Dal primo all'ultimo istante

di Soul Mancini
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***



Capitolo 1
*** I ***


I
Dal primo all’ultimo istante
 
I
 
 
 
 
 
 
Knock my chest, emptiness
Sound of death and loneliness
All these walls, crush my head […]
I’m disappearing now
My body’s falling down
And I’m alone
[Melancholia – Alone]
 
 
 
 
 
 
La vestaglia bianca in cotone – unico bagliore su cui la fioca luce della luna si posava – le accarezzava i polpacci con leggerezza, oscillava al ritmo dei suoi passi silenziosi. I piedi scalzi sfioravano appena il pavimento in marmo, talmente gelido da scottare la pelle, mentre lei si guardava attorno con occhi sgranati, fissi nell’oscurità che inghiottiva il corridoio dall’alto soffitto.
Una ragazzina, un’ombra fatta di luce, uno spettro che si spostava furtivo e agile nella notte.
Li sentiva, li inseguiva, vi sfuggiva: sospiri. Voci smorzate e lamentose, che a volte si tramutavano in sussurri e sembravano chiamare il suo nome.
Skye.
Skye.
Skye.
Quella notte – come tutte le notti – l’avevano svegliata e attirata a loro, l’avevano richiesta e rivendicata con quella loro inesorabile delicatezza. Per un attimo aveva confuso quei sospiri col vento, che sibilava forte oltre la finestra e fischiava tra le imposte cigolanti, ma ben presto aveva capito che si trattava di loro. Erano venuti a cercarla.
Il vento soffiava forte e Skye affrettò il passo, inseguendo quei sospiri che la portavano sempre più lontana della sua camera. Strisciavano sui muri e lei si lasciava scivolare nelle tenebre con loro, in una muta e aggraziata danza di cui solo lei era a conoscenza.
Ma Skye non aveva paura. Loro non le volevano fare del male: le venivano a far visita, le sfioravano la pelle e le orecchie, volevano un po’ di compagnia. E ogni tanto, tra tutto quel sibilare e frusciare, Skye aveva riconosciuto la voce di Timmy.
Solo qualche volta l’avevano spaventata.
Giunse davanti alla rampa di scale che conduceva al piano di sotto. Una folata di vento scosse il vecchio monastero e una brezza gelida le si insinuò tra i capelli scarmigliati.
Skye.
Si immobilizzò e sbarrò gli occhi, il cuore le batteva a mille. Strinse forte tra le dita il tessuto sottile della veste.
Skye.
Era così vicina, quella voce. Ed era così familiare. Ostile, accusatoria, arrabbiata; così vicina, a un millimetro da lei.
Tenne gli occhi sgranati nel buio davanti a sé, che scorreva giù per le scale e la voleva risucchiare. Non ebbe il coraggio di voltarsi, nonostante sapesse che alle sue spalle non avrebbe trovato altro che ombra; nessuno di loro si faceva mai vedere, si limitavano ad accarezzarla e sussurrare alla sua anima.
Skye. Devi badare a tuo fratello.
Serrò la mascella e gli occhi le si riempirono di lacrime, come quando era piccola.
Devi badare a Timmy.”
“No, no, no…” Stritolò il cotone tra i polpastrelli, serrò le palpebre.
Perché non sei stata attenta a Timmy?
“No!” Un nuovo rivolo di gelo le accarezzò la nuca, facendola tremare.
Skye, devi badare a Timmy.
“Non è colpa mia, non è colpa mia!” strillò, la sua voce intrisa d’isteria rimbalzò per le pareti del corridoio, mischiandosi ai sospiri.
Fece un passo avanti e il suo piede scalzo trovò il vuoto.
Un grido le squarciò la gola ma, mentre si preparava a precipitare giù per i gradini, un tocco invisibile la sostenne per un braccio.
Una risatina di cristallo si sparse nell’aria.
“Timmy…”
Si voltò, ma accanto a lei non scorse nessuno.
 
 
♦♦♦
 
 
Quando varcò per la prima volta l’enorme cancello in ferro battuto, pioveva. L’imponente e sinistra struttura, un ex monastero, pareva ancora più minacciosa mentre si stagliava contro il cielo grigio d’autunno.
Nel bel mezzo della campagna inglese – si ritrovò a pensare Skye mentre faceva il suo ingresso nell’ampio androne – in realtà sembrava autunno tutto l’anno. Non sapeva effettivamente in quale mese dell’anno si trovassero, in ospedale aveva perso il conto dei giorni e delle stagioni.
L’aveva accolta una vecchina sciupata e dai capelli dello stesso grigio di quella giornata uggiosa, che l’aveva squadrata da capo a piedi con i suoi occhietti vigili e le aveva ordinato di pulirsi le scarpe, che le brave bambine non lasciano le impronte fangose sul pavimento.
“Sono la signora Havelock, fondatrice e responsabile di quest’orfanotrofio” si presentò, la freddezza nella voce e un velo di stanchezza sul viso rugoso.
Skye rimase immobile e in silenzio a fissarla. Non era mai stata una bambina particolarmente esuberante, non sapeva bene cosa fare in questi casi – e, a dire il vero, nell’ultimo periodo non aveva molta voglia di parlare.
La signora Havelock la scrutò a sua volta per qualche istante, severa. “Beh? Non ti hanno insegnato che, quando qualcuno si presenta a te, dovresti fare lo stesso?”
Skye serrò le labbra e sgranò maggiormente gli occhi, intimorita da quella donna.
La signora Havelock sospirò, poi si accostò a lei, le afferrò una manina ghiacciata e la strattonò con indelicatezza, prima fuori dall’androne e poi su una rampa di scale. “Mi avevano detto che sarebbe stato un caso difficile, ma addirittura una bambina che soffre di mutismo… sarà la solitudine. Lo dico sempre, io: un uomo senza famiglia è il più solo al mondo!” diceva tra sé e sé, e la sua voce arrochita dagli anni rimbombava tra le pareti fredde e spoglie degli anditi.
Skye non rispose, ma durante il tragitto si guardò attorno quasi con curiosità, nella speranza di scorgere qualche altro bambino.
Ma i corridoi erano deserti e le porte davanti a cui passarono sigillate.
Una volta giunti davanti alla soglia in fondo al corridoio del primo piano, la signora Havelock mollò bruscamente la presa sulla sua mano per abbassare la maniglia. “Questa è la tua stanza, Skye. Sistemati qui. E tieni d’occhio l’orologio: alle sei devi essere puntuale in sala da pranzo, al piano di sotto, per il pasto serale” spiegò in tono piatto e la lasciò sola nella stanza.
Skye rimase immobile per qualche istante, ad ascoltare i passi lenti della donna oltre la porta e il ticchettio della pioggia che bussava alla finestra, poi si accostò al letto e vi si sedette sopra timidamente, come se non fosse suo.
Posò il borsone in tessuto sdrucito – tutto ciò che le era rimasto – accanto a lei, sulle coperte candide, si strinse le ginocchia al petto e vi posò sopra il mento, lasciando che il suo sguardo venisse catturato dalla fiamma che scoppiettava nel grande camino.
Aveva solo sette anni, ma certe cose del mondo le sapeva, le aveva sentite dire.
Per esempio, era a conoscenza della fama dell’orfanotrofio della signora Havelock: lì ci finivano tutti i bambini senza speranza, quelli che nessuno voleva adottare, quelli che avevano visto la fame, le disgrazie e le follie della vita, e che di fanciullesco non avevano più niente.
A lei non importava poi tanto di dove l’avrebbero portata e dove avrebbe abitato; soltanto una piccola parte di lei era ancora aggrappata al mondo, solo con le unghie di una mano graffiava quella vita che le aveva voluto male.
Con l’altra mano, invece, sfiorava le dita di Timmy, il fratello che le voleva così tanto bene da volerla trascinare con sé, colui che non l’aveva mai realmente abbandonata.
Perché un legame come il loro, nemmeno la morte avrebbe potuto spezzarlo.
Mentre la luce dorata delle fiamme danzava sul suo viso, Skye poté quasi percepire una presenza rassicurante al suo fianco; capì che lui era lì, e non se ne sarebbe mai andato.
 
