Beautiful Souls

di Fuuma
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I call this Destiny and you my Friend ***
Capitolo 2: *** Princes and Knights ***



Capitolo 1
*** I call this Destiny and you my Friend ***


Warning: pre-slash & slash; au (dæmon!au); '40s; kidfic; accenni a temi delicati qua e là;

Dæmon: ispirato a "Queste oscure materie" di Philip Pullman. È la manifestazione fisica dell'anima di un individuo sotto forma di animale che lo accompagna sempre e costituisce un'entità separata dalla persona, nonostante ne faccia parte. I dæmon dei bambini non hanno forma fissa, normalmente cambiano a seconda dell'umore. Una volta che il ragazzo raggiunge la maturità il dæmon assume la sua forma definitiva.

 

I personaggi appartengono alla Marvel, alla Disney e a chiunque ne abbia diritto.


 

 

  Beautiful Souls

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01 | I call this Destiny and you my Friend

Prima di lui erano spuntati curiosi occhioni azzurri e un musetto dal pelo bianco spruzzato di macchioline scure. Il cucciolo aveva spalancato fauci feline, allungato zampotte dagli artigli spianati e, con le orecchie tese verso l’alto, aveva emesso un ruggito infantile che di minaccioso non ne aveva avuto nemmeno l’eco. Infine, era rotolato giù, in un concitato agitare di zampe e coda, sparendo sotto il davanzale della finestra.

Steve continuò a fissare in quella direzione.

Infagottato in una vecchia trapunta sdrucita, non aveva osato muovere un muscolo. Sopra le gambette incrociate teneva in bilico un blocco da disegno – sulla pagina, lo schizzo di una Brooklyn in cornice e tratti anneriti di un davanzale oltre cui, adesso, cercava di guardare stendendo il collo verso l’alto, per scoprire che fine avesse fatto il cucciolo.

Dal bozzo di coperte al suo fianco, qualcosa si mosse.

«Mamma, mamma!» ne uscì una vocettina piccola, dalle note gracchianti e un debole frullio di ali che gli solleticò una caviglia.

«Shss, cosa fai?»

La vocetta lo ignorò e riprese a gracchiare. «Mamma! Ci è tornata la febbre, ora abbiamo anche le allucinazioni!»

«Zitta, non la chiamare!» Steve piazzò entrambe le mani intorno al bozzo di coperte, seppellendo voce e piume. «Non erano allucinazioni, c’era davvero una tigre alla finestra!»

«Ma le tigri non volano!»

«La mia dæmon non è una tigre, è un leopardo delle nevi.» Una nuova voce si intromise nel discorso, il tono scanzonato come il sorriso largo che Steve vide in faccia al bambino appena comparso fuori dalla finestra. Sulla sua testa, tra capelli castani e spettinati, un cucciolo di leopardo delle nevi si teneva ancorato con tutte e quattro le zampe – un caschetto peloso e ruggente dietro cui spuntava il ricciolo di una morbida coda maculata.

Il bimbo si issò con la forza delle braccia e portò un ginocchio sbucciato al davanzale, scavalcandolo agilmente, come fosse stato il padrone di quella stanza ed entrare dalla finestra fosse una nuova moda.

«Tadan!» fece perfino una volta saltato giù, scarponcini ben allacciati sul pavimento e braccia piegate mentre si inchinava.

Steve batté le palpebre.

Il bambino non scomparve.

Da sotto le coperte, artigli ricurvi di una zampetta si fecero faticosamente strada, vinsero le mani di Steve che ancora premevano e, poco dopo, un’aquilotta dal piumaggio scarno gonfiò penne fragili e stropicciate che sembravano tenute insieme dallo sputo. «Se siete dei ladri, dovete essere tra i più incompetenti di Brooklyn per aver scelto proprio questa casa. Non c’è niente da rubare. E poi rubare è una cosa proprio spregia… sprendev… sprengevole

Il bambino rise. A bocca aperta mise in mostra una fila di denti spezzata nel mezzo da una finestrella. «Non siamo ladri, siamo conquistatori!» annunciò, le parole leggermente sibilanti.

«Roar!» esplose la dæmon sulla sua testa.

Steve reclinò la testolina. «Cosa conquistate?»

