Di Galassie, rottami, e nuove Vie

di _Lightning_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO – Promesse in sospeso ***
Capitolo 2: *** PARTE I – ROTTAMI [Capitolo 1: Immobile] ***
Capitolo 3: *** PARTE I – ROTTAMI [Capitolo 2: Storie e vuoti] ***



Capitolo 1
*** PROLOGO – Promesse in sospeso ***



©Lightning
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Prologo

Promesse in sospeso




 


Il motore della Slave I ha una frequenza irritante che gli fa vibrare i timpani.

Quella è l’unica osservazione di senso compiuto che continua a ronzargli nitidamente in testa. L’iperspazio sfreccia al di fuori del permaglass in striature bluastre e psichedeliche, un po’ come i suoi pensieri. Solo che la nave si lascia alle spalle migliaia di anni luce con ogni singola variazione di blu che attraversa, mentre lui rimane bloccato nello stesso, singolo istante. Sente ancora l’impronta indelebile di tre piccole dita impressa sul mento, quasi l
avessero marchiato a fuoco. Oltre la pelle, in modo indolore.

Ci rivedremo. Promesso.

Ciò che ha detto gli riverbera nell
anima, sotto al beskar. Ogni parola pronunciata da un Mandaloriano è legge, lastrica la Via sulla quale si posano i suoi passi. Lui non ha più una Via, ma sente comunque sotto ai piedi i vuoti lasciati da quella promessa che non può davvero mantenere, come pietre d’inciampo incrinate.

Non gli ha nemmeno ridato la pallina argentata. La stringe nel palmo e la fa rotolare tra le dita come se, attraverso quel movimento ipnotico, potesse stabilire un qualche tipo di connessione con Grogu. E forse lui, coi suoi poteri, riesce anche a sentirla, a sentirlo. È un dialogo a senso unico. A lui non arriva nulla indietro, solo la fredda rotondità di quella sfera inerte. 

Eppure, non smette. Se c’è anche una sola possibilità che Grogu possa percepirlo, vale la pena crederci. Non ha idea di come funzioni la Forza, e forse questo è un vantaggio. Almeno può illudersi, senza nessuna razionalità e conoscenza certa che possa riportarlo coi piedi per terra – sulla sua Via dissestata. Stringe la pallina nel palmo, espirando piano dal naso.

Sente di sapere così poco. L’elmo gli preme tra le caviglie, dove l’ha incastrato da ore. L’elsa della Darksaber è un peso estraneo al suo fianco, accanto al blaster. L’assenza del ciondolo col mitosauro al collo si fa sentire per la prima volta da mesi. La corazza è scomoda, ha degli spigoli che non ha mai notato che gli si piantano tra le ossa. E l’aria sembra premergli sul volto con una forza tangibile.

Sono miriadi di puntini e sensazioni che dovrebbe essere in grado di connettere e che invece rimangono a galleggiargli in testa, distanti come sistemi di pianeti indipendenti. La Via non riesce a raccordarli tutti. O ci riesce solo serpeggiando tra curve e anelli intricati, impossibili da percorrere. Grogu, il Credo, la Darksaber, se stesso. La Via non può diramarsi per raggiungere tutti – o forse può, e lui non lo sa. Sa così poco del Credo, del suo popolo, di quella Galassia che ha battuto palmo a palmo senza mai davvero vedere.

Socchiude d’un tratto gli occhi e viene strappato dal dormiveglia e da quel vortice di linee ingarbugliate, prima dai propri riflessi istintivi e poi dalla consapevolezza di cosa l’abbia riscosso. Un profumo leggermente speziato gli solletica le narici, e abbassa lo sguardo su una ciotola dal contenuto indefinito, ma commestibile. Muove impercettibilmente gli occhi, risalendo verso l’alto, lungo la mano e il braccio che gliela sta porgendo. Le bande nere verticali di un tatuaggio ben noto entrano nel suo campo visivo.

Si arresta lì sull'inchiostro inerte, evitando di arrivare a incontrare quello vivo degli occhi di Cara. Gli riesce difficile sostenere lo sguardo di chiunque, messo così a nudo, e si limita a fissare di nuovo la porzione di cibo che lei gli sta offrendo in silenzio.

«Non ho fame. Grazie,» aggiunge subito, a stemperare il suo tono brusco, dettato più dal lungo silenzio e dalle corde vocali ancora dolenti per la stretta del Darktrooper, che dal suo stato d’animo.

E non riesce a modulare al meglio la propria voce, senza una barriera in beskar a filtrarne le sfumature più intense. Deve abituarsi. Dovrà abituarsi.

Cara non si muove di un millimetro. «Da quanto non mangi?»

Din sente le proprie sopracciglia scattare verso l’alto in un moto di stizza e perplessità che non si è mai preoccupato di celare prma d'ora. Non lo sa, in effetti. Quel fatto lo irrita, lo fa sentire come se non fosse nel pieno controllo di se stesso. Non lo è, non del tutto. Ma avverte un lieve nodo all’altezza dello stomaco che si stringe al pensiero del cibo, e quello è un segnale che può leggere e interpretare facilmente, al contrario di quelli discordanti che si rincorrono nella sua testa.

Scioglie le braccia dalla morsa serrata sulla propria corazza e accetta la ciotola con un cenno impercettibile del capo, gli occhi ancora sfuggenti. Infila la pallina argentata al sicuro dietro al giustacuore. Sa che Cara nota quel gesto, ma non vuole davvero nasconderlo. Ci sono fin troppe cose che dovrebbe e non può nascondere, al momento. Sospira, senza il metallo ad amplificare quella sua reazione involontaria e connotata dai più disparati significati, per chi sa ascoltare. In quel momento è semplice, basilare rassegnazione.

Scopre di non doversi sforzare più di tanto, per mandar giù quello che sembra stufato di nerf e che ha però lo stesso sapore di segatura piccante. Odia le razioni liofilizzate, eppure finisce il tutto fino all’ultimo boccone, cercando di non pensare al fatto che è il primo pasto che consuma in pubblico da quando era poco più di un ragazzino. Mangia a capo chino, i gomiti puntellati sulle ginocchia, con qualche ciocca che scivola provvidenzialmente sulla fronte a mettergli in ombra gli occhi. È difficile estraniarsi, con la netta percezione degli sguardi di Bo-Katan e Koska che di tanto in tanto lo trafiggono dall’altro lato della stiva. Non quello di Cara, ora seduta accanto a lui e intenta a consumare la propria cena con lo sguardo puntato verso la paratia opposta, del tutto indifferente a lui, al suo volto, al suo elmo, e allo stesso tempo assolutamente attenta a ciascuna di queste cose.

Non parla, ma sa che una parte di lei sta aspettando che sia lui, a farlo. Non qui e non ora. Anche mai, ma la tacita offerta d’ascolto si tende tra loro, ben percepibile.

Din posa infine la ciotola vuota a terra, sentendo lo stomaco pieno, tiepido, e un pizzico di vigore in più in testa. Il suo lato pratico, pragmatico, di guerriero appena scampato illeso all’ennesima battaglia, registra quella sazietà e comunica al suo corpo che adesso sta bene. Che è il momento di coricarsi e riprendere le forze in vista della prossima battaglia. Solo che non sta affatto bene, e non sa nemmeno se ci sarà una prossima battaglia.

