01 |
I call this Destiny and you my Friend
Prima di lui erano spuntati
curiosi occhioni azzurri e un musetto dal pelo bianco spruzzato di
macchioline scure. Il cucciolo aveva spalancato fauci feline,
allungato zampotte dagli artigli spianati e, con le orecchie tese
verso l’alto, aveva emesso un ruggito infantile che di minaccioso
non ne aveva avuto nemmeno l’eco. Infine, era rotolato giù, in un
concitato agitare di zampe e coda, sparendo sotto il davanzale della
finestra.
Steve continuò a fissare in quella
direzione.
Infagottato in una vecchia trapunta
sdrucita, non aveva osato muovere un muscolo. Sopra le gambette
incrociate teneva in bilico un blocco da disegno – sulla pagina, lo
schizzo di una Brooklyn in cornice e tratti anneriti di un davanzale
oltre cui, adesso, cercava di guardare stendendo il collo verso
l’alto, per scoprire che fine avesse fatto il cucciolo.
Dal bozzo di coperte al suo fianco,
qualcosa si mosse.
«Mamma, mamma!» ne uscì una vocettina
piccola, dalle note gracchianti e un debole frullio di ali
che gli solleticò una caviglia.
«Shss, cosa fai?»
La vocetta lo ignorò e riprese a
gracchiare. «Mamma! Ci è tornata la febbre, ora abbiamo anche le
allucinazioni!»
«Zitta, non la chiamare!» Steve piazzò
entrambe le mani intorno al bozzo di coperte, seppellendo voce e
piume. «Non erano allucinazioni, c’era davvero una tigre alla
finestra!»
«Ma le tigri non volano!»
«La mia dæmon non è una tigre, è un
leopardo delle nevi.» Una nuova voce si intromise nel discorso, il
tono scanzonato come il sorriso largo che Steve vide in faccia al
bambino appena comparso fuori dalla finestra. Sulla sua testa, tra
capelli castani e spettinati, un cucciolo di leopardo delle nevi si
teneva ancorato con tutte e quattro le zampe – un caschetto peloso e
ruggente dietro cui spuntava il ricciolo di una morbida coda
maculata.
Il bimbo si issò con la forza delle
braccia e portò un ginocchio sbucciato al davanzale, scavalcandolo
agilmente, come fosse stato il padrone di quella stanza ed entrare
dalla finestra fosse una nuova moda.
«Tadan!» fece perfino una volta
saltato giù, scarponcini ben allacciati sul pavimento e braccia
piegate mentre si inchinava.
Steve batté le palpebre.
Il bambino non scomparve.
Da sotto le coperte, artigli ricurvi
di una zampetta si fecero faticosamente strada, vinsero le mani di
Steve che ancora premevano e, poco dopo, un’aquilotta dal piumaggio
scarno gonfiò penne fragili e stropicciate che sembravano tenute
insieme dallo sputo. «Se siete dei ladri, dovete essere tra i più
incompetenti di Brooklyn per aver scelto proprio questa casa. Non
c’è niente da rubare. E poi rubare è una cosa proprio spregia…
sprendev… sprengevole!»
Il bambino rise. A bocca aperta mise
in mostra una fila di denti spezzata nel mezzo da una finestrella.
«Non siamo ladri, siamo conquistatori!» annunciò, le parole
leggermente sibilanti.
«Roar!» esplose la dæmon sulla sua
testa.
Steve reclinò la testolina. «Cosa
conquistate?»
«Di solito il campetto vicino casa.
Oggi, invece questa stanza. Gli altri mi hanno sfidato perché
dicevano che qui viveva il fantasma di un bambino morto, tipo, un
sacco di anni fa.» Il piccolo arricciò il naso, si fece avanti e si
piegò verso il letto, avvicinandosi a quell’ammasso informe e
trapuntato che sommergeva la figuretta di Steve. «Ma non sei un
fantasma, vero? A me sembri piuttosto vivo.»
«Certo che non sono un fantasma!»
rispose Steve, impettito. Gettò le coperte lontano, rivelando una
camiciona da notte ormai scolorita per i troppi lavaggi e in cui
sarebbero potuti starci larghi entrambi. Da sotto partivano gambette
smilze, spigolose ossicina ricoperte di pelle che, goffamente,
spinse oltre il bordo del letto, allontanando il blocco da disegno.
