Zuairo e il senso perduto

di Cladzky
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Canto I ***
Capitolo 2: *** Canto II ***



Capitolo 1
*** Canto I ***


1
Di fede passioni, dubbi, amori
E altre divagazioni, andrò dicendo io,
Di quando ancora nell'Islam degli albori
Con spata e Alcorano si discute di dio.
Gli Omayyadi, che Damasco, riempiron di fiori
Ora è coverta di sangue stantìo
Ma più non corriamo, che già inqui viene
Di chi, la storia, la novella tiene
 
2
Più che cammina, ei galleggia,
In quel che i Siriani chiaman Barada,
Esanime, che, con un sasso primeggia.
In acqua e sangue di quella contrada,
(Che d'occidio e saccheggio ancora riecheggia)
Trascina il cavalliero lungo la strada
Dove un pastore attento lo rivede.
Tosto si tuffa e lo tira per un piede.
 
3
Trassolo a riva gli ausculta il petto,
E sebbene in più e più parti è aperto,
Il cuore gli batte, v'è ancora il getto,
Seppur, di sangue, sia tutto coverto,
Ğanna attende ancora il poretto,
Salvo ei è, ma sano non certo.
Dio ei ringrazia insupinito,
Non Macometto che gl'è proibito.
 
4
Come la madre tiene il figlio in seno,
Così ei reggeva il cavalliero
E sull'equino, non certo un palafreno,
Anzi, un asino, pone il condottiero,
E lui, al passo gli tiene il freno.
Tanto il suo animo era sincero:
Che si fé volentieri le miglia a piè,
Fino al suo paese, Ein al fejèh.
 
5
La moglie, a munger, stava una capra,
Dacché levò gli occhi ed ebbelo scorto,
Salta il cancello, senza che l'apra.
L'incontra e uno schiaffo gli molla a gran torto
Che povera lei, quella non sapra,
Non essere quello un corpo morto.
-Disgraziato- gli dice -anzi, depravato!
A trafugar corpi or ti sei dato?-
 
6
-Donna, le mani, tienile via,
Travami, invece, dove adagiarlo-
Lui rispose e questo dicìa
Che già ella stava a bendarlo.
Un giorno e una notte trascorse prìa
Che l'uomo, cui, tanto io vi parlo,
Sorga con Vespero il giorno seguente
Tutto pesto e senz'anche un dente.
 
7
Mano alla bocca e l'altra alla tempia,
Forte gli batte, di dolor trema,
La bella faccia il bello scèmpia.
Di darsi pace non trova sistema
E lacrime amare il letto rìempia
E per drizzarsi ei si dimena.
I gemiti chiamano il suo salvatore:
Entra impaurito il buon pastore.
 
8
La moglie arretro e lui di fronte
Gl'afferra le spalle e lo scuote forte,
Ma non v'è modo, che è come un monte,
Non lo tengon braccia, né chiuse porte.
Fuor di casa, correndo, è gionte
E pone gli occhi su tutta la morte.
Ai piedi di Qàsioun arde intera
Tutta Damasco ed ei si dispera.
 
9
-Deh, cavaliere, dove vene ite?
Così come state il letto è il vostro posto-
Le parole, l'uomo, non l'ha quasi udite
E lagrimando, mira il grand'arrosto,
Le fumaie, alle nubi, fin son salite.
I ginocchi, nell'arena, ei pianta tosto
Ed, i pugni, nei flutti del Barada,
Sbatte e schizza, costume non bada.
 
10
Morto pareva il giorno primero
Sbiancato in viso, pareva neve,
Come in inverno, sull'angolo Nero,
Ripreso si era, in tempo sì breve.
Si straccia le vesti, percuote il cimiero
Sbatte la testa sui massi, greve.
Morto pareva e ora si pente
D'essere vivo e non valer niente.
 
11
-Marito, ma questo, è proprio scimunito!-
Disse la donna e lui -Zitta,
Che se ci sente ci fa mal partito!-
Ma lui non sente, anzi, a schien dritta,
Risale il Barada da dove e venito,
Ma incespica e cade: gli venne una fitta.
Mani al torace, si raggomitola,
Figura assai tragica, ma ben più ridicola.
 
12
-Ti prego e ti dico, lascialo stare,
Che un Jinn, mi pare, l'ha impossessato-
Diceva la donna e a ben guardare
Era tanto fremente e convulsionato
Nell'acqua Zamzam lo volle annegare.
Ma il buon pastore, gentile e pacato,
A ciascuna gote un sonoro schiaffone.
Quello si placa, si cheta d'umore.
 
13
E rinsavito appena, ei dimmandava:
-Ditemi voi, che n'è di Damasco?
Perla di Siria, per eterna si dava,
Perché ora brucia? Perché son fuggiasco?
Che ci faccio io qui, anima prava?
Oh, gentile, nobile rivierasco,
Ti ringrazio di core per tutto il ristoro,
Ma ora ditemi quello che ignoro!-
 
14
Il pastore, allora, prende gran fiata
E tutto gli spiega, fino al loro incontro,
Di come lo vide galleggiar senza spata,
Elmo, armatura o ferro da scontro.
Morto chiunque altro lo avrìa data
Se non che lui borbottava contro
Nemici sognati, che sol lui vedeva
-Fetenti bastardi- ei maldiceva.
 
15
E ancora narrava del suo gran sopire,
Che un giorno e una notte avea sonnecchiato
Delle gran ferite che aveva ebbe a dire
E poi, su Damasco, virò il parlato:
-L'eccelso giardino ebbe a patire
L'Abbasside assedio, l'avrai ascoltato.
Da Al-Saffah il sanguigno son stati guidati,
Califfo e Pasciá li hanno sgozzati-
 
16
Scoppiò in pianto il povero fante
E s'avesse avuto la spata al fianco
Troncato avrebbe, come le piante,
La fronda dal busto, tanto era stanco
Di vivere e tirare ancora avante.
Lui che aveva patito così tanto
Ma non abbastanza per salvare il regno,
Per riaverlo la vita avrebbe dato in pegno.
 
17
I polmoni suoi sgradiscono l'aría
Anzi, l'acqua gli par migliore.
I pastori la morte non voglion che si dìa,
Quindi lo fermano per il timore
Dell'eterno Jahannam e se è un'anima pia,
Gli spieghi il motivo di tutto il calore,
E insomma che diavolo sia mai successo,
Per odiarsi tanto d'ammazzare sé stesso.
 
18
Quello singhiozza, le lagrime asciuga,
Poi china il capo, ben sconsolato.
-Le coste mie sono il bagnasciuga
D'un mar Bizantino, Nostrum chiamato-
Al ricordo, in fronte, gli si forma la ruga,
Di chi a nostalgia si è abbandonato
-Fenice filistea, oh, patria mia
Beirut ignomia io sol ti dia!
 
19
S'invero sapere volete la cagione
Per cui io m'odio e fo vilipendio
Tendete bene il di voi padiglione
Che storia assai grama narrare vi intendio
Di come sgarbo feci al mio padrone
E tutti i miei sbagli vi farò compendio.
Zuairo mi chiamo, ch'io sia mai nato,
Disonore in famiglia ho solo portato.
 