Ignora la sonnolenza che gli preme sulle palpebre e riprende a rigirarsi in mano la pallina, in quello che ha l’impressione diventerà un rito quotidiano. La stringe tra pollice e indice, ruotandola e intravedendo il minuscolo riflesso distorto sulla superficie lucida. Il proprio volto, quello che dovrà abituarsi a intravedere d’ora in poi. Sospira a labbra chiuse, racchiude la pallina nel palmo e poggia la nuca contro la parete metallica, sapendo di non poter più rimandare, ora che ha concluso la sua missione. Ora che Grogu è al sicuro.

Sa quale dovrebbe essere il prossimo passo della sua Via. Sarà anche l’ultimo.

Chiude infine gli occhi e incassa il mento sul petto, scoprendo che è una posizione di riposo molto scomoda, senza elmo. Il rombo vibrante ed estraneo della Slave I gli si insinua di nuovo nelle orecchie, troppo acuto, e gli sfugge un soffio esasperato dal naso. Rimane in bilico nel dormiveglia.

Gli servirebbe la vibrazione bassa e ronzante della Razor Crest, per riuscire davvero ad addormentarsi. Il tintinnio preoccupante e allo stesso tempo familiare di qualche piastra metallica fissata male. Lo sporadico gocciolio del tubo della doccia che non ha mai riparato. I cigolii improvvisi di cui non riusciva mai a identificare l’origine. Il respiro rapido, regolare e quasi impercettibile di Grogu sospeso sopra la sua testa, inframezzato da qualche richiamo assonnato, a cui rispondeva con mugugni altrettanto assonnati, o con una mano che si alzava a dondolare l’amaca in un gesto rassicurante, accompagnato da un mormorio musicale che gli saliva spontaneo alle labbra...

... ke nuhoy naakla, cyare ad’ika
Ke nuhoy uuryc, bat buir’gaid...*


Una lieve pressione sulla spalla straccia quel ricordo sovrapposto, con la sua voce persa in quella di chi gli ha insegnato la nenia decenni fa, e sobbalza così violentemente da sbattere quasi la testa contro la parete. Si volta di scatto con una mano già sul calcio del blaster, e il suo sguardo stralunato incrocia direttamente quello di Cara – per la prima volta da quando non ha più nulla a schermarlo. Rimane paralizzato, fisso nelle sue pupille, con un’ondata fredda ed elettrica che lo investe lungo i nervi come nella base imperiale. Paura, irrazionale, istintiva, nel sentirsi esposto e vulnerabile. 

Cara distoglie con prontezza gli occhi da lui, puntandoli invece verso la rampa della Slave. È aperta, Din lo nota solo ora, e non c’è traccia degli altri. Dank farrik, quanto ha dormito?

«Scusa, non volevo allarmarti,» dice Cara, per poi fare un cenno del mento verso l’esterno, dove si scorgono immense fabbriche che eruttano cumuli di fumo nero nell’aria tersa. «Siamo arrivati su Faeron**.»

Din annuisce, deglutendo a fatica mentre riprende il controllo dei propri muscoli, irrigiditi dal brusco risveglio. Allenta la presa dal calcio del blaster e ritorna a poggiare la schiena contro il sedile, serrando nuovamente le caviglie attorno all’elmo ai suoi piedi. Ha ancora la pallina stretta in mano, e la ripone sotto la corazza.

«Gli altri?» chiede, dopo essersi schiarito la voce.

Cara alza le spalle. «Alla Cantina. Bo-Katan voleva parlarti.»

Din si limita a inarcare le sopracciglia, lo sguardo appuntato sul soffitto. Ovvio.

«Le ho detto che non dormivi da due giorni e che c’è tutto il tempo della Galassia, per sistemare le sue faccende
,» continua, con palpabile irritazione e il sottinteso di averle risposto esattamente in quel modo non troppo accomodante. «Non penso che tu voglia scappare adesso con la Darksaber, no?»

Lui scuote piano la testa, per poi serrare gli occhi alla realizzazione di cosa porta appeso alla cintura alla stregua di una comune arma.

«Dank farrik,» mormora, attraverso un sospiro stremato. Vorrebbe gettare quella spada in un vulcano attivo su Nevarro.

«Già,» replica lei, tirando le labbra in una smorfia, ma intuisce che è solidale con lui. «Din?» lo chiama poi, e lui trattiene l’istinto di voltarsi nell’udire il proprio nome.

Non è abituato a sentirlo pronunciare, ma scopre di preferirlo al generico, inappropriato Mando di cui ha calzato i panni fino ad oggi. I suoi occhi scattano lateralmente verso di lei, in un movimento fugace e cauto – un invito a continuare, finché possono sfruttare quel momento di riservatezza lontano da orecchie esterne.

«So che non è quello che vuoi sentirti chiedere,» esordisce lei, con insolita reticenza che gli fa capire quanto davvero debba sembrare sull’orlo di un tracollo, al punto che qualsiasi parola potrebbe spingerlo oltre il bordo. Forse è così. «Ma cosa hai intenzione di fare, adesso?»

Din incrocia le braccia al petto, e la pallina va a premere in quella nicchia tra due costole appena sotto al cuore, dove probabilmente finirà per incastrarsi e fondersi. I lumicini della mappa stellare racchiusa nella sua testa ondeggiano, distanti e ancor più difficili da unire. Il punto, è che Din Djarin sa esattamente come rispondere a quella domanda. Conosce a memoria il percorso che gli si è avvitato in testa finora, tra sogno, realtà e dormiveglia. La sua missione è compiuta. Grogu è al sicuro – lontano da lui, così lontano che gli si sfilaccia l’anima – ma è al sicuro. Gideon è in una prigione della Nuova Repubblica e non potrà più fargli del male. E il Credo è in frantumi, sparpagliato ai suoi piedi, che hanno continuato a calpestarlo finché è stato necessario. E adesso non lo è più. Non ha più giustificazioni per continuare a indossare l
elmo e dichiararsi Mandaloriano.

C’è un unico passo che gli resta da compiere, adesso: trovare l’Armaiola e riconsegnare il beskar. E poi... non c’è un poi. Quella è la fine della Via. Bandito, spogliato dell’armatura, bollato come reietto tra le Tribù – e poco male che, per qualche folle scherzo del destino, lui sia ora il legittimo Mand’alor. Magari la sua scomunica risolverà anche quella diatriba e potrà sbarazzarsi di quella spada. Non lo sa. Sa a malapena cosa sia, un Mand
’alor – è una figura leggendaria nascosta tra le nebbie di antiche ballate, e il pensiero di incarnarlo lo fa sentire ancor più inadeguato, indegno com’è del semplice beskar che ha ancora attaccato addosso.

Abbassa lo sguardo sull’elmo, studiandone la superficie perfettamente lucida. Non può più indossarlo, questo gli è stato chiaro sin dal momento in cui l’ha tolto – per la seconda, forse terza volta. Deglutisce a vuoto. Quante volte ha infranto il Credo? Quante non se n’è pentito, sapendo che quella era la cosa giusta da fare per proteggere Grogu? 

Serra le labbra e si acciglia, con qualcosa che gli si agita nel petto, un movimento irrequieto che fa vibrare la pallina argentata all’unisono con la corazza che la racchiude e col cuore che vi batte contro. Sembra volergli rompere le costole per uscirgli fuori dal petto, liberarsi della doppia gabbia d’ossa e beskar. Prende un respiro profondo, sentendo quel nugolo di puntini incollegabili che si fonde in un
unica volontà, condensata al centro della sua testa nella forma indistruttibile di una pallina argentata non restituita, di una galassia non vista, di domande prive di risposta.

