I Racconti della Noia

di AlessiaOUAT96
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Arianna ***
Capitolo 2: *** Francesco ***



Capitolo 1
*** Arianna ***


Nelle varie lingue del mondo mi chiamano in modi differenti, tuttavia il mio primo appellativo viene dalla lingua Provenzale. Posso essere boredomaburrimientoennui allo stesso tempo. Io sono la Noia, la voce narrante di questo racconto.
Di me vi basti sapere che ho tenuto compagnia ad almeno ogni singolo essere vivente su questo pianeta, almeno una volta durante la sua vita. Vengo inconsciamente chiamata per riempire il vuoto lasciato dopo varie attività. Spesso però non si ha una buona opinione di me.                                                             
 Io sono onnipresente, così come tutte le emozioni, sensazioni e voglie; posso trovarmi in più luoghi e ore allo stesso tempo, assumendo forme diverse a seconda della persona che mi chiama.
Non voglio perdere troppo tempo in chiacchiere su di me, voglio solo mettere per iscritto due dei miei incontri preferiti con gli umani. Non appartengono tutti alla stessa epoca, ma hanno in comune una cosa: parlano di persone vissute in periodi di pandemia.
Il primo racconto è ambientato nel XXI secolo in Italia, durante la pandemia da Coronavirus. I confini nazionali e regionali vengono chiusi per il bene dei cittadini; bisognava uscire il meno possibile. Fu così che moltissimi si ritrovarono tra le proprie mura domestiche, e fu così che io iniziai a comparire nelle loro dimore.
Come per tutti gli esseri umani, la incontrai già in precedenza, ma solo quella volta mi rimase particolarmente impressa, poiché così come le narrazioni precedenti, la conobbi più profondamente.

La ragazza si chiamava Arianna e aveva 19 anni. All’inizio come tutti i ragazzi era felice di essere a casa. Non doveva più svegliarsi presto per andare a scuola, perché poteva seguire le lezioni in camera sua o sul divano, seppur facesse più difficoltà di quando andava fisicamente a scuola. I suoi genitori lavoravano tutta la mattina e lei rimaneva sola, a seguire le lezioni. Inizialmente quella situazione non le pesava più di tanto, dopo essere “stata” a scuola pranzava, poi faceva i compiti presto per avere il tutto il pomeriggio libero. Arianna adorava l’arte, la pittura in particolare. Tramite l’arte, lei era capace di entrare in un mondo tutto suo, fatto di colori, immaginazione e musica. Quando dipingeva infatti, era solita ascoltare musica dalla sua playlist in riproduzione casuale, era l’unico modo per lasciarsi andare ed essere totalmente sé stessa. In questo modo in passato era riuscita a evitarmi, a non notare la mia presenza, ma stavolta era diverso.
Già da quella mattina infatti, Arianna era annoiata. Essendo il 1° giugno, non aveva lezioni, nonostante i suoi genitori fossero comunque a lavorare; lei aveva già fatto tutti i compiti.

Mi avvicinai a lei non appena si sedette sul divano a righe blu e bianche, Ron, il suo Labrador Retriever nero, le si accucciò lì accanto.
Arianna sospirò, poggiando la testa contro lo schienale del divano.

«Oggi è proprio noioso, non c’è nemmeno scuola. È come se la noia fosse qui con me tanto è pesante»

Ecco, mi sente anche lei. Ha detto pure che sono pesante, eppure non mi sembra di aver lasciato segni sul divano, forse sarà perché è talmente abituata a mandarmi via facilmente che oggi mi percepisce di più. Come potrei darle torto?

«Vorrei mettermi a dipingere, ma so che oggi non è giornata. L’unica cosa che vorrei è vedere, letteralmente, i miei amici» sospirò «Vorrei che tutto questo non fosse mai successo»

Già, non è una bella situazione quella che stai vivendo; non sei l’unica è vero, ma ognuno percepisce i propri ostacoli diversamente. Qualcuno da fuori potrebbe dirti che tutto sommato non è così male, tuttavia è facile giudicare quando non si è personalmente e profondamente coinvolti.

«Questo divano a righe blu e bianche ha più di dieci anni, eppure ha visto più cose di me in questo momento. Anzi, una volta non eri nemmeno così, caro vecchio divano

Arianna si concentrò sulla fodera del divano, toccando avidamente ogni singola fibra del tessuto. Con una delle unghie iniziò a grattare un punto leggermente più sfibrato del resto del ruvido tessuto.