20
Marwàn io servivo, con grande diletto
Mazubarin io ero, ovvero un campione,
Non per mio merito, ma ch'ero figlioletto
D'un gran signore, ricco smercione.
Quando il nipote del profeta Maometto,
In Mesopotamia fè gran confusione,
I parenti mi ebbero tutto bardato
Fatato le armi e a Babil mandato.
 
21
Lo scudo mio come scaglie di drago,
Da una sol perla si ebbe a intagliare.
Ascia o alabarda è uguale a un ago
Che nulla il può tagliare o squarciare
Se non la mia spada, figlia di mago,
È tanto fine che taglia anche il mare.
Bianco, rotondo, questo è Muraja
Fa con Yuranda un invitta paja.
 
22
E se anche questo bastar non dovesse
Tutto mi diedero li parenti miei
Inclusi dei sandali, di grande interesse,
Fabbricati da certi antenati Achei,
Fatica ignora chi n'entra in possesse.
Li avessi il sudor non cognoscerei.
Ahi a me Zuairo, che nel fiume perdette
Oltre l'onore quest'armi benedette.
 
23
Or vi dirò l'usanza promossa
Che, fra eserciti, è d'uso fare:
Ben prima d'ogni battaglia e sommossa
Giostra propizia si ha d'apparecchiare.
I campioni si sfidano affinché si possa
Stabilir a chi Dio vittoria vuol dare
Se il risultato è fin troppo palese
Di lotta, il nemico, perde pretese.
 
24
Tanto importante è l'impiego nostro
Che una guerra intera finire si puote
Se solo noi facciamo dimostro
Che il divin favore è il nostro pilote.
E io speravo di fare gran mostro
Di mia virtute e grande dote
Iettando in terra i mazubari nemici
Dando gran vanto al popol dei Fenici.
 
25
Così ragionando io proseguivo
Per la Mesopotamia fertile e piana.
Certo, d'esperienza, io ero privo,
Mai posi fine a vite umana
Ma ciò non curai, né impensierivo
E allegro marciavo fra gente di Cana,
Gerico, Ninive, Assuàn e Salerno
Tant'era esteso l'impero ed eterno.
 
26
Viaggiavan con me pur altri cento
Fieri baroni, da cui stare a bada.
Chi da Biserta, chi d'Agrigento
Di poche parole, veloci di spada.
Parlar mi era acerbo, non v'è intendimento
Fra me e loro, d'esperta vecchiada.
Mi guardano torvi, con far giudizioso
Il mio giovine corpo e l'arme sontuoso.
 
27
Seguivamo lo scorrere del Tigri muti
Nella sua corsa al Persico golfo
Quand'oltre un colle eravamo venuti
Dove lo Zab scende ad ingolfo
E qua trovammo disfacelluti
Due fanti con l'arme quasi in solfo
Tanto essi eran conciati
E questi ci ebber ragion narrati:
 
28
Così diceano -Mazubarini!
L'esercito è in rotta, speranza è moruta,
Che in sù dello Zab, oh noi tapini,
Gli Abbassidi su noi vittoria hanno avuta.
Tardi giungete a pugnar paladini
Anche se in cento e fama risaputa
Niente potete con chi dalla storia
Gli Omayyadi cancella con sua gran vittoria.
 
29
Se udire volete la quale cagione
Sta dietro la nostra infame spartita
Tendete le orecchie e fate attenzione
Storia più grama mai sarà udita:
Montavamo noi, tende e padiglione,
Mazzuola e chiodi sol fra le dita,
Che appena giunti eravamo e ammucchiati
Ciascadun sotto i propri re guidati
 
30
Si era infatti indetta adunata
A vassalli e alleati del nostro signore
Da Ponente a Levante giunse un'armata
Che scoteva montagne al solo fragore
Di picche e scudi una gran parata
Esse le pecore, Marwàn il pastore.
Le foci di Zab, ai piè di Zagroso
Furon lo loco de nostro riposo.
 
31
Ancor, che tutti, stanchi si era
Pel viaggiar, che alcuni già addormòno
L'Omayyade ci scruta e sotto la sera
In cima al suo cocchio, prende lo tono
Di un'Imam e grida -oh Arabia, spera!
Che dio disse "Abram, le stelle sono
Le moltitudini che tu avrai per figli
Nei secoli dureranno prove e perigli"
 
32
Oh Araba gente, quei figli si è noi
Non, quindi, temete la schermaglia indomani
Che una corbezzola è per figli di eroi.
La nostra cultura allarga le mani
Al Caucaso, Mar Rosso e i Pirenoi
Razza superiore, non certo Siriani
O peggio ancora cristiani e sciiti
Noi siamo Arabi, puri sunniti-
 
33
Così si acclama dei suoi il fervore
Che battono i piedi e risuonan gli scudi
Ma non di noi due, ci venne torpore,
Giacchè Longobardi e Ariani crudi
In Cristo crediamo, figliol del signore,
Seppur, la sua natura, all'Eterno si escludi.
Come noi altri, Indiani e Giudei,
Circassi, Tartari, Etiopi e Cirenei
 
34
Tante fedi e pelli diverse
Come più dagli antichi non si vedeva
Del Magno Alessandro e l'emperor Serse
Tanto vasto il califfo estendeva
E nelle sue truppe egli riverse
Sì diversa schiera che si batteva
Per un sovrano che pensa ei solo
Alla sua gente, fede e suolo.
 
35
Così dicendo, noi suoi fanti
E mercenari vari, da tutta la terra,
Che àrabi non siamo o d'Islam praticanti
Ci passò la voglia di far la sua guerra
Che seppur morissimo per lui in tanti
Lui non ci pense, e lacrime serra.
Ci sentivan come scacchi, alfieri e pedoni
Di qui stanno i bianchi e là i negroni.
 
36
A molti di noi smusò l'allegria,
Ma poscia appena, già tutto si scorda,
Le parole, fonte, di zizzania,
Niente possono se tu non dai corda
E di rodersi, la voglia, nessuno l'avria,
Così si beve, gioca e bagorda,
Che in battaglia mai ci si salva tutti,
Si saluta la vita con vini e prosciutti.
 
37
Allor, di meglio, da fare niente aveva,
Un gruppo di assai pedanti cavalieri
Così ci venne incontro e sosteneva
Un'altezzosa filippica la sera di ieri.
-Lacunosi di rispetto- uno inveiva
Come fate a mangiar pasti sì fieri?
Infedeli siete, mercenari Europei,
Ma in nostra presenza io m'asterrei-.
 
38
-Astieniti tu, battitor di tappeti!
Io bevo e mangio quel che mi pare,
Se poi ti sgarba, meglio faceti,
Va dal tuo Maometto a lamentare.
E tu e i tuoi statevene cheti
Che io e i miei si ha da festeggiare
Domani s'approssima la morte di molti
Sbronzi ai cieli è meglio essere accolti-.
 
39
Così appena questo io dicetti
Da li miei camerati; poveri tutti,
Che molti in battaglia io li perdetti;
Plausi e fischi e pure rutti
Contenti son come ho steso gli inetti,
Filano via, col fegato distrutti,
Che rodono forte, lo smacco è sonante
Inflitto poi da un ignobile fante.
 