È una Via molto chiara, diritta e priva di bivi, quella che gli si è sempre dipanata davanti. Un tracciato univoco che ora va a perdersi nel vuoto. Eppure, la trasforma in un labirinto con mille uscite nel giro di poche, semplici parole:

«Prima di tutto, mi serve una nuova nave.»



 


 

Note:

*"Dormi sereno, bambino mio // dormi tranquillo sulla corazza di tuo/a padre/madre."
**Nome inventato per il pianeta ancora ignoto su cui vengono recuperate Bo-Katan e Koska.
 
Note dell’Autrice:

Ehm, sì. Sì, ho iniziato un’altra long. No, non me ne pento minimamente.
Se devo essere sincera, non so ancora dove mi porterà – o meglio, lo so, le tappe ci sono tutte, ma non so cosa accadrà lungo il cammino e la stesura.

Diciamo che era l’anello mancante che sentivo di dover aggiungere: Vode An vede un Din ancora stabile, fermo nel suo Credo e nei suoi legami; Quando guardi l’Abisso lo pone in una situazione traumatica in cui queste certezze vengono meno contro la sua volontà. Qui, invece, voglio seguire il canone e affrontare Din nel momento in cui ha rinunciato a tutto ciò di propria sponte. Aspettatevi di tutto, insomma, questo era solo il prologo... come avrete notato dall'introduzione, le cose andranno a complicarsi e non mi prendo responsabilità delle azioni di Din. Ah, e non è un caso che abbia scelto di mostrarlo senza elmo nel banner ;) 

Bon, vi lascio a elucubrare (?) su questo ennesimo parto della mia mente, e come sempre ogni feedback è gradito :’)
Buone Feste a tutti, e alla prossima!

-Light-


P.S. a ninna nanna in Mando’a che avete letto nel capitolo è scritta di mio pugno sulla base di una realmente esistente in gallese, Suo Gân. Qualcuno di voi potrebbe conoscerla per via del film L’Impero del Sole, che mi è sempre rimasto nel cuore e che ho voluto omaggiare in questo modo un po’ strambo. Tradotto: ho raggiunto un nuovo livello di nerdaggine linguistica e non me ne pento.
 
 
Disclaimer:
Non concedo, in nessuna circostanza, né l'autorizzazione a ripubblicare le mie storie altrove, anche se creditate e anche con link all'originale su EFP, né quella a rielaborarne passaggi, concetti, o trarne ispirazione in qualsivoglia modo senza mio consenso esplicito.
Questa storia è scritta senza scopo di lucro.


©_Lightning_

©LucasFilm
 

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Capitolo 2
*** PARTE I – ROTTAMI [Capitolo 1: Immobile] ***



©Lightning

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PARTE I

ROTTAMI


“I’ve got no need for open roads
’Cause all I own fits on my back
I see the world from rusted trains
And always know I won’t be back
’Cause all my life is wrapped up in today
No past or future here
If I find my name’s no good
I just fall out of line”
[Ghost Towns – Radical Face]
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Capitolo 1

 

Immobile



Dopo quell’affermazione, l’aria attorno a loro sembra vibrare metallicamente come se ci fosse ancora l’elmo a filtrargli la voce. Le sue parole vorticano ancora un istante sopra di loro e, nonostante il suo sguardo rimanga appuntato sull’oblò della Slave, a seguire i pennacchi di fumo che costellano l’orizzonte, vede comunque Cara scurirsi in volto, con una linea incerta che va a incresparle la fronte.

Nell’istante che precede la sua replica, Din si rende conto di poterla anticipare senza difficoltà, in una repentina consapevolezza di tutto ciò che le ha taciuto negli ultimi giorni.

«Una nuova nave?» ripete infatti lei, cauta, con una circospezione che solitamente non le appartiene. «Perché, la Crest è...»

«Distrutta. Da Gideon,» completa lui, con la cadenza precisa e incolore di un radar.

Intravede lo shock sul volto di Cara – lo percepisce: da lei si propaga l’onda d’urto di un muto sconcerto, che non ha davvero bisogno di guardare, per comprendere. Non è come perdere un intero pianeta, no, ma la Crest era comunque casa, e lei lo sa bene.

Ha ancora l’esplosione impressa nelle retine. Rosso, bianco accecante, nero. Un secondo, non di più. Un secondo per mandare in pezzi quasi trent’anni di vita. Poi, il grigio stinto delle ceneri e del beskar. È una perdita che gli si è incuneata nel petto, come se i frammenti della nave l’avessero trafitto. Li porta con sé, come la pallina, come l’elmo vuoto. Il sospiro che immette nei polmoni è silenzioso, appena percettibile, ma gli stringe la gola dolorante. Ha fin troppi pezzi di metallo inerte incollati addosso, e nessuno ha più alcun valore.

Cara comprime le labbra, fin quasi a sbiancarle. Il tremito che la attraversa riecheggia di rabbia sotto pressione, ma anche di rammarico e impotenza. «Sto iniziando a pentirmi di avertelo chiesto vivo.»

Din scuote con pesantezza la testa, incrocia le braccia con più forza del necessario: sulle costole pigiano i bordi della corazza, sempre più estranei con ogni minuto che scorre.

«Uccidere Gideon non avrebbe cambiato nulla.» 

Il peso della Darksaber al fianco si fa fardello, quello della pallina sopra al cuore un macigno. Gli lampeggia davanti l’immagine della punta di lancia che si arresta a pochi, vitali centimetri dalla gola del Moff, e contrae i pugni in uno scricchiolio di cuoio e nocche. 

«È meglio che tu me l’abbia chiesto. Dopo quello che ha fatto a Grogu, non so se...»

«Grogu? Si chiama così?» interviene lei deviando con prontezza il suo discorso cupo, con l’ombra di un sorriso che si fa però subito mesto.

Din strizza di riflesso gli occhi, ad attutire il lieve senso di colpa che lo pervade per non averglielo detto, mescolato alla puntura sorda che quel nome porta con sé.

«La Jedi ha...» si interrompe, conscio di aver appena fatto un’altra falsa partenza: non le ha detto neanche questo.

Cara a quel punto alza lievemente il mento e poggia la nuca alla paratia metallica, scrutando un punto in lontananza con evidente perplessità.

«La Jedi,» ripete, e Din capisce da suo tono che è confusa, ma anche in qualche modo divertita, e non può darle torto.

Din apre bocca per rispondere, anche se parlare di ciò che è accaduto – di Grogu – è come togliersi una spina dal cuore. Lei lo ferma, con gentilezza, il viso adesso rivolto verso di lui, ma gli occhi bassi: 

«Din. Non parliamo seriamente da quando hai lasciato Nevarro... non ho idea di cosa sia successo nel frattempo. Ti va di aggiornarmi?»

Din prende l’ennesimo respiro lento, profondo – quell’invisibile moto che gli immette aria nei polmoni sembra essere l’unico appiglio in grado di fornirgli ancora una parvenza di stabilità. Quando è piombato su Nevarro per cercare Cara – reclutarla, in effetti – non le ha spiegato nulla. E lei non ha chiesto nulla. Dovevano salvare Grogu: quello era il singolo imperativo. Non c’è stato modo per dirle nient’altro. 

Nemmeno dopo Morak. Chiude di nuovo gli occhi, con un peso plumbeo nel petto e un bruciore che sembra scaturire dal centro della sua testa andando a infiammargli il volto esposto.