«Di solito il campetto vicino casa. Oggi, invece questa stanza. Gli altri mi hanno sfidato perché dicevano che qui viveva il fantasma di un bambino morto, tipo, un sacco di anni fa.» Il piccolo arricciò il naso, si fece avanti e si piegò verso il letto, avvicinandosi a quell’ammasso informe e trapuntato che sommergeva la figuretta di Steve. «Ma non sei un fantasma, vero? A me sembri piuttosto vivo.»

«Certo che non sono un fantasma!» rispose Steve, impettito. Gettò le coperte lontano, rivelando una camiciona da notte ormai scolorita per i troppi lavaggi e in cui sarebbero potuti starci larghi entrambi. Da sotto partivano gambette smilze, spigolose ossicina ricoperte di pelle che, goffamente, spinse oltre il bordo del letto, allontanando il blocco da disegno.

Si mise in piedi, piccolo e magro come un chiodo; la pelle era così sottile che, al di sotto, il reticolo di vene e capillari spuntava vivido come fosse stato ricalcato a penna. «Sono vivo tanto quanto lo sei tu. E ora che lo sai, puoi dire ai tuoi amici che qui ci vive Steve Rogers.»

«E Sun!» gli fece il verso l’aquilotta, sollevando il becco con fierezza, in un svolazzare di ali che la sollevò per qualche centimetro, prima che caracollasse malamente ai suoi piedi.

«Oww, Sun!» Steve si chinò a raccoglierla tra le braccia, la strinse al petto e, dopo quella pietosa figura, non osò alzare lo sguardo sull’altro bambino. Con un broncio contrito si assicurava di coprire la piccola aquila con le mani, come a volerla nascondere, a volerla proteggere.

Con uno scatto, però, l’altro gli si era piazzato di fronte, vicinissimo, insinuandosi nel suo spazio personale. Lo guardava con un entusiasmo che Steve non comprese. Era la prima volta che qualcuno, diverso da sua madre, si mostrava interessato a quel piccolo batuffolo di piume arruffate che aveva tra le mani. Di solito gli sguardi erano di scherno, gli stessi che poi avrebbero rifilato a lui, insieme a insulti e sberleffi.

Si fece indietro con le spalle. Quello era il momento in cui veniva pestato.

Ma l’altro bambino lo guardò elettrizzato. Perfino la sua dæmon era balzata sulla sua spalla e, con la coda attorcigliata al suo collo, tendeva una zampa a muovere l’aria, a voler spostare magicamente le mani di Steve e riportare la sua aquila alla luce.

«La tua dæmon si chiama Sun?!» sbottò di colpo lo sconosciuto.

Preso in contropiede, Steve ebbe solo la forza di annuire.

«Non ci credo! È fantastico! Dobbiamo diventare amici per forza! Praticamente siamo legati dal destino!»

Steve barcollò sul posto, travolto dall’entusiasmo altrui. «Ti… ti stai prendendo gioco di me?»

La piccola Sun, ripiegò un’ala davanti al becco e spiò da dietro le piume spalancate.

Il bimbo sorrise. Se fosse stato possibile per un aquila, avrebbe giurato di averla vista arrossire. «Certo che no, perché dovrei?» arricciò la bocca color pesco, all’improvviso rattristato. «Non ti va di diventare amici?»

Il rossore che non era apparso sulla piccola aquila, questa volta conquistò le gote di Steve. «Sì che mi va…» borbottò mordendosi l’interno della guancia. Lo fissava ancora guardingo, ma si era raddrizzato con le spalle e aveva strisciato la pianta del piede nudo in avanti sul pavimento gelido della camera, non sapendo bene cosa fare, cosa dire. Nessuno gli aveva mai chiesto di diventare suo amico.

Provava una strana sensazione, piacevole, dolciastra. Gli ricordava il tepore che aveva sentito nel petto e la delizia che gli era rimasta in bocca quando, per la prima volta, sua madre gli aveva preparato la cioccolata e nella tazza aveva fatto cadere due enormi marshmallows.

Si leccò le labbra, rimanendoci quasi male quando, sulla bocca, non riuscì a trovare alcuna traccia di cioccolato. Imbronciato rispose: «Dico solo che è strano e che nel destino non ci credo, perché uno deve scriversi la propria storia da solo.»

