The Eternal Kiss.

di JennyPotter99
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The love’s sons ***
Capitolo 2: *** The sailor and the end of the street ***
Capitolo 3: *** An happy life ***
Capitolo 4: *** My horizon ***
Capitolo 5: *** The nursery ***
Capitolo 6: *** The horse ***
Capitolo 7: *** The vices of men ***
Capitolo 8: *** The dance’s shoes ***
Capitolo 9: *** Indipendence day ***
Capitolo 10: *** The poetry ***
Capitolo 11: *** The dancer in the shell ***
Capitolo 12: *** The rose and the horizon ***
Capitolo 13: *** The withered rose ***
Capitolo 14: *** The guardian angel ***
Capitolo 15: *** The aviator ***
Capitolo 16: *** The courage ***
Capitolo 17: *** The end ***
Capitolo 18: *** Goodbye ***
Capitolo 19: *** The Homecoming ***
Capitolo 20: *** Follow your heart ***
Capitolo 21: *** Epilogue. ***



Capitolo 1
*** The love’s sons ***


AVVERTENZE: Questa NON è la vera storia dei protagonisti della foto. I personaggi che troverete sono QUASI tutti veramente esistiti, ma la storia è romanzata da me.

5 settembre 2016 – New York
 
Da quel che si ricordava, Mara aveva sempre vissuto a New York.
Si sentiva molto fortunata e da quando era uscita dall’università, cercava di dare a sua madre la vita che si meritava.
Aveva avuto una vita difficile, sua madre.
Ma di certo poteva vantarsi di aver vissuto il più bell’amore della sua vita.
Mara amava sentire quella storia, fin da quando era un’adolescente e ormai la sapeva a memoria.
Raggiunti i 42 anni, avrebbe voluto raccontarla a qualcun altro.
Di amori, nella sua vita, ce n’erano ben pochi.
I suoi genitori, suo fratello Josh e la loro bassotta Patty.
Sua madre aveva superato i 90 anni e la vita a New York non era così rose e fiori come si potesse pensare.
Mara lavorava come assistente di un’importante ditta della città e non si poteva lamentare dello stipendio.
Laureata al politecnico dell’università di New York, era da sempre stata la migliore del suo corso.
La maggior parte dei palazzi costruiti in centro, era stata disegnata dalla Jacob Astor Enterprise, in onore del vecchio proprietario della piazza di Times Square, John Jacob Astor.
Suo nipote, Jake Bradley, aveva ereditato tutto alla morte di suo padre, circa 5 anni prima.
Bradley aveva trovato meravigliosi i disegni di Mara e dopo un periodo di prova di un anno, l’aveva assunta come sua assistente.
La vita a New York era sempre molto frenetica: Mara viveva da sola, in un appartamento non lontano dall’azienda.
Solo che, per il traffico, rimaneva la maggior parte della strada bloccata, con il caffè per il suo capo che le si raffreddava in mano.
Quella particolare mattinata, che le avrebbe cambiato la vita, Mara ritardò in ufficio di 25 minuti, correndo per tutto l’ufficio con il caffè in mano e i tacchi delle scarpe che tintinnavano sul pavimento.
Aprì freneticamente la porta con il nome inciso sul vetro.- Eccomi, sono qui!- esclamò, col fiatone, poggiando il caffè sulla scrivania.
Jake Bradley era un uomo alto e magrolino, non a caso veniva soprannominato Stecchino dai colleghi di Mara.
I suoi occhi verdi scrutavano qualsiasi cosa e Mara lo avrebbe trovato anche carino se non avesse avuto la testa stempiata già a 45 anni.
Jake guardò l’orologio moderno attaccato al muro.- Sei in ritardo di 25 minuti.-
-Lo so, mi dispiace, mi sono alzata 30 minuti prima del solito, stamattina, ma il traffico è assurdo.- commentò lei, sistemandosi la capigliatura.
D’aspetto, suo padre poteva affermare che Mara fosse identica a sua madre.
Riccioli rosso rame che le cadevano sulle spalle, quasi dello stesso colore delle labbra carnose.
Le guance rosee, gli occhi verde scuro e delle sopracciglia folte, della quale già veniva presa in giro dalle sue coetanee donne.
-Hanno posticipato il treno con il nostro nuovo architetto ad oggi, perciò devi andare a prenderlo alla stazione.- spiegò Jake, passandole un cartello con un nome scritto sopra.- Ti ho già preparato questo.-
Mara sbuffò: questo voleva dire perdersi di nuovo nel traffico di New York.
Si era completamente dimenticata dell’arrivo del nuovo architetto, però, quando lesse il suo nome sul foglio, il suo cuore si fermò.
Ron Mendonsa.
Quel cognome lo aveva sentito pronunciare tantissime volte dalla bocca di sua madre.
Solo che il nome non era Ron, ma George.
Non poteva essere una coincidenza, che fossero parenti?
Jake, che la vide imbambolata, le schioccò le dita davanti al viso.- Ehi! Sveglia! Il suo treno arriva tra 25 minuti!-
Mara batté le palpebre e tornò alla normalità. -Va bene, vado subito!-
-Sii gentile con lui, non è di qui…- continuò Jake, aprendo la sua cartella privata.- E’ del…-
Mara lo sapeva benissimo.- Connecticut.- affermò, apprestandosi a chiamare un altro taxi.
Jake si accigliò, quasi sorpreso.- Esatto.-
Mara saltò sul taxi che si fermò davanti al palazzo e gli disse di raggiungere la Grand Central Station il più in fretta possibile.
In realtà, per Mara, il tempo su quel taxi sembrò passare molto lentamente.
Mendonsa non era un cognome comune per lei.
Tutti a New York e forse anche nel mondo conoscevano George Mendonsa, il marinaio della foto di Times Square.
La foto del fotografo Alfred Einsenstraedt che rappresentava un uomo ed una donna baciarsi al centro della piazza.
Mara ne aveva almeno 5 copie nel suo appartamento: era una bella foto, ma non era tanto per quello, ma per la storia dei due protagonisti.
Solo lei, sua madre e probabilmente lo stesso George la conoscevano.
Non parlava di due persone qualsiasi, ma di un uomo e di una donna, completamente sconosciuti l’uno all’altra, che si sono innamorati al primo sguardo.
Tuttavia, Mara non si fece tante speranze: magari era solo una coincidenza.
Consegnò al tassista una banconota da 20 e con il cartello si avviò all’interno della stazione.
Fortunatamente, non era in ritardo, poiché il treno era appena arrivato.
Si unì alla folla di uomini in giacca e cravatta, che sicuramente anche loro stavano aspettando qualcuno con il cartello alzato.
Mara osservò la propria camicetta della quale, per la fretta, aveva un bottone storto.
Con il suo metro e 60 di altezza, Mara cercò di tirare su le braccia il più possibile, in attesa che Ron la notasse.
-Salve, quello sarei io.- disse una voce accanto a lei.
Mara si voltò verso di essa e non poté credere ai suoi occhi.
Si ritrovò davanti un uomo alto quasi 2 metri, con i capelli biondi e gli occhi azzurri, la pelle abbronzata e le labbra a cuoricino.
-Non ci posso credere.- balbettò, arrossendo.- Wow, sei identico a lui!-
Non era una coincidenza, forse quello poteva essere davvero il figlio di George.
Anche Ron si imbarazzò.- Credo che lei mi abbia scambiato per un’altra persona…-
-No, no! Lei è il figlio di George Mendonsa?-
Ron sospirò, grattandosi la guancia.- Ah, ora capisco tutto.- affermò. -Sì, George è mio padre.-
Mara fece un sorriso a 32 denti e gli prese la mano per stringerla.- Io mi chiamo Mara Friedman, mi manda l’azienda.-
-Molto piacere Mara, vorrei prendere un caffè, se non le dispiace, mi sono svegliato molto presto stamattina.- continuò Ron, prendendo in mano la sua valigia.
Mara quasi si intristì quando capì che lui non sapeva neanche chi fosse.
Poi, d’un tratto, si ricordò di aver detto il cognome sbagliato.
-Mia madre si chiama Greta Zimmer.- ribatté.
D’un tratto, Ron alzò le sopracciglia e spalancò di poco la bocca.- Oh mio Dio, dici sul serio?-
Finalmente l’aveva riconosciuta.
Mara annuì più volte.- Sì.-
-Non ci posso credere! Caspita! Mio padre tiene quella foto incorniciata sul comodino, la vedo tutte le sere!- esclamò Ron.
Mara la trovò una cosa molto dolce: significava che anche George non si era mai dimenticato di sua madre.
Ron e Mara si trasferirono in una caffetteria lì vicino e presero un tavolo per due.
-E’ davvero una grandissima coincidenza, non sapevo che, trasferendomi a New York, avrei trovato la figlia di Greta.- esordì Ron, seduto davanti a lei.
-Perciò tuo padre si è sposato.- puntualizzò Mara, sorseggiando.
-Sì, due anni dopo la fine della guerra del Vietnam, ha sposato mia madre, Rita e insieme hanno fatto me e mia sorella Sharon.- spiegò Ron. -Di te già lo sapevo, mio padre mi ha raccontato che quando è tornato dalla guerra, tua madre era già sposata.-
Mara si morse un labbro, guardando altrove.- Sì, dopo la…-
-Notte a New York.- dissero all’unisono.
Mara era meravigliata del fatto che Ron sapesse le sue stesse cose.- Sai della notte a New York?-
Ron ridacchiò.- Sì, ha dovuto aspettare che facessi 17 anni per raccontarmela, ma sì: è una delle storie che preferisco.-
A quel punto, Mara lo guardò negli occhi e capì che probabilmente erano gli stessi in cui sua madre ci si era persa 70 anni prima.
-Mi piacerebbe molto se mettessimo a confronto le nostre storie.- mormorò sorridendo appena.
Ron fece un ghigno, ricambiando lo sguardo.- Sì, sarebbe una bella cosa.- affermò, mettendosi comodo sulla sedia.- Comincia tu.-
Mara fece la stessa cosa, accavallando le gambe.- 14 agosto 1945…-
 

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Capitolo 2
*** The sailor and the end of the street ***


14 agosto 1945 – Times Square, New York Ore 17:51
 
La guerra è finita.
Questo fu l’annuncio del presidente Truman alla radio americana.
Greta Zimmer, una giovane ragazza di 21 anni, stava pulendo lo studio del miglior dentista di tutta New York quando diedero quell’annuncio.
Greta credeva di aver sentito male e invece no, perché, nel pulire il vetro della finestra, vide una folla di gente uscire per strada e festeggiare con le bandiere americane.
Le vennero i brividi.
Finalmente era libera.
Le ci vollero alcuni minuti per realizzare la cosa.
Il dentista spalancò la porta della sala.- Greta, hai sentito?! La guerra è finita!- esclamò, prendendole il viso tra le mani.
Le veniva quasi da piangere per la gioia e non riuscì a dire niente.
 
Presente
 
-Aspetta, aspetta…Credevo che Greta fosse un’infermiera.- intervenne Ron.
Mara ridacchiò.- No! E’ quello che pensano tutti, anche Alfred, il fotografo: questo perché la sua uniforme era bianca come quella di un’infermiera, ma in realtà era un assistente alla poltrona. Le piace la moda, ha frequentato la Fashion Institute of Tecnology, ma poi si è buttata sull’igiene dentale.- spiegò, alzando le spalle.
Ron si avvicinò per osservare la sua bocca.- Ecco perché hai i denti perfetti.-
Mara divenne tutta rossa in viso, allontanandosi appena: nessun uomo l’aveva mai fatta arrossire in quel modo.
 
Passato
 
Il suo capo le afferrò la mano e insieme spalancarono la porta dello studio, lanciandosi per strada.
Times Square si era riempita di persone che urlavano, danzavano e festeggiavano.
Coppiette sul marciapiede che si baciavano per minuti infiniti.
Non era da lei urlare in quel modo: Greta era una ragazza che si era sempre tenuta i propri sentimenti per se.
Erano stati anni veramente difficili e, in quel momento, avrebbe tanto voluto essere con i propri genitori.
A 15 anni aveva dovuto emigrare con la famiglia dall’Austria, da Wiener Neustadt per arrivare in America, sotto il controllo dei nazisti.
Ed era stato difficile perché i suoi genitori erano ebrei e l’Olocausto, purtroppo, non li aveva risparmiati.
Di quei tempi, viveva insieme alle sue due sorelle, Josefin e Belle.
Le stesse due ragazze che arrivarono sfrecciando per strada, quella mattina, nel didietro di un’auto con la cappotta abbassata.
Josefin e Belle erano quasi gemelle, entrambe castane e con lo stesso atteggiamento esuberante.
Greta faticava a tenerle a bada.
Scesero dalla macchina con salto e corsero ad abbracciarla.
-Abbiamo vinto, la guerra è finita!- gridò Belle, stringendola a se.
Greta le circondò con le braccia, sorridendo.
Josefin abbassò leggermente le sguardo.- Vorrei tanto che mamma e papà fossero qui.-
Si fecero serie per un attimo, stando in silenzio per un minuto, come a ricordarli.
-Loro ci guardano da lassù e sanno che adesso le cose andranno meglio.- intervenne Belle.
Greta la guardò sorpresa.- La cosa più carina che ti ho sentito dire in 20 anni.-
Belle scoppiò a ridere e le diede una pacca, stringendole la mano.- Forza, vieni con noi!- gridò, iniziando a correre per la strada.
Greta non riusciva a stargli dietro, per via della folla di gente che stava facendo esattamente la loro stessa cosa.
Perse presto la presa e si ritrovò al centro della città ad ammirare la felicità dei cittadini.
La maggior parte erano militari, alcuni con il corpo deturpato dalla guerra, donne con il rosario in mano e le mani tremanti, che ringraziavano Dio, e poi, la cosa più bella, i bambini che sorridevano.
Allo stesso momento, sul marciapiede, passò un gruppo di marinai in uniforme: alcuni di loro barcollavano ubriachi, già nel pieno dei festeggiamenti.
Greta ne notò uno in particolare, poiché era quello più alto del gruppo.
Un suo compagno lo aveva afferrato per la spalla e gli stava sussurrando qualcosa all’orecchio, guardando proprio nella direzione di Greta.
Inizialmente, Greta pensò che fossero pericolosi, che dai marinai brilli forse era meglio stare alla larga.
Si portò i capelli dietro l’orecchio, timidamente e si voltò dall’altra parte, allontanandosi.
Però, non sapeva perché, si voltò una sola volta a vedere cosa stesse facendo.
Il marinaio alto e biondo stava venendo proprio verso di lei, barcollando e inciampando un paio di volte sul marciapiede.
Un altro militare le venne addosso, interrompendo la sua fuga.
Ormai egli l’aveva raggiunto.
-Posso avere un bacio?- le domandò di netto, il suo alito puzzava di alcool.
Greta non aveva via di scampo, non capiva nemmeno in che parte della piazza si trovasse.
Fu costretta a guardarlo e capì in pochi secondi che quello che vide non le dispiaceva affatto.
Greta non aveva mai pensato ai ragazzi, non ne aveva avuto il tempo.
Tutto ciò che conosceva erano la guerra, gli spari, le brutte notizie e cose su come si guarisce una carie ai denti.
Ma quell’uomo aveva qualcosa di speciale.
Forse per via dell’uniforme blu o per il suo viso elegante, espressivo, affascinante.
A tratti poteva sembrare spaventoso, per via degli occhi grandi ed azzurri.
 
Presente
 
-Per questo ti ho riconosciuto…Mia madre parlava così tanto dei suoi occhi.- commentò Mara, mentre passeggiavano per Central Park.
-Lo stesso vale per mio padre…Credo che fosse questo il motivo per la quale si sono innamorati.- aggiunse Ron, sedendosi su una panchina libera. -Tu ci credi nel colpo di fulmine?-
Mara strinse le spalle: Ron era l’unico uomo alla quale stava dando così tanta confidenza.- Non lo so, non ci ho mai pensato.- mormorò, incrociando il suo sguardo.
Le metteva quasi soggezione e si chiese se fosse questo che sua madre aveva provato quel giorno.
 
Passato
 
Greta ripensò alla sua domanda e si allontanò di qualche passo, come infastidita.- Beh…No!-
Il marinaio le sorrise.- Ho fatto una stupida scommessa con il mio amico Dan! Andiamo, solo un bacio!-
-Non ci penso nemmeno!- esclamò lei, guardandolo male.
Sentiva la voce delle sorelle che la chiamavano tra la gente, ma non riusciva a vederle.
Poi, improvvisamente, sentì afferrarsi il ventre e con un gesto delicato, lento, l’uomo le piegò leggermente il corpo, a mo’ di casquè e premette le labbra sulle sue.
Per quanto strano le potesse sembrare, in un primo momento le piacque.
Nessun ragazzo l’aveva mai baciata e non aveva ancora idea di come ci si sentisse.
Le fremeva tutto il corpo, come un inaspettato terremoto.
Sentiva le dita sui suoi fianchi, una sensazione piacevole, di possesso.
Ma poi, si rese conto che era un ragazzo che non conosceva e perciò si sentì violata.
Nello stesso attimo, udì lo scatto di una fotografia vicino a loro.
In pochi secondi, Greta allontanò il marinaio e capì che qualcuno le aveva fatto una foto.
Accadde tutto così velocemente, Josefin la trovò tra la folla e le prese il polso, trascinandola via.
Poté voltarsi un’ultima volta a guardarlo allontanarsi come un’immagine sfocata.
Non sapeva come si chiamasse o chi fosse, ma quel bacio non se lo sarebbe scordato facilmente.
Le sue sorelle la portarono in un locale della periferia, in cui fortunatamente non trovarono tanta gente.
Si sedettero ad un tavolo libero, mentre nel locale viaggiava fumo dalle sigarette degli uomini in giacca e cravatta.
La maggior parte erano broker di Wall Street, quelli con uno stipendio un po' più misero e che non potevano permettersi un locale più di classe.
Anche Josefin tirò fuori il suo pacchetto di sigarette.
-Josefin, te l’ho già detto, non sta bene che una donna fumi.- borbottò Belle, mentre un cameriere mise la puntina su un giradischi.
-Perché, fa mai quello che le diciamo?- aggiunse Greta.
Mentre alcune coppiette si alzavano per ballare un lento sulla pista da ballo, Josefin si avvicinò alla sorella più grande. -Ehi, sembra che quel tipo ti stia mangiando con gli occhi.- le sussurrò.
Greta seguì il suo sguardo e ad un tavolo un po' più lontano, notò un uomo orientale che la stava fissando.
Senza staccarle gli occhi di dosso, le fece un sorrisetto, spegnendo la sigaretta nel posa cenere.
Aveva lo sguardo di un killer seriale, ma raffinato allo stesso tempo.
Greta fece finta di niente, quasi spaventata.
Allo stesso tempo, Belle sgranò gli occhi.- Io lo so chi è quello! Ho letto di lui qualche tempo fa!- esclamò, entusiasta. -Si chiama Nguyen Hu’An, è un generale vietnamita che è venuto a New York per affari…E’ stra ricco!- le sussurrò, come fosse un gossip allettante.
Dall’altra parte, l’uomo vedeva probabilmente tre oche che parlottavano di lui tra loro.
 
Presente
 
Mara vide Ron rabbrividire accanto a se.- Stai bene?-
Lui abbassò lo sguardo.- Scusa, è che quando sento quel nome…-
In effetti, neanche a Mara faceva piacere nominarlo, ma era una parte fondamentale della storia.- Lo so…Non credo che tuo padre l’abbia mai perdonato, ma mia madre ci crede molto in Dio e ed è riuscita a vivere pur sapendo quello che le aveva fatto. L’ha perdonato, tanti anni fa e certe volte si prende la colpa.-
Ron scosse la testa, contrariato.- Come si fa a perdonare un uomo del genere?-
Mara si morse un labbro.-  Non lo so…Forse perché, in fondo, lei lo amava.-

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Capitolo 3
*** An happy life ***


-Non potresti allargare le gambe solo per una volta? Insomma, ha un sacco di soldi, potremmo campare di rendita per tutta la vita!- continuò Josefin, aspirando dalla sigaretta.
Greta sbuffò, dandole un pizzicotto.- Ma quanto parli?!-
-Mi dispiace deluderti, Josefin, ma Greta vuole davvero innamorarsi.- intervenne Belle, sorseggiando il suo drink. -E’ una di quelle che si vuole legare ad un uomo per sempre, con la consapevolezza di potersi appoggiare alla sua spalla fino alla vecchiaia, guardare le stelle con lui, andarci al letto e camminare mano nella mano per tutta la vita.-
Greta le sorrise, prendendole la mano.- Come mi conosci bene, sorellina.-
-Beh, ti toccherà inventarti qualcosa, perché sta venendo qui.- borbottò Josefin, facendo finta di niente.
Greta arrossì, spalancando gli occhi e notando che l’uomo si stesse avvicinando al loro tavolo.
Istintivamente, si sistemò i capelli e la divisa che ancora non aveva tolto.
Egli sorrise dritto verso di lei e le porse la mano.- Buonasera madame, posso avere l’onore di ballare con voi?- le chiese, con un leggero accento.
In effetti, da vicino, non era poi così male.
Aveva il corpo robusto, la pelle liscia come quella di un bambino, un viso con tratti femminili, ma raffinati.
Greta non voleva essere sgarbata, non con un uomo come quello.
Non era di certo un marinaio che l’aveva baciata a forza in strada.
-C-Certo.- balbettò, prendendo la sua mano e seguendolo in mezzo a chi stava già ballando.
Egli lasciò un piccolo margine tra i loro corpi per non farla sentire in soggezione.
Le poggiò le mani sulle proprie spalle e le sue sui suoi fianchi, dondolando lentamente.
-Non ho mai visto una come voi a New York.- commentò, continuando a sorridere.
Greta divenne rossa sulle guance.- Scommetto che lo dite a tutte le donne che incontrate.-
-Non ci sono donne alla scuola militare.- ribatté, senza distogliere lo sguardo.
Lei fu sorpresa, indossava abiti borghesi.- Siete un militare?-
-Generale Nguyen Hu’u An, dal vietnam.- puntualizzò, facendole fare una giravolta.
Greta sapeva già perché fosse a New York, ma non voleva starsene in silenzio come una stupida.- E cosa fate in America, se posso chiedere?-
-Volevo visitare la città prima di compiere i miei doveri.- rispose, stringendola da dietro. -Voi potete farmi da guida, siete nata qui?-
-Non sono proprio di New York, sono nata in Austria…- spiegò, con il viso che le andava a fuoco per l’imbarazzo.
-Oh, bene, perciò siete stata protetta in questa orribile guerra.-
Greta non si era mai vergognata di dire a qualcuno che i suoi genitori fossero ebrei, ma, quella volta, decise di non rivelarlo. -Nessuno è protetto in guerra: in un modo o nell’altro siamo costretti a crescere e ad affrontare le sue conseguenze.-
L’uomo la fece voltare di nuovo verso di se.- Bellissima e anche saggia.-
Non seppe se era per via di tutti quei complimenti, ma iniziava a piacerle.- Tuttavia, conosco New York come le mie tasche, perciò posso mostrarvi dei posti…-
-Mi piacerebbe molto, però prima dovreste dirmi il vostro nome.-
Greta lo guardò negli occhi nocciola, sorridendo appena.- Greta.-
L’altro le baciò la mano delicatamente.- Potete chiamarmi Han.-
***
E così fu.
Passarono svariati giorni a visitare tutta New York, come due turisti, mentre tutto il mondo intorno a loro cercava di tornare alla normalità, mettendosi di fronte alle conseguenze della guerra.
Quello che entrambi non capirono, fin da subito, era che più si conoscevano e più accresceva il sentimento che avevano l’uno per l’altro.
Greta iniziò a pensare che le parole di sua sorella si potessero avverare e che finalmente potesse essere felice con un uomo, proprio come sua madre lo era stata con suo padre.
Non aveva mai provato così tanta serenità dall’inizio della guerra.
Eppure, certe volte, in sogno, i bombardamenti e i corpi morti le tornavano in mente, facendola sobbalzare dal letto.
Solo vedere Han la rallegrava.
Il giorno prima della sua partenza, visitarono il piccolo zoo di Central Park, che ospitava qualche animale esotico.
Han si soffermò a guardare la gabbia della tigre.
-Vi piace?- gli domandò Greta, affiancandolo.
-Mi affascina il modo in cui cacciano.- rispose lui. -Il loro manto le permette di mimetizzarsi…E poi aspetta…E aspetta…- sussurrò: la sua voce le fece venire un brivido lungo la schiena. -Fin che non capisce che è il momento giusto per attaccare e non risparmia nessuno.-
Greta non sapeva se fosse per il suo accento o per lo sguardo persuasivo, ma non voleva affatto che andasse via.
In pochi giorni aveva capito che non avrebbe mai trovato nessuno come lui.
Così, d’un tratto, poggiò le labbra sulle sue, baciandolo passionalmente come non aveva mai fatto.
Han le afferrò i fianchi, unendo il suo corpo al proprio.
Greta si staccò appena.- Non andare via.- mormorò, stringendosi alla sua camicia.
Lui le accarezzò la guancia.- Devo…Vieni con me.-
Sarebbe stata una vera pazzia.- Venire con te? In Vietnam?-
Han tramutò la sua bocca seria in un sorriso, facendo vedere i suoi denti perfettamente bianchi.- Sì, vieni con me e sposami!-
Greta sgranò gli occhi, ma le venne anche da ridere.- Cosa?! Ma sei matto?!-
Di scatto, Han l’afferrò per i fianchi, facendola roteare.- Sì, sì, vieni con me e sposami!-
 
 
 
Presente
 
A Ron scappò un sorriso, forse odiandolo di meno.- E lei lo fece?-
-Oh sì: è stata la prima delle sue pazzie, ma credo che ne fosse davvero innamorata, da come ne parla. Si sposarono qualche mese dopo, secondo la tradizione vietnamita, ovviamente.- spiegò Mara.
-Che tipo di tradizione?- chiese lui.
Mara si guardò intorno e notò che si fosse fatta sera, erano circa le sei.- Wow, si è fatto buio.- commentò.- Ho delle foto nel mio appartamento, ti andrebbe di venire?-
Solo dopo averlo detto si accorse di aver appena invitato un uomo in casa sua.
Probabilmente l’avrebbe presa per pazza.
-Certo, mi piacerebbe molto vedere le foto.-
Per Ron non risultò una cosa strana, anzi, era propenso a continuare ad ascoltare la storia.
Così, Mara chiamò un taxi che li portò nel suo appartamento: non era molto grande, solo il minimo indispensabile, come diceva sempre lei.
Un salone con cucina elettrica, un bagno e una camera da letto con materasso ad una piazza e mezza.
La stanza era un po' disordinata, dato che, alla scrivania vicino alla finestra, Mara ci lavorasse anche.
-Non fare caso al caos.- balbettò, sistemando tutte le scartoffie.
-Non ti preoccupare, mi fa piacere pensare che anche le donne siano un po' disordinate.- aggiunse Ron, ridacchiando appena.
Mara si sentiva già un po' più a suo agio.- Vuoi qualcosa da bere?-
Ron si accomodò sul letto, stringendosi le spalle.- Oh no, grazie, sono astemio.-
Mara strizzò un occhio.- Acqua.-
-Perfetto, grazie.-
Mara andò in cucina per riempire due bicchieri: uno d’acqua e uno di gin, sedendosi accanto a lui.
Secondo lei, il gin rendeva il mondo un po' meno caotico.
Era la prima volta che aveva un uomo in camera sua e ciò le mise un po' di tensione.
Ron mandò giù un sorso d’acqua.- Allora…Le foto?-
Grazie a Dio Ron aveva rotto il ghiaccio e Mara si apprestò a prendere una scatola rovinata sotto al letto, con delle foto già a colori.
-Questo era il suo vestito il giorno del matrimonio: devo ringraziare mia zia Josefin che era presente, perché mia madre odia le foto.- gli disse Mara, porgendogliela.
In quella foto, Greta indossava un abito rosso, più chiaro dei suoi capelli, con un copri spalle in pizzo bordeaux.
I capelli erano raccolti in un’ acconciatura solenne e aveva poco trucco sul viso.
-Caspita, era davvero stupenda!- esclamò Ron, alzando poi lo sguardo dalla foto a lei.- Le somigli molto.-
Mara abbassò lo sguardo, arrossendo.- Solo d’aspetto: lei è stata così coraggiosa…Io ho a malapena un lavoro e una casa, ma ho paura a rivolgere la parola  ad un uomo.-
Ron posò la foto, più interessato alla sua di storia, stavolta.- Come sarebbe a dire?-
Mara ridacchiò, gesticolando.- Oh, non fare caso a me, non voglio lamentarmi. E’ che…Sai, sapere di questa storia ha i suoi lati negativi, almeno su di me: non parlo della guerra, delle torture eccetera…A volte mi sembra un’avventura e so che probabilmente io non la vivrò mai, perché….-
-Pensi di non trovare nessuno che ti ami come si amavano loro due.- puntualizzò Ron.
Mara lo guardò sorpresa, aveva centrato il punto.- Esatto…-
-Ti capisco: sono divorziato da un anno…Un matrimonio che credevo sarebbe durato per sempre. Ci ho messo così tanto a conquistarla perché mi piaceva davvero e lei ci ha messo così poco per rovinare tutto. Perciò, le cose possono migliorare o peggiorare in un attimo e questo vale per tutti.- raccontò Ron.
-Mi dispiace…- mormorò Mara.
Ron continuò a sorridere per sdrammatizzare.- Allora, vuoi continuare a raccontare?-
Mara prese un sorso di gin e si sistemò sul letto.- Certo!-
 
Passato
 
Greta e Han si trasferirono nella sua città natale, ad Hanoi, la capitale del Vietnam, dove si festeggiò il loro matrimonio.
Hanoi era una specie di New York, con i bei palazzi e gli enormi grattacieli, perciò Greta si sentiva come a casa.
Ci mise un po' ad abituarsi al cibo, a mangiare con le bacchette, ma per lei fu un piacere, dato che Han le stava sempre accanto.
Ogni tanto se ne andava per questioni di lavoro e tornava dopo una settimana, con il suo abito da militare.
Quelle vietnamite consistevano in un completo verde muschio, con stivali marroni in pelle.
Un berretto dello stesso colore, con una stella rossa disegnata nel mezzo.
Greta e Han si sposarono nel Gennaio del 1954.
Nella cerimonia vietnamita, di solito, si usano dare molto doni tra le famiglie dello sposo e della sposa, ma dato che Greta invitò solo le sue due sorelle, tutto ciò non fu possibile.
Optarono per una cerimonia tradizionale, celebrata in un enorme giardino pieno di fiori esotici, in una bellissima giornata di sole.
In Vietnam non esistono promesse, perché i due sposi imparano ad amarsi nella vita, ma Han aveva preparato qualcosa da dire a Greta.
La maggior parte degli invitati erano della sua famiglia, perciò Han aveva chiamato un traduttore che traducesse l’inglese al resto dei parenti.
Sotto un arco pieno di rose bianche e rosse, Han le prese le mani, guardandola negli occhi.- Mia cara Greta, ti amo. Ti amo adesso, ma prometto di amarti sempre di amore infinito. Ti scelgo per la vita, ti ho scelto con il cuore. Noi ci completiamo e ci completeremo sempre.-
Greta non riuscì a trattenere le lacrime e si fiondò su di lui per baciarlo.
Tutti gli altri applaudirono e le sorelle tirarono petali di rose in aria.
Proseguì un grande pranzo, in tavoli rotondi e bianchi, con balli e musica orientale.
Per Greta era stato davvero difficile imparare la lingua, ma dopotutto pensò che se Han era riuscito a parlare inglese così bene, anche lei ce la potesse fare.
Il padre di Han, vestito della loro elegante uniforme militare, fu il primo a venire a congratularsi.
Le prese le mani e ci diede qualche pacca sopra, dicendole qualcosa che ovviamente lei non capì.
-Vẻ đẹp của bạn có thể so sánh với một bông hồng đỏ, con gái của tôi.-
-Mio padre dice che la tua bellezza è paragonabile a quella di una rosa rossa.- le tradusse Han.
Almeno Grazie aveva imparato a dirlo.- Cam on, signore, davvero.- rispose sorridendogli.
Il resto della tradizione è più o meno uguale a quello cristiano.
Solo dopo il matrimonio, i due sposi possono andare al letto insieme.
 