Cara, consapevolmente o meno, gli sta offrendo un altro appiglio: la possibilità di mappare ciò che è successo in modo da fare un passo indietro. Per poi andare avanti, forse. Anche se non è abituato a parlare, e anche se ha difficoltà a tenere a mente tutto ciò che gli si è abbattuto addosso in quel ristretto lasso di tempo. È più di quanto gli sia capitato in una vita intera, e sa di averne vissuta una già decisamente fuori dell’ordinario.

«Vorrei parlartene con calma,» risponde infine, lentamente, con un piccolo cenno del capo verso l’uscita a indicare un probabile imminente ritorno degli altri – qualunque cosa stiano facendo.

Si rende conto in ritardo di essersi mosso come avrebbe fatto con l’elmo. Irrigidisce il collo, premendo il mento verso il basso a bloccare altri movimenti istintivi.

«Non ho fretta,» replica lei, con un’occhiata furba ma al contempo lieve, che si scontra ancora sotto al livello dei suoi occhi.

Din lo nota, ed esita per un istante. Non c’è un modo delicato per dirglielo. Gira impercettibilmente la testa verso di lei, e parla in un soffio: «Se non mi guardi è peggio.»

Lei sembra trattenere il fiato, colta in fallo, anche se in verità non ha fatto nulla di sbagliato. Poi annuisce, semplicemente, e asseconda la sua richiesta senza la più piccola esitazione, spostando gli occhi su di lui. Guardarla in volto senza preavviso lo spiazza – gli brucia ogni centimetro di pelle. È come essere di nuovo nella base imperiale, trapassato da sguardi ostili, con uno spesso velo soffocante premuto su naso e bocca.

Si rimprovera subito, aspramente: questa è Cara, non un qualsiasi lacchè dell’Impero. È quanto di più simile a una famiglia gli sia rimasto. Può fidarsi. Vuole farlo, anche se la sua parte irrazionale stenta a fidarsi anche di se stesso – del suo nuovo se stesso senza Credo.

«Non sapevo cosa preferissi,» aggiunge soltanto lei, con l’accortezza di guardarlo solo brevemente negli occhi, per poi lasciare lo sguardo a livello del volto, sì, ma in modo non più così diretto.

«Dovrò abituarmi,» è l’unica, scevra risposta che Din riesce a formulare, prima di tornare a fissare i cumuli di fumo che assediano l’orizzonte di Faeron.

Non lo sa, cosa preferisce. Dubita anche di averlo mai saputo. Quel pensiero repentino, balzato nel primo piano a colori vivi della sua mente, senza alcuna logica, gli mozza il fiato. Gli toglie di nuovo la terra – la Via – da sotto ai piedi.

Cade un silenzio così denso da colargli addosso come ferro fuso, che poi si solidifica lasciandolo pietrificato in se stesso, nei suoi pensieri circolari e al contempo imbizzarriti e imprevedibili. Ha quasi timore che facciano rumore, ma nella stiva si ode solo il mugghiare lontano delle ciminiere e l’occasionale rombo di un’astronave di passaggio. 

Uno particolarmente vicino sembra riscuotere Cara, che riprende a parlare come se quella parentesi nella discussione non fosse mai avvenuta.

«Che tipo di nave cerchi?»

Din scatta appena di lato con la testa in un moto noncurante – di nuovo, con la falsa convinzione di avere l’elmo – e frena tra i denti la risposta istintiva, ridicola che gli è salita alle labbra. «Un trasporto leggero, agile, bene armato, media stazza. Nulla di troppo sofisticato,» dice invece, in fretta, fin troppo consapevole di cosa stia descrivendo.

Cara sembra rimuginare per un attimo, una piccola smorfia a storcerle la bocca. «C’è questo contrabbandiere, su Nevarro, a cui abbiamo sequestrato un mercantile classe Monarch. Non è molto maneggevole e ha bisogno di un po’ di lavoro nel comparto offensivo, ma per il momento potrebbe fare al caso tuo.»

«Per il momento?» ripete Din in modo falsamente stolido, ma il dubbio di essere fin troppo leggibile si fa strada in lui, gelido.

Cara inarca le sopracciglia, in quell’espressione che le assottiglia lievemente gli occhi quando si trova a ripetere qualcosa di ovvio. «Ti ci vorrà un bel po’ per recuperare un modello Crest che non cada a pezzi.»

Din si agita sul sedile, rifiutandosi di voltarsi verso di lei, ma anche di negare ciò che lei ha appena intuito. Non sa se sia solo merito della sua perspicacia, o se abbia davvero ogni pensiero stampato in volto. In ogni caso, ha colpito fin troppo vicino al bersaglio.

Recuperare un’ombra della Crest è comunque un obiettivo tangibile, per quanto fragile e di poco spessore. Gli serve qualcosa di reale a far da collante a tutto il resto, a quella massa gassosa di pensieri in continua espansione nella sua testa – vie che si diramano, labirintiche, imperscrutabili, e una sola Via nitidamente cristallina che però lo terrorizza più di qualunque droide o esplosione.

Non può riavere Grogu, né la sua Tribù, né il suo Credo, né può gettare via la Darksaber. Può comunque sperare di trovare un simulacro della sua vecchia nave sperduto in qualche pianeta-discarica, o racimolarne un pezzo alla volta da un capo all’altro della Galassia. È una missione collaterale che gli rimetterebbe sotto ai piedi qualche tassello incrinato, ma solido, seppur lontano dalla Via. Sospira tra i denti.

«Sì. Anche se non sarà comunque la stessa cosa,» ribatte infine, più per ricordarlo a se stesso.

«Non è mai la stessa cosa,» ribatte lei, pacata, ma con una stilla di dolore che raggrinzisce quell’affermazione. «Ma a volte è meglio dell’alternativa.»

Din socchiude gli occhi. Lui non ha alternative. O forse ne ha troppe. È lieto, almeno, che non gli abbia chiesto dove voglia andare di preciso, con quella nuova nave che sarà solo un surrogato di una vita che, in effetti, non esiste più. Quella è un’altra domanda a cui non saprebbe rispondere. O almeno, non a parole. 

Il coacervo di pensieri ed emozioni che gli si rimescola dentro come magma ribollente non ha un nome, né un ordine logico. È un impulso. Per seguirlo, non importa dove, come o perché, gli serve una nave. Non può rimanere bloccato – anche se lo è già, dentro se stesso. E se proprio deve, vuole che sia in un posto che può perlomeno fingere di chiamare “casa”. Su quello, Cara ha ragione.

Sta per dirglielo, e sta anche per accennarle quale sia il suo vago, confuso piano, ma si interrompe sul nascere. Nel quadrato luminoso dell’ingresso, occupato dalla terra chiara e riarsa, scorge tre sagome ben note avanzare verso la 
Slave a passo deciso: Fett, Fennec e Bo-Katan. Il cacciatore di taglie e l’ex-sicaria camminano affiancati, mentre la Mandaloriana si tiene leggermente discosta da loro, mezzo passo più avanti, l’andatura svelta. Indossa il casco e le orbite oblunghe da strigide sembrano appuntarsi direttamente su di lui, anche a quella distanza.

Din si irrigidisce di riflesso, i muscoli del collo che si tendono stuzzicando la tumefazione ancora fresca sotto al pomo d’Adamo. Cara deve leggergli l’inquietudine in faccia, perché si volta bruscamente, percependo il pericolo alle sue spalle: inquadra i tre in avvicinamento, e quando torna a rivolgersi a lui lo fa con espressione tetra. Si alza, spostandosi in modo di non trovarsi in mezzo a loro, e si siede dalla parte opposta della stiva con fare noncurante, anche se è evidente come anche lei avverta l’elettricità nell’aria. Din le scocca un’occhiata fugace, apprezzando il fatto che si stia tenendo fuori da quel contenzioso ridicolo con Bo-Katan. 

