Quando guardi l'Abisso

di _Lightning_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un'altra oscurità ***
Capitolo 2: *** Il Pianeta del Crepuscolo ***
Capitolo 3: *** Penombra ***
Capitolo 4: *** La Torre di Luce (I) ***
Capitolo 5: *** La Torre di Luce (II) ***



Capitolo 1
*** Un'altra oscurità ***


Disclaimer: In questa storia sono presenti headcanon, rielaborazioni del materiale originario e pesanti integrazioni con l'EU di Star Wars (ex-universo espanso canonico, ora Legends), oltre a riferimenti a opere esterne ed easter eggs. Tradotto: non copiate né ispiratevi in nessun modo, che me ne accorgo.
 

Quando guardi l’Abisso
 
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1. Un’altra oscurità
 


Sente un sapore metallico in bocca. Le sue palpebre sfarfallano, schiudendosi, e il mondo si spacca a metà. Non riesce ad aprire del tutto l'occhio sinistro, e percepisce un velo di sangue rappreso che lo incornicia. Sente anche un rivolo di sangue che gli sgorga dall'orecchio, colando lungo il collo.

Gli sfugge un gemito soffocato quando prova a muovere la gamba: due chiodi di dolore gli si piantano nelle articolazioni di ginocchio e caviglia. Si immobilizza, aspettando che l'ondata si plachi. Chiude di nuovo gli occhi, e vede sprazzi di colore accecanti sullo sfondo delle palpebre, come colpi di blaster.

Dank ferrik, dove è finito? Prova a sbirciare tra le ciglia, e gli occhi bruciano come se stesse fissando direttamente entrambi i soli di Tatooine: le luci fioche e l'ambiente roccioso che riesce a distinguere oltre il velo di lacrime suggeriscono una grotta. Forse una prigione sotterranea. Come ci è finito, là sotto? La sua mente è annebbiata, più lenta di quanto dovrebbe essere, anche considerando il dolore. Sente un ronzio nell'orecchio, come uno sciame di api inferocite.

Era una trappola, ovvio. E otto mercenari bene armati erano stati una sfida anche per lui. Lo hanno messo fuori gioco, a quanto sembra. Ma non ricorda il momento esatto. Non–

Salta un battito.

Dov'è Cara? E il Bambino? Una morsa gli strangola il cuore quando non riesce a darsi risposta. Sa sempre dove sono. Perché adesso non riesce a ricordarselo? Cerca di tornare sui suoi passi.

La pista. Il magazzino di miele onirico. Gli SBD dormienti. Hanno... parlato, lui e Cara, e forse le ha detto troppo. Forse non se n'è nemmeno pentito, sul momento. Non ne ha avuto il tempo, perché poi sono caduti nell'imboscata e li hanno separati.

Come?

Sente la testa sul punto di spaccarsi come un uovo: gli duole così tanto che percepisce ogni asperità del pavimento come fossa incisa nel suo cranio.

È solo allora che sbarra gli occhi, realizzando. Mette a fuoco la nuda roccia, poi i suoi polsi scorticati e macchiati di rosso. Niente visore tra i suoi occhi e l'esterno. Niente elmo.

Gli si incastra un respiro in gola, come durasteel solido che gli occlude i polmoni.

Il suo elmo.

L'hanno preso. Gliel'hanno– hanno preso– hanno– la sua mente cade in un pozzo frenetico, il suo respiro si fa irregolare. Rimane immobile, sentendosi rimpicciolire, con la guancia scoperta premuta sul suolo freddo e duro. L'hanno visto in volto, gli hanno– hanno calpestato dignità e onore e identità qualunque altra parola gli abbia tenuto quell'elmo in testa per tutti quegli anni; concetti ai quali si è aggrappato con ogni fibra del suo essere – che ora si sta sfaldando a velocità vertiginosa. Si sente come se gli avessero cavato fuori il cuore dal petto, strappando via con esso anche tutti i capillari e arterie e vene. C'è una voragine appena sotto le sue costole che non smette di rigettare sangue, e non ha idea di come fermarlo.

Si artiglia il petto e sussulta. L'armatura non c'è. Hanno preso anche quella, ovviamente. Fa aderire il palmo alla casacca, chiedendosi, in uno sprazzo di lucidità dettato dall'autoconservazione, se stia davvero sanguinando. Percepisce il tessuto umido sotto i polpastrelli, e la consistenza e il sentore sono senza dubbio quelli del sandue. Ma sembra anche più denso, e più dolce, come... miele?

Il suo sconcerto supera l'umiliazione per una singola frazione di secondo. Non ci sono ferite, sotto a quella macchia fresca, quindi non sta morendo. Non riesce a classificarlo come un fatto positivo.

Preme con forza la fronte contro il terreno, imponendo al suo corpo di reagire. Si contorce sul pavimento cercando di tirarsi su a sedere, e sente ogni singolo muscolo che protesta e oppone resistenza – ha di sicuro qualche costola incrinata e un polso slogato, o almeno, la sensazione è quella. La sua gamba è un disastro ed è decisamente rotta in due punti: riesce a malapena a trascinarla per terra senza urlare. Vede del sangue chiazzargli anche i pantaloni all'altezza delle due articolazioni offese, piegate in un'angolazione innaturale. Si trattiene dall'indagare per timore che il suo corpo, nel constatare l'entità dei danni, si rifiuti di collaborare ancora.

Riesce infine a puntellarsi con la schiena contro la parete più vicina, e reclina la nuca fino a poggiarla contro la roccia scoscesa. Percepirla direttamente contro pelle e capelli gli causa un senso di nausea che muore nel suo stomaco vuoto.

Manda giù un groppo di bile e solleva lo sguardo, riuscendo finalmente a inquadrare le elettrosbarre giallastre della sua cella. Quindi è davvero una prigione. Ora riesce a distinguere delle grida ovattate in lontananza, e quello che sembra l'eco schioccante di un'elettrofrusta. I solchi che gli attraversano la schiena si fanno improvvisamente sentire, abbastanza profondi da rendere una tortura il tessuto che vi si incolla. Muove una spalla, e la pelle si tende lungo il taglio come se volesse strapparsi del tutto in due.

Strizza le palpebre e deglutisce di nuovo a fatica, sentendo una fitta all'occhio sinistro semichiuso. Percepisce ogni spaccatura della propria carne in modo acuito, ne ha precisa coscienza sul proprio corpo. Non è certo la prima volta che viene ferito a sangue: è abituato a ricucirsi con un cauterizzatore senza battere ciglio. Ma non è un qualcosa che fa parte della sua quotidianità. I danni più frequenti sono le contusioni da blaster, i danni interni, le fratture dovute a una caduta, le slogature e lussature dei corpo a corpo, i lividi innumerevoli che punteggiano costantemente il suo corpo in tutte le loro sfumature, dal viola al giallognolo. Il rosso è un colore raro, e raramente appartiene a lui. L'elmo e l'armatura lo proteggono così, risparmiandogli il sangue e chiedendo in cambio la forza necessaria a incassare colpi su colpi.

Adesso, ogni scalfittura che individua sul proprio corpo sembra incidere in profondità, in punti in cui mai è stato ferito da quando ha il beskar a proteggerlo – a parte Nevarro, ma Nevarro è qualcos'altro, è una paura che lo attanaglia anche adesso e che si rifiuta di far emergere.

Distoglie la mente intontita dalle proprie ferite e fissa lo sguardo sui raggi d'energia sfrigolante, conscio di non essere nelle condizioni di provare ad aggirarle. Riesce a malapena a respirare e pensare assieme. Vale la pena pensare di evadere?

Il Bambino, gli rimbomba cupo nelle orecchie, Cara. Dovrebbe valerne la pena – sarebbe così in una qualsiasi altra situazione. Non adesso. Non è come su Nevarro, quando è stato pronto a dare la vita per loro. Adesso non riesce nemmeno a formare il pensiero di rivederli.

La sua testa inizia a farsi troppo leggera, adesso, e sente la feroce mancanza del famigliare peso del beskar; dello spazio fresco e protetto del suo visore. Si sente nudo, un nervo scoperto. I lembi di pelle esposta formicolano di brividi quando sfiorano il muro. I peli sulla nuca si rizzano fastidiosi, come se qualcosa di mostruoso gli alitasse sul collo, pronto a sbranarlo. È come se gli avessero mozzato un arto, lasciandolo a morire dissanguato. Solo che non è ancora morto.

È a quel punto che la realizzazione si abbatte su di lui, schiacciandolo contro la parete. La voragine nel petto sprofonda, si allarga, inghiotte i polmoni e il petto fino a diventare un abisso di cui non riesce a scorgere il fondo. C'è lui, laggiù da qualche parte; quel bambino rimasto in un seminterrato su Concord Dawn, a fissare la morte.


Serra gli occhi e tenta di stabilizzare il respiro fattosi erratico. Sta iperventilando da minuti interi e i capogiri gli danno l'impressione di tuffarsi a mezz'aria col jetpack. Magari è così. Strizza con più forza gli occhi. Fa male, e vede le stelle appuntate su lretro delle palpebre, che traballano a ritmo coi brividi. Sa cos'è successo, ma non ha ancora intenzione di vederlo.

Non è più un Mandaloriano.

Non può farci niente. È finito, ormai, qualunque cosa accada: morirà comunque una morte da codardo – la paura che lo perseguita dal momento in cui ha indossato il beskar l'ha finalmente azzannato, tramutandosi in realtà. È già morto, ormai. Un nauseante senso d'impotenza e nudità gli si insinua sottopelle. Sa che, nel momento in cui aprirà gli occhi, darà forma e consistenza al suo nuovo mondo.

Così li tiene chiusi, per ora, come quel bambino che si rifugiava dal buio sotto le coperte – in quella che, anche allora, era solo un'altra oscurità.


 

Note dell'Autrice:

Cari Lettori!
Questo è... un esperimento, sì. Chiamiamolo così. Non so esattamente dove mi porterà... o meglio, lo so benissimo, il vero dilemma è ciò che accadrà nel mezzo!
Per ora, godetevi un bel po' di angst fine a se stesso, e sappiate che i lrating potrebbe cambiare. Siete stati avvisati nel disclaimer: headcanon a go-go in arrivo, ma troverete sempre spiegazione nelle note ♥ In questo caso, il fatto che Din sia originario di Concord Dawn è un mio headcanon, si prega di tenerlo presente e di non riutilizzarlo (che se ci azzecco come ci ho azzeccato per alcune cose della nuova stagione vado a chiedere i diritti a Favreau&co :D). E scusate l'insistenza su questo punto, ma considerato il tempo che ho speso nell'incastrare i vari Dave filoni di Star Wars mi imbestialirei nel vedere scopiazzature in giro (ed è già capitato).
Il titolo è una citazione di Nietzsche... perché ovviamente non mi basta averlo in tesi, devo ficcarlo pure nelle storie, yeee!

Grazie a chiunque vorrà commentare, aggiungere la storia alle liste o semplicemente leggere! Però sappiate che anche mezza parola di commento mi fa piacere, giusto per capire se l'idea "prende"! E se trovate errori di battitura abbiate pietà, sto pubblicando alle 3 di notte e revisionerò domani ♥

-Light-

P.S. 
Trovate l'originale in inglese a questo link, sempre scritta da me-> https://archiveofourown.org/works/27180430/chapters/66387178 Le due versioni differiscono in modo abbastanza incisivo, visto che in italiano riscrivo la maggior parte del testo usando l'inglese come semplice traccia.

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Capitolo 2
*** Il Pianeta del Crepuscolo ***



Quando guardi l’Abisso
 
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2. Il Pianeta del Crepuscolo
 




Un giorno prima
 
«Si dice che si nutrano di sogni. Qualunque cosa voglia dire.»

«Non intendo rimanere qui abbastanza a lungo da scoprirlo,» rispose Din, seccamente.

Cara smise di trafficare con la fondina del suo blaster e alzò lo sguardo, vedendolo fermo sul bordo della rampa d'uscita della Crest, come se fosse riluttante a mettere piede sul suolo muschioso e umido di Varchas. Il Bambino emise un flebile richiamo dal suo scomparto.

«Cos'ha che non va questo pianeta?»

Din soppresse un sospiro.

«Non mi piace e basta.» Avanzò all'esterno, gli stivali che affondavano nel sottobosco scuro e molle. «Chiamalo un presentimento.»

Cara batté le palpebre, presa alla sprovvista dalla vaghezza della sua risposta. Din non agiva seguando emozioni o impressioni, e tanto meno preferenze. Era un uomo per cui contavano solo fatti, tattiche, linee di tiro favorevoli e posizioni di vantaggio, esattamente doveva essere per ogni cacciatore di taglie Mandaloriano che si rispetti. Le emozioni non giocavano alcun ruolo – tranne quando i lBambino era in pericolo.

E tranne on Varchas, a quanto pareva. Le era parso sulle spine sin da quando si erano sobbarcati quel contratto, a dir la verità. Ormai sapeva leggerlo piuttosto bene, e riusciva a riconoscere i suoi vari tipi di silenzio: pacata contemplazione, calma spensierata o taciturna apprensione. Quest'ultima era rara, e sempre giustificata. Mentre, un paio di mesi prima, non aveva avuto bisogno di chiedergli perché mai attraversare il settore Mandaloriano l'avesse turbato, adesso era a corto di risposte.

Era vero: Varchas, il
pianeta del crepuscolo”, non aveva una buona fama nella Galassia. Era anche vero che si poteva a stento parlare di fama. L'aveva sentito menzionare un paio di volte al massimo nel corso della sua vita – quel commento sul nutrirsi di sogni, che non era esattamente invitante. E basta. Non aveva nemmeno mai visto un Varchaasi. Sapeva solo che esportavano miele pregiato, che non aveva mai avuto il piacere di provare, visto che non aveva crediti da spendere in simili frivolezze.

Quando era loro capitato tra le mani quel contratto, su Nar Shaddaa, avevano accettato perché sarebbe stato semplicemente folle non farlo. In seguito a qualche scaramuccia con gli Imperiali superstiti, la Razor Crest aveva urgente bisogno di essere rimessa in sesto, oltre a un'ispezione da cima a fondo. E Motto, per quanto fosse burberamente paziente, non poteva vivere di credito per sempre. Anche il loro equipaggiamento aveva visto giorni migliori e l'armatura in beskar di Din richiedeva una manutenzione specifica e costosa. Infine, era da un po' che voleva mettere la mani su un blaster Z-6 a ripetizione, in memoria dei vecchi tempi.