 
Presente
 
-Ovviamente mia madre non mi ha mai descritto come fosse stata la sua prima notte di nozze.- continuò Mara, arrossendo. -Mi disse che lei per lui era la sua Hong, la sua rosa e lui per lei il suo Chân trò’i…L’orizzonte.-
-Intendi tipo…Un punto di riferimento?- chiese Ron.
-Sì, qualcuno su cui contare. All’inizio Han era molto dolce con lei, poi…Non so cosa fosse successo, se la gelosia o per via della guerra…- commentò Mara.- Tuttavia, restarono felicemente sposati fino all’estate del 1957…- spiegò, mordendosi le labbra nervosamente.- Quando tutto cambiò.-

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Capitolo 4
*** My horizon ***


In una calda mattinata di inizio Giugno, Greta si svegliò nel loro lettone, nell’ampia casa nel centro di Hanoi.
Oltre ad essere un militare, Han era anche spaventosamente ricco.
Quel giorno, Greta venne svegliata da un dolce profumo di rosa.
Han gliela stava sventolando davanti alla bocca, ancora a petto nudo.
Aprì lentamente gli occhi e gli sorrise come una fan sorride al suo attore preferito.
-Buongiorno mia rosa.- le sussurrò.
-Buongiorno mio orizzonte.- replicò lei, baciandolo dolcemente.
Mentre Han andava al lavoro, Greta si occupava sempre della casa, aveva perfino imparato a cucinare e a leggere molte riviste americane sulla medicina, che si faceva portare direttamente da New York.
Invece, quando nessuno la vedeva, amava avviare il giradischi e ballare.
Non lo aveva mai detto a nessuno, ma prima di andare via dall’Austria, Greta era una ballerina classica.
Aveva odiato dover abbandonare la sua passione per scappare.
Tutto quel viaggio per niente, dato che, alla fine, i suoi genitori erano morti lo stesso.
Nello stesso momento, suonò il telefono nero sulla scrivania.
Han sbuffò per avergli rovinato quel romantico momento e si portò la cornetta all’orecchio.
Inizialmente, aveva un tono rilassato, ma poi iniziò ad arrabbiarsi.
Stranita, Greta si alzò e ascoltò le sue parole.
Lo vide tutto teso e decise di prendere il vocabolario nel cassetto.
Inglese/ Vietnamita.
Han stava parlando troppo veloce, ma Greta riuscì a capire alcune parole come: nhà tù/ prigione, ngu’ò’i vo/ moglie e chiên tranh/ guerra.
Guerra e prigione non erano due parole molto rassicuranti.
Han riattaccò la cornetta, con sguardo basso e mani tremanti.
Greta si preoccupò e dopo aver indossato la camicia da notte, gli camminò incontro, accarezzandogli la schiena.- Che succede?-
Han si bagnò le labbra e mise la mano sulla sua.- Mi hanno chiamato dal lavoro…E’ successa una cosa, in realtà, va avanti da 2 anni, ma non credevamo che la situazione fosse così seria.-
Greta osservò il suo sguardo serio.- Han, così mi spaventi…-
Lui si voltò per guardarla negli occhi.- L’America è entrata ufficialmente in guerra col Vietnam.-
Il corpo di Greta rabbrividì come una scossa di terremoto.
No, non un’altra guerra, pensò.
Dovette sedersi per assimilare la notizia.
-Non ci sono ancora state battaglie, ma ci saranno presto e credo che dovremmo prepararci.- aggiunse Han, sedendosi accanto a lei per confortarla.
-Cosa ti hanno detto al telefono?- balbettò Greta.
Han dovette prendere un bel respiro per rispondere a quella domanda.- Le truppe vietnamite hanno affondato due navi americane nel Pacifico e hanno fatto circa 39 prigionieri. C’è una prigione, nel nord del Vietnam, si chiama Hoa Lo, vogliono portarli lì e vogliono un militare con esperienza a gestirla.- spiegò Han.
D’un tratto, Greta capì la situazione e anche perché l’avesse nominata durante la telefonata.- Vogliono che andiamo a vivere nella prigione?-
Han le afferrò subito le mani.- Tesoro, no, non lo permetterei mai. C’è una piccola casa di campagna ad un chilometro dalla prigione, una specie di fattoria, è della famiglia del proprietario dell’edificio.-
Greta non ce la faceva più a stare seduta, andò in panico.- C-Come farò senza di te? Non so ancora bene la lingua, i-io…-
-Sssh.- mormorò Han, prendendole il viso tra le mani.- Vedrai che risolveremo tutto, starai bene, te lo prometto. Sei stata così brava ad ambientarti in questo posto e io sono così fiero di te.- commentò, accarezzandole la guancia.- Sei la donna più coraggiosa che conosca, Greta.-
Lei singhiozzò appena.- Promettimi che andrà tutto bene.-
Han le sorrise.- Te lo prometto.-
 
Presente
 
-Ma perché tua madre era preoccupata? Alla fine lei non era un Americana a tutti gli effetti.- domandò Ron, affondando i denti nell’hamburger.
Si era fatta ora di cena e i due si erano fatti portare del cibo d’asporto dal fattorino.
-La guerra in generale ha quasi ucciso mia madre, per non parlare della sua famiglia.- rispose Mara, mangiucchiando una patatina fritta.- Tutti in Vietnam sapevano che Greta venisse dall’America, perciò lei ed Han erano al centro dello scandalo in città. Le donne la guardavano male ogni volta che andava al mercato e mi ha raccontato che spesso si fermava nei vicoli a piangere. Tuttavia, era abituata ai cambiamenti e trasferirsi alla fattoria non era stato così pesante per lei.- raccontò Mara.
-Beh, non è minimamente paragonabile alla prigione.-
Mara si alzò dal letto e cercò qualcosa tra i vari fogli sulla scrivania.- Dovrei avere la planimetria della prigione qui da qualche parte. Negli anni novanta l’hanno demolita, adesso c’è solo la portineria, allestita come una specie di museo.-
Mara prese una grossa cartina e l’aprì sul materasso, insieme all’odore di fritto.
-Intorno c’erano tutti alberi con la quale avevano fatto la grande porta d’entrata. Subito dopo di essa, c’era un piccolo giardino con il pozzo dove si poteva prendere l’acqua. La portineria, non appena si entrava nell’edificio, a sinistra le celle, circa di 4 metri quadrati e ci facevano entrare almeno due persone. Parlo di 98 celle lungo un corridoio di un 80 metri. A destra, invece, le cucine con la mensa e una porta dove si accedeva al giardino per quando avevano l’ora d’aria.- disse Mara, indicando i punti sul foglio.
A quel punto, Ron sorrise, poggiando il dito oltre la prigione.- E qui c’è la loro casa.-
Mara annuì, sorridendo anche lei.- E qui c’è la loro casa.-
Tutto d’un tratto, l’atmosfera si fece calda e i due iniziarono a guardarsi negli occhi.
Ricordare la Loro casa, aveva fatto riaffiorare sicuramente racconti romantici sui loro genitori.
Ron assomigliava molto a suo padre e Mara era identica a sua madre.
In quel momento, Mara si chiese se la storia si sarebbe potuta ripetere con i loro figli.
Ron era un uomo di bell’aspetto e, anche se lo conosceva da poche ore, sembrava anche gentile.
Lo vide calpestare il foglio con le ginocchia e avvicinarsi lentamente a se, alle proprie labbra.
Erano veramente belli i suoi occhi, pensò.
Mara ne aveva baciati veramente pochi di uomini e mai nessuno di loro le aveva fatto accapponare la pelle in quel modo.
Era tanto tempo che qualcuno non superava la sua aria limite, oltre i 15 centimetri.
Lentamente, Ron poggiò le labbra sulle sue e ci restò per qualche secondo prima che Mara trovasse il coraggio per ricambiare.
Scoppiarono a ridere subito dopo, come a chiedersi cosa stessero facendo.
Mara decise di cambiare discorso per non renderlo imbarazzante.- Allora, io ho parlato fin troppo, perché non racconti tu?-
Ron fece un mezzo inchino col busto.- Con piacere.-
 
Passato
 
George Mendonsa proveniva da una fattoria del Connecticut.
Suo padre faceva il falegname e sua madre restava a casa per occuparsi di lui.
Solitamente però, George aiutava suo padre a costruire tavoli e sedie, fin che non arrivò il giorno in cui gli venne commissionato qualcosa di più grande: una scialuppa.
Da quel momento in poi, George si appassionò alle barche e così del mare, nel suo totale essere.
Lasciò i cavalli, le capre e le galline per dedicarsi alla nautica.
Questo scatenò in lui la voglia di arruolarsi nella marina militare e affrontare la seconda grande guerra.
La USS Sullivans veniva chiamata così in onore dei 5 fratelli fondatori: George, Francis, Joseph, Madison e Albert.
4 di loro erano morti durante la battaglia contro Hitler; solo Francis era riuscito a sopravvivere e nell’estate del 1957 era lui a capitanarla.
Un uomo tutto d’un pezzo, bello robusto e con qualche capello bianco che iniziava a crescergli sulla tempia.
Dan Gilbert, il migliore amico di George, era il primo ufficiale; cosa che, certe volte gli dava fastidio, dato che era un grado sopra di lui.
Aveva smesso di crescere a 18 anni e non superava il metro e sessantacinque d’altezza.
Cosa che non si poteva dire di George: era magro, con delle labbra carnose e a cuoricino, alto un metro e novanta, il corpo snello, gli occhi azzurri tendenti al verde e un ciuffo ingelatinato di capelli marrone scuro, quasi neri.
Dei capelli magici che, non appena c’era qualche raggio di sole in più, si trasformavano in castano chiaro.
Quel giorno in particolare, la nave non oscillava neanche un po'.
Il mare era piatto come una tavola e ciò consentì alla maggior parte dei marinai di svagarsi un po' e di non vomitare come facevano di solito.
La USS Sullivans era stata mandata in ricognizione sulle coste del Pacifico: dopo la grande guerra, la nave era diventata come un agente di polizia che controlla le strade.
Di fatti, i fucili erano tutti fermi nel ripostiglio, ormai ricoperti di ragnatele.
George, accanito fumatore, si accese una sigaretta, posandosi con i gomiti sulla ringhiera.
Sapeva usare i fucili e le pistole fin da piccolo: gli animali non si macellano da soli, dopotutto.
Non ricordava molte cose della sua infanzia, ma una gli era rimasta impressa: la dolce musica che proveniva dal carillon di sua madre.
Era a forma di conchiglia e quando l’apriva, ne usciva fuori una ballerina con il suo tutù e girava, emanando una cullante ninna nanna.
L’unica cosa che gli faceva ricordare casa e gli metteva un sorriso sulle labbra, immaginando quando ci sarebbe potuto tornare.
-George, perché non mi fai un autografo?!- sogghignò Arthur Vessel, sventolando una fotografia in bianco in nero.
-Ma dai! Questo non sei tu!- esclamò Ben Pollard, strappandogliela di mano.
Di quelle foto ne giravano a migliaia in America e tutti si chiedevano chi fossero i protagonisti di quel bacio.
-Potete anche non crederci.- aggiunse George, con la sigaretta fra i denti.
-Io lo so che è lui, perché io c’ero!- intervenne Dan. -L’ho sfidato a baciare quella ragazza e lui l’ha fatto!-
-Ma non vedo ancora i miei cinque dollari!-
-Amico, io sopporto le tue scoregge notturne!- ribatté Dan, dandogli una spintarella.
Arthur scoppiò a ridere.
-Davvero, non ce la faccio più a mangiare minestra di fagioli.- borbottò Ben.
-E lei com’era?-
Il capitano spuntò dal nulla e il resto dell’equipaggio drizzò la schiena come fosse arrivato il professore in classe.
George tirò via la sigaretta in mare. -Come, signore?-
Francis diede un’aspirata al suo sigaro cubano.- La ragazza, com’era?-
-Non lo so, signore, non la ricordo. L’ho vista solo per 2 minuti.-
George aveva detto poche bugie in vita sua, alcune insignificanti, tra cui l’aver mangiato tutti i broccoli nel piatto.
Non ricordarsi della ragazza nella foto, quella era una bugia.
Lei se la ricordava eccome e cercava di tenerla nitida nella mente, ogni volta che andava a dormire.
Gli occhi nocciola scuri e i capelli mossi.
Le manine piccole e le caviglie snelle.
L’aveva afferrata per i fianchi e aveva capito che pesasse quanto una piuma.
Eppure, si ricordava di esser stato mezzo ubriaco, come faceva a tenere a mente tutti quei particolari?
Solitamente, i suoi pensieri venivano bloccati dal russare di Ben, con cui dormiva.
Lui e Dan erano sempre stati amici, anche da piccoli.
Venivano dalla stessa città e avevano frequentato la stessa scuola.
Dan era molto simile a lui, un po' più basso e con un piccolo neo vicino al labbro.
Arthur Vessel e Ben Pollard, di loro non c’era gran che da dire: l’equipaggio li soprannominava Stallio e Ollio, perché facevano sempre battute e Arthur era un po' grassottello.
Durante la notte, George chiuse gli occhi e cercò di concentrarsi sul rumore del mare, invece di quello di Ben e della sua bocca spalancata.
Quando, improvvisamente, sentì qualcosa di strano.
Dei piedi che corsero le scale per arrivare sotto coperta e Dan spalancò la porta.- Tutti su! Muoversi! Muoversi!- gridò a squarciagola.
I marinai si alzarono di scatto e George corse sopra coperta per capire cosa stesse succedendo.
Il mare si era agitato, questo perché due navi piuttosto grosse li avevano appena circondati e li stavano attaccando.
Era buio, si vedeva poco se non fosse per gli spari.
Dan si affrettò a passare i fucili, mentre tutti si misero al proprio posto.
-Ma chi cazzo sono?!- gridò Arthur.
George prese il fucile e chiuse un occhio, guardando attraverso il mirino.
Sulla nave nemica, sventolava una bandiera rossa, con una stella gialla al centro.
-Vietnamiti?- sussurrò, fra se e se.
-Ma che diamine ci fanno qui?!- continuò Arthur, proseguendo a sparare.- Credevo non volessero iniziare una guerra!-
-A quanto pare ci sbagliavano!- aggiunse Dan, iniziando a sparare contro di loro.
Pochi attimi dopo, George si ritrovò l’acqua fino ai piedi.- Dannazione, affondiamo!-
Tra le bombe e le onde del mare, mentre i mozzi cercavano di togliere l’acqua dal pontile, George si guardò intorno e capì che era spacciati.
Proseguì a sparare, anche se non sapeva a cosa sarebbe servito.
Fino a che il fucile non si inceppò e, nel frattempo che si apprestava ad aggiustarlo, sentì un forte dolore alla spalla sinistra.
Dan si voltò a fissarlo.- George, stai sanguinando!-
George si voltò lentamente a guardarsi la spalla e vide che effettivamente c’era il foro di un proiettile.
Molto presto, il suo braccio si addormentò e non riuscì più a tenere il fucile.
Di scatto, subito dopo, la nave venne colpita un’ultima volta e andò bruscamente in avanti, facendo cadere George e gli altri in acqua.
Tentò di nuotare, ma era troppo debole e stremato.
Alla fine, svenne, portato dalla corrente.

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Capitolo 5
*** The nursery ***


 
-Wow, deve esser stato terribile…Essere quasi faccia a faccia con la morte.- commentò Mara, stringendosi nel plaid.
-Mio padre è molto combattuto a volte: pensa che sarebbe stato meglio morire allora, ma poi dice che così non avrebbe mai potuto rivederla.- disse Ron, portandosi le gambe al petto.
-Continua a raccontare, mi piace come lo fai.- aggiunse Mara, sorridendogli appena.
 
Passato
 
-George, George svegliati…- gli ripeté una voce familiare.
George aprì gli occhi lentamente e alzò la testa, capendo che era Dan a chiamarlo.
Erano in un posto stretto e illuminato solo da una piccola lucina che penzolava dal soffitto.
I vestiti erano asciutti, la ferita aveva smesso di sanguinare, ma il sangue secco sulla divisa dava male odore mischiato a quello di salsedine.
In più, per via del sale, gli bruciava.
Quando riuscì a mettere a fuoco la situazione, vide che Dan era legato ad una sedia, proprio come se stesso.
-Dove siamo?- domandò, guardandosi intorno, non c’erano finestre.
-Nella nave di quei sporchi bastardi.-
-Dove sono gli altri?-
-Ho visto Arthur e Ben mentre mi portavano qui, ma non so dove siano adesso.- bofonchiò Dan, rosso in viso, come di chi sta per rigettare.
George iniziò a tremare, ma non voleva essere spaventato.- Il capitano? Francis?-
Dan serrò gli occhi, come se non volesse parlarne.- Nella stanza accanto, credo che tra poco lo sentirai.-
Improvvisamente, dal muro alla loro destra, si sentì un urlo disperato e qualcuno che urlava in una lingua straniera.
George spalancò gli occhi.- Che cosa gli stanno facendo?!-
-Non lo so e non lo voglio sap- balbettò l’amico, per poi vomitare sul pavimento per la tensione.
George voltò lo sguardo e fece dei respiri profondi.
Credo proprio che non rivedrò casa, pensò.
Qualche attimo dopo, la porta si aprì e ne vennero due uomini orientali, con una divisa verde e un cappuccio che aveva una stella rossa disegnata al centro.
Si dissero qualcosa fra di loro e slegarono sia George che Dan, portandoli sopra coperta.
Il sole era alto in cielo e faceva molto caldo.
Quei soldati non gli dissero niente, li fecero salire su una scialuppa, ancora con le mani legate dietro la schiena fino ad arrivare ad un porto.
Il porto di Da Nang, da come lesse George.
Vide arrivare un furgone dalla strada affollata e vennero caricati su di esso, mentre George cercò di trattenere il dolore.
Non appena vi montarono, trovarono Arthur e Ben.
-Cazzo ragazzi, siete vivi!- esclamò Arthur.
Ben osservò George, storcendo la bocca.- Non ancora per molto. George sei bianco come un cazzo di vampiro.-
-Mi hanno sparato.- borbottò George, dolorante.
-Si infetterà se non facciamo qualcosa: bisogna vedere se il proiettile è uscito. Se è rimasto dentro morirà entro poche ore.- aggiunse Arthur.
-Non sei molto d’aiuto, Artie!- continuò Dan, guardandolo male.
-Avanti, guarda se è uscito.- balbettò George, chinandosi appena.
Dan diede un occhiata, mentre venivano trasportati chissà dove.- Vuoi che ti dica la verità?-
-No, dimmi una bugia.-
Dan alzò le sopracciglia.- Starai benissimo.-
Il furgone si fermò bruscamente e i quattro vennero portati all’interno di un edificio.
Alle loro spalle c’era una grossa porta di legno.
I soldati erano tutti vietnamiti e non capivano niente di cosa stessero dicendo.
Ma una cosa la sapevano tutti e quattro: erano prigionieri.
 
Presente
 
-Del resto mio padre non si ricorda, perciò la prima parte finisce qui.- intervenne Ron.
-Mia madre mi ha raccontato dell’operazione…Penso che gli abbia salvato la vita.-
 
Passato
 
Erano passati due giorni da quando Greta si era stabilita alla fattoria.
La vecchia casa le mancava, ma quella era molto più grande.
Ci avrebbe potuto ballare se avesse voluto.
Han stava via per la maggior parte della giornata e così Greta si dilettava con le faccende, andando spesso fuori per ammirare la quantità di verde.
Non appena si usciva dal retro della casa, c’era un piccolo recinto con una decina di mucche e capre, con un cane a fargli la guardia.
Poco più in là, un pollaio con cinque galline e un gallo in cima.
Era lui che la svegliava tutte le mattine alle sei e gli avrebbe volentieri tirato il collo prima del dovuto.
Rimodernò anche il suo guardaroba.
Tuttavia, non poteva girare per il fango con le scarpette col tacco e perciò si comprò qualche pantalone in pelle, con degli stivali neri per non sporcarsi.
In pochi giorni era diventata una vera e propria campagnola.
Quel giorno di Giugno, Han la portò a visitare la prigione.
Percorsero un chilometro con la macchina e si fermarono all’entrata, dopo l’enorme cancello.
Entrare nella portineria le fece capire di essere davvero dentro una prigione: i colori scuri, i pavimenti sporchi e l’aria tetra.
-Ci sono principalmente 15 guardie, 5 all’interno e 10 all’esterno.- spiegò Han, mostrandole poi la mensa e la cucina.- 4 donne: 2 in cucina e 2 in infermeria, arriveranno domani.-
Greta iniziò a chiedersi cosa centrasse lei in tutto questo.- E cosa vuoi che faccia? Che me ne stia alla fattoria, ad aspettare che torni?-
Odiava il fatto che lì venissero rinchiusi dei suoi coetanei americani, ma non ce la faceva proprio a stare lontana, come a far finta che niente stesse accadendo.
Han la guardò confuso.- Vuoi aiutare?-
Greta si strinse nelle spalle, annuendo appena.
Le prese il viso tra le mani.- Tesoro, lo so che questa situazione ti fa star male, ma io non posso farci niente. Io faccio solo quello che mi dicono di fare per occuparmi di te e chissà…Un giorno, avere una famiglia.-
Quelle parole addolcirono Greta e la fecero stare più tranquilla.
Gli sorrise e lo baciò dolcemente, qualche attimo prima che entrambi sentirono il cancello aprirsi.
Han aggrottò le sopracciglia e fece capolino fuori, vedendo i furgoni entrare.
-Dovevano arrivare domani, dannazione!- esclamò contrariato. Chiamò a se tutti gli altri soldati ed uno di loro si sedette alla scrivania velocemente, aprendo un grosso registro.- Scusami tesoro, riesci a tornare a casa a piedi?- le chiese, sudato in viso.
-C-Certo.- balbettò, prima di ricevere un bacio sulla guancia.
Ma Greta rimase imbambolata sulla porta della mensa quando vide entrare degli uomini con la divisa americana militare, tutti in fila.
Ne contò 39.
Il modo in cui camminavano le ricordò di quando vennero a prendere i propri genitori per portarli ad Auschwitz.
Prigionieri di un paese in guerra col Vietnam.
La sua mano destra tremò e la strinse con la sinistra per farla smettere.
Quando, improvvisamente, sentì un tonfo.
Un ragazzo era svenuto a terra.
-George?! Oddio George!- esclamò il compagno accanto a lui, preoccupato.
Greta non poté fare a meno di intervenire.
Nessun soldato si era mosso per aiutarlo.
Greta si inginocchiò su di lui e vide che aveva la spalla perforata da un proiettile che si stava infettando.
Non aveva mai visto una ferita del genere, ma anche dal suo precedente lavoro sapeva riconoscere qualcuno che stava morendo.
Il ragazzo era pallido, caldissimo e sudato.
Gli prese il viso tra le mani e…oh mio Dio.
Il ragazzo del bacio.
Il marinaio di Times Square.
Non ci poteva credere.
Era proprio lui.
Credeva di esserselo dimenticato, invece se lo ricordava anche fin troppo.
Col respiro affannato, egli aprì leggermente gli occhi, incrociando il suo sguardo. -Sono in paradiso?- bofonchiò, tossendo pesantemente.
Han l’affiancò.- Puoi fare qualcosa?-
-Sono un’assistente alla poltrona, non un’infermiera…- balbettò Greta, in preda al panico.
Han gli girò il busto, facendolo urlare e capì che non c’era alcun foro di uscita. -Il proiettile è ancora dentro.-
Greta rifletté e le venne in mente di quando il suo capo estraeva un dente cariato: non poteva essere poi tanto diverso.
-Forse posso fare qualcosa, portiamolo in infermeria.-
-Mang theo càng, bay giò!- gridò Han, facendo portare una barella a due soldati.
Greta li aiutò a posarlo su di essa e lo trasferirono direttamente nell’infermeria vuota.
All’entrata, vide un carrello con dei cassetti da dentro prese delle pinze e un bisturi.
Solo quando tornò dal ragazzo, si scordò di aver dimenticato le forbici, ma non c’era tempo.
Gli strappò la camicia della divisa a mani nude, pensando poi al dolore che avrebbe provato.
-Non abbiamo della morfina?-
-No, te l’ho detto, arriverà tutto domani.- rispose Han, teso.
Greta continuò a pensare: si sarebbe morso la lingua per il troppo dolore.
A quel punto, posò lo sguardo sulla cintura del soldato dall’altra parte del letto.- Mettigli la cintura tra i denti.- gli ordinò, in fretta.
Han tradusse per lei e l’uomo fece quanto comandato.
Spero davvero di non fare casini.
Con il bisturi fece un’ incisione sul foro, per aprire bene la carne e poi, con la pinza, cercò di prendere il proiettile che sembrava essere affondato nella pelle.
Il ragazzo urlò, dimenandosi e i due soldati lo tennero fermo fin che Greta non estrasse il pezzo di ferro definitivamente.
Il corpo del ragazzo si rilassò, ancora in preda agli spasmi, ma fortunatamente non sarebbe morto.
Greta stava quasi per svenire, non credeva di avercela fatta.
-Sei stata bravissima.- commentò Han, abbracciandola.
Per un attimo, non le importava di nient’altro se non che quel ragazzo sopravvivesse.
Fu una strana sensazione.
Teneva a lui.

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Capitolo 6
*** The horse ***


George si risvegliò due giorni dopo: la ferita alla spalla stava lentamente guarendo e Greta si era presa cura di lui per tutto il tempo.
Mentre lo vedeva dormire, Greta ripensava alla sua sfacciataggine: da una parte le veniva da ridere, ma dall’altra pensava che fosse stato un vero maleducato.
La mattina successiva alla sua operazione, era giunte le prime provviste per la mensa e i medicinali, seguiti alle donne che sarebbero andate in cucina e alle infermiere.
Tutte rigorosamente vietnamiti.
George aprì lentamente gli occhi e si voltò verso Greta, vedendo che gli stesse lavando la ferita.
Lei gli sorrise appena.- Buongiorno.-
-Ah, allora non sono in paradiso, sei vera.- bofonchiò George, guardandola dalla testa ai piedi.
-Esatto: sono una donna in carne ed ossa che ti ha salvato la vita.- aggiunse Greta, inumidendo dei batuffoli di cotone con dell’alcool.- Questo pizzicherà un po'.-
L’altro fece una smorfia quando gli toccò il foro. -Tu non sembri né un assassino né vietnamita, che ci fai qui?-
Greta alzò un sopracciglio.- Non tutti i vietnamiti sono degli assassini.-
-Hanno attaccato la nostra nave senza che noi avessimo fatto niente e per lo più uno scontro sleale, due contro uno.- borbottò George, rosso in viso dalla rabbia.
La ragazza sospirò, ripensando ai genitori.- E’ la guerra, a nessuno importa quante navi siano o quanti civili moriranno, i soldati seguono gli ordini, che siano d’accordo o meno con chi glieli impartisce.-
A quel punto, George guardò dritto davanti a se.- Credevo che ne fossimo usciti…Credevo che sarei tornato a casa per Natale e invece marcirò qui dentro fino alla morte.-
Greta non aveva idea di come ci si potesse sentire a sapere che vivrai tutta la tua vita dietro le sbarre.
Preferiva la morte.
-Magari non sarà così: magari la guerra finirà e potrete tornare a casa.-
George sorrise, guardandola ingenuamente.- Tu non sai cosa succede ai prigionieri politici quando finisce una guerra, vero?-
No, ne era del tutto ignara.
-Non vengono liberati, vengono giustiziati, così il loro paese non saprà mai tutti i segreti dell’altro.- spiegò George.
Saperlo, le mise una certa nausea.
Ma strinse i denti e mandò giù la saliva.- Preferivi che ti lasciassi morire?-
-Probabilmente sì.- borbottò George, guardando da un’altra parte.
Greta si sentì infastidita: gli aveva praticamente rovinato il suo primo momento di gloria, in cui le sembrava di aver fatto finalmente qualcosa di utile.
In fretta, gli mise un cerotto e ricoprì con la camicia ancora strappata.- Beh, mi dispiace per te.- affermò, alzandosi e andandosene.
In realtà, si era solo sentita offesa e ciò la fece intristire: scoppiò a piangere in un angolino, ma si nascose subito quando vide le due infermiere che la fissavano.
Si asciugò il viso e andò in cucina, per prepararsi a servire il pranzo.
La cucina era un piccolo spazio grande quanto le celle, con un enorme pentolone, una dispensa e una cella frigorifera.
Greta si mise a girare la zuppa, quando arrivò anche la seconda cuoca.
-Vediamo se indovino…Un ragazzo?- le domandò.
Greta credeva che fossero tutte vietnamite e che non parlassero la sua lingua.
La guardò quindi sorpresa.- Conosci l’inglese?-
Lo parlava quasi perfettamente, tranne per il leggero accento, lo stesso che aveva Han.
Lei le sorrise, porgendole la mano.- Mi chiamo Lien.-
Greta gliela strinse.- Greta.-
-Una donna sa sempre quando un’altra donna piange per un uomo.- ripeté, indossando il grembiule.
Greta arrossì.- Non è per un uomo, o meglio sì, ma non importa.- balbettò, cercando di dimenticarsi dell’accaduto.
Il pranzo venne distribuito alla mensa, dove i prigionieri dovevano fare la fila con il loro vassoio.
Greta affondò il mestolo nel pentolone e riempì i vassoi, aggiungendoci un pezzo di pane.
Nella fila, c’era un ragazzo con un neo vicino al labbro che fece un occhiolino ammiccante a Lien.
Di fatti, Lien era una bellissima ragazza, giovane, probabilmente sui 28 anni, con dei lineamenti molto femminili e un seno abbastanza prosperoso, cosa che Greta aveva notato fin da subito.
Greta aveva già visto quel ragazzo, a Times Square: era Dan, il migliore amico del marinaio baciatore.
Successivamente, egli si accorse di lei.- Ehi, come sta il mio amico?- le sussurrò, per non farsi sentire dalle due guardie che controllavano la mensa.
Greta riempì il suo piatto.- Il tuo amico sta bene, ma preferirebbe essere morto.- rispose, estraniando tutto il proprio fastidio.
-Credo che abbia detto qualcosa di troppo.- aggiunse un uomo dietro di lui, ridacchiando.
-Non farci caso, è cresciuto in una fattoria, è un po' ignorante.- commentò Dan, andandosi a sedere al tavolo.
Greta scosse la testa e decise di dimenticarsi tutto.
 
Presente
 
Ron scoppiò a ridere.- E’ vero, mio padre sa scrivere a malapena il suo nome.- le disse, osservando l’orologio: si erano fatte le 22.- Oh, si è fatto tardi, credo sia meglio che vada al mio hotel.-
In realtà a Mara dispiaceva un po', si era abituato alla sua presenza.- Proprio ora che sono arrivata alla parte del cavallo?-
Ron sgranò gli occhi, dandosi una pacca sulla fronte.- Il cavallo! E’ vero! Da dove è iniziato tutto…-
Mara sorrise di nascosto, forse lo aveva convinto.
Ron alzò le spalle.- Ma sì, dai, chi se ne frega, resto un altro po'.-
E poi Mara doveva capire ancora cosa avesse significato quel bacio.
 
Passato
 
Nonostante si fosse ripromessa di scordarselo, anche a cena, Han notò il suo sguardo assente.
Cenavano sempre seduti ai rispettivi capitavola, con qualche metro di distanza.
-Greta, stai bene?- le domandò, posando i gomiti sul tavolo.
La ragazza alzò gli occhi su di lui.- Oh, sì, scusami, ero solo sovrappensiero.- rispose, non poteva di certo raccontargli del marinaio. -Mi manca casa nostra.-
Han fece un piccolo sorriso e si tolse il tovagliolo dalle gambe per alzarsi.- Va bene, volevo dirtelo dopo cena, ma a questo punto non possiamo aspettare.- le disse, porgendole la mano.
Greta la prese, confusa, mentre Han la accompagnò fuori e la fece entrare nella stalla. -Lo so che probabilmente ti annoi qui e volevo farti capire quanto ti sono grato di avermi seguito.- le disse, accarezzandole la guancia.- Perciò, ti ho preso una cosa…-
In uno degli scompartimenti, Greta vide un magnifico stallone nero, con il pelo lucido e una lunga criniera che arrivava quasi per terra.
Sgranò gli occhi e aprì il cancelletto.- Oh mio Dio! Ma è bellissimo!- esclamò, avvicinandosi lentamente per accarezzarlo.
Il pelo era morbido e con i suoi occhi marrone scuro incrociarono subito quegli di Greta.
-Sapevo che ti sarebbe piaciuto.-
-Han, è stupendo, ma io non so come ci si prende cura di un cavallo, non so nemmeno montarci.- balbettò Greta, gioiosa.
-Oh, non preoccuparti, qualcuno troveremo.- continuò lui. -Ci sono un sacco di americani, qualcuno di loro saprà aiutarti.-
Greta lo guardò sorpresa e confusa allo stesso tempo.- Vuoi far entrare uno di loro in casa nostra?-
-Tesoro, non voglio che pensi che io sia un cattivo carceriere, io ho solo il compito di tenerli dentro le celle e mantenere l’ordine. E se ti farà felice, questo cavallo diventerà il tuo migliore amico.-
-Oh Han, grazie, ti amo così tanto!- affermò Greta, gettandosi tra le sue braccia.
 