Deglutisce, mentre un retrogusto amaro gli ristagna sulla lingua – una nota acidula di responsabilità mai volute. Una parte irrazionale di lui ha sperato di non veder tornare la Mandaloriana, nonostante lui porti al fianco ciò che evidentemente brama di più nella Galassia.

Si impone di mantenere lo sguardo puntato fermamente sull’elmo bianco e blu in avvicinamento. In qualche modo, è più semplice di mantenere un contatto visivo diretto: la T del visore è più familiare e leggibile di qualunque volto. E quella della ormai ex-Mand’alor è tutt’altro che amichevole.

Un fremito ben noto gli attraversa i tendini, gli irrora i muscoli di sangue bollente in preparazione allo scontro. È una reazione istintiva, codificata nel suo DNA di cacciatore di taglie e Mandaloriano – di guerriero, di cacciatore e preda, nervoso e pronto al balzo. Il tramestio dei suoi pensieri tace di schianto, sovrastato dal fischio acuto d’allerta che affina i suoi sensi. Din, per quel singolo istante, non si sente poi molto diverso da quando indossava l’elmo, e si immerge a capofitto nella sensazione di essere di nuovo nel pieno controllo di se stesso.

Bo-Katan è la prima a mettere piede sulla rampa d’accesso, e lo fa come se stesse scendendo sul campo di battaglia. I suoi passi marziali risuonano secchi sul metallo e, sebbene mantenga un’andatura elastica, è ben udibile la forza che imprime sui talloni.

Din si alza in un solo, fluido movimento prima che arrivi direttamente di fronte a lui: non le lascia il vantaggio di essere in piedi, e muove un passo laterale in modo da non avere le spalle al muro, senza schiodare gli occhi da quelli dipinti sull’elmo dell’altra. Lascia le braccia lievemente discoste dal corpo, in modo non direttamente ostile, ma con la destra pronta a serrarsi sul calcio del blaster o sull’elsa della vibrolama. La Darksaber rimane fuori portata a battergli sulla coscia, un’arma estranea che non ha intenzione di testare adesso.

Bo-Katan si arresta a un passo da lui. Sembra divertita dalla sua manovra, lo deduce dal modo in cui inclina appena di lato l’elmo, scrutandolo come farebbe un convor che abbia puntato una preda dall’alto, nonostante lui la sovrasti di una testa intera. Din ha addosso abbastanza cicatrici da sapere di non dover mai sottovalutare un avversario più gracile, soprattutto se Mandaloriano. Lo fissa da dietro il suo beskar, senza accennare a togliersi l’elmo come ha sempre fatto di fronte a lui. Lui chiede, con un morso di bruciante stizza, se non sia un gesto di scherno verso il suo Credo infranto. Le sue dita si tendono di riflesso, arricciandosi nell’aria circostante il blaster.

«Pensavo di essere stato chiaro, principessa,» li raggiunge la voce raschiante di Fett, accompagnata dal suo incedere pesante e cadenzato e da quello più leggero di Fennec, che gli tiene dietro come un’ombra silenziosa. «Tenete le vostre questioni fuori dalla Slave.»

Si ferma accanto a loro nel superarli e degna entrambi di uno sguardo che, anche dietro al visore, si abbatte su di loro con la sorda devastazione di un maglio Tusken, mettendo in chiaro che, finché sono sulla sua nave, non c’è Mand’alor o Darksaber che possa sfidare la sua parola.

«E se vedo anche solo il riflesso di una spada laser, la prossima tappa che faccio è al pozzo di Carkoon,» quasi ringhia infine.

Invece di fissare Din, che sente l’elsa metallica trascinarlo con ancor più chiarezza verso il basso, oltre al volto perennemente in fiamme per i molteplici sguardi che vi si appuntano, il visore di Fett si fissa con breve intensità su Bo-Katan, con chiaro fare intimidatorio.

«Nessuno scontro, Fett,» replica lei, in quel suo tono sempre ondeggiante tra serio e faceto. «Io e il “
legittimo Mand’alor dobbiamo solo parlare

Din quasi sobbalza. Una scossa ustionante gli scuote le sinapsi nel sentirsi apostrofare a quel modo, con quel tono provocatorio, e deve fare appello a tutto il suo autocontrollo per non muovere un passo e travalicare la zona neutra per entrare in quella offensiva. Non ha mai chiesto quel titolo, ma non vuol dire che possa essergli ritorto contro per deriderlo. È certo che quella gamma di emozioni gli sia appena lampeggiata in volto, e si sforza di attenuarla.

«Parlate, allora,» sbotta Fett, sembrando quasi divertito e cogliendolo di sorpresa – persino Bo-Katan distoglie impercettibilmente lo sguardo per fissare il cacciatore di taglie più anziano.

Fett non dice altro, però. Si allontana repentinamente da loro, voltandosi con un unico, militaresco movimento che è quasi un dietrofront, e fa cenno a Cara di seguirlo in cabina di pilotaggio. 

Quest’ultima è evidentemente già occupata da Fennec, visto che l’improvviso rombo del motore scuote la Slave, vibrando chiassosa attorno a loro. Din non si volta, rifiutandosi di staccare gli occhi dal visore di Bo-Katan, ma percepisce comunque lo sguardo di Cara sulla nuca, seguito dal suono metallico dei suoi stivali sui pioli.

In quel momento la nave si solleva dal suolo, inclinandosi appena e ricordando loro perché sia una pessima idea stare in piedi su una Firespray in volo. Barcollano entrambi, e Din si appoggia alla parete per evitare di finire gambe all’aria.

«Avete tutto il tempo che vi serve,» si lancia dietro Fett a metà scala, proprio mentre lui e Bo-Katan rompono il contatto visivo per assicurarsi ai due sedili opposti, riprendendo a fronteggiarsi a distanza. «La rotta per Trask è lunga.»


 


 



Note dell’Autrice:

Su’cuy an!

No, non ho dimenticato questa storia: semplicemente ho avuto poco tempo/voglia/ispirazione per scriverla e questo capitolo ha richiesto una gestazione di giorni interi, perché ci sono fin troppi fili da tenere a mente. Spero solo che non ne uscirete matti come me e che tutto risulti comprensibile :’) ♥
In tutto ciò, Koska, l’altra Mandaloriana, non è scomparsa nel nulla: il perché non stia andando su Trask con Bo-Katan troverà spiegazione nel prossimo capitolo.


NB. La versione di Bo-Katan che trovate qui è ricalcata su quella della serie; quella della mia long Vode An, invece, è modellata su Clone Wars più miei headcanon, quindi non stupitevi delle differenze: sono volute e intenzionali :)
Bonus: ho scritto la parte finale del capitolo sentendo i Rage Against The Machine e probabilmente si nota. Ops.

Grazie a tutti coloro che hanno commentato/letto/aggiunto la storia agli elenchi!