Avevano bisogno di soldi, semplicemente. Taglie elevate implicavano rischi elevati, ma erano entrambi guerrieri esperti, oltre che una squadra formidabile, quindi aveva accettato l'offerta in un battito di ciglia. Ripensandoci, Din non era sembrato affatto entusiasta, ma non aveva nemmeno obiettato. Dopotutto, le lasciava quasi sempre carta bianca nelle negoziazioni, una parte di quel lavoro che aveva ammesso di detestare e che lei, al contrario, trovava quasi divertente. Stavolta non c'erano state contrattazioni: diecimila crediti vivo o morto valevano una gita nella bocca di un Exegorth, per quanto la riguardava.

Comunque, ormai erano lì. Era futile interrogarsi sui se e sui ma.

Rinfoderò il blaster e seguì Din fuori dalla nave, inalando l'aria densa e umida della foresta tropicale; incrociò le braccia, attendendo che il Mandaloriano finisse di ispezionare la chiglia della Crest. Avevano subito qualche danno minore mentre raggiungevano il punto di salto di Nar Shaddaa, quando erano stati costretti ad attraversare un campo di asteroidi.

"È a posto?" gli chiese, sentendo dei rumori metallici a babordo della nave.

"Abbastanza," esalò Din in tono insolitamente infastidito, mentre chiudeva di scatto il pannello esterno. "Ma non sono sicuro che reggerebbe un altro ipersalto. Forse dovremmo farla sistemare qua su Varchas."

Puntellò un piede sulla rampa d'ingresso, spostandovi il peso, e la fissò evitando in modo quasi inequivocabile di guardarla negli occhi. Cara iniziava ad avere la percezione di quando evitava attivamente il suo sguardo, anche se, dall'esterno, sembrava sempre scrutare diritto dinanzi a sé. Adesso, il suo sguardo oscillava su un punto un poco al di sopra delle sue spalle e, da come parlava, sembra stesse quasi sperando che lei non concordasse con quanto aveva appena detto.

"Per me va bene. meglio non correre rischi," rispose invece, voltandosi in modo esplicativo verso il Bambino, solo per ritrovarselo già ai suoi piedi, con un'unghia ancorata al suo stivale e gli occhi appuntati su Din. "Non sono sicura che lui sia d'accordo con l'essere lasciato di nuovo da solo, però."

Din liberò uno dei suoi sospiri un po' teatrali, ma s'intuiva l'accenno di un sorriso.

"Non abbiamo molta scelta," disse, avvicinandosi a loro e chinandosi per prendere in braccio il Bambino, che lanciò uno squittio di protesta. "Su, non ci mettermo molto, womprat pestifero," tentò di placarlo in modo burbero, mentre lo adagiava nel suo scomparto.

Cara colse l'accenno di una risata piena nella sua voce. Il Bambino aveva dei poteri considerevoli, questo era indubbio. Ma quello più impressionante era il modo in cui riusciva sempre a migliorare l'umore di Din. L'uomo gli pizzicò una delle orecchie cadenti in un gesto affettuoso, ma il Bambino si limitò a fissarlo con quello che assomigliava terribilmente a un cipiglio di riprovazione.

"Non credo che abbia funzionato," commentò Cara, senza poter fare a meno di sorridere a quella scena, come ogni volta che li vedeva interagire. Din non si preoccupava molto di nascondere il suo affetto verso il suo figlio acquisito. Non si era ancora interessata a fondo degli usi mandaloriani, ma le sembrava chiaro che quei guerrieri temprati e impassibili non avessero alcun obblico nel comportarsi in modo indifferente verso coloro che amavano, specialmente i loro figli. Al contrario, le davano l'idea di essere genitori ferocemente protettivi.

"Non funziona mai. Torniamo presto, ad'ika." Diede un'ultima occhiata al Bambino e chiuse alla svelta lo scomparto, come se non volesse indugiare troppo, rischiando di cambiare idea riguardo al portarlo con loro. "Non ci metteremo molto," borbottò poi, e non seppe dire se si stesse rivolgendo a lei, al Bambino o a se stesso.

"In marcia, allora," rispose in ogni caso.

"In marcia."

Si avviarono, giù per la rampa della Crest, nella radura e poi tra gli alberi. Vennero presto inghiottiti dal flusso vitale di quei luoghi incontaminati. Le ricordarono i boschi violetti di Onderon, anche se qui la flora sembrava ancor più stravagante. La foresta era rigogliosa, formata da alberi sinuosi e contorti ricoperti da rampicanti in fiore, e ronzava di vita – così tanto che Cara si ritrovò a desiderare di avere anche lei un elmo in beskar, così da non dover agitare qua e là le mani per scacciare gli insetti che sciamavano loro attorno.

"Per la prossima taglia, voglio un pianeta di ghiaccio," disse, cercando di non muovere troppo le labbra per non ritrovarsi a inghiottire una boccata di moscerini curiosamente luminescenti. Ugh. Non aveva problemi a curare ferite aperte, sventrare nemici o combattere esseri alieni sbavanti, ma il suo rapporto con gli insetti era molto... femminile. E l'ultima cosa che voleva era che Din lo scoprisse.

Proprio in quel momento, il Mandaloriano emise un verso nasale che suonò come uno dei suoi tentativi di camuffare una risatina, almeno finché non lo vide tastare la mentiera dell'elmo, scuotendo qua e là la testa e sbuffando sonoramente. Cara dovette sopprimere un sorrisetto.

"Fierfek! Maledette mosche," sputacchiò, dandole la schiena per sollevare l'elmo oltre la mandibola; Cara si voltò prontamente nella direzione opposta. Il ronzante colpevole schizzò via in un volo stentato, disegnando un anello a mezz'aria. "Vada per il pianeta di ghiaccio," concordò lui, una volta risistemato l'elmo. Attivò la tenuta stagna con un sibilo.

"Questa è la cosa più buffa che ho visto ultimamente," lo stuzzicò Cara, mentre riprendevano ad avanzare nel folto del sottobosco, tra felci bluastre e liane indaco.

Din si limitò a scuotere la testa, ma intuì che fosse divertito a sua volta da quel suo goffo incoveniente. Sembrava leggermente meno tesa, rispetto a solo pochi minuti prima, e lo prese per un buon segno. Era raro che fosse turbato, e vederlo così la metteva sulle spine.

Fu smentita quando un profondo richiamo ruppe il silenzio umido: Din voltò di scatto la testa, una mano già corsa al suo Amban e un respi,ro trattenuto che risuonò al di fuori del casco. Una silhouette con due paia d'ali spiccò il volo da uno dei rami più bassi e sparì in un frullio d'ali. Cara rivolse al suo compagno uno sguardo interrogativo, che lui ignorò mentre si rilassava lentamente, con l'aria di chi si aspetta un'imboscata da un momento all'altro.

Ripresero ad avanzare verso la calda luce a malapena visibile tra gli alberi, dove si ergevano le luccicanti guglie di Taamash.

Man mano che si avvicinavano, Cara dovette ammettere di iniziare a condividere la circospezione di Din riguardo Varchas. L'emisfero in cui si trovavano era al momento avvolto da un eterno crepuscolo, con cieli violetti e un sole fioco e morente che incombeva all'orizzonte. Su quel pianeta una rotazione corrispondeva grossomodo a un intero anno standard. Le fasi del giorno duravano intere stagioni, e avvertì un senso d'oppressione al pensiero.

La natura si era adattata a quei ritmi: col calare del sole, le piante più verdi avvizzivano lentamente, lasciando il passo a quelle notturne di un blu cangiante. Erano nell'autunno del giorno. Fiori fosforescenti avevano già cominciato a fiorire nei punti più bui, e le loro tinte spettrali sembravano accentuare ogni ombra. Cara aveva la netta impresisone di camminare lungo i confini di un sogno.

Si nutrono di sogni. Le voci che aveva sentito inziavano ad acquisire una parvenza di senso. Non si sentiva del tutto sveglia, al momento: le sembrava di galleggiare in un leggero dormiveglia. Stava già sognando?

Affrettò il passo, riscuotendosi e realizzando di essere rimasta indietro. Din le rivolse un'occhiata perplessa. Sapeva che era perplessa.

"Tutto bene?"

"Certo," replicò secca, senza fermarsi. "Sbrighiamoci con questa taglia, mh? Questo posto inizia a non piacere anche a me."

 

 

Taamash era circondata da alte mura di arenaria, le cui asperità sembravano assorbire i raggi obliqui del sole che ancora faceva capolino all'orizzonte. 

Cara e Din si lasciarono alle spalle la porta della città: era chiusa a metà, le spiegò Din, pronta ad essere serrata quando l'ultimo raggio di sole sarebbe fosse sparito. Le guardie cittadine, con indosso dei morbidi copricapi dai colori vivaci, li accolsero con un cenno del capo, per poi alzare i lunghi bastoni al plasma e lasciare loro libero il passo. Cara non riuscì a distinguere i loro volti, velati dal tessuto verde e giallo, ma sembravano umanoidi, anche se leggermente più alti di un maschio umano medio.

Strade affollate e ricoperte da un pavè verdastro accolsero i loro passi, diretti verso il centro della città. Il loro obiettivo era presumibilmente nei bassifondi o nella zona portuale, ma dovevano prima studiare il terreno. Fu subito lampante che dare inizio a un inseguimento nell'intrico di stradine, vicoletti e camminamenti sospesi che curvavano e si intersecavano attorno alle torri gugliate che punteggiavano la città si sarebbe rivelato un incubo. E ciò portò all'inevitabile conseguenza della parola "morto" che acquisiva attrattiva nella dicitura "vivo o morto". I cadaveri difficilmente fuggivano.

Lo sguardo di Din vagava qua e là – lo si intuiva dal lieve e ritmico inclinarsi del casco – apparentamente senza alcuna logica. Ma lei riusciva a seguirne lo schema: vie di fuga, vicoli ciechi, punti d'osservazione, strettoie e postazioni da cecchino risultavano ben visibili anche a lei. Avevano approcci molto diversi, loro due, e sapeva che avrebbero dovuto compiere un confronto incrociato delle informazioni raccolte, una volta raggiunta la Cantina più vicina.

Continuarono ad osservare e mappare la città, passeggiando tra i molti Varchaasi che non rivolsero loro un solo sguardo, come se fossero invisibili. O non avevano interesse per i forestieri, o non li ritenevano degni della loro attenzione. Era difficile dirlo, visto che avevano i volti quasi del tutto coperti e degli occhialoni a schermare le iridi. Din riusciva ovviamente a leggere il linguaggio del corpo molto meglio di lei, essendo cresciuto nel Credo, ma al momento la freddezza degli abitanti sembrava lasciarlo indifferente. Era ancora sulle spine, però, molto più di quanto non fosse normalmente durante gli incarichi: la sua destra non si allontanava mai troppo dal blaster.

Cara si guardò attorno, stavolta con più intento: Taamash era bizzarra, non c'erano dubbi, ma non le trasmetteva un'immediata sensazione di pericolo. Si era aspettata che gli abitanti di un mondo in cui il giorno e la notte erano quasi eterni fossero dei fuori di testa, ma, per ora, quella sembrava una normale cittadina dell'Orlo Esterno.

I tapcaf vendevano liquore a basso prezzo, di un intendo viola, assieme a tappeti intarsiati; capannelli di persone erano sparpagliati per tutta la piazza del mercato; dei bambini correvano e si arrampicavano sui tetti e tettoie più bassi, inseguendo quei volatili quadrialati che avevano intravisto nella foresta, e le loro madri li redarguivano dabbasso in una lingua schioccante e inframezzata da trilli.

Un forte sentore mellifluo permeava le strade, e localizzò un'infinità di giardini, aiuole e rampicanti che ricoprivano quasi ogni edificio. Lì le foglie erano ancora verdi e i fiori rigogliosi, tinti di tutte le sfumature esistenti del rosso, anche se si scorgeva qualche sprazzo di giallo e blu qua e là. Il profumo era quasi stordente, così come il continuo, snervante ronzio di api ebbre di nettare. Molte case di Taamash ospitavano arnie nei loro giardini, ed era chiaro che fossero tenute con estrema cura. Dopotutto, erano la principale fonte di guadagno del pianeta.

La città era anche ben illuminata, e di certo più briosa di qualunque bassofondo di un qualunque pianeta remoto su cui avesse messo piede. Non diede troppo peso a qual fatto, almeno finché non notò la totale assenza di lampioni o altri mezzi d'illuminazione. Rallentò il passo, puntando il naso all'insù, verso il cielo violaceo che in quella direzione rifletteva ormai solo un tenue chiarore. Eppure, raggidorati danzavano ai suoi piedi, e sembrava solo pomeriggio inoltrato. Din notò la sua espressione confusa e le diede un colpetto sulla spalla, indicandole la guglia più vicina. Lei assottigliò gli occhi, e finalmente li vide.

Specchi. Giganteschi specchi, perfettamente lucidi, erano appesi in cima alle torri, ricoprendo ogni lato. Erano inclinati verso il sole e ne seguivano l'angolazione, riflettendone i raggi sopra le loro teste in uno schema fitto e complesso, da torre a torre e infine a terra. Ecco come riuscivano a catturare la luce morente, dando l'impressione di un caldo, pieno pomeriggio autunnale. La luce era talmente soffusa e ben rifratta che, se non si alzava lo sguardo verso le costruzioni, si poteva facilmente non notare la fonte d'illuminazione. Non c'era quasi alcuna zona oscura: l'arzigogolato sistema di specchi era orientato in modo tale che i palazzi ed edifici non proiettassero ombre.

"Ingegnoso," si limitò a commentare, con un sottile sorrisetto che tradì quanto quella scoperta l'avesse inspiegabilmente inquietata. "Che fine hanno fatto le nostre pratiche, antiquate lampadine?"

"Fanno quello che possono," rispose ambiguo lui.