40
Quelli infatti, faceano parte
Della rinomata cavalleria pesante
Cortigiani e figli di chi tien le carte,
Nobili, possedenti il sufficiente contante
Da permettersi cavallo e armi per l'arte.
Non solo quello ma sono tante
Fedeli loro al gran profeta:
Entrarvi non può chi al Coran non creda.
 
41
E questi, quindi, immensamente offesi
Da Marwàn vanno a rendere conto
Di barbari, che, in giro li han presi
E all'omo di Mecca fatto affronto.
E il gran califfo, avendoli intesi,
Sulla rabbia ei fu subito monto
E a mandare i messi ivi si sbriga
Per far palesare chi a loro fe' briga.
 
42
Al gran padiglione del califfo giungemmo
E come vedemmo il suo bianco turbante
Sui bei tappeti di Persia sedemmo
E noi Longobardi guarda fumante
Di rabbia e chiede se noi esprimemmo
Tanta ingiuria ai suoi uomini veramente.
Noi ci guardiamo e discutiamo in Latino
Poi ci voltiamo e dicemmo a capo chino
 
43
-È vero noi consumammo cibi impuri,
Vino di Napoli e prosciutti di Padania,
Ma non vedo perché un Maomettano se ne curi
Non commettiamo verso lui alcun'infamia-
-L'infamia c'è- disse uno di quegli scuri
E strappandosi la barba il cavaliere da in smania
-che ci disgustate coi vostri atti osceni
E ai nostri ordini tu e i tuoi contravvieni.
 
44
Siete forse voi ministri e capitani,
Ricoprite qualche incarico di tale importade?
Siete sol lerci mercenari italiani,
O forse quando i corpi vostri apron le spade
Non scende rosso, ma blu sangue, cani?-
Ei disse e quando questo accade
Subito Otto gli saltò addosso
E il volto gli smusa quel molosso-
 
45
Ora il racconto si interrompette
Del fante fuggiasco e pose la mano
sul compagno suo che al fianco stette
E riprendette -questi è quell'Ariano
Che ingiuria alcuna ei non rispette
Otto appunto e io Alevano.
Or vi dicevo di questa gran pugna
Dove il cavaliere incassava come spugna.
 
46
Impari era l'intesa tanto è improvvisa
Rabbioso era Otto, mio fido amico,
Che il guaio in cui si caccia ei non ravvisa.
Bestemmia, ingiuria, ignomia il nimico
Mentre di lividi gli riempie le visa
E non ascoltava i consigli che gli dico:
Lo imploro di smettere ma ei non mi cala
Al che Marwan mette ordine in sala.
 
47
E austero dai cuscini s'alza e sentenzia
-Ben hanno donde di lamentarsi tal signori
Del vostro disubbidire e irriverenzia
La mancata educazione negata dai genitori
Io vi inculcherò senza indulgenzia
Come Roboàm sarò con voi peccatori
Come flagello sarà la mia vendetta
Come bestie tratto chi l'ordine non rispetta.
 
48
Perché bestie siete, non miei vassalli,
Niente meritate ma servire chi dovete
Chi è con me non teme voi sciacalli
Se essi chiedono, voi accorrete
Non mordete dunque, sberciosi galli,
Chi io proteggo o ve ne pentirete.
Che sia dunque a questo incosciente
Negato il parlato immantinente-.
 
49
E al povero Otto, la lingua tagliarono,
Quei cavalieri figlioli di troia,
Con gran diletto, la lama scaldarono
Seccarono il taglio e in una stuoia
L'organo posero e glielo darono
A monito che non gli torni la voia.
Poi sequestrarono salumi e vini
Non solo a noi ma a tutti i tapini.
 
50
Di tenda in tenda, per ogni loco
Del campo in sù, giù e avante
Passarono i cavalieri e come per gioco
Ogni sorta di maiale e alcolizzante
Questi vigliacchi buttarono al foco
Cosicché quando, più niente era restante
A cercarne nascosti si diedero questi
Abusando molto di tanti onesti-.
 
51
Qui lo interruppi quel Longobardo
E franco gli dissi con lingua secca
-Ben fece il nostro califfo tardo
Nulla cangia la di voi salamelecca.
Infatti mi pare assai beffardo
Lo vostro comportare coi paladini di Mecca
Chi arrischia la vita a servire il signore
Non lo si obietta neppure in errore.
 
52
Se lo tracannare di tali bevande
E lo consumo di quegli ungulati,
Che per noi sono proibite vivande,
Non li biasimo all’averli sequestrati
Se a loro la vista fe disturbo grande.
E s’è poi vero che da un dio siam creati
Una sola legge egli ci ha scritto
Conviensi anca voi assumerla a diritto-.
 
53
Qui, Otto, fe per darmi una sberla,
Lo ferma Alevano, mi lascia continuare
-Lo califfato è come una gerla
Se tutte le gambe non si ha a coordinare
Non c’è fortuna nè ragione di averla
Di alcuno loco a poterla portare
E il coordine è uno soltanto
Ovvero il libro del pater santo.
 
54
Anche se increduli siete voi Ariani
Le leggi nostre v’è meglio seguire
Finchè ordine e metodo siano sovrani-.
-Ben dicesti- Alevano ebbe a dire
Quel che parlava dei duo Italiani
-Che quasi a Maometto ci fai convertire
Ma non ci sperare, che un simil misfatto
Non lo si copre col dialettar ratto.
 
55
Tale avvenimento, vi stavo narrando,
Un grande scisma generò nel campo
Astio s’andava infatti palesando
Fra chi Shari’a segue e chi n’è scampo,
Nelle genti smisurate ch’io non vo contando
Più fra loro che per lo nimico è vampo.
Per Marwàn pare non contiamo niente
E pure ci toglie lo cibo dal dente.
 
56
Ci accompagna al mattino quest’umiliazione
Anzi, alcuni, nella notte han disertato
Più onesti furon che la sopportazione
La tenivamo noi sol per compensato.
Per questo mantenevo servizio al padrone
Che la lingua al caro Otto ebbe tagliato.
Ma ti assicuro che abbandono la mercede
Che quel che ho visto ogni orrore eccede.
 
57
Svegliati fummo quest’alba dal corno
Che suonava all’armi, in maniera sì strana
Trasalimmo, e armati, gli fummo attorno
Ma lo musico, sbianco, tutto il fiato ancora stana.
Poi giunge Marwàn, della corte adorno,
Che lui e I cavalieri avevan posto tana
Assai distante da noi genti gentili,
Chiede cagione degli strombazzi febbrili.
 
58
Prova a parlare lo trombettista,
Ma la fiata gli manca e pure coscienza
Che esanime casca, bianco alla vista.
Ecco, nell’aria, si sente presenza
Di un rapido marciare e s’apre la pista
Una vedetta che sconcerto sentenzia
-Ratto, riempie la piana mio sire,
Lo nimico vostro che già muove a colpire-.
 
59
Marwàn scolorisce e balbetta incontinente
Che gli venga spiegata questa vigliaccata
E lo fedele Etiope, del nero continente,
Tutto gli illustra, con l’alma spaventata.
-Io e colui che qui giace incosciente,
Circondavamo il campo per la pattugliata
Quando ci assalì un insostenuta sete
Che allo Zab ci portò per darle chete.
 