 
♦♦♦
 
 
“Che bello, il mare! Andiamo al mare!”
Skye e Timmy non avevano fatto che esultare per tutta la mattina, dal momento in cui avevano aperto gli occhi a un nuovo soleggiato giorno che sapeva di nuove avventure.
Il loro papà, il signor Whistler, aveva portato a casa proprio due giorni una nuova e scintillante automobile, la prima mai posseduta dalla famiglia Whistler; era stato un grande sacrificio per lui, che le automobili erano un lusso riservato ai più abbienti, ma quando l’aveva annunciato alla moglie e i figli aveva in fondo alle iridi un orgoglio e un entusiasmo in grado di spazzare via ogni ripensamento.
“Non appena la ritirerò, vi porterò al mare” affermò, guardando dritto negli occhi prima Timmy e poi Skye – due paia identiche di occhioni scuri e grandi, identici come lo erano i loro proprietari.
E così quella mattina, dopo essersi svegliati alla stessa ora del sole, i due vivaci gemelli si erano infilati sui sedili posteriori troppo stretti, bramosi come non mai di intrecciare lo sguardo alla distesa azzurra che avevano visto solo sulle cartoline.
“Mamma?” Timmy si dimenava, preda dell’entusiasmo, e si sporgeva per sfiorare il braccio della donna che sedeva accanto al marito, di fianco al posto di guida.
“Dimmi.”
“Quanto manca per arrivare al mare?”
“Non lo so, Timmy. Ma se stai seduto e buono, sicuramente il tempo passerà più in fretta” ribatté la signora Whistler, voltandosi di un poco per lanciare un’occhiata ammonitrice al figlioletto. Era una donna ancora giovane e straripante della stessa vitalità e determinazione di quando era ragazza, ma diventare madre le aveva dipinto il viso di dolcezza.
“Papà, tu lo sai quanto ci vuole?” proseguì il bimbo, sporgendosi ancora di più in avanti.
“Non lo so nemmeno io.”
“Timmy! Non lo devi distrarre mentre guida!” sbottò Skye preoccupata. Aveva passato tutto il tempo a fissare il paesaggio fuori dal finestrino – forse già in cerca del mare – ma tutta quella confusione l’aveva riportata alla realtà.
“Skye, tesoro, devi badare a tuo fratello, che è un diavoletto e finirà per farci cappottare” disse la signora Whistler con una leggera risata nella voce.
Skye allora posò una mano sulla spalla del gemello e lo strattonò leggermente a sé, costringendolo quasi a sedersi composto. “Stai buono, Timmy. Se continui ad agitarti così, il sedile si staccherà dalla macchina e rimarremo in mezzo alla strada!” si inventò, giusto per tenerlo buono.
Timmy le sorrise sornione e piegò appena il capo di lato. “Macché, io non ci credo! È impossibile!”
Skye lo scrutò con attenzione, era quasi come guardarsi allo specchio: la pelle diafana, i capelli corvini e arruffati, gli occhi scuri mai sazi di vedere cose nuove, le guance arrotondate, il nasino sottile.
E a Timmy bastò ricambiare lo sguardo per calmarsi un po’. Erano gemelli, loro: sapevano parlare con gli occhi, sapevano capirsi in un battito di ciglia e leggersi nella mente. Erano indissolubilmente legati, parlavano un linguaggio primordiale che solo loro conoscevano.
E l’eccitazione di andare al mare per la prima volta, che Skye vedeva brillare negli occhi del fratello, apparteneva a entrambi.
Ogni singolo istante delle loro vite apparteneva a entrambi. Dal primo all’ultimo.
Skye gli strinse di più la spalla e lo attirò ancora a sé.
Un grido squarciò l’aria.
Il mondo cominciò a oscillare e sfocarsi fuori dai finestrini.
“Timmy!” strillò la signora Whistler, tra i fischi dei freni impazziti.
Il cuore di Skye batteva a mille, più forte degli sbalzi, più forte degli scossoni. Aveva preso a stritolare Timmy in una stretta intrisa di terrore, e lui aveva preso a strillare al suo orecchio.
“Skye, tesoro…” li raggiunse nuovamente la voce della madre.
Devi badare a tuo fratello.
Skye piangeva forte mentre tutto il suo mondo si sgretolava e le lasciava lividi e graffi sulla pelle giovane.
In mezzo a quel finimondo, i suoi genitori non riusciva più a vederli né a sentirli, ma continuava a tenere tra le braccia quell’altra metà di lei, quel gemello che era sempre stato più vivace e più ingenuo di lei, quel coccio della sua anima che si aggrappava con disperazione al suo vestitino.
Devi badare a tuo fratello.
Uno scoppio più forte degli altri, e Timmy venne sbalzato via, lontano da lei. Skye lo sentì gridare, ma non poté fare altro che serrare gli occhi e portarsi le braccia sopra la testa per proteggersi.
Devi badare a tuo fratello.
La voce di Timmy non si sentiva più.
E nemmeno quella di mamma e di papà.
Devi proteggere tuo fratello.
Skye, stai attenta a Timmy.
L’incubo durò ancora per alcuni istanti, o forse furono anni.
E quando Skye si guardò attorno, realizzò che l’incubo in realtà era cominciato proprio in quel momento.
Mamma se n’era andata.
Papà se n’era andato.
Anche Timmy se n’era andato.
E Skye? Era ancora viva, ma anche lei se n’era andata.
 