-Light-

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Capitolo 3
*** PARTE I – ROTTAMI [Capitolo 2: Storie e vuoti] ***



©Lightning
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Capitolo 2

Storie e vuoti



 

Il forte rollio si stabilizza una volta superata l’atmosfera, quando il giroscopio di bordo si riassesta sull’orientamento della nave e fa finalmente ritrovare a Din il pavimento sotto ai piedi. Allenta la stretta delle caviglie dall’elmo, che non rischia più di rotolare via, e appunta lo sguardo sul sistema di piccoli argani e guide metalliche che raddrizza silenzioso il piano della stiva, permettendo loro di non finire a testa in giù mentre la Slave è in posizione verticale.

Gli sembra uninutile complicazione, quella nave, e sente una fitta acuta di rimpianto per la Crest. Nel suo essere un ammasso di ferraglia obsoleto, manteneva comunque una fidata, semplice linearità, a dispetto del proprio rifiuto di qualunque droide ad assistere le manovre. Di certo non tentava di mandarlo a gambe allaria ad ogni decollo.

Sono pensieri futili, che tracciano scie evanescenti nella sua mente sobbarcata da incombenze ben più cupe e nuvolose, ma è comunque unoccupazione più interessante di dare adito allo sguardo pungente di Bo-Katan. La Mandaloriana, ancora con lelmo indosso, sembra volerlo inchiodare alla paratia alle sue spalle a forza di fissarlo.

Din la ignora, aspettando che sia lei ad aprire il confronto, se davvero ne vuole uno. Stringe le braccia al petto comprimendo la corazza, un movimento che gli fa percepire di nuovo la pallina argentea tra le costole. Non cambia postura, concentrandosi su quella lieve asperità nemmeno così spiacevole. È il segno tangibile che ha portato a termine la sua missione nel migliore dei modi. Le stilettate che prova in mezzo alle costole sono semplice dolore collaterale, a rammentargli che, dovunque andrà, ci sarà anche Grogu.

Con un sussulto, la Slave balza nelliperspazio. Striature bianco-bluastre vanno a graffiare gli oblò, con un sibilo basso ad accompagnarle. Din le fissa fino a intravederle in lieve sovrimpressione sulle retine.

«Tu non hai la minima idea di cosa porti al fianco, vero?»

La voce filtrata di Bo-Katan lo riscuote riverberando nella stiva vuota, quasi confondendosi con le frequenze più alte del motore. Riporta lo sguardo su di lei con deliberata lentezza, paradossalmente più a suo agio di fronte a quellelmo di quanto lo sarebbe con un volto in carne ed ossa. Non ritiene comunque quella domanda retorica degna di risposta.

È cresciuto alloscuro di buona parte della storia e delle tradizioni di Mandalore, ne ha ormai lamara consapevolezza. Non capisce però che senso abbia sottolinearlo ad ogni occasione; soprattutto da parte di qualcuno che, con ogni evidenza, non si è mai nemmeno preoccupato di seguire la Via. Non è più nella posizione di rimproverarla, adesso, né è così certo di poter ancora affermare che esista una sola Via, dopo ciò che ha fatto – dovrebbe esistere, è quello il concetto stesso di Via. È un pensiero che si annoda così tante volte su se stesso da fargli perdere fine e inizio ogni volta che cerca di seguirlo.

Ma, di certo, il tono di sufficienza con cui Bo-Katan gli si è rivolta anche durante il loro primo incontro e il modo in cui ha quasi deriso il suo Credo gli pungolano affilati la mente, inviando scintille irritate a scoppiettargli in testa. Miccia corta, memoria lunga: in questo è ancora molto Mandaloriano, almeno, anche se dubiti conti qualcosa. Rimane quindi in silenziosa osservazione, i sensi ancora allerta.

Prende nota del modo in cui l
altra sieda in modo teso, la schiena staccata dal sedile come se fosse pronta ad alzarsi di scatto, ora che il pavimento è di nuovo dove dovrebbe essere. Non sembra però così ostile come poco fa. Lelmo è leggermente piegato da un lato; non lo guarda in modo del tutto frontale. È come se lo stesse a sua volta studiando, più che sfidando. Le mani guantate serrate ritmicamente sulle ginocchia tradiscono frustrazione, e può intuire con chiarezza i suoi occhi che guizzano verso la Darksaber.

Ne ha conferma quando lei si toglie dun tratto lelmo – un gesto privo desitazioni che ancora gli invia una scarica di sconcerto e disagio lungo la schiena – tradendo uno sguardo sfuggente verso larma. Din sente una forza fisica premergli sulla pelle non appena si ritrova davvero faccia a faccia con lei, e cerca frenetico di focalizzarsi sulla presenza del piccolo agglomerato metallico e rotondo che è ormai sul punto di entrargli nel petto. Serra con tanta forza le braccia che si farà venire un livido, ma non riesce a imporsi di non rendere schivo lo sguardo di fronte a quello felino di Bo-Katan. Le sue pupille deviano e vanno a inseguire la parata di stelle in fuga oltre il permaglass.

Bo-Katan si posa lelmo in grembo, il visore ancora rivolto verso di lui. Sul suo volto si agitano ombre aguzze, accentuate dalla luce bluastra e intermittente delliperspazio.

«Cosa sai della Darksaber?» spezza di nuovo il silenzio lei, in tono stranamente conciliante e non intriso di quella vena di saccente superiorità.

Paziente, quasi, come se stesse parlando con un bambino ignaro col quale è futile alterarsi. Din serra di riflesso la mascella, pur consapevole di quanto quel fatto si avvicini alla verità.

«So solo che non la voglio,» ribatte secco, intercettando il suo sguardo per un istante aguzzo. «La legge vuole che tu mi batta in duello. Sfidami, allora, e risolviamo la questione.»

Bo-Katan sorride, con quel suo fare pungente e al contempo disincantato che non porta allegria nei suoi occhi. «Vorrei anchio che fosse così semplice. Ma se mi lasci vincere la Darksaber, non ha senso che io ti sfidi.»

«Non ho detto che ti lascerò vincere,» ribatte lui, prima di poter considerare le implicazioni di ciò che ha appena pronunciato.

Non ha alcuna intenzione di attaccarsi a quel titolo che gli hanno appuntato sulle spalle – ma non sarebbe nemmeno incline a farsi gettare nella polvere al primo fendente ben assestato. È ancora un guerriero, dopotutto, e una parte di lui non riesce a smettere di pensare che sarebbe liberatorio scontrarsi con lei. Anche solo per il fatto di aver anteposto la Darksaber alla salvezza di Grogu. Un velo caustico gli brucia lo stomaco a quel pensiero, ed è grato, in fondo, di essersi trovato lui stesso faccia a faccia con Gideon.

«Non la voglio,» ripete quindi, con più enfasi, e non può evitare di accigliarsi. «Ma se devo rendere il tutto “credibile”,
 so combattere,» afferma, anche se non è certo di saper maneggiare con destrezza una spada laser.

Lha impugnata per poco meno di qualche minuto, ma lha sentita completamente estranea, quasi un peso inerte più che uno strumento di offesa o difesa. E il breve scontro con Gideon gli ha dato unidea lampante della sua letalità. Non è unarma che offre clemenza allavversario. Non è sicuro di voler vivere anche col peso di aver ucciso o mutilato qualcuno per seguire tradizioni che nemmeno riconosce come proprie.

Bo-Katan però scuote la testa in risposta, tirando le labbra sottili. «La verità è che non cè una vera soluzione a breve termine. Dovresti essere consapevole del titolo che hai conquistato, per rendere legittimo il duello.»

«Sono il Mand’alor,» sbotta Din, con un gesto snervato a mezzaria che sottolinea lassurdità stessa di quel fatto. «Non posso cambiare la legge? Rendere la Darksaber cedibile?»