60
Là ci dissetammo io e il camerata,
Akakios era detto e io son Belete,
Sull’acque gelide, a teste chinate,
La vite scontate noi davamo e lete,
Quand’ecco noi, fra felci verdeggiate
Sentimmo passi dall’altra parete.
Stava infatti guadando la rivera
La schiera di Al-Saffah, austera e fiera.
 
61
Stavano ad appena meno d’un miglio
E tremor ci prese, scemò la parola,
Ci guardammo in viso, divenuto vermiglio
E parveci l’anima dalle labbra vola.
Celati eravamo, da cespugli di giglio
E non m’azzardai ad aprir la gola.
Ma Akakios intendette quel che volevo
E vole lui che ogni dubbio mi levo.
 
62
-So cosa provi e per la vita hai timore
Ma da noi dipende non solo la nostra.
Se tu per i compagni provi invero amore
Allo nimico bisogna mettersi in mostra,
Le spalle dargli e pregare il signore
Che nulla ci colga in questa folle giostra.
Se tu non vieni non ti darò iudicio
Che ben comprendo sia un pazzo sacrificio-.
 
63
Mosso da quelle parole sì belle
Di lasciarlo solo mi vien meno la voglia,
Che se lo avesse ammazzato una schiera di quelle,
La colpa il cuore sempre mi avrebbe in doglia.
Quindi sgusciamo e sotto l’ultime stelle,
Quel che è Lucifero e Vespero il cielo spoglia,
Al campo corriamo, dallo nimico tallonati
E già udiamo dei dardi lanciati.
 
64
Pare spacciato lo amico mio,
Che meschino ei diede la sua vita a voi,
Come quello che chiamano il figlio di dio.
Seguendo Fidippide, un greco dei suoi,
È giunto fin qui sol per darci addio
E recarsi alle Elisi degli eroi.
Suonato, correndo ha il corno a tutta fiata
Che dallo sforzo la tempia gli è scoppiata.
 
65
Io son rimasto, mio califfo d’oro,
E ti do nozione di questo perigliare,
Lo nemico in barba e usanze e decoro
Senza mazubari ci viene a battagliare
E porta seco centomilia dei loro
Che di sorpresa c’intendevan sbaragliare.
Non lasciate, sire, impunita la morte
Del vostro fedele che ha avuto grama sorte!-
 
66
E qua avvenne a dir poco un miracolo:
Akakios, che di sangue, era tutto adorno
In un ripugnante, grottesco spettacolo,
Alza la testa e apre gli occhi al giorno
E parla a Belete, in un dialetto vernacolo
Che solo lui intende e pregne come pleniforno.
E seppur sia caldo in fronte a fornace
Ancora è lucido quel greco audace.
 
67
Stretto lo ha l’Etiope che a morte
Lasciarlo non vuole e ascolta il biascichio
-Belete- annuncia, con le cervella scorte
Che quasi cascano –Lo vedi il luccichio?
Questo pendente mi ha sempre fatto forte,
Da Delfi viene, me lo diede il padre mio.
È l’unico cimelio di quella terra lontana
Che pur mi consolava in quest’erma piana.
 
68
Va dunque sul colle, là oltre il mare,
Là dove l’oracolo si espone ai vapori
Là dove il tempio Atena sta a guardare
Là dove Pitone e Gea non han valori
E Apollo la fonte ebbe a liberare
Al golfo di Corinto, giura sugli onori
Tuoi, miei e delle nostre famiglie
Che porterai questo in ricordo alle mie figlie-.
 
69
Sol questo ebbe a dire e poi più nulla
Che lo prese uno spasmo e indietro chinò il capo
Con un viso che quasi, par che si trastulla,
Al pensiero di esser stato un imoscapo
Per tutto l’esercito e la faccia gli è brulla
D’ogni negativo pensiero e grattacapo.
Quivi si lascia morir tra le braccia
Di Belete cui lagrime rigan la faccia.
 
70
Tutto il campo fu preda di singhiozzi,
Marwàn pure, per il valente pagano,
Che seppure onorava dei a lui sozzi,
Negar non poteva quell’onore soprano.
E sul viso di tutto si fanno gli abbozzi
Di lagrime amare per un fato sì villano.
Ancora mi chiedo, perché il signor misterioso
A cortese core diede presto riposo-.
 
71
Qua si fermò la favella di Alevano,
Che lui e Otto, al ricordo sì vivido,
La tristezza li coglie, si tengono la mano,
A piangere stavano con il core ancora livido.
E questo destino, sì torbido e insano,
Ci fa correr per braccia e gambe un brivido.
Non c’è corazza, nè scudo e bacinetto
Che pianger non faccia per quest’uom perfetto-.
 
72
E qua pur si ferma la novella di Zuairo,
Che solo al ricordo di tale assassinio
Sconvolto è tanto che mai più rimiro
Così come i pastori e più di tutti io.
Tanto che la mano trema e ritiro
Lo foglio prima che il mio lacrimìo
Lo possa macchiare e più non vado avante
Questo canto ormai è fin troppo pesante.

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Capitolo 2
*** Canto II ***


1
Lasciammo al canto precedente Zuairo
Che ancora narrava il narrar d’Alevano
Che quivi riprese e del regno Assiro
Tornò a parlare e di come in quel piano
La magna battaglia con l’Abbasside emiro
Si andava approssimando di mano in mano.
Per lo gran tradimento di quell’atto d’agguato
Il califfo s’infuria, ma pareva invertebrato.
 
2
O almeno così pareva al Longobardo
Ma niente posso aggiungere e solo m’astengo
A riportar la parola senza più ritardo
-A narrarti di Belete ancor ti vengo,
Or che a le lacrime non sono più pardo,
Che a fartene conoscere la grama tengo-
Ripete il Filisteo ciò che disse lo Italiano,
Perdonate questo favellar, intrico e insano
 
3
Alevano dice a Zuairo che narra
Ai pastori e continua –L’Etiope lasso
Si prostra al suo re che tien d’avorio sbarra,
E con questa sola teneva in basso
Ventimilia fanti, senza repliche o gazarra,
E a lui prega, con la faccia mista al sasso.
Di poterlo lasciar partire per la Grecia
E tutto d’onori e lodi lo impecia.
 
4
Ma quel re che è detto da noi Costantino
Nulla lo sente, in groppa alla sua zebra,
Solo un mugugnare sommesso e piccolino
E la cagione del pianto assai lo ottenebra.
Lo tocca col corno d’elefante a quel tapino
E in piedi gli chiede di mettersi e non s’ebra
Più d’isterismi e pianti quel soldato
Ma tutto gli spieghi e possa averlo ascoltato.
 
5
Belete s’alza e mostra il pendaglio
Che tutto di legno è fatto e rosso
E chiede se egli commetta o meno sbaglio
A disertare il campo e conservar l’osso
Affinché ei possa consegnar quell’intaglio
Là oltre il mare oltre l’onde più grosso.
Che giuramento ha fatto e parola sua vale
E in fede lo compie, nel bene e nel male.
 