Presente
 
-Com’è? Amare una persona per tanto tempo e poi svegliarsi un giorno e accorgersi che non è più così?- gli domandò Mara.
Ron si grattò la guancia, un po' imbarazzato a parlarne.- Beh…E’ un po' destabilizzante, in effetti. E’ strano capire che è cambiato tutto e che non puoi tornare indietro.- spiegò.- Forse è così che si è sentita anche tua madre. –
-Non mi parla spesso del suo matrimonio con Han…Probabilmente l’ha segnata quello che ha fatto. Ma non so come ci si possa sentire quando si capisce che l’uomo che ami è in realtà un mostro.- commentò Mara, rabbrividendo e scacciando subito via quei pensieri.- Beh, tocca a te.-
 
Passato
 
Dopo 48 ore nell’infermeria, George venne mandato nella sua cella che condivideva con Dan.
Mentre passava il corridoio, diede un’occhiata a tutte le celle e capì che erano tutti marinai della Sullivans.
La sua cella si trovava quasi a metà del corridoio, davanti a quella di Arthur e Ben.
Ognuna di esse era chiusa a chiave, ma avevano tutte la stessa serratura, dato che il soldato vietnamita utilizzava sempre la stessa chiave per aprire e chiudere.
Non appena lo misero dentro, Dan gli andò in contro sorridendo.- Chi non muore si rivede!- esclamò, dandogli una pacca sulla spalla sana.
I 40 metri quadrati della cella consistevano in due materassi duri, con una coperta e un cuscino.
Una tazza in ferra posta nell’angolino e una piccola finestra troppo alta per arrivarci dalla quale traspariva la luce.
-Me la sono vista brutta.- commentò George, sedendosi sul materasso.
-E’ arrivato George!-
-E’ tornato George!-
Aggiunsero Arthur e Ben, poggiando la fronte sulle sbarre, dalla quale usciva a malapena il loro naso.
George ridacchiò, salutandoli con due dita.- Ciao ragazzi.-
Dan gli fece un ghigno divertito.- Abbiamo visto la bella donzella che ti è venuta a salvare.-
L’altro si stese, con sguardo serio.- Bella quanto fastidiosa.-
-Beh, a me piacciono quelle difficili.- commentò Dan, facendogli un occhiolino.
-Oh sì, c’è quella alla mensa che ha due poppe così!- intervenne Arthur.
-Ehi, l’ho vista prima io!- replicò Dan, digrignando i denti.
-Notizie del capitano?- chiese George.
Dan scosse la testa, abbassando lo sguardo.- No, ho provato ad urlare il suo nome una decina di volte, non ha mai risposto, non credo che sia qui.- spiegò, sbuffando.- Darei un testicolo per una sigaretta, sto impazzendo.-
George iniziò a rimuginare sul posto in cui si trovavano, a tutti quei minacciosi occhi a mandorla che li controllavano sempre.- Dovremmo tenerci preparati, questi bastardi potrebbero colpire da un momento all’altro.-
-Non hanno fatto del male a nessuno.- ribatté Dan.
George si morse un labbro.- Per ora.-
Si ricordava benissimo delle urla del capitano sulla nave: quelli picchiavano eccome, ma lo facevano solo se gli serviva.
***
Per i prigionieri, l’ora d’aria avveniva due volte al giorno: la mattina alle 10 e il pomeriggio alle 16.
Il cortile era fatto tutto di marmo e mattoni, tranne per un albero fiorito che cresceva al centro.
C’era un piedistallo, con la terra concimata e le radici che crescevano lungo le mattonelle rosse.
Da quello stesso terreno, fiorivano anche piccole margherite bianche.
Non c’era un gran che da fare, se non parlottare fra loro.
Ben strappò una margherita e iniziò a togliere i petali.
-Ehi, vedi un po' se quella roscietta verrà mai conquistata dal nostro campagnolo!- intervenne Arthur, ridacchiando.
-Gliela dà….Non gliela dà…Gliela dà…Non gliela dà…-
Dan scoppiò a ridere.
-Siete degli idioti.- commentò George, alzando gli occhi al cielo.
-…Gliela dà…Non gliela dà…OOh! Gliela dà!-
George sbuffò e iniziò a spintonarli per scherzo.- Fatela finita! Non so nemmeno il suo nome!-
Improvvisamente, a quel punto, il cancello che dava sulla mensa si aprì e ne uscì un uomo vietnamita, con una divisa diversa dagli altri, come se fosse di un altro grado.
-Tât ca xêp hàng!- gridò una delle guardie.
George non aveva idea di cosa volesse dire, ma vide tutti gli altri mettersi in fila orizzontale lungo il cortile.
Dan lo prese per la manica e lo fece mettere accanto a se.
-Chi è quello?- gli mormorò.
-E’ il comandate che gestisce questo posto.- rispose Dan.
Allo stesso momento, entrambi videro la ragazza dai capelli rossi accompagnarlo con aria imbarazzata.
Dan aggrottò le sopracciglia.- Che ci fa la bella rossa con lo sporco cinese?-
-E’ vietnamita.- lo corresse Arthur.
-Sì? E chi se ne frega! Li chiamo come mi pare!-
Il comandante li scrutò tutti con gli occhi.- Buongiorno a tutti, mi presento: sono il comandante Han. Sapete cosa siete voi?- gli domandò, postandosi davanti a Ben.- Cosa siete voi?-
-Non lo so, signore.- balbettò il ragazzo.
-Siete prigionieri di guerra, siete miei prigionieri. E non vi verrà fatto del male se non ce ne sarà bisogno.- spiegò, davanti a tutti, con un leggero sorriso.
D’un tratto, uno degli altri marinai gli sputò sugli stivali, guardandolo male.
Che idiota, pensò George.
Il comandante serrò i denti gli diede un pugno, facendolo cadere a terra con il naso pieno di sangue.
-Ecco, questo è un esempio di quello che non dovete fare.- continuò egli, pulendosi le nocche sulla divisa.- Ora vi starete chiedendo perché vi ho convocati qui. Vedete, io e mia moglie viviamo nella fattoria qui vicino e ho deciso di farle un bel regalo: le ho comprato un bellissimo cavallo.-
Dan storse la bocca.- Cazzo, è la moglie.- borbottò.- Mi spiace, amico, credo che tu non abbia alcuna speranza.-
-Vorrei sapere: c’è qualcuno fra di voi che sa come si monta un cavallo?- chiese il comandante.
Da quando aveva 5 anni, il padre aveva insegnato a George come si monta un cavallo, come si lava e come si cambiano i ferri agli zoccoli.
Era alto mezzo metro quando suo padre lo costringeva a saltare sulla sella dei cavalli più grandi; forse il motivo per cui gli si erano allungate così tanto le gambe fino a farlo alzare di un altro metro e 30.
Ma George non voleva assolutamente lavorare per loro.
Il primo incontro con quella ragazza gli era bastato e avanzato.
Ci fu un tombale silenzio, in cui il comandate passò davanti ad ognuno di loro.- Oh, davvero? Nessuno di voi?- ripeté sospirando.- D’accordo, facciamo un patto allora, non siate timidi. Se qualcuno di voi è un bravo stalliere….- continuò, estraendo un pacchetto di sigaretta dal taschino della camicia.- Vi darò una bella sigaretta in cambio, che dite?-
Dan era praticamente dipendente dalla nicotina dall’età di 13 anni.
Ne sentiva il sapore giù per la lingua e nel naso, come se fosse in astinenza da droga.
George si voltò verso di lui e scosse la testa, come a dirgli di starsene zitto.
Il migliore amico si morse le labbra, dispiaciuto.- Sì signore!- esclamò, facendo avvicinare il comandate.
-Come hai detto, scusa?-
Dan si sentì come se stesse mandando George al patibolo.- Il mio compagno accanto a me è cresciuto in una fattoria.-
Han sorrise ad entrambi.- Molto bene, come ti chiami?-
George trattenne la rabbia davanti a lui.- George Mendonsa, signore.-
Han lo guardò meglio.- Oh, ma tu sei il marinaio che mia moglie ha salvato qualche giorno fa!- dedusse, facendo segno alla donna di avvicinarsi.
Lei lo raggiunse a piccoli passi, rossa in viso dalla vergogna.
-Greta, ti ricordi di George?- le domandò e lei annuì, senza però guardare il marinaio.- Gli hai salvato la vita e adesso ti ripagherà il favore.- continuò, osservando la camicia stracciata e piena di sangue secco.- Però dobbiamo trovarti altri abiti, non posso permetterti di venire nella mia tenuta conciato così.-
Han disse qualcosa ad un paio di soldati che se ne andarono, dopo aver fatto un cenno con la testa.
Diede poi una pacca a George.- Che ne dici di iniziare fin da subito?-
George capì che non aveva molta scelta e fece di sì con il mento.
I due soldati tornarono con una camicia piegata e il ragazzo si cambiò davanti a tutti.
-Oh, molto meglio, vero Greta?-
La ragazza annuì, piuttosto imbarazzata dalla situazione.
Si vedeva che sia George che Greta avevano poca voglia di lavorare insieme.
-Cara, perché non chiami un’auto per il nostro ospite?-
Greta fece dietro front ed uscì dalla prigione.
Allo stesso tempo, anche se leggermente più passo di lui, Han fissò George, avvicinandosi a lui con il viso. -Ti avverto, amico mio, se ti scopro a parlare con lei di qualsiasi altra cosa che non sia un cavallo, se solo la tocchi o anche se ti vedo guardarla con la coda dell’occhio, dovrò farti vedere come si punisce qualcuno nel mio paese.- gli sussurrò.- Sono stato abbastanza chiaro?-
George tenne i nervi saldi.- Sì, signore.-
 
Presente
 
-Hai detto che il loro capitano non era in una delle celle…Allora dove l’avevano messo?- gli domandò Mara, curiosa.
Ron abbassò lo sguardo, sospirando.- Vuoi davvero saperlo?-

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Capitolo 7
*** The vices of men ***


George e Greta tornarono insieme alla fattoria, nella stessa macchina, guidato da un soldato che non aveva intenzione di andarsene.
I due se ne stavano attaccati ai finestrini, come se non volessero nemmeno sfiorarsi.
Greta continuava a credere che George fosse maleducato e irriverente, mentre George continuava a pensare che Greta fosse una bambina viziata.
E, sapere che fosse la moglie del comandante, non faceva che confermare la sua idea.
Greta lo fece entrare nel soggiorno.- Vado a mettermi i pantaloni con gli stivali, potete aspettare qui.- gli disse, chiudendosi in camera.
-Sì, signorina.- borbottò George, a bassa voce, sarcasticamente.
Si mise a curiosare sula stanza, trovando una foto incorniciata che ritraeva Greta insieme alle sue due sorelle.
Una foto del matrimonio con Han e varie statuette.
George ne toccò una e la sua testolina gli si sgretolò praticamente in mano.
-Cazzo.-
Sentì Greta uscire dalla camera e velocemente nascose la statuetta dietro la cornice di una delle foto.
-Sono pronta.-
Greta indossava dei pantaloni in pelle, con degli stivali neri e una camicia bianca.
In più, dei guanti e un caschetto.
George rise sotto i baffi.- Wow, vi ha comprato tutta l’attrezzatura.-
-Non vuole che io mi faccia male.- replicò lei, conducendolo alla stalla.
Dopo una porta scorrevole in ferro, c’era una stalla con delle celle di cui una sola era occupata da un bellissimo cavallo nero dalla lunga criniera.
-Accidenti!- esclamò meravigliato, dandogli una carezza sul muso.
Gli guardò sotto il busto e capì che era un maschio.
Controllò anche i suoi zoccoli.- I ferri sono quasi usurati, tra qualche giorno bisognerà cambiarli.- dedusse.- Hai fatto un lungo viaggio, vero?-
-Si chiama Ponos: in croato significa fiero.- continuò Greta.
Finalmente George capì perché fosse diversa dagli altri.- Ah, quindi siete Austriaca.-
Lei incrociò le braccia.- Non serve che lo sappiate.-
Dopo aver compreso che la ragazza non volesse affatto rivolgergli la parola, George mise le briglie al cavallo e lo condusse nel piccolo recinto.
-D’accordo, allora, poggiate la gamba sinistra sulla staffa per darvi lo slancio necessario a salire.- spiegò George.
Greta si aggrappò con le mani alla sella e con il piede sinistro si poggiò alla staffa, allargando poi l’altra gamba per salire sul groppo del cavallo.
Improvvisamente, però, scivolò dall’altra parte e cadde col sedere sull’erba.
George si coprì la bocca per non vedere che stesse ridendo.
-Non c’è niente da ridere!- borbottò lei, pulendosi dalla terra e sistemandosi i capelli. -Datemi una mano!- esclamò, con vocina acuta.
George cercò di farsi serio e le prese la mano per aiutarla ad alzarsi. -Va bene, riproviamo, ma stavolta tenetevi bene con le gambe.-
Solo che, in quell’istante, Greta capì di essersi fatta davvero male: non riusciva a muovere il polso.
-Credo di essermi slogata il polso.- bofonchiò, dolorante.
George sbuffò, passandosi una mano nei capelli.- Perfetto, adesso lui se la prenderà con me e come minimo mi farà frustare!- esclamò, calciando l’erba.- Sapevo che non dovevo accettare di fare questa stupida cosa!-
Greta scosse la testa e rientrò in casa per fasciarsi il braccio. -Non ci posso credere, ma che egoista!- borbottò tra se e se.
George riportò il cavallo dentro la stalla e osservò che la ragazza non riuscisse a farsi la fasciatura da sola.
-Vi do una mano.-
-Ce la faccio da sola!- replicò, allontanandosi.
-No, invece, la state facendo troppo lenta!- ribatté George, prendendo la garza e arrotolandola attorno al suo polso.
Greta alzò gli occhi su di lui.- Non glielo dirò, non è stata colpa vostra.-
George incrociò i suoi occhi.- Grazie.-
Fu qualche attimo dopo che la macchina tornò a prenderlo per riportarlo alla prigione e quindi alla sua cella.
Dan lo guardò nervoso, sentendosi in colpa.
George lo evitò e si sedette sul materasso, togliendosi le scarpe.
-Sei arrabbiato con me?- gli chiese Dan.
George alzò un sopracciglio, come poteva essere arrabbiato? Era il suo migliore amico.- No Dan, non sono arrabbiato con te.-
-Ah, lo sapevo!- esclamò l’altro, fiondandosi su di lui e baciandogli tutta la faccia.
George lo allontanò disgustato e si pulì le guance con la manica della maglietta, notando poi Arthur e Ben, dall’altro lato del corridoio, che lo stavano fissando.- E voi che avete da guardare?-
-Dai, dicci com’è andata con la rossa!- rispose Ben.
-Raccontaci della mercanzia!- fece eco Arthur.
-Dio, voi tre siete dei veri pervertiti!- commentò George.
D’un tratto, le risate scomparvero e lasciarono spazio ad un velo di tristezza.
-Moriremo qui dentro, ragazzi.- affermò Arthur.
Gli altri sapevano che avesse ragione e di scappare non se la sognavano proprio.
-Qualsiasi cosa succeda, io sono grato di aver combattuto al vostro fianco, ragazzi.- disse Ben.
-Anche noi, Ben.- gli disse George, facendogli un piccolo sorriso.
 
Presente
 
In quel momento, Ron vide Mara asciugarsi il viso.- Oh, scusa, non volevo farti piangere.-
Mara gli sorrise, tirando su col naso.- No, non preoccuparti, è solo che è una cosa triste.-
Ron le accarezzò il dorso della mano con il pollice per rassicurarla, mentre lei lo guardò negli occhi.- E’ così strano sai…- mormorò, con le sopracciglia appena aggrottate.- Forse mi sto facendo prendere un po' dalla storia…-
-Ed è una brutta cosa?- gli chiese lui, avvicinandosi con il viso.
Mara scosse appena la testa e si gettò su di lui, mettendosi a cavalcioni sul suo bacino.
Scoppiò una strana passione fra i due, anche se erano praticamente sconosciuti.
Ma se voleva essere felice, se voleva avere almeno una gioia nella vita, Mara decise che avrebbe dovuto rischiare per una volta.
Affondò le mani nei suoi capelli, nel frattempo che Ron le togliesse i vestiti.
Mara si sentiva così sicura di se da lasciarsi andare ed abbassargli i pantaloni in fretta.
Si tolse il reggiseno e lasciò che Ron le lasciasse dei baci bagnati su tutto il petto.
Mandò la testa all’indietro, ansimando.
Non aveva mai provato così tanto piacere in vita sua e sperò che fosse lo stesso per Ron.
***
Erano le 8 del mattino quando Mara decise di telefonare a Jack, fingendo una tosse. -Jack, mi dispiace tanto, ma non credo di sentirmi bene.- bofonchiò, con voce rauca.
-E adesso chi glielo dice al signor Mendonsa?- borbottò Jack, sbuffando.
-Non ti preoccupare per lui, lo chiamo io e mi scuso.-
Ron trattenne una risata e venne fuori dal lenzuolo, poggiando la testa sulla pancia di Mara.
Quando attaccò, lei scoppiò a ridere.- Non dicevo una bugia del genere dai tempi della scuola!-
Ron si stese accanto a lei e fece finta di rispondere al telefono.- Buongiorno signorina Friedman, come va oggi?-
Mara si voltò verso di lui, sorridendo maliziosamente.- Mi dispiace tanto, signor Mendonsa, ma oggi non ci potremmo vedere, ho l’influenza.-
-Stia tranquilla signorina e mi raccomando, stia al letto tutto il giorno!- esclamò Ron, facendole il solletico. -Allora, come la prese Han la storia del polso?-
Passato
 
Han diede un forte pugno al tavolo, facendo sobbalzare Greta.- Lo sapevo che non dovevo fidarmi di lui!-
Anche se non gli stava particolarmente simpatico, Greta non voleva che George assumesse la parte del colpevole.- Han, ti prego, non è stata colpa sua: non mi sono retta bene con le gambe alla sella e sono scivolata.- spiegò Greta, accarezzandogli la spalla per rassicurarlo.- E’ solo una piccola storta, qualche giorno e guarirà.-
Han alzò lo sguardo su di lei.- Non lo stai proteggendo solo perché è americano, vero?- borbottò, alzando un sopracciglio. -Non posso avere certe interferenze nel mio lavoro, lo sai.-
-Assolutamente no, Han, nella maniera più assoluta! Non sto proteggendo nessuno, soprattutto un irritante ragazzino che ha osato baciarmi senza conoscermi!- replicò lei.
Solo dopo averlo detto si rese conto davvero della sua frase.
Le era uscita così, non se ne era accorta e forse non avrebbe mai dovuto dirla.
Han si accigliò.- Che cosa?-
Greta tentò di riparare al suo errore, ma era troppo tardi.- N-Niente.-
-Greta, ci siamo promessi che non ci saremmo mai detti delle bugie.-
Han aveva ragione, perciò decise di rivelare cosa fosse successo quella mattina di Agosto.- E’ successo nel ’45, quando è finita la grande guerra, lui era ubriaco e ha fatto una scommessa con un suo amico: se mi baciava, avrebbe vinto dei soldi.- raccontò, un po' imbarazzata.- E’ stata una pura coincidenza che sia finito qui.-
Han strinse sia i pugni che i denti.- Se ti tocca con un solo dito…-
Greta sorrise per la sua gelosia e gli prese il viso tra le mani.- Non succederà, credimi: io quel ragazzo siamo talmente diversi.-
A quel punto, Han si calmò e le accarezzo la guancia.- Non so cosa farei se ti perdessi.-
Greta poggiò la fronte sulla sua.- Non mi perderai.- gli sussurrò, baciandolo dolcemente.
***
Il giorno dopo, per via del braccio, per Greta fu impossibile girare il purè di patate nel pentolone.
-Dà qua, faccio io.- intervenne Lien, prendendo il suo posto.
-Scusami, sono caduta da cavallo.- spiegò Greta, iniziando a mettere i vassoi nella mensa.
Mentre distribuivano il cibo, Greta continuava a notare i sorrisini che Lien si scambiava con Dan e gliene parlò durante l’ora d’aria con i prigionieri, mentre si fumava una sigaretta.
L’ultima donna che aveva visto fumare era sua sorella e le salì un velo di malinconia.
-Allora…Continuerai a scambiarti occhiatine con l’americano?- le domandò Greta, con un ghigno ammiccante.
Lien ridacchiò.- Se devo lavorare dentro questo inferno, è meglio che ogni tanto mi svaghi un po', non credi?-
Greta capì che Lien era una donna davvero sicura di se e avrebbe voluto esserlo anche lei, a volte.
-Perché hai scelto di venire qui?-
Lien strinse le spalle.- Non lo so…Forse perché il primo ragazzo che ho avuto era americano.- rispose, aspirando dalla sigaretta.- Eravamo così innamorati…Lui era un poeta, mi scriveva tantissime poesie. Probabilmente era questo che mi piaceva di lui.-
Greta la trovò una cosa molto dolce.- E cosa gli è successo?-
Lien tirò via la cicca, sospirando.- E’ morto nel ’42, ucciso dai tedeschi, guidava un carro armato della resistenza.-
-Mi dispiace tanto…-
-Oh, non dispiacerti, me la sono cercata: non innamorarti di un soldato, mi diceva sempre mia madre. Ma questo orrendo mondo è sempre in guerra e in qualche modo siamo tutti soldati. E non parlo solo di guerra con le armi, ma anche dentro di noi. Il nostro peggior nemico siamo noi stessi, scriveva il buon vecchio Tom.- raccontò Lien, riponendo il pacchetto di sigarette dentro la tasca del grembiule, senza farsi vedere dai controllori.- Lui credeva che ci si potesse baciare anche senza baciarsi veramente, era una cosa che amavamo fare.-
Greta la guardò confusa.- E come si fa?-
Lien sorrise appena.- Con gli occhi, con le dita delle mani, con tutto il resto del corpo. Diceva che in questo modo le anime di due persone si uniscono e diventano una sola.- rispose, mordendosi le labbra.- Probabilmente se avesse saputo combattere come scriveva poesie, oggi sarebbe ancora vivo.-
Greta conosceva queste tipo di frasi: era una cosa che si ripeteva anche quando pensava ai suoi genitori.
Se non fossero stati ebrei…
Se avessero combattuto per le vita…
Se…
-E questo che ti ripeti quando pensi a lui?-
Lien strinse gli occhi a mandorla, trattenendo delle lacrime.- Sì.- bofonchiò, tirando su col naso e passando a Greta il pacchetto di sigarette di nascosto.- Potresti tenermele tu? Se il soldato mi becca di nuovo, credo che mi darà un bello schiaffone.-
Greta ridacchiò.- Va bene, te le tengo io.- le mormorò, facendole un occhiolino.
Era raro sentire storie di vero amore e ogni tanto si chiedeva se con Han sarebbe stato lo stesso.
***
A seguito del pranzo, Greta e George tornarono alla tenuta per una nuova lezione di equitazione.
Greta prese un bel respiro e montò a cavallo, cercando di tenersi meglio con le gambe stavolta.
-Perfetto, adesso dategli un piccolo colpo con il piede e inizierà a trottare.- le disse George.
Con la staffa, lei lo colpì leggermente sul fianco e il cavallo iniziò a camminare lentamente.
-Wow, ce l’ho fatta!- esclamò, entusiasta.
George si grattò il mento.- Già, vi entusiasmate con poco, eh?-
-Bravo cavallino.- gli sussurro lei.- Voglio cavalcare adesso!-
-F-Forse è meglio andare per grandi, a malapena riuscite a reggervi.- sospirò l’altro.
Greta lo guardò male, sentendosi offesa.- Ho detto che voglio cavalcare.-
George si morse il palato della bocca per evitare di dire qualcosa di sbagliato.- Va bene, come volete: allora, per galoppare, dategli due colpetti. Per comandargli di andare a destra, girate le briglie verso sinistra e per andare a sinistra, girate le briglie verso destra. Infine, per fermarvi, le tirate verso di voi. Tutto chiaro?-
Greta si ritrovò un po' confusa, con la testa che le girava.- C-Credo di sì.-
La ragazza diede due colpi di piede con la staffa e il cavallo iniziò a cavalcare girando per il recinto in tondo a George.
Greta scoppiò a ridere come una bambina felice.- Oh mio Dio, è bellissimo!-
Nonostante non le stesse molto simpatica, il suo sorriso era davvero contagioso.
Lì, sotto il sole delle 17, Greta gli parve quasi carina.
Fin che non perse il controllo delle briglie e cadde di nuovo, questa volta sul didietro.
-Uh, questa fa male.- commentò, prima di correre in suo aiuto.
-Sto bene, non mi sono fatta niente, davvero.- ripeté più volte Greta, alzandosi da sola.- E’ stato bellissimo, domani voglio rifarlo!-
George controllò gli zoccoli del cavallo.- Sì, dopo che gli avrò cambiato i ferri, altrimenti inizierà a sentire dolore.-
-Oh, a proposito…Stamattina una delle mucche non è voluta uscire dal recinto, credo che abbia qualche problema a camminare, potete controllare?-
George capì che le importasse davvero degli animali, anche se non sembrava affatto una persona che veniva dalla campagna.
-Certo.-
Lui, invece, conosceva molto bene gli animali da fattoria.
Entrò dentro il ricinto delle vacche e Greta gliene indicò una bianca, con qualche macchia nera.
Si piegò a controllarle le zampe, ma non c’era niente che non andasse.
Invece, alzando appena lo sguardo, notò che il suo ventre era gonfio. -Oh.-
Greta fece uno sguardo preoccupato.- Oh, tipo che è malata? Che morirà?-
George rise appena.- No, non morirà, è semplicemente incinta.-
Lei ne fu sorpresa.- Oh, wow, credo che ci fosse un maschio prima che arrivassimo qui, perché non ne ho mai visto uno.- commentò, guardandosi attorno, mettendo una mano sopra gli occhi per via del sole.
George si alzò, iniziando a sentire caldo e strofinandosi la fronte.
Riportò il cavallo nella stalla e aprì il rubinetto di un tubo che si trovava lì vicino.
Se lo mise sopra la testa e si bagnò tutto, rinfrescandosi un po'.
Greta, che stava strigliando il cavallo, si mise a fissarlo, con uno sguardo abbastanza interessato.
Solo che, non appena George lo notò, lei voltò lo sguardo, arrossendo.
-Ah…Cosa darei per una sigaretta.-
Greta gli si avvicinò.- Ne ho un pacchetto, se volete.-
L’altro arricciò il naso.- Nah, non voglio che il comandate sappia che mi avete aiutato.-
Lei trattene una risatina.- Avete paura di un uomo che è 20 centimetri più basso di voi?-
George si sentì colpito nell’orgoglio.- Assolutamente no, non è di lui che ho paura. Ho paura quando si mettono tutti insieme: in due sono riusciti ad affondare una nave che ha superato due guerre.-
Quindi Greta decise di sfidarlo.- Allora non vi dispiacerà accettare la sigaretta.-
Il ragazzo sospirò, capendo il suo gioco.- Va bene.-
-Oh, ma non vi azzardate ad entrare in casa tutto bagnato.- borbottò Greta.
George si tolse la camicia e la lasciò asciugare al sole, mentre Greta estrasse una sigaretta dal pacchetto che le aveva dato Lien.
George l’accese velocemente con il gas della cucina e inspirò liberamente.- Ah, che bello.-
Greta, intanto, riempì una teiera di porcellana per preparare del tè.- Se volevate morire, bastava continuare a fumare.-
-Non si muore per un paio di sigarette al giorno.-
Greta alzò un sopracciglio e si mise ad osservare la ferita, che stava sparendo lentamente.
La toccò appena, controllando la cicatrizzazione.
E allora notò il corpo liscio del ragazzo, con un accenno di addominali, probabilmente dovuto all’addestramento militare.
-E siete ancora della vostra opinione?- gli domandò, guardandolo negli occhi.
George soffiò via il fumo.- Sì.- affermò, facendo cadere la cenere dentro il lavandino.- E poi fumare è un semplice vizio, voi non ne avete uno?-
Greta alzò le spalle, scuotendo la testa.- Non saprei.-
-Tipo…Tendete ad avere una voce stridula quando siete arrabbiata o infastidita.-
Greta si accigliò.- Non è vero!- esclamò, con una vocina acuta.
George ridacchiò, gettando la cicca.- Lo avete fatto di nuovo.-
D’un tratto, divenne tutta rossa in viso.- Mi hanno insegnato a non giudicare un libro dalla copertina, ma voi siete proprio come la prima volta che vi ho incontrato: maleducato, irriverente ed egoista!-
George alzò gli occhi al cielo, capendo che non c’era alcun verso di andare d’accordo. -Se avessi capito fin da subito che non avreste gradito quel bacio, non ve lo avrei mai dato!-
Greta si mise faccia a faccia con lui, pronta a rispondere.- No, infatti! Non si bacia la prima donna che capita!-
George fece la stessa cosa, gesticolando verso di lei.- E a dirla tutta, non è stato neanche un gran che!-
Di scatto, la ragazza gli indicò la porta.- Andatevene!-
-Certo! Me ne vado! Ma non perché me lo avete detto voi!-
-Bene!-
-Bene!-
George si riprese la sua maglietta e venne riportato alla prigione.
Sia Dan che gli altri due notarono che fosse più arrabbiato del solito.
-Stupida ragazzina viziata!- borbottò, prendendo a pugni il cuscino.
Arthur scoppiò a ridere.- Deduco che George la rossa non convoleranno a nozze!-
-Neanche per sogno, mi fa ribrezzo solo pensarci.- commentò, facendo uno sguardo schifato. Allo stesso momento, Dan lo guardava con le sopracciglia alzate e un sorrisetto.- Che hai da guardare? Sei tu che mi hai messo in questa situazione!-
Dan gli mise una mano sulla spalla.- Lascia che ti insegni qualcosa sull’amore, amico: se sei così arrabbiato, vuol dire che qualcosa ti importa.-
George fece una pernacchia e gli scansò la mano, stendendosi sul letto.- Oh, ma per piacere!-
Che avesse però ragione?

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Capitolo 8
*** The dance’s shoes ***


Il giorno dopo, per via della loro litigata, Greta aveva palesemente chiesto che George non tornasse alla fattoria.
Aveva imparato le basi del trotto e questo le bastava.
Finalmente non doveva dare più conto alle sue offese.
Decise di passare il pomeriggio da sola a cucinare una crostata con la marmellata di pesca che crescevano vicino alla casa.
Il polso stava molto meglio e riuscì a miscelare le dosi di zucchero e frutta.
Però, tutto d’un tratto, sentì uno strano verso provenire da fuori.
Spense il gas e corse a controllare, osservando che provenisse dal recinto delle mucche.
Quella bianca, a macchie nere, stava facendo versi di dolore.
Greta si accucciò su di lei, accarezzandola e non capendo cosa avesse.
Poi, diede un’occhiata al suo didietro e notò che ne stava fuori uscendo uno zoccolo.
-Oh, santo cielo!-
La mucca stava per partorire e lei non aveva idea di come fare.
Doveva per forza chiedere aiuto.
Corse in strada e disse al soldato di guardia di prendere la macchina e accompagnarla alla prigione.
Lui ci mise un po' a capire cosa intendesse e poi la condusse lì.
In fretta, raggiunse le celle e superò la guardia.
-Không thê vào!- gli urlò lui.
-Mi scusi, è urgente!- esclamò Greta, cercando la cella di George.
Non era mai stato lì: i muri puzzavano di muffa e feci.
Greta non si aspettava che fossero ridotti in quel modo: erano messi due per cella e la stessa gabbia era strettissima.
-George?!- lo chiamò a gran voce.
Due ragazzi fecero capolino da una cella sulla sinistra.- E’ qui!- le disse uno di loro, indicandole quella davanti.
Greta sospirò di sollievo.- Oh, grazie.-
Il suo migliore amico, seduto davanti alle sbarre, la guardò con un sorrisetto malizioso.- Sono a tua disposizione, bella rossa.-
La ragazza sbuffò, gesticolando.- Non mi servi tu!-
L’altro ridacchiò, alzando le mani.- D’accordo, come vuoi. George, c’è la tua fidanzata.- continuò, alzandosi.
George, steso sul materasso, neanche la guardò.- Cosa volete?-
-La vacca sta partorendo, h-ho visto lo zoccolo del cucciolo, ma non so cosa devo fare.- balbettò, stringendo le sbarre tra le mani.
-Ah, quindi adesso ti serve il mio aiuto.- borbottò l’altro, alzando un sopracciglio.
Greta ringhiò, infastidita.- Ti prego!-
George si sollevò dal letto e si avvicinò alle sbarre.- Non ho sentito la parola magica.-
La ragazza divenne rossa dalla rabbia e per la preoccupazione di quella povera bestia.- Voi siete l’uomo più fastidioso che io abbia mai conosciuto.- commentò, sospirando.- Per favore.-
George fece un ghigno soddisfatto.- Va bene.-
Di corsa, entrambi vennero condotti di nuovo alla fattoria e George si accucciò sull’animale, accarezzandolo.- Tranquilla, andrà tutto bene, adesso facciamo nascere il tuo piccolino.- le sussurrò.
Greta si mise ad osservare la sua dedizione e per un attimo le parve meno egoista del solito.
Ci sapeva davvero fare con gli animali, forse più che con delle persone.
-Il cucciolo è incastrato, dobbiamo tirarlo fuori noi.- dedusse George.
Greta rabbrividì.- C-Cosa? E come facciamo?-
-Mi servono dei guanti e mettiteli anche tu, mi dovrai aiutare.- le ordinò.
-D-D’accordo.-
Greta non sapeva come sarebbe andata a finire, ma prese coraggio ed entrò in casa per prendere due paia di guanti di gomma che usava per lavare i piatti.
Li indossarono entrambi e George affondò la mano nel didietro della mucca che stava ancora gridando dal dolore.
Greta tentò di consolarla.- Sssh, andrà tutto bene.-
-Ci sono, l’ho preso.- bofonchiò George, tirando fuori con tutta la forza.- Avanti, aiutami, prendigli la zampa!-
-O-Ok.-
Greta prese un bel respiro e afferrò la zampa del vitellino, tirandola verso di se fin che non fu completamente fuori.
Era più grande di quanto Greta si aspettasse.
Iniziò a fare dei versi, mentre George lo ripulì dalla sacca amniotica.
Greta non aveva mai assistito ad una cosa del genere e le venne da piangere. -Wow, è bellissimo.-
Il cucciolo si alzò subito in piedi, cadde un paio di volte, ma riuscì a raggiungere la testa della mamma che iniziò a leccarlo.
Anche a George venne da sorridere e non si sarebbe mai aspettato di condividere quel bel momento con lei.
Greta continuò ad accarezzare la mucca, sorridendogli.- Grazie.-
George ricambiò il sorriso.- Non c’è di che.-
-Ascolta, possiamo smetterla di litigare? A me piace che mi aiuti con gli animali.- commentò Greta, instaurando subito un nuovo rapporto e iniziando a dargli del tu.
-Sì, anche a me.- affermò George, porgendole la mano.- Tregua?-
Greta parve più che felice di stringerla.- Tregua.-
***
Così, dal giorno dopo, Greta e George smisero finalmente di litigare.
Solo che, passando il tempo con lui, Greta si accorse che non sentiva più la mancanza del marito che stava lontano quasi tutto il giorno.
Quella mattina in particolare, si svegliò e non lo trovò nemmeno nel letto, era partito molto presto.
Al suo posto, sul cuscino, c’era un bigliettino.
Un regalo speciale per il mio fiore speciale.
Troppo curiosa per aspettare, Greta si mise la vestaglia da notte e andò in soggiorno, trovando una scatola sul tavolo.
Al suo interno, un paio di ballerine da danza classica, nuove nuove.
Greta non vedeva delle scarpette del genere da quando aveva 10 anni, molto prima che migrassero in America.
Saltellò sul posto, entusiasta e senza aspettare nemmeno un attimo, portò fuori il carrello dove era posizionato il giradischi e fra i vari scaffali cercò un disco adatto.
Allo stesso momento, notò che nel recinto delle mucche ci fosse già George, che controllava il vitellino.
Egli alzò lo sguardo e la salutò con la mano.
Lo stesso fece lei, con un sorriso.
Indossò le scarpette sotto la camicia da notte e mise la puntina sul disco.
La prima cosa che fece, fu mettersi sulle punte e capì che non si era mai scordata come si facesse.
Sicuramente le sue dita non erano salde come una volta, ma poteva bastare.
Provò un paio di plié e delle giravolte, notando che George la stesse fissando.
Aveva fatto un paio di saggi, era abituata alla gente che la guardava, ma gli occhi di quel ragazzo sputavano ammirazione da tutti i pori.
 