«Questo graffio te lo fece Mina, la gatta. Ti usò come tira-graffi quando avevo 8 anni. Ti ricordi di lei? Qualche anno dopo uscì e non tornò mai più e non penso fosse la presenza di Ron a infastidirla»

Arianna si alzò e si diresse incerta verso la sua postazione preferita per dipingere: accanto la porta-finestra del salotto. Si sedette sullo sgabello e prima di iniziare, bevve un sorso d’acqua dalla bottiglia posata sul tavolino lì a fianco; in tutto questo il suo cane la seguiva fedele.                                                                                                     

Accarezzò la tela su cui aveva abbozzato il disegno di un viale costeggiato da alberi fitti e alti. Alla fine di quel viale c’era un punto luminoso. Quel punto luce era stata la prima cosa che Arianna aveva deciso di colorare. Toccò di nuovo quel piccolo sole, scoprendo che la pittura era ancora umida. Tuttavia, non appena prese uno dei pennelli non ebbe la forza di intingerlo e così iniziò a rigirarselo tra le dita.

«Oggi c’è anche una giornata di sole: i manici dei pennelli sono tiepidi e l’acqua è leggermente calda»

Quel giorno però, Arianna non era in vena di dipingere e lasciarsi andare. Era annoiata, c’ero io dopotutto.

«Vorrei andare in giardino, vedere e toccare i tulipani colorati. Ma non posso, non ci riesco più!» batté entrambi i piedi a terra e dalla rabbia lasciò cadere il pennello per terra. Arianna è cieca circa dall’età di 10 anni, ha una malattia ereditaria per cui si può fare ben poco.

«Riesco a vedere solo sagome scure e la notte non vedo proprio. Ron mi aiuta, ma vorrei ritornare a vedere i colori come una volta»

Riusciva a percepire le cose, i volti solo toccandoli, ma dentro sapeva benissimo che non era lo stesso. E in quel momento di noia, le riaffiorarono i ricordi di quando aveva la vista; memorie principalmente della scuola elementare, degli amici e della sua famiglia. Quel giorno un ricordo in particolare le occupava i pensieri: il giorno in cui scoprì di dover diventare cieca.                                                                                 
Nella sua mente i ricordi affioravano nitidi e io riuscivo a vederli con lei.

Arianna aveva 10 anni compiuti da poco, da qualche tempo aveva problemi alla vista: a scuola non vedeva bene alla lavagna e le maestre avevano consigliato una visita oculistica. Pensando fosse solo miopia, sua madre la accompagnò tranquilla dall’oculista.                                                                                                                         
 Arianna ricorda quanto il cielo fosse azzurro e senza una nuvola, ricorda anche l’odore di erba bagnata e i suoni ovattati emessi dalle foglie autunnali calpestate mentre si avviava verso la macchina. Era una giornata normale, nulla sembrava preoccupare la piccola Arianna. Dopotutto, c’erano altri bambini nella sua classe che portavano gli occhiali, non sarebbe stata una tragedia.                                                    
Il viaggio fino lo studio medico durò poco, anche perché la radio passava canzoni piacevoli e il tempo sembrò passare in fretta.                                                              
 Appena arrivata dentro lo studio, Arianna si mise a leggere una rivista, sebbene facesse un po’ di fatica, continuava a chiedersi che tipo di occhiali avrebbe messo; come sarebbe stata la montatura. Lei sperava fosse di un bel verde smeraldo, il suo colore preferito. La visita in sé non durò molto, Arianna ne aveva già fatte altre, tuttavia l’oculista quella volta sembrava più serio delle altre volte.

«Signora, vorrei parlarle un attimo in privato» finì di stampare il referto e lo mise in una busta dopo averlo firmato.

«Certamente» dopo essersi scambiati uno sguardo rapido, la madre di Arianna e l’oculista uscirono dalla stanza. La bambina non riuscì a sentire nemmeno una parola.                                                                                                                                 
Quando la madre entrò teneva il cellulare in mano, ma c’era qualcosa nel suo sguardo che non andava, una velatura di tristezza, nonostante ciò sorrise, prese per mano Arianna e si avviò verso casa. Il viaggio di ritorno fu ancora più breve di quello di andata. Non appena la macchina si fermò, la madre di Arianna chiese a sua figlia di non andare subito dentro casa, ma di sedersi nel posto accanto al guidatore.