Cara si accigliò. Ebbe la netta impressione che la luce artificiale fosse attivamente evitata dai Varchaasi. Quegli specchi sembravano quasi rituali. E questo voleva dire... no, non poteva essere. Giusto? Oppure vivevano davvero nella più completa oscurità, una volta che il sole si tuffava oltre l'orizzonte? Guardò il cielo: si distingueva la sbiadita circonferenza di una luna abbastanza estesa. Quindi, forse, avevano una qualche sorta di luce riflessa che gli psecchi potevano amplificare durante quella notte infinita. Ma comunque... niente elettricità, niente luci nelle case? Come potevano vivere così?

Si ritrasse da quei pensieri: perché le importava, in effetti? Non sarebbero rimasti su quel pianeta per più di un paio di giorni standard, quindi non avrebbero nemmeno avuto modo di vedere la notte vera e propria.

"Sei già stato qui?" chiese a Din, insospettita dalla sua risposta pronta e dai brandelli d'informazioni su Varchas che aveva rivelato finora.

"No. Ma ho sentito le storie," rispose lui, mentre riprendevano ad avviarsi verso le propaggini del centro città.

Lì, la luce era solo un poco meno intensa, col suo proprio set di specchi montati su torri più basse e modeste.

"Evidentemente hai sentito molte più storie di me."

Non poté evitare di suonare risentita. Dopo mesi passati a viaggiare insieme, poteva affermare senza il minimo dubbio che si fidavano l'uno dell'altra. Riguardo alle loro stesse vite e a quella del Bambino, soprattutto, ma anche nelle piccole cose. Piccole cose come dormire profondamente e non armati mentre l'altro era di guardia, o condividere un pasto schiena a schiena senza che Din svanisse di punto in bianco, rintanandosi nella sua cuccetta o nell'abitacolo per mangiare.

Adesso avvertì un muro ergersi tra loro, più robusto dello strato di beskar che schermava il volto del Mandaloriano. Qualunque ricordo suscitasse Varchas in Din, era o troppo doloroso o troppo segreto per essere rivelato – o, semplicemente, non si fidava ancora abbastanza di lei. Fece male, anche se sapeva di non avere alcun diritto nel pretendere così tanto da lui.

Ad ogni modo, Din non colse il suo tono o decise di ignorarlo. Rimase in silenzio e lei non isnistette, anche se percepì un sottile strato di ghiaccio formarsi tra loro.

"Dovremmo andare allo spazioporto," disse lei dopo qualche minuto, quando indugiarono a un crocevia.

Un enorme rampicante ricopriva la facciata di diversi edifici con fiori e foglie purpuree, spandendo un aroma dolciastro e intendo che quasi le diede un conato.

"Ora?"

La replica del compagno le parve distratta, quasi sognante. per un momento, non suonò affatto come Din Djarin.

"Sì, ora. Oppure possiamo passare il resto del "giorno" ad annusare fiori, così mi viene un mal di testa," disse con noncuranza, arricciando il naso con lieve disgusto. Notò come Din inclinò interrogativamente l'elmo da un lato, e aggiunse: "Non senti il profumo?"

Lui fece una pausa, e si udì un lieve clic provenire dal suo casco. "Dank ferrik," imprecò subito dopo, con una nota acuta di sorpresa nella voce mentre inspirava sonoramente. "Ora sì. È..." s'interruppe, cercando la parola giusta; spesso non gli sovvenivano così prontamente.

"Esagerato? Capisco l'amore per i fiori, ma così è un po' troppo."

Din scosse la testa e riattivò il filtro dell'elmo. "Nauseante," completò seccamente, riprendendo a marciare a passo spedito verso quella che doveva essere la direzione dello spazioporto.

Cara, d'un tratto, prese a sperare che la taglia piombasse loro tra le braccia, così da mettere fine a quella follia. Non sopportava di vedere Din così... non riusciva nemmeno a descriverlo con chiarezza. Spaesato – in parte schivo, in parte pungente. Come se qualcosa potesse sbucare fuori da ombre invisibili e azzannarlo. Era così distante dal suo classico atteggiamento pacato e fermo che si sentì a sua volta fuori posto. Esitò, prima di parlare. Poi si risolse a farlo, giurando a se stessa di lasciar cadere la questione se non avesse ottenuto risposta.

"Sei sicuro di non avere ripensamenti riguardo all'incarico?"

Din si paralizzò nei suoi passi.

"Perché?"

"Sembri... distratto," articolò lei, evitando di dire "turbato".

Din si voltò verso di lei, fissandola per lunghi secondi e, per la prima volta da quando lo conosceva, il suo silenzio sembrò fuori luogo e non intenzionale.

"È colpa delle luci," rispose infine, quasi bofonchiando. "Il mio visore fatica a filtrare il riverbero degli specchi. Sta venendo mal di testa anche a me," ammise poi, quasi rendendosene conto sul momento. "Dovremmo muoverci."

Cara si limitò ad annuire, senza insistere. Stava decisamente nascondendo qualcosa, ma ricordò a se stessa la propria promessa: non lo avrebbe pressato ancora, almeno no ndurante il lavoro. Avrebbe avuto tempo per chiedergli i dettagli dopo, al sicuro sulla Crest.

"Giusto. Allo spazioporto, allora."

 



Fecero sosta a un tapcaf nei pressi del piccolo spazioporto commerciale, dove il traffico era limitato ai soli mercantili. Sedettero sul portico esterno, ricoperto d'edera, con una chiara visuale sulle poche piattaforme d'atterraggio e sui magazzini di stoccaggio: l'intera area era nettamente divisa dal resto del centro abitato, anche se si trovava comunque dentro le mura. La distesa di permacrete smorto e grigiastro era un pugno in un occhio, in mezzo ai colori caldi e accoglienti della città, e solo una sparuta linea di aiuole che avevano visto giorni migliori decorava il perimeto esterno, lungo la recinzione metallica che lo delimitava.

Non c'erano navi in vista, se non per un paio di slanciate corvette Varchaasi vicino ai magazzini, probabilmente usate per trasporti planetari. E un piccolo caccia proprio lì accanto: tondeggiante, malmesso, con striature gialle sulla chiglia, esattamente come quello che stavano cercando.

"Pensi che sia quello di Varan Ghunc?" chiese Cara, assaporando il tipico liquore ambrato di Taamash, che le bruciò piacevolmente gola e lingua in un misto di alcol e zenzero.

"Non ci sono molti caccia Huttesi così lontano da Nar Shaddaa," replicò Din, con un braccio puntellato sul tavolo in plastoid mentre controllava probabilmente la nave tramite lo zoom del visore. "Dev'essere il suo."

"Quindi, lavoro concluso. Aspettiamo, lui torna alla sua nave, e noi lo cecchiniamo." Scrollò le spalle, prendendo un gran sorso d'alcol, poi accennò a uno dei tetti più vicini, che si affacciava sullo spazioporto. "È a tiro?"

Din seguì il suo sguardo, ma non sembrò condividere il suo ottimismo.

"Di poco. È a più di un klick. È rischioso."

"Tu non manchi mai il bersaglio."

"Può capitare," ribattè, perentorio. "Anche l'angolazione è pessima. E se lo manco, è andato... o nel caccia e al punto di salto, o nei bassifondi. Li hai visti, vero?"

Cara compresse le labbra in una smorfia, cedendo alle sue ragioni e riconoscendo di non poter prendere il bersaglio alla leggera. I Weequay sapevano rivelarsi spiacevoli, se provocati, e avevano un talento per sparire senza traccia per poi pugnalarti alla schiena al momento più inaspettato. Avevano già abbastanza nemici, per il momento.

"Va bene, cervello di beskar. Che piano proponi?"

"Io dico di rintracciarlo."

Cara picchiettò il fondo del suo bicchiere contro il tavolo, poi annuì.

"Non ho visto molti esterni in giro. Non dovrebbe essere difficile."

"Appunto. In più, ci sono solo un paio di spaziotel in città, e i Varchaasi sono rigidi per quanto riguarda dove debbano andare, mangiare o dormire gli estranei. Per loro, questo è suolo sacro."

"Varan è un contrabbandiere," obiettò Cara.

"Mi sorprendo che esista il contrabbando, qua," replicò lui, scuotendo pensoso il capo, e non cogliendo stranamente ciò che intendeva dire lei.

"La domanda di spezia è alta ovunque. E qui hanno quel miele... doev'esserci per forza un mercato nero, se è così prezioso come dicono."

"Lo è," confermò Din, senza esitazione. "Potrebbe contrabbandare entrambi, ma punto sulla spezia. Almeno, nei mesi notturni: non dovrebbero nemmeno preoccuparsi di schermarla dalla luce."

"Un perfetto pianeta-magazzino," considerò lei, suscitando un cenno d'assenso da parte sua.

"Avrebbe senso. La stagione di stoccaggio dovrebbe essere alle porte, così come i trasporti illeciti. Concentriamoci sul contrabbando di spezia e partiamo da lì."

"Solita procedura," assentì lei. "Ma non pensi che abbia dei contatti, qui? Un qualche rifugio clandestino?" chiese poi, tornando a quel che intendeva dire poco prima.

"Ne dubito. Quando dico che i Varchaasi sono rigidi, dico seriamente," sottolineò poi, inclinando discretamente il capo verso l'altro lato della strada.

Lei colse l'invito e indirizzò un'occhiata casuale in quella direzione. Per poco non si strozzò nel bicchiere: una delle guardie cittadine era piazzata sul marciapiede, sull'attenti, bastone al plasma in mano e occhialoni fissi su di loro. Non cercava nemmeno di nascondersi. Se ne stava semplicemente lì, indolente, spudoratamente in bella vista. Guardandoli a vista.

Si voltò verso Din, turbata.

"Okay, è... inquietante," mormorò, sentendo un'ondata di vergogna per il fatto di non essersi accorta che li stessero osservando. Si sentiva ancora un po' intontita: lo strano contrasto tra il sole pomeridiano e il cielo crepuscolare, unito a quel costante sentore floreale, stava iniziando a inibire i suoi sensi. "Tu l'avevi notato?"

"Non fino ad ora," ammise lui, suonando a sua volta irritato. "Sono innocui, comunque. Almeno, finché non danneggi gli specchi, i fiori, o usi luci artificiali all'interno delle mura."

Lei inarcò le sopracciglia. Ci aveva visto giusto, allora.

"Quindi, se seguiamo le loro strambe regole, ci lasciano fare il nostro lavoro senza immischiarsi?" disse poi, reprimento l'istinto di lanciare sguardi in direzione della guardia.

"Non penso che faranno storie per un trafficante morto. Soprattutto se contrabbanda miele. E siamo con la Gilda, quindi preferiranno evitare contrasti."

"Anche se non siamo ufficialmente qui per conto della Gilda?"

"Non devono saperlo per forza," disse lui, e riconobbe il modo in cui la sua voce s'impennava leggermente quando sorrideva – o tentava di non farlo.

Bene, quello suonava giù più come il suo Din. Ingollò l'ultimo sorso d'alcol e posò il bicchiere sul tavolo, rivolgendo al compagno un sorrisetto scaltro.

"Pronto?"

"Oya!" replicò lui con fermezza, e si alzò in piedi con un unico movimento, imitato da lei.

"La caccia è aperta."



 


 

 
Note:

ad'ika: figlio, bambino in Mando'a
dank farrik: imprecazione utilizzata da Din nella serie
oya: letteralmente "a caccia!" in Mando'a, ma vuol dire anche "urrà", "evviva", "buona fortuna".

NB. I nomi Varchas e Taamas(h) e alcuni concetti descritti nel capitolo sono ripresi e riadattati dal gioco Sunless Sea/Fallen London, che vi invito a sbirciare se volete intraprendere trip mentali divinamente narrati ♥


Note dell'Autrice:

Cari Lettori,
so che vi aspettavate spiegazioni sulla situazione leggermente drammatica di Din nel primo capitolo, ma... abbiate pazienza, e tutto si spiegherà! Per ora, vi lascio vittime del world-building selvaggio e di molte idee che ho dovuto tagliare dalla mia altra long, Vode An, ma che non volevo scartare del tutto.
Se notate refusi o frasi "strane", battete un colpo: l'originale è comunque in inglese, e mi capita di scrivere fischi per fiaschi quando riadatto in italiano, nonostante sia teoricamente tutta roba mia :'D

Grazie di cuore ad AMYpond88 per aver commentato lo scorso capitolo ,e atutti coloro che hanno letto e/o aggiunto la storia tra le seguite!
Alla prossima,

-Light-






 

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Capitolo 3
*** Penombra ***


Quando guardi l’Abisso
 
_____________

3. Penombra
 


La “caccia” si stava rivelando molto più intricata del previsto. Individuare un bersaglio, a Taamash, significava iniziare a rimpiangere il dedalo di viuzze sudice e claustrofobiche che si diramavano ai piedi degli sfarzosi casinò e sale scommesse di Canto Bight. Le torri-specchio fornivano luce alla città, e davano un’impressione di sicurezza. Impressione era la parola chiave, a braccetto con la sua compagna più stretta, l’ipocrisia.

Non le ci volle molto per capire che “vivere nell’ombra” aveva un significato molto letterale, in quella città. Tutto ciò che non era baciato dalla luce aveva un aspetto quasi impuro: era abbandonato a se stesso, lontano dagli occhi di chi era abbastanza fortunato da vivere sotto i raggi dorati degli specchi. Chi non lo era, ovvero i derelitti costretti a vivere nella penombra, avevano lo stesso fatiscente aspetto degli edifici che li circondavano. Le ci volle un po’ persino per vederli, raggomitolati com’erano negli angoli più bui. Alcuni di loro si mossero appena al suo passaggio, come creature impaurite, ma la maggior parte rimase immobile, coi volti velati da stracci, occhialoni incrinati e mantelli lisi.

Anche il tanfo era nauseabondo: un miscuglio di liquami, fiori marci e dolciumi andati a male che quasi le causò un conato. In più, riusciva a sentire un basso, costante ronzio nelle orecchie. Le piante laggiù erano quasi del tutto assenti – se non per dell’edera sinistramente fluorescente che emanava un tenue lucore rosato – ed era troppo distante dall’accozzaglia di parchi, giardini e aiuole fiorite del centro città. Eppure, sentiva le api. Il ronzio si faceva più intenso in alcuni punti, dove porte scrostate e archi pericolanti si aprivano come fauci nelle viscere dei caseggiati.