Presente
 
-Ho sempre creduto che fosse quello il momento in cui si è innamorato di lei.- commentò Ron. -Le ricordava mia nonna…-
 
Passato
 
George smise subito di fare quello che stava facendo quando sentì una musica lenta provenire dal retro della casa.
Greta aveva ai piedi delle scarpe da ballerina e si era messa a danzare sul suolo liscio, tra plié e giravolte.
Fu come un’apparizione, per lui.
Dentro la testa, sentiva il suono del carillon che sua madre gli metteva sempre prima di addormentarsi.
La ballerina che usciva dalla conchiglia: era lei.
In quell’attimo, percepì la pelle d’oca e il cuore battere a mille.
Era bellissima.
Quasi arrossendo, le sorrise, vedendola ballare.
Subito dopo, lei si avvicinò, continuando a far girare il disco.
-Ciao, sei venuto presto stamattina.- commentò.
George prese uno sgabello e si sedette al lato di una delle mucche, quella bianca a chiazze marroni. -Era da quando avevo 8 anni che non bevevo un po' di latte appena munto.- Di fatti, posò le mani sulle mammelle, iniziando a strizzarle e a far cadere il latte dentro un secchio.
-Oh, io non l’ho mai provato.-
George le porse quindi il secchio.- Bevi, è buonissimo.-
Greta prese il secchio e se ne verso un po' in bocca, dove le si formarono dei baffi bianchi.- Wow, è davvero buono.-
George ridacchiò silenziosamente per la sua faccia buffa e indicò le scarpette.- Nuove scarpe?-
-Sì, è un regalo di Han: sapeva che quando ero piccola facevo danza classica.- spiegò lei, sedendosi sull’erba.
George non faceva che ripensare al carillon.- E’ buffo, per un attimo mi hai ricordato mia madre: per farmi dormire, faceva sempre suonare un carillon con dentro una ballerina.- raccontò, timidamente.- Solo che lei girava in tondo.-
Greta si rizzò in piedi.- Ah, ma posso farlo anche io, sai!- esclamò, prendendogli la mano per farlo alzare.
Quello fu il loro primo vero contatto.
Greta si tenne a lui e si alzò sulle punte del piede destro, mentre sollevò la gamba sinistra fino a formare una L.- Adesso gira.-
George le strinse le mani e girò in tondo.
Lui sorrise, come ammaliato.
-Visto? Si chiama Pas de deux.- aggiunse Greta, guardandolo negli occhi.
D’un tratto, perse l’equilibrio e si tenne a lui per non cadere. -Scusa, i miei piedi non sono allenati come una volta.- ridacchiò. -Mia madre diceva che la danza si fa sempre in due, allo stesso modo in cui si vive la vita.-
-E che fine ha fatto tua madre?- le domandò.
Gli occhi della ragazza si fecero improvvisamente tristi.- I miei genitori sono morti durante l’Olocausto.- rispose, con sguardo sorpreso.- Wow, non lo avevo mai detto a nessuno.-
-Erano ebrei?-
Greta annuì, strofinandosi le braccia.
-Mi dispiace.-
Istintivamente, senza sapere il perché, gli venne da accarezzarle la schiena.
-Buongiorno!- esclamò improvvisamente una voce che proveniva dalla casa.
Non appena capì che era il comandante, George si allontanò da Greta, mettendo le mani dietro la schiena.
-Ciao tesoro!- lo salutò Greta, sorridendogli. -George mi faceva assaggiare il latte appena munto.-
Han notò il suo vestiario.- Tesoro, sei ancora in pigiama.-
Greta si osservò le gambe scoperte e tentò di coprirsi goffamente con la vestaglia.- Oh, sì, è che ho visto il tuo regalo e ho voluto aprirlo subito. Grazie, sono bellissime!- esclamò, abbracciandolo.
-Sono contento.- replicò lui, prendendole il viso tra due dita e baciandola a stampo.
George vide Han alzare lo sguardo su di lui, come a farlo apposta.
Ma George tenne i nervi saldi e la bocca altrettanto chiusa.
-A-Amore, basta.- bofonchiò Greta, scansandolo appena.
-Accompagnerò George alla prigione personalmente, oggi.- continuò Han, sorridendo. -Ci vediamo stasera.-
Han fece cenno di seguirlo di fuori e George lo affiancò, entrando nell’auto, accanto a lui, diretti alla prigione.
-Come va con l’equitazione?- gli chiese il comandate.
-Bene, signore, ha solo bisogno di un po' di allenamento.- rispose George, cercando di dire le parole giuste.
Han lo guardò con un sopracciglio alzato.- E tu la cavalchi?-
George ricambiò con la coda dell’occhio.- S-Signore?-
-Cavalchi mia moglie quando non ci sono, George?-
L’altro iniziò a tremare.- No signore, non mi permetterai mai.-
Di scatto, Han gli prese il mento fra le mani come aveva fatto con sua moglie, ma stavolta più forte.- E guardami quando ti parlo!-
George sentì la mascella che premeva sui denti.- N-no, signore.- balbettò, guardandolo negli occhi.
Han lo scrutò per capire se dicesse la verità e lo lasciò andare. -Bene, io odio chi dice le bugie George, sei d’accordo?-
George si massaggiò la spalla e, quando arrivarono alla prigione, altri due soldati lo scortarono dentro.
Però si accorse che non stavano andando alle celle.
Nel cortile, in mezzo agli alberi, c’era una piccola porticina che dava su un altro cortile, molto più piccolo.
-Gli italiani hanno un divertente detto quando si parla di bugie. Sai come fa?-
-No, signore…-
-Chi dice le bugie, non è figlio di Maria, non è figlio di Gesù, quando muore va laggiù, va laggiù da quel vecchietto che si chiama diavoletto.- recitò Han, ridacchiando. -Mi è sempre piaciuto.-
Allo stesso momento, i soldati portarono George a qualche metro da un albero in particolare.
Legato ad un grande ramo, c’era un cappio e, dentro di esso, il loro capitano: Francis, morto ormai da giorni.
Il suo corpo era interamente nudo e mandava un odore orribile di putrefazione.
-Vedi George, questo succede alle persone che mi mentono.- aggiunse il comandante.
George strinse gli occhi per non piangere e voltò lo sguardo.
-Guarda!- gridò Han.
Gli altri due soldati gli afferrarono i capelli e lo costrinsero a guardare.
Allo stesso momento, Han gli diede un calcio sullo stinco, costringendolo ad inginocchiarsi.
Per una volta, fu George quello più basso.
Han si chinò appena su di lui, fissandolo negli occhi.- Vedi George, io non voglio farti del male, perché mi stai quasi simpatico. Ma al primo problema che mi causerai, l’ultima cosa che vedrai prima di lasciare questa orribile terra…Sarà questa faccia.-
George sentì la cena risalirgli su per lo stomaco e cercò di trattenersi.
-Sono stato chiaro?-
Si morse un labbro, mentre gli cadde una lacrima sulla guancia.- Sì, signore.-
Han gli sorrise, dandogli un buffetto sulla testa.- Molto bene.-
George venne riportato alla cella e le due guardie ce lo spinsero dentro come un sacco di patate.
-Ehi, ma che cazzo fate?!- borbottò Dan, non potendo però venire alle mani.- Stai bene?-
George si sedette sul materasso, potendo finalmente sfogarsi.- Hanno ucciso Francis.- singhiozzò, mettendosi le mani nei capelli.
Dan sgranò gli occhi.- Cazzo.-
Arthur e Ben lo sentirono dall’altra cella.
-Luridi bastardi!- gridò Ben, dando un calcio alla parete.
-Sicuramente volevano sapere qualcosa….- commentò Arthur. -Qualche cosa che li avrebbe aiutati con la guerra.-
-Non possiamo continuare a stare fermi a fare niente.- aggiunse Dan.
D’improvviso, a George balenò un’idea in mente.- Dobbiamo andarcene da qui.-

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Capitolo 9
*** Indipendence day ***


Mara aggrottò le sopracciglia e si alzò dal letto per andare a controllare sulle planimetrie della prigione.- Qui non c’è il disegno di un altro cortile.-
-Un posto dove torturare e impiccare la gente? Credi che lo avrebbero segnato?- ribatté Ron.
-Dunque, quelli erano i primi segnali, anche per mia madre, che Han si stesse comportando in modo strano, solo che non li prese sul serio.- aggiunse Mara. -Credeva semplicemente che fosse un po' geloso.-
-Un geloso omicida.- affermò Ron.
4 luglio 1957 – Un mese di prigionia
 
Il giorno dopo, quando Greta entrò in cucina per preparare il pranzo, sia lei che Lien sentirono delle alte voci provenire dalle celle.
Si guardarono a vicenda, ma non capirono cosa stesse succedendo.
Greta andò a controllare e più si avvicinava e più capiva che gli uomini stavano cantando.
Conosceva le parole di quella canzone, ma non era una canzone, era l’inno dell’America.
Nel corridoio risuonavano le voci dei marinai, alcuni intonati, altri no, ma che facevano sentire davvero a casa.
Il Vietnam le piaceva, le varie culture erano affascinanti, però niente riusciva a farle dimenticare l’America.
Ogni uomo se ne stava inginocchiando davanti le sbarre, guardando dritto davanti a se e con la mano poggiata sul cuore.
Oh, can you see, by the dawn’s early light.
Greta arrivò alla cella di George e Dan, osservando la dedizione che ci stavano mettendo nel cantare.
Era quasi ammirevole.
Anche Greta si ricordava l’inno a memoria e, pur non essendo una grande cantante, si unì al gruppo.
-O say, does that star-spangled banner yet wave…-
George la sentì cantare e alzò lo sguardo su di lei, sorridendole.
Lei chiuse gli occhi e immaginò di trovarsi nella piazza di Times Square, quel 14 Agosto, dove tutti festeggiavano allegramente.
Improvvisamente, la voce della guardia fece sobbalzare Greta e interruppe il suo sogno.
-Câm miêng!- gridò, battendo forte la mano sulla porta.
George strinse i pugni.- Continuate fin che non è finita!- ordinò, urlando a gran voce così che lo sentissero i suoi compagni.
Nonostante la guardia si stesse parecchio infuriando, i marinai continuarono a cantare tutto l’inno, fino a che egli non estrasse la pistola e sparò in aria.
Allora si fermarono tutti, impauriti.
Greta pensò che fossero molto coraggiosi e iniziò a rispettarli.
Durante l’ora di pranzo, si sedette perfino al tavolo con loro a chiacchierare.
-Perciò tu sei Americana!- esordì Arthur.
Ben sbuffò.- No, è Austriaca, però si è trasferita in America, ma dove sei stato negli ultimi 15 minuti dove ha spiegato tutto?-
Greta ridacchiò per la loro goffaggine, mentre i due si presero a schiaffi amichevolmente.
In quello stesso momento, osservò Dan con lo sguardo puntato verso Lien che stava ritirando i vassoi vuoti.
Capì dai suoi occhi che le interessasse molto.
Allora gli si avvicinò col busto, dall’altra parte del tavolo.- So che le piacciono le poesie.-
Dan arrossì sorridendo.- Oh, beh, peccato che io non sappia nemmeno scrivere il mio nome.-
Greta guardò gli altri, confusa.- Nessuno di voi?-
Ben si strinse nelle spalle.- Beh, qualcosa sì, ma non è che siamo tutto questo pozzo di scienza.-
-Siamo soldati, tutto quello che sappiamo tenere in mano è un’arma.- aggiunse Arthur.
-E da mangiare!- esclamò Ben, dandogli una pacca sulla ciccia che aveva ai fianchi.
Greta voltò lo sguardo su George, accanto a se, che da mezz’ora non aveva toccato cibo.- Nemmeno tu?-
Lui scosse la testa, fissando il piatto.
-Stai bene?- gli domandò, vedendolo strano.
-Non sono dell’umore di parlare.- bofonchiò.
-George, volevamo tutti bene a Francis, ma devi iniziare a reagire.- intervenne Dan.
-L’unico modo in cui reagirò sarà quando avrò trovato un modo per andarmene da qui.- rispose George, rompendo in due la forchetta di plastica.
Greta sgranò gli occhi.- Sei impazzito? Se ci provi ti uccideranno!-
-Non se la penso bene e fotto quei bastardi di vietnamiti.- borbottò lui, guardandola negli occhi.- Non se tu mi aiuti. Ho controllato la scorsa mattina, percorso un chilometro dalla casa si arriva alla strada: nessun soldato, nessun comandante che ti controlli, c’è la libertà.-
Greta non capì cosa le stesse chiedendo di fare.
Era rischioso.
A quel punto, George scosse la testa.- Lascia perdere, dimentica quello che ho detto.- disse infine, prima di alzarsi.
-Non dice sul serio, vero?- chiese a Dan.
-E’ un ragazzo testardo, è arrabbiato perché hanno giustiziato il nostro capitano.-
Greta non ne era a conoscenza e capì perché fosse infuriato.
Successivamente, Dan la guardò grattandosi la guancia.- Perciò puoi procurarmi carta e penna?-
La ragazza ridacchiò.- Vedrò cosa posso fare.-
 
Presente
 
-Quei due erano veramente inseparabili.- commentò Ron, con un velo di tristezza.
Mara abbassò lo sguardo.- Non oso immaginare che dolore si possa provare a perdere il tuo migliore amico.-
Il ragazzo annuì.- Ti lacera l’anima.-
 
Passato
 
George sapeva di dover stare lontano da Greta, prima di rischiare davvero la pelle, così, quel pomeriggio, decise di dedicarsi unicamente a cambiare i ferri del cavallo, sul suo solito sgabello di legno.
Verso le 17, Greta lo raggiunse con un vassoio contente qualche fetta di pane con una marmellata spalmata sopra.
-Ciao, ho fatto la marmellata di pesche, vuoi assaggiare?- gli domandò, passandogliene una.
George scosse la testa, continuando a lavorare.- No, grazie, non ho fame.-
Lei storse la bocca.- Ma non hai mangiato niente a pranzo…-
La figura del suo capitano che giaceva a penzoloni, senza vestiti, gli continuava a balenare nella mente.- Smettila!-
Greta sobbalzò appena per il suo tono, confusa.- Di fare cosa?-
-Di fare così!- borbottò George, guardandola negli occhi. -Io e te non siamo amici, io e te non possiamo essere amici!- esclamò, gettando a terra con forza lo strumento da lavoro e andandosi a sedere sotto un albero.
Si passò le dita sugli occhi, cercando di togliersi dalla testa quell’orribile scenario.
Greta si sedette silenziosamente accanto a lui, portandosi le gambe al petto e guardando il panorama davanti a loro.- Vedo…Vedo… Una cosa tonda e marrone chiaro.-
George giocava spesso con suo padre a questo gioco quando era molto piccolo e la risposa era piuttosto evidente. -La balla di fieno.-
Inoltre, non amava perdere.
-D’accordo, questa era facile.- commentò Greta.- Vedo…Vedo… Una cosa tonda e fatta di legno.-
George scosse la testa, strappando dell’erba da terra.
Anche questa è facile, pensò.
-Il recinto.- affermò.- Sei pessima in questo gioco.-
Greta alzò un sopracciglio.- Allora domanda tu, avanti!-
George sbuffò e si guardò intorno.- Vedo…Vedo… Una cosa gialla, che non è il sole.-
Greta posò lo sguardo su ogni cosa che avevano attorno.- Ma non c’è nessuna cosa gialla oltre al sole.-
-Oh sì che c’è.-
L’altra si accigliò.- Mi stai prendendo in giro?-
George trattenne una risata.- Ti arrendi?-
Greta sospirò, incrociando le braccia.- Sì.-
-Le stelle.-
-Cosa?! Ma non ci sono stelle!-
-Certo che ci sono: dove credi che vadano quando sorge il sole? Solo perché una cosa non la vedi non vuol dire che non ci sia.- spiegò George.
Greta iniziò a comportarsi come una bambina.- Hai imbrogliato.-
D’un tratto, scoppiarono a ridere e tutte le cose tristi scomparvero.
-Avevi detto di non aver paura di Han.- puntualizzò Greta.
-Infatti è così.-
-Però non mi parli più, né mi tocchi.- ribatté lei.
In realtà, George avrebbe voluto toccarla.
Lì, in quella giornata calda, tranquilla e senza preoccupazioni, Greta sembrava molto carina, soprattutto quando si arrabbiava.
Si mise ad osservarla, a guardare la sua pelle liscia e curata, con i capelli rossi che svolazzavano appena, finendole sul viso.
Allora George alzò una mano su di lei e con le dita le scansò i capelli, mettendogliene una ciocca dietro l’orecchio delicatamente.
Greta si voltò a guardarlo, sorridendogli appena.
Ritrasse la mano subito dopo.- Tu mi farai uccidere.-
La ragazza alzò le sopracciglia.- Beh, non volevi rimanere morto?-

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Capitolo 10
*** The poetry ***


Non appena Greta riuscì ad ottenere un pezzo di carta e una penna, chiese alla guardia di poter far visita ad uno dei prigionieri e così arrivò alla cella di Dan e George.
-Ce l’hai fatta?- le domandò Dan, entusiasta, notando il foglio.- Perfetto! P-Potresti scrivere tu?-
Greta gli sorrise, inginocchiandosi davanti alle sbarre.- Certo.-
Anche Ben e Arthur si avvicinarono curiosi alle grate.
-Allora…Ehm…Cara Lien…Anzi, no, mia cara Lien.- esordì Dan, mentre Greta trascriveva. -Oh…Non sono capace!- borbottò, sospirando.
George ridacchiò.- Da, ti diamo una mano.-
-Le tue tette sono come dolci cocomeri estivi.- intervenne Ben.
Arthur gli diede una spinta.- Ma sei scemo? Così scapperà via!- esclamò, scuotendo la testa. -II tuo sorriso impegna i miei sogni.-
Dan annuì.- E i tuoi occhi sono come diamanti scintillanti.-
-Il mio cuore palpita alla tua vista.- aggiunse Arthur.
Dan guardò George, dandogli una pacca.- Avanti, aiutami.-
George si concentrò, posando poi lo sguardo su Greta.- Improvvisamente il mondo sembra più piccolo, un posto dove non riesco a respirare. E quando ti guardo, mai mi aspetto di provare quello che provo. Un qualcosa che dovrei reprimere. Un qualcosa che mi viene da dentro quando ti vedo ballare con quella grazia ineguagliabile. Ma tuttavia, preferisco morire al posto di non guardarti mai più.-
Greta perse la presa sulla penna e le venne la pelle d’oca.
Non stava parlando di Lien, stava parlando di lei e lo aveva capito ascoltando il riferimento alla danza.
Nessuno le aveva mai detto una cosa del genere, nemmeno suo marito.
E allora, improvvisamente, George si trasformò in qualcosa in più, qualcosa che però non poteva avere.
Dan lo guardò confuso.- Ballare? Perché Lien è una ballerina?-
George arrossì, distogliendo lo sguardo.- H-Ho supposto che sia così.-
-Nah, togli la parte della ballerina, però tutto il resto è perfetto.- commentò l’altro.
Allo stesso tempo, Dan osservò che i suoi compagni lo stessero guardando male, come se non avesse capito cosa in realtà stesse succedendo ed entrambi scuotevano la testa.
Greta riprese la penna e si segnò tutto quello che aveva detto.- Va bene, gliela porterò.-
Dan passò la mano attraverso le sbarre e la poggiò sulla spalla di Greta.- Grazie, davvero.-
Lei gli sorrise.- Di niente.-
Greta piegò il foglio e lo nascose nel reggipetto, raggiungendo Lien nelle cucine.
-Buongiorno. Ho qui una cosa per te.- le disse con un ghigno divertito, sventolando il foglio.
Lien sembrò curiosa.- Che cos’è?-
Greta glielo porse.- Da parte di un ammiratore segreto.-
La ragazza orientale si morse un labbro nervosamente e si mise in un angolino per leggerlo.
Greta non vide la sua reazione, ma sapeva che ciò che c’era scritto era davvero sincero.
Si chiese però cosa intendesse dire George con quelle parole e tutto d’un tratto tutte le sue certezze caddero.
Credeva di essere innamorata di Han, che lo sarebbe stata per tutta la vita.
Eppure, aveva un dubbio.
Non era vero che Greta aveva ripudiato quel bacio a Times Square: era stato fin troppo bello, invece, tanto da non riuscire a dimenticarlo.
Ma allora erano solo due sconosciuti.
Adesso si conoscevano abbastanza, forse più di quanto la conoscesse Han.
Che cosa significava tutto questo?
 
Presente
 
Dopo l’ennesimo momento d’amore, Mara si soffermò a guardare Ron davanti a se: non se l’aspettava, a 42 anni, di trovare una persona che la capisse in quel modo.
Aveva sempre creduto che qualsiasi persona avesse un’anima gemella e forse Ron era la sua.
In poche ore, si era innamorata del tipo di persona che era, tralasciando il suo aspetto fisico.
Un uomo romantico, ma serio allo stesso tempo.
Un gran lavoratore e che ci teneva alla famiglia.
Tuttavia, Mara non sapeva cosa sarebbe successo alla fine di quella giornata, quando sarebbero tornati alle loro vite.
Ron le accarezzò la guancia, notando il suo sguardo.- Che c’è?-
Ron aveva capito che qualcosa non andava e questo la fece sentire amata senza che la baciasse o le dicesse parole confortanti. -Ho paura.-
Lui si accigliò, avvicinandosi.- Di cosa?-
-Finita la storia te ne andrai…Riprenderemo a lavorare, usciremo da questa bolla di romanticismo e tornerà tutto come prima.- spiegò Mara, stringendosi nelle spalle.
Ron sorrise appena.- Posso restare…Venire a stare qui e lavoreremo insieme.-
Quelle parole le fecero venire la pelle d’oca.- E’ buffo come le cose possano cambiare così in fretta.-
-Spero in meglio.- commentò lui, accarezzandole lentamente una coscia.
Mara si morse un labbro.- Decisamente in meglio.- sussurrò, baciandolo lentamente.
In seguito, Ron si poggiò alla sua spalla.- E’ così triste che noi ora possiamo baciarci, avere attimi felici e invece per loro fosse così difficile.-
-Sono stati felici…Almeno per un po'.-
 
25 dicembre 1958 – Un anno di prigionia
 
Era passato un anno da quando gli Americani erano stati imprigionati, eppure né Greta né George si erano resi conto del tempo che scorreva.
L’estate era finita velocemente e anche le corse spensierate per i prati, facendo l’acchiapparella sotto il famoso albero.
Han stava via tutto il giorno, tornava la sera, cenavano e poi andavano al letto.
Erano marito e moglie, ma sembravano due completi estranei.
Non che Greta ne stesse soffrendo, c’era George a farla divertire.
Per George, invece, quella prigione non sembrava più tanto una prigione.
Grazie a lei aveva imparato qualche passo di danza e un giorno gli aveva perfino fatto la barba.
Certe volte però, George si sentiva in colpa ad essere l’unico che poteva veramente vivere oltre quella cella.
D’altronde, Lien e Dan continuavano a scambiarsi poesie e sguardi, mentre George vide anche una certa tenerezza nell’amicizia tra Ben ed Arthur.
Era il giorno di Natale, quando Greta notò qualcosa di nuovo, allacciato alla cintura di Han.
Quando si sedette a tavola per la colazione, osservò che c’era una minacciosa frusta.
-Nuovo gioiellino, eh?- commentò, tesa.
-Gli americani hanno fatto impazzire il nostro paese: il sud e il nord si combattono tra di loro, hanno ucciso quasi 400 funzionari in pochi anni. – spiegò Han, girandosi tra le dita il coltello.- Che cosa ti aspettavi? Che li accarezzassimo con i fiori?-
Greta non riconosceva più suo marito, in quelle parole: non era più dolce come lo zucchero filato, ma duro come la pietra.- Non è colpa degli americani se i vietnamiti si fanno guerra tra loro.-
-Greta, non sanno che cosa fare, gli americani ci stanno sterminando.- aggiunse Han, guardandola negli occhi con uno strano luccichio inquietante. -Dovremmo iniziare a fare degli interrogatori, fargli sputare fuori da quelle bocche da dove attaccano.-
Greta ripensò subito alle orribili sorti del capitano Francis e per un attimo le passò per la testa che al posto suo, impiccato all’albero, ci fosse stato George. -Ma avete già interrogato il capitano…-
-Già e lui non ha ceduto perché era un vecchio. Questo non vuol dire che non sappiano qualcosa.- borbottò Han, infilandosi gli stivali.
Greta dedusse che non avrebbero passato un felice Natale, ma tanto ci era abituata.
Non era mai un buon Natale da quando i suoi genitori erano morti.
Oltretutto, sentiva davvero la mancanza delle sue sorelle.
Le scrivevano regolarmente, quasi ogni mese e ogni settimana Josefin la chiamava dall’appartamento che divideva con il suo nuovo fidanzato francese.
Finalmente anche un’altra di loro si era sistemata con qualcuno.
Purtroppo, non sarebbero mai potute andare a trovare la tomba dei genitori, perché non esisteva.
Neanche un nome scritto su una lapide, neanche una foto.
Greta non amava guardare la televisione: si parlava solo di assassini e sangue.
Perciò si metteva davanti al fuoco e cuciva, come le aveva insegnato sua madre.
Se avesse fatto qualcosa per Han, lo avrebbe sicuramente buttato nell’armadio e mai messo.
A George non poteva di certo cucire qualcosa, perciò si limitava a fare centrini bianchi, come le nonne sulla sedia a dondolo.
George spalancò la porta e corse verso il fuoco acceso, tremando e mettendoci le mani sopra. -Dannazione, che freddo!-
Fuori stava nevicando e George indossava sempre gli stessi vestiti.
-Non ci posso credere che non vi diano degli altri vestiti.- borbottò Greta, scuotendo la testa.
-Quando lo capirai che non gli importa niente di noi?-
-Han dice che inizieranno ad interrogarvi per vedere se sapete qualcosa su dove stanno attaccando.- spiegò Greta, anche se non avrebbe dovuto dirglielo.
-Le uniche truppe abbastanza vicine al Vietnam sono sempre state sul Golfo di Tonchino, ma non so se sia ancora così.- disse George, riscaldandosi le mani.- Dovrà strapparmi tutti i denti prima che io parli.-
Per Greta era già una tortura immaginare che a George venisse fatto del male.- Ti prego, non dire così.- balbettò, coprendosi la bocca.
George alzò lo sguardo e capì di averla turbata.
Allora stesso tempo, sentì dei canti natalizi in televisione.- E’ Natale?-
-Sì, avevo fatto dei biscotti, ma Han non li ha nemmeno notati…-
George le sorrise.- Posso assaggiarli io?-
Greta tirò fuori dal forno una teglia ancora tiepida e gli porse un biscotto con delle gocce di cioccolato.
George se lo mise in bocca e assaporò ogni particolare.- Wow, non avevo mai mangiato niente di così buono.-
Lei scoppiò a ridere: non le aveva mai fatto un complimento del genere ed era la prima volta che si dilettava a cucinare dei biscotti in vita sua. -Sono terribili, vero?-
George fece una smorfia di disgusto, mandando giù a fatica.- Un po'.-
-Scusa, non so cucinare proprio tutto.- aggiunse, arrossendo.
L’altro si pulì la bocca e notò qualcosa di nuovo all’interno del salone: in un angolo, c’era una specie di marchingegno colorato, con dei dischi dentro al vetro.- Che cos’è?-
-Si chiama jukebox: è praticamente un giradischi elettronico.- spiegò, mostrandogli tutte le parti.- Scegli il titolo di una canzone e lui ti mette il disco.-
George scelse un titolo a caso e partì un ritmo lento.
-Come passavi il Natale a casa tua?- gli chiese Greta.
-Io odiavo il Natale alla fattoria!- esclamò sospirando. -Ogni anno mi ripetevo che non dovevo affezionarmi all’agnellino perché mio padre puntualmente lo avrebbe ucciso, ma ci cascavo sempre.-
Greta storse la bocca.- Oh…-
-E tu invece?-
Sentì un tratto di malinconia.- Quando c’erano ancora i miei genitori, dopo che siamo arrivati in America, mi ricordo un Natale dove mio padre riuscì a guadagnare abbastanza per comprare un enorme tacchino arrosto.- raccontò: riuscì perfino a sentirne il profumo. -Cantavamo attorno alla tavola e…- bofonchiò, prima che le cadesse una lacrima sulla guancia.
George si avvicinò per asciugargliela con il pollice.
Quel gesto, quel piccolo gesto, fece capire a Greta che era tutto cambiato.
Nei suoi occhi color oceano, si vedeva nuotare libera, sola, felice.
Voleva tuffarsi dentro quelle acque, sapere cosa si provasse.
Cadde un tombale silenzio in cui George le prese le mani e le poggiò sulle proprie spalle, iniziando a dondolare a ritmo di musica.
Greta gli sorrise e lasciò andare via la tristezza.
Alzò lo sguardo e capì che le sue labbra erano così vicine.
George poggiò la fronte sulla sua, incrociando il suo sguardo, ma senza fare nient’altro, come se ne avesse paura.
Oppure no.
-Devo chiedertelo…Altrimenti credo che morirò se non so la risposta.- gli sussurrò, accarezzandogli il collo con le dita. -Non mi hai ancora baciata perché non vuoi o perché non puoi?-
George strinse la morsa sui suoi fianchi, dolcemente.- Ah…Se solo sapessi…-
Greta arrossì, curiosa.- Che cosa?-
Lui incrociò i suoi occhi, scuotendo appena la testa.- Niente.-
Lei sapeva che c’era qualcosa, ma probabilmente George non aveva il coraggio di dirglielo.
Buffo, se si mettesse a pensare al fatto che si fosse arruolato, fosse andato in guerra e che fosse sopravvissuto ad un proiettile nella spalla, ma che non riuscisse a dire cosa provasse a Greta.
Perciò, stettero in silenzio e George le baciò dolcemente la nuca, mentre continuarono a cullarsi nel bel mezzo del salone.
Greta non era mai stata così serena.
Poggiò la guancia sul suo petto e sentì il suo cuore battere lentamente.
Un suono quasi migliore della musica.
Sicuramente migliore della macchina di Han che parcheggiava davanti casa.
Entrambi drizzarono le orecchie.
-Cazzo!- esclamò George, separandosi subito da Greta e spegnendo subito il jukebox.
Greta mise dentro il forno il vassoio con i biscotti e George corse subito fuori, nella stalla, fingendo di occuparsi del cavallo.
Riuscì ad uscire sul retro proprio nel momento esatto in cui Han entrò dalla porta.
Greta gli sorrise, chiudendo il forno. -Ciao tesoro, ho fatto i biscotti.-
Han ricambiò e le baciò la nuca.- Mi sono dimenticato di dirti Buon Natale.- le sussurrò, accarezzandole la guancia. -Mi piacerebbe molto assaggiare i tuoi biscotti dopo pranzo.- continuò, togliendosi il berretto. -Lui dov’è?-
Greta capì che si stesse riferendo a George.- Nella stalla, come sempre.-
-Perché non mi fai vedere come cavalchi?-
La ragazza iniziò a tremare, lei non sapeva affatto come si cavalcasse. -M-Ma fuori sta nevicando, non credo che sia la giornata adatta.-
-No, vengo da fuori, ha smesso di nevicare e sta uscendo anche il sole.- ribatté lui, porgendole la giacca pesante.
Greta non aveva altra scelta: anche se non sapeva cosa sarebbe successo, indossò la giacca e andò nella stalla, dove George stava strigliando il cavallo.
-Buona sera amico mio!- esordì Han, sorridendogli. -Perché non monti la sella per Greta? Così mi fate vedere i vostri progressi.-
George si morse l’interno nel palato, nervosamente: sapeva che Greta non era pronta.- Ci stiamo ancora lavorando su, siamo ancora al trotto, lei…-
Han ridacchiò, avvicinandosi al suo viso.- Forse non sono stato abbastanza chiaro…- ripeté, fissandolo negli occhi.- Monta quella cazzo di sella.-
George osservò la presa del comandato sulla pistola che aveva legata alla cintura e annuì.- Sì, signore.-
Mise la sella sul dorso del cavallo e legò le briglie.
Greta iniziò a pensare che probabilmente sarebbe caduta e si sarebbe fatta male, anzi ne era sicura: sperò solo che la neve attutisse la caduta.
In realtà, le basi del trotto e del galoppo George gliele aveva insegnate, solo che lei non era abbastanza portata da farlo bene.
Guardò George per un attimo che le fece un cenno con la testa, come a dire che ce la potesse fare.
Lei prese un bel respiro e montò a cavallo, stringendo le briglie fra le dita.
Ricordò i suoi insegnamenti e per prima cosa, diede una piccola pacca con il piede al petto del cavallo, che iniziò a trottare.
Fece un paio di giri intorno a loro, ma lo sapeva che Han si aspettasse che lei lo cavalcasse.
Greta osservò il sole uscire lentamente tra le nuvole e accaldarle il viso.
Strinse i pugni e pensò con tutta se stessa che potesse farcela.
Allora, con decisione, diede due botte al cavallo ed esso iniziò a correre verso il prato.
Ce la stava facendo, sentiva il vento freddo sulla faccia.
Girò le briglie verso destra per tornare alla casa, ma il cavallo fece una curva troppo stretta e la presa delle cosce cedette.
Cadde tra la neve, contro il braccio sinistro, con un tonfo.
Iniziò subito a bruciarle, però fortunatamente non aveva sentito le ossa rompersi.
George sgranò gli occhi e fece un passo verso di lei, però si fermò subito, sapendo che non toccasse a lui andarla a soccorrere, anche se avrebbe voluto e sperò che Han non se ne fosse accorto.
Invece, il comandante si voltò verso di lui e lo guardò male.
La caduta di sua moglie era la conferma che George e Greta avessero fatto tutto, tranne che cavalcare.
-Giùp tôi môt tay!- gridò Han, facendo correre fuori il soldato che stava di guardia alla porta.
Egli l’aiutò ad alzarsi e Greta fece una smorfia di dolore, tornando indietro con la consapevolezza che Han si sarebbe arrabbiato molto.
In realtà non sapeva perché stava ancora insieme a lui: forse perché continuava a mantenerla, a comprarle i vestiti e a farla stare in una casa calda.
Poteva tornare a casa dalle sue sorelle, ma l’idea di dover uscire fuori di là, con gli uomini che si uccidono a vicenda, la spaventava a morte.
Han l’aspettava con un ghigno divertito.- Direi che c’è ancora molto da lavorare…Ma, un momento, non è da un anno che ci lavorate su?-
Greta non ce la faceva più a sentirlo parlare così.- Han, adesso basta.-
Improvvisamente, l’uomo le prese il viso tra la mano.- Non ho chiesto il tuo parere.- borbottò, stringendo i denti. -Piaciuti i biscotti?-
Han osservò che George avesse delle briciole sui vestiti.
-Non è stata colpa sua.- affermò egli.
-Oh, ne sono sicuro.-
-Lasciami andare, m-mi stai facendo male.- bofonchiò Greta, dimenandosi.
Han lasciò la presa su Greta per dare un pugno sul naso a George.
Il ragazzo si accasciò a terra, con le narici insanguinate e l’altro si accucciò su di lui.- Sai, abbiamo interrogato i tuoi amici per tutto il giorno, rotto nasi e costole, ma nessuno di loro ha ceduto.- gli sussurrò, tirandogli i capelli all’indietro.- E sai perché? Perché nessuno di loro aveva niente da perdere…Ma non tu, non è vero?-
-Han, lascialo stare, per favore!- esclamò Greta, tenendosi il braccio.
Allora Han tirò fuori la pistola e la puntò dritto contro Greta.
-Han, ma che fai?!-
George strinse i denti, fissandolo negli occhi.- Non lo faresti mai.-
Han ridacchiò, togliendo la sicura.- Ne sei certo?- mormorò, prima di spostare la canna della pistola sulla sua fronte.- Se al mio 3 non mi dirai da dove attaccano gli americani, sarò costretto a farle vedere il tuo cervello che salta in aria.-
Greta si coprì la bocca, non sapendo cosa fare.
-Uno…-
-Han, ti prego!- singhiozzò Greta, mentre George rimase a bocca chiusa.
-Due…-
-Al golfo di Tonchino!- esclamò Greta, d’un tratto.
Le era uscito così, spontaneamente, non poteva permettere che uccidesse George.
Probabilmente George si stava maledicendo internamente per averglielo rivelato.
Han lasciò la presa sui suoi capelli e mise a posto la pistola.-Buôc nò vào cây.- ordinò al soldato.
Egli trascinò George contro l’albero e lo mise di schiena, tenendogli le braccia all’indietro, lungo la corteccia, per poi legargli i polsi.
-Resterà lì fino a domani mattina.- continuò Han.
Greta sapeva di non poter dire niente, non sarebbe stata ascoltata.
Han la trascinò dentro casa, prendendola per il cappotto con forza.
-Mi fidavo di te!- sputò fra i denti.
Il dolore al braccio lasciò spazio alla rabbia.- E io mi fidavo dell’uomo che eri! Guarda cosa sei diventato!-
Di scatto, Han le diede uno schiaffo che le fece arrossare tutta la guancia.
Ormai Greta lo aveva perso: aveva la sensazione che quella guerra lo avesse fatto andare fuori di testa e che non sarebbe tornato mai più.
Che il potere lo avesse reso una persona diversa.
La ferita al braccio non era nulla di grave, Greta mise qualche crema sia sul braccio che sulla guancia e decise di andare a dormire senza cenare, la fame le era passata del tutto.
Durante la notte, non fece che pensare a George, lì, solo, al freddo, legato a quell’albero.
Tentò perfino di alzarsi, per andare di nascosto a vedere come stesse, ma Han le aveva afferrato il polso, come se dormisse con un occhio chiuso e l’altro aperto.
E per lui, Greta non poté fare nulla.

