Prizrak Volgograda di Fuuma (/viewuser.php?uid=1725)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Red blood, red peril ***
Capitolo 2: *** Gloria in excelsis deo ***
Capitolo 3: *** Volgograd secret ***
Capitolo 4: *** Epilogue ***
Capitolo 1 *** Red blood, red peril ***
warning: post-movie; slash;
internalized homophobia; h/c;
I
personaggi appartengono agli aventi diritto
Prizrak Volgograda
———————— 01. Red Blood, Red
Peril
————————
Illya era uscito dall’ufficio di Waverly con lo stesso cipiglio
marmoreo con cui era entrato: pugni serrati e rabbia scalpellata
lungo muscoli d’acciaio, pronta a esplodere in faccia al primo
temerario che avesse ignorato la nota in piccolo a fondo pagina –
tenere fuori dalla portata dei cretini.
Perfino nei suoi
momenti tranquilli (rari e che generalmente coincidevano con una
vittoria personale o una pacca d’approvazione, più o meno figurata,
da parte di Gaby) Illya era un cane addestrato a mordere – e
mordeva, Dio se mordeva quel colosso biondo.
Ma, la rabbia, come
qualsiasi altro sentimento, non era mai di un unico colore;
possedeva sfumature che sul volto di Illya sbiadivano, sino a
diventare visibili soltanto a un occhio attento. Per tutti Illya era
un enorme semaforo rosso: il rosso della Madre Russia, il rosso del
sangue, il rosso di una muleta [1]
agitata davanti agli occhi di un toro collerico. Napoleon
aveva, però, occhi per l’arte, per le donne e per i dettagli, e
sebbene il russo non rientrasse nei primi due, aveva visto in lui
nuove sfumature nella lieve contrazione della mascella e nel rigore
più marcato delle spalle.
Nell’ufficio del
Direttore, qualcosa lo aveva infastidito più del solito – il che,
conoscendo la rinomata mancanza di joie de vivre di Kuryakin,
poteva spaziare dagli insulti personali a una foto di gattini troppo
sfocata esposta sulla parete della stanza.
Chiederlo al diretto
interessato, non rientrava tra le scelte più sagge.
«Perché quel muso
lungo, Peril? Waverly ha cercato di farti inginocchiare davanti al
cammeo della Regina?» D’altra parte Napoleon poteva vantare una
lunga lista di scelte discutibili.
Illya si fermò
ruotando il capo verso di lui. Se avesse potuto uccidere con uno
sguardo, l’uomo sarebbe crollato al suolo con un buco di
ventilazione aperto tra gli occhi. Fortunatamente, i russi non
avevano ancora sviluppato quel genere di tecnologia.
Solo sorrise, anche
quando una gomitata di Gaby per poco non gli incrinò una costola.
«Devo prenderlo per un no?»
Il gomito di Gaby si
spinse più in profondità. Sentì la punta dell’osso premere con
cattiveria, piccola e spigolosa – ovvio che andasse così d’accordo
con Peril, erano entrambi straordinariamente portati per la
violenza!
Illya ruotò anche il
busto.
La tedesca si
affrettò a riabbassare il gomito. Il contatto era cessato, ma
Napoleon poteva sentire i nervi di lei fremere mentre lo fissava,
all’erta. Gli passò per la mente la possibilità che si stesse
preparando per difenderlo da un possibile assalto (gli era giunta
voce di come Gaby fosse riuscita a mettere l’uomo al tappeto, ai
tempi del loro soggiorno a Roma, e sarebbe stato disposto a pagare
oro pur di assistere al rematch), ma era più probabile fosse
preoccupata per la precarietà dell’incarico di Illya. Come sovietico
del gruppo aveva già un piede fuori dalla porta, non serviva che una
scusa qualsiasi per ricevere il benservito dall’U.N.C.L.E. e tornare
a essere il lacchè di Oleg.
Illya, però, si
limitò ad annientare quell’unico passo che li distanziava.
Tra le sue labbra,
Napoleon vide le lente sfiatate che elettrificavano l’aria.
Si morse il labbro
inferiore. Era in questi momenti che il proprio cervello iniziava a
giocare brutti scherzi: quando gli capitava di fissarsi su
particolari che, prima, avrebbe trovato insignificanti – il modo in
cui le labbra di Illya si schiudevano e i denti si serravano, il
suono che produceva il suo respiro appena prima di parlare, simile a
quello di una spina cresciuta sullo stelo di una rosa, la piccola
ruga che si accentuava tra le sopracciglia aggrottate, le ciglia
bionde e straordinariamente lunghe...
Sarebbe tornato
volentieri a quel prima, pur di cancellare i pensieri che
venivano dopo.
Si impose di
mantenere la posizione, ingoiando fiato e accento russo.
«Se hai finito di
dire idiozie, cowboy, nuova missione ci attende.»
Il pensiero esplose
assordante come una cartuccia calibro .40, lasciandosi dietro una
strage di neuroni e coriandoli di buon senso: quanto forte lo
avrebbe picchiato Peril, se in quel momento si fosse sporto a
raccogliere le sue parole e il suo respiro direttamente dalla sua
bocca? L’effetto sorpresa gli avrebbe dato il tempo di scappare, ma
per quanto a lungo e fino a dove?
«Almeno per questa
volta riuscirete a comportarvi come le spie che siete o farete fare
tutto il lavoro a me?»
Oh, che Dio
benedicesse Gaby e il suo meraviglioso tempismo.
Napoleon si tirò
indietro, salvo e ancora tutto d’un pezzo, eccetto per quella
(non così tanto) piccola parte di sé che si ancorò al broncetto
(adorabilmente) offeso di Illya.
Gaby, di contro, ne
uscì intaccata, all’apparenza immune. Si avviò lungo il corridoio
sventolando la mano, e quando la sua spalla sfiorò il braccio di
Illya, sembrò solo un caso fortuito.
Prima che Napoleon
potesse imitarla – spallata a parte –, la porta dell’ufficio di
Waverly si aprì sull’occhiata indecifrabile dell’inglese e sul cenno
della mano con cui lo chiamava a sé. «Mister Solo, una parola se
permette.»
Il se permette
fu un’aggiunta cortese nel perfetto stile britannico del Direttore,
che tuttavia non prevedeva rifiuto.
Napoleon si voltò a
cercare lo sguardo di Illya. Non lo trovò, il russo aveva
approfittato della sua distrazione per andarsene.
«Se proprio devo.»
«Sarebbe il caso,
sì.»
Nulla di quanto Waverly ebbe da dirgli gli piacque.
Volgograd festeggiava.
Tra le strade
ampollose del centro, la gente marciava agitando bandiere e
intonando inni alla gorod-geroy [2].
Rodina Mat' Zovët!
Vy slyshali tovarishcha Pavlova? Otvetit'. Bor'ba. Torzhestvuyet.
Rodina Mat' Zovët. [3]
Il coro, come la
folla, correva lungo l’intero Viale degli Eroi, rimbalzando tra le
mura dei mastodontici stalinskie e sfiorando le acque gelide del
Volga. Mucchi di neve erano ammassati ai lati della strada, ancora
così bianca da far venire voglia di assaggiarla – e ogni bambino di
Volgograd sarebbe stato pronto a giurare che, in Russia, la neve era
più buona.
L’auto avanzava in lenti rimbalzi, mettendo a dura prova i nervi di
Gaby: premeva il pedale dell’acceleratore, lo rilasciava, lo
premeva, lo rilasciava e, di tanto in tanto, si sporgeva con un
braccio fuori dal finestrino urlando in un russo che zoppicava molto
meno di quanto non facesse la macchina.
Napoleon la guardò
ammirato. «Ti sei portata avanti coi compiti.»
La donna sorrise,
con la coda dell’occhio cercò Illya, e sulle labbra di lui, trovò
con soddisfazione l’ombra di un minuscolo sorriso orgoglioso. Durò
poco; quando un ragazzino avvolto nella bandiera rossa andò a
sbattere contro la fiancata dell’auto, Illya piantò occhi
incandescenti fuori dal finestrino, e il cupore che lo aveva
accompagnato nelle ultime ore tornò con prepotenza.
Seduto accanto a
Gaby, Napoleon alzò gli occhi allo specchietto retrovisore per la
settima volta consecutiva, ma Illya non ne aveva mai ricambiato lo
sguardo. Non che potesse biasimarlo, non questa volta.
L’ennesima frenata
brusca lo riportò con l’attenzione sulla strada. «In compenso, le
tue doti di autista stanno riuscendo nell’intento di farmi rimettere
la colazione.»
Gaby non apprezzò la
battuta.
«D’accordo» sibilò
stizzita. Non aggiunse altro, ma Napoleon lo percepì comunque come
la sirena prima di un bombardamento e dopo qualche istante, i freni
gemettero sotto al tacco delle scarpe di Gaby, inchiodando l’auto
con ferocia.
Il contraccolpo
colse di sorpresa entrambi gli uomini: Illya aveva sbattuto appena
in tempo i palmi al sedile davanti per reggersi ed evitare di
sbattervi la faccia, mentre Napoleon, salvato dalla cintura di
sicurezza, ciondolava col naso a pochi centimetri dal cruscotto.
Quando si voltarono
a guardarla, Gaby stava già minacciando Solo con la punta
dell’indice: «Innanzitutto un bicchiere di vodka e qualche boccata
di sigaro non si possono definire colazione.»
Napoleon non osò
ribattere (anche se, per dovere di cronaca, doversi mescolare alla
fauna della prima classe gentilmente offerta dall’U.N.C.L.E. era una
ragione più che valida per vodka e cubani).
«E ora fuori di qui,
tutti e due! Non ne posso più di questa folla, andremo a piedi!»
Napoleon portò la
mano alla fronte. «Sissignora.»
Illya gli tirò
un’occhiata di sbieco. «Far sbottare autista, quando ancora manca
strada a punto d'arrivo, è proprio colpo di genio, Cowboy.»
Quantomeno aveva
ritrovato la parola.
«Ditemi che è solo un brutto sogno.»
Soprabito, giacca,
gilè e camicia erano incollati alla schiena di Napoleon da una
patina di sudore ghiacciato. La vista della piccola casetta in
tronchi d’albero, che poteva benissimo passare per l’orrenda dimora
di una strega slava, non migliorò la situazione.
Le decorazioni
ostentatamente pompose e gli edifici dall’aspetto sciovinista erano
rimasti nel centro città; mano a mano che si erano allontanati verso
i margini di Volgograd, il panorama era cambiato. Abbandonati auto e
Viale degli eroi, le strade si erano fatte più agibili ed era stato
possibile trovare un taxi che li portasse fino al luogo di
rendez-vous con il contatto sovietico che aveva trovato loro
Waverly, direttamente in prestito dal KGB. Era stata solo
questione di tempo prima che anche Oleg arrivasse a mettere becco in
quella missione.
Ma la mèta era stata
ben altra.
A piedi e con
valigie a seguito (quella di Solo era la più grande), avevano
seguito l’Agente Ivanov in quella che Napoleon giurò essere la
camminata più lunga della sua vita. E quando la loro guida si era
fermata davanti alla porta di un’izba, lui aveva avuto un tuffo al
cuore.
«Benvenuti nella
vostra nuova dimora» annunciò Ivanov. Da quando l’avevano
incontrato, aveva parlato solo in russo, lanciando di quando in
quando occhiate derisorie all’indirizzo dell’unico americano
presente.
Illya accolse la
notizia senza particolare enfasi.
«La
strumentazione?» domandò in lingua.
«Troverete tutto
dentro, armi comprese. Sempre che lo yankee pigdog [4]
sia in grado di usare delle pistole vere.»
La risatina che aveva
colorato la battuta dell’agente si spense quando Gaby – mani ai
fianchi e una quantità improbabile di insolenza contenuta in corpo
tanto piccolo – gli si piazzò di fronte.
«Che cos’hai
detto? Mhm?»
Dietro di lei, Illya
le poggiò le mani sulle spalle, a volerla trattenere e, al contempo,
pronto a proteggerla qualora ce ne fosse stato bisogno.
Non aveva distolto
lo sguardo da Ivanov. «Pensala come vuoi, il cowboy è un pomposo
idiota dalla lingua lunga, ma non fallisce un colpo. Sottovalutarlo
non gioverà né a te, né alla missione.» Nell’inflessione russa
danzò, molto poco velatamente, una minaccia.
L’espressione di
Ivanov si incattivì, ma lasciò che il discorso si chiudesse.
In una diversa
circostanza, Napoleon avrebbe apprezzato (sottolineato, registrato e
ricordato negli anni a venire) il modo in cui Gaby e Illya avevano
preso le sue difese, ma in quel momento ogni sudatissima
cellula del suo corpo gli urlava di fare dietro-front e tornare in
patria, alla civiltà, dove avrebbe potuto prendere personalmente a
calci il culo di Waverly.
Ciondolò con il capo
in avanti, sospirando pesantemente. «Vediamo se ho capito bene…» Al
contrario di Ivanov, lui aveva continuato a parlare in americano «In
questi giorni il progetto di una non meglio specificata arma
segreta, per di più rubato dai vostri archivi, verrà venduto
a qualche criminale che ha deciso di fare il turista nientemeno che
nell’ex Stalingrád . La nostra missione è
quella di trovarlo, impedire lo scambio, evitare ove possibile di
ucciderlo e farci uccidere e, presumibilmente, consegnare quei
gentiluomini a qualsiasi giustizia i nostri nuovi amici del KGB
abbiano in serbo per loro. Il tutto, usando la tana di Baba Yaga[5]
come quartier generale. Ho dimenticato qualcosa?»
Il monologo non
ottenne gli effetti sperati.
«Sì, dimenticato che
questa è Russia, Cowboy.» Illya si fece consegnare le chiavi, caricò
sulle spalle il piccolo borsone con cui era arrivato e recuperò
l’elegante valigia bianca a pois di Gaby. Quando aprì la porticina
dell’izba, in un cigolare sinistro (che Napoleon contrassegnò
mentalmente come “prova numero uno” a supporto della teoria della
strega), il concetto di apparenza ingannevole assunse tutto
un nuovo significato.
Le dita piccole e
sottili di Gaby colpirono la spalla di Napoleon con una pacca che
raccoglieva nel palmo beffa e sollievo. «Adesso puoi smettere di
lagnarti, Solo. Pericolo scampato.»
«Preferisco
avvalermi della facoltà di rimandare ogni nuovo commento alla fine
del giro panoramico.»
La tedesca sollevò
gli occhi al cielo serale di Volgograd, ma un sorriso divertito si
stemperò sulle labbra rosse.
«Fai pure strada,
Peril» riprese lui. Picchiettò la schiena di Illya alla base, appena
sopra la curva dei glutei, percependo sotto i polpastrelli il
sussulto che attraversò l’intera colonna vertebrale.
Non l’aveva
programmato; senza pensarci la sua mano aveva puntato il sedere
dell’altro, riaggiustando la mira all’ultimo secondo, quando quel
minimo di istinto di sopravvivenza che ancora gli rimaneva aveva
dato l’allarme, appena in tempo per evitare un incidente diplomatico
e di vedersi amputate mani, braccia e testa a mani nude.
Illya si voltò a
guardarlo con un’occhiata torva che lo inchiodò sul posto. Non aprì
bocca: proseguì ed entrò, precedendolo.
Napoleon non fu
sicuro di come interpretare il suo silenzio; lo seguì osservando per
qualche istante di troppo la sua schiena ancora tesa e il capo
biondo che si reclinava in avanti per non battere la testa contro lo
stipite.
L’interno non era
nulla di ciò che ci si sarebbe aspettato e tutto quello che si
poteva desiderare.
Del legno che
rivestiva l’esterno, non vi era praticamente traccia: muri
verniciati di bianco perimetravano l’intera izba, il fuoco di un
camino rimasto acceso aveva scaldato l’ambiente e, se non fosse
bastato quello, l’impianto di riscaldamento era istallato e
funzionante. Lo spazio non era molto e l’arredamento spartano, ma
dopo qualche tentativo fallito, Illya riuscì a trovare
l’interruttore che dava accesso a quella che, per qualche giorno,
sarebbe stata la loro base operativa: una rete sotterranea di stanze
perfettamente ammobiliate, dotate di tutti i comfort possibili
«Addio Baba Yaga,
benvenuto chardonnay.»
e perfino di
un’ottima cantina.
Il
cuore della base operativa era formato da un’elegante salone a
pianta circolare con tre ingressi ad arco, diviso a metà dal lungo
divano dal rivestimento bordeaux su cui Gaby aveva preso posto.
Attaccata alla
cornetta di un telefono a dischi, aveva preso contatto con Waverly
per informarlo del loro arrivo sani e salvi in Russia.
Fresco di doccia,
Napoleon le era passato accanto.
«Sì, Solo è riuscito
ad allietarci tutti con una delle sue scene madri» l’aveva sentita
dire, ridacchiando mentre arricciava il filo della cornetta sulla
punta dell’indice. «Ivanov è già andato, verrà a prenderci domani,
come previsto.»
Non si era preso la
briga di ascoltare il resto. Prendere d’assalto la cucina e
convincere Illya a fargli compagnia, gli era sembrato un passatempo
più fruttuoso.
Nonostante le prime
ritrosie, il russo era rimasto seduto al bancone dalla superficie di
marmo, immerso nello studio di file top secret che riguardavano la
missione; una fotografia nello specifico aveva conquistato ogni
stilla della sua attenzione.
Napoleon si sporse a
guardarla. Era uno scatto rubato al profilo sfocato di un uomo
biondo: taglio militare, mascella pronunciata e corporatura
massiccia; reggeva una ventiquattrore, quasi sicuramente con i
progetti rubati al KGB. La foto, comunque, non aveva l’aria di
essere recente; Napoleon riuscì a riconoscere sullo sfondo uno degli
edifici della città, di cui nel pomeriggio era sicuro di aver visto
solo lo scheletro sventrato a metà, mentre la foto lo mostrava
ancora intero, prima dell’assedio del ‘42.
Dai fornelli, un
pentolino di sugo borbottò pretendendo attenzione. Lo ignorò,
catturato dall’espressione assorta con cui Illya accarezzava i
contorni della foto, ripassando con lo sguardo più e più volte il
profilo dell’uomo immortalato.
Napoleon sapeva di
chi si trattasse, Waverly l’aveva informato. Quanto potesse essere
importante per Illya, invece, era qualcosa che aveva sottovalutato.
Si aspettava un
ribollire di rabbia mal trattenuta (forse perfino lo stesso russo se
l’aspettava), invece i suoi tratti, di solito spigolosi, si erano
ammorbiditi. Lo aveva perfino sentito sussurrare qualcosa in lingua
e sebbene il russo di Solo fosse un po’ arrugginito, non aveva avuto
dubbi sulla traduzione: con una malinconia che gli aveva aperto un
buco nel petto, aveva chiesto “Cos’hai fatto?”