Si mise in piedi, piccolo e magro come
un chiodo; la pelle era così sottile che, al di sotto, il reticolo
di vene e capillari spuntava vivido come fosse stato ricalcato a
penna. «Sono vivo tanto quanto lo sei tu. E ora che lo sai, puoi
dire ai tuoi amici che qui ci vive Steve Rogers.»
«E Sun!» gli fece il verso l’aquilotta,
sollevando il becco con fierezza, in un svolazzare di ali che la
sollevò per qualche centimetro, prima che caracollasse malamente ai
suoi piedi.
«Oww, Sun!» Steve si chinò a
raccoglierla tra le braccia, la strinse al petto e, dopo quella
pietosa figura, non osò alzare lo sguardo sull’altro bambino. Con un
broncio contrito si assicurava di coprire la piccola aquila con le
mani, come a volerla nascondere, a volerla proteggere.
Con uno scatto, però, l’altro gli si
era piazzato di fronte, vicinissimo, insinuandosi nel suo spazio
personale. Lo guardava con un entusiasmo che Steve non comprese. Era
la prima volta che qualcuno, diverso da sua madre, si mostrava
interessato a quel piccolo batuffolo di piume arruffate che aveva
tra le mani. Di solito gli sguardi erano di scherno, gli stessi che
poi avrebbero rifilato a lui, insieme a insulti e sberleffi.
Si fece indietro con le spalle. Quello
era il momento in cui veniva pestato.
Ma l’altro bambino lo guardò
elettrizzato. Perfino la sua dæmon era balzata sulla sua spalla e,
con la coda attorcigliata al suo collo, tendeva una zampa a muovere
l’aria, a voler spostare magicamente le mani di Steve e riportare la
sua aquila alla luce.
«La tua dæmon si chiama Sun?!» sbottò
di colpo lo sconosciuto.
Preso in contropiede, Steve ebbe solo
la forza di annuire.
«Non ci credo! È fantastico! Dobbiamo
diventare amici per forza! Praticamente siamo legati dal destino!»
Steve barcollò sul posto, travolto
dall’entusiasmo altrui. «Ti… ti stai prendendo gioco di me?»
La piccola Sun, ripiegò un’ala davanti
al becco e spiò da dietro le piume spalancate.
Il bimbo sorrise. Se fosse stato
possibile per un aquila, avrebbe giurato di averla vista arrossire.
«Certo che no, perché dovrei?» arricciò la bocca color pesco,
all’improvviso rattristato. «Non ti va di diventare amici?»
Il rossore che non era apparso sulla
piccola aquila, questa volta conquistò le gote di Steve. «Sì che mi
va…» borbottò mordendosi l’interno della guancia. Lo fissava ancora
guardingo, ma si era raddrizzato con le spalle e aveva strisciato la
pianta del piede nudo in avanti sul pavimento gelido della camera,
non sapendo bene cosa fare, cosa dire. Nessuno gli aveva mai chiesto
di diventare suo amico.
Provava una strana sensazione,
piacevole, dolciastra. Gli ricordava il tepore che aveva sentito nel
petto e la delizia che gli era rimasta in bocca quando, per la prima
volta, sua madre gli aveva preparato la cioccolata e nella tazza
aveva fatto cadere due enormi marshmallows.
Si leccò le labbra, rimanendoci quasi
male quando, sulla bocca, non riuscì a trovare alcuna traccia di
cioccolato. Imbronciato rispose: «Dico solo che è strano e che nel
destino non ci credo, perché uno deve scriversi la propria storia da
solo.»
L’altro bimbo sembrò pensarci su. «Sì,
ma quando qualcosa è speciale ha bisogno di un nome suo, di una
definizione propria, sai, no? E allora lo chiami Destino.» gonfiò il
petto d’orgoglio e scrollò la spalla, facendo rotolare il cucciolo
di leopardo tra le mani. «E se non ci credi, eccoti la prova: la mia
dæmon si chiama Moony!»
Steve e Sun guardarono la piccola
dæmon in contemporanea.
«Steeevieee! Si chiama Moony~» esclamò
per prima l’acquilotta.
Il rossore di Steve si estese a tutto
il volto. «Ho sentito.»
«E io Sun~»
«Lo so.»