 
♦♦♦
 
 
Non parlava mai con nessuno.
Pareva che nulla e nessuno fosse in grado di destare la sua attenzione: passava giornate intere a fissare il cielo fuori dalla finestra e non rivolgeva mai la parola agli altri bambini.
Né la signora Havelock né la maestra Kingsley, incaricata di insegnare a leggere e scrivere a quei poveri orfanelli, riuscivano a scalfire quella corazza di silenzio e solitudine che avvolgeva Skye – non le importava nemmeno di memorizzare le lettere del suo nome.
Qualche volta sembrava rianimarsi all’improvviso, sgranava gli enormi occhi scuri e piegava appena il capo di lato, in ascolto di qualcosa che nessun altro poteva udire.
“Skye è strana” si vociferava in giro, tra le stanze dei bambini e attorno al tavolo in sala da pranzo.
“Lasciatela perdere: ha vissuto qualcosa di terribile” spiegava in tono lugubre la signora Havelock, accomodata su una seggiola in legno accanto al camino e intenta a rammendare o lavorare a maglia. Erano quelle le sue attività preferite mentre teneva d’occhio i bambini durante le ore di gioco.
“Signora Havelock, Skye è malata?” si arrischiava a domandare qualcuno, accovacciandosi sul tappeto soffice ai piedi della vecchina.
“È malata di solitudine” ribatteva sempre lei, una leggera nota di malinconia nella voce. E non aggiungeva altro.
 
Quel giorno Skye se ne stava accucciata su una poltrona in un angolo della stanza, il corpicino esile sepolto tra i cuscini vaporosi e un libro aperto sulle ginocchia – osservava le immagini, perché non avrebbe potuto leggerlo.
Annette la scrutava con curiosità, gli occhi celesti pieni di speranza. Era una di quelle bambine grintose e audaci che, nonostante tutte le brutture della vita, non si sarebbe arresa mai.
Dopo qualche lungo istante di silenzio, riempito solo dallo scrocchiare del fuoco nel camino, la bimba dai capelli biondi si avvicinò a Skye con passo leggero e le sfiorò appena un braccio, con l’intento di attirare la sua attenzione.
Lei sobbalzò appena e sollevò lo sguardo.
“Ciao” la salutò Annette, un sorriso amichevole sulle labbra rosate.
“Ciao.”
“Che libro stai leggendo?”
Skye sollevò il volume dalle ginocchia e le mostrò la copertina. Nemmeno lei sapeva quale fosse il titolo.
Annette annuì. “È bello?”
“Sì.” Lo disse giusto per dire, non perché fosse vero.
L’altra bimba la scrutò ancora, sporgendosi appena verso di lei. “Ti piace leggere?”
Skye non rispose; prese a giocare col margine di una pagina, creando una piccola orecchia all’angolo.
“Come mai non vieni mai a giocare con noi?”
“Non mi piacciono i giochi che fate voi.”
Annette s’imbronciò e chinò appena il capo. “Allora io voglio fare quello che piace a te, così possiamo diventare amiche. Non puoi mica stare sempre sola!”
“Ma io non sono sola” obiettò Skye con fermezza e una punta di emozione nella voce, il viso illuminato da una luce tutta particolare che per un attimo la fece sembrare di nuovo bambina.
Annette sgranò gli occhi, confusa.
“Ci sono loro che mi fanno compagnia.”
La bionda si portò una mano sulle labbra. “Chi sono loro?”
Skye si sporse verso di lei, complice, e accennò un sorriso. “Li sento ogni notte, sospirano e mi chiamano, vengono a cercarmi. Non sono cattivi, sono miei amici, loro non mi lasciano mai sola.”
Il suo sguardo si fece più affilato, animato da una luce che tuttavia lo rendeva torbido. “Tu non li senti, i sospiri e i sussurri?” bisbigliò.
E il cuore di Annette perse un battito.
 
