareggiate non ne hanno smussato quegli angoli insensatamente taglienti e, persino nella mente di Noya, toccarlo a mani nude fa male. Ma ha promesso, in maniera silenziosa ma infrangibile, che lo aspetterà sempre.
Che rimarrà silenziosamente al suo fianco, ad aspettare che compia quel passo: forse non lo farà mai e, allora, la mente di Asahi sarà sempre scossa dalle onde e dalle mareggiate. La casa di conchiglie di Yū sarà sempre incrinata e, i suoi omini di conchiglia, non torneranno mai ad essere veramente felici.
«Mi dispiace» mormora Azumane, sfiorandogli timidamente la mano. «Non voglio deluderti, lo sai».
Noya lo guarda e la bugia gli scivola dolcemente dalle labbra, mielosa e densa, come fosse naturale, mentirgli.
«Non sono deluso» mormora. «Non sarei mai deluso da te».
Solamente metà della frase rispecchia quel che Noya pensa, perché deluso lo è davvero: una parte di sé, quella che si vergogna di quel pensiero, s’era convinta che sarebbe bastato l’amore a rimettere in piedi Asahi. E, quando ciò si è rivelato l’ennesimo ragionamento fallace e semplicistico, Nishinoya s’è ferito con i suoi medesimi pensieri.
«Lo sei» commenta Asahi, sfiorandogli i capelli e i pensieri sottostanti con un singolo movimento della mano. «Non… io lo sento che lo sei».
Noya china il capo, con aria stanca: ha ragione, è deluso e forse persino arrabbiato per colpa delle proprie ottimistiche speranze. Ma, a cosa servono, le speranze, di fronte a quella realtà dura e immobile e affilata?
Non è vero, che le onde finiscono sempre per smussare gli scogli: la mente di Asahi è ancora insensatamente tagliente e Yū non riesce a trovarvi alcuna soluzione, alcuna magia per eroderla e renderla una dolcissima curva. Non è vero che le lame diventano sassolini, così come non è vero che la goccia scava la pietra – perché non è mai riuscito a scavarlo, Asahi, a convincerlo con insistenza alternata a suppliche.
«Scusami» mormora Noya, senza sapere bene per cosa si stia scusando, dato che la ragione è dalla sua. «Solo… pensavo che avresti ceduto, prima o poi».
Ma non l’ha fatto e, forse, qualcosa dovrà pur significare: che Asahi è rinato, ma non abbastanza per voler tornare nel proprio elemento naturale. O, come probabilmente è quella realtà odiosamente incomprensibile, forse Noya – e Daichi e Suga e tutti gli altri – ha sbagliato a cogliere la vera essenza di Asahi. Forse non la ama abbastanza, la pallavolo, per tornare a giocare. Forse, non ama abbastanza sé stesso, Yū e chiunque altro – perché, altrimenti, rifiutare di farsi del bene da solo?
«Lo so» conviene Asahi, dolcemente. «Io…».
Ti amo abbastanza da non volerti mentire, vorrebbe dire, ma sono parole che gli tagliano la gola come sabbia vetrificata. Dovrebbe sputare sangue per davvero, Asahi, per espiare quel tradimento nei confronti della squadra, nei confronti di Noya.
Perché, ed è una dolorosa certezza, lo stanno aspettando tutti quanti. Lo aspetta Daichi, che per qualche motivo incomprensibile ha cominciato a produrre sciarpe per tutti quanti, e lo aspetta Suga – sarà ancora divorato dal senso di colpa? Ad Asahi non lo ha mai confessato, né probabilmente lo farà mai.
Lo aspetta Tanaka, che in Noya non ha mai smesso di credere, lo aspetta persino Hinata, che ha ancora bisogno di un rivale.
Solamente Asahi non si aspetta, non potrebbe mai cominciare ad aspettarsi. Eppure. Eppure ha ancora quella mancanza – che non è Noya che sparisce per delle ore ogni giorno – che gli mastica il cuore con esasperante lentezza. È il rumore della palla che cade dall’altra parte del campo, dopo essere stata colpita dalla sua mano, la vista oltre la rete. È tutto questo e anche qualcosa di più.
«Lo so» mormora Yū, insolitamente calmo. «Non è qualcosa che dipende da me, me lo hai detto già».
Il sorriso di Asahi fa male, sembra solamente l’ennesimo taglio in una mappa di cicatrici sbiadite. Ma sono ancora lì, potrebbe persino contarle, se si guardasse allo specchio – eppure, lui si sente cambiato, perché Noya è anche quello. Il suo cambiamento, la sua ripresa, la sua rivalsa. Ma come potrebbe dirglielo a parole?
Io ti aspetto, te lo prometto – ma come può chiedergli di aspettarlo per sempre. E cosa sarà mai, poi, il per sempre se non l’ennesimo cerchio infranto in un tempo che circolare non potrà esserlo mai?
Yū ha zero pretese e zero aspettative, ma Asahi gli sfiora la fronte con la propria e, mentre Noya chiude gli occhi in attesa di un bacio – che non arriva – lo dice. Così piano da farlo sembrare solamente l’ennesimo rumore di sottofondo, ma lo dice e gli fa spalancare gli occhi e urlare di gioia.
Perché Noya gli salta addosso, rischiando di farlo cadere, come se avesse vinto una partita immaginaria – una partita contro sé stesso – e lo bacia come se gli avesse fatto il più bel regalo del mondo. E, forse, lo ha fatto per davvero, facendogli perdere il respiro e le parole.
Gli ha restituito quella speranza che aveva perso per strada, con solamente un sospiro e un suono, quasi indistinguibili dal silenzio.
«Torno».

 
Ed eccoci qua, vi giuro ho le lacrime agli occhi, e non solo perché sono le otto di mattina e devo mettermi al pc per lavorare. Le ho perché questa long significa rinascita: e non solo per i pg, ma anche per me che erano otto anni che non scrivevo e completavo una long-fic.
E ci sono riuscita, a sorpresa anche per me, e quel tasto "completa" di oggi è una minuscola vittoria che mi fa dire okay, ne devo scrivere altre. Io vi ringrazio davvero tantissimo per avermi seguita e incoraggiata, leggere recensioni, mp e vedere che seguivate la storia mi ha riscaldato il cuore.
Grazie mille e spero di rivedervi presto in qualche nuova storia.
Gaia

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