L’altro bimbo sembrò pensarci su. «Sì, ma quando qualcosa è speciale ha bisogno di un nome suo, di una definizione propria, sai, no? E allora lo chiami Destino.» gonfiò il petto d’orgoglio e scrollò la spalla, facendo rotolare il cucciolo di leopardo tra le mani. «E se non ci credi, eccoti la prova: la mia dæmon si chiama Moony!»

Steve e Sun guardarono la piccola dæmon in contemporanea.

«Steeevieee! Si chiama Moony~» esclamò per prima l’acquilotta.

Il rossore di Steve si estese a tutto il volto. «Ho sentito.»

«E io Sun~»

«Lo so.»

«E loro mi piacciono un sacco, diventiamo loro amici per sempre!»

«Sun!» Steve sembrò esplodere, era così rosso che sembrava una stufetta ambulante. Con due dita chiuse il becco della propria dæmon. «Ti sembra il caso di dire certe cose?»

L’altro bimbo rise, una risata che si unì al caldo gorgoglio della sua dæmon. «Anche voi ci piacete un sacco.» ammisero candidi, due voci unite a formarne una sola.

Il cuore di Steve batté nel petto come non aveva mai avuto la forza di fare prima d’allora, come se qualcuno avesse gli avesse regalato un cuore più forte – mille cuori più forti e che ora martellavano all’unisono per merito di un bimbo sconosciuto entrato nella sua stanza come un ladro.

«A proposito, io mi chiamo Bucky. Bucky Barnes.» Bucky gli tese la mano.

Steve la guardò come fosse un miraggio, con il timore di vederla scomparire a breve, quando gli ultimi raggi del sole sarebbero scomparsi dietro alla linea degli edifici di fronte alla sua finestra. La strinse, cercando di chiudervi intorno le dita con forza per trattenerla il più possibile e impedirgli di scomparire – anche se la sua mano era minuscola e scheletrica al confronto di quella di Bucky.

L’altro però agitò il braccio soddisfatto. «Anche se sei piccolo hai una presa proprio forte, sai? Papa dice che una stretta vigorosa definisce il coraggio di un uomo.»

Anche se la mano gli faceva già male, Steve ne fu felice. Abbozzò un sorriso, ma lo scatto del dæmon di Bucky glielo spense quasi subito.

Incassò la testa tra le spalle quando Moon balzò su Sun ed entrambe rotolarono a terra.

«Moony!» la chiamò allarmato il suo piccolo umano.

«Cosa? Non ho fatto niente!»

«Mi hai attaccato!» si lamentò Sun.

«No, non voleva…»

La dæmon, però, sembrò prima gonfiarsi e poi fu come vederla implodere su se stessa, come se le ali venissero risucchiate dentro al suo corpicino tutte insieme, sfocando forme, unendo colori. In un attimo l’aquila non c’era più, inghiottita dall’universo. Al suo posto, Sun ricomparve in una nuova veste.

A fissare Moony c’era una leoncina, il pelo scialbo, ma gli occhi brillanti. «Fatti sotto, non ho paura!»

Moony non se lo fece ripetere due volte. Balzò di nuovo sulla dæmon, la atterrò facilmente sotto il proprio peso, tenendole le zampotte sulle spalle, ma quando spalancò le fauci, fu solo per lasciarle un’ampia e umida lappata sul muso, leccandola felice.

Steve si tese come un fuso. Si passò il dorso della mano sulla guancia, la trovò asciutta – lo sapeva, certo che lo sapeva – ma gli restò comunque la sensazione di una lingua ruvida che gli grattava affettuosamente la pelle.

Bucky si schiarì la gola. «Ehm, scusala. È che le piacciono le coccole.»

«Non fa niente.» Steve si chiese se quel bambino fosse consapevole che essendo il suo daemon, significava che per sua stessa natura Bucky fosse coccolone. Ma il fatto che Sun non si fosse negata e che, timidamente, cercasse di strofinare il nasetto contro il muso di Moonie, lasciava intendere che, in fondo, non dispiacesse a nessuno dei due.

«Ora però è meglio che andiamo.»

«Ma siete appena arrivati!» era stata Sun a parlare, picchiettando debolmente con una zampina e poi con l’altra il fianco di Moony, giocosamente, quasi a farle la pasta.