Laltra trattiene una risatina fredda e incredula, che le sfugge dagli angoli della bocca. «E stravolgere millenni di storia e tradizione? Gli altri clan e Mandaloriani sarebbero entusiasti di avere una Mand’alor che si è fatta regalare la Darksaber.»

Din rilascia un sospiro frustrato che gli sibila tra i denti. Gli sembra quasi di vedere davanti a sé il volto gongolante del Moff, conscio di aver stravolto le sorti di un intero popolo pur essendo stato sconfitto.

«Tutto questo è ridicolo.»


Bo-Katan inarca impercettibilmente le sopracciglia. «Anchio trovo ridicolo il tuo obbligo dellelmo, ma finora non mi sembra di avertelo mai fatto presente,» lo rimbecca con repentina asprezza.

Din incassa in silenzio quellosservazione, avvertendola come un colpo fisico assestato in pieno petto con l’intento di destabilizzarlo. Non si lascia scomporre, almeno in apparenza, e gli costa uno sforzo disumano cercare di controllare le proprie reazioni. Si limita a scoccarle uno sguardo gelido dal basso, sentendo al contempo avvampare il volto esposto – di rabbia e umiliazione e vergogna. E anche di frustrazione nel percepire delle pareti invisibili che gli si chiudono addosso, tagliandogli ogni via di fuga.

«Perché dovrei voler regnare su un popolo che non segue la mia Via?» Capta l
occhiata rapida di Bo-Katan verso lelmo posato ai suoi piedi, e si affretta a proseguire prima che possa constatare lovvio: «Non sono nemmeno più un Mandaloriano.»

Dirlo sembra imprimere un marchio a fuoco nellaria – un sigillo inamovibile, come quello che gli brucia sullo spallaccio e che forse dovrebbe rimuovere, se solo il beskar gli appartenesse ancora. Bo-Katan, con sua sorpresa, china brevemente il capo, sporgendosi un poco in avanti. Poi rialza lo sguardo vivido, ma i guizzi feroci che lo animano sembrano affievolirsi a comando.

«Non dovresti considerarti Mandaloriano solo perché hai tenuto un elmo in testa da quando non sapevi nemmeno cosa significasse esserlo davvero,» si pronuncia poi, tutto dun fiato, cercando i suoi occhi mobili e restii a farsi trovare.

A quelle parole Din serra le mani sulle braccia, con vortici dindignazione che prendono a rimestarsi dentro di lui, a malapena tenuti a bada dal suo autocontrollo che, ultimamente, sta barcollando sempre più. Eppure, non si sente scottare tanto da quella che potrebbe essere una provocazione, pronunciata però in tono fin troppo tenue per suonare tale. È la stilla di verità che percepisce subito dietro, a insinuarsi tra gli interstizi molli della sua corazza – e trova i vuoti e gli inciampi di tutto ciò che non sa.

Serra gli occhi per una frazione di secondo, recuperando un respiro mancato, e li riapre su quelli ancora imperturbabili di Bo-Katan. «Se è così, non dovrei essere Mand’alor

«È la storia, che conta,» sentenzia lei, riecheggiando Gideon in modo disturbante. «La tua è molto più orecchiabile della mia.»

Din inclina la testa all’indietro, fino a poggiarla contro la parete. La fissa di sottecchi, aspettando con tenue curiosità il seguito di quell’affermazione. Ha battuto Gideon, è vero, ma rimane comunque un cacciatore di taglie coinvolto in eventi di proporzioni galattiche in cui fatica a raccapezzarsi. Ha a malapena un storia – quella che ha vissuto negli ultimi tempi è stata più quella di Grogu che la propria – e fatica a credere che il resto dei Mandaloriani la considererebbe degna di un Mand’alor.

Dall’altra parte della stiva, Bo-Katan gli restituisce uno sguardo riluttante, e sembra doversi costringere a dire qualcosa di scomodo, a giudicare dai suoi lineamenti congelati in una maschera frigida.


«Sei un Figlio della Ronda che ha infranto il Credo pur di proteggere il suo Trovatello, che ha sconfitto uno dei responsabili della Grande Purga, e che ha conquistato la Darksaber senza nemmeno volerlo.» Un sorriso che le incrina le labbra come una crepa sul ghiaccio. «In tutta onestà, mi vengono in mente poche cose più puramente Mandaloriane di questa.»

Din non trattiene un secco sbuffo dincredulità che gli si impiglia in gola, assieme alle parole aguzze che la graffiano. Cosa vorrebbe essere, quella? Unassoluzione? Da parte di qualcuno che non ha nemmeno mai intravisto la Via?

«Vorrei che fosse così semplice,» le fa eco duramente, con una traccia di scherno che non è abituato a usare. «Ma non è ciò che mi hanno insegnato.»

«Davvero?» inarca un sopracciglio lei. «Nel Credo si studiano i Sei Atti?» gli chiede poi, senza dargli il tempo di rispondere.

«Certo,» sbotta Din, con un velo di piccata indignazione che dona forza alla sua risposta. Potranno mancargli dei tasselli cruciali, nel mosaico delle vicende Mandaloriane, ma non è così ignorante. «Figli, devozione, clan e armatura, Mandoa e Mand’alor...» ripete poi in un riflesso automatico, nello stesso esatto ordine e con la stessa cadenza cantilenante con cui gli sono stati insegnati decenni fa.

Tronca lultima parte della rima, che quasi gli sfugge per forza dellabitudine, ma con sua sorpresa è Bo-Katan a completarla:

«... sono la nostra cultura.» Stavolta il suo sorriso si intiepidisce, come se anche lei avesse rivangato uno sbiadito ricordo dinfanzia, con quella filastrocca. «E ci aiutano a sopravvivere. Potrai anche dire che ti parlo da profana, o eretica... ma per come la vedo io, tu hai infranto un dettame per salvaguardarne un altro. Hai protetto il tuo Trovatello, e di conseguenza hai seguito il Credo.»

Din sopprime ogni movimento che sente risalirgli strisciando al volto, conscio di riuscirvi solo in parte, e non può evitare di serrare di nuovo gli occhi. Cerca di sentire lelmo, di esserlo, in qualche modo, frapponendolo tra se stesso e il mondo. Ma l’elmo è ai suoi piedi, immobile, privo di vita, e il suo viso tradisce l’impotente confusione che gli turbina nella mente.

Dentro di sé, in un punto con radici ancor più profonde del beskar, sa che non tornerebbe 
mai indietro. Che si toglierebbe l’elmo all’infinito, avendo la certezza di garantire quest’esito per Grogu, nonostante il vuoto che gli ha lasciato nel petto. È arrivato all’ardua conclusione che il suo gesto abbia scavalcato i dettami del Credo, subordinandoli a ciò che gli sta più a cuore. La visione che gli sta offrendo Bo-Katan smuove la Via sotto di lui e non si limita a farla tremare: la sconquassa, la deforma in un modo che gli rende ancor più difficile seguirla o anche solo vederla.

Bo-Katan ha semplicemente espresso in parole ciò che cerca di farsi strada nella sua testa da giorni: che infrangere il Credo per proteggere Grogu sia stato in realtà un modo per seguirlo. Di non averlo davvero infranto. O di averlo infranto così tanto tempo fa da aver ormai perso ogni importanza.