 
♦♦♦
 
 
La sottile pioggia d’autunno tamburellava piano sul vetro della finestra, come una delicata ninna nanna di carezze.
Quando Skye spalancò gli occhi nell’oscurità, la prima cosa che le venne istintiva fu affinare le orecchie per percepire i sussurri attorno a lei.
Ma quella volta la ragazzina udì un unico leggero sospiro, proveniente dal fondo buio della stanza. Era un bisbiglio sottile e privo di suono, ma a Skye parve comunque di riconoscerlo.
Si mise in piedi, pronta anche quella volta a seguire quel sibilo leggero e vedere dove l’avrebbe condotta. Era diventato un gioco strano e curioso, giostrato delle tenebre e dalle sensazioni che quelle presenze invisibili le iniettavano.
Il cuore le batteva a mille mentre muoveva qualche passo verso il centro della stanza. Ormai nel camino non erano rimaste che flebili braci, che non riuscivano a rischiarare le tenebre di quella notte senza luna. Skye si guardò attorno, ma poté mettere a fuoco solo sagome indefinite.
Sentì un tocco leggero sul braccio e una risata cristallina le scivolò sulla guancia, fino a solleticarle l’orecchio.
Il suo cuore perse un battito quando avvertì lo spirito lasciare la stanza; come ipnotizzata, uscì in corridoio e lo inseguì, facendosi guidare da quel suono così piacevole che a volte era sospiro e a volte era risata. E, a dispetto della pelle candida che rabbrividiva contro l’aria frizzante, la sua mente rievocò pomeriggi estivi di giochi spensierati e quiete sere trascorse davanti al focolare.
Era come rincorrere il suo passato.
Skye si immobilizzò, i piedi nudi incollati al pavimento, quando vide baluginare una luce opalescente davanti a sé. Durò un battito di ciglia, ma ebbe il tempo di riconoscere un viso dai lineamenti vaghi e sfocati.
Poi tutto terminò con una risatina infantile che si sparse tra le pareti spoglie.
La ragazzina si portò una mano davanti alle labbra, il respiro mozzato dall’emozione.
Un’altra carezza invisibile le arruffò i capelli, poi una figura esile cominciò a definirsi al suo fianco.
Una figura piccola, bianca, col visino spruzzato d’innocenza e un sorriso birichino sulle labbra.
Una figura che Skye aveva sempre percepito accanto, ma che solo allora aveva modo di vedere per davvero.
E, quando incrociò i suoi occhioni grandi e scuri, per lei fu come guardarsi di nuovo allo specchio dopo tanti anni.
“Timmy” sussurrò piano, quasi timorosa che il suo fiato lo facesse scappare o dissolvere. Non si mosse di un millimetro, anche se aveva il cuore in tumulto e la smania di abbracciare il bimbo che aveva di fronte.
“Sì Skye, sono io. Sono sempre stato qui” ribatté lui, con quella sua vocina così dolce da far salire le lacrime agli occhi.
Timmy piegò appena la testa di lato e osservò la gemella con occhi vivaci e impertinenti.
Era proprio come Skye lo ricordava: un bimbo di sei anni – ed erano ancora gemelli, lo sentivano nell’anima, anche se lei era cresciuta e ora di anni ne aveva nove – con i capelli scuri sempre in disordine. Indossava anche gli stessi vestiti dell’ultima volta: dei calzoncini grigi sdruciti e una maglietta azzurro cielo.
“Timmy, io non ti volevo lasciare solo” mormorò Skye, trattenendo un singhiozzo.
Lui le sorrise innocente. “Ma tu non mi hai mai lasciato solo. E non ho mai lasciato sola te. Siamo gemelli, e i gemelli sono legati per sempre; non si dividono mai, mai.”
“Dici davvero?”
“Ma certo!” Timmy rise e le ruotò attorno, camminando a piccoli saltelli. Poi le si piazzò nuovamente di fronte. “Sciocchina! E poi sono io, quello un po’ tonto tra i due!”
Skye avrebbe voluto trovare le parole e i gesti adatti per esprimere quanto fosse contenta di riavere il suo gemello con sé, quanto si sentisse completa.
Non si sentiva più sola.
Ora si sentiva di nuovo viva.
Ma non trovò il coraggio di far niente, incantata da quel bimbo avvolto da un alone di luce che lo rendeva ancora più bello e magico.
“Skye?”
“Dimmi.”
“Giochiamo! Come facevamo sempre!” Detto ciò, lo spiritello fatto di luce le sfiorò una mano e poi corse via lungo il corridoio, ridendo con genuino divertimento.
Skye sgranò gli occhi e si portò d’istinto le dita davanti al viso. Quelle stesse dita che avevano sfiorato la mano di Timmy – e lei l’aveva sentito davvero quel contatto, erano stati pelle contro pelle, e quella era la cosa più vera che avesse vissuto in tre anni.
Si erano toccati. E lei si era sentita così viva ed elettrizzata!
Contagiata dall’euforia del momento e calamitata da una forza attrattiva che non sapeva – non voleva – controllare, si lasciò sfuggire una risatina a sua volta e cominciò a correre, inseguendo il fratellino che era scomparso chissà dove, magari aveva svoltato l’angolo o aveva preso le scale. Continuava a sentire le sue risate e la sua voce in una marea di eco e rimbombi, avvertiva la sua presenza più forte che mai. Lo voleva scovare, acchiappare e stringere tra le braccia, come facevano sempre quando giocavano a rincorrersi, e non voleva lasciarlo mai più andare.
Lo avrebbe protetto e tenuto con sé, come aveva promesso. La sua metà, l’unico con cui avrebbe condiviso ogni istante – dal primo all’ultimo.
Fu costretta a fermarsi, e le risa le morirono in gola, quando una delle porte che si affacciavano sul corridoio si schiuse lentamente, cigolando e lamentandosi per la vecchiaia. Quel suono stridente le ferì le orecchie e Skye si portò istintivamente le mani a coprirle.
Lo sguardo le si appannò di confusione quando mise a fuoco nella penombra la sagoma ricurva e avvizzita della signora Havelock; la vecchia, complice la fioca luce del camino proveniente dall’interno della sua stanza, l’aveva riconosciuta e ora le rivolgeva uno sguardo torvo e minaccioso.
Skye serrò le labbra, come la prima volta che l’aveva incontrata.
“Signorina Skye Whistler, si può sapere cosa stai facendo a quest’ora fuori dalla tua stanza? Devo forse ricordarti che è vietato?” cantilenò aspramente, le rughe sulla pelle visibili pure nella penombra per via dell’espressione corrucciata.
La bambina si guardò attorno, in cerca di un appiglio. La risata di Timmy risuonava ancora fioca nell’aria, ma la poteva sentire solo lei; per un istante le parve anche di vedere la sua figura luminosa ed evanescente strisciare lungo una parete.
Sbatté un paio di volte le palpebre e tornò a guardare la signora Havelock.
“Allora? Sto aspettando una risposta” incalzò.
“Io… io stavo giocando con mio fratello.”
La proprietaria dell’orfanotrofio rimase interdetta, scrutò ancora quell’esserino fragile che sembrava sempre sul punto di spezzarsi, ma che quella volta le aveva risposto con una determinazione e una candidezza disarmanti.
“Stavi giocando con il tuo gemello?”
Skye annuì. “Sì.”
Il suo gemello era morto da tre anni.
 