Iniziò a credere che Din avesse torto riguardo al “contrabbando inesistente” di Varchas. Quei dintorni e quell’atmosfera le ricordavano in tutto e per tutto i più familiari laboratori di spezia in cui di tanto in tanto si trovavano a dover irrompere per recuperare il ricercato di turno. Sapeva come fosse fatto un laboratorio di spezia improvvisato, e di certo esistevano posti più puliti e meno disturbanti, soprattutto quando erano coinvolti ragni da spezia.

Ma non era così certa che un laboratorio mellifero Varchaasi avesse un aspetto molto migliore, visto che la pregiata sostanza non sembrava affatto il semplice dolcificante che credeva di conoscere, almeno stando alla reverenza mistica che le riservavano gli abitanti. Dubitava che il processo di fabbricazione di quel miele fosse anche solo lontanamente simile a quello che aveva imparato da bambina durante le gite nelle campagne di Alderaan.

Il suo senso d’inquietudine aumentava di passo in passo. Proprio quando fu in prossimità dell’uscita del vicolo, un gemito si levò da uno dei mucchi di cenci ammucchiati sul marciapiedi. Quasi sfoderò il blaster di riflesso, sobbalzando e percependo un velo di sudore freddo sulla fronte. L’essere, che si rivelò un uomo, tese un braccio rachitico e cadaverico verso di lei. La sorpresa lasciò spazio al turbamento quando incontrò inaspettatamente i suoi occhi, privi dei tradizionali occhialoni che li schermavano. E a buona ragione: erano quasi completamente bianchi, se non per le capocchie delle pupille che ora si stavano dilatando nel guardarla, come buchi neri immersi nelle sue iridi nebulose.

Solo allora realizzò che non la stava davvero guardando. Il suo sguardo era vitreo, fisso nel vuoto mentre farfugliava ininterrottamente, in un flusso di parole ingarbugliate a malapena distinguibili e fuse al ronzio di sottofondo:

«… non è ciò che sembra. Non è– non è ciò che– svegliati non dormire svegliati non dormire non dormire non dormire li– li rubano loro li– non dormire li divorano– non è ciò che sembra li divorano…»

Si nutrono di sogni. Un brivido le scivolò lungo la schiena, scuotendo ogni vertebra e affondando le sue dita gelide nella nuca. Fece un passo indietro, quasi perdendo l’equilibrio, e l’uomo tornò lesto a rifugiarsi nel suo ammasso di coperte, apparentemente privo di vita se non per il costante borbottio che ne proveniva.

Cara iniziava a rimpiangere caldamente la decisione di deviare dalle strade principali ben illuminate per dare un’occhiata ai bassifondi, nel caso fosse riuscita a individuare per pura fortuna un trafficante Weequay sospetto. Invece, aveva appena rimediato ottimo materiale per i propri incubi. Si affrettò a dirigersi verso la luce, ipocrita ma più che gradita, tentando di ricomporsi. Le sue gambe avevano ancora la stessa consistenza gelatinosa delle razioni da campo che le rifilavano su Endor. Decise semplicemente di ignorare i capricci insensati del suo corpo: aveva visto decisamente di peggio di un povero senzatetto fuori di testa che probabilmente si divertiva a spaventare a morte i passanti.

Trasse comunque un sospiro di sollievo quando si ritrovò di nuovo nell’alone dorato degli specchi. Facciate di legno intarsiato e appena ridipinto tornarono a riempire la sua visuale; sulla strada pendevano festoni di lanterne rifrangenti, che catturavano la luce dando l’impressione di essere accese da vive fiammelle. Gli abitanti, seguendo i loro ritmi dettati da orologi dai complessi quadranti che non era ancora riuscita a decifrare del tutto, si erano rarefatti, forse all’approssimarsi dell’orario di un pasto. Che fosse il pranzo o la cena, non sapeva dirlo, sotto quel cielo violetto e immutabile, ma si unì comunque sollevata al rado viavai di vesti filigranate, turbanti e occhialoni, senza guardarsi indietro.

Avanzò verso lo spaziotel suo obiettivo, di cui scorgeva l’insegna, stipata tra un fioraio e un negozio di miele. Quasi fece una smorfia: c’era altro, in quella città?

«Mando, vedo lo spaziotel dei sobborghi,
» annunciò tramite il comlink da polso, sforzandosi di suonare impassibile. «Tu a che punto sei?»

Ci fu un lungo silenzio, non insolito quando parlavano di persona, ma abbastanza strano quando erano separati. Din rispondeva sempre immediatamente, conscio di quanto la rapidità delle comunicazioni fosse cruciale durante un incarico. Cara si accigliò, e non nascose di provare un brutto presentimento che lottò per far emergere gli scenari più disparati nella sua mente. Li scacciò via con veemenza: quel posto iniziava davvero a suggestionarla un po’ troppo.

«Mando? Mi ricevi?»

Una scarica statica animò la comunicazione.


«Ti ricevo,» rispose infine lui, respirando affannosamente, in un modo spezzato che la fece gelare sul posto. «Credo di averlo appena perso.»

«Come? Hai perso Varan?»

Lui seguitò ad ansimare, aumentando la sua preoccupazione. Din aveva un’ottima resistenza, e raramente l’aveva sentito così a corto di fiato. Una sola volta, in realtà, ma non aveva intenzione di soffermarsi su quel ricordo, che ancora le faceva sentire i palmi macchiati di sangue.

«Penso di sì,» riuscì ad articolare infine, più chiaramente.

«Pensi?»

«Non sono nemmeno sicuro di averlo trovato.»

Cara tacque, aggrottando la fronte e rivolgendosi verso la direzione generica dell’altro spaziotel.

«Mando, questo posto è già un delirio. Non c’è bisogno che diventi ancora più criptico del solito.»

Udì uno dei suoi flebili, caratteristici sospiri – segno che almeno non si trovava in pericolo di vita.

«Devono esserci delle esalazioni di spezia, qui. Il filtro dell’elmo tiene a bada gli odori, ma credo… credo che mi stiano dando alla testa.»

Le ci volle un momento per capire cosa intendesse. In un’altra situazione avrebbe riso, ma adesso le sfuggì solo un sorrisetto incredulo, nervoso e tirato dai crampi.

«Aspetta. Stai dicendo che sei… fatto?»

Lui non rispose subito, ma sentiva il suo respiro ora più regolare nella linea aperta, sporcato dall'ombra di un altro sospiro.

«Forse. È… tutto abbastanza confuso.»

Ogni tentazione di prenderlo in giro evaporò: suonava davvero disorientato, quasi assonato. Strinse la mano a pugno, cercando di rimanere lucida anche per lui, anche se sentiva la voce dell’uomo folle che le sussurrava nell’orecchio. Non dormire.

«Vengo da te,» decise, senza ulteriore indugio. Lanciò un’occhiata al datapad, dove la posizione di Din lampeggiava in rosso. Era a solo un klick da lì. «Allontanati da lì e… non so, trova un posto tranquillo e isolato per prendere una boccata d’aria pulita fuori dal tuo secchio. E stai in guardia,» aggiunse, con veemenza.

Dall'altra parte del comlink ci fu un momento d’esitazione inframezzata da statico, poi un fruscio di vesti e passi, come se Din si stesse guardando attorno.


«Forse posso… sì. Mi trovi sui tetti,» annunciò, seguito dal rumore metallico di stivali su dei gradini. Vide il suo puntino muoversi e superare la linea di uno degli edifici. «Avvertimi quando arrivi, nel caso…»

«Certo,» lo anticipò, intuendo cosa intendesse. Non si sarebbe mai avvicinata di soppiatto, sapendo che potesse essere senza elmo. «Non ti muovere, sto arrivando.»


 


 
Lo trovò sul tetto di un condominio abbandonato, seduto a gambe incrociate al suo centro esatto, in modo da essere invisibile dalla strada e da qualunque occhio indiscreto. Sembrava illeso, anche se la sua postura era tesa, coi palmi puntellati sulle ginocchia, la schiena incurvata e la testa quasi ciondoloni. Un gigantesco specchio su una torre vicina proiettava un ampio raggio di luce sull’intera area, scacciando ogni ombra e riflettendosi sull’elmo in beskar con uno scintillio.

«Eccoti qui,» esalò in un sospiro sollevato, sedendosi specularmente a terra di fronte a lui.

Din si mosse a disagio, rivolgendole solo un lieve cenno del capo, col visore fisso ai suoi piedi. Lei gli lanciò un’occhiataccia: non le sembrava il momento di metter su la facciata da “guerriero imperturbabile”. Stava giusto per rimbrottarlo, quando lui alzò la testa, stavolta guardandola davvero.

«Scusa. Stavo parlando al Bambino sul comlink privato. Volevo assicurarmi che stesse bene.»

Cara addolcì subito il proprio sguardo, lasciandosi andare a un sorriso a dispetto della situazione.

«La Crest è ancora intera?»

«Almeno l’antenna funziona. Per il resto, non saprei. Ho parlato soprattutto io,» scherzò, con voce ancora un po’ impastata.

Lei sbuffò, apprezzando però quel momento di leggerezza, prima di farsi di nuovo seria.

«Hai ripreso fiato?»

Lui annuì.  «Solo per un attimo. Non voglio rivelarmi con le Guardie che ci tengono d’occhio.»

«Giusto,» si ricordò d’un tratto lei, lanciandosi un’occhiata attorno.

Avrebbero potuto spiarli da qualunque luogo. Quegli stessi specchi sembravano occhi, e il pensiero non fece altro che inquietarla maggiormente.

«Allora? Che kriff è successo? Mentre venivo qui non ho notato né scorie né fumi di spezia.»

Lui inclinò un poco l’elmo in quel suo modo interrogativo. 
«Sicura?»

«Ti sembro fatta?»

Lui la osservò per un momento, senza cogliere l’ironia e accertandosene di persona. «No. Io ti sembro… nel senso, ti–»

«Non come prima. Stai farfugliando, però,» rispose pronta lei, realmente costretta a concentrarsi più del solito mentre le parlava.

A volte, anche normalmente, le riusciva difficile cogliere le sue esatte parole o il suo stato d’animo, senza poter vedere labiale e occhi e col vocoder del casco a distorcere la sua voce, ma aveva ben presto imparato a carpire segnali più sottili come la postura o l’intonazione. Quest’ultima era però molto poco chiara, al momento, e le sue frasi diventavano a tratti un brusio confuso.

 «Dimmi cosa è successo.»

Lui scosse la testa, frastornato.

«Non… non lo so,» ammise quindi, sforzandosi udibilmente di scandire meglio le parole, e lei assottigliò gli occhi, invitando un continuo. «Ho visto Varan. Stava uscendo dallo spaziotel proprio mentre mi avvicinavo. Ero in piena vista, mi ha individuato ed è scappato.»

«Per Malachor, perché non mi hai chiamata subito?»

«Stavo per farlo, ma è scappato nei vicoli e…» prese un respiro, «… ed è scomparso. Non c
era più.»

«Mando, conosce bene la città, sa come–»

«Gli stavo addosso,» ribatté lui, con fermezza e un gesto secco del palmo. «Ho svoltato l’angolo una frazione di secondo dopo di lui, ed era già sparito nel nulla.» Tacque, e quasi lo udì deglutire. «Inizio a pensare che non fosse nemmeno davvero lì.»

Cara avvertì un altro brivido correrle lungo la schiena, e si irrigidì nel tentativo di nasconderlo. Din sembrava comunque troppo assorto per notarlo.

«Che intendi?»

Lui si mosse con insolita irrequietezza, nel chiaro tentativo di tirar fuori le parole giuste.

«Ho visto delle... cose che non dovevano essere lì.»

«Che tipo di cose?»

«Ho detto che non lo so,» ripeté lui, suonando a un tempo frustrato, irritato e scosso. «Per un attimo, ho creduto di… sognare. Non–» s’interruppe e portò una mano alla fronte dell’elmo, in un gesto istintivo che sembrò voler contenere un giramento di testa. Notò il modo in cui lo stava guardando fissamente, e si ricompose all’istante.

Cara si limitò a scuotere la testa, posandogli una mano sul braccio per sostenerlo, visto che si era inclinato di lato. Cercò di non rimuginare sul fatto del “sogno”, non dopo ciò che aveva farneticato quel fuori di testa, ma le era chiaro che Din avesse avuto qualche sorta di allucinazione. Ma non aveva alcuna intenzione di indagare. Il fatto che avesse sentito il bisogno di chiamare il Bambino era già sufficiente, e non voleva conoscerne i dettagli. Qualunque cosa avesse visto, non avrebbe cambiato ciò che era accaduto, né avrebbe fatto sentire meglio lei o Din.

«Adesso stai bene?» chiese soltanto, preoccupata, ma facendo comunque suonare la domanda come una minaccia, sfidandolo a mentire.

Din la guardò da dietro il visore, ma tentennò nel parlare:

«Non… no. Non sto bene. Ma nemmeno male. Ce la faccio,» concluse, perentorio.

«Forse, invece... dovremmo lasciar perdere,» si lasciò sfuggire lei, senza pensare, suscitando un vigoroso cenno di diniego da parte sua.

«Cara, sono diecimila crediti. Quando mai ci ricapiterà un affare del genere? Ci servono i soldi, e tutto ciò che comportano. La possibilità di fermarci un attimo, di abbassare la guardia per un po’. Magari trovare un luogo sicuro e... stabile. Il mio tempo è limitato, e il Bambino non diventerà autosufficiente nel giro di qualche anno. Nemmeno tra un decennio, se è per questo.»

Cara batté le palpebre in risposta a quel flusso di parole sconnesso, senza davvero elaborarle e cercando invece di ricordare l’ultima volta che Din aveva pronunciato più di un paio di frasi concise di fila, se non per esporre strategie e tattiche utili a una missione. Non ci riuscì, e la sua perplessità dovette emergerle in volto, perché Din liberò un sospiro costretto, posando una mano su quella che ancora gli stringeva il braccio.

«Sto… parlando troppo, vero?»

La sua voce sembrò oscillare in bilico sul confine dell’imbarazzo, un’emozione che difficilmente gli avrebbe attribuito.

«Sì. Ma non fa niente, potrei abituarmi a questa tua versione più loquace,» lo trasse d’impaccio riuscendo a sorridere, anche se un po’ mestamente.