«Arianna, devo dirti una cosa. Non ti piacerà, ma la affronteremo assieme. Io sarà sempre con te qualsiasi cosa accada» prese le mani della figlia e la guardò con tanta tristezza, sconforto, impotenza e amore.

«Mamma… è per gli occhiali? Guarda che non mi dispiace mica metterli! Anzi, li vorrei verde smeraldo, se esistono» la bambina non capì subito perché sua madre si stesse comportando in quel modo. Un paio di occhiali colorati non hanno mai fatto del male a nessuno!

«Amore mio, speravo questa cosa non ti toccasse mai, ma a quanto pare non sarà così» a stento trattenne le lacrime davanti a una sempre più confusa e preoccupata Arianna «Amore mio ti ricordi dello zio Stefano?»

«Certo! È lo zio che cammina con un bastone e che nonostante abbia gli occhi aperti non legge nemmeno i caratteri cubitali. Ha anche un cane che è meglio che non tocchi»

«Arianna, tu avrai lo stesso problema dello zio»

Calò il silenzio per qualche secondo.

«No! È una bugia! Perché me lo stai dicendo? Non è vero, non diventerò cieca. Avrò un bellissimo paio di occhiali, vedrai!» scese dalla macchina arrabbiata, lasciando sua madre in preda allo sconforto e al dispiacere. Non capiva perché sua mamma le stesse dicendo delle bugie. Perché voleva spaventarla?

Ecco cosa successe quel giorno. Da lì in poi, Arianna iniziò a perdere sempre più velocemente la vista. Sua madre le spiegò più volte che quello che le stava capitando era ereditario e che non avrebbe potuto evitarlo; sua madre le stette sempre accanto quando iniziò a leggere il braille e quando Arianna ottenne il suo cane guida Ron.
Ed eccola lì, seduta davanti quella tela che aspetta solo di essere riempita, non stava piangendo. Era semplicemente triste per un passato, presente e futuro che non avrebbe potuto cambiare. Ci aveva fatto il callo ormai: sapeva che le cure possibili erano solo dei tentativi, sapeva che la vista non sarebbe mai tornata come prima.

«I momenti peggiori sono stati da una scuola all’altra. I nuovi compagni dovevano abituarsi ad avere una ragazza cieca in classe. Non tutti hanno fatto amicizia con me, ma non ho mai pensato di essere simpatica a tutti» Prese finalmente in mano il pennello caduto e lo intinse in quello che sapeva essere il verde scuro.

«Mi bastava e mi basta tutt’ora non suscitare pietà. Non voglio essere compatita, voglio solo essere accettata e godermi la mia vita»
Sentì un rumore di chiavi e Ron uggiolò.

«Arianna, sono a casa!»

Era arrivata la mamma.










ANGOLO AUTRICE!
Buongiorno a tutti!
Non pubblico da tanto...è così strano.
Ho avuto dei problemi con l'HTML di Efp quindi se trovate problemi è quello. Come potete vedeere nella intro, il racconto (anche se a dire il vero ho partecipato con 2 racconti, di cui il prossimo capitolo rappresenta l'altro racconto) è stato inviato a un concorso dove non sono risultata vincitrice (eh vabbè sarà per un'altra volta).
Se avete domande, curiosità, o se ci sono orrori grammaticali/di svista, fatemi sapere!

A presto,

Alessia
 

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Capitolo 2
*** Francesco ***


Il secondo racconto è ambientato nel XX secolo, nel 1918 più precisamente. In quella che adesso viene chiamata Europa, si era appena conclusa la Prima Guerra Mondiale, detta anche la Grande Guerra. Tra i tanti che ho incontrato, scelgo di narrarvi la storia di un ormai ex soldato.
Francesco era appena tornato dalla guerra quando scoprì di aver perso tutto quello che aveva lasciato, o quasi tutto.                                                                   