 

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Capitolo 2
*** II ***


Dal primo all’ultimo istante
 
II

 
 
 
 
 
 
Pazza, la chiamavano.
La ragazzina che sentiva le voci. La ragazzina che aveva le allucinazioni e vedeva i fantasmi.
Pensavano che si stesse inventando tutto, che farneticasse e che fosse impazzita a causa del brutto trauma che aveva vissuto.
Perfino gli altri bambini avevano cominciato a vociferare e bisbigliarsi le cose all’orecchio.
“Dicono che vede il fantasma di suo fratello.”
“Dicono che sente le voci della sua famiglia.”
“È una matta, io non ci voglio mai più parlare!”
“Ma no, non è pazza. Tutta la sua famiglia è morta davanti ai suoi occhi, è normale che adesso dica cose strane.”
“Che brutto! Io almeno la mia famiglia non l’ho mai conosciuta!”
“Ma che dici? Io invece li avrei voluti conoscere, i miei genitori. È stata fortunata!”
A Skye in realtà non importava granché. Non aveva mai stretto amicizia con gli altri bimbi della casa; se qualcuno ora evitava di rivolgerle la parola, non faceva alcuna differenza.
Avevano chiamato una psicologa, che andava a farle visita ogni settimana; era una delle più brave della zona nel suo mestiere, si teneva sempre aggiornata e seguiva le nuove teorie sui traumi e sulle fasi dello sviluppo. Dove l’avessero pescata e con quali soldi l’orfanotrofio riuscisse a pagarla, era un gran mistero per tutti.
La prima volta che Skye l’aveva incontrata, in una stanza del secondo piano rimessa a nuovo apposta per quelle occasioni, l’aveva trovata abbastanza simpatica ma troppo impicciona. Si trattava di una ragazza molto giovane, dal viso gentile e i capelli castano chiaro sempre in ordine, che sorrideva un po’ troppo spesso e finiva per risultare finta; si era presentata come la dottoressa Beck.
“Allora Skye,” aveva esordito, dopo che la bambina si fu accomodata sul gradino del grande camino, “cosa ti piace fare nel tuo tempo libero?”
Lei l’aveva scrutata con confusione. Che le importava?
“Niente” fu la sua risposta, e non era del tutto falso.
“Non ti piace giocare con gli altri bambini?”
Skye aveva scosso la testa.
“Non hai qualche amico qui dentro?”
“Sì, ma i miei amici non li può vedere nessuno.”
L’aveva tempestata di domande, le aveva chiesto di descrivere ciò che le capitava ogni notte; Skye aveva risposto controvoglia e non aveva dato tanti dettagli. Era la prima volta che qualcuno si interessava ai suoi spettri che sospiravano nelle tenebre e lei non sapeva come comportarsi.
Andò così anche la volta successiva, e quella dopo ancora. Addirittura la dottoressa Beck le domandò, dopo una manciata di incontri, della sua famiglia e del giorno dell’incidente; a Skye non piacque, e si chiuse in se stessa.
Non era una bambina stupida: ben presto capì a quale gioco stesse giocando quella donna che voleva farsi i fatti suoi, e altrettanto presto comprese come neutralizzare i suoi trucchetti. A ogni incontro apriva bocca sempre meno, e quando lo faceva era solo per dire bugie e farle credere che la terapia stesse funzionando.
La dottoressa Beck era convinta che lei stesse mentendo, che i suoi spettri non fossero veri. Che ingenua! Se solo avesse potuto sentire quei bisbiglii come li sentiva lei, se solo avesse potuto avvertire quelle presenze capaci di una forza magnetica inesorabile, se solo avesse potuto toccare la pelle di Timmy, più vera e concreta che mai.
La terapia si dilatò per mesi – anni.
Skye cresceva, non era più una bambina ormai, ma nulla era cambiato.
Di notte, quando i sospiri la avvolgevano e gli spettri le parlavano, si sentiva sempre più viva e completa.
Di giorno, quando i suoi amici si nascondevano e la lasciavano con quegli estranei che le vivevano attorno, si sentiva sempre più morta e arida.
Nessuno – né la dottoressa Beck, né lei stessa – si rendeva conto che la morte teneva stretta la sua anima tra le braccia più forte di quanto non facesse la vita.
 
