notturni

di Marti Lestrange
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. ***
Capitolo 2: *** II. ***
Capitolo 3: *** III. ***
Capitolo 4: *** IV. ***
Capitolo 5: *** V. ***
Capitolo 6: *** VI. ***
Capitolo 7: *** VII. ***
Capitolo 8: *** VIII. ***
Capitolo 9: *** IX. ***
Capitolo 10: *** X. ***
Capitolo 11: *** XI. ***
Capitolo 12: *** XII. ***



Capitolo 1
*** I. ***


Premessa: “notturni” è una raccolta (più o meno omogenea) di racconti che nasce in occasione di una drabble night organizzata da Gaia Bessie (per chi volesse partecipare, qui trovate il gruppo Facebook dedicato), ma che rimane aperta a nuove aggiunte, nuovi tasselli e nuovi stralci. T. e J. ne sono i protagonisti, ma nemmeno io che li ho scritti (che li scrivo) li conosco, non fino in fondo — so solo che rimarranno con me ancora per un po’, almeno finché non riuscirò a lasciarli andare. Il titolo è ispirato agli omonimi “Notturni” di Fryderyk Chopin, dei quali consiglio vivamente l’ascolto.
Grazie per l’attenzione. 


 


 

 

 

 

notturni.
parte prima

 

 

I.

Prompt (proposto da me): 

“Eppure resta che qualcosa è accaduto,
forse un niente
che è tutto.”
— Eugenio Montale

 

[ T. ]

 

Ti guardo andare via, mi hai voltato la schiena e ora cammini verso la macchina. Ti guardo andare via e spero che tu decida di voltarti, almeno un’ultima volta, almeno per farmi capire che no, non dimenticherai niente, che sì, ricorderai tutto. Ti guardo andare via e non so se ci rivedremo mai. Anche io ricorderò tutto, ricorderò ciò che è accaduto dietro le porte chiuse, in letti sfatti, sotto luci accecanti; ricorderò ciò che è accaduto mentre nessuno guardava, quando mi parlavi sottovoce e arricciavi il naso; ricorderò le tue mani grandi su di me, quando mi chiedevi di tenerti stretto. Eppure resta che qualcosa è accaduto, forse un niente che è tutto.

 

[114 parole]

 

 

 

 

II.

Prompt (proposto da Severa Crouch): 

“La mia testa è un sabba e tu ne sei tutte le streghe.” 
— Jean-Paul Sartre

 

[ J. ]

 

È dalla prima volta in cui ho posato gli occhi su di te che so. So l’effetto che mi fai: mi sconvolgi, mi squarci, mi annichilisci; mi finisci, il respiro mi abbandona, il cuore palpita; mi fai tremare quando mi sfiori la pelle, anche se per caso, e le mie labbra tremano mentre ti guardo parlare. Ti seguo con gli occhi, non ti abbandono mai. La mia testa è affollata di te, proprio te, piccolo demonio dal sorriso sghembo e i capelli folti, e gli occhi più neri dell’inchiostro; proprio te, ché forse hai un potere che mi annienta, mi si insinua addosso, striscia dentro le ossa e scava. 

 

[109 parole]

 

 

 

 

III.

Prompt (proposto da LadyPalma): 

il numero quattro. 

 

[ J. ]

 

Quattro volte ti ho baciato, quattro volte ho toccato le tue labbra — e quattro volte sono morto. Non è vero che si nasce una volta sola, e non è vero che si viene al mondo urlando. Io sono nato di nuovo, la volta in cui ti ho baciato — in cui tu hai risposto al bacio, forse per curiosità, forse per dispetto. E sono nato altre tre volte, tante quante le volte in cui ti ho baciato, quel giorno, seduti su quel divano troppo largo ma noi ci stavamo appiccicati — e quattro volte sono morto, prima di tornare a vivere ancora, e ancora, e ancora. Ogni volta, la vita e la morte avevano il tuo volto.

 

[118 parole]

 

 

 

 

IV.

Prompt (proposto da Milla):

“È doloroso tenere gli occhi aperti, 
ma dove andrò se li chiudi?”
— R. Klein, I diari della falena

 

[ T. ]

 

Non riesco a respirare — come sempre, quando non ci sei. Non riesco a dormire — tutti i giorni, quando ci separa un muro fatto non solo di mattoni, ma anche di pensieri, e parole mozze, e incomprensioni. Non riesco a tenere gli occhi aperti — ogni sera, quando non mi respiri accanto. Un vortice blu e spesso mi avvolge le membra e sento di scivolare via, e per quanto fortemente io cerchi di restare a galla, quella corrente mi tira a sé. Solo tra le tue braccia sento che non affonderò, solo il tuo corpo riesce ad ancorarmi al mondo, solo le tue labbra possono salvarmi da me stesso. Non lasciarmi andare. Non lasciarmi andare mai.

 

[117 parole]

 


 

Come scrivevo nella premessa, tutto questo è nato qualche sera fa, grazie alla drabble night organizzata da Gaia, che ringrazio perché mi ha fatto tornare giovane, e indietro nel tempo di quasi otto anni (sigh). Non so quando — e se — questa raccolta avrà un aggiornamento, intanto ringrazio chiunque sia arrivato sin qui senza dare forfait. 


Marti

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Capitolo 2
*** II. ***


Ri-eccomi con una nuova parte di questa raccolta e quattro nuovi racconti, nati anche questi in occasione di una seconda drabble night, sempre organizzata da Gaia Bessie sul gruppo Facebook; T. e J. sono tornati; grazie a chiunque proseguirà con la lettura.
 



 


notturni.
parte seconda

 

 

I.
Prompt (proposto da Gaia Bessie):
“E noi non ci ricorderemo della pioggia in cui piangevo.”
— G. Angi

 

[T.]

 

È pioggia o sono lacrime? Sono bagnato e i capelli mi si sono incollati alla fronte — è pioggia. Sono bagnato e le tue dita mi si sono aggrappate alle guance — sono lacrime. È sempre stato così, tra noi: litighiamo, tu mi guardi e io grido; tu stai zitto, io fuggo; mi vieni a cercare, io piango. Poi mi asciughi le lacrime con i polpastrelli, freddi, me le levi via, e sfiori la mia fronte con la tua. Quando le mie labbra, calde, cercano le tue, allora so che per oggi starò bene. Staremo bene. 

 

[94 parole]

 

 

 

 

II.
Prompt (proposto da Lisbeth Salander):
“Fra le muraglia di cemento e gesso, sei una specie di fiore.”
— D. Buzzati

 

[J.]

 

La città è dura, ti graffia dentro, e lo smog ti mangia il cuore. I grattacieli sfiorano il cielo grigio, sempre grigio, e il cemento puzza di umanità e ferro. Il fiume scorre placido e, tra le sue acque, si annidano spiriti e tempeste. La città è dura, non è un posto per un ragazzino come me, e proprio qui, in mezzo a tutto questo grigio, ci sei tu, tu che sbocci anche in inverno, come un raro fiore di neve; tu che sbocci tra le mie mani ogni sera, fragile ma tenace; tu che modelli il mio corpo tra le tue mani grandi, come creta — o gesso. Tu che sorgi e tramonti per me, come un sole incessante.

 

[119 parole]

 

 

 

 

III.
Prompt (proposto da VigilanzaCostante):
“Siamo fatti di carne debole e cuori forti.”

 

[T.]

 

«Siamo fatti di carne debole e cuori forti», così mi diceva sempre la nonna, con la sua bianca e chiara saggezza. L’ho pensato subito, appena ci siamo conosciuti, tu e io. Eri solo un ragazzino dal naso sgraziato e i denti troppo grandi, ma i tuoi occhi… i tuoi occhi possedevano qualcosa di incommensurabilmente puro. Qualcosa che sapevo avrei voluto macchiare. E ho speso eterne notti e giorni inafferrabili trattenendo le mie mani, cercando di non cercarti, evitandoti in stanze troppo piccole, sperando però che non smettessi mai di guardarmi come se non potessi mai essere tuo — ché lo sono stato fin da subito, in verità. Carne debole e cuori forti, di questo siamo fatti.

 

[115 parole]

 

 

 

 

IV.
Prompt (proposto da LadyPalma):
“Se mi disprezzasse lo perdonerei, perché se mi amasse alla follia non potrei mai perdonarlo.”
— W. Shakespeare

 

[T.]

 

A volte penso che sarebbe stato molto più facile non amarti, semplicemente volerti bene come un fratello, provare affetto come verso un amico, ecco, non amarti — non perdermi dietro te, nella tua scia luminosa che si porta via le mie ombre, nel tuo sorriso che sa d’estate. A volte penso che se tu mi odiassi, sì, se mi odiassi, non sarebbe solo un disamore, no, ché saprebbe di disprezzo, ecco, se tu mi disprezzassi, allora, forse lo capirei — ti perdonerei; invece continui ad amarmi, tenace, testardo, caparbio, e sei folle — folle folle folle — e dimmi come posso io capirti?, come posso perdonarti?, come posso non amarti, allora? Non posso.