Gli occhi di Illya
si erano tinti di tristezza, quelli di Napoleon di stizza.
Avrebbe voluto
saperlo anche lui cos’avesse fatto quel tale: cos’avesse fatto per
ferire così in profondità Peril, tanto da lasciarlo disarmato
perfino della sua rabbia; cos’avesse fatto per essersi meritato
l’affetto del russo e trovare comunque il coraggio di tradirlo;
cos’avesse fatto per essere riuscito a rendere lui, Napoleon,
geloso.
La parola fu uno
schiaffo all’orgoglio – non era pronto ad accettarlo.
«Dmitriy Kiselyov»
si costrinse a pronunciare.
Illya sollevò
immediatamente il capo, gli occhi così limpidi – lo stesso azzurro
delle acque ghiacciate del Volga – che Napoleon vi lesse senza
problemi lo smarrimento, come se il russo si fosse dimenticato di
essere in quel bunker sotterraneo insieme a lui.
«Era un tuo diretto
superiore nonché tuo mentore, durante i primi anni al KGB, dico
bene? E dopo quanti anni di amicizia ha deciso di tradire te e la
“Madre Russia”?»
Illya era un’insieme
di ferite invisibili rimarginate al contrario, dietro la
pelle e Napoleon non provò alcuna pena ad affondare il coltello in
quella che portava il nome di Dmitriy; se avesse potuto
gliel’avrebbe grattata via, tutto pur di non sentire più la propria
testa definirlo geloso.
Poteva sopportare
l’idea di, cosa?, avere una cotta per il proprio partner? Aveva un
aspetto più che gradevole, un corpo che di certo si poteva dire
desiderabile e, Dio!, se amava stuzzicare quel gigante, ma
questo era solo perché Napoleon aveva occhi per guardare e buon
gusto per apprezzare. La gelosia non era contemplata, significava
qualcosa di più. Significava guai, di quel tipo che nemmeno Solo
sarebbe stato in grado di gestire.
Illya scattò in
piedi, rovesciando lo sgabello su cui sedeva.
«Non guardarmi così,
Peril. Avresti dovuto sapere che Waverly ha spie come noi e spie che
controllano le sue spie.»
Il boccone si
incastrò a metà gola e il russo dovette sforzarsi per mandarlo giù,
dando tempo a Napoleon di rincarare la dose: «Perfino il tuo vecchio
capo, si fida così tanto del suo miglior agente operativo, che si è
sentito in dovere di inviarci un Peril 2.0.»
«Agente Ivanov non è
qui per prendere mio posto.» Illya trovò a stento le parole.
«Forse, ma per
quanto mi riguarda preferisco avere nel mio team il russo che sa
riconoscere un nemico qualora se lo trovasse davanti.» Non stava
grattando, stava scorticando brandelli interi di pelle.
Illya sbatté una
mano al bancone, schiacciando sotto il palmo la fotografia di
Dmitriy. «Io so benissimo quale è nemico e, se per portare a termine
missione, devo ucciderlo, allora ucciderò! E se tu continua a
insistere, pianterò un coltello anche in tua gola!»
Nonostante la
minaccia – e lo sguardo corso al set di coltelli impilati accanto ai
fornelli – Napoleon sospirò. Non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce,
ma trovò confortante il fatto che l’istinto dell’assassino non
avrebbe rischiato di incepparsi davanti all’ex mentore e che Peril
non intendesse farsi uccidere tanto facilmente. Aveva ancora delle
remore a riguardo, ma per ora decise di farselo bastare.
«Uff, non so perché
Waverly si preoccupasse tanto» mentì.
Illya sbatté le
ciglia; la confusione durò pochi istanti, poi arrivò l’indignazione.
«Era un test?» la domanda tritata e sputata tra i denti.
«E lo hai superato a
pieni voti, Peril. Bravo.» Non gli ci volle molto per capire
che il russo stava contando i passi che servivano a raggiungere il
set di coltelli. D’accordo, forse avrebbe potuto gestirla un po’
meglio.
Scivolando di lato, Napoleon
si piazzò accanto al bancone per sbarrargli la strada, proprio poco
prima che l’odore di bruciato iniziasse ad aleggiare nella cucina.
«Maledizione, il mio sugo!»
Troppo tardi. Si
affrettò ad abbassare la fiamma del fornello, ma nel pentolino non
era rimasto altro che una poltiglia informe e bruciacchiata.
Illya sorrise – il
cervello di Napoleon non mancò di registrarlo, stampando una foto
mentale. «Ottimo lavoro, cowboy.»
«Non mi piace questo Ivanov. Non abbiamo bisogno di un secondo
Illya, uno è più che sufficiente.» Gaby non si era fatta pregare per
condividere con i due agenti la propria indignazione.
Napoleon soppresse
una risata a quel discorso così familiare. Tossì, portando il dorso
della mano su labbra già involontariamente incurvate.
Illya lo fulminò con
gli occhi. «Agente Ivanov è necessario per missione. Dmitriy
Kiselyov conosce ubicazione di molte safe house russe, tra
cui le due a Volgograd: una questa, l’altra controllata da Ivanov.
Inoltre, Agente Ivanov è collegamento tra noi e compratore di
progetto di arma rubato.»
Gaby fece spallucce,
in quel suo modo di schiacciare i “no” altrui sotto il tacco della
sua logica affilata. «Non c’è comunque un modo per levarcelo di
torno? Avete entrambi una pistola: usatela.»
Ah, se solo fosse
stato così semplice. Napoleon si sfilò dal colletto della
camicia un tovagliolo rimasto immacolato. Lo poggiò sul tavolino di
cristallo, accanto al piatto vuoto che aveva ospitato la sua
porzione di “testaroli alla Napoleon”. «Per quanto ammiri la
tua intraprendenza, hun [6],
temo che non sia così semplice. Sai come si dice: perfino Dio è
all’oscuro di quel che accade nel KGB. Quella non è gente che ami
condividere, a meno che un’altra agenzia non si accorga dei loro
casini e non mandi i suoi tre agenti... beh, i suoi due
agenti più carismatici e Peril –»
«Potrei strappare
tuo carisma insieme a tua lingua, se solo volessi.»
«Per l’appunto: i
due agenti più carismatici e Peril a controllare che la
situazione non sfugga di mano.»
«Questo non
significa che fosse necessario aggiungere altro testosterone russo»
riprese Gaby.
Illya inarcò un
sopracciglio, curioso. «Avresti preferito donna russa?»
«Perché, tu no?»
Illya ebbe il buon senso di non rispondere e lei continuò «Sarebbe
stata più sveglia di quell’Ivanov. Quell’idiota non si è nemmeno
accorto che Solo conosce il russo.»
«O forse sapeva
benissimo.»
Ci fu una pausa, in cui Gaby stropicciò
l’orecchio con cui aveva torturato il quotidiano russo, spiegazzandolo
per riuscire ad inquadrare i due uomini. «Illya, non difenderlo.»
Napoleon riportò la
mano alla bocca, ricacciando in gola l’ennesima risata. Chiunque
altro, al posto della tedesca, avrebbe pagato cara l’insolenza –
solo un russo può dare ordini a un altro russo! –, ma davanti
alla smorfietta seccata di lei, Illya borbottò qualcosa nella sua
lingua natia e fece spallucce, nella perfetta imitazione di un
bambino troppo cresciuto beccato dalla madre a imprecare in chiesa.
Soddisfatta, Gaby
tornò al quotidiano.
Il divano era
diventato una sua proprietà; aveva lasciato spazio sufficiente
affinché Illya potesse prendere posto accanto a lei e aveva usato le
sue cosce come poggiapiedi.
Il russo non si era
lamentato, accolta la cosa come normale amministrazione, le mani
callose si muovevano lungo i suoi piedi in un massaggio distratto.
Napoleon ne studiò
per un attimo le dita lunghe che risalivano la caviglia sottile, il
pollice accoccolato sotto l’incavo dell’osso tibiale che disegnava
piccoli cerchi sulla pelle, per poi scivolare di nuovo con entrambe
le mani sulla curva sinuosa del dorso del piede in un su e giù che
sarebbe potuto rientrare perfettamente nella definizione di erotico.
Se quel genere di massaggi aveva fatto parte dell’addestramento di
Peril, avrebbe quasi potuto rivalutare quei suoi famosi metodi
russi.
«I nostri occhi sono
più su, Solo.» Gaby lo colse in fragrante.
Le labbra rosse e
carnose erano nascoste dal bordo del quotidiano poggiato alla bocca,
ma il sorriso furbo si era esteso agli occhi, come se già non fosse
bastato il tono allusivo con cui si era pronunciata.
«Mia cara Gaby, io
sto solo godendo dello spettacolo che voi due state offrendo.
D’altronde il mio unico difetto…»
Illya tossì.
Napoleon lo ignorò.
«È la debolezza alla carne.»
«E non, invece, le
mani di Illya?»
Arrivò a tradimento,
come un colpo sotto la cintola, e la faccia da poker di Napoleon (il
ghignetto seduttore, il sopracciglio ammiccante, il volto piegato di
appena qualche grado verso la spalla destra) rischiò di sgretolarsi.
Oh piccola adorabile saputella – Waverly sapeva sceglierseli
davvero bene i suoi agenti, anche troppo.
Illya allontanò le
mani dai piedi di Gaby e li guardò con occhi spalancati, ogni
sottinteso sfuggito.
L’americano fu grato
dell’ottusità che l’altro riusciva a dimostrare in certe momenti,
rasentando un’ingenuità quasi tenera.
Si schiarì la gola e
reclinò il capo dal verso opposto. «In effetti, ora che ci penso,
avrei anche io bisogno di un massaggio.» Batté la punta dell’indice
sulla bocca, scivolando in una carezza leggera sul labbro inferiore.
«Ma per quanto mi stuzzichi l’idea di proporvi una cosa a tre e
passare la serata a insegnare al nostro Red Peril come dare piacere
a una donna, direi di tornare a focalizzarci sulla nostra missione.
Inoltre, per esperienza so che i baci russi sono alquanto
pericolosi.»
Schioccò un
occhiolino a Illya, ammirandone il rossore del volto e lo sbuffo
infastidito.
Gaby scrollò le
spalle, inflessibile come una roccia. «A me non hanno dato
quell’impressione.»
«Questo è perché
miei baci e the kiss non sono stessa cosa. Tu, quindi, non
sai proprio niente, cowboy.» Il rossore sul volto del russo già
svanito.
Napoleon li guardò
stupito. In qualche modo l’aveva intuito, se l’era aspettato – gli
indizi erano ovunque, a partire dalla naturalezza con cui si
incastravano perfettamente l’uno al fianco dell’altra - ma Peril
aveva ragione: non sapeva niente. E una parte di sé avrebbe
preferito continuare a ignorare, così da non dover venire a patti
con la scarica di gelosia che gli aveva appena attraversato il petto
all’idea di un bacio tra loro, all’idea di essere stato escluso da
Illya.
Si mosse
nervosamente sulla seduta della poltrona.
Preferiva ignorare.
Ma più la partnership forzata andava avanti, più il resto di lui
sentiva di volere tutto. E l’ultima volta che aveva avuto
quel genere di impulso non era finita bene: aveva dovuto scegliere
tra quindici anni in una prigione federale o farsi mettere al collo
il guinzaglio della CIA.
Questa volta,
temeva, non ne sarebbe uscito vivo.
Sorrise con una
leggerezza misurata al millimetro e sollevò le mani in segno di
resa.
[ 4.262w ] |
Prizrak Volgograda =
Il
fantasma di Volgograd
[1] Drappo di stoffa rossa che
il torero agita durante la corrida per provocare il toro
[2] Città
eroina. Nel 1945, a Stalingrado (ora Volgograd) viene assegnato il titolo di
Città Eroina per il coraggio che i cittadini dimostrarono durante la
Battaglia di Stalingrado.
[3] La madre patria chiama! Hai
sentito compagno Pavlov? Rispondi. Combatti. Trionfa. La madre patria
chiama. (Jakov Fedotovič Pavlov è stato insignito del titolo di Eroe
dell'Unione Sovietica per il suo ruolo nella difesa in quella che da lui ha
preso il nome di Casa di Pavlov durante la battaglia di Stalingrado.)
[4] E' un insulto (duh), non
l’ho tradotto perché non so quale sia l’equivalente corretto in italiano e
comunque mi sembrava più sensato in lingua
[5] Personaggio della mitologia
slava, in particolare di quella russa, descritta come una vecchia strega
alta, magra e orribile, con i capelli scompigliati, il naso di ferro e i
denti e il seno di pietra.
[6]
Letteralmente “unna”. È un gioco di parole, in inglese “hon” è un petname,
abbreviativo di “honey” che potremmo tradurre come “dolcezza”. Ma per chi ha
per caso letto la mia fic
She was their hun, not their hon saprà già che è il nomignolo con cui
Napoleon chiama affettuosamente Gaby.
|
『 |
Preciso già da subito che
non conosco il russo, potrei quindi aver scazzato alla grande le
traduzioni
– ho fatto del mio
meglio nell'incrociarle con tutti i traduttori che conosco e
nel controllare su internet.
Io e questa minilong
abbiamo una lunghissima storia d'amore e odio (soprattutto odio); me
la trascino dietro ormai da due anni, da quando ho iniziato a
scriverla per un contest indetto da _Akimi, di cui mi era perfino
capitato il pacchetto definitivo (Canzone: Gloria in Excelsis deo;
Luogo: Volgograd, Russia; Genere: Introspettivo; Prompt: Saudade).
Poi, però, è arrivato Illya a scombinarmi tutti i piani e addio.
Iniziata come semplice oneshot
– i tre vanno,
incasinano, salvano il mondo e fine della fic
– a un'idea se ne è
aggiunta un'altra e un'altra ancora, l'introspezione di Napoleon ha
preso il là e ovviamente il contest si è concluso mentre io ero
ancora nel bel mezzo della stesura del primo capitolo.
Ho rinunciato al contest,
ma nonostante tutto alla fic c'ero affezionata e quando quest'anno
ho partecipato al BBI, ho deciso che ne avrei approfittato per
portarla finalmente a compimento.
Missione compiuta, la fic
è terminata, il risultato in realtà ancora per certi versi mi fa
cringiare, ma dopo averla rimaneggiata perfino a fine BBI, ho deciso
che non ci posso fare niente e posso volerle bene anche così. Anche
perché l'alternativa è riscriverla da capo e so che non avverrà mai,
inoltre ho altri progetti a cui dedicarmi e aver finito questo, dopo
tutto questo tempo, mi rende comunque felice.
E sapete un'altra cosa che
mi rende felice di questa fic? La splendida fanart che
Miryel
ha disegnato apposta per Prizrak Volgograda, claimandola al BigBang.
E se non l'avete ancora vista, vi invito tutti ad amarla e kudarla
qui
♥
Scritta per
il BBI10 @LandediFandom |
』 |
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Gloria in excelsis deo ***
warning: post-movie; slash;
internalized homophobia; h/c;
I
personaggi appartengono agli aventi diritto
Prizrak Volgograda
———————— 02. Gloria in
excelsis deo
————————
C’era voluta un notte intera perché Illya riuscisse a innalzare un
muro abbastanza solido, dietro cui gettare i resti di un fantasma e
scampoli di un passato chiuso con un colpo di pistola.
Da quando,
nell’ufficio di Waverly, lui e il direttore avevano discusso della
missione – e di Dmitriy, della sua morte, del suo tradimento –,
ricordi che pensava di aver seppellito in un buio vicolo di Mosca
erano tornati a tormentarlo.
“Può rimanere in
panchina per questa volta, Mister Kuryakin, e lasciare che i suoi
due partner se la cavino da soli. Sono sicuro capiranno.”
Illya non
era riuscito a decifrare l’espressione cucita ad arte sul volto del
direttore della U.N.C.L.E., mentre l’uomo lo invitava a mettersi da
parte e lasciare che altri sistemassero i casini combinati da lui.
Aveva pensato fosse stato un modo per testare la sua lealtà alla
causa, il suo impegno verso la U.N.C.L.E.. Ogni superiore che aveva
conosciuto, perfino il capo del cowboy, si era rivelato un uomo
manipolatore e meschino, per cui i fini giustificavano sempre il
mezzo; era più logico pensare che così fosse anche per Waverly,
senza illudersi che dietro alle sue parole ci fosse una genuina
preoccupazione umana.
Eppure per quanto
Illya si fosse rifiutato di farsi da parte, fin dall’inizio del
viaggio non aveva fatto altro che rivedere innanzi a sé lo sguardo
tagliente di Dmitriy e le labbra incrinate in un sorriso storto e
sinistro. C’era una pistola nella sua mano, il dito sul grilletto e
negli occhi grigi, metallici, la volontà di ucciderlo.
Ya znal chto oni prishlyut tebya, Il’ja [1]
Ma da tempo,
l’allievo aveva superato il maestro: Illya aveva sparato per primo.
Non c’era stato alcun rumore quando Dmitriy era caduto in terra; la
neve aveva attutito ogni cosa, perfino i suoni di una città che,
intorno a lui, all’improvviso si era fatta arida e insignificante.
Non ricordava se
quella notte avesse piovuto o se a bagnare le sue guance fossero
state le lacrime. Contava solo aver portato a termine la missione.
Grazie a lui era tutto finito. Doveva esserlo.
Eppure, perfino
nell’aria riciclata del bunker, ad ogni respiro, Illya
inghiottiva odore di sangue, neve e polvere da sparo.
Tebe sledovalo by luchshe pritselit'sya, Il’ja [2]
Dmitriy era tornato dall’inferno.
Viale Lenina pullulava di turisti infagottati in abiti pesanti. Tra
loro, Gaby e Napoleon passeggiavano a braccetto, scattando foto
della zona, degli accessi a possibili vie di fuga e ai palazzi
circostanti.
Se non li avesse
conosciuti e non avesse mai studiato i loro file, se non avesse
saputo che erano spie di governi (un tempo) nemici al suo,
anche Illya li avrebbe scambiati per una coppietta di innamorati.
Gaby aveva sulle
labbra piene un sorriso ribelle e sensuale, strattonava il braccio
del cowboy con la prepotenza di chi l’attenzione la pretendeva e la
meritava e, in alternativa, avrebbe saputo come fartela pagare. Ma
all’americano non servivano scuse per concedergliela: il braccio le
circondava la vita sottile e l’accompagnava in ogni singolo passo
ancor prima che glielo chiedesse, con la stessa virile eleganza con
cui l’avrebbe condotta in un valzer. Nessuno meglio di Solo sapeva
come vendere l’amore a chiunque, con chiunque – era un
dannato illusionista, viveva d’inganno e chissà quante altre volte
aveva recitato quella parte.