6
Costantino pondera e n’è assai conflitto
E mentre ci pensa Marwàn sopraggiunge
E dietro a lui, tutti i re che ha sconfitto
In passato ch’ora son vassalli e aggiunge
-Baron Costantino, non lo accontentare,
Già troppi han macchiato e se pur lui s’aggiunge
Col vostro benestare, io giuro in questo istante,
Traditor sarete, tale e quale al fante!-
 
7
L’imperator d’Etiopia abbassa la testa
E di mandarlo al fronte promette solenne
E tanto basta a Marwàn che non resta,
Ma passa avanti e la schiera dietro venne.
E qui, Belete, di respirare arresta
Che davanti si vide una parata perenne
Tanto è lunga e smisurata fuor d’ogni ragione
Le armi di chi dell’Asia è padrone.
 
8
Dietro a Marwàn stanno sette corone
Re e imperatori dei regni che annesse.
A capo di lista sta d’Egitto il faraone
Che un arco gobbuto e cento frecce ha appresse
Su una biga è portato da caval bianco e negrone
E gli occhi di brage nelle membra lascia impresse.
Questo è Ptolomosso e la sorella è l’auriga
Lui sparge morte e lei il cocchio arriga.
 
9
Dietro a Ptolomosso sta il terzo Sapore
Bardato nel bianco d’un inter capodoglio
Di tutti i Sasanidi era lui l’imperatore
Ma or che non regna, di tristezza è spoglio
Che lui a niun paese volle far governatore
Ma solo battagliare e farsi duro come scoglio.
Una mazza catenata portava seco al fianco
E alla pugna a piedi guida tutto il branco.
 
10
Lo seguiva tosto quel valente assai Circasso
Che su un equino lercio guida la sua armata
Ma non prova scorno, quel re tozzo e basso,
Che ei è Sacripante, di fama ben provata
E lo vindice suo braccio spezzerebbe pure un sasso.
Sulle spalle ha pronta una lancia che par spata
Tanto è lunga la lama e sì ben tagliente
alcuni dicono a un drago strappò quel gran dente.
 
11
Arretro un gigante, si direbbe ciclopesco,
Niun lo ha incoronato se non egli stesso,
Signor di Sicilia, e porta un’obelesco
Che adopra come verga ed è tanto spesso
Una quercia pare, decorato in arabesco
E quello è alto dalle piante al cranio d’esso
Dieci cubiti interi né più né men parte
Di Polifemo è erede, lo bestio Ariosparte.
 
12
Ci sta poi ancora, all’ombra del gigante,
Un tale che è muto e mai labbra schiude
Di aspetto grazioso, ma dal viso alienante
Che egli sorride anche se gli si è rude.
Egli è il principe d’un regno dell’Atlante
Del Morocco pare e se al parlato elude
Motivo è ignoto e maneggia quello
Una spada di argento quanto lui fino e bello-
 
13
Qui il favellare, del Longobardo fermai-
Disse Zuairo ai suoi salvatori
-E chiesi stranito –Sol cinque illustrati hai,
Non c’eran forse sette di quei gran signori?-
E Alevano rispose –Tu ne sottrai
Chi stava con Belete e avea baston d’avori
Ch’era Costantino e un altro dell’India
Che arrivato non era, il gran re Rosmindia.
 
14
Passati furno i maestosi baroni
E dietro infine la gran cavalleria
Di Marwàn che al passo, diritti sugli arcioni
Stavano quelli, e imboccavan la via
Fuori dal campo e lasciarno i negroni
Indietro a discutere su che si convenia.
-Sappi che se vuoi io non potrò partire
-Disse Belete- Ma t’odierò finché respire-.
 
15
-L’odio non serve, perché bisogno non hai-
Disse Costantino con guisa da umano
-Ma prendi piuttosto ciò che lasseresti mai
E recati al mare- Ordinò il gran sovrano.
-Ma non fosti tu a dire che al fronte mi mandai,
Non fai forse a Marwàn gran gioco da villano?-
-Di nulla, invero, è tal contraffazione
Al fronte ti mando, ma all’opposta direzione-.
 
16
E quivi, Belete, sulla terra in cui stava,
Scese veloce e baciò l’unghie solfose
Della Zebra in sella a cui il re andava,
E tosto di nuovo questo lo percose
Con la sua sbarra bianca e gliela dava
–A chi ti ferma e domanda qualche cose
Tu tirala fuori e ordina il tuo passare
Questo mi auguro e ora puoi andare-.
 
17
Sempre benedendo lo gran Costantino
Belete tutto prese e dal campo sparve.
Chissà dove vaga, che dio gli sia vicino,
Che per l’amico dolce ei tutto può darve.
Ma ora veniamo allo scontro che il destino
Vittoria facile a Marwàn dare parve,
E con tutto l’esercito si riversava in pianura,
Da Zagros viene la calca e fa paura.
 
18
Dell’Omayyade la schiera è grossa e infinita
Che in tutto eravamo un milione e cento mila.
Se Roma fosse stata lo loco di sortita
Tutta la riempiamo e sanza trafila.
La cavalleria ai duo lati dell’arme se n’è ita
E arcieri e frombolieri sono i capofila,
Arretro a loro i picchieri a scudi alzati
Infine noi e le baliste coi trabuccati.
 
19
Lo gran re dell’India avrebbe portato
Seco elefanti, ubriachi e affamati
Che doglie nol sentono neppur se asportato
Gli viene un occhio o li orecchi trapassati.
Ma presente non era e Marwàn spaventato
Si consola che loro son sempre sorpassati
E non vede proprio come l’Abbasside ribelle
Possa vincere lui e le sue buone stelle.
 
20
Dall’opposto della piana, insù per un colle
Stanno fermi li omini di quell’emiro insano
E ci guardano come si mira il roto folle
Delle foglie d’autunno e cura non fano.
All’occhio solo contarli non mi volle
Ma chiaro è di numero che ci sottostano.
Marwàn s’avanza in quell’erba alta e fresca
E incontro va alla sua nemesi pazzesca.
 
21
Lo accompagnano tutti i suoi re meno uno
Rosmindia tarda coi suoi pachidermi
E pure Al-Saffah, con ogni suo tribuno,
Gli viene incontro e Marwàn crida –Vermi!
Siete forse voi tutti di onore a digiuno?
Di uccidermi nel sonno credevate, cori ermi.
Ma compiaccio a Dio pure questa volta
Lassate dunque ogni ardire e idea stolta!
 
22
Se l’onor vuoi salvare, mio infido nimico
Che il giostrar dei Mazubari hai voluto sorpassare
Ti conviene allora ascoltar cosa dico:
Torna al tuo paese e non venir a disturbare!-
Saffah non rispose ma coi suoi fa lessìco
Poi si rivolta e replica va a dare
-Ti offro ora, la tua ultima fuga
Abdica e vattene, anziana tartaruga-.
 
23
Marwàn fumava e già si sente jena
Che l’ira lo colse e quasi lasciò andare
Il freno del cavallo: in giostra rabbia mena.
Ma intervenne l’Etiope in quel collerico ambasciare
E poscia chiese le ragion di messinscena
Che il vantaggio loro ben chiaro appare
E di darsi motivo Costantino non puote
Del perché Al-Saffah abbia un sorriso sulle gote.
 
24
Ma l’Abbasside lo irride e gli chiede piuttosto
-Perché non l’avete voi, che cagion ne avete?-
E Marwàn riprese –Hai buttato ben tosto
Tutte le occasioni che te e i tuoi camperete.
Se aveste seguito come è stato posto
Uno scontro coi mazubari che possedete
Forse avreste vinto, ma non v’è concesso ora
Che ad impari armi ci pugnamo all’aurora-.
 