 

[109 parole]


 

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Capitolo 3
*** III. ***


Storia nata per la challenge “Apri le challenge” indetta da Gaia Bessie su Facebook.

 

T. e J. sono tornati e questa volta li ho calati in una veste “nuova” e “diversa”. Mi rendo conto che questa storia molto probabilmente ha poco senso, ma può essere vista come il frutto amaro di ogni guerra, e di ogni amore (per quanto complicato, e a tratti surreale) messo a dura prova da essa. Grazie a chiunque si fermi per una lettura.

 

NB: il prompt è della giornata di ieri, ma io lo posto oggi perché ieri non ero in grado di intendere e di volere.

 


 



notturni.
parte terza

 

GIORNO 1:

 “L’amavo senza averlo conosciuto | Fuori di te nessuno lo ricordava.”
— Eugenio Montale, ‘Satura. 1962—1970’

 

 

[J.]

L'amavo senza averlo conosciuto. Il mio era un amore d’apparenza, me ne rendo conto. Era forse un amore di carta, relegato in una fotografia, confinato in una cornice dorata sbiadita dagli anni, puzzolente di muffa e ricordi e dolori, infestato da antichi fantasmi fatti di sofferenza e rimpianti, circoscritto in un seppia spento poco prima che le luci dell’alba ne illuminino i bordi. 

 

L'amavo senza averlo conosciuto. Amavo i suoi capelli con la riga di lato, amavo la sua divisa seria, amavo le sue labbra piene ma strette, tirate senza un sorriso, amavo le sue mani unite, le dita affusolate intrecciate, mentre le braccia gli ricadevano composte in grembo, le gambe perfettamente allineate mentre sedeva su una sedia scomoda, mentre posava per quell’ultimo scatto. 

 

L'amavo senza averlo conosciuto. Lo so. 

«Lo so», ti ho detto quel giorno, mentre sedevamo insieme nel salotto della vostra casa di famiglia, e quella fotografia ci occhieggiava da una mensola.

«Lo sai ma non ti importa», mi hai detto, paziente come sei sempre stato in tutto questo tempo sospeso, da buon fratello, anche tu in attesa di lui. 

«Lo so ma non mi importa.»

«E ti basta?» Ti basta amare l’immagine dell’amore?, è questo che volevi aggiungere? Ti basta un banale accontentarsi, una vuota speranza e un miraggio, una promessa mai mantenuta, un ritorno perduto per sempre, un forse che puzza di maledizione? 

 

«Non tornerà», hai aggiunto. «Lo sai.»

Era una domanda? Me lo hai chiesto o hai assunto che lo sapessi? 

«Lo so.»

 

Fuori di te nessuno lo ricordava. O almeno così credeva. 

“Fuori di te nessuno mi ricorderà, fratello”, così ha scritto sul retro di quella fotografia prima di partire. 

 

Fuori di te nessuno lo ricordava.

No. 

Non solo te.

Anche io.

 



Molto probabilmente la raccolta si arricchirà di nuovi racconti, in occasione della challenge di Gaia. Quindi potremmo rivederci molto presto. Se vi va di partecipare, cercate Gaia Ferro su Facebook.

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Capitolo 4
*** IV. ***


Storia nata per la challenge “Apri le challenge” indetta da Gaia su Facebook.

 

Sono di nuovo qui dopo meno di 24h, portate pazienza. T. e J. qui sono proprio AU, prendete questa storia come viene. Scusate per il non-sense. Ah, volevo specificare che non ho letto il romanzo di Calvino dal quale è stato estrapolato il prompt che a sua volta ha ispirato questo racconto, quindi non so bene come si debba interpretare quel passaggio, chiedo venia al ricordo di Calvino — e anche a tutti quanti voi ☾


 

notturni.
parte quarta

 

GIORNO 2:

 “Anche per chi ha passato tutta la vita in mare c'è un'età in cui si sbarca.” — Italo Calvino, ‘Il barone rampante’

 

 

[T.]

«Mi lasci porle una domanda: lei non è stufo?»

«Stufo?»

«Sì, stufo. Stufo di vagare, stufo di cambiare…»

«Dovrei esserlo?»

«Be’, aveva un uomo che l’amava, così mi pare di ricordare, eppure…»

«Eppure?»

«Eppure non sembra avere pace, lei.»

 

Una risata sommessa rompe le righe. Suona grottesca.

 

«Così sembra, eh? Ma poi è soltanto un’apparenza, questa maschera che porto? Me lo chiedo spesso.»

«Nessuno può dire di conoscerla, signor… Come dovrei chiamarla?»

«In nessun modo. Non mi chiami in nessun modo.»

 

Il rumore di una penna gratta su un foglio. Il fruscio di pagine di un bloc notes spezza l’aria a metà.

 

«Non ha risposto alla mia domanda…»

«Quale delle tante?»

«Le chiedevo se non è stufo… Le sono stati attribuiti flirt, qualcuno ha persino scritto che si sarebbe sposato in segreto… Nessuno sa più a cosa credere, sa? Io ricordo ciò che ci siamo detti quella volta, ciò che non ho potuto scrivere, ricordo l’uomo dai capelli scuri che l’accompagnava… La sta ancora aspettando?»

 

La luce di un sorriso ti balena nello sguardo, ne rischiara i tratti, ne definisce gli spigoli. Sembri una statua scolpita nel marmo, ma sei solo carne.

 

«Lo spero.»

«Lo spera…»

«Lo amo anche io, anche se forse non sembra.»

«Be’, mi fa piacere sentirlo.»

«Non me lo merito, la maggior parte delle volte.»

«Oh, no, non dica così…»

«Non mi merito tutto l’amore che ricevo, tutto l’amore che lui mi dà senza sforzo… Tutto l’amore che mi prendo.»

«L’amore non è mai facile, l’ho imparato a mie spese, per cui non si butti giù… Sono contento che lui l’ami ancora, però.»

«Nonostante tutto, sì.»

«Quindi è ora di fermarsi e tornare a casa, mi pare di capire.»

 

Annuisci. Sorridi. Ti alzi in piedi.

 

Stai per uscire, ma ti fermi sulla porta. Ti volti ancora una volta.

 

«Pubblichi pure l’intervista.»

«Tutta quanta?»

«Tutta quanta. Non si scappa più.»

«Torna a casa davvero?»

«Torno a casa.»

 

Esci.

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Capitolo 5
*** V. ***


Storia nata per la challenge “Apri le challenge” indetta da Gaia su Facebook.

 

Nuovo giorno, nuovo prompt. Quest’oggi, T. e J. tornano con un’AU, un po’ più lunghetta (ma non troppo) rispetto alle parti precedenti. Non ho altri particolari appunti da fare, ringrazio solo chiunque legga (in silenzio) queste mie parole sparse.


 

notturni.
parte quinta

 

 

GIORNO 3:
CoffeeShop!AU

 

 

[J.]

 

È da circa due settimane che, ogni sera, entri dalla porta, e ti annuncia uno scampanellio trillante, ti guardi intorno, il cappellino calato sulla fronte anche quando fuori piove, e quando arrivi il sole è già tramontato, una giacca forse un po’ larga sulle spalle che ti copre i polsi, pantaloni eleganti, un quaderno in pelle sotto il braccio, e quell’aria di tempesta che ti orbita attorno come una nube. Sai anche di tempesta? 

 

Ordini un tè verde e ti siedi in fondo, al tavolo nell’angolo, quello che nessuno sceglie mai perché il divanetto è più piccolo e ci si sta scomodi, ma tu sei da solo, sei sempre da solo, e non ti importa. Nel tuo spazio ci sei solo tu. Ti chini sul quaderno e scrivi, scrivi per delle ore, e intanto ordini altre due tazze di tè che consumi in silenzio, lo stesso silenzio che ti inonda gli occhi.

 

Il caffè è aperto 24h e tu stai qui praticamente tutta la notte, insieme alla vedova con lo scialle e i capelli nivei del tavolo 2, che ordina solo un bicchiere d’acqua e ricama una coperta con un disegno di conigli; insieme ad un uomo in divisa, che un tempo era un capitano, e ora ha perso una gamba e non è più niente, tranne un’anima persa che ogni sera, con la sua protesi, si siede al tavolo 13 e beve tre caffè senza zucchero e legge lo stesso giornale, sempre lo stesso, tutte le sere, datato uno settembre millenovecentonovantasette; insieme alla ragazza con la gonna a fiori del tavolo 7, che beve tè al gelsomino, si siede, tira fuori una vecchia fotografia rovinata e la poggia sul tavolo, e ci parla per delle ore, sommessamente, a bassa voce per non essere udita, vomita parole come pallottole, ma che non uccidono, no, non uccidono, semmai ti cullano. 

 

Vi conosco tutti, ormai, irriducibili creature della notte, troppo perse per stare da sole, anche se mai abbastanza per tendere una mano e cercare una luce, un volto, un sorriso. Forse, questo mondo vi spaventa; forse, le persone stesse vi spaventano; forse, non siete più avvezzi a niente, e continuate a precipitare giù, verso il fondo di voi stessi. Vi conosco tutti, ormai, anche se non per nome. Non so niente di voi, eppure so tutto. Vi osservo da dietro il bancone e attendo che passi la notte.