Din non aveva mai, mai espresso il minimo dubbio o rimorso riguardo alla decisione di prendersi cura del Bambino. Né aveva mai desiderato qualcosa per se stesso, tanto meno pace e serenità. Si sentiva come se avesse appena spiato nella sua mente senza il suo permesso. Le sembrò vulnerabile, per una volta, e sapeva che non avrebbe mai voluto mostrarsi tale – non l’aveva fatto nemmeno a un passo da morte, figurarsi adesso.

«Dobbiamo sbrigarci a concludere il lavoro. Questo pianeta ha qualcosa che non va. Lo so e basta.»

Din annuì soltanto e, dal modo in cui strinse la presa sulle sue dita, percepì il suo sforzo nel cercare di frenare un altra ondata di parole. Era chiaramente ancora disinibito per via di qualunque sostanza avesse fatto breccia nella sua mente. Lei non si ritrasse, concedendogli qualche minuto per riprendersi del tutto. Il loro piano di intercettare Varan era comunque saltato.

Spostò lo sguardo attorno a loro, spingendolo oltre i fasci semitrasparenti di luce che si intersecavano a griglia sopra le loro teste, rendendo quella città sempre più simile a un’enorme gabbia dorata. Una folata di vento portò con sé qualche petalo di un rosso intenso, che finì sparso ai loro piedi. Una nota dolciastra e melliflua le solleticò il naso, e puntò lo sguardo su Din, a sua volta concentrato sui petali.

 «Credi… che siano i fiori?» gli chiese infine, assecondando l’istinto.

«Avrebbe senso,» replicò lui con prontezza, quasi parlando tra sé, e udì con chiarezza il modo in cui quasi troncò quella frase tra i denti, rendendosene forse conto. «
Sono dappertutto,» aggiunse quindi, un po' debolmente.

Di nuovo, ebbe la netta impressione che le stesse nascondendo qualcosa. Per qualche oscuro motivo sapeva molto di più di lei riguardo a quel pianeta. Ma, di nuovo, non era il momento adatto per pressarlo.

«Senti, nuovo piano,» cambiò argomento, riscuotendolo. «Per quanto preferirei non crederci, hai probabilmente allucinato Varan.» Din distolse il visore da lei, ma non negò il fatto. «Quindi dovremmo ancora avere margine d’azione. Controlliamo lo spazioporto, vediamo se il suo caccia è ancora a terra, e gli tendiamo un’imboscata lì.»

Din scosse la testa. «Le Guardie non ci lasceranno mai–»

«Le Guardie possono provare a fermarci, se ci riescono.» Avvertì comunque il suo dissenso trapelare da dietro il beskar. «Saremo discreti, come piace a te.»

«Disse la shock-trooper.»

Lei gli rivolse un sorriso scaltro. «Fidati e basta. Stavolta restiamo uniti... e avvertimi se la “cosa” degenera. Forse sei solo più sensibile.»

«Non sono sensibile

Lei roteò gli occhi. «Creatore, dammi la forza… non intendevo in quel senso. Respiri in un elmo sigillato, Mando, e stai comunque molto peggio di me.»

Lui si zittì, rimuginando su quell’affermazione.

«Vero,» ammise quindi, anche se controvoglia. «Quindi tu stai bene?» chiese poi, con una goccia di preoccupazione nella voce, resa più evidente dal suo tono ancora malfermo.

«Fresca come una rosa di Naboo,» ribatté svelta lei, concludendo che non gli avrebbe decisamente detto nulla riguardo al suo strano incontro. «Su, troviamo quel rifiuto, riscuotiamo la taglia, e poi prendiamoci una meritata vacanza in qualche resort su Dorumaa. Offro io,» disse infine, rimettendosi in piedi e offrendogli la mano. Quasi si aspettò che la rifiutasse; invece la afferrò con fermezza, issandosi in piedi.

Barcollò un poco, ma recuperò rapidamente una postura diritta. Le lanciò un rapido sguardo, poi si avviò giù dal tetto senza un’altra parola, improvvisamente taciturno. O adombrato. Lo seguì dappresso, quasi riuscendo a percepire il cupo imbarazzo che irradiava. Un Mandaloriano messo fuori gioco da un mucchio di fiori… riusciva a immaginare quanto fosse dura da mandar giù.

«Se può consolarti, io sono allergica ai frutti Jogan.»

Lui sospirò sonoramente.


 


 
«Non scherzavi, riguardo alla sicurezza,» mormorò Cara, mentre camminavano su uno dei camminamenti di legno sospesi, quello più vicino allo spazioporto.

Lui rispose con una mezza scrollata di spalle, concentrato nella perlustrazione. Quasi sentivano il fiato delle Guardie sul collo mentre attraversavano i livelli intermedi della città, in cerca di un punto d’accesso che li portasse alle piste d’atterraggio. La recinzione sembrava alimentata a plasma, l’unica fonte d’energia ad essere tollerata in città. Ciò significava morte certa se avessero provato a forzarla o scavalcarla. Il jetpack avrebbe attratto troppo l’attenzione, visto che lo spazioporto era situato in una zona aperta e strettamente sorvegliata, quindi Din aveva deciso di non perdere tempo a recuperarlo dalla Crest. Era comunque ancora troppo malmesso dopo una sua bravata finita male in un crepaccio su Kajimi.

Le Guardie avevano preso a pedinarli più da vicino non appena si erano avvicinati a quell’area, quasi avessero intuito i loro piani. Non volle soffermarsi su quel pensiero fugace: la situazione era già abbastanza disturbante.

Din aveva recuperato le forze e camminava ora a passo spedito, probabilmente grazie a pura forza di volontà alimentata da testardo orgoglio, ma c’era ancora un filo contratto a tendergli la voce e le spalle. Lei, d’altro canto, iniziava ad avvertire di tanto in tanto quella spiacevole sensazione di sonnolento straniamento che l’aveva colta nella foresta. Cercava di tenerla a bada quando si faceva troppo marcata, ma riusciva comunque a distrarla. A spaventarla, anche.

Doveva rimanere lucida, concentrata sul loro incarico, soprattutto con Din che poteva accusare un malore all
improvviso. I fiori erano più rari, là sopra, e il loro profumo solo vagamente percettibile, ma non lo perdeva comunque docchio, nonostante lui mostrasse chiari segni di fastidio per quella premura.

Continuarono ad avanzare attraverso i ponti e camminamenti sospesi che collegavano bazaar, suq e cantine all’aperto posti su piattaforme lignee, cercando di costeggiare il perimetro dello spazioporto per individuare un punto debole. Il caccia Huttese era ancora al suo posto, ma dovevano essere rapidi: non c’era modo di prevedere quanto ancora il loro bersaglio sarebbe rimasto su Varchas. Avevano concordato di piazzare un localizzatore nella sua nave come piano d’emergenza, in caso fosse riuscito a scappare e raggiungere il punto di salto.

Il loro cliente non aveva loro fornito alcun tracciatore per Varan Ghunc, quindi si erano dovuti arrangiare col suo codice a catena e l’ologramma di taglia per stanarlo su Varchas – non avevano alcuna intenzione di ripartire da zero, in caso qualcosa fosse andato storto. Al momento, Cara non sapeva se sperare di catturarlo lì ed ora, o di portare la caccia altrove, in un ambiente più familiare e ospitale. Su Hoth, per esempio. Pianeta di ghiaccio, nessuna forma di vita senziente: perfetto e preferibile a Taamash.

Aggirarono un altro lato dello spazioporto, fermandosi di tanto in tanto per ispezionare i dintorni, ma ogni volta il Mandaloriano scuoteva il capo dopo aver tentato di trovare una breccia con l’aiuto del visore. Lei, per buona misura, si occupava di analizzare i tetti e le strutture sopraelevate più vicine al loro obbiettivo, ma erano sempre troppo alte, troppo basse o troppo lontane per garantire una buona linea di tiro.

Finirono di controllare il terzo lato del perimetro senza fortuna, con l’umore che si annuvolava di passo in passo. Cara stava giusto decidendo di tagliar corto e rendere giustizia al suo passato da shock-trooper – ovvero, suggerendo di far saltare l’ingresso principale a blaster spianati – quando svoltarono l’angolo di una locanda e individuò il loro barlume di speranza. E luccicava per davvero.

«Mando, alla tua destra,» lo riscosse, con un cenno del mento a indicare la direzione.

Din seguì la dritta, fissò quel punto per alcuni secondi, e si rivolse di nuovo a lei.

«Una raffineria di miele?»

«Qualunque cosa sia, è il nostro biglietto d’ingresso. Vedi?»

Cara non poté evitare di inarcare un sopracciglio alla sua reazione piatta, ma la attribuì agli strascichi del suo inconveniente floreale. Si accostò alla balaustra, gli occhi puntati sulla piccola struttura adiacente lo spazioporto. Era un edificio a due piani squadrato, giallognolo, senza finestre e con una dozzina di piccoli specchi che spuntavano dal tetto, come a schermarlo dalla luce. Il retro sembrava in comune con quello di uno dei magazzini spazioportuali, anche se non era chiaramente distinguibile da lassù. Forse c’era una porta blindata o un passaggio coperto a separarli. Quella che sembrava un’entrata secondaria si apriva in un rigoglioso giardino cinto da mura, che sembrava far parte di una delle torri-specchio minori.

«Guarda quel giardino. Il muro non è altissimo… oppure potremmo passare attraverso la torre.»

Si voltò verso di lui sfoggiando un sorriso trionfante, ma incontrò solo una totale mancanza d’entusiasmo, resa evidente dalla postura rigida del Mandaloriano, e dal modo in cui il suo elmo puntava verso il basso, come se stesse osservando il loro obiettivo di sottecchi.

«Quello è suolo sacro,» asserì quindi, con fermezza.

«Saremo rapidi, non se ne accorgeranno nemmeno,» scrollò le spalle lei con noncuranza, ma non represse un lieve verso di frustrazione. «Perché ti importa così tanto delle loro leggi assurde? Non sarebbe nemmeno la prima volta che pieghiamo le regole.»

Si pentì di averlo chiesto nel momento stesso in cui completò la frase: Din si voltò bruscamente a guardarla, per poi parlare nella voce gelida, austera che riservava normalmente alle taglie:

«È il loro Credo, e siamo a casa loro. Anch’io mi irriterei se qualcuno tentasse di fare irruzione nel nostro Rifugio solo per “piegare le regole” in suo favore.»

Cara avvertì una torsione allo stomaco a quelle parole dure, e sfuggì il suo sguardo, senza ben sapere come ribattere. Nonostante fossero in quasi completa sintonia, quello della Tribù rimaneva un argomento spinoso sotto più punti di vista, non ultimo quello di aver perso la maggior parte dei compagni con cui era cresciuto. Non aveva più messo piede nel Rifugio dal giorno del massacro.

Cara incrociò strettamente le braccia: poteva rischiare di insultare il suo Credo, per riportarlo però coi piedi per terra e ricordargli che nella loro linea di lavoro era normale dover compiere scelte moralmente ambigue, oppure lasciar correre e rischiare che mettesse in discussione ogni loro passo. Poteva essere pericoloso, specialmente se messi alle strette, e non potevano permettersi altri passi falsi. Capiva, anche se non del tutto, la sua volontà di rispettare le credenze altrui, considerando quanto fosse devoto alle proprie… ma ciò non poteva mettere a repentaglio le loro vite e l
incarico.

«Non intendevo dire che dovremmo mancar loro di rispetto o profanare i loro templi. Sai che non lo farei mai. Ma dobbiamo solo entrare e uscire... come abbiamo fatto su Nevarro, nei vostri tunnel,» aggiunse, riluttante a rivangare l’accaduto, ma sapendo che Din non avrebbe potuto controbattere.

Lui spostò il peso da un piede all’altro, assorbendo quelle parole. Tentennò ancora per un istante, poi le rivolse un breve cenno d’assenso.

«So cosa intendevi, e hai ragione. Ma non mi va a genio, tutto qui,» disse poi, in un palpabile tentativo di smussare il suo scatto. Rilasciò uno sbuffo nervoso dietro l’elmo, come se avvertisse una pressione invisibile nei polmoni, poi raddrizzò le spalle. «Se vogliamo entrare nella torre, dovremo prima seminare le Guardie,» annunciò poi, riprendendo un approccio pragmatico, e fece un lieve movimento col capo a indicarne la posizione alle loro spalle.

«Idee?»

«Manovra evasiva,» disse lui, senza esitare. «Ci dividiamo e confondiamo le tracce. Rendez-vous dietro alla torre tra… venti minuti esatti,» concluse, dopo aver stimato la distanza da coprire e il tempo minimo per scrollarsi di dosso i loro molesti guardiani.

Cara lo fissò dubbiosa, affatto propensa a separarsi dopo ciò che era accaduto. Ma non vedeva molte alternative: Din spiccava terribilmente in mezzo alla folla, ovunque andassero, e procedere in coppia non avrebbe facilitato le cose. Da solo aveva di certo molte più possibilità di far perdere le proprie tracce. Annuì, incrociando le braccia.

«Tu passa dall’alto, però,» aggiunse, facendo discretamente cenno al labirinto di passaggi e ponticelli attorno a loro. «Io vado in basso, visto che sono meno sensibile ai fiori.»

Din reclinò appena la testa all’indietro, e poté giurare di sentirlo emettere un lamento esasperato.

«Non te lo dimenticherai mai, vero?»

«Mai,» confermò lei, trattenendo un sorriso nel sentire di nuovo una sfumatura più leggera nella sua voce.

Din scrollò la testa; poi si ricompose, puntando le mani sui fianchi e osservando un’ultima volta la torre e l’annessa raffineria su cui affacciava il parapetto.

«Entriamo e usciamo,» sottolineò infine, guardando prima loro obiettivo imponente e luccicante poi lei, in quello che era senza dubbio uno sguardo severo.

Cara assentì. «Entriamo e usciamo. Facile.»

Fa’ che sia facile, si ritrovò a pensare, rivolta a nessuno in particolare mentre avanzavano tra la calca e si separavano quindi senza preavviso, avviandosi alla torre ognuno per la propria strada.

Non vedeva l’ora di lasciarsi alle spalle quel pianeta.

 

 


 

Note dell'Autrice:

Cari Lettori,
suvvia, lo so che volevate un tocco Lovecraftiano in questa storia. No? Beh, ops, m'è scappato e ormai sta lì!