25
E i nostri e i loro voltarno l’equino
E niuno l’altro considera peraltro
Sul campo rimane soltanto il Marocchino
Coi bei capei ricci mercé al vento scaltro
E gli occhi nocciola si sciolgono al meschino
Che mira un cavalier Libico dell’altro.
E per la primera piange il sir d’argento
Volta infin il cavallo solo a stento.
 
26
Gli Abbassidi e Omayyadi si confrontano altieri
E già c’è presagio di un gran bel carnaio
E l’Etiope giusto intempesta a passi fieri
Che lui lo spirto non ha da macellaio
E passando di fronte a fromboli e arcieri
A Marwán s’accosta e lo consiglia savio
Che non è igienico fare un massacro
Che a dio spiacerebbe d’un sangue il lavacro.
 
27
Nega e rinnega, ma poscia lo ascolta
Marwán udisce e infine acconsente
E chiama tutti i suoi re a raccolta
E loro gli accorrono immantinente.
A tutti spiega lo califfo a sua volta
La proposta e a tutti parve conveniente
Se non al Marocchino, che lagrimon serra
E protesta non esplica e vanno alla guerra.
 
28
E tutti allo mezzo dei duo schieramenti,
I sei davanti e Marwán arretro,
Si pongono e suonano incontinenti
Ogni lor corno che infrangerebbe il vetro,
E tutti quei re dei tre continenti
Avanzan solo e niuno sta indietro
Tanto son gagliardi dal Siculo al Circasso
Che ei è il più baldo pur’anche il più basso.
 
29
Sacripante crida -Si facciano avante
Chi di voi tutti son quelli più audaci
E badar non faccio se è cavallo o fante
Sei di voi voglio o se siete sagaci
Pur’anche in mille, v’occido tutti quante
Chi io disfido dalla morte ha baci.
Non servono giostre né mazubarioni
Battiamoci noi a guisa de leoni!
 
30
Dell’esercito mio amo ogni elemento
Chi mi serve io servo e così è oggi
E dai Circassi, sanza alcun tormento
Voglio che tornino ai loro alloggi.
Per loro m’ergo e con lo mio ardimento
Tutti vi isfido e chi vuol m’appoggi.
Questi cinque altri son li miei compari
Risolviam tutto sanza trucchi e bari-.
 
31
Al-Saffah s’avanza e i tribuni con lui
Che sono in cinque fieri oltremodo
Or vi narro, mazubari, dei capitani sui.
Lo primo è coverto del dragon di Komodo
Fino alla testa e quelle altrui
Sfracella tutte con annodato chiodo
Che ovunque tira legato al suo braccio
E tutto perfora, usbergo o spallaccio.
 
32
Quello è l’imperator dell’Australe Sifone
E accanto gli sta sul suo palafreno
Ch’è una giraffa e porta un piccone
Lungo sei piedi e venti spanne almeno,
E con quello dispaccia alfiere e pedone,
Nulla gli cale a lo re Nicodeno
Che è lo barone a capo del Ghana
L’oceano il suo mare su Afadjato ha tana.
 
33
Viene poi chi pare un antico pretoriano
Tant’egli è coperto di piume il cimiero
E porta uno scudo che è assai soprano
Grosso è quanto un sarcofago intero
In man lo tiene e nell’altra il romano
Tiene una lancia che fa spavento invero
Tanto azzurra brilla ed è detto questo
Longino e la sua arme è figlio di tempesto
 
34
Ecco approssimarsi lo Tartaro Agricane
Che grosso è quanto l’arme che lo segue
Un’infinita schiere ha di genti pagane.
Un grosso punzone ha l’elmo a stregue
D’unicorno e un mazzafrusto seco in mane
Con cui strazia e ancora, per non dare tregue
Tre dardi si porta e una spada al fianco
Lo mongolo a tutti fa venir lo sbianco.
 
35
Infine veniamo al Tunisin cavaliere,
Che guardava caldo il principe di Moroco,
Lisbono era nomato ed aveva tal maniere
Che tutti ben trattava, ogni contesto e loco.
Solo era armato d’una lanza e ginoccchiere
Gli andavano tremando e al veder, per poco,
Non sviene quello ma il passo tiene
Per lui non può esserci una maggior pene.
 
36
Al-Saffah pure era tutto bardato
Di tutti i ferri e avanza di sella
Del suo cavallo, bianco pelato
E chiede a loro che sia la novella
-Non foste proprio voi ad aver rinunciato
A un giostra con noi, la gente ribella?
Forse vi siate ravvisati pusillanimi
E cercate scampo negli ultimi spasimi?-.
 
37
-Ti sbagli e t’inganni, infame pidocchio
Che se noi ti diamo uno scontro leale
Non è per paura di te o del malocchio
Ma per evitar che l’uman prezzo sale-
Replicò tosto l’Egizian dal cocchio
Che lui aborra ogni vano male.
E rispose l’emiro -se così le cose sono
Venga lo califfo giù dal suo trono
 
38
Che con niuno accetto io di battagliare
Se non con quello ch’io solo provo astio
E se Marwán nega si chiuda in una bare
Che un re che non pugna o è morto o non è maschio-.
Al sentir tali ingiurie e false fanfare
Addosso gli si getta lo califfo bastio
Degli Omayyadi e giura -Guai a te matto!
Fra la barba e il naso la spada ti batto!-
 
39
E così dicendo sfila fuori Malabanta,
Dal capo ai denti in due scinder lo vuole,
Ma l’altro nei fianchi del suo equino pianta
Li talloni suoi e corre verso il sole
Mentre col corno un gran crido svanta
Che ogni uccel fugge tanto il suon dole.
E tutti a capocollo inseguono gli emiri,
Quei baron privi, di paura e sospiri.
 
40
E gli urlava arretro, Ptolomosso al suo sire
-Non vi lasciate andare ai giovenil furori!
Che in questa tenzone non avete da spartire-.
-Califfo, vi prego, lasciate a noi gli onori-
S’aggiunse quel che è gigante oltre dire
Lo Siculo Ariosparte e si univa ai cori
Sapore, Sacripante, il Morocco e Costantino
E tutti correvan, chi pedone e chi fantino.
 
41
E qua la storia si fa ben confusa
Miei mazubari e di quei spirti magni
Più dir non posso che quelli alla rinfusa
Corsi sono ad isolati paragni.
E sebben di fanti nei poemi non s’usa
Parlar quasi mai, che quelli son stagni
In cui si specchia la nobiltade guerriera,
Lasciate che vi narri la nostra pugna fiera.
 
42
Lo califfo Marwán che Malabanta brandiva
Contro all’Abbasside, e lo insegue a perdifiata,
Commise un’infamia perché se iva
Con chi impugnava niente men che spata,
Che ancora nel fodero quella se ne stiva.
E tanto bastò alla sua gente scellerata
Di appellarci traditori, reietti e bastardi
E per l’onesto duello è ormai troppo tardi.
 
43
Al suono del corno incoccan le frecce,
Quelli che stanno in fondo alla valle,
E ci arriva in viso, né Brezza o Libecce
Ma solo uno stormo di dardi che ci falle.
E i fanti, coverti, avanzano a sbrecce
Senza cavalli a supportar le loro spalle
E la gran formazione incontro ci avanza
Con scudi che copron da le piante a la panza.
 