Accomodato fuori,
sul terrazzino esterno di un bar della zona, Illya lo inquadrò con
l’obbiettivo di una macchina fotografica. Per poco non sobbalzò
sulla sedia quando Napoleon si voltò a fissarlo e sorrise alla
camera, con quella sua bellezza da attore mancato.
Con un gesto secco
appoggiò la macchina sul tavolino, vicino a una tazza di caffè amaro
– che fossero maledetti il sesto senso, il sorriso e la
stupida faccia fotogenica del cowboy!
Ancora piccato,
spostò l’attenzione all’uomo di fronte e al bicchierino di vodka che
aveva svuotato non appena gli era stato servito: Ivanov.
Seduti allo stesso
tavolino, la posa rigida, maglioni neri e cappotti scuri, sembravano
due sculture di ghiaccio. Al centro della piazza, il Monumento
degli eroi della difesa della Zarina Rossa si innalzava fiero e
con sentimenti di speranza per una guerra ormai passata; loro, al
contrario, la guerra, i bombardamenti e il sangue versato, se la
portavano ancora appresso.
«È tutto pronto
per stasera?» chiese, nella loro lingua.
Ivanov rispose con
una smorfia.
Illya riconobbe lo
stesso profondo disgusto che aveva dovuto sopportare fin dai tempi
dell’accademia militare, quando le reclute lo chiamavano traditore
alle spalle e, di fronte, il veleno che sputavano era perfino più
acido.
Poco male, si era
già preso la sua rivincita quando si erano stretti la mano e
gliel’aveva stritolata, fino a sentire le ossa scricchiolare sotto
la presa – a ricordargli tacitamente che erano dalla stessa parte e
combattevano in nome dello stesso Paese.
Ivanov, però, non si
era lasciato intimidire.
«Soltanto uno
come te avrebbe potuto trovare soddisfazione nell’accompagnarsi a un
porco e alla sua sgualdrina» lo disse senza preoccuparsi di
tenere la voce bassa, senza alcuna intenzione di tenere l’argomento
tra loro, affinché tutti sapessero.
Illya incrociò le
braccia al petto.
L’aria innevata di
Volgograd gli stemperò colore sulla pelle bianca del volto e le
folate lottarono contro la tesa della coppola calcata in testa, in
una guerra impari per cercare di farla volare via.
Per un attimo,
accarezzò l’idea di afferrare la testa dell’agente tra i palmi e
schiacciarla come una noce di cocco; invece si limitò a stringere
il bicipite sinistro con la mano destra, fino a sbiancare le nocche.
«Puoi pensarla
come vuoi, ma non cambierà il fatto che noi tre siamo qui per
proteggere gli interessi della Russia, mentre il tuo compito è
quello di farci da cameriere: noi ordiniamo, tu accorri con quanto
richiesto.» si trattenne dall’esibire un sorriso e forse fu un
bene, perché non sarebbe durato a lungo.
«Non darti arie,
Kuryakin. Sai benissimo che se siamo arrivati a questo punto è solo
per causa tua: nelle tue vene scorre il sangue di un traditore, lo
ha dimostrato tuo padre e lo hai dimostrato tu. Kiselyov è vivo
perché tu non hai portato a termine la missione.»
L’indice destro di
Illya picchiettò nervosamente sulla manica del cappotto.
«Qual era il
problema, era così difficile sparargli? O è perché non eri solo il
suo cagnolino, ma anche la sua puttana? Sei uno di quelli, un
inverso a cui piace il cazzo? Per questo non hai problemi a
respirare la stessa aria dello yankee. Traditore e depravato.»
Ivanov rise. Una risata sottile e tagliente, come il rumore di una
lama che viene affilata. «Dimmi, piangerai se qualcosa dovesse
andare storto e il tuo nuovo amico succhiacazzi dovesse morire? Gli
incidenti capitano.»
L’indice si fermò
sollevato, la falange piegata come quando poggiava sul grilletto –
pronto allo sparo.
Si tirò indietro di
scatto; le gambe della sedia stridettero sulle piastrelle in legno
di rovere del terrazzino – gli avrebbe infilato l’intera mano in
bocca e gli avrebbe strappato lingua, tonsille, budella… tutto!
–, ma prima che potesse alzarsi in piedi, due mani pesanti gli
schiacciarono le spalle verso il basso, rigettandolo seduto.
Dietro di lui –
sopra di lui? – Napoleon si tese in avanti. Aveva lasciato Gaby in
piazza, si era avvicinato senza essere notato, e ora usava tutto il
peso del suo corpo, per riuscire a vincere la forza fisica di Illya.
Sorrise divertito, mostrando una dentatura bianca e dritta, ma le
dita affondate nel cappotto e nella carne di Kuryakin raccontavano
un’altra storia e tremavano per lo sforzo; soltanto per quello Illya
evitò di tirargli una testata e abbandonarlo sanguinante in terra.
Per nessun altra ragione.
Gli occhi azzurri di
Solo si mantennero fissi su Ivanov, quando prese a parlare: «Spero
ti sia divertito a ripercorrere il viale dei ricordi insieme a Peril.
Posso solo immaginare che i giorni d’infanzia in cui ti ha fatto
ingoiare la polvere ancora brucino, ma non te l’ha insegnato la
mamma che l’importante è partecipare?»
Ivanov stritolò
l’angolo della tovaglietta di plastica a scacchi bianco-arancio che
ricopriva il tavolino; l’altra mano era sparita dietro la schiena, troppo
vicina al calcio della pistola nascosta sotto al giaccone. «Non mi
provocare, sporco yankee.»
Illya sapeva che non
sarebbe stato tanto idiota da usarla in pieno giorno, davanti agli
occhi testimoni di un’intera piazza, ma doveva ammettere che le
provocazioni del cowboy sapevano sempre colpire nei punti giusti.
«Non lo farei mai.»
il sorriso si fece più sfacciato «Ci vediamo stasera. Non fare
tardi, Igor.»
Davanti all’errore
sul nome, Ivanov diventò paonazzo. «Verme schifoso…»
Napoleon si tirò
indietro con indifferenza, liberando finalmente le spalle di Illya
del suo peso e la schiena del calore del suo petto.
L’aveva percepito
per tutto il tempo e non l’aveva gradito, così come non aveva
gradito il suo intervento.
Non aveva bisogno
di aiuto.
Attese che iniziasse
ad allontanarsi e continuò a tenere d’occhio Ivanov.
Non aveva bisogno
di una balia.
Aspettò di essere
sicuro che fosse tornato da Gaby, iniziando ad avviarsi verso l’auto
con cui erano arrivati, e che entrambi fossero troppo lontani per
sentirlo.
Si alzò, si avvicinò
all’agente e appoggiò una mano sullo schienale della sua sedia,
trascinandolo indietro di peso, affinché lo guardasse in faccia.
Non aveva bisogno
di Napoleon Solo.
«Se durante
questa missione, qualcosa dovesse accadere a uno dei miei partner,
mi assicurerò personalmente di strapparti il cuore dal petto, Agente
Ivanov. E posso prometterti: non fallirò.»
No, non aveva
bisogno di lui.
E forse, se l’avesse
ripetuto abbastanza a lungo, sarebbe riuscito finalmente a
convincersene.
Ivanov trovò la
forza di sorridere, le labbra piegate in una curva sinistra, che
infastidirono Illya, ma non lo stupirono affatto – non esistevano
russi codardi.
Lo abbandonò, senza
salutare.
Raggiunse l’auto, in
cui Gaby aveva già preso posto.
Napoleon con un
braccio piegato sul tettuccio, sembrava in attesa. Illya si aspettò
una battuta idiota, un occhiolino spavaldo, il ghigno conquistatore,
ma quando ne incrociò lo sguardo, gli occhi del cowboy erano roventi
come non li aveva mai visti e le labbra piegate in una smorfia che
sapeva di dolore.
Illya deglutì.
Si chiese quanto del discorso di Ivanov avesse ascoltato. Se anche lui, come
l’agente, credeva che avesse voltato le spalle alla missione.
Preferisco avere
nel mio team il russo che sa riconoscere un nemico qualora se lo
trovasse davanti.
E in quel momento,
Illya non ebbe dubbio alcuno nel riconoscerlo lì davanti a sé:
quello era lo sguardo di un nemico.
Da
quando erano tornati al bunker, per studiare le foto che Gaby e
Napoleon avevano scattato, tutto sembrava tornato come prima.
O quasi.
In piedi davanti
alla specchiera della sua stanza, che invece di trucchi e profumi
ospitava una valigia e il suo fucile di precisione, Illya infilò un
indice nel colletto del dolcevita, allargandolo sul collo. In ogni
sfiatata riusciva a sentire la pressione di una mano invisibile che
lentamente gli chiudeva la gola, lasciandolo boccheggiante – aveva
lo stesso peso della mano che Napoleon gli aveva poggiato sulla
spalla quella mattina, ma se fissava tra i riflessi della polvere,
poteva scorgere una sagoma diversa. Alta, bionda, il taglio militare, la mascella squadrata…
Prese un profondo
respiro.
A breve Ivanov li
avrebbe condotti dal compratore.
Doveva assicurarsi
solo di avere abbastanza fiato nei polmoni per resistere all’apnea
di un’altra notte, poi tutto sarebbe tornato alla normalità, lontano
da fantasmi, fallimenti e traditori. Perfino le parole del cowboy
sarebbero sbiadite nella neve di Volgograd.
Preferisco avere
nel mio team il russo che sa riconoscere un nemico qualora se lo
trovasse davanti.
Lui era quel russo.
Aveva ucciso
Dmitriy una volta, poteva farlo ancora. E, questa volta, si sarebbe
assicurato rimanesse morto.
Bussarono alla
porta.
Illya ignorò i
colpi, ma quando la voce di Gaby arrivò dall’altra parte («Illya,
puoi venire ad aiutarmi?») qualsiasi pensiero venne scaraventato in
un angolo della stanza.
Allarmato, si precipitò ad aprire. Ancor
prima di realizzare quanto stupido potesse essere, gli balenò alla
mente ogni orribile scenario – uno dei suoi incubi peggiori,
riguardavano Gaby che piangeva ferita alla mano, per aver preso a
ceffoni la faccia di Solo; per quanto il cowboy si meritasse quello
e molto di più, sapeva bene che avesse la testa dura.
Sul corridoio,
ovviamente, Gaby non piangeva e non era ferita.
Con un braccio
piegato al seno, unico sostegno dell’abito che indossava, lo fissò
imbronciata per aver perso la sua battaglia personale contro la
chiusura.
Confuso – più per i
troppi filmini mentali che si era fatto in una manciata di secondi e
che in ancor meno erano andati distrutti – la guardò voltarsi,
mostrando la schiena scoperta: falde di seta nera scivolavano in
terra lungo i fianchi, come ali spezzate di una farfalla, e la
scollatura era così ampia che scopriva la parte superiore dei
glutei.
Illya si affrettò a
risollevare lo sguardo, puntandolo parecchio più in su rispetto alla
testa di Gaby, verso la parete di fronte. Qualche metro più a destra
e avrebbe trovato la porta della stanza di Solo.
Dal basso, la
tedesca rovesciò il capo all’indietro e il broncio si sciolse in un
sorriso compiaciuto di labbra già dipinte di rosso, come se avesse
previsto fin dall’inizio l’espressione sul volto dell’uomo. «Non
fare quella faccia, sappiamo entrambi che certe cose non posso
chiederle a Solo.»
Illya si strinse
nelle spalle, rigettando ogni ondata di imbarazzo che sentiva
pizzicarlo sotto al colletto del dolcevita. «Questa è mia faccia
normale.»
«Allora muovi le tue
mani normali e aiutami ad allacciami, prima che perda quest’affare
per il corridoio.»
«Potresti chiedere
più gentilmente.»
«Questa è la
mia richiesta gentile.»
Illya sembrò
rifletterci, ma convenne che per gli standard di Gaby lo era stata anche
fin troppo.
Annuì, portò le mani
al suo corpo sottile e il ricordo di Dmitriy scivolò via, dietro
alle curve sode, alla pelle liscia e alla prepotenza della sua
piccola smonta-macchine.
Il
riscaldamento sotterraneo attraversava le pareti in un intreccio di
tubi in cui passava acqua e aria calda, ma il mosaico di mattonelle
che ricopriva il pavimento del corridoio era gelido.
Gaby dondolava sulle
gambe e si teneva in punta di piedi, nudi, raggelati, piantando
occhiate ostinate dietro di sé, all’indirizzo di Illya, affinché non
osasse mettere in discussione la sua resilienza – ma dopo Berlino,
dopo Roma, dopo l’isola dei Vinciguerra, era l’ultima cosa che il
russo si sognava di fare.
Raccolse invece i
lembi di seta nera tra le mani, iniziando ad allacciarli.
L’abito era nuovo di
boutique – lasciato da Ivanov insieme alla strumentazione, immaginò;
le asole erano strette e dovette fare pressione col pollice,
strattonando la stoffa per far entrare il primo bottone.
Gaby incurvò la
schiena con uno sbuffo infastidito.
Illya allentò la
presa quasi immediatamente.
La tedesca sbuffò di nuovo, questa
volta contro di lui. «Ti assicuro che se mi stessi facendo male te
lo direi. Prendendoti a schiaffi.»
Illya serrò la
mascella.
Era straordinario
come quella ragazza riuscisse sempre a mettergli addosso
un’irritazione elettrica: aveva voglia di farla tacere a forza,
voglia di sbatterla al muro e voglia di baciarla, tutto insieme, ed
era sicuro che dietro alle ciglia infoltite dal mascara e al
sorrisetto da gazza ladra, lei lo sapesse perfettamente. Era una
maledetta piccola strega che aveva in sé il fascino multietnico di
chi il mondo non l’aveva mai girato, ma l’aveva respirato da altri,
appropriandosene di prepotenza: era forte come una donna russa,
piccola come una bambola francese e bella come una regina
dell’antico Egitto. Gaby Teller era il ritratto di ogni donna;
innamorarsi di lei sarebbe stato naturale.
Eppure…
Illya sforzò
l’ingresso di un altro bottone, ricucendo lentamente le ali di
quella splendida farfalla velenosa.
No, non c’era alcun
eppure, essere attratti da lei era quanto di più logico e
naturale ci si potesse aspettare da lui e così era. Senza eppure.
Senza forse. Senza dubbi.
Gaby allungò una
mano dietro di sé, a tentoni cercò il fianco del russo, colpendolo
con la punta delle dita.
«Quando la
missione si sarà conclusa, voglio visitare la città.» pronunciò
in russo – accento tedesco e tono pretenzioso compresi nel
pacchetto.
Per Illya non era
stato un problema intuire la richiesta di farle da guida, e il
tentativo di abbindolarlo usando la sua lingua nativa era solo da
apprezzare.
Sorrise.
Piccola strega.
«Ti mostrerò, ma
altre città russe più belle di questa» le rispose in americano.
Gaby scrollò le
spalle sottili, su cui lui terminò di avvolgere le ali di seta.
«Possiamo visitare anche le tue preferite, se ci tieni. Mosca per
esempio; ma in quel caso sarà meglio rimettere Solo su un aereo per
New York.»
Le stirò le pieghe
invisibili dell’abito: una carezza delicata che seguì la curva dolce
della schiena e si fermò parecchio prima del fondoschiena.
Un bolo d’ansia si
era formato all’altezza dello stomaco all’ida di visitare Mosca
senza il cowboy. Era la cosa giusta da fare, il KGB aveva troppi
conti in sospeso con il pupillo della CIA, e anche se avrebbe
assaporato sbattere su quella faccia arrogante le meraviglie
dell’architettura russa e di quello che la sua patria poteva
offrire, sarebbe stato come trascinare la volpe davanti alla canna
del fucile del contadino.
Volgograd era già abbastanza pericolosa
per il cowboy.
Ivanov era già abbastanza pericoloso.
In lui Illya aveva
rivisto il se stesso di un tempo, la stessa voglia pruriginosa di
aprire il petto dell’americano in due e mettere in mostra l’abominio
che doveva essere il suo cuore nero. Le minacce velate dell’agente
non servivano a dare aria alla bocca, sapeva bene che oltre al
recupero dei progetti e la loro restituzione alle casseforti del
KGB, Ivanov aveva altri ordini – con tovarishch [3]
Oleg c’era sempre qualcosa di più, qualcuno di cui liberarsi, meglio
se figlio della Terra Libera.
E non sarebbe l'unico problema.
La Russia era la
casa di Illya, il KGB la sua gente. Una volta tornato dal suo padrone,
nessuno poteva assicurargli che lo avrebbero lasciato di nuovo tra
le braccia della U.N.C.L.E..
«Mosca è città
regina, non sono sufficienti due occhi e vita intera per ammirare
tutti gioielli che veste, tempo potrebbe non bastare» mormorò.
«Ne troveremo altro.
Possiamo chiedere a Waverly qualche giorno in più di vacanza,
comprenderà.»
Illya aggrottò la
fronte, disorientato dal concetto di vacanza. «No, se ci sarà altra
missione importante.»
Gaby sollevò le mani
alla nuca, all’anulare la perla di Tahiti spiccava su un anello di
fidanzamento che tornava di nuovo utile [4],
e tra le dita stringeva un’elegante spillone in oro bianco. «Prima
di essere agenti, siamo esseri umani, Illya… e… Oh, dannato affare!»
s’interruppe, imprecando contro lo spillone e i rivoli castani che
continuavano a sfuggire dallo chignon, costringendola a raccoglierli
da capo – era più brava con macchine e motori, che non con le
acconciature.
Illya le raccolse le
dita tra le sue, più grandi e più esperte. C’erano state volte –
rare, ma di cui serbava con gelosia il ricordo – in cui aveva fatto
lo stesso per sua madre, quando ancora la sua famiglia era la
benvenuta ai galà di Stalin e l’onta del tradimento non insozzava il
nome dei Kuryakin.
Una volta terminato,
Gaby si voltò. Il “grazie” scivolato dalle labbra quasi come
una gentile concessione, mentre riprendeva il filo del discorso:
«Quello che voglio dire è che abbiamo bisogno di una pausa. Perfino
tu.»
«Sciocchezze. Tu ha bisogno perché sei
donna, e cowboy è cresciuto ingozzandosi di dogmi di società debole.
Ma io, al contrario –»
«Non te l’hanno
insegnato che è da zotici vantarti con una signora di quanto ce
l’hai lungo, Peril?»
Illya sbuffò. Doveva
immaginare che parlando del diavolo, Solo avrebbe fatto la sua
aggraziata apparizione.