Scherzi a parte: come detto in precedenza, il tutto ha preso una piega molto più dark di quanto avessi previsto... qui siamo ancora nella zona sicura. Non sono solita entrare nel dettaglio in descrizioni di violenza/tortura/altro, ma siete avvertiti: potreste trovare disturbanti determinati passaggi futuri. Quindi leggete a vostro rischio, anche se il rating non sfocerà nel rosso.
Per ora, godetevi Mando fattissimo e non chiedetemi come sia uscito fuori dalla mia penna. È semplicemente accaduto, e sinceramente dopo alcune scene della seconda stagione (che ho destrutturato manco fossi un'antropologa comportamentale), sono convinta che abbia un lato "goffo" abbastanza evidente, quando è con persone di cui si fida. O quando è fatto come una zucchina, a seconda dei casi :D Dev'essere l'effetto-Pascal che trapela nel personaggio...

Se trovate refusi, battete un colpo: rimane comunque una traduzione/adattamento e a volte qualche espressione "non nativa" mi sfugge e rimane lì a intralciare la lettura, a dispetto delle revisioni :')
Grazie a tutti voi che avete letto e commentato gli scorsi capitoli e a tutti coloro che hanno aggiunto la storia alle loro liste ♥
A prestissimo col seguito!

-Light-

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Capitolo 4
*** La Torre di Luce (I) ***


Quando guardi l’Abisso
 
_____________

4. La Torre di luce (I)



Raggiungere la torre si rivelò molto più semplice di quando si fosse aspettata, in un modo che la mise in allarme.

Dopo anni passati a gettarsi in caduta libera da navi malmesse su pianeti occupati, ad appena un colpo di blaster dalla morte, Cara aveva imparato a diffidare di tutto ciò che si risolveva senza presentare la minima difficoltà. Al momento la situazione le sembrava fin troppo tranquilla, e si trovò a ricadere nel vizio di mordersi l’interno della guancia e le labbra, un tic che credeva di aver abbandonato in seguito alla sua “pensione anticipata
. Evidentemente no.

Continuò ad aspettare nervosamente il suo compagno, ammantata nell’ombra di un passaggio a volta. Era riuscita a seminare le Guardie in uno dei suq inferiori, dopo molte deviazioni e dietrofront tra i suoi stretti, asfissianti cunicoli. Alla fine si era risolta a prendere “in prestito
 un lungo drappo colorato da uno dei banchi, celando così il suo aspetto e gli abiti da mercenaria.

Vi era ancora avvolta, con un lembo tirato su a coprirle il capo a mo’ di cappuccio. Era un inganno di per sé semplice, ma aveva funzionato. Da lontano, appariva come una delle tante donne Varchaasi intabarrate nelle loro lunghe vesti e mantelli decorati. Peccato per gli occhialoni, ma bastava tenere le testa china. In ogni caso, almeno lei non aveva inquietanti iridi lattee da nascondere. Batté le palpebre per scacciare quell’immagine, ormai impressa nelle sue retine.

Si mordicchiò di nuovo il labbro, facendo affiorare una gocciolina di sangue mentre scrutava il vicolo con occhi irrequieti. Era quasi del tutto deserto, se non per occasionali passanti troppo distratti per notarla. La torre-specchio si ergeva dall’altro lato, coi muri rossicci decorati da piastrelle arabescate e specchi dalle forme più disparate. Alcuni erano tondeggianti, altri più spigolosi; altri ancora sembravano composti da più specchi uniti tra loro, in modo da riflettere la luce in più direzioni, creando accecanti raggiere luminose. Ogni singolo specchio era racchiuso in cornici e sostegni dorati, spesso a foggia di viticci o edera.

Nel complesso, la struttura appariva a pari modo opulenta e solenne. In un certo senso, sembrava quasi vigile. Non riusciva ancora a scrollarsi dalle spalle l’impressione di essere osservata. Ora che era così vicina all’edificio, iniziava a rimpiangere la sua idea di attraversarlo, e le preoccupazioni di Din riguardo al profanare un suolo sacro contribuivano solo in minima parte a quel ripensamento. 

Semplicemente, qualcosa non le tornava. Non riusciva a pensare a nessun luogo di culto privo di ingressi, eppure non era riuscita a individuarne alcuno. Non in piena vista, almeno. La torre sembrava inespugnabile, più simile a una struttura difensiva o a una roccaforte. Aveva scartato anche l’opzione di scavalcare il muro del giardino: da vicino, aveva visto che era sormontato da filo spinato al plasma, pronto ad attivarsi al minimo tocco. Non erano ancora così disperati da rischiare di rimanere folgorati per raggiungere il loro obbiettivo.

Era riuscita a individuare un’unica, incerta via d’entrata durante la sua ricognizione veloce attorno alla base della torre: alcuni degli specchi più grandi sembravano essere mobili, e uno di essi era leggermente socchiuso. Dietro, sembrava aprirsi un passaggio vuoto, forse una finestra o un condotto d’areazione. Con la loro fortuna, era più probabile fosse quest’ultimo. Lo specchio era a circa quattro metri d’altezza, quindi avrebbero dovuto fare qualche acrobazia per raggiungerlo – magari sfruttando i tetti dirimpetto.

Ecco, in quel momento il jetpack sarebbe tornato utile, ma ovviamente Din aveva dovuto danneggiarlo in modo quasi irreparabile – altro motivo per cui quei diecimila crediti erano allettanti.

Gettò un’altra occhiata impaziente alla strada. Per Malachor, dove si era cacciato? Il limite dei venti minuti stava per scadere, e non sarebbe riuscita a nascondersi ancora a lungo dalle Guardie. Dubitava anche di averle seminate, e temeva la stessero pedinando, celate da quelle stesse ombre in cui aveva trovato riparo lei.

Si lanciò un fugace sguardo alle spalle, verso il vicolo invaso di rifiuti e cumuli di petali. Un rigagnolo di densi liquami color ruggine scorreva pigro nel canale di scolo, andando a riversarsi in un tombino bronzeo a un passo da lei. Il vicolo terminava in un piccolo cortile, sul quale si spalancavano alcune porte scrostate. Erano chiuse, in realtà, ma riusciva benissimo a immaginare delle figure acquattate là dietro, con le orecchie premute sul legno o gli occhi intenti a sbirciare dal buco della serratura.

Serrò le braccia ai gomiti e con esse i lembi del mantello, quasi potesse offrirle un’ulteriore protezione, più della corazza in durasteel che indossava subito sotto. Non si era mai sentita così paranoica, nemmeno durante le lunghe notti su Endor, quando il minimo fruscio poteva preannunciare morte certa. Al momento, l’unico suono che percepiva era quel costante ronzio, ma non sapeva dire se fosse suggestione o meno. A volte le sembrava provenire da dentro la propria testa.

Si rimproverò a quel pensiero: basta elucubrare in modo inquietante su qualunque cosa riguardasse gli insetti o altre creature disgustose, si impose. Fulminò con lo sguardo un’ape che svolazzava innocua lì accanto, indaffarata tra fiori e polline. Era ricoperta da una sottile polvere rossa e Cara si sentì aggrovigliare lo stomaco senza alcuna ragione apparente, se non istintivo ribrezzo. Distolse lo sguardo.

L’incedere di passi in avvicinamento la fece entrare di nuovo in tensione, ma si rilassò nel captare il lieve tintinnio metallico che li accompagnava. Finalmente.

Din scivolò sotto l’arco a colpo sicuro, avendola individuata tramite il localizzatore, o grazie alla visione termica, o semplicemente grazie ai suoi sensi allenati. Le sembrava molto più saldo sulle gambe, rispetto a prima, e ne fu sollevata.

«Ti dona,» commentò lui con una rara ombra scherzosa nella voce, accennando col mento al drappo viola in cui era avvolta. Lei lo guardò in cagnesco.

«Come va coi fiori?» ribatté secca, sfidandolo ad aggiungere altro sul suo aspetto insolito e decisamente poco guerriero.

«Gestibile,» rispose lui, tornando serio – almeno in apparenza, perché poteva percepire la presa in giro sulla punta della sua lingua. «Ho ricalibrato il filtro. Ora respiro meno ossigeno, ma anche meno polline e spore.»

«Se funziona, tanto meglio. Basta che non mi svieni addosso,» commentò, lei più bruscamente di quanto intendesse.

Lui tirò un poco all'indietro il busto, preso in contropiede, e poté giurare di vederlo battere con perplessità le palpebre dietro al beskar. Cara sospirò.

«Non hai idea di quanto stia detestando questo posto,» mise in chiaro, reindirizzando il suo scatto lontano da lui. «Entriamo in questa dannata torre.»

«Hai visto il condotto?» la assecondò lui, dopo aver accettato le sue goffe scuse con un cenno.

«Sì, e poteva davvero servirci il tuo jetpack. Dovremo rischiare l’osso del collo,» continuò, con un cenno poco entusiasta ai tetti circostanti.

Din lanciò un’occhiata allo specchio in questione, inclinando all’indietro la testa per osservarlo meglio. Poi, senza una parola, marciò a passo spedito nel bel mezzo della strada.

Come al solito, pensò lei. Odiava quando non la rendeva partecipe dei suoi piani, preferendo le azioni alle parole. Era un atteggiamento con cui lei stessa doveva fare i conti, essendo a sua volta abituata ad agire da sola, ma era certa di essere molto più prevedibile di lui, visto che non aveva un secchio di beskar in testa.

Lo seguì rassegnata, lasciando cadere a terra il mantello ormai inutile, nella speranza che nessun ignaro cittadino decidesse di passeggiare proprio in quella viuzza. Contava sul fatto che Din fosse in grado di monitorare la zona, grazie alle funzionalità del casco. Questi si arrestò proprio sotto allo specchio, poi fece mezzo passo indietro e prese la mira col polso. Il rampino scattò fuori dal suo alloggio nel parabraccio, sfiorando lo specchio... e mancandone la cornice interna di circa mezzo metro.

«Dank farrik,» imprecò tra i denti lui, mentre l’uncino rimbalzava contro il muro rischiando di aggrovigliarsi tra cornici e decorazioni, per poi afflosciarsi inutilmente ai suoi piedi.

Si riavvolse in automatico nel suo alloggio, frustando l’aria con un fischio, e Din si riposizionò, avvicinandosi un poco e cambiando angolazione.

«Aspetta,» lo fermò lei, piazzandosi con la schiena contro il muro della torre, e fece cenno a Din di avvicinarsi. «Il laccio è comunque troppo corto, ti alzo io. Sbrigati.»

Din sembrò riluttante. «Non sono esattamente leggero

Cara sbuffò con un sorrisetto. Trovava sempre divertente quando tentava di fare il gentiluomo, pur sapendo perfettamente che non ce n’era alcun bisogno, visto che erano tra guerrieri.

«Mando, ti ho portato a peso morto e svenuto lontano da uno scontro, con tanto di armatura addosso: penso di poterti prendere a cavalluccio per qualche secondo.»

Din sospirò, ma non mosse ulteriori obiezioni. Pochi istanti dopo era in piedi sulle sue spalle, cercando di mirare di nuovo al condotto. E sì, pesava davvero come un bantha, ma almeno stava cercando di appoggiarsi al muro e di non muoversi troppo. Lei tenne gli occhi fissi sul vicolo, sotto sforzo, aspettandosi di venire colti in flagrante da un momento all’altro. Le parve che il ronzio di sottofondo si fosse fatto più forte, ma lo ignorò.

Quando udì lo schiocco del laccio, seguito dal suono metallico dell’uncino che si agganciava al bersaglio, rilasciò un respiro sollevato.

«Preso,» esultò Din, aggrappandosi con entrambe le mani alla fune per saggiarne la tenuta, per poi piantare saldamente un piede contro il muro, cominciando l’ascesa.

Cara percepì la pressione abbandonare le sue spalle, e si accovacciò brevemente per sciogliere le ginocchia indolenzite. Guardò in alto: Din aveva già raggiunto lo specchio, e lo stava cautamente sollevando per rivelare il passaggio. Il raggio di luce riflesso si spostò a sua volta, e sperò che nessuno tenesse traccia di dove puntassero. Sorprendentemente, era davvero una finestra: un semplice passaggio occhieggiò sotto la superficie lucida, e colse un’aura dorata provenire dall’interno.

Din fece capolino oltre il davanzale, poi si assicurò che il laccio fosse ancora saldamente ancorato, sganciandolo dal proprio alloggio e lasciando che penzolasse verso di lei, rimanendo a circa due metri dalla sua testa. Le rivolse un segno di OK, poi scavalcò agilmente la cornice e sparì dall’altro lato.

Cara si affrettò a prendere la rincorsa, per poi raggiungere la corda sfruttando il muro come trampolino. Ringraziò i suoi robusti guanti di cuoio e afferrò la corda senza tagliarsi le mani, iniziando ad arrampicarsi con uno sbuffo. Accelerò il ritmo nel sentire del vociare concitato sotto di lei. Qualcuno gridò e, sebbene sembrasse ancora lontano, compì con fretta frenetica l’ultimo metro, scavalcando la finestra senza nemmeno guardare, fidandosi di Din e dell’assenza di avvertimenti da parte sua. Lasciò la presa dal davanzale e atterrò sul lucido pavimento d’ambra all’interno, sana e salva. 

Un solo pensiero le balenò in testa, non appena alzò lo sguardo e mise a fuoco i dintorni: non sarà facile.


 

 

Din la guardò, inclinando l’elmo in un’angolazione precisa, saccente, che poteva solo significare Io te l’avevo detto.

Lei quasi non lo notò, troppo presa a cercare di comprendere cosa stessero vedendo i suoi occhi – o meglio, cosa non stessero vedendo. Una parvenza di logica, per esempio. Il corridoio in cui si erano intrufolati era stranamente curvo e in discesa, interamente composto da enormi pannelli d’ambra. Ciò lo rendeva dorato in ogni sua singola parte in modo quasi doloroso alla vista, tanto che era difficile scorgere dove finisse il pavimento e iniziassero le pareti, e viceversa. 

Non c’erano mobili, né suppellettili: a decorare l’ambiente vi erano solo delle false colonne che dentellavano le pareti senza alcun criterio riconoscibile. Tralci d’edera erano incisi su ogni superficie piatta, e degli specchi sferici pendevano dal soffitto, riflettendo una luce di cui non riusciva a intuire la provenienza. Fissò quel tripudio dorato, stordita dall’assenza di qualunque altro colore.