Aveva combattuto in trincea, aveva visto così tante volte la morte che non gli faceva più paura, anche se era ben intenzionato a non incontrarla più, almeno per i prossimi 20 anni. Tuttavia, non appena rientrò nella sua città non trovò la sua futura moglie ad aspettarlo.                                                    
Quando arrivò a casa sua la trovò deserta, ma integra: non c’erano segni di guerra e violenze là dentro, solo un gran vuoto con l’appena percettibile, ma conosciuto odore di morte. Quella cara vecchia amica era passata di lì recentemente e si era portata via qualcuno. Ma chi?                                                              
Francesco guardò bene in ogni stanza, ma trovò la risposta in camera da letto, grazie a un rigonfiamento delle coperte che attirò immediatamente la sua attenzione.         
L’ex soldato si avvicinò senza parole, ma con alcune lacrime a rigargli il volto: sua nonna era distesa con gli occhi chiusi, senza vita, ma con un pezzetto di carta tra le mani ossute. Non frenò il pianto e si sedette accanto a lei, carezzandole i capelli bianchi e dandole un bacio sulla fronte, come lei era solita fare con lui da quando era bambino.
«Addio, nonna Lucia. Mi mancherai»

Io incontrai Francesco in una piccola stanza di ospedale, stranamente con un solo ospite malato di “Influenza Spagnola”.                                                                       
 Francesco era frustrato e malinconico. Era in quella stanza da solo qualche giorno e ormai la conosceva benissimo: dal numero di piastrelle, alle minuscole crepe sui muri; era capace di distinguere persino i cigolii del letto e i passi dei dottori e infermieri che camminavano in corridoio. L’infermiera Silvia per esempio, aveva una camminata pesante nonostante la corporatura minuta, mentre il dottor Alberto una più claudicante. Memorizzare questi dettagli in poco tempo era una delle abilità che Francesco aveva sviluppato in guerra, quindi in un altrettanto breve tempo comparvi io.

«Non avrei mai pensato di sentirti così vicina, Noia»

Nemmeno io a dirla tutta, in guerra ci siamo incontrati quasi sempre di sfuggita e quei rari momenti di ozio te li sei goduti fino in fondo.                                          
Nonostante la malattia, Francesco era annoiato e come quasi tutti gli esseri umani iniziò a ripensare al passato.
Era stata una guerra violenta, crudele e impegnativa. Moltissimi soldati italiani e non perdevano la vita ogni giorno tra le trincee, filo spinato, bombe e fucili. Quando era bagnato, il terreno montagnoso del Carso rendeva tutto più difficile.

«Avevo un amico di nome Mario, avevamo combattuto assieme sin dai primi momenti. Ci siamo sempre coperti le spalle a vicenda, anche letteralmente» chiuse gli occhi ed espirò col naso
 «Una sera, mentre rientravamo da un giro di ricognizione scivolò nel terreno fangoso»

Strinse amaramente i pugni per il destino crudele che la vita aveva riservato al suo amico.

«Riuscii a prenderlo per un lembo della manica, tutta rovinata dalle intemperie, ma quando inizia a tirarlo su, il tessuto si lacerò e Mario cadde in una delle gole della montagna. Vista la profondità, non riuscimmo a recuperare nemmeno il cadavere»

Francesco ricorda ancora qualche dettaglio della vicenda: gli occhi azzurri spalancati e il sorriso rassegnato alla morte. Mario, così come Francesco, la considerava parte del ciclo vitale, quando accadeva senza intromissioni umane.      
La guerra non era parte della natura, i proiettili e le granate non erano frutti del terreno.                                                                                                                             
 Pianse lacrime amare senza vergogna, in silenzio; come a volersi tenere il dolore del lutto per sé per non dare fastidio a nessuno.

«E sono sopravvissuto per cosa? Per scoprire che la mia famiglia è morta a causa di una pandemia?» Francesco aveva letto la lettera che sua nonna teneva tra le mani. Era un testamento, la
calligrafia era quella sottile e leggera di sua sorella minore. In quel pezzo di carta Francesco aveva scoperto che la pandemia aveva contagiato tutti in famiglia, ma che non erano riusciti a recarsi in ospedale a causa della virulenza della malattia. La sua famiglia era al corrente della corrispondenza epistolare tra lui e Teresa, quindi la casa sarebbe stata intestata a loro, così come tutti quei pochi beni rimasti.