44
Quei colpi alati che dalle ali vengono
De lo nimico non son contrastati
Da li arcieri nostri che impauriti prendono
A punzecchiar vani li fanti corazzati.
E di cambiar bersaglio pochi lo ferono,
Che dal re Egiziano non eran guidati,
E continuano dunque a colpir chi sta in fronte
Che paion zanzare con un rinoceronte.
 
45
Quelli davanti, che hanno sol picca
Via se ne fuggono, che scudo non hanno
E indietro si tirano, non tentan ripicca,
Sol noi lasciano a ricever lo danno
In fila primera e nessun’almo spicca
A tentar d’avanzare e sol difesa fanno.
Io e Otto, a vicenda, ci copravamo,
Senz’ordine e guida, a nostro conto stamo.
 
46
Senza niuno dei nostri comandanti
Nessuno ha l’ardire della prima iniziativa
E noi fanti leggeri, quelle frecce ridondanti,
A subir stavamo e attendavamo l’arriva
Di quegli Abbassidi che, con passi sovrastanti,
La fanteria pesante avanti sortiva.
Quella leggera indietro è sul colle
Con gli arcieri tutti e avanzan più molle.
 
47
Per essere chiari, stavamo noi tutti
In questa vallata, con lo Zab a lato
Che a destra avevamo i suoi forti flutti
E a sinistra, invece, un bosco variegato
D’ogni pianta che Oriente ha mai dato frutti
E indietro e avanti un colle ben alzato.
In questa chiusa piana si svolgeva la battaglia
Che ai piedi di Zagroso si squarcia e si taglia.
 
48
Noi fanti leggeri ci vedevamo venire
Avanti queste Abbassidi corazze
E gia ci sentiamo vicini il morire
Che quelli hanno grand’asce e mazze.
A muoversi niun s’azzarda per partire
All’attacco, che parvergli mosse assai pazze.
Quand’ecco la nobile cavalleria pesante
Nostra Omayyade fa crido sonante.
 
49
-Non capite voi- Diceva un di loro
-Che quelli intendono forarvi la forma?
Guardate come in un triangolo moro
Adosso vengono a voi della torma.
Quel vertice senza riserve o decoro
Infilarvelo intendono così che si sforma
L’ordine vostro in due piccol tronconi
E poi circondarvi coi più legger fantoni!-.
 
50
E questo detto fecero incursione
Quei gran cavalieri, tutti Maomettani,
E dai nostri due lati, della formazione,
Si portano avanti quelle ali e, subitani,
Aggirano di quei gran scudi il battaglione
E con quelli leggeri vengono alle mani,
Che più indietro stavano e gli fanno gran festa
Forti son le lanze e niun le arresta.
 
51
Quella nol sente frecce né dardi
E se la ride forte del frenetico scagliare
Che mentre li assalgono come ghepardi
Di tutti quei proietti nulla ha da stimare.
Rimbalzano questi, e al danno son tardi,
Sulla lor pelle, che adamantina appare,
Tanto è gagliardo lo ferro che li copre
E subito al macello si mettono ad opre.
 
52
Prima le lanze vanno in affondo,
E come giungon coi corpi a contatto,
Tutto ferono in grande abbondo
E chi è preso non ha l’osso intatto,
Che passano corpi da cima a fondo
E lo capo puntito dalla schiena esce ratto,
Chi è preso al collo, chi al busto e al petto
In piedi non rimane, per l’aere è diretto.
 
53
La prima sortita così si conclude,
Con molti Abbassidi in terra e in tormento
E la formazione di quelle genti rude
Rotta è stata per lo gran sgomento.
Le lanze molte son rotte e perdute,
E la simitara è lo nuovo argomento
 
Che essi adoprano con chi fugge scosso
Molte teste mozzano e schiene han percosso.
 
54
Ma quando quei nimici che erano leggeri,
In sù del colle loro venivano inseguiti
Lo morale gli torna e si volta agli altieri,
Che nel mezzo degli Abbassidi erano finiti,
E gran retribuzione fanno ai cavalieri
Per li compari loro che giacevano sviniti.
E seppure coverti dalle piante ai capelli
Piovon d’ogni parte colpi a quei porelli.
 
55
Un buon cavaliere sa che la sua carica
Efficace è sui fanti nel confondere e disperdere
ogn’ordine e compostezza in una sol scarica
Ma che a giostra finita si deve retrocedere
E portare al sicuro da una violenta pratica
Ché lo scontro vicino e sanza quartiere,
Che a cavallo è duro rispondere di brando
A chi da più in basso ti va battagliando.
 
56
Questo sbagliarno li cavalieri audaci
Che seppur un massacro fecero all’impatto
Scaricato quello son di padella in braci.
Troppo tardarono e fu per lor misfatto
Che volse a favor degli Abbassidi seguaci
Che formarn loro intorno un assalir compatto.
Chi fionda, chi arco, chi di spada ferisce
Così il vantaggio il nimico carpisce.
 
57
Non c’è trippa per gatti, questo è palese
A li cavalieri, che mirano stupiti
Lo nimico che, il primo colpo prese
Ora voltarsi, tutti rinsaviti.
Un frombolier ardito la fionda gli tese
A cavalier che stringe spada fra i diti
E incontro gli viene che lo vole dipartito
Ma in fronte è preso dal sasso e stordito.
 
58
Da cavallo casca e quello fu il primo
Che molt’altri intorno seguono l’esempio
E seppur nimici io quelli li stimo
Perché gran scontro fecero e scempio
Di quei cialtroni dallo spirto infimo
Che la notte primera ci mostrarno empio
Il core loro tagliando la lingua
A Otto e il mio odio mai si estingua.
 
59
Non solo a me ma pur tutti quelli
Che la sera prima confiscarno la cena
Non aveano voglia di salvargli le pelli,
E tardammo dunque che non ci vien lena.
Li cavalieri intanto, delle armature belli,
A gambe al cielo finiscon nella rena,
Chi preso per il freno e chi per le gambe
Chi per una lanza al rene si dissangue.
 
60
E prima che si tratti di un caso di sterminio
Riescono a trarsi dalla perigliosa morsa
E lasciando indietro sull’erba il carminio
Dei ribelli sopratutto ma nella lor corsa
Pure dei loro, e con il san raziocinio,
Indietro si tiran della strada percorsa
E verso di noi, vanno per la piana
Ma i pesanti si voltano per fargli la tana.
 
61
Quelli prima assalirci parevano
A noi della gran fanteria Omayyade,
Ma quei corazzati ad allargare stavano
La lor formazione e come a pesca vade,
Che tutto lo spazio della valle occupavano
Che era sì stretta, dal fiume al boscade.
Rivolti, dicevo, si erano ai cavalli
E li accoglie come carcasse agli sciacalli.
 
62
La gran cavalleria nostra era confusa
Se proseguire o meno l’incursione
Che da ambo le vie la fuga era chiusa.
Per Zagroso stavano i legger di professione
 
E dall’altra i pesanti, che li attende a dura musa.
Guadare lo Zab non era un opzione
Che in piena stava, coi flutti veragi
D’altro lato il bosco offriva dei paragi.
 