Lo guardò uscire dal
bagno e sfilare davanti a loro come in passerella, vestito solo di
un’elegante vestaglia che dubitava potesse essere appropriata per un
uomo – e l’avrebbe trovata indecente perfino indosso a una donna. La
cintura in seta blu, che Napoleon aveva allacciato alla vita, era più
per bellezza che altro e non serviva assolutamente a niente: i lembi
della vestaglia scoprivano quasi interamente il torso nudo e
villoso, su cui minuscole gocce d’acqua rotolavano lungo la pelle
tracciando strade che conducevano troppo in basso. L’unica
fortuna era che aveva avuto abbastanza decoro da infilarsi un paio di
boxer; Illya ne intravide solo la banda dell’elastico, ma se lo
conosceva bene, poteva immaginare fossero di marca, di cotone e –
considerato che lui li avrebbe preferiti neri – dovevano essere
bianchi.
Napoleon si fermò
innanzi a Gaby; ammirò l’abito, la donna e la bellezza in cui l’uno
risaltava grazie all’altra.
«Sei uno spettacolo
per gli occhi, mia cara» le disse, la voce ammaliante e il sorriso
da maschio alfa e sciupa femmine che riusciva a strattonare i nervi
di Illya, tirandoli fuori dalla pelle, all’aria, dove bruciavano
scintille.
«Faccio quello che
posso, Solo» miagolò lei, leccando il sorriso, bella e felina.
Napoleon rise a
bocca chiusa. «Ora c’è solo da sperare che non diventi una
distrazione per Peril e il suo compagno rosso.»
«Qualcosa mi dice
che l’unica distrazione per loro sarà quella di decidere chi avrà
l’onore di spararti per primo.»
«In questo caso,
punto tutto su di te, Peril, non mi deludere.»
Illya non si accorse
che Napoleon aveva cambiato bersaglio ed era passato a guardare
proprio lui, finché non lo vide alzare lo sguardo in alto, ai suoi
capelli, per poi abbassarlo con estenuante lentezza fino ai suoi
piedi, scandagliandone il corpo un centimetro alla volta, come se
avesse posseduto infrarossi in grado di superare la barriera degli
abiti.
Si sentì nudo ed
esposto – e, per qualche motivo, sporco. Strinse i pugni,
resistendo all’impulso di voltarsi e andarsene altrove, così come a
quello di sbattere le nocche sul suo grugno e spalmarne la sagoma al
muro.
Napoleon sospirò
sconsolato, come se quanto avesse trovato in lui non fosse stato poi
granché. «Spero mi perdonerai se, invece, tralascio i complimenti
per te. Preferisco che il nostro rapporto non si basi sulle
menzogne.»
Il bolo d’ansia di
poco prima si avvolse di rabbia, Illya lo buttò giù, sul fondo dello
stomaco. «Invece di preoccuparti di mio abito che nessuno vedrà,
pensa a ritrovare tuo pudore e tuoi vestiti. Missione prevede che tu
vada a teatro, non tra lenzuola di prostituta.»
Napoleon sorrise,
allargò le braccia e si mise in posa.
Lui e quella sua
dannata vestaglia. Lasciava davvero troppo poco all’immaginazione,
cosa che Illya avrebbe preferito più che volentieri. Non ne aveva
mai posseduta una particolarmente vivida: era un uomo pratico,
imparava in fretta, ma imparava guardando, provando, sperimentando,
sentendo sulla pelle il fuoco del fallimento e imponendosi di non
provarlo mai più. Perfino negli scacchi la sua abilità era frutto di
studio e preparazione mentale.
Se non avesse mai
visto Napoleon in certi atteggiamenti, non sarebbe mai stato in
grado di capire con quanta arroganza sapeva presentarsi a una donna,
alla conquista di un posto tra le sue cosce; se non ne avesse mai
ascoltato la voce, non ne avrebbe mai immaginato la nota roca,
incendiaria come whiskey invecchiato e se, in quel momento,
non ne avesse visto il corpo
statuario, non avrebbe mai neanche lontanamente pensato di poterlo
trovare così fastidiosamente eccitante.
«Potresti sempre aiutarmi, come hai
aiutato la nostra Gaby» chiocciò l’americano, come se sapesse
perfettamente l’effetto che la sua voce aveva sul prossimo, come se
conoscesse ogni battito del cuore di Illya e potesse chiamarli per
nome, affinché rispondessero a lui, ogni dannata volta.
Illya distese le dita sulle cosce.
«O potrei prendere te a calci e insegnarti strada per tua stanza.»
«Messaggio recepito: sarà per la
prossima volta.»
«Sarà per mai» Sibilò. Doveva
pensare ad altro – ai progetti rubati, alla missione, a… no,
non a Dmitriy. Masticò un insulto a denti stretti e, prima che il
cowboy aggiungesse altro, lo interruppe con un gesto della mano
«Aspetta qui. Ho cosa per te.»
Si voltò, sparendo in camera, ma non
abbastanza in fretta – o abbastanza lontano – da potersi evitare di sentire
il commento idiota che ne seguì: «Aww, Peril, cosa festeggiamo? Io
non ti ho fatto alcun regalo.»
Si pentì di non aver sbattuto la
porta, dando alle cazzate di Napoleon modo di entrare e seguirlo.
Raggiunse la specchiera e la sua valigetta, fece scattare la chiusa
e ne afferrò due oggetti piccoli, della grandezza di un bottone.
Quando tornò sui suoi passi,
Napoleon sorrideva, ma lo studiava con un certo timore che Illya
accolse con piacere, allungando la mano chiusa verso di lui.
Un paio di piccole cimici caddero
sul palmo della sua mano.
Gaby tese il collo per guardare e di
riflesso accarezzò la perla del suo anello.
Napoleon inarcò un sopracciglio.
«Sono cimici di fabbricazione russa.»
«Complimenti cowboy, hai un dono naturale per
notare sempre ovvio.»
Si grattò il setto nasale con una
punta di sdegno. «Peril… Perché mi stai dando le vostre
cimici, quando sai benissimo che ho già le mie?»
Illya lo sentì pesare con cura ogni
parola e per un attimo si godette il dolce sapore della rivicinta:
«Perché avevi, Cowboy. Ora sono in cestino di spazzatura.»
Napoleon sgranò gli occhi. «E di
grazia, cos’avevano che non andasse?»
Illya incrociò le braccia al petto,
lasciando che la risposta gli salisse agli occhi azzurri e nella
smorfia disgustata. Avrebbe potuto dirgli a chiare lettere che tutto non andava in quei suoi rottami di scarsa tecnologia, che era inutile rimpiangere quelle porcherie mal costruite, che l'attrezzatura russa era meglio e che quella era
una gara che lui e l’America avevano perso da un pezzo, fin da quando la sonda Luna
2 [5]
aveva attraversato l’immensità dello spazio, per atterrare a ovest
del Mare della Tranquillità[6],
là dove nessuna tecnologia americana era mai riuscita ad arrivare.
Ma trovò il silenzio molto più soddisfacente.
Napoleon incassò il colpo. «Non
c’era bisogno di essere così drastici» mormorò, mentre si passava
una mano tra i capelli.
La doccia ne aveva accentuato le
onde ribelli. In un colpo solo la rivincita di Illya non gli sembrò
più così dolce e si trovò a combattere contro l’istinto di toccare
uno dei ciuffi che si arrotolava con arroganza sulla fronte di
Napoleon, quasi a mettersi in mostra, a dirgli che la tentazione
sarebbe stata sempre lì.
Si tirò indietro di un passo. Per
fortuna il cowboy era troppo impegnato a rigirarsi tra le mani le
piccole microspie e borbottare sullo spreco dei soldi dei
contribuenti, per accorgersene, e andò in stanza a vestirsi.
Illya lo tenne d’occhio, finché non
lo vide sparire in stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
Gaby gli sfiorò un braccio.
«Qualcosa di interessante, Illyabär [7],
o è unicamente il fondoschiena di Solo?»
Arrossì. Non gli piacque il modo in
cui lo guardò e ancor meno gradì la sua allusione, ma con lei ogni
minaccia era un sasso caduto nel vuoto di cui non rimaneva nemmeno
l’eco. «Nyet [8].»
«Suvvia, sarà anche una spina nel
fianco, ma almeno Solo sa essere onesto su una cosa così semplice
come il trovarti attraente.»
Illya tossì, le parole di Gaby
andate di traverso. «Cosa… cosa c’entra questo ora?»
«È solo un complimento: siete entrambi uomini molto affascinanti. Non c'è nulla di male e apprezzare Solo non ti
renderà meno uomo.»
«No-non so di cosa tu stia
parlando.» Sperò che il tono aspro e lo sguardo affilato bastassero
per mettere un punto alle parole di Gaby, ma aveva sottovalutato la
sua tenacia.
«Ripensandoci, quando la missione
sarà finita, possiamo rimandare Mosca a un'altra volta e tu potresti
passare un po’ di tempo con lui.»
Illya sentì la lingua annodarsi in
bocca. «Perché dovrei sprecare mio tempo libero con cowboy?»
«Sa essere una piacevole compagnia.
E lo sai.»
«Sua compagnia è volgare, come suo
atteggiamento e suoi tentativi di…» la voce si spense, ma lui non
era sicuro quale fosse la parola su cui si era interrotto. L’aveva
accartocciata sotto la lingua, masticata e deglutita, l’aveva
pensata, ma era sembrata così sbagliata.
«Sedurti?» completò Gaby per lui.
Le vene del collo di Illya pomparono
sangue troppo velocemente al cervello e gli sembrò che il mondo si
stesse per capovolgere.
La verità è che non sapeva più se
fosse Napoleon a sedurlo o lui a volerlo…
Scosse il capo. «Non sono deviato.»
Le diede le spalle e tornò in
stanza.
Attraverso il binocolo, lo Tsaritsynskaya Opera Theater, appariva
come la copia in miniatura della Casa Bianca di Washington DC. Era
come se qualcuno avesse tralasciato volutamente le ali laterali
dell’edificio per incastrarlo meglio tra le strade di Volgograd,
innanzi al Viale Lenina.
Il piano era
semplice: Illya sarebbe rimasto sul tetto di uno degli edifici di
dirimpetto, per offrire copertura ai suoi partner. Gaby avrebbe
recitato il ruolo della donna di un pesce grosso del crimine, che,
stanca del marito aveva deciso di mettersi in proprio vendendo
progetti di un’arma rubata. Napoleon era la sua guardia del corpo,
nonché l’ovvio toy boy della donna troppo ricca e annoiata; e
Ivanov li avrebbe presentati al compratore, che avrebbero catturato
e usato per risalire a chi i progetti li aveva davvero.
Semplice. Forse
troppo.
Illya prese
postazione sul tetto. Osservò la strada dietro a un binocolo,
riaggiustando il canale radio, per sintonizzarsi sulle
ricetrasmittenti indossate dai due partner.
Li inquadrò fuori
dalle porte del teatro, nascosti alla vista dei più: Gaby, con il
suo abito, sembrava una nera falena posata con delicatezza al
braccio solido di Solo, e il cowboy, in smoking, sembrava come al
solito nel suo elemento.
Ivanov raggiunse i
due, biascicò un saluto che suonò più come un insulto e spiegò loro
che lo scambio si sarebbe tenuto durante l’opera. Si guardò intorno
con aria circospetta e alzò una mano alla schiena nuda di Gaby,
perché si affrettasse ad entrare.
Illya stritolò il
binocolo. Tra i gracidii della radio che scoppiettavano nelle
ingombranti cuffie alle orecchie, riuscì a distinguere la spruzzata
di acido in lingua russa e tinte rosa: «Puoi farti un po’ più in
là? Non mi piacciono gli uomini che mi stanno addosso.»
Non provò alcuna
pena per l’agente finito sotto il mirino della sua piccola serpe
velenosa.
«Yankee, tieni al
guinzaglio la tua donna!»
Il fatto che Ivanov
avesse cambiato lingua, scegliendo quella di Solo, lo rese più
odioso.
Illya tastò in terra con una mano, trovando la familiare
durezza lucida della canna di un fucile di precisione.
In strada, Napoleon
sfiorò la vita di Gaby, tirandola indietro e muovendo
contemporaneamente un passo in avanti, mettendola in ombra.
«L’agente grande e grosso del KGB ha paura di una donna? Al tuo
posto mi preoccuperei del tuo di guinzaglio; tienitelo stretto
perché se Gaby dovesse usarlo per strangolarti, da questo lato di
Volgograd non avrai alcun aiuto. Non ho l’abito adatto.»
Ben detto,
cowboy. Illya sorrise, ma il sorriso si spezzò in due, quando la
mano di Ivanov si fiondò al collo dell’uomo.
«Solo!» Gaby urlò e
si aggrappò alla manica dell’abito di Ivanov.
Illya si irrigidì;
lo sguardo fisso sul cowboy, sotto la stretta di mani che non erano
le sue. Il pantano di collera in cui era cresciuto e che gli si era
ormai appiccicato addosso come una seconda pelle, gorgogliò così
forte da assordarlo.
Abbandonò il
binocolo, raccolse il fucile e puntò la canna d’acciaio nero alla
testa di Ivanov.
Con una manata,
l'agente aveva allontanato la mano di Gaby. «Non pensate che io sia come
quel verme di Kuryakin, lui vale quanto la merda sotto le vostre
scarpe – ma io potrei uccidervi ora e una volta tornato a Mosca,
otterrei una medaglia.»
Illya serrò la presa al fucile. Gli insulti erano un suo
problema, erano la sua eredità e poteva ingoiarli, ma alzare luride
mani su Gaby e sul cowboy, missione o non missione, era un invito
alla morte.
Prese la mira.
Nel mirino,
vide Napoleon sollevare l’angolo destro delle labbra in un sorriso
sfacciato.
«E come pensi di ritirare la tua medaglia, con le
cervella saltate?» Con un cenno del
capo indicò in alto, verso il tetto dell'edificio di fronte alla strada.
Ivanov alzò gli occhi e solo allora notò il bagliore del fucile imbracciato da
Illya.
«Ora possiamo
tornare a essere amici, vero?» ironizzò Napoleon.
«Cane» aggiunse Gaby
incattivita.
Ivanov lo lasciò e
Napoleon si rassettò il colletto della giacca. «Era quello che
pensavo.»
Ancora
perfettamente in posizione di tiro, Illya lo vide rilassarsi e si rilassò
a sua volta. Non si stupì nemmeno quando Napoleon guardò apertamente
verso il tetto, schioccandogli un occhiolino. Pensò sarebbe finita
lì, ma le sue labbra si mossero piano a formare parole che non
riusciva a sentire, finché non si rese conto che non stava parlando
a voce alta e che la frase era solo per lui: va tutto bene, Peril,
sto bene.
Stupido cowboy.
«…s-suka [9]…»
borbottò.
Lo vedeva con i
suoi occhi che stava bene, non c’era bisogno di sottolinearlo!
Ma per qualche
motivo, si sentì rincuorato.
Sul tetto dell’edificio non c’era riparo dal freddo, la sera
profumava di neve e il vento gli azzannava la pelle esposta,
sibilando tra le pieghe del giaccone.
Illya liberò i
capelli biondi dalla coppola, la incastrò sotto la valigia con cui
era arrivato e sciolse muscoli indolenziti dall’attesa.
Nonostante la
tensione iniziale, Gaby, Napoleon e Ivanov erano entrati
tranquillamente a teatro e avevano preso posto al palchetto di cui
l’agente russo aveva prenotato i biglietti.
Di quando in quando,
giungevano le loro chiacchiere a fargli compagnia, ma forti della
sua solitudine, i pensieri avevano iniziato a mordicchiare i confini
in cui li aveva rinchiusi, zampettando nella sua testa come topi
usciti dalle loro tane.
L’Opera gli aveva
impedito di scacciarli: l’apertura della serata dedicata a Vivaldi e
alla sua Opera Sacra sfrigolava tra le cuffie e rimbombava nella
testa.
Gloria, gloria,
in excelsis deo [10]
Era la stessa identica musica, le stesse note dell'allegro che piovevano sulle
reclute, col tono metallico e gracchiante degli altoparlanti
dell’Accademia, ravvivando un mondo di ghiaccio e acciaio.
«Compagno
Kiselyov, non pensate sia il caso che torni a unirmi agli altri in
cortile? L’addestramento—»
«Non ora, Illya.
Prima ascolta la musica.»
Schegge
d’adolescenza, la sua voce di ragazzo e un uomo in divisa che
ammirava come un eroe. Illya lo seguiva in ogni passo e sognava il giorno
in cui sarebbe diventato come lui.
«Sissignore.»
«E rilassati.»
«Sissignore.»
«Lo sai cosa
dicono?»
«No, signore.»
«È latino, vuol
dire “gloria a Dio, nell’alto dei cieli”. Un giorno, quando sarai
pronto per servire la Madre, faremo suonare questa musica per te.»
«Per me,
signore?»
Si era aspettato di
vedere sul volto dell’uomo tracce di beffa, ma a Dmitriy Kiselyov
l’ironia e le sciocchezze non erano mai piaciute – quando mentiva,
lo faceva in nome della Russia.
Aveva aperto le dita
alla nuca di Illya e aveva poggiato la fronte alla sua.
«Gloria in
excelsis deo.» Le sue parole erano filtrate dalla sua bocca a
quella del ragazzo, soffiandogliele addosso, come ossigeno da
respirare.
E Illya, troppo
giovane e troppo sciocco, gli aveva creduto.
Di Dmitriy aveva
ingoiato ogni parola e ogni sillaba, senza sapere che con esse ci
sarebbero stati anche gli aghi e dall’interno lo avrebbero ferito,
senza che lui potesse farci nulla.
Gloria
Gloria
«Avete portato i
progetti?»
Illya riaprì gli
occhi sulle strade di Volgograd.
Sprazzi di una voce
sconosciuta stracciarono i ricordi, si tuffarono dalle cuffie ai
timpani e lo trascinarono fuori dal passato, per scaraventarlo dove
ora c’era bisogno di lui.
«Dipende. Lei ha
portato i miei soldi?»
Non aveva occhi
all’interno del teatro, ma il russo zoppicante di Gaby suggerì che i
negoziati erano cominciati.
Portò l’attenzione più in basso
davanti alle porte del teatro; nonostante fossero ancora a metà
atto, qualcuno stava già uscendo.
Si tese meglio con la schiena
dritta, in uno scrocchiare di vertebre e muscoli che si gonfiavano
sotto agli abiti. Aggiustò il fuoco del mirino e, incorniciati da
lunghi capelli biondi, scorse i tratti decisi, gli spigoli duri e
gli occhi feroci di un volto che non avrebbe potuto dimenticare.
Strizzò gli occhi. Li riaprì.
Nulla cambiò: sul volto di una donna
appena uscita dallo Tsaritsynskaya aleggiava lo spettro di Dmitriy.
Alla
ricetrasmittente, Gaby smise di parlare proprio in quel momento.
Con lo sguardo
concentrato sulla donna, Illya si premette le cuffie all’orecchio e
attese, finché non giunse un sussurro scosso.
«È uno di loro.»