Bucky ridacchiò come se qualcuno gli stesse facendo il solletico. Inchinandosi ai piedi delle due dæmon raccolse la propria da terra, aiutandola con un colpetto sul sedere ad acciambellarsi sulle sue spalle. «Mi piacerebbe rimanere, ma se tardo per la cena, papa tira fuori la cinghia.»

Steve si incupì. Aveva ricordi vaghi di suo padre, ricordava la puzza di birra quando l’uomo tornava a casa tardi, le urla, l’animo perso e il dæmon ferito, e la sua schiena ampia quando, in divisa, li aveva lasciati per l’ultima volta prima di partire per il fronte.

Lo aveva visto una volta schiaffeggiare sua madre, l’aveva odiato e, in quel momento, odiò anche l’idea che qualcuno potesse fare lo stesso con Bucky.

«Va bene, sì, è meglio che vai.»

Ma Moony non parve della stessa idea. Intorno alle spalle del suo umano, alla stregua di un’elegante collo di pelliccia, gli strofinava il muso contro la mascella, spintonando pianissimo.

C’era qualcosa di forte ed egualmente delicato in quel dæmon.

«Buchy, chiediglielo.» mormorò, storpiando il nome del bambino. Non era mai riuscita a pronunciarlo bene.

Bucky sbuffò. «Sì, sì, ora glielo chiedo.» Poi, rivolto a Steve: «Posso tornare a farti visita domani?»

Il biondino si illuminò, ma Sun, altrettanto felice, rispose per prima: «Certo che sì! Dovete! Domani, dopodomani e tutti gli altri giorni! Promettete su quello che avete di più caro!»

«Non ascoltatela, non c’è bisogno che promettete.» Il volto di Steve di nuovo rosso.

Bucky annuì. «Invece sì. Lo prometto su… uhm… oh, su questa!» Affondò la mano nella tasca dei calzoncini e ne estrasse una palla da baseball. Il fango incrostava le cuciture e il colore bianco di un tempo era ora più simile al grigio topo, ma ruotandola tra le dita mostrò la firma indelebile che la segnava. «Me l’ha autografata Jackie Robinson[1] in persona. È il mio tesoro più grande.»

Gliela lasciò tra le mani, il sorriso che si allargò quando notò lo sguardo affascinato di Steve e decise che, anche il bambino, come lui e come quasi ogni bimbo d’America, amava il baseball. «Tifi anche tu per i Robins[2], vero? Perché loro sono i più forti del mondo e Robinson è –»

«La seconda base più forte dell’intero pianeta!» fu proprio Steve a terminare la frase e stringere tra le mani quel piccolo trofeo lo fece sentire partecipe di qualcosa di importante.

Bucky quasi saltò sul posto per la contentezza. «Esatto! Sapevo di aver fatto bene a volerti come amico! Comunque quella la puoi tenere tu per un po’ e domani la vengo a riprendere.»

«Ma sei sicuro?»

«Certo. Ormai sei il mio migliore amico e quello che è mio è tuo. Funziona così.»

Steve guardò la palla da baseball. La teneva come fosse fatta di cristallo, come se davvero fosse un tesoro prezioso che quel bambino apparso alla sua finestra come per magia aveva voluto affidare proprio a lui.

Si voltò, corricchiò per i due metri e mezzo che lo separavano dal letto, smosse trapunta e coperta e afferrò il blocco da disegno. Quando tornò da Bucky glielo consegnò. «Me l’ha regalato la mia mamma per il mio compleanno. Se vuoi puoi disegnarci anche tu.»

Tenne gli occhi bassi, sapeva che non c’era paragone con il tesoro di Bucky, ma non possedeva nulla di valore e non esisteva nulla che amasse più di sua madre e dell’arte e quel blocco rappresentava tutte e due le cose.

A pensarci era probabile che quel bambino avesse già tutti i blocchi da disegno e i pastelli che volesse. Ma Bucky lo prese, lo sfogliò e ne ammirò affascinato i disegni che già lo riempivano in parte.

Non gli disse niente, si scambiarono i doni e si sorrisero, perché certe cose andavano fatte in silenzio, e il sorriso spiegato sulle labbra e gli occhietti vivaci dei loro dæmon, che si cercarono e si trovarono, dissero tutto quello che c’era da dire.