«Forse... non è stata una buona idea,» si arrischiò a borbottare infine, suo malgrado.

«Già,» ribatté sbrigativo Din, girando su se stesso alla ricerca di un qualsiasi punto di riferimento che li indirizzasse verso l’uscita. «Dank farrik, non riesco nemmeno a pensare, qua dentro,» rinunciò con un verso frustrato, e lo vide armeggiare con i comandi esterni del suo visore. Quel riverbero costante doveva farlo uscire di testa.

«Andare in discesa mi sembra un buon inizio,» disse lei, picchiettando le nocche sul suo spallaccio, in un gesto d’invito, ma anche incoraggiante.

Lui sembrava di nuovo preso dal nervosismo, ma annuì comunque, seguendo il suo suggerimento. Estrassero entrambi in simultanea i blaster, come se si fossero letti nel pensiero: non erano al sicuro, lì dentro.

Il corridoio non era davvero in discesa, o meglio, non lo fu per molto. S’inclinò improvvisamente verso l’alto senza alcun preavviso, e impiegarono circa mezzo minuto per capire che non li avrebbe condotti da nessuna parte, solo più in alto. E dovevano andare verso la base della torre, se volevano sperare di uscirne. Fecero rapidamente dietrofront, ripercorrendo i propri passi, solo per ritrovarsi in un ampio salone circolare che di certo non avevano attraversato prima. Dei viticci decorativi ricoprivano le pareti, e c’era un sentore di gelsomino nell’aria, anche se non vi era traccia di fiori.

Si scambiarono uno sguardo perplesso, la presa sui blaster che si faceva più salda di minuto in minuto.

«Non siamo passati...»

«No,» confermò Cara scuotendo la testa mentre cercava di scorgere un qualsiasi dettaglio familiare, senza successo. «Non abbiamo nemmeno mai deviato.»

«Che razza di posto è?» bofonchiò Din, tra i denti, compiendo qualche passo senza una reale mèta.

«Non sono sicura di volerlo sapere,» ribatté seria lei, per poi puntare il blaster verso ciascuno dei quattro passaggi che si aprivano nel salone. «Da che parte?»

«Rangir, non credo faccia più differenza,» rispose lui, rapido, marciando di colpo verso quello più vicino.

Cara non conosceva molto Mando’a, ma quella parola suonò particolarmente feroce, anche se non gliel’aveva mai sentita usare. Il che voleva solo dire che non l’aveva mai visto così agitato. Lo seguì senza sollevare obiezioni, col suono dei loro stivali che squittivano sul pavimento levigato. Percepiva una sorta di molesta, crescente pressione dentro la sua testa. Le rendeva difficile concentrarsi, e lasciò di buon grado la guida al suo compagno, sperando che il fastidio si attenuasse man mano che si abituava al brillio ambrato che li circondava. 

Sentiva ancora quel ronzio, ma, adesso che erano al chiuso e senza api in vista, si convinse che fosse davvero solo la sua mente in vena di qualche brutto tiro. Anch’esso sembrava aumentare d’intensità, dandole l’impressione di avere un nugolo di api imbizzarrite in testa. Quasi le sentiva sbattere contro la scatola cranica. Percepì un’ondata fredda ghiacciarla da capo a piedi a quel pensiero, e si impose di soffocarlo prima che prendesse contorni troppo definiti.

Man mano che imboccavano sempre più corridoi e scale a caso, la loro leggera ansia iniziò a farsi più palpabile, espandendosi attorno a loro come una bolla opprimente, che cresceva e si solidificava con ogni passo falso e vicolo cieco che si parava loro davanti. Cara avvertì la propria concentrazione vacillare sempre più, e i movimenti di Din si fecero scattosi: si arrestava e cambiava direzione senza alcun preavviso, come un animale in gabbia.

L’intera torre non era altro che un diabolico labirinto che sfidava qualunque legge della fisica a lei conosciuta, e probabilmente anche altre a lei inconcepibili. I corridoi si avvitavano e intersecavano tra loro, seguendo direzioni e percorsi che in teoria non sarebbe stato possibile racchiudere nel limitato spazio della torre. Le scale erano ingannevoli, prive di senso, così come i muri, i pavimenti e i soffitti. 


Se da fuori era sembrata enorme, da dentro era immensa, e il loro piano di attraversarla da entrata ad uscita B andò in fumo. Non cera modo di proseguire in linea retta, né riuscirono nemmeno più a dirigersi verso il basso. Continuarono invece a salire, e salire e salire ancora, per poi scendere un paio di livelli, senza sapere se si stessero davvero avvicinando al piano terra, né se ciò fosse davvero un modo per uscire di lì. Sembrava che un architetto avesse stracciato in mille pezzi altrettanti progetti, per poi rimescolarne i frammenti e incollarli a caso tra loro, senza nemmeno preoccuparsi di voltarli dal lato giusto.

Non sapevano nemmeno quanto tempo fosse passato. A intuito, una dozzina di minuti, ma potevano benissimo essere ore. Non che guardare fuori da una finestra li avrebbe aiutati, ma non riuscirono nemmeno a trovarne una da cui calarsi all’esterno. 


E a coronare quella situazione assurda, era tutto così luminoso da far loro dolere gli occhi: un riverbero dorato permeava ogni angolo del complesso. Nessuna ombra in vista. Pannelli d’ambra ricoprivano le pareti, con una miriade di pagliuzze che rifrangevano la luce in un brillio costante, come onde di miele perennemente increspate dal vento. Era come essere intrappolati in un gigantesco alveare.

Aveva l’impressione che l’edificio si ricomponesse e rimescolasse sotto ai loro passi negando loro ogni via di fuga, quasi volesse trattenerli lì dentro per sfiancarli e divorarli lentamente.




 

 

Note:

-Rangir: all’inferno!
NB. C’è una citazione a The Haunting of Hill House sparsa nel capitolo... biscotti blu per chi la trova!


Note dell’Autrice:

Cari Lettori,
eccoci qui con un altro bel trip mentale, almeno spero. Anche se può non sembrare, ogni dettaglio ha un suo preciso significato, e non ci sono parti "inutili", quindi occhi aperti ;)
Il prossimo capitolo sarà decisamente più movimentato, per tutti i motivi più sbagliati, e spero di pubblicarlo in settimana, visto che è già pronto, sorprendentemente!

Grazie a tutti coloro che hanno letto e commentato fin qui, e non fatevi remore a lasciarmi un vostro parere: la storia è in tutto e per tutto un esperimento, e ogni riscontro è gradito ♥
A presto,

-Light-

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Capitolo 5
*** La Torre di Luce (II) ***


Quando guardi l’Abisso

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5. La Torre di Luce (II)




«Oh, andiamo,» sbottò tra i denti Cara quando imboccarono l’ennesimo vicolo cieco.

Nessuna porta, nessun passaggio che ne giustificassero anche solo lontanamente l’esistenza: solo un muro spoglio a segnarne l’apparente fine. Era persino difficile capire se fosse davvero un vicolo cieco, perché l’ambra, così lucida da sembrare uno specchio, distorceva forme e distanze. Dovettero arrivare a toccare la parete di fondo, per assicurarsi che fosse davvero chiusa.

«Dovrei passare alla visione termica, almeno riuscirei a vedere qualcosa,» si lamentò in modo insolitamente sarcastico Din, suonando frustrato mentre riprendeva a ingegnarsi coi comandi dell’elmo. Liberò infine un sospiro sollevato. «Bene, ora va meglio: adesso vedo in bianco e nero.»

Cara indicò l’elmo, bramando un qualsiasi apparecchio che attenuasse il bagliore. «Ne hai uno in più?»

«Non in vendita,» rispose lui piattamente, ma percepì un
’ironia tesa dietro quelle parole.

Stavano battibeccando molto più del solito, e ne erano ben consapevoli. Ma il silenzio era troppo opprimente, e avvolgeva la loro mente in una luce dorata e scintillante. Sembrava quasi vivo, premeva contro i loro timpani come se volesse perforarli. Oltre quel muro, riusciva ancora a sentire quello snervante ronzio – il che non era d’aiuto. Stava persino diventando più forte.

Cercò d’ignorarlo come aveva fatto finora, ma dopo poco iniziò a pulsarle la testa ad ogni battito, con la pressione che cresceva dietro ai suoi timpani come se fosse sott
’acqua. Si portò una mano alla tempia, massaggiandola, ma quella sensazione non si attenuò. Nel giro di pochi minuti, poté quasi sentire il suo cranio vibrare sotto lo scalpo. Una marea di nausea le sollevò lo stomaco, e dovette trattenere un conato.

«Possiamo fermarci un attimo?» proruppe, senza calibrare appieno le parole. Il suo stesso respiro le raschiava nelle orecchie.

Din si voltò all’istante, allarmato.

«Stai bene?»

«Sì, ma sono disidratata,» mentì, sperando in cuor suo che fosse davvero quello, il problema.

«Anche a me farebbe bene un sorso d’acqua,» annuì Din, senza distogliere di un centimetro il visore da lei. «Troviamo un posto più riparato,» aggiunse, accennando al corridoio che stavano percorrendo: troppo esposto da entrambi i lati.

Se qualcuno avesse deciso di coglierli di sorpresa li avrebbe stretti in una morsa. Si era aspettata di trovare molta più sicurezza, ma non c’era la minima traccia di esseri viventi, là dentro. Voleva vederla come una buona notizia, ma la rendeva solo più sospettosa.

Si fermarono nell’ennesima stanza vuota, affacciata su quello stesso corridoio. Era squadrata, con più pareti di quante fossero congeniali, e un complesso intarsio floreale correva nell'interstizio tra esse e il soffitto. Quest'ultimo era decorato da profondi cassettoni esagonali, che le diedero ancor più la sensazione di essere ingabbiata in un favo di miele. Quello da cui erano entrati era l’unico ingresso, come sempre privo di porta, e si posizionarono nell’angolo più lontano, in modo da tenerlo sott’occhio.

Cara evitò di poggiarsi al muro, così come Din, cercando istintivamente di limitare il più possibile i contatti con quel luogo da incubo. Afferrò la borraccia e ingollò un po’ d’acqua quasi a forza, non avvertendo alcuna sete. Le bruciò la gola come alcol e soffocò un colpo di tosse, fingendo che le fosse semplicemente andata di traverso. Magari era davvero disidratata? Provò a bere più lentamente, a piccoli sorsi, e il bruciore si attenuò un poco.

Din la osservava attentamente, fingendo di non farlo pur emanando preoccupazione e nervosismo da ogni poro, di beskar o meno. Bevve anche lui dalla propria fiaschetta; aveva un’imboccatura peculiare, ritorta e simile a una cannuccia, in modo da scivolare sotto l’elmo e permettergli di bere senza doverlo rimuovere del tutto. Cara distolse rapida lo sguardo, coi riflessi rallentati, ma intravide comunque la linea del suo mento quando sollevò il bordo metallico. Ma il solo fatto che si fidasse a compiere in sua presenza manovre che coinvolgessero l’elmo lasciava intendere che non fosse un problema, almeno finché non l’avesse guardato di proposito.

Aveva ammorbidito un poco le sue restrizioni, nel corso di quei mesi, anche se seguiva ancora ligiamente i dettami del suo Credo. Ma vivere in uno spazio angusto come la Crest portava inevitabilmente a dei compromessi: la privacy scarseggiava, a meno di non chiudersi nello scomparto della brandina o nella cabina di pilotaggio. Avevano ormai instaurato una routine abbastanza solida, e non aveva mai avvertito segni d
’insofferenza da parte sua, né si era mai trovata a doverne esternare lei stessa.

Si concesse di soffermarsi su quei pensieri: erano rassicuranti, e magari sarebbero serviti a placale il tambureggiare insalubre e irregolare del suo cuore. Ormai la Razor Crest era per lei una casa, e Din e il Bambino una sorta di famiglia acquisita. Cercò di figurarsi la nave, e il momento in cui vi avrebbero rimesso piede per lasciare quel pianeta, ma la sua testa continuava a pulsare, inframezzando i suoi pensieri di stilettate dolorose. Il mondo attorno a lei si faceva più appannato ad ogni pulsazione.

Din le offrì la fiaschetta, ma se ne accorse solo quando gliela mise direttamente sotto al naso, quando captò una zaffata d’alcol fruttato – il tipico tihaal Mandaloriano. Lo rifiutò, ritenendo che la sua mente fosse già abbastanza confusa. Si morse l’interno della guancia, nello stesso punto che aveva tormentato poco prima. Tutto ciò non era normale. Non era mai ansiosa durante le missioni, non importava quanto fossero pericolose: la paura della morte era solo un mezzo per preservare la propria vita, non una forza abbastanza potente da dettare i suoi pensieri o azioni.

Socchiuse gli occhi. Inspira. Tre battiti. Espira. Come su Endor – prima dei combattimenti... ecco quando la paura minacciava di prendere il timone e spedirla incontro alla morte – come così tanti suoi compagni.

Si irrigidì, ordinando alla propria mente di sradicarsi da quei pensieri. Prese un altro, breve sorso d’acqua. Fece una smorfia, sentendo bruciare lo stomaco, e per un istante pensò di aver inavvertitamente accettato il tihaal. Si premette distrattamente una mano sul ventre, cercando di attenuare quello che doveva essere un crampo nervoso. 

Si paralizzò quando le sue dita incontrarono una chiazza umida e tiepida sul tessuto. Era incollato alla pelle. Abbassò lo sguardo e la sua gola si serrò in un moto di disorientato terrore. Le sue dita erano macchiate di rosso, e una pozza vermiglia si allargava sul lucido pavimento ambrato.

Cara annaspò. Stava sanguinando. Un taglio– no, una ferita– uno squarcio le attraversava l’addome da parte a parte. Vedeva il rosso vivo della sua stessa carne, e il baluginio viscido, rivoltante delle interiora. Riuscì solo a sbarrare gli occhi, pietrificata, finché un gemito, acuto e involontario, non le sfuggì dalle labbra quando il dolore fuoriuscì dalla ferita, propagandosi nel resto del corpo – incandescente, affilato come una vibrolama che le tranciava le carni.