Un brivido gli
attraversò la schiena e fu sicuro che anche Solo l’avesse notato –
Gaby l’aveva sibilato con un’inflessione rabbiosa, con una nota
tremante che fin dall’inizio cercava di nascondere davanti
all’agente Ivanov, ma che a nessuno dei due era mai sfuggita.
Loro erano
gli uomini che l’avevano tenuta sottocontrollo per mesi, per anni.
Erano il pugno di
ferro che stritolava la Berlino est e che tingeva di rosso le strade
della Russia.
Erano Illya e Ivanov
e Oleg.
Erano il KGB.
«È una trappola—» la
voce di Napoleon.
Ci fu il rumore di
una colluttazione, poi più nulla.
Illya batté una mano
contro le cuffie, ma sapeva benissimo non fosse un problema di
ricezione.
«Gaby?! Cowboy?!»
Chiamò allarmato.
Fu inutile. Le
trasmittenti funzionavano in un’unica direzione, se voleva sapere
cosa fosse successo, doveva raggiungerli.
Qualcosa brillò alla
finestra di uno dei palazzi vicino.
Lo notò con la coda
dell’occhio, mezza frazione di secondo prima che un colpo d’arma da
fuoco venisse sparato contro di lui.
Illya cadde a terra.
Nello stesso
istante, il feroce ruggito di una granata spezzò le colonne bianche
del teatro.
Sulla strada, solo
polvere e grida.
[ 6.151w ] |
[1] Sapevo avrebbero mandato te,
Illya
[2] Avresti dovuto mirare
meglio, Illya
[3] compagno Oleg
[4] Riferimento al secondo
anello di fidanzamento che Illya regala a Gaby e che alla fine del film le
chiede di tenere - ebbene, l'ha tenuto.
[5] La sonda Luna 2 è stata la
prima sonda spaziale a raggiungere la Luna nel 1959, ovviamente opera dei
russi. Da lì, è iniziata la sfida alla conquista della luna tra russi e
americani, terminata nel 1969 con l’allunaggio di Neil Armstrong e Buzz
Aldrin. Essendo la fic ambientata intorno al ’63, anno in cui è ambientato
anche il film, l’allunaggio non è ovviamente ancora avvenuto
[6]
Mare
lunare situato sull'emisfero della Luna sempre rivolto verso la Terra
[7] bär in tedesco significa orso
♥
[8] No
[9] insulto russo. In realtà
significa “cagna, puttana” e tecnicamente ci sono altri insulti che
avrebbero più senso in questo contesto, ma mi piace pensare che questo sia
l’insulto default di Illya (per vari motivi/headcanon) perché è l’unico che
pronuncia in russo nel film, quando borbotta per essere stato perculato da
Napoleon.
[10]
Gloria in D major: I. Gloria in excelsis Deo – Vivaldi
|
『 |
Vabbeh, pure quando
il capitolo è già stato revisionato riesco a trovare il modo di
tardare nella pubblicazione. E non parliamo del fatto che, oggi,
rileggendolo per l'ennesima volta, ho deciso che era mia dovere
dargli un'ultima risistemata, perché le ventordici revisioni che già
ha subito questa fic evidentemente non erano sufficienti. Sono un
caso perso, lo so... però dai, mi piace pensare che le modifiche
siano servite a migliorarla. Non che voi possiate capirne la
differenza, ma fidatevi XD
Come si sarà notato, in
questo capitolo il POV non è più quello di Napoleon, ma è quello di
Illya (surprise?) - e se quello di Napoleon fila sempre liscio come
l'olio e su di lui non ho mai un dubbio che sia uno, lo stesso non
vale per il mio russo preferito, che mi dà solo problemi e mi
riempie di incertezze sul suo POV. Ma ormai è andata e posso non
pensarci più! ...fino al prossimo capitolo.
Per chi ancora non l'ha
vista (ma cosa state aspettando? >_>) vi ricordo che potete ammirare
la bellissima fanart di
Miryel e kudarla
qui
♥
Scritta per
il BBI10 @LandediFandom |
』 |
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Volgograd secret ***
warning: post-movie; slash;
internalized homophobia; h/c;
I
personaggi appartengono agli aventi diritto
Prizrak Volgograda
———————— 03. Volgograd
secret
————————
Napoleon aveva scostato il pesante drappo di velluto nero che dava
ingresso al palchetto a loro riservato, si era infilato per primo
controllando che tutto fosse perfettamente a posto e aveva lasciato
passare Gaby. Solo quando era stato il momento di Ivanov, con finto
disinteresse, aveva spostato il braccio e il tendaggio era ricaduto
in faccia all’uomo.
Ops.
Sapeva di star
sfidando la sorte più di quanto fosse furbo fare, ma essersi fatto
cogliere di sorpresa poc’anzi, fuori dal teatro, l’aveva
indispettito. Si trattava di un agente russo – un agente russo
che non era Peril –, doveva immaginare che la collaborazione con
loro non gli avrebbe impedito di dare in escandescenza e venire alle
mani.
Lo guardò togliersi
di dosso il drappo ed entrare a passo pesante, irritato. Finse di
non dar peso alla sua presenza, ma con tutta l’adrenalina che ancora
gli circolava in corpo, non c’era senso che non lo percepisse – e
non lo considerasse un intruso.
Al contrario di
Napoleon, Gaby lo fissava spudorata. Era tornata impassibile, e se
Solo non avesse imparato a conoscerla, avrebbe detto che non
esistesse nulla al mondo in grado di turbarla: non due spie con lo
stesso incarico di rapirla alla sua officina in Berlino, non la
morte di suo padre, non di certo un agente del KGB a caso dalle
maniere rozze. Ma gli era bastato scorgere la sua mano sinistra – la
più vicina a lui – che per un attimo si era tesa a cercarlo, per
sapere che sotto la scorza dura da meccanico e dietro
all’autocontrollo tedesco, nascondeva la sua paura.
Scostò una delle
poltrone dai cuscini bordeaux e le cuciture in oro e la invitò a
sedersi. Quando Gaby prese posto, si chinò su di lei e le stuzzicò
il collo con un bacio leggero.
«Stai andando bene,
hun.» le mormorò sulla pelle calda.
Sentì il respiro
attraversarle la gola e scivolare fuori dalle labbra in una lenta
esalazione.
Gaby si rilassò
contro la sua bocca, tanto che il sorrisetto spavaldo tornò a
regnare sulle labbra rosse e le dita che prima avevano cercato
Napoleon, affondarono tra i capelli dell’uomo, afferrandone una
ciocca tra due polpastrelli e tirandola per dispetto. «Ammettilo,
Solo, era tutta una scusa per baciarmi.»
«Touché.» Rise e si
rialzò, rimanendo in piedi, accanto a una delle colonne di legno
intagliato. Da quella postazione poteva vedere senza problemi le
balconate di fronte, la galleria, la platea e il palcoscenico. E,
oltre a poter inquadrare l’ingresso al loro palchetto, aveva occhi
anche su Agente Comunista Numero Due.
Doveva ammettere che
in quella missione iniziavano a esserci troppi russi fastidiosi, e
pensare che il peggiore della compagnia di allegri coinquilini
della Lubjanka [1]
doveva ancora entrare in scena.
Dmitriy.
Era curioso di
scoprire che razza di creatura soprannaturale fosse –
cosa di quel bastardo poteva piacere così tanto a Illya da aver
abbassato la guardia, e perché aveva l’orribile sensazione che,
anche con la condanna a morte sentenziata dal KGB, Peril continuasse
a considerarlo migliore di lui.
Kiselyov aveva il
vantaggio di essere russo, d’accordo, ma Napoleon era… Napoleon!
Aveva sedotto terroristi, fanatici fascisti, soldati, medici di
guerra, poliziotti e perfino un paio di suore – Dmitriy poteva aver
sedotto l’unica persona inarrivabile per Solo, ma era anche riuscito
a deluderla e a ferirla come lui non si sarebbe mai permesso di
fare.
Non si meritava
l’amore di Peril. Dannazione, non meritava nemmeno che Peril
sprecasse pallottole per lui!
Portò una mano sotto
la giacca, tastando la pistola. Fantasma o no, lo avrebbe rispedito
nella tomba da cui era uscito, anche a costo di trascinarcelo di
peso e ficcargli un paletto di frassino nel petto, così!, per
buona misura contro i non-morti.
Dal palco, viole e
violini aprirono lo spettacolo, dominando nell’allegro di Vivaldi.
Era il segnale di via: il drappo si sollevò, rivelando la presenza
del compratore.
«Avete portato i
progetti?»
Tutto procedeva
secondo i piani.
Finché…
«È uno di
loro.»
La missione fallì
ancor prima di cominciare.
Ci fu un pugno, uno
spintone violento, un bottone saltato dalla giacca di Napoleon
insieme alla cimice russa; uno dei presenti perse la pistola, mentre
Ivanov si piegò in due per aver ricevuto un calcio tra le gambe da
Gaby.
Napoleon uscì dallo
scontro con due pistole tra le mani, una delle quali una Marakova,
calibro 9. e provvista di silenziatore – la pistola in dotazione
agli agenti del KGB [2].
«Ivanov, Ivanov,
Ivanov. Abbiamo così tanto di cui parlare.»
Avrebbero dovuto,
l’avrebbero fatto, ma il mondo intorno a loro si sfaldò prima.
Il rombo di un tuono
riecheggiò per l’intero teatro e le pareti tremarono, come quelle di
un castello di carta che minacciava di crollare su se stesso da un
momento all’altro.
Il soffitto
piovve sul pubblico e, dal basso, giunsero le prime grida di
panico: “Tam bomba! Tam bomba!”.
C’è una bomba!
Un secondo tuono
scoppiò più feroce del primo.
Il palchetto tremò,
Napoleon spalancò le braccia cercando di rimanere in equilibrio, ma
aveva la sensazione di trovarsi in alto mare durante una tempesta,
su una nave che stava colando a picco.
Una delle colonne si
spezzò in due. La vide crollare tra Gaby e Ivanov e, ancor prima che
nel pavimento si aprissero le prime crepe, seppe già cosa stava per
accadere.
«Gaby! NO!»
Il vuoto la ingoiò.
Rivoli cremisi imbrattavano la parte sinistra del volto di Illya; le
orecchie fischiavano e sopra di lui fiocchi di neve ondeggiavano a
rallentatore, scivolando bianchi dal cielo e tingendosi di sangue
una volta posati sulla sua pelle.
Buttò fuori fiato e
nuvole bianche di vapore. La pallottola lo aveva sfiorato,
grattandogli la tempia e la punta dell’orecchio ma, cecchino a
parte, stava bene, meglio di chi invece si era trovato a teatro.
Meglio di Gaby e di Solo.
Non c’era tempo –
non serviva a nessuno là sopra.
Contò sino a tre.
Une [3].
Imbracciò il fucile.
Dva [4].
Tolse la sicura e scattò seduto con la schiena in avanti.
Tri[5] .
Sparò alla finestra da cui aveva scorto il bagliore.
Non si preoccupò di
prendere la mira, e quando dall’altro lato non ricambiarono il
favore decise che erano morti o, con tutta probabilità, fuggiti,
approfittando del caos che l’esplosione aveva generato.
Meglio così, aveva
altro di cui preoccuparsi.
Appese il fucile
alla spalla e si precipitò verso le scale, gettandosi a capofitto
giù per i gradini, saltandoli a tre o quattro alla volta per
tuffarsi in strada, dove la polvere, i calcinacci e le grida della
gente che sgorgava dallo Tsaritsynskaya occludevano l’accesso alla
piazza.
Si guardò intorno,
spintonò sconosciuti, facendosi largo tra la folla, ma Gaby e il
cowboy non c’erano.
«Gaby! Cowboy!»
urlò, le grida intorno a lui soffocavano la sua voce e ogni volto
che gli appariva davanti, sporco di sangue, lacrima e paura, non era
quello dei suoi compagni, ma un presagio per come li avrebbe potuti
trovare.
Se li avesse
trovati.
Si aggrappò con
forza alla cintura del fucile – in quel momento si sarebbe
aggrappato a qualsiasi cosa, mentre serrava la mascella e avanzava
controcorrente, colpito ai fianchi e alle gambe da braccia, gomiti e
scalciate che si agitavano per uscire da quell’inferno.
Da vicino,
l’ingresso del teatro era un cumulo di macerie crollate –
inginocchio, un uomo scavava e urlava il nome di qualcuno. Illya per
un attimo lo fissò inorridito, sentì il sangue gelare nelle vene e
traballò in avanti, scattando di colpo indietro quando si accorse di
aver calpestato i resti di una borsetta elegante.
Cercò di ricordare
se Gaby ne possedesse una e di che colore fosse.
Non era quella,
vero? No! Non erano lì sotto, si erano salvati. Il Cowboy era in
gamba, era un maledetto gattaccio con nove vite, avrebbe trovato il
modo.
«Peril! Siamo qui!»
Quasi inciampò sui
propri passi, quando Napoleon sbandierò un braccio dal marciapiedi,
reggendo a sé Gaby con l’altro e aiutandola ad avanzare.
Illya corse loro
incontro.
Erano imbiancati di
polvere e di intonaco, il volto e le spalle coperti di graffi e
abrasioni, e ora che poteva vederli meglio, non era Napoleon ad
aiutare Gaby, ma il contrario. La tedesca gli circondava il costato
e, al riparo sotto al suo braccio per evitare che la colpissero, ne
sosteneva il peso.
Le ferite del
cowboy, escoriazioni lungo le spalle e un taglio alla coscia, erano
quasi negli stessi punti di quelle di Gaby, solo più profonde –
doveva averla protetta in qualche modo, facendole scudo con il suo
corpo.
«Ivanov ci ha
traditi, è scappato e Solo si è ferito! Stavo precipitando dal palco
e lui si è lanciato per prendermi!» Gaby urlò per farsi sentire.
«E questo è il
motivo per cui detesto far comunella coi comunisti… presenti
esclusi.» scherzò Solo, ma Illya non l’aveva nemmeno ascoltato.
Fermo di fronte a loro, raccolse i loro volti tra le mani, le palme
incollate alle guance e le dita premute al collo, che raccoglievano
battiti contro i polpastrelli. Che li sentivano vivi. Vicini.
Salvi.
Sospirò e il mondo
riprese a girare, frenetico, caotico e gonfio di grida, pianti e
panico.
«Cercate riparo» li
istruì, lasciando il fucile a Napoleon.
I due lo guardarono
confusi. «E tu?»
«Io inseguo
fantasma.»
Qualsiasi altra
domanda si perse nella notte.
Corse via,
rincorrendo la scia di uno spettro, scivolando tra vicoli che
avevano studiato per la missione e che avrebbero dovuto usare come
via di fuga, qualora qualcosa fosse andato storto.
Tutto lo era andato.
E lui non si era accorto di niente.
Da qualche parte,
rimasta troppo indietro perché potesse aspettarla, sentì la voce di
Gaby che lo chiamava.
Imboccò un altro
vicolo.
Doveva trovarla. Non
si era trattato di un fantasma, era sicuro di aver visto una donna,
era sicuro che fosse—
La siluette di una
donna dai lunghi capelli biondi comparve sul fondo della strada, come
un’apparizione dalle forme eteree e dai colori sbiaditi – vestiva di
bianco, un cappotto elegante, ma che a un’ispezione più accurata
avrebbe rivelato orli disfatti e punti in cui la pelle si era
screpolata, lasciando macchie grigie.
Quando si accorse di
Illya, infilò una mano nella tasca del cappotto, ma lui annientò
ogni distanza e l’afferrò per i polsi. Erano sottili, fragili, ma
erano reali, la pelle era calda e il sangue rovente.
Non era un fantasma,
non più di quanto avrebbe potuto esserlo lui.
La spinse al muro,
costringendola ad allentare la presa alla piccola glock nascosta
nella tasca. La pistola cadde in terra – contro un uomo della stazza
di Illya non avrebbe potuto fare niente, eppure, quando i loro
sguardi si incrociarono per la prima volta, fu lui a sentire il
vuoto aprirsi nello stomaco e ingoiargli le viscere.
Tutto di quel volto,
dai tratti decisi, agli occhi d’argento, era il ritratto di Dmitriy.
Anche la donna lo
riconobbe, ma la sorpresa lasciò il posto a uno sguardo spiritato,
carico di odio e occhi sbarrati che sembravano conoscere e
detestare ogni cosa di lui.
«Tu… I-Illya
Nickovitch Kuryakin [6].»
sibilò in russo, sputando il suo nome completo come a volerlo
maledire. «Cosa aspetti? Uccidimi! Non è quello che hai fatto con
mio fratello?!»
Illya non seppe cosa
dire – cosa fare. Sbatté le palpebre, disorientato.
Dmitriy aveva una
sorella e lui non l’aveva mai saputo…
Allentò la presa e
si tirò indietro, traballando su gambe che all’improvviso gli
sembravano sprofondare nel cemento.
La donna ne
approfittò per estrarre un coltellino nascosto sotto la manica della
giacca, e con un urlo animale gli fu addosso, affondando la lama
nelle sue carni.
Illya non si difese
nemmeno: il pugnale taglio gli abiti, squarciò la pelle, penetrò
nella carne e nei muscoli al di sotto della spalla.
Lo sapeva.
Era stato diligente,
aveva obbedito agli ordini e aveva portato a termine la missione.
Lo sapeva.
Dmitriy era morto.
Illya lo aveva
ucciso.
Gloria, gloria, in excelsis deo
Serrò la mascella quando le prime ondate di
dolore iniziarono a irradiarsi lungo la spalla.
«Perché… perché sei qui… perché sei
tu?» si sentì
chiedere.
«Lo sai il perché, non mentire! Lui
ti amava come un figlio… e tu invece… come hai potuto?! Ma piuttosto
che tornare in quella prigione, preferisco crepare! E anche tu avrai
quello che ti meriti!»
Illya crollò con un ginocchio per
terra e la donna lo seguì, rigirando la lama nella ferita.
Aveva compiuto il proprio dovere.
Sentì il pugnale scavarsi la strada
verso il cuore e i polmoni.
Era stato un buon soldato.
La punta iniziò a scalfire le ossa.
Aveva—
«Peril?»
Solo comparve sull’imboccatura del
vicolo insieme a Gaby.
Di colpo, Illya sentì la coscienza
riemergere e i riflessi tornare a rispondere: afferrò la mano della
donna e la tenne chiusa sul pugnale, impedendole ogni via di fuga.
«La-lasciami!»
urlò lei, agitandosi e spingendo la lama più a fondo.
Illya ringhiò per il dolore, ma
continuò a tenerla contro di sé, come un automa che perseverava in
quell’unica funzione per cui era stato programmato, ignorando la
ferita, il dolore e il sangue che apriva boccioli rossi sulla giacca
e sul dolcevita.
Gaby lo affiancò e posò una mano sul
suo dorso. «Illya, puoi lasciarla ora, non può più scappare. Lascia
la presa.»