Bucky si portò alla finestra, pronto a tornare da dove era venuto, mentre Moonie agitava una zampotta in saluto verso i due nuovi amichetti. Prima di scavalcarla si voltò a guardare Steve. «Adesso ci credi nel Destino?»

E, mentre Sun ricambiava il saluto della dæmon, il bambino biondo sorrise. «Un po’.»

[ 2.443w ]




[1] Jackie Robinson è stato il primo giocatore afroamericano a militare nella Magior League Baseball nell’epoca moderna. Per i più pignoli i conti non torneranno, è entrato a far parte dei Dodgers solo nel ‘47, mentre la fic è ambientata qualche decennio prima. Al solito: who cares! L’ho trovato perfetto per Buck e visto che il tempo è relativo (?) I do what I want!

[2] Robins era uno dei nickname in uso dai fans per chiamare la squadra dei Brooklyn Dodgers.

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Qualche nota veloce:

Non necessariamente le regole dei dæmon di questa fic seguono quelle del libro/film/serie, ma per la maggior parte si rifaranno a quelle. Se ci sarà qualcosa di particolare verrà segnato di volta in volta.

Per il bg del padre di Steve (alcol, abusi e morto in guerra) mi sono rifatta al miscuglio tra film e fumetti, non leggo questi ultimi, ho trovato in rete qualche tavola e tanto mi basta.

La raccolta sarà formata da oneshot (o flashfic, ma da come tutto quello che scrivo ultimamente si allunga, ne dubito) tutte dedicate allo stesso au e ambiente. Ma seppure vorrei cercare di seguire un ordine cronologico, si tratta pur sempre di una raccolta, non di una longfic.

Scritta per il Writober 2019 @Fanwriter.it - prompt: 4 ottobre - dæmon!au & per la Stucky Bingo 2019, casella: Break-in

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Capitolo 2
*** Princes and Knights ***


Dæmon — part II: Non ricordo quanto fosse normale nei libri, ma in questo au, il contatto fisico tra due dæmon viene trasmesso come eco ai loro padroni, perlopiù trasformato in una sensazione che può essere di benessere o malessere a seconda dell’intensità e del tipo di contatto.

 

I personaggi appartengono alla Marvel, alla Disney e a chiunque ne abbia diritto.


 

 

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02 | Princes and Knights

Bucky teneva una mano stretta in quella di Steve e una sollevata accanto a lui, pronta ad afferrarlo e a salvarlo dalla caduta. Sapeva di avere abbastanza forza da poterlo caricare in braccio se solo avesse voluto, quel bambino era così piccolo e così magro che non avrebbe fatto il minimo sforzo, ma c’erano imprese che era giusto un uomo compisse da solo. Non era per il davanzale – era per il senso di invincibilità che si provava a scavalcarlo, era l’essersi erti sulle proprie gambe quando il mondo intero ti diceva che sarebbero state troppo deboli per sostenerti. Bucky non avrebbe mai privato Steve di quella sensazione.

Se gli stava accanto, era solo per aiutarlo e assicurarsi che non si facesse male nel processo – quello sempre.

«Tieni forte la mia mano, ok?» disse, incastrando la lingua tra i denti. Gambe larghe e ginocchia piegate, si assicurò di essere ben piantato sul piccolo balconcino che dava accesso alla scala antincendio.

Steve sbuffò: un metro e poco più di sfinente cocciutaggine e una spruzzata di imbarazzo che la zazzera di capelli biondi era troppo corta per nascondere. «Non c’è bisogno che mi aiuti, posso farcela da solo.»

«Lo so, ma non mi costa niente farlo.»

«E poi ci rende felici aiutarvi~» Il trillo della vocetta allegra di Moony giunse insieme all’onda.

Steve si bloccò sul posto, una gamba sollevata e l’altra a sfiorare il pavimento della stanza con la punta di un paio di vecchi calzettoni arricciati su una caviglia troppo sottile perfino per un bambino della sua età. L’ovale pallido del volto si colorò di rosso.