63
La fuga ignorarono quei sicuri cavalieri
E volsero a infranger quel muro di scuti,
Che quelli formavan fra noi e i fantini,
E lance e picche affrontaron risoluti.
Suonano il corno prima a noi vicini
Che dai duo lati prendiam quei nerboruti
Visto che a noi ci offron la schiena
E poi alla carica quelli dan scatena.
 
64
E noi avanziamo secondo quanto è detto
Che a vederli morire ormai ci siam stancati
E se poi perdiamo i cavalli di netto
Pugnare ancora è da disperati.
Quindi seguiamo di quel corno il sonetto,
E ormai a colpirli siamo arrivati,
Quando cridando scendono altre truppe
Da lo bosco vicino e son nimiche tutte.
 
65
Cavalli sono, per il corpo di cristo,
E se lo nomo lo faccio a ben donde
Che quelli appaion come lampo non visto
E sembra sian cresciuti dalle fronde.
Dal fianco ci colgono e von farci pisto
E ci spingon con forza verso le onde.
Andar non possiamo che ciascaduna via
Ci nega, girando, quella gente ria.
 
66
E mentre a noi circondano i cavalli,
I nostri invece son circondati,
Che quando caricano  per romper gli stalli
Quel muro di scudi si dipana in due lati
E fattili entrare, assorbono i falli.
Conclusa la carica alla rivincita son dati
Che li chiudono intorno e non li fanno scappare
E ora possono far che gli piace e pare.
 
67
Giungono poi quei legger fanti dal colle,
Che riorganizzati dalla schermaglia primera,
Ai cavalli Abbassidi supporto dar volle,
Che dopo il primo colpo indietreggiati s’era
E presto sulle rive del fiume che ribolle
Lo gran battaglia a piedi si scatena fiera.
Sbigottiti eravamo da quei caval celati
Ci accorgemmo dei fanti quand’eran già calati.
 
68
I cavalli da un lato, eran presi e massacrati
Da un anello intero che a sfondar non poterono,
Sanza lo aiuto nostro, ma siam circondati
Dal fiume, i cavalli e gli uomini che sono
Pur anche di numero da noi sovrastati
Ma numer non vale se il morale è sottotono.
E questi tanto ci spingono alla rivera
Che molti già a mollo han la ginocchiera.
 
69
Gli arcieri nostri, e pure i frombolieri,
Com’anche le baliste, sole eran libere,
Che da lor ci divisero quei furbi cavalieri.
Queste, più indietro, come delle vipere,
Presero a ferire tutti gli armigeri
Che isolato ci avevano e li ebbero ad uccidere.
Ma fare non potevan più di tanto questi
Che gli Abbassidi cavalli li vanno a far pesti.
 
70
E quindi i cavalli che son sostituiti,
Nel premerci contro lo Zab dai fanti,
Dopo la sortita contro a noi tapini
Si voltarno ai tiratori contra in avanti.
Quei gran lanciatori ch’eran dei cecchini
Molti Abbassidi presero e lasciarno sanguinanti
Chi la tempia o il polmone, più non respirava
E cadeva in terra quella gente assai prava.
 
71
Ma ciò non durò che li cavalier nimici,
Che erano Tartari della Mongolia,
Galoppano forte e li traggon di radici
Che per l’aria vanno, tanta forza e volia
È impresso in quel colpo da spezzar le cervici
E tanti ne battono che a fuggir li involia.
E via se son iti i tiratori per i campi
Inseguiti dagli Abbassidi, di furor avvampi.
 
72
E mentre questo accade la nostra invece
Di cavalleria ormai non esiste
Che niun s’è salvato e il nemico la disfece.
Tanto che levano il circondo e s’è viste
Tanti cavalli e cavalier, che morti fece
Quella calca bastarda di Abbassidi liste,
Stesi in terra sta un pila mai veduta
Di cadaveri e chi morte avrebbe già voluta.
 
73
La storia si ripete e così avvenne
Quel giorno gramo che è oggi stesso,
Come Annibale a Canne, il nimico convenne
E ci radunò tutti dove gli è concesso
E far strage di chi più vasti omini tenne
E con questo schema, a noi oscuro e complesso.
Nel sacco ci misero e premettero assai
Affinché noi Omayyadi ci riprendemmo mai.
 
74
Da tutte le parti premeva l’Abbasside
E noi, disperati, gli tenemmo testa
Ma poscia, le braccia, si fanno flaccide
E nessun arma in alto più ci resta.
Le facce nostre si fecer rosse e pallide,
Laghi di sudore e sangue ormai si pesta,
Questo per quelli che davanti stavano
Non per quelli che troppo al centro cadano.
 
75
E ciò realizzai, dacché stavo in disparte:
Vedevo li compagni avante stancarsi
E appena un poco il braccio giù gli parte
Il nimico colpisce sanza mai fermarsi
E al centro aiuto non potean darte
Che bloccati son da chi a combatter starsi.
E alzando la voce cridai ai miei compari
-Se lor son d’Annibale noi siam legionari!-
 
76
E presto spiegai e parola si diffuse
S’ebbe adottare una tattica nova
Che non è nova affatto tanto è facil l’use
Ma chi ha paura spesso non l’approva.
Si cheta l’animo e ogni calor sfuse
Mentre mettiamo lo stratagemma alla prova:
Chi avanti si stanca, arretra d’un passo
E quello arretro avanza come un tasso.
 
77
Questa at orbis, la inventarno i Latini
E spesso la usava Cesare in Francia
O Gallia, com’era detta, e noi da supini
Riuscimmo a ribattere ogni spada e lancia,
Facendo così che tutti noi leonini
Ad oprar ogni uomo e stabilir la bilancia.
In cerchio, così, riuscimmo a spezzarli,
Quando gli Abbassidi caval tornar farli.
 
78
E i Tartari ci presero a grugno sì duro
Che chiunque toccano è sfigurato e sfatto
Tanto veloci passarono e furo
Un ciclone invero, tanto forte e ratto.
Dal panico i miei più non si sturo
Che ognuno ha preso da quel grand’impatto
E per la breccia che primera femmo
Tutti si riversano e in forma più non stemmo.
 
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E tanto stavamo rotondi, compatti,
Che Otto e io stavamo abbracciati,
E odiam de l’altro come il cor batti,
Capei e coscie stavano avvinghiati.
Ma quando scesero quei Tartari matti
Lo scontro fu tale che sfondò gli strati.
Ed io sono preso da una lanza alla cotta
Che mi strappa da Otto quella gran botta.
 
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E in terra finisco e la lanza pure,
Che il colpo di man dal Tartaro l’ha tolta,
E sono ancor vivo, che avevo maglie dure,
Seppure una costola da la gabbia ha svolta.
E gli Abbassidi sopra di morte son sicure
Ch’io abbia avuto e mi sorpassan molte.
Steso sull’erba, verde e rossastra,
Il mio corpo fra molti altri si incastra.
 
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E in terra se morto o vivo lo ignoro
Che ovunque mi vedo intorno le stelle
E d’ombre strane vedo il ghirigoro.
Lo petto il core sembra che mi espelle
Che brucia l’abrasione e le labbra mi divoro.
Dio, la Vergine e l’alme che non felle
L’alme mio affido che parmi trapassare
E la morte, la sento, mi reclama a gran fischiare.
 

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