«È la sorella di Dmitriy…»
mormorò lui, la lingua ancora impostata sul russo, la mente
inceppata su quell’unico particolare.
Gloria
Gloria
«Va bene. Ora,
però, lasciala, sei ferito.» anche Gaby passò al russo.
«Non importa.»
«Sì che importa!»
«ILLYA!»
Lasciò la presa di
scatto, quando Napoleon urlò il suo nome.
Le dita da ladro si
insinuarono sotto quelle di tutti, puntando il pugnale, stringendone
il manico e, con forza, lo estrasse in un colpo solo.
Ci fu un suono, un
singulto sommesso, che Illya non riuscì nemmeno a riconoscere come
proprio.
Gettato lontano il
pugnale, la mano di Napoleon si premette con forza sulla ferita,
imbrattandosi il palmo di sangue e percependo la pelle lacerata e la
carne esposta.
Lentamente Illya
mosse la testa; lo guardò negli occhi e in quegli occhi vide il
timore scivolare via, come ultimi avanzi d’oscurità durante l’alba.
«Non… non è nulla,
cowboy. Non morirò.»
Anche Napoleon lo
guardò negli occhi e nei suoi, di occhi, Illya non seppe cosa vide,
ma l’altro gli sorrise con una nota dolciastra e uno sbuffo a
portarsela via – una mezza risata troppo codarda per danzargli oltre
le labbra. «Lo voglio ben sperare, perché non ho alcuna intenzione
di spaccarmi la schiena per portarti via di peso. Sei tu il
commie [7]
con la superforza, non dimenticartelo.»
L’offesa s’infranse
in terra, dimenticata, accanto a un pugnale sporco di sangue. Illya
si concentrò sulla mano del cowboy, sulle dita macchiate di rosso e
sull’odore ferroso che invase il vicolo.
Kogda-nibud' i
tvoya istoriya zakonchitsya tak zhe, Il’ja: krov'yu [8].
Angelìka Kiselyov, sorella minore di Dmitriy Kiselyov.
Napoleon riusciva a
vederci dell’ironia nella situazione: lei sorella di un morto, che
il KGB aveva scomodato dalla tomba e usato per la seconda volta come
capro espiatorio per ottenere l’aiuto di Peril; lui, l’agente Ivanov,
che possedeva la simpatia da calci sui denti del traditore ipocrita
e lo charme di un formichiere, si era fatto fregare dalla stessa
donna a cui aveva teso la propria trappola. Senza dimenticare che, a
quell’ora, potevano considerarlo sterile, grazie all’intervento
provvidenziale di Gaby.
E i russi messi al
tappeto dalla sua impavida tedesca salivano a quota due.
L’avevano lasciata
insieme ad Angelìka, una volta che quest’ultima li aveva condotti al
minuscolo monolocale in cui si era rifugiata negli ultimi mesi,
forse l’ultimo posto sicuro di tutta Volgograd.
Napoleon chiuse la
porta del bagnetto dietro di sé – un bugigattolo claustrofobico che
occupava insieme a Illya e in cui nessuno dei due riusciva a trovare
una posizione comoda, che impedisse loro di starsi tra i piedi. Se
Illya era seduto sulla tazza del gabinetto, Napoleon si trovava
letteralmente tra le sue gambe divaricate, ago e filo in mano con
cui lo stava lentamente ricucendo, bende e disinfettante posate
sulle cosce dell’altro.
Si era bendato la
gamba e ora era il turno del russo.
«Prima il tuo
amichetto Dmitriy e ora l’agente Ivanov. Cosa c’è nel vostro DNA che
vi porta tutti a tradire chi si fa in quattro per voi?» scherzò,
aggiungendo un altro punto sulla ferita.
Era lento, preciso,
con una mano teneva pinzati i lembi di pelle e con l’altra penetrava
l’ago in punti vicini, così che la cicatrice rimasta fosse più
simile alla firma dello scultore che aveva creato l’opera d’arte
chiamate Illya e non l’ennesima tacca brutta e rozza, su un corpo
che non conosceva altro se non la lotta.
Si aspettò una
ribattuta stizzita – una testata, a esser precisi – ma ricevette in
cambio solo silenzio e uno sguardo azzurro piantato alla porta
chiusa.
Gaby gli aveva
confidato da tempo che Illya non amava i luoghi angusti [9],
ma questa volta dubitava c’entrassero qualcosa le pareti che
rischiavano di restringersi intorno a lui.
Era Angelìka il
problema. Erano i segni della prigionia e delle torture subite dal
KGB, dopo la morte di Dmitriy. L’avevano catturata, rinchiusa,
interrogata, l’avevano picchiata, umiliata e piegata ed eppure non
erano mai riusciti a spezzarla e i progetti rubati da suo fratello
erano rimasti nascosti lontano dalle loro mani. Nessuno avrebbe mai
dovuto possedere armi così pericolose, nemmeno il KGB.
Napoleon tagliò il
filo e ammirò soddisfatto il risultato, anche se più che sui punti,
lo sguardo seguiva il disegno dei pettorali di Illya, il modo in cui
li sollevava a ritmo di un respiro irrequieto, il pallore della
pelle, le cicatrici mal trattate che interrompevano una tela
altrimenti perfetta, la peluria bionda sul ventre che spariva sotto
la cintura dei calzoni, come un sentiero dorato che conduceva in un
regno a lui sconosciuto.
Si schiarì la gola,
dando la colpa all’astinenza. L’ultima cosa di cui aveva bisogno era
quella di inseguire fantasiose città di smeraldo [10]
nei calzoni del suo partner! «Quindi, devo menzionarlo io
l’elefante nella stanza o vuoi avere tu l’onore?»
Illya abbandonò
l’attenzione alla porta, per inquadrare il suo volto.
Napoleon aspettò che
dicesse qualcosa, ma le labbra del russo erano sigillate e se non
fosse stato per l’accelerare del respiro, avrebbe pensato non lo avesse
nemmeno sentito.
«Ci hanno mentito
quando hanno chiesto il nostro aiuto per recuperare i progetti e
hanno mentito a te sulle ragioni per uccidere Kiselyov. E come
ciliegina sulla torta, Ivanov ha fatto il triplo gioco e si è
organizzato per prendere tutto il bottino per sé. Ci ha fregato
tutti, Peril.»
«Ho… ho fatto mio
dovere…» Da quando avevano lasciato Lenina e il teatro, infilandosi
tra vie secondarie che non risultavano sulle mappe stradali, quella
fu la prima volta che Illya tornò ad aprire bocca. Ne uscì una voce
accartocciata.
Napoleon appoggiò
ago, filo e disinfettante sul lavandino.
«Per l’appunto, non
è colpa tua se sei un bravo agente.»
«No.» Ne uscì un
ringhio animale, più simile al guaito di una bestia ferita. Illya
scosse la testa, irrigidì la linea delle spalle e Napoleon temette
si preparasse per colpirlo, invece il russo ruotò il capo di lato e
fissò il mobiletto incastrato sotto la piccola finestrella dai vetri
incrostati, come se stesse ponderando l’idea di sradicarlo a mani
nude e gettarlo in strada. Ma anche così, Napoleon poteva
scommettere che non sarebbe bastato a far spazio a tutto quel
groviglio di rabbia che gli si attorcigliava addosso da Dio solo
sapeva quando.
Lo guardò spostare
di nuovo lo sguardo, fissarsi le cosce: «Ho obbedito a ordine. Tu
non avresti fatto.»
«Ti assicuro, che se
prima di oggi mi fosse capitato sotto tiro, avrei ucciso il tuo
amico più che volentieri» fu una confessione non voluta, che
grondava gelosia da ogni virgola e ogni punto e metteva a nudo tutto
l’astio che aveva provato nei confronti del mentore russo. Illya,
però, non sembrò nemmeno accorgersene e per Napoleon fu meglio così
– la tristezza di Peril poteva gestirla.
«No.» riprese Illya.
Sul lato destro del volto, una strisciata di sangue rappreso lo
segnava dalla fronte all’orecchio. «A Roma avevamo stessa missione,
stessi ordini.»
Napoleon annuì. «E
il fatto che siamo entrambi qui a rivangare il nostro romantico
passato è la prova che nessuno dei due l’ha portata a termine.»
«Questo perché tu
trovato soluzione! [11]»
Napoleon gonfiò il
petto, sollevò il capo e lo rigettò in avanti, svuotandosi in
un’unica pesante boccata. Aveva sottovalutato la cocciutaggine
russa, come riuscisse a superare perfino l’orgoglio diamantino di
Peril.
Gli sfiorò la tempia
col pollice, strofinando piano la pelle, per cancellare le tracce
più superficiali di sangue. «Questo fa di me un genio, Peril, non
una brava persona.»
La battuta non lo
toccò nemmeno di striscio.
Forse si era
sbagliato, la tristezza di Kuryakin non era qualcosa che potesse
gestire – era una nebbia fitta, che nascondeva mine antiuomo e
demoni di cui poteva sentire solo il verso e sperare non fossero
così vicini come sembravano. Era un coltello piantato nella schiena
che Illya non poteva raggiungere e che, per questo, aveva lasciato
lì ad arrugginirgli la pelle e il cuore – nemmeno si aspettava più
che qualcuno potesse estrarlo per lui.
«Ti sei fidato dei
tuoi superiori e loro ti hanno ingannato. Ma sei un buon partner,
Peril. Anche se sei un russo musone che ha più cose in comune con un
robot che con un essere umano, non affiderei a nessun altro la mia
vita.»
Illya rimase a lungo
in silenzio, immobile – una statua di marmo, che iniziò a
sgretolarsi, rivelando la vita al di sotto e braccia umane,
lunghe e forti, che si tesero in avanti, stringendosi alla vita di
Napoleon e premendo il volto al suo petto.
Solo temporeggiò.
Reclinò il capo dall’uno all’altro lato, ma da qualsiasi angolazione
lo si guardasse, quello era un abbraccio.
Peril lo stava
abbracciando!
«Questo perché se…
se qualcuno deve uccidere te, Cowboy, io deve essere quel qualcuno.»
La voce di Illya gli attraversò la camicia, depositandosi sul torace
insieme a un tenero calore.
Sorrise. «Non ho
intenzione di farmi uccidere da nessun altro. Beh, al massimo da
Gaby, nei giorni in cui la irrito più del solito.»
Sentì le mani di
Illya aprirsi ai suoi fianchi: «Se dici a qualcuno di questa
conversazione, ti strappo lingua.»
Ed eccolo tornato il
solito russo musone che gli aveva rubato il cuore. A lui, che era un
ladro ancor prima che un uomo e aveva passato la vita a conquistare
gli altri, senza mai esser conquistato.
Gli accarezzò i
capelli con una lentezza calcolata, assaporando ogni istante in cui
le dita erano libere di passare tra le ciocche bionde.
«Tranquillo, Peril,
quello che accade nei bagni angusti di Volgograd, rimane nei bagni
angusti di Volgograd [12].»
Si chinò, posandogli un bacio alla fronte.
Dovette funzionare
da codice d’accensione: Illya alzò la testa e tuffò occhi di
un azzurro scintillante in quelli di Napoleon – enormi zaffiri,
accarezzati da una luce famelica, che Solo avrebbe volentieri rubato
per sé, se non fosse stato troppo occupato a temere per la propria
vita.
Forse, questa volta,
aveva osato troppo.
Eppure non fu sicuro
di chi dei due si mosse per primo: nel tempo di un respiro, le loro
labbra si erano toccate, si erano incontrate e si erano incastrate.
Su una cosa doveva
dare ragione a Peril: il suo bacio e The kiss non potevano
essere più diversi.
Napoleon aveva
battuto i denti con i suoi e aveva trattenuto ogni lamento e ogni
risa per timore di farlo scappare, e Illya premeva semplicemente le
labbra contro le sue, la bocca immobile, il volto rigido, il respiro
trattenuto e gli occhi chiusi. Non era chiaro se aspettasse un
permesso, o che qualcuno gli dicesse cosa fare.
Passò un’intera
eternità, finché Illya non sfiatò direttamente nella bocca di
Napoleon e quell’incontro di labbra si trasformò in un bacio vero,
profondo, ustionante, che bruciò come la capocchia infiammata di un
fiammifero e si consumò altrettanto in fretta.
Proteso in avanti,
Napoleon aveva appena fatto scorrere le dita dietro la nuca di
Illya, gemendo nella sua bocca, così disperatamente bisognoso
di quella vicinanza, della sua lingua che succhiava tra le labbra,
del suo sapore, del suo respiro mozzato. Aveva appena iniziato a
scoprire tutto un nuovo lato di Peril, fatto di gusto e tatto, di
saliva e morsi, di passione e delicatezza, che il russo lo scostò
bruscamente da sé.
Si guardarono in
silenzio, lo stesso lucore negli occhi e la stessa voglia
inconfessata.
Napoleon era pronto
a riprendere esattamente da dove aveva lasciato; ma Illya si alzò
dal gabinetto, lo costrinse a scansarsi, afferrò i resti del suo
dolcevita e uscì dal bagno.
«Pe-Peril?»
Che diavolo era
successo?
Il russo non si
voltò nemmeno quando parlò: «Quello che accade in bagno di
Volgograd, cowboy.»
Eppure Napoleon non
avrebbe saputo spiegarsi cosa di preciso fosse accaduto.
Illya scostò con una mano le tende ingrigite dell’unica finestrella
presente nell’appartamento di Angelìka. Aveva ricominciato a
nevicare e la neve aveva ricoperto le loro impronte, stendendo sulla
strada un nuovo candido manto.
La casa era
minuscola, il bagno era l’unica stanza appartata, mentre tutto il
resto si accalcava in pochi metri quadrati di spazio: nella zona
cucina c’era un singolo fornelletto, un lavandino e un frigorifero
arrugginito dal motore assordante; in un angolo era stato sistemato
un tavolino quadrato con due seggiole soltanto, una delle quali
occupata dalla padrona di casa; alla parte opposta vi era un
divanetto che a malapena avrebbe potuto ospitare due persone e
accanto c’era una brandina, l’unico letto disponibile di tutta la
casa.
Attaccato a una
presa, vi era un radiatore elettrico – quando Illya si era guardato
intorno, non aveva trovato nessun altra fonte di riscaldamento se
non quella. Ora che quel buco era riempito da quattro persone,
poteva sembrare sufficienti, ma le pareti della casa erano sottili,
ammuffite, rosicchiate dai topi e dalla finestra chiusa il freddo
sibilava insinuandosi tra le fessure.
Non doveva essere
stato facile per Angelìka vivere in quelle condizioni.
Sentì la ferocia
delle sue occhiate che, da quando era uscito dal bagno precedendo il
cowboy, non lo avevano abbandonato un secondo. Illya aveva scorto
occhi arrossati, lucidi di pianto, ma quando aveva tentato di
parlarle, aveva visto l’odio tornare vivo a lacerarle un volto pelle
e ossa, che non avrebbe dovuto avere più di trent’anni e che invece
ne dimostrava cinquanta. Il fascino militare di Dmitriy, in lei, era
quasi una presa in giro: una parodia dell’agente che era stato e che
penzolava come un impiccato tra i tratti troppo spigolosi del volto
scavato di Angelìka.
«Anche se Ivanov ha
tradito sia noi che il KGB, chiedere aiuto a quelli è fuori
discussione, vero?» Gaby calcò con rabbia sul nome del servizio
segreto russo, mostrando lo stesso disgusto che era stato della
Kiselyov quando aveva affrontato Illya. Condivideva con Napoleon lo
stesso divanetto scassato, anche se il cowboy sedeva su uno dei
braccioli e, curvo su Gaby, si reggeva con una mano allo schienale.
«Già. Inoltre non
sappiamo quanti altri sono coinvolti nel tradimento dell’Agente
Yevnukh [13].»
Nonostante stesse dando le spalle alla finestra e a Illya, il russo
riuscì a notare il suo ghigno soddisfatto per il nuovo soprannome di
Ivanov.
Non riuscì a fare a
meno di trovarlo divertente a sua volta, anche se nel momento in cui
sentì il sorriso increspargli le labbra, si sforzò di rimandarlo
indietro.
«Rinforzi di
Direttore Waverly arriveranno in dieci ore. Finché rimaniamo qui,
saremo a sicuro.» si intromise.
Sentì Angelìka
agitarsi nervosamente sulla seggiola, mentre gli altri due si
voltarono a guardarlo. Non appena incrociò lo sguardo di Solo, Illya
tornò a guardare la finestra, osservando i fiocchi di neve e
pregando perché raffreddassero il calore che gli stava cuocendo il
ventre da quando aveva baciato il cowboy.
Era stato debole.
Era stato stupido.
Era stato un errore.
Un’imperdonabile,
stupido, soffice, errore.
Gaby allungò un
braccio oltre il fianco di Solo, per pungolare quello di Illya. Le
sue dita si appesero a uno dei passanti dei calzoni, pizzicandoli
prima e tirandoli poi, in una pretesa d’attenzione che il russo non
era sicuro di volerle dare: «Si può sapere cos’è successo tra voi
due?»
«Niente» rispose
tagliente, più di quanto avrebbe voluto.
«A-ah. Solo, hai
qualcosa da aggiungere?» Gaby cambiò bersaglio.
Ma nemmeno il cowboy
aveva intenzione di sbottonarsi e la sua risposta giunse con una
scrollata di spalle e un’occhiata di sbieco che Illya scansò come le
precedenti: «Nulla di diverso dal solito: è soltanto Peril che ama
farsi desiderare.»
Illya si aggrappò
alla tenda, la strinse così forte che sentì uno degli anelli a cui
era appesa cedere e venir giù, penzolando contro il vetro della
finestra. Si impose di non voltarsi e non ribattere, anche se aveva
percepito benissimo il tono offeso nelle parole dell’americano –
lui, che era un ricettacolo di peccati e perversioni e che con
il suo fare lo aveva infettato!
Si era lasciato
vincere in quel bagno. Il suo corpo si era mosso da solo e quando
aveva baciato il cowboy, i confini di quella stanzetta troppo
piccola che sembrava poterlo schiacciare da un momento all’altro si
erano dissolti, colati via insieme all’intero monolocale,
all’edificio, alle strade, a Volgograd tutta. Aveva sentito la
carezza della lingua di Solo leccargli le labbra, spennellarle di
saliva e i suoi denti morderlo giocosi, aveva sentito il respiro
accelerato confondersi con il suo, l’ossigeno farsi irrespirabile e
riempirsi di ansimi, e contro di sé aveva sentito le minuscole
pieghe delle labbra soffici di Solo, che avrebbe potuto contare una
ad una.
L’aveva baciato
perché l’aveva voluto. L’aveva voluto e si era teso per prenderlo. E
ora che aveva scoperto quanto gli fosse piaciuto, non sapeva più
come smettere di volerlo.
Un altro anello si
staccò dalla finestra.