 

Non so cosa cambi, stasera. Forse è l’arrivo della primavera, forse c’è un qualcosa nell’aria che mi infonde coraggio. Arrivi come sempre, il tuo quaderno sotto braccio e il tuo cappellino. Oggi indossi un completo scuro e hai una spilla a forma di tigre appuntata sulla giacca. Non te l’ho mai vista. 

 

«Un caffè, per favore.»

Ti guardo e inarco le sopracciglia. 

«Un caffè? Niente tè verde, stasera?»

È la prima volta che alzi lo sguardo su di me, la prima volta dopo quindici giorni. Hai degli occhi bellissimi, scuri, profondi, due pozzi consistenti dove la tempesta infuria senza requie. 

«Non mi piace il caffè, ma stasera mi serve.»

Scrollo le spalle. Mi piacerebbe sapere perché, perché stasera ti serve, ma non posso chiedertelo, in fondo neanche ti conosco, no?

 

Ti preparo il caffè e te lo porgo. Paghi e mi ringrazi. Veleggi verso il tuo tavolo. Che buffo, eh? Quello è ormai diventato il tuo tavolo, per me. Non sarà mai di nessun altro. 

 

Passa qualche ora e non so cosa mi abbia spinto, so solo che le gambe mi hanno guidato fin lì. Mi siedo di fronte a te e tu alzi nuovamente lo sguardo su di me, come prima al bancone, e questa volta sei ancora più stupito, quasi spaventato. Non ti affretti a chiudere il quaderno sul quale macini parole, ma io non mi azzardo a buttarci sopra neanche mezza occhiata. 

 

«Allora?» Ti chiedo. «Pareri sul caffè?»

«Nessun parere, continua a non piacermi.»

«Però hai detto che ti sarebbe servito. Ti è servito?» 

Inclini la testa, mi soppesi. Poi ti togli il cappellino e ti passi una mano tra i capelli, che sono folti e scuri, e pensi e pensi e pensi, riesco a leggertelo in faccia. Forse non sai che dirmi.

«In parte sì. In parte è servito», rispondi alla fine. «Grazie.»

«Sono contento.»

 

Rimaniamo in silenzio e mi sento un tale stupido, ora. Mi chiedo come diavolo mi sia venuto in mente di sedermi qui. Tu sei un cliente, non dovrei disturbare i clienti con domande stupide. Giusto?

«Scusa», inizio scuotendo la testa. «Non avrei dovuto sedermi…» Faccio per alzarmi, ma la tua mano copre la mia. È un contatto nuovo, quello della tua pelle sulla mia. Sei bollente, e il tuo calore mi si propaga dentro. Ti guardo.

 

«Non andare. Resta ancora un po’.»

Mi risiedo, stupito. Ora non so cosa dire, ma ci pensi tu a tarpare il nostro silenzio.

«Non mi piace la compagnia, di solito.»

«Ho notato.»

«Come un po’ tutti, qui dentro.»

Mi guardo intorno. I soliti clienti affezionati sono sempre qui.

 

«Se non ci fosse questo posto», inizio, «dove andreste? Dove andresti

Scrolli le spalle. Non sembri preoccupato. «Penso che avrei trovato un altro posto, magari un altro caffè, e un altro tavolo, e un altro barista.»

«Non avresti mai trovato un altro barista come me.» Suona banale, e me ne vergogno. Mi sento arrossire. Tu mi guardi con un sorrisetto, e sei davvero bello. Cazzo se sei bello. 

 

«Forse no.»

«Perché non ti piace la compagnia?»

«Sto bene da solo.»

«Anche io sto bene da solo, ma non mi siedo al tavolo di un caffè aperto ventiquattro ore, tutta la notte, a scrivere su un quaderno.»

Alzi un sopracciglio. «Dritto al punto, vedo. Be’, forse sto solo aspettando la compagnia giusta, non trovi?»

 

«Può essere, sì, ma di certo non la troverai qui dentro, in mezzo a queste povere anime.»

«E tu? Perché lavori in un caffè aperto ventiquattro ore?»

«Ci lavoro per vivere.»

«E vivi? Una volta che esci di qui quando finisci il tuo turno, alle cinque o alle sei del mattino, poi vai lì fuori e vivi

 

Ti guardo e mi chiedo da dove sei venuto fuori, se sei il frutto del mio inconscio, una proiezione dei miei pensieri e della mia coscienza e dei miei desideri più nascosti, o se davvero sei reale. Se ti toccassi, qui e ora, cosa scoprirei? Sei fatto di carne o di illusioni? Sei il prodotto di un sogno o un concreto parto di membra e lombi? 

«Puoi anche non rispondere», aggiungi scuotendo la testa e riabbassandola sul tuo quaderno. «Scusa, sono stato scortese.»

«La risposta è no.»

 

Torni a guardarmi.

«Non vivo. Esco di qui e torno a casa, abito in un monolocale a qualche isolato a sud di qui. Torno a casa e mi butto a letto, vestito, dormo con le scarpe perché non ho nemmeno la forza di togliermele. Alle due del pomeriggio mi alzo, mi faccio una doccia e si fanno le tre. Dopo di che corro a trovare mia madre,  quasi tutti i giorni. È ricoverata in una clinica, mi faccio i chilometri, prendo due pullman. Poi torno a casa, ricaccio indietro le lacrime, mi vesto e vengo al lavoro. Faccio il turno di notte perché pagano il doppio. Ecco perché non vivo.»

 

Il silenzio è carico, stavolta, come se fosse saturo di polvere da sparo e noi stessimo per accendere una miccia. Annuisci. «Scusa. Ovviamente non potevo sapere, io— Scusami.»

Annuisco anche io. Gli sorrido. «Non scusarti. La mia vita è un cazzo di casino.»

«Anche la mia è un cazzo di casino.»

 

«Perché stasera hai preso il caffè anche se non ti piace?» Non volevo chiedertelo, ma non ho potuto farne a meno.

Mi studi per un attimo, forse sei indeciso, ma poi scegli che vuoi darmi ciò che io ti ho dato: un pezzo di vita. 

«Oggi ho perso una persona. Cinque anni fa. È il giorno più triste dell’anno, in una sequela di tanti altri giorni tristi, ma questo lo è un po’ di più.»

«Mi dispiace per la tua perdita.»

«Sono passati cinque anni, dovrei già essermene fatto una ragione. Il fatto è che sì, l’ho accettato, ma ogni anno, in questo giorno, è come se non fosse passato neanche un minuto, capisci?»

 

Annuisco. Mi mordo un labbro. «Mia madre non mi riconosce.» Alzi la testa di scatto. I tuoi occhi sono velati, ora, sembrano lacrime trattenute. «O meglio, ha dei momenti di lucidità dove mi prende le mani, piange e mi dice quanto sono diventato bello, quanto le ricordo mio padre, e quanto è fiera di me e quanto mi vuole bene. Ci sono altri giorni dove mi fissa e non sa chi sono. Mia madre non sa che sono suo figlio. A volte preferirei perderla, solo per non dover più vedere quel vuoto… ma è un pensiero meschino, mi faccio schifo da solo…»

Allunghi una mano di nuovo sulla mia. Questa volta me la stringi con decisione. Mi sorridi. «Non fai schifo. Sei umano, e a volte le tue debolezze prendono il sopravvento. Sei umano, okay? Sei vivo

 

Mi perdo nei tuoi occhi e piano piano ci affogo dentro. «Sono solo. Non c’è nessuno che mi aspetti a casa e mi dica che andrà tutto bene. Non c’è nessuno, alla fine della giornata.» Non so perché te lo stia dicendo, non so perché stia raccontando la mia vita ad uno sconosciuto, seduti al tavolino di un bar, nel bel mezzo della notte.

 

«Allora siamo soli in due.»

«È per questo che vieni qui, tutte le sere? Perché sei solo?»

«È uno dei motivi, sì.»

«E quali sono gli altri?»

«Il barista è molto bello. E il tè verde qui è buonissimo. E c’è una bella vista sul quartiere.»

«Come?»

«C’è una bella vista sul quartiere.»

«No, non quello…»

«Fate un tè verde buonissimo.»

Scuoto la testa. Sorrido. «Lo sai cosa intendo.»

 

Mi sorridi anche tu. «Il barista è molto bello. Ha un sorriso triste e timido, e degli occhi gradi e scuri, molto dolci, però. Quando mi porge il resto mi sorride e arriccia il naso. Mi osserva per tutta la sera, tutte la sere, ma non mi parla mai.»

Rimango in silenzio. Trattengo il respiro. Cazzo. 

«Anche io lo osservo per tutta la sera, tutte le sere, anche se lui non se ne accorge», aggiungi scrollando le spalle. 

 

«Posso chiederti una cosa?»

Annuisci senza rispondere.