«E loro mi piacciono un sacco,
diventiamo loro amici per sempre!»
«Sun!» Steve sembrò esplodere,
era così rosso che sembrava una stufetta ambulante. Con due dita
chiuse il becco della propria dæmon. «Ti sembra il caso di dire
certe cose?»
L’altro bimbo rise, una risata che si
unì al caldo gorgoglio della sua dæmon. «Anche voi ci piacete un
sacco.» ammisero candidi, due voci unite a formarne una sola.
Il cuore di Steve batté nel petto come
non aveva mai avuto la forza di fare prima d’allora, come se
qualcuno avesse gli avesse regalato un cuore più forte – mille cuori
più forti e che ora martellavano all’unisono per merito di un bimbo
sconosciuto entrato nella sua stanza come un ladro.
«A proposito, io mi chiamo Bucky.
Bucky Barnes.» Bucky gli tese la mano.
Steve la guardò come fosse un
miraggio, con il timore di vederla scomparire a breve, quando gli
ultimi raggi del sole sarebbero scomparsi dietro alla linea degli
edifici di fronte alla sua finestra. La strinse, cercando di
chiudervi intorno le dita con forza per trattenerla il più possibile
e impedirgli di scomparire – anche se la sua mano era minuscola e
scheletrica al confronto di quella di Bucky.
L’altro però agitò il braccio
soddisfatto. «Anche se sei piccolo hai una presa proprio forte, sai?
Papa dice che una stretta vigorosa definisce il coraggio di un
uomo.»
Anche se la mano gli faceva già male,
Steve ne fu felice. Abbozzò un sorriso, ma lo scatto del dæmon di
Bucky glielo spense quasi subito.
Incassò la testa tra le spalle quando
Moon balzò su Sun ed entrambe rotolarono a terra.
«Moony!» la chiamò allarmato il suo
piccolo umano.
«Cosa? Non ho fatto niente!»
«Mi hai attaccato!» si lamentò Sun.
«No, non voleva…»
La dæmon, però, sembrò prima gonfiarsi e poi
fu come vederla implodere su se stessa, come se le ali venissero
risucchiate dentro al suo corpicino tutte insieme, sfocando forme,
unendo colori. In un attimo l’aquila non c’era più, inghiottita
dall’universo. Al suo posto, Sun ricomparve in una nuova veste.
A fissare Moony c’era una leoncina, il
pelo scialbo, ma gli occhi brillanti. «Fatti sotto, non ho
paura!»
Moony non se lo fece ripetere due
volte. Balzò di nuovo sulla dæmon, la atterrò facilmente sotto il
proprio peso, tenendole le zampotte sulle spalle, ma quando spalancò
le fauci, fu solo per lasciarle un’ampia e umida lappata sul muso,
leccandola felice.
Steve si tese come un fuso. Si passò
il dorso della mano sulla guancia, la trovò asciutta – lo sapeva,
certo che lo sapeva – ma gli restò comunque la sensazione di una
lingua ruvida che gli grattava affettuosamente la pelle.
Bucky si schiarì la gola. «Ehm,
scusala. È che le piacciono le coccole.»
«Non fa niente.» Steve si chiese se
quel bambino fosse consapevole che essendo il suo daemon,
significava che per sua stessa natura Bucky fosse coccolone. Ma il
fatto che Sun non si fosse negata e che, timidamente, cercasse di
strofinare il nasetto contro il muso di Moonie, lasciava intendere
che, in fondo, non dispiacesse a nessuno dei due.
«Ora però è meglio che andiamo.»
«Ma siete appena arrivati!» era stata
Sun a parlare, picchiettando debolmente con una zampina e poi con
l’altra il fianco di Moony, giocosamente, quasi a farle la pasta.
Bucky ridacchiò come se qualcuno gli
stesse facendo il solletico. Inchinandosi ai piedi delle due dæmon
raccolse la propria da terra, aiutandola con un colpetto sul sedere
ad acciambellarsi sulle sue spalle. «Mi piacerebbe rimanere, ma se
tardo per la cena, papa tira fuori la cinghia.»
Steve si incupì. Aveva ricordi vaghi
di suo padre, ricordava la puzza di birra quando l’uomo tornava a
casa tardi, le urla, l’animo perso e il dæmon ferito, e la sua
schiena ampia quando, in divisa, li aveva lasciati per l’ultima
volta prima di partire per il fronte.