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Capitolo 11
*** The dancer in the shell ***


George ormai non sentiva più le dita né dei piedi né delle mani.
Probabilmente sarebbe morto congelato.
Le temperature toccavano quasi lo zero.
Sentiva la bocca secca, non riusciva più a deglutire e a malapena a tenere gli occhi aperti.
Non sapeva cosa l’avesse aiutato a rimanere sveglio prima delle 4 del mattino.
Si era aggrappato disperatamente a qualcosa.
Dapprima, alle stelle, ricordandosi a quando giocava con Greta.
-Vedo…Vedo…- aveva detto a ste stesso. -Una cosa verde e liscia al tatto…- bofonchiò, alzando lo sguardo verso i rami dell’albero.- Le foglie? Sì…Le foglie.-
Poi, non riuscendo più a parlare, ripensò a quando era salito per la prima volta sulla Sullivans e aveva conosciuto Ben ed Arthur.
Lui e Dan credevano che avrebbero fatto meraviglie a bordo di quella nave.
Che alla fine, era affondata.
Non riusciva a parlare, però riusciva a canticchiare.
Cercò di non chiudere gli occhi, ma gli fu quasi impossibile.
Ogni tanto li strizzava per inumidirli e comandava a se stesso di tenerli aperti.
La melodia che fuori usciva dalla conchiglia di quel carillon la sapeva a memoria.
Vide i primi raggi del sole quando prese a cantare, anche se solo per poco.
Rivedeva il dolce viso di sua madre dentro la testa.
Anzi, la vedeva davanti a se, mentre le palpebre calavano, stanche.
-George?-
Udì una voce femminile, di sua madre che lo chiamava.
Sì, era la sua voce, come un miraggio o in un sogno.
Poteva percepire anche il calore delle sue mani sulle guance.
-George, guardami!-
Se ci pensava bene, però, quella non era la voce di sua madre.
Aprì lentamente gli occhi e vide Greta, davanti a se, che lo scuoteva forte.
Per un attimo pensava di esser morto, poiché quella dolce donna che gli rimboccava sempre le coperte da piccolo, era ormai deceduta da anni per una forte polmonite.
Rinsavì per un momento e vide Greta liberargli i polsi.
Non riusciva a muovere nemmeno un muscolo e il suo corpo si accasciò sulla neve.
Greta lo afferrò per la camicia e lo trascinò dentro casa con tutte le sue forze, con un urlo di sfogo.
Perse d’un tratto la presa e scivolò a terra, ma non si arrese.
Strisciando sul pavimento, gli strinse il braccio con entrambe le mani e lo portò davanti al camino acceso.
Finalmente George sentì del calore sulla pelle, mentre i suoi denti battevano ancora per il freddo.
Greta lo strinse a se, strofinando le mani sulle sue braccia per riscaldarlo.- Avanti, avanti.-
George sentì di nuovo il sangue caldo pompargli nelle vene e per tutto il corpo.
Poté aprire definitivamente gli occhi e si voltò verso di lei, debolmente.
Stava piangendo.- Scusami, mi dispiace tanto.- singhiozzò, accarezzandogli la guancia.
George non voleva parlare, le fu grato di essere ancora vivo e le prese la mano, affondando il viso nella sua veste calda.
Greta era uscita in vestaglia, con le gambe e i piedi nudi, senza che le importasse della neve ghiacciata.
E George pensò che se avesse fatto una cosa del genere, volesse dire che allora ci teneva a lui.
-Grazie.- bofonchiò, a tratti.
Greta gli baciò la nuca e accarezzò i capelli.- Tra poco verrà qualcuno a riportarti in prigione.- spiegò, avvicinandolo leggermente al camino.- Stanotte hanno attaccato le basi americane al golfo…Mi dispiace…- piagnucolò.
Se Greta non glielo avesse detto, probabilmente George sarebbe morto.
Tuttavia, che cosa costava una sola vita al posto di centinaia?
La conversazione non continuò, dato che una guardia entrò bruscamente e prese George da terra, per infilarlo dentro la macchina e riportarlo in prigione.
***
George venne bruscamente gettato dentro la cella, come se la guardia sapesse cosa fosse successo.
Sembrava che i soldati vietnamiti si riunissero tra di loro e si raccontassero cosa facevano gli americani, probabilmente deridendoli e pensando a nuovi modi con cui torturarli.
Ancora con i denti che battevano, George si mise la coperta sulle spalle, alitando al suo interno per cercare di riscaldarsi.
-Amico, hai un occhio nero, che è successo?!- intervenne Arthur.
L’occhio nero era probabilmente dovuto al pugno di Han, ma George aveva così tanto freddo che non ne sentiva il dolore.
George, invece, notò che Ben aveva la faccia dolorante e l’altro delle chiazze di sangue secco sotto le narici.- E a voi che è successo?-
-Ci stanno prendendo uno ad uno per interrogarci.- rispose Arthur.
-Credo che mi abbiano rotto la gamba!- bofonchiò Ben. -Non ci fanno andare in infermeria.-
Solo in quel momento, George notò che Dan non c’era.- Dov’è Dan?-
-E’ da stamattina presto che lo hanno preso…- spiegò Arthur, preoccupato.
D’un tratto, Ben scoppiò a piangere.
-Ehi, ma che cazzo, stai piangendo?!- borbottò il compagno di cella.
-Mi manca mia madre.- piagnucolò, senza preoccuparsi di asciugarsi il viso. -Vorrei tanto poterle parlare, scrivere qualcosa…-
-Ah, certo e cosa le scriveresti? Ciao mammina, qui all’Hanoi Hilton si sta una meraviglia! Una camera accogliente, del cibo delizioso e dovresti vedere la tazza del cesso, è fatta d’oro!- continuò Arthur.
George lo guardò confuso.- L’Hanoi Hilton?-
-Sì, è il nome che ho dato a questo posto di merda.- affermò l’altro, sputando fra i denti.
Subito dopo, sia Ben che George scoppiarono a ridere, sdrammatizzando l’atmosfera.
In quel bel momento, George non se la sentiva di dirgli che avevano subito torture per niente, dato che Greta aveva rivelato dove fossero accampati i loro alleati.
-Se solo sapessimo qualcosa su di loro: che cosa hanno intenzione di fare, quante truppe sono o da dove attaccheranno.- farfugliò Ben, tenendo la gamba tesa.
-Ha ragione, sarebbe facile fregarli, non capiscono nemmeno un cazzo di americano.- commentò Arthur, facendo passare gli occhi, il naso e la bocca dalle sbarre per guardare in faccia la guardia.- Non è vero, pezzo di merdina?- gridò verso di lui.
La guardia si girò svogliato verso di lui, lo guardò per un secondo e poi si rigirò dall’altra parte.
Proprio come si immaginava.- Visto?-
Ben alzò le sopracciglia.- E come intendi fare? Noi non possiamo uscire da qui neanche per due ore.-
George vide Arthur pensarci su e poi guardarlo come se gli fosse venuta appena in mente un’idea geniale. -Ma qualcuno c’è.-
Nello stesso istante, fu come se i due amici si fossero letti nella mente.
Arthur voleva coinvolgere Greta.
-Non ci pensare nemmeno.-
-Dai George, è sua moglie! E’ insospettabile!-
Peccato che lui non sapesse niente di quello che era successo.
-Sei proprio una zucca vuota.- commentò Ben, sbuffando.
-Perché? Che ho detto?!-
-Ma non hai ancora capito che le piace?- borbottò, indicando George.- Ah, ma che ne sai tu dell’amore!-
-E tu che ne sai? Voler bene alla mammina non vale!- ribatté Ben.
George sospirò, con la testa che iniziava a fargli male, forse ancora ghiacciata.- Dateci un taglio, dannazione!- urlò.
In quel momento, George sentì delle scarpe da donna entrare nel corridoio e la guardia dire qualcosa.
-Non mi interessa.-
Riconobbe subito la voce di Greta.
La ragazza si accucciò lungo la cella.- Ciao, stai bene?- gli domandò, passando la mano attraverso la grata.
In realtà, George le doveva la vita.- Sì, non so cosa sarebbe successo se non ci fossi stata tu.- affermò, portandosi la sua mano alla guancia.
-George, mi dispiace così tanto, non avevo scelta.- continuò, poggiando la fronte alle sbarre.
-Sssh.- le mormorò, per paura che sentissero gli altri. -Va tutto bene, non è colpa tua. Continui a salvarmi la vita.-
Greta sorrise appena.- Avevi detto che preferivi esser morto.-
I suoi occhi verdi brillavano in quel corridoio buio come la foglia che George aveva visto mentre congelava.
Lentamente, le accarezzò il naso e le labbra col pollice.- Ho cambiato idea.-
-E cambi idea spesso?-
George era conosciuto come il bambino più testardo della famiglia. -No.-
-Ehi, Greta!- intervenne Arthur, fischiandole da dietro.
George sapeva già cosa le stesse per dire.- Arthur, no, lasciala fuori da questa storia!-
Greta guardò entrambi confusa.
-Ascolta Greta, dobbiamo uscire di qui, altrimenti penso che diventerò matto!- esclamò, gesticolando.
-I-Io non so cosa potrei fare…-
-Guarda tra le sue scartoffie, qualcosa per contattare qualcuno, ci deve esser per forza un modo!-
-Ehi, Greta, se non vuoi farlo non sei costretta.- intervenne George, stringendole la spalla.
Greta prese un bel respiro, pensandoci un po' su. -D’accordo, vedo quello che riesco a scoprire.-
Arthur batté le mani.- Sì!-
Greta fece un ultimo sorriso a George e se ne andò.
Ora sapevano di avere un’ alleata al di fuori della prigione.
Sperò che scoprisse qualcosa e che andasse bene.
Ma nel frattempo, si chiese anche che fine avesse fatto il suo migliore amico.
Non lo vide neanche all’ora di pranzo e notò che non c’era neanche Lien a servire.
Che fosse una coincidenza?

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Capitolo 12
*** The rose and the horizon ***


Dopo quello che le avevano detto Ben e George, Greta sfruttò il fatto che Han non fosse ancora tornato a casa per andare a controllare le sue cose.
I fogli sulla scrivania, le cose che teneva dentro il cassetto e nell’armadio, ma non c’era niente che aiutasse gli americani.
Poi, ad un certo punto, osservò una pila di fogli spillati sul comodino: era il contratto firmato da Han per lavorare alla prigione.
Si soffermò a guardare i proprietari, quei politici che tanto diceva fossero usciti di testa.
Ma niente.
Non c’era nessun proprietario, nessuno che stesse ai piani alti, era Han a comandare.
Lui che prendeva le decisioni su tutto.
Lui che aveva deciso di torturare delle povere persone e di uccidere il capitano della Sullivans.
Tutto d’un tratto, agli occhi di Greta, suo marito divenne un vero e proprio mostro.
Le venne perfino un brivido di paura a pensare che stesse vivendo con lui.
Lo sentì rientrare in casa e rimise tutto a posto, apparecchiando la tavola per la cena.
Non si erano parlati da quello che aveva fatto a George.
Di fatti, la situazione tra loro era fredda, neanche si guardavano.
Alla fine della cena, fu Han a sparecchiare, riponendo i piatti dentro il lavello.
Greta si alzò, ma lui la costrinse a stare seduta con un cenno della testa.
-Abbiamo trovato delle cose interessanti mentre interrogavamo gli americani.- esordì, restando in piedi al suo fianco. -Abbiamo interrogato anche quella tua amica, Lien, che serve il pranzo insieme a te. Lo sapevi che aveva una relazione con uno degli americani?-
Greta guardò fisso il tavolo, non voleva che ci fosse un’altra litigata o altre persone che ci avrebbero rimesso. -No.-
Han si piegò su di lui, guardandola negli occhi.- Ne sei proprio sicura?-
Greta evitò di guardarlo.- Sì.-
Allora Han frugò nella propria tasca e le sbatté sul tavolo una pila di foglietti: tutte le poesie che Greta aveva scritto per Dan.
Ormai aveva scoperto tutto, ma non si pentiva di averlo fatto.
-Strano, perché questa è la tua scrittura.- continuò l’altro.- E sai perché lo so? Perché sono tuo marito e tu dovresti sapere che io odio le bugie.-
Greta strinse i pugni, trovando il coraggio di rispondergli.- Neanche a me.- affermò, alzandosi e ritrovandosi faccia a faccia con lui. -Mi è capitato l’occhio sul tuo contratto e ho scoperto che non c’è nessuno che ti comanda, sei tu che prendi tutte le decisioni. Hai fatto impiccare quell’uomo, hai deciso di torturare degli uomini innocenti e Dio sa che cosa farai a Dan e Lien!-
Han aizzò una mano contro di lei e Greta sobbalzò all’indietro, credendo che l’avrebbe picchiata.
Però Han si fermò e la sfiorò appena lungo il collo. -Che cosa ho sbagliato, Greta?- bofonchiò, aggrottando appena le sopracciglia.
Lui, niente.
Greta si sentiva in colpa per aver affrettato tutto, per essersi invaghita di lui così velocemente, senza conoscerlo a fondo.
E quelle erano le conseguenze.
Gli voltò le spalle, non ne voleva più parlare, voleva solo allontanarsi da lui e non guardarlo mai più in faccia.
Una volta, tempo prima, lei era la sua rosa e lui il suo orizzonte.
Ma la rosa era appassita e l’orizzonte era coperto di nero.
E non sapeva esattamente cosa gli fosse successo, però era successo e non si poteva tornare indietro.
Senza neanche mettersi il cappotto, uscì in giardino e scoppiò a piangere.
Si rese conto di come fosse cambiata la sua vita.
Si mise a gridare verso il cielo, con tutta la forza possibile.
Poi, un pensiero le balenò in mente: George aveva detto che ad un chilometro da lì ci doveva essere la strada, la libertà per lui.
Così, si tolse i tacchi corse più veloce che poteva tra la neve che pian piano stava attecchendo al suolo.
Il fiato le mancò sin da subito, ma non le importava.
Continuò a correre, con le braccia che le tremavano, i piedi come due ghiaccioli e il fiatone.
Dopo circa un chilometro giunse ad un muro basso, fatto di mattoni che dava proprio sulla strada.
Di fatti riuscì a sentire le voci delle persone e il rumore delle auto.
Se solo avesse fatto un salto oltre quel muro, si sarebbe ritrovata in città, libera.
Però non era giusto andarci da sola.
E allora fece qualche passo indietro e si sedette sulla neve, con le lacrime che ancora le scendevano dagli occhi ai lati della bocca.
Sentì il primo strato della pelle rabbrividire al contatto con la neve e quindi iniziò a pensare che era quello che George avesse dovuto provare mentre era legato a quell’albero.
Pensò che fosse anche colpa sua e che entrambi avrebbero dovuto scontarne la pena insieme.
Così strinse i denti e restò stesa ancora per un po', con i denti che sbattevano.
Si sentiva un po' più vicina a George, adesso, al suo dolore.
E con le palpebre che le si chiudevano, si addormentò.
Nel cuore della notte, qualcosa la svegliò, anche se non del tutto.
Qualcuno venne verso di lei e la sollevò da terra.
Non riuscì a capire chi fosse, nel buio non vide il suo viso.
Solo un piccolo dettaglio: il berretto con sopra disegnata la stella gialla.
Ah, un soldato, probabilmente mandato da Han a cercarla.
Ma poi, quello che le sussurrò all’orecchio, la fece confondere.
-Moi thu se on thôi.-
Parole semplici, quasi le prime che Greta aveva imparato dal vocabolario.
Andrà tutto bene.
***
Il giorno successivo, quando le guardie portarono i marinai fuori per l’ora d’aria, durante la marcia, George riuscì ad intravedere Lien nell’infermeria.
Si voltò indietro e ruppe la fila: doveva chiederle assolutamente di Dan, era da due giorni che non lo vedeva.
-Lien, dov’è Dan? Dov’è Dan?- le domandò più volte.
Lien si voltò verso di lui con un paio di brutte occhiaie.- George, io…-
Prima che potesse rispondere, un soldato lo scoprì e lo afferrò per la camicia, facendolo tornare in fila.
Era frustrante non sapere che cosa gli fosse successo.
E poi perché Lien era stata trasferita dalla cucina all’infermeria?
Arthur era costretto a trascinare Ben che non riusciva a camminare, ma che voleva comunque sentire la dolce brezza dell’aria aperta.
Per passare il tempo, George si mise a contare i petali delle margherite che crescevano sotto quell’albero, fino a che non vide entrare Greta nel cortile.
Gli si avvicinò con sguardo tetro.
-Allora, hai scoperto qualcosa?- le sussurrò Arthur.
-Niente che possa aiutarvi, mi dispiace.- rispose lei, abbassando lo sguardo.
Ma George voleva sapere solo una cosa.- Per caso sai dov’è Dan?-
Greta lo guardò con gli occhi lucidi, mordendosi un labbro.- E’ per questo che sono venuta, volevo essere io a dirtelo.-
Tutto le altre parole che uscirono dalla bocca di Greta, George non le sentì.
Capì solo che aveva visto il suo cadavere venir portato via, quella stessa mattina.
A quella notizia, le orecchie iniziarono a fischiargli come dopo l’urto di una potente bomba.
Gli sembrava di esser tornato legato all’albero, perché le gambe gli cedettero e fu costretto a sedersi vicino al muretto.
Il suo migliore amico era morto.
Per aver scritto qualche poesia ad una bella ragazza.
E allora si lasciò andare ad un pianto disperato, mentre Ben ed Arthur si mettevano le mani nei capelli, sconvolti.
Il suo migliore amico, la persona con la quale aveva condiviso qualsiasi cosa nella vita.
Greta era lì con lui: si sedette accanto e lo strinse a se, affondando la sua testa nel proprio petto.
George le si aggrappò al vestito, sfogandosi più che poteva.
Credeva che la propria vita fosse finita.
Come poteva andare avanti senza Dan?
-Dan avrebbe voluto che lo facessimo.- intervenne Arthur.
George non ci poteva credere, stava ancora pensando di evadere dopo quella terribile notizia.
Con gli occhi tutti bagnati, lo guardò male e si alzò minacciosamente.- Ma sei impazzito? Anche dopo questo?- bofonchiò, singhiozzando.
-Io voglio vivere, George.- affermò l’altro, guardandolo negli occhi.
-No, tu sei una fighetta del cazzo che se la sta facendo addosso.- replicò, stringendo i denti.
Arthur la prese come una grave offesa e di scatto gli diede un pugno sul viso.
-Va a fanculo!- gridò George, correndogli in contro e iniziando a picchiarlo con tutta la forza che aveva.
-Fermi! Basta!- esclamarono Greta e Ben.
Furono due guardie a separarli, anche se i due si dimenavano e li portarono dritti in infermeria.
Greta pregò che ci venisse portato anche il povero Ben, che riusciva a malapena a stare in piedi.
-Non rivolgermi più la parola!- continuò George, ancora furioso.
-Mammoletta!- ribatté Arthur.
Greta alzò gli occhi al cielo, sbuffando.- Smettetela!-
Lien si avvicinò timidamente ad Arthur, iniziando a medicargli il sopracciglio, da dove usciva sangue.
George notò che la ragazza aveva gli occhi gonfi e il viso pallido, come di chi aveva pianto molto.
Greta le strofinò una mano sulla schiena.- Lien, stai bene?-
-Sì.- bofonchiò appena, con lo sguardo basso.
I due vennero messi su letti lontani e Greta chiuse la tendina che lo divisero dagli altri letti.
Lo guardò male, incrociando le braccia.
-Oh, non guardarmi in quel modo, ha cominciato lui.- borbottò George, sentendosi il labbro bruciare.
-Voi uomini preferite risolvere tutto con le mani.- commentò Greta, inumidendo un batuffolo di cotone con dell’alcool per disinfettargli il taglio.
-Almeno abbiamo portato Ben in infermeria, come minimo gli amputeranno la gamba.-
Greta si sedette vicino a lui.- Non puoi saperlo questo.-
In un secondo, George ripensò subito a Dan e voltò lo sguardo sul soffitto.- Ma sapevo di Dan, sapevo che stava rischiando e non gliel’ho impedito.-
Greta fece un ghigno divertito.- Lui sapeva di noi…E pensi che se ti avesse impedito di iniziare questa cosa, tu l’avresti ascoltato?-
Aveva ragione, non l’avrebbe fatto.
Per Greta il suo silenzio ne era la conferma.
-C’è anche un Noi, quindi?- le chiese.
-Sì, se tu lo vuoi.-
-Ho paura solo a guardarti, figurati altro...-
Era meglio non dire a Greta cosa quell’altro scaturì nella sua mente.
L’avrebbe definita una cosa da uomini.
-Lien dice che ci si può baciare anche senza toccarsi con le labbra.- continuò, facendosi spazio sul materasso accanto a lui.
-Ah sì? E come?- le domandò, scansandosi appena per farla stendere.
Greta alzò una mano verso il suo viso e incominciò ad accarezzarlo con la punta delle dita.
Gli attraversò le sopracciglia, fino ad arrivare al mento, lentamente.
Nonostante lo stesso sfiorando, era quasi piacevole.
Scese poi sul collo e lungo il petto, fino ad arrivare alla vita, senza staccare gli occhi dai propri.
-Lo sai che se ci scoprono così, siamo morti?- le sussurrò.
-Preferisco essere morta che stare lontano da te.- rispose Greta, poggiando la fronte sulla sua.
Baciarla era ormai diventata una grande tentazione, ma George cercò di trattenersi.
Quindi portò la mano sul suo viso, toccandolo appena con tre dita, pollice, indice e medio.
La sua pelle era liscia e rosea.
Le labbra carnosa e rosse.
Non sembrava più la ragazza alla quale aveva rubato un bacio a Times Square: quella era altezzosa e viziata, lei invece no.
Con il dorso della mano, le accarezzò il collo e l’interno del seno, fino ad arrivare al ventre.
Greta lo guardò sorridendo.- E’ stato un gran bel bacio.-

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Capitolo 13
*** The withered rose ***


 
Presente
 
Ron vide Mara piangere di nascosto e si avvicinò a lei per asciugarle le lacrime con entrambi le mani.
-Scusa, è una parte così triste.- bofonchiò, tirando su col naso.
-Non fa niente.- le sussurrò, baciandola leggermente. -E’ solo che adesso peggiora…Sei sicura di voler continuare?-
Mara bevve l’ultimo sorso di gin della seconda bottiglia appena iniziata che si era versata nel bicchiere.- Sì…Allora, perché Han era così arrabbiato quella sera?-
 
Passato
 
Ben, George ed Arthur rimasero in infermeria quella notte.
Il pensiero di George era su Dan e perciò non riusciva a prendere sonno.
La stessa cosa Ben, a due letti da lui.
-Nonostante tutte queste pillole non mi viene sonno, dannazione!- borbottò, rigirandosi con la testa sul cuscino.
George ridacchiò silenziosamente.- Forse per via della tua stazza da grassone.-
-Non quanto Arthur, comunque.- borbottò, incrociando le braccia.
George rifletté sul loro rapporto e, col passare del tempo dietro le sbarre, era giunto ad una conclusione. -Quando glielo dirai?-
Ben si voltò verso di lui.- Dirgli che cosa?-
Lo guardò come fosse ovvio.- Che sei innamorato di lui?-
Il compagno divenne tutto rosso e sospirò.- Sei impazzito? Prima mi riderebbe in faccia e poi mi disonorerebbe come amico.-
Perciò aveva ragione. -Magari no.-
-O magari sì.- ribatté l’altro, con tono duro. -Non dirglielo, per favore.-
George alzò le mani sorridendo.- Promesso.-
Subito dopo, si rintanò nelle coperte e cercò di dormire.
Sognò casa sua.
La fattoria.
Gli animali.
I suoi genitori.
La cosa più bella che potesse ricordare e sperò di poterci tornare, un giorno.
Anche solo con la mente, anche solo da morto e rincontrarli tutti.
Perché George sapeva che sarebbe morto lì.
Se non di vecchiaia, sarebbe stato ucciso alla fine di quella guerra.
E non poteva scappare da questo.
Improvvisamente, i suoi sogni vennero interrotti da qualcuno che spinse la mano sulla propria bocca.
Spalancò gli occhi, non riuscendo a respirare.
Quello che vide fu Han, che si mise un dito sulle labbra, facendogli cenno di stare zitto.
Tolse poi lentamente la mano e lo fece alzare.
George non aveva idea di cosa volesse, ma non aveva altra scelta che seguirlo.
Nel cuore della notte, i due iniziarono a passeggiare per la prigione, con un inquietante silenzio.
Le guardie se ne stavano al loro posto, con il solito sguardo fisso verso il vuoto e il corpo duro.
-Sai George, nella mia carriera ho avuto molti avversari, ma solo uno mi ha dato del vero filo da torciere.- esordì, con le mani dietro la schiena.
George non capiva il perché stessero parlando come fossero due amici, ma gli diede corda, casomai gli venisse in mente di picchiarlo di nuovo.
-E chi era, signore?- gli domandò, camminando insieme a lui.
Han lo guardò con un ghigno divertito.- Sei tu.-
George si sentì quasi compiaciuto.
-Come fai impazzire le ragazze tu, amico mio, non esiste nessuno!- esclamò, dandogli una pacca sulla schiena.
Successivamente, Han lo invitò a sedersi sul banchetto che c’era davanti l’entrata.
Perciò George si sedette davanti a lui, ancora titubante su cosa sarebbe successo.
-Ma d’altronde basta poco con le ragazze, no? Uno sguardo misterioso, una voce suadente e la promessa che le amerei per sempre.- continuò, mettendo i gomiti sul tavolo. -E così le hai in pugno, giusto? Ti ci diverti quanto puoi…Così fanno gli americani, no?-
In quel preciso istante, George capì che al comandante non importava niente di Greta.
-E se non l’amava, perché l’ha sposata?-
Han ridacchiò, alzando un sopracciglio.- Oh, andiamo George, ma l’hai vista? Era praticamente la ragazza più bella di New York.- spiegò, come un’adolescente che spettegola con la sua migliore amica.- Vuoi sapere dove l’ho conosciuta? In un locale, circa un’ora dopo che l’avevi baciata. Che coincidenza, eh? L’abbiamo incontrata entrambi lo stesso giorno. Era al tavolo con quelle due oche delle sorelle: le tipiche ragazze che per un pugno di soldi ti farebbero accarezzare la coscia sotto il vestito. Ma lei no! Capisci? Lei faceva la difficile, l’ho capito non appena l’ho guardata.-
Sentirlo parlare di Greta in quel modo non gli piaceva affatto, ma trattenne i pugni sotto il tavolo.
-E’ stata come una sfida, come un’eccitante caccia.- continuò, scrutando i suoi occhi. -E non me la lascerò portare via, chiaro?- affermò, con tono serio.
George non si sarebbe mai immaginato che Han fosse un tipo del genere.
-Sai qual è il mio animale preferito?-
-No, signore…-
-Avanti, prova ad indovinare. Sembri uno alla quale piacciono questi giochi: ti do un indizio, è un felino con le strisce.-
Facile.
-La tigre.-
Han gli sorrise.- Esatto! Le tigri mi affascinano molto. Sai come cacciano? Loro aspettano…E aspettano…Per poi attaccare e non fanno sconti a nessuno. Capisco però che, intorno a lei, ci siano anche altri predatori.- spiegò, estraendo la pistola dalla tasca.- Anche se non tutti fanno paura, sai? Non tutti sono pericolosi. Deve solo capire che tipo di mossa faranno, calcolare i loro movimenti. Perciò…- L’uomo tolse la sicura dalla pistola e la poggiò al centro del tavolo.- Tu che cosa faresti, George?-
L’idea di prenderla e sparargli in testa era molto allentante.
Peccato che ci fossero tante altre guardie intorno a loro e sparse per la prigione che poi avrebbero ucciso lui.
Probabilmente era la mossa che si sarebbe aspettato Han.
Oppure poteva puntarsela addosso, farla finita una volta per tutte ed uscire da quell’inferno.
Han gli si avvicinò col viso.- Come uscire da questo labirinto, George? Come andarsene da questo inferno? E’ questa la domanda.- gli sussurrò, con l’accento marcato.
George sapeva che Han voleva che prendesse la pistola, così da avere un pretesto per ucciderlo, finalmente.
Ma non lo avrebbe fatto.
George prese la pistola e tolse il caricatore, estraendo i proiettili e posizionandoli uno accanto all’altro sul tavolo.
-Nonostante non mi siano tanto simpatici gli inglesi, hanno un primo ministro che un giorno disse: Anche se sei all’inferno, continua a camminare.- gli disse, incrociando poi le braccia.
Han non se lo aspettava affatto e George riuscì quasi a vedere il fumo che gli usciva dalle orecchie.
Fece una specie di ruggito e con tutta la forza si alzò, ribaltando il tavolo.
George si allontanò in tempo per non essere colpito, ma per prendersi il suo sguardo arrabbiato.
Han aveva cercato di sfidarlo e George aveva vinto, provocandolo abbastanza da farlo infuriare.
Il comandante fece un cenno ad una delle guardie, che riportarono George nella sua cella.
Si mise al letto, quella notte, con un sorrisetto soddisfatto sul volto.
 
Presente
 
Mara lo guardò confusa e sorpresa allo stesso tempo.- Tutto qui?-
Ron scrollò le spalle.- Tutto qui.-
-Non ci posso credere! Pensavo che…Che avessero litigato di brutto, che lui fosse furioso.- balbettò lei, mettendosi una mano nei capelli.
-Hanno fatto di peggio, George lo ha letteralmente sfidato.- commentò Ron.
Mara ci rifletté su e venne ad una conclusione.- Quello che fece dopo… Non l’ha fatto per fare del male a lei…- sussurrò, con gli occhi lucidi.
Ron scosse la testa, abbassando lo sguardo.- L’ha fatto per fare del male a lui.-
 
Passato
 
Quella stessa sera, quando Han tornò a casa, Greta aveva già finito di mangiare e non aveva preparato niente per lui.
Han osservò la tavola apparecchiata solo per lei e la guardò male.- Adesso non mi farai più trovare niente per cena?- borbottò, togliendosi il berretto.
Non era più come una volta, Greta non pensava a lui per tutto il giorno. -Non preparo da mangiare agli assassini.- mormorò, lavandosi il proprio piatto.
Han si morse un labbro, annuendo.- Hai scoperto che abbiamo ucciso quell’americano.- affermò, avvicinandosi alle sue spalle.- Hai aiutato un prigioniero di guerra a scrivere delle poesie d’amore ad una donna vietnamita che ha praticamente tradito il suo paese. Chi è l’assassino? Tu o io?-
Han stava, come si dice, cercando di rigirare la frittata, ma Greta non voleva crederci.- Ho letto il tuo contratto stamattina. Ho scoperto che non c’è nessuno che ti comanda, sei tu a prendere le decisioni, nessun piano alto, ci sei solo tu!-
Han prese un piattino e ci mise sopra due dei suoi biscotti che erano avanzati.- Se te lo avessi detto, avresti interferito.-
Greta asciugò il piatto e tirò il panno nel lavandino, furiosa.- Sei davvero un’ipocrita: dici di odiare le bugie quando sei tu stesso a dirle.-
-Almeno io non vado al letto con un altro uomo mentre sono sposata!- gridò Han, tirando il piatto sul tavolo con forza.
Greta sobbalzò, esausta.- Lui non mi ha mai toccata!-
Han alzò un sopracciglio.- Ah, davvero? Vuoi dirmi che non ti ha mai sfiorato la guancia così?- continuò, passandole il dorso della mano sulla guancia.
Giusto quello, ma nient’altro.
Suo marito aveva assunto uno sguardo infernale, i suoi occhi ribollivano dalla rabbia.
Greta non l’aveva mai visto così.
E forse era meglio saperlo prima di sposarlo: avrebbe dovuto vederlo felice, triste, arrabbiato e geloso.
Questo era stato il suo errore.
-No, anzi, forse piaceva prenderti così.- affermò, stringendole forte i fianchi da dietro.
Greta lo scansò via, disgustata.- Non l’ha mai fatto!- esclamò, iniziando anche ad avere paura.
Era una piuma in confronto a lui.
-Non continuare a mentire, Greta. Preferisco che me lo dici.-
-Non ti sto mentendo.-
Di scatto, Han le diede un forte schiaffo sulla guancia che gliela fece arrossare.
Ormai le parole non servivano più: dopo l’ennesimo colpo, un semplice piatto diventò una proposta allettante per fare del male anche a lui.
Fargli sentire come ci si sentisse.
Allora con la mano destra afferrò il piatto, pronta a colpirlo e glielo spaccò direttamente sul capo, stordendolo temporaneamente.
Doveva andarsene di lì, chiedere aiuto.
Ma non sapeva nemmeno parlare la lingua, perché tutto il tempo che avrebbe dovuto usare per impararla, li aveva passati con George.
Ad Ho Chi Minh, una cittadina non tanto lontano da lì, vi era l’ambasciata americana vietnamita, solo che Greta non lo sapeva.
Sembrava che Han glielo avesse nascosto apposta.
Tuttavia, Greta non riuscì ad arrivare nemmeno alla porta, dato che Han l’afferrò per i fianchi e la spinse verso il tavolo, nonostante gli urlasse di lasciarla stare.
-Scommetto che gli piaceva anche fare questo!- urlò Han, prendendola per i capelli e sbattendole la testa violentemente sul legno.
Improvvisamente, Greta non capì più niente: le girava la testa, le faceva troppo male per capire cosa stesse succedendo.
Però capì chiaramente che Han le stava brutalmente strappando il vestito da dietro e tirando giù le mutande.
Lei non riusciva a muoversi, però poté gridare, anche se non poté sentire il proprio urlo, né tutti gli altri suoni.
Solo le strette di Han facevano già male.
A quel punto, Greta vide la porta scuotersi, come se qualcuno stesse bussando violentemente.
Han si fermò da quello che stava facendo e fece entrare la guardia che di solito stava fuori, all’entrata.
I due discussero per due minuti, ma Greta vide solo le loro labbra muoversi, senza alcun suono.
Han prese in fretta il suo cappello e uscì correndo.
Fu come se quel soldato stesse aspettando che il comandante se ne andasse, prima di prendere Greta in braccio.
Tutto quello che riuscì a vedere prima di svenire, fu lui che la caricava in macchina.
 