«Possiamo essere meno soli insieme, qualche volta. Quando esco di qui. Se ti va.»

Sorridi di nuovo e sei bellissimo. Triste, misterioso, ma bellissimo. «Tanto vado via subito dopo di te, tutte le mattine.» 

Ci sorridiamo e rimaniamo lì ancora un pochino.

 

Stamattina, laviamo via la nostra solitudine nel mio letto. Tu mi spogli piano, bottone dopo bottone, con pazienza e attenzione. Io ti spoglio veloce, ti sfilo via i pantaloni, lascio cadere giù la tua camicia. Le tue labbra sono bollenti addosso alla mia pelle, la tua lingua lava via la mia inquietudine. Sai ancora di quel caffè bevuto da solo, e i nostri respiri si mischiano insieme mentre sei chino su di me e ti muovi dentro di me, prima lentamente, assaporiamo ogni spinta e ogni affondo, poi sempre più velocemente, mentre il sudore ti cola da uno zigomo e io lo lecco via e sa di sale, mentre i miei gemiti si mischiano al rumore della città fuori dai vetri, mentre cavalchi il tuo orgasmo stretto a me, e mi mordi le labbra e sento il sapore del sangue. È quando giacciamo l’uno al fianco dell’altro, le gambe ancora intrecciate, che mi giro verso di te e ti dico il mio nome. Tu mi dici il tuo, ed è in quel momento che il vuoto arretra e noi vinciamo, ed è lì che qualcosa comincia, al confine ultimo della nostra solitudine. Siamo vivi.

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Capitolo 6
*** VI. ***


Storia nata per la challenge “Apri le challenge” indetta da Gaia su Facebook.

 

Arrivo in ritardo di un giorno con il prompt della giornata di ieri, che sulle prime non mi aveva destato granché ispirazione, ma oggi non so perché il vento è cambiato e quindi eccomi qui a recuperare. In serata potrebbe arrivare anche il prompt di oggi, quindi forse ci rivedremo presto (giuro che non è una minaccia). Colgo l’occasione per ringraziare i lettori di questa raccolta, e tutti coloro che l’hanno messa tra le seguite/ricordate/e via dicendo ☾ 


 

notturni.
parte sesta

 

 

GIORNO 4:

“Beato chi ti conosceva già | prima che ti andasse via dagli occhi tutto quel mare.” — Francesco De Gregori, ‘Vecchia Valigia’

 

 

[T.]

 

Quando ti ho conosciuto eravamo troppo giovani, e si sa, i giovani pensano di sapere tutto — anche se forse non sanno proprio niente, o forse è la vita che ti porta via le certezze e ti lascia con un pugno di illusioni. O di mosche? 

 

Sono sceso dal treno, un paio di valigie, e uno zaino in spalla, e un cappello per il sole, anche se il sole non c’era, era nascosto tra le nuvole di un cielo color orchidea. La città sbuffava e mi scorreva accanto e io, ragazzo di campagna, sentivo che ne sarei stato travolto, risucchiato nei suoi vortici grigi e nelle sue strade immense.

 

In quella strada d’asfalto non cresceva neanche un fiore, ogni crepa era scoperta, ogni buca una voragine. Le ruote delle valigie rimbombavano nella sera che calava all’orizzonte, mentre qualche stella pallida cominciava a spuntare oltre la montagna, e gli ultimi raggi del sole colpivano perpendicolari i vetri dei grattacieli, rifrangendosi in prismi d’infinito.

 

Ho stretto un milione di mani, ho salito rampe di scale, ho attraversato stanze vuote e parlato con persone sconosciute che però sapevano il mio nome, mentre io non sapevo niente — anche se pensavo di sapere tutto. 

 

Quando alla fine ti ho conosciuto, ti ho guardato dritto negli occhi, senza esitazione, senza alcuna vergogna. Eravamo in piedi l’uno di fronte all’altro, alla stessa altezza, e le tue spalle erano magre sotto una felpa troppo grande. 

 

Ti coprivi la fronte con la frangia ed eri buffo ma carino. Mi hai sorriso timidamente e le guance ti si sono ammantate di un rosa incarnato e ho pensato a quanto fossi speciale ad arrossire per me. I tuoi occhi grandi — sempre grandi, quelli non sono cambiati — mi hanno guardato come si guarda qualcosa di nuovo e bello ma spaventoso e, dopo anni, mi hai detto che ti ho fatto paura, quel giorno, «mi hai fatto paura perché eri così bello… bello e selvaggio e indomito», così mi hai detto, e io ho pensato che non me lo meritavo, che non ero «niente di che», solo un ragazzino sgraziato tutto ginocchia e dalla pelle color miele che aveva passato fin troppo tempo a giocare in cortile ma con le mani da pianista. 

 

Ti ho guardato negli occhi, anche se tu cercavi di evitare i miei, e sembravi triste, una creatura giovane e persa in un mondo troppo grande per lei e al quale non sentiva di appartenere, non fino in fondo, un animale preso e trapiantato in terra ostile, mani nervose strette a pugno, orecchie rosa vivo e il naso che arricci ogni volta che ridi. Ti ho guardato negli occhi e ci ho visto il mare, tutto il mare che dovevano aver contenuto, e tutto il mare che hai versato, solo nel tuo letto, la sera, rannicchiato sotto il piumone, ossa tremanti e lacrime salate a scavarti le guance e denti conficcati nelle labbra per non far sentire il tuo pianto e sapore di ferro sul fondo della gola. 

 

«Piangevo tutte le sere», mi hai detto poi. «Non mi sono mai sentito così solo.»

«Finché non sono arrivato io?»

«Finché non sei arrivato tu, sì.»

«Non ti farò mai più piangere. Lo prometto.» Non permetterò che quel mare ti sgorghi di nuovo fuori dagli occhi, ma questo non l’ho detto. Questo l’ho tenuto per me. 

«Lo so.»

 



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Capitolo 7
*** VII. ***


Storia nata per la challenge “Apri le challenge” indetta da Gaia su Facebook.

Vi propongo il prompt di ieri, che sono riuscita a sviluppare solo stamattina. Ho già scritto il prompt di oggi, che arriverà stasera. 

 



notturni.
parte settima

 

 

GIORNO 6:

 “È quasi giorno | È quasi casa, è quasi amore.” — Francesco De Gregori, ‘Generale’

 

 

[J.]

 

Abbiamo guidato per delle ore. Ho guidato per delle ore. Ti ho lasciato dormire sul sedile qui accanto, la testa reclinata contro il finestrino, il tuo fiato a imperlarne la superficie, il tuo petto si alzava e si abbassava a ritmo col tuo respiro, regolare, sereno, pieno di bei sogni; tenevi le mani in grembo in un nodo scomposto e le lunghe gambe distese in avanti e il cuscino che avresti dovuto metterti dietro la testa lo stringevi tra le braccia, contro il petto, come fai quando dormiamo, ma invece del cuscino stringi me.

 

Ho continuato a guidare per tutta la notte, mentre la luce delle stelle lontane illuminava il cruscotto e una leggera musica jazz usciva dalle casse, ma sapevo che non ti avrebbe svegliato. Mi sono fermato a prendere un caffè e l’ho bevuto davanti alla macchina, senza perderti di vista, ti ho guardato mentre il liquido scuro e caldo mi scendeva nello stomaco e mi teneva sveglio, e tu continuavi a dormire, le labbra leggermente scostate, belle e morbide. Sei abbronzato dopo i giorni che abbiamo passato al mare, la tua pelle di miele ora è color caffellatte e il ricordo delle mie labbra su di te — su ogni parte di te — mi ha assalito lì dov’ero, e mi sono affrettato a ingollare l’ultimo sorso di caffè, sono risalito in macchina e sono partito. Non vedevo l’ora di arrivare a casa e baciarti. 

 

 

È quasi giorno quando ti svegli. È quasi giorno e siamo quasi a casa. Ti stiracchi, sbadigli sonoramente, ti stropicci gli occhi. Io giro lo sguardo e ti sorrido. «Buongiorno.»

 

«Dove siamo?» Bofonchi.

«Siamo quasi a casa. Dormi ancora un po’.»

«Hai guidato tutta la notte?»

Annuisco. 

«Non sei stanco? Fai guidare me.»

Scuoto la testa. «Siamo quasi a casa, ormai. Ce la faccio.»

 

Siamo quasi a casa. Ti osservo ancora, mentre controlli il telefono, la testa china in avanti. Osservo il tuo bel profilo, il naso dritto e perfetto, la linea spigolosa della mascella, quella sinuosa del collo, l’attacco delle clavicole. Non vedo l’ora di arrivare a casa e baciarti. 

 

Le prime luci dell’alba ti illuminano il viso e sento che il cuore potrebbe schizzarmi fuori dal petto. Sei bellissimo e sei mio, e non so ancora spiegarmi cosa posso aver fatto, in una vita passata in cui neanche credo, per meritarmi te in questa. Non lo so e forse non lo saprò mai. So solo che ho voglia di allungare una mano e stringerti le dita, e lo faccio.