 
♦♦♦
 
 
A Skye avevano sempre fatto paura i temporali. Non era tanto la pioggia che cadeva forte o il vento che la frustava contro le pareti a disturbarla, ma piuttosto la luce improvvisa e abbagliante dei fulmini che si insinuava tra le ciglia e scuoteva via il sonno.
Si svegliò col cuore che martellava più delle gocce grosse sul vetro, un brivido le corse lungo il corpicino giovane e acerbo e lei si rannicchiò maggiormente tra le coperte.
C’era qualcosa che non andava quella notte, non era soltanto la tempesta a renderla irrequieta.
Si portò le mani alle orecchie per allontanare il ruggito dei tuoni che squarciava il cielo, ma tra le sue dita s’insinuarono comunque i sospiri e i sussurri di sempre.
Stavolta erano diversi. Respiravano più forte, sembravano più vicini e prepotenti.
Scattò a sedere sul letto – fu costretta a serrare gli occhi quando un nuovo lampo inondò la camera di luce – e un tocco gelido le sfiorò la guancia.
Skye.
Tremò tutta quando sentì pronunciare il suo nome.
“Skye.”
Ora la voce era chiara, aveva scandito bene le consonanti – le vocali erano un rantolo glaciale.
Non riconobbe subito quel timbro, in mezzo al tumulto del temporale. Eppure, nonostante l’incertezza e il terrore che le attorcigliava le viscere, si alzò e lasciò la sua stanza. Non era qualcosa che poteva controllare, non ci era mai riuscita: quando loro venivano a svegliarla e a cercarla, esercitavano sul suo essere una forza attrattiva che la obbligava a seguirli. Buoni o cattivi che fossero, ce l’avevano in pugno.
Uscì in corridoio e si concentrò per udire e seguire quei sospiri così tetri che scivolavano sul pavimento freddo e sul soffitto crepato.
Avrebbe voluto piangere, ma era troppo spaventata anche per quello; si limitò a tenere gli occhi sgranati e avanzare a piccoli passi laddove l’istinto la guidava.
Per alcuni brevi istanti che a lei parvero un’eternità, i sospiri le si infransero sulla pelle – sbuffi gelidi e colmi di cattiveria – e la condussero sul fondo del corridoio, un anfratto in cui non l’avevano mai attirata prima. sulla parete davanti a sé, piccolo e inerpicato quasi sul soffitto, si apriva un lucernario da cui si poteva scorgere tutta la furia della tempesta.
Skye era accerchiata da mura: davanti, a destra, a sinistra. Solo dietro di lei si estendeva il corridoio deserto.
“Skye.”
La ragazzina serrò le labbra e strinse i pugni fino a conficcarsi le unghie nei palmi.
“Skye, devi badare a tuo fratello.”
Era una voce più forte delle altre, ed era più rabbiosa. Le parlava in tono sprezzante, la accusava.
La riconobbe.
Si voltò di scatto, appiattendosi contro la parete e scrutando attentamente davanti a sé, nel corridoio buio. Un lampo rischiarò per un attimo la penombra, infiltrandosi dal lucernario, e lei non poté che sobbalzare appena.
“Skye, stai attenta a Timmy.”
“Mamma…” mormorò la ragazzina, per poi mordersi il labbro inferiore. Cos’aveva fatto per far arrabbiare così tanto lo spirito della sua mamma, quella donna che era sempre stata così buona e comprensiva con lei? Perché non era come Timmy, entusiasta e affettuoso ogni volta che veniva a trovarla?
“Devi badare a tuo fratello, stai attenta. Lo devi proteggere!” Il grido squarciò l’aria come un tremendo stridio; Skye era sul punto di sollevare le mani e portarsele alle orecchie, quando qualcosa – qualcuno – le sfiorò il polso.
Un nuovo rivolo di luce inondò l’andito, ma stavolta Skye poté vedere qualcosa davanti a sé.
Una figura agghiacciante, improvvisa come un lampo: una donna dalla pelle talmente diafana che la tempesta vi brillava sopra, dai capelli annodati, gli occhi torbidi e l’espressione furiosa.
Era la sua mamma, e il suo viso era così crudele e accusatorio da mettere i brividi.
E gridava, le labbra spaccate e gli occhi infiammati.
“Devi badare a tuo fratello!”
Skye serrò gli occhi e fece per sollevare le mani con l’intento di proteggersi, ma ecco di nuovo quel tocco sul suo polso. Stavolta però non fu fugace: lo spirito le aveva intrappolato il braccio tra le dita sottili e gelide e ora stava conficcando le unghie nella sua pelle, come a rivendicarne la proprietà.
Quelle dita ghiacciate bruciavano, quelle unghie rabbiose ferivano. Skye era in trappola.
Si morse il labbro per trattenere le lacrime e guardò davanti a sé, ma come se n’era andato quel lampo di luce, era scomparsa anche l’orrorifica visione; ora la ragazzina poteva avvertirne soltanto la presenza e le unghie che le scorticavano il polso.
“Perché ce l’hai tanto con me, mamma? Cos’ho fatto?” mormorò, la voce incrinata dal pianto e dal terrore. Suonava come la voce di una bimba piccola, anche se Skye era ormai quasi una donna.
La risposta le giunse in un sussurro cattivo e troppo vicino al suo orecchio, che le solleticò la pelle: “Ti sembra giusto, piccola mia, che tu sia viva e tuo fratello sia morto?”.
“Ma…”
Un tuono esplose fuori dalla finestra, talmente feroce che sembrò sul punto di sventrare l’orfanotrofio, e lo spirito della donna gridò di rabbia, graffiando la pelle di Skye con ancora più violenza.
La ragazzina, colta da un dolore lancinante – era quello della sua pelle o della sua anima? – si ritrasse d’istinto, con una tale foga che riuscì a liberarsi dalla stretta. Sbatté con la spalla alla parete, ma non se ne preoccupò; non badò nemmeno al rivolo di sangue che le colava sul dorso della mano fino a impiastricciarle le dita.
Corse via, fulminea, tremante e spaventata, raggiungendo alla cieca il punto in cui sapeva di trovare la porta della sua camera. I sospiri e i sibili la seguivano, frammisti al tamburellare della pioggia e i sommessi gorgoglii del cielo, e lei voleva soltanto tapparsi le orecchie e non sentire più niente.
Si chiuse dentro la sua stanza, si assicurò che il legno pesante della soglia le facesse da scudo – anche se sapeva benissimo che una stupida porta e delle stupide pareti non potevano niente contro di loro.
Si rese conto solo allora di quanto stesse tremando.
Ma non si rese affatto conto di quanto la sua vestaglia bianca fosse macchiata di sangue.
In fondo la sua mamma aveva ragione: lei era viva, Timmy era morto, e nessuno dei due sarebbe stato completo finché non fossero appartenuti alla medesima dimensione.
 
La mattina dopo, quando Skye si ridestò di soprassalto, gli squarci rossi erano ancora lì, a deturpare la sua carne morbida e giovane. Partivano dall’avambraccio e percorrevano il polso, fino a offendere il dorso pallido.
Skye cercò di nasconderli più che poté, indossando la veste con le maniche più lunghe che possedeva; se qualcuno li avesse notati e le avesse chiesto spiegazioni, poi cos’avrebbe raccontato?
Non le avrebbe creduto nessuno, avrebbero pensato che si fosse ferita da sola per risultare convincente.
Ma i fantasmi che Skye s’inventava non potevano farle male davvero.
Quando uscì dalla sua stanza per la colazione, camminò a sguardo basso per non far vedere i suoi occhi, ancora più neri e torbidi del solito. La morte si stava insinuando dentro di lei, e quelle unghie rabbiose non avevano fatto che spingergliela ancora più nelle ossa.
 