Lo aveva visto una volta
schiaffeggiare sua madre, l’aveva odiato e, in quel momento, odiò
anche l’idea che qualcuno potesse fare lo stesso con Bucky.
«Va bene, sì, è meglio che vai.»
Ma Moony non parve della stessa idea.
Intorno alle spalle del suo umano, alla stregua di un’elegante collo
di pelliccia, gli strofinava il muso contro la mascella, spintonando
pianissimo.
C’era qualcosa di forte ed egualmente
delicato in quel dæmon.
«Buchy, chiediglielo.» mormorò,
storpiando il nome del bambino. Non era mai riuscita a pronunciarlo
bene.
Bucky sbuffò. «Sì, sì, ora glielo
chiedo.» Poi, rivolto a Steve: «Posso tornare a farti visita
domani?»
Il biondino si illuminò, ma Sun,
altrettanto felice, rispose per prima: «Certo che sì! Dovete!
Domani, dopodomani e tutti gli altri giorni! Promettete su quello
che avete di più caro!»
«Non ascoltatela, non c’è bisogno che
promettete.» Il volto di Steve di nuovo rosso.
Bucky annuì. «Invece sì. Lo prometto
su… uhm… oh, su questa!» Affondò la mano nella tasca dei calzoncini
e ne estrasse una palla da baseball. Il fango incrostava le cuciture
e il colore bianco di un tempo era ora più simile al grigio topo, ma
ruotandola tra le dita mostrò la firma indelebile che la segnava.
«Me l’ha autografata Jackie Robinson[1]
in persona. È il mio tesoro più grande.»
Gliela lasciò tra le mani, il sorriso
che si allargò quando notò lo sguardo affascinato di Steve e decise
che, anche il bambino, come lui e come quasi ogni bimbo d’America,
amava il baseball. «Tifi anche tu per i Robins[2],
vero? Perché loro sono i più forti del mondo e Robinson è –»
«La seconda base più forte dell’intero
pianeta!» fu proprio Steve a terminare la frase e stringere tra le mani quel
piccolo trofeo lo fece sentire partecipe di qualcosa di importante.
Bucky quasi saltò sul posto per la
contentezza. «Esatto! Sapevo di aver fatto bene a volerti come
amico! Comunque quella la puoi tenere tu per un po’ e domani la
vengo a riprendere.»
«Ma sei sicuro?»
«Certo. Ormai sei il mio migliore
amico e quello che è mio è tuo. Funziona così.»
Steve guardò la palla da baseball. La
teneva come fosse fatta di cristallo, come se davvero fosse un
tesoro prezioso che quel bambino apparso alla sua finestra come per
magia aveva voluto affidare proprio a lui.
Si voltò, corricchiò per i due metri e
mezzo che lo separavano dal letto, smosse trapunta e coperta e
afferrò il blocco da disegno. Quando tornò da Bucky glielo consegnò.
«Me l’ha regalato la mia mamma per il mio compleanno. Se vuoi puoi
disegnarci anche tu.»
Tenne gli occhi bassi, sapeva che non
c’era paragone con il tesoro di Bucky, ma non possedeva nulla di
valore e non esisteva nulla che amasse più di sua madre e dell’arte
e quel blocco rappresentava tutte e due le cose.
A pensarci era probabile che quel
bambino avesse già tutti i blocchi da disegno e i pastelli che
volesse. Ma Bucky lo prese, lo sfogliò e ne ammirò affascinato i
disegni che già lo riempivano in parte.
Non gli disse niente, si scambiarono i
doni e si sorrisero, perché certe cose andavano fatte in silenzio,
e il sorriso spiegato sulle labbra e gli occhietti vivaci dei
loro dæmon, che si cercarono e si trovarono, dissero tutto quello che
c’era da dire.
Bucky si portò alla finestra, pronto a
tornare da dove era venuto, mentre Moonie agitava una zampotta in
saluto verso i due nuovi amichetti. Prima di scavalcarla si voltò a
guardare Steve. «Adesso ci credi nel Destino?»
E, mentre Sun ricambiava il saluto della dæmon, il bambino biondo sorrise. «Un po’.»
[ 2.443w ] |