 

Ti giri e mi sorridi. Il tuo è il sorriso più bello del mondo. Il tuo sorriso è casa. 

 

È quasi giorno, e siamo quasi a casa. È quasi amore? No, non quasi. Lo è.
 

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Capitolo 8
*** VIII. ***


Storia nata per la challenge “Apri le challenge” indetta da Gaia su Facebook.

 

Stasera si cambia POV: questa piccola flash è narrata da un punto di vista esterno a T. e J. Spero via piaccia ☾


 

 

notturni.
parte ottava

 

 

GIORNO 7:

 “Si è innamorata ieri, e ancora non lo sa.” — Stefano Benni

 

 

[N.]

 

Per chi vi osserva da fuori, è facile leggere tra le vostre righe, tra le pieghe dei vostri corpi piegati l’uno sull’altro mentre cucinate, o mentre mangiate seduti su un divano e il piede di uno è sotto la gamba dell’altro, o quando vi cercate in una stanza piena di gente e le vostre membra sono come calamite. 

 

Per noi è facile capire, e capirvi. Non vi siete amati istantaneamente, ma forse è stato uno di quei colpi di fulmine che chiamarli colpi di fulmine è persino sbagliato, e riduttivo, e banale, e forse sarebbe meglio definirli colpi di cuore — o colpi al cuore.

 

Vi siete amati col tempo, con la tenacia che non sapevate ancora di possedere, con la testardaggine dei ragazzini che tutto vogliono e prendono e afferrano, e soltanto dopo pensano alle conseguenze. Quelle voi non le avete pensate mai, le avete solo affrontate, dopo, quando ormai la marea era salita e potevate solo cavalcarla invece di ostinarvi ad arginarla. 

 

 

So bene chi ha amato per primo, anche se forse non era amore ma una scintilla, qualcosa che vi spingeva a cercarvi, mani svelte e corpi stretti, un unico letto nelle notti di tempesta così come in quelle serene, sogni condivisi e respiri all’unisono, un solo cuscino in letti troppo grandi e le braccia dell’altro come riparo. Non era amore, forse, ma ci somigliava parecchio. Non era amore, forse, ma lo è diventato.

 

So bene chi si è innamorato per primo, anche se ancora non lo sapeva, quando prendeva le mani dell’altro e lo trascinava fuori, quando gli dipingeva un sorriso sul volto solo con un bacio, quando lo faceva spogliare di ogni dubbio e ne creava un capolavoro. Si è innamorato da un giorno all’altro, senza nemmeno accorgersene, davanti ad un sorriso incerto, ad occhi grandi, a mani forti. Ha allungato le sue, di mani, sottili, e gli ha preso il viso tra le dita e hanno riso come bambini, seduti sotto un albero di ciliegio in fioritura, in una terra che non era la loro, in un mondo sospeso nel tempo.

 

 

«Si è innamorato ieri, e ancora non lo sa», ti ho detto mentre sedevamo su un prato e li guardavamo. 

Mi hai sorriso. Hai annuito.

«Non lo sa? Davvero? Non ne sono sicuro.»

«Lo conosco. Non lo sa. Non ancora.»

«Lo saprà presto, allora.»

Ora sono io ad annuire. Sorrido e scuoto la testa. 

«Sono due ragazzini.»

«Anche noi lo eravamo. Ragazzini. Eravamo troppo giovani anche noi?»

«No, noi eravamo già noi, sapevamo già cosa volevamo. E che cosa avevamo.»

«Anche loro. Lo sanno anche loro, fidati.»

«Mi fido. Mi fido di te.»

 

Li guardiamo e intanto allungo una mano a stringere la tua.

 

 

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Capitolo 9
*** IX. ***


Storia nata per la challenge “Apri le challenge” indetta da Gaia su Facebook.

 

Ammetto candidamente di non aver centrato benissimo il prompt assegnato, portate pazienza. Ciò che segue c’entra poco — pochissimo — con la citazione di Sylvia Plath, ma spero vi possa piacere ugualmente ☾ 
 



 

notturni.
parte nona

 

 

GIORNO 8:

 “Credo che mi piacerebbe definirmi la ragazza che voleva essere Dio.” — Sylvia Plath

 

 

[T.]

 

Ti guardo, disteso accanto a me, le lenzuola stropicciate incastrate sotto il tuo petto. Dormi a pancia in giù, le lunghe gambe distese, completamente nudo, ma non sembra importarti. La luce dell’alba color arancia fuori dalle finestre colora la tua pelle di sfumature nuove ed è come se ti stessi guardando per la prima volta, di nuovo, come se ti stessi riscoprendo ancora, dopo anni, come se ti stessi vestendo di nuovi colori, e forme, e sapori.

 

Ti ho spogliato che fuori era già buio e qui dentro era accesa solo una tenue luce, che disegnava arabeschi e ombre sulla tua pelle nivea. Ho sempre amato la tua pelle, liscia e bianca, una lavagna sopra la quale scrivere una nuova storia, diversa ogni volta, ogni sera da capo. Ti sei fatto spogliare in silenzio, e non hai lasciato i miei occhi nemmeno per un secondo, semi-disteso sul mio letto, i gomiti appuntati sul materasso. 

 

Mi tremavano le mani, e neanche sapevo perché — in fondo ti avevo spogliato tante altre volte, ti eri spogliato tante altre volte, prima di questa, i nostri corpi si erano uniti tante altre volte, prima di stasera, eppure. Eppure tremavo come un bambino, e ad un certo punto, quando anche l’ultimo strato è caduto, mi hai preso le mani e me le hai baciate, dito per dito, i palmi e i dorsi, e i polsi. 

 

«Perché tremi?» Mi hai chiesto. «Non devi.»

«Forse perché ti amo così tanto, e questa cosa mi spezza.»

Mi hai sorriso, con quel tuo sorriso dolce — quel sorriso che conservi solo per me. «Anche io ti amo così tanto… Mi sento spezzato anche io, ma in ogni crepa ci sei tu, quindi fa meno male. Mi sento comunque intero, con te.»

 

Allora ti ho baciato, e tu mi hai spogliato in fretta, svelto, impaziente come sempre, vorace come sempre. E allora ti sei lasciato assaporare, centimetro dopo centimetro, pezzo dopo pezzo, le tue mani a tirarmi i capelli, le tue unghie affondate nelle mie spalle, i tuoi gemiti a riempire la notte. 

 

E quando sono entrato dentro di te, ogni confine è andato perduto, ogni più labile ostacolo è stato abbattuto, ogni cosa è andata al suo posto. Perché siamo perfetti, insieme, i nostri corpi incastrati come un’opera d’arte dalla perfetta simmetria, le tue gambe strette intorno alla mia vita, ché non volevano lasciarmi andare, le mie mani a tenerti con me, arpionate ai tuoi fianchi come radici di un albero tenace, e io sempre più giù, sempre più in te, ad ogni spinta, ad ogni gemito, la mia bocca sulla tua, a morderci e baciarci, strisce di saliva sulla mascella e respiri mischiati al sudore. 

 

Quando l’orgasmo mi ha travolto, tutto il mio corpo tremava sul tuo, addosso al tuo, nel tuo. Mi hai tenuto dentro di te finché hai potuto, mi hai baciato, la tua lingua ha raccolto la mia saliva, le tue labbra hanno succhiato la mia mascella, i tuoi denti hanno affondato nella mia spalla. E intanto raggiungevi tu stesso il tuo apice, la mia mano allungata su di te ad accarezzarti con decisione, i movimenti del mio polso che andavano di pari passo coi tuoi gemiti. 

 

Ci siamo distesi fianco a fianco, quindi, su quelle lenzuola stropicciate che ero sicuro ancora il giorno dopo avrebbero conservato la tua impronta, avrebbero tenuto stretto il tuo odore. Hai cercato la mia mano persa a metà tra i nostri fianchi e te la sei portata al petto, l’hai appoggiata sul cuore. Ho chiuso gli occhi: quel suono, insieme alla tua risata, era, e sarà sempre, la mia colonna sonora preferita.

 

Ora ti guardo, la luce dell’alba color arancia fuori dalle finestre ti ammanta d’oro, e sembri una di quelle statue elleniche, muscoli scolpiti nel marmo, membra lunghe e dalle proporzioni classiche, schiena tesa e vita sottile. Allungo una mano e, con un dito, percorro la curva del tuo corpo, dalle spalle e fin giù, ne percorro i confini e li imprimo nella mente per quando li dipingerò, anche se nessun ritratto, e nessun pennello, potranno mai renderti giustizia. Sei come uno di quegli eroi greci, mitici e dorati e mistici. 

 

Le mie dita si posano sui tuoi capelli, si intrecciano a un ricciolo scuro che ti si è formato sulla nuca. Ti sento muoverti e apri gli occhi e mi vedi, disteso accanto a te, la testa poggiata su una mano, il gomito puntellato sul cuscino. «Hey», sussurri, la voce leggermente roca. «Hey», sussurro in risposta, le labbra dischiuse. Mi chino su di te e ti bacio, dolcemente, ora; questa volta non ci sono denti, non ci sono morsi, ma solo carezze. Con la punta della lingua percorro le tue labbra e ti sento respirare nella mia bocca, e sorrido. 