Chto sluchilos' v
volgogradskom sanuzle ostat'sya tam! Si ripeté.
Baci. Peccato.
Vergogna.
Tutto!
Chto sluchilos' v
volgogradskom sanuzle ostat'sya tam.
Quello che accade
nei bagni di Volgograd, lì rimane.
Un
tempo – tre ore e venticinque minuti prima – quella che Napoleon
indossava era una giacca elegante tagliata su misura per lui,
acquistata nella sua bottega di fiducia di New York, nello stesso
quartiere in cui suo padre si era trasferito quando era
immigrato in America. Ora valeva quanto uno straccio e se la stava
ancora indossando era solo perché non voleva morire assiderato.
Eppure sulle spalle continuava a raccogliersi neve e astio – davvero
troppo per una notte soltanto.
Bussò alla porta
della finta izba e sollevò una ventiquattrore oltre la testa,
sorridendo all’occhio della telecamera che lo stava inquadrando.
Se quel posto era
uguale alla safe house che Ivanov aveva preparato per loro,
era inutile cercare di fare irruzione con la forza. Non sapevano
quanti uomini aveva a disposizione quell’agente castrato e nei
minuti che sarebbe servito a Napoleon per scassinare l’ingresso,
quelli avrebbero fatto in tempo a ucciderlo.
Sospirò.
Partivano in
svantaggio e dovevano giocare d’astuzia, considerato che quella
notte, per un motivo o per l’altro, tutti avevano perso la testa,
compresa la nuova best friend russa di Peril.
«Angelìka è
scappata!»
«Grandioso. Se
qualcos’altro va storto, vi prego sparatem—»
«Illya, metti via
la pistola, Solo stava facendo l’idiota.»
«Volevo soltanto
mettere fine a sua miseria.»
Napoleon bussò più
forte alla porta rinforzata, le nocche arrossate dal freddo e i
capelli ricoperti di brina.
«Non farmi attendere
troppo Igor, lo sappiamo entrambi che non vedi l’ora di
mettermi le mani addosso. E anche se non è il tuo compleanno, ti ho
portato un regalo.» cantilenò, agitando la valigetta.
«Qualcuno ha
specificato alla bestie di Peril che i buoni siamo noi?»
«Non puoi
biasimarla. È passata dall’essere ricercata dagli agenti segreti
russi a ritrovarsi in casa altrettanti agenti segreti che vogliono
esattamente ciò che voleva il KGB. Non può fidarsi di nessuno.»
«Ma così Ivanov
avrà catturata.»
«Perché trovano
sempre tutti il modo di complicare le cose?»
«…perché guardi
me, Cowboy?»
«Nessun motivo in
particolare.»
«Se avete finito
di tirarvi le trecce l’un l’altro come due bambini alla loro prima
cotta, possiamo pensare a come salvare Angelìka.»
Riabbassò la
valigetta, chinò il capo e notò schizzi di sangue sull’orlo dei
calzoni – perché non era sufficiente lo strappo all’altezza della
coscia, da cui facevano capolino le bende bianche della fasciatura.
Accanto ai suoi
piedi, riversi in terra contro la parete di legno, due uomini
fissavano il vuoto – le iridi lattescenti quanto la pupilla si
confondevano con il bianco del bulbo e la bocca era rimasta aperta
in un’ultima smorfia di dolore. C’era stato il singhiozzo di due
proiettili, l’unico suono che Napoleon era riuscito a distinguere, e
gli uomini erano caduti, con il cranio trafitto; Illya non aveva
permesso loro nemmeno di sfiorare la pistola, colpiti nel momento
stesso in cui avevano avvistato la lenta avanzata dell’americano.
Non ci sarebbe
voluto molto perché anche il resto degli scagnozzi rimasti
all’interno del bunker si facessero avanti, reclamando il loro
sangue, forti del vantaggio di avere Angelìka come ostaggio.
«Come fai a
sapere che ci cascheranno e crederanno che la valigetta con i
progetti sia in mano nostra?»
«Non lo faranno,
ma hanno già mandato a monte l’occasione giusta e con il KGB alle
calcagna e altri agenti dell’U.N.C.L.E. in dirittura d’arrivo,
vorranno giocare sul sicuro.»
«Cowboy ha
ragione: prenderanno valigetta e uccideranno noi.»
Napoleon schiacciò
la schiena contro la parete, reclinando il collo in avanti per
riuscire ad inquadrare la porta.
«Mi sto
spazientendo, Iachin. Ho quasi l’impressione che tu non li
voglia questi progetti!» esclamò.
La porta si spalancò
con un cigolio sinistro, familiare, e sulla soglia comparve Angelìka
– il volto pesto, le labbra spaccate e le ossa tremanti sotto quella
poca pelle che ancora le restava addosso. Dietro di lei, a usarla
come scudo umano, Ivanov si assicurò di rimanere in un punto cieco
al mirino dei cecchini e guardò il profilo sorridente di Napoleon
con odio.
«Il mio nome è
Ivanov, porco americano, e tu non sei nella posizione di
contrattare!»
Napoleon rimpianse
la sua parlata russa; il suo americano era così corretto da essere
fastidioso, non era così che un russo avrebbe dovuto parlare la sua
lingua – mancavano gli errori basilari e la forma semplice e
scolastica usata da Illya.
Guardò davanti a sé.
Di fronte all’edificio si estendevano ettari di bosco, mentre sul
lato destro si apriva la strada: una striscia di terra battuta su
cui nessuno si era mai preoccupato di stendere una pavimentazione
decente.
Loro ci erano
arrivati con una Berlina rubata, ma il percorso era più adatto ai
fuoristrada e due di essi, pesanti e dalle ruote imponenti, erano
parcheggiati lì vicino.
Sorrise.
Il celodurismo
russo, per una volta, tornava utile.
«Suvvia Ivan,
credevo fossimo amici. No?» lo canzonò.
«Lo diventeremo
quando ti avrò ucciso e avrò pisciato sul tuo cadavere.»
«Vedi, ecco perché
vi piace tradirvi l’un l’altro, la vostra amicizia è penosa.»
«Pensa ai tuoi di
amici, Solo. Lo so che sono qui da qualche parte! Quella piccola
puttana e quel verme di Kuryakin. Dì loro di uscire!»
«Ora che mi ci fai
pensare, come stanno le tue parti basse? Non sarai ancora arrabbiato
per quel calcio, guarda che Gaby non ti ha privato di nulla, la
virilità già ti mancava.» ridacchiò.
«Falli uscire, ora!»
«Io ti faccio vedere
i miei, se tu mi fai vedere i tuoi?» Innervosire l’ex agente era la
parte migliore del piano e avrebbe potuto andare avanti per ore. Ma
il divertimento finì quando sentì il rumore del cane della pistola
che veniva caricato e Angelìka sussultare a labbra chiuse: Ivanov le
aveva premuto la canna gelida alla tempia.
Appoggiò la
ventiquattrore a terra e ne approfittò per chinarsi a prendere una
pistola da uno dei cadaveri, infilandola nella cintola, coperta
dalla giacca. A loro non sarebbe dispiaciuto e, dopo l’esplosione
dello Tsaritsynskaya, dopo aver dovuto abbandonare valigia e vestiti
in una safe house non più così safe, quello era il
minimo che gli spettasse.
«Non vuoi dirmi
nemmeno in quanti siete? Peril sostiene che non possiate essere più
di quattro, io invece credo che tu sia solo un povero fallito che
non piace a nessuno e ho scommesso che foste soltanto in tre. E
visto che due sono già passati a miglior vita, immagino il gran
party che starete facendo lì dentro.»
Ivanov non apprezzò
l’umorismo. «Se non li fai uscire, giuro che ammazzo Angelìka e poi
ammazzo te!»
Napoleon schiuse le
labbra, guardando il fiato trasformarsi in vapore bianco e perdersi
nel buio. «Se proprio insisti.»
Fece un cenno con la
mano libera e si scansò dalla parete, fronteggiando la porta.
Tra gli alberi si
fece avanti la sagoma scura di Illya che, sotto al pallore lunare,
riconquistò il candore della pelle e dei capelli biondi. Poggiò a
terra il fucile di precisione e avanzò con le mani in alto.
«Dov’è la puttana?»
sibilò Ivanov, assaporando il momento in cui avrebbe fatto pagare
alla donna ogni affronto.
Illya storse il
naso. «Rimasta a sicuro. Certe missioni non adatte a donna.»
Ivanov sembrò
accontentarsi della spiegazione e spostò la canna della pistola
dalla tempia di Angelìka a Napoleon. «Spingi la valigetta verso di
me con il piede.»
Solo obbedì: con la
punta delle eleganti Oxford – ormai infangate, graffiate e ricoperte
di cenere e calcestruzzo, cosa che aveva strappato un sospiro
affranto all’americano – spinse la base della valigetta in avanti.
«Lentamente.» Ivanov
godeva della posizione di potere che aveva conquistato, mentre li
teneva sotto tiro entrambi. Spintonò Angelìka in avanti e le face
segno di prendere la valigetta.
La donna tremò e
guardò Napoleon con sguardo tradito – nel suo silenzio l’accusa
scoppiava con la forza di una bomba, la stessa che aveva piazzato
lei all’ingresso del teatro quando aveva scoperto la trappola del
KGB.
Controvoglia afferrò
il manico della valigetta.
Ivanov le stritolò
il braccio, e con uno strattone prepotente, la tirò di nuovo a sé.
«Sei un idiota americano. Ora che ho i progetti, posso uccidervi
tutti quanti, andrò perfino a cercare quella cagna tedesca e le
porterò i vostri saluti. E se anche non fossero quelli originali, mi
basterà tenere in vita Angelìka.»
Napoleon fu più
irritato che dispiaciuto, non aveva gradito il modo in cui l’altro
aveva appellato Gaby. Abbassò le braccia, ignorano la minaccia della
pistola, e si voltò verso Illya: «Non ti dispiace, vero?»
Illya scrollò le
spalle. «No, ha offeso più te e Gaby che me, posso lasciare a voi
piacere.»
Lo ringraziò con un
cenno del capo, inarcò un sopracciglio e, con l’aria sorniona di una
volpe giunta innanzi al recinto delle galline, studiò il volto
confuso di Ivanov: «Per pura curiosità, Ignac, era tuo il
fuoristrada parcheggiato qui fuori?»
«Quindi come gli
impediamo di ucciderci tutti? Non so voi, ma io ho altri programmi
dopo la missione che non venir seppellita in un cimitero russo.»
«Cos—»
«Hun, mia cara, è
qui che entri in scena tu.»
Una coppia di fari
abbagliò la notte e illuminò le spalle di Illya e Napoleon.
Il motore di un’auto
rombò con prepotenza e un fuoristrada si precipitò in corsa, dritto
dritto, contro l’izba, contro l’ingresso, contro Ivanov e Angelìka.
L’ex Agente
sussultò, confuso, e anche se durò un solo attimo, fu più che
sufficiente a dare il tempo a Napoleon di afferrare la mano di
Angelìka e tirarla a sé, mentre Illya li cingeva entrambi tra le
braccia, gettandosi con loro di lato, lontano dalla traiettoria del
veicolo.
L’impatto fu duro.
Un buco grande quanto il muso ammaccato del fuoristrada allargò
l’ingresso, cadaveri di tronchi tranciati penzolavano dall’alto e la
porta sradicata era piombata sul cofano.
Al sicuro, nel punto
in cui l’auto era partita, Gaby agitava la mano lasciando cadere in
terra il resto dei sassi che non le erano serviti per bloccare il
pedale dell’acceleratore.
«Grazie per aver
scelto di lavorare con la U.N.C.L.E., Agente Ivanov. Ora brucia pure
all’inferno~» chiocciò soddisfatta.
Sotto il peso di
Illya e di Angelìka, Napoleon ridacchiò dolorante, ma soddisfatto.
«Ok, Peril, ora puoi—»
«Levati.» il
sibilo russo di Angelìka arrivò prima.
Illya si alzò.
«Questo non
cambia niente. Sei e sarai per sempre nulla più che un assassino!»
«Lo so.»
C’era poco ormai che potesse dire, che Illya già non sapeva.
«Non ti perdonerò
mai per quello che hai fatto!»
«Lo so.»
«Non…»
Napoleon si chiese
se fosse il caso di intervenire, ma Gaby le raccolse una mano e
Angelìka tacque di colpo, come se quel contatto umano le avesse
ricordato che esisteva altro al di fuori dell’odio per Kuryakin. Non
disse più nulla, si fece da parte insieme alla tedesca, che rifilò
uno sguardo d’intesa ai due partner e poi si assicurò che le
condizioni di Angelìka non fossero gravi.
«Spero che Gaby si
assicuri non abbia nulla di affilato addosso, non vorrei finisse
come l’ultima volta.» commentò Napoleon.
Ancora seduto tra la
neve, si ritrovò la mano di Illya tesa davanti a sé, in un invito ad
afferrarla.
Rimase a fissarla,
dubbioso, come se accettandola ci fosse il rischio di rimanere
fulminato.
Con tutto quello che
era accaduto, non avevano avuto il tempo di chiarirsi. No, Napoleon
non voleva chiarezza, voleva delle scuse messe per iscritto in cui
Peril ammetteva di averlo sedotto e abbandonato, perché era questo
ciò che era successo in quel bagno e nessuno, nessuno può
sedurre e abbandonare Napoleon Solo! Quello era compito suo!
«Cowboy?»
«Seah, seah, ci
sono.» Riluttante gli strinse la mano.
Ci volle uno
strattone e mezzo secondo: Illya lo trascinò in piedi con una
facilità imbarazzante. Va bene che era un supersoldato che fermava
le macchine a mani nude, ma avrebbe potuto avere la decenza di
fingere un minimo di sforzo nel sollevare con un braccio solo un
uomo di novanta chili!
Napoleon si coprì il
volto con una mano. Se questo era un modo tutto russo di
eccitarlo… stava funzionando!
Dando le spalle
all’ingresso distrutto dell’izba, si sistemò il colletto di una
camicia che ne aveva viste troppe perché un viaggio in tintoria
potesse rimetterla a nuovo. Praticamente tutto quello che indossava,
sarebbe finito nell’inceneritore una volta tornati alla base –
che spreco.
Non si accorse
dell’ombra scura che gocciolò sangue e si erse dalle macerie
dell’izba, né del pugnale sollevato contro di lui: Ivanov gridò, un
verso incomprensibile, un insulto in russo e gli diede addosso.
Napoleon fu troppo
lento a voltarsi, sentì soltanto un peso al proprio fianco, qualcosa
che gli veniva strappato via e qualcuno che lo spintonava con
violenza di lato. Perse l’equilibrio e in quel momento inquadrò
Illya, parato davanti a lui e la lama del pugnale che trovava il suo
corpo invece di quello di Napoleon.
Un colpo di pistola
risuonò nell’aria gelida di Volgograd.
Ivanov fu il primo a
cadere, un peso morto che crollava all’indietro e tornava tra le
macerie in un tonfo sordo.
Illya lo seguì poco
dopo; fece cadere in terra la pistola che aveva strappato dalla
cintura di Napoleon, oscillò lentamente verso sinistra, un ginocchio
cedette facendolo piombare a terra, seguito dal secondo.
Con occhi sbarrati,
Napoleon guardò il sangue imbrattargli gli abiti. Proprio come
quando lo aveva trovato nel vicolo, pugnalato da Angelìka, si sentì
sommerso da un’onda di impotenza e terrore.
«Peril!»
Illya ingoiò un gemito di dolore.
Due pugnalate in una
stessa serata doveva essere un record perfino per lui.
Rabbrividì – perfino
il sangue colava ghiacciato lungo i suoi abiti.
«Peril, parlami.»
Napoleon scattò accanto a lui, le mani occupate a spogliarlo della
giacca con una frenesia sgraziata che non gli riconobbe.
Avrebbe voluto
dirgli che ci voleva ben altro per ucciderlo, ma sentì il respiro
risalire la gola e trasformarsi in un gorgoglio stanco. A pensarci
bene, aveva perso troppo sangue – forse dopotutto non era poi così
difficile ucciderlo, se ad aiutare c’erano di mezzo scelte poco
intelligenti sul lasciarsi pugnalare.
Afferrò una mano del
cowboy, premendosela al petto, lì dove i punti con cui l’aveva
ricucito con tanta pazienza erano saltati, tagliati dalla lama di un
pugnale. «Dovrai ricucirmi… cowboy…»
Napoleon lo fissò in
silenzio, premette più forte la mano alla ferita. «Mi fai sempre
faticare.»
Illya decise che
quella non era fatica – era preoccupazione. E paura. La stessa paura
che aveva provato lui quando aveva visto Ivanov mirare al cowboy e
il proprio corpo si era mosso da solo per difenderlo.
Lo guardò chinare il
capo e poggiare la fronte sulla sua spalla.
Da quella posizione
poteva inquadrarne soltanto il capo, ma trovò confortante sentire il
peso della sua testa su di sé e i suoi capelli che gli solleticavano
il mento e la mascella. Provò la stessa sensazione di benessere di
quando Gaby gli stringeva una mano o si sedeva accanto a lui, la
stessa voglia di abbandonarsi a quel contatto, se non addirittura,
osare chiederne di più.
Anche se non era
Gaby e lui, come aveva detto Ivanov, non era che un depravato che
preferiva gli uomini, per di più americani.
Ed era stanco.
Stanco fisicamente, ma stanco anche di combattere il battito
accelerato del proprio cuore.
«Forse… volevo solo
altra scusa per tornare in stupido bagnetto angusto con te.»
mormorò, tra le ciocche castane – e quasi perfettamente acconciate –
di Napoleon.
Non ne fu sicuro, la
vista iniziava a farsi appannata, ma gli sembrò che le spalle del
cowboy si distendessero e quando Napoleon sollevò lo sguardo, negli
occhi era sbocciata una dolcezza tutta nuova, che non gli aveva mai
visto in faccia prima d’ora.
«Oh, Illyusha.»
Congelò.
E la dolcezza del
momento si spezzò all’istante.
Gli occhi sbarrati
di Illya – mare e ghiaccio cristallizzato intorno alla pupilla –
fissarono Solo come se avesse appena bestemmiato in chiesa; la linea
delle labbra si era spezzata, piegandosi in un’espressione nauseata.
C’erano decine di
ragioni per cui quel nome, tra le labbra del cowboy, era la cosa più
sbagliata che avesse mai sentito – sbagliata, stupida, infantile,
perculatoria, e nondimeno con una pronuncia che aveva lasciato le
sue orecchie sanguinanti.
«Niet [14].»
sibilò inorridito.
L’ “uh” a
mezza bocca di Napoleon, servì almeno a confermare la buona fede
dell’americano. «Non era esattamente la reazione che mi aspettavo.
Credevo fosse un modo carino di chiamarti, un vezzeggiativo tenero.