«Sai cosa è buffo e amaro allo stesso tempo? Che la morte non risparmia nemmeno i giovani e gli innocenti» sorrise amaramente, pronto a un’altra memoria di guerra «E io ricordo ogni giovane morto in guerra prima ancora di raggiungere i 25 anni»

Francesco iniziò a parlare come se potesse davvero vedermi. Vista la tristezza che riempiva il suo cuore, i suoi pensieri erano fissi sulla morte, in particolare di quella di un soldato giovanissimo, deceduto in trincea.                                                                     
Il ragazzo si chiamava Ludovico, aveva appena 19 anni. Era inverno quando morì. Qualche giorno prima aveva piovuto, ma furono le temperature fredde a peggiorare la situazione. Ognuno cercava di coprirsi, di sopravvivere come meglio potesse, ma i soldati più giovani si ammalavano più facilmente. Nonostante i pasti caldi, i tremori e la febbre non scesero mai. Ludovico diventava ogni giorno più pallido, mangiava sempre meno e la tosse non accennava mai a smettere.

«L’unica cosa che lo faceva stare bene erano le lettere che scrivevo a Teresa. Gli piaceva sentirmele leggere perché riusciva a pensare alla sua famiglia» chiuse gli occhi al ricordo della ninnananna che gli cantò all’orecchio pochi attimi prima che spirasse, come se fosse suo fratello minore.

«Quando morì, fu come se un’onda gelida mi attraversasse e poco dopo iniziò a nevicare»

Subito dopo iniziò a ridere, preso da una strana isteria febbricitante. Rideva per non piangere, per non lasciarsi andare alla disperazione. Chiedersi perché fosse rimasto vivo era una domanda più che lecita e sensata. Potevo sentire le sue emozioni, percepire i suoi pensieri e Francesco non sapeva come rispondersi. Era sopravvissuto alla guerra, alla fame, alle malattie e al terreno mortale del Carso; aveva visto giovani morire per mano umana e non. Tutto questo per cosa? Per scoprire che tutta la sua famiglia era deceduta e che centinaia di innocenti continuavano a perdere la vita.

«Non ho intenzione di morire in questo modo, non posso lasciare questo mondo per mano di un’influenza. Se sono arrivato fino a qui devo andare avanti. Mi rimane solo lei dopotutto»

Teresa, la ragazza per la quale si era innamorato gli aveva scritto tante lettere mentre era in guerra e in ognuna di quelle Francesco immaginava di trovarsi tra le sue braccia, vicino al fuoco e con la sua testa castana poggiata contro il suo petto; sognava di sussurrarle parole dolci.                                                                                  
Ogni volta era come se quelle lettere creassero una sorta di barriera, di bolla contro la guerra dove stava combattendo.                                                                                  
Mentre era in ospedale non smise mai di pensare a lei: ai suoi capelli lisci e sottili come seta, ai suoi occhi verde muschio, alle sue labbra rosee, ma soprattutto al suo temperamento dolce e ferreo allo stesso tempo.
Francesco mi percepì spesso man mano che il decorso ospedaliero migliorava e mi parlava come se fossi una vecchia amica; parlare con me, la Noia, era il suo unico modo di sentirsi meno solo, di ammazzare quel tempo che non sembrava passare mai.                                                                                                                                          

Uscì dall’ospedale sereno, pronto a dare una degna sepoltura a suoi cari e prepararsi alla sua nuova vita che lo aspettava, sperando di non dover più combattere, di non applicare il “morte tua, vita mia”.                                                                                        
No, Francesco ero proiettato al futuro.

«Voglio chiedere a Teresa di sposarmi come desiderava la mia famiglia, voglio iniziare da zero e dimenticare le atrocità della guerra»










Angolo dell'autrice!
Rieccomi qui dopo quanti mesi? Sicuro più di un paio... Tra lezioni, sessione ed essere pendolari ho avuto poco tempo di aggiornare. Di nuovo se vedete spaziature o paragrafi strani (tipo troppo corti) è l'unico modo in cui l'editor di efp non mi cambia il testo. Ne ho provate di tutti i colori, ma continuo ad avere difficoltà.
Detto ciò ringrazio chi ha letto anche questo capitolo! Il prossimo potrebbe essere l'ultimo, visto che nel concorso la storia di Francesco era la seconda e ultima. 
Grazie a tutti e alla prossima!
 

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