 

«Ti ho sentito, prima», mi dici quando mi discosto leggermente. Ti guardo, interrogativo, senza dire niente, però. «Ho sentito le tue dita addosso», spieghi, girando di poco la testa per guardarmi meglio, le braccia piegate sotto di essa a farti da cuscino.

 

Annuisco e continuo a sorridere. «Stavo studiando. Facevo ricerche. Prendevo appunti, insomma.»

«Prendevi appunti?»

«Ah-ah. Per quando ti dipingerò.»

Spalanchi gli occhi: grandi, scuri, miei.

«Non guardarmi così», continuo, stropicciandoti i capelli. «Sei bellissimo, è normale che io voglia cercare di imprimere la tua bellezza su una tela. Anche se poi non la farò vedere a nessuno.»

«Perché? E poi non sono bellissimo solo perché tu mi vedi così, sai?»

«Intanto, lo sei, è un fatto oggettivo, ti guardi allo specchio, ogni tanto? E poi, non la farò vedere a nessuno perché sono troppo geloso di chiunque guarderà la tua immagine.» 

«Oh, capisco. Be’, è solo un’immagine. Che ti importa di un’immagine quando tu hai l’originale?»

 

Rido. Mi chino di nuovo su di te e tu mi anticipi, alzi la testa e mi baci con forza, ti sporgi su di me e mi sovrasti, mi porti le braccia sulla testa e lì le tieni, e continui a baciarmi come solo tu sai fare, e io mi lascio baciare, e sono di nuovo denti, e morsi, e lingue. 

 

«Che ti importa degli altri?» Continui, tirandomi il labbro inferiore. «Tu hai me, tutti i giorni, tutte le notti, per sempre. Sono tuo, puoi plasmarmi, puoi avermi nelle tue mani e io sono come creta, per te. Tu sei come dio, per me.»

«Non essere blasfemo, ora. A che gioco vuoi giocare, con me?»

Annuisci. «Al nostro gioco preferito…», con la lingua percorri il limite delle mie labbra. «Quello in cui tu scappi e io ti prendo…», ora scendi sulla mia mascella. «È un gioco stancante, forse, ma adoro inseguirti…» Io chiudo gli occhi, mentre tu scendi sempre più giù.

 

«Non sei mai stanco di giocare, a quanto vedo», sussurro mordendomi il labbro. Le mie mani affondano nelle tue spalle. 

Mi guardi da sotto le ciglia, la testa leggermente in avanti, mentre con le dita mi allarghi le gambe e premi le unghie nella carne. «Sono io che gioco a fare dio, ora. Ti va?»

Un fiato irregolare esce dalle mie labbra e porto una mano alla tua bocca, un dito vi si insinua all’interno, tu lo succhi leggermente, la tua lingua guizza sulla punta. Quando ti lascio andare, traccio i contorni della tua mascella, scendo sul mento, una scia di saliva ad accompagnare i tuoi tratti. 

Annuisco.

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Capitolo 10
*** X. ***


Storia nata per la challenge “Apri le challenge” indetta da Gaia su Facebook.

 

Non ho nessuna nota particolare da fare, tranne che questa parte ha fatto male — malissimo.
 



[ 📸 © @yongfeel via instagram ]

 

notturni.

parte decima

 

 

GIORNO 9:

 “Dimmi tu addio, se a me dirlo non riesce.” — Umberto Saba, 'Il canzoniere 1900-1954’

 

 

[T.]

 

Ti ho lasciato andare via, in quel giorno di pioggia. Si era in dicembre e fuori il cielo era bianco. L’inverno ci strisciava addosso e la cima della montagna era innevata. Faceva freddo e chi poteva correva a casa, mentre il gelo d’acciaio correva sulle strade e tra la gente, e un vento turbinoso giungeva da nord.

 

Ti ho lasciato andare via, ché io non ne avevo la forza. 

 

«E così finisce qui?» Mi hai chiesto nel bel mezzo del salotto.

Io ho girato gli occhi alla finestra, alla città là fuori. «Per favore.»

«Per favore cosa?»

«Per favore, basta.»

«Va bene. Me ne vado, allora. Se è questo che vuoi. Dovresti però avere almeno la decenza di dirmelo in faccia.»

 

Ti sento spostarti in camera da letto, il rumore della valigia buttata sul materasso (che tante volte ci aveva visti stretti, incastrati nei nostri amplessi), l’armadio che si apriva, e i tuoi sbuffi e i tuoi singhiozzi. “Non piangere”, ho pensato. “Per favore, non piangere.”

 

Ti ho sentito tornare in salotto e hai atteso lì, forse per delle ore, o forse solo per pochi istanti, ma hai atteso che mi voltassi e che, forse, sempre forse, ti dicessi di restare. “Resta” è la parola più difficile del mondo, insieme a “scusa”. Non ero in grado di dirtelo, in quel momento, non lo sono stato per tanto tempo. «Scusa, so di aver rimediato, ora», ti avrei detto poi. «In quel momento non lo sapevo, ma mi si stava spezzando il cuore».

 

Ci siamo guardati attraverso i nostri volti riflessi nei vetri, con le luci della città che si accendevano nella prima sera. Il tuo petto andava su e giù al ritmo del tuo respiro — o del tuo pianto? — e tenevi la valigia stretta in mano, come se fosse senza peso. «L’unico peso che sentivo era quello che avevo sul cuore», mi avresti detto, dopo, quando sei tornato e io ti ho chiesto di restare.

 

«Allora finisce qui.» Hai ripetuto, e quella volta non era una domanda.

Ho annuito, le mani intrecciate, le dita bianche nella loro spasmodica stretta. Si aggrappavano le une alle altre, pregne di disperazione e vuoto. «Lascia pure le chiavi sul tavolo, prima di uscire.»

L’eco seguita alla mia voce puzzava di crudeltà — e di qualcosa di molto simile all’apatia.  

 

Se mi guardo indietro ora, non mi riconosco. Non so chi fosse quell’uomo schivo, una camicia stropicciata scompostamente fuori dai pantaloni, a piedi scalzi, i capelli troppo lunghi sugli occhi stanchi, piccoli, pieni di sonno di notti troppo lunghe e sempre buie, di schermi di tv accese in spazi troppo vuoti, di caffè preparati e mai bevuti, lasciati a fermentare in una tazza, un olezzo di abbandono stagnante nell’aria immobile.

 

Se mi guardo indietro ora, capisco di averti lasciato andare non per qualcosa che potessi imputarti, ma solo per qualcosa che in realtà potevo imputare solo a me stesso. Forse la mia paura — le mie paure striscianti nelle ossa; i timori che mi penetravano nel cuore; la sensazione di non essere mai abbastanza, da parte mia; la convinzione che fossi più che abbastanza, sempre troppo più che abbastanza, da parte tua; le gelosie inutili e immotivate; le mie assenze sempre un po’ più lunghe; le tue serate tirate fino all’alba, da un club all’altro, da un bicchiere all’altro, insieme ad amici che non conoscevo, e chissà quali facce incontravi, e cosa ti dicevano quegli occhi, e quelle mani, di sconosciuti ardenti; i sospetti, le urla, i pianti; le porte sbattute, i bicchieri rotti nel lavandino, lo champagne versato sul pavimento; i fiori morti nel cestino e le fragole marcite dopo giorni di abbandono su un bancone di cucina; le notti spese sveglio, a parlare con le ombre negli angoli, ad aspettare che tornassi, o che semplicemente mi cercassi, mentre dormivi sul divano nella stanza accanto, solo un muro a dividerci, con la città a farti da spietata compagna; il sesso fatto con rabbia, le unghie piantate nella carne, i morsi e le labbra tirate, il sangue sulla lingua, le spinte dure, i polsi stretti mentre ti chiedevo di non fermarti e tu mi piangevi su una spalla; le albe pallide, grigie di una solitudine senza nome, spese in un letto troppo grande, a cercare di imprimermi il tuo corpo dietro gli occhi, per quando sapevo che mi saresti mancato, anche se mi mancavi già, eppure ti avevo accanto.

 

Le mie paure sono diventate la mia condanna e ti ho spinto via da me, lontano, e poi fuori da questa casa che era casa — che era noi, con i tuoi quadri appesi alle pareti del salotto, e i miei in camera da letto, con le nostre foto sul tavolino, e la nostra musica preferita divisa per genere, con i divani che ho scelto io, e la poltrona che era la tua preferita. C’è sempre stato tanto di te, di noi, qui dentro, ché viverci mi sarebbe diventato insopportabile, un peso troppo gravoso da portare, ma di cui non mi sono mai liberato, e queste mura sono diventate un po’ come una prigione, la maledizione che mi spettava, la giusta punizione per averti lasciato andare via — per averti spinto ad andare via. 