 
♦♦♦
 
 
Era una bella ragazza, di una bellezza fragile e particolare. Aveva la carnagione fatta di neve, tanto era chiara e delicata, possedeva gambe lunghe e sottili che slanciavano la sua figura da giovane donna e i tratti del viso erano di una dolcezza che la rendevano eterea. Gli occhi scuri erano rimasti gli stessi di quando era bambina, talmente enormi da potervi scorgere dentro interi universi, e i capelli corvini e fluenti le ricadevano vaporosi sulle spalle, spesso raccolti in una morbida coda.
Era forse un po’ troppo magra, questo sì, talmente tanto che le ossa a volte sembravano sul punto di bucarle la pelle.
Skye era una quindicenne giovane e bella che, se solo ne fosse stata in grado, avrebbe potuto cominciare ad affacciarsi al mondo. Il mondo, già: quel luogo estraneo abitato da estranei che mai aveva avuto interesse a conoscere.
Non mangiava quasi mai, e se lo faceva le veniva la nausea. Meglio, avrebbe detto qualcuno, almeno ci sarà più cibo per gli altri orfanelli che hanno voglia di crescere.
E nemmeno parlava più; nessuno si ricordava quale fosse la sua voce e si cominciò a mettere in dubbio che ne avesse una. Non che fosse mai stata granché loquace, in realtà.
“Come mai non parli? Ti è caduta la lingua?” le chiedeva qualcuno tra i bimbi più piccoli e curiosi, ma era come se Skye non li udisse nemmeno.
La psicologa Beck non andava più a farle visita da un pezzo. La terapia era andata avanti per cinque lunghissimi anni, ma a ogni incontro Skye si chiudeva sempre più in se stessa e alla fine aveva smesso definitivamente di parlare. Non le interessava più della presenza della dottoressa, la ignorava del tutto.
Alla fine la Beck aveva comunicato alla signora Havelock che lei non poteva fare nient’altro per aiutare Skye, che era un caso troppo difficile e non c’era speranza di recuperarla; da quando aveva cominciato il suo percorso con lei, non aveva visto alcun progresso. Era pazza e non ci si poteva far molto.
Skye aveva quindici anni, lo sguardo vuoto e una bellezza che sembrava appartenere a un altro mondo. E forse, in fondo, era proprio così.
Skye somigliava sempre più agli spettri che solo lei poteva vedere.
 