Presente
 
-E’ stata davvero fortunata.- commentò Ron, stropicciandosi gli occhi: per raccontare la storia erano rimasti tutta la mattina sul letto.
Mara fece cenno di sì con la testa.- Ho sempre creduto che fosse stato una specie di angelo custode che stava vegliando su di lei.- aggiunse.
-Chi era?-

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Capitolo 14
*** The guardian angel ***


Era di nuovo mattino quando Greta aprì lentamente gli occhi.
Il sole le dava parecchio fastidio, perciò fu costretta a ripararsi con la mano.
Qualcuno, da una sedia lì vicino, si alzò per chiudere le tende alle finestre e così Greta riuscì a vedere chi fosse.
Era la guardia che stava sempre fuori dalla porta di casa sua.
Pareva molto giovane, sui 25 anni: i suoi tratti erano sì orientali, gli occhi a mandorla e le guance leggermente gonfiate all’insù, ma aveva anche qualcosa di diverso da tutti gli altri.
Greta si tirò su lentamente con il busto e si accorse di essere nell’infermeria della prigione.
Stava sicuramente meglio della sera prima, tranne per il leggero mal di testa.
-Mi dispiace, il comandante non vuole che vi curino.- esordì il ragazzo, sedendosi accanto al letto.
Il suo sguardo era paragonabile a quello di un bambino, buono ed innocente.
Iniziò a sentire dei dolori alle braccia e di fatti, guardandoli, si accorse che c’erano numerosi lividi sulla pelle.
-Non fa niente, sto bene.- affermò, mentendo.
Certo, si poteva stare peggio di così.
Se quel ragazzo non fosse intervenuto, chissà cosa le avrebbe fatto Han.
Era la seconda volta che Greta scampava a qualcosa di terribile, come quel giorno in cui si era addormentata nella neve.
Ricordandosi di quella sera, Greta ripensò al soldato che l’aveva riportata a casa.
Credeva che fosse Han, ma perché si sarebbe dovuto preoccupare per lei dopo quella furiosa litigata?
-Sei stato tu, vero?- suppose.- La sera che mi sono allontanata da casa…Sei stato tu a riportarmi.-
Il ragazzo abbassò lo sguardo, ticchettando il piede per terra nervosamente.  -Non volevo che moriste nella neve, signora.-
Non aveva alcun accento, parlava benissimo l’inglese.
Greta sorrise e gli si avvicinò lentamente.- Come ti chiami? Non sei di qui, vero?-
Egli alzò lo sguardo su di lei, arrossendo.- Mi chiamo Quan.- rispose.- Vengo da Machida, una piccola città del Giappone, ma mi sono trasferito in America qualche anno fa. Ho fatto l’Università e poi ho deciso di arruolarmi qui in Vietnam.-
-Perché?-
Quan divenne rosso quanto un peperone.- Vi prego, non prendetemi in giro…-
Greta ridacchiò.- Ti prometto che non ti prenderò in giro.-
Quan prese una piccola foto dal suo taschino e gliela porse.
Era una foto ritagliata, di una cabina per foto, che ritraeva una ragazza della sua stessa età: molto carina, all’apparenza spiritosa.
-Jane Walters.- intervenne lui. -La mia migliore amica al tempo dell’università.-
Greta aveva già capito l’inizio della storia.- Eri innamorato di lei?-
-Da matti.- affermò, mordendosi un labbro.- Lo sono.-
Greta fu curiosa di ascoltare quella storia.- E poi che è successo?-
-Sono sempre stata una persona gentile: mi ricordo una volta, quando dettero una festa alla confraternita e lei si ubriacò talmente tanto da non riuscire più a stare in piedi.- raccontò, unendo le mani sulle ginocchia. – Lei è fatta così, le piace festeggiare e bere. Solo che ai ragazzi universitari piace approfittarsi di queste situazioni. Sono riuscita a salvarla dalle grinfie di Kevin Russel, ma lei sapeva esattamente cosa stesse succedendo. E allora le ho chiesto: Perché fai così? Perché devi concederti agli uomini in questo modo? E lei rispose: Che differenza fa? L’amore è complicato, è stupido e noioso.- raccontò Quan. -Quindi ho capito subito di non avere speranze…Però faceva male, sapete? Vederla tutti i giorni senza poterle mai dire quello che provavo. Così, un giorno ho deciso che non ce la facevo più e mi sono arruolato per non vederla.-
Quella storia era talmente triste che fece versare una piccola lacrima a Greta.
-Mi dispiace tanto, Quan.-
-Certe volte vorrei essere meno gentile, essere un bastardo come Kevin Russel.- borbottò Quan, con gli occhi lucidi.
Greta gli si avvicinò, mettendo la mano sulla sua.- Ma non è nella tua natura, Quan.-
Lui tirò si col naso.- Ho sentito le vostre urla e mi sono detto che non potevo stare con le mani in mano.-
-Anche se non sono Jane Walters?-
Quan sorrise timidamente.- Oh, voi siete molto bella comunque, signora.-
Greta ridacchiò appena, rimettendogli la foto nel taschino.- Chiamami Greta.-
Il ragazzo prese da un’altra sedia un altro vestito, tirato fuori dal suo armadio.- Vi ho preso questo, credo che vostro marito vi abbia strappato quello che avete, dietro la schiena.-
Greta si era quasi dimenticata di quello che era successo la sera prima e cercò di scacciarlo dalla mente: chiuse la tendina e si cambiò.
-Se lo vuole sapere, i detenuti stanno uscendo adesso per l’ora d’aria: George la starà aspettando.- continuò il soldato.
Greta gli sorrise, uscendo fuori dalla tenda.- Tu che ne sai?-
-Ehm…Ero dietro la porta, signora, anche se non mi era dato ascoltare, ho ascoltato.- spiegò Quan. -Vi ho offesa in qualche modo?-
-Oh no, Quan, sta tranquillo. Grazie di tutto.-
***
Ormai le giornate senza Dan sembravano prive di significato.
Non solo per lui, ma anche perché non gli era più consentito andare alla fattoria e vedere Greta.
I vestiti che gli aveva dato Han stavano iniziando a diventare logori e sapeva di doversi tenere quelli per tutto il tempo che sarebbe rimasto lì.
Non diventeranno piccoli, pensò.
Anzi, forse saranno fin troppo grandi, dato quello che ci danno da mangiare.
-Ti voglio bene…Non ti voglio bene…- Ben interruppe i suoi pensieri, standosene sul muretto sotto l’albero a contare i petali di margherita.
Arthur alzò le sopracciglia.- Lo stai facendo seriamente?-
-Certo, vediamo se la margherita ha ragione!-
La gamba di Ben stava lentamente guarendo, ma doveva stare seduto per la maggior parte del tempo.
-Ti voglio bene…Non ti voglio bene…Ti voglio bene! Brava margherita!- esclamò Ben, soddisfatto.
L’amico ridacchiò.- Sei un frocetto del cazzo!-
Sentirgli dire quella parola, lo fece infastidire parecchio. -Perché, cos’hai contro i froci?-
Arthur notò che George si fosse offeso.- Niente, stavo solo scherzando, non ti scaldare tanto…-
-Lascia stare George, davvero.- intervenne Ben, abbassando lo sguardo come se si vergognasse.
Arthur guardò prima George e poi di nuovo Ben.- C’è qualcosa che io non so?-
George sbuffò, scuotendo la testa. -Ci sono tante cose che non sai.-
A quel punto, ecco entrare in cortile Greta.
George osservò subito che barcollava un po' e le calavano le palpebre.
Così le si avvicinò subito.- Ehi, stai bene?-
Lei si passò le dita sugli occhi.- Sì, mi gira solo un po' la testa…-
In quello stesso istante, vide dei lividi neri sul suo corpo e gli ribollì il sangue per la rabbia.- Greta, che hai fatto qui?-
-Niente…- bofonchiò lei, scansandolo debolmente.
Non sembrava affatto niente.- Greta, ti ha picchiata?-
-N-non lo so, non cr-
Subito dopo, il corpo della ragazza cadde su di lui e George fece appena in tempo ad afferrarla prima che cadesse.
Era svenuta.
Così George la prese in braccio e corse verso l’infermeria, preoccupato.- Lien!- gridò, adagiandola sul primo letto che vide.
Era colpa di Han, ne era sicuro.
-Che è successo?- domandò Lien, in fretta, estraendo una piccola torcia dal camice.
-Non lo so, è svenuta.- balbettò George, in preda al panico.
Non si era mai preoccupato così tanto per Greta.
Doveva per forza significare qualcosa.
Che stesse provando dei veri sentimenti per lei?
No, non si può, non è possibile.
Ormai, però, era fatta.
Che lo si chiamasse destino o altro, George era pazzo di lei.
Lien le aprì le palpebre e controllò gli occhi con la luce.- Credo che abbia un’emorragia celebrare.-
Significava che aveva battuto forte la testa e il cervello ne stava risentendo.
Poteva essere la dimostrazione che Han l’avesse picchiata.
George ripensò subito alla sera prima in cui aveva praticamente litigato con il comandante e lui se ne era andato furioso.
-Cazzo, è colpa mia.- balbettò, mettendosi le mani nei capelli.
Lien si voltò verso di lui.- Perchè, che hai fatto?-
George si mise a girare per tutta l’infermeria.- C-Credo di averlo fatto arrabbiare.-
-Non è colpa tua se quel mostro non sa controllare la rabbia.- commentò Lien, esaminando il resto del corpo di Greta, fin che non trovò altri lividi: sulle cosce e sui fianchi.- Dannazione.-
Abbassò lo sguardo sulle sue gambe e si sentì mancare il fiato.- Porca puttana!- esclamò, mordendosi le nocche della mano per il nervoso.
Lien andò verso di lui e gli strinse le spalle.- George, adesso calmati. Andrà tutto bene, lei starà bene, okay? Non è una cosa grave, ce la farà.-
George iniziava a sentirsi un vero e proprio criminale: pensò di meritarsi di stare dietro le sbarre.
Se lui non avesse sfidato Han, forse non le avrebbe fatto del male.
Stava per scoppiare a piangere.
Si tolse le mani della ragazza e stavolta fu lui stesso ad andare nella propria cella e a chiudersi dentro.
Si sedette in un angolino, portandosi le gambe al petto.
Non aveva capito quanto Greta significasse per lui.
E solo l’idea di aver fatto del male, anche se involontariamente, anche se non personalmente, lo fece stare malissimo.
E pensò che forse fosse meglio starle lontano.

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Capitolo 15
*** The aviator ***


Giugno 1959 – Due anni di prigionia
 
Erano passati 6 mesi da quando Greta era entrata in infermeria e Lien si stava prendendo cura di lei.
Il tempo passava così lentamente e, anche se George non sapeva neanche che giorno fosse, lo si capiva circa dalla stagione, ogni volta che uscivano per l’ora d’aria.
Se nevicava, se faceva caldo o se dal grande albero del cortile cadevano le foglie.
In quel caso, l’albero era pienamente in fiore e il sole iniziava a picchiare sulle pietre.
Estate, non piena, ma estate.
Stare da solo in cella non era proprio uno spasso: George passava le intere giornate a cercare di arrivare alla finestra, però non ci riusciva mai.
I giorni trascorrevano, la barba e i capelli gli crescevano sempre di più.
Tuttavia, quando era spuntato il sole, i soldati avevano riunito a gruppi di 10 i prigionieri e li avevano fatti lavare con l’acqua presa dal pozzo.
George non riusciva a stare in quel posto: erano stati messi nel cortile dove avevano impiccato sia Dan che il capitano Francis.
Aveva chiuso gli occhi e si era lavato senza guardarsi attorno.
Era stata l’unica novità in quei 6 mesi: un bagno e dei vestiti puliti, tranne per il fatto che George non vedeva più Han in giro.
Forse se ne stava rintanato a casa, a pensare a quello che aveva fatto.
George era convinto che non solo avesse fatto del male a Greta, ma che l’avesse anche violentata, dato i lividi che aveva sulle cosce.
Riguardo a Greta, cercava di non pensarci mai.
Gli era difficile, però.
Ogni volta che gli balenava nella mente la sua faccia, dava un colpetto con la testa al muro, fino a farsi quasi male e così la smetteva.
Purtroppo, quel giorno di Giugno, gli fu impossibile non pensarci.
Lien entrò nel corridoio delle celle e si fermò alla sua.- Ciao George.-
George capì subito che se Lien gli stava parlando, era per via di Greta.- Che c’è, Lien?- le chiese, sospirando.
-George, è l’undicesima volta che mi chiede di vederti, che altra scusa dovrei inventarmi?- replicò la ragazza, gesticolando.
Lui si rannicchiò su se stesso.- Non lo so, inventati qualcosa.-
-George, quante volte devo ripeterti che non è colpa tua? Il comandante è un pazzo. Ho sentito la versione della guardia che sta fuori dalla fattoria, quella che l’ha portata via: Han non l’ha violentata, aveva solo dei lividi perché ha tentato di difendersi.- spiegò la ragazza.
Almeno questa era una consolazione, ma non bastò a George per sentirsi meno in colpa. -Non riuscirei comunque a guardarla in faccia.-
-Ma lei chiede di te!- insistette Lien.
A quel punto George sbottò.- Tu non capisci!-
-Certo che capisco!- esclamò Lien, guardandolo con gli occhi lucidi.- Dan è morto, George! E’ morto per colpa mia, perché sono stata un’incosciente!-
Non ci riusciva.
Non poteva avercela con lei solo per aver preso una cotta.
-Mentre lei è viva ed è lì, ti sta aspettando.- continuò Lien, asciugandosi gli occhi.
Greta gli mancava da morire e avrebbe tanto voluto rivederla.
Magari avrebbe potuto perdonarlo.
Allora prese coraggio e si alzò, stringendo le sbarre.- Anche se la volessi incontrare, come faccio?-
Di scatto, Lien si allontanò leggermente dalla cella e poi diede un calcio sulle dita di George, facendolo urlare.
-Porca puttana! Ma sei impazzita?!-
Lien controllò che la guardia stesse arrivando e gli osservò la mano.- Forse ti ho rotto un dito, basterà a tenerti in infermeria un paio di giorni.- gli sussurrò.
George si strinse la mano con l’altra, dolorante.- Cristo.-
Ma almeno era una scusa per andare in infermeria.
-Ngu’oi tù bi thuong.- disse Lien alla guardia.
Egli aprì la cella e Lien lo accompagnò in infermeria, facendolo sedere su un letto.
L’anulare era più rosso degli altri, perciò Lien ci fissò una piccola stecca di legno per farlo stare dritto e lasciare che le ossa si ricostruissero da sole.
-E’ me che dovresti odiare, non te stesso: ho praticamente ucciso il tuo migliore amico.- sussurrò la ragazza.
George scosse appena la testa.- Non potrei mai odiarti.- affermò, con un leggero sorriso.- Ho dato già abbastanza odio.-
Lien ridacchiò appena, arrotolandogli della garza intorno al dito.- Ora capisco perché le piaci tanto.-
In quello stesso momento, qualcuno tolse una tendina da davanti un letto.
George si voltò e vide Greta sorridergli.
-Ehi.-
-Ciao.- rispose George, avvicinandosi a lei.
Era piuttosto pallida, ma sembrava stesse meglio.
-Come ti senti?- le domandò, mentre Lien li lasciò soli.
-Ho meno mal di testa: Lien dice che tra qualche giorno potrò uscire, ma non voglio tornare a casa.- spiegò, abbassando lo sguardo.
George rabbrividì, mettendo la mano sulla sua.- Greta, mi dispiace tanto per quello che è successo.- affermò, sedendosi su una sedia accanto al letto.
Greta lo guardò confusa.- Non è stata colpa tua, ma che dici?-
Lui si trattene dal piangere.- Sì invece, lui…Quella stessa sera mi ha sfidato, si è arrabbiato, se io non avessi…Se non avessi risposto…-
La ragazza gattonò sul letto per abbracciarlo.- Sssh, è tutto finito adesso e io non ce l’ho assolutamente con te. E’ colpa sua, colpa di questa maledetta guerra.-
George si sentiva già un po' più sollevato, dato che per mesi era stato a rimuginarci sopra.
Greta lo guardò, accarezzandogli il viso.- Ti è cresciuta la barba.-
L’altro arrossì.- Non c’era nessuno che me la facesse.-
Perciò, Greta si alzò nella sua vestaglia da notte e prese delle forbici, tagliandogli un po' sia la chioma scura che la barba.
-Vedo, vedo…Una faccina ben depilata.- esordì Greta, ridacchiando.
Anche George rise e le accarezzò la guancia, guardandola negli occhi.- Mi sei mancata.-
Greta ricambiò lo sguardo con un leggero sorriso, prima di alzarsi la veste fino al ventre.
Si mise a cavalcioni su di lui, poggiando la fronte sulla sua.
George sentì la pelle rabbrividire e un eccitante calore nel basso ventre.
I loro corpi non erano mai stati così a contatto.
Se una delle guardie fosse entrata in quel momento dalla porta, probabilmente li avrebbe uccisi entrambi.
-Greta…- sussurrò, prendendo un bel respiro.- Non puoi fare così…-
-Vuoi avere paura tutta la vita?- mormorò lei, appigliandosi alle sue spalle.
George guardò un’ultima volta la porta e sperò tanto che Lien l’avesse chiusa a chiave, perché sentiva l’eccitazione crescere.
Scosse appena la testa e Greta gli passò le dita sul viso, lentamente.
George sapeva che significasse che lo stesse baciando, senza farlo effettivamente, così ricambiò.
Successivamente, Greta gli mise le mani sui propri fianchi ed iniziò ad ondeggiare su di lui, facendo strofinare le loro intimità.
Mandò la testa all’indietro, chiudendo gli occhi e ansimando leggermente per il piacere.
George ne approfittò per baciarle il collo e godersi per una volta il sapore della sua pelle.
Greta si aggrappò alla sua schiena, aumentando la velocità.
Lui le strinse i fianchi: non desiderava essere da nessun’altra parte se non con lei.
Percepì il gemito salirgli su per la gola, ma Greta gli tappò la bocca con la mano, per far sì che nessuno lo sentisse.
Era come se avessero fatto l’amore.
Una delle più belle cose che George avesse mai fatto in vita sua.
Anche se, il peggio, doveva ancora arrivare.
 
Presente
 
-Ho un’idea!- esclamò Mara, facendo sobbalzare Ron. -Perché non li facciamo incontrare?-
Ron storse la bocca.- Dopo 40 anni? E credi che siano in grado di riconoscersi a vicenda?-
Mara si alzò sul materasso, entusiasta.- Perché no? Si amavano.-
-Non avevi detto che tua madre aveva già avuto due infarti? Non pensi che se lo rivedrebbe, potrebbe avere mille emozioni tutte insieme. Il suo cuore potrebbe non reggere.- ribatté l’altro.
Mara si risedette, incrociando le braccia: Ron sembrava non crederci.- Ma si amavano.- ripeté.
Ron sospirò, voltando lo sguardo.- Sì, lo hai già detto: ascolta, l’amore non risolve sempre tutto.-
Mara fu confusa dalle sue parole.- Sì, invece, se tu persone si amano…-
-La vita non è tutta rosa e fiori, Mara! Per vivere felice con una persona non puoi solo amarla: esiste il rispetto, i soldi, il lavoro…-
Mara capì perché stesse parlando così: probabilmente per il fatto che si era separato dalla moglie da poco.
Ma allora cosa significava ciò che c’era stato tra loro?
-…E poi tu che ne sai dell’amore?!-
Non poteva credere che lo avesse detto davvero.
Niente, infatti, Mara non sapeva niente dell’amore.
Non sarebbe bastato infatuarsi di una persona che aveva appena conosciuto.
Ron sospirò, strizzando gli occhi.- Scusa, non volevo dire questo.-
Aveva ragione, non poteva più controbattere. -No, hai ragione. Forza, continua a raccontare: quando arrivò l’aviatore?-
 
Passato
 
9 settembre 1959 – Due anni e due mesi di prigionia
 
Era una serata piovosa quella in cui Arthur si mise a strofinare un cucchiaio di plastica che aveva preso dalla mensa sulle sbarre.
Tutto per noia.
-Da quant’è che siamo qui dentro?- borbottò, sospirando.
George era l’unico che teneva il conto.- Meglio che non te lo dico.- rispose, osservando le goccioline di pioggia che cadevano lungo la finestra.
In quel preciso istante, George sentì camminare per il corridoio due persone e poi venire verso la propria cella.
Una delle guardie l’aprì e ci mise dentro un uomo con una divisa militare.
Finalmente un nuovo compagno.
Una cosa positiva per George, ma magari non per quel militare.
Era più grande di lui, ferito alla bocca e con un enorme graffio sul collo che stava sanguinando.
Dai suoi occhi, George capì che non era proprio in se.
-Bastardi, ricoverano solo chi gli pare e piace.- commentò Ben.
La divisa era sicuramente americana: interamente bianca e con qualche medaglia ancora appesa per caso.
Sembrava troppo scosso per parlare, così George decise di aiutarlo, sapendo che probabilmente non lo avrebbero mai curato.
La sua mascella penzolava da una parte, i suoi capelli ricci e mori, mentre il colore degli occhi non riuscì a vederlo.
-E’ americano?- domandò Ben.
George gli strappò parte della maglia per potergli fare una fasciatura di fortuna sul collo, dato che non poté fare altro.- Sì, ma credo che sia svenuto.- rispose, dandogli delle pacche sulla guancia.
Improvvisamente, spalancò gli occhi come uno zombie che ritorna in vita.
Tutti e tre sobbalzarono e George andò all’indietro.
-Porca puttana, mi è preso un infarto!- esclamò Arthur.
L’uomo si passò le mani sugli occhi, guardandosi attorno spaesato.
-Vi sentite bene?- gli chiese George.
Si toccò la ferita e fece un verso di dolore, col fiatone.
-Non la tocchate, non è molto, ma dobbiamo fermare il sangue.-
-Chi sei? Dove sono?- bofonchiò con voce rauca.
Gli occhi li aveva azzurri.
-Mi chiamo George. E loro sono Ben e Arthur.- spiegò George, indicando i due compagni nell’altra cella.
-James Stockdale: ammiraglio del portaerei USS Oriskany.- si presentò egli.
-Siamo marinai della USS Sullivans.- puntualizzò Arthur. -Come va la guerra?-
James sospirò.- Alla pari, non sta vincendo nessuno. I vietnamiti si uccidono fra di loro e si scordano di uccidere noi.- raccontò, ridacchiando appena per via della ferita. -Stupidi imbecilli.-
-Cosa è successo al vostro portaerei?- continuò il suo compagno di cella.
-Ci hanno attaccato al Golfo, qualcuno ha fatto la spia e sono venuti a sapere che eravamo accampati là: hanno distrutto tutto.-
La pelle di George rabbrividì: era colpa sua se il Golfo era stato scoperto.
Cercò di non far trasparire il fatto che si sentisse in colpa, che in parte era colpa sua se degli Americani erano morti.
Forse era una cosa di cui non si sarebbe mai perdonato.
Non avrebbe più dormito la notte, probabilmente.
-Ho tentato di decollare, ma hanno abbattuto il mio aereo: mi sono lanciato con il paracadute e sono finito in mare. E se non fosse già peggio, una volta in acqua, mi sono girato e ho visto una fottutissima medusa che mi stava facendo un lavoretto al collo.-
Ecco perché la ferita: pareva più una bruciatura, infatti.
-Mia moglie e mia figlia erano lì…Non so neanche se siano sopravvissuti.- aggiunse, mettendosi una mano nei capelli.
George fulminò i compagni con lo sguardo, non sapendo cosa dire.
-B-Beh, ma ci dovranno essere delle specie di operazioni di evacuazioni in questo caso.- intervenne Ben, balbettando.
James annuì.- Sono partiti altri aerei: spero solo che non abbiano abbattuto anche quelli.- rispose, stendendosi sul letto.- Dove sono?-
-All’Hanoi Hilton.- disse Arthur, ridacchiando.
George scosse la testa, sospirando.- Non ci fare caso. Sei nella prigione di Hoa Lo, in Vietnam.-
James aggrottò le sopracciglia, osservando le coperte e i loro vestiti.- Da quanto siete qui?-
George non avrebbe voluto dirlo.- 2 anni e 2 mesi.-
Ben sgranò gli occhi.- Cazzo, è passato così tanto…-
-Qualcuno ha provato ad andare via?-
In realtà, George sapeva che un modo c’era, anche se era molto pericoloso.
Forse, dopo 2 anni di prigionia, era ora che iniziasse a pensarci più seriamente.
Alzò lo sguardo e vide che fuori si era fatto buio, era ora di dormire.
Scosse la testa verso James e poi si mise giù, rimuginandoci sopra.

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Capitolo 16
*** The courage ***


Subito dopo esser stata dimessa, Greta venne rimandata alla fattoria, anche se non voleva affatto tornarci.
Non voleva avere più niente a che fare con Han e, quando avrebbe trovato il coraggio, si sarebbe tolta la fede.
L’unico motivo perché rimaneva in Vietnam, era per stare vicino a George, per quanto le fosse possibile.
Stare 6 mesi in infermeria le aveva fatto quasi dimenticare come fosse quella fattoria.
Quan l’aveva riportata a casa e fortunatamente Han non c’era.
L’unica cosa che le importava controllare erano gli animali.
Uscì fuori sul prato e vide che tutte le vacche stessero bene.
Anche Ponos era stato trattato bene: il suo pelo era lucido e la criniera liscia.
-Ha fatto venire degli uomini dalla città per occuparsene.- esordì Quan, riferendosi ad Han.- Sapeva che tenevate al cavallo.-
Greta gli diede un’ ultima carezza e chiuse la cella, per poi dare uno sguardo oltre la collinetta.
Si ricordò del fatto che, superato il chilometro, potesse scappare.
-Che cos’era c’era lì? Perché siete andata fino a lì?- le domandò Quan.
-La libertà.- rispose, abbassando lo sguardo. -Grazie Quan, puoi andare adesso.-
-Sono fuori la porta, se vi serve.-
Greta gli sorrise appena e osservò come era caduta in degrado la casa, piena di polvere e piatti sporchi.
Prese un panno e iniziò a pulire, cominciando dal jukebox e le fotografie: sul davanzale, c’era ancora quella sua e di Han, il giorno del matrimonio.
Era così ingenua, all’epoca.
La prese da dentro la cornice e decise di strapparla.
Rivedere Han, quella sera, non le fece alcun effetto, se non rabbia.
Cenarono a metri di distanza l’uno dall’altro e il rumore del televisore nascondeva il silenzio che c’era nella casa.
Greta non aveva intenzione di dormire con lui, perciò si accomodò sul divano, non le importava di stare sul letto.
Si mise la camicia da notte e si coprì con il lenzuolo, fissando il soffitto.
Han, nel mentre, bevve un po' d’acqua e fece per spegnere la luce.
D’un tratto, tre parole uscirono dalla bocca di Greta, così, di getto, le ultime che Han avrebbe sentito con quel tono pacato.- Voglio il divorzio.-
***
2 dicembre 1959- 2 anni e 4 mesi di prigionia
 
Le pratiche per il divorzio in Vietnam erano molto veloci, quasi più di quanto ci avessero messo a sposarsi.
L’avvocato se ne andò giusto quella mattina, all’ora di pranzo, lasciando due pile di fogli sul tavolo che entrambi avrebbero dovuto firmare.
Una pila in vietnamita e un’altra in inglese.
Greta ci mise due secondi a lasciare la sua firma, mentre Han esitò.
-Credi che un paio di fogli mi separeranno da te?- esordì egli.
Greta non riuscì nemmeno a guardarlo negli occhi. -Sì.-
Han non ribatté, prese il suo berretto ed uscì di casa, senza firmare.
Fu frustrata dal suo comportamento e per rabbia diede un pugno sul tavolo.- Va a fanculo!-
Quan sentì il rumore da fuori ed entrò in fretta.- Tutto bene, signora?-
Greta sospirò, passandosi una mano nei capelli.- Sì, Quan, scusa.-
Voleva essere in qualsiasi altro posto, tranne che lì.
Aveva bisogno di sapere se quel pensiero che le balenava in mente di fuggire con George fosse una cosa possibile.
Doveva inventare un modo per far andare tutti e due via di lì.
-Quan, se ti dico una cosa, prometti di non dirla a nessuno?-
Insieme, Greta e Quan percorsero a piedi il prato, fino ad arrivare alla fine della fattoria.
-Cosa volete fare?- le chiese Quan.
-Voglio scappare con George e credo che questo sia l’unico modo.-
Nonostante fosse stata contraria la prima volta che George gliene aveva parlato, ora Greta sembrava più sicura che mai.
-Se attraversate la strada potete andare all’ambasciata americana.-
Greta lo guardò sorpresa.- La cosa?-
-L’ambasciata americana, è a circa due chilometri da qui.- spiegò il soldato, indicandole la direzione con il dito.
Greta non lo sapeva.
L’ambasciata era la loro unica possibilità di non venire uccisi: perché, non appena entrati lì dentro, sarebbero stati al sicuro.
Greta sorrise ampiamente, afferrandogli le spalle.- Quan, ma sei un genio!-
-Grazie signora, non me lo aveva mai detto nessuno.- continuò lui, arrossendo.- Posso prendere la macchina e aspettarvi sul ciglio della strada.-
Lei scosse la testa, non voleva che Quan fosse coinvolto.- No, dobbiamo farlo da soli: se lo vengono a scoprire, Han ti farà uccidere.-
In quell’istante, decine di idee le si presentarono nella mente.
-Anzi, dovresti trovare un modo per far venire George qui.-
-Posso nasconderlo nell’auto, dire alla guardia della cella che il comandante vuole parlargli e farlo uscire.- pensò Quan.
Greta annuì.- Sì è perfetto…E…E possiamo usare Ponos per arrivare fino a qui, lui sa cavalcare.-
Quan prese a guardarla negli occhi.- E’ molto pericoloso signora: siete sicura di volerlo fare?-
Greta strinse i pugni e ripensò a quando Han aveva legato George all’albero, facendolo morire di freddo.
Non voleva che lui soffrisse più in quel modo.- Ne sono sicura.-
Per l’ora di pranzo, Greta e Quan tornarono alla fattoria e la ragazza si cucinò qualcosa per se, poi sarebbe andata alla prigione per avvisare George.
Mentre lavava il piatto, il telefono squillò.
Era una cosa strana, non chiamava mai nessuno.
Semmai era Greta che chiamava le sue sorelle, anche se non più frequentemente come faceva quando era arrivata in Vietnam.
Nessuna delle due sapeva quello che era successo con Han.
Se solo avessero saputo che l’aveva toccata con un dito, probabilmente sarebbero partite con il primo volo.
Belle da New York, con la sua vita spensierata.
Josefin, invece, era andata come infermiera volontaria in un piccolo paesino della Francia di nome Fréjus.
Non si sarebbe mai aspettata che una ragazza come Josefin sarebbe andata a fare proprio l’infermiera, ma era orgogliosa di lei.
Greta era indecisa o no se tenersi le scarpette da ballerina di Han: amava ballare, però ogni volta che le avrebbe guardate, si sarebbe ricordata di lui.
In quel momento, Greta iniziò a pensare a cosa avrebbe fatto con George una volta scappati via.
Forse c’era una possibilità di liberare i marinai americani, dopotutto erano loro ad esser stati attaccati, non avevano fatto alcun male.
Chissà se è così che funziona la guerra.
Al terzo squillo, Greta si portò la cornetta all’orecchio.- Pronto?-
-Greta?- bofonchiò una vocina debole.
Greta la riconobbe subito.- Belle?-
-Greta…- ripeté la sorella, singhiozzando.
Iniziò a preoccuparsi.- Belle, stai bene?-
-Hanno chiamato poco fa…La diga di Malpasset è crollata…- piagnucolò.
Greta non riusciva a capire di cosa parlasse.- La diga? Belle, ma di che parli?-
-La diga di Malpasset, sopra le colline di Fréjus…Ha colpito il paese.- spiegò Belle, scoppiando a piangere.
Fréjus era il paese dove si trovava Josefin.
Le tremarono le mani e quasi non riuscì a tenere il telefono.
-Belle, dimmi che Josefin sta bene…- balbettò, sentendo gli occhi inumidirsi.
-Mi dispiace Greta…-
-Ti prego, ti prego…-
Greta si lasciò scivolare lungo il mobiletto, scoppiando in lacrime e lasciando che la cornetta cadesse.
Josefin era morta.
L’acqua aveva spazzato via quasi tutto il villaggio.
Greta si accasciò per terra, creando una pozza di lacrime sul pavimento.
Rimase stesa per un po' e il suo cuore si spezzò a metà.
***
Le guardie avevano visto che la ferita dell’aviatore si stesse infettando e, quando aveva iniziato a puzzare, avevano finalmente deciso di mandarlo in infermeria.
Intanto, George, come ogni giorno, fece la fila per il pranzo.
Quando venne il suo turno, notò che Greta non stesse affatto bene.
Aveva le occhiaie e il naso tutto rosso, come se avesse pianto tanto.
-Ehi, stai bene?- le domandò, soffermandosi più del dovuto.
Lei tirò su col naso.- Sì, sta tranquillo.-
-Non mi pare, sei a pezzi.-
-Sto bene, te lo dico dopo.- ribatté lei, alzando le sopracciglia.
George non l’aveva mai vista così sconvolta.- No, tu me lo dici adesso.-
-Ehi, ma ti vuoi muovere!- gridò qualcuno in fondo alla fila.
-Va a fanculo!- esclamò George, saltando dall’altra parte del tavolo per prenderle il viso tra le mani.-  Che è successo? Ti ha toccata di nuovo?-
George non ci poteva credere che si stesse preoccupando così tanto.
Greta scosse la testa, con gli occhi colmi di lacrime. -No, si tratta di mia sorella…- singhiozzò, asciugandosi il naso. -E’ morta.-
George capì subito come si potesse sentire: non aveva ancora superato la morte di Dan e probabilmente non lo avrebbe mai fatto.
Non disse nient’altro, si limitò a stringerla a se, strofinandole la schiena.
Poco dopo, Greta poggiò la fronte sulla sua, mettendosi in punta di piedi. -Vieni via con me.- gli sussurrò, fissandolo negli occhi.
George crebbe di aver capito male.- Cosa?-
-Avevi ragione, oltre la fattoria c’è la libertà. Quan mi ha detto che c’è l’ambasciata americana, se ci arriviamo, non potranno più toccarci.-
George la guardò confuso.- Chi è Quan?-
-Il soldato che fa la guardia alla casa, è dalla nostra parte. Domani, a mezzogiorno verrà a prenderti, saltiamo su Ponos e corriamo all’ambasciata, io e te.-
George rabbrividì per la tensione, anche se era un ottimo piano.- Greta, è pericolosissimo.-
-Non mi importa, sono stanca, voglio andare via di qui!- esclamò a bassa voce. -All’ambasciata troveremo un modo per liberarle gli altri: non avete fatto niente, non hanno il diritto di tenervi qui.-
Greta aveva ragione: avevano una possibilità.
-Trành xa cô ây!- urlò una guardia, camminando minacciosamente verso di loro e intimandogli di allontanarsi.
-Ti prego, vieni con me.- ribatté Greta a bassa voce.
George si fece da parte prima che le guardie lo picchiassero.
Era davvero indeciso: voleva scappare con lei con tutto se stesso.
Però, se li avessero presi, entrambi rischiavano la morte.
George poteva essere benissimo appeso al collo come Francis e Dan.
Sentiva già la morsa della corda sulla gola.
Gli passò la fame e tornò in cella senza mangiare, dove avevano riportato anche James.
-Ehi, pss, che ti ha detto?- gli domandò Ben.
-Vuole scappare insieme, domani.- rispose George, passandosi le dita sugli occhi nervosamente.
James fece capolino dalle sbarre per controllare che la guardia non lo stesse sentendo.- Ma sei impazzito?! E lo dici così ad alta voce?!-
-Non vi preoccupate, non capiscono un cazzo di inglese.- intervenne Arthur.
Ben si avvicinò alle sbarre.- George, dovresti andare.-
L’amico sospirò.- E lasciarvi tutti qui? Greta dice che qui vicino c’è l’ambasciata americana, ma…-
-E allora devi andare sicuro!- affermò Arthur. -Parliamoci chiaro, ragazzi, George è l’unico che ha davvero le palle tra di noi.-
-Ah, quindi è di una ragazza che si parla.- aggiunse James, alzando le sopracciglia. -E lei com’è?-
-Dolce.-
-Strafiga.-
Dissero all’unisono Ben ed Arthur.
Ben lo guardò male.- Non ci posso credere che tu l’abbia detto.-
-Non so spiegarvelo.- sussurrò George.- E’ bellissima, sì, ma mi piace il modo in cui mi fa sentire. Appagato, felice, come se la vita potesse essere una meraviglia. E quindi mi dimentico del resto, mi dimentico di dove sono.-
-Allora ne vale la pena, ragazzo.- commentò il suo compagno, dandogli una pacca.- So che hai paura, non devi vergognarti, abbiamo tutti paura. Sai, ragazzo, anche dopo anni di esercitazioni, quando sapevo che dovevo lanciarmi con il paracadute, me la stavo facendo addosso. Ma è per questo che esistono i limiti, per essere superati. E credimi ragazzo, la vita dall’altra parte è una favola! Non importa dove tu sia, perché arrivato ad una certa età ti chiederai: ho vissuto a pieno la mia vita? Ho amato abbastanza? Sono stato abbastanza coraggioso?- disse l’aviatore, guardandolo dritto negli occhi.- Tu sei abbastanza coraggioso, ragazzo?-
-Oh sì.- affermò Ben.
George sorrise appena e fece un cenno sicuro di sì con la testa, stringendo i pugni.
Poteva farlo e potevano anche farcela.