 

«Addio», mi hai detto, e hai aperto la porta e sei sparito, fuori da lì, via da me. 

Non ti ho neanche risposto, ché forse non sarei stato in grado di dirtelo, “addio”, ché forse ti avrei rincorso e chiesto scusa, «scusa, amore, mi perdoni? resta». 

E invece sono rimasto lì fermo, lo sguardo perso nel vuoto di fronte a me — rivolto al vuoto dentro di me.

 

 

“Resta” è la parola più difficile del mondo, insieme a “scusa”. Sono due parole che ho imparato col tempo. Sono le due parole che ti avrei detto dopo, quando alla fine sei tornato, mi hai cercato, hai scavato e, con tenacia, mi hai tirato fuori dal vuoto nel quale ero caduto — nel quale mi sono lasciato cadere. 

 

«Scusa», ti ho detto dopo, baciandoti via le lacrime, prima che si mischiassero con le mie. «Scusa se non ti ho fermato. Scusa per questo tempo perso. Scusa se non ho lottato abbastanza.»

«Ti amo», mi hai detto. «Ci sono io a lottare sempre abbastanza per entrambi.»

«Resta», ho aggiunto guardandoti negli occhi. «Non andare, resta. Ti amo.»

Hai scosso la testa. Hai sorriso. «Non vado da nessuna parte, ora.»

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Capitolo 11
*** XI. ***


Storia nata per la challenge “Apri le challenge” indetta da Gaia su Facebook.

 

A volte ritornano: dopo alcuni giorni di assenza, torno con un altro piccolo spezzato delle vite di T. e J. — e con un nuovo prompt della challenge che ho adorato, e quindi chi ero io per non scriverci qualcosa sopra?
 



 

notturni.
parte undicesima

 

 

GIORNO 13:

 “Per sempre è composto da tanti ora.” — Emily Dickinson

 

 

[T.]

 

Le persone cercano conferme. Siamo tutti, costantemente, alla ricerca di rassicurazioni: andrà tutto bene, starò con te per sempre, vedrai che si risolverà. Accanto alle conferme, la speranza. C’è chi la speranza la cerca, c’è chi la speranza la dà. E c’è chi ne ha bisogno ma allo stesso tempo non può che dare via qualsiasi più piccolo barlume in suo possesso, solo per la persona che ha accanto, e lo fa in silenzio, senza sforzo, pur cercando di trattenere almeno uno tra i più piccoli di quei barlumi; e c’è chi invece riceve senza un grazie, aspirando e togliendo e rubando, e lasciando dietro di sé solo una carcassa, un cuore spolpato, privato di ogni luce. Non c’è una regola, ovviamente non c’è, e non ci sono libretti di istruzioni che ci insegnino come dare e ricevere speranza — insieme alle conferme che cerchiamo. 

 

So che, tra tutti gli essere umani presenti sulla terra, su tutti i più di sette miliardi di persone che popolano il pianeta, ecco, tra tutti, so che ho avuto la fortuna di incontrare te. Ci siamo trovati a vicenda, in verità, pur senza cercarci. Sei arrivato all’improvviso e mi hai dato, piano piano, tutto ciò di cui avevo maggiormente bisogno: un corpo da stringere, e dal quale farmi stringere; due occhi da cercare nel buio e due mani da afferrare nella notte; una bocca da baciare e dalla quale farmi baciare; un cuore da amare incondizionatamente, senza riserve; una persona con la quale dividere tutto, in modo equo, come abbiamo sempre fatto e come continueremo a fare; una persona che mi stesse accanto e alla quale io potessi stare accanto, anche in silenzio, o urlando, o ballando sotto la pioggia solo perché ci andava. 

 

«Ma tu ci credi al per sempre?» Mi chiedi un giorno, mentre siamo stesi l’uno accanto all’altro nel mio letto, i nostri corpi nudi sotto le lenzuola leggere e stropicciate e pregne di noi. Mi guardi con quei tuoi occhi grandi, così grandi che ogni volta ci finisco dentro e quasi annego. 

«Tu ci credi?»

Scuoti la testa, sorridendo timidamente, nonostante avessimo appena incastrato i nostri corpi l’uno nell’altro e tu mi avessi chiesto se potevi dipingermi — senza niente addosso. «Non lo so. Forse no.»

«Io credo al qui e ora», ti dico girandomi, appoggiandomi sul tuo petto forte, le mani intrecciate sotto il mento. «Non ricordo chi, ma da qualche parte ho letto una cosa che diceva tipo che i per sempre sono composti da tanti ora, o una cosa simile… Io credo in questo. Credo nei nostri ora.»

Mi passi una mano tra i capelli, fermandoti dietro la nuca, stringendo leggermente. Poi scendi sulle mie spalle. «Sai, le persone cercano sempre conferme. Nelle altre persone, intendo.»

«Tu rientri in quelle persone?»

Scuoti la testa di nuovo. «No. Non ne ho bisogno. Non con te. Ma se tu ne hai bisogno, di conferme, sono pronto a dartele.»

Allungo una mano e ti accarezzo una guancia, e poi la mascella affilata ma bella, il collo sinuoso. «No. Non penso di averne bisogno, sai? Non ho bisogno di sentirmi dire che non mi lascerai mai, perché lo so.»

«Presuntuoso.» Ridi. Sento il tuo petto vibrare sotto di me. 

«Un pochino, sì.»

«Un presuntuoso che però ha ragione. Tu non hai bisogno di sentirtelo dire, e io neanche.»

«Tu pensi che ci sia qualcuno, là fuori nel mondo, che si ama come ci stiamo amando noi? In questo momento? In un altro letto? In un’altra città? In un altro ora?»

Annuisci. «Ne sono certo. Però non so se ci sia qualcun altro che ama un altro te come io ti amo, qui e ora. Anzi, sono sicuro che non esista.»

«Chi è il presuntuoso, ora?» Dal collo salgo alla tua bocca, il mio dito segue la linea delle tue labbra. 

Poi mi afferri, mi spingi sul materasso senza sforzo, il tuo petto sopra il mio, pelle contro pelle. Mi baci, le tue mani intorno alla mia testa, le mie sulla tua schiena fresca. 

«Non abbiamo bisogno di conferme, ma mi prometti almeno una cosa?» Mi chiedi sulla mia bocca, il tuo respiro dentro di me. 

Annuisco senza parlare, non ho fiato. 

«Promettimi che domani ci sarà un altro ora. E dopo domani ancora. Promettimi che collezioneremo tanti altri ora. Per favore.»

Con una mano ti accarezzo i capelli. Stanno cominciando a crescerti lunghi sulla fronte, leggermente morbidi accanto alle orecchie. «Promesso.»

«Ti amo. Ma non solo qui e ora.»

«Ti amo. In qualsiasi per sempre ci piacerà abitare.»

Torni a baciarmi e facciamo l’amore di nuovo, mentre fuori cala il tramonto.

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Capitolo 12
*** XII. ***


Storia nata per la challenge “Apri le challenge” indetta da Gaia su Facebook.

 

Dopo alcuni giorni di inattività su questi lidi, ritorno con un prompt all’apparenza devastante, ma che sono riuscita ad “aggirare” in base alle mie esigenze; non è il prompt di oggi, ma quando è uscito, il 19/04, non mi aveva smosso l’ispirazione, che invece è arrivata prima di cena, in un rush creativo improvviso; come ha detto un saggio: “soffrirai, ma poi ne sarai felice” (più o meno suonava così, scusate ma ho una pessima memoria) ☾
 


 

notturni.
parte dodicesima

 

 

GIORNO 19:

Death!Fic

 

 

[T.]

 

«Non ho più voglia di discutere, lo vuoi capire che ti sto dicendo la verità?»

«Neanche io ho più voglia di discutere, Ti, perché non te ne vai a dormire?»

«Non dirmi cosa devo fare, capito?»

«Fai cosa vuoi, allora.»

 

Mi allontano comunque, torvo come una tempesta e ribollente della mia vana comprensione. Mi sono stufato di cercare di farti capire la verità, ché non c’è niente oltre te e fuori di te, di noi, eppure continui ad essere geloso, ingiustamente geloso, di me, dei miei amici, di chiunque mi graviti intorno, e io continuo a rassicurarti su ciò che in realtà non necessita di rassicurazioni — ché non c’è niente oltre te e fuori di te, di noi. Non c’è e non potrà esserci mai.

 

Marcio in camera da letto, dove ho lasciato alcune cose da sistemare nell’armadio, abiti appena lavati e che sei passato a ritirare in lavanderia prima di rientrare a casa. Ci sono anche un paio di tue camicie, ma quelle le lancio nella tua metà del letto, quasi con stizza. Non ho nessuna intenzione di appendertele io. 

 

Mi spoglio velocemente e mi infilo il pigiama — quello di seta grigio, che mi hai regalato tu l’ultimo Natale. È diventato uno dei miei pigiami preferiti, anche se adesso lo guardo e mi fa male, perché mi torna in mente il tuo viso teso mentre lo stavo scartando, e le tue mille, rocambolesche spiegazioni, agitate anche dopo tutti questi anni, come sempre quando mi fai un regalo e temi che non mi piaccia. Ho sempre amato ogni tuo regalo, sciocco, ti direi ora, se solo non fossi arrabbiato con te.