L’onda si infranse alle sue caviglie, alle sue ginocchia, montò una risacca asciutta e senza odore che andava e veniva e a ogni suo ritorno l’onda era più alta e schiumosa: era una carezza di dolcezza devastante, che metteva le vertigini e avrebbe potuto ingoiarlo. La marea si alzò, come se la luna si fosse fatta di colpo più vicina alla terra e Steve sentì le onde arrivare all’altezza del petto – strinse la mano di Bucky e trattenne il fiato. A breve sarebbe rimasto sommerso. Chiuse gli occhi per un momento e quando li riaprì, l’onda aveva superato i suoi capelli e il mare era ovunque, un mare tiepido e gentile che gli scorreva intorno, che gli fluiva dentro.  

Bucky incassò la testa tra le spalle – anche lui si era ritrovato sommerso, circondato da qualcosa che non era acqua e non poteva essere toccata, vista o sentita, ma che sapeva apparteneva a lui tanto quanto a Steve.

Gonfiò le guance d’aria e la buttò fuori in un’unica boccata: «Moony!»

Bolle d’aria scoppiarono nella testa dei due bambini, mentre la marea si ritirava e le onde scivolavano più in basso, di nuovo ai loro piedi, lasciando nel petto un tepore dolciastro che di solito significava un’unica cosa: la sua dæmon aveva toccato quella di Steve, o più precisamente, ci si era spalmata sopra.

Si voltò. La scena era perfino più ridicola di quanto non avesse temuto: Moony non era spalmata su Sun, peggio! Nelle vesti di un’orsetta dal morbido pelo bruno aveva sollevato tra le zampotte la piccola leoncina spelacchiata e la conduceva sul balconcino, come una regina sulla lettiga.

Le due dæmon si accorsero di essere guardate.

Moony spiegazzò un sorriso che uscì grottesco sul musetto da orso. «Cosa?»

Lo sguardo di Bucky si tradusse in un rimprovero muto, ma la dæmon rispose con una linguaccia dispettosa e strinse più forte le zampe intorno al cucciolo di leone. «Non sto facendo niente di male: Sun è una leonessa, un’anima regale e merita di essere trattata come tale.»

Sun ruggì una risata gonfia di fusa e le lappò il muso. «Hai sentito Stevie? Moony dice che sono una regina.»

«Non è quello che ha detto…» la corresse il padrone della piccola anima leonina.

«Sì, sì, è proprio quello che ho detto. Sun è una regina e tu sei il nostro principe. Anche Buchy lo dice sempre.»

«Ah…» Steve guardò Bucky e il bambino arrossì, si batté un palmo al volto e borbottò qualcosa che rimase tra lui e la dæmon.

Amava parlare Moony, e a differenza di molti adulti, non aveva ancora imparato a tacere o a mentire – era ancora giovane e innocente, e il più delle volte capitava dicesse la cosa sbagliata nel momento sbagliato.

«Diglielo Buchy, diglielo!»

Il bimbo si grattò una guancia con la punta dell’indice. Stringeva ancora una mano in quella di Steve, e col passare dei secondi, le sentiva entrambe più calde.

Si morse il labbro inferiore, puntando occhi azzurri in quelli altrettanto chiari di Steve. «Beh, sì… cioè… non nostro-nostro. Però, sai quando ti dicevo che con gli altri alle volte giochiamo a conquistare il campetto? Ecco, io il faccio il capo dei cavalieri e anche Dum Dum è un cavaliere. Nat invece, anche se è femmina, non vuole mai fare la principessa e a me sta bene, perché lei è forte e bella come un drago. Ma… uhm… alle volte penso che se venissi anche tu a giocare, potresti farlo il principe. Insomma, io ci combatterei per un principe come te e ti darei la metà di tutto quello che conquisto.»

Steve lo guardò a occhi sgranati. Infilato in un vecchio maglione infeltrito per tenersi al caldo, con maniche troppo lunghe e punti di maglia saltati quando, chissà quanto tempo prima, si era incastrato in un chiodo, era ben lontano dall’essere il ritratto di un principe. Al di qua della finestrella, la camera era grande quanto una scatola di scarpe, le pareti scrostate erano ricoperte di tempera e disegni a nascondere il grigiore delle mura, e la sgangherata scaletta antincendio era così arrugginita che nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di usarla.

Eppure, quando Bucky gli sorrise, rosso come una ciliegia matura, con lo sguardo adombrato da una frangia ribelle e castana su cui alitò con forza, Steve si sentì il bambino più ricco e fortunato di Brooklyn.