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Capitolo 17
*** The end ***


 
Greta era fin troppo nervosa per toccare cibo quella mattina.
Le si ingarbugliava lo stomaco solo a pensare a quello che avrebbe fatto se George avesse accettato di venire.
Non poteva portare bagagli sul cavallo, ma non le importava dei vestiti, dei ricordi.
Anzi, tutto quello che aveva vissuto in Vietnam se lo voleva dimenticare, tranne i momenti con George, ovviamente.
Quando Han se ne andò, indossò i pantaloni in pelle e gli stivali per stare comoda.
Si sedette al tavolo, aspettando.
Neanche la televisione riuscì a distrarla.
Il tictac dell’orologio era diventato fastidioso, però andava al ritmo del suo cuore galoppante.
L’ansia le fece mancare il respiro.
Erano le 11:59 quando guardò per un’ultima volta l’orologio appeso alla parete.
Decise di non guardarlo più e chiuse gli occhi, mentre la lancetta dei minuti si posizionò al centro, insieme a quella dei secondi.
Anche se impercettibile, Greta riuscì a sentirne il rumore e sapeva che si era fatto mezzogiorno.
Allora attese.
Attese secondi che sembravano anni, da sola in quella casa piena di ricordi orribili e magnifici.
Erano le 12:01 e nessuno si era presentato.
Capiva il timore di George: anche lei se la sarebbe fatta sotto al posto suo, questo perché George era quello che rischiava di più.
Lentamente, Greta capì che se non fosse stato George a salvarla, si sarebbe salvata da sola.
Avrebbe cavalcato Ponos e sarebbe andata da sola.
Si alzò dalla sedia e la ripose sotto il tavolo, nello stesso momento in cui la maniglia della porta si girò.
Greta si voltò verso di essa e vide George entrare velocemente.
Non ci poteva credere, era venuto.
Gli corse in contro con un sorriso a 32 denti e si buttò tra le sue braccia.
-Credevo che non venissi.- balbettò, poggiando la fronte sulla sua.
George le sorrise.- Scusa il ritardo.-
Non seppero perché, ma scoppiarono a ridere come se già ce l’avessero fatta.
Subito dopo, corsero nella stalla e George si affrettò a montare le briglie al cavallo.
Afferrò Greta per i fianchi e la fece salire, mentre lui si aggrappò alla staffa e salì davanti a lei.
-Tieniti!- le disse, scuotendo i lacci del cavallo.
Ponos partì al galoppo e Greta si tenne al bacino di George.
Mancava davvero pochissimo.
Greta si guardò indietro e vide la casa con le mucche farsi più piccola.
Invece, davanti a se, la libertà si fece più grande.
Intravide subito il muretto e sapeva che dovevano saltare.
-Adesso saltiamo!- gridò George, un attimo prima che Ponos zompasse sul muretto che li divideva con la strada. -Ci siamo!- continuò, entusiasta.
Ancora poco e sarebbero arrivati all’ambasciata.
Greta non ci poteva credere che avesse funzionato davvero.
Non riuscì a contenere la felicità: rise e pianse di gioia allo stesso tempo.
E in più George era insieme a lei, come desiderava.
Trottarono sul marciapiede, dove la gente li guardava scioccata.
Quando, improvvisamente, una macchina gli tagliò la strada.
George fece appena in tempo a serrare le briglie e il cavallo frenò.
Le girò dalla parte opposta, ma ecco arrivare una seconda macchina che fece imbizzarrire Ponos.
Spaventato, il cavallo si alzò a due zampe.
George e Greta caddero sul suolo freddo, sbattendo la schiena.
Greta non ebbe nemmeno il tempo di rendersi conto che era andato tutto in fumo, perché alzò lo sguardo e vide Han insieme ad altri soldati.
Quindi non solo non ce l’avevano fatta, ma erano anche stati scoperti.
Han si chinò davanti a George con un ghigno soddisfatto, mentre altri due lo tenevano per le spalle.
-Sai George, avevi ragione su una cosa.- esordì sorridendo. -Questi soldati non sanno un cazzo di inglese: non lo parlano, però lo capiscono.- spiegò, assumendo un’espressione arrabbiata.- Altrimenti che cazzo ci stanno a fare qui, eh?-
George osservò che Greta venne circondata da altre guardie.- Se la tocchi con un dito…-
Han si voltò per un attimo verso di lei.- Ah, tutto questo solo per un paio di tette, giusto.-
Greta non sapeva cosa fare, non aveva alcun potere.- Han, non fargli del male!-
Han la ignorò.- Credevo che fossi più intelligente di così.- commentò, facendo cenno ai soldati di farlo sdraiare a terra. Lo tennero con la schiena spiaccicata dal suolo. -Te lo avevo detto che l’ultima cosa che avresti visto sarebbe stata la mia faccia.- gli mormorò, prima di sbattergli il tacco della scarpe dritto sulla ferita alla spalla.
George urlò talmente forte che si sentì per tutta la città e Greta cercò di corrergli incontro, però gli uomini la bloccarono.
-Lascialo stare!- gridò, scoppiando a piangere.
Si sentiva così impotente, anche se cercava di liberarsi con tutte le forze.
-Dua anh ta tro lai phòng giam.- ordinò ai compagni, voltandosi poi verso Greta con sguardo minaccioso.- A lei ci penso io.- sputò fra i denti, afferrandole i capelli come fosse la criniera di un cavallo.
Greta si sentì tirare e trascinare via con forza, le parve che la cute dei capelli si sarebbe presto staccata.
Urlò e si dimenò, ma fu tutto inutile.
Nemmeno George poté fare niente, era fin troppo debole, con il sangue che gli usciva dal foro.
Greta venne caricata in macchina che si diresse verso la fattoria.
Cercò di aprire il portellone, ma era chiuso.- Fammi uscire di qui!- ripeté a voce alta.
-Sta zitta!- gridò Han, dando un pugno al finestrino.
Greta sobbalzò e cercò di riprendere fiato, con la gola che le bruciava per aver strillato troppo.
-Sei riuscita a perdere tutta la dignità che avevi, Greta, complimenti, davvero.- affermò Han.- Sei fortunata che non gli abbia ficcato una pallottola su per la gola.-
La macchina si fermò davanti alla fattoria ed entrambi scesero: Greta vide Han tirare fuori la pistola e togliere la sicura.
Per un attimo credeva che fosse a lei che avrebbe sparato.
Ma poi entrò dritto in casa e uscì fuori sul prato, con Greta dietro.
Un soldato aveva riportato il cavallo e Han gli stava puntando l’arma contro.
Come se dovesse prendersela con qualcuno che non si sarebbe ribellato, un quasi complice di tutta quella storia: Han voleva uccidere il cavallo.
Greta sgranò gli occhi.- No, ti prego no!- insistette, mettendosi fra i due. -Non farlo!-
-Non avrei mai dovuto comprarti questo fottuto cavallo!- continuò, spingendola via talmente forte da farla cadere sull’erba.
Con i capelli scompigliati e gli occhi gonfi, Greta si aggrappò alle sue gambe, chiedendo pietà.- Ti prego, non farlo, ti scongiuro!-
Han aveva ragione, Greta aveva perso tutta la sua dignità ed era arrivata a pregarlo.
Han aveva il mirino sulla testa del cavallo che lo fissava negli occhi con le sue grandi pupille nere.
Ad un certo punto, la sua mano tremò e gli cadde perfino una lacrima.
In una piccola parte del suo cuore, qualcosa batteva e non ebbe coraggio di ucciderlo.
Si scostò Greta dalla sua gamba e fece un urlo di rabbia, lanciando via la pistola.
Con un sospiro di sollievo, Greta si alzò e abbracciò la testa di Ponos.
-Domani tornerai in America.- bofonchiò Han, riprendendo fiato. -Quan ti porterà all’aeroporto alle 12 e io firmerò quel maledetto contratto.-
Greta non poteva desiderare di meglio, solo che sarebbe voluta tornare a casa con George.
Invece ci sarebbe andata da sola e George sarebbe probabilmente morto in quella prigione.
Con le mani sul pelo di Ponos, iniziò a tremare per il freddo e poi lentamente lo riportò nella stalla.
Chissà cosa ne sarebbe stato di lui.
-Mi dispiace.- gli sussurrò, accarezzandolo.
Ormai arresa al suo destino, Greta si tolse i vestiti sporchi di terra e si fece una doccia calda, per far andar via il dolore ai muscoli.
Si sedette sul piatto della doccia, portandosi le gambe al petto e lo sguardo nel vuoto.
Era tutto finito.
***
Senza neanche venir visitato, George fu rispedito dritto in cella, con la spalla che aveva smesso di sanguinare, ma bruciava da morire.
Ben ed Arthur si alzarono dal letto, scioccati.
-George?!-
-George stai bene?!-
George si sedette per un attimo sulla brandina, prima di fare un grido di sfogo e scoppiare a piangere.
Il suo destino gli era sconosciuto: sarebbe morto lì dentro?
Sarebbe finito appeso all’albero con Dan?
Non saperlo, lo spaventava.
James gli si avvicinò, prendendogli il viso tra le mani.- Basta piangere ragazzo, che è successo?!-
George gli tolse le mani, voltandosi dall’altra parte.- Ci sbagliavamo, questi bastardi lo sanno l’inglese!- rispose, dando un calcio alle sbarre.- Sapevano tutto, sapevano quello che volevo fare.-
-Cazzo e adesso che facciamo?- domandò Arthur.
-Niente, Arthur, moriremo qui e basta.- rispose Ben, lasciandosi andare sul materasso.
George non si sentiva in colpa solo per Greta, ma anche per i suoi amici.- Mi dispiace tanto, ragazzi.- bofonchiò,  pulendosi le lacrime.
Arthur gli sorrise appena.- Non fa niente George, noi ti vogliamo bene comunque.-
Questo non riuscì a consolarlo.
Non sapeva che cosa sarebbe successo.
Se gli Americani avrebbero mai vinto la guerra.
In ogni caso, lui la cosa migliore l’aveva persa.
E forse non l’avrebbe mai più rivista.

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Capitolo 18
*** Goodbye ***


Il mattino seguente, mentre Han faceva colazione, Greta preparò i bagagli, mettendo all’interno di una valigia tutti i suoi vestiti, tralasciando le scarpette da ballo.
Nonostante le amasse, non voleva portarle con se.
Senza neanche guardarlo, Greta capì che Han stesse lasciando la sua firma su quella pila di fogli e perciò, finalmente, il loro matrimonio era ufficialmente finito.
Han ripose la sedia sotto al tavolo e la guardò per un’ultima volta.
Greta non ne ebbe il coraggio.
Non si sarebbero mai più rivisti.
E quando la porta si chiuse, con un sospiro di sollievo, lei si tolse la fede al dito e la lasciò sul comodino.
Qualche minuto dopo, Quan bussò alla porta.
-Ciao.- gli disse Greta, sorridendo appena.
Quan abbassò lo sguardo.- Mi dispiace tanto, Greta.-
Lei gli accarezzò la guancia dolcemente.- Non preoccuparti, anzi, grazie mille per il tuo aiuto.- replicò, guardando l’orologio: erano le 11:30. -Portami all’aeroporto, posso aspettare qualche minuto lì, non voglio stare qui dentro.-
Quan si accigliò.- Cosa? E non passiamo prima alla prigione?-
Greta fu confusa.- Alla prigione?-
Il soldato fece tintinnare le chiavi dell’auto.- Non volete dirgli addio?-
Greta capì subito che si stesse riferendo a George.
Sarebbe stata una cosa sofferta rivederlo un’ultima volta, ma doveva farlo, doveva salutarlo per bene, altrimenti lo avrebbe rimpianto per sempre.
Annuì con decisione e indossò il cappotto.
Scese convinta dalla macchina e non appena alzò gli occhi al cielo, vide che stava nevicando appena.
Era dicembre inoltrato e Greta sapeva che avrebbe passato il Natale lontano da tutto ciò, con sua sorella, ma anche lontano da George.
Non aveva nemmeno l’orologio al polso, perciò non sapeva nemmeno quanto tempo fosse passato.
Una volta entrata, si chiese come avrebbe fatto con la guardia.
Non l’avrebbe mai lasciata passare.
-La distraggo io, tu vai.- intervenne una voce conosciuta accanto a lei.
Era Lien che la voleva aiutare.
Greta gli sorrise per ringraziarla e si fece da parte, mentre la ragazza iniziò a conversare con il soldato, allontanandolo dalla porta.
Silenziosamente, Greta sgattaiolò nel corridoio delle celle e in punta di piedi per non far sentire i tacchetti delle scarpe, si diresse a quella di George.
-Greta!-
-C’è Greta!-
Esclamarono Ben ed Arthur.
George sobbalzò dal materasso non appena sentì il suo nome. – Ehi, stai bene? Dimmi che stai bene.- le domandò, prendendole il viso tra le mani oltre le sbarre.
Greta lo guardò con dolcezza, mettendo le mani sulle sue. -Sto bene, sta tranquillo, ero preoccupata per te, per la tua ferita.- affermò lei, osservando che quel punto era pieno di sangue secco.
-Non fa tanto male.-
Greta rimase a fissarlo per un po', per far sì che la sua memoria lo ricordasse esattamente così com’era. -Torno in America stamattina, tra poco ho l’aereo. Non potevo andarmene senza salutarti.- spiegò: l’unica cosa che riuscì a fare passare attraverso la cella fu il naso, che sfiorò al suo, guardandolo negli occhi. -Non ti dimenticherò mai.-
George tirò su col naso, reprimendo le lacrime.- Mi dispiace che sia andata male, mi dispiace tanto.-
In quello stesso momento, sentirono la guardia gridare arrabbiata e venire verso di loro.
Greta sprecò gli ultimi secondi ad accarezzare il suo viso con la punta delle dita, prima che il soldato l’afferrasse per il polso e la trascinasse via.
Le si spezzò ancora di più il cuore, perché non sapeva se si sarebbero mai rivisti.
Fece pressione con le scarpe sul suolo e si dimenò, volendo stare lì a guardarlo per ore.
George si attaccò alle sbarre e fece fuoriuscire la bocca.- Ho mentito!- gridò. -Mi hai sentito? Ho mentito! E’ stato il più bel bacio della mia vita!- urlò sorridendo.
Nonostante stesse per scoppiare a piangere di nuovo, anche a Greta venne da sorridere.
Uno dei più brutti momenti della sua vita e lei lo stava affrontando con un sorriso.
Le sue ultime parole, le avrebbe ricordate per sempre.
Perché era stato esattamente in quel momento, forse, che si era già follemente innamorata di lui.
Quindi, fu costretta ad entrare in auto e Quan la portò all’aeroporto.
Greta non prendeva un aereo da circa tre anni.
E, rannicchiata nel suo posto di seconda classe vicino al corridoio, si rese conto che avrebbe incominciato una nuova vita a New York.
Senza George.
Doveva farsi forza però: aveva affrontato talmente tante cose che quella non poteva spaventarla.
Di fatti, osservando una coppia che si era addormentata l’uno sull’altro, Greta capì che sarebbe andato tutto bene.
***
 
Dicembre 1972
 
Erano passati 13 anni dall’ultima volta che Greta aveva passato il corridoio della prigione di Hoa Lo.
Ma non aveva mai dimenticato il suo viso.
Non lo nominava quasi mai: sia perché le metteva una tristezza infinita, sia perché Belle non voleva che si parlasse di lui.
Ogni anno, alla vigilia della morte di Josefin, erano andate a cambiare i fiori alla sua tomba e a dire una piccola preghiera.
Greta non aveva mai raccontato ogni minimo particolare di quello che era successo alla prigione, perché da una parte se ne vergognava.
Belle sapeva solo che la guerra era stata davvero dura per gli americani e i vietnamiti e che sua sorella si fosse innamorata di un altro.
Anche se non aveva tecnicamente tradito suo marito, era come se l’avesse fatto e questo a Belle non andava giù.
Preferiva che la sorella la pensasse così, invece che raccontarle di un marito violento, che l’aveva quasi stuprata.
Intanto, nel corso degli anni, Greta era tornata a fare quello che sapeva fare meglio: l’assistente alla poltrona.
E non solo.
George le aveva fatto tornare la passione per la danza e perciò si era iscritta ad una scuola, che a breve avrebbe fatto un saggio.
Però non aveva mai rinunciato a cercare George.
Tuttavia, Greta aveva capito quanto la donna contasse poco nella sua società.
L’unico modo per liberare i soldati americani in una guerra che era ancora in corso con il paese in cui erano stati segregati, era convincere le forze militari.
Greta aveva avuto tante udienze, ma nessuno l’aveva mai ascoltata.
Per giorni aveva dormito su un letto pieno di fogli con l’elenco dei nomi dei militari e la cartina della prigione, facendo anche notte fonda.
Quella mattina di dicembre, Belle e Greta andarono sulla tomba di Josefin.
Mentre Belle si occupò di togliere le foglie dalla lapide, Greta fece per andare a prendere l’acqua che avrebbero messo nel vaso di fiori.
Quando, a quel punto, vide un uomo prendere l’acqua al rubinetto pubblico e la prima cosa che osservò, fu la sua divisa da soldato.
Non ne aveva mai visto uno che non fosse dentro un grande palazzo e oltretutto da solo.
Forse era la sua chance.
Belle capì subito cosa volesse fare e l’afferrò per il polso.- Che stai facendo?-
Greta la guardò confusa.- Voglio andare a parlargli.-
-Ti prego Greta, non oggi!- borbottò Belle, sbuffando.
Greta la fissò negli occhi.- Belle, ci sono circa 40 americani bloccati da quasi 15 anni dentro una prigione, che forse sono morti o forse no, non posso saperlo! Devo fare qualcosa!-
-No! A te non importa di loro! Ti importa solo di quel contadino!- ribatté la sorella. -Quando te ne farai una ragione? Lui non c’è! Lui non è qui!-
A sentirle dire quella frase, a Greta rivenne in mente di quando lei e George giocavano sul prato. -Soltanto perché una cosa non la vedi, non vuol dire che non ci sia.-
Già, perché secondo Greta, George nonostante non ci fosse fisicamente, era in tutte le cose: nel sole, nella luna, nelle stelle, nel suo respiro, lei riusciva a sentirlo e se lo ricordava così nitidamente che certe volte non le mancava nemmeno.
Però doveva aiutare lui e tutti quelli che erano prigionieri lì.
Evitò la replica di sua sorella e si avviò al rubinetto, con la scusa di dover riempire il vaso.
Si mise dietro l’uomo, aspettando che avesse fatto.
Lui la notò e si voltò verso di lei.- Deve riempire il vaso?-
Ormai, con il passare degli anni, l’invenzione di nuove tecnologie e tecniche di approccio fra persone, il voi era sparito e aveva lasciato spazio al lei.
Greta annuì e le passò il vaso che lui riempì d’acqua.
-Mi scusi, lei è un militare?- gli domandò.
Egli ridacchiò.- No, in realtà questa è la mia tuta da jogging.- rispose come fosse ovvio, per prenderla in giro.
Greta arrossì e si portò i capelli dietro l’orecchio.- Mi scusi.-
-Non si preoccupi.- continuò, prendendole una mano per lasciarci sopra un bacio.- Dottor Mischa Friedman, aeronautica militare.-
Greta ci aveva visto bene. -Greta Zimmer.-
-Ha qualcuno sepolto qui?-
Lei annuì.- Mia sorella.-
-Mia madre: è morta di crepacuore quando le ho detto che sarei andato in guerra.- spiegò.
-Mia sorella era volontaria in Francia, è morta durante il crollo della diga di Malpasset.-
Il soldato si accigliò.- Ho visto alla televisione quello che è successo, mi dispiace tanto.-
Solo in quel momento, guardandolo meglio, Greta notò che avesse una lunga cicatrice che gli andava dal sopracciglio fino a metà della guancia, sicuramente una ferita di guerra.
Egli era abbastanza alto e robusto, sotto il cappello della divisa, una chioma mora e un paio di occhi nocciola.
-E’ morta come una specie di eroina di guerra per me e mia sorella.- commentò Greta, ma non voleva stare lì a parlare di morte. -Le va se prendiamo un caffè?-
Mischa non se lo aspettava.- Ma certo.-
Anche se Belle non era d’accordo, dopo aver cambiato i fiori alla tomba, Greta e Mischa si sederono dentro un bar per conversare.
-Perché ho l’impressione che mi abbia fermato per un motivo?- le domandò, assottigliando gli occhi.
Greta arrossì ancora per la vergogna.- E’ che io…-
D’un tratto, Mischa sgranò gli occhi.- Un momento, Greta Zimmer! Quella Greta Zimmer che sta praticamente intasando tutte le linee telefoniche dell’ambasciata?-
Wow, era diventata famosa.
Greta sospirò, coprendosi il viso.- Sono davvero desolata, è che è una cosa davvero importante per me.-
Mischa le sorrise, sorseggiando dalla sua tazza.- L’ascolto.-
Greta era fin troppo sorpresa che finalmente qualcuno la stesse a sentire.- Ero sposata con un vietnamita, prima dell’inizio della guerra, ovviamente. Nel 1959, lui è stato chiamato a lavorare in una delle prigioni dove avevano catturato 39 uomini dopo aver affondato, senza apparente motivo, la USS Sullivans nel Pacifico.- raccontò Greta, talmente velocemente che le mancò il fiato.
Aveva detto talmente tante volte quella storia, che ormai sapeva le parole a memoria.
-Va bene, va bene, con calma signorina, non vado da nessuna parte.- ridacchiò il soldato, gesticolando.
Greta si torturò le mani.- Mi scusi.-
-Non deve scusarsi ancora.-
Greta sentiva di star per piangere, perché per una volta, in tanti anni, stava facendo dei progressi. -Scusi è-è-
Mischa le fermò le mani, guardandola negli occhi.- Continui a raccontare.-
-E’ che c’era un uomo.- balbettò, con le labbra che le tremavano.
L’altro annuì, capendo la situazione.- Si è innamorata di uno dei prigionieri?-
-Vede, il fatto è che a me non importava che fosse un prigioniero, mi sono innamorata di lui con la stessa velocità con cui precipita una stella cadente e non sapere se è vivo, o è morto o è ancora lì, mi sta uccidendo.- bofonchiò, asciugandosi velocemente.
Mischa la studiò. -Lo sta cercando anche dopo tutti questi anni? Lo ama ancora?-
Greta non aveva mai pensato se amasse o no George.
Ma non le importava.
In realtà, non le interessava nemmeno di stare con lui, voleva solo che stesse bene.
Scosse la testa, tirando su col naso.- Non ho mai smesso di cercarlo.-
-Lei ha combattuto una guerra quasi quanto me, signorina Zimmer.- affermò Mischa, quasi elogiandola. – Il successo non è ma definitivo, il fallimento non è mai fatale; è il coraggio di continuare che conta, come ha fatto lei.-
Greta cercò di ricordare chi avesse detto quella frase.
-Winston Churchill.- la precedette lui. -Ascolti…- sussurrò, avvicinandosi a lei. -C’è un progetto in lavorazione, lo hanno chiamato Operazione Homecoming: tre aerei da trasporto voleranno sul Vietnam per liberare le prigioni.-
Greta non ci poteva credere.
Fece un verso stridulo e poi si coprì la bocca per la sorpresa.
-Dice sul serio? Non mi sta prendendo in giro?!-
Mischa sorrise.- No, non la sto prendendo in giro, è tutto vero.-
-Oh mio Dio!- esclamò Greta, avventandosi su di lui dall’altra parte del tavolo.- Grazie, grazie, grazie!-
Credeva che sarebbe morta dalla gioia.
Era una magnifica svolta dopo tanti anni.
Greta gli strinse i capelli dietro la nuca e gli sussurrò all’orecchio.- La prego, lo porti via di lì…-

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Capitolo 19
*** The Homecoming ***


Gennaio 1973- 16 anni di prigionia
 
George sentì chiaramente l’acqua tiepida che gli arrivò sulle dita dei piedi.
Era piacevole come la brezza su quella spiaggia.
Riuscì perfino a sentire il verso di un gabbiano, che fece eco a quello delle onde.
Il vento gli scompigliò i capelli e fu costretto a mandarsi il ciuffo che era cresciuto nettamente, all’indietro.
Chiuse gli occhi e immerse i piedi nella sabbia, godendosi il fresco.
Quando li riaprì, non lontano da lui, vide una figura venirgli incontro.
I suoi capelli rossi e il vestito azzurro sventolavano come una bandiera americana.
Cos’è?
Sto tornando finalmente a casa?
E’ l’America quella?
George assottigliò gli occhi e mise a fuoco: era una donna.
La sua espressione lo fece sorridere e si sentì pieno di gioia.
Si avvicinò lentamente, camminando e la figura si fece più nitida.
Voleva assolutamente vederla da vicino, così si mise a correre e la stessa cosa fece la donna.
Affondò i piedi nei granelli e corse talmente veloce che gli mancò il fiato, non era più abituato.
Erano talmente vicino da potersi toccare, quando d’un tratto, si udì un’ esplosione ed entrambi vennero catapultati via, spinti altrove da una forza inimmaginabile.
A quel punto, George aprì gli occhi e rivide di nuovo le fredde mura della sua cella.
Faceva quel sogno quasi tutte le notti e avrebbe voluto farlo per il resto della sua vita.
Era l’unica cosa bella del dormire.
La cosa brutta, invece, era che non sapeva quando si sarebbe svegliato.
Era quasi pelle ed ossa: con il corso della guerra, le razioni di cibo erano diminuite.
George era quasi sicuro che alcuni dei suoi compagni erano morti di fame.
Anzi, ne era certo, perché aveva sentito le guardie trascinare qualcosa da dentro le celle.
Arthur era l’unico che aveva ancora un po' di quello che si poteva chiamare grasso, attaccato alle ossa.
Tuttavia, Ben andava molto fiero dei suoi compagni, nessuno di loro era impazzito: per tutti quegli anni, avevano mantenuto la mente salda, soprattutto George.
Aveva quasi sempre il sorriso e si prendeva cura degli altri: spesso rinunciava al suo cibo per darlo ai più minuti.
Come quel giorno freddo di Gennaio, in cui George aveva visto uno dei mozzi, tremare sulla sedia.
Si alzò dal suo tavolo e gli porse il vassoio, facendogli un piccolo sorriso.- Avanti, prendi anche questo.-
Ma James non l’aveva presa bene.- Perché a lui e non a me?!- borbottò, con la mascella serrata all’ingiù.
George si accigliò.- Perché sta morendo di fame, non lo vedi?-
-Tu, ragazzino, sempre con quel cazzo di sorriso.- continuò, afferrandolo di scatto per la camicia.- Ma che cazzo ti sorridi, eh?! Cosa ti spinge, dannazione, ad andare avanti?!-
Arthur intervenne e lo scansò via con forza.- Niente che tu possa capire, James!-
L’altro gesticolò e se ne tornò al suo posto.
George si mise a posto la camicia.- Grazie.-
-Ha ragione George, cosa ti fa attaccare così tanto alla vita?-
George ripensò alla donna del suo sogno.- Lei.-
L’amico ridacchiò.- Che domanda stupida.-
George rise con lui, dandogli una pacca sulla spalla, per poi tornare alla cella.
Si mise seduto sul materasso ed osservò James: capiva perché fosse arrabbiato.
Al contrario di lui, George aveva qualcuno a cui pensare, mentre la famiglia del pilota era stata uccisa.
Ed era anche colpa sua.
Di Han che gli aveva puntato una pistola alla tempia.
Lui non lo si vedeva più: George aveva perfino sbirciato in giro, ma niente.
Probabilmente si nascondeva, forse aveva vergogna di quello che aveva fatto a sua moglie.
Per quanto riguardava James, George non ce la faceva più a tenersi quel terribile segreto.
-James, devo dirti una cosa.-
Il pilota sbuffò, rannicchiandosi sotto le coperte.- Cosa vuoi adesso?-
-E’ colpa mia se la tua famiglia è morta.-
Ben lo sentì dall’altra parte del corridoio.- George, no!-
L’amico scosse la testa verso di lui.- E’ okay Ben, merita di sapere la verità.-
James si alzò con il busto e assottigliò gli occhi.- Ma di che stai parlando?-
-Sapevo che gli Americani erano attraccati al Golfo, che attaccavano da lì e l’ho detto a Greta che lo ha rivelato al comandante.-
-Racconta tutta la storia, George!- intervenne Arthur.
-Non c’è bisogno, Arthur. Storia o non storia è colpa mia se la sua famiglia non c’è p-
Improvvisamente, James si sollevò dal letto con furia e gli si avventò sopra, stringendogli le dita attorno alla gola.
-Cazzo!-
-Fermo!-
Gridarono Arthur e Ben.
-Ehi, qualcuno venga qui!- urlò Arthur, battendo contro le sbarre.
George si sentì soffocare, tentò di dimenarsi, ma non aveva poi chissà quante forze.
Le palpebre gli si chiudevano e riusciva di nuovo a vedere la spiaggia.
Quando, tutto d’un tratto, si udì un boato e la terra tremò.
La finestra di vetro, in cima al muro, esplose e i due si protessero dai frammenti con le braccia.
-Che cazzo succede?!- tremò Ben.
Subito dopo, centinaia di spari, da fuori, che piano piano entrarono all’interno del corridoio.
-Cazzo, cazzo, cazzo.- piagnucolò Arthur.
La porta del corridoio si spalancò.
-Fuori, fuori, fuori!- gridò qualcuno.
George sgranò gli occhi, capiva la sua lingua.- E’ americano! E’ americano!-
Cercava di vedere dietro le sbarre, ma erano troppo strette.
-Sono venuti a prenderci!- esclamò Ben, piangendo di gioia.
Di fatti, un soldato con la divisa americana, stava aprendo tutte le celle con l’unica chiave che c’era.
Egli prima fece uscire Ben ed Arthur e poi George con James.
La gola gli bruciava e anche se non smetteva di tossire, come comandato, fece in fretta ad uscire dalla cella e correre verso la fine del corridoio.
Guardò ogni cella, per assicurarsi che fossero usciti tutti.
Ne incrociò una, dove vide un ragazzo in ginocchio sul pavimento, come se stesse pregando.
-Ehi, amico, sono arrivati i nostri.- gli disse, rendendosi veramente conto della cosa, ora che l’aveva detto ad alta voce.
Erano liberi e sarebbero tornati a casa.
Allora il sogno non era stato un sogno, ma una specie di premonizione.
George sarebbe tornato alla sua fattoria, dalla sua famiglia e chissà, forse anche da Greta.
In un attimo, gli attraversò per la testa tutto quello che aveva perso: il suo capitano, la nave, Dan.
Ma non aveva mai perso se stesso, dopotutto.
Vedendo che il marinaio non si muoveva, lo scosse appena.- Ehi, siamo liberi…-
Il suo corpo cadde a terra, con gli occhi chiusi.
George tremò e gli sentì il polso con due dita, era morto.
Forse di fame, come si sarebbe aspettato George.
Quanti altri dovevano morire?
George gli incrociò le braccia sul petto e lo coprì con la coperta.
-George, andiamo, ci sono degli aerei!- intervenne Arthur, sorridendo.
Accanto a loro, all’entrata, la guardia che stava sempre di sentinella, giaceva morta con un colpo alla testa.
E allora George, guardandolo in viso, guardando quegli occhi a mandorla, si ricordò di tutto il male che aveva fatto Han a lui e Greta.
Osservò che nella cintura del morto c’era ancora la sua pistola e non sapeva nemmeno lui con quale coraggio, ma la prese.
-George, che vuoi fare?- gli chiese Arthur.
George sentì un improvviso spirito di vendetta dentro di se e, controllando il caricatore, vide che erano rimasti tre proiettili dopo che la guardia aveva tentato sicuramente di difendersi.
Perciò, in quel momento, George si rispose alla propria precedente domanda.
Quanti altri dovevano morire?
Solamente uno.
-Andate, vi raggiungo.- gli rispose, uscendo dalla prigione: sapeva esattamente perché non riusciva mai a trovare Han.
Perché si nascondeva nell’unico posto dove ai prigionieri non era consentito andare.
George sentì subito l’alto vento delle eliche degli aerei che erano atterrati nel verde della prigione, mentre i soldati scortavano dentro i prigionieri.
Tenne la pistola ben salda e si avviò nel cortile dove erano stati impiccati Francis e Dan.
Si lasciò chiudere la porta alle spalle e vide Han, in ginocchio, davanti ad un albero.
Il comandante fece un ghigno divertito, rimanendo immobile.- Devi farti la barba, amico mio.-
Irritato, George alzò la pistola su di lui.- Va a fanculo, io non sono tuo amico.-
Han ridacchiò e si voltò verso di lui, rimanendo a terra. -Siamo uguali, io e te, George: l’abbiamo, come si dice in America? Rimorchiata…L’abbiamo rimorchiata entrambi con due modi loschi.-
George lo guardò negli occhi e cercò di leggerli.- Io so che tu l’hai amata, almeno in un momento, l’hai amata. Ma poi sei uscito fuori di testa e quello che hai fatto è imperdonabile.-
Gli occhi di Han si inumidirono, ma non versò lacrime.- Allora che aspetti? Uccidimi. O non hai coraggio?-
George sentì i soldati gridare di entrare all’interno dell’aereo.
Han si accigliò, fissandolo negli occhi.- Uccidimi!- gridò.
George premette il grilletto, ma non ne uscì alcun proiettile.
Il fiato di Han si dimezzò per la paura, mentre lui abbassò la pistola, gettando a terra i proiettili che aveva in mano, scuotendo appena la testa.- Io non sono un mostro come te.-
Tirò via la pistola e corse all’aereo, saltando a bordo per ultimo, prima che partisse.
George riconobbe, da dentro, l’aereo da trasporto C- 141 Starlifter e capì che erano davvero americani.
I suoi compagni avevano già tutti allacciato la cintura e un soldato gli indicò come fare.
-Tutto bene, ragazzo?- gli chiese, mentre decollavano.
George gli sorrise, facendo un sospiro di sollievo.- Sì…Come facevate a sapere che eravamo qua?-
-Una soffiata di un civile: il dottor Mischa Friedman ce lo ha detto.- spiegò egli.
George non conosceva affatto quell’uomo, ma gli era grato per il salvataggio.
Un attimo dopo e probabilmente sarebbe morto soffocato da James.
Non lo biasimava, anche lui sarebbe stato furioso al posto suo.
Ma adesso, stava finalmente tornando a casa.
***
Il giorno dopo, Greta stava ripulendo il tavolo dalla colazione quando al telegiornale diedero la notizia.
Circa 150 americani erano stati liberati dalle prigioni del Vietnam.
Ciò voleva dire che l’operazione di cui parlava Mischa era andata a buon fine.
Per la sorpresa, la tazza che aveva in mano le cadde dal tappeto e lo squillo del telefono la fece sobbalzare.
Ci si precipitò.- Pronto?-
-Greta, ciao, sono io, Mischa: volevo farti sapere che l’operazione è riuscita. I marinai della prigione di Hoa Lo torneranno presto a casa, dopo qualche mese di riabilitazione.- spiegò egli.
Greta riuscì a malapena a tenere il telefono in mano, mentre le lacrime le scendevano silenziose sulle guance. -S-Sai se c’è una lista, dei nomi, di chi hanno salvato?-
-No, mi dispiace…Per ora abbiamo solo la lista dei vietnamiti catturati.-
Tutto d’un tratto, a Greta vennero in mente Han, Lien e Quan.
-Saranno giustiziati stamattina all’ambasciata.-
Greta sgranò gli occhi, non poteva permettere che Lien e Quan venissero giustiziati, non avevano fatto niente di male.
In fretta, attaccò il telefono e indossò il cappotto, uscendo per strada.
Rischiando di cadere più volte per la neve, Greta corse più in fretta possibile verso l’ambasciata americana.
Non era strano per lei superare delle guardie che le intimavano di fermarsi: c’erano dei protocolli per entrare all’ambasciata, ma lei li superò tutti, gridando il nome di Mischa.
Greta era talmente piccola che nessuno dei soldati riuscì ad afferrarla.
Da un ufficio, venne fuori Mischa.- Fermi, fermi, la conosco, va tutto bene.- ripeté ai suoi colleghi.
Greta cercò di riprendere fiato.- Mischa, ti prego, c-ci potrebbero essere delle persone innocenti tra quelle che avete catturato!- bofonchiò.
Mischa fece un leggero sospiro.- Greta, stanno per essere giustiziati, io non posso fare più niente.-
Avrebbe voluto disperatamente essere la regina del mondo per evitarlo.
-Ci deve essere qualcosa che poss-
Improvvisamente, si udirono degli spari provenire dal cortile della tenuta.
Non aveva mai sentito così tanto rumore in vita sua, neanche durante l’Olocausto.
Sgranò gli occhi e per un attimo le si fermò il cuore.
-Non avresti dovuto venire qui, non è bene che senti questa cose.- borbottò Mischa, prendendola per le braccia.
-No!- esclamò, dimenandosi.
Le stava venendo da vomitare: fece dei respiri profondi per cercare di calmarsi.
Però non sapeva se tra loro ci fossero Quan o Han.
Mischa le si avvicinò lentamente.- Vuoi qualcosa da bere?- le domandò.
Greta evitò la sua domanda e si passò una mano sul viso.- Non erano tutti cattivi.-
-C’era qualcuno che conoscevi?-
Si rannicchiò su se stessa, stringendo gli occhi.- Li conoscevo tutti…-
-Qualcuno alla quale eri particolarmente legata?-
Greta strinse le spalle.- Probabilmente sì, era solo un ragazzo, era per metà americano. Se aveste controllato prima di…- balbettò, ad occhi lucidi.
-Greta, io sto solo cercando di fare il mio lavoro.- affermò il soldato.
Greta aveva sentito quella frase fin troppe volte uscire dalla bocca del suo ex marito.
-Già, cercate sempre di fare il vostro lavoro e intanto la gente muore.-
Mischa cercò di comprenderla.- Sapevi dove abitava? Se aveva una famiglia?-
-No, i suoi genitori sono morti.-
La storia di Quan era l’unica che valeva la pena ascoltare in quell’orribile guerra.
-Ce la fai a riconoscere il corpo? Posso chiedere di fare un’eccezione.-
Greta aveva visto fin troppi morti in vita sua, non la spaventava vedere un cadavere, perciò annuì.
Mischa la condusse nel cortile di pietra, dove a terra giacevano 15 corpi, come le 15 guardie che controllavano la prigione.
Però, se ci fosse stato anche Han tra loro, allora dovevano essere in 16.
Quindi, qualcuno mancava.
Ognuno di loro era ricoperto da un lenzuolo e Greta cercò di non guardare gli schizzi di sangue sul muro.
Uno ad uno, Mischa gli scoprì la faccia per mostrargliele.
Erano davvero tutte le guardie della prigione e Greta riconobbe tutti i loro visi.
Era quasi inevitabile che ci fosse anche Quan.
Di fatti, il penultimo cadavere era il suo.
Greta riuscì a guardare solo per un millesimo di secondo e poi fece cenno di sì a Mischa.
-Sai a chi possiamo mandare la salma?-
Greta ripensò a quello che le aveva detto Quan.- Jane Walters.- affermò, tirando su col naso.- Portatelo a Jane Walters.-