 

Mi metto sotto il piumone e spengo la luce. Alla fine ti ho dato retta e sono andato a dormire e cerco di non pensare alla soddisfazione che starai provando in questo momento. Ma sento la porta d’ingresso sbattere e allora mi alzo di scatto, corro in cucina e non ci sei, in bagno la porta è aperta e la luce è spenta, in salotto non ti trovo, sul terrazzo nemmeno, e allora capisco che sei uscito, sei uscito nella notte, e mi hai lasciato qui. 

 

Esco di nuovo fuori sul terrazzo e mi affaccio. Chissà come penso di riuscire a vederti da quassù, quando le persone là sotto sono solo puntini, ma mi pare di intravederti, indossi la felpa viola che ti sei messo prima di cena e un cappellino nero. E poi riconoscerei il tuo passo anche dalla luna. 

 

«Dove credi di andare, eh? Codardo!» Urlo nella notte e lo so che sembro un pazzo, ma non mi importa. Voglio che tutto il mondo mi senta, anche a costo di sgolarmi, voglio che tu mi senta. Ma ovviamente so che è inutile. Il rumore del traffico, seppur ridotto vista l’ora, copre comunque la mia voce, e il mio richiamo si perde nella notte e tra le stelle che faticano ad uscire. 

 

Torno dentro, trovo una tua felpa — un’altra, l’ennesima — appoggiata al divano e la indosso in fretta, afferro sigarette e accendino e torno fuori, a piedi scalzi, e il freddo della notte di aprile è ancora troppo freddo, ma non ci bado. Mi siedo su una delle poltrone all’esterno e mi accendo una sigaretta, le gambe accoccolate al petto e le dita tremanti. Odio quando litighiamo. Mi sento vulnerabile e solo, terribilmente solo, quando discutiamo e quando te ne vai, come ora, e mi lasci qui, insieme solo ai miei fantasmi.

 

Fumo e attendo e non so nemmeno come, ma ad un certo punto la sigaretta finisce, la butto nel posacenere e, dopo aver appoggiato la testa allo schienale della poltrona, chiudo gli occhi e mi addormento, nonostante il freddo e la posizione scomoda, nonostante mi venga difficile addormentarmi senza di te, accanto a me, senza stringerti forte tra le mie braccia. Forse il tuo odore sulla tua felpa è come una ninnananna e allora la mia mente si quieta e si riposa e tutta la tensione esce da me a ondate, e le palpebre si fanno pesanti, finché non comincio a sognare. 

 

Sogno di star camminando, sono in centro, in mezzo ai palazzi, alti, tutti di vetro ma bui, come se le luci siano tutte spente, tutte insieme, e le strade sono deserte, ed è tutto così irreale, ma continuo a camminare, ti sto cercando, e ti vedo, sei davanti a me e cammini anche tu, mi dai la schiena, e a volte mi sembra di stare per raggiungerti, ma quando allungo la mano tu mi sfuggi, penso di aver agguantato il tuo bomber nero e invece no, acchiappo solo aria e vuote speranze, e ti chiamo, chiamo il tuo nome a squarciagola, ma tu non ti volti mai, tu non sembri sentirmi, e la gola mi fa male, brucia e graffia, e l’aria tutt’intorno è satura di fumo e un odore dolciastro che assomiglia allo zucchero bruciato, e gli occhi cominciano a lacrimarmi e non so se sia per via del fumo, o se siano lacrime, so solo che ci fermiamo di fronte al fiume e tu sei di fronte a me, continui a darmi la schiena, ma io non posso raggiungerti, non ancora, è come se i miei piedi siano fissi al terreno, e abbiano messo radici, e quando finalmente ti volti, e mi guardi, vedo che stai piangendo, le lacrime ti solcano il viso e sei bellissimo ma triste, immensamente triste, e allora sono triste anche io, immensamente triste, e cazzo quanto vorrei annullare ogni distanza, afferrarti per le spalle e stringerti, nascondere il viso nell’incavo liscio del tuo collo e respirare il tuo profumo e dirti che mi dispiace, mi dispiace da morire, nonostante io non abbia fatto niente, ma odio litigare con te e farei di tutto, qualsiasi cosa, pur di riaverti, ma mi dici che è troppo tardi, «è troppo tardi, Ti», e in un attimo sei in piedi sulla banchina del fiume, sul muretto di cemento che ne delimita l’argine, e ti volti un’ultima volta, mi sorridi, sempre immensamente triste, e improvvisamente sei caduto, ti sei lasciato andare oltre, giù nel fiume, sei scomparso per sempre, e io finalmente riesco a muovermi, corro fino al bordo, mi affaccio, e non ci sei, non ci sei più, le acque, tumultuose e nere e piene di spettri, ti hanno inghiottito, e io mi lascio cadere a terra, non mi importa di farmi male, mi rannicchio su me stesso, scoppio a piangere, il petto mi fa male, sento il cuore rallentare i battiti e potrei giurare di stare morendo, il gelo mi assale e mi attanaglia le membra e tutto quello che riesco a sentire è solo un grande dolore, un dolore troppo immenso da poter essere quantificato, e tantomeno descritto, come se la forza di un milione di tenaglie mi stesse squarciando il petto. 

 

È in quel momento che mi sveglio, e tu sei qui, sei qui accanto a me, sulla nostra terrazza, mi scuoti e mi guardi allarmato, e allora mi afferri e mi stringi al tuo petto, e io ti circondo la vita con le braccia, ché non posso — e non voglio — lasciarti andare. 

 

«È stato un incubo, Ti», mi rassicuri carezzandomi il capo, scendendo sulla nuca, all’attaccatura dei capelli, nel punto in cui sai bene quanto mi piaccia essere accarezzato — ovviamente solo da te, sempre solo da te. «È stato solo in incubo, respira, okay?»

 

Affondo il viso nel tuo stomaco e allora mi prendi in braccio e ti siedi al posto mio, e mi tieni stretto sulle tue gambe, mi sdraio sul tuo petto e lì mi rannicchio, stringo forte un lembo della tua felpa senza chiudere gli occhi, ché non voglio scoprire che anche questo è un sogno, e non voglio rischiare di rivedere quell’immagine — di ripensarti su quel margine, prima dell’abisso. 

 

«Dove sei stato?» Ti chiedo.

«Sono sceso, ho fatto un giro di un secondo e poi sono tornato su di corsa. E ti ho trovato qui fuori, mezzo congelato, a rantolare il mio nome… Mi hai fatto morire di paura, pensavo stessi male…»

Scuoto la testa. «Ho fatto un incubo terribile.»

«Me ne vuoi parlare?»

Scuoto di nuovo la testa. «Adesso no. Non ci riesco.»

«Perché mi chiamavi?»

Alzo leggermente la testa e scopro che mi stai guardando, sei ancora vagamente preoccupato, però. «Nell’incubo c’eri anche tu.»

«Okay.»

 

 

Rimaniamo lì per non so quanto, e non sento più freddo, né paura, ora che sei qui con me. 

«Mi dispiace», dico a spezzare il silenzio. 

«È a me che dispiace, Ti. Non avrei dovuto dire ciò che ho detto, e nemmeno insinuare quelle cose… Sono un coglione.»

Allungo una mano ad accarezzarti una guancia. I tuoi occhi scuri brillano nella notte, e qualche stella adesso è uscita a illuminarne la volta. «Ti amo. Più della mia stessa vita. E questa cosa mi dà forza, mi sorregge quando vacillo, mi riscalda quando sento freddo… E farei qualsiasi cosa, veramente, qualsiasi, per proteggerti. Non ti farei mai del male, lo sai, vero?»

Mi prendi la mano, me la baci sul palmo, e poi la stringi nella tua. Le nostre dita si intrecciano. «Lo so. Lo so e a volte faccio cazzate, eppure mi ami lo stesso… Non so come sia possibile, me lo chiedo da otto anni, ma ti giuro che sei la mia vita, Ti. Sei tutto. Non sarei niente, senza di te. Anche se non mi vuoi dire cos’hai sognato… e cosa ci facevo nel tuo incubo…» 

«Forse domani te lo dirò. Con la luce del sole.»

Annuisci e mi sorridi. «Ti porto a letto, fa troppo freddo…» 

 

Mi trasporti fino in camera, seppur con qualche sforzo, e finiamo entrambi sotto il piumone, e ti abbraccio, ti stringo a me, affondo di nuovo il viso nel tuo collo, e lo sfioro con un bacio. Le tue mani sono sulla mia vita, ferme come sempre. 

 

«Non andartene mai più, per favore.»

Annuisci. Mi baci il naso. «Promesso. Ora dormi, ci sono qui io.»

Chiudo gli occhi e sorrido leggermente. Dormo tutta la notte. Senza sogni. Con te.

 


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