Annuì. «Posso provarci.»

Bucky si illuminò.

Moony ragliò un suono che seppe di gioia, gettò in alto la piccola Sun e la riprese al volo.

Steve sentì il vuoto nel petto, e subito dopo lo sentì riempirsi dell’abbraccio protettivo e affettuoso di un cavaliere che era un po’ orso, un po’ leopardo e un po’, forse, suo.

Finì di scavalcare il davanzale e, mano nella mano con Bucky, tenne il visetto più in alto che poteva, per quanto gli mancava almeno una spanna per raggiungere l’altezza dell’altro. «Però se lo faccio voglio combattere al tuo fianco.»

«Mi sta bene, vuol dire che io guarderò le tue spalle e tu le mie.»

Sun picchietto il musetto di Moony con il nasetto. «Davvero andiamo bene, anche se Steve non è per niente bravo a combattere?»

«Non è vero che non sono bravo!»

«È proooooprio pessimo. Però non ci arrendiamo mai, mai, mai.»

Bucky strattonò piano la mano del bambino e lo rassicurò: «Andate benissimo.»

Si sorrisero e, insieme, si sedettero sul piano di ferro, con le ginocchia piegate al petto e un braccio solo a circondarle. L’altro rimase disteso tra loro, le mani unite e le dita incrociate, senza sentire il bisogno di staccarsi e anzi, quando la prima pungente sfiatata di vento schiaffeggiò loro le guance, strusciarono più vicini l’uno all’altro.

«Dovevamo portarci dietro una coperta» realizzò Bucky. Allungò il collo, considerando l’ipotesi di reinfilarsi in camera e prenderne una, ma Steve scrollò le spalle e si ancorò con forza alla sua mano, per impedirgli di allontanarsi.

«Non fa così freddo.»

«Sei sicuro?»

«Sicurissimo.» Steve lo fissò a lungo. Aveva un modo buffo di strizzare lo sguardo e arricciare le labbra rosa, lo faceva quando era pronto a dimostrare quanto dura fosse quella sua testa bionda e che se diceva una cosa era così e basta.

A Bucky faceva tenerezza, perché sembrava sempre costipato, però apprezzava la forza di volontà e poi gli piaceva poter avere una scusa per continuare a tenere stretta la sua mano. Se fosse stato per lui, non l’avrebbe lasciata mai.

«Allora va bene, però copriti bene con questa.» Si spogliò della sua giacca e gliela avvolse tra le spalle ossute, senza dargli modo di ribattere. Anche lui sapeva essere ostinato quando voleva.

Quando tornò a stringergli la mano, guardò oltre la ringhiera, oltre la scala, scavalcando gli edifici più bassi dalle cui finestre si tendevano i fili per il bucato. Sollevò un braccio a indicare più in là, una delle sagome più alte, se affilava lo sguardo, poteva immaginare sua madre – i capelli gonfi di piega, il grembiule legato alla vita e l’abito alla moda – mentre si sporgeva oltre la finestra del salotto per lavare il vetro.

«Quella è casa mia, la vedi? E quello lì è il campetto in cui mi trovo con gli altri» spiegò e Steve non ebbe problemi a riconoscerla. L’aveva guardata spiccare sulla linea degli edifici ogni qual volta puntava lo sguardo fuori dalla finestra, standosene seduto sul suo letto a disegnare. Spesso aveva tirato una linea immaginaria che dalla propria finestra si allungava in quella direzione e sapeva che, se l’avesse percorsa in perfetto equilibrio senza mai cadere, sarebbe finito a casa di quelle persone e avrebbe finalmente scoperto chi la abitava.

Bucky la abitava.

Bucky che aveva iniziato a raccontargli di come si calava dalla grondaia quando suo padre lo metteva in punizione, di come odiava andare a messa la domenica, anche se non gli dispiaceva mettersi il vestito bello perché c’erano un sacco di persone che gli facevano i complimenti, di come gli piaceva stare con i suoi amici, ma quando era con lui – con Steve – era anche meglio.

Steve rimase ad ascoltarlo per tutto il tempo, affascinato da tutte le espressioni che Bucky riusciva a mostrare quando raccontava: faceva smorfie quando parlava dei compiti di matematica che considerava inutili perché a nessuno importa se Charles ha cinque o sei mele, se tanto poi se le mangia tutte lui; si incupiva ogni qual volta accennava a suo padre, ma tornava a sorridere allegro non appena prendeva a parlare dei suoi fratelli, o della bambina chiamata Nat e del suo dæmon – lei era quella di cui parlava di più.