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Capitolo 20
*** Follow your heart ***


1 Maggio 1975
 
La guerra era finita.
Di nuovo.
Questa volta però, non c’erano stati né vincitori né vinti.
L’America e il Vietnam avevano semplicemente deciso di stabilire la pace.
Erano quasi due anni che George era tornato alla sua fattoria.
L’unico rimasto era suo padre Arsenio, mentre gli altri figli avevano già lasciato il nido.
George venne congedato con onore e poté riposarsi sulle colline del Connecticut, facendo sì che le ferite guarissero.
Ma sì sa che certe ferite non guariranno mai.
La metà della giornata, George la trascorreva con gli animali, però, del resto, non smetteva di pensare a Greta.
Che cosa facesse, se stesse bene.
Molte volte aveva pensato di andare a New York, ma pensò che prima dovesse prendersi del tempo per se stesso.
Sulla spalla era rimasta una lieve cicatrice che gli avrebbe sempre fatto ricordare cosa fosse successo.
Un giorno, George andò in soffitta e frugò tra le vecchie cose di sua madre e, con grande sorpresa, dentro una scatola, trovò il famoso carillon a forma di conchiglia.
Ci soffiò via la polvere e l’aprì lentamente, pregando che funzionasse ancora.
Era così.
La ballerina girava piano in tondo dentro la conchiglia e la melodia che ne uscì gli fece venire gli occhi lucidi.
George era andato parecchie volte alla tomba di sua madre per raccontarle di Greta e lo stesso aveva fatto con suo padre.
Arsenio aveva visto i suoi occhi brillare e aveva capito che a quella donna ci tenesse davvero.
Di fatti, anche se con fatica, per via della sua età, Arsenio salì in soffitta: alto come suo figlio, con i capelli bianchi, le rughe sul viso e una barba appena tagliata.
-Papà, che fai qui?- gli domandò George, aiutandolo a salire.
Arsenio notò il carillon.- Ah, ti piaceva un sacco quell’aggeggio! Ci mancava solo che ci facessi il bagno!-
George ridacchiò.- Mi ricordava tanto la mamma.-
L’altro fece un ghigno.- Lo so io chi ti ricorda!- esclamò, dandogli una pacca sulla spalla.- Perché sei ancora qui? Perché non vai da lei?-
George chiuse il carillon e abbassò lo sguardo.- Non lo so. Insomma…Cosa ho da offrirle? Lei era abituata al lusso, agli oggetti preziosi, io ho solo due mucche e un po' di paglia.-
-Caro ragazzo, non sono io a doverti spiegare che la cosa più preziosa che abbiamo da dare è il nostro cuore. Se lei ci tiene davvero a te, le basterà.- commentò Arsenio.
George alzò lo sguardo verso la finestra e per un attimo se la immaginò ballare nella sua fattoria e bere il latte appena munto.
Però aveva anche paura.
Paura che Greta si fosse rifatta una vita.
Vedendo che suo figlio non rispondeva, Arsenio prese uno scrigno di ferro arrugginito e da dentro tirò fuori qualche banconota.
George capì subito che gli stesse prestando dei soldi.- Papà, no, ti prego…-
-Sì invece, prendili.- insistette, mettendoglieli in mano.- Va da lei.-
Lui gli sorrise, abbracciandolo.- Grazie papà, ti voglio bene.-
George preparò uno zaino con dei vestiti, entusiasta di partire.
Avrebbe usato la metà dei soldi per un treno di 2 ore per arrivare a New York.
Chiamò un taxi che lo avrebbe portato alla stazione quando, sul lato della strada, vide una figura conosciuta.
-George! Ciao George!- gridò Ben, salutandolo con la mano.
George mise giù il finestrino e ci uscì fuori con il busto.- Ciao Ben!-
-Dove vai?!-
George gli sorrise.- A vivere!-
***
5 maggio 1975
 
Erano 15 minuti che Greta si guardava allo specchio, nel suo trucco pesante, con le calze bianche che stringevano alle gambe.
La danza era da sempre stata la sua passione, ma le mancava qualcosa di fondamentale.
Aveva lavorato tanto per quel saggio, però sembrava non ricordarsi più nemmeno i passi.
Non era l’ansia da prestazione, no, aveva già fatto dei saggi da piccola, perciò era abituata al pubblico che la fissava.
Anche se la danza la faceva sentire bene, Greta aveva la sensazione che non avrebbe mai superato tutto quello che le era successo.
La morte dei genitori, la prigione, la morte di sua sorella, quella di Quan e George.
Morte, morte e solo morte.
Buffo se pensava che sarebbe stata proprio lei a danzare, al centro del palco, durante la morte del cigno.
Di fatti, il suo costume era interamente nero, tranne per le scarpette, le calze e il diadema sul capo.
I capelli raccolti in una cipolla e il rossetto scuro sulle labbra.
Il lago dei cigni era un balletto fin troppo famoso da farlo sembrare facile da eseguire.
Ma Greta ci aveva lavorato tanto e niente poteva andare storto.
Il Majestic Theatre era pieno per metà, ma dagli applausi, lo spettacolo stava piacendo al pubblico.
Perciò Greta fece un bel respiro e andò sul palco per l’ultimo atto.
Il suo volto triste era perfetto durante la danza.
I suoi piedi ben allenati.
Si lasciò andare tra le braccia del ballerino che interpretava il principe come una piuma.
Fece alcune piroette verso l’angolo del palco, per poi accasciarsi al suolo elegantemente, dando uno sguardo al pubblico.
E fu allora che lo vide.
Un uomo in bretelle, con i capelli scuri ed ingelatinati, la stava guardando dalla terza fila del teatro con occhi brillanti.
Per un attimo crebbe di esserselo immaginato, ma no, era proprio lui.
George le sorrise appena, ammaliato, prima che il sipario si chiudesse.
Le mancava il fiato e non perché avesse eseguito il balletto alla perfezione, con tutte le sue energie.
In un attimo rivisse gli anni passati.
Qualcosa che non avrebbe mai pensato che sarebbe successo.
Qualcuno che non pensava avesse mai rivisto.
Si alzò lentamente dal palco, con la testa che le girava.
Il sipario si sarebbe presto riaperto per gli inchini finali, però Greta non sapeva se ne fosse in grado.
Sarebbe potuta morire lì, come il cigno, se lo avesse visto di nuovo.
Si unì insieme agli altri ballerini quando il sipario si aprì e gli spettatori si erano alzati per applaudire.
Tra di loro, anche George: quella era la conferma che Greta non se l’era affatto immaginato.
Si inchinò come il resto della troupe e poi vide dei giornalisti avvicinarsi con le loro fotocamere.
Il rumore e i lampi degli scatti la accecarono, tanto da non farle notare che George si era alzato e stesse uscendo dal teatro.
Non poteva lasciarlo andar via senza prima parlargli.
Si fece spazio nella folla, correndo di fuori, dove le nuvole erano cariche d’acqua e davano segno di pioggia imminente.
Spalancò le porte e corse in strada, con il rischio perfino di venir investita.
Guardò a destra, a sinistra, dall’altro lato del marciapiede, però lui non c’era.
Che vigliacco, pensò, essersene andato via così.
Iniziò lentamente a odiarlo e questo le fece inumidire gli occhi.
Sono perfino uscita con questo freddo, rimuginò tra se e se.
-Sigaretta?-
D’un tratto, una voce familiare le venne da dietro le spalle.
George era poggiato al muretto del teatro, accendendosi una sigaretta.
Era davvero lui in carne ed ossa, vestito anche per bene.
Egli si strinse nelle spalle.- Non sono riuscito a smettere.-
-Sei vivo…- bofonchiò Greta, con gli occhi lucidi per la gioia.
-Rivedere te era l’unica cosa che mi faceva rimanere vivo.- aggiunse lui, tirando via la sigaretta per avvicinarsi a lei. -Sei molto brava.-
Greta alzò un sopracciglio.- Avevi dubbi?-
Lui ridacchiò appena.- No.-
Greta gli accarezzò dolcemente la guancia, capendo che era lui, dritto davanti a se.
Con la sua altezza e i suoi occhi verdi.
-Quindi…Sono passati 16 anni e che ci fai qui?- gli chiese.
-Volevo vedere se stessi bene, come andasse la tua vita…-
-Spenta. Sento costantemente che mi manca qualcosa.- spiegò Greta, prima che si sentisse un tuono in cielo.
-Per me è la stessa cosa.- aggiunse George, annuendo.
Greta lo guardò in attesa: sperava che la prendesse tra le sue braccia e che finalmente la baciasse, una volta per tutte.
Cosa era venuto a fare, allora?
George la scrutò.- Perché sembra che ti aspetti qualcosa da me?-
Quella frase non le piacque molto.- Io? Da te? Assolutamente niente!- replicò, incrociando le braccia.
L’altro si accigliò.- Invece sembra proprio così.- ribatté, sotto il suono di un altro tuono.
Greta alzò gli occhi al cielo.- Il solito presuntuoso.-
-La solita viziata!- esclamò George, assottigliando gli occhi.
-Io ti ho salvato la vita!-
-E allora? Credi che ci sia un premio? Una specie di trono sopra la quale ti siederai?!-
-Sì!- gridò Greta, singhiozzando. -Dopo 16 anni!- ripeté, mentre iniziò a piovere a di rotto.- Chi credi che ti abbia salvato il culo?! Per 13 anni sono stata dietro ad ogni militare che incontravo per implorarlo di venirti a prendere in quella maledetta prigione! Non il destino, non il tuo Dio, io!-
Le labbra di George presero a tremare, come se ancora non lo avesse realizzato.- Sei stata tu…?- mormorò.
Greta si asciugò la pioggia sulla guancia e tirò su col naso.- Sì e mi aspettavo un po' di-
-Sta zitta.-
Di scatto, George le prese il viso tra le mani e fiondò le labbra sulle sue, baciandola con passione.
Era proprio così che se l’era sognato.
Ogni sua previsione era giusta, poiché lo avevano già fatto.
Fu come tornare a casa: le stesse labbra calde e la stessa forte presa.
Aveva paura di aprire gli occhi e risvegliarsi dal sogno, ma non fu così.
***
Ormai zuppi per la pioggia, Greta e George ricorsero ai ripari dentro un palazzo, probabilmente quello in cui viveva la ragazza.
George venne trasportato da lei attraverso le scale e poi giunsero ad una porta.
-Ma dove sei stata?! Sei scappata dal teatro!- esclamò una donna in soggiorno.- Non è un comportamento ragio- In quel momento, vide i due bagnati sulla soglia della porta.- nevole.-
-Belle, lui è George.- le disse Greta.- George, mia sorella Belle.-
La ragazza sgranò appena gli occhi, sorpresa, porgendogli la mano.- Ah, tu devi essere il famoso George. Piacere.-
George gliela strinse.- Piacere mio.-
Greta alzò un sopracciglio verso la sorella.- Visto? E’ vero, non me lo sono inventato.-
Mentre Belle fece un sospiro, Greta trascinò George nella sua camera e gli diede un asciugamano per asciugarsi.
-Tua sorella credeva che non esistessi?- le domandò, passandoselo sui capelli.
-Praticamente sì: le dava fastidio che pensassi a te.- rispose lei, sfilandosi il vestito, le calze e le scarpette.
George rabbrividì alla vista delle sue gambe scoperte, ma scacciò qualsiasi pensiero.
-Sai che fine hanno fatto le guardie?-
-Sono state tutte giustiziate.- affermò Greta, storcendo la bocca: anche se erano colpevoli, probabilmente lei era contraria alla morte. -Anche chi non se lo meritava…- sussurrò poi.
-Sono venuti in piena notte su degli aerei, ci hanno salvati quasi tutti, tranne quelli che sono morti di fame.- raccontò, abbassando lo sguardo.
-Han non era tra di loro…-
-No, infatti, è rimasto lì.- continuò George, stringendo i pugni.- Stavo per ucciderlo.-
Greta si voltò verso di lui.- Cosa?!-
-Avrei voluto vendicarmi, ma poi non l’ho fatto, perché ho capito che altrimenti sarei stato uguale a lui.- spiegò. -Perciò sono tornato a casa mia, nella mia fattoria, tra i miei animali.-
Greta gli sorrise, togliendosi il diadema e gli orecchini.
-Mio padre mi ha praticamente obbligato a venire qui.- ridacchiò.
-Ah sì?-
-Diceva di vedermi triste e che sarei dovuto venire a cercarti.-
Greta gli si avvicinò lentamente, accarezzandogli il ciuffo. -Mi hai cercato?-
George annuì appena, guardandola negli occhi.- Disperatamente…Fin che non ho visto il manifesto del saggio.-
Greta si sciolse i capelli, adagiandoli lungo le spalle e poi spinse il ragazzo a sedersi sul letto.
Calò un tombale silenzio, che di sottofondo aveva solo la pioggia che continuava a cadere incessante.
Greta si mise davanti a lui e si sfilò dall’alto la canottiera.
Staccò il reggiseno bianco dai gancetti e lo tirò sulla sedia nell’angolo.
George sentì il proprio cuore battere a mille.
Con grazia e quasi eleganza, si mise giù anche gli slip, venendogli in contro.
Dapprima poggiò la fronte sulla sua e poi lo baciò lentamente, mettendogli le mani sul proprio corpo.
George passò le dita all’interno del suo seno e del ventre, stringendole successivamente i fianchi.
Greta gli slacciò le bretelle e sbottonò lentamente la camicia.
Ogni bottone portò George all’eccitazione che aumentava.
-Ti ricordi quando in infermeria mi chiesi che cosa stessi pensando in quel momento e io ti ho detto Niente?- mormorò, accarezzandole il labbro con il pollice.
-Sì…-
-Pensavo a questo.-
Con decisione, George la prese in braccio, facendo aderire le sue gambe al proprio bacino e poi la poggiò delicatamente sul materasso.
Greta prese ad ansimare leggermente, guardandolo negli occhi.
Era vero che stare con lei era come tornare a casa dopo tanto tempo.
I loro corpi si unirono come lo erano stati da 20 anni, aspettandosi l’un l’altro.
La pioggia forte coprì il loro gemiti creando una dolce atmosfera.
George intrecciò le dita alle sue, lasciando baci per tutto il suo corpo.
Nonostante facesse freddo, le loro fronti erano sudate come ci fossero 30 gradi in quella stanza.
Qualche ora dopo, Greta poggiò la testa sul suo petto, coprendo entrambi con il lenzuolo.
Toccò appena la cicatrice sulla sua spalla, osservandola.
-Certe cicatrici non se ne vanno mai veramente, vero?- gli chiese.
George scosse la testa, baciandole la nuca.- No.- sussurrò.- Ce lo ricorderemo per sempre.-
Vide Greta versare una lacrima da un occhio e asciugarsela subito.
In quell’istante, George notò qualcosa che non aveva visto prima: Greta aveva un anello alla mano sinistra, sull’anulare.
Era molto bello, con un diamante splendente sopra.
Si iniziò a chiedere che cosa significasse.
-E’ una bella pietra.- commentò, prendendole la mano.
Greta la ritrasse di scatto, alzando il busto, come se non gliene volesse parlare.
George si accigliò, confuso.- Che cosa significa?-
Greta si passò una mano nei capelli, abbassando lo sguardo.- Tra due settimane mi sposo.-
Il cuore di George si fermò.
D’un tratto, tutta la vita felice che si era immaginato con lei fu solo un vago ricordo.
-Magari avresti dovuto dirmelo prima di…-
Greta gli afferrò le mani.- Ascolta, io ti amo…- singhiozzò, con le labbra tremanti. -Ho accettato solo perché non sapevo se fossi ancora vivo.-
-Cos’è? Un politico, un soldato, un riccone?-
-Un militare…-
Allora George si ricordò del discorso che aveva fatto con suo padre: anche se avesse potuto amarlo, non avrebbe mai sopportato di vederla rintanata in una fattoria per il resto della sua vita, infelice.
Magari il proprio amore non era abbastanza da dare.
Iniziò a rivestirsi, sospirando.
-Ti prego, non te ne andare di nuovo! Se mi dici che mi ami anche tu, annullerò tutto, non mi importa!- continuò lei.
George si mise le mani sul viso.- Dio Greta, come posso lasciartelo fare? Come posso chiederti di rinunciare a tutta la tua vita per stare con me?-
Greta si aggrappò alla sua camicia.- Non mi importa!-
-Adesso non ti importa! Ma a 60 anni, quando ti ritroverai a scannare galline e a bere latte appena munto, non voglio essere io quello che vedrà sul tuo viso l’insoddisfazione.- replicò George, rimettendosi gli stivali. -Non lo capisci che siamo due persone completamente diverse? Lo capisci che non potrà mai funzionare?-
Greta lo guardò negli occhi e il suo silenzio gli fece capire che fosse d’accordo con lui, ma che allo stesso tempo non voleva esserlo, proprio come George.
-Perciò sposa il tuo militare, sii felice Greta: era questo che volevo per te.-
La ragazza versò un’ultima lacrima.- Ma io ti amo.-
George le prese il viso tra le mani.- Anche io ti amo ed è per questo che devo lasciarti andare.- le sussurrò, baciandole la fronte.
Si avviò verso la porta il più presto possibile, prima di cambiare idea.
Trovò Belle seduta sul divano in soggiorno, come se lo stesse aspettando.
-Hai fatto la cosa giusta.- commentò.
George fissò la porta alla pari della bocca di un mostro gigante che presto lo avrebbe inghiottito.- Lo so, ma perché fa male lo stesso?- mormorò tra se e se, girando la maniglia.
Scese le scale e andò in strada, chiamando un taxi con la mano.
In quel momento, sentì delle scarpette col tacco scendere di sotto.
Greta corse fuori dal portone, con indosso una vestaglia rosa e gli saltò addosso, poggiando le labbra sulle sue.
George la strinse a se come fosse ossigeno, più che poteva, fin che non gli mancò il fiato.
-Non dimenticarmi mai, promettimelo.- gli disse, guardandolo negli occhi.
George ricambiò con gli occhi lucidi.- Te lo prometto.-
La adagiò sul suolo e poi salì in macchina, senza mai guardarsi indietro.
Solo qualche anno prima, dettata da Dan, Greta trascriveva su un foglio: E un giorno saremo in tutte le cose, io e te: nel cibo, nell’aria, in un bacio dato di sfuggita sotto la pioggia autunnale, con le stelle che brillavano in cielo. Così, quando riguarderemo in alto, ci ricorderemo dei nostri cuori uniti e di come stupenda è stata la nostra storia d’amore.

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Capitolo 21
*** Epilogue. ***


Presente
 
Mara vide una lacrima cadere dall’occhio di Ron e gliel’asciugò prima che arrivasse al labbro.
Non si aspettava che si commuovesse, non dal tono duro che aveva usato precedentemente.
Ron le sorrise appena e guardò l’ora, si erano fatte le 22 e il suo albergo non lo aveva lontanamente visto da due giorni. -Sarà meglio che vada.-
-Sì…- mormorò Mara, abbassando lo sguardo.
La camera da letto era piena di fogli, cartacce dei fast-food e bicchieri mezzi vuoti di gin.
Ron si mise la giacca e prese la sua valigia, avviandosi verso la porta. -Rimane una delle mie storie preferite, se non l’unica.- commentò.
Mara gli sorrise.- Sì, anche la mia.-
Mara e Ron si stavano separando come se fossero stati due estranei che avevano preso un caffè.
Che, effettivamente, era quello che sarebbe dovuto succedere.
Invece, avevano trovato particolare piacere nel parlare e tra loro era scattato qualcosa che Mara non sapeva bene ancora cosa fosse.
-Sai, non era una cattiva idea quella di farli rivedere. Posso chiedere a Sharon di accompagnare mio padre in treno fin qui.- continuò Ron.
Mara non vedeva l’ora, strepitava all’idea.- Davvero? Penso che lei sarebbe felicissima di rivederlo.-
-Bene, allora ci aggiorniamo.- affermò, sulla soglia della porta.
Da una parte, Mara non voleva lasciarlo andare, avrebbe parlato con lui per ore ed ore.
Però aveva anche bisogno di riflettere, per capire quello che c’era stato.
-Certo, chiamami quando vuoi.-
Ci fu un certo imbarazzo quando Ron le baciò goffamente la guancia e poi se ne andò.
Magari non era come nelle favole o in quella storia che si erano raccontati per giorni: forse non succedeva così nel mondo vero, non era possibile che Ron e Mara avessero semplicemente avuto un colpo di fulmine.
Mara ci avrebbe dormito su e l’indomani, avrebbe chiamato sua madre per darle la notizia.
***
 
6 settembre 2016
 
Mara decise di tenere Greta all’oscuro di tutto e con Ron decisero di farli incontrare a Central Park.
Greta e sua figlia si sedettero su una panchina, in una fresca giornata di sole.
I capelli rossi di Greta stavano lentamente diventando bianchi: li aveva raccolti in una coda, adagiandola sulla spalla per scoprire i lobi delle orecchie sopra i quali c’erano dei pendenti azzurri.
-Mi piace tanto questo parco.- commentò la donna.
-Non ti ricorda mai Han?- le chiese Mara.
-Certo, ed è anche per questo che mi piace…Qui ci siamo baciati per la prima volta.- spiegò Greta.
Mara vide le sue mani tremare per quell’improvviso ricordo e gliele strinse.
-Sto bene, cara, non ti preoccupare.- le disse sorridendo. -Ma perché mi hai portato qui?-
Mara era così eccitata che le venne la pelle d’oca.- Dobbiamo incontrare delle persone.-
La madre si accigliò.- Delle persone? E le conosco?-
-Sì, mamma…Le conosci benissimo.-
-Ehi!-
A quel punto, una voce maschile gridò da qualche metro più in là.
Ron alzò la mano in cielo e Mara fece la stessa cosa, per fargli capire che erano sedute lì.
La prima cosa che Mara notò, però, fu che era da solo.
Forse George non aveva accettato o non si sentiva bene.
-Ciao.- le disse Ron, piegandosi su di lei per baciarle entrambe le guance.
Nello stesso istante, Greta sgranò gli occhi e balzò in piedi.- Oh mio Dio!- esclamò, mettendosi le mani ai lati delle labbra.
-Salve Greta.- aggiunse Ron, sorridendole.
Ci fu un attimo di silenzio, in cui Greta gli accarezzò tutto il viso, mentre le si inumidirono gli occhi.
-Sei uguale a lui…- sussurrò.
Esattamente la stessa cosa che aveva pensato Mara la prima volta che lo aveva visto.
Probabilmente, in Greta, quel viso così familiare, scaturì mille emozioni.
-E’ davvero un piacere conoscerla, mi chiamo Ron Mendonsa.- si presentò, baciandole la mano.
-Dov’è tuo padre?- gli chiese Mara.
-Ha detto che qui fanno i migliori Hot Dog del mondo, così si è fermato al chiosco.- rispose Ron. -Il solito ghiottone.-
-Hai portato George?!- esclamò Greta.- No! No! Voi siete impazziti! Mi farete venire un infarto! No, no, non voglio vederlo!-
Greta iniziò ad urlare e a gesticolare, allontanandosi.
Mara la seguì.- Mamma, mamma ascolta…Lo so che è difficile…-
-No, tu non lo sai! 41 anni Mara…Sono passati 41 anni…- balbettò Greta, sull’orlo del pianto.
-Sì che lo so, mamma!- replicò Mara. -So che sai quanti anni sono passati, perché tieni sempre il conto. So che da quando è morto papà, la sera, che ti metti in ginocchio davanti al letto per pregare, io so che preghi anche per George.-
Greta si mise una mano sugli occhi, tremando.
-Andrà tutto bene, sono qui con te.- replicò Mara.
Non appena Greta si tolse la mano dagli occhi, vide alle spalle di sua figlia un uomo dai capelli grigi, un accenno di barba e un paio di occhi verdi.
George le sorrise con gli occhi lucidi.- Ciao Greta.-
L’anziana si sistemò i capelli, avvicinandosi lentamente.- Ciao George.-
-Sei bellissima.-
Greta incrociò le braccia, voltando lo sguardo.- Oh, ti prego, sono vecchia, ho le rughe.-
-Beh, vorrei poterti dare i miei occhi per farti vedere…-
L’altra assottigliò gli occhi.- Oh, ti prego! E questa dove l’hai letta?!-
Mara sospirò.- Mamma!-
-Mara, tutto questo è ridicolo!- borbottò, sedendosi sulla panchina.
George si grattò la testa, arrossendo.- Sei arrabbiata…-
-Arrabbiata è una briciola in mezzo al mare, in questo caso.-
-Non credo di capire…- intervenne Ron, confuso.
-Io ti ho aspettato!- singhiozzò Greta, guardando in cielo per non far cadere le lacrime.- Ti ho aspettato per un interminabile minuto: quando il prete ha chiesto se c’era qualcuno contrario al mio matrimonio, mi aspettavo che avresti spalancato le porte della chiesa e che mi saresti venuta a prendere.- spiegò, con voce spezzata.- Ma non l’hai fatto.-
George rimase in silenzio per un po' e poi la guardò di lato.- Eri bellissima…Con i tuoi capelli mossi e quel vestito bianco panna: lo sapevo che avresti usato uno strascico così lungo. Era talmente lungo che avevi due damigelle a tenertelo.-
Greta si voltò verso di lui lentamente, confusa.- E tu come lo sai?-
L’altro abbassò lo sguardo, come se si vergognasse.- Perché io ero lì.- mormorò, chiudendo gli occhi e ricordando quella scena nella sua mente. -Ho pensato centinaia di volte di venire da te, ma non ne ho mai avuto il coraggio…Sembravi così felice.-
-Ero felice perché non mi hai lasciato scelta.- replicò Greta, avvicinandosi a lui col busto.
George non seppe cosa dire, così intervenne Ron.- Quello che George cerca di dire è che probabilmente aveva paura.- aggiunse, posando lo sguardo su Mara. -Non aveva mai provato niente di simile per nessuno nella sua vita.-
Mara capì subito che non si stesse riferendo affatto a suo padre, ma a se stesso.
-E nemmeno lei…Probabilmente avrà pensato che non se lo meritasse nemmeno.- gli disse, guardandolo negli occhi.
A quel punto, George mise una mano su quella di Greta.- Sono passati così tanti anni e non so ancora quanto ci resta da vivere…-
-Parla per te!- borbottò Greta, facendo scoppiare a ridere tutti.
-Ti va di passare il tempo che ci rimane con me? So che non potrà mai sostituire tutta la vita, ma…-
-Sì.- lo bloccò subito Greta, annuendo più volte. -Mi farebbe molto piacere.-
I due si guardarono negli occhi e in un secondo rivissero la loro vita.
Mara capì che a sua madre avesse ricominciato a battere forte il cuore ed era tutto quello che desiderava per lei. -Va bene, allora vi lasciamo da soli.-
Ron annuì e le porse la mano, che lei prese sorridendo.
Iniziarono a passeggiare per Central Park come due neofidanzati.
-Mi dispiace tanto per quello che ho detto a casa tua, non lo pensavo davvero.- esordì Ron.
Mara osservò i suoi occhi azzurri e si morse un labbro: come poteva dire di no?- Scuse accettate.- rispose, poggiando la fronte sulla sua.- Perciò…Ti va di avere paura insieme?- gli sussurrò.
Ron sorrise appena.- Oh, mi va tantissimo.-
Lei ridacchiò prima che Ron la baciasse dolcemente e l’afferrasse per i fianchi.
Dalla sua stretta, Mara capì che sarebbe andato tutto bene e che era ora di godersi ciò che il destino le aveva preparato.
Di scatto, Ron le fece fare un casquet, baciandola davanti tutta Central Park.
E come 71 anni prima, non tanto lontano da lì, dove una coppia di estranei si stava scambiando il suo primo vero bacio, Ron e Mara esternarono la loro leggenda.
Una posa che non si è mai persa nel tempo, di un bacio inaspettato in un giorno di gioia.
Un bacio che cambiò la vita di due persone.
Un bacio che rimarrà eterno.
 
FINE.
 
  • George Mendonsa e Greta Zimmer non si conoscevano all’epoca del bacio. Greta affermò che quello non era stato un evento romantico, ma un ringraziamento a Dio per la guerra che era finita. I due si sono rivisti per la seconda ed ultima volta il 4 Luglio 2009, in onore della festa di indipendenza.
  • Greta Zimmer sposò il militare Mischa Friedman ed ebbero 2 figli: Mara e Joshua. Al contrario di come si potrebbe pensare vedendo la foto, Greta non era un’infermiera, ma un’assistente alla poltrona. La donna morì l’8 Settembre 2016 all’età di 92 anni.
  • George Mendonsa era fidanzato all’epoca del bacio con la sua futura moglie Rita Petry. Afferma che fosse ubriaco, già nel pieno dei festeggiamenti per la fine della guerra e che stesse baciando tutte le ragazze che incontrava per strada. Con Rita ebbe 2 figli: Sharon e Ron. Morì il 17 Febbraio 2019 all’età di 94 anni.
  • Nguyen Hu’u An è stato un generale vietnamita che ha combattuto numerose battaglie nella Seconda guerra mondiale. È morto nel 1995, a 68 anni.
  • La prigione Hoa Lo, chiamata dagli americani Hanoi Hilton, fu bruciata negli anni ’90, adesso è diventata un museo.
  • James Stockdale fu un aviatore durante la guerra del Vietnam: il suo aereo fu abbattuto nel nord e fu imprigionato ad Hoa Lo per 7 anni.
  • Il 2 Dicembre 1959 la diga di Malpassent, in Francia, crollò e l’acqua raggiunse la cittadina di Frejus, uccidendo 421 persone.
  • La guerra finì completamente il 30 Aprile 1975 e, nel Gennaio del 1973, tre aerei da trasporto vennero mandati in Vietnam per liberare gli americani dalle prigioni: ciò rese possibile il rimpatrio di 591 prigionieri. Tuttavia, i soldati statunitensi uccisi in Vietnam sono stati circa 58 mila, mentre il Vietnam registrò almeno 1 milione di morti.
 
 
 
Salve a tutti, spero davvero che questa storia vi sia piaciuta, quasi farina del mio sacco! Grazie a tutti quelli che hanno letto 😊

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