Lo confermano quei gesti sui quali si è obbligato a non soffermarsi: continuare a indossare lelmo dopo che ne aveva perso ogni diritto, o toglierselo di fronte al piccolo in quello che avrebbe potuto essere lesordio del rito d’adozione – se solo avesse avuto più tempo, se solo non avesse dovuto lasciarlo andare. L’avrebbe fatto comunque, se solo fosse stato ancora Mandaloriano, in quel momento.

Una parte di lui lo è anche adesso, ferocemente, artigliata sotto al beskar che dovrà abbandonare. Si nasconde in piena vista negli anni di addestramento e devozione alla Tribù, sua famiglia per scelta. Ma si annida anche in quei legami che ha stretto da quando Grogu ha intersecato la sua Via, prendendo a camminargli accanto. In quel senso di protezione che è divampato permeando il suo intero essere, come se non avesse aspettato altro che una scintilla per attecchire e scaldare lui stesso, oltre agli altri.

È custodita, soprattutto, in una mano tesa verso qualcuno che non ha più nulla al mondo, per fargli capire che esiste ancora una Via. E non sa se stia pensando a se stesso da bambino, a Grogu, a Cara, o a ciò che è diventato lui adesso. Sa solo che quelle fiammelle tremolano ancora nella sua armatura, riuscendo a non renderla un involucro vuoto, e che la sua mano è ora stretta attorno a una pallina argentata che è riuscita a racchiudere tutto il suo mondo.

Riapre lentamente gli occhi, con un velo di spossatezza ad annebbiarli. Bo-Katan ricambia il suo sguardo con imperturbabile staticità, in quieta attesa. Non sa nemmeno lui come dovrebbe o vorrebbe reagire. Ha bisogno di riposare. Di chiudere gli occhi, di dormire davvero e lasciare che almeno una parte di quella raffica laser di pensieri gli scivoli via dalla testa. Ha bisogno di quella nave, e di una rotta che lo avvicini a riempire tutti quei vuoti che sta scoprendo di avere sotto al beskar.

Prende un lungo, lento respiro dal naso, e laria si irradia nei polmoni in un reticolo di gelo e tepore.

«Devo rintracciare la mia Tribù,» afferma infine, in un mormorio. «Loro sono gli unici a poter decretare la mia condizione. Poi potremo discutere del resto.»

Bo-Katan stringe gli occhi con fare insoddisfatto, storcendo un poco le labbra, e di nuovo indugia sullelsa della Darksaber con un anelito represso a scuotere il verde delle sue iridi.

«Formalmente, sei il legittimo Mand’alor, quindi hai potere decisionale,» constata poi, in modo pragmatico. «A parte me, Koska e Axe, non lo sa ancora nessun Mandaloriano. Ho imposto loro il silenzio. Questo ti offre del tempo per fare chiarezza.»

«Quanto tempo?»

«È difficile stimarlo con certezza,» ribatte lei, ancora in tono secco, lo stesso che le ha sentito usare per esplicare una strategia o una tattica nel modo più chiaro e conciso possibile. «Stiamo riorganizzando le forze per reclamare Manda’yaim. Stavamo procedendo a rilento, ma con Gideon fuori dai giochi immagino che sarà più facile mobilitare i clan e...»

«Parliamo di mesi? Anni?» la interrompe lui, spazientito.

Bo-Katan esita, la bocca schiusa in un moto incerto. Devessere uninformazione sensibile, ma dopotutto è il suo comandante a richiederla. La sua posizione ha dei vantaggi, realizza, anche se li sta sfruttando in modo del tutto involontario.

«Poco più di un anno, al massimo,» rivela poi con riluttanza. «Dopodiché, qualcuno dovrà brandire quella spada come legittimo Mand’alor

Quellultima affermazione suona come una minaccia, ma Din annuisce lentamente, capendo che è in realtà una tregua.

«Un anno,» ripete, a confermare quel fatto, e Bo-Katan si limita a un unico, lento cenno dassenso speculare in risposta.

Un anno. È una misura di tempo che si contrae e dilata ad ogni secondo in cui la guarda, ma è tutto ciò che ha al momento. Butta fuori un respiro nellalzarsi, dichiarando così chiusa la conversazione, con le giunture indolenzite dalla posizione scomoda sul sedile.

Getta in automatico unocchiata a terra nel muovere un passo, e gli precipita il cuore nello stomaco nel realizzare che non rischia più di schiacciare nessuno, nel muoversi sovrappensiero. Si fissa la punta dello stivale e ingoia un groppo amaro, con la pallina che trema contro il costato. Recupera lelmo, più pesante ora che non è più calcato sulla sua testa, e lo incastra sotto il braccio mentre si avvicina alla scaletta che conduce alla cabina di pilotaggio.

Sopra di lui, capta un vocio soffuso: Fennec e Cara sembrano conversare fittamente, e un brusio più basso segnala un breve intervento di Fett. Din afferra un piolo della scala, punta un piede e fa per issarsi, ma si ferma nelludire un respiro più secco e profondo da parte di Bo-Katan.

Si volta, di nuovo in tensione, ma non vede ciò che si aspetta: niente sguardi pungenti, niente sorrisini beffardi. La donna ha la fronte solcata da increspature livide, che accentuano la sottile cicatrice rosea che la intacca. Per un attimo gli sembra solo stanca, spossata da un peso invisibile che le preme addosso. Non lo guarda e si calca di nuovo in testa lelmo, in un gesto inaspettato e indecifrabile.

«Non pensare che non sia in grado di capire come ti senti.»

Din serra la stretta sul piolo, le dita che si riassestano sul metallo in una piccola onda nervosa accompagnata da uno scricchiolio di cuoio, e si umetta le labbra nel frenare la risposta che vi è affiorata. Dubita che possa davvero capirlo, e al contempo non ne ha lassoluta certezza. Non sa nulla di lei, e non è così arrogante da presumere di poterlo immaginare. Così rimane in ascolto, gli occhi fissi sul suo visore oblungo, a invitare un continuo che non tarda ad arrivare:

«È molto difficile farsi unidea di cosa sia giusto o sbagliato quando conosci solo una delle mille lune di Iego.» Inclina di poco lelmo, scrutandolo fissamente. «Non fare il mio stesso errore.»

Din si acciglia senza volerlo, distogliendo lo sguardo in un riflesso turbato cogliendo il sottinteso di quelle parole, ma non appieno. Si issa sulla scala senza rispondere, con quelle parole che si addensano in fardelli e vanno a pesargli addosso, assieme alla pallina argentata e alla Darksaber.



 



Note dell’Autrice:

Habemus capitulum! *balla di fieno*
Signori miei, è stato un parto trigemellare, perché lo considero "di passaggio", ma c’erano determinati snodi chiave che andavano posti adesso per non ritrovarmeli tra i piedi dopo (tradotto: ciao Bo, mo’ te ne puoi pure anna’ aff-- AH-EHM). Dal prossimo capitolo inizia il Din!centric da manuale, non preoccupatevi u.u

L’angolo del Mando: Le Sei Azioni (Resol’nare) sono i concetti cardine della cultura/vita dei Mandaloriani. La filastrocca citata esiste davvero in Mando’a e inglese, e io l’ho riadattata in italiano, perché ovviamente non sia mai che traducano qualcosa in terra nostrana. Più future opportunità lavorative per me, che ve devo di’ *shrug*

Grazie a chi ha votato/commentato gli scorsi capitoli ♥ Vi mando (:D) baci e abbracci e pupazzetti di Din preconfezionati con PuppyEyes e pulsante per risatina da padre scemo integrati ♥

Ret’, vode ♥

-Light-

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