Non era il nome che usava tua madre?»
«Quando avevo otto
anni. Poi compiuti nove.»
Napoleon lo fissò
accigliato, in attesa.
Illya si chiese cosa
non fosse chiaro, per lui era un concetto elementare da capire.
«Affascinante.»
riprese il cowboy «E dovrebbe suggerirmi, cosa? Che compiuti i nove
anni, in Russia, è fatto divieto di usare vezzeggiativi, pena la
morte per occhiatacce?»
«No, sto dicendo che
a nove anni anche tu non vorresti più che tua madre chiami te “Napoleonino”.»
«Eww, Dio me ne
scampi.»
Lo guardò reprimere
una smorfia che conteneva disgusto e riso insieme, in un connubio
stravagante che sul volto di Solo riusciva comunque ad esaltarne la
bellezza sfacciata. Non gli promise di non chiamarlo più a quel
modo, ma a Illya andava bene anche così.
Socchiuse gli occhi.
Non gli dispiaceva
nemmeno sentire il braccio libero dell’uomo salire alle sue spalle e
cingerle, stringendosi a lui, mentre Gaby una volta assicurato ad
Angelìka che nessuno le avrebbe più fatto del male, si univa a loro,
inginocchiandosi sul lato opposto di Napoleon e incrociando
delicatamente le dita che premevano al petto di Illya.
«Sto bene» ripeté
loro.
Gaby gli baciò una
tempia e propose: «Se nessuno ha niente in contrario, questo
potrebbe essere un buon momento per raggiungere Waverly.»
«Ci sto. E una volta
tornati in patria, non sarebbe male se ci fosse ad attenderci un
bagno caldo, magari profumato di petali di rose, e una bottiglia di
Dom Perignon.» Il cowboy aveva iniziato a fantasticare ad occhi
aperti.
Illya lo guardò di
scorcio e quello ghignò. «Il plurale era solo per rendervi partecipi
delle mie intenzioni. Ma se ci tieni, possiamo trovare una vasca
abbastanza grande per ospitare tutti e due»
Nonostante il
pallore del volto e il torpore che aveva interessato tutti i
muscoli, riuscì a sentire quel poco sangue che ancora gli scorreva
nelle vene iniziare a dirigersi al volto, colorando le guance e le
punte delle orecchie di un imbarazzante rosa intenso.
Sperare che Napoleon
non se ne accorgesse fu pura utopia, quel demonio lussurioso gli
morse la carne morbida del lobo e lasciò scivolare un sussurro roco
e irriverente al suo orecchio: «Illyusha~» [15]
Il pugno di Illya,
troppo debole e senza convinzione, non lo sfiorò nemmeno. Non che ce
ne fosse bisogno, Gaby intercedette per lui: Gaby e una tirata
d’orecchi al cowboy, che lo trascinò di nuovo vicino a loro, in una
sequela di lamentosi “ahiahiahi”. «Illya, smettila di agitarti e
conserva le forze. Solo, smettila di infastidire Illya e comportarti
come un cretino, ti ricordo che anche tu sei ferito; e se finite per
svenire e vi illudete che io non vi abbandoni qui alla mercé del
freddo e di Baba Yaga, vi sbagliate di grosso!»
«…ha cominciato
cowboy…»
«…lo dicevo io che
questi posti sono infestati dalle streghe…»
I borbottii mesti
dei due uomini si accavallarono e le loro sfiatate leggere si
unirono.
Gaby scosse il capo,
ma tornò ad abbracciarli.
Illya sentì le
labbra incresparsi e il sorriso affacciarsi tra gli angoli della
bocca. Era ferito, sfinito, tradito dalla sua stessa gente, che lo
avevano costretto a uccidere il suo eroe e seppellire il suo
fantasma; eppure, davanti a un’izba distrutta, tra la neve gelida di
Volgograd e tra le braccia di una meccanica manesca e un casanova
incallito, aveva trovato la sua pace.
[ 8.179w ] |
[1] Il Palazzo della Lubjanka, a
Mosca, è conosciuto per essere la sede del KGB (fino al ’91 e dell’FSB, i
Servizi federali per la sicurezza della Federazione russa, poi)
[2] In un’altra mia fic, avevo
scritto che la pistola di Illya nel film si basa sulla Walther GSP e questo
rimane invariato. La Pistolet Makarova era la pistola di polizia e
militari russi dal ’51 fino al 91; ma è venne sviluppata una sua versione
speciale apposta per il KGB: la PB 6P9, dotata di default di un
silenziatore.
[3]
Uno
[4]
Due
[5]
Tre
[6]
Nickovitch
è il patronimico del personaggio di Illya nella serie televisiva. Nel film
sono quasi sicura non venga mai pronunciato, ma essendo russo è quasi
scontato che lo abbia e quindi tanto vale considerarlo canon everywhere – e
sì, ho pensato che Angelìka, dopo tutti questi anni, non potesse non
conoscere nome, cognome e patronomico dell’uomo che le ha ucciso il
fratello.
[7] Comunista. Di solito usato in
maniera dispregiativa (non che per gli americani di quell’epoca esistessero
accezioni positive della parola comunista XD)
[8] Un giorno la tua storia
finirà nello stesso modo, Illya: nel sangue.
[9] Illya che soffre di
claustrofobia è un mio personale headcanon, e chi mi conosce sa che l’ho
usato in altre mie fic. Un giorno forse mi deciderò anche a spiegare da dove
nasce – per ora prendetelo come viene
[10]
Come
trasformare Il mago di Oz in un porno by Napoleon Solo. Lo so che
dovrei essere migliore di così (should I, though?) ma non ho
proprio resistito.
[11] Nel film si sa soltanto
che la decisione di bruciare il film è stata presa di comune accordo tra
Illya e Napoleon; ma c’mon, se c’è da decidere da chi è nata l’idea,
possiamo puntare tutto su Napoleon, vero? Ecco.
[12] La frase “Quello che
succede a Las Vegas, resta a Las Vegas” (a cui ovviamente si ispira quella
di Napoleon, duh) diventa lo slogan di Las Vegas nei primi anni 2000… ma al
solito, mi sono presa una licenza poetica e faccio quel che voglio.
[13] Eunuco.
[14] No
[15] Illyusha~. Anche
questo nomignolo viene usato in una puntata della serie televisiva, Illya
viene chiamato così da una signora anziana che lo usa con una nota
“materna”. Questo perché Illyusha è un diminutivo che si usa per i bambini –
da qui il paragone a Napoleonino… che è orribile, ma non sapevo come poterlo
tradurre in italiano e almeno così si capisce il cringe di Illya XD In ogni
caso, mi piace troppo per rinunciarci e nel mio cuore è diventato un altro
modo che Napoleon usa per dargli fastidio – e, in fondo, anche perché gli fa
tenerezza
|
『 |
Io boh, più cercavo di
accorciare e limare questo capitolo, più si è allungato in modo
spropositato. Ho perfino dovuto tagliare l'epilogo e rimandarlo al
capitolo seguente, per non sovraccaricare ulteriormente questo... e
quel che mi fa ridere è che, in realtà, ci sono molte altre cose che
avrei voluto inserire, ma iniziava a diventare ridicola la cosa.
Quindi niente,
tecnicamente non è più l'ultimo capitolo, ma visto che in origine lo
era, possiamo dire che la maledizione dell'ultimo capitolo ha
colpito ancora!
Se il secondo capitolo mi
ha fatto dannare il POV di Illya, potete ben immaginare quanto
questo, in cui è un continuo passarsi la palla tra lui e Napoleon,
mi abbia dannata. Non è qualcosa che faccio di solito, saltellare da
un POV all'altro e non so quanto qui sia riuscita a rimanere
comunque fluida, ma era la soluzione più veloce e comoda che ho
trovato durante il BBI, quando l'ho scritto.
In realtà la fic doveva
essere molto più lunga, Angelìka avere un ruolo molto più rilevante
e più complesso e la missione doveva essere molto meno banale
di così, ma per mancanza di tempo ho tagliato un sacco di parti e
l'ho dovuta riadattare in quella che è stata la prima stesura. Ma
alla fine va bene così, anche solo perché - con il prossimo capitolo
- è un prodotto finito e di questo sarò per sempre grata al BBI,
perché sono la peggio procrastinatrice e autosabotatrice del creato,
che trova miliardi di scuse per non concludere mai le sue long (o
minilong).
Nonostante le mille
revisioni (non dirò quante ne ho fatte per questo stupido capitolo,
anche ora che lo sto pubblicando ho trovato il modo di risistemare
coseh, perché non mi piacevano XD), è una storia piena di difetti e
me ne rendo conto, però è la mia prima long dedicata a questi tre e
alla Napollya e le voglio bene anche così.
Per concludere, il
prossimo capitolo sarà l'epilogo, ho intenzione di aggiungere un
altro pezzo oltre a quello che già avevo scritto, ma nulla di
trascendentale e punto a mantenerlo corto e piccolino ❤
Credevate non lo avrei
ripetuto anche in questo capitolo? Certo che no! Perché la bellissima fanart di
Miryel
va lodata fino alla morte e, per chi è interessato, può kudarla
qui
♥
Scritta per
il BBI10 @LandediFandom |
』 |
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Epilogue ***
warning: post-movie; slash;
internalized homophobia; h/c;
I
personaggi appartengono agli aventi diritto
Prizrak Volgograda
———————— Epilogue
————————
Un
cenno elegante del capo e un sorriso educato, che chiudeva a doppia
mandata ogni pensiero dietro a una poker face illeggibile.
«Signori, Signore,
mi hanno riferito che la missione ha avuto interessanti risvolti.»
Waverly, che
simpatica canaglia.
Era passata meno di
un’ora dall’atterraggio dell’aereo privato della U.N.C.L.E. sulle
piste dell’Aeroporto di Volgograd.
Napoleon aveva visto
il direttore consegnare buste gonfie tra le mani delle guardie
aeroportuali e nessuno aveva posto domande, nemmeno quando un
americano coperto di fango e neve si era presentato insieme a un
russo malmesso, una ex ricercata del KGB e una tedesca che guidava
come una forsennata, manco arrivare prima alla méta avesse fatto la
differenza per qualcuno.
Avevano prestato i
primi soccorsi a Peril, ignorando borbottii e rassicurazioni sul
fatto di stare benissimo – poco importava che a ogni passo il suo
corpo pendeva sempre un po’ più pericolosamente verso il basso.
C’era voluto l’intervento di Gaby a convincerlo.
Una volta cambiati e
ripuliti alla bene meglio, avevano tutti preso posto sui sedili di
lusso dell’aereo. Napoleon e Illya erano seduti di fronte al
Direttor e a Gaby, con un tavolino a separarli che ospitava
bicchieri di whiskey, vodka e una tazza di tea verde. Dall’altro
lato del corridoio, Angelìka sedeva da sola, rigirandosi tra le dita
un passaporto americano e la promessa di una nuova vita.
Napoleon incrociò lo
sguardo del direttore. «Se i “risvolti” a cui si riferisce sono il
paio di agenti segreti doppiogiochisti che fanno da tappeto a una
safe house del KGB, non li definirei interessanti. Ma non voglio
essere volgare davanti alle signore.»
Gaby non apprezzò la
premura. «Se non vuoi dirlo tu, lo farò io: quell’Ivanov era un
cretino menomato e ha fatto la fine che meritava.»
«Non avrei saputo
esprimermi meglio, hun. Comunque, se posso suggerire, la
prossima volta accontentiamoci del russo che abbiamo già a
disposizione.»
«Cercheremo di
accontentarla, mister Solo.»
Illya si grattò la
spalla destra, infastidito dalle bende che la fasciavano stretta.
«Progetti?» domandò
laconico. Aveva uno sguardo assonnato, gli antidolorifici con cui
l’avevano imbottito iniziavano a fare effetto, ma Napoleon gli
leggeva addosso l’ostinazione con cui cercava di contrastarli,
costringendosi a rimanere sveglio.
«La squadra che ho
inviato a Mosca, nel luogo indicato dalla signorina Kiselyov, mi ha
già comunicato di averli trovati e distrutti.» rispose Waverly.
Ci fu un sospiro di
sollievo generale.
Angelìka li guardò
confusa.
«Zakonchilos'.»
le tradusse Illya.
È finita.
Lo sguardo della
donna si velò di lacrime; per la prima volta la videro piangere,
disperata e svuotata, una sopravvissuta che poteva finalmente
ricominciare da zero e avere quella vita che il fantasma di Dmitriy
le aveva impedito di ottenere.
Napoleon si chiese
se valesse anche per Illya, ma il direttore non aveva concluso; si
levò gli occhiali da vista, li appannò con un’alitata, li pulì con
il fazzoletto che teneva piegato nel taschino e rivolse loro un
mezzo sorriso (un sorriso inglese, notò Napoleon, pacato e
misterioso, che tra le pieghe delle labbra, dove non era possibile
vedere, raccontava sempre un’altra storia). «Giunti a questo punto,
mi pare di capire che qualcuno avesse proposto una vacanza?»
«Vi avverto da
subito che in vacanza non voglio ritrovarmi a fare da balia a
nessuno.» Con il gomito al bracciolo della poltroncina, Gaby
poggiò la guancia nel palmo fulminando Solo con un’occhiata
eloquente che lo esortava a tenersi fuori dai suoi piedi, per
infilarsi invece tra le gambe di qualcun altro.
«Come madame
desidera.» Napoleon chinò il capo in segno d’assenso, il messaggio
della tedesca arrivato forte e chiaro a destinazione. «Per quello
che mi riguarda ho intenzione di sciogliermi tra le acque profumate
e i lussuriosi servizi di un centro termale di classe. E se Peril
promette di comportarsi bene, posso trovare un posticino anche per
lui nella Jacuzzi della stanza d’hotel che prenoterò.»
Napoleon aspettò un
colpo, una gomitata, un commento infastidito, ma dall’angolo
rosso non giunse che un lieve sospiro.
Si voltò e un peso
improvviso sulla sua spalla chiuse il discorso. La morfina aveva
avuto la meglio e Illya si era addormentato, col capo poggiato sulla
spalla di Napoleon, i capelli biondi a solleticargli il naso e il
respiro a frastagliare di brividi caldi il collo.
Scambiandosi uno
sguardo d’intesa, Waverly e Gaby si alzarono, lasciandoli da soli,
ma non senza le minacce del caso da parte della tedesca: «Se rovini
tutto, ti uccido.»
Napoleon non dubitò
nemmeno per un secondo che l’avrebbe fatto davvero.
Fece scivolare un
braccio intorno alle spalle ampie di Illya, invitandolo a stringersi
a lui nel sonno; strofinò appena la guancia tra i suoi capelli e
chiuse gli occhi. «Dio se mi fai faticare, Peril.»
E, per quanto non
fosse carino parlare male dei morti, era pronto a scommettere che,
un momento come quello, Dmitriy poteva solo sognarselo dal fondo
della sua bara.
Quel momento
apparteneva a Napoleon e, con esso, tutti quelli a venire.
LÄNGENFELD, AUSTRIA
Bad Längenfeld [1]
—
Centro termale—
quarantotto ore dal termine della missione
Due uomini siedono vicini in una vasca termale ricavata nella
pietra, circondati dalla neve e dalle montagne alpine.
L’acqua è bollente,
ma l’uomo più alto non sembra nemmeno percepirlo. Freddo o caldo,
per lui fa lo stesso – il colorito appena un po’ vivace del volto
non è dato dal vapore che si solleva, ma da occhi azzurri che non
smettono di fissarlo, finché l’altro uomo non prende parola.
Lo vede piegare le
labbra in una smorfia strana, passare una mano tra umidi riccioli
castani. «Qualsiasi cosa ci sia stata tra te e Dmitriy—»
«Di cosa parli?
Dmitriy aveva doppio di mia età, cosa credi ci fosse tra me e uomo
così vecchio?»
«Voi due non
eravate…?»
«No. Era come padre
per me.»
«Vuoi dirmi che ho
passato giorni a invidiare un morto e a struggermi d’amore per un
dannato soldato di ferro alto quanto l’Empire State Building e
recettivo come un sasso, per niente?»
«Io sempre detto che
tu è pessima spia.»
«Però, questo
significa…»
«Perché ti avvicini
tanto?»
«…che sono il tuo
primo uomo~»
«Q-questo cosa
ovvia! Non tutti piace fottere con qualsiasi cosa respiri.»
«Ma sentitelo il mio
scoglio russo: grande, grosso e vergine.»
«Ho avuto donne! Non
sono prete!»
L’uomo dai riccioli
castani ammicca, ma nel sorriso si condensa una dolcezza delicata
che affida alle labbra dell’uomo più alto, in un bacio a occhi
chiusi e cuore aperto.
«Prometto che sarò
gentile, Peril~»
«Prometto che ti
appenderò a muro, cowboy.»
L’aria innevata
delle Alpi austriache trascina via una risata innamorata.
«Sexy.»
—
КОНЕЦ
—
( the end )
[ 1.081w ] |
[1] Potevo evitare la specifica
e lasciare un centro termale, perché nel '63 probabilmente le vasche erano
delle tinozze di legno... e ho pure letto da qualche parte che l'acqua
veniva versata a mano, con l'uso dei secchi... ma faremo finta di niente e
lo immagineremo come un posto un po' più carino e adatto ai gusti costosi di
Napoleon. Detto questo, il Bad Längenfeld è un hotel termale nella valle
dell’Ötztal, che nel 1983 viene acquistato da alcuni imprenditori che lo
rinnovano e fanno costruire il primo centro termale, progettato nello stile
di un palazzo rinascimentale tedesco.
Nel 1976 il Bad Längenfeld smette l’attività e nel 1980 viene demolito,
nell'80 iniziano i lavori di riqualificazione delle fonti e nel 2004
viene inaugurata la nuovissima struttura termale con un hotel, che è anche
la più scenografica delle Alpi e prende il nome di Aqua Dome.
|
『 |
Sarà normale che per
postare l'epilogo di una fic già completa, mi ci è voluto più di un
anno? Visto che si parla di me, direi di sì, è tutto assolutamente
nella norma.
Torno da un lungo periodo
di assenza da EFP, che non dovrebbe stupire nessuno, se non che di
solito tra una pausa e l'altra dalla scrittura finisco per cambiare
fandom e rifugiarmi altrove. Ma TMFU è uno dei miei porti sicuri e
nonostante tutto so che ci tornerò sempre.
E niente, per essere una
minilong mi ci è voluta una vita, ma alla fine siamo arrivati alla
sua conclusione. Grazie di cuore a chi è arrivato fino a qui, a chi
si è fermato, a chi ha letto in silenzio o a chi ha lasciato un
segno del suo passaggio - sappiate che vi amo tutti e che avete reso
una fanwriter felice! ❤
Scritta per
il BBI10 @LandediFandom |
』 |
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=3955531
|