«Cara?»

La voce di Din le arrivò oltre un muro d’acqua scarlatta, troppo occupata a comprimere la ferita con entrambe le mani, tremanti; sentì le viscere cedere e muoversi sotto allo squarcio, orribilmente profondo, da cui continuavano a fuoriuscire ondate di sangue. Si piegò in due, stroncata dal dolore, e la sua bocca cessò di funzionare, riuscendo solo a emettere respiri rapidi e striduli.

Si sentì precipitare, e la sua vista si appannò di aloni nerastri. Com’era successo? Come era– era impossibile, come– stava bene, stava bene– ma non importava, non importava perché stava morendo dissanguata. Lo sentiva, sentiva la ferita che le prosciugava ogni energia; la vita scorreva via da lei in flutti rapidi, impregnando i suoi vestiti di un rosso profondo. Un formicolio asfissiante le strizzò le membra, come insetti che le zampettavano sottopelle.

Alzò gli occhi annebbiati su Din, in cerca d’aiuto – aiuto– qualunque cosa potesse far cessare quell’incubo – e lo distinse appena oltre il drappo rosso che le oscurava la vista: era puntellato su una mano, ancora seduto, e l’altra si posò distante sulla sua schiena. Non si mosse.

Cara sentì il sangue invaderle la bocca. Perché non faceva qualcosa? Non vedeva che stava morendo?
Tentò di allungare una mano verso di lui, ma il suo corpo cedette e lei collassò riversa a terra, scossa da deboli spasmi mentre tentava di non sfaldarsi, di trattenere dentro di sé i visceri che minacciavano di fuggire via assieme al sangue.

«Cara!» 

Il grido si abbatté contro i suoi timpani, distorto dal vocoder e dal rombo nelle sue orecchie, e lo percepì inginocchiarsi accanto a lei, a pochi centimetri dalla pozza vermiglia che continuava ad allargarsi. 

«Cara? Cara! Che succede? Ehi, guardami!» 

Mani guantate la scossero improvvisamente per le spalle e il dolore la pugnalò con più ferocia, come colpi di blaster esplosi nel suo ventre distrutto.

«... –fai male,» riuscì a esalare, anche se fu quasi un urlo per i suoi polmoni ansimanti. Inspirò una boccata di sangue e annaspò in cerca d’aria.

Gli scossoni cessarono all’istante, ma la stretta sulle sue spalle rimase dov’era. «Non c’è nulla, Cara. Mi senti? Stai bene, va tutto bene.»

Tacque, e la stretta aumentò. Cara si trovò a desiderare che continuasse a parlare: si sentiva scivolare via assieme al proprio sangue, che continuava a riversarsi sul pavimento ambrato in un torrente denso. Le ginocchia di Din ne erano già fradicie, e percepiva la propria stessa guancia immersa in quel liquido ferrigno che le saturava le narici.

Cessò di dibattersi, troppo debole per percepire ancora i propri arti. Sciami d’insetti brulicavano addosso a lei, dentro di lei, banchettando con le sue carni – api inferocite le ronzavano nel cranio. In uno sprazzo di vitalità, cercò a tentoni la mano di Din, stritolandogli le dita viscide di sangue. Tenne l’altra sulla ferita, come se potesse davvero fermare l’emorragia e ritardare la sua fine.

«Non sei ferita. Mi senti? Non sei ferita, non è reale. Non è reale, è solo–»

«È reale,» quasi singhiozzò lei, mentre un’altra vampata di fiamme si addensava nel suo addome, bruciando e carbonizzando muscoli e ossa. Ricordava ancora quanto avesse fatto male, all’epoca– e adesso ancor di più, le mozzava il respiro a colpi d’ascia.

«Cara, ascoltami: non è reale,» quasi gridò Din, mandando una scarica statica a infrangersi contro l’elmo. E continuò a parlare, ma ormai sentiva solo echi distanti che le rimbombavano in testa, e la stretta sempre più lontana del guanto sul suo palmo.

«È reale–»

«Dove?»

«La pancia– si è riaperta– la ferita è aperta–» balbettò sconnessa, col terrore che le paralizzava la lingua.

Non riusciva a pensare, tutto ciò che percepiva era quello squarcio spalancato nel suo ventre che le spaccava carne e organi, strappandola in due. E poi sentì la mano di Din che le premeva direttamente sulla ferita.

Le sfuggì un guaito di dolore dalle labbra aride e sentì gli occhi sbarrarsi, offuscati. Perché le stava facendo male, perché stava– continuò a toccarle l’addome a pezzi, incurante della sua sofferenza, finché– per un attimo, per la frazione di un secondo, non avvertì la propria pelle integra, intatta, che cedeva normalmente a quella lieve pressione. La sensazione svanì, sostituita dagli orli slabbrati dello squarcio che si allargavano, deformati dal movimento– e poi eccola di nuovo: la semplice sensazione del guanto posato sul suo corpo illeso.

Si dimenò, riuscendo ad aggrapparsi con ogni fibra della sua volontà a quella flebile, rassicurante sensazione, e premette entrambe le mani su quella di Din, percependo un misto caotico di sangue e pelle intatta e cuoio temprato e carni dilaniate. Sentiva la sua voce metallica echeggiare in sottofondo, ormai indistinguibile, ma si concentrò sul suo semplice, costante ritmo e timbro calmante, che sembrò tenerla a galla in quell’oceano rossastro. Stava riemergendo, una bracciata alla volta.

Le ondate di dolore si ritrassero lentamente, un respiro alla volta, e lei si arrischiò a girarsi a stento sulla schiena. Oltre una patina di lacrime, distinse il visore impassibile, eppure preoccupato a morte del suo compagno, ora chino su di lei. Chiuse all’istante gli occhi, colta da un nugolo di vertigini, e una mano corse a sorreggerle la nuca, l’altra ancora premuta fermamente sulla ferita. Non-ferita. Ferita fantasma.

Il sangue non scomparve. Lo sentiva inzuppare il tessuto, ribollire fuori da quello squarcio inesistente e trapelare attraverso le dita di entrambi. Parve passare un millennio di agonia, prima che i suoi polpastrelli riprendessero a tastare unicamente il guanto in cuoio di Din e il tessuto sottostante, intatto.

Il dolore orbitò dentro di lei, strizzandole i visceri, prima di assestare un ultima puntura lancinante, da mozzare il fiato, e squagliarsi nei recessi della sua mente senza lasciare tracce, se non brividi e sudore. Rilasciò un respiro di stremato sollievo e socchiuse le palpebre, incontrando il visore a T di Din, ancora immobile e statuario.

Sentiva i capelli appiccicati al volto, fradici di lacrime e sudore, e si scostò tremante una ciocca dalla guancia, trovandola pulita, priva di sangue. Fece leva sul braccio di Din e si tirò cautamente su a sedere, accettando il suo sostegno pur evitando attivamente di guardarlo. Lui si scostò subito dopo, lasciandole spazio per respirare, anche se quelli che immettevano aria nei suoi polmoni erano più simili a rantoli.

Si piantò un palmo sulla bocca, cercando di sopprimere i brividi che ancora la scuotevano, e percepì i guanti di Din sfregarle le braccia scoperte, cercando di trasmetterle un po’ di calore: la sua pelle era ghiacciata, nonostante si sentisse febbricitante. Lo lasciò fare, troppo frastornata per riuscire a fermarlo o sottrarsi, accettando anzi di buon grado quel gesto calmante. Si sentiva un’idiota, adesso – una bambina che non era riuscita a svegliarsi da un incubo, non una guerriera temprata dalle battaglie.

«È finita?» le chiese infine Din a bassa voce, un misto di tensione e sollievo. 

Era chiaro che stesse cercando il suo sguardo oltre l’elmo. Lei si limitò ad annuire, evitandolo e respirando profondamente dal naso.

Din annuì di rimando, ancora in ginocchio di fronte a lei, adesso con entrambi i palmi piantati contro le placche in beskar sulle cosce. Esitò un istante, prima di armeggiare con la bandoliera e tenderle di nuovo la fiaschetta di tihaal. Stavolta lei la accettò di buon grado, anche se quasi le sfuggì di mano, le dita ancora molli per lo shock. Buttò giù un piccolo sorso, percependo il liquido corroborante che le infiammava la gola, in modo molto diverso dall’incendio che le era divampato in corpo poco prima.

Riconobbe poi il sapore fruttato oltre l’alcool, una nota appena percettibile ma familiare: pesche di Alderaan. Scoccò un’occhiata a Din, ancora inginocchiato e intento a fissarla, e riuscì a rivolgergli il fantasma di un sorriso. Non aveva idea di dove le avesse recuperate, ma al momento era semplicemente riconoscente per il lieve soffio di sicurezza che riuscì a infonderle quel semplice dettaglio. Prese un altro piccolo sorso di casa, prima di restituirgli la fiaschetta. Din aspettò qualche secondo prima di parlare di nuovo:

«Cosa è successo?»

Stavolta lei scosse la testa, detergendosi la fronte madida con un polso. «Ero... ferita. All’improvviso, senza motivo. Sembrava reale. Davvero reale. Sentivo di nuovo la ferita.»

Come su Endor, non disse. Era sottinteso: Din sapeva che aveva sfiorato la morte in quella foresta dimenticata dalla Forza, anche se non gli aveva mai raccontato i dettagli. Ma sull’addome portava ancora una cicatrice seghettata a testimonianza della vibrolama di un assaltatore che l’aveva quasi sventrata, e adesso pulsava come se gliel’avessero appena ricucita in quell’ospedale da campo ad anni luce da lì. Fece scivolare una mano sotto alla casacca e alla corazza, percependone il rilievo irregolare: era guarita, completamente rimarginata – solo leggermente calda al tatto.

«Ho capito. Ma intendevo prima di quello. Cos’è successo prima?»

Quella era una domanda ancor più complessa. Si sentiva il cervello ridotto in gelatina. Cosa era successo? Stava bene, più che bene, poi quel mal di testa si era impennato all’improvviso e aveva scaraventato il mondo in un abisso di agonia e paura. 

Un momento. Non del tutto all’improvviso. Il ronzio– il ronzio si era fatto più forte, sempre più forte, poi– alzò di scatto la testa, facendo sobbalzare Din.

«Cosa?»

«Il ronzio... non c’è più,» esitò, realizzando quanto dovesse suonare assurda quella frase. 

Din inclinò di lato la testa, in quel suo modo peculiare di esprimere perplessità, e sembrò reprimere la tentazione di chiederle se avesse anche battuto la testa, oltre a immaginare ferite inesistenti. Non lo avrebbe biasimato, nel caso. 

«Tu lo senti?» gli chiese, con un picco di panico a serrarle la gola al pensiero che potesse cadere anche lui in quel baratro da incubo.

Din scosse la testa. «No. C’è silenzio. In realtà, non sento il minimo rumore da quando siamo entrati qui dentro,» spiegò, parlando più lentamente del solito – non seppe se per dare più forza alle proprie parole o perché temeva che fosse ancora sotto shock.

Comunque fosse, l’ombra della preoccupazione non dovette dissiparsi del tutto dal suo volto, perché lo vide chinare la testa e portare una mano alla tempia, dove sporgevano i comandi esterni dell’impianto auricolare. Girò una delle manopole, probabilmente amplificando la ricezione.

«Non parlare ora, o richi di assordarmii,» la avvertì, sollevando un palmo a frenarla proprio mentre stava per farlo, senza pensare.

Tacque, lasciandolo nel mondo recluso e ricettivo del proprio elmo. Rimase in ascolto per circa mezzo minuto, prima di girare di nuovo la manopola. 

«Nulla. Nemmeno dall’esterno. Pensi che sia stato questo... ronzio a scatenare il tutto?» chiese poi.

Sembrava comprensibilmente confuso, ma apprezzò il fatto che non stesse bollando la sua teoria strampalata come un mero frutto della sua allucinazione.

«Non saprei. È cominciato nella foresta ed è diventato più forte in città, e poi qui dentro. Ma adesso è sparito. Dev’esserci un collegamento.» 

Si interruppe, asciugandosi le mani ancora sudate sulle ginocchia ripiegate. Era conscia del tremito che ancora le scuoteva la voce, e si trovò ad accigliarsi, colma d'inquietudine: stava affrontando qualcosa che non riusciva nemmeno a vedere o nominare, e non avrebbe potuto vincerla a colpi di blaster o superandola in astuzia. Era fuori dalla sua portata. Dopo molti mesi, dopo Sorgan e il senso d’inutilità che l’aveva inseguita da quando aveva lasciato le file Ribelli, dopo aver trovato un senso d
’appartenenza e un obbiettivo, si sentì impotente.

«Non... non capisco,» sbottò frustrata, passandosi una mano tra i capelli e sulla treccia scomposta, furente con se stessa per non essere stata in grado di governare la propria debolezza.

Din prese un respiro profondo, per poi guardarsi attorno, come se si fosse appena ricordato di essere in territorio ostile. Si aspettò di vederlo alzarsi per una perlustrazione rapida, invece si mosse sulle ginocchia e si sedette a gambe incrociate. Sospirò, inclinò la testa in avanti e infine la guardò dritta negli occhi.

«Io sì.»



 



Note dell’Autrice:

Cari Lettori,
ops, m’è scappato il gore. Quasi-gore, dai. Spero che mi perdonerete per aver fatto scontare un brutto quarto d’ora a Cara, ma Din mica può essere il solo a patire, suvvia!
Scherzi a parte, credo che il rating arancione sia appropriato, ma fatemi sapere in tutta onestà se dovrei passare al rosso: ammetto di sapermi regolare molto male in questo senso, soprattutto in relazione a scene grafiche/violenza, e che fosse per me appiopperei un generico "giallo" a tutto :’)

Cooomunque, state per avere un po’ di risposte a tutto il delirio che avete visto in questi capitoli... o almeno, ne avrete una parte. Sottolineo che la storia ha comunque una matrice che vorrebbe essere Lovecraftiana; quindi l’Indicibile e l’Ignoto sono componenti fondamentali. Non aspettatevi spiegazioni "razionali" nel senso stretto del termine, anche se ovviamente c’è una logica di fondo a governare il tutto ♥

Grazie a tutti voi che continuate a leggere/seguire/commentare questa folle storia!
A prestissimo, qui o altrove,

-Light-

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