«Il suo dæmon è sempre nascosto, ma quando si arrampica tra i suoi capelli e spunta fuori, ti fa prendere un grande spavento ogni volta, perché ha l'aspetto di una vedova nera. Anche se, dato che è un maschio non dovrebbe chiamarsi tipo Scapolo d’oro?» aveva detto a un certo punto, con una serietà che Steve aveva ricambiato:

«Forse sarebbe più appropriato Marito in lutto

«Oh! Oh! Che ne dici di Triste Zitello

Si fissarono a lungo con la fronte aggrottata, finché non riuscirono più a trattenersi ed entrambi scoppiarono in una risata fragorosa, rischiando perfino di scontrare le testoline per quanto le agitavano l’una accanto all’altra.

«Buchy…»

Se non fosse stata parte di Bucky, il bambino non si sarebbe nemmeno accordo della vocina di Moony.

La dæmon agitò una zampotta in sua direzione. «Ho freddo» pigolò, a suggerirgli di rimediare.

Bucky smise di ridere all’istante e storse il naso, indispettito perché aveva dovuto dirlo davanti a Steve e perché Steve aveva lasciato di scatto la sua mano, spogliandosi della giacca per restituirla al suo legittimo proprietario, guardandolo con aria colpevole.

«Rientriamo.»

Bucky lo fermò per un braccio. «No dai, non ho così freddo.»

«Ma mica posso tenermi io la tua giacca se hai freddo.»

«Ma se stiamo più vicini va meglio, davvero.»

Steve lo studiò a lungo. Si fece più vicino e tornò a stringergli le dita – erano gelide e la punta era arrossata dal freddo. Bucky cercò una scusa, ma Steve lo fulminò con un’occhiata prima che potesse aprire bocca e con uno strattone offeso – non avrebbe dovuto lasciargli la sua giacca, proprio no! – gli sollevò le mani alla bocca, spalancò le labbra e alitò sulle loro mani.

Il fiato era caldo, Bucky lo sentì accarezzargli la pelle e dagli sollievo e, ad ogni alitata di Steve, gli sembrava che non facesse più così freddo e che l’estate fosse ormai alle porte.

«Va meglio?» borbottò l’altro.

«Sì.»

«Sarà meglio che non dici bugie, questa volta.»

Bucky scosse il capo. Seduta paciosa accanto a loro, Moony tornò a premersi contro Sun, ragliando in apprezzamento e Steve seppe che non stava mentendo. Si spinse a sua volta vicino al bambino, e guidò le sue mani verso il basso, tra le pieghe della giacca e in una delle tasche, perché potessero infilarcele tutti e due e assicurarsi di averle al caldo.

Bucky lo lasciò fare. Era una posizione scomoda e il gomito ossuto di Steve continuava a pungolargli il fianco, ma seduto accanto a lui su quel balconcino sgangherato, mentre condividevano la stessa tasca di un giubbotto troppo piccolo per entrambi e guardavano giù, tra le strade di Brooklyn, gli sembró di essere sulla cima del mondo.

 

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Ormai si sarà capito che queste fic sono slices of life che non hanno alcuna pretesa, scritte soltanto perché Bucky e Steve mocciosi sono tesoro nazionale e trovo divertente, l'idea, vero? Non ce l'ho in testa una vera e propria storia, a parte il fatto che non sono nemmeno sicura se e quando scriverò altre os ambientate in questo verse (os, che per la seconda volta era partita con l'idea di essere una flash, ma si è allungata perché sì XD), però sono abbastanza sicura di non volerla far diventare una canon divergence. Ma lo scopriremo quando sarà il momento - anche se trovo divertente l'idea di avere i baby avengers coi loro daemon tutti sotto lo stesso cielo e nello stesso anno... oh well, chi vivrà vedrà. Per ora sono contenta di aver svelato un'altra delle forme del daemon di Bucky (FYI: la terza e ultima forma è quella di lupetta bianca) e quello di Nat che, vabbeh, non avrà stupito proprio nessuno! XD

 

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