 
♦♦♦
 
 
Quella sera faceva tanto freddo. Per tutta la giornata un nevischio grigiastro e sporco era piovuto piano, rigando i vetri e spruzzando la campagna spoglia e dormente di fine autunno.
Quando Skye aprì gli occhi, tuttavia, uno strano e piacevole calore le si spandeva per tutto il corpo. Percepiva l’aria gelida della notte su di sé, ma non ne era affatto infastidita, come prigioniera in una bolla tiepida che la proteggeva.
Sorrise nell’oscurità. Sapeva che quella notte sarebbe successo qualcosa di bellissimo, sentiva già la presenza di Timmy. Era venuto a trovarla.
Udì una risatina e un leggero sbuffo d’aria l’avvertì di un fugace spostamento; si guardò intorno, curiosa e dopo qualche istante mise a fuoco una figura minuta che si stagliava ai piedi del suo letto, accomodata sul bordo del materasso. Il suo visetto chiaro era appena illuminato dalle ultime deboli fiamme nel camino.
Col cuore che batteva a mille, Skye sgusciò fuori dalle coperte e si accovacciò accanto a quello spiritello. Tutto intorno a loro era silenzioso, anche i soliti sospiri che accompagnavano l’arrivo di qualche anima si erano messi a tacere.
“Skye.” La vocina sottile di Timmy riempì l’aria, un sussurro dolce.
“Sono qui.”
“Mi manchi tanto.”
“Anche tu mi manchi.”
Il bimbo allungò la mano e afferrò quella della ragazza, stringendola forte. Avevano ormai quasi dieci anni di differenza, ma in quel momento, con le dita intrecciate e le mani calde e amorevoli che si sfioravano, si sentirono di nuovo gemelli. Mai come in quel momento si erano sentiti così vivi ed elettrizzati, così completi – a casa.
In quel momento Skye lo realizzò veramente, forse per la prima volta nella sua vita: erano legati indissolubilmente, l’uno senza l’altra non potevano esistere, ovunque uno di loro sarebbe andato l’altro l’avrebbe seguito.
Era il destino delle anime nate nello stesso istante: erano fatte per proteggersi, amarsi e non separarsi mai.
“Timmy, io ti voglio proteggere.”
Il bimbo sorrise e i suoi occhi scuri e grandi, identici a quelli della sorella, brillarono. “Lo so. Resta con me per sempre.”
Skye non seppe cosa rispondere. Piegò appena la testa di lato e lo scrutò, tenendogli ancora stretta la mano.
Dopo qualche istante, Timmy si liberò dalla stretta e balzò giù dal letto; corse verso la porta, la socchiuse e uscì in corridoio, non prima di aver strizzato l’occhio alla sua gemella. “Vieni a prendermi!”
Skye sorrise e, senza farselo ripetere due volte, si mise in piedi e gli andò dietro. Chissà cos’aveva in mente quel birbante.
Si affacciò al corridoio e la risatina leggera di Timmy le accarezzò le orecchie. Senza nemmeno preoccuparsi di richiudere l’uscio, seguì la sua forza attrattiva – poteva sentire la sua presenza pur senza vederlo – fino all’imboccatura delle scale che portavano al piano terra.
Timmy era sull’ultimo gradino in fondo e la osservava col suo solito sorrisetto scherzoso e impertinente. “Skye, tu mi vuoi seguire?”
Dei leggeri sospiri cominciarono a spargersi tutt’attorno a loro, lenti e dolci, per nulla invadenti.
“Certo.”
“Allora ti porterò in un posto bellissimo, ti piacerà un sacco. Vieni con me, Skye.”
Il corpicino di Timmy ora era avvolto da un alone luminoso quasi impercettibile, ma che fece brillare ancora di più il suo sorriso dolce da bambino.
E Skye da quella luce si fece guidare. Non si trattava più della stessa forza attrattiva che gli spettri esercitavano su di lei, non era un’obbligazione: scese le scale e lo fece per sua volontà, procedette a piccoli passi sul pavimento gelido e sentiva di volerlo.
Ovunque Timmy l’avesse portata, nulla sarebbe potuto andare storto se fossero stati assieme.
Il suo gemello ridacchiava piano, appena sopra dei sospiri che guidavano e facevano da canto d’accompagnamento alla loro giocosa danza. Timmy scappava, Skye lo inseguiva, e quando era sul punto di sfiorarlo, lui correva via nuovamente e le chiedeva di seguirlo.
A malapena Skye si rese conto che i suoi piedi nudi non poggiavano più sul marmo freddo, ma erano pizzicati dalle pungenti sterpaglie della campagna. Non si accorse della brezza frizzante della notte autunnale, né del leggero nevischio che le si incastrava tra i capelli, talmente era concentrata a seguire quel filo che la legava all’altra metà di sé.
E quei sospiri misti al vento, che qualche volta le erano sembrati così minacciosi, ora le apparivano così dolci e festosi.
Camminarono, corsero, danzarono, risero spensierati, gettarono la testa indietro e fissarono il cielo tutto nero; lasciarono che le loro dita si intrecciassero e si scaldassero a vicenda.
Skye non ci pensava, che ormai l’orfanotrofio era lontano e mai sarebbe potuta tornare indietro. A dire il vero, in quell’orfanotrofio la sua anima non ci era mai entrata.
Non ci pensava alla pelle frustata dal freddo, alle piante dei piedi cosparse di schegge e a tutte quelle sensazioni che erano una prerogativa dei vivi.
E quando Timmy la condusse all’interno di un boschetto abbandonato a se stesso da decenni, dove le tenebre si infittivano ancora di più e i rami bassi sfioravano le guance, non ebbe paura. Strinse la mano al suo gemellino, che le fece strada con fare esperto, finché non si fermarono in una piccola radura. Uno squarcio tra le nubi lasciava trapassare un raggio di luna, mentre il nevischio continuava a cospargere le loro pelli di cristalli luminosi.
“È questo il posto in cui mi volevi portare?” domandò Skye, la voce colma d’emozione e sottile come quando era bambina.
Timmy annuì. “Questo è il posto in cui io proteggo te e tu proteggi me. E non fa niente se la mamma è arrabbiata e se tutte le anime tormentate vengono a cercarti: io e te staremo sempre insieme, come lo siamo sempre stati.”
“Oh, Timmy!” Con le lacrime agli occhi, Skye si lasciò cadere in ginocchio, macchiandosi il vestito di neve sporca, e trascinò Timmy con sé strattonandolo per la mano. Lui cadde al suo fianco.
Occhi dentro occhi – quattro pozzi neri e liquidi – e respiro contro respiro, si scrutarono a lungo, in silenzio. Non un brivido lungo le loro schiene, non un pizzico di rimpianto nei loro cuori.
Poi Timmy spinse la sorella all’indietro con delicatezza, fino a farla sdraiare tra le erbacce e il ghiaccio, poi si posizionò accanto a lei e la abbracciò stretta. Skye ricambiò il gesto, gli fece insinuare il visetto rotondo nell’incavo del suo collo e rimasero fermi, con gli occhi chiusi, a conoscersi di nuovo e fondersi insieme.
Tanti sussurri e sospiri si rincorrevano tra gli alberi, li rinchiudevano in un cerchio fatto di neve e amore.
Per la prima volta dopo quasi dieci anni, Skye non si sentiva più sola. Dovunque avesse cercato una nuova famiglia e dei nuovi legami, nulla avrebbe spezzato quell’incantesimo che la imprigionava nel passato.
Non comprese davvero che, in quell’abbraccio così rassicurante, la sua vita stava scivolando via e si stava sciogliendo come un fiocco di neve autunnale, troppo fragile per giungere al suolo. Quella che tutti avrebbero chiamato morte, per lei era tornare al luogo a cui era sempre appartenuta.
Era ritrovare la sua vera famiglia.
Attese quieta che le braccia di Timmy risucchiassero ogni sua energia, attese che le loro anime si attorcigliassero e si intrecciassero per vivere insieme il loro ultimo istante.
Era così che doveva capitolare la loro storia: insieme, dal primo all’ultimo istante.
E Skye non si sarebbe mai più sentita sola.
 
 
♦♦♦
 
 
Quando l’alba cominciò a tingere il cielo di grigio, nessun fiocco di neve vorticava più verso il suolo.
In mezzo alla radura, coperti da un sottile strato di ghiaccio, giacevano due corpi gemelli: due bimbi di circa sei anni, dalla pelle bianca e i capelli neri.
Pallidi e immobili, stretti in un abbraccio eterno.
Insieme.
 
 
 
 
 
 
♠ ♠ ♠
 
 
BASTA.
Questa storia mi ha risucchiato la linfa vitale, veramente, sono STREMATA!
Questa storia è stata un vero e proprio parto gemellare (giusto per rimanere in tema), forse per il fatto che ho interrotto e ripreso seimila volte la stesura, forse perché si tratta di un genere che non è esattamente nelle mie corde… e non so nemmeno se il parto sia andato bene o meno, a me sembra più un aborto che altro AHAHAHAHAH ma meglio non consultare la mia autostima! XD
Ho paura di essere del tutto fuori genere, tra l’altro. Non so se questa cosuccia possa essere considerata dark fantasy, e in ogni caso ho la vaga impressione che arriverò ultima al contest di Dark Sider… cara, perdonami: hai cercato di convertirmi al lato oscuro e io ti ho consegnato una kidfic.,.. e il finale è FLUFF -.-
Tra le altre cose, questa minilong sembra la sagra dei cliché… ma ehi, io non so proprio farmi venire delle idee decenti per il fantasy/sovrannaturale XD
Spero comunque che almeno a qualcuno possa essere piaciuta e di aver trasmesso almeno un minimo di inquietudine XD
E adesso vado a dormire, ci si sente dopodomani SE mi sarò ripresa da tutto ciò XD ♥
 
 

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